martedì 28 gennaio 2014

con chi governa il Pd di Letta...
l’Unità 28.1.14
Saluti romani alla convention dei giovani Ncd

Saluti fascisti, braccio destro teso, ed ecco come si canta a squarciagola l’inno italiano. Il fatto è stato ripreso e registrato (e poi diffuso ieri attraverso il sito di Noiroma.tv). Protagonisti i militanti che hanno partecipato all’apertura della convention del Nuovo Centrodestra. Ovvero le giovani leve del partito di Angelino Alfano, che si sono date appuntamento alla due giorni del 18 e 19 gennaio scorsi a Pesaro. E che a dispetto dell’intenzione di Alfano di presentare Ncd come un soggetto moderato, si sono esibite a favore delle videocamere cantando l’inno di Mameli in posa fascista.

«per ottenere comunque un risultato in tempi brevi sembra si sia deciso di correre un pericolosissimo azzardo costituzionale»
«Siamo ormai giunti ad un punto di fragilità del sistema nel suo insieme per cui ogni uso congiunturale delle istituzioni (...) può avviare una spirale distruttiva»
Repubblica 28.1.14
I paletti della Costituzione
di Stefano Rodotà


POICHÉ si è voluto definirla una “svolta storica”, la vicenda della nuova legge elettorale e di alcune riforme costituzionali non dovrebbe essere soggetta a diktat, chiusa nel campo ristretto di una politica che non sembra disponibile a misurarsi con tutte le implicazioni di scelte particolarmente impegnative. Si corrono così tutti i rischi legati all’inadeguatezza di testi frettolosamente confezionati e ancor più frettolosamente adottati.
Ma vi è pure una sorta di ironia delle cose politico-istituzionali, che ha trasformato un aggressivo “rottamatore” in un prudente “restauratore” di uno degli assi portanti di un sistema di cui pure aveva denunciato tutti i limiti. Questo è un risultato politico ormai acquisito, e che non può essere sottovalutato, quale che sia l’esito finale del processo di riforma.
Dalle parti più diverse, e con argomenti che non possono essere ignorati, si è soprattutto messo in evidenza come il testo della nuova legge elettorale, già all’esame della Camera dei deputati, non rispetti la più importante delle indicazioni contenute nella sentenza della Corte costituzionale — quella riguardante le forzature maggioritarie che svuotano di significato la rappresentanza, dunque la stessa democrazia parlamentare. È preoccupante, allora, che non venga affrontata con la dovuta serietà e consapevolezza una questione che è della massima rilevanza politica. Sembra quasi che, spinti dal bisogno di ottenere comunque un risultato in tempi brevi, si sia deciso di correre un pericolosissimo azzardo costituzionale. Che cosa accadrebbe, infatti, se una legge elettorale freschissima di approvazione dovesse, come la precedente, essere portata davanti alla Corte costituzionale per un suo contrasto proprio con quanto i giudici della Consulta hanno appena stabilito? Non sfugge a nessuno la gravità della situazione che si determinerebbe, con effetto immediato di delegittimazione del nuovo sistema elettorale, mentre proprio l’accento mille volte posto sulla “stabilità” ha qui una più profonda ragion d’essere. Abbiamo bisogno di una legge elettorale davvero “blindata” di fronte ai rischi della incostituzionalità, come passaggio indispensabile per la stabilità complessiva del sistema e per il recupero della fiducia dei cittadini. Ben consapevoli di questo rischio, di cui tutti dovrebbero seriamente preoccuparsi, un gruppo di giuristi ha prospettato l’eventualità di un intervento del Presidente della Repubblica, non nella forma di una indiretta “moral suasion”, ma attraverso un rinvio alle Camere di una legge fortemente sospetta di incostituzionalità. Siamo ormai giunti ad un punto di fragilità del sistema nel suo insieme per cui ogni uso congiunturale delle istituzioni, ogni loro manipolazione con l’ottica del brevissimo periodo, può avviare una spirale distruttiva.
Al di là dei conflitti intorno a singole questioni, e delle ricorrenti strumentalizzazioni, vi è dunque un nodo politico che deve essere sciolto. Non riprodurrò qui tutti gli specifici argomenti che danno solido fondamento alla critica del testo sanzionato dall’accordo tra Berlusconi e Renzi, alcuni dei quali hanno una così forte evidenza da far sospettare che, scrivendo quel testo, si sia voluto tenere sullo sfondo la sentenza della Corte costituzionale, per inadeguatezza di lettura o per deliberata intenzione di non attribuire a questa decisione tutto il peso che le spetta nella definizione della politica costituzionale. Si manifesta così una inquietante idea di “autonomia del politico”, di una discrezionalità legislativa sciolta da ogni vincolo, che contrasta in radice con il punto fondamentale della decisione della Corte dove si stabilisce che nel nostro sistema non vi sono zone franche, sottratte al controllo di costituzionalità. Questa forma di controllo è inseparabile dal costituzionalismo democratico e, invece di stimolare spiriti di rivincita o occasioni di conflitto, dovrebbe indurre a quella “leale collaborazione” tra le istituzioni mancata in questi anni e che rappresenta una delle cause della crisi che stiamo vivendo.
Ma, proprio nel momento in cui la politica sembra voler sprigionare la sua forza residua, manifesta una volta di più le sue debolezze. Non si può certo negare che l’inadeguatezza degli strumenti istituzionali abbia contribuito ad impoverire la politica o a distorcerla deliberatamente. L’esempio più clamoroso è sicuramente la legge elettorale appena dichiarata incostituzionale, approvata con l’esplicito obiettivo di azzoppare la coalizione guidata da Romano Prodi (e che l’opposizione, colpevolmente, non contrastò in maniera adeguata). Ma oggi si racconta una storia che non ha alcun riscontro nei fatti, enfatizzando la necessità di far sì che, come accadrebbe negli altri paesi, la sera stessa delle elezioni si conoscerebbe il nome di un vincitore, libero da ogni ipotesi di larghe intese e destinato poi a governare senza inciampi nei cinque anni successivi. Favole istituzionali, come dimostrano l’esempio tedesco, con le sue larghissime intese e i due mesi di negoziato sul comune programma di governo; l’esempio inglese, che proprio in occasione delle ultime elezioni vedeva possibile una coalizione diversa da quella che ha dato vita all’attuale governo; quello francese, con la possibile coabitazione tra maggioranze diverse, una che investe il Presidente della Repubblica e un’altra che compone l’Assemblea nazionale; lo stesso caso degli Stati Uniti, dove il potere presidenziale non si traduce nella possibilità di andare avanti senza problemi nel corso del suo mandato, come dimostra il conflitto duro con il Congresso che ha radicalmente ostacolato significative iniziative di Obama e ha condizionato pesantemente l’approvazione del bilancio. In quei paesi non ci si rifugia dietro presunte inadeguatezze delle istituzioni, perché si è ben consapevoli che vi sono questioni che possono e debbono essere risolte con la forza e la responsabilità della politica. Se non si torna alla consapevolezza dei doveri della politica, anche alcune necessarie riforme costituzionali finiranno nel nostro paese con l’essere inefficaci.
O seconderanno derive pericolose, come quelle legate alla convinzione che solo la concentrazione del potere può farci uscire dalle difficoltà presenti. Vi sono segni premonitori che non possono essere trascurati. Il passaggio ad una democrazia d’investitura, quella appunto riassunta nello slogan “la sera delle elezioni conosceremo nome del Presidente del consiglio e composizione della maggioranza”, incide sulla posizione del Presidente della Repubblica e getta un’ombra sul ruolo del Parlamento, depurato dal bicameralismo perfetto in forme di cui ancora non conosciamo i dettagli, ma pure funzionalizzato in maniera prevalente alla attuazione del programma ministeriale. Dopo aver dovuto riconoscere che una serie di pretese di revisione costituzionale erano divenute improponibili, alla fine di questo nuovo iter riformatore scopriremo che il cammino è stato ripreso proprio in questa direzione, con una sostanziale modifica della stessa forma di governo?

«Da vent’anni abbiamo avuto sempre governi di minoranza. Però, almeno, erano minoranze del 46-48%. Qui si parla del 35! Ricorda la legge Acerbo. Secondo quella legge, fortemente sostenuta da Mussolini, bastava il 25% per prendere la guida del Paese».
«Con il modello prospettato può succedere la stessa cosa. Per esempio, una coalizione può avere due partiti che raccolgono ciascuno il 4% dei consensi; però i loro voti concorrerebbero comunque a far scattare il premio di maggioranza. Quindi l’esecutivo rappresenterebbe appena il 26-27% degli italiani. Avremmo un governo elitario, aggravato da liste bloccate che producono schiere di cortigiani. Sarebbe qualcosa di simile ai mandarinati…».
Corriere 28.1.14
Pomicino evoca la legge Acerbo: riforma autoritaria
di Daria Gorodisky


ROMA — «È sconcertante: la legge elettorale che si sta proponendo significa affidare il governo, in via definitiva e permanente, a una minoranza di poco più di un terzo dei votanti. Qualcosa che non esiste in nessun Paese democratico». Paolo Cirino Pomicino, una vita nella Dc (fede andreottiana) e nelle sue eredi Udeur e Udc, vede nel sistema pattuito fra Berlusconi e Renzi «il rischio di un autoritarismo vestito a festa democratica»: «Riunisce insieme tre elementi maggioritari anomali: alta soglia di ingresso, circoscrizioni piccole, 18% di premio di maggioranza. Non accade in nessun posto. C’è un problema sul terreno democratico non opinabile».
Si dice che bisogna farlo in nome della governabilità…
«È un alibi. Si dimentica quello che le grandi democrazie parlamentari non hanno mai dimenticato: cioè che la maggioranza si forma in Parlamento e non prima del voto».
Sono 20 anni che in Italia il sistema di voto prevede coalizioni.
«Infatti abbiamo avuto sempre governi di minoranza. Però, almeno, erano minoranze del 46-48%. Qui si parla del 35. Ricorda la legge Acerbo, nata 90 anni fa proprio richiamando il bisogno di governabilità e votata da tutti, compreso De Gasperi. E fu un errore».
Secondo quella legge, fortemente sostenuta da Mussolini, bastava il 25% per prendere la guida del Paese.
«Con il modello prospettato può succedere la stessa cosa. Per esempio, una coalizione può avere due partiti che raccolgono ciascuno il 4% dei consensi; però i loro voti concorrerebbero comunque a far scattare il premio di maggioranza. Quindi l’esecutivo rappresenterebbe appena il 26-27% degli italiani. Avremmo un governo elitario, aggravato da liste bloccate che producono schiere di cortigiani. Sarebbe qualcosa di simile ai mandarinati…».
C’è chi sostiene che questo pericolo verrebbe eliminato dalle primarie.
«È ridicolo. Le preferenze che vanno bene per indicare i candidati, ma non per votarli. Sembra di essere su Scherzi a parte».
Quale potrebbe essere il rimedio?
«Bisognerebbe almeno alzare molto la soglia per un premio di maggioranza o addirittura abolirlo. Un sistema proporzionale con uno sbarramento al 4-5% spazzerebbe via i partitini; e il partito di maggioranza può cercare in Parlamento la maggioranza».
E l’allarme sulla frantumazione politica?
«La frantumazione va contrastata con la soglia di ingresso al 4-5%. E la governabilità sarà sulle spalle della politica, non delle leggi elettorali».

«Pesano, sul Pd, il mancato ripensamento, e la revisione critica, della politica del Partito comunista. È tuttora imperante la parola d’ordine cominformista “nessun nemico a sinistra» che aveva condizionato i partiti comunisti occidentali ancora nell’immediato secondo dopoguerra»
Corriere 28.1.14
Tra i democratici torna il timore che spunti qualcuno «più a sinistra»
di Piero Ostellino


La sinistra del Partito democratico — che accusa Renzi di «aver resuscitato Berlusconi», aprendo con lui un dialogo sulle riforme — è fuori dalla realtà e dal tempo.
Primo. Si è rivelata illusoria la convinzione di aver eliminato politicamente il Cavaliere per via giudiziaria. Era nell’ordine delle cose, in un Paese libero, che Berlusconi avrebbe continuato a fare le stesse cose anche dopo essere stato condannato e espulso dal Senato. Nell’Urss degli anni Trenta, Stalin non aveva eliminato i propri avversari con le false accuse dei processi, ma con le fucilazioni e il Gulag che ne erano seguiti. La sinistra del Pd è fuori dalla realtà perché ha creduto che «la via giudiziaria» al potere, trasferita in democrazia, potesse funzionare senza Stalin.
Secondo. Renzi non ha «resuscitato» Berlusconi per la semplice ragione che Berlusconi non era morto. Anche ammesso che la condanna giudiziaria e l’espulsione dal Senato lo avessero politicamente indebolito, non avevano, però, cancellato i milioni di italiani che votano a destra e che il Cavaliere, bene o male, ha continuato a rappresentare facendo le stesse cose da palazzo Grazioli, invece che dal Parlamento.
Terzo. Non occorreva aver votato Popolo delle libertà e cantato «meno male che Silvio c’è» per capire che i tentativi di vincere le elezioni per via giudiziaria sono illusori in un Paese dove si vota, si fanno e si disfano i governi, non con la Ghepeu, l’Nkvd, il Kgb e affini, i processi e le fucilazioni, ma con le regole della democrazia.
Quarto. Anche ammesso, e non concesso, che siano legalmente fondate le accuse con le quali una certa magistratura crede di poter delegittimare Berlusconi, resta il fatto che, per chi vota a destra, esse sono percepite come un tentativo della sinistra — con la complicità di un sistema giudiziario, oltre tutto, in molti casi, non propriamente esemplare — di andare al governo in modo improprio.
Quinto. Stando così le cose, è ormai evidente che più lo si accusa e lo si processa, a torto o a ragione, maggiormente milioni di italiani votano Berlusconi non perché lo considerino esemplare, ma per paura di una tale sinistra. Una sinistra che pretenda di imporre una certa vocazione totalitaria, senza disporre dei mezzi repressivi, e di operare nei tempi dei quali aveva goduto Stalin, è un nonsenso logico e politico.
Sesto. Con Renzi — e la sua decisione di piantarla con la demonizzazione della destra conservatrice percepita e rappresentata come «fascista» — sono venuti al pettine i nodi che la sinistra massimalista ha accumulato, senza sapere come scioglierli una volta diventata riformista. Pesano, sul Pd, il mancato ripensamento, e la revisione critica, della politica del Partito comunista. È tuttora imperante la parola d’ordine cominformista «nessun nemico a sinistra» che aveva condizionato i partiti comunisti occidentali ancora nell’immediato secondo dopoguerra. Malgrado il fallimento e il crollo del comunismo nel mondo, si teme sempre spunti qualcuno «più a sinistra»...

La “sinistra” del Pd alle dieci e mezzo di sera, “obtorto collo, grazie al fatto che siamo una minoranza responsabile” ritira tutte le proprie proposte di modifica, come richiesto da Renzi...
La Stampa 28.1.14
Riforme, l’affondo di Renzi
“O li ritirate o annuncio che il gruppo non mi segue”
Convince la minoranza Pd a ritirare gli emendamenti non concordati
L’aut aut di Renzi stoppa il Pd
di Francesca Schianchi


Legge elettorale, trattativa con Forza Italia per alzare la soglia del premio di maggioranza. Forse tornano le candidature in più collegi

Tutti gli emendamenti del Pd alla legge elettorale ritirati tranne tre. Alle dieci e mezzo di sera, alla fine della tesa riunione dei membri della Commissione affari costituzionali del Partito democratico con il loro segretario, Matteo Renzi, la decisione presa, “obtorto collo, grazie al fatto che siamo una minoranza responsabile”, si sfoga un deputato della minoranza, è di ritirare quasi tutte le proposte di modifica avanzate dal Pd ieri mattina, come richiesto da Renzi. Alle 13 di ieri scadeva infatti il tempo per presentare emendamenti, e ne sono arrivati 318, inclusi una trentina dai democratici.
Da modifiche alle soglie di sbarramento alle preferenze o ai collegi uninominali al premio di maggioranza fino ad aspetti per ora non presi in considerazione dalla legge, come la possibilità di far votare studenti Erasmus e fuori sede. Firmati da quasi tutti (se ne sono tenuti fuori il capogruppo in Commissione Emanuele Fiano e la responsabile riforme, Maria Elena Boschi, che stanno conducendo la partita), senza che fossero contrassegnati come emendamenti “di corrente”. Ma ieri, dopo aver incontrato lungo la giornata Fiano, il capogruppo Speranza, e aver tentato una nuova mediazione con il plenipotenziario berlusconiano in materia Denis Verdini, il segretario-sindaco riunisce i suoi e pone la questione come un aut aut.
Solo tre sono gli emendamenti su cui, pur non essendoci ancora l’accordo con Forza Italia, si può andare avanti, fa sapere: portare la soglia al 38% per ottenere il premio di maggioranza (l’accordo con Berlusconi prevede il 35%), la delega al governo per disegnare i collegi (anziché affidare il compito al Parlamento) e quello che prevede primarie per legge, obbligatorie ma con la possibilità di renderle facoltative. Prendere o lasciare: «Altrimenti sarò costretto a dichiarare che il gruppo parlamentare del Pd non mi segue e non posso proseguire la trattativa», spiega senza mezzi termini ai suoi deputati. Che, allibiti dalla nettezza della questione, tentano una difesa. Intervengono in tre o quattro, a cui il segretario risponde lapidario: «Non è in questione quello che ci piace o meno, ma quello che si può fare per portare a casa la legge». Finché non interviene l’ex presidente del partito, Gianni Cuperlo: «Nel Pd che immagino io non si procede con gli aut aut, ma se poni la questione in questo modo, allora dobbiamo dirti di sì». Purché, chiede e ottiene garanzia, sia possibile ripresentare emendamenti in Aula. Tranne quei tre, si procede al ritiro tecnico di tutte le proposte di modifica targate Pd.
«Questa legge elettorale non può saltare per uno 0,5%, ci confronteremo su tutti gli emendamenti, lo scopo è trovare un accordo complicato ma possibile», metteva in guardia lungo la giornata Renzi, se si affossa questa riforma «è difficile pensare a uno spazio di speranza per questa legislatura». E non si dica che l’Italicum, insiste, è come il Porcellum (chi lo dice «vive sulla luna»): i costituzionalisti critici sono «quasi tutti di ideologia molto spinta sulla sinistra radicale» che vorrebbero «la legge elettorale della Prima repubblica». Lui prosegue con il testo presentato, portando avanti i soli emendamenti su cui ci sono spiragli. E se in Aula, coperti dal voto segreto, ci fossero franchi tiratori? Pur definendosi «ottimista», dagli schermi di «Piazzapulita» ammette che «può darsi che ci siano ma io faccio le cose mettendoci la faccia. Adesso se qualcuno di nascosto vuol fare il furbo, è un problema di credibilità sua, non mia». Una legge che anche il premier Letta spera arrivi, «se c’è accordo il più felice sono io», perché la riforma e la fine del bicameralismo perfetto renderanno «l’Italia più forte in Europa».
La Commissione lavora in notturna, dopo che per tutta la giornata l’ostruzionismo del M5S sul decreto Imu-Bankitalia non permette di riunire le Commissioni. In una partita in cui anche i tempi contano: la legge deve arrivare alla discussione generale in Aula entro gennaio, se si vuole mantenere il contingentamento dei tempi e approvarla nel primo ramo del Parlamento entro febbraio, mantenendo il timing caldeggiato dal segretario del Pd.

il Fatto 28.1.14
Legge elettorale, Renzi mette in riga il Pd: via gli emendamenti scomodi
In Commissione alla Camera arrivano 318 emendamenti, ma in serata la minoranza democratica accetta la richiesta del segretario di cancellare quelli su preferenze, maggioritario e altri punti che avrebbero smontato l'impianto del testo frutto dell'accordo con Berlusconi

qui

Renzi: «Dicevano che io non controllavo il gruppo? Che è successo? Tutti mi hanno detto sì, persino Cuperlo. Niente emendamenti che rompevano le scatole»
Il Jobs act è sparito di nuovo
Corriere 28.1.14
Il segretario e il gioco al rialzo: meglio fallire che restare fermi
E sul no serale del leader di FI: fa parte del gioco delle trattative
di Maria Teresa Meli


ROMA — Gli amici gli avevano detto di evitare gli azzardi. I fedelissimi gli avevano suggerito di non presentarsi alla riunione dei deputati pd della commissione Affari costituzionali della Camera. E lui? Lui ha ascoltato, sorriso. E fatto, come sempre di testa sua. Cioè si è presentato alla riunione del gruppo del Partito democratico. Ha avuto ragione: «Dicevano che io non controllavo il gruppo? Che è successo? Tutti mi hanno detto sì, persino Cuperlo. Niente emendamenti che rompevano le scatole. In compenso Forza Italia che aveva accettato la soglia al 38 per cento ora con Berlusconi ha bloccato tutto, ma fa parte del gioco delle trattative», è un sindaco di Firenze felice della prova di forza eseguita e vinta quello che a sera chiacchiera con i suoi e non sembra dare troppa importanza ai problemi con FI.
Renzi è un Frecciarossa, che si ferma, a mala pena, a Roma, giusto perché non potrebbe fare altrimenti. E mentre è lì nella capitale e vede Denis Verdini e Angelino Alfano (in tempi separati e ognuno a quattr’occhi), avverte i democratici che la direzione che aspettavano per il 30 gennaio sarà invece per il 6 febbraio. Peccato se Enrico Letta e il suo governo perderanno altro tempo per preparare l’ «Impegno 2014» ma prima di quella data il Partito democratico non è in grado di fare il punto della situazione. E infatti l’ordine del giorno della riunione, negli sms che arrivano a tutti i parlamentari e ai componenti del parlamentino del Pd recita così: «Patto di coalizione, più varie ed eventuali».
Il Jobs act è sparito di nuovo. Non c’è più, con buona pace di chi era convinto che fosse quello l’oggetto della riunione. Quello è un programma che va bene per «una campagna elettorale», dice uno dei fedelissimi del sindaco di Firenze, non un «compromesso al ribasso per trattare con Alfano, Lupi, Quagliariello e Giovanardi». Tradotto dal politichese all’italiano: il Jobs act sarà materia di campagna elettorale in vista delle elezioni europee, non materia di scambio con il Nuovo centrodestra per una mediazione qualsiasi che, magari, preveda un rimpastino. «Non è quello il mio obiettivo», spiega il segretario del Pd, che aggiunge: «Io a Letta non chiedo nemmeno uno sgabello, neanche ora che De Girolamo si è dimessa». E ancora, sempre ai fedelissimi: «Su queste cose decida lui. Gliel’ho già detto molte volte: lo scontro politico continuo con me è controproducente. Per il governo e per la legislatura, più che per il Pd e per me. Credo che lui ormai abbia capito che se gli consiglio di occuparsi del governo lo dico per il suo bene. Non è che l’esecutivo vada alla grande e noi del Pd vogliamo che invece faccia delle cose, che vada avanti, che non si impantani definitivamente nella palude italiana come il resto della politica».
Del resto, quello che pensa dell’esecutivo guidato da Enrico Letta, Matteo Renzi lo ha detto più e più volte: «Io non sono e non voglio essere un ostacolo per Letta. Anzi, penso che grazie a me e a chi mi ha sostenuto in questo confronto sulle riforme abbia dimostrato quanto sia facile passare dalle parole ai fatti. È esattamente quello che si chiede a Letta: andare avanti, lasciando da una parte le chiacchiere, ed esercitandosi sui fatti concreti».
Ma Renzi è conscio che la sua operazione è quanto mai rischiosa? Nel Pd, come si diceva, i suoi nemici non sono pochi, anche se la maggior parte preferisce offrire il sorriso al coltello. Ma quando qualcuno gli chiede come va, Renzi ostenta sicurezza e tranquillità: «La riforma va avanti, e mi pare che vada abbastanza spedita». Tutta questa ostentazione di sicurezza non convince i suoi avversari, ma l’uomo è fatto così. È più forte di lui: «Preferisco rischiare anche il fallimento, piuttosto che stare fermo nella palude. I contraccolpi ci saranno di sicuro e me li aspetto. Si serviranno di ogni mezzo e proveranno qualsiasi cosa per stopparmi. Ma se credono che io mi logori di qui al 2015 si sbagliano di grosso, possono aspettare... e avranno delle amare delusioni. A me portano bene tutti quelli che gufano sul mio insuccesso e sul mio logoramento». E ancora. «Il tentativo è sempre lo stesso. Ormai sono diventati monotoni. Non riusciranno a fermarmi, se lo mettano in testa. Non pensavano che io incontrassi Berlusconi al Nazareno e io l’ho incontrato, non si aspettavano che nel giro di poche settimane trovassi un accordo per le riforme elettorali e io l’ho trovato...».
Insomma, è sempre quella che il vice capogruppo del Senato del Pd, Giorgio Tonini, definisce la «mossa del cavallo», la sortita che premia il sindaco di Firenze e spiazza i suoi avversari interni. Tanto lui, ancora una volta, è pronto a giocare l’arma finale: «Niente riforma, niente legislatura, dunque voto».

Gianni Cuperlo, leader della minoranza: «Noi manteniamo le nostre riserve sul merito e sul metodo, ma aderiamo alla richiesta del segretario di ritirare i nostri emendamenti»
Andrea Giorgis, professore di diritto costituzionale: «Noi li ritiriamo ma solo per strappare di più a Berlusconi. Altrimenti in aula sarà un inferno»
Repubblica 28.1.14
Ultimatum del segretario al suo partito “Datemi subito un mandato a trattare o salta tutto e la colpa sarà vostra”
Vertice tesissimo. I bersaniani: in aula sarà un inferno
di Francesco Bei


ROMA — Lo scontro è duro e quello che si raggiunge, dopo di due ore drammatiche di assemblea nel gruppo Pd, è al massimo una tregua armata. Renzi arriva alla sala Berlinguer alle nove di sera e pretende che i “suoi” deputati obbediscano alla disciplina imposta dal Nazareno e aiutino il segretario a chiudere l’accordo con Berlusconi. «Il punto — esordisce Renzi — ormai non è tanto il merito ma la trattativa politica. Se non ho dietro tutto il Pd non riesco a spostare niente. Dovete ritirare tutti gli emendamenti che avete presentato sulla legge elettorale. E mi dovete dire subito, stasera, un sì o un no».
La richiesta fa rumoreggiare la sala, la minoranza si scalda. Ma il segretario non ha ancora finito: «È chiaro che, se non accettate questa richiesta, salta l’accordo con Berlusconi e io non potrò tacere di chi sarà stata la responsabilità. Tutto resterà come prima e sarà stata vostra la colpa di aver fatto saltare la legislatura». E ancora: «Non mi venite a dire che tutto si può risolvere in aula con un accordo parlamentare, sapete bene che non è così. Io vi ho portato l’accordo politico sulle riforme e sul doppio turno, più in là non si può andare. Se non ritirate gli emendamenti non sarò più responsabile del gioco».
Le minacce non restano senza risposta. Parte all’attacco il centravanti di sfondamento, Alfredo D’Attorre: «Caro Matteo, la devi smettere con questi aut aut. Nessuno qui dentro ha paura di andare a votare. Il rapporto tra noi deve essere di collaborazione. Gli ultimatum non fanno bene né a te né al partito». Renzi prova a smussare: «Nessun ultimatum, ma vi chiedo di lasciarmi trattare ancora con Berlusconi avendo dietro tutto il Pd». Dopo i cannoneggiamenti iniziali è Gianni Cuperlo, leader della minoranza, ad accettare il compromesso. «Noi manteniamo le nostre riserve sul merito e sul metodo — osserva l’ex sfidante di Renzi alle primarie — ma aderiamo alla richiesta del segretario di ritirare i nostri emendamenti». Un gesto di buona volontà, motivato anche dal timore di essere additati come i colpevoli del fallimento della riforma. Incontrando i deputati di minoranza nel pomeriggio, Cuperlo li aveva infatti messi in guardia: «Attenzione a non farci strumentalizzare, non dobbiamo passare per quelli che vogliono far saltare tutto». La riunione prosegue. Interviene il piemontese Andrea Giorgis, professore di diritto costituzionale, per intimare al segretario di trattare ancora e ancora: «Noi li ritiriamo ma solo per strappare di più a Berlusconi. Altrimenti in aula sarà un inferno». Una minaccia implicita di cercare assi trasversali con gli altri partiti — da Sel a Ncd, da Scelta Civica alla Lega — interessati a introdurre le preferenze, abbassare le soglie di sbarramento, alzare l’asticella per accedere al premio di maggioranza. Ma la cosa che sta più a cuore a tutti i democratici anti-Renzi è che, dalla trattativa, esca fuori una norma di salvaguardia che dia la certezza di evitare il voto anticipato in primavera. Quale potrebbe essere? «O Forza Italia accetta che a ridisegnare i collegi sia il governo — spiega un deputato della minoranza — oppure limitiamo la riforma alla Camera dei deputati, costringendo così Berlusconi ad eliminare il Senato con legge costituzionale». In entrambi i casi sarebbe scongiurato un voto a maggio.
La riunione si chiude quindi con un armistizio. In cambio di un ritiro «tecnico» degli emendamenti, Renzi proseguirà oggi la trattativa con Berlusconi e Verdini (si vedranno forse nel pomeriggio). In particolare su tre punti. Aumentare dal 35 al 38 per cento la soglia per ottenere il premio di maggioranza, ottenere le primarie per legge, lasciare al Viminale il compito di comporre la mappa dei collegi (ci vogliono almeno due mesi).
Dunque l’intesa tra Renzi e Berlusconi torna di nuovo in bilico. Anche perché sul premio di maggioranza tutti confermano che sia entrato in campo un giocatore pesante: il capo dello Stato. Napolitano, riferiscono gli uomini al centro della trattativa, sarebbe molto perplesso su quel 35%, ritenendo la soglia di accesso al premio troppo bassa. «Solo la Grecia ha un premio di maggioranza al 15% — sarebbe stata l’osservazione di Napolitano — e noi la supereremmo con il 18%. In pratica il premio di maggioranza equivarrebbe alla metà dei voti presi dal partito vincente. È troppo». Analoga bocciatura arriverebbe, in via informale e preventiva, anche da molti giudici della Corte costituzionale sondati dai partiti. Così, un po’ per il pressing del Colle, un po’ per paura di un blitz parlamentare, alla fine anche Berlusconi si starebbe convincendo a mollare qualcosa sul premio di maggioranza. Magari senza arrivare al 38%, fermandosi appena prima. Che il vento spinga il Cavaliere da quella parte lo ammettono a malincuore gli stessi falchi forzisti. Non a caso, con un tweet serale, Augusto Minzolini cercava ancora di scongiurare un esito ritenuto dai più inevitabile: «La soglia del premio al 38% come vuole Napolitano sarebbe un azzardo per il centrodestra: doppio turno di fatto, con voti grillini decisivi. Ma il masochismo del centrodestra non ha limiti».

il Fatto 28.1.14
Nuovi miti
Il rottamatore eroe del “Giornale”

Al Giornale, negli ultimi giorni, c’è una grande simpatia per Matteo Renzi, il riformatore che vuol fare la legge elettorale assieme a Forza Italia. Nei titoli, l’ex delfino Angelino Alfano tenta un “bliz” sulle preferenze per “affondare la riforma” e andare al voto col proporzionale. Nell’apertura della pagina successiva “Renzi corre sull’Italicum ma nel Pd saltano i nervi”. E ancora, Gutgeld, “il guru del rottamatore” è “divenuto troppo vecchio per giocare in squadra”. L’assioma è: Pd cattivo, Renzi buono. Tutto condito dai “signor No” (quelli che pensano che la riforma proposta sia una ciofeca) Grillo, Rodotà, Scalfari e Sartori e da “L’ossessione della sinistra per la ‘politica del fare’”. Neanche loro considerano Renzi leader di un partito di sinistra.

La Stampa 28.1.14
Premio di maggioranza. La soglia verso il 38%
Ma Silvio s’infuria e frena
Berlusconi: “Così si va al ballottaggio e i grillini votano Matteo”
Ramoscello d’ulivo per Alfano. Potrebbero ricomparire le candidature in più collegi
di Ugo Magri


L’ottimismo viene talvolta sbandierato dai politici solo per darsi coraggio. Quello ostentato da Renzi, però, non sembra campato in aria. Davvero, nelle ultime ore, la legge elettorale ha fatto passettini avanti. Un paio di inciampi sono stati tolti di mezzo nel corso delle fitte trame pomeridiane e serali. Chi chiedeva al segretario di spremere qualcosa in più dall’accordo stipulato dieci giorni addietro con Berlusconi, deve prendere atto che il Renzi si è mosso e ha portato a casa alcuni risultati. Non tutti quelli che la minoranza del partito gli aveva annotato sul foglietto della spesa: sulle preferenze, ad esempio, permane il «vade retro» del Cavaliere, il quale è ossessionato dall’idea di scegliersi a uno a uno i propri rappresentanti parlamentari, come se ciò lo mettesse al riparo da «tradimenti» e scissioni... I collegi plurinominali dell’«Italicum» sono il punto massimo dove Forza Italia è in grado di spingersi; e le malelingue da quella parte sostengono che, nel suo colloquio con Verdini, Renzi stesso non abbia insistito più di tanto per tornare alle preferenze, in quanto lui pure ha un problema di classe dirigente da rimodellare, perché quella attuale scelta da Bersani non gli somiglia affatto.
Allo stesso modo, il sindaco-segretario non è riuscito a tirar giù la soglia di accesso per il «partitini», dal 5 al 4 per cento. Ma pure qui aleggia il dubbio che Renzi non sia poi così in ansia per i destini di La Russa o di Alfano, o dello stesso Vendola. Se verranno «asfaltati», pazienza. Viceversa l’uomo s’è battuto come un leone su quanto più gli conviene. Per esempio, è riuscito a ottenere da Verdini l’innalzamento della soglia oltre la quale scatterebbe il premio di maggioranza. Dal 35 salirà al 37-38 per cento. Ciò significa, in concreto, che sarà un po’ più difficile vincere al primo turno, e alle prossime elezioni quasi certamente assisteremo al ballottaggio tra i due schieramenti più votati con in palio il bottino pieno. Qui sta il vantaggio per Renzi. Berlusconi, che l’ha capito al volo, ieri sera quasi smoccolava: «Nella scelta tra il sottoscritto e Matteo, gli elettori grillini sceglieranno certamente lui. E io ci resterò gabbato...». Ancora più crudo Minzolini, forzista di punta: «Il nostro masochismo», ha twittato, «è proverbiale». Di qui il fiume di precisazioni da Arcore, «mai autorizzato il 38%». Però Berlusconi sa benissimo che non si può fare diversamente per le riserve quirinalizie e soprattutto della Corte costituzionale. La quale ha fatto sapere per vie brevi che troverebbe eccessivo un premio da 18 punti, tale da sospingere al 53 per cento chi si è fermato al 35. Il «bonus» più alto in Europa ce l’ha la Grecia, dove il premio non supera il 15. «Regoliamoci come loro», pare sia stato l’input del Colle dove hanno sede tanto Napolitano quanto la Consulta. Berlusconi punta i piedi ma se vuole l’accordo, il Cavaliere dovrà abbozzare.
Ancora: Renzi ha virtualmente ottenuto che sia il governo, non il Parlamento, a perimetrare i collegi. E ha offerto come ramoscello di ulivo ad Alfano la chance di introdurre le candidature multiple (non previste del testobase della riforma), che gli permetterebbero di presentarsi in tre collegi anziché uno soltanto, dopodiché se un leader non venisse eletto dovrebbe prendersela con se stesso e nessun altro. Permangono le riserve del ministro Quagliariello, ma il vice-premier pare restio a mettersi di traverso. Ed è vero che l’incontro notturno coi deputati Pd è stato per Renzi un match pugilistico; però Cuperlo, che nella minoranza conserva voce in capitolo, si è raccomandato coi suoi di non infilare troppi bastoni tra le ruote, e soprattutto di non azzardarsi a reclamare il voto segreto sulla riforma: scatterebbe immediatamente l’accusa di complottare nell’ombra.
Insomma: il mare del dissenso si va prosciugando sebbene la riforma, per dirla con il renziano Nardella, «debba ancora superare la prova dell’Aula», e un letterario Brunetta evochi nientemeno che i flutti «increspati e procellosi» dove il Pequod dava la caccia a Moby-Dick...

Corriere 28.1.14
Il doppio patto che non piace al Cavaliere
Dopo il sì alla legge, blitz sul governo. E non sarà un semplice rimpasto
di Francesco Verderami


ROMA — Ci sono due patti. Il primo, che ha come protagonisti Renzi Berlusconi e Alfano, prevede che l’intesa sulla legge elettorale regga la prova della Camera e superi indenne le forche caudine degli scrutini segreti. Il secondo, che riguarda la maggioranza, stabilisce che — all’indomani del voto sulla riforma del sistema di voto — parta il «blitz» sul governo, per arrivare a un Letta-bis con esponenti democratici vicini al segretario inseriti in ruoli strategici nel nuovo esecutivo. L’obiettivo «a tempo» dovrà essere quello di assecondare il disegno parlamentare di rinnovamento delle istituzioni e di guidare la ripresa sul versante economico, che dovrebbe mostrare i primi dati positivi nel quarto trimestre dell’anno.
L’operazione, assai delicata, è in fase di elaborazione, e ha in Alfano il massimo sponsor. E siccome tutto si dovrà tenere, la fase due — quella relativa a palazzo Chigi — inizierà a prender corpo nei giorni in cui la riforma elettorale transiterà dalla commissione all’Aula di Montecitorio. Sarà allora che si decideranno le sorti del governo, ma il processo si completerà solo dopo che i deputati avranno approvato l’Italicum. Perché così chiede Renzi, a garanzia di qualsivoglia patto di maggioranza, ed è per questo che in pubblico e in privato continua a marcare la distanza da Letta. Il timing però è già stato impostato, l’appuntamento è per metà febbraio: come fossero al check point Charlie, solo a quel punto si arriverà allo «scambio».
Uno scambio politico, dove le poltrone di governo non dovrebbero essere il remake di film del passato, ma servirebbero a sancire un’intesa basata su un percorso programmatico delineato nei dettagli. Per essere solido, l’accordo non potrebbe passare per un semplice rimpasto, che terrebbe l’esecutivo esposto alle intemperie. In quel caso per il Nuovo centrodestra non avrebbe senso proseguire oltre, per evitare di esporsi al rischio di una crisi che — con le riforme incardinate — potrebbe addirittura portare a un gabinetto di scopo. E Forza Italia già punta all’obiettivo.
Le parole pronunciate domenica da Brunetta a Rai3 hanno in parte disvelato il piano azzurro. È vero, il capogruppo è stato prontamente smentito dal suo stesso partito, ma non è un caso che ieri — nelle ore in cui Renzi stava cercando di chiudere l’intesa sulla legge elettorale — si moltiplicavano le voci di autorevoli esponenti forzisti, dubbiosi sull’iter delle riforme istituzionali, quelle cioè che contemplano la riforma del Senato e la modifica del titolo V della Costituzione: «Per ora — spiegavano — non c’è nulla di concreto. Sono solo tre righe scritte su un documento». La frenata era rivelatrice del disegno che il fronte berlusconiano coltiva dal giorno dell’incontro tra il Cavaliere e Renzi: siccome per varare le modifiche alla Carta servirebbe almeno un altro anno, servirebbe anche un altro governo...
Il segretario del Pd è stato chiaro con Alfano: lui vuole intestarsi la fase costituente, e da regista dell’operazione ha imposto sulla legge elettorale dei paletti all’ultima trattativa per evitare la rottura del «triangolo», e garantire da una parte Berlusconi e dall’altra il Pd. In linea di massima il testo va bene al Ncd e non sarebbe certo il nodo delle preferenze a determinare la rottura, nè tantomeno la quota di sbarramento fissata al 5%, di cui il vice premier fa mostra di non curarsi. Anzi. «Verdini continui pure a sollevare l’asticella, se lo desidera», ha commentato il ministro Lupi in segno di sfida verso Forza Italia. Ncd piuttosto è interessato a innalzare al 38% la soglia per ottenere il premio di maggioranza — uno dei punti su cui il Colle è intransigente — che renderebbe determinante il partito di Alfano nella coalizione di centrodestra. Il Nuovo centrodestra insomma asseconda Renzi sulle riforme ma chiede in cambio la blindatura del governo.
Ecco il motivo che ha spinto ieri sera Berlusconi a irrigidirsi nella vertenza, e a contestare «quota 38». L’idea che il segretario del Pd diventi il «padrino» della Terza Repubblica e che al contempo Alfano possa stringere con lui un «patto di maggioranza», confligge con i suoi piani. Che sono altri. Renzi ha avuto modo di capirlo durante il colloquio con il Cavaliere, che ha impiegato buona parte del tempo a raccontare i dettagli della sua odissea personale: dei magistrati, dei processi, delle sentenze, della mancata grazia, del ruolo di Napolitano. Insomma di giustizia. ..

La Stampa 28.1.14
Il rischio di far saltare il tavolo
di Marcello Sorgi


Èinutile nasconderlo: la pioggia di emendamenti, a centinaia, caduta sul testo della riforma elettorale, ha dato la dimensione effettiva delle difficoltà che accompagnano la nuova legge dal momento della sua presentazione. Finora si poteva pensare che nell’atteggiamento dei partiti o delle correnti che avevano minacciato di rovesciare l’accordo siglato da Matteo Renzi e Silvio Berlusconi, e allargato al Nuovo centrodestra di Angelino Alfano, ci fosse una percentuale di bluff e un normale tasso di propaganda: nel senso che, mettendo in conto la possibilità che alla fine l’Italicum potesse non vedere la luce, ciascuno logicamente pensava ad attrezzarsi a quest’eventualità e a evitare di dover condividere la responsabilità di un naufragio.
Ma di fronte ad oltre trecento ulteriori proposte di modifica del testo presentate ieri in commissione alla Camera (anche se Renzi a tarda sera ne ha imposto il ritiro di una trentina firmate Pd), occorre guardare in faccia alla realtà: se non si troverà un’intesa, almeno tra i tre principali contraenti del patto per le riforme, per arrivare a cambiare il testo in modo condiviso, il processo riformatore potrebbe realmente arenarsi prima di cominciare, e la discussione partita a Montecitorio, con l’obiettivo di concludersi in tempi brevissimi, trasformarsi in un grimaldello in grado di far cadere il governo e portare ad elezioni anticipate.
Che questa, e non altra, sia la posta in gioco, lo ha detto chiaramente Renzi. E dopo giorni di polemiche e un evidente, ostentato, raffreddamento dei rapporti personali, a sorpresa è stato Enrico Letta a schierarsi con il segretario del Pd, spingendo contro ogni ipotesi di rottura e a favore dell’accordo, per salvare insieme la legge, il governo e la legislatura. Quanto a Forza Italia, insiste perché non sia snaturato ciò che era stato concordato tra Renzi e Berlusconi, e in particolare per far sì che il ritorno alle preferenze, escluso su richiesta del Cavaliere, non venga riammesso, magari grazie a una votazione parlamentare in cui i franchi tiratori potrebbero risultare determinanti.
Renzi, Letta e Berlusconi, in altre parole, si rivolgono ad Alfano. Il vicepresidente del consiglio e leader di Ncd, fin qui, proprio sulle preferenze, ha tenuto duro. Lasciare le liste bloccate, anche se piccole liste in cui i candidati sarebbero più riconoscibili, significherebbe per lui perpetuare il meccanismo del Porcellum, odiato dai cittadini e condannato nei sondaggi, dei parlamentari «nominati» dai capipartito e non scelti effettivamente dagli elettori. Si tratta di un argomento forte e sicuramente popolare, che ha trasformato Alfano, perfino al di là della sua volontà, nel leader di uno schieramento parlamentare trasversale, che annovera la minoranza del Pd, Scelta civica nei suoi due tronconi, Sel e Lega: un «fronte del No» che in commissione e in aula potrebbe riservare sorprese, e non solo sul controverso punto delle preferenze; ma che tuttavia ha nel rallentamento dell’iter della riforma l’unico vero punto di contatto.
Non va dimenticato infatti che Alfano, Monti e Casini, diversamente da Cuperlo, Vendola e Salvini, non hanno alcun interesse ad affossare la legge elettorale perché sanno che il governo difficilmente sopravviverebbe a questo. Il ritardo imposto dal rilancio delle riforme al nuovo patto per il 2014 che il premier stava negoziando depone in questo senso. E non a caso Alfano, previdente, alterna in questi giorni la pressione sulle modifiche da apportare alla legge elettorale ai richiami a Renzi e al Pd a sostenere più convintamente il governo. Occorrerà vedere, da oggi, che effetto avrà sul vicepresidente del consiglio, il nuovo atteggiamento di Letta, schieratosi più vicino a Renzi grazie anche alle sollecitazioni del presidente Napolitano, che a nessun costo ammetterebbe una marcia indietro, ora che il risultato è a portata di mano. L’accordo, sia sulla legge elettorale che sulle modifiche da apportarvi, non è affatto facile, comporta sicuramente dei sacrifici, e al momento, dopo la valanga di emendamenti depositati alla Camera, ha quasi le stesse probabilità di riuscita e di fallimento, ancorché le conseguenze, in un caso o nell’altro, sarebbero assai diverse. Per questo, sarebbe bene che tutti riflettessero e si impegnassero, prima di correre per davvero il rischio di far saltare il tavolo delle riforme.

Repubblica 28.1.14
Boldrini: sì ad ampie convergenze, inutili gli aut aut sul voto
“Garantire pluralismo e scelta degli eletti o rischiamo di alimentare l’astensione”
intervista di Liana Milella


ROMA — Presidente Boldrini, parliamo della legge elettorale? «Sì, ma per favorire un buon risultato, saranno i gruppi a decidere le tecnicalità». Che clima vede, dentro e fuori il palazzo? «Dentro si lavora molto, anche perché fuori c’è una grande attesa». Il premio di maggioranza? «Non deve essere così alto da tradire la volontà degli elettori». E lo sbarramento? «Il pluralismo è un valore per la democrazia». La presidente, nel suo ufficio di Montecitorio, dove ha portato due sculture ripescate dai magazzini della Camera che le piacciono molto (un gatto rosso e una bambina) dice aRepubblica:«La rappresentanza può incrementare la partecipazione. Senza penalizzare la governabilità».
Facciamo un pronostico sulla settimana: confronto civile o rischio caos?
«Siamo nella fase importante della commissione, dove si fa la sintesi delle singole istanze per trovare un terreno comune, anche se i punti di partenza sono diversi. La legge elettorale dev’essere la più condivisa possibile, perché riguarda l’assetto del Paese ed è giusto che veda la convergenzadi tutti i gruppi».
Niente scontro allora?
«Il dibattito è vivace, ma ci sta tutto».
Lei gira molto in Italia. Ha colto la preoccupazione di un possibile inciucio o il dialogo Pd-Fi è compreso?
«Fuori di qui i cittadini chiedono risultati concreti. Sono anni che si parla di riforme, senza mai arrivare a un risultato. Bisogna cambiare rotta e dimostrare che la politica è capace di dare risposte, rispettando tempi e impegni. Tutti i partiti hanno promesso di cambiare la legge, sono passati dieci mesi, e forse ci siamo. Sento che la gente se lo aspetta e non si può tradire questa attesa».
Renzi lancia un ultimatum, se il voto segreto affossa la legge si va a votare. Analisi giusta o esagerazione?
«Non so se, proprio ora, sia utile porre in modo così netto questo aut aut. Agitare come uno spauracchio le elezioni non serve, perché non si può sempre andare a votare. Prima ci vuole una nuova legge elettorale che garantisca la governabilità. La nuova legge deve coniugare due esigenze, entrambe importantissime, la rappresentanza e, appunto, la governabilità. È fondamentale che i cittadini non si disamorino di fronte ad una limitata offerta politica. Il rischio è che in pochi vadano a votare, come succede negli Usa e in Gran Bretagna, e che gruppi significativi siano esclusi dal Parlamento».
La Consulta e le perplessitàdei giuristi. Renzi si infastidisce, ma i paletti tecnici sono necessari. I suoi punti fermi?
«Va rispettata l’autorevolezza di chi esprime un parere e chiede che si recepisca quanto ha stabilito la Corte. I costituzionalisti partono da lì e sottolineano che bisogna recepire la sentenza traducendola in un’ottica politica».
Il nodo delle preferenze è strategico. Tra la gente si avverte la voglia di indicare per nome i propri rappresentanti. È sbagliato?
«I cittadini devono poter scegliere il candidato. Lo devono conoscere. Come tradurlo in norme lo lascio al lavoro dei gruppi. Le soluzioni possono essere tante, ma ci deve essere un collegamento tra chi vota e chi viene eletto. Non va però neanche dimenticato che in passato le preferenze multiple hanno creato più di un problema e i referendum le hanno bocciate. Oggi serve un sistema elettorale che garantisca trasparenza. E se si tornasse alle preferenze servirebbero in ogni caso controlli severisull’utilizzo delle risorse».
Anche un premio di maggioranza eccessivo è vissuto come un abuso. Il presidente del Senato Grasso propone una soglia al 40%. Un premio troppo alto mortifica la volontà dei cittadini?
«Sì, perché non corrisponde al voto e anzi lo altera. La Consulta ha parlato di uguaglianza dei voti. Bisogna stabilire un rapporto ragionevole tra voti conseguiti e premio di maggioranza, che non sbilanci e non sconvolga il risultato elettorale. La stella polare resta la sentenza».
Lei è stata candidata da Sel, un piccolo partito. Come vede la prospettiva che lo sbarramento lo escluda?
«Il pluralismo è un segno di democrazia. Quando l’offerta politica si restringe a due o tre partiti la conseguenza è che una bella fetta della popolazione non si identifica più nella politica e preferisce non votare. Cito ancora i paesi anglosassoni. Ma in tempi di antipolitica non è il momento di restringere la rappresentanza, perché la politica è inclusione e partecipazione».
Le candidature multiple?
«Bisogna che il candidato sia eletto nel luogo dove ha fatto la campagna elettorale e dove è tenuto a rispondere agli elettori per le cose che ha promesso di fare. Io stessa, quando ho dovuto scegliere per quale circoscrizione optare, mi sono trovata in grande disagio».
Lei era all’apertura del congresso di Sel. Impressioni?
«Trovo innaturale la spaccatura tra Pd e Sel. Sarebbe importante per il Paese costruire una piattaforma comune, che definisco progressista, che si sviluppi intorno ad una stessa visione di società e che abbia anche la forza di attrarre a sé chi è deluso e magari non va più a votare».

l’Unità 28.1.14
E se vincesse una coalizione di minipartiti?
di Michele Prospero


La moltiplicazione degli sbarramenti, e il meccanismo dei premi introdotti dalla nuova legge elettorale, paiono congegnati secondo una formulazione linguistica che (nell’art. 14 ter., punto 16, 3, a) a tratti pare foriera di esiti logicamente assurdi. Un’ipotesi certo remota, ma non del tutto inverosimile, mostra tutti i gravi buchi neri dell’Italicum che lo smontano come tecnica dotata di coerenza formale. È possibile che nelle prossime consultazioni il panorama elettorale si articoli in questo modo. Con il Pd fermo al 32 per cento, non scatta il premio. Si va quindi al secondo turno. E si tratta di stabilire quale altra coalizione accederà al ballottaggio. È qui che però sono possibili delle sorprese.
Con il 20 per cento ciascuna, Fi e M5S non ce la fanno perché, nell’ipotesi di scuola, va meglio di loro un costituendo quarto polo di centrodestra. E quindi con il 21 per cento dei consensi, tocca ad Alfano affrontare il Pd al secondo turno. E però, dando un’occhiata all’interno della sua variegata coalizione, i rapporti di forza paiono essere così distribuiti: minoranze linguistiche e Lega 3,5; Udc 4,5; Scelta civica 3,5; Fratelli d’Italia, Futuro e libertà ed altre di destra 4,5; Ncd 4,9. La ripartizione dei voti rivela un autentico paradosso. La coalizione supera abbondantemente il 12 per cento, quale soglia minima per avere rappresentanza, ma nessuna delle forze che la compongono ha ottenuto singolarmente il minimo dei voti (5 per cento) necessari per avere dei seggi. In virtù dell’alleanza con una minoranza linguistica del Trentino o della Valle d’Aosta può però avere l’opportunità di accedere al ballottaggio in quanto rispecchia le specifiche condizioni previste nell’art. 14 ter (punto 16, 3, a).
Portando agli estremi limiti il paradosso, si potrebbero sperimentare delle conseguenze ancora più bizzarre. La seconda coalizione vince la gara del ballottaggio acquisendo sul campo il diritto al premio del 53 per cento dei deputati. Ma a chi assegnare i 340 seggi se nessun partito ha superato il 5 per cento? Si può avere un vincitore senza seggi? Se il premio va attribuito alla lista di una minoranza linguistica, si incontra una tangibile difficoltà: essa non ha presentato che una manciata di candidature. Sia i seggi conquistati dalla coalizione al primo turno (circa 130) sia i seggi (340) aggiudicati nel ballottaggio non potrebbero essere attribuiti. L’Italicum contiene un meccanismo che rischia di far saltare tutto.

Corriere 28.1.14
Resta la difficoltà di superare i dubbi dei partiti minori
di Massimo Franco


Forse l’arrivo in aula slitterà di un giorno. Ma se anche la discussione sulla riforma elettorale dovesse tardare di ventiquattr’ore e poi cominciasse, sarebbe il minimo. Il problema è come e quanto un Parlamento nel quale i gruppi del Pd sono composti da persone non scelte da Matteo Renzi, asseconderanno l’accordo del segretario con Silvio Berlusconi. Lo spauracchio dei franchi tiratori c’è, né potrebbe essere diversamente. E il numero alto degli emendamenti riflette lo scontento soprattutto dei partiti minori per la soluzione che si sta profilando; l’ostilità del Movimento 5 stelle, e le resistenze meno vistose eppure presenti nelle stesse file della sinistra e di Forza Italia. Il confronto a distanza tra Renzi e il premier, Enrico Letta, è l’apice di tensioni diffuse.
I colloqui avuti ieri dal leader del Pd con l’emissario di Berlusconi, Denis Verdini, e poi col vicepremier, Angelino Alfano, capo del Nuovo centrodestra, lasciano capire che non può prescindere dal principale alleato del governo. Non significa che Renzi è costretto a trovare prima un accordo nella coalizione e poi ad allargarlo al Cavaliere: ha fatto il contrario, e con successo. Ma non può evitare un ultimo passaggio: nel senso che un compromesso con l’opposizione berlusconiana rifiutato da Alfano creerebbe problemi di stabilità; e gli tirerebbe addosso l’accusa di avere scelto il nemico storico del Pd.
Dunque, gli serve il «placet» anche del Ncd. E nonostante le polemiche e l’appello di Beppe Grillo al capo dello Stato, Giorgio Napolitano, perché blocchi il patto Pd-FI, probabilmente si tratta delle ultime schermaglie in vista dell’intesa e non di una rottura. Sebbene considerata pasticciata e destinata a perpetuare la «nomina» dei parlamentari da parte dei segretari di partito, la legge dovrebbe passare col «sì» anche di Alfano. E secondo Letta, un risultato positivo rafforzerebbe anche il suo governo. «Se si risolveranno i problemi della legge elettorale e del bicameralismo perfetto, il più felice sarei io», ha detto. «Il governo sarà più forte anche nei confronti dell’Ue». Alla minoranza dei Democratici che gli imputa il patto con Berlusconi, Renzi risponde agevolmente di accordarsi con lui sulle riforme, e non di governarci come è stato fatto fino a novembre.
Un margine di cautela, però, va conservato. Il capitolo più insidioso sono le preferenze. Le vogliono le forze che temono di essere schiacciate da un bipolarismo ancora più accentuato. Le chiede Alfano, e lo stesso presidente del Consiglio non le aveva escluse nei giorni scorsi, irritando Renzi e ritrovandosi criticato dal suo ministro per i rapporti col Parlamento, Dario Franceschini. Berlusconi ha messo un veto su qualunque modifica che intacchi il bipolarismo. Ci sono poi il problema della percentuale che fa scattare il premio di maggioranza, e la soglia di sbarramento per eleggere i parlamentari. Alcuni costituzionalisti si sono espressi contro il modello che potrebbe prendere corpo in Parlamento.
«Sono della sinistra radicale», reagisce Renzi, accusandoli di proporre «la legge elettorale della Prima Repubblica, che causava ingovernabilità». Purtroppo, non è che i sistemi successivi abbiano sempre garantito stabilità: la coalizione anomala che guida il Paese oggi lo conferma. Né si può scommettere che la riforma scongiuri un Parlamento spezzato in tre tronconi, come l’attuale; e dunque impossibilitato a formare maggioranze omogenee. La forza di Renzi, però, è di tentare un’operazione evocata per anni. Il Quirinale lo appoggia perché sarebbe anche un segnale distensivo «di sistema». La condizione è che il governo venga puntellato e non affossato. Il fatto che ieri Letta abbia accettato subito le dimissioni polemiche del ministro Nunzia De Girolamo, sembra dire che i margini di manovra di palazzo Chigi sono aumentati e non diminuiti.

Corriere 28.1.14
Il problema delle soglie. Il ruolo dei partiti minori
risponde Sergio Romano


IL PROBLEMA DELLE SOGLIE IL RUOLO DEI PICCOLI PARTITI Risponde Sergio Romano Pur di cancellare i partiti che la pensano diversamente (oggi i piccoli, domani i medi) i grandi partiti (o presunti tali) ipotizzano soglie di sbarramento surreali. Infatti se tre partiti in coalizione ottenessero il 4,5% ciascuno, supererebbero la soglia di coalizione del 12% con diritto di essere rappresentati in parlamento ma da chi, visto che nessuno dei 3 partiti avrebbe superato la soglia del 5%?
I grandi vogliono i voti dei piccoli senza dare loro la rappresentanza. È vera democrazia? I voti si ottengono convincendo gli elettori, non cancellando chi la pensa in modo diverso.
Roberto Repossi

Caro Repossi,
Il suo esempio rappresenta un caso limite, interessante ma non molto probabile. Credo che lei dovrebbe piuttosto chiedersi perché nella nuova legge elettorale proposta da Renzi e Berlusconi le soglie di sbarramento siano particolarmente elevate. Non lo sarebbero, probabilmente, se l’esperienza fatta con le due leggi del 1993 e del 2004 non fosse stata cosi negativa. Entrambe, anche se per ragioni diverse, hanno provocato la nascita di piccoli partiti, talora schegge di partiti maggiori travolti dai mutamenti del quadro politico nazionale e internazionale all’inizio degli anni Novanta, spesso piccole formazioni locali e clientelari create da leader ambiziosi e spregiudicati.
Questi partiti non nascevano per vincere, ma per vendere a caro prezzo il contributo che avrebbero dato al leader di una coalizione. Abbiamo assistito così a situazioni che in altre democrazie sarebbero parse incomprensibili e ridicole: piccoli partiti che alla chiusura delle urne sbandieravano il loro 2% 0 3% come un trionfo. Purtroppo avevano ragione. Quella misera percentuale era l’arma di cui si sarebbero serviti per mercanteggiare il loro sostegno. Composte in questo modo, le coalizioni italiane degli ultimi vent’anni sono state, sin dal primo giorno di governo, edifici instabili in cui i partiti minori non avevano altro obiettivo fuor che quello di preservare la loro visibilità e conquistare qualche posizione di potere. I governi Berlusconi sembravano più solidi e duraturi di quelli presieduti da Romano Prodi, Massimo D’Alema e Giuliano Amato, ma la somma delle cose fatte alla fine della legislatura era sempre molto inferiore a quella degli impegni assunti durante la campagna elettorale.
A me sembra naturale, quindi, che la nuova legge elettorale ricorra alle soglie per scoraggiare la proliferazione dei partiti minori. Sull’altezza della soglia è sempre possibile discutere, ma le ricordo con l’occasione, caro Repossi, che in Francia, dove esiste il doppio turno, sono ammessi al secondo soltanto i candidati che al primo turno hanno conquistato il voto di almeno il 12,5% degli iscritti nelle leggi elettorali.

l’Unità 28.1.14
Diseguaglianze il vero male
di Nicola Cacace


Dopo Davos che ha riscoperto il disvalore economico delle diseguaglianze, dopo i Nobel Stiglitz e Krugman, dopo il Fondo monetario internazionale è la volta di Bankitalia a ricordarci con lo «Studio sulla ricchezza delle famiglie», che l’Italia è al vertice delle classifiche mondiali per ineguale distribuzione della ricchezza.
La Banca d’Italia ci dice che il nostro è un Paese ricco, anzi che gli italiani sono un popolo ricco con quasi 9mila miliardi di ricchezza, più di 6 volte il Pil, ma che questa ricchezza è altamente concentrata, essendo il 47% nelle mani di poco più di 2 milioni di famiglie su 24 milioni, mentre la metà del popolo, 12 milioni di famiglie ha meno del 10% della ricchezza totale e vive con redditi inferiori a 2mila euro al mese.
Non sono dati nuovi, sono dati ignorati dai politici, che peggiorano dopo anni di crisi dura, con redditi personali calati di 7 punti solo negli ultimi tre anni, dati che non vedo alla ribalta del dibattito politico, Jobs act incluso. Le diseguaglianze, da anni attaccate dai progressisti come fattore di ingiustizia sociale e di lesa democrazia, nella società della conoscenza sono state riscoperte in una nuova veste, quella di ostacolo primario allo sviluppo. Mentre l’eguaglianza, intesa non come obiettivo finale di appiattimento di redditi e ricchezze indipendentemente da impegno e meriti individuali, ma come interesse anche economico di un Paese di mettere tutti i suoi figli in condizioni di partenza non palesemente diseguali in pratica l’art.3 della nostra Costituzione «è compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana...» viene ad assumere un nuovo valore, quella di fattore di sviluppo.
È questo il fatto nuovo messo in luce da tutti i dati delle ultime crisi e degli ultimi successi. I Paesi che hanno aumentato le diseguaglianze di redditi e ricchezze, sono quelli che più sentono i morsi della crisi da sovrapproduzione o sottoconsumo, mentre i Paesi a bassa diseguaglianza (con il coefficiente Gini inferiore a 0,3) sono quelli più in salute: Germania, Austria, Olanda, Francia e Paesi nordici in testa.
La filosofia thatcheriana e reganiana del thrikle down, lascia che i ricchi si arricchiscano sempre più, da essi qualcosa calerà anche sui poveri, si è chiaramente trasformata in quella del thrikle up, solo se le grandi masse sono messe in grado di partecipare al banchetto del sapere e della produzione tutto il Paese ne beneficerà.
L’altro grave problema ignorato o mal gestito dagli italiani è quello, connesso alle diseguaglianze, della denatalità. Che produce danni e fatti solo apparentemente contradittori, come quello della emigrazione di nostri giovani, fortemente aumentata proprio da quando sono iniziati gli effetti della denatalità. Dal 1975 le nascite si sono dimezzate da un milione a 500mila e venti anni dopo il buco demografico ha pesato sul mercato del lavoro in modo tale da attrarre 400mila immigrati l’anno.
Il paradosso è proprio questo, i danni congiunti della bassa innovazione del sistema Paese e della denatalità. Un Paese che per ogni due sessantenni che escono dal mercato del lavoro ha solo un ventenne che vi entra (per nascite dimezzate) non riesce neanche a dar lavoro ai... suoi pochi giovani, perché non innova e non fa riforme, per cui i migliori, diplomati e laureati soprattutto del Sud, sono costretti ad emigrare per carenza di lavori di qualità. Con 45 anni di età media, l’Italia è oggi il Paese più vecchio del mondo ma che invecchia male non come la Germania che fa le riforme -, perché non fa le riforme necessarie per dividere più equamente redditi e ricchezze. Nell’ultimo decennio sono stati necessari 4 milioni di stranieri per la sopravvivenza delle nostre attività vitali, dall’agricoltura ai servizi alla persona, e siamo giunti in pochi anni a una quota di immigrati, il 10%, che altri Paesi avevano raggiunto in decenni.
Per tutti questi motivi l’Italia ha urgente bisogno di politiche di innovazione e di riforme per modernizzare il Paese, per combattere le diseguaglianze e quindi la denatalità e dare un futuro ai giovani, l’unica nostra speranza di un avvenire migliore.

Il Sole 28.1.14
Bundesbank: per i paesi periferici una patrimoniale prima degli aiuti
di Riccardo Sorrentino


Una patrimoniale prima di tutto. La Bundesbank, la banca centrale tedesca, propone un principio per i futuri casi di Stati insolventi: prima di chiedere l'intervento dei partner, quei governi dovrebbero imporre ai contribuenti di partecipare al salvataggio del paese con i loro patrimoni, attraverso un'imposta "una tantum".
La proposta appare nel Bollettino di gennaio dell'istituto di Francoforte, che ha anche previsto una crescita tedesca in accelerazione per il primo trimestre, sul traino dell'export. Vuole introdurre un "principio" da applicare ai paesi con debiti pubblici al collasso ma con patrimoni privati netti positivi. È inevitabile pensare all'Italia o anche alla Spagna e alla Grecia.
Il principio è semplice. Così come nelle banche in crisi occorre innanzitutto chiamare a rispondere dei debiti i creditori - che però hanno scelto quanto investire e dove - così nei paesi occorrerebbe chiamare i contribuenti, che sono «responsabili» dei debiti del proprio stato e quindi del comportamento delle loro élites, a intervenire prima di invocare la «solidarietà» dei partner. I Governi dei paesi sull'orlo del burrone dovrebbero inoltre garantire ai mercati che l'imposta così introdotta è "una tantum", per non creare aspettative penalizzanti.
La patrimoniale di cui parla la Bundesbank non è quindi la normale imposta presente in molti paesi. Secondo un'analisi del Fondo monetario internazionale, infatti, per tornare ai livelli di debito pre-crisi occorrerebbe, in media, un'imposta del 10% dei patrimoni netti: un'enormità. La stessa Bundesbank ammette quindi le difficoltà di applicazione di una simile imposta. Di un intervento del genere occorrerebbe poi valutare costi e benefici. Il rilievo dato, nell'analisi dell'istituto di Francoforte, al solo debito degli Stati, e non al debito o alla ricchezza nazionale complessiva crea qualche dubbio.
L'Italia, che ha le famiglie relativamente "più ricche" di Eurolandia, ha per esempio imprese con un'esposizione moderatamente alta (intorno al 120-130% del Pil nel 2010) molto esposte verso il sistema bancario, con un leverage - il rapporto tra debiti e patrimonio - più alto della media di Eurolandia, e con una quota di prestiti a breve termine, soprattutto le più piccole, che ha richiamato l'attenzione dell'Fmi. Nel nostro paese, il patrimonio delle famiglie ha quindi fatto da cuscinetto durante la crisi, evitando che la qualità degli assets bancari peggiorasse ulteriormente. Non è chiaro se in una eventuale e lontana crisi dello Stato, che coinvolgerebbe anche le banche, applicare una maxipatrimoniale dia davvero i risultati sperati in termini di stabilità del sistema: in politica economica, regole valide sempre e per tutti non ce ne sono.

La Stampa 28.1.14
Perché Berlino ci chiede la patrimoniale
di Stefano Lepri


La Bundesbank ci invita a dare l’oro alla Patria, per salvarla. Ma quale forza politica in Italia sarebbe in grado di chiederlo senza essere subito travolta? La particolarità dell’attuale situazione del nostro Paese risulta bene dal contrasto di due punti di vista diversi: come ci interpreta un importante pezzo della élite tedesca, e come ci rappresentiamo noi.
Qui, nell’opinione spiccia delle chiacchiere da bar, il debito pubblico è alto perché i politici hanno rubato o scialato.
Lì ci si domanda come mai gli italiani, con redditi più bassi di quelli dei tedeschi e un benessere storicamente più recente, siano riusciti ad accumulare patrimoni in media più ampi; la Bundesbank non si pronuncia, l’opinione popolare conclude che gli italiani – magari non tutti, ma molti che potevano – abbiano spolpato il loro Stato.
Nell’analisi pubblicata ieri dalla banca centrale tedesca, il debito pubblico di uno Stato democratico è frutto delle successive decisioni politiche prese da governanti di differenti partiti eletti in libere elezioni. Dunque la responsabilità dell’indebitamento risale, all’ultimo, ai cittadini elettori di quel Paese; non si può certo scaricarla congiuntamente sui cittadini di tutti i Paesi dell’euro, come avverrebbe con gli «eurobonds» invocati da gran parte dei politici italiani.
In condizioni estreme, come quelle di un rischio di insolvenza dello Stato, aumenti delle normali tasse, tagli alle spese, privatizzazioni, non sono più sufficienti oppure potrebbero stroncare ogni attività economica; meglio attingere alle ricchezze accumulate. E’ un freddo ragionamento da economisti, non certo l’effetto di idee di sinistra a cui la Bundesbank è da sempre estranea.
I dati disponibili si possono interpretare in diversi modi tutti legittimi. Proprio l’indagine sulla ricchezza delle famiglie che la Banca d’Italia ha aggiornato ieri al 2012 da una parte mostra all’interno del nostro Paese in declino disuguaglianze crescenti: i redditi calano, i patrimoni diventano più importanti, e si concentrano ancor più in una quota ristretta della popolazione.
Da un altro lato, è pur vero che i patrimoni degli italiani risultano nella media superiori ai patrimoni dei tedeschi misurati dalla stessa Bundesbank. Il confronto è difficile e diversi tecnici hanno avanzato dubbi; considerazioni più approfondite mostrano uno squilibrio meno forte tra i due Paesi, però non lo annullano.
E, insomma, dove sono andati a finire anni di spesa pubblica in deficit, ovverosia fatta a debito? Chi ne ha beneficiato? Solo i politici e i loro amici, oppure, oltre a nutrite clientele, categorie protette, folle di evasori, fannulloni vari, alla fine una bella fetta di un Paese scarsamente responsabile?
In ogni caso, la redistribuzione è stata attuata o per iniziativa della politica o con la complicità della politica. Ragion per cui risulta impraticabile che siano le stesse istituzioni pubbliche ora screditate a chiedere di disfare il malfatto. Chi oserebbe chiedere una imposta patrimoniale straordinaria in nome del bene comune, senza disporre dei mezzi coercitivi di Mussolini nel 1935?
Il moralismo tedesco facilmente sconfina nel disprezzo per altre nazioni; in una piccola dose può correggere lo scaricabarile all’italiana in cui la colpa è sempre di qualcun altro. Questo Paese ha problemi – mancanza di prospettive di lavoro, impoverimento, ineguaglianza – che si possono risolvere soltanto con l’azione collettiva. Rassegnarsi all’impotenza della politica screditata vuol dire che chi ha i patrimoni campa di rendita erodendo quelli, e chi non li ha soffre e basta.

l’Unità 28.1.14
Quasi metà della ricchezza nazionale in mano al 10% delle famiglie
Ricchi sempre più ricchi. Crolla il reddito familiare
Lo studio di Bankitalia: nel trienno 2010-2012 entrate familiari dimunite del 7,3%, un italiano su sei sotto la soglia di povertà
di Marco Ventimiglia


MILANO. I numeri hanno varie proprietà, compresa quella di tradurre in una lampante evidenza situazioni che in realtà sono sotto gli occhi di tutti nella vita di ogni giorno. Capita così che il rapporto sullo stato delle famiglie italiane diffuso ieri da Bankitalia proponga all’attenzione con statistica crudezza un fenomeno in atto da anni nel nostro Paese, ovvero l’impoverirsi delle famiglie italiane e il contemporaneo concentrarsi della ricchezza nelle mani di una percentuale sempre più minoritaria di soggetti.
MENO DI 640 EURO
Innanzitutto va sottolineato che lo studio di Via Nazionale è relativo al periodo più cruento della crisi economica, poiché ad essere preso in considerazione è il triennio 2010-2012. Una fase nella quale le condizioni economiche dei nuclei familiari sono peggiorate, senza se e senza ma. In particolare, il reddito familiare medio è calato in termini nominali del 7,3 per cento, mentre quello equivalente è sceso del 6%. A questa sequenza di segni meno corrisponde inesorabilmente una serie di variazioni positive relative alla povertà, che in termini generali risulta salita dal 14% del 2010 fino al 16% nel 2012. Va ricordato che la Banca d’Italia individua la soglia di povertà in un reddito di 7.678 euro netti all’anno, che diventano 15.300 nel caso di una famiglia composta da 3 persone (esempio classico quello di un figlio a carico). Dunque, un italiano su sei vive ormai con meno di 640 euro al mese.
Nel contempo, come detto, cresce la disuguaglianza sociale. Via Nazionale, infatti, ci informa nel suo rapporto che il 10% delle famiglie più ricche possedeva nel 2012 il 46,6% delle ricchezza netta familiare totale, una percentuale che invece era del 45,7% due an-
ni prima. Dall’indagine emerge inoltre che il 10% delle famiglie con il reddito più basso percepisce il 2,4% del totale dei redditi prodotti; di contro, il 10% di quelle con redditi più elevati percepisce una quota del reddito pari al 26,3%. Ed ancora, la quota di famiglie con ricchezza negativa è aumentata fino al 4,1% dal 2,8% del 2010, mentre la concentrazione della ricchezza, è fissata al 64 per cento, in netto aumento rispetto al passato (era il 62,3% nel 2010 e il 60,7 nel 2008). Il 10% delle famiglie a più alto reddito percepisce più di 55mila euro all’anno. E se la quota di famiglie indebitate è leggermente diminuita rispetto al 2010, il 26,1% ha almeno un debito per un ammontare medio di 51.175 euro (nel 2010 erano il 27,7% per un ammontare medio di 43.792 euro). Debiti che nella maggior parte dei casi sono costituiti da mutui per l’acquisto e per la ristrutturazione di immobili.
L’indagine biennale della Banca d’Italia fotografa un’Italia che nel 2012 è divenuta sempre più anziana ed in cui sono aumentati i nuclei composti da una sola persona (28,3% contro il 24,9% del 2010) e diminuite le coppie con figli. Il reddito familiare annuo, al netto delle imposte sul reddito e dei contributi sociali, risulta in media pari a 30.338 euro, circa 2.500 euro al mese. Ma il 20% delle famiglie ha un reddito netto annuale inferiore a 14.457 euro (circa 1.200 euro al mese) mentre la metà ha un reddito sotto i 24.590 euro (circa 2.000 euro al mese). Nel dettaglio, il reddito familiare si compone per il 40% di reddito da lavoro dipendente, per poco più di un
quarto (27,5%) di reddito da trasferimenti (pensioni, cig), per circa l’11% di reddito da lavoro autonomo e per il restante 22% di reddito capitale (affitti, rendite finanziarie).
Un aspetto interessante dell’indagine è relativo al cosiddetto reddito equivalente, ovvero il reddito di cui ciascun individuo dovrebbe disporre se vivesse da solo per raggiungere lo stesso tenore di vita che ha nella famiglia in cui vive. Ebbene, nel 2012 questo risulta in media pari a circa 17.800 euro (1.500 euro al mese). Però si sale a circa 2.350 euro al mese per i laureati, 2.700 euro per i dirigenti e 2.550 euro per gli imprenditori, mentre per gli operai, i residenti nel Mezzogiorno e i nati all’estero il reddito equivalente scende rispettivamente a 1.200, 1.100 e 950 euro al mese. In posizione intermedia si collocano gli impiegati (1.900 euro), gli altri lavoratori autonomi (1.700 euro) e i pensionati (1.700 euro).

l’Unità 28.1.14
Isee, gli evasori rubano 2 miliardi
di B. Dig.


ROMA. Più evadi, più hai servizi pubblici. È un meccanismo perverso, a tutto vantaggio dei furbetti del fisco, quello che si innesca quando si incrociano i dati dell’erario con quelli dell’erogazione di aiuti del welfare. Secondo stime di Lef (Associazione per la legalità e l’equità fiscale) ogni anno almeno il 20% delle somme distribuite attraverso l’Isee vanno a famiglie che non ne avrebbero diritto. In soldoni si tratta di due miliardi (sui 10 complessivi) all’anno. Quanto il taglio del cuneo fiscale per quest’anno.
L’associazione ha presentato ieri al Cnel un rapporto sui primi 15 anni di attuazione dell’Isee, che oggi è stato profondamente rinnovato. Secondo gli studiosi con un’evasione di 10mila euro si ottiene un beneficio fino al 70%% rispetto a chi dichiara correttamente il proprio reddito. Le cifre dipendono comunque dalla situazione familiare di partenza e sono correlate con i valori patrimoniali. Per un nucleo con due figli minori e un reddito complessivo di 31.600 euro il vantaggio per i furbetti che evadono 10mila euro va dal 45% in presenza di un patrimonio basso al 18% con un patrimonio alto.
Le distorsioni non provengono soltanto dalle false dichiarazioni all’erario. Anzi: nel Belpaese accade anche che magari al fisco si dichiara un tot e per l’Isee (gestito dall’Inps) un valore diverso. Un comportamento che non è neanche tanto raro. Le dichiarazioni dei redditi ai fini dell’Isee «sono sottostimate rispetto ai redditi dichiarati al fisco nel 25% dei casi». Questo il dato riferito dal sottosegretario Maria Cecilia Guerra intervenendo alla presentazione del rapporto Lef. Con il nuovo Isee il fenomeno dovrebbe azzerarsi, visto che le amministrazioni non chiederanno più ai cittadini di fornire i dati che già posseggono. Così sarà l’Agenzia delle entrate a fornire i redditi, rendendo i controlli più efficaci. Una «spina nel fianco» è la dichiarazione del patrimonio mobiliare. «L’80% di chi ha fatto la Dsu (dichiarazione sostitutiva unica) ha dichiarato di avere un patrimonio pari a zero ha affermato Guerra e questo è un dato non credibile». La nuova normativa prevede una serie di strumenti tra cui un «warning» da parte delle Agenzie delle Entrate che rileva l’esistenza di conti correnti e di beni mobili. Per evitare inoltre che vengano «svuotati i conti correnti il 31 dicembre» ha proseguito Guerra verrà fatta una verifica sulla consistenza media dei conti correnti. In realtà le banche conoscono già molto bene la consistenza dei depositi, visto che dall’anno scorso esiste la patrimonialina sui conti correnti e portafogli titoli. Anche in questo caso basterebbe un’integrazione tra le banche dati per evitare brutte sorprese. C’è da ricordare che il governo prodi aveva affidato all’Agenzia delle entrate la gestione dell’Isee, che poi è passata all’Inps. Si sono spesi 82 milioni nel 2011 e quest’anno se ne spenderanno 66 per aiutare i richiedenti con servizi esternalizzati. Il tutto mantenendo ampie falle nel sistema.
Il nuovo Isee entrerà in vigore l’8 febbraio ma sarà effettivamente operativo intorno al 9 giugno; per completare l’interconnessione tra le banche dati, realizzare i moduli e le istruzioni di accompagnamento sono previsti infatti 3 mesi e altri 30 giorni avranno a disposizione gli enti erogatori per rivedere i loro regolamenti.

l’Unità 28.1.14
Dall’Istat ritratto di un Paese in fuga
I giovani cercano fortuna lontano da casa
In aumento nel 2012 le persone che emigrano. Le mete: Germania e Svizzera
In calo gli immigrati
di A. Com.


Sempre più italiani dicono addio al Belpaese, ormai tale solo di nome ma non di fatto: 68 mila gli espatriati nel 2012, oltre un terzo in più (il 35,8% per l’esattezza) rispetto al 2011 e comunque il numero più alto degli ultimi dieci anni. Mentre calano i rientri dall’estero e scende pure il numero degli immigrati (-9,1%). Dunque, tra emigrazioni e contrazione degli ingressi (pari a 2 mila unità, 6,4% in meno del 2011) il saldo migratorio è negativo per gli italiani pari a 39 mila unità, più che raddoppiato se confrontato con quello del 2011, anno nel quale il saldo risultò pari a -19 mila. Si tratta comunque del valore più basso dal 2007.
Questo racconta, impietoso e significativo, il report dell’Istat sulle «Migrazioni internazionali e interne della popolazione residente» relativo al 2012. Che sia fuga dal precariato, da un contesto di crisi o da una burocrazia vissuta come opprimente, il dato di fatto è che le forze produttive si contraggono in modo sensibile. Forze spesso qualificate.
Difficile infatti pensare a un paese che cresce, quando tra gli italiani con almeno 25 anni si registra la fuga all’estero di 32 mila residenti, di cui quasi un terzo ovvero 9 mila in possesso di laurea, mentre sono 12 mila i diplomati e 11 mila quelli con un titolo fino alla licenza media. I laureati partono soprattutto alla volta dell’Europa (scelta da almeno 6.700 di loro), poi ci si sposta oltreoceano verso Stati Uniti (1.100 trasferimenti) o Brasile (700). Restando nella Ue invece la maggiore capacità di attrazione si conferma quella della Germania locomotiva d’Europa, che richiama 1.900 laureati, seguono Gran Bretagna (1.800), Svizzera (1.700) e la pur vicina Francia, dove nel 2012 si sono trasferiti ‘solo’ in 1.300.
In generale, per gli italiani i principali Paesi di destinazione sono appunto Germania (oltre 10 mila emigrati), Svizzera (8 mila), Regno Unito (7 mila) e Francia (7 mila) che dunque insieme accolgono quasi la metà degli espatriati. I connazionali che decidono di tornare in Italia sono in numero molto inferiore a quello degli emigranti: nel 2012 i rientri sono 4 mila dalla Germania, 3 mila dalla Svizzera e circa 2 mila dal Regno Unito e dalla Francia.
MENO STRANIERI
Ma l’Italia non perde solo chi qui è nato. Qualunque giudizio se ne voglia dare, colpiscono i 351 mila nuovi residenti immigrati, 35 mila in meno rispetto al 2011 con un calo del 9,1%. Un dato che porta al 7,4% la quota di stranieri sulla popolazione residente al 31 dicembre 2012. Cambia anche la geografia delle comunità maggiormente presenti sul nostro territorio: l’Italia attrae ora molti meno flussi dall’Est Europa (in particolare moldavi, 41% di iscrizioni di residenza e ucraini, -36%) e dal Sud America (con un 35% e un 27% rispettivamente di peruviani ed ecuadoriani). Al contrario crescono seppure di poco gli ingressi dall’Africa, + 1,2%, soprattutto da Nigeria Mali e Costa d’Avorio, flagellate da diversi conflitti che spingono sempre più alla fuga verso l’Europa. La comunità più rappresentata nel 2012 è comunque quella rumena, con 82 mila ingressi, seguita dai 20 mila ingressi di cittadini cinesi e marocchini (sempre 20 mila), quindi dai 14 mila degli albanesi. Ci sono poi gli stranieri che lasciano il Belpaese, e questi sono in crescita addirittura del 18%. Ma sono appunto le migrazioni degli italiani stessi a fare la differenza nella costruzione del saldo migratorio di 245 mila unità del 2012, inferiore a quello 2011 di quasi un quinto (19,4%).
I FLUSSI INTERNI
L’Istat analizza anche gli spostamenti interni dei confini nazionali, che interessano sia italiani sia stranieri anche se in proporzioni molto diverse. I cambi di residenza tra un comune e l’altro coinvolgono infatti oltre un milione e mezzo di persone, in crescita del 15% sul 2011, con effetti piuttosto evidenti di ridistribuzione nei diversi territori. Gli spostamenti di breve e medio raggio (intraprovinciali e intraregionali) rappresentano, come sempre, la tipologia di trasferimento principale (75,5% dei trasferimenti interni). Dai 18 ai 50 anni, nel pieno dell’età lavorativa, il flusso assoluto dei trasferimenti è intenso: sono 801 mila gli italiani che si spostano contro i 199 mila stranieri. In termini percentuali, tuttavia, tali spostamenti risultano più frequenti per gli stranieri (71,3%) piuttosto che per gli italiani (62,8%).

l’Unità 28.1.14
Electrolux, volete il lavoro? Dimezzate le buste paga
La multinazionale svedese propone tagli alle retribuzioni, blocco degli scatti, riduzione del premio di produzione per tenere aperte le fabbriche
Sindacati e lavoratori: piano inaccettabile, intervenga il governo
Scatta la mobilitazione: a Porcia operai in sciopero appena appresa la notizia
di Massimo Franchi


ROMA. Come evitare di far delocalizzare gli stabilimenti italiani in Polonia? Facile. Basta adeguare gli stipendi dei lavoratori italiani a quelli polacchi. Il ragionamento di Electrolux, la multinazionale svedese degli elettrodomestici, è stato proprio questo.
E dunque nell’atteso incontro di ieri a Mestre tra azienda-sindacati ha proposto un fortissimo taglio del costo del lavoro. Fatto della sospensione della parte variabile dei premi aziendali (stimabile in 2.700 euro l’anno), del congelamento degli scatti di anzianità e del pagamento dell’indennità di festività per chi lavora la domenica. Il tutto per un periodo indeterminato. Se non bastasse, l’azienda vuole imporre una giornata lavorativa di 6 ore, rispetto alle attuali 8, e su questo taglio vuole riparametrare (tagliandole dunque) le pause. Senza dimenticare il taglio delle ore per i permessi sindacali e delle ore di assemblea. Fatti due conti si tratta di circa 700-800 euro per chi ha uno stipendio di 1.400 euro al mese: praticamente la metà del salario. Peggio del modello Pomigliano di Marchionne.
Un piano «prendere o lasciare» che però non basterebbe a salvare lo stabilimento di Porcia, il più grande in Italia, in provincia di Pordenone. Solo ad aprile i 1.200 lavoratori avrebbero la certezza della chiusura della loro fabbrica, ma già ieri l’azienda ha fatto capire che il loro destino è segnato. A Porcia già da ieri è scattato lo sciopero e questa mattina i sindacati terranno in ogni stabilimento le assemblee per decidere le forme più adatte di mobilitazione.
ESEMPIO POLACCO
Per ora dunque sarebbero salve le fabbriche di Solaro (Milano) dove circa si producono lavastoviglie, di Forlì dove si producono forni e piani cottura e di Susegana (Treviso), dove si fanno i frigoriferi. Ma anche qui se non passasse l’idea di passare a sei ore al giorno gli esuberi sarebbero tanti: 182 (su 800 circa) a Solaro, 160 (su 900 circa) a Forlì, 331 (su circa mille) a Susegna, più 150 tra lo staff su un totale di 5.700 dipendenti. Su tutte pesa l’«investigazione» annunciata il 25 ottobre che si chiuderà ad aprile. A Mestre i manager, guidati dall’amministratore delegato italiano Ernesto Ferrario, sono stati durissimi. Un elenco di tagli senza concedere niente ai sindacati.
Il termine di paragone per gli svedesi è quello del nuovo stabilimento polacco di Olawa, Bassa Slesia. Lì lo stipendio medio è di 2.300 szloty (circa 540 euro) al mese, con costo medio orario di 11 euro (contro i 24 euro italiani). Lì Electrolux ha appena spostato la produzione delle lavatrici Prometeo su una piattaforma praticamente uguale a quella di Porcia. Lì però Electrolux può sfruttare sgravi del 50 per cento sul capitale investito, un costo dell’energia del 30 per cento in meno, terreni chiavi in mano in 3 mesi.
Una proposta simile era arrivata nelle settimane dalla Confindustria Pordenone, anche se valida per l’intero territorio provinciale, ma il cui primo banco di prova era proprio la vertenza Electrolux. Messa a punto dal giuslavorista Tiziano Treu e dall’ex direttore generale di viale dell’Astronamia Innocenzo Cipolletta prevedeva un taglio del 20 per cento del costo del lavoro in parte ripagato tramite un welfare aziendale e territoriale. Una sorta di assist per Electrolux che si è vista la strada già aperta e non ha avuto problemi a chiedere ai sindacati di adeguarsi all’andazzo generale.
Sindacati dai quali però è arrivato subito un «No» deciso e unitario. «Per la Fiom il piano è inaccettabile attacca il segretario nazionale Michela Spera . Chiediamo che sia direttamente Enrico Letta a convocare il sindacato e l’azienda. Solo il presidente del Consiglio può mettere la multinazionale di fronte alle proprie responsabilità ed individuare soluzioni per ridare competitività alle produzioni italiane, per ridurre il costo del lavoro, senza tagliare salari e diritti, ma puntando su innovazione e risparmio energetico. Dobbiamo intervenire perché l’elettrodomestico è il secondo settore dopo l’automotive per addetti in Italia», sottolinea Spera. «Rifiutiamo questa ipotesi alla quale ci opponiamo fermamente attacca Anna Trovò, segretario nazionale Fim-Cisl . Electrolux deve modificare assolutamente i suoi progetti. Serve un forte ed immediato intervento istituzionale a tutti i livelli, servono immediatamente risposte efficaci e rapide: il governo intervenga».
«Le proposte di riorganizzazione ascoltate a Mestre confermano il rischio di desertificazione industriale dichiara Rocco Palombella, segretario generale della Uilm . Il settore elettrodomestico è la cartina di tornasole di questa amara realtà, la vertenza Electrolux rappresenta il “canto del cigno”. Per quanto ci riguarda questo è il tempo della lotta dura e a oltranza. Il governo, se c’è, almeno si faccia sentire», chiude Palombella.
Nei giorni scorsi il presidente della Regione Friuli (dov’è lo stabilimento di Porcia), Deborah Serracchiani, aveva chiesto le dimissioni del ministro dello Sviluppo, Flavio Zanonato, per non aver convocato il tavolo tripartito (azienda, sindacati, istituzioni) chiesto da Serracchiani e dagli altri presidenti di Regione coinvolti a fine ottobre. «Letta e Zanonato ci convochino immediatamente per valutare assieme le proposte da rilanciare alla multinazionale: il governo non faccia il notaio della volontà svedese ha ribadito ieri Serracchiani ma si sappia che per il Friuli la chiusura di Porcia è una prospettiva che non prendiamo in considerazione».

l’Unità 28.1.14
Ritorno al passato. E la politica balbetta davanti al ricatto
Si è affermata la filosofia per cui solo il successo degli interessi del capitale è garanzia di sviluppo
La modernità dei nuovi capitani d’impresa è il ricatto verso dipendenti e comunità locali
di Rinaldo Gianola


DICIAMOLO SUBITO: IL PIANO DELLA MULTINAZIONALE ELECTROLUX PER MANTENERE IN ATTIVITÀ I QUATTRO STABILIMENTI ITALIANI È UN RICATTO INACCETTABILE. Il progetto «lacrime e sangue» del gruppo svedese è un atto di arroganza nei confronti di migliaia di lavoratori e delle loro famiglie, un attacco vergognoso alle comunità locali, al tessuto sociale, che ospitano le attività industriali e che hanno sempre mostrato spirito di responsabilità e di collaborazione anche nei momenti più difficili.
La multinazionale svedese degli elettrodomestici ha posto ieri sul tavolo le condizioni per continuare a produrre a Porcia, Susegana, Forlì e Solaro. Riduzione del costo del lavoro su base oraria e variabile da stabilimento a stabilimento, blocco degli scatti di anzianità e del pagamento dei festivi, taglio secco del premio di produzione. Su questo canovaccio verrebbe poi applicata una riduzione di orario a sei ore giornaliere. I lavoratori perderebbero, secondo le stime del sindacato, il 40-50% della retribuzione netta, quindi un operaio con un salario medio di 1300 euro al mese prenderebbe dopo la cura Electrolux 700-800 euro. Questa decurtazione, tuttavia, non sarebbe risolutiva per tutti gli impianti e la fabbrica di Porcia resterebbe in bilico tra la chiusura e la produzione. In questo caso sarebbe decisivo l’eventuale intervento di sostegno, cioè finanziamenti e altri aiuti, della Regione Friuli Venezia Giulia e delle istituzioni. Electrolux, attiva in Italia da decenni e che grazie all’acquisto del gruppo Zanussi ha potuto sviluppare la sua dimensione internazionale, propone una ricetta indigesta, una soluzione drammatica a problemi di competività industriale e di quote di mercato. Nessuno mette in dubbio che l’industria del «bianco» soffra gli effetti delle recessione europea indotta dalla crisi finanziaria globale, né che la comparsa di nuovi agguerriti produttori internazionali, dalla Turchia a gli asiatici, abbia fiaccato la resistenza dei più grandi produttori che hanno una struttura dei costi fissi decisamente più alta. Le difficoltà del settore, bisogna ammetterlo, sono forti anche in Italia dove questa industria è stata alla base dello sviluppo, uno dei motori del boom economico e del processo di modernizzazione del Paese. Questa è la patria del signor Borghi, del cavaliere Fumagalli, della dinastia dei Merloni e anche di Zanussi. Non abbiamo niente da imparare su frigoriferi, lavatrici e lavastoviglie. Qui sono arrivate le multinazionali per capire e copiare il nostro miracolo, frutto di quella via familiare al capitalismo che, pur nell’asprezza del confronto sociale, trovava sempre la strada della mediazione e del rispetto degli interessi. Ma questo mondo appare superato, siamo in un’altra epoca, la modernità dei nuovi capitani d’azienda ci sorprende anche se, a ben vedere, questa «innovazione» si basa su un ritorno al passato, alla guerra contro gli operai, alla cancellazione di diritti faticosamente conquistati. Già visto.
L’aggressione delle multinazionali sorprende una politica che balbetta, incapace di mettere le mani nei problemi reali e di affrontare a muso duro, come si conviene a una vera classe dirigente, gli interessi prevalenti dei golpisti delle stock options. Qual è la politica industriale del governo? Cosa dice il Jobs Act di Matteo Renzi sui ricatti delle imprese? Si può pensare, come hanno fatto altri governi, di vincolare le multinazionali al rispetto della legislazione e dei contratti, alle garanzie per tutti gli stakeholders e non solo dei loro ricchi azionisti? Ma non si possono nutrire illusioni. Abbiamo avuto Marchionne che, come Electrolux, prometteva investimenti (i famosi 20 miliardi di Fabbrica Italia, chi li ha mai visti?) e lavoro se tutti avessero accettato le sue condizioni.
Il piano Electrolux è un salto di qualità in questa rinnovata lotta di classe scatenata negli ultimi anni di crisi dal capitale contro il lavoro. Si vuole affermare la prevalenza degli interessi dell’impresa su tutto il resto, si tende ad accreditare la visione per cui solo il trionfo del profitto può garantire una qualche possibilità di sviluppo all’economia e al lavoro, si induce la convinzione che diritti, leggi, contratti possono essere piegati e cancellati se sono di ostacolo all’avanzata dell’industria. La proposta della multinazionale svedese non è solo una provocazione, è invece il segno del cambiamento profondo che è avvenuto e sta avvenendo nelle relazioni tra capitale e lavoro, tra impresa e autorità di governo. Electrolux vuole pagare stipendi da polacchi agli operai italiani e se non accettano trasferirà le produzioni direttamente in Polonia o in Ucraina o sempre più a Est o a Sud del mondo perché, se passa questa filosofia, ci sarà sempre un operaio che costerà meno di quelli di Porcia e di Susegana. Il ricatto Eletrolux è come quello di Alcoa e di altri. E tutti subiscono senza opporre un disegno industriale alternativo, un piano di ricerca e di aiuti pubblici se necessari, una strategia di investimenti. Oggi il caso Electrolux deflagra come una bomba nell’accademico confronto sul «modello tedesco», sui lavoratori nei consigli di amministrazione, sui contratti a tempo indeterminato a tutele crescenti. Il dibattito imperversa sulla riforma elettorale: proporzionale o maggioritario? Provate a chiedere cosa ne pensano gli operai dell’Electrolux.

l’Unità 28.1.14
Il congresso di Sel e il limite delle due sinistre
Errore considerare Renzi un leader riformista moderato che aprirà spazi alla sinistra radicale
Vendola avrebbe potuto partecipare all’impresa di Schulz e del Pse, invece si ritroverà con Rifondazione
di Claudio Sardo


Il congresso di Riccione ha allargato la frattura tra Sel e Partito democratico. La coalizione «Bene comune» è un ricordo lontano, benché meno di un anno fa abbia distribuito ai contraenti un enorme premio di maggioranza.
Quella comune responsabilità verso gli elettori non ha prodotto neppure un giorno di convergenza nella legislatura: non al momento della nascita del governo Letta, non quando Berlusconi ha tentato di abbatterlo per ritorsione alla decadenza da senatore, non ora che si discute di un nuovo esecutivo. Lo stesso negoziato sulla riforma elettorale sta inasprendo gli animi, come dimostrano l’assenza di Matteo Renzi al congresso e i fischi riservati al delegato del Pd.
Ma, guardando in avanti, sono soprattutto le distanze «europee» ad essere cresciute. Nelle scorse settimane Nichi Vendola aveva lanciato segnali di attenzione verso il nuovo segretario democratico. E i segnali si combinavano con una marcia di avvicinamento di Sel verso la famiglia socialista europea. Proprio l’Europa sembrava il terreno impegnativo di un nuovo incontro. A fine febbraio, a Roma, il congresso del Pse lancerà la candidatura di Martin Schulz alla presidenza della Commissione: Renzi completerà così il percorso di integrazione del Pd, avviato nel 2009 con la nascita del gruppo dei Socialisti e democratici a Strasburgo, e Vendola avrebbe potuto partecipare all’impresa, dando alla campagna elettorale l’impronta di una sinistra plurale, che proprio dall’Europa gettava le basi di un nuovo progetto di governo in Italia. Il congresso di Sel invece ha deciso un’altra rotta: alleanza con le sinistre radicali ed ex-comuniste, sostegno alla candidatura di Alexis Tsipras (leader del partito greco Syriza).
Non sappiamo quanto Vendola abbia condiviso la scelta e quanto invece l’abbia subita. Ora sta cercando di attenuarne la portata dirompente: «Stiamo con Tsipras per incontrare Schulz». Ma in Europa la demarcazione è netta, e peserà anche da noi. Del resto l’appello lanciato a favore di Tsipras, e firmato da Barbara Spinelli e altri intellettuali italiani, ha un contenuto molto critico verso i leader socialisti, considerati non più capaci di emancipare l’Europa dal dominio dei poteri finanziari. Sel non voleva farsi scavalcare «a sinistra» e così, alle europee, si ritroverà alleata di Rifondazione.
Si potrebbe sostenere che la frattura è figlia di una europeizzazione della politica italiana. Syriza e la Linke tedesca guidano il gruppo Gue al Parlamento europeo: e finora questa formazione di sinistra radicale non aveva parenti in Italia. Ma non riusciamo a considerare positiva la divaricazione strategica tra Pd e Sel. Anzi, ci pare un grave arretramento per una sinistra democratica e plurale, disposta ad accettare la sfida di un governo dell’innovazione. Non vorremmo che l’aspettativa di un nuovo Porcellum (fondato su un maggioritario corrotto, con coalizioni sostanzialmente obbligate e ridotta autonomia dei partiti) spingesse verso il solito, perverso impasto tra conflitti sostanziali e alleanze apparenti. Non serve all’Italia una sinistra speculare alla destra, che sta preparando la ricomposizione tra Berlusconi e Alfano.
Non ci sono compiti da dividere così nettamente, di fronte a una crisi tanto grave e penetrante nel corpo sociale, nella struttura produttiva, negli stessi sentimenti di fiducia e solidarietà. La sfida è tenere insieme democrazia e sviluppo sostenibile, lavoro e riqualificazione del welfare, integrazione dell’Europa e competitività, unione fiscale e modello sociale. O si trovano punti di incontro tra il riformismo possibile e la radicalità necessaria oppure tutta la sinistra sarà sconfitta. La sinistra che si pone il tema del governo e non solo di rappresentare la protesta non può fuggire da questa responsabilità. Che è al tempo stesso europea e italiana. Tanto meno la fuga è possibile da noi, dove una grande domanda di cambiamento è stata intercettata dal nichilismo grillino. Siamo già in un sistema tripolare e immaginare che oggi esista un bacino separato, tra la sfida difficile del Pd e l’opposizione anti-sistema del M5s, è una pia illusione. Quella logica delle due sinistre, che è stata a lungo un freno, adesso è una zavorra. Il partito di Vendola fa un calcolo sbagliato, se pensa a Renzi come un leader riformista-moderato che inevitabilmente aprirà spazi a una sinistra radicale, conflittuale ma tatticamente alleata. La popolarità di Renzi può essere una chance per tutta la sinistra, ma solo se trarrà da questa forza le risorse per innovazioni di struttura, capaci di incidere sui poteri reali e sul rilancio della vita democratica. La questione, sia chiaro, riguarda anche la responsabilità del Pd, che non può cavarsela diventando il comitato elettorale del leader. Non vincerà il Pd se non sarà capace di far vivere nella famiglia dei socialisti europei la propria identità democratica (di cui la radicalità europeista è parte essenziale e fonte di pensiero critico). Non vincerà se non saprà essere in concreto la forza più rappresentativa della sinistra (e delle sue radici storiche e valoriali). Certo, una legge elettorale migliore aiuterebbe la costruzione di una sinistra unitaria e plurale. Ma dove non arrivano le regole, deve arrivare la politica. Oggi registriamo una sconfitta. Tuttavia, non ci rassegniamo.

il Fatto 28.1.14
Parole e libertà
Urge dizionario Vendolese-Italiano
di Sandra Amurri


La parola colta per salvare la “sua comunità” naufraga nell’infinito mare del dire e del fare. Vendola: “L’iconografia della modernità... l’apologia della parola della minoranza... interrompere il viaggio verso il sud delle agorà popolari”. Dice: “Noi siamo con Tsipras, non contro Schulz ma per incontrarlo”. Segue la metafora del “Davide ellenico (Tsipras) contrapposto al Golia teutonico (l’Europa dei tecnocrati)”. Noi “abbiamo camminato fin qui nel deserto della sinistra e nella giungla delle destre, non mettiamo insieme un’arca di Noè improvvisata”. Cita Adorno: “Amare è scorgere il simile nel dissimile”. Pensando a Renzi? “Noi siamo un partito corsaro, dentro i dolori del popolo”. Evoca la motocicletta del Che: “Il viaggio amoroso della politica”. E conclude: “Noi staremo nella terra di mezzo”. Chissà se Gandalf andrà a salvarli?!

Corriere 28.1.14
Conti in rosso e produttività
Al Nazareno si dovrà timbrare
di Claudio Bozza


ROMA — Nell’era Renzi i dipendenti del Pd dovranno timbrare il cartellino. Dopo la sveglia all’alba per le riunioni della segreteria fissate alle 7.30, arriva l’obbligo di registrare ingressi e uscite nella sede di Roma. A ognuno dei 150 lavoratori, dai primi di febbraio, sarà assegnato un badge, che dovrà essere strisciato all’entrata della sede nazionale del partito al Nazareno. La regola varrà, pare, anche per i funzionari. I renziani la definiscono una decisione «normalissima e all’insegna della trasparenza», ma sono convinti che rappresenterà uno strappo per i palazzi della politica romana, abituati a ritmi blandi.
Ma perché i nuovi vertici del partito hanno preso questa decisione? La risposta è semplice: si sono resi conto che c’è chi non rispetta gli orari da contratto. Un problema da risolvere con urgenza, per un partito che già nel 2012 ha registrato 7 milioni di euro di perdite. E il «rosso», specie con l’abolizione del finanziamento pubblico ai partiti, sarà ancor più profondo quando verrà chiuso il bilancio 2013. Numeri drammatici, con i quali sta facendo i conti l’avvocato tributarista Francesco Bonifazi, deputato e capogruppo dei Democratici a Palazzo Vecchio, ma soprattutto nuovo tesoriere del Pd, da Renzi nominato proprio per arginare la voragine nei conti del Pd e, magari, per tentare di ripianarla grazie a contributi privati da parte di imprenditori e microdonazioni dei cittadini.
La mission impossible dell’avvocato Bonifazi — segni particolari: bocca cucita e proprio per questo uomo fidatissimo di Renzi — è partita dall’analisi capillare dei conti interni. Oltre alla voce «propaganda», che nel 2012 ha pesato per 6 milioni, il capitolo di spesa più pesante nel bilancio si è rivelato quello dei dipendenti, com’era naturale. Ma a sorprendere è stata l’entità dello squilibrio. Ognuna delle 150 persone a libro paga costa in media 67 mila euro. Cifre che hanno fatto sobbalzare il tesoriere Bonifazi. Specie perché, rapporti e numeri alla mano, una discreta fetta delle persone stipendiate dal partito ha fatto registrare una produttività sconfortante. E siccome, in un momento di crisi così drammatica, il più grande partito di centrosinistra preferirebbe evitare i licenziamenti, i nuovi vertici renziani hanno deciso di tentare una svolta, facendo rispettare almeno gli impegni formali previsti dal contratto. Le ore di lavoro, insomma.
Il pallino del cartellino da timbrare non è una novità per Renzi, che già nel luglio 2011 fu protagonista di un duro scontro con i sindacati di Palazzo Vecchio. Il motivo? In un’intervista a Sportweek , a proposito di alcuni dipendenti comunali non proprio attaccati al lavoro, disse: «Chiamarli Fantozzi sarebbe far loro un complimento. Mi riferisco a quelli che devono timbrare alle 14 e già un quarto d’ora prima sono in coda col cappotto, pronti ad uscire. Considero questa scenetta un simbolo di quello che non si deve fare: diamo infatti l’impressione di considerare il lavoro come una prigione dalla quale evadere prima possibile». Le dichiarazioni scatenarono una bufera, ma Renzi tirò dritto: con una direttiva impose ai lavoratori del Comune di Firenze l’obbligo di timbrare anche per la pausa sigaretta/caffè. Chissà ora come la prenderanno a Roma.

Corriere 28.1.14
E la società dei figli del Cavaliere fa pubblicità sul «Fatto»
di Mario Gerevini


MILANO — Sito web del Fatto Quotidiano . Scorriamo le notizie con un occhio alla spalla destra (del sito). A un certo punto compare il banner pubblicitario di facile.it . Che cos’è? Clicchiamo, entriamo e leggiamo: «È il sito di comparazione numero uno in Italia», mette a confronto il prezzo di vari prodotti (ad esempio polizze assicurative) che incidono sulle spese di casa e sulla finanza personale.
Nulla di strano se non fosse per un particolare tutt’altro che trascurabile tenuto conto del «luogo», cioè il sito del Fatto , da sempre nemico giurato (corrisposto) di Berlusconi. Facile.it spa è una società milanese e uno dei tre azionisti che complessivamente controllano il 66% del capitale è la Holding Italiana Quattordicesima, ovvero la cassaforte dei tre figli di Silvio Berlusconi e Veronica Lario. Gli altri soci più importanti utilizzano finanziarie in paradisi fiscali dietro le quali vi sarebbero anche dirigenti della Chiesi Farmaceutici, il gruppo cha fa capo alla famiglia della moglie di Calisto Tanzi.
Per Barbara, Eleonora e Luigi Berlusconi il 20% del broker assicurativo online è una piccola diversificazione da pochi milioni di euro (6,3 in bilancio), nulla a confronto con la partecipazione ben più pesante nell’impero del papà: il 21% di Fininvest. Da lì storicamente vengono i soldi, sotto forma di dividendi. Il resto sono briciole digitali e web con scarsi risultati per adesso.
Comunque i Berlusconi sono soci di un certo peso in Facile.it (21 milioni di fatturato e 3 di perdita nel 2012), al di là delle percentuali. E l’azienda, che ha avviato una massiccia campagna pubblicitaria su vari mezzi, è una presenza quasi fissa anche sul terreno del «nemico», magari a fianco di titoloni sul «Caimano» o sul «Pregiudicato di Arcore». Chissà se i tre fratelli, che non hanno la gestione diretta, ne sono al corrente. È la logica degli affari che del resto non fa una grinza. Da una parte il broker partecipato dai giovani Berlusconi ritiene il sito del Fatto un buon veicolo di promozione, dall’altra quelli del Fatto sono ovviamente ben felici di raccogliere pubblicità.
«ilFattoQuotidiano.it non riceve alcun finanziamento pubblico — scrivono —, un modo per sostenerci è comprare degli spazi pubblicitari sul nostro sito». Ecco, messa così («un modo per sostenerci») potrebbe riuscire indigesta a chi di cognome fa Berlusconi. Ma sotto il Biscione lo sanno tutti, da sempre: réclame non olet.

Repubblica 28.1.14
Liguori come Toti, editoriale in tuta
Paolo Liguori esordisce da editorialista alTg4 presentandosi in tuta bianca, simile a quella mostrata da Giovanni Toti (ex direttore) nella foto dal balcone a Villa Paradiso, Gardone Riviera, al fianco di Silvio Berlusconi. «Se la tuta la indossano Prodi o Obama sono geni, se la indossa il giornalista Toti, che ha l’unica colpa di essere vicino a Berlusconi, è un indumento infamante». Esordio da direttore anche per Mario Giordano

l’Unità 28.1.14
La Legge 40 davanti alla Consulta
Sul «no» alle coppie fertili ad accedere alla procreazione assistita e diagnosi preimpianto sollevata la legittimità costituzionale dal tribunale di Roma
L’Italia già condannata dalla Ue
di Nicola Luci


ROMA E siamo a diciannove. La legge 40 non ha vita facile. Specie sulle norme che disciplinano la fecondazione assistita. Dal 2004 a oggi è stata oggetto di diverse sentenze e pronunciamenti: diciannove in tutto, appunto.
Ieri, l’ultima. Il giudice Filomena Albano del Tribunale di Roma ha sollevato dubbio di legittimità costituzionale sul divieto all’accesso alle tecniche di fecondazione medicalmente assistita per le coppie fertili. La vicenda riguarda una coppia (fertile) portatrice di distrofia muscolare di Beckerche, che si è rivolta ad una struttura pubblica autorizzata ad eseguire tecniche di fecondazione assistita ma ha ricevuto il diniego all’accesso perché la legge 40 prevede il via libera solo alle coppie infertili.
Per i legali «la decisione del Tribunale di Roma evidenzia il contrasto della legge 40 con la Carta Costituzionale, che garantisce a tutti i cittadini garanzie e tutele quali il diritto alla salute, all’autodeterminazione, al principio di uguaglianza che sono irrimediabilmente lesi dalla legge 40». Il diritto della coppia ad «avere un figlio sano» e il diritto di autodeterminazione nelle scelte procreative sono «inviolabili» e «costituzionalmente tutelati» scrive la prima sezione civile del tribunale di Roma. «Il diritto alla procreazione sarebbe irrimediabilmente leso dalla limitazione del ricorso alle tecniche di procreazione assistita da parte di coppie che, pur non sterili o infertili, rischiano però concretamente di procreare figli affetti da gravi malattie, a causa di patologie geneticamente trasmissibili, di cui sono portatori si legge nell’ordinanza Il limite rappresenta un’ingerenza indebita nella vita di coppia».
È per tutto questo che, secondo il giudice Filomena Albano che ha firmato l'ordinanza limitare il ricorso alla procreazione assistita ai soli casi di infertilità appare in contrasto con l'articolo 2 della Costituzione, che tutela i diritti inviolabili. Il possibile conflitto della legge 40 è anche con il principio costituzionale di uguaglianza, vista la «discriminazione» delle coppie fertili portatrici di malattia geneticamente trasmissibile, rispetto a quelle sterili. E c’è anche un problema di lesione del principio della «ragionevolezza», nel senso di «coerenza» del nostro ordinamento, visto che la legge 194 permette, nel caso in cui il feto risulti affetto da gravi patologie, l'aborto terapeutico, che «ha conseguenze ben più gravi per la salute fisica e psichica della donna rispetto alla selezione dell'embrione successiva alla diagnosi preimpianto». Ipotizzabile anche il contrasto con l'articolo 32 della Costituzione, «sotto il profilo della tutela della salute della donna, costretta per realizzare il suo desiderio di mettere al mondo un figlio, non affetto da patologia, a una gravidanza naturale e a un eventuale aborto terapeutico, con conseguente aumento dei rischi per la sua salute fisica».
Infine per Tribunale di Roma la questione di costituzionalità si può porre anche in relazione al contrasto tra la legge e gli articoli 8 (diritto al rispetto della vita privata e familiare) e 14 (divieto di discriminazione) della Carta europea dei diritti dell'uomo. Tra l’altro proprio su questo punto la Ue ci aveva già sanzionato.
L'accesso per le coppie fertili alla procreazione assistita e alla diagnosi preimpianto, anche se portatrici di malattie trasmissibili geneticamente, è «l’ultimo divieto, che arriva ora all'esame della Consulta, ancora contenuto nella legge 40 sulla procreazione assistita» dice Filomena Gallo, legale, insieme ad Angelo Calandrini, della coppia che ha promosso il ricorso al tribunale di Roma. Se la decisione della Consulta «dovesse essere favorevole rileva Gallo la legge 40 sarà stata definitivamente cancellata». «È la prima volta che la legge 40 rileva Gallo, segretario dell'Associazione Luca Coscioni finisce davanti alla Corte Costituzionale affinché sia cancellato il divieto di accesso alle coppie fertili». Ora, commenta, «confidiamo nei giudici della Corte, visto che il Parlamento è incapace di legiferare nel rispetto dei diritti di tutti i cittadini».
Quanto ai tempi, «speriamo che i tempi tecnici ci facciano rientrare nell’udienza dell’8 aprile». In passato, spiega Gallo, «avevamo avuto già due decisioni sul divieto all’accesso alle tecniche di fecondazione medicalmente assistita per le coppie fertili: quella del tribunale di Salerno del 9 gennaio 2010 e quella della Corte Europea dei diritti dell'uomo del 28 agosto 2012 che ha condannato l'Italia».

Repubblica 28.1.14
Domani via al dibattito. Gotor ai colleghi del Pd: no ai reati di opinione
Senato, riparte tra le polemiche l’iter della legge sui negazionisti
di Antonello Guerrera


ROMA — Dopo le parole di Napolitano di ieri, molto scettiche su una legge contro il negazionismo, si infiamma il dibattito parlamentare e nei partiti. Domani al Senato arriverà in discussione il ddl n. 54 “Contrasto e repressione dei crimini di genocidio, crimini contro l’umanità e crimini di guerra” (prima firma Silvana Amati, Pd), che prevede l’introduzione nel codice penale del reato di negazionismo, punito con la reclusione da uno a cinque anni. Il testo uscito dalla Commissione Giustizia di Palazzo Madama è leggermente diverso da quello iniziale, come ha spiegato ieri a Bari Felice Casson del Pd, favorevole alla legge. Le novità principali sono sostanzialmente due. Verrà perseguito solo chi nega «pubblicamente» l’esistenza di tali crimini e, seconda cosa, chi lo fa a fini di «proselitismo», ovvero «di incitamento all’odio etnico e razziale». In pratica, il reato viene legato al dolo e alle possibili conseguenze dell’atto negazionista. Due novità che, secondo Casson, tutelano la libertà di opinione e il dibattito, ma che, allo stesso tempo, mettono al bando teorie estremamente pericolose.
Questi emendamenti, tuttavia, non hanno dissipato i tanti dubbi sul ddl. La grande maggioranza degli storici italiani, da Carlo Ginzburg ad Adriano Prosperi, si è sempre detta contraria, nonostante una legge simile sia già in vigore in 14 paesi europei. E anche diversi storici del Partito Democratico, vedi i senatori Miguel Gotor ed Emma Fattorini, rimangono scettici. Ieri Gotor ha addirittura inviato una lettera ai suoi colleghi di Palazzo Madama in cui si è detto esplicitamente contrario al ddl, perché, tra le altre cose, introdurrebbe «un reato di opinione» e «pretende di imporre per legge una valutazione storiografica», provocando così una «tribunalizzazione della storia». Secondo Gotor, l’introduzione del reato renderebbe i negazionisti «delle vittime», fornendo loro «una straordinaria platea propagandistica». Oggi i senatori del Pd si incontreranno a Roma per cercare di trovare una linea unitaria.

il Fatto 28.1.14
A Strasburgo
Michele Serra: “Con Tsipras un’Europa più giusta”
di Chiara Paolin


Michele Serra, editorialista di Repubblica, ha firmato il suo sostegno alla Lista Tsipras per le Europee: un movimento civico che vuole portare a Strasburgo Alexis Tsipras, il leader del partito della sinistra greca Syriza.
Serra, lei ha scelto il papa nero. Ma cos’ha Tsipras più del giovane Pd a trazione Renzi-Letta, o del loro alleato Vendola?
Ho messo la mia firma sotto quell’appello per la grande stima che ho di Barbara Spinelli, una delle poche teste politiche che ci sono rimaste; e perché vedo con angoscia il montare dell’antieuropeismo nazionalista, populista e di destra. Credo sia importante che nasca un neo-europeismo sociale e socialista. Che raccolga in positivo la critica contro l’Europa così come la vediamo e la viviamo ora: un direttorio di contabili.
Nemmeno il Movimento 5 Stelle è abbastanza combattivo nel rappresentare un cambiamento dal basso?
Quando dico “europeismo socialista” non credo di dire qualcosa che incontri l’interesse di Grillo e Casaleggio.
La Grecia, vittima conclamata del rigore europeo, cosa deve dire per voce di Tsipras?
Credo che debba dire, a nome di molti, che l’idea europea non può essere solo una somma di doveri normativi. Deve essere anche il luogo dei diritti, pena la sua morte per sclerosi. Se contano solo gli obiettivi di bilancio da raggiungere, anche ammesso che siano giusti e correttamente calcolati, che cosa resta del calore ideologico e culturale dei padri dell'europeismo, della loro visione cosmopolita e solidale?
Da Blair a Zapatero, la sinistra italiana ha guardato con invidia ai leader altrui, spesso ricredendosi a fine mandato. Stavolta perché sarà diverso?
Non so se sarà diverso. È anche possibile che questa nuova lista rimanga – come tante altre – una pura lista di testimonianza, un listino di anime belle come, a sinistra, se ne sono visti tanti. So solo che spero, anche attraverso questa lista, nella nascita di un nuovo spirito europeo, che non sia costretto a scegliere tra l’Europa ragioniera e l’antieuropeismo di pancia: due grettezze contrapposte. Non so neppure per chi voterò, voglio prima vedere la campagna elettorale. Ma ho firmato volentieri perché di un nuovo attore europeo fuori dai vecchi schemi si sentiva la mancanza.

l’Unità 28.1.14
Parità tra donne e uomini. Tunisi vara la Costituzione
La Carta approvata con 200 voti su 216
Ban Ki-moon: «Sarà un modello per altri popoli»
di Roberto Arduini


La Tunisia invia un messaggio forte agli altri Paesi arabi, approvando a tre anni dallo scoppio della prima delle rivoluzioni una nuova Costituzione laica. In una cerimonia a Tunisi, lo speaker dell’Assemblea Mustapha Ben Jaafar, il presidente Moncef Marzouki e il premier Ali Larayedh hanno firmato la nuova Costituzione. La Carta è stata approvata nella tarda serata di domenica dai parlamentari, con 200 voti favorevoli sul totale di 216 (12 contrari e 4 astenuti). La votazione, trasmessa in diretta televisiva, ha visto l’euforia impadronirsi di tutto l’emiciclo al termine dell’approvazione: dopo aver intonato l’inno nazionale brandendo la bandiera tunisina, l’Assemblea costituente è poi esplosa nel grido «Fedeli, fedeli al sangue dei martiri della rivoluzione». Nella cerimonia della firma, Marzouki è stato il primo a mettere il suo nome sotto il testo approvato, abbracciando il documento e agitando due dita in segno di vittoria.
«La nascita di questo testo, conferma la nostra vittoria contro la dittatura», ha detto il presidente tunisino, ma «la stra-
da è ancora lunga. C’è ancora molto lavoro da fare affinché i valori della nostra Costituzione facciano parte della nostra cultura». Il documento è uno dei più progressisti del mondo arabo, prevedendo libertà di religione e parità di diritti tra uomini e donne. «Questa Costituzione, pur non essendo perfetta, è di consenso. Oggi abbiamo avuto un nuovo appuntamento con la storia, per costruire una democrazia fondata su diritti e uguaglianza», ha commentato lo speaker Ben Jaafar. «La Tunisia può essere un modello per altri popoli che sono in cerca di riforme», ha commentato il segretario generale delle Nazioni Unite, Ban Ki-moon.
ISPIRAZIONE LAICA
Il voto definitivo è giunto a pochi giorni dal terzo anniversario della rivoluzione del 2011 che cacciò il dittatore Zine al-Abidine Ben Ali, ispirando la Primavera araba in tutto il Medio Oriente. La rivoluzione tunisina si è dimostrata in grado di perseguire gli obiettivi che si era prefissata.
Nel mese di gennaio ci sono state le votazioni di tutti gli articoli, terreno di aspre controversie politiche tra partiti islamisti e laici. Il testo che ne è uscito è un compromesso, ma tutti gli osservatori internazionali lo giudicano di buona qualità. La Carta vuole rendere la Tunisia una democrazia basata su uno Stato civile le cui leggi non sono fondate sulla legge islamica, a differenza di molte altre Costituzioni del mondo arabo. L’Islam non viene menzionato come fonte della legge, anche se viene riconosciuto come religione nazionale. Lo Stato deve «proibire ogni attacco a ciò che è sacro» e la libertà di religione è garantita.
La grande novità riguarda però la parità uomo-donna. L’articolo 20 afferma l’eguaglianza di diritti e doveri dei due sessi, mentre l’articolo 45 impone che il governo non solo protegga i diritti delle donne, ma garantisca le pari opportunità anche all’interno dei consigli elettivi. Un intero capitolo di 27 articoli è dedicato ai diritti dei cittadini, tra questi protezione dalla tortura, il diritto al giusto processo, la libertà di culto. Le nuove norme impegnano anche lo Stato a proteggere l’ambiente e combattere la corruzione. Il potere esecutivo viene diviso tra il premier, che avrà un ruolo dominante, e il presidente, che mantiene importanti prerogative, in particolare in materia di difesa e politica estera.
Poco prima del voto, il premier Mehdi Jomaa ha presentato un governo ad interim che guiderà il Paese fino alle elezioni. Prenderà il posto di quello a guida Ennahda, il partito islamista che aveva vinto le elezioni dell’ottobre 2011. L’ultimo ostacolo era stato la conferma del ministro degli Interni uscente Ben Jeddou, osteggiato dalle opposizioni. Jooma lo ha tenuto, affiancato però da un nuovo «segretario di Stato alla sicurezza nazionale». L’impegno alla parità però, nel governo degli indipendenti, non è stato rispettato con solo due ministre su 21. In compenso, per la prima volta c’è un ambientalista, Mounir Majdoub. Il voto di fiducia si terrà martedì.

Repubblica 28.1.14
Le rivoluzioni arabe. Tunisia, il sogno continua
Così i giovani e le donne fanno fiorire la Primavera
Passa la nuova Costituzione: diritti e libertà religiosa
di Bernardo Valli


LA NUOVA Costituzione appena approvata in Tunisia è il solo prezioso frammento rimasto della “primavera araba”. Naufragato in Egitto, degenerato in una guerra civile in Siria e in una rissa tribale in Libia, quel movimento democratico sopravvive nel paese in cui è nato tre anni fa. E da dove si è poi esteso con difficoltà nel resto del mondo arabo tentando invano di affondarvi le radici. Si capisce perché i duecento deputati (su duecentosedici) di tutte le tendenze, laiche e religiose, dopo avere votato la nuova Magna charta nella notte tra domenica e lunedì, si sono abbracciati in preda alla commozione, spesso in lacrime, cantando l’inno nazionale. Era un momento eccezionale, non soltanto per la Tunisia.
La Costituzione appena approvata a stragrande maggioranza, dopo polemiche, minacce, incertezze, garantisce uguali opportunità a uomini e donne e impegna lo Stato a operare al fine di realizzare la parità. Dichiara, come la vecchia versione, che l’Islam è la religione della Tunisia (come l’arabo è la sua lingua, e le istituzioni sono repubblicane), ma non dice che è la religione dello Stato. Al-Nahda, la Rinascita, il partito islamista con una forte maggioranza relativa, voleva precisarlo. Si è battuto a lungo perché venisse evocata lasharia(l’insieme delle leggi islamiche) quale fonte di ispirazione dello Stato. Ma la proposta non è passata. La controversia è stata seguita con emozione per settimane da una società con una forte impronta laica per un paese musulmano. Le libertà democratiche sono garantite con chiarezza nella Costituzione appena varata ed è dopo interminabili discussioni che si è arrivati a riconoscere la separazione dei poteri. L’indipendenza della giustizia è stato uno degli argomenti più dibattuti.
I promotori intransigenti della svolta democratica, pur non nascondendo la loro soddisfazione, ammettono che la nuova Costituzione solleverebbe non poche obiezioni se destinata a una società occidentale. Vi trovano troppi riferimenti religiosi annidati nei vari capitoli. Per il mondo arabo musulmano in pieno fermento, represso o frustrato, ancorato alla tradizione o incapace di realizzare le riforme desiderate, il voto dei duecento deputati tunisini dopo un dibattito aperto, seguito dall’intero paese, resta comunque un avvenimento di cui è difficile trovare precedenti.
La società civile ha contribuito a rendere aperto, e quindi autentico, il dibattito all’Assemblea costituente. In particolare è stata efficace la presenza di alcune ong. Ad esempio Al Bawsala, la Bussola, che ha seguito le discussioni nell’emiciclo facendone una cronaca quotidiana dettagliata e intervenendo presso i deputati, di tutte le tendenze. Quei testimoni curiosi, quei ficcanaso erano soprattutto donne giovani. Lo si capisce. Era in gioco la loro sorte. All’inizio i deputati religiosi le hanno insultate. Erano poco inclini alla trasparenza e a un’intrusione femminile. Col tempo l’azione delle ong è stata ritenuta essenziale. Un’espressione della società civile, uno stimolo democratico. In particolare è stato riconosciuto il merito della Bussola, che è riuscita a coinvolgere il paese in un dibattito altrimenti destinato a rimanere vago e in parte oscuro per il grande pubblico. Amira Yahyaoui, 29 anni, animatrice dell’ong, dice di avere assistito a una rivoluzione di mentalità tra i deputati. Una rivoluzione che ha portato via via ad ammettere, durante il dibattito, l’uguaglianza tra uomini e donne. E quindi a varare la prima Costituzione veramente democratica del mondo arabo. Negli ultimi tre anni, dall’inizio della “primavera”, molti hanno dubitato che la piccola Tunisia potesse realizzare quel che il grande Egitto stava tragicamente fallendo. Ci sono state manifestazioni imponenti in favore di “un califfato”, vale a dire di uno Stato islamico; e la vittoria elettorale di Al Nahda, il partito formatosi nella clandestinità e nelle prigioni, sembrava definitiva. Nella società politica, appena emersa dalla dittatura, non c’erano rivali capaci di scalzare dal governo gli islamisti. Ma questi ultimi, come in Egitto, benché moderati, si sono rivelati molto presto solerti nell’occupare i posti di potere, a Tunisi e nelle province, e al tempo stesso incapaci di gestire la cosa pubblica. L’impopolarità ha ridotto la loro influenza e ha dato forza alla resistenza di larga parte della società. Quella decisa a separare governo e religione, e tenace nel difendere la vita individuale dall’intrusione dei precetti musulmani. Le donne hanno avuto un ruolo decisivo.
Due omicidi di uomini politici di sinistra, compiuti da frange integraliste tollerate dal governo, hanno inferto un severo colpo al prestigio di Al Nahda. Né ha contribuito alla sua credibilità il non rispetto dei patti, secondo i quali un anno dopo l’elezione dell’Assemblea costituente, votata la nuova
Charta, il governo si sarebbe dovuto dimettere per lasciare il posto a un ministero di tecnici, in vista di elezioni legislative. Per due anni il governo si è di-mostrato riluttante a cedere il potere, sollevando dubbi sul suo spirito democratico. La crisi egiziana, in particolare i ripetuti massacri al Cairo, e poi la messa al bando dei Fratelli musulmani, ha contribuito a cambiare la situazione. Al Nahda si è sentita meno sicura.
Il dibattito sulla nuova Costituzione ha assunto ritmi più veloci, è arrivato sia pur faticosamente alla conclusione; e con altrettanta rapidità il primo ministro islamista, Ali Larayedh, ha annunciato le dimissioni. Il successore sarà Mehedi Jomaa, personalità rispettata, che ha già presentato al presidente della Repubblica, Moncef Marzouki, la lista dei suoi ministri. Tra i quali figurano tre donne. Quello di Mehedi Jomaa sarà il governo di tecnici incaricato di condurre il paese alle elezioni legislative. Dunque la svolta democratica, la “primavera”, continua.
In Tunisia non c’è come in Egitto una società militare dominante, che occupa, oltre alle caserme, più della metà dell’economia nazionale. Dagli alberghi alle fabbriche non solo d’armi, dalle raffinerie alle grandi piantagioni. Habib Bourghiba, il fondatore nel 1956 della Tunisia indipendente (ed esautorato nel 1987 da Zine El Abidine Ben Ali) durante il lungo potere evitò di creare un esercito troppo forte. Era un personaggio autoritario, ma senza la volgarità dei raìs arabi. Era fedele ad alcuni principi repubblicani ereditati dal protettorato francese. Era ad esempio un laico e un antimilitarista. Per convinzione e per convenienza. La sua ormai remota eredità oggi evita alla “primavera araba” tunisina di essere sopraffatta dai generali. E mentre in Egitto i sindacati sono deboli, in Tunisia Bourghiba ha lasciato un sindacato forte con uno spirito di indipendenza che l’autoritarismo ha soffocato ma non del tutto spento. Consentendo un’emancipazione femminile già ai suoi tempi senza pari nel mondo arabo, Habib Bourghiba ha inoltre creato un’altra singolarità tunisina. La quale oggi pesa nella sola“primavera” sopravvissuta.

Il Sole 28.1.14
Dopo l'austerity confermate le previsioni di crescita
Così Madrid si è rialzata
di Luca Veronese


Le esportazioni sostengono l'economia, gli analisti rivedono al rialzo le previsioni di crescita. Dal lavoro arrivano timidi segnali di risveglio: il tasso di disoccupazione resta altissimo, sopra il 26%, ma per la prima volta dal 2007 scende il numero dei disoccupati. Dopo essere stata travolta dal crollo del settore immobiliare e dal conseguente default del sistema delle casse di risparmio la Spagna si sta rialzando.
Con molti errori, alcune riforme e misure di pesante austerity il governo di Madrid ha fatto più di altri e sta anche raccogliendo i risultati dell'obbedienza alla Ue e alla linea rigorista della Germania. Il deficit del 2013 è stato contenuto al 6,5% del Pil come promesso ai partner europei e per il momento il debito sopra il 90% non viene considerato un problema. Mariano Rajoy ha sempre potuto contare sul sostegno di un'ampia maggioranza in Parlamento, senza alcuna incertezza sulla durata della legislatura fino al 2015: un vantaggio riconosciuto dagli investitori. «La Spagna probabilmente continuerà a fare meglio dell'Italia, perché quest'ultima ha fatto meno progressi nelle riforme strutturali, presenta maggiore incertezza politica e ha problemi di competitività», dice Giada Giani di Citi Research.
Per il ministro delle Finanze, Luis de Guindos, la Spagna dopo essere uscita dalla recessione nel secondo trimestre del 2013 «crescerà almeno dello 0,7% quest'anno». Ma per gli analisti di Citi Research «il Pil potrebbe aumentare dello 0,9% nel 2014 e poi dell'1,1% nel 2015. Barclays stima una crescita dell'1% già quest'anno, Morgan Stanley arriva all'1,2% in caso di scenari internazionali favorevoli».
Le esportazioni - cresciute del 5,4% nei primi undici mesi del 2013 - sostengono la ripresa, ma la capacità produttiva si è sviluppata sfruttando anche gli investimenti diretti dall'estero. Negli ultimi quattro anni la Spagna ha ricevuto 105 miliardi di euro di investimenti diretti dall'estero, nel solo settore automobilistico i grandi gruppi - da Ford a Renault, da Peugeot-Citroën a Nissan - hanno investito 5 miliardi in due anni per rafforzare i loro stabilimenti facendo della Spagna il secondo Paese produttore in Europa dietro solo alla Germania.
In molti hanno scelto di investire in Spagna anche guardando alle riforme di Madrid: oltre alle banche risanate con i 41 miliardi di euro ricevuti dall'Esm, il governo ha conquistato la fiducia internazionale con le nuove regole del lavoro. La riforma della contrattazione collettiva ha aumentato la flessibilità e ha introdotto deroghe agli accordi nazionali, oltre a rendere più facili e meno costosi i licenziamenti per le imprese in crisi. «La retribuzione per dipendente – spiegano a Citi Research – è scesa dello 0,3% nel 2012 e dello 0,5% in media nel 2013. Non solo nella pubblica amministrazioni ma anche nelle imprese private di molti settori»: il costo del lavoro è calato a causa dell'elevatissima disoccupazione, ma «anche la riforma potrebbe avere contribuito a questa evoluzione».
Ora l'attesa in Spagna è per l'annunciata riforma della corporate tax e dell'Irpef. Se Rajoy manterrà le promesse tagliando le aliquote si potrà dire che la fase due, quella dello sviluppo, in Spagna è davvero iniziata.

La Stampa 28.1.14
Obama, l’agenda liberal fa infuriare i ricchi
“Vuole la lotta di classe”
Il miliardario Perkins: come i nazisti con gli ebrei
Oggi al Congresso il discorso sullo stato dell’Unione
di Paolo Mastrolilli


Le reazioni sono andate dalle prese in giro, fino alle proteste indignate. E si capisce, perché quando un miliardario paragona il trattamento dei ricchi in America a quello degli ebrei nella Germania nazista, viene naturale chiedersi come abbia fatto lui ad avere tanta fortuna. E però dietro alla polemica provocata da Tom Perkins c’è una linea di pensiero, forse meno estrema della sua, che accusa l’amministrazione Obama di penalizzare il successo e fomentare la lotta di classe. Tutto questo alla vigilia di un discorso sullo stato dell’Unione, in cui oggi il capo della Casa Bianca lancerà proprio la sua campagna contro la diseguaglianza economica.
Perkins è uno dei fondatori della Kleiner Perkins Caufield & Byers, mitica compagnia di venture capitalism nella Silicon Valley. Basti pensare che ha aiutato a nascere aziende come Google, Amazon, Aol, Citrix, Compaq, Ea, Intuit, Netscape, Sun, Symantec, WebMD e Zynga. Questi investimenti oculati hanno portato profitti, e oggi Tom vale 8 miliardi di dollari.
Venerdì scorso, però, Perkins ha pubblicato una lettera sul «Wall Street Journal» che ha fatto arrabbiare mezza America. Il testo si intitola «Progressive Kristallnacht Coming?», e sostiene che i ricchi negli Usa rischiano le stesse violenze degli ebrei in Germania. «Vorrei attirare l’attenzione – scrive – sui paralleli tra la guerra dei nazisti al loro “uno per cento”, cioè gli ebrei, e la guerra dei progressisti contro “l’uno per cento americano”, ossia i ricchi». Perkins dice che la demonizzazione è cominciata con Occupy Wall Street, ma ormai è ovunque. Cita le cronache del giornale di San Francisco, il «Chronicle», e la rabbia contro i bus che trasportano al lavoro i dipendenti di Google. Quindi conclude: «Questa è una deriva molto pericolosa del pensiero americano. La Notte dei Cristalli era impensabile nel 1930: la sua versione del radicalismo progressista è impensabile ora?».
Le reazioni sono state molto dure. Persino la Kleiner Perkins Caufield & Byers ha preso le distanze, dicendo che Tom non ha più rapporti con la compagnia.
Ovvia poi l’indignazione della comunità ebraica. Perkins però non si è lasciato intimidire, e ha rincarato con una lettera all’agenzia Bloomberg: «All’epoca nazista era la demonizzazione razziale, ora è quella di classe». Nessuno si aspetta che in America sorgano i campi di sterminio per ricchi. Sul punto della «lotta di classe», però, Tom ha molti più seguaci silenziosi di quanto si pensi. Già nelle presidenziali del 2012 i repubblicani avevano usato questo linguaggio per criticare il capo della Casa Bianca, e il problema torna col discorso di oggi, dove farà una svolta a sinistra per cavalcare emozioni come quelle che hanno eletto Bill de Blasio sindaco di New York.
Davanti a ospiti tipo i sopravvissuti dell’attentato alla Maratona di Boston Carlos Arredondo e Jeff Bauman, il capo dei pompieri di Moore devastata dai tornado Gary Bird, il giocatore di basket gay Jason Collins, il giovane inventore Joey Hudy, e l’insegnante di scuole pubbliche Kathy HollowellMakle, Obama lancerà la sua campagna contro la diseguaglianza economica, che è giustificata dai dati, perché la sproporzione tra le condizioni di vita dell’1% della popolazione più ricca e gli altri è evidente. Fra i suoi avversari, però, c’è chi lo accuserà di essere contro il successo che è alla base del sogno americano, sperando di trovare poi voti nelle urne delle elezioni di midterm a novembre.

La Stampa 28.1.14
Intesa a Kiev
Abolita la legge anti-proteste
Dopo gli scontri, Yanukovich fa dietrofront Amnistia per chi ha occupato edifici pubblici
di Monica Perosino

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Repubblica 28.1.14
Usa-Cina. Caccia all’ultimo barile
Pechino è sempre più assetata di petrolio e investe ogni anno 12 miliardi di dollari per l’oro nero.
Il Dragone ha superato gli Stati Uniti nelle importazioni e compra soprattutto dal Medio Oriente
Un’offensiva per ora solo economica, ma destinata a stravolgere gli equilibri del mercato energetico e l’ordine geopolitico mondiale
di Maurizio Ricci


L’oasi spersa nel deserto, vicino al confine con l’Iran, è fortificata. Ma, superate le difese esterne, si arriva alle villette a schiera, che fanno corona ad un lago artificiale, solcato dalle barche a vela. Un aeroporto è poco distante, come anche le torri di metallo e le cisterne del campo petrolifero. Il giacimento di Halfaya, nel sud est dell’Iraq, non ha nulla di speciale: insediamenti così ce ne sono decine, sparsi nel mondo. Ancora pochi, però, hanno due statue di leoni in pietra davanti alla sede degli uffici. Servono a tenere lontani gli spiriti maligni. Almeno, secondo gli scongiuri cinesi. Perché questo è il campo di Petrochina e non è neanche il più importante investimento cinese inIraq. I petrolieri di Pechino sono presenti anche a Rumaila, a West Qurna, in quasi tutti i giacimenti più interessanti: ci investono 2 miliardi di dollari l’anno. Secondo l’analista libanese As Safir, nessuno investe più di loro nel greggio iracheno. Ovvero, in una delle leve-chiave, ancora da scoprire, del futuro nuovo ordine geopolitico mondiale, perché quel greggio, secondo molti, è destinato, presto, a insidiare l’egemonia saudita sull’Opec e sul petrolio mondiale.
Quando George Bush, Dick Cheney e i neocon che stavano intorno decisero di invadere l’Iraq, non avevano messo in conto che, dieci anni dopo, come notano senza entusiasmo gli analisti del Pentagono, il maggiore beneficiario del dopo-Saddam sarebbe stata la Cina.
Attualmente, la Cina importa dall’Iraq un milione e mezzo di barili di greggio al giorno, quasi metà della produzione di Bagdad, e ne importerebbe volentieri anche molti di più, per soddisfare una sete inestinguibile di energia, che ne ha fatto il maggior importatore di greggio al mondo, scavalcando gli Stati Uniti. Di fatto, nel giro di pochi anni, Pechino è diventato il principale protagonista del mercato mondiale del petrolio. Anche in quel ricco bacino del Golfo Persico che, fino a ieri, era il giardino di casa degli americani. La Cina importa dal Medio Oriente 2,9 milioni di barili di greggio al giorno, gli Stati Uniti 2,5. Ma questo ci dice solo quanto sono rilevanti i due clienti per i signori dell’Opec. È, probabilmente, più importante il contrario: quanto è importante l’Opec per i due clienti. La Cina importa un quarto del suo fabbisogno complessivo di petrolio dall’Iraq e un altro quinto dall’Arabia saudita: in totale, il 60 per cento delle importazioni cinesi viene dal Medio Oriente. L’import americano dai giacimenti del Golfo è solo il 26 per cento del totale. Ed è soltanto l’inizio.
L’attivismo che sta spingendo i cinesi a investire 12 miliardi di dollari l’anno nello sfruttamento mondiale di petrolio e gas non avrebbe, probabilmente, gli stessi effetti se non si accoppiasse alla ritirata in corso degli Stati Uniti. La “rivoluzione dello shale” (il petrolio e il gas estratti dopo aver frantumato le rocce che li custodiscono) non darà a lungo, probabilmente, agli Usa l’indipendenza energetica, in cui sperano molti americani. Gli esperti prevedono che il boom di produzione si esaurisca, prima di una decina d’anni. Ma, unita ad una maggiore efficienza di utilizzo, che riduce i consumi, e alla disponibilità di nuove fonti di approvvigionamento in Brasile e in Canada, significa che l’impronta degli Stati Uniti sul mercato del petrolio, in particolare quello cruciale del Golfo, è destinata a sbiadire. Le previsioni della Iea (il braccio petrolifero dell’Ocse, l’organizzazione che raccoglie i paesi più industrializzati) sono brutali per gli sceicchi. Le esportazioni di greggio verso gli Usa scenderanno, nel giro di venti anni, da 1,9 milioni di barili al giorno alla trascurabile cifra di 100 mila barili. Un tracollo. Compensato, però, da un aumento delle importazioni cinesi da 2,9 milioni a 6,7 milioni di barili al giorno. Gli sceicchi sanno dove devono guardare. Le petroliere che si incanalano giù per il Golfo Persico, una volta superato lo stretto di Hormuz girano quasi sempre a sinistra, verso Est, non a destra verso Ovest.
Il problema è che i guardiani di Hormuz, quelli che garantiscono il libero passaggio delle petroliere non sono i cinesi che, nell’area, hanno poco più di una motovedetta, ma gli americani, con il potente spiegamento della Quinta Flotta, simbolo ed espressione della loro egemonia militare nella regione. Per conto e a favore di chi, si chiedono gli analisti a Washington, sorvegliamo lo stretto, se quel petrolio non ci interessa e non ci serve? Il ruolo geostrategico mondiale degli Stati Uniti è in gioco nel cuore di una regione decisiva per l’approvvigionamento energetico mondiale. Se questo non fosse chiaro, ci pensano gli stessi petrolieri americani a far notare che Hormuz è vitale comunque. Il mercato petrolifero è globale e intercomunicante: un’impennata dei prezzi del barile in seguito ad un blocco del greggio del Golfo si ripercuoterebbe immediatamente anche sui prezzi del greggio estratto all’altro capo del globo.
A scanso di equivoci, lo stesso ragionamento, ai diplomatici americani, lo hanno fatto i cinesi, nei contatti ad alto livello fra le due capitali. Secondo le indiscrezioni, gli uomini di Pechino hanno chiesto più volte agli americani precise garanzie sulla sorveglianza dello stretto e sul libero passaggio delle petroliere. Gli stessi colloqui hanno, però, mostrato tutte le difficoltà di un gioco completamente nuovo, in un’area cruciale per gli equilibri geopolitici mondiali. Washington si trova davanti, a sorpresa, un interlocutore diventato, in pochi anni, decisivo, che non sono i russi, che non assomiglia ai russi e di cui è, tradizionalmente, difficile leggere le intenzioni. Nei centri studi americani, dal Csis alla Brookings, si sottolinea il carattere dichiaratamente “solo economico” dell’offensiva cinese in Medio Oriente. Le aziende cinesi, tutte statali e controllate strettamente dal governo di Pechino, evitano accuratamente di schierarsi nel difficile panorama iracheno e collaborano attivamente con le big del petrolio occidentale: lo sfruttamento dei giacimenti iracheni avviene, quasi sempre, con joint ventures in cui i cinesi siedono accanto a Bp o a Exxon. Ad un livello più alto, si fa notare, i cinesi si sono adeguati senza troppe proteste all’embargo antiiraniano e hanno contribuito ai colloqui con i nuovi dirigenti di Teheran. Per qualcuno, anche in luoghi abitualmente diffidenti, come i think-tank israeliani, è la prova che il Medio Oriente può essere la sede diuna“cooperazione” fra Usa e i nuovi «partner nel gioco dell’energia», come definisce i cinesi l’Institute for Structural Reforms di Tel Aviv. Per i cinesi, del resto, sottolinea Erica Downs della Brookings, non si tratta solo di posizioni di principio. Pechino è molto sensibile agli atteggiamenti dell’opinione pubblica americana nei suoi confronti, perché sono in ballo parecchi soldi. Metà degli investimenti in fusioni e acquisizioni di società nel settore energia compiute in questi anni da Pechino sono negli Stati Uniti, dove i cinesi hanno messo in gioco, solo negli ultimi tre anni, 8 miliardi di dollari.
Ma i contatti diplomatici hanno anche fatto emergere la sordità dei cinesi agli appelli per un sostegno più fermo alle posizioni americane su Siria ed Iran. In generale, l’approccio “solo economico” cinese va a sbattere frequentemente con posizioni e interessi americani. In Iraq, i cinesi si fanno largo perché sono pronti ad accettare, con grande fastidio delle multinazionali, i contratti stringenti e i profitti bassi che offre Bagdad, dato che il loro problema principale è avere il greggio, piuttosto che guadagnarci sopra. Come si è visto in Africa, inoltre, il rifiuto a considerare la politica li porta a sostenere regimi o scelte politiche discutibili o, comunque, invise agli americani: nella miscela ribollente di politica, religione ed economia che agita un fenomeno ancora tutto da decifrare, come la “primavera araba”, può essere la ricetta per guai sicuri. «In Sudan come in Libia — elenca infine Yitzhack Schichor della Hebrew University di Gerusalemme — gli occidentali se ne vanno e i cinesi si precipitano a sostituirli. Washington rifiuta di vendere missili a Riad ed ecco l’accordo cinesi-sauditi. Gli americani non vogliono vendere armi alla Turchia e ci pensano i cinesi». «Più che di approccio solo economico — ha scritto John Lee per il Csis — bisogna parlare di un “la Cina prima di tutto”».Facile da leggere, ma, in quel calderone esplosivo che è sempre stato il Golfo, non altrettanto facile, per gli interlocutori, da maneggiare.

Corriere 28.1.14
il Tennis vincente della cinese Li Na modello per le Riforme di Pechino
di Guido Santevecchi


Dalle tribune i tifosi la incitano al grido «Vai sorella maggiore Li Na», un segno di notevole rispetto in Cina. Lei, la tennista trentunenne che ha appena vinto gli Australian Open di tennis, uno dei quattro Grand Slam della stagione, qualche volta in passato li ha ripagati rispondendo: «Silenzio, non disturbate». La signora ha sempre avuto un rapporto difficile anche con la stampa di Pechino. Troppo autonoma, autogestita, da quando nel 2009 decise di affrancarsi dal controllo statale dello sport. Una volta, dopo che un cronista cinese l’aveva criticata per una sconfitta, rispose: «Vuole forse che mi inginocchi?».
La sportiva più forte e più controversa della Cina. E siccome lo sport è politica ed è anche economia, il trionfo in Australia ha aperto una riflessione più ampia. Editoriale del Global Times , appendice in inglese del Quotidiano del Popolo : «La vittoria di Li Na riaccende il dibattito sulla riforma dello sport». Il commentatore avverte che l’ascesa della giocatrice al numero tre della classifica mondiale, seconda sportiva più pagata della Terra dopo la russa Sharapova, sarà sicuramente manipolata da chi cerca di deridere e screditare il sistema di controllo statale centralizzato. Quello in base al quale i ragazzini vengono indirizzati verso discipline scelte dall’alto, quello del «collettivismo patriottico».
Il giornale di partito spiega che senza quel sistema la Cina, che partiva dal niente, non sarebbe diventata una superpotenza olimpica. In effetti, la ribelle Li Na, che si è scelta un allenatore straniero (sostituendolo al marito ex campione ora relegato nelle retrovie), non può lamentarsi dello sport di Stato: da piccola giocava a badminton e le piaceva; la spostarono al tennis e fu la sua fortuna. Il Global Times conclude: ora però questo vecchio modo non si adatta più alla psicologia degli atleti in questi tempi di mercato. «L’esempio di Li Na deve far crescere la fiducia della gente nell’accelerazione delle riforme». Nello sport come nell’economia. Insomma, Li Na può insegnare come servire il popolo, con le riforme. Altrimenti magari il popolo si servirà da solo.

Repubblica 28.1.12
Dagli Usa alla Cina
La morale del mercenario
di Federico Rampini


Il re dei mercenari americani prende ordini dalla Cina. Lo rivela il Wall Street Journal intervistando proprio lui. Erik Prince è un ex agente segreto (lavorò per la Cia) nonché ex testa di cuoio dei reparti speciali (i Navy Seal, lo stesso corpo da cui venne il commando che uccise Osama Bin Laden). In una vita successiva fondò Blackwater. Quest’ultima è la più grande azienda di «sicurezza privata» mai esistita. Il Pentagono le sub-appaltò, a caro prezzo, intere funzioni durante la guerra in Iraq. E sul fronte di guerra Blackwater ha attirato su di sé un numero crescente di accuse. Da parte dei governi stranieri, indignati per i metodi spesso brutali dei mercenari. Anche da parte del Congresso e della stampa Usa, più spesso preoccupati per la lievitazione dei costi (ogni volta che un ex soldato diventa mercenario, la sua paga si moltiplica...) Stufo dei vincoli di trasparenza e dei controlli anti-corruzione della democrazia americana, Erik Prince confessa di aver lasciato Blackwater per lavorare a tempo pieno al servizio di Pechino. La morale della storia: chi fa troppo affidamento su questi professionisti della guerra, dimentica cos’è un mercenario. È uno che si vende al migliore offerente, stop.

Corriere 28.1.14
Corea
Il giovane Kim fa fucilare tutti i parenti dello zio
di G. Sant.


PECHINO — Quasi tutti i parenti di Jang Song-thaek, l’ex numero due del regime nordcoreano giustiziato a dicembre, sarebbero stati eliminati. I plotoni d’esecuzione non avrebbero risparmiato nemmeno alcuni minorenni, perché l’ordine del dittatore Kim Jong-un era di «cancellare ogni traccia del traditore», che era anche suo zio, l’uomo che lo aveva guidato nell’ascesa al potere nel dicembre 2011. La notizia è stata diffusa dall’agenzia d’informazione sudcoreana Yonhap , che sostiene di averla ricevuta da «diverse fonti». Tra le vittime la sorella di Jang e il marito che era ambasciatore a Cuba; il nipote ambasciatore in Malaysia, i suoi due figli. E poi i figli maschi e femmine, anche i nipotini dei due fratelli del «traditore Jang», messo a morte ufficialmente per aver tramato un colpo di Stato. «Alcuni membri della famiglia sono stati abbattuti a colpi di pistola in strada, mentre cercavano di opporsi all’arresto», hanno riferito le fonti della Yonhap . Sono storie che sembrano scritte da Quentin Tarantino per un Pulp Fiction versione asiatica quelle che circolano sulla Nord Corea. Il mese scorso si era diffusa la voce che a dicembre Jang fosse stato gettato in una gabbia con decine di cani affamati e sbranato. Nessuna conferma e nessuna smentita da Pyongyang, anche se gli analisti sono convinti che la descrizione rilanciata da un giornale di Hong Kong non fosse attendibile. Si può credere che i familiari dello zio di Kim siano stati scientificamente eliminati? Questa volta gli indizi sembrano confermare: anzitutto la notizia arriva da Seul e dalla sua agenzia ufficiale, di solito ben informata dai servizi segreti e da fuggiaschi del Nord: è stata la prima a rivelare che il gerarca era caduto in disgrazia. E poi nella Corea del Nord vice la regola culturale della «colpa per associazione»: sono molte le testimonianze su interi gruppi familiari di soggetti colpevoli di tradimento, fuga all’estero o dissenso, decimati o inviati in campi di lavoro. Infine: i due diplomatici basati a Cuba e in Malaysia erano stati richiamati a Pyongyang in dicembre in quello che appare ora come il preludio al plotone d’esecuzione. Jang Song-thaek, 68 anni, era salito nella gerarchia sposando la zia carnale del trentunenne Kim Jong-un. Anche lei, Kim Kyong-hui, ha avuto un ruolo di primo piano nel regime ma è scomparsa senza spiegazioni. L’ultima volta è stata citata dall’agenzia nordcoreana il 15 dicembre, tre giorni dopo la fine del marito Jang: prendeva parte al funerale di un vecchio dignitario. Poi più niente.

La Stampa 28.1.14
L’Olocausto questo sconosciuto
Ignorato, distorto, sminuito: i risultati di uno studio tedesco sul modo in cui lo sterminio nazista è trattato nei libri di testo di 126 paesi
E pure in Germania il racconto è a volte lacunoso
di Tonia Mastrobuoni

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l’Unità 28.1.14
Moresco, favola d’amore tra un vecchio barbone e una bellissima ragazza
di Angelo Guglielmi


ANTONIO MORESCO HA PROVVISORIAMENTE SOSPESO I SUOI CANTI DEL CAOS per scrivere due favole – lo scorso anno Lucina quest’anno Fiaba d’amore. Che in fondo non sono così diversi dai Canti, anche se questi scaraventano il lettore nel fango del mondo mentre le favole lo innalzano nella miseria del mondo. Fiaba d’amore è una favola appunto d’amore tra un vecchio pazzo ridottosi alla stato di barbone e una bella ragazza dagli occhi scintillanti. Il barbone non si sa chi sia e da dove venga (forse nemmeno lui lo sa) vive in un cartone nell’angolo di una strada, mangia quel che può (schifezze) pescando nei cassonetti ma, a differenza degli altri barboni, non chiede l’elemosina né cerca il pasto caldo al refettorio della Caritas. Si guarda intorno senza vedere. Finché un giorno (e poi il giorno dopo e ancora un giorno) passa davanti alla sua cuccia esposta al vento e alla neve una bellissima ragazza morbida e profumata si piega su di lui lo invita a alzarsi e sostenendolo per la vita lo porta nella sua casa piccola come quella di una bambola. Qui gli toglie gli stracci di indosso e nudo lo lava con lei sotto la doccia.
Questa prima parte sono le pagine più belle della favola: una favola materialista ingombra di rifiuti, di cibi già masticati, mele con i segni del morso, di scarponi bucati, di fetori, di croste solidificate nella fessura del sedere che lei gli strappa una per una e poi gli taglia i peli del pube e delle ascelle e i capelli della testa e della barba dove pullulano milioni di minuscoli insetti schifosi e neri che poi raccoglie in un sacchetto di plastica chiude energicamente e indossato una accappatoio va a buttare in un cassonetto. Al ritorno lui è lì nudo con solo i graffi e le piaghe delle sofferenze già patite: lo prende per mano lo porta in un letto matrimoniale e gli si stende a fianco. Lui giorno dopo giorno si lascia invadere da qualcosa che lì per lì non riconosce, esce dal torpore, reimpara a parlare (lo aveva dimenticato) un senso di dolcezza si impossessa di lui che per timore di perderla vuole morire. Scopre di essere innamorato di un amore impossibile. E qui in noi lettori scatta la memoria di un antico testo, che conosciamo e non abbiamo mai letto, e assistiamo (ci pare di assistere) allo spettacolo della nascita dell’uomo. Ma un giorno, assolutamente a sorpresa, lei tra inquieta e infastidita lo licenzia e mette fuori casa. E lui senza capire il perché torna al suo stato di barbone. Lo sentiamo sussurrare Sono una canna al vento.
Ci verrebbe da dire (ma non lo diciamo per non rompere l’incanto che ci ha afferrato) che la favola non è che la metafora della nostra storia di viventi, ma, a sorpresa, a lasciarselo sfuggire è proprio l’autore quando fa dire ai barboni tra i quali il vecchio pazzo è tornato. «Come è ingenuo quel vecchio: Ma non lo sa come è fatto il mondo...Cosa credeva quel vecchio pazzo? Che lei si fosse innamorato di lui, uno straccione?.. Credeva che esistesse qualcosa al di fuori dell’orrore del mondo delle donne e degli uomini che vivono ingannandosi nelle case riscaldate e del mondo di noi, che viviamo da soli, al freddo, per strada?». E queste riflessioni-motivazioni la favola li ripete (comunque li metaforizza) nel seguito del racconto (che paga il conto dello svelamento troppo esplicito del suo segreto) quando si trasferisce nel mondo dei morti che intanto lui ha raggiunto e in cui tra non molto anche lei (che per pentimento si è ridotta pure lei al rango di barbona) sarà accolta e scopre che quel mondo «la città dei morti era uguale identica a quella dei vivi, solo che lì c’era sempre quel buio dove ci si vedeva, e la gente dormiva più profondamente, proprio come se fosse morta».
Lì il vecchio pazzo non più tanto vecchio «forse perché, da morti, si torna indietro, si deve arrivare sempre più vicino al punto di partenza per poter nascere un’altra volta» e la meravigliosa ragazza straziata dal dolore di avere rifiutato «quell’incontro impossibile che aveva cercato... rifiuto con cui. Non aveva tradito soltanto lui ma aveva tradito anche se stessa» continuano a vivere e vagabondare da barboni ma senza i cassonetti dove frugare e solo finestre spente e le stelle nere sopra le (loro) teste. Si cercano, spinti da dolore e nostalgia, si ritrovano e alla stazione non si sa come c’è un treno che li riporta nella città dei vivi. Sperduti e incerti raggiungono un elegante appartamento dove lui ma non lo ricorda un tempo ha abitato e nel lussuoso bagno allo stesso modo che già nella casa di lei piccola come di una bambola si lavano e scrostano l’un l’altro sotto la doccia poi sfiniti si infilano nel grande letto matrimoniale e questa volta è lei a dire «non vorrei svegliarmi più». «Lasciamoli dormire abbracciati. Non c’è nient’altro. Hanno attraversato la vita e la morte per potersi incontrare. Hanno sofferto molto. Se lo sono meritato. Non c’é nient’altro da raccontare. Nella vita non c’è nient’altro, non c’é nient’altro».
Questa la favola, straordinaria la prima parte quando evoca la nascita dal caos di una vita (appena in tempo per ritornare caos); poi la seconda (parte) indugia sui significati nascosti e qui, come sempre accade quando si ricorre alle spiegazioni, si attenua l’incanto e della poesia prende il posto un pur nobile poeticismo.

l’Unità 28.1.14
Vita di famiglia
Il «privato» fa la storia del Novecento: uno studio di Paul Ginsborg
Un progetto ambizioso che inserisce l’istituto familiare nella grande storia, e lo mette in relazione con le politiche, le idee, le ideologie, le utopie rivoluzionarie e reazionarie che hanno attraversato la prima metà del ’900
di Jolanda Bufalini


FAMIGLIA NOVECENTO Vita familiare, rivoluzione e dittature 1900-1950 pagine 678 euro 35,00 Einaudi

IL DESTINO DI MILIONI DI FAMIGLIE DURANTE LA GUERRA CIVILE RUSSA CHE, «per orrori e perdite di vite umane superò la prima guerra mondiale»; quello di altri milioni nel tragico passaggio dall’impero ottomano alla Turchia moderna. La guerra civile spagnola, la Germania di Weimar e l’ascesa di Hitler, le famiglie «approvate» e quelle escluse ed eliminate, il fascismo della tassa sul celibato. Famiglia Novecento di Paul Ginsborg illumina un aspetto sorprendentemente trascurato dagli studi storici sul XX secolo, immettendo l’istituto familiare nella grande storia. Ginsborg riferisce il gesto della sua amica sociologa madrilena Elisa Chulià a spiegare il perché nella gran parte degli studi storici la famiglia rimanga dietro le quinte: «Si è portata le mani al volto intrecciando le dita a formare una grata davanti agli occhi». Grate, persiane, tende, persino, vengono in mente, gli specchi da cui le beghine olandesi guardavano ciò che accade in strada al riparo della loro casa.
L’operazione, portata avanti con una complessa metodologia comparativa, è tirare fuori la famiglia dalla dimensione domestica per metterla in relazione con le politiche, le idee e le ideologie, le utopie rivoluzionarie e reazionarie che hanno attraversato la prima metà del 900, le stesse tensioni fra individui e famiglia di provenienza, i mutamenti straordinariamente potenti nel passaggio dal mondo contadino all’industrializzazione: la Germania hitleriana è il paese più moderno del tempo, la popolazione è urbanizzata, le ragazze lavorano e amano la vita indipendente, la natalità è bassa. Eppure l’ideale propagandato dal regime con i suoi formidabili mezzi di comunicazione è rurale. La famiglia ideale, rappresentata in un olio di Adolf Wissel nel 1939, è incorniciata da un ambiente campestre, numerosa e ariana. Nulla a che vedere con la rappresentazione caotica in un interno urbano e affollato che ne aveva fatto Max Beckman nel 1920. Nella esposizione universale del 1937 nessun padiglione eguagliò quello spagnolo, per il quale Picasso aveva dipinto Guernica. A sinistra nella grande tela c’è la rappresentazione di una maternità disperata, la testa del bambino morto ciondola all’indietro, il grido della madre si alza verso il toro che la sovrasta. Nello stesso padiglione era esposto un fotomontaggio: accanto ad una donna immobilizzata nel rigido costume tradizionale c’è la «donna nuova», «capace di prendere parte attiva nella creazione del futuro». Eppure nel movimento anarchico spagnolo non si produsse alcuna riflessione sulla famiglia, le mogli degli anarchici erano rinchiuse in casa come tutte le altre donne spagnole. Nella tela di Zeki Kaik Izer, La via della rivoluzione, Ata Turk in giacca e cravatta avvolge con il braccio destro una famiglia cittadina medio borghese, lei indossa un tubino nero e un cappellino da passeggio. Sono loro, la famiglia nucleare borghese e non quella patriarcale tradizionale, il punto di riferimento dei giovani turchi. Ata Turk copiò il codice svizzero della famiglia. Non c’è nulla di agiografico ne La famiglia dipinta da Sironi, pittore di regime ma artista grandissimo, né oro alla patria, né prole numerosa da mandare al fronte. Nei manifesti russi che propagandano la costruzione delle mense, sedute a tavola con gli impiegati, stanno le operaie con il fazzoletto da lavoro in testa, aspirazione a liberare la donna dalle incombenze domestiche.
La narrazione storica di Ginsborg è resa affascinante dalla scelta di aprire ogni capitolo (ciascuno dedicato a un paese) con personaggi simbolo. Ci sono le storie familiari dei dittatori e ci sono alcuni ritratti strepitosi. Aleksandra Kollontaj e Inessa Armand in Russia, Halide Edib, protagonista femminile in una società patriarcale del movimento progressista turco. Tommaso Marinetti per il quale la famiglia era «una tenda di beduini». Straordinario il ritratto di Magda Quandt Goebbels, che con i suoi sette figli, divenne il simbolo della madre nazista.
«La famiglia non è solo oggetto, scrive Ginsborg destinataria dell’azione del potere politico ma anche soggetto, protagonista della storia». La famiglia e lo stato sono «due sistemi dinamici» che non necessariamente vanno alla stessa velocità né nella stessa direzione. Per quanto forte sia la pressione, la repressione, per non parlare del genocidio e delle soppressioni eugenetiche, le famiglie «dispongono di particolari codici e culture di resistenza». «Flessibilità, solidarietà, reti, segreti gelosamente custoditi» che entrano nel gioco della sopravvivenza in condizioni terribili: «La radicata cultura clientelare», scrive Ginsborg in un parallelo fra Urss e Italia fascista consentì in questi paesi «alle famiglie di scalare le pareti dello Stato apparentemente verticali». Il libro si ferma al 1950. Dopo vennero alla ribalta «nuove problematiche sulle modalità con cui le famiglie, nell’ambiente radicalmente nuovo delle libertà civili e politiche, si posero in connessione con la società civile e lo Stato democratico». Ma «questa è un’altra storia». I meccanismi e le risorse che nell’età delle dittature «servirono a mantenere viva la memoria di ciò che era stata la libertà» fanno esprimere all’autore «scetticismo nei confronti di uno schema interpretativo che utilizza il totalitarismo come filo conduttore». Quegli stessi meccanismi di salvezza potrebbero essere alla radice del «familismo amorale» di cui Ginsborg ha scritto altrove.

Corriere 28.1.4
I tesori dell’Italia: un patrimonio sull’orlo della crisi
di Paolo Conti


Leggere Bruno Zanardi, uno dei più noti restauratori italiani (ha lavorato sui rilievi dell’Ara Pacis, della Colonna traiana, ha operato sugli affreschi della basilica di Assisi e del Sancta Sanctorum del Laterano di Roma) significa imbattersi in un nemico dei luoghi comuni del benculturalismo , ovvero di quella truffa (parole sue) legata al restauro che cominciò a dilagare nei primi anni Ottanta del secolo scorso. Per spiegarsi meglio, e andare a fondo della questione, Zanardi ha scritto un saggio che conferma, a chi lo conosce, la sua furiosa passione civile: Un patrimonio artistico senza / Ragioni, problemi, soluzioni edito da Skira (e 18, pp. 166). Zanardi rivendica le sue radici, l’essere stato l’allievo e l’interlocutore prediletto di Giovanni Urbani, straordinario intellettuale e atipico direttore dell’Istituto centrale del restauro tra il 1973 e il 1983. E si vede, soprattutto nella capacità polemica. A pagina 30 si legge la surreale cronaca di uno pseudo-restauro, deciso «in una città poco sotto il Po», per il monumento bronzeo a un caduto della guerra 1915-18. Lo si affida a un direttore dei lavori che ordina la pulizia interna con gli stessi materiali e mezzi per lo spurgo fogne e progetta di tagliare le braccia della statua con la fiamma ossidrica per spostare il monumento. Soprintendenti che «ripristinano» edifici storici sempre e solo con la solita tinta, il cremino Fiat («a prescindere, come diceva Totò», sottolinea sarcastico Zanardi). Direttrici di musei comunali dell’Italia centrale che vogliono a tutti i costi restaurare una tela di Orazio Gentileschi «pulita per i prossimi mille anni» semplicemente perché è stato stanziato un fondo ministeriale di 10 mila euro. Ce n’è anche per i Bronzi di Riace «al terzo restauro dal 1980». Zanardi raccoglie lo sfogo di un custode: «Li vedevo tutti i giorni, erano perfetti, bastava spolverarli, roba di una settimana. E da qualche centinaia di euro». E invece, come si sa, è stato effettuato un vero restauro da un milione di euro. Naturalmente è il giudizio di Zanardi. Ma che conta molto, trattandosi appunto del restauratore che è. Il saggio non si limita (sarebbe troppo banale, visto l’autore) a un elenco di distruzioni, arbitrii, sperperi di denaro pubblico, restauratrici che parlano come le macchiette in romanesco di Franca Valeri, episodi raccapriccianti (quegli allievi di Salvatore Settis costretti, da un sedicente direttore dei lavori, a lavare sculture romaniche con sostanze misteriose che trasformano le opere in gesso). Zanardi analizza «l’agonia» dell’Istituto centrale del restauro, contesta certe perversioni della privatizzazione, si chiede a che punto sia il destino della categoria degli storici dell’arte e degli architetti, si chiede chi possa davvero dirsi «restauratore». Alla fine, un breve ma confortante capitolo di buone notizie. Cioè di restauri riusciti, di vera tutela, di architettura contemporanea bella e sensata (la Place de Toscane a Val d’Europe nel distretto di Marne-la-Vallée). Affinché il titolo del suo saggio non ci rimanga in mente con quella triste conclusione che manca, ma si intuisce: un patrimonio artistico senza futuro.

Il libro di Bruno Zanardi, Un patrimonio artistico senza / Ragioni, problemi, soluzioni (Skira), verrà presentato giovedì 30 gennaio a Milano in un incontro organizzato dalla Fondazione Corriere della Sera (Sala Buzzati, via Balzan 3 angolo via San Marco, ingresso libero solo con prenotazione, tel 02 87 38 77 07). Partecipano, con l’autore, Tomaso Montanari, Salvatore Settis, Gian Antonio Stella. Coordina Pierluigi Panza

Repubblica 28.1.14
Correva l’anno 1910, il nichilismo conquistava l’Europa
Il saggio di Thomas Harrison sulle metamorfosi di una civiltà
di Valerio Magrelli


Pochi anni fa, Paolo Conti pubblicò da Laterza un libro intitolato 1969. Tutto in un anno. Rispetto al celebre Sessantotto, il testo riscopriva eventi di vasta portata: Jan Palach a Praga, piazza Fontana a Milano, il divorzio in Italia, il festival di Woodstock, canzoni come Mi ritorni in mente di Battisti e Abbey Road dei Beatles, film quali Easy Rider e Fellini Satyricon, fino allo sbarco dell’uomo sulla Luna. Da parte sua, mesi fa, Florian Illies ha presentato 1913. L’anno prima della tempesta (Marsilio, pagg. 303, euro 19,50). Tra musica, arte e letteratura, l’autore studia Marcel Duchamp e Ludwig Kirchner, Stravinskij e Schönberg, quindi Kafka, Rilke, Brecht, scorgendo, sullo sfondo, Freud e Hitler. Ben diverso dal primo, più simile al secondo, appare adesso
1910. L’emancipazione della dissonanza, di Thomas Harrison (Editori Riuniti pagg. 330, euro 20).
Anche questo testo (uscito una quindicina d’anni fa per l’University of California Press di Berkeley) parte da congiunture impressionanti. Se il 19 aprile Sigmund Freud e la Società psicoanalitica di Vienna, sgomenti di fronte al crescere dei suicidi nella gioventù austro-ungarica, dedicano al tema un’apposita conferenza, il 17 ottobre 1910, a Gorizia, il ventitreenne filosofo e poeta Carlo Michelstaedter si uccide con la rivoltella, e mentre il 17 maggio la cometa di Halley turba i cieli d’Europa, alla fine di ottobre Max Weber, Martin Buber e Georg Simmel si incontrano nella Prima conferenza della Società tedesca di sociologia. Insomma, basterebbero queste notizie a giustificare l’affermazione di Virginia Woolf: «Intorno al dicembre 1910, il carattere dell’umanità cambiò».
Ma non è tutto. Nel medesimo anno compaiono i più angosciati autoritratti di Egon Schiele e Oskar Kokoschka, Schönberg abbandona le classiche strutture armoniche per l’atonalità, Freud menziona per la prima volta in uno scritto il complesso d’Edipo, Carl Schmitt pubblica
Sulla colpa e i tipi di colpa,e Georg Simmel dà alle stampe La metafisica della morte.Contemporaneamente, il giovane tossicodipendente austriaco Georg Trakl comincia a scrivere «la più inquietante poesia della prima metà del secolo», e la sua controparte a sud delle Alpi, Dino Campana, getta le fondamenta deiCanti orfici:il primo, incestuosamente legato alla sorella, si ucciderà senza aver raggiunto la trentina, mentre il secondo, più o meno alla stessa età, sarà chiuso in manicomio.
Alla luce di simili materiali, Harrison intende mostrare la nascita di un atteggiamento comune al nichilismo in filosofia e all’espressionismo in arte, un atteggiamento segnato cioè dalla concezione della storia come incubo e dall’ossessione per l’estenuazione, la decadenza, la mortalità (cenni a suo tempo colti da Massimo Cacciari nel saggio sulla crisi del pensiero negativo). I protagonisti di questa data cruciale sono quindi poeti (George Trakl, Dino Campana, Rainer Maria Rilke), pittori (Wassily Kandinsky, Egon Schiele, Oskar Kokoschka), pensatori (György Lukács, Martin Buber, Georg Simmel, Scipio Slataper, Wilhelm Worringer), musicisti (Arnold Schönberg): «Al pari di Michelstaedter molti di questi personaggi erano ebrei e cittadini dell’impero austroungarico, morirono in giovane età e, a volte, per propria mano. Quasi tutti si dimostrarono tanto incerti nel governare i loro intenti quanto l’età in cui vissero lo fu nell’imboccare il proprio cammino».
Dando prova di una estrema capacità documentaria, spaziando dalla pittura alla musica, dalla filosofia alla sociologia, Harrison sceglie di soffermarsi in particolare sul capolavoro di Michelstaedter, La persuasione e la rettorica.
Infatti, a suo parere, in questo testo ha luogo un autentico collasso dell’io e dei suoi mezzi d’espressione, tanto da far pensare che la tradizione soggettivista della filosofia occidentale giunga al capolinea. Tale accesissima stagione culturale, va tuttavia precisato, non durò a lungo. Innanzitutto perché nel 1918 molti dei suoi protagonisti erano già morti o impazziti (Michelstaedter, Trakl, Schiele, Campana, Slataper, Marc e Boine), poi per l’incombere della Prima guerra mondiale: «Tra il 1914 e il 1918 tutto ciò che i pensatori del 1910 avevano lamentato — la deficienza d’essere, l’insuccesso della retorica razionale ed etica, la tragedia di tutti i tentativi di autodeterminazione, le lotte di ognuno contro tutti — trovò una conferma talmente vivida da far impallidire ogni precedente trattazione teorica».
Così, con la sicurezza e la competenza di un diagnosta, Harrison individua il ganglio nevralgico intorno a cui prese avvio la metamorfosi della nostra civiltà. Abbiamo cominciato citando Virginia Woolf. Sarà bene concludere con quanto il grande poeta tedesco Gottfried Benn scrisse sul 1910, «l’anno in cui tutte le impalcature cominciarono a crollare».
IL SAGGIO 1910 L’emancipazione della dissonanza di Thomas Harrison Editori Riuniti pagg. 330 euro 20

Repubblica 28.1.14
La felicità della cultura
Questa nostra società veloce che non riesce più a pensare
Un saggio di Gustavo Zagrebelsky sull’importanza del sapere per la qualità della democrazia
di Simonetta Fiori


E se davvero ci fossimo ridotti come Funes “el memorioso”, che ricordava tutto ma non capiva niente? Il sospetto è avanzato dal nuovo saggio di Gustavo Zagrebelsky, Fondata sulla cultura, che sceglie il personaggio di Borges come emblematico delle dissennatezze presenti (Einaudi, pagg. 110, euro 10). Capace di ricordare ogni dettaglio, anche il più insignificante, Funes però non sa pensare. Le idee generali gli sfuggono. Nella sua mente sovraccarica di elementi infinitesimali, non c’è spazio per concetti compiuti. E che c’entriamo noi con questo prodigioso matto, che «sapeva le forme delle nubi astrali dell’alba del 30 aprile 1882 e poteva confrontarle nel ricordo con la copertina marmorizzata d’un libro visto una sola volta»?
C’entriamo eccome, ci dice Zagrebelsky. Questa è la condizione in cui ci conduce il sapere iperspecializzato, suddiviso in competenze differenziate e sempre più piccole, e soprattutto sprovviste di una cornice comune. E a questo ci costringe anche una politica incapace di uno sguardo generale, una politica che risponde alla disgregazione sociale perseguendo l’interesse di ogni minima categoria e rinunciando a un quadro d’insieme. «Le ideologie», scrive lo studioso, «sembrano cose d’altri tempi. Crediamo che ciò sia perché hanno dato cattiva prova di sé, nel secolo scorso. Forse, invece, è perché stentiamo a raffigurare la straordinaria frammentazione sociale in qualche idea complessiva».
Una singolare forma di miopia colpisce il nostro sguardo, che è poi la malattia del “memorioso”. La vista diventa «acuta, acutissima sui particolari», ma «cieca di fronte a ciò che li dovrebbe tenere insieme, cioè a ciò che è generale». Da qui la missione che investe tutti, a partire dagli intellettuali di professione: restituire la vista alla politica. E restituire alla cultura la sua funzione originaria, ossia fungere da collante di una società. Una funzione ribadita anche dalla carta costituzionale, nell’articolo 33, formulato per difenderne l’autonomia dal potere e dal mercato.
Quella del rapporto tra politica e cultura è una lunga e travagliata storia, che è andata esaurendosi in Italia tra gli anni Settanta e Ottanta del secolo scorso. Un divorzio progressivo che ha impoverito la politica, schiacciata sul “giorno per giorno”. E ha messo ai margini la figura del maître à penser, caricaturizzata dallo Zeitgeist contemporaneo in pallone gonfiato o in accademico polveroso, incapace di misurarsi con la cultura di massa. Un nome, quello di intellettuale, che oggi è perfino imbarazzante pronunciare, scrive Zagrebelsky. Ma non è sua preoccupazione riabilitare la categoria, coprotagonista non certo innocente del graduale decadimento. Ciò che sembra stargli più a cuore è “la felicità delle idee”, senza le quali non esiste la libertà dal senso comune e dal conformismo.
Fondata sulla cultura può essere letto anche come un trattato sul piacere delle idee, in un’epoca che sembra farne volentieri a meno. E sulla gioia della conoscenza, in un paese che non ci crede più.
Le idee celebrate da Zagrebelsky non sono però “beni in commercio”. Non si traducono in valore economico. E non sono un fattore produttivo. Qui la sua analisi si distingue dalla nutrita saggistica che combatte l’infelice slogan della destra “con la cultura non si mangia”. Con la cultura certo si mangia, ma non è questo che interessa a Zagrebelsky. Anzi, viene denunciata l’ossessione economicistica con cui oggi, in ogni luogo della geografia culturale, anche a sinistra, si soppesano invenzione e creatività. «Il fine è sempre e solo economico: le idee sono strumentali alla felicità e al benessere che questa ideologia continua a collocare nell’economia della ricchezza di beni materiali». Ne consegue che un’idea incapace di produrre innovazione nel mercato delle merci – ma solo consapevolezza o arricchimento spirituale – di per sé non vale niente. Mentre, proprio sulla base della vivacità delle idee, potremmo stabilire classifiche della felicità: sia per le vite dei singoli, sia per ciascuna collettività.
Pur nella forma del trattato classico – e della riflessione intellettuale – il libro di Zagrebelsky parla dell’attualità. Delle idee che sono di per sé “divisive” – categoria bandita nella stagione delle larghe intese – e dei governi tecnici, che come gli idraulici possono al più riparare il danno ma non certo incidere sul cambiamento. Degli intellettuali di servizio – al potere, al mercato, ma soprattutto alle personali carriere – e di quelli scettici che tutto comprendono e tutto giustificano, abilissimi nel destreggiarsi tra i vari poteri. Di quelli apocalittici, in attesa del messia (che non arriva mai, e se arriva sono dolori), e degli eterni consenzienti, per paura di restare esclusi dal “cerchio formidabile” di cui parlava Tocqueville. Una ricca fenomenologia dell’intellettuale smarrito che resta quasi sempre innominata, ma non è difficile riconoscervi i vari personaggi del teatrino pubblico.
Ora però si pone il problema: come restituire integrità alla funzione culturale? Qui Zagrebelsky introduce la categoria del “tempo”. «Se la chat e i suoi fratelli appartengono al mondo dell’istantaneità, i libri richiedono durata». Da una parte la comunicazione, dall’altra la formazione. «La comunicazione vive nell’istante, la formazione si alimenta nel tempo». Non una contrapposizione, ma una necessaria integrazione. «Non si costruisce sommando istanti isolati, ma collegandoli in un senso che crea comunanza. Il collegamento è compito della cultura».
E chi l’ha detto che sia un compito facile? «Io voglio che il mio lettore», scrive Petrarca, «pensi solo a me, e non stia a pensare alle nozze della figlia, alla notte che ha passato con l’amante, alle trame dei suoi nemici, alla causa in tribunale, alla terra e ai soldi». No, il lettore deve concentrarsi sul testo, perché «non voglio s’impadronisca senza fatica di ciò che non senza fatica io ho scritto». Il monito di Petrarca, fatto proprio da Zagrebelsky, vale ancora oggi. Soprattutto oggi. Costanza e dedizione. Tempo e durata. L’unico modo – ci avverte l’autore – per salvarci dalla sindrome di Funes, che pensava di saper tutto mentre era solo un demente.
IL LIBRO E L’AUTORE Fondata sulla cultura di Gustavo Zagrebelsky Einaudi, pagg.120, euro 10 da oggi in libreria

Repubblica 28.1.14
Nel 1960 l’urbanista lavorava a una nuova sede per l’azienda. Di quell’idea restano solo i disegni
Olivetti e Le Corbusier
L’ingegnere, l’architetto e quel progetto incompiuto per la grande utopia
di Francesco Erbani


Adriano Olivetti morì alla fine di febbraio del 1960 e uno degli articoli commemorativi di più intensa partecipazione lo firmò Le Corbusier. «Egli desiderava realizzare il sogno di una nuova società sulla terra e non lo rimandava a scadenze imprecisate», scriveva l’architetto. La morte, improvvisa e prematura (l’ingegnere non aveva sessant’anni), giunse mentre fra Olivetti e il progettista prendeva corpo l’intesa per costruire la sede del nuovo Centro di calcolo elettronico, cioè dello stabilimento in cui sarebbero stati alloggiati i progenitori dei computer, le macchine alle quali l’azienda d’Ivrea lavorava dalla metà degli anni Cinquanta e che avrebbero aperto le porte all’informatica. Una rivoluzione, suggellata dall’incontro fra due persone che si erano avvicinate più volte nei decenni, si erano cercate e studiate, ma che si erano solo sfiorate, nonostante la sintonia su che cosa dovesse fare un’industria, su come dovesse esser costruita e dovesse riflettere un certo tipo di organizzazione sociale.
Ma anche quel momento durò pochissimo. Appena un contatto, prima che Olivetti morisse. Le Corbusier continuò a lavorare per l’azienda di Ivrea insieme a Roberto, il figlio di Adriano, e mise a punto il progetto di un grande stabilimento che sarebbe dovuto sorgere a Rho, in una zona di campagna a nord-ovest di Milano, lungo l’autostrada per Torino. Lo stabilimento non fu mai costruito, ma restano i progetti, i disegni e i calcoli. E resta, come un seme culturale, il dialogo a distanza di due intelligenze novecentesche che credono nell’innovazione, nel senso di comunità che parte dalla fabbrica e si estende a un territorio e a una città concepiti sulla misura dell’uomo.
Questa avventura è raccontata da Silvia Bodei in un libro che esce da Quodlibet e che s’intitola Le Corbusier e Olivetti. La Usine Verte per il centro di calcolo elettronico (Bodei ha studiato i documenti della Fondazione Adriano Olivetti, dell’Archivio storico Olivetti e della Fondazione Le Corbusier). La Usine Verte è la “fabbrica verde” di cui Le
Corbusier parla in un libro del 1945,Le trois établissements humains, che le olivettiane Edizioni di Comunità pubblicano nel 1961 (I tre insediamenti umani). L’architetto, così sensibile alla “società macchinista”, immagina che alla “fabbrica nera”, simbolo di una fatica alienante, si sostituisca la “fabbrica verde”, «che ristabilirà intorno al lavoro le “condizioni di natura”». Per cui «sole, spazio, verde, apporteranno qui, come nei quartieri residenziali, le influenze cosmiche, la risposta al respiro dei polmoni, le virtù dell’aria, come la presenza di quell’ambiente naturale che accompagnò la lunga e minuziosa elaborazione dell’essere umano». È il modello di fabbrica che concepisce Olivetti.
Per Olivetti non è una scoperta che matura sul finire della vita. L’idea di una fabbrica che incorpori il paesaggio circostante e che contribuisca a creare nuovo paesaggio è costante lungo gli anni Trenta e poi negli anni Cinquanta. Dagli oggetti prodotti in serie – le calcolatrici, le macchine per scrivere – fino alla pianificazione di una regione, Olivetti traccia un assetto sociale fondato sullo spirito comunitario, che procede dal design della portatile MP1 (Aldo Magnelli), della Lettera 22 (Marcello Nizzoli) o dell’elaboratore Elea 9003 (Ettore Sottsass), all’urbanistica. E nella catena la fabbrica è un punto di cerniera. Questo pensiero sorregge l’incarico a Luigi Figini e Gino Pollini di ampliare lo stabilimento di Ivrea, fino ai nuovi edifici di via Jervis, è replicato invitando Ignazio Gardella a realizzare la mensa, e continuato con le case per gli impiegati (ancora Figini e Pollini) e con le altre abitazioni (Nizzoli e Annibale Fiocchi). La catena – qui accennata per grandi linee – prosegue con la pianificazione territoriale della Val d’Aosta, del borgo rurale La Martella a Matera (Ludovico Quaroni, Federico Gorio, Piero Maria Lugli e altri), del quartiere romano di San Basilio (Mario Fiorentino).
Già negli anni Trenta, comunque, il riferimento a Le Corbusier è costante. Il pan de verre, le grandi pareti vetrate adottate da Figini e Pollini recano la matrice del maestro svizzero e traducono il principio della trasparenza sociale, capace, scrive Bodei, «di dare un’immagine di dignità al lavoro operaio e comunicazione continua con il contesto e il paesaggio circostante». Comunicazione continua che ispira, vent’anni dopo, lo stabilimento di Pozzuoli, progettato da Luigi Cosenza e raccontato da Ottiero Ottieri in Donnarumma all’assalto.
«Così di fronte al golfo più singolare del mondo», dice Olivetti facendo risuonare l’eco di Le Corbusier, «questa fabbrica si è elevata, nell’idea dell’architetto, nel rispetto della bellezza dei luoghi, e affinché la bellezza fosse di conforto nel lavoro di ogni giorno».
Sulle iniziative di Le Corbusier in Italia si è svolta una grande mostra al Maxxi di Roma alla fine del 2012 (curata da Marida Talamona) e dei rapporti fra Olivetti e il progettista si sono occupati Giorgio Ciucci e Paolo Scrivano. Silvia Bodei approfondisce l’indagine. Nel 1934 sono documentati i primi contatti fra l’architetto e l’imprenditore che vorrebbero costruire fabbriche non alienanti in territori che siano spazi di comunità. I due sembra si scambino colpi di fioretto. Le Corbusier, sapendo dell’intenzione di Olivetti di realizzare un quartiere per i dipendenti, «con grande disinvoltura e autorità», sottolinea Bodei, si propone di essere lui il progettista. Ma – è la replica di Olivetti – sono stati già designati Figini e Pollini, che Le Corbusier conosce bene e dai quali è considerato un nume tutelare. Due anni dopo Le Corbusier e Olivetti s’incontrano a Ivrea per visitare l’area dell’intervento. Le Corbusier insiste: avanza una serie di obiezioni a Figini e Pollini, vuole avere comunque un ruolo in quel progetto. Ma la resistenza dei due giovani architetti, pur di fronte al venerato maestro, è ferma. E Olivetti è d’accordo.
Seguirà un silenzio lungo quasi vent’anni. Nel 1953 Le Corbusier si rifà vivo con l’ingegnere di Ivrea, vuole importare nel proprio studio i metodi comunitari olivettiani. Adriano è intanto impegnato più di prima sul fronte urbanistico (dal 1950 presiede l’Inu, l’Istituto nazionale di urbanistica), le Edizioni di Comunità pubblicano Lewis Mumford. E inoltre procede con straordinaria efficacia la sperimentazione sui calcolatori elettronici. Nel 1957 vengono realizzati i primi elaboratori (Elea 9001 ed Elea 9002) e l’anno successivo, sotto la guida di Mario Tchou, nasce l’Elea 9003, primo calcolatore al mondo interamente transistorizzato. L’Olivetti è diventato un gigante in continua espansione. Ed è in questo contesto che viene redatto un documento, di cui c’è solo una versione dattiloscritta, intitolatoRagioni che dispongono a favore della scelta dell’Arch. Le Corbusier per la progettazione del nuovo stabilimento elettronico Olivetti. Il testo, spiega Bodei, «mette in evidenza che l’opera dell’architetto è stata la principale fonte d’ispirazione nella realizzazione degli stabilimenti dell’impresa dal 1936 in poi». E questo sia per la filosofia generale, sia per i dettagli progettuali.
L’incarico viene affidato a Le Corbusier, che il 10 febbraio del 1960 scrive ad Adriano ringraziandolo e confermandogli che lo appassionano «i temi relativi alla civiltà macchinista», soprattutto quando sono fondati «sul valore umano e sul binomio Uomo- Natura e finalizzati alla ricerca dell’armonia». Sembra di sul bordo di un futuro radioso. O di un precipizio. Il 27 febbraio Olivetti è ucciso da un infarto mentre un treno lo porta in Svizzera. Le Corbusier prosegue lo stesso il lavoro, ma nel 1961 Mario Tchou muore in un incidente stradale, per alcuni misterioso, e nel 1964 l’Olivetti è costretta a cedere il ramo elettronico alla General Electric. L’azienda di Ivrea e l’Italia perdono il primato conquistato. E dello stabilimento di Le Corbusier restano i disegni, il fermento culturale e molto rammarico.

IL LIBRO Le Corbusier e Olivetti. La Usine Verte per il Centro di Calcolo Elettronico di Silvia Bodei (Quodlibet, pagg. 216, euro 32)