lunedì 27 gennaio 2014

l’Unità 27.1.14
Si vuole governabilità o soltanto obbedienza?
di Amalia Signorelli

Università di Urbino

CARO DIRETTORE, IN ITALIA, CETO POLITICO COMPRESO, SI È DIFFUSO DA TEMPO UN PERICOLOSO ASSUNTO: LA POLITICA SI FA IMBROGLIANDO. LA COSA MI È RISULTATA EVIDENTE, ascoltando alcune argomentazioni in difesa della legge elettorale in discussione. Le preferenze non si possono introdurre perché «incentivano il voto di scambio»; i partiti piccoli non debbono entrare in Parlamento perché «ricattano» i grandi partiti o le coalizioni.
Non si prende neppure in considerazione l’idea che la preferenza possa essere frutto della stima e della fiducia dell’elettore nei confronti del candidato o che i partiti piccoli possano introdurre nel dibattito parlamentare idee, proposte, progetti utili al buon governo.
Secondo questo modo di intendere la politica, la governabilità (che dovrebbe essere la costanza di consenso da parte di deputati che in condizioni di onestà mentale esercitano il loro diritto-dovere di essere sciolti da vincoli di mandato) non ha nulla a che vedere con la qualità delle azioni di governo proposte dal governo stesso al Parlamento, ma con il controllo di una maggioranza schiacciante di voti in aula. La governabilità significa solo che i deputati, se vogliono conservare il posto, debbono votare allineati, coperti e obbedienti. La nuova legge elettorale, infatti, si preoccupa soltanto di garantire questa obbedienza.
Non stupisce che uno degli artefici di questa bella proposta sia un tizio condannato definitivamente per frode fiscale, nonché condannato in primo grado per abuso di potere e sfruttamento della prostituzione minorile, nonché plurinquisito per vari altri capi d’accusa. Per vent’anni ha avuto un unico programma: depenalizzare tutti i (suoi) comportamenti che potevano incorrere in una sanzione della legge; criminalizzare tutti i comportamenti altrui che davano fastidio a lui o a coloro che gli erano indispensabili alleati. Deprime, preoccupa e addolora che questa mentalità sia ormai condivisa da quasi tutto il ceto politico italiano, a cominciare dal diretto interlocutore di Berlusconi, Renzi.
Che noi italiani siamo imbroglioni, truffatori, esperti nel fare il «pacco» e il gioco delle tre carte, è cosa nota. È anzi uno stereotipo, niente affatto gratuito, che ci definisce agli occhi del mondo. E dunque, forse non è tanto vero che gli italiani siamo migliori di chi li governa. Infatti siamo un popolo che pone nella furbizia, nell’astuzia, il supremo valore della vita associata. E ammiriamo i furbi. E li votiamo.
Ma questo regime del mi si passi l’espressione assai poco... parlamentare «tutti fregano tutti» portato all’estremo, crea condizioni di disordine e di invivibilità tali da favorire l’avvento di chi, detentore di un potere supremo e indiscusso, ristabilirà ordine e fiducia e magari anche giustizia.
Non sono certo la prima a segnalare questo rischio. Ciò che mi allarma è che la legge elettorale proposta, che di fatto tende a eliminare dal Parlamento non solo la pluralità delle opposizioni, ma qualsiasi voce di dissenso, rappresenti un buon passo avanti in questa direzione.

Repubblica 27.1.14
Il documento
I costituzionalisti contro la proposta “Peggio del Porcellum, rischia lo stop”

ROMA — Stefano Rodotà e altri 28 costituzionalisti «esprimono il loro sconcerto e la loro protesta» per una proposta di legge elettorale che rischia una «nuova pronuncia di illegittimità da parte della Corte costituzionale e, ancor prima, un rinvio della legge alle Camere da parte del Presidente della Repubblica». L’appello, — pubblicato su “il manifesto” e sottoscritto fra gli altri da Gaetano Azzariti, Lorenza Carlassare, Mario Dogliani, Gianni Ferrara, Luigi Ferrajoli, Alessando Pace e Massimo Villone, — sostiene che «la proposta di riforma elettorale consiste sostanzialmente, con pochi correttivi, in una riformulazione della vecchia legge elettorale e presenta perciò vizi analoghi a quelli che di questa hanno motivato la dichiarazione di incostituzionalità ad opera della recente sentenza della Corte costituzionale». Questo, nonostante «la fissazione di una quota minima per il premio di maggioranza e le liste corte» abbia «migliorato» il testo. Al centro delle critiche dei costituzionalisti all’Italicum, ci sono «l’enorme premio di maggioranza» e la mancanza delle preferenze. Ma anche, scrivono, «un altro fattore compromette ulteriormente l’uguaglianza del voto e la rappresentatività del sistema politico, ben più di quanto non faccia la stessa legge appena dichiarata incostituzionale: la proposta di riforma prevede un innalzamento a più del doppio delle soglie di sbarramento».

La Stampa 27.1.14
Carlassare: sbarramenti e niente scelta, così si tradisce la Consulta
intervista di A. Pit.


«L’Italicum non risolve le criticità evidenziate dalla Corte Costituzionale sui nodi delle preferenze e del premio di maggioranza», spiega Lorenza Carlassare, docente di diritto costituzionale all’università di Padova. Che, insieme ad altri 28 giuristi, tra i quali Stefano Rodotà, ha firmato l’appello contro la riforma della legge elettorale in discussione alla Camera. «C’è poi un ulteriore elemento di critica: l’innalzamento, a più del doppio, delle soglie di sbarramento».
Nodo preferenze: le liste corte non risolvono il problema?
«Assolutamente no. Intanto perché l’idea di rendere identificabile il candidato non equivale a sceglierlo. Inoltre, i seggi non verrebbero attribuiti nei collegi, ma, una volta assegnato il premio di maggioranza, ripartiti a livello nazionale. Non c’è nessuna garanzia di collegamento, quindi, con il territorio tra eletto ed elettori».
Risultato?
«Un sistema proporzionale senza preferenze perde ogni senso. Liste corte o lunghe che siano, non cambia la circostanza che i voti vadano comunque, in via prioritaria, al primo nome in lista scelto dai partiti».
Poi c’è l’obiezione sul premio di maggioranza troppo alto...
«A chi raggiunge il 35% dei consensi viene assegnato il 53% dei seggi. Una chiara contravvenzione al principio dell’eguaglianza del voto più volte affermato dalla Corte Costituzionale, dal momento che il voto del 35% degli elettori finirebbe per valere più del doppio rispetto a quello del restante 65%. Determinando una alterazione profonda della composizione della rappresentanza democratica. Il tutto sotto ricatto».
Si riferisce al patto tra Renzi e Berlusconi?
«Certo. La volontà dei due dovrebbe prevalere su quella del Parlamento? Ma stiamo scherzando? Ricordo che l’art. 67 della Costituzione vieta il mandato imperativo. I parlamentari hanno – devono avere – libertà di scelta. Renzi non può dire prendere o lasciare. Ma in che Paese siamo?».
Criticate anche le nuove soglie di sbarramento. Perché?
«Negli ultimi anni, il falso mito della governabilità si è fatto largo ai danni del principio della rappresentanza, la cui compressione, per effetto delle nuove soglie di sbarramento, è del tutto incompatibile con uno Stato democratico. Storicamente, ricordo il precedente della Legge Acerbo che, assegnando i due terzi dei seggi al partito di maggioranza relativa, consegnò il Paese al fascismo, rendendo possibile l’approvazione delle leggi che hanno eliminato diritti e libertà ed hanno stracciato il principio di eguaglianza. Ricordiamo le leggi razziali?». [A.PIT.]

La Stampa 27.1.14
Il rischio stallo
Legge elettorale, scontro Renzi-Alfano
Il vicepremier: “Assurdo il no alle preferenze”. Il segretario Pd: i conservatori sperano nella palude
di Paolo Festuccia


ROMA Renato Brunetta la mette così: «Se si fa una legge, si va a votare. Quando si carica una pistola, poi si spara». La battuta, detta nel programma di Lucia Annunziata, complica non poco i lavori domenicali sulle riforme. Tutto accade all’ora di pranzo. Renato Brunetta spara il primo colpo, e a seguire arriva la replica del portavoce del Pd, Lorenzo Guerini: «Forse Berlusconi non ha avuto il tempo di informare Brunetta» che l’accordo sulla legge elettorale prevede anche le riforme. «Il capogruppo attacca Guerini plachi i suoi bollenti spiriti: nessuna corsa al voto, prima le modifiche costituzionali» che servono al Paese.
Un botta e risposta che segna una domenica non proprio facile per le segreterie di partito. Scelta civica sciorina la ricetta dei collegi uninominali con l’aggiunta delle primarie per la scelta dei candidati mentre Angelino Alfano, a margine di un incontro politico a Teramo, rilancia la sfida sia sul terreno dei rapporti tra governo e Partito democratico sia a Forza Italia. «Ma davvero vogliamo fare torto agli italiani rilancia il vice premier di tenere la parte peggiore del porcellum e non diamo il diritto di voto agli italiani?...» Poi, l’affondo sul tema più caro per cui si batte il Nuovo centrodestra, cioè le preferenze, che stanno «diventando materia teologica da parte di Forza Italia su cui è impossibile discutere. Se gli italiani non avranno le preferenze la responsabilità sarà di Forza Italia perché tutti sono d’accordo». Fin qui, il piatto per il Cavaliere, poi il menù servito al segretario del Pd Matteo Renzi proprio alla vigilia della maratona sugli emendamenti alla legge elettorale: «Il governo è espressione del Pd, se il Pd sostiene Letta il governo va avanti, in caso contrario no. Per anni quando il presidente del consiglio era espressione del Pd la vita del governo è stata condizionata negativamente dalle dinamiche interne al partito, ma il Paese non può sobbarcarsi l’onere e il peso dei litigi interni a quel partito».
Considerazioni che non sono passate inosservate a Firenze. Perché poco dopo il sindaco Renzi twitta così: «I conservatori non mollano, resistono, sperano nella palude. Ma l’Italia cambierà, dalla legge elettorale al lavoro. Questa è la volta buona». E come a voler fare definitivamente chiarezza il leader Pd piazza in rete l’infografica dell’accordo sulla riforme: «Vediamo se riesco a spiegarmi meglio...». Insomma, «In questi giorni si parla di strani accordi puntualizza Renzi ma l’accordo che prende il nome di Italicum è il frutto della primarie del Pd dell’8 dicembre. E dopo appena un mese è avviato in Parlamento.
Finalmente la politica decide, basta con le parole, l’Italia ha bisogno di cambiare verso». E così, mentre Silvio Berlusconi ribadisce di «aver trovato qualcuno con il quale pare sia possibile lavorare insieme sulla strada delle riforme, e in primis sulla legge elettorale», Denis Verdini non solo sbarra nuovamente la strada di Alfano al ritorno delle preferenze, «non c’è spazio, ci sono le liste corte», ma tenta di chiudere pure lo «scontro» Pd-Brunetta sul voto anticipato una volta varata la nuova legge elettorale: «Non è argomento di discussione» taglia corto Verdini. Mentre per il presidente del Senato, Piero Grasso servono alcuni paletti: «No alle candidature multiple, rappresentanza di genere e revisione della soglia del premio» E le preferenze? «Hanno elementi negativi e positivi» afferma Grasso.

Repubblica 27.1.14
Letta e Renzi, quasi nemici
di Ilvo Diamanti


È DIFFICILE raccontare la politica con le tradizionali categorie dell’analisi politica. Della politologia. Osservare quel che avviene oggi come fosse ieri, non dico ieri l’altro. Perché oggi anche ieri è passato. IlPassato.
Perfino i partiti personali, il partito del Capo (tratteggiati da Mauro Calise e Fabio Bordignon) rischiano di invecchiare in fretta.
Raccontare la politica, oggi, significa, infatti, parlare delle Persone e dei Capi. “Senza” i partiti. Personali o impersonali: non importa. Così le cronache riguardo alla complessa vicenda della legge elettorale si riassumono nel rapporto personale — e contrastato — fra Renzi e Letta. Matteo ed Enrico. Quasi amici. O meglio: quasi nemici (come pensa quasi metà degli italiani, secondo un sondaggio Ipsos). Uniti o, forse, divisi, dalla comune appartenenza a un “partito ipotetico” (per echeggiare Edmondo Berselli). Il Pd. Un “quasi partito”.
Matteo ed Enrico. Così vicini eppure così lontani. Appartengono a generazioni contigue, ma non comunicanti. Letta: ha quasi cinquant’anni. Ha fatto politica fin da giovane, perché i partiti, quando aveva vent’anni, c’erano ancora. La Dc, in particolare, dove ha “militato” fin da piccolo. E dove ha imparato la politica come arte della mediazione e del compromesso. Certo, negli anni Ottanta i partiti di massa stavano perdendo le masse per strada. Resistevano le classi dirigenti. Quella stagione è definitivamente crollata nel 1989. Insieme al muro di Berlino. Insieme al referendum del 1991 “contro” la preferenza multipla e “contro” la partitocrazia. Letta, dunque, è un post-democristiano. In seguito: popolare, ulivista, democratico. Affezionato al voto di preferenza. A trent’anni era già al governo. Dove è rientrato in successive occasioni. Fino ad oggi. Premier di un governo che dispone di una maggioranza parlamentare incerta e di una minoranza elettorale certa. Espresso da un partito, in parte ostile. E diviso. Ipotetico.
Anche perché è guidato da un Capo che del partito non si occupa più di tanto. Renzi: eletto segretario, due mesi fa, alle primarie, con una maggioranza travolgente. Dopo essere stato sconfitto giusto un anno prima da Bersani. Portabandiera di un partito “vero”. Radicato e cresciuto nel secolo delle ideologie e della partecipazione di massa. Ultimo atto della storia della Prima Repubblica, a cui la sinistra italiana è rimasta fedele. Fino, appunto, alle elezioni di febbraio. Quando è divenuta evidente l’impotenza di un partito impersonale di fronte ai partiti personali vecchi e nuovi: Pdl e M5S. E ai loro leader. Berlusconi e Grillo. Diversi e opposti, ma entrambi leader senza partiti. Oppure non-partiti, come Grillo ha definito il M5S.
Così, dopo il voto, il Pd si è arreso a Renzi. Che ha accettato di guidarlo per non averlo contro. Anche se lui, ai partiti — tradizionali o riformati — non ci crede proprio. Questione di generazione politica. Se Letta ha “quasi” cinquant’anni, Renzi ne ha “quasi” quaranta. Quando è crollato il muro, Renzi aveva appena finito le medie. E i partiti erano nella bufera. Delegittimati e deboli. Pochi anni ancora e sarebbero stati travolti da Tangentopoli. Così, Berlusconi “scendeva in campo”. E occupava il vuoto politico lasciato dai partiti. Con le sue televisioni, i suoi esperti di mercato, le sue risorse, il suo stile di comunicazione. Imponeva il modello della “politica come marketing”. Accanto al suo partito personale. Renzi, allora, era appena divenuto maggiorenne. I “movimenti politici giovanili” appartenevano alla storia del passato. Come i partiti, la Resistenza. E il Risorgimento. Nel 1996, Renzi diventava partigiano del Partito dell’Ulivo (non “dei partiti”), alternativo al Partito personale di Berlusconi. Prodiano, insomma. Mentre Letta entrava nel primo governo Prodi, come ministro. Il più giovane della storia della Repubblica. Enrico e Matteo, Matteo ed Enrico.
Così vicini eppure così distanti e diversi. Per storia, tradizione, stile. Separati in casa. D’altronde, la Casa comune attualmente non c’è. Il Pd rammenta, piuttosto, un campeggio, come quelli degli scout, dove Matteo si è formato. Molte tende con molte persone. Pochi confini. Itinerari e programmi decisi giorno per giorno. Il gusto della scoperta. L’importanza del Capo che decide e indica il percorso. D’altronde, è ciò che oggi chiede e si attende il Paese. Quasi il 70% degli italiani, infatti, è d’accordo con l’opinione secondo cui, in questo clima di confusione, “ci vorrebbe un uomo forte alla guida del Paese” (Sondaggio Demos, gennaio2014).
Un Uomo Forte. Una formula inquietante, vista la nostra storia. Ma non ce n’è motivo. Perché coloro a cui piace questa idea non mettono in discussione la democrazia (“il migliore dei sistemi possibili”, per quasi i tre quarti di essi), ma, piuttosto, i partiti e il Parlamento. Cioè: gli attori della democrazia rappresentativa. Incapaci di decidere. E di generare passione. Per questo la vicenda della legge elettorale diventa importante. Perché chiama in causa il “principio” della Democrazia rappresentativa. Il voto. Matteo, coerentemente con lo spirito del tempo, recita la parte dell’Uomo Forte. Intende, cioè, segnare la fine della Seconda Repubblica e avviare l’era post-berlusconiana con il consenso (la sottomissione?) di Berlusconi. Attraverso una riforma che intende (e deve) realizzare in fretta. Perché prima e più dei contenuti contano il risultato e i tempi. Il messaggio. L’immagine di Matteo, l’Uomo Forte in grado di decidere, in pochi mesi, ciò di cui si parla senza esito da molti anni. Il Partito, per questo, diventa un mezzo. È il post-Pd, senza bandiere. Al suo servizio. Anche il governo, il Parlamento, devono seguire Matteo. Difficile che ciò possa avvenire senza tensioni e senza strappi. Che “gli altri (piccoli) capi” del Pd (e non solo) si accodino. Ma, soprattutto, che Letta si adegui. È una questione di ruolo e di cultura politica. Ma, prima ancora, di storia e di profilo personale. Così Enrico cercherà di disseminare il percorso di Matteo con trappole e intoppi. Per ritardarne la marcia. Visto che il tempo è la risorsa simbolica dell’Uomo Forte. E Matteo vuole fare in fretta. Per questo, nei prossimi giorni, attendiamoci altre tensioni. Altri conflitti. Enrico e Matteo. Quasi nemici. Ne resterà soltantouno.

Repubblica 27.1.14
Legge elettorale, armistizio nel Pd

Sarà Renzi a trattare le modifiche “Ma se salta tutto, subito alle urne”
Soglia premio verso il 38%. Il segretario: dico no alla palude
di Francesco Bei e Giovanna Casadio


ROMA — Oggi è il giorno della verità, in commissione si inizia a votare, e Renzi su Twitter sfoggia ottimismo: «I conservatori non mollano, resistono, sperano nella palude. Ma l’Italia cambierà, dalla legge elettorale al lavoro. Questa è la volta buona». Che l’Italicum si possa modificare in qualche punto, nonostante la netta opposizione di Forza Italia, sembra ormai scontato.
Non a caso ieri lo stesso Denis Verdini ha passato il pomeriggio a Montecitorio, nello studio di Renato Brunetta, per ipotizzare fino a che punto e su quali argomenti i berlusconiani potessero cedere qualcosa. Il plenipotenziario del Cavaliere è rigido sulle soglie si sbarramento e sul no alle preferenze. Tuttavia, anche grazie a una certa “moral suasion” che scende dal Quirinale, è possibile che venga ritoccato verso l’alto il tetto per accedere al premio di maggioranza. Anche Renzi, con i suoi, apre alla possibilità di «aumentare la soglia di accesso al premio». E forse non è un caso se ieri, su questo punto specifico, si sia fatto sentire il presidente del Senato, che tiene un rapporto stretto con il Colle: «Penserei — ha detto Grasso a “Che tempo che fa” — a un aumento della soglia per accedere al premio di maggioranza, il 40% sarebbe meglio in rispetto della sentenza». Oggi l’Italicumprevede appena il 35%, molti costituzionalisti spingono per arrivare al 40% (soglia sotto la quale scatterebbe l’obbligo del ballottaggio tra le prime due coalizioni). Non è difficile immaginare che il compromesso finale ruoti intorno a l 37-38 per cento. «Il patto è quello siglato da Berlusconi e Renzi — ha confidato ieri a un amico Verdini — e siamo disponili solo ad affinamenti, senza stravolgere cardini come le soglie e le liste bloccate».
Ma l’altra partita decisiva è quella che si gioca dentro al Pd,dove la minoranza bersaniana si ritrova maggioranza in commissione affari costituzionali. Ieri, al termine di una lunga riunione di quattro ore con la renziana Maria Elena Boschi, i membri democratici della commissione hanno siglato una sorta di armistizio con il Nazareno. Per non presentare un partito diviso all’appuntamento con il voto degli emendamenti.
È stato proprio Brunetta e quella minaccia di elezioni subito dopo il via libera all’Italicum a ricucire un Pd lacerato, a interrompere — almeno fino alla prova della verità del voto — il braccio di ferro tra Renzi e la minoranza dem. «Se salta la legge elettorale - confermato il segretario - si va subito al voto. E dopo la riforma elettorale c’è quella del Senato e il Titolo V, non il vo-to». Lo scontro soprattutto sulle liste bloccate che andava avanti da giorni, si è allentato nella riunione dei membri della commissione. La soluzione passa da una formula: emendamenti aperti. Non ci saranno cioè modifiche di corrente, i cuperliani si fermano consapevoli che altrimenti l’Italicum sarebbe finito in una palude e il Pd a sbattere. Al tempo stesso Renzi apre a qualche modifica, «purché concordata» con gli altri soci del patto.
Finisce per ora con un “liberi tutti”: i dem presenteranno questa mattina emendamenti a titolo individuale. Che potranno essere cambiati a loro volta o ritirati, a seconda del gradimento che riceveranno dalle altre forze politiche. Sarà uno show in cui ognuno pianterà la propria bandierina, ma al momento senza conseguenze politiche. Perché quando si dovrà votare conterà la «disciplina di gruppo». In sostanza quello raggiunto ieri è stato un accordo sul metodo. Dopo che la minoranza avrà messo a disposizione del segretario le sue ipotesi di modifica, sarà Renzi stesso — affiancato dal capogruppo Speranza — a sondare oggi pomeriggio la reale disponibilità di Forza Italia e degli alleati di governo. Insomma la «sintesi politica» la vuole fare il segretario del Pd e intende far pesare alla minoranza anche l’impegno preso con il voto della Direzione favorevole all’in-tesa con il Cavaliere. Se tutto andrà bene, Renzi avrà ottenuto il risultato di portare a casa la legge, mentre l’area Cuperlo potrà rivendicare di aver combattuto e, forse, essere riuscita a strappare anche qualche miglioramento.
Sulla modifica delle liste bloccate attraverso le preferenze o i collegi uninominali, i cuperliani e anche Rosy Bindi non intendonoal momento sentire ragioni. E ieri nell’assemblea si sono fatti sentire. Bindi ha sostenuto a spada tratta fino all’ultimo che non ci dovevano essere «emendamenti di corrente», era il gruppo del Pd che avrebbe dovuto farsi carico di presentare le modifiche. Emanuele Fiano, il capogruppo in commissione, ha stoppato: se trattativa ci dev’essere, non può essere conpronunciamenti che portino il timbro del gruppo. In ordine sparso, perciò. E stasera nuova riunione, dopo che Maria Elena Boschi, Fiano e Roberto Speranza avranno incontrato le delegazioni degli altri partiti. Boschi annuncia: «Ci sarà un ventaglio di soluzioni tecniche». Alfredo D’Attorre, bersaniano, presenterà emendamenti sulle preferenze, sui collegi uninominali, sulle primarie per legge. Idem farà Bindi, più un emendamento per alzare la soglia del 35% che consente di incassare il premio di maggioranza. Francesco Sanna ha pronto un emendamento su una sorta di diritto di tribuna per i piccoli partiti. È Gianni Cuperlo a chiarire subito: «Nessuno vuole boicottare la legge elettorale, non vogliamo apparire tali. Vogliamo anzi arrivare fino in fondo nella riforma». Quindi il trittico — legge elettorale, nuovo Senato, Titolo V — va tenuto insieme. È giusto presentare emendamenti sui punti di «incerta costituzionalità», cioè la soglia del 35% troppo bassa, lo sbarramento dell’8% troppo alto e soprattutto l’assenza di scelta con le liste corte di 4-6 candidati. «Le nostre preoccupazioni sono diventate obiezioni condivise da molti», rivendica l’ex sfidante di Renzi alle primarie. «Brunetta ha fatto scattare l’allarme rosso — spiega D’Attorre — . Non vorrei che il Cavaliere punti a incassare una legge elettorale che gli conviene e boicotti il resto delle riforme». Nel Pd intanto si sono convinti che Forza Italia non sia quel monolite che appare all’esterno. Una parte degli stessi forzisti vorrebbe introdurre il voto di preferenza, mentre le donne azzurre spingono per un meccanismo che garantisca davvero l’alternanza di genere.

l’Unità 27.1.14
Riformare non demolire
Istituzioni, maneggiare con cura
Non si tratta di abolizione del Senato ma di superamento del bicameralismo perfetto
di Mario Tronti


Si riapre l’antico problema del rapporto tra rappresentanza e decisione. Qui vanno a misurarsi di nuovo le possibili vie di uscita da una crisi della politica che, qui da noi, non è meno grave della crisi economica.
Necessario è trovare quel giusto equilibrio, che superi oggettive strozzature di sistema senza ricorrere a facili inseguimenti di consenso.
Mi concentro su un punto discriminante: il riassetto istituzionale delle due Camere, a seguito delle intelligenti osservazioni di Anna Finocchiaro (l’Unità, 25 gennaio), sulla indispensabile «valutazione di sistema». Intanto, attenzione alle parole. Non si tratta di abolizione del Senato, ma di superamento del bicameralismo perfetto, o paritario, come si è sempre espresso il Presidente della Repubblica. Maturo è ormai il passaggio che prevede l’affidamento alla sola Camera dei deputati del rapporto fiduciario con il governo e di gran parte dell’attività legislativa: una razionalizzazione e semplificazione della decisione politica, necessaria e urgente. Questo è il cuore della revisione costituzionale, a cui si aggiungono, come appendice, la riforma del Titolo V e la forma che dovrà assumere la seconda Camera, nonché il tema del finanziamento pubblico dei partiti. La nuova legge elettorale può anche essere varata prima, come clausola di salvaguardia contro eventuali improvvise interruzioni della legislatura, ma sapendo che avrà bisogno di un riadattamento una volta ultimato l’iter delle riforme istituzionali. Comunque, va tenuto costantemente presente il quadro d’insieme.
Le istituzioni vanno maneggiate con cura. Sono degli organismi carichi di storia, che non si possono cancellare con un colpo di penna. Il Senato ha in corpo due date, 1861 e 1948, che non sono ieri o l’altro ieri. Legarne le sorti all’andamento degli attuali costi della politica, mi pare un’operazione da tipica «società liquida». Trasformarlo in Camera delle autonomie, non direttamente elettiva, istituzionalizzando una conferenza Stato-Regioni, mi pare un’idea non proprio di immaginazione al potere. Se dobbiamo cambiare le istituzioni, prima di tutto pensiamole. Le idee non mancano e l’opportuna accelerazione dei processi di riforma le mette oggi in campo. Vanno tra loro attentamente confrontate.
Ad esempio, sul Sole 24 Ore si è da tempo sviluppata un’interessante discussione sulla possibilità di un Senato delle competenze e del «saper fare». Il responsabile dell’inserto domenicale, Armando Massarenti, scriveva il 5 gennaio scorso: «. Domanda assai pertinente, a cui si sono associati la senatrice a vita Elena Cattaneo, Stefano Folli e su cui raccolgo in giro molti consensi. Su Repubblica del 23 gennaio, Andrea Manzella, con la sua riconosciuta, appunto, competenza, faceva un discorso parallelo. Ne ripeto alcuni passaggi, che forse sono sfuggiti ai più. È vero che la Costituzione recita «eletto a base regionale», ma negli Atti della Costituente il Senato avrebbe dovuto soprattutto rappresentare, nella cornice regionale, «la complessiva struttura sociale», le «forze vive» della Nazione, la tensione vitale e culturale della intricata società italiana. Costantino Mortati ne accettò in questo senso la formula. Il Senato doveva essere, allo stesso tempo, «garanzia» contro l’onnipotenza dell’altra Camera e «integrazione vitale» della sua rappresentanza politica. La Costituzione, con una fuga in avanti, si distaccava da quei senati europei, costruiti per esprimere interessi degli enti locali, con elezione indiretta. Del resto, proprio le degenerazioni delle elezioni di secondo grado, ad opera di mandarini regionali, provocarono il XVII emendamento della Costituzione americana, con due senatori per Stato, eletti direttamente. Questo è il quadro del problema. Vogliamo discuterne? O passiamo subito all’atto del fare, senza il «saper fare», tagliando 315 indennità a carico dello Stato, e tutto è risolto? Come mai non si parla più di riduzione del numero dei parlamentari? Non era questa la via maestra per i risparmi sulla spesa? In realtà, il tema specifico è da inquadrare dentro quella più generale emergenza che si chiama autoriforma della politica. Le istituzioni rappresentative devono riguadagnarsi dignità, autorevolezza, fiducia, riconoscimento da parte dei cittadini. Il Senato della Repubblica dovrebbe riconquistare la definizione letterale di Camera alta, non essere abbassato al di sotto della Camera bassa. A questa il confronto diretto Parlamento-Governo, rapporti economici e rapporti politici, Titolo III e Titolo IV. A quella il confronto con i mondi vitali, con le emergenze antropologiche, la cura dei rapporti civili e dei rapporti etico-sociali, Titolo I e Titolo II. Poi bisognerà entrare nel merito, ravvicinare le disposizioni, riempire di contenuti le definizioni. Possono esserci altre proposte, portate da altre sensibilità. Spetta ai partiti, se ce ne sono ancora in grado di esercitare la loro essenziale funzione, di suscitare un movimento di opinione, un coinvolgimento attivo delle persone, delle associazioni, delle professioni, dei corpi intermedi. Magari non a colpi di twitter, ma ragionando e facendo ragionare. Capisco, non sarà facile.

l’Unità 27.1.14
Elezioni, una sponda a Sel senza ipotecare la riforma
di Goffredo Bettini


CONTINUA UN ACCESO DIBATTITO SULLA LEGGE ELETTORALE. È NATURALE CHE SIA COSÌ; ANCHE SE TRA LEGITTIME E COMPRENSIBILI OSSERVAZIONI SUL TEMA DELLA RAPPRESENTANZA CHE SONO VENUTE, per esempio, dal congresso di Sel a cui ho assistito, spuntano da più parti critiche pretestuose, strumentali e stravaganti. L’impressione è, tuttavia, che nel complesso si sottovaluti il contesto dentro il quale si sta operando. Vale a dire, la spaventosa crisi democratica che attanaglia la Repubblica.
A proposito di rappresentanza, si dimentica che essa si è ridotta negli ultimi anni a livelli minimi e pericolosi per la democrazia. La «politica» ha perso ormai più della metà del Paese, che non vota o vota Grillo. E le nostre risposte continuano ad essere incerte dilatorie, egoistiche. Sull’emergenza finanziaria senza tanti scampoli abbiamo chiesto sacrifici insopportabili ai cittadini. Sull’emergenza democratica pensiamo, invece, di avere tempi infiniti. Abbiamo parlato di mezza vittoria dopo le elezioni, che ci hanno consegnato una nazione allo sbando e senza riferimenti. Sosteniamo un governo con un’alleanza innaturale, affaticata, per questo, nella sua azione e che rappresenta solo il 30% degli elettori aventi diritto al voto, ma consideriamo impertinenti ogni sollecitazione nei suoi confronti a fare meglio e più presto.
L’urgenza di un segnale di inversione di tendenza netto e rapido, non è un esigenza di Renzi , che avrebbe avuto vita molto più facile se avesse dopo le primarie (come io ho sempre pensato si dovesse fare) imboccato la strada delle elezioni a maggio. È una esigenza democratica e nazionale, fermare la deriva della sfiducia, riannodare i fili, riprendere in mano lo scettro della politica.
IL Pd, in questo passaggio, si è fatto carico di questa responsabilità. Cercando di dare allo stesso governo e agli sforzi quotidiani che Letta mette in campo, un senso, una sostanza, un contenuto per durare ed essere utile al Paese. Certamente quando si decide dopo tanti anni di fallimenti, il rischio di dividere e di scontentare è alto. Ma l’importante in queste ore è discernere tra la strumentalità e le voci sincere. Chi si dimostra, per esempio, sdegnato del rapporto con Berlusconi, oggettivamente contribuisce ad affossare la riforma, non solo elettorale, ma anche quella del Senato e dell’articolo quinto.
Perché è evidente che la riforma va fatta con un largo consenso e che l’atteggiamento di Grillo, obbliga a cercare tale consenso nell’opposizione di Forza Italia. L’anatema morale ripropone l’errore di questi ultimi vent’anni: lo sdegno verso Berlusconi accompagnato dalla incapacità di batterlo elettoralmente in modo definitivo. Fare una legge elettorale bipolare significa, invece, preparare le condizioni di una sua possibile e probabile sconfitta, sola condizione per farlo uscire di scena. Che poi tale anatema giunga da chi ha varato un governo con il Cavaliere, dando ad esso via via un respiro strategico e da chi, di fronte alla sua condanna definitiva, gli ha chiesto di dimettersi prima del voto parlamentare sulla decadenza, per poter continuare a governare con lui fuori dalle Istituzioni, mi pare perlomeno stravagante.
Sono, invece, sincere e fondate alcune osservazioni di merito emerse con molta forza dentro alcune formazioni minori, in particolare nel corpo di Sel. Come forse qualcuno sa, da tempo sostegno l’esigenza di costruire un solo grande, contendibile, inclusivo campo politico, capace di riunire tutte le forze progressiste e democratiche. Ma questo è un processo lungo, che si fa con la disponibilità di tutti. Non può essere un annessione al Pd, ma una novità da costruire insieme. Una soglia troppo alta di accesso alla ripartizione dei seggi rischia, allo stato attuale di oggi, di impoverire troppo il panorama di cultura e di presenze. È sacrosanto il richiamo di Renzi ad uscire per sempre dai ricatti paralizzanti delle piccole formazioni politiche che quando si ritengono indispensabili danno il peggio di loro. Ne sa qualcosa Prodi.
Ma questo pericolo, nella legge proposta è evitato dal doppio turno, che comunque da ad un partito o ad uno schieramento il «premio» di maggioranza per governare in libertà e secondo il programma stabilito con gli elettori. Penso, dunque, che su questo punto si possa migliorare la proposta. Naturalmente con l’accortezza di convincere anche l’altro indispensabile contraente dell’accordo, vale a dire Berlusconi; altrimenti tutto ritornerà in alto mare e, a parere mio, sarebbero inevitabili e preferibili rispetto ad un pantano irresponsabile rapide elezioni.

il Fatto 27.1.14
Maionese elettorale
Preferenze, Renzi e B. sempre più soli
di Sa. Ni.


Renato Brunetta lo dice, come suo solito, con tono di minaccia, ma l’affermazione è solo a un passo dal vero: se oggi il testo base sulla legge elettorale dovesse subire stravolgimenti da parte della commissione Affari Costituzionali della Camera, per colpa degli emendamenti della sinistra Pd o per colpa – anche – dei colpi di mano di Forza Italia “salterà tutto l’accordo”. E verrà giù tutto, anche il governo. “Credo - ha proseguito il capogruppo berlusconiano a Montecitorio - che si troverà una soluzione, ma se così non dovesse essere, allora si cadrà già domani sera (stasera, ndr) ”.
NON È PROPRIO un ultimatum, ma poco ci manca, anche se il voto adesso non alletta nessuno, men che meno Berlusconi. Brunetta, ancora, la mette così: “Se si carica la pistola, la pistola spara”, come a dire che se poi la riforma andrà in porto, il voto anticipato per Forza Italia sarà il naturale proseguimento dei fatti. Argomento che ha messo in agitazione il Pd. Emanuele Fiano, capogruppo Pd in commissione alla Camera, ha chiesto spiegazioni: “Quello che ha detto Brunetta è preoccupante e contraddice in modo eclatante la base dell’accordo sulle riforme che rientra in un piano che riguarda il Titolo V e la riforma del Senato. Forza Italia a questo punto deve fare chiarezza se intende andare avanti sul progetto di riforma o se sfilarsi”. E Lorenzo Guerini, portavoce della segreteria renziana: “Non c’è alcuna corsa al voto, Brunetta plachi i bollenti spititi”. Da Forza Italia nessuna intenzione di sfilarsi, anzi. Tanto che lo stesso Berlusconi, al Tg4, ha sottolineato di essere “deciso ad un impegno vincente, perché torneremo a vincere, come nel ’94”, ma la ferma volontà di dare lui le carte, quella sì, resta. E continuerà ad essere la cifra con cui si muoveranno gli uomini del Cavaliere, convinti che il testo base approvato dalla Commissione sia “già un compromesso che non si cambia più".
E, invece, le spinte a cambiare sono tante, troppe, mentre i margini di manovra sono pochi, in alcuni casi nulli. Anche Renzi, l’altro giorno, ha ripetuto che sulla questione delle preferenze la partita può dirsi chiusa al pari di come ieri, via Twitter, ha avvertito la parte sinistra del suo partito di evitare spaccature dolorose: “I conservatori non mollano, resistono, sperano nella palude - ecco il tweet - ma l’Italia cambierà, dalla legge elettorale al lavoro. Questa è la volta buona”. Un ottimismo invidiabile, quello del sindaco di Firenze, mentre tutto intorno è ancora caos. Ieri, inaspettatamente, si sono presentati alla Camera Brunetta e Denis Verdini. Sono rimasti per ore chiusi nelle stanze del gruppo a rivedere lo schema dei collegi dell’Italicum, punto su cui Forza Italia è pronta a dare davvero battaglia, altro che preferenze e soglie; chi detiene almeno la metà delle circoscrizioni “disegnate” in maniera favorevole può realisticamente sperare in diversi punti percentuali di vantaggio nei confronti degli avversari. E a costruire queste geometrie variabili, Verdini non è secondo a nessuno. Nelle stanze limitrofe a quelle dei berlusconiani, la sinistra Pd, riunita per tentare di trovare una quadra sugli emendamenti da presentare in commissione entro le 13 di oggi. Punti di snodo, per i cuperliani, il rifiuto delle liste bloccate, la revisione verso l’alto (al 38%) della soglia di sbarramento per ottenere il premio di maggioranza, la revisione (verso il basso) della percentuale del premio stesso (al 15%). E poi la rappresentanza di genere.
MA LA TRATTATIVA proseguirà fino all’ultimo momento; nessuno del Pd, in questa fase, vuole prendersi la responsabilità di far crollare un castello di carte comunque molto fragile: “Cercheremo una sintesi politica”, si augura la plenipotenziaria della trattativa, la renziana Maria Elena Boschi. “Per noi – sostiene Angelino Alfano, sotto la cui responsabilità potrebbe cadere la delega alla rivisitazione dei collegi elettorali, in quanto titolare del Viminale, cosa che Forza Italia non vuole perché non si fida – l’obiettivo è che l’elettore possa scegliere il deputato, non capisco proprio, è inspiegabile, Renzi dice che è una scelta di Forza Italia, Grillo è disposto, il Pd presenta emendamenti, quindi se Forza Italia vuole evitare questo torto agli italiani basta che dica sì alle preferenze”. Ore di fibrillazione, dunque, che tengono in allerta anche Enrico Letta, costretto a rinviare a dopo il voto della Camera sull’Italicum la firma del patto per il 2014 con le forze della maggioranza. Il varo della legge da parte dell’organismo di Montecitorio è infatti prevista per mercoledì 29, con ingresso in Aula per giovedì 30. Se tutto andrà secondo i piani che sono ancora in troppi a voler stravolgere.

il Fatto 27.1.14
Le dimissioni della De Girolamo
“Basta”: l’ira su Letta e l’ombra di Farinetti
di Sara Nicoli


Un nome, un’indiscrezione, quella di Oscar Farinetti, patron di Eataly candidato alla sua successione. E il silenzio di Letta. Comunque, per dirla con le sue parole, una questione di “dignità personale”. Nunzia De Girolamo ha dato le dimissioni da ministro dell’Agricoltura, travolta dallo scandalo Asl. A pesare sulla decisione, giura chi da giorni raccoglieva la sua amarezza nel non sentirsi confortata dal resto dell’esecutivo, è stato non solo il “silenzio assordante” del premier sul montare del Benevento-gate, ma anche quello del suo segretario, Alfano. Già, dopo le prime forti difese “a caldo”, il leader del Nuovo Centro Destra e vicepremier si è ben guardato di proseguire a far da scudo ad una “protetta” che nel corso dei giorni stava diventando sempre più ingombrante. Ieri sera dunque qualcosa è scattato nella sua testa, quindi l’annuncio affidato a una nota: “Ho deciso di lasciare un ministero – si legge - perché la mia dignità vale più di tutto questo ed è stata offesa da chi sa che non ho fatto nulla e avrebbe dovuto spiegare perché era suo dovere prima morale e poi politico”.
CHI SAPEVA e non ha detto? Chi avrebbe dovuto difenderla e non l’ha fatto? I dettagli in filigrana di questo testo non potranno che essere decriptati dalla magistratura nell’inchiesta in corso, ma dal punto di vista politico i volti di quelli che secondo la De Girolamo sarebbero i “colpevoli” di omertà sono rintracciabili anche nella faida del dominio del campo elettorale campano. Una guerra tutta al femminile che ha visto attrici dietro le quinte dell’intera vicenda De Girolamo la sua ex collega di partito, Mara Carfagna, e la sua “alleata”, nonostante la posizione scomoda di compagna del leader di Forza Italia: Francesca Pascale. Nei giorni più caldi dell’esplosione del caso De Girolamo, è stata proprio la Pascale a favorire la “difesa” della De Girolamo. I tg Mediaset hanno trasmesso parte delle intercettazioni relative all’inchiesta che avrebbero messo sotto altra luce la sua posizione. Dall’altra parte la Carfagna che, secondo la De Girolamo, avrebbe potuto ma non avrebbe mosso un dito per aiutarla. In ultimo, il ruolo di un “vecchio ras beneventano”, quello di Clemente Mastella che la De Girolamo, anche via sms privato, ha accusato di essere, in qualche modo, parte in causa di tutti i suoi guai: “Sei una merda – ecco il testo dell’sms reso noto dal destinatario – ci vediamo in tribunale”. Complotti, faide locali per il controllo elettorale nel beneventano. Ma, forse, come si diceva, non solo. Perché il gesto della De Girolamo, per alcuni suoi detrattori “comunque tardivo”, ha – in realtà – un unico, vero colpevole: Enrico Letta. È lui che non l’ha difesa neppure quella mattina di solo una settimana fa circa quando ha dovuto spiegare, davanti ad un’aula della Camera semivuota le ragioni della sua “dignità”. E che giovedì scorso dalla Gru-ber parlando di lei e della Cancellieri aveva affermato “si può migliorare”. Il 4 febbraio, poi, era calendarizzata la mozione di sfiducia dell’M5s nei suoi confronti; perché farsi votare contro anche dagli alleati, si è detta la De Girolamo?
DI QUI LA SCELTA, visto anche un sostanziale disinteresse di Algelino Alfano (che infatti ha lasciò l’aula dopo pochi minuti dall’inizio dell’intervento) su tutta la sua vicenda. Qualcuno, poi, nel giorno delle sue spiegazioni in Aula, ha scommesso che nella mente di Letta fosse già pronto proprio il nome di Farinetti per rimpiazzarla. Di sicuro, il passo indietro di Nunzia risparmia a Letta uno sforzo quando si tratterà di mettere mano al rimpasto che potrebbe avvenire alla fine di questa settimana semprechè regga l’accordo con Berlusconi sul pacchetto di riforme. Ma anche per l’Ncd, in fondo, è una “buona” notizia. Dice, infatti, Maurizio Lupi: “La guadagneremo in ruoli di grande responsabilità del Nuovo Centrodestra”. Insomma, un problema in meno anche per Alfano. Forse.

il Fatto 27.1.14
Felice Casson (PD)
“Avrebbe dovuto farlo prima”
di Silvia D’Onghia


“Era ora”. È lapidario il senatore del Pd ed ex magistrato Felice Casson, appresa la notizia delle dimissioni del ministro Nunzia De Girolamo. Casson era stato il primo, tra i democratici, a prendere una posizione netta sulla vicenda. “Il Pd sbaglia – aveva detto al Fatto il 12 gennaio – perché, al di là delle indagini, potrebbe già giudicare i comportamenti che emergono da questi fatti. Queste valutazioni sono necessarie, anche senza aspettare le conseguenze giudiziarie”. Le dimissioni arrivate ieri appaiono dunque tardive.
Senatore, De Girolamo se la prende col governo che “non l’ha difesa”. Secondo lei con chi ce l’ha?
È un’ira mal riposta la sua, perchè un po’ di buon senso civico avrebbe dovuto consigliarle le dimissioni quando la questione è diventata pubblica. Erano dati di fatto che non potevano essere smentiti, anzi da quei fatti sono scaturite indagini che sono andate addirittura oltre. Era lei che doveva difendere se stessa e dare le dimissioni, avrebbe dovuto prenderne atto molto tempo prima.
Crede che le dimissioni del ministro dell’Agricoltura possano ora dare il via a un rimpasto di governo?
Non credo che accadrà niente di particolare, perchè la sua non era una posizione fondamentale. Ci sono persone che possono ricoprire in modo adeguato il ruolo di ministro dell’Agricoltura. Il governo può decidere di non cambiare nulla, anche se ci sarebbero altre situazioni da chiarire, prima tra tutte quella del Guardasigilli Cancellieri. Ma penso che sia un discorso di là da venire.
Queste dimissioni potrebbero in qualche modo incidere sul percorso delle riforme e della legge elettorale?
Non credo proprio. Si tratta di una questione autonoma, complicata e molto seria, ma la posizione minoritaria che nel governo rivestiva il ministro dell’Agricoltura non incide sugli altri percorsi.

Repubblica 27.1.14
I migranti di Ponte Galeria, nella capitale: da Natale non è cambiato nulla
“Peggio che in carcere” Nel Cie torna la protesta delle bocche cucite
di Lorenzo D’Albergo


ROMA — Youssef, Karim, Aziz. Lassaad, Rachid e gli altri della camerata numero 2. Nel cuore portano il ricordo dei compagni di sventura affogati nelle acque di Lampedusa e negli occhi le immagini delle violente proteste della primavera araba. Da venerdì sera parlano a gesti, usando le mani e mostrando i corpi piegati dai lavori massacranti a cui li hanno costretti gli scafisti libici che avevano promesso loro la libertà. Un termine che non è di casa nel centro di identificazione ed espulsione di Ponte Galeria, non luogo tutto sbarre e cemento armato piazzato nel nulla, alle spalle della nuova fiera di Roma e a pochi chilometri dall’aeroporto di Fiumicino. Stanchi di attendere novità sul loro futuro, venerdì 13 giovani marocchini sbarcati lo scorso 10 ottobre a Lampedusa e poi trasferiti nel Cie della capitale si sono cuciti la bocca. Poi, insieme ad altri 12 connazionali richiedenti asilo, hanno iniziato lo sciopero della fame e della sete.
Per sette di loro si tratta di una replica. Avevano già serrato lelabbra con ago e filo lo scorso 21 dicembre, rifiutandosi di mangiare e bere per interi giorni. Da Natale a oggi, però, non è cambiato nulla. Anzi, a far esplodere la tensione accumulata nelle ultime settimane è arrivata una notizia dal Cie di Caltanissetta. Lassaad Jelassi, portavoce del gruppo dei migranti in protesta, la riassume in una frase: «Quindici marocchini che si trovavano sullo stesso barcone dei tredici di Roma sono stati liberati». La voce si è diffusa velocemente nell’ala maschile e la protesta è diventata l’unica naturale risposta a quella che i giovani nordafricani di Ponte Galeria ritengono «un’ingiustizia. Ci sentiamo persone di serie C — spiega ancora Lassaad — neanche diserie B. Perché loro sono usciti e noi no?».
Una risposta la chiede Youssef Ajmani. Dalla bocca cucita esce solo qualche mugugno: «Ho 27 anni e nel 2012 sono andato in Libia per fare il meccanico. Poi mio zio mi ha detto che c’era bisogno del mio aiuto da lui, in Francia. Potevo cambiare la mia vita… invece ho visto affogare donne e bambini. I miei amici erano sul barcone davanti al mio, quello che si è rovesciato». Poi ci sono Aziz Jaheouiui, 30enne con un solo rene e bisogno di continue cure, e Karim Mojiane, pittore di 25 anni. La sua terra promessa era Bruxelles, dove ad attenderlo c’è il fratello della madre. «I miei genitori sono morti anni fa —racconta — e ho atteso per anni di raggiungere i parenti in Belgio. Nel frattempo mi sono diplomato in arte. Adesso? Gli altri sono liberi e io chiuso in questo posto».
Un centro da 360 posti lettodove si dorme in camerate da otto persone con le mura scrostate e il tempo si dilata a dismisura. «È peggio di un carcere», ripetono quei 20enni che una cella vera, fino allo sbarco in Italia, non l’avevano vista mai. «Siamo tutti puliti — spiega Lassaad — e qui stanno rubando mesi della nostra vita. L’unica nostra colpa è quella di essere nati nella parte sbagliata del Mediterraneo».
A cercare di rendere meno pesante la detenzione sono i dipendenti della cooperativa Auxilium, la società diretta da Vincenzo Lutrelli che gestisce il centro. Anche loro ora chiedono chiarezza sui loro tempi di permanenza. Proprio come il Garante dei detenuti del Lazio, Angiolo Marroni: «È evidente che il tempo della politica scorre molto più lentamente rispetto a quello di queste persone, passate da un’immigrazione difficile a luoghi con pochissima dignità come i Cie». «Quelle gabbie sono indegne — attacca il deputato Pd Khalid Chaouki — e già a dicembre avevamo denunciato le condizioni in cui vivono questi ragazzi, ma nessuno si è mosso. Ora spero che il sindaco di Roma pretenda un intervento rapido, così come il governo Letta che non può essere complice di questa disattenzione». Anche il senatore Pd Luigi Manconi chiede la chiusura dei Cie: «Identificano ed espellono una piccola parte di coloro che trattengono, sono costosi e inefficaci e mortificano la dignità delle persone. Se lo vuole, con una sola norma, il Parlamento può ridurre drasticamente quell’inutile tempo di permanenza».

il Fatto 27.1.14
Bocche cucite
Cie, nuova protesta: “Presi in giro”
di Silvia D’Onghia


Passerella dei politici, visita degli ambasciatori, sdegno dell’Italia e del mondo, nuova interminabile discussione sulla Bossi-Fini. E un mese dopo? Non è cambiato assolutamente nulla. E così sabato mattina tredici immigrati marocchini reclusi nel Cie di Ponte Galeria, a Roma, hanno ricominciato lo sciopero della fame. Protesta che si è trasformata dopo 24 ore nelle bocche cucite che avevamo già visto, appunto, alla vigilia di Natale. Ai tredici se ne sono aggiunti altri e ieri sera a non ritirare il pasto fornito dall’amministrazione sono stati in 33. Erano arrivati tutti a Lampedusa a fine ottobre, qualche giorno passato nel Centro di accoglienza di Contrada Imbriacola e poi il gruppo era stato smistato tra Roma e Caltanissetta. “Tre giorni fa hanno sentito per telefono i compagni di viaggio che erano stati mandati in Sicilia – racconta Gabriella Guido, portavoce della campagna LasciateCie entrare, che sabato mattina ha fatto visita ai migranti a Ponte Galeria – e hanno scoperto che sedici di loro sono stati fatti uscire con un foglio di via”. Sono stati cacciati dall’Italia, non dovrebbero essere contenti. “E invece si sono chiesti perchè ‘loro sì e noi no’ – prosegue Guido –, perchè i tempi sono diversi da Prefettura a Prefettura e quando potranno vedere anche loro le porte del Cie aprirsi”. Di tutti gli immigrati che si sono cuciti la bocca, infatti, soltanto in due vorrebbero ricongiungersi ai parenti in Italia, gli altri sono pronti a varcare i confini nazionali.
COSA ASPETTIAMO dunque a lasciarli andare? Non si sa, anche perchè da qualche mese il ministero dell’Interno mantiene operativi solo cinque Centri di identificazione e di espulsione e neanche questi a pieno regime. Secondo il Garante dei detenuti del Lazio, a Ponte Galeria ci sono 100 migranti in tutto, 71 uomini e 29 donne. “A dicembre, dopo la protesta delle bocche cucite – racconta ancora Gabriella Guido –, sembrava ci potesse essere un’accelerazione nello smaltimento delle pratiche. Erano andati in visita anche i consoli marocchino e tunisino. Poi, però, tutto si è fermato di nuovo. Quei ragazzi, che hanno a mala pena 35 anni, si sentono presi in giro dall’Italia”. L’unico elemento pericoloso della protesta di dicembre, un imam che aveva già scontato in carcere una condanna a due anni e sei mesi per terrorismo, è stato espulso. A chi giova tenere dentro cento persone?
Naturalmente ieri si sono levate le proteste delle associazioni, che si battono per l’immediata chiusura dei Cie, e quelle dei parlamentari Pd Luigi Manconi e Khalid Chaouki, che a dicembre si era barricato nel Centro di Lampedusa insieme con i migranti. Entrambi hanno chiesto al ministro Alfano e al parlamento di intervenire con urgenza.
Ma non hanno taciuto purtroppo neanche i leghisti. Ha cominciato Oscar Danilo Lancini, il sindaco di Adro passato alla storia per il sole delle Alpi a scuola e poi arrestato per turbativa d’asta: “Ma qual’è (sic) lo choc? Se non gli piace l’itaGlia tornino a casa loro! ” ha scritto su Twitter. Ha finito il lavoro Matteo Salvini, sempre cinguettando: “Non si trovano bene. Non possiamo accontentarli? Tutti a casa! ”.

Repubblica 27.1.14La possibilità di attribuire alla figlia il cognome della madre
Passano i secoli siamo sempre a Manzoni
di Mario Pirani


In Italia la legge quotidiana è sempre ispirata ai Promessi sposi. Don Abbondio detta le norme sulla vita della famiglia, appuntate sul breviario che accompagna le sue giornate e quelle dei fedeli. Qualora occorresse qualche imprevista variante sono sempre lì pronti i “bravacci” di turno a dare una mano per rimettere ordine a persone e cose. Gli esempi sono tanti ma per la maggior parte girano attorno alle vicende di coppia, alle sorti maritali o a quelle filiali. Storie in genere esemplari, ricordate e riesumate perché servano d’insegnamento attraverso gli anni e, grazie alla riproduzione letteraria, persino attraverso i secoli.
Eccoci, dunque, come al solito, al ripetersi di una vicissitudine matrimoniale che trova la sua attualità nel reiterarsi di inciampi sulla via di qualche indisciplina formale che il parroco o qualche altro custode della Fede giudica come un pericoloso azzardo. Le istanze per mutar qualcosa nella liturgia laica (figuriamoci in quella cattolica) della procedura matrimoniale suscita sommovimenti, sotterfugi, vie d’uscita, di rinvio e di fuga che permettono di riproporre a un incerto domani ciò che nei paesi normali avviene in tempi certi e rapidi.
A rimettere in riga l’Italia, come per altre attuali contingenze, ci ha pensato anche questa volta l’ordinamento della Unione europea che ci ha raggiunto con una sua condanna che lascia al nostro Paese 3 mesi per ottemperare alla sentenza. Non possiamo lamentarci della fretta se ricordiamo che la disposizione avrebbe dovuto scattare dall’aprile 1999 e, cioè, 15 anni orsono. Da allora la Corte europea dei diritti umani di Strasburgo aveva condannato l’Italia per aver violato i dirittti di una coppia di coniugi milanesi, Alessandra Cusan e Luigi Fazzo (i Renzo e Lucia della storia che andiamo narrando), negandogli la possibilità di attribuire alla figlia il cognome della madre, invece di quello del padre. Nella sentenza, con relativo rinvio trimestrale per l’adempimento, i giudici di Strasburgo sottolineano anche la possibilità introdotta nel 2000 di aggiungere al nome paterno quello materno, possibilità peraltro non sufficiente a garantire l’eguaglianza tra coniugi, per cui le autorità italiane avrebbero dovuto cambiare la legge o le pratiche interne per mettere compiutamente fine alla violazione riscontrata.
A questo punto tutto dovrebbe filare secondo la volontà del giudice internazionale ma non è per innata diffidenza se le formule usate per affermare la prossima applicazione della legge lascino qualche perplessità. Non basta a dissolverle la proclamazione soddisfatta del premier Letta che sembra voler portare a casa almeno un successo sull’accidentato terreno del diritto di famiglia senza, però, pagare alcun prezzo alla «cultura familistica, centrata sulla consuetudinaria prevalenza del cognome dell’uomo». La fa notare la nota sudiosa dell’argomento, Chiara Saraceno, secondo cui il disegno di legge, allo studio del governo per adeguarsi al dettato di Strasburgo «sembra partire con il piede sbagliato» in quanto prevede che il figlio assume il cognome del padre ovvero, in caso di accordo tra i genitori risultante dalla dichiarazione di nascita, quello della madre o quello di entrambi i genitori. Questa formulazione ancora una volta privilegia il cognome paterno, che verrebbe attribuito di default, mentre per attribuire il cognome materno o quello di entrambi i genitori occorrerebbe una esplicita richiesta e dichiarazione di consenso.
Temiamo di essere di fronte alla solita logica del compromesso illogico ogniqualvolta si tratta di questioni di famiglia all’ombra del Cupolone? Non basta papa Francesco?

l’Unità 27.1.14
I neet in Italia sono 3,8 milioni
Aumentano quelli che vivono in famiglia: più 37%
Né studio né lavoro. L’esercito dei giovani «senza»
di Carlo Buttaroni

Presidente Tecné

Li chiamano neet, acronimo inglese di Not (engaged) in Education, Employment or Training.
Giovani e giovanissimi che non lavorano, non studiano, non si formano. In Italia sono 3,8 milioni.
Un esercito di cui fanno parte 400mila laureati e 1,8milioni di diplomati. Il titolo di studio è un «pezzo di carta» che non gli ha aperto le porte del mercato del lavoro, né quelle della vita. Non che non avessero progetti, tutt’altro. Ma i sogni sono materia fragile quando ci si sente dire «lei è troppo qualificato per questo lavoro». Gli era stato detto che lo studio li avrebbe resi competitivi. Una promessa che è stata mantenuta sì, ma solo fuori dai nostri confini.
In Italia, infatti, gli occupati con diploma o laurea, tra il 2004 e il 2013, sono diminuiti del 20%. E, nel frattempo, i neet con analoga scolarizzazione sono aumentati del 65%. I migliori, e quelli che possono, emigrano verso altri Paesi. Esportiamo talenti. O cervelli, come si dice oggi. Il 28% dei nostri laureati lascia l’Italia appena conclusi gli studi, più del doppio di dieci anni fa, quando i laureati emigranti erano il 12% del totale.
Nel 2004, i giovani che avevano un lavoro erano 7,7milioni, oggi sono 5,3 milioni. In pratica, un posto di lavoro su tre non c’è più. E con il lavoro è sparita qualsiasi prospettiva di autonomia. Il numero di giovani che non lavorano e non studiano continua a crescere, insieme a quello di quanti continuano a vivere con i genitori: +37%. Altro che «bamboccioni». Sono «giovani senza»: senza un lavoro, senza speranza, senza autonomia, senza prospettive, senza fiducia. Specchio di un Paese dove gli ascensori sociali non funzionano più e dove il grande invaso del ceto medio ha rotto gli argini riversandosi verso la fascia di povertà.
PEGGIO SOLO BULGARIA E GRECIA
In Europa siamo terzi per quota di neet. Ci precedono solo Bulgaria e Grecia. Va meglio di noi anche la Spagna, che tra le economie avanzate è la meno generosa con i giovani, ma evidentemente offre qualche prospettiva in più rispetto al nostro Paese. Neet è un nome che la dice lunga sulla biografia dei giovani, visto che non definisce un’identità positiva ma ciò che non si fa (non lavorano e non studiano) e ciò che non si è (né giovani, né adulti).
A contribuire alla «generazione senza» sono state anche le trasformazioni profonde che hanno riguardato il mondo del lavoro, dove sono aumentate le opzioni lavorative ma diminuite le probabilità di trovare un'occupazione adeguata alla propria formazione e stabile nel tempo. In pochi anni è cresciuto il numero dei luoghi dove si lavora e sono calate le sincronie legate ai giorni e agli orari di attività. La lista delle professioni si è allungata e si è frazionata, ma le prospettive di carriera legate alle competenze si sono fatte più difficili. I rapporti di lavoro sono diventati meno durevoli (data la crescita dei contratti a tempo determinato e il calo di quelli a tempo indeterminato) meno uniformi (poiché l'ambito dei contratti si è fatto più circoscritto) e condizionati da uno sterminato sistema di riferimenti e parametri. Il punto di ricaduta è stato un crescente stato d’indeterminatezza e precarietà che si è riflesso anche nei progetti di vita individuali diventati più instabili e discontinui. Per i «giovani senza» conta solo il presente, intorno al quale si dispone un’esistenza frammentata, dove il passato e il futuro non sono conseguenza uno dell’altro, ma elementi sconnessi e scoordinati, che offrono una socialità imperfetta e provvisoria. Alla fine, la vita stessa è vissuta come una serie di momenti paralleli che non costituiscono un progetto. Perché progettare significa selezionare nel presente ciò che è coerente con le proprie esperienze pregresse, con le attese e gli obiettivi futuri.
Per i giovani il futuro non è più una frontiera, un territorio da conquistare, com’è stato per le generazioni precedenti, ma un orizzonte opaco e incerto come le loro vite. Prevale la paura che ogni obiettivo possa trasformarsi in un insuccesso, tanto più doloroso quanto più inizialmente coinvolgente, mentre sembra crescere una nuova forma di malattia sociale: la rassegnazione. Nemmeno i progetti di vita individuali, quando ci sono, appaiono sufficienti a restituire significato al senso d’indeterminatezza che avvolge i destini dei giovani.
Da un lato sono indotti ad attivarsi per rincorrere le proprie aspirazioni, dall'altro sono smarriti e vivono un’incertezza che appare come una rinuncia ai propri sogni.
Uno smarrimento che si esprime anche nel progressivo allontanamento dai valori istituzionali, dalle radici di memorie comuni, dai patrimoni condivisi della convivenza civile. Un distacco che si colora d’insofferenza quando non addirittura di ostilità in un crescendo di contenuti e toni, quanto più si accompagna a disconoscimenti e incomprensioni da parte delle famiglie e delle istituzioni. Giovani rassegnati, per i quali persino le discontinuità che segnavano le tappe di passaggio delle generazioni precedenti sembrano ormai mancare nel loro personale palinsesto: la fine del percorso d’istruzione e formazione, l’entrata nel mercato del lavoro, l’indipendenza abitativa dalla famiglia d’origine, la costituzione di una relazione stabile di coppia, l’esperienza della genitorialità.
CONDIZIONE SENZA CERTEZZE
Ospiti di un mondo che non offre certezze, se non condizioni di vita peggiori dei loro padri, dai quali continuano a dipendere. Una generazione senza rappresentanza e senza voce, sulla quale sono state spese parole come vuoti a perdere e dove nessuno ha investito realmente qualcosa. E così i giovani inciampano fra i detriti di sogni infranti troppo precocemente, rassegnati a un deficit di speranza che li porta – per usare le parole di Sartre – a scegliere tra non essere nulla o fingere quello che si è.
Se i giovani stanno male, non è per le solite crisi esistenziali che segnano la loro età, ma perché un sentimento inquieto li invade, confonde i pensieri, cancella prospettive e orizzonti. Un sentimento che sembra gettarli in un’impotenza assoluta e in uno stato di costante incertezza, sfiducia e rassegnazione.
Pensavamo che fosse la generazione che aveva tutto, salvo scoprire che quel «tutto» mancava della cosa più importante: la possibilità di guardare la vita che avanza chiamandola per nome.

Corriere 27.1.14
I reati finanziari invisibili
Pochissimi detenuti per reati fiscali
Quel record (negativo) dell’Italia
Nelle nostre carceri sono 55 volte meno che in quelle tedesche
di Gian Antonio Stella


È solo una coincidenza se la Germania, il Paese di È solo una coincidenza se la Germania, il Paese di traino dell’Europa, ha le galere più affollate di detenuti per reati fiscali ed economici? Ed è solo una coincidenza se noi, che arranchiamo faticosamente in coda, ne abbiamo 55 volte di meno? Non inciderà anche questo, sulle scelte di chi vuole investire in un Paese affidabile?
Iinteressante mettere a confronto, dopo le denunce della Guardia di Finanza sulla stratosferica evasione fiscale italiana e lo scoppio dell’«affaire Angiola Armellini», i numeri del rapporto 2013 dell’«Institut de criminologie et de droit pénal», curato dai docenti dell’Università di Losanna Marcelo F. Aebi e Natalia Delgrande, sulle statistiche del vecchio continente più alcuni Paesi dei dintorni come Azerbaijan e Armenia. Tanto più che non arriva mai in porto quella benedetta delega al governo, attesa e rinviata da anni, perché adotti «entro dodici mesi dalla data di entrata in vigore della presente legge, decreti legislativi recanti la revisione del sistema fiscale» con un inasprimento delle pene compreso il ripristino delle manette.
Dice dunque la tabella a pagina 96/97 di quel rapporto, dedicata alla ripartizione per tipo di reato dei detenuti condannati con sentenza definitiva (dati 2011) che nelle nostre carceri solo 156 persone, cioè lo 0,4% della popolazione dietro le sbarre, è lì per avere violato la legge in materia di criminalità economica e fiscale. Una percentuale ridicola. Tanto più rispetto alla media generale europea del 4,1%: il decuplo.
Per non dire del confronto con due Paesi da sempre additati come paradisi fiscali o comunque assai ospitali nei confronti della finanza di moralità elastica. Dei detenuti del principato di Monaco, dove il 38% è dentro per furto e il 15% per stupro o aggressioni sessuali, il 23% è stato condannato per reati economici e finanziari. E questa quota sale addirittura, nel Liechtenstein, al 38,6%.
Scrisse il grande Angelo Brofferio, poeta piemontese amato da papa Francesco, «Guai a col ch’a s’ancaprissia / ëd volèi giusta la giustissia!», Guai a colui che s’incapriccia / a voler giusta la giustizia. Parole amare. Ma giuste. Basti pensare alla sproporzione tra la condanna a 9 mesi di quel senegalese incensurato che, licenziato, aveva rubato al supermercato due buste di latte in polvere per il figlioletto e certi verdetti di manica larga. Un mese di carcere convertito in 1.500 euro di multa per aggiotaggio a un operatore finanziario dell’Umb, recidivo. Quattro mesi convertiti in 6 mila euro a due suoi colleghi di City Bank. Quattro mesi per insider trading al finanziere bresciano Emilio Gnutti. Due anni ma condonati al figlio di Licio Gelli, Raffaello, per bancarotta fraudolenta. Uno in meno di quelli che rischia l’immigrato etiope El Israel, rinviato a giudizio per aver colto un fiore per la fidanzata «spezzando i rami di un oleandro posto a ridosso di una aiuola decorativa con l’aggravante di aver commesso il fatto su un bene esposto per necessità e consuetudine alla pubblica fede».
Fatto sta che nelle nostre carceri, il 16% dei condannati con pena definitiva è dentro per omicidio, il 5,3 per stupro, il 14,0 per rapina, il 5,3 per vari tipi di furto, il 39,5 per droga il 16,4 per reati vari ma su tutto spicca vergognosamente quello 0,4% dei detenuti per reati economici e finanziari, incluse le fatturazioni false. Cioè l’unica imputazione che può portare un evasore a varcare i cancelli di un penitenziario. Prova provata di come da noi i colletti bianchi siano trattati in maniera diversa, molto diversa, da come sono trattati i colpevoli di reati in qualche modo, diciamo così, «plebei».
È la conferma di una certa idea della società che fu riassunta da Franco Frattini: «I reati di Tangentopoli non creano certo allarme sociale. Nessuno grida per strada “Oddio, c’è il falso in bilancio!” ma tutti si disperano per l’aggressione dell’ennesimo scippatore». Sarà... Ma è un caso se poi gli investimenti stranieri si sono pressoché dimezzati in Italia passando a livello mondiale dal 2% del 2001 all’1,2% di oggi?
Non va così, dalle altre parti. Se da noi i galeotti per reati economici sono un trentacinquesimo di quelli per rapina e un novantanovesimo di quelli per droga, nelle carceri tedesche l’ordine delle priorità è ben diverso. Evidentemente il famoso «giudice a Berlino» invocato dal mugnaio di Bertold Brecht considera lo scippo agli azionisti di qualche milione di euro più grave dello scippo di una borsetta sul bus. Certo è che in Germania i detenuti per aggressione e percosse (7.592) o per rapina (7.206) sono addirittura meno di quelli sbattuti in galera per reati economici e finanziari: 8.601. I quali sono più o meno quanti i carcerati (8.840) per droga. Solo i detenuti per vari tipi di furto (12.628) sono di più. Ma non molti di più.
È un’altra visione del mondo. L’idea che un’economia sana abbia bisogno del rispetto delle regole. Certo, ci sono anche lì truffatori e bucanieri della finanza e bancarottieri ed evasori. Ovvio. Quando li beccano, però, tintinnano le manette. Un caso per tutti? Quello di Klaus Zumwinkel: come amministratore delegato aveva fatto di «Deutsche Post» un gigante mondiale. Il giorno che l’accusarono di evasione fiscale aggravata, però, non gli fecero una garbata telefonatina per invitarlo a presentarsi in ufficio. No, per dimostrare che lì la legge è davvero uguale per tutti, decine di agenti della polizia tributaria, la Steuerfahndung, circondarono la sua lussuosa villa a Colonia e fecero irruzione all’alba. Né alcuno osò accusare Angela Merkel di avere istituito uno «Stato poliziesco».
Lo «spread» tra la nostra quota di detenuti per reati economici e finanziari e quella degli altri Paesi, del resto, è vistoso non solo nei confronti della Germania. In rapporto agli abitanti, i «colletti bianchi» incarcerati in Italia sono un sesto degli olandesi, un decimo degli svedesi, degli inglesi e dei norvegesi, un undicesimo dei finlandesi, un quindicesimo degli spagnoli, un ventiduesimo dei turchi fino all’abisso che ci separa dai tedeschi. E i francesi? Il dossier degli studiosi svizzeri non offre dati ufficiali esattamente coincidenti. Il sito web del ministero della Giustizia parigino, tuttavia, dice che nell’ottobre 2013 c’erano nei penitenziari d’oltralpe 4.969 detenuti per «escroquerie, abus de confiance, recel, faux et usage de faux» vale a dire frode, abuso d’ufficio, occultamento, falsificazione e uso di falsi. Reati da colletti bianchi. Colpiti da leggi molto più severe della nostra, come in tutti i Paesi seri.
Quanto all’America, basti ricordare il solo Jeff Skilling, il potentissimo amministratore della Enron e principale finanziatore di George W. Bush che arrivò a guadagnare in un anno 132 milioni di dollari. Accusato della bancarotta della società, è stato condannato a 24 anni di carcere. Il pigiama color arancione della prigione di Waseca, nel Minnesota, potrà toglierselo solo nel 2028...

l’Unità 27.1.14
Le ali nere del Condor, processo all’amnesia della Storia
Domani nella terza udienza preliminare le prove raccolte dalla pubblica accusa sull’assassinio di 23 desaparecidos italiani
Il governo tra le parti civili
di Cristina Guarnieri


La mia storia personale è stata segnata a fuoco dal cosiddetto “Piano Condor”: mio marito, Daniel Banfi, padre delle mie figlie Leticia (che allora aveva 3 anni) e Valeria (che ne aveva 2), è stato sequestrato e assassinato senza che siano mai stati riconosciuti né il sequestro né l'assassinio». Aurora Meloni è una uruguayana che negli anni Settanta si è trovata di fronte all’orrore di uno dei genocidi più terribili del Novecento. «Eravamo due giovani che fuggendo dalla repressione in Uruguay pensavano, come tanti altri, che l’Argentina fosse una garanzia». Invece, uomini in borghese che alle 3 di notte entrano in casa con violenza e prendono chiunque trovino. «Da casa mia hanno portato via Daniel e altri due amici che vivevano con noi. Daniel è stato un desaparecido per quasi due mesi, poi il suo cadavere è stato ritrovato». Sono trascorsi quarant’anni e sembra acqua passata, da consegnare alla memoria o all’oblio dei singoli, alla Storia ufficiale dei popoli per citare un memorabile film di Luis Puenzo o a quella eversiva delle menti più critiche. Ma gli effetti del Condor, l’operazione di repressione coordinata da Cile, Uruguay, Paraguay, Brasile, Argentina e Perù, sono devastanti. 30.000 desaparecidos. 1 milione e 500.000 esuli.
Nell’ottobre scorso è iniziato presso il Tribunale di Roma il processo Condor: la Procura di Roma, dopo quindici anni di indagini, ha chiesto il rinvio a giudizio di 34 imputati coinvolti nell’uccisione di 23 cittadini italiani, fra il 1973 e il 1978. Per una volta l’Italia ha di che essere orgogliosa. Il governo Letta, assieme all'Uruguay, al Frente Amplio (la coalizione progressista di Pepe Mujica) e ai familiari delle vittime, si è costituito parte civile. 170.000 pagine di documenti si accalcano nei faldoni degli avvocati che dovranno far luce sugli omicidi dei nostri connazionali. La terza udienza preliminare di domani vedrà l’esposizione degli elementi di prova raccolti dalla Pubblica accusa.
Il processo si tiene a Roma perché ci sono vittime italiane e per questo, come spiega l’avvocato Andrea Speranzoni «è stato applicato l’articolo 8 del codice penale italiano che prevede la competenza processuale in capo alla nostra autorità giudiziaria». Ma non sarà un processo troppo tardivo? «Anche fuori dai nostri confini nazionali assistiamo spesso, su grandi crimini o su fatti che riguardano la criminalità di matrice politica, al fenomeno della giustizia tardiva. La segretezza dei fatti viene meno con il tempo, col mutamento dei contesti. Processare i responsabili della macchina del terrore in America Latina, rimasti a vivere tranquilli nell’impunità, è importante: ricorda infatti che per alcune azioni molto gravi la giustizia e la comunità possono giungere sempre a ristabilire le responsabilità».
CASI MAI INVESTIGATI
Jorge Ithurburu, presidente della 24marzo onlus, aggiunge: «Anche se in contumacia, questo processo ha per i familiari delle vittime un grande significato». Aurora Meloni conferma: «Su alcuni casi nessuno, dico nessuno, ha mai svolto indagini per trovare i responsabili. Non importa quanto tempo sia passato, i crimini di lesa umanità vanno sempre giudicati e condannati».
Oggi, Giorno della Memoria, Speranzoni, Ithurburu e Meloni discuteranno alla Fondazione Basso di Roma del neo-fascismo in Sud America. Infatti nazisti e fascisti (dei gruppi di Avanguardia Nazionale e Ordine Nuovo), emigrando oltreoceano, hanno fatto germogliare nel continente latino la pianta dell’orrore estirpata con fatica dal suolo europeo, allargando così le ali del Condor. «Questa tragedia è stata possibile per una mancanza di solidarietà politica e internazionale» diceva l’Ambasciatore d'Argentina il 26 novembre 2013, quando Estela Carlotto, presidente delle nonne di Plaza de Mayo, riceveva a Roma la cittadinanza onoraria. «Siete un popolo sensibile, dal cuore aperto... Il governo italiano è già stato parte civile nei giudizi precedenti,
in cui sono stati condannati sette responsabili di genocidio. I Paesi che hanno patito gli effetti del Condor non possono dimenticare. È una necessità imperiosa che questo processo si faccia... e che si condanni, anche in assenza, come sta facendo la giustizia italiana».

Corriere 27.1.14
Tsipras, il seduttore greco della sinistra italiana
Flores d’Arcais e la lista civica per lui: è lo sbocco democratico allo scontento
di Massimo Rebotti


MILANO — Ha la stessa età di Renzi, ma — dice chi lo sostiene — è «l’opposto». Il nome che da qualche giorno fa palpitare il cuore della sinistra italiana è greco. Alexis Tsipras, 39 anni, ingegnere, dal 2009 alla testa di Syriza, cartello della sinistra radicale che, sotto la sua guida, ha surclassato i socialisti del Pasok diventando il secondo partito del Paese e potenzialmente il primo alle prossime elezioni secondo i sondaggi. Gli ultimi a subire il fascino del leader greco sono stati in Italia i delegati di Sel: il partito guidato da Nichi Vendola, entrato a congresso venerdì con un piede dentro la socialdemocrazia europea, ne è uscito ieri con l’ipotesi ben più radicale di sostenere Alexis Tsipras (382 sì, 68 no, 123 astenuti) alla guida della Commissione europea. Abbandonata l’idea di appoggiare per quella carica il presidente del Parlamento europeo Martin Schulz (il socialista tedesco che avrà invece i voti del Pd). Vendola, dopo discussioni e divisioni, ha dovuto ricorrere a uno slalom linguistico: «Siamo con Tsipras ma non contro Schulz». Nella svolta «greca» di Sel ha contato anche il brutto clima con il Pd di Renzi, a cominciare dalla legge elettorale, mentre i contrari all’inversione di rotta fanno notare che Tsipras è già il candidato del Gue, il gruppo dei partiti della sinistra più radicale in Europa, e appoggiarlo significherebbe per i «vendoliani» tornare in un mondo (a cominciare dai cugini separati di Rifondazione comunista) da cui si erano allontanati proprio per allearsi con il Pd.
Sel a parte, il nome di Alexis Tsipras a sinistra corre veloce da qualche giorno. L’idea di una lista che porti il suo nome per le prossime Europee è nata tra alcuni intellettuali. La partenza è semplice: Barbara Spinelli, scrittrice e figlia di Altero Spinelli, figura storica dell’europeismo in Italia, segnala al direttore di Micromega Paolo Flores d’Arcais un discorso sull’Europa tenuto da Tsipras a Vienna davanti a una platea di socialdemocratici. Flores d’Arcais ne parla con pochi altri e alla fine, in sei (oltre a Flores e Spinelli, lo scrittore Andrea Camilleri, i sociologi Luciano Gallino e Marco Revelli, l’economista Guido Viale) scrivono direttamente al politico greco, illustrando la loro ipotesi: una lista della società civile che avesse lui come riferimento. Tsipras manda in Italia due parlamentari del suo partito, discutono, e poi il leader dice di sì. L’appello per la lista è stato lanciato martedì scorso online. In sei giorni sono arrivate circa diecimila adesioni. Paolo Flores d’Arcais è stupito: «Questa non è la solita petizione, si chiede di aderire a un progetto, si lascia il nome e la mail. Non dico che siano già militanti, ma poco ci manca». Il direttore di Micromega in questi anni di mobilitazioni ne ha attivate altre, dai girotondi al Popolo viola. Stavolta il progetto è più politico: «In Italia per una larga fetta della società civile c’è una specie di tenaglia: o Renzi o Grillo. A questa tenaglia molte persone, aderendo al nostro appello, dicono di volersi sottrarre, cercano un’altra strada».Già, ma che fascino può esercitare un politico di un altro Paese su una sinistra-sinistra ammaccata da batoste recenti? «Innanzitutto — risponde Flores D’Arcais — proprio perché Tsipras è greco. Scegliersi un riferimento ad Atene, e non a Berlino, ha già una forza simbolica. E poi rappresenta il Paese che soffre di più per le politiche di austerity e tuttavia ha saputo dare allo scontento uno sbocco democratico, senza che la rabbia diventasse populismo». Per Flores d’Arcais il punto centrale è che «la lista, autonoma e della società civile, non è affatto contro l’Europa». «Anche in questo caso — dice — c’è una strettoia: o si sostiene l’Europa dei poteri finanziari e dell’inciucio tra popolari e socialdemocratici, oppure ci sono i nazionalisti, gli euroscettici. Ecco, noi proponiamo più Europa, ma non questa». In Italia dietro al nome di Alexis Tsipras il tentativo potrebbe essere più vasto del vecchio mondo delle sinistre radicali: «Il fatto che Sel abbia accettato il passo indietro è incoraggiante e poi — conclude Flores d’Arcais — preferisco parlare di una lista della cittadinanza attiva. A partiti e partitini dico: siete benvenuti, basta che lasciate da parte sigle ed egoismi. Tanto nessun politico che ha ricoperto cariche negli ultimi anni sarà candidato nel nome di Tsipras».

il Fatto 27.1.14
Modello europeo
Svezia, carceri vuote e detenuti reinseriti
Senza colpi di spugna
di Paola Porciello


Un sistema detentivo che non si basi solo sulla pena, ma sulla riabilitazione e sul reinserimento sociale. É il modello svedese che, numeri alla mano, dimostra che senza indulti o svuotacarceri può incidere lì, dove sarebbe opportuno: il rischio di reiterazione del reato una volta usciti. E' quanto accade in Svezia, dove il numero dei detenuti invece che aumentare, diminuisce. A novembre il paese scandinavo ha deciso di chiudere quattro istituti. Dal 2004 il numero dei carcerati è infatti calato dell'1 per cento annuo fino a precipitare a un meno 6 nel biennio 2011-2012, con la stessa previsione per i prossimi due anni. Ma non è una favola: la criminalità esiste. La certezza della pena e il reinserimento però portano a quello che, in tutto il mondo civile, iniziano a prendere come esempio sulla detenzione.
Sulla reiterazione dei reati
Le ragioni? Dietro uno degli indici di recidiva più basso d'Europa (30-40% nei primi tre anni) ci sono veri programmi di riabilitazione, prevenzione e pene non carcerarie per i reati minori. Il possesso di piccole quantità di droga, ad esempio, viene punito con multe o affidamento ai servizi sociali territoriali che si sono dimostrati molto più efficaci nello scongiurare la reiterazione del reato. In Svezia il recupero e il reinserimento sociale non sono solo parole, ma reali obiettivi della pena detentiva. Si cerca di dare all’individuo la possibilità di capire quali sono state le conseguenze dei suoi gesti sugli altri e soprattutto su se stessi, mentre si lavora, si studia e ci si prepara al rientro in società. La privazione della libertà, secondo questo modello, è l'unica vera pena detentiva che va perpetrata. In sostanza, un approccio al crimine e alla carcerazione di natura liberale e progressista. Diametralmente opposto a quello statunitense, dove la percentuale di recidiva oscilla tra il 40 e il 70% e dove le prigioni sembrano più mirate a infliggere una sofferenza per “pareggiare i conti”, eliminando i bisogni fondamentali dell'individuo.
Uno studio pubblicato dal sito dropoutpre  vention.org   che mette a confronto il sistema detentivo statunitense con quello dei paesi scandinavi, evidenzia come questi ultimi raggiungano più efficacemente l'obiettivo di ridurre il tasso di “ricaduta”. Quando la Norvegia ha deciso di implementare il sistema carcerario svedese, ha visto diminuire il proprio numero di detenuti da 200 (nel 1950) a 65 (nel 2004) per ogni 100mila abitanti. Nella prigione modello di Bastoy, si cerca di sviluppare tra i reclusi il senso di responsabilità dando loro opportunità di lavoro in base alla loro comprovata capacità di costruire e mantenere comportamenti sani e rapporti di fiducia con l'amministrazione carceraria. Si possono programmare autonomamente le proprie attività scegliendo tra diverse opzioni: un laboratorio di pittura, o di lettura, magari di ceramica. In questo modo si cerca di sviluppare l'indipendenza della persona.
In un recente articolo del Guardian, il giornalista Erwin James ha chiesto al responsabile del servizio carcerario svedese Nils Oberg quali fossero i motivi della diminuzione dei loro detenuti. Non sapendo dare una risposta precisa, Oberg ha ipotizzato che il fenomeno fosse appunto una conseguenza diretta dell'applicazione dei programmi riabilitativi perfezionati nel corso degli anni. Inoltre, in Svezia, l'età per poter essere giudicati è fissata a 15 anni, e fino a 21 niente ergastolo.
Kenneth Gustafsson, direttore del carcere di Kumla, il più sicuro del paese situato 130 miglia a Ovest di Stoccolma, ha raccontato al giornale inglese: "Nella mia esperienza, la maggior parte dei detenuti ha voglia di cambiare e dobbiamo fare tutto quello che possiamo per far sì che questo accada”. Gli obiettivi che si propone il dipartimento di Giustizia per gli anni a venire vanno nella direzione di un ulteriore perfezionamento dei programmi di recupero: "La nostra priorità saranno i giovani detenuti e gli uomini con accuse legate a comportamenti violenti. Per molti anni ci siamo dedicati ai tossicodipendenti, mentre adesso ci stiamo concentrando sullo sviluppo di programmi specifici per far fronte ai reati di aggressione e violenza. É di questo che si preoccupano i cittadini al momento del reintegro in società dei detenuti. ”
Associazioni di volontariato
Un'altra spiegazione di questo fenomeno potrebbero essere le tante associazioni di volontariato formate da ex-detenuti che mettono a disposizione un'efficace rete di supporto per chi entra o esce dal carcere, provvedendo non solo a una costante supervisione ma garantendo programmi di trattamento per chi deve scontare reati collegati all'abuso di sostanze, o ad atti violenti. Peter Soderlund ha scontato quasi tre dei quattro anni di detenzione per una storia di droga e armi prima di essere rilasciato nel 1998. "Quando ero dentro - racconta al Guardian - sono stato fortunato. Il direttore della prigione di Osteraker, dove ho scontato la mia sentenza, era illuminato. Venivamo trattati bene. Ho incontrato molte persone che avevano bisogno di sostegno e dopo essere stato aiutato dall'associazione 'Kris' ho capito che volevo fare lo stesso per gli altri. Con la nostra associazione 'X-Cons', incontriamo i detenuti al loro ingresso e li seguiamo nel processo di inserimento offrendo una rete di supporto”.
Entrando in una prigione svedese potreste anche non accorgervi di essere in un istituto di pena. Specie nelle fasi avanzate della detenzione vedrete detenuti che escono per recarsi a lavoro, o per studiare, indossando i propri vestiti. Alcune celle somigliano più a stanze di campus universitari con televisori a schermo piatto, cellulari e mini-frigo. Niente impenetrabili barriere, né condizioni punitive inflitte al solo scopo di rispondere al bisogno di giustizia delle vittime. Ma un'organizzazione mirata al recupero di chi vuole davvero essere aiutato a tornare nella società.

Corriere 27.1.14
Giurista e icona del dissenso in Cina
Quattro anni di carcere al dottor Xu
Punito l’attivista anticorruzione: «Minacciava l’ordine pubblico»
di Guido Santevecchi


PECHINO — Hanno scelto una domenica mattina per emettere la sentenza di un processo cominciato solo mercoledì scorso, senza testimoni a difesa e con accuse arrivate per iscritto. E hanno schierato cordoni di polizia per tenere la stampa alla larga dal tribunale di Pechino. Il giudizio era evidentemente già pronto da mesi. Il dottor Xu Zhiyong, giurista, fondatore del movimento dei Nuovi Cittadini, è stato condannato a quattro anni nel processo al dissenso più importante da quello a Liu Xiaobo nel 2009.
Il dottor Xu, 40 anni, aveva chiesto di dare pari opportunità di studio a tutti i figli della Cina, compresi quelli dei lavoratori migranti che vivono come fantasmi nelle città; soprattutto incitava a combattere la corruzione, rendendo pubbliche le proprietà e le ricchezze dei funzionari. Le stesse svolte che proclama e promette il presidente Xi Jinping. Ma la colpa del dissidente è di aver cercato di «raccogliere la gente per perturbare l’ordine pubblico».
Xu, che è un esperto di diritto, era consapevole del rischio; per questo il movimento dei Nuovi Cittadini, costituito nel 2012, cercava di non presentarsi come organizzazione: per discutere, i suoi membri si riunivano al ristorante. La piccola precauzione non è bastata. Xu era noto alla polizia da una decina di anni, da quando aveva cominciato a girare tra la gente di Pechino con un taccuino sul quale annotava le loro proteste civiche.
Xu Zhiyong è stato arrestato ad aprile del 2013, con un’altra decina almeno di Nuovi Cittadini. Lo studioso di diritto ha rifiutato di difendersi in tribunale, ma ha cercato di leggere una dichiarazione, mercoledì. Lo hanno fermato dopo qualche minuto, dicendogli che non era rilevante al caso. Il discorso è stato diffuso dal suo avvocato, secondo il quale le sue parole sono state rilanciate da centomila blogger, nonostante la censura.
Il discorso scritto in cella ha la forza di un manifesto. «...In realtà, in questa corte la questione è se voi siete seri quando parlate di diritti costituzionali dei cittadini. Purtroppo avete trattato il levarsi di gruppi della società civile come uno scisma da temere... ma il nostro intento è chiaro, non cerchiamo di rovesciare il potere per prenderlo noi, non vogliamo una politica barbara per il potere, vogliamo una politica nobile per la Cina, democratica, retta dallo stato di diritto, libera... le dinastie e i partiti politici passano, la Cina ci sarà sempre».
Un altro brano: «La questione ancora più profonda è che nei vostri cuori, c’è il terrore. Siete terrorizzati dai processi in pubblico osservati dai cittadini, terrorizzati all’idea che i vostri nomi compaiano su Internet, terrorizzati dalla società libera. Cercate di schiacciare il movimento dei Nuovi Cittadini e di bloccare il cammino della Cina verso un governo costituzionale attraverso una riforma pacifica... Ma non crediate di poter mettere fine ai Nuovi Cittadini mettendomi in prigione. La nostra è un’era nella quale la civiltà moderna prevale».
Altri sette esponenti del movimento sono in attesa di sentenza a Pechino, altri ancora al Sud. La repressione si sta facendo più dura.
Xu ha avuto una figlia, la settimana scorsa. La vedrà per la prima volta tra quattro anni. Da ragazzo voleva fare il poliziotto, passò le selezioni. Ma chiese di poter studiare legge mentre vestiva la divisa. Gli dissero che non era possibile. Rinunciò ed è diventato un difensore civico. Condannandolo, le autorità ne hanno fatto un vero leader, un simbolo. Almeno per l’opinione pubblica occidentale.
Se e quando il sogno civico di Xu Zhiyong si avvererà, non possiamo saperlo. Ma Xu ha ragione quando dice che il potere centrale ha paura: subito dopo la sentenza, mentre la Bbc intervistava una attivista cinese rifugiata negli Stati Uniti è stata oscurata. Proprio mentre la donna rispondeva alla domanda: «Xu tutto sommato chiede le stesse cose che Xi Jinping promette»; e lei: «Credo che il presidente sia sincero quando dice che vuole sradicare la corruzione...». Lo schermo è diventato nero, perché la censura taglia, senza capire.

Corriere 27.1.14
Le Costituzioni di Tunisia ed Egitto una aperta, l’altra militarizzata
di Cecilia Zecchinelli


Tre anni dopo la fuga di Ben Ali, primo dittatore sconfitto dalla primavera araba, due anni dopo l’inizio dei lavori della costituente, la Tunisia ha finalmente una nuova Carta. Pochi giorni fa, l’Egitto con un referendum ha approvato la sua Costituzione. Ma i due documenti sono profondamente diversi, come differente è stata nei due Paesi la transizione post-rivoluzionaria. Se la Carta tunisina è una delle più liberali del mondo arabo, prodotto di un pur difficile dialogo e di un lungo confronto tra le forze politiche, quella egiziana riflette la polarizzazione della società e conferma la svolta reazionaria del nuovo regime, che in realtà è un ritorno al passato.
In Occidente ha fatto giustamente notizia che il documento di Tunisi sancisca la parità uomo-donna. Ma anche in quello del Cairo questa c’è, seppure più blanda. E in entrambe si parla di Islam religione di Stato: per la Tunisia però la sharia, la legge coranica, non sarà fonte primaria di diritto (per l’Egitto invece sì) perché — ed è questa la vera notizia — il partito più forte, l’islamico Ennahda, ha ritirato la sua iniziale richiesta per raggiungere un compromesso con l’opposizione laica. Quest’ultima a sua volta ha offerto concessioni minori e alla fine l’impasse che dall’estate paralizzava il Paese è stata in gran parte risolta.
Ad aiutare la riconciliazione tra forze politiche, e rendere possibile se non ancora certo un futuro «normale» per la Tunisia, sono stati vari fattori. Ma il più evidente è la scomparsa delle brutali forze di sicurezza che per trent’anni hanno reso possibile la dittatura di Ben Ali. In Egitto invece l’esercito al potere politico ed economico dal 1952, dopo una breve pausa più di facciata che reale, ha consolidato il suo controllo sul Paese. E nella nuova Costituzione l’elemento cruciale sono gli estesi poteri concessi proprio ai militari, e ai loro alleati nella polizia e tra i giudici. Nessuna conciliazione né dialogo con le opposizioni. Nessuna prospettiva di un futuro «normale» .

Repubblica 27.1.14
Le milizie assediano Yanukovich ora la guerriglia esce da Kiev
Rabbia in piazza e cori fascisti per il funerale di un ribelle
di Nicola Lombardozzi


KIEV — Un funerale di guerra per ritrovare la voglia di lottare, per preparare insieme l’ultima spallata a un regime che non ha mai barcollato così tanto, dopo l’ennesima notte di scontri. Anzi di “combattimenti” come ormai dice perfino la tv di Stato.
La sterminata Majdan Nezalezhnosti (Piazza indipendenza) che per tutti gli ucraini è semplicemente la Majdan (la Piazza), si è riempita nuovamente ieri mattina di gente comune, famiglie con bambini, ragazzi dal piumino griffato, anziani pensionati con il colbacco di pelliccia. Almeno cinquantamila persone, tutte venute ad approvare, con la loro sola presenza, la svolta guerriera e aggressiva degli ultimi giorni. Mischiandosi agli energumeni in tuta mimetica, ai giovani arrivati dalla provincia che si addestrano al gelo con mazze e tubi di ferro, alle pattuglie dei movimenti di estrema destra ormai sempre più simili a una milizia popolare addestrata e pronta a colpire.
L’Europa, almeno per il momento, è tornata a essere un sogno lontano ma adesso tutti condividono la stessa priorità: cacciare il presidente Yanukovich, riportare la democrazia nella Costituzione del Paese. Ecco perché hanno applaudito a lungo la povera bara di legno portata a spalla da sei ragazzi con l’elmetto e le insegne rosse e nere dell’Esercito di Autodifesa ucraino Unà-Unso. Gente dura abituata alle guerre, che ha combattuto in Kossovo a fiancodelle truppe dei sanguinari Karadzjc e Mladic, e in Abkhazia con i georgiani contro l’esercito russo.
Il corteo arrivava con passo marziale dalla collina della cattedrale di San Michele dove si era appena svolta una breve cerimonia religiosa, e veniva a consacrare sulla Majdan, uno dei martiri di questa rivoluzione, Mikhail Zhiznevskij, bielorusso, ricercato dalla dittatura di Minsk, che avrebbe compiuto proprio ieri 26 anni. Lo hanno trovato mercoledì scorso sul selciato dalle parti del palazzo presidenziale al termine degli scontri con la polizia. Ucciso da proiettili di fucile, forse sparati da un cecchino.
E i cori, ripescati da un antico gergo fascista degli anni Venti, hanno infiammato anche i più pacifici tra i presenti: «Onore e gloria agli eroi, morte ai nostri nemici». In un tripudio di bandiere e gagliardetti simil nazisti e di approssimative riproduzioni del passo dell’oca.
In prima fila i tre deputati che guidano da oltre due mesi laprotesta, quelli considerati legittimi e non estremisti, che hanno riconquistato la stima della piazza dopo aver rifiutato sabato scorso le ultime disperate offerte di pace di Yanukovich. Arsenij Jatsenjuk, leader del partito di Yiulia Tymoshenko, Vitalij Klitchko, ex campione di pugilato popolarissimo in tutto il Paese, e Oleg Tyagnibok del partito nazionalista Svoboda (Libertà) sanno che la linea dura è ormai l’unica da seguire con una piazza così militarizzata. E con la folla calata apposta dai quartieri bene a omaggiare i «ragazzi che fanno il lavoro sporco e pericoloso per conto di tutti noi».
E tutti e tre hanno passato in rivista, per la soddisfazione del loro esercito alleato, l’ultima conquista di quella che, a fine novembre, era cominciata come una protesta pacifica: la Casa Ucraina occupata nel cuore della notte dopo un paio d’ore di assalto con bottiglie molotov, sassi, spranghe. È un grande edificio circolare sovietico che, negli anni Settanta, ospitava un museo dedicato a Lenin e che adesso è un centro congressi e sala di esposizioni. I “guerrieri” della Majdan lo hanno assalito senza preavviso, quando si è sparsa la voce che fosse pieno di Berkut, gli odiati agenti delle squadre speciali. Dentro c’erano invece solo un centinaio di soldati di leva che, hanno preferito squagliarsela dal retro disperdendosi tra le aiuole ricoperte di neve.
Ma la strategia è ormai chiara. I tre, presentabili e comunque legittimati dalla carica, continuano a trattare con il presidente e ad avere contatti formali con l’Unione europea. Ieri il premier polacco Tusk ha parlato a lungo al telefono con almeno due esponenti della trojka.
Gli altri, i duri paramilitari, continuano l’espansione territoriale. Dalla Majdan hanno prolungato l’occupazione per tutto il viale Kreshatik, asse principale della capitale, la Casa Ucraina e la via Grushevskogo che lambisce il Parlamento e il Consiglio dei Ministri. Stessa cosa avviene a macchia di leopardo in altre città dell’Ucraina, occidentale ma anche orientale filo russa. Un assedio continuo e insistente che lascia il presidente Yanukovich sempre più solo e indeciso tra un’azione di forza, dalle conseguenze comunque tragiche, e la resa totale a una piazza che ormai è pronta a tutto.

Repubblica 27.1.14
“No ai matrimoni misti”
“Netanyahu jr. ama una norvegese”, ira dei rabbini
Dopo la rivelazione del premier israeliano a Davos, protestano i religiosi di estrema destra


GERUSALEMME — Benjamin Netanyahu si sarà morso la lingua, ma era troppo tardi. Una sua frase buttata lì per scambiare due parole innocue con la signora Erna Solberg, primo ministro norvegese, lo ha messo nei guai con gli integralisti ebraici. Il premier israeliano ha raccontato alla collega che il suo figlio maggiore, Yair, esce da mesi con una ragazza norvegese. Ma in Israele l’idea non è piaciuta, tanto che un’organizzazione rabbinica di estrema destra ha chiesto al premier di intervenire per far cessare la vergogna.
Lehava, l’associazione che si batte contro i matrimoni misti, non è nuova a uscite di questo genere. Ai militanti non è piaciuto che la bellissima Bar Refaeli frequentasse Leonardo Di Caprio, cattolico romano, tanto che hanno scritto alla modella chiedendole di interrompere subito la relazione. Hanno contestato anche la scelta di Mark Zuckerberg, inventore di Facebook,che ha sposato Priscilla Chan. In genere però l’obiettivo di Lehava sono le donne israeliane, che l’organizzazione vuol convincere a non sposare arabi, e persino gli israeliani che affittano le case a inquilini arabi.
Secondo Lehava, il padre di Netanyahu, il professor Ben Zion, «si starà rivoltando sconvolto nella tomba». Il premier «dovrebbe essere di esempio ed è suo compito impedire che questo rapporto continui». La fidanzata di Yair Netanyahu si chiama Sandra Leikanger, ha 25 anni e studia in un centro accademico presso Tel Aviv. La famiglia è di fede evangelica, ed è simpatizzante di Israele. Il legame ha innescato un fiume di reazioni nei siti web israeliani. Alcuni hanno recuperato un’immagine di due anni fa, scattata mentre Yair ostentava un cappello da Babbo Natale accanto ad un abete ben addobbato. La didascalia era: «Il mio ragazzo cristiano». All’epoca l’ufficio del premier minimizzò l’episodio, bollandolo come «uno scherzo banale».
Ma la conferma ufficiale del legame fra il figlio del premier e la giovane norvegese ha spinto Lehava a tornare alla carica: per l’ortodossia più rigorosa, Sandra non potrebbe essere considerata ebrea nemmeno se si convertisse. «Se finalizzate solo a un matrimonio, e non frutto di una profonda maturazione interiore, le conversioni non hanno valore», stabiliscono questi rabbini ultraortodossi. Di conseguenza, hanno avvertito, gli eventuali nipoti del premiernon sarebbero visti come ebrei.

Repubblica 27.1.14
Paul Celan

La promessa di Heidegger
di Antonio Gnoli


Furono due grandi maestri dell’oscurità. Si incontrarono nel luglio del 1967. Paul Celan viaggiò verso la Foresta Nera con desiderio e ammirazione per Martin Heidegger. La scrittura e le riflessioni del filosofo lo interpellavano nel profondo. Cos’era il “dire poetico”? Fu con questo interrogativo che si avviò a Todtnauberg (sulla vicenda si può ora vedere il libro di Laura Darsié, Il grido e il silenzio,ed. Mimesis). I pochi testimoni raccontano di un dialogo scarno. Reticente. In dote Celan portò la testimonianza che la parola poetica era risorta dalle ceneri di Auschwitz. Ma perché diventasse più di un’affermazione occorreva che Heidegger riprendesse il filo della storia dove lo aveva interrotto. Pronunciarsi non solo sul  detto di Anassimandro ma anche sull’interdetto del nazismo che lo aveva coinvolto. Non volle. Non ne fu capace. Non era il momento. Ma allora quando? Celan finì la visita con la speranza di una “parola ancora a venire”. Fu una luce, o una promessa, che mai si accese. Dilatò in lui la memoria dei campi fino a diventare la malattia più prossima alla morte. Non più fuga. Ma costante esercizio del dolore: la sua poesia della Shoah. Fin dentro il suicidio.

l’Unità 27.1.14
Quando Himmler scriveva: «Vado a Auschwitz, baci»
Ritrovate in Israele le lettere alla moglie Marga dell’organizzatore dei campi di sterminio «Questi ebrei... quando ci lasceranno in pace?»
di Virginia Lori


Parole affettuose alle moglie, come un marito qualunque che vada al lavoro, quasi un commesso viaggiatore costretto a spostarsi spesso e per questo preoccupato della distanza, del telefono che forse non funzionerà, dei grattacapi quotidiani. Sessantanove anni dopo il suo suicidio, vengono alla luce le lettere di Heinrich Himmler, uno dei più sanguinari gerarchi nazisti, fidato collaboratore di Hitler, organizzatore senza scrupoli dell’Olocausto, capo delle Ss, della Gestapo e della polizia, responsabile dei campi di concentramento e della morte di milioni di innocenti. «Vado a Auschwitz. Baci, il tuo Heini», scriveva il braccio destro di Hitler alla moglie, senza fare il minimo accenno agli orrori che si perpetravano in quel lager e di cui lei doveva essere al corrente, condividendo la missione folle dello sterminio degli ebrei.
L’imperturbabilità di Himmler emerge in alcune delle oltre 700 lettere private scritte dal famigerato capo delle SS alla moglie Margarete Siegroth, Marga come la chiamava, lettere scritte tra il 1927 e il 1945, l’ultima cinque settimane prima che si suicidasse quando tutto ormai appariva perduto. Il carteggio è rimasto a lungo in possesso nell’archivio privato di una famiglia di ebrei israeliani e ora ritrovato dal domenicale Welt am Sonntag (WamS) che ne pubblica alcuni estratti. «Vado a Auschwitz. Baci, il tuo Heini».
Nel corso di un altro viaggio di ispezione dei lager eretti dai nazisti in Polonia, Himmler scriveva a Marga il 15 luglio 1942: «Nei prossimi giorni sarò a Lublino, Zamosch, Auschwitz, Lemberg e poi nella nuova sede. Sono curioso di vedere se e come funzionerà il telefono. Fino a Gmund (residenza familiare bavarese sulle rive del lago Tegernsee, ndr), saranno oltre 2.000 chilometri. Saluti e baci! Il tuo Pappi».
Himmler e Marga, di professione infermiera e di sette anni più anziana di lui, si erano conosciuti e subito innamorati l’uno dell’altra nel settembre 1927 durante un viaggio in treno da Berchtesgaden a Monaco di Baviera. All’inizio di gennaio 1928 alla fidanzata che gli scriveva definendolo «un uomo cattivo dal cuore duro e ruvido», una rimostranza da innamorata, lui rispondeva con affettuosa sollecitudine: «Credimi, il tuo lanzichenecco non ha un cuore né duro, né ruvido, del resto tu lo sai meglio di chiunque “piccola” donna».
Da subito, ancor prima che Hitler arrivasse al potere, ad accomunare i due era anche il loro radicato antisemitismo, che per Marga era un fatto acquisito sul quale non era necessario spendere troppe parole. Riguardo agli ebrei scriveva il 2 novembre 1927 che «i fatti parlino da soli, a che servono questi commenti?». In lettere successive ogni volta che parlava degli ebrei le definizioni ricorrenti erano «canaglie ebraiche» o semplicemente «canaglie», delle quali il 27 febbraio 1928 scriveva di avere «terrore», ricevendo in questo suo atteggiamento il pieno sostegno del fidanzato. «Povera cara, a causa dei soldi devi farti spellare da questi miserabili ebrei», scriveva il futuro capo delle Ss il 16 aprile 1928 a Marga, con la quale si sarebbe sposato qualche mese dopo e che prima delle nozze aveva ceduto le sue azioni di una clinica berlinese all’altro comproprietario ebreo Bernhard Hauschild. «Questo Hauschild, un ebreo rimane un ebreo!», si lagnava Marga il 21 maggio 1928, ottenendo come risposta un invito a non prendersela troppo. «Non ti arrabbiare con gli ebrei», le rispondeva un mese dopo Himmler, aggiungendo che sull’argomento «potrei solo sostenerti, brava donna».
Quando il marito il 9 novembre 1938 aveva già dato l’ordine d’esecuzione dei pogrom contro gli ebrei ed i loro negozi e sinagoghe in moltissime città tedesche, evento passato alla storia come la famigerata «notte dei cristalli», Marga annotava nel suo diario il 14 novembre: «Questa storia degli ebrei... Quando ci lasceranno queste canaglie, in modo da poter condurre una vita felice?».

La Stampa 27.1.14
Baci da Auschwitz, diabolicamente tuo Heini (Himmler)
La banalità del male nelle lettere alla moglie scritte dal padre della Soluzione finale. Comprate negli Anni 60 da un collezionista israeliano, sono ora pubblicate
di Maurizio Molinari

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La Stampa 27.1.14
Il grande fisico rivoluziona la sua teoria e dice che l’energia ne può anche uscire
Buchi neri, Hawking ci ripensa: non esistono
di Giovanni Bignami
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Corriere 27.1.14
I filosofi dell’età classica
di Armando Torno


Dopo una storia della filosofia contemporanea, Piero di Giovanni pubblica, sempre da Franco Angeli, una Storia della filosofia nell’età classica (pp. 528, e 35). Aveva già curato le lezioni di Nietzsche su Platone (Bollati Boringhieri, 1991) e sui filosofi preplatonici (Laterza, 1994); tra l’altro scrisse il bel saggio Platone e l’antiplatonismo di oggi (Palumbo, 1982). Ora, per così dire, mostra esperienza e studi con questa storia che va dal VII secolo a.C. (teogonie, cosmogonie, Scuola Ionica) sino al II d.C., vale a dire lo stoicismo a Roma, con Musonio Rufo, Epitteto, Marco Aurelio. Non c’è quindi la tarda antichità con le filosofie cristiane e, di contro, gli ultimi neoplatonici. Non è incompletezza, anzi. Di Giovanni, che potrà affrontare la materia ricordata in un prossimo volume, espone l’età classica con chiarezza e competenza e sa che i secoli successivi, sino alla chiusura della Scuola di Atene (529 d. C.), sono da ripensare profondamente rispetto alle storie tradizionali. Magari tenendo maggiormente conto dello scontro tra cristianesimo e paganesimo.

Corriere 27.1.14
La Saffo materna e i suoi fratelli
di Luciano Canfora


«Nessuna fonte ci fa sapere quando e dove sia stato roso dai topi l’ultimo manoscritto di Saffo o di Menandro», scriveva Paul Maas in una efficace sintesi delle Sorti della letteratura greca antica a Bisanzio . E commentava: «Di avvenimenti di tal genere è fatta la storia della perdita della letteratura antica». Certo è che nel XII secolo, a Bisanzio, il dottissimo Tzetzes, il quale trovava ancora in circolazione le poesie di Ipponatte, lamentava invece la perdita completa delle poesie di Saffo, nell’introduzione al suo trattato Sulla metrica pindarica . Ma non aveva certo a disposizione un «catalogo collettivo», per cui la sua affermazione può anche apparire problematica.
Comunque ciò che s’era perso nel Medio Evo, ogni tanto e sia pure in piccola parte rispuntò, tra Otto e Novecento, dagli scavi in Egitto: spezzoni di libri su papiro, via via finiti sotto terra con il declino e la definitiva scomparsa della civiltà greca in quella regione. Così ad esempio abbiamo recuperato parecchio Menandro, Teopompo, Iperide, Aristotele, Bacchilide eccetera. E anche un po’ di Saffo, poetessa nata nell’isola di Lesbo, forse a Mitilene, alla fine del VII secolo a.C. La nuova poesia di lei, affiorata da ultimo, purtroppo da collezione privata (dunque senza precisazioni sul momento del rinvenimento e sulla provenienza) ha la fortuna di essere stata affidata ad un esperto come Dirk Obbink. Il quale la pubblicherà ben presto in una rivista specialistica di papirologia ed epigrafia. E anche un esperto di poesia greca come Franco Ferrari si è cimentato nella traduzione di questi versi.
Si tratta di due frammenti. Quello più consistente è stato denominato «il frammento dei fratelli». Lo hanno chiamato così perché vi si nominano Carasso e Larico, i due fratelli di Saffo, già noti da Erodoto (II,135), Strabone (XVII,808) e Ateneo (X, 425a). Da Erodoto, in particolare, già sapevamo che Carasso, dopo aver speso molto denaro per riscattare, in Egitto, la vispa cortigiana Rodopi, era tornato a Mitilene, e Saffo si era occupata di lui con parole molto critiche in una sua poesia.
Il nuovo frammento si pone come antecedente immediato di questo fatto noto: ci fa sapere che Carasso sta tornando. Di Larico parlava già Ateneo: «La bella Saffo loda in diverse occasioni il fratello Larico in quanto coppiere nel pritaneo di Mitilene». Il nuovo frammento anche in questo caso si pone in stretta relazione con la notizia già nota: Saffo auspica che Larico «divenga uomo». Un coppiere infatti sarà stato un giovincello, qual Ganimede. Se diventasse uomo — direbbe la poetessa — «ci libereremmo di molte preoccupazioni». Per il resto il nuovo testo si limita ad auspicare che il viaggio di Carasso vada bene e a spiegare che le cose vanno bene a chi è ben visto dagli dei.
Può stupire che il nuovo pezzo non apporti nulla di nuovo e ci dia solo notizie che già avevamo, ma la vita di Saffo — a parte l’esilio in Sicilia di cui si legge nel Marmor Parium — sarà stata piuttosto povera di eventi, al di là dei suoi fatti privati onnipresenti in tutti i frammenti di lei che sono sopravvissuti. Delusione? Basta non proporsi aspettative troppo alte. Diceva Tocqueville che «basta dare uno sguardo agli scritti che l’antichità ci ha lasciato per scoprire che, se gli scrittori hanno qualche volta mancato di fecondità nei soggetti, di arditezza, di movimento, di generalizzazione nel pensiero, hanno però sempre espresso un’arte e una cura ammirevoli nei particolari» (Democrazia in America , vol. II, 1, cap. 15). Bravi questi vecchi liberali!

Repubblica 27.1.14
L’ultimo imperatore
Le Goff: “Non è vero che Carlo Magno fu padre dell’Europa”
Un grandissimo personaggio che però guardava più al passato che al futuroIl 28 gennaio di 1200 anni fa moriva il “Re dei Franchi” Il grande storico del Medioevo smonta i miti sulla sua figura
di Fabio Gambaro


PARIGI Milleduecento anni fa, il 28 gennaio 814, moriva ad Aquisgrana Carlo Magno, il re dei Franchi che la notte di Natale dell’anno 800, a Roma, nella Basilica di San Pietro, fu incoronato da Papa Leone III imperatore del Sacro romano impero. Colui che sconfisse i Sassoni e gli Avari, e che nel 774 divenne re anche dei Longobardi, fu uno dei massimi protagonisti dell’Alto medioevo, nella cui azione si è spesso voluto vedere uno dei padri dell’Europa. Come scrisse lo storico Lucien Febvre, «l’impero di Carlo Magno ha dato forma per la prima volta a ciò che noi chiamiamo Europa». Un giudizio con cui però non concorda Jacques Le Goff, per il quale il re dei Franchi, «se è vero che unificò sul piano militare e amministrativo una vasta parte del nostro continente», in realtà «non aveva alcuna coscienza dell’Europa». Lo studioso francese ce ne parla nella sua casa parigina ingombra di libri, cercando di distinguere la leggenda che circonda il personaggio dalla concreta realtà dei fatti storici.
«Nel IX secolo, l’idea d’Europa non esisteva. Avrebbe preso corpo solo molto più tardi», spiega Le Goff che, per festeggiare i novant’anni appena compiuti, manda in libreria un nuovo saggio, Faut-il vraiment découper l’histoire en tranches? (Seuil, pagg. 208, euro 18). «Facendosi incoronare dal Papa, Carlo Magno non guardava all’avvenire, ma al passato. Il suo modello era l’Impero romano. Più che creare una civiltà futura, voleva far rinascere l’antica civiltà romana, rianimandola grazie al cristianesimo. Naturalmente, resta un grandissimo personaggio storico. Ebbe grandi progetti che in parte riuscì a realizzare,contribuendo a fondere i latini e i germani, la tradizione romana con quella barbara. Da questo punto di vista, fu indubbiamente uno dei fondatori della civiltà medievale, sebbene fosse un guerriero violento e sanguinario come prova lo sterminio dei Sassoni. Fu dunque un protagonista dell’Alto medioevo, ma non un padre dell’Europa».
Eppure la nascita del Sacro romano impero viene vista come un primo abbozzo dell’Europa attuale...
«Lo ripeto. Carlo Magno non perseguiva alcuna idea d’Europa. Pensava all’impero romano. L’ideale europeo nascerà molto più tardi. Ad esempio nel XV secolo,Papa Pio II scrive in latino il trattato De Europa, nelle cui pagine l’Europa s’impone come un’idea presente e un avvenire auspicabile».
Per lei, quali sono gli aspetti significativi dell’azione di Carlo Magno?
«Personalmente, considero capitale una questione che di solito è lasciata in secondo piano dagli storici. Prima di diventare imperatore, in occasione del Concilio di Nicea, egli difese e praticamente impose al cristianesimo l’uso delle immagini, contrapponendosi agli iconoclasti che in quel periodo dominavano l’impero bizantino. Spingendo il cristianesimo ad autorizzare la creazione e la diffusione delle immagini, compresa quelle di dio, Carlo Magno ha dato alla cristianità, vale a dire all’epoca all’Europa, un mezzo d’espressione di grandissimo valore. La storia dell’arte europea gli deve molto».
Sul piano della cultura, si parla di rinascimento carolingio. È corretto?
«Tutto il Medioevo europeo è scandito da una serie di rinascimenti, che nascono sempre nella memoria dell’impero romano. Tra questi vi è anche il rinascimento carolingio, che ha fatto appello a tutte le forze culturali presenti nel Sacro romano impero. Carlo Magno ha riunito attorno a sé molti grandi intellettuali dell’epoca dalle più diverse provenienze: irlandesi, franchi, germani, spagnoli, ecc. In questo ambito, pur senza averne la coscienza né la volontà, si è mosso in una prospettiva europea. Proprio la volontà di dare impulso alla cultura fa di lui una delle figure centrali dell’epoca medievale. Attorno a questo dato storico indiscutibile sono però poi nate molte leggende».
Ad esempio?
«Gli si è attribuito un ruolo importante nella promozione delle scuole e lo si è quasi trasformato in una specie di Jules Ferry del IX secolo. In realtà, la sua azione ha interessato solo un gruppo sociale minoritario, dato che si è limitata a favorire la creazione di scuole per i figli dei nobili. Voleva dare impulso a un’aristocrazia competente destinata all’amministrazione dell’impero. Proprio questo impegno sul piano amministrativo è un aspetto molto importante della sua opera. A questo proposito, si parla spesso degli inviati nelle diverse zone dell’impero, i missi dominici, che però sono solo un dettaglio all’interno di un’azione amministrativa molto più vasta, che si è manifestata tra l’altro con la promulgazione di testi importantissimi come i capitolari».
Si sottolinea spesso l’impegno di Carlo Magno per la diffusione dell’insegnamento delle arti liberali del trivio (grammatica, retorica e dialettica) e del quadrivio (aritmetica, geometria, astronomia e musica). Anche questa è una leggenda?
«Direi di sì, perché il sistema delle arti liberali, che poi favorirà la nascita delle università alla fine del XII secolo, in realtà esisteva molto prima del suo regno. Il trivio e il quadrivio erano presenti nelle scuole monastiche fin dai tempi di San Benedetto, nel VI secolo. Certo, Carlo Magno ha contribuito alla diffusione di tali insegnamenti, ma nulla di più. Non ne è certo l’iniziatore. È invece importante segnalare l’eredità lasciata nell’ambito della scrittura, grazie alla minuscola carolina utilizzata dagli eruditi in tutti gli stati del Sacro romano impero.
Anche in questo caso, l’invenzione non si deve a lui, ma l’adozione e la diffusione di tale scrittura di cancelleria è un elemento significativo della sua politica intellettuale e della volontà di unificazione».
La sua azione è stata importante per il consolidamento della cristianità?
«Ancora una volta siamo sul terreno del mito, perché la forza e l’influenza del cristianesimo erano già assicurate prima del suo regno. Se il cristianesimo ha continuato a esistere dopo di lui, non dipende certo dalla sua azione. Forse si può interpretare la vittoria sui Longobardi come un contributo alla difesa della cristianità, a me però sembra piuttosto una ripresa della politica di conquista dell’antichità romana. È vero che all’epoca delle crociate Carlo Magno viene considerato un eroe della cristianità. In realtà, però, non è mai stato un crociato, anche se così viene presentato nella Chanson de Roland.
Mentre per quanto riguarda le relazioni con il mondo orientale, ha semplicemente cercato di affermare la propria autorità attraverso alcuni scambi simbolici con i grandi di quella parte del mondo, vale a dire l’imperatrice Irene a Costantinopoli e il califfo Harun al Rashid».
Intorno a Carlo Magno circolano dunque molte tenaci leggende, forse anche di più rispetto ad altri protagonisti della storia medievale. Come si spiega questo destino postumo?
«Il personaggio, che non era certo banale, è stato quasi subito trasformato in un personaggio eccezionale, soprattutto grazie ai poemi epici che molto hanno contribuito alla nascita del suo mito. Più di recente, l’elaborazione della leggenda di Carlo Magno ha conosciuto un altro momento importante dopo la Seconda guerra mondiale, quando, con il trattato di Roma del 1957, ha iniziato a formarsi la comunità europea. I dirigenti di questa Europa che desiderava l’unificazione – Schuman, Adenauer e De Gasperi – erano democristiani e quindi hanno scelto come patrono della nascente Europa proprio Carlo Magno, che per loro era il simbolo della difesa di un continente cristiano. E in questo modo hanno contribuito a rafforzare il mito».

Jacques Le Goff, Uomini e donne del Medioevo (Laterza pagg. 447 euro 35)