lunedì 3 febbraio 2014

l’Unità 3.2.14
Si riapre il duello sul governo
Letta: subito «impegno 2014»
Ma Renzi non molla: «Prima l’Italicum o niente patto»
Il segretario del Pd resiste alle pressioni
E ai suoi confida: «La mia tabella di marcia non cambia, dobbiamo tenere il coltello dalla parte del manico»
di M. Ze.


 La mia tabella di marcia non cambia. Se non approviamo la legge elettorale in prima lettura alla Camera di Patto 2014 non si parla». Matteo Renzi è stato chiaro con i suoi fedelissimi: «Io non ci sto a far arenare l’Italicum in Parlamento. Esiglare oggi il patto di maggioranza significherebbe esattamente questo».
Il segretario del Pd, dunque, non intende invertire l’ordine del giorno che si è dato, quello schema politico che fino ad oggi gli ha fatto tenere il coltello dalla parte del manico, «ed è in questa situazione di forza che il partito deve continuare a determinare l’azione politica », ha ripetuto anche ieri. E come se non bastasse al Nazareno le parole pronunciate da Squinzi sono state prese con molta preoccupazione. «È grave che il presidente di Confindustria evochi così esplicitamente il voto anticipato », è stato il commento. A maggior ragione per Renzi diventa prioritario incassare l’Italicum, «se dovesse precipitare tutto sarebbe drammatico tornare al voto con la legge attuale». È anche per questo che nella direzione di giovedì si affronteranno le altre due riforme a cui tiene il segretario, quelle finite nel pacchetto “tutto compreso” siglato con Silvio Berlusconi: riforma del titolo V della Costituzione e Senato delle Autonomie, oltre al Jobs Act su cui si continua a lavorare. E non il patto 2014. Se Letta spinge per chiudere sul patto di maggioranza e sembra imputare soprattutto al segretario del suo partito il rallentamento in corso d’opera, Renzi non intende retrocedere di un millimetro sulle sue posizioni. Dalla riuscita del passaggio alla Camera dell’Italicum e dell’incardinamento della discussione anche sulle altre due riforme dipendono sia il futuro del leader Pd sia quello della Terza Repubblica. D’altra parte il Pd ha provato a fissare nell’ordine del giorno della Camera del 6 febbraio la ripresa dei lavori sulla legge elettorale, proprio per arrivare in tempi stretti all’approvazione, ma la presidente Boldrini ha rinviato alla settimana successiva, «quindi non è dipeso da noi questo rinvio», spiegano al Nazareno.
Rinviare la discussione in Direzione per Renzi non significa però aver rallentato i lavori sulle proposte da portare alle altre forze di maggioranza per il Patto. Il ministro Graziano Delrio ha in manola partita insieme a Lorenzo Guerini e l’obiettivo è quello di fissare alcuni punti programmatici che vanno dalla semplificazione amministrativa, alla mobilità, alle infrastrutture, alla scuola, all’ambiente. Interventi su cui il Pd si pone traguardi e tempi di realizzazione, «stavolta non si ammettono tempi biblici e dovrà essere chiaro chi si occuperà di cosa e in quali tempi». Con questo pacchetto Renzi si presenterà in Direzione, che sarà convocata subito dopo il primo passaggi alla Camera dell’Italicum, e chiederà un mandato pieno ai suoi per andare al confronto con le altre forze politiche. «Se le nostre proposte verranno incluse nel patto 2014 a quel punto, se ci sarà chiesto, diremo anche chi sono secondo noi le persone più indicate a realizzarle», spiegano dal quartier generale del sindaco. Masolo a queste condizioni, «perché a noi non interessa affatto la spartizione delle poltrone, a noi interessa solanto che questo governo inizi a fare le cose di cui hanno bisogno gli italiani».
Renzi è deciso a dettare i tempi e non a subirli, ha il vento in poppa, i sondaggi gli danno ragione e se il gradimento del governo scende, il suo sale. Quindi non intende farsi carico della responsabilità di un ulteriore galleggiamento dell’esecutivo fino a quando l’Italicum non giunge in porto. È Letta, secondo il segretario, a dover fare uno scatto in avanti.
«Ve lo immaginate che succede in Parlamento se firmiamo oggi il Patto 2014? La legge elettorale si impantana il giorno dopo», è il ragionamento del segretario. E se dalla minoranza interna gli rimproverano, come ha fatto ieri dalle pagine de l’Unità Davide Zoggia, di aver siglato un accordo con Berlusconi che sembra premiare soprattutto Fi, il segretario fa spallucce. «Quando fai una legge elettorale bipolare è evidente che spingi i partitini a scegliere: o di qua o di là», quindi il fatto che Pieferdinando Casini abbia già deciso di stare di «là», era «assolutamente previsto, nelle cose», così come è nelle cose che anche nel centrosinistra si muovano nuove dinamiche. Il rapporto con Sel? «Il dialogo è avanti, molto avanti, non è che noi stiamo fermi mentre di là si muovono», spiega uno dei collaboratori del sindaco.
Altro discorso la possibilità di ulteriori miglioramenti della legge elettorale come chiede sia la minoranza Pd sia la pletora di partiti e partitini. Su questo fronte, secondo il segretario ci sono ancora margini, purché l’impianto generale non si stravolga. La prossima fase, quella del voto degli emendamenti, quasi 400, è la più delicata, ragione per cui il segretario chiede che il Pd arrivi ad un accordo interno e tenga sotto controllo i lavori per evitare un Vietnam che i grillini soprattutto potrebbe scatenare. E ad Alfano che ripete che gli italiani non mangiano «pane e riforme », il segretario, fanno sapere i suoi, risponderà con fatti concreti: i punti programmatici da proporre a Letta.

Corriere 3.2.14
Renzi: al governo serve una vera svolta
Il segretario gli chiede uno scatto di reni ed esclude di puntare alla sua poltrona
«Enrico casca male se pensa di tirare a campare con un rimpasto»
di Maria Teresa Meli


 Matteo Renzi non vuole cadere nel gioco del governo che non va. Dice ai suoi che non sta facendo altro che aspettare di capire come intenda muoversi Letta: «Se il premier pensa di risolvere la situazione mettendo qualcuno dei miei dentro il governo, facendo solo qualche aggiustamento, non ci sto. Ci vuole una svolta. Quello che ha detto Squinzi è un campanello d’allarme da non sottovalutare». Insomma, è in attesa che Letta batta un colpo.
Matteo Renzi si rifiuta di essere messo in mezzo nel gioco del governo che non va. Dicono i suoi: sono soprattutto i lettiani e il Ncd a «praticare questo sport» per giustificare le difficoltà dell’esecutivo. Il sindaco di Firenze ribadisce ai compagni di partito che lui non sta facendo altro che aspettare di capire come intenda muoversi il premier: «Io mi sto impegnando sul fronte delle riforme, senza contare il fatto che sto conducendo il partito dentro il Pse e che sto lavorando a un progetto ampio e complesso come il «Jobs act», Letta dovrebbe occuparsi del governo. E con questo non intendo parlare del rimpasto ma dell’azione del governo. Però non vedo muoversi niente...». 
Tradotto dal politichese al «renzese» in presa diretta: «Se Enrico pensa di risolvere la situazione mettendo qualcuno dei miei dentro il governo, facendo qualche aggiustamento di programma e continuando a tirare a campare, casca male. Ci vuole una svolta. Bisogna cambiare verso anche lì. Lo avete sentito quello che ha detto Squinzi? È un campanello d’allarme da non sottovalutare». 
Insomma, anche il segretario del Pd sembra far parte di quella sempre più vasta schiera di esponenti del mondo della politica, dell’economia e dell’impresa che vorrebbero dall’esecutivo uno scatto di reni: Letta dovrebbe battere un colpo, è il leit motiv del leader. Che sembra veramente preoccupato per l’immobilismo del governo: «Devono avere più coraggio, perché se continuano così non si va da nessuna parte». Tra l’altro il sindaco di Firenze non sembra condividere l’ottimismo del premier sull’uscita dell’Italia dalla crisi. Anzi, a suo giudizio, se si procede con il metodo del «vivacchiare» si rischia di mancare l’appuntamento con l’eventuale ripresa quando mai sarà. E questo sarebbe un errore imperdonabile per la classe politica italiana, perché getterebbe il Paese nel baratro. 
Renzi è impensierito da questa difficoltà del premier di andare avanti con maggiore vigore, così come ha sollecitato anche ieri Prodi dalle colonne del Corriere . «Io — ha spiegato agli amici il segretario del Pd — ho detto a Enrico che non voglio fargli le scarpe, mi sono candidato a sindaco e ho avviato un processo di riforme anche costituzionali che prevede almeno un anno prima di andare in porto e che quindi scavalca la finestra elettorale di quest’anno. Insomma, ho fatto di tutto per tranquillizzarlo, ora però è necessario che il governo agisca con maggior coraggio, esattamente come ha fatto il nostro partito. In fondo anche io, con la storia delle riforme, ho corso il rischio di bruciarmi. E lui?». 
Secondo certi pd, nel voto segreto alla Camera il segretario potrebbe correre ancora qualche pericolo su alcuni emendamenti. Su quello sulle preferenze, per esempio, sussurra qualcuno. Ma su quel fronte Renzi sembra abbastanza tranquillo, come spiegava già giorni fa ad alcuni compagni di partito: «Alfano mi ha assicurato che per loro quella è solo una battaglia di bandiera». 
Dunque, sono altre le preoccupazioni di Renzi: anche secondo il segretario del Pd, come per Prodi e Squinzi, il governo dovrebbe essere assai meno timido e agire con ben maggiore incisività. Ed è proprio per questo che, quando sarà il momento, il sindaco sfodererà un’agenda che sarà difficile prendere sotto gamba. Né lo si potrà allettare, come fanno ancora alcuni, con il sogno della poltrona di Palazzo Chigi, da conquistare senza le elezioni: «È un tema — dice il segretario — che non è all’ordine del giorno. So che c’è chi ne parla. Non io, che ho sempre detto che non voglio scorciatoie ma prove elettorali». 
E il sogno di «dettare», nel frattempo, l’agenda al governo, quello no che Renzi non lo ha abbandonato. Sul piatto metterà la questione del lavoro, anzi, dei lavori. E altre più spinose. Una delicata per Saccomanni: la richiesta dei cinque miliardi fuori dal patto di Stabilità per la ristrutturazione degli edifici scolastici. Le altre due difficili da digerire per il Nuovo centrodestra: la revisione radicale della «Bossi-Fini» e la questione delle unioni civili. Due punti «non più rinviabili», secondo il segretario del Pd. E infatti il responsabile del settore in segreteria, Davide Faraone, ha il mandato di continuare a lavorarci proprio in questi giorni. Se Alfano e Letta pensavano di risolvere la pratica «governo» senza troppi problemi, dovranno ricredersi.

Secondo Cancrini, sì...
l’Unità 3.2.14
Il fine (di Renzi) giustifica i mezzi?
risponde Luigi Cancrini

psichiatra e psicoterapeuta

Pur di fare le riforme è lecito parlare anche col diavolo, figuriamoci se Renzi non avrebbe dovuto parlare con Berlusconi che diavolo non è. È vero, per raggiungere un fine buono è lecito ricorrere ad un mezzo cattivo, nel caso del colloquio di Renzi con Berlusconi, però, occorre dimostrare non solo che il fine (le riforme) è assolutamente necessario. ELISA MERLO
Molto al di là delle malignità più o meno strumentali sul «soccorso rosso» ad un condannato, il progetto di Renzi si propone oggi, con grande chiarezza, come un progetto di disinfestazione radicale della scena politica italiana. Sconfitto solo sul piano giudiziario, Berlusconi sarebbe rimasto una mina vagante per l’equilibrio del nostro Paese. Sconfiggerlo con il voto significherebbe (significherà) togliergli l’alibi (la legittimazione popolare) dietro cui sempre lui così abilmente ha nascosto, finora, insieme ai reati che ha commesso il grandioso conflitto d’interessi alla base del suo arricchimento spropositato e del suo potere personale. Aprendo una fase nuova della nostra storia recente nel momento in cui, in Parlamento e nel Paese, ci si confronterà fra uomini di destra e di sinistra senza la presenza ingombrante di un uomo sceso in politica per difendere se stesso e la sua ricchezza dal rischio della concorrenza leale e dal controllo dei magistrati. Quello che finirà con Berlusconi se il disegno di Renzi andrà in porto, infatti, è il tempo in cui un numero importante di elettori si è lasciato ingannare da un uomo che basava il suo carisma sulla presunzione malata di poter gestire il Paese come un’azienda. Dei cui profitti lui è stato, in gran parte, il padrone. O l’utilizzatore finale.

l’Unità 3.2.14
Il Cav accoglie Casini Alfano: ora primarie
Forza Italia in coro da Gelmini a Brunetta: «Bentornato»
Il vicepremier avvisa Renzi: «Sostenga il governo o ci sfiliamo»
Olivero: «Mai con il Cavaliere, adesso un cantiere per le europee»
di Fed. Fan.


 Angelino Alfano si bea del ritorno a Canossa di Casini e della fine della «melassa centrista». Ma l’iper attivismo di Berlusconi e il ruolo centrale che la nuova legge elettorale mira ad assegnargli lo preoccupano non poco. Come il «piano folle e segreto» annunciato al Corriere della Sera con cui il Cavaliere punta a superare la soglia del 37% e vincere le elezioni.
BOCCONI ELETTORALI E dunque, in un’apposita conferenza stampa al fianco di Fabrizio Cicchitto, il vicepremier si svincola da abbracci mortali: «Noi non siamo piccoli. Ncd è semplicemente decisivo per la vittoria. Forza Italia da sola non può ritenere, col20%dei voti, di mangiare tutti gli altri partiti». E poi avvisa anche Matteo Renzi: «Il Pd si scordi che il Nuovo Centrodestra possa sostenere il governo, guidato da un esponente del Pd, con maggiore intensità e convinzione piena di quanto non lo faccia il Pd stesso». Insomma, prove di nuove coalizioni elettorali se l’esecutivo continuerà ad avere il fiato corto per colpa del «disimpegno » del segretario di largo del Nazareno.
Con il Cavaliere si dialoga, ma ancora è pura tattica. Via libera all’alleanza solo se ci sarà «un nuovo centrodestra, un nuovo programma e primarie di coalizione per la scelta della leadership». Paletti accompagnati dalla rivendicazione di non essere «un partito azienda» bensì un movimento giovane ma che si sta radicando sul territorio. È chiaro che la competizione, in vista delle Europee, prevede di prendere le distanze. «Noi non torniamo indietro» puntualizza infatti Gaetano Quagliariello.
MARASMA AL CENTRO Forza Italia, a cui Casini guarda direttamente bypassando gli alfaniani, come è ovvio incassa il vantaggio di immagine. «Pier» è accolto a braccia aperte (sulla carta) da Brunetta, Gelmini, Savino. Giovanni Toti lo ringrazia con un sms e non vede l’ora di tornare a lavorare con lui. Più freddo Berlusconi, «non è per niente entusiasta » ha detto sibillino l’ex direttore del Tg4. Ma il Cavaliere, storicamente, non caccia via nessuno perché «anche un voto in più può rivelarsi decisivo ». E dentro piazza in Lucina vedono già l’ex presidente della Camera volare a Strasburgo in quota azzurra.
Resta il marasma nella già caotica galassia centrista. Dove la mossa di Casini - che adesso tutti si affrettano a definire «scontata e nota da tempo» - ha fatto molto rumore. Lasciando interdetti i Popolari di Mario Mauro, e soprattutto l’ala sinistra di Andrea Olivero e Lorenzo Dellai, che stavano trattando una sorta di «patto federativo » con gli alfaniani alle Europee.
Tutto ancora da definire, con i “cugini” titubanti e indecisi se contarsi con il loro simbolo o annacquarsi in favore di un soggetto più ampio. Così Casini ha strappato verso il Cavaliere, approdo più costoso politicamente parlando ma ben più sicuro. Adesso, è caos. Il ministro della Difesa Mauro, tanto per dire, ha in programma nei prossimi giorni incontri sia con Casini che con Bruno Tabacci. Quest’ultimo nella prospettiva opposta: vuole organizzare il campo avverso, il centro del centrosinistra, una lista lib-dem da affiancare al Pd. In parallelo a quella di Scelta Civica, che per il futuro guarda a Renzi e il 25 maggio correrà appaiata a «Fermare il declino».
Olivero con l’ex amico è gelido: «Nessuno stupore, non siamo nati ieri. Nessuno aveva dubbi che Casini fosse il miglior tattico che esiste nella politica italiana. Anche se così facendo ha contraddetto gli ultimi sei anni del suo movimento. Con che coraggio adesso si alleerà con la lega che sta per partire per il No Euro Tour?». In molti, tra i centristi, sostengono che si tratti di una «partita personale» e che si porterà via al massimo un senatore e quattro deputati.
Al di là dei personalismi, però, pochi dubitano che con la legge elettorale - partita ancora tutta da guardare - bisognerà riorganizzarsi in modo serio. I Popolari vogliono aprire un cantiere con chi non si riconosce nel «populismo ». Nel segno dell’Alde o del Ppe. La lista ci sarà, il nome è ancora da decidere. Anche i candidati. Come il Nuovo Centrodestra, anche Popolari e montiani puntano a coinvolgere buona parte del gruppo dirigente. «È una competizione con le preferenze, non può che far bene a livello di visibilità » spiega Olivero. Lui con ogni probabilità resterà concentrato sulla sua regione, il Piemonte, dove l’anno prossimo dovrebbe votarsi per il successore di Cota.
L’Italicum, però, se non cambia richiederà di scegliere tra destra e sinistra. Cosa farete? «Vedremo dove approderà la legge - replica lui - Di certo non guardiamo a Berlusconi. Tutto il resto è prematuro, ma posso dire che un’alleanza con Forza Italia non è in considerazione. Dobbiamo depurare il popolarismo dal pupulismo, lo diciamo da tempo».

l’Unità 3.2.14
Bruno Tabacci: «Con l’Italicum vincerà Berlusconi, Pier lo ha capito»
«Il centrodestra ha più capacità di aggregazione Renzi rischia la fine di Veltroni»
Il deputato centrista: «Adesso bisogna organizzare un centro alleato del Pd
di Federica Fantozzi


 Bruno Tabacci, oggi leader del piccolo Centro democratico, conosce Pier Ferdinando Casini da una vita insieme prima nella Dc, poi nell’Udc. E non è sorpreso della sua mossa: «Dopo il fallimento dell’operazione Monti era scontata. Ha sempre avuto una concezione fungibile delle alleanze».
Al centro regna grande confusione. Ha ragione Casini: il terzo polo l’ha fatto Grillo?
«Dal punto di vista numerico non c’è dubbio. Anche se è una posizione estrema e di protesta che mal si configura come polo di equilibrio: è l’esatto contrario. Poi, ovvio che il dibattito dopo le elezioni avrebbe portato a una legge elettorale che ridefinisse l’assetto del Paese».
Lei non vede spazio per poli autonomi né «corazzate» in campo. Auspica una coalizione di centrosinistra? Composta come?
«Lo dico da tempo. Ho partecipato alle primarie del centrosinistra e fondato Cd per rafforzare l’area centrale nello schema di un’alleanza con il Pd. Anche se sulla legge elettorale vedo scorciatoie: è illusorio dare risposte numeriche, come soglie e premi di maggioranza, a questioni politiche. E il problema dei contrappesi è delicato».
I piccoli daranno battaglia in Parlamento. Ma se l’Italicum resta così?
«Organizzeremo il centro di un centrosinistra moderno, riformatore, europeo, distante dalla destra populista». Sulla scheda ci sarà la lista Centrodemocratico?
«Non importa come si chiamerà, ma ci sarà una formazione centrista nella coalizione. Non credo allo schema bipartitico a cui punta la legge. È un’alchimia politica, non nasce dal cuore della gente».
Casini la pensa diversamente. Fa effetto sentirgli definire i neocentristi «ultimi dei mohicani».
«Casini ha buone antenne. C’è un problema pratico innescato in queste settimane dalla rimessa in circolo di Berlusconi. Quando entra in gioco, il Cavaliere ha una capacità di aggregazione superiore al Pd di Renzi che si considera autosufficiente, come Occhetto».
Teme un bis del ‘94?
«Temo un bis di Veltroni con il Pd che vuole rappresentare tutto. L’accoglienza di Sel a Bonaccini e la considerazione del centro allo zero qualcosa dimostrano una capacità di aggregazione molto modesta».
Nel centrodestra le cose stanno cambiando?
«Il Salva-Lega è un segnale. Berlusconi è tornato centrale. E l’oggettiva difficoltà del governo Letta ha superato la spaccatura a destra. Alfano sta dicendo a Renzi: o ti impegni anche tu o torno a casa».
Finirà come vent’anni fa: Casini eurodeputato eletto con le liste di Forza Italia?
«Non si può escludere. Lo schema è quello. Il tentativo Monti, dove coesistevano esigenze opposte, era sbagliato nei tempi e nei modi ma aveva una sua nobiltà. Chi si è aggregato lo ha fatto in modo strumentale. Casini aveva una riserva mentale. Eil suo ritorno avviene nel punto più basso della parabola del Cavaliere».
Allora perché farlo?
«Si è posizionato in vista delle Europee. E pensa che alle prossime elezioni politiche il centrodestra possa imporsi. Con questa legge elettorale, anche la mia opinione è che Berlusconi avrà gioco facile. Renzi si illude se vuole riproporre lo schema dell’uomo solo al comando».
Vincerà Silvio nonostante l’incandidabilità e la pena da scontare?
«Ha una potenza di fuoco impressionante con i media. È spregiudicato sulle alleanze, non si lascerà sfuggire nessuno da Fdi a Ncd. Pier lo ha capito bene. Io non condivido, ho un’altra visione. Quello che mi dispiace è che per le riforme si potrebbe anche accettare il sacrificio di questa legge elettorale, ma non c’è garanzia del pacchetto intero ».
Crede che Berlusconi farà saltare il banco dopo l’Italicum?
«Sarebbe la prima volta? A lui del Senato non importa nulla». Come potrebbe connotarsi il suo centro? «Penso a Dellai, Olivero, Bombassei, Mario Mauro. Passera? Se vuole impegnarsi, c’è spazio. Già alle Europee si può fare un’alleanza liberale nel segno dell’Alde di Verhofstadt, il terzo gruppo dopo Pse e Ppe».
Si candiderà per Strasburgo?
«Vedremo. Se c’è una partita politica ampia, potrei».
Una provocazione: a questo punto non farebbe meno fatica a entrare nel Pd, come fece Follini? «No, se lo schema è bipartitico mi rassegno e faccio altro. Non sono e non sarò un socialista europeo. Guardo all’elettorato cattolico popolare e liberal-democratico».

Corriere 3.2.14
Il leader socialista
Nencini: così la destra è favorita


 «L’Italicum ancora non è legge ma ha già sortito due effetti. Impone modifiche alla Costituzione ma di queste non si parla. Proporzionale e Carta furono concepiti assieme. Se stravolgi il primo devi rivedere alcune parti della seconda, esempio il sistema di elezione di Csm e Corte»: ad affermarlo è Riccardo Nencini. Il segretario dei socialisti critica anche l’altro aspetto delle riforme messe a punto da Matteo Renzi e Silvio Berlusconi: «Se poi abroghi il Senato, le modifiche costituzionali aumentano e vanno messe in armonia con la nuova legge. I protagonisti dell’accordo dovrebbero pensarci». Nencini guarda preoccupato all’orizzonte delle prossime elezioni Politiche e agli effetti che al momento sembra portare l’Italicum: «Il fantasma della legge elettorale sta ricoalizzando il centrodestra. E la sinistra riformista? Sola contro tutti. La condizione peggiore per affrontare il futuro. Prima che l’Italicum sia legge, questa è la priorità. Molti avversari non equivale a molta gloria».

Corriere 3.2.14
Il peso dei voti del centro L’Udc ago della bilancia (ma resterebbe senza seggi)
Con Casini FI oggi eviterebbe il ballottaggio
Berlusconi con il centro-destra raggiungerebbe il 37,9%, affermandosi al primo turno, conquistando il premio di maggioranza e ottenendo 326 seggi (di cui 259 a FI e 67 a Ncd)
La coalizione vincente rischia di rappresentare solo il 26,5% degli elettori
di Nando Pagnoncelli


La simulazione della distribuzione dei seggi sulla base del testo di legge depositato alla Commissione affari costituzionali della Camera è un esercizio teorico, una sorta di fotografia istantanea che va considerata con grande cautela alla luce di un paio di aspetti che vale la pena ricordare. Innanzitutto non è ancora nota l’offerta politica in termini di partiti, alleanze, candidati premier e listini: si tratta di elementi essenziali che possono modificare significativamente l’affluenza alle urne e gli attuali orientamenti di voto, ad esempio inducendo ad astenersi o a scegliere un altro partito l’elettore di una determinata formazione politica che si allea con una coalizione non gradita. In secondo luogo siamo lontani dalla campagna elettorale che, come è noto, solitamente mobilita elettori e sposta voti. 
Fatta la dovuta premessa, sulla base del più recente sondaggio Ipsos sulle intenzioni di voto si possono delineare due scenari: con il primo, antecedente la decisione del presidente dell’Udc Casini di rientrare nella coalizione di centrodestra, si renderebbe necessario il turno di ballottaggio giacché nessun partito o coalizione raggiunge la soglia del 37%: il centrosinistra otterrebbe il 36%, il centrodestra il 34,8%, il M5S 20,7% e il Centro il 5,4%. Il secondo scenario prevede l’ipotesi di un’alleanza dell’Udc con il centrodestra che in tal caso raggiungerebbe il 37,9%, affermandosi al primo turno, conquistando il premio di maggioranza e ottenendo 326 seggi (di cui 259 a FI e 67 a Ncd), rispetto ai 185 del centrosinistra (tutti al Pd) e ai 106 del M5S. L’Udc si attesterebbe al di sotto della soglia del 4,5% quindi, pur portando in dote i voti necessari alla vittoria della coalizione, non otterrebbe seggi. Va peraltro osservato che il partito di Casini anche nel caso di alleanza con Scelta civica rimarrebbe escluso, fermandosi ben al di sotto della soglia di sbarramento prevista per le coalizioni (12%). Come pure la Lega che, nonostante l’applicazione del cosiddetto comma «salva Lega», avrebbe poche possibilità di superare il 9% in 3 Regioni, anche sulla base dei risultati ottenuti alle elezioni politiche del 2013. Viceversa se la norma «salva Lega» fosse applicata alle circoscrizioni, come da più parti ipotizzato, la Lega avrebbe la quasi certezza di entrare in Parlamento e alcune formazioni come Sel, Grande Sud, Mpa avrebbero concrete possibilità di superare la soglia di sbarramento poiché risultano forti in territori di dimensione più ridotta rispetto al livello regionale. 
In entrambi gli scenari, quindi, solo 4 partiti sarebbero presenti alla Camera, producendo la semplificazione da molti auspicata. L’Italicum potrebbe indurre i soggetti minori a confluire in quelli maggiori, rappresentando un deterrente alla proliferazione dei partiti che negli ultimi tempi sembrava incontenibile (basti pensare che alle elezioni dello scorso anno complessivamente sono state ammesse 169 liste), ma pone due questioni: la prima riguarda il rapporto tra governabilità e rappresentanza, non tanto in termini di legittimità costituzionale ma di consenso da parte dell’opinione pubblica. Il premio di maggioranza, infatti, garantisce la governabilità (ammesso che venga meno il bicameralismo paritario) e consente di conoscere immediatamente il vincitore chiamato a governare ma, come con il Porcellum, la coalizione vincente rischia di essere rappresentativa solo di una minoranza del Paese. Immaginiamo che i voti validi (votanti effettivi meno schede bianche e nulle) siano nell’ordine del 70% e il centrodestra ottenga i voti indicati nel nostro sondaggio (37,9%): ciò significa verrebbe assegnato il 53% dei seggi alla coalizione che rappresenta il 26,5% degli elettori. Discorso analogo nel secondo scenario, solo in parte mitigato dal turno di ballottaggio che determinerebbe un consenso «formale» ma non sostanziale da parte degli elettori dei partiti esclusi dal ballottaggio, indotti a votare «il meno peggio». Ciò avrebbe inevitabili ripercussioni sulle Politiche e le riforme da adottare e sul loro sostegno da parte dei cittadini, tenuto conto che circa tre elettori su quattro non si riconosceranno nella coalizione vincente, avendo votato un partito diverso o essendosi astenuti. La seconda questione riguarda il rapporto tra governabilità e stabilità di governo: come ha osservato Michele Ainis sulle pagine del Corriere martedì 28 gennaio, se non si mette mano ai regolamenti parlamentari la coesione della maggioranza rischia di essere del tutto virtuale, dato che nel corso della legislatura nulla impedisce che si possano costituire diversi gruppi parlamentari, ciascuno in grado di influenzare le scelte governative, opporre veti e imporre condizioni, entrare nella maggioranza o uscirne, come è avvenuto nel corso degli ultimi anni.

La Stampa 3.2.14
Speranza: “Lo spettro dei 101? Sono sicuro, stavolta reggiamo”
“Non siamo una caserma, ma ce la faremo”
di Francesca Schianchi

qui

Repubblica 3.2.14
Renzi: batteremo la nuova destra
“Il centrosinistra deve vincere anche senza Casini. La legge elettorale non si tocca. Governo fino al 2018 se fa le riforme”
intervista di Claudio Tito


IL CENTROSINISTRA può vincere anche senza i centristi di Casini. La legge elettorale si può modificare solo con l’accordo di tutti. Il rimpasto lo deve decidere Letta e la legislatura può andare avanti se si fanno le riforme. Grillo si sta sgonfiando come un palloncino ma gli atti di questi giorni sono squallidi e squadristi. Il segretario del Pd Matteo Renzi
rilancia.
È SICURO che la strada imboccata può portare a disegnare un nuovo assetto istituzionale e politico. Confermando il bipolarismo e restituendo al fronte progressista la chance di guidare il paese «senza larghe intese».
«Se vogliamo il bipolarismo — avverte —, non mi stupisce che Casini stia di là. Anzi io assegno all’Italicum la forza di aver salvato questo principio. E ha messo a tacere i cantori della Prima Repubblica».
Ma non teme che Berlusconi si rafforzi? Mette insieme tutti i centristi, riunisce un bel po’ di listine e batte di nuovo il centrosinistra.
«Ma la nostra vittoria non dipende dal sistema di voto. Sarebbe il fallimento della politica se affidassimo il nostro successo alla legge elettorale e non alla qualità delle proposte e delle leadership. Vinci se affascini gli italiani con le tue idee, non se pensi di farti la legge su misura».
Lei quando si tornerà alle urne si presenterà da solo o con un’alleanza?
«È chiaro, con un’alleanza. Ma adesso siamo un passo indietro. C’è un accordo siglato da forze politiche diverse. Non accadeva dal 1993, ossia dalla fine della Prima Repubblica. Da quel momento le riforme le hanno fatte tutti a maggioranza. Riguarda anche il Senato e il Titolo V. Il dibattito non può essere allora come ci si presenterà alle elezioni. Anche se è evidente che faremo un’alleanza con forze di centro e di sinistra. Il punto però è impedire il potere di ricatto dei piccoli partiti».
Va bene. Ma prendiamo Sinistra e Libertà di Vendola. Perché dovrebbe allearsi con lei se sa di non arrivare al 4%?
«Dovranno fare uno sforzo per superare lo sbarramento. Sarebbe strano non muoversi in questa direzione. Di certo non è accettabile che chi prende una percentuale minimale poi faccia il bello e il cattivo tempo. Ricorda il 2006 e l’agonia del governo Prodi causato proprio dai partitini?».
Nel 2008 invece Veltroni ottenne un buon risultato di partito ma perse le elezioni inseguendo la vocazione maggioritaria.
«Se siamo credibili, prendiamo un voto più degli altri. Certo, se per farci paura basta uno starnuto di Casini, allora “Houston abbiamo un problema”. Siamo il Pd, noi. Dobbiamo dire qual è la nostra idea di società. Non basta più essere contro Berlusconi. Dobbiamo salvare l’Italia e cambiarla a 360 gradi. E allora
discutiamo se si fanno investimenti per la scuola e per la pubblica amministrazione. Parliamo della società, dei meriti e dell’uguaglianza».
Questo sembra uno slogan usato negli anni ‘80 da Claudio Martelli.
«Ma a un giovane che non sa chi sia Martelli, gli devi dire se vanno avanti i figli di papà o chi ha merito. Se non lo fai, allora è conservazione».
È un modo per rispondere anche a Grillo?
«Per la prima volta rincorre, è in difficoltà. Se la politica fa le cose che promette, lui si sgonfia come un palloncino».
Ora però c’è qualcosa di più, gli insulti, i libri bruciati, l’assalto alle istituzioni, la violenza. Non vede una strategia del caos, un disegno eversivo?
«Sono tutti atti tecnicamente squadristi. Alcuni di loro sono dei bravi ragazzi, ma quando scendono Grillo e Casaleggio la linea è chiara. Sperare nel fallimento e aizzare il caos. Adesso i teorici dello streaming e della trasparenza si sono ridotti a chiedere il voto segreto come
un partitino da prima Repubblica. Dovevano rendere il palazzo una casa di vetro, ma scommettono sui franchi tiratori».
Nella prima Repubblica il presidente della Camera non avrebbe mai ricevuto quegli insulti.
«Che sono squallidi. Del resto quando il pregiudicato Grillo ha l’insensibilità di dire cosa fareste in macchina con la Boldrini... Detto questo il questore Dambruoso dovrebbe dimettersi, perché non bastano le scuse dopo quello che abbiamo visto. La presidente della Camera avrebbe potuto gestire meglio l’ultima settimana anche nelle calendarizzazioni. Ma questo non può giustificare la volgarità e lo squallore dei grillini».
Lei considera il bipolarismo un elemento fondamentale. Quindi la riforma elettorale non si tocca?
«Nessun sistema elettorale è perfetto e le correzioni sono sempre possibili. È fondamentale però salvaguardare il bipolarismo, appunto, e il ballottaggio. Ma nessuno può pensare di imporre le proprie modifiche agli altri. Si cambia solo se si è tutti d’accordo».
Eppure una parte del Pd vuole intervenire sul testo anche senza l’accordo di Forza Italia.
«Condivido nel merito alcune preoccupazioni della minoranza. Ma non posso non riconoscere che Fi ha fatto un passo avanti grandissimo accettando il ballottaggio. Non si può rischiare a colpi di emendamenti di far saltare tutto. Abbiamo fatto un accordo e non accetto piccole furbizie. Berlusconi per adesso ha mantenuto gli impegni e non sarà certo il Pd a venire meno alla parola data, visto che la nostra direzione si è espressa. Siamo un partito, non un club di liberi pensatori».
Magari i forzisti non ne sono così sicuri.
«Non si preoccupino della nostra compattezza. Il 92% del gruppo democratico era in aula al momento del voto sulle pregiudiziali di costituzionalità. Quelli di NCD il 68%, quelli di scelta civica il 57%. I deputati Forza Italia erano il 77%. Semmai mi preoccupa la loro compattezza».
In che senso?
«La Lega non ha partecipato al voto e Salvini continua a dire che
non è interessato alla norma di salvaguardia regionale. Come pensano sia possibile che votiamo quell’emendamento se provoca tanto disgusto nel segretario leghista? Non sia mai che offendiamo la sua spiccata sensibilità».
Lei dice che va salvata l’Italia. Ma ci dovrebbe pensare anche il governo.
«Tocca al presidente del consiglio decidere cosa fare. Se pensa che questo governo vada bene, ok. Se pensa che non vada, dica cosa vuol cambiare e quali ministri vuole sostituire. Ma non si usi l’alibi del Pd per evocare un rimpasto o per mettere dei renziani. Questo schema mi inorridisce. Io sono il segretario del Pd e non dei renziani. Non voglio partecipare a vecchie liturgie da Prima Repubblica. Faccia lui. Non sarò mai un “vetero-cencelliano”».
Nel senso del manuale Cencelli?
«L’altro giorno nella mia stanza è venuto il capogruppo di Italia Popolare, una persona perbene come Dellai. Con lui si è presentato un deputato del suo schieramento e mi ha detto: “Se volete il nostro accordo, a noi cosa date?”. Gli ho chiesto di uscire dalla stanza. Siamo al governo del Paese, non al mercato del bestiame. Io mi occupo di cose concrete, dei cantieri da aprire in mille scuole, della riforma di una pubblica amministrazione barocca, della necessità di non doversi rivolgere a un capo di gabinetto per sbloccare una pratica, degli investimenti stranieri su cui tutti devono riflettere».
Perchè?
«In un anno il loro valore è dimezzato. Un Paese che non attrae è un Paese spacciato. Dobbiamo recuperare appeal. Farli venire e farli restare in Italia».
Proprio oggi Letta parla di una ripresa già avviata.
«Non ho letto le dichiarazioni del presidente del consiglio. Ci sono segnali di ripresa a livello internazionale, il Pil negli altri paesi cresce. È interessante per l’Italia non sprecare l’inizio di questa ripresa. Ma non c’è ripresa senza occupazione. C’è ancora molta strada da fare».
E Letta fino a quando andrà avanti?
«Basta con il quanto dura! E un governo, non un iphone. Questa legislatura può durare fino al 2018, ma deve affrontare con decisione i problemi veri».
Si arriva al 2018 anche se si fa un nuovo esecutivo e lei va a palazzo Chigi.
«Il problema non è il nome del premier, che per quel che mi riguarda si chiama Enrico Letta, ma le cose da fare. Io mi occupo di queste, non di altro».

l’Unità 3.2.14
Confindustria non vede la svolta
«Il premier si muova oppure il voto»
Il monito di Squinzi: «La distanza della politica reale dall’economia reale non è mai stata così ampia»
di Massimo Franchi



«Cartellino giallo». Poco prima che il suo Sassuolo - rinnovato nell’allenatore e in 6 undicesimi da uno sfarzoso e costoso mercato di riparazione - perdesse in casa con il Verona, Giorgio Squinzi usa una metafora calcistica per avvisare il governo dell’insofferenza degli industriali. Il motivo è presto detto: «La distanza della politica reale dall’economia reale non è mai stata così ampia». Da qui l’accorata richiesta: «Il governo è timido», «serve un cambio di passo, specie sul cuneo fiscale». Diversamente- e questa è la prima volta che Confindustria paventa la soluzione - «ad un certo punto allora meglio andare a votare ».Anche perché le previsioni del Centro studi di Confindustria - «che sfortunatamente in questi anni ha sempre azzeccato le stime» - parla per il 2014 di un aumento del Pil del solo 0,6 - 0,7 per cento «mentre per far ripartire il Paese e creare occupazione serve almeno un 2 per cento ».Mentre il «dato ancora più drammatico è quello che dice che andando avanti a questi ritmi il livello di ricchezza del2007 lo riavremo solo nel 2021».
La prima intervista televisiva in 10mesi concessa a Lucia Annunziata ad In mezz’ora- «la prima volta in 8 anni che un presidente di Confindustria viene da noi, significa che la situazione è proprio complessa » - Squizi affronta tutti i temi dell’agenda politico economica. E non manca anche un giudizio - sebbene molto abbottonato - su Matteo Renzi: «È una persona giovane e dinamica. Sembra desideroso di affrontare i cambiamenti ma un giudizio si potrà esprimere solo quando le sue visioni, alcune peraltro condivisibili, saranno finalizzate».
Si parte dalle lettera inviata venerdì proprio ad Enrico Letta. «Una lettera forte » che ha preso spunto da quel caso Electrolux che il presidente di Confindustria definisce «emblematica». «Se non decidiamo di intervenire con decisione sulla politica industriale rischiamo la desertificazione». E detto dal fondatore di una delle aziende italiane leader nella innovazione - Mapei - suona come un vero campanello d’allarme per il governo. Il rischio della chiusura dello stabilimento di Porcia viene vissuto come l’addio «ad un insediamento industriale della provincia italiana che fa traino all’intero territorio» come i tanti «centri catalitici» che hanno fatto la fortuna del manifatturiero in Italia. La «grande apprensione» con cui il numero uno degli imprenditori italiani guarda alla vicenda Electrolux, testimoniata dalla lettera, è mitigata dalla risposta già arrivata da parte di Letta: «Mi sembra ci sia stata data una risposta indiretta, che questa vicenda emblematica sarà seguita direttamente dal premier». Sulle soluzioni per evitare il taglio del 30per cento del salario o accettare le delocalizzazioni, Squinzi rilancia la ricetta già proposta assieme a Cgil, Cisl e Uil: «Taglio del cuneo fiscale e sburocratizzazione per dare competitività al Paese e soprattutto al settore manifatturiero», quello in cui l’Italia in Europa nonostante tutto è sempre seconda solo alla Germania. E proprio alla Germania guarda Squinzi per dire che «un altro modello è possibile: non taglio dei salari ma lavorare qualche ora in più con lo stesso salario».
I DEBITI DI MONTI E GRILLI Più che con Letta comunque Squinzi sembra avercela con Monti (e Grilli) per la vicenda dei debiti della Pubblica amministrazione. «Sì –ammette Squinzi – lo sblocco avvenne dopo che ne parlai con Napolitano, mail livello dei pagamenti è ancora troppo basso, 20miliardi pregressi, mentre sui nuovi debiti l’Unione europea sarà costretta ad aprire una procedura di infrazione contro il nostro Paese», ricorda amaro.
Con Letta «nei prossimi giorni ci sarà modo di confrontarsi», annuncia Squinzi. Lui rimane un «uomo del dialogo», anche se ormai da presidente del calcio è abituato ad esonerare e cambiare allenatori.
Tra le reazioni alle parole di Squinzi da segnalare quella dell’ex ministro Linda Lanzillotta. «Scelta Civica chiede da tempo che ci sia questo scatto, altrimenti, visto che questo governo no n lo sentiamo nostro - ha aggiunto - potremo valutare di assumere una posizione netta per spronare definitivamente Letta a cambiare passo e Renzi ad assumersi le responsabilità che gli competono come segretario del partito di maggioranza relativa».

l’Unità 3.2.14
Ugo Sposetti: «Democrazia a rischio per un euro e 50»
Il senatore Pd: «Abolendo i fondi pubblici ai partiti si risparmia una cifra ridicola Ma si lascia la politica solo a chi ha grandi disponibilità finanziarie»
«In Francia, Germania, Spagna i contributi ci sono. È diverso in Paesi come India e Senegal»
«Le riforme? Non vedo il progetto d’insieme De Gaulle s’affidò a Duverger. Qui a Verdini»
di Ninni Andriolo


Con l’abolizione del finanziamento pubblico ai partiti ogni italiano risparmierebbe un euro e cinquantuno centesimi, una cifra ridicola a fronte dal prezzo altissimo che pagherebbe la nostra democrazia. La rappresentanza politica per censo e non per consenso, è questo lo scenario che abbiamo davanti». Il decreto legge approda nell’Aula del Senato e Ugo Sposetti rilancia la battaglia contro quella che definisce «una concessione all’antipolitica e al populismo ».
Senatore, una battaglia controcorrente la sua...
«Nel 2012 il Parlamento aveva già dimezzato il finanziamento ai partiti, che in Italia viaggia già sotto la media europea. Su quella legge, però, è calato il silenzio. Anche la politica più responsabile rischia di diventare subalterna alla campagna che alimenta un sentimento di antipolitica funzionale a tenere i partiti sotto ricatto. Voglio ricordare che il Consiglio d’Europa raccomanda di provvedere a supportare finanziariamente i partiti, assicurando che il contributo da parte dello Stato, ma soprattutto da parte dei cittadini, non interferisca con la loro indipendenza»
Con il referendum gli elettori avevano scelto l’abolizione del finanziamento...
«Ma non dei rimborsi elettorali, perché non lasciare i rimborsi e finanziare le fondazioni, quindi? India, Bangladesh, Libano, Singapore, Senegal, Mauritania, Sierra Leone, Bielorussia, Ucraina e ora anche l’Italia: questi alcuni dei Paesi in cui non è previsto il contributo pubblico. Da noi, però, i padri costituenti stabilirono che “tutti i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale”. Un principio che potremmo garantire solo attraverso la regolamentazione della vita interna dei partiti, dando cioè piena attuazione all’art. 49».
Con la gente che non ce la fa ad arrivare alla fine del mese gli scandali di chi siede nelle assemblee elettive risultano ancora più intollerabili... «Ciclicamente assistiamo a forme di degenerazione della politica e invece di assumerci l’impegno di normare la forma- partito assecondiamo le istanze populiste di chi attribuisce ai partiti tutte le colpe dei mali del mondo. Fallisce la democrazia partecipata quando un partito diventa un comitato elettorale, quando diventa espressione personale del leader di riferimento, quando non è più la voce della comunità che lo anima. E fallisce la vita democratica se non saranno concesse pari opportunità economiche per fare politica».
Quella della disparità è una delle critiche che lei rivolge al decreto, mail governo ha fatto suo il testo approvato alla Camera rispondendo anche alle sollecitazioni del leader del Partito democratico...
«In Francia, nel 2007, la spesa dello Stato per i partiti era pari a 160,3 milioni, 2,46 euro per abitante. In Spagna gli stanziamenti per il 2011 ammontano a 131 milioni di euro, 2,64 per cittadino. In Germania lo Stato corrisponde ai partiti un contributo annuale che non può superare i 133 milioni di euro al quale vanno aggiunti i contributi per le fondazioni. In Gran Bretagna vengono devoluti due milioni a una decina di partiti, a cui vanno sommati i fondi della Camera dei Comuni che premiano le opposizioni. Nel Regno Unito, tra l’altro, è in discussione una riforma del finanziamento in favore di quello pubblico. Perfino negli Usa si ragiona su un pubblico finanziamento che vada oltre le elezioni presidenziali. Lo stesso Obama ha messo in guardia dai rischi di “avere milionari e miliardari che finanziano chiunque vogliono, quanto vogliono, in qualche caso anche in modo segreto”».
Il decreto prevede un processo graduale di riduzione del finanziamento pubblico, i grillini gridano alla truffa...
«Lasciamo stare la demagogia di Grillo. Si prevedono solo finanziamenti di tipo indiretto, appunto. Lasciati nella migliore delle ipotesi al buon cuore di chi vorrà donare denaro, nella peggiore nelle mani di grandi investitori che potranno acquistare, ripeto ac-qui-sta-re, il partito prescelto perché faccia i loro interessi una volta al governo».
È stato introdotto il tetto alle donazioni private e ogni cittadino poi potrà devolvere il2x1000 a un partito...
«Quanto al 2xmille, quello di un imprenditore o di un deputato non sarà pari a quello di un operaio. Questo provvedimento ha in nuce l’impari opportunità di partecipazione alla vita politica. Posso fare un esempio?
Prego senatore...
«Gli statuti dei partiti dovranno contenere la cadenza delle assemblee congressuali. Ma si ha idea di cosa significhi organizzare un congresso? Se un partito non ha le sufficienti risorse per assicurare ai delegati viaggio, vitto e alloggio, come si potrà osservare la legge? O debbo pensare che saranno delegati solo coloro i quali potranno permettersi di pagare le spese? Ho fatto l’amministratore di partito e so cosa significa promuovere appuntamenti come quelli. Nel decreto si richiede la massima espressione di democrazia interna, ma si impedisce di fatto che questa venga applicata».
E la “certificazione esterna dei rendiconti”? Dissente anche su questa?
«Non voglio esprimere opinioni di merito sulle garanzie che danno società preposte a quel compito, ho presenti i crak Parmalat o Cirio (aziende che avevano bilanci certificati). Mi chiedo però se si abbia idea dei costi di quelle società private, insostenibili per un partito che deve autofinanziarsi. Quella norma non potrà essere rispettata. E anche sulla “parità di accesso alle cariche elettive” prescritta dall’art. 9 c’è da obiettare. Non prevedere rimborsi per le spese effettuate in campagna elettorale impedirà la possibilità di partecipare a chi non è legato a lobby o a imprenditori in grado di finanziarli. Altro che Costituzione e diritto di tutti i cittadini ad accedere alle cariche elettive in condizioni di eguaglianza! Cito Norberto Bobbio: “Mai come oggi ci si accorge che attraverso le tecniche di manipolazione del consenso la più grande democrazia proclamata può coincidere con la più grande autocrazia reale. Accettare senza una verifica storica e razionale i miti correnti serve soltanto ad aumentare la confusione”»
Oltre all’abolizione del finanziamento pubblico il Parlamento si accinge a varare molte altre riforme, a partire da quella elettorale. La convincono?
«Si sta ridisegnando la Repubblica: legge elettorale, finanziamento dei partiti/ forma partito, bicameralismo (ruolo del Senato), soppressione delle province, aree metropolitane, titolo V della Costituzione. Ma non vedo il progetto d’insieme né l’architetto in grado di disegnarlo. De Gaulle per progettare la quinta Repubblica si affidò a Maurice Duverger, uno dei migliori politologi di quei tempi, qui mi pare di capire che le maggiori forze politiche si siano affidate a Verdini!».

La Stampa: «Corruzione, i dati Ue. 120 miliardi in Europa, 60 solo in Italia»
l’Unità 3.2.14
La corruzione costa 60 miliardi di euro
di Nicola Luci


 Non ci voleva l’Europa per capire che la corruzione in Italia è un fenomeno preoccupante. Ma, nel primo rapporto sulla lotta alla corruzione che la Commissione Ue renderà noto oggi, si dice anche che il problema non riguarda solo Italia. Il fenomeno è diffuso in tutto il Continente. E non è a basso prezzo. Ci costa moltissimo. Secondo il rapporto oltre 120 miliardi di euro.
Va anche detto che la stessa Commissione riconosce al nostro Paese gli sforzi legislativi, definiti notevoli, per combattere il fenomeno. Che pur tuttavia dalle nostre parti resta «preoccupante». Per questo Bruxelles suggerisce di potenziare il regime di integrità delle cariche pubbliche elettive, di consolidare la legge sul finanziamento ai partiti e risolvere con «massima urgenza» le carenze della prescrizione e le lacune in materia di conflitto di interesse. Norme che in Italia fanno ricordare il periodo in cui Silvio Berlusconi era alle prese con i suoi guai giudiziari.
Ma, come detto, pur con i nostri limiti, non siamo messi peggio degli altri. Dalla relazione emerge infatti che il fenomeno merita maggiore attenzione un po’ ovunque nei 28. L'integrità dei politici rimane un problema in molti Stati, e il rischio di corruzione è generalmente più elevato a livello regionale e locale, dove i sistemi di controllo e contrappeso, ed i controlli interni, tendono ad essere più deboli di quelli a livello centrale.
Il dossier dedica particolare attenzione agli appalti pubblici. Ed è naturale che sia così. Lo Stato è per definizione uno big spinder specie quanto si parla della realizzazione di opere infrastrutturali. Secondo la Commissione gli appalti pubblici sono un settore importante per l'economia Ue, poiché circa un quinto del Pil è speso ogni anno da enti pubblici per forniture, lavori e servizi, e un comparto tra i più esposti al rischio di corruzione.
Stando ai dati raccolti da Price& Waterhouse per l'Olaf, l’agenzia antifrode europea, ed emersi in un'audizione al Parlamento europeo, ad ottobre dei 120 miliardi che la Commissione Ue stima siano sottratti ogni anno dalle tangenti all'economia europea, ben la metà, ovvero 60 miliardi, e' il peso del fenomeno italiano e le possibilità che nel Belpaese un appalto pubblico sia viziato dalla corruzione arrivano al 10% delle gare, oltre tre volte il dato francese e più di dieci volte quello dell’Olanda.
L’ultimo sondaggio di Eurobarometro sulla percezione del fenomeno rivela che per tre quarti di europei (76%), e ben il 97% degli italiani, la corruzione è un fenomeno dilagante. E se per oltre la metà (56%) di europei il livello, nel proprio Paese è aumentato negli ultimi tre anni, uno su dodici (8%) afferma di essere stato oggetto o testimone di casi di corruzione nell'anno precedente.
Inoltre, viene sottolineato, quasi due europei su tre, e l'88% degli italiani ritiene che la corruzione e le raccomandazioni siano spesso il modo più facile per accedere ad una serie di servizi pubblici.

l’Unità 3.2.14
Francesco Guccini: «Grillo apre la porta al gran ritorno di Berlusconi»
«Non so cosa voglia esattamente il M5S. Mi pare voglia sbaraccare tutto e prendere il potere Ma questo gran casino dà una mano alla destra»
di Toni Jop


 «No comment». Guccini dice: «No comment», ma che risposta è? Gli ho appena chiesto cosa pensi di quel che accade in Italia, della scena politica, degli stracci che volano, delle parlamentari del Pd accusate da un M5S di «fare pompini», di un questore della Camera (Scelta Civica) più solerte e sbrigativo, con una parlamentare dei Cinque Stelle, di un «celerino» dei tempi andati, di un’aula della Camera trasformata in un bordello di provocazioni trasandate ma perfettamente registrate, della crisi... E lui risponde «no comment». Non lo riconosco. Ma come? Per quarant’anni ha infiocchettato i suoi concerti con lampi di un racconto politicamente assestato, ha comunicato, commentato, scherzato sul gran teatro dei partiti e suoi interpreti e ora preferisce tacere? Preferisce astenersi uno dei giocatori più formidabili che la cultura italiana abbia potuto contare tra gli impegnati, tra i non ignavi, tra i non codardi silenziosi e “imparziali”? «Son vecchio, come dice la mia età», sbotta. Ma è allegro, attraversano i suoi spazi nuvole di parenti e amici e gli esiti di un pellegrinaggio di amici ed estimatori che non ha mai smesso di toccare Pavana, piccolo centro appenninico, incassato tra boschi emontagne oscure, e dentro Pavana, quella vecchia casa dalla quale “La Locomotiva” si muove con dispiacere. Se gli volete bene, non provate a tirarlo fuori da lì, adesso che finalmente (l’avverbio è suo) ha smesso di cantare e incantare altrove, inverno dopo inverno. È felice anche perché sta per uscire un suo nuovo testo, il secondo di una collanina, il “Dizionario delle cose perdute”, nuova puntata. Scartabella nel passato, nel modernariato della memoria a caccia di tracce, oggetti soprattutto e parole, scatole verbali, abbandonati nelle soffitte dei ricordi. Proviamo a farlo parlare, oltre la collina del «no comment».
Allora? Mi sa che non sei preparato, professor Guccini. Lo sai che sta accadendo in Italia, tra Parlamento, piazze e luoghi di lavoro e di vita?
«Non leggo da un paio di giorni...».
Ti sei perso un bel pacco di cose. Sai niente delle bestialità che hanno scaraventato dal fronte cinque stelle su Augias, colpevole di aver giudicato «fascismo inconsapevole »alcune forme della presenza dei seguaci di Grillo in Parlamento? Sai niente del fatto che Grillo ha invitato il suo pubblico a scatenarsi sull’ipotesi di trovarsi all’improvviso in macchina in compagnia della presidente della Camera?
«No, troppo poco. Però...».
Però che?
«C’è che mi conosci, io sono non violento, almeno credo, non mi piace la violenza, non condivido certi metodi, ma il web la porta a galla, porta in prima fila la risposta semplice, diretta, da bar...».
Ottimo, allora la colpa è il mezzo? Grillo non ha responsabilità...
«Ma, non so cosa voglia esattamente Grillo. Mi sembra che voglia sbaraccare tutto e tutti per poi prendere il potere. Per farne cosa, non so...».
Converrà provare a rispondersi...
«Al di là di tutto, temo che alla fine ciò che sta facendo serva solo ad aprire la porta ad un ritorno in grande stile di Berlusconi. Sì, ho davvero paura che questo gran casino dia una mano alla destra, le offra le condizioni per tornare a governare come piace a lei».
E nel frattempo, la sinistra?
«(ride) ...come la vedo? Tre seduti su una sedia e uno che la spinge, ma preferisco non addentrarmi...».
Ma ce l’avrai un pensiero, un’idea su quello che bisognerebbe fare per tirarci fuori dalle peste? «Ce l’ho, ma non te la dico...».
Francesco, sei più geloso di una di quelle soffitte dalle quali tiri faticosamente fuori le tracce di un mondo e di un linguaggio che non esistono più...
«(ri-ride) Te l’ho detto, ho un’età da soffitta...».
Ok, allora racconta come sa fare una soffitta...
«Per esempio, “le pezze al culo”, vaglielo a spiegare a questi che oggi indossano con vanità le pezze sui jeans che c’è stato un tempo in cui erano una necessità. Poi, te le ricordi le “catene di Sant'Antonio”? Bene, adesso viaggiano sui telefonini, ma un tempo... Poi, ancora, il “miracolo dell’acqua calda”: che ne sanno di un tempo in cui l’acqua calda era davvero un miracolo? Che ne sanno di una carta igienica che non esisteva e il bagno era il trono della carta da giornali...».
Quando ci si puliva col piombo, pare il titolo di un western all’italiana. Giusto: la rivoluzione del bagno, prosegui...
«Ne vuoi ancora? Coppi e Bartali, hanno disegnato un’epoca, si sa. Ma chi ricordava il vecchio Malabrocca, il vincitore del celebre e dimenticato premio all’ultimo arrivato, quello che doveva arrivare ultimo ma dentro il tempo limite? E c’erano tanti che si davan da fare: erano soldini, quel premio. Volo: mi son dato da fare sulla questione delle osterie...».
Ovvio, ci sei caduto dentro da piccolo...
«Ho fatto un sacco di strada: son partito dalle caupone latine e son finito tra le osterie dei nostri giorni. Credimi: un mondo intero. Ci sguazzava anche il vecchio Cicerone, tra banchi, panche e vino. E le drogherie? Che ne sanno questi di quei luoghi del commercio in cui non esisteva la scadenza dei prodotti? Dove sopravvivevano infinite rastrelliere di scatole di alimenti senza tempo e che pochi volevano toccare? ». (Il libro di Guccini - Mondadori - verrà presentato a Milano il sette febbraio)

l’Unità 3.2.14
Lo sdegno di Boldrini: «Dal M5S atti eversivi
La presidente della Camera: «Cose viste solo in dittatura, sul web istigazione alla violenza sessista»
Di Maio: «Lei non rappresenta più tutto il Parlamento». Grillini contro Fazio
di A. C.


 «Attacco eversivo», «Cose viste solo in dittatura». Laura Boldrini risponde in modo nettissimo alla gazzarra dei Cinquestelle che ha caratterizzato la scorsa settimana: dalle risse in Parlamento e in commissione, l’impeachment per Napolitano, fino a quel post sulla pagina Facebook di Grillo che domanda ai militanti «Cosa faresti in macchina con la Boldrini? », seguito da una valanga di insulti a carattere sessista.
«C’è un attacco eversivo contro le istituzioni, che deve essere respinto da tutte le forze democratiche. Alla Camera c'è gente che lavora seriamente per cambiare le cose dal di dentro, e questo non può essere distrutto», spiega la presidente della Camera in collegamento telefonico con l’Arena su Rai1. «Ho visto tanta rabbia e odio invece che la voglia di confrontarsi. Queste cose si sono viste solo in dittatura e devono far riflettere tutti». Il M5S «non sa utilizzare gli strumenti democratici, messi a disposizione dell’opposizione dalla Costituzione. Devono imparare», prosegue Boldrini. E domanda: «Mi chiedo come le deputate e le sostenitrici del M5s possano accettare quello che accade».
La terza carica dello Stato mette in fila vari passaggi di una settimana difficili. «I cittadini l’hanno capito: questo non è dissenso, sono atti violenti e intimidatori ». «Episodi che fanno venire alla mente periodi bui, quando il Parlamento era esautorato e i consigli comunali bloccati», ribadisce in serata da Fazio. Boldrini è durissima verso il post di Grillo: «Istigazione alla violenza sessista, tra quei commentatori molti potenziali stupratori ». Tra i Cinquestelle il fronte femminile non mostra particolari crepe: Boldrini resta «Lady ghigliottina», nemico numero uno per le sue decisioni sul voto del decreto Imu-Bankitalia. Solo la deputata dissidente Paola Pinna prende pubblicamente le distanze: «Beppe sa bene che con quei post scatena le offese». In collegamento con «L’Arena» c’è la grillina Loredana Lupo, colpita dal questore Dambruoso durante la bagarre in Aula di mercoledì scorso. «Sono una donna ed una mamma e so comprendere cosa può essere una offesa fatta ad una donna. Noi siamo 160 e qualcuno può sbagliare ma, quando sbaglia uno, chiediamo scusa tutti. Non copriamo come succede invece nel Pd: dalla maggioranza non mi è arrivata nessuna solidarietà per l’aggressione subita, e neppure dalla presidente».
Altre parlamentari derubricano la vicenda Boldrini al video satirico postato da Grillo: «Non l’ho visto», svicola la senatrice Michela Montevecchi. «Avevo altri impegni», le fa eco la deputata Mara Mucci. «Ma è noto che chi scrive in rete è la parte più rabbiosa della popolazione, quella che una volta si sfogava su radio Radicale. La rete è così, non si può controllare. Ma il movimento non è questo ». E gli insulti sessisti a Boldrini? «Io la giudico per quello che fa in Parlamento. E il mio giudizio è molto negativo».

l’Unità 3.2.14
Il senatore Battista: «Beppe sa cosa scatena con i post»
Il dissidente M5S: un movimento non può legittimare le offese. Con Boldrini passato il segno
di Andrea Carugati


 «Beppe Grillo, e ancor più di lui Casaleggio, sanno perfettamente come funziona la rete. E dunque se metti un post su “Cosa faresti in macchina con la Boldrini?” sai benissimo cosa scateni...».
Lorenzo Battista è uno dei dissidenti doc del M5S. Non ha mai nascosto le sue opinioni, quasi sempre diverse dalla linea ufficiale, in questo lungo anno dalle elezioni del 2013. E lo fa anche in questi giorni di fuoco, con il M5S sulle barricate alla Camera e ormai ai ferri corti con la presidente Boldrini. «È chiaro che la gente è arrabbiata. Ma compito di una forza politica non è legittimare le offese. E le giustificazioni sui post arrivati di notte mi sono parse ridicole. Ripeto: con un messaggio del genere sai benissimo cosa scateni». «Mi chiedo se ci sarà mai un post di questo tipo rivolto al presidente Grasso. Con Boldrini i toni sono più aggressivi, al di là della critica più che legittima a come ha condotto l’aula. Sono toni che non mi appartengono, così come le barricate in Aula: ormai è un anno che stiamo in Parlamento, dovrebbe essere arrivato il momento di costruire, fare proposte. E invece qui finisce che ci mettiamo anche noi a mangiare la mortadella in Parlamento...». Battista è deluso dall’atteggiamento dei suoi colleghi della Camera. «Giustissimo accusare il questore Dambruoso che ha colpito una nostra deputata. Ma contro il nostro De Rosa che ha offeso le deputate Pd non si dice niente? Vuol forse dire che lo si vuole legittimare?».
Venerdì scorso Battista non è andato all’incontro con Grillo in un hotel romano. Ma quell’invito del Capo a calmare i toni non lo convince fino in fondo: «Se chiama i deputati “meravigliosi guerrieri” come fa a chiedere di darsi una calmata? È chiaro che legittima quello che è successo, al di là della disputa su chi sia più o meno legittimato a dire le parolacce. Ora voglio vedere se quello che ha dato del “boia” a Napolitano sarà condannato. Che succede? Sarà costretto alle dimissioni? Il nostro regolamento parla chiaro...».
La guerra contro Boldrini sembra destinata a durare. Di Maio ha detto che non «rappresenta più tutto il Parlamento ».Ma Battista non lo segue: «Lui è vicepresidente della Camera. Dopo un’uscita del genere o ti dimetti, oppure sei convinto di ottenere le dimissioni della Boldrini. Altrimenti fai solo una piccola figura... ».
Per i parlamentari non ortodossi sono giorni difficili. Oggi alla Camera il gruppo processerà Tommaso Currò, uno dei primi dissidenti, accusato di aver fatto passare nella legge di Stabilità un emendamento per l’istituzione dell’area marina protetta nella sua Capo Milazzo. Lo ha fatto in tandem con Stefania Prestigiacomo, di Forza Italia, e ora ha il marchio di fuoco di chi ha collaborato col nemico. Alcuni suoi colleghi hanno chiesto l’avvio della procedura, oggi pomeriggio si aprirà la discussione che rischia di concludersi con il processo in rete. Lui non si pente di quel blitz in commissione che porterà benefici alla sua città. «Neho parlato a lungo con gli attivisti della mia zona, sono tutti d’accordo». Ora però rischia di pagare a caro prezzo. «Spiegherò le mie ragioni al gruppo, ho la coscienza pulita, non ho mai fatto marchette».
Anche i senatori palermitani Francesco Campanella e Fabrizio Bocchino navigano in brutte acque. Nei giorni scorsi una parte del meet up di Palermo li ha scaricati. «Si sono posti al di fuori delle logiche e dei principi delM5s fin dall’inizio della legislatura, aprendo all’accordo con altre forze politiche». Un altra fetta di 45 attivisti sabato ha postato sul sito del meet up una difesa dei due reprobi, ma quel comunicato è stato rapidamente rimosso. Una faida locale, dunque, in cui Campanella è accusato anche di aver gestito in modo irregolare i fondi per la campagna elettorale. «Qualcuno sta provando a corrodere la mia immagine pubblica diffondendo notizie false», dice il senatore. E minaccia azioni legali.

Corriere 3.2.14
La fronda delle Cittadine: infastidite come donne
di Emanuele Buzzi


Dopo la bagarre, tutte in ordine sparso. Le accuse di sessismo arrivate ai Cinque Stelle non lasciano indifferenti deputate e senatrici del Movimento. Prima la battuta a sfondo sessuale di Massimo De Rosa alle parlamentari pd, poi il video su Laura Boldrini in auto, condiviso in Rete da Beppe Grillo e commentato in modo offensivo sul blog, hanno lasciato il segno. Già nei giorni scorsi qualche voce ha tentato di smarcarsi. «Condivido le proteste, trovo sia giusto fare ostruzionismo per affermare o far passare la propria linea politica — ha detto Alessandra Bencini al Corriere Fiorentino —. Ciò che non condivido sono le modalità o meglio il linguaggio non forbito e alcuni atteggiamenti che possono indurre a scontri violenti». 
Ieri è stata Paola Pinna su La Stampa a prendere le distanze: «Grillo sa che scatena quel genere di commenti. Non credo faccia determinate azioni senza calcolarne le conseguenze: se ne prenda la responsabilità». La deputata sarda ha chiarito anche di non condividere la richiesta di dimissioni della presidente della Camera: «È inadeguata come tutti noi del Movimento 5 Stelle. È alla prima legislatura come tanti», ha detto. Anche la parlamentare bolognese Mara Mucci su Twitter è tornata più volte sull’argomento.«Mi dissocio dalle parole del collega De Rosa nei confronti delle deputate pd. Per la violenza sulla collega Lupo vorrei lo stesso», ha scritto in un primo post, ripreso poi ieri da una difesa del Movimento: «Quando sbaglia uno di noi, chiediamo scusa tutti. Questa è la rivoluzione culturale». 
Non tutte le deputate, però, la pensano allo stesso modo. Molte parlano di «polemica strumentale». «Per me è una scusa — dice Laura Castelli —, si parla di sessismo per coprire la verità dei fatti». Per Barbara Lezzi «il sessismo è una questione grave e non può essere minimizzata con il turpiloquio: se le deputate del Pd sono state offese però devono agire, così come avremmo dovuto agire noi nei loro confronti per gli epiteti ricevuti il giorno dell’elezione di Giorgio Napolitano». E sulla polemica che ha coinvolto il leader la senatrice pugliese è chiara: «Il video sulla Boldrini? Non è una nostra posizione. Ha fatto benissimo lo staff a rimuoverlo come sempre quando ci sono ingiurie». 
«Ha postato una cosa ironica, non irrispettosa — controbatte Serenella Fucksia —: nella Rete, però, c’è di tutto, anche chi scrive porcherie pur di gettare discredito». «Ogni forma di sessismo ovviamente è da condannare, non strumentalizziamola però — prosegue la senatrice —, il rispetto deve essere dato e ricevuto. Spero che la vicenda si chiuda presto perché le esigenze del Paese sono altre». «Come donna le vicende degli ultimi giorni mi danno fastidio da morire, c’è sempre un tentativo di delegittimarci e umiliarci, ma non vorrei farne una lotta di partito, non ha un colore politico», dice Elena Fattori. «Tutti gli uomini, in ogni campo, devono rivedere le loro posizioni sulle donne», spiega la senatrice pentastellata. «L’insulto, la sberla... siamo di fronte a una escalation», riflette. E sul video postato da Grillo osserva: «Se fai un titolo del genere, qualche scemo che lo commenta in quel modo lo trovi».

il Fatto 3.2.14
Movimento 5 Stelle Di Maio e il caso Boldrini
“Ci scusiamo, ma è colpa dei soliti cretini”
intervista di Chiara Paolin


 La prima battuta è un amarcord. Un flash-back in cui Luigi Di Maio è lo studente di giurisprudenza piazzato con rabbia davanti alla tivù mentre il premier Silvio Berlusconi chiede di intervenire in trasmissione con una telefonata per difendere le proprie ragioni. Oggi Di Maio è il vicepresidente della Camera più giovane nella storia della Repubblica Italiana, e rappresenta i 5 Stelle mentre Laura Boldrini va in tivù per dire che il Movimento s’è fatto eversivo.
Ieri Laura Boldrini è stata intervistata da Giletti, a Domenica In.
Appena ha saputo che in studio c’era la mia collega Loredana Lupo, la presidente ha preteso il collegamento in diretta. Non per dare solidarietà a Loredana, che s’è beccata in faccia lo schiaffone dal questore Stefano Dambruoso, ma per dire che noi siamo degli eversori. Insomma ha fatto come Berlusconi, ha usato il suo ruolo istituzionale per calcolo politico.
Dopo le offese ricevute sul sito di Grillo, forse la Boldrini aveva diritto di essere arrabbiata.
Primo punto: la Lupo e tutto il Movimento si è scusato per le offese che gli utenti hanno postato. Scuse che presentiamo senza avere nessuna responsabilità.
Il “ti stupro” e “ti ammazzo ”stavano sul blog. E ci sono rimasti per un bel pezzo.
 Ma la rete esalta i cretini. Chi scrive queste cose è un deficiente senza colori. Un giorno vuole vedere la mia casella di posta elettronica e leggere quel che mandano a me?
 Però voi parlamentari del Movimento avete alzato di molto i toni in aula.
Questo è un punto diverso, e importante. I 5 Stelle hanno denunciato il regalo enorme che il governo sta facendo a banche e assicurazioni via Bankitalia. Invece di discutere, la Boldrini ha usato la ghigliottina: quello sì che è uno strumento eversivo.
Diciamo che anche il Pd, nel 2009, denunciò l’illegittimità dello strumento quando Fini
voleva usarlo per approvare in   fretta lo scudo fiscale.
 Chiunque abbia esperienza di vita parlamentare sa benissimo che le nostre iniziative non sono le più aggressive della storia repubblicana. Anzi.
 L’invasione dei banchi del governo la rifarebbe?
 Quando uno si sente tappare la bocca reagisce in modo spontaneo, è inevitabile. Poi c’è il tempo per ragionare, ma vorrei sapere come mai la Boldrini non ha solidarizzato con la Lupo per lo sberlone. Cioè: in aula succedono tante cose, bisognerebbe valutarle tutte.
 Tra pompini politicamente sdoganati e inviti ad ammazzare i rappresentanti istituzionali non è un bel vedere, per il cittadino.
 Vero. E non so come andrà avanti. Di sicuro noi continuiamo la nostra guerra.
 Che guerra?
 Per restare coerenti. Abbiamo giurato a nove milioni di italiani che non saremmo mai stati uguali agli agli altri, ai politici. L’unica nostra salvezza è questa: raccontare la verità, denunciare le fregature. E se la Boldrini ha deciso che noi siamo fuori dalla democrazia perchè non sappiamo fare l’opposizione rispettando le regole, la conseguenza è una sola: lei non sarà più la nostra presidente.
 Che vuol dire?
 Se la presidente non tutela le minoranze il suo ruolo è esaurito, non le riconosciamo alcuna funzione istituzionale.
 Non temete l’isolamento definitivo? La vita bipartisan del governo sembra ancora lunga. Dopo l’Imu e Bankitalia ci sarà la legge elettorale, la riforma del Senato. Voi sempre fuori?
 Renzi ha rimesso in pista Berlusconi, e sta rischiando la stessa fine di tutti i leader di sinistra che l’hanno preceduto: Silvio è una mantide che ingoia il partner.
Se Renzi parla alla gente di Job-act e costi della politica vi ruba consenso, no?
 Non mi pare proprio. Basta stare ai fatti: promette un miliardo di euro risparmiati con la riforma del Senato e poi ne butta 7 in pasto alle banche. Ma chi ci crede che questo sia l’uomo nuovo? Il sindaco pensi piuttosto a Firenze, dove ha seguito otto consigli comunali su quarantacinque. Non credo i suoi elettori siano soddisfatti.
 E sulla legge elettorale che farete: sempre aventiniani?
 L’Italicum è praticamente identico al Porcellum. Ogni modifica lo sta portando sempre più vicino al vecchio modello: cosa dovremmo fare? Questa roba non convincerà mai gli italiani che vogliono cambiare le cose. Troppo facile promettere la rivoluzione e poi abbassare la testa quando il partito dà gli ordini.
 Di chi sta parlando?
 Mah, di gente come Pippo Civati, che poteva benissimo votare le pregiudiziali di costituzionalità sull’Italicum e invece, per disciplina di partito, s’è adeguato. Noi non vogliamo fare politica così.

Repubblica 3.2.14
Il professor Canfora: dovrebbe intervenire la magistratura
“Ignoranti senza cultura politica basta dare spazio alle loro buffonate”
intervista di Umberto Rosso


ROMA — «Staccate la spina a Grillo, basta. Lo dico ai grandi giornali, perché con la rete è un’altra storia. Non trasformiamo allora perfino il militante grillino di Zagarolo che brucia un libro manco fosse Goebbels in un simbolo, in un caso. Un povero ignorante, stop, lasciamolo al suo destino. Lui e tutto il suo movimento».
Una battaglia che combatterebbe col silenzio stampa, professor Luciano Canfora?
«Non capisco quale demone si sia impadronito dei giornali che, ogni giorno, dedicano pagine su pagine alle imprese di Grillo. Un gentile omaggio alle sue buffonate, una cassa di risonanza enorme che gli ha regalato una centralità che non ha sulla scena politica. Lui lo sa, e la sfrutta alla grande. La spara sempre più grossa, vedi l’occupazione alla Camera e gli insulti alla Boldrini. L’informazione si butta a pesce e amplifica. Gli emulatori si moltiplicano. Un circolo vizioso da spezzare».
E quel libro di Augias dato alle fiamme, per “protesta”, che evoca il nazismo?
«Chi lo ha fatto, non credo che conosca nemmeno Goebbels, quel rituale neopagano del nazismo dei libri al rogo. Ma non è in ogni caso che vennero bruciate tonnellate di libri, solo quelli di alcuni ebrei e dei comunisti. Un gesto simbolico, un rito, come una macabra cerimonia religiosa. Buona per scattare qualche foto e girare un film».
Siamo di fronte comunque ad una escalation dell’antipolitica, come in altri momenti storici?
«I grillini sono anti-sistema, anti-Parlamento, sono arrivati alle Camere con l’obiettivo dichiarato di portare dentro le istituzioni la voce di chi non ha voce. Vengono accostati al movimento dell’Uomo qualunque di Giannini, ma somigliano più al movimento del francese Poujade o ai repubblikaner tedeschi degli anni Settanta che non volevano essere assimilati ai neonazisti ma avevano l’obiettivo di abbattere la democrazia parlamentare. Lo stesso peraltro, con tutte le debite differenze, dei partiti comunisti agli albori, negli anni Venti in Francia. Ma l’essere una forza antisistema non vuol dire certo essere una forza politica».
Il movimento di Grillo non lo è?
«Non lo è affatto. E’ un gruppo totalmente privo di cultura politica. Un gruppo di ignoranti. Non è una colpa morale ma certo è un grave difetto. Doloroso dirlo, perché lo hanno votato milioni di italiani, ma è così. Che poi sia ancora un fenomeno in crescita o meno, lo vedremo».
Pensa che l’onda lunga sia finita?
«Penso di sì. Nelle elezioni locali non hanno ripetuto il boom delle politiche, si sono sgonfiati in
tante regioni dove erano fortissimi, per esempio in Sicilia. La spiegazione che viene data è che, trattandosi di un movimento di opinione, va bene solo a livello nazionale. Però proprio questa forma assunta li condannerà secondo me ad una progressiva caduta».
In che senso?
«Il partito leggero, liquido, senza organizzazione e struttura democratica, nelle mani di un caso e di un sottocapo che non va dal barbiere, non può conservare in maniera stabile quei tanti consensi ottenuti».
È la ragione di una escalation grillina che alza il tiro? L’occupazione della Camera, gli insulti sessisti alla donne del Pd e alla Boldrini, l’uso del web come un’arma per risalire la china del consenso?
«Chi è vittima di minacce si rivolga alla magistratura. Dovrebbe farlo anche la presidente della Camera. E’ il modo giusto di rispondere quando viene commesso un reato, lasciando da parte in questi casi la faccenda della battaglia politica. Che li denunciassero alla magistratura, sta lì per questo. Comunque vedo che all’interno dei grillini c’è anche chi ha preso le distanze da questi episodi. Lasciamo che le sbrighino fra di loro, sono spaccati, e non amplifichiamo il gesto di qualche imbecille».
La lotta politica si è fatta oggi più violenta rispetto al passato?
«Credo che rispetto ai drammi sociali che il paese sta vivendo, il nostro è un popolo esemplare. Perché se no avrebbe dovuto fare come in Grecia, alzare le barricate».

La Stampa 3.2.14
Indagine Community Media Research
Diritti degli immigrati: la società  è più avanti del dibattito politico
L’84,2% degli italiani vuole che partecipino alle amministrative
Più sfaccettate le posizioni su cittadinanza ed elezioni politiche
L’indagine attesta che secondo gli italiani gli immigrati devono avere sempre più diritti e partecipare a pieno titolo alla vita del Paese
di Daniele Marini

qui

Repubblica 3.2.14
Il declino dei ceti medi
di Ilvo Diamanti


È FINITA un’era, in Italia. Ha segnato la società e l’economia e, quindi, anche la politica. È l’era dei ceti medi, che ha marcato la crescita del Paese, dopo gli anni Ottanta. Quando lo sviluppo economico ha cambiato geografia e localizzazione produttiva.
DALLE grandi fabbriche delle metropoli del Nord si è spostato nelle piccole aziende del Nordest — e dell’Italia centrale. Giuseppe De Rita, con il suo linguaggio immaginifico, negli anni Novanta, aveva definito questa tendenza: “cetomedizzazione”. Un processo antropologico, oltre (e più) che socioeconomico. Si spiega attraverso «l’innalzamento di coloro i quali erano alla base della piramide e lo scivolamento di una parte della vecchia elite». In altri termini, a partire dagli anni Ottanta, si è assistito al declino della borghesia urbana e industriale, peraltro, in Italia, tradizionalmente debole. E al parallelo affermarsi di una piccola borghesia, diffusa nel mondo delle piccole imprese e del lavoro autonomo. Distante e ostile rispetto allo Stato e alla politica. Educata ai valori della competizione individuale e, meglio ancora, dell’individualismo possessivo,
per citare Macpherson. Questa realtà socio-economica si è trovata, a lungo, sprovvista di rappresentanza. Non gliela potevano, certamente, dare i partiti di massa della Prima Repubblica, DC e PCI. Integrati nello Stato e nel sistema pubblico. Nelle reti comunitarie del territorio. Nel sistema assistenziale.
La “cetomedizzazione” ha, invece, trovato risposta dapprima nella Lega Nord. Nata e cresciuta, appunto, lungo la linea pedemontana, dove, fin dagli anni Ottanta, si è affermato lo sviluppo di piccola impresa. Sul solco della Lega e nel vuoto di rappresentanza lasciato dai partiti della Prima Repubblica si è proiettato, Silvio Berlusconi. Che ha offerto ai ceti-medi: volto, linguaggio. Identità. Berlusconi: l’Imprenditore in politica. Che fa politica. Al posto dei politici di professione. Contro di loro. Trasforma la politica in marketing. Il partito in impresa. La propria impresa in partito. Berlusconi: ha dato rappresentanza alla neo-borghesia, con basi e radici nel Lombardo-Veneto. Condividendo la “missione” della Lega. Anche se, alla fine,
ha garantito soprattutto se stesso e i propri interessi. Berlusconi: ha trasformato il ceto medio nella “società media”, il “pubblico” con cui comunicare e a cui fornire identità attraverso i media. Mentre gran parte degli italiani confluiva nell’ampio e indistinto bacino dei “ceti medi”. Ancora nel 2006 quasi il 60% della popolazione (indagine Demos-Coop) si auto-collocava tra i ceti medi. Il 28% nelle classi popolari (i ceti medio-bassi). Il 12% nelle classi più elevate. L’Italia media aveva radici profonde impiantate nel Nord e basi solide tra i lavoratori autonomi e i liberi professionisti (questi ultimi, però, posizionati più in alto). Anche il 60% degli operai, allora, si sentiva “ceto medio”.
Poi è arrivata la crisi. Economica e politica. Ha scosso, con violenza, le basi del ceto medio. Ne ha indebolito la condizione e, al tempo stesso, il sentimento, l’auto-considerazione. Ne ha accentuato il senso di vulnerabilità. Lo stesso, d’altronde, è avvenuto altrove. Anche negli USA, come mostrano le indagini di PEW Research Center, la quota di coloro che si identificano
fra i ceti medi dal 53% nel 2008 cala al 44% nel 2014. Poco più di quanti si (auto) posizionano nei ceti più bassi: 40%. Quasi il doppio rispetto al 2008. Anche e forse soprattutto per questo motivo Obama ha promosso il suo piano di incentivi all’occupazione e all’economia. Tra cui l’innalzamento delle retribuzioni minime di alcune categorie di dipendenti federali. Per alimentare i consumi, ma anche per contrastare il senso di deprivazione relativa che spinge verso il basso le aspettative di mobilità sociale. In Italia, però, questo processo è avvenuto in modo molto più rapido e sostanziale. L’ascensore sociale, in pochi anni, si è inceppato. E oggi la maggioranza assoluta degli italiani ritiene di essere discesa ai piani più bassi della gerarchia sociale (Sondaggio Demos- Fond. Unipolis). Coloro che si sentono “ceti medi” sono, infatti, una minoranza, per quanto ampia. Poco più del 40%. Così, l’Italia non è più cetomedizzata. È un Paese dove le distanze sociali appaiono in rapida crescita. Tanto che l’85% della popolazione (sondaggio Demos-Fond. Unipolis) oggi ritiene che “le differenze fra chi ha poco e molto siano aumentate”.
Non è un caso che questa dinamica abbia coinvolto, in modo particolarmente intenso, le basi e il terreno originario della neoborghesia. I lavoratori autonomi: meno del 40% di essi si considera “ceto medio”. Oltre il 50%, invece, si percepisce di classe medio-bassa. La stesse misure si osservano nel Nord. La cui distanza sociale, rispetto al Mezzogiorno, sotto questo profilo, appare molto ridotta. Anzi, il peso di coloro che si auto-posizionano in fondo alla scala sociale, nel Nordest (55%) — “patria” della neo-borghesia autonoma — è superiore rispetto al Sud (53%). Gli operai, infine, sono tornati al loro posto. In fondo alla scala sociale (63%).
È il declino dell’Italia media e cetomedizzata. Segna il brusco risveglio dal “sogno italiano” interpretato dal berlusconismo. Poter diventare tutti padroni (almeno, di se stessi). Ciascuno nel proprio piccolo (o nel proprio grande). Mentre le questioni territoriali sembrano svanire. E si sente parlare sempre meno della Questione Settentrionale, ma anche di quella Meridionale. Così, per la prima volta nella storia della Repubblica, si afferma una forza politica, i cui consensi sono distribuiti in modo omogeneo in tutto il territorio italiano. Alimentati e unificati dalla sfiducia verso lo Stato e verso la politica. E dalla delusione sociale. Non è un caso che, tra le principali forze politiche, il M5s sia quella dove si osserva la maggiore quota di elettori che si identificano con i ceti più bassi (quasi il 60%) e, per contro, la minore quota di chi si sente ceto medio (39%).
Il declino del ceto medio lascia un Paese senza sogni, incapace di sognare. Dove le distanze sociali hanno ripreso a crescere, mentre il territorio affonda nelle nebbie. Soprattutto il Nordest, capitale della neoborghesia autonoma.
Il declino del ceto medio, in Italia, definisce — e impone — una questione “nazionale” che nessuna riforma elettorale potrà risolvere.

Repubblica 3.2.14
Il caso Mastrapasqua e gli ebrei italiani
di Gad Lerner


DA GIORNI la vicenda dei presunti favoritismi goduti dall’Ospedale Israelitico di Roma campeggia sulle prime pagine dei giornali, suscitando disagio in tutto l’ebraismo italiano.
Se ne accenna con cautela, perché l’inchiesta della Procura di Roma sembra fatta apposta per diffondere il pregiudizio antisemita secondo cui gli ebrei avrebbero goduto di una speciale indulgenza, e ne approfitterebbero. Non è così, e lo confermano le rivelazioni di Repubblica.
Ma intanto l’ipotesi di rimborsi gonfiati, e la cifra di 42 milioni di euro che solo ora l’Inps rivendica con decreto ingiuntivo, alimentano un clima di sospetto. Né aiuta a dissiparlo l’imbarazzato silenzio di portavoce comunitari solitamente loquaci.
Sia ben chiaro: non esiste giustificazione alcuna perché l’opinione pubblica, scandalizzata dalle malversazioni emerse nel sistema Daccò-Formigoni o al San Raffaele, debba sorvolare su quanto accaduto all’Israelitico. Magari con la solita scusa che si tratta di una struttura sanitaria d’eccellenza, e che il suo status di istituto religioso gli riserva benefici analoghi a quelli goduti dalle cliniche cattoliche.
Come è noto, tutto ruota intorno alla figura di Antonio Mastrapasqua che da molti anni (2001) trova il tempo di rivestire fra gli altri pure l’incarico di direttore generale dell’Ospedale Israelitico; e al quale, in seguito, la Comunità ha affidato in aggiunta la gestione della Casa di Riposo. Sia detto per inciso: Mastrapasqua non è ebreo. Altri sono i criteri a cui si è ispirato chi l’ha prescelto; e ancora oggi preferisce astenersi da valutazioni riguardo al suo operato. Almeno fino al momento in cui scrivo.
Debbo credere che i responsabili della Comunità ebraica romana abbiano selezionato Mastrapasqua confidando sulle sue indubbie virtù manageriali. Ma mi riesce difficile escludere che fra i requisiti apprezzati nel prescelto figurassero anche le sue relazioni trasversali col mondo politico e con la burocrazia statale. Relazioni collocate principalmente a destra, anche se non solo. E in ogni caso organiche a quel sodalizio guidato da Gianni Letta, con Luigi Bisignani come braccio operativo, che a lungo ha fatto il bello e il cattivo tempo nelle istituzioni e negli enti del sottopotere romano. Tanto da consigliare, a chi cerca entrature negli snodi decisionali, di affidarsi a personaggi già dotati delle credenziali di cui sopra.
Qualunque siano le responsabilità di Mastrapasqua, manager senza dubbio capace oltre che bulimico, e senza escludere l’ipotesi che egli stia coprendo responsabilità altrui, è evidente come la sua vicenda imponga un ripensamento critico più generale sulla collocazione in cui si vengono a ritrovare le istituzioni dell’ebraismo italiano. Stiamo vivendo un passaggio d’epoca. Ma stiamo anche raccogliendo i frutti, spesso avvelenati, del ventennio trascorso. Ebbene: come si sono posizionati, nel ventennio che per comodità chiameremo berlusconiano, i rappresentanti delle Comunità ebraiche, alle prese con il mutare degli equilibri del potere?
L’argomento è delicato perché ha molte implicazioni. Da una parte il deciso spostamento a destra dei governi israeliani, spesso in rotta di collisione con l’Unione europea e con lo stesso alleato Usa, pareva sollecitare le Comunità della diaspora a un ferreo schieramento di solidarietà. Ma su questa sollecitazione, diciamo così, di natura esterna, si è innestata una novità di politica interna: cioè il forte bisogno di legittimazione della destra berlusconiana e post- fascista giunta nel 1994 al governo del paese tra mille sospetti. La destra italiana non si è accontentata di instaurare una stretta alleanza con i governi di Sharon, Olmert e Netanyahu. Dovendo fare i conti con i suoi trascorsi storici imbarazzanti, essa ha ricercato in ogni modo la benevolenza dell’ebraismo italiano; convinta, a ragione, di trarne una sorta di salvacondotto culturale.
Si è instaurata così una prassi informale di rapporti privilegiati; è stata favorita la crescita di uno spazio pubblico delle Comunità; sono giunte sovvenzioni; si sono valorizzate nuove figure di intermediari, nelle relazioni culturali e commerciali. Tutto questo oggi va ripensato nella massima trasparenza.
La stessa lunga opera prestata da Mastrapasqua all’Ospedale Israelitico, su cui nessuna reticenza sarebbe giustificata, può comprendersi solo in tale contesto.

Repubblica 3.2.14
Contro il Giorno della memoria?
di Mario Pirani


Quest’anno il 27 gennaio, Giorno della Memoria, che ricorda le vittime della Shoah, si è svolto con modalità e caratteristiche assai diverse dalle abituali. Sono venute meno — e non è detto sia stato negativo — il ricorrere ormai stantìo alle solite parole d’ordine (“ricordare perché non avvenga mai più. ecc.”) e l’accentuarsi di qualche nota antifascista. Sono, viceversa, emerse come non mai visioni contrapposte di quell’atroce stagione, quasi fosse possibile, in qualche modo, ridiscuterla.
All’improvviso tornano figure scomparse. Ed ecco apparire, evocato da Claude Lanzmann (l’autore di Shoah, la celebre pellicola lunga 10 ore e 13 minuti) che questa volta trova modo di dar voce a Benjamin Murmelstein, ultimo capo nel 1944 del consiglio ebraico del ghetto di Theresienstadt. «Il più capace — lo ricorda Lanzmann— e forse il più coraggioso fra i decani...». Nonostante fosse riuscito a tenere aperto il ghetto fino agli ultimi giorni della guerra e avesse salvato gli ultimi fuggiaschi dalle marce della morte, su di lui si concentrò l’odio di una parte dei sopravvissuti. Sebbene in possesso di un passaporto diplomatico della Croce Rossa, Murmelstein non si diede alla fuga, fu arrestato e imprigionato dalle autorità ceche dopo che alcuni ebrei lo avevano accusato di collaborare con il nemico, rimase in galera per 18 mesi e ne uscì prosciolto da tutte le imputazioni. Alla sua “testimonianza preziosa”, al suo ruolo apparentemente contraddittorio, alla sua complessa figura umana, Lanzmann ha dedicato L’ultimo degli ingiusti
spiegando «non ho girato questo film per le giovani generazioni, dentro c’è qualcosa di molto più complicato di un processo educativo. Girarlo è servito a capire nei dettagli cose che ignoravamo sul senso più profondo su come i nazisti praticavano la corruzione e sul significato della soluzione finale». Nel 2012 Lanzmann torna a Theresienstadt, un “luogo sinistro” a 60 km da Praga, recupera il vecchio colloquio e analizza la vecchia storia della città che Hitler “regalò” agli ebrei, in realtà il luogo della grande menzogna, quello dove vennero deportate le ultime figure di spicco della cultura ebraica prima dell’esecuzione, per concludere: «I veri collaborazionisti, coloro che abbracciarono l’ideologia nazista, come ad esempio i collaborazionisti francesi, non esistevano fra gli ebrei».
Eppure l’antisemitismo sembra maturo per nuove pagine di ignominia. Chi sono, si chiede Alain Finkìelkraut, i 500mila fan su Facebook, spettatori imprevisti di Dieudonné questo comico di colore il cui spettacolo è stato bloccatodalministrodell’Interno francese Manuel Valls per i contenuti antisemiti? Ma ancora più sorprendente è il pamphlet di Elena Loewenthal che esce in questi giorni a Torino. L’autrice, nota scrittrice e saggista di ebraismo (ha curato tra l’altro i tre splendidi volumi su Le leggende degli ebrei di Louis Ginzberg, ed. Adelphi) si è distinta in questi anni per accurate ricerche sulla mistica ebraica e l’antisemitismo. Ed ora? Ora scopre all’improvviso di essere “Contro il Giorno della Memoria” di cui vorrebbe dimenticare tutto. «Per me il vero sogno sarebbe poterla dimenticare questa storia… Rimuovere la Shoah dall’universo della mia coscienza e del mio inconscio… Perché mai coltivare la memoria, se non per continuare a star male?».
Molte, quasi infinite sono le risposte che si affollano ai repentini interrogativi della Loewenthal e non vi è dubbio che si potrebbero aprire molte pagine di discussione. Comunque, questa ed altre recenti sollecitazioni, compresi i suoi aspetti più biechi (come la sconcezza dei maiali), non vi è dubbio che attualizzano questa giornata proponendo nuovi interrogativi su odiosi vecchi schemi che si riaffacciano. Simile all’antisemitismo degli anni Trenta, infatti, quello odierno sfocia in un pericoloso internazionalismo, dai Paesi Baltici alla Francia, dalla Greciaall’Ungheria.Unignobilee non ignoto fetore si leva sull’Europa.

il Fatto 3.2.14
Fiat, non è globale chi non ha radici
di Ferruccio Sansa


La Fiat non è più italiana. Emigra seguendo convenienza e vantaggi fiscali. Segno di pragmatismo, secondo alcuni che ricorrono al latinorum “ubi pecunia, ibi patria”. Per altri di profonda ingratitudine verso un Paese che l’ha arricchita di incentivi e ancora più di intelligenze e lavoro. Tornano in mente gli anni in cui un’Italia sgarrupata sapeva sfornare - alla faccia di colossi come gli Stati Uniti e la Germania - innovazioni industriali che hanno fatto la storia dell’auto.
La vicenda Fiat (che non è più italiana e neanche di Torino), però, non ci induce solo a ragionare di industria, finanzia o politica. C’è qualcosa d'altro: il tema dell’appartenenza a un luogo. Delle radici. Una questione che riguarda noi individui, ma anche le industrie che sono, in fondo, fatte di persone (i manager, ma anche gli operai).
Un tema che abbiamo imparato a liquidare assimilandolo sbrigativamente a un nostalgico provincialismo, peggio a un gretto localismo: oggi siamo cittadini del mondo.
Ma è davvero così? Avere delle radici forti significa non essere capaci di attenzione verso il mondo in cui viviamo? Vuol dire rinchiudersi nell’orizzonte che abbiamo davanti ogni giorno? Forse no. Verrebbe da pensare all’utopia splendida, e però reale, di un industriale come Adriano Olivetti (che non viveva su un aereo come dice compiaciuto John Elkann di Sergio Marchionne), capace di creare a Ivrea una città a misura d’uomo e di impresa. Dove il benessere dei lavoratori portava benefici all’industria, creando un senso di appartenenza e di orgoglio, un fiorire di intelligenze che contano più degli sgravi fiscali. Un discorso che non tocca solo le persone giuridiche, ma anche quelle fisiche, cioè noi cittadini. Individui. Cosa sono per noi le radici e che importanza possono avere nella nostra vita?
Appartenere a un luogo è prima un legame che un vincolo. Non è necessariamente un limite alla libertà. La città, il paese in cui viviamo ci danno nell’arco di una vita la dimensione della nostra persona. Ci insegnano quali sono i nostri limiti, ma ci riconoscono anche un ruolo. La nostra esistenza si riflette, trova conferma nella comunità cui apparteniamo. Da qui derivano responsabilità, parola ambivalente che contiene i doveri, ma anche l’occasione che ci è concessa di contribuire al cambiamento. Di lasciare un segno con la nostra vita. Non solo: il legame con un luogo è garanzia di diritti, di protezione. Ci aiuta a condividere un destino comune. Non c’è niente di angusto nell’avere radici. Anzi, forse, è vero il contrario: ci aiuta a trovare una prospettiva del mondo che è presupposto della visione, di una libertà fatta di scelte. L’opposto di un distacco vago e indifferente.

La Stampa 2.2.14
Il Papa: "La vita va difesa dal grembo materno fino alla sua fine"
 Nella Giornata per la Vita appello pro life di Francesco
di Giacomo Galeazzi
qui

Il Sole 3.2.14
Unioni di fatto più vicine ai matrimoni
La parificazione di tutti i figli, nati da coppie sposate o no, riduce il gap dei diritti per i conviventi
di Valentina Maglione e Selene Pascasi


 Le famiglie di fatto stanno per fare un altro passo di avvicinamento a quelle formate intorno a un matrimonio. Da venerdì 7 febbraio, infatti, sarà completa l'equiparazione tra i figli di genitori sposati e i nati da unioni "libere". È l'effetto dell'entrata in vigore del decreto legislativo 154 del 2013, con cui il Governo ha attuato la delega a riformare le regole sulla filiazione approvata dalla legge 219 del 2012.
L'abolizione delle discriminazioni tra figli «naturali» e «legittimi» è l'ultimo tassello di un mosaico che si sta pian piano componendo per ridurre il gap che separa le famiglie di fatto da quelle "di diritto". Del resto, i numeri fotografano una società in evoluzione, dove tra le due strutture familiari si stanno riducendo le distanze. Infatti, le convivenze aumentano, mentre i matrimoni diminuiscono. Dal 2005 al 2012, infatti, secondo l'Istat, le nozze celebrate sono calate del 16%, passando da quasi 250mila a meno di 210mila. Le libere unioni, invece, crescono: nel 2011 erano quasi un milione e coinvolgevano 2,6 milioni di persone. E, parallelamente, si riduce anche il numero dei figli di coppie sposate, passati da più di 440mila nel 2008 a meno di 380mila nel 2012; mentre crescono i nati da "unioni libere": erano circa 127mila nel 2008 e quasi 150mila nel 2012.
Certo, è vero che, senza regole ad hoc, una serie di diritti restano preclusi alle coppie di fatto. Ad esempio, ai conviventi ancora non sono garantite quote dell'eredità, né spetta la pensione di reversibilità del compagno. E resta limitata anche la possibilità di assistere il convivente in caso di malattia.
Ma in alcuni aspetti della regolamentazione dei rapporti, personali e patrimoniali, tra conviventi a colmare il vuoto normativo è intervenuta la giurisprudenza. Ad esempio, per quel che riguarda il "tetto familiare", la Cassazione, con la sentenza 7 del 2014, ha riconosciuto la tutela possessoria a favore del convivente, non proprietario, violentemente estromesso dalla casa di comune abitazione. In quell'occasione, i giudici hanno chiarito che la convivenza, dando vita a un autentico consorzio familiare, determina sull'abitazione dove si svolge, un potere di fatto basato su un interesse proprio del convivente, distinto da quello legato alla pura ospitalità. Inoltre, la Cassazione, con la sentenza 3548 del 2013, ha ricordato che il convivente ha diritto, anche se dalla coppia di fatto non sono nati figli, alla successione nel contratto di locazione stipulato dal compagno defunto. Peraltro, la sentenza 26424 del 2013 della Cassazione ha precisato che il proprietario della casa familiare deve restituire all'ex convivente le somme versate per acquistare l'immobile, se tratte da un conto corrente cointestato, di cui si può desumere la contitolarità.
Quanto all'assegno per il nucleo familiare, la Cassazione, con la sentenza 14783/2010, ha ribadito il diritto delle coppie di fatto, a percepire l'importo per i figli riconosciuti e conviventi.
Una mossa nella direzione di regolare i rapporti patrimoniali all'interno delle coppie di fatto è stata fatta dal Consiglio nazionale del notariato, che ha lanciato i «Contratti di convivenza». Si tratta di accordi stipulati dai partner per ridurre prevedibili contrasti. Si potrà stabilire, ad esempio, con effetti vincolanti, la sorte della casa di convivenza, la titolarità di beni acquistati congiuntamente, la partecipazione alle spese comuni o la nomina del compagno quale amministratore di sostegno per l'assistenza dell'altro, in caso di malattia. Restano fuori dalla sfera d'azione dei patti di convivenza i diritti indisponibili.

Il Sole 3.2.14
Divieto di discriminazione. La sentenza della Corte di Strasburgo e il disegno di legge sulla libera scelta
Stop all'automatismo nel cognome
di Beatrice Dalia


 La riforma della normativa relativa al riconoscimento dei figli naturali, con conseguente equiparazione tra figli legittimi e figli naturali, porta con sé inevitabili ricadute sotto il profilo del diritto ereditario.
Addio all'«estromissione»
La novità più rilevante è senz'altro quella relativa al cosiddetto «diritto di commutazione», che era probabilmente la principale discriminazione nel trattamento successorio tra figli legittimi e figli naturali. Infatti, in base al vecchio testo dell'articolo 537, comma 3 del Codice civile, i figli legittimi potevano «soddisfare in denaro o in beni immobili ereditari la porzione spettante ai figli naturali che non vi si oppongano. Nel caso di opposizione decide il giudice, valutate le circostanze personali e patrimoniali».
Ebbene, la norma in questione è abrogata dal decreto legislativo 154/2013, in vigore da venerdì 7 febbraio, in quanto, scomparendo la categoria dei figli naturali ed essendo questi equiparati in tutto e per tutto ai figli legittimi, anche il diritto di commutazione deve cessare di avere cittadinanza nel nostro ordinamento. In altri termini, i figli nati al di fuori del matrimonio del genitore defunto non sono più liquidabili da quelli nati nel matrimonio: tutti partecipano quindi inderogabilmente alla comunione ereditaria, senza che quelli nati al di fuori del matrimonio possano subire l'opzione di estromissione dalla comunione precedentemente attribuita a quelli nati nel matrimonio.
Tra fratelli
Un tema che invece la riforma della filiazione naturale non tocca esplicitamente è quello della successione tra fratelli, nel caso in cui uno di essi sia nato nel matrimonio del genitore defunto e l'altro sia invece nato al di fuori del matrimonio del defunto stesso. Prima della riforma, il riconoscimento della filiazione naturale faceva nascere rapporti solo tra genitore e figlio riconosciuto e non tra quest'ultimo e i suoi fratelli, nati nel matrimonio dello stesso genitore; di conseguenza, in caso di morte di uno di questi fratelli, il fratello superstite non poteva ereditare dal fratello defunto.
A questa situazione aveva però parzialmente già posto rimedio la Corte costituzionale (con la sentenza 55 del 4 luglio 1979 e con la sentenza 184 del 12 aprile 1990), stabilendo che, al decesso di un "fratello naturale", l'altro fratello poteva ereditare se il defunto non aveva lasciato coniuge, figli e altri parenti entro il sesto grado. In altri termini, la Consulta aveva sancito che, prima dello Stato e in mancanza di congiunti entro il sesto grado, avrebbe potuto ereditare il fratello naturale del defunto.
Ora, anche se la riforma non tocca, sotto questo aspetto, gli articoli 565 e 570 del Codice civile, il problema si deve comunque considerare superato. Infatti, dato che la filiazione naturale è equiparata alla filiazione legittima, se muore una persona che non lascia figli, i suoi fratelli dovrebbero ereditare sia che siano figli nati nel matrimonio del loro genitore, sia che siano figli nati al di fuori di tale matrimonio.
In altri termini, quelli che anteriormente erano "fratelli naturali" e che ereditavano prima dello Stato e solo dopo i parenti di sesto grado, ora invece ottengono una consistente "promozione", venendo a essere eredi al grado dei collaterali "legittimi", e quindi al secondo grado.
Di conseguenza, ora la presenza di fratelli naturali comprime le quote concorrenti dell'eventuale coniuge superstite, degli eventuali ascendenti e di eventuali altri fratelli del defunto ed esclude la chiamata all'eredità di parenti di grado ulteriore rispetto al grado dei fratelli del defunto.

Il Sole 3.2.14
La responsabilità sostituisce la potestà
Disciplina unica a prescindere dal tipo di unione
Abolita la possibilità per il padre di decidere d'urgenza
di Silvia Giamminola


La sensazione condivisa è una: la sostituzione della potestà genitoriale con la responsabilità – decisa dalla riforma della filiazione – riporta a un linguaggio più simbolico che giuridico. Ben venga una norma che ricorda come essere genitori significa dover sempre rispondere del proprio comportamento verso i figli, e non avere poteri indiscussi su di loro; ma la storia (del diritto) ci ha insegnato che essere padri, e più di recente e finalmente anche madri, impone doveri e concede diritti funzionali ai doveri.
Il cambio
La legge 219/2012 ha dato un compito che è stato assolto dal Governo in maniera discutibile. Infatti, la legge contiene la delega a delineare «la nozione di responsabilità genitoriale quale aspetto dell'esercizio della potestà genitoriale». Ma il decreto legislativo 154/2013, che attua la delega e che entra in vigore venerdì 7 febbraio, ha operato una sostituzione terminologica senza una definizione. È vero che nell'ordinamento italiano è presente una definizione della responsabilità genitoriale in virtù del Regolamento Ce 2201/03, norma di rango superiore («diritti e doveri di cui è investita una persona fisica o giuridica in virtù di una decisione giudiziaria, della legge o di un accordo in vigore riguardanti la persona o i beni di un minore, comprende il diritto di affido e di visita»); ma è anche vero che nell'interesse dei minori erano previste la limitazione o la decadenza dalla potestà. Si farà fatica a ragionare in termini di limitazioni o decadenza dalla «responsabilità», parola che evoca qualcosa a cui non ci si può sottrarre.
Regole unificate
Inoltre, da venerdì 7 febbraio cambia la struttura del libro primo del Codice civile (dedicato alle persone e alla famiglia), innanzitutto per svincolare la regolamentazione del rapporto genitoriale da quella del matrimonio. Se tutti i figli sono uguali e hanno lo stesso status, le norme devono delinearlo in quanto tale. Nei fatti – come ha chiesto la legge 219/2012 – vengono unificate le disposizioni che disciplinano i diritti e i doveri dei genitori nei confronti dei figli nati nel matrimonio e fuori dal matrimonio.
Ecco dunque che, indipendentemente dai rapporti che li legano (matrimonio, convivenza, relazione a distanza o occasionale), i genitori devono esercitare la responsabilità di comune accordo. È stata eliminata la residua facoltà del padre di decidere d'urgenza in caso di pericolo imminente per il figlio, mentre in caso di disaccordo fra i genitori è rimasta immutata la possibilità di rivolgersi al giudice (che prova a suggerire una soluzione condivisibile e in seconda istanza attribuisce il potere di prendere la decisione in questione al padre o alla madre). Con la sola specificazione che anche in questi procedimenti è necessario provvedere all'ascolto dei minori di 12 anni, o più piccoli se capaci di discernimento (in passato erano sentiti i maggiori di 14 anni).
Viene ancora specificato che quando i genitori non sono sposati fra loro, e i figli sono riconosciuti come nati fuori dal matrimonio, il genitore che effettua il riconoscimento esercita la responsabilità sul figlio; e, se due sono i genitori che hanno effettuato il riconoscimento, l'esercizio della responsabilità spetta a entrambi.
Un altro principio che rimane è pacifico: se un genitore ha un impedimento che gli rende impossibile l'esercizio della responsabilità, l'altro genitore la esercita da solo in modo esclusivo; quindi, se un minore perde un genitore conterà sull'altro, mentre la tutela si apre solo quando un minore, che non sia stato affidato giudiziariamente a terzi, perde entrambi i genitori. Resta anche la possibilità del genitore che non esercita la responsabilità di vigilare sul figlio, in particolare sulla sua istruzione ed educazione e sulle sue condizioni di vita; può quindi dire la sua in procedimenti che riguardino il figlio minore, quando ritenga che la presenza attiva dell'altro genitore nella vita del figlio non tuteli i suoi diritti. 
Non dimentichiamo che i genitori devono tenere conto delle capacità, delle inclinazioni naturali e delle aspirazioni del figlio; e che le limitazioni al ruolo genitoriale sono sempre possibili. È possibile che il giudice stabilisca l'affido esclusivo di un minore a uno solo dei genitori che per qualunque motivo vivono separati; è possibile che un minore venga affidato giuridicamente al comune di residenza (con contestuale limitazione del ruolo della madre e del padre), chiamato a decidere del suo collocamento, anche in una comunità. E quando le difficoltà sono maggiori si può arrivare agli affidamenti familiari e alla fine all'adottabilità.
Se un genitore cui è stata tolta la responsabilità può essere comunque tenuto al mantenimento di un figlio, ora il figlio trascurato pesantemente dal genitore "decaduto" (dalla responsabilità) non deve più prestargli gli alimenti in futuro e può anche escluderlo dalla successione.

Repubblica 3.2.14
La capitale alza bandiera bianca il prefetto: “Evitate di venire in città” E a Fiumicino sbarca l’esercito
Contestato Marino, allarme a Malagrotta: a galla rifiuti tossici
di Anna Rita Cillis e Carlo Picozza


ROMA — La capitale alza bandiera bianca. Da tre giorni la pioggia battente non lascia tregua. Vaste aree della Città eterna sono sommerse da acqua e fango. Il maltempo detta i ritmi dell’emergenza moltiplicando disservizi e proteste. Il prefetto, Giuseppe Pecoraro, avverte: «Per eventuali problemi di mobilità, si sconsiglia di venire a Roma se non per stretta necessità». Anche perché il bollettino meteo non lascia spazio a grandi speranze: oggi ancora pioggia, ma meno intensa.
Capitale in ginocchio e il suo hinterland non è da meno. A Fiumicino, Pecoraro ha inviato l’esercito. Una ventina di militari, con idrovore al seguito, hanno pompato acqua dall’Isola Sacra per tutta la notte e continueranno a farlo anche oggi. Sul litorale le scuole comunali resteranno chiuse. Incombe su Roma e il suo hinterland il rischio caos per il traffico, e in periferia, a sud come a nord, migliaia di ettari non riemergono da allagamenti e frane.
La piena del Tevere è passata senza grandi problemi nel cuore della capitale, ma l’emergenza si è presentata alla foce del Fiume sacro, mettendo alla prova Fiumicino, dove da tre giorni strade, terreni, campi e centinaia di abitazioni con molte persone dentro sono invase dall’acqua. Isolate. In più di cento sono stati allontanati dalle proprie case e ospitati in albergo. Anche per questo il sindaco Montino ha chiesto aiuto al prefetto. Così nel pomeriggio, dalla caserma della Cecchignola, è partita una colonna munita di autopompe per tentare di restituire all’area l’equilibrio idrico compromesso.
A nord della capitale, da Prima Porta alla Giustiniana, con i disagi è montata l’ira dei residenti, soprattutto quando, nel pomeriggio, il sindaco Ignazio Marino ha incontrato gli “sfollati” nella
chiesa di Sant’Alfonso de’ Liguori: «Dicono che la colpa è nostra, perché viviamo in case abusive», si sfoga una donna, «ma le tasse le paghiamo, eccome». «Sindaco», aggiunge una volontaria, «noi ci siamo rimboccati le maniche, io stavo qui, l’acqua veniva su dai tombini perché non c’è manutenzione». Marino cerca di contenere la rabbia dei residenti: «Dobbiamo trovare le soluzioni giuste, intanto bisogna aumentare il numero delle idrovore in funzione». Ma il battibecco non si placa: «Capisco che lei è sindaco da sei mesi», replica la volontaria, «ma noi da settembre chiamiamo i vigili del fuoco perché i bambini non possono entrare a scuola». «Ce ne occuperemo», assicura Marino. E la tensione sembra calare. Il parroco di Sant’Alfonso de’ Liguori, sabato scorso, era stato chiamato da Papa Francesco, anche lui in ansia per il maltempo. Tanto che, nell’Angelus, il pontefice ha rivolto un «pensiero affettuoso alle care popolazioni di Roma e della Toscana, colpite dalle piogge che hanno provocato allagamenti e inondazioni», al punto da provocare disastri ambientali soprattutto nelle aree più esposte. Come Malagrotta, epicentro avvelenato di un disastro ambientale annunciato, dove flebo, siringhe usate, sacche di sangue, garze, farmaci scaduti, altri rifiuti ospedalieri ed ettolitri di idrocarburi della vicina raffineria hanno invaso campi e terreni trasformandoli in una Terra dei Fuochi romana.
La zona è stata sequestrata e oggi i verbali dei vigili urbani finiranno in procura. Rotti gli argini, Rio Galeria ha invaso il deposito Ama dei rifiuti ospedalieri, portandosi dietro gli scarti tossici e seminandone una parte per i campi coltivati e in mare attraverso un torrente che sfocia nel Tevere. E con i rifiuti sanitari, nei terreni intorno alla raffineria Roma Petroli, sono finiti ettolitri di idrocarburi.
«Lo scempio» è stato documentato, con fotografie e video, dal deputato Stefano Vignaroli (Movimento 5 Stelle) in una visita, sotto la pioggia battente, nell’area di Ponte Malnome, costeggiata dal Rio Galeria. Già il 21 aprile 2012 un’autocisterna aveva versato tremila litri di gasolio nel Rio Galeria. Ora i rifiuti tossici degli ospedali di Roma rilanciano l’allarme per quel corso d’acqua tra i più avvelenati d’Europa.

Repubblica 3.2.14
Roma e il suo Gra, un unico pantano
di Gianfranco Rosi


MI TORNA alla mente un’altra storia, di due anni fa. Una signora in macchina affogata in un sottopassaggio in periferia, alle sei di mattina. Il buio e l’acqua che sale, il terrore. Un episodio che mi è rimasto dentro. All’epoca lavoravo al film El Sicario. Room 164 e dovetti sospendere per una settimana perché gli stabilimenti della Technicolor si erano allagati. I vigili urbani arrivarono con le barche per portare via i lavoratori. Sono passati due anni, non è cambiato niente.
Non cambia mai niente in questa città. La gente è lasciata a se stessa, al proprio senso di sopravvivenza, come quella famiglia sulla ruspa. M’impressiona che ogni volta si debba arrivare a questo. Lo sguardo sul disastro e, poi, due giorni di sole bastano per dire: «Ci pensiamo più avanti». Credo che oggi urbanisti e ingegneri e politici debbano spiegarci perché tutto questo accade. Quali leggi fisiche fanno sì che non si possa porre rimedio a un disastro che ormai dura da cinquant’anni. Un danno radicato che trasforma Roma in un immenso pantano. Una città divisa tra il centro e quel Grande raccordo che racchiude tre milioni di persone. Quando il sindaco Marino è venuto a vedere Sacro Gra, ha detto: «Questo film ci insegna a guardare dove non guardiamo. Il raccordo oggi è il centro di Roma». Ebbene, l’amministrazione deve iniziare a guardare a quel centro e ai futuri possibili, altrimenti questa città non avrà futuro. Ha invece un grande passato figlio della speculazione. Il raccordo è tutta una speculazione edilizia, ci sono interi quartieri disegnati e realizzati attraverso scambi politici. Cinquant’anni senza una visione. Il risultato è una città divisa a pezzi, abbandonata, con poche risorse, che si sta consumando e si guarda sprofondare. Io viaggio in motorino, so che significa il rischio di cadere in una buca piena d’acqua. In periferia, ma anche in centro. Amalia, la figlia del filosofo, uno dei personaggi del mio film, aveva iniziato a dare lezioni di latino a mia figlia. Ha dovuto smettere perché impiegava due ore e mezzo all’andata e altrettante al ritorno per attraversare la città. Esistono due città divise dalle Mura Aureliane, due realtà che non comunicano. Mezzi pubblici che non funzionano. E che quando piove spariscono. Sono stato nelle scorse settimane a Londra e a Rotterdam: pioveva molto più che qui, ma tutto era normale. I treni, le metropolitane, i taxi. Roma è l’unica capitale europea in cui telefonare e dire «non vengo perché piove» è considerato una scusa plausibile. Chissà, forse per i nostri politici piove sempre.
Ti viene voglia di scappare, ma sarebbe troppo semplice. Roma è la città in cui vive mia figlia, dove sono tornato e che in questi tre anni di film ho imparato ad amare. Ho telefonato ai miei personaggi per sapere come stavano. Cesare che vive sul fiume è attrezzato per le piene, c’è stato solo qualche danno alla postazione della Croce Rossa. La rabbia, però, è il punto d’arrivo di questo disagio quotidiano. Che succederà domani? Si possono spostare interi quartieri? E soprattutto, cosa faranno quegli uomini sulle ruspe che hanno perso tutto in un’ora? L’unica speranza per loro è che almeno esca il sole.
(testo raccolto da Arianna Finos. L’autore è regista di Sacro Gra, Leone d’oro all’ultima mostra del cinema di Venezia)

l’Unità 3.2.14
Lista Tsipras, Vendola e i Professori già ai ferri corti
I sei intellettuali promotori non vogliono candidati di partito che abbiano avuto «incarichi elettivi e responsabilità di rilievo»

Sconcerto in Sel
di Rachele Gonnelli


 I militanti di Sinistra ecologia e libertà sono esterrefatti. Dopo aver tanto combattuto, discusso, votato per ottenere l’adesione alla lista del leader greco Alexis Tsipras e l’abbandono della prospettiva del Pse, si ritrovano sotto giudizio, quasi messi in un angolo.
Sono gli stessi sei promotori dell’appello iniziale - oltre alla giornalista Barbara Spinelli, Andrea Camilleri, Luciano Gallino, Paolo Flores d’Arcais, Marco Revelli e Guido Viale - a porre al partito di Nichi Vendola, per la verità ai partiti in genere, tutta una serie di clausole per poter partecipare. Come dire: benvenuti sì, ma a debita distanza. I sei si rivolgono direttamente ai 14mila firmatari del loro appello iniziale, proponendo un calendario serrato per la definizione delle candidature e la modalità della loro presentazione, con tanto di consultazione online per la composizione finale delle liste. «Chi gli dà questo diritto», protestano in questi giorni i militanti appena usciti dalle divisioni del congresso di Riccione. I sei professori si sono arruolati da soli, in effetti, nel ruolo di generali. O meglio, garanti dell’autonomia e della coerenza del progetto «scongiurando interferenze o tentativi di appropriazione che hanno fatto fallire analoghe iniziative», scrivono. Il riferimento, Guido Viale è esplicito, è al flop alle politiche di Rivoluzione Civile. Peccato che col taglia e cuci dei loro criteri potrebbe a prima vista candidarsi Antonio Ingroia e non la sindaca di Lampedusa Giusi Nicolini.
Simbolo e nome si dovrebbero decidere attraverso la formazione di un comitato nazionale e un’altra consultazione online.Masoprattutto è messo nero su bianco che per superare il vaglio i tesserati non devono aver avuto incarichi elettivi o responsabilità di rilievo negli ultimi dieci anni. Un criterio capestro che sa di grillismo? «Non intendiamo certo escludere sindaci e assessori, sappiamo bene che è dai territori che si sono mosse molte energie anche per la vittoria del referendum sull’acqua», risponde Guido Viale, che spiega come la clausola riguardi solo consiglieri regionali, ministri e deputati. «Di lì in giù tutto è ammesso». Le liste proposte dai partiti o da associazioni e movimenti - i cosiddetti «sostenitori» - devono essere presentate entro e non oltre il 16 febbrario. Perché dal 22 febbraio, terminato il vaglio della commissione nazionale, dovrà iniziare la raccolta delle 150mila firme necessarie visto che si è deciso di sbarrare la scorciatoia possibile per chi ha già una rappresentanza parlamentare. «Così si comincia anche la campagna elettorale - nota Viale - e i tempi sono micidiali non per colpa nostra, è il regolamento elettorale». Il tono ultimativo della lettera ha provocato malumori. E non soltanto dentro Sel. Chiara Ingrao, firmataria dell’appello ma non iscritta a nessun partito, pur condividendo la preoccupazione di «non ritrovarsi con una lista di riciclati, dominata da logiche di partito », scrive in una lettera ai promotori le sue perplessità verso una logica non inclusiva. «Ci battiamo per un’Europa di tutti e tutte, non di pochi eletti», ricorda.
In Sel, dopo l’iniziale sconcerto e fastidio dei militanti per questo prendere- o-lasciare dei professori, prevalgono tra i dirigenti i toni pacati. Sergio Boccadutri, riconfermato Tesoriere, era tra i più scettici sull’adesione alla lista Tsipras ma ora conferma: «La linea uscita dalCongresso non si ridiscute. Personalmente - avverte - avrei preferito proseguire la strada intrapresa al fianco del Pse ma adesso si deve tentare il percorso di una lista unitaria a sinistra aperta a un campo largo di forze e personalità della società civile. Non ci dobbiamo mica sposare, è solo per le europee. Ma bisogna che ognuno faccia un passo indietro per farne uno avanti tutti insieme». Certo, si rischia di partire col piede sbagliato. «Anche perché chiudere le porte invece di aprirle non coglie lo spirito di Alexis» - dice Boccadutri che Tsipras conosce dai tempi del G8 di Genova – E non penso proprio che Alexis abbia dato cambiali in bianco a nessuno». Insomma, sarà lui ad avere l’ultima parola.
Perciò si media. Già da questa settimana una delegazione di Sel andrà a parlare con i sei promotori, ai quali nelle ultime ore si è aggiunto Gustavo Zagrebelsky. Nicola Fratoianni, che tra i dirigenti di Sel a Riccione si è più speso per la lista Tsipras, è convinto che resistenze e malumori siano destinati ad appianarsi. Ed è pronto a riconoscere ai sei - o sette - intellettuali dell’appello un ruolo di garanzia. «Legittime le loro proposte di modalità e di tempi, mentre sarebbe assurdo parlare di veto. L’importante è che si utilizzino meccanismi di inclusione di partecipazione perché serve una mobilitazione nei territori che parli di progetti, contenuti». E però aggiunge: «Certo, aiuterebbe da parte loro una disponibilità a metterci la faccia in questo progetto». Barbara Spinelli, a quanto pare, fa resistenza.

Corriere 3.2.14
Attenti alle elezioni europee, non prendiamole sottogamba
risponde Sergio Romano


 Sono e rimango un europeista convinto che però non riesce a comprendere il volersi far male da soli che continua ad imperversare in certi atti e modi di gestire tutto quanto è europeo. Ne è un esempio l’incapacità, e mi scusi la definizione, di comprendere come sarebbe più utile alle elezioni europee avere sulle schede elettorali i simboli dei gruppi parlamentari rappresentanti Strasburgo e non quelli equivocamente semplici ed insignificanti dei soliti partiti nazionali. Che senso ha barrare per l’Europa il simbolo di una risorta Forza Italia? Quando in realtà stiamo dando il nostro gradimento al Partito popolare europeo (l’Epp)? O uno sconosciuto Pd che finirà poi nel S&D (l’Alleanza dei progressisti e dei socialisti)? Tanto per fare l’esempio dei due gruppi maggiori! Non sarebbe più «uniformante» per trasmettere al cittadino europeo un maggior senso di appartenenza e di condivisione che già sulle schede elettorali apparissero (singolarmente o abbinati con quelli nazionali) i simboli dei gruppi che siedono a Strasburgo? 
Mario Taliani mtali@tin.it 
Caro Taliani, 
I partiti politici, non soltanto in Italia, hanno quasi sempre considerato le elezioni europee alla stregua di un grande sondaggio fra due elezioni nazionali. Alle forze politiche servivano tutt’al più per verificare i rapporti di forza e agli elettori per lanciare segnali e manifestare stati d’animo. Il caso più interessante fu quello delle elezioni europee del 17 giugno 1984. Enrico Berlinguer, segretario del Partito comunista, era morto a Padova durante un comizio, dieci giorni prima, e molti elettori gli tributarono un omaggio regalando al Pci il primo posto con un margine di vantaggio dello 0,3% sulla Democrazia cristiana. 
I poteri dell’Assemblea di Strasburgo erano alquanto modesti e gli elettori sapevano che il loro voto non avrebbe avuto alcuna pratica conseguenza. Oggi, invece, grazie ai trattati costituzionali, il Parlamento europeo è diventato il passaggio obbligato per decisioni che concernono la composizione della Commissione, il bilancio dell’Ue, le norme che regolano il mercato unico e altre materie fondamentali per il futuro dell’Unione. I Paesi più attenti ne sono consapevoli e mandano a Strasburgo, da qualche anno, persone che conoscono i problemi, hanno una mentalità europea ma non dimenticano gli interessi del loro Paese e sanno che il loro lavoro sarà tanto più utile quanto più potrà contare sulla forza e sulla coesione del gruppo parlamentare a cui si iscriveranno. 
Lei ha ragione quindi, caro Taliani, quando scrive che l’elettore italiano dovrebbe trovare sulla sua scheda, accanto al nome di ogni partito, quello del gruppo parlamentare di cui intende fare parte. Vorremmo sapere, per esempio, se tutti i candidati del Partito democratico s’iscriveranno al gruppo dell’Alleanza progressista dei socialisti e dei democratici, se quelli di Forza Italia e del Nuovo centrodestra confluiranno nel gruppo del Partito popolare europeo, quale sarà la casa in cui andranno ad abitare i parlamentari del Movimento 5 Stelle. Non basta. Se il Parlamento di Strasburgo è destinato ad avere competenze crescenti, ci piacerebbe che i candidati spiegassero agli elettori le loro posizioni sui grandi temi europei del momento: rigore o crescita, mutualizzazione del debito pubblico e eurobond, libera circolazione delle persone e immigrazione. Se non lo facessero, l’intero spazio elettorale verrebbe occupato dalle invettive antieuropee dei movimenti populisti e molti elettori finirebbero per disertare le urne.

il Fatto 3.2.14
Crisi diplomatiche
Unesco in mutande: entra la Palestina, gli Usa tagliano i fondi
di Martina Castigliani


Yes. No. Yes. Yes. Yes. No. Il giorno in cui l'Unesco ha deciso di ammettere la Palestina tra gli Stati membri, uno dei suoi diplomatici se ne stava seduto nel loggione in alto dell'aula di Parigi. Con una penna segnava su un foglio il voto di ogni delegato. Una lista infinita di croci nere, tracciate dopo ogni dichiarazione. Li ha contati uno ad uno, i sì e i no, fino al risultato finale: 107 favorevoli, 14 contrari e 52 astenuti. Quando l’organizzazione della Nazione Unite per la scienza, l'educazione e la cultura ha accettato di aprire le porte alla Palestina era il 31 ottobre 2011 e quel giorno è iniziata una tempesta. Gli Stati Uniti, per rispetto di una legge interna, hanno tolto i fondi (22 per cento del budget totale per un passivo di 280 milioni di dollari per quattro anni), mettendo a dura prova l’istituzione diplomatica. Progetti tagliati, prepensionamenti e accuse di politicizzazione. La decisione che dissero gli ambasciatori “ha fatto la storia”, ha trascinato l’organizzazione in una bufera. Così nel novembre 2013, Usa e Israele, dopo non aver pagato il loro debito per due anni, hanno perso il diritto di voto nell’assemblea plenaria. Pochi soldi e poteri deboli. É tutto perduto? Malgrado le critiche, l'Unesco è una macchina oliata che affronta la più difficile delle sfide: mettere la cultura al centro della scena ed esistere nonostante tutto.
ISTITUZIONE PALADINA di battaglie quasi impossibili, promuove educazione e parità di genere, si occupa di preservare le diversità culturali e tutela giornalisti e libertà d’espressione. E soprattutto stila un elenco dei patrimoni artistici da preservare. L’Unesco è la cenerentola delle istituzioni della Nazioni unite, dimenticata nel centro di Parigi e spesso accusata di non essere abbastanza influente. Fondata il 4 novembre del 1946, raduna 196 Paesi. Ora senza i soldi di Obama e un maggiore impegno degli altri membri è tutto più difficile. Ma chi l'ha tenuta in piedi fino adesso non ha intenzione di arrendersi.
“Mi dispiace molto”, ha detto alla stampa la direttrice generale dal 2009 Irina Bokova, “ma ho visto in questi due anni un declino dell’influenza americana”. Gli Stati Uniti hanno deciso di rimanere fuori. Scelta automatica per rispettare una legge degli anni ’90 del Congresso che prevede: “Il taglio dei fondi ad ogni organizzazione che riconosce la Palestina”. L’Unesco in quella mattina di ottobre ha scelto di accettare la richiesta palestinese “in vista di una nuova apertura”. Lo dicevano Francia, Russia e Cuba a fianco. Lo ripeteva la Spagna, ma non l’Italia o il Canada. Di quel giorno a verbale restano poche frasi. “Pensavo”, disse il delegato di Israele, Nimrod Barkan, “che la esse della sigla di quest’istituzione diplomatica stesse per scienza e non per science fiction”. Fantascienza. La Palestina rispose tra le lacrime dei suoi delegati in giacche e cravatte improvvisate: “Nessuno può toglierci dalla carta geografica”. L’applauso di quella sala a pochi passi dalla Torre Eiffel, nel pieno centro luccicante di Parigi, aveva risuonato come una rivoluzione. Diplomatici da tempo dimenticati, all’improvviso protagonisti di azioni irriverenti. E quel giorno, tra i corridoio gialli e color grigio beige, l’euforia di alcuni aveva lasciato spazio alle preoccupazioni di altri.
Da quel momento ad essere cambiato è il portafoglio. Nel momento del ritiro, il contributo Usa era pari a 70 milioni di dollari annui: così si è dovuto creare un fondo d’urgenza (circa 90 milioni raccolti da Qatar, Nigeria, Costa d’Avorio e altri), chiedere un maggiore impegno agli altri membri e procedere con un taglio drastico dei costi. Per il 2014 il bilancio approvato è stato di 507 milioni, 146 in meno rispetto a quanto previsto con i donatori originali.
IL TIMORE è per i posti di lavoro: sono circa 500 gli impiegati nel mondo e per il momento si è proceduto con una riorganizzazione del personale, ovvero nessun licenziamento, ma prepensionamenti o non ricambio di sedi vacanti. Un pacchetto non approvato da tutti, anche per il coinvolgimento necessario di sponsor privati. La Corte dei conti francese ha osservato che c’è stata una “gestione disordinata della crisi”, anche se dalla direzione centrale garantiscono che è stato fatto tutto il possibile per intervenire. A non essere più finanziati sono alcuni progetti prima considerati prioritari dagli Usa. Innanzitutto il programma di alfabetizzazione per le donne in Africa e Asia. Considerato un cavallo di battaglia dalla stessa Hillary Clinton, è stato ridimensionato. La seconda vittima è stato il settore delle scienze e il programma per incentivare la carriera accademica per le donne. Al terzo posto, la costruzione di centri per l’allerta tsunami: ne era in costruzione uno nuovo nei Caraibi. Ora mancano i fondi. Il vero paradosso è il programma per la memoria dell’Olocausto nelle scuole e la sensibilizzazione sul tema genocidi: cancellato perché promosso essenzialmente con fondi americani. “Non posso immaginare”, ha commentato Irina Bokova, “come potremmo separare gli Usa dall’Unesco”. La perdita riguarda il soft power che gli Stati Uniti potrebbero giocare in alcune zone del mondo, promuovendo i diritti umani nelle aree dove sono visti ancora come il nemico e aumentando la propria influenza. Ma non è la prima volta che gli Usa hanno problemi con l’Unesco. Era stato sotto la presidenza Reagan, nel 1984 che si decise il ritiro dall’istituzione perché “troppo politicizzata”. Tornarono a sedere nei banchi di Parigi nel 2003 con l’amministrazione Bush. La paura ora dall’altra parte dell’oceano è quella di essere tagliati fuori da un’organizzazione che anche se meno potente di altre, è parte integrante delle Nazioni Unite. E si teme di vedere una maggioranza filopalestinese prendere il controllo di aree diplomatiche prima monopolio americano. “Non avremo più”, aveva dichiarato Phyllis Magrab, il delegato a Washington, “la stessa influenza. Ci viene a mancare il nostro martello”. Ma oltre ogni strategia di potere, c'è l'idea che un progetto che parla di cultura e pace non possa essere lasciato morire. Così a chiedere di rivedere gli Stati Uniti seduti nell'assemblea a Parigi è anche l’ambasciatore palestinese Elias Sanar: “Abbiamo bisogno di loro per restare attivi. Prendendo questa decisione, hanno creato molti problemi, ma soprattutto hanno perso parte del loro ruolo e noi abbiamo bisogno di quel ruolo”.

il Fatto 3.2.14
Golda El-Khoury, dirigente Unesco:
“Noi continuiamo a lavorare per la pace e i diritti di tutti”
di M. Cast.


 Stanze piene di carte e uffici di delegati in giacca e cravatta. L'immagine polverosa e fuori dal tempo di un'istituzione, la smentiscono i suoi rappresentanti. Gol-da El-Khoury è da cinque anni nella squadra dei dirigenti Unesco. Ora è team leader Social Inclusion Policies nel settore Human and Social Sciences. Nata in Libano, è stata dirigente per l'Unicef in Medio Oriente e Nord Africa e per l'ong Save the Children in Giordania, Iraq e Indonesia. Vive a Parigi e rinnega la trappola delle istituzioni: "Ho lavorato sul territorio per tanti anni e quell'esperienza mi permette di capire meglio come agire ora". A chi le chiede del futuro dell'Unesco, racconta di storie e di vite, di progetti che coinvolgono i giovani e di un futuro che li vede protagonisti in prima persona. Del taglio di fondi degli Usa dopo l'ammissione della Palestina non vuole parlare: “Hanno deciso gli Stati. Faremo di questa crisi un'opportunità”. E disegna un mondo diplomatico che guarda al futuro con poche preoccupazioni. “Perché ascoltiamo i giovani e la forza delle loro critiche”.
Il mondo ha ancora bisogno dell'Unesco?
Mai come ora è necessario il lavoro di questa istituzione. Il nostro compito è proteggere il patrimonio mondiale e difendere le diversità culturali.
E in quali ambiti operate?
Il nostro è un intervento su più livelli. Tra le priorità: libertà d’espressione e difesa dei giornalisti, educazione per tutti, attenzione alle trasformazioni sociali e all’inclusione sociale, tutela dei diritti umani e delle diversità culturali. Senza dimenticare i temi della gestione dell’acqua nel mondo, le minacce del cambiamento climatico e il controllo della condizione degli oceani. A ognuna di queste parole corrisponde un team di esperti che lavora a progetti sul territorio.
Siete davvero attori indipendenti?
Noi costruiamo ponti tra gli Stati e le comunità. Anche se non ci vedete sul palcoscenico, siamo registi che dialogano con politici, cooperanti e associazioni. Creiamo un legame e cerchiamo di agire nel concreto e nella totale trasparenza.
Parliamo in concreto, allora...
Un piano per ridurre le differenze di genere e tutela delle discriminazioni che vivono uomini e donne nel mondo. Ma anche attenzione per le minoranze. Penso alla Cina dove abbiamo un progetto per l'emancipazione economica delle donne. O alla Mongolia e all'Indonesia dove interveniamo in modo mirato sul tema emigrazione. L'Africa è una delle nostre priorità a livello globale: è un continente che deve tornare al centro dell'attenzione mondiale e che ha grandi potenzialità.E poi naturalmente i ragazzi.
Un'istituzione che punta sui giovani, conviene?
É l'unica strada possibile. Abbiamo molti progetti che mirano al coinvolgimento degli under 35 nelle istituzioni. Ogni due anni, in concomitanza con l'assemblea generale, organizziamo uno Youth Forum per parlare di problematiche che riguardano il mondo più giovane. Invitiamo attori coraggiosi e che con il sistema non c'entrano molto. Tra i nostri ospiti per esempio, abbiamo avuto il leader spagnolo degli indignados Andres Villena. Abbiamo ascoltato tutte le sue critiche, siamo cresciuti. L’Unesco è stata creata molti anni fa, ma non significa che non sia cambiata e migliorata con il tempo.
E i delegati cosa ne pensano?
Il ruolo di noi funzionari è quello di implementare le decisioni degli Stati membri. La cosa incredibile dell'Unesco è quella di essere un grande villaggio: qui nessuno ha più potere degli altri, ma si dialoga per ottenere risultati.
Il taglio dei fondi Usa non è l'inizio della fine per l'Unesco?
Irina Bokova, il nostro Director general, è subito intervenuta per risolvere il problema. É stato creato un fondo d'emergenza e siamo in un momento di riorganizzazione generale. Continuo a essere convinta che questa crisi può essere un'opportunità”.
E in cosa si dovrebbe migliorare?
L’Unesco è nata per rispondere alla convinzione degli Stati, quegli stessi usciti da due guerre mondiali nello spazio di una generazione, che gli accordi politici ed economici non sono sufficienti per costruire una pace durevole. La pace, così come la sogniamo noi, dovrebbe essere fondata sulla solidarietà morale e intellettuale. Su questo dovrebbe puntare il nostro mondo.

La Stampa 3.2.14
Fra i profughi di Gaza rabbia e timori
“Non rinunceremo alle nostre terre”
Nella moschea quartier generale di Hamas: il nemico è Israele, ma l’Egitto ci ha traditi
di Maurizio Molinari

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La Stampa 3.2.14
Kerry avverte Israele
“Senza accordo di pace rischia il boicottaggio”
di Tonia Mastrobuoni

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Corriere 3.2.14
Se anche l’americano Kerry evoca il boicottaggio d’Israele
di Paolo Lepri


La conferenza di Monaco non ha portato fortuna al segretario di Stato americano John Kerry, coinvolto in una nuova polemica a distanza con Israele dopo il caso provocato, due settimane fa, dai giudizi taglienti del ministro della Difesa del governo Netanyahu, Moshe Ya’alon. L’ex capo di Stato maggiore delle forze armate dello Stato ebraico questa volta non ha affondato il coltello nella piaga. L’aggettivo «messianico», con cui aveva ironizzato sull’impegno per la pace in Medio Oriente del successore di Hillary Clinton, è servito a Ya’alon invece per mettere in guardia contro il sostegno del regime di Teheran al terrorismo. Nessun nuovo scontro con Kerry, nonostante che poche ore prima, sempre nella capitale bavarese, il capo della diplomazia statunitense avesse fatto alcune osservazioni che hanno fatto saltare sulla sedia vari ministri, primo fra tutti il capo del governo di Gerusalemme. 
Il problema, vecchio e nuovo, è quello che si potrebbe definire in modo sintetico del «boicottaggio», vale a dire lo stop agli investimenti e le limitazioni commerciali introdotte o in via di introduzione, in alcuni Paesi europei, nei confronti delle aziende israeliane legate agli insediamenti in Cisgiordania. L’ex candidato alla Casa Bianca, ne ha parlato, con toni preoccupati, avvertendo Israele del rischio di «una crescente campagna di delegittimazione». Kerry si è limitato a descrivere una situazione, oppure, come ha poi sostenuto il ministro dell’Intelligence Yuval Steinitz, ha fatto commenti «offensivi, ingiusti e intollerabili»? I suoi collaboratori hanno cercato di gettare acqua sul fuoco affermando che il segretario di Stato ha fatto riferimento ad azioni che ha sempre personalmente contrastato. Anzi, «è stato sempre un sostenitore della sicurezza di Israele e un fermo oppositore del boicottaggio». Queste precisazioni sono arrivate dopo che Netanyahu, senza nominare l’avversario-amico, aveva definito «immorali e ingiusti» i tentativi, che «non otterranno il loro obiettivo», di boicottare Israele. In difesa del negoziatore americano si è schierata la ministra della Giustizia Tzipi Livni, reduce anche lei dalla conferenza di Monaco. Il nervosismo è forte, insomma, e questo non fa bene al futuro del processo di pace.

Repubblica 3.2.14
“Senza pace, boicottaggio per Israele”
 Kerry avverte l’alleato. La Livni: “Noi come il Sudafrica”. La rabbia di Netanyahu
di Vincenzo Nigro


MONACO — Il Medio Oriente si è capovolto. Alla conferenza di Monaco l’America discute con l’Iran. Un ministro israeliano incontra senza imbarazzo un principe saudita. E il segretario di Stato americano avverte e quasi minaccia Israele, suo storico alleato: se il
negoziato con i palestinesi non avrà successo contro Israele potrebbe partire un massiccio boicottaggio economico. L’America non lo promuoverà, ma non sarà in grado di fermarlo: qualcosa che metterebbe Israele nelle stesse condizioni del Sudafrica dell’apartheid.
Il messaggio che John Kerry ha ripetuto in pubblico e privato ai suoi alleati israeliani è semplice
ma sorprendente: «Attenzione, voi credete che il benessere economico di questi anni, che la relativa sicurezza siano garantiti. Ebbene, io vi dico che al 100% lo status quo attuale non può essere mantenuto. Non è sostenibile, è un’illusione: quella che avete è una pace momentanea». E quindi Israele deve fare un accordo con i palestinesi, perché altrimenti arriverà un’ondata di boicottaggi che metterà a rischio il vero successo che è riuscito a costruire in questi anni, il benessere economico. «C’è una crescente campagna di de-legittimazione, molti sono pronti a questa nuova possibilità. Si parla di un vero boicottaggio e altre idee da mettere in piedi contro Israele», dice Kerry.
Poche ore, e da Gerusalemme gli risponde senza citarlo il primo ministro Bibi Netanyahu: «Il tentativo di imporre un boicottaggio contro lo Stato di Israele è immorale e ingiusto. E non avrà successo». Anche altri ministri, commentatori editorialisti sono aggressivi con Kerry e con l’amministrazione Obama: il ministro dell’Intelligence Yuval Steinitz dice che le parole di Kerry sono «offensive, ingiuste e insopportabili: Israele non può negoziare con una pistola puntata alla tempia».
Un altro falco della destra, il ministro Naftali Bennet, eletto col voto dei coloni, dice che «Israele avverte chi gli offre consigli che non abbandonerà la sua terra per queste minacce economiche».
Tzipi Livni, ministro della Giustizia ma anche coordinatore dei negoziati con i palestinesi, a Monaco invece incontra il principe saudita Faisal Al Turki e difende Kerry. «Non ha fatto altro che raccontare quello che vedono tutti, cioè che se non faremo un accordo con i palestinesi le conseguenze nella regione saranno pericolose per tutti, e quindi anche per noi». Livni stessa ha poi evocato il paragone fra Israele e il Sudafrica dell’apartheid.
In Israele il dibattito sul boicottaggio economico è molto delicato, perché i primi segnali di manovre simili ci sono ormai da settimane: l’ultimo è quello della danese Dansk Bank che ha tagliato i ponti con la Bank Hapoalim israeliana perché finanzia la costruzione di case negli insediamenti e offre mutui ai coloni. Mille altri segnali arrivano soprattutto dalle istituzioni europee, dove ormai sempre più apertamente i grandi paesi condividono la posizione di Kerry e del suo presidente. Nelle prossime settimane Kerry metterà le sue proposte sui tavoli di israeliani e palestinesi. Vuole un accordo a tutti i costi, perché l’alternativa sono nuovi scontri, nuove guerre o sicuramente un boicottaggio degli arabi ma anche degli europei contro Israele.

Corriere 3.2.14
Ludovine, la «pasionaria della famiglia» che porta in piazza la Francia conservatrice Protesta a Parigi contro matrimoni gay, aborto, parità di genere nelle scuole
Tradizionalisti, destre, gruppi musulmani: uniti per fermare i programmi sperimentali avviati nelle aule pubbliche
di Stefano Montefiori


 Contro le bandiere arcobaleno dei gay pride, agli Invalides e vicino alla tomba di Napoleone si vedono oggi solo due colori: blu e rosa, simboli eterni di maschi e femmine, perché «il governo continua a calpestare l’interesse supremo dell’infanzia per piegarsi alla lobby lesbo-gay-bi e trans», dice Ludovine de La Rochère, presidente della «Manif pour Tous» e nuovo volto della mobilitazione anti-gay. La stravagante e chiassosa Frigide Barjot sedicente amica degli omosessuali è stata messa da parte: Ludovine — ex responsabile della comunicazione della conferenza episcopale francese — rappresenta oggi alla perfezione l’anima tradizionalista, vecchia Francia, del movimento. 
Bandiere, palloncini, striscioni e felpe della nuova «Manif pour Tous» sono blu e rosa come il manifesto «Giù le mani dai nostri stereotipi di genere», e se il concetto non fosse abbastanza chiaro c’è il disegno di un bambino con la spada, e di una bambina con la bacchetta da fatina. Migliaia di persone (80 mila secondo la prefettura, 500 mila secondo gli organizzatori) hanno sfilato a Parigi per protestare contro la «familifobia», opporsi alla «teoria di genere» e difendere la millenaria civiltà — a loro dire minacciata dal governo — nella quale «da che mondo è mondo i maschi giocano con le macchinine e le femmine con le bambole». La paura, anzi la certezza, è che il programma sperimentale «ABCD dell’uguaglianza» avviato dal governo quest’anno in 600 classi elementari non sia una semplice educazione al rispetto tra i sessi e alla non-discriminazione, ma un modo «per spiegare ai bambini che possono scegliere liberamente se diventare uomo o donna, per cancellare la figura materna e paterna» e addirittura, secondo una leggenda metropolitana che ha fatto ritirare da scuola centinaia di allievi negli ultimi giorni, per insegnare in classe la masturbazione. Niente di questo è vero, ma la protesta non ne niente conto. 
Lo avevano detto otto mesi fa, all’approvazione della legge sul matrimonio aperto agli omosessuali: abbiamo perso solo una battaglia, la guerra continua. E ieri, sulla base del sospetto che il ministro socialista Vincent Peillon voglia abolire la differenza sessuale nelle scuole, sono tornati a sfilare, negli stessi luoghi, gli stessi francesi che si erano battuti contro le nozze gay: tante pacifiche famiglie con passeggini, tanti tradizionalisti cattolici, con in più i «musulmani per l’infanzia» che nello striscione hanno messo un bambino e una bambina dentro la mezzaluna, l’esponente del centrodestra Henri Guaino ma anche Marion Le Pen, e poi gli estremisti di destra e gli amici del sedicente «nazional-socialista alla francese» Alain Soral ideologo di Dieudonné. 
E infatti, ecco la «quenelle», il saluto nazista rovesciato (mano sulla spalla e braccio teso verso il basso) ormai sempre più offesa passepartout: contro il sistema, la modernità e gli ebrei, qui evocati indirettamente quando si vedono gli striscioni con le parole d’ordine «Lavoro», «Famiglia», «Patria» (lo slogan che il maresciallo collaborazionista Pétain adottò al posto di «Liberté, Égalité, Fraternité»). La partecipazione è molto eterogenea e Ludovine de La Rochère spende tutte le sue energie per dare del movimento la sua immagine più presentabile, quella delle «famiglie normali, che rispettano i gay ma non amano la confusione». Il corteo sembra però un generico sfogo contro Hollande (le invocazioni alle dimissioni si sprecano) e i valori della sinistra. «PMA» e «GPA» sono due sigle onnipresenti sui cartelli, indicano fecondazione assistita e utero in affitto. «Non vogliamo che nel prossimo progetto di legge il governo allarghi il ricorso alla PMA alle coppie di lesbiche — ripete Ludovine de La Rochère —, o che venga legalizzato in Francia l’utero in affitto». Ma nessuna di queste due misure è all’ordine del giorno, e il presidente Hollande si è già dichiarato personalmente contrario. Anzi, verrà esclusa anche la possibilità di iscrivere all’anagrafe francese bambini nati per GPA all’estero. 
Quanto all’«ABCD dell’uguaglianza» voluto dal governo, nasce dalla constatazione delle disparità che ancora esistono tra uomo e donna nella società francese: di solito allieve migliori dei maschi, le ragazze finiscono per scegliere i percorsi educativi e professionali meno prestigiosi, vengono pagate meno degli uomini a parità di lavoro svolto, si occupano delle faccende domestiche più degli uomini (in media 4 ore al giorno contro 2 ore e un quarto). L’immagine consolidata che il governo francese vuole combattere sin dalle scuole non è tanto il bambino con la spada e la bambina fatina, quanto l’adulto in poltrona mentre la donna passa l’aspirapolvere, o la donna infermiera e l’uomo medico. «Hollande non deve impicciarsi di queste cose», dice Ludovine de La Rochère, toccando l’altro tema chiave, quello dell’«invadenza dello Stato». Secondo il ministro dell’Interno Manuel Valls, «anche la Francia ormai ha i suoi tea party».

Repubblica 3.2.14
La guerra di religione degli “indignati” di destra
di Michela Marzano


TUTTO è cominciato poco più di un anno fa, con le manifestazioni di protesta contro il governo per aver permesso anche alle coppie omosessuali di sposarsi. Centinaia di migliaia di persone si erano scagliare contro la distruzione della famiglia, la fine dei valori, il trionfo del relativismo. Proprio come è accaduto ieri a Parigi e a Lione. Anche se questa volta non c’è nessun progetto di legge in discussione in Parlamento, nessuna volontà di legittimare pratiche di “utero in affitto”, nessun tentativo di imporre quella che i manifestanti chiamano la “teoria del genere”, ossia la negazione della differenza dei sessi e l’incoraggiamento a pratiche Lgbt. C’è solo l’idea di introdurre nei programmi scolastici alcune nozioni (sesso, genere, orientamento sessuale), per spiegare l’origine di alcuni stereotipi sessisti e promuovere così, fin dall’infanzia, l’uguaglianza tra gli uomini e le donne, gli omosessuali e gli eterosessuali. Ma ormai basta la parola “genere” per agitare la gente e spingerla a manifestare contro la “familiphobie” (la fobia per la famiglia), come spiegano alcuni degli organizzatori.
C’è persino chi ormai si è convinto che la Francia non sia più il paese della “libertà”, della “uguaglianza” e della “fraternità”, ma il paese dell’“ateismo”, dell’“ignoranza” e delle persone “trans”, come spiega Farida Belghoul, nota in Francia negli anni Ottanta per il proprio impegno contro il razzismo, e che, passata oggi all’estrema destra, proclama la necessità di lottare contro lo Stato “giudaico- massonico-socialista-parlamentarista-sodomita”.
Tea Party alla francese? Forse sì. Visto che ormai, anche in Francia, si diffonde l’idea che è dovere dei cittadini manifestare contro il “système” (che equivale alla nostra nozione di “casta”). Questi “indignati di destra” sono ostili a tutte le élite – da quelle politiche che non fanno altro che mentire, a quelle mediatiche che sarebbero ormai colluse con il potere. E dopo gli incidenti legati all’affaire Dieudonné, il comico antisemita e antisistema, sembrano consacrare l’emergenza dell’antipolitica anche in Francia, che pure è stato, per secoli, il paese della “religione della politica”.

La Stampa TuttoSoldi 3.2.14
Jihua Park, la vetrina cinese delle aziende tricolore
Verranno costruiti 35 grandi magazzini. Arcotecnica è il partner italiano
di Eleonora Vallin

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Repubblica 3.2.14
Philip Seymour Hoffman
La solitudine del successo
Da Belushi a Gandolfini la maledizione delle “star”
Dietro il glamour alcol, droga e depressione
di Vittorio Zucconi


NELLA solitudine del proprio successo, lontano dalla moglie e da quei tre figli che aveva detto poco tempo fa di «amare tanto» come se già sapesse, un’altra superstella del cinema, Philip Seymour Hoffman, muore di droga, forse per caso, forse per scelta.
Aveva 46 anni ed era ancora ben lontano da quel Viale del Tramonto che ha visto precipitare tante vite di uomini e di donne nel mondo di «Tinsel Town», della città spietata di latta e di cartone.
Hoffman era un grande attore vero, non un belloccio o una diva, angosciati dalla corrosione del tempo. Aveva vinto l’Oscar nei panni di Truman Capote nel 2005, aveva lavorato molto e aveva offerte, nel cinema come in teatro, ma nessuna statuetta, nessun contratto, nessun plauso di critica e di pubblico possono mai colmare quella voragine di insicurezza che sta sotto la crosta sottile della fama e li consuma. «Hollywood — diceva una delle sue vittime più luminose, Marilyn Monroe — è la città dove ti danno cinquantamila dollari per un tuo bacio e cinquanta centesimi per la tua anima».
L’overdose, l’abuso di ogni sostanza stupefacente, dell’alcol, del sesso stanno alla città di latta come la silicosi sta a un minatore o lo schianto contro il muretto di Indianapolis a un pilota da corsa, malattie professionali. Tutti sanno, senza mai ammetterlo, che è vero ciò che raccontò Julia Phillips, una famosa produttrice nel suo libro di memorie, You’ll never eat lunch in this town again, nessuno ti inviterà mai più a colazione, quando disse che in ogni budget c’è sempre una voce misteriosa per «spese varie» che nasconde la provvista di cocaina, eroina o di «Molly», di ecstasy. Nessuno la invitò mai più a colazione.
Non è neppure possibile compilare un elenco dei caduti per eccessi di ogni genere o di famose star miracolosamente sopravvissute ai propri vizi. Dalla fragile Judy Garland, la ingenua ragazzina di campagna del Mago di Oz, spenta da barbiturici aggiunti a una cirrosi da alcol avanzata, a Michael Jackson, che chiedeva al proprio criminale medico personale iniezioni continue di propofol, il potente anestetico chirurgico per poter dormire, la danza macabra di coloro che noi adoriamo sullo schermo è un party quotidiano. «A Hollywood — rise acre Johnny Carson, per decenni conduttore del talk show più ambito a Los Angeles — se non hai uno psichiatra, pensano che sei pazzo».
Hoffman era entrato e uscito da centri per la disintossicazione e la riabilitazione molte volte, l’ultima pochi mesi or sono quando, pulito e sobrio per pochi giorni, invitò tutti i padri e le madri che lo ammirassero «a volere molto bene ai propri figli», forse ricordando il divorzio fra la madre, cancelliera in un tribunale e il padre, dirigente della Xerox, quando aveva nove anni. Ma se lui aveva la coscienza della propria dipendenza letale, non sapeva sottrarsene, come James Gandolfini, stroncato a Roma dalla propria ingordigia di tutto. Proprio lui che in una sequenza del film Cogan, nella parte di un killer di mafia ormai incapace di uccidere nella stretta dei propri vizi, aveva ostentato l’indifferenza di chi può bere litri di cocktail e annusare metri di coca.
Tutte le stelle si sentono immortali.
Tutte le stelle sanno di essere mortali.
Non c’è, se ascoltiamo la sempre florida industria del gossip e delle malelingue, cittadino di questo villaggio del tutto e del nulla che non abbia qualche cosa da nascondere a noi, al pubblico, a loro stessi, ma certamente non ai colleghi «in the trade», nell’industria.
La paura. Julia Phillips nel suo libro, prima di morire lei stessa degli eccessi che aveva narrato, citò fra i tanti Scorsese e Spielberg, Lucas e Richard Dreyfuss, Goldie Hawn e David Geffen, uno dei creatori della DreamWorks, grande fabbrica di sogni con lieto fine anche per bambini. Il grande Jack Nicholson non ha mai nascosto il proprio attaccamento alla bottiglia, né avrebbe potuto, essendo facile incontrarlo barcollante. Né avrebbe potuto tacerlo Charlie Sheen, che fece addirittura una spot pubblicitario esibendo la cavigliera elettronica ordinata da giudice dopo ripetute condanne.
Abbiamo visto morire di overdose la stupenda Whitney Houston e abbiamo assistito al calvario
autoimposto di un sex symbol come Lindsay Lohan, trascinata di tribunale in tribunale via via più sfatta, ma per ora salvata dall’intervento della giustizia. Abbiamo perduto lo straordinario John Belushi dei Blues Brothers, fulminato da una «speedball» una pera di cocaina ed eroina insieme, e leggemmo di un tenerissimo ragazzo River Phoenix, ucciso dalla droga davanti al fratello a 23 anni, bambino prodigio del cinema dove lavorava da quando aveva 10 anni.
Immensi talenti che forse avrebbero vissuto a lungo nell’oscurità di una cassa di supermercato, sulla cattedra di una scuola elementare, nella cucina di una casa e che sono stati «bruciati» come voleva la definizione di altre generazioni, nella luce del set e nel riflesso della latta.
«Farfalle inchiodate dalla propria fortuna che hanno paura di accettare», disse John Houston prima di morire, lui, ucciso dal vizio di un’altra generazione, come Humphrey Bogart, il fumo. Tutti persuasi che, dietro i baci al vento e i tappeti rossi, lassù nessuno davvero li ami.

Corriere 3.2.14
Le accuse di pedofilia a Woody Allen
I peccati che il genio non cancella
di Isabella Bossi Fedrigotti


A un artista, a un genio va perdonato tutto, anche l’imperdonabile peccato di pedofilia? Così pare. Del resto, è lunga la fila dei geni in odore di pedofilia, sulle cui responsabilità l’opinione pubblica ha glissato, temendo, chissà, che scandalizzarsi sarebbe potuto sembrare provinciale, piccolo borghese, bigotto. Woody Allen, accusato dalla figlia adottiva di averla molestata più volte fin da quando aveva sette anni, è soltanto l’ultimo di una serie di grandi artisti con il vizio dei bambini. Perché delle personalità ammirevoli per cultura, intelligenza, fantasia e talento si concedono simili trasgressioni? Forse perché ritengono che molto, chissà, tutto, è loro dovuto, comprese certe pesantissime perversioni? Non hanno torto, in effetti, perché così è stato quasi sempre. Ancora oggi, una delle prime reazioni — in rete se ne discute molto — alla lettera di denuncia che Dylan Farrow, la figlia abusata, ha inviato al New York Times , sembra essere: ma sarà vero? E subito dopo: perché quella si sveglia adesso? Sicuramente vorrà dei soldi. La tendenza, insomma, è di scagionare il genio. 
Giustamente ci si scandalizza per i peccati di pedofilia del clero, e ancora di più per come sono stati nascosti e minimizzati dai superiori — il sant’uomo va comunque protetto anche se ha ceduto alla tentazione — e dimenticate, per contro, le vittime o, a volte, anche fatte passare per mitomani. Allo stesso modo si ha l’impressione che si siano comportati e si comportino non pochi sacerdoti dell’arte, per i quali non c’ è colpa che possa macchiare il grande artista, a prescindere dal fatto che colpa ci sia o non ci sia. E se non la si può nascondere, se ne tace oppure si tende a metterla in dubbio. 
La lettera di Dylan Farrow, concepita l’indomani del Golden Globe assegnato all’ultimo film di Woody Allen, Blue Jasmine , pubblicamente supplica gli americani di non voler più chiudere gli occhi davanti a fatti così gravi e si rivolge alle principali muse del regista: «E se fosse successo a vostra figlia?». Per ora ha risposto soltanto Cate Blanchett, interprete del film premiato, in modo, a dir poco, elusivo: «Spero che i due riescano a trovare un accordo di pace...».

La Stampa 2.3.14
Il lato violento di Woody
di Francesco Bonami


Le accuse di molestie fatte dalla figlia adottiva a Woody Allen riportano alla ribalta una complicata, ma nemmeno troppo, questione. Può il successo creativo di una persona renderla immune e al di sopra di comportamenti infami? La logica vorrebbe che la risposta fosse una sola: no! Ma la realtà dei fatti ci dimostra che invece il genio artistico è spesso guardato con un occhio di riguardo.
Avolte addirittura assolto da accuse vere e terribili. Voglio fare un esempio paradossale prendendo un’opera d’arte di questi tempi sempre più famosa «La Ragazza con l’orecchino di perla» di Vermeer, che stiamo per vedere a Bologna. Mettiamo che salti fuori un documento che dimostra che l’autore dell’opera, il mitico pittore fiammingo, la ragazza con l’orecchino la trattava in modo perfido sottoponendola a violenze inaudite, non solo, un altro documento dell’epoca ci dice che Vermeer picchiava brutalmente anche la moglie. Come guarderemmo questo capolavoro? Cambierebbe la nostra percezione? E ancora. Saremmo disposti a rinunciare a questa opera d’arte, a questo capitolo della storia dell’arte se fosse possibile eliminare anche le violenze dell’autore?
Questa domanda è più pressante quando l’arte è più attuale come i film di un regista che andiamo a goderci al cinema la domenica pomeriggio. Come ci poniamo davanti alla sua opera una volta saputo che dietro alle risate che ci fa fare c’è un personaggio oscuro e violento? Questa domanda è molto difficile perché non è una domanda isolata nel mondo della cultura e dell’arte. È una domanda che continua a tornare a galla. Il grande poeta americano Walt Whitman fu al centro di un scandalo di pedofilia, eppure le sue poesie sono sublimi. Possiamo privarcene alla luce del suo comportamento? Picasso trattava le sue amanti e compagne in modo atroce. Mettiamo in cantina Guernica per punirlo? A Ezra Pound, altro grande poeta, piacevano Mussolini ed Hitler, anche se poi fece ammenda. Bruciamo i suoi «Cantos»? Per avere l’arte più grande dobbiamo per forza accettare il pacchetto completo fatto a volte di violenza, perdizione, morte, crudeltà, ingiustizia? Michael Jackson è finito in rovina per le accuse, anche per lui di pedofilia e molestie sessuali. La sua musica è diventata peggiore per questo? Gauguin mandò al manicomio sua moglie. Così come Rodin fece praticamente impazzire la sua amante e grande scultrice Camille Claudel. La lista è infinita e comprende anche grandi filosofi, psicanalisti, musicisti e scrittori. C’è chi dice che la luce dell’arte si porta dietro inevitabilmente anche il buio della mente e dell’anima. Insomma il genio è di fatto un malato. Sicuramente uno che molesta una bambina di sette anni, famoso o meno che sia, sano non è. Ma essere malato non è un salvacondotto per l’impunità. Tuttavia la domanda è quella dell’inizio e la rivolgiamo a noi stessi. Vogliamo rinunciare ai capolavori della cultura, alle grandi idee come gesto di condanna verso le bassezze di chi questi capolavori ha creato? Sarei un ipocrita se dicessi di sì, senza ombra di dubbio. Il dubbio profondo, doloroso e oscuro, rimane. La nostra posizione è come quella dell’amico scrittore al quale il perfido Orson Welles nel film «Il Terzo Uomo», in cima alla ruota del Prater di Vienna dice: «Sai cosa disse quel tizio. In Italia, per trenta anni sotto i Borgia avevano guerra, terrore, assassini e spargimento di sangue, ma produssero Michelangelo, Leonardo da Vinci e il Rinascimento. In Svizzera hanno avuto amore fraterno e cinquecento anni di democrazia e pace, e cosa hanno prodotto? L’orologio a cucù». L’orologio a cucù non è purtroppo la soluzione alla malvagità, ma se mettere un orologio a cucù al posto della Gioconda potesse servire ad impedire, anche solo per poco, la violenza degli uomini, credo che ci troveremmo tutti d’accordo, compreso il direttore del Louvre.

l’Unità 3.2.14
Lo cunto de li cunti
La ristampa del capolavoro napoletano coincide con un film diretto da Garrone
Il libro seicentesco di Basile tra storie popolari e fiabe adesso è disponibile
con una traduzione che è fedele accompagnamento dell’originale
di Giulio Ferroni


 INTENTO A INTERROGARE L’ORIZZONTE NAPOLETANO NELLE SUE DIVERSE FACCE, DALLAVIOLENZA CRIMINALE DI «GOMORRA» alle depresse illusioni di Reality, il regista Matteo Garrone sta ora per rivolgersi alle diversioni fantastiche e paradossali dell’antica fiaba: sta infatti per iniziare le riprese di un film, stavolta in inglese (con star internazionali come Salma Hayek e Vincent Cassel), il cui provvisorio titolo Tale of tales, traduce quello del capolavoro della letteratura napoletana del Seicento, Lo cunto deli cunti di Giovan Battista Basile. Ein effetti il film è annunciato come «adattamento» di quell’opera, costituita da cinquanta fiabe in dialetto napoletano (che nella tradizione è stata anche chiamata Pentamerone, sulla scia del Decameron di Boccaccio, da cui peraltro è davvero assai lontana).
Per una felice combinazione, ogni avveduto lettore, insieme a Garrone, può disporre oggi di una nuova edizione completa e perfettamente affidabile del testo di Basile, il cui titolo completo è Lo cunto deli cunti overo lo trattenemiento de’ peccerille (Il racconto dei racconti o il trattenimento dei bambini): con premessa di Enrico Malato, il testo (nella collana «I novellieri italiani», Salerno editrice, 2013, pp.LX-1054, in due tomi) è curato da Carolina Stromboli, che, oltre a offrire l’originale napoletano in forma criticamente affidabile (con il necessario apparato filologico), fornisce una traduzione che non vuol essere rifacimento (come è accaduto in quella pubblicata da Ruggero Guarini per Adelphi nel 1994), ma fedele accompagnamento alla lettura dell’originale, e una fitta serie di note, che puntano sui dati linguistici, soprattutto lessicali. Èvero, del resto, che può essere molto difficile attraversare quell’antico dialetto, penetrare nella sua corposa evidenza e nella sua scintillante espressività: ma è anche vero che il fascino di questo libro è dato proprio dal nesso tra la sua materia e la forza immaginosa di quel dialetto, con le infinite combinazioni, amplificazioni, diversioni, che da esso scaturiscono.
Chi non voglia fare la fatica di attraversare da dentro quella difficile lingua, viene ora messo in grado, dalla fedelissima traduzione a fronte, di dare almeno ogni tanto uno sguardo alle forme originali, all’eccezionale godimento che scaturisce da questo testo formidabile, che ha anticipato la varia riscoperta del mondo della fiaba fatta dalla cultura europea ha fatto tra Seicento e Ottocento e per molto tempo è stato addirittura più noto fuori d’Italia che da noi. La luminosa eccezione di Benedetto Croce (che è stato editore de Lo cunto deli cunti e lo definì «il più bel libro barocco italiano ») non è bastata a metterlo in evidenza tra i grandi classici della nostra letteratura: esso è rimasto perlopiù appannaggio degli specialisti. Ora c’è da sperare che questa edizione e il prossimo film di Garrone (anche se, girato in inglese, sembra voglia proiettare il mondo fiabesco in una chiave tutta contemporanea) vengano a metterlo adeguatamente in circolo.
ESALTAZIONESTRALUNATA Ma davvero questo libro ha una sua trionfante stranezza, che può offrire al lettore che si attardi ad indugiare sul suo universo fiabesco e sul suo tessuto linguistico una gioia singolare, una specie di esaltazione stralunata: facendo sentire la traccia di un mondo lontano e incommensurabile, in cui si combinano concretezza e astrattezza, resistenza della più minuta realtà e potenza illimitata dell’immaginario. Qui non si dà solo una proiezione verso le ben note impossibili possibilità della fiaba, dove gli animali parlano, gli oggetti agiscono, si rompono tutte le costrizioni dell’esistenza materiale, ecc.: qui tutto ciò viene a caricarsi sull’evidenza materiale e «popolare» di un dialetto che si avvolge su se stesso, che moltiplica le cose e le immagini, che si impreziosisce più di ogni sofisticata lingua letteraria, nel mentre mantiene il suo legame con i livelli più “bassi” della realtà.
Nella scrittura di Basile si sovrappongono inestricabilmente la più corposa fisicità e il più capriccioso artificio: Lo cunto de li cunti (apparso postumo tra il 1634 e il 1636, sotto lo pseudonimo anagrammatico di Gian Alessio Abattutis) si inseriva del resto entro l’operosità di un gruppo di scrittori della vitalissima Napoli spagnola di primo Seicento, impegnati ad affermare, attraverso la scrittura in dialetto, una orgogliosa specificità della cultura cittadina, al più alto grado di dignità letteraria. L’orizzonte popolare della fiaba e del dialetto si dispone così in un funambolico esercizio letterario, legato alla sensibilità barocca: in una continua moltiplicazione del materiale linguistico, manifestata tra l’altro dalle formidabili serie di parole e di termini posti in successione. Ogni immagine, ogni dato di realtà, ogni qualità, ogni spunto descrittivo viene dall’autore distillato in un tripudio di termini che si incalzano, in un inseguirsi di occorrenze lessicali o di metafore che si specchiano tra loro, in una illimitata espansione espressiva. Ecco ad esempio come un personaggio scopre la bellezza di una fanciulla: «vedde lo shiore de le belle, lo spanto de le femmene, lo schiecco, lo coccopinto del Venere, l’isce bello d’Ammore; vedde na pipatella, na penta palomma, na fata Morgana…» («vide il fiore delle belle, la meraviglia delle donne, lo specchio, il coccopinto di Venere, la cosa bella d’Amore; vide una bambolina, un farfalla variopinta, una fata Morgana..»: ma l’elencazione continua ancora a lungo). Sono comunque davvero tanti gli elementi linguistici e stilistici che sostanziano il fascino e la stranezza di questo libro, messi in luce con molta chiarezza dalla curatrice di questa edizione, che nella sua introduzione dà anche varie indicazioni sulla materia dei racconti, e sul suo orizzonte antropologico. Ci ricorda tra l’altro che qui si trovano le prime attestazioni letterarie di schemi e situazioni di fiabe che più si sono imposte nell’immaginario universale, da Cenerentola (La gatta Cennerentola) alla bella addormentata (Sole, Luna e Talia), ad Hansel e Gretel (Nennino e Nennella), ecc.: e che vi si affacciano numerose figure tradizionali, come quelle dello sciocco fortunato, della fanciulla perseguitata, della matrigna cattiva, ecc..
Il contrasto tra protagonisti positivi e loro opponenti è qui sempre estremo, con un particolare gusto della crudeltà e dell’efferatezza, con una insistenza spesso ossessiva sul mostruoso e deforme, con molteplici esiti che possono far sussultare la nostra sensibilità troppo politically correct, ma che vanno ricondotti al loro orizzonte storico, alla durissima realtà del tempo. E non mancano effetti macabri, come può mostrare la novella su Talia, la bella addormentata, dove la fanciulla, uccisa da una lisca di lino, viene vista nel suo sonno mortale da un re, che se ne innamora, ma la lascia ancora morta e senza destarla ne coglie «li frutte d’ammore»; poi dopo nove mesi la morta dà alla luce due gemelli e viene riportata in vita non dal bacio dell’amante, ma dal succhiare dei neonati, che dal suo dito, scambiato per un capezzolo, estraggono la lisca micidiale… Un crudo universo, insomma, in cui si affacciano situazione molto poco «infantili»: Basile ce lo disegna in un impasto tutto meridionale, in cui si sente spesso alitare il più antico e misterioso colore di Napoli, con la sua dispiegata bellezza e la sua desolazione, la sua violenza e la sua passione, i suoi deliri e le sue speranze, tra oppressiva miseria quotidiana e sogni di sovrumana onnipotenza. Mirabile invenzione, ricamo immaginoso, proliferante gioco linguistico, capolavoro troppo poco conosciuto di quel Seicento che con troppa disinvoltura si continua a sentire ai margini della nostra storia letteraria e che nelle scuole viene del tutto ignorato.

Corriere 3.2.14
Cesare Segre, la filologia come strada per la verità
Senza un vincolo etico la letteratura diventa il nulla
di Massimo Raffaeli


 Sembrerebbe un paradosso il fatto che uno studioso, anche se di rango internazionale, possa essere ritenuto innanzitutto un testimone del suo tempo. Filologo romanzo, linguista, teorico e critico della letteratura, Cesare Segre lo è da almeno cinquant’anni e a partire da una semplice domanda che per lui, tuttavia, deve essere stata primordiale: che cosa è un testo, che cosa implica di volta in volta una determinata trama di segni, perché essi sono scritti e per chi? 
Formatosi nel pieno di un secolo che, nonostante fosse il secolo degli orrori, ha perseguito la separatezza o l’autosufficienza della letteratura, Segre l’ha sempre intesa come il tramite di un pensiero e come un vincolo etico fra lo scrittore e il lettore: il che vuol dire che per Segre la letteratura o è un atto integrale di responsabilità umana o è solo una astuta contraffazione e, come oggi è di moda, un maquillage estetico. Infatti il «Meridiano» Mondadori a lui dedicato, una scelta della sua produzione curata in maniera impeccabile, ha il titolo essenziale di Opera critica (a cura di Alberto Conte e Andrea Mirabile, con un saggio introduttivo di Gian Luigi Beccaria, pp. 1.696, € 60, in libreria da domani 4 febbraio) dove il sostantivo e l’aggettivo, frontalmente, mantengono lo stesso rilievo. 
Critica per Segre corrisponde all’atto di lettura di un testo la cui interpretazione è a sua volta il risultato o il movente di una collocazione nello spazio-tempo: critica e filologia, in altri termini, convergono con strumenti diversi sul punto fermo che è sempre il testo, captato nella sua genesi solo per essere accompagnato nella sua evoluzione interna così come nella ricezione o nella trasmigrazione da cultura a cultura. 
Ciò spiega un metodo, o piuttosto una costante inventiva intellettuale, che se da un lato realizza l’utopia un tempo vagheggiata da Giorgio Pasquali, l’intesa perfetta di critica e filologia, dall’altro rivela sia la natura prismatica dell’intelletto sia la vocazione dialogica dello studioso: Segre (che usa i metodi «come mezzi e non come dogmi», scrive Beccaria nella introduzione al «Meridiano» ) è nello stesso tempo il firmatario di esemplari edizioni critiche di classici della nostra tradizione, quali la Chanson de Roland e l’Orlando furioso , è il teorico della letteratura che, confrontandosi per primo in Italia con lo strutturalismo, ha saputo liberarlo dalla presunzione cartesiana e ancorarne l’acume analitico alla concretezza dei testi, è uno storico della lingua e delle funzioni letterarie di lungo periodo (basti pensare ai lavori pionieristici su poeti e prosatori del Duecento, sull’arte della traduzione o «volgarizzamento» medievale), Segre è infine il saggista che ci ha insegnato a leggere non pochi autori della tarda modernità, da Antonio Machado a Gabriel Garcia Marquez, da Michail Bachtin a Witold Gombrowicz e Eugenio Montale, non esclusi alcuni lirici di grande originalità espressiva, come Virgilio Giotti e Franco Scataglini, a lungo vulnerati da incomprensione e oblìo.
Perciò anche Opera critica allude alla forma di un prisma a dodici facce, tante quante sono le sezioni in cui riordina i testi scelti da una bibliografia imponente, dove spiccano una ventina di volumi fra cui Lingua, stile e società (1963), I segni e la critica (‘69), Le strutture e il tempo (’74), Semiotica filologica (79), Intrecci di voci (’91), fino a un ciclo di partiture, da Notizie dalla crisi (’93) al recente Critica e critici (2012), in cui lo studioso riflette sullo stato di attuale miseria o di vera e propria dismissione della critica, lacerata fra clausura accademica e trasandato giornalismo, perciò inerme o arresa allo spirito del tempo che è il Pensiero Unico. Quanto a questo, non solo appare una vistosa anomalia ma paradossalmente una garanzia il fatto che uno studioso di simile caratura sia stato, alla lettera, un autodidatta: espulso in quanto ebreo nel ’38 dalla comunità dei vivi, i suoi veri maestri (il filologo Santorre Debenedetti, il linguista Benvenuto Terracini, da ultimo Gianfranco Contini) egli ha dovuto incontrarli non per vanità accademica ma per necessità esistenziale, per un motivo di sopravvivenza intellettuale e morale prima che materiale, ricevendone l’esempio, ancora una volta, sul terreno della storia e delle sue micidiali turbolenze. 
La storia è peraltro e da sempre l’orizzonte d’attesa della sua attività nell’ottica che rovescia un paradigma secolare (quello dello storicismo che riduce i testi letterari a meri pretesti, liquidandoli o liofilizzandoli) e ne riconosce viceversa la specificità in una trama a maglie strettissime dove il segno della poesia o della prosa sono marcati, volta a volta, da codici culturali, conflitti politico-sociali, liturgie istituzionali o, più in generale, da un sapere solidificato in senso comune, se infatti un fortunato manuale di letteratura per le scuole superiori, redatto anni fa con la sua allieva pavese Clelia Martignoni, Segre ha voluto intitolarlo semplicemente Testi nella storia : è il solo titolo pensabile per chi sa che rovesciando i due termini ogni lettura andrebbe in folle, mancando il proprio oggetto, e ogni giudizio critico si muterebbe in un rilievo generico, retorico, o, come tuttora accade spesso, in un alibi puramente ideologico. Quanto a questo, chi ha detto che anche in materia di testi il buon dio si nasconde nei dettagli non sapeva di lodare la metodica asciutta, già implacabile, di uno studioso che nemmeno venticinquenne, nel ’52, seppe dare un quadro dell’autunno del Medioevo muovendo da semplici rilievi linguistico-stilistici sulla sintassi del Trecentonovelle del Sacchetti. 
Non è casuale che, nonostante l’abitudine al dialogo e l’inquietudine teorica siano dati elettivi e addirittura teorizzati da Segre, il suo lettore percepisca sempre sulla pagina, anche la più tecnica, un senso di totale indipendenza, di rovello cognitivo e talora di perfetta solitudine, quella dell’individuo che non ambisce ad altro se non a rendere completa testimonianza. Tanto meno è casuale che la piena maturità, nei modi di un drammatico adempimento, abbia riportato Segre sui passi dell’amatissimo Primo Levi e, per necessaria diramazione, sugli autori che trattano della Shoah. 
È quanto si raccoglie nell’ultima sezione di Opera critica e sotto un titolo che vale l’insegna di una vita, Etica e letteratura , dove risalta più che mai lo stile netto e senza un fronzolo, preciso al millimetro eppure indenne da ogni gergo, una lingua bianca e traslucida, tutta pensiero e sintassi, la cui sola posta è la comunicazione e perciò il rispetto del lettore. In una intervista apparsa sul «Corriere della Sera» il 16 settembre del 1987 (ora nel volume di Corrado Stajano, Maestri e Infedeli. Ritratti del Novecento, Garzanti 2008), alla domanda di Stajano su che cosa facesse di un uomo un filologo, rispose: «Deve possedere una passione autentica per il reperimento della verità da raggiungere anche con i mezzi più umili e faticosi». 
Per questo Cesare Segre tuttora rifiuta di pronunciare una parola tanto temeraria, verità , senza associarla alla umiltà della filologia . Chiuse l’intervista dicendo di sentirsi Philologus in aeternum , filologo in eterno, e non avrebbe potuto definire meglio sé stesso.

La Stampa 3.2.14
Vecchio Galileo, cosa vai cercando in quel portone
Artista, musicologo, letterato. E autore di versi licenziosi
Due libri indagano l’altra faccia dello scienziato
di Piero Bianucci

qui

Repubblica 3.2.14
Caccia alle streghe sul webIl 90 per cento delle molestie e degli insulti online riguarda le donne
Lo dicono le statistiche. L’aggressione alla Boldrini è solo l’ultimo caso
È il volto oscuro e misogino della libertà digitale
di Maria Novella De Luca e Fabio Tonacci


UN LINCIAGGIO sessista e violento. Una gogna di insulti che mescola l’invettiva politica all’apologia dell’aggressione sessuale. La campagna d’odio contro Laura Boldrini scatenata negli ultimi giorni sul web dalle truppe grilline, mostra quanto la Rete si possa trasformare in un istante in una macchina di stalking, che colpisce in particolare donne, ragazze, bambine. I nuovi attacchi alla presidente della Camera, dove “stupro” è la parola più frequente, presentano ancora il volto oscuro e misogino della libertà digitale: non importa chi sei o che cosa fai, quanti anni hai e cosa “posti”: basta un profilo femminile per far scattare la molestia, sessuale naturalmente, violenta, irripetibile. Sempre, ovunque, ad ogni ora del giorno e della notte.
Il 90% delle aggressioni in Rete ha come bersaglio donne di tutte le età, rivela la nostra Polizia postale, l’allarme è mondiale, l’hanno lanciato per prime centinaia di blogger americane minacciate di morte e di stupro da cyber-persecutori, a volte protetti da nickname, a volte addirittura esposti con nome e cognome convinti, sbagliando, dell’impunità della Rete. È accaduto lentamente, anno dopo anno. Più cresceva il popolo del web, più il web diventava il luogo di attacco più accanito contro l’integrità femminile. Un terreno sessista di scorribande pericolose, dove spesso insospettabili ed educatissimi uomini si trasformano in grevi aggressori sessuali, affratellati nell’insulto come ultrà digitali, per cui il tifo è annientamento dell’altro.
Racconta Carmela B, impiegata romana del ministero dell’Istruzione: «Quando ho accettato l’amicizia di quel cortese collega non avrei mai pensato di trovarmi dentro una trappola di commenti pornografici, con cui lui e i suoi amici dicevano di corteggiarmi. Ogni volta che aprivo Facebook avevo paura, frasi oscene, foto sessuali. Sono riuscita a mettere fine alle molestie soltanto quando l’ho affrontato al lavoro e l’ho denunciato davanti a tutti...».
Che il ventre della Rete sia un habitat ostile dove si mettono in piazza le cose peggiori di sé è un aspetto noto e studiato, dalla macchina degli insulti a quella della diffamazione. Come mai invece questa dark-face venga rovesciata ogni giorno di più sull’utenza femminile è forse qualcosa da indagare ancora. E infatti con due lunghe inchieste i magazine americani, Atlantic e Pacific Standard, hanno provato ad analizzare il “perché le donne non sono benvenute sul web”. Arrivando ad ipotizzare una futura fuga in massa da social come Facebook, dove sempre di più le donne vengono insultate soltanto in quanto donne, e peggio ancora se sono giornaliste, scrittrici, blogger e magari parlano di diritti, eguaglianza, parità... Del resto proprio Laura Boldrini, oggi di nuovo bersaglio dell’odio virtuale e sessista della Rete, fu schernita e denigrata all’inizio del suo mandato con valanghe di post pornografici sul suo profilo Facebook.
Ricorda Lorella Zanardo, blogger, scrittrice, autore del documentario “Il corpo delle donne”, che con il suo team gira centinaia di scuole per insegnare a leggere con occhi critici il web, la tv, i media. «Proprio l’autore di uno di quei fotomontaggi particolarmente offensivo per Laura Boldrini, si stupì quando rintracciato dalla Polizia postale si ritrovò con una denuncia per
diffamazione aggravata. Come se il suo atto per il solo fatto di essere avvenuto in Rete fosse per questo meno grave, sinonimo di impunità».
Da cinque anni Zanardo e i suoi collaboratori passano al setaccio Internet, e in cinque anni, dicono, «c’è stato un profondo deterioramento». «Online assistiamo all’ultimo colpo di coda
del patriarcato. Le donne tra mille ostacoli ce la stanno facendo, così nelle pieghe del web il mondo maschile sfoga la rabbia contro questa libertà femminile, esprimendo sentimenti ormai censurati nella società. Del resto l’Italia è al settantunesimo posto del gender gap, lo svantaggio di genere, è evidente che la Rete rifletta e amplifichi discriminazione, stalking...». Sì, perché anche in Italia l’harassement contro le donne in rete è ogni giorno più forte, i dati sulle adolescenti sono allarmanti, il 10% delle ragazzine afferma di ricevere costantemente messaggi sessuali indesiderati su twitter o Facebook, il 6% racconta di vere e proprie molestie online. Le denunce sono invece ancora poche, nonostante ormai la persecuzione informatica sia la strada maestra degli stalker.
Carlo Solimene, direttore della Divisione investigativa della Polizia Postale vede un’area grigia che assomiglia al far west: «Ci sono azioni sulla rete che sfuggono alle statistiche e non arrivano alla denuncia giudiziaria, ma che hanno nel 90% dei casi le donne come vittime». Aggiunge Cristiana Bonucchi, psicologa della Polpostale: «Le denunce online di stalking sono ancora poche in termini assoluti, perché in Italia le vittime quasi sempre hanno avuto dei legami affettivi con il loro persecutore, dunque ci si pensa più volte prima di fare un passo definitivo. Un altro elemento tipico della realtà italiana è che lo stalking online spesso nasce prima dalla vita reale, non è come negli Usa dove tutto nasce e si sviluppa attraverso la Rete, anche senza conoscersi personalmente».
E Bonucchi pone l’accento sui teenager. «È importante che soprattutto i ragazzi siano attenti alla privacy quando utilizzano i social network, devono scegliere password sicure, non diffondere i propri dati». Accade infatti che tra i soggetti più vulnerabili, oltre a chi svolge un ruolo istituzionale, o scrive di argomenti “caldi” per la Rete (sesso, politica, femminismo), i più a rischio siano proprio i più assidui sulla Rete, cioè i giovanissimi, magari un po’ più esperti degli adulti ma di certo maggiormente esposti. Agnese e Patrizia, 14 anni, adolescenti di Rieti, nell’alto Lazio, per mesi fanno trapelare su Facebook la loro intenzione di fuggire da casa. Chiedono ospitalità, cercano aiuto, dicono di non poterne più di quella vita di provincia. Forse è un gioco, forse no. Accade però che Agnese e Patrizia scompaiano davvero, per due terribili e spaventose notti. Le ritrova la Polfer alla stazione di Civitavecchia: botte, sevizie, violenze. Il loro Orco cinquantenne si nascondeva sotto il profilo di uno studente fuori sede...
Anna Costanza Baldry, docente di Psicologia alla seconda università di Napoli, responsabile dello sportello Astra (Anti stalking risk assessment), dice però che abbandonare i social network, oltre che impensabile, sarebbe anche una sconfitta. «È come se contro il femminicidio le donne dovessero rinunciare alla propria libertà, a vestirsi come vogliono, ad uscire la sera.
Altro è invece prendere coscienza dei rischi che semplicemente aprendo un profilo femminile si possono correre nella Rete. In questa fase storica — suggerisce Anna Baldry — in questa deriva che ha come bersaglio le donne, c’è una voglia di rivalsa da parte di chi sente di aver definitivamente perso il potere, cioè gli uomini». E l’aspetto più estremo della persecuzione, cioè lo stalking, utilizza il mezzo digitale, «per incunearsi in ogni momento della vita della vittima, con una violenza psicologica che può lasciare segni profondi». Livia, 25 anni, così ricorda il suo incubo: «Mi mandava duecento sms al giorno, postava le mie foto in topless, mi umiliava in Rete, scriveva commenti pornografici. Si è fermato soltanto quando il mio nuovo compagno l’ha affrontato...».
Ma qualche mezzo per difendersi esiste, dice comunque la psicologa Cristina Bonucchi. «C’è la pagina Facebook del commissariato Ps online, a cui si possono inviare segnalazioni e ottenere informazioni. In oltre 70 capoluoghi di provincia ci sono poi gli uffici della Polpostale». Ma serve soprattutto imparare a difendersi. «Alle donne consiglio sempre: conservate ogni traccia, ogni mail, ogni post, ogni tweet di insulti che possa aiutarci a fermare il vostro persecutore e non rispondete mai alle provocazioni».

Repubblica 3.2.14
Una nuova edizione di “Allegro ma non troppo” di Carlo M. Cipolla ripropone un tema che attraversa la letteratura
La logica dello stupido
Da Voltaire a Flaubert, storia di un catalogo infinito
di Piergiorgio Odifreddi


«Infinito è il numero degli stolti», sentenziò l'Ecclesiaste (I, 15). «Due cose sono infinite, l'universo e la stupidità umana, ma sull'universo ho ancora dei dubbi», precisò Einstein, additando almeno un punto di convergenza tra il pensiero religioso e quello scientifico. Più che calcolarne il numero, che può essere infinito solo in senso figurato, conviene cercare di capire la natura dello “stupido”, che in latino significava “stupìto”, “sbalordito”, “stupefatto”, “stordito”, “attonito”. Per estensione, lo stupido è un incapacitato ad agire, o almeno ad agire correttamente, perché la realtà ha su di lui un effetto di stordimento che lo rende, appunto, temporaneamente o perennemente “instupidito”.
Lo stupido può essere generalista o specialista, a seconda che la sua stupidità si estenda all’universo mondo, o rimanga confinata a qualche sua parte. Mentre il primo tipo è unico, come il mondo stesso, il secondo è variegato, tanto quanto lo sono le sue parti. E gli scrittori satirici o sarcastici, da Giovenale a Kafka, hanno bersagliato i vari tipi e sottotipi a turno.
Il primo a trattare l’argomento in maniera teorica è stato Walter Pitkin, nel 1932. La sua lunga
Breve introduzione alla storia della stupidità enuncia tre leggi fondamentali: 1) Il numero degli stupidi è infinito. 2) Il potere è quasi tutto nelle mani di gente più o meno stupida. 3) Capacità e stupidità individuali vanno spesso a braccetto.
Una formulazione più elaborata della teoria è stata proposta dall’economista Carlo M. Cipolla, nelle argute Leggi fondamentali della stupidità umana.
Il suo breve saggio, uscito per la prima volta in inglese nel 1976, e tradotto in italiano dal Mulino nel 1988 come Allegro ma non troppo, è stato appena ripubblicato in una bella edizione illustrata da Tullio Pericoli. Quanto alle celebri leggi di Cipolla, esse sono: 1) Il numero degli stupidi viene sempre sottostimato. 2) La probabilità che un individuo sia stupido, è indipendente da qualunque altra sua caratteristica. 3) Lo stupido causa danni ad altri senza trarne vantaggio per sé, o traendone addirittura svantaggio. 4) Il potenziale nocivo degli stupidi viene sempre sottovalutato. 5) Tra i vari tipi di persone, gli stupidi sono i più pericolosi.
La terza legge di Cipolla è in realtà una definizione dello stupido, le cui variazioni permettono di definire gli altri tipi di persone menzionati nella quinta legge. Precisamente, intelligente è chi trae vantaggio per sé, facendone trarre anche ad altri. Sprovveduto, chi causa danni a sé, procurando vantaggio ad altri. Bandito, o sfruttatore, chi trae vantaggio per sé, causando danni ad altri.
È in questo senso preciso che lo stupido, che causa danni a sé e agli altri, è pericoloso: anzi, il più pericoloso dei tipi possibili. Perché, all’opposto dell’intelligente, che ottimizza i vantaggi, lo stupido li pessimizza, ottimizzando ossimoricamente i danni. Che poi lo stupido sia anche il tipo più diffuso, oltre che il più pericoloso, è la dimostrazione che il nostro è il peggiore dei mondi possibili, con buona pace di Pangloss e degli stupidi come lui.
La più completa ostensione letteraria della stupidità si trova però non nel Candide di Voltaire, ma in Bouvard e Pécuchet di Gustave Flaubert. Nelle intenzioni dell’autore, il suo ultimo e incompiuto
romanzo doveva essere composto di due volumi: la storia dei due protagonisti, appunto Bouvard e Pécuchet, e uno Stupidario da essi raccolto. In realtà, quando Flaubert morì nel 1877 aveva quasi concluso il primo volume, e del secondo rimangono solo alcuni frammenti.
La divisione tra i due volumi non è comunque così netta. La storia, infatti, è soltanto una flebile scusa per snocciolare una specie di Bignami o Garzantina universale che spazia sui campi più disparati, affrontati uno per capitolo: l’agricoltura, le scienze naturali, l’archeologia, la storia, la letteratura, la politica, l’amore, la filosofia, la religione, la pedagogia e le riforme sociali (per fortuna, la matematica viene risparmiata).
Non è ben chiaro se per Flaubert la stupidità risieda, da un lato, negli argomenti stessi, o nella loro enunciazione popolare. E, dall’altro lato, nell’incapacità di Bouvard e Pécuchet di fare un uso sensato del sapere che via via acquisiscono, o nell’impossibilità di poterlo fare. Probabilmente tutte le cose insieme, visto che Flaubert voleva usare come sottotitolo della sua opera La sconfitta del metodo nelle scienze.
E che in una lettera a Louis Bouilhet scrisse: «La stupidità sta nel voler concludere. Siamo un filo, e vogliamo conoscere la trama”.
Non è nemmeno ben chiaro se Flaubert si considerasse un osservatore esterno della stupidità, o un suo fruitore interno. Lui stesso dichiarò a Maxime Du Camp: «Voglio produrre una tale impressione di stanchezza e noia, che leggendo questo libro si possa credere che sia stato fatto da un cretino». E Raymond Queneau osservò, nell’introduzione al libro ristampata in
Segni, cifre e lettere, che «le meditazioni di Bouvard sulla filosofia e sul mondo, le sue critiche alla religione o agli atteggiamenti filosofici, sono proprio quelle dello stesso Flaubert».
Quest’ultimo avrebbe dunque potuto dire Monsieur Bouvard c’est moi, come d’altronde l’aveva già detto per Madame Bovary. E in effetti lo disse, con altre parole: «Bouvard e Pécuchet mi riempiono a tal punto, che sono diventato loro! La loro stupidità è la mia, e ne scoppio». D’altronde, fin da bambino era stato considerato L’idiota di famiglia, come nel titolo della biografia che gli dedicò Jean-Paul Sartre. E, ovviamente, lo stupido ha molto a che fare con l’“idiota”, che in greco non indicava altro che un “privato”: cioè, figurativamente, qualcuno che vive in un mondo personale tutto suo, invece che in quello pubblico di tutti.
Dunque, stupidi non sono solo i protagonisti di Bouvard e Pécuchet, ma anche l’autore. E le stupidaggini che gli uni e l’altro raccolgono nell’abbozzo del loro enciclopedico Stupidario, non sono altro che i luoghi comuni, le idee alla moda e le sciocchezze che tutti pensano e ripetono. In fondo, è impossibile farne un catalogo completo, perché esso coinciderebbe con l’archivio di Echelon, che registra le conversazioni e le corrispondenze dell’intera popolazione mondiale. E se qualcosa gli scappa, non c’è da preoccuparsi, perché lo si ritroverà riproposto nei libri, sui giornali, nei programmi radiotelevisivi e in rete.

Repubblica 3.2.14
Il nuovo ordine mondiale nell’eccezione di Israele
Il saggio “Terra, ritorno, anarchia” di Donatella Di Cesare
di Roberto Esposito


Il libro di Donatella Di Cesare, Israele. Terra, ritorno, anarchia, edito da Bollati Boringhieri, non è solo un saggio teologico-politico su Israele. È una intensa riflessione filosofica, dall’angolo di visuale dell’eccezione ebraica, sul rapporto tra popolo, nazionalità e Stato nell’epoca della globalizzazione. Lo ‘stato’ — nel senso del modo di essere, oltre che dell’organismo politico — di Israele non può essere omologato agli altri Stati sovrani, uniti tra loro dal nomos del terra. E ciò non soltanto per la ferita irrimarginabile inferta dalla Shoah, ma per una storia radicata in un rapporto con la trascendenza che sporge dall’orizzonte immanente della politica moderna. Tale eccedenza è testimoniata dal destino ambivalente del sionismo — realizzato nelle sue intenzioni, eppure in perenne contraddizione con se stesso, in continua “in crisi”, come già nel 1943 scriveva Hannah Arendt (La crisi del sionismo, ora tradotto in Politica ebraica per Cronopio).
Fondato alla fine dell’Ottocento da Theodor Herzl in una prospettiva che affidava
l’emancipazione ebraica alla creazione di uno Stato nazionale non diverso dagli altri, esso ricercava nell’appropriazione di una terra la garanzia dell’esistenza politica. In tal modo gli ebrei pagavano il prezzo di rinunciare alla propria specificità senza ottenere un’inclusione paritaria nel concerto delle nazioni. Come annotava profeticamente Joseph Roth, essi «erano sempre stati uomini in esilio. Ora diventarono una nazione in esilio». Con quella opzione gli ebrei acquisivano il diritto indispensabile alla propria sopravvivenza, ma smarrivano nello stesso tempo un elemento decisivo della loro identità differenziale.
Gershom Scholem e Martin Buber ne delineavano il profilo proprio nel contrasto con quella bipolarità tra individuo e Stato che, nel paradigma di sovranità, caratterizza la politica moderna. Se il primo già negli anni Trenta dubitava che la questione ebraica potesse trovare definitiva soluzione in Palestina, il secondo negava che Sion fosse riducibile alla figura degli altri organismi nazionali. Certo, come afferma l’autrice, la costruzione dello Stato era la via necessaria, ma non la meta ultima. In questo senso ella riconosce in tutta la sua tensione quella “tragicità del sionismo” di cui parla Shmuel Trigano nel suo Il terremoto di Israele. Filosofia della storia ebraica
(Guida). Il ritorno alla terra non può cancellare la diaspora. Il destino di Israele non è lo Stato, ma qualcosa che, attraverso di esso, si pone al contempo anche al suo esterno. Come sostiene Lévinas, la stella di David brilla nel punto di tensione tra identità e alterità, spazio e tempo, terra e cielo. Solo restando fedele all’attesa, Israele può corrispondere alla promessa di cui è esito e testimonianza.
La forza, e la passione, di questo sguardo sta nel riconoscere in tale condizione una frattura e una risorsa. Una frattura rispetto al destino degli altri Stati nazionali e una risorsa nel momento in cui esso è messo radicalmente in discussione dalla globalizzazione. Il fatto di non essere uno Stato come gli altri conferisce a Israele la possibilità di sperimentare una nuova modalità politica, non basata sulla difesa identitaria di confini bloccati, ma sul principio della continua alterazione. Certo, va detto che tra quanto sostiene la Di Cesare, lungo una linea di pensiero letteralmente anarchica, e la realtà della politica effettuale di Israele, vi è più di una differenza, se non anche un contrasto. Ma ella stessa rivendica la possibilità e la necessità, da parte del pensiero, di spingersi aldilà del dato storico verso il non-luogo dell’utopia. Sia il discorso sulla nuova comunità, come alternativa alla sovranità dello Stato, sia quello su una categoria di pace non derivata in negativo dalla guerra, ne costituiscono esempio. Essi valgono, si può dire, non nonostante, ma in ragione della loro inattualità.
IL LIBRO Israele. Terra, ritorno, anarchia di Donatella Di Cesare Bollati Boringhieri pagg. 112 euro 12,50

Corriere 3.2.14
Daniel Cohn-Bendit e Alain Finkielkraut
Nazionale o europea, il bivio della democrazia
di Antonio Carioti


 Nel sostegno ai manifestanti ucraini filoeuropei Daniel Cohn-Bendit (nella foto a sinistra ) e Alain Finkielkraut (a destra ) sono in perfetta sintonia, così come nel ripudio dei totalitarismi di ogni colore. Ma sul futuro dell’Europa i due intellettuali coltivano visioni diverse, messe a confronto ieri in un vivace faccia a faccia sul quotidiano francese «Le Monde». Non si tratta di un dissenso lieve, poiché a dividerli è il concetto stesso d’identità europea. 
L’ecologista franco-tedesco Cohn-Bendit, copresidente del gruppo dei Verdi al Parlamento di Strasburgo, proietta l’Europa in una dimensione postnazionale e le assegna la missione di difendere i diritti dell’uomo in una prospettiva universale, che non conosce frontiere. I singoli Stati, sottolinea, non sono assolutamente in grado di affrontare le sfide poste dalla globalizzazione: se le istituzioni dell’Ue funzionano in modo insoddisfacente, «il primo degli imperativi politici», nella situazione attuale, deve diventare quello di «realizzare una democrazia europea». 
Opposto il punto di vista sostenuto da Finkielkraut, docente di filosofia considerato tra i più brillanti e originali esponenti del pensiero neoconservatore europeo. A suo avviso, la democrazia ha senso solo là dove è nata, nell’orizzonte circoscritto della nazione, poiché presuppone «una lingua comune, delle origini comuni, un avvenire comune e un legame con lo stesso passato». Un’identità che non si può fabbricare artificialmente, perché è frutto della storia. L’Ue, secondo Finkielkraut, ha la funzione di associare le diverse nazioni, ma sbaglia quando pretende di sostituirsi ad esse: finisce per trasformarsi in un apparato kafkiano, vissuto dai cittadini come una minaccia alla loro libertà. 
La disputa s’inasprisce sull’immigrazione. Cohn-Bendit è per una politica di accoglienza e cita la tragedia di Lampedusa: non attacca il governo italiano, ma gli Stati europei più influenti, Francia e Germania, che a suo avviso hanno spinto perché i migranti fossero respinti in mare, tradendo la vocazione inclusiva dell’Unione. Finkielkraut invece sottolinea le ricadute deleterie della fallita integrazione degli immigrati, specie islamici, per cui vi sono aree della Francia sottratte alla sovranità repubblicana, in cui professori, negozianti e autisti d’autobus sono sempre a rischio, le donne vivono in segregazione e l’antisemitismo ha libero corso. L’Europa multiculturale è un ideale o un incubo? Il nodo cruciale del dissenso risiede qui.

Corriere 3.2.14
Il tempio greco di Monasterace perde pezzi in mare
di Antonio Ricchio

 MONASTERACE (Reggio Calabria) — Un anno dopo Sibari, un altro tesoro della Calabria rischia di andare perso. A cadere sotto i colpi dell’incuria dell’uomo, questa volta, potrebbero essere i resti dell’antica Kaulon, a Monasterace. Il maltempo e le mareggiate che nel fine settimana hanno interessato lo Jonio reggino hanno infatti provocato il parziale crollo del tempio dorico dell’antica Kaulon e indebolito ulteriormente le difese dell’area archeologica. Nel 2012 proprio qui è stato scoperto il mosaico ellenistico più grande della Magna Grecia. E le drammatiche immagini che arrivano dal sito archeologico stridono con quelle cariche di entusiasmo pervenute nei giorni degli importanti ritrovamenti: mosaici rivenuti all’interno di uno dei pochi edifici termali di epoca greca venuti alla luce nel Meridione. 
La furia delle onde, insomma, rischia di cancellare millenni di storia. Nelle scorse settimane, dopo le mareggiate di novembre, da più parti era stato lanciato l’allarme per la situazione di Kaulon, lasciata esposta al mare dopo il crollo della duna che la proteggeva naturalmente. La Provincia di Reggio Calabria era intervenuta con lavori di somma urgenza e aveva allestito una barriera in pietra sulla spiaggia. Poca cosa rispetto alla potenza distruttiva del mare in tempesta di queste ultime ore. La barriera comunque dovrebbe tornare a essere rinforzata non appena la situazione meteorologica tornerà alla normalità. Lo assicura la soprintendente ai Beni archeologici della Calabria, Simonetta Bonomi: «Interverremo anche noi, ma questo non basta. Tutta l’area dove si trova il mosaico è senza protezione. Dovremo quindi verificare col ministero se ci sono risorse per poter installare la protezione lungo tutto il fronte del parco che si affaccia sulla spiaggia. Al momento, però, nessun intervento è possibile perché con il mare in queste condizioni sarebbe a rischio la vita dei lavoratori. Dopo la mareggiata di novembre — aggiunge Bonomi — che provocò il crollo della duna, la nuova ondata di maltempo ha danneggiato gravemente la muratura del tempio. Cercheremo di recuperare i blocchi di pietra portati via dal mare per risistemarli al loro posto, ma è necessario creare una protezione a tutta l’area». Si muove anche la politica. L’assessore regionale alla Cultura Mario Caligiuri, che ieri ha effettuato un sopralluogo a Monasterace, ha annunciato che il ministro Bray «ha stanziato 300 mila euro per i primi interventi a protezione dell’area archeologica di Kaulon».