venerdì 31 gennaio 2014

l’Unità 31.1.14
Come raddrizzare l’Italicum
di Luigi Ferrajoli

L’ASPETTO PIÙ GRAVE DEI TRE VIZI DELLA LEGGE ELETTORALE IN DISCUSSIONE, TUTTI GIÀ PRESENTI NEL VECCHIO PORCELLUM E SEVERAMENTE CENSURATI dalla sentenza della Corte costituzionale l’enorme premio di maggioranza, le altissime soglie di sbarramento e le liste bloccate è la loro azione congiunta, che moltiplica gli effetti discorsivi della rappresentanza politica e dell’uguaglianza del voto prodotti da ciascuno di essi. Questi effetti sono stati ridotti in misura pressoché impercettibile dai ritocchi portati mercoledì alla proposta originaria. Le soglie di sbarramento, in particolare, restano più che raddoppiate rispetto al vecchio Porcellum: il 4,5 (e non più il 5) e l’8% a seconda che le liste siano coalizzate o meno, anziché le soglie attuali del 2 e del 4%, oltre al 12% per le coalizioni. Privando della rappresentanza una parte rilevante dell’elettorato, un tale sbarramento produrrà l’effetto di un aumento ancor più rabbioso delle astensioni, di una riduzione del pluralismo e di un’ulteriore crescita della distanza tra ceto politico e società. A sua volta il premio di maggioranza, che secondo il nuovo testo è il 52% dei seggi alla lista che raggiunga il 37% dei votanti (e non più il 53% assegnato al 35%), conferisce ancora al voto di costoro un peso equivalente al doppio di quello dei restanti 63%. E le liste bloccate renderanno anche il nuovo Parlamento un Parlamento di nominati.
C’erano ovviamente molti altri sistemi, tra i quali gli altri due proposti dallo stesso Renzi, in grado di evitare questa assurda riedizione del Porcellum. Ma a questo punto, il sistema oggi in discussione, se non vuole esporsi al rischio di una nuova, clamorosa bocciatura da parte della Corte costituzionale, andrebbe rettificato con una riduzione dei suoi vizi ben maggiore della lieve modifica progettata ieri. In primo luogo il premio di maggioranza: affinché il sistema sia rappresentativo, ben più alta del 37% dei votanti dovrebbe essere, per l’assegnazione del premio, la soglia al di sotto della quale è previsto il ballottaggio. Una cosa, infatti, è il premio conferito con il doppio turno, come in Francia, dal voto di tutti gli elettori, altra cosa è il premio assegnato al primo turno, secondo il modello Acerbo o Calderoli, alla maggiore minoranza. In entrambi i casi, se è questo che si vuole, dalle elezioni esce una maggioranza assoluta di governo. Ma nel secondo caso si produce l’«alterazione profonda», censurata dalla sentenza, «della composizione della rappresentanza democratica sulla quale si fonda l’intera architettura dell’ordinamento costituzionale vigente». In secondo luogo gli sbarramenti: perché mai non conservare quelli del 2 e del 4% previsti della porcata e tuttora in vigore? Ma l’aspetto più assurdo del meccanismo, stranamente trascurato dal dibattito di questi giorni, è l’incentivo a coalizioni forzose tramite la previsione di due soglie diverse per i partiti che si coalizzano e per quelli che non si coalizzano. Nel caso delle prossime elezioni, per esempio, il loro effetto, grazie anche all’eccezione in favore della Lega, sarà il ricompattamento della destra e la sua possibile vittoria: mentre infatti con un unico sbarramento quello del 4,5%, secondo l’accordo di ieri il Nuovo Centro Destra avrebbe potuto presentarsi da solo, con la soglia dell’8% prevista per chi non si coalizza non dovrà neppure giustificare il ritorno all’ovile, potendo presentare la sua scelta come obbligata. Ebbene, una tale assurdità compromette non solo la rappresentatività e l’uguaglianza del voto, ma anche l’agognata governabilità. Lo spiega chiaramente la sentenza della Corte: il maggior premio a chi si coalizza, essa dice, è «manifestamente irragionevole» perché «in contrasto con l’esigenza di assicurare la governabilità», dato che vale a «incentivare il raggiungimento di accordi tra liste al solo fine di accedere al premio, senza scongiurare il rischio che, anche immediatamente dopo le elezioni, la coalizione beneficiaria del premio possa sciogliersi, o uno o più partiti che ne facevano parte escano dalla stessa»: cosa, come è noto, puntualmente avvenuta.
Infine le preferenze, rifiutate dalla destra ma richieste, dicono i sondaggi, dalla maggioranza degli elettori. Matteo Renzi ha proposto più volte l’introduzione delle primarie per la scelta dei candidati: che sarebbe anch’esso un modo per restituire all’elettore, come richiede la sentenza della Corte, «la facoltà di incidere sull’elezione dei propri rappresentanti». Secondo la sua proposta, tuttavia, la legge dovrebbe prevederle come «facoltative». Ma questo è un contro-senso. Forse che, in assenza della legge, le primarie, che il Pd organizza da anni, sarebbero vietate? Perché non si ha il coraggio di proporle come obbligatorie e disciplinate dalla legge, e di aprire un confronto di fondo in Parlamento onde far emergere, ove la proposta non fosse accolta, il carattere padronale delle forze avversarie? E’ chiaro che il partito-azienda di Berlusconi e il partito-marchio di Grillo sono contrari. Hanno bisogno di deputati fedeli al capo, quali suoi fiduciari e rappresentanti, e non come rappresentanti degli elettori. Ma è proprio questo il buco nero nel quale rischia di affondare la nostra democrazia. Perché mai il Pd non coglie l’occasione per conferire alla discussione sulla proposta delle primarie obbligatorie il respiro di una grande battaglia di democrazia, dopo il buio ventennio dell’afasia della politica sul crollo verticale della rappresentanza? Perché la proposta dell’obbligo delle primarie non viene avanzata come il banco di prova del carattere democratico di tutte le forze in campo, mettendo il dito sulla piaga del carattere autocratico e proprietario dei partiti che le rifiutano? Insomma, il segretario del Pd ha di fronte a sé un’alternativa: se vorrà essere ricordato per aver contribuito, proprio con la sua riforma rettificata, a un primo passo in direzione della democratizzazione dell’intero sistema politico, oppure, al contrario, per aver fatto accettare a Berlusconi quella che questi stesso ha chiamato «la mia riforma» e così facilitargli una possibile vittoria nelle prossime elezioni.

Corriere 31.1.14
Soglia e liste, la minoranza pd non molla
I parlamentari bersaniani e dalemiani: sarà una partita lunga, ma senza agguati
di Andrea Garibaldi


ROMA — La minoranza del Partito democratico è pronta a una «partita lunga», sulla legge elettorale. Per modificarla ancora, fino all’ultimo momento utile. In un clima fermo, ma piuttosto disteso, per ora. «Il testo è a un passo dalla direzione giusta», ha detto Cuperlo all’Unità . Merito della minoranza «e della trattativa condotta da Renzi». La partita — è la promessa — avverrà tutta «alla luce del sole» (Fassina). Ovvero «a viso aperto, senza imboscate attraverso il voto segreto», spiega il deputato Alfredo D’Attorre, lucano, laureato alla normale di Pisa.
Si proverà a cambiare la legge Renzi-Berlusconi fino alla fine, raccontano i parlamentari bersaniani-dalemiani, perché il dominus qui è il Parlamento, non Silvio Berlusconi. «La legge va migliorata attraverso il protagonismo del Parlamento», secondo Fassina, appunto. Ma se i nuovi tentativi di modifica trovassero un muro? Nessuno si avventura in previsioni, ma non pare proprio il momento di agguati al segretario Renzi, sarebbe un danno per tutti. Certo, sfoghi e vendette in eventuali voti segreti non sono escludibili a priori.
Cambiare, ma cosa? I punti chiave che tormentano la minoranza Pd sono tre. Sentiamo D’Attorre: «Le liste bloccate vanno cancellate. Proponiamo possibili alternative: collegi uninominali, primarie obbligatorie per tutti i partiti, doppia preferenza di genere. A proposito di quest’ultima, va comunque garantita la rappresentanza femminile. E va abbassato il limite per ottenere parlamentari se un partito si presenta da solo: l’8 per cento è troppo alto, una soglia che non esiste in Europa». Poi, molte riserve sulla norma chiamata «salva-Lega», che prevede l’approdo in Parlamento per chi non superi l’8 per cento, ma ottenga almeno il 9 in tre (o due) Regioni. «Una norma salva-Lega e ammazza Vendola», dice il deputato Danilo Leva.
Sulla parità di genere Matteo Richetti, parlamentare molto vicino a Renzi, ha convenuto che si tratta di «un tema imprescindibile». Tuttavia, il vero nodo sono le liste bloccate e decise dalle segreterie dei partiti, elemento della trattativa che Berlusconi ha fatto pesare sul tavolo.
La strategia della minoranza Pd non si ferma qui. «Se con la legge elettorale riusciamo finalmente ad avviare il processo delle riforme — dice Leva — dobbiamo ottenere garanzie affinché lo stesso processo arrivi al termine». Vale a dire: la riforma elettorale non può restare staccata dalla fine del bicameralismo, quindi dalla trasformazione del Senato, e dalla modifica del titolo V della Costituzione sui poteri di Regioni, Province e Comuni. «Berlusconi porta a casa molte cose con la legge elettorale — dice Leva — Dobbiamo trovare il modo di legarlo anche al miglioramento del sistema democratico». Legarlo, come? Per esempio con l’emendamento presentato in commissione Affari costituzionali che prevede l’entrata in vigore della nuova legge elettorale solo dopo l’approvazione della riforma del Senato. Emendamento che servirebbe anche ad allontanare il voto anticipato. Renzi, comunque, ha annunciato ieri che Pd e Forza Italia sono d’accordo per arrivare entro il 15 febbraio a un testo comune su Senato e Regioni.
Vanno segnalate le mosse «unitarie» del Pd. Ieri al Senato il gruppo dei Democratici ha dato l’ok unanime alla trasformazione di Palazzo Madama. Oggi il programma prevede che il Pd, compatto, voterà no a tutte le ipotesi di incostituzionalità («pregiudiziali») della nuova legge elettorale. Alla fine, fra un paio di settimane, c’è la possibilità che tutto il lavoro di correzione del testo della legge elettorale si coaguli in un voto segreto. «Pd e Fi hanno i numeri, ma la palla passerà al senso di responsabilità dei singoli parlamentari», ha sintetizzato il relatore della legge in commissione, Sisto (Forza Italia). Oltre cento sono i deputati della minoranza Pd, con l’orrendo ricordo dei 101 che, in segreto, impedirono a Prodi di salire al Quirinale. Il clima resta tendenzialmente armonico. Civati, candidato sconfitto alle primarie, dichiara: «Ho detto a Renzi che questa legge elettorale è vomitevole. Ma in aula voterò ciò che ha deciso la direzione del mio partito».

Repubblica 31.1.14
L’intervista
“Se resta così non la voto, è solo un favore a Silvio”
Lo strappo della dalemiana Bruno Bossio: Renzi ci sta spianando con i carri armati e Cuperlo e D’Attorre gli rispondono di fioretto
Massimo non c’entra nulla con la mia posizione. Dopo le accuse per i 101 agisco alla luce del sole
Enza Bruno Bossio deputata calabrese del Pd e fedelissima di Massimo D’Alema
intervista di Concetto Vecchio


«RENZI ci sta spianando con i carri armati e D’Attorre e Cuperlo gli rispondono di fioretto, il segretario spara bombe e noi spacchiamo il capello in quattro. Basta, io voto contro questa legge elettorale ». Enza Bruno Bossio, l’ultima dalemiana, è un fiume in piena, mentre Montecitorio ribolle di umori, di insulti.
Sta dicendo che oggi si schiera contro la costituzionalità della legge?
«Sì, è un sistema incostituzionale, è la riforma di Berlusconi, quella che lui aspettava da 20 anni. È il bluff di Renzi che ci dice che queste sono le riforme, invece non è vero niente».
Quindi lei vuole affossarla?
«Non voglio affossare nulla».
Suvvia, se non passa la costituzionalità muore tutto subito.
«Voglio cambiarla. Così è una presa in giro. L’Italicum prevede che si voti anche per il Senato, ma Renzi non va dicendo in giro che lo vuole abolire?»
Non è una posizione radicale?
«Non mando giù il salva Lega. Una norma vergognosa, voluta da Berlusconi. Un partito che prende il 9 per cento in tre Regioni entra in Parlamento e uno che si ferma al 7,9 a livello nazionale, no. E poi le liste restano bloccate. Io voglio le preferenze ».
Ma le preferenze, specie al Sud, non sono
un incentivo alle clientele?
«È stata la Consulta a dirci che non si possono più fare le liste bloccate, un principio per il quale il partito aveva fatto la sua battaglia. Così è solo un super Porcellum».
Quanti siete a pensarla così?
«Come me la pensa sicuramente Lauricella. Come sa noi dalemiani non siamo una corrente strutturata, siamo una corrente affettiva, una sottocorrente dei cuperliani che sono 80, e che quindi potrebbero pesare. Invece vedo timidezze, paure, ti dicono sussurrando “sai il Paese sta conRenzi”...».
Non è vero?
«Dicono pure che noi dobbiamo sentire la pancia del Paese, ma sentire la pancia del Paese rischia di essere la fine della politica, noi dobbiamo cambiare la casta politica, che ha fatto molti errori, ma anche far ragionarela gente».
Non sembra più il tempo per pedagogie togliattiane.
«Invece la politica deve tornare a fare la politica. Dovremmo interrogarci su quel Celentano che dice di preferire Renzi a Grillo: Celentano, l’emblema del populismo di destra».
D’Alema c’entra, dica la verità?
«Per niente, nessuna telefonata, mi creda ».
La cacceranno?
«Pazienza!»
Lei è sospettata di essere uno dei 101.
«Proprio per questo voglio condurre la mia battaglia alla luce del sole, e con i 101 non c’entro».

Repubblica 31.1.14
Il retroscena
Lo scoglio preferenze agita Renzi “Guai se finiamo subito nella palude”
Ma la minoranza del Pd insiste: il testo va migliorato
di Goffredo de Marchis


ROMA — Preferenze e conflitto d’interessi. Sono questi i due scogli su cui può infrangersi l’accordo sulla legge elettorale nei prossimi giorni quando comincerà l’esame degli emendamenti. Matteo Renzi però ha già alzato le antenne. «Sono preoccupato anche per il voto di oggi sulle pregiudiziali di costituzionalità. Questo è un patto che nasce fuori dal Parlamento, arriva solo adesso alla prova dell’aula. Deve partire bene, senza intoppi». Anche perché il segretario del Pd ha fretta: «Alla Camera l’ideale sarebbe non toccare nulla. Per approvare il testo entro la metà di febbraio, dare un segnale di serietà e di forza. Poi, al Senato qualche cambiamento si può fare. L’importante è che la riforma non finisca subito nella palude».
I sottoscrittori del patto sono precettati. «Stiamo controllando i presenti e gli assenti. Non sono agitato. Certo, se la legge inciampa sulle pregiudiziali l’accordo non ha più senso, salta tutto. Inutile andare avanti», dice il presidente dei deputati di Forza Italia Renato Brunetta. L’sms per la presenza obbligatoria è arrivato anche al Pd, a Scelta civica, al Nuovo centrodestra. L’incognita è il voto segreto, quasi sicuro. Potrebbe chiederlo Sinistra e libertà e la richiesta verrebbe accolta. Ci sarà quindi la verifica immediata per la tenuta della maggioranza sull’Italicum che in teoria conta su 415 voti. Nel caso di oggi sono voti che devono esprimersi contro le pregiudiziali di costituzionalità.
Ieri il sindaco di Firenze ha di nuovo fatto il punto con tutti. Per tenere unito il fronte. Ha anche parlato di persona con il segretario di Scelta civica, Stefania Giannini. «Noi vogliamo che la legge vada avanti. Il nostro voto sarà compatto — dice il capogruppo di Sc Andrea Romano —. Ma i piccoli partiti sono agguerriti». Brunetta ammette qualche mal di pancia in Forza Italia. «Ma fisiologici, niente di grave», aggiunge. Poi c’è il Pd. Renzi teme qualche scherzo da parte del suo partito, se non altro perché il gruppo alla Camera è molto numeroso: 293 deputati. Una lunga riunione notturna con Dario Franceschini e Roberto Speranza ha preparato il terreno per la votazione di stamattina. Il voto segreto è una trappola sempre pronta. «Ma il Pd regge», precisa Alfredo D’Attorre che è pronto a dare battaglia più avanti.
La verità è che tutti escludono una sorpresa nella votazione di oggi. La partita vera è quella degli emendamenti, a cominciare dal conflitto d’interessi. Sel ha già fatto sapere al Pd che ci sarà una sua proposta per regolare l’ineleggibilità di chi possiede grandi patrimoni, di chi è titolare di concessioni pubbliche e di aziende di comunicazione. Il Psi di Riccardo Nencini, da giorni, lavora a una proposta simile. E quando i grillini torneranno alla normalità dei lavori parlamentari, anche da lì arriveranno emendamenti in questa direzione. Come si comporteranno allora i deputati democratici?
Berlusconi non è più candidabile. Ma il conflitto d’interessi resta una bandiera sia per il Pd sia per il centrodestra, da due punti di vista differenti. Forse solo un simbolo. Però ha diviso per 20 anni gli schieramenti. Se tornasse a farlo oggi lascerebbe sul campo il cadavere della legge elettorale perché tutto si regge sull’asse Renzi-Berlusconi. Un altro fronte trasversale è quello contrario alle liste bloccate. «Solo una buona legge elettorale è la riposta giusta alle provocazioni grilline», avverte D’Attorre. Non la fretta, non la blindatura dell’intesa. Su questo punto, bersaniani, Rosy Bindi, cuperliani, dopo aver ritirato gli emendamenti in commissione, giocheranno la loro partita in aula. Proponendo i collegi uninominali, le primarie obbligatorie per legge e per tutti i partiti. Insomma, attaccando l’architrave dell’accordo con il Cavaliere.
È perciò un percorso difficile quello che attende l’Italicum a Montecitorio. Anche se i numeri sono molto meno incerti di quelli del Senato. Per questo Renzi vorrebbe rinviare le modifiche a Palazzo Madama. Se tutto procede spedito alla Camera, senza ingolfamenti, il segretario è convinto che nessuno potrà tirarsi indietro nell’altro ramo del Parlamento. Sarebbe molto più complicato uno strappo. E sarebbe più arduo giustificarlo.

Repubblica 31.4.14
L’Italicum viaggia sui binari della Corte
di Andrea Manzelle


VENT’ANNI dopo, come nel 1994, il parlamento sta per scrivere una legge elettorale “sotto dettatura”. Allora il dettato era quello dei referendum popolari che avevano quasi azzerato il sistema elettorale proporzionale e abolito il “sistemino” di captazione delle preferenze multiple, riducendole a una sola. Oggi il dettato è quello dellaCorte costituzionale.
Quella Corte che ha abolito l’azzardo del premio di governo «a ogni costo». E ha detto che solo sulla base di una legittimazione significativa di voti si può ammettere il costo di una «alterazione» del rapporto a specchio tra voti e seggi. Quella Corte che ha poi impedito che il voto dei cittadini si esercitasse nella nebbia provocata da lunghe liste bloccate, impeditive della «effettiva conoscibilità» dei candidati da parte degli elettori. Tutto cambia, dunque, nella legge elettorale: come tutto è cambiato in questi vent’anni intorno a noi. Salvo l’incapacità del Parlamento di darsi leggi elettorali con iniziative che non fossero a rimorchio. Tuttavia sarebbe sbagliato leggere le due “dettature” come in contrasto tra loro. Non vi è nessuna schizofrenia istituzionale: la sentenza della Corte si pone, malgrado certe apparenze, in continuità di fondo con quelle scelte popolari sul sistema elettorale conveniente per l’Italia. Quali sono le apparenze ingannevoli? Quale la continuità effettiva?
L’apparenza è che la Corte abbia di fatto imposto, con la potatura dei vizi della legge maggioritaria, una “sua” legge: proporzionale con preferenza unica. Ma non è vero. La legge che residua dopo i tagli non è una scelta, è una necessità. In un sistema costituzionale vi deve essere sempre la «possibilità immediata di procedere ad elezioni»: anche per non «paralizzare il potere di scioglimento del Presidente della Repubblica» (che in assenza assoluta di regole elettorali non potrebbe esercitarsi). Si tratta però di uno strumento di emergenza, una «normativa complessivamente idonea a garantire il rinnovo, in ogni momento, dell’organo elettivo». La Corte ha esplicitamente escluso di volere creare una nuova legge «eterogenea», eccedendo dai suoi poteri ed «impingendo» così nella sfera riservata al legislatore. Chi volesse invece intenzionalmente puntare su questo rimedio straordinario, per risolvere i propri problemi di consenso, commetterebbe perciò un raggiro costituzionale.
La continuità sta nel fatto che la Corte — eliminando l’incostituzionalità — non ha voluto affatto deviare il corso dell’evoluzione del sistema elettorale italiano. Non a caso la sentenza richiama nellasua essenza il bilanciamento di sistema che fu fissato addirittura dalla Assemblea Costituente. Quando vi fu, da un lato, la adozione del “sistema parlamentare”: non costituzionalizzando — però — una scelta proporzionalistica; e dall’altro, la risoluzione della «stabilità dell’azione di governo», da «tutelare con dispositivi idonei ad evitare le degenerazioni del parlamentarismo».
Le parole della Corte sono chiare al riguardo. «Garantire la stabilità del governo del Paese e rendere più rapido il meccanismo decisionale» è un «obiettivo costituzionalmente legittimo». E per rafforzare il concetto, la Corte si spinge sino a condannare l’esistente bicameralismo elettorale, che «rischia di vanificare il risultato che si intende conseguire con un’adeguata stabilità della maggioranza parlamentare e del governo». Ma le parole della Corte sono altrettanto chiare quando dice che gli obiettivi di stabilità ed efficienza del governo devono realizzarsi con il «minor sacrificio possibile» del principio di rappresentatività nella composizione del Parlamento.
È basata su questo bilanciamento la significativa formula con cui la Corte condanna il premio di maggioranza privo di una soglia minima di attribuzione. Perché vi sarebbe, così dice la Corte, una «illimitata compressione dellarappresentatività» delle Assemblee elettive. Ma l’uso della parola «illimitata» significa che è invece legittima una alterazione “limitata” di quel principio: di quel tanto cioè che basta ad assicurare la governabilità. Un dispositivo, insomma, per evitare quelle «degenerazioni del parlamentarismo» di cui si parlò all’Assemblea Costituente.
Una volta assicurata questa soglia minima (e il Parlamento si sta orientando perché essa sia fissata al 37 percento dei voti: cioè un “ premio” a chi ha già ottenuto una quota assai alta del corpo elettorale) l’entità del premio sarà calcolata in base all’aggiunta necessaria per ottener la maggioranza dei seggi in Parlamento. Punto più punto meno, l’equilibrio tra rappresentatività e governabilità è in questa equazione. Se si innalza eccessivamente la soglia, si esalta la rappresentatività e si deprime la governabilità. Lo squilibrio opposto si verifica se accade l’inverso, ma la legittimità costituzionale, fissata dalla Corte, sta nell’equilibrio bilaterale non nell’esasperazione dell’uno o dell’altro dei fattori che lo compongono. Se nessuna delle coalizioni raggiunge la soglia, la quota di seggi necessaria per la maggioranza parlamentare è assegnata con un ballottaggio ma qui non si può parlare di “premio” automatico perché vi è una distinta votazione del corpo elettorale, inpiena sovranità.
Lo stesso principio di bilanciamento tra quei valori fondamentali è stato seguito dalla Corte nella indicazione del criterio per una “legittima” scelta dei candidati. Dal lato della rappresentatività, questo criterio è nel severo canone della «effettiva conoscibilità dei candidati». Una effettività che si può avere sia con la preferenza unica (e qui la linea di “continuità” della Corte si manifesta con il rispetto del referendum del 1991) sia con «circoscrizioni elettorali di dimensioni territorialmente ridotte» e con un numero esiguo di candidati. È questa la scelta cui si sta orientando il Parlamento: legittima, dunque (purché si eviti che, nel gioco dei “resti”, a livello nazionale e delle pluricandidature, quella conoscibilità vada perduta). Dal lato della governabilità, invece, vi è il riferimento del diritto di voto a «un ambito strettamente connesso con l’assetto democratico» e la riserva al Parlamento del «sistema che ritiene più idoneo ed efficace in considerazione del momento storico». Con le liste corte infatti si possono bilanciare sia il diritto dell’elettore a non votare al buio sia l’interesse generale a un “assetto democratico” strutturato in partiti garanti, con metodo democratico, della selezione dei candidati. Può piacere o no (direbbe Giannini) ma non c’è illegittimità.
Al di là delle questioni più sensibili in gioco, vi è però un punto di delicatezza estrema. È il passaggio in cui la Corte avverte che una deviazione eccessiva e irragionevole dal principio di rappresentatività — cioè la rottura dell’equilibrio di cui si è detto — determinerebbe per la «maggioranza beneficiaria» la possibilità di «eleggere gli organi di garanzia che restano in carica per un tempo più lungo della legislatura ». Un monito che va oltre la sentenza e mira a stabilire un nesso tra legge elettorale, forma di governo e garanzie costituzionali. Di questo collegamento negli ultimi venti anni se ne sono dimenticati un po’ tutti: commissioni parlamentari e comitati di esperti. È bene che la Corte ci abbia ricordato che ogni modificazione di legge elettorale – che tocchi, come questa in cantiere, la forma di governo – comporta un necessario adeguamento di garanzie costituzionali.

La Stampa 31.1.14
Renzi: “Hanno perso la testa. Squadristi da codice penale”
“L’attacco al Presidente è una vigliaccata”
È caos alle Camere, Boldrini costretta ad asserragliarsi nei suoi uffici M5S chiede l’impeachment per Napolitano, il leader Pd: una vigliaccata
di Federico Geremicca


Il commento è secco, lapidario, privo di fronzoli e di retorica. Dice Matteo Renzi: «Non servono giri di parole per dire quel che il Movimento Cinque Stelle sta mettendo in scena alla Camera: roba da squadristi, al limite - se non oltre - del codice penale. E quanto all’atto d’accusa contro Napolitano, spero che nessuno si lasci ingannare: non c’entrano niente la voglia di cambiamento, la Costituzione e quelle balle lì.
Siamo di fronte ad una strategia lucida ma disperata: tutta studiata a tavolino».
Le voci degli altri passeggeri e il rumore di fondo del treno col quale Matteo Renzi sta tornando a Firenze, non ostacolano la comprensione né del ragionamento del leader democratico né il suo umore. È quasi ora di pranzo e il sindaco-segretario non ha difficoltà a spiegare quel che pensa intorno a ciò che sta accadendo. Al centro del suo ragionamento c’è Beppe Grillo. I due, infatti, ormai si considerano reciprocamente il «nemico numero uno»: e non è difficile ipotizzare che è proprio dall’esito del loro duello che dipenderanno tante cose...
«La verità è che gli stiamo tagliando l’erba sotto i piedi - dice Renzi - smontando uno a uno tutti i suoi soliti e triti argomenti. La riforma della legge elettorale, l’abolizione del Senato come Camera elettiva, la cancellazione delle Province, il taglio al finanziamento dei partiti e la revisione del Titolo V... Dalla politica arrivano finalmente risposte, Beppe Grillo non sa come reagire e perde la testa. È per questo che cerca la rissa, la butta in caciara e arriva addirittura a proporre l’impeachment di Napolitano, al quale siamo stati noi a chiedere di restare. Ma vedrete che quest’ultima mossa gli si ritorcerà contro e gli creerà problemi perfino nei suoi gruppi parlamentari».
Renzi contro Grillo, e viceversa. Nel corso del colloquio il leader democratico tornerà spesso sul punto, ma l’avvio non può che essere per Napolitano. «Una cosa senza senso, l’attacco al presidente - dice -. Una vigliaccata. Quando ha ceduto alle richieste di ricandidatura, la scommessa del Capo dello Stato era proprio sulle riforme: è per questo che ha accettato di restare. Parliamo delle stesse riforme che Grillo invoca a gran voce e che ora - invece - vuole fermare. Capisco bene che i primi mesi di questa legislatura siano stati comodi per lui, con la politica bloccata e incapace di dare risposte: ha potuto approfittarne. Ma credo che ora abbia capito che la musica è totalmente cambiata e che andare avanti con la propaganda non può pagare».
L’avvento di Renzi alla segreteria, da solo, non sarebbe bastato; c’è voluto quello che il leader Pd considera un atto di coerenza e di coraggio: l’intesa con Berlusconi per avviare le riforme. È questo che ha sbloccato la situazione; ed è questo che starebbe creando nervosismi e problemi al movimento del comico genovese. «Siamo a un passo da una legge che non è la migliore possibile, che abbiamo provato e proveremo a migliorare - annota Renzi - ma che comunque assicura quel che il Paese chiedeva: governabilità e difesa del bipolarismo. E non è questione solo di legge elettorale: la politica comincia a dare risposte anche sulle altre riforme e se continua così, se ce la facciamo, per Grillo si fa notte...».
L’attacco a Napolitano, dunque, sarebbe più o meno questo: un moltiplicatore di tensioni per sviare l’attenzione da quel che sta accadendo. «Vede, Napolitano va difeso anche per questo: per il fatto che la difesa della sua persona e del suo ruolo, oggi coincide con la difesa delle istituzioni. Impedire a deputati di accedere alle commissioni per votare e lavorare è squadrismo; insultare con volgarità inaccettabili le nostre deputate è una vergogna, e c’è da ricorrere al codice penale. I Cinque Stelle hanno capito che la musica è cambiata e reagiscono così. Del resto, non c’è chi non veda la differenza con un anno fa».
Già, l’anno trascorso. Di questi tempi, dodici mesi fa, si era nel pieno di una campagna elettorale che pareva scontata e che poi, invece, è andata com’è andata... «Lo ricorderete anche voi, no? Un anno fa - spiega Renzi - Beppe Grillo parlava di futuro e di cambiamento, di rinnovamento della Repubblica e di speranze per i giovani: con una campagna aggressiva ma allegra, con toni certo duri ma ancora speranzosi, ha quasi vinto le elezioni... E ascoltatelo ora, invece: solo discorsi rabbiosi, bui, minacciosi, disperati. Semina odio. Ma il Paese non ne può più di tutto questo: vuole voltare pagina e tornare, finalmente, a guardare avanti».
E può farlo - è il ragionamento nemmeno tanto sottinteso - perché qualcosa si è messo in movimento. «A quest’atteggiamento rabbioso fa da contraltare - insiste Renzi - l’idea che con un orizzonte serio e con la calma necessaria, quel che deve esser fatto sarà fatto. È per questo che, al di là dell’indignazione, non siamo preoccupati da quel che dice e dalle assurde iniziative che mette in campo. Noi abbiamo un’altra idea di quel che serve al Paese, dopo anni di paralisi e di risse: e quel che serve, noi lo faremo...».
Ci vorrà calma e tempo, Renzi lo sa. Ma si dice pronto: pronto a lavorare ed a smentire il sospetto che lo circonda, e cioè che voglia solo e semplicemente le elezioni anticipate. «Non so più cosa dire per cancellare questa sciocchezza - si lamenta mentre il treno entra in stazione -. Ma vorrei che almeno si riconoscesse che sto facendo solo e semplicemente quel che avevo sempre detto... Il governo ha i suoi problemi, certo, ma non me ne occupo perché a questo pensa Letta. Ai nostri deputati e ai nostri senatori, invece, vorrei mandare un messaggio chiaro: ci sono molte cose da fare, vanno fatte e le faremo. Occorrerà tempo: ed è per questo che dico che la legislatura può arrivare fino al 2018 e che non c’è nessun motivo perché loro si debbano sentire dei dead man walking...».

Corriere 31.1.14
«Atti intollerabili in un Paese civile Ma il governo sui decreti deve cambiare»
Boldrini: la legge elettorale? Renzi ha la sua tabella di marcia, noi la nostra
intervista di Aldo Cazzulo


Presidente Boldrini, si è «barricata dietro porte blindate», come annunciato dalle agenzie?
«Siamo alla follia. Come vede, la porta è socchiusa. Non ci sono blindature. A dire il vero, non c’è neppure la chiave. Mi chiedo se questo sia giornalismo…».
In Aula si è visto ben di peggio.
«Abbiamo assistito ad atti non tollerabili nel Parlamento di un Paese democratico. Violenze. Insulti. Turpiloquio. Minacce. Aggressioni. I deputati del Movimento Cinque Stelle si sono scagliati contro di me. Gridavano minacciosi, allungavano le braccia, urlavano i peggio improperi. Sono stati malmenati i commessi, gente che lavora. È stato impedito fisicamente ai deputati di entrare in commissione. Al capogruppo del Pd si è tentato di impedire di parlare alla stampa. Un gran numero di deputati si è riversato da una commissione all’altra per bloccare i lavori…».
Lei come ha reagito?
«Ho convocato l’ufficio di presidenza e attivato l’istruttoria per ricostruire cos’è accaduto. Saranno esaminate le immagini, i responsabili verranno individuati e convocati. Poi si decideranno le sanzioni».
Quali sanzioni?
«Si va dalla lettera di censura alla sospensione per tot giorni di lavoro. Sia chiaro che io non tollererò altri episodi simili. Non è questo il modo di fare opposizione. Le intimidazioni e le violenze contrastano con i regolamenti e con la Costituzione. Allo stesso modo, non saranno tollerate le offese sessiste, come quelle irripetibili lanciate da un deputato 5 Stelle contro le donne del Pd, e da un deputato di Scelta civica contro le donne del Movimento di Grillo».
Va detto però che lei ha preso una decisione senza precedenti: la “tagliola” con cui ha troncato la discussione e imposto il voto sul decreto Imu-Bankitalia. Era proprio necessario?
«È vero, alla Camera era la prima volta che si adottava questo provvedimento. Ma non è un tabù. Al Senato lo si è preso più volte, senza suscitare drammi. Il decreto, già approvato al Senato e sul quale pochi giorni prima la Camera stessa aveva concesso la fiducia al governo, è stato discusso in Aula per circa 27 ore. Tutte le fasi erano state espletate: la discussione generale, la discussione sugli emendamenti, la fiducia, l’illustrazione degli ordini del giorno, la votazione sugli ordini del giorno, le dichiarazioni di voto. Hanno parlato deputati di tutti i gruppi. A quel punto, mi sono trovata a decidere: se avessi fatto proseguire le dichiarazioni individuali, il giorno dopo gli italiani sarebbero dovuti andare a pagare la seconda rata dell’Imu. Così mi sono assunta responsabilità che non erano soltanto mie».
Si riferisce al governo, che non ha accolto la sua richiesta di separare il decreto Imu da quello su Bankitalia?
«Io ho rivolto quattro appelli in due giorni: al governo, perché valutasse le richieste; e all’opposizione, perché come è sempre accaduto in passato usasse tutti gli strumenti a sua disposizione, senza costringere però la presidenza a misure estreme. Tutti gli appelli sono caduti nel vuoto».
A febbraio scadono altri sei decreti.
«Appunto. Il governo dovrebbe evitare di creare questo ingorgo alla Camera».
Con questo clima, cosa accadrà la prossima settimana con la legge elettorale?
«La minoranza ha espresso le sue riserve sull’andamento dei lavori in commissione. Il presidente della commissione, Francesco Paolo Sisto, ha attestato in Aula che in ogni caso la commissione ha votato il mandato al relatore a riferire su un testo base. Ora come proseguire sui lavori lo decideranno la conferenza dei capigruppo e l’assemblea».
Al di là dei tecnicismi, non c’è il rischio che una legge cruciale per la democrazia non venga discussa con la necessaria calma?
«I tempi non li decido io, è sempre una decisione collegiale. Prima si è stabilito all’unanimità che la legge arrivasse in Aula il 27 gennaio; poi, a larghissima maggioranza, si è optato per il 29. Io ho proposto il 3 febbraio, per avere più tempo in commissione e un calendario certo per l’Aula. Ma sono stati proprio i Cinque Stelle a dire no, così come hanno negato la possibilità di far lavorare la commissione Affari costituzionali in contemporanea con l’Aula. A questo punto il confronto si farà in assemblea».
Renzi ha troppa fretta?
«Renzi ha le sue tabelle di marcia, ma noi alla Camera abbiamo le nostre, che sono basate sul confronto tra tutte le forze parlamentari».
Questa legge non le piace, vero?
«Il pluralismo è un valore. Al tempo dell’antipolitica, ridurre la rappresentanza rischia di allontanare parti della società dalle urne. La governabilità va garantita, ma non a scapito della rappresentanza e della partecipazione dei cittadini».
Quali sono i punti della legge su cui si può intervenire per evitare questo rischio?
«La legge deve includere, non escludere. Sbarramenti e premi di maggioranza non possono essere troppo alti. Io rispetto gli accordi tra i partiti. Ma poi la legge deve essere discussa e votata dalle Camere».
Che effetto le fa la richiesta di impeachment contro Napolitano?
«Un brutto effetto. Non è solo una richiesta infondata, per colpire un capo dello Stato che ha svolto il suo ruolo di garanzia in modo equilibrato; è il tentativo di minare le istituzioni. Il presidente ha tutta la mia solidarietà».
Come si è comportata Sel, il partito con cui lei è stata eletta?
«Sel fa un altro tipo di opposizione. Dura, ma senza manifestazioni sconsiderate, senza cercare a ogni costo la prima pagina».
Chi può fermare questa deriva? Grillo? Casaleggio? Il capogruppo D’Incà?
«Non lo so. So che questo è un atteggiamento sterile e distruttivo, che non aiuta né le istituzioni né i cittadini. In passato ci sono stati casi di ostruzionismo anche durissimo, con cui però le opposizioni si sono dimostrate capaci di mobilitare i cittadini, fino a indurre il governo a cambiare linea. Questa capacità i Cinque Stelle non l’hanno avuta. La loro opposizione non è stata all’altezza, né ha rispettato le consuetudini istituzionali. L’indignazione la devi saper elaborare, gestire, indirizzare. Le immagini dell’altra sera sono girate ovunque e temo anche oltreconfine. In questo modo si restituisce un’immagine solo negativa e si oscurano i tanti deputati che si impegnano seriamente, il cui lavoro non diventa notizia. Ora dobbiamo ricostruire un argine di correttezza e di rispetto reciproco».

Corriere 31.1.14
L’asse dello scontento rischia di favorire l’offensiva di Grillo
di Massimo Franco


Se riesce, l’accordo sulla riforma elettorale e su quelle istituzionali può ricreare un simulacro di unità nazionale; e dunque permettere una stabilizzazione del sistema, che si intravede appena ma potrebbe garantire la stabilità. L’offensiva di Beppe Grillo contro il Quirinale nasce da questa consapevolezza. Più che sicuro della propria forza, il leader del Movimento 5 Stelle appare disperato dalla prospettiva di ritrovarsi ai margini di giochi che per gli altri partiti forse significano rilegittimazione; per lui la sconfitta e la certificazione dell’isolamento politico. Arriva a proporre la messa in stato d’accusa di Giorgio Napolitano e si precipita nella capitale dai suoi parlamentari perché fiuta la diaspora interna.
Il vicepresidente grillino della Camera, Luigi Di Maio, ha spiegato che decisioni come quella presa sono «a maggioranza»: a conferma che non c’è unanimità nel M5S. Anche perché l’attacco al presidente della Repubblica parte dalla tesi secondo la quale «fa il premier»; e soprattutto «spalleggia questa legge elettorale incostituzionale». Ma c’è da chiedersi se l’iniziativa non finisca per rafforzare Napolitano; e per imprimere, paradossalmente, una spinta alle riforme. Grillo si inserisce con il suo impeachment da ultima spiaggia in una situazione ancora ingarbugliata. Sembra difficile che il patto tra Matteo Renzi e Silvio Berlusconi possa saltare: anche se la minoranza del Pd e il nuovo centrodestra di Angelino Alfano, oltre ad altri partiti minori, chiedono modifiche alla bozza.
La trattativa implica tensioni e frustrazioni diffuse e trasversali. E dunque non esclude la possibilità di scarti e strappi. Il fatto che il ministro delle riforme, Gaetano Quagliariello, giudichi «pressoché impossibile» la prospettiva di elezioni anticipate a maggio, è indicativo. Vuol dire che c’è ancora, nella stessa coalizione di governo, chi accarezza la fine rapida della legislatura: per quanto improbabile possa apparire. La discussione rimane ancorata al significato da attribuire alla riforma elettorale.
Se davvero si fa, il passo successivo saranno le urne oppure altri cambiamenti istituzionali? La regìa del Quirinale diventa comunque essenziale. E la difesa compatta che il presidente riceve dai partiti e l’attacco di quello grillino, sono la conferma implicita di come sia uno dei potenziali vincitori di questa fase; e il punto di riferimento nei prossimi mesi. Tra l’altro, Napolitano accoglie la denuncia del M5S con un laconico: «Faccia il suo corso». L’impressione diffusa, peraltro, è che si tratti di una mossa propagandistica di Grillo, tesa a dimostrare che il movimento esiste.
Sia politicamente, sia dal punto di vista della Costituzione, la vicenda appare così strumentale da lasciare il tempo che trova. Il problema non è Grillo: sono i rischi di collisione tra l’asse Berlusconi-Grillo e Palazzo Chigi; e tra chi vuole la riforma, anche modificandone alcuni aspetti, e quanti possono essere tentati di votare contro a scrutinio segreto. Rimangono aspetti irrisolti, avverte il Ncd. Ma anche nella minoranza del Pd e soprattutto dentro FI esiste un fronte dello scontento. Il ministro Dario Franceschini ammonisce che se l’operazione fallisce, si «regala la vittoria a Grillo». Insomma, come spauracchio il leader del M5S funziona ancora. Evocarlo così, però, fa capire che le certezze della maggioranza non sono così granitiche.

La Stampa 31.1.14
Cinque stelle, strategia del suicidio
di Luigi La Spina


Non è un segnale di maleducazione, è un sintomo di disperazione. È comprensibile che davanti a certi spettacoli vergognosi in Parlamento, alle risse, agli schiaffi, agli insulti più volgari, ci si indigni e si invochi un minimo di rispetto per le istituzioni, ma soprattutto un minimo di rispetto per se stessi. È pure comprensibile che la memoria si eserciti nel confronto sia con la storia del nostro, non sempre fulgido, costume parlamentare, sia con quello, ancor meno invidiabile, di alcune aule terzomondiste. Ma se fosse solo un problema di etichetta, quello che si imputa ai parlamentari grillini, forse basterebbe aspettare che il noviziato movimentista degli adepti di Grillo si consumi nella routine dei lavori alle Camere e nell’indifferenza di un clamore mediatico sempre bisognoso di furori inediti per potersi alimentare.
La vera questione è un’altra e riguarda, in fondo, quei quasi dieci milioni di italiani che avevano sperato nell’effetto taumaturgico della presenza di un forte «Movimento 5 stelle» in Parlamento e che vedono quella promessa di essere gli «apriscatole» della politica italiana ridursi miseramente alla realtà di semplici «rompiscatole».
Costretti ad alzare sempre di più la voce e a inventare iniziative sempre più clamorose e improbabili per segnalare l’utilità della loro azione. Tutto quello che sta avvenendo nelle aule parlamentari indica chiaramente la consapevolezza, da parte dei grillini, del fallimento di una strategia tanto ingenua quanto suicida, quella del rifiuto assoluto a qualsiasi trattativa con gli avversari. Una strategia che in politica è sempre sbagliata, come la storia insegna, dalle «mani nette» di Giolitti all’Aventino.
La sensazione di un terribile errore, da parte del «Movimento 5 stelle», è acuita, tra l’altro, dalla contemporanea irruzione nella politica italiana di Renzi e dell’ipotesi di un sorprendente suo successo nell’ottenere proprio quei risultati di sblocco di una lunghissima impasse politica che erano l’obbiettivo sbandierato da Grillo. Una concorrenza, anche mediatica, che non solo oscura il carico di novità portato dal «Movimento» nella vita pubblica italiana e ne denuncia la scarsissima reale efficacia, ma rischia di comprometterne perfino l’esistenza. Se la legge elettorale in discussione alla Camera, infatti, dovesse completare il suo iter, arrivando alla sospirata approvazione in termini relativamente brevi, i grillini sarebbero condannati alla più sterile delle opposizioni, senza alcuna speranza di influire nella vita politica italiana, non per loro volontà, questa volta, ma per volontà altrui.
Ecco perché l’esasperazione dello scontro, al di là del folklore psicomotorio e della indecenza parlamentare fino alla richiesta di messa in stato d’accusa di Napolitano, una mossa così assurda da denunciare palesemente la sua strumentalità propagandistica, punta a impedire, ad ogni costo, il varo di una legge che ridurrebbe l’attuale tripartitismo quasi perfetto del nostro sistema politico in un bipartitismo altrettanto quasi perfetto. Nella speranza che, dopo il naufragio della riforma elettorale, naufraghi anche la legislatura e si vada a votare con quel proporzionale puro che la Corte Costituzionale ci ha regalato. L’unica prospettiva che consentirebbe al «Movimento 5 stelle» di continuare ad esercitare il ruolo di interditore assoluto. Un ruolo che gli permetterebbe di costituire l’unica forte opposizione a future, obbligate e sempre più difficili, «larghe intese».
L’ipotesi di una chiamata alle urne in primavera per rinnovare il Parlamento nazionale, magari in abbinata con le elezioni europee, consiglia, poi, al «Movimento», di intensificare la propaganda contro l’euro; battaglia che il demagogico «spirito dei tempi» assicura rivelarsi molto promettente. Cavalcare il populismo delle destre continentali, del resto, non sarebbe un problema per un «Movimento 5 Stelle» che, sulla protesta traversale agli schieramenti, ha trovato il successo elettorale. Anche in questo caso, però, le fondamentali regole della politica, quelle che valgono in tutto il mondo, potrebbero consegnare lo stesso risultato fallimentare. Come in Italia, per cambiare davvero qualcosa, non bisogna auto-escludersi dal gioco, così anche uscire dall’Europa e dall’euro non servirebbe a mutare alcunché nelle strategie economiche continentali. Servirebbe solo a lasciare alla nostra moneta il destino del peso argentino e a impoverire, di colpo, la grande maggioranza degli italiani. Ma, quando si è in preda alla disperazione, non si ha voglia di ascoltar lezioni.

La Stampa 31.1.14
Il doppio turno e il timore di diventare marginali
di Marcello Sorgi


La guerriglia del Movimento 5 stelle alla Camera è continuata ieri per tutto il giorno e sta ponendo seri problemi alla Presidente Boldrini, che ha chiesto un’istruttoria rapida per ottenere sanzioni contro i deputati grillini. Decisione alquanto complicata per due motivi: il primo è che proprio la Boldrini è nel mirino del M5S per aver usato la tagliola per salvare il decreto Imu-Bankitalia e portarlo all’approvazione. Il secondo è che tra i capi della rivolta c’è il vicepresidente della Camera grillino Di Maio, che ancora ieri ha ribadito che i parlamentari del suo gruppo, per protestare contro i tagli del tempo riservato alle opposizioni, si spingeranno «oltre le regole e oltre il Parlamento».
Cosa voglia dire questa frase così pesante, pronunciata alla vigilia dell’arrivo di Grillo a Roma, previsto per oggi, non è dato sapere. Ma dopo gli «insulti, le minacce, il turpiloquio» denunciati dalla Boldrini e usati anche per intimidire la deputata del Pd Alessandra Moretti, le azioni a sorpresa ieri hanno dilagato anche fuori dell’aula, arrivando fino in sala stampa, dove si è rischiata una rissa ed è stato impedito al capogruppo Democrat Roberto Speranza di rilasciare un’intervista.
Al di là dello scontro con la Presidente, ci sono altre ragioni politiche che motivano il brusco cambio di comportamento dei 5 stelle: l’annuncio dell’inchiesta giudiziaria per gli insulti al Capo dello Stato indebolisce la minaccia dell’impeachment contro Napolitano (che a questo punto apparirebbe come una sorta di vendetta), su cui probabilmente Grillo pensava di condurre la sua campagna di primavera. E la prospettiva dell’approvazione della nuova legge elettorale a due turni rischia di condannare il Movimento a una condizione marginale, dato che sicuramente nel secondo turno uno degli altri due schieramenti risulterebbe vincitore e avrebbe i numeri per governare. Ciò che Grillo e Casaleggio non ammetteranno mai è che sono stati proprio l’atteggiamento imposto da loro ai gruppi parlamentari e l’indisponibilità a qualsiasi accordo a spingere centrosinistra e centrodestra a concordare il nuovo sistema elettorale. Del quale, presto, il M5s rischia di piangere le conseguenze.

l’Unità 31.1.14
Il giurista
Rodotà: sono atti di populismo degradante
«C’è una intolleranza trasversale, al di là delle critiche legittime
Ormai ci siamo abituati agli insulti alla politica in nome dell’antipolitica. È teatro...»
intervista di Bruno Gravagnuolo


ROMA «Va spezzato il circolo vizioso di una classe politica che per cavalcare l’onda attacca la politica, e smettere di giocare con parole come impeachment...». Stefano Rodotà non teme di disturbare il manovratore e da giurista lo dice con chiarezza: «Populista non è solo Grillo, è un clima, una sindrome, un linguaggio. A comiciare dai ricatti sulla legge elettorale del tipo prendere o lasciare».
A tanti anni dallo scontro Cossiga-Occhetto, Grillo torna a parlare di impeachment del Presidente della Repubblica. Una cosa enorme, ma lui ci crede. Analogie?
«Nessuna. L’impeachment scatta con l’attentato alla Costituzione o con l’alto tradimento. Oggi non ve ne è nemmeno l’ombra. Cossiga attaccava quotidianamente la Carta costituzionale, il Csm e singole persone. Voleva andare al Csm con i corazzieri, per scioglierlo, e solo perché Galloni aveva denunciato l’incompatibilità tra massoneria e magistratura. Altro che paragoni con Napolitano! Non c’è nulla di anomalo nell’incarico a Monti, dopo i precedenti di Ciampi e Dini. E non si può limitare l’autonomia di scelta del Presidente nel conferire l’incarico, altrimenti si cancella la sua funzione centrale nell’ordinamento repubblicano. Le critiche politiche sono legittime, il resto è populismo deteriore».
Sta vincendo nel senso comune la teatralizzazione demagogica, come diceva Gramsci?
«C’è un degrado inaccettabile nel costume e nel linguaggio. Ma è il punto d’arrivo di un percorso avviato proprio dal picconatore Cossiga. Siamo abituati a derubricare certe sparate della Lega a folklore. E dopo il razzismo di Calderoli contro la Kyenge, Calderoli è ancora lì. Un fatto “normale”, perché è questo il clima imperante della comunicazione, favorito anche dai nuovi media. Teatro è la parola giusta. Non ci sono più limiti all’happening e tutto diviene legittimo, nelle parole e nei comportamenti. Ma il vero corto circuito è questo: è la classe politica che insulta la politica in nome dell’antipolitica. O aggredisce qualcun altro, come nel caso degli insulti ai giuristi...».
Si riferisce agli attacchi rivolti ai costituzionalisti che hanno criticato il nuovo maggioritario in votazione?
«Sì: un esempio di intolleranza trasversale, da destra a sinistra. E invece certe obiezioni, sollevate da Violante, Ainis, Carlassare e dal sottoscritto, restano ragionevoli e fondate, e ci vorrebbe rispetto e senso della misura in un momento delicato come questo, specie sul tema elettorale».
Non le piace il risultato dell’incontro al Nazareno?
«Quale risultato? La materia è ancora lì ed è incandescente. E anche la sentenza n. 1 del 2014 è ancora lì. Che accade se quel “risultato” torna davanti alla Corte Costituzionale che lo boccia in tutto o in parte? Attenzione, siamo in una repubblica parlamentare dove il voto è libero, eguale e segreto. E la regola di non disturbare il manovratore non vale».
In passato si è lamentato per il privilegiamento della grande Riforma, a scapito della legge elettorale. Oggi si parte da quest’ultima. Cos’è che non va?
«La legge elettorale è stata sollecitata più volte da Napolitano e imposta di fatto dalla Corte. Bene, ma la cosa richiede tempi e discussione adeguati. Al momento vedo molte criticità. Le soglie per accedere al premio, ad esempio. Che distorcono la rappresentatività specie nel caso dei piccoli partiti, che aiutano i grandi, ma non entrano in Parlamento. Una lesione dell’eguaglianza del voto. E poi questa legge fotografa lo status quo. Garantisce le soglie a Berlusconi, regala il salva-Lega a Salvini, la pluralità di canditature ad Alfano. Ma imprime una torsione ultramaggioritaria al sistema, vincolando rigidamente il ruolo di garanzia del Quirinale, con alterazione delle sue prerogative rispetto alla Carta costituzionale vigente».
Tutto questo però è stato il frutto di una diarchia, con Renzi e Berlusconi a dettare tempi e contenuti, o no?
«Certo, c’è stato un impulso di quel tipo. Ma non si può blindare tutto e andare per le spicce con l’intimazione “prendere quel che c’è, oppure salta tutto”. Quanto ai risvolti politici è innegabile che Berlusconi, dopo il Nazareno e alla vigilia della sua pena, potrà dire: ma come, sono il padre fondatore delle regole e mi si perseguita ancora? Inoltre non v’è dubbio che con questa legge elettorale il Cavaliere abbia ricompattato i suoi e potrà risucchiare Alfano. Ma, al di là di tutto, la domanda è un’altra: la legge è conforme alla sentenza della Consulta e alla democrazia rappresentativa? Occorre discuterne a fondo in Parlamento». Torniamo a Grillo. Fattore tossico o è ancora una risorsa ai suoi occhi?
«Sono stati inutilizzabili sulla legge elettorale e su altro. E nondimeno sul decreto Imu-Bankitalia potevano vantare qualche buona ragione, al di là dei comportamenti. Non si può legiferare con leggi accozzaglia e per decreto, e occorreva fare come con il salva-Roma: ripensare e distinguere. Che fare con Grillo? Evitare di vittimizzarlo con una nuova conventio ad excludendum. In fondo sui clandestini è stato sconfitto dall’interno del suo mondo».

l’Unità 31.1.14
Dambruoso a rischio sospensione
Il deputato di Sc: «Avrei dovuto ordinare ai commessi di fermarla»
Pressing per le dimissioni
di C. Fus


A metà giornata lascia l’aula, se ne va a casa. Ha parlato con i colleghi questori, ha ricostruito i fatti, ha chiesto scusa alla deputata Loredana Lupo, non voleva «fare un gesto violento». È probabile che non servirà a molto. Il suo destino sembra segnato: l’istruttoria è in corso, gli altri due questori, Paolo Fontanelli (Pd) e Gregorio Fontana (Fi), stanno esaminando video e foto e sentiranno i testimoni e le parti coinvolte. «Con questo clima prima si chiude e meglio» spiega uno dei questori. Consegneranno il dossier lunedì. A quel punto la parola passa alla presidenza a cui spetta la decisione finale. L’onorevole Stefano Dambruoso rischia la sospensione per 15 giorni, il massimo della pena prevista dal Regolamento. E non è escluso che debba persino lasciare l’incarico di questore della Camera. Un brutto guaio per il magistrato antiterrorismo (si guadagnò anche la copertina del Time) sceso in politica con Scelta civica che l’altra sera ha spintonato la deputata Loredana Lupo nel mezzo della rissa nell’aula di Montecitorio ostaggio dell’aggressione Cinquestelle.
Dambruoso ieri mattina era alla Camera. Ha cercato anche di andare a seguire i lavori della Commissione Giustizia sotto sequestro grillino pur passando sotto una selva di fischi e insulti. Pensare che lo ha difeso persino l’onorevole Davide Farina (Sel) che ai tempi del Leoncavallo era stato interrogato quattro volte da Dambruoso magistrato.
Poi ha incontrato i suoi colleghi questori. «Ma avete visto come provocavano?» si è sfogato con loro «La Lupo stava arrivando al banco della presidenza, stavano arrivando da tutte le parti, i commessi erano fermi, assaliti, io l’ho spostata da lì... Dovevano farlo i commessi lo so, ho sbagliato». Il questore Dambruoso avrebbe dovuto ordinare agli assistenti parlamentari, che prendono disposizioni proprio da lui, di liberare i banchi del governo dall’assalto grillino. Non è andata così.
«Valuteremo non il singolo fatto ma l’insieme di quanto accaduto in queste 24 ore» spiega uno dei questori. Perché il contesto, il clima, le provocazioni potrebbero valere come attenuante per il questore Dambruoso.
I 5 stelle ne chiedono le dimissioni da questore. Così come quelle del presidente della Camera Laura Boldrini. Che promette severità massima per tutto quello che è successo. Quindi anche prima e dopo la reazione di Dambruoso. Severità massima anche per i deputati grillini che hanno violato le regole del Parlamento bloccando i lavori.

l’Unità 31.1.14
Barca e Vendola, dialogo sulla sinistra e il lavoro
L’ex ministro e il leader di Sel a Roma discutono l’attualità del pensiero di Pietro Ingrao
di Rachele Gonnelli


ROMA. La complessità è un oggetto che vive asfittico nella politica di oggi, tra talk show e twitter. E quindi è un evento straniante ritrovarla tutta d’un botto in un dibattito, affollato, alla Casa Internazionale della donna in via della Lungara a Roma.
Il dibattito è la presentazione dei primi due libri di una nuova collana di saggi sul pensiero di Pietro Ingrao, con la presenza di Fabrizio Barca e Nichi Vendola. L’ex ministro parla di lavoro e i riferimenti vanno alla Electrolux e anche alla genesi della crisi di oggi, alla Fiat dell’80 su cui si appuntano le considerazioni di Ingrao. Barca, che non è un ingraiano e neanche viene dal Pci, dice di essersi preso un tempo lento per leggere Ingrao e di essersi stupito di quante cose allora avesse percepito il leader comunista.
Individuando nella perdita di competitività e nel parametro del mancato aumento della produttività del lavoro, insieme, la causa dell’attuale crisi italiana, Barca segue questo filo: mettere a confronto ciò che aveva intuito Ingrao, gli errori della sinistra, gli sviamenti dall’analisi, e ciò che è successo, la sua analisi fatta in Bankitalia e poi al ministero e nei suoi studi da economista.
La debolezza della classe operaia, che significa salari bassi, un record di ore lavorate e una riduzione del potere, e quindi dei diritti, in alternativa al rafforzamento del potere del capitale, dice l’esponente del Pd, tutte queste cose sono in stretto rapporto con la mancanza di innovazione nella produzione. Il capitalismo italiano, spiega, a partire dagli anni ’76-77, ha operato una sorta di sciopero dei capitali in sintesi smettendo di investire nell’innovazione di prodotto e concentrandosi solo su come modificare l’organizzazione del lavoro. Ingrao riflettendo sulla gran-
de sconfitta culturale dell’80 alla Fiat se ne era accorto, quando ancora la sinistra per la cronaca era ferma su teorie di scomparsa della classe operaia in una palingenesi terziaria.
Nichi Vendola si sofferma su quella che racconta come la prima foto in bianco e nero della sua esistenza politica, a otto anni, quando il padre lo presenta al dirigente del Pci venuto in Puglia ad omaggiare la figura di un conterraneo, Gioacchino Gesmundo, caporedattore della Cultura de l’Unità, dei Gap nel commando di via Rasella massacrato alle Fosse Ardeatine. Vendola si ricorda che Ingrao, stringendogli la mano bambina, gli disse: «Preparati a diventare un buon comunista».
Ammette che Ingrao negli anni non si è mai ricordato di aver pronunciato quella frase ma lo stesso per lui una volta adolescente nella Fgci e poi adulto in questo quadretto è rimasta fissata la storia di un impegno solenne.
Vendola sceglie di non soffermarsi su Ingrao poeta perché, dice, si sente «troppo coinvolto». Ricorda però come Sanguineti gli ha anche personalmente insegnato a non rimanere confinato nella «torre eburnea» della bellezza delle parole per scendere anche attraverso il bello scrivere nella concretezza della scelta di classe, o meglio «nella pedagogia del cambiamento», della ricerca di un’altra soggettività, «calarsi in una pelle diversa da quella borghese».
E però è sulla lettura di Pietro Barcellona che Vendola si sofferma. Se l’ingraismo è, per usare la definizione del leader Sel, «un universo di uni-
versi», quello di Barcellona è quello che più si pone il problema dell’attraversamento nelle istituzioni. Vendola perciò ci attacca la critica del presente, quel Fiscal compact finito in Costituzione senza possibilità di un vero dibattito, che lui vede come una sorta di totem per «gli apologeti della tecnocrazia», insomma come un dogma imposto dal mercato e non discutibile, mentre proprio il dubbio, come riconosce Camilleri, è l’elemento fondamentale per una ricerca teorica, per interrogare il presente e quindi l’organizzazione del lavoro e della società.
Le ultime parole sono per Mario Tronti e per l’omino di Chaplin in Tempi moderni che Ingrao usa costantemente per ricordare che la classe operaia non è una entità, una massa, un numero, ma è fatta di uomini e donne, della loro sofferenza e delle loro speranze. E infine quell’ultima tenue speranza di uscire dal «buio della sconfitta».

il Fatto 31.1.14
Congresso Cgil
Scontri, addii e accuse di brogli


Acque agitate nella Cgil in vista del congresso nazionale. Due componenti il direttivo nazionale, Maurizio Scarpa e Franca Perone, hanno annunciato l’abbandono del sindacato. L’accusa è quella di aver acconsentito a “una caporetto sociale” come con l’accordo sulla rappresentanza ma anche di essere un sindacato “che non si basa più solo sulle entrate degli iscritti” ma su altre entrate vincolate ai governi o ai Contratti collettivi. Non pensano a lasciare la Cgil, invece, ma sono ugualmente duri contro il suo gruppo dirigente, i membri della minoranza guidata da Giorgio Cremaschi (il 3% dell’attuale direttivo) che hanno annunciato il ricorso alla “magistratura interna” contro il recente accordo sulla rappresentanza che “viola lo statuto della Cgil” sul piano della “libertà sindacale”, della “democrazia” e dell’autonomia delle categorie. “Quell’accordo viola anche l’articolo 36 del Codice civile e quindi, dice Cremaschi, siamo pronti a ricorrere anche alla magistratura ordinaria”. Toni durissimi anche sul congresso. La minoranza accusa di aver subito “aggressioni fisiche” e ritiene di essere penalizzata nello svolgimento delle assise in cui paventa il rischio di “brogli”. “La partecipazione è bassissima”, dicono, e “se si supereranno i 900 mila partecipanti (su 6 milioni di iscritti, ndr) vuol dire che i numeri sono stati truccati”. (s.c.)

Repubblica 31.1.14
L’intervista
“Perdita netta per il Paese e fine di un simbolo”
Taddei: ma il nuovo capitalismo sta tornando qui
di Roberto Mania


ROMA — «Sappiamo di certo che con la scelta che ha fatto la Fiat l’Italia perderà gettito fiscale. C’è un trasferimento di base imponibile fuori dal nostro Paese. Dunque per noi è una perdita netta», dice Filippo Taddei, responsabile economico della nuova segreteria del Pd.
Il presidente della Fiat John Elkann ha dichiarato però che il suo gruppo continuerà a pagare le tasse dove fa utili, “Italia inclusa”.
«Ha ragione se si riferisce al pagamento dei contributi e delle tasse sul lavoro, ma gli utili saranno tassati nel Paese in cui il gruppo è residente, in questo caso l’Olanda la cui legislazione permette il trasferimento del carico fiscale nel Regno Unito».
La maggiore incognita per il futuro della presenza Fiat in Italia riguarda gli investimenti. Lei pensa che Marchionne scommetterà ancora sul nostro Paese dopo aver spostato la sede legale della Fiat?
«La Fiat ha garantito il mantenimento dei livelli occupazionali. Non c’è motivo di non crederle. Certo, la Fiat è stata, anche per le generazioni più giovani, il simbolo dell’industria italiana. Ora nonlo è più. Quello dell’altro ieri è stato un giorno storico. Non sottovaluterei il dato, però, che circa il 60% delle imprese europee che stanno tornando nei Paesi d’origine dopo aver delocalizzato, è costituto da imprese italiane. Vuol dire che una parte del capitalismo italiano sta tornando a scommettere sul proprio Paese. C’è da augurarsi che anche la Fiat compia questo percorso. Il compito della politica è quello di mettere in campo le misure perché ciò avvenga».
Considera realistico il progetto di Marchionne di spostare le produzioni sui modelli di alta gamma?
«Se la Fiat vuole interpretare il suo ruolo spostando le produzioni sulla fascia alta va benissimo. Sono scelte che spettano all’azienda e sulle quali la politica non deve mettere bocca».
È esattamente quello che dice Marchionne quando gli si chiedono lumi sul piano industriale...
«Vorrei che si uscisse da un equivoco: a noi non deve interessare dove Marchionne intende investire. A noi interessa se Marchionne investe in Italia e difendein questo modo le prospettive del lavoro nei nostri stabilimenti. Ripeto: alla politica spetta il compito di creare le condizioni perché un’impresa investa».
Vale anche per l’Electrolux?
«Certo. Deve valere per tutti. I tempi in cui si prendevano provvedimenti mirati per una singola aziende sono finiti. Bisogna pensare al sistema produttivo nel suo complesso. Quando pensiamo alla riforma fiscale o alla sburocratizzazione pensiamo a tutti, a cominciare da quelle aziende del cosiddetto “quarto capitalismo”, con fatturati dai 20 ai 200 milioni, che hanno un significativo potenziale di innovazione».
Davvero ritiene che non sia a rischio l’occupazione con lo spostamento delle produzioni sull’alta gamma?
«Sto a quello che ha detto Marchionne. Servono investimenti per innovare sul piano tecnologico per produzioni ad alto valore aggiunto».
Come giudica l’atteggiamento del governo?
«Non so se la Fiat abbia cercato o meno un’interlocuzione con il governo e viceversa. So che siamo in Europa e dunque nella scelta della Fiat non c’è nulla di sorprendente ».

il Fatto 31.1.14
Il senatore Pd Massimo Mucchetti
“Fiat se ne può andare ma ci paghi la exit tax”
intervista di Stefano Feltri


La Fiat se ne può andare, ma se toglie milioni di euro di gettito al fisco italiano, governo e Parlamento possono chiedere indietro il dovuto con una “exit tax”. Il presidente della commissione Industria del Senato Massimo Mucchetti, Pd, è battagliero: è quasi riuscito a far approvare una norma che avrebbe bloccato la scalata spagnola a Telecom (ma il governo l’ha boicottato) e ora è pronto a occuparsi di Fiat Chrysler (Fca).
Mucchetti, è sorpreso dalla fuga di Fiat Chrysler dall'Italia?
Il copione era scritto fin dalla separazione tra Fiat Industrial e Fiat Spa ed è diventato leggibile quando Fiat Industrial ha assorbito Cnh, portando la sede legale in Olanda, dove si possono avere azioni a voto multiplo in capo agli azionisti stabili.
Come funziona questo regime olandese?
Con il 10 per cento, per dire, puoi avere un peso del 40 o del 50 per cento avendo dividendi per il 10. In Italia le azioni a voto multiplo sono proibite, ma nella maggior parte dei Paesi occidentali sono lecite. Al mercato offri un progetto a lungo termine. Se poi ne preferisce uno a breve, legato alla contendibilità, le quotazioni lo rifletteranno.
E cosa cambierà con lo spostamento della sede legale in Olanda?
Le statistiche sugli investimenti esteri: tutto quanto è Fiat ieri era nazionale, da domani sarà internazionale. Ma come per le mucche di Mussolini in parata, sempre quelle restano le fabbriche. Che oggi sono in larga parte ferme per mancanza di modelli esportabili ad alto valore aggiunto. Ti credo che la produttività è bassa! Ora Stampa, Corriere e Gazzetta dello Sport avranno un azionista esterovestito. Tranne il caso del Mundo, testata spagnola di Rcs, non mi vengono in mente grandi quotidiani posseduti da società estere.
Perché la sede fiscale a Londra?
La City garantisce facilitazioni a società e manager. La Gran Bretagna ha un debito pubblico ufficialmente basso e agevola le transazioni finanziarie. Del resto, le multinazionali già raccolgono il denaro a Londra.
Cosa ci perde l'Italia?
Dipende. Se si trasferisce a Londra una pura holding che vive di dividendi delle partecipazioni, il calo del gettito fiscale sarebbe minimo. In Italia i dividendi da partecipazioni italiane sono tassati all'1,37 per cento. E buona parte delle controllate italiane della Fiat non guadagnano. Se invece emigra la proprietà di attività materiali e immateriali generatrici di cassa o se vengono trasferite società che possiedono marchi e brevetti così da imporre royalties, e cioè costi fiscalmente deducibili, l’Agenzia delle entrate potrebbe avere da ridire. In ogni caso, questa migrazione potrebbe – dico potrebbe, non dovrebbe – far scattare l'exit tax, la tassa che riguarda il trasferimento di base imponibile all'estero. E allora dovremmo pure magari ripensarne l'aliquota.
Al governo si rimprovera di essere stato assente.
Hanno perso tempo tanti governi. Per fare politica industriale bisogna mettere sul tavolo denari e risorse professionali. Il governo Usa si è assunto i costi di ristrutturazione di GM e Chrysler, 12 miliardi di dollari. Ma ha salvato Detroit. Lo Stato francese ha la Renault e adesso entra in Peugeot per favorirne l'internazionalizzazione in Cina, dopo che è venuto meno l'accordo privato Peugeot-GM. Licenzia, ma non sparisce dalla Francia. In Germania il lander della Bassa Sassonia è da sempre un azionista con diritto di veto in Volkswagen.
L'Italia ha già speso miliardi. Ha protetto la Fiat fino alla fine degli anni Novanta, poi un'ultima fiammata di rottamazioni. Quindi il nulla. Marchionne ha continuato la caccia di incentivi pubblici, ne ha trovati ovunque tranne che in Italia, e sempre legati a precisi impegni produttivi nel Paese che li eroga. I nostri governi, non sapendo che fare, si sono finti liberisti. Qualcosa si può imparare da General Motors che ha aperto un grande centro di ricerca con il Politecnico di Torino. E magari favorire l'avvento di un altro costruttore in Italia.
Marchionne si è dato un orizzonte di tre anni per rilanciare il gruppo post-fusione.
Rilanciare in così poco tempo marchi che da anni languono come Fiat, Alfa Romeo e Lancia? Auguri. La finanza è fatta di colpi di scena, l'industria richiede costanza. L’Audi ha impiegato 15 anni a diventare l'Audi.
Da tempo lei sostiene la necessità di un aumento di capitale per Fiat. Marchionne ora prospetta un prestito convertendo, è sufficiente?
Il convertendo è la forma timida e avara di un aumento di capitale che continua a essere necessario in un gruppo che paga un'enormità di interessi passivi su un debito junk.

il Fatto 31.1.14
Bye bye Torino
Ecco perché Marchionne verserà le imposte in Gran Bretagna
di Salvatore Cannavò


Quali sono, davvero, le intenzioni della Fiat e gli sviluppi futuri della nuova Fca annunciata dalla Fiat? Osservatori e analisti si interrogano su questi aspetti, di difficile interpretazione vista la complessità fiscale, ma rilevanti. Qualche aiuto lo offre l’intervista di ieri alla Stampa del presidente di Fiat, John Elkann. Altre informazioni vanno ricercate direttamente in Gran Bretagna.
Cosa comporta per Torino 1. il trasferimento della sede legale in Olanda e di quella fiscale in Gran Bretagna?
Dice John Elkann alla Stampa: “Torino sarà il centro di un mercato immenso che copre Europa, Medio Oriente e Africa”. Inoltre “qui è il cuore del progetto Premium”. Appunto, Torino non sarà più il centro direzionale ma una delle quattro direzioni territoriali (insieme ad Asia, Latinoamerica e America del nord) in cui è divisa l’attività Fiat. L’immensità, poi, è riferibile al 19% dei ricavi complessivi del gruppo di cui il 53% proviene dai paesi Nafta (Usa, Canada e Messico). L’attività Premium, per il momento, è una scommessa.
2. Perché la sede legale è in Olanda ed è diversa da quella fiscale?
Il diritto societario olandese, spiega il tributarista Raffaele Lupi, docente all’Università di Tor Vergata, “è molto flessibile e consente ai soci di detenere diritti di voto superiori al numero delle azioni possedute”. In tal modo, gli Agnelli blindano il loro controllo. Lo stesso è stato fatto con la fusione tra Fiat Industrial e la Cnh collocata, appunto, in Olanda.
3. La sede fiscale, invece, è in Gran Bretagna. Quali sono i principali vantaggi per la Fiat?
Il Regno unito ha pubblicato A guide to Uk taxation, la guida alla tassazione in Gran Bretagna, che risponde alle domande principali. A partire dalla tabellina di pagina 3 che illustra il Corporation tax rate, cioè la tassa applicata alle aziende nei paesi del G20. Il paese più conveniente, con il 20% di tassazione (dal 2015) è proprio la Gran Bretagna. L’Italia è al 13° posto con il 31%. All’ultimo posto ci sono gli Stati Uniti con il 40%. La Fiat non fugge solo dall’Italia ma, in parte, anche dagli Usa.
4. Quanti sono realmente i vantaggi fiscali?
La guida conta 24 pagine e in ognuna c’è un codicillo che può favorire la Fiat. In ogni caso, un punto realmente vantaggioso, può essere quello relativo al regime Controlled Foreign Company (Cfc) per le aziende che hanno controllate all’estero. Se l’azienda accetta di rientrare in un “regime controllato” avrà l’esenzione totale dei profitti guadagnati con le controllate estere ma anche una tassazione effettiva del 5% per i flussi finanziari con le controllate. Tassazione che può arrivare a zero, ad esempio, quando i fondi per i flussi sono generati all’estero. Inoltre, per permettere alle multinazionali che si spostano in Gb di adeguarsi alla normativa è previsto un intero anno di esenzione fiscale.
5. Qual è la differenza con l’attuale tassazione italiana?
Quando parliamo dei benefici fiscali ci si riferisce solo alla holding che controlla le altre partecipate che pagano, ognuna nel proprio paese, le tasse sugli utili lì prodotti. A essere tassati, quindi, sono i dividendi ottenuti dalle controllate e per l’Italia questa tassazione è fissata al 27,5% del 5% di quanto ricavato. Il restante 95% si ritiene già versato nel paese di produzione. Nel 2012 i dividendi incassati da Fiat spa ammontavano a 1,03 miliardi di euro.
6. La Fiat è un’azienda che ha una grande attività di ricerca e innovazione. Ci sono
vantaggi anche su questo lato, come ad esempio i brevetti?
La guida alla tassazione inglese esalta la sua Patent box, la tassazione “per incoraggiare lo sviluppo e lo sfruttamento della proprietà intellettuale” fissata al 10%. Nel 2012 la Fiat deteneva oltre 8.000 brevetti per un volume di costi di oltre 2 miliardi.
7. Esiste un legame con la nuova presenza negli Stati Uniti della Fiat? In fondo, non è solo la Fiat a trasferirsi in Gran Bretagna ma anche la Chrysler.
È sempre John Elkann, nell’intervista citata, a parlare di Londra come luogo con un “regime più favorevole per gli investitori americani”. Questo in virtù delle convenzioni tra i due paesi e di una relazione storicamente privilegiata. Non ultima, la decisione di quotare la Fca a Wall Street, piazza di assoluto riferimento per la City londinese.

il Fatto 31.1.14
Caso kazako: Alma Shalabayeva quattro ore dal pm


ALMA SHALABAYEVA, moglie del dissidente kazaco, Mukhtar Ablyazov, è stata interrogata ieri dal pm della Procura di Roma, Eugenio Albamonte, nell’ambito dell’inchiesta sulle modalità della sua espulsione dall’Italia avvenuta il 31 maggio scorso. La donna, attualmente residente in Svizzera, è stata sentita come indagata in relazione al possesso di un passaporto falso. Un’interrogatorio che è durato quattro ore e mezzo, durante le quali la donna ha ricostruito tutta la vicenda che la riguarda, dal giorno del blitz nella villa di Casal Palocco al rimpatrio in Kazakistan. Massima riservatezza da parte dei legali della donna, Riccardo Olivo e Astolfo Di Amato e della Procura di Roma su quanto abbia riferito la Shalabayeva al magistrato. Gli avvocati infatti non hanno voluto rispondere alla domanda se la loro assistita sia stata sottoposta a una ricognizione fotografica per riconoscere i personaggi che si occuparono della sua espulsione e hanno rimandato maggiori chiarimenti a una futura conferenza stampa. La moglie del dissidente kazako Mukhar Ablyazov, attualmente detenuto a Parigi, ha lasciato piazzale Clodio senza fare dichiarazioni.

l’Unità 31.1.14
Da Zoro a L’Apparato L’onda del contro-riflusso
Dopo i dolori del militante Diego Bianchi e la critica dadaista-leninista dei Marxisti per Tabacci si afferma un modo diverso di fare satira (e non solo)
«I cittadini devono sapere chi ha vinto la sera prima delle elezioni» (L’Apparato)
di Francesco Cundari


Se gli anni ottanta sono stati gli anni del riflusso nel privato e nel particolare, dopo la sbornia di impegno sociale e solidarietà internazionale dei decenni precedenti, non è poi così strano che oggi, dopo oltre tre decenni, compaiano qui e là i segnali di una sia pur timida inversione di tendenza. Di certo nessuno incarna i valori e il gusto degli anni ottanta più di Silvio Berlusconi.
Quanto a Matteo Renzi, non ha molta importanza stabilire se sia il suo erede di sinistra, come dicono i critici, o la versione italiana di Tony Blair, come dicono i suoi sostenitori. D’altronde, cos’è stato il blairismo, con la sua enfasi su modernizzazione e flessibilità, efficienza e meritocrazia, se non la filosofia degli anni ottanta arrivata a sinistra con un decennio di ritardo? Un processo giunto a compimento anche sul piano simbolico con il leader del Pd che si presenta da Maria De Filippi indossando il giubbotto di Fonzie. La novità è che a margine di questo processo è germogliata a sinistra anche una singolare forma di alternativa.
Il primo segnale è stato il fenomeno Zoro, nato non a caso a margine delle primarie del 2007, quando Walter Veltroni diceva «we can» con lo stesso spirito con cui oggi Renzi dice «Jobs Act», e il giovane blogger Diego Bianchi iniziava la sua carriera di videomaker accentuando il contrasto tra il suo romanesco e gli slogan del nuovo Pd. Anche in questo modo Zoro dava voce a una curiosa forma di telematica Ostalgie come nella Germania riunificata si chiamava la nostalgia dell’Est tutta incentrata sulle sofferenze dello storico militante di sinistra, quello del Pci-Pds-Ds (o meglio, per ragioni anagrafiche, della Fgci-Pds-Ds). Così, ad esempio, al tempo della formazione delle liste per le primarie e delle polemiche sulla logica delle «figurine» (uno dei tanti aspetti della spettacolarizzazione della politica), Zoro metteva in scena una sua immaginaria telefonata con Veltroni: «Senti, Walter, stai a fa’ le liste? Ma secondo te, dato il mio profilo... no, non so’ gay... eh no, non so’ manco donna... no, non so’ negro... non so’ manco più tanto giovane... no, non sono imprenditore, il call center non l’ho fatto... però ho fatto un po’ di politica... ah, dici che è peggio?».
È significativo che un analogo impasto di nuove tecnologie, nostalgia e satira politica si sia ripresentato alle primarie del 2013, con i «Marxisti per Tabacci», pagina facebook da oltre 32mila seguaci, costellata di surreali citazioni leniniste attribuite al grande leader rivoluzionario di Centro democratico (e prima della Dc), con esilaranti fotomontaggi che attribuiscono i suoi tratti agli eroi del socialismo.
Ancora più recente è poi il fenomeno de «L’Apparato» («l’eterno nemico dei giovani e del nuovo»), pagina facebook da 26 mila seguaci, profilo Twitter da 10 mila, dove i luoghi comuni del dibattito pubblico appaiono rovesciati in caricatura, in una chiave che tuttavia lascia sempre nel lettore il fondato sospetto che si stia parlando seriamente. Un fenomeno che ha già prodotto anche un libro («Il libretto grigio», Editori internazionali riuniti), in cui i Burocrati del Comitato Centrale hanno raccolto le molte perle di saggezza dispensate in questi mesi. Per esempio, ai tempi delle polemiche sulla data del congresso Pd: «Comunichiamo infine la data del congresso. È stato una settimana fa». O la sera stessa della “non vittoria” elettorale del centrosinistra: «Che cosa pretendeva-
te per 2 euro?».
Quello che colpisce di più in questa affermazione del vintage politico è che viene da giovani che l’epoca cui alludono con rimpianto non hanno mai vissuto (i marxisti per Tabacci provengono per lo più dall’organizzazione universitaria della Cgil, i burocrati dell’Apparato dai Giovani democratici).
Più o meno della stessa generazione e della stessa provenienza, non per niente, sono pure gli animatori del blog politico-calcistico «Volevo il rigore» (volevoilrigore.wordpress.com), che nel loro manifesto dichiarano subito e senza mezzi termini: «Siamo di sinistra, contro il calcio e la politica moderna, ci piacciono i comizi e non le interviste, la doppia morale togliattiana la pratichiamo fino in fondo e per novanta minuti perdoniamo tutto ai nostri presidenti, anche se si chiamano Berlusconi, Agnelli o De Laurentis». Giovani nostalgici che per la loro surreale riabilitazione del vecchio mondo, paradossalmente, si servono di internet, dei social network e di tutti gli strumenti che solo la rivoluzione informatica ha messo loro a disposizione.
GIOVANI NOSTALGICI
Può darsi, naturalmente, che si tratti di fenomeni marginali, minoranze creative che non incroceranno mai maggioranze e senso comune. Sta di fatto però che il loro precursore, Diego Bianchi, con il suo personaggio ci ha fatto un programma su Raitre, Gazebo, che è già alla seconda stagione. Ed è difficile capire quanto il successo dell’Apparato sia dovuto al puro gusto per la satira politica («I cittadini devono sapere chi ha vinto la sera prima delle elezioni», scrivono in questi giorni di dibattito sulla legge elettorale) e quanto alla segreta speranza che un giorno riveli ai suoi 26 mila seguaci che è tutto vero, che un Apparato esiste ancora e magari si è già reinsediato a Botteghe Oscure.
Il successo di questi giovani e modernissimi nostalgici potrebbe essere dunque il sintomo di un fenomeno più profondo, quarant’anni dopo Ronald Reagan, il Drive In e Happy Days. La ribellione di una generazione che negli anni del riflusso ci è nata e cresciuta, con tutti i suoi effetti speciali e la sua ossessiva retorica dell’innovazione, e oggi comincia a non poterne più. Il riflusso del riflusso, insomma. Una generazione di militanti di sinistra che in questo mondo, pur essendoci cresciuta dentro, è rimasta a lungo spaesata, e che anche attraverso la realtà virtuale delle sue singolari costruzioni politico-satiriche (perlopiù, non a caso, opere collettive e anonime), mostra l’insopprimibile desiderio di un futuro forse più grigio, ma autentico.

l’Unità 31.1.14
«Il matrimonio? Resiste grazie agli immigrati»
Il rapporto Caritas: gli stranieri sono i più poveri e soffrono la crisi
6500 i minori senza accompagnamento
La presa di posizione contro i Cie: «Non inutili, inefficaci e costosi Giusto chiuderli»
di Franca Stella


ROMA. Se non fosse per gli stranieri che scelgono di venire a vivere e lavorare in Italia, il nostro Paese non solo sarebbe più povero economicamente ma ci sarebbero meno figli e meno matrimoni. Perché è questo uno dei dati che esce fuori dal rapporto Migrantes presentato ieri dalla Caritas. Il 15 per cento delle nozze celebrate in Italia vede almeno uno degli sposi di origine straniera. Dal 2011 al 2012 si è registrata una leggera ripresa dei matrimoni in cui uno o entrambi gli sposi è di origine straniera (pari a 30.724 nozze): sono state celebrate oltre 5mila unioni in più rispetto all’anno precedente pari dunque a circa il 15 per cento del totale dei matrimoni (207.138).
I numeri dell’immigrazione restano, comunque, costanti. Gli stranieri regolari e irregolari sono circa 5 milioni. E non se la passano proprio bene, visto che proprio le famiglie composte da immigrati sono tra le più povere e, di riflesso, hanno dovuto affrontare la crisi economica in posizioni di svantaggio.
Di quanto stiamo parlando? Secondo il rapporto il reddito mediano degli immigrati è solo il 56% di quello degli italiani, e un quarto degli stranieri è incapace di pagare con puntualità affitti e bollette contro, rispettivamente, il 10,5% e l’8,3% degli italiani. Particolarmente grave, poi, il problema abitativo: per gli immigrati quella della casa è una criticità tre volte superiore rispetto agli autoctoni. E se gli stranieri residenti nel Mezzogiorno sono più poveri e deprivati di quelli del Centro-Nord, in compenso al Sud è più contenuta la distanza tra le condizioni del disagio proprie dei migranti e quelle, invece, dei nativi. Quanto alla disoccupazione, il rapporto sottolinea che mentre per gli italiani il fenomeno colpisce soprattutto i più giovani, tra gli stranieri la privazione del lavoro colpisce soprattutto il capofamiglia. Una contraddizione riguarda la tipologia del lavoro: mentre la domanda di lavoro riservata agli stranieri si contrae, in ambiti come i servizi alla persona invece l’occupazione continua a crescere.
In generale, dunque, il fenomeno migratorio è continuato ma non è certamente aumentato: la crescita degli immigrati dovuta principalmente ai ricongiungimenti e alle nuove nascite viene quasi azzerata da quegli stranieri che decisono di scegliere altre destinazioni (Francia e Germania in testa) in Europa o nel mondo. Dal punto di vista religioso, se si contano solo 6 moschee in senso stretto, 36 templi sikh e 335 parrocchie ortodosse, su tutto il territorio nazionale sono presenti templi sikh e buddisti, sale di preghiera musulmane, chiese neo-pentacostali e altro. In un anno sono aumentati del 16% le acquisizioni di cittadinanza, e il rapporto segnala anche la crescente presenza di alunni con cittadinanza straniera che sono nati in Italia, bambini e ragazzi che in molti casi non hanno mai visitato il Paese di origine. Il problema della riforma della legge sulla cittadinanza è stato citato dal ministro Kyenge, che ha assicurato che «le prossime settimane saranno decisive» perché si è riusciti a mettere il provvedimento nell’agenda parlamentare subito dopo la legge elettorale. Un capitolo a sé viene riservato ai Cie. «Luoghi di insicurezza più che di sicurezza sociale dei migranti e che pertanto vanno chiusi» ha sottolineato il direttore generale di Migrantes, mons. Gian Carlo Perego. Il Rapporto evidenzia come il trattenimento nei Cie non soddisfa, se non in misura minima, l’interesse al controllo delle frontiere e alla regolazione dei flussi mi-
gratori, anzi sembra piuttosto assolvere a una funzione di "sedativo" delle ansie di chi percepisce la presenza dello straniero come un pericolo per la sicurezza. E l’allungamento dei tempi di permanenza fino a 18 mesi non ha migliorato l’efficacia dei centri ma sembra anzi aver causato una riduzione del numero delle persone rimpatriate dopo il trattenimento.
Nel rapporto c’è anche un altro dato che inquieta: è quello legato ai minori non accompagnati. Sarebbero 6500 di cui 423 (6,5 per cento) femmine e 6.114 maschi (93,5 per cento). Ma «il dato generale circa le presenze è sottostimato in quanto non comprende i minori non accompagnati comunitari tra cui principalmente i romeni che nel passato costituivano la componente di numericamente più rilevante».

l’Unità 31.1.14
Il tacito esaurimento dei centri di identificazione
di Luigi Manconi e altri


La settimana scorsa il Senato ha approvato un emendamento al disegno di legge in materia di sanzioni penali, che delega il governo ad «abrogare, trasformandolo in illecito amministrativo, il reato previsto dall’articolo 10-bis del Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero di cui al decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286, conservando rilievo penale alle condotte di violazione dei provvedimenti amministrativi adottati in materia». Parafrasando: se non è stato adottato alcun provvedimento di allontanamento nei confronti di una persona straniera presente in Italia, l’irregolarità di soggiorno non ha rilievo penale. Se invece un tale provvedimento c’è, non decadono i reati attualmente previsti.
Nell’emendamento viene riaffermato il concetto per cui il reato di immigrazione irregolare è, di fatto, un «illecito amministrativo» che incrimina qualunque tipo di ingresso e soggiorno irregolare. La sanzione penale è prevista per le ipotesi di reingresso dopo un ordine di espulsione. Ciò, in teoria, potrebbe ancora contrastare la Direttiva Rimpatri 2008/115/CE, da cui derivava la sentenza El Dridi (C-61/11/PPU del 28 aprile 2011), perché non garantisce un’esecuzione più rapida dell’espulsione ma pare piuttosto finalizzata ad infliggere una pena.
Nella sentenza El Dridi, la Corte sosteneva che «gli stati membri non possono introdurre, al fine di ovviare all’insuccesso delle misure coercitive adottate per procedere all’allontanamento coattivo una pena detentiva, come quella prevista dall’art. 14, comma 5 ter del d.lgs 286/98, solo perché un cittadino di un paese terzo, dopo che gli stato notificato un ordine di lasciare il territorio di uno stato membro e che il termine impartito con tale ordine è scaduto, permane in maniera irregolare nel territorio nazionale».
Ecco perché quella sentenza, non permettendo l’ingresso in carcere a chi non aveva ottemperato all’ordine di allontanamento, si è rivelata un intervento assai significativo dal punto di vista della criminalizzazione degli stranieri.
L’abolizione del reato di clandestinità nonostante le criticità appena rilevate, incide profondamente nel cambiamento dell’opinione pubblica su questo tema. Fino ad ora, l’esistenza di quel reato aveva proprio costituito la «giustificazione» della sopravvivenza dei Cie: se lo straniero rappresenta una minaccia sociale e un pericolo per l’incolumità e la sicurezza dei cittadini, essi vanno «contenuti», classificati come criminali, reclusi. Nei Cie, appunto.
Nel corso del 2013, quei centri hanno subito un’accelerata decadenza, rivelandosi inefficaci rispetto allo scopo prioritario (appena quattro su dieci dei trattenuti vengono effettivamente espulsi), troppo onerosi e gravemente lesivi della dignità umana. Sembra che si vada verso un loro tacito esaurimento (già chiusi o in via di chiusura quello di Crotone, Bologna, Gradisca, Modena, Milano e Bari), che pure non ne annulla l’attuale funzione di abbruttimento della persona e di mortificazione dei suoi diritti.
Ciò dimostra quanto ci sia ancora da fare.

l’Unità 31.1.14
Il conforto religioso ci costa 35 milioni
Per l’assistenza in ospedale ogni Ausl sceglie quanto pagare: in Emilia-Romagna è 2,2 milioni l’anno
Sergio Lo Giudice (Pd): «La spending review valga per tutti»
di Adriana Comaschi


Forse in pochi se lo saranno chiesto, quando in ospedale un sacerdote o un volontario della diocesi passa a dare «conforto» agli ammalati: questo servizio ha un costo? Ce l’ha. Tra i 28mila e i 35mila euro lordi l’anno per ogni «assistente religioso», ad esempio, a Bologna, la quota è molto variabile. Pagati con soldi pubblici dalle Ausl presso cui prestano servizio. Una voce di spesa che in Emilia-Romagna arriva in un anno a quota 2,2 milioni. La cifra la conferma il sottosegretario della giunta guidata da Vasco Errani, per i quattro anni di una legislatura regionale fanno quasi 9 milioni di euro. Non proprio briciole, in un periodo segnato da ristrutturazioni delle prestazioni sanitarie, a Bologna e non solo.
UN A QUESTIONE DI TRASPARENZA
Le convenzioni stilate sono poi diverse da ospedale a ospedale: il Policlinico S.Orsola, centro di eccellenza universitario, nel 2013 ha versato 128mila euro per 5 assistenti (25mila ciascuno), nella vicina Imola l’Ausl versa alla diocesi 105mila euro per tre assistenti, 35mila a testa. Poco meno degli emiliani spenderebbero i toscani, 2,1 milioni (anche qui la cifra l’hanno fornita le Ausl in seguito alla richiesta di un consigliere). Per il resto, chi lo sa. Dati ufficiali non ce ne sono. L’Uaar (Unione atei agnostici razionalisti) stima in 35 milioni la spesa di questo tipo a livello nazionale. La possibilità che i religiosi di confessione cattolica entrino negli ospedali e per questo siano retribuiti è prevista dal Concordato Stato-Chiesa e dai suoi aggiornamenti (non così per i valdesi, ad esempio), in seguito da leggi regionale chiamate a fissare la quota versata per ogni «assistente religioso». E qui forse sta il punto.
Molti consiglieri dell’Assemblea emiliano romagnola non avevano idea del meccanismo e delle cifre in gioco, quando il collega LibDem Franco Grillini (fondatore di Arcigay e della Lila) ha sollevato il tema con un’interrogazione alla giunta. E ora si pongono un problema. «Se facciamo dei sacrifici per mantenere la sanità emiliana a livelli di eccellenza forse serve una riflessione anche sulla spesa per questi assistenti», riflette Antonio Mumolo, consigliere Pd che ha già lanciato il guanto di sfida al segretario regionale (renziano) Stefano Bonaccini per il congresso di giugno. Mumolo assicura, «l’utenza che chiede questa assistenza va assolutamente rispettata. Ma una valutazione va fatta, senza pregiudizi. Voglio capire come si regolano le altre regioni». Stesso ragionamento dal senatore Pd Sergio Lo Giudice: «Nel momento in cui la spending review viene fatta su tutto il comparto pubblico sarebbe strano se vi fossero delle zone franche, occorre una rivisita-
zione di spese che magari proseguono nel tempo per inerzia». In effetti, molto è cambiato da quando questa consuetudine è stata introdotta con i cappellani ospedalieri, dipendenti dalle stesse Ausl, ora sostituiti da sacerdoti e diaconi delle parrocchie di zona. Un passaggio che per Roberto Grendene, responsabile delle campagne Uaar, ha reso ancora più opaca la destinazione dei fondi pubblici: «Prima questi assistenti erano soggetti a Irpef, ora come sappiamo se questi redditi vengono tassati? E a chi effettivamente li gira la Curia?». Per Grendene poi il nodo è a monte, «nessuno vuole vietare l’ingresso negli ospedali agli assistenti cattolici, il loro contributo però dovrebbe essere a titolo gratuito visto che è coperto dall’8 per mille e che altre confessioni religiose non lo ricevono ma fanno puro volontariato».
«PROGETTO TERAPEUTICO»
La Curia di Bologna non ne fa una questione di maggiori o minori fondi e difende i contributi «proporzionati assicura monsignor Giovanni Silvagni, vicario generale della diocesi al numero di persone e al servizio reso. È giusto che ci siano». Più netto ancora don Francesco Scimè, responsabile della Pastorale della sanità: «La nostra assistenza spirituale ai malati è parte integrante del progetto terapeutico del Ssn, è importante per la salute del malato».

l’Unità 31.1.14
La modernità in-audita di Francesco
in mostra alla Camera
Testimonianze del pensiero e delle pratiche del Santo tra preziosi manoscritti e immagini
di Pietro Folena


«E DI POI, STETTI UN POCO E USCII DAL MONDO». FRANCESCO COSÌ DETTA NEL SUO TESTAMENTO, qualche mese prima di morire. Il suo «uscire dal mondo» non è solo l’annuncio medioevale dell’ingresso in un monastero. E non è neppure l’annuncio di un gesto autodistruttivo. È l’uscita da una «norma», simboleggiata dal bacio al lebbroso e dalla rottura col mondo di Pietro di Bernardone, col mondo della nuova borghesia che si stava affermando. C’è un solo padre, e non è in questa terra; e la vita è ricerca dei fratelli, come ha scritto Ernesto Balducci. È una società di fratelli, quella agognata, e di «sorelle», a partire da Chiara. L’«uscire dal mondo» è una critica all’ordine costituito, e una scelta radicale dalla parte degli esclusi: «l’essenza della natura di Francesco e il vigore del suo comportamento scriveva Erich Auerbach si fondano sulla volontà di un’imitazione radicale e pratica di Cristo».
Questa aperta alla Camera è una mostra sul cuore più antico delle nostre origini. MetaMorfosi, insieme ad Antiqua, già protagonista di intense esperienze espositive, e al Sacro Convento, che ha prestato le opere ha proposto alla Camera di organizzare questo tributo al nome di Francesco, alla sua storia e alle sue fonti, nome così fuori da ogni tempo e fuori da ogni spazio. L’emozione di posare lo sguardo sul manoscritto 338 che custodisce fra gli altri tesori il Cantico delle Creature e la Regola per i frati, e quella di essere condotti in un percorso avvincente fra le testimonianze più antiche di Francesco, valgono da sole il senso di questo evento.
Dell’«imitazione radicale» del Cristo, il mondo globale ha avuto un nuovo esempio con la scelta di Jorge Mario Bergoglio di chiamarsi come il Santo che arrivò a contestare il Papa, che riuscì a vedere riconosciuta la Regola che rompeva con una Chiesa troppo mondana, facendo divenire nuova norma un’eresia. Francesco, come ha scritto recentemente Massimo Caccia-
ri, è in-audito. La modernità in-audita di Francesco, per credenti e non credenti, fatta proprio dal nuovo Pontefice, sta in un’idea del creato e della vita che oggi sembra minacciata da politiche predatorie; è al Cantico delle Creature che si ispirano tanti di coloro che si sono battuti per difendere l’ambiente e in tempi recenti l’acqua come bene comune: «Laudato si’, mi’ Signore, per sor’acqua, la quale è molto utile et hùmele et pretiosa et casta».
La modernità in-audita di Francesco sta in un’idea della pace, simboleggiata dall’incontro con il sultano Al-Malik Al-Kamil, nipote di Saladino, e nella convinzione profonda quanto attuale! che non esistesse «ragionevolezza della guerra e delle crociate né la distinzione fra guerre giuste e guerre ingiuste», come affermò ad Assisi, nell’ottobre del 1983, Enrico Berlinguer in uno storico incontro con i frati. Più di vent’anni prima, nel 1961, nella marcia promossa da Aldo Capitini chiamato il Gandhi italiano svettava un grande cartello con su scritto «Buddha, Cristo, Francesco, Gandhi». Qualche anno dopo Berlinguer, il 27 ottobre 1986, Papa Woytila ad Assisi promuoverà lo storico dialogo interreligioso, con la Giornata mondiale di preghiera per la pace.
E la modernità in-audita di Francesco, Patrono d’Italia, sta in una coerenza tra il dire e il fare, in una pratica di sobrietà e di povertà che rappresenta una critica radicale al Potere di ogni tempo. Dice oggi Papa Francesco che: «i sacerdoti corrotti, invece di dare il pane della vita, danno un pasto avvelenato al santo popolo di Dio». Questo vale anche per i «sacerdoti corrotti» della democrazia rappresentativa, per chi tradisce lo spirito di servizio della politica.
Per chi come noi si occupa di arte e di cultura, e si dà da fare per promuovere e divulgare arte e cultura, il nome di Francesco è stato del resto il nome che ha ispirato, oltre a Giotto e a Dante, grandi artisti, da Van Eyck, a Bellini, da Tiziano a Caravaggio, da Rembrandt a Guido Reni e a Murillo. Nel ’900 tra i più grandi registi, da Roberto Rossellini a Liliana Cavani fino a Franco Zeffirelli; e ancora musicisti di epoche diverse, da Franz Liszt fino a Claudio Baglioni, e a Angelo Branduardi.
* Intervento pronunciato in occasione dell’inaugurazione della mostra Francesco. Tracce, parole, immagini alla Camera dei deputati il 30 gennaio 2014

l’Unità 31.1.14
Bodei, immaginare altre esistenze
di Giuseppe Cantarano


L’ULTIMO, BEL LIBRO DI REMO BODEI («IMMAGINARE ALTRE VITE», FELTRINELLI) SI INTERROGA su una questione cruciale della nostra esistenza. Quella dell’identità personale. Poiché ciascuno di noi non si accontenta solamente di vivere. Di esistere, diciamo così, biologicamente. Ma aspira ad una vita migliore. E per aspirare ad una vita migliore deve riconfigurare incessantemente la propria identità personale. Se è vero che dipendiamo dalla natura è altrettanto vero che l’evoluzione della nostra specie non è altro che il tentativo di conquistare sempre più margini di autonomia e indipendenza rispetto ad essa. Se siamo consegnati alla vita, non vogliamo, non accettiamo di lasciarci passivamente dominare dal suo determinismo, ci dice Bodei. Le scienze mediche e biotecnologiche non operano, forse, in questa direzione di progressiva emancipazione dal dominio della natura? Ma nonostante ciò, alla natura restiamo vincolati. Non fosse altro che noi siamo natura.
È all’interno di questa contraddittoria oscillazione polare che ciascuno di noi cerca di costruirsi la propria identità. Facendo ricorso a tutta una serie di dispositivi storicamente consolidati. Di strategie diffusamente sperimentate. E il dispositivo, la strategia quantomeno più curiosa di cui ci parla Bodei consiste nell’immaginare altre vite. Certo, da sempre l’immaginazione ha giocato un ruolo decisivo per la costruzione della nostra identità. Senza l’immaginazione, ciascuno di noi rimarrebbe o sarebbe rimasto rinchiuso nel suo angusto guscio individuale. E invece immaginiamo altre vite possibili. Che prendiamo non solo dalla realtà. Da donne e uomini in carne e ossa che assumiamo come modelli. Tentando in qualche modo di emulare. Quelle donne, quegli uomini che noi vorremmo essere. Ma anche dalla letteratura. Mentre fino a pochi anni fa osserva Bodei i modelli da imitare si limitavano alla ristretta rete familiare, alle poche amicizie e alle figure esemplari dei romanzi letti prevalentemente nella nostra infanzia, oggi il repertorio si è ampliato. I personaggi con cui identificarsi proliferano a tal punto che il nostro io non riesce a contenerli. E rischia di implodere.
Ma nell’odierna interconnessione globale in cui tutti noi ormai viviamo, ci si può sentire paradossalmente sempre più soli. Eppure, per fronteggiare questa solitudine globale senza identità conclude Bodei c’è un solo rimedio: immaginare altre esistenze.

Corriere 31.1.14
L’uomo, oggetto delle meraviglie tra pezzi unici e magiche reliquie
Dal corpo di Napoleone come feticcio ai trapianti d’organi
di Marco Missiroli


Quando Napoleone morì a Sant’Elena il suo corpo rimase incustodito per un tempo decisivo: il pene sparì. Fu trafugato, si suppone, durante l’autopsia visto che la tumulazione risultò a prova di ladro e pervertiti. Il membro di Bonaparte arrivò nelle mani di collezionisti e studiosi fino a un professore di urologia di New York che si prestò a mostrare il cimelio. Qual era il movente dello scempio? La probabile speculazione del medico che seguì il Generale al confino: un giovinastro che capiva ben poco di medicina e che venne referenziato dallo zio di Napoleone per quel lavoro privilegiato. Nel periodo dell’incarico a Sant’Elena si vantò della sua posizione per rincorrere le ragazze e combinare disfatte tra cui la diagnosi mancata del tumore allo stomaco che causò la morte di Bonaparte. La carne dell’imperatore di Francia, bistrattata e venduta, torbida: è solo una delle vertigini che Francisco González Crussí, medico patologo messicano, esplora nel suo incredibile Organi vitali (Adelphi, pp. 340, e 18).
Se Napoleone è il punto più basso, anche anatomicamente, di quanto gli uomini si maltrattano, una giovane partoriente è l’emblema di come un’autopsia possa riscattare l’istinto di profanazione. È l’apparato respiratorio a custodire l’aneddoto di Anne Greene, ventenne del XVII secolo, che diventò la governante di un potente aristocratico, Sir Thomas Read. Sta di fatto che Anne si invischiò in una relazione con il nipote di Sir Thomas partorendo un figlio illegittimo. La condanna fu esemplare: impiccagione. Quando Anne salì sul patibolo, al Foro Boario di Oxford il 14 dicembre 1650, le fu concesso il tempo di pregare. Poi il suo corpo cadde dalla botola e rimase a penzoloni a lungo, prima di essere trasportato all’università per uno studio anatomico. L’autopsia fu condotta da due medici trentenni che rischiarono l’infarto appena videro miss Greene risvegliarsi di colpo. Fu assistita e curata. In un mese si riprese del tutto, impressionando a tal punto le autorità superiori che le concessero la grazia. La vicenda permise di approfondire i meccanismi della respirazione riprogettando possibili soffocamenti. Furono ristabilite norme per l’altezza del patibolo e per il peso dell’impiccato, la nuova equazione avrebbe evitato spiacevoli resurrezioni.
Corpo riparato e corpo strappato a Dio: González Crussí sfida la morte e la materia che ci compone. Dalla testa ai piedi, l’occhio ironico dell’autore messicano si addentra e sposta l’angolo della conoscenza attraverso aneddoti storici e anatomie inusuali, chirurgie sorprendenti e alchimie invisibili. C’è il soma, e c’è la psiche. C’è il Caso, che portò alla scoperta della respirazione bocca a bocca dopo l’incidente di un minatore di carbone, assistito attraverso quel bacio rivoluzionario da un medico fantasioso che passava di lì. Il minatore si salvò e orizzonti di cura grandiosi si aprirono nel pronto soccorso. Il limite scientifico era stato valicato, traslocando le Colonne d’Ercole dell’umano: è «il potere immaginifico» su cui González Crussí fonda il suo libro, lo stesso che guidò il medico William Beaumont ad accorrere un giovane vagabondo, Alexis St. Martin, ridotto a un colabrodo da un colpo di moschetto. Lo sparo è avvenuto a bruciapelo e la ferita, orribile, è grande quanto una mano e attraversa il ventre di lato. Beaumont presta i primi soccorsi e il paziente viene portato in ospedale in condizioni disperate. È robusto, nerboruto, di grande vitalità. Sono le tre condizioni che lo porteranno a una prodigiosa guarigione. E a una posizione a dir poco curiosa: se lo stomaco ha ritrovato le sue funzionalità complete, il buco del proiettile rimarrà perennemente aperto, facendo balenare a Beaumont prospettive di studio insolite. Comprerà Alexis St. Martin per 400 dollari all’anno, più vitto e alloggio, trasformandolo nella cavia perfetta: attraverso il «foro eterno» il medico analizzerà a occhio nudo i movimenti gastrici, le secrezioni acide e altri marchingegni digestivi del povero St. Martin. Gli organi come avanscoperta, meraviglia, rivoluzione. González Crussí costruisce la sua traversata corporale rivelando i simboli della fisiologia: il valore divino della scatologia, quello sacro del cardiovascolare, la spinta biblica del sistema riproduttivo e quella sentimentale del cervello. Si passa dalla tesi dell’auto-avvelenamento dovuto ai microbi intestinali, alla moda dei clisteri nelle corti francesi, fino alla volontà di Nerone di toccare con mano l’utero che l’aveva messo al mondo scoprendo di essere un comune mortale. Antichi romani e greci sono qui, la gente comune è qui, Dio e gli dèi anche: abitano tutti un libro capace di legare Pirandello all’influenza spagnola, Simone de Beauvoir al riscatto delle ovaie, Thomas Mann alla potenza mestruale, Chopin alla creatività respiratoria fino ad arrivare al mistero dei trapianti. Come può una persona innamorata di un’altra persona ricevere un cuore estraneo e continuare ad amarla? Forse non è il muscolo cardiaco il forziere della passione, ma il cervello. Se la testa racchiude l’identità amorosa, nel petto risiede l’uguaglianza degli uomini. Il 1967 è la data che lo ha dimostrato, il Sud Africa l’area geografia: in piena terra di apartheid un bianco riceve il cuore di un nero e non muore. Il rigetto non avviene. Così l’organo vitale per eccellenza smaschera l’odio per eccellenza. Il chirurgo che ha operato solleva la grande domanda retorica: «Se a un bianco è permesso servirsi del cuore di un nero defunto, i due non dovrebbero, da vivi, poter sedere insieme in tutti i luoghi pubblici dai quali le persone di colore sono generalmente bandite?».
È l’ennesima risposta che González Crussí affida alla carne, segnando una delle tappe decisive di questo viaggio viscerale: «Per quanto si idealizzino gli organi del nostro corpo, alla fine emerge l’incontestabile verità: non vi sono gerarchie tra le parti componenti dell’organismo. Il corpo è uno». Immaginifico, democratico, prodigioso.

Corriere 31.1.14
Keynes, il «Corriere» e l’ombra di Mussolini
Il padre del New Deal bocciato dal fascismo
di Sergio Romano


Sulla storica collaborazione di Keynes con il «Corriere», e dopo aver ricevuto l’intervento di Giorgio La Malfa che pubblichiamo a fianco, posso dare qualche ulteriore notizia. Grazie al successo delle Conseguenze economiche della pace , l’economista inglese divenne un eccellente amministratore della propria popolarità e offrì i suoi articoli ad alcuni fra i maggiori giornali europei e americani. Per il «Corriere», in particolare, mandò corrispondenze dalla conferenza economica di Genova dell’aprile 1922, a cui partecipava come consulente del governo britannico. Luigi Albertini apprezzava i suoi articoli e considerava l’autore un buon «liberista», ma Luigi Einaudi aveva riserve che manifestò in alcune circostanze. Dei due, come divenne sempre più chiaro col passare del tempo, il vero liberista era Einaudi, a cui non piacque la teoria keynesiana del deficit spending , vale a dire l’uso generoso della spesa pubblica per rilanciare la crescita dell’economia senza troppe preoccupazioni per il disavanzo.
Mussolini, invece, diffidava di Keynes per le sue posizioni troppo filotedesche, in un momento in cui l’Italia non intendeva rinunciare al pagamento delle riparazioni. In un articolo apparso sul «Popolo d’Italia» del 1° ottobre 1922, lo definì il rappresentante del «pacifismo germanofilo inglese»: era convinto che la Gran Bretagna volesse soprattutto ridurre la propria disoccupazione (due milioni) grazie a una maggiore crescita economica, e che fosse disposta a chiudere un occhio sulle riparazioni richieste alla Germania pur di favorire la ripresa della sua industria. È possibile che queste considerazioni abbiano influenzato le sue reazioni all’articolo di Sraffa citato da La Malfa quando divenne presidente del Consiglio, ma la sfuriata di Ludovico Toeplitz, amministratore delegato della Banca Commerciale, sembra dimostrare che Mussolini, sia pure con il suo stile, era allora sulle stesse posizioni delle banche italiane.
Nella storia dei rapporti fra Keynes e il «Corriere» esiste un secondo atto molto interessante. Come ricordato da «Sette» nel suo numero del 6 dicembre dell’anno scorso, Keynes riprese i contatti con il «Corriere» nel dicembre 1933 per proporre un articolo sulla politica economica e monetaria di Franklin D. Roosevelt, eletto alla Casa Bianca nel novembre del 1932. Il «Corriere» rispose di non potere accettare l’offerta perché aveva «formali impegni in questo campo con i collaboratori abituali». Ma è probabile che il motivo del rifiuto fosse la linea anti-Keynes che il giornale aveva assunto con l’articolo di un altro collaboratore: Alberto De Stefani, liberista e ministro delle Finanze del primo governo Mussolini, dal 1922 al 1925. Prima della conferenza economica che si tenne a Londra nel giugno del 1933 per studiare una reazione alla grande recessione provocata dalla crisi del 1929, Keynes aveva avanzato una proposta che ricorda per certi aspetti la politica della Federal Reserve dopo il fallimento di Lehman Brothers. Un organismo internazionale avrebbe emesso certificati d’oro con corso legale nei Paesi interessati dalla crisi e i certificati sarebbero stati distribuiti ai singoli Paesi sulla base della loro rispettiva importanza economica. Gli interessi sul prestito sarebbero stati «tenui» e i certificati sarebbero stati ritirati a mano a mano che i prezzi avessero ricominciato a salire. Questa iniezione di denaro nell’economia, secondo Keynes, avrebbe permesso ai governi di rilanciare la crescita con un grande piano di opere pubbliche. Era chiaro, secondo De Stefani, che l’economista inglese voleva provocare inflazione con una politica di deficit spending e risanare l’economia mondiale «non sulla base di una riduzione dei costi di produzione (salari), ma sulla base di un aumento dei prezzi». Il «Corriere» non sapeva allora come Keynes avrebbe giudicato la politica economica e monetaria di Roosevelt, ma non voleva dare spazio, probabilmente, a teorie economiche che uno dei suoi maggiori collaboratori considerava pericolosamente eterodosse.
In realtà l’articolo proposto da Keynes era la «lettera aperta al presidente Roosevelt» che sarebbe apparsa sul «New York Times» del 31 dicembre 1933. In quella lettera Keynes vide nel New Deal (che il presidente americano aveva lanciato sin dai primi cento giorni della sua presidenza), la realizzazione del suo grande disegno e scrisse: «Se lei avrà successo, metodi nuovi e più audaci verranno sperimentati ovunque e noi potremo datare dal suo avvento al potere il primo capitolo di una nuova era economica».
Keynes non aveva torto, anche se la sua ricetta piacque a regimi autoritari, o poco inclini allo sviluppo dei traffici internazionali, piuttosto che a Stati democratici e liberali. Un anno dopo, quando un giovanissimo editore torinese, Giulio Einaudi, iniziò la sua carriera con la pubblicazione di un libro sul New Deal, Mussolini lo recensì calorosamente sulle colonne del «Popolo d’Italia». Il libro s’intitolava Che cosa vuole l’America? ed era opera di Henry Wallace, collaboratore di Roosevelt e segretario all’Agricoltura. Wallace sosteneva la necessità di un grande piano economico per regolare quote di produzione, prezzi e salari con la collaborazione di tutte le categorie produttive.
Mussolini ne fu entusiasta e scrisse: «Il Wallace dice cooperazione. Ma egli intende corporazione. Il suo libro è “corporativo”. Le sue soluzioni sono corporative. Questo libro è un atto di fede, ma anche una requisitoria tremenda contro l’economia liberale che ha fatto il suo tempo e concluso il suo ciclo». La tesi di Mussolini non era infondata. Fra le leggi adottate in quel periodo dal Congresso degli Stati Unitivi vi fu anche quella per la creazione di una National Recovery Administration in cui i rappresentanti dell’industria, dei sindacati e del governo avrebbero lavorato insieme per eliminare la concorrenza selvaggia. Se non fosse stata considerata incostituzionale dalla Corte suprema, la Nra sarebbe diventata, con grande soddisfazione di Mussolini, una sorta di Camera delle corporazioni. Ma gli Usa, per l’appunto, avevano, a differenza dell’Italia, una Corte suprema.

Corriere 31-1.14
L’ira del Duce per l’articolo di Piero Sraffa
di Giorgio La Malfa


Sul «Corriere della Sera» del 7 gennaio si è parlato dell’interruzione nel 1922 della collaborazione di John Maynard Keynes con il quotidiano di via Solferino. Non so se vi sia qualcosa a questo proposito nell’archivio del «Corriere», ma la questione potrebbe essere legata a un episodio poco noto, ma molto interessante. La pubblicazione nel 1919 del suo libro Le conseguenze economiche della pace rese Keynes celebre in tutto il mondo. In pochi mesi del libro furono vendute oltre 100 mila copie in Inghilterra e negli Stati Uniti. In Italia venne pubblicato nel 1920 da Treves, tradotto da Vincenzo Prato. I giornali internazionali cominciarono a cercare la collaborazione di Keynes. Nel 1921 il «Manchester Guardian» gli commissionò la cura di 12 supplementi sulla situazione economica postbellica. Keynes, oltre a scrivere 12 o 13 articoli, si occupò anche di scegliere gli argomenti, trovare i collaboratori in vari Paesi e concordare i loro interventi. Fra gli altri, scrissero per i supplementi Benedetto Croce e Luigi Einaudi. All’inizio del 1922, Keynes conobbe, presentatogli da Gaetano Salvemini, un giovane economista italiano, laureato con Einaudi, che era in quel momento alla London School of Economics. Si trattava di Piero Sraffa, figlio di Angelo Sraffa, brillante avvocato, professore di diritto commerciale a Torino e rettore, dal 1917, della Università Bocconi. Keynes chiese a Piero Sraffa un articolo sulla situazione delle banche italiane, di cui erano note le difficoltà. L’articolo, pubblicato sull’«Economic Journal» di cui Keynes era direttore, apparve in una versione più breve sul supplemento del «Manchester Guardian» del 7 dicembre 1922.
Secondo una ricostruzione molto accurata del professor Nerio Naldi (Dicembre 1922: Piero Sraffa e Benito Mussolini , «Rivista Italiana degli Economisti», agosto 1998), l’articolo provocò una furibonda reazione di Mussolini, da poco più di un mese capo del governo. In un telegramma ad Angelo Sraffa, il Duce scriveva che il fatto di essere socialista non autorizzava il giovane Sraffa (che era notoriamente amico di Antonio Gramsci e scriveva su «L’Ordine Nuovo») a gettare il fango all’estero sulle istituzioni finanziarie italiane. Terminava minacciosamente riservandosi di chiedergli conto con altri mezzi (!) di questo atto vergognoso. Il padre, che qualche mese prima aveva subito un’aggressione da parte di un fascista ed era stato oggetto di aspri attacchi sul «Popolo d’Italia», non sottovalutò il telegramma. Rispose immediatamente chiedendo scusa per le intemperanze del figlio, offrendosi di recarsi a Roma per parlare con il Duce. Questi rispose con un telegramma nel quale ingiungeva al giovane Sraffa di rettificare ciò che aveva scritto sul «Manchester Guardian». L’episodio non rimase circoscritto a questo scambio di telegrammi: l’amministratore delegato della Banca Commerciale, Toeplitz, convocò sia Piero Sraffa che il padre, minacciando di adire alle vie legali. Di tutto questo Piero Sraffa riferì per lettera a Keynes, spiegandogli il putiferio che era successo, ma non propose alcuna rettifica al suo articolo. Probabilmente l’episodio influì sulla sua decisione, pochi anni dopo, di accettare l’invito di Keynes a trasferirsi a Cambridge, dove Sraffa rimase fino alla sua morte, nel 1983. La coincidenza dei tempi fra la dura reazione di Mussolini e la fine della collaborazione al «Corriere» di Keynes mi fa pensare che le due cose possano essere correlate fra loro. Probabilmente il «Corriere», avuta notizia dell’accaduto, ritenne prudente non suscitare ulteriormente le ire del Capo facendo apparire sul giornale il nome di Keynes da cui era nato il pasticcio. In quel momento, la buona borghesia liberale milanese (e non solo) guardava ancora al fascismo con simpatia, come una medicina necessaria per riportare ordine nel Paese. Solo dopo il delitto Matteotti, una parte, pur sempre piccola, di essa comprese quello che doveva essere evidente fin dalle prime violenze dei fascisti.

Corriere 31.1
Eppur si storpia: cambia la lingua dei cinesi d’Italia
di Marco Del Corona


Come si misurano i dizionari? A peso? Pagine? In numero di lemmi? O in anni di lavoro? O in efficacia? Didatti, studenti, sinologi e praticanti della lingua diranno se la nuova edizione del Dizionario di cinese Zanichelli (pagine 2112, € 62, con dvd-rom) funziona come deve alla prova dei fatti e del tempo. Ma l’opera, realizzata in collaborazione con l’Università di Lingue di Pechino e coordinata dall’italianista Zhao Xiuying, può parlare anche a chi non conosce il mandarino. E lo fa attraverso i dati: due anni per la scelta dei lemmi e la realizzazione del programma informatico, altri 10 per la compilazione, 16 dopo la precedente pubblicazione. Con 190 mila tra voci e accezioni e 73 mila tra esempi e frasi.
Un dizionario, tuttavia, è anche un mondo che prova a restituire il mondo, e così nelle appendici si ritrovano la tabella periodica degli elementi e l’elenco delle 55 minoranze etniche della Repubblica Popolare, la lista dei principali Stati e quella dei cognomi cinesi (i Cognomi delle cento famiglie , compilati in epoca Song a partire da Zhao, quello dell’imperatore della dinastia). Più prosaicamente, i lettori-utenti del Dizionario sapranno come rendere in ideogrammi «Confindustria» e «Cgil», «Enalotto» (servono 16 caratteri...) e «TVB» , il «ti voglio bene» delle scritte sui muri e degli sms.
La professoressa Zhao ha sudato «insieme a una ventina di collaboratori, tutti miei ex studenti: sia cinesi, di italiano, sia italiani, di cinese», spiega. Il risultato rispecchia una lingua che evolve ma resta solidamente ancorata alla consapevolezza di centralità che è propria della civiltà cinese: «Restano poche — dice al “Corriere” — le parole di origine straniera, data la forza in sé della nostra lingua. E pochissime quelle provenienti dall’italiano: pisa, pizza, o cappuccino». Che però è niunai kafei , letteralmente «latte caffè».
Tuttavia, l’esposizione degli immigrati cinesi alla vita nelle città d’adozione (anche italiane) produce lentamente, secondo Zhao, cambiamenti nel loro mandarino: «I numeri, per esempio. Dopo la decina (shi ), vengono le centinaia (bai ), migliaia (qian ), decine di migliaia (wan ) e quando un cinese indica un numero oltre i 10 mila, per esempio 13.465, di fatto dice “una decina di migliaia, tre migliaia, quattro centinaia, sei decine e 5”. Ma poiché in italiano si dice tredicimila 465, cioè “13 migliaia 465”, per non confondersi i cinesi in Italia hanno cominciato a fare lo stesso: nel nostro esempio, dicono 13 qian e non, come dovrebbe essere, un wan e 3 qian ». Ancora: «In italiano, i tempi composti si avvalgono di verbi ausiliari, essere e avere; in cinese no, ci sono particelle che ne svolgono la funzione. Ma in questi ultimi anni i cinesi in Italia usano “avere” prima del verbo per indicare che l’azione si è svolta nel passato. A noi linguisti dà fastidio, ma è così». Questa è la vita. Che, presto o tardi, nei dizionari finisce con l’entrare.
leviedellasia.corriere.it

Corriere 31.1.14
Dentro l’eterno gioco dei contrasti
L’antinomia tra forma rigida e fluida si perpetua nella storia dell’arte
Con le teorie del critico Wolfflin si possono mettere a confronto pittori e tendenze discordanti
di Francesca Bonazzoli


Esattamente cento anni fa, Heinrich Wölfflin, studioso svizzero di cultura tedesca, stendeva un testo imprescindibile della critica d’arte: Concetti fondamentali della storia dell’arte . Divenne la Bibbia della teoria della «visibilità pura», cioè basata sul concetto kantiano di «a priori» costitutivo della mente umana, stabilendo delle leggi su cui fondare la validità delle forme artistiche e la loro valutazione liberando la critica dall’empiria.
Naturalmente il sistema inventato da Wölfflin, proprio per il suo rigore logico, fu tacciato di rigidezza e cassato dalla scuola di pensiero che vedeva invece nelle opere d’arte un’espressione del mondo, dei sentimenti e delle usanze di un periodo storico. Dopo cento anni di dibattito, quel lavoro che suona schematico quant’altri mai a un’epoca della «relatività pura» come la nostra, ha lasciato comunque in eredità concetti ed espressioni entrati addirittura nel linguaggio comune. Con quella griglia di coppie di concetti antitetici (lineare-pittorico; superficie-profondità; forma chiusa-forma aperta; molteplicità-unità; chiarezza assoluta-chiarezza relativa) oggi possiamo giocare liberamente garantendoci comunque una rete di protezione logica che non ci faccia cadere nell’arbitrio del Carnevale.
E allora, visto che sono proprio i curatori della mostra a suggerire l’accostamento Botticelli/Liberty, proviamo a giocare con una delle categorie a priori di Wölfflin, quella di forma chiusa-forma aperta o, come la chiameremo in questo divertissement, «forma rigida-forma fluida», andando a ricercare la costante di questa antinomia lungo i secoli.
Possiamo cominciare addirittura dall’antichità, dalla differenza di forma del capitello dorico, che si racchiude in se stessa, e quella del capitello corinzio che con la superficie aggettante delle foglie di acanto tende a superare se stessa per apparire illimitata.
E se poi, sempre seguendo l’antinomia forma rigida-forma fluida, ripartiamo dal padre della nostra pittura, Giotto, mettendolo a confronto con Simone Martini, possiamo di nuovo notare il «duello» fra due scuole, quella fiorentina e quella senese.
La «Madonna di Ognissanti» di Giotto ci appare solidamente impostata sull’asse verticale e orizzontale in un perfetto equilibrio fra le due metà del dipinto. Nell’«Annunciazione» degli Uffizi, invece, Simone tende ad alterare la solidità ortogonale tipica fiorentina con la linea curva del manto dell’angelo e del corpo della Vergine indugiando in «svolazzi» di eleganza.
Come trattenere, a questo punto, la tentazione di contrapporre anche Piero della Francesca a Botticelli come i campioni quattrocenteschi rispettivamente della linea chiusa e della linea aperta? Il primo teorico massimo dell’equilibrio stabile della geometria e della divina proporzione; il secondo trascinato nelle spirali dell’equilibrio instabile dei falò savonaroliani delle vanità. Da una parte angoli, coni, parallelepipedi anche per costruire paesaggi e figure; dall’altra diagonali che tendono verso la fragilità e l’accidentalità della grazia. Da una parte la quiete, dall’altra la tensione.
E poiché il gioco è divertente, si può andare avanti col Seicento contrapponendo Georges de La Tour e Rubens. Siamo con entrambi in epoca barocca, ma per de La Tour la meraviglia si trova nella luce e nella teatralità della scena; per Rubens nella qualità fugace ed effimera di un’apparizione cui capita di assistere solo per un breve momento.
Nel Settecento potremmo ritrovare lo stesso dualismo nella visione scientifica di Canaletto, tutta racchiusa dentro le linee della camera ottica e, all’opposto, nei cieli sfrangiati e nei delicati trapassi tonali del Tiepolo, pronti a transitare da una forma all’altra, mossi da un alito di vento che rende l’equilibrio sempre fluttuante.
Così anche il Liberty si risolve nella medesima antitesi fra libertà e legge quando approda nel Deco: dopo gli eccessi della linea aperta, il Deco rappresenta l’aspirazione verso una regola e un ordine. Verso una conclusione.
Potremmo così dire che la forma ha sempre l’esigenza di tornare a un elemento solido e duraturo; al suo limite. È il movimento antitetico che si ripropone in tutte le epoche, come la ciclicità di classico e anticlassico per la quale ogni stile si scioglie infine nella sua negazione per ricominciare a comporre un nuovo movimento circolare.
La bellezza, invece, si posa indifferentemente nel limite o nell’illimitato.

Repubblica 31.4.14
L’antichissimo pellegrinaggio in onore della Madonna ha origine in un miracolo del tredicesimo secolo
Ma già molti secoli prima di Cristo salivano a Montevergine i preti eunuchi della grande madre nera
La processione dei femminielli sulle orme della dea Cibele
di Marino Niola


Sfidano il freddo e il gelo dell’Irpinia per arrivare al santuario in cima al monte. È la schiera dei femminielli, i celebri travestiti adepti della Madonna nera che il 2 febbraio di ogni anno festeggiano la Candelora, arrampicandosi fino alla sommità del Partenio. Millequattrocento metri di salita nello spazio e duemila anni di discesa nel tempo. Fino alle profondità dell’immaginario mediterraneo e delle sue divinità femminili. Sulla vetta impervia di Montevergine, che guarda dall’alto in basso il Vesuvio, il popolo gay incontra da sempre la sua Signora, la Mamma Schiavona “che tutto concede e tutto perdona”. L’intera costellazione raccolta sotto la sigla LGBT (Lesbiche, Gay, Bisessuali e Transgender) diventa di fatto la nuova protagonista di un antichissimo pellegrinaggio in onore della Vergine. Chela comunità omo ha eletto da tempo a sua protettrice. Secondo la leggenda fu proprio lei, nel 1256, a salvare due giovani omosessuali che, in seguito allo scandalo provocato dalla loro relazione, erano stati legati a un albero e abbandonati a morire di stenti sulla montagna. Il miracolo fu visto come un segno di tolleranza soprannaturale e da allora i
femminielli divennero devotissimi della Madonna di Montevergine. Ma in realtà, questa balza vertiginosa, sospesa tra nidi d’aquile e tane di lupi, è da sempre meta prediletta di una umanità en travesti. Infatti, molti secoli prima di Cristo a salire quassù erano i Coribanti, i preti eunuchi di Cibele, la grande madre nera, simbolo femminile della natura. Il suo tempio sorgeva proprio dove adesso c’è il santuario mariano. I sacerdoti si eviravano ritualmente per offrire il loro sesso in dono alla dea e rinascere con una nuova identità. Si vestivano da donne con sete gialle, arancione, rosa e altri colori sgargianti. Si truccavano pesantemente gli occhi e attraversavano in gruppo le città suscitando un misto di curiosità morbosa e di scandalo, anche per il loro erotismo esibito e la sfrontatezza delle loro provocazioni sessuali. Insomma queste processioni orgiastiche a base di canti, balli e suoni di tamburo erano in qualche modo i Gay Pride dell’antichità. E proprio come allora, anche ora l’esagerazione è di rito. Travestimenti, canzoni, suoni, crepitio di nacchere e battito di
tammorre accompagnano l’ingresso in chiesa. Poi il silenzio cala improvviso e si leva alta un’invocazione salmodiante, tra la litania del muezin e ilgrido dei venditori, che chiama a raccolta le figlie della Mamma schiavona, facendo risuonare nel presente un’eco mediterranea lontana. A intonarla è il noto artista folk Marcello Colasurdo, ex operaio dell’Alenia di Pomigliano d’Arco, a lungo frontman del Gruppo musicale E’ Zezi e cantore ufficiale della galassia LGBT. “Non c’è uomo che non sia femmina e non c’è femmina che non sia uomo”, ripete come un mantra. Mentre all’esterno il rito lascia affiorare tutto il suo fondo pagano e le figure sensuali della tammurriata ricordano in maniera impressionante le danze degli affreschi pompeiani. Veli volteggianti, fianchi roteanti, gesti ammiccanti. Pier Paolo Pasolini, stregato dal fascino arcaico di queste nenie rituali, nel 1960 volle registrarle personalmente dalla viva voce delle devote per usarle come colonna sonora del suo Decameron. E ancor prima, Zavattini e De Sica parteciparono al pellegrinaggio dei femminielli quando erano in cerca di ispirazioni per “L’oro di Napoli”.
Il carattere pagano del culto ha spesso provocato scontri con l’autorità ecclesiastica. In due occasioni, nel 2002 e nel 2010, l’abate del santuario ha scacciato i gay dalla chiesa scagliando su di loro un vero e proprio anatema. Che ha suscitato lo sdegno del mondo progressista e non solo. Ma i coribanti di oggi non si lasciano intimidire da diktat così poco evangelici. Loro vogliono bene alla Madonna e la Madonna vuol bene a loro, il resto non conta. E si mostrano ogni anno più determinati nel trasformare il pellegrinaggio in occasione politica, in piattaforma democratica di lotta contro l’omofobia che ancora affligge il nostro paese. Tra i più agguerriti Porpora Marcasciano (presidente del MIT — movimento identità trasgender — di Bologna), e Vladimir Luxuria. Che ogni anno sale a Montevergine per onorare la Madonna nera. Perché, tiene a dire, “da secoli le persone diverse si sono riconosciute in questa Madonna diversa. Una madre che guarda solo nel nostro cuore e non si interessa all’involucro che lo contiene”. Così la rivendicazione dei nuovi diritti fa suo un simbolo ancestrale. Avvicinando i due lembi estremi della storia. Un passato millenario e un futuro necessario. E al di là di tutti i distinguo politically correct e delle nuove sigle identitarie, quel giorno si diventa tutti femminielli. Anime femmine in corpi mutanti. Diversamente uguali nel nome della Madre.

Repubblica 31.1.14
Negazionismo, il Ddl torna in commissione


ROMA — Il disegno di legge contro il negazionismo si avvia a ritornare in commissione Giustizia. Questo l’orientamento espresso ieri dal gruppo democratico in Senato. La relatrice Rosaria Capacchione chiederà all’aula di rimandare il testo in commissione, e con ogni probabilità la sua proposta verrà accolta. Alla fine hanno vinto i dubbi. E per la seconda volta nel giro di pochi mesi la legge quasi sicuramente sarà ritirata. Ha certo contato anche il monito del presidente Napolitano, che ha invitato la classe politica a riflettere con «attenzione» e «saggezza» su un provvedimento che ha sollevato molte obiezioni. In primo luogo da parte degli storici, che hanno rilevato un pericolo per la libertà della ricerca, vista anche la genericità della formulazione iniziale che condanna chiunque neghi l’esistenza di «genocidi», «crimini contro l’umanità» e «crimini di guerra».
Ma anche da parte dell’ufficio legislativo del Senato che giudica «ancora troppo generica» la correzione della legge, con l’aggiunta del dolo del «proselitismo» e dell’«istigazione all’odio razziale». «Una legge inutile», ha ribadito Miguel Gotor, anche perché già esiste la legge Mancino, che punisce «chi propaganda idee fondate sull’odio razziale».

Il manuale del rivoluzionario di George B. Shaw tr. di A. Miliotti pagine 120 euro 11 Piano B
Il «Manuale» di Shaw fa parte della produzione saggistica meno nota al grande pubblico. Con la sua corrosiva penna, l’autore ridisegna il profilo del superuomo di Nietzsche, demolendo uno ad uno i fondamenti della società e della politica tradizionale: la proprietà e il matrimonio, la morale e la religione convenzionale, il sistema educativo, produttivo ed economico. Fino ad arrivare all’individuo libero dai legami della morale e delle abitudini.

Il catechismo del rivoluzionario di Michael Confino trad. di G. Bartoli pagine 266 euro 12 Adelphi
I documenti riportati nel libro di Michael Confino già edito nei primi anni Settanta e ora ripubblicato si riferiscono all’«affare Necaev», ovvero ai rapporti personali tra il giovane rivoluzionario e Bakunin, che dopo un iniziale e folgorante avvio si ruppero dopo la grave delusione provata dall’anziano per le azioni di Necaev. Documenti e analisi illuminano uno dei casi più ambigui e affascinanti del movimento rivoluzionario russo.

Fondata sulla cultura di Gustavo Zagrebelsky pagine 110 euro 10 Einaudi
Zagrebelsky continua la sua riflessione sui principi della Costituzione prendendo stavolta in esame le idee e di conseguenza, la cultura. Senza idee, non c’è cultura, senza cultura non c’è società. E senza libertà della cultura non c’è liberta della società. Un pamphlet serrato, ricordando che arte e scienza «sono» libere, come riporta la Costituzione e «devono esserlo», perché la cultura asservita a interesse politici ed economici tradisce il suo compito.