domenica 2 febbraio 2014

Corriere 2.2.14
Berlusconi: «Ci sono le riforme, non penso sia possibile un election day a maggio»
«Si andrà alle urne tra oltre un anno. Il mio piano folle per superare il 37%. Possiamo farcela»
intervista di Alan Friedman


Pochi minuti prima di mezzogiorno, arrivo in via del Plebiscito, entro nel cortile di Palazzo Grazioli e un uomo della scorta mi porta in ascensore al piano nobile, che qui è il secondo, visto che il primo è un ammezzato. 
Mentre la mia troupe televisiva allestisce per le riprese l’ufficio di Silvio Berlusconi (sto girando una puntata per Corriere TV della nuova web serie basata sul mio nuovo libro, che esce tra pochi giorni con Rizzoli) io aspetto nel salotto. Mi guardo intorno, nelle stanze affrescate dell’imponente palazzo seicentesco, oggetti e mobili preziosi grondano sfarzo e magnificenza. Consolle bombate dorate con superfici in marmo. Posto su uno dei mobili con decorazioni in oro e intarsi pregiati c’è un modellino settecentesco del Colosseo, con una targhetta in granito su cui spicca la scritta, in stile romano, «La storia la scrive chi vince». 
Sento un cagnolino che abbaia, e intravedo alla fine del corridoio una porta che apre dall’appartamento privato del presidente. L’oramai immancabile Dudù fa una brevissima apparizione e poi viene riportato dentro. Io intanto arrivo nell’ufficio di Berlusconi e il mio sguardo corre alle pareti damascate giallo oro, alle tende abbinate, e si ferma su una consolle bombata sulla quale poggiano delle cornici piene di foto di Berlusconi con Bush, con Putin, con papa Ratzinger, con i figli, con la mamma Rosa. 
E poi arriva il Cavaliere, dimagrito dopo il soggiorno in beauty farm, sorridente e nel suo solito abito scuro a doppiopetto. Si siede dietro la sua scrivania e cominciamo un’intervista a tutto campo. 
Presidente, dopo lo storico incontro che lei ha avuto con Matteo Renzi alla sede del Pd e l’accordo sulla legge elettorale, qual è il suo parere sul segretario democratico? 
«Renzi è un nuovo protagonista che è entrato di slancio nel panorama politico italiano e ha rinnovato il Partito democratico, che è sempre l’antico Partito comunista italiano, che ha cambiato tanti nomi ma è rimasto con le stesse persone, con le stesse sedi. Ha annunciato con coraggio e anche con un filo di arroganza, di voler rottamare tutti i vecchi campioni del partito. E l’ha fatto: uno dopo l’altro sono stati costretti, non per una sua azione diretta ma per il procedere della sua salita all’interno del partito, molti sono veramente ai lati, addirittura non in Parlamento. Quindi io spero che lui continui in questa direzione». 
Le faccio notare comunque, presidente, che Renzi ha di fatto conquistato due terzi del partito e chi ha perso sono D’Alema, Cuperlo e il vecchio, quindi in un certo modo lui rappresenta un nuovo Pd, almeno agli occhi di un giornalista straniero. 
«Io convengo e sono assolutamente contento che questo sia accaduto. Gli auguro di procedere affinché anche il residuo terzo venga mandato negli spogliatoi». 
Ma parliamo adesso della sostanza, perché l’accordo annunciato da lei e Renzi era su tre questioni: legge elettorale, riforme istituzionali, Titolo V. Cominciamo con la legge elettorale. 
«Io credo che continuerà il suo percorso e che sarà approvata dai due rami del Parlamento. Questa legge elettorale non è il meglio che si potesse fare, perché ancora una volta abbiamo dovuto fare i conti qui in Italia con i piccoli partiti, e questo è un fatto molto negativo che ci perseguita dal 1948. Ma oggi con l’ingresso di una terza forza tra destra e sinistra, una forza che ha messo insieme tutta l’antipolitica, tutti gli italiani disgustati da questa politica, quella portata avanti da Grillo, i numeri sia di destra che di sinistra si sono abbassati, e quindi siamo arrivati a dei numeri molto bassi come coalizione. Vede, io ho sempre ritenuto che noi dovessimo insegnare agli italiani a cominciare a capire come si deve votare. Abbiamo sempre guardato ai paesi meglio governati, Francia, Gran Bretagna e, soprattutto, Stati Uniti d’America: repubblicani e democratici, democratici e repubblicani». 
Il bipolarismo… 
«Il bipolarismo secondo noi è il miglior sistema per dare un governo efficiente ad una nazione. Purtroppo anche dopo la Prima Repubblica, con la legge elettorale che è in vigore ancora adesso, il voto frazionato è continuato». 
Però lei non esclude che la Lega e Alfano possano in futuro far parte di una coalizione di centrodestra? 
«No. Ma guardi, le dico, io ho una speranza, soprattutto se il voto arriverà tra oltre un anno, che da un lato il Partito democratico a guida Renzi, da un lato Forza Italia, possano operare in maniera tale da poter arrivare all’appuntamento della prossima campagna elettorale così forti da poter pensare di superare da soli la soglia del 37% che abbiamo messo per poter godere del premio di governabilità che aggiunge un 15% al 37 per arrivare a un 52%, che rende possibile governare. Questo dipende da molte cose, ma io per esempio ho un progetto che deriva da quello che successe a me nel ‘94 e da tutte le esperienze di questi anni. Sarà una follia, ma io penso di poter arrivare a superare il 37. Ho già avuto un risultato del genere nel 2008, perché nella coalizione raggiungemmo un 46 e passa, e il mio partito arrivò al 37 e passa. Però da allora è successo questo fatto, che Grillo è arrivato con il Movimento Cinque Stelle e, avendo raggiunto un risultato importante, il 25%, e oggi essendo ancora nei sondaggi intorno al 20- 21%, ha naturalmente abbassato i voti a disposizione di destra e sinistra. Quindi quel 37 già raggiunto, oggi diventa molto più difficile da raggiungere da parte di un solo partito. Ma io sono un ottimista e ho messo su un piano, forse un piano un po’ pazzo, ma io sono un cultore di Erasmo da Rotterdam...». 
Ma questo piano lo vuole rivelare oggi? 
«No, è prematuro. Ma io finisco con questa frase che Erasmo da Rotterdam ripeteva sempre: “Le decisioni migliori e più sagge non derivano dalla ragione ma nascono da una visionaria lungimirante follia”». 
Cambiamo argomento e parliamo del vincolo europeo del 3%. 
«È un vincolo che non ha nessun senso». 
E il Fiscal Compact che richiede la riduzione del debito. Lei che proporrebbe? 
«Io propongo che il Pil sia calcolato aggiungendo al Pil emerso il Pil sommerso. In questo modo noi andiamo sotto il 100% nel rapporto debito Pil. Cioè ci avviciniamo a quel 93% che è la media dei paesi dell’Euro. Aggiungo che quando c’è una economia che ristagna, non è assolutamente pensabile di togliere dall’economia dei soldi per ridurre il debito». 
Ma nel Pil l’Istat già stima il sommerso al 17%. 
«Ma è molto di più». 
Qual è la sua previsione per l’economia italiana quest’anno? 
«Non è una previsione positiva perché noi tentiamo di infondere coraggio, ottimismo, di dare speranze eccetera, ma la situazione in cui ci troviamo noi oggi è particolarmente precaria. Abbiamo degli svantaggi competitivi con le altre economie dell’Europa, e insieme all’Europa abbiamo da fare i conti con la competizione delle economie orientali, lei ha visto che la Cina ha superato nelle esportazioni l’America, sta diventando la fabbrica del mondo. Quali sono le cose insuperabili? Soprattutto due: il costo del lavoro e le imposte sugli utili. I paragoni non reggono e quindi io credo che sarà molto difficile per noi come Europa di reggere questa competizione». 
Presidente, lei ha fiducia nella capacità del governo Letta di lanciare la riforma del mercato del lavoro, di avviare le misure adeguate per agganciare la ripresa e stimolare la crescita? 
«Mi spiace di dover rispondere negativamente, ma purtroppo abbiamo ormai l’esperienza di questa prima sessione di governo che è durata molti mesi in cui addirittura non sono state mantenute le promesse che erano intercorse tra noi e loro quando abbiamo con molta responsabilità detto sì a un governo di Grosse Koalition , di larghe intese. Le ricordo anzi che dopo il risultato delle elezioni che appunto era stato determinato da Grillo, noi abbiamo subito offerto al Partito democratico di fare un governo insieme. Il Partito democratico, che ha contro di noi una antica avversione che deriva dall’ideologia comunista, ha invece tentato di fare il governo col partito di Grillo, con i Cinque Stelle, e per due mesi il segretario...». 
Quello, scusi se la interrompo, era il vecchio Pd guidato da Bersani. 
«Era il vecchio Pd, assolutamente. E Bersani ha battuto per due mesi alla porta di Grillo ricevendo sberleffi e anche insulti. Finalmente dopo due mesi si è rassegnato, è venuto da noi e ci ha proposto di fare un governo, a condizioni quasi inaccettabili, cioè una rappresentanza parlamentare di soli 5 ministri su 23, ma soprattutto non ha aderito alla nostra sacrosanta richiesta di sederci a un tavolo e di scrivere un programma preciso. Hanno detto no, nessun programma preciso, ci diamo la mano, e voi ci dite i punti su cui dobbiamo impegnarci. Vista la malaparata, noi decidemmo di accettare anche questa situazione che era veramente al di fuori della logica. Allora noi abbiamo preso i tre punti su cui avevamo battuto durante la nostra campagna elettorale: punto primo, abolire l’imposta sulla casa, l’Imu; punto secondo non aumentare l’Iva, dal 21 al 22%, perché è un fatto anche psicologico, che deprime la voglia di spendere da parte dei cittadini, anzi di abbassare l’Iva dal 21 al 20. E la terza cosa era cambiare i modi di approccio di Equitalia e dei suo funzionari con i contribuenti. Sull’Imu, ha visto che cosa è successo, un pasticcio incredibile che ha fatto diminuire dal 6 al 10% il valore di tutti gli immobili, di tutte le case in Italia. Per quanto riguarda l’Iva, è stata portata addirittura al 22%, il contrario di quello su cui Letta si era impegnato. Ma siamo riusciti a cambiare qualcosa nei sistemi di Equitalia grazie alla nostra capacità di agire in Parlamento». 
Quindi per lei sarebbe meglio tornare alle urne? E se sì, quando? 
«Io non penso sinceramente che sia possibile tornare alle urne in un election day insieme con le elezioni per il Parlamento europeo e con 18 milioni di italiani chiamati alle Amministrative. Se si riuscisse ad arrivare in tempo con la legge elettorale noi saremmo d’accordo di andare il 25 di maggio. Ma se intanto si comincia a lavorare sui cambiamenti della Costituzione nelle due direzioni che abbiamo ricordato, dato che per questi cambiamenti ci vogliono non due ma quattro votazioni a distanza di tre mesi l’una dall’altra, si va avanti di un anno o anche più di un anno. In quel caso si andrà a votare tra un anno e qualche mese e per noi, questa cosa credo che funzioni molto bene».

Il Sole 2.2.14
Nuove alleanze. L'entusiasmo del vicepremier: «Bentornato»
Casini «sposa» Fi e Alfano: nel Pd primi timori per il voto
di Emilia Patta


ROMA «A Casini noi diciamo di cuore un bentornato nel centrodestra e tra le forze politiche alternative alla sinistra. Adesso dobbiamo tutti insieme lavorare per un più forte raccordo delle forze popolari e alternative alla sinistra, proprio mentre Renzi porta il Partito democratico verso il Partito socialista europeo». Il più grande sospiro di sollievo all'ufficializzazione del ritorno di Pier Ferdinando Casini nell'alveo del centrodestra lo tira Angelino Alfano. Casini, infatti, potrebbe confluire nella nuova formazione alfaniana all'insegna del Partito popolare europeo (almeno questa è la speranza degli alfaniani) e la soglia del 4,5% prevista dall'Italicum – snobbata ufficialmente da Alfano, che si dice sicuro di superarla abbondantemente – potrebbe diventare molto più a portata di mano. Ma prima ci sono le elezioni europee, per le quali si vota il 25 maggio, e anche lì c'è una soglia da superare: il 4%. Questo spiega l'accelerazione da parte di Casini, la cui Udc è ora attestata nei sondaggi attorno al 2%. Stessa percentuale, più o meno, accreditata a Scelta civica, l'area centrista che si rifà a Mario Monti e che invece è orientata all'alleanza con il Pd renziano.
Le Europee sono certo l'urgenza. Ma Casini prende realisticamente atto che il patto Renzi-Berlusconi sull'Italicum uccide definitivamente ogni velleità terzopolista, velleità a lungo inseguita dal leader dell'Udc. Le soglie di ingresso altissime per chi non si coalizza (8% per il partito e 12% per la coalizione) sono infatti accompagnate dalla clausola anti-Terzi poli in caso di ballottaggio se nessuno supera il 37%: vietati gli apparentamenti, al secondo turno si devono presentare le stesse identiche coalizioni del primo.
Il ritorno a casa del figliol prodigo, insomma, è stata silenziosamente imposta dallo stesso Berlusconi. Che punta proprio sulla sua capacità coalizionale (oltre ad Alfano e Casini, i Fratelli d'Italia di Ignazio La Russa, le varie formazioni della destra italiana e naturalmente la Lega Nord, per la quale è stata inserita nell'Italicum una norma ad hoc) per sparigliare tutte le previsioni. Capacità coalizionale che al momento Matteo Renzi non ha, visto che i possibili alleati sono la montiana Scelta civica (attorno al 2%) e Sel di Nichi Vendola (attorno al 3%), entrambi ben al di sotto della soglia di sbarramento (che sia il 4,5% o alla fine il 4%, come prevedono alcuni).
A vantaggio di Berlusconi, inoltre, il fatto che i voti dei partiti coalizzati che non raggiungono la soglia di sbarramento non andranno persi, come avrebbe voluto il Pd, ma saranno validi per il raggiungimento del quorum del 37% utile a far scattare il premio di maggioranza. Un combinato disposto di dettagli che fa vedere a molti, dentro il Pd, il rischio di aver sottovalutato ancora una volta l'eterno avversario. A sfavore del Pd di Renzi va poi fatto notare che sia Alfano sia Casini sono storicamente forti al Sud (soprattutto in Sicilia, Campania e Calabria). Proprio là dove la stella di Renzi non sembra ancora brillare, come hanno dimostrato le due primarie da lui giocate nel campo del centrosinistra (2012) e del Pd (2013). Eppure nella stretta cerchia del leader Pd si ostenta serenità: Renzi punta moltissimo sulla sua persona e sulla sua leadership per andare a prendere direttamente i voti dei grillini e di parte del centrodestra, al di là delle sommatorie percentuali dei sondaggi.
La vera partita, insomma, si giocherà in campagna elettorale. E un renziano come Paolo Gentiloni fa notare che solo allora gli italiani si renderanno conto che il leader del centrodestra non è più Berlusconi – condannato, decaduto e incandidabile – bensì qualcun altro: Giovanni Toti? Marina Berlusconi? Lo stesso Alfano? Di certo non è la stessa cosa, e di questo è consapevole anche il Cavaliere, che infatti ha dimostrato – siglando

Repubblica 2.2.14
Alfano e Fi, porte riaperte a Casini “Con lui al 38% e battiamo la sinistra”
Ma i centristi si dividono sulla svolta
di U. R.


ROMA — Alfano lo accoglie a braccia aperte: «Bentornato nel centrodestra, insieme batteremo la sinistra». Pier Ferdinando Casini, che dichiara chiusa la stagione del centrismo e nell’intervista a “Repubblica” dichiara la sua scelta bipolarista, ritrova i compagni di strada di un tempo ma rompe del tutto con gli ex di Scelta Civica («il solito trasformista ») e non convince nemmeno tutti i “suoi” Popolari per l’Italia. Che infatti al momento non lo seguono, «per ora restiamo dove siamo — dichiarano Olivero e Dellai — e comunque poniamo un confine invalicabile a destra». Gelide le reazioni di chi invece al progetto centrista ancora crede, come Enzo Carra, «Casini cerca solo un posto da Berlusconi». L’annuncio che il vecchio sogno di rifare la Dc è andato in frantumi, e che se ne torna perciò nel campo del Nuovo centrodestra e di Forza Italia, viene salutato con grande entusiasmo dai forzisti. Con il “Mattinale” (la rassegna stampa curata dal gruppo parlamentare) che già fa i conti e prevede con il ritorno di Pier di raggiungere la soglia per il premio di maggioranza: «Il centrodestra così prenderà il 38 per cento e vincerà le elezioni». Ma il centrosinistra non teme alcun effetto Casini, né sulla tenuta della coalizione di governo né sulle future elezioni, tanto che per il segretario pd Renzi è «positivo» che evapori il terzo polo centrista in nome del bipolarismo e della nuova legge elettorale.
Angelino Alfano dà un un benvenuto di cuore all’ex presidente della Camera «tra le forze politiche alternative al centrosinistra ». Insieme potranno «rafforzare il centrodestra italiano e portarlo a vincere contro la sinistra alle prossime elezioni politiche». Gli fa eco Renato Schifani: «Noi non abbiamo mai cambiato idea, e forse è lui che l’ha cambiata e per questo lo accogliamo con piacere». Terremoto invece nello schieramento di cui Casini ha fatto parte. «La sua decisione non è una novità ma una svolta annunciata da mesi ed è la vera ragione della separazione di Scelta Civica», punta il dito Linda Lanzillotta, vice presidente del Senato. Che aspetta di sapere se «i nostri amici Dellai, Marazziti, Olivero si ritrovano oggi portati per mano da Casini sotto la protettiva ala berlusconiana». Pronta la risposta dei deputati dei Popolari per l’Italia chiamati in causa, che aspettano di conoscere le «intenzioni definitive» di Casini, ma intanto spiegano di voler rimanere dove stanno, «nello spazio, piccolo o grande che sia lo vedremo, del popolarismo».
L’annuncio dell’ex pupillo di Forlani naturalmente non piace ai nostalgici democristiani come Gianni Fontana (associazione
Dc) ma nemmeno a quanti ancora vedono uno spazio per un’operazione di centro rispetto ai due poli. Bruno Tabacci, leader di Centro Democratico, chiama a raccolta i moderati in contrapposizione al capo di Forza Italia. «Mi auguro — spiega — che l’annuncio del ritorno di Casini con Berlusconi faccia
aprire gli occhi a quanti, nel sempre più frastagliato arcipelago del centro, finora non si sono posti il problema». Perché, come sostiene il presidente del gruppo misto della Camera Pino Pisicchio, «c’è ancora spazio per un centro riformista».
(u.r.)

Repubblica 2.2.14
Il ministro Delrio: dubito che Casini riesca a portarsi dietro tutti quelli che ora stanno con lui
“Gli elettori non sono più figli di Dc e Pci anche la sinistra sa parlare ai moderati”
intervista di Umberto Rosso


ROMA — «Non ci vedo nulla di strano. Era ampiamente prevedibile. Ed è fisiologico: bisogna schierarsi, con la nuova legge elettorale sarà bipolarismo vero ».
Ministro Delrio, non la preoccupa neanche un po’ che Casini torni nella braccia del centrodestra e di Berlusconi?
«Direi proprio di no. Vedremo quali saranno le scelte, ma mi pare la volta buona per dare una svolta al sistema politico italiano: due coalizioni alternative, ma tutte e due riformiste. In Germania Spd e Cdu sono avversari ma entrambi da diversi punti di vista in nome del cambiamento, del rinnovamento».
Il governo non corre rischi? Il richiamo di Forza Italia potrebbe attrarre pezzi della maggioranza.
«Intanto Casini parla in prospettiva, e non per l’oggi...».
Poi?
«Non credo che su quella strada lo seguiranno tutti. Non lo farà Scelta Civica, come ha già spiegato. E anche fra i Popolari per l’Italia non so quanti si ritroveranno in marcia verso il centrodestra. Di certo, non immagino che lo faranno parlamentari che hanno alle spalle la storia di Lorenzo Dellai».
Berlusconi è già pronto a incassare il ritorno a casa di tutto il centrodestra, sicuro così di conquistare il 37 per cento per vincere le elezioni.
«Ma le elezioni le vince chi parla il linguaggio della verità. Chi trova le parole giuste per dare risposte vere ai problemi del paese. I moderati non sono un più un blocco unico, scelgono di volta in volta. E’ chiusa, finita l’epoca dei figli della Dc. E del Pci».
Il Cavaliere accusa Napolitano di aver “imposto” la soglia del 37 per cento per favorire i piccoli partiti.
«Berlusconi lasci perdere il presidente della Repubblica, che non c’entra con la trattativa sulla legge elettorale. Gli accordi sono frutto di chi li ha firmati. L’innalzamento della soglia era un obiettivo del Pd».
Ma, a parte i parlamentari, la decisione di Casini può trascinare elettori moderati lontano
dal centrosinistra?
«Sono convinto di no. Moderazione non è sinonimo di immobilismo. Ecco perché tanta parte di quel mondo già guarda al Pd, al centrosinistra, e altri pezzi ne se aggiungeranno. Penso per esempio a tanti piccoli imprenditori. Tutti si aspettano, oltre a proposte concrete, finalmente una “democrazia decidente”. Le riforme».
Intanto però la discussione sulla legge elettorale slitta all’11 febbraio.
«Aver fissato questa data mi pare già un grandissimo successo, dopo anni di tentativi a vuoto. Comunque, nessun problema. L’approveremo entro la metà di febbraio».
E il resto delle riforme, Senato e Titolo V?
«Sono molto ottimista. Lo dico sulla base di fatti, non di semplici speranze. Negli incontri con gli altri partiti il clima è buono e di collaborazione. Ce la possiamo fare. La bozza di accordo non è lontana».
Alfano sull’abolizione del Senato resiste.
«Ne abbiamo parlato a lungo, troveremo una sintesi. Con il Nuovo centrodestra, così come con Forza Italia».
E dentro il Pd?
«Come ha già annunciato il segretario Matteo Renzi, nella prossima riunione del 6 febbraio sarà presentata una proposta approfondita. Riscrivere le regole è la grande occasione per ridare credibilità al Parlamento e alle nostre istituzioni. Per provare a parlare ai tanti cittadini disillusi e arrabbiati. La scommessa vera è questa: riconquistare i milioni di italiani che non vanno più a votare, il popolo degli astenuti. E fermare così l’ondata distruttiva dei grillini che rischia di affossare la nostra democrazia».

La Stampa 2.2.14
Renzi ricompatta il partito
Ma ora il vero timore è la trappola del Cavaliere
Il leader ha ripreso il dialogo con D’Alema: serve confronto
di Federico Geremicca

qui
 

l’Unità 2.2.14
Davide Zoggia: «Così com’è l’Italicum favorisce Forza Italia»
«Quella per migliorare la legge non dev’essere una battaglia della minoranza ma di tutto il Pd Anzitutto su liste bloccate e alternanza di genere»
di Maria Zegarelli


L’Italicum andrà in porto ma durante la navigazione dovrà essere migliorata. E non dovrà essere una battaglia «della minoranza contro la maggioranza del partito, ma di tutto il Pd», perché così come è secondo Davide Zoggia, è troppo sbilanciata verso Fi. Entro febbraio la Camera approva l’Italicum, dice la presidente Boldrini. Lei prevede una navigazione tempestosa?
«Probabilmente riusciremo a farcela entro quella data, anche alla luce del voto tutto sommato tranquillo sulle pregiudiziali di costituzionalità. Spero che sia possibile una discussione serena sui miglioramenti possibili».
Lei è tra i più critici anche rispetto all’ultima versione dell’accordo Renzi-Berlusconi.
«Noi come Pd e non come minoranza, abbiamo dimostrato una grande responsabilità e il voto segreto sulle pregiudiziali ha fatto giustizia anche rispetto alla vicenda dell’elezione del presidente della Repubblica. Il partito fa battaglie a viso aperto e ritrova la sua unità, ma è evidente che tutto questo trova fondamento nella possibilità di aprire un dialogo con la consapevolezza che non si potrà stravolgere l’impianto generale della legge ma si potranno cambiare alcune cose».
Dove è più urgente intervenire?
«Intanto sulle liste bloccate e la rappresentanza di genere. Poi, è necessario garantire la concatenazione delle riforme perché dal momento che questa legge è costruita perché si voti solo la Camera, deve essere chiaro che l’Italicum è legata al superamento del bicameralismo e alla riforma del titolo V. L’altro nodo da sciogliere è la norma salva Lega. Dal punto di vista legislativo non possiamo consentire che una forza politica forte solo in alcune regioni venga favorita. Parliamo per paradossi: Sel a livello nazionale si ferma al 4,49%. Che facciamo, la teniamo fuori dal Parlamento e la Lega che a livello nazionale prende il 3% e in tre regioni il 9% entra?». Sta riproponendo la norma che premia il miglior perdente? «Quella può essere una strada».
Lei sta sollevando tutte questioni che per Berlusconi non possono essere ricevibili. Come la mettete con Fi?
«In Parlamento c’è Fi man on soltanto Fi ed è bene tenere conto di tutti». Se alla fine non riuscirete ad ottenere le modifiche che chiedete che succede? Non votate la legge? «Cerchiamo di capire fin dove è possibile migliorarla e in quali punti, credo ci siano le condizioni politiche per fare significativi passi in avanti. Se sarà così il Pd non porrà alcun problema. Ma c’è anche una valutazione più politica: a me sembra una legge che tende a favorire più Fi che noi perché Berlusconi ha una maggiore capacità a coalizzare attorno a sé».
Appunto. Casini è già tornato dal Cavaliere.
«Essendo questa una legge bipartitica in un Paese che bipartitico non è tende ad aggregare le forze su due grandi partiti, ma storicamente la destra in questo è molto più brava di noi. Noi non riusciamo ad aggregare i partitini satelliti e può accadere molto verosimilimente che Fi con il 22-23% riesca ad aggiudicarsi il 55% dei seggi grazie alla coalizione con partitini che non riescono a superare la soglia ma gli fanno vincere le elezioni. Io capisco che in poche settimane stiamo riuscendo a fare ciò che non si è fatto in molti anni, ma questo non giustifica che si approvi una legge non migliorabile ». Quanto è rischioso il dibattito in Aula con400emendamenti?
«È rischioso, ma se il Pd continua sulla strada intrapresa fino ad ora sono sicuro che è possibile portare fino in fondo il dibattito senza stravolgimenti». Al voto dell’Italicum sembra legata anche la discussione sul governo. Senonsi chiude con la legge non si parla di Patto 2014. «Non sono d’accordo con questa impostazione e spero che già nella direzione del 6 febbraio si affronti anche il tema del governo. Noi non abbiamo un Pd a due velocità, questo fa un danno sia al governo sia al Pd. Il partito lavora per le riforme e per dare slancio al governo. Questo è il messaggio che dobbiamo mandare al Paese».

l’Unità 2.2.14
Italicum, comincia la corsa a ostacoli
I timori del Cav: «Renzi interlocutore, spero che il Pd tenga»
Boldrini: «Ci sono tensioni e serve più tempo, ma l’aula decide entro febbraio»
L’incognita sul ruolo dei Cinquestelle
Forza Italia apre la caccia ai voti grillini. Ma Renzi punta allo stesso bacino
Primo test alle europee
di Federica Fantozzi


Riapparendo in pubblico per un comizio a favore di Ugo Cappellacci per le regionali in Sardegna, Silvio Berlusconi liquida i mal di pancia interni su Giovanni Toti (volato a Cagliari al suo fianco, insieme alla fidanzata Francesca Pascale) come «stupidaggini, ma quale maretta» e ribadisce che non rottamerà nessuno. Ma si capisce presto che il vero tema, l’argomento su cui ha la testa, è la legge elettorale. Quell’Italicum che ha subito una piccola battuta d’arresto: anziché tornare in aula la prossima settimana, Montecitorio si è aggiornato a martedì 11 febbraio. Una scelta che si è intestata la presidente della Camera Laura Boldrini dopo la forzatura in commissione Affari Costituzionali, quando il presidente Sisto ha fatto votare per alzata di mano il testo senza discutere neppure uno degli emendamenti, nel pieno dell’occupazione grillina. «È stata una settimana di tensioni scaricate anche sulla legge elettorale. Su mia richiesta - ha detto Boldrini - la conferenza dei capigruppo ha deciso qualche giorno in più per l’argomento importante e assegnato al dibattito tempo ben più ampio del solito». Con una garanzia però: «La decisione finale arriverà entro fine febbraio». In tempo, cioè, per rispettare la road map decisa da Renzi che prevede entro marzo il voto finale al Senato. Per cominciare poi la (assai incerta) partita delle riforme costituzionali, Senato delle autonomie e revisione del Titolo V. LETRAPPOLE Le rassicurazioni convincono Forza Italia fino a un certo punto. Il capogruppo Renato Brunetta ha ammesso la sua preoccupazione. E Berlusconi le ha dato voce alta: «Spero che Renzi, con cui abbiamo trovato una possibilità di interloquire, trovi all’interno del suo partito la maggioranza per poter proseguire sulla strada che abbiamo tracciato». Sintetizzata, anche quella, in pochi concetti chiave. Come l’importanza delle soglie minime di accesso per bipolarizzare il sistema, dopo aver ceduto su quella più alta: «I piccoli partiti hanno ottenuto, grazie all’aiuto del Capo dello Stato, che si passasse dal 35% al 37% come soglia di sbarramento per ottenere il premio di maggioranza» ha detto Berlusconi. Beccandosi la reprimenda di Lorenzo Guerini, portavoce della segreteria di Renzi: «Sulla partita della legge elettorale Napolitano è solo arbitro e non giocatore. Lasciamo il Quirinale al di sopra delle parti nel suo ruolo di garanzia per tutti». «I Cinquestelle? Sono un ostacolo al bipolarismo ma dal mio sondaggio molti loro elettori non daranno loro nuovamente la preferenza. Dobbiamo agire sui troppi indecisi per conquistare la maggioranza» ha detto ancora Berlusconi. È uno dei nodi: aggredire il bacino dei voti di Grillo. Obiettivo a cui punta anche il segretario di Largo del Nazareno. E la «preda» fiuta il pericolo, con le prime avvisaglie alle Europee. «Se andiamo male mi ritiro» ha messo le mani avanti il leader pentastellato. LABATTAGLIAM5S I suoi parlamentari però, richiamati a un’opposizione «irreprensibile» durante il blitz romano dell’ex comico, hanno abbandonato l’Aventino. Intendono proporre e votare emendamenti convenienti. Anche quelli degli altri se si renderà necessario. Non solo ostruzionismo, a gamba tesa per modificare la legge. La battaglia si sposta sul testo dell’Italicum. Dove le potenziali trappole sono molte. Primo punto controverso, le preferenze. Le vogliono i grillini, ma anche gli alfaniani e Sel. In che forma, ancora non è chiaro, si va dai capilista bloccati e gli altri no, a liste miste. Contro questa massa d’urto si vedrà la resistenza della «profonda sintonia» tra Berlusconi e Renzi che su questo non vogliono toccare una virgola. Sulle pregiudiziali di costituzionalità è emersa una pattuglia di 25-30 franchi tiratori. Non sconvolgente, ma potrebbe lievitare al momento opportuno. Il Pd tiene d’occhio i suoi numeri, il Cavaliere occhieggia la «maretta» azzurra: i potenziali dissidenti vanno da una decina al doppio. E sarà guerra anche sulle soglie dei partitini non coalizzati: l’8% ai piccoli appare inaccettabile. Significativo l’emendamento della minoranza Pd che sostanzialmente condiziona l’entrata in vigore della riforma elettorale all’abolizione del Senato: una chiara sfida a implicite tentazioni di troncare in anticipo la legislatura. Sottovoce, poi, in molti ragionano su una clausola di salvaguardia che faccia slittare l’abolizione effettiva del Senato alla prossima legislatura. Per il famoso principio del «tacchino a Natale» che potrebbe disincentivare i senatori dallo slancio riformista.

l’Unità 2.2.14
Roberto D’Alimonte: «Più poteri al premier? Li avremo Renzi non ha voluto bruciare i tempi»
Il politologo che ha seguito la trattativa per il leader Pd: «Ho accettato per il clima bipartisan, cioè per il coinvolgimento di Forza Italia»
di Andrea Carugati


Roberto D’Alimonte, classe 1947, politologo alla Luiss ed editorialista del Sole 24 Ore, in queste ultime settimane ha smesso «solo temporaneamente» i consueti panni di osservatore terzo della politica per indossare quelli di consigliere di Matteo Renzi nella difficile partita della legge elettorale. Ora che l’Italicum è avviato in Aula alla Camera lui ne difende l’impianto, pur ammettendo che «non è la legge migliore, non è quella che avrei scritto io. Ma, a mio parere, risponde positivamente alle obiezioni sollevate dalla Corte costituzionale. E grazie al doppio turno, alle liste corte e alle soglie di sbarramento più elevate si differenzia in modo profondo dal Porcellum». Ora si parla di una clausola per ammettere i migliori perdenti anche se sotto la soglia del 4,5%.Che ne pensa? «È possibile che i promotori di questa clausola riescano a spuntarla in Parlamento, masono convinto che sia una strada sbagliata. Uno degli obiettivi di questa legge è limitare la frammentazione, dunque sarebbe un cedimento negativo. Io ero per una clausola secca al 5%, già si è scesi al 4,5% e temo si arriverà al 4%. Se aggiungiamo anche il ripescaggio si indebolisce la ratio della riforma». È possibile introdurre le preferenze? «Credo sia uno degli ingredienti vitali dell’accordo che non sarà modificato. Berlusconi lo considera non negoziabile...». Si parla molto delle ipotesi di «bachi» nella legge: una coalizione che vince ma non ottiene seggi perché tutti i partiti sono sotto il 4,5%. O il caso di un partito che prende il 100% dei seggi. Sono macchie che rischiano di minare l’Italicum? «L’unico sistema che non presenta rischi di questo tipo è il proporzionale puro. Tutti gli altri, a partire dal maggioritario inglese, possono produrre ipotesi estreme. In Gran Bretagna un partito col20% o addirittura meno potrebbe in teoria vincere in tutti i collegi e avere il 100% dei seggi. E in Germania, se nessuno superasse lo sbarramento del 5%?». Secondo lei questi problemi potrebbero rendere l’Italicum incostituzionale? «La Corte con la recente sentenza sul Porcellum ha introdotto un altissimo grado di discrezionalità. Dunque è possibile. Non credo però che queste ipotesi estreme possano essere alla base di una bocciatura. Leggendo la sentenza, la mia opinione è che le liste bloccate corte siano costituzionali, così come un premio di maggioranza del 15% con una soglia al 37%. La Corte non ha indicato delle soglie, ha parlato di criteri di ragionevolezza. Che cos’è ragionevole? Ricordo che Hollande col 29% al primo turno è diventato presidente e il partito socialista con la stessa percentuale ha ottenuto il 53% dei seggi. Io avrei voluto quel sistema, con i collegi, ma c’è stato il veto di Berlusconi. Ma il doppio turno è una conquista importante e legittima la disproporzionalità. Al secondo turno uno dei due schieramenti prende almeno il 50% dei voti». Per Sartori l’Italicum è fuori dai sistemi occidentali. «È vero che il premio di maggioranza è una specialità italiana, come avviene già dal 1993 con i sindaci e poi con i presidenti di Provincia e Regione. È un sistema originale, ma questo non è di per sé un problema. Anche l’Australia ha un sistema che non si usa altrove ma che è ottimo». Non crede che l’influenza di Berlusconi su questa legge sia stata troppo forte? «Lui voleva il sistema spagnolo e non l’ha avuto. Non voleva il doppio turno e l’ha accettato. Voleva una soglia molto bassa per il premio e invece dal 33 e arrivata al 37%. Mi pare che di concessioni ne abbia fatte». Come si sente nei panni del «consigliere del principe»? «È responsabilità degli intellettuali dare un contributo per riforme utili al Paese. Nel passato ho assistito a riforme, come il Porcellum, sbagliate tecnicamente. Fui il primo a sostenere che i premi regionali al Senato erano una lotteria. Ma a quel tempo non avevo contatti diretti con i decisori. Una volta chiusa questa partita tornerò nel mio ruolo di terzietà a cui sono molto legato». Crede che sarà possibile? «Sono certo di sì. Ho accettato di collaborare a questa riforma perché il mio obiettivo, quello di Renzi e quello di Berlusconi coincidono: dare all’Italia un sistema in cui i cittadini scelgono il governo. Mi è stato più facile collaborare anche per clima bipartisan, e cioè per il coinvolgimento di Forza Italia. Non ho certo abiurato alle mie convinzioni». L’Italicum propone una scelta quasi diretta del premier. NoncredesiaunrischiovistochelaCostituzionenonprevedeilpresidenzialismo? «Il rafforzamento dei poteri del premier, con il potere di nomina dei ministri, è necessario e ci sarà in un futuro prossimo. Non è in questo pacchetto perché Renzi nonha voluto mettere troppa carne al fuoco. Questa riforma è un primo passo...». Mancanoperò i contrappesi... «Io credo che il nostro sia migliore del sistema francese, perché resta la figura del presidente della Repubblica come neutrale. E resta una flessibilità tipica del parlamentarismo: non essendo una vera elezione diretta, il premier può essere sfiduciato dalle Cameree sostituito. Dunque ritengo che l’Italicum possa funzionare anche a Costituzione invariata. Soprattutto se si riuscirà a cambiare il Senato prima delle prossime elezioni».

Repubblica 2.2.14
“L’Italicum spacca, è giusto così”. Renzi non vuol rincorrere nessuno
Le Monde dedica una pagina a Renzi. Il titolo è “L’uomo che ha fretta”
Il reportage sottolinea che il leader del Pd “non esita a scuotere le linee della sinistra”
Ma Cuperlo: guai se ci isoliamo
E Fioroni cita Maradona: pure a lui serviva la difesa
di Goffredo De Marchis


ROMA — Questo è quello che Matteo Renzi voleva ottenere con la nuova legge elettorale: la chiarezza sostanziale del quadro politico, una frammentazione ridotta al minimo. «E il bipolarismo, soprattutto», spiega ai fedelissimi. Perciò «non vedo perché dovrei preoccuparmi» se Pier Ferdinando Casini torna nel centrodestra. «Ho parlato con lui durante la trattativa sulla legge elettorale. So bene cosa pensa, qual è la sua posizione. Non sono mica sorpreso». Il segretario del Pd dice di aver messo nel conto alcune inevitabili manovre future della politica italiana. «D’altra parte, se vuoi il bipolarismo e spingi per ottenerlo come stiamo facendo noi, è chiaro, è normale che Casini sta di là».
I precedenti sono abbastanza chiari. Nonostante i molti tentativi dell’ultima campagna elettorale, l’Udc e il centro hanno fatto una fatica enorme a dialogare con il Pd. Fino alla rottura finale che portò alla nascita della lista Monti. Mille strizzate d’occhio di D’Alema e Bersani con Casini non hanno portato a nulla. E l’intervista a Repubblica certifica un’adesione elettorale e genetica di quel centro al centrodestra. Il punto infatti non è la scelta ddell’Udc. «È una ricaduta della riforma elettorale di cui prendo atto. Ogni modello di voto rappresenta una spinta a dinamiche aggregative», osserva il capo della minoranza Pd Gianni Cuperlo. Semmai il problema è quale forza di attrazione ha il Partito democratico. «Mi auguro che anche nel nostro campo — spiega l’ex presidente — si possa avere la stessa capacità di aggregare forze diverse». Una capacità che oggi appare indispensabile per arrivare alla soglia del 37 per cento oltre la quale scatta il premio di maggioranza. Per avere più chance nell’eventuale doppio turno.
In verità, il Pd parte molto avvantaggiato. I sondaggi lo danno almeno dieci punti sopra Forza Italia. Come dire: meno bisognoso di alleanze random.
«È così, ma la legge elettorale funziona solo se si è capaci di costruire alleanze. Veltroni prima e Bersani poi sulla scelta degli alleati hanno perso le elezioni», ricorda Beppe Fioroni. Critico verso l’Italicum, il deputato cattolico del Pd prova a immaginare come saranno gli schieramenti una volta approvata la legge frutto dell’accordo Berlusconi- Renzi, tanto più in un sistema sostanzialmente tripolare, con Beppe Grillo sempre nei dintorni del 20 per cento. «Vedo che la riforma ha già rispedito Alfano e Casini dal Cavaliere. Non mi sembra un buon inizio. È possibile che Matteo sia il nostro Maradona, ma anche Dieguito, per vincere, aveva bisogno della difesa. Il Pd va al governo solo se ha degli alleati al centro e alla sua sinistra. La cultura delle alleanze esiste anche nei sistemi bipolari ». Fioroni vede oggi solo la strategia dell’inglobamento. «Pensiamo di annettere Vendola che al contrario è furioso con noi. E pensiamo che basti eleggere qualche centrista nel Pd, Franceschini e Letta, per avere i voti dei moderati. Non basta,
credo».
Certo, il tema delle alleanze è lontano. Le elezioni Europee diranno meglio quali sono i partiti che attraggono voti più che sigle di forze politiche. Senza dimenticare che nell’area centrista di Scelta civica i montiani sembrano guardare a Renzi più che a
Forza Italia. Più vicino è invece l’esame della legge elettorale. La scelta di Casini, secondo Alfredo D’Attore, deve far riflettere il sindaco di Firenze e il Pd sull’impianto dell’accordo. «Così com’è favorisce Berlusconi. È sbilanciato verso gli interessi elettorali del Cavaliere». D’Attore spiega: «Il salva Lega e una soglia che permette ad Alfano di essere ottimista sul superamento sono dati oggettivi. E sono dalla parte di Berlusconi». Sel, l’altra gamba su cui si era retta l’alleanza a febbraio, invece si è allontanata dal Pd e nei sondaggi è a grande distanza dal 4,5 per cento necessario a entrare in Parlamento. «Ecco — dice ancora D’Attorre — non è possibile che Berlusconi salva Maroni e noi abbandoniamo Vendola al suo destino».

il Fatto 2.2.14
Nuovi poteri
La galassia del sindaco padrone del Pd
Eataly, Carrai & C. avanza il sistema Renzi
Biologna regala a Farinetti una Disneyland in campagna
72 ettari a dieci km dalla città
Il Comune ci ha messo 55 milioni di euro, Coop e fondazioni altri 45
Conta di portarci 10 milioni di turisti all’anno
di Carlo Tecce


La chiamano esperienza sensoriale. Non materiale. E sarà un olezzo di vacche, un profumo di mandarini, un impasto di pizza. E la mungitura farà il latte e il latte sarà mozzarella e la mozzarella sarà capricciosa e la capricciosa sarà fatturato. Un monumento a Eataly, in mezzo a svincoli e viadotti, a una radura larga e lunga 72 ettari, due volte il Vaticano. E il Colosseo sarà invidioso, Venezia e Firenze creperanno. E otto o nove, chissà dieci milioni di italiani e stranieri verranno qui. Dove la pianura bolognese s’ingrossa per i capannoni e le vetrate; la campagna sventrata ansima per il cemento, il legname, i pannelli fotovoltaici e d’acciaio. Ma Natale detto Oscar Farinetti, imprenditore con la passione per Renzi e il biologico di lusso, ha giurato: sarà la Disneyland per il cibo tricolore, datemi 100 milioni di euro, un treno veloce e vi porto 10 milioni di donne, bambini e uomini. E Bologna, la signora rossa sbiadita, s’è consegnata, disarmata, forse disperata.
LA SIGLA CAAB suona anonima. La politica l’ha creata vent’anni fa. E ci ha speso oltre 100 miliardi di lire. Caab è un mercato di proprietà pubblica, primo azionista il Comune (80%), che vive di notte e dorme di giorno, che distribuisce frutta e verdura, che incassa centinaia di milioni di euro, che fa lavorare 2000 persone, che sta a Bologna eppure non vicino a Bologna. La stazione centrale è lontana dieci chilometri e un binario morente è ficcato in qualche anfratto. Bob Dylan ha cantato qui per Giovanni Paolo II, era il ’97.
Anno 2012. I limoni e la bietola sono affari precari. E così Andrea Segré, presidente di Caab, ambizioso e renziano, fustigatore di sprechi alimentari (teorizza e pratica il consumo di yogurt scaduti), s’è inventato un acronimo più affascinante, doppio senso, doppio scopo: Fico, fabbrica italiana contadina, dove vendere e mostrare i prodotti. E Farinetti non c’era. Il sindaco Virgilio Merola, candidato da Pier Luigi Bersani e presto convertito a Matteo Renzi, osserva con l’entusiasmo di un vigile che incanala il traffico. E Farinetti non c’era. Il professor Segré, che insegna Agraria e frequenta la Leopolda di Renzi e che gestisce con profitto il Caab, fa un giretto che a Bologna è convenzionale: cooperative, fondazioni, mecenati, cattolici, agnostici. Ci vogliono dei milioni, non pochi, non troppi. Un mese di attesa, un anno e giorni, un anno e mezzo. E appare Natale detto Oscar Farinetti. Ovazione bolognese. Il padrone di Eataly fa un paio di visite e spiega come va il mondo: va verso Eataly. Distribuisce consigli non richiesti, calcola il flusso economico e occupazionale, invoca il piano di trasporto pubblico, pretende un convoglio per il Caab, promette, ringrazia e arrivederci. E il progetto di Fico diventa Eataly World: il Consiglio di amministrazione approva, il Comune di Merola ratifica. E quei giretti bolognesi, cooperative, fondazioni e l’ex massone Fabio Alberto Roversi Monaco, vanno in estasi. Plasmano una società e sganciano 45 milioni di euro. E annunciano contributi asiatici: Giappone, Azerbaigian, Cina. Il Comune, pronto, regala 55 milioni di patrimonio immobiliare. Ecco i 100 milioni che voleva Farinetti. Il vecchio mercato verrà dimezzato, stalle e serre saranno le trincee di protezione e il marchio di Eataly World avrà uno spazio equivalente a 50 campi da calcio, sarà maestoso e luminoso al centro di un parco agroalimentare da 80.000 metri quadri. Farinetti ha già previsto 30 ristoranti, 40 laboratori e 50 punti vendita. E ha garantito al notaio che ha officiato al concepimento di Fico che, non tardi, verserà la quota nominale di un milione di euro . Ma quel che incasserà Eataly World, fra tagliate di manzo e olive impanate, va a Eataly. Farinetti ha fretta. Vuole inaugurare il 1 novembre 2015, appena finisce l’Expo di Milano. Perché il modello contrattuale che verrà sperimentato per i sei mesi milanesi – fra tempi determinati, stagisti e volontari – sarebbe perfetto per il Fico, ovvero Eataly World.
Natale detto Oscar non è più ospite di Bologna: il capoluogo emiliano è ospite di Farinetti. Ha convocato una conferenza stampa a Milano, l’11 di febbraio, e gli intrusi saranno Segré e forse Merola. Le ruspe stanno per cominciare a smontare il Caab e i milioni pubblici e privati costruiranno Eataly World. Se va male, Farinetti se ne torna a Firenze. Se va bene, ci guadagna un sacco di denaro. Per pareggiare il bilancio ci vorranno almeno 5,5 milioni di visitatori, che comprano, che mangiano, che vanno e vengono in automobile.
IL PADRE NOBILE di Bologna, Romano Prodi, ha posto una semplice domanda: “E con i trasporti come farete, voi dispersi in campagna?”. Il dubbio di Prodi non ha contagiato il sindaco Merola, né la Confindustria locale, né Provincia né Regione. Peggio. È vietato criticare Farinetti e Eataly World. Soltanto Alberto Ronchi, assessore alla Cultura, s’è permesso di suggerire un po’ di riflessione. Per Farinetti è l’investimento perfetto: rischio d’impresa zero contro un sostegno pubblico che vale 55 milioni e una superficie da base aerospaziale. E mentre un dirigente ti indica dove fiorirà la zucca e dove toseranno le pecore, proprio lì, fra le prossime piante di peperoncino e di finocchio, scoloriscono una ventina di Filobus Civis. Dovevano salvare i pendolari bolognesi, non dovevano inquinare e neanche fare rumore. Straordinari. Poi un giorno Bologna s’è accorta che questi Filobus non potevano circolare. E li hanno buttati qui. Prima di un monumento a Eataly World, c’è un monumento alla memoria. Ma non è Fico.

il Fatto 2.2.14
Una replica da “Oscar”
“Che brutto lavoro che fate”


Entro il 2015, a 10 chilometri dal centro di Bologna, sorgerà il più grande punto vendita di Eataly in un'area pubblica da 72 ettari, grande il doppio del Vaticano. Il Fatto racconta, anche con un video sul sito, questa ambiziosa operazione, anche rischiosa, ma certamente vantaggiosa per il padre di Eataly, Oscar Fari-netti. Che interpellato, ha risposto: “Che brutto lavoro dover sempre parlar male anche delle cose belle. Non ti invidio”. Il centro agroalimentare ospiterà le strutture di Eataly con almeno 30 ristoranti, 40 laboratori e 50 punti vendita.

il Fatto 2.2.14
Qui si mangia
E Siena vuol dare a Eataly Santa Maria della Scala
di Tomaso Montanari


E ora tocca a Siena. Dopo aver accompagnato Oscar Farinetti in giro per la città, il sindaco di Siena Bruno Valentini (Pd, di osservanza renziana) ha detto che il complesso monumentale del Santa Maria della Scala potrebbe diventare un mega-supermercato di Eataly. E ora si aspetta che il sindaco risponda a una interrogazione, dei consiglieri comunali Andrea Corsi e Massimo Bianchini, che lo invita a render pubblico il progetto e ad aprire “una discussione sulla politica culturale del Comune di Siena con particolare riferimento al ruolo da assegnare all’antico Spedale senese”.
DARE UN SENSO ai duecentomila metri cubi dell’ospizio che nel Medioevo accoglieva i pellegrini che percorrevano la Francigena, e che oggi occupa l’ “acropoli” senese è una delle sfide del governo di una Siena orfana del Monte dei Paschi. Il progetto più sensato sarebbe trasformare la Scala nel Museo di Siena per eccellenza, portandoci la Pinacoteca Nazionale e altri musei, il dipartimento di storia dell’arte dell’Università insieme a varie biblioteche, da unire a quella di uno dei più importanti storici dell’arte italiani, Giuliano Briganti. Un progetto che non esclude certo spazi espositivi, caffè e altri luoghi pubblici. Un progetto capace di trasmettere un’idea forte di cittadinanza basata sulla cultura.
Ma fin dagli scorsi mesi ha preso quota un’alternativa commerciale. Molti segnali lasciavano pensare che anche la Scala sarebbe finita in mano a Civita, la più grande concessionaria nazionale di patrimonio culturale, presieduta da Gianni Letta. Attraverso una sua controllata, Civita gestisce già il Duomo e la Torre del Mangia, e mira a conquistare i musei delle contrade e l’assai discutibile Museo del Palio da costruire nell’ambito della candidatura di Siena a capitale europea della cultura 2019. Ma ora le cose sembrano cambiare: un po’ perché la Procura di Siena ha aperto un’inchiesta sulla gestione del Duomo, un po’ perché il vento renziano favolare la soluzione Farinetti.
SE DAVVERO Eataly riuscisse ad aprire dentro uno dei più importanti spazi storici italiani, si tratterebbe di una importate svolta simbolica nel processo di mercificazione di quello che la Costituzione chiama “il patrimonio storico e artistico della nazione”. Il nuovo negozio fiorentino di Eataly viene reclamizzato sui giornali locali con intere pagine come questa: “Eataly Firenze merita una visita anche solo per gustare ... il Rinascimento. Antonio Scurati, celebre scrittore e professore universitario, ha curato in esclusiva per Eataly un percorso museale che racconta i luoghi, i valori e le figure storiche che hanno contribuito al periodo artistico e culturale più fulgido di sempre. Chiedi l’audioguida al box informazioni”. Ma se il progetto del sindaco di Siena andasse in porto, Eataly non avrebbe più bisogno di mascherare un supermercato dietro un museo inesistente: sarebbe il museo a trasformarsi in supermercato. E possiamo solo immaginare cosa ne verrebbe fuori: una specie di Mall del Gotico, una Gardaland di Duccio, una Las Vegas di Simone Martini.
Ora Siena è a un bivio, deve decidersi: i suoi straordinari beni comuni monumentali possono ancora servire a formare cittadini, o devono trasformarsi in una fabbrica di clienti? Il Santa Maria della Scala sarà una 'piazza' della cultura o sarà un supermercato?
Se Eataly aprirà un negozio a Siena, i senesi avranno un altro posto in cui poter andare a mangiare. Ma se a Farinetti verrà consegnato il Santa Maria della Scala, allora sarà Eataly a essersi mangiato Siena, e i senesi.

il Fatto 2.2.14
Ascese
Giovani, ambiziosi e un tempo contro: ecco i cavalieri di Matteo
di Davide Vecchi


Siamo i più trasparenti di tutti, solamente il 27% dei finanziatori ha negato il consenso a rendere noto il nome”. Contattati telefonicamente i vertici della Fondazione Open ribadiscono l’effettiva trasparenza dei conti. Marco Carrai e Alberto Bianchi, l'imprenditore e l'avvocato accomunati dall’attività di fund raising per l’amico Matteo Renzi, hanno creato una rete di finanziamento dell’attività politica che non passa per soldi pubblici né rimborsi elettorali. Ed è vero che solamente il 27% dei portafogli che si sono aperti per accompagnare l’ascesa del rottamatore alla segreteria del Pd si è trincerato dietro la privacy. Ma la percentuale è riferita alle donazioni del 2012, escluse quindi quelle versate negli anni alle associazioni Link e Festina Lente prima. All’appello mancano circa 2,5 milioni. Un milione circa di fondi ricevuti nel corso del 2013 sarà con ogni probabilità dettagliati nel prossimo bilancio d'esercizio, il primo della Open dove, da novembre scorso, siedono, al fianco di Carrai e Bianchi, Luca Lotti e Maria Elena Boschi.
NEL TENTATIVO di mettere ordine alla trasparenza dell’ascesa renziana conviene soffermarsi sulle persone più vicine al segretario del Pd. Escluso Carrai, amico personale di Renzi, conosciuto nel 1996 quando il futuro sindaco aveva 24 anni ed era segretario del Ppi toscano poi confluito nella Margherita, gli altri sono stati reclutati pescando sempre nell’entourage degli avversari.
BIANCHI, BRILLANTE E GIOVANE avvocato, è presidente di Firenze Fiera fino al giugno 2006, nel 2009 è braccio destro di Lapo Pistelli alle primarie poi vinte da Renzi. I due hanno modo di conoscersi e Bianchi comprende il potenziale comunicativo del rottamatore, lo segue. Lo difende come avvocato di fronte alla Corte dei Conti e si impegna nelle associazioni prima e poi nella Fondazione. Figura anche come verbalizzatore a titolo gratuito dei Consigli di amministrazione del Maggio Musicale Fiorentino quando sovrintendente era Francesca Colombo. Nel gennaio 2013 l’allora ministro dei Beni culturali, Lorenzo Ornaghi, allontana Colombo e invia un commissario straordinario : Francesco Bianchi, fratello minore di Alberto. Noto nel mondo bancario internazionale, cresciuto tra JpMorgan e Citibank, Francesco siede nel Cda di Banca Popolare di Milano fino al 2011, ex direttore dello sviluppo strategico di Banca Intesa e oggi socio della società di corporate finance H7. E per mettere mano ai disastrati conti lasciati da Colombo serviva un manager. Alberto è anche tra i 16 finanziatori della fondazione Big Bang aggiunti il 17 maggio 2012. Anche Boschi ha lasciato il vecchio carro per saltare in corsa su quello di Renzi. Giovane praticante avvocatessa nello studio di Francesco Bonifazi, da quest’ultimo viene coinvolta nella campagna elettorale delle primarie a sindaco di Firenze del 2009 di Michele Ventura, ex vicecapogruppo alla Camera, religiosamente dalemiano e candidato con la benedizione di Pier Luigi Bersani che arrivò a Firenze per sostenerlo. Renzi fece di tutti gli avversari un sol boccone. E dall’entourage di Ventura prese Boschi e Bonifazi. La prima subito, nominandola in Publiacqua in attesa delle elezioni, il secondo invece arrivò con calma. Perché Bonifazi venne eletto in consiglio comunale e l’allora gruppo dirigente nazionale del Pd scelse di nominarlo capogruppo a Palazzo Vecchio per controllare proprio l’operato del giovane rottamatore. Come è finita? Con Bonifazi che fa l’autista del camper di Renzi in giro per l’Italia durante le primarie nel 2012 e, oggi, con l’incarico di tesoriere del partito. Ma non nella Fondazione.
CON CARRAI, Bianchi e Boschi, la quarta poltrona del consiglio direttivo è toccata a Luca Lotti. Classe 1982, Lotti è con Renzi dai tempi della Provincia di Firenze. Poi nell’ufficio del sindaco, ne diventa capogabinetto, ora è responsabile organizzazione del Pd. Attorno a Boschi e Lotti ruotano i piani politici dell’ascesa renziana, mentre Carrai e Bianchi ne seguono i destini finanziari. Garantendo il massimo della trasparenza e cercando di rimanere sempre in seconda linea. Ma la macchina del rottamatore è ormai nota e sono molti quelli che tentano di avvicinarla. Un po’ per complimentarsi dell’impresa un po’ per provare a farne parte. Nelle ultime settimane, per dire, anche Bisignani ha tentato di contattare le menti fiorentine. Finora senza esito.

La Stampa 2.2.14
Luca Ceriscioli sindaco di Pesaro
“Io, sindaco, non posso fare il segretario del Pd E perché Matteo sì?”
di Marco Bresolin

qui

La Stampa 2.2.14
L’azionista Mian
«Il segretario chiarisca il rapporto con L’Unità»

«A briglia sciolta potrei dire che sì, L’Unità è un po’ a rischio. In gioco c’è il cartaceo». Lo ha dichiarato l’azionista de L’Unità Maurizio Mian durante il programma Klaus Condicio, in onda su YouTube, alla domanda se l’edizione cartacea de l’Unità potrebbe chiudere. «Ovviamente spero di no ha proseguito l’imprenditore toscano -, però si sa che tutti i cartacei sono in difficoltà nel mondo». Mian ha anche parlato del rapporto tra L’Unità e Renzi, rispondendo alla domanda se il giornale debba smetterla «di attaccare il segretario del Pd». «Credo che il rapporto di Renzi con L’Unità sia una cosa che andrà senz’altro chiarita ha risposto -, c’è qualcosa da precisare perché la cosa è molto delicata: non vorrei essere impreciso, che le mie parole non venissero capite. Innanzitutto c’è una linea editoriale che è naturalmente del giornale e dei direttori del giornale e l’editore non può permettersi di togliere la libertà di questa linea. Quando siamo partiti con l’Unità c’era Colombo e anche al tempo di Colombo ci sono state delle dialettiche importanti».

il Fatto 2.2.14
Previsioni
Per l’editore l’Unità “è un po’ a rischio”


Maurizio Mian, azionista de l’Unità dichiara candidamente a KlausCondicio, trasmissione YouTube di Klaus Davy che “l’Unità è un po’ a rischio. In gioco c’è il cartaceo”. Poi ha proseguito con una serie di improvvidi paragoni: “Ovviamente spero di no, però si sa che tutti i cartacei sono in difficoltà nel mondo: Novella 2000 e Visto sono stati svenduti la scorsa estate (...). Ho sentito che in Inghilterra anche l’Independent è in seria difficoltà e rischia addirittura la bancarotta”. Infine Mian, non pago, parla del rapporto tra l’Unità e Renzi: “Credo che il rapporto di Renzi con l’Unità sia una cosa che andrà senz’altro chiarita”. E parlando del maggiore editore de l’Unità Matteo Fago, spiega: “Bisogna che questi due Mattei vadano in qualche modo d’accordo”.

l’Unità 2.2.14
La resistenza delle istituzioni
di Gianfranco Pasquino

Da qualche tempo, le istituzioni della democrazia italiana sono oggetto di un attacco esplicito, condotto senza nessuna conoscenza specifica e con una strategia tanto approssimativa quanto selvaggia. Saranno anche «guerriglieri meravigliosi», i parlamentari del Movimento Cinque Stelle, ma forse esclusivamente per le modalità volgari del loro attacco.
Un attacco rivolto al Parlamento e alla presidenza della Repubblica e ai legittimi detentori dei ruoli in quelle istituzioni. Quei guerrieri faranno poi i conti con gli esiti dei loro comportamenti, causati, è molto probabile, da mesi, quasi un anno oramai, di frustrazioni per non avere tuttora trovato il bandolo della matassa della rappresentanza politica che troppi milioni di elettori hanno incautamente affidato a «concittadini» programmaticamente inesperti. Con le frustrazioni sono venute le esasperazioni incontrollate. Già sottoposte a martellamenti tutt’altro che liberali che, ad esempio, non riconoscevano il principio cardine delle democrazie costituzionali, ovvero sfere di autonomia per ciascuna e tutte le istituzioni, già oggetto di una riforma costituzionale, quella del 2005, cancellata dal referendum del giugno 2006, le istituzioni italiane continuano a dare prova di notevole flessibilità e capacità di adattamento e risposta. Questo non significa che una buona riforma non sia utile a migliorarne il funzionamento. La Corte costituzionale ha supplito almeno in parte all’ignavia, non del Parlamento, ma dei partiti e dei loro dirigenti, stracciando (stralciando?) le parti peggiori della legge elettorale con le quale sono stati eletti i parlamentari nelle elezioni del 2006, 2008, 2013. Nonostante urla, grida e spintoni, il Parlamento ha iniziato l’esame della proposta di riforma elettorale e dà il chiaro segno di sapere proseguire, che non vuole affatto dire approvare il testo com’è, ma esaminarlo introducendovi le modifiche necessarie e possibili, anche molte. Nella tempesta di schiamazzi, la presidente della Camera ha opportunamente utilizzato lo strumento a sua disposizione, detto ghigliottina, necessario a superare un’impasse senza senso e senza scopo. In seguito ha anche, altrettanto opportunamente, richiamato il governo a evitare di eccedere nel ricorso ai decreti. È noto, però, che il problema non sta nelle manie di grandezza e di dominio del governo, né di questo né dei molti precedenti, ma nella struttura del bicameralismo tutt’altro che perfetto e proprio per questo da riformare, e nell’ipertrofia dei parlamentari stessi, sempre in egocentrica competizione fra Camera e Senato a mostrare di sapere scrivere il maggior numero e i più intelligenti degli emendamenti. Fare opposizione è difficile, un po’ dappertutto, non soltanto, come crede qualche commentatore «non comparatista», in Italia, ma gli spazi bisogna saperseli conquistare e nel Parlamento italiano, chi conosca il regolamento, le consuetudini e le pratiche, può fare molta strada. La tenaglia delle Cinque Stelle mira a colpire sia Montecitorio e Palazzo Madama sia il Quirinale. Dal 1994, anche se la memoria politica di nessuno dei parlamentari del Movimento Vaffa è in grado di giungere tanto indietro nel tempo, ad oggi, con stili pure molto differenti, i presidenti della Repubblica si sono fatti carico di supplire alle, talvolta drammatiche, carenze dei partiti e di un sistema di partiti frammentato e fluttuante. Attaccare, indebolire, paralizzare la presidenza della Repubblica significa inevitabilmente mettere in crisi uno degli assi portanti della democrazia italiana. Anche una rapida analisi preliminare delle accuse rivolte al presidente Napolitano per procedere al suo impeachment rivela quanto siano pretestuose. Laconicamente, riferendosi alla richiesta di procedere alla sua messa in stato d’accusa, il presidente Napolitano (non il «re», come afferma qualche improvvisato teatrante, poiché è stato democraticamente eletto e, persino contro le sue preferenze personali e istituzionali, rieletto), si è limitato ad affermare «faccia il suo corso». Vale a dire che la presidenza riconosce la sfera di autonomia del Parlamento e ha fiducia nell’esercizio di quella autonomia. Chiaro che chi si pone l’obiettivo, un tantino irrealistico, della conquista del cento per cento dei voti, trovando un ostacolo nella legge elettorale in discussione, non riesca neppure a capire che la democrazia parlamentare non contempla che la presidenza come istituzione venga asservita ai voleri di chi vince le elezioni. Alla fine della fiera, in attesa di riforme, non qualsiasi, ma intese a semplificare i circuiti istituzionali, a renderli più trasparenti e più efficaci, rimane che l’impianto complessivo della Costituzione italiana e la dinamica dei rapporti istituzionali hanno retto in maniera più che apprezzabile alle sfide sia dei tracotanti sia degli incompetenti. È una lezione sulla quale anche i più motivati dei riformatori dovrebbero riflettere e di cui dovrebbero tenere grande conto.

Corriere 2.2.14
Gli insulti dei 5Stelle
Fo: non mi piace il linguaggio pesante e gratuito ma la gente è con loro
di Massimo Rebotti


MILANO — Era il 19 febbraio 2013, a pochi giorni dalle elezioni politiche. Sul palco dei 5 Stelle a Milano sale il premio Nobel per la letteratura Dario Fo che alla folla grida: «Ribaltate tutto». 
Cosa pensa ora del comportamento dei deputati del M5S? Gli insulti, il parapiglia. Non hanno esagerato? 
«Penso che nella politica italiana è successo ben di peggio. Siamo il Paese in cui la politica non ha trattato per Aldo Moro, dove per liberare l’esponente della Dc Ciro Cirillo, sequestrato dalle Br, hanno affidato alla camorra i soldi per il riscatto». 
Parliamo di oggi e del Parlamento. 
«Si ricorda quando, in Parlamento, insultavano i senatori a vita? Gli dicevano: “Pannoloni!”. Non era molto tempo fa. Una totale mancanza di rispetto. E quello che si mangiò in Aula una fetta di mortadella ? E gli insulti alla ministra Kyenge? Cose ben più gravi». 
Qui ci sono state offese sessiste alle donne . 
«Non sono mai stato d’accordo tutte le volte che si è usato un linguaggio gratuito e pesante. Se facciamo l’elenco delle cose di cattivo gusto però non la finiamo più. La verità è che i 5 Stelle, da quando sono arrivati in Parlamento con quella quantità di voti, sono stati tenuti ai margini. E poi Casaleggio ha fatto anche un libro con tutti gli insulti che hanno ricevuto loro». 
Stavolta però a insultare sono stati quelli del Movimento. 
«Ci sarà stata qualche forma un po’ isterica, ma per litigare bisogna essere in due. Non vi viene voglia di gridare se i capi di Pd e Forza Italia fanno comunella? È indegno che il responsabile del Pd abbia incontrato, addirittura nella sede dell’ex Partito comunista, uno, Berlusconi, che non dovrebbe nemmeno essere più in politica. E non lo dico io, lo dice la sentenza. Loro invece ci hanno fatto un “contratto”, Silvio li ha incastrati». 
I Cinquestelle hanno chiesto l’impeachment per Napolitano. Lei è d’accordo? 
«Sì, secondo me hanno fatto bene. Ho sentito le loro motivazioni, Dicono che il capo dello Stato ha fatto cose gravi». 
In questi giorni è stata insultata anche la presidente della Camera che, tra l’altro, proviene dalla sinistra. 
«Arrivare dalla sinistra non significa niente. Ha usato la “tagliola” alla Camera, non era mai avvenuto. Hanno infilato dentro a un provvedimento sulle tasse un regalo alle banche. Ma nessuno ha qualcosa da ridire? Il fatto è che il M5S fa paura, è in crescita e la gente lo sostiene. Li vogliono far passare per dei baluba violenti, per gente che non controlla la testa. Dietro questa descrizione c’è la paura che hanno di loro. Ma io li ho conosciuti, sono preparati». 
Grillo li ha definiti i nuovi partigiani. 
«Non credo che i partigiani che conosco si offenderanno».

Corriere 2.2.14
Scenari, il sondaggio
Cala il gradimento dell’esecutivo
No a un governo di scopo Pd-FI
di Nando Pagnoncelli


Solitamente la prima fase di vita dei governi è sostenuta da un elevato consenso, la cosiddetta luna di miele, seguita da una flessione. Il governo guidato da Enrico Letta non fa eccezione: nei primi mesi di vita veniva apprezzato da circa il 60% degli elettori mentre oggi esprime gradimento il 45%, con una netta prevalenza di voti positivi tra gli elettori del Pd (64%) e ancor più tra quelli centristi e del Nuovo centrodestra (72%), mentre tra quelli di Forza Italia, M5S e tra gli indecisi e gli astensionisti prevalgono i giudizi negativi. 
L’apprezzamento del governo risulta più elevato tra le persone con più di sessant’anni e in particolar modo tra i pensionati e possessori di titolo di studio basso. Particolarmente critici con l’esecutivo risultano invece i lavoratori autonomi e le casalinghe, i primi alle prese con una congiuntura economica molto difficile, le seconde con la quadratura dei bilanci familiari. Le ragioni della diminuzione del consenso nei confronti dell’esecutivo sono da attribuire prevalentemente a due motivi: il primo riguarda l’uscita dalla maggioranza di Forza Italia, che attualmente rappresenta il secondo partito nelle intenzioni di voto; il secondo riguarda l’annoso problema delle riforme: nella situazione di perdurante crisi economica aumentano le aspettative di interventi che favoriscano la crescita, l’occupazione, la riduzione della pressione fiscale e il miglioramento del potere d’acquisto. Le misure finora adottate dal governo, sebbene apprezzate da molti, sono giudicate insufficienti e si vorrebbero interventi più incisivi. 
Ma il tema delle riforme è accompagnato da una grande contraddizione nell’opinione pubblica: la maggior parte le reclama a gran voce purché riguardino «gli altri»; le riforme, infatti, sono impopolari perché obbligano i cittadini a mettere in discussione le loro abitudini, i loro diritti acquisiti. Non è un caso che gli interventi sulle pensioni e sul mercato del lavoro promossi dal ministro Fornero nel 2012 abbiano determinato nel breve volgere di qualche mese un brusco calo di consenso (circa 20%) nei confronti del governo Monti che risultava sostenuto, al suo esordio, dall’apprezzamento del 64% degli elettori. 
Riguardo agli scenari politici futuri le opinioni si dividono: 54% auspica la permanenza del governo Letta (16% il più a lungo possibile, 38% almeno fino all’approvazione delle principali riforme istituzionali) mentre il 42% vorrebbe andare al più presto al voto (32% non appena approvata la nuova legge elettorale e 10% immediatamente, con quel che resta del Porcellum). Particolarmente favorevoli ad una prosecuzione del governo Letta, oltre agli elettori Pd (69%) e agli elettori centristi e del Nuovo centrodestra (79%), anche i pensionati (68%) e commercianti e artigiani (69%). Questi ultimi pragmaticamente auspicano che il governo faccia tutte le riforme necessarie prima di andare al voto (65%). Al contrario propendono per un rapido ritorno al voto gli operai (55%), i disoccupati (49%) e le persone intenzionate a votare il M5S (70%). 
Riguardo alla possibilità di un governo di scopo guidato da Matteo Renzi e sostenuto da Pd e Forza Italia prevalgono gli oppositori (il 39% paventa contrasti continui tra i due partiti) e gli scettici (il 33% ritiene che non cambierebbe molto rispetto ad oggi), mentre i sostenitori di questa ipotesi (24%) rappresentano una minoranza tra tutti gli elettorati con l’eccezione di quelli di Forza Italia che intravedono in tal modo la possibilità di andare al governo, far valere il proprio peso ed approvare più speditamente le riforme istituzionali. 
L’analisi del rapporto tra opinione pubblica e governo negli ultimi anni evidenzia un’elevata ciclicità: all’entusiasmo per il governo degli ottimati presieduto da Monti ha fatto seguito il desiderio di mettere da parte il governo dei tecnici per tornare ad un governo «politico»; a seguire, le «larghe intese» sono state considerate una scelta necessitata dal risultato elettorale (che imponeva un’alleanza per poter costituire una maggioranza di governo) e sono state inizialmente vissute con atteggiamenti positivi, come un’occasione per voltare pagina, lasciarsi alle spalle la dura contrapposizione tra centrodestra e centrosinistra degli ultimi vent’anni e mettere al centro l’interesse del Paese e la ricerca di punti di mediazione, di compromessi alti; oggi ciò che resta delle larghe intese mantiene comunque un consenso elevato, benché minoritario, ma prevale la percezione che si tratti di una convivenza obbligata, tenuto conto dell’attuale composizione delle Camere. 
All’orizzonte si intravvede una prospettiva di cambiamento, con nuovi protagonisti e nuove proposte: chi è fuori dalla mischia risulta sempre avvantaggiato, ma è opportuno considerare che l’aumento delle aspettative dei cittadini va di pari passo con la durata del consenso che ha tempi sempre più brevi. È il paradosso della politica moderna: rincorre il consenso evocando cambiamenti e riforme che, se adottate, determinano il rischio di vederlo evaporare.

Repubblica 2.2.14
Il bivacco dei manipoli accapato in Parlamento
di Eugenio Scalfari


PREMESSA: nell’articolo di domenica scorsa scrissi che Matteo Renzi non mi era simpatico riconoscendo però che forte della legittimazione ottenuta massicciamente alle primarie, era il leader del Pd e che la riforma della legge elettorale da lui proposta con Berlusconi aveva dato una salutare scossa all’intera situazione politica ed anche al governo, come lo stesso Letta ha riconosciuto.
Nel frattempo è però avvenuto un fatto nuovo, apparentemente di modesta importanza ma per me molto significativo: il Fatto quotidiano dell’altro giorno ha spedito un suo inviato a Firenze ed ha titolato il servizio dicendo che Renzi dal 2009 ha incassato 4 milioni di finanziamento da donatori privati attraverso eventi di vario tipo: banchetti elettorali, donazioni per primarie di partito e per elezioni alla presidenza della Provincia e a sindaco di Firenze. Si tratta di dazioni pienamente legittime ma si ignora il nome dei donatori. Il sospetto del giornalista è che i donatori siano stati ricompensati da appalti di favore e da altri benefici illeciti dei quali tuttavia il giornale che ha organizzato il servizio non dà alcuna prova. Insomma un attacco bello e buono con l’evidente intenzione di screditare il leader del Pd e lo stesso partito del quale è ormai il capo riconosciuto.
Fino a poco fa quel giornale gli era favorevole ma ora ha cambiato fronte in odio al partito da lui guidato.
Per me questo voltafaccia di chi finora l’incoraggiava a dividere il partito, è sufficiente a rendermelo simpatico, fermo restando alcuni errori della riforma elettorale da lui proposta, che spero saranno cancellati durante la discussione in corso alla Camera. Quanto al giornale in questione, i suoi nemici sono da sempre tre: Napolitano, Letta, il Pd. Chi li appoggia entra nel suo mirino. Perciò viva Grillo e abbasso chi gli si oppone.
Ecco un punto che mi sembrava meritevole d’esser chiarito. Fine della premessa.
***
Di Grillo ha scritto ieri il direttore del nostro giornale con una diagnosi con la quale concordo interamente. Un’opposizione dura e anche durissima è legittima in una democrazia parlamentare, purché non travalichi nella violenza dei suoi parlamentari che calpestano ogni regola e impediscono il funzionamento delle Camere e delle loro commissioni. L’aula «sorda e grigia, bivacco di manipoli» è un retaggio fascista e teorizzato dal fascismo. Nella sua visita-lampo di venerdì scorso a Roma, il guru del Movimento 5 Stelle ha invitato i suoi parlamentari a moderare le recenti intemperanze. Probabilmente si è reso conto di rischiare l’isolamento rispetto agli elettori che l’hanno gratificato di 8 milioni di voti nello scorso febbraio. I grillini finora hanno soltanto tentato d’inceppare il funzionamento del Parlamento. Null’altro. Odiano l’Europa, odiano l’euro, odiano la politica; fanno leva sul disagio economico per trasformarlo in rabbia sociale, aggrediscono in modo inqualificabile la presidente della Camera Laura Boldrini colpendola anche in quanto donna, danno del boia a Napolitano e lo accusano di tradimento della Costituzione. È diventato un vezzo quello di invocare la Costituzione per travolgerla da cima a fondo. Sono numerosi i giornali e le emittenti televisive divenuti amplificatori del verbo grillino. Il circuito mediatico ama le cattive notizie gonfiandole a dismisura e questo è un malanno grave: la dismisura che giova ai demagoghi e corrompe la pubblica opinione. Gli allocchi ci cascano e purtroppo sono numerosi nel nostro paese. La libertà è il valore più grande della vita associata e la demagogia è il suo nemico. Gran parte dei mali d’Italia proviene storicamente dalla vocazione demagogica, dal carisma che i demagoghi conquistano più facilmente nel nostro paese che altrove. Compito delle persone responsabili è di opporsi a quella vocazione che da molti anni e addirittura da secoli affligge questa nostra terra.
Bisogna conoscer bene le proprie debolezze prima di gettare il sasso sugli altri. Lo predicò proprio Gesù e chi si professa cattolico dovrebbe ricordarselo. Quanto ai laici questa dovrebbe essere la loro insegna naturale.
***
Dicevamo che la nuova legge elettorale con le firme di Renzi e Berlusconi è accettabile nell’impianto ma contiene numerosi errori e perfino qualche aspetto di dubbia conformità alla recente sentenza della Corte Costituzionale. Quali sono tali errori è evidente: gli elementi costitutivi debbono essere due, governabilità e rappresentanza. Il giusto equilibrio tra di essi non è facile e Renzi ha provato a raggiungerlo ma c’è riuscito solo in parte per le resistenze che il suo interlocutore gli ha opposto.
L’errore capitale è proprio questo: la governabilità ha gravemente mortificato la rappresentanza. Il gioco delle soglie ha creato questa situazione ed ha anche impedito la libertà di scelta degli elettori rispetto ai candidati da eleggere. Sono due errori molto gravi, solo in parte recuperati dal ballottaggio finale connesso con l’innalzamento del tetto da raggiungere per ottenere il premio di maggioranza dal 35 al 37 per cento dei voti espressi (meglio sarebbe portarlo al 40 o almeno al 38).
Con il ballottaggio gli elettori voteranno per la seconda volta scegliendo tra le due contrapposte coalizioni, ma questa recuperata sovranità del popolo è molto viziata dalla soglia del 4,5 che esclude i partiti della coalizione da ogni presenza parlamentare. Ecco il punto che mortifica il criterio della rappresentanza: i voti degli alleati sono essenziali per la vittoria d’una coalizione sul-l’altra, ma il premio di maggioranza va unicamente al partito egemone. Questa situazione non è tollerabile, si dovrebbe abolire interamente la soglia che esclude il seggio a chi ha fornito voti preziosi per la conquista del premio; si può vincere perfino con un solo voto in più, perciò la soglia non va soltanto diminuita ma abolita.
L’altro errore è la mancata scelta dei candidati eleggibili. Le liste piccole sono un vantaggio assai modesto per gli elettori. Forse conoscono i candidati scelti dai partiti, ma conoscerli non basta se non possono scegliere, se il capolista è meno gradito di chi lo segue nella lista, se tutto è scolpito dalle segreterie di partito.
Il solo vero risultato è quello di votare senza alternative una lista prefabbricata. Il solo vero rimedio è quello di votare in collegi uninominali, dove ogni cittadino possa presentarsi candidato purché ottenga un numero ragionevole di firme di presentatori. Così si realizza nel modo migliore la libertà di scelta mentre le preferenze contengono tutti i guai che ben conosciamo e limitano comunque la scelta ai candidati
presenti nelle liste, senza alternative di sorta. I collegi uninominali sono dunque la sola soluzione valida, ma Berlusconi si opporrà e il suo veto è il limite che Renzi non può superare.
La legge comunque, possibilmente emendata, non entrerà in vigore fino a quando il Senato non sarà stato profondamente modificato con legge costituzionale. Ci vorrà poco meno di un anno perché questo avvenga e quindi l’urgenza è figurativa, ma non sostanziale. Rappresenta tuttavia un elemento di stabilità del governo in carica e questo è un indubbio vantaggio per l’economia nostra e dell’Europa.
***
L’economia dell’Europa è in sofferenza per la crisi dei paesi emergenti che si aggiunge ed aggrava la debolezza della domanda e dell’occupazione in tutto il nostro continente.
I paesi emergenti registrano un’improvvisa fuga di capitali che indebolisce le loro monete e si indirizza verso il mercato americano in cerca di investimenti più vantaggiosi. Così dicono i commentatori ma c’è una contraddizione in questi flussi di capitale: il dollaro ha un cambio molto elevato nei confronti dell’euro ed anche di alcune monete di paesi come il Brasile, la Russia, la Turchia ed anche la Cina la cui moneta è solo artificialmente agganciata al cambio del dollaro.
L’afflusso di capitali vaganti verso Wall Street punta evidentemente su titoli di fondi ad alto rischio e non verso i titoli del Tesoro americano. Le aspettative della speculazione non sono in un ulteriore aumento del cambio del dollaro, ma i fondi ad alto rischio dove investono le loro risorse? Non certo sul dollaro. Allora dove? In realtà la speculazione, secondo il parere di molti operatori, pensa di deprimere con la loro fuga il cambio dei paesi emergenti per poi rientrarvi per lucrare la differenza di una speculazione al ribasso, si tratta d’un gioco antico e sempre ricorrente anche perché i fondamentali dei paesi emergenti non sono cambiati, crescono più lentamente, aumenta un po’ la loro domanda interna, ma questo non modifica la forza della loro emersione economica bensì i flussi delle importazioni ed esportazioni.
Per quanto ci riguarda, l’Europa e l’Italia dovrebbero accrescere le esportazioni ma hanno l’handicap del dollaro debole. Rispetto all’euro vale 1,35 e anche più. L’interesse europeo e italiano sarebbe che il dollaro scendesse verso l’1 o almeno verso l’1,10. Allora sì, la spinta della nostra domanda diventerebbe potente.
Comunque non siamo in deflazione e ce ne preserva un miglioramento ormai visibile e a quanto pare duraturo della produzione di industrie e di servizi. Purtroppo non si traduce ancora in un miglioramento dell’occupazione perché c’è larga disponibilità di impianti inutilizzati e quindi langue l’investimento privato. Quello pubblico potrà riprendere, così si spera, entro la metà di quest’anno quando il governo riuscirà ad ottenere dall’Europa un “plus” di risorse da investire e da utilizzare per un abbassamento sostanziale del cuneo fiscale. Questo è l’aspetto di maggiore interesse della nostra economia insieme alla indispensabilità dei contratti di lavoro aziendali, in mancanza della quale la crescita dell’occupazione sarà più lenta e la dislocazione produttiva più tentatrice. Tito Boeri ha descritto giovedì scorso con grande chiarezza quest’aspetto essenziale del problema.
Draghi farà — e sta facendo da tempo — il resto, sulla liquidità, sull’Unione bancaria, sulla Vigilanza, sul panorama del futuro e necessario sviluppo dell’Europa federata nei settori decisivi della vita associata.
Da questo punto di vista la stabilità del governo Letta è un punto per noi essenziale. L’ha capito anche Renzi e speriamo che non cambi idea. Ma Berlusconi può cambiarla, lui è abituato alla capriola. Meno male che Napolitano c’è.

il Fatto 2.2.14
La nuova Fca
L’Italia senza Fiat Le favole e la realtà
di Furio Colombo


Forse ricorderete certi giorni drammatici della crisi greca. Sembrava che non solo l’economia del Paese, ma lo Stato greco come istituzione fosse sul punto del fallimento senza ritorno. Spaventava una temuta analogia con l’Italia.
La risposta rassicurante è sempre stata: ma in Grecia non c’è la Fiat. Da più di un un secolo, generazione dopo generazione, ci siamo abituati a essere una grande potenza industriale, perché intorno alla Fiat era cresciuta un fitta distesa di imprese. Non parlo solo dell’immenso indotto (che poi, a sua volta, creava altri indotti in settori simili quanto a materiali e lavorazioni ma per prodotti diversi, lontani dall’automobile).
Anche la nostra immagine nel mondo era fatta di Fiat. Non solo perché non ci sarebbe stata Pirelli, senza Fiat, e non sarebbe durata fino ai nostri giorni la Ferrari senza Fiat. Ma perché la presenza, la continuità, l’internazionalizzazione della Fiat era una specie di garanzia vasta e implicita per ogni nuovo imprenditore italiano che debuttava nel mondo.
Suggerisco di non cadere nella trappola di immaginare – come consolazione e magari come vendetta – un’Italia che non ha mai avuto la Fiat. Possibilissimo. Forse ci sarebbero più verde, più treni, e meno autostrade. Ma il Paese non apparirebbe, come appare ora, improvvisamente e brutalmente mutilato. E forse, fino a questo momento, sarebbe apparso più piccolo e meno importante.
SI CONOSCONO esodi, anche drammatici, di grandi gruppi imprenditoriali da un Paese all’altro. Credo che il caso Fiat sia il primo che avviene non per cambio di proprietà, ma sotto la guida degli stessi azionisti che hanno deciso di vivere, pagare tasse, incassare dividendi, crescere e curare i loro affari altrove. È bene non dimenticare che la partenza Fiat avviene dopo avere abbandonato l’associazione degli altri imprenditori italiani, la Confindustria, dicendo al mondo che l’altra imprenditoria di questo Paese non è all’altezza.
Avviene dopo avere umiliato gli operai in parte cacciandoli, in parte dividendoli, ma lasciandoli quasi tutti in cassa integrazione, facendo sapere che costano troppo e che con loro uno bravo come Marchionne non intende trattare. Nel caso che qualcuno avesse in animo di investire in Italia, avrà il suo peso la lettera di raccomandazione dell’ad di ciò che è stata la Fiat agli imprenditori del mondo.
Ci dicono che alcune fabbriche della ex Fiat rimangono in Italia, e appena l’Italia sarà uscita dalla crisi riprenderanno a produrre. Anzi, all’Italia è stato assegnato il settore lusso, che è più remunerativo. Se vende.
Ma perché allora portare la Cinquecento torinese nell’America in piena ripresa, e far produrre a Torino Cherokee e Suv di stazza americana, come se stralunati cittadini italiani appena usciti (se, quando ne usciranno) dalla peggiore crisi dopo la guerra, avessero subito il desiderio di caricarsi il costo di macchine americane? Però se il settore, come è prevedibile, langue, sarà inevitabile dire: visto? Abbiamo fatto di tutto, ma gli italiani costano troppo e non vendono. Anno fiscale dopo anno fiscale (che si computa a Londra) le filiali italiane richiederanno, da un management saggio, ridimensionamenti adeguati.
Pensosi economisti diranno che è inevitabile e anzi dovuto in base alle leggi del mercato. E sindacalisti prudenti dichiareranno di volta in volta che, ancora una volta, nei limiti del possibile, sono stati salvati (indicare il numero sempre più piccolo) posti di lavoro. Nei limiti del possibile.
Si vede a occhio che quel “possibile” si sta restringendo da un pezzo. Niente investimenti, niente progetti, niente nuovo management, al posto di quello in partenza. In un prossimo, prevedibile e non lieto futuro, la “vittoria” dei sindacati sarà di avere salvato due stabilimenti su tre, poi uno su due. Alla fine si leverà un coro di sinceri apprezzamenti per i successi della Chrysler, una fabbrica americana di auto e motori dislocata a Detroit (Stati Uniti) con filiali nel mondo, tra cui l’Italia, con una proprietà coraggiosa (ha saputo sradicarsi dalla provincia costosa, che era una palla al piede) e perciò apprezzata dai mercati.
AVETE NOTATO? Questo testo, che intendeva far notare la ferita grave di un’Italia senza Fiat, (un Paese amputato della sua massima industria che, di colpo, perde paurosamente valore) è diventato un elogio di questa proprietà. Dopo tutto, potranno dirvi che, quando lo hanno deciso, annunciato e festeggiato non si è presentato neppure uno straccio di sottosegretario per sapere dove andava, e perché e con chi, l’azienda simbolo del Paese, allo stesso tempo garantita e garanzia dell’Italia. Dopo vicende del genere non ci sono mai ritorni. La tenaglia americana ti accetta, ma non molla.
   E poi quell’infelice nuovo nome, FCA, si legge male e suonerebbe imbarazzante in Italia. Non preoccupatevi. Qui, in terra di colonia, non dovranno mai pronunciarlo. A loro basta che si dimentichi che qui, ai tempi di Gianni Agnelli, c’era la Fiat.

il Fatto 2.2.14
I mille dimenticati di Rosarno
Dalla raccolta delle arance al campo improvvisato
Le tende del Viminale sono solo 50, il Quirinale ha mandato 450 coperte
Mancano acqua ed elettricità. Condizioni disumane
di Sandra Amurri


Esseri umani con occhi grandi e persi, cuore dolente e dignità negata. Questo sono i mille migranti costretti a vivere da due anni come quei sacchetti di plastica, quella carta straccia, quelle lattine arrugginite di pomodori che spuntano dalla montagna di spazzatura che circonda le loro tende. Di tende, in verità, con la scritta ministero dell’Interno ce sono solo 50, il resto sono baracche. Le hanno montate senza curarsi dell’acqua che manca e della luce che non c’è e non sono più tornati. Questi uomini non servono più. Le arance che raccoglievano nelle campagne attorno a Rosarno, per pochi euro al giorno vengono pagate troppo poco, meglio lasciarle cadere e usarle per concimare il terreno. Nessuna parola può bastare a raccontare quello che gli occhi vedono, il naso respira, le orecchie ascoltano arrivando in questa desolata periferia di San Ferdinando, a pochi chilometri da Rosarno. Arrivano dal Burkina Faso, dal Mali, dal Congo. Alcuni hanno il permesso di soggiorno, ci sono rifugiati, altri irregolari.
 HANNO la pelle nera e la luce nello sguardo ferito a morte. Molti sono giovani altri meno. Uomini di colore che non credono più alle promesse dei bianchi. E neppure a quelle di chi ha il loro stesso colore come la ministra Cécile Kyenge, del Pd, che quando è venuta da queste parti a ritirare un premio non ha trovato il tempo per donare un sorriso a questi fratelli; e alla richiesta di aiuto, rivoltale dal sindaco Domenico Madafferi, ha risposto con un “non posso fare nulla sono un ministro senza portafoglio”. Senza portafoglio e senza umanità, come se fosse stata nominata solo per rompere la monotonia del bianco nella compagine di governo. Alle promesse della presidente della commissione Antimafia Rosy Bindi, candidata blindata in Calabria che qui è venuta in campagna elettorale e una volta eletta ha dimenticato i loro volti e le loro storie. Almeno il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano di promesse non ne ha fatte. Senza rispondere all’accorata lettera inviatagli, un anno fa, dal sindaco ha incaricato una ditta di Firenze di consegnare 450 coperte. Gli altri 550 possono anche morire di freddo, chi se ne frega. Così, mentre a Roma trascorrono il tempo a pesare sul bilancino dell’interesse personale un grammo di preferenze, due etti di soglia di sbarramento, qui a solo un’ora di volo dalla Capitale, nella bellezza struggente del Mediterraneo, mille esseri umani vivono in un lager. Non ci sono i forni crematori, certo. Non hanno sulle braccia numeri impressi a fuoco. Ma il diritto negato alla dignità ce l’hanno tatuato nell’anima. Non sono stati condannati da leggi razziali, ma vivono in una terra senza legge. Sono liberi ma non di vivere. “Da poco sono riuscito a fargli arrivare la luce abusivamente”, spiega il sindaco Madafferi. Un signore di 74 anni che ha strappato la tessera del Pd, eletto con una lista civica arrivato dopo che per ben due volte il Comune (governato dalla destra e dalla sinistra) era stato sciolto per infiltrazioni mafiose. Un rappresentante delle istituzioni costretto all’illegalità per far tacere il suo cuore che non ce la fa più a sopportare il grido d’aiuto di queste persone. “Fai qualcosa per noi almeno tu, ti prego”, dice Akin quando vede passare davanti alla sua baracca con la bocca coperta dalla sciarpa per proteggere dal cattivo odore che sale dalle montagne di rifiuti, dalle pozzanghere putride, dai bagni biologici – anche questi allestiti dal ministero dell’Interno – che scaricano a cielo aperto. Non sa che il mio potere sta solo nella penna, magari mi confonde con Laura Boldrini, l’ex portavoce dell’Alto commissariato per i rifugiati, come molti di loro, che da presidente della Camera qui non si è ancora vista.
 EPPURE basterebbe così poco per restituirgli umanità. Poco più giù Geteye prepara il pranzo. Due pezzi di legna per riscaldare una piastra di ferro arrugginito, sopra due polli. Dentro la baracca, dove dorme, polli vivi chiusi nelle cassette della frutta. L’odore rende l’aria irrespirabile. Nella baracca accanto pezzi di carne coperti dalle mosche. Non hanno forchette. Non hanno piatti. Mangiano con le mani seduti per terra o su sedili di macchine abbandonate. Non hanno acqua potabile. E quella che c’è è gelida come l’aria che di notte spezza le ossa. Qualcuno lavora ogni tanto e ha bisogno di lavarsi. A vendergli per qualche euro acqua riscaldata dentro ai bidoni provvedono i fratelli più poveri. La povertà che aiuta la povertà più povera. Eh sì perché alla povertà, come alla vergogna e alla disumanità, non c’è limite.

l’Unità 2.2.14
Ci si lascia sempre di più, ma litigando meno
Così gli italiani vanno all’estero per divorziare
di Roberto Rossi


Franco e Zori la decisione l’hanno presa insieme. «Con mia moglie volevamo fare in fretta. Avevamo bisogno di definire le nostre vite sentimentali il prima possibile». Per loro, cinquantacinque anni odontotecnico della provincia di Lucca, lui, dieci anni più giovane, lei, il divorzio è stata una scelta sofferta, ma veloce: appena tre mesi. «Io volevo una vita mia, lei vive già con un altro uomo, perché aspettare?». Già, perché? Meglio divorziare subito, si sono detti. «Ci ho perso una giornata. Ho guardato un po’ su internet, mi sono fatto dei giri su alcuni forum femminili e poi ho deciso: andiamo a divorziare all’estero». Franco è uno dei tanti italiani che sta anticipando il legislatore. Da noi da tempo si sta discutendo la riforma dell’istituto del divorzio senza mai però arrivare a un punto di caduta. La commissione giustizia di Palazzo Madama, qualche settimana fa, ha dato un’improvvisa accelerazione con l’accordo di tutti i partiti. È stata individuata una relatrice, la democratica Rosanna Filippin (avvocato civilista che si occupa di materia familiare), per arrivare alla stesura di un testo condiviso che riveda le norme che regolano la fine del matrimonio. Che in Italia prevede un periodo di separazione di tre anni prima di accedere al divorzio vero e proprio. Sul piatto, per ora ci sono due proposte. Una a firma di Roberta Pinotti, che riduce la separazione obbligatoria per legge da tre a un anno, la seconda a firma del senatore socialista Enrico Buemi che cancella, con un solo colpo, tutto il periodo di separazione. «Che altro non è che tempo sprecato» dice Gian Ettore Gassani, presidente degli avvocati matrimonialisti. «Il 98% delle coppie che decide di separarsi non torna indietro. La separazione non serve a niente. È un insulto per chi vuole decidere sulla propria vita privata. In Italia siamo bloccati per questo due per cento». In Europa, invece, questo lasso di tempo dedicato alla riflessione sui destini di coppia non è ammesso, semplicemente non esiste. Tra i paesi comunitari solo Irlanda, Malta e Polonia lo contemplano. Gli altri no. Neanche la cattolicissima Spagna. Macome funziona? Dal punto di vista legale si sfrutta il regolamento 44/2001 adottato dal Consiglio europeo concernente la competenza giurisdizionale, il riconoscimento e l’esecuzione delle decisioni in materia civile e commerciale. E che, praticamente, consente a qualsiasi tribunale di un Paese Ue, tra le altre cose, di pronunciare una sentenza di divorzio purché i coniugi, anche se stranieri, vi risiedano stabilmente. Il gioco è, dunque, questo: si prende in affitto un appartamento in uno dei paesi comunitari scelti che certifichi la propria residenza temporanea e dopo qualche mese (dai due a sei) si va davanti al giudice con l’accordo firmato e tradotto e il gioco è fatto. Una volta ottenuto il divorzio basterà tornare in Italia e depositare l’atto nel comune dove si è contratto il matrimonio. L’ufficiale di Stato civile dovrà solo trascrivere la sentenza, tradotta e accompagnata da dichiarazione di fedeltà al testo originale. Franco, avevamo detto, è uno dei tanti. Ma quanti? Non si può rispondere con esattezza. Gli studi di avvocati contattati non danno dati sui loro clienti per motivi personali e professionali. Interrogare tutti i comuni d’Italia è impossibile. Una stima di massima, però, ce la fornisce ancora Gassani. «Negli ultimi sei anni le coppie che decidono di andare all’estero sono oltre 10mila. Ma il dato è in difetto. È semplice e non costa tantissimo: 3600-4000 euro circa. Serve la consensualità e una volta fatto l’Italia è costretta a recepirlo. Nessun problema di nullità, non c'è da discutere. Nessun passaggio in tribunale ». AFFARI Il business va talmente bene che in molti ci si sono fiondati. In Internet è un fiorire di studi legali che si dedicano a questo tipo di trattamento. Alcuni hanno registrato il proprio marchio, altri hanno deciso di affidarsi solamente alla Rete creando uffici virtuali. Per capire l’espansione del fenomeno basta digitare «divorzio» e affiancargli parole del tipo veloce, espresso, rapido, facile, breve, express. Alle volte basta un trattino per distinguere uno studio dall’altro. Franco, ad esempio, ha scelto il sito «Divorzio Rapido ». L'avvocato Luca Antonietti lo ha fondato nel 2011. Fiutando l'affare, ha creato un pool di giovani avvocati, mediatori e procuratori, che garantiscono un servizio completo. Il paese scelto è la Spagna, «anche per una certa affinità linguistica ». E anche perché «è quello che dà le maggiori garanzie di velocità». «Siviglia o Madrid sono le città che proponiamo». Il costo non è proibitivo. «Circa quattromila euro a coppia, volo escluso». Il business è talmente in crescita che ci si stanno buttando anche avvocati comunitari non di origine italiana. Tunde Noaghi di mestiere fa la traduttrice giurata di lingua italiana. Con l'avvocato Edit Andrea Vajda ha deciso di mettere in piedi insieme un sito specializzato per divorziare in Romania, a Targu Mures in Transilvania. «Siamo partiti da poco» ci spiega. Hanno organizzato pacchetti completi: aereo (daRomao Bologna), traduzione, residenza, e giudice. «La procedura di divorzio in Romania è regolata nel nuovo codice di procedura romeno all’articolo 914, Per potere accedere al Tribunale civile romeno è sufficiente che la coppia di coniugi italiani stipuli un contratto di affitto di almeno tre mesi. Nel momento in cui il contratto di affitto verrà registrato, la residenza sarà già effettiva e i coniugi italiani entreranno immediatamente in possesso di un domicilio temporale. Dopo un mese è quindi possibile iniziare la pratica di divorzio presso la sezione civile del Tribunale romeno. Nel giro dei successivi sessanta giorni sarà celebrata la prima ed unica udienza, nel corso della quale viene pronunciata la sentenza di divorzio definitivo valido in Italia». Qualcuno potrebbe obiettare che in realtà si tratta di una pratica quanto meno ortodossa. “Certo -ci dice Luca Ruggeri, avvocato di “Divorzio-facile” - abbattiamo i tempi e anche i costi del divorzio in Italiamanon si tratta di truffa. Si sfrutta una possibilità che la legislazione comunitaria offre. Non è mica colpa nostra». Tutto liscio, dunque. O quasi. Perché qualche intoppo c'è stato. In Inghilterra, ad esempio, lo scorso ottobre 180 coppie italiane sono state denunciate proprio per truffa. L'imbroglio è stato smascherato quando i funzionari giudiziari britannici si sono resi conto che, in 179 casi, una delle parti che chiedeva il divorzio aveva dato lo stesso indirizzo di residenza, in High Street, a Maidenhead, nel Berkshire. Indirizzo, tra l’altro, che non corrispondeva neanche a un'abitazione, ma a una casella postale. Il 180.mo richiedente, invece, aveva indicato una residenza a Epsom, nel Surrey. Naturalmente tutti i consorti vivevano in Italia.
I dati dell’Istat
Secondo l’Istat nel 2011 le separazioni sono state 88.797 e i divorzi 53.806, sostanzialmente stabili rispetto all'anno precedente (+0,7% per le separazioni e -0,7% per i divorzi). I tassi di separazione edi divorzio totale sono in continua crescita. Nel 1995 per ogni 1.000 matrimoni si contavano 158 separazioni e 80divorzi, nel 2011 si arriva a 311 separazioni e 182 divorzi. La durata mediadel matrimonio almomentodell'iscrizione a ruolo del procedimento risulta pari a 15anni per le separazioni e a 18 anni per i divorzi. L’età media alla separazione èdi circa46anni per i mariti edi 43per le mogli; in caso di divorzio raggiunge, rispettivamente, 47 e44 anni. Questi valori sono aumentati negli anni per effetto della posticipazione delle nozze in età più mature e per la crescita delle separazioni con almenouno sposo ultrasessantenne. La tipologia di procedimento scelta in prevalenza dai coniugi è quella consensuale: nel 2011 si sono concluse in questomodol'84,8% delle separazioni e il 69,4% dei divorzi. La quota di separazioni giudiziali (15,2% il dato medionazionale) è più alta nel Mezzogiorno (19,9%) e nel caso in cui entrambi i coniugi abbiano un basso livello di istruzione (21,5%).

l’Unità 2.2.14
Fecondazione assistita, non servono i polveroni
di Carlo Flamigni


DOBBIAMO ASPETTARCI NELLE PROSSIME SETTIMANE UNA CAMPAGNA DEI GIORNALI CATTOLICI CONTRO LE TECNICHE DI FECONDAZIONE assistita, rivolta a creare un po’ di polverone in vista delle prossime decisioni della Corte Costituzionale, chiamata a decidere sulle donazioni di gameti e sulle indagini genetiche sugli embrioni. In un articolo uscito il 30 gennaio su Avvenire, l’enfasi è tutta sul fatto che il mondo laico si illude pensando che qualche sentenza della magistratura favorevole alle indagini preimpianto possa avere qualche significato ai fini del riconoscimento della liceità di queste tecniche. Posso essere d’accordo, ma temo che l’analisi, come al solito, sia parziale e superficiale. Faccio riferimento a una sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo (seconda sessione, sentenza resa il 28 agosto 2012 in merito al ricorso «Costa e Pavan contro Italia») diventata definitiva dopo che è stato respinto il ricorso presentato dal governo Italiano. La questione era stata proposta da due cittadini italiani, entrambi fertili ma entrambi portatori sani di fibrosi cistica, una malattia che in questi casi si esprime come tale nel 25% dei figli, che lamentavano di non poter accedere alle tecniche di Pma e quindi alle diagnosi genetiche preimpianto in Italia. La sentenza stabilisce che la legge 40 viola l’articolo 8 della Cedu che sancisce il diritto al rispetto della vita privata e familiare di ciascun cittadino ed esclude ogni ingerenza dell’autorità pubblica nell’esercizio di tale diritto a meno che tale ingerenza non sia espressamente prevista dalla legge come misura necessaria, in una società democratica, a proteggere la salute, la morale, i diritti e le libertà degli altri cittadini. Esiste dunque, secondo la Cedu un difetto di coerenza nel sistema legislativo italiano riconducibile all’esistenza di norme che se da un lato vietano, in casi come questo, di trasferire i soli embrioni sani e non portatori di anomalie genetiche, selezionati dopo un accertamento diagnostico, dall’altro autorizzano ad abortire un feto affetto da quella stessa forma di patologia. Questa evidente incoerenza fa sì che l’ingerenza nel diritto dei ricorrenti al rispetto della loro vita privata e familiare debba essere considerata sproporzionata e non necessaria al raggiungimento degli scopi di tutela della morale, dei diritti e delle libertà di tutti. L’Italia viene dunque trovata colpevole di irragionevolezza, un giudizio basato sul riscontro di gravi incoerenze nelle varie disposizioni del suo ordinamento giuridico e la sentenza assume quella incoerenza come indice negativo dell’ingerenza dello stato nell’esercizio dei diritti dei cittadini, un indice definito come sconsiderato e improprio. È interessante ricordare che lo Stato italiano aveva fatto ricorso in quanto le vie interne alle quali la coppia aveva teoricamente accesso non erano state esaurite, e ci è stato spiegato come e perché questo ricorso sia stato dichiarato irricevibile dalla Grande Chambre. È bene anche non lasciar passare sotto silenzio una certa approssimazione dimostrata in alcune parti del documento, come ad esempio in quella che afferma che la legge italiana autorizza l’interruzione delle gravidanze nei casi in cui i feti vengano riscontrati affetti da gravi malattie genetiche o siano evidentemente malformati: ciò in realtà è inesatto, almeno nella teoria, anche se sappiamo tutti che è esattamente quanto accade nella pratica quotidiana. Dell’evoluzione delle interpretazioni in merito al divieto di eseguire indagini genetiche preimpianto ha scritto recentemente Antonio Vallini che ha ricordato come si desse inizialmente per scontato che la selezione preimpiantatoria degli embrioni costituisse un reato, ma che a questa interpretazione si è ben presto sostituita la consapevolezza dell’incompatibilità di questo divieto con gli articoli 3 e 32 della Costituzione. Ribadisco che la ricerca di malattie genetiche ereditarie funziona e come, con un errore inferiore all’1%, basta chiedere ai genetisti per una conferma. Non posso dire la stessa cosa per la ricerca delle aneuploidie, ma so che i gruppi di lavoro che se ne stanno occupando per conto delle Società scientifiche sono ottimisti. La mia opinione è comunque che bisogna aspettare con pazienza e fiducia. L’unica obiezione che ha un senso riguarda il fatto che con le indagini genetiche si distruggono embrioni: solo che la cosa non turba né me né miliardi di altre persone; anzi, a dire il vero, questa sofferenza per il povero embrione mi sa molto di superstizione (non porterà disgrazia?).

da La Stampa: «475.000 tombini sporchi. Su 500.000 tombini nella Capitale il Municipio è riuscito a pulirne solo 25.000»
l’Unità 2.2.14
Più cemento, poche fogne e a Roma il disastro è servito
Abusivismo e pochi soldi, La Capitale si prepara al peggio
di Mariagrazia Gerina


Il giorno dopo l’alluvione e in attesa delle prossime piogge, la situazione nella capitale si presenta così. «Stiamo distribuendo i bancali di sabbia per costruire delle trincee in caso nelle prossime ore ricominci a piovere», spiega dal fronte di Prima Porta, periferia Nord di Roma, Daniele Torquati, giovane presidente del XV municipio. Uno di quelli più colpiti dall’acqua che si è abbattuta sulla capitale l’altro giorno. Colpa della «marana» che si trova proprio davanti a Prima Porta. La stessa che tracimò nel 1965, portandosi via case pericolanti e baracche che la povera gente che si era costruita abusivamente. Stavolta, per fortuna non si piangono morti, mentre si ripuliscono le abitazioni dal fango. Ma la vicina parrocchia, una delle prime visitate da papa Francesco, ha accolto, nell’emergenza, una trentina di adulti e dodici bambini. Mentre altre due scuole sono state predisposte a Labaro per accogliere altri sfollati, se ce ne sarà bisogno. Sfollati, fango, frane. Ce ne sono state quattro solo in questo municipio. Un remake inaccettabile cinquant’anni dopo. E’ passato mezzo secolo e la Roma delle “marane” racconta da Pasolini è ancora lì. L’abusivismo è stato sanato, ma spesso solo sulla carta. «Abbiamo chiesto due volte ad agosto che fosse ripulita la marana di via Frassineto», denuncia Torquati: «nulla». E non è questione di «eventi straordinari e imprevedibili», che poi ormai tanto «straordinari» non sono più come i 130 millimetri di pioggia caduti a Roma l’altro giorno in dodici ore. «Via Frassineto si è allagata anche tre mesi fa, senza neppure fare notizia», racconta il minisindaco. «Qui è l’intero sistema idraulico che non regge». Altro che la manutenzione dei tombini, che pure il sindaco Marino giura di aver avviato per tempo. Certo, anche quella ci vuole. Ma vista dalla linea del fronte, quella delle periferie alluvionate e ricoperte di fango, la questione esplosa con la pioggia dell’altro giorno è parecchio più complessa. La manutenzione dei tombini serve a poco quando ci sono intere periferie che scontano decenni di abusivismo mai davvero sanato. Dove invece delle opere di urbanizzazione, è arrivato altro il cemento. «Un conto è avere qualche strada allagata, un altro è fronteggiare una inondazione vera e propria », spiega Maurizio Veloccia, presidente dell’XI municipio. Le sue trincee si chiamano Piana del Sole e Ponte Galeria, ex zone abusive e nuovi quartieri che si estendono con il loro carico di migliaia di abitanti tra l’agro romano e la famigerata discarica di Malagrotta. Come se non bastasse il puzzo della «monnezza», della vicina raffineria e dell’inceneritore di rifiuti speciali pure quelli finiti a bagno. Anche l’acqua che cade qui diventa nemica. I fossi che venivano utilizzati per irrigare le aziende agricole sono puliti male e non fanno defluire l’acqua. Così quando è iniziato a piovere gli argini hanno ceduto uno dopo l’altro. Quello principale che attraversa Piana del Sole è tracimato in tre punti. Ci sono voluti gli elicotteri, i gommoni e i blindati della polizia per portare soccorso alla popolazione e attraversare le strade sommerse d’acqua. Settanta persone hanno dovuto abbandonare casa. Una trentina di sfollati sono stati accolti nella palestra della scuola «Fratelli Cervi», gli altri hanno cercato rifugio dai parenti. Altri ancora si sono rifugiati nei piani superiori ma sono rimasti in trappola e il grosso del lavoro il giorno dopo è aspirare l’acqua con le idrovore dalle strade, dai seminterrati, dagli ingressi di case e palazzi ancora inagibili. «Quando non ci sono neppure le fogne il problema non è pulire i tombini», recita la fotografia impietosa che il minisindaco di Ponte Galeria scatta in mezzo al disastro. «Il risanamento delle ex zone abusive avviato nei decenni scorsi dalle giunte di centrosinistra si basava su un patto: sanatoria in cambio di oneri concessori che dovevano servire a pagare le fognature e le infrastrutture che non c’erano», spiega Veloccia. Solo che molte di quelle opere, anni dopo, non sono state realizzate. E più in fretta delle fogne ha fatto la nuova cementificazione. «Sanati gli abusi, sono state date nuove concessioni». Più cemento, più abitanti, stesso insufficiente sistema di smaltimento delle acque. E il disastro è servito. Ancora più apocalittico lo scenario ad Ostia. «L’asfalto per le vie del municipio non c’è più», prova a rendere l’idea con una immagine un po’ forte il minisindaco del X municipio, che si estende fino al mare. Alberi crollati, strade chiuse, intere zone finite sott’acqua. E anche qui sfollati un’ottantina di persone, ricoverate nelle palestre delle scuole. Andrea Tassone invoca lo stato di calamità. E interventi strutturali. Tra Stagni e Infernetto - due dei quartieri di Ostia più martoriati - negli ultimi anni «sono stati autorizzati 1, milioni di metri cubi di cemento», denuncia il Verde Angelo Bonelli, che qui vive da sempre. «Non basta bloccare i condoni come ha annunciato il sindaco Marino ». E i soldi? «Roma deve elaborare un piano straordinario di prevenzione del rischio idrogeologico e deve far rientrare tale questione all'interno del dialogo col Governo», suggerisce il capogruppo del Pd in Campidoglio, Francesco D’Ausilio: «Purtroppo la Legge di Stabilità per il 2014 ha stanziato soli 30 milioni per la difesa del suolo». Mentre il sindaco Marino fa sapere in serata: «Sto valutando, insieme alla mia Giunta, ogni possibile iniziativa che consenta a Roma di intraprendere rilevanti investimenti, superando i vincoli imposti dal patto di stabilità interno».

il Fatto 2.2.14
Non basta la pioggia, ci tocca pure lo scaricabarile tra sindaco ed ex
di Silvia Truzzi


UNA BOMBA d’acqua ha mandato in tilt una capitale di carta velina. L’avviso della Protezione civile, nel venerdì nero della città, recitava così: “A causa delle condizioni straordinarie del maltempo la Protezione Civile di Roma invita tutti i cittadini a limitarsi a effettuare solo gli spostamenti strettamente necessari'”. Un’alluvione lampo – ha spiegato il sindaco Ignazio Marino – che ha causato allagamenti, smottamenti, esondazioni, frane. Tutti quartieri hanno subito disagi, anche se la zona più ferita stata Roma Nord: a Prima Porta, travolta dal fango e dai detriti, alcuni cittadini rimasti isolati sono stati salvati dai vigili del fuoco e diverse case sono state allagate. Così, abbiamo visto sui siti e social network, una città letteralmente sott’acqua. Ma può la capitale di un Paese tecnologicamente avanzato ridursi a un colabrodo in poche ore? “Piove, governo ladro”, si diceva una volta mettendo maltempo e politica in una relazione paradossale, che però tanto paradossale non è.
“La giunta Marino e la Protezione civile non sono stati tempestive nel reagire a questa situazione. Il Centro operativo Comunale doveva essere convocato ieri”, ha detto l’ex sindaco Alemanno ai microfoni di una radio locale. “Nessuno ha la bacchetta magica per risolvere i problemi strutturali di Roma che risalgono ai decenni passati, ma la giunta Marino poteva fare sicuramente qualcosa in più per arginare il problema”. Secondo Alemanno, esperto del tema per aver provato a risolvere l’emergenza neve a mani nude con la pala, “le precipitazioni si conoscono già dal giorno prima”.
Tantissimi romani si sono lamentati su Facebook e Twitter (geniale l’hashtag #sottoMarino) perché l’emergenza è stata scoperta solo all’alba dello stesso giorno e dunque l’allerta è stata diramata tardi. Questa la risposta del sindaco: “È stato un evento eccezionale, secondo il Cnr ci sono stati 130 millimetri di precipitazioni”. Dunque si è fatto ciò che si poteva. Eppure il 27 agosto su Twitter Marino aveva annunciato la pulizia dei tombini perché un acquazzone no potesse mettere in ginocchio la città. Eppure – nota l’edizione romana del Corriere della Sera – il bollettino meteo sul sito del Comune, per la notte del 30 gennaio recita “piogge in intensificazione nella tarda notte”. E, su quello della Regione, la zona Nord viene classificata a rischio di quantitativi precipitazioni elevati. Il sindaco, poi, ha detto basta ai condoni, basta alle costruzioni in zone a rischio (idea sensata, ma del tutto inutile nell’emergenza) e il suo collega di partito Marco Miccoli ha risposto così alle critiche di Alemanno: “Con lui la città si sarebbe bloccata”
ECCO le accuse incrociate faranno imbestialire definitivamente i cittadini dopo che avranno finito di spalare fango dalle loro case. Non bastava ad Alemanno farsi vedere con la pala in mano a sgombrare un vialetto (da pochi centimetri di neve, per altro), non basta oggi a Marino il sopralluogo con gli stivaloni di plastica: la gente non sa che farsene di una politica immatura e autoreferenziale. O i problemi si risolvono, si prova a farlo con umiltà, oppure si cede il passo. Certo Roma è una metropoli piena di guai accumulati, appesantita co m ’è dalla presenza ingombrante della politica, ma lo scaricabarile è un esercizio di cui si è abusato troppo in passato: non fa che alimentare l’esasperazione di un popolo sfiduciato.
E continua a piovere.

Corriere 2.2.12
Le scelte rinviate nel Paese che frana
La cura che manca all’Italia dei disastri le frane sono 13 volte quelle dell’800
Tra abusi, omissioni e terreni completamente «denudati» dagli alberi
di Gian Antonio Stella


Una tabella dice tutto: nell’ultimo mezzo secolo le frane sono state tredici volte di più che nella seconda metà dell’800. O San Defendente non sa più fare il suo mestiere di patrono oppure, dato che i meteorologi escludono che siano avvenuti mutamenti epocali, è colpa di come l’Italia è stata gestita.
E sarebbe ora di ricordarcene non solo quando, come in questi giorni di diluvio, viviamo l’incubo di nuove tragedie. 
La statistica, elaborata da Paola Salvati e altri nello studio «Societal landslide and flood risk in Italy» e ripresa ne L’Italia dei disastri. Dati e riflessioni sull’impatto degli eventi naturali 1861-2013 , a cura di Emanuela Guidoboni e Gianluca Valensise, è chiara: tra il 1850 e il 1899 l’Italia è stata colpita da 162 frane più gravi, triplicate nel mezzo secolo successivo (1900-1949) salendo a 509 per poi aumentare a dismisura tra il 1950 e il 2008 fino a 2.204. Parallelamente crescevano morti e dispersi: 614 nella seconda metà dell’Ottocento, 4103 nell’ultimo periodo considerato. 
Certo, la registrazione degli eventi è probabilmente più curata oggi di un tempo. Ma proprio il passato deve essere di monito. Prendiamo la catastrofe di Sarno del 1998 che uccise 160 persone: prima che venisse giù un pezzo di montagna, c’erano state 5 frane in un secolo (dal 1841 al 1939) e 36 (una all’anno) dopo la seconda guerra mondiale. Eppure l’area aveva una densità abitativa sei volte più alta della media italiana. 
Giorgio Botta, ne L’Italia dei disastri , ricorda che «il grado di dissesto idrogeologico della Campania è il più grave tra quelli in atto nel Paese». E tra le cause di tanti disastri cosa c’è? Le colate di fango «prodotte da terreni completamente denudati dagli incendi dolosi che si ripetono ormai sistematicamente da anni». L’anno prima dell’apocalisse di Sarno, nel 1997, ne erano stati contati 1.486. E «gli incendi bruciano perfino le radici degli alberi, rendendo definitivamente sterile il suolo». 
E sempre lì torniamo, al monito, mezzo millennio fa, di Francesco Guicciardini: è vero «che le città sono mortali, come sono gli uomini», ma «essendo una città corpo gagliardo e di grande resistenza, bisogna bene che la violenza sia estraordinaria e impietosissima ad atterrarla. Sono adunque gli errori di chi governa quasi sempre causa delle ruine della città». 
Vale per le frane, per i terremoti, per le alluvioni. E se Roma ha passato momenti di apprensione per la piena del Tevere, Paolo Camerieri e Tommaso Mattioli ricordano nel libro citato che la città eterna è stata allagata un sacco di volte fin dai tempi più antichi e che dopo aver liquidato la deviazione del fiume come un’«opera superflua e troppo costosa» senza per questo fermare la spinta edilizia nelle aree a rischio «incrementando enormemente il livello di pericolosità dell’onda di piena», nel 13 a.C. ci furono «migliaia di morti». E ciò nonostante trent’anni dopo, in seguito a un’«ennesima alluvione catastrofica», come racconta Tacito, le divisioni sulle cose da fare divisero il Senato al punto che «si finì con l’accogliere il parere di Pisone, ossia di non fare nulla». 
Certo, non è facile fare delle scelte in questo campo. La stessa Venezia ci pensò trent’anni, prima di decidersi a costruire «un nuovo sboradore al fiume Po», cioè un canale che raccogliesse una parte delle acque del fiume. Alla fine, però, decise. E con i consigli di «otto pescadori» (accanto ai professori dotti e sapienti la Serenissima affiancava sempre gente dalla visione più pratica) costruì in quattro anni, coi badili e le carriole, quel grande canale lungo sette chilometri che tanti danni avrebbe evitato nei secoli a venire. 
Gli studi del geologo Vincenzo Catenacci dicono che «tra il 1948 e il 1990 ben 4.570 comuni italiani sono stati interessati da calamità di tipo idrogeologico, che hanno causato 3.488 vittime, di cui almeno 2.477 a seguito di frane e almeno 345 a seguito di inondazioni, nonché danni a carico dello Stato stimati in circa 30 miliardi di euro, rivalutati al 2010». E Marco Amanti ricorda che il progetto Iffi «contiene più di 480.000 eventi franosi censiti, il più antico dei quali risale al 1116». Eppure, finché non ci troviamo con l’acqua che uccide invadendo interi quartieri abusivi come a Olbia, finché non fa crollare le mura antiche di città come a Volterra, finché non tira giù i costoni facendo accasciare su un fianco i treni in Liguria, il problema della sistemazione del territorio viene rinviato, rinviato, rinviato. 
Basti ricordare la reazione dello stesso governo Letta alla risoluzione firmata da tutti i gruppi parlamentari che chiedevano uno stanziamento per il rischio idrogeologico «pari ad almeno 500 milioni annui». 
Risposta in finanziaria: 30 milioni. Un sedicesimo della somma richiesta. Nonostante la denuncia che «le aree a elevata criticità idrogeologica (rischio frana e/o alluvione) rappresentano circa il 10 per cento della superficie del territorio nazionale (29.500 chilometri quadrati) e riguardano l’89 per cento dei comuni (6.631)» e che «il 68 per cento delle frane europee si verifica in Italia». 
Scrive Claudio Margottini che «nei Pai (Piani stralcio per l’assetto idrogeologico) vengono individuati più di 11.000 interventi riconosciuti come necessari alla sistemazione complessiva dei bacini, per un fabbisogno di circa 44 miliardi di euro, di cui 27 miliardi per il Centro-Nord e 13 miliardi per il Mezzogiorno, oltre a 4 miliardi per il recupero e la tutela del patrimonio costiero. Di questi, circa 11 miliardi sono necessari per mettere in sicurezza le aree a più elevato rischio…». 
Eppure, come denuncia Monica Ghirotti, tutti i disastri già registrati «sono oggetto di una sorta di amnesia collettiva e diventano tema di dibattito anche politico solo quando irrompono nella cronaca quotidiana». Insomma, ci penseremo domani. E nel frattempo? Portiamo un cero a san Defendente…

Repubblica 2.2.14
L’amaca
di Michele Serra


È davvero singolare che nel paese detentore del più imponente e spiccio sistema carcerario del pianeta, gli Stati Uniti (vantano il 25 percento della popolazione carceraria mondiale), l’opinione pubblica sia così affranta per la condanna di miss Knox, e così indignata contro la giustizia italiana. Si capisce l’impatto mediatico della ragazza, che è bella e di modi raffinati, non come i tanti poveri ceffi da bassifondi che languono nelle galere americane perché non hanno i soldi per pagarsi un buon avvocato. Assai meno si capiscono i gemiti di orrore per un sistema giudiziario, il nostro, che in virtù del suo bizantinismo e delle sue lungaggini è a volte ridicolo, ma oggettivamente più lasco di quanto possa sperare il più radicale dei garantisti o il più contumace degli imputati.
L’impressione è che non tanto la giustizia italiana, ma il resto del mondo in quanto tale sia considerato indegno di giudicare un americano. E che eventuali crimini siano meno crimini se commessi da americani all’estero. Il pilota del caccia che nel 1998 tranciò il cavo della funivia del Cermis uccidendo venti persone venne giudicato negli Usa. Condannato a pochi mesi per intralcio alla giustizia e assolto per la strage. Wow!

l’Unità 2.2.14
Madrid, la marcia delle donne per l’aborto
In centomila da tutta la Spagna
Dalle Asturie è arrivato il «Treno della libertà»
In piazza slogan contro il governo: «Decido io, è mia la vita»
di Marisol Brandolini


Una tabella dice tutto: nell’ultimo mezzo secolo le frane sono state tredici volte di più che nella seconda metà dell’800. O San Defendente non sa più fare il suo mestiere di patrono oppure, dato che i meteorologi escludono che siano avvenuti mutamenti epocali, è colpa di come l’Italia è stata gestita.
E sarebbe ora di ricordarcene non solo quando, come in questi giorni di diluvio, viviamo l’incubo di nuove tragedie. 
La statistica, elaborata da Paola Salvati e altri nello studio «Societal landslide and flood risk in Italy» e ripresa ne L’Italia dei disastri. Dati e riflessioni sull’impatto degli eventi naturali 1861-2013 , a cura di Emanuela Guidoboni e Gianluca Valensise, è chiara: tra il 1850 e il 1899 l’Italia è stata colpita da 162 frane più gravi, triplicate nel mezzo secolo successivo (1900-1949) salendo a 509 per poi aumentare a dismisura tra il 1950 e il 2008 fino a 2.204. Parallelamente crescevano morti e dispersi: 614 nella seconda metà dell’Ottocento, 4103 nell’ultimo periodo considerato. 
Certo, la registrazione degli eventi è probabilmente più curata oggi di un tempo. Ma proprio il passato deve essere di monito. Prendiamo la catastrofe di Sarno del 1998 che uccise 160 persone: prima che venisse giù un pezzo di montagna, c’erano state 5 frane in un secolo (dal 1841 al 1939) e 36 (una all’anno) dopo la seconda guerra mondiale. Eppure l’area aveva una densità abitativa sei volte più alta della media italiana. 
Giorgio Botta, ne L’Italia dei disastri , ricorda che «il grado di dissesto idrogeologico della Campania è il più grave tra quelli in atto nel Paese». E tra le cause di tanti disastri cosa c’è? Le colate di fango «prodotte da terreni completamente denudati dagli incendi dolosi che si ripetono ormai sistematicamente da anni». L’anno prima dell’apocalisse di Sarno, nel 1997, ne erano stati contati 1.486. E «gli incendi bruciano perfino le radici degli alberi, rendendo definitivamente sterile il suolo». 
E sempre lì torniamo, al monito, mezzo millennio fa, di Francesco Guicciardini: è vero «che le città sono mortali, come sono gli uomini», ma «essendo una città corpo gagliardo e di grande resistenza, bisogna bene che la violenza sia estraordinaria e impietosissima ad atterrarla. Sono adunque gli errori di chi governa quasi sempre causa delle ruine della città». 
Vale per le frane, per i terremoti, per le alluvioni. E se Roma ha passato momenti di apprensione per la piena del Tevere, Paolo Camerieri e Tommaso Mattioli ricordano nel libro citato che la città eterna è stata allagata un sacco di volte fin dai tempi più antichi e che dopo aver liquidato la deviazione del fiume come un’«opera superflua e troppo costosa» senza per questo fermare la spinta edilizia nelle aree a rischio «incrementando enormemente il livello di pericolosità dell’onda di piena», nel 13 a.C. ci furono «migliaia di morti». E ciò nonostante trent’anni dopo, in seguito a un’«ennesima alluvione catastrofica», come racconta Tacito, le divisioni sulle cose da fare divisero il Senato al punto che «si finì con l’accogliere il parere di Pisone, ossia di non fare nulla». 
Certo, non è facile fare delle scelte in questo campo. La stessa Venezia ci pensò trent’anni, prima di decidersi a costruire «un nuovo sboradore al fiume Po», cioè un canale che raccogliesse una parte delle acque del fiume. Alla fine, però, decise. E con i consigli di «otto pescadori» (accanto ai professori dotti e sapienti la Serenissima affiancava sempre gente dalla visione più pratica) costruì in quattro anni, coi badili e le carriole, quel grande canale lungo sette chilometri che tanti danni avrebbe evitato nei secoli a venire. 
Gli studi del geologo Vincenzo Catenacci dicono che «tra il 1948 e il 1990 ben 4.570 comuni italiani sono stati interessati da calamità di tipo idrogeologico, che hanno causato 3.488 vittime, di cui almeno 2.477 a seguito di frane e almeno 345 a seguito di inondazioni, nonché danni a carico dello Stato stimati in circa 30 miliardi di euro, rivalutati al 2010». E Marco Amanti ricorda che il progetto Iffi «contiene più di 480.000 eventi franosi censiti, il più antico dei quali risale al 1116». Eppure, finché non ci troviamo con l’acqua che uccide invadendo interi quartieri abusivi come a Olbia, finché non fa crollare le mura antiche di città come a Volterra, finché non tira giù i costoni facendo accasciare su un fianco i treni in Liguria, il problema della sistemazione del territorio viene rinviato, rinviato, rinviato. 
Basti ricordare la reazione dello stesso governo Letta alla risoluzione firmata da tutti i gruppi parlamentari che chiedevano uno stanziamento per il rischio idrogeologico «pari ad almeno 500 milioni annui». 
Risposta in finanziaria: 30 milioni. Un sedicesimo della somma richiesta. Nonostante la denuncia che «le aree a elevata criticità idrogeologica (rischio frana e/o alluvione) rappresentano circa il 10 per cento della superficie del territorio nazionale (29.500 chilometri quadrati) e riguardano l’89 per cento dei comuni (6.631)» e che «il 68 per cento delle frane europee si verifica in Italia». 
Scrive Claudio Margottini che «nei Pai (Piani stralcio per l’assetto idrogeologico) vengono individuati più di 11.000 interventi riconosciuti come necessari alla sistemazione complessiva dei bacini, per un fabbisogno di circa 44 miliardi di euro, di cui 27 miliardi per il Centro-Nord e 13 miliardi per il Mezzogiorno, oltre a 4 miliardi per il recupero e la tutela del patrimonio costiero. Di questi, circa 11 miliardi sono necessari per mettere in sicurezza le aree a più elevato rischio…». 
Eppure, come denuncia Monica Ghirotti, tutti i disastri già registrati «sono oggetto di una sorta di amnesia collettiva e diventano tema di dibattito anche politico solo quando irrompono nella cronaca quotidiana». Insomma, ci penseremo domani. E nel frattempo? Portiamo un cero a san Defendente…

l’Unità 2.2.14
Germania, la destra contro i rom: «Ci invadono»
di Paolo Soldini


«La Romania è entrata nell’Unione europea con tutti i suoi Rom». Il capo del governo di Bucarest Traian Basescu è stato chiarissimo: la Romania non accetterà discriminazioni etniche nell’accettazione dei suoi cittadini in Germania, in Gran Bretagna e in tutti gli altri stati dell’Unione. È caduta così l’assurda pretesa avanzata da più parti sia a Berlino che a Londra di distinguere legalmente tra immigrati rumeni (e bulgari, perché il problema è comune) «normali» e immigrati di etnia rom: sono tutti cittadini con uguale dignità e uguali diritti, anche quando si recano in altri Paesi. Il principio dovrebbe essere pacifico,ma– fino alle perentorie parole che Basescu ha pronunciato a Berlino (e presumibilmente nei colloqui che aveva avuto prima con i dirigenti tedeschi) – non lo era affatto. L’idea che si possano discriminare i Rom inventando per loro regole e divieti che non valgono per i loro connazionali è abbastanza diffusa e il premier rumeno ha ricordato che qualcuno questa politica ha provato pure a metterla in pratica: l’Italia, al tempo del non rimpianto ministro dell’Interno Maroni, provò a rimpatriare d’autorità gli «indesiderati» di etnia rom e cittadinanza rumena. Con l’unico risultato che quasi tutti, appena scesi dagli aerei su cui erano stati caricati a forza, ripartirono per il Bel Paese, al cui governo le autorità di Bruxelles ricordarono con una certa rudezza gli obblighi derivanti dalle regole della libera circolazione all’interno dell’Unione. Dal 1° gennaio scorso sono caduti i limiti per i cittadini di Bulgaria e Romania, fissati al momento del loro ingresso in Ue nel 2007.
TIMORI D’INVASIONE Proprio questa scadenza ha sollevato in vari Paesi, ma soprattutto in Germania e nel Regno Unito, una sindrome da invasione del tutto irrazionale e ingiustificata, o meglio: spiegabile con le pulsioni populistiche delle destre dei due Paesi. Nella Repubblica federale a cavalcare la tigre è stata ed è prevalentemente la Csu, la sorella bavarese della Cdu della cancelliera Merkel. Da settimane è in corso una campagna contro gli «immigrati per povertà», che arriverebbero in Germania dai due Paesi balcanici con l’unico obiettivo di approfittare indebitamente delle misure del welfare tedesco: sussidi di disoccupazione, contributi per la maternità e via elencando. Sui muri di Monaco e delle altre città del Land compaiono manifesti in cui si minaccia: «Chi imbroglia vola via». La realtà è molto diversa. Secondo l’Ufficio federale del lavoro i cittadini rumeni e bulgari che vorrebbero emigrare in Germania sono non più di 180mila, oltre un quarto dei quali con titoli di studio alti: soprattutto medici e ingegneri, ma anche informatici, infermieri, operai specializzati. Secondo i ricercatori dell’Istituto per gli studi economici di Colonia il saldo tra la spesa per le prestazioni sociali che verrebbero erogate agli immigrati balcanici e gli introiti per lo Stato in termini di tasse e contributi sarebbe largamente positivo. D’altra parte, tutti gli istituti di ricerca concordano sul fatto che l’economia tedesca è in una fase in cui ha un forte bisogno di manodopera e il governo federale ne è ben consapevole, visto che promuove continue campagne di richiamo di stranieri, qualificati o meno.
Non si sa quanti dei 180mila in arrivo da Bulgaria e Romania sarebbero di etnia rom: numerose missioni inviate nei mesi scorsi in Romania per indagare sulla quantità di Rom intenzionati a partire per la Repubblica federale non hanno permesso di accertarlo. Certo, nessuno nega che qualche problema di integrazione delle comunità nomadi rumene e bulgare, comunque, si porrà, come peraltro si è già posto in altri Paesi, come l’Italia e la Francia, ma anche in Germania e in Austria, dove un certo flusso migratorio di gitani orientali si registra da anni. Ma i problemi sono del tutto gestibili e, soprattutto, le autorità dei due Paesi sono intenzionate a farsene carico. Basescu ha proposto a Berlino un programma di sostegno alle comunità rom in Germania. Bucarest potrebbe inviare forze di polizia, medici, assistenti sociali e soprattutto educatori e insegnanti che si prenderebbero cura degli emigrati di origine rom. Esperienze simili sono state già compiute, per esempio in Italia per quanto riguarda la collaborazione delle polizie, e hanno dato buoni risultati.

Corriere 2.2.12
Germania. Gauck e il tabù militarista
di Paolo Lepri


La Germania riflette sul futuro, facendo un grande sforzo per superare il passato. Senza naturalmente archiviarlo. Vuole essere meno «riluttante», se vogliamo usare una celebre definizione dell’Economist. Non può dire «no per principio», ha avvertito il presidente Joachim Gauck, quando si tratterà di decidere se le sue forze armate possano contribuire alla soluzione delle crisi mondiali. Certo, le tragedie del secolo scorso sono ancora relativamente vicine nel tempo, ma il complesso di colpa che ha pesato sulla proiezione internazionale tedesca può essere gradualmente affidato alla Storia. È apprezzabile come la maturazione di questa linea emerga da un dibattito che sta coinvolgendo la leadership tedesca nell’era del secondo governo di grande coalizione guidato da Angela Merkel. C’è chi ha puntato più sulla presenza diretta, come la ministra della Difesa Ursula von der Leyen, e chi ha parlato della necessità di «non lasciare soli» gli altri, come ha fatto il ministro degli Esteri Frank-Walter Steinmeier pensando per esempio all’impegno francese in Africa. La cancelliera ha compiuto una riflessione più generale, sottolineando l’opportunità di utilizzare in pieno, nel mondo, «l’influenza politica» della Germania. «Ci dobbiamo immischiare», ha detto, con il suo linguaggio sempre lontano dalle nebulosità intellettuali. Poi, alla conferenza di Monaco, l’intervento «alto» di Gauck, attento comunque a definire l’invio di soldati fuori dei confini nazionali «l’ultima risorsa». Tutto ciò può essere visto non solo senza timori, ma anche con molto interesse. Una Germania più «protagonista» fa bene ad un’Europa che ha bisogno di rimettere in circolo nuove energie. È un significativo passo in avanti sulla strada dell’integrazione, ancora molto indietro nel campo della Difesa, e per arrivare ad una migliore divisione dei compiti nello scenario internazionale con gli alleati americani. Diventati anche loro un po’ riluttanti.

il Fatto 2.2.14
Parigi
La “guerra di genere” francese che ossessiona l’ultradestra
di Luana De Micco


Sarà una manifestazione sotto alta sorveglianza, con 2.500 agenti di polizia schierati, quella che porterà nelle strade di Parigi oggi gli oppositori alla politica familiare del presidente François Hollande, ai minimi storici di popolarità. Torna in azione la principale associazione che ha guidato la lotta contro il matrimonio gay, la “Manif pour tous”, che riprende ora la battaglia contro l’estensione del diritto di procreazione assistita alle coppie di donne lesbiche. Ma si aspettano anche tanti militanti anti-aborto e genitori che chiedono al governo di rinunciare a insegnare nelle scuole una presunta “teoria dei generi sessuali”. “Nessun eccesso sarà tollerato”, ha messo in guardia il ministro dell’Interno, Manuel Valls.
DA LONDRA, anche il presidente Hollande ha lanciato venerdì un appello alla calma. Di fatto, domenica scorsa, il corteo promosso nella capitale dal collettivo “Giornata di rabbia” si è distinto per slogan razzisti e antisemiti ed è degenerato nella violenza, con 250 persone poste in stato di fermo.
Le migliaia di persone scese nelle strade provenivano dai movimenti più disparati, groppuscoli di estrema destra, parecchi cattolici integralisti, persino simpatizzanti del contestato comico Dieudonné, il cui show è stato vietato per antisemitismo.
È il ripetersi di tali disordini che il governo teme oggi dopo una settimana di accesi dibattiti intorno al nuovo progetto pedagogico “Ab-cd della parità” lanciato dal governo socialista in via sperimentale (e approvato dal 53% dei francesi), ma diventato il pretesto per i gruppi più conservatori e reazionari per una nuova, inquietante, guerra sociale a sfondo omofobico. Si accusa il governo di voler incitare i bambini a respingere la propria identità sessuale, di incoraggiare l’omosessualità, persino di voler introdurre la masturbazione nella scuola materna. In realtà il nuovo programma didattico intende insegnare l’uguaglianza tra i sessi ai più piccoli e abolire cliché duri a morire.
Ma intanto, sulla base di voci ed equivoci, lunedì scorso, un primo appello a boicottare le scuole lanciato da ambienti vicini all’estrema destra, e circolato sui social network, è stato preso sul serio da molti genitori, che hanno deciso di lasciare i figli a casa. Sui volantini distribuiti intorno alle scuole c’era lo slogan: “Vogliono fare di tuo figlio una femminuccia”. Il ministro dell’Educazione, Vincent Peillon, è intervenuto per denunciare “un atto di manipolazione grave e estremista”, ma le voci persistono e nuove “giornate senza scuola” sono già previste in diverse città.

Corriere 2.2.14
A Malta la cittadinanza è in vendita
La porta d’Europa si apre (ai ricchi)
di Maria Serena Natale


Cittadini si diventa, basta aver compiuto 18 anni e disporre di 650 mila euro in contanti, più 500 mila da investire. Succede a Malta, perla mediterranea 80 km a Sud della Sicilia, porta europea sulle rotte migratorie dal Nord Africa, Stato tra i più piccoli e densamente popolati del mondo. 
Secondo i calcoli dell’intraprendente premier Joseph Muscat, laburista quarantenne con studi economici tra Bristol e La Valletta, il nuovo piano del governo per attrarre nuovi cittadini porterà alle casse dello Stato fino a un miliardo di euro nei prossimi cinque anni, innescando una dinamica virtuosa a beneficio di scuole, sanità e occupazione. Più che sull’amore per i tesori paesaggistici e archeologici dell’arcipelago che nei secoli ha accolto fenici, greci, romani, arabi, normanni, aragonesi... l’esecutivo punta sulla capacità d’investimento degli aspiranti maltesi. Non è una prima assoluta, programmi per attirare capitali e investimenti esistono già in Paesi come Gran Bretagna, Spagna, Grecia, Cipro, dove però i criteri — come l’obbligo di residenza — sono più selettivi. 
Malgrado ogni singolo Stato Ue possa decidere in piena autonomia come concedere il passaporto, la flessibilità maltese ha richiamato l’attenzione di Bruxelles, tanto che la commissaria alla Giustizia Viviane Reding è intervenuta per ricordare che «non si vende» la cittadinanza europea — con l’annesso corredo di diritti, accesso al welfare e libertà di movimento in tutti i 28 Paesi dell’Unione (Malta ne fa parte dal 2004). Proprio sotto le pressioni europee, negli ultimi giorni il governo Muscat ha introdotto l’obbligo di residenza di almeno un anno e ha garantito che le candidature saranno esaminate scrupolosamente. Un tetto massimo di 1.800 passaporti, proposto nei mesi scorsi, non è stato invece approvato. 
L’opposizione di centrodestra non ha esitato a giocare la carta identitaria: «È come vendere l’anima che ci rende maltesi», tuona il leader nazionalista Simon Busuttil. Secondo i sondaggi oltre metà della popolazione è contraria al programma. «E i profughi che vivono qui da anni, lavorano duro, pagano le tasse? — si domanda Herman Grech del quotidiano Times of Malta —. Per loro niente passaporto. Concederlo solo ai ricchi è una forma di cinica xenofobia». Un dibattito che incrocia il nodo irrisolto dei migranti in fuga dalla sponda Sud, pronti a rischiare la vita sui traghetti d’anime del Mediterraneo, al centro di penose dispute tra Stati, respinti o rinchiusi nelle strutture di identificazione e permanenza preventiva — in stridente contrasto con i paperoni arabi, cinesi, russi e americani accolti a braccia aperte.

La Stampa 2.2.14
Ucraina
“Cristo e diritti umani. Questa rivoluzione salva anche voi europei”
Fra i pope, le Marianne e gli attivisti del “Maidan”:
“Ci avete abbandonati ma non capite che in questa piazza ci sono i veri valori dell’Europa”
di Domenico Quirico

qui

La Stampa 2.2.14
Sotto il velo, la Teheran ribelle
Il doppio volto della capitale, castigata in pubblico, eversiva dietro le mura di casa
di Francesco Rigatelli

qui

La Stampa 2.2.14
Non solo regime
Teodemocrazia al femminile
di Roberto Toscano


Se si fermasse per la strada un qualsiasi cittadino italiano e gli si chiedesse
cosa gli viene in mente quanto si dice «Iran», la cosa più probabile è che risponderebbe: ayatollah e chador.
Ora, gli ayatollah esistono davvero, e l’ayatollah numero uno, il Leader Supremo Khamenei, siede al vertice dello Stato. Tuttavia il sistema politico iraniano non è una semplice teocrazia, ma una contraddittoria teo-democrazia, in cui seppure entro certi limiti le elezioni, come dimostrato da quella che ha portato alla presidenza Hassan Rohani, sono reali, e certo più reali e contestate, per fare un esempio, del voto sulla nuova costituzione egiziana.
Ma la più semplicistica caricatura non si riferisce al sistema politico iraniano (che, si potrebbe dire, in fondo se lo merita) bensì alla società. Chi, come scrive, ha trascorso cinque anni in Iran può testimoniare dell’autentico stupore dei visitatori sia italiani che di altri Paesi nel riscontrare la clamorosa discordanza fra l’immagine della società iraniana con cui erano arrivati e la loro esperienza diretta.
Il nodo di tutte le contraddizioni, ma nello stesso tempo la riprova della ricchezza e varietà della realtà sociale e culturale dell’Iran, è la donna, sottoposta a limitazioni in tema di diritto di famiglia e di abbigliamento, ma pienamente attiva a tutti i livelli negli uffici pubblici, nella cultura e anche nel mondo produttivo.
Nelle strade di Teheran non si vedono solo chador, tenuta d’ordinanza che alcune donne scelgono volontariamente e che il regime islamico impone negli uffici pubblici e nelle università statali. Le altre portano l’hejab, un foulard che copre i capelli, in alcuni casi in modo del tutto simbolico, con generosi ciuffi che escono sulla fronte o spuntano sul collo: niente a che vedere con i rigorosi canoni dell’abbigliamento femminile nei Paesi arabi più conservatori.
Le limitazioni imposte dal regime in tema di stili di vita e abbigliamento hanno introdotto nella società iraniana un doppio livello, una schizofrenia comportamentale fra pubblico e privato, esterno e interno. Mentre negli ambienti più conservatori le donne mantengono anche in casa il capo coperto in presenza di uomini che non siano della famiglia, negli spazi privati della ampia classe media occidentalizzata le donne non esitano a togliersi il velo, e in pubblico, pur rispettando l’obbligatorio hejab, compensano la limitazione con un make up accentuato e sexy.
Ma al di là dell’abbigliamento, terreno di libertà più simbolico che sostanziale, la capacità delle donne iraniane di sfidare il potere maschile è sottile ma determinato, con una grande partecipazione alla vita culturale e professionale (sono molte le scrittici, pittrici, registe, architette). E non va dimenticata la politica, dove senza una forte partecipazione femminile non sarebbero state concepibili né la protesta del 2009 né la vittoria di Rohani del 2013.
Vi è molto di più, in Iran, oltre agli ayatollah e oltre i chador.

La Stampa 2.2.14
La danzatrice del ventre che vuole distruggere i Fratelli musulmani
Sama el-Masry è stata resa celebre da serie tv e film
di Maurizio  Molinari

qui

il Fatto 2.2.14
Elicotteri, mazzette e marò: “La trattativa esiste”
“Sonia Gandhi deve testimoniare”di Alessio Schiesari


La pena di morte per i due marò? È un ricatto”. A sostenerlo è Subramanian Swamy, ex ministro al Commercio e alla Giustizia e uno dei colonnelli del principale partito di opposizione indiano, il Bjp. L’obiettivo del ricatto è chiaro: il governo indiano starebbe tentando di legare la sorte dei due marò al processo di Busto Arsizio, quello che vede imputati i vertici di Finmeccanica per una presunta tangente da 51 milioni di euro, soldi che sarebbero serviti a convincere Nuova Delhi ad acquistare una nuova flotta di elicotteri Agusta. I destinatari della maxi mazzetta sarebbero le più alte sfere della politica indiana e il potente segretario di Sonia Gandhi, Ahmed Patel. Come raccontato dal Fatto due giorni fa, qualcuno nell’esecutivo indiano vorrebbe giocare entrambe le partite - marò e Finmeccanica - sullo stesso tavolo. Un’ipotesi che non sorprende l’opposizione locale: “Già quando il governo italiano ha tentato di impedire il ritorno in India dei marò, qui di trattativa si è parlato molto”. Questi i termini: “gli italiani avrebbero lasciato Sonia Gandhi fuori dal caso Agusta in cambio della liberazione dei fucilieri”, aggiunge Swamy. In quell’occasione però una sollevazione popolare ha costretto il Partito del Congresso (quello di Gandhi, attualmente al governo) a tornare sui propri passi e a costringere l’allora ministro degli Esteri Terzi a restituire i militari. Dopo quello che è successo un anno fa, “il governo sa che deve fare attenzione”, aggiunge Swamy.
La cautela è venuta meno il 10 gennaio: mentre la stampa indiana raccontava del coinvolgimento di Patel nel processo di Busto Arsizio, il ministro dell’Interno Sushilkumar Shinde ha cancellato due anni di rassicurazioni sul destino dei marò e ha minacciato il ricorso al “Sua Act”, la legislazione contro il terrorismo, che renderebbe possibile il ricorso alla pena capitale. “No, non è una coincidenza. È un ricatto”, attacca Swamy.
Anche sul coinvolgimento di Ahmed Patel tra i vertici Agusta e il governo indiano il leader del Bjp ha pochi dubbi. Il nome del plenipotenziario di Sonia Gandhi compare per esteso in una lettera e, con le sole iniziali AP, in una nota (in possesso della procura di Busto) dove sono elencati i pagamenti illeciti alle controparti indiane.
ORA SWAMY vuole portare i documenti, pubblicati in Italia da il Fatto e in India dal-l’Indian Express, al Cbi, la commissione indiana che si sta occupando della super-mazzetta: “Se non chiameranno Sonia Gandhi a riferire, mi rivolgerò alla magistratura ordinaria” .
Nonostante i bellicosi segnali da parte del ministero dell’Interno, non è affatto scontato che il governo di Delhi abbia la forza sufficiente per determinare le sorti dei due militari , in un senso o nell’altro. In primavera sono previste nuove elezioni e gli exit poll danno il partito di Gandhi e del premier Manmohan Singh dietro al Pjb. E la vittoria dell’opposizione potrebbe non essere una buona notizia per i due fucilieri. Uno snodo importante è previsto per domani, quando la Corte Suprema di Nuova Delhi dovrebbe esprimersi sulla possibilità di utilizzare la legge anti-terrorismo per incriminare Latorre e Girone. Il ministro degli Esteri, Emma Bonino, ostenta ottimismo e ieri, dalla conferenza di Monaco, si è detta sicura che il Sua Act (che prevede la pena di morte), “non si può applicare”.
 La titolare della Farnesina ha anche ripreso le parole di Giorgio Napolitano, definendo “sconcertante” la gestione indiana del caso. A due anni dall’arresto infatti non è stato definito nemmeno il capo d’imputazione e le indagini devono ancora concludersi. “Non è normale per una vicenda di questo tipo”, aggiunge Swamy. Il portavoce del ministero degli Esteri di Delhi però rimanda al mittente le accuse italiane: “Questo non è un caso normale. E dovreste ricordarvi che è stato il vostro governo a bloccare il processo. In ogni caso, presto si arriverà a una svolta”.

La Stampa 2.2.14
“Woody Allen abusò di me a sette anni”
L’accusa della figliastra sul NYT
Dylan Farrow, figlia di Mia Farrow oggi 27enne, denuncia il regista  in una lettera aperta sul giornale. Già nel 1992 accusò il patrigno di stupro

qui

La Stampa 2.2.14
L’Italia delle reliquie
Dove la fede autentica sconfina nel profano
di Giacomo Galeazzi

qui

La Stampa 2.2.14
Un legame spirituale che vive di fisicità
di Andrea Tornielli

qui

La Stampa TuttoLibri
Vittorino Andreoli:
“Giovani, contro i padri seguite Camus”
L’educazione (im)possibile?
“Quella del Nobel francese insegna a dire un no responsabile, in sintonia con i princìpi”
di Marco Neirotti


Abitiamo un teatro nel quale siamo spettatori, prigionieri, attori di una deriva morale nell’assenza di riferimenti. Divampano sconforto e inerzia come su una nave che si frantuma sugli scogli con capitani ubriachi di potere e denaro. Eppure si può reagire, ricostruire. Si ostina a provarci Vittorino Andreoli, psichiatra, autore d’una cinquantina di opere (saggi, narrativa, teatro), una vita a curare la follia, lenire la sofferenza dello spirito, analizzare i percorsi dei più incomprensibili delitti. Con L’educazione (im)possibile, in testa alle classifiche, Andreoli, «pessimista attivo», penetra senza schemi né ricette l’abbandono di quest’epoca massacrata dall’individualismo feroce, di questo mondo «senza padri», e ci accompagna a un recupero di punti fermi, stili di vita, senso della comunione.
Professor Andreoli, la sua pare un’accorata preghiera laica a un’educazione da ritrovare in noi stessi. Possiamo farcela se anche chi dovrebbe porgerla respira un clima tetro di sopravvivenza attraverso furbizia e talento nell’arrangiarsi?
«Dobbiamo ritrovarla, riconoscendo e accettando sé e gli altri. Vivere non è un’astrazione, insegnare a vivere è fare insieme, gestire sentimenti. E’ una prova d’orchestra, in famiglia come in classe come nel gruppo sociale».
Si è spenta l’autorevolezza. Con quali riferimenti, allora?
«Non facciamo confronti con il passato, sono cambiati gli strumenti, basta pensare al digitale. Si deve insegnare a usarlo, non proibirlo: toglierlo ai ragazzi è come togliergli il maglione perché noi non abbiamo freddo. La scuola dell’obbligo per prima, che ancora boccia chi deve andarci. Vogliamo accordare i violini o soltanto tirarceli dietro?»
Scuola e famiglia. Un continuo accusarsi a vicenda.
«E’ insopportabile che si continui a colpevolizzare e colpevolizzarsi. Se anche esistesse la madre perfetta non darebbe garanzie: nella crescita agiscono la scuola, i pari, la società, la tv, i social network. Soltanto tutti insieme possono educare».
La figura simbolo è quella del «padre».
«Il cui ruolo non è dare ordini e castighi. E’ essere esempio, aver coerenza. S’è scoperchiata l’immoralità di Tangentopoli, poi per vent’anni ha dominato la "cultura" dell’immoralità, volontà precisa di diffondere la tendenza a imbrogliare, con soltanto differenze quantitative. Come può un padre del genere dire al figlio di restituire subito i dieci euro al compagno?».
La nuova solitudine incomincia in famiglia?
«L’educazione muore là dove non si può parlare di sentimenti ma di emozioni soltanto. L’emozione è reazione a uno stimolo (come davanti al computer), il sentimento è un legame fra persone basato sulla fedeltà, che ha la stessa radice di fede. Gli alpinisti in cordata, legati sulla parete del Monte Bianco, hanno grande fede l’uno nell’altro. Oggi invece c’è dissipazione di sentimenti, a partire dalla famiglia: i figli non si vedono dentro una storia».
Eterna conclusione: non ci sono più valori.
«I valori portano un’eco che sa di economia. Io parlo di legami fondati su princìpi. Non è difficile trovarli. Vedo gente indaffarata tra mille telefonate e domando: quante a tuo figlio? Nessuna, non avevo tempo, nulla da dirgli. E chiedergli come va? Il legame è la presenza dell’assente».
L’individualismo è ovunque. Come superarlo?
«Passando dal successo dell’Io all’affermazione del Noi. Freud inventò l’Io, che contiene l’inconscio che condiziona l’agire. Dunque: curare l’Io per risolvere i conflitti. Oggi mi batto il petto. Non esiste l’Io, esiste in quanto esiste l’Altro, non c’è attimo in cui siamo Io. Sono stati scoperti i neuroni specchio, che si attivano quando siamo in contatto con l’altro, dunque siamo biologicamente fatti per l’altro».
Lei accusa la politica di calpestare questo rapporto.
«Il Parlamento dovrebbe essere Noi, invece è un gigantesco insieme di sovrastrutture dell’Io. Il delirio dell’Io ha ucciso la democrazia, non viviamo in una democrazia ma in un’autarchia o in un’oligarchia mascherata, dominata da soggetti con la sindrome di Caligola. Guardi un politico con mille volti nello stesso istante. La grandezza di Pirandello, "uno nessuno centomila"...».
I «padri» nella letteratura. Chi altri nei suoi scaffali?
«C’è lo psichiatra Eugène Minkovski con il suo "tempo vissuto". Per l’educazione dei giovani c’è L’uomo in rivolta di Albert Camus. L’uomo in rivolta è quello che dice no, ma soltanto dopo aver valutato la richiesta, incompatibile con i suoi princìpi. Ci sono tre modi di dire no. C’è l’opposizione feroce (faccio l’opposto per partito preso) ed è dipendenza al contrario. C’è la trasgressione, che nasce nel Carnevale di Venezia: dietro la maschera si poteva anche insultare il Doge, ma poi si tornava nei ranghi. E c’è la rivolta: non dire sì andando contro i princìpi».
I princìpi come libertà, non come gabbie.
«Altrimenti è la "libertà di uccidere uno sconosciuto". Pensi a Dostoevskij, ai Fratelli Karamazov. Dostoevskij è un caposaldo, lui stesso malato, di epilessia e di gioco, che si faceva prestare i soldi da un altro grande, Ivan Turgenev, l’autore del fondamentale Padri e figli».
Padri e figli, legame che genera ansia.
«Fu Italo Svevo, tra l’altro traduttore di Freud, il primo a parlare di ansia. La prima cosa è essere se stessi, come si è».
Lei auspica un «umanesimo della fragilità».
«E’ la via per un’educazione. Da una parte c’è l’uomo con i suoi limiti specifici, quelli della carne, dell’impossibilità di rispondere ai quesiti che lo angustiano, dall’altra il mondo, nella duplice veste della natura e delle relazioni umane. Un conto è la debolezza, dove la forza è diminuita, come nella vecchiaia, un conto è la fragilità, legata alle condizioni esistenziali. La fragilità dell’uno è necessaria a quella dell’altro».
Neghiamo il nostro limite definitivo, la morte.
«Grazie alla scienza l’abbiamo sostituita con la malattia. Il potente gira con due medici al seguito, perché la malattia si può vincere, la morte no».
Un quadro desolante, eppure «pessimismo attivo».
«Il pessimismo immobile è fatalismo, come l’ottimismo ad ogni costo. Perciò continuo a darmi da fare. Nella Peste di Camus il medico sa bene qual è la realtà, eppure resta lì, a curare».

l’Unità 2.2.14
Le trasformazioni del capitalismo
La crisi attuale come rottura di continuità nel sistema economico
Anticipiamo il nuovo saggio di Paolo Leon che affronta il fallimento del sistema capitalista partendo dall’analisi del modello rooseveltiano e delle riforme conservatrici di Reagan e della Thatcher


A PARTE GLI ECONOMISTI CLASSICI (SMITH, RICARDO, MARX), NON CONOSCO UN METODO CAPACE DI INDAGARE SULLA SPECIFICA NATURA DI OGNI TRASFORMAZIONE DEL CAPITALISMO, nonostante gli innumerevoli modelli che cercano, dopo aver abbandonato i classici, di spiegare, mimandolo, il comportamento dell’economia e dei suoi soggetti. Perciò, sono costretto a descrivere le istituzioni economiche del capitalismo nelle due epoche che ho vissuto direttamente: la prima, successiva alle politiche del New Deal, e la seconda, che parte dalle riforme conservatrici del Primo Ministro Thatcher e del Presidente Reagan, tra il 1979 e il 1981, e finisce (?) con la crisi del 2007-08. È impressionante l’espansione planetaria della crescita economica nel capitalismo post-Reagan- Thatcher, quando la netta inferiorità dello Stato rispetto agli interessi dei capitalisti avrebbe dovuto impedirla, se la giudicassimo sulla base delle istituzioni rooseveltiane. Non si possono paragonare periodi storici diversi, ma il confronto fornisce indizi corposi sulle trasformazioni del capitalismo, stilizzandole fortemente e osservandone le evoluzioni. Nel farlo, ho dovuto anche riferirmi alle vicende economiche e ai principali cambiamenti istituzionali dei due periodi; mi auguro che questo saggio non sia giudicato sul metodo storico, ma sulla verosimiglianza dell’ipotesi generale: che ogni capitalismo genera dinamiche al proprio interno che lo trasformano in un capitalismo diverso dal precedente e che tale diversità si vede nel rapporto tra capitalisti e Stato e tra diversi capitalisti. Saranno anche evidenti le differenze tra il capitalismo americano e quello europeo. Dal 1981 è accaduto qualcosa di paradossale e non previsto: il tentativo di controllare l’inflazione razionando l’offerta di moneta da parte delle banche centrali (moneta esogena) e tagliando il finanziamento monetario dei disavanzi pubblici, ha provocato una crescita gigantesca di moneta privata (endogena) che ha finanziato lo sviluppo dei Paesi emergenti, la crescita della cui produzione ha bloccato l’inflazione che sarebbe stata altrimenti provocata dall’aumento non controllato della stessa moneta privata. Questa moneta è debito che, infatti, può espandersi se cresce il valore del capitale che gli fa da garanzia («leverage»); ma questo valore cresce finché crescono gli indici dei mercati finanziari, e questi indici, a loro volta, crescono trascinati dalla domanda delle banche che ne hanno bisogno per estendere nuovi prestiti alla clientela, creando nuovo debito e nuovi debitori. L’economia fondata sul «leverage», ovvero sul rapporto tra debito e capitale, è una vera trasformazione del capitalismo, un evento che la Storia aveva già registrato, ma che nell’economia contemporanea aveva bisogno di alcune condizioni per prosperare. Da un lato, lo sfruttamento della forza lavoro nei Paesi emergenti, così da rendere conveniente l’investimento estero, che, però, avrebbe indebolito il potere contrattuale dei lavoratori nei Paesi ricchi e, di conseguenza, ridotto la domanda per consumi e il principale mercato di sbocco dei Paesi emergenti. D’altro lato, lo stesso «leverage» che, facendo crescere i valori della ricchezza delle famiglie americane ed europee (la casa, e non solo), consentiva loro, nonostante salari indeboliti, di aumentare i consumi trasformando in reddito la nuova ricchezza, ricostituendo così gli sbocchi per i Paesi emergenti. Questa straordinaria costruzione nasce dall’intervento dello Stato che deregolamenta il sistema bancario: la tesi, qui, è che la finanziarizzazione dell’economia mondiale è un risultato della necessità determinata dalla sostituzione del sistema bancario pubblico con mercati bancari e finanziari affidati alla concorrenza (monopolistica, ovviamente). Da allora, quello bancario non è più un vero sistema, ed è fatto di banche i cui depositi (o le cui riserve, al passivo nello stato patrimoniale) determinano gli impieghi (all’attivo) e hanno sempre bisogno di nuovo capitale (ed ecco che si affaccia l’accumulazione) se devono aumentare o solo continuare l’attività di prestito; con le riforme del New Deal erano invece gli impieghi (attivo) che determinavano i depositi (e le riserve, al passivo), e creavano tendenzialmente il capitale sufficiente a finanziarli (moltiplicatore dei depositi). Erano anche necessarie, perché il nuovo capitalismo funzionasse, la deregolamentazione del mercato della forza lavoro e la completa liberalizzazione dei flussi di capitale. Né lo Stato né i capitalisti erano consapevoli degli effetti delle nuove politiche, e hanno attribuito la crescita economica mondiale al «laissez faire », al merito individuale, all’egoismo. Il processo, infatti, avviene, non è stato né programmato né previsto: al suo seguito sono cambiate molte strutture economiche e la stessa geografia dello sviluppo. Se qualche economista aveva previsto la crisi di questo processo, non lo aveva attribuito a cambiamenti strutturali dell’economia mondiale, ma all’ingigantirsi di una misteriosa, quanto sorprendente, «bolla speculativa». Fenomeno osservato, ma non realmente capito. In particolare, gli economisti trattano il capitale come una grandezza finanziaria, che sparisce, insieme alla ricchezza, quando costruiscono modelli di equilibrio (perché il passivo è sempre uguale all’attivo, nei bilanci, e la ricchezza netta è sempre uguale a zero). Perciò, le crisi non sono ricondotte allo stato patrimoniale dell’economia nel suo complesso (ma è bene ricordare le notevoli eccezioni di Minsky, Godley, Graziani e degli economisti cosiddetti «circuitisti »). Il risultato è di ragionare in termini di conto economico e di ignorare che il passivo (il debito) nelle opportune circostanze genera attivi (credito) e conti economici sostanzialmente infiniti, che il debitore è causa del creditore, che la spesa è causa del risparmio, che l’investimento è causa del profitto. Questo è l’ambito delle crisi: come vedremo, la crisi recente non è parte di un ciclo che si ripete ogni tanto, ma una rottura di continuità nelle strutture del capitalismo, e le politiche per affrontare la crisi e la conseguente trasformazione economica, sono diverse da quelle necessarie per stabilizzare il ciclo. Mi rendo conto che, nel parlare di stato patrimoniale e di ricchezza, inevitabilmente si introduce il motivo dell’accumulazione; il termine è usato nel testo nel tentativo di far vedere la differenza tra motivo del profitto e motivo dell’accumulazione nelle imprese, nelle banche e nelle famiglie: le politiche Thatcher-Reagan hanno creato un nuovo tipo di soggetto finanziario, la cui sete di accumulazione è volta a speculare per accumulare, e non guarda al profitto, ma al valore crescente del proprio stato patrimoniale. Questa trasformazione crea conflitto tra capitalisti «reali» e finanziari, e può causare crescita e crolli, ma poiché non era nelle intenzioni delle nuove politiche economiche, si è aperto un vaso di Pandora. L’accumulazione d’impresa non è qui esplorata a sufficienza, è un fatto, però, che mentre l’economia postrooseveltiana è fondata sul profitto, quella postreaganiana è fondata sull’accumulazione: questa e il rapporto con lo Stato, sono le maggiori differenze tra i due capitalismi. Il crollo del 2007-08 apre scenari nuovi e certamente nuove trasformazioni del capitalismo (tra capitalisti, tra capitalisti e Stato). Il ragionamento in queste pagine non scorre come mi piacerebbe, e non è detto che quanto descritto per il passato sia sufficientemente preciso o completo: ci si scontra anche con la saggezza convenzionale. (...)Dopo il crollo del 2007-08, le politiche americane ed europee si divaricano, ma lentamente sembra che prendano piede quelle europee: tutte conservatrici, contrarie alla crescita attraverso l’intervento pubblico, senza riguardo per la disoccupazione, tutte a protezione dell’accumulazione, anche alterando il significato della globalizzazione. Gli esiti possibili sono qui rappresentati, ma l’esercizio non è una previsione e non è così robusto come il lettore vorrebbe.

Corriere 2.2.14
Gentile e la repubblica fascista, l’ultimo atto di una vita
risponde Sergio Romano


Desidero porle una domanda che riguarda la complessa storia di Giovanni Gentile. 
Se è vero che nel 1923 avallò 
il fascismo ritenendolo la logica conclusione del Risorgimento italiano, tanto da diventare ministro nel governo di Mussolini, credo che sia altrettanto vero 
che egli si adoperò successivamente a salvare tanti antifascisti dalle prigioni o dalla morte, così come, si adoperò negli anni che vanno dal 1940 in poi a prendere chiara posizione contro le leggi razziali . Si attribuisce 
a Giovanni Gentile il torto 
di avere aderito alla Repubblica di Salò, accettando anche la presidenza dell’Accademia d’Italia, gesto che comunque gli sarebbe costata la vita (fu assassinato dai Gap nel febbraio 1944 a Firenze). Ma vengo alla domanda: non ricordo la fonte, ma da qualche parte ho letto che Gentile avrebbe aderito alla Repubblica di Salò per pregare Mussolini di intercedere presso le autorità tedesche che tenevano prigioniero un suo figlio. La voce, se confermata, darebbe una giustificazione umana al comportamento di Gentile. 
Vincenzo Aguglia

Caro Aguglia, 
I l figlio a cui lei si riferisce è probabilmente Federico, internato in Germania dopo l’8 settembre 1943. Ma fu autorizzato a tornare in patria soltanto dopo la morte del padre, nel 1944, e non fu certamente il motivo della adesione di Gentile alla Repubblica sociale. Le ragioni, a mio avviso, furono due. La prima fu il suo personale rapporto con Mussolini. Gli era rimasto fortemente legato anche quando non aveva condiviso le sue scelte politiche (come nel caso delle leggi razziali) e non voleva fargli mancare la solidarietà nel momento più critico della sua vita. Fu questo il senso della visita che fece a Salò il 17 novembre 1943. La seconda ragione fu strettamente nazionalista. Gentile aveva reagito allo sbarco degli Alleati in Sicilia, il 9 luglio 1943, nello stesso modo in cui aveva reagito alla rottura del fronte a Caporetto nell’ottobre del 1917. Dopo l’8 settembre traspose nella realtà del momento le vicende del 1918 e sperò che l’Italia avrebbe reagito alla disfatta con un soprassalto d’unità nazionale. Credette anche (e questo fu probabilmente il suo maggiore errore politico), che Mussolini, dopo la fuga al Sud del re e di Badoglio, fosse il solo uomo capace di realizzare il miracolo. Quando questi gli chiese di presiedere l’Accademia d’Italia, accettò quindi di mettere la sua voce, le sue doti di conferenziere e la sua personale autorità al servizio di una guerra che, nella sua ottica nazionalista, avrebbe restituito all’Italia l’onore perduto. 
Questa non significa che la sua presenza al vertice culturale del regime fosse gradita al fascismo radicale e giacobino, una delle maggiori componenti della ideologia Repubblica sociale. Ai “giacobini” non piaceva che Gentile si valesse della sua amicizia con Mussolini per predicare concordia, moderazione, tolleranza e condannasse la brutalità della repressione. Gentile sapeva che molti intellettuali antifascisti, militanti nella Resistenza, erano stati suoi allievi alla Scuola Normale Superiore e che alcuni di essi avevano addirittura trovato nella sua filosofia i principi da cui avevano preso spunto per una conversione al comunismo. Nel suo discorso in Campidoglio del 24 giugno 1943, li aveva definiti «corporativisti impazienti». 
Non sorprende quindi che in alcuni ambienti fiorentini la sua morte fosse attribuita alla famigerata banda di Mario Carità. Ogni possibile equivoco fu comunque dissipato da una nota che Palmiro Togliatti pubblicò sull’Unità di Napoli pochi giorni dopo la morte. Il leader del Partito comunista italiano definì Gentile «traditore volgarissimo», «bandito politico», «camorrista», «corruttore di tutta la vita intellettuale italiana».

Corriere La Lettura 2.2.14
Cern , allo zoo delle particelle La sfida è la supersimmetria
Solo il 5% dell’universo è noto. E il resto?
Caccia aperta a fotini, squark e neutralini
di Giovanni Caprara


Camminare tra i laboratori del Cern, il Centro europeo di ricerche nucleari di Ginevra, significa compiere un viaggio nella storia della fisica. I vialetti sono dedicati ai nomi rimasti impressi nella nostra memoria scolastica: si incontrano tutti, da Democrito a Einstein fino a Oppenheimer, da Planck a Born e Fermi. Personaggi appartenenti a una scienza emersa in tempi e luoghi diversi. Ma ora ciò che si percepisce è che la fucina della nuova fisica e della futura spiegazione della materia di cui siamo fatti noi e le stelle (e delle forze che la tengono insieme) sia proprio qui: a cavallo del confine tra Svizzera e Francia dov’è cresciuta una città della ricerca che ha persino evocato fantasie cinematografiche estreme e terrificanti. 
Nelle sale dove il silenzio è rotto solo dal brusio dei computer è scaturito Angeli e demoni di Dan Brown, portato sullo schermo da Ron Howard, immaginando addirittura una bomba di antimateria trafugata da un laboratorio e portata in Vaticano dalla setta degli Illuminati per distruggerlo. E in una direzione ancora più catastrofica andava qualche fantasia umana nei giorni in cui si accendeva il più potente acceleratore mai costruito, il Large Hadron Collider (Lhc), nel settembre 2008, quando sul web correva voce che lo scontro dei protoni nel suo anello potesse generare buchi neri capaci persino di distruggere la Terra. Invece, ascoltando gli scienziati del Cern, i rivoli neri di alcune menti si trasformano in sogni affascinanti, quasi fantascientifici. Perché i loro pensieri inseguono una realtà straordinaria che abbatte le cognizioni del passato, offre tracce e conferme di idee a lungo coltivate, proiettandoci verso intuizioni prima impossibili. 
La conferma che siamo alle soglie di un cambiamento profondo che entusiasma non solo gli scienziati, è stata la scoperta al Cern — dopo un’acerrima battaglia con il Fermilab americano di Chicago — del bosone di Higgs, teorizzato mezzo secolo fa e ora riconosciuto con il Premio Nobel a due dei suoi padri: il belga François Englert e il britannico Peter Higgs. «Il bosone — racconta a “la Lettura” Sergio Bertolucci, direttore scientifico del Cern — è stato un passo fondamentale perché ha completato il Modello Standard, cioè la teoria che spiega l’architettura dell’intimità della materia. Tuttavia sappiamo quanto sia limitata e incompleta, perché spiega meno del 5% del mondo che ci circonda. E il resto è formato al 25% da materia oscura e per il 70% da energia oscura, entrambe battezzate “oscure” perché non sappiamo di che cosa si tratti. Il Modello Standard, poi, non comprende la gravitazione: non riusciamo a capire perché sia così debole rispetto alle altre forze della natura; non spiega perché la massa del bosone di Higgs sia così bassa; né dove sia finita l’antimateria che all’origine dell’universo doveva essere presente tanto quanto la materia nota». 

Per questo nei laboratori ginevrini hanno organizzato numerosi esperimenti e costruito svariate macchine al fine di decifrare i complicati segreti e arrivare a un disegno più corretto. Talvolta apparentemente distanti nei loro obiettivi, queste indagini si presentano oggi, sessant’anni dopo la nascita del Cern, come tanti fiumi di esplorazione che corrono verso un unico mare, dove la nozione di una particella nascosta nell’atomo aiuta a cogliere l’infinità dell’universo: «Ogni esperimento affronta un aspetto del puzzle e il nostro compito è metterli insieme, trovare un legame comune», aggiunge Bertolucci. 
Importanti risposte si aspettano dal Large Hadron Collider perché nessuna macchina è stata capace di raggiungere la sua energia, grazie al violento scontro di immense nubi di protoni accelerati quasi alla velocità della luce, riproducendo così le condizioni dell’universo appena un decimo di miliardesimo di secondo dopo il Big Bang, il grande scoppio da cui tutto ha avuto origine. 
«Con Lhc cercheremo di trovare le prove della materia oscura — suggerisce Bertolucci — e il candidato è la supersimmetria, cioè l’insieme delle particelle che dovrebbero esistere in parallelo a quelle note». A un fotone corrisponderebbe ad esempio un fotino, e poi ci sarebbe il neutralino, lo squark e un nuovo, esotico zoo di particelle. L’idea della supersimmetria era partita dal fisico teorico italiano Bruno Zumino che ancora oggi a 91 anni è attivo a Berkeley, in California. «Riusciremo a osservarla se all’inizio dell’universo è avvenuta una sua rottura spontanea. Ma com’è accaduto? Abbiamo un modello di ciò che potrebbe essere accaduto chiamato Minimal Supersymmetric Model, ma non funziona molto bene. La risposta l’avremo quando il super-acceleratore riprenderà a funzionare a pieno regime nella primavera prossima dopo gli interventi di manutenzione. Sarà allora che potrà raggiungere il massimo delle capacità, cioè 14 Tev, e sarà come passare da una macchina utilitaria alla Formula Uno. Dalla supersimmetria passeremo poi alla verifica delle extradimensioni ipotizzate con la teoria delle stringhe», ovvero la teoria che cerca di conciliare la meccanica quantistica con la teoria delle relatività di Einstein inseguendo il sogno di una teoria del tutto che spieghi la materia unificando le leggi attuali. Nella teoria delle stringhe si ipotizzano diverse dimensioni, almeno una decina. Si spera di vederne qualche traccia anche se molti fisici contestano l’idea. 
Uno dei capitoli che più appassionano gli scienziati del Cern riguarda l’enigma dell’antimateria generata dal Big Bang, ma poi misteriosamente scomparsa. La caccia avviene con l’esperimento Lhc-b collegato al superacceleratore, mentre alcuni ipotizzano universi paralleli di antimateria che, se venissero a contatto con il nostro, si distruggerebbero a vicenda. «La natura — spiega Pierluigi Campana, che guida la ricerca — decise che doveva scomparire nei remoti momenti iniziali. Come e perché sia avvenuto lo vogliamo scoprire. Nel 1964 fisici americani hanno proposto un meccanismo noto come “violazione CP” dal quale emergerebbe che le antiparticelle sfavorite decadono prima delle particelle di materia normale. Purtroppo finora non si è raccolta traccia di questo mondo con i satelliti e con il rilevatore Ams installato sulla stazione spaziale. Sembra che manchi un pezzo di fisica ancora sconosciuta e che impedisce di arrivare a comprendere l’enigma». 

Non a caso le ricerche sull’argomento seguono diverse strade mirate a decifrare la natura stessa dell’antimateria cercando di vedere, ad esempio, se la legge della gravità mantiene le stesse prerogative. Due esperimenti provano proprio a cogliere le differenze. Con Asacusa (Atomic Spectroscopy and Collision Using Antiprotons) nelle scorse settimane si è prodotto un getto record di 80 atomi di anti-idrogeno. «E con Elena (dalle iniziali di Extra Low Energy Antiproton) — aggiunge Walter Oelert — rallentando gli antiprotoni abbassandone l’energia, riusciremo forse proprio a scoprire eventuali effetti differenti delle gravità». 
Ma nel centro ginevrino si guarda anche a fenomeni più consueti, come le nuvole, apparentemente lontani dalle tradizionali indagini. Invece si pensa che la pioggia di raggi cosmici che costantemente arriva dallo spazio possa esserne in qualche modo responsabile. È per questo che si è avviato il progetto Cloud con il quale, attraverso una camera che riproduce le caratteristiche dell’atmosfera alle varie altezze (inserendo pure alcuni inquinanti), si cerca di capire se i raggi in caduta, ionizzando l’aria, generino dei nuclei di condensazione attorno ai quali si formano nubi. Se così fosse, diventerebbe uno degli elementi da indagare in relazione al riscaldamento globale. «Intanto — aggiunge Sergio Bertolucci — ci prepariamo a lavorare sulla frontiera del neutrino facendo ricorso al rilevatore Icarus costruito nei laboratori del Gran Sasso dell’Istituto nazionale di fisica nucleare e in collaborazione con il Fermilab di Chicago. Molta fisica del futuro dipende dai segreti di questa effimera particella, forse all’origine della materia oscura. Insomma, adottiamo diverse strategie per capire la materia». 
Oggi il Cern, anche grazie alla sventurata decisione americana di abbandonare il super-acceleratore Superconducting Collider (Ssc) che il presidente americano Bill Clinton decise di cancellare perché troppo costoso, è diventato il più importante laboratorio mondiale per le ricerche di fisica fondamentale. Nel frattempo il complesso dei laboratori segnato dalle vie dei grandi del passato si è trasformato in una vera cittadella della scienza che alimenta gli studi e i sogni di 15 mila scienziati provenienti da tutto il mondo: 4 mila rappresentano lo staff permanente e altri 11 mila sostano periodicamente. 
La comunità più vasta è rappresentata dai ricercatori americani, una fuga dagli Usa verso l’Europa. E al secondo posto ci sono gli italiani. Ben 1.300 sono di casa ma il numero vero sarebbe in realtà di 1.800 perché gli altri 500 sono stati arruolati da istituti stranieri, americani o di Paesi europei, Spagna compresa. Massiccia presenza frutto del grande sforzo compiuto dall’Istituto nazionale di fisica nucleare che, nella tradizione di Enrico Fermi e Edoardo Amaldi, ha mantenuto elevato il livello della formazione dei giovani. «Un livello — conclude il direttore scientifico del Cern — che rischia di essere compromesso nel futuro per i tagli alla ricerca».

Corriere La Lettura 2.2.14
Il mito della cosmologia laica che affascina e divide la scienza
di Sandro Modeo

Anche solo fino a qualche anno fa, i buchi neri erano soprattutto oggetti astronomici al vertice di una mitologia-cosmologia laica. Dei Moloch senza volto o degli immani pozzi cosmici le cui caratteristiche più insinuanti (la bulimia di materia circostante e l’arrestarsi del tempo sulla superfice sferica esterna o «orizzonte degli eventi», dove la temperatura è migliaia di volte quella del Sole) sono state usate dalla fantascienza per configurare implosioni apocalittiche o corridoi verso mondi paralleli. La scienza stessa, del resto, li ha a lungo considerati con scetticismo: Karl Schwarzschild, l’astrofisico tedesco che ha scoperto nel 1916 proprio le dimensioni del «raggio» dell’orizzonte degli eventi, pensava che quei «mostri siderali» fossero forse solo fantasmi di modelli matematici. Ora un denso libro di Alessandro Marconi, astrofisico con cattedra a Firenze (I buchi neri , Il Mulino, pp. 142, e 9,80), ci mostra quanto il rigore analitico e le acquisizioni più recenti allontanino quella soggezione mitologica, col risultato — in apparenza paradossale — di acuire, non depotenziare, lo stupore di chi si avvicini all’argomento; anche se, va detto subito, il libro è divulgativo solo nella scorza, con molti passaggi (preceduti da troppo disinvolti «ovviamente» e «chiaramente»), che richiedono non superficiali conoscenze fisico-matematiche. 
Marconi non trascura nessun versante. Sul piano storico, per esempio, risale all’archeo-osservazione di fine Settecento, quando il reverendo John Michell e Pierre Simone Laplace parlano di «stelle nere» e «corpi invisibili» per identificare oggetti così massicci da non far uscire la luce dalla loro superficie; e chiarisce poi, attraverso le scoperte einsteiniane, come quell’intrappolamento non dipenda tanto dalla gravità, quanto dalla curvatura «assoluta» dello spaziotempo, cui nemmeno la luce — che pure non ha massa — può sfuggire. Sul piano descrittivo-esplicativo, ci presenta ogni tipo di buco nero: quelli stazionari e quelli con rotazione, quelli stellari (prodotti dall’esplosione di una supernova e con una massa superiore a almeno 10 masse solari) e quelli «supermassivi», con una massa di milioni o addirittura miliardi di volte quella solare. E sul piano tecnico-metodologico, per finire, ci illumina sui nuovi strumenti di risoluzione spaziale, dai telescopi di ultima generazione (da Hubble in poi) alle «ottiche adattive», che permettono di correggere — con specchi a deformazione controllabile ed elaborazioni al computer — il degrado delle immagini provocato dalla turbolenza atmosferica. 
La chiave di volta del libro è il rapporto tra i buchi neri supermassivi e i nuclei galattici attivi (Agn) come i quasar, regioni molto più piccole rispetto alla galassia che contribuiscono a formare, ma dotate di compattezza e densità estreme, nelle quali all’accrescimento del buco nero corrisponde l’emissione di un’immensa quantità di energia e luminosità. Come in una matrioska, il buco nero è a sua volta molto più piccolo del nucleo attivo (massa di 1 a 1.000), ma la sua gravità è tale da essere decisiva nella dialettica tra il nucleo stesso e la galassia in formazione; nell’equilibrio tra forze attrattive e repulsive (le radiazioni) che presiede al formarsi delle stelle come di ogni altra struttura cosmica. Consumandosi in questa complessa dinamica e isolandosi dal contesto, il buco nero è osservabile alla fine come un residuo fossile dell’attività dell’Agn, o come un’«impronta gravitazionale» lasciata nello spazio che ha abbandonato. Non solo. Mostrando gli esempi dell’Agn della nostra galassia, la Via Lattea (Sagittario A, col suo buco nero Sagittario A*, ora inattivi) e di Agn di altre galassie (NGC 4258, nella costellazione dei Cani da Caccia, osservato da lui stesso e dai colleghi a Baltimora nel 1996), Marconi colloca questa simbiosi o coevoluzione tra buco nero e Agn lungo l’evoluzione dell’universo. L’antefatto (appena 400 mila anni dopo il Big Bang, in fasi di espansione e raffreddamento) è lo scremarsi di «aloni di materia oscura», «strutture autogravitanti» all’origine delle proto-galassie: materia che incidendo anche sulla materia barionica (quella che conosciamo e di cui è fatto ciò che vediamo, cioè il 4 per cento della materia in assoluto) innesca l’azione di buchi neri e nuclei galattici. A differenza degli aloni, però, sia i buchi neri che le galassie si formano per via antigerarchica, dal grande al piccolo: i buchi neri (se si eccettuano i «seed black holes», i «semi» delle origini) diventano supermassivi già 800 milioni di anni dopo il Big Bang; e le galassie si presentano estese (come le ellittiche) 1-2 miliardi di anni dopo. 

Sono dati coerenti con l’iniziale densità dei quasar (tanto da far parlare di una loro «era»), che tra i 13 e i 10 miliardi di anni fa erano mille volte più diffusi rispetto a oggi. In questa prospettiva, i buchi neri si trasformano da Moloch voraci in regioni (in sequenze) di interconnessione e regolazione nel formarsi ed evolversi delle strutture cosmiche. E non è quindi sorprendente che Stephen Hawking — perdendo la sfida che John Preskill aveva lanciato a lui e al fisico del Caltech Kip Thorne, di cui è appena uscito da Castelvecchi il classico Buchi neri e salti temporali — abbia addirittura negato nei giorni scorsi, su «Nature», l’esistenza dei suoi oggetti cosmici prediletti, in quanto la materia e l’informazione in entrata non verrebbero annientate, ma «rimescolate» e riemesse. Anche uno dei più autorevoli fisici italiani, Carlo Rovelli (in un capitolo del suo ultimo libro, La realtà non è come ci appare , Cortina) va in parte in questa direzione, sostenendo come la materia attratta in un buco nero arrivi — per effetto della gravitazione quantistica, operativa a grandezze scalari impercettibili — a una densità altissima ma non infinita, diversamente da quanto succede in un punto simile a quello che ha prodotto il «rimbalzo» del Big Bang; e come il buco nero, diventando sempre più piccolo e alla fine evaporando, la liberi nello spazio circostante. 
Ma questa nuova visione dei buchi neri rilancia anche tesi cosmologiche più generali e audaci, che avvicinano l’evoluzione cosmica a quella biologica. Se già Lee Smolin aveva formulato un parallelo tra la selezione naturale negli organismi e nelle specie e quella tra universi in competizione (coi buchi neri protagonisti), di recente lo zoologo Andy Gardner di Oxford l’ha rafforzato applicandovi l’equazione di Price, impiegata di solito per descrivere l’incidenza della selezione sulle mutazioni genetiche; anche se è evidente quali problemi comporti un’analogia così spericolata, dato che non è semplice trovare nei processi evolutivi cosmici equivalenti strutturali e funzionali degli organismi biologici. Siamo, quindi, nella pura speculazione. La sola certezza è che se i buchi neri non appaiono più come tali, presto dovranno essere chiamati in altro modo. Anche il grande John Wheeler — il fisico che nel 1967 aveva coniato l’espressione — probabilmente sarebbe d’accordo.

Corriere La Lettura 2.2.14
Stati di coscienza
Ascolta, è il suono di un acino d’uva
Mindfulness significa pienezza mentale o consapevolezza intenzionale
È una forma di meditazione che può avere applicazioni cliniche contro stati di ansia, stress e depressione
di Giancarlo Dimaggio


Il 7 luglio 2013 a Wimbledon c’era un sole da quelle parti inusuale. Nel pomeriggio Novak Djokovic avrebbe giocato la finale con Andy Murray — per la cronaca: vincerà Murray, per la gloria della regina, ma questa è un’altra storia —. Che cosa avrà fatto Djokovic la mattina della finale di un torneo del Grande Slam? Allenarsi, studiare l’avversario? Probabilmente. Ma è certo che si è recato al tempio Buddhapadipa. C’è un bel giardino. Lì, tra le foglie, nel silenzio, ha passato un po’ di tempo, un’ora o giù di lì. A fare cosa? Assolutamente niente. Se non stare fermo, occhi chiusi e portare l’attenzione sul respiro. La meditazione è una roba così. Vi sedete abbastanza comodi, non immaginate contorsioni yoga dolorosissime, chiudete gli occhi e aspettate che i pensieri vi passino per la testa. Non ci vuole molto, ne arrivano a sciami. E voi li osservate, notate che vi passano per la mente e li lasciate scivolare via, dicendovi «non ora». E riportate l’attenzione al semplice dato primordiale che state respirando. 
Perché Djokovic, uno che per inciso di tornei dello Slam ne ha vinti sette, invece di dedicarsi completamente al tennis, in un giorno così importante passa del tempo ad accorgersi che respira? E non è il solo. Ricky Martin, sì quello di Livin’ la vida loca , bello da fare impazzire o morire di invidia, tutta una questione di punti di vista. Un successo senza limiti. Lo immaginate uno che la vida loca la vive veramente. Eppure anche Ricky Martin, tutti i giorni, medita. Sì, quella cosa del respiro. Lo fanno anche The Edge, Oprah Winfrey, Kobe Bryant. E molti altri. Perché? Perché quest’arte del non fare niente, ma con dedizione assoluta, come dicono alcuni dei maestri che ho ascoltato, è arrivata sulla copertina di «Time»? Moda? Forse. Ma è una spiegazione insufficiente. Può essere si tratti di qualcosa che cambia la vita. Muove la mente. Modifica il funzionamento del cervello. In meglio. Entro certi limiti naturalmente. 
Di che si tratta? Molti dei moderni meditanti occidentali ne praticano una forma — derivata dal tipo buddhista chiamato Vipassana — definita mindfulness. In italiano tendiamo a non tradurla, ma significa consapevolezza intenzionale , attenzione consapevole , pienezza mentale . Avete mai pensato che suono fa un acino d’uva passa? No, non sapore, forma, consistenza. Quelle sono cose che più o meno pensate di sapere. Ma, il suono, quello non vi viene in mente. Un tipico esercizio di mindfulness è portare l’acino d’uva presso l’orecchio. Poi lo si sfrega dolcemente tra le dita. E si ascolta. Emette un suono tutto suo. Fatelo. Vi verranno parole per descriverlo, non le avreste immaginate mai. 
Ma quelle parole si formeranno nella vostra mente solo se staccate l’attenzione via da tutto il resto. E vi rendete conto che in quel momento esistete voi, l’acino e i vostri polpastrelli che gentili lo sfregano. La mindfulness è l’esercizio del momento presente, del qui e ora. Seduti comodi. Chiudete gli occhi. Respirate. L’aria entra nel naso, attraversa la trachea, riempie i polmoni, il diaframma si solleva e si abbassa. È il vostro corpo vivo, attivo, funzionante. In quel momento lo sentite. Ma la mente non dà scampo. Arriva l’angoscia, la litigata col coniuge, una multa da pagare, controllare l’email, la riunione che vorremmo evitare, controllare ancora l’email, Facebook, Twitter, Facebook, non valgo niente, non mi amano. Rabbia, rancore, angoscia, lo stomaco si stringe, il cuore batte più forte. Mentre voi siete lì seduti, a badare al respiro, di pensieri come questi ne arrivano a frotte, stormi agguerriti di caccia. Ma voi non vi muovete. Lasciate scorrere il pensiero, senza combatterlo. Vi dite: «Penso all’abbandono. C’è dell’ansia dentro di me». La osservate allontanarsi finché ne resta l’eco. E tornate a concentrarvi sul respiro. 
Tutto qui? Quasi. Più altri esercizi. La meditazione camminata: badate al piede che si solleva, al tallone che poggia a terra, alla pianta che morbida tocca il pavimento. Immaginate di essere avvolti da una nube di gentilezza. Già a nominarla fa sentir bene. Che senso ha? Che effetto fa? Ci vuole pratica, esercizio, allenamento. A un certo punto fate scoperte. La principale è che i pensieri non sono oggetti; descrivono la realtà, ma fino a un certo punto. Che il timore che vi attanagliava fino a un minuto fa, ora non è più nella vostra mente. Al suo posto l’ombra di un olmo in un giorno in cui passeggiavate in campagna d’estate. E un attimo dopo anche quel ricordo è andato via. I pensieri li prendete sul serio. Ci credete, possono avvelenarvi l’esistenza. La mindfulness mai li combatte. Li accompagna gentilmente verso le periferie della coscienza, toglie loro le luci della ribalta, li fa scivolare via. 
L’impazienza del lettore ora si affaccia. E una volta che abbiamo privato i pensieri della luce per cui si dibattevano come trote in un lago di pesca artificiale, che succede di così buono? Molte cose a quanto pare. La mindfulness, soprattutto nella forma iniziata da Jon Kabat-Zinn, si è mostrata efficace nel ridurre ansia, stress, dolore cronico, nel prevenire le ricadute della depressione, migliorare la risposta immunitaria e via dicendo. Le applicazioni cliniche sono in aumento. E fa davvero effetto sul cervello. Un esempio: Véronique Taylor, del Centre de Recherche en Neuropsychologie et Cognition di Montréal, ha pubblicato una ricerca su «Social Cognitive and Affective Neuroscience» che mostrava come nei meditatori esperti rispetto ai novizi si disattivassero quelle aree cerebrali (per amor di rigore: il Default Mode Network) che portano il cervello a riposo a focalizzarsi automaticamente su di sé. Se iper-attivate non ci si stacca mai dal proprio ombelico. Grazie alla mindfulness, la mente si allena a smorzarne l’azione e di conseguenza riprende a guardare il mondo. A vederlo davvero. 
Studi simili di neuro-immagini mostrano come la pratica mindfulness aiuti a calmare le emozioni negative e migliori l’empatia. Una moda? Forse. Una panacea? No. Molti non ne saranno incuriositi o, semplicemente, non ne beneficerebbero se la praticassero. È un sostituto della psicoterapia? Non lo è. È un’alternativa. Un complemento. Una sua declinazione. Ma, di solito, quelli che la praticano provano gratitudine. Ero con il mio amico Edoardo. I piedi immersi nell’acqua del torrente che delimita il suo casale nelle campagne della Sabina. Lui medita da decenni. In quei giorni era affannato dalla ristrutturazione. Muratori, piastrelle, il tagliaerba si era rotto, i costi lievitavano. Ci ha meditato su. L’acqua scorreva vivace, portandosi foglie che sembravano animate. Rami di nocciolo sporgevano dalle rive. Edoardo mi dice: «Ho capito. Io di questa casa non sono il proprietario. Sono il custode. Ora la vivo con più serenità». 
Guardo il sole che filtra tra una vegetazione che era lì milioni di anni prima di noi e sarà lì molto dopo che noi non ci saremo più. Ha ragione. Respiro. Sento l’acqua che scorre sulle caviglie. È fresca.

Corriere La Lettura 2.2.14
Il bello piace ai neuroni. L’estetica diventa scienza
di Pierluigi Panza


Per gli empiristi John Locke e David Hume il cervello era una tabula rasa e la comprensione delle cose avveniva a partire dagli stimoli esterni. Kant dimostrò che potevano esserci categorie a priori e Gustav Fechner, fondatore della psicofisica, ritenne di aver individuato un’equazione per quantificare il rapporto tra stimolo e sensazione (S = c logR ). Negli ultimi 150 anni, il comportamentismo e la psicologia cognitiva — le discipline che studiano il rapporto tra stimolo fisico e sensazione soggettiva provata — hanno fatto capolino diverse volte nella teoria della progettazione e della comprensione dell’arte e dell’architettura. Nel momento in cui, con la prossima Biennale di Venezia (Fundamentals ), l’architettura si appresta a fare i conti con l’unilateralismo e la perdita di identità determinate «dall’evoluzione dell’architettura verso un’unica estetica moderna globale» (secondo il curatore Rem Koolhaas), alzare la sfida significa pensare a un’estetica della progettazione che salvaguardi il patrimonio costruito e le identità, ma metta al bando il formalismo. 
La neuroestetica, fondata da Semir Zeki ha mostrato — attraverso campioni di individui sottoposti a risonanza magnetica — come materiali, forme, colori, oggetti, odori e paesaggi (sia reali che dipinti) attivino in ciascuno di noi specifiche aree del cervello identiche a quelle che si attivano di fronte a varie situazioni. Di fronte a quadri ritenuti orribili, ad esempio, si attiva la stessa area cerebrale di quando si prova paura, mentre di fronte a opere ritenute belle si attivano i neuroni delle medie orbite frontali della corteccia e del lobo parietale sinistro, le stesse che si attivano nell’amore romantico. 
Muovendo poi dalla scoperta dei neuroni specchio, effettuata nel 1996 dall’equipe composta da Rizzolati, Fogassi e Gallese, un teorico dell’architettura dell’Illinois Institute of Technology, Harry Francis Mallgrave, ha cercato di dimostrare come lo spazio si comprenda a partire dall’attività motoria del corpo umano. La teoria dei neuroni specchio, infatti, ha dimostrato come i neuroni che si attivano quando compiamo una determinata azione si attivino anche se vediamo un altro compiere o qualcosa indurre a quell’azione. Così le forme che si trovano nello spazio esterno attivano specifiche aree cerebrali in relazione alle azioni verso le quali indirizzano (oltreché in base a forme, colori, tattilità). Da qui la differenza di stati d’animo che generano le forme aguzze o quelle tonde, determinati colori, un ambiente conosciuto ma ora illuminato ora annebbiato (si pensi alle installazioni di Dan Flavin e di Olafur Eliasson) e le forme intenzionate (la maniglia che invita alla presa, eccetera). Mallgrave ha teorizzato questo in un libro che sta ottenendo una certa fortuna nel mondo anglosassone (Architecture and embodiment. The implication of the new sciences and humanities for design , Routledge, Londra New York, 2013) sino a spingersi a una comparazione facile da capire: se vedo un San Sebastiano vengono stimolate in me le condizioni emozionali come se io fossi trafitto (qualcosa del genere vogliono ottenere con le loro opere Plessi e Kapoor…). 
Oltre a offrire una nuova visione critica di ciò che piace nell’arte e nell’architettura, questa teoria empatica può essere considerata in fase progettuale per ottenere specifici stati d’animo nel fruitore. Per ottenere un effetto-straniamento, nel Museo ebraico di Berlino Daniel Libeskind ha utilizzato spazi a zig zag che si stringono, finiscono in zone buie e coni verticali per sentire rumori da lontano… È chiaro che questa nuova frontiera può far derivare le forme a partire da una comprensione dello spazio sganciata dalle rivendicazioni di linguaggi architettonici. Sebbene appaia rispondere meglio alla progettazione di oggetti di design, questa via riavvicinerebbe l’architettura alla settecentesca «architettura parlante» teorizzata da Germain Boffrand, quella in cui gli spazi progettati esprimono (e inducono a) qualcosa di specifico.

Repubblica 2-2-14
Miyazi
La mia favola continua
di Mario Serenellini


Il regista giapponese ha da poco festeggiato con la moglie e i due figli i suoi settantatré anni. C’è da immaginarselo con addosso il grembiulone bianco ricolmo di pennelli e pastelli, sua tuta di lavoro con cui ritualmente si presenta ai giornalisti. E con l’immancabile gilet a V, da cui affiora, come in un suo acquerello, il volto antico e imbiancato, con incollati da sempre, fari acuti, gli occhialoni Lanvin da miope. La sua principale preoccupazione pare oggi la caldaia a legna che lo obbliga di tanto in tanto a staccarsi dal telefono per andare a riattizzare il fuoco («Questi tronchi... sempre umidi») e regolare la presa d’aria. Altre brevi interruzioni, le sigarette accese e aspirate a ripetizione: almeno cinque durante la conversazione. «Tentare di vivere?», risponde dopo due boccate: «Andare avanti, esistere, rimanere se stessi nonostante la situazione avversa». Dunque, continuare a realizzare film, a dispetto delle censure politiche piovute sull’ultimo titolo, in concorso a Venezia e ora in corsa per l’Oscar dell’animazione (Lucky Red dovrebbe distribuirlo a maggio nelle sale italiane). «Anche questo», ridacchia il regista, che al Lido aveva fatto annunciare il suo ritiro dal cinema. Un ritornello ricorrente degli ultimi vent’anni che anche stavolta non mancherà di smentire.
Da tempo vive in un Paese in cui non si riconosce: in Giappone S’alza il vento sta godendo d’un grande successo, ma il governo la tratta da “traditore”.
«Il film, sui sogni infantili e la vita di Jiro Horikoshi, il capo ingegnere progettista degli Zero, i micidiali caccia della Seconda guerra mondiale, ha scatenato le ire della destra nazionalista nipponica per il ritratto al vetriolo dell’esercito imperiale. Ma raccontare favole non significa rinunciare a prendere posizione. Io ho sempre praticato il pacifismo, e non a caso la guerra è presente in quasi tutti i miei film. Anzi, a pensarci bene forse non sono poi neppure così tanto pacifista! Fin da bambino sono affascinato dai mecca-
nismi — e dalle “macchinazioni” — militari: ancora oggi mi appassiona
studiare, smontandole pezzo a pezzo, le macchinette di guerra. Mi piace capire come funzionano. E, soprattutto, non mi stanco mai di disegnarle».
Un’infanzia, la sua, trascorsa sotto il segno della guerra.
«Sono nato nel 1941. Ero troppo piccolo per capire. Ricordo la nostra fuga da casa, a Utsunomiya, un centinaio di chilometri
a nord di Tokyo, la notte in cui è stata bombardata: ho visto i miei ammucchiare di corsa pentole e vestiti in una carriola mentre mio padre mi caricava sulla schiena. Ma per me, allora, è stata la festa del cielo: non ero impaurito, ma stupito, incantato, davanti a quella notte improvvisamente spalancata dalle luci.
Un’impressione visiva fortissima, che conservo ancora».
È il suo fantasma?
«La guerra torna, riappare. Pochi giorni fa ho ricevuto la lettera di un mio coetaneo: bambino, rimasto solo, s’era rifugiato quella notte nella nostra casa, risparmiata dai bombardamenti. Mio padre, che vi era tornato l’indomani per recuperare oggetti abbandonati nella fretta, l’aveva scoperto in un cantuccio: tremava. L’aveva tranquillizzato, dicendogli di restare quanto voleva e regalandogli una stecca di cioccolato. Un’enormità, per l’epoca. Né io né i miei fratellini ne avevamo mai assaggiato. Quel bambino aveva preso mio padre per “un dio disceso sulla Terra”:
così mi scrive nella lettera».
Un riconoscimento a suo padre?
«Mio padre lavorava per l’esercito. Per questo, immagino, aveva in tasca il cioccolato, un privilegio. Ingegnere aeronautico, era titolare della Miyazaki Airplane, quella che costruiva l’estremità delle ali degli Zero. Una fabbrichetta, ma quanto mai redditizia. Fin da ragazzino ero infastidito all’idea che ci fossimo arricchiti con la guerra: adolescente, non facevo che discutere con i miei. Avevo vergogna di mio padre. Ma la preparazione di
S’alza il vento mi ha fatto molto ripensare a lui, alle contraddizioni di cui ci nutriamo: chi crede d’essere un puro e di sorvolare la vita da innocente è uno sciocco o un ipocrita. Questo film è anche una riconciliazione. E quella lettera, come un messaggio in bottiglia venuto dal passato, è stata un’ultima rivelazione: quella d’un padre, allora giovane, buono e aperto».
Il film è anche il racconto di un sogno infantile, di un volo interrotto?
«Da bambino desideravo diventare pilota. Impossibile, con la miopia di cui ho sempre sofferto e che mi obbliga ormai a disegnare con il naso appiccicato al tavolo. Stesso problema — come si vede nel film — di Jiro Horikoshi, che ha potuto solo “pilotare” le sue creature disegnate. La maggiore frustrazione, però, non è tanto di non potere volare, ma di sentirsi bloccati nelle proprie aspirazioni, di intravedere da giovani strade negate. È poi questo il nocciolo del film, che le autorità, più miopi di me, non hanno colto: un creativo deve impedirsi di realizzare il suo sogno per via delle circostanze o vivere la sua passione, senza preoccuparsi delle conseguenze, magari devastatrici?»
Hiroshima è stata una conseguenza d’un grande sogno realizzato, la scissione nucleare. Come evitare che un sogno si tramuti in incubo?
«Nel mio cinema si sogna molto, ma la realtà ha sempre l’ultima parola. La catastrofe di Fukushima, causata dal maremoto di tre anni fa, ci ha colto in piena lavorazione del film: siamo rimasti prigionieri in questa periferia di Tokyo, senza elettricità, trasporti, mezzi di comunicazione. Molti si sono accampati negli Studi Ghibli, sotto choc. Ci chiedevamo se continuare il film avesse ancora un senso. Dopo Fukushima, Ghibli ha disdetto il contratto con la società nazionale che gestisce la centrale nucleare. Io ho scritto un “j’accuse” contro il governo, e me lo sono inimicato per sempre: erano esterrefatti nell’osservare la ribellione di un “tesoro nazionale vivente”, quale io sono, ormai ritenuto docile e neutrale bandiera. Da allora sulla mia vecchia Citroën due cavalli, modello Charleston, campeggia un adesivo antinucleare».
Ma la sua protesta è sempre stata la matita. Dunque...
«...Finché potrò guidare la mia 2 Cv continuerò ad andare regolarmente ogni giorno agli Studi Ghibli. Ho in progetto vari corti. Mi sono liberato del cappio dei lungometraggi. E ho ridotto i miei orari: un quarto d’ora più tardi al mattino, mezz’ora prima la sera. Pensi che una volta lavoravo tanto che non mi rendevo conto di che cosa mi passasse accanto: i Beatles, per esempio, me li hanno raccontati dopo. Eppure erano della mia generazione! Sono tornato a disegnare manga: una storia di samurai nel Giappone del XVI secolo. Ho più tempo a disposizione per le escursioni in montagna o per stare in casa con mia moglie. Posso persino godermi in tv i Simpson che prendono in giro i miei fantasmi. E spesso torno a Fukushima, dove osservo con quale forza e dolcezza silenziosa la natura, in assenza dell’uomo, riconquista i suoi diritti. Il primo segnale è l’erba, la sua tenerezza, il suo delicato muoversi nel vento. Finché potrò maneggiare un pennello o un pastello, non mancherà mai nei miei fogli l’erba nel vento».

Repubblica 2.2.14
Il mistero del bello e basta
di Concita De Gregorio


Ad Hayao Miyazaki dobbiamo, a casa nostra, il presidio dell’ultimo lembo di terra di quel luogo che si chiama “stare in famiglia”. È certo un merito minore rispetto al valore artistico, letterario, poetico e persino politico della sua opera, mi rendo conto. Per me è tuttavia il principale: un merito secondario che gli conferisce credito illimitato. Non esiste una pietanza, un viaggio, una musica, un progetto per la domenica che ottenga il consenso unanime di un gruppo di persone di dieci, quindici, venti, venticinque e cinquant’anni. Niente, da quando i più grandi sono diventati salutisti nemmeno l’hamburger da Mac. Solo “rivediamo Porco Rosso?” funziona.
Porco Rosso sì. La carbonara ingrassa, il sushi basta, in campagna oggi no, al museo andateci voi, la serie tv in inglese io non la capisco, Monopoli mi pare che è in cantina, come ti viene in mente? Allora Porco Rosso.
Poi anche se uno deve studiare, un altro sente la musica, un altro ancora ha invitato un amico e l’ultimo deve consegnare un lavoro poco a poco, nei primi dieci minuti il divano davanti alla tv si riempie. Arrivano uno per volta, è un incantesimo. Si fermano.
Cosa ci sia di magnetico, di ipnotico nel cinema di Miyazaki è un mistero che attraversa le generazioni. Parla a tutti dicendo a ciascuno qualcosa di diverso. È come se avesse trovato l’arcano della lingua universale. Alla domanda «ma cos’è che vi piace?», ecco le risposte, a voi il gioco di associarle alle diverse età: «Mi piace perché non sai mai dove va a finire, non fa la moralina delle fiabe». «C’è sempre l’erba che si muove nel vento». «La sua fantasia è come la mia». «È cattivo». «Disegna gli uomini come maiali». «È gentile». «Come racconta lui nessuno al mondo». «Fa succedere le magie, è bello e basta». È bello e basta, del referendum domestico, mi pare la risposta più precisa. È bello, e basta.
Tra le magie che fa succedere, ai miei occhi, c’è quella di rendere accessibile una storia d’amore fra bambini nell’età precisa in cui i bambini, a scuola, sono solo “maschi contro femmine” e di questo va reso onore a I sospiri del mio cuore, al maestro liutaio di Cremona (avete notato che c’è sempre l’Italia nelle sue storie?) e alla ragazzina che va alla ricerca di chi prende sempre in prestito i libri prima di lei. Poi c’è quella di rendere i genitori inutili: ogni volta che rivediamo La città incantata ridiamo di quanto sono stupidi e avidi e miopi gli adulti e di quanto i bambini sappiano cavarsela meglio da soli persino di fronte ai peggiori incubi. E sempre, sempre c’è qualcuno di noi che dice, alla fine, “ma sarà un caso che tanti premi Nobel siano orfani?”. Di seguito ridiamo per sdrammatizzare un po’, certo che nessuno si augura che, ci mancherebbe, ma insomma se allentaste un po’ la presa, magari. Poi c’è la magia della guerra, questo fatto di parlare sempre di guerra — perché la guerra i ragazzi la fanno, e gli adulti anche — e di raccontare bene tutto il suo fascino, e la cattiveria che c’è dentro, e quanto sia attraente ma poi anche renderla ridicola alla fine, e insomma Porco rosso è un maiale cacciatore di taglie ai tempi del fascismo e però finisce per cercare un amore perduto e vuole, come ogni supereroe, salvare il mondo. Solo che non è bello né forte di muscoli, è un uomo-maiale che ascolta la musica sulla sdraio e ci somiglia senz’altro più di Batman. A me di Miyazaki più di tutto piacciono le pause. Che ci sia tutto questo silenzio, nel rumore dell’acqua e del vento, mi sembra un regalo. Un silenzio pieno di cose, un silenzio che non è proprio nostalgia: è promessa. C’è un altro posto dove andare, un posto dentro di noi, spaventoso e bellissimo.

Repubblica 2.2.14
Adorno, Arendt, Brecht il più amato dagli intellettuali
di Emiliano Morreale


Giusto cent’anni fa, nel febbraio del 1914, Chaplin inventava la figura del “vagabondo” per le comiche della Keystone. Charlot (come lo avremmo presto chiamato in Francia e in Italia) diventerà il simbolo dell’ascesa del cinema nel ’900, del suo carattere totale, capace di parlare a tutto il mondo. Celebrità planetaria, legata a un pubblico popolare, che aveva fame di risate e di giustizia, Chaplin è stato anche colui che ha rivelato il cinema agli intellettuali. Ovvia è la passione che per lui hanno avuto i teorici e critici del nuovo mezzo (da Ejzenstein ad Arnheim e Kracauer), o i pensatori che si sono confrontati con le novità tecnologiche e percettive del cinema, come Walter Benjamin o Theodor Adorno. Quest’ultimo, esule negli Stati Uniti, frequentò spesso quello che lui definiva “il Chaplin empirico”, in carne e ossa. E il loro incontro ci regala un paio di immagini a dir poco curiose. Alla fine del party in onore di Monsieur Verdoux, Adorno accompagna al piano le esibizioni di Chaplin. In un party a Malibu, Adorno “stringe la mano” all’attore Harold Russell, che però le mani le aveva perse in guerra, e portava delle protesi. Chaplin imita immediatamente la gaffe e il ghigno imbarazzato del filosofo, suscitando «una risata prossima all’orrore».
Per Hannah Arendt, nel vagabondo di Chaplin riluce la secolare paura dell’ebreo davanti all’autorità. Brecht, fin dagli anni ’20, lo considerava l’attore ideale per il proprio teatro epico. Sartre diciannovenne lo definiva il moderno Lazarillo de Tormes.
E non potevano rimanere immuni dal suo fascino i poeti. Di Chaplin scrissero tra gli altri Saba e Ungaretti (e ovviamente Pasolini), Garcia Lorca e l’inevitabile Aragon. Autori d’altri tempi? Chaplin sarebbe in fondo un autore del secolo scorso, su cui è impossibile dire qualcosa di nuovo? No, a dar retta al romanzo di Fabio Stassi, L’ultimo ballo di Charlot (Sellerio), in cui il vecchio attore riesce a rinviare la propria fine, facendo ridere la Morte in persona.
Certo, il senso di un’arte di massa, capace di consolare e migliorare il pubblico, era la grandezza del cinema. E le masse urbane di poveri, da cui Chaplin proveniva e a cui sapeva parlare, in Europa non esistono più. Intanto, nelle sale torna da domani La febbre dell’oro, restaurato dalla Cineteca di Bologna. Tornare a rivedere Chaplin è come tornare a vedere d’un colpo il Novecento e le sue speranze. Magari per misurare quanto (o quanto poco) ancora somigliamo a quest’omino, e per quanto tempo i nostri figli e nipoti saranno capaci di ridere con lui.

Repubblica 2.2.14
Il nostro bisogno di mostri
Creature fantastiche e deformi popolano l’immaginario dall’età antica fino a quella contemporanea
Perché è nella natura dell’uomo credere in esseri che incutono paura e rispetto
Queste entità sono versioni più grandi o più piccole di quello che la natura ha ideato o sono dettagli mescolati
Dichiariamo di essere razionalisti eppure temiamo i vampiri o gli omuncoli verdi provenienti dallo spazio
di Alberto Manguel


Il Royal Tyrell Museum, famoso per la sua collezione di dinosauri, si trova al centro delle Badlands canadesi. Quasi certamente, però, la sua esposizione più singolare non è quella dei colossali scheletri di animali che se ne andavano in giro quando gli esseri umani non esistevano ancora, ma quella che esibisce ingrandite le fattezze di minuscoli animali marini detti plankton, non destinati, 300 milioni di anni fa, a sopravvivere più di pochi brevi istanti nell’immensa scala temporale della preistoria. Mentre fluttuano in un deprimente mare di plexiglass — con i loro corpi trasparenti bianchi, dai contorni luminosi molto più grandi rispetto alla realtà — questi abbozzi mancati di creature viventi a un occhio poco abituato paiono tentativi da incubo storti e asimmetrici, riusciti a metà, di raffigurare esseri che avrebbero potuto esistere, come se un artista avesse scarabocchiato forme a occhi chiusi e poi, dopo essersi accorto del risultato, le avesse cancellate per sempre. Queste apparizioni mai evolute del tutto sono tra i mostri più terrificanti mai visti, al confronto dei quali il centauro e il basilisco sono animali più che inoffensivi e ordinari. La vita sulla Terra inizia con i mostri, non con le forme comuni di vita alle quali siamo abituati.
L’esposizione al Palazzo Massimo di Roma «Mostri, creature fantastiche della paura e del mito» (a cura di Rita Paris ed Elisabetta Setari) è un salutare monito sull’attuale presenza di mostri nel nostro mondo. La parola mostro, come è risaputo, deriva dal verbo latino mostrare, far vedere, indicare con un dito. Mostro è il prodigio, il bizzarro, l’insolito, l’imprevisto, ciò che si vede di rado o mai.
Per descrivere qualcosa di mostruosamente inverosimile, Orazio parla di cigni neri, senza sapere che in quello stesso momento stormi di cigni neri oscuravano i cieli d’Australia. Esiste sempre la possibilità, per quanto piccola, che ciò che noi definiamo mostro proprio in questo momento sia appostato in qualche oscuro punto dell’universo.
Tenuto conto che non possediamo l’inventiva della Natura che, come ci dice Dante, «d’elefanti e di balene / non si pente», i nostri mostri sono versioni più grandi o più piccole di ciò che la Natura ha già ideato, oppure semplici mescolanze di dettagli che si possono vedere qua e là in qualsiasi zoo. Pesce o uccello o leone congiunto a una donna; cavallo o toro o serpe congiunto a un uomo; stalloni e serpenti in grado di volare, creazioni teologiche con molte braccia come Shiva o con una triplice personalità come la Trinità, cani a tre teste o individui senza: i nostri bestiari immaginari sono poco più che varianti del cadavre exquis, il gioco inventato dai surrealisti che consisteva nel disegnare, su un pezzo di carta ripiegato più volte, una sezione di corpo senza poter vedere quanto disegnato dai giocatori precedenti. I risultati sono spesso bizzarri o divertenti, ma di rado stupiscono più di una giraffa o di un ornitorinco. Come dice Dio a Giobbe con un pizzico di spavalderia nella voce: «Sei tu a dare ali attraenti ai pavoni? O ali e piume allo struzzo?» (Giobbe, 39:13).
Tuttavia, alcuni mostri immaginati dai nostri progenitori sono a tal punto validi da resistere nel tempo. Il centauro e la sirena, il drago e il grifone, la gorgone e il satiro si aggirano ancora nel nostro mondo. Il Medio Evo conferì loro il medesimo valore simbolico delle creature che noi chiamiamo reali. Nei bestiari medievali leggiamo che l’allodola è capace di decidere del destino di un malato: resta nella stanza se egli morrà o vola via dalla finestra portandosi appresso la sua malattia se egli sopravvivrà. E alla pagina seguente, apprendiamo che l’unicorno brado può essere catturato soltanto attirandolo nel grembo di una giovane fanciulla, dove cadrà amorevolmente addormentato. Non si fa alcuna distinzione tra la creatura osservata e quella immaginata: fanno entrambe parte della fauna della mente. «I mostri sono buoni per pensare», dice Maurizio Bettini nello splendido catalogo che accompagna la mostra. A tal punto è connaturato all’uomo credere nei mostri che, osservando tre lamantini nei pressi della foce dell’Orinoco, Cristoforo Colombo scrisse nel suo diario di bordo di aver visto tre sirene nuotare in mare, e aggiunse, con meticolosa precisione, che «non sono così belle come si dice che siano». I nostri mostri esistono perché noi vogliamo che esistano. Forse, esistono perché abbiamo bisogno che esistano.
Chi sono i nostri mostri oggi? Coloro che non riusciamo a tollerare di annoverare nel genere umano, coloro contro i quali puntiamo il dito (mostrare) per accusarli di quelli che riteniamo essere atti “disumani”. Hitler, Stalin, Pinochet, Bashar al-Assad, serial killer e stupratori sono stati tutti chiamati “mostri” perché hanno commesso azioni che ci piacerebbe immaginare che nessun essere umano sia in grado di commettere. Gli antichi erano più saggi. Le loro divinità e i loro mostri avevano qualità e difetti sovrannaturali, ma anche difetti e qualità umane: Polifemo era tonto, Cerbero era avi-
do, i centauri erano saggi, le sirene seducenti, Pegaso si vantava della sua velocità e il Minotauro della sua forza. Questi mostri sono indimenticabili perché, come noi uomini, riescono a provare orgoglio e odio e lussuria, e anche invidia e stanchezza. «La mostruosità di queste creature», dice Mariarosaria Barbera nel saggio introduttivo del catalogo, «nel repertorio vastissimo dell’arte antica, presenta quasi sempre elementi di nobiltà e di eleganza, per il legame con la sfera culturale e le imprese mitologiche, alle quali comunque partecipano». Sono nobili ed eleganti, dunque, perché oltre alla paura incutono rispetto come creature qualsiasi di questa Terra, che provano desideri come noi e soffrono come noi. Cocteau ipotizzò che la Sfinge fosse andata da sé incontro alla propria fine, poiché fu lei stessa a sussurrare la risposta dell’enigma a Edipo, della quale si era innamorata.
A differenza dell’epoca dei nostri antenati, la nostra è ingenua e scettica al tempo stesso. Dichiariamo di essere razionalisti e rigorosi, eppure crediamo in omuncoli verdi provenienti dallo spazio (e la compagnia di assicurazione St. Lawrence Insurance di Altomonte, in Florida, offre una polizza in caso di rapimento da parte di alieni), nell’Abominevole Uomo delle Nevi, nel Mostro di Lochness (e vi sono gite organizzate per i turisti affinché possano avvistarlo), nei vampiri (ancora nel febbraio 2004 in Romania vari membri della famiglia Petre temettero che un loro parente defunto fosse diventato un vampiro, così scavarono, ne riportarono in superficie il cadavere, strapparono via il cuore, lo bruciarono e sciolsero le ceneri ottenute nell’acqua per berlo). Gli antichi conferivano qualità sacre ai loro mostri e si ritenevano responsabili della loro esistenza: il Minotauro era nato a causa della lussuria di Pasifae, e le sirene esistettero per impedire che gli uomini varcassero limiti proibiti. Come ha chiaramente mostrato Paul Veyne, «è ovvio che credevano nei loro miti!». Credettero veramente che fossero veri? «La verità», risponde Veyne, «è la pellicola di autosoddisfazione gregaria che ci separa dalla volontà di potere». Oggi noi crediamo nei mostri, ma non vogliamo esserne responsabili. Per noi la loro esistenza non è più una questione di verità, bensì di distacco dalla verità, di rifiuto ad ammettere che siamo capaci – tutti noi, ognuno di noi – di commettere le azioni più straordinarie e i delitti più abietti.
(Traduzione di Anna Bissanti)

Repubblica 2.2.14
È un luogo dell’orrore ma anche di fascinazione
In tali figure incarniamo le pulsioni più scabrose e meno riconducibili a un’idea di civiltà. Rappresentano qualcosa che abita in noi, ma che è eccessivo
di Massimo Recalcati


Le immagini del mostruoso hanno da sempre popolato la fantasia umana e le sue narrazioni: dai graffiti preistorici alle ultime immagini cinematografiche, dai miti alle ultime produzioni letterarie. La tesi che Freud sostiene è che in tutte queste rappresentazioni gli esseri umani provano a dare voce e corpo al mostro che li abita. Quale mostro? Le spinte pulsionali più scabrose e più irriducibili al programma della Civiltà: la pulsione aggressiva e la pulsione sessuale, l’avidità sconfinata della pulsione che per raggiungere il suo fine rifiuta ogni limite imposto dalle leggi della Cultura.
L’apparizione del lupo cattivo, del cane nero, dell’animale feroce, dell’orco spietato, del drago con la lingua di fuoco, popolano regolarmente l’universo immaginario dei bambini che in questo modo provano a prendere contatto con le loro dinamiche pulsionali più perturbanti. Anche nell’adolescenza la presenza del mostruoso ricorre con costanza. Con le trasformazioni della pubertà l’adolescente fa l’esperienza inquietante che ciò che minaccia la propria identità viene dal proprio corpo. Il corpo pulsionale sgomita, emerge come una lava vulcanica che destabilizza l’immagine dell’Io che l’infanzia ha forgiato. È il problema che attraversa il disagio della giovinezza: come dare una forma al corpo informe della pulsione sessuale? Come dare diritto di cittadinanza al mostro che portiamo dentro di noi? Conosciamo la diffusione tra gli adolescenti di quei fenomeni che la psicopatologia ordina come dismorfofobici e che riguardano l’alterazione della percezione della propria immagine corporea riflessa nello specchio. In questi fenomeni l’immagine si deforma, appare straniera, il soggetto non vi si può più riconoscere. La sua deformazione mostruosa denuncia il sisma della pubertà come ingovernabile: cosa sto diventando? Chi sono? In quale mostro mi sto trasformando? Una mia giovane paziente bulimica alla fine di ogni abbuffata si sentiva simile a Hulk, il celebre mostro verde di Marwell risultato di un esperimento scientifico finito male. Metamorfosi atroce dell’immagine che troviamo anche in moltissime altre sequenze cinematografiche dove il corpo, parassitato al suo interno, diventa teatro di trasformazioni drammatiche.
Il mostruoso non è solo il luogo dell’orrore, ma anche quello di una fascinazione misteriosa perché incarna qualcosa che pur abitando in noi stessi ci eccede, diventando un oggetto, al tempo stesso, d’angoscia e di curiosità. La figura narrativa e cinematografica di Harry Potter ha ottenuto un successo planetario tra i ragazzini proprio perché il suo essere continuamente alle prese con mostri, demoni, magie e incantesimi rivela lo statuto ambivalente del mostruoso, sorgente di terrore ma anche di una vera e propria passione euristica.
Questo carattere tutto interno, “inconscio” direbbe Freud, del mostruoso ci viene rivelato, in un contrappunto sottile, da uno storico film di David Lynch com’è Elephant man.
Il protagonista è un essere umano deturpato nel volto da masse tumorali abnormi e costretto a ricoprirsi con un sacco per non diventare oggetto di angoscia. Nondimeno al di sotto di questa orribile immagine non c’è affatto un mostro, ma una persona dolce e sfortunata che rimpiange con tenerezza l’amore della propria madre, come per indicare la non coincidenza tra l’interno e l’esterno. Lo sappiamo per esperienza: al di là di un cattivo e farsesco lombrosianesimo i volti d’angelo non sempre rivelano un’anima altrettanto angelica. Per questa ragione il vero mostro nel film di Lynch non è il povero “Elephant man”, ma colui che sfrutta cinicamente quella mostruosità facendone uno spettacolo da circo e gli spettatori che pagano il biglietto per contemplarla divertiti. Accadde anche con l’anarchico Valpreda nel tempo della strategia della tensione: il mostro in prima pagina sembrava offrire un trattamento rassicurante dell’orrore della strage, la quale però non fu affatto concepita da chi era fuori dal sistema, ma da servizi deviati interni al sistema stesso. È questo tutto il peso specifico della tesi freudiana: l’angoscia per il mostruoso – l’attentato terrorista – riaccende le opzioni fobiche dei bambini impauriti dalla presenza misteriosa del loro corpo pulsionale. C’è bisogno di una sua evacuazione immediata: il mostro non sono Io, ma è sempre l’Altro (il cane nero, la strega, l’Orco, l’ebreo, il gay, l’anarchico terrorista). Questo significa che i “veri” mostri (Hitler, Stalin o il padre-padrone incestuoso che prostituisce e abusa sessualmente delle proprie figlie rappresentato dal film greco di Alexandros Avranas, Miss Violence),
sono coloro che non vogliono in nessun modo incontrare il mostro che sono. Paranoia e perversione: per evitare l’incontro con il mostro il perverso si elegge ad Io ideale, realizzando con tenacia e perseveranza il suo disegno di costituirsi come un Egoarca; il paranoico ricerca invece l’impuro con il quale identificare il mostro per scagliarvi contro il proprio odio infinito. In questo senso Gesù aveva anticipato Freud: guardare la pagliuzza nell’occhio del nemico ripara dal dover constatare la trave che ci acceca.

Repubblica 2.2.14
Fouché
L’uomo che tradì Robespierre e Napoleone
di Giulio Azzolini


Un’altra volta Fouché. Di nuovo in libreria, nella storica traduzione di Lavinia Mazzucchetti, una delle migliori biografie scritte da Stefan Zweig. Torna, come in vita sua sempre è tornato, il più indecifrabile protagonista della Francia rivoluzionaria. Ma chi fu davvero Joseph Fouché?
Uomo di Stato sì, statista no; potente senza capeggiare; sempre su posizioni diverse, sempre vincente; l’unico che né Robespierre né Napoleone riuscirono a eliminare. Vecchio amico del primo, braccio destro del secondo, ha sedotto, tradito e sconfitto entrambi. Ecco perché, forte dell’amicizia con Freud, nel 1929 Zweig sceglie di misurarsi con la personalità geniale del politico algido e implacabile che già aveva ammaliato Balzac. Dove si nasconde l’unicità di Fouché? I contorni di un personaggio dovrebbero essere rotondi, invece la chiave del suo successo fu l’assoluta mancanza di carattere.
Questa, si replicherà, fu anche la ragione del suo esilio mortale a Trieste. Ma il narratore viennese è troppo esperto per vestire la storia con le facili sembianze di un destino. Semmai, il ministro della Polizia è caduto perché ha ceduto al demone napoleonico. E, stregato della gloria, ha tradito sé stesso.
FOUCHÉ di Stefan Zweig Castelvecchi, trad. di Lavinia Mazzucchetti, pagg. 220, euro 18,50

Repubblica 2.2.14
I territori della psiche
le ultime pubblicazioni


LA MENTALIZZAZIONE NEL CICLO DI VITA
Viene spiegato come le concezioni sullo sviluppo del sé e delle relazioni interpersonali possano aiutare nel sostenere il benessere emotivo dei bambini e degli adolescenti sia all’interno della pratica clinica sia in altri contesti.
a cura di Nick Midgley e Ioanna Vrouv Raffaello Cortina Pagg. 277, euro 30

NARCISO E GLI ALTRI
Partendo dai miti di Narciso ed Eco, il libro parla dei legami che le molte proposte del cambiamento sociale non offrono e delle inevitabili necessità di ritiro dall’uso continuo di questi legami.
a cura di Marina Breccia Alpes Pagg. 226, euro 18

L’INCONSCIO PUÒ PENSARE?
Mantenere un legame con i movimenti dell’inconscio è dare un valore al pensiero per arrivare a un’altra forma di ragione che accolga finalmente il mondo del sentire. In altre parole, si mostra una ragione che sa riconoscere l’inconscio come forma di pensiero.
a cura di Chiara Zamboni Moretti&Vitali Pagg. 126, euro 14

IL LUTTO IMPOSSIBILE
Viene presentato un modello originale di psicoterapia che si iscrive nel quadro della terapia familiare sistemica. Ogni intervento è sotteso alla ricerca di significato di ciò che avviene nell’incontro tra il terapeuta e il sistema familiare.
di Edith Goldbeter-Merinfeld Franco Angeli Pagg. 240, euro 32

IL TERAPEUTA CONSAPEVOLE
Offre una riflessione approfondita sulla mente, il cervello e le relazioni umane, dimostrando come il paziente risponda meglio alla terapia se il terapeuta è capace di coltivare con consapevolezza la relazione, facendosi carico di essa in modo premuroso.
di Daniel J. Siegel Istituto di Scienze Cognitive Pagg. 150, euro 37

Repubblica 2.2.14
Odilon Redon
Il pittore incantato che evocava con i colori le creature fantastiche del mondo immaginario
di Fabrizio D’Amico


Era nato l’anno medesimo di Monet, il 1840: ma fino alla fine del secolo, dunque fin quasi ai suoi sessant’anni, Odilon Redon non ebbe un sol grano della fama che l’avrebbe poi circondato. E ancora nel 1913 – a tre anni dalla morte – quando l’Armory Show di New York, che portò per la prima volta oltreoceano l’avanguardia europea a confrontarsi con la pittura del nuovo mondo, gli dedicò una vasta sala, sembrò una scommessa che azzardavano gli organizzatori quel loro inserirlo fra grandi del XIX secolo. Forse, questo strano ritardo, avvenne perché le sue immagini s’erano rivolte per tanti anni ai letterati più che ai pittori suoi compagni. Forse, per quel suo testardo esprimersi solo con il nero del carbone o dell’inchiostro della pietra litografica. O forse perché – come scrisse Apollinaire quello stesso 1913, mettendolo accanto, ma un gradino più indietro, rispetto ai «grandi sopravvissuti dell’impressionismo » – la sua «fantasia è stata più spesso eccitata dalle pittoresche invenzioni di poeti e dei novellatori che dalla natura».
Redon ne era d’altronde consapevole: «i miei disegni – scrisse – ispirano, ma non definiscono. Non individuano alcunché.
Ci collocano, come la musica, nel mondo ambiguo dell’indeterminato » . Per vent’anni almeno – i Settanta e gli Ottanta del secolo, che avevano visto a Parigi, dopo lunghe battaglie, l’affermarsi della verità impressionista – Redon stette avvinto ai suoi “noirs”, alle sue “ombre” nelle quali, scoperte «negli angoli bui della casa», egli rinveniva l’ambiguità e la continua metamorfosi delle forme naturali.
Così, per lui, voli d’uccelli misteriosi, teste mozze offerte su di un vassoio, occhi sbarrati racchiusi in un parallelepipedo volante, sfere incendiate, volti ghignanti di cherubino mescolavano la loro esistenza con quella di ragni spaventevoli, o di patetici sguardi di eteree fanciulle: in un rincorrersi di minaccia e bellezza, di follia e naturalezza. O di malattia e di delirio, come diceva di quei fogli Jean des Esseintes, protagonista del pri-
mo romanzo simbolista, e subito assai popolare, di Joris Karl Huysmans, À rebours, che diede una prima notorietà a Redon.
Oggi la Fondazione Beyeler di Basilea inaugura una mostra di Redon (a cura di Raphaël Bouvier; fino al 18 maggio) che, attraverso ottanta opere, unisce quel primo tempo del pittore a quello della sua maturità e dell’età tarda; il tempo in cui, con una riconversione radicale, Redon abbandona il nero (che aveva chiamato l’autentico «agente dello spirito, molto più che non lo sia il bel colore del prisma») per adottare una colorazione ricca e variata, data dal pastello e dall’olio. Nell’uno e l’altro suo tempo, Redon fu protagonista della lunga età, difficile come forse nessun’altra a delimitarsi in anni precisi, del simbolismo; le cui premesse affondano nel XVIII secolo, e le cui propaggini ultime, ma ancora ben vive, ramificano dentro il XX: andando dunque quei climi dall’incerto territorio di confine tra neoclassico e romantico, diffuso in tutta Europa, sino alle estreme diramazioni del primo surrealismo (Redon influenzò profondamente, ad esempio, René Magritte, belga come belga era stata la prima “fortuna” del suo immaginario). Radici lunghe, allora, sono le sue: radici che da Goya giungono a Pierre Puvis de Chavannes, e a Rodolphe Bresdin, di cui egli si dichiarò “allievo” nella scheda del primo Salon cui fu ammesso, nel 1867, agli albori della sua educazione all’arte. Poi venne il tempo delle “ombre”, al culmine del quale egli espose – e fu certo un’improbabile intromissione, la sua – all’ultima mostra impressionista, del 1886.
Finalmente, all’aprirsi del tempo del colore, le forme si placano. I mostri che hanno abitato i fogli della giovinezza arretrano, e al loro posto ecco accamparsi in uno spazio aperto e senza confini memorie mitologiche, reminiscenze classiche, visioni – persino – religiose. Sembra che s’avveri, in queste nuove immagini, la predizione di Gauguin, che sempre vi aveva scorto «non mostri, ma creature dell’immaginario ». Nel colore – spesso acquoreo, come bagnato dalla rugiada del sogno, o immalinconito dal velo d’una lacrima – si compongono ora le storie di Redon. La speranza d’un cielo trapunto di fiori che salgono vertiginosi lo spazio, o percorso dal volo delle farfalle – come in
Papillons, del Museum of Modern Art di New York – prende il posto prima occupato dall’ansia e dallo spavento (qui documentato in memorabili e celebri fogli giovanili, come la Tête de martyr sur une coupe del ’77 o le litografie per Dans le rêve del ’79).
A tener unito il prima e il dopo di Redon è, da un canto, la vita simbiotica ch’egli sempre assicura alle sue creature: che è come non conoscessero un’esistenza autonoma, ma la cercassero nel loro scambievole rapporto: il che è appunto anche alla base della metamorfosi cui i suoi esseri soggiacciono, per vivere. E dall’altro quel senso commosso di prossimità, o di partecipazione, che Redon regala loro: come se sempre egli volesse seguirli nelle strane esistenze che vivono, forse avvolte dalla malinconia di non potersi svelare più vere.

Il Sole Domenica 2.2.14
Scoperte d'archivio
Quest'italiano? È arabo
Un manoscritto custodito all'Archivio di Pisa (già noto a Michele Amari) è stato ora ben ristudiato da Daniele Baglioni che sul fenomeno dei documenti scritti in altri alfabeti ha costruito un convegno
di Lorenzo Tomasin


Restò sorpreso Michele Amari, e addirittura contrariato davanti a un grande foglio di carta interamente vergato in caratteri orientali in cui s'imbatté mentre attendeva all'edizione dei diplomi arabi allora conservati nell'Archivio di Firenze. Correva il 1860 circa, e l'Italia in via d'unificazione si andava dotando di una severa scuola filologica e storica, fors'anche superiore per vaglia alla classe politica che la guidava. Amari, siciliano, fondava con i suoi studi la nostra moderna arabistica, e non doveva essere persona incline alla stravaganza: si può ben immaginare la sua perplessità di fronte a un documento – una lettera diplomatica del 1366, rivolta dall'emiro di Bona e Bugia (le attuali ‘Anna-ba e Bigva-ya, sulla costa algerina) al doge di Pisa Giovanni de' Conti – di cui lo stesso archivio conservava anche la versione originale e più prevedibile, scritta in lingua e in alfabeto arabo. Ma quel foglio no: lì lo stesso testo era scritto sì in caratteri arabi, ma in una lingua che Amari non riconobbe nemmeno alla prima lettura, per poi capire: «È lingua italiana scritta in caratteri arabici!». Pur convinto di trovarsi davanti a un «mostro in un museo di storia naturale», Amari scelse di pubblicare quel testo assieme agli altri, cercando di trascrivere in modo plausibile ma non privo di approssimazioni ciò che, senza l'aiuto dell'originale arabo, lui – italiano e perfettamente arabofono – non avrebbe quasi compreso. «Inm ddi ki bi.tus m.zrkrdius daura bir su m.sâg M.h.m..d lkr.sius wabirtut l.sua k.nbâni elsua s.kâsc g.nrar salutam...». Traduzione, se così si possa chiamare: «In nome di Dio che, pietoso, misericordioso, darà pel suo messaggio Maometto, il grazioso, e per tutti i suoi compagni e i suoi seguaci, general salute».
Scrivere un testo in una lingua straniera – e particolarmente in una lingua non semitica – adattandone il suono ai segni dell'alfabeto arabo è impresa estremamente complicata, il cui esito risulta comprensibile solo notando sistematicamente – e con vari adattamenti – i segni vocalici di cui le grafie delle lingue semitiche fanno, come è noto, volentieri a meno, e adottando una serie di equivalenze non sempre perfette tra le consonanti dell'arabo e quelle della lingua di che si sta trascrivendo. Col risultato, nel nostro caso, che anche dopo aver consultato un esperto di lingue romanze, Amari restava in dubbio persino sulla lingua, o sulla miscela di lingue che l'autore di quel bizzarro testo aveva nella mente: sarà stato, ne concludeva, «un giudeo di Tunis o spagnuolo, il quale avea pur appreso da' Pisani molte parole toscane e vi mescolava a volta a volta particelle arabiche o spagnuole».
Riesumato a Firenze, il «mostro» restò di fatto chiuso nell'umbratile bozzolo filologico in cui l'aveva restituito Amari anche dopo il ritorno a Pisa, nel cui Archivio di Stato quel foglio si trova oggi accuratamente conservato, assieme a tutta la documentazione relativa alla vita pubblica del Comune medievale. Quasi nessuno se ne ricordò più (con la lodevole eccezione di Livio Petrucci, che tuttavia già vent'anni fa gettava la spugna di fronte a difficoltà linguistiche insuperabili per un filologo italiano digiuno di arabo). Eppure, nel frattempo, i filologi romanzi del Novecento studiavano e pubblicavano i numerosi testi scritti durante il medioevo in volgari italiani e redatti, per varie ragioni, con alfabeti diversi da quello latino: in greco, soprattutto nel Meridione e particolarmente in Puglia, o in ebraico.
Ma in arabo, niente: neanche dalla Sicilia conquistata dai Mori, o dalla Venezia "porta d'Oriente" che tanto aveva commerciato e carteggiato col mondo islamico. La stessa Pisa può vantare, in quest'àmbito, un altro curioso cimelio, cioè la traduzione in pisano di un trattato di pace con Tunisi, del 1264, ricavata da un originale arabo ora perduto. Ma in quel caso, il testo è interamente confezionato in veste occidentale, cioè è un testo scritto in lingua romanza e in grafia latina, per essere conservato presso la cancelleria della città toscana.
Perché dunque, nel caso della lettera algerina, qualcuno ricorse a quella strana traslitterazione in caratteri arabi? A riscoprire il documento, proponendone una nuova e più attendibile edizione, e avanzando un'interessante ipotesi sul suo significato, è ora Daniele Baglioni, studioso di storia della lingua italiana dell'Università Ca' Foscari di Venezia, che attorno al documento algerino-pisano ha costruito, di fatto, un intero convegno (tenutosi a Venezia) dedicato alle lingue scritte con alfabeti propri di altre varietà, cioè ai contatti, non sempre prevedibili, tra sistemi linguistici e sistemi grafici di diversa origine.
Partendo da indizi materiali relativi al foglio trecentesco, che presenta una filigrana di tipo italiano e non mostra segni di piegatura (dunque non fu mai spedito, e fu utilizzato a Pisa), Baglioni ipotizza persuasivamente che lo strano testo – sostanzialmente incomprensibile per chiunque non dominasse il sistema di equivalenze qui escogitato per rendere i suoni pisani con caratteri arabi, cioè per chiunque non ne fosse l'autore – sia la soluzione inventata dall'ambasciatore del l'emiro per declamare davanti al doge di Pisa il testo della lettera tradotto in pisano. Non essendo in grado di leggere l'alfabeto latino, l'ingegnoso diplomatico ne trascrisse la traduzione – realizzata forse da un interprete locale: non ne mancavano, a Pisa – in una forma a lui leggibile. Cioè in alfabeto arabo.
Un po' come se un ambasciatore occidentale dovendo parlare in Cina trascrivesse oggi un testo in cinese usando l'alfabeto latino, e leggendolo senza conoscere, o conoscendo solo superficialmente il cinese. Se l'ipotesi di Baglioni sia corretta, non lo sapremo mai con certezza.
Così come non sapremo mai quale sia stato l'effetto della presunta declamazione presso il pubblico pisano. Di fronte a frasi come «éild:iy siya fuws.turu éayuwt. éisaluwt. kun.buyuwtu éimizir.kuwridiyah» (riporto semplificando la nuova trascrizione di Baglioni: «Iddio sia il vostro aiuto e salute compiuta e misericordia»), è probabile che più di un qualche pisano abbia fatto commenti del tipo: «questo per me è arabo» (o forse no, visto che simili espressioni per riferirsi a lingue incomprensibili sembrano essersi affermate in italiano solo nel secolo scorso). Fortunatamente, il testo della lettera è complessivamente generico, e contiene quasi solo una serie di espressioni d'amicizia e di reciproca tolleranza: l'abile mimica dell'ambasciatore algerino avrà fatto comprendere in qualche modo quello che la sua lingua pisano-algerina rendeva al massimo intuibile.

Il Sole Domenica 2.2.14
Italiano usato
Scrausi contro letterati
Un ampio studio di Enrico Testa dimostra che dal Cinquecento è esistito un italiano semplice che consentiva la comunicazione tra classi sociali e zone diverse del Paese
di Giuseppe Antonelli


Bellezze Ursini viveva a Collevecchio, un piccolo centro della Sabina tra Roma e Rieti, e al suo lavoro di domestica alternava ogni tanto quello di guaritrice: un'attività mal vista, per cui nel 1527 (o forse 1528) si ritrovò a essere processata con l'accusa di stregoneria. Stremata dalle torture, finì per scrivere una confessione autografa in cui – sperando nel perdono – riconosceva tutte le colpe che le erano state attribuite. Non servì a niente: prima di finire sul rogo, Bellezze preferì suicidarsi in carcere.
Quelle otto paginette scritte da una mano molto incerta ci dicono oggi che nella campagna romana poteva esserci, agli inizi del Cinquecento, una donna – una popolana – in grado di scrivere. E qualcosa in più ci dice la trascrizione ufficiale che delle sue parole fece il notaio Luca Antonio, rimaneggiando i fatti che non collimavano perfettamente con le accuse e intervenendo sistematicamente sulla veste linguistica, come per rendere conforme ogni aspetto della confessione a una norma superiore (o almeno provarci). Lei scrive «io aio qumenzato a scioiere lu sacco» (a vuotare il sacco, a confessare tutto) «de che semo vetate dale nostre patrone, e nollo possemo dire se non a chi imparamo» (non possiamo rivelarlo se non a quelle a cui insegniamo l'arte della stregoneria). Lui corregge: «io ho comenziato ad sciogliere el sacco, benché siamo vetate dalle nostre patrone, che non lo habiamo mai a dire, se non ad chi el volesse inparare».
Si trova qui perfettamente simboleggiato – anzi, è proprio il caso di dire: incarnato – quel confronto/scontro tra due mondi sociali e culturali di cui la lingua è al tempo stesso spia e strumento. Nell'ampio e acuto studio di Enrico Testa dedicato all'Italiano nascosto, l'attenzione si appunta sul livello basso: quello che viene definito (riprendendo le parole di un personaggio di Landolfi) "italiano pidocchiale". "Italiano scrauso", potremmo anche chiamarlo, facendo leva su un aggettivo che – usato da Bellezze nella sua confessione («non poi intrare in questa arte si sì scrausa, senza stuteza e bona parlatura») – riemergerà alla fine del Novecento nel gergo dei tossicodipendenti romani (di "robba scrausa" si parla in Amore tossico, film di Claudio Caligari), come a segnalare una sotterranea continuità nella lingua degli emarginati.
Ma nel suo libro Testa si serve anche di altre definizioni. Quella che i linguisti usano più spesso è "italiano popolare", definizione che – applicata ai secoli precedenti al Cinquecento – risulterebbe quasi ridondante. All'epoca, infatti, la lingua parlata al posto del latino non si definiva ancora italiano, ma volgare: cioè appunto «lingua del volgo, del popolo». Certo: accanto al volgare per dir così popolare, si sviluppa per tempo un volgare nobilitato da un raffinatissimo uso letterario. Ciò non toglie che una vasta mole di scritture tre-quattrocentesche sia opera di illetterati alfabetizzati, ovvero – dato che litterae indicava per antonomasia il latino – persone che non conoscevano il latino, ma nondimeno – dotate di una cultura prevalentemente pratica – intrattenevano con la scrittura un rapporto quotidiano e disinibito (il caso limite potrebbe essere l'omo sanza lettere Leonardo da Vinci). Basta pensare ai mercanti, con la loro fittissima produzione di epistole, libri di conto, ricordi: il solo archivio del mercante pratese Francesco Datini contiene circa 125mila missive, e lui stesso (soprannominato dai contemporanei "il ricco") era un epistolografo instancabile: «ò anchora a schrivere a Simone e a Tomaxo di ser Giovanni: e pure si vorebe un pocho dormire».
Poi vennero la diffusione della stampa e soprattutto la codificazione grammaticale della lingua letteraria, con la contrapposizione sempre più netta tra letterati e ignoranti, tra scrivere bene e scrivere male: «differentemente dai secoli precedenti, in cui la situazione si presentava ancora fluida e variamente polimorfica, ora l'affermarsi di una regola meglio consente la riconoscibilità di quanto eccede da essa». Quell'ora comincia nel 1525, con la pubblicazione delle Prose della volgar lingua dell'umanista veneziano Pietro Bembo. Il quale, rigidissimo nel prescrivere forme riconducibili al modello di Petrarca e di Boccaccio (e tendenzialmente coerente con queste indicazioni nel suo uso letterario), scrivendo ad amici e familiari si lasciava andare – anche lui – a vocaboli e costrutti meno togati, persino a usi impregnati di dialettalità: zoè per "cioè", disono per "dicono" o bisognerìa mi mandasti per "bisognerebbe che mi mandassi".
Pur non mancando di notare le grandi differenze, Testa sottolinea gli elementi in comune fra gli usi informali dei letterati e le scritture dei semicolti; riconduce queste ultime a quelle "officine d'italiano" che erano spesso conventi e monasteri e indaga quei libri – romanzi, testi religiosi, grammatiche popolari – di cui la scrittura degli illetterati si nutriva. Uniti alle testimonianze di un "italiano d'oltremare" che nei secoli XVI e XVII fu usato a lungo nel bacino del Mediterraneo come lingua di comunicazione tra non italiani, questi capitoli contribuiscono a mostrare in maniera convincente come «sia esistito, almeno a partire dal Cinquecento, un tipo di italiano che consentiva la comunicazione, scritta e parlata, tra individui appartenenti a diverse classi sociali e provenienti da diverse zone del paese». Un "italiano semplice", per usare un'altra delle definizioni con cui Testa identifica quest'area condivisa, punto d'incontro – non va mai dimenticato – tra il chinarsi verso il basso di alcuni e il sollevarsi sulle punte di altri per i quali l'italiano è sempre stato difficile. A confermarlo, in epoca postunitaria, lo sforzo di chi – per accedere al diritto di voto – doveva dimostrare un certo livello di competenza linguistica. Il tema per l'ammissione alle liste elettorali assegnato nel 1899 a Borgocollefegato (oggi Borgorose) nell'alto Lazio era: «Un vostro amico vi ha invitato a pranzo: gli rispondete che non potete andarci perché vostro padre è malato e non potete lasciarlo solo». Fracassi Emilio provò a cominciare così: «Stimatissimo à mico mi ài vitato a pranzo gli rispondete che non potete andarci, per che mio patre sta è malato e non potete la sciarlo solo». Il voto fu 5/10 e anche lui, come tanti altri, si ritrovò escluso dai diritti politici. L'italiano non è mai stato uguale per tutti.

Enrico Testa, L'italiano nascosto. Una storia linguistica e culturale, Einaudi, Torino, pagg. 328, € 20,00

Il Sole Domenica 2.2.14
La memoria è un palazzo
di Lina Bolzoni


Ci sono palazzi immaginari, sogni ossessivi, che tornano attraverso i secoli. E affrontano con successo la difficile sfida di parlare anche ai nostri tempi. La mostra più visitata lo scorso anno (più di 475 mila presenze) è stata la Biennale di Venezia, per la quale Massimiliano Gioni aveva scelto il difficile tema del Palazzo Enciclopedico. Punto di partenza, centro della labirintica rete delle opere esposte, era infatti il Palazzo enciclopedico di Marino Auriti. È così che un nostro emigrato negli Stati Uniti, autodidatta e sognatore, dimenticato e sconosciuto, è risalito alla ribalta, ha acquisito una notorietà quale forse non aveva mai osato immaginare.
Ne avevo parlato sulla Domenica del Sole 24 Ore l'11 marzo 2012 in occasione di una mostra che si teneva a New York, all'American Folk Art Museum. Lì credo per la prima volta veniva esposta al pubblico la straordinaria maquette di quel Palazzo enciclopedico che l'anno dopo avrebbe aperto la Biennale. «Quel che più colpisce il visitatore –scrivevo– è una grande maquette, alta più di tre metri. Al centro c'è un grattacielo a gradoni cilindrici con intorno un giardino racchiuso entro un colonnato a forma quadrata e quattro cupole dorate a segnare gli angoli. L'ha costruita, e brevettata, negli anni 50, Marino Auriti, un immigrato italiano che faceva il carrozziere in Pennsylvania ma che evidentemente coltivava idee e sogni che andavano ben al dà della sua officina meccanica. Egli progetta il Palazzo enciclopedico mondiale perché sia realizzato a Washington e diventi una specie di museo e di laboratorio universale. Vi devono trovare collocazione le statue dei grandi uomini, accanto a laboratori, cinema, televisione, sale per mostre e conferenze. E anche massime morali come questa: «Perché si onora chi uccide?» È un po' straniante, per me, vedere un progetto come questo inserito in un museo di Folk Art, di arte popolare. C'è indubbiamente una dimensione visionaria e ingenua nel Palazzo enciclopedico mondiale, ma in esso rivive anche una tradizione molto antica, che usava l'architettura per dar corpo all'utopia, e per costruire un percorso di elevazione morale in cui la memoria aveva un grande ruolo. In altri termini, mentre osservavo la grande maquette costruita da Marino Auriti, mi venivano in mente le torri della sapienza che i predicatori medievali costruivano nella mente dei loro ascoltatori e soprattutto mi venivano in mente i progetti rinascimentali di teatri della memoria, capaci di accogliere tutto il sapere, di dare collocazione all'enciclopedia».
Proprio la Biennale dell'anno scorso mi ha stimolato a tornare su questo tema, a percorrere nuove strade che legano fra loro, in modo sotterraneo, i palazzi della memoria del Rinascimento con progetti visionari che fioriscono nel 900. I loro autori sono spesso outsiders, immigrati negli Stati Uniti: ai confini tra due mondi, esprimono così il loro sguardo altro su una realtà in cui non si ritrovano.
Di palazzi immaginari è ricca la tradizione dell'arte della memoria, un'arte che nasce in tempi lontanissimi dei nostri e che ormai facciamo fatica a immaginare, dotati come siamo di libri e di computer. L'arte della memoria insegnava a osservare la mente, a sfruttarne le capacità naturali di ricordare così da accrescerle, fino a creare appunto una memoria artificiale. Una delle tecniche di base era immaginare un percorso di luoghi in cui collocare delle immagini: immagini associate ai ricordi, immagini capaci di colpirci, di emozionarci. Via via questo sistema di luoghi mentali diventa sempre più complesso, prende la forma degli edifici che venivano costruiti: dal foro alle chiese e ai monasteri, ai teatri e ai palazzi del Rinascimento. Immaginazione e realtà, palazzi costruiti nella mente e quelli costruiti dagli architetti, vengono così a rispecchiarsi, a influenzarsi a vicenda. Il teatro, il palazzo, diventa nel Rinascimento il contenitore ideale per l'enciclopedia. Giulio Camillo, che gira per l'Europa alla ricerca di sponsors, esprime perfettamente i grandi sogni del suo tempo: progetta un teatro in cui si possano collocare tutte le arti e le scienze, e insieme tutti i segreti che rendono grandi i testi di Virgilio e Cicerone, di Petrarca e di Virgilio. Le immagini che devono ornare i luoghi del teatro faranno sì che questa specie di computer definitivo si metta in moto, aiuti la mente a ricordare e a creare.
Ci sono secoli e secoli tra Camillo e Marino Auriti, ma fra i due progetti circola un'aria familiare: l'utopia di un edificio capace di contenere quanto di meglio la mente umana ha prodotto, la ricerca di quel che unisce gli uomini, piuttosto che di quel che li divide (Camillo fonda il suo teatro sull'idea di una sapienza comune alle diverse filosofie e religioni, Auriti è fiducioso nelle possibilità democratiche di un sapere che si diffonde e si affida a una semplice ma radicata moralità).
C'è un altro personaggio che in anni più vicini a noi, in California, dedica gran parte della sua vita a progettare palazzi che hanno un legame profondo e segreto con l'anima delle persone. È Achilles Rizzoli (1896-1981), figlio di una numerosa famiglia di immigrati dalla Svizzera italiana, ben presto segnata dalla sventura: la misteriosa scomparsa del padre, che risulterà poi suicida. Rizzoli conduce una vita oscura e solitaria: vive con la madre e lavora come disegnatore tecnico presso un piccolo studio di architettura. Ma ha una seconda vita: disegna enormi, minuziosi, splendidi edifici che rappresentano l'interiorità delle persone amate, a cominciare dalla madre, che disegna più volte come una grande cattedrale.
Era il suo modo di creare con l'architettura immaginaria un mondo alternativo, come aveva visto fare alla grande esposizione di San Francisco del 1915, che esaltava la rinascita della città dopo l'incendio e il terremoto. Ma in fondo interpretava così anche il modo in cui le litanie esaltano la Madonna, come Torre eburnea, come Torre di Davide. Rizzoli prendeva alla lettera quelle metafore, le trasformava in immagini riferendole alla madre e alle persone care, le elaborava entro disegni architettonici visionari, che ancora ci seducono.

Il Sole Domenica 2.2.14
Sant’Agostino
Muto dunque sono
di Armando Massarenti


Che Sant'Agostino, il vescovo, il filosofo e Padre della Chiesa, passato alla storia come Doctor Gratiae, da giovane fosse una testa calda è cosa nota. Retore superbo e orgogliosissimo, violento, dedito a piccoli furti e bravate, oltremodo sensibile alla bellezza femminile (la madre lo supplicava di non darsi «ad amorazzi e soprattutto a non commettere adulterio con donne sposate», «Però questi avvisi a me parevano avvertimenti da donnicciola e mi vergognavo di ascoltarli»), intorno ai trent'anni Agostino pareva lontanissimo, stando alle sue stesse parole, da quell'itinerarium in Deum le cui principali tappe con tanta passione sa ripercorrere, raccontare – e insegnare – nei propri scritti. Debilitato nel corpo e nello spirito, si trovava, per citare lo storico Gaston Boissier, «in uno di quei momenti in cui uno sente più uomini in sé», in preda a mille desideri disordinati ma pungolato dal bisogno di procedere nella ricerca della verità. La dantesca «diritta via», però, più che averla smarrita, il giovane Agostino stentava a riconoscerla, sicuramente a imboccarla, tra i tumulti del cuore e la debolezza della volontà che – come la filosofia ci insegna fin da Aristotele – può essere il nostro vero «nemico interiore», non riuscendo a dar compimento attraverso azioni concrete a ciò che la mente già sa. Per usare le parole di Agostino: «Mi è successo più di una volta di credermi insensibile a ogni cosa; ecco poi che mi veniva in mente un pensiero a sollecitarmi molto diversamente da quanto avevo preveduto. Parimenti spesso una qualche cosa presentatasi casualmente al pensiero non mi turbava; ma poi in realtà, ciò accadendo, mi turbava più di quanto credessi». Cosa può mettere ordine in tale confusione di pensieri e volontà, nei mesi cruciali tra il 386 e il 387 d.C., quando Agostino, fuggito dalla turbolenta vita romana per riparare a Milano – la città del maestro Ambrogio che gli avrebbe mostrato la chiave giusta per leggere le Sacre Scritture – si avvicina alla conversione – ma ancora non è battezzato – alla fede cristiana? Chi lo riporta alla ragione? Nelle pagine dei Soliloquia, scritte dal filosofo proprio nel mezzo di quei mesi tormentati, a riportarlo alla ragione è... la Ragione stessa, così importante per Agostino da diventare addirittura personaggio (con sapiente mossa di prosopopea), interlocutore e guida attraverso i dubbi teorici e di condotta, pungolo a un esercizio costante di autoanalisi e introspezione, preliminare a ogni successiva visione intellettuale o mistico atto di fede. «Sguardo dell'anima è la ragione. Ma poiché non sempre chi guarda vede realmente, lo sguardo retto e perfetto, cioè completato dal fatto di vedere, si chiama virtù». Ma la ragione va educata ed esercitata con costanza, come rivelano tutti i dialoghi di gioventù del «peccatore» Agostino, tra cui questi stessi «dialoghi con se stesso» che inscenano il confronto serrato tra Agostino e la Ratio in perfetto stile ciceroniano e prima ancora socratico: un'intensa ricerca di formazione e maturazione personale, non a caso ricca di reminiscenze d'esercizi spirituali d'antica sapienza.

Il Sole Domenica 2.2.14
Scienza e poesia dei buchi neri
di Armando Massarenti


È stata una piacevole sorpresa ascoltare, domenica scorsa, durante la bella (anche perché assai poco retorica) cerimonia del Bagutta, dalla voce di uno dei due poeti premiati, Maurizio Cucchi (autore di Malaspina, Mondadori; l'altro è Valerio Magrelli, con Geologia di un padre, Einaudi), i versi di una sua poesia, che contiene la citazione di un celebre astrofisico, Stephen Hawking: «Non so perché rimango fermo,/ attratto da queste placide immagini / multiple di micromondi in abbandono, / senza presenza umana, dove ogni cosa, / ogni dettaglio è oggetto, è specchio, / specchio di noi, del nostro / esserci, del nostro transito ignoto, / gioioso sforzo o lamento. Intanto // mando a memoria tra armonia e disagio / queste parole del cosmologo lucente / tra buio e spazio: "Noi siamo solo / una varietà evoluta di scimmie / su un pianeta secondario di una stella / insignificante. Ma siamo in grado / di capire l'universo, e questo / ci rende molto, molto speciali"». La citazione conferma l'attenzione dei poeti e dei letterati di oggi verso ciò che dicono gli scienziati, sapendo che è nei dipartimenti di astrofisica o di genetica che, come ebbe a dire qualche anno fa George Steiner, «la creatività spesso ferve assai più che in quelli di letteratura». «Capire l'universo» implica grande immaginazione e la capacità di pensare a mondi e realtà possibili. E implica dispute accese, come quella raccontata in La guerra dei buchi neri (Adelphi, 2009) da un altro grande fisico, Leonard Susskind; e cambi di rotta, come quello dello stesso Hawking che nei giorni scorsi ha dichiarato di aver cambiato idea proprio nella direzione auspicata da Susskind. Quarant'anni fa, nel 1974, Hawking calcolò che i buchi neri non sono del tutto neri: possono liberare nello spazio energia e particelle, in quantità inversamente proporzionale alla massa, portando a una sorta di evaporazione, e persino esplodere. Ma se i buchi neri «evaporano», emettono cioè radiazione termica, e rimpiccioliscono nel corso del processo sino a scomparire, emerge una domanda cruciale, sulla quale si dividevano i due scienziati: l'informazione che essi inghiottono riemerge oppure no quando il buco nero scompare? È questo il senso dell'esperimento mentale che Hawking propose nel 1976: immaginò di gettare una certa quantità di informazione – un libro, un computer, una particella elementare – in un buco nero. I buchi neri sono trappole definitive, sentenziò: «quell'informazione viene cancellata per sempre». Per un fisico quantistico come Susskind, questa era una dichiarazione di guerra. Hawking «minacciava di distruggere l'intero edificio della fisica moderna, facendone saltare le fondamenta», mettendo a rischio cioè «la legge basilare della natura» secondo cui nell'informazione nulla si crea e nulla si distrugge. Dunque i casi erano due: «o Hawking aveva torto, o il trisecolare pilastro della fisica non reggeva più». Bene, ora che Hawking ha cambiato idea, in un processo di revisione in realtà già in atto dal 2004, sostenendo che ciò che entra in un buco nero in qualche modo, sia pure notevolmente mutato, comunque ne viene fuori, che morale ne possiamo trarre? Che la fisica è salva? O, soprattutto, che la scienza è meravigliosa perché è fatta da persone che sanno sempre tornare sui propri passi, sapendosi dare da se stesse torto?

Il Sole Domenica 2.2.14
Errori e bugie omeriche
Valentina Prosperi ripercorre le vicende sulla base della ricostruzione di Darete, un frigio combattè le battaglie troiane. Un racconto scritto dalla parte dei perdenti
di Alessandro Schiesaro


Molti secoli prima che René Giraudoux ipotizzi che la guerra di Troia non avrà luogo si iniziano a rimproverare a Omero menzogne e falsità. Nella sua forma estrema, dopo le censure di Erodoto, questo filone meno noto della fortuna del poeta nega al padre della letteratura occidentale, e narratore principe della guerra di Troia, ogni valore storico. È una tradizione minoritaria ma affascinante, di cui ricostruiamo le tracce soprattutto in alcune opere oggi marginali che a lungo hanno invece goduto di ampio credito, tenendo viva l'idea che esistano versioni alternative perfino alle storie più radicate nell'immaginario collettivo.
Per esempio Dione Crisostomo, il grande oratore che vive nel I secolo dopo Cristo, attacca radicalmente la ricostruzione delle vicende troiane prospettata da Iliade e Odissea. Una prova per tutte: come fa Omero a riportare i conversari degli dei, anche quelli privati, come le liti coniugali tra Zeus ed Hera? Certo non poteva essere testimone oculare, e, in ogni caso, come avrebbe potuto comprendere la loro lingua? Ma se ha mentito sugli dei è naturalmente impossibile credergli quando parla di vicende umane. Dione ha ben altre fonti a sua disposizione, resoconti egizi basati addirittura sulla testimonianza diretta di Menelao, e racconta in effetti tutt'altro: Troia non è mai stata sconfitta, i due eserciti hanno siglato una pace, il cavallo di legno è solo un'offerta votiva lasciata dai Greci a testimoniare il loro insuccesso.
Nonostante l'audacia di Dione il compito di tramandare alla cultura medievale e moderna una diversa lettura degli eventi troiani tocca soprattutto a due autori pressoché sconosciuti. È infatti grazie alla traduzione latina del Diario della guerra di Troia di Ditti Cretese e della Storia della caduta di Troia di Darete Frigio – per entrambi si presuppone un originale in greco – che l'Occidente eredita un'altra visuale su quanto era accaduto agli albori della storia. Entrambi offrono al lettore un'attrattiva irresistibile. Entrambi, un greco e un troiano, garantiscono che la loro storia è frutto dell'esperienza personale, della loro presenza sul campo di battaglia. Un evento di portata epocale, la guerra che contrappone Oriente e Occidente, è ricondotto a misura d'uomo, alla dimensione del racconto autobiografico, quasi un diario, appunto. Anche Darete, alla fine della sua Storia, cita proprio le pagine vergate di giorno in giorno durante la guerra, e alcune sue osservazioni hanno un sapore colloquiale, in presa diretta. Ha conosciuto da vicino tutti i protagonisti (solo di Castore e Polluce, confessa, ha notizia indiretta) e li descrive con effetto di reale: Elena aveva splendide gambe, una bocca piccola e graziosa; la voce di Priamo era gradevole, Ettore invece balbettava un poco.
Omero, questo, non poteva farlo. La sfida è diretta, come annuncia lo storico Cornelio Nepote nella (falsa) premessa al testo latino di Darete, un testo tardo, del V o VI secolo dopo Cristo. È stato lui, racconta, a trovare e tradurre il manoscritto di Darete, e ora finalmente i lettori potranno decidere se credono «che sia più veritiera l'opera di Darete, che visse e combatté proprio nei giorni in cui i Greci stavano assediando Troia, o quella di Omero, che nacque molto anni dopo quella guerra».
Ma la Storia di Darete offre uno stimolo ancora più accattivante, perché si dice scritta da un frigio, cioè da un troiano. Il suo è quindi un racconto dalla parte dei perdenti, e riflette questa angolazione particolare. Non solo i troiani si battono con grande valore, ma all'origine del conflitto, prima ancora che Elena si lasciasse conquistare da Paride e fuggisse con lui da Sparta a Troia, erano stati i greci a rapire la sorella del re troiano Priamo. La conclusione del conflitto è altrettanto sorprendente: Troia cade perché tradita da alcuni suoi condottieri, guidati da Antenore ed Enea, dopo che questi aveva inutilmente cercato di convincere i suoi concittadini a chiedere la pace.
Virgilio conosce la tradizione che vuole Enea sfuggito al destino di Troia passando al nemico, ma nell'Eneide ne affiorano solo tracce occasionali, mimetizzate quasi fossero lapsus in un contesto che loda nel fondatore di Roma virtù e valore. È invece grazie a Darete, come spiega il libro di Valentina Prosperi, che questa anti-Eneide attraversa Medioevo e Rinascimento. Ne emerge un Enea tutt'altro che pio, e insieme la ricostruzione di uno dei grandi personaggi della letteratura moderna, quel Troilo figlio di Priamo, quasi assente in Omero, ma protagonista, grazie all'oscuro Darete, della grande «tragedia europea» (la definizione è di Piero Boitani) che affascina Boccaccio e Chaucer e Shakespeare.
Valentina Prosperi, Omero sconfitto. Ricerche sul mito di Troia dall'Antichità al Rinascimento, Edizioni di Storia   e Letteratura, Roma, pagg. 128, € 16,00.
Il testo de La storia della distruzione di Troia di Darete Frigio è disponibile presso le Edizioni dell'Orso, a cura  di G. Garbugino

Il Sole Domenica 2.2.14
Troppo facile dire amici
Facebook oggi compie dieci anni. Pensate che abbia arricchito il circolo delle vostre conoscenze? Sono vere amicizie? La socialità obbedisce a regole (e numeri) ben precisi
di Luca Pani


Buon compleanno Facebook. Era il 4 febbraio di dieci anni fa quando Mark Elliott Zuckerberg lanciava il sito allora noto come thefacebook.com e riservato a poche università scelte degli Stati Uniti: Harvard dapprima, Stanford, Columbia e Yale dopo. La strategia di diffusione inizialmente esclusiva per un prodotto che sarebbe dovuto diventare globale ha ben pagato se oggi quella creatura tecnologica si alimenta di oltre un miliardo e duecento milioni di utenti. Facebook è attualmente la nazione più abitata del pianeta ma il geniale marketing che la sostiene non sarebbe bastato se il suo funzionamento non affondasse radici profondissime nel nostro cervello sociale. La numerosità dei gruppi sociali nei primati – umani compresi – sembra essere governata da alcuni limiti cognitivi intrinseci (numero di cellule e di connessioni) del Sistema Nervoso Centrale e consente di predire quante relazioni interpersonali può facilmente avere un adulto normale prima di non amministrarle più in modo significativo per ottenere un vantaggio evolutivo. L'equazione che mette insieme le dimensioni della nostra neocorteccia con quelle del gruppo sociale che può ragionevolmente gestire è composta, come tutte le equazioni che si rispettino, di pochi numeri. Il primo numero è l'unità. Gli esseri umani evolvono verso immensi agglomerati sociali (l'area metropolitana di Tokyo ha oggi oltre trentasette milioni di abitanti) partendo dalla solitudine ancestrale di una caverna.
Il secondo numero da ricordare è 3,5 che rappresenta, più o meno, il coefficiente fisso e mediano di moltiplicazione dei possibili sei livelli di stratificazione della prossimità umana (indice di Horton-Strahler). Moltiplicando l'individuo per questo coefficiente una prima volta si giunge al nucleo più semplice che è quello familiare: padre, madre e un fratello e/o una sorella. Moltiplicando questo iniziale nucleo familiare per lo stesso coefficiente si ottiene il numero dodici che è la quantità di parenti di primo grado o di rapporti assimilabili che la corteccia prefrontale umana può tenere costruendo facilmente rapporti affettivi molto rilevanti e comunemente definiti d'amore. Moltiplicando ancora il numero ottenuto per la stessa costante si ottiene una cifra di poco superiore a 40 che è la quota di parenti di secondo grado e affini che possono essere definiti un clan o il primo nucleo di una tribù come quelle dei cacciatori-raccoglitori da cui proveniamo. Andando avanti di questo passo si generano altri numeri interessanti che sono rispettivamente 130 che equivale al numero massimo di amici che possiamo gestire in modo efficace nella vita reale e 450 che corrisponde al minimo di abitanti in un villaggio perfettamente funzionante anche per evitare eccessive riproduzioni tra consanguinei e abbattere il rischio di pericolose, sul piano evolutivo, concentrazioni genetiche. Altro numero interessante è 1575, che è il limite superiore di persone che riusciamo a "conoscere", intendendo con questo termine persone di cui siamo in grado esclusivamente di associare in modo corretto faccia e nome.
Dato che gli strati sono inclusivi uno dell'altro questo significa che nell'ultimo siamo contenuti anche noi e la nostra famiglia d'origine e ciò si traduce in centocinquanta "amici" e 1350 "conoscenze". Niente più di questo: decina più, decina meno.
Ora contate i vostri "amici" su Facebook, i followers su Twitter, o i contatti di Skype e chiedetevi onestamente con quanti di loro avete dei rapporti davvero significativi e via via meno importanti e scoprirete che i numeri sopra tornano con straordinaria precisione. E, infatti, i programmi si sono a loro volta evoluti per creare Gruppi e #hashtag che sin dal 2007 nelle Internet Relay Chats sono stati utilizzati proprio per tentare di agglomerare "amici" almeno su alcuni argomenti. Per venire incontro a queste esigenze sono state create comunità molto più esclusive come quelle di path.com oppure asmallworld.com, ma anche in questo caso non riescono a imitare la vera amicizia umana. Se serve ricordarlo la differenza tra un amico e un conoscente non è solo definita dalla profondità della relazione reciproca ma anche da quanto due persone sono disposte a fare una per l'altra e in cambio di cosa. Avere amici è strutturale e funzionale a una normale salute psichica e fisica, aumenta la resistenza del sistema immunitario e la sopravvivenza.
In accordo con queste osservazioni le informazioni sociali attivano delle aree cerebrali che governano il nostro senso del piacere e della ricompensa, inclusa la corteccia anteriore del cingolo, quella orbito-frontale, il nucleo caudato e l'accumbens e sono controllate da neurotrasmettitori e modulatori come – tra gli altri – la serotonina, l'ossitocina e le endorfine che, ad esempio, vengono rilasciate in maniera molto maggiore se eseguiamo uno stesso compito o uno sforzo fisico in compagnia. Forse, anche per questo, è molto più piacevole allenarsi in squadra (o in compagnia), mentre non avere amici è spesso sintomatico del l'inizio o dell'aggravarsi di qualunque disturbo mentale che, in alcuni casi, può essere gravissimo.
A fronte di qualche piccola certezza emergono però molte domande. Quali aspetti della nostra cognitività e del comportamento delimitano esattamente una rete sociale e – se tali limiti esistono – la tecnologia sarà in grado di superarli? Per portarci dove? Il World Wide Web è come un enorme esperimento naturale che valuta se le costrizioni imposte dalle interazioni fisiche reali possano essere sorpassate da quelle virtuali e immagina un possibile futuro nello sviluppo dei prossimi programmi che disegnano le reti sociali che verranno; ma a che prezzo?
Come verranno modificate, se mai lo saranno, la forza e la densità delle stratificazioni umane passando da quelle proprie delle comunità reali a quelle elettroniche? Alcune ricerche suggeriscono che i rapporti di sangue restano solidi e immuni all'assenza fisica sino a diciotto mesi dall'ultimo abbraccio mentre con i semplici conoscenti dopo meno di dieci mesi di silenzio la relazione è già ampiamente deteriorata. Che succederà di queste necessità quando le relazioni saranno nodi che non si sono mai incontrati davvero perché solo parte di una rete virtuale? Le risposte dipendono dal fatto che siate "cyberottimisti" o "cyberpessimisti". Nel primo caso gli effetti di questa espansione sociale, tecnicamente infinita, non può che aumentare le capacità del nostro cervello e le sfumature dei nostri comportamenti portandoci dove non possiamo neppure immaginare; nel secondo caso, nello scenario migliore, il mondo online non ha nessun effetto sulla nostra socialità reale e, anzi, potrebbe persino peggiorarla. Studi sistematici e scientifici sull'amicizia sono appena iniziati ed è forse presto per trarre delle conclusioni ma un primo risultato sembra emergere. Dato che il tempo è una delle poche variabili non comprimibili, investire ore e ore sui social media le sottrae alle relazioni reali soprattutto in famiglia e quindi "corrompe" il primo anello della catena sociale che porta sino alla partecipazione "politica" e alla vita della grande tribù umana. Paradossalmente nel mare delle relazioni e delle informazioni che viaggiano alla velocità della luce raggomitolate intorno alla Terra gli uomini del domani potrebbero ritrovarsi nel buio della caverna da cui eravamo partiti.

Il Sole Domenica 2.2.14
Intelligenti si diventa così
Le capacità critiche per orientarsi nel mare magnum dell'informazione sono meno diffuse di quanto si creda
di James Flynn


Invecchiando, sento una forte spinta a cercare di offrire alle persone un'istruzione migliore di quella che sono stato in grado di fornire ai miei studenti lavorando all'interno di diverse università. Senza dubbio questo stimolo è il sostituto, per un ateo, del desiderio che prova chi ha una fede religiosa di salvare le anime. Non posso promettere una vita dopo la morte, ma posso cercare di salvare le persone dall'ignoranza che paralizza la mente. Anche se un meteorite domani ci eliminasse tutti, quante più persone andassero incontro alla morte avendo realizzato il potenziale che è in loro, tanto più l'esperimento umano su questo pianeta potrebbe dirsi riuscito.
Conosco molte persone che hanno fatto sforzi per diventare esseri umani razionali. Leggono molto e sanno qualcosa della varietà e della storia del mondo. Sono diventati filosofi, nel senso che pesano sulla bilancia della ragione le convinzioni circa la religione, gli impegni morali, gli atteggiamenti verso lode e biasimo (libero arbitrio), e la propria idea di una buona società. Tuttavia, si sentono relativamente impotenti ad affrontare la principale minaccia odierna alla chiarezza: i mass media.
I media annebbiano la vostra mente con la massa ingente delle loro produzioni: addensano strato dopo strato fatti non digeriti, migliaia di pareri su ogni questione, dalla moralità alle scelte personali (aborto), agli effetti di ciò che si mangia (burro), alle scoperte mediche, alle ultime rivelazioni della scienza sociale (reali o ingannevoli), all'importanza delle scoperte scientifiche, al ruolo della Storia, per non parlare di tutto ciò che riguarda la crisi economica (i debiti delle banche) e la politica internazionale (l'America e le sue invasioni). È forte la tentazione di arrendersi al puro cinismo, non accettare nulla e non fidarsi di nessuno. Tuttavia, se imparerete a padroneggiare alcuni concetti-chiave, venti in tutto, io credo che potrete guardare attraverso la nebbia e vedere chiaramente il mondo reale, senza che venga più oscurato dalle lenti della tv, dei giornali, e da un uso di internet indiscriminato.
Non ho alcun desiderio di indottrinare. Non ho mai accettato il parere di qualcun altro senza prima valutarlo con la mia mente. Metto in conto che qualcuno tra coloro che leggeranno questo libro potrà rifiutare alcuni dei miei concetti-chiave, aggiungerne di propri, analizzare i problemi in modo indipendente e trarre conclusioni da solo. Quello che propongo non è il risultato di un qualche sondaggio di opinione tra esperti, ma semplicemente concetti che mi hanno aiutato a trovare la mia strada. Sono convinto che chi ha bisogno di una piccola spinta per iniziare a percorrere la strada della ragione sarà più ispirato da chi pensa di essere giunto a certe verità, che da chi, come un eterno Amleto, fa seguire a ogni affermazione commenti quali: «Ma d'altra parte Marx direbbe, ma d'altro canto le femministe direbbero, ma d'altra parte mio zio Toby direbbe». L'idea che la ragione non porti da nessuna parte se non all'indecisione è totalmente scoraggiante per chi cerca la propria strada. Sono figlio di un giornalista e le mie critiche ai media non si basano su un'opinione negativa di coloro che filmano, riportano fatti o scrivono editoriali. Tra i giornalisti vi sono, come in ogni professione, persone degne e meno degne. Potrebbero essere tutti dei santi e dei saggi, e i media continuerebbero comunque a costituire un sistema destinato a creare confusione. È la natura stessa di un sistema che trasforma ciò che lo alimenta: a volte in meglio, a volte in peggio.
Il mercato, laddove esso possa adeguatamente svilupparsi, trasforma i comportamenti egoistici (il miglior affare per me) in effetti che si rivelano essere benefici generali (beni migliori o prezzi più bassi). I media trasformano gli input che sono (in teoria) intesi a segnalare e informare, in qualcosa che può solo sopraffare e confondere: un gigantesco buffet senza etichette che indichino di cosa realmente si tratti. È un difetto endemico. Nulla vale come notizia se non attira l'attenzione. Che cosa dice il Presidente è una notizia degna di nota. Ciò che una persona ragionevole potrebbe dire circa le mezze verità o le menzogne del Presidente raramente fa notizia. Il commento è confinato a una pagina redazionale in cui un editorialista ribatte ad altri editorialisti. Includere i commenti editoriali nella notizia sarebbe ancora peggio. Si tratterebbe di un passo in direzione di un controllo governativo dei media, e potrebbe comportare il rischio di manipolazione da parte di editori mossi da interessi personali. Chiunque veda un telegiornale su Fox News e il suo programma The O'Reilly Report, e poi guardi un telegiornale su Nbc e il suo programma The Rachel Maddow Show non avrà bisogno di esser convinto.
Ognuno di noi deve acquisire un kit completo di strumenti che gli consenta di scrivere i propri editoriali. Nessuna università, né Harvard né Oxford, insegna a più che a un ristretto gruppo dei suoi studenti a pensare criticamente al di là delle discipline in cui si specializzano. Da quello che so, per le università italiane vale lo stesso. Anche i migliori laureati sanno poco di morale, o di scienze sociali, o di scienze naturali, o di economia, o di politica internazionale.
Inoltre, i docenti potrebbero averli confusi su come la verità differisce dall'illusione, o la realtà dalla finzione. Persino chi non ha mai frequentato un'università è poco svantaggiato rispetto a chi possiede una laurea. Quindi, andate avanti nella lettura di questo libro e forse comincerete a riflettere su questioni su cui finora non vi siete mai soffermati a pensare.

Il Sole Domenica 2.2.14
Noson S. Yanofsky
Aree off-limits della mente
Le scienze matematiche, fisiche e biologiche, nonostante siano state create dal nostro cervello, presentano limiti conoscitivi che fatichiamo a varcare
di Arnaldo Benini


David Hume, il filosofo che più d'ogni altro ha influenzato il pensiero scientifico, ammoniva che la mente, ristretta e angusta, non è in grado di capire la varietà e l'estensione della natura. Qualunque ipotesi che pretenda di scoprire le ultime e originarie qualità della natura è chimera e presunzione. La mente deve esser riportata back to nature e studiata come evento naturale, ma per Hume né sulla natura né su se stessa la mente può raggiungere la verità. Questa consapevolezza ha accompagnato dalle origini la scienza in riflessioni di scienziati e filosofi, da Bacone e Newton in poi. Il fisico John Archibald Wheeler diceva che più cresce l'isola della nostra conoscenza, più si allunga la costa della nostra ignoranza. Per il pioniere delle neuroscienze cognitive, Emil du Bois-Reymond, il «regno della coscienza» è irraggiungibile. Scritti di scienziati, che, al fronte della ricerca, ne conoscono i confini, sono spesso quanto di più saggio si possa leggere sui limiti della conoscenza, cioè su una delle caratteristiche essenziali della conditio humana.
Il libro di Noson S. Yanofsky, professore d'informatica all'Università di New York, è uno di questi. È uno studio d'epistemologia che esamina i limiti conoscitivi della razionalità delle scienze che, insieme alla biologia, danno un senso al mondo e a noi in esso, e cioè della matematica, della fisica cosmologica e della fisica delle particelle. Un altro testo prezioso su quest'ultimo aspetto della conoscenza è il magistrale profilo della fisica attuale del premio Nobel Steven Weinberg. Egli chiarisce che, nonostante l'enorme accumulo, negli ultimi decenni, di dati, teorie e spiegazioni esatte di tanti fenomeni naturali, la fisica cosmologica e quella delle particelle rivelano che quanto si può spiegare con esattezza è «meno di quanto si pensasse». La fisica cosmologica ha davanti a sé l'enigma inespugnabile dell'energia nera (che costituisce tre quarti dell'energia dell'universo), quella delle particelle l'impossibilità di una soluzione univoca delle equazioni della teoria delle stringhe che corrisponda al mondo che osserviamo. Già di fronte a categorie elementari dell'esistenza come il tempo e lo spazio, dice Yanofsky, la ragione, a partire dal paradosso di Zenone secondo il quale Achille non potrà mai raggiungere la tartaruga, s'arrende all'impossibilità di decidere se essi siano continui, come vuole la teoria della relatività, o discreti, come vuole la fisica quantistica.
Tempo e spazio sono prodotti di meccanismi nervosi della coscienza, che, come tutti i suoi contenuti, non riesce a definirli. La mente non riesce a raggiungere la verità anche se tutti i meccanismi della natura sono deterministici. Gli eventi caotici e quelli quantici sono, per Yanofsky, deterministici ma imprevedibili per le loro condizioni iniziali e per il gran numero dei componenti il sistema. Per sistemi deterministici imprevedibili la mente ha ideato il calcolo delle probabilità, vale a dire la meccanica statistica, che lascia nel vago il risultato. La ragione è costretta ad accettare la vistosa eccezione perché non è in grado di trovare la soluzione. È curioso, per un lettore non specialista, apprendere quanti siano i problemi che anche il più sofisticato dei computer non può risolvere e quanti siano gli enigmi della matematica infinitesimale, anche se essa è l'epìtome della ragione che l'ha creata. E sorprende che la famosa equazione di Newton sulla forza di gravità vale per due corpi, e che non si riesce a trovarne una per tre, un problema che tolse il sonno anche al matematico Henri Poincaré.
Molte pagine, fra le più interessanti, discutono il rapporto fra matematica e fisica, per corroborare l'opinione che spesso le equazioni matematiche precedono le scoperte della fisica. Nel 1927, ad esempio, con i calcoli della teoria quantistica relativistica dell'elettrone, Paul Dirac scoprì un elettrone positivo fino ad allora sconosciuto. Era il primo indizio dell'antimateria, o energia oscura, che rimane oscura verosimilmente perché composta di elementi che il cervello non può percepire, anche se si possono calcolare i suoi effetti antigravitazionali sulla velocità di espansione dell'universo. Yanofsky non considera i problemi della biologia e non si chiede quale possa essere la causa dei limiti della conoscenza, in cui tutte le categorie concettuali falliscono. Ciò vale non solo per le teorie universali ma anche per la vita pratica. Il medico specialista, ad esempio, dopo aver esaurito tutte le arti diagnostiche, deve a volte arrendersi all'evidenza che la diagnosi non è possibile. In genere non si tratta di malattie gravi o mortali, la cui causa è di regola evidente, ma di disturbi subdoli e cronici, a volte invalidanti. Si consola il paziente con la prospettiva di una diagnosi futura, che in genere non arriverà perché non rientra in ciò che la mente può indagare e conoscere. Il grande psichiatra Gaetano Benedetti ammoniva che «La psicoterapia è un'esperienza limitata, una possibilità ai margini dell'impossibile, un capire al limite dell'incomprensibile, un accompagnamento simpatetico lungo l'impenetrabilità».
La ragione è prodotta dall'attività di alcuni miliardi di neuroni della corteccia prefrontale, che lavorano in modo selettivo. È stato possibile provare, ad esempio, che un ragionamento deduttivo avviene con un meccanismo nervoso diverso da uno induttivo. Perché i meccanismi nervosi della razionalità non riescono a risolvere i problemi che essi stessi pongono alla coscienza? Il limite invalicabile della razionalità dipende verosimilmente dall'impossibilità dei meccanismi cognitivi della mente di capire se stessi. Su questo concorda la maggior parte dei neuroscienziati cognitivi. Il limite della ragione dipende dall'impossibilità dei suoi meccanismi nervosi di capire se stessi e di adattarsi alla natura dei problemi da risolvere.
Per questo non si conosce la natura di coscienza e mente, antimateria ed energia nera, le equazioni delle stringhe e tutto il resto che va oltre le capacità della mente. L'aumento della conoscenza sposta i limiti della ragione. Ciò che è al di là può essere nondimeno cercato e studiato, esorta Yanofski, con la cautela di non trascurare che la ragione, con la metodologia della scienza, è l'unico strumento che aumenti la conoscenza. Ciò che si dimostra inspiegabile va accettato senza tentare di spiegarlo con speculazioni senza controllo e senza fondamento. Di loro esiste una lussureggiante, ciarliera, fastidiosa e inutile letteratura.
ajb@bluewin.ch

Noson S. Yanofsky, The Outer Limits of Reason What Science, Mathematics, and Logic Cannot Tell Us, The Mit Press Cambridge (Mass.), London (Uk) pagg 390, € 38,00
Steven Weinberg, Physics What we Do and Don't Know, The New York Review of Books LX (17) November 7-20 2013, pagg. 86-88

Il Sole Domenica 2.2.14
L'Italia fascista vista da Roth
di Emilio Gentile


Furono molti gli stranieri che visitarono l'Italia negli anni del regime fascista. Fra questi vi fu Joseph Roth. Lo scrittore austriaco, dopo aver partecipato da volontario alla Grande guerra e aver assistito al disfacimento dell'impero austro-ungarico, che evocò con ironica nostalgia nei suoi romanzi, nel 1920 si trasferì a Berlino e divenne giornalista della «Frankfurter Zeitung». Per incarico del giornale fece numerosi viaggi all'estero. Nel 1926 fu in Russia e negli articoli descrisse «l'imborghesimento della rivoluzione bolscevica», cioè la trasformazione del «primo governo rivoluzionario del proletario nella storia e nel mondo» in uno «Stato gigantesco», con le sue ferree gerarchie, un vasta burocrazia di funzionari «buoni, coscienziosi, mediocri ottimisti e dogmatici», e una immensa massa popolare istruita nel conformismo ideologico. Dopo il terrore rosso nei primi anni della dittatura, osserva Roth, in Russia imperava «il terrore ottuso, silenzioso, nero della burocrazia, il terrore della penna e del calamaio»: «Passato è il tempo delle gesta eroiche: questo è il tempo dei diligenti lavori burocratici. Passato è il tempo delle epopee: questo è il tempo delle statistiche» (J. Roth, Viaggio in Russia, Adelphi 2001).
Due anni dopo, nell'autunno del 1928, per conto della «Frankfurter Zeitung», Roth fece un viaggio in un altro Paese dominato da un regime a partito unico, nella «quarta Italia», come egli la chiamò, dove da sei anni governava Mussolini. La prima cosa che lo colpì entrando in Italia alla stazione ferroviaria, come scrisse Roth nel suo primo articolo pubblicato il 28 ottobre, la giornata in cui il regime fascista celebrava la «marcia su Roma», fu un giovane milite fascista, con la camicia nera, larghi pantaloni da cavallerizzo, gambali splendenti, e alla cintura «una graziosa pistoletta simile più a un ornamento che a un'arma». Il giovane esibiva un viso duro, che pareva dire ai viaggiatori stranieri: «Guardatemi! Sono lo sguardo di un fascista!».
Con sarcasmo, Roth descriveva il suo stupore nel vedere ovunque la presenza di militari, come se si fosse ancora in tempo di guerra: «Quanto entusiasmo guerresco in queste stazioni, dove arrivano così tanti stranieri amanti di musei, nature pacifiche e agiate, per le quali bisognerebbe schierare piuttosto esperti storici dell'arte!». E accanto alle uniformi notò la presenza di «spie della polizia in borghese», riconoscibili «da una concezione plebea dell'assenza di eleganza» per un abbigliamento alquanto vistoso, che Roth considerava rivelatore della loro funzione, che «non è sorveglianza, ma intimidazione». Per questo, pur con «tutta la loro pericolosità» le spie fascista gli apparivano infantili, come infantili erano «i disegni primitivi che ritraggono Mussolini in posa cesarea» diffusi ovunque, mentre «serio sembra essere soltanto l'olio di ricino».
Il confronto con la Russia bolscevica era per Roth inevitabile, se non altro perché, precisava, «quotidianamente in giornali, riviste e opuscoli il fascismo viene paragonato al bolscevismo, la dittatura di Lenin alla dittatura di Mussolini». Egli però riscontrava solo differenze. Per esempio, le spie russe erano «discrete e invisibili»; il soldato della guardia rossa era «semplice e massiccio», non «aveva il profilo da imperatore e una pistola civettuola»; le immagini di Lenin erano fotografie a buon mercato, che lo ritraevano con l'aspetto di un impiegato «e una cravatta storta di pessima qualità». E se nella Russia bolscevica aveva avuto l'impressione di essere accolto da una «pericolosa, dura inesorabilità», nell'Italia fascista, con i militi armati di pistolette, gli sembrò di essere accolto «dal romanticismo trasparente di un film poliziesco»: «Mi rifiuto di pensare che queste pistolette possano sparare. Eppure, possono sparare», concludeva Roth, passando dal sarcasmo all'ironia.
Sempre oscillando fra sarcasmo e ironia, il giornalista descrisse nei successivi articoli gli aspetti tipici dell'Italia fascista: l'onnipresente culto del duce; le strade quotidianamente percorse da fascisti in marcia, che esprimevano «un'esaltazione di massa» mentre sfilavano fra curiosi silenziosi; le manifestazioni di bambini con l'uniforme dei «Balilla», trasformati in «una specie di miniature militari», e allevati nel catechismo fascista «i cui credo più importanti – citava Roth – suonano così: "Io sono l'Italia, la tua padrona, il tuo Dio"; "Credo nel genio di Mussolini"; "E nel nostro Santo Padre, il fascismo e nella comunione dei martiri"; "Nella conversione degli Italiani e nella resurrezione dell'Impero. Amen!"». Tutto ciò dimostrava che «al sentimento nazionalistico manca il senso del ridicolo». Ma sarcasmo e ironia cedevano a una serietà drammatica quando Roth parlava del noioso conformismo della stampa italiana, costretta a esibire un «ottimismo obbligato», e soprattutto quando descriveva la condizione dell'italiano comune, che viveva «nella costante paura di poter diventare sospetto» ed essere consegnato «completamente all'arbitrio della polizia».

Joseph Roth, La quarta Italia,  a cura di Susi Aigner, Castelvecchi, Roma, pagg. 56, € 8,00