mercoledì 29 gennaio 2014

Repubblica 29.1.14
Flores D’Arcais scrive ai democratici “Vantaggi solo per il Cavaliere”


ROMA — «Caro Renzi, stimati parlamentari Pd, ciò che lascia sconcertati molti cittadini non è solo che la legge elettorale che vi accingete ad approvare abbia gravissimi difetti, ma che insistiate su una proposta che è dannosa innanzitutto per il vostro partito». È l’incipit della lettera aperta con cui Paolo Flores D’Arcais si rivolge ai vertici pd nell’ultimo numero di MicroMega, in cui elenca punti deboli della riforma e vantaggi per il «condannato di Arcore».

Repubblica 29.1.14
La trincea della minoranza dem “Pronti i nostri emendamenti se il testo non cambia davvero”
Cuperlo a Nardella: “Siete degli squadristi”
di Giovanna Casadio


ROMA — «Questo testo, se non viene modificato profondamente, presenta dubbi di costituzionalità ». Gianni Cuperlo morde il freno. Lo fa da lunedì sera, quando nella riunione in cui Renzi ha posto l’aut aut, il leader della minoranza democratica ha preso la parola per dire che «se il segretario chiede la fiducia, bisogna dargliela ». Ma ha anche aggiunto che il Pd di Renzi sta subendo una mutazione genetica, non lo riconosce più come il suo partito. E poco prima di entrare in commissione Affari costituzionali per ritirare materialmente gli emendamenti, Cuperlo si è sfogato con il renziano Dario Nardella: «Siete degli irresponsabili, usate metodi squadristi...». L’accusa di autoritarismo e di scarso rispetto per l’opposizione interna si trascinada quella battuta “Fassina chi?” del segretario, che portò alle dimissioni da vice ministro di Stefano Fassina. Scontro riacceso il giorno del dibattito in direzione proprio sulle preferenze nella nuova legge elettorale, che provocò le dimissioni di Cuperlo da presidente del Pd, dopo un’altra battuta di Renzi.
Il segretario prova a rabbonire, lodando il senso di responsabilità della sinistra dem per la prova di forza evitata sugli emendamenti. Ma cambia poco. Il “correntino” si prepara alla guerra dei nervi. O l’Italicum è trasformato oppure in aula - ripetono i cuperliani -sarà il momento della verità. E potrebbero esserci modifiche, ad esempio per le preferenze, che hanno un consenso trasversale e saldano un asse con gli alfaniani e i centristi. «Il dissenso politico resta - afferma Rosy Bindi - ci siamo riservati di ripresentare in aula gli emendamenti contro le liste bloccate, sulle soglie più basseper i piccoli partiti, sull’alternanza di genere». Una cosa infatti è evitare ora possibili appigli strumentali a Berlusconi per fare saltare tutto - ragiona la presidente della commissione Antimafia altra sono le obiezioni di merito: «Queste restano in piedi. E poi chi dice prendere o lasciare, non fa sul serio. Non vogliamo fare naufragare la riforma, sia chiaro».
L’accordo sulla soglia più alta dal 35 al 38 o 37% per avere il premio di maggioranza - è al centro della trattativa, tuttavia non basta per la minoranza che è pronta a dare battaglia. Si materializza lo spettro dei “franchi tiratori”. Tutti negano. Ma sono gli stessi che a Montecitorio mormorano: «Nonlo voteremo mai un testo blindato ». Alfredo D’Attore, bersaniano, invita Renzi a evitare gli ultimatum: «Non servono: nessuno di noi ha paura della minaccia del voto anticipato: il problema non è certo che qualche parlamentare non torni alla Camera. Piuttosto se si va a votare con il proporzionale consegnatoci dalla Consulta, finisce la vocazione maggioritaria del Pd e sarebbe un colpo letale anche alle ambizioni di governo di Renzi».
Il Pd che resiste ha varie anime. I “giovani turchi” sono cauti. Hanno siglato un patto con i renziani in Sicilia per la candidatura di Fausto Raciti contro Giuseppe Lupo, segretario regionale uscente, dato per favorito, di Areadem, la corrente di Franceschini: lotta in casa renziana, quindi. Ebbene i “turchi” escludono “giochetti”: «Bisogna trovare una soluzione per le liste bloccate, però si vota come dice il partito alla fine», assicura Matteo Orfini. Cesare Damiano, l’ex ministro del Lavoro, è per mantenere le obiezioni fino in fondo: «Se si tratta con Forza Italia, si tratta. Su tutto. Le preferenze sono una questione dirimente, non possono passare le liste bloccate e noi minoranza abbiamo offerte le alternative dei collegi uninominali, delle primarie per legge e per tutti ». Sul punto primarie, altra divaricazione: alcuni dem sono possibilisti sulle primarie per legge ma facoltative (decidono i partiti); altri le vogliono obbligatorie. Ironizza Sandra Zampa, vice presidente del Pd: «Siamo come willy il coyote, in bilico sul burrone, unariforma va fatta».

l’Unità 29.1.14
La «guerra lampo» non basta e l’Italicum non mi convince
di Felice Besostri


IL NOME ITALICUM DOPO IL PORCELLUM È UN COLPO DI GENIO. LO È ANCHE AVER ATTIRATO L’ATTENZIONE PIÙ SU CHI INCONTRAVA E DOVE, CHE SUL PERCHÉ E SUI RISULTATI NEI DETTAGLI. NELLA MODERNA COMUNICAZIONE QUELLE DI RENZI SONO ARMI EFFICACISSIME. I suoi avversari, legati a vecchi schemi di guerra di posizione, sono caduti nella trappola. D’altro canto chi stava al governo con Berlusconi, o lo appoggiava, non può fare lo schizzinoso senza apparire contraddittorio. Inoltre al momento il «Berlusca» è solo un incandidabile, ma non un interdetto dai pubblici uffici fino alla decisione della Cassazione a metà aprile prossimo venturo. Berlusconi si candiderà alle europee del 25 maggio e pochi sanno che, a differenza delle parlamentari, contro la decisione di toglierlo dalla lista c’è ricorso al Tar Lazio e prevedo che la Sezione 2 bis darà una sospensione dall’esclusione, se non altro perché le eccezioni di incostituzionalità della legge Severino sono infondate, ma non «manifestamente infondate», quindi il giudice dovrà rimettere alla Corte Costituzionale. La sezione 2 bis del Tar Lazio è molto competente in materia elettorale e alle elezioni del 2013 ha giudicato un ricorso contro il porcellum nell’identica composizione del ricorso del 2008 di Aldo Bozzi e mio.
Renzi è un teorico, ma soprattutto un pratico, della blietzkrieg mediatica. Per questo non può perdere tempo. La Corte Costituzionale ha annullato il Porcellum il 3 dicembre 2013, ma depositato le motivazioni il 13 gennaio 2014 con efficacia dal successivo 15 gennaio, giorno della pubblicazione in Gazzetta Ufficiale. La Prima Commissione Camera ha finito le audizioni il venerdi 17, ma Renzi aveva già visto il 16 Berlusconi, e comunque nelle audizioni una coorte di costituzionalisti aveva già dato via libera alle sue tre proposte alternative gettate sul tavolo delle altre forze politiche di maggioranza e di opposizione.
Qualcuno, Renzi o i suoi consulenti giuridici, avrebbe dovuto leggere, non tanto il testo della mia audizione (sono un nemico del maggioritario e dei premi di maggioranza), ma quella del professor Zanon, un costituzionalista politicamente di destra, sostenitore dell’inammissibilità dell’ordinanza della Cassazione e quindi molto critica delle motivazioni della sentenza della Consulta. Ha attirato l’attenzione su quel passo dove, citando per la prima volta nella sua storia una sentenza del Tribunale Costituzionale federale tedesco, ha parlato di uguaglianza del voto in uscita. Complessivamente la nostra Corte Costituzionale ha detto che la rappresentanza è un principio/bene costituzionalmente protetto, ma non lo è la stabilità/governabilità che è invece un obiettivo da perseguire, ma non a tutti i costi. Ha motivato anche con la lunghezza l’annullamento delle liste bloccate e ha ricordato che in alcuni Paesi sono corte (Spagna) o miste (Germania). Una lista corta ha a che fare con la libertà di voto, cioè potere decidere con cognizione di causa, mentre la preferenza ha a che fare con il voto personale e diretto (di cui agli articoli 48 e 56 della Costituzione, mentre non parlo dell’art.58, visto che il Senato sarà sostituito da un’Assemblea non elettiva).
Non sono escluse le pluricandidature, quindi Renzi, Berlusconi e Grillo in tutte le circoscrizioni: in fin dei conti l’ha fatto un ultrademocratico doc come Ingroia. Non ci saranno solo 117 deputati eletti dall’opzione del capolista, ma anche i 93/100 del premio di maggioranza nazionale. Siamo quindi a 210/217 nominati oltre che quelli messi in posizione utile nelle liste bloccate.
La proposta è abile e viene venduta con cosmesi: non si dice quasi mai che le liste sono «bloccate» ma «corte», non si dice che è «maggioritaria» ma «proporzionale con premio di maggioranza», è contro i piccoli partiti quando con il 7,9% non si è piccoli: è il trionfo della neo-lingua di Orwell in 1984 («Nel 2000 non sorge il sole» era il titolo della I edizione italiana: errato ma profetico, cosa sono 14 anni su un millennio?).
Il Corriere della Sera, con qualche pudore di Ainis, ma non di Romano, e Repubblica sono scatenati: non pubblicheranno le opinioni di Gaetano Azzariti, Lanfranco Pace, Gianni Ferrara, Massimo Siclari o Luigi Ferrajoli. Chi dissente si è fatto prendere da «rigurgiti proporzionalisti»: anche qui il linguaggio è significativo. Si propone di abolire/trasformare il Senato, per risparmiare un miliardo di euro. Un’argomentazione volgare, come ci ricorda Nadia Urbinati su l’Unità, un organo vicino al Pd con maggiori spazi di libertà della grande stampa per non parlare delle televisioni. Se il risparmio è una motivazione, perché non abolire la Camera che con il doppio di parlamentari costa sicuramente di più? Si sono eliminati i consigli provinciali elettivi. Per quel che contano e controllano si possono sopprimere i consigli comunali e regionali...

l’Unità 29.1.14
Ma perché dire no ai collegi uninominali? Sono una soluzione
di Tommaso Nannicini


Uno dei punti più criticati della bozza di legge elettorale concordata tra Pd e Fi, il cosiddetto Italicum, riguarda la selezione degli eletti attraverso liste bloccate (per quanto corte).
Nella scheda, gli elettori troveranno simboli di partito con accanto i nomi dei candidati nel loro collegio. Ma i voti raccolti dalle liste nei vari collegi non serviranno per attribuire i seggi a quel livello, come in Spagna. Il riparto dei seggi, una volta assegnato il premio di maggioranza, avverrà a livello nazionale col proporzionale. I voti ottenuti nei collegi serviranno solo per selezionare gli eletti all’interno di ogni lista. È per questo motivo che l’ampiezza del collegio, cioè il numero di candidati, non è poi così cruciale.
È un meccanismo che gli italiani già conoscono. Alle elezioni provinciali, votavamo i candidati in collegi uninominali (cioè con liste che più corte non si può, essendo composte da un solo candidato). Ma il riparto dei seggi era proporzionale. I voti dei candidati servivano solo per stilare una graduatoria interna a ogni lista, per selezionare gli eletti all’interno della stessa. L’Italicum farà più o meno lo stesso, ma con collegi plurinominali (composti da quattro o cinque candidati) anziché uninominali. La domanda è: perché?
Di solito, si sente rispondere che Fi non ama i collegi uninominali, perché i suoi candidati sono meno competitivi in scontri individuali. Ma questo argomento ha senso se i collegi sono usati per assegnare i seggi, come nel Mattarellum, meno se servono solo a determinare una graduatoria interna al partito.
Se fossero innestati nell’impianto dell’Italicum, i collegi uninominali renderebbero il legame tra candidati e territorio più forte. E i partiti interessati a migliorare la selezione della classe politica potrebbero usare le primarie in modo più efficace, dato che questo strumento rende al meglio per scegliere un singolo candidato. Se l’uso delle primarie avesse successo, l’esempio potrebbe diventare contagioso, costringendo anche altri partiti a usarle. Ma se un partito volesse continuare a «nominare» i suoi eletti dall’alto (difficile vietarlo per legge) potrebbe continuare a farlo: anzi, con i collegi uninominali potrebbe prevedere l’ordine degli eletti più facilmente che non con i collegi plurinominali.
Alla luce di questi argomenti, non si capisce perché Pd e Fi non tirino fuori dal cilindro un emendamento con collegi uninominali. Una possibile spiegazione è che il compromesso abbia finito per convergere sui collegi plurinominali, quando ancora si pensava di usarli per ripartire i seggi come in Spagna, e che poi vi siano rimasti per inerzia. Un’altra ipotesi è che si siano posti il problema, ma temano che gli italiani non capirebbero un sistema in cui il primo classificato in un collegio non viene eletto (perché ha meno voti dei suoi colleghi di partito in altri collegi) mentre il secondo viene eletto (perché ne ha di più).
Gli italiani, tuttavia, hanno già votato con questo sistema per le provinciali. E le stesse «stranezze» avverrebbero con i collegi plurinominali. Inoltre, per limitare stranezze di questo tipo, senza arrivare all’estremo di prevedere un numero di parlamentari variabile come in Germania, si potrebbe stabilire un numero di collegi inferiore al numero dei parlamentari. Per esempio, se i collegi fossero pari al 75% degli eletti, i casi di candidati vincenti che poi non risultano eletti nella propria lista sarebbero ridotti. Il costo di un accorgimento del genere è che un partito non potrebbe avere più del 75% dei parlamentari anche se prendesse più del 75% dei voti, ma si tratta di un caso alquanto improbabile e il costo sarebbe comunque nullo perché quel partito (bulgaro) avrebbe comunque la maggioranza dei due terzi.
Un altro vantaggio di avere un numero di collegi uninominali pari al 75% dei parlamentari è che il loro disegno sarebbe già fatto: basterebbe usare quelli del vecchio Mattarellum. Insomma: sia per il Pd sia per Fi, i benefici d’innestare collegi uninominali nell’impianto dell’Italicum sembrano maggiori dei costi. E, rispetto all’attuale bozza d’accordo, lo stesso vale per i cittadini-elettori.

Repubblica 29.1.14
Telefonata Renzi-Berlusconi
Legge elettorale, accordo a un passo premio di maggioranza, soglia al 37%
Via libera alla norma salva-Lega
Il bonus scende al 15%. Niente preferenze, primarie facoltative
Oggi il sì definitivo sull’intesa


La Stampa 29.1.14
Tutti contro il Cavaliere Bianco
Prima lo cercava, ora la sinistra lo boicotta
Il segretario piace ai soldati semplici, non ai “generali”
di Federico Geremicca

qui

La Stampa 29.1.14
La corsa a ostacoli di Matteo
di Elisabetta Gualmini


La vera scommessa di Matteo Renzi non è tanto (o solo) portare a casa la riforma del sistema elettorale, ma è soprattutto vincere la sua prima battaglia contro la politica lenta e inconcludente. Che se non parlassimo di Matteo, penseremmo tutti a Beppe. «Non mi farò ingabbiare dalle liturgie della politica», ha detto ieri Renzi-Perseo, deciso a rincorrere e ad annientare la Politica-Medusa, prima che questa lo faccia diventare, anche lui, di pietra.
Renzi cerca dunque di evitare il sortilegio, giocando da bordo campo, dando dritte, dettando schemi di gioco e urlando come un forsennato, all’occorrenza, per spingere gli inquilini del palazzo, riluttanti, ad auto-riformarsi. E non c’è dubbio che la velocità è dalla sua parte; perché ha capito che negli anni più tremendi della democrazia impaludata, occorre correre e correre, senza prendere fiato. Essere più rapidi degli altri, fulminei. Perché gli italiani hanno un disperato bisogno di risposte concrete. Subito. Non sopportano la complessità dei processi politici, non credono più alla forza delle decisioni negoziate a lungo.
Ecosì Matteo prende le distanze: preferisce Firenze a Roma, la bicicletta all’auto blu, il maglioncino rosso shocking alla giacca, il panino di Eataly ai ristoranti romani. Ha capito lo spirito dei tempi e ci vive dentro benissimo. Non ci si può più permettere la lentezza. «Fuori dalle stanze dei palazzi c’è un Paese che ha bisogno di gesti concreti di cambiamento. Ora, non tra qualche anno». Ripete. Ma ci sono cose che Renzi non può controllare. ll Parlamento ha le sue regole, e le istituzioni sono resilienti.
La guerra di trincea è iniziata. I pericoli e le possibili trappole vengono da quattro fronti. Nell’ordine, per primo, l’ostruzionismo grillino. Ovvio. Inevitabile che si mettesse in moto. E’ già all’opera in commissione Affari Costituzionali con interventi fiume di ciascuno degli otto componenti pentastellati, sui prolegomeni, nella discussione generale sugli emendamenti: ancora prima di cominciare a votarli. Potrebbe continuare con lo stesso ritmo e la stessa tecnica su ognuno di essi, fino alle calende greche. I seguaci di Grillo d’altro canto non hanno nulla da perdere in questa partita. Si sono tagliati fuori dalle trattative sulla riforma elettorale e hanno deciso per l’ennesima volta di giocare in solitaria. E mentre Grillo lancia il secondo mirabolante referendum on line sulle diverse forme di collegio uninominale, i più temerari, ormai privi di qualsiasi strategia, si muovono alla rinfusa e fanno a gara a chi la spara più grossa (come l’insulto intollerabile di ieri a Napolitano). Come ha incredibilmente riconosciuto proprio ieri Adriano Celentano, un uomo certamente non ostile alla protesta grillina, che ha lodato senza mezzi termini l’accordo tra Renzi e Berlusconi.
La trincea grillina (secondo) potrebbe essere contrastata, proprio oggi, se il presidente berlusconiano della Commissione, Sisto, si avvalesse di uno strumento che il regolamento mette a sua disposizione, la cosiddetta tagliola, decidendo di mandare in aula il testo base così come è stato inizialmente approvato, senza nemmeno iniziare l’esame degli emendamenti. Mossa cruciale, perché se il testo arriva in aula prima che finisca il mese di gennaio, allora (terzo) la presidente vendoliana dell’Aula, Laura Boldrini, potrebbe decidere di fissare un termine ultimo per la votazione entro il mese di febbraio. Scavallato gennaio, il termine, a norma del regolamento, potrebbe essere fissato solo per il mese di marzo. Fin qui i possibili vincoli esterni: i grillini, il presidente berlusconiano, la presidente eletta da SeL. Se e quando si arriverà in aula, (quarto) i tranelli potrebbero venire dall’interno dello stesso Pd, con il voto segreto. Magari giocando sulla materia molto popolare delle preferenze, strombazzata anche da chi in cuor suo non la condivide, che consente ai dissidenti di strizzare l’occhio ai cittadini là fuori e di rompere l’accordo con Forza Italia.
Vedremo in questa settimana se la strategia del segretario-veloce andrà a buon fine. Giocare a Rischiatutto con la politica è un’operazione ardita. Ma in certi casi è davvero meglio correre e darsi da fare, piuttosto che stare fermi.

Corriere 29.1.14
Il sindaco prepara il piano B (puntando su Alfano)
Il conto delle forze in campo al Senato: l’opzione di procedere a maggioranza
di Francesco Verderami


ROMA — O l’intesa o la legge: non è un paradosso, sta scritto nel manuale della politica che non si imposta una trattativa senza avere un piano B. E siccome Renzi vuole fortissimamente intestarsi la riforma del sistema di voto, si è rigidamente attenuto al precetto quando ha preso a negoziare con Berlusconi, così da assicurarsi comunque l’obiettivo anche nel caso in cui il Cavaliere dovesse sciogliere il patto. Non andrà così, perché — se l’ex premier si tirasse indietro — il segretario del Pd lo accuserebbe di inaffidabilità, additandolo agli elettori e condannandolo di nuovo a un ruolo marginale nel gioco di Palazzo. Ecco perché è il leader forzista a trovarsi dinnanzi a quel «bivio» evocato ieri da Renzi a Ballarò, e non a caso.
Se saltasse l’accordo, infatti, il capo dei democrat ha già approntato un piano B, analizzato nei dettagli con il suo braccio destro Guerini e studiato insieme alla segreteria del partito, al punto che la responsabile per le riforme Boschi l’ha mandato a memoria: è la mappa del Senato, la distribuzione dei gruppi parlamentari, la loro forza numerica, la linea assunta sulla legge elettorale, persino gli eventuali distinguo dei singoli parlamentari. Tanta applicazione sugli equilibri di Palazzo Madama disvela il disegno di Renzi, che — se costretto — sarebbe pronto a procedere «a maggioranza», grazie alla sponda di Alfano con cui — al di là dei toni usati con i media per evidenti interessi di «ditta» — ha stretto un solido rapporto.
Non è dato sapere se Berlusconi sia a conoscenza del piano B di Renzi, se il segretario del Pd gliene abbia fatto cenno nelle varie telefonate di ieri, di sicuro il Cavaliere — ostaggio di se stesso, dei suoi alleati e di una parte dei dirigenti del suo partito — deve scegliere. Ed è combattuto tra l’istinto di non accettare la soglia del 38% per il premio di maggioranza, che sarebbe per lui un’asticella troppo alta da superare; il desiderio di rivalsa verso il Nuovo centrodestra, a cui non vorrebbe concedere spazio; le pressioni degli alleati leghisti che attendono la norma territoriale; e persino gli avvertimenti di un pezzo consistente del gruppo forzista, che sfrutta la riforma come strumento per la resa dei conti interna.
Al «bivio», Berlusconi teme di rompere. Un’ipotesi che ha preso in considerazione, e che gli è stata vivamente sconsigliata da Verdini, dai capigruppo Brunetta e Romani e dal solito Gianni Letta. Senza l’intesa, Renzi comunque punterebbe alla riforma, specie ora che per un verso ha coagulato i suoi gruppi parlamentari — a cui ieri ha reso omaggio — e per l’altro ha trovato un punto d’equilibrio con Alfano anche sugli assetti futuri di governo. Se ieri il vicepremier si è spinto a dire a Porta a Porta che «o si procede con il Letta-bis o è preferibile andare alle urne», è perché aveva avvisato il segretario del Pd della sua sortita. Il leader di Ncd lo ha fatto per mettere il punto, come una sorta di promemoria in attesa della trattativa, che inizierà solo dopo il voto di Montecitorio sulla riforma.
Adesso no, non sarebbe consigliabile. Un motivo lo ha spiegato tra il serio e il faceto un autorevole ministro: «Per un emendamento sulla legge elettorale, ti chiedono in cambio due dicasteri». D’altronde sono molti in questa fase gli attori che si contendono la scena. Forse troppi. Anche i presidenti delle Camere, infatti, hanno abbandonato l’etichetta istituzionale e si sono pronunciati. È vero, da anni ormai le seconde e terze cariche dello Stato hanno preso a esprimersi su temi prettamente politici. Ma negli ultimi giorni Grasso e la Boldrini sono entrati nel merito della riforma. Così, dopo che il titolare di Palazzo Madama ha invitato ad alzare la soglia per il premio di maggioranza «al 40%», l’inquilina di Montecitorio ha sponsorizzato la tesi del collega, ha esortato ad abbassare la quota di sbarramento per le forze più piccole, e ha criticato le candidature multiple. Ma i partiti, indaffarati nella vertenza, non si sono accorti dei suggerimenti.
E la vertenza sta per concludersi, sotto la «vigilanza» del capo dello Stato che ha adoperato la moral suasion (e anche il telefono) per rammentare ai leader quali sono i confini della riforma, perimetrati dalla sentenza della Corte costituzionale: va evitato che la legge produca o addirittura peggiori il «tasso di disproporzionalità» presente nel Porcellum. Traduzione: va alzata la soglia per il premio di maggioranza, con accorgimenti annessi. Renzi è d’accordo. Tocca a Berlusconi dire se farà parte o meno della carovana, che comunque si metterà in cammino.

Corriere 29.1.14
La partita del segretario: Angelino e Silvio decidano, qui o si chiude o si rompe
«Sono ore decisive, non avremo altre chance»
di Maria Teresa Meli


ROMA — «Sono ore decisive: o si chiude o si rompe». Matteo Renzi sa che il tormentone delle riforme è arrivato alla parola fine. In un modo o nell’altro. «Domani (oggi per chi legge, ndr ) è il giorno giusto», spiega ai suoi il segretario del Partito democratico dopo l’ennesima telefonata con Silvio Berlusconi e Angelino Alfano.
Vive attaccato al cellulare, il sindaco di Firenze, ma ci tiene a precisare: «Non faccio il mediatore, faccio la riforma e sto evitando di farmi risucchiare dalla palude, perché quello proprio non lo sopporterei. Del resto, l’ho spiegato anche ai deputati che fanno capo a Cuperlo: siamo in una situazione particolare e se salta la riforma rischiamo di trovarci in uno scenario inimmaginabile. Nessuno può sapere quello che succede a quel punto. Non è che a Berlusconi o Alfano, per far capire loro qual è la situazione, abbia fatto discorsi diversi. Vogliono assumersi le loro responsabilità? Vogliono finalmente prendersi l’onere e l’onore di cambiare la legge elettorale, abolire il Senato così come lo abbiamo conosciuto e rivedere il titolo V della Costituzione? O vogliono andare davanti al Paese e dire: “Siamo noi i responsabili del fallimento delle riforme elettorali e istituzionali”? Perché, parliamoci chiaramente, questa è veramente l’ultima occasione per cambiare. Non avremo altre chance. Non le avremo noi del Pd, non le avranno gli altri partiti e, soprattutto, non le avrà il Paese».
Insomma, Renzi è scatenatissimo. Ha trattato per tutta la giornata (e la nottata) di ieri, senza rilassarsi un attimo, se non per buttarsi nel suo lavoro di sindaco. Non ha avuto un momento di tranquillità. «Del resto, non possiamo fermarci, se ci fermiamo rischiamo di bloccarci e di farci prendere dagli ingranaggi dell’immobilismo. C’è chi non aspetta altro, lo so bene. Ci sono tanti, lì fuori, che sperano in un fallimento per non cambiare niente, per lasciare che tutto rimanga immutato». Per questa ragione Renzi a sera insisteva con Berlusconi sull’innalzamento della soglia per il premio di maggioranza. A una cert’ora sembrava aver convinto il leader di Forza Italia a spostarla dal 35 al 37%. Ma questo accordo provvisorio durerà alla prova della notte? Nemmeno il segretario del Pd è in grado di dirlo. «Dobbiamo aspettare», spiega ai fedelissimi, mentre racconta loro che sulla richiesta di Angelino Alfano delle candidature plurime non c’è stato nessun problema. Non è ancora definitivamente chiusa la trattativa sul cosiddetto «salva Lega», chiesto da FI, ma solo perché il Pd usa questo strumento come «merce di scambio» per convincere Berlusconi ad arrendersi definitivamente sull’innalzamento della soglia necessaria per ottenere il premio di maggioranza. «Innalzamento — ripetono al Nazareno — che ci è stato sollecitato da Giorgio Napolitano». Come a dire che su questo punto c’è poco da discutere. Ultimo problema l’abbassamento del tetto del 5% per le forze che si coalizzano e dell’8 per quelle che invece intendono andare da sole. Si potrebbe passare dal 5 al 4 nel primo caso, ma su questa possibilità c’è minor certezza rispetto agli altri oggetti della trattativa.
È ovvio che Renzi stia spingendo per l’accordo perché, come ha detto più volte ai parlamentari del suo partito, «su questo mi gioco non solo la faccia ma anche l’osso del collo». Ma c’è di più. Per il segretario del Partito democratico il «pacchetto riforme» è importante pure perché rappresenta un tassello fondamentale per il percorso che intende intraprendere. Come ha confidato ai suoi non troppo tempo fa: «Prima dettiamo l’agenda sulle riforme, e poi detteremo anche quella sul programma di governo».

Corriere 29.1.14
Si tratta sui dettagli ma sono in palio governo e legislatura
di Massimo Franco

Più si avvicina l’accordo sul sistema di voto, più si coglie l’intreccio con la durata del governo. Silvio Berlusconi resiste sul premio di maggioranza, ma intanto introduce il tema di un nuovo esecutivo guidato non più da Enrico Letta ma da Matteo Renzi. E il vicepremier Angelino Alfano, quasi di rimbalzo, lancia un Letta bis con ministri renziani, chiedendo al segretario del Pd se intende appoggiarlo o no. Sono manovre incrociate che per il momento portano solo allo slittamento di un giorno della discussione parlamentare sulla riforma elettorale: comincerà domani pomeriggio. Ma potrebbero anche accentuare le tensioni e frenare l’intesa.
Ormai è chiaro che Forza Italia è pronta a dare il «via libera» alla proposta di Renzi solo in cambio di un’ipoteca sul governo, e forse di altre concessioni delle quali non si vedono ancora i contorni. E il Nuovo centrodestra di Alfano, che si sente minacciato dalla riforma, teme di logorarsi se il vertice del Pd non viene coinvolto nella coalizione. Sono condizioni politiche, che si mescolano con quelle tecnico-elettorali e di fatto le oltrepassano. La diatriba sul 35 o 38 per cento di soglia per far scattare il premio di maggioranza, o la barriera del 4 o del 5 per le forze minori è solo lo schermo numerico di una trattativa politica: uno scambio nel quale sono in palio bipolarismo e legislatura.
Da Forza Italia arrivano parole di ottimismo: la legge dovrebbe essere approvata dalla Camera in settimana. Le telefonate tra Renzi e Berlusconi e i tecnici al lavoro per gli ultimi dettagli fanno pensare che sia quasi fatta. Per paradosso, gli insulti grevi del Movimento 5 Stelle a Giorgio Napolitano, accusato di favorire una norma che i grillini considerano incostituzionale, avvicina gli interlocutori. Eppure resta un alone di tatticismo e di incertezza strategica che non permette di dare per scontato l’esito: almeno, non nei tempi brevi che Renzi spera. Berlusconi sa che l’immagine vincente del leader del Pd dipende da lui.
Ma se il Cavaliere non ha ancora deciso se tentare la forzatura delle elezioni anticipate, o aspettare, non dirà né sì né no. Terrà sulla corda il suo interlocutore, mentre sia nel Pd che dentro FI le tensioni stanno silenziosamente montando; e i partiti piccoli protestano contro la «strozzatura» del dibattito alla Camera sulla riforma elettorale. La linea dura berlusconiana sulle preferenze e sul premio di maggioranza, la richiesta di un emendamento che salvi il vecchio e malconcio alleato leghista, sono figli di questa esitazione. E Renzi non può fare molto per costringere il suo alleato istituzionale ad accelerare. Può solo osservare che Berlusconi «è a un bivio». Da destra, Ignazio La Russa, di Fratelli d’Italia, chiede al segretario del Pd di dire con chiarezza se vuole elezioni a maggio.
In caso contrario, si domanda il motivo di tanta fretta di approvare la riforma. Dietro queste riserve non è difficile intravedere altre forze minori, spaventate da una fine rapida della legislatura; e da una legge che potrebbe spazzarle via. Un fallimento appare difficile: segnerebbe una sconfitta per tutti, non solo per Renzi. Il dubbio che qualcosa possa andare storto, tuttavia, deve nutrirlo anche lui, se avverte: «Sarebbe un peccato perdere l’occasione»; ed evoca «paludi» e «sabbie mobili». Nella sua cerchia si continua a temere un Berlusconi temporeggiatore. E al capo di FI non dispiace: è la sua polizza di sopravvivenza politica.

Corriere 29.1.14
«Badge? Ok, ma il Pd non è una catena di montaggio»
I dipendenti e il cartellino da timbrare: non abbiamo nulla da nascondere
di Alessandro Trocino


ROMA — La rivoluzione renziana arriva anche al Nazareno. Il nuovo segretario aveva promesso di non toccare neanche una sedia, per rassicurare chi temeva misure draconiane. E così è stato finora. Ma lentamente il nuovo corso si fa strada anche nella sede del Pd. Uno dei primi segnali, certo minore e in parte simbolico, è l’introduzione del badge per i dipendenti.
La novità sarà illustrata oggi alle 14 ai dipendenti dal tesoriere Francesco Bonifazi. Qualche malumore ieri è serpeggiato, perché molte sono le incertezze che gravano sul futuro. Qualcuno, colto di sorpresa, teme che sia il primo passo verso tagli al personale: si comincia con il verificare la produttività e si finisce per tagliare i lavoratori. Ma Bonifazi non ha questa intenzione. Il livello occupazionale sarà mantenuto. L’introduzione del badge sarà illustrata come uno strumento non vessatorio ma di responsabilizzazione e di valorizzazione dei tanti che al Pd lavorano e molto. Naturalmente, come ammettono gli stessi dipendenti, ci sono ampie zone morte, dovute anche alle stratificazioni di correnti al comando nel corso degli anni. Capire chi c’è, per quanto tempo, e cosa fa, fa parte della due diligence : consentirà di usare al meglio le risorse, risparmiando sui servizi esterni. Che Bonifazi vuole tagliare in modo «vorticoso» a cominciare dai contratti esterni (vedi sito) che costano 300 mila euro all’anno.
Silvana Giuffrè, rappresentante dei dipendenti, è tranquilla: «Già due anni fa, tesoriere Antonio Misiani, approvammo l’introduzione dei badge. Siamo pronti. La cosa non ci dà alcun turbamento». Il badge è già attivo al gruppo dalla scorsa legislatura, per entrate, uscite e pause pranzo e merenda. Il capo del personale pd, Francesco Davanzo, aggiunge: «Nulla da nascondere. Siamo sereni: da anni i dipendenti sono favorevoli al badge. Naturalmente, questa non è una catena di montaggio e il controllo dell’orario non corrisponde al lavoro. Sarebbe ridicolo crederlo. Ma in un clima in cui si pensa che c’è chi ruba lo stipendio, si dà un segnale». Quanto al costo dei dipendenti: «Non siamo Paperoni. Qui c’è un rapporto 1/4,5 tra gli stipendi più bassi e quelli più alti. La formula aurea di Olivetti prevede un rapporto 1/10». I dipendenti hanno il blocco degli straordinari da mesi. Oltre ai 157, c’è una quota di persone distaccate al gruppo o in Parlamento, senza retribuzione. Bersani ha introdotto il contratto a termine per lo staff: finito il suo mandato, sono scaduti i contratti anche dei fedelissimi.
Capitolo a parte, Youdem. Oggi Bonifazi incontrerà Chiara Geloni (l’incontro fissato per ieri è saltato, causa influenza del tesoriere). Il contratto della direttrice bersaniana è scaduto il 30 ottobre, ma da allora partecipa alle riunioni: «Lo faccio per assicurare continuità e per responsabilità verso la redazione. Cosa mi aspetto? Nulla, è normale che il segretario nomini un nuovo direttore in tempi brevi. Naturalmente non opporrò resistenza». C’è anche da decidere il futuro di Youdem. Non rischia la chiusura, ma cambierà. Costa 800 mila euro all’anno, che finiscono alla «Eventi Italia», società con socio unico il Pd, amministrata da Lino Paganelli. Che spiega: «Costa un terzo di quando è partita, anche perché non è più sul satellite». La tv rientrerà, dicono i renziani, «in un riassetto complessivo della comunicazione».

l’Unità 29.1.14
I partiti e l’equilibrio dissenso-disciplina
di Marco Almagisti


IL DIBATTITO CHE ATTRAVERSA IL PD IN QUESTI GIORNI NON RIGUARDA SOLTANTO LA LEGGE ELETTORALE. COME MOSTRANO BENE LE VOCI CHE SI SONO SUCCEDUTE SULLE PAGINE DI QUESTO GIORNALE, OGGI IL PD è costretto a misurarsi con alcune questioni basilari della democrazia rappresentativa: quale equilibrio deve esserci fra conflitto e disciplina di partito e come gestire il dissenso interno. Il dissenso diviene un elemento cruciale della sfera pubblica agli albori della modernità europea, quando in seguito alla riforma protestante si afferma quella condizione che Alessandro Pizzorno (La democrazia di fronte allo Stato, Feltrinelli 2010) ha magistralmente definito quale «libertà di conversione», ossia il diritto di poter cambiare idea e di poterla far cambiare agli altri. Diviene lecito «trasferire, per dir così, il contenuto del foro interno dell’individuo, sul foro esterno; quindi di fondare gruppi e sollecitare solidarietà sociali». Fra gli effetti della rottura dell’unità culturale del continente europeo, e del conseguente pluralismo della società civile, vi è la normalizzazione della critica al potere politico fuori e dentro le arene istituzionali, prima nell’Europa settentrionale, poi anche nelle altre parti del continente.
Per effetto di tale libertà di critica del potere, nascono, all’interno dell’assemblea parlamentare i concetti di «maggioranza» e «opposizione», che all’inizio indicano i favorevoli e i contrari alle politiche proposte dal monarca. Questa distinzione rende possibile anche un’immagine spaziale della contrapposizione politica. Se in un’aula i parlamentari favorevoli all’esecutivo si siedono da un lato e quelli contrari dall’altro (con in mezzo, come a Westminster, una sedia vuota, a rappresentare la Corona), il transito da una parte all’altra dello schieramento politico diviene un gesto altamente simbolico (G. Poggi, La vicenda dello Stato moderno, Il Mulino 1978).
È in questo clima culturale che la rappresentanza moderna («libera») sostituisce quella dell’Antico regime («di mandato»), che vincolava il rappresentante alla volontà espressa dai corpi intermedi tradizionali. Mentre nella società si afferma il diritto a formare nuovi corpi intermedi, nelle istituzioni ai rappresentanti è riconosciuto il diritto di agire individualmente, confrontandosi con gli altri rappresentanti al fine di determinare l’interesse generale. Pertanto, anche al rappresentante si riconosce la libertà di convertirsi alle ragioni degli altri e di convertire gli altri alle proprie. Questa concezione della rappresentanza é descritta dal liberale inglese Edmund Burke nel suo Discorso agli elettori di Bristol (1774), accolta dall’assemblea costituente francese del 1789 ed è presente in tutte le costituzioni moderne. Infatti, queste si fondano sulla libertà di mandato del rappresentante e sulla convinzione che dal libero confronto fra i rappresentanti possano essere definiti e governati gli interessi della società.
Tuttavia, è opportuno ricordare che quattro anni prima di tessere l’elogio della rappresentanza libera, lo stesso Edmund Burke ha scritto la prima esplicita «laudatio» del ruolo del partito politico. Su incarico del gruppo whig, Burke redige il trattato Pensieri sulle cause del malcontento attuale (1770) in cui sostiene che la contrapposizione dei partiti nelle arene parlamentari è positiva, poiché consente un conflitto palese, leale. L’alternativa alla dialettica fra partiti è data dagli accordi occulti derivanti dall’influenza dei singoli, su cui non si può esercitare alcun controllo pubblico. Si tratta di un’evoluzione decisiva nella teoria politica: due secoli e mezzo dopo l’elogio rivolto da Machiavelli al conflitto fra parti politiche durevoli e strutturate quale spina dorsale della società, la disciplina di partito (party connection) e il confronto fra partiti strutturati sono identificati per la prima volta quali elementi positivi. Burke ci dice che la rappresentanza libera necessita di essere bilanciata dall’esistenza di accordi palesi e durevoli fra i parlamentari, da cui originano i partiti. È l’esperienza storica del parlamentarismo britannico a insegnare a Burke che in assenza dei partiti non si ottiene un’opposizione parlamentare stabile in grado di resistere al potere di clientela dell’esecutivo. Quanti vagheggiano di democrazie senza partiti non hanno ancora sciolto questo nodo funzionale. Dai tempi di Burke fino ad oggi, appare con evidenza la relazione fra la qualità del sistema rappresentativo e l’esistenza di un’opposizione strutturata, non solo nei corpi intermedi della società (a la Tocqueville), ma anche nelle aule parlamentari. È l’esistenza di una forte opposizione, tanto parlamentare quanto sociale, che può indurre il potere esecutivo a «rendere conto» di ciò che ha fatto, non ha fatto o fatto male. Più in generale, solo se i partiti articolano alternative chiare e riconoscibili è possibile comprendere la reale posta in palio di quanto avviene nelle arene parlamentari.
Pertanto, partiti forti e coesi al loro interno sono indispensabili per una migliore qualità della democrazia. Tuttavia, la disciplina di partito può risultare efficace e non essere vissuta quale costrizione, a patto che il partito assuma una posizione definita – con la quale proporsi alla trattativa con le altre forze politiche – solo dopo che tale posizione è stata compiutamente discussa all’interno del partito stesso, lasciando che le diverse posizioni possano provare vicendevolmente a convertirsi. Sulla legge elettorale il Pd non ha seguito questa via e anche da questo nasce parte del malcontento attuale.

l’Unità 29.1.14
Il settimanale Usa
Papa Francesco conquista la copertina di Rolling Stone


Dopo il titolo di persona dell’anno e la copertina di Time, ambitissimi dai comuni mortali, Papa Francesco conquista persino la cover dello storico settimanale statunitense Rolling Stone. Ad aprirlo è la sua foto, con un lungo pezzo sulla «rivoluzione gentile di Papa Francesco». Sotto la sua immagine sorridente il titolo del terzo album di Bob Dylan «The times they are a-changin’» (I tempi stanno cambiando). È il segno di una popolarità arrivata in ambiti prima impensabili, la stessa che gli fa arrivare ogni settimana una valanga di posta: almeno una trentina di sacchi, zeppi di buste di varie dimensioni provenienti da ogni parte del mondo, che vegono smistate nell’Ufficio di corrispondenza del Papa, situato nel Palazzo apostolico, da monsignor Giuliano Gallorini, suor Anna e altre due signore.

Repubblica 29.1.14
“Noi, operai spremuti come limoni non cederemo al ricatto di Electrolux”
In fabbrica a Susegana: con 850 euro al mese non campiamo più
La lotta di classe asimmetrica
di Gad Lerner


NELLA lotta di classe asimmetrica scatenata dalla multinazionale svedese Electrolux, i lavoratori sono ridotti a variabile marginale. Stoccolma ha il potere di giocarsi gli operai polacchi contro gli operai italiani, e inoltre può mettere ogni stabilimento a rischio chiusura in competizione con l’altro; azionando così una corsa al ribasso no limits del costo della manodopera.
Il sacro principio della libera concorrenza, dispiegato senza regole su un orizzonte mondiale, anela a svincolarsi dai contratti localmente stipulati con la parte più debole. In materia di retribuzioni prevalgono le tariffe di volta in volta indicate come riferimento là dove conviene; e pazienza se ciò comporta una vera e propria retrocessione di civiltà. Prendere o lasciare. Il governo, i sindacati e la politica sono chiamati solo a una presa d’atto subalterna. A disarmarli è la nuova centralità finanziaria del rapporto creditore/debitore che prosciuga le risorse pubbliche necessarie all’esercizio della mediazione nel più antico conflitto capitale/lavoro. È così che la lotta di classe diviene asimmetrica e il lavoro, reso precario, tende a precipitare sempre più spesso nella povertà (vedi Maurizio Lazzarato, Il governo dell’uomo indebitato, editore Derive Approdi).
Parliamoci chiaro: se il ricatto occupazionale dovesse funzionare all’Electrolux, costringendo i sindacati ad accettare per cause di forza maggiore un taglio generalizzato dei salari, dal giorno dopo le ripercussioni si manifesterebbero su tutto il sistema manifatturiero italiano. Migliaia di aziende in difficoltà seguirebbero l’esempio del battistrada svedese, generando un’imponente decurtazione di reddito a danno di lavoratori che già percepiscono salari al di sotto della media europea.
È vero infatti che il costo del lavoro pesa in misura eccessiva sui bilanci delle nostre imprese, ma la scorciatoia escogitata — tagliare i salari, altrimenti chiudiamo gli stabilimenti — sortirebbe effetti sociali ed economici dirompenti. In questa drammatica circostanza, il riflesso ideologico anti-statalista può giocare brutti scherzi: basti vedere Beppe Grillo che ieri, pur di prendersela con lo «Stato-pappone», ha irriso l’angoscia dei lavoratori («lacrime di coccodrillo») e, adoperando un linguaggio tipicamente reazionario, ha parlato di «canea dei sindacati».
Lo stesso Partito Democratico di Matteo Renzi è percorso da una contraddizione che al momento sembra ostacolarne un’azione efficace. Aiuta poco il Jobs Act che si voleva sfoderare in campagna elettorale, perché nulla dice sul bivio cui siamo giunti: cosa deve rispondere, il governo, a una multinazionale che per restare nel nostro paese pretende la sospensione del contratto nazionale e dei patti integrativi vigenti? La richiesta brutale dell’Electrolux suscita reazioni opposte se la si guarda benevolmente dalla city di Londra, come il finanziere renziano Davide Serra che definisce «razionale» lo scambio fra decurtazioni salariali e salvaguardia occupazionale; o viceversa se la si guarda dal Friuli condannato a perdere 1.100 posti di lavoro, come tocca all’altrettanto renziana Debora Serracchiani, schierata con i “suoi” operai di Pordenone.
Il segretario Renzi, distratto dal braccio di ferro sulla legge elettorale, non prende ancora partito. E forse non si rende conto che il dilemma degli operai polacchi d’Italia, sbattuto in faccia alla politica, non è di quelli aggirabili con dei ghirigori verbali. Al contrario, è la priorità delle priorità.
Le statistiche sulla ricchezza nazionale divulgate dalla Banca d’Italia ci confermano che stiamo vivendo una metamorfosi sociale, con l’acuirsi delle disuguaglianze e la diffusione della povertà. Ma ancora non fotografano a sufficienza il dato nuovo rappresentato dall’estendersi dell’area che i sociologi definiscono
labouring poor: ovvero i titolari di un posto di lavoro fisso la cui busta paga però non li sottrae all’indigenza. Tale condizione verrebbe generalizzata da eventuali accordi consensuali di taglio dei salari. Essi giungerebbero a suggellare una gigantesca opera di espropriazione di ricchezza ai danni del lavoro dipendente già in atto da anni in tutto l’occidente. Ne sono talmente consapevoli il presidente Obama negli Usa e i partner della grosse koalition in Germania, da avere scelto di innalzare per legge il salario minimo orario nei loro paesi. Un parziale antidoto alla diffusione della povertà fra i lavoratori dipendenti.
Se il governo e le associazioni imprenditoriali del nostro paese dovessero subire il ricatto della multinazionale svedese che chiede loro di agire in senso inverso, le conseguenze sarebbero gravi. Disperazione crescente, contrapposizioni territoriali (vedi le reciproche accuse fra Serracchiani e Zanonato), contagiosa demagogia autarchica. La lotta di classe asimmetrica produce solo declassati e secerne rancore. Sottoscrivere oggi un taglio dei salari significa mettere a repentaglio una già fragile democrazia.

Repubblica 29.1.14
Il tweet del finanziere: “Si salvano azienda e lavoratori”. Madia: governo trovi mediazione
Il sì di Serra, sostenitore di Renzi. Bufera Pd: inaccettabile metà salario
di Luisa Grion


ROMA — Il caso Electrolux esce dai capannoni e infiamma la politica, Pd compreso che da ieri dibatte — anche a colpi di tweet — sul piano del gruppo. Per restare in Italia, la multinazionale svedese ha infatti chiesto ai dipendenti tagli drastici sul salario, facendo capire che questo potrebbe comunque non bastare per tenere in vita tutti i quattro siti. Una proposta che il sindacato ha definito «irricevibile», ma che Davide Serra, fondatore e amministrazione del fondo speculativo Algebris e noto sostenitore di Matteo Renzo, ha invece difeso: «Electrolux prova a salvare lavoro e azienda con taglio salari — ha twittato — oppure chiude come altre 300 mila aziende e aggiunge disoccupazione. Realtà». Proposta «razionale» ha commen-tato, anche se qualche ora dopo, visto il fiorire delle critiche ha precisato che «razionale non vuol dire auspicabile». Un commento che non è andato giù a molti, anime renziane comprese, visto che poco dopo, sul caso, è partito un botta-risposta fuori e dentro il social network. Sempre su Twitter, per esempio ha contrattaccato Francesco Nicodemo, responsabile per la comunicazione del partito che riprendendo un commento già espresso da Deborah Serracchiani, presidente del Friuli Venezia Giulia, ha scritto: «No al ricatto sulla pelle degli operai e della popolazione». C’è chi come l’eurodeputato Pd Frigo chiede che «lo Stato netta la differenza degli stipendi», chi come l’ex ministro del Lavoro Damiano giudica «irricevibile» la proposta aziendale e vede in Electrolux un caso «che purtroppo potrebbe fare scuola». A trarre le fila del dibattito ci prova Marianna Madia, responsabile Lavoro del Pd. «Non si possono dimezzare i salari e far ricadere tutto il peso della mancata competitività sui lavoratori — precisa — ma é chiaro che l’emergenza Electrolux è l’emergenza di un Paese e di un sistema. Spero che il tavolo al governo trovi un compromesso, ma per trattenere qui il lavoro dovremo fornire alle aziende condizione adatte». Una via da praticare, sottolinea Madia, potrebbe essere quella auspicata proprio dalla Confindustria di Pordenone che, assieme ad una rosa di esperti fra i quali Treu e Cipolletta, sta lavorando ad un accordo territoriale dove, ad un taglio dei salari del 20 per cento, corrisponda una compensazione in servizi e welfare.

Repubblica 29.1.14
L’amaca
di Michele Serra


“Proposta di Electrolux razionale. Costo del lavoro per azienda è triplo dopo oneri sociali. Per salvare lavoro deve abbassare 40% stipendi”. Sono le parole twittate dal finanziere Davide Serra, area renziana. Lo ringrazio perché le considero la prova provata di quanto avevo scritto qui ieri: il peggiore uso mondiale dei social network è quello fatto dai maschi di potere che sgomitano per farsi sentire. Se l’autore avesse riletto solo per un paio di secondi il suo testo, respirando forte per ossigenare i neuroni, si sarebbe immediatamente domandato: ma se gli stipendi si abbassano del 40 per cento e i prezzi rimangono uguali, come fanno a campare gli operai? E i consumi, con la progressiva erosione dei salari, come potranno mai ripartire? E quel “costo del lavoro triplo” è triplo rispetto a che cosa, agli stipendi bielorussi, al costo del lavoro senza oneri sociali, all’età della cognata, a una cifra a caso? Ma come accidenti si fa, santo cielo, a sparare un paio di belinate veloci veloci su una faccenda che è lacrime e sangue, questione sociale gigantesca, vita delle persone? Poi si finisce sui giornali, certo. Ma non si fa mica una bella figura.

Repubblica 29.1.14
Salta l’accordo con la Svizzera per i capitali nascosti all’estero
Berna resta nella “lista nera”, ritorsioni sui transfrontalieri
di Federico Fubini


MOLTE volte annunciata, altrettanto spesso rinviata, la fine della guerra fredda italo-svizzera non ci sarà. Dopo un interminabile negoziato, entro fine mese i due Paesi dovevano chiudere un lungo elenco di contenziosi sul fisco e sul trattamento degli italiani che ogni giorno vanno a lavorarenel Canton Ticino.
INVECE non sarà firmata nessuna pax alpina, non ora almeno. Al suo posto, la crisi delle banche elvetiche dopo Lehman e la recessione più lunga nella storia dell’Italia unita secernono un sottile avvelenamento dei rapporti e ritorsioni incrociate: sui migranti, sulle tasse e sulla lista nera internazionale alla quale il governo di Roma ha consegnato quello di Berna.
Non doveva finire così, almeno nei programmi dei governi. Enrico Letta era atteso a Berna domani per il Forum di dialogo fra la Svizzera e l’Italia, organizzato dalla rivista Limes, dall’Ispi e dal ministero degli Esteri. Per quell’occasione era prevista anche la firma su un accordo complessivo fra i due Paesi sui problemi del trattamento fiscale, sul segreto bancario e i lavoratori transfrontalieri. Letta però ha fatto sapere da giorniche non ci sarà. Al suo posto, il presidente della Confederazione Didier Burkhalter accoglierà Fabrizio Saccomanni e, salvo miracoli delle prossime ore, non ci sarà nessuna intesa. Benché lo stesso ministro dell’Economia a Davos giorni fa avesse detto che il compromesso è vicino, difficilmente se ne riparlerà prima dell’estate.
Probabile che l’Italia stia perdendo interesse. Il governo non ritiene più di aver bisogno della Confederazione per raggiungere ciò a cui è più interessato dall’altra parte della sua frontiera nord: i capitali nascosti degli italiani. Il decreto del governo sulla “voluntary disclosure”(le dichiarazioni spontanee dei contribuenti), e soprattutto la legge elvetica che vieta alle banche di gestire fondi frutto di frode fiscale, di fatto segnano la fine del segreto svizzero sui capitali italiani: una svolta dopo tre secoli di fughe più o meno nobili di capitali. Con il decreto unilaterale del governo, molti infatti faranno emergere o riporteranno in Italia i propri fondi, senza godere dell’anonimato, ma pagando al fisco meno di quando dovrebbero in caso di accordo fra Roma e Berna: il 13-14% invece del 25-30%. Ci sono poi gli altri, i corrotti arricchiti, i commercialisti delle mafie, ma anche alcune categorie di dirigenti d’impresa: tutti gli italiani che non rientrano nelle maglie della depenalizzazione delle frodi prevista dal governo dovranno comunque levare le tende. Lasceranno la Svizzera. Apriranno fondi fiduciari a Dubai o a Singapore, ma comunque svuoteranno i caveau di Lugano, Chiasso o Zurigo. Da quando la pressione degli Stati Uniti minaccia di stritolare le banche elvetiche che proteggono i reati fiscali, la Svizzera è ormai costretta a separarsi dai clienti dal dubbio pedigree.
È soprattutto per questo che l’accordo con Berna per l’Italia adesso non è più urgente. E gli svizzeri di colpo si trovano privati dell’unica leva per arrivare invece a ciò che interessa loro: essere tolti dalla “lista nera” internazionale per concorrenza fiscale sleale alla quale l’Italia li ha consegnati, infliggendo loro danni finanziari e di credibilità. Anche qui, benché ormai la Svizzera stia togliendo il segreto sui conti, l’Italia non ha fretta di offrire concessioni. Il timore del governo è che il Canton Ticino, con il declino delle banche, cerchi una vocazione da paradiso fiscale delle imprese in modo da attrarre gran parte del tessuto produttivo lombardo. Una politica di aliquote basse in Ticino può desertificare interi distretti del comasco e della Brianza. E al ministero dell’Economia di Roma non basta la promessa di governo federale di Berna di «invitare» i Cantoni non lanciarsi nella concorrenza fiscale per attrarre imprese dall’Italia.
Il governo non si fida degli impegni elvetici, dunque la Svizzera resta consegnata alla “lista nera” dei Paesi dal gioco fiscale scorretto. A sua volta, ilTicino applica dunque una ritorsione di cui pagano le conseguenze i Comuni italiani vicini al confine. In base agli accordi, il Cantone dovrebbe infatti versare ai Comuni lombardi il 40% dell’imposta sui redditi che raccoglie alla fonte sui lavoratori transfrontalieri che ogni giorno arrivano a decine di migliaia dall’Italia. Ma da tempo il Ticino ha smesso di pagare, mettendo alla prova la tenuta di bilancio di molti enti locali lombardi. Così le cicatrici di anni di crisi bancarie, tempeste del debito e recessione stanno finendo per intossicare anche i rapporti più antichi. La pax alpina,per ora, può attendere.

l’Unità 29.1.14
Camusso: sulla rappresentanza decide il congresso
di Giuseppe Caruso


MILANO L’accordo sulla rappresentanza tiene banco nella Cgil e il segretario Susanna Camusso ha scritto una lettera agli iscritti per spiegare il valore del patto sottoscritto e contestare le critiche espresse dal leader della Fiom, Maurizi Landini. Nella lettera Camusso sottolinea come l’accordo firmato sulla rappresentanza sia «una vittoria storica della Cgil, perché la democrazia è la nostra seconda pelle. Il contratto nazionale per essere valido dovrà avere il voto positivo della maggioranza dei lavoratori e il consenso della maggioranza dei sindacati rappresentativi nella categoria. Questo regolamento, per la prima volta, stabilisce il diritto dei lavoratori a esprimere attraverso un voto il proprio consenso o il proprio dissenso a un accordo che li riguarda».
DEMOCRAZIA
La numero uno della Cgil ha anche affrontato la questione delle tensioni con la Fiom: «In questi giorni c’è chi dice che le assemblee congressuali degli iscritti non possano essere il luogo dove si decide sugli accordi in materia di democrazia e rappresentanza e sul relativo documento attuativo. Questo stupisce e non poco. C’è da augurarsi che nessuno pensi ai nostri iscritti come persone incapaci di esaminare e discutere dei temi proposti insieme ai documenti congressuali. Anche perché, è sempre bene ricordarlo, parlare di democrazia e rappresentanza significa affrontare il cuore stesso della proposta avanzata in tutti i documenti congressuali».
Dal fronte interno avverso al segretario è però arrivata a stretto giro di posta la replica di Gianni Rinaldini, coordinatore dell’area programmatica «La Cgil che vogliamo» e membro del direttivo. Rinaldini, ex leader della Fiom, ha presentato un ricorso alla commissione Statuto della Cgil, chiedendo di intervenire «rispetto alla violazione delle norme statutarie avvenute in occasione della firma da parte del segretaria generale della Cgil del Testo Unico sulla rappresentanza».
Secondo Rinaldini, che si trova sulle stesse posizioni del segretario generale della Fiom, Landini, Camusso avrebbe violato due articolo dello Statuto (per la precisione il 6 ed il 17): per aver firmato «senza aver ricevuto alcun mandato a farlo. Qualsiasi atto successivo è a questo punto da considerarsi falsato, perché si configura inevitabilmente come un voto di fiducia sulla segretaria generale».
L’ex leader della Fiom chiede quindi alla Commissione Statuto «di ripristinare l’applicazione delle norme statutarie con la sospensione della firma e la consultazione delle lavoratrici e dei lavoratori interessati. In caso contrario intendo sapere scrive quale interpretazione motivata dello statuto può giustificare tale comportamento, visto che avrebbe un significato sul presente e sul futuro della vita democratica della Cgil». Oggi lo stesso Rinaldini che aveva già scritto alla commissione di Garanzia, invierà un altro ricorso alla commissione Politica della Cgil.

La Stampa 29.1.14
Occhetto, ascesa e caduta del Pci da Torino alla Bolognina
di Alberto Papuzzi


Fra i molteplici e multicolori passaggi della vita politica italiana al volgere del secolo, uno dei più citati e sorprendenti (anche oggetto di polemiche e sarcasmi) è stato sicuramente quello coniato da Achille Occhetto per sfidare il nascente e prorompente berlusconismo (ma anche le opposizioni interne al partito): la gioiosa macchina da guerra.
Lanciata all’epoca dei primi scontri fra il Cavaliere e il Pci, cioè tra fine anni ottanta e inizio anni novanta, la disinvolta metafora viene oggi recuperata come titolo dell’autobiografia del suo promulgatore, al quale è toccato in sorte di essere, al tempo stesso, l’ultimo segretario del vecchio Pci e il primo segretario del nuovo Pds. In realtà, il libro, più che scavare nel ruolo pubblico o nella vita privata del suo protagonista, come fa ogni buona confessione autobiografica, è il racconto dell’avventurosa e suggestiva trasformazione, che vide in pochi anni l’uscita di scena di personaggi storici e emblematici per far posto alla generazione post-comunista.
Lo stile di Occhetto è di infrangere i tabù ereditati dal passato. Come quando, da capo del più importante partito comunista europeo, si fa fotografare per la copertina di un magazine mentre sulla spiaggia di Capalbio bacia spavaldamente la moglie, rompendo una tradizione di ipocrita riservatezza (basta rileggere «Il comunista» di Morselli). Con tale spavalderia affronta le polemiche e i veleni che si annidano nel cambiamento del realtà di cui il partito è portatore e espressione. Non solo marxisti, non solo operaisti, ma anche cattolici progressisti, liberali crociani, e i radicali borghesi, e gli obiettori di coscienza. Da questo punto di vista il lettore resta colpito da quanto la carriera politica e le scelte culturali di Occhetto s’intreccino con la storia del comunismo italiano. Con una moltiplicazione di linee, tesi, correnti, obiettivi.
Ma c’è un punto dove queste tracce disperse si riuniscono e si organizzano, un luogo che parla al tempo stesso alla mente e al cuore, alla passione e alla riflessione: Torino dove nasce nel 1936. È questa la città della sua formazione. Segretario dei giovani comunisti e segretario dei comunisti siciliani, Occhetto non ebbe incarichi politici nella città degli Agnelli, eppure sono i portici di via Po o la collina dove immagina Pavese le sue icone del comunismo. Annota nel suo diario come Torino avesse tutto: era la città di Gobetti e Gramsci, insignita della medaglia d’oro della Resistenza. A Torino nel 1951 udì il primo comizio di Nenni in piazza Castello. Lui stesso, nella medesima piazza, tenne il suo primo comizio con Togliatti. Non è strano che proprio a Torino, o pensando Torino, maturi il sogno di un nuovo partito. Leggendo poesie dall’alto della collina, come un romantico giovane rivoluzionario, è lì che può finalmente dire come stanno le cose: «Sentivo che la nostra storia stava per finire». Il 12 novembre 1989 la svolta detta della Bolognina, il 3 febbraio 1991 il partito si scioglie definitivamente.

Corriere 29.1.14
Il monumento all’insaputa del sindaco
Opera d’arte abusiva Un cubo d’acciaio al Circo Massimo
L’autore: un test, Comune disattento
di Paolo Conti


A Roma puoi fare di tutto. Anche issare un tuo monumento di tre metri per tre, due tonnellate di acciaio, e piazzarlo in una delle aree più tutelate d’Italia: di fronte alla cavea del Circo Massimo, sullo sfondo delle rovine del Palatino, delle residenze di Augusto, Tiberio e Domiziano. Tanto nessuno controllerà le autorizzazioni e i permessi.Non arriverà né un vigile urbano, né un funzionario della sovrintendenza comunale (peraltro vacante da ben sette lunghissimi mesi, ed ecco i frutti) o statale a capire cosa sia accaduto.
Siamo nella notte tra il 24 e il 25 novembre 2013, ore 3. Dopo numerosi sopralluoghi (indisturbati anche quelli) l’artista romano Francesco Visalli arriva con un camion, devia il traffico con l’aiuto di collaboratori armati di segnaletica stradale e apposite luci, e pianta nell’aiuola di fronte al Circo Massimo il suo monolite «Place de la Concorde» che si colloca — dice l’autore — in un più vasto progetto «Inside Mondriaan». Il rinvio al grande artista olandese celebre nel mondo dell’arte e della pubblicità per il minimalismo geometrico dei suoi riquadri in cui il bianco si alterna al grigio e ai colori primari, è evidente. Racconta la curatrice dell’artista, Valeria Arnaldi: «Quella notte ridevamo tutti, sembrava una scena di “Amici miei” di Monicelli». Da quel giorno la scultura-installazione resta al suo posto. Nessuna ispezione. Nessun interrogativo.
Ieri sul sito www.artribune.com diretto da Massimiliano Tonelli (la casa editrice è presieduta da Paolo Cuccia) è apparso un intervento molto polemico sulla qualità della scultura e sulla scarsa notorietà dell’artista: «Come ha fatto Visalli a installare un’opera permanente laddove ogni artista del mondo sognerebbe di installarla e avendo un curriculum molto distante dagli artisti più grandi del mondo?» Lunedì notte, un servizio sul Tg5. Di lì è partita la caccia alla storia, e al perché. Visalli, che ha investito 23 mila euro nell’impresa, ha emesso una nota intitolata: «Monumento al Circo Massimo all’insaputa del sindaco». Scrive l’artista: «Non è una trovata pubblicitaria ma un vero e proprio esperimento e, soprattutto, una denuncia. Testare l’attenzione dell’Amministrazione comunale sulla città in generale, e sull’arte in particolare. A due mesi dall’installazione il bilancio è drammatico: nessuna notifica all’artista, nessuna domanda, nessuna verifica sull’opera e neppure nessun controllo in termini si sicurezza. Nonostante le dimensioni decisamente evidenti, i colori accesi, la posizione centralissima e poco distante dagli uffici del Comune». Nessuno ha chiesto alcunché nemmeno durante i sopralluoghi delle tante forze dell’ordine prima del gran concerto di Capodanno, lì al Circo Massimo. Dice sconsolato l’artista: «Speravo che l’opera fosse ‘scoperta’ dopo pochi giorni. Con tristezza per Roma, vedo che ci sono voluti due lunghi mesi. La mia intenzione era dissacratoria, nel senso di voler violare uno spazio culturalmente sacro come quello».
Ammette Flavia Barca, assessore alla Cultura della giunta guidata da Ignazio Marino: «È vero, non c’è stato alcun controllo proprio perché non c’è stato un avvio formale di nessuna richiesta. Perché nessuno se n’è accorto? Forse proprio perché Roma è una città straordinariamente ricca di arte e cultura: e può capitare di passare di fronte a un’opera senza chiedersi il perché della collocazione. Vorrei cogliere l’aspetto positivo della provocazione, che è in qualche modo una forma di street art. La accoglieremo come capita anche con altre provocazioni, magari più accese»
C’è dell’altro, però. La provocatoria installazione di Francesco Visalli ricorda e sottolinea, con la sua massiccia presenza clandestina, un altro vero, intollerabile scandalo. L’inamovibile, immenso camion-bar di bibite e panini che da mesi deturpa il panorama sul Circo Massimo e il Palatino. Ha resistito alla gestione Alemanno e ora prospera indisturbato anche sotto la giunta guidata da Ignazio Marino. Presidio sprezzante e volgare di uno imbattibile strapotere romano: le famiglie degli ambulanti che presidiano gli spazi di fronte ai monumenti romani, un dominio forte quasi quanto quello dei burocrati e di certi costruttori.

Corriere 29.1.14
Otto italiani tra gli scienziati più influenti
Nella classifica dei magnifici 400 stilata da un team Usa premiate Milano e Bergamo

di Mario Pappagallo

Fra i primi 400 ricercatori più influenti al mondo vi sono anche otto italiani, sei dei quali rimasti a lavorare in patria. Il campo è quello della medicina. La classifica è stata ottenuta secondo un nuovo metodo di misurazione sviluppato da un gruppo di ricercatori americani. Pubblicato sull’European journal of clinical investigation , lo studio combina per la prima volta diversi parametri di rilevamento della qualità della ricerca. Un conteggio che, secondo gli autori, consente una migliore valutazione, a vantaggio del merito e di una migliore gestione dei finanziamenti. Un «calcolatore meritocratico», quindi. I 400 sono in ordine alfabetico, ma incrociando i dati si può stilare una classifica. E lo scienziato italiano che, senza emigrare, guadagna la posizione migliore nella «top 400» è Alberto Mantovani, immunologo, direttore scientifico dell’Humanitas di Rozzano. E’ collocabile tra i primi trenta. Punti: 0,455. Settantasette mila le citazioni alle sue pubblicazioni.
Gli altri cinque «cervelli non in fuga» in classifica sono, nell’ordine: Giuseppe Remuzzi (punti 0,420) del Mario Negri di Bergamo, Antonio Colombo (0,415) del San Raffaele di Milano, Giuseppe Mancia (0,407)dell’università Milano-Bicocca, Vincenzo Di Marzo (0,383) del Cnr di Pozzuoli, Alberto Zanchetti (0,310)dell’università degli Studi di Milano. Prevale il capoluogo lombardo, a conferma dell’alto livello di ricerca nonostante i pochi finanziamenti circolanti nel nostro Paese. Tra i top anche due italiani all’estero: Carlo Croce (che batte Mantovani e ha un punteggio di 0,503)dell’università dell’Ohio e Napoleone Ferrara (0,304) della Genentech incorporated . Assenti, invece,stranieri di alto livello che lavorano in Italia. Bravi ad esportare «cervelli», meno ad attirarne. Il primo in assoluto della classifica dei 400 è il giapponese Shizuo Akira.
Lo studio è stato coordinato da John Ioannidis, direttore del Prevention Research Center della Stanford university school of medicine . Il team di Ioannidis è partito dal database Scopus, che contiene i dati identificativi degli oltre 15 milioni di autori di articoli scientifici dal 1996 al 2011 e il numero di successive citazioni delle loro pubblicazioni. Limiti dello studio? Ve ne sono. Riguardano l’accuratezza delle liste di identificativi e la mancanza di dati precedenti al 1996. Non si è tenuto conto, inoltre, della posizione di un ricercatore fra i nomi che firmano un articolo e del suo reale contributo.

l’Unità 29.1.14
Bocche cucite nei Cie: anche quelle sono delle torture
risponde Luigi Cancrini

psichiatra e psicoterapeuta

La notizia che altri tredici migranti abbiano deciso di cucirsi la bocca all’interno del Cie di Ponte Galeria a Roma, ripetendo un estremo gesto di protesta già avvenuto solo un mese fa, deve far tornare a riflettere le istituzioni sull’introduzione del reato di tortura nel nostro ordinamento.
Paolo Izzo

«Anche quella che i tredici nordafricani, incolpevoli di alcun reato e in attesa dell’autorizzazione all’asilo politico, si sono oggi come ieri autoinflitti, impedendosi di parlare e di nutrirsi con questa sconvolgente azione continua la lettera potrebbe essere ravvisabile come una forma di tortura da parte dello Stato, che dovrebbe invece scongiurare e prevenire quelle che sono mere conseguenze dei propri abusi e delle proprie negligenze. Inoltre, anche a Roma, per l’inadempienza dei responsabili della struttura e per le condizioni inumane e degradanti in cui si trovano i suoi cosiddetti ospiti, sarebbe opportuna l’immediata chiusura del Centro di identificazione ed espulsione di Ponte Galeria, proprio come richiesto a Torino, con una mozione al governo, da esponenti Sel e Pd del Consiglio comunale, per il Cie di corso Brunelleschi». Una decisione possibile, aggiungo io, all’interno del clima nuovo che si comincia a registrare intorno alla questione perché la cancellazione del reato di clandestinità ad altro non può corrispondere ora che alla chiusura di centri pensati, al tempo dei Maroni e dei Berlusconi, come centri destinati a punire e a scoraggiare chi in Italia era venuto a creare loro dei problemi: con loro elettori e con la loro personale difficoltà ad accettare l’idea per cui gli esseri umani hanno (dovrebbero avere) pari dignità. Indipendentemente dal colore della pelle e dal peso dei loro portafogli.

La Stampa 29.1.14
Prato è ancora la città fantasma dei cinesi
“Italiano, vattene via di qui”
Così a Prato è tornata l’omertà
Gli operai cinesi lavorano a ritmi folli e senza diritti
A due mesi dalla tragedia non è cambiato nulla
di Niccolò Zancan

qui

La Stampa 29.1.14
La sfida di Obama: su del 40% il salario minimo
Salirà da 7,25 dollari a 10,10
di Paolo Mastrolilli

qui

l’Unità 29.1.14
Il divario tra poveri e ricchi è la nuova sfida
Guerra alle diseguaglianze
di Maurizio Franzini


Obama ha pronunciato ieri il suo sesto (o quinto, contando solo quelli ufficiali) discorso sullo Stato dell’Unione. Per alcuni si tratta di un evento rituale, ma quest’anno il discorso potrebbe marcare una svolta politica e non soltanto per gli Stati Uniti.
Poche settimane fa Obama ha definito la disuguaglianza economica la «questione decisiva del nostro tempo» e gli ulteriori dati di cui siamo venuti a conoscenza nel frattempo rafforzano questa valutazione, non soltanto per gli Stati Uniti. Non sorprende, quindi, che, secondo le anticipazioni della Casa Bianca, la disuguaglianza sia diventato uno dei temi centrali del discorso e, soprattutto, che Obama abbia deciso di non limitarsi a denunciare il fenomeno e di proporre alcune concrete misure. La più concreta di queste misure sarebbe l’innalzamento del salario orario minimo da 7,25 a 10,10 dollari e il suo adeguamento automatico con l’inflazione. Di elevare il salario minimo si è discusso e si discute anche in Europa. Si può ricordare, ad esempio, la decisione presa in Germania per iniziativa dei socialdemocratici e la discussione che si sta svolgendo anche in Gran Bretagna. La grande maggioranza degli economisti valuta positivamente questa misura, soprattutto da quando alcuni studi hanno mostrato che i temuti effetti negativi sull’occupazione non si sono verificati nei casi di fissazione del salario minimo a un livello «ragionevole». Per questo anche l’Economist di recente si è espresso in modo favorevole.
Elevare il salario orario minimo significa contrastare il fenomeno dei working poor che anche negli Stati Uniti è diffuso: in particolare, più di un lavoratore part-time su quattro si troverebbe al di sotto della soglia della povertà. Inoltre, la domanda di consumo potrebbe crescere con effetti positivi sulla produzione e sull’occupazione.
Questa misura opera sulla parte bassa della distribuzione; essa non tocca i redditi più elevati, che sono anche quelli cresciuti di più negli ultimi anni, e per questo la proposta di Obama potrebbe apparire timida. In effetti così è, ma per esprimersi compiutamente su questo, non può essere elusa la questione della realizzabilità politica delle misure di contrasto alla disuguaglianza.
E a questo riguardo c’è una importantissima qualificazione da fare. La misura, secondo quello che finora sappiamo, non riguarderà tutti i lavoratori e quindi di essa non potranno beneficiare i circa 20 milioni di lavoratori americani che vengono retribuiti meno di 10 dollari l’ora. Al contrario, Obama la proporrà soltanto per i lavoratori di imprese titolari di appalti del governo federale. La ragione è molto semplice: il Congresso a maggioranza repubblicana si è già espresso contro e Obama, non volendo rinunciarvi, usa i suoi poteri di Presidente per applicare la misura soltanto a coloro che producono beni e servizi per l’Amministrazione. Il conflitto è, dunque, evidente e le prime reazioni dei Repubblicani, che parlano di abuso di poteri e violazione della Costituzione, preludono a un suo aggravamento. La «modestia» della proposta di Obama va giudicata alla luce delle resistenze che lo schieramento politico conservatore oppone all’adozione di misure di riduzione della disuguaglianza, anche soltanto quelle che operano sulla parte bassa della distribuzione, senza sfiorare i redditi più alti. Dalla parte di Obama sembra però esserci la stragrande maggioranza degli americani: oltre i tre quarti sarebbero favorevoli all’innalzamento dei salari minimi, secondo diversi recenti sondaggi. Siamo di fronte a una buona esemplificazione dell’affermazione secondo cui la disuguaglianza è un problema politico che ha anche importanti risvolti per il funzionamento della democrazia.
Per questo merita particolare attenzione il sesto discorso di Obama sullo Stato dell’Unione e ancora di più la meritano gli sviluppi che ci saranno. Essi ci diranno se quel discorso avrà contribuito, come in alcuni altri casi della storia, a marcare un significativo cambiamento, non soltanto nella percezione di quanto grave sia il problema delle disuguaglianze, ma anche nell’effettiva possibilità di farvi fronte con equilibrio e senso di giustizia. E non solo negli Stati Uniti.

Repubblica 29.1.14
Le nuove etnie al potere
Etnopower La riconquista dell’America
di Federico Rampini


Dove è finito il sogno a stelle e strisce? Il nuovo libro della “mamma Tigre” Amy Chua risponde all’interrogativo in maniera provocatoria: nelle mani degli immigrati e dei loro figli Anzi, di alcuni di loro
Quelli che vengono da un retroterra più povero e che hanno maggiore voglia di rivalsa:
indiani, iraniani, libanesi e cinesi Una tesi che fa ripartire il dibattito sulla razza nel paese di Barack Obama, primo presidente nero degli Stati Uniti

NEW YORK Esistono delle “razze superiori” (ma non siamo noi). Indiani, cinesi, iraniani. Ecco alcune minoranze etniche che stravincono, quando gareggiano nello stesso campo di gioco: l’American Dream. Dobbiamo cominciare a studiare le loro ricette, almeno per applicarle ai nostri figli, se vogliamo garantirgli un futuro migliore. Gli ingredienti del successo sono identici per tutti i gruppi etnici vincenti, e si riassumono in una “triplice combinazione”: complesso di superiorità, insicurezza profonda, spirito di sacrificio.
È la tesi esplosiva di uno studio di prossima pubblicazione, firmato da due docenti della Yale University. Un libro scottante perché sfida i tabù della società multietnica, affronta temi proibiti nel discorso corrente del “politically correct”. Gli autori sono due celebrità nei loro campi, ambedue appartenenti a minoranze etniche. Lei, la sino-americana Amy Chua, è già nota al pubblico italiano per il suo best-seller sulla Mamma Tigre, in cui spiegò i metodi educativi molto autoritari dei genitori asiatici (partendo dalla propria esperienza autobiografica: è figlia di immigrati cinesi). Lui, Jed Rubenfeld, oltre ad essere suo marito è un autorevole giurista. Come ebreo americano, anche lui conosce per esperienza alcuni tratti tipici delle minoranze di successo. Ma questo saggio, in uscita tra poche settimane in America, non è autobiografico. Stavolta i due autori fanno tesoro di autorevoli ricerche socio-economiche su tutte le minoranze immigrate nel melting pot americano.
E trovano una risposta anche al dilemma che ieri sera Barack Obama ha ricordato nel suo discorso sullo Stato dell’Unione: dov’è finito il Sogno americano?
Prima ancora che scoppiasse la crisi del 2008, gli Stati Uniti avevano subìto un freno nella mobilità sociale. L’America non è più la Terra Promessa di un tempo, dove da una generazione all’altra il miglioramento nel tenore di vita e nello status socio- professionale era quasi certo. Sempre più spesso, chi nasce in una famiglia povera è condannato a rimanere nello stesso ceto anche da adulto.
Amy Chua e Jed Rubenfeld affrontano il tema alla rovescia: andando a cercare quei gruppi per i quali il Sogno è vivo e vegeto. Ci sono minoranze etniche i cui figli sono tuttora protagonisti di un’ascesa fantastica. Gli indiani guadagnano quasi il doppio dell’americano medio: 90.000 dollari l’anno contro 50.000. Seguono gli iraniani, i libanesi, i cinesi. Se si guarda all’interno della componente bianca, una minoranza non etnica bensì religiosa come i mormoni sono caratterizzati da un successo economico strabiliante, il loro piccolo gruppo genera una quantità spropositata di imprenditori brillanti (i proprietari degli hotel Marriott, della compagnia aerea Jet Blue, nonché l’ex candidato alla Casa Bianca Mitt Romney).
Ovviamente, ammettono gli autori, il successo materiale non è tutto nella vita. Ma spesso queste minoranze esprimono talenti anche in altri campi. Gli ebrei americani non sono sovra-rappresentati soltanto nel mondo della finanza. «Pur essendo solo il 2% della popolazione degli Stati Uniti — osserva Rubenfeld — gli ebrei sono un terzo dei premi Nobel americani; un terzo dei giudici della Corte suprema; due terzi dei musicisti che hanno vinto i Tony Award».
La spiegazione più ovvia tende ad attribuire a queste minoranze “una marcia in più” perché arrivano in America con un alto livello d’istruzione. O almeno così si presume. I dati però smentiscono questo luogo comune. Metà degli immigrati dall’India e dalla Cina arrivano qui con un’istruzione modesta. Una ricerca compiuta dalla Russell Sage Foundation nel 2013 dimostra come i figli d’immigrati cinesi, coreani e vietnamiti conoscono una straordinaria mobilità sociale verso l’alto, anche quando i loro genitori sono poveri e semi-analfabeti.
Chua e Rubenfeld hanno fatto un’altra verifica tra gli iscritti alle due scuole pubbliche più selettive di New York, cioè Stuyvesant e Bronx Science. Per entrare in questi ambitissimi licei bisogna passare attraverso una spietata selezione meritocratica, molti sono i candidati, pochi sono gli eletti. Ebbene, nel 2013 il liceo Stuyvesant ha accettato al termine degli esami 9 studenti afro-americani, 24 ispanici, 177 bianchi, e 620 asiatici. Tra i vincitori, ci sono ragazze e ragazzi cinesi i cui genitori lavorano come camerieri nei ristoranti.
Chua e Rubenfeld citano dei dati di fatto inoppugnabili. Ma sanno benissimo di camminare su un terreno minato. «Il semplice fatto di constatare che alcuni gruppi etnici vanno meglio di altri — ammettono i due autori — è sufficiente a provocare un putiferio nell’America di oggi, e le inevitabili accuse di razzismo». Invece la razza non c’entra proprio niente. Andando a guardare all’interno degli stessi gruppi etnici si scoprono infatti delle differenze clamorose. Per esempio, i nigeriani sono solo l’un per cento della popolazione nera degli Stati Uniti e tuttavia sono un quarto dei neri ammessi alla prestigiosa Harvard Business School. E mentre gli ispanici in generale fanno parte delle minoranze “dimenticate” dall’American dream, questo non è affatto vero per i cubani: loro hanno due volte più probabilità di guadagnare ben oltre i 50.000 dollari annui (il reddito medio dei bianchi).
L’altro fenomeno che i due autori mettono in evidenza, è che le minoranze subiscono a loro volta “ascesa e declino”. Quei gruppi d’immigrati che avevano la più elevata mobilità socio-professionale due o tre generazioni fa, non sono gli stessi che oggi vincono la competizione. Vale anche per gli asiatici: una volta arrivati alla terza generazione, cioè ai nipoti d’immigrati, gli stessi cinesi non si distinguono più, hanno risultati accademici uguali alla media nazionale. Dunque non esistono “minoranze modello” il cui successo sia spiegabile con fattori innati, biologici, qualcosa di diverso nel loro Dna.
Sgombrato il campo dalle accuse di razzismo, Chua e Rubenfeld individuano la Triplice combinazione che dà il titolo al loro saggio: “The Triple Package”. Ovvero, come spiega il sottotitolo: «I tre fattori improbabili che spiegano ascesa e declino di comunità culturali in America». Da sottolineare i due aggettivi “improbabili” e “culturali”. Gli ingredienti del successo sono contro-intuitivi, e appartengono ai valori etico-culturali. Il primo è il complesso di superiorità, la certezza di appartenere a un gruppo “eccezionale”. Questo vale per gli iraniani, per i mormoni che si considerano profeti di Dio in terra, per gli ebrei “popolo eletto”, per i cinesi che si considerano portatori di una civiltà superiore. Da solo, però, il complesso di superiorità può essere nefasto, se non è accompagnato dall’ingrediente che lo compensa e lo bilancia: il senso di insicurezza, spesso legato alla miseria originaria dei propri genitori, che crea una pressione psicologica verso il successo. Terzo e fondamentale fattore, è il controllo degli impulsi, ovvero «la capacità di sacrificare i piaceri e le gratificazioni del presente, onde ottenere risultati futuri».
Nel secondo e terzo fattore si ritrovano anche alcuni aspetti della Madre Tigre raccontata da Amy Chua nel suo libro precedente. Tutta la Triplice combinazione, comunque, è agli antipodi della cultura dominante nell’America bianca: permissiva, comprensiva, indulgente verso i figli, sempre ansiosa di sostenere la loro autostima. «L’America nacque come un’intera nazione-outsider — sostengono i due autori — e alle origini la Tripla combinazione fu una caratteristica nazionale». Oggi invece quella parte del paese che non riesce più a inseguire la mobilità sociale e sembra bloccata, deve imparare a scrutarsi dentro per individuare le ragioni di un declino. «La cultura dominante è timorosa di rovinare la felicità dei figli opprimendoli con i divieti o le aspettative eccessive».
La forza dell’America? E’ che continua ad accogliere nel suo seno delle minoranze che la sfidano, la incalzano, la costringono a fare meglio. L’American
dream è vivo e vegeto, in questo senso. Purché lo si cerchi tra quelli che sono arrivati da poco, si considerano molto speciali, ma sanno di doverlo dimostrare senza risparmiarsi.

l’Unità 29.1.14
Palestina
Abu Mazen: «La Nato forza d’interposizione»


Il presidente palestinese, Mahmud Abbas (Abu Mazen), ha annunciato che il ritiro delle truppe israeliane dai territori palestinesi dovrebbe avvenire entro 3 anni. «Coloro che propongono il ritiro dell'esercito tra 10 o 15 anni, in realtà non lo vogliono davvero», ha detto il leader dell’Anp, parlando all’Istituto degli Studi di sicurezza internazionali (Inss), a Tel Aviv. «Noi chiediamo che in un ragionevole lasso di tempo, non più lungo di 3 anni, Israele si ritiri gradualmente». Abbas
ha poi dichiarato che «la Nato è l'unica in grado di adempiere a questa missione. i confini palestinesi devono essere controllati dai palestinesi e non dall'esercito israeliano». «Anche se concedessimo loro il controllo del territorio, non sarebbe certo la fine delle richieste palestinesi», ha però replicato il ministro della Difesa israeliano, Moshe Yaalon. Israele insiste per mantenere una presenza militare nella Valle del Giordano dove la Cisgiordania confina con la Giordania.

Repubblica 29.1.14
L’urlo dell’Ucraina, il silenzio dell’Europa
di Barbara Spinelli


A PRIMA vista sembra un vasto e violento tumulto in favore dell’Europa, quello che da mesi sconvolge l’Ucraina. Un tumulto che ci sorprende, ci scombussola: possibile che l’Unione accenda le brame furiose di un popolo, proprio ora che tanti nostri cittadini la rigettano?
È possibile, ma a condizione di decifrare l’insurrezione: di esplorarne i buchi neri, gli anfratti. Di capire che la dimissione del premier Azarov non metterà fine alla rabbia, all’anarchia. A condizione di non consegnare l’Ucraina al nero della solitudine e mantenere però la mente fredda: che analizza, distingue la superficie visibile dai sottofondi. A condizione che l’Europa sappia di essere non solo simbolo, ma pretesto per abbattere il regime di Kiev. Che diventi motore degli eventi, smettendo di vedere se stessa come Empireo immune da difetti che abbraccia i cieli inferiori ma senza responsabilità. Lo sguardo europeo è attratto dagli esotismi, ed esoticamente lontana èPiazza-Europa, chiamata dagli ucraini Euromaidan. Incapace di far politica, l’Unione commenta con pietrificati sermoni sui propri valoriil film atroce, fatto d’incendi e lividi paesaggi, che vediamo in Tv.
Abbiamo alle spalle anni di esperienze esotiche finite nel caos: le primavere arabe, la Libia, la Siria. Le primavere svegliarono euforie democratiche degenerate in carneficine. Un’analisi di questo radicale fallimento neppure è cominciata: né in Usa né in Europa. Fondata è l’accusa dello scrittore polacco Andrzej Stasiuk sulla Welt:viviamo, noi europei, nella paura di perdere la «roba» e nell’endogamia. La nostra risposta agli squassi ucraini è una patologica coazione a ripetere.
I trattati di psicologia insegnano: sempre ricadiamo nell’identica perversa letargia, intrappolati e sorpresi dagli eventi, quando non riconosciamo di esserne autori. La passività di fronte alla disperazione ucraina ripete quel che non sappiamo: imparare, fare autocritica, trasformarci.
Eppure gli elementi dell’immane complicazione di Kiev sono visibili. Sempre più, la protesta contro il regime di Yanukovich assume tratti spurî, inevitabili in un paese immerso in guerre civili perché reietto. L’ira esplose il 21 novembre, quando Kiev rinunciò al trattato di associazione con l’Unione per timore di perdere Putin, che sarà un semi- dittatore ma garantiva più aiuti dell’Europa, e contratti promettenti in materie vitali: le forniture d’energia. Dopodiché tutto s’è sbrindellato sfociando nel sangue, proprio come nelle primavere arabe (4 attivisti morti). L’insurrezione è senza leader e programmi stabili.
Nel suo torrente nuotano anche gli ultranazionalisti,raccontano i reporter, ma l’aggettivo è eufemistico. Anche se minoritarie, due destre estreme sono protagoniste: la formazione
Svoboda,nata da un partito neonazista che inneggia a Stepan Bandera (collaborazionista di Hitler nella guerra) e che ancora nel 2004 si definiva social-nazionale, avendo come emblema una specie di svastica; e il «Settore di destra» (Pravi Sektor),che rischia di alterare un movimento in principio liberal-democratico. La russofobia, dunque il razzismo, le impregna. Mark Ferretti del Sunday Times lo scrive sulla Stampa: per tanti, «l’integrazione nell’Unione europea non è la priorità». Non basterà la revoca, ieri, delle leggi liberticide del 16 gennaio.
L’inerzia dell’Unione europea risale ai tempi dell’allargamento. Già allora ci si concentrò su regole finanziarie e giuridiche, e mancò la politica come sintesi: che difendesse la natura federale dell’Unione in modo da frenare i nazionalismi dell’Est, e costruisse un rapporto non sconclusionato con la Russia e le zone di mezzo fra lei e noi (l’«estero vicino», si chiama a Mosca: è «estero vicino» anche per noi). Una Russia influenzata certo dal passato (Putin ritiene una «catastrofe storica» la fine dell’impero sovietico, che sogna di restaurare), ma un paese mutante, col quale nessun discorso serio si apre perché sempre l’Europa aspetta — per comoda abulia, per vizi contratti in guerra fredda — che la prima mossa sia americana.
Quel che colpisce nel no di Kiev a Bruxelles dovrebbe farci pensare: proprio perché nuovo, frastornante. Perché il tumulto non ci dà automaticamente ragione, se l’Europa è un pretesto. Inutile perdersi in descrizioni di un’Ucraina ancora erede dell’ex Urss, e malefico sarebbe tollerare passioni torbide come la russofobia. Utile è riconoscere invece che l’era degli allargamenti è conclusa, che le adesioni o associazioni esterne fanno oggi problema. Perché quel che offre l’Unione, in tempi di recessione e di crisi che non sa sormontare, attrae enormemente ma anche respinge: sono così lontani, i frutti. L’Europa innalza muri di cinta e la Russia no, quali che siano i suoi colonialismi. C’è poco da compiacersi. La disfatta è nostra.
Se l’Unione è colma di vizi di costruzione, è perché alcune domande essenziali neanche se le pone, neanche sospetta che interrogarsi e mettersi in questione sia già un inizio di buona risposta. Ad esempio: dove finisce l’Europa e dove precisamente comincia l’Est? Cosa vuol dire confine, e l’EsteroVicino?E quali sono i criteri che permettono di affrontare il dramma di un popolo che vuole l’Europa ma in parte anche la respinge, temendo di accentuare la propria crisi infilandosi nella sua orbita?
Qui è il guaio: l’Europa assiste a simili terremoti come se fosse non un attore politico ma un semplice contenitore, una sorta di hotel degli Stati e dei popoli. L’allargamento nel 2004-2007 avvenne inscatolando, non integrando, e l’Unione non ne uscì rafforzata ma svuotata. I nuoviStati, esclusa la Polonia a partire dal 2010,
non hanno capito l’Unione in cui entravano: la scambiarono appunto per un recipiente, che invitava a trasferire sovranità nazionali verso l’ignoto, non verso un’autorità comune, solidale, forte di un’autentica politica estera. L’Ucraina è piena di buchi neri, ma anche noi. Ha vinto la ricetta britannica: mera custode di parametri finanziari, l’Unione è un’area di libero scambio, non una potenza politica.
Non stupisce che gli inviati europei a Kiev (Catherine Ashton, incaricata dei rapporti esterni, è una delle persone più scialbe dell’Unione) siano completamente muti. Che Van Rompuy, A parte questo: nulla. Sono andati alla Piazza di Kiev politici Usa (Victoria Nuland vice segretario di Stato, i senatori John McCain, Chris Murphy) ma nessun politico europeo di rilievo. Non per questo gli Stati dell’Unione sono assenti. Angela Merkel è molto attiva: sostiene un oppositore del regime di Kiev, l’ex pugile Vitaly Klitschko, ma solo per immetterlo nel Partito popolare europeo e punzecchiare Putin senza un piano generale. Ancora una volta non è l’Unione a muoversi, ma il paese geopoliticamente più interessato, e forte.
In Europa si coltiva l’idea, esiziale, che prima viene l’economia, e chissà quando la politica estera. È una delle sue più gravi menomazioni. Avere una politica estera, nel Mediterraneo e in una Russia pensata oltre Putin, implica collocarsi nel mondo come soggetto politico, non come finanziere o commerciante. Accodarsi a Washington significa condividere un destino di guerre perse, di potenza non più egemonica e solo nazionalista, impreparata a pensare un mondo i cui attori sono oggi molteplici. Un destino che mescola valori altisonanti e calcoli economici, creando guazzabugli. Da questa gabbia conviene uscire al più presto.

l’Unità 29.1.14
Francia
Il tribunale nega il ritorno a Leonarda e alla sua famiglia


l tribunale di Besançon, nell’Est della Francia, ha respinto la richiesta di rientrare nel Paese da parte della famiglia di Leonarda Dibrani, compresa la stessa studentessa rom espulsa lo scorso ottobre e rimpatriata in Kosovo. Il caso aveva suscitato molto scalpore in Francia, soprattutto per le modalità adottate: la ragazzina era stata prelevata al termine di una gita scolastica davanti agli occhi dei compagni. Diverse proteste si erano tenute a Parigi e in altre città. Poi il presidente socialista François Hollande aveva invitato la ragazza a tornare, ma non il resto della famiglia e Leonarda si era rifiutata di tornare da sola. Secondo la Corte l’espulsione non contraddice gli impegni internazionali della Francia a rispettare i diritti della famiglia e dei bambini. E aggiunge che la giovane «manca di prospettive per un’integrazione economica e sociale in Francia» e «di ogni tipo di integrazione nella società francese». «Il mio futuro oggi è finito ha commentato la ragazza dalla sua casa a Mitrovica Per me questo è un incubo. Era meglio se ci uccidevano, perché questa non è vita per noi. Mi ammazzerò da sola». La famiglia potrebbe presentare ricorso, ma non è chiaro se lo farà. «È una sentenza di morte. La situazione qui è ingestibile, ho dovuto vendere l’orologio per pagare delle medicine», ha detto il padre della ragazza Resat Dibrani.

Corriere 29.1.14
il Revisionismo storico di Shinzo Abe ora imbarazza anche l’America
di Guido Santevecchi


Non c’è solo il contenzioso per le isole Senkaku/Diaoyu che divide Giappone e Tokyo ad agitare le acque del Pacifico. Ieri il ministro dell’Istruzione di Tokyo ha aperto un altro fronte con la Corea del Sud, dicendo che delle remote isole controllate da Seul sotto il nome di Dokdo e definite dai cartografi giapponesi Takeshima sono nipponiche. Il ministro ha annunciato che i libri di testo delle scuole medie debbono essere rivisti per insegnare ai ragazzi da che parte sta la ragione storica.
Saranno introdotte nuove edizioni dei testi di storia, geografia ed educazione civica «per preparare i ragazzi giapponesi a conoscere il nostro vero territorio». L’ambasciatore giapponese è stato subito convocato dal ministero degli Esteri di Seul per una protesta. Sabato era stato il direttore generale della tv pubblica di Tokyo a portare il suo contributo all’innalzamento delle tensioni: ha pensato bene di riaprire la ferita delle «donne di conforto», le decine di migliaia di donne sventurate di Paesi occupati usate come prostitute dall’esercito imperiale del Sol Levante durante la Seconda Guerra Mondiale, sostenendo che era «una pratica comune e normale». Il burocrate tv è stato costretto a scusarsi, ma il danno ormai era fatto, come ha osservato l’agenzia cinese Xinhua. Come dimenticare poi che a dicembre il primo ministro Shinzo Abe era andato a rendere omaggio al sacrario di Yasukuni dove sono onorati anche 14 generali e politici giapponesi condannati come criminali di guerra di Classe A? Sembra che Abe voglia essere ricordato, più che per le riforme economiche dette Abenomics, come l’artefice di un revisionismo storico continuo. Che non fa bene al Giappone.
Pechino, che pure ha le sue responsabilità, vista l’aggressività con cui reclama le Senkaku/Diaoyu, sta cercando di convincere Washington che questo Giappone è un problema serio per la stabilità del Pacifico. E dunque anche per gli Stati Uniti. In un colloquio con colleghi americani, un alto funzionario governativo cinese ha definito Abe «malfattore». A quanto si sa senza che gli americani abbiano obiettato. Il revisionista Abe dovrebbe leggere meglio la stampa Usa, prima di trovarsi sol o.

La Stampa TuttoScienze 29.1.14
Quando in Anatolia l’umanità inventò le radici delle lingue
L’ultima verità sulle origini dell’indoeuropeo Un modello alternativo, che non è quello dell’evoluzione degli organismi
di Martin Lewis e Asya Pereltsvaig

Stanford University
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La Stampa TuttoScienze 29.1.14
L’antenato playboy con pelle scura e occhi azzurri
Sequenziato il primo genoma di 7 mila anni fa
di Gabriele Beccaria

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La Stampa TuttoScienze 29.1.14
Psichiatria
Curarsi con pillole o parole?
I test genomici sul metabolismo dei farmaci potranno risolvere un dilemma classico
di Gianna Milano

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La Stampa TuttoScienze 29.1.14
L’anoressia e i suoi disturbi alimentari
È boom di vittime del «disordine dismorfico»

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Corriere 29.1.14
Torna a vivere il deserto di Bam
di Massimo Bray


L’Italia ha firmato l’intesa con l’Iran: ripartiranno i restauri Pubblichiamo un intervento del ministro dei Beni culturali Massimo Bray a conclusione del suo viaggio in Iran dove è stato firmato un accordo che riapre la collaborazione tra i due Paesi nell’ambito dell’attività archeologica

La cultura ha cominciato a svolgere un ruolo di primo piano nel campo delle relazioni internazionali e della diplomazia, grazie anche alla crescente consapevolezza della forza dirompente che può e deve avere il suo messaggio.
Venerdì sono partito da Roma per l’Iran, per una visita ufficiale che mi vedrà impegnato fino a oggi. La scorsa notte, dopo un lungo negoziato, abbiamo firmato un accordo che riapre la collaborazione nell’ambito dell’attività archeologica nei siti storici di Bam e Pasargade dove l’Italia mancava ormai da alcuni anni. Ora potremo finalmente tornare a consolidare un percorso di studio comune.
In questa missione affascinante, coinvolgente e ricca di confronti e sensibilità, mi è stata data l’opportunità di incontrare alcune delle principali personalità culturali della vita politica iraniana, di visitare luoghi di rara bellezza e condividere riflessioni e idee con esperti e studiosi che hanno, come me, il privilegio di occuparsi della risorsa più preziosa di un Paese: il patrimonio culturale.
Dopo il viaggio del Ministro degli Esteri, Emma Bonino, nello scorso dicembre, la mia visita vuole proprio rafforzare la cooperazione fra l’Italia e l’Iran nel campo della cultura; ambito nel quale i nostri Paesi — nel lungo corso della loro storia — hanno espresso eccellenze universalmente apprezzate. Ed è proprio su questo terreno, consci di una straordinaria ricchezza comune, che è prioritario sviluppare il dialogo culturale, anche e soprattutto come strumento per una più approfondita conoscenza reciproca fra le nostre società. Intuizione che ebbe anche Khatami alla fine degli anni Novanta, quando propose alle Nazioni Unite di dedicare un anno — che l’Assemblea generale individuò nel 2001 — al dialogo tra le civiltà. Dialogo di cui l’Italia fu allora protagonista.
Del resto, la collaborazione fra Italia e Iran nel contesto della cultura non è mai venuta meno nel corso degli anni, con la presenza delle nostre missioni archeologiche: è grazie ai nostri ricercatori che tornarono a splendere Persepoli e Isfahan, fino al sito UNESCO della Cittadella di Bam dove l’Istituto Superiore per la Conservazione ed il Restauro ha partecipato ai lavori di recupero in seguito al terremoto del 2003. Ma la forza della cultura ha consentito di tener vivo lo scambio culturale nel cinema, nel teatro, nell’arte contemporanea. Anche la tradizione fotografica iraniana è antica: molti sono stati i fotografi italiani alla corte dei Qajar e recente è la pubblicazione dell’album fotografico della prima missione italiana in Persia, che ha avuto luogo nel 1862, appena un anno dopo la rivoluzione. Il cinema iraniano è stato più volte premiato nei Festival di Roma e Venezia e costante è stata la partecipazione di nostre compagnie teatrali al Festival internazionale Fajr a Teheran. Molte sono anche le opportunità legate allo sviluppo del turismo, a partire dalla decisione condivisa di voler sviluppare un modello comune di turismo culturale.
L’Iran dimostra di voler dare seguito all’entusiasmo e alle speranze che hanno accompagnato nel giugno 2013 l’elezione di Hassan Rohuani, impegnato con la sua squadra di ministri a realizzare una riforma graduale del sistema e a promuovere la legittimazione del Paese a livello internazionale, a cominciare dall’accordo di Ginevra sul programma nucleare dello scorso 24 novembre. In questo percorso di confidence building, l’Italia può tornare a rivestire un ruolo centrale per il dialogo e il confronto che era andato disperso negli ultimi decenni. La cultura ha lo straordinario potere di essere impronta distintiva dell’identità di un popolo e naturale spazio di confronto con realtà diverse, valore che arricchisce e fa crescere perché capace di trascendere i confini geografici. Forma alla conoscenza delle culture differenti, al rispetto reciproco, avvicina i popoli perché affonda le sue radici nelle grandi civiltà che hanno dato vita alla “saggezza degli antichi”; la cultura parla il linguaggio universale della bellezza. La sensibilità nei confronti della cultura unisce i Paesi, come ho riscontrato anche nei viaggi che in questi mesi di governo mi hanno portato in Giordania, Israele, Palestina e Cile; ma il modello delle relazioni così come lo abbiamo conosciuto nel Novecento appare insufficiente a gestire una qualunque forma di ordine internazionale. Va completamente ripensato se vogliamo garantire un futuro ai nostri figli e se vogliamo recuperare quel rapporto costruttivo e imprescindibile con i cittadini, rapporto che noi politici abbiamo troppe volte sottovalutato.
Il percorso sinora svolto in Iran è molto incoraggiante e su questo sentiero occorrerà proseguire per favorire un cambio di prospettiva dei rapporti: il dialogo con il Ministro della Cultura e con i viceministri è stato costruttivo e ha evidenziato la consapevolezza e la volontà di condividere questo percorso. Abbiamo deciso di definire un’agenda comune di impegni su cinema, musica, teatro, biblioteche, editoria, archeologia e turismo, consapevoli che una scelta coraggiosa di “apertura” e di dialogo garantirà ai nostri Paesi un percorso virtuoso di sviluppo e crescita culturale. Non abbiamo molto tempo per cambiare. Il digitale sta abbattendo tutte le barriere, crea rapporti liberi dall’intermediazione, come dimostra la conversazione pubblica via Twitter che ho avuto con il presidente della Repubblica iraniano Hassan Rouhani. In Iran oggi, come ha ricordato lo scrittore francese Régis Debray nell’articolo di domenica scorsa su Le Monde, ci sono più abbonati a Internet che in Turchia e più laureati che studenti. Una crescita esponenziale del livello di istruzione che, insieme alla crescita della popolazione, marca una differenza significativa e rappresenta un germoglio da coltivare.

Repubblica 29.1.14
Quando la scienza cambia idea
Perché da Einstein a Hawking la fisica a volte ci ripensa
Il celebre studioso inglese ha modificato le sue teorie sui buchi neri
Un caso tutt’altro che eccezionale nella ricerca
di Carlo Rovelli


Ha fatto scalpore ed è rimbalzato sui giornali di diversi paesi un articolo scientifico pubblicato la settimana scorsa da Stephen Hawking, il famoso fisico inglese. Hawking suggerisce che i buchi neri si possano comportare in maniera diversa da quanto lui stesso aveva suggerito in passato. La notizia ha fatto meno impressione fra gli addetti ai lavori: gli scienziati cambiano spesso idea.
Stephen Hawking è conosciuto dal largo pubblico, ed è diventato quasi un’icona della scienza teorica, per i suoi libri divulgativi, brevi e taglienti, ma soprattutto per essere riuscito a continuare a svolgere il suo lavoro di ricerca, di buon livello, nonostante una grave malattia degenerativa che gli ha progressivamente sottratto l’uso dei muscoli, fino alla capacità di parlare. Più che scienziato attivo, è diventato un personaggio mitico e una bella fonte di ispirazione per chi è affascinatodalla scienza. Il risultato per il quale è più conosciuto è un bellissimo lavoro teorico degli anni Settanta, dove con un calcolo molto elegante ha mostrato che i buchi neri sono “caldi”: emettono calore, come un termosifone. In quegli anni i buchi neri erano ancora oggetti esoterici, studiati da pochi teorici. Oggi non più: gli astronomi ne hanno scoperti moltissimi nel cielo. Ce n’è per esempio uno gigantesco, un buco nero grande un milione di volte il nostro sole, nel centro della nostra galassia. Le stelle gli ruotano intorno come qui da noi i pianeti ruotano intorno al sole. Ogni tanto un'intera stella viene inghiottita da questo mostro cosmico.
Come spesso accade, la scoperta che i buchi emettono calore ha aperto più problemi di quanti ne abbia chiusi, e ha suscitato dibattiti vivacissimi che continuano tutt’ora. Il dubbio nasce dal fatto che se emette calore, come ha calcolato Hawking, allora un buco nero perde energia e piano piano si rimpicciolisce, “evapora” come si dice in gergo, fino a che dopo un tempo molto lungo scompare. Come una goccia d’acqua che evapora e svanisce. Ma se scompare, dov’è andata a finire l’informazione su tutto quanto gli era caduto dentro? Hawking si era schierato a favore dell’idea che i buchi neri cancellassero completamente l’informazione su quanto cadesse loro dentro. Li pensava come dei pozzi di scarico dell’universo. Ma già diversi anni fa aveva espresso dubbi su questa sua stessa idea. Nell’articolo della settimana scorsa si schiera risolutamente a favore della tesi opposta: cioè che in realtà tutto quanto entri in buco nero, alla fine, in un modo o nell’altro, magari terribilmente “rimescolato”, ne esca comunque fuori. Con questo voltafaccia, Hawking cambia sponda, e si allinea con quelli che prima erano i suoi avversari.
Che un bravo scienziato cambi idea è qualcosa che sorprende più chi conosce poco la scienza che non chi ci vive dentro. Anche i grandissimi hanno cambiato idea, e molto spesso. Talvolta si dice “Einstein sosteneva questo”, o “Einstein sosteneva quello”, dimenticando che Einstein ha spesso sostenuto una cosa e poi il suo contrario, e ha ripetutamente cambiato idea molte volte su questioni di fisica importanti. Per esempio ha cambiato idea sull’ipotesi dell’espansione dell’universo, che prima ha osteggiato, e poi ha riconosciuto e difeso. Prima di pubblicare quelle che oggi chiamiamo le “equazioni di Einstein”, una delle maggiori glorie della scienza, ha pubblicato una lunga serie di articoli, con una lungaserie di equazioni, tutte sbagliate. Perché gli scienziati cambiano idea? Non potrebbero pensarci meglio prima di difendere una modello, una teoria, un’idea?
Credo che essere pronti a cambiare idea sia non solo utile, ma sia addirittura il motivo dell’efficacia del pensiero scientifico. Noi tutti siamo pieni di idee sbagliate e di pregiudizi. È il radicamento nelle nostre convinzioni che ci àncora alla nostra ignoranza. Si impara quando si è pronti a riconoscere i nostri errori. A dubitare delle verità che ci sembrano più solide. A non restare bloccati nelle nostre credenze. Ogni passo avanti nel sapere è prima di tutto l’uscita da un pregiudizio. Per essere capaci di fare questo, bisogna sapere dubitare di quello che noi stessi pensiamo. Essere pronti a cambiare idea se un nuovo indizio, una nuova riflessione, un nuovo dato, una conversazione con qualcuno, ci permettono di vedere qualcosa che prima non vedevamo. Questa è la chiave per imparare.
Credo che questo sia il marchio dell’intelligenza che ha caratterizzato gli scienziati più grandi. Uno dei maggiori fisici viventi, l’americano Steven Weinberg, ha scritto su un libro di testo che leteorie di “tipo geometrico' sono una strada sbagliata; qualche anno dopo ha creato lui stesso proprio una teoria di questo tipo per descrivere le particelle subatomiche; e ha preso il premio Nobel. D’altra parte, non è solo nella ricerca scientifica che essere pronti a cambiare idea è il marchio dell’intelligenza: il detective che scova il colpevole non è quello che resta fermo nella sua convinzione iniziale, ma quello che è rapido ad adattare le sue ipotesi a un nuovo indizio.
Non è solo nel momento della confusione della ricerca che la scienza cambia idea. È anche nel corso della storia. In fondo la teoria di Einstein è stato un cambiare idea rispetto alla credenza che la teoria di Newton valesse sempre, e così via. Ogni scoperta scientifica è un po’ un cambiare idea, più o meno radicale, rispetto a quello che si pensava prima. Ma se la scienza cambia idea così facilmente, cambia teorie, cambia modelli, da dove viene la sua affidabilità, la sia credibilità? Io penso che vengano proprio da questa flessibilità. Ad ogni momento, una teoria scientifica rappresenta l’ipotesi più credibile e più affidabile, in questo momento, su una questione. Le vecchie teorie, quelle che hanno resistito agli anni, come la meccanica di Newton e l’elettromagnetismo di Maxwell, sono diventate estremamente affidabili nel loro ambito di validità, proprio perché hanno resistito e resistono tutt’ora a innumerevoli tentativi di rimetterle in discussione. Le teorie nuove non hanno intaccato la loro affidabilità: al massimo hanno chiarito i limiti della loro applicabilità. Nel loro ambito, sono solidissime. Nessuno pensa più che si possa fare meglio di così, per capire il mondo, nel regime dei fenomeni che queste teorie descrivono. Ci fidiamo di esse perché sono diventate estremamente affidabili; le usiamo per costruire grattacieli, radio e aerei, sui quali saliamo con (maggiore ominore) tranquillità. L’affidabilità delle teorie scientifiche consolidate si fonda proprio sull’essere state confrontate così spesso con alternative. Nei molti domini dove invece la nostra conoscenza è invece ancora incerta, ai bordi del nostro sapere, in quella terra di nessuno che sta fra la regione dove capiamo bene e la sconfinata regione di quello che ancora non capiamo, è la consapevolezza della nostra ignoranza, l’incertezza, la chiave per aumentare la nostra conoscenza. Gli scienziati, come Hawking, cambiano idea. Quelli che sono convinti di detenere la Verità restano chiusi in idee e pregiudizi antichi e non sono più capaci di liberarsene. Sono quelli che non imparano più nulla. Sono quelli di cui mi fido di meno.

Repubblica 29.1.14
La rivista da domani in edicola
L’almanacco di MicroMega tra ricerca e politica


SARÀ in edicola a partire da domani il nuovo numero di MicroMega, un volume doppio composto da un Almanacco della scienza, a cura di Telmo Pievani, e da un miscellaneo su temi politici. Oltre al lungo saggio introduttivo di Pievani, l’almanacco si compone di vari interventi firmati da alcuni dei più prestigiosi biologi, fisici e neuroscienziati contemporanei: Carlo Rovelli, Amedeo Balbi, Ian Tattersall, Edoardo Boncinelli, Arnaldo Benini, Alessandro Treves, Giorgio Vallortigara, Daniel C. Dennett, Paolo Legrenzi, Stewart Guthrie e Vittorio Girotto.
Accanto all’almanacco di scienza, un volumetto miscellaneo, aperto dal dialogo fra il direttore di MicroMega, Paolo Flores d’Arcais, e Stefano Rodotà. Completano il miscellaneo il saggio di Alessandra Sciurba sui lager per migranti e un altro dialogo, quello fra i due economisti Lucrezia Reichlin e Luciano Gallino, che si interrogano sul rapporto fra finanza e democrazia.

Repubblica 29.1.14
Scompare Pete Seeger “padre” di Dylan e Springsteen
È morto a 94 anni. Tra i suoi successi “If I had a hammer” e la rielaborazione di “We shall overcome”
Il patriarca del folk
di Gino Castaldo


Addio a Pete Seeger, vecchio guerriero del folk, morto nel sonno a 94 anni nell’ospedale di New York dove era ricoverato da alcuni giorni. Il buon caro vecchio Pete era una figura molto prossima all’idea che potremmo farci di un santo laico. O almeno questo è quello che emanava: purezza, integrità, dedizione, empatia con tutti gli esseri viventi che soffrono. Era un uomo dolce ma determinato, amabile ma feroce nella sua convinzione estrema, uno di quegli uomini che non riescono a stare in pace sapendo che da qualche parte qualcuno sta male e con questo principio aveva iniziato a far musica, lasciando studi e agiatezza della colta borghesia del New England in cui era nato per schierarsi a fianco dei diseredati. Era il suo modo di cercare giustizia in un mondo che di giustizia ne offriva poca, lui stesso ripetutamente vittima del furore maccartista, processato, condannato, boicottato in ogni modo per le sue simpatie di sinistra. Cosa che non gli ha impedito di essere una delle più influenti e carismatiche figure del Novecento americano.
Il suo verbo era il folk, la musica del popolo, e fu spinto a cantarlo dal pioniere della ricerca sul campo Alan Lomax, a fianco di Leadbelly, Woody Guthrie, Burl Ives. Con la sua voce gentile e persuasiva, è stato probabilmente il massimo divulgatore di cultura popolare e non solo di quella americana. Era già attivo negli anni Quaranta, ma arrivò al successo quando creò il gruppo dei Weavers, con i quali raggiunse un clamoroso successo di classifica nel 1950 con
Goodnight Irene. Ma, tanto per capire che tipo era, i Weavers li lasciò quando gli altri membri accettarono di incidere un jingle pubblictario per una marca di sigarette. Divulgatore ma anche autore o coautore di altri pezzi celebri come Turn turn turn, Where have all the flowers gone, If I had a hammer (conosciuto in Italia come Datemi un martello, anche se la versione di Rita Pavone l’aveva trasformato in un pezzo frivolo, privo del senso originale). Fu anche lui, sempre grazie a Lomax e a una visione internazionalista del folklore, a scoprire quella che sarebbe diventata una delle più famose canzoni di tutti i tempi, ovvero The lion sleeps tonight. Era un canto zulu, di Solomon Linda (che morì povero e ignaro del successo planetario che la sua composizione aveva avuto), e Pete Seeger la ripropose come Wimoweh, anche se la sua versione, grazie alle purghe maccartiste, non ebbe alcun riscontro, come accade invece ai Tokens che col titolo di The lion sleeps tonight ne fecero un singolo vendutissimo.
Ma il momento di massimo fulgore toccò a Seeger quando la sua musica incontrò il movimento dei diritti civili nei primi anni Sessanta. La sua versione di We shall overcome (uno spiritual tradizionale, di cui si vantava di aver cambiato la frase We will overcome nella più cantabile We shall overcome), diventò l’inno della marcia su Washington di Martin Luther King nel 1963. La fede nella sua missione non l’aveva mai persa e quando qualche anno fa l’andammo trovare nel suo eremo tra i boschi di Beacon, a nord di New York, ci aveva raccontato che quando qualcuno gli chiedeva se una canzone era buona o no, lui continuava a ripetere: «Buona per cosa?». Era il periodo in cui la sua figura era tornata al centro dell’attenzione del mondo della musica grazie all’omaggio di Bruce Springsteen e le sue “Seeger Sessions”. Ma lui rimave schivo. «Springsteen?» diceva, «un brav’uomo». E nulla di più. Era insieme alla moglie Toshi, dalla quale dal 1944 non si era mai separato, e che è scomparsa poco prima di lui, nel luglio dello scorso anno.

Seeger con Kirk Douglas e Aretha Franklin nel 1994 alla Casa Bianca Sopra, con Occupy Wall Street e con Springsteen in concerto

Repubblica 29.1.14
Quando a Newport staccò la spina al rock rabbioso del giovane Bob


ROMA — Se proprio volessimo trovare una macchia nella immacolata biografia di Pete Seeger, sarebbe il celebre e controverso episodio accaduto al festival folk di Newport. Era il 25 luglio 1965. Il giorno prima Bob Dylan, in un workshop del pomeriggio, aveva suonato il suo set acustico mandando in visibilio i giovani engagédella comunità folk. Ma la sera dopo, per la chiusura del festival, Dylan salì sul palco con giubbotto di pelle e stivali a punta, con una band messa insieme lì al festival e, cosa inaudita, si lanciò in un violento e rabbioso set elettrico. Successe il finimondo, la gente cominciò a fischiare, sbalordita dalla veemenza rock con cui Dylan smontava i cliché puristi della comunità folk che lì a Newport celebrava le sue messe rituali. Anche gli organizzatori rimasero spiazzati. Seeger in particolare, in una delle mille versioni circolate sull’evento, sembra sia andato dai tecnici per far togliere la spina. In seguito si scusò dicendo che si era trattato di un equivoco. La cosa che lo irritava non erano le chitarre elettriche, ma il fatto che l’amplificazione distorceva tutto, e non si capivano le parole che Dylan cantava. Fu così che Seeger passò per censore in quello che viene ricordato come il più potente psicodramma collettivo della storia del rock. (g.c.)

l’Unità 29.1.14
Psicoanalisi per librai
Le cinque regole auree per far felici i lettori
Suscitare emozioni, capire il cliente e comunicare appassionatamente che in un libro c’è il mondo (ed è vero)
Un vademecum firmato dal celebre psicoanalista per la Scuola di Umberto e Elisabetta Mauri, oggi a Venezia
di Stefano Bolognini
Psicoanalista


OGNI CLIENTE È DIVERSO DAGLI ALTRI, E DEL RESTO OGNI LIBRERIA È DIVERSA DALLE ALTRE: per locazione, dimensioni, atmosfera, disposizione dei libri, metodologia di funzionamento commerciale e stile relazionale nel servizio al cliente.
Ciò premesso, è però vero che si possono distinguere (parlo appunto da cliente...) due grandi tipologie di libreria: quella di solito più grande in cui il cliente si aggira tra i banchi e gli scaffali in relativa autonomia, consultando i librai prevalentemente per la ricerca di un titolo ben predefinito, e quella più intima, di stampo più personalizzato, in cui il libraio viene interpellato per ricevere un’indicazione, un suggerimento, un consiglio non ben precisati a priori.
Il cliente, a sua volta, può essere corrispondentemente classificato in due grandi gruppi: clienti che sanno già cosa vogliono e chiedono aiuto per il reperimento di un oggetto ben preciso, e in questo caso la sequenza del contatto con il libraio è di regola piuttosto tecnica: «aiutami a trovare ciò che ho già scelto»; e clienti che non sanno già cosa vogliono, ma sentono di cercare qualcosa di non ancora definito chiaramente e che sono alla ricerca del loro «plancton» culturale.
Lo psicoanalista sa che questi ultimi non sanno di sapere già cosa vogliono, ma profondamente qualcosa già vogliono, anche se non lo sanno: sono inconsciamente indirizzati dai loro desideri e bisogni verso oggetti culturali che daranno rappresentazione descrittiva o narrativa a ciò che si muove dentro di loro senza una forma ben precisa, e che è in attesa di un testo che “li incontri” e li renda reali.
L’incontro in questione (tra il cliente «vagante» e il testo che darà rappresentazione ai suoi desideri e bisogni) necessita, per realizzarsi, di un campo relazionale appropriato: la libreria, i libri e il libraio possono costituirlo, in un insieme che favorisca il riconoscimento dell’oggetto adatto e il suo acquisto.
In generale, c’è una profonda equivalenza psicologica inconscia tra l’atto del leggere e il nutrirsi: si tratta di «prendere dentro» qualcosa di non materiale ma non poi così astratto, perché alle parole o alle figure corrispondono emozioni ancora non conosciute e pensieri che, una volta entrati, faranno parte del mondo interno della persona.
Questa analogia consiste non solo e non tanto nel senso di «incorporare» il cibo (cioè di introdurlo nella cavità orale), quanto nel senso di «farlo entrare dentro» in profondità, digerirlo e assimilarlo adeguatamente: noi chiamiamo questo processo «introiezione», e questa parola tecnica ci serve per distinguerlo appunto dall’ingurgitamento precipitoso e maldigerito.
Chi entra in una libreria entra, in un certo senso, in un vero e proprio ristorante della mente; può essere eccitato e attratto dalla ricchezza dell’offerta (in certi ristoranti che espongono i piatti più diversi verrebbe voglia di assaggiare tutto), ma può essere anche spaventato dall’eccesso spaesante di possibilità di scelta e può ricercare una dimensione più intima in cui poter valutare ed assaggiare ciò che sarà poi introdotto al proprio interno.
È però anche vero che la dimensione meno confidenziale di una libreria ampia e a libera circolazione senza assistenza immediata al cliente può favorire un senso di libertà esplorativa, e può preservare da effetti collaterali indesiderati come un certo disagio sperimentato da alcune persone quando, chiedendo un consiglio, sentono di dover mettere in mostra una loro incompetenza: non tutti sanno accettare di chiedere.
Questa difficoltà riguarda soprattutto i soggetti che definiamo «narcisisti»: sono gli uomini o le donne che «Non devono chiedere. Mai».
Per amor della clinica, vi devo anche segnalare che i clienti a funzionamento paranoide, invece, temono che il libraio possa intrudere nella loro mente e condurli a scelte pilotate, come se il libraio avesse in mente un piano diabolico volto a controllare i desideri o le scelte individuali; ma queste sono eccezioni che cito più per gusto narrativo che per reale incidenza statistica; né si richiede che il libraio faccia una valutazione psichiatrica dei suoi interlocutori!
Quello che invece si raccomanda è che nell’incontro anche di pochi secondi il libraio si renda percettivo verso alcuni specifici aspetti della relazione che si stabilisce di volta in volta con il cliente che lo consulta:
1. Evitare possibilmente la relazione «alto-basso»
In molti casi il libraio è oggetto di un transfert del tipo: «adulto (che sa) bambino (che non sa e che dunque è costretto a chiedere)». È molto importante che il libraio percepisca se la richiesta è rivolta con fastidio per questa temporanea micro-dipendenza o se al contrario il cliente gradisce di essere consigliato e «nutrito» (attraverso il consiglio tecnico) dalla persona competente.
Ovviamente, nel primo caso conviene ridurre il peso di tale dipendenza (vedremo come), mentre nel secondo caso è da evitare viceversa un sentimento di «abbandono» nel cliente bisognoso.
2. Dare valore alla personalizzazione della richiesta
Questo significa che la libreria non deve risultare simile ad una mensa che tende a rifilare a tutti un menu standard, ma dovrebbe piuttosto concedere qualche secondo di interlocuzione in favore del cliente per confortare la sensazione che qualcuno sia disponibile a «cucinare qualcosa di speciale per lui».
Questo riguarda, ovviamente, soprattutto il paziente sperduto che cerca un suggerimento o un’indicazione, che non è in contatto con i propri bisogni e sente di volere qualcosa ma non sa bene che cosa.
3. Comunicare il fatto (vero!...) che in un libro c’è un mondo
Per alcune persone un libro è un insieme rilegato di carta stampata; per altri, è la porta su un mondo che si dispiega nella mente dei lettori, veicolandovi scenari, temperature emotive, colori, storie, relazioni, e comunque parti già sperimentate o solo potenziali del proprio Sé.
Il libraio somministra qualcosa che può avere gli effetti trasformativi di un farmaco o, come dicevo, di un alimento; non dico che ad esso si dovrebbe accludere un “bugiardino” (compresa la descrizione degli effetti collaterali: l’ultimo libro che ho letto «Montenegro» di Bato Tomasevic, mi ha tenuto in una condizione piuttosto alterata di commozione per una intera settimana...), ma la seconda e la quarta di copertina possono essere intese come qualcosa di analogo.
Un libro può essere qualcosa che ti cambia la vita, o per lo meno che la arricchisce potentemente: è un mondo interno di altri che si mescola con il nostro e lo trasforma.
La libreria come farmacia della mente, come ristorante dello spirito, come officina delle idee, come apertura di porte su laboratori, giardini segreti, cattedrali silenziose, fiere di paese, stanze private, e via dicendo.
Ma io so che i librai queste cose le sanno, e sono certo che svolgono il loro lavoro più che altro per questo, oltre che per avere una professione che consenta loro di guadagnare e di vivere.
4. La dimensione «Timeless»
A differenza dei compratori su Internet, che di solito compiono acquisti ultra-mirati e programmati, e che non vogliono intermediari di sorta tra loro e l’acquisto, quelli che si rivolgono alla libreria abbisognano di una paradossale situazione: da un lato richiedono competenza, efficienza commerciale e rapidità nell’esaudire le aspettative del cliente; dall’altro, sembrano entrare viceversa in una dimensione «senza tempo», dove il vagabondare esplorativo tra un banco e l’altro induce a perdere il senso del tempo.
Per comprendere meglio questa realtà soggettiva dell’esploratore di libreria, è utile rifarsi alle sensazioni dell’infanzia quando non si era a scuola e ci si abbandonava al gioco o comunque a momenti sospesi, senza tempo appunto.
La libreria consentitemi un altro paragone apparentemente incongruo può diventare qualcosa di analogo ad un campeggio estivo, nel quale il tempo è scandito più da movimenti interni che da ritmi coscienti esterni: l’orologio, in libreria, perde la sua centralità, e questo va bene.
Si regredisce al punto giusto, e le difese si allentano, consentendo alla curiosità e al desiderio di emergere dal magma del non sentito e del non pensato (o non pensabile, fino a che non si crea la situazione adatta). Secondo me in nessuna libreria dovrebbe esserci alla parete un orologio.
5. L'importanza della dedica
E per finire, un dettaglio che non dovrebbe mancare: un libro destinato a costituire un dono dovrebbe sempre essere accompagnato da una dedica, non dovrebbe mai essere «sbolognato» anonimamente come un oggetto di pura rilevanza quantitativa.
Il destinatario del libro sta per ricevere qualcosa di potenzialmente molto significativo: è consigliabile che chi lo regala gli manifesti qualcosa di più personale e «pensato» che non la semplice consegna di un pacchetto più o meno costoso. Non so come si potrebbe favorire l’usanza della dedica, ma so che si dovrebbe.

l’Unità 29.1.14
Il femminile di Dio
Il monachesimo femminile nel mondo
Sorelle del mondo: viaggio nella libertà dello spirito
di Sebastiano Papa


Le Repubbliche delle Donne. Monachesimo femminile nel mondo 1967-1999, pubblicato nella collana Collezioni dell’Iccd, in collaborazione con la casa editrice Postcart, è un libro fotografico che narra, attraverso le immagini, ma anche attraverso citazioni e testi, i periodi di permanenza trascorsi da Sebastiana Papa in monasteri femminili di tutto il mondo e di ogni credo. Il volume, curato da Ella Baffoni e Katrin Tenenbaum, contiene oltre 300 fotografie, una parte delle quali sarà anche visibile, in mostra fino al 28 febbraio nelle sale espositive dell’Istituto centrale per il catalogo e la documentazione di Roma (via di San Michele 18). Domani, sempre nella sede dell’Iccd, alle 18,00, verrà presentato il volume.

Le Repubbliche delle donne
A dieci anni dalla scomparsa, l’omaggio alla fotografa Sebastiana Papa, che dedicò la sua vita a comprendere e condividere la quotidianità e la spiritualità delle donne che hanno scelto di diventare monache, in Oriente e Occidente

IL CALENDARIO DELLA CUCINA DEL MONASTERO BENEDETTINO DI SANTA MARIA DI ROSANO SEGNAVA APRILE 1967, una data che riporta la mia prima fotografia monastica.
Non è stato facile portare un mezzo così adatto all’indiscrezione, come la macchina fotografica, in un mondo di donne che hanno scelto il nascondimento.
Come per tutte le ricerche si scommette col tempo e si impara la pazienza e la determinatezza.
Le tonache, le bende, i frontini, gli scapolari, i veli monastici e in un certo modo perfino le tonsure delle buddiste nascondono le donne, le sottraggono alla realtà esterna creando protezione e silenzio intorno ai corpi che diventano come tende di Abramo dove l’Arca trova il suo metaforico spazio e dove i visi assumono un carico maggiore di energie che li trasforma in palcoscenico dei pensieri su cui si accentuano le intensità delle espressioni.
Nei monasteri buddisti tutte le donne incontrate, giovani e vecchie, sapevano offrirsi a una comunicazione innocente e veritiera con me che le fotografavo, entravano nel gioco ignorando semplicemente le mie Leica. In Occidente erano soprattutto le vecchie monache a creare spontaneamente una comunicazione profonda e ad avere la sapienza di non soverchiare il proprio essere con una immagine costruita intorno a ciò che si vorrebbe fosse il proprio essere, oppure anteporre al proprio essere il proprio status che solitamente rende difficile ogni tipo di comunicazione. Fotografare le monache, ma solo quelle autenticamente realizzate, è un po’ come fotografare i bambini, quando il pericolo può nascere solo dalla retorica di chi fotografa.
Numericamente sproporzionate sono state le porte che non si sono aperte in questo lungo viaggio nel mondo monastico femminile le cui origini, le così dette fonti, vanno forse cercate nel cuore delle donne e degli uomini perché quasi tutte le confessioni religiose hanno posseduto e/o possiedono le proprie forme monastiche che possono essere ricondotte a un unico intenso desiderio dello spirito di scoprire il volto della divinità e di aderire totalmente a questa scoperta dedicandovi tutto il proprio spazio interiore.
Il monaco, e oggi ancora di più la monaca, vive una solitudine nella moltitudine che non è composta soltanto dal numero delle monache che abitano nel suo stesso monastero, ma dalla certezza di appartenere a un unico corpo mistico e non solo in termini astratti e soprannaturali, ma con una concretezza che è costituita anche dalla Regola che segue, e che determina un preciso stile di vita, che condivide con tanti monasteri del suo stesso Ordine sparsi per il mondo. Anche lo scorrere del tempo per lei acquista un significato diverso e meno traumatico: le sue giornate seguono un ritmo regolare e naturale, scandito dal calendario liturgico, dal tempo delle stagioni, e dal contatto con la natura poiché anche il più cittadino dei monasteri ha il suo vasto spazio di alberi e di terra che la monaca coltiva con le sue mani, perché il prodotto dell’orto costituisce parte fondamentale del suo cibo. grate o dalla distanza del suo monastero. La monaca vive nella storia ma ne osserva gli eventi attraverso le grate o dalla distanza del suo monastero. Il suo costante occuparsi di Dio vacare Deo che è la sua professione di fede e il suo impegno quotidiano, la fanno sentire al riparo dagli eventi così poco controllabili della storia e creano intorno a lei un tempo permeato di sacralità, dove il paziente esercizio interiore e la pratica della spoliazione della propria volontà attraverso l’ubbidienza alla Regola liberamente scelta, l’aiutano a superare le prepotenze del proprio Io.
In questa ricerca del volto di Dio, lei scopre il proprio volto come nuovo, e si riconcilia con il proprio Sé, e attraverso la misericordia di se stessa, arriva alla riconciliazione con tutte le cose animate e inanimate, arriva quindi a una pace senza limiti e a una libertà sconfinata.

l’Unità 29.1.14
L’era confusa dei postumani
Un’avanzata di soggetti assemblati il cui obiettivo è occupare spazi di vita
Anticipiamo brani del nuovo libro di Braidotti sulla realtà attuale, dimensione che impone la necessità di pensare allo statuto dell’umano e di riformulare la questione della soggettività
di Rosi Braidotti


IL POSTUMANO La vita oltre il sé, oltre la specie, oltre la morte di Rosi Braidotti
Traduzione di Angela Balzano pagine 256 euro 18,00 DeriveApprodi

Questo non è il Mondo nuovo di Huxley, vale a dire la versione del peggiore degli incubi modernisti

NON TUTTI POSSIAMO SOSTENERE, CON UN BENCHÉ MINIMO SENSO DI CERTEZZA, CHE SIAMO GIÀ DIVENTATI POSTUMANI, o che non siamo null’altro all’infuori di questo. Alcuni di noi continuano a sentirsi molto legati all’umano, quella creatura che ci è tanto familiare da tempo immemore, la quale in quanto specie, presenza planetaria e formazione culturale, ha saputo sviluppare un particolare tipo di comunità. Neppure possiamo spiegare con alcun grado di precisione, grazie a quale contingenza storica, attraverso quali vicissitudini intellettuali o quali svolte del destino, siamo entrati nell’universo postumano. Ciononostante, l’idea di postumano gode oggi, nell’era nota come antropocene, di ampio consenso. Suscita esaltazione e ansia al contempo, e provoca rappresentazioni culturali assai polemiche. (...) La situazione postumana impone la necessità di pensare nuovamente, e più a fondo, allo statuto dell’umano, di riformulare di conseguenza la questione della soggettività, così come impone il bisogno di inventare forme di relazione etiche, norme e valori adeguati alla complessità di questi tempi. (...)
Il divenire postumano è un processo di ridefinizione del senso di connessione verso il mondo condiviso e l’ambiente: urbano, sociale, psichico, ecologico o planetario che sia. Esso esprime multiple ecologie dell’appartenenza, mentre innesca la trasformazione delle coordinate sensoriali e percettive, al fine di riconoscere la natura collettiva e l’apertura verso l’esterno di ciò che ancora chiamiamo soggetto. Tale soggetto è infatti un assemblaggio mobile in uno spazio di vita condiviso che non controlla né possiede, ma che semplicemente occupa, attraversa, sempre in comunità, in gruppo, in rete. Per la teoria postumana il soggetto è un’entità trasversale, pienamente immersa in e immanente a una rete di relazioni non umane (animali, vegetali, virali). Il soggetto incarnato zoe-centrato è preso in collegamenti relazionali di tipo virale e contagioso che lo interconnettono a una vasta gamma di altri, partendo dagli eco-altri fino a includere l’apparato tecnologico. (...)
E se la coscienza fosse solo un altro modello cognitivo di rapportarsi al proprio ambiente e agli altri? E se, a confronto con l’abilità immanente degli animali, l’autorappresentazione cosciente fosse contaminata dal delirio della trascendenza e di conseguenza accecata dalla sua stessa aspirazione all’autotrasparenza? E se la coscienza fosse, in ultima istanza, incapace di trovare un rimedio al suo male oscuro, questa vita, zoe, una forza impersonale che ci muove senza chiedere il nostro permesso di farlo? Zoe è una forza inumana che si estende oltre la vita, verso nuovi approcci vitalisti alla morte intesa come evento impersonale.
LA SPINTA ETICA
Quest’ontologia processuale centrata sulla vita conduce il soggetto postumano a confrontarsi lucidamente con i suoi limiti, senza cedere al panico o alla malinconia. Si afferma una spinta etica laica verso modalità di relazione che migliorano e conservano la propria capacità di rinnovare e ampliare i confini di cosa i soggetti nomadi e trasversali possono diventare. L’ideale etico è quello di attualizzare gli strumenti cognitivi, affettivi e sensoriali per coltivare un maggior grado di responsabilizzazione e di affermazione delle interconnessioni di ciascuno nella loro molteplicità. La selezione delle forze affermative che catalizzano il processo del divenire postumano è regolata da un’etica della gioia e della positività che opera tramite la trasformazione delle passioni negative in passioni positive.
Filosofia del fuori in senso stretto, di spazi aperti e di affermazioni incarnate, il pensiero postumano nomade anela a un salto di qualità fuori dal familiare, confida nelle possibilità, ancora inesplorate, aperte dalla nostra posizione storica nel mondo tecnologicamente mediato di oggi. È un modo per essere all’altezza dei nostri tempi, per accrescere la nostra libertà e la nostra comprensione delle complessità che viviamo, in questo mondo non più antropocentrico né antropomorfo, bensì geopolitico, eco-filosofico e fieramente zoe-centrato. (...)
La corporalità umana e la soggettività stanno oggi vivendo una profonda trasformazione. Come chiunque viva in un’epoca di cambiamenti, non siamo sempre lucidi e attenti rispetto a dove ci stiamo dirigendo, o capaci di spiegare cosa sta esattamente avvenendo intorno a noi. Alcuni di questi eventi provocano in noi soggezione e paura, mentre altri ci fanno sussultare per la gioia: come se il nostro contesto attuale continuasse a spalancare le porte della percezione collettiva, costringendoci a udire il frastuono dell’energia cosmica che si trova dall’altro lato del silenzio e ad ampliare la portata di ciò che è diventato possibile. (...)
Eppure la pecora Dolly è reale, non è un personaggio della fantascienza ma il risultato della ricerca scientifica, dell’immaginario sociale attivo e di solidi investimenti finanziari. Nonostante sia noto come Blade Runner, Oscar Pistorius non sogna pecore elettroniche. Le reti di trasporti globali nei maggiori centri metropolitani ci hanno abituato a treni senza conducenti e i dispositivi elettronici portatili sono così potenti che stentiamo a tenere il passo con loro. Umane, troppo postumane, tutte queste estensioni e queste protesi che i nostri corpi sono in grado di sostenere sono già qui e qui resteranno. Stiamo andando al passo con i nostri sé postumani, o vogliamo continuare a indugiare in una cornice teorica e immaginativa sospesa e confusa rispetto all’ambiente reale in cui viviamo? Questo non è il Mondo nuovo di Huxley, vale a dire una versione disutopica del peggiore degli incubi modernisti. Non è neppure il delirio transumanista della trascendenza dai corpi umani attuali. Questa è la nuova situazione in cui siamo immersi: l’immanente hic et nunc del pianeta postumano; uno dei possibili mondi che ci siamo costruiti. E dal momento che esso è il risultato dei nostri sforzi congiunti e dell’immaginario collettivo, è semplicemente il migliore dei mondi postumani possibili.