martedì 4 febbraio 2014

Corriere 4.2.14
Berlusconi, sì al rientro di Casini: con lui vinciamo
Dubbi in FI, il Cavaliere lo difende
Maroni attacca: o c’è un progetto comune o stia lontano
di Paola Di Caro


ROMA — La sua pancia è quella che ha dato voce agli sfoghi dei falchi, che ha ispirato i titoli irridenti dei «giornali di famiglia» contro Pier Ferdinando Casini e tutti gli ex pidiellini o alleati che, a vario titolo, si stanno riavvicinando a Forza Italia o vorrebbero farlo. Ma la testa di Silvio Berlusconi, dopo lunghe conversazioni con i big dell’ala «morbida» del partito a partire da Giovanni Toti, con i vertici aziendal-familiari e con i sondaggisti di fiducia, gli ha consigliato di aggiustare il tiro. Anzi, di spargere di miele la via lastricata di insidie che potrebbe riportare il leader dell’Udc verso la vecchia casa del centrodestra.
L’apertura si concretizza con una nota molto chiara, inequivoca: «Non ho condiviso gli attacchi a Casini, il cui ritorno nell’area dei moderati è da sempre stato da me auspicato». E se «da molto tempo mi si attribuiscono posizioni ed indicazioni che quotidianamente influenzerebbero la linea dei giornali dell’area di centrodestra», la verità è che «mai sono intervenuto né sulle decisioni editoriali, né su singole vicende rispettando appieno la libertà dei giornalisti e dei direttori». Insomma, se ai suoi giornali non piace il capo dell’Udc, nessuno deve equivocare: «Del ritorno nell’area dei moderati di Casini non posso che essere lieto, ritenendo che anche il suo movimento potrà offrire un reale contributo alla vittoria del centrodestra».
Il passo piace pochissimo alla Lega: «Non si fa una ammucchiata solo per vincere, ci vuole un progetto coerente. Casini sottoscrive l’idea di macroregione? Bene. Altrimenti stia lontano», avverte Roberto Maroni. E se Alfano ha già fatto sapere a nome del Ncd che non ci sarà alleanza se non a precise condizioni, a partire dalle primarie di coalizione indispensabili per sedersi a un tavolo, anche dai Fratelli d’Italia arriva uno stop: «Serve un programma coerente — dice Ignazio La Russa — ma serve anche chiarezza: noi non ci stiamo a portare voti che, se il partito non raggiunge una certa soglia, finiscono automaticamente al partito che la passa. E questo lo faremo valere con i nostri emendamenti...».
Insomma, resta molto, ma molto da lavorare in vista di future alleanze. E c’è da capire in quale forma, con chi e a quale prezzo si stringeranno, anche attendendo l’eventuale risultato di un rassemblement tra Alfano e Casini che potrebbe essere testato alle Europee (e ieri il leader dell’Udc ha aggiunto la sua firma al «contro Jobs Act» di Maurizio Sacconi). Ma la nota indica un cambio di prospettiva di Berlusconi. Che capisce come «oggi il segnale da dare è di apertura, non possiamo sbattere la porta in faccia a chi vuole tornare con noi». Senza accettare ricatti, certo, ma anche senza paventarli, per non provocare un effetto fuga al contrario. D’altra parte i sondaggi della Ghisleri diffusi ieri dal «Mattinale», pur essendo come tutti perlomeno prematuri rispetto a coalizioni che non esistono, appaiono incoraggianti: sommando FI a tutti i partiti del centrodestra, si arriverebbe a quasi il 37% (contro il quasi 33% del centrosinistra). Ma c’è di più. Nella nota, di fatto, si prendono le distanze dalla linea falcheggiante dei giornali di famiglia, e voci da Arcore raccontano di un crescente disagio della famiglia e dei vertici aziendali del Cavaliere verso l’idea attribuita alla vecchia guardia azzurra di fare di Forza Italia un fortino di resistenza anziché il fulcro di una larga alleanza. Alleanza necessaria tanto più in vista di un passo indietro di Berlusconi dalla scena (obbligato per scontare la condanna) e dalla sua impossibilità a candidarsi a premier.
Che l’aria sia questa lo confermerebbe anche l’ennesimo rinvio sull’ufficio di presidenza, che continua a non vedere la luce perché — dicono nell’entourage più stretto — il Cavaliere «non è convinto della composizione che gli suggerisce Verdini». E che vedrebbe tanti esponenti della vecchia guardia in un organismo che, per statuto, decide a maggioranza, una testa un voto.

Il Sole 4.2.14
La mossa centrista prova che Berlusconi sa interpretare la legge elettorale
La riforma non è ancora pronta ma a destra stanno fabbricando la miscela 37 per cento
di Stefano Folli


Il ritorno di Pier Ferdinando Casini nell'alveo del centrodestra berlusconiano non è un tema in grado di appassionare l'opinione pubblica. E ovviamente scatena i sarcasmi di tutti i "nuovisti" che vi leggono il persistere dei vecchi riti partitocratici. In realtà l'operazione, se davvero si farà, è il prodotto della riforma elettorale che il Parlamento si prepara ad approvare (con o senza qualche emendamento significativo, lo vedremo). La legge Renzi-Berlusconi, salutata da più parti con entusiasmo, comporta esattamente questo sbocco: ci si aggrega con maggiore o minore entusiasmo al primo turno nella speranza di raggiungere la soglia magica del 37 per cento.
È il bipolarismo nella sua versione più netta, che diventa quasi bipartitismo. Uno schema risorto dalle sue ceneri dopo anni di fallimenti e atteso ora alla prova dei fatti. E queste prime notizie, mentre le Camere devono ancora licenziare il testo definitivo, indicano due cose, anzi tre. Innanzitutto che Casini come tattico è ancora il più rapido di tutti. Avendo compreso che per il "terzo polo" moderato (al di là quindi dello spazio di Grillo) non c'è più posto, il leader dell'Udc si è mosso prima degli altri: soprattutto prima di Alfano. A questo punto, dopo il ritorno a casa del figliol prodigo salutato con commozione dal padre-padrone Berlusconi, lo spazio degli scissionisti del "nuovo centrodestra" si riduce. Anche Alfano e i suoi amici dovranno fare accordi con il vecchio leader, da essi abbandonato appena qualche mese fa, ma le condizioni saranno meno generose perché Casini li ha preceduti con notevole spregiudicatezza.
Quel che conta - secondo punto - è che alla fine di queste giravolte la coalizione che possiamo chiamare Forza Italia allargata potrà avvicinarsi e forse superare la soglia del 37. È vero che la Lega protesta per l'inclusione di Casini, ma quanto può valere questa irritazione? Berlusconi ha già ottenuto per i lombardi una clausola privilegiata che potrebbe salvarli dall'estinzione (e non è certo); restare fuori dalla coalizione sarebbe un suicidio annunciato per il partito di Maroni e Salvini.
La questione semmai è un'altra, oggi che il Parlamento non ha ancora votato sulla riforma. Berlusconi sta dimostrando di avere molte carte da giocare per costruire la "miscela 37 per cento". E il fatto che lui, durante la campagna elettorale, non sarà della partita per via degli arresti domiciliari, può persino tradursi in un vantaggio: lo aiuterà a dare una coloritura "centrista" alla sua nuova alleanza, rendendola meno indigesta anche agli occhi dei Popolari europei.
E il centrosinistra? Qui è il terzo punto. Allo stato delle cose la strada di Renzi è in salita perché per lui è più difficile costruire una coalizione da 37 per cento. A meno di non contare sempre e solo sui mezzi propri. Cosa che il segretario del Pd ama annunciare con quella punta di spavalderia che lo distingue e che finora lo ha spinto come un "surfista" sull'onda. È il nuovo schema di gioco, come dice Marco Follini. Il Pd renziano non ha alleati, tranne Vendola e il piccolo centro di Tabacci. Troppo poco per competere con la capacità di aggregazione messa in mostra da Berlusconi. Però ha Renzi, appunto: il quale dice "il centro sono io". Né Alfano né Casini, "vecchia politica": per avere il voto dei ceti moderati basta la giovinezza del segretario-sindaco. Può darsi che abbia ragione e allora sarebbe il trionfo personale. Ma le insidie sono tante, come sempre quando si sottovaluta il rischio dell'isolamento e la vischiosità del sistema italiano.

Corriere 4.2.14
Dellai, Gitti e quel colloquio con il segretario democratico
di A. Gar.


ROMA — Matteo Renzi è circondato e confuso da troppi questuanti e baciatori di pantofola? L’ipotesi è di Lorenzo Dellai, dei Popolari per l’Italia. Ecco il suo tweet integrale di ieri pomeriggio: «A forza di questuanti e baciatori di pantofola forse Matteo Renzi non distingue chi chiede posti da chi chiede una legge elettorale migliore». Frase tagliente per un uomo suadente come Dellai, che (peraltro) fu ideatore della Margherita, nella quale Renzi militò. Fatto sta che Renzi ieri in una intervista a Repubblica ha raccontato: «L’altro giorno nella mia stanza è venuto il capogruppo di Italia popolare, una persona perbene come Dellai. Con lui si è presentato un deputato del suo schieramento e mi ha detto: “Se volete il nostro accordo, a noi cosa date?”. Gli ho chiesto di uscire dalla stanza. Siamo al governo del Paese, non al mercato del bestiame». A parte che Italia popolare è un’altra cosa dai Popolari per l’Italia, la caccia al misterioso deputato che era con Dellai dura poco, perché lì quel giorno, giovedì 30 gennaio, c’era Gregorio Gitti, bresciano, che ora dice: «Sono impressionato, come avvocato e professore universitario. Evidentemente la politica ha sempre bisogno di una sceneggiatura...». Allora, com’è andata? «Innanzitutto, ci aveva chiamati Renzi. Era preoccupato per le pregiudiziali di costituzionalità che avevamo presentato sulla legge elettorale». C’è stato un confronto, poi Gitti ricorda di aver chiesto quali aperture alle modifiche della legge poteva fare Renzi, se le pregiudiziali fossero state ritirate. Dellai ricorda che erano tutti già in piedi, sul punto di salutarsi, e Gitti chiese: cosa potete dare in cambio se ritiriamo le pregiudiziali? Secondo Gitti, Renzi disse: «È impossibile modificare la legge». Secondo Dellai, disse: «Non sono disponibile a questo discorso». Gitti e Dellai testimoniano che non ci fu alcuna richiesta di uscire dalla stanza. «Non avrei consentito che Gitti fosse messo alla porta», assicura Dellai. Poche ore dopo, il ministro Delrio, che affiancava Renzi quel giorno, diede alla agenzie una dichiarazione secondo cui l’incontro con Dellai era stato «proficuo e collaborativo». Le pregiudiziali di incostituzionalità di Dellai e Gitti furono poi ritirate, ma solo «perché avrebbero rischiato di mettere in difficoltà il governo».

La Stampa 4.2.14
Figli del Biscione
di Massimo Gramellini


Dunque, riepilogando. Il segretario democratico Matteo Renzi ha esordito a diciotto anni come facondo concorrente in un programma di Canale 5, «La Ruota della Fortuna» di Mike Bongiorno, mancando il trionfo per una vocale (la E di Enrico Letta). Il segretario leghista Matteo Salvini, talento ancora più precoce, salì alla ribalta a dodici anni nel gioco a quiz di Canale 5 «Doppio Slalom», rispondendo senza esitazioni a una domanda profetica di Corrado Tedeschi sulla pigmentazione della pelle. Infine, notizia di ieri, il portavoce dei cinquestelle Rocco Casalino se l’è presa con Daria Bignardi, che quattordici anni fa lo aveva svezzato davanti alle telecamere di Canale 5 nella prima edizione del «Grande Fratello», di cui l’attuale dirigente grillino fu uno dei protagonisti come insegnante di letteratura del pizzaiolo Salvo, quello che confondeva Dante Alighieri con il giudice di «Forum» Santi Licheri. Ne consegue che - a parte Grillo, che lavorava in Rai, e Di Battista, che non ha mai lavorato - l’unico tra gli attuali leader politici a non avere partecipato a un gioco o a un reality di Berlusconi è proprio Berlusconi. 
Sbaglia per difetto chi sostiene che la nuova generazione di politici sia nata con le televisioni del Silvio. Ci è nata addirittura dentro, respirandone dal vivo i colori e gli umori, condividendone i sogni rapaci e il ritmo aggressivo. Non è un bene né un male: è un fatto. Quel diavolo d’uomo ci ha cambiato la testa molto prima di entrare in politica per cambiarci la vita. Sulla vita nutro ancora qualche speranza. Sulla testa, meno.

il Fatto 4.2.14
Grazie Casini, grazie Italicum. Berlusconi vede la vittoria
Nei sondaggi il centrodestra con l’Udc è in vantaggio
Renzi: “Conquistare i voti non i leader”
Per i suoi può andare a Palazzo Chigi senza elezioni
di Wanda Marra


“Non ho condiviso gli attacchi a Pier Ferdinando Casini, il cui ritorno nell’area dei moderati è da sempre stato da me auspicato e del quale non posso che essere lieto. Anche il suo movimento potrà offrire un contributo alla vittoria del centrodestra”. Quello di Silvio Berlusconi è un abbraccio caloroso, entusiasta, ovviamente interessato, che stoppa anche le critiche in casa centrodestra (vedi il Giornale). Da quando il leader dell’Udc ha annunciato il ritorno alla casa madre il centro è nella più classica delle fibrillazioni e l’attività di sondaggisti, politologi, retroscenisti ha subito un’impennata sensibile. Se il decaduto, pregiudicato, inibito dai pubblici uffici, l’ex Caimano riuscisse a superare al primo turno la fatidica soglia del 37% prevista dall’Italicum, persino da non candidato, e si rimettesse al centro della scena politica, dopo essersi cucinato a puntino pure Matteo Renzi? Il segretario dem risponde su Twitter alle possibili obiezioni di questo tipo: “Molti pensano che per i voti bastino le alleanze tra i leader. Ma non è più così. Vanno conquistati gli elettori, non i leader”.
I NUMERI remano contro. Se si sta ai risultati delle elezioni del 2013, il rischio c’è. Il centrosinistra, guidato da Bersani, prese allora il 29, 5%, comprensivo del 3,2% di Sinistra e Libertà (che in questo momento lancia tutti i suoi strali contro il segretario dem, visto che la legge così com’è lo rende una vittima sacrificale), lo 0,5% di Bruno Tabacci (che ora sogna il centro che non c’è) e lo 0,4% del Svp. La coalizione di Silvio Berlusconi arrivò allora al 29,1% con il 21,6% del Pdl, il 4,1% della Lega, il 2% di Fratelli d’Italia, lo 0,6% de La Destra, lo 0,4% del Mpa, lo 0,2% del Mir, lo 0,2% del Partito pensionati, lo 0,1% dell’Intesa Popolare. La capacità federativa del Cavaliere è incredibilmente maggiore di quella del Pd. È un maestro per aggregare, rastrellare, creare liste civetta all’occorrenza. Alle ultime elezioni un centro, guidato da Monti, c’era e prese il 10,5% di cui l’8,3% fu di Scelta Civica, l’1,8% dell’Udc, lo 0,5% di Futuro e Libertà. Da allora, molte cose sono cambiate e Scelta Civica si è scissa, dando vita ai Popolari per l’Italia (guidati da Mauro e Dellai). Se Sc esclude (per ora) guarda al Pd, i Popolari per l’Italia, che pure ora dicono no a un’alleanza di B., sognano un grande centro. Che se dovesse coagularsi intorno a Casini, è chiaro ora dove va. Spacchettando i voti del centro, il vantaggio sarebbe di B. : attribuendone, per dire, la metà ai Popolari di Mauro e dunque al centrodestra, il Pdl starebbe al 35,3% e il centrosinistra al 33,8%. Un bel testa a testa. Se è per stare ai sondaggi, ieri il Corriere della Sera ne pubblicava uno fatto dalla Ipsos: il centrosinistra prenderebbe il 36% e il centrodestra con l’Udc il 37,9%. Sopra la fatidica soglia. Il Tg3 ieri sera dava un testa a testa al 36,5% tra la coalizione di Centrodestra più Udc e quella di centrosinistra più Sc. E il Mattinale citava Euromedia, che dava in fuga il centrodestra con il 36,3%.
COME notava ieri la minoranza dem con una certa sa-do-masochista soddisfazione, il Pd la coalizione non ce l’ha, il centrodestra sì. Tutti pronti a ricordare Veltroni e la vocazione maggioritaria che spinse lui alla sconfitta e l’allora sinistra radicale fuori dal Parlamento. Esiste un piano B? In questo momento si può identificare con quello che un renziano di chiara fede definisce “il piano inclinato” verso Matteo Renzi a Palazzo Chigi. Basta leggere le ultime battute dell’intervista del sindaco a Repubblica di ieri. “Il problema non è il nome del premier, che per quel che mi riguarda, si chiama Enrico Letta, ma le cose da fare. Io mi occupo di queste, non di altre”. Una smentita soft, diciamo. Con una prospettiva che vede la legislatura arrivare al 2018, e dunque derubrica a futuro non preoccupante le scelte di Casini. Tanto più che in un governo guidato da Letta, il sindaco continua a dire di non volersi impegnare.

il Fatto 4.2.14
Se adesso Casini va a destra
risponde Furio Colombo


CARO COLOMBO, non dico che l’evento sia drammatico, però Pier Ferdinando Casini ha annunciato che tornerà a destra. Conseguenze?
Gianna
  
PIÙ DELLE CONSEGUENZE tenterei di dare un’occhiata alle cause. Casini, come tanti italiani, ha notato una cosa strana: mentre Berlusconi viene condannato, escluso dai pubblici uffici, espulso dal Senato, c'è chi va a cercarlo, a portarselo in casa, a onorarlo come un grande statista e a trattare, esclusivamente con lui, il futuro della politica italiana. Quel qualcuno è il nuovo, giovane leader della sinistra, dunque parliamo di tempi brevi e di tempi lunghi. Casini nota, e si domanda: perché lui sì e io no? E prontamente fa in modo di farsi trovare a fianco del condannato in caso (probabile) di prossimi incontri, magari anche più pubblici e festosi. In altre parole, Casini, che pensava di trovare uno spazio sicuro sistemandosi in un centro vagamente orientato verso un nuovo tipo di centrosinistra “moderato”, non si aspettava di vedere tutto ciò che resta della sinistra, mettersi in corsa, anche un po' concitata, verso la destra, fino al punto che le due parti politiche finiscono per coincidere. Casini è sveglio e gioca d'anticipo, ma Renzi lo ha superato con l'abbraccio di Arcinazzo (ricordate Andreotti e il generale Graziani?) riservato a Berlusconi, fresco di condanna. Per dare un'idea della qualità non ovvia del fatto, pensate che il Conte Marzotto ha fatto sapere che restituirà la sua onorificenza di “Cavaliere del lavoro” se la stessa onorificenza non sarà ritirata al pregiudicato Berlusconi. Ma tutti i commentatori più svelti a prendere atto della realtà stanno scherzosamente (ma non tanto) dicendoci: “Attenti a quei due”. Vuol dire che tutti si aspettano che la profonda sintonia, così come è nata (tutto fa pensare non all'improvviso) tra Renzi e Berlusconi tenda a estendersi ben al di là della legge elettorale. Dopo tutto si stava già governando insieme e solo una lotta interna un po' troppo affrettata per la primogenitura del Pdl ha temporaneamente diviso gli alleati di ferro del Pd. Casini ha visto la strada. Si va a destra. Purtroppo non in America, come Marchionne. Però Marchionne la sua lezione politica l'ha lasciata e i due sembrano intenzionati a raccoglierla. Primo, liberarsi dagli operai e dalla palla al piede del cosiddetto popolo. Secondo, stare molto vicini alle banche. Terzo, governare con un esecutivo autorevole e un Parlamento buono e compattato. Quarto, trattare la Costituzione come le Sacre Scritture. Si citano, si onorano e poi la vita continua. Che cosa vieta di fare tutto ciò insieme, visto che altri hanno già occupato lo spazio di opposizione? Casini, bisogna riconoscerlo, si è limitato a prendere nota dei fatti ed è difficile rimproverargli la decisione di muoversi subito. Lui è famoso per arrivare un po' prima.

il Fatto 4.2.14
L’eterno ritorno del signor Casini
di Maurizio Chierici


UNA POLTRONA è per sempre, deve aver pensato Pier Ferdinando Casini quando nel 1987 per la prima volta entra a Montecitorio con 50 mila voti sulle spalle. Ventisette anni dopo la coerenza non lo abbandona nell’ultimo girotondo: il Parlamento val bene una messa. Continua il pellegrinaggio da una cattedrale all’altra. Per non tradire quel gentil pensiero ha attraversato gli anni un passo in là, un passo indietro, sfumato e perbene, sorrisi sempre.
Navigando si impara ad attraversare le tempeste alla ricerca del vento leggero. Sorrideva alle spalle di Bisaglia, ministro delle Partecipazioni statali. Appena laureato deve aver pensato alla fragilità della politica adocchiando le Officine Reggiane. Negli anni neri fabbricavano carri armati; locomotive negli anni Dc: fra mille cose, il ministro delle sue tessere doveva controllarle. E il ragazzo “accetta” la prima poltrona da dirigente. Non si sa mai la vita. Ma quando l’Efim vende le Reggiane con l’acqua alla gola, il Fantuzzi che compra è costretto al dimagrimento: centinaia di tute blu a casa. “Questo dottor Casini cosa fa? ” vuol sapere l’av - vocato Contino, commissario liquidatore. Lo cerca invano nei registri delle presenze. Per 11 anni nessuno lo ha visto. E finisce nel pacco di chi se ne deve andare.
Da Roma si precipita l’onorevole con 11 anni di pensione al sicuro. Magari non dice “non sa chi sono io” ma non sembra contento di lasciare il posto a chi vive di un solo stipendio. Per fortuna la politica sistema tutto, e nell’estate bollente il Parlamento vota la leggina che apre ai dirigenti licenziati dalle aziende di Stato, la direzione di altri enti pubblici. Purtroppo Casini figura in non so quante commissioni parlamentari.
L’incompatibilità restringe la scelta: l’onorevole si candida al Coni. Non riesce a infilare la tuta. L’uragano Tangentopoli rovescia i partiti. Ricomincia abbandonando la Dc ormai Partito Popolare nelle mani di Martinazzoli. Nel cassetto i ricordi degli anni spensierati: sul palco di Rumor assieme a Follini e Franceschini. O alle spalle di Forlani che negli affetti sostituisce Basaglia. Continua a sorridere alle spalle del Caf, Craxi, Andreotti e quel povero Forlani circondato da numerari P2 e distrutto dagli orribili procuratori di Milano. Sodalizi con Mastella, Buttiglione, eccetera. Il Forlani dalle parole misurate lo sconsiglia di abbandonare gli eredi
Dc. Conserva nella memoria l’immagine di un “giovane corrente, garbato nel tratto ma con autonomia di giudizio”. Prevale l’autonomia quando incontra il terzo protagonista della vita: Berlusconi. Gli Esteri lo tentanto, ma sceglie la presidenza della Camera con lo sguardo (malignità della buvette) rivolto al Colle. Intanto gira il mondo fino alle favelas di Rio dove scioglie la compassione per i derelitti mentre l’equipaggio dell’aereo di Stato fa chiacchiere al Copacabana Palace a proposito della spiaggia dove sta nuotando il passeggero d’onore.
ECCO l’addio che infuria il Cavaliere e il riabbraccio quando Bruno Vespa festeggia 50 anni di giornalismo: Casini gianburrasca si ritrova tra i Berlusconi padre e figlia Marina, Gianni Letta, cardinal Bertone, Draghi, Geronzi, insomma Chiesa delle banche che lo rassicura mentre col Monti sfiduciato prova a resuscitare quel Centro che non c’è più. Non si arrende fino all’ultima a cena, casa De Mita, Passera ex ministro e Follini attorno al tavolo. Fa due conti per non finire come Fini: meglio riguadagnare l’ovile Forza Italia anche se il benvenuto è un gelo. Farfallone politico? I suoi elettori devono capire: non sono peccati di vanità, solo amore per l’Italia alla quale ha sacrificato tutta la vita.

l’Unità 4.2.14
Corruzione, l’Europa lancia l’allarme: l’Italia preoccupa
Nel rapporto il business illegale costa 120 miliardi all’Unione, la metà è italiano
Sotto accusa le leggi ad personam e il conflitto d’interessi
di Claudia Fusani


Il male è noto. Siamo un Paese dove la corruzione, o meglio la sua percezione, mangia risorse per 60 miliardi, il 4 per cento del pil, la metà del totale europeo che tocca i 120 miliardi. La corruzione brucia competitività e ci precipita in fondo alla classifica dei paesi europei dove è conveniente investire. Cecilia Malmstrom, commissaria europea agli Affari Interni, ha il suo bel da fare nel presentare il primo Rapporto del governo europeo sulla corruzione, quadro generale, approfondimenti e schede per ciascuno dei 28 paesi, 260 pagine più decine di schede e indicatori. Pagina dopo pagina finiamo al 24° posto nella classifica sulla «capacità di controllo della corruzione»; ancora più in basso, al 25° posto, in quella della «percezione della corruzione»; un po’ più in su, al 20°posto, nell’indice della competitività. Francia, Germania, Regno Unito, i paesi con cui una volta eravamo soliti confrontarci ci hanno staccato da un pezzo. Il guaio è che ci distaccano anche la Spagna, l’Ungheria, la Repubblica ceka e persino la Slovacchia arriva prima di noi in queste classifiche. Dopo ci sono solo Romania, Bulgaria, Grecia, Croazia.
Analisi impietosa, quella di Bruxelles, che ci racconta come i soliti calimeri che da anni precipitano nelle classifiche seppure i giornali (riconosciuto il ruolo di «sentinelle») abbondino di allarmi, inchieste, denunce e i vari governi annuncino disegni di legge, riforme, proposte. Il Rapporto è disponibile sul sito della Commissione europea ( http://ec.europa.eu/dgs/home-affairs/what-we-do/po licies/organized-crime-and-human-trafficking/corruption/anti-corruption-report/index_en.htm).
È opportuna una premessa metodologica sui dati della ricerca. «Quello della misurazione è un problema essenziale» avverte Romilde Rizzo, presidente dell’Autorità nazionale contro la corruzione, unico soggetto di controllo riconosciuto visto il Commissario anticorruzione fu abolito nel 2009 (governo Berlusconi) e l’Autorità istituita dalla legge Sverino nel 2012 non è ancora nata. Quelle del Rapporto UE, continua Rizzo, «sono stime che circolano da tempo e la cui fonte è, probabilmente, un rapporto del 2008 della Banca Mondiale, nel quale si fa una stima sull’incidenza della corruzione sul pil. Il problema della misurazione è essenziale e stime affidabili non sono realmente disponibili». Persino il commissario Malmstrom, nel pomeriggio, precisa che «non è corretto dire che la corruzione italiana (60 mld) è pari alla metà di quella europea (120 mld)» visto che i parametri non sono unificati e variano da paese a paese. In Italia, ad esempio, gli indicatori sono superiori per numero e tipologie (ad esempio dei reati) rispetto a quelli europei.
Lungi dal minimizzare la denuncia contenuta nel Rapporto UE ecco alcuni dei dati più inquietanti. Il problema è diffuso in tutta Europa: per il 76% degli europei (76%) la corruzione è un fenomeno dilagante e che per più della metà degli europei (56%) il livello di corruzione nel proprio paese è aumentato negli ultimi tre anni. Un europeo su dodici (8%) afferma di essere stato oggetto o testimone di casi di corruzione nel corso dell’anno precedente. È la stessa Malmstrom, quindi, a tirare le orecchie a tutti i paesi europei: «La corruzione mina la fiducia dei cittadini, danneggia l’economia europea e priva gli stati di un gettito fiscale particolarmente necessario. Molto è stato fatto ma molto di più deve essere fatto ancora».
Per il 97% degli italiani la corruzione è un fenomeno dilagante in Italia (contro una media Ue del 76%) ed il 42% afferma di subire personalmente la corruzione nel quotidiano (contro una media Ue del 26%). Per l’88% degli italiani corruzione e raccomandazioni sono spesso il modo più semplice per accedere a determinati servizi pubblici (contro una media UE del 73%). Interessante vedere come, in base agli stessi indicatori e sondaggi, «solo il 2% degli italiani afferma di essere stato oggetto di richieste o di aspettative di tangenti nell’ultimo anno». La media europea è più alta del doppio (4%). I conti, come si vede, non tornano: denunciamo troppo finchè si tratta di stare sul generale; siamo reticenti e omertosi quando si va nel personale.
Il problema vero, e fa male come Bruxelles ce lo sbatta ancora una volta in faccia, è che tutto questo blocca economia e investimenti. Per il 92% delle imprese italiane, favoritismi e corruzione impediscono la concorrenza commerciale (media Ue del 73%), il 90% pensa che corruzione e raccomandazioni siano «spesso» il modo più facile per accedere ai servizi pubblici (contro una media Ue del 69%); per il 64% le conoscenze politiche sono l’unico modo per riuscire negli affari (contro una media Ue del 47%). Secondo il Global Competitiveness Report 2013-2014, la distrazione di fondi pubblici dovuta a «corruzione, favoritismo dei pubblici ufficiali e progressiva perdita di credibilità etica della classe politica agli occhi dei cittadini sono le note più dolenti in Italia».

il Fatto 4.2.14
Commissione Ue. Dossier di Bruxelles: metà delle mazzette del continente sono made in Italy
Ce l’abbiamo fatta: l’Italia vanta il record europeo di corruzione
Peggio di noi soltanto Grecia, Croazia, Bulgaria e Romania
La commissaria agli Affari Interni, Cecilia Malmström, è impietosa: il 97% degli italiani percepisce il fenomeno come dilagante, il 42% se ne sente vittima
Le tangenti pagate valgono 60 miliardi. Allarme per i rapporti con le mafie e per le leggi ad personam
di Giampiero Gramaglia


Nell’Unione europea, la corruzione costa 120 miliardi di euro l’anno, “praticamente l’equivalente del bilancio stesso dell’Ue”: è un cancro che “mina la fiducia dei cittadini nelle istituzioni democratiche, danneggia l’economia nel suo insieme e priva gli Stati di una parte cospicua del gettito fiscale”, quanto mai necessario in anni di crisi. Nessuno dei 28 ne è esente, ma l’Italia ne ha il primato e lo manterrà, perché le leggi non intaccano “la percezione d’un quadro normativo di quasi impunità”.
Brutto record tra prescrizione e falso in bilancio
Secondo i calcoli della Corte dei Conti, il fatturato della corruzione in Italia è di 60 miliardi di euro l’anno, la metà di quello europeo complessivo. Le fonti dell’Ue s’affrettano a precisare che i dati non sono esattamente comparabili. Ma Cecilia Malmström, commissaria europea agli Affari Interni, è abituata a bacchettare l’Italia. E, questa volta, fa l’elenco dei fattori di persistenza della corruzione in Italia: tempi di prescrizione troppo brevi, leggi ad personam, scarsa trasparenza di finanziamenti ai partiti e appalti pubblici. Così, un ex premier – Silvio Berlusconi – prosciolto “per scadenza dei termini di prescrizione” (processo Mills) e il caso di “un parlamentare indagato per collusione con il clan camorristico dei Casalesi”, richiamo alla vicenda di Nicola Cosentino, diventano paradigmi della corruzione in Europa, pur senza essere esplicitamente citati. Gli Stati dell’Ue hanno fatto molto negli ultimi anni per combattere la corruzione, ma “le azioni fin qui intraprese sono lungi dall’essere sufficienti”. In Italia, le accelerazioni normative (la legge anti-corruzione del 2012, la ratifica della convenzione del Consiglio d’Europa nel 2013 e il piano 2013-2016 approvato il 30 gennaio) rappresentano, secondo la commissaria, un “passo avanti”, ma “lasciano irrisolti” problemi di fondo, perché “non modificano la disciplina della prescrizione, la legge sul falso in bilancio e l’auto-riciclaggio e non introducono il reato di voto di scambio”, né sciolgono il nodo del conflitto d’interesse. L’analisi di Bruxelles collima con i rapporti delGreco – il gruppodi Stati del Consiglio d’Europa contro la corruzione – e dell’Ocse.
Il buco nero delle opere pubbliche
Il primo rapporto della Commissione europea sulla corruzione nell’Ue mostra che natura e livello del fenomeno e l’efficacia delle misure per contrastarlo variano da Paese a Paese: la Malmström non promuove col massimo dei voti nessuno, perché “la corruzione merita maggiore attenzione in tutti gli Stati dell’Unione”, e suggerisce linee di intervento “che – dice – spero possano essere seguite”. Vestito aragosta sullo sfondo rosso mattone della scena allestita per l’occasione, la commissaria è forse all’ultima recita del suo mandato. Risponde a domande sull’Italia citando passi del rapporto, che invita a “bloccare l’adozione di leggi ad personam” ed esprime preoccupazione per il grado di corruzione degli appalti pubblici – la denuncia il 92% delle imprese, contro una media Ue del 73% –, che vanno resi più trasparenti. Lodo Alfano ed ex Cirielli, depenalizzazione del falso in bilancio e legittimo impedimento stanno a provare, per il documento dell’Ue, che i tentativi di garantire processi efficaci sono stati “più volte ostacolati da leggi ad personam”.
Sono stati 201 i Comuni sciolti per criminalità organizzata
Secondo il rapporto, “in Italia i legami tra criminalità organizzata, politici e imprese, e lo scarso livello di integrità dei titolari di cariche elettive e di governo sono tra gli aspetti più preoccupanti”. Bruxelles suggerisce di perfezionare la legge che “frammenta” le disposizioni su concussione e corruzione e giudica “insufficienti le disposizioni sulla corruzione nel settore privato e sulla tutela del dipendente pubblico che segnala illeciti”. La Commissione raccomanda di “estendere i poteri e sviluppare la capacità dell’autorità nazionale anticorruzione Civit”. Quanto alla corruzione dei politici, il rapporto cita dati del 2012: indagini e ordinanze di custodia cautelare per esponenti politici locali un po’ ovunque, 201 Consigli municipali sciolti e oltre 30 deputati della precedente legislatura indagati per reati di corruzione o finanziamento illecito.

I NUMERI sono impietosi. Per Transparency International la corruzione percepita dagli italiani è minore soltanto a quella percepita da rumeni, bulgari e greci, mentre il ranking della Banca mondiale ci posiziona al quintultimo posto d’E u ro p a, davanti solo a Croazia, Bulgaria, Grecia e Romania. Sempre per la Banca mondiale l’efficacia dei provvedimenti governativi per ridurre la corruzione ci vede sempre al fondo della classifica, davanti solo alle solite Grecia, Bulgaria e Romania. Un dato interessante, rispetto all’indagine di Eurobarometro, è quanti italiani si dichiarano vittime o coinvolti in vicende di tangenti, soltanto il due per cento, nonostante il 97 per cento degli stessi italiani dichiarino di percepire come fenomeno dilagante la corruzione. L’Associazione nazionale magistrati che chiede di intervenire al più presto “sul falso in bilancio e sulla prescrizione”, ed il presidente della commissione antimafia Rosy Bindi che richiama la necessità di “interventi più incisivi di quelli finora adottati”, anche “per affrontare il semestre Ue a testa alta”. Per l’associazione antimafia Libera la corruzione “è una tassa occulta che trasforma risorse pubbliche, destinate a servizi e opere, in profitti illeciti. È come, dicono, se ogni italiano fosse costretto a versare mille euro l’anno nelle casse del malaffare e dell’illegalità. Davanti ai costi della corruzione diretti e indiretti non si deve più tacere. Anche l’Europa – ribadisce Libera – ci chiede che la lotta alla corruzione sia una delle priorità per il nostro Paese. Non può essere normale la corruzione, perchè non è normale una società che ruba a se stessa. La corruzione è furto di bene comune, furto di diritti e di speranze, di opportunità e di lavoro. Reati diffusi al punto da diventare costume”.

il Fatto 4.2.14
Mafia e politica, qui si continua a negare tutto
di Gian Carlo Caselli


Il problema della corruzione per il nostro Paese costituisce una priorità assoluta. Per varie ed evidenti ragioni. Primo. È una vergognosa tassa occulta, che secondo alcune stime arriva a 60 miliardi di euro l’anno, vale a dire mille euro per ciascun cittadino italiano, neonati compresi. Secondo. A causa dell’enormità della corruzione il futuro dell’Italia è gravemente compromesso. Ed è una rapina perpetrata sulla pelle dei giovani, a parte il fatto che gli stranieri prima di investire in un sistema così corrotto ci penseranno mille volte. Terzo. È un impoverimento delle risorse e incide pesantemente sulla qualità della vita di ciascuno di noi. Se ci fosse meno corruzione ci sarebbero più campi sportivi per i ragazzi, ospedali e scuole meglio attrezzati, strade meglio asfaltate, periferie più illuminate, terreni meno dissestati, meno inondazioni e disastri ambientali. In sostanza si vivrebbe molto meglio. Partendo da questa base, nell’allarme e nelle denunce del report dell’Ue si riscontrano significative conferme.
MOLTI suggerimenti di questo report dell’Ue, per quanto riguarda il nostro Paese, li ritroviamo spesso identici, come contenuti, nell’agenda con cui Libera e il Gruppo Abele hanno sostenuto la campagna “Riparte il futuro”, che ha come obiettivo prevenire e contrastare la corruzione. Se leggiamo questo documento troviamo tutta una serie di intelligenti e utili proposte. Innanzitutto la riforma del 416-ter (e qualcosa in Parlamento si muove rispetto allo stallo che si era determinato per questioni formalistiche, inserendo finalmente nella previsione di legge non soltanto la dazione di denaro ma anche il concetto di altra utilità, perché il mafioso che paga cash il politico corrotto esiste soltanto nella fantasia di qualche romanziere). Poi bisogna riformare la prescrizione in generale e per i reati di corruzione in particolare, perché finché ci sarà troppo spazio, come attualmente c’è, per strumenti dilatori che allungano all’infinito i tempi del processo in modo da arrivare alla prescrizione che azzera tutto, la corruzione rimane uno strumento “conveniente”, anche processualmente, per il fatto che i rischi di condanna effettiva sono decisamente ridotti. Serve un’anagrafe dei candidati alle elezioni nazionali e locali, accompagnata da test di integrità per politici e funzionari, oltre ai codici di comportamento di cui sempre si parla ma con scarse conseguenze operative che invece dovrebbero essere robuste sul piano disciplinare e politico. Occorre introdurre il reato di auto-riciclaggio (siamo l’unico Paese europeo che non ce l’ha), ripristinare il falso in bilancio, reprimere seriamente vari “reati civetta”, ad esempio l’evasione fiscale e certi illeciti societari. Non meno importante è la riforma del “conflitto di interessi”. Fondamentale è incoraggiare i comportamenti che servono a scoprire e punire le situazioni illecite in ambito di corruzione. Qui si tratta di estendere le norme dei collaboratori di giustizia ai settori che dalla corruzione sono maggiormente interessati, pubblici e privati.
Serve anche garantire più trasparenza riducendo di molto le restrinzioni che oggi caratterizzano l’accesso ai documenti pubblici, rendendo più incisivo il controllo sugli atti della pubblica amministrazione. Le grandi opere, decisive per la crescita del Paese, esigono una normativa ad hoc che aumenti la visibilità delle procedure, essendo imponenti le risorse in gioco. Infine, come non rallegrarsi che l’Europa ci bacchetti sui rapporti tra mafia e politica, mentre noi continuiamo a negare persino quelli tra Andreotti e Cosa nostra.

l’Unità 4.2.14
Una zavorra che blocca il nostro Paese
di Ruggero Paladini


Da soli valiamo quanto tutti gli altri paesi della Ue. Purtroppo però non si parla di un risultato positivo, ma di uno molto negativo: nel nostro Paese il flusso connesso alla corruzione si aggirerebbe sui 60 miliardi. Così afferma il rapporto annuale presentato ieri dalla Commissione al Parlamento ed al Consiglio europei. La cifra in effetti era circolata un paio di anni fa; nella relazione della Corte dei Conti, per l’apertura dell’anno giudiziario, si citava il dato del Servizio Anticorruzione e Trasparenza del Dipartimento della Funzione Pubblica (SAeT), e si esprimevano delle riserve.
L’argomento è infatti proprio quello del peso, ritenuto eccessivo, che la corruzione italiana verrebbe ad avere sui 120 miliardi stimati a livello europeo: «(s)e l’entità monetizzata della corruzione annuale in Italia è stata correttamente stimata in 60 miliardi....rispetto a quanto rilevato dalla Commissione Ue l’Italia deterrebbe il 50% dell’intero giro economico della corruzione in Europa!».
La stima dei 60 miliardi italici è eccessiva, o quella dei 120 europei è troppo bassa? È chiaro che nel caso della corruzione le stime sono ancora più difficili che non in quello dell’evasione.
In quest’ultimo caso, infatti, si possono fare dei confronti con i dati di contabilità, per ricavare, sulla base delle aliquote legali, lo scarto tra il gettito teorico, ad esempio, dell’Iva, e quello effettivo.
Nel caso della corruzione ciò non è possibile, per cui ci si basa sui dati che riguardano i reati scoperti in materia, le somme in gioco, e si effettuano delle proporzioni del tipo: se i dati monetari della corruzione emersa sono l’x% del volume d’affari complessivo, e i casi scoperti rappresentano l’y% di quella totale, se ne ricava indicativamente una certa cifra globale, sia pur approssimata.
Un gruppo di giovani e arguti redattori del blog Quattrogatti ha ipotizzato che i sessanta miliardi derivino da un rapporto di quasi dieci anni fa della Banca Mondiale che stimava, a livello mondiale, che la corruzione rappresentasse tra il 3% ed il 4% del Pil.
Ecco che con il 4% arriviamo per il nostro paese a 60 miliardi.
Beh, essere nella media della corruzione mondiale non mi sembra, nel nostro caso, palesemente esagerato.
Magari invece del 4% potremmo applicare il 3%, e parlare di 45 miliardi, e quindi del 38% della corruzione europea.
Che siano 60 o 45, non è questa la cosa importante.
Il fatto è che in tutti i Paesi del sud est dell’Ue il problema della corruzione viene percepito come un problema serio, che ostacola l’attività economica e demoralizza la vita civile. I risultati dell’Eurobarometro, il sondaggio periodico effettuato tra i cittadini europei, parla chiaro.
Se svolgere attività economica in un Paese scandinavo non presenta nessun problema dal punto di vista della corruzione, farlo in Grecia, Italia o in Romania è tutto un altro discorso.
Il fenomeno della corruzione è chiaramente legato alla Pubblica amministrazione; il pensiero va immediatamente agli appalti, le concessioni, i permessi, e ovviamente alla forte presenza della malavita organizzata.
Ma i comportamenti opportunistici non si limitano al mondo della pubblica amministrazione.
Parlando a proposito del basso livello degli investimenti stranieri in Italia, ecco cosa scriveva Luigi Zingales, che certo non può essere sospettato di antipatie verso il mercato: «La spiegazione deve essere un’altra. Un’ipotesi sempre più credibile è che gli stranieri non investono nel nostro Paese perché non si fidano della sua classe dirigente. Non parlo solo di quella politica, ma anche di quella manageriale. Ogni investimento è costellato di rischi industriali. A questi si aggiungono le difficoltà di comprensione ed adattamento tipici degli investimenti in un Paese straniero. Questi
rischi possono essere accettati solo se esiste una fiducia nel sistema e nelle persone con cui si interagisce» (Il Sole 24 Ore, 20 ottobre 2013).
Insieme all’evasione fiscale, all’inefficienza della giustizia, la corruzione è un’altra palla al piede del nostro paese.
Nel rapporto della Commissione, pur senza fare nomi, si indicano chiaramente gli interventi legislativi che hanno favorito, dai primi anni duemila, il persistere delle attività illegali e criminose.
Ed in effetti da noi non è necessario fare nomi.

Corriere 4.2.14
C’era una volta anche l’Authority
di Gian Antonio Stella


E due. Dopo papa Francesco, durissimo coi «devoti della dea tangente», anche l’Europa dice che da noi girano troppe mazzette: 60 miliardi di euro. Non c’è Paese che possa sopravvivere con un carico simile sulla groppa e una reputazione in pezzi come la nostra. L’Authority che ha cambiato tre nomi ma non ha né poteri né presidente. Chiesta dall’Europa nel ‘99, si chiamava Civit, ora Anac. Risultati? Nessuno

Il 97% dei cittadini (21 punti più della media europea) è convinto che la bustarella dilaghi. E Bruxelles ci chiede: che fine ha fatto l’Authority contro la corruzione?
Il primo rapporto della Commissione anticorruzione, diffuso ieri dal commissario agli affari interni Cecilia Malmström, dice che certo, «in Europa non ci sono aree non affette da corruzione. Prendiamo atto dei progressi fatti e delle buone pratiche, ma i risultati raggiunti sono insufficienti e questo vale per tutti gli Stati membri». Mai accontentarsi. Ma certo le condizioni dell’Italia, rispetto agli altri, è pesante. Basti dire che su quei 120 miliardi di euro di corruzione stimati dalla Ue, la metà sarebbe nostra. Di più: l’88% degli italiani (anche qui oltre una ventina di punti sopra la media continentale) pensa che la corruzione e le raccomandazioni siano il modo più semplice per accedere ai servizi pubblici.
A dirla tutta, qua e là le statistiche europee non ci strapazzano neppure troppo, ad esempio quando dicono che «il 2% degli italiani ha ricevuto richieste di tangenti nell’ultimo anno». Su questo, il rapporto di «Libera», la rete di associazioni di Don Luigi Ciotti, è più pessimista: i cittadini che si sono visti chiedere una bustarella sarebbero sei volte di più: il 12%.
Sia come sia, la Commissione Europea ci bacchetta. Su certe assoluzioni dovute ai tempi biblici. Sulle leggi ad personam . Sui cavilli di certe norme che rischiano «di dare adito ad ambiguità nella pratica e limitare ulteriormente la discrezionalità dell’azione penale». Sul coinvolgimento di troppi politici. Fino alla brusca ramanzina sulla inefficacia dell’authority delegata a combattere le mazzette. Ramanzina sacrosanta.
Per anni, dopo il lontano accordo di Strasburgo del 1999, l’Europa ci ha chiesto di dare vita a un organismo per la guerra alla corruzione. Ma mai cammino è stato tanto travagliato. Istituito nel 2003 e reso operativo nel 2004, l’«Alto commissario per la prevenzione e il contrasto alla corruzione» dotato di una bellissima sede e pochissimi poteri, un vero e proprio specchietto per le allodole, restò (inutilmente) in vita quattro anni. Risultati? Boh… Evaporato nel 2008, fu sostituito dal Saet, il Servizio per l’anticorruzione e la trasparenza che venne subito criticato dagli osservatori: stare alla struttura del Dipartimento funzione pubblica non garantiva l’indipendenza necessaria. Risultati? Boh…
Un altro anno di «ti-tic e ti-tac» e nasceva la Civit, dal nome interminabile (Commissione indipendente per la valutazione, la trasparenza e l’integrità delle amministrazioni pubbliche) e dalle competenze vaghe. Risultati? Boh… Fatto sta che nel 2012, con il governo Monti, arrivava la sospirata Autorità anticorruzione con l’obiettivo di «spostare l’asse della lotta alla corruzione dalla repressione alla prevenzione». Applausi corali: evviva, finalmente. Risultati? Boh…
Finché, mesi e mesi dopo, il «Sole 24 ore», l’organo di Confindustria, raccontando il passaggio gestito da Gianpiero D’Alia dalla Civit all’A.n.ac. (Autorità nazionale anticorruzione: ultima sigla del tormentone) sbuffava giustamente per tutti gli «anni di operazioni di montaggio e smontaggio di strutture analoghe».
La stessa Authority, un mese fa, nel suo «Rapporto sul primo anno di attuazione della legge 190 del 2012», sentiva il bisogno di sgravarsi di responsabilità: «Il livello politico non ha mostrato particolare impegno nell’attuazione della legge. Nonostante i reiterati solleciti dell’Autorità, non tutti i ministeri, gli enti pubblici nazionali, le Regioni, gli enti locali hanno nominato il responsabile della prevenzione della corruzione, che pure svolge un ruolo cruciale per l’attuazione della normativa». Traduzione: non vogliono che lavoriamo sul serio.
Peggio, accusano i magistrati in trincea sul fronte della corruzione, «non hanno nominato neppure il presidente dell’Authority limitandosi a una prorogatio dei vertici della vecchia Secit nominati da Brunetta, fra i quali c’è anche quell’Antonio Martone coinvolto, a torto o a ragione, nel caso della P3. A dimostrazione che un conto sono le chiacchiere e un altro i fatti». Di più: le cose vanno talmente per le lunghe da fare emergere sospetti maliziosi e cioè che «giorno dopo giorno vengano svuotati i poteri dell’organismo sui conflitti di interesse, i piani anticorruzione, le incompatibilità fra amministratori e società miste o in house, magari con la scusa di risparmiare prebende».
E non si tratta solo di un problema morale. Ma anche economico. Nel 2012, l’anno al quale si riferiscono i dati della Commissione Europea, gli investimenti diretti esteri in Italia sono crollati del 70%: da 34 a 10 miliardi di dollari in un anno. Al punto di rappresentare per noi un misero 0,6% del Pil contro l’1,4% della Francia (quasi il triplo) o il 2,8% (quasi il quintuplo) del Regno Unito. «Ci sono 1.400 miliardi di dollari che ogni anno volano sul mondo per investimenti diretti esteri in cerca di un luogo su cui atterrare», sospirò mesi fa Giuseppe Recchi, direttore del Comitato investitori esteri di Confindustria: perché così pochi in Italia? Risposta: vuoi vedere che c’entrano anche la corruzione, la burocrazia che alla corruzione è legata, la macchinosità dei processi su eventuali imbrogli?
In ogni caso, spiega Pier Camillo Davigo, molto più che sull’Authority bisognerebbe puntare sul rigido rispetto delle regole: «In tutti i Paesi seri chi ruba va in galera. Qui invece sono andati a smontare certi reati per introdurne altri di difficile definizione col risultato che l’obiettivo non pare più colpire i corrotti ma individuare in quale casella di reato inserirli. Vogliono fare sul serio? Introducano le operazioni sotto copertura come negli Stati Uniti. Coi test d’integrità. Me l’ha spiegato un amico americano: ogni tanto mandiamo in giro degli agenti in incognito a offrire mazzette. Chi le prende lo sbattiamo dentro. E diamo una ripulita». Figuratevi la popolarità che una cosa simile avrebbe tra la classe politica italiana...

l’Unità 4.2.14
Più tasse e meno reddito La crisi colpisce le famiglie
Confcommercio: in sei anni svaniti 18mila euro di ricchezza a testa. Ma
il governo contesta i dati sul fisco
L’Istat: disponibilità in calo in tutto il Paese
di Laura Matteucci


MILANO Sale a 4,6 miliardi, dagli iniziali 1,6, l’aumento delle entrate da tassazione nel periodo 2014-2016 previste dalla legge di Stabilità. Solo per quest’anno si è arrivati a più di 2,1 miliardi rispetto ad una previsione di 973 milioni, e per l’anno prossimo si passa a 639 milioni da quella che inizialmente doveva essere una riduzione del carico per 496 milioni. Confcommercio punta il dito contro le nuove tasse che, questo il ragionamento, andranno ad aggravare la situazione delle famiglie già impoverite dalla crisi (negli ultimi sei anni il reddito pro capite si è ridotto del 13%, tornando ai livelli del 2002, e si è persa ricchezza netta per 18mila euro a testa), e quindi dei consumi, che solo nel 2012 sono calati del 4,2%. Ma proprio sul peso del fisco interviene in serata Palazzo Chigi con una nota dal sapore di una secca precisazione. Famiglie e imprese dice in sostanza il comunicato del governo non pagheranno nuove tasse che invece scenderanno dal 44,3% al 43,7% nel 2016. Il documento di Confcommercio evidenzia «un aumento delle tasse di 2,1 miliardi nel 2014, senza però spiegare chi sarà a pagare di più - si legge - Il dato non è nuovo ed è indicato, nero su bianco, nel documento relativo alla legge di Stabilità». «A pagare non saranno le imprese e le famiglie, come più volte ribadito dal governo», che prosegue elencando le voci e le cifre relative alle nuove entrate. «Al contrario afferma la nota le famiglie beneficeranno della riduzione del prelievo per 2,6 miliardi.
I NUOVI CONTRATTI
Ma sul reddito delle famiglie arriva anche un altro studio, questa volta dell’Istat, sempre dello stesso tenore. Nel 2012 il reddito disponibile diminuisce, rispetto all’anno precedente, in tutte le regioni. Da ricordare che i redditi da lavoro dipendente sono la componente più rilevante nella formazione del reddito disponibile (con un’incidenza superiore al 50%). «Nel confronto con la media nazionale (-1,9%), il Mezzogiorno segna la flessione più contenuta (-1,6%), seguito dal Nord-est (-1,8%), Nord-ovest e Centro (-2%). Le regioni con le riduzioni più marcate sono Valle d’Aosta e Liguria (-2,8% in entrambe)», si legge in una nota Istat. Il reddito monetario disponibile per abitante «è pari a circa 20.300 euro sia nel Nord-est sia nel Nord-ovest, a 18.700 euro al Centro e a 13.200 nel Mezzogiorno. La graduatoria del reddito disponibile per abitante (17.600 euro il valore medio nazionale) vede al primo posto Bolzano, vicina ai 22.400 euro, e all’ultimo la Campania, con poco meno di 12.300 euro».
È la Liguria la regione che ha risentito maggiormente degli effetti della crisi: tra il 2009 e il 2012 le famiglie hanno subìto una diminuzione dell’1,9% del reddito disponibile. L’Umbria e la provincia di Bolzano sono state le meno toccate, con anzi aumenti del 3,6% e del 2,7%. Nel 2012 a livello nazionale il reddito disponibile era aumentato dell’1% rispetto al 2009, anno di inizio della crisi economica, ed era stato il Nord a segnare l’aumento maggiore (+1,6% nel Nord-ovest e +1,7% nel Nord-est).
Tutti dati che per i sindacati non devono destare alcuna sorpresa. «La riduzione dei consumi indica la profondità della crisi dice la leader Cgil Susanna Camusso È la conferma di quello che andiamo dicendo da tempo, e cioè che se si bloccano i contratti, si riducono i salari, se non c’è lavoro, le persone non hanno alcun investimento da fare». Il ministro del Lavoro Enrico Giovannini preferisce sottolineare le (poche) buone notizie: «I dati del quarto trimestre che l’Istat pubblicherà presto dice indicano una ripresa del Pil, cioè la possibilità che dopo l’interruzione della caduta del terzo trimestre 2013, ci sarà finalmente un segno più: si parla di uno 0,2,-0,3% e le previsioni indicano che nel 2014 la crescita continuerà».

Corriere 4.2.14
Pensioni, sul tetto di 5 mila euro, lo stop a Meloni e Cinquestelle
M5S rilancia: anche una soglia minima a mille euro
di Enrico Marro


ROMA — La maggioranza, con l’aiuto di Forza Italia e Sinistra e libertà, blocca il disegno di legge per rivedere gli interventi sulle pensioni sopra un certo limite, presentato dal capogruppo alla Camera di Fratelli d’Italia, Giorgia Meloni. La commissione Lavoro ha infatti approvato ieri un emendamento presentato da Sergio Pizzolante (Ncd) soppressivo dell’intero testo, e quindi il relatore, Maria Luisa Gnecchi (Pd), riferirà con parere negativo domani quando la proposta arriverà nell’aula della Camera. Il disegno di legge Meloni — che ha fatto strada in virtù del diritto delle minoranze di far esaminare una tantum un proprio progetto di legge — proponeva un tetto di 5 mila euro lordi al mese (circa 3.200 euro netti) comprensivo di tutte le pensioni, incluse quelle integrative, oltre il quale sarebbe scattato il ricalcolo dell’importo col metodo contributivo (pensione commisurata ai versamenti di tutta la vita lavorativa), di regola meno generoso del metodo retributivo o misto con cui le pensioni sono state calcolate. In sostanza, oltre i 5 mila euro lordi, si sarebbe potuti andare solo se risultavano contributi versati tali da far maturare un importo maggiore. I risparmi di spesa (non quantificati) sarebbero stati destinati ad aumentare le pensioni al minimo, gli assegni sociali e le pensioni d’invalidità.
Dura la reazione di Meloni, che dice di aver fatto di tutto per trovare un accordo con la maggioranza: «Avevo mostrato disponibilità ad accettare gli emendamenti del Pd pur di giungere a un testo condiviso. In particolare, l’aumento della soglia a 14 volte la pensione minima (in pratica, 5 mila euro netti anziché lordi, ndr) e di tagliare dal computo le pensioni complementari e integrative», ma il voto di ieri, continua, dimostra che la maggioranza, «con la sorprendente complicità di Sel, non ha alcuna intenzione di mettere mano alla vergogna delle pensioni d’oro». Accusa respinta da tutti gli interessati.
«Vogliamo affrontare il problema delle pensioni d’oro con serietà. Nella proposta Meloni ci sono errori grossolani e abbiamo dubbi sull’efficacia del ricalcolo e sulla costituzionalità. Vogliamo inoltre che vengano aboliti anche i vitalizi», dicono Gnecchi, Marianna Madia e Marco Miccoli del Pd. Pensioni da 3.200 euro nette non sono d’oro, aggiunge il presidente della commissione Lavoro, Cesare Damiano (Pd). Pizzolante (Ncd) parla di «spot elettorale che non passerebbe mai il vaglio della Corte costituzionale». Per Sel bisogna colpire «tutti i redditi d’oro», non solo le pensioni.
Fratelli d’Italia e Movimento 5 Stelle annunciano battaglia in Aula domani. I grillini proporranno un nuovo testo col tetto di 5 mila euro e un minimo pensionistico di mille euro.

Repubblica 4.2.14
Stop sulle pensioni d’oro: “Tetto troppo basso”


ROMA — Il tetto di 5mila euro lordi di pensione (3.300 netti) è «troppo basso». Ne sono convinte quasi tutte le forze politiche che ieri in commissione Lavoro alla Camera hanno detto no alla proposta di legge “anti-pensioni d’oro” di Giorgia Meloni (Fratelli d’Italia). Quasi tutti i gruppi, infatti, hanno bocciato il testo presentato da Sergio Pizzolante (Ncd), ad esclusione di Fratelli d’Italia e del M5Stelle, i cui deputati hanno annunciato battaglia durante l’esame che comincerà domani in Assemblea. Il Partito Democratico ha bollato come «demagogica» la proposta Meloni: troppo basso il limite dei 5mila euro, anche perché è previsto come comprensivo di previdenza complementare e integrativa e oltre quella soglia si applicherebbe solo il sistema contributivo. «L'onorevole Meloni ha scritto una proposta di legge che contiene errori grossolani», ha dichiarato l’ex ministro e presidente della commissione Lavoro, Cesare Damiano (Pd). Allo stesso tempo, però, i democratici stanno lavorando a una proposta unitaria con gli altri partiti che includa anche un taglio dei vitalizi.

Repubblica 4.2.14
Se cresce la diseguaglianza
di Nadia Urbinati


Una democrazia dei due terzi: è questa la rappresentazione della società che proviene dai dati resi noti da Bankitalia. Si tratta di una conferma dello stato della diseguaglianza socio-economica, che non solo non tende a correggersi, ma si riafferma come caratteristica endogena, un male cronico. L’economia non riesce a stare al passo con la promessa della democrazia. Il problema è che, ora, anche la politica sembra voler seguire le orme dell’economia e cessare di preoccuparsi di quella promessa; anch’essa è sempre meno inclusiva e sempre più preoccupata a rappresentare i molti, non tutti o quanti più è possibile. Avere voce forte è un prerequisito per contare ed essere contati, e le procedure sono sempre più disposte a riflettere questo fatto invece di correggerlo.
È ragionevole tentare un parallelo tra lo squilibrio economico e la fisionomia della democrazia? La domanda è retorica, poiché l’opinione pubblica ha la percezione di questo parallelo, anche se lo stato della ricerca che valga a confermarlo è ancora in fieri. Ci sono tuttavia buoni indizi per tentare una triangolazione tra la crescita della diseguaglianza e della povertà, il restringimento della partecipazione elettorale, e l’inclusività delle regole del gioco. Il massiccio parlare di democrazia, l’ideologia che la vuole come la migliore forma di governo, e la sua solitudine planetaria si accompagnano paradossalmente a una crescita di indifferenza verso la politica e di sfiducia nelle sue attuali procedure di decisione. Rivedere le regole è a un tempo un riflesso e un esito di questa società più diseguale e divisa.
I dati di Bankitalia confermano del resto un trend ventennale che parla di un progressivo peggioramento del reddito familiare medio e di un allargamento della forbice tra chi può (poco o molto) e chi non può (poveri relativi, impoveriti e a rischio di povertà). Il trend è questo: crescita della concentrazione dei redditi e della povertà. I poveri o coloro che non riescono a far fronte ai bisogni minimi sono circa il 14 percento (con punte del 25 percento nel Mezzogiorno); i bilanci delle famiglie sono distribuiti in maniera corrispondente: il 10 percento delle famiglie più ricche possiede quasi la metà della ricchezza netta totale mentre è raddoppiata in quattro anni la fascia di coloro che sono caduti in povertà. Dati che confermano il dubbio: la ricchezza è concentrata nel 64 percento della popolazione; ovvero, per semplificare al rialzo, poco più di due terzi dentro, gli altri fuori.
Benché la correlazione tra diseguaglianza economica e stato della democrazia sia costruita su ipotesi (ma scienziati sociali stanno dovunque lavorando per comprovarla con dati certi), viene spontaneo il dubbio che l’andamento della forbice sociale abbia ricadute più o meno dirette sulla politica. Non è un caso del resto che la partecipazione elettorale abbia subito un declino progressivo negli ultimi due decenni, quasi a seguire la traiettoria dell’eguaglianza economica: alle recenti consultazioni politiche hanno votato circa il 75 percento alla Camera e 70 percento al Senato, cifre che rispecchiano quelle relative al numero delle persone nelle mani delle quali sta la ricchezza. Difficile stabilire una corrispondenza diretta; sufficiente avere squadernata davanti agli occhi la similitudine tra questi due dati.
Dati empirici di alcuni decenni provano che il sistema politico è “usato” o praticato più da chi si posiziona meglio nella società. Ciò non significa, ovviamente, che la democrazia sia “posseduta” da chi la pratica, dagli inclusi o dai meglio rappresentati. Starsene a casa, restare indifferenti alla politica o non avere la propria voce rappresentata non comporta perdere nulla in termini di diritti e uguaglianza legale. Tuttavia si dovrebbe essere allarmati per il deprezzamento della democrazia da parte di una fetta sempre più larga di cittadini, tra l’altro confermato da dati recenti, che parlano di delusi del funzionamento delle istituzioni e di desiderio di governi forti, con pochi esperti e poche sigle partitiche. Forbice tra le classi, forbice tra gli elettori, forbice tra cittadini e politici: una società divisa, con pesi sociali sempre meno proporzionati, e una tendenza alla registrazione ineguale della voce dei cittadini. Una fisionomia sfigurata che mostra il paradosso del trionfo della forma democratica di governo proprio mentre si assiste a un effettivo restringimento del valore inclusivo delle sue istituzioni.

La Stampa 4.2.14
La sinistra e il M5S, speranze e disillusioni
Ma Spinelli: l’appello a Grillo? Lo rifarei
«Bieche le offese a Boldrini. Vado oltre ed esploro ciò che loro propongono»
Stefano Rodotà: «Le critiche politiche sono legittime, il resto è populismo degradante»
Paolo Flores D’Arcais: «In balìa di umori padronali»
di Jacopo Iacoboni

qui
 

il Fatto 4.2.14
Perfino Bankitalia conferma: il regalo alle banche c’è
Via Nazionale difende la ricapitalizzazione a 7,5 miliardi, ma ammette
Saliranno i dividendi ai privati e migliorerà il patrimonio di vigilanza
di Stefano Feltri


L’aumento di capitale a 7,5 miliardi della Banca d’Italia è un regalo alle banche. Non lo dice soltanto qualche economista o il Movimento Cinque Stelle che è andato allo scontro con la presidente della Camera Laura Boldrini per fermare la legge Imu-Bankitalia. Lo conferma la stessa Banca d’Italia in una nota dal titolo “Conseguenze per la Banca d’Italia della legge 29 gennaio 2014, n. 5” diffusa ieri. Per essere precisi: via Nazionale e il governatore Ignazio Visco in persona rifuggono l’espressione “regalo” e difendono l’impianto complessivo della riforma che va nella direzione a lungo auspicata, cioè di fare chiarezza sull’assetto proprietario e di marcare l’indipendenza dalla politica (meglio legarsi alle banche vigilate che trovarsi sotto l’influenza del ministero del Tesoro, sembra la filosofia prevalente a palazzo Koch).
IN UN INCONTRO con i giornalisti Visco spiega che la Banca d’Italia resta pubblica, che rispettare la legge del 2005 secondo cui lo Stato doveva ricomprarsi le quote del capitale di via Nazionale in mano alle banche dal 1936 era troppo complesso (anche in caso di esproprio, come si calcolavano i risarcimenti?), che lo Stato alla fine non dovrebbe rimetterci troppo.
Ma sui due punti cruciali Visco conferma le denunce dei critici. Primo: la rivalutazione delle quote, dal valore simbolico di 156 mila euro a 7,5 miliardi, migliora il patrimonio di vigilanza delle banche titolari delle quote. Tradotto: i loro bilanci appariranno all’improvviso più solidi per un ritocco contabile. Il Core Tier 1, la misura di solidità usata per i confronti internazionali, salirà in media dello 0,3 per cento e dello 0,4 per i 15 istituti principali. Certo, l’effetto ci sarà soltanto dal 2015, il balsamo contabile non vale durante l’esame europeo condotto in questi mesi dalla Bce come premessa dell’Unione bancaria (i tedeschi della Bundesbank avevano già fatto sapere in via preventiva che non lo avrebbero tollerato), ma il beneficio è soltanto differito.
Secondo punto sensibile: con la riforma, cambiano le regole per i dividendi assegnati ai “quotisti”, cioè alle banche proprietarie di fette del capitale. Si legge nella nota di Bankitalia: la riforma “implicherà presumibilmente per i partecipanti un dividendo accresciuto nell’immediato (ma non nel tempo) rispetto a quello percepito negli anni recenti”. Per decifrare la frase servono le spiegazioni del governatore Visco e del direttore generale Salvatore Rossi. In sintesi: prima della riforma gli utili prodotti dalla Banca d’Italia (dovuti al signoraggio, cioè all’emissione di moneta per conto della Bce, e alle altre attività finanziarie) andavano ad aumentare le riserve della Banca e in piccola parte diventavano un dividendo calcolato sulla base delle riserve. Un principio che in via Nazionale non piaceva, perché creava confusione: le banche private socie di Bankitalia possono accampare qualche pretesa sui frutti delle riserve, ma non sulle riserve stesse che sono patrimonio pubblico, della banca centrale e in fondo dello Stato. Ora invece il diritto dei soci è calcolato direttamente sull’utile, le riserve sono al sicuro. Vi siete persi? Con i numeri è più chiaro: prima il dividendo ai privati era 70 milioni, da quest’anno dovrebbe essere 450. Un bell’aumento. In via Nazionale preferiscono sottolineare che prima non c’era un tetto massimo (poteva andare in teoria da 70 a 300 milioni e poi crescere ancora con l’aumento delle riserve), mentre ora non si va sopra i 450 milioni. Le banche, da parte loro, sono ben contente di ottenere un aumento secco di oltre sei volte.
C’è soltanto un ostacolo per i due principali beneficiari, cioè Intesa Sanpaolo e Unicredit che hanno rispettivamente il 30,3 per cento e il 22,1: i dividendi sopra il 3 per cento, nuovo tetto massimo al possesso, sono congelati. La Banca d’Italia può ricomprare dalle due banche la quota in eccesso, con un esborso potenziale di 3,5 miliardi, ma fra tre anni e soltanto se nel frattempo Intesa e Unicredit non hanno trovato acquirenti sul mercato. Quindi i due colossi del credito dovrebbero trovare subito qualcuno a cui vendere le quote da dismettere per fare cassa, e non è detto che sia facile visto che nessuno sa se c’è un mercato per le azioni della Banca d’Italia. L’aumento dei dividendi non va a beneficio di Intesa e Unicredit, quindi, ma sarà redistribuito tra tutti gli azionisti, compresi quelli che rileveranno parte delle azioni oggi detenute dalle due grandi banche.
LE BANCHE DEVONO fare qualcosa in cambio di questi favori concessi dalla politica usando la leva di via Nazionale? Sulla carta no, non c’è modo di costringerle a usare i benefici contabili ottenuti dalla rivalutazione delle quote per dare più credito a imprese e famiglie (anche se un pezzo del Pd sostiene invece che questo risultato sia scontato). Ma il governatore Ignazio Visco ha fatto capire che farà moral suasion perché le banche usino al meglio le risorse ottenute grazie alla legge Imu-Bankitalia. Chissà se basterà.

il Fatto 4.2.14
Il giurista Gianluigi Pellegrino
“Grillo fa solo finta di essere contrario all’Italicum”
“La protesta su Bankitalia era legittima. I Cinque Stelle non sono eversivi, ma vogliono tenere alta la tensione”
“La terza carica dello Stato non può reagire così”
di Davide Vecchi


Milano. I torti non stanno solo dalla parte di Grillo, hanno sbagliato in due: avevano ragione nel merito ma poi hanno fatto una indegna caciara, ma Boldrini è il presidente della Camera, dovrebbe quindi astenersi dal fare certe dichiarazioni e dalle apparizioni televisive: è la terza carica dello Stato, lo scontro politico lo lasci a Vendola e a Sel”. Il giurista Gianluigi Pellegrino è immediato. Avvocato di fiducia del Pd, in merito allo scambio di insulti tra il Movimento 5 Stelle e Boldrini, Pellegrino sa da quale parte schierarsi: “Nessuna”.
Grillo o Boldrini?
Loro hanno avuto ragione ad osteggiare la decisione di inserire il provvedimento su Banca Italia nel decreto Imu, che si è poi rivelato un regalo alle banche: ne criticavano giustamente il metodo usato, il sotterfugio.
Quindi avevano ragione?
Certo, sacrosanta.
Boldrini ha reagito azzerando la discussione con la tagliola, misura mai adottata nella storia repubblicana..
Una forzatura, ma dovuta alla necessità di approvare il provvedimento in tempo utile.
E quindi in cosa ha sbagliato?
Boldrini? Rappresenta una carica istituzionale e ha quindi l’onere e il dovere di non reagire agli insulti né alle offese. Su questo Giorgio Napolitano è un maestro, l’abbiamo mai visto o sentito rispondere alle accuse, anche gravissime, che ha ricevuto? Mai. E sa perché?
Perché ha chi lo difende in quanto Capo dello Stato?
Esatto: Boldrini ha ricevuto tutta la solidarietà del caso, ha un partito di riferimento ed è stata giustamente difesa dall’intero arco costituzionale; possibile che debba mettersi a discutere con Grillo?
Ha definito eversivi i deputati di M5S: sono un terzo della Camera, rappresentano i voti di quasi nove milioni di italiani. Se Fini o Casini o altri prima di lei avessero avuto un simile atteggiamento molti ne avrebbero chiesto immediata dimissioni.
Ha commesso un errore a intervenire personalmente; le istituzioni non devono scendere al braccio di ferro, doveva farlo fare ad altri, a Vendola.
Ormai sembra un battibecco senza fine?
La mia paura è che di tutto questo teatro faranno le spese i pochi italiani autenticamente democratici e riformisti.
Perché?
A ben vedere Boldrini sbaglia anche nel merito: i grillini più che eversivi sono conservatori, cioè sono fintamente rivoluzionari quanto le bombe ai tempi della strategia della tensione.
Eversivi, strategia della tensione.. facciamo passi avanti?
Intendo il metodo: si sparano bombe, intese come scontro verbale, per produrre una reazione di conversazione.
Fu adottata da parte dello Stato
Il paragone è sul metodo, infatti, non sul protagonista, e sull’obiettivo: evitare che vengano realizzate reali riforme e questo è proprio ciò che vuole Grillo.
Aspetti. Lei sta dicendo che il leader del Movimento 5 Stelle alza volutamente lo scontro per bloccare le riforme?
Esattamente, questo è l’alibi di Grillo: tentare di sottrarsi al confronto costruttivo, poter continuare a gridare contro la palude ottenendo l’arroccamento delle larghe intese.
Che a suo avviso vorrebbero invece dialogare con Grillo sulle riforme?
Assolutamente no, figurarsi: all’attuale maggioranza non dispiace affatto l’innalzamento dei toni perché così anche loro hanno l’alibi per compattare l’attuale sistema.
Un gioco delle parti continuo
Io vorrei un gioco delle parti virtuoso, guardi la legge elettorale: così come è adesso l’Italicum è una mezza schifezza.
E Grillo che c’entra?
Perché non propone di abolire le liste bloccate introducendo i collegi uninominali? Fa finta di essere contrario ma a lui va gran bene, così come a Berlusconi e a Renzi, poter continuare a nominare i suoi parlamentari e quindi legittima le finte riforme, come questo Italicum, gridandosi però indignato e alzando il livello dello scontro.
Vede una via d’uscita?
Stiamo vivendo la coda avvelenata del ventennio, le larghe intese continuano verso il ribasso, così come per la finta legge anticorruzione ora una finta riforma elettorale.

Repubblica 4.2.14
È resa dei conti tra i senatori spunta l’ombra della scissione “La svolta sulla legge elettorale”
E in quattro tentano di sfiduciare il portavoce
di Tommaso Ciriaco


ROMA — Il Movimento cinque stelle è un campo di battaglia. Accuse, veleni, processi pubblici ai “dissidenti”. È come se l’accelerazione degli ultimi giorni avesse messo in moto un meccanismo infernale. Una resa dei conti che attraversa i gruppi di Camera e Senato e rischia di spaccare i meet-up sul territorio. Non a caso l’area del dissenso — in “sonno” da mesi — ha ripreso in queste ore a organizzarsi. Contatti con il Pd e tentazioni scissioniste si intrecciano. E diversi parlamentari, a un passo dall’addio, potrebbero rompere proprio sul delicatissimo passaggio parlamentare della legge elettorale.
È lunedì, ma in Parlamento succede praticamente di tutto. Troppo fresche le ferite provocate dagli “incidenti” nell’Aula di Montecitorio, gli insulti contro Laura Boldrini e le deputate Pd, i continui stop and go del Fondatore genovese. Troppo alta la tensione provocata dalla “tagliola”, vissuta come un’ingiustizia. Il malessere generalizzato trova sfogo in un’accelerazione traumatica. In mezzo, come già accaduto in passato, finiscono i dissidenti.
Ad accendere gli animi ci pensa domenica notte Claudio Messora, capo della comunicazione del Senato. Inciampa rovinosamente in un tweet sul Presidente della Camera, facendo infuriare l’opposizione interna al Movimento. Si tratta di un braccio di ferro che va avanti da mesi, opponendo le “colombe” e lo staff che si occupa dei media. I nomi sono quelli di sempre, la pattuglia è minoritaria ma battagliera. Quattro di loro — Lorenzo Battista, Laura Bignami, Monica Casaletto e Luis Orellana — da sempre ostili alla linea degli ortodossi, prendono carta e penna. Chiedono e impongono una riunione d’emergenza, non accettano più che la comunicazione detti la linea politica del M5S. Vogliono sfiduciare Messora, assente alla resa dei conti. Sostengono la battaglia contro il capo della comunicazione anche Elena Fattori ed Elisa Bulgarelli. «Con i suoi post condiziona il gruppo», è l’accusa.
Dopo una riunione tesissima, i dissidenti prendono atto di essere in minoranza. La votazione, per adesso, è rimandata. Anche loro, come alcuni malpancisti della Camera, attendono solo il momento giusto per mollare gli ormeggi. A Montecitorio, intanto, anche il deputato Ivan Catalano invoca un passo indietro del capo dello staff comunicazione: «Messora è una delusione. Caro Casaleggio, riprenditi i consulenti che ci hai mandato». Il parlamentare svela anche che il Movimento si affida da tempo a una “Programmazione neurolinguistica” per addestrare i grillini a un modello di comunicazione “infamante”. Sul banco degli imputati sembra finire la Casaleggio associati.
Negli stessi minuti, alla Camera, Tommaso Currò — il primo dissidente della breve storia parlamentare dei Cinquestelle — diventa (suo malgrado) uno dei punti all’ordine del giorno dell’assemblea dei deputati. I suoi colleghi della commissione Bilancio — tra i quali Laura Castelli — chiedono di processarlo. La colpa? Ha votato con Forza Italia un emendamento “territoriale”, l’istituzione di un’area marina nella sua Sicilia. Prima della riunione il capogruppo Federico D’Incà chiede al deputato una pubblica abiura, un gesto riparatore che sia da esempio per tutti. Beppe Grillo in persona contatta Currò, inviandogli un sms. La replica del deputato al leader è netta: «Se mi espellete, io non vado nel Misto, piuttosto lascio». Per ragioni di tempo, l’assemblea rimanda a stamane il “processo” al dissidente. In parecchi, però, fanno sapere di non essere pronti a pronunciarsi contro il compagno di Movimento.
Come se non bastasse, sul territorio si moltiplicano i duelli. In Sicilia una fazione del Meet-up palermitano ha nel mirino da tempo il senatore Francesco Campanella. Vuole processarlo, vorrebbe espellerlo. In passato Campanella si è scontrato con un falco come Riccardo Nuti, ex capogruppo a Montecitorio. Fra i due non corre buon sangue, duellano sul territorio. L’esito più probabile, però, è la spaccatura del Meet-up. Stessa sorte potrebbe toccare anche a un altro dissidente, Fabrizio Bocchino.

Repubblica 4.2.14
La deputata Rostellato si sfoga “Vergogna, non voto più M5S”
Ma non lascia il movimento: “Sono loro che devono andarsene, Sorial, Messora, Tofalo e De Rosa”
di T. Ci.


ROMA — «Senta, una cosa è certa: non voterò Movimento cinque stelle alle prossime elezioni Europee. Ma lo vede cosa siamo diventati?». Gessica Rostellato si volta indietro, indica l’Aula della Camera. È una deputata grillina padovana, schiva e dal marcato accento veneto. Impegnata in commissione Lavoro, poco attratta dai riflettori. Adesso, però, sembra aver esaurito ogni residua scorta di pazienza. E in Transatlantico pronuncia un durissimo j’accuse contro il M5S, chiedendo ai responsabili degli “incidenti” degli ultimi giorni di dimettersi: «Io non vado via, sono loro che devono farlo».
Onorevole, in serata i deputati hanno convocato una riunione per discutere, tra l’altro, del caso di Tommaso Currò. C’è chi ha proposto l’espulsione.
«Lo accusano di aver fatto una “marchetta” con un emendamento».
Lei è favorevole all’espulsione?
«Io voto sicuramente contro l’espulsione, come ho sempre fatto anche in passato».
Ma cosa sta succedendo nel Movimento?
«Non capisco perché sia in atto questa radicalizzazione. Forse perché lo vuole qualcuno...».
Forse è un modo per aumentare il consenso in vista delle Europee?
«Non so se è per questo motivo. Ma una cosa è certa: sicuramente non voterò per il Movimento cinque stelle alle prossime elezioni Europee».
Dice davvero?
«Certo. Noi non possiamo mandare in Europa gente come
questa (si volta verso l’Aula di Montecitorio, ndr). Io mi vergogno di quanto accaduto».
Sono parole durissime, onorevole. Il clima è pesante, d’altra parte.
«Quello che è successo è inaccettabile».
Allude agli “incidenti” degli ultimi giorni?
«Non condivido nulla di quanto accaduto, non mi riconosco in quello che siamo diventati».
Quindi si prepara a lasciare il Movimento?
«No, io voglio restare nel Movimento. Se ne devono andare loro. Stanno facendo cose che non c’entrano niente con il Movimento cinque stelle. Nessuno dei nostri si è mai comportato così. Non è che nei consigli comunali facciamo così!».
A chi si riferisce? Chi se ne deve andare?
«Sorial, Tofalo e De Rosa».
Nell’ordine, il deputato che ha dato del “boia” a Giorgio Napolitano, quello che ha pronunciato un “boia chi molla” e l’autore degli insulti sessisti alle deputate del Pd. E il caso di Claudio Messora, come lo giudica? Chiede anche le sue dimissioni?
«Credo proprio che Messora si debba dimettere».
Senta, poco fa si sfogava ad alta voce con una sua collega, in un corridoio di Montecitorio. Diceva di essere venuta in Parlamento per lavorare. Sembrava sconfortata. Ci spiega?
«Sì, io sono venuta qui per lavorare, non per fare comunicazione, né per fare quello che è successo negli ultimi giorni».
(t.ci.)

Repubblica 4.2.14
La disgregazione della democrazia
di Marc Lazar


LE AZIONI recenti del Movimento 5 Stelle fanno impressione: contestazioni plateali e violenze nell’emiciclo del Parlamento, insulti e minacce al capo dello Stato, alla presidente della Camera, ad avversari politici e giornalisti, solo perché critici nei confronti dei pentastellati.
In parallelo, indipendentemente da Beppe Grillo e dai suoi, si moltiplicano le manifestazioni e gli attacchi razzisti contro la ministra Cécile Kyenge. Molti commentatori guardano con preoccupazione a questi fatti, e c’è chi vi scorge un segnale premonitore della rinascita del fascismo. Va detto però che l’Italia non detiene il triste privilegio di questa sindrome inquietante.
Al di là delle Alpi assistiamo a una radicalizzazione delle proteste di piazza. Il 2 febbraio, gli oppositori della legge che autorizza il matrimonio di coppie dello stesso sesso hanno sfilato pacificamente in difesa della famiglia tradizionale; ma già una settimana prima, domenica 26 gennaio, le vie di Parigi avevano assistito a un evento senza precedenti: una manifestazione antigovernativa intitolata “Giorno della collera”, che ha radunato una folla eterogenea di cattolici integralisti, reazionari dichiarati, militanti di estrema destra, amici del comico antisemita Dieudonné, ma anche simpatizzanti dell’ultrasinistra. I manifestanti, non paghi di attaccare il presidente della Repubblica, hanno contestato la sua legittimità, e nella capitale francese, per la prima volta in modo così massiccio dalla fine della seconda guerra mondiale, sono risuonati slogan esplicitamente antisemiti. Di fatto, gli atti e gli insulti razzisti si stanno moltiplicando in ogni direzione: nei confronti di ebrei e musulmani, o contro la ministra della Giustizia Christiane Taubira, francese della Guyana.
Si tratta di eventi diversi che certo non possono essere assimilati tra loro. Lo stesso Movimento 5 Stelle ad esempio presenta una forte ambivalenza ideologica e politica, con un misto di temi della sinistra classica sul piano sociale e di quella postindustriale sulle questioni dell’ambiente e dell’acqua, mentre rivendica una forma diversa di democrazia, benché guidato da un leader quasi onnipotente. E al tempo stesso è combattuto — fenomeno classico per questo tipo di movimenti — tra una funzione di canalizzazione della protesta, legata alla sua stessa accettazione del principio elettorale, e la volontà di rimanere un outsider che infrange le regole, sopprime i tabù e ostenta permanentemente la propria diversità, rifiutando di essere considerato un partito come gli altri. In Francia, i movimenti di piazza sfuggono per il momento a ogni rappresentanza politica. Il partito dell’ex presidente Sarkozy, l’Ump (Union pour un Mouvement Populaire) ha condannato la manifestazione del 26 gennaio, ma è diviso sull’atteggiamento da adottare nei confronti dei difensori intransigenti della famiglia tradizionale. Martine Le Pen, che in vista di conquistare il potere si è impegnata in una strategia di responsabilizzazione, dà prova di grande prudenza a fronte di queste mobilitazioni.
Ma al di là delle differenze, indubbiamente il clima che si è instaurato, in Italia come in Francia, è pesante. Ormai non si tratta più del sempiterno allarme per l’ascesa dei populismi in Europa. Quello che vediamo potrebbe essere l’inizio di una disgregazione generalizzata dei fondamenti stessi delle nostre società democratiche. Questa dinamica si spiega con la congiunzione sempre più esplosiva di diversi fattori: l’insufficiente crescita economica e le sue conseguenze sociali — in particolare l’alto livello di disoccupazione e le crescenti disuguaglianze — alimentano le tensioni, il ripiegamento, la diffidenza generalizzata, la ricerca di capri espiatori: gli immigrati, gli ebrei, ma anche l’Europa, che a molti appare al tempo stesso lontana e intrusiva, poco democratica e oramai incapace di assicurare prosperità e protezione. Le istituzioni — parlamentari in Italia, semi-presidenziali in Francia — girano a vuoto; l’astensionismo e il discredito dei partiti guadagnano terreno, e col disinteresse per la cosa pubblica cresce l’attesa del leader forte — l’uomo della Provvidenza. Le classi dirigenti — politica, economica, sociale, culturale, intellettuale — sono delegittimate, contestate, talvolta odiate.
Davanti a questo quadro cupo, è il caso di parlare di un ritorno agli anni Venti e Trenta del secolo scorso? A mente fredda, dobbiamo ricordare che la Storia non si ripete, anche se balbetta. Nel corso del XX secolo l’idea e la prassi della democrazia hanno fatto passi avanti, ma restano fragili, e dovrebbero essere costantemente ripensate, rinnovate, reinventate. Questa è oggi la posta in gioco decisiva. La soluzione non verrà soltanto dalla “società civile”, ritenuta per sua natura buona e virtuosa, benché percorsa da orientamenti contraddittori; dipenderà anche dai responsabili politici, economici, sociali e culturali. Spetta a loro adottare comportamenti esemplari, promulgare riforme di vasta portata nei rispettivi Paesi e in Europa, elaborare un progetto, ricostruire una narrativa mobilitante. Nella speranza che non sia troppo tardi.
(Traduzione di Elisabetta Horvat)

Repubblica 4.2.14
L’Occidente diviso
L’Europa diserta Sochi ma Letta ci andrà polemica sui diritti gay
Il premier: difenderò le ragioni degli omosessuali
di Paolo Garimberti


ENRICO Letta può avere le sue ragioni per aver deciso all’ultimo momento di presenziare alla cerimonia inaugurale delle Olimpiadi invernali di Sochi. Ma i torti prevalgono sulle ragioni.
Uno su tutti, quello di infrangere un fronte occidentale del no, che va da Obama alla Merkel, passando per tutte le principali potenze della Ue e la stessa Commissione
europea.
Tanto più in un momento in cui la posizione di Putin, indurita dal lungo braccio di ferro sull’Ucraina, è marcatamente anti-europea, come è dimostrato dal rapporto annuale del ministero degli Esteri di Mosca, pubblicato nei giorni scorsi, che dipinge la situazione dei diritti umani con un paradossale linguaggio propagandistico, degno della peggiore disinformazione sovietica, che suona come una chiara rappresaglia per le critiche europee alla legislazione omofoba della Russia.
Proviamo prima a vedere quali potrebbero essere le ragioni della scelta di Enrico Letta di esserci, venerdì prossimo, nella città sulle rive del Mar Nero, dove Stalin aveva una villa suntuosa e Putin ha deciso di creare la base tecnico-logistica dei giochi della neve più costosi della storia (curiosa decisione di avere la testa in mare e i piedi in montagna, ma fu così anche a Vancouver).
La prima è che il boicottaggio dei Giochi si è sempre dimostrato improduttivo, sia sul piano sportivo che sul piano politico: a Mosca, 1980, come a Los Angeles, 1984, e ancor prima a Montreal. Sportivamente mortifica gli atleti dei Paesi che si astengono, privandoli della possibilità di conquistare la medaglia più agognata da uno sportivo, vanificando anni di allenamento e perfino intere carriere. Politicamente si è rivelata in passato una cartuccia bagnata perché quando le gare cominciano i milioni di spettatori televisivi non prestano più attenzione a chi c’era e a chi non c’era nelle piste e nei palazzetti, sulla neve e sul ghiaccio. Ancora meno ricordano chi c’era e chi non nelle tribune dei vip nella giornata inaugurale. Quello che conta è lo spettacolo, l’emozione della gara, la fierezza nazionale per la vittoria. E gli assenti finiscono persi nell’oblio.
Tanto più questo rischio è reale in un’Olimpiade che per Vladimir Putin deve simboleggiare agli occhi del mondo la rinascita della Russia come grande potenza mondiale, degna erede di quella che fu l’Urss prima del 1990 e che lui sempre rimpiange. Vancouver, per restare a una situazione geofisica assimilabile, costò circa 8 miliardi di dollari. Sochi arriverà a superare i 51 miliardi (il preventivo era 9, ma i costi si sono dilatati strada facendo, anche perché la corruzione è stata non meno spettacolare degli impianti che sono stati costruiti). Con molta ironia il blogger dissidente Aleksej Navalnyj ha detto che l’autostrada che collega Sochi con Krasnaja Polyana, dove si terranno le gare, sarebbe costata meno se fosse stata lastricata con il caviale Beluga invece che con l’asfalto. Ma a parte gli sprechi e le contestazioni degli ecologisti per le trasformazioni e devastazioni ambientali, tutti i reportage concordano che le infrastrutture della XXII Olimpiade invernale sono molto spettacolari e susciteranno “oh” di meraviglia in tutto il mondo televisivamente collegato.
E, dunque, Putin non permetterà, grazie anche a un accurato controllo della regia televisiva, che le poltrone simbolicamente vuote di alcuni Grandi Assenti gli rovinino la festa. Le cancellerà visivamente, le ignorerà politicamente e le renderà di fatto irrilevanti. Mentre esalterà i presenti, ne farà una bandiera della sua forza. Il rischio che corre Letta è anche quello che la sua presenza venga strumentalizzata ed esaltata oltre la sua portata e le sue motivazioni (tra cui quella di tener fede a un impegno preso a dicembre, prima che il boicottaggio fosse generalizzato). Putin ha anche un buon modello di maquillage delle immagini al quale ispirarsi: Mosca 1980 (un anno dopo l’invasione dell’Afghanistan), quando al Cremlino, al suo posto, c’era Leonid Breznev, sublime esempio di maschera di cera con i canini aguzzi. Per questo il presidente russo non teme l’effetto politico del boicottaggio della cerimonia inaugurale. Lo preoccupano molto di più le minacce di attentati terroristici: un fallimento dell’apparato di sicurezza, che impegnerà, si dice, cinquantamila uomini, questo sì che sarebbe un disastro per l’immagine di Putin e per l’agognata rinascita della superpotenza russa.
Detti quali possono essere i motivi che hanno spinto Letta a decidere per il sì, vediamo le ragioni che avrebbero suggerito piuttosto un no conforme a quello dei principali alleati. Una è certamente quello dell’ambiente omofobo, anti-libertario dal punto di vista politico e legislativo in cui le gare della XXII Olimpiade invernale si svolgeranno. Enrico Letta ha promesso, parlando ieri dal Qatar, di levare a Sochi la sua voce contro ogni forma di discriminazione sessuale e razziale. Ma dovrà farlo con molta forza e determinazione comunicativa. Perché è ragionevole temere che il suo possa essere un lamento flebile nel coro prepotente di osanna, che il maestro Putin dirigerà con la maestria appresa alla scuola di dizinformatsija del Kgb.
La seconda ragione, la più pesante diplomaticamente, è che la presenza di Letta rompe, come si è detto, un fronte occidentale assai compatto. Hanno detto no il presidente americano Obama, la cancelliera tedesca Merkel, il premier inglese Cameron, il presidente francese Hollande, la vicepresidente della Commissione Ue Viviane Reding.
È vero che ci saranno il presidente cinese, il premier giapponese, il segretario generale delle Nazioni Unite. Ma è la distonia della posizione italiana rispetto a quella della maggioranza dei grandi Paesi europei che colpisce. Né basta a giustificarla la ragione che la partecipazione giova alla candidatura italiana per le Olimpiadi del 2024. Di questa eccezione italiana, tanto più vistosa in quanto avviene a sei mesi dall’inizio del semestre di presidenza della Ue, si è ben reso conto Putin, che l’ha giocata a suo favore facendola sbandierare dal Cremlino prima che l’annunciasse Palazzo Chigi.
Già è un errore differenziarsi dai principali alleati europei e occidentali, anche se la democrazia comunitaria non significa unanimismo. Ma almeno l’annuncio andava dato prima da Roma che da Mosca (anziché spiegarlo a posteriori dal Qatar). Da sempre in diplomazia la forma è anche sostanza.

Repubblica 4.2.14
Gas, petrolio e una ragnatela di affari ecco perché l’Italia dice “sì” alla Russia
E nell’apertura ai Giochi il nostro Paese resta solo
di Andrea Bonanni


BRUXELLES — La scelta di Enrico Letta di andare a Sochi è dettata da un ovvio pragmatismo politico. Questo, a sua volta, è reso necessario dagli enormi interessi economici e strategici che ci legano alla Russia. Ma non è solo una questione di portafogli. La tentazione del pragmatismo nei rapporti con Mosca è una costante geostrategica della diplomazia italiana. Fin dal tempo del «Patto di amicizia» firmato nel '33 dal regime fascista e da quello staliniano, l'Italia ha sempre cercato, e spesso avuto, un rapporto privilegiato con la Russia nonostante la lontananza geografica e la distanza politica che le ha spesso separate.
In questo caso le motivazioni che spingono il premier italiano ad andare da Putin sono almeno di tre tipi. Il primo, Letta lo ha spiegato chiaramente, è la necessità di guadagnarsi l'appoggio di Mosca per la candidatura italiana alle Olimpiadi del 2024. Non ci si può candidare ad ospitare le Olimpiadi e allo stesso tempo utilizzare i giochi olimpici per una battaglia politica, sia pur sacrosanta, come la difesa dei diritti degli omosessuali.
La seconda ragione è di ordine economico. L'Italia ha già perso in buona parte il treno cinese e non ha neppure cercato di saltare su quello indiano. Quella russa è una delle poche economie emergenti in cui invece il nostro Paese ha un ruolo importante e riconosciuto. Siamo il quarto partner commerciale di Mosca, dopo la Cina, l'Olanda e la Germania. La Russia è il nostro primo fornitore di gas e il secondo di petrolio. L'Eni ha enormi interessi strategici in quel Paese, a cominciare dal gasdotto South Stream che collegherà il Caucaso all'Italia aggirando l'Ucraina. I magnati russi stanno investendo pesantemente nell'economia italiana, da Gancia e Unicredit, e ancora di più potrebbero farlo in futuro. Un governo che sta per lanciare un grande progetto di privatizzazioni,
e che ha un disperato bisogno di investimenti, non può permettersi di voltare le spalle a simili potenziali clienti.
La terza ragione è politica e ha invece a che vedere con quella propensione al pragmatismo che abbiamo visto essere una costante della nostra diplomazia verso Mosca. Letta, come i suoi predecessori di destra e di sinistra, pensa che dalla Russia si ottenga di più con il dialogo che con il braccio di ferro. Anche sulla questione dell'Ucraina, l'Italia si colloca tra quei Paesi europei convinti che una soluzione della crisi si possa trovare solo tenendo in considerazione anche gli interessi della Russia e della importante componente russofila che esiste nell'Ucraina orientale.
Del resto, in una Unione europea che resta sostanzialmente divisa nel definire la strategia da tenere con Putin, l'Italia si trova in una posizione di relativo vantaggio che facilita l'approccio dialogante. Non abbiamo vissuto la drammatica esperienza dell'occupazione, che ha lasciato ferite ancora aperte nei nostri cugini dell'Est europeo, e malamente richiuse in Germania. Non abbiamo i retaggi antagonistici da ex grandi potenze, che ancora fanno capolino nell'atteggiamento di Francia e Germania. Non possiamo permetterci l'olimpica indifferenza che contraddistingue la Spagna, la Scandinavia e alcuni dei “piccoli” paesi europei.
Infine, anche se si tratta di un “non detto” che nessun premier italiano ammetterà mai pubblicamente, il dialogo di Roma con Mosca è in qualche modo incentivato dalla antica difficoltà italiana ad inserirsi a pieno titolo nel nocciolo duro dell'Europa e degli affari europei. Come Mussolini era incline a vedere nella Russia comunista, nonostante le differenze ideologiche, un'altra “vittima” dei Trattati di Versailles che posero fine alla I Guerra mondiale, così i suoi successori democratici sono sempre stati tentati di utilizzare Mosca come una sponda utile ad aggirare le vecchie e nuove diffidenze europee verso il nostro Paese. Si trattasse di energia, di industria automobilistica (ricordate le fabbriche della Fiat a Togliattigrad?), o anche solo di pura vanità personale (pensiamo al Berlusconi del vertice Nato di Pratica di mare), l'Italia ha spesso trovato nella Russia un interlocutore meno prevenuto dei nostri partner più vicini e più stretti. E la Russia ha sempre trovato nell'Italia un partner più malleabile e ben disposto degli altri “grandi” europei.
La questione delle olimpiadi di Sochi non si discosta da questo modello. Se poi sarà più utile per la causa dei diritti omosessuali la presenza di Letta o l'assenza della Merkel, è difficile dirlo. Di certo la missione del presidente del Consiglio potrà aiutare un Paese come il nostro che sta facendo sforzi enormi per non sparire dal consesso dei grandi. E che in questa battaglia non è certo aiutato dai nostri partner europei.

Corriere 4.2.14
L’idea di Abu Mazen: la Nato in Palestina e noi smilitarizziamo
Il leader dell’Anp rilancia il piano Usa
di Davide Frattini


Aveva accettato la proposta già nel 2008: soldati Nato da dispiegare in Cisgiordania (e se possibile a Gaza). Ovvero nella futura Palestina. Adesso Abu Mazen rilancia il piano che era stato tratteggiato dal generale americano James Jones e che non è mai piaciuto agli israeliani. Cambiano i governi, non cambia la dottrina militare: sei anni fa Ehud Barak, il ministro della Difesa, aveva reagito con scetticismo. Il suo successore Moshe Yaalon è ancora meno disposto ad affidare la sicurezza del Paese a una forza internazionale, anche se guidata dagli Stati Uniti.
Il presidente palestinese lo sa benissimo. Nell’intervista al New York Times in cui riprende il progetto racconta di averlo proposto al premier Benjamin Netanyahu qualche anno fa. «Gli ho detto: “Se non ti fidi dei tuoi alleati, di chi ti puoi fidare?”. Mi ha risposto: “Solo del mio esercito”». Abu Mazen proclama al quotidiano americano di essere pronto a veder nascere uno Stato smilitarizzato, dove per le strade circola solo la polizia, anche se chi per ora comanda in una parte di quel territorio non è d’accordo: «La resistenza armata dei palestinesi è legittima, abbiamo diritto all’autodifesa» ribatte dalla Striscia di Gaza il portavoce di Hamas.
John Kerry, il segretario di Stato americano, vuole raccogliere qualche successo entro la fine del mese. Ha visitato Gerusalemme e Ramallah oltre dieci volte in un anno, ha bisogno di dimostrare che le trattative procedono. Le parole di Abu Mazen lo aiutano, anche quando il presidente alza a 5 anni — da tre — il periodo in cui le truppe israeliane possono rimanere in Cisgiordania a partire dalla firma dell’accordo. E concede: l’evacuazione delle colonie può seguire lo stesso calendario.
Il leader della Muqata non è invece pronto a compromessi su quella che sta diventando la richiesta più pressante avanzata da Netanyahu e dalla sua squadra di negoziatori: riconoscere Israele come lo Stato ebraico. «E’ fuori discussione», ha ribadito al New York Times . E ha mostrato il plico che si porta dietro da distribuire agli incontri diplomatici: le 28 pagine includono una lettera firmata nel 1948 dal presidente americano Harry Truman in cui le parole «Stato ebraico» sono cancellate e sostituite da «Stato d’Israele»; dichiarazioni di David Ben-Gurion, padre-fondatore di Israele.
Da Netanyahu per ora non sono arrivare reazioni alla proposta di dispiegare le truppe Nato. Sul rifiuto del riconoscimento ancora una volta ha attaccato: «Una posizione assurda».

La Stampa 4.2.14
Il piano di Abu Mazen
“La Nato protegga i confini della Palestina”
di Maurizio Molinari

qui

Repubblica 4.2.14
Nella fabbrica di Scarlett che rischia il boicottaggio
L’impianto dell’israeliana SodaStream è nei Territori palestinesi
E anche la Johansson che le fa da testimone è finita sotto accusa
di Fabio Scuto


MISHOR ADUMIM La fabbrica della discordia è appoggiata sopra una collina arida e desolata. Sull’altura a fianco svettano le villette a schiera di Ma’ale Adumim — l’insediamento più grande attorno a Gerusalemme con oltre 30 mila abitanti — tirate su in questi ultimi dieci anni dai muratori palestinesi ingaggiati a giornata da piccoli costruttori israeliani. È una zona riarsa dal sole e battuta dal vento caldo, percorsa dai pastori beduini che con le loro greggi ancora attraversano queste alture che annunciano il deserto. Siamo nella cosiddetta “zona C” della Cisgiordania, sui cui destini da anni è bloccato il negoziato di pace e che provoca le scintille nei rapporti fra Israele, Anp, Stati Uniti e Europa. Non ci sono insegne, ma l’impianto della SodaStream è ben visibile. La fabbrica è qui da 22 anni, ma dopo l’accattivante spot pubblicitario con Scarlett Johansson, si è attirata gli strali del movimento globale pro palestinese “Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni” che ha chiesto all’attrice di fermare subito la sua collaborazione con un’azienda dalle “bollicine insanguinate”.
Prova a sorridere Maurice Silber, l’advisor del presidente di questa multinazionale, facendo strada nell’impianto che lavora a pieno ritmo perché il “prodotto” è un successo internazionale dalla Cina all’Europa, dal Sudafrica agli Stati Uniti. «È basato su un’idea semplice: con l’acqua del rubinetto chiunque a casa si può fare la sua minerale con le bollicine e 156 altre bevande, al gusto di cola, arancia, tamarindo, menta...» a un prezzo irrisorio. Senza fare nomi c’è di che far tremare diversi colossi mondiali delle bibite, che seguono con qualche ansia il rapido sviluppo di SodaStream e la sua ascesa al Nasdaq di New York.
«Venga, entriamo nel reparto di assemblaggio del prodotto», dice Silber aprendo l’ingresso di una delle quattro-cinque differenti installazioni. All’interno un centinaio di operai, in tuta con logo dell’azienda, lavorano al montaggio. «In questa fabbrica lavorano 1.300 persone, ed è una composizione mista, di cui 900 musulmani e di questi circa 500 con carte di identità dell’Autorità nazionale palestinese e altri 400 arabi israeliani.
Ma ci sono anche israeliani, russi, etiopi e altre provenienze».
Tutti, sottolineano dalla direzione dell’impianto, ricevono prestazioni sociali in conformità
con le leggi israeliane; «inclusi contributi pensionistici e assicurativi, e poi anche altri benefit lavorativi: pasti caldi, abbigliamento, trasporto, e straordinari pagati
al 200% come stabilisce la legge israeliana, qui come negli altri 8 impianti uguali a questo presenti in Israele».
Respinge al mittente le critiche piovute sull’azienda «e possiamo dimostrarlo con i fatti», spiega Yossi Arazzar, direttore operativo di SodaStream. «Noi la vera pace la facciamo qui, questa fabbrica è uno splendido esempio di coesistenza pacifica che conduce a una prosperità economica da cui tutti traggono vantaggio, vengono rispettate le festività di tutte le confessioni religiose e favoriamo lo scambio culturale, come testimonia il fatto che non abbiamo mai ricevuto minacce».
Forse i più stupiti di tanta attenzione attorno a “questa” fabbrica sono proprio gli operai palestinesi. In una delle sale dove si inscatolano gli apparecchi finiti, Jibril S. — un palestinese di 28 anni, sposato con due figli, e altri 4 parenti da mantenere — racconta: «Se la fabbrica chiudesse sotto la pressione del movimento Bds, i palestinesi non avrebbero altra possibilità di lavorare, mentre gli israeliani potrebbero certamente trovare un impiego altrove. Qui veniamo da Hebron, Ramallah, Gerico, Gerusalemme Est. In fabbrica non c’è discriminazione e lavoriamo tutti insieme. Ed è la cosa migliore». Il salario? «È uguale per tutti, di base sono 5.500 shekel (circa 1200 euro) al mese».
Delle polemiche di questi giorni Jibril non sa nulla e Scarlett Johansson non l’ha mai vista nemmeno al cinema e a Ramallah nessuno ha visto l’altra notte lo spot al SuperBowl. L’attrice, dopo le polemiche sullo spot pubblicitario che la vede protagonista, ha deciso di non essere più dopo 8 anni ambasciatrice dell’ong Oxfam, il gruppo umanitario internazionale che condivide in parte le posizioni del Bds e che ha ritenuto incompatibile la posizione dell’artista. Lei ha parlato invece «di fondamentale divergenza di opinioni sul boicottaggio ad Israele». «La signora Johansson verrà presto a vedere con i suoi occhi questa fabbrica», conferma Arazzar.
Il problema non è cosa produce SodaStream, ma dove viene prodotto e cioè l’Area C, sui cui destini lo scontro diplomatico internazionale ogni giorno diventa più duro. «Sgombriamo il campo da molte inesattezze», spiega ancora Maurice Silber, «non abbiamo avuto nessun finanziamento né aiuti» — anzi i rapporti sono abbastanza tesi fra la società e il governo di Benjamin Netanyahu — «ma certo se un domani questa zona passasse sotto controllo dell’Anp, non è detto che ce ne andremmo. Abbiamo 25 impianti in tutto il mondo, mi chiedo perché non dovremmo averne anche in Palestina».

Corriere 4.2.14
Diritto di famiglia, Parigi rinvia la legge
Dopo il corteo di domenica che ha riunito nella capitale i «Tea party alla francese»
di Cecilia Zecchinelli


Ieri il governo ha rinviato l’esame di un contestato progetto di legge sulla famiglia
Hanno vinto loro: i tradizionalisti, i benpensanti, i difensori della morale, i conservatori cattolici ma pure musulmani, o come ora va di moda chiamarli, i Tea party à la française. Il progetto di legge sulla famiglia sponsorizzato dal governo socialista di Jean-Marc Ayrault non verrà discusso dal Consiglio dei ministri in aprile e presentato in Parlamento entro fine anno, come previsto, ma rimandato a data da destinarsi. «I lavori di preparazione non sono conclusi, devono proseguire», ha detto ieri il premier aggiungendo che i ministri e l’Assemblea «hanno un calendario già molto denso». In realtà è un’evidente marcia indietro dopo le manifestazioni di domenica guidate dal movimento anti-gay e anti-famigliofobia (dicono loro) Manif pour Tous, che ha portato in piazza a Parigi e Lione decine di migliaia di persone al grido di «Famiglia, patria, lavoro»: 100 mila secondo la polizia, 540 mila secondo gli organizzatori. Il «progetto resta sul tavolo», ha precisato ieri Matignon, ribadendo che non avrebbe comunque incluso due delle misure più avversate dalla destra arrabbiata, attivatasi dopo l’approvazione della legge sulle nozze gay nell’aprile 2013. Sia sull’utero in affitto (ora proibito) sia sull’estensione a coppie lesbiche della procreazione assistita (permessa attualmente solo a coppie eterosessuali sposate e senza ricorrere a donatori), il presidente François Hollande in persona si era già detto contrario, cercando di calmare l’allarme.
La nuova normativa avrebbe invece dovuto affrontare diversi temi legati alla nuova realtà delle famiglie allargate, le adozioni internazionali e l’accesso a informazioni sui propri genitori biologici per i bambini nati da procreazione assistita. Tutte novità che Manif pour Tous e i suoi seguaci non hanno mai gradito, come hanno dimostrato di non gradire la sperimentazione avviata da settembre in 600 scuole di un programma di educazione all’eguaglianza e al rispetto tra i sessi, accusando il governo e gli organizzatori di incitare così i bambini all’omosessualità e alla masturbazione. Nelle scorse settimane era stato tale programma, chiamato «Abc dell’uguaglianza», a riaccendere le proteste, prima sui siti e nelle scuole, con il ritiro di molti bambini, poi in riunioni culminate nelle manifestazioni di domenica. L’Abc va avanti, per altro con l’approvazione del 53% dei francesi, ma i conservatori ora possono almeno gioire per lo slittamento della legge-famiglia. «È una grande vittoria, sono felice», ha infatti commentato ieri Ludovine de la Rochère, presidente di Manif pour Tous, 43 anni e quattro figli, cattolicissima e già responsabile della comunicazione della Conferenza episcopale francese. «Quello che si delineava in questo progetto di legge non era favorevole al superiore interesse del bambino e della famiglia, protestando abbiamo fatto capire che siamo persone rispettabili».
Furiosa invece la Gauche, che si sente tradita. Il fondatore del Partito della Sinistra Jean-Luc Mélenchon ha parlato di «ripudio e inganno» e accusato i socialisti di «coccolare la destra, ammirare la Confindustria e accarezzare la Chiesa», chiedendo poi di tornare alle urne. Gli ecologisti di Europa Ecologia-I Verdi(Eelv), nella coalizione di governo, tramite la loro leader Emmanuelle Cosse hanno denunciato la «rinuncia desolante seguita alla mobilitazione del campo reazionario». E anche alcuni deputati socialisti non hanno nascosto la delusione, come Jean-Luc Romero che ha twittato: «Incredibile che la manifestazione della regressione in rappresentanza di una minoranza di francesi imponga il suo diktat agli eletti della République» .

Corriere 4.2.14
Dopo le proteste la Francia rinvia la riforma della famiglia
Re illuministi contro il popolo
L’eterna Rivoluzione Francese. Nelle polemiche di questi giorni tornano le antiche divisioni
di Massimo Nava


In un clima esasperato, la Francia vive uno psicodramma collettivo attorno all’uso di parole che investono la condizione umana, i diritti dei cittadini, lo spirito delle leggi e che — una volta sulle barricate — dividono le coscienze e mettono i francesi gli uni contro gli altri. La dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, di cui la Francia è la patria, potrebbe di questo passo essere reintitolata «dichiarazione universale dei diritti dell’uomo e della donna» e — per essere più aderenti al clima di questi giorni — della donna e dell’uomo. Rigorosamente in ordine alfabetico, ammesso che non si voglia sottolineare anche l’indifferenza sessuale.
Prospettiva non così paradossale, se si prendono alla lettera proposte del governo socialista e norme in discussione nella sfera della società civile e della famiglia: parità di genere, abolizione del concetto di «buon padre di famiglia», introduzione della dizione «genitore 1 e genitore 2» nel caso di figli adottati da coppie omosessuali, progetti per educare i bambini a liberarsi dagli stereotipi sulle differenze sessuali. La «rivoluzione» linguistica e culturale è conseguenza di una rivoluzione del codice civile che ha introdotto il matrimonio fra persone dello stesso sesso e che potrebbe preludere al diritto per tutti alla fecondazione assistita e alla fecondazione per procura, ossia l’«utero in affitto». Su questi ultimi due punti il governo frena, ma come negare un nuovo diritto universale nella patria dell’égalité?
Dopo la grande mobilitazione, il governo ha deciso di rinviare all’anno prossimo l’esame del progetto di legge sulla famiglia. Un passo che può essere interpretato come un segnale di debolezza, ma che sembra piuttosto dettato da buon senso. Non solo per la delicatezza della materia, ma anche per non appesantire un clima già esasperato da ben altre problematiche di natura sociale ed economica.
Domenica, nelle piazze della Francia, si sono mobilitate le forze contrarie a quella che ritengono una deriva distruttrice dei valori della famiglia e, in un’ultima analisi, dei valori nazionali. Uno schieramento eterogeneo, in cui si mescolano moderati e reazionari, in una confusione di slogan e parole d’ordine che contengono anche malcontento populista, un po’ di razzismo e omofobia e l’ombra lunga del Fronte nazionale di Marine Le Pen. L’altra Francia — quella che ritiene di marcare un’ulteriore tappa nell’evoluzione progressista dei costumi del Paese — reagisce con giudizi sprezzanti, teme una versione francese dei «Tea party» americani, intravede il fantasma di Pétain che attenta ai valori della Repubblica laica. Insomma la butta in politica: da una parte la conservazione, dall’altra la Francia di Hollande, nel solco di Mitterrand.
Ma la faccenda è più complessa e il governo di Hollande, di fronte alla mobilitazione di massa e ai rischi di lacerazione sociale, sembra averlo compreso. La sinistra non condivide in blocco l’approccio radicale di molti esponenti del governo socialista. L’opposizione gollista, che ha nel suo Dna le libertà civili, non si è mobilitata a fianco dei «difensori» della famiglia.
Traspare un genere di contrapposizione che ha segnato la storia del Paese dai tempi della Rivoluzione: la provincia contro la capitale, giacobini contro girondini, la Francia popolare contro le élite intellettuali — straordinariamente efficaci nello stabilire, in salotto, il bene comune e teorizzarlo sui giornali.
Non è scesa in piazza soltanto una Francia reazionaria e omofoba, ma anche una Francia che ritiene insopportabile la tentazione molto francese di legiferare su tutto, il vizio cartesiano-monarchico di rendere riconducibile alla norma — e quindi alla dimensione immanente dello Stato — le scelte private dei cittadini, la presunzione di codificare diritti individuali in materie che toccano la sensibilità di minoranze o addirittura di maggioranze. In tema di parità, peraltro, nessuno dà il buon esempio.
Come sempre avviene in questi casi, gli estremismi rischiano di confondersi. L’«indifferenza dei generi» alimenta, per reazione, il pregiudizio omofobo e la propaganda più ottusa. Il sacrosanto principio della parità fra sessi vorrebbe stabilire grottesche spartizioni di posti anche nell’Olimpo delle più alte personalità della cultura e della scienza. L’affermazione di diritti biologici per tutti — come ha detto l’accademico Jean Clair — avrebbe fatto in un’altra epoca la felicità dei nazisti.
L’introduzione di norme che modifichino il linguaggio per codificare l’evoluzione dei comportamenti e della mentalità collettiva sembra non tenere conto che il linguaggio è appunto la forma della complessità sociale: l’espressione di identità e diversità, di cultura tollerante e valori condivisi. Si dice «lingua madre», ma non è detto che la definizione resista nella Francia di Hollande.

Repubblica 4.2.14
Il Nouvel Observateur sotto l’ala di Le Monde
Il settimanale francese fondato da Jean Daniel acquistato dagli editori del quotidiano
di Giampiero Martinotti


PARIGI A quasi cinquant’anni dalla sua fondazione, il Nouvel Observateur cambia  padrone. Il settimanale della sinistra riformista entra nella costellazione di Le Monde, nuova tappa nella costruzione di un grande gruppo editoriale controllato da un trio originale: Pierre Bergé, pigmalione e manager di Yves Saint Laurent, Matthieu Pigasse, il banchiere che dirige Lazard, e Xavier Niel, enfant terrible della telefonia francese, il più popolare imprenditore transalpino. Tre ricchi signori progressisti, che dopo aver salvato il quotidiano del pomeriggio, hanno deciso di prendere il controllo del settimanale fondato da Jean Daniel (93 anni) e Claude Perdriel (87 anni). Quest’ultimo ha deciso di vendere per una cifra bassa, appena 13,7 milioni, quello che considera come «l’opera della sua vita». Un prezzo ridotto per via delle richieste dello stesso editore: Perdriel manterrà una quota del 35 per cento, avrà un diritto di veto su eventuali licenziamenti, ha mantenuto la possibilità di dire la sua sulla gestione della testata e in particolare sulle copertine, resterà direttore del supplemento tv e Parigi, ha fatto mettere per iscritto al trio Bnp (Bergé-Niel-Pigasse) l’obbligo di non rivendere le loro azioni per almeno sei o dieci anni. Se non ci saranno intoppi, la vendita dovrebbe essere formalizzata in settimana.
Malgrado i nuovi proprietari appartengano alla stessa area politica e il loro impegno ad accettare la carta deontologica del settimanale, la redazione è in fermento e i recenti scontri tra Perdriel e il direttore della redazione, Laurent Joffrin, illustrano la tensione creata dai movimenti nella proprietà. Il Nouvel Observateur ha sempre vissuto sotto l’ala protettrice di Perdriel, un industriale con il pallino dell’editoria, che ha coccolato i suoi redattori: «La mia gestione è troppo lassista, perché mi piacciono i giornalisti». Mai un licenziamento, né uno stato di crisi. Il settimanale guadagnava soldi o altrimenti l’editore ripianava i debiti. Ma oggi, con la crisi strutturale che ha investito la carta stampata, bisogna rinnovarsi, cambiar modo di pensare, rifondare l’impianto del settimanale. Un compito difficile da assumere per un uomo di 87 anni, che ha subito individuato nel quarantaseienne Niel, considerato da alcuni una sorta di Steve Jobs francese, l’uomo giusto per assicurare il futuro della sua creatura.
Il passaggio in nuove mani, tuttavia, non sarà indolore. Il trio Bnp ha già dimostrato a Le Monde che le idee progressiste non fanno dimenticare il rigore gestionale: poco prima di Natale, Bergé, che presiede il consiglio di amministrazione, ha strigliato i vertici del giornale. Con un discorso senza ambiguità: «Abbiamo lanciato una ciambella di salvataggio e siete risaliti sul battello. Che adesso prende acqua di nuovo: bisogna aggottare, buttarla fuori». Poi ha proseguito minaccioso: «Ci vogliono dimissioni, volontarie o forzate. O lo fate voi o lo faremo noi e sarà ancor più sgradevole. Il degrado dei conti è inaccettabile». I nuovi soci non saranno certo disposti a sopportare le perdite del settimanale (7 milioni).
E sullo sfondo si staglia l’ipotesi di un cambio della guardia alla direzione del Nouvel Observateur.
I rapporti tra Perdriel e Joffrin si sono deteriorati, come dimostra lo scontro della settimana scorsa sulla copertina del settimanale, rivelato da Libération.
Niente di politico, visto che il tema era dedicato ai diplomi. Ma un braccio di ferro sulla grafica: una ragazza bionda su sfondo bianco o una bruna su sfondo blu? Perdriel ha imposto la sua idea, Joffrin ha replicato con una mail alla redazione seguita da una contro-replica dell’editore, fortemente critica contro le scelte di Joffrin. Il passaggio di proprietà si annuncia delicato per tutti.

Repubblica 4.2.14
Angela e i demoni
La Germania reclama il ritorno alle armi
Vuole impegnarsi di più sulla scena globale, anche con azioni militari
Una svolta voluta dalla Merkel e appoggiata dal presidente Gauck.
Ma non tutti sono d’accordo, perché le ombre di due guerre mondiali vivono ancora nell’inconscio collettivo del Paese
di Andrea Tarquini


BERLINO Occorre impegnarsi di più sulla scena mondiale, anche con azioni militari a fianco degli alleati, occorre immischiarsi: per noi è un dovere, nasce dal nostro peso e ruolo, hanno detto uno dopo l’altro ai vertici governativi. Tutti, con diverse sfumature: la cancelliera Angela Merkel e la ministro della Difesa Ursula von der Leyen, il capo della diplomazia Frank-Walter Steinmeier e infine il capo dello Stato, l’ex dissidente dell’Est Joachim Gauck. Ma proprio contro di lui, che alla conferenza di Monaco sulla sicurezza aveva chiesto più impegno nel mondo, anche militare, ieri è stato un fuoco incrociato d’attacchi, irritazione e prese di distanze. Anche dai ranghi della maggioranza: «Il presidente non detta la linea politica», ha ammonito Peter Gauweiler, l’ideologo ultraconservatore della Csu bavarese. «Se un presidente americano, russo o giapponese avesse chiesto più impegno militare per ragioni etiche, avrebbe destabilizzato il mondo».
Non è un’ubriacatura militarista, non è voglia di colpire da soli. È la “cool Germania” dei Mondiali di calcio che accettò la sconfitta, e delle feste rock della gioventù europea a Berlino quella che vuole più impegni militari, da potenza adulta: un paese irriconoscibile rispetto ai tempi del Kaiser e di Hitler. Ma è comunque una svolta enorme, tanto che non solo Linke e Verdi ma anche i Liberali, nel campo dell’opposizione, accusano Gauck e gli altri fautori di un maggior impegno militare di «volere un’altra Repubblica». Per la prima volta dal 1945, l’establishment tedesco non vuole più assistere inerte mentre soldati americani e britannici, francesi e italiani, muoiono al fronte nelle missioni
internazionali. Non possiamo mostrare leadership solo nel salvataggio dell’euro, è il messaggio: dobbiamo deciderci a usare le armi a fianco dei partner, potenza a pari dignità.
Il passo della svolta è graduale, qui a Berlino. I sondaggi consigliano prudenza, e ispirano le dure critiche a Gauck. Gli alleati premono invece per scelte chiare. È il paradosso della Germania, democrazia alle armi: l’incubo del passato del Kaiser e poi di Hitler, le due guerre cominciate e perdute, è svanito dalla memoria di partner e vicini. Ma pesa nell’inconscio collettivo dei tedeschi. Quasi due terzi degli elettori sono contro ogni missione militare. I vecchi ricordi del pacifismo dell’Ovest nella guerra fredda, “Frieden schaffen ohne Waffen” (costruire la pace senza armi) restano vivissimi nell’opinione pubblica. Quando i radicali della Linke (la sinistra massimalista erede della dittatura di Berlino Est), accusano il presidente Gauck di «preparare il terreno a una militarizzazione della politica estera», pronunciano un nonsenso blasfemo, ma sanno di trovare ascolto. E quindi, la Germania alle armi procede con passo di piombo.
Primi annunci di missioni, ma maida soli, sempre e solo insieme agli alleati. A cominciare dall’Africa, ecco la grande novità: nella Repubblica Centrafricana, ma in modo più diretto e da impegno al fronte in Mali, la Bundeswehr si prepara a sostenere i francesi. «Noi abbiamo il dovere d’immischiarci di più nelle crisi internazionali», ha detto Angela Merkel. Il suo ministro degli Esteri, il socialdemocratico Frank-Walter Steinmeier, non è stato meno chiaro: «La cultura della prudenza militare non può diventare cultura di chi vuole tenersi comodamente fuori dalle crisi affrontate sul campo dagli alleati». In sintonia con Steinmeier, la nuova, ambiziosa ministro della Difesa, Ursula von der Leyen, possibile erede di “Angie”, ha sottolineato che un maggiore impegno internazionale del paese non può escludere, anzi dovrà comprendere, missioni militari di pace. Il «patriottismo costituzionale», l’orgoglio per la Costituzione più pacifista del mondo come Juergen Habermas lo definì, non tramonta ma si corregge.
L’opinione pubblica frena, finora negli ultimi anni le élites politiche l’avevano seguita: dal no alla guerra di Bush in Iraq al no all’intervento anglofrancese contro Gheddafi. Ma adesso, nonostante gli attacchi a Gauck, l’atmosfera è quasi da consenso bipartisan. «L’atteggiamento di chi dice “per favore senza di me” non è più accettabile», afferma Clemens Wergin, editorialista al liberalconservatore Die Welt, «non possiamo agire da superpotenza a livello dell’eurozona o europeo e poi comportarci come una grande Svizzera… e non c’è nulla di sospetto se la Germania dapprima definisce da sola i suoi interessi nazionali, poi li discute con i suoi alleati». Per Malte Lehming, columnist del progressista Der Tagesspiegel, «gli Stati sovrani hanno un esercito per difendere se stessi e i propri interessi, con una sola eccezione: la Germania… ma forse ora la Germania sovrana sta diventando adulta, esce dall’eterna pubertà».
Germania alle armi, cento anni dopo l’inizio della Grande guerra. E quasi mezzo secolo dopo la guerra in Vietnam, quando gli Usa tentarono invano, in segreto, di ottenere reparti speciali tedeschi in rinforzo. Germania alle armi in ben altro contesto, certo: insieme agli alleati, non da sola o con altre monarchie autocratiche come ai tempi degli Hohenzollern e degli Asburgo, per non parlare di ricordi peggiori. E a nemici e vittime di ieri questa Berlino non fa paura: «Temo più una Germania debole e inerte che non una Germania forte e leader, e vedo che le cose si stanno muovendo», ha affermato il ministro degli Esteri polacco, Radoslaw Sikorski.
Sarà un passaggio duro: la Bundeswehr (le forze armate federali) lotta ogni giorno con i bilanci stretti dell’austerità. A casa, come al fronte in Afghanistan o nei Balcani. Intanto già oggi, tra soldati in prima linea e veterani, la sindrome del reduce si fa strada, diventa tema quotidiano dei colloqui nel paese reale e argomento in prime time
dei media. «Non dimenticherò mai quel venerdì delle ceneri del 2010, quando vidi morire tre commilitoni… provammo invano a curarli all’ospedale da campo, poi toccò a me metterli nelle bare d’alluminio… tornato a casa dal fronte, non riuscivo a parlarne con nessuno», confessa il caporale Severin Jaacks. «Tornata dalle missioni a Gibuti e in Afghanistan, sono cambiata, la voglia di spendere con lo shopping mi è scomparsa
dalla mente», narra Melanie Baum, sottufficiale in servizio sulla fregata “Sachsen”, la più moderna della Bundesmarine. E forse il più triste di tutti è il sergente Thorsten Gehrk, anche lui reduce da Kabul: «Il rimprovero, il senso di colpa, non mi lasciano più da allora, ogni notte mi dico che avremmo potuto salvare almeno uno dei nostri soldati che ho visto cadere al fronte… il mio ego è rimasto in Afghanistan». La Germania che sdogana la forza militare e va alle armi, la Berlino che non vuole più stare a guardare mentre dall’Africa all’Hindukush ragazzi americani e italiani, francesi e britannici cadono per missioni ritenute nell’interesse di tutti, è anche una società che fa i conti più di altre col dubbio, i ricordi, gli incubi dei suoi ragazzi e ragazze in uniforme. Con media e famiglie sempre in attesa del prossimo vecchio Transall di ritorno da Kabul, a bordo le bare d’alluminio avvolte nella bandiera.

Repubblica 4.2.14
Ma ora noi tedeschi siamo pronti a liberarci dai vecchi incubi
di Michael Sturmer


Il presidente federale Joachim Gauck non ha avuto gioco facile nel suo discorso d’apertura della Conferenza internazionale sulla sicurezza di Monaco. E non ha offerto gioco facile ai suoi ascoltatori, specialmente agli ascoltatori tedeschi. Tenendo un discorso di alto livello, ha parlato davanti alla “strategic community” internazionale della politica di sicurezza nei tempi pericolosi in cui viviamo. Ha saputo collegare la forza del realismo con la serietà di una politica estera e di sicurezza che non può fare altro che unire valori e interessi.
Sono passati i tempi in cui i tedeschi, a fronte di impegni militari lontani dalla patria, potevano nascondersi dietro il ricordo della dittatura nazionalsocialista, aspettandosi che i paesi vicini e quelli alleati mostrassero comprensione andando essi stessi a sopperire la mancata partecipazione della Germania. La Germania di oggi, come Joachim Gauck ha sottolineato, è la migliore Germania che il mondo abbia mai avuto nella storia passata e presente. Sessant’anni di diritti umani e democrazia come valori costitutivi permettono ai tedeschi, ha detto il capo dello Stato, di ripensare la paura di se stessi, paura che ieri come oggi si richiama al passato, ma esprimeva e continua a esprimere un comodo attendismo. Il presente, ha detto Gauck, pone i tedeschi davanti al problema di rispondere a responsabilità internazionali che derivano dalla necessità di difendere le istituzioni democratiche, da una fiducia in se stessi ormai adulta, e dalla consapevolezza della propria forza attendibile.
La Germania, nella crisi europea che stiamo vivendo, ha guidato e finanziato in modo essenziale, con convinzione profonda e con effetti positivi, la politica di salvataggio dell’economia dell’eurozona. Ma nel campo della classica politica di sicurezza, a parte gli impegni militari nei Balcani e sull’Hindukush (tra Afghanistan e Pakistan, ndr), l’esame di laurea deve ancora arrivare. Gauck si è spinto fino a evocare in modo critico i cosiddetti “caveat”, cioè i limiti posti alle azioni militari. È difficile che ciò gli porti applausi: la maggioranza dei tedeschi pensa ancora che oltre le frontiere nazionali esistano mercati per il nostro export, o belle località per le vacanze, ma nient’altro che questo. E il sottinteso di queste opinioni è che davanti a crisi qui o là nel mondo, per favore ci pensino gli altri a fare gli eroi. Americani, francesi, britannici, italiani in uniforme, ma per favore non noi.
Gauck non ha neanche ignorato quanto indicano i sondaggi, ovvero che per la maggioranza dei tedeschi è meglio che la Germania non faccia nulla in questa o quella crisi lontana, ma pericolosa per l’Occidente, e che invece lasci agli altri i lavori di rimozione del caos sul campo. La Germania fa molto meno di quanto corrisponderebbe al suo peso nel mondo. E fa anche molto di meno di quanto non corrisponda ai suoi interessi vitali nel commercio mondiale e nella diffusione mondiale della civiltà. Un altro presidente, Horst Koehler, solo per aver definito la difesa di vie del commercio marittimo e materie prime da parte della Nato e della Bundeswehr, fu investito da una tale mole di critiche da dover lasciare palazzo Bellevue (la sede della presidenza della Repubblica, ndr) sbattendo la porta.
Spero che Gauck abbia nervi più saldi. Ha detto chiaramente che sia la svolta, sia l’inazione nelle crisi internazionali hanno ciascuna il suo prezzo. È la classica situazione da supplizio di Tantalo quella che il presidente ha descritto: un paese che agisce si rende colpevole, ma anche chi non agisce.
È stato un discorso importante, quello di Gauck, per la Germania d’oggi e i suoi partner alleati. Senza soccombere alla political correctness, senza scegliere la comodità di ricorrere a frasi convenzionali. Ha pronunciato critiche decise allo status quo, anche ammonendo scuole, università e parlamento a occuparsi di più delle sfide della sicurezza globale, e a rafforzare i mandati degli interventi militari tedeschi — finora sono stati oltre duecento nel dopoguerra — con riferimenti e attenzione costante alla situazione mondiale. Non è né auto sopravvalutazione, né autoriduzione di se stessi a nani. Il discorso dell’uomo venuto dall’Est segna la sua presidenza così come il discorso di un altro capo dello Stato, Richard von Weizsaecker, che l’8 maggio del 1985 nell’anniversario della capitolazione della Wehrmacht per primo definì la disfatta nazista «il giorno della nostra Liberazione». Gauck è andato al limite del lecito visti i severi limiti costituzionali per il presidente federale, alcuni dicono persino che sia andato oltre. Gauck ha avuto il merito di parlare chiaro. Tutto ciò è bene per la Germania, e altrettanto bene per i suoi vicini.

Corriere 4.2.14
L’album di famiglia cattolico dell’utopia rivoluzionaria
Anche un’ispirazione religiosa alle radici del terrorismo
di Paolo Mieli


Lo snodo che consente di approfondire il rapporto tra cattolici e violenza politica nel secondo dopoguerra ha una data (7 luglio 1960), un luogo (il sagrato della chiesa di San Francesco di Reggio Emilia), e anche un nome: Lauro Farioli. Siamo nei giorni del governo presieduto da Ferdinando Tambroni e sostenuto dal Movimento sociale italiano. Le sinistre sono in rivolta dopo che a Genova, città medaglia d’oro della Resistenza, si è tentato, tra la fine di giugno e i primi di luglio, di celebrare il congresso del Msi. Celebrazione autorizzata dal governo. Ma una rivolta di piazza ha impedito che si tenessero le assise e la rivolta si è subito estesa ad altre città italiane, avendo a bersaglio, oltre al Msi, il governo stesso. A Reggio Emilia, il 7 luglio, la polizia spara e uccide cinque persone: Lauro Farioli, Afro Tondelli, Ovidio Franchi, Marino Serri ed Emilio Reverberi. Ancora nel 2010, cinquant’anni dopo, Silvano Franchi, fratello di Ovidio, ricordava così quei tragici accadimenti: «Quel pomeriggio ci fu premeditazione e gli omicidi furono portati a termine grazie a un’organizzazione impeccabile da parte dello Stato. Con la grave collaborazione del vescovo di allora, Beniamino Socche, che fece chiudere tutti i portoni delle chiese del centro. Così facendo precluse le vie di salvezza per i manifestanti». A cominciare da quel Farioli il cui corpo giacque, come si è detto, sul sagrato della chiesa di San Francesco. Ettore Farioli, figlio di Lauro, in un’intervista al «Resto del Carlino» del 7 luglio 2010, indicava ancora una volta nell’alto prelato il responsabile del terribile lutto che aveva colpito la sua famiglia: «Era tutto premeditato. I portoni delle chiese quel giorno erano chiusi, più di una persona me lo ha confermato. Il primo tentativo di mio padre è stato quello di entrare in San Francesco. Poi è caduto sul sagrato. Non potrò mai vedere la Chiesa come un’istituzione al di sopra delle parti». Imputato di queste ricostruzioni è sempre stato l’allora vescovo di Reggio Emilia Beniamino Socche, avversato dai comunisti fin dal 1946, quando aveva celebrato la messa funebre per don Umberto Pessina, ucciso da ex partigiani nonostante la guerra di Liberazione fosse finita da oltre un anno. Dai tempi del processo per la morte di don Pessina, Beniamino Socche non aveva mai cercato di occultare il suo anticomunismo e si era anche pronunciato per la messa fuori legge del partito di Palmiro Togliatti. Quel 7 luglio — secondo queste ricostruzioni — avrebbe fatto chiudere i portoni delle chiese per impedire che i «comunisti» scesi in piazza contro Tambroni potessero avere una via di fuga dai proiettili della polizia.
In un eccellente libro pubblicato per i tipi di Marsilio, Cattolici e violenza politica. L’altro album di famiglia del terrorismo italiano , Guido Panvini individua in quell’episodio il prologo della storia che ha ricostruito con impeccabile rigore. Impegnandosi ad integrare l’«album di famiglia» dei brigatisti rossi descritto da Rossana Rossanda alla fine degli anni Settanta. Nei giorni che avevano preceduto l’eccidio, ricorda Panvini, Socche si era espresso duramente sul comportamento dei manifestanti, «contribuendo», scrive, «a innalzare il clima di tensione». A commento dei primi incidenti, il 4 luglio, «La Libertà», settimanale della diocesi di Reggio Emilia, aveva così ammonito il partito di Togliatti: la «violenza genera violenza e non si può calcolare la forza di reazione che episodi come quello di Reggio Emilia possono provocare». Poi, subito dopo l’uccisione di Farioli e degli altri quattro, proprio mentre giungevano notizie di episodi analoghi in Sicilia, Socche volle esprimere la propria solidarietà agli agenti che avevano sparato. Nella relazione mensile della prefettura di Reggio Emilia del 3 agosto 1960 si legge: «L’autorità ecclesiastica ha voluto anch’essa far conoscere il proprio pensiero attraverso la viva voce del vescovo di Reggio Emilia mons. Beniamino Socche, il quale, nel corso di una conferenza tenuta presso il locale seminario alla parte più qualificata del clero, ha rivolto un plauso alle forze dell’ordine per aver saputo tutelare le istituzioni democratiche; dopo aver fatto rilevare la pericolosità e la violenza dimostrata dai comunisti nelle ultime manifestazioni di piazza, ha dichiarato che sono tuttora valide le condanne contro il socialismo emanate dagli organi responsabili della Santa Sede e che, pertanto, qualsiasi collaborazione col comunismo è condannata, come è condannata qualsiasi collaborazione col socialismo unito al comunismo». Un evidente sostegno all’azione di repressione dei moti. E un altrettanto evidente altolà al dialogo che si stava intrecciando tra Democrazia cristiana e Partito socialista italiano; dialogo che di lì a breve avrebbe portato alla caduta del gabinetto Tambroni e alla nascita di un governo presieduto da Amintore Fanfani, appoggiato (tramite astensione) dai parlamentari del Psi.
Qui entra in scena un protagonista della vicenda raccontata da Panvini: Corrado Corghi. Corghi, capo della federazione della Dc di Reggio Emilia, nella riunione della direzionale nazionale del partito che si tiene l’11 luglio, prendendo le distanze dal suo vescovo, condanna l’operato delle forze di polizia. Insinua addirittura che tra i poliziotti siano stati infiltrati amici e complici dei neofascisti. E partecipa ai funerali delle vittime dell’eccidio. Ciò che provoca l’irritazione di monsignor Socche, il quale se ne lamenta con il ministro dell’Interno, Giuseppe Spataro, chiedendo esplicitamente che vengano presi provvedimenti contro l’esponente dc della sua diocesi. «La chiusura delle porte della Chiesa di San Francesco e il corpo di Lauro Farioli davanti al sagrato», scrive Panvini, «assumono, in questo contesto, una valenza emblematica, a prescindere dalla possibilità di accertare se vi sia stata una deliberata decisione da parte delle locali autorità ecclesiastiche di sbarrare le chiese della città in occasione della manifestazione del 7 luglio». Già, perché nella ricostruzione è rimasto in ombra il fatto che monsignor Socche non ricevette nessun rilievo, neanche vago, dal Papa dell’epoca, Giovanni XXIII. Che Pasquale Marconi, deputato democristiano, tra i fondatori del Cln di Reggio Emilia, difese in quel frangente sia il vescovo che l’operato della polizia. Del resto, pochi giorni prima della strage di Reggio, il 1° luglio 1960, l’Associazione partigiani cristiani di Parma aveva denunciato fermamente i tentativi di comunisti e socialisti di «servirsi del nome della Resistenza stessa per inscenare agitazioni e rivolte di piazza, tese ad avvilire o sovvertire gli ordinamenti democratici». Non va dunque trascurata la circostanza che monsignor Socche si sentiva confortato da ex partigiani bianchi, i quali consideravano le manifestazioni contro Tambroni una strumentalizzazione dei sentimenti antifascisti da parte del Pci e un tentativo dei socialisti di forzare la mano alla Democrazia cristiana in vista della formazione di un nuovo governo «aperto a sinistra». In Senato, Raffaele Cadorna aveva sostenuto Tambroni, dimettendosi dalla presidenza della Federazione italiana dei Volontari della libertà, e allo stesso modo Mario Ferrari Aggradi, esponente di spicco del mondo partigiano cristiano, aveva accettato di sostituire alla guida del ministero dei Trasporti Fiorentino Sullo, che, ai primi di aprile, si era dimesso (assieme ad altri due titolari di dicastero: Giulio Pastore e Giorgio Bo) per protesta contro i voti determinanti del Msi. Socche per di più sostenne che le accuse formulate contro di lui da alcuni familiari dei morti di Reggio Emilia non avevano fondamento. Tant’è che don Emilio Landini, in tempi recenti, ha potuto così ricordare — senza peraltro ricevere smentite o puntualizzazioni — quella tragica giornata di luglio: «Il vescovo non aveva assolutamente emanato alcuna disposizione per la chiusura delle chiese. La basilica della Ghiara era aperta, come altre chiese della città, nonostante si trattasse di un primo pomeriggio di luglio. Chiusa invece era la chiesa di San Francesco, prospiciente la piazza dove sono avvenuti gli scontri. Chiusa volutamente per iniziativa del viceparroco (curato) di allora don Cesare Frignani, il quale tuttora ribadisce che, volendo prevenire tafferugli in chiesa, anche altre volte aveva preso la stessa precauzione in occasione di precedenti manifestazioni a rischio di degenerare».
Ma torniamo al luglio del 1960. Fino a quell’estate la Chiesa di Giovanni XXIII sembrava non voler scegliere tra i settori del mondo cattolico favorevoli e ostili al governo Tambroni. Il 19 aprile un articolo del giornale della Dc, «Il Popolo» (Il mito dello Stato forte ), a firma Giovanni Lupo, denunciò — in sottile polemica contro i sostenitori di Tambroni — i movimenti nell’ombra di «notevoli gruppi di “catilinari” nei più diversi partiti» che si attivavano per rafforzare «il potere esecutivo a discapito di quello legislativo». Il 18 maggio «L’Osservatore Romano» pubblicò l’articolo Punti fermi , in cui si ribadiva la condanna del socialismo (vale a dire anche del Psi). Alla fine di quello stesso mese parve che si materializzassero i «catilinari» di cui sopra, allorché i centri Luigi Sturzo organizzarono all’Angelicum di Roma un convegno, coordinato da Luigi Gedda, sul tema «La liberazione dal socialcomunismo». Al convegno presero parte Oscar Luigi Scalfaro, sottosegretario al ministero dell’Interno, e Giuseppe Rapelli, esponente della sinistra democristiana, assieme a Randolfo Pacciardi (in procinto di abbandonare il Partito repubblicano per i contrasti con Ugo La Malfa, favorevole al centrosinistra), a Gianni Baget Bozzo (fondatore di «Ordine civile», che auspicava un fronte anticomunista che andasse dalla Dc al Msi: «Tutto ciò che si oppone al comunismo, in quanto si oppone al comunismo, ha ragione di bene», scriveva), al direttore del «Borghese» Mario Tedeschi, ai missini Giulio Caradonna e Pino Romualdi. Scalfaro si compiacque del fatto che potessero lì «parlare insieme uomini che forse quattordici anni fa (quando era stata fondata la Repubblica, ndr) si poteva pensare fossero su posizioni inconciliabili». Garante del dialogo, secondo il futuro presidente della Repubblica, sarebbe stato il Vaticano, alle cui direttive i cattolici avrebbero dovuto conformarsi senza riserve: «Come figli devoti della Chiesa, quando la Chiesa ha parlato, se ne prende atto e si ubbidisce», disse Scalfaro. Ancor più avrebbe alzato i toni Enzo Giacchero, un altro parlamentare dc (che anni dopo approderà all’estrema destra), il quale aveva esortato a «combattere» nel nome dell’impegno «che ci deriva dalla morale e dalla dottrina della Chiesa». «Era chiara», scrive Panvini, «la strumentalità di questa retorica, ancor più evidente dato che il richiamo alla liceità dell’uso della forza alludeva non tanto alla ribellione, quanto, piuttosto, a un’azione di repressione preventiva da parte dello Stato di fronte all’avanzare delle sinistre nella società».
La Dc si irritò. E già il 27 maggio sul «Popolo» (organo democristiano) Raniero La Valle sconfessò quel convegno che, a suo giudizio, aveva fatto notizia solo per il fatto, sgradevole, di aver «mischiato» Sturzo con «Il Borghese». Ma quando poi si ebbero le manifestazioni e la reazione a fuoco della polizia destinata a provocare la caduta del governo Tambroni, «L’Osservatore Romano» pubblicò un articolo dal titolo Il Governo intende impedire che la piazza si sostituisca al Parlamento . Con un’«asettica cronaca» che, scrive Panvini, «poteva essere fraintesa e letta come indizio di una neutralità benevola del Vaticano nei confronti di Tambroni». Al momento delle manifestazioni di Genova, però, alcune federazioni democristiane avevano permesso l’afflusso dei propri militanti nel capoluogo ligure e lo stesso avevano fatto molte sezioni delle Acli e della Cisl. Ciò che generò nell’universo cattolico un grande disorientamento, per il quale due parti di quel mondo si sospettavano l’un l’altra di essere inconsapevolmente finite sotto la guida dei comunisti o dei neofascisti.
Sospetti destinati a perpetuarsi nel tempo. Nell’ottobre del 1961 il cardinale Alfredo Ottaviani, a capo della Congregazione del Sant’Uffizio e prefetto della Congregazione per la dottrina della fede, compì un viaggio in Spagna nel corso del quale rinnovò l’appoggio entusiasta della Chiesa al regime franchista. Nell’occasione il cardinale esaltò il ruolo avuto da Francisco Franco alla fine degli anni Trenta quando — sono parole sue — «furono rigettate dal sacro suolo della Spagna le orde devastatrici di ogni ordine cristiano e di ogni umana dignità e libertà». «Dirò di più», aveva proseguito l’illustre porporato, «con quelle gesta eroiche fu salvata non soltanto la Spagna, ma tutto l’Occidente cristiano dalla minaccia della schiavitù che veniva dall’Oriente… Fu dunque santa crociata che frenò in Occidente l’impeto assaltatore dei rossi, nemici della Croce di Cristo… Dobbiamo alla Spagna la prima resistenza, non soltanto armata, ma interiore e di pensiero a queste civiltà anticristiane che han tentato via via di abbattersi sul cristianesimo». Per poi concludere con parole di riconoscenza all’uditorio spagnolo: «La Chiesa sa cosa sono i vostri cuori; la Chiesa ha veduto con che eroica fortezza avete resistito a chi voleva strappare dal vostro cuore Cristo e dalla vostra terra la Croce». Tutto ciò, fa osservare Panvini, nel terzo anno di pontificato di papa Roncalli (il quale però veniva già allora indicato come nemico del cardinale Ottaviani). E qualche mese dopo l’enciclica giovannea Mater et magistra (luglio 1961), pur ribadendo la condanna dei regimi e delle ideologie socialiste, denunciava i danni del colonialismo e l’egoismo dei ceti privilegiati, lasciando intuire che la Chiesa a modo suo stava aprendo alle novità della decolonizzazione. Ancor più esplicita, in direzione di un’apertura di dialogo con i Paesi comunisti, sarebbe stata la prima enciclica di Paolo VI Ecclesiam suam , emanata il 6 agosto del 1964. In tal senso Paolo VI può essere considerato il vero Pontefice della svolta. Ma né quelle encicliche né i lavori del Concilio Vaticano II furono tali da dissipare i sospetti — da parte di quei settori del mondo cattolico che andavano avvicinandosi alla nascente sinistra extraparlamentare — che la Chiesa stesse scivolando a destra. Sul versante opposto encicliche e Concilio provocavano, per reazione, una radicalizzazione della destra cattolica, destinata ad alimentare altrettanti sospetti di «scivolamento» nei settori contrapposti.
Assai interessante, nello studio di Panvini, è la descrizione del contesto internazionale in cui si svolse questo complicato dibattito. Con un riferimento piuttosto esplicito alla guerra d’Algeria. Nell’oltremare francese era in atto una lotta di liberazione che nel 1962 avrebbe portato il Paese all’indipendenza. Ma che, nel frattempo, aveva prodotto, in Algeria, forme di terrorismo e di repressione particolarmente cruente. Nonché, in Francia, il colpo di Stato gollista del 1958. Di particolare rilievo fu a quei tempi la legittimazione teologica, compiuta dalla Cité catholique, delle brutali pratiche dell’esercito francese in Algeria, che costituì «uno dei principali punti di raccordo» tra questo movimento e gli ambienti militari più oltranzisti, decisi a mantenere il controllo sulla colonia. La Cité catholique, assieme alla rivista «Verbe», era stata fondata nel 1946 da Jean Ousset, già dirigente dell’Action française. Il gruppo propugnava «la difesa dell’Europa dalla minaccia del comunismo ateo che si era alleato all’islam per abbattere l’ultimo baluardo della cristianità occidentale in Nord Africa», di modo che le «quinte colonne sovietiche» in Francia avessero l’occasione «di “scattare” per prendere il potere». Secondo Ousset, «minacciando le fondamenta dell’ordine cristiano, i comunisti commettevano un crimine superiore a ogni altro e per questo motivo contro di loro ogni mezzo di repressione era lecito, compresa la tortura». Tesi che suggestionarono fortemente il mondo cattolico francese. E che legittimarono, come si è detto, gli ultras del colonialismo.
A farne le spese fu monsignor Léon-Etienne Duval, arcivescovo di Algeri, sostenitore della coabitazione tra francesi e algerini e, in quanto tale, oggetto di duri attacchi da parte degli estremisti che si erano dati come simbolo il Sacro cuore rosso sormontato da una croce. Interessante è la ricostruzione dell’influenza della Chiesa (o di parte di essa) sulle motivazioni ideali del tenente colonnello Jean-Marie Bastien-Thiry. Nel parlò lui stesso nel 1963, prima di essere fucilato per aver attentato, nell’agosto dell’anno precedente, alla vita di Charles de Gaulle: «Noi non siamo dei sovversivi e abbiamo agito per salvare delle vite umane innocenti, sacrificate da un potere tirannico. San Tommaso d’Aquino ci dice che ad essere sedizioso e ad alimentare nel popolo le discordie e le sedizioni è il tiranno, dal momento che il regime tirannico non è giusto e non ha come fine il bene comune: sono perciò degni di lode coloro che liberano il popolo da un potere tirannico. Noi pensiamo che gli eminenti ecclesiastici che abbiamo consultato e che non ci hanno dissuasi dalla nostra azione non abbiano fatto altro che ricordarsi dei comandamenti divini, del principio e del diritto di legittima difesa e della morale tradizionale insegnata dalla Chiesa».
Finita o in via di conclusione la guerra d’Algeria, nel mondo cattolico questo genere di considerazioni continuarono ad avere una qualche eco. Non irrilevante. Come anche, però, quelle di segno opposto. Il 25 aprile del 1961, il presidente dell’Eni, ex comandante partigiano cattolico, Enrico Mattei commemorava l’anniversario della Liberazione con queste parole allusive all’azione del Fronte di liberazione algerino: «Se allarghiamo lo sguardo ad altre terre, vediamo popoli al di là dei mari che ancora oggi lottano per la libertà. Noi ci sentiamo ad essi vicini, appunto perché la nostra esperienza ci ha reso particolarmente sensibili a questo dovere di comprensione umana. Dovunque un’invasione sia tentata, dovunque piccoli tiranni o grandi potenze minaccino di soffocare la libertà umana, la nostra reazione non può essere che di condanna». Condanna della Francia, beninteso. Poi Mattei entrava nello specifico e proponeva un paragone tra i «resistenti» italiani e quelli di Algeri: «Essi sono ribelli, o amici partigiani, è vero, come lo siamo stati noi quando fummo costretti a ribellarci contro la ingiustizia, la prepotenza e la sopraffazione, per la sacrosanta difesa dei diritti umani, e noi siam convinti che quando un popolo, bianco o di colore, combatte con tutta l’anima per la sua libertà, Dio è suo alleato». Questo, sei mesi prima delle parole di cui si è detto, pronunciate dal cardinale Ottaviani, di entusiastico elogio dell’esperienza franchista in Spagna. E sette mesi prima che su «La Vita cattolica», un periodico della diocesi di Cremona, si proponesse (il 28 novembre 1961), una maliziosa comparazione tra le tattiche sperimentate dai comunisti nella Resistenza e quelle adottate dai guerriglieri asiatici: «Ad essi (i partigiani del Pci, ndr ) risale la responsabilità di massacri di inermi popolazioni colpite dalla rabbia vendicativa delle SS tedesche aizzate con ben premeditate azioni di guerra dai rossi… Lo stesso metodo è stato attuato in Corea, in Cina, nel Laos, nel Vietnam». Come si vede, dal mondo cattolico venivano indicazioni tra loro fortemente contraddittorie.
Nel 1964 il segretario nazionale di Pax Christi, René Coste, promosse un convegno sul tema della coscienza cristiana al cospetto delle «nuove tecniche della sovversione comunista». «La Civiltà Cattolica» ne scrisse una recensione entusiasta. «Per Pio IX e Leone XIII», sosteneva la rivista dei gesuiti, «l’uso della violenza per rovesciare un regime, anche se tirannico e lesivo della legge naturale e dei diritti fondamentali della persona umana, era da intendersi come proibito dalla morale; per altri, invece — a capo della schiera sta san Tommaso d’Aquino —, a certe condizioni che si possono enucleare dal caso della legittima difesa, era da ritenersi legittimo. A questa opinione diede il suo autorevole suffragio Pio XI, nella lettera all’episcopato messicano del 28 marzo 1937… Il caso particolare allora discusso può, senza dubbio, presentarsi anche al tempo presente». Con il che ad ogni evidenza si intendeva proiettare quella presa di posizione di papa Ratti sulla situazione italiana degli anni Sessanta.
Nel 1964, il responsabile del dipartimento di Agitazione e propaganda dell’Urss, Leonid Illicev, annunciò una campagna antireligiosa accompagnata dall’istituzione nelle università di cattedre di ateismo. Paolo VI, che pure — come si è detto — fu il Papa che arginò la deriva più conservatrice della Chiesa, a quel punto provò a raffreddare anche la politica del dialogo con il mondo comunista. Ma quei cattolici che si erano avviati per i sentieri dell’interlocuzione con la sinistra proseguirono spediti il loro cammino: il loro giudizio sull’Unione Sovietica, fa notare Panvini, «venne formulato in parallelo a una serrata critica della democrazia liberale, accusata di essere subalterna ai poteri economici». Una critica «così viscerale da spingerli a una fondamentale omissione… Per quanto imperfetti e contraddittori, infatti, i sistemi democratici garantivano, comunque, i diritti politici e civili ai quali di fatto venne, invece, anteposta la “libertà sostanziale” dei regimi comunisti, considerata superiore alle libertà formali presenti in Occidente».
Siamo a metà degli anni Sessanta e inizia a delinearsi l’«album di famiglia» cattolico. Assai diverso da quello comunista di cui avrebbe parlato Rossana Rossanda. Nel senso che l’album cristiano prendeva forma in contrasto a una supposta deriva della Chiesa avvertibile nella confusione che caratterizzò la transizione da Pio XII a Giovanni XXIII e, successivamente, a Paolo VI.
Di modelli ne venivano da ogni parte del mondo. In Francia l’abbé Pierre, frate cappuccino, già cappellano nella Resistenza, fondatore della comunità Emmaus, difensore dei Tupamaros uruguayani e amico dei fondatori delle Brigate rosse, fu il primo a prendere in considerazione la via della lotta armata. Qualcuno ha sostenuto che sia stata, quella dell’abbé Pierre, un’iniziativa che faceva riferimento a «centrali internazionali della provocazione». Ma anche riguardo alla tesi che la scuola di lingue Hyperion, riconducibile all’entourage dell’abbé Pierre, fosse legata alla Cia o ai servizi segreti di mezzo mondo (formulate da Giovanni Pellegrino, Rosario Priore e Giovanni Fasanella), secondo Panvini, si tratta «di congetture e di interpretazioni basate su una documentazione spesso parziale e lacunosa, che per quanto suggestive sono in gran parte da provare».
In Italia fa scalpore a metà degli anni Sessanta il sostegno offerto dal sindaco di Firenze Giorgio La Pira (e da ampi settori della sinistra Dc) all’«eroica lotta dei vietcong» contro l’imperialismo statunitense. Altro personaggio di riferimento diviene padre Camilo Torres, guerrigliero dell’Esercito di liberazione colombiano caduto in combattimento nel febbraio del 1966, poco dopo aver lasciato l’abito talare ed essersi dato alla clandestinità. Nel 1966 la rivista francescana «Frères du monde» propone alla Chiesa di condannare la violenza «oppressiva» del capitalismo e di solidarizzare con quella «liberatrice» dei movimenti di guerriglia. Nel febbraio del 1967, prima che sia emanata l’enciclica Populorum progressio , si tiene in Francia la XIX Settimana sociale degli intellettuali cattolici, nel corso della quale l’arcivescovo di Parigi Pierre Veuillot denuncia la violenza insita nell’«ordine economico e sociale» delle democrazie, René Rémond quella che «giunge a degradare l’altro a rango di mezzo o di strumento in un piano che lo assorbe e lo ingloba» e il direttore di «Esprit» Jean-Marie Domenach punta l’indice contro la violenza «subdola, quella che si nasconde dietro l’abitudine, l’ordine, la galanteria dei salotti, l’anonimato degli uffici». Un insieme così suggestivo che nel giugno del 1967 Flaminio Piccoli (tra i più cauti dirigenti della Dc) poté scrivere su «La Discussione»: «Molti di noi se avessero l’occasione di entrare in intimo contatto con il mondo latinoamericano, sarebbero tentati di diventare guerriglieri essi stessi, come in realtà altre persone coscienti hanno fatto… Ogni collaborazione con le attuali classi dirigenti latinoamericane è inutile e assume l’apparenza di colpevole complicità; i cattolici del resto non sono nuovi alla lotta di opposizione ai regimi dispotici, la resistenza europea nel corso dell’ultima guerra ne è stata la prova migliore… È vero che in questo caso manca la premessa di un’azione bellica cui opporsi; i cattolici hanno però il dovere di opporsi a un’aggressione sociale quasi altrettanto violenta». E sono trascorsi appena sei anni dagli incondizionati elogi — di cui abbiamo detto — del cardinale Ottaviani al regime franchista.
Adesso è il momento in cui Pedro Arrupe, preposito generale della compagnia di Gesù, offre un’interpretazione assai ardita della Populorum progressio (marzo 1967); sono i giorni in cui 17 vescovi di Asia, Africa, America Latina ed Europa orientale sottoscrivono una lettera che invoca un maggior impegno della Chiesa per la giustizia sociale (settembre 1967); in cui si tiene una riunione di esponenti cattolici a Santiago del Cile, nella quale si spiega come la «violenza rivoluzionaria» sia in totale sintonia con gli insegnamenti del Concilio Vaticano II (dicembre 1967); in cui a Montevideo si svolge il convegno latinoamericano dal titolo «Cristianismo y Revolución» (febbraio 1968); in cui a Medellín, in Colonia, si ha la terza assemblea plenaria della Conferenza episcopale latinoamericana, che dà il la alla teologia della liberazione (27 agosto-7 settembre 1968). In alcuni casi, come in Brasile, frati domenicani prendono le armi. E dall’America Latina questi concetti e queste parole d’ordine rimbalzano rapidamente in Europa, soprattutto in Italia. «Colpisce», scrive Panvini, «il modo repentino con cui molti ambienti cattolici passarono dal sostegno alle pratiche e alle teorie della non violenza, all’ammissibilità della violenza rivoluzionaria». Praticamente all’epoca quasi soltanto Danilo Dolci, Carlo Cassola e i radicali di Marco Pannella tengono il punto. L’editoriale del settembre 1967 della rivista «Testimonianze» avanza espliciti dubbi sui metodi della non violenza così come erano stati pensati da Gandhi e da Martin Luther King, definendoli «poco utili al Terzo Mondo». Il 17 novembre 1967 inizia la grande stagione del movimento studentesco con l’occupazione a Milano della Cattolica. A Trento, nel febbraio del 1968, nove sacerdoti solidarizzano con gli studenti che occupano l’università, sostenendo che «la violenza prima e più colpevole è quella organizzata in sistema» e che «prima della collera dei poveri viene la sopraffazione dei ricchi». Nella stessa città, in marzo, lo studente Paolo Sorbi interrompe la predica di un sacerdote durante la messa e inaugura sul sagrato del Duomo i cosiddetti «controquaresimali». A Lecce accade qualcosa di analogo. La presenza di cattolici nelle manifestazioni studentesche e nelle leadership del movimento è ragguardevole. Persino i gruppi che si richiamano a don Giussani si lasciano contagiare. Ma non siamo ancora alla lotta armata. Qui torna in campo la figura di quel Corrado Corghi che abbiamo conosciuto come avversario, nel luglio 1960, del vescovo Socche. Corghi ha agito da agente di collegamento con gli irrequieti cattolici dell’America Latina, è diventato amico di Régis Debray, tra il 1967 e il ’68 è uscito dalla Dc. Il Pci guarderà a lui con cautela, il Psiup con grande apertura, Alberto Franceschini, uno dei primi brigatisti rossi, lo indicherà come un maestro. Corghi raccomanda ai ragazzi che si rivolgono a lui di seguire l’«imperativo evangelico»: «Noi cristiani siamo nati nella fede non per mediare tra i violenti e gli oppressi, tra i fascismi di ogni tempo e i torturati… noi siamo nati nella fede di Cristo per assumere tutte le responsabilità che ci vengono dalla nostra condizione di uomini di questo tempo storico… stai con l’oppresso e difendi l’oppresso, vivi nella condizione dell’oppresso se vuoi essere capace di lottare contro ciò che opprime». E il brigatista Franceschini dirà di aver raccolto questa esortazione. Anche se, scrive esplicitamente Panvini, «sarebbe errato indicare Corghi come il grande vecchio del terrorismo di sinistra». Dopo la deposizione e l’uccisione di Allende in Cile (11 settembre 1973), le compromissioni della Democrazia cristiana locale con il colpo di Stato di Pinochet fecero riapparire nelle menti di molti cattolici i fantasmi degli anni Sessanta. E si moltiplicarono le giustificazioni della lotta armata. A questo punto, scrive Panvini, «nonostante i distinguo, le specificazioni e le sottigliezze», si ha da parte di molti, come Giovanni Franzoni (ma non solo lui), «quasi una legittimazione indiretta di chi ha imbracciato le armi». Persino nei movimenti che fanno capo a don Giussani si ritrova qualcosa di «ambivalente».
Ma questa ambivalenza, che è poi di tutto il mondo cattolico, consentirà alla Chiesa (soprattutto per un ripensamento più profondo seguito all’uccisione, nel 1980, di Vittorio Bachelet) di essere pronta ad accogliere l’onda di riflusso dal terrorismo. C’erano stati già eventi particolarmente traumatici, primo tra tutti il rapimento e l’assassinio di Aldo Moro. Ma Panvini sceglie come data simbolica per la chiusura di questa indagine il 13 giugno del 1984, e di nuovo una chiesa, stavolta a Milano. Quel giorno un giovane consegnò al segretario del cardinal Martini, don Paolo Cortesi, tre borsoni pieni di armi provenienti dall’arsenale dei Comitati comunisti rivoluzionari. La lettera che accompagnava quegli attrezzi di morte riconosceva alla Chiesa «un ruolo esemplare per comprensione e disponibilità» e al cardinale «l’opera di riconciliazione, prima umana e sociale che politica, indicata a tutti con altrettanti inequivoci gesti». Da quel momento molti ex della lotta armata tornarono a casa, scegliendo percorsi indicati loro da sacerdoti. Ma l’interessante storia di questo ritorno di terroristi, accolti dalle braccia della madre Chiesa, è ancora tutta da scrivere.

Repubblica 4.2.14
Nuto Revelli e la strage censurata
A dieci anni dalla morte dello scrittore, alcuni appunti inediti rivelano le manovre politiche per “insabbiare” la realtà storica di un eccidio
Migliaia di soldati del contingente italiano in Russia scomparvero, vittime dei tedeschi, e si arrivò a negarne l’esistenza
di Massimo Novelli


Dieci anni fa, nella notte fra il 4 e il il 5 febbraio del 2004, Nuto Revelli moriva a Cuneo, la città in cui era nato nel 1919. Ufficiale degli alpini sul fronte russo, comandante partigiano nelle formazioni di Giustizia e Libertà, dopo la Liberazione diede voce attraverso i suoi libri, da Mai tardi a La strada del Davai, a Il mondo dei vinti, a L’anello forte, ai “senza storia”: dai soldati mandati dal fascismo a morire sul Don ai contadini poveri delle vallate cuneesi scarnificate dalla guerra, dalla fame, dall’emigrazione.
Era stata la tragica campagna di Russia, la carneficina dei nostri mi-litari, a segnarlo per sempre. Ritornato in Italia, ferito nel corpo e soprattutto nell’animo, all’indomani dell’armistizio dell’8 settembre 1943 non ebbe alcun dubbio su che cosa si dovesse fare: salì in montagna e cominciò la Resistenza contro i nazifascisti. Anche adesso, tra le tante iniziative volute per il decennale della sua scomparsa dalla Fondazione Nuto Revelli di Cuneo, guidata dal figlio Marco Revelli, da Antonella Tarpino e da Beatrice Verri, la guerra di Russia s’impone come un tema centrale. Nell’ambito della sistemazione del suo archivio, oltretutto, stanno emergendo numerosi scritti inediti in cui Nuto continuava a testimoniare e a cercare la verità sulla distruzione dell’Armir, il corpo di spedizione in Unione Sovietica, e sulla sorte dei dispersi. In questa documentazione hanno un particolare rilievo le carte relative alla cosiddetta commissione ministeriale Leopoli, istituita nel 1987 dall’allora ministro della Difesa Giovanni Spadolini con il compito di fare luce, che tuttavia non venne fatta, sul massacro di almeno duemila soldati italiani da parte dei tedeschi a Leopoli, in Ucraina, dopo l’8 settembre ‘43. Dell’eccidio avevano parlato agenzie e giornali dell’Urss, ma già nel 1960 Jas Gawronski aveva raccolto per Epoca le dichiarazioni di alcune persone, a Leopoli, che avevano visto con i loro occhi i tedeschi che uccidevano i militari italiani.
Nuto fece parte della commissione. E, insieme a Lucio Ceva e a Mario Rigoni Stern, scrisse il testo della relazione di minoranza, in assoluto dissenso con le conclusioni della maggioranza che, nel 1988, decretò che a Leopoli, dove peraltro era di stanza il comando logistico della nostra armata, non era avvenuta alcuna strage. Ragioni di Stato, pressioni internazionali, “armadi della vergogna” come quello di cui parlarono per primi i giornalisti de L’Espresso Franco Giustolisi e Alessandro De Feo, in cui erano stati imboscati i fascicoli sulle stragi naziste in Italia, concorsero a occultare la verità su Leopoli. Le vicende della commissione amareggiarono profondamente Nuto Revelli. Tanto che un anno dopo, partecipando a un programma culturale della Radio 3 della Rai,
Antologia, allo storico Mario Isnenghi confidava: «Tu sai quanto quell’esperienza mi bruci ancora. Mi è stato rinfacciato non una ma cinquanta volte che mi manca il distacco storico, e che sarei quindi uno storico un po’ così, sui generis. Io invece sostengo che proprio coloro che mi incolpavano di non avere distacco storico, erano troppo distaccati: erano lontani dagli avvenimenti di guerra addirittura da angosciarmi, da spaventarmi». Se i testi di Antologia fino ad ora non erano mai stati trascritti, del tutto inediti sono gli appunti (conservati alla Fondazione Revelli) che l’autore de La guerra dei poveri prese
il 14 maggio del 1987 per una conferenza su Leopoli tenuta a Monta d’Alba. Quel pubblico incontro fu organizzato perché Romain Rainero, uno dei membri della maggioranza della commissione ministeriale, aveva infranto il silenzio stampa sui lavori, proposto da Revelli e accettato dagli altri, con un’intervista a Canale 5. Parlando in televisione, Rainero aveva affermato, tra l’altro, che tra i componenti della commissione ministeriale c’era unanimità di vedute. Nuto lo negò decisamente. E spiegava: «Un punto sul quale non c’è unanimità fin dall’inizio: le frange dell’Armir o del Comando Retrovie Est (Leopoli). Io e Rigoni (Stern, ndr) insistiamo da sempre su questo punto! Fin da quando si escludeva l’esistenza del Comando Retrovie Est». In qualche documento, infatti, quest’ultimo compariva erroneamente come “Retrovo”. Tutto ciò aveva indotto i membri di maggioranza della commissione a negare l’esistenza di un contingente militare con il nome “Retrovo” in Ucraina. Era la premessa, pertanto, per negare la strage.
Proseguiva Nuto Revelli: «Non abbiamo delle certezze. E ci spaventano i detentori delle certezze. La tradizione vuole che la “storia militare” sopravvaluti la documentazione ufficiale, le relazioni dei comandi (vangelo). Io ho un’altra visione della storia (anche se non sono uno storico): “la storia vissuta dal basso”, una storia della quale sappiano poco
o nulla. Manca una «tradizione culturale» in questo senso». La concezione di Nuto della storia dal basso partiva da un’amara riflessione: «le dichiarazioni dei soldati non contano nulla, per cui magari vengono mandate al macero». Poi «scoppia il “caso Leopoli” ed allora (...) parliamo di “errore storico” e neghiamo che sia mai esistita una divisione Retrovo». Annotava Nuto a questo punto: «Poi si scopre che non si tratta di un “errore storico”, e che il Comando Retrovie dell’Est amministrava migliaia di uomini (supporto logistico 8a armata). Scopriamo una compagnia presidiaria (la 63a) di cui non si conosce la sorte. Scopriamo il 350o autoreparto di Balta (Ucraina) presente all’8 settembre. E chissà quante altre cose sono ancora nell’ombra». Concludeva i suoi appunti così: «Sia ben chiaro! Una cosa è il disastro dell’Armir, ed un’altra è il dopo disastro, con delle frange dimenticate o disperse. E un’altra cosa ancora è l’8 settembre ed il dopo 8 settembre 40 anni dopo». Il riordino delle carte di Nuto sulla Russia, secondo la Fondazione Revelli, può essere il punto di partenza per battersi affinché vengano aperti gli «armadi della vergogna» nei quali è imprigionata la verità su Leopoli.

La Stampa 4.2.14
Leone Ginzburg, l’ombra severa che ci giudica
L’intellettuale di origine russa moriva il 5 febbraio di 70 anni fa
Tra i fondatori della Einaudi, protagonista di una straordinaria generazione intellettuale torinese
di Bruno Quaranta

qui

La Stampa 4.2.14
L’ultima lettera dal carcere
“Cara Natalia non devi perderti se mi perderò io”
Pubblichiamo uno stralcio dell’ultima lettera di Ginzburg alla moglie, scritta dal penitenziario di Regina Coeli di Roma dove, arrestato il 19 novembre 1943, sarebbe morto il 5 febbraio 1944 per le torture subite

di Leone Gizburg

Natalia, cara, amore mio, ogni volta spero che non sia l’ultima lettera che ti scrivo, prima della partenza o in genere; e così è anche oggi. [...]
Una delle cose che più mi addolorano è la facilità con cui le persone, intorno a me (e qualche volta io stesso), perdono il gusto dei problemi generali dinanzi al pericolo personale. Cercherò, per conseguenza, di non parlarti di me, ma di te. La mia aspirazione è che tu normalizzi, appena ti sia possibile, la tua esistenza, che lavori e scriva e sia utile agli altri. Questi consigli ti parranno facili e irritanti; invece sono il miglior frutto della mia tenerezza e del mio senso di responsabilità. Attraverso la creazione artistica ti libererai dalle troppe lagrime che ti fanno groppo dentro; attraverso l’attività sociale, qualunque essa sia, rimarrai vicina al mondo delle altre persone, per il quale io ti ero così spesso l’unico ponte di passaggio. Ad ogni modo avere i bambini significherà per te avere una grande riserva di forza a tua disposizione. Vorrei che anche Andrea si ricordasse di me, se non dovesse più vedermi. Io li penso di continuo, ma cerco di non attardarmi mai sul pensiero di loro, per non infiacchirmi nella malinconia. Il pensiero di te invece, non lo scaccio, e ha quasi sempre un effetto corroborante su di me. Rivedere facce amiche, in questi giorni, mi ha grandemente eccitato in principio, come puoi immaginare. Adesso l’esistenza si viene di nuovo normalizzando, in attesa che muti più radicalmente. [...]
Ciao, amore mio, tenerezza mia. Fra pochi giorni sarà il sesto anniversario del nostro matrimonio. Come e dove mi troverò in quel giorno? Di che umore sarai tu allora? Ho ripensato in questi ultimi tempi alla nostra vita comune. L’unico nostro nemico (ho concluso) era la mia paura. Le volte che io, per qualche ragione, ero assalito dalla paura, concentravo talmente tutte le mie facoltà a vincerla e a non venir meno, a nessun costo, al mio dovere, che non rimaneva nessun’altra forma di vitalità in me. Non è così? Se e quando ci ritroveremo, io sarò liberato dalla paura, e neppure queste zone opache esisteranno più nella nostra vita comune. Come ti voglio bene, cara. Se ti perdessi, morirei volentieri. (Anche questa è una conclusione alla qualche sono giunto negli ultimi tempi). Ma non voglio perderti, e non voglio che tu ti perda nemmeno se, per qualche caso, mi perderò io. [...]
Non ti preoccupare troppo per me. Immagina che io sia un prigioniero di guerra: ce ne sono tanti soprattutto in questa guerra, e nella stragrande maggioranza torneranno.
Auguriamoci di essere nel maggior numero. Non è vero Natalia?

l’Unità 4.2.14
Tele e sculture prede di guerra
Il destino delle opere razziate
Il ritrovamento di 1400 capolavori nascosti a Monaco da un anonimo signore riporta d’attualità il tema dei trafugamenti di reperti
Così, ad esempio, il nazismo fece incetta di tesori
di Stefano Miliani


IL 2 GENNAIO DEL 1963 «L’UNITÀ» IN PRIMA PAGINA, SOTTO KRUSCIOV, pubblicava con gran risalto una notizia d’arte da Los Angeles: dalle parti di Pasadena il «prof. Siviero» aveva ritrovato due piccole tavole sulle «fatiche di Ercole» degli Uffizi. Dipinte dal pittore e scultore rinascimentale Antonio del Pollaiolo, avevano alle spalle una vicenda travagliata e purtroppo frequente: le avevano trafugate nel 1944 i soldati tedeschi, trasportandole prima in Alto Adige in camionate cariche di opere d’arte, poi in Germania dov’erano rimaste almeno fino al 1957. Il paese d’oltralpe nel dopoguerra non aveva restituito i due dipinti che erano finiti illegalmente negli Usa. Li riporterà nella penisola, sfruttando la sua rete di informatori e contatti, il cosiddetto «007 dell’arte», Rodolfo Siviero, «Ministro plenipotenziario» senza mai aver avuto un dicastero che si dedicò a restituire al nostro Paese opere depredate a musei, chiese e famiglie e risucchiate in un gorgo da cui era difficilissimo farle riemergere se non agendo di nascosto, evitando burocrazie e la diplomazia ufficiale.
Per una di quelle coincidenze che probabilmente significano qualcosa, di questi tempi si parla spesso di Siviero e di arte trafugata in tre saggi usciti a poca distanza l’uno dall’altro. E ora il festival di Berlino proietta The Monuments Men, il film di George Clooney tratto da un libro di Robert M. Edsel sui cocciutissimi studiosi americani che, arruolati nell’esercito a stelle e strisce, durante il conflitto si adoperarono e rischiarono la pelle per mettere in salvo più opere possibile. Ciononostante restano parecchi interrogativi aperti. Oltre al colossale e a tutt’oggi molto oscuro ritrovamento di 1.400 opere a Monaco di Baviera in casa dell’apparenza anonimo signor Gurlitt, basti citare una scultura attribuita a Michelangelo e diventata un oggetto quasi mitologico. Fu portata dal museo del Bargello di Firenze al castello di Poppi nell’aretino e ma lì nell’estate del 1944 la prelevarono soldati tedeschi. Da decenni si vocifera che possa essere in un caveau russo.
Le «fatiche di Ercole» sbattute in prima pagina dal nostro giornale le ricorda Francesca Bottari nel suo ricco, appassionante e documentato libro Rodolfo Siviero. Avventure e recuperi del più grande agente segreto dell'arte (Castelvecchi, Roma, 303 pagine, 22 euro). Attingendo a documenti, memorie e archivi la storica dell’arte delinea un uomo sfuggente e coraggioso, generoso, contraddittorio, inafferrabile, dai meriti poco riconosciuti. Nato nel pisano nel 1911 e morto a Firenze nel 1983, nel 1937 fu spia fascista, si accostò ai partigiani intorno al 1943, amò tante donne ma incapace forse di affetti stabili, Siviero voleva essere vicino al potere e il potere lo teneva a distanza: recuperò qualcosa come 3mila opere e ne cercava altre 2.500 quando morì, molte delle sue carte restano segrete e fu la caparbietà dell’allora ministro dei beni culturali Paolucci a permettere la pubblicazione, nel 1995 e presso l’Istituto poligrafico dello Stato, del catalogo delle opere trafugate in guerra e allora mancanti.
Mentre uno studioso eclettico e brillante come Luca Scarlini ha appena pubblicato il saggio Siviero contro Hitler (Skira editore, 139 pagine, 16 euro), accresce la pubblicistica Sergio Romano. Il giornalista del Corriere della sera e ambasciatore in L’arte in guerra (sempre Skira, 84 pagine a 9 euro) con una prosa avvincente ripercorre le razzie dal primo Ottocento al Novecento ricordando come i conquistatori considerino dipinti, sculture, codici miniati e altri tesori alla stregua del sangue delle vittime per i vampiri. Non per niente a Linz, in Austria, quel pagliaccio coi baffetti di nome Adolf voleva impiantare uno sterminato museo a proprio nome. E quando non erano i gerarchi o i militari a depredare collezioni o musei, allora le famiglie ebraiche dovevano vendere a prezzi infamanti quadri, sculture e suppellettili perché arrivavano le leggi razziali o avevano già il mitra puntato e speravano, spesso invano, di scampare alla morte.
Perché tanto parlarne? La materia è avvincente, da spy-story, e apre uno squarcio sull’ingordigia e la malvagità umane. Dietro le razzie si celano, ferite, dolore, sopraffazione, morte, torti subiti. Ancora: Siviero ha riportato a casa giganti quali Piero della Francesca, Tintoretto, Bronzino, capolavori della classicità come il «Discobolo Lancellotti», tuttavia l’enigma non è sciolto. I nazisti adoravano i capolavori del Rinascimento italiano e della classicità che esaltano l’essere umano e la sua dignità, ascoltavano Beethoven e, due minuti dopo, come ricordano testimonianze da Auschwitz, sparavano tranquillamente a un bambino scampato al gas o davano un uomo in pasto ai cani. È un’ombra sulla natura umana che resta indigeribile. E la voglia di giustizia resta inappagata.

l’Unità 4.2.14
Rodolfo Siviero, 007 dell’arte
di S. M.


«INCONTRAI SIVIERO DA PICCOLO. MI FECE L’IMPRESSIONE di un signore molto misterioso. Mio padre, che era stato partigiano ed era segretario dell’associazione partigiani in Toscana, sembrava parlarci in codice». Luca Scarlini, drammaturgo, saggista dai vari orizzonti, collaboratore di festival, nel suo saggio Siviero contro Hitler. La battaglia per l’arte (Skira) ricompone con arguzia un puzzle complesso tra antiquari ambigui e figure coraggiose che arginarono un’emorragia culturale di dimensioni ciclopiche: «Dopo l’8 settembre 1943 per Rodolfo divenne essenziale salvare l’arte italiana mentre i soldati compivano razzie. Grazie al suo lavoro di spia riuscì a trasformare l’intenzione in un autentico servizio e quello che fece è sbalorditivo».
Molto rimane ancora nell’ombra, però.
« Molti documenti su e di Siviero restano inaccessibili: la Farnesina ha almeno un dossier secretato. I misteri restano perché una spia non ha una vita trasparente e lui ha un po’ creato il suo mito».
Dove ha incontrato il cosiddetto 007 dell’arte?
«Nella sua casa, sul lungarno fiorentino, che la Regione Toscana ha reso museo. Avevo 10 anni e mio padre disse di aver cautela e di chiamarlo ministro, titolo al quale teneva ossessivamente».
Dalle cronache risulta un uomo determinato, coraggioso, ma sfaccettato, dal carattere difficile. «Dei politici lo definirono un avventuriero. Intratteneva una relazione perfino personale con le opere recuperate, negli anni ‘50 fu criticato perché le teneva troppo a lungo nel suo ufficio o faceva mostre ma esporle era l’unico modo per chiarire il suo lavoro. Tanti non gli hanno mai perdonato lo statuto di diplomatico. Andò anche in Unione Sovietica in un viaggio ufficiale. C’era Krusciov e in Italia scoppiarono polemi-
che perché lui si presentò con poteri da ambasciatore che non aveva. Ma era un uomo d’azione e nessun altro era in grado di fare quanto fece lui nel 1944 e dopo a Firenze e altrove. Con diversi funzionari degli Uffizi nascose opere ai nazisti, tanto per ricordarlo».
A proposito di Russia: è vero che là sarebbero nascoste opere trafugate dai nazisti e poi prese dai russi alla disfatta tedesca?
«Infatti lui andò a Mosca per ritrovarne. Si sente dire che il “mascherone” attribuito a Michelangelo sarebbe a Pietroburgo ma le piste non portano mai a nulla; poi si parla di un dipinto di Guardi, proveniente dagli Uffizi... Chissà». Quante opere mancano all’appello?
«Non esiste un numero preciso. Siviero parlò di duemila pezzi ma non poteva sapere delle opere del ‘900: c’è chi dice che il totale ammonti ad almeno 3-4mila. Un dipinto su Marsia di Luca Signorelli parrebbe passato per le mani di Hitler e forse è sparito in un bombardamento».

Corriere 4.2.14
Le accuse infamanti del passato alimentano ancora l’antisemitismo
di Dino Messina


Il mese scorso durante una cerimonia a Glatigny, paese nel Nordest della Francia, è stata riabilitata la memoria di un umile commerciante ebreo: Raphael Levy nel 1670 venne processato e condannato al rogo con l’accusa di aver ucciso il piccolo Didier Le Moyne, un bambino di tre anni i cui resti vennero ritrovati in un bosco sbranati dalle fiere. Alla fine del Seicento, dunque in epoca preilluministica, si ripeteva l’accusa infamante rivolta contro gli ebrei, dell’omicidio rituale. La stessa levata a Trento contro la comunità giudaica per la scomparsa nel 1475 del piccolo Simonino, venerato come santo nei secoli successivi.
La pratica dell’omicidio dei piccoli cristiani non è mai esistita, soprattutto perché contraria alla religione ebraica; era un falso mito e non un rito come spiegò, tra gli altri, Carlo Ginzburg nel 2008, durante la disputa storiografica suscitata dalla prima versione del saggio di Ariel Toaff, Pasque di sangue (il Mulino). Ma il sospetto e l’accusa infamante non sono ancora morti se, come ha rilevato ieri sul Wall street journal Edmund Levin, produttore della rete televisiva americana Abc e autore di un saggio sulla vita degli ebrei nella Russia zarista (A Child of Christian Blood ), secondo un recente sondaggio il 13 per cento dei polacchi ancora crede che gli ebrei nel Medioevo «usavano il sangue dei cristiani per le loro cerimonie rituali». È questa una prova che l’antisemitismo continua a far proseliti in Europa(la percentuale di quanti risposero positivamente alla stessa domanda nel 2009 era del 3 per cento) e anche nel mondo islamico (nel novembre 2013 il pre- dicatore musulmano Ra’ad Salah è stato processato in Israele per istigazione alla violenza poiché diffondeva come veritiera l’accusa di omicidio rituale).
La riabilitazione di Raphael Levy, basata su documenti d’archivio, acquista un significato culturale e politico così come la decisione, presa insieme dalle comunità ebraica e cattolica, di esporre al pubblico il dipinto «Omicidio rituale» realizzato nel XVIII secolo nella città polacca di Sandomierz e nel secondo dopoguerra nascosto da un telo. Una targa avverte che quel dipinto è il documento di una diffusa e infamante falsa credenza.

Repubblica 4.2.14
L’ansia di Saffo per i suoi fratelli
I tormenti familiari nei frammenti ritrovati della poetessa
di Maurizio Bettini


Questa storia di famiglia, certo una delle più famose dell’antichità, era nota già a partire da Erodoto, V secolo a. C. Lo storico di Alicarnasso raccontava infatti che Saffo aveva un fratello maggiore, Carasso, commerciante in vini. Durante uno dei suoi viaggi in Egitto il giovane si era innamorato di una cortigiana, Rodopi, e per lei si era rovinato economicamente, tanto che la poetessa aveva espresso il proprio sdegno in una delle sue poesie. Ovidio non si era fatto sfuggire l’occasione di riprendere la vicenda, e in una delle sue lettere di eroine – le Heroides appunto – aveva messo in scena una Saffo non solo innamorata del bel Faone, ma ancora amareggiata per il comportamento del fratello. Quanto alla poesia posteriore, non erano mancate allusioni alle seduzioni di Rodopi, alla passione di Carasso e ai versi immortali della poetessa di Lesbo. Ma al di là delle dicerie e delle invenzioni dei poeti, che cosa aveva scritto veramente Saffo a proposito di suo fratello? Per poterne avere un’idea si è dovuto attendere l’era della moderna papirologia, che già da tempo ci ha restituito poche e agognate linee: nelle quali Saffo invocava Afrodite e le Nereidi, divinità legate alla navigazione, affinché il fratello potesse tornare a casa sano e salvo, e «fossero cancellati gli errori di un tempo ed egli divenisse gioia ai suoi cari e sciagura per i nemici». Adesso un nuovo papiro getta ulteriore luce su questa antica vicenda. Nel prossimo numero della rivista
Zeitschrift für Papyrologie und Epigraphik, infatti, Dirk Obbink, professore al Christ Church di Oxford, pubblicherà due nuovi frammenti della poetessa: di essi il primo, più lungo, si riconnette sicuramente alla vicenda di Carasso; il secondo, più breve, contiene un’invocazione ad Afrodite che ne rammenta altre analoghe della poetessa di Lesbo. Che cosa racconta il frammento più lungo? In esso la poetessa si rivolge a qualcuno che, a quanto pare, sostiene che Carasso sia finalmente tornato, con la sua nave carica di mercanzie. Questo però, dice Saffo, possono saperlo solo Zeus e gli dèi tutti, tu dovresti piuttosto invitarmi a pregare Era, la regina, affinché Carasso giunga fin qui sano e salvo e trovi noi sani e salvi. Il resto è meglio affidarlo agli dèi, perché spesso a grandi tempeste succedono d’improvviso giorni radiosi… A questo punto, però, viene la parte forse più interessante, o meglio più intrigante, dell’intero componimento.
Sapevano già che Saffo aveva un fratello minore, Larichos, che fu coppiere del Pritaneo a Mitilene. Nel nuovo frammento di cui parliamo, la poetessa dichiara che «anche noi, se Larico sollevasse la testa e diventasse finalmente uomo, saremmo subito liberati da molte tristezze». Saffo e i suoi sembrano dunque attraversare un momento difficile, probabilmente in relazione alla lontananza di Carasso, e dunque ci si attende supporto da Larico: che dovrebbe però farsi veramente “uomo”. Ma Saffo lo invita davvero a «sollevare la testa»? O non piuttosto, come Obbink sembra ritenere, a «vivere liberamente», cioè senza aver obbligo di lavorare, in quanto membro di una classe agiata? La differenza fra le due interpretazioni sta tutta in una lettera, che probabilmente però darà molto da fare agli specia-listi: Dirk Obbink, ma con lui anche il nostro Franco Ferrari.

il Fatto 4.2.14
Potremo ancora considerare Woody Allen un genio?
di Roberto Faenza


In poche ore le accuse di pedofilia a Woody Allen e l’overdose di Philip Seymour Hoffman hanno posto l’opinione pubblica di fronte alla fragilità dei miti. Philip Seymour, che ho conosciuto mentre giravo un film a New York, era un attore chiacchierato, ma non avrei mai immaginato che se ne andasse così, alla stregua di un barbone del Village, con un ago conficcato nel braccio.
Quanto ad Allen, la lettera aperta di Dylan Farrow al New York Times lancia accuse agghiaccianti. Tanto più sconcertanti se accompagnate dalle fotografie che lo ritraggono con i figli bambini, sorridente accanto a Mia Farrow, la moglie poi divenuta accusatrice. Ricorderete che già qualche anno fa scoppiò la polemica per avere Allen, secondo la Farrow, insidiato la figlia adottiva, l’orfana coreana Soon-Yi, allorché Mia scoprì alcune fotografie della ragazzina nuda, scattate dal regista. Tutto sommato, dissero i difensori, la cosa non era così grave. Soon-Yi non era stata legalmente adottata da Allen, dunque non ne era il vero patrigno. Inoltre il tempo ha decretato che di vero amore si è trattato. La cosa venne presto dimenticata e l’uomo perdonato dal pubblico. La Farrow invece non si diede per vinta e portò davanti ai giudici l’ex marito per avere abusato della figlia adottiva Dylan, di sette anni. La stessa che scrive oggi contro di lui. Allora i magistrati conclusero che le accuse erano prive di fondamento. Adesso però la lettera non può restare inascoltata. Già c’è chi chiede l’incriminazione, insieme al bando e al boicottaggio delle opere cinematografiche del regista.
LE PAROLE più gravi suonano quelle in cui Dylan, che oggi ha 27 anni, si rivolge contro un’opinione pubblica a suo parere dal perdono facile. L’uomo tanto celebrato, scrive, “è la prova vivente del modo in cui la nostra società non riesce a difendere le vittime della violenza sessuale”.
Accusato di essere un pedofilo compulsivo e un “tormentatore”, il regista si è difeso con un comunicato asettico: tutto falso. Questa volta la denuncia è particolareggiata. I media americani hanno avuto prima un momento di imbarazzo, ma ora si stanno lanciando in una crociata che potrebbe travolgere il presunto colpevole sino a indurlo, come si chiede da più parti, a lasciare l’America.
Anche CharlieChaplin se l’è vista brutta quando nel 1942, a 53 anni, si invaghì di Oona, la figlia diciassettenne di Eugene O’Neill. Non l’avesse sposata l’anno dopo, l’America puritana avrebbe chiesto la sua cacciata. Il caso Allen è ben più grave e un comunicato come il suo non può bastare a gettare acqua sul fuoco. Di fronte a tutto ciò nasce spontanea una domanda: lo spettatore comune può scindere in due l’uomo e l’artista? Possiamo andare tranquillamente a vedere un film del genio Allen, vedi il più recente, bello e profondo, in difesa proprio di una figura femminile, e dimenticare le atroci accuse al personaggio? Stando alle reazioni del web, si direbbe che le persone comuni, soprattutto le donne, sono più propense a prendere per buone le imputazioni di Dylan. Terribili in tal senso le sue parole quando si rivolge agli ultimi interpreti scelti dal regista: “Cosa faresti se fosse tuo figlio, Cate Blanchett? Louis CK? Alec Baldwin? Cosa faresti se si fosse trattato di te, Emma Stone? O te, Scarlett Johansson? ”. Rispetto agli spettatori, i pareri di Hollywood sembrano più cauti.
ALCUNI colleghi del regista insinuano il sospetto che la lettera accusatoria sia in realtà una bomba a orologeria, lanciata per danneggiare Allen nello stesso momento del Golden Globe alla carriera e della candidatura all’Oscar per Blue Jasmine. Pascal Vicedomini, che sta organizzando l’imminente festival Los Angeles-Italia con un notevole parterre di candidati in onore di statuetta, pensa che un’altra vittima di bombe telecomandate sia lo stesso Walt Disney, accusato da Meryl Streep di essere stato un misogino antisemita, proprio nel momento di candidare Saving Mr. Banks, il film con Tom Hanks nei panni del mitico creatore di Topolino. Insomma la caccia al colpevole ormai è aperta e c’è da giurare che altre teste sono destinate a essere infangate.

Corriere 4.2.14
Ragazzine, segreti, sensi di colpa
Processo al cinema di Woody I film con Diane Keaton e Mia: battute e scene da rivedere
L’uomo e il genio
Rilettura della carriera del regista dopo l‘attacco della giovane Dylan che sostiene di essere stata violentata a sette anni
di Maurizio Porro


Con le nuove accuse di Dylan Farrow che sostiene di essere stata violentata a 5 anni dal padre adottivo Woody Allen, si riapre il caso di questo geniale regista che forse nasconde inconfessabili nevrosi, peggio della ben nota paura di gallerie ed ascensori. Fa discutere la questione plurisecolare della divisione tra uomo e artista, vita e creazione, genio e sregolatezza. E viene subito in mente Manhattan (1979), che più di ogni altro potrebbe essere impugnato dall’accusa in un «processo» al cinema di Woody: il protagonista s’innamora, ricambiatissimo, di una ragazza 17enne acqua, sopracciglia e sapone (Mariel Hemingway) e dice: «Io ho 42 anni e lei 17, sono più vecchio di suo padre»; «Sto con una ragazza che ha i compiti»; «Salvo irruzioni della polizia credo che batteremo un paio di record». Poi parlando di un possibile libro della seconda ex moglie, Woody nel film teme che riveli «dei momentacci disgustosi» sul loro matrimonio.
Magari non è vero niente. E Mia Farrow, come in un melò anni 40, è in preda a un’ossessione che verrà scoperta da uno psichiatra prima del The End . Ma è comunque da rivedere, dopo questa testimonianza, una carriera. Senza togliere nulla della sua grandezza, alla luce anche del 44esimo magnifico Blue Jasmine che concorre agli Oscar.
Rileggendo i titoli e soprattutto mirando al cuore degli anni in cui si accusa Allen di aver frequentato troppo letti e soffitte, durante la relazione con Mia Farrow (dal 1980 al 1992), è possibile cogliere gli indizi di questo tormento? Niente di esplicito. Se analizziamo i film di Woody dall’82 (Una commedia sexy in una notte di mezza estate ) al ’92 (Mariti e mogli ) c’è l’iter di un amore a scadenza (il regista non è mai stato un fan di quello eterno). Così si parte alla grande scespirianamente, con la notte amorosa, magica che confonde le coppie e dà il benvenuto a Mia Farrow che sarà nel cast in 13 film, divorziando poi con separazione nuovayorkese in Mariti e mogli , specchio di due coppie in crisi, autobiografia al quadrato. Dialoghi a raffica, match tra rancori, rimorsi e rimpianti: «Mi hai insegnato tanto…». «Per esempio cosa?». «Anche come si ascolta Mozart». «Con le orecchie!». Acida Mia: «Tu usi il sesso per esprimere qualsiasi emozione tranne l’amore». Conclude Allen: «Forse alla fine l’idea era quella di non aspettarsi troppo dalla vita». Sulla moglie Farrow, Allen nel film non fa sconti: «Fantastica ma pazza. Ho sempre avuto la tendenza per le donne kamikaze. Si schiantano col loro aereo, sono autodistruttive ma tu muori insieme a loro». In Hannah e le sue sorelle sono divisi e lui la va a trovare e parla di un altro uomo dolce e perdente: «Hai sempre avuto buon gusto per i mariti impacciati» .
In questo elenco ci sono i momenti fulminanti, ma era sempre lo spettacolo a salvare le cose: il teatro in Broadway Danny Rose (dove Mia lo scarica malamente), il cinema nella Rosa purpurea del Cairo dove Mia, moglie infelicemente malinconica, immagina di entrare nell’altra realtà dello schermo; non parliamo di Un’altra donna con Freud guest star e un altro raddoppio sul reale.
Già in Io e Annie l’attore diceva: «Ho qualche guaio tra fantasia e realtà». Infine la confessione, tutta la verità e nient’altro che la verità: «Io sono relativamente normale per uno cresciuto a Brooklyn». In Alice Mia invece si vendica di un tradimento con una scappatella e finisce in un happy end mistico con Madre Teresa di Calcutta.
Volendo essere maliziosi, in Crimini e misfatti Woody è assai attento alla nipotina, la coccola, la porta al cinema e le regala libri di foto di New York. Questo è pure uno dei film in cui si fa più sentire il complesso di colpa del regista parlando d’amore ma non solo, come farà poi in Match Point e altri: sono spesso delitti senza castigo, anche quelli finanziari di Blue Jasmine . E ci sono casi di pedofilia accennati, come in Hannah e le sue sorelle dove Woody è uno sceneggiatore tv che si sente censurato un suo sketch «perché le molestie ai bambini sono un tema a rischio». Risposta: «Mezzo paese li molesta». Che sia così diabolico?
In Basta che funzioni Boris, un prof. in pensione con tendenze suicide, si salva incontrando la giovanissima Melody che finirà per sposare, consapevoli tutti che non durerà. Ma basta l’apparenza, è sufficiente che duri un attimino, insomma basta che funzioni. Attento a non varcare le soglie del comune senso americano del pudore, Woody non esagera. Sempre in Hannah , curioso dei misteri irrisolti del mondo, dei geni del passato, dice che «Socrate andava con i ragazzini greci: cos’ha da insegnare a me?».
Tema del cinema di Allen è chiaramente quello della solitudine. Parente dichiarato di Freud e di Bergman, è un vero umorista quindi un vero tragico: «La masturbazione è sesso con qualcuno che amo».

Corriere 4.2.14
Il biografo: vi spiego perché lo difendo
«Farrow ha indottrinato la figlia Le molestie non sono credibili»
di Chiara Maffioletti

Con tempismo sensazionale, il 27 gennaio Robert B. Weide ha pubblicato un lungo intervento sul sito Daily Beast , dal titolo «Le accuse a Woody Allen: non così in fretta». Lo sceneggiatore e regista del documentario Woody , attraverso quell’articolo super condiviso sui social network, è diventato la voce fuori dal coro che ha spiegato al mondo come mai le accuse di pedofilia di Mia e Ronan Farrow ad Allen (di cui Weide è una specie di biografo) siano da prendere, a suo avviso, con cautela. Una tesi ribadita dopo la lettera di Dylan Farrow, diventando il bersaglio di valanghe di critiche. L’analisi di Weide parte dal punto debole di Allen se si parla di moralità: il rapporto con Soon-Yi Previn. «Ci sono due questioni in gioco — ha scritto —. Una è l’inizio di una relazione da parte di Woody con la figlia adottiva di Mia, Soon-Yi, nel 1991 (quando lei aveva 19 anni). L’altra è l’accusa di Mia utilizzata nella battaglia per la custodia dei tre figli, secondo cui Woody avrebbe molestato la figlia adottiva di sette anni, Dylan. La gente confonde questi due aspetti».
Il tema Soon-Yi viene chiarito per punti, tesi a smontare falsi miti, tra cui: «Soon-Yi era figliastra di Woody. Falso. Woody e Mia vivevano insieme. Falso. Woody non ha mai passato una notte intera in casa di Mia in 12 anni». Nella sua difesa, Weide analizza la condotta della Farrow, per lui non così limpida se fosse vero che Ronan anziché figlio di Allen potrebbe esserlo di Sinatra: «All’epoca era un uomo sposato».
Weide ha poi provato a fare luce sulle presunte molestie a Dylan, facendo notare che il giorno descritto nella lettera, quello in cui Allen avrebbe portato la piccola in solaio, sarebbe avvenuto dopo la rottura con Mia Farrow, quando «Allen doveva comportarsi al meglio» per non perdere la custodia dei figli. E invece secondo la sua ex compagna, «Woody, notoriamente claustrofobico, ha deciso che era il momento e il posto ideale per portare la figlia in soffitta e molestarla». Eppure «Allen non è mai stato accusato di un reato: le autorità non hanno mai trovato prove credibili». «L’indagine durò sei mesi (comprendeva esami medici) e concluse che Dylan non era stata molestata». Lo sceneggiatore fa poi riferimento al fatto che Mia Farrow registrò le dichiarazioni della bimba: «Ci sono diversi arresti nella registrazione. Perché Mia indottrinava la figlia a telecamera spenta, come suggerito dagli inquirenti?».
L’articolo ricorda inoltre le dichiarazioni del 1993 di un’ex bambinaia che giurava di essere stata «pressata dalla Farrow per sostenere le accuse di molestie: la pressione fu tale che la portò a dimettersi». Weide si dice certo che sia Dylan che Ronan «siano convinti che questi eventi siano successi davvero», ma suggerisce che sia il frutto di un «lavaggio del cervello» da parte della madre, come ha confermato un loro fratello, Moses. Il pezzo arriva fino alla notte dei Golden Globe e vuole svelare una certa malafede di Mia Farrow: «Ha firmato la liberatoria per apparire nel tributo ad Allen ma mentre andava in onda scriveva su Twitter attacchi all’ex compagno. Questo mi ha sconcertato» .

Repubblica Salute 4.2.14
Uno studio su Lancet
Riacutizzazioni in mancanza di supporto psicologico
di Francesco Cro


In dieci anni l’uso di antidepressivi è raddoppiato nei paesi industrializzati, con l’Islanda in testa e la Corea per ultima, anche se la prevalenza dei disturbi è rimasta immutata. Il consumo non risparmia neanche i bambini, considerato che l’11% degli americani di 12 anni ha usato antidepressivi nel 2011 e si ritiene che il numero sia sottostimato. Il motivo è presto detto, secondo il report annuale di Oecd (Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico): una sovradiagnosi e l’estensione del trattamento a forme lievi di depressione, ansia e fobie. Inoltre i trattamenti sono più lunghi e con dosi maggiori. Questo perché, secondo Oecd, i criteri diagnostici sono spesso troppo generici e mal applicati. Gli autori del report chiedono che i criteri per la depressione maggiore lieve siano più stringenti e che i criteri esistenti per la depressione maggiore moderata e severa siano accuratamente applicati, condivisi e con supporto e sorveglianza per i pazienti.

Una crescente mole di osservazioni indica che la sola terapia farmacologica non è sufficiente ai fini di una gestione ottimale del disturbo bipolare. Lo psichiatra John Geddes e lo psicologo David Miklowitz, del Dipartimento di psichiatria dell’università di Oxford, in un articolo pubblicato su Lancet hanno analizzato i più recenti sviluppi nel campo del trattamento del disturbo bipolare, sottolineando che i progressi della terapia farmacologica negli ultimi anni sono stati piuttosto modesti e che le vere novità provengono dall’ambito dei trattamenti psicosociali. Il disturbo bipolare, che colpisce circa il 2% della popolazione mondiale, mentre un altro 2% è affetto da forme cliniche più lievi o sottosoglia, è caratterizzato dall’alternanza di stati di depressione e di euforia patologica (mania) e da un elevato numero di ricadute: si calcola che un paziente su due possa andare incontro, nonostante la terapia farmacologica, a una riacutizzazione entro due anni dall’episodio trattato.
Gli approcci psicologici partono dall’evidenza che diversi fattori stressanti, come la conflittualità in famiglia, gli eventi negativi della vita, le perturbazioni del ciclo sonno-veglia o l’eccessiva pressione verso il raggiungimento di obiettivi sono associati a peggioramenti o ricadute della sintomatologia. La psicoterapia del disturbo bipolare (associata al trattamento farmacologico) si propone di aiutare i pazienti (e in caso, loro familiari) a sviluppare strategie efficaci per la gestione dello stress e la prevenzione delle crisi. Se nella depressione si può quasi sempre affiancare da subito al trattamento farmacologico una psicoterapia, negli episodi di euforia questo è in genere possibile solo quando si attenua la sintomatologia acuta. La psicoterapia può essere individuale o di gruppo e può essere focalizzata sugli stati emotivi, relazioni familiari o ritmi di vita.
Il gruppo di ricerca sui disturbi bipolari dell’università di Barcellona ha sviluppato un originale ed efficace approccio di gruppo, articolato in ventuno sedute settimanali, nelle quali una decina di pazienti si incontrano regolarmente con la supervisione di due o tre terapeuti esperti. Negli incontri vengono affrontati i temi della consapevolezza di malattia, dell’importanza delle cure farmacologiche, del riconoscimento tempestivo delle ricadute e del mantenimento di uno stile di vita regolare, fondamentale per la prevenzione degli episodi, spesso innescati da strapazzi o irregolarità del ritmo del sonno.
Gli stessi ricercatori spagnoli hanno osservato un significativo miglioramento prognostico nei pazienti che hanno frequentato i gruppi di riparazione cognitiva funzionale, basati su esercizi di potenziamento della memoria, dell’attenzione, delle capacità di ragionamento e organizzazione concettuale e delle abilità di problem
solving. Geddes e Miklowitz raccomandano che i servizi di salute mentale si dotino di protocolli psicoterapeutici di provata efficacia e di durata contenuta nel tempo per un aiuto duraturo e miglioramenti tangibili.
* Psichiatra, Dipartimento di Salute Mentale, Viterbo