domenica 26 gennaio 2014

Repubblica 26.1.14
Renzi fa muro sulle preferenze “Sono fuori dall’accordo votato”
Ma la minoranza pd dà battaglia
di Francesco Bei


LE PREFERENZE non fanno parte dell’accordo votato anche in direzione: nessuno spazio per iniziative non concordate », ammonisce il segretario nei suoi colloqui riservati in vista della riunione di oggi dei membri democrats della commissione affari costituzionali. Insomma, l’apertura di Enrico Letta sulle preferenze viene sonoramente bocciata. Ma su ventuno componenti i renziani sono soltanto otto, quindi l’esito del vertice — in cui si dovranno discutere eventuali emendamenti da presentare domani in commissione — non è affatto scontato. La minoranza è infatti sul piede di guerra e non intende mollare. «Noi — spiega Alfredo D’Attorre — faremo la nostra battaglia alla luce del sole. Se volessimo far fallire la riforma basterebbe un’imboscata con il voto segreto. Gli aut aut di Renzi non servono. Andare alle urne con la legge partorita dalla sentenza della Consulta sarebbe un disastro per la vocazione maggioritaria del Pd. Non conviene neanche a Matteo».
Convinti di farcela, grazie alla sponda con Ncd, Sel e Scelta Civica, i bersaniani stanno preparando tre emendamenti che puntano tutti a far saltare le liste bloccate: preferenze, collegi uninominali, primarie obbligatorie per legge.Ma il muro eretto da Renzi è per ora invalicabile. «I mal di pancia sono naturali — ha detto ieri ai suoi — ma il Pd ha deciso e non si torna indietro: chi vuole riportare tutto sempre a capo non sa quale occasione rischia di farci perdere. Sono le cose per le quali hanno votato milioni di italiani alle primarie del Pd». Il segretario, con una serie di tweet, ieri ha aperto soltanto alla possibilità di eliminare il divieto di candidature multiple. Per ora non ci sono, ma «non mi ci immolo (come ballottaggio, premio, sbarramenti)», cinguetta Renzi assicurando comunque che il Pd «non farà MAI candidature multiple». In effetti, parlando con gli sherpa che per il Pd e Forza Italia stanno seguendo la partita, questa piccola concessione per sbloccare un po’ le liste (e tutelare i leader a rischio) potrebbe passare. Come pure, alla fine del negoziato, non si esclude che lo sbarramento al 5% per chi si coalizza possa scendere al 4% o che la soglia per accedere al premio di maggioranza possa salire verso il 37-38 per cento. A patto però cheil resto marci in fretta. Un interesse questo anche del Quirinale. Nei suoi contatti con Renzi il capo dello Stato avrebbe infatti chiesto di approvare la riforma il prima possibile, possibilmente cercando di tenere unita la maggioranza.
Al segretario del Pd sta invece a cuore portare a casa tutto «il tris» di provvedimenti che fanno partedel pacchetto concordato con il Cavaliere. «La riforma storica — ha ribadito ieri istruendo il suo staff — non è la legge elettorale ma tutto il tris: Senato senza indennità, lotta alle disfunzioni regionali, garanzia del bipolarismo. Su questo dobbiamo battere, altrimenti la gente non capisce il valore straordinario di questo accordo ». Quanto ai tempi, «una settimana fa — ha ricordato il leader dem — eravamo all’incontro con Berlusconi. Oggi abbiamo approvato già un testo base. C’è voluto tempismo, energia, visione». Una visione condivisa nell’altro campo, quello dei berlusconiani. Come fa notare il presidente della commissione affari costituzionali, Francesco Paolo Sisto: «Se l’Italia vuole guarire deve prendere l’antibiotico di un vero bipolarismo. E deve prendere tutta la scatola, non si può scegliere una pasticca sì e un’altra no».
Certo, superare il FUP, il fronte unito delle preferenze, non sarà semplice. Gli alfaniani ad esempio, pur avendo firmato e votato iltesto base, lunedì depositeranno un emendamento “alla tedesca” che introduce il 50% di collegi uninominali e il restante 50% di liste proporzionali con due preferenze, un maschio e una femmina. Sperano su questa “mediazione” di tirarsi dietro tutti gli altri. Lo stesso emendamento potrebbe ricomparire a sorpresa in aula enon è detto che una parte di Forza Italia — con il voto segreto — non si lasci tentare. Nelle file dei deputati forzisti sta infatti crescendo il malcontento verso l’Italicum. L’hanno ribattezzata «la legge dei numeri primi», perché, se Forza Italia non dovesse vincere il premio di maggioranza, nei collegi passerebbero soltanto i 122 capilista. Per i numeri due della lista non ci sarebbe scampo, figuriamoci la sorte dei numeri tre e di quelli a scendere: semplici riempitivi. E non ha rassicurato i più la promessa (o minaccia) fatta da Denis Verdini ai parlamentari: «Cercheremo di mettere i migliori di voi come capilista». Oltretutto anche le donne, a cui è stata promessa l’alternanza di genere, sono sul piede di guerra per lo stesso motivo. «Con questo Porcellum camuffato — sbotta una forzista alla seconda legislatura — o ci mettono capolista o torniamo tutte a casa».
L’altro scoglio sulla riforma è un meccanismo che sta mettendo a punto la minoranza Pd, conl’accordo anche di socialisti e Sel. Sono le primarie o parlamentarie regolate per legge. Ma potrebbero anche essere facoltative, sul modello toscano. E in effetti proprio alla «legge toscana del 2005 sulle primarie» si è richiamato ieri il segretario socialista Nencini, ricevendo gli applausi del congresso di Sel. Insomma il “FUP” è più attivo che mai e sperimenta inediti assi trasversali. E tuttavia anche i sostenitori delle preferenze ammettono che fermare il treno della riforma non sarà semplice. Quando venerdì è stato approvato il testo base, nella barberia di Montecitorio l’udc Ferdinando Adornato confidava a un collega centrista: «Se abbassano lo sbarramento al 4% e alzano la soglia per il premio al 38% la riforma passa in un minuto, La battaglia di bandiera sulle preferenze la faremo, insieme ad Alfano e agli altri, ma dobbiamo dirci la verità: chi se la prende la responsabilità di far fallire questa riforma? Saremmo travolti tutti da Grillo. Tutti, nessuno escluso».

Corriere 26.1.14
Io lo chiamerei bastardellum
di Giovanni Sartori


Siccome sono io che ho inventato a suo tempo le etichette Mattarellum e poi Porcellum, oramai mi è venuto il vizio e così provo ancora. Italicum proprio non mi va. Sa di treno. Al momento proporrei Bastardellum. Ma si intende che si può trovare di meglio. Il punto che devo continuare a sottolineare è che la riforma elettorale è materia di legge ordinaria, mentre la riforma dello Stato è materia di legge costituzionale. E i tempi tra le due cose sono molto diversi, anche di due anni. Però se non vogliamo incappare in errori del passato le due cose devono essere armonizzate (nelle nostre teste) sin dall’inizio. Più volte si è suggerito come sistema elettorale il sistema spagnolo di piccoli collegi (5-6 eletti), il che comporta di fatto una alta soglia di sbarramento e così l’eliminazione della frammentazione partitica (noi siamo arrivati sino a 30 e passa), che ovviamente ostacolano la governabilità. Si capisce che i partitini protestano a squarciagola: era comodo (vedi Mastella) diventare ministro della Giustizia essendo in tutto in tre. Ma la salute della politica esig e c h e s p a r i s c a n o , e quando non ci sono più il dramma finisce. In Inghilterra nessuno piange se i partiti sono due o tre.
Fin qui ripeto cose risapute. La nostra novità (gemiti dei partitini a parte) è la proposta del doppio turno di coalizione, che a mio avviso non ha senso anche se D’Alimonte la presenta come proposta «realistica» che mette as- sieme capra e cavoli, Ren- zi e Berlusconi. A parte il fatto che a me sembra scorretto, scorrettissimo, trasformare con un premio una minoranza in una maggioranza (il che avviene anche nei sistemi maggioritari, ma perché questa è la natura del maggioritario, non un regalo che Renzi e Berlusconi fanno a se stessi). E la domanda è: il doppio turno di coalizione con ballottaggio cosa ci sta a fare in questo contesto? È una ulteriore elezione per fare o ottenere che cosa? Il premio di maggioranza attribuito a una coalizione di minoranza (addirittura del 35%) è secondo me molto discutibile. C’è poi l’annosa questione delle preferenze.
Le avevamo, e poi Pannella (con Segni) le fece abolire con due trionfali referendum. Era giusto, perché al Sud le preferenze erano molto alte e per ciò stesso ingrandite e manipolate dalla mafia. Aggiungi che il Pci di allora se ne serviva (quando erano tre) per controllare i voti dei suoi votanti infidi; mentre le preferenze al Nord erano relativamente poche e venivano facilmente pilotate dalle fazioni ben organizzate dei partiti di allora. Il bello è che per qualche decennio nessuno protestò dichiarando che senza preferenze gli eletti non erano scelti dagli elettori ma dai partiti. Poi, d’un tratto, venne in mente alle nuove generazioni di politici e giornalisti che così gli eletti non erano veramente eletti dal demos votante ma «nominati» dai partiti. Stranezze della storia.

Corriere 26.1.14
Il ministro Del Rio e i rapporti premier-Renzi
«Letta non chieda la legge sul conflitto di interessi»
intervista di Monica Guerzoni


«Se Renzi chiede la Luna questo governo non gliela può dare... Ma se il premier chiede al Pd la Luna, o una legge sul conflitto di interessi, è chiaro che anche questo non si può ottenere»: Graziano Delrio, ministro per gli Affari regionali, in un’intervista al Corriere auspica che sia Letta sia il segretario del Pd si assumano «un pezzo delle responsabilità dell’altro» perché, altrimenti, «ci rimette il Paese». Intanto Renzi insiste: sulle riforme non si torna indietro.

ROMA —«Se Renzi chiede la luna questo governo non gliela può dare... Ma se il premier chiede al Pd la luna, o una legge sul conflitto di interessi, è chiaro che anche questo non si può ottenere». È la metafora con cui il ministro Graziano Delrio, Affari regionali, chiede a Renzi di lasciar lavorare Letta sul fronte economico e sociale e al capo del governo di star lontano dalla legge elettorale: «È un momento delicato, è importante che ognuno assuma un pezzo delle responsabilità dell’altro. Se non si conciliano le posizioni, ci rimette il Paese».
Tra Renzi e Letta è resa dei conti?
«No, io credo di no. Gli italiani ci chiedono due cose, un quadro politico solido e la soluzione di problemi molto seri come la disoccupazione. Il campo da gioco è molto largo e ognuno deve fare la sua parte. L’iniziativa di Renzi sulle riforme ha dato al Parlamento un’occasione d’oro per dimostrare che la politica è in grado di passare il guado e di ritrovare dignità. Non possiamo fallire ancora».
Letta ha detto no alle liste bloccate e Renzi ritiene «tecnicamente possibile» votare durante il semestre.
«Da ministro dello Sport ricordo che ci sono squadre che possono vincere anche quando i due calciatori più forti non si parlano negli spogliatoi. La cosa importante è giocare per il Paese, per battere la crisi e far ripartire l’occupazione».
Ci riusciranno? Letta sembra soffrire il «fattore Renzi».
«Le sue ambizioni personali non sono state mai così lontane, altrimenti Matteo avrebbe fatto altre scelte e aveva gli strumenti per farle. Sulla legge elettorale Renzi ci ha messo la faccia rischiando grosso, il passaggio con Berlusconi non è stato indolore».
È vero che quando non si parlano è lei che fa da ponte telefonico?
«Sono uno di quelli che parlano con tutti e due».
Avrà capito se Renzi vuole davvero votare durante il semestre...
«Così non è. Ma se non riusciamo ad approvare le riforme il rischio per la legislatura sarà molto alto. Se non si arriva in fondo al processo costituente, le elezioni anticipate si avvicinano. Grillo è rimasto fuori dal processo proprio con la speranza di assistere all’ennesimo fallimento della politica».
La sua ricetta per scongiurarlo?
«Credo che il governo dovrebbe tenere un atteggiamento molto prudente a entrare dentro la dinamica delle riforme. È un governo di larga coalizione, anche se adesso meno ampia, in Parlamento ci sono i partiti e il lavoro sulla legge elettorale spetta a loro».
Letta non doveva rompere il silenzio? Non doveva dire la sua contro le liste bloccate?
«La questione non è che Letta non può o non deve dire la sua, così come è impensabile che il Pd non si esprima sull’agenda di governo. Ma se il Pd e il governo chiedono la luna...».
La luna sono le preferenze?
«Le opinioni sono legittime, però ci vuole buon senso. Tutti sanno che qualsiasi avanzamento sulla legge elettorale va fatto d’intesa con coloro che hanno sottoscritto il testo».
E se Berlusconi fa muro?
«Chi vuole modificare il testo costruito con tanta abilità deve essere in grado di proporne uno migliore. Se la minoranza del Pd o i colleghi del governo trovano un punto di sintesi migliore se ne facciano carico. Cerchiamo di essere onesti dal punto di vista della memoria, Renzi ha tenuto fede al suo impegno di non compromettere la durata del governo. Il suo punto di sintesi non umilia il Nuovo centrodestra e l’argomento della legge elettorale come pericolo per il governo è stato tolto dal piatto».
Letta si fida di Renzi?
«Ho parlato con il premier, sa bene che il pacchetto delle riforme può consacrare Renzi come colui che ha dato il via alla Terza Repubblica, ma sa anche che non può metterlo in condizione di concorrere per il governo a breve scadenza. È chiaro che il capo dello Stato può sempre sciogliere le Camere se il premier ritiene di non avere più la fiducia, ma le riforme sono un antidoto al voto anticipato».
Il suo appello ai duellanti?
«Cerchiamo di essere ottimisti e facciamo un po’ di autocritica, senza nasconderci che abbiamo bassi indici di fiducia da parte degli italiani. Il governo dovrebbe imprimere uno scatto alla forza della sua azione e renderla più incisiva, come ha fatto Hollande».
Letta rivendica i risultati.
«I risultati sulla stabilizzazione finanziaria ci sono ed è stato faticoso raggiungerli, ma non vengono percepiti dalla popolazione. Come la politica ha fatto uno scatto in avanti con l’iniziativa di Renzi, così il governo deve cambiare passo sotto la regia del premier».
Per cambiare di passo serve il Letta bis, ma il premier non può farlo finché Renzi non ci mette la faccia».
«È ovvio che, nel momento in cui il Pd darà un contributo forte al programma, dovrà anche sostenere il governo in modo convinto. Il Pd deve fare nei suoi organi un ragionamento diretto e franco, lo deve al Paese. Non si può essere ambigui. Una volta approvata la legge elettorale il segretario metterà la faccia anche sul rilancio, ama l’Italia e capisce che vale più di ogni cosa».
Sulle preferenze si litiga...
«Se ne parla troppo, non sono il totem della democrazia. Il Pd ci sta mettendo un’enfasi enorme rispetto alla sua linea di sempre».
In commissione il Pd è diviso, c’è il rischio franchi tiratori in Aula?
«Dopo la vicenda penosa di Prodi c’è sempre questo rischio e porterebbe diritti al fallimento del progetto. A quel punto andare verso il voto anticipato, che per mesi abbiamo cercato di scongiurare, sarebbe molto facile».
Monica Guerzoni

Corriere 26.1.14
«Le riforme di Matteo? No, sono le nostre»
Berlusconi rivendica l’accordo con il leader pd
di Paola Di Caro


ROMA - Deciderà solo all’ultimo minuto utile come festeggiare il ventennale della sua discesa in campo, e le ipotesi sono tante. Da una nota scritta fino alla presenza alla grande kermesse organizzata oggi a Bari da Raffaele Fitto, passando per un videomessaggio o una telefonata in diretta, Silvio Berlusconi sa che un segnale della sua presenza al centro della scena politica deve darlo.
Raccontano che avrebbe voglia di un «bagno di folla vero», quello che appunto potrebbe regalargli l’ex presidente della Puglia, tra i suoi l’uomo che gli ha fatto meno sconti sull’idea di riorganizzazione del partito che il Cavaliere ha in mente e sta mettendo in atto. Per questo, nel suo entourage c’è chi non vede di buon occhio una partecipazione alla festa pugliese che si prevede sì grandiosa, ma anche politicamente impegnativa, visto che è l’unico evento previsto per il ventennale e che, di fatto, oscurerebbe la convention che si era deciso di tenere il 27 marzo, in concomitanza con la prima vittoria di Forza Italia.
Fitto la sua prova di forza oggi la farà comunque, in ogni caso. Come in ogni caso, Berlusconi ha deciso di farsi sentire quotidianamente, nonostante sia ancora blindato fra massaggi, dieta e riunioni politiche a Villa Paradiso, beauty farm sul Garda. Da lì, anche ieri ha lavorato fianco a fianco con il suo nuovo consigliere politico nonché braccio destro Giovanni Toti, ma anche con Sandro Bondi, tornato nell’inner circle ristretto dove si decidono le mosse su partito e linea politica. Con un obiettivo sopra tutti: concentrarsi sulle Europee, e cercare la via per tornare a fare concorrenza a Matteo Renzi che resta «un interlocutore importante sulle riforme, ma anche il nostro avversario, da battere».
Per questo ci si muove su due direttrici. Sul partito, anche ieri si è discusso della necessità di dare a Forza Italia «una struttura collegiale, dove tutti si sentano coinvolti». Basta insomma con i «verticismi» dei capi attuali, sì a un comitato politico con i big dentro (dai capigruppo ai vice presidenti delle Camere, da Gelmini a Bondi, da Verdini a Crimi), con Toti nel ruolo - questo sarebbe l’obiettivo - di «mediatore» e cucitore delle varie anime, interne ed esterne al partito. Se poi il suo ruolo sarà quello di portavoce, o di coordinatore del comitato ristretto, si vedrà. Certamente il favore di uomini come Brunetta (il Mattinale da lui curato esalta le doti del neo-consigliere), Romani, Bondi e del cerchio magico berlusconiano ce l’ha, il resto sarà da costruire.
Per ora, è certo che l’ex direttore del Tg4 si sta concentrando assieme al Cavaliere sulle idee da mettere in campo in vista del le Europee. Che Berlusconi ieri, parlando telefonicamente a una festa di partito, ha cominciato ad abbozzare. Sull’impianto riformatore, il messaggio che deve passare è che appunto «dopo 20 anni di insulti, forse l’interlocutore» del partito avversario è stato trovato, ma con lui «abbiamo avviato un processo di riforme che non sono le riforme di Renzi ma le nostre stesse riforme fin dalla nostra discesa in campo». E’ il sindaco di Firenze insomma ad essere arrivato, tardi, sulle posizioni del Cavaliere, e non viceversa.
E siccome a Berlusconi e ai suoi sembra che Renzi stia per usare a man bassa le parole d’ordine che sono state di FI e del Pdl per anni anche su altri terreni, bisogna riprenderle e rilanciarle. A cominciare dall’Europa, dove «si fa la vera politica»: basta, è l’idea, con il vincolo del 3% se sforando si fanno investimenti utili al Paese, sì alla revisione del fiscal compact , sì a una Bce che immetta denaro nelle economie in crisi dell’Europa «come la Fed». Temi che appunto anche Renzi accarezza, e che andranno declinati con sempre maggiore nettezza. Come bisognerà mettere a punto proposte sul lavoro, sul modello del Job act renziano, ancora più drastiche: basta con la legge Fornero che ostacola la creazione di nuovo lavoro, meno burocrazia per le start up imprenditoriali, e via ai troppo stretti lacci che «impediscono la crescita».

Repubblica 26.1.14
Il duopolio ai partitoni e il bavaglio ai partitini
di Eugenio Scalfari


QUALCUNO si ricorda la legge elettorale truffa, proposta dalla Democrazia cristiana e dai suoi alleati laici, i cosiddetti partitini? Ne dubito; sono passati sessant’anni da allora e molti degli attori di quella vicenda non ci sono più. Io ricordo bene: la legge fu sconfitta dall’opposizione di dissidenti da sinistra e da destra, tra i quali emergevano Codignola, Parri e Corbino. Eppure non era una grande truffa: attribuiva un premio del 15 per cento alla coalizione che avesse superato il 50,1 dei voti. Si votava in collegi uninominali, gli stessi con i quali nel 1948 la Dc aveva incassato il 48 per cento dei voti e la maggioranza assoluta dei seggi.
Altri tempi, sembrano la preistoria. C’erano personaggi come De Gasperi, Togliatti, Ugo La Malfa e molti altri di analogo conio; al Quirinale c’era Luigi Einaudi, del quale Napolitano è un devoto cultore nonostante il suo passato di comunista (ma non marxista).
Oggi siamo alle prese con una riforma elettorale voluta da Renzi e da Berlusconi e diventata disegno di legge in pochi giorni, che cerca di realizzare il massimo di governabiltà sacrificando i criteri di rappresentanza. Il punto di frizione con i partiti minori e con i Cinque Stelle è proprio questo: attraverso un complicato gioco di soglie di sbarramento e di premi, le forze minori vengono di fatto ridotte al silenzio lasciando in campo i partiti maggiori. Come si può uscire da quest’imbroglio? Berlusconi se ne preoccupa poco o niente: voleva riguadagnare il titolo di salvatore della Patria e ce l’ha fatta.
Per lui è una posizione di importanza enorme che può avere ripercussioni anche sulle sue vicende personali. Ma per Renzi è diverso; lui deve assolutamente portare a casa il risultato. Se fosse battuto sarebbe un disastro e lo sarebbe anche per il Pd. Nei sondaggi quel partito supera il neo-salvatore della Patria di 12 punti, ma li perderebbe di colpo se Renzi cadesse sulla riforma elettorale. Il crollo dei consensi finirebbe col travolgere anche il governo Letta. Del resto la forza di Renzi è proprio questa: o vincete con me o con me affonderete. È questo l’imbroglio in cui ci troviamo.
A proposito del salvatore della Patria, credo sia giusto segnalare di nuovo un gesto di coraggiosa dignità che Repubblica ha già registrato con un’intervista venerdì scorso. Si tratta di Pietro Marzotto che aveva chiesto da alcuni mesi l’espulsione di Berlusconi dall’associazione dai cavalieri del Lavoro, senza ottenere alcuna risposta. Per protestare contro questo silenzio Marzotto si è dimesso da quell’associazione e ne resterà fuori fino a quando un condannato per frode fiscale non ne sarà escluso. Finora l’esempio di Marzotto non è stato seguito da altri. Bel gesto egli ha fatto e brutto segnale il pesante silenzio degli altri associati. Cavalieri smontati dacavallo?
***
A me Matteo Renzi non ispira molta fiducia né come segretario del Pd né come eventuale presidente del Consiglio; le ragioni le ho più volte spiegate e non starò a ripetermi, riconosco però che la sua iniziativa ha dato una scossa al partito del quale è il leader e di conseguenza a tutta la politica italiana, governo compreso il quale ne aveva urgente bisogno.
La legge da lui presentata, tuttavia, è assai poco accettabile poiché — volutamente e quindi consapevolmente — cancella non soltanto i partiti minori avversari senza se e senza ma del Partito democratico, ma anche quelli disposti ad allearsi col Pd ed entrare a far parte d’una coalizione da esso guidata.
Il gioco delle soglie d’ammissibilità, da quella del 12 per cento a quella dell’8 e del 5, rischia di escluderli dall’eventuale premio previsto per chi raggiunge il 35 per cento dei consensi. Se infatti quei partiti non superano la soglia del 5 per cenrialistito non parteciperanno ai voti ottenuti dalla coalizione. Sono soltanto portatori d’acqua che non ricevono alcun tipo di ringraziamento dal partito maggiore che, anche con i loro voti, ha sconfitto l’avversario o comunque diventerebbe il partito d’opposizione. Ai portatori d’acqua non resta nulla fuorché gli occhi per piangere.
Con questa legge, come è uscita dalle stanze del Nazareno, non restano in campo che Pd, Forza Italia e l’incomunicabile Grillo che probabilmente sarà beneficiario di quegli elettori che saranno schifati dal duopolio Renzi-Berlusconi e dalla loro riaffermata e reciproca sintonia.
In una situazione di questo genere restano due punti fermi: la libertà costituzionalmente affermata del mandato parlamentare al quale non si può opporre alcun vincolo e la necessità che Renzi rimanga al suo posto di segretario del Pd per l’esistenza stessa di quel partito.
La legge elettorale si trova ora all’esame del Parlamento che è libero di pronunciarsi. Se viene rivista in alcuni punti essenziali Renzi deve accettarne il risultato e restare al suo posto; dimettersi da segretario avrebbe infatti le stesse conseguenze d’una scissione del partito che nelle primarie ha votato massicciamente per lui.
Un conto è il partito, un conto è il Parlamento. Il primo è una libera associazione, il secondo è un organo istituzionale sul quale si fonda la democrazia rappresentativa. Il primo è depositario di una sua visione del bene comune, il secondo è titolare dell’interesse generale e non ha nessun leader ma soltanto i propri organi previsti dai suoi regolamenti. I leader dei partiti nonhanno in Parlamento alcun potere salvo la propria autorevolezza. Ugo La Malfa ai suoi tempi era più autorevole in Parlamento di quanto non lo fossero Rumor o Piccoli o De Martino o Mancini quando erano segretari della Dc o del Psi e guidavano partiti dieci o cinque volte più forti dei repubblicani i cui voti alla Camera oscillavano tra i 5 e i 20, su 630 membri.
Renzi deve dunque restare e far digerire a Berlusconi il nuovo schema di legge approvato dalla Camera, sempre in attesa che il Senato sia riformato come è necessario fare.
La legge più appropriata deve dare il peso che merita al criterio della rappresentanza e diminuire — non certo abolire — il criterio della governabilità.
La soluzione migliore sarebbe quella di votare in collegi uninominali, innalzare la soglia prevista per ottenere il premiodi maggioranza al 40 per cento, abolire la soglia del 5 per cento o abbassarla al 3, abbassando in proporzione la soglia dell’8 prevista per i partiti che si presentano da soli.
Più o meno sono questi i lineamenti di una legge elettorale accettabile nell’interesse della democrazia parlamentare. Assai meglio delle preferenze che Renzi fa bene a non volere perché possono inquinare il voto in favore di clientele e mafie, come è spesso avvenuto in passato.
Se Berlusconi non ci sta, il Pd si appelli a tutti i parlamentari di buona volontà e se non ci saranno altre soluzioni che il voto, si voterà con la proporzionale che prevede collegi e non liste. E vinca il migliore.
***
Alcuni osservatori ed editori di altri giornali hanno scritto che non esistono “governi amici” se non nei casi di emergenza. I governi amici cioè non sono altro che un commissariamento efficace e destinato ad esser breve.
Su questo punto — che da molto tempo ritengo fondamentale per la democrazia rappresentativa — la mia opinione è completamente diversa; sostengo infatti (e lo sostengo dai primi anni Ottanta del secolo scorso) che il governo è titolare del potere esecutivo e in quanto tale è uno dei tre poteri dello Stato a somiglianza del Parlamento e dell’Ordine della magistratura. Quando un uomo politico, membro del Parlamento o tecnico, diventa presidente del Consiglio o ministro o sottosegretario, quale che sia la sua provenienza egli rappresenta un potere dello Stato. E poiché il governo ha bisogno della fiducia del Parlamento, esso è appunto amico della maggioranza parlamentare che lo sostiene, ma autonomo da essa. Tiene conto della visione del bene comune di quella maggioranza, ma deve sempre privilegiare l’interesse generale e quindi lo Stato che in sé lo riassume.
Questo sostenne Enrico Berlinguer nell’intervista data al nostro giornale nel 1981 e questa egli chiamò “questione morale”. In questo modo si accresce l’autonomia del governo e del Parlamento dai partiti determinando così la nuova natura delle persone che ne fanno parte. La visione della democrazia rappresentativa qui esposta prevede un rafforzamento del potere esecutivo e soprattutto di chi ne è il titolare, così come un rafforzamento del Parlamento nei suoi poteri di controllo della pubblica amministrazione.
Prevede anche una diversa concezione delle magistrature amministrative rispetto a quella ordinaria e quindi una profonda riforma sia della Corte dei Conti sia soprattutto del Consiglio di Stato. Ieri Galli Della Loggia ha documentato sulCorriere della Sera l’invadenza soffocante della burocrazia che si autotutela anziché essere il braccio armato del potere esecutivo. Concordo interamente e non da oggi con questa tesi. Bisogna disboscare e semplificare la pubblica amministrazione. Questa è la madre di tutte le riforme, senza la quale le altre restano barchette di carta nell’acqua, sulla quale a stento galleggiano prima di disfarsi.

Il Sole 26.1.14
Dietro la corrida sulle riforme si intravede il possibile compromesso
Partitini e partitoni
di Stefano Folli


Via via che si avvicina il momento della verità, la corrida intorno alla legge elettorale diventa più confusa, in un crescendo di tecnicismi che disorientano il cittadino. Tuttavia l'opinione pubblica su qualcosa ha le idee chiare: vuole un sistema capace di decidere, in cui la classe politica si prenda le proprie responsabilità.
A Beppe Grillo non è piaciuto, ad esempio, il sondaggio della Ipsos da cui emerge che gli italiani gradiscono un sistema elettorale nel quale maggioranza e minoranza siano ben distinte e nettamente percepite come tali. Ma non è certo una novità di queste settimane. Anni di immobilismo, sotto l'ombrello di un mediocre bipolarismo e di una fittizia Seconda Repubblica, hanno creato un tale disorientamento che la sola idea di un modello rinnovato ed efficiente suscita i sussulti e le speranze registrati dai più recenti sondaggi.
Renzi e Berlusconi - soprattutto il primo, come è ovvio - hanno colto questo stato d'animo diffuso, ricavandone una sorta di viatico implicito ad andare avanti con la riforma. Ma è chiaro che in realtà i sondaggi non esprimono l'approvazione di uno schema, il cosiddetto Italico, che non è ancora definito nei suoi complicati aspetti. Esprimono soprattutto un sentimento, uno slancio morale: agli interpellati piace una legge elettorale in grado di far camminare l'Italia, senza le estenuanti ambiguità sofferte fino a oggi. Ed è inevitabile che le trattative di queste ore in Parlamento appaiano all'opinione pubblica come una lotta fra conservatori e riformatori. Fra difensori a oltranza del vecchio proporzionale e fautori di un maggioritario senza veli. Fra «partitini» e «partitoni». In effetti, è così.
Eppure non hanno torto alcuni dei frenatori. Come il vendoliano Migliore, secondo cui «noi non stiamo difendendo un piccolo partito, ma un principio di democrazia e trasparenza» (allusione agli sbarramenti e alle liste bloccate). Oppure come Sacconi, del Nuovo Centrodestra, il quale mette l'accento sulle carenze di un processo che dovrebbe condurci nella Terza Repubblica e invece offre solo alcuni spezzoni di riforma costituzionale (il Titolo V, l'abolizione del Senato). Quando invece un sistema maggioritario e monocamerale avrebbe bisogno di un serio meccanismo di pesi e contrappesi, nonchè dell'elezione diretta del capo dell'esecutivo.
Queste obiezioni sono senza dubbio strumentali, dunque funzionali alla battaglia che sta per cominciare davanti alle Camere. Ma non sono prive di logica. Il riformismo di Renzi è coraggioso, ma il progetto del giovane leader è tutt'altro che completo. È vero che non si limita alla riforma elettorale, tuttavia il disegno costituzionale è a macchia di leopardo. Per cui alla fine si rischia di avere un assetto politico-istituzionale sbilanciato. Materia per la Consulta.
Quanto a Berlusconi, la sua rivendicazione («queste sono le nostre riforme, sono vent'anni che le proponiamo») è ben poco convincente. Sembra un tentativo di evitare che il «renzismo», fenomeno peraltro di notevole fascino agli occhi del capo di Forza Italia, diventi un'idrovora elettorale capace di risucchiare i voti del centrodestra. In verità il ventennio berlusconiano presenta un bilancio fallimentare per ciò che riguarda le riforme. In parte per responsabilità della sinistra, certo, ma in buona misura per colpe politiche del fronte berlusconiano.
Ora si vedrà come volge il braccio di ferro. Le carte da giocare in vista del compromesso non mancano. A cominciare dall'abbassamento della soglia minima (dal 5 al 4 per cento per chi entra in coalizione) e continuando con la necessità di «sbloccare» le liste oggi troppo chiuse.

il Fatto 26.1.14
Le élite sconfitte
Renzi, i partiti azienda e la caduta degli dei
di Furio Colombo


Matteo Renzi (detto “Matteo” presso le migliori fonti giornalistiche) domina le televisioni con due sole inquadrature. In una sta camminando in fretta, seguito da un gruppo, si muove sempre da destra verso sinistra, evita con giovialità sportiva i microfoni, stringendo mani a volo o dando “il cinque”, e in un attimo è di spalle, ma voltandosi indietro lascia una traccia di cordialità. La seconda inquadratura è frontale, Renzi è in camicia bianca, un po’ sbottonata, è su un podio e dice con bravura poche frasi, di solito tre, un impegno, una denuncia, una minaccia. L’impressione che finalmente sia arrivato il leader a colmare il vuoto è forte e diffusa. È di qui e da lui che deve cominciare il confronto con “gli dei” ovvero i gradi capi popolo, a cui due indiscutibili esperti, Giuseppe De Rita e Antonio Galdo hanno dedicato il libro “Il popolo e gli dei. Così la grande crisi ha separato gli italiani” (Editore Laterza). Il caso è interessante in due modi, perchè lo è il libro e perchè lo è Matteo Renzi. Sostiene De Rita che veniamo da un mondo (finito) in cui c’erano leader “capaci di trasformare le crisi in un punto di svolta”. Sostiene Galdo che diversi strati di élite tecnocratiche si sono alternate come classe dirigente di un Paese che è passato, con grande successo, dalla distruzione al benessere.
SEGUENDO il percorso De Rita - Galdo ci troviamo ad attraversare epoche in cui l’Italia si serve del valore professionale di personaggi (una prima e una seconda élite) che sanno, ascoltano, guidano, disegnando grandi progetti che affidano ai politici, mantenendosi separati e autonomi. Finchè, a un certo punto, ci troviamo di fronte al fallimento della “terza élite” (gli autori citano Monti) che è lontana dal popolo, addossata alla politica (diventando addirittura partito), cieca come i partiti e incapace di guidare. Crolla così il capitale umano della fiducia. La descrizione mi sembra accurata ma vedo dei vuoti. Il primo è la fine della guerra fredda. Il crollo del muro ha indotto a pensare che ormai la politica si fa dentro la politica, ritirando, con rapidità più o meno istintiva, quei “legami col popolo” che De Rita e Gualdo vedevano giustamente come carattere e come garanzia della prima élite (Cuccia, Mattioli) e della seconda élite (Ciampi). Si è diffusa la persuasione che politica è dirigere senza rendere conto.
È in questa ansa del fiume che si collocano prima il craxismo e poi il berlusconismo, dove l’intera logica di politica e di governo è dentro il club, ed è del tutto “separata dal popolo” ovvero dai cittadini, dalla gente. Niente, allora, può tenere a bada il berlusconismo che incarna esattamente lo spirito del tempo: la politica spetta ai politici che hanno diritto di incassarne i proventi. Conviene agli oppositori ignorare problemi enormi come il conflitto di interessi (per non parlare di reati minori come la compravendita di giudici e senatori). Conviene a Berlusconi fare spazio (almeno col silenzio) agli interessi dei colleghi rivali. Per durare così a lungo, al mondo moderno e post comunista di Berlusconi non basta la cooperazione di chi è fin troppo felice di non essere più comunista. Ha bisogno di una forte dose di ipnosi, una ipnosi simile alla religione, che ha sostenuto e salvato i peggiori governi della Chiesa. Berlusconi aveva, e ha usato, la ricchezza come fede (se sono ricco io potete anzi dovete esserlo voi) e la televisione come rito.
Chissà quanto ancora sarebbe rimasta aperta questa chiesa, senza la scossa brutale dell’Europa e del resto dell’Economia occidentale, dal momento che in Italia non c’era (e, come si è detto, non poteva esserci) opposizione. Arriva Monti. E Monti (terzo strato di élite) ha fallito non perchè non ha retto al confronto con la statura dei Cuccia, dei Mattioli e dei Ciampi che lo hanno preceduto. Ha fallito perchè è arrivato in una landa desolata priva del tutto di legami e fiducia fra classe dirigente e popolo. Per questa ragione ogni suo atto riparatore è sembrato estraneo, lontano, pura punizione. Poi arrivano Letta e Renzi. E subito ci accorgiamo che ogni dettaglio della loro vita pubblica riguarda la vita pubblica, riguarda la politica che coincide con la loro vita quotidiana e il loro personale destino, riguarda l’altro in quanto competitor, riguarda i partiti in quanto contenitori delle formule ed espedienti con cui si vince o si perde. Non riguarda mai ansie e paure di tutti. Non riguarda mai le fabbriche che chiudono o che partono, persino se sono fabbriche fondamentali per il Paese. Non si rivolge mai alla gente che vota.
AVERE FEDE in questi nuovi leader e aspettarsi da loro il cambiamento (che non sia un cambiamento organizzativo, personale e interno al contenitore partito) è come andare in gita al grande reattore nucleare in cui hanno scoperto il bosone di Higgs per dire la tua. Sai che è roba grossa, ma non c’entri niente. E persino quando irrompono in scena i Cinque stelle, la gelida solitudine si conferma e si ripete. Grillo, gridando e sgridando, occupa da solo tutto lo spazio, come Berlusconi, come Renzi. Parla solo lui, partendo da se stesso e arrivando a se stesso. Ognuno dei nuovi leader del terzo strato di élite ha come grido di guerra “Tutti a casa”, intendendo tutti meno chi parla, e un gruppo di stretti, obbedienti discepoli. Vince colui che spande paura su quello che potrà accadere alla casa, alla fabbrica, al Paese, se non gli obbedisci. Ora che Renzi appare all’improvviso come un probabile vincitore, dobbiamo chiederci: qual è la differenza fra De Gasperi e Renzi? È che qui, adesso, tutto è aziendale. Si svolge esclusivamente all’interno e nell’interesse di strane aziende dette partiti, che comunicano solo tra loro (un partito con l’altro) e fra dirigenti. In queste aziende-partito Stato e cittadini sono chiamati a investire tutto. Ma non sanno se ci saranno mai dividendi. Onestamente non li hanno neppure promessi. Tutto qui ciò che possono fare per noi i nuovi dei? Tutto qui.

La Stampa 26.1.14
Fabrizio Barca
Economista e politico
“Basta ricette il mondo chiede valori plurali
intervista di Alain Elkann

qui

l’Unità 26.1.14
Renzi non va, Bonaccini difende il patto
Il congresso di Sel fischia l’inviato Pd
Vendola costretto a intervenire per calmare la platea e permettere all’ospite di continuare
Il segretario del Pd emiliano apre a una revisione delle soglie
Landini: «Ripartiamo dalla Costituzione»
di Rachele Gonnelli


I fischi sono scattati subito, appena Stefano Bonaccini, membro della segreteria renziana è di un balzo salito sul palco acciuffando il microfono. Forse erano già pronti per Matteo Renzi. Forse le contestazioni sono scaturite proprio dal fatto che il sindaco alla fine ha preferito rimanere a Firenze. Di certo quando al posto suo è stato annunciato Bonaccini, che del Pd dell’Emilia-Romagna è ben conosciuto come segretario regionale, qualcuno gli ha detto «Bonaccini chi?» e lui gli ha risposto a tono prendendo il microfono «ma io non mi dimetto».
Non è stato l’unico momento di tensione tra l’unico oratore democrat e la platea. Anche se il responsabile Enti locali è stato bravo a stemperare il clima rissoso chiamandosi un paio di applausi in solidarietà con le popolazioni emiliane già vittime del terremoto e delle alluvioni e poi in solidarietà con la ministra Cecile Kyenge. I rumoreggiamenti sono diventati diffusi e molesti quando Bonaccini ha iniziato a difendere la fretta di rimettere mano alla legge elettorale per rispettare l’impegno di superare il Porcellum garantendo alternanza e governabilità. Tanto che lo stesso Nichi Vendola ha dovuto prendere la parola per sgridare i suoi: «Non è possibile, compagni, che mi applaudite quando metto in guardia da primitivismo e plebeismo e poi fate così». In separata sede, davanti alle telecamere, ha aggiunto il suo dispiacere per l’assenza di Renzi.
La discussione sulla proposta di legge elettorale in discussione alla Camera ha innervato tutta la giornata di interventi, segnando una distanza davvero siderale. L’offerta di Bonaccini di provare a rivedere la soglia di sbarramento «purché si trovi una larga maggioranza», proseguendo nel contempo l’alleanza con Sel «spero in tutti e 4mi-
la comuni al voto in primavera», è presa per buona, come impegno, da Fabio Mussi, ma non è comunque bastata a riallacciare un abbraccio o un discorso comune. «Non chiediamo mica l’elemosina di un abbassamento della soglia di qualche punto spiega la capogruppo al Senato Loredana De Petris il problema su questo testo è di democrazia e di costituzionalità e riguarda un premio di maggioranza al 35 per cento che lo configura come una nuova legge truffa». Così a un Renzi che dice «i piccoli si arrangino» un Mussi in grande spolvero oratorio risponde «arrangiati tu, Matteo», perché se Sel è contro il massacro delle minoranze non è per sopravvivenza, «perché saremo anche minoranza nei voti ma non siamo minoritari nella testa».
La strada, giusta o no, di Sel si separa sempre più da quella del Pd con accenti a tratti anche molto polemici sulle evoluzioni in corso al Nazareno e il merito delle proposte, incluso il Jobs Act . Ad esempio nelle parole del deputato Giorgio Airaudo che mette in continuità le geometrie variabili delle larghe intese con l’incontro Renzi-Berlusconi e una legge elettorale «che fa rabbia perché tende a escludere».
In serata arriva l’intervento-evento del segretario della Fiom Maurizio Landini, che mette insieme il deficit di democrazia della legge elettorale con le critiche alla proposta della Cgil di Susanna Camusso sulle regole per la rappresentanza nei luoghi di lavoro e la battaglia europea per scardinare il Fiscal Compact. Per Landini in Italia anche l’astensionismo e il voto di protesta incanalato su Grillo non sono un sintomo di disinteresse per la politica ma una domanda di politica diversa, una domanda di rappresentanza che non trova risposte di fronte a una difesa arroccata di ceto politico impaurito.
«Non so se vi siete accorti che da due anni abbiamo governi, Monti e Letta, che non sono espressione del voto degli elettori», dice Landini. E lo scenario per lui è quello di una Europa fatta a uso e consumo della tecnocrazia, dei banchieri, della finanza che tende a dividere e mettere in scacco i diritti dei lavoratori. C'è insieme un problema di democrazia che cambia i connotati della civiltà occidentale e un gigantesco problema di diseguaglianza, di impoverimento e disarticolazione del welfare, di azzeramento ad esempio di conquiste come un sistema pensionistico solidale. Landini non entra nella contrapposizione che catalizza i congressisti tra andare alle europee con una lista a guida Tsipras, il giovane leader greco di Syriza, o con Martin Schulz e i socialisti europei. Il capo delle tute blu preferisce parlare di una scelta di campo sociale, ricomponendo un fronte a difesa dei lavoratori, «contro i ricatti di chi come sulla trattativa della Electrolux vuole tagliare i salari, chiede più straordinari, meno pause, se no delocalizza senza che la politica si opponga». Per Landini bisogna «assumere i principi della nostra Costituzione per portarla in Europa, per costruire un’Europa sociale che oggi non c’è. E il punto non è con chi sto ma come ci vado in Europa». E la sala, straboccante, accompagna tutto il suo intervento con applausi continui.
Su Tsipras, che pure divide e appassiona, la parola finale forse il congresso la dirà oggi nelle conclusioni. Anche questo tema della collocazione in Europa comunque è un riflesso dell’allontanamento dal Pd, non solo di Letta, ma ora anche di Renzi. I pareri sono vari. Per alcuni dirigenti, da Mussi a Gennaro Migliore, Tsipras si presenta con la Sinistra europea e «la Gue è improponibile», per altri invece Nicola Fratoianni ne è il portabandiera, ma anche Giulio Marcon, Raffaella Bolini la scelta è necessaria. Bonaccini a questo proposito ha annunciato l’ingresso del Pd nel Pse «a fine febbraio». Probabilmente l’annuncio ha rafforzato il battimani per la lettera di Alexis Tsipras ai congressisti e raffreddato ulteriormente lo stesso gesto verso una lettera, per la verità molto simile nei toni critici verso le politiche di austerità, mandata dal leader dell’Spd candidato in alternativa alla presidenza. Sel si prepara ad andare da sola alla ricerca di una riscossa della sinistra in Italia e in Europa? In realtà torna sempre come un refrain la «ricerca di un campo largo», una lista della società civile.

Repubblica 26.1.14
Fischi e insulti al congresso di Riccione: “Matteo non è il nuovo Cavaliere”
Vendola difende l’ospite
“Vergogna per l’asse con Silvio” Sel contesta il renziano Bonaccini
di Giovanna Casadio


RICCIONE — «Bonaccini chi?». E Stefano Bonaccini al congresso di Sel si prende i fischi e le contestazioni che sarebbero spettati a Matteo Renzi, se fosse venuto. Ma tant’è. Il segretario democratico non è arrivato, perché non si va a parlare di corda in casa dell’impiccato, ovvero della riforma elettorale che mette all’angolo i piccoli partiti. In platea è contestazione aperta. Sullo schermo scorre il tweet “Renzi non viene, un’altra occasione persa”. E non bastano i rimproveri di Vendola che invita i suoi a non essere “plebe”: «Siamo in dissenso rispetto al leader del Pd ma ascoltiamo con rispetto. Non è possibile applaudire il segretario del vostro partito quando parla contro il plebeismo e il primitivismo e poi comportarsi così». Però è in piena sintonia con il popolo di Sel quando dice: «Quella legge elettorale ha il timbro berlusconiano».
Dalla platea alcuni gridano “buffone” a Bonaccini. Lui si difende: «Le regole si scrivono con tutti». E i vendoliani: «Con chi? Con Berlusconi? Vergogna, vergogna ». L’emissario renziano ha un bel rassicurare sul possibileabbassamento della soglia di sbarramento. Resta sempre un requiem per il partito della sinistra. Bonaccini aveva cominciato con un “care compagne e cari compagni” cancellato dai fischi. Aggiunge, a ulteriore rassicurazione, che su una legge contro il conflitto d’interessi non ci sono preclusioni. «D’altra parte l’accordo con il principale partito di opposizione lo facciamo per non tornare mai più insieme al governo delle larghe intese» spiega. Eppure scattano altre contestazioni. «Matteo non è ilnuovo Berlusconi», dirà poi il responsabile enti locali dei Democratici. Che ha anche la prontezza di battuta e a quel “Bonaccini chi?” come “Fassina chi” (la battuta del segretario dem che provocò le dimissioni da vice ministro Stefano Fassina) replica “Ma io non mi dimetto”.
E’ tutto nel rapporto con il Pd il giro di boa che il partito di Vendola si trova ad affrontare Sel è divisa tra Pd e movimentismo. Il leader precisa: «L’alleanza con il Pd non è scritta nelle tavole della legge, non è scontata». FabioMussi lo dice chiaro: «Arrangiati Renzi, il premio di maggioranza te lo prendi da solo». Ma il primo banco di prova sono le elezioni europee della primavera. E ad effetto, vengono letti due messaggi: uno è di Tsipras e l’altro di Schulz. Per Tsipras è standing ovation a grande maggioranza. Sel potrebbe confluire in una lista aperta ai movimenti con Spinelli, Gallino, Camilleri. E certo Tsipras allontana Sel dal Pd. Anche se alle amministrative Sel è praticamente dappertutto alleata con i dem. Nel voto in Sardegna il Pd ha fatto un accordo con Sel. Mettere insieme i fan di Tsipras e quelli di Schulz non è facile: comunque l’approdo — insistono i vendoliani — deve essere il Pse e non i partiti comunisti in europa. Il leader del Psi, Nencini, invita a stare tutti in una unica lista. L’ala verde di Sel nicchia. Il nodo si aggroviglia. Vendola rincara: «Mi imbarazza che il Pd possa fare semplicemente il gioco di Berlusconi…» Goffredo Bettini, dem, invita i vendoliani a entrare in un grande e nuovo Pd. Gennaro Migliore, il più vicino al Pd, avverte: «Uno sbarramento a Renzi lo faremo noi in Parlamento». Maurizio Landini, il leader Fiom è incoronato all’unanimità leader politico della sinistra. E ricorda alla platea che «Renzi è stato eletto segretario per la domandadi cambiamento».

l’Unità 26.1.14
Su unioni civili e temi etici, se si vuole, si può fare subito
Un accordo larghissimo era stato già raggiunto su coppie di fatto, «fine vita» e altre battaglie di civiltà
di Eugenio Mazzarella


I TEMI ETICI, «ETICAMENTE SENSIBILI», COME SI DICE, HANNO UN DISGRAZIATO DESTINO nel nostro Paese. E non perché non abbiano una base sociale “matura” ben più ampia degli schieramenti partitici. Anzi sono probabilmente gli unici temi che godono, nel Paese reale, di “larghe intese” naturali, per soluzioni affidate al buon senso, a un diffuso sentire comune che si è da tempo lasciato alle spalle trincee ideologiche, incapaci di vedere nuovi valori e nuove sensibilità nelle relazioni sociali; o più propriamente il necessario aggiornamento di quel perenne valore che è la solidarietà umana verso ciò che prova e sente il proprio simile. Anche perché sono tra i pochi temi che una politica decente potrebbe affrontare anche in tempi di stringenti vincoli
economici, non esigendo significative coperture di spesa, o non esigendone affatto, come invece altri indifferibili temi legislativi in materia economica o di struttura sociale. E invece hanno un destino disgraziato, proprio per il loro alto valore simbolico, da decenni usato dalla politica italiana a fini interni del quadro politico, e non come domande sociali cui dar risposta in modo maturo e condiviso, come ormai, se si volesse, pur si potrebbe.
La scorsa legislatura è stata esemplare in negativo in questo senso. Unioni civili, migranti, «fine vita» sono stati bandierine di posizionamento politico ed elettorale tra schieramenti; e nello stesso schieramento, e magari partito, tra questa e quella componente o fazione, per ragioni che niente avevano a che fare con la materia a contendere. Una legislatura su questo terreno potentemente di malafede. Persino sul «fine vita», le dichiarazioni anticipate di trattamento, dove una cornice valoriale condivisa si andava profilando, hanno avuto la meglio le pseudo ragioni della peggiore politica di “posizionamento”.
Sarebbe davvero una novità se in questo inizio (o fine?) di legislatura i temi etici non fossero usati alla stessa maniera strumentale, per ottenere non una loro soluzione, ma una soluzione per altre questioni che con essi hanno poco a che fare. Ed è qualcosa, che, se si volesse, si potrebbe fare, allargando persino nelle soluzioni legislative la maggioranza di governo.
Il problema è appunto volerlo. Comincio dal «fine vita». Basterebbe riprendere la soluzione che aveva trovato il consenso più largo in aula nella scorsa legislatura, affidando al dialogo al letto del malato tra familiari, fiduciario e medici, l’interpretazione rispettosa – e non una semplice esecuzioni testamentaria – delle sue volontà espresse, per trovare una soluzione politicamente sostenibile e socialmente condivisa.
Sulle unioni civili basterebbe riconoscere il diritto a una piena tutela giuridica delle coppie omosessuali, senza “stressare” questa sacrosanta esigenza di diritti civili nella pretesa di un’omologazione ideologica all’istituto del matrimonio, per poterne venire a capo senza collidere con ragionevoli riserve a questa equiparazione che non sono solo di ispirazione religiosa.
Chi scrive, ha potuto argomentare in questo senso già diverso tempo fa sull’Osservatore Romano; e chi segua l’aggiornamento in atto su questa materia nelle posizioni della Chiesa sa bene che non può usarle per far benedire la volontà (sua) di “non negoziare”. I tempi dei teocon e dei teodem sono fortunatamente finiti. Sui migranti e sullo ius soli, già passi avanti si erano fatti nella scorsa legislatura, e basterebbe riprenderli con il «cuore aperto», e non le frontiere semplicisticamente aperte, cui ci sollecita Papa Francesco, per trovare soluzioni moralmente, socialmente e politicamente sostenibili, su cui richiamare l’Europa alla sua corresponsabilità.
Insomma, se si vuole, si può fare. Se poi non si vuol fare, o si vuol dimostrare che non si può fare con questa legislatura, allora tanto vale non bruciare queste bandiere di civiltà nel falò delle vanità della politica. Non userò l’espressione «gli italiani non capirebbero». Sarebbe la moralità della politica a non capire. Per chi ovviamente è a essa interessato.

l’Unità 26.1.14
Landini a Camusso: «No a repliche a mezzo stampa»
Rappresentanza, non rientra lo scontro tra Fiom e Cgil. E le altre categorie si schierano
di Andrea Bonzi


BOLOGNA «Non accettiamo repliche a mezzo stampa, serve una risposta ufficiale». Parole con cui Maurizio Landini, numero uno della Fiom nazionale, a margine del congresso di Sel a Riccione, fa capire che lo scontro sulla democrazia interna al sindacato è tutt’altro che finito. Anzi, se la Cgil non farà una consultazione sull’accordo sul «Testo unico sulla rappresentanza» firmato lo scorso 10 gennaio con Cisl, Uil e Confindustria, «si assumerà una grave responsabilità e, impedendo alle persone di decidere, aprirà una esplicita crisi democratica all’interno del sindacato», avverte Landini.
NESSUN ARRETRAMENTO
Il leader delle tute blu non arretra, incurante del fatto che la proposta di congelare il congresso di inizio maggio, così da permettere la consultazione fra gli iscritti, sia stata stroncata a stretto giro di posta dalla segretaria generale Susanna Camusso. La quale, dopo le bordate partite dall’attivo Fiom tenutosi venerdì a Bologna, aveva chiuso la discussione, forte del largo via libera all’intesa sancito nel Direttivo nazionale Cgil.
Le critiche di Landini, ribadite anche ieri, riguardano in particolare la possibilità di sanzionare i delegati («Già non sono pagati per coprire quel ruolo, la politica dovrebbe fare di tutto per non metterli sotto pressione, altro che sanzionarli», è il succo del suo ragionamento), e «l’esplicita violazione» dello statuto Cgil che deriverebbe, appunto, dalla mancata consultazione. «E siccome ho visto che alcuni definiscono addirittura “epocale” quel testo, non mi sembra davvero un buon inizio...», considera il numero uno dei metalmeccanici. Dinamiche precongressuali? Landini giura di no: «La nostra richiesta non ha nulla a che fare con il congresso».
Che il clima sia infuocato tanto che, tra i delegati, la parola “scissione” è tornata a circolare, seppure scacciata subito dallo stesso Landini lo fa capire il moltiplicarsi dei botta e risposta. Il sindacalista e deputato di Sel Giorgio Airaudo, si rivolge direttamente a Camusso: «Vorrei dire alla mia leader della Cgil, che quando i regolamenti si modificano è meglio che i lavoratori votino». Poi, conscio di essere di fronte a «un passaggio delicato» della vita della Cgil, spiega: «La discussione in corso non può essere risolta solo con le buone maniere. La legge sulla rappresentanza, per quel che ci riguarda, non avrà mai sanzioni ai sindacati. È un regolamento applicativo». E intanto l’ex segretario Fiom, Gianni Rinaldini, portavoce della minoranza Cgil ha fatto ricorso alla Commissione di garanzia congressuale, denunciando «interferenze da parte dei massimi organi esecutivi che chiedono ai segretari generali di far votare il documento approvato dal direttivo il 17 gennaio».
All’attivismo dei metalmeccanici rispondono le altre strutture della Cgil schierate con le posizioni della numero uno del sindacato di corso d’Italia. Già venerdì, si erano espressi i vertici degli edili Fillea, dei chimici-tessili della Filctem, degli alimentaristi della Flai e dei bancari Fisac, oltre ai sindacati territoriali, ovvero la Cgil di Napoli e della Campania, quella di Bari e della Puglia, così come quella della Sicilia, del Veneto e della Sardegna. Tutte, in estrema sintesi, criticano le parole, nonché i toni, di Landini e ribadiscono come l’iter congressuale, già ampiamente in corso, debba andare avanti.
E la Fim-Cisl prende la palla al balzo, per rimarcare i punti positivi dell’accordo del 10 gennaio. Tra questi, osserva il segretario generale delle tute blu Cisl, Giuseppe Farina, il fatto di «superare una stagione caratterizzata dalla divisione tra i sindacati e dalla instabilità tra delle relazioni sindacali» e il «pieno coinvolgimento delle rappresentanze aziendali e dei lavoratori nelle decisioni contrattuali». Meriti che, sempre secondo Farina, stanno trovando «riscontri positivi nelle prime assemblee fatte con i lavoratori». Nonostante il giudizio sul testo sia diametralmente opposto ai cugini della Fiom, Farina chiude con un’esortazione all’unità sindacale, auspicando un nuovo «stare assieme» anche tra le sigle metalmeccaniche.

Cosa prevede il testo unico firmato tra Cgil Cisl Uil e Confindustria?
Una pagina di infografica della Cgil sulll’Unità di oggi, qui

l’Unità 26.1.14
Prostituzione, cresce la caccia alle minorenni
Scende l’età richiesta, allarme malattie sessuali
2.5 milioni quelli che scelgono il sesso a pagamento
Chiara Saraceno: «Il moralismo non aiuta a capire questi uomini»
La sociologa interverrà al convegno: «Bisogna interrogarsi sui vari tipi di domanda del sesso Non è solo dominio o mancanza di rispetto»
intervista di A. Com.


Tra i relatori del seminario anche la sociologa Chiara Saraceno, protagonista con il filosofo Silvano Petrosino di un confronto sulle «sfide» aperte nella riflessione sul fenomeno prostituzione. Professoressa, cosa emerge secondo lei da questa prima indagine sui clienti?
«Intanto che bisogna interrogarsi sui vari tipi di domanda del sesso a pagamento, a cui poi corrispondono vari tipi di offerta. E che bisogna farlo senza un atteggiamento meramente moralistico».
In che modo, ad esempio?
«Le conclusioni emergeranno solo dal dibattito ma non credo, ad esempio, che tra i clienti delle prostitute ci sia solo una visione squalificata della donna, oggi condivisa peraltro da gran parte della visione pubblica. Ci sono infatti anche altri tipi di domanda, come quella di uomini che distinguono tra affettività e sesso, che insomma non riescono a tenere insieme questi due aspetti. Tra i clienti troviamo poi chi ha un’idea della donna come oggetto, sottomessa, ma pure l’opposto ovvero uomini che hanno paura delle donne, temono cioè di dipendere da loro e per questo cercano un distacco, si sentono più sicuri pagandole. Voglio dire insomma che una visione omogenea del cliente anzi dei clienti non aiuta certo a comprenderli».
Si discuterà anche di “che fare”. Quali obiettivi vede lei?
«Intanto bisogna distinguere tra tratta delle donne e tutto il resto: nel primo caso l’unica cosa da fare è proteggerle, anche qui però non è così semplice, intervenire nel modo sbagliato può rendere il fenomeno ancora più clandestino si discute molto, ad esempio, se l’approccio svedese che punta solo a punire il cliente sia davvero efficace. Dire che il punto è quello di restituire a queste donne i loro diritti civili, e non solo a quelle vittime di tratta, in modo da porre fine a violenza e sfruttamento. Poi però c’è da fare tutto un lavoro sul maschile e sui rapporti di genere, che è inevitabilmente un lavoro di lungo corso: possibile che anche chi vuole solo parlare abbia bisogno di pagare qualcuno per farlo? Su questo, anche, credo dobbiamo interrogarci».

l’Unità 26.1.14
Ricordare i «comunisti» oggi a Livorno
risponde Luigi Cancrini

psichiatra e psicoterapeuta

Non siamo tutti uguali, per fortuna. Il comunismo è un ideale di uguaglianza da non confondere con la repressione dipinta di rosso. Il fascismo è violenza, sopraffazione del più debole, annullamento di qualunque forma di dissenso, infamia; questo lo dice la storia. Troppo spesso sento dire che non ha più senso parlare di antifascismo e che queste ideologie appartengono al secolo scorso.
LETTERA FIRMATA

L’idea del collettivo Comitato Politico 1921 che ha intitolato con targhe alternative nove strade di Livorno ad altrettanti partigiani martiri del fascismo e/o protagonisti della Resistenza sembra a me giusta e legittima. Si può pensare quello che si vuole del termine «comunista», quello di cui non si può avere alcun dubbio è il fatto per cui il partito che si fondò nel gennaio del 1921 a Livorno è stato il protagonista principale della lotta al fascismo. Quelle donne e quegli uomini, voglio dire, hanno dedicato tutta la loro vita, sfidando anche la morte, per dare a noi tutti la possibilità di vivere in un’Italia libera e democratica. Che ha (avrebbe) il dovere di ricordarli. Senza fare battute spiritose (come fa su la Repubblica di venerdì Matteo Pucciarelli) sulle «contraddizioni» in cui cadrebbe, appoggiando questa idea, il sindaco di sinistra che oggi appoggia Renzi. Gli anni passano infatti e i tempi cambiano. Che avrebbero fatto Matteo Pucciarelli o Matteo Renzi al tempo in cui i fascisti perseguitavano e uccidevano soprattutto i comunisti? Come avrebbero giudicato, allora, chi comunista si dichiarava rischiando la sua vita per combattere una dittatura violenta e razzista come quella di Hitler e di Mussolini?

l’Unità 26.1.14
Carceri, l’indulto si può e si deve fare
Non possiamo voltare lo sguardo di fronte alla condizione inumana degli istituti di pena
di Danilo Leva


L’INAUGURAZIONE DELL’ANNO GIUDIZIARIO, COINCIDE QUEST’ANNO CON UNA STAGIONE DI RIFORME E DI INNOVAZIONI LEGISLATIVE CAPACI DI INCIDERE SUL SISTEMA GIUDIZIARIO ITALIANO. Per troppi anni la macchina della giustizia italiana è stata ferma producendo dilatazione e lentezza dei procedimenti ed aumenti dei costi di accesso. Tutti elementi di debolezza che hanno alimentato diseguaglianza sociale e scarsa tenuta competitiva del «sistema-Paese».
La panoramica tracciata dal Presidente Santacroce nella sua relazione è devastante, soprattutto rispetto al sovraffollamento carcerario, all’uso disinvolto fatto negli anni della custodia cautelare e ai tempi del processo. Oramai si è diffusa la consapevolezza della improcastinabilità di una riorganizzazione del sistema giudiziario. Tocca alla politica rimuovere le contrapposizioni inutili e dannose e creare le condizioni di condivisione nella società, oltre che tra gli operatori, affinché le riforme abbiano le gambe per camminare.
Il campo del diritto civile ha bisogno di interventi capaci di superare la filosofia del «costo zero», vale a dire l’illusione che sia sufficiente intervenire sulle regole del processo senza risorse o investimenti aggiuntivi per migliorarne la qualità. Si tratta di una impostazione sbagliata che, nel corso degli anni, ha prodotto solo guasti. Sempre in relazione al settore civile, poi è necessario superare la frammentarietà dei riti con l’affermazione, come rito ordinario, di quello del lavoro. Inoltre bisogna giungere all’affermazione del processo telematico sull’intero territorio nazionale, con un sguardo rivolto all’introduzione di istituti innovativi come quello della negoziazione assistita.
Sul terreno del diritto penale, invece, occorre rimuovere innanzitutto le condizioni di inciviltà che caratterizzano il nostro ordinamento.
Dunque, ben vengano la riforma della custodia cautelare, a cui il Partito democratico ha dato un contributo importante, l’introduzione di nuovi istituti coma la messa alla prova, il potenziamento delle misure alternative e le nuove normative contenute nel Decreto Carceri.
Tutte misure significative ma che non saranno, però, sufficienti ad allineare i nostri istituti penitenziari agli standard indicati dalla sentenza Torreggiani (emessa dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo l’8 gennaio 2013).
Abbiamo il dovere morale di risolvere il problema del sovraffollamento carcerario. Una forza riformista come il Pd, di fronte alla condizione inumana degli istituti di pena nazionali, non può girare lo sguardo da un’altra parte e cedere al canto delle sirene dei sondaggi o degli orientamenti popolari. È necessario riaffermare la legalità e la certezza del diritto nel nostro Paese, ed è una battaglia giusta da fare. Pertanto oggi, proprio alla luce dei provvedimenti strutturali in corso di approvazione, il Parlamento deve aprire la riflessione sulla necessità di un atto straordinario di clemenza. Tutto ciò non è più eludibile.
Così come non può essere sottaciuta l’urgenza di riformare l’istituto delle intercettazioni ampliando la sfera di riservatezza dei cittadini senza svilirne la funzione di ricerca della prova. Ma ancora dobbiamo avere la forza di mettere in agenda la riforma della responsabilità civile dei magistrati o il tema dei magistrati fuori ruolo. In una fase di grande difficoltà come quella che stiamo attraversando, tutti hanno il dovere di dare una mano e non possono esistere argomenti tabù.
Un’altra grande sfida a cui rispondere con immediatezza è quella della tutela effettiva delle vittime da reato, tema non derubricabile ad argomento secondario nel dibattito politico.
Tutto questo impone, però, uno scatto di coraggio e di ambizione. Per cambiare la giustizia italiana servono cultura delle garanzie e passione per i diritti. Viviamo in un Paese in cui molto spesso in nome della certezza della pena si è finiti per abbattere le garanzie dei cittadini costituzionalmente riconosciute. Questo è un paradigma da rovesciare.

il Fatto 26.1.14
Allarme da Palermo “Mafiosi in libertà con la svuotacarcei”
Il Pg Scarpinato contro le “norme che smontano la risposta dello Stato”
Il Presidente della Corte d’appello tace sui Pm minacciati
di Giuseppe Lo Bianco


Palermo Chi si aspettava un cenno di solidarietà nei confronti dei pm minacciati da Riina, tutti presenti ieri nell’aula magna del palazzo di Giustizia di Palermo, è rimasto deluso. Davanti al presidente del Senato Pietro Grasso, venuto a esprimere “solidarietà e vicinanza ai magistrati palermitani che continuano a trovarsi nel cono d’ombra delle minacce e delle intimidazioni mafiose”, il presidente della Corte di appello Vincenzo Oliveri ha inaugurato l’anno giudiziario ignorando tensioni e minacce di morte del boss corleonese, legate al processo sulla trattativa. Oliveri si è rivolto con affetto a Giorgio Napolitano, che proprio in quel processo non voleva comparire da testimone: “Abbiamo un debito di riconoscenza nei confronti del capo dello Stato. Si è tentato di offuscare la sua immagine con il sospetto di interferenze in un grave procedimento in corso qui a Palermo, che i nostri giudici hanno dichiarato da subito totalmente infondati. Sentiamo di dovergli rinnovare l’impegno di fedeltà alla legge e alla Costituzione, di cui egli è garante”. E nella rivendicazione del dovere, per tutti i giudici, di essere “imparziali’’, è arrivata la frecciata all’ex pm Ingroia: “No a carriere politiche inaugurate nel medesimo distretto dove il giorno prima il candidato indossava la toga”. Nessuno tra i pm presenti ha voluto commentare il silenzio sulle minacce del presidente della Corte di appello chiamato, tra qualche settimana, a scegliere il collegio cui affidare l’appello del processo agli ufficiali dei carabinieri Mori e Obinu, assolti in primo grado. E se a ricordare che “l’anno giudiziario si innesta quest’anno in un particolare clima dovuto alle minacce di Totò Riina e a quelle nei confronti di altri magistrati” ci ha pensato il procuratore Messineo, per Oliveri è apparso più importante citare “il sostegno morale che il presidente (Napolitano, ndr) ha sempre dato alla magistratura’’.
MINACCE e ordini di morte del capomafia detenuto Riina sono state al centro degli altri interventi, da Roberto Rossi, del Csm, al procuratore generale Roberto Scarpinato, che ha lanciato l’allarme sul decreto “svuota carceri”, a suo dire frutto di una scelta che appare “incomprensibile”. Scarpinato: “Una pena di sei anni si ridurrà a tre anni e mezzo e decine di pericolosi mafiosi a breve termine e nei prossimi anni ritorneranno in libertà anzitempo”. Conseguenza di una legislazione antimafia, ha aggiunto il procuratore, che “assomiglia a una sorta di tela di Penelope che da una parte viene tessuta con l’introduzione di nuove norme per rendere più efficace l'azione repressiva, dall’altra viene in parte smagliata depotenziando la stessa risposta repressiva”. Tutto ciò mentre in Sicilia, dove dal 2003 al 2013 sono stati “dissipati 3 miliardi di euro per la formazione professionale senza produrre risultati occupazionali”, è in corso una sfida drammatica “la cui posta in gioco è la credibilità delle istituzioni”.
SECONDO IL PG “è trascorsa la stagione” in cui il binomio legalità-sviluppo “aveva creato una forte aspettativa”. Oggi sulla disillusione “soffiano menti raffinate della criminalità organizzata che additano come responsabile la magistratura”. È accaduto e accade, soprattutto in riferimento al sequestro e alla confisca dei beni mafiosi da parte dei magistrati, cui una subcultura mafiosa tenta di addebitare buona parte della crisi economica siciliana. A Messina, infine, il procuratore generale Melchiorre Briguglio ha inserito nel suo saluto alle autorità presenti anche il suo predecessore, Franco Antonio Cassata, condannato per diffamazione aggravata del professore Adolfo Parmaliana. Cassata era in aula, a differenza dello scorso anno quando l’inaugurazione dell’anno giudiziario venne celebrata con la sua sedia vuota. Ad assistere alla cerimonia anche il presidente della Corte costituzionale, Gaetano Silvestri.

Il Sole 26.1.14
Palermo
«Svuota carceri» a forte rischio
di Nino Amadore


In Sicilia c'è un'emergenza mafia ma c'è un'emergenza corruzione che si è fatta sistema. Due facce di una stessa medaglia: quella di un'isola ridotta ormai in ginocchio. Ma c'è un'altra emergenza: l'alleanza tra istituzioni e società civile non ha dato i frutti sperati e sulla disillusione soffiano menti raffinatissime della criminalità organizzata che creano un clima ostile verso i magistrati. Nel primo caso è il presidente della Corte d'appello di Palermo Vincenzo Oliveri ad affrontare il tema nella sua relazione per l'inaugurazione dell'anno giudiziario del distretto che si estende nelle province di Palermo, Trapani e Agrigento. Nel secondo caso invece è Roberto Scarpinato, procuratore generale a Palermo, ad affrontare il problema. Ad ascoltare, in un palazzo di Giustizia blindato e sotto pressione per le minacce ai magistrati (non ultimi quelli di Totò Riina a Nino Di Matteo, il pm del proceso sulla cosiddetta Trattativa Stato-mafia) c'è il presidente del Senato Pietro Grasso, venuto «a esprimere la solidarietà e la vicinanza ai magistrati palermitani». Ci sono il sindaco di Palermo Leoluca Orlando e il presidente della Regione siciliana Rosario Crocetta, più volte positivamente citati nelle relazioni. Il rito della relazione si consuma con i numeri: nei tribunali del distretto giudiziario di Palermo «il contenzioso civile è cresciuto con un aumento delle nuove cause (da 91.530 si è saliti a 97.254) e delle definizioni (da 86.608 a 96.125). I procedimenti pendenti sono passati da 117.846 a 120.082». Oliveri pone alcuni problemi sullo stato della giustizia, bacchetta quei magistrati che «che non si accontentano di far bene il loro lavoro, ma si propongono di redimere il mondo» e ringrazia il Capo dello Stato verso cui, dice riferendosi al processo sulla Trattativa, «abbiamo un debito di riconoscenza e si è tentato di offuscare la sua immagine con il sospetto di sue interferenze in un procedimento in corso qui a Palermo. Sospetti che i nostri giudici hanno dichiarato da subito totalmente infondati».
Scarpinato non si risparmia: «Appare incomprensibile - dice - la scelta operata nel recente decreto legge cosiddetto "svuota carceri", di aggravare ancor di più la situazione estendendo anche agli esponenti della criminalità organizzata l'innalzamento da 45 a 75 giorni dello sconto di pena previsto per la liberazione anticipata a far data dal 2010. Una pena di sei anni si ridurrà quindi a tre anni e mezzo e decine di pericolosi mafiosi a breve termine torneranno in libertà anzitempo». Tutto ciò, dice il procuratore generale, contribuisce a vanificare quanto è stato fatto sin qui: «L'alleanza tra istituzioni e società civile, per esempio con la scelta dei vertici di Confindustria, si fondava sulla promessa-scommessa che si potevano legare legalità e sviluppo. Ma la crisi e la predazione dei fondi pubblici hanno diffuso l'idea che tutto ciò sia stato tradito o sia stata un'illusione».

La Stampa 26.1.14
Roma, la fabbrica inutile degli spazzini

Città sommersa di rifiuti, azienda in default. Negli ultimi cinque anni un’assunzione al giorno
di Giuseppe Salvaggiulo

qui
 

Corriere 26.1.14
Poltrone da burocrati e rendite milionarie. Ecco i nuovi re di Roma
Sono 1.657 i soggetti proprietari ciascuno di oltre 500 unità immobiliari Il mercato degli affitti passivi a spese dei contribuenti ammonta a qualche centinaio di milioni l’anno
di Paolo Conti e Sergio Rizzo


La grande ricchezza a Roma è invisibile. Sterminata e arrogante, ma senza faccia. Un giorno la società Gemma di Renzo Rubeo che lavorava per il Campidoglio contò 1.657 soggetti proprietari ciascuno di oltre 500 unità immobiliari. Patrimoni straripanti, con nomi e cognomi ignoti ai più. In qualche caso, fatto grave, anche agli uffici comunali. Angiola Armellini, per esempio aveva la residenza a Montecarlo pur vivendo a Roma, dov’è proprietaria di 1.243 appartamenti sui quali, è l’accusa delle Fiamme gialle, non pagava l’Ici né l’Imu. Suo padre Renato era uno dei padroni della città quando le giunte democristiane nascevano e morivano a ogni starnuto dei palazzinari. E l’Imu pura fantascienza.
Imposta che ha invece pagato Tommaso Addario: due milioni e mezzo nel 2012. Già alto dirigente dell’Italcasse ai tempi di quel Giuseppe Arcaini travolto nel 1977 dallo scandalo dei finanziamenti a politici e imprenditori e marito della ex proprietaria dell’impresa Vianini che fu acquistata da Francesco Gaetano Caltagirone, da anni con la Tirrena immobiliare gestisce un immenso impero di mattoni.
Paragonabile, forse, a quello di Sergio Scarpellini, proprietario degli immobili affittati alla Camera a prezzi da capogiro attraverso la società Milano 90: la stessa cui fa capo anche una prestigiosa scuderia di 77 cavalli da corsa con annesso allevamento di 94 puledri e 85 fra fattrici e stalloni. E pazienza se le perdite del costoso passatempo corrono al ritmo di un purosangue, tre milioni l’anno.
Un tempo, quando le palazzine a Roma venivano su più veloci dei grattacieli di Shangai, c’erano pronti i soldi degli enti di previdenza. Con 600 miliardi l’anno da spendere compravano tutto. Anche le schifezze che allagavano intere periferie. Finché quei denari sono finiti e anziché comprare, Inps & soci hanno dovuto vendere. Invece di continuare a tirare su palazzine, allora, c’è chi ha cominciato a fare affari con la pubblica amministrazione, costruendo palazzi per uffici o sedi istituzionali. Mentre altri imboccavano la strada della rendita pura, mettendo a frutto proprietà divenute via via più gigantesche grazie ai canoni versati loro dagli enti pubblici che gli permettevano di comprare immobili senza tirar fuori un euro: pagando le rate dei mutui bancari con gli assegni delle pigioni. Chiunque abbia intrattenuto rapporti non conflittuali con il potere ha avuto la sua occasione, in una città nella quale il mercato degli affitti passivi a spese dei contribuenti è di qualche centinaio di milioni l’anno. Con il solo Comune arrivato nel 2011 a spenderne più di cento. Di questi, tredici milioni e mezzo per affittare, pur avendo sterminate proprietà immobiliari, gli stabili che ospitano i gruppi consiliari (!) e le commissioni comunali (!). Presi in locazione, ha scritto tempo fa il Giornale , dal solito Scarpellini: uno dei due è di proprietà dell’Inpgi, l’istituto di previdenza dei giornalisti, che l’ha affittato all’immobiliarista per 2,1 milioni il quale l’ha poi riaffittato per 9,2 (tutti i servizi compresi, beninteso), al Campidoglio.
Rendite e burocrazia
La Roma della rendita parassitaria ha soppiantato la Roma palazzinara. Le privatizzazioni l’hanno prosciugata dei grandi centri del potere finanziario: Telecom, l’Ina, la Banca di Roma di Cesare Geronzi... E quello che non è riuscita a mangiarsi Milano è finito agli stranieri. Vedi Bnl. Una desertificazione che non ha impedito, e forse ha perfino favorito, l’avanzata dei capitali mafiosi. Fa venire i brividi adesso sapere che decine di ristoranti nel centro della città, da Pizza Ciro a Jamm ja, sono controllati dalla camorra. Scoperta già preceduta dai clamorosi sequestri alla ‘ndrangheta del Cafè de Paris di via Veneto e dell’Antico Caffè Chigi, di fronte alla sede del governo, che aprono squarci inquietanti sulla facilità di infiltrazione della criminalità organizzata. Per troppo tempo ignorata, sottovalutata, o peggio ancora: tollerata. All’ombra di una burocrazia sempre più pervasiva quanto disinteressata ai destini della città.
Per lo scrittore napoletano naturalizzato romano Raffaele La Capria — autore del libro «Roma» di prossima uscita per Mondadori — «la burocrazia è il vero potere romano. Una burocrazia parassitaria, che si autocontrolla e si autogoverna, alimentando i propri parassiti, espressione di una certa borghesia che colloca negli uffici i propri esponenti per ottenere un reddito. Si dice che tutte le strade portino a Roma. È vero, ma è anche vero che tutte le strade muoiono a Roma, così come muoiono le idee e la fantasia, sempre per colpa della burocrazia che paralizza, blocca, rallenta non solo la vita della capitale ma dell’intero Paese. La burocrazia romana è insomma una specie di potentissima dittatura all’interno della democrazia».
Forse anche per questo i quattrini non hanno mai smesso di girare intorno alla cosa pubblica. Capace di tenere insieme nello stesso calderone la politica con gli affari. Così da far dire a un profondo conoscitore di Roma qual è l’archeologo Andrea Carandini: «Ignoro dove sia il vero centro di potere di questa città. Forse ancora i costruttori...». L’odore delle loro tracce, in effetti, si sente dappertutto. Anche alla Pisana, quartier generale del consiglio regionale del Lazio, dove la commissione Ambiente, quella che ha competenze sull’uso del suolo, era presieduta fino all’anno scorso da Roberto Carlino, il titolare della Immobildream: quella che «non vende sogni, ma solide realtà». Ovvero, l’agente immobiliare dei vari Caltagirone, che occupava anche una poltrona nella commissione Urbanistica. Tiè. E forse la poltrona da sindaco non è stata contesa a Ignazio Marino, alle ultime elezioni, da Alfio Marchini? Per i maligni il nipote dei fratelli costruttori Alfio e Alvaro, che per aver donato il Bottegone al Partito comunista si beccarono l’epiteto di «calce e martello», sarebbe stato il vero candidato di Francesco Gaetano Caltagirone. Sospetto che Marchini ha sempre sdegnosamente rigettato, senza peraltro smentire gli ottimi rapporti con Caltagirone: dieci anni fa i due progettarono di scalare insieme Metrovacesa, il secondo gruppo immobiliare spagnolo.
Ma sbaglia chi oggi crede di individuare in figure come quella del proprietario del Messaggero l’unico nocciolo duro del potere nella città. Sulla portata della sua influenza a proposito di certe decisioni politiche e grandi affari che si muovono in città non ci sono dubbi. Al tempo stesso, però, il baricentro del business di Caltagirone si sta spostando sempre di più fuori dei confini italiani. E di sicuro non è andata in porto un’operazione, della quale si è molto parlato, per cui poteva finire nelle mani di Caltagirone il regno della spazzatura dell’ottantasettenne Manlio Cerroni, proprietario di un gruppo imprenditoriale da 800 milioni l’anno che si estende dal Brasile all’Australia, costruito partendo dalla discarica più grande d’Europa, quella di Malagrotta. Uno degli uomini più potenti di Roma. In grado, è la tesi dei giudici che ora l’hanno messo agli arresti, di fare il bello e il cattivo tempo con le amministrazioni. Al punto da portarsi dietro il soprannome di «Supremo».
La capitale degli interessi
La verità è che a condizionare la politica romana, incapace di pensare in grande come si converrebbe a una capitale europea, sono tanti interessi diversi. Anche quelli apparentemente più piccoli. Un caso? Vicepresidente del consiglio comunale è un giovanotto di nemmeno trentadue anni, che risponde al nome di Giordano Tredicine, eletto per la seconda volta. È un esponente della famiglia che controlla una bella fetta del commercio ambulante in città. Immigrati a Roma nel 1959 dall’Abruzzo, controllano l’80 per cento della rete dei camion bar collocati nelle aree turisticamente strategiche. Alla Camera di commercio risultano quasi settanta diversi esponenti della famiglia registrati come titolari di licenze.
Per non parlare delle pressioni che hanno reso impossibile per vent’anni prendere una decisione che sarebbe stata naturale in qualunque città del mondo. Ricorda bene, l’ex assessore Walter Tocci, l’inferno che si scatenò quando la prima giunta di Francesco Rutelli, della quale faceva parte, propose di vietare il transito dei veicoli a motore nella zona archeologica più importante del mondo, quella dei Fori imperiali. Per primi insorsero i tassisti. Quindi gli operatori turistici. E i negozianti. Di conseguenza il povero Colosseo non è stato mai affrancato dalla indecente condizione di gigantesco spartitraffico annerito dallo smog. Nel 2010 Legambiente ha calcolato il passaggio di 2.120 veicoli l’ora, con un rumore perennemente superiore al limite massimo dei 70 decibel. Appena eletto, Marino ha annunciato la chiusura al traffico dei Fori: auguri. Per ora la ex via dell’Impero è chiusa appena a metà, e unicamente al traffico privato. In quella metà continuano a passare bus, taxi, auto blu... Nell’altra è tutto esattamente come prima. Un’operazione di semplice facciata, insomma. In linea con le titubanze che stanno segnando questi primi sette mesi di mandato del nuovo sindaco.
Le nomine, per esempio. La legge prevede che entro 45 giorni dall’insediamento i sindaci debbano provvedere alle designazioni di propria competenza. Nonostante ciò da sette lunghi mesi il Palaexpo, cioè l’azienda speciale che governa le Scuderie del Quirinale e il Palazzo delle Esposizioni, è senza vertice. Con ripercussioni potenzialmente gravissime considerando che le Scuderie sono uno dei rari spazi espositivi di altissimo livello in Italia che organizzano mostre di caratura internazionale.
Senza vertice è pure il Macro, il museo di arte contemporanea ristrutturato con 40 milioni di euro che rischia di diventare una costosissima scatola vuota perché privo di programmazione. Da sette mesi è poi vacante il posto da sovrintende comunale. L’assessore alla Cultura Flavia Barca, sorella dell’ex ministro Fabrizio Barca, punta su persone esterne all’amministrazione. Ma il bando dev’essere ancora pubblicato. Tutto questo mentre a causa delle difficoltà economiche il Comune sta progettando un drastico taglio ai finanziamenti della cultura.
Quindi i vigili urbani. Dopo un duro contrasto con il vecchio comandante Carlo Buttarelli, ereditato dal suo predecessore Gianni Alemanno, Marino designa il sostituto nella persona di Oreste Liporace, capo dell’ufficio relazioni con il pubblico del comando generale dei carabinieri. Nemmeno una settimana e si scopre che Liporace non ha i requisiti previsti non solo dal regolamento della polizia municipale ma anche dall’avviso pubblico stilato proprio dal gabinetto del sindaco: il comandante dev’essere stato dirigente almeno per cinque anni. Liporace dunque rinuncia. Pochi giorni dopo arriva al suo posto Raffaele Clemente. Che già a dicembre, mentre Marino è in Turchia, pensa di dimettersi perché lasciato da solo nel confronto con il potentissimo sindacati dei vigili che minacciano di bloccare la città con gli scioperi.
Gli stipendi d’oro
Poi c’è il caso dell’Ama. Dopo aver esaminato una montagna di curriculum, il 10 gennaio il sindaco mette Ivan Strozzi alla guida di un consiglio di amministrazione ridotto a tre membri. Ma il 16 dello stesso mese deve dimettersi: c’è un’indagine a suo carico, con avviso di garanzia da parte della procura di Patti, per una vicenda di sette anni fa quando era a capo di un’altra municipalizzata.
E che dire dell’Acea? Durante la campagna elettorale Marino subisce la conferma in blocco dei vertici. A cominciare dal presidente Giancarlo Cremonesi, sostenitore della campagna di Gianni Alemanno, e dall’amministratore e direttore Paolo Gallo gradito a Caltagirone. Al loro fianco, due rappresentati del socio francese Gdf, un dirigente del Comune, Francesco Caltagirone junior, l’ex parlamentare del Pdl Maurizio Leo, il consorte dell’ex guardasigilli Paola Severino, Paolo Di Benedetto, nonché il segretario generale della dalemiana fondazione Italianieuropei Andrea Peruzy. Faraonici gli emolumenti: 408 mila euro al presidente, 1,3 milioni all’amministratore, circa 120 mila euro agli altri. Totale, oltre due milioni l’anno, da pagare comunque fino al 2016 in caso di licenziamento. Il che rende decisamente più complesso l’avvicendamento. Mentre il tempo passa.
Ma non riesce, Marino, nemmeno a scalzare Cremonesi dalla presidenza della Camera di commercio, snodo cruciale di poteri e interessi sul territorio. In compenso, Stefano Caviglia sostiene sul mondadoriano Panorama che lo staff suo e dei suoi assessori è arrivato a 97 collaboratori, di cui 96 ingaggiati, testuale nell’articolo, «senza procedure pubbliche» e punta a scalare quota 108.
Fatto sta che ora alla pratica Cremonesi ha deciso di provvedere Nicola Zingaretti, proponendo il commissariamento della Camera di commercio. Il sindaco in realtà doveva essere lui. Poi, quando la Regione Lazio è saltata per aria in seguito agli scandali di Batman & co., ha scelto di correre per il meno prestigioso incarico di governatore del Lazio. Marino ha vinto le primarie e ha ottenuto un successo elettorale pieno, ma è diventato primo cittadino della capitale quasi per caso. E il Partito democratico, a Roma, non è nelle sue mani: lo tiene saldamente in pugno Zingaretti. Che qualcuno, di fronte alle difficoltà e alle indecisioni del Campidoglio, arriva a considerare una specie di sindaco ombra. Spiegano così, i soliti dietrologi del Palazzo, le affettuosità che gli dedica ripetutamente il Messaggero di Caltagirone, cui risponde a colpi di querele.
Il grande elettore di Marino, quel Goffredo Bettini per anni direttore d’orchestra del Pd romano, non nasconde il proprio pentimento. Rimprovera al sindaco la gestione della cultura e il disinteresse verso il Festival del cinema, che considera una propria creatura. Giudizi forse ingenerosi, almeno quanto la battuta maligna che circola negli ambienti democratici più critici verso Marino, equiparato al personaggio interpretato da Peter Sellers nel film «Oltre il giardino»: Chance il giardiniere. È il masochismo della sinistra, specializzata nel fuoco amico.
Il disastro economico
Tanto più perché il sindaco sta pagando colpe non sue. Non lo aiutano le condizioni economiche disastrose del Comune: un disavanzo strutturale di 1,2 miliardi, con l’impossibilità materiale di contrarre debiti. Un freno micidiale a qualunque progetto di respiro, sempre che ce ne siano. A questo si aggiunga la valanga dei circa 4 mila dipendenti in più nelle società comunali graziosamente ereditata dalla precedente gestione. Sarebbe poi ingiusto non riconoscere a Marino le cose fatte. Per la prima volta quest’anno è saltata la cosiddetta manovra d’aula: indecente distribuzione di soldi ai consiglieri comunali. Il sindaco va poi orgoglioso della scelta di chiudere Malagrotta, come pure della decisione di bloccare lo sviluppo urbanistico e lo sconsiderato consumo del suolo.
Governare una macchina come quella del Comune di Roma, inoltre, non è certo facile. Non lo è stato per i volponi della politica, romani. Figuriamoci per un chirurgo genovese con una lunga esperienza americana. Anche se chi ha voluto la bicicletta poi è giusto che pedali. Nonostante la strada in salita.
Le dimensioni, innanzitutto. Il Campidoglio alimenta 62 mila buste paga, di cui 37 mila delle aziende municipalizzate: un groviglio di un’ottantina di scatole societarie. Quindi la complessità dei problemi. Basta pensare alla faccenda della Metro C, con i vincoli pazzeschi della zona archeologica e i costi mostruosi. Ma anche alle questioni che si presentano giorno per giorno. Le sole tre aziende più grandi, l’Atac, l’Ama e l’Acea, occupano 31.338 dipendenti, oltre 4 mila più di tutti i dipendenti degli stabilimenti italiani della Fiat Chrysler. L’Atac ne ha 12.276, il servizio è penoso e i conti sono un colabrodo con perdite di 1,6 miliardi negli ultimi dieci anni, vero. Ma in sette mesi non si è vista un’idea. Con le sue controllate, l’Ama paga circa 11.805 stipendi e non è mai stata un esempio di cristallina efficienza, verissimo. Ma l’igiene urbana è quella che è e i cittadini di Roma pagano le tasse più alte d’Italia.
Scendendo di scala, altre situazioni danno seriamente da pensare. Come le farmacie comunali, che hanno 362 dipendenti e 15 milioni di debiti. O Risorse per Roma, una società letteralmente inventata per fare da consulente al Campidoglio e assumere 565 persone. Società che a sua volta ha poi gemmato un’agenzia battezzata con un nome rigorosamente inglese: «Roma city investment». A che cosa serve? A «promuovere la crescita del sistema informativo territoriale romano e l’attrazione degli investimenti necessari per la realizzazione dei progetti di rigenerazione urbana». In attesa che l’Urbe venga rigenerata, a Risorse per Roma hanno dato da smaltire le 150, forse 200 mila pratiche arretrate del condono edilizio. Uno dei capitoli più bui nella storia della città, su cui sarebbe doveroso fare luce. E non soltanto negli uffici comunali. Soprattutto per quei 5.900 abusi che erano stati scoperti grazie alle fotografie aeree e per i quali era stata presentata la domanda relativa all’ultimo condono berlusconiano ancora prima di costruire. Quasi seimila casi per cui sono stati colpevolmente lasciati scadere i termini di prescrizione del giudizio penale. Con il risultato che nessuno dei responsabili dovrà risponderne davanti alla giustizia. Roma è anche questa.

Corriere 26.1.14
Dalla guida delle municipalizzate ai vertici di polizia locale e musei
L’impasse di Marino sulle nomine
di P. C. e S. R.


La grande ricchezza a Roma è invisibile. Sterminata e arrogante, ma senza faccia. Un giorno la società Gemma di Renzo Rubeo che lavorava per il Campidoglio contò 1.657 soggetti proprietari ciascuno di oltre 500 unità immobiliari. Patrimoni straripanti, con nomi e cognomi ignoti ai più. In qualche caso, fatto grave, anche agli uffici comunali. Angiola Armellini, per esempio aveva la residenza a Montecarlo pur vivendo a Roma, dov’è proprietaria di 1.243 appartamenti sui quali, è l’accusa delle Fiamme gialle, non pagava l’Ici né l’Imu. Suo padre Renato era uno dei padroni della città quando le giunte democristiane nascevano e morivano a ogni starnuto dei palazzinari. E l’Imu pura fantascienza.
Imposta che ha invece pagato Tommaso Addario: due milioni e mezzo nel 2012. Già alto dirigente dell’Italcasse ai tempi di quel Giuseppe Arcaini travolto nel 1977 dallo scandalo dei finanziamenti a politici e imprenditori e marito della ex proprietaria dell’impresa Vianini che fu acquistata da Francesco Gaetano Caltagirone, da anni con la Tirrena immobiliare gestisce un immenso impero di mattoni.
Paragonabile, forse, a quello di Sergio Scarpellini, proprietario degli immobili affittati alla Camera a prezzi da capogiro attraverso la società Milano 90: la stessa cui fa capo anche una prestigiosa scuderia di 77 cavalli da corsa con annesso allevamento di 94 puledri e 85 fra fattrici e stalloni. E pazienza se le perdite del costoso passatempo corrono al ritmo di un purosangue, tre milioni l’anno.
Un tempo, quando le palazzine a Roma venivano su più veloci dei grattacieli di Shangai, c’erano pronti i soldi degli enti di previdenza. Con 600 miliardi l’anno da spendere compravano tutto. Anche le schifezze che allagavano intere periferie. Finché quei denari sono finiti e anziché comprare, Inps & soci hanno dovuto vendere. Invece di continuare a tirare su palazzine, allora, c’è chi ha cominciato a fare affari con la pubblica amministrazione, costruendo palazzi per uffici o sedi istituzionali. Mentre altri imboccavano la strada della rendita pura, mettendo a frutto proprietà divenute via via più gigantesche grazie ai canoni versati loro dagli enti pubblici che gli permettevano di comprare immobili senza tirar fuori un euro: pagando le rate dei mutui bancari con gli assegni delle pigioni. Chiunque abbia intrattenuto rapporti non conflittuali con il potere ha avuto la sua occasione, in una città nella quale il mercato degli affitti passivi a spese dei contribuenti è di qualche centinaio di milioni l’anno. Con il solo Comune arrivato nel 2011 a spenderne più di cento. Di questi, tredici milioni e mezzo per affittare, pur avendo sterminate proprietà immobiliari, gli stabili che ospitano i gruppi consiliari (!) e le commissioni comunali (!). Presi in locazione, ha scritto tempo fa il Giornale , dal solito Scarpellini: uno dei due è di proprietà dell’Inpgi, l’istituto di previdenza dei giornalisti, che l’ha affittato all’immobiliarista per 2,1 milioni il quale l’ha poi riaffittato per 9,2 (tutti i servizi compresi, beninteso), al Campidoglio.
Rendite e burocrazia
La Roma della rendita parassitaria ha soppiantato la Roma palazzinara. Le privatizzazioni l’hanno prosciugata dei grandi centri del potere finanziario: Telecom, l’Ina, la Banca di Roma di Cesare Geronzi... E quello che non è riuscita a mangiarsi Milano è finito agli stranieri. Vedi Bnl. Una desertificazione che non ha impedito, e forse ha perfino favorito, l’avanzata dei capitali mafiosi. Fa venire i brividi adesso sapere che decine di ristoranti nel centro della città, da Pizza Ciro a Jamm ja, sono controllati dalla camorra. Scoperta già preceduta dai clamorosi sequestri alla ‘ndrangheta del Cafè de Paris di via Veneto e dell’Antico Caffè Chigi, di fronte alla sede del governo, che aprono squarci inquietanti sulla facilità di infiltrazione della criminalità organizzata. Per troppo tempo ignorata, sottovalutata, o peggio ancora: tollerata. All’ombra di una burocrazia sempre più pervasiva quanto disinteressata ai destini della città.
Per lo scrittore napoletano naturalizzato romano Raffaele La Capria — autore del libro «Roma» di prossima uscita per Mondadori — «la burocrazia è il vero potere romano. Una burocrazia parassitaria, che si autocontrolla e si autogoverna, alimentando i propri parassiti, espressione di una certa borghesia che colloca negli uffici i propri esponenti per ottenere un reddito. Si dice che tutte le strade portino a Roma. È vero, ma è anche vero che tutte le strade muoiono a Roma, così come muoiono le idee e la fantasia, sempre per colpa della burocrazia che paralizza, blocca, rallenta non solo la vita della capitale ma dell’intero Paese. La burocrazia romana è insomma una specie di potentissima dittatura all’interno della democrazia».
Forse anche per questo i quattrini non hanno mai smesso di girare intorno alla cosa pubblica. Capace di tenere insieme nello stesso calderone la politica con gli affari. Così da far dire a un profondo conoscitore di Roma qual è l’archeologo Andrea Carandini: «Ignoro dove sia il vero centro di potere di questa città. Forse ancora i costruttori...». L’odore delle loro tracce, in effetti, si sente dappertutto. Anche alla Pisana, quartier generale del consiglio regionale del Lazio, dove la commissione Ambiente, quella che ha competenze sull’uso del suolo, era presieduta fino all’anno scorso da Roberto Carlino, il titolare della Immobildream: quella che «non vende sogni, ma solide realtà». Ovvero, l’agente immobiliare dei vari Caltagirone, che occupava anche una poltrona nella commissione Urbanistica. Tiè. E forse la poltrona da sindaco non è stata contesa a Ignazio Marino, alle ultime elezioni, da Alfio Marchini? Per i maligni il nipote dei fratelli costruttori Alfio e Alvaro, che per aver donato il Bottegone al Partito comunista si beccarono l’epiteto di «calce e martello», sarebbe stato il vero candidato di Francesco Gaetano Caltagirone. Sospetto che Marchini ha sempre sdegnosamente rigettato, senza peraltro smentire gli ottimi rapporti con Caltagirone: dieci anni fa i due progettarono di scalare insieme Metrovacesa, il secondo gruppo immobiliare spagnolo.
Ma sbaglia chi oggi crede di individuare in figure come quella del proprietario del Messaggero l’unico nocciolo duro del potere nella città. Sulla portata della sua influenza a proposito di certe decisioni politiche e grandi affari che si muovono in città non ci sono dubbi. Al tempo stesso, però, il baricentro del business di Caltagirone si sta spostando sempre di più fuori dei confini italiani. E di sicuro non è andata in porto un’operazione, della quale si è molto parlato, per cui poteva finire nelle mani di Caltagirone il regno della spazzatura dell’ottantasettenne Manlio Cerroni, proprietario di un gruppo imprenditoriale da 800 milioni l’anno che si estende dal Brasile all’Australia, costruito partendo dalla discarica più grande d’Europa, quella di Malagrotta. Uno degli uomini più potenti di Roma. In grado, è la tesi dei giudici che ora l’hanno messo agli arresti, di fare il bello e il cattivo tempo con le amministrazioni. Al punto da portarsi dietro il soprannome di «Supremo».
La capitale degli interessi
La verità è che a condizionare la politica romana, incapace di pensare in grande come si converrebbe a una capitale europea, sono tanti interessi diversi. Anche quelli apparentemente più piccoli. Un caso? Vicepresidente del consiglio comunale è un giovanotto di nemmeno trentadue anni, che risponde al nome di Giordano Tredicine, eletto per la seconda volta. È un esponente della famiglia che controlla una bella fetta del commercio ambulante in città. Immigrati a Roma nel 1959 dall’Abruzzo, controllano l’80 per cento della rete dei camion bar collocati nelle aree turisticamente strategiche. Alla Camera di commercio risultano quasi settanta diversi esponenti della famiglia registrati come titolari di licenze.
Per non parlare delle pressioni che hanno reso impossibile per vent’anni prendere una decisione che sarebbe stata naturale in qualunque città del mondo. Ricorda bene, l’ex assessore Walter Tocci, l’inferno che si scatenò quando la prima giunta di Francesco Rutelli, della quale faceva parte, propose di vietare il transito dei veicoli a motore nella zona archeologica più importante del mondo, quella dei Fori imperiali. Per primi insorsero i tassisti. Quindi gli operatori turistici. E i negozianti. Di conseguenza il povero Colosseo non è stato mai affrancato dalla indecente condizione di gigantesco spartitraffico annerito dallo smog. Nel 2010 Legambiente ha calcolato il passaggio di 2.120 veicoli l’ora, con un rumore perennemente superiore al limite massimo dei 70 decibel. Appena eletto, Marino ha annunciato la chiusura al traffico dei Fori: auguri. Per ora la ex via dell’Impero è chiusa appena a metà, e unicamente al traffico privato. In quella metà continuano a passare bus, taxi, auto blu... Nell’altra è tutto esattamente come prima. Un’operazione di semplice facciata, insomma. In linea con le titubanze che stanno segnando questi primi sette mesi di mandato del nuovo sindaco.
Le nomine, per esempio. La legge prevede che entro 45 giorni dall’insediamento i sindaci debbano provvedere alle designazioni di propria competenza. Nonostante ciò da sette lunghi mesi il Palaexpo, cioè l’azienda speciale che governa le Scuderie del Quirinale e il Palazzo delle Esposizioni, è senza vertice. Con ripercussioni potenzialmente gravissime considerando che le Scuderie sono uno dei rari spazi espositivi di altissimo livello in Italia che organizzano mostre di caratura internazionale.
Senza vertice è pure il Macro, il museo di arte contemporanea ristrutturato con 40 milioni di euro che rischia di diventare una costosissima scatola vuota perché privo di programmazione. Da sette mesi è poi vacante il posto da sovrintende comunale. L’assessore alla Cultura Flavia Barca, sorella dell’ex ministro Fabrizio Barca, punta su persone esterne all’amministrazione. Ma il bando dev’essere ancora pubblicato. Tutto questo mentre a causa delle difficoltà economiche il Comune sta progettando un drastico taglio ai finanziamenti della cultura.
Quindi i vigili urbani. Dopo un duro contrasto con il vecchio comandante Carlo Buttarelli, ereditato dal suo predecessore Gianni Alemanno, Marino designa il sostituto nella persona di Oreste Liporace, capo dell’ufficio relazioni con il pubblico del comando generale dei carabinieri. Nemmeno una settimana e si scopre che Liporace non ha i requisiti previsti non solo dal regolamento della polizia municipale ma anche dall’avviso pubblico stilato proprio dal gabinetto del sindaco: il comandante dev’essere stato dirigente almeno per cinque anni. Liporace dunque rinuncia. Pochi giorni dopo arriva al suo posto Raffaele Clemente. Che già a dicembre, mentre Marino è in Turchia, pensa di dimettersi perché lasciato da solo nel confronto con il potentissimo sindacati dei vigili che minacciano di bloccare la città con gli scioperi.
Gli stipendi d’oro
Poi c’è il caso dell’Ama. Dopo aver esaminato una montagna di curriculum, il 10 gennaio il sindaco mette Ivan Strozzi alla guida di un consiglio di amministrazione ridotto a tre membri. Ma il 16 dello stesso mese deve dimettersi: c’è un’indagine a suo carico, con avviso di garanzia da parte della procura di Patti, per una vicenda di sette anni fa quando era a capo di un’altra municipalizzata.
E che dire dell’Acea? Durante la campagna elettorale Marino subisce la conferma in blocco dei vertici. A cominciare dal presidente Giancarlo Cremonesi, sostenitore della campagna di Gianni Alemanno, e dall’amministratore e direttore Paolo Gallo gradito a Caltagirone. Al loro fianco, due rappresentati del socio francese Gdf, un dirigente del Comune, Francesco Caltagirone junior, l’ex parlamentare del Pdl Maurizio Leo, il consorte dell’ex guardasigilli Paola Severino, Paolo Di Benedetto, nonché il segretario generale della dalemiana fondazione Italianieuropei Andrea Peruzy. Faraonici gli emolumenti: 408 mila euro al presidente, 1,3 milioni all’amministratore, circa 120 mila euro agli altri. Totale, oltre due milioni l’anno, da pagare comunque fino al 2016 in caso di licenziamento. Il che rende decisamente più complesso l’avvicendamento. Mentre il tempo passa.
Ma non riesce, Marino, nemmeno a scalzare Cremonesi dalla presidenza della Camera di commercio, snodo cruciale di poteri e interessi sul territorio. In compenso, Stefano Caviglia sostiene sul mondadoriano Panorama che lo staff suo e dei suoi assessori è arrivato a 97 collaboratori, di cui 96 ingaggiati, testuale nell’articolo, «senza procedure pubbliche» e punta a scalare quota 108.
Fatto sta che ora alla pratica Cremonesi ha deciso di provvedere Nicola Zingaretti, proponendo il commissariamento della Camera di commercio. Il sindaco in realtà doveva essere lui. Poi, quando la Regione Lazio è saltata per aria in seguito agli scandali di Batman & co., ha scelto di correre per il meno prestigioso incarico di governatore del Lazio. Marino ha vinto le primarie e ha ottenuto un successo elettorale pieno, ma è diventato primo cittadino della capitale quasi per caso. E il Partito democratico, a Roma, non è nelle sue mani: lo tiene saldamente in pugno Zingaretti. Che qualcuno, di fronte alle difficoltà e alle indecisioni del Campidoglio, arriva a considerare una specie di sindaco ombra. Spiegano così, i soliti dietrologi del Palazzo, le affettuosità che gli dedica ripetutamente il Messaggero di Caltagirone, cui risponde a colpi di querele.
Il grande elettore di Marino, quel Goffredo Bettini per anni direttore d’orchestra del Pd romano, non nasconde il proprio pentimento. Rimprovera al sindaco la gestione della cultura e il disinteresse verso il Festival del cinema, che considera una propria creatura. Giudizi forse ingenerosi, almeno quanto la battuta maligna che circola negli ambienti democratici più critici verso Marino, equiparato al personaggio interpretato da Peter Sellers nel film «Oltre il giardino»: Chance il giardiniere. È il masochismo della sinistra, specializzata nel fuoco amico.
Il disastro economico
Tanto più perché il sindaco sta pagando colpe non sue. Non lo aiutano le condizioni economiche disastrose del Comune: un disavanzo strutturale di 1,2 miliardi, con l’impossibilità materiale di contrarre debiti. Un freno micidiale a qualunque progetto di respiro, sempre che ce ne siano. A questo si aggiunga la valanga dei circa 4 mila dipendenti in più nelle società comunali graziosamente ereditata dalla precedente gestione. Sarebbe poi ingiusto non riconoscere a Marino le cose fatte. Per la prima volta quest’anno è saltata la cosiddetta manovra d’aula: indecente distribuzione di soldi ai consiglieri comunali. Il sindaco va poi orgoglioso della scelta di chiudere Malagrotta, come pure della decisione di bloccare lo sviluppo urbanistico e lo sconsiderato consumo del suolo.
Governare una macchina come quella del Comune di Roma, inoltre, non è certo facile. Non lo è stato per i volponi della politica, romani. Figuriamoci per un chirurgo genovese con una lunga esperienza americana. Anche se chi ha voluto la bicicletta poi è giusto che pedali. Nonostante la strada in salita.
Le dimensioni, innanzitutto. Il Campidoglio alimenta 62 mila buste paga, di cui 37 mila delle aziende municipalizzate: un groviglio di un’ottantina di scatole societarie. Quindi la complessità dei problemi. Basta pensare alla faccenda della Metro C, con i vincoli pazzeschi della zona archeologica e i costi mostruosi. Ma anche alle questioni che si presentano giorno per giorno. Le sole tre aziende più grandi, l’Atac, l’Ama e l’Acea, occupano 31.338 dipendenti, oltre 4 mila più di tutti i dipendenti degli stabilimenti italiani della Fiat Chrysler. L’Atac ne ha 12.276, il servizio è penoso e i conti sono un colabrodo con perdite di 1,6 miliardi negli ultimi dieci anni, vero. Ma in sette mesi non si è vista un’idea. Con le sue controllate, l’Ama paga circa 11.805 stipendi e non è mai stata un esempio di cristallina efficienza, verissimo. Ma l’igiene urbana è quella che è e i cittadini di Roma pagano le tasse più alte d’Italia.
Scendendo di scala, altre situazioni danno seriamente da pensare. Come le farmacie comunali, che hanno 362 dipendenti e 15 milioni di debiti. O Risorse per Roma, una società letteralmente inventata per fare da consulente al Campidoglio e assumere 565 persone. Società che a sua volta ha poi gemmato un’agenzia battezzata con un nome rigorosamente inglese: «Roma city investment». A che cosa serve? A «promuovere la crescita del sistema informativo territoriale romano e l’attrazione degli investimenti necessari per la realizzazione dei progetti di rigenerazione urbana». In attesa che l’Urbe venga rigenerata, a Risorse per Roma hanno dato da smaltire le 150, forse 200 mila pratiche arretrate del condono edilizio. Uno dei capitoli più bui nella storia della città, su cui sarebbe doveroso fare luce. E non soltanto negli uffici comunali. Soprattutto per quei 5.900 abusi che erano stati scoperti grazie alle fotografie aeree e per i quali era stata presentata la domanda relativa all’ultimo condono berlusconiano ancora prima di costruire. Quasi seimila casi per cui sono stati colpevolmente lasciati scadere i termini di prescrizione del giudizio penale. Con il risultato che nessuno dei responsabili dovrà risponderne davanti alla giustizia. Roma è anche questa.

Corriere 26.1.14
Il rapporto della Guardia di Finanza: per gli appalti truccati perso in un anno più di un miliardo
Dai prof universitari ai dirigenti pubblici
La truffa del doppio lavoro in nero
Consulenze e prestazioni in conflitto con quelle statali: un danno da 8 milioni
di Fiorenza Sarzanini

qui

Repubblica 26.1.14
Offese anti-ebraiche. La vergogna di Roma
I macellai delle coscienze
di Gad Lerner


SONO poche le specie animali di cui la Bibbia consente, e solo a determinate condizioni, l’utilizzo per alimentazione. Il maiale non rientra fra di esse in quanto, pur avendo l’unghia bipartita come i bovini e gli ovini, non è un ruminante.
Il Libro sacro non fa alcun riferimento all’impurità del maiale, creatura di Dio come le altre. Solo nella tradizione postuma e nella secolare contrapposizione alle altrui usanze, la carne suina è assurta a simbolo di cibo proibito. Per gli ebrei così come per i musulmani.
Naturalmente gli antisemiti che hanno voluto infliggere un’offesa blasfema agli ebrei, non a caso alla vigilia della Giornata della Memoria, recapitando teste di maiale al tempio Maggiore di Roma, all’ambasciata d’Israele e al Museo della Storia di Trastevere dov’è in corso una mostra sulla Shoah, nulla sanno riguardo alle leggi alimentari della Kashrut. Il loro scopo era solo quello di intimidire gli ebrei con una minaccia tipica del linguaggio mafioso, e nel contempo di perpetrare l’ennesima umiliazione al popolo sterminato settant’anni or sono.
Analoga ignoranza manifestano purtroppo da tempo certi esponenti politici che hanno condotto dei maiali, o hanno cosparso la loro urina, nei luoghi destinati alla costruzione di edifici di culto islamico. Anche lì, in verità, basta una preghiera per purificare l’area; ma è lo sfregio quello che si vuole perpetrare. Il dileggio di una fede religiosa. L’ostentazione razzista.
Da alcuni anni, purtroppo, le celebrazioni della Giornata della Memoria, in coincidenza con la liberazione del lager di Auschwitz Birkenau in cui furono uccisi oltre un milione di deportati, vengono utilizzate anche come palcoscenico di scellerate provocazioni. L’anno scorso Berlusconi colse l’occasione di una cerimonia al Binario 21 della Stazione Centrale di Milano, da cui partirono venti convogli di prigionieri destinati alla morte, per un pubblico elogio di Mussolini.
Ma è il negazionismo l’insidia più velenosa. Quello che si è manifestato di nuovo ieri con le scritte vergate, sempre a Roma, per sostenere che l’Olocausto sarebbe una “menzogna” e Anna Frank una “bugiardona”. È l’arma più crudele con cui si rinnova la sofferenza dei sopravvissuti e dei parenti delle vittime. Liquidare come un’abile invenzione propagandistica il genocidio degli ebrei d’Europa è la modalità prescelta per additarli nuovamente come popolo subdolo e dominatore, meritevole quindi di essere perseguitato. Non a caso il negazionismo ha fatto tanti proseliti nel mondo arabo e musulmano in guerra con lo Stato d’Israele. Ma più in generale minimizzare l’esito delle leggi razziali e delle deportazioni novecentesche, sostenendo che la Soluzione Finale non rientrasse nei piani del regime nazista, serve anche a addormentare le coscienze di fronte al ritorno delle pulsioni razziste e delle legislazioni discriminatorie alimentate dal fenomeno migratorio e dalla sofferenza sociale.
Basterebbe l’orribile episodio di ieri per confermare l’importanza di un buon uso della memoria storica come insegnamento per il presente, oltre che come omaggio alle vittime. Sicché la miglior risposta alla barbarie culturale della testa di maiale spedita in sinagoga saranno le migliaia di manifestazioni già organizzate nelle scuole italiane per la Giornata di domani.
Resta però la speciale offesa di cui è stata fatta oggetto la Comunità romana, la più antica della diaspora ebraica. Nel corso degli ultimi vent’anni abbiamo assistito a una straordinaria rivitalizzazione culturale del quartiere ebraico della capitale che sorge sulla sponda sinistra del Tevere. Non solo luoghi di culto ma anche centri studi, scuole, negozi e ristoranti kasher. Qualcuno vorrebbe ridurre tale luogo, affascinante per chiunque voglia confrontarsi con la vicenda millenaria dell’ebraismo, di nuovo a Ghetto chiuso in se stesso e assediato. Come fu prima del 1870. Bene ha fatto, dunque, il presidente dell’Unione delle Comunità ebraiche italiane, Renzo Gattegna, a elogiare la costante opera di prevenzione e vigilanza delle forze dell’ordine, scattata anche di fronte alla provocazione di ieri. Spetta allo Stato difendere l’incolumità dei cittadini e il patrimonio culturale ebraico. Vincendo così la tentazione di ricorrere a impropri strumenti di autodifesa che la diffusione dell’odio antisemita rischia di far degenerare. Gli ebrei italiani, per fortuna, non sono soli contro tutti. Purché la coscienza democratica non abbassi la guardia, ora che si affacciano di nuovo tempi bui. È un sinistro avvertimento questo ricorso a un animale che si pretende impuro. Contro gli ebrei, così come prima contro i musulmani. Ma in realtà contro la nostra democrazia. Viene davvero da dire: poveri maiali innocenti, vittime dei macellai delle coscienze.

il Fatto 26.1.14
Lista Società Civile
Tsipras: la magnifica avventura della politica senza padroni
di Paolo Flores d’Arcais


Renzi, oppure Grillo, oppure restarsene a casa: a queste tre sole possibilità sembra ridursi nel prossimo futuro la libertà di scelta per un cittadino democratico. Libertà condizionata, libertà vigilata, che nel linguaggio giuridico è poco più degli arresti domiciliari.
Alle elezioni europee, per fortuna, ma forse solo per un’ultima volta, non sarà così. Il cittadino che abbia la sua bussola nella Costituzione repubblicana (la migliore d’Europa) e dunque voglia essere rappresentato per una politica di “giustizia e libertà” che quei valori realizzi, potrà votare per una lista autonoma della società civile. L’hanno promossa Andrea Camilleri, Luciano Gallino, Marco Revelli, Barbara Spinelli, Guido Viale (oltre chi scrive) e ha ottenuto in soli cinque giorni l’adesione di ben diecimila cittadini (lo si può fare tramite www.micromega.net).  
UN’ENORMITÀ , SE SI PENSA che altrettanti sono i militanti della Lega che hanno partecipato alle primarie per il successore di Maroni, un partito che esiste da un quarto di secolo, governa due regioni ed è stato anni e anni al governo nazionale, ha stuoli di parlamentari, è onnipresente in tv, mentre l’iniziativa dei “sei” ha pochi giorni e circola col tam tam del web, nel silenzio assoluto delle tv e dei cosiddetti grandi giornali. Tra le adesioni più significative Michele Serra, scrittore e firma di punta di “Repubblica”, Adriano Prosperi, accademico dei Lincei, storico, editorialista di “Repubblica”, Giorgio Parisi, tra i maggiori fisici teorici italiani più volte in odore di Nobel, Furio Colombo, Moni Ovadia, Carlo Freccero, Ermanno Rea, Luciano Canfora, Massimo Carlotto, Roberta De Monticelli, l’ex segretario generale della Fiom Rinaldini...
Mi fermo qui ma potrei continuare a lungo. La legge elettorale europea stabilisce che ogni lista possa indicare, oltre ai candidati al parlamento, un nome per la presidenza della Commissione (il capo del governo, insomma). Andrea Camilleri e i suoi compagni avevano perciò scritto ad Alexis Tsipras, leader della coalizione di sinistra greca “Syriza”, per chiedergli di essere tale candidato, “pur sentendoci noi estranei alla logica dei piccoli partiti che in molti paesi faranno del suo nome la bandiera per riproporre forme minoritarie e obsolete di azione politica”. La lettera a Tsipras si apriva così: “Abbiamo più che mai bisogno di Europa, ma di un’altra Europa, una Europa “giustizia e libertà”.
Milioni di cittadini italiani si trovano anche in Europa senza rappresentanza. Non possono più cercarla nel Pd, neppure “turandosi il naso”, visto l’appoggio al governo Monti prima e Letta-Alfano poi, e l’azione dell’intero partito per scardinare i principi fondamentali della Costituzione repubblicana. Ma avranno crescenti difficoltà a provare a darsela con il M5S, che proprio sull’Europa ha politiche ondivaghe, e che più in generale troppo spesso è in balìa degli umori “padronali” di Grillo e Casaleggio, logica incompatibile con quella della rappresentanza democratica.
Per le elezioni europee è dunque necessaria una lista di cittadini della società civile, e dopo aver articolato cinque punti programmatici (rovesciamento della politica economica liberista, lotta alla corruzione e alle illegalità, politica di accoglienza, nuovo e più ampio welfare, efficace politica ambientale) concludeva con “la necessità che la politica sempre meno sia mestiere e carriera e sempre più un servizio civile”, per introdurre a livello europeo istituzioni finalmente democratiche. Tsipras ha risposto positivamente, prima ufficiosamente attraverso una delegazione di parlamentari di “Syriza” venuti a Roma (tra cui il suo vice), e infine qualche giorno fa con una lettera ufficiale.
Lista. Autonoma. Società civile. Le tre parole chiave sono queste. Norberto Bobbio nel 1990 salutava come “una magnifica avventura” un’altra iniziativa della società civile per rompere il monopolio dei partiti tradizionali, la “sinistra dei club”. Esperienza che il post-Pci (unanimi su questo Occhetto, D’Alema e Napolitano) riuscì a soffocare sul nascere. Non so se Bobbio definirebbe anche quella della lista per le europee “una magnifica avventura”, certo gli ideali di “giustizia e libertà” e di democrazia presa sul serio sono gli stessi. Credo che la vera differenza sia che questa nuova “magnifica avventura” ha la concreta possibilità di riuscire.
IN ITALIA NEGLI ULTIMI QUINDICI ANNI si sono succedute senza soluzione di continuità lotte di massa realizzate senza, e spesso contro, i partiti tradizionali. Portando in piazza, in forma auto-organizzata, milioni di persone. Facendo straripare più volte piazza san Giovanni. Girotondi, popolo viola, studenti, “se non ora quando”, lotte contro le leggi bavaglio, Fiom e società civile contro Marchionne … Questo autentico popolo della Costituzione, oggi senza rappresentanza, potrà finalmente costruirsela direttamente: migliaia di cittadini senza “appartenenze”, protagonisti della creazione di una lista di cui i sei promotori saranno solo catalizzatori e garanti.

Repubblica 26.1.14
Il baratro dell’Ucraina è una sfida aperta per le democrazie europee
Cercando l’Europa nella notte di Kiev
di Andrea Bonanni


BRUXELLES ORA che la gente muore per lei, l’Europa non sa cosa fare. Come una vera “femme fatale”, incapace di misurare le passioni che suscita, la Ue guarda inorridita alle notti gelate di Kiev.
NELLA capitale ucraina i manifestanti hanno trasfigurato la bandiera a dodici stelle in un simbolo di cui gli europei non sanno più riconoscere il valore. E si fanno ammazzare in nome di quel simbolo che da noi sembra suscitare ormai solo fastidio.
Con la solita miopia mercantile che le è propria, Bruxelles aveva creduto che il contenzioso con il regime ucraino sulla firma di un accordo di associazione fosse solo una questione commerciale: la sicurezza dei rifornimenti energetici in cambio di un po’ di aiuti economici, l’apertura di un grande mercato semi-vergine in cambio di una indiretta legittimazione politica per il governo di Yanukovich. Questioni importanti, certo, ma apparentemente gestibili in una logica contabile di costi-benefici che è ormai il pensiero unico delle autorità comunitarie.
Ci sono voluti Putin, lo stesso Yanukovich e infine i manifestanti di Kiev che muoiono nella neve per farci capire che la posta in gioco è in realtà molto più alta. Che la partita è insieme ideologica e geopolitica. Da una parte si confrontano la democrazia europea e il dispotismo russo. Dall’altra si decide la collocazione geografica di un territorio grande due volte l’Italia e profondamente diviso tra identità occidentale e anima slava.
Naturalmente la crisi, la scelta, spetta in primo luogo al popolo ucraino. Ma il dramma di Kiev obbliga anche l’Europa a fare scelte difficili, a cui non era preparata. In sessant’anni di vita, l’Unione europea si è allargata infinite volte, ma sempre in modo pacifico e consensuale. Anzi, spesso l’allargamento ha consentito la pacificazione interna di Paesi che uscivano potenzialmente dilaniati da un lungo letargo totalitario o da guerre fratricide: è successo con la Spagna, con il Portogallo e, più recentemente, con molti Paesi del-l’Est e con le ex repubbliche sovietiche del Baltico. Sta succedendo anche adesso con la Croazia e la Serbia. In questi casi, molto spesso, è stata la classe dirigente di quei Paesi a fare per prima la scelta europea e a proporla poi alla propria opinione pubblica come una soluzione consensuale che consentisse di lenire antiche ferite.
La crisi ucraina ribalta questa prospettiva. Per la prima volta si assiste ad un potere che dice «no» all’Europa voluta a gran voce dal popolo. E proprio la sollevazione popolare che ne consegue dimostra come quel rifiuto non fosse solo dettato da ragioni di interesse economico, come Bruxelles ha inizialmente creduto, ma dalla necessità di auto-preservazione di un regime che non potrebbe sopravvivere a lungo in un habitat europeo.
Come deve muoversi Bruxelles in questo frangente? Per anni, fin dai tempi della «rivoluzione arancione », la scelta europea è stata quella di proporsi come mediatore tra le tensioni che pervadono la società ucraina. Un modo per rivendicare una «alterità» dell’Unione, una certa qual estraneità ad un conflitto che Bruxelles riteneva non ci riguardasse direttamente.
Questa strategia si è rivelata sbagliata. Prima il caso Tymoshenko, poi la rivolta di Kiev hanno dimostrato che l’Europa non può tenersi fuori da un conflitto in cui entrambe le parti in lotta la vogliono coinvolgere. Non basta più dire «la nostra porta resta aperta», come hanno pilatescamente ripetuto per mesi i responsabili di Bruxelles, se il regime ammazza quelli che vorrebbero imboccarla. Sia pure con la solita esasperante lentezza che caratterizza le reazioni europee, questa lezione sembra essere stata capita. Ieri, dal presidente del parlamento Schulz (ora sono possibili sanzioni») a Van Rompuy allo stesso premier italiano Enrico Letta («l’Ue non può accettare quanto sta accadendo»), si sono finalmente sentite reazioni più decise: minacce di sanzioni, moniti a rendere conto di una repressione «brutale». Il commissario all’allargamento Fuele è andato a Kiev. Sarà seguito a giorni dalla ministra degli esteri europea Catherine Ashton e da una missione del Parlamento europeo.
E il cambio di tono di Bruxelles ha già dato i primi frutti. Yanukovich si è detto pronto a fare concessioni. Sono segnali di speranza. Ma l’Unione commetterebbe un ennesimo errore se si illudesse che basti alzare un po’ la voce per risolvere la questione. Se vuole giocare il ruolo che gli stessi ucraini le hanno assegnato nel dramma di Kiev, l’Europa deve cambiare modo di ragionare, capire che rappresenta ormai valori che vanno ben al di là del suo peso economico, e dotarsi degli strumenti necessari per far fronte al nuovo ruolo. Anche perché l’Ucraina è solo la prima avvisaglia di un profondo cambiamento ormai in corso. Dietro l’Ucraina c’è la Bielorussia. E dietro ancora il Medio-Oriente, le primavere arabe incompiute, la questione islamica sempre più complicata, un Mediterraneo dove la gente annega sognando l’Europa, l’Africa sub-sahariana dilaniata dai conflitti civili. Come già avvenuto per la crisi finanziaria, il Mondo va molto più veloce di quanto prevedano gli orari di Bruxelles, ma non ci permette di scendere dal treno in corsa. E all’Europa non resterà altra strada che trovare il modo di adeguarsi alle sfide che la Storia le pone.

Repubblica 26.1.14
Caccia al poliziotto ed esecuzioni i nuovi guardiani della rivolta danno l’assalto al palazzo di Kiev
Yanukovich: opposizione al governo. “Troppo tardi”
di Nicola Lombardozzi


KIEV ASSEDIATO nel suo palazzo, ormai circondato da una folla sempre più armata e decisa a tutto, il presidente Yanukovich ha fatto una proposta che sembrava una resa: offriva ai leader dell’opposizione di guidare un nuovo governo, annunciava il ritiro delle recenti severissime misure anti dissenso, e si offriva perfino di modificare la Costituzione, riducendo i suoi stessi spropositati poteri e ritornando così alla Carta liberale della mitica Rivoluzione arancione del 2004.
Ma le cose si sono ormai spinte troppo avanti. Tra le barricate fatte di ghiaccio e di autobus carbonizzati di via Grushevskogo, mentre i tre meditavano sull’offerta finora impensabile, i militanti anticipavano a gran voce il “no” che sarebbe arrivato più tardi, cantando slogan di guerra e minacciando un assalto definitivo al palazzo. «Non ci basta», ha dichiarato infine Vitalj Klitchko, l’ex pugile campione del mondo, portavoce della cosiddetta trojka della Majdan, scatenando applausi e cori di guerra della folla. «Si continua a protestare fino alle dimissioni di Janukovich e a nuove elezioni».
La lotta continua dunque, e sarà dura, mentre cresce il bollettino delle vittime e la piazza si prepara a una lunga battaglia corpo a corpo. Qualcuno, sull’onda dell’entusiasmo ha già portato di fronte alla presidenza una rudimentale catapulta fatta in casa dopo averla provata per tutta la notte lungo il centralissimo viale Kreshatyk: lancia fino a cento metri di distanza mattoncini- proiettile già divelti a migliaia dal selciato. E un uomo mite come l’ex ministro della Difesa, Anatolj Gritsenko, ora all’opposizione, chiede a tutti i cittadini di Kiev di «portare le proprie armi in piazza». E assicura: «Anch’io vado in giro solo con la mia pistola».
Del resto, le offerte concilianti di Yanukovich sembravano sospette a molti. Soprattutto se confrontate con i comportamenti delle altre autorità. L’odiato ministro degli Interni Vitalj Zakharchenko invita «i cittadini per bene che aderiscono alla protesta» ad abbandonare la piazza «ormai in mano agli estremisti violenti e a rifugiarsi in un luogo sicuro». I suoi uomini più pericolosi, i famigerati Berkut delle forze speciali anti sommossa, non vedono l’ora di scatenarsi dopo due mesi di azioni sporadiche e semi clandestine con l’ordine tassativo di «non abbandonarsi a gesti eclatanti ». Fino ad ora si sono effettuate solo «brutalità nascoste», rapimenti di oppositori, pestaggi isolati, forse addirittura omicidi mascherati con armi non in dotazione alle forze dell’ordine.
Ma tra gli agenti e le formazioni paramilitari che ormai gestiscono la piazza è guerra aperta. Ieri notte un poliziotto è stato seguito, aggredito e ucciso fin sulla porta del suo dormitorio dall’altra parte della città. Altri tre agenti sono stati rapiti da una folla di giovani in passamontagna. Uno accoltellato e abbandonato in terra, gli altri due picchiati a dovere e rilasciati solo dopo diverse ore di sequestro, forse su intercessione dell’ala più moderata e “politica” della protesta.
Mantenere la calma, controllare gli estremisti, evitare pericolose provocazioni, è la sfida più difficile per i tre rappresentanti legittimi dell’opposizione. Le truppe paramilitari legate a gruppi dell’estrema destra, neonazista e xenofoba, sono ormai le vere padrone della piazza. Tra le tendopoli adesso circolano plotoni di giovani con l’elmetto dell’esercito e spranghe di ferro, allineati in fila per due, e comandati da misteriosi istruttori in giubbotto mimetico e occhiali da sole. Si esercitano tra bandiere e bivacchi, agitando le spranghe, simulando complesse manovre a testuggine, al ritmo di urla perentorie: «Alzate quelle braccia, e colpite duro».
Anche per questo i tre hanno finito per rifiutare la proposta di Yanukovich. Avrebbero perso ogni autorevolezza nei confronti di questa ingombrante ala oltranzista che dà sempre l’impressione di voler procedere autonomamente. Ieri, per esempio, hanno provato ad occupare il Dipartimento dell’Energia e si sono fermati solo davanti al ministro che li implorava: «Fermatevi o rischiamo di paralizzare tutto il Paese». Il risultato è che le centrali nucleari ucraine (quasi tutte “gemelle” di Chernobyl) sono adesso circondate da truppe in stato di massima allerta per scongiurare attacchi che potrebbero scatenare catastrofi di ogni genere.
In questo caos, il presidente aveva tentato il colpo di scena offrendo direttamente ad Arsenij Yatsenjuk, ex ministro dell’Eco-nomia e leader del partito di Yiulia Tymoshenko, di guidare un nuovo governo, sacrificando senza remore l’attuale premier Mykola Azarov. E all’altro leader della rivolta Klitchko, di diventare vice premier con una delega speciale per i diritti umani, che sembrava una sorta di garanzia contro future ritorsioni giudiziarie.
Yanukovich è in grande difficoltà. L’alleato Putin non gradisce «la gestione dilettantistica della rivolta». Il suo partito è diviso, e molti alti dirigenti starebbero già mandando le famiglie all’estero per ogni evenienza. Inoltre, ieri sera, il suo più grande finanziatore, l’uomo più ricco diUcraina, Rinat Akhmetov, noto al mondo come presidente della squadra di calcio Shaktar Donetsk, lo ha praticamente mollato dichiarando: «Sarebbe una follia, reagire con la forza. Il presidente deve trattare». Un consiglio che sembra un ordine.
L’ennesimo rifiuto potrebbe costringere Yanukovich a cedere ancora ulteriormente. Ma per liberare la piazza senza l’uso della forza, le dimissioni sono ormai l’ultima possibilità che gli resta. I leader della trojka non possono accettare alcun compromesso. Sulle barricate della Majdan, dove prima campeggiavano gli slogan sui diritti umani e la prosperità che un’adesione alla Ue avrebbe garantito, c’è un solo gigantesco striscione con una scritta che esprime forse l’ideologia dei nuovi guardiani della piazza. Si potrebbe interpretare in vari modi ma c’è una sola possibile traduzione letterale: «Ci siamo rotti il c...»

Corriere 26.1.14
Egitto
Lettere dalla cella dei ragazzi laici
«Prima regola: basta illusioni»
di Lorenzo Cremonesi


IL CAIRO — Anche l’Egitto della restaurazione ha i suoi Silvio Pellico. Le lettere dalle loro prigioni parlano di freddo, fame, nostalgia per la famiglia, torture e ingiustizie. Soprattutto esprimono la disorientata delusione delle piccole avanguardie laiche che tre anni fa furono in grado di raccogliere l’urlo eccitato delle piazze che chiedevano libertà e democrazia, ma oggi sono schiacciate tra la cultura illiberale dei Fratelli musulmani e la dittatura militare. «È vietato leggere o scrivere. Fare giungere una penna e un foglio di carta ai prigionieri politici è più difficile che contrabbandare droga. Chiunque venga scoperto con carta e penna viene torturato assieme a chi lo ha aiutato», nota il 10 dicembre in una serie di missive ai figli piccoli Ahmed Maher, un nome che nei mesi magici della primavera araba del 2011 incarnò la sete del cambiamento che portò alla defenestrazione di Hosni Mubarak.
Sono appunti scritti su rotoli di carta igienica, fatti uscire segretamente dalla terribile prigione di Tora e ora pubblicati sui siti del sempre più rarefatto movimento di opposizione. Lui stesso si stupisce dalla rapidità radicale del mutamento. Tre anni fa era un eroe. Il suo ruolo di leader del movimento del 6 aprile 2011 e la sua lotta contro le gerarchie militari, contro il nepotismo e la corruzione del vecchio regime gli valsero allora la nomina al Nobel per la Pace. Acqua passata. Nemico giurato dei Fratelli musulmani, Maher è stato progressivamente sempre più critico del golpe contro il governo del presidente Mohamed Morsi nel luglio scorso e l’instaurazione dello Stato di polizia sotto la guida del generale Abdel Fattah Al Sisi. Tanto che ai primi di dicembre è stato arrestato, processato per direttissima con l’accusa di aver organizzato una serie di proteste di fronte al Parlamento e condannato a tre anni di lavori forzati. «Ho incontrato alcuni dei personaggi più famosi in America, Europa, India, Corea del Sud, Turchia. Ebbi colazioni e cene sontuose con uomini celebri e potenti in Africa. Ma adesso mi trovo a desiderare un misero pezzo di pane e formaggio solo perché sono stato accusato di infrangere le nuove leggi anti-protesta. E scrivo di nascosto con un moncone di matita dopo aver sbocconcellato un pezzetto di pane raffermo… Non c’è pane, non c’è libertà». Le sue descrizioni ricordano quelle orwelliane del «Grande fratello»: «La prima regola in carcere è che tu non devi assolutamente illuderti che i tuoi nemici ti lascino muovere a piacimento senza cercare di distruggerti dentro. Tu lotti ora contro l’oppressione dello Stato di polizia, dunque è normale che crescano le attività dei picchiatori criminali in nome della sicurezza», annota il 12 dicembre ricordando che «la tortura nelle prigioni è tornata in azione a tutta forza».
Hanno accenti gramsciani, intime e politiche allo stesso tempo, le lettere dal carcere scritte alla sorelle Mona e Sanaa da Alaa Abdel Fattah. Un nome che necessita poche presentazioni. Tre anni fa era il blogger trentenne che seppe comunicare alla sua gente e all’estero il sogno egiziano per un mondo migliore. Capelli lunghi, occhiali da secchione, sembrava un ragazzino che giocava alla rivoluzione. Ma anche lui è oggi chiuso in un imbroglio che non controlla più. Arrestato nella sua casa la notte del 20 novembre ora soffre il freddo e il vento del deserto «che entra impetuoso dalle finestre blindate, ma senza vetri». «La cosa forse più dura del carcere è che qualcuno possa controllare il tuo tempo sino a questo grado, sino al punto che tu sei persino privato del diritto di avere paura», scrive il 24 dicembre. Parlando ancora del freddo, «quando la sera indosso tutti i miei vestiti e mi avvolgo strato per strato in tutte le coperte possibili», si paragona ai clochard per la strada. Con una differenza però: «I senza casa ad un certo punto possono reagire e scegliere come lottare contro il gelo. Ma nel mio caso è un’autorità che sceglie per me con burocratica indifferenza». Abdel Fattah piange il fallimento della sua rivoluzione e il ritorno di una dittatura militare a suo parere anche più dura di quella di prima. Si sente impotente, battuto, nessuno verrà a difenderlo. «Il solo pensiero è terrificante. Io dovrò far fronte ad accuse gravissime. Ed è chiaro che loro hanno già deciso: sarò condannato. La rivoluzione è in uno stato talmente miserevole che loro potranno agire impuniti».

Repubblica 26.1.14
Gli ultimi giorni dell’arcipelago Laojiao
di Giampaolo Visetti


PECHINO
«Preferirei essere morta. Se resisti a certe umiliazioni, la vita poi non ha più senso». Jiang Chengfen ha quarant’anni, ne dimostra settanta ed è appena tornata a casa a Neijiang. Tra pochi giorni passerà il capodanno lunare in famiglia, nel Sichuan. «Ma ho conosciuto l’inferno — dice — e ho abolito la felicità». Era una contadina, ha osato protestare contro i funzionari che le avevano requisito la risaia per costruire un palazzo. È una tra gli ultimi prigionieri liberati dei laojiao cinesi.
I “campi di rieducazione attraverso il lavoro” furono aperti da Mao Zedong nel 1957 per punire “controrivoluzionari” e “sovversivi”. Nell’immenso arcipelago gulag cinese, in cinquantasei anni, sono stati rinchiusi senza processo circa 1,7 milioni di cittadini. Gli “inghiottiti” finiti nelle fosse comuni, secondo le organizzazioni umanitarie, sarebbero decine di migliaia. In novembre il plenum del Partito comunista ha annunciato la chiusura dei laojiao. A fine dicembre il Congresso nazionale del popolo ha ratificato la decisione. Entro gennaio i trecentocinquanta campi, prigioni per torture e lavori forzati, saranno ufficialmente chiusi.
«Sono rimasta nel campo della contea di Zhizhong — racconta Chengfen — un anno e tre mesi. Avrei dovuto starci quattro anni. Altri prigionieri erano lì da quasi dieci. L’altra mattina una guardia mi ha portato al cancello. Mi ha fatto uscire, senza una parola. Ho capito che ero libera».
I laojiao sono arrivati a essere oltre seicento, disseminati ovunque. Nel 2011 i prigionieri della polizia erano ancora 450mila. Ai primi oppositori anti-maoisti, si sono aggiunti dissidenti, fedeli di varie religioni, cristiani del Falun Gong, firmatari di petizioni contro le autorità. A essi sono stati mescolati ladri, prostitute, tossicodipendenti, criminali comuni, giocatori d’azzardo e persone definite “malate di mente”. La “rieducazione” consisteva nei lavori forzati: tra 12 e 15 ore al giorno in miniere, fabbriche, laboratori artigianali, aziende agricole. La Cina, per oltre mezzo secolo, si è assicurata una massa di schiavi che potevano essere sfruttati, torturati e uccisi, lasciati morire di fame e di freddo.
«La sveglia nei dormitori — dice Chengfen — suonava alle 6. Eravamo in dodici, in celle di nove metri. Dieci minuti per lavarci, in bagni per 200 prigionieri, mezz’ora a piedi per arrivare alla mensa. Altri dieci minuti per un panino al vapore, in sale per 900 detenuti, in silenzio. Tra le 8 e le 20 dovevamo assemblare parti di televisioni, o di automobili. Chi apriva bocca veniva picchiato, o condannato a stare in piedi fino a mezzanotte».
È la prima volta che l’ex prigioniero di un laojiao, non coperto da pseudonimo, racconta la giornata-tipo nei campi comunisti ispirati ai lager nazisti. Chi non è morto sconta il senso di colpa di un destino meno spietato rispetto a quello dei compagni: migliaia di fosse comuni, in tutta la Cina, ospitano i resti di chi non ce l’ha fatta.
«A pranzo mangiavamo una zuppa o una fetta di zucca. Il cibo era sporco, emanava un odore strano, l’acqua era scura, piena d’insetti». Le guardie passavano il tempo a giocare a mahjong, o davanti alla tv. L’ordine era assicurato dall’esercito deidu jin,gli “individui d’oro”. «Venivano registrati come drogati — dice Chengfen — ma erano gangster, o criminali. Per assicurarsi un trattamento di riguardo davano ordini impossibili e punivano. Chi resisteva veniva pestato, condannato al digiuno, privato del sonno. Per ottenere pietà non restava che la corruzione. Qualcuno riusciva a farsi mandare soldi da casa».
Da anni ilaojiao non erano più prigioni politiche, ma centri di sfruttamento e ricatto appaltati a funzionari locali e polizia. Le vittime dei lavori forzati pagavano fino a 1650 dollari,ogni sei mesi, per vitto e alloggio. La libertà costava settemila dollari: i parenti dei prigionieri si consegnavano agli usurai, complici dei carcerieri.
«Alle 20 venivamo messi davanti a un programma tv scelto dalle guardie. Altri scrivevano alla famiglia. Ho scoperto poi che le lettere servivano per accendere le stufe. Non si poteva parlare: il silenzio è stato il simbolo del nostro annullamento personale. Alle 21 dovevamo sederci sulle brande. La luce restava accesa tutta la notte. Ci guardavamo per capire chi veniva aggredito dalle malattie».
Negli ultimi trent’anni la crescita economica cinese è esplosa anche grazie al basso costo del lavoro. Gli arresti di decine di migliaia di cinesi, ridotti in schiavitù, sono stati condannati invano. Pechino ha definito le accuse «ingerenze indebite in affari interni». La scintilla che ha costretto i nuovi leader a chiudere i campi è partita nell’agosto 2012 a Yongzhou, nello Hunan.
«Mia figlia di undici anni — ricorda Tang Hui — era stata violentata da sei uomini. La obbligarono a prostituirsi. Li ho denunciati. Non ricevemmo alcun risarcimento, i funzionari cittadini insabbiarono il caso. Ho chiesto giustizia a Pechino: la polizia mi arrestò, diciotto mesi dilaojiao». Grazie al web, anche la Cina è insorta. La storia della madre perseguitata dal partito-Stato per aver difeso la figlia stuprata divenne uno scandalo mondiale. «Fu allora — dice l’avvocato Li Fangping, difensore di dissidenti e povera gente — che le autorità compresero che la repressione era sfuggita di mano». Chiudere i campi di lavoro ideati da Mao non era facile. Gli schiavi sono stati una miniera d’oro per la polizia e per i colossi pubblici, l’arma istantanea del regime.
«Mio marito — dice Lui Fengming, professoressa in pensione — aveva postato su internet un appello per la legalità. Fu rinchiuso in una fattoria- prigione della Mongolia interna. Per averenotizie sono rimasta in piedi cinque giorni davanti al cancello di un laojiao. Alla fine uscì il capo delle guardie. Scorreva con il dito i nomi scritti su un quaderno. Si fermò, pronunciò il nome di mio marito. Pensavo stesse per rivelarmi dov’era. “Morto —disse — un mese fa”».
Ora che i campi chiudono, affiorano i racconti della grande tragedia ignorata.
Le strutture smantellate restano inaccessibili. I funzionari tacciono. Ogni giorno migliaia di prigionieri vengono liberati e accompagnati a casa dagli ex carcerieri, con l’ordine del silenzio. Anche i governi stranieri evitano di chiedere la verità: la nuova forza economica dell’autoritarismo cinese spaventa le democrazie occidentali in crisi. Ilaojiao ufficialmente sono in corso di “riconversione”: diventano comunità di recupero dalla droga, prigioni per condannati dai tribunali, istituti psichiatrici. Avvocati e organizzazioni internazionali lanciano l’allarme. «Pechino cambia le insegne — dice Shen Tingting, direttrice diAsia Catalyst — e smantella gli edifici più vecchi. La repressione violenta, necessaria alla stabilità del regime, però non finisce. Invece che nei campi di lavoro, chi pone problemi scompare in carceri nere e comunità per prostitute. Il rischio è rendere abusi e torture formalmente tollerabili». I nuovi “campi di custodia e di educazione” sono luoghi per il lavaggio del cervello.
Ren Jianyu, 27 anni di Chongqing, è finito in un exlaojiao per aver diffuso in Rete «informazioni negative». Il tribunale lo ha giudicato «malato di mente». Ha trascorso un anno in un blocco di cemento a Xinhe, a nord di Pechino. «Per guarire — dice — dovevamo stampare biglietti d’auguri di Natale, esportati in Europa e negli Usa. L’altra mattina una guardia vestita da infermiere mi ha portato fuori e mi ha lasciatoalla fermata della metropolitana perchénon ho più una casa».
Per il governo ciò che conta è aver abolito detenzioni prive della sentenza di un tribunale. I giuristi ricordano però che in Cina la magistratura non è indipendente. È al servizio del potere: ognuno può essere arrestato e condannato per un’accusa qualsiasi. «Chiudere i campi — dice Yang Xiangui, autore della storia censurata sulla strage di Jiabiangou, dove sono morti 1500 detenuti — apre un vuoto. Non credo che il Partito pensi realmente di colmarlo con qualcosa di legale, di trasparente, o rispettando le persone».
Ilaojiao chiudono, ma a nessuno è permesso di visitarli. Presentare domanda espone alla rappresaglia dei funzionari. Gli ex detenuti vengono minacciati: raccontare comporta il rischio di una condanna nelle nuove strutture. Anche migliaia di ex carcerieri, in queste ore, vengono trasferiti e riformati, come “assistenti medici e custodi dei penitenziari”. La Cina di miserabili e schiavi resta off-limits.
Guo Qinghua ha 46 anni e fino a marzo puliva le latrine del comitato permanente del Congresso del popolo. Un buon posto, a Pechino. Ha avuto problemi per la paga ed è stata l’ultima a essere ufficialmente deportata in un laojiao. È finita a Daxing, sei edifici per settecento prigionieri. Li hanno chiusi martedì. «Ora sono libera e posso scegliere tra la disoccupazione e l’assemblaggio di giocattoli nel nuovo centro anti-droga. Sono comunque condannata a morte. L’inaccettabile è diventato presentabile, vince sempre il più forte». Non esistono dittature cattive che si trasformano in dittature buone. Ci sono soli nomi che fanno vergognare che all’improvviso diventano nomi pronunciabili senza vergogna. Anche Guo Qinghua, come Jiang Chengfeng, resta una prigioniera libera, vittima dell’eterna giornata cinese nell’ultimo ex laojiao.

l’Unità 26.1.14
«Staccate la spina a Marlise», il caso che divide gli Usa
Clinicamente morta ma incinta: la famiglia ha ottenuto dal giudice la sospensione delle cure
di Sonia Renzini


Alla fine la pietà ha avuto la meglio. Negli Stati Uniti il tribunale della contea di Tarrant ha imposto all’ospedale John Peter Smith di Fort Woth in Texas di staccare la spina lunedì prossimo (entro le 17, la mezzanotte italiana) a una donna morta cerebralmente, ma incinta e dunque per la legge del Texas approvata nel 1989 (ma emendata 10 anni dopo), costretta a essere mantenuta in vita. Dei 31 Stati Usa che limitano il potere di staccare la spina a donne incinte terminali, il Texas è tra i 12 che
prevedono le norme più restrittive. Con buona pace della volontà della donna e dei suoi familiari, visto che la famiglia si è detta contraria fin dall’inizio: il marito 26enne Erick Munoz, infermiere come la moglie, sostiene che mai e poi mai la sua compagna avrebbe voluto essere tenuta in vita artificialmente, per di più sapendo che il feto, ora alla ventiduesima settimana, non avrebbe comunque nessuna possibilità di sopravvivenza. I periti della famiglia hanno rivelato in tribunale che il feto soffre di gravi malformazioni dovute alla mancanza di ossigeno subita al momento dell’embolia polmonare della madre è stata evidenziata sofferenza da idrocefalo e un possibile problema al cuore e non sarebbe in grado di sopravvivere autonomamente, come in effetti riconoscono anche i medici dell’ospedale dove è ricoverata la donna.
OTTO SETTIMANE DA INCUBO
Tutto è cominciato lo scorso 26 novembre quando Marlise Munoz di 33 anni e incinta di 14 settimane si è alzata in piena notte per scaldare un po’ di latte al figlio primogenito di 15 mesi. Colpita da un aneurisma cerebrale, è stata trovata due ore dopo in stato di incoscienza dal marito che l’ha portata all’ospedale dove è stata subito dichiarata clinicamente morta, ma nonostante questo attaccata ai respiratori.
Il giudice R. H. Wallace ora dà ragione alla famiglia, dichiara finalmente la donna morta non solo fisiologicamente, ma anche legalmente, e sostiene che l’ospedale ha sbagliato ad applicare la legge texana perché Marlise doveva già essere considerata morta. La famiglia vince così la sua prima battaglia legale dopo un braccio di ferro di due mesi. Certo c’è sempre la possibilità che l’ospedale decida di fare ricorso. Ma al di là degli sviluppi della vicenda la decisione è destinata a fare giurisprudenza in America.
La tragica sorte della 33enne ha diviso il Paese e riaperto un dibattito controverso. In tribunale l’avvocato dell’ospedale Larry M. Thompson ha ammesso sì che la donna fosse clinicamente morta, ma ha anche ribadito che la legge punta a proteggere il feto sempre e comunque e non solo a tutelare la madre, aggiungendo che secondo il Codice penale texano un feto è vivo in ogni fase della gestazione, dalla fecondazione alla nascita. Dopodiché ha menzionato un disegno di legge sostenuto dal governatore Rick Perry e approvato lo scorso anno che vieta aborti dopo 20 settimane di gravidanza, proprio perché si basa sulla teoria che il feto può sentire dolore in quella fase. Una tesi prontamente respinta dall’avvocato della famiglia Heather L. King per cui in base a questo principio, i soccorritori sul luogo di un incidente dovrebbero sottoporre ogni donna a un test di gravidanza per essere certi di non infrangere la legge. «Invece, le donne con un figlio in grembo muoiono ogni giorno e quando muoiono, il feto muore con loro. Così è sempre stato e così dovrebbe essere», ha detto. E il giudice le ha dato ragione.

l’Unità 26.1.14
Saper usare la memoria unico antidoto all’orrore
La scuola deve continuare a tramandare le voci dei sopravvissuti
Dobbiamo ricordare le vittime e i carnefici, non abbassare mai la guardia
di Tobia Zevi


Ricordare l’esperienza della Liberazione dalla schiavitù non deve trasformarsi in un rituale ripetitivo e monotono, ma deve dare luogo a una riflessione profonda, introspettiva, sull’Egitto metaforico, e anche concreto, dal quale ogni Uomo deve affrancarsi. Il ricordo serve a condizionare l’esistenza e a migliorare il futuro insieme al nostro agire individuale e collettivo.
Questo ammonimento può essere utile ragionando sulla Giornata della Memoria. Istituita nel 2000 e inaugurata l’anno successivo, questa celebrazione si è dilatata nel tempo fino ad occupare l’intero mese di gennaio. Iniziative di tutti i tipi, scuole di ogni ordine e grado mobilitate per settimane, e poi convegni, pubblicazioni, trasmissioni televisive e film. Già negli anni passati alcune voci si erano levate per mettere in discussione tutto questo, ma il recente libretto di Elena Loewenthal Contro il Giorno della Memoria (Add editore) articola le critiche in modo certo provocatorio, ma utile, sistematico e sofferto.
Tre sono le questioni fondamentali: il Giorno della Memoria si è impropriamente trasformato in un «omaggio agli ebrei»; la tragedia della Shoah non viene percepita come una componente drammatica della propria memoria ma come una vicenda altrui che merita attenzione; l’enorme quantità di manifestazioni attorno alla Giornata può essere addirittura controproducente. L’identità ebraica è sovente confusa con la storia della Shoah. Una dinamica plurimillenaria, fatta certo di terribili persecuzioni ma anche di straordinari esempi di cultura, progresso, coraggio e continuità di un popolo, viene invece ridotta al momento terribile della sua distruzione. Gli ebrei sono rinchiusi con la loro tradizione in questa pagina nera della Storia quando invece per dirla con la Loewenthal alla Shoah gli ebrei forniscono i morti, ma i protagonisti sono altri. Anche il sionismo, movimento politico-culturale nato in Europa alla fine dell’Ottocento, sulla scorta dei vari risorgimenti romantici e nazionali, viene declassato a conseguenza indiretta e inconsapevole della Shoah. Noi ebrei non solo i sopravvissuti, tutti quanti siamo interpellati continuamente per raccontare la «nostra» Shoah, mentre Primo Levi spiegava che i sopravvissuti non possono raccontare l’orrore dei sommersi. Figuriamoci chi non c’era o non era ancora nato! E infatti in Israele la Shoah è evocata con un minuto immoto e silenzioso, rotto solo dal suono insistente di una sirena.
Questo malinteso ha come conseguenza che la storia dello sterminio degli ebrei, dei rom, degli omosessuali e degli handicappati sia percepita come una storia delle vittime, e non dei carnefici e degli indifferenti, cioè coloro che resero materialmente e moralmente possibile la più grande tragedia della storia umana. La Memoria della Shoah appartiene agli ebrei, le vittime, e non all’Europa, che, stuprando la sua cultura ricchissima e millenaria, si è trasformata in un cimitero a cielo aperto. Con un esito paradossale: la Memoria che, ascoltando i latini, dovrebbe essere magistravitae, non ci rende più vigili e accorti di fronte alle odierne manifestazioni di intolleranza, che purtroppo continuano a proliferare: basti pensare a quanto accade in Ungheria, ai teatri pieni di Dieudonné o anche agli insulti nei confronti della Ministra Cécile Kyenge.
Infine, la domanda fondamentale. La Giornata della Memoria ha accresciuto la consapevolezza del passato, in particolare quella dei giovani? Se ci soffermiamo sull’incredibile sequenza di risposte fornite dai concorrenti de L’eredità a Carlo Conti, dovremmo tristemente affermare il contrario. E altrettanto raccontano i dati delle ultime indagini in proposito. Probabilmente si tratta di un’immagine troppo negativa, e non bisogna disconoscere l’impegno straordinario dei testimoni e di moltissimi insegnanti, pur privi di un «calendario civile» in cui contestualizzare la Giornata.
Il lavoro nei luoghi di apprendimento è fondamentale e non c’è alternativa allo studio rigoroso della storia, così come è evidente che la conoscenza diretta dei sopravvissuti alla Shoah ed esperienze come i viaggi della Memoria possono stimolare la sete di conoscenza. Ma occorre non dare nulla per scontato. E non possono essere sottaciuti gli «effetti-paradosso» della Memoria: la diffusione sul web e nella pubblicistica di un antisemitismo travestito da critica all’«industria della Shoah»; l’aumento dell’ostilità nei confronti di Israele; il proliferare di una sub-cultura negazionista propalata come verità della minoranza.

l’Unità 26.1.14
Eterno Rinascimento
Le Goff lo cancella ma «l’era nuova» si decifra in chiave soprattutto politica
L’oggetto del contendere è l’interpretazione della «identità» della cultura e della «coscienza» d’Europa
di Michele Ciliberto


IL PROBLEMA DEL SIGNIFICATO DEL RINASCIMENTO NELLA STORIA EUROPEA RIAPERTO ORA DA JACQUES LE GOFF CON IL SUO INTERVENTO SUL «MESSAGGERO» È ASSAI ANTICO: per molti aspetti sono stati proprio gli umanisti a costruire la ideologia della Rinascenza, cioè di una «età nuova» frontalmente opposta ai «secoli bui» del Medioevo. Sono poi stati gli illuministi -in modo particolare d’Alembert nel Discorso preliminare alla Enciclopedia a sistemare il concetto sul piano filosoficostorico individuando nella «rinascita» italiana delle arti lettere l’«aurora» del «sole» che si sarebbe poi compiutamente dispiegato nell’epoca dei lumi.
Come dimostrano questi autori, il Rinascimento non è mai stato un concetto storiografico di carattere descrittivo, ma fin dall’inizio ha espresso, già con il nome, un giudizio di «valore» appunto, il «rinascere» -, ed è in questi termini che è diventato un archetipo della coscienza e della autobiografia dei «moderni» dal Quattrocento al XVII secolo, ed oltre.
È stato però proprio questo elemento fortemente «ideologico» che ha complicato la discussione sul Rinascimento, perché in essa si sono intrecciate valutazioni di ordine etico-politico e giudizi di ordine storiografico, sia negli apologeti dell’«età nuova» che negli studiosi che, a partire dalla seconda metà dell’Ottocento, hanno insistito sulla continuità fra Medio e umanesimo, sottolineando la genesi medievale dello stesso termine che aveva identificato fin dall’inizio e in chiave polemica l’età nuova : renovatio, rinascentia. Anche nei più autorevoli rappresentanti di questa tendenza, come ad esempio Konrad Burdach è però chiaro l’intreccio tra motivi ideologici e giudizi storiografici, come appare assai evidente dalla polemica che egli svolge, simmetricamente, sia contro il Rinascimento che l’Illuminismo. Proprio per questo alcuni storici hanno addirittura proposto di eliminare il termine Rinascimento, sostituendolo con quello di «età umanistica» un lungo periodo della storia europea che andrebbe da Petrarca fino a Rousseau appunto dal Rinascimento all’Illuminismo. Ma è una proposta che, comprensibilmente, non ha avuto successo.
Di «continuità» o «discontinuità» si discute, dunque, da molto tempo. Ma per capire la lunga durata e la asprezza di questa discussione occorre tenere presente l’interpretazione che è stata data prima dagli Illuministi, poi nell’Ottocento del Rinascimento come «genesi» del «mondo moderno». Ciò di cui si discute attraverso il Rinascimento è, precisamente, il carattere, e il significato, di quella che con termine sommario si è soliti chiamare «modernità». Questa è stato, in sostanza, il vero oggetto del contendere; ed esso naturalmente, non riguarda, ovviamente, solo il campo storiografico: qui in discussione è la interpretazione della «identità» della cultura e della «coscienza» europea, definita, a seconda dei momenti storici, secondo parametri differenti. Dalla seconda metà del Novecento, ad esempio, alla periodizzazione classica del «mondo moderno» incentrata sul Rinascimento se ne è affiancata, fino a sostituirla, un’altra che fa capo al paradigma della «rivoluzione scientifica» moderna. Personalmente, sono persuaso che siano problemi, e discussioni, di cui sarebbe bene liberarsi se si vuole aprire una nuova stagione negli studi rinascimentali, ponendo in termini nuovi anche la questione della «continuità» della storia europea e quello del significato del Rinascimento, chiarendo però, in via preliminare, un punto. Sul piano storico sono individuabili, senza dubbio, molte «rinascite», a cominciare da quella del XII secolo, su cui insistono molto gli storici francesi; ma il Rinascimento italiano è stato un fenomeno assai più importante ed significativo, ed ha inciso a fondo nella costituzione della «coscienza» europea. Quando gli umanisti parlavano di «età nuova» e gli illuministi di «aurora cinquecentesca» avevano ragione; anche se nel pieno di una grande battaglia culturale ed etico-politica enfatizzavano fortemente la rottura con i «secoli bui». In breve: la «rinascita» è esistita, sul piano storico, anche se ha dato origine a una secolare «tradizione» storiografica che ne ha selezionato temi e motivi alla luce di quella che si può chiamare l’«autobiografia» dei moderni, espressa nel modo più rigoroso e coinvolgente dagli Illuministi.
Oggi però il problema essenziale è un altro, e risiede nel guardare al Rinascimento per quello che esso è stato, liberandosi proprio dal peso di una «tradizione» che ha condizionato a fondo questi studi e che è ormai non ha più molto da dire. A mio giudizio, è su queste nuove basirigorosamente storiche che deve essere affrontato il problema del «significato» del Rinascimento nella storia europea, al quale fa riferimento Le Goff, analizzando a questa luce anche il problema della «continuità» europea, e distinguendone forme e livelli.
Qualche esempio. Si sono consumati fiumi di inchiostro per indagare i rapporti tra Rinascimento e «scienza moderna» , dando risposte differenti o, addirittura, opposte a cominciare dal problema del rapporto tra «ermetismo» e «rivoluzione scientifica» moderna. \Tra Machiavelli o Bruno e il concetto di «natura» di Spinoza o Cartesio c’è una differenza radicale e insuperabile, come del resto Cartesio sapeva per primo e assai bene. Cercare di Individuare «continuità» su questo piano non serve, se non a creare, o perpetuare, falsi problemi.
Ma dal punto di vista politico ed etico-politico le cose stanno in modo assai diverso, come dimostra, ad esempio, il fatto che Spinoza nel Trattato politico assuma proprio Machiavelli come uno dei suoi principali interlocutori sulla base di un riconoscimento che sotto la sua penna assume un valore eccezionale: «risulta che stava dalla parte della libertà». Sul terreno storico è un problema affascinante sul quale occorrerebbe riflettere anche dal punto di vista del metodo: l’adesione ad ontologie diverse ed anche opposte visibile, in questo caso, sul piano della concezione della natura e della scienza non toglie e non ostacola, la convergenza su problemi etici e politici fondamentali. La mancata distinzione tra questi due livelli genera, però, una quantità di discussioni interessati, certo, sul piano storiografico, e ideologico; ma inconcludenti sul piano storico. Questo, a mio parere, è oggi il compito della ricerca sul significato del Rinascimento nel «mondo moderno»: distinguere piani e livelli e riuscire a individuare nelle differenze, quando e dove ci siano, motivi ed elementi di affinità o convergenza, considerando come una «fonte», e solo in quanto tale, la «tradizione» costruita dai «moderni». I discorsi generali sono importanti e talvolta divertenti; ma rischiano spesso di essere generici, e perciò inutili sul piano storico, si intende.

l’Unità 26.1.14
L’Eros è morto? No, ma non si sente per niente bene
Il nuovo saggio di Byung-Chul Han: la mutazione narcisistica nella società della prestazione
di Flore Murard-Yovanovitch


COSA SUCCEDE ALL’EROS NELLA SOCIETÀ CONTEMPORANEA? DOPO «LA STANCHEZZA», IL FILOSOFO COREANO-TEDESCO BYUNG-CHUL HAN SI È FERMATO A RAGIONARE SULL’AMORE E LE SUE MUTAZIONI NEL MOMENTO DELL’EROSIONE DELL’ALTRO. Il suo ultimo saggio s’intitola Eros in agonia (pagine 95, euro 7,00, Nottetempo Sassi nello stagno).
Nella società della prestazione, il soggetto imprenditore di se stesso -, è teso verso il «risultato», in una colpevolizzante costrizione alla produttività; non esita all’ipersfruttamento, in un ricatto subdolo del neo capitalismo precario, che sfrutta costantemente il soggetto, non più da dominare ma da autoplasmare...verso una ossessiva ottimizzazione di sé stesso.
In quell’ossessione ad emergere, spesso in una patologica autoreferenzialità, il soggetto ricerca ossessivamente un riconoscimento. L’altro diventa mero specchio del suo ego. Una potente mutazione antropologica narcisistica (Narzissifizierung) di cui Facebook e altri network digitali sono forse i sintomi più visibili della tendenza a cercare il consenso in una relazione unilaterale. Paradossalmente tramite i network dove crediamo di «avvicinare» l’altro per creare l’utopia di una fusione, di una vicinanza, in realtà non lo incontriamo più, ma creiamo una nuova assenza. «Così non godiamo più dell’Altro; piuttosto lo facciamo sparire» scrive Han.
ALLONTANARE L’ALTRO
Han coglie una delle mutazione più eclatanti di questa fine secolo: la sparizione dell’altro sotto i colpi della feroce mutazione antropologica in corso. Il soggetto narcisistico-depressivo esaurito e logorato da se stesso, impossibilitato ad amare a cui l’Altro funge solo da specchio al proprio avido ego. In un nuovo «inferno dell’Uguale» che compromette seriamente la dialettica.
E l’amore allora? Diventa consumo godibile, positivistico, una «formula per il godimento». La relazione, nel contesto della «offerta eccessiva», deve essere perfetta, non problematica, l’Altro viene svuotato della sua negatività. Godibile, appetibile, facilmente consumabile. Sesso (tra porno e prestazione), non Eros. La sua razionalizzazione estrema nella società «calcolante», è il vecchio nemico del colpo d’ala di Cupido che ha sempre amato le stanze buie dell’irrazionale. La Ragione tradizionale antidoto, veleno e antagonista di una Psiche innamorata che si lascia andare al diverso. Un Eros che non sopporta l'attesa, la negatività, la trama, le privazioni, frustrazioni e crisi, che non è asimmetria e differenza... crea reificazione. Riduzione a mero scambio economico come un altro sesso, non più sessualità, non più estasi. Anche l’ipervisibilità della rete che deruba l’altro del necessario alone di segreto, di mistero (lo «sconosciuto»), della sua «inafferrabilità» compromette il desiderio. Che è fantasia per l’altro diverso da sé. È questa forse la mutazione più subdola e violenta del neocapitalismo odierno, che trasforma tutto in consumo possibile. Eliminando persino l’Alterità.
Tesi buia, estrema. E un po’disturba che per parlare dell’Eros oggi, bisogna ancora e sempre scomodare gli eterni Platone, Heidegger e compagnia. Se è incontestabile l’odierno calo dell’affettività e dei rapporti in questa nuova società digitale dell’assenza, l’Eros non sembra morto, solo sottotono. Senza, non ci sarebbe più arte, politica e rivoluzione.

l’Unità 26.1.14
Tullio De Mauro e la lingua salvata
«Troppi codici per comunicare L’incomprensione è più frequente»
Intervista al linguista: «Dobbiamo sintonizzarci non solo sulla grammatica ma anche sul contesto
Non è facile in un Paese che ha ancora percentuali altissime di analfabetismo»
di Cristiana Pulcinelli


IL FESTIVAL DELLE SCIENZE DI ROMA OGGI CHIUDE I BATTENTI E, in occasione dell’ultima giornata, Tullio De Mauro, decano dei linguisti italiani, sarà il protagonista di un caffè scientifico (Bart caffetteria dell’Auditorium alle 18,30) dedicato al tema dell’incomprensione linguistica.
Professor De Mauro, sotto il profilo dell’esperienza quotidiana, l’incomprensione è qualcosa che ognuno di noi ha provato nella sua vita, ma che cos’è da un punto di vista tecnico?
«È il non tenere conto dei fattori che aiutano la comprensione di ciò che altri dicono o scrivono. Sono molti e diversi. Le parole, anzitutto, e il loro susseguirsi secondo la grammatica di una lingua, il che significa che dobbiamo sintonizzarci sulla lingua che supponiamo propria di chi parla o scrive. Se vedo scritto «I VITELLI DEI ROMANI SONO BELLI», per capire il senso devo capire se chi ha scritto voleva parlare, e parlava, latino o italiano. Se non conosco la lingua di chi parla o scrive, le possibilità di comprensione si riducono quasi a zero. Quasi: ci aiutano altri fattori di cui possiamo e dobbiamo tenere conto nel comprendere. Dati importanti sono conoscere o sapere chi è che parla o scrive, il contesto in cui si colloca. Una frase come “Il cane abbaia” ha un senso molto diverso se ce la dice un nostro familiare infastidito o preoccupato dall’abbaiare del cane di casa oppure se ce la dice chi sta insegnando ai bambini come si denominano i versi dei differenti animali o, infine, se la leggiamo in un testo di etologia animale. A capire ci aiutano molto le intonazioni del parlato e lo sfondo, l’impaginazione, nello scritto. Qualche anno fa Annamaria Testa ha scritto e illustrato un piccolo libro importante e istruttivo, Le vie del senso, per mostrare quanti sensi diversi assume la frase “Ma che bella giornata! ” a seconda degli sfondi su cui la vediamo scritta. Per capire una qualunque frase dobbiamo mobilitare, anche senza accorgercene, tutte le risorse delle nostre conoscenze ed esperienze. Se manchiamo di farlo, la comprensione delle parole altrui fallisce».Quando nel linguaggio comune diciamo che qualcuno non ci comprende, in effetti, non ci riferiamo solo alle parole, ma a qualcosa di più profondo. Ci riferiamo, magari senza saperlo, a questi fattori? «Altri linguaggi funzionano bene anche se non sappiamo chi ne usa i segni o non teniamo conto del contesto d’uso. Le parole invece non sono cifre, simboli matematici o chimici, ma si capiscono appieno solo capendone l’ancoraggio al loro contesto e alla persona che le dice o scrive».
Qualche tempo fa, lei riportava i risultati di un’indagine secondo cui il 71% della popolazione italiana non è in grado di leggere e comprendere un testo di media difficoltà. Ci può spiegare un po’ più nel dettaglio questo dato?
«Noi adulti italiani, molto più degli adulti di altri Paesi, abbiamo un pessimo rapporto con i testi scritti: libri, giornali, pagine internet e perfino cartelli e avvisi al pubblico (spesso, oltre tutto, formulati male). Non una, ma tre successive ricerche internazionali, l’ultima delle quali promossa dall’Ocse e svolta per l’Italia dall’Isfol, hanno stabilito che il 5% della popolazione adulta è in condizione di analfabetismo totale, ma in più il 66% ha gravi difficoltà dinanzi a un testo scritto. Del resto i dati sulla lettura di libri e di quotidiani ci portano a risultati simili».
Eppure in Italia ci si diploma e ci si laurea di più rispetto al passato (anche se siamo sempre agli ultimi posti in Europa), come spiegare questo fenomeno?
«La scuola fa quello che può. Proprio in questa materia sappiamo che alle elementari i bambini e le bambine arrivano a risultati di eccellenza nel confronto internazionale. All’inizio delle scuole medie superiori le cose già non vanno più bene. A mano a mano che vanno avanti nello studio pesano sui ragazzi le condizioni culturali delle famiglie e dell’ambiente. Le cose quindi nella media superiore non vanno bene, ma attenzione: i ragazzi sono poco sotto la media europea, le ragazze addirittura più in alto delle loro coetanee. Il complesso non è brillante, ma non è catastroficamente sotto le medie internazionali come avviene per gli adulti e le adulte. Quando usciamo dalla scuola e dalla formazione cadono bruscamente le sollecitazioni a leggere, tenersi informati, capire il nostro mondo con l’aiuto di pagine scritte. Gli stili di vita ce ne allontanano e solo una minoranza avverte importanza e fascino della lettura.
Oggi la comprensione è diventata più difficile? Pensiamo ai tanti linguaggi diversi: i social network, gli sms, i linguaggi sempre più specialistici delle scienze. Siamo costretti a imparare più codici? «Sì, abbiamo più strumenti, più codici che dobbiamo sapere usare. Il primo resta sempre l’abbiccì e la nostra lingua nativa. Ma non basta più. Per capire le etichette dei prodotti del supermercato o delle medicine, per orientarci nella vita anche quotidiana delle città, per lavorare e produrre abbiamo bisogno di notizie più sofisticate di un tempo, almeno dell’abbiccì di molti diversi campi del sapere. O ci rivolgiamo ai ciarlatani oppure, per campare, avremmo bisogno di un rialzo deciso delle nostre competenze individuali e collettive».
può essere prevista anche la sola presenza del PI. L'alta qualità scientifica dei progetti sarà il criterio di valutazione insieme alla qualità del PI. Gli ambiti scientifici di riferimento sono gli stessi determinati dall'Erc: Scienze della vita, Scienze fisiche e ingegneria, Scienze umanistiche e sociali. Saranno favoriti i progetti di natura interdisciplinare, quelli pionieristici o che introducono approcci innovativi o invenzioni scientifiche.
La procedura si svolgerà interamente in lingua inglese. L’attrattività del finanziamento è anche per l`istituzione ospitante, che avrà un incentivo del 10% del costo del progetto nel caso in cui il PI non sia già un suo dipendente a tempo indeterminato. I progetti possono avere il costo massimo di 1 milione di euro per un periodo massimo di tre anni e saranno valutati da Comitati di selezione designati dal Comitato nazionale dei garanti della ricerca (Cngr) sulla base di una rosa di nominativi proposti dal consiglio scientifico dell'Erc. Termine della presentazione il 13 marzo.

Corriere 26.1.14
Italiano, la lingua di mezzo
Fin dal ‘500 esisteva una comunicazione d’uso pratico capace di unire le classi sociali e superare i dialetti locali
di Paolo Di Stefano


Tra storia romanzo e poesia Enrico Testa insegna Storia della lingua italiana all’università di Genova. Il suo ultimo volume è «L’italiano nascosto. Una storia linguistica e culturale» (Einaudi, pp. 292, 20). Da Einaudi ha pubblicato anche: «Eroi
e figuranti. Il personaggio nel romanzo», l’antologia «Dopo la lirica. Poeti italiani 1960-2000», e proprie raccolte di poesia.

La storia della lingua italiana, di solito, viene raccontata come la persistenza di una polarità tra lingua scritta, colta, letteraria da una parte e ricca varietà orale di dialetti dall’altra. Per un grande studioso come Carlo Dionisotti la letteratura è stata «il più forte elemento unitario»: l’italiano sarebbe stato per secoli una lingua, unicamente scritta e posseduta da pochi, pressoché impermeabile alla «selva» degli idiomi locali. Secondo l’idea più diffusa, l’avvenuta unificazione politica non era ancora unificazione linguistica, cui avrebbero contribuito numerosi fenomeni, tra cui la scolarizzazione, la crescita dell’industria e la conseguente migrazione interna, la diffusione della stampa e infine la forza attrattiva della televisione. È la tesi di tanti, tra cui Tullio De Mauro. Ma da qualche tempo si fa strada un’idea diversa, più sfumata e meno bipolare.
L’italiano nascosto , il nuovo libro di Enrico Testa (Einaudi) interpreta questa visione nuova e la illustra con l’avallo di numerosi documenti, alcuni dei quali rari o inediti. «Il libro — dice Testa, docente di Storia della lingua all’Università di Genova, oltre che poeta di valore — propone un’interpretazione delle vicende dell’italiano completamente diversa da quella canonica che vedeva in epoca preunitaria una bipartizione tra letterati e rozzi parlanti dialettali. È impossibile non pensare che esistesse, nel corso dei secoli, una lingua intermedia d’uso pratico che permettesse una comunicazione tra scriventi e parlanti di luoghi e strati sociali differenti». È ciò che sosteneva Ugo Foscolo quando ipotizzava l’esistenza di una lingua comune, «corrente e vivissima in tutte le provincie intesa da Torino sino a Napoli, scorretta, deforme, ed era anche un po’ letteraria»: una «lingua d’espediente», suggerita dai bisogni primari quotidiani, «diversa in tutto da’ dialetti provinciali e municipali, e che serba alcune qualità bastarde di tutti». Insomma, un terzo polo: un italiano capace di stabilire contatti e scambi orizzontali tra le regioni e verticali tra i livelli sociali. Di questa varietà di mezzo, che Tommaso Landolfi chiamò «italiano pidocchiale», Testa va alla ricerca risalendo al Cinquecento.
«È un italiano che per secoli ha una forte resistenza: ci sono alcune strutture-base di lunga durata che corrono come un filo nascosto e risalgono alla prosa del Duecento». Urgenza comunicativa e «passione di dirsi», secondo la definizione di Claude Hagège, spingono anche la grande massa dei semicolti, né analfabeti totali né arcadi, a prendere in mano la penna. Ai semicolti si deve quell’opera di messa di commistione tra oralità e scrittura che produce una lingua a metà strada tra l’italiano normativo e il dialetto. «È interessante chiedersi come si rivolgevano i semicolti alle autorità per superare la distanza intellettuale e fisica. Impossibile pensare a una netta paratia che divida la letteratura alta e le classi popolari. Abbiamo testimonianze di ciabattini che recitano Dante e di gondolieri che cantano le arie di Metastasio…». Si aprono altri interrogativi, socioculturali: «Che letture facevano i semicolti per impadronirsi di quel minimo di italiano utile alla comunicazione pratica e su che libri soddisfacevano le loro esigenze intellettuali e artistiche?». Con l’espressione «libri per leggere» si definiscono quelle opere, per lo più di paraletteratura, molto diffuse a livello popolare (equivalenti ai tanti titoli che oggi affollano le classifiche): libri devozionali, romanzi d’avventura, d’armi e d’amore, cronache, leggende, libri di viaggio eccetera. Testa ricorda la lista di undici titoli in volgare fornita dal mugnaio friulano Menocchio durante il processo che nel 1601 gli costò la condanna a morte per eresia: dal Decameron non purgato al Fioretto della Bibbia . Lo studio di Testa chiama a raccolta streghe e servitori, mezzadri, pescivendoli, mercanti, parroci, catechisti, maestri di strada, briganti e soldati, monaci: personaggi che portano alla penna (e probabilmente sulle labbra) un italiano capace di farsi capire ovunque ben prima che comparisse sulla scena Mike Bongiorno, assunto troppo spesso come fascinoso tramite dell’italianizzazione, con il maestro Manzi e le canzoni di Sanremo.
«D’altra parte — continua Testa — che strumenti linguistici usavano, per esempio, le autorità religiose per trasmettere princìpi e ammaestramenti ai semplici?». È emblematica la figura di Alfonso Maria de Liguori, fondatore, nel Settecento, dell’ordine dei Redentoristi nel Regno di Napoli, i cui «brevi avvertimenti» e schemi predicatòriȋ erano destinati all’apprendimento dell’italiano dei suoi allievi, con l’invito a mitigare gli eccessi retorici della lingua della predica, adottando moduli più semplici e sintatticamente franti in direzione comunicativa. E i grandi letterati, i prìncipi della cultura classicistica, i notai, gli avvocati, i religiosi come si rivolgevano ai loro servitori? Un esempio è quello di Baldassar Castiglione, esponente autorevole della diplomazia tra Chiesa, Mantova e Urbino in epoca rinascimentale. Guardando al retroscena del laboratorio di scrittura privato, per esempio nelle lettere di carattere più domestico e familiare, si nota lo sforzo di adattamento al livello linguistico del destinatario. Quando scrive al suo fattore, il rustico Cristoforo Tirabosco, il Castiglione mostra di presupporre un terreno comune di comprensione e una competenza almeno passiva dell’interlocutore. Una dinamica analoga a quella che legava Vittorio Alfieri con il suo fedele servitore Francesco Elia, autore di un gruppetto di lettere che dimostrano una discreta familiarità con la scrittura, oltre a una «intelligente perspicacia e sottilissima avvedutezza», come segnalò Lanfranco Caretti.
«È difficile pensare — dice Testa — che questo tipo di lingua non venisse utilizzato anche oralmente, quando si incontravano tra loro personaggi di diversa estrazione culturale o di diversa provenienza geografica. Il caso più clamoroso è quello dei frati itineranti o dei maestri irregolari che, pur conoscendo un solo dialetto, riuscivano a stabilire contatti con uditori linguisticamente distanti o si muovevano per insegnare l’abaco e i rudimenti della lingua». La dimensione orale rimane comunque necessariamente più oscura. «Per l'oralità, non avendo documentazione, è chiaro che dobbiamo affidarci a una sorta di procedimento indiziario, ma si può facilmente immaginare un panorama analogo a quello della lingua scritta. L’italiano ”pidocchiale” o d’espediente ha sempre una forte componente locale, soprattutto sul piano fonetico e lessicale, però al di sotto si scopre una condivisione sintattica e morfologica e una resistente continuità diacronica». Ci sono luoghi deputati in cui questo italiano «pidocchiale» viene coltivato più che altrove: officine, laboratori, botteghe, confraternite che utilizzavano l’italiano per statuti e verbali, monasteri femminili in cui le pratiche religiose si sposavano con l’apprendimento della lingua. «Paradossalmente, — ricorda Testa — persino il brigantaggio nell’Ottocento ha finito per diffondere l’italiano, perché anche per scrivere le lettere di riscatto a un ricco possidente bisognava farsi capire».

Corriere 26.1.14
Mostri
La paura e l’attrazione
I protagonisti della mitologia che piacciono molto ai bambini
di Edoardo Sassi


Nelle fonti antiche che ne tramandano le gesta, di tutti i «Mostri» lui è il più terribile: Tifone, personificazione dei venti e distruttore del fuoco, dalle cui spalle spuntavano cento serpenti. Questa e cento altre storie, risalendo indietro nei secoli (storie di superstizioni, credenze e paure di una umanità bambina) si apprendono visitando la bella e scenografica mostra dal titolo, appunto, «Mostri», allestita fino al 1° giugno a Palazzo Massimo, una delle quattro sedi del Museo nazionale romano.
Una mostra archeologica di impianto rigorosamente scientifico ma di grande impatto visivo e adattissima ad ogni tipo di pubblico, compreso quello delle scuole, che infatti sta affollando il percorso espositivo pensato non a caso in forma di labirinto, forma più antica di viaggio iniziatico. Ad aprire il cammino di visita c’è infatti un Torso del Minotauro dal gruppo con Teseo, in marmo bianco e di età flavia (fine I secolo d.C), scultura di norma esposta al primo piano del museo e ritrovata a Roma nella zona dello Stadio di Domiziano, attuale piazza Navona.
Eccezionalmente spostata per introdurre la mostra, la statua assume così una sorta di ruolo-guida tra i tanti esseri — mostruosi certo, ma bellissimi — esposti nella rassegna e generati secoli addietro dalla fantasia e dalla paura dell’essere umano.
Sculture, terrecotte, vasi, armi, affreschi e mosaici raffiguranti grifi, chimere, gorgoni, centauri, sirene, satiri, arpie, sfingi, tritoni, Pegaso, Scilla o l’Idra di Lerna: in tutto un centinaio di meraviglie che in origine ebbero per lo più funzione apotropaica, dunque con il ruolo di tenere lontani effetti malefici, fino a oggi mai o poco viste, straordinari prestiti nazionali e internazionali da Atene, Berlino, Basilea, Vienna, Los Angeles, New York e provenienti da diversi ambiti culturali e cronologici (Oriente, Grecia, mondo etrusco, italico e, ovviamente, romano). Curatrici della mostra (organizzata dalla Soprintendenza archeologica di Roma guidata da Mariarosaria Barbera), la direttrice di Palazzo Massimo, Rita Paris, ed Elisabetta Setari. «Per mostri — spiegano — s’intendono esseri che non trovano corrispondenza nella realtà, nell’ordine naturale, per lo piu originati da combinazioni di parti di esseri reali, creati dall’immaginazione dell’uomo, che hanno animato racconti ancestrali e miti. La mostruosità di queste creature, nel repertorio vastissimo dell’arte antica, presenta quasi sempre elementi di nobiltà e di eleganza, per il legame con la sfera cultuale e le loro imprese mitologiche».
E sono, questi «mostri», per lo più transitati fino a noi, in una sterminata tradizione che attraverserà tanta arte (a quanti pittori, da Bosch a Böcklin, da Füssli a Salvador Dalí, sarebbe piaciuta questa esposizione) e letteratura, giungendo fino al cinema. Per spiegare quanto la «mostruosità» antica sia servita da fonte d’ispirazione per l’arte a venire, la mostra presenta infine anche tre opere di epoche successive: una tela del Cavalier d’Arpino raffigurante Perseo che libera Andromeda, una Medusa di anonimo fiammingo del XVII secolo e un Minotauro con testa di giraffa di Alberto Savinio.

Corriere 26.1.14
E il Simbolismo inquieto ritrovò il caos primordiale
A fine ‘800 il recupero di un disagio psichico che la serenità apollinea greca aveva eliminato
di Francesca Bonazzoli


In un ormai vecchio saggio, Simbolica e mitologia , rimasto comunque seminale, Friedrich Creuzer indagava il passaggio dal simbolo al mito chiedendosi che cosa ci fosse stato prima della «ciarliera» tradizione di Esiodo e Omero la quale aveva sistematizzato l’albero genealogico degli dei, attribuendo a ciascuno di loro onori, funzioni, appellativi. Prima delle parole chiare dei Greci, ci furono gli enigmi dei Pelasgi, sosteneva il filologo tedesco. La brevità, la sintesi, costituiva il carattere fondamentale della dottrina religiosa più antica, e il dare un nome a ciò che prima era senza, rappresentava la funzione sacerdotale primaria.
Tuttavia, «come il devoto presentimento di quei Pelasgi si connesse ad un nome, e grazie alla moltiplicazione dei nomi nella preghiera il loro pensiero religioso trovò un ordine sempre maggiore, così un universale impulso della natura umana richiede molto presto segni esterni determinanti ed immagini per indicare sentimenti indeterminati e idee oscure». In questa fase più antica della religiosità, quindi, interpretare i simboli e dar loro una forma coinciderebbero nella figura sacerdotale. È così che nascono sia l’aura divina intorno all’artista, sia la funzione magica attribuita all’immagine. E infatti ancora oggi è di questo che parliamo quando diciamo «artista divino» o vediamo milioni di persone in pellegrinaggio al Louvre davanti alla «Gioconda», o persino quando il vandalo spiega il suo gesto iconoclasta con affermazioni come: «Quell’immagine mi guardava con cattiveria».
L’immagine nasce dunque divina. Ma è paradossalmente con i Greci che questo legame originario fra divinità e immagine si cominciò a sciogliere. Friedrich Nietzsche indicò proprio nella «serenità greca» della tarda grecità, nel prevalere dell’apollineo, cioè della razionalità e della scienza sul dionisiaco, la malattia che da lì in avanti indebolì l’Occidente. Che cosa restò, dunque, della potenza primigenia delle loro Arpie, Sirene, Gorgoni, Meduse o Sfingi? Nel Cinquecento, quando l’Umanesimo le riportò in auge sostituendole al bestiario medievale che decorava le facciate delle cattedrali, rimase solo l’eleganza di un divertissement intellettuale.
Il compiacimento colto e raffinato per una bellezza artificiosa, tipico del Manierismo, trasformarono per esempio il Perseo del Cavalier d’Arpino in un cavaliere fiabesco che libera Andromeda da un mostro marino simile a quelli che nel basso Medio Evo venivano dipinti negli inferni dei Giudizi Universali. Anche Benvenuto Cellini, nel fondere in bronzo Perseo che brandisce la testa mozzata di Medusa, puntò tutto sull’ammirazione dello spettatore verso la magnificenza del corpo dell’eroe. All’inizio del Seicento, la terribilità della Medusa di Caravaggio è dunque solo la parentesi personalissima, di un uomo che provocava la morte rimanendone perseguitato.
La situazione degradò ulteriormente nel Settecento dove umani e mostri vennero indifferentemente infiocchettati e incipriati diventando innocui ninnoli di un mondo dai colori pastello. Bisognerà aspettare il Simbolismo (1886) per riprovare un brivido di inquietudine e avvicinarci all’insondabilità del caos primordiale della psiche. Finalmente una società già febbricitante, ma non ancora illuminata dalla psicanalisi, tornò a «dire» il disagio psichico attraverso gli unici simboli che conosceva: quelli antichi.
Le Sfingi di Gustave Moreau; i Centauri di Arnold Böcklin e Max Klinger; le Arpie di Munch o le Sirene di Klimt sono tutti mostri associati a ciò che si nasconde dietro le apparenze della realtà, quel magma di disagio arcaico che verrà chiamato inconscio. Lo stesso «espediente» che sarà utilizzato da Freud, il quale non a caso tornerà a far riferimento ai miti greci parlando per esempio di complesso di Edipo. In questa fase storica, dunque, i mostri antichi sembrano recuperare la loro forza di simboli e le immagini il loro potere magico.
Metafisici e Surrealisti continueranno con consapevolezza su questa strada finché, dopo la seconda guerra mondiale, le Erinni, le Meduse, le Arpie e i Tifoni che assediano la razionalità umana verranno documentati dalla fotografia e dal cinema. Il valore simbolico si smarrisce allora nuovamente: il Mostro diventa l’orrore della cronaca o, addirittura, intrattenimento per bambini attraverso pellicole blockbuster.

Corriere 26.1.14
La metamorfosi delle sirene, da uccellacci a seduttrici
Ma nel mondo ellenico il volto femminile era «noir»
di Eva Cantarella


Non c’è alcun dubbio, il mondo dei Greci era pieno di figure mostruose, di creature dall’aspetto spesso ripugnante, a volte pericolose, a volte senza scampo mortali. Sempre, comunque, difficili da classificare, nella loro varietà.
Partendo da esseri semiumani, a ben vedere meno «mostruosi» come i Centauri, mezzi uomini e mezzi cavalli, o i Satiri, mezzi uomini e mezzi caproni, si arriva a creature dall’aspetto orripilante e disgustoso come le Erinni che, in Eschilo, accovacciate come cani, stillano sangue dagli occhi e a celebri mostri come le terribili Scilla e Cariddi. E poi, ancora, le Sirene. Proprio così, proprio loro, nell’immaginario odierno donne bellissime, seducenti e ovviamente irresistibili. Nelle raffigurazioni cinematografiche, ad esempio, hanno l’aspetto della stupenda Daryl Hannah, che nel film «Una Sirena a Manhattan» fa innamorare il protagonista al punto da indurlo a gettarsi nel mare per raggiungerla negli abissi, dove si presume vivranno per sempre felici. Ma per i Greci le sirene erano tutt’altra cosa, erano appunto dei mostri. Per cominciare, non erano affatto mezze donne e mezze pesci: in Omero, così come in Ovidio e più in generale nell’antichità classica, le Sirene sono donne con ali di uccello (o, se si preferisce, uccelli con testa di donna). La tradizione che le trasforma in pesci è solo medievale.
Quale sia la loro genealogia è cosa incerta. Le tradizioni sulla loro nascita sono diverse: a volte sono figlie di Melpomene e del fiume Acheloo, a volte di Acheloo e di Sterope, altre volte ancora di Acheloo e di Tersicore. Ugualmente incerto il loro numero: in Omero sono due, ma nelle tradizioni posteriori diventano tre, o anche quattro. Quando sono tre si chiamano Pisinòe, Aglaòpe e Thelxièpeia (ovvero Parthenope, Leucosla e Ligheia). A volte sono quattro e si chiamano Telès, Raedné, Molpè e Thelxiòpe. Meno controverso il luogo in cui abitavano: tre isolette rocciose, tre scogli sulla costa tirrenica dell’Italia, oggi chiamate Li Galli, tra la punta della penisola amalfitana e Capri. Ma torniamo al loro aspetto, a ben vedere molto simile a quello delle Arpie. Figlie di Thaumas e di Elettra, discendente di Oceano, le Arpie appartenevano alla generazione divina preolimpica e abitavano le isole Strofadi, nel mare Egeo, ove — come peraltro in tutta la Grecia — godevano di pessima fama: la loro attività, infatti, consisteva nel rapire i bambini e condurre i morti nell’aldilà. Più che spiegabile, dunque, la loro frequente rappresentazione sui monumenti funebri. Al pari delle Sirene: anche queste — che così appaiono in numerose rappresentazioni, a partire dall’VIII secolo — erano demoni dell’oltretomba, grandi uccelli sgradevoli che intonavano, con voce gracchiante, lamenti funebri per ordine dei sovrani dell’Ade.
Una rappresentazione per noi sorprendente che, per capirla, è necessario aprire una parentesi sulle personificazioni greche della morte: la più celebre delle quali, forse, è Thanatos. Figlio di Notte e gemello di Sonno (Hypnos), Thanatos è molto diverso dal fratello. Questo percorre pacificamente terre e acque ed è dolce con i mortali; Thanatos invece ha cuore di ferro, spirito di bronzo e petto implacabile. Una volta afferrato un essere umano, lo tiene con sé per sempre.
Personaggio inevitabilmente temibile, Thanatos ha tuttavia tratti meno terrificanti di altre rappresentazioni della morte: più specificamente, di altre rappresentazioni della morte di genere lessicale e dal volto femminile. Morte e Sonno infatti hanno una sorella, Kera (a volte Kere, al plurale), la nera morte che terrorizza, rendendo insostenibile l’idea di un destino che pure, quando ha genere e volto maschile, viene in qualche modo accettato, con filosofica rassegnazione di fronte all’ineluttabile. E lo stesso vale per Gorgò, il mostro dal volto di donna e dallo sguardo che pietrifica, il cui solo pensiero indurrà Ulisse ad abbandonare precipitosamente l’Ade (quando, nell’Odissea, è costretto a visitarlo).
L’associazione stabilita dai Greci, le donne, la morte e le immagini mostruose di questa, quando sono femminili, è non poco inquietante. Ma non è questo il momento per parlarne. Qui e si voleva ricordare la presenza, nel mondo greco, una volta idealizzato immaginato come luogo perfetto di ogni bellezza, la presenza di immagini inquietanti immagini mostruose, che pongono interessanti interrogativi sulla vita interiore dei Greci.

Corriere 26.1.14
Dacci oggi il nostro zombie quotidiano
Con l’era digitale le creature fuori dal comune si annidano nella normalità
di Roberta Scorranese


«Il suo corpo guizzante come un pesce, l’ignobile rabbia espressa dal suo viso cattivo, calcinavano in me la vita e la sbriciolavano fino alla nausea». Un racconto poco conosciuto di Georges Bataille, Madame Edwarda (1941), tratteggia una mostruosità femminile che nasce da un desiderio sfrenato, un’estasi torbida. E, in fondo, il «mostro» moderno, novecentesco, scaturisce da questa interiorità devastata, lontana dalle fantasie gotiche dell’Ottocento, dove le creature fantastiche evaporavano nelle nebbie. No, da Edgar Allan Poe a oggi, il mostro è più sottile, imprendibile perché sempre più simile a noi, come ci ha suggerito Magritte con i suoi fantasmi. O Bacon, con autoritratti sfregiati. E persino la saga degli «zombie», dai film di Romero ai recenti rifacimenti, come una vita simile alla nostra che ritorna inaspettata.
Ma negli ultimi decenni, nell’era dell’accesso e della virtualità condivisa, l’immaginario dei mostri è cambiato ancora, con sfumature sempre più vicine alla «normalità». O, meglio, alla trasfigurazione della normalità. È un mostro Walter White, il protagonista della serie televisiva americana Breaking Bad : la malattia lo rende sempre più abietto modificandone, insieme al destino, anche l’aspetto fisico; è un mostro Joker (rigorosamente nell’interpretazione di Heath Ledger) ne Il cavaliere oscuro del 2008, diretto da Chris Nolan; è un mostro Cate Blanchett nella scena finale di Blue Jasmine di Woody Allen, dove si arrende alla sua trasfigurazione che la lascia piangente, scarmigliata, volutamente cieca e sorda al reale; è un mostro Tony Soprano, dell’omonima saga televisiva, boss italo americano «cariato» all’interno da un destino di degrado morale.
Così, curiosamente, mentre l’apparato cinematografico ci regala mostri sempre più sofisticati anche grazie a tecnologie che sfiorano la perfezione digitale (come tutta la recente serie dei «vampiri»), la sensazione è che il perturbante non risieda tanto nella finzione cinematografica o letteraria, quanto piuttosto si annidi nella vita di tutti i giorni, perfettamente impastata con i guizzi erotici, gli affetti, gli odi.
Il monstrum (prodigio, creatura fuori dal comune) è nella serie infinita di fotografie modificate dai filtri dei social network; è nell’immagine distorta dell’altro che Skype ci restituisce ogni giorno (quante coppie oggi, si frequentano più su Skype che non nella vita reale?); è nel nostro stesso mostrarci poco per come siamo realmente, preferendo relazioni virtuali; è nella paura non tanto di invecchiare (paura che sa ormai di modernariato) quanto di cambiare, terrorizzati da un futuro che percepiamo come un abisso, più che come una possibilità.
Persino nell’immaginario dei bambini il mostro è cambiato e ha preso le sembianze di un maialino «normale» come Peppa Pig. Perché le Carrie o gli Esorcisti che tanto ci hanno spaventato in passato, oggi tornano con la disarmata stanchezza dei remake. Quei mostri lì non ci sono più, quelle paure sono finite e lo dimostra lo scrittore che forse ha meglio interpretato il concetto di «mostro» moderno: Stephen King. Dopo aver raccontato la ferocia delle macchine (quindi del progresso) e la spietatezza dell’inconscio, King da tempo veste i panni (raffinati) di chi si limita a citare se stesso con ironia.
Paradossalmente, il mostro, oggi, è più vicino a Freaks di Todd Browning, film del 1932 in cui il «mostro» era il nano, lo storpio, il diverso. Quelle creature che le città hanno relegato in abissi sempre più difficili da raccontare.

Resterà aperta fino al 1° giugno l’esposizione «Mostri. Creature fantastiche della paura e del mito», a Roma, al Museo nazionale romano Palazzo Massimo (Largo di Villa Peretti 1), promossa dalla Soprintendenza Speciale per i beni archeologici di Roma in collaborazione con Electa e a cura di Rita Paris ed Elisabetta Setari. Orari: tutti i giorni escluso il lunedì, dalle 9 alle 19.45. Biglietti: intero 10 euro; ridotto 6,50 euro. Info: tel. 06/399.677.00 o http://archeoroma.beniculturali.it. Il catalogo è edito da Electa.

Corriere 26.1.14
L’evoluzionismo di Darwin. Processi in Usa, dibattiti in Italia
risponde Sergio Romano


Apprendo che in alcuni Stati Usa è proibito l’insegnamento di Darwin e della sua famosa opera Origine delle specie . Viene così imposto il dogma biblico della creazione divina. Eppure sono passati 150 anni da Darwin e le prove scientifiche della sua teoria sono inoppugnabili. Grazie ai ritrovamenti fossili si sa come la specie Homo sia evoluta in tre milioni di anni fino all’Homo Sapiens. Non crede che negare l’insegnamento di verità scientifiche importanti come questa non si concili affatto con i principi liberali degli Usa ?
Domenico Spedale

Caro Spedale,
Negli Stati Uniti non vi sono soltanto «principi liberali». Vi è anche un Cristianesimo fondamentalista composto da una larga fascia della popolazione (gli evangelici sarebbero 70 milioni) che crede alla lettera nel libro della Genesi. E vi sono principi federali che assegnano ai singoli Stati la competenza dell’educazione. Accade così che vi siano Stati «evoluzionisti», in cui si insegnano le teorie di Charles Darwin (1809-1882) sulle origini dell’uomo e il principio della selezione naturale, Stati «creazionisti», in cui non può esservi altra verità fuor che quella della Bibbia, e Stati «promiscui» in cui alle due teorie viene garantita, nei programmi scolastici, una sorta di pari opportunità.
I più convinti nemici delle teorie darwiniste sono nella Bible Belt (cintura della Bibbia), una vasta regione dell’America sudorientale che comprende, tra gli altri, l’Alabama, la Georgia, la Louisiana, il Mississippi, il Tennessee. In quest’ultimo si tenne nel 1925 un memorabile processo contro un docente di biologia, John T. S. Scopes, che aveva osato insegnare le teorie di Darwin ai suoi alunni. Quel processo, nel 1960, è diventato un film di Stanley Kramer («Inherit the wind», in Italia «E l’uomo creò Satana») in cui la parte dell’avvocato difensore è magistralmente recitata da Spencer Tracy.
Anche In Italia, dove la Chiesa cattolica mi sembra adottare, soprattutto dopo il Concilio Vaticano II, un atteggiamento più distaccato e conciliante, il dibattito su Darwin fu molto animato. In un libro pubblicato dalle Edizioni Biblion nel 201o (La «patria» e la «scimmia». Il dibattito sul darwinismo in Italia dopo l’Unità ), Antonio De Lauri ricorda che l’edizione italiana delle Origini delle specie apparve nel 1864, a cura di uno zoologo, Giovanni Canestrini, e di un insegnante di scienze naturali, Leonardo Salimbeni. Nell’anno della morte di Darwin (1882), quasi tutta la sua opera era disponibile in traduzione italiana. Nel dibattito intervennero, oltre a zoologi e naturalisti, mineralogisti, botanici, biologi, professori di anatomia comparata, elmintologi (studiosi di vermi parassiti). Ma la passione con cui l’Italia discusse Darwin fu anche politica e ideologica. L’origine dell’uomo e l’evoluzione della specie gettarono olio sul fuoco del grande duello nazionale fra laici e cattolici, positivisti e idealisti, unitari e papalini. Il dibattito fu animato anche perché favorito, come osserva De Lauri, dall’unificazione del Paese. Il Risorgimento, la proclamazione del Regno e la conquista di Roma stavano creando una comunità scientifica nazionale, vivace e dinamica: un’osservazione su cui dovrebbero riflettere i nostalgici di un’Italia frammentata, asburgica al Nord e borbonica al Sud.

Corriere Salute 26.1.14
Le psicoterapie cognitivo-comportamentali possono guarire le ferite profonde
di Danilo Di Diodoro


Oltre alle possibili conseguenze fisiche, una donna che ha subìto un episodio di violenza deve far fronte a conseguenze psicologiche, che spesso coinvolgono il suo intero equilibrio psicosociale. «Purtroppo sulle dimensioni di questo fenomeno non esistono ricerche condotte in Italia con una metodologia rigorosa, come quella impiegata da uno studio inglese appena pubblicato su Lancet (si veda articolo a destra, ndr )— dice il dottor Giovanni de Girolamo, psichiatra e ricercatore —. La ricerca più ampia è stata realizzata dall’ISTAT nel 2006 su un campione di 24 mila donne, intervistate telefonicamente con procedura standardizzata (si veda tabella in alto, ndr ). L’ISTAT ha concluso che in Italia quasi il 32% della popolazione femminile ha subìto violenze nel corso della vita: oltre il 23% violenze sessuali (un milione ha subito stupro o tentato stupro), quasi il 19% altre forme di violenze fisiche. Sono percentuali simili a quelle appena riscontrate in Inghilterra e testimoniano l’ampiezza del fenomeno e la necessità che gli operatori sanitari, specie quelli dell’emergenza, siano formati per affrontarlo».
Le linee guida dell’Organizzazione Mondiale della Sanità contengono una revisione di efficacia degli interventi psicologici finalizzati ad aiutare le donne oggetto di violenza. «Gli autori delle linee-guida hanno raccolto i più importanti studi effettuati in questo ambito, — spiega De Girolamo — dai quali emerge la necessità di interventi di counselling di supporto per le vittime che non presentano disturbi specifici provocati dal trauma sofferto. Trascorsi i primi tre mesi dopo la violenza, se persistono sintomi di malessere psicologico, e se questi interferiscono in maniera significativa con le attività della vita quotidiana, è necessario valutare l’eventuale comparsa di disturbi più specifici, quale il disturbo post-traumatico da stress, un vero e proprio episodio depressivo, l’abuso di alcol o di psicofarmaci, ed anche l’ideazione suicidaria. Ciascuna di queste condizioni va trattata con un approccio psicoterapico, ed eventualmente attraverso una terapia farmacologica».
«Per il disturbo post-traumatico da stress, — prosegue De Girolamo — che tipicamente viene diagnosticato dopo la persistenza dei sintomi a tre mesi dal trauma, gli studi hanno mostrato che le psicoterapie di tipo cognitivo-comportamentale sono efficaci, al pari di una modalità particolare di trattamento chiamata ”desensibilizzazione e rielaborazione attraverso i movimenti oculari” (eye movement desensitization and reprocessing, EMDR ), tecnica su cui vi è un intenso dibattito scientifico in corso». Si tratta di un trattamento messo a punto dalla psicologa americana Francine Shapiro: il terapeuta aiuta il paziente a ricordare le scene traumatiche, e nello stesso tempo lo induce a spostare lo sguardo orizzontalmente. Il movimento oculare sembra capace di ridurre l’intensità emotiva negativa connessa al ricordo. Secondo i critici, tuttavia, l’associazione con i movimenti oculari sarebbe frutto del caso e il vero elemento terapeutico sarebbe la desensibilizzazione del vissuto emotivo, per la continua riesposizione al ricordo traumatico.
«Per quanto riguarda la situazione italiana — conclude De Girolamo — si tratta di tecniche di intervento limitatamente disponibili nei servizi di salute mentale, e ciò sottolinea la necessità di adeguati interventi formativi»

Corriere Salute 26.1.14
Anche l’adolescenza è brutale
Aggressioni per una ragazza su dieci
di D.D.D.


Molto diffusa sembra essere la violenza all’interno delle coppie adolescenti. Lo indica uno studio realizzato su studenti liceali italiani da Patrizia Romito, del Laboratorio di Psicologia Sociale e di Comunità, Unità di Psicologia - Dipartimento di Scienze della Vita dell’Università di Trieste, con la partecipazione di suoi collaboratori. Lo studio è stato pubblicato sulla rivista Violence Against Women . Da esso risulta che oltre il 43% delle ragazze e il 34% dei ragazzi sono stati oggetto di una qualche forma di violenza psicologica, sessuale, o fisica perpetrata dal partner, e una ragazza su dieci ha subito un insieme di violenze gravi. Un fenomeno non privo di conseguenze, dal momento che c’è una relazione tra violenza subìta ed esiti psicologici.
«Effettuato un controllo rispetto ad altri possibili tipi di violenza e ad altre possibili variabili, lo studio ha fatto emergere un’ associazione tra violenza messa in atto dal partner e salute mentale delle studentesse, con una probabilità almeno doppia di incorrere in sintomi da attacchi di panico, di depressione, in problemi di comportamento alimentare, e pensieri suicidi» dice Romito. Meno evidenti le conseguenze psicologiche sugli studenti maschi, che hanno reazioni soggettive meno intense all’atto di sopruso condotto dalla partner, al limite dell’indifferenza. Le studentesse, invece, hanno reagito con paura, umiliazione e rabbia e si sono sentite ferite da un punto di vista psicologico.
Quello che la ricerca condotta dalla dottoressa Romito non è riuscita a sciogliere è l’incertezza sulle due ipotesi oggi più diffuse tra gli addetti ai lavori rispetto alle differenze di risposta psicologica esistenti tra adolescenti maschi e adolescenti femmine. Secondo l’ipotesi “vulnerabilità femminile”, le donne sarebbero per loro natura più vulnerabili agli effetti della violenza e quindi ne subirebbero maggiori conseguenze psicologiche; secondo l’ipotesi della “esposizione differenziale”, invece, le ragazze mostrerebbero maggiori problematiche psicologiche o veri e propri disturbi psichici, proprio perché sono oggetto di più frequenti e più intensi episodi di violenza, e quindi non per una loro intrinseca fragilità. «La ricerca non offre una risposta definitiva poiché troppo diverse sono le vite e le esperienze di maschi e femmine per confrontarli automaticamente — spiega Romito —. Tuttavia, due punti sono chiari: se consideriamo le violenze in ambito familiare o relazionale, le ragazze e le donne subiscono violenze più frequenti e più gravi; ma anche i ragazzi e gli uomini possono essere vittime, e anche loro, al di là di una facciata di insensibilità, possono risentirne psicologicamente».
Un aspetto inusuale di questo studio è consistito nel ritorno che i ricercatori hanno dato ai licei che erano stati coinvolti. Sono stati effettuati meeting con ragazzi e professori, durante i quali c’è stata una possibilità di ulteriore confronto. «Per molte coppie di studenti comportamenti come la gelosia estrema, il controllo, la dominazione, la pressione sessuale e anche un certo livello di violenza fisica risultava essere praticamente accettabile — dice la professoressa Romito —. In Italia sono rari gli interventi finalizzati a informare gli adolescenti sulla violenza e a prevenire quella del partner. Si tratta comunque di interventi per i quali non è stata fatta alcuna valutazione sulla loro possibile efficacia reale, e al momento in cui abbiamo realizzato la nostra ricerca non esisteva neppure un sito Internet dedicato proprio alla violenza tra adolescenti». Così il sito è stato poi realizzato dallo stesso gruppo di ricerca: www.units.it/noallaviolenza e successivamente migliorato man mano, proprio grazie alle indicazioni giunte da parte degli stessi studenti.

Corriere Salute 26.1.14
Depressione, alcol, droghe
Le conseguenze del sesso subìto
di D.D.D.


Dimenticate lo stereotipo dell’estraneo nascosto negli angoli bui dei parchi. A perpetrare la violenza sessuale nei confronti delle donne, e più raramente nei confronti degli uomini, è nella maggior parte dei casi una persona conosciuta, spesso proprio il partner. L’argomento è stato affrontato da uno studio inglese pubblicato sulla rivista Lancet , e condotto da un gruppo guidato da Wendy Macdowall del Centre for Sexual and Reproductive Health Research del Department of Social and Environmental Health Research di Londra.
Lo studio ha preso in considerazione l’intero spettro del cosiddetto “non-volitional sex ”, ossia le esperienze sessuali messe in atto contro la propria intenzione. Ne è emerso un quadro poco incoraggiante: su un campione di oltre 15 mila persone intervistate, è risultato che una donna su 5 e un uomo su 20 hanno avuto esperienza di tentativi di sesso non desiderato, mentre una donna su 10 e un uomo su 71 hanno dovuto subire atti sessuali completi contro la propria volontà. L’età media dei più recenti episodi rilevati dall’indagine è stata 18 anni per le donne e 16 per gli uomini.
«La violenza sessuale è una violazione di diritti umani fondamentali — dicono Wendy Macdowall e i suoi collaboratori, — e il riconoscimento delle dimensioni globali del problema è cresciuto durante le due decadi trascorse. Esso comprende un range di atti, dalla molestia verbale alla penetrazione forzata, e differenti gradi di coercizione, dall’intimidazione alla forza fisica. Può essere sperimentata da persone di tutte le età, come evento singolo o come parte di un pattern di vittimizzazione che può durare mesi o anni». Lo studio sottolinea come esperienze di questo tipo risultino associate a un livello di salute più bassa, a diagnosi di malattie sessualmente trasmissibili, a malattie di lunga durata, disabilità, necessità di fare ricorso a trattamenti per la salute mentale, tendenza al fumo, uso di farmaci da banco e, solo per le donne, con il ricorso impulsivo all’alcol. In molti casi il funzionamento sessuale complessivo è deteriorato, e molte donne hanno fatto esperienza di aborti o di gravidanze prima dei 18 anni.
La ricerca è stata condotta con una tecnica particolarmente efficace, visto che interviste sulla popolazione generale su argomenti tanto delicati hanno il limite della possibile reticenza da parte degli intervistati. Il gruppo condotto dalla dottoressa Macdowall ha realizzato le interviste nell’ambito del terzo National Surveys of Sexual Attitudes and Lifestyle, e per la prima volta sono state inserite nel sondaggio alcune domande sul non-volitional sex. Queste domande sono però state proposte attraverso un’autointervista che la persona conduceva da sola utilizzando un computer. Appena risposto alle domande in totale autonomia e riservatezza, il file veniva anonimizzato e salvato sul computer senza che l’intervistatore potesse avervi più accesso. Una strategia che ha minimizzato la naturale reticenza che le persone hanno a parlare di questo tipo di argomenti.
Alcune questioni restano tuttavia aperte, e sono gli stessi ricercatori a segnalarle. «I nostri risultati mostrano una forte e consistente associazione tra esperienze di episodi di sesso realizzate contro la propria intenzione, un basso stato di salute fisica e mentale, e comportamenti potenzialmente dannosi per la salute — dicono —. Dato che la presentazione di questi fattori di salute era vicina al momento dell’intervista, o nei dodici mesi precedenti, sappiamo che essi sono stati sperimentati in seguito al presentarsi degli eventi di non-volitional sex ; tuttavia potrebbero anche essere stati presenti prima dell’evento, e quindi la direzione dell’effetto non può essere stabilita». Quindi, la relazione esiste, ma non si sa con assoluta certezza quale elemento sia la causa e quale l’effetto. D’altra parte è già noto da tempo che le persone affette da disturbi psicologici sono più vulnerabili nei confronti degli assalti di tipo sessuale. Diversi studi protratti nel tempo hanno anche dimostrato come esista un’associazione bidirezionale tra depressione e violenza subìta ad opera del proprio partner anche se non sono stati realizzati studi specifici sulla violenza sessuale isolata rispetto a tutte le altre forme di violenza.
Dunque, resta ancora spazio per ulteriori ricerche. Dovranno essere messi in cantiere nuovi studi che seguano le persone nel tempo, proprio con la finalità di riuscire a capire meglio il rapporto causa-effetto. Ossia, per riuscire a individuare se sono le esperienze sessuali forzate a generare i disturbi fisici e psicologici, oppure se sono le persone che già hanno questo tipo di problema a essere maggiormente esposte al rischio di subire atti sessuali contrari alla propria volontà. Esiste peraltro già uno studio condotto da Dean G. Kilpatrick, del National Violence Against Women Prevention Research Center della Medical University of South Carolina e pubblicato sul Journal of Consulting and Clinical Psychology, che ha dimostrato l’esistenza di un rapporto causale tra l’aver subito violenza e l’abuso alcol, rapporto che diviene circolare per quanto riguarda l’abuso di droga. È tempo per puntare a una migliore consapevolezza del fenomeno tra l’intera popolazione, partendo dai più giovani. «Il governo britannico ha il progetto di promuovere nelle scuole l’insegnamento del consenso sessuale e dell’importanza delle relazioni sane» concludono gli autori dell’articolo.

Corriere La Lettura 26.1.14
L’Europa inciampa nelle fedi
Crescono ostilità e limiti dei governi alla religione Italia nel gruppo dei peggiori con la Gran Bretagna
di Marco Ventura


A Chisinau una ragazza musulmana viene aggredita da due uomini che le danno della terrorista e le strappano il velo. A Tolosa un attentatore jihadista fa irruzione in una scuola ebraica e uccide tre bambini e un rabbino. Si tratta di due episodi diversissimi: da un lato, nella periferia moldava d’Europa, un piccolo fatto di cronaca lontano dai riflettori; dall’altro, al centro francese del continente, una tragedia che monopolizza i media internazionali. Per quanto diversi e lontani, entrambi i casi testimoniano la minaccia crescente alla libertà di credere degli europei. È questa la denuncia del Rapporto appena pubblicato dal Pew Research Center, l’ente indipendente americano che dal 2006 monitora le restrizioni alla libertà di culto.
Il Pew Center elabora due indici: il primo misura il clima di ostilità e scontri nella società; il secondo quantifica il livello delle restrizioni governative. Negli ultimi anni, entrambi gli indici si sono impennati in Europa. Solo il Nord Africa, il Medio Oriente e alcune zone dell’Asia hanno fatto peggio. Nel Vecchio Continente sono cresciute le violenze religiose, soprattutto le aggressioni contro esponenti delle minoranze e donne che portano il velo, come dimostrerebbero i fatti del 2012 di Chisinau e di Tolosa. Sul breve periodo, Olanda, Francia e Italia risultano tra i Paesi con la maggiore crescita del tasso di ostilità a sfondo religioso. Va ancora peggio per l’Europa con i limiti posti dai governi alle religioni. Le restrizioni statali restano infinitamente più gravi in Pakistan, in Arabia Saudita e in Cina, ma sono cresciute in Europa più che in ogni altra area. Pesa sull’indice europeo la Russia, uno tra i grandi Stati del mondo col maggior tasso di limiti alla religione, tanto sociali che governativi; ma il Rapporto rileva valori alti anche in altri Paesi a tradizione cristiana ortodossa (Bulgaria e Grecia, su tutti) e in Belgio e Francia.
Il panorama europeo è molto variegato. In alcuni Paesi, il Regno Unito e l’Italia in particolare, a una bassa densità di restrizioni governative corrisponde un’alta tensione socio-religiosa. Accade l’inverso in Bielorussia e in Belgio. In Russia e in Grecia entrambi gli indici sono alti; in Finlandia e in Repubblica Ceca, entrambi sono bassi.
La comunità scientifica dovrà vagliare l’attendibilità del Rapporto : sono legittimi dubbi sull’affidabilità del metodo quantitativo e sui concetti di religione e libertà religiosa che sottendono la ricerca. È però impossibile negare l’esistenza del problema. La conflittualità religiosa e i limiti statali alla libertà di credere sono una grande questione globale, che non risparmia il nostro continente. La crescita simultanea dei due indicatori, evidenziata dalla visualizzazione in questa pagina, non è il frutto di un abbaglio dei ricercatori americani. La comparazione con gli Stati Uniti aiuta a veder meglio il fenomeno europeo. Nel periodo studiato gli Usa hanno più che duplicato il loro indice di restrizioni governative, tradendo il proprio modello di non ingerenza statale nel religioso, ma hanno conservato lo stesso tasso di scontri sociali della rilevazione precedente. Intanto nel Regno Unito cresceva a ritmo analogo l’indice di restrizioni governative, eguale a quello americano, ma il tasso di scontri si moltiplicava per tre. Identico al caso britannico, quello italiano: i due Paesi figurano con un indice di ostilità religiose più che doppio rispetto a una media europea tenuta bassa da nazioni come Finlandia e Irlanda, Portogallo e Slovacchia.
La questione è aperta: a fronte di sistemi legali e di modelli d’integrazione diversi, cosa spinge verso l’alto l’indice delle ostilità religiose in grandi Paesi come la Francia, la Germania, il Regno Unito e l’Italia? E perché danno un valore sensibilmente più basso Stati non meno investiti dai flussi migratori come l’Olanda, il Belgio e la Svizzera? Il Rapporto ci interroga sulle cause e sulle misure da adottare. Lo stesso Pew Center ha fornito la risposta più ovvia nel suo Rapporto sulla primavera araba dello scorso giugno. La caduta dei dittatori in Tunisia, Libia ed Egitto, la guerra in Siria, le turbolenze del mondo arabo-musulmano nel suo insieme, sono un fattore grandemente destabilizzante. L’onda del conflitto si sprigiona in terra d’islam e si spinge oltre il Mediterraneo, i Balcani, il Caucaso.
A questo fenomeno molti governi europei hanno risposto limitando la libertà religiosa, come mostra il tasso crescente di restrizioni governative. Ne risulta una contraddizione fondamentale tra l’istinto di reagire agli scontri religiosi imbrigliando i credenti e i principi liberaldemocratici europei che quella libertà vorrebbero protetta da uno Stato discreto e imparziale. Su piccola scala, è questo il senso delle recenti polemiche sulla decisione del Tar della Lombardia di ritenere illegittimo il piano per il governo del territorio del comune di Brescia, in cui si disponevano spazi per le chiese cattoliche ma non per le moschee.
Su scala più grande, è forte il rischio di una politica schizofrenica sulla libertà religiosa dell’Unione Europea, che preme su Vietnam e Pakistan perché la morsa governativa venga allentata, ma tollera al suo interno le politiche anti-sette di Parigi, l’ostilità di Budapest contro le Chiese sgradite al governo e il patto tra Ankara e Berlino per il controllo dell’islam tedesco; sicché l’Unione e le cancellerie europee finiscono per legittimare gli stessi argomenti di cui ci si serve a Pechino e a Hanoi per sbattere in galera i redentoristi.
Il Rapporto del Pew Center sfida dunque gli europei a cercare un equilibrio coerente tra principi di libertà e realtà sociale: in Europa e ovunque si trovi l’Europa. Non c’è altra strada se vogliamo spezzare la spirale di misure restrittive e conflitti religiosi.

Corriere La Lettura 26.1.14
Narrativa parassitaria che falsifica Maria
di Cesare Cavalieri


La figura di Maria di Nazareth è consegnata alla storia, alla teologia e alla tradizione non solo religiosa da circa duemila anni, e non si è ancora finito di studiarla. De Maria numquam satis , recita un abusato adagio scolastico: di Maria non si parla mai abbastanza. Ben vengano, dunque, tutti gli approfondimenti e le digressioni su colei che il Concilio di Efeso (anno 431) ha solennemente definito «Madre di Dio».
Come per tutti i personaggi storici è lecito immaginare i risvolti psicologici, le ambientazioni, i contesti che la storia, quasi sempre sommaria, non dice. Sui personaggi biblici, in particolare, la storia lascia ampio spazio e ci si può ricamare sopra egregiamente, come ha fatto, per esempio, Anthony Burgess, nell’Uomo di Nazareth , sulla figura di Gesù.
Bisogna però stare attenti alle trappole della logica controfattuale, cioè ai ragionamenti che fanno discendere conseguenze coerenti da un’ipotesi contraria alla realtà. Alessandro Zaccuri, per fare un altro esempio, ha scritto un bel romanzo, Il signor figlio , ipotizzando che Giacomo Leopardi non sia morto di colera a Napoli per un’indigestione di gelati, ma si sia trasferito a Londra, dove sarebbe vissuto in incognito. Perfetto, perché Zaccuri non si è permesso di manipolare la vita storica di Leopardi, asserendo magari che i Canti li avrebbe scritti suo fratello Carlo, che fra l’altro era un buon giocatore di pallone: ha inventato quello che Leopardi potrebbe aver fatto in un soggiorno londinese.
Il testamento di Maria , di Colm Tóibín, è invece un esercizio esemplare di logica controfattuale. La tesi è che la Madonna non avrebbe capito niente della missione di suo figlio, che abbia assistito alla crocefissione senza intervenire perché si sentiva minacciata lei stessa e si sia lasciata condurre a Efeso per mettersi in salvo, sempre sorvegliata da due figuri (uno è Giovanni, l’altro potrebbe essere Luca) che stanno scrivendo, per motivi di potere, la storia della salvezza del mondo attraverso la morte e risurrezione di Gesù, risurrezione che peraltro Maria avrebbe visto solo in sogno. I due cercano anche di convincerla di aver tenuto sulle ginocchia il figlio morto, mentre lei sa bene di essere fuggita prima di vederlo morire. Infine, Maria avrebbe trovato sollievo nel culto di Artemide.
Di fronte a questo raffazzonamento il credente si sente offeso per la manipolazione della vita di Maria, che egli venera e ama. Certo, i cattolici, grazie a Dio, non scatenano la fatwa come i musulmani quando ritengono che Maometto sia stato vilipeso: comunque il diritto alla libertà religiosa fa parte dei diritti dell’uomo, vale per tutte le religioni ed è incivile non rispettarlo.
Accanto e anche più che dalla manipolazione, si resta colpiti dall’implausibilità della storia, che peraltro presuppone nel lettore la conoscenza della tradizione mariana, ad alcuni appigli della quale Tóibín si aggrappa. Appunto qui sta la controfattualità. Il romanzo (di cento paginette scarse), poteva reggere se, anziché di Maria, avesse parlato, chissà, della madre di Dima, il buon ladrone di cui non si sa nulla, e pertanto uno scrittore potrebbe ben inscenare il dramma di una madre che lo rimpiange bambino e non ha avuto il coraggio di assisterlo mentre muore.
Invece, Il testamento di Maria è solo un campione di letteratura parassitaria. La parafrasi, o parodia, della storia mariana denota infatti l’incapacità dell’autore d’inventare una vicenda originale, plausibile, pur partendo dal dato biblico. Del resto, il più noto romanzo di Tóibín, The Master , vampirizza la vita di Henry James. Il vischio di Tóibín non si regge senza una quercia a cui appendersi.
Significativamente, l’autore trascura il dato biblico che avrebbe fatto crollare tutta l’impalcatura: non fa cenno all’Annunciazione, cioè all’evento in cui Maria apprende la chiamata a diventare madre di Dio. Avesse avuto almeno il sospetto di esserlo, Maria non si sarebbe comportata come nell’apocrifo di Tóibín.
Non mancano i particolari grotteschi. Dopo la malriuscita risurrezione, Lazzaro non si regge in piedi, non mangia, sta a letto al buio in preda alle allucinazioni. Impagabile Maria che minaccia con un coltello (e ne ha anche un altro di riserva) chiunque accenni a sedersi sulla sedia riservata a Giuseppe. Bella la Maternità di Severini che illustra la copertina.

Corriere La Lettura 26.1.14
Una passione laica senza redenzione
di Giulio Giorello


«Parla una madre: mio figlio era pervaso da un’agitazione come di cielo sereno in una giornata di vento. Quanto era lontano dal bambino che avevo conosciuto o dal ragazzo che sembrava felice quando lo svegliavo e parlavo con lui! Ora… la sua virilità era sicura e ostentata e anche raggiante… come la luce, e quindi non avevamo nulla di cui parlare in quelle ore, sarebbe stato come rivolgersi alle stelle». È una storia di famiglia quella che ci narra Colm Tóibín. Potrebbe essere una delle innumerevoli vicende che costellano l’avventura umana. Ma quel figlio è stato un po’ speciale: ha conosciuto il successo. È diventato «pieno di un potere che non sembrava avere negli anni passati»; poi è stato ucciso in un modo «feroce, indicibile».
Il testo è semplicemente un lungo monologo di Maria di Nazareth; suo figlio — di cui mai viene fatto il nome esplicitamente — è Gesù. E lei non si dichiara mai seguace; anzi, tra timore e scetticismo, dubita dei suoi miracoli, e infine è fuggita davanti allo spettacolo dell’agonia sulla croce. Il suo Testamento non mira a legare insieme dramma mondano e provvidenza celeste. «Se l’acqua può essere trasformata in vino e i morti possono essere fatti resuscitare, voglio che il tempo si riavvolga: tornare a vivere… prima di quando lui se ne andò da questa casa», come rapito da «un vento caldo e secco». Attenzione al «se». Quella di Maria è un’ipotesi d’irrealtà; ma siamo tutti «foderati di sogni» e la madre di Gesù sa bene che sono i sogni ad aiutarci a vivere, non meno del cibo o dell’aria. Però, vanno «lasciati alla notte»; altrimenti, provocano disastri.
È il laico, direi quasi illuministico insegnamento di quello che chiamerei «il Vangelo secondo Maria», o magari «secondo Tóibín». Si tratta di un sobrio illuminismo, che non celebra il trionfo della ragione, ma si nutre della cognizione del dolore. Per di più, Tóibín ci fa pensare che Maria nemmeno sia rimasta a piangere il cadavere del figlio deposto dalla croce, e insinua che alla dimensione dei suoi sogni appartenga pure l’icona della «Vergine» che ha prodotto tante Pietà nella tradizione figurativa dell’Occidente. Celata in un esilio protetto da benevole divinità pagane, e sul punto di lasciare questo mondo, Maria di Nazareth si rifiuta, infine, di stare al gioco di quegli zelanti «cristiani» che vogliono da lei tutti i particolari della passione del «Figlio di Dio», perché la cronaca della sua morte e resurrezione diventi il modello della comunità dei nuovi credenti.
Per Maria il significato di quel dolore e di quella morte sono semplicemente «dolore e morte». E le pare nient’altro che una menzogna proclamare che tutto sia stato «pianificato, come lo sono il mare e la Terra». Lo spettacolo della morte orribile di Gesù, da cui lei stessa è fuggita non solo per mettere al sicuro la propria vita, ma per l’impossibilità quasi fisica di assistere allo strazio della propria carne, resta per lei passione senza redenzione. E a chi le obietta che col proprio sacrificio Gesù avrebbe portato salvezza all’umanità, ribatte semplicemente che non ne valeva proprio la pena.
Certo, il vento ha soffiato sempre più forte, e forse sono proprio quei discepoli, così impazienti nella loro volontà di credere, che alla fine vinceranno. Nascerà la Chiesa, struttura gerarchica mirante alla gestione burocratica di un cristianesimo ormai cristallizzato in riti e dogmi. Sul lungo periodo, il nuovo potere cancellerà drasticamente gli antichi dèi e relegherà al margine gli stessi orgogliosi scribi e farisei. Tóibín non è né uno storico né un filosofo, e la sua narrazione non rientra nemmeno nel genere dei romanzi a tesi. Benché si affidi alla prosa, la sua è soprattutto parola poetica: e forse anche questo suo Testamento di Maria è intessuto di sogni… Ma la sostanziale irriverenza della sua eroina così carnale nei confronti di tutti i discepoli di questa o quella rivelazione non ha per questo meno forza. Ritengo che il suo «non ne valeva la pena» dovrebbe venire attentamente meditato da tutti quei credenti che oggi giustamente rivendicano il carattere pubblico della loro fede, pur cercando di salvarla da ogni compromissione con le più varie forme di potere, e soprattutto dalla tentazione di una «egemonia» sulla società che tramuterebbe l’entusiasmo dei primi giorni in una «organizzazione» destinata a sopprimere qualsiasi dissenso.

Corriere La Lettura 26.1.14
Vichinghi, corsari globali
Non erano un’etnia ma avventurieri uniti da un patto per sfidare la sorte
di Alessandro Zironi


Narra di personaggi piuttosto singolari La saga degli uomini delle Orcadi , di genti vissute in un arcipelago a nord della Scozia. Narra, ad esempio, di un tal vescovo, Vilhjámr, che comanda una delle navi giunte dalle fredde acque nordiche sino alla Terrasanta, dopo aver toccato numerose località lungo le sponde del Mediterraneo. Il vescovo dimostra di sapersela cavare bene in fatto di arrembaggi: «È rischioso abbordare navi bizantine con le nostre imbarcazioni. Vi è solo un modo: svellerne le sponde a colpi d’ascia» (La saga degli uomini delle Orcadi ). Sotto gli occhi del lettore sfilano così le imprese vichinghe di una flotta sulla rotta dei mari del sud. Che un prelato guidi una masnada di predoni può provocare un certo imbarazzo: ma i vichinghi, allora, chi erano?
Sfatiamo subito un’opinione diffusa: i vichinghi non sono un popolo, e neppure un gruppo etnico. Chiunque, insomma, può essere un vichingo, sempre che, ovviamente, presenti determinate caratteristiche. La prima: essere vissuto in un’epoca più o meno compresa fra l’età carolingia e la fine del XI secolo e, in alcuni luoghi, anche un poco oltre. Seconda prerogativa: aver l’intenzione di conquistare una fortuna, con mezzi più o meno leciti, che vanno dal commercio di beni (e qui si conteggiano anche gli schiavi), ai saccheggi. Terza condizione: non si è vichinghi da soli, ma in compagnia di altri che mirano al medesimo obiettivo, quindi ci si unisce in gruppo, stringendo un patto con valore giuridico, al fine di procacciarsi ricchezze; insomma, una sorta di cooperativa del Medioevo i cui soci, e qui abbiamo l’ultima caratteristica, armano insieme una nave (e spesso ognuno dei partecipanti paga una parte della costruzione) per partire alla ventura e tornare in patria più ricchi, con beni monetizzabili con i quali impiantare una bella e prospera fattoria o crearsi (a seconda del prestigio) un dominio politico.
Essere vichinghi, dunque, non è questione di identità. È questione di scelte di vita. Si compiono imprese vichinghe per garantirsi un futuro. Spesso accade che siano le mamme a spingere i propri pargoli a conquistarsi un posto al sole e una posizione nella vita. È questa, ad esempio, la preoccupazione di Bera, madre del più importante poeta islandese del Medioevo — Egill Skalla-Grímsson, vissuto nel X secolo — che medita in cuor suo di comprare al figlioletto, appena raggiunta la maggiore età, una bella nave da battaglia, e con quella, come ci racconterà il poeta «partire coi vichinghi/ in piedi sulla prua,/ guidare il vascello splendido,/ frenarlo, entrando in porto,/ ammazzare un uomo, e poi un altro» (traduzione di Ludovica Koch, Gli scaldi , Einaudi).
Il viaggio per nave è aspetto imprescindibile dell’essere vichinghi, e questo spiega molto probabilmente anche il nome con cui sono chiamati questi intrepidi corsari. Una delle proposte che cerca di spiegare l’origine del nome antico nordico víking pensa a una derivazione dal verbo víkja «deviare, voltare, allontanarsi». Dunque la víking è l’azione compiuta da colui che si allontana, che se ne va da un posto, e il víkingr è colui che lascia la propria dimora in cerca di fortuna. In islandese, poi, il termine víkingr andrà a indicare in senso lato tutti coloro che compiono imprese piratesche e razzie. Altra proposta vuole, invece, una derivazione da vík «insenatura, fiordo», dunque il víkingr è colui che appartiene al fiordo, perciò lo scandinavo proveniente per lo più da Norvegia e Danimarca.
Nessuna etimologia convince sino in fondo e, forse, ognuna di esse contiene una propria verità. In buona sostanza: i vichinghi sono uomini del Nord, che compiono imprese, anche mercantili, al di fuori dei propri territori di origine. L’espansione vichinga segue infatti rotte commerciali, puntando ad aree abitate nelle quali è possibile procacciarsi beni. Fra questi territori i primi e più visitati sono l’Inghilterra, la Francia settentrionale, l’Irlanda ma anche le grandi pianure russe, solcate a colpi di remi nei vorticosi fiumi, come il Dnepr, del quale si superano le tumultuose rapide portando a riva le navi per rimetterle poi in acqua superato l’ostacolo. In forza di un indubbio fiuto economico decidono di impiantare empori per meglio controllare i flussi mercantili e — si direbbe in un linguaggio moderno — abbreviare la filiera commerciale. Ecco perché a Dublino si parlerà l’antico nordico e la Northumbria britannica avrà in York un punto nevralgico per l’espansione nel resto dell’isola.
Tutto ha inizio l’8 giugno 793, quando i monaci del cenobio di Lindisfarne, piccola isola a metà via fra Newcastle ed Edimburgo, videro giungere dal mare una nave condotta da un’ampia vela quadrata: a prestar ascolto al redattore della Cronaca Anglosassone , scritta circa cento anni dopo, evidenti segni premonitori, quali draghi volanti e furiose intemperie, avevano preannunciato la distruzione dell’abbazia da parte di pagani giunti dalle onde. Sono soprattutto genti della Danimarca che mirano all’Inghilterra: la percorreranno in lungo e in largo, risalendo fiumi, fondando piccole comunità, appropriandosi della terra. Alla fine del IX secolo la Britannia è pressoché tutta soggetta al diritto danese, e la stessa lingua si espande, tanto da lasciare importanti tracce di sé anche nell’inglese che ancora oggi si parla: pochi sanno, ad esempio, che il verbo to take (e quante volte diciamo take away !) altro non è che il nordico taka , che sostituisce l’anglosassone niman .
Le navi dei fiordi solcano anche le vaste distese marine a nord delle isole britanniche: si insediano nelle Orcadi, nelle Shetland, nelle Fær Øer e poi in Islanda, colonizzata alla fine del IX secolo, e da lì, un secolo dopo, Eírikr il Rosso si muoverà verso ovest, approdando in quella che lui chiamerà ottimisticamente Groenlandia (la terra verde): quattromila persone vivranno in due villaggi e 190 fattorie, lì verrà eretta la seconda chiesa nordica in ordine di grandezza, oltre a due monasteri. Resisteranno sino al XIV secolo, quando un mutamento climatico ricoprirà la terra verde di un immutabile manto bianco. Dalla Groenlandia, poco dopo l’anno 1000, arriveranno a toccare le isole Baffin, il Labrador e Terranova, e qui, ad Anse aux Meadows, fonderanno un piccolo avamposto. Non si insedieranno mai stabilmente in quella che loro chiamarono Vínland (la terra del vino), ma i contatti commerciali fra pellerossa e vichinghi persisteranno, dato che oggetti e cibi americani si ritrovano in scavi archeologici condotti in Scandinavia.
A questa e altre curiosità sulla civiltà vichinga darà risposte l’esposizione Vikings: Life and Legend che sta per aprirsi a Londra, nella Sainsbury Exhibitions Gallery, nuova ala a nord della Great Court del British Museum, che inaugura al pubblico i suoi nuovi spazi espositivi con questa imponente mostra (in calendario dal 6 marzo al 22 giugno), occasione rara per la mole dei materiali esposti e la presentazione di una grande nave da guerra vichinga il cui scafo raggiunge la ragguardevole misura di 37 metri. Assemblata agli inizi del secolo XI, ai tempi di re Canuto, sovrano di Danimarca e Inghilterra, la nave proviene da Roskilde, luogo poco distante da Copenaghen, dove venne affondata per difendere il porto dalle incursioni degli uomini del nord.
Da non perdere in mostra il tesoro della valle di York, rinvenuto nel 2007 e ancora poco visto, un vero cammeo del mondo vichingo: fra gli oggetti anche 617 monete delle più svariate provenienze, fra le quali l’Uzbekistan di Samarcanda, l’Afghanistan, l’Africa del Nord e la Russia. Se poi restasse un po’ di tempo e si avesse voglia di un’incursione… vichinga, basta raggiungere la Torre di Londra: poco distante si trova la chiesetta medievale di St. Olave, che commemora il re norvegese Ólafr il Santo, che combatté contro i danesi a Londra nel 1014.

Corriere La Lettura 26.1.14
Carlo Magno, primo europeo
Nel suo regno creò una dimensione politica romana, germanica e slava
di Giuseppe Galasso


«Da dove nasce il sole fino alle rive del mare a ponente il pianto agita i cuori»: così inizia un famoso compianto per la morte di Carlo Magno, avvenuta esattamente dodici secoli fa, il 28 gennaio 814, all’età di 71 anni. Era il secondo figlio di Pipino detto il Breve, figlio cadetto di Carlo Martello, il vincitore degli Arabi nella storica battaglia di Poitiers nel 732. Pipino fu il maestro di palazzo che, deposto l’ultimo dei «re fannulloni», con i quali si chiuse la dinastia merovingia che aveva reso grandi i Franchi, si era fatto proclamare re, iniziando una dinastia che, con varie derivazioni, tenne il trono fino alla rivoluzione francese del 1789. A Pipino nel 771 erano succeduti i due figli, Carlomanno, il maggiore, e Carlo. Poi Carlomanno si fece monaco, lasciando Carlo unico sovrano dei Franchi. Chiamato dai Papi, nel 774 aveva conquistato il regno longobardo in Italia. Con una lunga guerra (772-804) assoggettò i Sassoni. Varcò i Pirenei, ma, dopo la sconfitta famosa di Roncisvalle nel 778, si limitò al possesso di piazzeforti in Catalogna e Navarra. Allargò la sua influenza fino alla Boemia e sconfisse e immobilizzò sul Danubio gli Àvari, eredi della furia degli Unni.
A quel punto era il sovrano di gran lunga più potente d’Europa, con un dominio dall’Ebro all’Elba, dall’Oceano all’alto Danubio, dall’Elba al Tevere, di cui si avvertiva la profonda novità storica e geopolitica. Questa percezione venne incontro sia alle mire dei Papi di staccare del tutto la Chiesa romana e l’Occidente dai residui rapporti con quella millenaria prosecuzione dell’impero romano in Oriente, che noi definiamo impero bizantino, sia alle ambizioni della corte di Carlo di distinguere nettamente il rango di un sovrano così potente da quello dei sovrani «barbarici» che avevano provocato la fine dell’impero romano in Occidente. E ciò mise capo alla pagina forse più celebre della vita di Carlo, e cioè la sua proclamazione a imperatore romano a Roma da parte di Papa Leone III la notte di Natale dell’anno 800. La proclamazione suscitò un aspro contenzioso con l’Oriente. Il titolo imperiale era ritenuto monopolio dei sovrani che a Costantinopoli avevano continuato il nome e la tradizione di Roma. Riconoscere due imperatori romani, di cui uno era fuori del solco della romanità, appariva inaccettabile. Carlo era stato, inoltre, proclamato imperatore dal Papa, e anche questo esulava dalla consuetudine che alla Chiesa riconosceva un potere di consacrazione, non di investitura.
Era vero, ma non aveva senso, in concreto, rispetto alla straordinaria novità della grande costruzione politica di Carlo, e ancora meno rispetto alla missione che la Chiesa romana si era data e che era ormai giunta alla piena maturità della sua consapevolezza. Alla fine Costantinopoli dovette cedere, e l’Oriente e l’Occidente già romani andarono per strade sempre più diverse fra loro.
Di chi fu l’idea di quella proclamazione imperiale? Le opinioni degli storici restano molte e diverse. Chi pensa a un’iniziativa pontificia per dare alla Chiesa il ruolo di fonte di sovranità e di titoli politici, nonché di tutrice del massimo sovrano occidentale, sciogliendosi così definitivamente da ogni pretesa sovrana di Costantinopoli sull’Occidente e su Roma, ma anche con la preoccupazione di trovare un più soddisfacente assetto politico e giuridico per i nuovi popoli che avevano invaso e occupato lo spazio europeo d’Occidente già romano, lo avevano ampliato fino all’Elba, lo avevano reso di nuovo potente, si erano convertiti alla fine alla fede romana e avevano trovato nella Chiesa e nel vescovo di Roma un fondamentale e fortemente sentito punto di riferimento civile e spirituale. Chi, invece, propende per un’iniziativa della corte di Carlo, pensa a un’idea di promozione e trasfigurazione del dominio del sovrano, posta sotto il paravento augusto del nome di Roma.
In realtà, di chiunque fosse l’iniziativa, non era la restaurazione imperiale la massima dimensione di quell’avvenimento. Era proprio l’Europa, quale poi si sviluppò nei tempi moderni, la grande novità che con il nuovo impero prese posto sullo scenario di una storia che da europea sarebbe poi diventata mondiale. E a fronte di ciò perdono un po’ di rilievo anche gli altri grandi aspetti dell’azione di Carlo: l’ordinamento feudale, la «rinascita» culturale che radunò alla corte del sovrano i maggiori dotti e scrittori europe i dall’Irlanda all’Italia, il riconoscimento delle nascenti individualità nazionali nella divisione dell’impero tra i suoi eredi. Certo, come tutti i fondatori di imperi, Carlo aveva conquistato quello spazio europeo con una violenza spesso brutale (alcuni sono convinti che la conversione al cristianesimo imposta ai Sassoni con le armi abbia determinato alcune criticità del germanesimo posteriore).
Che importa la rapida dissoluzione dell’impero dopo la morte del sovrano franco? L’Europa come consorzio politico era nata con Carlo nella sua triplice dimensione romano-germanico-slava. Non tutti vi avevano già il posto che poi vi avrebbero avuto, ma l’impero sarebbe rimasto come un emblema di comune coscienza europea anche quando se ne sarebbe rifiutata la sovranità e si sarebbe affermato che «nel proprio regno ogni re è imperatore».
Lo stesso successivo trasferimento del titolo imperiale dai Franchi ai sovrani germanici non comportò nessuna riduzione del significato originario del ritorno carolino dell’impero (si sa che sovrani francesi come Francesco I e perfino Luigi XIV si candidarono alla sua corona). Alla fine, l’impero si rivelò un guscio da rompere del tutto, perché ormai consunto e vano, e vi pensò un altro sovrano francese, Napoleone, mille anni dopo Carlo. Ma in quel guscio era nato di tutto: Stati e nazioni moderne, l’idea delle autonomie e identità locali, l’esigenza di un’etica della politica, la libertà religiosa anche come libertà ecclesiastica, e soprattutto la prima coscienza dell’Europa, quella di corpus christianum. E, benché su Carlo e sul suo impero si sia sempre avuta (e si ha ancora) una retorica untuosa, mitizzante e mistificante (il «padre» o il «patriarca d’Europa» ne è la locuzione più diffusa), il nome del sovrano franco, subito riconosciuto come «grande», resta fra i maggiori protagonisti della storia universale (e uno storico francese scrisse che nel suo caso Magno era stato incorporato nel nome, Charlemagne, come neppure per Alessandro Magno: dove si va a ficcare l’orgoglio nazionale!). Il re analfabeta, che firmava i suoi atti servendosi di uno stampino forato, è stato uno dei maggiori creatori di storia non solo per l’Europa. A maggiore dimostrazione che l’intelligenza e la genialità politica sono un altro affare rispetto all’istruzione e alle ideologie .

Repubblica 26.1.14
Il Nonino nel segno di Basaglia e dell’utopia dell’uomo
di Licia Granello


«Senza che noi ce ne rendessimo conto, e in un breve intervallo di tempo — quello che separa i nostri giorni dagli anni Settanta — è nato un nuovo tipo di essere umano. Questo ragazzo, o questa ragazza, non ha lo stesso corpo, né la stessa aspettativa di vita di chi lo ha preceduto, non comunica secondo le stesse modalità, non percepisce lo stesso mondo, non vive nella stessa natura, né abita il medesimo spazio. Nato con l’epidurale e in data prestabilita, grazie alle cure palliative non teme più nemmeno la morte». Ottantaquattro anni portati con baldanzosa ironia, l’epistemologo francese Michel Serres illumina la platea del Premio Nonino, illustrando l’evoluzione grazie alla quale l’Umanità è passata dal pollice opponibile alla generazione dei «pollicini », capaci di conoscere, comunicare, dislocare la propria memoria semplicemente usando due dita.
Giunto alla trentanovesima edizione, l’appuntamento gastro-intellettuale più importante d’Italia ha prodotto ancora una volta il piccolo, consistente miracolo di concentrare alcune delle migliori intelligenze del pianeta sotto le volte della distilleria Nonino, a portata d’applauso e di dialogo con i seicento invitati del premio.
Prima del professor Serres, è salito sul palco Peppe Dell’Acqua, lo psichiatra salernitano che Franco Basaglia volle al suo fianco a Trieste. Con voce emozionata, Dell’acqua ha raccontato del suo recente viaggio tra i sei manicomi giudiziari ancora in funzione in Italia: «Novecento persone recluse in condizioni disumane. Grazie ai blitz negli istituti del sindaco di Roma Marino (ex responsabile della commissione Sanità) e al suo intervento presso il presidente Napolitano, abbiamo ridotto il numero dei reclusi, ma non basta. La grande smemoratezza che ha colpito il nostro paese sta facendo impallidire i contenuti della legge Basaglia, la necessità delle figure e delle strutture di supporto. Questo premio va a tutti i colleghi, gli infermieri, i collaboratori che hanno creduto nella possibilità di liberare l’Italia dalla stupidità e dall’insensatezza di certa psichiatria».
A completare il poker dei vincitori, lo scrittore portoghese António Lobo Antunes e l’architetto palestinese Suad Amiry, a cui è stato assegnato il “Risit d’Âur” (barbatella d’oro, in friulano). Amiry ha fondato nel ’91 il Riwaq Centre for Architectural Conservation con l’obiettivo di preservare la vita rurale dei piccoli villaggi. «Al tempo dei negoziati di pace — dice — piantai alberi di limoni nel giardino della mia casa a Ramallah. Da allora sono passati vent’anni, Sono fioriti e hanno dato frutti tante volte, mentre i negoziati non hanno prodotto nulla. Ma io non dispero. Un giorno ce la faremo, conquisteremo la pace in cui tutti hanno il diritto di vivere».

Repubblica 26.1.14
Quando Freud entrò nelle aule giudiziarie
di Sebastiano Triulzi


Un successo crescente arride a romanzi e serie televisive che celebrano il connubio tra psicoanalisi e criminologia, ma la loro integrazione ha radici più profonde. Questa è la convinzione di Rubén Gallo, docente alla Princeton University, che ha dedicato alla prima penetrazione – un po’ “selvaggia”, a suo dire, riecheggiando Bolaño – delle opere di Freud in Messico, un libro sorprendente come un giallo (Un Edipo stalinista,impreziosito dall’introduzione di Luciana Castellina). L’indagine ha origine dalla presenza di un testo di diritto penale messicano datato 1937 nella biblioteca di Freud, il cui autore, Raúl Carrancá, era un giurista avido di letture freudiane. Gallo svela che egli fu il primo ad utilizzare la psicoanalisi come arma contro il crimine con l’analisi psicolegale, ricevendo l’incoraggiamento dello stesso Freud. Soprattutto, applicò tale tecnica a Ramón Mercader – l’assassino di Trockij plagiato dall’amante della madre, spia di Stalin – tracciandone un profilo e una causa («un complesso di Edipo manifesto»), che la Storia ha poi confermato. Unexemplumdi come il Messico fu laboratorio d’una utopia radicale, l’unione tra marxisti illuminati e giudici freudiani.
UN EDIPO STALINISTA di Rubén Gallo il Saggiatore, pagg. 112, euro 14

Il Sole Domenica 26.1.14
Il rammendo delle periferie
Il progetto del senatore Renzo Piano e di sei giovani architetti per la città del futuro: energia, verde, trasporti, e nuovi mestieri
di Renzo Piano


Siamo un Paese straordinario e bellissimo, ma allo stesso tempo molto fragile. È fragile il paesaggio e sono fragili le città, in particolare le periferie dove nessuno ha speso tempo e denaro per far manutenzione. Ma sono proprio le periferie la città del futuro, quella dove si concentra l'energia umana e quella che lasceremo in eredità ai nostri figli. C'è bisogno di una gigantesca opera di rammendo e ci vogliono delle idee.
Siamo un Paese che è capace di costruire i motori delle Ferrari, robot complicatissimi, che è in grado di lavorare sulla sospensione del plasma a centocinquanta milioni di gradi centigradi. Possiamo farcela perché l'invenzione è nel nostro Dna. Come dice Roberto Benigni, all'epoca di Dante abbiamo inventato la cassa, il credito e il debito: prestavamo soldi a re e papi, Edoardo I d'Inghilterra deve ancora renderceli adesso. Se c'è una cosa che posso fare come senatore a vita non è tanto discutere di leggi e decreti, c'è già chi è molto più preparato di me. Non è questo il mio contributo migliore, perché non sono un politico di professione ma un architetto, che è un mestiere politico. Non è un caso che il termine politica derivi da polis, da città. Norberto Bobbio sosteneva che bisogna essere «indipendenti» dalla politica, ma non «indifferenti» alla politica.
Se c'è qualcosa che posso fare, è mettere a disposizione l'esperienza, che mi deriva da cinquant'anni di mestiere, per suggerire delle idee e per far guizzare qualche scintilla nella testa dei giovani. Una scintilla di una certa urgenza, con una disoccupazione giovanile che sfiora una percentuale elevatissima.
Quindi con il mio stipendio da parlamentare ho assunto sei giovani, che ruoteranno ogni anno e che si occuperanno di come rendere migliori le nostre periferie. Perché le periferie? Le periferie sono la città del futuro, non fotogeniche d'accordo, anzi spesso un deserto o un dormitorio, ma ricche di umanità e quindi il destino delle città sono le periferie. Nel centro storico abita solo il 10 per cento della popolazione urbana, il resto sta in questi quartieri che sfumano verso la campagna. Qui si trova l'energia.
I centri storici ce li hanno consegnati i nostri antenati, la nostra generazione ha fatto un po' di disastri, ma i giovani sono quelli che devono salvare le periferie. Spesso alla parola «periferia» si associa il termine degrado. Mi chiedo: questo vogliamo lasciare in eredità? Le periferie sono la grande scommessa urbana dei prossimi decenni. Diventeranno o no pezzi di città? Diventeranno o no urbane, nel senso anche di civili?
Qualche idea io l'ho e i giovani ne avranno sicuramente più di me. Bisogna però che non si rassegnino alla mediocrità. Il nostro è un Paese di talenti straordinari, i giovani sono bravi e, se non lo sono, lo diventano per una semplice ragione: siamo tutti nani sulle spalle di un gigante. Il gigante è la nostra cultura umanistica, la nostra capacità di inventare, di cogliere i chiaroscuri, di affrontare i problemi in maniera laterale.
La prima cosa da fare è non costruire nuove periferie. Bisogna che le periferie diventino città ma senza ampliarsi a macchia d'olio, bisogna cucirle e fertilizzarle con delle strutture pubbliche. Si deve mettere un limite alla crescita anche perché diventa economicamente insostenibile portare i trasporti pubblici e raccogliere la spazzatura sempre più lontano. Oggi la crescita anziché esplosiva deve essere implosiva, bisogna completare le ex aree industriali, militari o ferroviarie, c'è un sacco di spazio disponibile. Parlo d'intensificare la città, di costruire sul costruito. In questo senso è importante una green belt come la chiamano gli inglesi, una cintura verde che definisca con chiarezza il confine invalicabile tra la città e la campagna.
Un'altra idea guida nel mio progetto con i giovani architetti è quella di portare in periferia un mix di funzioni. La città giusta è quella in cui si dorme, si lavora, si studia, ci si diverte, si fa la spesa. Se si devono costruire nuovi ospedali, meglio farli in periferia, e così per le sale da concerto, i teatri, i musei o le università. Andiamo a fecondare con funzioni catalizzanti questo grande deserto affettivo. Costruire dei luoghi per la gente, dei punti d'incontro, dove si condividono i valori, dove si celebra un rito che si chiama urbanità. Oggi i miei progetti principali sono la riqualificazione di ghetti o periferie urbane, dall'Università di New York a Harlem al polo ospedaliero di Sesto San Giovanni che prevede anche una stazione ferroviaria e del metrò e un grande parco. E se ci sono le funzioni, i ristoranti e i teatri ci devono essere anche i trasporti pubblici. Dobbiamo smetterla di scavare parcheggi. Penso che le città del futuro debbano liberarsi dai giganteschi silos e dai tunnel che portano auto, e sforzarsi di puntare sul trasporto pubblico. Non ho nulla contro l'auto ma ci sono già idee, come il car sharing, per declinare in modo diverso e condiviso il concetto dell'auto. Credo sia la via giusta per un uso più razionale e anche godibile dell'automobile.
Servono idee anche per l'adeguamento energetico e funzionale degli edifici esistenti. Si potrebbero ridurre in pochi anni i consumi energetici degli edifici del 70-80 per cento, consolidare le 60mila scuole a rischio sparse per l'Italia. Alle nostre periferie occorre un enorme lavoro di rammendo, di riparazione. Parlo di rammendo, perché lo è veramente da tutti i punti di vista, idrogeologico, sismico, estetico. Ci sono dei mestieri nuovi da inventare legati al consolidamento degli edifici, microimprese che hanno bisogno solo di piccoli capitali per innescare un ciclo virtuoso. C'è un serbatoio di occupazione. Consiglio ai giovani di puntarci: start up con investimenti esigui e che creano lavoro diffuso. Prendiamo l'adeguamento energetico con minuscoli impianti solari e sonde geotermiche che restituiscono energia alla rete, l'Italia è un campo di prova meraviglioso: non abbiamo né i venti gelidi del Nord né i caldi dell'Africa, però abbiamo tutte le condizioni possibili dal punto di vista geotermico, eolico e solare. Si parla di green economy però io la chiamerei italian economy. Nelle periferie non c'è bisogno di demolire, che è un gesto d'impotenza, ma bastano interventi di microchirurgia per rendere le abitazioni più belle, vivibili ed efficienti.
In questo senso c'è un altro tema, un'altra idea da sviluppare, che è quella dei processi partecipativi. Di coinvolgere gli abitanti nell'autocostruzione, perché tante opere di consolidamento si possono fare per conto proprio o quasi che è la forma minima dell'impresa. Sto parlando di cantieri leggeri che non implicano l'allontanamento degli abitanti dalle proprie case ma piuttosto di farli partecipare attivamente ai lavori. Sto parlando della figura dell'architetto condotto, una sorta di medico che si preoccupa di curare non le persone malate ma gli edifici malandati. Nel 1979 a Otranto abbiamo fatto qualcosa di molto simile con il Laboratorio di quartiere, un progetto patrocinato dall'Unesco per "rammendare" il centro. Un consultorio formato da architetti condotti potrebbe essere un'idea per una start up. Nelle periferie non bisogna distruggere, bisogna trasformare. Per questo occorre il bisturi e non la ruspa o il piccone. C'è ancora una cosa che voglio consigliare ai giovani: devono viaggiare. Mica per non tornare più, però viaggiare secondo me serve a tre cose. Prima e più scontata per imparare le lingue, seconda per capire che differenze e diversità sono una ricchezza e non un ostacolo. Terza per rendersi conto della fortuna che abbiamo avuto a nascere in Italia, perché se non si va all'estero si rischia di assuefarsi a questa grande bellezza e a viverla in maniera indifferente. Si tratta di una bellezza che non è per nulla inutile o cosmetica, ma che si traduce in cultura, in arte, in conoscenza e occupazione. È quella che dà speranza, che crea desideri, che dà e deve dare la forza ai giovani italiani.

Il Sole 26.1.14

Filosofia e fotografia
Il mondo in un'immagine
Per Cartesio il dispositivo ottico consentiva di sottrarre in mondo al caos della percezione, mentre per l'uomo del '900 l'obiettivo moltiplica lo sguardo soggettivo
di Anna Li Vigni

«Per sapere occorre immaginare. Dobbiamo provare a immaginare l'inferno di Auschwitz nell'estate del 1944. Non parliamo di inimmaginabile. Non difendiamoci dicendo che immaginare una cosa del genere è un compito che non possiamo assumerci». Così George Didi-Huberman ci introduce a quattro fotogrammi scattati furtivamente, nell'agosto del 1944, da alcuni prigionieri del campo di sterminio destinati alle camere a gas. Quei «quattro pezzi di pellicola strappati all'inferno» ci permettono oggi di rileggere la storia – secondo l'indicazione di Benjamin – «in contropelo», ovvero di assumere uno sguardo critico sul passato, andando con l'immaginazione al di là dei luoghi comuni forniti dalla tradizione. Se anche il ruolo della fotografia si limitasse a questo, sarebbe già abbastanza. Ma c'è tanto di più. La fotografia non è soltanto la rappresentazione del reale indissolubilmente legata al suo apparato tecnico. E non è solo un'arte, da sempre ingiustamente considerata in rapporto o alla pittura o al cinema. La sua scoperta è coincisa con la più grande rivoluzione della percezione e della cognizione, una frattura culturale che ha profondamente modificato lo sguardo dell'uomo contemporaneo.
Il volume Filosofia della fotografia, curato da Maurizio Guerri e da Francesco Parisi, è un'utile antologia ragionata di alcuni tra i principali testi di teoria della fotografia, dagli esordi fino all'odierno dibattito d'ambito analitico: da Ernst Mach a Vilélm Flusser; da Walter Benjamin a George Didi-Huberman; da Roger Scruton a Marshall McLuhan; da Gregory Currie a Kendall Walton. La prima grande questione filosofica riguarda il portato cognitivo della rappresentazione fotografica: «In che modo la macchina fotografica e i media che hanno sviluppato le potenzialità di riproducibilità tecnica delle immagini hanno mutato il nostro modo di guardare le cose?». L'inizio della storia della fotografia coincide con il momento in cui l'uomo contemporaneo ha conformato il proprio sguardo alle condizioni socioculturali e tecnologiche del suo tempo. Non esiste una rappresentazione visiva separata dalla tecnica ottica che l'ha prodotta.
Già Cartesio, facendo esperimenti con la camera oscura, riteneva che attraverso il dispositivo ottico si potesse oggettivare il mondo, offrendone una visione assoluta e sottratta al caos della percezione; ma l'uomo del '900 ha imparato che l'obiettivo fotografico persegue un fine opposto, quello di trasferire e di moltiplicare lo sguardo soggettivo. In un certo senso, come sottolinea Susan Sontag, la fotografia ha anche contribuito a "deplatonizzare" la visione occidentale di realtà: ha evidenziato l'importanza dell'immagine in quanto cosa tra le cose e non più, tradizionalmente, come copia di un originale. L'altra grande questione filosofica riguarda il dibattito estetico sulla fotografia come arte; un'indagine che non può prescindere dal rapporto con la pittura, considerato che la valutazione delle immagini fotografiche si è molto spesso basata su criteri pensati per i dipinti. Tuttavia, ciò che bisogna chiedersi è, al contrario, quanto la fotografia ha influito sulla pittura a partire dall'età dell'impressionismo, trasformando il modo di guardare e di trasporre la visione sulla tela. Una posizione come quella di Roger Scruton, che non considera le immagini fotografiche vera arte in quanto secondo lui verrebbero create senza alcun sostrato intenzionale, non è altro che l'eco di un assurdo atteggiamento critico che accompagna da sempre la storia della fotografia. Non solo è un'arte, ma un'arte unica nel suo genere, capace di dare scacco al tempo e alla storia.
Filosofia della fotografia, a cura di Maurizio Guerri e Francesco Parisi, Raffaello Cortina, Milano, pagg. 416, € 29,00

Il Sole Domenica 26.1.14
Memoria e psichiatria
Göring, nazista sotto esame
Il dottor Kelley, americano, si concentrò sul capo della Luftwaffe: ne concluse che non esiste «una mente», quel che accadde potrebbe ripetersi
di Vittorio Lingiardi


Il nazista è Hermann Göring, prigioniero di guerra. Detenuto a Mondorf-les-Bains, nel Lussemburgo, dove gli americani avevano creato un centro per gli interrogatori il cui nome in codice era «Ashcan», ossia immondezzaio; poi trasferito a Norimberga e lì processato. Obeso e tossicomane, legatissimo alla moglie Emmy e alla figlia Edda, Göring si avvia alla prigionia accompagnato da un maggiordomo, una dozzina di valigie con le cifre e una cappelliera rossa. Per il colonnello Andrus, responsabile dell'Aschan, è uno «sciattone lezioso». «Il personale carcerario impiegò un intero pomeriggio per esaminare il contenuto dei bagagli», frugando tra medaglie militari tempestate di gemme, anelli di diamanti e rubini, gioielli decorati di svastiche, biancheria intima di seta, occhiali, tagliasigari, centinaia di pasticche di paracodeina, creme di bellezza e un bastone d'avorio tempestato di diamanti dono del führer. Non è il bagaglio di Liberace, ma di uno dei più efferati criminali nazisti che, condannato a morte dal tribunale di Norimberga, riuscirà a eludere la sorveglianza strettissima e si toglierà la vita con una dose di cianuro di potassio.
Lo psichiatra è il brillante, ambizioso, eccentrico, spregiudicato capitano Douglas M. Kelley. Inviato dall'esercito americano come supervisore psichiatrico, Kelley intuisce la grande occasione della sua vita: esisteva una «personalità nazista» che giustificasse la scelleratezza di questi criminali? In seguito Kelley avrebbe dichiarato, probabilmente esagerando, di aver dedicato almeno ottanta ore a ciascuno dei ventidue imputati, tra cui il governatore della Polonia, poi suicida, Frank; il vice del führer, paranoico e simulatore di amnesia, Hess; l'ideologo del partito, Rosenberg; il ministro degli Armamenti, Speer; il governatore della Franconia, stupratore e pornografo incallito, Streicher; il ministro degli Esteri, von Ribbentrop. Concentrandosi però, «per dovere scientifico e preferenza», su Göring, il capo della Luftwaffe.
Le decine di colloqui, test di Rorschach, test di appercezione tematica, scale Wechsler-Bellevue somministrati (i famosi scatoloni che Kelley avrebbe portato con sé in California e che ancora appartengono al figlio Doug) lo spingono però a concludere che non esiste una «mente nazista», come scriverà in 22 Cells in Nuremberg: A Psychiatrists Examines the Nazi Criminals. In questi super-nazi e nelle loro personalità non ci sarebbe nulla di «speciale»: ciò che è accaduto sotto il Terzo Reich potrebbe accadere ancora e in ogni Paese. Una tesi che presenta elementi comuni agli esperimenti condotti negli anni 60 e 70 da Stanley Milgram o da Philip Zimbardo (L'effetto Lucifero. Cattivi si diventa?) e all'idea arendtiana della «banalità del male». Che forse Kelley, sensibile al potere carismatico del reichsmarschall, troppo spesso confonde con una sua visione della «genialità del male». Ed ecco l'idea attorno a cui Jack El-Hai, giornalista di storia e di scienza, costruisce il libro: «Il nazista era un manipolatore esperto, e le capacità e la competenza psichiatrica non impedirono a Kelley di subire il suo fascino. In realtà, quegli incontri tra le pareti umide e scrostate della cella misero uno di fronte all'altro due individui egocentrici e molto sicuri di sé». Verso Göring, oggetto di studio e doppio mostruoso, Kelley sviluppa un sentimento ambivalente al punto da utilizzare lo stesso metodo per suicidarsi. Lo farà circa vent'anni dopo, con una manciata di cianuro, platealmente, istericamente in cima alle scale di casa, davanti alla moglie, al padre, al figlio Douglas. Dopo l'esperienza di Norimberga, il dottor Kelley, pur con fortune alterne, era diventato un noto professore di psichiatria e un autorevole criminologo. Il suo suicidio (come anche quello di Göring: chi gli fornì la fiala?) rimane inspiegato, se non come l'eruzione di una follia rabbiosa e megalomane faticosamente nascosta per tutta la vita. Un disturbo mentale non diagnosticato in un uomo ormai stritolato dagli impegni professionali e posseduto dall'alcol.
Nel reportage romanzato di El-Hai c'è un altro personaggio-chiave: il tenente psicologo Gustave Gilbert, giovane ebreo fresco di laurea alla Columbia. Dopo l'esperienza di Norimberga, avrebbe dovuto scrivere un libro con Kelley, ma lo psicologo è tradito dallo psichiatra che il libro se lo scrive da solo. Una volta lasciato l'esercito, anche Gilbert si affretta a pubblicare un libro sul nazismo destinato al grande pubblico, a cui segue, nel 1950, un secondo volume: The Psychology of Dictatorship. Le tesi di Gilbert sono opposte a quelle di Kelley. Gli imputati di Norimberga non sono individui comuni, bensì psicopatici, soggetti con personalità abnormi e pericolose. Noi diremmo che forse hanno ragione entrambi: esiste uno stato "nazista" della mente, ma non una mente "storicamente" nazista, nel senso del Terzo Reich. È lo stato mentale malato di individui gravemente paranoici, narcisisti, psicopatici, sadici che, in condizioni storiche o ambientali "adatte", possono agire in modo organizzato e crudele, spesso credendo di lavorare per la Storia o per la Patria.
El-Hai esplora con buona prosa e qualche frettolosità le menti oscure di due uomini che hanno trascorso insieme, in carcere, cinque mesi «indimenticabili»: il nazista e lo psichiatra. Ne faranno un film di successo, temo cogliendo più il carattere fictionalizzabile dei "personaggi" che la loro tragica testimonianza del male. Se il film sarà come il libro ne ricorderemo le atmosfere, il plot avvincente di due uomini allo specchio, il buono e il cattivo che tendono a fondersi. Per lo studio storico e politico, la riflessione culturale delle follie naziste di virilità, l'analisi del processo di disumanizzazione, raccomandiamo i libri di Arendt (La banalità del male, Le origini del totalitarismo), Browning (La strada verso il genocidio, Uomini comuni), Goldensohn (I taccuini di Norimberga), Goldhagen (I volonterosi carnefici di Hitler), Theweleit (Fantasie virili). E su tutti, l'intervista di Gitta Sereny a Franz Stangl, comandante del campo di Treblinka: In quelle tenebre.
Jack El-Hai, Il nazista e lo psichiatra, traduzione di Roberta Zuppet, Rizzoli, Milano, pagg. 300, € 19,50