giovedì 30 gennaio 2014

La Stampa 30.1.14
Imu-Bankitalia Passa il decreto Scoppia la rissa
Renzi: “Basta, bloccano la democrazia”
La Boldrini mette la “ghigliottina” per consentire il voto
di Mattia Feltri

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il Fatto 30.1.14
Boldrini “ghigliottina” M5S occupa Montecitorio
Dopo l’ostruzionismo dei giorni scorsi, la Presidente della Camera taglia la discussione e fa approvare in un minuto il decreto Imu-Bankitalia

di Tommaso Rodano

Finisce di nuovo in bagarre. Tra grida, bavagli, fischietti, monete di cioccolata, bandiere tricolore e presunti schiaffi. Grazie alla “ghigliottina” del presidente della Camera, il decreto Imu-Bankitalia è convertito in legge a poche ore dalla scadenza. Il governo si salva ancora in extremis, mentre Montecitorio si trasforma in un campo di battaglia.
LA GIORNATA in aula inizia da dove era finita martedì. Il Movimento 5 è stelle sempre sulle barricate, ma un suo deputato inciampa di nuovo su un “boia”. Dopo l’uscita di Sorial su Giorgio Napolitano, stavolta tocca ad Angelo Tofano. Per incitare i suoi colleghi non trova formula migliore di un “Boia chi molla! ”. Poi si giustifica: “Non è un motto fascista, esiste dal 1799”. Per il resto, l’ostruzionismo funziona: gli interventi seguono senza sosta. Se non si vota entro mezzanotte, il decreto decade. La svolta arriva nel tardo pomeriggio. Alle 17 e 25 Laura Boldrini convoca una riunione dei capigruppo che si protrae per quasi due ore. La presidente della Camera decide di “ghigliottinare” il dibattito parlamentare. La seduta riprende poco dopo le 19 e 30 e dura appena un paio di minuti: il tempo di ufficializzare la tagliola e procedere alla votazione. “Ci sarebbero ancora 164 interventi residui per le dichiarazioni di voto – dice la presidente della Camera – che non permetterebbero di convertire il decreto legge come previsto dai termini della Costituzione. La presidenza si vede costretta a procedere direttamente al voto finale”.
Succede il finimondo: i deputati Cinque Stelle e i Fratelli d’Italia occupano i banchi del governo, a pochi metri dal palco della Boldrini. Alcuni hanno il volto imbavagliato, sventolano bandiere tricolore e cartelli (“Vergognatevi”, “Giù le mani da Bankitalia”), cantano l’inno di Mameli. I parlamentari del Pd e di Sel (che pure hanno votato contro il decreto) restano in piedi ai loro posti. Rispondono con “Bella Ciao” e le grida “Fascisti! ”. Dai deputati di Giorgia Meloni volano monete di cioccolata all’indirizzo della presidenza. Nella bagarre c’è spazio anche per la denuncia di un ceffone: la pentastellata Loredana Lupo dichiara di essere stata schiaffeggiata dal questore Stefano D’Ambruoso, eletto con Scelta Civica.
LA BOLDRINI LASCIA il suo scranno in fretta e furia, tra fischi e insulti, con la voce piegata da tensione e stizza. I parlamentari del M5s invece restano ancora diversi minuti, per una simbolica occupazione di Montecitorio. Uno di loro, Carlo Si-bilia, trasmette tutto in diretta streaming, con il cellulare. L’adrenalina è alta, i commenti a caldo dei suoi colleghi sono durissimi. Alessio Villarosa: “Sono dei bastardi, ma sono destinati a scomparire tutti”. Carla Ruocco: “Hanno violentato la Costituzione e il regolamento di Montecitorio. Boldrini è scappata via di corsa. Una vergogna”. Un altro deputato alza il tiro: “Va in giro per l’Italia a fare la bella femminista. Non dovrebbe farsi più vedere”.
La pietra dello scandalo è la “ghigliottina”. Beppe Grillo aveva lanciato una campagna contro la “tagliola” già ieri, sul suo blog: “Una parola che non avevamo mai sentito prima, in Parlamento, in settant’anni di storia della Repubblica”.
È la prima volta che un Presidente della Camera si avvale della possibilità di passare direttamente al voto finale su un decreto in scadenza, interrompendo il dibattito parlamentare. Nel regolamento di Montecitorio non esiste nessuna norma specifica che attribuisca questa facoltà alla presidenza. Al Senato, invece, la “ghigliottina” è disciplinata dall’articolo 78, comma 5. Due presidenti, prima di Laura Boldrini, avevano minacciato di ricorrere a questo strumento, riconoscendone la legittimità: Luciano Violante nel 2000 e Gianfranco Fini nel 2009.
La protesta furiosa del Movimento 5 stelle non si spegne in aula. Dopo il voto, i pentastellati si dirigono in massa verso la sala del Mappamondo, con l’idea di sabotare la seduta notturna della commissione Affari Costituzionali sulla legge elettorale. Il clima non volge al sereno. “Da domani è escluso che torneremo in aula a discutere pacificamente - promette il vicecapo-gruppo M5s Giuseppe Brescia -. Immaginate quale sarà la qualità dei lavori quando discuteremo dell’Italicum”.

il Fatto 30.1.14
Il generoso Letta
Il regalo alle banche da 4,2 miliardi
di Marco Palombi


L’attenzione, forse un po’ tardiva, arrivata sul decreto convertito in legge ieri sera dalla Camera ha un motivo molto semplice su cui Il Fatto Quotidiano batte fin dalla sua approvazione a Palazzo Chigi il 30 novembre: si tratta di un enorme regalo alle banche, in particolare Intesa San Paolo e Unicredit, quantificabile in oltre 4 miliardi di euro. Un breve riassunto. La proprietà. Bankitalia è di proprietà delle principali banche italiane (pubbliche fino agli anni Ottanta), dell’Inps e di Generali. Il valore del capitale è rimasto quella della fondazione negli anni Trenta: 300 milioni di lire, oggi 156 mila euro, suddivisi in 300 mila quote da 52 centesimi. Ora il governo ha stabilito – sulla scorta della relazione di tre esperti e ignorando una legge del 2005 che prevedeva il ritorno della Banca centrale in mano pubblica – che quella cifra deve essere rivalutata a 7,5 miliardi. A cosa serve? In teoria le banche aumentano il loro livello di capitalizzazione in vista delle nuove norme europee, lo Stato incassa la tassazione sulle plusvalenze. Peccato che non sia così: gli istituti incasseranno, l’erario subirà un danno. I dividendi. Il tetto è pari allo 0,5 per cento delle riserve e al 10 per cento del capitale. Ne deriva che sui 2 miliardi e mezzo di utili del 2012, ad esempio, palazzo Koch ha distribuito ai suoi soci una cifra tutto sommato modesta: 70 milioni in tutto. Con la rivalutazione delle quote, però, l’esborso sale parecchio: a parità di utile si arriverebbe a circa 450 milioni. Tradotto: quasi 400 milioni in più l’anno ai soci privati.
Fisco amico. Grazie a un emendamento in Senato, la tassazione della plusvalenza sarà all’aliquota di favore del 12 per cento (non il venti, che sarebbe quella delle rendite finanziarie, non il 16 inizialmente scelto dal governo): l’incasso sarà di soli 900 milioni e non di un miliardo e mezzo dell’ipotesi massima.
Vi sveliamo il trucco. La Bce, pressata dalla Bundesbank, ha imposto che la rivalutazione delle quote non si considerata una garanzia patrimoniale. E allora? Tutto questo casino per niente? Non proprio. Il marchingegno infatti è parecchio complicato. Il decreto fissa anche un tetto alla partecipazione massima possibile che le banche possono detenere in Bankitalia: è il 3 per cento. Grazie al solito emendamentino è affidata alla stessa Banca centrale la possibilità di ricomprare le quote in eccesso e poi rivenderle. La faccenda riguarda Intesa Sanpaolo, che ha un 27,3 per cento di troppo, e Unicredit, che dovrà disfarsi del 19,1 per cento. Ma anche le Generali hanno qualche quota di troppo (3,3 per cento), idem la Cassa di risparmio di Bologna (3,2), Carige (1) e perfino l’Inps (2). Il tutto costa 4,2 miliardi (tre e mezzo solo per le prime due banche): soldi veri che gli istituti di credito potranno subito mettere a bilancio con buona pace di Bundesbank.
Il caso Carige. La malmessa banca ligure è stata sfortunata. Motivo: in questi anni ogni istituto ha messo a bilancio la sua quota come credeva e qualcuno ha esagerato. Carige ha valutato il suo 4 per cento 892 milioni di euro, mentre secondo la nuova legge ne vale 300. Significa una bella svalutazione di mezzo miliardo a fronte di un incasso per il suo 1 per cento eccedente di 75 milioni. Non tutte le ciambelle riescono col buco.
 
La Stampa 30.1.14
Chiuso l’accordo Renzi-Berlusconi
Ma l’opposizione interna al Pd sta già preparando la resistenza
Il segretario non è preoccupato e punta alle altre riforme: “Alfano? Ora fa scena, ma dentro al patto ci sta anche lui”
di Carlo Bertini

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il Fatto 30.1.14
Il Giornale ha un nuovo leader


Titolone a tutta pagina. Occhiello: “Riforme istituzionali”. Titolo: “Renzi ha le palle”. Sono giorni che il quotidiano diretto da Alessandro Sallusti ci andava vicino: attestati di stima, accuse ai nemici del riformatore piddino, un colpo alle minoranze pd. Ieri, invece, il Giornale ha rotto gli argini: “Renzi ha le palle”. L’editoriale del direttore sembra partire cauto: “Forse ci siamo”. Poi il tono diventa agiografico: “Berlusconi e Renzi sono davvero a un passo dal chiudere la riforma elettorale. Anzi: loro l’hanno chiusa, con pochissime modifiche rispetto a quanto concordato nello storico incontro di dieci giorni fa nella sede del Pd. Adesso il Parlamento deve metterci il timbro”. Seguono fendenti alla minoranza pd, già sconfitta, e ai “traditori di Forza Italia”. Conclusioni: “Che Berlusconi e Renzi all’ultimo calino le braghe lo vedo difficile. Non sono i tipi e soprattutto hanno solo da guadagnare ad andare avanti, qualsiasi cosa accada”. Bè, certo, entrambi – si direbbe – hanno le palle.

Il Giornale 30.1.14
Renzi ha le palle
L'intesa con Berlusconi tiene, ultimatum ai suoi. E i grillini danno del boia a Napolitano
di Alessandro Sallusti

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Repubblica 30.1.14
Svolta sulla legge elettorale ecco l’accordo Renzi-Berlusconi
Il leader Pd: “Si è rotto l’incantesimo”
Il Cavaliere: “Intesa storica”. Premio, soglia al 37%
di Francesco Bei e Goffredo De Marchis


ECCE Italicum. Alle due del pomeriggio, dopo una trattativa estenuante che ha occupato parte della notte, Matteo Renzi ufficializza su Twitter l’accordo raggiunto con Berlusconi e Alfano: «Bene così. Adesso sotto con il Senato, le Province e il Titolo V. E soprattutto con il Jobs act. Dai che questa è la volta buona». Parlando con i suoi, il leader del Pd rivendica il merito principale della “sua” riforma: «D’ora in avanti l’Italia avrà sempre un vincitore alle elezioni». E dunque, aggiunge sui social network, «mai più larghe intese grazie al ballottaggio, mai più potere di ricatto dei piccoli partiti. Dopo anni di melina, in qualche settimana si passa dalle parole ai fatti».
ANCHE per Berlusconi quello raggiunto ieri è «un accordo storico». Ma per arrivare all’intesa finale la strada è stata tutt’altro che facile. E adesso bisogna respingere gli «agguati» parlamentari dei possibili franchi tiratori, a partire dalla prima votazione (segreta) di domani sulla pregiudiziale di costituzionalità. Per il momento c’è la soddisfazione di aver tagliato il primo traguardo. «Berlusconi però ci ha fatto impazzire», racconta il segretario del Pd ricostruendo la notte decisiva. Per questo ieri mattina sono servite altre due telefonate con il Cavaliere. Per questo Renzi, mentre aspettava l’ultima risposta del leader di Forza Italia, ha stretto i bulloni con gli altri protagonisti del patto. Ha chiamato Alfano più volte, ha sentito Gianni Letta che ha mediato per conto di Fi con il Quirinale, ha parlato con Pier Ferdinando Casini, con Scelta civica, contattando la segretaria Stefania Giannini e Andrea Romano. Fino alla telefonata della liberazione, quella da Palazzo Grazioli. Che gli ha permesso di comporre il numero del Colle e annunciare a Giorgio Napolitano il “parto”. «Era contento anche lui», raccontava alla fine della giornata. «Gli italiani non mangiano legge elettorale - osserva Renzi parlando al Tg1 - ma sono vent'anni che i partiti litigano su tutto. Ora si fanno insieme le regole del gioco, è come se si fosse rotto un incantesimo, sbloccata una magia».
Naturalmente, la trattativa con il coltello fra i denti è stata quella con Berlusconi, assistito da Denis Verdini. Renzi l’ha condotta creando una piccola task force a Largo del Nazareno: il capogruppo Roberto Speranza, il ministro Dario Franceschini, il portavoce Lorenzo Guerini, Maria Elena Boschi. Il Cavaliere è tassativo: «Oltre il 36 per cento di soglia per il premio di maggioranza non vado. E il 5 per cento di sbarramento rimane così». «Dobbiamo fare un regalo anche ad Alfano — lo rabbonisce Renzi — e sul 36 sai che c’è anche l’occhio del Quirinale. Chiedi a Gianni Letta, lui sa tutto». Bisogna arrivare almeno al 37 per cento, insiste il sindaco di Firenze. Altrimenti salta tutto. Berlusconi resiste, prende tempo, se ne esce con altre proposte stravaganti che lasciano di sasso il leader democratico: «Semmai, per il secondo turno, possiamo fare un ballottaggio a tre, che ne dici?». S’intuisce, dietro i tentennamenti del Cavaliere, uno scontro lacerante dentro Forza Italia tra favorevoli e contrari al patto. La trattativa s’interrompe. Ma il lavoro di Renzi va avanti.
Il segretario manda sms a tutti. Sente Rosy Bindi. Persino a Beppe Fioroni, che sta sulle barricate contro l’accordo, invia un messaggino: «Sto lavorando sul 37 e il 4 per cento di sbarramento, non ti preoccupare». Il gruppo del Pd resta in subbuglio, ma una telefonata di qualche ora prima ha frenato una possibile, plateale, scissione in corso d’opera. Renzi chiama Bersani, conva-lescente a Piacenza. Un lungo colloquio, per tenere unito il partito. Bersani allora si attiva. Telefona a Cuperlo, sente il fedelissimo Alfredo D’Attorre: «Fate la vostra battaglia, ma fermatevi un attimo prima. Il dissenso non deve portare a rotture insanabili». È l’aiuto che serve per limitare i danni del dissenso interno. Oltretutto la minoranza dem è spaccata. Matteo Orfini è favorevole al compromesso e scolpisce così le distanze da D’Attorre e compagni: «Leggo dichiarazioni fatte a nome della minoranza. Immagino s’intenda la minoranza della minoranza». Il cuperliano Enzo Amendola, segretario regionale della Campania, taglia corto: «Meglio questo accordo di niente». Renzi tira tutti i fili, ma quello che ancora manca è il sì ufficiale di Angelino Alfano. Il leader del nuovo centrodestra è stato coinvolto nella trattativa e ha ottenuto le pluricandidature, l’abbassamento dello sbarramento al 4,5%, la ripartizione nazionale dei seggi. E pure pretende di più. Enrico Costa, il capogruppo, a sera fotografa una situazione ancora aperta: «Sono stati compiuti dei passi avanti, ma questioni di rilievo restano irrisolte». Oggi Ncd presenterà una serie di casi paradossali, ipotesi estreme che potrebbero portare il sistema in tilt per colpa della nuova legge. Ad esempio se una coalizione, composta tutta da partiti che restano sotto il 4,5 per cento, dovesse arrivare prima e vincere il premio di maggioranza. A chi andrebbero i seggi? A nessuno. Al di là dei paradossi, Ndc chiede una garanzia robusta per sopravvivere in coalizione con Forza Italia: il recupero del partito meglio piazzato sotto la soglia di sbarramento. «Perché alla Lega è stato concesso e a noi no?».
Ci sono altre serie questioni che potrebbero mettere a rischio il passaggio parlamentare. L’alternanza di genere, non garantita dall’Italicum, potrebbe portare a una saldatura tra le donne di Forza Italia e quelle del Pd. Anche la mancanza delle primarie — nemmeno facoltative — è fonte di imbarazzo per il Pd. «Noi le primarie le faremo comunque, l’alternanza di genere ci sarà nelle nostre liste», assicura il segretario. Risentimenti, dubbi e rivalità potrebbero ingrossare le file dei franchi tiratori. Una riunione con Dario Nardella, Renato Brunetta e Dario Franceschini serve a fare il punto sui numeri. Sulla carta la maggioranza a favore dell’Italicum è di 415 deputati, ma ci potrebbero essere una quarantina di defezioni nel Pd, una decina di Forza Italia (area Fitto), qualche alfaniano e qualche cane sciolto di Scelta civica. Non bastano ad affossare la legge, però fanno già capire quanto sarà faticosa la battaglia al Senato, dove i numeri sono molto più incerti. Lo ammette lo stesso Renzi, anche se oggi è il giorno dei brindisi: «Non è finita ma in tre settimane io sono riuscito dove altri hanno fallito. È la prima volta che Berlusconi mantiene un patto».

Repubblica 30.1.14
Napolitano benedice il patto “Finalmente qualcosa si muove”
di Umberto Rosso


ROMA — Renzi chiama, vuol dare personalmente la notizia al capo dello Stato. «Accordo rifatto, presidente. E blindato». Soglia più alta per il premio di maggioranza, come anche il Quirinale auspicava. Napolitano prende atto, apprezza, benedice la nuova intesa ma con riserva. Senza entrare nel merito del patto sottoscritto fra Pd e Forza Italia, è la tenuta dei rapporti politici che sta a cuore al presidente. E al trionfante Matteo raccomanda ancora prudenza. «Apprezzo molto — è il senso del ragionamento — il fatto che finalmente la riforma elettorale approdi all’esame del Parlamento, che il percorso per cambiare il Porcellum parta davvero e nella sua sede propria. Però, la partita non è ancora chiusa...». C’è l’esame in commissione, il rischio che emendamenti di Sel o Scelta Civica o dei grillini sulle liste bloccate possano contagiare la minoranza Pd, le incognite del voto segreto in aula e soprattutto al Senato. Cautela, raccomanda il Colle. Qualche ora dopo, le preoccupazioni di Napolitano prendono corpo con la bagarre scatenata dai grillini a Montecitorio, i lavori della commissione nel caos, il clima che torna a farsi incandescente. Ma Renzi ha fretta comunque, lo ripete anche al presidente: chiudere, chiudere in pochi giorni alla Camera sulla legge elettorale, per passare così al patto di coalizione e al jobs act. Ma anche qui la tattica suggerita dal Quirinale sarebbe di procedere un passo alla volta,di non alzate troppo la posta in questo passaggio tanto delicato, «meglio concentrarsi per il momento sull’approvazione della legge elettorale, dopo sarà più facile incardinare anche il resto». Un rilancio dell’azione di governo che per il Quirinale comunque non sembra passare per un Letta-bis, la ricetta preferita resta muovere meno caselle possibili nella squadra per non innescare un valzer dagli esiti imprevedibili. Un rimpasto ridotto all’osso. Renzi approva e sottoscrive.
Il feeling fra Matteo e il Colle così tiene. A dispetto di quella freddezza iniziale del capo dello Stato per un sindaco fuori dagli schemi, che gli ha riservato pure qualche bordata come sull’amnistia. E ormai, a parte l’uso a raffica di Facebook e Twitter che ogni tanto ancora gli rimprovera, Napolitano punta sulla scommessa di Renzi. Che, dal canto suo, si prepara a fare da scudo al presidente nella guerra dichiarata al Quirinale dai grillini. Dietro l’impeachment, che il movimento annuncia per oggi, è chiaro l’obiettivo politico di far saltare la legge elettorale e gli accordi. Come si capisce scorrendo la lettera che i grillini hanno spedito al Colle per accusare il capo dello Stato di firmare leggi senza copertura e regalare miliardi alle banche come nel caso Imu-Bankitalia, di essere diventato insomma il “boia” dell’opposizione. Un mare di “colpe”, tutte indistintamente addebitate a Napolitano, dalla legge di stabilità ai regolamenti parlamentari. Di tutto di più, pure quel che non è di sua competenza.

l’Unità 30.1.14
Cuperlo: bene Matteo, ora correggiamo quel che non va
Il leader della sinistra Pd: «Votare una nuova legge è vitale per la credibilità della politica. Farla bene è una necessità per la democrazia italiana»
«Passo avanti, Matteo è stato bravo. Correggiamo i punti che non vanno»
intervista di Maria Zegarelli


ROMA Non intende fare muro contro muro, Gianni Cuperlo, né attaccarsi alla bandierina delle preferenze, ma resta convinto che aggiustamenti da fare ce ne siano ancora all’Italicum “seconda versione”. Dunque, minoranza non pregiudizialmente ostile, disponibilità verso il segretario, ma per l’ex presidente Pd un problema c’è: il rischio di un’omologazione del pensiero.
Accordo praticamente chiuso: 37% al primo turno e sbarramento al 4,5% per i partiti in coalizione. E poi il salva Lega. Cuperlo è accettabile questo punto di caduta?
«Rispetto al testo base è un passo nella direzione giusta. Merito della trattativa condotta da Renzi e anche della richiesta di alcuni miglioramenti di sostanza che avevamo motivato già alla Direzione. I dubbi sulla costituzionalità di alcune norme, del resto, sono stati sollevati da più parti. E se non vogliamo una legge che incorra nuovamente nella scure dei ricorsi è bene farsene carico. Lo dico così: votare una nuova legge è vitale per la credibilità della politica. Farla bene è una necessità per la democrazia italiana. Adesso restano dei punti aperti e dobbiamo lavorare assieme per correggerli. Il Parlamento serve a questo». Il salva Lega non presenta dubbi di costituzionalità anche alla luce del fatto che altri partiti, pur con un numero maggiore di voti su scala nazionale, restano fuori dal Parlamento?
«Certo è una delle questioni critiche. Parliamoci chiaro: la soglia per il premio di maggioranza alzata al 37 e una riduzione della soglia di sbarramento per le forze coalizzate dal 5 al 4, 5% sono miglioramenti apprezzabili che premiano il lavoro del Pd. E vanno rivendicati. I punti non ancora risolti sono altri. Ad esempio quello che riguarda la possibilità per le liste che non superano la soglia del 4,5% di concorrere comunque al premio di maggioranza ma senza eleggere un solo deputato. Si può rivedere quella soglia abbassandola, oppure prevedere una norma di tutela per la prima forza che risulti sotto la soglia o ancora – il che sarebbe più coerente col principio – si devono escludere quei voti dal conteggio complessivo che fa scattare il premio. Aggiungo che è possibile che una coalizione che raccoglie molti milioni di voti, o paradossalmente arrivi prima, se formata da forze che rimangono tutte sotto il 4,5% non entri neppure in Parlamento. Questo non funziona. Così come è indispensabile chiarire che la legge è parte coerente di un pacchetto di riforme che prevede anche il superamento del Senato attuale».
Resta il nodo delle preferenze, della rappresentanza di genere. Per la minoranza Pd bisogna continuare a cercare la mediazione?
«Sulla norma antidiscriminatoria il Pd deve essere netto. In gioco sono gli articoli 3 e 51 della Costituzione. Sulle liste bloccate io non pianto la bandiera delle preferenze. Dico però che le liste bloccate non si possono riproporre perché quella è stata per noi una battaglia di principio. Le alternative esistono. I collegi uninominali, una ripartizione del 50% di eletti in collegi uninominali e l’altra metà in liste proporzionali. O l’introduzione di una preferenza e la seconda di genere, fino alle primarie per la selezione dei candidati. Continuiamo a discutere e a cercare la risposta più in grado di allargare il consenso restituendo ai cittadini il diritto a scegliere il proprio rappresentante».
FI blinda il patto, voi che fate?
«Non ragiono così. L’iniziativa di Renzi ha cambiato il quadro. Adesso la riforma è incardinata in Aula e il traguardo è più vicino. È un risultato importante. A questo punto tagliare quel traguardo è interesse di tutti. Questo vuol dire che non ci sarà nessuno sgambetto o volontà di rallentare il passo. Noi vogliamo che la riforma si faccia e la vogliamo migliorare con tutto il Pd segnalando i punti che ancora si possono e si devono correggere. Questo dovrebbe essere anche l’interesse degli altri». Fatta la riforma elettorale che succede, si va al rimpasto di governo?
«Ho detto che il logoramento che vive l'esecutivo non serve a nessuno, non al Pd e meno che mai al Paese. Si prenda atto che è cambiato tutto e si scelga una ripartenza con un nuovo governo, un nuovo impegno per il 2014, dove servono nuovi volti a garanzia della sterzata necessaria a cominciare da una redistribuzione di risorse e diritti, come ci conferma la drammatica vicenda dell' Electrolux».
Renzi che ruolo dovrà avere?
«Quello di leader del Pd. Sul resto deciderà lui».
È vero che non riconosce più il suo partito?
«No, non è così. Io voglio bene al mio partito e rispetto profondamente le scelte del nostro popolo. Ma credo si debba riscoprire il valore di una comunità. A me non preoccupano le differenze e le discussioni, anche le più accese. Mi spaventano l’omologazione o la delegittimazione di chi la pensa diversamente. Perché se passa questa logica un partito diventa una giungla e io mi batterò con ogni energia perché questo non accada».

La Stampa 30.1.14
Non si può rinunciare alle preferenze
di Stefano Passigli


Caro Direttore,
va riconosciuto a Renzi il merito di aver imposto alla riforma della legge
elettorale una accelerazione senza precedenti. L’accordo raggiunto con Berlusconi conserva tuttavia le due principali caratteristiche del Porcellum dichiarate incostituzionali dalla Corte: un abnorme premio di maggioranza (che col ballottaggio può giungere a raddoppiare i seggi spettanti al vincitore sulla base dei voti ricevuti al primo turno) e soprattutto le liste bloccate. Quanto al premio, è lecito dubitare che assegnare il 53% dei seggi a chi abbia raggiunto il 37% dei voti, con un premio in seggi di circa il 45%, risponda al principio di «ragionevolezza» indicato dalla Corte. Ma è soprattutto se nessuna coalizione raggiunge il 37% dei voti che il rischio di incostituzionalità diventa evidente: assegnare il 53% dei seggi alla coalizione o partito vincitore del ballottaggio, che al primo turno avesse conseguito meno del 30% (Forza Italia è oggi accreditata del 23%, ma con il sostegno degli alleati – magari esclusi perché al di sotto della soglia del 5% – possibile vincitrice del ballottaggio), rappresenterebbe infatti un premio in seggi che può superare il 100%. Si aggiunga che – essendo il numero di deputati fisso a 630 – i seggi dati in premio al vincitore del secondo turno verrebbero sottratti da quelli conquistati al primo turno dai partiti sconfitti. In altre parole, il peso dei voti espressi dagli elettori al secondo turno modificherebbe la ripartizione dei seggi attribuibili sulla base dei voti espressi dagli elettori al primo turno, con la evidente conseguenza che il «peso» di un singolo voto non sarebbe uguale contravvenendo così al precetto costituzionale.
I maggiori dubbi di costituzionalità – oltre che di opportunità politica e di rispetto dell’opinione pubblica – vengono comunque dalla riaffermata presenza delle liste bloccate imposta da Verdini e Berlusconi e accettata dal sindaco di Firenze. E’ luogo comune difendere le liste bloccate affermando che le preferenze sono fonte di spese elettorali eccessive e quindi di corruzione, e di possibile inquinamento da parte di gruppi di interesse o della criminalità organizzata. Entrambi questi argomenti si applicano però anche alle primarie aperte, scelte dai nostri partiti in contrasto con quanto avviene in tutti i paesi che le primarie conoscono da lungo tempo (ad es. Usa e Regno Unito). Anche volendo ignorare che con collegi piccoli le spese elettorali saranno limitate, e possono comunque essere efficacemente regolate per legge (in Francia al ministro Jack Lang fu negato il seggio parlamentare per avere sforato di 20.000 euro il limite di spesa), resta il fatto che mentre le preferenze vengono espresse congiuntamente al voto di lista e non permettono quindi di votare per candidati di un altro partito, le primarie «aperte», avvenendo in tempi diversi dalla consultazione elettorale, consentono invece ad elettori di partiti di destra di partecipare inquinando i risultati delle primarie di sinistra e viceversa, come è infatti avvenuto in molte occasioni.
Non è chi non veda che scopo delle liste bloccate non è la moralizzazione della nostra vita pubblica, ma piuttosto l’assicurare alle segreterie di partito il completo controllo delle candidature, ristabilendo quella «partitocrazia», e cioè la supremazia del partito sui gruppi parlamentari, che già sessanta anni fa Giuseppe Maranini e altri studiosi denunciavano come alterazione della forma di governo parlamentare (si pensi ad esempio alle cosiddette «crisi al buio») e della democrazia interna ai partiti. E’ evidente infatti che – in assenza di una legge sui partiti attuativa dell’art. 49 della Costituzione – le liste bloccate privano di rappresentanza le minoranze interne, rafforzando in ogni partito quelle tendenze leaderistiche e plebiscitarie affermatesi con Berlusconi ma oramai diffuse in tutti i partiti. A prescindere da queste considerazioni di sistema, vi è infine il fatto determinante che le liste bloccate presentano un evidente aspetto di incostituzionalità. La Corte ha aperto alla possibilità di liste corte purché queste consentano all’elettore la «conoscibilità» di chi vuole eleggere. Se si fosse adottato il sistema spagnolo, ove l’attribuzione dei seggi avviene in ogni singolo collegio senza recupero nazionale dei resti, liste bloccate corte avrebbero superato il vaglio della Corte, ma avendo – a mio avviso giustamente – optato per una attribuzione di seggi sulla base dei voti conseguiti a livello nazionale, un voto espresso in Friuli può servire ad eleggere un deputato non a Trieste ma a Trapani o a Roma, privando l’elettore di qualsiasi conoscenza di chi elegge.
In conclusione, è auspicabile che Renzi e Berlusconi rivedano il loro patto aprendo alle preferenze, almeno per le posizioni oltre la capolistura, e rivedendo al ribasso la misura del premio. La governabilità è un obiettivo da perseguire, ma non alterando oltre ogni misura la rappresentatività del sistema elettorale. Ne va della legittimità delle nostre istituzioni, scosse già da una profonda crisi. Non è accentrando il potere nelle mani di pochi leader in competizione bipolare tra di loro che supereremo la crisi della nostra democrazia.

Repubblica 30.1.14
Alessandro Pace boccia la riforma: “Se non ci si accorda su un livello più alto si passi ad un altro sistema. E una preferenza è indispensabile”
“Si deve arrivare al 40%, così la Costituzione è lontana”
Un premio pari quasi alla metà dei voti ottenuti viola il principio d’eguaglianza già censurato dalla Corte
intervista di Liana Milella


ROMA — Metterebbe un timbro di costituzionalità sull’Italicum di Renzi e Berlusconi? «Proprio no». Il costituzionalista Alessandro Pace risponde così aRepubblica.
Siamo dentro o fuori la Costituzione?
«Siamo molto fuori».
La principale anomalia?
«La soglia prevista per beneficiare del premio di maggioranza è troppo lontana dal 50,1% per potersi chiamare così».
La correzione necessaria?
«Un premio di maggioranza degno di tal nome dovrebbe spettare solo al partito o alla coalizione che superasse il 45. Data l’attuale situazione politica una soglia “ragionevole” potrebbe essere, a tutto concedere, anche quella del 40. Ma, a stretto rigore, anche questa sarebbe criticabile».
Un consiglio ai parlamentari?
«Se non ci si accorda su una soglia superiore al 40, si deve passare a un altro sistema. Preferibilmente all’uninominale a doppio turno, che garantisce la governabilità senza creare diseguaglianze nel voto. Il ballottaggio dovrebbe essere tra candidati singoli, non tra liste o, peggio, tra coalizioni».
La Consulta ha fissato paletti su premio e preferenze. Può scattare un nuovo ricorso?
«Il tetto al 37% è sicuramente in contrasto con la Corte, e mi meraviglia che il segretario del Pd non se ne sia reso conto. Un premio pari a quasi la metà dei voti ottenuti in sede elettorale non fa che reiterare la violazione del principio d’eguaglianza già censurata dalla Corte nel Porcellum. Anche la mancanza delle preferenze solleva gravi problemi di costituzionalità».
È positivo che un partito non possa superare il 55%?
«Posto che la Carta prevede 630 deputati, il premio di 31 seggi alla coalizione di maggioranza è francamente eccessivo: garantirebbe la governabilità a troppo caro prezzo “per la rappresentatività dell’assemblea parlamentare”. E cito la Corte».
Le preferenze restano un punto chiave. Averle escluse viola il diritto di voto dei cittadini?
«Certamente sì. La Corte ha bocciato il Porcellum per questo e per l’eccessivo premio di maggioranza. Però, nel referendum del ‘91, gli italiani hanno votato per la preferenza unica, essendo note le irregolarità sottese alle preferenze multiple. Ma tuttora non è assicurata la segretezza del voto nelle circoscrizioni estere, come risultò nel caso Di Girolamo. Né le cose sono cambiate. Quindi, sia in Italia che all’estero, preferenza unica è garanzia della libertà del voto e della sua assoluta segretezza».
Le liste corte non bastano?
«Certo che no».
Le primarie possono sostituire le preferenze?
«Sì. Non si può dimenticare però che i partiti sono associazioni private. Bisognerebbe prima dettare regole sulla democrazia interna. Pertanto, campa cavallo…».
Piccoli partiti. È accettabile lo sbarramento al 4,5%?
«È eccessivo, soprattutto senza il finanziamento pubblico. Che dovrebbe essere legislativamente previsto, ma la cui spettanza va condizionata all’effettiva esistenza di un’organizzazione interna democratica».

«Sembra disegnata apposta per Berlusconi, a vantaggio di Forza Italia», si sfoga Alfredo D’Attorre. Una legge sbilanciata. «Questa non è una valutazione politica — avverte Stefano Fassina — ma un dato oggettivo: la potenzialità della coalizione del centrodestra è più ampia, dopo avere inserito la norma “salva Lega”»
Repubblica 30.1.14
La minoranza dem non arretra: “Questa legge non va, la cambieremo”
Cuperlo: “Obiezioni sulla costituzionalità”. Sel e piccoli partiti sulle barricate
di Giovanna Casadio


ROMA — «Nessuno capirebbe se ci mettessimo contro». Gianni Cuperlo cerca di convincere la sinistra democratica a muoversi su un sentiero stretto: non boicottare l’Italicum, però fare tutto il possibile per cambiarlo. La battaglia si sposterà in aula, perché il “correntino” non arretra, soprattutto sulle liste bloccate che «non possono restare». «Lo dico così — ribadisce Cuperlo in una delle tante riunioni della minoranza — Votare una nuova legge è vitale per la credibilità della politica. Farla bene è una necessità per la democrazia italiana».
Tracimano i malumori nel Pd, i sospetti, e i dubbi sulla «costituzionalità di alcune norme». Cuperlo rincara: «Obiezioni sulla costituzionalità sono state sollevate da più parti, se non vogliamo che questa legge come già il Porcellum incorra nella scure dei ricorsi... non possiamo immaginare un accordo blindato». Molto più duri sono i bersaniani. «Sembra disegnata apposta per Berlusconi, a vantaggio di Forza Italia», si sfoga Alfredo D’Attorre. Una legge sbilanciata. «Questa non è una valutazione politica — avverte Stefano Fassina — ma un dato oggettivo: la potenzialità della coalizione del centrodestra è più ampia, dopo avere inserito la norma “salva Lega”». Il centrosinistra invece avrà davanti a sé una strada in salita. Perché Sel dovrebbe fare da portatore d’acqua? Remare cioè per il Pd e non essere rappresentata in Parlamento, poiché difficilmente riuscirà a raggiungere il 4,5% che è la soglia leggermente modificata (era il 5) nel patto definitivo tra il segretario democratico e il Cavaliere. Nichi Vendola, appena lette le novità, twitta: «Ecco la nuova legge elettorale: dal Porcellum al Caimanum».
«Una cosa fuori dal mondo — si indigna D’Attorre — che ad esempio una forza che raggiunga i 3 milioni e sfiori l’8%, resti fuori dal Parlamento solo perché non si è alleato». Cuperlo invita a rivendicare i miglioramenti ottenuti grazie anche alla testardaggine della minoranza dem. Riconosce il «merito della trattativa condotta da Renzi». Altra strada va fatta. Sulla soglia per i piccoli partiti. Sulle liste bloccate. Fassina insiste: «È un punto non marginale, da cambiare». Cuperlo chiarisce: «Non pianto la bandiera delle preferenze, però non si possono riproporre le liste bloccate perché quella è stata per noi una battaglia di principio». Elenca le alternative possibili. Per Davide Zoggia non si può favorire la Lega e penalizzare Sel. C’è poi un emendamento che da Cesare Damiano a Rosy Bindi tutti vorrebbero riproporre in aula: è quello che subordina l’entrata in vigore dell’Italicum al via libera alla trasformazione del Senato in Camera delle Regioni.Ma i cambiamenti preannunciati portano a trappoloni sulla legge? La sinistra nega. Cuperlo garantisce: «A questo punto tagliare il traguardo è interesse di tutti. Non ci sarà nessuno sgambetto, né voglia di rallentare il passo».
Se non si trova un punto di equilibrio nelle file democratiche, però in aula si potrebbero creare maggioranze trasversali su singole modifiche. Il Nuovo centro destra di Alfano non intende ad esempio rinunciare alla battaglia sulle preferenze. Ne fa una bandiera. Alfano ha chiamato i deputati del suo partito: «Manteniamo i nostri emendamenti». Agli alfaniani tra l’altro, non va giù la norma Salva-Lega, ritenendo che ci siano profili di dubbia costituzionalità.
E a presentare in aula domani le pregiudiziali di costituzionalità sull’Italicum sono Sel e i Popolari per l’Italia e anche Fratelli d’Italia sta valutando se sottoscriverle. Renzi è certo di avere alla fine tutto il Pd dalla sua, senza giochetti né franchi tiratori. Pippo Civati, dissidente per definizione, spiega che su una riforma elettorale attesa da decenni non si possono fare scherzi. È una di quelle occasioni in cui bisogna andare in porto a tutti i costi.

il Fatto 30.1.14
“Renzusconi”: c’è l’accordo, ora si aspetta l’inganno
di Wanda Marra


“Siamo a una svolta storica, bisogna capire a quale velocità ne usciamo”. Dario Parrini, candidato unico alla segreteria della Toscana e fedelissimo di Matteo Renzi, l’accordo sulla legge elettorale lo commenta così. “In positivo, eh”, aggiunge, con sorriso a 360 gradi. Ma con la consapevolezza che, stretto il patto, cominciano le forche caudine che dovranno tradurlo in legge, a partire dal voto segreto a Montecitorio chiesto dai grillini, che potrebbe far emergere lo scontento di piccoli partiti e minoranza dem. Lo stesso segretario sa benissimo che l’iter parlamentare è pieno di incognite. Per questo non usa toni trionfali né privatamente, né pubblicamente. “Prudenza” per una volta è la parola d’ordine. Non è stata una giornata facile quella del segretario Pd, che è passato dalla preoccupazione alla soddisfazione. Stringere il patto avviato con l’ingresso del Cavaliere nella sede del Pd ha richiesto tutta la sua capacità di trattativa. La notizia che il traguardo è raggiunto si diffonde qualche minuto prima delle 14. Lo stesso segretario su Twitter lo annuncia così: “Adesso sotto con il Senato, le Province, il titolo V. E soprattutto con il Jobs act”. Quando appare al Tg1 delle 20 per dire che bisognerà approvare la legge “rapidissimamente” e che i “tranelli in aula” sarebbero “il colmo”, ha la barba non fatta e la camicia (rigorosamente) bianca un po’ stropicciata.
A ROMA è arrivato ieri mattina presto ed è andato direttamente nella sede del Pd. La nottata, con tutti gli ambasciatori renziani al lavoro, non lasciava presagire nulla di buono, con Forza Italia che continuava a non cedere sulla soglia per accedere al premio di maggioranza al 37%. Al partito il segretario ha allestito una vera e propria war room, con la Boschi, Guerini, Luca Lotti e Roberto Speranza (nelle vesti di capogruppo a Montecitorio, ma anche di rappresentante della minoranza). Passano i ministri Franceschini e Delrio, il capogruppo in Prima Commissione, Emanuele Fiano. È una girandola di telefonate e messaggi. Renzi parla ripetutamente con Berlusconi, Verdini, Alfano, Lupi, Gianni Letta. E per garantirsi la copertura sul 37% anche con Napolitano. Il Cavaliere fino all’ultimo ha cercato di strappare il 36%. Tanto è vero che alle 12 Matteo era atteso all’Anci, al Quirino: non è mai arrivato, troppo delicata la fase finale della trattativa. Che si è stretta poco prima delle 13. La soglia per ottenere il premio di maggioranza al primo turno, dunque, viene portata al 37%, la soglia di sbarramento dei piccoli in coalizione passa dal 5% al 4,5%. Avrebbero voluto il 4%, ma Ncd incassa comunque la possibilità di presentare candidature multiple in più regioni. Entra il salva-Lega, su richiesta di Fi (una clausola di salvaguardia per quei partiti che nel caso ottengano il 9% in tre regioni, potranno ignorare la soglia di sbarramento nazionale). Nessuna modifica sul fronte delle preferenze, nel nome delle quali Cuperlo si è dimesso dalla presidenza del Pd. E richieste da Ncd. “Alfano ha dovuto ingoiare un mattone”, commentava Franceschini con alcuni dei suoi. Nell’accordo finale non entrano neanche le primarie “istituzionalizzate”, ovvero facoltative, ma non per legge. Quelle che il segretario aveva prefigurato ai membri della commissione Affari costituzionali lunedì, quando con una durezza mai vista aveva chiesto il pieno mandato a trattare.
DUNQUE , tutto a posto? Non esattamente. Alle 16:30, Alfredo D’Attorre, uno degli esponenti di spicco della minoranza divisa annuncia lo scontento: “Resta la preoccupazione per una serie di nodi irrisolti, a iniziare dalle liste bloccate”. Poi, annuncia possibili emendamenti in aula. La minoranza Pd a mettere qualche ostacolo ci proverà, anche se non ha la forza politica per far saltare tutto, Ncd non ritira i suoi emendamenti e Sel presenta le prerogative di incostituzionalità. La prima vittima di questa bozza di legge è proprio il partito di Vendola, che al 4,5% non ci arriverà mai. Oggi pomeriggio la riforma viene incardinata in aula. La Commissione convocata ieri notte viene occupata dai grillini. Riconvocata stamattina licenzierà il testo base: gli emendamenti saranno votati dall’Assemblea. Peraltro quelli che devono recepire l’accordo ieri non erano ancora pronti: tradurre “tecnicamente” il patto è piuttosto complicato. Si inizia a votare martedì e si conta di approvare l’Italicum a Montecitorio per la metà di febbraio. I guai veri si presenteranno in Senato. Tra le clausole dell’accordo c’è anche quella che dà al governo il compito di ridisegnare i collegi entro 45 giorni dall’approvazione della legge. Questo potrebbe chiudere la finestra elettorale di maggio. Lo scenario in questo momento dato per più probabile, sia dalla minoranza dem (che lo formula come accusa al sindaco), sia da alcuni dei più vicini al segretario è un Renzi premier a legge fatta. Questo il ragionamento dei più vicini: “Il governo così non si tiene più, non riesce più a far nulla. Letta è praticamente sparito. La soluzione più naturale sarebbe Matteo a Palazzo Chigi. E magari Enrico ministro degli Esteri”. L’interessato smentisce. E dopo aver lavorato tutto il pomeriggio alle riforme successive resta a Roma a vegliare sul Parlamento.

l’Unità 30.1.14
Per difendere il bipolarismo
di Michele Ciliberto


In Italia si sta svolgendo una battaglia decisiva perché è in discussione l’assetto del nostro Paese nei prossimi anni. A seconda della legge elettorale che sarà approvata, l’Italia avrà un differente futuro.
Naturalmente è necessario verificare con attenzione il contenuto della riforma e le sue singole parti, alcune persuasive, altre meno. Ieri è stato raggiunto un accordo tra le due forze maggiori, e questo è un fatto positivo. Naturalmente, bisogna vedere come si svolgerà il dibattito parlamentare e quale sarà l’esito finale del confronto: così avviene nelle democrazie parlamentari. Ma la discussione va fatta sulla base di una domanda precisa: questa legge, nel complesso, va in direzione del bipolarismo oppure no? Questo è il problema principale; il resto è importante, ma viene dopo e può essere discusso o modificato, a patto di salvaguardare la configurazione bipolare del nostro Paese.
Dico questo per una serie di considerazioni in cui si intrecciano elementi politici e argomenti storici. La mancanza di una forte dinamica bipolare favorisce nel nostro Paese il crescere e l’affermarsi di politiche di «centro» e una frammentazione del sistema politico, che non sono elementi positivi per lo sviluppo dell'Italia. Può sembrare un’affermazione apodittica, ma basterebbe il governo delle larghe intese di questo ultimo anno per provare questa tesi. Non è riuscito a dare alcun deciso contributo per portare l'Italia fuori della crisi. Siamo rimasti in una palude, dalla quale non riusciamo a venir fuori, mentre l'Italia continua a decadere e le diseguaglianze diventano sempre più forti. E dico questo senza alcun pregiudizio nei confronti di Letta, un uomo politico che personalmente stimo.
L’errore è stato compiuto quando si è deciso di dare vita a questo tipo di governo, arrivando addirittura a paragonarlo alla politica della «solidarietà nazionale» (nella quale erano impegnati, in prima persona, uomini del Pci come Berlinguer e Chiaromonte). Si sarebbe dovuto invece dar vita a un «governo di scopo» affrontando alcuni essenziali problemi, a cominciare da una nuova legge elettorale senza pensare, ovviamente, che essa fosse la panacea per tutti i mali. Ma di qui bisognava, e tuttora bisogna, passare se si vuole aprire una nuova stagione nella politica italiana. Molti si sono scandalizzati perché il segretario del Pd ha trovato una «sintonia» con il fondatore di Forza Italia su questo punto e sulla prospettiva di una legge elettorale di tipo bipolare. Curiosa reazione, in verità. Sorprendente era l’adesione di Berlusconi al governo delle «larghe intese», fatta strumentalmente in nome di una presunta «pacificazione» che avrebbe dovuto salvaguardare la sua persona e i suoi interessi; meno sorprendente è invece il suo convergere su una legge elettorale di tipo bipolare. Certo, si può discutere il modo, la sede in cui questa convergenza è avvenuta, ma non la sostanza che è questa: Berlusconi ha dato in venti anni un solo effettivo contributo allo sviluppo della democrazia italiana, ed è stata la scelta bipolare.
Lo so: nelle sue mani il bipolarismo si è ridotto a puro trasformismo tipico della storia italiana, ridando forza anche alle forze di centro che hanno prodotto nuovi partiti aumentando la frammentazione del sistema politico e i problemi della governabilità. Ma, sul piano storico, tra le immani macerie che ha lasciato, il bipolarismo è la sola eredità del ventennio berlusconiano che merita di essere salvata. Per il futuro dell'Italia, ma anche per quello del Pd, il quale può avere una prospettiva strategica solo se riafferma con intransigenza la sua vocazione maggioritaria, e riesce ad imporla nella vita del Paese. Altrimenti è destinato a non avere più un’effettiva funzione nazionale .
Lo so che l 'Italia è il Paese delle cento città. È così almeno dal Rinascimento: da noi non c'è stata una capitale come Parigi o Londra o Madrid, e non c'è stato lo Stato nazionale moderno sognato da Machiavelli. Nella nostra storia ci sono Roma, Napoli, Firenze, Milano, Venezia, Mantova, Verona, Ferrara, Urbino, Palermo: tutte capitali di piccoli e grandi Stati, di Regni e di Repubbliche. Ma questa struttura policentrica è stata la forza e, al tempo stesso, il limite del nostro Paese: la sua tarda unificazione come Stato nazionale è stata un effetto anche di questa sua «grandezza», non solo delle sue «miserie».
Il nostro problema è quello di valorizzare questa pluralità e di inserirla in un quadro unitario, costruendo un principio in cui essa si riconosca e si potenzi. Noi abbiamo bisogno di individuare un principio di direzione e di governo che, costituendo un nuovo rapporto fra governanti e governati, consenta di uscire da questa situazione di stallo e di dirigere il Paese attraverso l’alternanza delle forze in campo sulla base, s'intende, del riconoscimento di valori condivisi. È questa la ragione per cui il bipolarismo può essere uno strumento (e sottolineo: strumento) utile. Se si fa un’analisi spregiudicata della nostra storia, per ragioni etiche oltre che civili e politiche, questa è la strada che oggi bisogna imboccare con decisione, anche se possono esserci dei prezzi da pagare.
Certo, non è con una legge elettorale che si risolvono tutti i nodi in cui è oggi aggrovigliata la vita dell'Italia. Ma è altrettanto sicuro che le politiche delle larghe intese li aggravano. Ovviamente occorre vedere in concreto come questa esigenza venga realizzata sul piano legislativo, e perciò è strategica la battaglia dei prossimi giorni. Si facciano pure tutte le modifiche utili, ma a patto di salvare la sostanza della «cosa»: una dinamica bipolare per la democrazia italiana.

l’Unità 30.1.14
L’ipoteca dell’estremismo
di Claudio Sardo


LA «TAGLIOLA» FINORA NON ERA MAI STATA USATA IN PARLAMENTO. I grillini hanno deciso di farla scattare, spingendo il loro ostruzionismo fino al limite estremo: se Laura Boldrini non vi avesse fatto ricorso, gli italiani sarebbe stati costretti a pagare anche la seconda rata dell’Imu, dopo aver già pagato il conto del pasticcio voluto da Berlusconi e troppo supinamente accettato dal governo.
La «tagliola» è una norma estrema del regolamento della Camera, introdotta nel ’97 dopo la famosa sentenza della Consulta che vietò la reiterazione dei decreti-legge, divenuta una scandalosa consuetudine incostituzionale. L’effetto della tagliola è lo stop all’ostruzionismo parlamentare e la messa in votazione del decreto, un attimo prima che scada il termine e ne decadano tutti gli effetti giuridici.
Le opposizioni, ovviamente, hanno il diritto di usare ogni strumento legale a loro disposizione per contrastare i provvedimenti che non condividono, ma non hanno il diritto di impedire alla maggioranza (e al Parlamento) di pronunciarsi su un decreto. Finora, anche nelle battaglie politiche più aspre, non si era mai arrivati al punto di costringere il presidente della Camera ad applicare una norma che contrasta con lo spirito del parlamentarismo. Ma l’estremismo grillino voleva raggiungere proprio questo risultato. E voleva mettere in scena quella rabbiosa e plateale protesta nei banchi di Montecitorio, che aveva lo scopo di delegittimare il Parlamento, di avvelenare il clima, di sovrastare con le grida le altre questioni all’ordine del giorno.
Tutto si può dire tranne che il Movimento 5 stelle sia stato vittima della tagliola. I grillini hanno cercato l’obiettivo per rafforzare, anche simbolicamente, la loro opposizione di sistema. L’efficacia che cercano non è quella di emendare, di migliorare le condizioni dei cittadini che li hanno votati, ma quella di produrre l’esito il più possibile negativo, in modo da far risaltare l’antagonismo radicale. Piuttosto che correggere un testo, è meglio che questo esca nella versione peggiore. Qualche tempo fa, il M5s spinse l’ostruzionismo contro un altro decreto-legge fino a mettere a repentaglio i fondi per la ricostruzione dopo il terremoto in Emilia: per fortuna, anche in quell’occasione i grillini furono sconfitti.
Va detto, a onore del vero, che non tutti gli argomenti usati dai deputati di Grillo contro il decreto sono da disprezzare: lasciano dubbi le modalità con le quali attraverso una rivalutazione delle quote delle banche si è realizzata una maggiore autonomia di Bankitalia dal Tesoro, e dunque dallo Stato. Tuttavia, la fondatezza di alcuni argomenti non giustifica l’oltranzismo e la violenza verbale, anzi rende ancora più colpevole il comportamento adottato. È inaccettabile che la denuncia faccia premio su qualunque tentativo di mediazione o di correzione. Una forza politica fa opposizione e marca la propria diversità per costringere la controparte ad una posizione più avanzata, per ottenere qualche risultato anche parziale. Questo è il confronto parlamentare che incide sul Paese. Ieri invece lo scopo della contestazione era la sua teatralità, il fare una cosa che non si era mai fatta: così la «tagliola» è diventata un po’ come la risalita sul tetto di Montecitorio. Il nichilismo eretto a filosofia politica e il Vaffa gridato nel Palazzo per rappresentare così un’opposizione sempre più «di sistema».
Grillo e Casaleggio stanno lanciando la campagna elettorale per le europee: hanno bisogno di allargare le distanze. Avevano scommesso su nuove elezioni politiche nel 2014, ma potrebbero aver perso la scommessa. Così hanno programmato un’escalation della loro protesta. Gli insulti al Capo dello Stato non sono frutto del caso o del delirio di un singolo deputato: sono anch’essi programmati. Il rifiuto di partecipare in alcun modo alla riforma elettorale è l’altra scelta strategica che prepara l’offensiva anti-europea. Prepariamoci ad un Grillo che farà impallidire Le Pen, e che tenterà di soffiare alla Lega il primato anche della violenza verbale.
Sono le scelte politiche del Movimento 5 stelle. Che condizioneranno la vita del Parlamento e il confronto politico nel Paese. Se i grillini decidessero di partecipare al lavoro sulle riforme elettorali e costituzionali, potrebbero anche portare a casa dei risultati. Ma l’autonomia del politico per Grillo si fonda sul tanto peggio per l’Italia. Tra l’altro, le riforme dovranno toccare anche i regolamenti parlamentari. Bisogna prevedere tempi certi per le votazioni, non solo dei decreti, ma anche dei disegni di legge che il governo considera essenziali e (pro-quota) di quelli che le opposizioni intendono sottoporre al giudizio dell’aula. Non si tratta di un modo per strangolare il dibattito: fare buone leggi richiede tempo, e da noi il tempo serve anche per cambiare il modo con cui si scrivono le leggi. Troppe norme sovrapposte, pochi testi unici e poca semplificazione. Ma per cambiare il costume legislativo serve certezza sui tempi di decisione. Confronto, contrapposizione, mediazione, poi alla fine decisione. Altrimenti la democrazia muore. Purtroppo, c’è chi vuole l’impotenza della politica per trarne vantaggio.

Corriere 30.1.14
Dipendenti e mass media, parte la cura renziana
di Marco Cremonesi


MILANO — Matteo Renzi va avanti come uno schiacciasassi. Sarà assai difficile accusarlo di non aver mantenuto la promessa di rivoltare il partito come un calzino.
Il fidato neo tesoriere Francesco Bonifazi è da settimane in full immersion nei (dolorosi) conti del partito. E ha scoperto, informa il sito web dell’Espresso , che tra i dipendenti dem figura anche Gianni Cuperlo, l’antagonista bersaniano di Renzi alle primarie di dicembre. Cuperlo, poi, una volta eletto alla Camera, è andato in aspettativa optando per lo stipendio da parlamentare. Ma il servizio dell’Espresso suggerisce che l’ingresso dell’ex segretario della Sinistra giovanile tra i dipendenti in ruolo del Pd sia cosa recente.
Secondo un amico dell’ex presidente dem, «Gianni come molti di noi era già un dipendente dei Democratici di sinistra e come tale poi è passato tra quelli del Partito democratico». Insomma, non ci sarebbe stata alcuna ricerca di un paracadute. Ma è sempre l’amico a suggerire che «è assai curioso che una cosa del genere venga fuori adesso, dopo la rottura con Renzi sulla legge elettorale». In ogni caso Bonifazi, con una nota, sottolinea «come l’amico e onorevole Gianni Cuperlo non costituisca in alcun modo un costo per il partito».
Bonifazi sta facendo mettere a punto le macchine per controllare le presenze dei dipendenti nella sede dei Ds. In questi giorni si stanno aggiornando i software e realizzando i nuovi badge: entro una decina di giorni l’innovazione sarà a regime. Giusto ieri, il tesoriere pd ha incontrato i rappresentanti sindacali dei dipendenti del Nazareno in un faccia a faccia da cui sarebbe uscito molto soddisfatto.
I sindacati, infatti, si sarebbero mostrati consapevoli delle difficoltà del momento e anche la timbratura del cartellino non sarebbe stata vista come un atto ostile. Questo, almeno, è quanto si sostiene vicino al tesoriere: «Responsabilizzerà i dipendenti — spiega al Corriere un dirigente democratico — e magari metterà in evidenza chi lavora e chi invece va a spasso». Di sicuro, la novità sarà utile «contro coloro che sostengono che i dipendenti del partito democratico non lavorano, come si è letto davvero troppo negli ultimi mesi». In ogni caso, Bonifazi avrebbe garantito ai lavoratori dem che per il momento di cassa integrazione non si parla. Il tesoriere è invece impegnatissimo a tagliare all’osso tutte le consulenze del partito, quelle che pesano come macigni sui conti: che nel 2012 hanno chiuso con un rosso di 7,3 milioni di euro.
Ma lo spoil system renziano non ha trascurato un settore delicato come la comunicazione. Ieri Filippo Sensi, capo ufficio stampa del Pd e animatore del sito di comunicazione politica nomfup.wordpress.com, è stato nominato direttore ad interim di YouDem, la web tv dei democratici. Sostituisce Chiara Geloni, già al Popolo e poi vicedirettore di Europa , il cui mandato era peraltro scaduto da qualche tempo. Lei, va detto, non l’ha presa affatto male: «Non avrei mai detto che sarei stata così contenta delle mani in cui è stata lasciata la tivù. Filippo e Tiziana (Ragni, che è diventata direttore editoriale) sono amici ormai da più di un decennio e li stimo davvero». Inoltre, l’avvicendamento della Geloni «sembra una cosa assolutamente normale, è ovvio che un segretario voglia nominare il direttore della televisione. Io stessa a suo tempo sono stata nominata da Pier Luigi Bersani. Si tratta di incarichi assolutamente fiduciari, la comunicazione, il capo ufficio stampa...». Ma che cosa farà Chiara Geloni da grande? «Non lo so. Adesso dovrò deciderlo».

l’Unità 30.1.14
E Santoro mette in onda la «telefonata dei veleni»
Oggi a «Servizio Pubblico» l’audio della conversazione tra D’Ambrosio e Mancino In coincidenza con la guerra aperta da Grillo contro il Quirinale
di Marcella Ciarnelli

Le telefonate tra l’ex ministro Nicola Mancino e il consigliere giuridico del presidente della Repubblica, Loris D’Ambrosio, che sono state registrate nell’ambito dell’inchiesta sulla cosiddetta trattativa tra lo Stato e la mafia datata all’inizio degli anni Novanta e compaiono negli atti del processo, sembravano non avere più segreti. E non ne hanno se si tiene conto che le parole dette in quelle occasioni sono state rese pubbliche nei modi e nelle forme più diverse che la pubblicistica prevede. Ampi stralci, ricchi virgolettati, e, per quanto riguarda le trasmissioni tv, è stata usata a piene mani anche la tecnica del disegno con recitato.
Eppure questa sera nel corso del programma di Michele Santoro, Servizio Pubblico, quelle conversazioni ci saranno riproposte in originale, «una esclusiva», attraverso le voci originali dei due interlocutori, proposte con adeguata scritta per evitare che nessuna parola e nessuna sfumatura vada persa. Con le facce di chi ha parlato lì, sbattute in prima pagine se la televisione ne avesse una. Quella dell’ex ministro che parla in preda ad una evidente tensione. Quella assorta di Loris D’Ambrosio che visse sulla sua pelle l’evolversi di una vicenda nella quale si è cercato in tutti i modi di coinvolgere il presidente della Repubblica e che, prima presentò le dimissioni dall’incarico immediatamente respinte, e poi pagò con la vita, stroncato un infarto, la terribile tensione.
UNA STAGIONE AVVELENATA
Il documento che questa sera andrà in onda su La7, e che già si può vedere sul sito della trasmissione nell’anticipazione affidata a Sandro Ruotolo, non aggiunge niente a quanto è più che noto. Non toglie, non mette. In più la diffusione dell’audio viola l’articolo 684 del codice penale anche se è sanzionata con un’ammenda da 51 a 258 euro. Per quanto non segreta, la maggiore diffusione e propagazione dell’atto di fatto condiziona e può pregiudicare il procedimento giudiziario.
Non serve, dunque, ad una più approfondita conoscenza di una stagione di troppi veleni e non riesce a dare le risposte che ancora troppi attendono siano date. Alimenta, se possibile ancora di più, un clima di sospetto nei confronti dell’operato del presidente della Repubblica che pure la sentenza della Corte Costituzionale ha escluso da qualunque strumentale coinvolgimento, ordinando la distruzione delle conversazioni, anch’esse intercettate, tra Mancino e Napolitano. Che, peraltro i magistrati di Palermo potranno a tempo debito ascoltare anche se il presidente ha già spiegato che poco o nulla può aggiungere su quello che potrebbe essere il solo argomento del colloquio. Lo sfogo di D’Ambrosio che temeva nello svolgimento delle sue funzioni di magistrato nel periodo a cavallo degli anni Novanta di essere stato «un ingenuo e utile scriba». Anni quelli in cui tra Napolitano e D’Ambrosio non c’era alcuna collaborazione. Appare quindi difficile poter riferire su stati d’animo di tempi così lontani e che possono essere stati argomento di un eventuale scambio tra persone che si rispettavano.
Serve, questo sì, un’iniziativa di questo genere a riportare nel dolore più acuto i familiari del consigliere del presidente che risentiranno la voce del loro caro che hanno tanto prematuramente perso. E non certo in nome di un diritto d’informazione che mai come questa volta è stato espresso in tutte le sue forme e modi. Sintesi e trascrizioni accurate che siano state ce ne sono state tante.
C’è invece una questione di clima politico che deve allarmare. Sarà un caso ma l’iniziativa di Servizio pubblico sembra andarsi a saldare con quelle multiformi di Grillo che tace davanti ad uno dei suoi che accusa Napolitano di essere un boia e poi lancia sul suo blog un sondaggio per stilare la singolare classifica su quale sia la peggiore nefandezza di un presidente di cui si vuole chiedere l’impeachment anche per le sue intercettazioni che la Corte Costituzionale nella sentenza sul conflitto di attribuzione sollevato da Napolitano nei confronti della Procura di Palermo, ha ordinato venissero mandate al macero.
C’è una voglia di tenere alta la tensione, di farla risalire se solo si avverte un calo. C’è da preoccuparsi.

l’Unità 30.1.14
Fiat se ne va, ci lascia la cassa integrazione
Nasce Fiat Chrysler Automobiles, la sede legale sarà in Olanda, quella fiscale in Gran Bretagna
Bilancio sotto le attese, il Lingotto sospeso in Borsa
Letta: contano i posti di lavoro
di Giuseppe Vespo


MILANO Torino, 11 luglio 1899 29 gennaio 2014. Dopo 115 anni il marchio Fiat va in pensione. «Inizia un nuovo capitolo della nostra storia», dice John Elkann. Che non verrà più scritta sotto la Mole. Fca Fiat Chrysler Automobiles sarà una società di diritto olandese con sede fiscale in Gran Bretagna, quotata in Borsa a New York e a Milano. La rivoluzione sarà completa entro la fine dell’anno, mentre a maggio verrà presentato un piano strategico di lungo termine alla comunità finanziaria.
È quanto ha deciso ieri il cda di Fiat Spa, l’ultimo del gruppo così come si conosceva fino a oggi. L’organizzazione resterà la stessa, dice l’azienda, divisa in «quattro regioni operative. Tutte le attività che confluiranno in Fca proseguiranno la propria missione, compresi naturalmente gli impianti produttivi in Italia e nel resto del mondo, e non ci sarà nessun impatto sui livelli occupazionali».
Possono dunque stare tranquilli sindacati e operai, tra i quali i circa tremila cassintegrati (su cinquemila) di Mirafiori e i lavoratori di Cassino, che aspettano nuovi modelli da produrre? «Abbiamo lavorato caparbiamente e senza sosta a questo progetto per trasformare le differenze in punti di forza e per abbattere gli steccati nazionalistici e culturali», scrive Marchionne nel comunicato redatto al termine del cda.
«OTTIMI RISULTATI»
Quindi il manager si è confrontato con la comunità finanziaria per l’illustrazione dei conti del gruppo, che sono sotto le attese e che neanche quest’anno permetteranno agli azionisti di incassare dividendi. L’utile della gestione ordinaria, nel 2013, è sceso a oltre 3,39 miliardi, rispetto ad attese per circa 3,6 miliardi; l’utile netto è salito a 1,95 miliardi (da 896 milioni nel 2012). Mentre il debito è di 6,6 miliardi, «piuttosto elevato», ammette lo stesso Marchionne, che si ripromette di «rafforzare la base di capitale» appena terminato il trasferimento in Olanda.
TONFO
Numeri che hanno fatto scivolare il titolo a Piazza Affari, tanto che per un po’ Fiat è rimasta sospesa, prima di chiudere la sessione in calo del 4,11 per cento. Marchionne si ritiene comunque soddisfatto: «Abbiamo avuto i primi segnali incoraggianti della nostra strategia premium con ottimi risultati nel quarto trimestre 2013, speriamo di mantenere gli stessi margini nel 2014».
Poi annuncia gli investimenti, che ammonteranno a otto miliardi di euro, mezzo milione in più dell’anno passato. L’obiettivo è scalare la top ten dei produttori di auto, dall’attuale settimo posto, vendendo già da quest’anno 4,5 4,6 milioni di automobili, di cui un milione tra Europa, Africa e Medio Oriente, circa 2,4 tra Canada, Messico e Stati Uniti dove il gruppo realizza il 54 per cento dei suoi ricavi un milione in America Latina e duecento mila nell’Asia Pacifico.
Attenzione, però: «Il 2014 è ancora un anno di transizione», i miglioramenti veri si vedranno solo dal 2015, che sarà anche il penultimo anno della gestione del manager alla guida del gruppo italo americano. Ancora tre anni, dunque, poi il timone passerà di mano, verosimilmente all’interno della cerchia dei suoi collaboratori. «Mi sono circondato di persone molto valide e credo che da questo gruppo emergerà il mio successore. Non sarebbe corretto, vista la forza di questi manager, affidare il compito a qualcuno di esterno».
GLOBALITÀ
Parole pronunciate poco prima dell’incontro previsto con i sindacati metalmeccanici, ai quali in serata sono stati illustrati conti e prospettive, che hanno occupato il dibattito della giornata al pari dell’accordo sulla legge elettorale. Da Bruxelles è intervenuto pure il premier Enrico Letta, con il quale Marchionne si è visto martedì. Dal presidente del Consiglio, sono arrivate rassicurazioni sul fatto che non conta poi così tanto la sede legale del nuovo gruppo «una questione assolutamente secondaria» «contano i posti di lavoro, il numero di auto vendute, la competitività e la globalità». Sulla stessa linea Raffaele Bonanni, segretario Cisl, che si dice «tranquillo, perché gli investimenti vanno avanti e siamo lontani dalle difficoltà del passato».
La questione delle tasse all’estero viene ripresa in un passaggio del comunicato emesso dal gruppo automobilistico: «Questa scelta non avrà effetti sull’imposizione fiscale cui continueranno ad essere soggette le società del gruppo nei vari Paesi in cui svolgeranno le loro attività». La decisione è presa. A poco più di un secolo dalla nascita, Fiat cambia pelle, lascia la sua città natale per Olanda e Gran Bretagna. Entro ottobre la quotazione a New York, poi quella secondaria a Piazza Affari.

l’Unità 30.1.14
Il fisco italiano rischia una doppia perdita
La scelta di Olanda e Gran Bretagna come sedi del nuovo gruppo consentono forti risparmi per Marchionne
Il caso precedente di Cnh e l’assenza di interventi delle autorità italiane
Resta l’imposizione sulla produzione in Italia, ma col trasloco se ne va la torta più ricca
di Bianca Di Giovanni


ROMA Era una fine annunciata, e quello che stupisce tra gli esperti fiscali è che nessuno abbia mosso un dito finora. Che Fiat avrebbe trasferito la propria sede all’estero lo si era capito già nel 2011. Certo, molti pensarono allora agli Stati Uniti: ma andare fuori dall’Europa comporterebbe degli oneri aggiuntivi che il Lingotto ha voluto evidentemente «risparmiarsi». Per questo si scelgono ben due sedi europee: quella legale in Olanda, quella fiscale in Gran Bretagna. La legislazione olandese consente infatti la doppia residenza, che da noi sarebbe vietata. Se l’Olanda conviene dal punto di vista di diritto societario, perché consente ai soci stabili diritti di voto doppi (lo stesso è stato fatto per Cnh Industrial) con un indubbio vantaggio per il socio di controllo Exor, il Regno Unito garantisce un fisco ultraleggero proprio per le aziende di questo tipo.
REDDITI D’IMPRESA
L’imposta sui redditi d’impresa (la nostra Ires) è fissata oggi al 21% (contro il nostro 27,5%) e calerà al 20 nel 2015. Ma c’è da scommettere che i consulenti del Lingotto non hanno certo organizzato tutto questo moltiplicatore di sedi per risparmiare 6-7 punti di Ires. Lo sconto è molto maggiore. Dal 2013 infatti è entrato in vigore il cosiddetto «patent box» che garantisce a chi porta marchi e brevetti una tassazione sui profitti che ne derivano al 10%. Le isole britanniche in questo modo hanno attivato una sorta di calamita per le multinazionali straniere. Dopo la fusione e l’«espatrio» della sede fiscale all’Italia resterà l’imposizione sulla produzione degli stabilimenti italiani. Ma il valore aggiunto portato dal marchio, dalla ricerca, dalla capacità organizzativa, insomma tutta la parte più qualificata dell’attività sarà persa. Il valore di una società, infatti, non è meramente la somma della produzione dei singoli siti produttivi. Gli stessi fiscalisti sostengono che la perdita maggiore per il Paese non va ricercata nel fisco, ma proprio nell’impoverimento della struttura industriale. l’Italia diventa il luogo di produzione di modelli pensati altrove, in stabilimenti la cui organizzazione sarà decisa da una «testa» ormai lontana dal cuore storico dell’azienda. Questo consentirà un domani di chiudere e spostare le produzioni con maggiore facilità di quanto non sia stato possibile in passato.
Per il fisco italiano, tuttavia, potrebbe annunciarsi una doppia perdita. Già due anni fa, infatti l’amministrazione avrebbe dovuto muoversi per cercare di intercettare i piani di Sergio Marchionne e creare delle condizioni per farlo restare sotto le Alpi. Invece nessuno se n’è interessato: l’azienda si è mossa da sola. E naturalmente si è mossa nel momento più vantaggioso. Gli oneri dovuti all’Erario per l’espatrio, infatti, rischiano di venire assorbiti quasi completamente dalle perdite che l’azienda ha registrato negli stabilimenti italiani. Nessun politico, nessun esponente dell’alta dirigenza si è preso la briga di chiarire questa strategia con il management.
LE NORME
Quando un’azienda decide di espatriare, infatti, deve chiudere la partita con il fisco del Paese che lascia rivalutando tutti gli asset e pagando le tasse dovute come se stesse liquidando. Vengono assoggettati a tassazione tutti i plusvalori cosiddetti «latenti», compresi quelli relativi alla tecnologia, ai marchi, all’avviamento. Questa è la regola aurea, ma una fitta rete di eccezioni ha modificato questo regime, rendendolo sempre meno oneroso. Tutto in nome della libera circolazione delle imprese, equiparata nell’Ue a quella delle persone. Il primo dato da stabilire, in questo caso, è il momento preciso in cui la residenza è trasferita, perché il tempo modifica parecchio i valori dei beni materiali e immateriali (si pensi agli andamenti di Borsa). In ogni caso le continue revisioni della normativa hanno stabilito che si definisce certamente il valore da tassare, ma poi si rimanda il pagamento al momento futuro in cui si cederà effettivamente quel bene. Per il momento Fiat non verserebbe nulla.

Repubblica 30.1.14
Una lunga partita
di Luciano Gallino


LA NUOVA Fiat Chrysler Automobiles avrà la sede sociale in Olanda. Quella fiscale nel Regno Unito, ma il gruppo continuerà a pagare le tasse nei paesi in cui gli utili saranno prodotti. La società sarà quotata alla borsa di New York, dove i titoli trattati sono migliaia e il loro valore si misura in trilioni di dollari, e in quella di Milano, dove i titoli e il loro valore totale sono grosso modo otto o dieci volte di meno. Ricerca, sviluppo, progettazione e adattamento evolutivo dei vari modelli saranno concentrati in Usa, poiché essi vanno per forza dove si realizza il grosso della produzione, ma forse un pezzo resterà a Torino per sostenere il cosiddetto polo del lusso. Gli stabilimenti principali sono sparsi tra Usa, Canada e Messico (Chrysler), ovvero tra Brasile, Polonia, Turchia e Italia (Fiat). La rete dei fornitori dei tre principali livelli (sistemi, sottosistemi e componenti minori) sarà distribuita ingran parte del mondo.
Devono veramente amare molto le grandi scacchiere e le partite complicate Sergio Marchionne e John Elkann, per avere aperto quasi contemporaneamente tanti fronti di gioco, ed essere riusciti finora a condurre la partita piuttosto che farsela imporre dall’avversario. Essi sanno bene che dall’altra parte vi sono molti altri attori a progettare ed eseguire le prossime mosse, e alcuni di essi, oltre ad essere abili, non hanno accolto troppo bene l’acquisizione di Chrysler. In Usa, molti investitori e analisti hanno patito la mossa del cavallo consistente nell’acquisire la Chrysler in parte con i soldi del governo americano, e in maggior parte con i soldi della Chrysler e dei fondi dei suoi sindacati. Ma più di questa operazione, che ha costituito senza dubbio un successo strategico da parte del Lingotto sul piano finanziario, essi hanno scarsamente gradito che il rilancio della società americana sia avvenuto soprattutto mediante il rilancio di modelli stagionati e non proprio ecologicamente corretti come la Jeep Grand Cherokee, piuttosto che investire gli utili in nuovi modelli idonei a rinfrescare gli allori di Chrysler. Per tacere dei loro giudizi sulla difficile situazione dell’auto Fiat nel nostro paese, che ha portato molti a parlare di salvataggio del Lingotto da parte della casa di Auburn Hills. Non ci siamo solo noi a chiederci quanti nuovi posti di lavoro si creeranno in Italia grazie all’operazione Chrysler; ci sono anche tanti americani che si chiedono quanti posti saranno creati nel loro paese grazie all’operazioneFiat. Dall’altra parte della scacchiera ci sono ovviamente anche le agenzie di rating. Sono attori che non giocano in proprio, ma sono consiglieri assai ascoltati dagli investitori, in specie fondi di investimento e fondi pensione; proprietari, va ricordato, di metà dell’economia mondiale. Li ha resi potenti e influenti la finanziarizzazione delle imprese industriali, a partire proprio dal settore auto. Quando qualcuno, anni fa, definì le corporation del settore «istituti finanziari che producono anche auto», aveva sott’occhio la situazione della General Motors, la cui divisione finanziaria che contava forse trentamila persone produceva il 40 percento degli utili della società, che aveva allora 300.000 dipendenti.
Da allora, il peso della finanza sulle corporation industriali è ancora cresciuto, donde segue che produrre buone automobili in giro per il mondo non basta per assicurare un successo duraturo al costruttore. Il fatto che Moody’s abbia messo sotto osservazione Fiat per una possibile riduzione del rating, che già non è alto (Ba3), a causa della sua situazione finanziaria, può essere soltanto una mossa intermedia in una partita particolarmente complessa. Ma Marchionne ed Elkann sono in due, mentre dall’altra gli attori che si assiepano attorno alla scacchiera suggerendosi a vicenda le mosse sono dozzine.
Manca, ai lati della scacchiera, il governo italiano, che non solo non ha la minima idea o intenzione di entrare in partita, ma non si è nemmeno degnato di rivolgere alla ferrata coppia del Lingotto la madre di tutte le domande: mentre auguriamo al lieto evento le migliori fortune, in concreto, cifra su cifra, documento su documento, qui e ora e non nel decennio prossimo, che cosa ne viene al nostro paese, ai lavoratori italiani, al pubblico bilancio, dalla nascita della Fiat Chrysler Automobiles?

il Fatto 30.1.14
Il gruppo Fiat sbaracca
Marchionne pagherà le tasse a Sua Maestà
di Salvatore Cannavò


Ovunque tranne che in Italia. La nuova strategia Fiat potrebbe essere sintetizzata da questo slogan dopo che il Consiglio di amministrazione del Lingotto ha deciso di spostare all’estero sia la quotazione sia la sede legale e la sede fiscale della nuova società frutto della fusione con Chrysler. Si chiamera Fiat-Chrysler-Automobiles (Fca), un acronimo che sembra non aver pensato alle ironie italiane che già ieri circolavano sul web. La sede legale sarà in Olanda, quella fiscale in Gran Bretagna, dove si pagano le tasse più basse d’Europa. La quotazione del nuovo titolo, che Marchionne si augura avvenga entro il 1 ottobre di quest’anno, sarà nel mercato più liquido del mondo, a New York, mentre Milano resta per la seconda quotazione.
Il cambiamento è storico e apre “un nuovo capitolo” nella storia dell’azienda come ha sottolineato Marchionne. Agli azionisti, per ogni azione Fiat verrà corrisposta un’azione Fca di nuova emissione. Quelli che rimarranno azionisti fino al completamento dell’operazione, “riceveranno un ulteriore numero di azioni speciale con diritto di voto”.
MARCHIONNE ha celebrato la giornata come una delle più importanti della sua carriera annunciando nuovi investimenti, 8 miliardi, e l’obiettivo di vendere più di un milione di Jeep nel 2014. Per quanto riguarda l’Italia, ha solo sottolineato la positività della nuova strategia Premium, cioè i prodotti di fascia alta.
Le reazioni sono sostanzialmente di due tipi. La stragrande maggioranza plaude alla bravura dell’ad della Fiat e minimizza lo spostamento all’estero dell’azienda. Il presidente del Consiglio, Letta, la definisce “secondaria”. I sindacati, invece, che in serata hanno incontrato lo stesso Marchionne, si sono detti rassicurati dalle parole del manager anche se Bonanni, segretario della Cisl, continua a chiedere maggiori garanzie per Mirafiori e Cassino. Nessuna preoccupazione sullo spostamento della testa: “L’importante - sottolinea il segretario Ugl, Centrella, è che braccia e gambe restino in Italia”. Critica la Fiom che parla di “disimpegno” dall’Italia e chiede al governo di fare di più. Preoccupato, per l’occupazione e lo sviluppo torinese, anche l’arcivescovo di Torino, monsignor Nosiglia.
La novità di ieri, per quanto annunciata, è dunque rilevante e ha un’evidente implicazione fiscale. La Fiat assicura che “tutte le attività che confluiranno in Fca proseguiranno la loro missione compresi gli impianti produttivi in Italia” e non ci sarà “nessun impatto sui livelli occupazionali”.
Ma la scelta della Gran Bretagna è troppo evidente per poter negare un vantaggio puramente fiscale. Nel 2012 l’azienda ha iscritto a bilancio 625 milioni di imposte di cui 420 pagate da Fiat e 205 da Chrysler nonostante quest’ultima abbia registrato ricavi una volta e mezza più grandi di quella. La Chrysler paga le imposte nel Delaware, uno stato che negli Usa è ritenuto alla stregua di un paradiso fiscale. Il vantaggio potrebbe essere di oltre 200 milioni. L’azienda precisa che un problema di tassazione può riguardare solo i dividendi incassati dalla holding: ieri la Fiat Spa, domani la Fca N. V. Nel 2012 i dividendi della Spa ammontavano a oltre 1 miliardo anche se, per effetto di 962 milioni di “svalutazioni” e di altri meccanismi fiscali, le imposte pagate si sono limitate a 31 milioni. Su quella cifra, un risparmio ci sarà. Di quanto?
UNA STIMA EFFETTIVA dipenderà da più fattori. Può essere utile rilevare che nel 2012 la Fiat ha pagato, come un’aliquota fiscale media del 27,5% esclusa l’Irap italiana (al 3,9%) mentre in Gran Bretagna l’aliquota di base è del 22% (e non c’è nessuna Irap). La Gran Bretagna è stimata dall’Ocse al livello di tassazione aziendale più basso fra i paesi del G7 ed è al quarto posto nel G20, dopo Turchia, Arabia Saudita e Russia. Una concorrenza difficile da battere. Benefici importanti anche in Olanda. Il primo riguarda la possibilità per gli azionisti di avere più voti per ogni azione attribuita. Il secondo attiene alla possibilità di collocare una società holding-madre nelle Antille olandesi, con un beneficio da paradiso fiscale. Il terzo vantaggio riguarda la tassazione, inesistente, dei dividendi.
Il mercato, però, ieri è rimasto deluso per i dati del 2013. Gli analisti si aspettavano di più e la Fiat è stata, a un certo punto, sospesa dal listino per eccesso di ribasso. I numeri parlano di ricavi a 86,8 miliardi, di un utile netto a 943 milioni ma che per il 2014 non dovrebbe superare gli 800 milioni e soprattutto della decisione del Cda di non proporre la distribuzione di dividendi per mantenere un livello adeguato di liquidità dopo l’acquisizione di Chrysler. La scommessa globale di Marchionne è appena cominciata.

il Fatto 30.1.14
Lo storico Marco Revelli
“Il silenzio del governo lascia senza parole”
di Carlo Di Foggia


“Il silenzio della politica è assordante”. Marco Revelli, classe 1947, torinese, storico e sociologo, da sempre attento all’evoluzione di quella che fu la Fabbrica italiana automobili Torino, non è stupito dalla notizia che la nuova Fiat Chrysler Automobiles avrà sede in Olanda, pagherà le tasse a Londra e si quoterà a New York.
Torino non è menzionata.
Era ampiamente prevedibile, quello che è davvero preoccupante è che il governo non se ne preoccupa. Il suo silenzio lascia senza parole.
Per il premier la sede è una questione secondaria, conta l’occupazione.
La questione fiscale non è assolutamente irrilevante. Mentre si tartassano le famiglie, c’è un colosso industriale e finanziario che si sposta altrove. È un grosso cespite che se ne va, una gigantesca fuga di capitali. E poi sull’occupazione viene da ridere.
Si riferisce alla cassa integrazione?
Gli impianti produttivi italiani sono per tre quarti svuotati, Mirafiori lo è per otto decimi. Non hanno più un ruolo produttivo. Non serve a nulla che il sindaco Fassino si senta rassicurato dal fatto che esista ancora uno stabilimento torinese. É una finzione, perché sono inutilizzati. La Cig in quasi tutti gli stabilimenti è solo la conseguenza di una scelta fatta a monte.
Quale?
L’abbandono delle produzioni, e presto di quasi tutto quello che ancora resta a Torino. A questo punto il problema è anche un altro. Il corpo dell'azienda, in Italia, è morente; il cervello va fuori; prima o poi anche il cuore lo seguirà. Sta già avvenendo.
Che cosa è rimasto in Italia?
La progettazione, il design, tutto quello che è legato al lavoro intellettuale. Tutto questo ha sempre avuto un ruolo molto importante a Torino. La tecnologia è già in parte migrata in America, inevitabile che anche il resto finisca lì.
La politica se n’è accorta tardi?
Il passo compiuto ieri è quello definitivo. Ma gli alibi, per gli ingenui, erano già saltati molto tempo fa. Non c’era bisogno di un atto formale per capire che la Fiat non è più italiana. Non lo era già da un pezzo. Almeno dal piano industriale del 2010.
Si riferisce a “Fabbrica Italia”?
Quando Marchione lo annunciò, chiese l’anima ai suoi operai. Oggi, dopo quasi quattro anni molta parte di quel piano è evaporata.
Sergio Marchionne ha definito l’atto di nascita di Fiat Chrysler, il risultato più importante della sua carriera.
Il clima di festa dei vertici dell’azienda è comprensibile. Come ha spiegato Marchionne, erano almeno cinque anni che perseguivano questo progetto. Stupisce che lo stesso clima sia condiviso da una parte del mondo politico italiano.
Si riferisce al Pd?
Non solo. Ma certo il sostanziale silenzio dei democratici è emblematico. La sinistra non esiste più, nessuno di questi ha a cuore gli interessi degli operai.
Che cosa avrebbe potuto fare il governo per incidere sulle scelte di un gruppo industriale privato?
Quello che è stato fatto in tutti gli altri paesi. Dall’amministrazione Obama in America, alla Francia, alla Germania, tutti hanno sostenuto l’industria automobilistica. La Fiat era uno degli ultimi campioni industriali del Paese. E lo abbiamo lasciato andare via per mancanza di idee, di senso di responsabilità e di una cultura moderna.

il Fatto 30.1.14
Romiti: “Amareggiato. È la fine di un’epoca”
di Gianni Barbacetto


FU PROPRIO LUI A PRENDERE LA GUIDA DELL’INDUSTRIA DI TORINO CON LA MISSIONE DI DIVERSIFICARE: MENO AUTO, PIÙ FINANZA

Milano La Fiat (Fabbrica Italiana Automobili Torino) non c’è più. Al suo posto, da ieri c’è la Fca (Fiat Chrysler Automobiles). Sede legale in Olanda, sede fiscale a Londra, quotazione principale alla Borsa di New York, secondaria a Milano. Un’azienda nata in Italia, a Torino, nel 1899, dopo più d’un secolo è diventata compiutamente una multinazionale che ha reciso più d’una radice con la città d’origine. Intendiamoci, quello di ieri è solo l’ultimo passo di un lungo addio: la Fiat ha da tempo cambiato pelle, la sede in Olanda l’ha già avuta in passato, le sue fabbriche da anni sono all’estero. Ma è inutile far finta di non vedere: questo è un passaggio d’epoca. Ciò che c’è negli Stati Uniti pesa molto di più di quello che resta in Italia. Il pezzo forse più storico dell’industria italiana se ne va, dopo aver a lungo goduto dei soldi dello Stato italiano, alla ricerca dei luoghi dove far arrivare più benefici ai suoi azionisti. È il mercato, bellezza. Ma almeno si possa dire che questa operazione lascia una città più povera e un Paese industrialmente più fragile. Ciò che va bene alla Fiat va bene all’Italia, diceva Gianni Agnelli. Da ieri questo motto non vale più.
“LO SO GIÀ che cosa vuole chiedermi”, reagisce Cesare Romiti appena viene raggiunto al telefono. “Ma non voglio parlare. Mi amareggia troppo. È un mondo in cui non mi trovo più”. Chissà, c’è però chi fa risalire già a lui l’inizio del declino, quando arrivò da Roma a Torino con il mandato della famiglia a diversificare, a fare meno automobili e più altro. Negli stessi anni, la famiglia Ford puntava invece sull’auto e faceva forti investimenti per provare almeno a giocarla, la partita mondiale che stava per iniziare.
Ora, se la nuova Fca va a porre la sua sede a Londra per motivi fiscali, vuol dire che la nuova multinazionale nasce da una fuga dal fisco italiano. Le tasse saranno pagate ancora in Italia, garantiscono i registi dell’operazione, ma se davvero non cambiasse nulla, tanto valeva restare a Torino. Invece la fuga è conveniente, anche per i dividendi. Come fanno, allora, il governo e la politica a mostrarsi sereni e perfino euforici? Il sindaco Piero Fassino minimizza, ricordando che ciò che conta è la permanenza degli impianti produttivi a Torino. Ma Mirafiori è già una cattedrale in gran parte deserta, come le chiese d’Europa nel tempo della secolarizzazione. Nell’era della città fordista, le sue linee producevano sette modelli, adesso uno. Il presidente del Consiglio Enrico Letta si rallegra perché la Fiat è diventata un “attore globale” mentre prima era un “attore nazionale” e ritiene che la questione della sede “sia assolutamente secondaria: quello che conta sono i posti di lavoro, il numero di macchine vendute e la globalità di questo soggetto”. Si sa che la sede della Fiat è da tempo sull’aereo di Sergio Marchionne. Ma intanto, a proposito dei posti di lavoro evocati da Letta, gli occupati a Mirafiori sono ora 5 mila, erano 130 mila gli addetti Fiat a Torino nella fase di massimo sviluppo. Inutile, certo, farsi prendere dalla nostalgia per un mondo industriale che da tempo è finito. La ricetta suggerita dal capo del governo è dunque calcistica: “Tutti gli italiani devono fare il tifo per Fiat, perché riesca a diventare un grande attore globale”. Si può tifare, effettivamente, anche per una squadra straniera. Chi entra al Politecnico di Torino non può fare a meno di vedere che proprio lì accanto c’è il centro studi della General Motors. Sono venuti a Torino dall’America per imparare a fare i motori. Ora, chi li ha fatti per più di cento anni, va in America per garantire valore ai suoi azionisti. E chi ha il coraggio di dire che questa storia poteva andare diversamente? Il fordismo è morto da tempo, l’automobile è diventata un prodotto “cow”, maturo, il mondo si è globalizzato. C’è il vento della storia che soffia, sopra i tetti del Lingotto, sopra le porte di Mirafiori. Come l’angelo di Benjamin, è sospinto inesorabilmente di spalle, con le ali inutilmente dispiegate e con lo sguardo volto all’indietro, a contemplare macerie. Chi ha il coraggio di confrontarsi con un simile soffio? Eppure questo sarebbe il mestiere della politica. Avere l’ambizione di misurarsi con i processi storici cercando di guidarli, non di esserne travolti. Obama ci sta provando: se Marchionne va in America, è perché gli Stati Uniti – anzi, la politica degli Stati Uniti – gli ha garantito le condizioni economiche per svilupparsi là, salvare la Chrysler, sposarla con la più piccola Fiat.
GLI AGNELLI, intanto, se ne sono andati da tempo. Non vivono neppure più a Torino, hanno più interessi in Asia che in Europa. E i soldi chissà dove, se è vero che le indagini fatte dopo le proteste di Margherita Agnelli per la spartizione dell’eredità dell’Avvocato hanno fatto intravedere un malloppone nascosto all’estero, il mitico tesoro di Gianni Agnelli, oltre 1 miliardo di euro. Almeno in questo, c’è continuità storica. La Fiat di Marchionne fugge dal fisco italiano, come già ne era fuggito il tesoro dell’Avvocato, che in fondo si considerava già lui una multinazionale.

l’Unità 30.1.14
Camusso
Le scelte del gruppo impoveriscono ancora il Paese


«Preoccupa che un gruppo come Fiat decida di andare a pagare le tasse in un altro Paese facendo un’operazione anche qui di impoverimento». Così la leader della Cgil, Susanna Camusso, sul trasferimento del domicilio fiscale del nuovo gruppo nato dalla fusione di Fiat e Chrysler. Anche ieri Camusso è tornata a lamentare l’assenza di un tavolo nazionale sul settore dell’automotive. «In molte occasioni abbiamo detto che serve capire le dinamiche del sistema automobilistico nel nostro paese», ma «non c'è un luogo di discussione».

l’Unità 30.1.14
Temi etici, il coraggio di leggi avanzate
di Maurizio Mori

Presidente Consulta di Bioetica

EUGENIO MAZZARELLA HA RAGIONE QUANDO OSSERVA CHE SUI «TEMI ETICI, SE SI VUOLE, SI PUÒ FARE SUBITO» (L’UNITÀ, 27 GENNAIO, P. 5) visto che queste leggi non hanno costi, e si possono varare anche in tempo di crisi come il nostro. Non solo: se quelle in materia sono buone leggi, tutelano la dignità delle persone, rafforzano la fiducia nelle istituzioni e hanno positivi ritorni economici. Per questo non si dovrebbe esitare un istante a vararle. Ma per elaborare una legge si deve partire da una visione generale della situazione. Per il collega Mazzarella il punto di partenza è il fatto che quelli etici sarebbero «gli unici temi che godono, nel Paese reale, di “larghe intese” naturali, per soluzioni affidate al buon senso, a un diffuso sentire comune».
Su questo, dissento, perché a volte il «buon senso» o il «sentire comune» sono in contrasto con l’etica, ed è sbagliato credere che l’etica coincida col «sentire comune». Fino al 1975 il sentire comune di larga parte degli italiani era contrario alla «parità dei coniugi», la cui introduzione suscitò aspre controversie: allora era una norma «avanzata». Ben presto ci si accorse che aveva colto il verso della storia e ebbe positivi effetti sociali per tutti, inclusi i conservatori sessisti che rivorrebbero il capofamiglia maschio.
Oggi, con molta sorpresa, apprendo che Mazzarella ritiene che il ddl Calabrò proposto nel marzo 2009 offra una soluzione «socialmente condivisa». Dimentica però che fu presentato in fretta e furia dal governo Berlusconi per contrastare il caso Englaro, e che i medici giudicarono quel testo del tutto inadeguato e inaccettabile (a dir poco). Anche qui, rilevo che come minimo il «buon senso» di Mazzarella è in netto contrasto con le indicazioni deontologiche dei medici. Può darsi che per alcuni (i conservatori) queste indicazioni siano «avanzate», ma è facile che presto risultino benefiche per tutti.
Discorso simile sui i gay, ai quali il «comune sentire» riconoscerebbe il diritto alla «unione civile» ma non al «matrimonio», la cui pretesa sarebbe frutto di «un’omologazione ideologica». È troppo comodo, caro Mazzarella, relegare nel calderone delle vecchie «trincee ideologiche» tutte le opinioni difformi da ciò che presumi essere il «buon senso» o il «comune sentire». Basta leggere l’articolata sentenza Windsor vs Usa (26 giugno 2013) della Corte Suprema americana per vedere che l’esclusione dei gay dal matrimonio lungi dall’essere razionale è un’iniqua discriminazione frutto del pregiudizio etero-sessi-
sta, neologismo con cui indico chi crede che i sessi siano solo due (senza tenere conto delle più recenti conoscenze scientifiche). Anche qui, può darsi che per alcuni quest’idea sia «avanzata»: ma è forse un delitto avere idee innovative? Non è meglio che le buone leggi precedano e indirizzino la vita sociale? Il legislatore, cioè il Parlamento eletto dal popolo perché rappresenta (dovrebbe rappresentare) la miglior parte della società, fa come il bravo urbanista progettatore di territori: prevede in anticipo i flussi di traffico e progetta le strade in modo da favorire la viabilità e prevenire le file e gli ingorghi, senza restare ancorato al «comune sentire» che spesso è sordo alle esigenze emergenti e chiuso al futuro.
Per elaborare buone leggi sui temi etici occorre partire dalla considerazione che la rivoluzione biomedica ha già cambiato e sta sempre più cambiando alcuni parametri tradizionali. Non bisogna avere paura della scienza e pensare che debba essere messa subito al guinzaglio: la scienza è la cosa migliore prodotta dall’uomo negli ultimi 4 secoli. L’etica, quella vera e razionale, ci impone di individuare le regole che – tenuto conto dei progressi scientifici e della rivoluzione biomedica – favoriscono la dignità e il benessere di tutti nelle nuove condizioni storiche che già sono in essere e si verranno sempre più a creare. Non è sempre facile scorgere quali esse siano, e per questo non sempre il «comune sentire» è adeguato. Forse gli esperti sanno vedere meglio: come il bravo urbanista prevedendo i flussi di traffico sa favorire lo sviluppo del territorio, così il legislatore accorto prevedendo le dinamiche sociali sa come favorire la dignità delle persone e aumentare il benessere di tutti.
In Italia, dopo la stagione delle grandi (e benefiche) riforme sociali degli anni ’70 (statuto dei lavoratori, riforma psichiatrica, sanità pubblica, aborto, ecc.) sui temi etici ha prevalso l’atteggiamento conservatore. Solo la magistratura ha contenuto il possibile catastrofico arretramento contrario ai principi della Costituzione (si pensi alla legge 40). Per i partiti della sinistra, che promettono di innovare il Paese, è forse giunto il tempo di rompere gli indugi e pensare a leggi «avanzate» che sappiano favorire le dinamiche sociali, e non intasarle in omaggio a tradizioni ataviche ormai obsolete o a un «sentire comune» informato a queste.
In questo senso, oltre riconoscere presto il matrimonio gay, c’è da ripensare la legge sulla fecondazione assistita in sostituzione della assurda legge 40/2004, c’è la legge sulla ricerca scientifica con le cellule staminali, embrionali e non, c’è la legge sul fine vita che garantisca l’autodeterminazione nel rifiuto delle cure e non impedisca l’eutanasia già in discussione in tutti i Paesi avanzati (Gran Bretagna, Francia, ecc.), c’è da pensare a un Comitato Nazionale per la Bioetica più pluralista e meno succube alle prospettive cattoliche, e via dicendo.
L’elenco è incompleto e l’agenda sul tema è densa: se si vuole far ripartire il Paese si devono fare leggi che aggiornino le modalità di convivenza civile circa i cosiddetti «temi etici» sulla scorta di un’etica che non abbia paura della scienza e sappia guardare avanti anche abbandonando quel «sentire comune» che spesso dipende da un passato che ormai non macina più.

il Fatto 30.1.14
Regalie mondiali
Si chiamano istituti di Cultura ma sono feudi per gli amici
di Andrea Valdambrini


Bruxelles Nomine da ‘parentopoli’, scelte di dirigenti quanto meno discutibili e poca chiarezza. Questi sembrano essere i mali che affliggono gli Istituti italiani di Cultura ai cui vertici vanno, e vengono, persone scelte non sempre solo per meriti.
L’ultimo di una lunga serie di conflitti è scoppiato sulla prestigiosa sede di Bruxelles. L’altro ieri la Farnesina dirama un comunicato relativo alla posizione della direttrice dell’istituto di Cultura, Federiga Bindi. Dalla nota si apprende come “il rapporto di fiducia con il ministero degli Esteri è venuto meno anche a seguito delle risultanze di un’indagine ispettiva svolta congiuntamente dai ministeri di Esteri ed Economia e delle contestazioni mosse dagli ispettori nei confronti della direttrice a fronte delle gravi irregolarità amministrativo-contabili. La situazione è tuttora all'esame degli organi di controllo”. Si tratta, tecnicamente, di un ‘non-rinnovo’, dato che l’incarico della Bindi sarebbe arrivato a scadenza naturale il 9 marzo.
L’intervento dall’alto arriva dopo che, la scorsa settimana, proprio la direttrice uscente – nominata nel marzo 2012 da Franco Frattini - aveva accusato la Farnesina. Niente irregolarità, anzi due anni di successi di pubblico, risparmi di spesa e conti in ordine. Piuttosto: “La nomina di un Direttore per Chiara Fama”, scriveva Bindi riferendosi al modo in cui 10 dei 90 istituti di cultura italiana nel mondo è effettuata sulla base d’una legge del ‘90 “è decisione politica e vi è stata una decisione politica del ministero di togliere il Chiara Fama a Bruxelles per spostarlo altrove… rimettendo dunque un burocrate alla guida” dell’Istituto di Bruxelles. Con la Bindi si schierano in modo bipartisan molti europarlamentari, tra cui Niccolò Rinaldi (Italia dei Valori), promotore di una petizione che ha raggiunto le 2000 firme.
In generale il sospetto è che la non conferma di Federiga Bindi sia dovuta a uno specifico interesse del ministro degli Esteri Emma Bonino. Girano voci che attribuiscono il dichiarato proposito di ridimensionare l’Istituto di Bruxelles per portare alla nomina di una persona di fiducia della Bonino in quello di Istanbul. “Oltretutto”, dichiara Bindi al Fatto “le presunte irregolarità di cui sono accusata sono l’eredità delle precedenti gestioni”. Contattata la Farnesina accusa Bindi di “pesanti irregolarità accertate degli ispettori del ministero delle Finanze”, contesta la realtà dell’ipotesi Istanbul e si chiude in un ‘no comment’ riguardo al tema dei contratti degli insegnanti.
Cosa sia la “chiara fama” è ironicamente oscuro. Tra i casi, spicca la nomina di Gabriella Podestà, ex moglie dell’ex ministro della Cultura Sandro Bondi all’Istituto di cultura di New York. A Parigi, dove il direttore era stato il fratello di Giuliano Ferrara, l’incarico è andato nel 2012 a Marina Valensise, ex giornalista del Foglio di Ferrara ma soprattutto sorella dell’ambasciatore a Berlino Michele Valensise. Caterina Cardona, invece, ex Scuderie del Quirinale, dirige l’Istituto di cultura di Londra con il placet di Clio Napolitano.

Repubblica 30.1.14
“Il caccia F-35 fragile e inaffidabile”
Il Pentagono sferza la Lockheed: “Problemi anche al software”
di Giampaolo Cadalanu


NON finiscono mai i problemi dell’F-35: doveva essere il cacciabombardiere del futuro, ma i guai di messa a punto rischiano di renderlo operativo in tempi così lontani da rendere insignificante il vantaggio strategico tanto apprezzato dagli Stati maggiori. A sottolineare le difficoltà del sistema d’armamento più costoso della Storia sono ancora una volta i tecnici del Pentagono, che seguono con pignoleria lo sviluppo del programma  Joint Strike Fighter e in passato ne hanno già evidenziato i punti deboli, dal casco di comando alla vulnerabilità ai fulmini.
A firmare l’ultimo rapporto è il capo della sperimentazione del Pentagono, Michael Gilmore: secondo i test condotti sul campo, in questa fase dello sviluppo «le prestazioni sull’operatività complessiva continuano ad essere immature» e rendono necessarie «soluzioni industriali con assistenza e lavori inaccettabili per operazioni di combattimento». In altre parole, la macchina è inaffidabile. Sotto accusa è fra l’altro la robustezza complessiva di fusoliera e motori: in almeno cinque occasioni i tecnici hanno trovato «significativi segni di cedimento», cioè crepe, che richiederanno nuovi aggiustamenti e con tutta probabilità un aumento del peso, con conseguente diminuzione delle prestazioni. Il peso, fra l’altro, è ormai vicino al limite stabilito nelle specifiche delle Forze armate Usa, e questo significa che lo spazio per le correzioni è molto limitato, sostiene Gilmore.
Anche il software di gestione, estremamente complicato, è un problema, soprattutto nella versione “B” a decollo corto e atterraggio verticale, destinata al corpo dei marines ma fortemente voluta anche dalla Difesa italiana per sostituire gli Harrier sulla portaerei Cavour. Secondo il rapporto di Gilmore il programma fornisce prestazioni definite «inaccettabili» e non è sicuro che l’F-35 B possa essere operativo entro la fine del 2015. Lockheed-Martin invece garantisce di poter fornire entro giugno come combat-ready gli 8,4 milioni di linee del software completo.
Secondo l’azienda americana il rapporto Gilmore registra anche progressi ed è in sostanza parte del dibattito legato ai fortissimi stanziamenti necessari, prova di trasparenza da parte del Pentagono. Ben diverse le condizioni in Italia, dove le scelte della Difesa sembrano sottratte a ogni possibilità di valutazione. Ne è una prova il rapporto diffuso nei giorni scorsi dal Center for International Policy, un centro studi americano secondo cui la Lockheed ha «grandemente esagerato» nel valutare il numero di posti di lavoro creato dal programma F-35, e le cifre indicate andrebbero dimezzate. Nonostante l’Italia ospiti il secondo stabilimento di costruzione del-l’F 35, e le decisioni strategiche siano state prese tenendo conto dell’occupazione, nessuno alla Difesa ha commentato il rapporto.

Repubblica 30.1.14
“I cristiani valgono più dei musulmani”. Bufera sul cardinale di Colonia


BERLINO — «Io dico sempre che una sola delle vostre famiglie rimpiazza tre famiglie musulmane». Parole del cardinal Joachim Meisner, arcivescovo di Colonia, pronunciate per elogiare il gruppo cattolico conservatore spagnolo “Cammino neocatecumenale”, che punta su famiglie numerose. Parole che hanno scatenato una tempesta di critiche, da parte della numerosa comunità islamica di Germania.
Non è da ieri che il cardinal Meisner suscita vespai di polemiche per le sue posizioni conservatrici. Fu lui per esempio a definire l’aborto “un crimine che mette in ombra tutti gli altri crimini”. Un’altra volta, ha definito la vita degli omosessuali. «qualcosa di degenerato, contro natura, in qualche modo affine al terrorismo». L’ultima frase-shock il cardinale l’ha pronunciata il 24 gennaio: «Intendevo solo elogiare la forte fede e l’impegno per la famiglia dei neocatecumenali», ha tentato di spiegare ieri Meisner. Troppo tardi e troppo poco, ritengono in molti. Bekir Alboga, del Ditib, l’influente unione musulmana turca, commenta: “Vi immaginate che reazioni susciterebbe un alto religioso islamico che parlasse così delle famiglie cristiane?».
(a.t.)

La Stampa 30.1.14
Il caso Irlanda
Abusi sui minori
Anche lo Stato è colpevole
di Vladimiro Zagrebelsky


La questione degli abusi sessuali contro minori in istituti religiosi è tornata, in modo inedito, davanti ai giudici. Il ricorso presentato da un’associazione Usa alla Corte penale internazionale contro la Chiesa e i suoi più alti vertici era subito parso solo propagandistico ed era stato, infatti, rapidamente dichiarato irricevibile. Dopo varie sentenze di giudici americani chiamati a decidere sulla responsabilità civile delle diocesi in favore delle vittime di abusi, si apre un nuovo e importante profilo di responsabilità, con un essenziale chiarimento di principio. Questa volta sono gli Stati ad essere chiamati in causa. La Corte europea dei diritti umani ha dichiarato che l’Irlanda è responsabile di violazione del divieto di trattamenti inumani e degradanti nei confronti di una bambina che in una «scuola nazionale» aveva subìto ripetuti abusi sessuali da parte di un insegnante.
Le «scuole nazionali» ricevono in Irlanda la quasi totalità degli alunni, sono scuole finanziate dallo Stato, ma sono gestite da enti religiosi: nell’oltre il 90% dei casi cattolici, come nella vicenda giudicata dalla Corte europea. Le numerose proteste di genitori di alunni nei confronti di un insegnante (laico), indicato come responsabile di abusi sessuali, non avevano trovato ascolto da parte della scuola amministrata dalla diocesi, che non aveva denunciato il responsabile né alla polizia, né al Ministero dell’Istruzione. Il responsabile si era dimesso da quella scuola, per poi essere assunto in altra «scuola nazionale». Venuta alla luce la vicenda dopo quasi trent’anni, egli era stato infine condannato per abusi su ventuno allievi e finalmente l’autorizzazione all’insegnamento gli era stata ritirata.
Una vicenda molto grave evidentemente, che si iscrive nel quadro di minimizzazione e copertura che è venuto in luce negli ultimi anni in molte parti del mondo, suscitando scandalo e spingendo le autorità ecclesiastiche centrali ad un nuovo e più rigoroso atteggiamento. Ma non è questo l’aspetto che merita adesso di essere sottolineato. Per ogni verso la vicenda non si distingue da tante altre. Tuttavia fino ad ora, nel dibattito pubblico, l’attenzione era stata monopolizzata dall’atteggiamento tenuto in sede locale o centrale dai responsabili della Chiesa, negando alcuni che vi fosse stata tolleranza colpevole e invece lodando altri il nuovo rigore instaurato. Sullo sfondo, implicito ma ben chiaro, stava una sorta di riconoscimento che tutto sommato si trattava di affare interno alle istituzioni e alle regole ecclesiastiche, con i loro giudici e le loro sanzioni. Una questione di libertà religiosa, da gestire all’interno della Chiesa e da cui era bene (prudente) che lo Stato rispettosamente si astenesse, voltando lo sguardo altrove. Si criticava perciò la Chiesa e ad essa si chiedeva un diverso atteggiamento. Quasi che delitti gravissimi, commessi sul suo territorio potessero esser ritenuti extraterritoriali rispetto allo Stato, ai suoi giudici e alle sue sanzioni. Un residuo dell’antica doppia giurisdizione penale ecclesiastica e dello Stato, in cui quest’ultimo si ritraeva lasciando il campo all’altra. Ed è questo invece che la Corte europea nega. Lo Stato non può sottrarsi al suo obbligo di vigilanza, prevenzione e repressione penale, quando in gioco sia la protezione di persone deboli come sono i bambini nelle scuole o in generale coloro che si trovano in situazioni che condizionano la loro libertà o impongono il silenzio.
L’Irlanda è stata condannata per non aver messo in opera un sistema legislativo e amministrativo, di obblighi e di prassi ispettive di controllo, che pienamente rispondesse alla responsabilità che incombe sullo Stato in generale sul suo territorio e in particolare in ambiti lasciati alla gestione altrui, come quella scolastica, in cui possono esser commessi gravi delitti contro persone vulnerabili. Il principio in sé non può sorprendere. Sorprendente era invece che di fronte al fenomeno venuto in luce si discutesse solo della debolezza o tolleranza delle istituzioni ecclesiastiche, facendo intendere che ci si sarebbe aspettati da esse – e non anche dallo Stato maggior fermezza e rigore. Se dunque il principio affermato non è sorprendente, la sentenza della Corte europea non è per questo meno importante. Indipendentemente dalla responsabilità dei superiori ecclesiastici, sia nell’ambito delle istituzioni della Chiesa, sia nei rapporti con le autorità dello Stato, su queste incombe l’obbligo di agire, revocare autorizzazioni, assicurarsi che reati non vengano commessi, raccogliere e indagare sulle notizie e sanzionare le violazioni della legge penale. In gioco, in vicende come quelle giudicate dalla Corte europea, è il diritto dei singoli, tanto più se deboli e vulnerabili, ad essere comunque protetti dalle leggi e dalle istituzioni dello Stato.

il Fatto 30.1.14
L’appello
“Tsipras per l’Europa dei popoli contro lo strapotere della finanza”
di Gustavo Zagrebelsky


Oltre dodicimila cittadini hanno già deciso di impegnarsi per una lista autonoma della società civile alle elezioni europee, che candidi Tsipras alla Presidenza di Bruxelles, firmando sul sito www.micromega.net   l’appello promosso nei giorni scorsi da Andrea Camilleri, Paolo Flores d’Arcais, Luciano Gallino, Marco Revelli, Barbara Spinelli, Guido Viale.
L’Europa ha smarrito gli ideali originali, tradendo la volontà degli stessi Padri costituenti. Prima che muoia del tutto, è necessaria una “scossa”. Per questo aderisco all’appello per la costruzione di una lista autonoma e della società civile che sostenga Alexis Tsipras alla Presidenza della Commissione di Bruxelles . Dietro tale candidatura non si cela il rifiuto dell’Europa o il dilagante e pericoloso euroscetticismo invocato da forze nazionaliste e xenofobe, ma il ritorno ai veri valori dell’Europa, quella dei cittadini, dei diritti, dell’ambiente. Un’idea di comunità di popoli legati a una cultura e solidarietà, con un ruolo centrale nella politica mondiale. In contrapposizione all’Europa attuale: della finanza, della Troika, che impoverisce e strangola i Paesi in nome dell’austerity e del rigore. Siamo alla smentita più clamorosa dei principi marxisti secondo i quali da un sistema economico si genererebbe sempre una sovrastruttura politica. Viviamo invece in un’Europa in cui il sistema finanziario è fuori da qualunque controllo politico, si autogoverna. Senza alcun freno o limite. Così, la cittadinanza europea si sta sgretolando diktat dopo diktat e, di questo passo, l’illusione e il risentimento nei confronti delle istituzioni europee è destinato ad aumentare. Inoltre, da costituzionalista , aggiungo la seguente considerazione: l’Italia ha aderito all’Unione europea in base all’articolo 11 della nostra Carta, il quale – nella seconda parte – consente la cessione di “pezzi” della propria sovranità in favore di istituzioni sovranazionali che si pongono lo scopo di creare un’integrazione sempre più stretta tra i popoli. Ma la cessione di sovranità è subordinata a due principi: la pace e la giustizia. In questa nostra Europa, così costruita, pare palese che tali valori stiano venendo meno. Quando parlo di “guerra” mi riferisco ovviamente non a operazioni militari (per fortuna scongiurate nel continente) bensì allo strapotere della finanza che per propri interessi ed equilibri sta assoggettando intere nazioni. Nelle istituzioni europee va reintrodotta linfa culturale, l’amore per un’altra idea di Europa e quell’energia politica del progetto originario d’unità nato a Ventotene dopo la Seconda guerra mondiale. Dobbiamo ritornare a poter dire con orgoglio di essere “cittadini europei”. Per questo sostengo la lista Tsipras. Prima che sia troppo tardi.

l’Unità 30.1.14
L’offensiva di Obama contro le disuguaglianze
Il presidente avverte che agirà con o senza il sostegno del Congresso
Il discorso sullo stato dell’Unione spia dello stallo politico di Washington
di Gabriel Bertinetto


Con voi o senza di voi. È la sfida che Barack Obama lancia al Congresso, che blocca, ritarda, ostacola il varo delle leggi proposte dalla Casa Bianca. Nel discorso sullo stato dell’Unione, il presidente si dice determinato a usare i suoi poteri costituzionali per superare il sostanziale ostruzionismo di un Parlamento pesantemente condizionato dalla forza numerica dell’opposizione repubblicana, che alla Camera ha addirittura la maggioranza.
«Con o senza il Congresso», dice Obama, varerà alcuni provvedimenti che non possono più essere rinviati. «L’America non se ne sta inerte. E io neppure. Così, in ogni momento e situazione in cui mi sia possibile farlo, prenderò iniziative per dare maggiori opportunità a un più gran numero di famiglie americane, anche senza passare attraverso il consueto iter legislativo». In particolare l’azione presidenziale si concentrerà sui modi per affrontare il problema che in questa fase appare centrale: l’aumento delle disuguaglianze e il calo della mobilità sociale verso l’alto. Per usare le parole pronunciate davanti alle due Camere riunite per ascoltarlo, il presidente intende presentare «un insieme di proposte concrete, pratiche, per accelerare la crescita, rafforzare il ceto medio, e costruire nuove opportunità di ascesa dal basso alla classe media».
CRITICHE DEI REPUBBLICANI
Obama fa qualche esempio. Un decreto innalzerà la paga oraria minima (da 7,25 a 10,10 dollari) per i dipendenti delle ditte che vinceranno i prossimi appalti federali. Sempre per iniziativa diretta presidenziale sarà promosso un nuovo meccanismo di risparmio individuale a scopo pensionistico. E decollerà finalmente il piano per portare la banda larga in tutte le scuole. Ciascuno di questi progetti è già stato portato all’attenzione del Parlamento, e si è arenato nelle secche dell’ostruzionismo repubblicano o dell’indifferenza mostrata dalle componenti conservatrici dello stesso partito democratico. Per cui Obama rompe gli indugi. Lui andrà avanti, fin dove le regole glielo consentono. Il Congresso si adegui.
Ma il punto è proprio questo. Cosa può davvero fare da solo il presidente? Prendiamo la questione del salario minimo. Da tempo la Casa Bianca chiede alle Camere una legge che riguardi tutti i lavoratori. Poiché niente si muove nella palude congressuale, lui ora va avanti per conto suo, ma ha facoltà di intervenire solo sulle aziende che ottengono commesse dallo Stato. Anche in materia di previdenza sociale, può agire direttamente su singoli aspetti e non sull’assetto globale che resta di competenza parlamentare. Idem per la riforma sanitaria o il sistema fiscale, dove il presidente può toccare solo alcune materie organizzative.
Non a caso i repubblicani liquidano le iniziative di Obama come «bazzecole», e rovesciando il tavolo accusatorio gli imputano di rinunciare a risultati più sostanziali, perseguibili solo scendendo sul terreno del processo legislativo. L’accusa viene da chi quel processo lo sta in realtà sabotando, ma gli argomenti hanno una loro logica. E i democratici faticano a rintuzzare attacchi come quello portato dal leader repubblicano John Boehner: «Il provvedimento sulla paga base riguarda solo i contratti futuri, e solo quelli pubblici. Mi chiedo quante persone ne saranno interessate? Immagino che la risposta sia intorno allo zero».
L’opposizione mette poi in guardia il capo di Stato da eventuali tentazioni di andare oltre i limiti che le leggi impongono alla sua autonomia decisionale: «Vigileremo attentamente perché c’è una Costituzione alla quale tutti abbiamo giurato fedeltà, lui compreso, e non può essere messa a rischio», ammonisce ancora Boehner. Ogni tempo ha il suo slogan. «Yes we can» andava bene quando la maggior parte degli americani aderiva entusiasta al sogno dei grandi cambiamenti che un leader ambizioso, intelligente e comunicativo faceva apparire realizzabili. Son passati sei anni dal magico 2008 di Barack Obama. Quel leader ambizioso, intelligente e comunicativo è sempre al suo posto. Ma i cambiamenti sono stati molto meno grandi di quello che tanti avevano sperato. E allora, quando nel discorso sullo stato dell’Unione, battezza il 2014 come «anno dell’azione», cerca di dare una scossa alla nazione e ai suoi rappresentanti politici. Ma a molti lo sforzo di passare all’offensiva e aggirare almeno in parte il Parlamento, fa l’impressione opposta, la variante tattica di un leader costretto a giocare in difesa. Un leader che elenca i successi ottenuti (la ripresa del mercato edilizio, il calo della disoccupazione, la diminuzione del deficit), ma deve ammettere di non avere centrato obiettivi importanti. In qualche caso non può nemmeno gettare la colpa sui repubblicani. La riforma sanitaria ad esempio è entrata in vigore, seppure ridimensionata per evitare la bocciatura in Parlamento. Ma era stata mal preparata e alcune parti fondamentali del suo impianto necessitano correttivi, tanto che qualche mese fa Obama ha dovuto chiedere scusa alla nazione per gli errori compiuti.

l’Unità 30.1.14
Martin Schulz
Il presidente dell’Europarlamento: «Ci serve un sistema di allerta per segnalare casi di ineguaglianza crescente»
«La Casa Bianca ha ragione, non si può solo tagliare»
«Le politiche europee vanno riequilibrate, è arrivato il momento di voltare pagina»
di Marco Mongiello


BRUXELLES
Il dibattito sulla diseguaglianza aperto dal presidente Obama deve essere fatto anche nell’Unione europea, che dovrebbe dotarsi di «un sistema di allerta nei casi di ineguaglianza troppo crescente». È quanto dice a l’Unità il presidente del Parlamento europeo e candidato alla presidenza della Commissione Ue, Martin Schulz.
Negli Stati Uniti la diseguaglianza e la mobilità sociale sono al centro del dibattito politico. Secondo lei è il segno che gli Usa stanno scoprendo le virtù del modello sociale europeo o che i democratici americani hanno imparato la lezione della crisi più degli europei?
«Non posso che sostenere pienamente la volontà e le proposte del presidente Obama per riequilibrare un modello economico che ha portato a livelli sempre crescenti di ineguaglianza, erodendo la classe media e pensando che la ricchezza sarebbe calata dall’alto verso il basso. È presto per parlare di una svolta “europea” nella presidenza Obama, ma spero che dopo Obamacare, il Congresso possa sostenere questo sforzo riformatore sul salario minimo, educazione e eguaglianza nel salario tra uomo e donna. Spero anche che il dibattito possa riverberare in Europa. L’ineguaglianza non è solo un problema di giustizia sociale, ma è anche economico. In Europa abbiamo una diseguaglianza dentro gli Stati e una diseguaglianza tra gli Stati. E con la crisi sono cresciute entrambe».
Cosa ha fatto la Ue per ridurre le diseguaglianze?
«Il Parlamento europeo si è battuto per una politica regionale ambiziosa e per aumentare la dotazione del Fondo Sociale europeo, ottenendo un finanziamento di 10 miliardi di euro all’anno per investire in capitale umano e lottare contro gli aspetti peggiori della globalizzazione. Molto resta ancora da fare. I poteri, le competenze e le risorse dell’Unione in materia di lotta alle diseguaglianze restano limitati a causa dell’ostinazione degli Stati membri. L’Unione non può tassare e non può redistribuire risorse tra i suoi cittadini. L’Unione non può indebitarsi e ha un margine limitato per condurre politiche sociali. Negli ultimi anni ci siamo spesi per creare strumenti correttivi e di prevenzione per la politica macroeconomica, ma troppo poco è stato fatto per creare politiche anticicliche. Nel semestre europeo le raccomandazioni sulle politiche sociali rimangono non vincolanti. Questo è il frutto di una decisione politica: perché l’Unione si è dotata di strumenti così forti a favore della disciplina di bilancio, ma non contro la lotta alle diseguaglianza e alla povertà? Perché non è stata considerata una priorità».
Quali sono le proposte dei Socialisti & Democratici?
«Le politiche dell’Unione devono essere riequilibrate: abbiamo imposto patti di stabilità, una lotta senza quartiere al deficit e al debito, abbiamo creato troike e bail-out. È arrivato il momento di voltare pagina, per un’Europa che sia orientata anche a una crescita giusta, sostenibile e di qualità. Dobbiamo abbandonare l’ossessione che ci ha pervaso e che prevede che solo attraverso i tagli si potrà riacquistare fiducia e competitività. Si guardi al caso americano o giapponese. In queste economie sviluppate la crescita sta ritornando e le politiche perseguite sono certamente più progressiste di quanto non lo siano state in Europa in questi anni. Un altro tema che deve acquistare nuova centralità anche a livello europeo è la lotta all’evasione fiscale: una delle forme più subdole attraverso cui le ineguaglianze vengono alimentate. Per questo, l’Unione deve riuscire a imporre la sua forza politica a Paesi terzi, superando logiche bilaterali che portano a un risultato peggiore per tutti. L’Unione europea può contribuire direttamente alla lotta alla diseguaglianza tra Stati attraverso la sua politica di coesione. Come candidato sono convinto che sia arrivato il momento di iniziare a esaminare la situazione sociale anche all’interno degli Stati e creare un sistema di allerta nei casi di ineguaglianza troppo crescente».

l’Unità 30.1.14
Prigionieri di Yarmouk. La fame è arma di guerra
di Umberto De Giovannangeli


Il girone più terribile dell’inferno siriano. Dove si muore anche di inedia e di freddo. Dove per sopravvivere si è costretti a mangiare cani e gatti randagi. Dove le madri si prostituiscono per un pezzo di pane e del latte per i propri figli. I paria dei paria: gli abitanti di Yarmouk, campo profughi palestinese a sud di Damasco. Di loro nessuno si occupa, nessuno si preoccupa. Almeno 20mila persone rischiano di morire di fame a Yarmouk. Le testimonianze che escono dall’inferno del campo sono strazianti. Racconta Ali, che prima che scoppiasse la rivolta anti-Assad era uno studente universitario: «Molti cani e gatti sono stati macellati e mangiati», dice. La situazione «è ormai precipitata»: a Yarmouk l’emergenza umanitaria è alta, mancano cibo, medicinali e «un chilo di riso può arrivare a costare 100 dollari». «La situazione è talmente disperata che le donne vendono i loro corpi agli uomini che danno loro da mangiare», ha proseguito Ali. Ad oggi nel campo 78 persone, tra cui 25 donne e 3 bambini, sono morte per carenza di cibo e acqua. Zahira, vent’anni, è la più grande di otto fratelli. Tra le sue braccia ha visto morire Mahmud, il suo fratellino di 3 anni: «Da giorni racconta sparavano nella via dove abitiamo. Era impossibile uscire per potersi procurare qualcosa da mangiare. Mahmud aveva bisogno di latte in polvere e di medicine. Ma non potevamo uscire. I cecchini sparavano su ogni cosa che si muoveva».
IL PICCOLO MAHMUD
Come se non bastassero le armi, ecco la neve. Le scorte di combustibile scarseggiano, non sono sufficienti. L’energia elettrica va e viene. Le coperte non bastano per far fronte ad un freddo senza precedenti. «Ho provato dice Zahira a scaldare col mio corpo Mahmud. Aveva la febbre alta, tremava... poi se ne è andato con un sospiro, come altri bambini a Yarmouk». «Yarmouk afferma Christofer Gunness, portavoce dell’Unrwa, l’agenzia Onu per l’assistenza ai palestinesi, responsabile del campo è un luogo in cui i residenti vivono normalmente in condizioni di estrema sofferenza umana». Una sofferenza che ha raggiunto ormai livelli indicibili.
LA FINE DI ISRAA
Il volto e gli occhi scavati dalla denutrizione, la bocca riarsa, il maglioncino diventato troppo grande per un piccolo corpo ormai disidratato e senza forze. Poi, Israa al-Masri (la bimba della foto) non è più riuscita ad aggrapparsi alla vita. La sete e la fame, se la sono presa, a quattro anni, sotto una tenda di Yarmouk, il campo profughi diventato da non più di un anno deliberatamente un campo di concentramento. Lo assedia l’esercito di Assad che pensa che dentro si nascondano degli insorti. Non fa passare cibo, acqua, medicinali. Nessun corridoio umanitario per questo luogo dell’orrore. Il volto della piccola Israa ne è diventato ora il simbolo. I cecchini del regime sparano alle madri che tentano di raccogliere le foglie dagli alberi e le pochissime piante rimaste nei campi, per i loro figli. Si muore sotto il fuoco e di fame. Almeno quattro vittime al giorno. In questo campo di concentramento e di sterminio. «A Yarmouk ci sono solo scheletri con la pelle gialla», ha raccontato un testimone che è riuscito a fuggire e che ha aiutato a portar fuori dal campo l’ultima immagine di vita di Israa al Masri.
«Ogni giorno per la gente del campo è più difficile e duro del giorno che l’ha preceduto. Oggi non ha fatto eccezione. La mattina sono uscito di casa allarmato dalla voce in singhiozzi di tre bambini che andavano a scuola. Gli ho chiesto perché piangessero, uno di loro mi ha risposto: “Non mangiamo da due giorni e non abbiamo neanche le forze per andare a scuola”. Mentre parlavo coi bambini, una donna che portava con sé un altro piccolo è venuta verso di me e mihadetto: “Io e i miei figli non mangiamo un boccone da tre giorni”», racconta Mohammad Abu al-Majd, un abitante del campo profughi. «I colpi di artiglieria hanno demolito la mia casa -diceAhmed- e da un mese viviamo con mia moglie e i nostri quattro figli in una tenda. Non abbiamo di che sfamarci, se potessi scambiare la mia vita per salvare quella dei miei figli lo farei subito...». Un’infermiera di un ospedale locale ha dichiarato ad Amnesty International che dalla metà di novembre, quando le forze governative hanno assunto il controllo delle aree intorno a Yarmouk, diversi civili sono stati uccisi dai cecchini mentre stavano raccogliendo cibo nei pressi del campo. A Yarmouk manca il cibo e le forniture mediche sono scarse. Mancano cure specializzate che avrebbero potuto salvare molte delle vite ormai perse. La situazione è aggravata dalla mancanza di energia elettrica e dalla grave carenza di acqua.
L’Unicef stima che siano più di 5 milioni e mezzo i bambini bisognosi di aiuto. A dicembre, Amnesty International ha reso noto che «gli Stati europei hanno dato la disponibilità per accogliere solo lo 0,5 % dei profughi (12.000 persone rispetto ai 2.300.000 che hanno lasciato il Paese)». Poi ha aggiunto che «dovrebbero abbassare la testa per la vergogna». Una vergogna che si dilata riflessa negli occhi di Israa.

Corriere 30.1.14
Se Sochi rievoca il genocidio nascosto del popolo circasso
Così l’impero russo attuò la pulizia etnica
di Paolo Valentino


Chi sono
I circassi (detti anche adighé o adighi) sono uno dei più antichi popoli autoctoni del Caucaso. Oggi oscillano tra i quattro e i cinque milioni, quasi la metà vive in Turchia
Pulizia etnica
A metà del XIX secolo gli abitanti della Circassia, nel Nordovest del Caucaso al confine con l’impero Ottomano, furono costretti a lasciare la loro terra dai russi vittoriosi in quello che viene definito il primo moderno caso di pulizia etnica
I numeri
Tra il 1863 e il 1864 più di 700 mila circassi furono uccisi, 480 mila furono deportati e 80 mila rimasero nella propria terra

«La guerra fu condotta con severità implacabile e senza pietà. Avanzammo passo dopo passo, ripulendo irrevocabilmente fino all’ultimo uomo ogni pezzo di terra su cui i nostri soldati mettevano piede. I villaggi dei montanari vennero bruciati a centinaia, non appena la neve si scioglieva ma prima che le foglie tornassero sugli alberi. Calpestammo e distruggemmo i loro raccolti con i nostri cavalli. Spesso le atrocità sconfinarono nella barbarie, tra le fiamme delle izba, le urla dei bambini, i lamenti delle donne» (Mikhail Venyukov, ufficiale dello Zar).
Quando la prossima settimana Vladimir Putin aprirà con sfarzo e solennità le Olimpiadi di Sochi, uno spettro aleggerà sulla più costosa manifestazione sportiva della Storia. La scelta della località sul Mar Nero, nell’immaginario russo la cosa più simile alla Costa Azzurra dentro i confini della Federazione, evoca infatti un genius loci ignorato e volutamente rimosso per un secolo e mezzo. Zarista, sovietica o post-comunista, la narrativa ufficiale del Cremlino non ha mai trovato spazio alcuno per uno dei massacri etnici più terribili ma meno conosciuti dall’opinione pubblica mondiale.
Il genocidio dei circassi si consumò tra l’ottobre 1863 e l’estate del 1864. Ed ebbe i suoi momenti fatali, toccando le punte più estreme dell’efferatezza e dell’aberrazione, proprio tra le montagne e le valli intorno a Sochi, quelle che vedranno le imprese dei campioni dello sport. I sopravvissuti di una delle più antiche etnie autoctone del bulbo caucasico parlano di 1 milione e mezzo di morti, ma recenti studi storici pongono la barra a un minimo di 700 mila persone, cioè quasi la metà dell’intera popolazione circassa dell’epoca, uccise, morte di stenti o decimate dal tifo e dal morbillo.
Fu un genocidio deliberato e sistematico. Decisi a chiudere per sempre la partita del Caucaso, la guerra coloniale di conquista della regione che si protraeva da quasi cento anni, i comandanti zaristi scelsero la strada delle deportazioni forzate di massa delle popolazioni locali: gli abkazi, gli ubykh e gli adighi o circassi, com’erano stati ribattezzati secoli prima dai mercanti genovesi. Fu il comandante in capo in persona, il principe Mikhail Nikolaevich, fratello dello Zar Alessandro II, a ordinare la pulizia etnica.
«Il mito a lungo alimentato, che i comandanti russi diedero ai circassi la scelta di insediarsi a nord del fiume Kuban, è smentito dalle loro stesse testimonianze», spiega Walter Richmond, lo storico dell’Occidental College di Los Angeles che ha scritto il primo lavoro scientifico sul massacro. Come racconta nel passaggio in apertura l’ufficiale Venyukov, la tragedia ebbe un copione bestiale e sanguinario. E continuò anche sulla costa, dove i sopravvissuti furono lasciati a morire di fame e di malattie. Dopo alcuni casi di contagio a bordo delle loro navi, i russi smisero anche di trasportarli via mare in territorio ottomano e lasciarono ai turchi il resto della deportazione. Secondo Richmond, il principe Mikhail mentì anche allo Zar, che gli aveva ordinato un’indagine per mettere a tacere le voci sul quanto stava accadendo: «Rispose che non c’erano né epidemie, ne morti per fame, nascondendo deliberatamente il crimine».
Né il processo genocida si fermò dopo la mattanza del 1864: «Chi rimase nel Caucaso, forse il 5% della popolazione circassa, fu sottoposto all’assimilazione forzata o perseguitato dai cosacchi, cui fu permesso di insediarsi nella zona. Dopo la rivoluzione bolscevica, il regime sovietico ha fatto di tutto per impedire loro ogni possibilità di sviluppare una cultura unica: a nessuno fu permesso di tornare dai territori dell’ex impero ottomano dove si era diretta la diaspora».
Oggi la popolazione circassa sparsa nel mondo oscilla tra i 4 e i 5 milioni di persone, di cui 2 milioni vivono in Turchia e neppure 700 mila nella Federazioni Russa, dove agli occhi del potere rimangono invisibili. Quando Vladimir Putin fece il discorso di accettazione della sede olimpica, disse che gli abitanti originari della regione erano greci, come se dopo Giasone e gli argonauti non fosse successo più nulla. E tace il moderno Zar anche di fronte alla richiesta di asilo, che viene da migliaia di circassi in fuga dalla Siria: solo in pochi sono stati accolti dal Cremlino, senza facilitazioni per il transito e assistenza.
Resta l’Olimpiade, che punterà le luci della ribalta internazionale sugli stessi luoghi dove centinaia di migliaia di innocenti morirono senza ragione: dapprima considerata uno sfregio dalle comunità circasse, la scelta di Sochi viene ora invece vista come l’occasione per far conoscere al mondo il genocidio di un popolo dimenticato.

Repubblica 30.1.14
Gli estremisti sono diventati il motore delle proteste, spazzando via la folla pacifica delle prime ore
Armati e organizzati, fanno paura a molti
Kiev, fra le anime nere della piazza “Così la destra conquisterà l’Ucraina”
di Nicola Lombardozzi


KIEV L’Ufficio Lavori Sporchi è al quarto piano, proprio in fondo alle scale. Un ragazzo ossuto con la cresta alla mohicana, giubbotto antiproiettile e anfibi da marine, segna il confine tra la folla colorata e un po’ naif che ancora parla di Europa, e la «gente che fa sul serio».
Su un foglietto incollato alla porta c’è scritto a penna “Pravi Sektor”, “Settore di Destra”. Il mohicano ispeziona i documenti, impartisce ordini al walkietalkie, controlla il via vai di altri mohicani in occhiali neri e manganelli alla cintola che si scambiano tra loro sbrigativi saluti militari. Dentro non si va: «Zona riservata, aspettate fuori». Il loro capo, il colonnello Dmitrij Jarosh, sta a poche stanze e una decina di mohicani di distanza. Comunica via Facebook e ha già fatto sapere che si prende tutta la responsabilità della Rivoluzione per portare «avanti una battaglia che i politici, paurosi o inefficienti, non riescono a gestire».
Nel monumentale palazzone sovietico della Casa dei Sindacati, occupato a furor di popolo già i primi di dicembre e quartier generale della protesta ucraina, nessuno ammette di conoscerne l’esistenza. Migliaia di persone entrano ed escono ogni giorno, mangiano qualche fetta di pane al buffet, si fermano, tanto per scaldarsi un po’, a chiacchierare con i giornalisti arrivati da tutto il mondo. Ma di quelli del quarto piano nessunos a. E chi sa non ne vuole parlare. «Gente violenta — dice la dolce Sonja, militante del partito di Yiulia Tymoshenko — non vogliamo avere a che fare con loro». E invece sono lì, nella loro “zona riservata”, a coordinare le azioni più dure e spettacolari. Da qui hanno seguito la presa del ministero dell’Energia, conquistato con un blitz da commandos e poi liberato su disperata intercessione dell’ex pugile Klitchko, che tratta formalmente con il Presidente Yanukovich. Da qui programmano l’addestramento di migliaia di ragazzi che continuano ad arrivare soprattutto dalle campagne dell’Ucraina occidentale, quella più anti-russa e decisa a portare avanti la rivolta senza mediazioni. Sempre da qui decidono i blitz, le spedizioni punitive a caccia di “provocatori”, coordinano piani di rivolte in tutte le città del Paese. Forzano la mano con i loro exploit ai più cauti componenti della cosiddetta trojka composta da deputati eletti in Parlamento.
“Settore di Destra” è una sigla nuova e molto ambigua. Ne fanno parte, pare, non più di un migliaio di fedelissimi ma la rete di gruppi solidali, affratellati e in qualche modo alleati, è lunghissima. Sigle che fanno paura a chi conosce la storia ucraina. Trizub, (tridente) che venera l’eroe ucraino Stepan Bandera, collaboratore dei nazisti, forse ucciso dai sovietici, e simbolo del nazionalismo ucraino più estremo e violento. Poi ci sono “l’Esercito Patriottico Ucraino”, i neonazi di “Martello Bianco” e soprattutto quelli di Unà-Unso, vere e proprie truppe militari con tantodi basi di addestramento nei Carpazi che hanno già partecipato a molte campagne di guerra vera dal Kosovo (a fianco dei serbi) alla Georgia (contro i russi).
E le insegne rossonere di Unà-Unso sono quelle che ormai dominano la piazza. Hanno cominciato con le cucine da campo. Adesso marciano in fila per due pattugliando la grande area del centrodi Kiev conquistata dalla protesta.Non parlano, sanno di non essere presentabili ma di avere un ruolo fondamentale. «È come se si vergognassero di noi — dice guardandosi attorno uno dei giovanissimi mohicani di guardia — ma va bene così. Noi abbiamo distrutto la statua di Lenin, abbiamo occupato i palazzi. Noi abbiamo fatto capire a Yanukovich che se non scappa fa la fine di Ceauscesu. Che farebbero senza di noi?».
Molto più cauto uno degli ideologi di “Settore Destro”, Andrej Tarassenko. Se il suo capo, il colonnello, va in giro vestito da capo di truppe mercenarie con il frustino sottobraccio e la mimetica d’ordinanza, lui ha un aspetto da assistente universitario, barba curata, un innocuo maglioncino a rombi e lo sguardo perfino troppo sereno: «I politici hanno paura. Continueremo noi per tutti. Cacceremo Yanukovich e riporteremo la libertà. Non ci saranno scissioni tra Est e Ovest. Quelle le vuole l’Impero russo.Ma dovrà fare i conti con noi». Ma avete armi nascoste da qualche parte? Siete pronti a combattimenti veri e propri? Non temete di scatenare uno spargimento di sangue senza precedenti? Non c’è risposta, solo un sorriso inquietante e un cauto «vedremo».
Certamente le minacce dei duri di Destra fanno spesso il gioco dei tre leader politici della protesta. Molti pensano a un gioco delle parti classico tipo “poliziotto buono e poliziotto cattivo”. In particolare Tygniabok e Klitchko sono tentati di usare la forza degli estremisti per continuare ad alzare il prezzo, spaventare il presidente, coinvolgere l’Europa. Un patto segreto e pericoloso. A Tarassenko chiediamo che progetti ha per il dopo, che tipo di libertà cerca, che Paese futuro progetta: «Per il momento spazziamo via il nemico. Poi vedremo». E ritorna nella zona riservata scortato da quattro giovanotti a passo di marcia.

l’Unità 30.1.14
Lanzmann: «Perché ho voluto riabilitare l’ultimo degli ingiusti»
L’intervista fiume a Benjamin Murmelstein
il rabbino accusato di collaborazionismo
intervista di Gabriella Gallozzi


QUASI QUATTRO ORE. CHI CONOSCE CLAUDE LANZMANN SA BENE CHE IL SUO CINEMA È «FUORI FORMATO». È il suo dna che non accetta scorciatoie e semplificazioni, come per quei dodici anni spesi per realizzare Shoah, oltre nove ore di storia dell’orrore, cariche di dettagli e testimonianze che hanno svelato gli aspetti più oscuri dell’Olocausto. Oggi ad 87 anni, il grande autore francese, dopo numerosi documentari sul tema, ha rimesso le mani proprio su quei «vecchi materiali» per offrire un nuovo spaccato, un ennesimo tassello, alla complessità di questa pagina nera della storia del Novecento. È L’ultimo degli ingiusti, già passato a Cannes, al festival di Torino ed ora in sala con delle uscite mirate per il giorno della memoria, accompagnato dallo stesso regista. Quasi quattro ore di film, una lunga intervista girata a Roma nel ‘75, per ridare dignità ad una delle figure più controverse del mondo ebraico: Benjamin Murmelstein, l’ultimo capo del Consiglio ebraico del ghetto di Theresienstadt, accusato a guerra finita di collaborazionismo coi nazisti, imprigionato, assolto e poi esiliato proprio a Roma. Nonostante riuscì a mettere in salvo 121mila ebrei.
«Questo lavoro spiega Lanzmann è l’altra faccia di Shoah, che è un film epico, attraversato dall’inizio alla fine, dall’ineluttabilità della tragedia. Qui, invece, attraverso la figura del rabbino si affronta la debolezza della natura umana. Per questo anche se la sua è stata la prima intervista che ho girato l’ho esclusa da quel lavoro. Quello che mi ha colpito ascoltandolo è che lui non mente, è ironico, sarcastico, duro con gli altri e con se stesso». La definizione «ultimo degli ingiusti», infatti, l’ha coniata lui stesso parafrasando l’opera di Andrè Schwarz-Bart. Sulla sua ironia non si hanno dubbi fin dall’inizio: «Al momento dell’arresto racconta mi hanno chiesto: perché lei è vivo? Ed ho risposto: lei perché lo è?».
Risponde puntuale ed ogni domanda con dovizia di particolari il rabbino. Spiega la «menzogna» celata dietro al ghetto modello di Theresienstadt, creato a 60 kilometri da Praga da Eichmann, per mostrare al mondo come gli ebrei fossero «felici». Straordinario, in proposito, un filmato di propaganda che descrive una città quasi ideale in cui i bambini mangiano pane e burro, uomini e donne lavorano alacremente e ci sono persino il campo di calcio e gli appuntamenti culturali. Una menzogna che per molti ebrei significò la spesa di interi capitali per arrivare fin lì e ritrovarsi, invece, tra pidocchi, fame e violenza. Qui Benjamin Murmelstein cercò di gestire la situazione, tenendo testa ai comandi di Eichmann che lo incaricò di organizzare l’emigrazione forzata degli ebrei austriaci, dall’estate del ‘38 fino allo scoppio della guerra. Furono sette anni di «avventura» ma anche di «paura». Eichman nei ricordi del rabbino rivive come un pazzo esaltato, capace, scalpello in mano, di andare a distruggere le sinagoghe durante la Notte dei cristalli. Di truffare e arricchirsi continuamente ai danni degli ebrei. Ben diversamente, insomma, dal quel ritratto della «banalità del male» emerso dalle analisi di Hanna Arendt al processo voluto da Ben-Gurion. In possesso di un passaporto della Croce rossa, «l’ultimo degli ingiusti» avrebbe potuto fuggire facilmente in più di una occasione. Eppure scelse di rimanere riuscendo a mettere in salvo più di 120 ebrei, fatti emigrare a più riprese e sempre in condizioni difficilissime. Eppure la sua memoria è rimasta «oscurata» da quell’accusa di collaborazionismo. «Quando è morto conclude il regista il rabbino di Roma gli ha negato la sepoltura accanto alla moglie. E l’ho trovato scandaloso». Anche per questo Lanzmann a distanza di tanti anni ha scelto di raccontare la sua storia.

Corriere 30.1.14
Quel quinto di Neanderthal che vive in noi
di Anna Meldolesi


Lui era un massiccio Neanderthal, lei una bella ragazza anatomicamente moderna. O forse lui era un cacciatore sapiens e lei un’energica neandertaliana. Non sappiamo se si siano amati sulle coste del Mediterraneo o in un’oasi mediorientale, ma le genti che oggi popolano Asia ed Europa conservano ancora le tracce di quelle antiche unioni. Sembra una love story ambientata nel Paleolitico, e invece
è l’incipit dell’articolo con cui sono state presentate le ultime rivelazioni nel campo dell’antropologia molecolare. Due studi, pubblicati  su Science e su Nature , hanno confrontato il genoma di centinaia  di persone viventi con quello di un esemplare di Neanderthal vecchio 50.000 anni. La morale della favola  è che noi sapiens siamo anche un po’ neandertaliani e che incrociarci non è sempre stata una fortuna. Un paio di percentuali fotografano la relazione. Venti per cento è la porzione del genoma neandertaliano che sopravvive nelle popolazioni moderne. Sessanta per cento, invece, è la quota degli europei e degli asiatici moderni che hanno pelle, unghie e capelli almeno in parte neandertaliani. Gli africani no, perché gli incroci sono avvenuti solo dopo che i nostri progenitori ufficiali sono emigrati dalla culla dell’umanità. Dobbiamo essere grati ai nostri cugini estinti per l’impermeabilità e le capacità isolanti delle nostre fibre di cheratina, insomma. Peccato che in dote ci abbiano portato anche qualche brutta sorpresa, come i geni implicati in diabete di tipo 2, morbo di Crohn, lupus, cirrosi biliare. Forse per loro non erano dannosi, ma interagiscono male con il nostro Dna e ci fanno ammalare. Se pensiamo al nostro genoma come a un paesaggio, possiamo immaginare al suo interno una successione di oasi e deserti, in cui i geni neandertaliani hanno trovato casa o non hanno attecchito.
I deserti più inospitali sono risultati due. Uno è rappresentato dai geni espressi nei testicoli, dove si sviluppano gli spermatozoi. L’altro è il cromosoma X, che è presente sia nei maschi che nelle femmine (in queste ultime in duplice copia). Queste assenze suggeriscono che  tra i due gruppi umani che hanno convissuto per migliaia di anni ci fosse una distanza biologica tale da consentire il meticciamento ma al prezzo di rendere sterile una parte rilevante degli individui ibridi. Sarà anche vero che gli opposti si attraggono, ma questa è una storia di partner più che imperfetti. Quasi incompatibili.

Corriere 30.1.14
Ghezzi, la vita spezzata dall’utopia
La storia dell’anarchico lombardo inghiottito in un gulag
di Corrado Stajano


Che vita appassionata e tragica quella dell’anarchico Francesco Ghezzi, dall’orto delle Visitandine, nel cuore di Milano, alla Lubianka di Mosca a un gelido gulag in Siberia. L’ha ripercorsa un secolo dopo, con affetto, con pena mascherata, ma con il rigore dei documenti e il rispetto dei fatti, senza sposarne le idee, un nipote, il noto sindacalista Carlo Ghezzi, già segretario della Camera del lavoro di Milano, ora segretario della Fondazione Giuseppe Di Vittorio. Ne è nato un libro, Francesco Ghezzi, un anarchico nella nebbia (edizioni Zero in condotta).
Francesco, cugino del padre di Carlo, nacque nel 1893 a Cusano sul Seveso in una famiglia numerosa di contadini poveri, di rigida educazione cattolica. Nel 1900 la famiglia si trasferisce a Milano, in via Santa Sofia 7. Il padre Giulio trova lavoro come giardiniere all’Orticoltura Longoni e ottiene anche la gestione della portineria di un istituto religioso della Curia del cardinal Ferrari, allora arcivescovo di Milano. Il quartiere ha un aspetto sereno, con i barconi carichi di merce che scivolano sull’acqua dei Navigli.
Non è serena invece Milano, in quegli anni. Il conflitto sociale è aspro, la crisi della fine dell’Ottocento si fa sentire ancora, non si sono per nulla rimarginate le ferite del tragico 1898, quando il generale Fiorenzo Bava Beccaris sparò col cannone e con la mitraglia contro gli operai in sciopero. Ufficialmente i morti furono ottanta, pare invece che siano stati quattrocento.
Il ragazzo Francesco, sveglio e intelligente, finite le elementari, lavora a bottega, tornitore di lastre, poi cesellatore del bronzo, un artigiano provetto. Forse è proprio l’ambiente un po’ codino della famiglia a far di lui un ribelle. Carlo Ghezzi non è uno storico, ma conosce bene politica e società e sa inserire la vicenda dell’anarchico nel clima che incendia la città e l’intero Paese: tra la nascita delle organizzazioni sindacali — la Confederazione generale del lavoro fondata proprio a Milano nel 1906 —, gli scontri di piazza, la guerra di Libia del 1911.
Francesco a sedici anni viene arrestato — è la sua prima volta — durante un raduno di protesta. Frequenta un gruppo di anarchici, si definisce anarchico individualista: un sovversivo, secondo i rapporti di polizia. Prende parte a manifestazioni antimilitariste, aderisce all’Usi, la più importante organizzazione sindacalista rivoluzionaria europea, conosce nel 1913 Errico Malatesta, l’uomo di maggior prestigio del movimento anarchico italiano, conosce anche il Mussolini socialista, che va a cena più volte nella sua casa in via Santa Sofia. Poi la Grande guerra, con le polemiche tra gli interventisti democratici, i neutralisti, i sindacalisti rivoluzionari, gli anarchici schierati contro il conflitto mondiale. Francesco è sempre in prima fila, grida «Abbasso la guerra, viva l’Austria», viene arrestato più volte.
Chiamato alle armi, fugge in Svizzera, disertore. Nel 1917 è a Zurigo nel corteo festante che accompagna Lenin alla stazione da dove parte il famoso treno per Mosca. Viene arrestato anche in Svizzera, espulso, si rifugia a Parigi, può tornare in Italia solo nel 1920 dopo l’amnistia del governo Nitti.
La bomba del Diana segnerà come un’ombra nera la vita di Ghezzi. È il 23 marzo 1921 quando 160 candelotti di gelatina nascosti in una cesta esplodono alle 22,40 di quella sera: al teatro milanese è di scena Mazurka blu , l’operetta di Franz Lehár. I morti sono ventuno, i feriti ottanta. I sospettati sono subito gli anarchici che prendono le distanze, sconfessano l’accaduto. Ma due di loro confessano: Giuseppe Mariani, condannato all’ergastolo, Giuseppe Aguggini a trent’anni di prigione. Su Francesco Ghezzi — non ci sono prove — viene posta una taglia di cinquanta milioni. Scappa in Svizzera, poi a Berlino. Anni dopo sarà condannato a sedici anni di reclusione per associazione a delinquere.
La Russia è la grande madre, la patria del socialismo, il sol dell’avvenire. Francesco arriva felice a Mosca, ma la realtà, dopo un sereno periodo in Crimea, sarà cruda e amara. Dal 1924 Stalin è il segretario generale del Partito comunista, Francesco Ghezzi lavora in una gioielleria, tornitore di metalli preziosi. Mantiene i contatti con i vecchi compagni fuorusciti come lui e questo lo perde. Nel 1929 viene arrestato, condannato a tre anni di campo di lavoro per attività controrivoluzionaria. Intellettuali e politici di tutto il mondo, da Romain Rolland a Claude Autant-Lara, chiedono il suo rilascio, nel 1931 viene liberato. Lavora in fabbrica. Ha rapporti con Victor Serge, rivoluzionario anarchico, poi bolscevico, oppositore di Stalin proprio negli anni delle feroci purghe staliniane. Nel 1939 Ghezzi finisce alla Lubianka, accusato di trotzkismo, di sovversivismo, ed è condannato a otto anni di lavori forzati.
Tormentato dalla tubercolosi, viene destinato a Vorkuta, a nord del Circolo polare artico. Non rinnega mai la sua fede anarchica. Da allora non si sa più nulla di lui, scompare nelle nebbie della piccola Storia. Muore nel 1942, sarà riabilitato dalla Procura di Mosca solo nel 1994.
Un’altra vittima del tragico Novecento.

Il libro di Carlo Ghezzi, «Francesco Ghezzi, un anarchico nella nebbia», è pubblicato dalle edizioni Zero in condotta, pagine 123, e 10