lunedì 10 febbraio 2014


l’Unità 10.2.14
Non lasciamo a Grillo i sogni dei giovani
Amalia Signorelli


In Italia non scarseggiano gli idioti che esorcizzano le proprie frustrazioni ricorrendo alla violenza verbale – e spesso anche a quella fisica - contro le donne. A nostre spese, noi donne lo sappiamo bene. Ma che un leader politico non solo si comporti così, ma incentivi pubblicamente gli uomini a comportarsi così, questo è una novità. La domanda che la scorsa settimana Grillo dal suo blog ha rivolto ai suoi follower a proposito di Laura Boldrini, offrendo loro per giunta la possibilità dell’anonimato di rete, è ributtante: ripropone l’immagine della donna-preda, della donna-cosa, ma contemporaneamente ha fatto riemergere il tipo dell’uomo viscerale perverso (non voglio definirlo né bestiale, né primordiale, né selvaggio per il sommo rispetto che bestie, esseri umani preistorici e i cosiddetti selvaggi meritano) per il quale il sesso si identifica con il possesso violento. Dopo lo sdoganamento della prostituzione, abbiamo dovuto assistere anche allo sdoganamento dello stupro. Perché su questo punto Laura Boldrini ha ragione: di incitamento allo stupro si tratta.
Per quel che riguarda noi donne, è l’ennesima delusione, ma non una sorpresa. Non da oggi ci tocca fare i conti con il machismo italico (che tale è, anche quando si manifesta in forme solo apparentemente meno violente). Ma, insisto, quando il machismo è praticato o anche solo predicato da chi, per il ruolo che occupa, è inevitabilmente un modello culturale, la questione si allarga: non è più solo violenza sulle donne.
Penso che l’episodio di cui sto parlando sia particolarmente doloroso e pericoloso per i giovani, per le ragazze e i ragazzi che hanno provato a «crederci». Come sappiamo, tanto l’elettorato di Grillo quanto la rappresentanza parlamentare da esso espressa, è composta prevalentemente da persone giovani. A cui va riconosciuto, se si ha il coraggio di farlo, di aver espresso una domanda di rinnovamento, di onestà mentale e morale, di coerenza, di rispetto per la Costituzione, le leggi e le regole. Domanda espressa da un fiume di voti politici che, del tutto inaspettato com’era, lasciò stupiti politici e commentatori. Stupiti o spaventati?
Oggi la questione vera non è, a mio avviso, il destino di Grillo e del suo sodale: la questione vera la pongono i giovani che l’hanno votato. Pessimista come sono, per loro vedo ripetersi un copione che già operò negli anni 70 del secolo scorso e i cui danni sono ancora visibili: di fronte a una domanda giovanile di cambiamento e di innovazione, di fronte a una creatività e a un entusiasmo diffusi che, intemperanti e massimalisti com’erano nelle loro richieste, avrebbero potuto far saltare l’apparato burocratico-politico conservatore, quelli che allora si chiamavano i partiti dell’arco costituzionale si dimostrarono del tutto incapaci di esercitare una qualche forma di egemonia. Cooptarono i più ambiziosi e si impegnarono energicamente nella criminalizzazione dei più intransigenti. Che ovviamente si criminalizzarono, confermando così l’affermazione che erano stati sempre e solo dei criminali. Tutti gli altri, abbandonati a se stessi, si sono lentamente ma sicuramente depoliticizzati.
A distanza di oltre quarant’anni, il copione sembra ripetersi con mutamenti più tragici che farseschi. I giovani sembrano aver perso la capacità di esprimere in proprio sia dei leader che dei progetti politici. È stato un adulto a egemonizzare e organizzare il loro disagio, con il rischio, ovviamente, di strumentalizzarlo. Per contro, oggi i giovani non si trovano di fronte dei conservatori, magari anche ottusi ma comunque impegnati a difendere valori comprensibili anche se non condivisi; si trovano di fronte un ceto politico che, quand’anche alcuni individui che lo compongono non siano corrotti, è diventato comunque incapace di agire con lealtà. Era una furbata, era un trucchetto da pochi (!) soldi anche quella che ha innescato gli episodi che sto discutendo. Era il solito decreto omnibus al riparo da eventuali modifiche in aula grazie al ricatto incorporato: se non fate passare il provvedimento sulla Banca d’Italia, diventerete quelli che obbligano gli italiani a pagare l’Imu.
Certo, le reazioni dei deputati Cinque Stelle sono state esagitate. Maleducate. Eccessive. Ma in quella stessa aula si sono già visti nodi scorsoi, bandiere sventolate per usi indicibili, fette di mortadella e quant’altro: tutte iniziative di “onorevoli” che abbiamo visto poi far parte del governo della Repubblica, senza che nessuno avesse preteso almeno le loro scuse; e nel disporre la nuova legge elettorale, ci si preoccupa di garantir loro la possibilità di una nuova partecipazione ai futuri governi. Otto milioni di voti sono sufficienti per giustificare la convocazione in casa propria di un condannato per truffa (per tacere del resto) e verificare che esiste con lui una profonda intesa. Perché altri otto milioni e passa di voti non bastano per ottenere attenzione e ascolto? Perché sia riconosciuto il diritto a una partecipazione paritaria e trasparente al lavoro istituzionale, senza pretendere in cambio compromissioni, rinunce e scambi? Terribile è l’ira dei giovani onesti. Ma una volta di più la sola risposta di cui si è capaci è la criminalizzazione. Con zelo sospetto anche da parte del Pd. Eppure la posta in gioco è alta, anche questa volta. Non si tratta affatto di «salvare » Grillo o di «accordarsi» con lui. Ci mancherebbe. Si tratta però di sottrarre alcuni milioni di giovani alla sua influenza costruendo, come diceva Gramsci, un’altra egemonia.

l’Unità 10.2.14
Renzi esclude la staffetta:
«Io premier senza elezioni? Chi me lo fa fare?»
di Vladimiro Frulletti


«a) Letta ancora per 8 mesi b) voto con italicum o consultellum c) governo di legislatura» così il deputato Pd Ernesto Carbone, vicinissimo da tempi non sospetti a Matteo Renzi, mette in fila le ipotesi in campo secondo il segretario- sindaco. Una graduatoria stilata più sulla base di criteri realistici che non delle proprie preferenze. Perché è ovvio che la via maestra per Renzi sarebbe approdare a Palazzo Chigi attraverso il voto con l’Italicum. Stamani lo ribadirà in una intervista ad Agorà su Rai3.
«Ma chi ce lo fa fare» risponde il segretario-sindaco alla domanda di Cecilia Carpo se sarebbe disponibile a sostituire in corsa Letta. «Sono tantissimi i nostri che dicono “ma perché dobbiamo andare, ma chi ce lo fa fare?” Ci sono anch'io tra questi. Nessuno di noi ha mai chiesto di andare a prendere il governo» ragiona Renzi. E anche i suoi fedelissimi lo consigliano a evitare scorciatoie. «Il mio augurio è che Matteo Renzi diventi presidente del Consiglio attraverso l'investitura popolare» fa sapere dalla Calabria Maria Elena Boschi. «Chi propone Matteo Renzi premier, lo fa con lo spirito di quei democristiani che volevano far fuori un leader e lo “promuovevano” a Palazzo Chigi» aggiunge via twitter Davide Faraone.
Comunque le strade sono tre e fra queste tre il 20 febbraio, quando si riunirà la direzione per discutere, appunto, del governo come promesso da Renzi alla minoranza, i democratici dovranno decidere quale imboccare. In quell’occasione anche Renzi ovviamente sarà chiamato a scegliere. Al momento però il segretario aspetta le mosse di Enrico Letta. Renzi ha giudicato positiva la decisione presa dal premier a Sochi di recarsi da Napolitano per poi avanzare una proposta. Del resto, fa notare, è lui il Capo del governo e quindi tocca a lui decidere cosa fare. Prendere tempo non è più possibile. «Tocca a Letta » chiosa Carbone nel suo tweet precisando che comunque «il Pd non farà mancare la sua lealtà». «Non giriamo attorno al punto: deve essere il premier Letta a dire con chiarezza cosa vuole fare. Visti i problemi che ha il Paese, i cittadini hanno diritto ad avere una risposta in breve tempo» spiega Angelo Rughetti, deputato Pd vicino a Renzi. E parole simili sono usate dal senatore democratico Andrea Marcucci, anche lui legato al sindaco di Firenze, che giudica suicida ogni tentativo di galleggiamento. «Ci aspettiamo che Letta nelle prossime ore faccia chiarezza. Il governo deve uscire dal guado in cui è finito, spesso per errori che potevano essere evitati» è l’invito di Marcucci al premier. Insomma un vero e proprio pressing da parte dei renziani in direzione di Palazzo Chigi che si spiega anche con la forte volontà di Letta di non mollare.
Domani, o forse mercoledì, si dovrebbero avere indicazioni dal premier sulla strada che vorrà imboccare. Poi il Pd discuterà e deciderà. Ma rispettando i tempi che s’è dato. Perché se su una cosa si può essere sicuri è che fino al 20 febbraio tutte le soluzioni rimarranno aperte. E continuerà il pressing su Letta. Un semplice rimpasto al Pd non basterebbe. A Renzi non importa molto di avere un paio di ministri e qualche sottosegretario in più. «Non ho vinto il congresso per questo» ripete. Tanto che dal Pd fanno sapere che se l’intenzione di Letta fosse di rafforzare il proprio governo con l’ingresso di nomi di renziani doc potrebbe incassare pesanti rifiuti e quindi indebolirsi ulteriormente. Ma anche per la minoranza Pd questa strada sarebbe un vicolo cieco. «Serve un governo nuovo, non basta un rimpasto» spiega Gianni Cuperlo dall’Annunziata. Che poi a guidarlo sia Letta «va benissimo» purché abbia con se’ tutto il Pd. «Se Letta è in grado di essere il protagonista di questa ripartenza bene. Se no il segretario del principale partito che sostiene questo governo faccia una proposta alternativa e noi saremo responsabili» è l’alternativa proposta da Cuperlo.
Giovedì 20 febbraio si vedrà. Sulla data, l’altro giorno in direzione, Renzi ha fatto una digressione politicamente rilevante ricordando come quel giovedì sarà chiaro se la nuova legge elettorale sarà andata in porto o si sarà arenata. Il voto sull’Italicum comincia domani pomeriggio. Stasera si riuniscono i deputati Pd e forse ci sarà anche Renzi. Se il calendario verrà rispettato venerdì dovrebbe esserci l’ok finale della Camera. Poi toccherà al Senato. È ovvio che se ci fosse uno stop anche il futuro del governo sarebbe a rischio. L’eventualità che il processo di riforme si blocchi (dopo la legge elettorale Renzi vuole portare a casa il nuovo Senato delle autonomie e la riforma delle Regioni) ovviamente farebbe saltare tutto, legislatura compresa. Questa sarebbe la soluzione meno auspicabile per tutti, almeno nel Pd. Tanto che Cuperlo, pur ribadendo le perplessità sull’Italicum e la volontà di mettervi mano (ai parlamentari nominati propone di rispondere con le primarie per legge rendendole obbligatorie solo dalla seconda scadenza elettorale), dice chiaramente che non ci saranno né «cecchini» né «trappole».

Corriere 10.2.14
La legge elettorale alla prova decisiva
L’incognita dei cento voti segreti
Previste venti ore di dibattito per l’Italicum
Cuperlo: nessun cecchinaggio
di Lorenzo Fuccaro


La settimana cruciale per la maggioranza comincia alle 16.15 di oggi, quando, trascorso da circa due ore il termine di presentazione, il «comitato dei nove» presso la commissione Affari costituzionali comincerà l’esame degli oltre 400 emendamenti della riforma elettorale, ormai nota come Italicum. A guidare i lavori sarà il presidente dell’organismo parlamentare, il forzista Francesco Paolo Sisto che è anche il relatore. I nove dovranno dare un parere e stabilire la compatibilità delle modifiche rispetto al testo base che approderà domani nell’aula di Montecitorio, dove sono previste 24-25 ore di discussione. «La legge è solida e ha un suo perché», dice con convinzione Sisto. Tuttavia il vero problema è tutto politico, al di là degli aggiustamenti tecnici sul meccanismo di trasformazione dei voti in seggi sul quale stanno lavorando da giorni gli esperti. Reggerà l’accordo tra Matteo Renzi, Silvio Berlusconi e Angelino Alfano? Reggerà alla prova dei voti segreti (potrebbero essere un centinaio se non bloccati da un maxiemendamento) che alla Camera è possibile chiedere sulla materia elettorale? A quanti fanno notare questo pericolo, chi segue il dossier per conto del Pd replica obiettando che un primo esame, quella sulle eccezioni di costituzionalità, è stato superato con il 92% di voti a favore da parte del gruppo, e che le preoccupazioni al riguardo appaiono eccessive. Del resto nega propositi guerreschi anche Gianni Cuperlo, che è il punto di riferimento delle minoranze interne del Pd, quelle stesse indiziate di volersi prendere una rivincita e assai critiche con Renzi per avere scelto come interlocutore Berlusconi. «Nessun cecchinaggio, nessuna trappola contro questa riforma. Stiamo parlando della tenuta del nostro Paese e sentiamo un profondo senso di responsabilità», garantisce l’ex presidente del Pd. «Nessuna trappola - insiste Cuperlo - ma bisogna ragionare su alcuni miglioramenti che non debbono mettere in discussione l’impianto: servono migliorie sulla rappresentanza delle donne e sulle liste bloccate». L’esponente del Pd propone anche, per rendere applicabile l’Italicum, il superamento del bicameralismo paritario perché, in caso di elezioni, argomenta, «senza quella riforma il rischio è di avere una legge incostituzionale». Al riguardo un altro esponente del Pd, Giuseppe Lauricella, ha scritto e già depositato una modifica che va proprio nella direzione auspicata da Cuperlo. E cioè lega l’entrata in vigore del nuovo sistema di voto all’approvazione del Senato delle autonomie. Una modifica questa che, riferiscono dall’entourage dei renziani, «è fuori dell’accordo». «Sospendere l’applicazione dell’Italicum in attesa dell’altra riforma significa bloccare tutto», concorda Sisto. In questo quadro di tensione si colloca l’incontro che si terrà in serata tra lo stesso Renzi e i deputati proprio alla vigilia del passaggio in Aula della riforma. 
Al momento, un punto di equilibrio che raccolga le varie richieste e che le traduca in norme non è stato ancora trovato. Anche se, come riferisce il ministro Gaetano Quagliariello, è probabile che nel primo pomeriggio venga presentato dallo stesso relatore un maxiemendamento che tenga conto di tutto. 
Pertanto, in linea di massima, lo schema sarebbe questo: la soglia di accesso di una lista coalizzata scenderebbe dal 5 al 4,5%, sarebbe dell’8 per quelle non coalizzate, mentre lo sbarramento per le coalizioni è al 12. Per accedere al premio di governabilità è necessario raggiungere il 37%, verrebbe cioè ritoccato all’insù per evitare il rischio di incostituzionalità. La lista o la coalizione che lo supera al primo turno si aggiudica 340 seggi. Qualora nessuno raggiungesse tale soglia si va al ballottaggio al quale accedono i primi due. Al secondo turno non sono ammessi apparentamenti. Chi arriva primo si aggiudica 327 seggi. È inoltre previsto il cosiddetto «salva Lega», ovvero una norma che consente a chi raggiunga il 9% in almeno tre circoscrizioni di potere accedere al riparto dei seggi.

La Stampa 10.2.14
Italicum, armi spuntate per i contrari
I franchi tiratori della legge elettorale temono che, bocciando il testo, si torni alle urne
Renzi e Berlusconi reagirebbero contro un Parlamento fuori controllo
di Ugo Magri


Domani la legge elettorale arriva in aula alla Camera. Ma nei palazzi della politica nessuno si agita più di tanto, poiché l’attenzione adesso è concentrata sul duello RenziLetta. Si parlava di «franchi tiratori» in agguato, di emendamenti-trabocchetto per far cadere l’«Italicum» nel voto segreto, dei piccoli partiti pronti all’ultimo disperato assalto... E invece, alla vigilia delle votazioni l’aria è quella di un passaggio parlamentare alquanto scontato, dove l’unica vera incognita la rappresentano i grillini, casomai volessero mettere Montecitorio a ferro e a fuoco per impedire che il testo venga licenziato entro venerdì. Cinque stelle a parte, nessuno più contesta la sostanza della riforma.
La minoranza Pd, fino all’altro giorno molto sofferente, per bocca di Cuperlo lancia messaggi flautati: «Da parte nostra nessun cecchinaggio, tutto si può dire di noi tranne che manchi il senso di responsabilità». Nemmeno i partiti che rischiano l’estinzione, dai montiani agli alfaniani, pare vogliano sabotare. Fa testo la riflessione a voce alta del ministro Quagliariello (Nuovo centrodestra): «Fin dall’inizio di questa partita il nostro ruolo è stato di correzione e di coesione al tempo stesso. Ci siamo battuti per aggiustare un impianto di legge elettorale quantomeno fragile, ma pure per evitare che il tentativo di riforma fallisse creando un alibi per il partito dello sfascio e delle elezioni anticipate». Esattamente questo è il punto: se nei prossimi giorni i «franchi tiratori» riuscissero a stravolgere il famoso patto Berlusconi-Renzi, la gioia durerebbe poco in quanto l’effetto inevitabile sarebbe di scatenare la reazione dei due nei confronti di un Parlamento fuori controllo. Tornerebbe a riaffacciarsi lo spettro di elezioni immediate, che consentirebbero al segretario Pd (al Cav, a Grillo) di rimodellare le Camere a loro immagine e somiglianza. Insomma, prima di pigiare il pulsante dell’autodistruzione, gli eventuali «cecchini» ci penseranno bene.
E poi ci sono tutti coloro che tifano per un «Letta-bis»: nel mezzo delle trattative, si guarderanno bene dal provocare incidenti di percorso. Magari vorrebbero le preferenze, oppure gradirebbero alzare la soglia del premio di maggioranza dal 37 per cento al 40. Però poi ne farebbe le spese Letta, meglio non insistere. Dunque niente emendamenti al testo base su cui il relatore Sisto (Forza Italia) sta portando le ultime limature? La previsione è che qualche tentativo di modifica ci sarà. Però senza mettere in discussione i pilastri della riforma. Piuttosto, cercando di ritardarne l’attuazione nel tempo. Ad esempio, è pronto un emendamento trasversale per rinviare l’entrata in vigore della legge al giorno in cui chiuderà il Senato. La speranza dei proponenti, inutile dire, è che quel giorno non arrivi mai...

Repubblica 10.2.14
Tra Letta bis, staffetta e urne anticipate il quizzone del leader spiazza il Pd
di Giovanna Casadio


#svegliaenrico è un hashtag con pochi seguaci. A spopolare invece è il quizzone lanciato da Matteo Renzi: le tre buste - tre strade, per la verità, le ha definite il segretario dem - che semplificano le possibilità politiche, cioè se rinnovare per 8 mesi la fiducia a Enrico Letta, andare a votare oppure immaginare un nuovo governo con una staffetta magari tra lui e il premier a Palazzo Chigi. Nel Pd ci si divide, come d’abitudine, ma con alcuni inaspettati giri di valzer tra le correnti dem, da far confondere persino militanti e simpatizzanti che in rete dicono la loro e soprattutto chiedono di uscire dalle ambiguità.
Solo i lettiani più fedeli tifano per Enrico e non prendono in considerazione nessun’altra possibilità che non sia un governo rinforzato nel programma e nella squadra. Sono Paola De Micheli, Francesco Sanna, Francesco Russo, Marco Meloni, il gruppo su cui Letta può contare. Mentre la minoranza del partito, con il leader Gianni Cuperlo, ha smesso di blindare il governo. Ne chiede uno nuovo, a qualsiasi costo e la giudica l’unica strada per evitare le elezioni. Lo dice Cuperlo, lo ribadiscono i “giovani turchi”. Matteo Orfini, che ne è il portavoce, nell’ultima riunione della direzione del partito aveva provocato: o un cambiamento vero o il voto. Ora spiega: «Il voto sarebbe l’ipotesi peggiore, sarebbe riconoscere il nostro fallimento e perderemmo anche se avessimo in campo Maradona. Quindi ci vuole un nuovo governo». Un nuovo governo guidato da chi? E qui comincia il rimpiattino. Nelle file democratiche nessuno vuole in questa fase scoprirsi troppo. È partito il gioco del cerino. La busta la scelga Letta: è il ragionamento dei renziani. Faccia sapere quale è la sua opzione il segretario: è l’invito della sinistra dem e dei lettiani.
Pippo Civati - che ha sfidato Renzi alle primarie per la leadership del Pd - è convinto che una sola sia la strada maestra: la busta da prendere è quella che porta alle elezioni il più in fretta possibile, dopo avere approvato la nuova legge elettorale. «Il rilancio, il patto di governo, l’agenda 2014... una telenovela democratica. Questa storia delle tre buste è un’abitudine. Anche sulla legge elettorale c’erano tre opzioni all’apparenza, in realtà Matteo aveva già studiato con Verdini e Forza Italia quella che è poi stata pattuita, l’Italicum. Ora siamo al governo di subentro. A me sembra un testacoda - continua Civati - nel senso che eravamo partiti dalla governabilità ora siamo alla governabilità senza elezioni. E poi una staffetta per fare cosa? Una riedizione delle “intese così e così”?». Per i civatiani meglio allora andare a votare a giugno.
In rete, sul sito di Renzi si passa da chi lo avverte: «Matteo, sarebbe un suicidio politico...» la staffetta; a chi ritiene che sarebbe meglio assumersi la responsabilità di Palazzo Chigi, se non c’è un altro modo per ottenere una scossa; mentre qualcuno sbotta: «Dimostra di meritarti i voti... «. Su Twitter Chiara Geloni, ex direttore di Youdem, la tv del Pd, bersaniana, risponde a un’intervista di Prodi alMattino, in cui l’ex premier ricorda l’errore di quella staffetta con cui D’Alema lo fece fuori: «Secondo me, caro professor Prodi, staffetta o no il suicidio politico si è già compiuto: il partito che si mangia il suo premier».
I renziani tengono un basso profilo e insistono perché sia il premier a fare la prima mossa. Dario Nardella è convinto che non bisogna accettare manovre di Palazzo però neppure si possono accettare «gli errori macroscopici » dell’esecutivo. «Qualcuno vuole Renzi al governo subito? Lo dica apertamente», ribadisce Nardella. Aggiunge a proposito del voto anticipato: «Tutto è possibile. Se qualcuno pensa di sabotare la legge elettorale senza che succeda nulla, allora si illude».

Repubblica 10.2.14
Cacciari: “Balletto pericoloso, non possiamo giocarci Renzi”
Vedo un duello tra sordi e fatico molto a capire anche il segretario, piuttosto la maggioranza vari subito un piano contro la disoccupazione
intervista di Rodolfo Sala


«Semplicemente inaudito».
Che cosa, professor Cacciari?
«Con questi chiari di luna, con il Paese sprofondato in una crisi senza precedenti, ci si diletta a parlare di rimpasti, staffette, elezioni anticipate: ma siamo matti?».
Vede delle alternative?
«Le forze di governo definiscano al più presto un programma decente per affrontare l’emergenza occupazione e favorire la ripresa industriale. Ma basta con questi balletti tra sordi: io faccio molta fatica a capire Renzi».
Il segretario del Pd sta sbagliando le sue mosse?
«Non da solo. Per quel che lo riguarda, davvero non capisco quale convenienza possa avere a tenere accesa l’attenzione su questa cosa della staffetta: se la fa, Renzi si disfa».
Però in tv il leader del Pd l’ha appena esclusa, con quel «chi ce lo fa fare?» ad andare al governo senza passare attraverso il voto.
«E allora deve spiegare perché continua a tenere sotto stress l’esecutivo. Solo per tenere viva la sua immagine? E poi: quand’anche arrivasse a Palazzo Chigi, che cosa potrebbe mai combinare Renzi di diverso da Letta? Il presidente del Consiglio fa quel che può, e anche maluccio, se si considerano le enormi difficoltà del Paese. Ma lui farebbe meglio? E con chi, poi?».
Un consiglio a Renzi?
«Eviti la staffetta, e anche la tentazione di andare al voto anticipato prima dei famosi diciotto mesi. In entrambi i casi si rovina, questo è sicuro. Potrebbe e dovrebbe, invece, svolgere un ruolo determinante nel dettare una nuova agenda al governo. Magari ci mandi dentro due o tre dei suoi uomini, ma si tolga dalla testa l’idea suicida di un suo coinvolgimento diretto».
Tutti appesi alla data del 20 febbraio, quando ci sarà la direzione del Pd...
«Tutto tempo sprecato. È un’attesa inutile e dannosa, se si continua con questo balletto va a finire che anche Renzi viene risucchiato nella morta gora della politica. Stia molto attento, lui e tutti gli altri del Pd: sarebbe undisastro».
Perché?
«Se ci giochiamo anche Renzi, non resta più niente. Alle prossime elezioni mica si può tornare con Prodi o Berlusconi. Cerchiamo di salvaguardare quel piccolo patrimonio che il sindaco di Firenze senza dubbio rappresenta: è giovane, è un animale politico, ha dimostrato indubbie capacità. E secondo me può anche avere la stoffa, se solo si sottrae a questi balletti risibili. Legga Machiavelli...».
Prego, professore?
«Lo legga quando descrive la “virtù ordinata”. Lo vedo un po’ bulimico, ma non c’è dubbio che sia virtuoso. Ecco, si dia una regolata, metta un po’ d’ordine in questa sua virtù».

Repubblica 10.2.14
Matteo più veloce
di Ilvo Diamanti


Sono passati poco più di due mesi dall’elezione di Matteo Renzi alla guida del Pd. E non è ancora chiaro cosa intenda fare, il segretario, nel futuro che incombe. Se continuare, ancora a lungo, in questo ruolo, oppure indurre Enrico Letta a farsi da parte.
Indurlo a spostarsi, magari, ad altro incarico, preferibilmente fuori dall’Italia - per assumerne l’incarico di premier.
Oppure spingere verso elezioni anticipate. Dipenderà, sicuramente, anche dall’esito della marcia a tappe forzate condotta per realizzare le riforme istituzionali. La riforma elettorale, per prima. Poi quelle costituzionali, che richiedono procedure più complesse. Verranno approvate anch’esse dal Parlamento. Con ragionevole rapidità. Perché viviamo tempi veloci.
E Renzi è l’uomo dei tempi veloci. Dei fatti veloci. D’altronde, agli italiani, questo atteggiamento piace. Non per caso Renzi, oggi, è, di gran lunga, il più apprezzato fra i leader. Politici e istituzionali. Quasi il 60% degli elettori (secondo Ipsos) gli attribuisce un voto da 6 in su. L’85%, fra gli elettori del Pd. Ma lo valuta positivamente anche quasi uno su due tra gli elettori degli altri partiti (Pdl e M5s compresi). In altri termini: Renzi dispone di un consenso “trasversale”. Più di ogni altro leader in Italia. Il suo consenso “personale”, peraltro, si trasferisce sul partito. Dal 25%, ottenuto alle elezioni di un anno fa, è risalito ampiamente, nelle stime di voto (secondo Demos, oltre il 33%). Peraltro, è il partito verso il quale gli elettori di forze politiche “concorrenti” mostrano maggiore simpatia (33%).
Naturalmente, questi caratteri, oltre che punti di forza, potrebbero costituire dei rischi, se non dei limiti. Come avevamo osservato anche in passato (nel maggio 2013), tratteggiando una fenomenologia del renzismo. Un sentimento esteso. Da destra a sinistra, passando per il centro. Allora, come ora, il problema mi pareva e mi pare lo stesso. Troppe simpatie rischiano di non attecchire, di non radicarsi. Di non consolidarsi, perché fin troppo “personalizzate”. E di sollevare, invece, troppe attese. Che, se dis-attese, potrebbero, a loro volta, provocare delusione. La personalizzazione stessa del consenso potrebbe, a sua volta, indebolire il Pd. Soprattutto se il leader si impone oltre i confini del partito. Come sta facendo Renzi. Che agisce in proprio, da solo, attento a marcare la propria specificità. Come leader del post-Pd. O meglio (peggio?): leader senza partito. Perché un partito è, comunque, una “parte”, mentre lui si rivolge a tutti. Tutti. Come alle primarie, nelle quali votano non gli iscritti ma gli elettori - reali e potenziali. D’altronde, alla Convention della Leopolda 2013, come in altre occasioni, Matteo Renzi non ha voluto bandiere di partito. Le insegne e i vessilli del Pd. Rottamati. Renzi: interpreta la parte del leader im-politico. Perfino antipolitico. Lui, il Rottamatore dei leader e degli attori politici: della Prima e della Seconda Repubblica. Non guarda in faccia a nessuno. Destra e sinistra non gli interessano. Tanto meno il centro. Che, non a caso, è scomparso.
D’altra parte, alle elezioni di un anno fa, si è affermato il M5s. Un soggetto politico nuovo, con un’identità politica e una geografia prive di specificità. Intercetta voti a destra - un terzo - a sinistra - un terzo - e il resto - ancora un terzo - da “fuori”. Dai delusi della politica. E poi, ha preso voti dovunque, in modo omogeneo. Nord, Centro e Sud. Ecco: neppure Renzi ha una geografia e neppure uno spazio politico. Tantomeno un’ideologia. O meglio, la sua ideologia è la velocità. È il leader dei tempi veloci. Dei fatti veloci. Perché questo è un tempo veloce. Che rende insopportabili i tempi lunghi della politica italiana. Incapace di decisioni.
La Prima Repubblica: quasi cinquant’anni senza alternanza. Stessi partiti e stessi leader, stessi parlamentari. Al governo e all’opposizione. La Seconda Repubblica, fondata da Berlusconi sulle macerie di Tangentopoli, ha dato l’impressione del cambiamento. Berlusconi. Ha tradotto e riassunto i fatti in parole. E in immagini. Più che l’uomo dei “fatti”, è l’uomo che dice di fare. Vent’anni in attesa di riforme costituzionali, istituzionali e poi economiche e sociali. Annunciate, proclamate. E sempre eluse, deluse. Oppure imposte con colpi di mano. Fino a costruire questa bizzarra Repubblica preterintenzionale. Fondata sul caso e sui veti.
Per questo i “fatti” in sé, per questo la “velocità” in sé: marcano fratture rispetto al passato. Renzi ne ha colto il segno e lo interpreta, con piena convinzione e in modo convincente. Non è l’uomo della Provvidenza, che evoca il futuro, un disegno definito e condiviso. Ma dell’Urgenza. Perché il futuro è “adesso”, come recita il suo slogan in occasione delle Primarie del 2012. Renzi. Assistito dai “suoi” consiglieri e dai “suoi” tecnici, tratta direttamente con l’anziano leader dell’opposizione. Anche se indagato e condannato. Non importa. Anzi, meglio. Tra lui e Berlusconi, nel confronto: non c’è partita. Renzi. Costringe governo e Parlamento a (in) seguirlo. Ad adeguarsi ai suoi tempi. Veloci. E se c’è contrasto con il capo del governo, suo compagno di partito, meglio. Così appare più evidente la sua autonomia da tutti. I contenuti e gli effetti delle riforme, in realtà, sono importanti, ma neanche troppo. L’importante è “fare” le riforme. In tempi veloci. Dopo anni di discussioni inutili. D’altronde, fra pochi mesi si vota. Per l’Europa. Dunque, anche per l’Italia. Per - o contro - il post-Pd di Renzi. Perché in Italia non ci sono voti che non abbiano risvolti politici interni.
Due mesi dopo la sua elezione, dunque, Renzi agisce come “il” Capo. Del governo oltre che del post-Pd. Egli è dovunque e comunque. Affiancato - e assecondato - dall’opposizione. Perché Grillo e il M5s, in fondo, echeggiano e moltiplicano lo stile renzista. La loro mobilitazione continua e martellante, fuori e soprattutto dentro il Parlamento, rende difficile cogliere motivi e contenuti. Così, appaiono protagonisti di un happening neo-futurista. Permanente. E, più che presente, istantaneo.
Ecco, io penso che il successo di Renzi rifletta questo clima e questa domanda di senso in tempi senza senso. Renzi. È l’uomo dei tempi veloci in questi tempi veloci. Tanto veloci che anch’io, lo ammetto, mi sento in ritardo.

l’Unità 10.2.14
Vendola: con Tsipras, non contro Pse
Zingaretti: battaglie comuni
di Rachele Gonnelli


È iniziata tra nuvoloni e pioggia, durante l’incontro con Nichi Vendola e la delegazione di Sel, ed è finita con il sole sotto un albero di mimose già fiorite davanti alla Regione Lazio, l’ultima giornata romana del leader della sinistra greca Alexis Tsipras. Vendola lo ha presentato come un vecchio amico, «un compagno», «uno dei ragazzi di Genova 2001», anche se in realtà Alexis a Genova non arrivò mai: fu bloccato ad Ancona con i suoi compagni, scambiati per black bloc. Oggi il presidente della Regione Lazio, la più grossa realtà amministrata dal centrosinistra sia in termini di Pil sia di abitanti, quel Nicola Zingaretti che ha appena dieci anni più di lui e solo pochi anni prima dell’episodio di Ancona era diventato presidente degli Iusy, i giovani socialisti europei, lo accoglie come «un leader europeo », portatore di una proposta politica «interessante perché fuori dalla demagogia di chi dice basta con l’euro e con un messaggio forte per cambiare l’approccio alla crisi che sta producendo disastri». Andrà ad Atene a restituirgli la visita ai primi di marzo, il governatore del Lazio, e concorda con Tsipras che sono gli enti locali la prima frontiera della crisi. «Noi cerchiamo di non tagliare il welfare e la cultura - dice Zingaretti -ma sappiamo che si tratta di una battaglia europea». Nichi Vendola dopo un’ora di colloquio sembra guardarlo con un po’ di invidia. Gli scappa un «lui è giovane, ahimè ». Un leader in ascesa, la novità, una candidatura che «rompe gli steccati» e va oltre i partitini della sinistra radicale. Sel deve ancora confermare definitivamente il sostegno alla nascente lista Tsipras nel suo parlamentino, l’assemblea nazionale, sabato prossimo. Mail placet è quasi scontato. Vendola stesso riconosce a Tsipras la carica innovativa giusta e un duplice valore simbolico. Rappresenta la Grecia, culla della democrazia diventata cavia delle cure da cavallo imposte dalla Troika, «che soltanto una presunta razionalità calcolistica delle pessime tecnocrazie europee può aver immaginato di espellere dall’Europa». E interpreta un europeismo «nemico delle piccole patrie», l’anti Alba Dorata insomma. «Non è l’ennesimo mito della sinistra radicale», Vendola rassicura i più perplessi tra i suoi. «Non è una bandierina da piantare ma un progetto per cambiare l’Europa». Ma ribadisce la sua «terra di mezzo». Non ha intenzione di andare a finire nella Sinistra Europea insieme a Rifondazione comunista. Del resto lo stesso Tsipras nella lettera inviata al congresso di Sel non aveva messo questa come clausola. Lo sa che il giudizio sul Pse e il suo candidato Martin Schulz è più sfumato. «Se dessimo per perduti i socialisti europei, se considerassimo irrimediabile la svolta liberista nella socialdemocrazia europea - sostiene infatti Vendola - saremmo in una condizione davvero drammatica». Intende continuare a interloquire anche con Martin Schulz, contando sul fatto che «ogni volta che i socialdemocratici fanno politiche liberiste c’è un corto circuito con il loro elettorato». Una forte affermazione di Tsipras servirà a cambiare la linea del Pse, allontanando i socialisti europei da qualsiasi formula di collaborazione con i conservatori. Così come in Italia di fronte all’ipotesi di un nuovo governo a guida Renzi, chiarisce: «Non ho problemi personali con Renzi e neanche con Letta, per la verità quasi con nessuno, ma l’austerity e il Fiscal compact non sono moti dell’anima o atmosfere, sono politiche sbagliate da capovolgere. La sofferenza di 125 milioni di europei a rischio povertà non sono un film di Bergman ma la politica imposta dalla Merkel». Perciò continua a escludere qualsiasi ingresso in governi con «qualsiasi variante antropologica del berlusconismo», inclusi i «diversamente berlusconiani» come li chiama lui. Il leader greco torna in patria con qualcosa di più di un’alleanza con i piccoli partiti della sinistra italiana, intellettuali e movimenti. Incassa le lodi e soprattutto l’incontro con il primo ministro italiano Enrico Letta che ha trovato per lui un momento di faccia a faccia sabato pomeriggio a Palazzo Chigi. Con Letta, racconta lo stesso Tsipras, «ci separano molte cose ma abbiamo verificato anche punti in comune, specialmente sull’importanza di favorire investimenti per l’occupazione e lo sviluppo». Dimostra di credere fermamente che presto sarà anche lui al governo di Atene e spera di poter contare sull’appoggio del governo italiano, quello di Letta, era la rinegoziazione del debito. La sua proposta è quella di una conferenza internazionale per abbattere fino al 60% il debito dei Paesi, in gran parte del Sud Europa, che hanno un deficit oltre il 100 per cento del Pil. L’Italia è al 133 per cento, la Grecia con la cura dei Memorandum è passata dal 120 al 175 per cento. «Gli effetti sono quelli di una guerra -ha detto l’ingegnere 39enne al Valle - e la prima linea è nelle nostre case». La sua ricetta è: «Meno debito, meno tasse».

l’Unità 10.2.14
Crisi: 7 milioni gli under 35 che restano in famiglia
di Giulia Pilla


Quasi 7 milioni di giovani tra i 18 e i 34 anni vivono in casa con almeno uno dei genitori. Non è una novità, ma desta preoccupazione che la tendenza non rallenti. Come del resto non frena la disoccupazione (o l’inoccupazione) tra i ragazzi.
Qualche anno fa, quando ancora la crisi non aveva mostrato la faccia più feroce, l’allora ministro Tommaso Padoa Schioppa si spinse a chiamarli bamboccioni, qualche anno dopo un altro ministro, Elsa Fornero, disse dei ragazzi che erano troppo choosy. Dopo anni di recessione, di mercato del lavoro in contrazione e precarietà dilagante, l’una e l’altra definizione - irritanti già ai tempi - risultano ancor più inappropriate. Di sicuro tra i censiti dall’Istat (con Inps e ministero del Lavoro) nell’ultimo rapporto sulla Coesione sociale, diffuso in dicembre, qualche sfaccendato ci sarà pure. Ma si fa fatica a pensare che il 61,2% di giovani sotto i 35 anni non sposati, la bellezza di 6 milioni 964 mila se ne stiano a casa di (e con)mamma e papà per consapevole scelta.
I dati si riferiscono al 2012: nel 2011, la percentuale di giovani della stessa età che non erano ancora andati via da casa era del 59,2% (6 milioni e 933 mila), in crescita dunque. Come la disoccupazione, come la diffusione dei contratti non standard (cioè precari), come le restrizioni di accesso al credito e la mancanza di prospettive che impedisce la maturazione di decisioni come quella di un mutuo o di un affitto duraturo. Fossero soltanto ventenni appena usciti dalla scuola oppure studenti universitari, lo status colpirebbe meno. Dei circa 7 milioni contati, oltre tre milioni hanno tra i 24 e i 34 anni.
Il nuovo welfare
Quanto alle aree geografiche, la tabella da cui si ricavano questi numeri (www.istat.it) mostra come siano i ragazzi del Sud a vivere più a lungo a casa dei genitori (il 68,2%).La percentuale cala al 56% nel Nord-Ovest, al 58,8% nel Nord Est e al 59% al centro. Infine spetta ai maschi il primato di permanenza nella casa della famiglia di origine: tra i ragazzi infatti la percentuale di chi vive a casa di un genitore è del 68,3%, per le ragazze è del 53,9%. Citando lo stesso Rapporto, la Coldiretti fa notare un altro aspetto: anche nella maturità 4 italiani su dieci continuano a chiedere un aiuto economico ai genitori. È quel welfare familiare che in questi anni si è associato a quello «codificato» fatto di assistenza pubblica e ammortizzatori sociali, oppure lo ha sostituito del tutto. «Spesso considerata superata, la struttura della famiglia italiana si sta dimostrando, nei fatti, fondamentale - sottolinea la Coldiretti - per non far sprofondare nelle difficoltà della crisi moltissimi cittadini. Lo dimostra il fatto che le famiglie italiane, anche quando non coabitano, tendono a vivere a distanza ravvicinata dalle rispettive abitazioni». Una recente analisi dell’associazione di agricoltori e Censis ha infatti evidenziato come il 42,3 per cento degli italiani abiti infatti a una distanza non superiore a 30 minuti a piedi dalla mamma.
Questo bisogno di vicinanza, quando non c’è addirittura coabitazione, riguarda - precisa la Coldiretti - non solo i più giovani tra i 18 e i 29 anni (il 26,4 abita a meno di 30 minuti), ma anche le persone. Una «ricompattazione», anche questa, addebitata alla lunga crisi e spiegata con le nuove «funzioni socioeconomiche, con il passaggio alla famiglia soggetto di welfare che opera come provider di servizi e tutele per i membri che ne hanno bisogno».

l’Unità 10.2.14
Marco Pannella:
«Mi hanno contestato in tre. Ci sono anche i filmati»
intervista di Anna Tarquini


Una vita da antiproibizionista e poi ti ritrovi in piazza, nell’Italia di oggi senza più memoria, e vieni fischiato e apostrofato come venduto. E nessuno riconosce la tua storia. Al nome di Marco Pannella sono legate tante delle nostre battaglie degli anni ’70 dal divorzio all’aborto, ma quella per la liberalizzazione della droga leggera in Italia si può dire che se l’è inventata lui. Eppure sabato dalla manifestazione degli antiproibizionisti l’hanno insultato con la violenza attuale di molte piazze, soprattutto virtuali. E a nulla è servita la sua replica pacata... «Guarda che tuo nonno mi chiedeva di lottare per la depenalizzazione della droga leggera». Una frizione annunciata. Pochi giorni prima il Movimento antiproibizionista aveva intimato a Radicali di non partecipare al corteo. Ai Radicali e anche ai ragazzi del Cannabis Social Club, quelli che in Puglia combattono per la cannabis terapeutica.
Pannella le hanno detto «l’apartheid l’hai inventato tu», le hanno detto «venduto », le hanno detto «studia bene». Cinquant’anni di antiproibizionismo e cosa si è trovato in piazza?
«Intanto devo dire che me ne avete tolti dieci, sono sessanta. Cosa ho trovato in piazza, esattamente quello che tutta la stampa italiana non ha detto. Ho trovato solamente, ho i testimoni e i video, solamente abbracci, sorrisi, foto da fare insieme, senza eccezioni. Tranne un paio di boss fuori dalla grazia di Dio perché avevano i megafoni ed erano solo loro che potevano urlare. Ed erano quelli che ci avevano diffidato dall’andare al corteo perché sgraditi e chiedevano alla Digos di mandarci via come disturbatori ».
Erano del Movimento antiproibizionista?
«Erano i loro tre energumeni. Ma poi, Movimento anzi proibizionista? Ma quando mai sono esistiti, chi sono? Mi importa dire che abbiamo le riprese video, c’erano solamente, solamente abbracci, sorrisi e poi questi pazzi furibondi che credevano che ci fosse della gente che condivideva con loro questa reazione. Devo dire che è stata molto bella la cosa. Perché così ci sono stati migliaia di ragazzi che hanno vissuto in prima persona la cosa, come la racconto adesso e ora dovranno spiegare a tutti...”No, ma quale caos, era tutto calmo..”. Così capiranno e potranno raccontare come funziona la comunicazione. Io metto nel conto anche questa parte della storia, in positivo, la dimostrazione che la gente, come hanno dimostrato anche i nostri referendum, per strada c’è. Partecipa. Su una cosa invece è importante fare attenzione; la diffida che noi abbiamo ricevuto da questi è sintomo di alcune cose di cui dobbiamo guardarci, noi voi, tutti quanti».
Cioè?
«Dicono che sono sempre stato con gli americani contro la pace, poi con i palestinesi, poi addirittura con i Croati. Per loro noi siamo dei criminali, venduti, berlusconiani e via dicendo. Un documento da nazi-comunisti trogloditi. Gli albanesi si sarebbero vergognati in confronto ».
Le hanno anche detto: «Lei sta sempre in Tv», un paradosso anche questo per i radicali se qualcuno ricorda le battaglie con il bavaglio sulla bocca?
«Chi? Quegli energumeni. Perché invece non c’è stato uno che mi avesse dato uno spintone. C’è stata sì una persona che mi ha detto... però sei stato con Berlusconi... Con Berlusconi? Guarda, a piazza Argentina, lo abbiamo dato in diretta. Tutto qua».
Ecco, perché il punto è questo. Lei era stato già contestato nel 2011alla manifestazione degli “Indignados” e poi anche dai militanti radicali per il dialogo con Berlusconi. Pensa che le abbia nuociuto sul piano dell’immagine l’alleanza con Forza Italia per i referendum sulla giustizia?
«I militanti radicali sono tutti e nessuno. Quello che c’è alla luce del sole è che Berlusconi ha firmato lui, lui, non un compagno del Pd, i dodici referendum. E ha firmato, si è pronunciato ufficialmente, parlo di quello che è successo a Largo Argentina. Poi l’amnistia e l’indulto e poi continuità del governo. Questo è l’accordo con Berlusconi. È venuto lui a farlo qui. Poi per il resto abbiamo mai avuto una lira?»
Quindi come lo definisci l’episodio di ieri, il segno di una crisi della rappresentanza politica, ignoranza?
«Guarda questi hanno preso l’iniziativa definendosi antiproibizionisti. Siccome la manifestazione era stata annunciata anche dalle radio tutti quanti avranno pensato che era anche una cosa radicale. Abbiamo riempito piazza Navona per una vita. Ma ai loro che sono venuti, i militanti più stretti, in realtà, loro non gli avevano detto “abbiamo diffidato i radicali a non venire”. Chi era in piazza mi ha festeggiato con gioia come un vecchio zio che finalmente potevano vedere. Io ritengo che i ragazzi avranno poi detto agli organizzatori, ma siete matti? Ma a tutti ho detto, vedrete che la notizia sarà che mi avete contestato».
Le hanno dato del «venduto» in piazza. Ho sentito che guadagna duemila euro, niente vitalizi. Come mai?
«Io mi sono sempre dimesso da parlamentare per fare entrare i compagni. Allora il risultato qual è: che quello che subentrava al livello previdenziale si rifaceva all’intera legislatura, mentre ero io dimissionario e non scattava la legislatura. Per cui io adesso guadagno 2.350 euro. Non ho vitalizio, ho la pensione».
Pannella tra due giorni ci sarà la sentenza della Consulta sulla Fini-Giovanardi. Se dovessero dichiararla incostituzionale per la parte che riguarda l’equiparazione delle droghe pesanti a quelle leggere cosa accadrà?
«Vedremo che succede, noi abbiamo vinto due referendum sulla depenalizzazione. Cambieremo immediatamente questi ministeriali che hanno fatto lo zelo proibizionista e raccontano un mucchio di palle. E chiederemo immediatamente che non ci siamo più questi rappresentanti addetti da sempre a fare la campagna antidroga come l’hanno fatta cioè a favore della criminalità».

Corriere 10.2.14
L’«intifada» dei grillini
Il boicottaggio di Israele arriva anche a Roma
di Davide Frattini


16 mila vengono esportate in Europa. Così le minacce di boicottaggio non impensieriscono il proprietario Yakov Burg, anche perché la decisione di coltivare Merlot, Syrah, Chardonnay in una colonia sulle colline della Cisgiordania è per lui ideologica, quelle terre devono appartenere agli israeliani. 
Più preoccupati sembrano i manager della Mekorot, la principale azienda idrica del Paese e la quinta al mondo, che il 2 dicembre dell’anno scorso hanno firmato un memorandum di intesa con la romana Acea, un accordo per sviluppare «lo scambio di esperienze e competenze nel trattamento delle acque reflue, nella ricerca di soluzioni comuni per una gestione innovativa e sempre più efficiente delle reti di distribuzione di acqua potabile». Alla cerimonia erano presenti i due primi ministri Enrico Letta e Benjamin Netanyahu in visita in Italia. 
I dirigenti della Mekorot - di proprietà pubblica e creata dai pionieri ebrei nel 1937, ancora prima della fondazione dello Stato - temono che la cooperazione e gli investimenti possano venire annullati come è successo in Olanda, dove la società Vitens ha deciso di tagliare i rapporti dopo essersi consultata con il ministero degli Esteri e gli azionisti: «Diamo estrema importanza al rispetto delle leggi internazionali, non possiamo continuare a sviluppare i progetti comuni». Il comunicato non menziona in modo esplicito quella che sarebbe la ragione: la presenza di Mekorot nei territori palestinesi. 
In Italia i grillini hanno criticato l’accordo con l’Acea prima in consiglio a Roma (il comune controlla il 51 per cento del gruppo) e verso la metà di gennaio alla Camera. «A seguito delle politiche israeliane di gestione dell’acqua - accusa l’interrogazione parlamentare - i palestinesi che vivono in Cisgiordania possono disporre di meno di 60 litri al giorno (rispetto ai 100 litri minimi secondo gli standard internazionali), mentre i coloni dispongono di almeno 300; la Mekorot è attivamente impegnata nel mantenimento dell’occupazione». 
La denuncia del Movimento 5 Stelle è considerata «assurda» da Yigal Palmor, portavoce del ministero degli Esteri israeliano: «Giordani e palestinesi cooperano con Mekorot. Se sta bene a loro, perché non deve funzionare per gli stranieri. I progetti comuni sono sostenuti dalla Banca Mondiale e la nostra azienda ogni anno fornisce alla Cisgiordania più acqua di quella prevista dagli accordi con l’Autorità di Ramallah: con le nostre tecnologie avanzate e i sistemi di desalinizzazione possiamo permettercelo». 
La questione italiana emerge nelle settimane in cui il movimento Bds (Boicottaggio Disinvestimento Sanzioni) sta impensierendo il governo di Netanyahu. La solidarietà dell’attrice Scarlett Johansson ha estasiato gli israeliani ma ha contribuito a dare notorietà globale alla campagna ostile: l’attrice ha scelto di rinunciare all’incarico di ambasciatrice per Oxfam, dopo che l’organizzazione umanitaria aveva criticato la scelta di diventare il volto della Soda Stream, società con fabbrica negli insediamenti. 
Ieri Netanyahu ha convocato una riunione d’urgenza per studiare le contromosse e per la prima volta sembra dare ascolto agli avvertimenti di Yair Lapid, il ministro delle Finanze. Che ha preparato un dossier - per ora non reso pubblico - sui danni economici di possibili ritorsioni internazionali. Lapid rappresenta l’ala moderata nel governo ed è convinto che il fallimento dei negoziati di pace con i palestinesi porterebbe alla reazione dei Paesi europei. Calcola che le esportazioni verrebbero colpite per 20 miliardi di shekel (oltre 4 miliardi di euro), il Prodotto interno lordo perderebbe 11 miliardi l’anno (quasi 2 miliardi e 300 milioni di euro), salterebbero 9.800 posti di lavoro. 
È il rischio di quella che Thomas Friedman sul New York Times definisce una «terza intifada» guidata da Bruxelles e che è stata ufficializzata con il documento pubblicato lo scorso giugno dall’Unione Europea. Indica le linee guida da seguire nei rapporti con Israele, fissa le regole per prestiti o finanziamenti da parte della Commissione. E per la prima volta prescrive che ogni intesa venga accompagnata da una clausola: quei soldi non possono finire a università, società, istituzioni al di là della Linea Verde, «perché - precisa - gli insediamenti in Cisgiordania o a Gerusalemme Est non fanno parte dello Stato d’Israele». 
Poche settimane fa Pggm (un fondo pensione olandese) ha liquidato le sue partecipazioni in cinque banche israeliane per il «loro coinvolgimento nel finanziamento degli insediamenti». La stessa decisione è stata presa dal Fondo petrolifero della Norvegia (valore 810 miliardi di dollari, gestito dalla Banca centrale) che ha escluso due società perché coinvolte in costruzioni nelle colonie. La Romania ha proibito ai suoi cittadini di lavorare nelle imprese edilizie attive in Cisgiordania. 
Così il pericolo di un boicottaggio spaventa i manager e gli uomini di affari locali, tra loro il capo di Google Israele, che hanno firmato e diffuso sui giornali un appello al governo. Si rendono conto che i grandi gruppi finanziari non stanno aspettando la burocrazia europea.

In Italia: I dirigenti di Mekorot, principale azienda idrica di Israele, hanno firmato un memorandum di intesa con la romana Acea. Ora temono che il progetto sia annullato 
In Olanda: La società Vitens ha deciso a dicembre di tagliare i rapporti con Mekorot. Poche settimane fa Pggm, un fondo pensione, ha liquidato le sue partecipazioni in 5 banche israeliane «coinvolte nel finanziare gli insediamenti» 
In Norvegia: Il Fondo petrolifero del Paese ha escluso due società coinvolte in costruzioni nelle colonie. Invece l’attrice Scarlett Johansson (foto) resta il volto della ditta SodaStream (con fabbrica nelle colonie) nonostante le critiche

Repubblica 10.2.14
Shock per il sondaggio che sdogana la pedofilia
Allarme di Save the Children. “Per un italiano su tre accettabili i rapporti con gli adolescenti”
di Elisa Manisco


Il sesso tra adulti e adolescenti? Un tempo era un tabù. Ma ora un italiano su tre (il 38%) lo ritiene accettabile. Che sia virtuale o fisico, non importa. È il risultato shock di una ricerca realizzata dall’Istituto Ipsos per l’organizzazione Save the children in occasione del Safer Internet Day 2014, la giornata dedicata dalla Commissione Europea alla sensibilizzazione dei più giovani ad un uso corretto e consapevole della rete che viene celebrata domani. Ricerca ispirata da storie come quella delle baby prostitute dei Parioli e dai sempre più numerosi fatti di cronaca a sfondo sessuale che vedono coinvolti adulti, adolescenti e Internet.
«Sono state proprio vicende come quelle a ispirarci per questa ricerca. Ci sono sembrate la punta dell’iceberg di un fenomeno più ampio», racconta Valerio Neri, Direttore Generale di Save The Children. «Già negli anni passati ci eravamo occupati di tematiche come sexting e cyberbullismo, ma questi fatti ci hanno costretti porci delle domande sul ruolo degli adulti e della società in generale». E le risposte non sono state confortanti.
Dall’indagine, realizzata su un campione di circa 1.000 soggetti tra i 25 e i 65 anni, emerge che il 28% degli adulti iscritti a un social network ha tra i propri contatti adolescenti che non conosce personalmente. L’81% degli italiani pensa che le interazioni sessuali tra adulti e adolescenti siano diffuse e trovino in Internet il principale strumento per iniziare e sviluppare la relazione, che può sfociare in un incontro fisico.
Non solo: il 41% degli intervistati ritiene responsabili i ragazzi dell’iniziativa di contatto, anche perché considerati più disinvolti nell’approccio con gli adulti (48%) e sessualmente più precoci (61%) rispetto al passato. E sebbene il 36% pensi che gli adolescenti siano impreparati a gestire una relazione sessuale con un adulto, per un intervistato su 100 questo tipo di rapporto potrebbe addirittura essere formativo per il minore.
Secondo Neri, la colpa è di una «società che in un certo senso “adolescentizza” gli adulti. Oggi l’adulto, che sia genitore o meno, ha rinunciato al suo ruolo e temo che questa sia la prima indagine che lo dimostra. Se un uomo accetta anche semplicemente di fare sexting con un minore si sta comportando da adolescente tra gli adolescenti. Stiamo assistendo a una forma gravissima di deresponsabilizzazione ». Ma vale anche per le donne? Proprio in questi giorni si sta molto parlando di un romanzo, La lezione dell’americana Alissa Nutting (Einaudi StileLibero), che racconta la relazione sessuale tra un’insegnante e un suo alunno quattordicenne, e anche qui l’ispirazione viene da un fatto di cronaca. «No, le donne sono meno tolleranti a riguardo. La differenza di genere ha ancora un peso da questo punto di vista. Così come la provenienza. Gli intervistati del Sud trovano meno accettabile l’idea di un incontro sessuale tra un minore e un adulto, forse per una visione ancora tradizionale dei ruoli familiari e sociali ».
La soluzione, come sempre, è l’educazione, abbinata all’informazione. «La scuola è importante, così come sono importanti la famiglia e il gruppo dei pari. Noi di Save the Children portiamo avanti da tempo una campagna di sensibilizzazione su queste tematiche nelle scuole, ma anche tramite campagne in rete. Informare i ragazzi sui pericoli e i rischi che corrono, in rete e non, è fondamentale, ma se poi si ritrovano del tutto immersi in una società adulta che si comporta come loro e tende anche a sedurli, come sembra dimostrare questa ricerca, tutti gli sforzi educativi rischiano di essere inutili».

Corriere 10.2.14
Sesso tra adulti e adolescenti accettabile per un italiano su tre
Sì dal 38% a rapporti virtuali o fisici. L’iniziativa? «Anche dei ragazzi»
di Fabrizio Caccia


«Sono dati preoccupanti, questa storia degli adulti come eterni adolescenti non regge più, è una sociologia pericolosa - commenta allarmato Valerio Neri, direttore generale di Save the Children Italia -. Qui il problema sta diventando più complesso, si confondono le generazioni, gli adulti tra i 30 e i 50 anni hanno comportamenti sempre più seduttivi nei confronti dei minori e per i ragazzi il pericolo è enorme...». Neri ha ricevuto da poche ore sul suo tavolo l’indagine condotta dall’istituto Ipsos in occasione del Safer Internet Day, che si celebra domani, 11 febbraio. È la giornata istituita dalla Commissione europea per la promozione di un utilizzo sicuro e responsabile dei social network tra i più giovani (Facebook, Twitter, YouTube, Instagram, WhatsApp, Msn...) e il nostro ministero dell’Istruzione lancerà nelle scuole il progetto «Generazioni connesse» con la campagna intitolata «Se mi posti ti cancello». 
La ricerca Ipsos è illuminante: qui non si parla - attenzione! - di pedofilia, ma di interazioni sessuali tra adulti e adolescenti (fisiche ma anche solo virtuali) e il risultato acquisito, su un campione di 1.000 adulti tra i 25 e i 65 anni intervistati online (500 uomini e 500 donne), è che il 38 per cento degli italiani ha definito «accettabile» questo tipo di incontro tra adulto e minore. Accettabile - sono state queste le risposte - perché «ciascuno è libero di fare ciò che crede» (12 per cento) o «a patto che sia consensuale» (10) o che «la famiglia dell’adolescente approvi» (6 per cento) o «perché gli adolescenti sono più maturi» (5 per cento) o «perché è una cosa naturale» (3) o a patto che sia una conoscenza «solo virtuale» (2). Addirittura, per uno su cento, la relazione sessuale con un adulto può costituire «un’occasione di apprendimento» per il minore... 
«Questa è la prima ricerca fatta sugli adulti - sottolinea il direttore di Save the Children Italia -. E ciò che allarma, lo dicevamo prima, è la crescente deresponsabilizzazione». Proprio così. Perché è vero che ancora prevale un atteggiamento di condanna. Il 72 per cento degli intervistati (3 su 4) infatti mostra il pollice verso e attribuisce il contatto col minore a un «disturbo di personalità» dell’adulto, a una sua «vera e propria malattia» e lo ritiene in generale irresponsabile, emotivamente immaturo, per il 22 per cento addirittura bisognoso «di stabilire un rapporto di potere e di dominanza con una persona più debole per far fronte alle proprie insicurezze», mentre per il 21 per cento più semplicemente è incapace di «gestire un rapporto con un pari». 
Ma a preoccupare gli esperti, ci sono le risposte «giustificative», che vanno dalla «ricerca della propria giovinezza» (11 per cento), alla «voglia di fare un’esperienza nuova» (8), dal «piacere di stare con una persona piena di vita» (5) addirittura all’«innamoramento» (4). Il quadro che si delinea, comunque, è quello di un mondo adulto che considera i ragazzi di oggi «spregiudicati», «disinibiti nelle relazioni», con esperienze sessuali «più precoci» e benché tra gli intervistati siano in maggioranza coloro che attribuiscono agli adulti la responsabilità dell’iniziativa (49 per cento), per il 41 per cento anche gli adolescenti giocano una parte attiva e addirittura, per quasi un italiano su 10, sono i ragazzi i principali responsabili dell’approccio. 
Colpisce poi anche quello che gli italiani sanno (o meglio non sanno) di come la legge disciplina gli atti sessuali di un adulto con un minorenne (l’articolo 609-quater del codice penale sanziona duramente gli atti con i minori di 14 anni). Il 61 per cento è convinto invece che il rapporto non è «mai» consentito e che entrambi i partner devono aver compiuto 18 anni! Tuttavia, alla maggior parte degli adulti è chiaro il pericolo rappresentato dalla Rete, infatti per l’81 per cento il fenomeno dell’interazione sessuale è «diffuso» ma è facilitato (51 per cento) dalla scarsa selettività degli adolescenti nel concedere «l’amicizia» a degli sconosciuti animati da «cattive intenzioni». 
«La nostra indagine - dice Chiara Ferrari, di Ipsos - meriterà degli approfondimenti qualitativi, di sicuro vuol essere una base di partenza». «Senza dubbio - conclude Valerio Neri -. Finora c’eravamo occupati di cyberbullismo, di sexting (lo scambio di sms e foto a sfondo erotico tra ragazzi, ndr ). Stavolta, però, dopo i gravi episodi di mercificazione del corpo emersi dalle cronache, abbiamo deciso di iniziare a sondare il mondo adulto. E una cosa è certa: bisognerà continuare a scavare».

Corriere 10.2.14
Quel confine tra generazioni cancellato dai social network
di Silvia Vegetti Finzi


Il confine tra minori e adulti è diventato confuso da quando ai rapporti personali e diretti si sono sovrapposti gli scambi virtuali. Mancando la visione del corpo, viene meno l’aggancio alla realtà e si lascia spazio all’invenzione di una identità fantastica, ipotetica e provocatoria. Ecco uno stralcio di conversazione in chat tra due dodicenni: «Boy: Come sei? Lynda: non male. Boy: Che significa non male? Lynda: Carina. Boy: Non hai voglia di parlare? Lynda si scusa: 1,65, bionda, occhi chiari, terza di seno, 52 kg. Boy: vestita come? Boy: Parto sempre dicendo che ho 30 anni. Poi semmai, se capisco che quella con cui parlo è piccola, scendo». In questo caso l’inganno riguarda il piccolo che si finge grande, ma più pericoloso è il contrario, quando un adulto si presenta come un coetaneo del ragazzo. E con intenzioni tutt’altro che rassicuranti. Da tempo si invitano gli educatori, in particolare i genitori, ad assumersi le responsabilità che i nuovi mezzi di comunicazione comportano. Ma la ricerca dell’associazione Save the Children sull’atteggiamento degli adulti nei confronti del sesso con i minori, sesso reale e/o soprattutto virtuale, apre non pochi interrogativi. Sul palcoscenico della realtà simulata avvengono scambi che non troverebbero posto nella vita concreta. Ed è una scena in continua espansione. Basta pensare che il 75% degli intervistati «più social» si collega a Internet per trovare amicizia e amore e, in media, rimane collegato 3-4 ore al giorno, per gli uomini preferibilmente notturne. Il dato più significativo (più di un italiano su tre ritiene accettabili i rapporti con adolescenti) rivela una generale tolleranza, come se la differenza d’età non costituisse un problema. Più critico l’atteggiamento delle donne e dei genitori (il 55% si dichiarano preoccupati di quanto possa accadere ai figli). È vero che gli adolescenti sono cambiati e, in base a questa considerazione, il 41% degli adulti attribuisce anche a loro la responsabilità dell’iniziativa. Spesso sembrano più grandi di quanto non siano e ostentano una disinvoltura che sconcerta. Ma, di fronte a questa parata, dobbiamo chiederci: si tratta di una vera maturità? Non credo. Il più delle volte l’aspetto adulto di chi adulto non è ancora è un effetto di superficie e la sua disponibilità un autoinganno, un modo per mettersi alla prova, per misurare la sua età sul metro graduato delle relazioni intime e segrete. Tuttavia, anche quando non si realizzano rapporti sessuali, basta una conversazione insinuante e perturbante per destabilizzare un adolescente che, per quanto possa apparire spavaldo, è pur sempre fragile e vulnerabile, bisognoso di essere protetto e tutelato, anche da se stesso.

Corriere 10.2.14
Mondo digitale contro vita reale
Il lato oscuro dei social network
di Stefano Blanco


Direttore generale Fondazione Collegio delle Università Milanesi  Se c’è un divario digitale tra coloro che hanno accesso alle tecnologie e coloro che ne sono esclusi, è ormai acclarato che ne aumenta un altro tra il mondo digitale, in particolare quello dei social network, e il mondo reale. Nelle nuove generazioni di studenti medi ed universitari la correlazione tra un uso smodato dei social e alcune incapacità di affrontare i problemi della vita reale si fanno ogni giorno più evidenti. Esplodendo quando dal mondo dello studio si passa a quello pienamente adulto del lavoro. 
Troppe volte gli adulti, prigionieri di giovanilistiche effusioni per questi mezzi, faticano ad avere un quadro limpido sul tema. Se qualche anno fa le aziende correvano alla ricerca dei cosiddetti nativi digitali, oggi la sensazione è che un eccessivo appiattimento verso le logiche dei social network porti con sé persone con un impoverimento di alcune competenze chiave per la vita lavorativa e non solo. In primis, i social network allenano ad uno stile di discernimento del tipo like/unlike , impoverendo la capacità di comprensione di una realtà contemporanea che ha, al contrario, una complessità non pienamente comprensibile. La semplificazione porta ad una superficialità nell’affrontare i problemi. Così come la leggerezza di valutazione che si esprime in rete (troppo spesso anonima) porta conseguenze nefaste e inaspettate più che reali per gli autori. 
Lo smarrimento nell’affrontare e risolvere i conflitti, naturale e determinante nella costruzione di legami sani sul lavoro e in famiglia, è lo specchio di una crescente mancanza di «intelligenza sociale» che si manifesta in una difficoltà alla relazione con persone e organizzazioni reali. Così, a lato di una immensa potenzialità di allargamento di orizzonti anche sociali e di conoscenza, si avverte la pericolosa tendenza a rileggere il proprio stare al mondo entro schemi che non appartengono alla vita reale. Effetti indesiderati che impoveriscono non solo i singoli ma la società nel suo complesso.

l’Unità 10.2.14
La pedofilia è una malattia. Non dimentichiamolo
risponde Luigi Cancrini

Psichiatra e psicoterapeuta

La Chiesa cattolica romana è un’istituzione gerarchica di tipo rigidamente piramidale e il Papa ne ha potestà piena, assoluta e universale. Allora, se davvero ha a cuore le sorti delle decine di migliaia bambini abusati dai preti, Francesco dovrebbe scomunicare i suoi chierici «latae sententiae» e consegnarli alle autorità civili perché subiscano le giuste pene.
Davide Romano

Non credo che il Papa sia disponibile a una richiesta del genere che io stesso non condivo affatto. Checché se ne pensi, infatti, la pedofilia è un disturbo psichiatrico e dunque una malattia (o, se volete una sventura) caratterizzato, secondo il DSM (Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders) IV da «fantasie, impulsi sessuali, o comportamenti ricorrenti, e intensamente eccitanti sessualmente, che comportano attività sessuale con uno o più bambini prepuberi (generalmente di 13 anni o più piccoli)» che vanno avanti per almeno 6 mesi e che compromettono in modo sempre significativo, e spesso drammatico, l’equilibrio personale di chi ne soffre. Legata in molti casi a traumi infantili non elaborati dal soggetto, questa psicopatologia viene «coperta» spesso, nella pubertà e negli anni subito successivi, da difese inconsce che tendono a tenere lontano dalla coscienza, con più o meno avvertita fatica, l’intera area della sessualità. Il celibato e la religione offrono spesso, a queste persone, una possibilità di sbocco ragionevole e socialmente accettata per il controllo di tendenze che possono riaffiorare, tuttavia, in momenti diversi della vita. Rispondere a tutto questo con una scomunica sarebbe contro il Vangelo e contro il buonsenso. Distinguere il peccato (che va condannato con decisione) dal peccatore (che va curato) è fondamentale, infatti, per chi nel Vangelo e nel buonsenso crede. Anche nella tristezza di situazioni come queste.

La Stampa 10.2.14
L’amore al tempo del web? È quello di Jane Austen
Si dice che Internet abbia cambiato le regole dell’attrazione Ma una scrittrice dell’800 aveva capito (e raccontato) tutto
di Vittorio Sabadin

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Repubblica 10.2.14
La morte di Eluana continua a dividere l’Italia
“Cinque anni dopo non c’è ancora una legge”
Oltre cento Comuni hanno creato un registro per il testamento biologico. Ma i tentativi di delineare un quadro normativo chiaro si sono arenati
di Laura Montanari


Sono passati cinque anni dalla morte di Eluana Englaro e in Italia non c’è ancora nessuna legge sul testamento biologico: «Cosa più grave - spiega Filomena Gallo, dell’Associazione Luca Coscioni - non sembra esserci la volontà del Parlamento di legiferare su questi temi». Tutto sembra essersi fermato dopo tante discussioni, divisioni e raccolte firme.
Aveva 21 anni Eluana quando, la notte del 18 gennaio 1992, tornando da una festa a Pescate (Lecco), ebbe un gravissimo incidente stradale: per i successivi diciassette è rimasta in coma vegetativo, poi il 9 febbraio 2009, venne sospesa l’alimentazione artificiale e l’idratazione che la tenevano in vita. Una decisione sofferta che fece - e fa - ancora molto discutere. I genitori di Eluana, il babbo Beppino e la mamma Saturnia, arrivarono a quel giorno dopo una estenuante battaglia legale durata undici anni: chiedevano che fosse rispettata quella che ritenevano essere la volontà della figlia, contraria all’accanimento terapeutico. Nel marzo di quello stesso 2009 venne approvato in prima lettura un disegno di legge, il ddl Calabrò osteggiato da alcuni associazioni. Il testo finì con l’arenarsi in Senato, poi si chiuse la legislatura.
«Ci sono decisioni dei tribunali che compongono una giurisprudenza su cui ci possiamo basare, ma di fatto ci vorrà una legge» spiega ancora Gallo, e a lei si associa il tesoriere dell’Associazione Luca Coscioni, Marco Cappato, secondo il quale «legiferare sul testamento biologico servirebbe più che per ribadire il diritto a lasciare delle volontà che vengano poi rispettate, un diritto già garantito in Costituzione, a fare chiarezza sugli obblighi in capo ad altri soggetti che se ne prendono cura, come ad esempio i medici».
In assenza di una legge, ci sono però oltre 110 comuni in Italia che hanno attivato il registrosul testamento biologico: «Significa fornire un servizio ai cittadini, agevolarli nel far rispettare la loro volontà» aggiungono dall’Associazione Coscioni. Ma anche su questo punto ci sono pareri contrari: sono «inefficaci» secondo Eugenia Roccella, parlamentare di Ncd, che all’epoca del caso Englaro era sottosegretario alla Salute: Roccella ricorda un parere dato dal ministero della Salute e da quello del Welfare ai Comuni, nel quale si rilevava l’inefficacia completa dei registri sul testamento biologico proprio per l’assenza di una normativa che li regolasse.
In questi anni il padre di Eluana ha continuato nella sua battaglia partecipando a decine di incontri e dibattiti sulla questione del fine vita. Per l’anniversario della morte di sua figlia da tre anni chiede rispetto e silenzio, ma ieri, una delegazione di venti manifestanti di Militia Christi ha protestato davanti alla clinica “La Quiete”, dove morì la giovane, esponendo lo striscione: «Per Eluana... mai più eutanasia».

La Stampa 10.2.14
La pillola del giorno dopo torna a dividere
Svolta dell’Agenzia ministeriale: non è un farmaco abortivo
Cambiano le regole: è solo contraccettiva. Ma i medici obiettori: continueremo a non somministrarla
di F. Ama.


La pillola del giorno dopo non è più un farmaco abortivo ma contraccettivo. L’Aifa ha pubblicato la revisione nella Gazzetta Ufficiale del 4 febbraio, presto saranno aggiornati i bugiardini delle confezioni. Sparirà la vecchia dicitura «il farmaco potrebbe anche impedire l’impianto», per essere sostituita da «inibisce o ritarda l’ovulazione».
È una variazione che ha un peso non indifferente, come ha spiegato Emilio Arisi, presidente della Smic, la Società medica italiana per la contraccezione: «Cade definitivamente l’appiglio che consentiva ai medici obiettori di coscienza di negare la somministrazione della contraccezione di emergenza». E si «corregge una vecchia scheda tecnica che risale al 2000». «Troppe volte ha aggiunto alle donne è stato negato il diritto ad accedere alla contraccezione d’emergenza nascondendosi dietro la sua presunta abortività. Un atteggiamento inaccettabile, anche perché chi fa ricorso alla contraccezione d’emergenza vuole evitare di dover incorrere in un aborto».
Insomma le donne che vorranno interrompere una gravidanza appena iniziata non dovrebbero più vedersi rifiutare la somministrazione da parte dei medici obiettori di coscienza. Ma il condizionale è d’obbligo perché gli obiettori invece sostengono che anche questa revisione non muta nulla dal loro punto di vista. C’è chi continuerà a fare obiezione sapendo di non incorrere in sanzioni perché sanzioni non ne esistono in questo campo. E c’è chi rifiuterà comunque la somministrazione come Bruno Mozzanega, ginecologo dell’università di Padova, autore di 170 pubblicazioni scientifiche. «Proprio basandomi su quanto ho scritto ed è stato pubblicato su riviste scientifiche internazionali continuerò a non somministrare la pillola del giorno dopo. E lo faccio rispettando la legge perché non basta proclamare un metodo contraccettivo per trasformarlo in un metodo eticamente accettabile. Se il metodo non rispetta la vita umana dal suo inizio non solo non è buono in sé, ma è perfino contrario ai principi giuridici che regolano la vita sociale come la legge 405 del 1975».
E, quindi, il braccio di ferro continua immutato così come si annuncia battaglia sulla Ru486. Dalla relazione annuale sull’attuazione della legge 194 trasmessa al Parlamento lo scorso settembre risulta che il 76% delle donne che ricorre alla pillola abortiva chiede le dimissioni volontarie prima dello scadere dei tre giorni previsti dalla circolare ministeriale. «Visto che la prescrizione non viene rispettata e non ci sono conseguenze per questo osserva Elena Carnevali, deputata del Pd chiederemo una verifica al ministero della Salute per capire se sia realmente necessaria».
Altro dato su cui si chiederanno approfondimenti è l’82% degli interventi per l’interruzione di gravidanza effettuato in anestesia generale. «E’ una scelta non giustificabile dal punto di vista della salute delle pazienti», commenta Elena Carnevali

l’Unità 10.2.14
Quote agli immigrati: metà Svizzera dice sì
di Virginia Lori


Passa per un soffio il referendum sul tetto per i lavoratori stranieri, compresi i «frontalieri» italiani. Decisivo il Canton Ticino. Ue delusa: «Va contro il principio della libertà di movimento»
In una Svizzera praticamente spaccata a metà dal voto, tornano le quote per gli immigrati, estese anche a quelli provenienti dall’Europa occidentale. Anche se per una manciata di voti, meno di 30mila, con il 50,3 per cento prevalgono i sì nel referendum «contro l’immigrazione di massa» promosso dall’Unione democratica di centro (Udc), il partito populista di estrema destra, e dalla Lega dei Ticinesi.
Dalle urne chiuse ieri alle ore 12 - molti i voti giunti per corrispondenza - dopo un lungo testa a testa ha finito per prevalere per un soffio la proposta dell’Udc che prevede l’introduzione di «tetti massimi e contingenti annuali per tutti gli stranieri, stabiliti in funzione degli interessi globali dell’economia svizzera e nel rispetto del principio di preferenza agli Svizzeri». Decisivo è stato il voto nei cantoni in cui si parla italiano e tedesco, del Canton Ticino e a Berna, oltre che delle «zone rurali», mentre i «no» hanno prevalso nella Svizzera francofona.
La campagna dell’Udc, giocata sull’effetto «paura» per il «pericolo di un’immigrazione di massa islamica» è stata rappresentata con efficacia dal poster usato nella campagna elettorale che mostravano un enorme albero che schiaccia una mappa della Svizzera e altri che ritraggono una donna con il velo sovrastata dalla scritta «Un milione di musulmani presto?». Una campagna che ha avuto il suo effetto sul Paese che conta solo 8 milioni di abitanti, di cui secondo stime ufficiali circa 500mila musulmani e pochissimi «praticanti». Ma avrebbero giocato un loro peso anche le preoccupazioni per la crisi sociale che colpisce anche i lavoratori svizzeri.
Significativo è stato il risultato nel Canton Ticino con oltre il 67 per cento di voti a favore della reintroduzione delle quote per gli immigrati. Un voto che finisce per penalizzare soprattutto l’immigrazione italiana e in particolare i circa sessantamila lavoratori «frontalieri» che ogni giorno varcano il confine per andare a lavorare in Svizzera e i circa 500 mila italiani che vi risiedono. Due anni fa la Svizzera aveva introdotto delle quote per gli immigrati provenienti da otto Paesi dell’Europa centrale e orientale, decisione che era stata fortemente criticata dalla Ue. La nuova proposta andrebbe oltre, estendendo queste quote anche agli immigrati provenienti dall’Europa occidentale e introducendo limiti a ogni diritto degli stranieri di portare con sé i propri familiari o avere accesso ai servizi sociali svizzeri.
Governo preoccupato
Il governo svizzero, la maggior parte dei partiti e le organizzazioni padronali si erano opposti alla proposta, mettendo in guardia sugli effetti dannosi che avrebbe avuto sull’economia del Paese e sulle relazioni con l’Ue. Era stato chiaro il monito del presidente della Commissione Ue, Manuel Barroso: «Gli Stati membri non accetteranno mai la separazione della libertà di movimento da altre libertà. Spero che la Svizzera lo capisca ». Ora dopo il risultato della consultazione che è vincolante, il governo dovrà rinegoziare i trattati con l’Unione europea relativi alla libertà di movimento dei lavoratori. La Svizzera non è membro dell’Unione, ma ha firmato diversi accordi di cooperazione bilaterale con Bruxelles, compreso uno che garantisce ai cittadini della Ue di vivere e lavorare in Svizzera e ai cittadini svizzeri di fare lo stesso nei Paesi europei. Sono 400.000 gli svizzeri che vivono in Paesi Ue, spesso con doppia nazionalità, e oltre un milione gli europei che vivono nella Confederazione.
Non si è fatta attendere la reazione di Bruxelles. La Commissione europea ha espresso il «suo rammarico» per l’approvazione delle quote e ha sottolineato che questa decisione «va contro il principio della libera circolazione delle persone tra l’Ue e la Svizzera». Ora la Commissione Ue «esaminerà nel suo complesso le implicazioni di questa iniziativa sulle relazioni con la Svizzera». Nessun problema internazionale pone, invece, l’altro referendum sottoposto ai cittadini elvetici dal partito Udc e bocciato: quello che chiedeva di eliminare la copertura dei costi per l’interruzione di gravidanza e per l’embrio-riduzione da parte del sistema assicurativo delle malattie di base. È passato, invece, senza particolari problemi il referendum che prevede «l’ineleggibilità e la destituzione di persone condannate o perseguite per crimini o delitti contrari alla dignità della carica».

Corriere 10.2.14
I confini del realismo
di Sergio Romano


Molti referendum svizzeri sono strettamente locali e, al di là delle frontiere della Confederazione, pressoché incomprensibili. Ma quello di ieri è un referendum «europeo», vale a dire destinato a provocare discussioni e ripercussioni in tutti i Paesi dell’Unione. Quando decidono, sia pure con un piccolo margine, che l’immigrazione deve essere soggetta a limiti quantitativi, gli svizzeri affrontano un problema comune ai loro vicini. Non sarebbe giusto sostenere che il loro «sì» abbia necessariamente una nota razzista e xenofoba. L’opinione pubblica xenofoba esiste e si riconosce nell’Unione Democratica di Centro, oggi maggioranza relativa. Ma parecchi elettori della Confederazione, nei cantoni di lingua tedesca e in Ticino (una scelta, questa, che potrebbe nuocere ingiustamente ai frontalieri italiani) hanno espresso preoccupazioni diffuse anche altrove. 
È forse opportuno che il principio della libera circolazione (a cui la Svizzera ha aderito con un referendum del 2000) continui a essere adottato in un momento in cui alcuni Paesi soffrono di una forte disoccupazione e altri, più fortunati, temono tuttavia che il loro mercato del lavoro venga sconvolto da arrivi eccezionali di persone provenienti dai Paesi in crisi? È opportuno assorbire ora nuovi disoccupati a cui non potremo dare un lavoro, ma a cui sarà necessario garantire alcuni benefici del nostro Stato assistenziale? Sappiamo ciò che ogni Paese vorrebbe fare, anche se non osa sempre confessarlo: aprire le sue porte a personale specializzato quale che sia la sua provenienza e chiuderle di fronte a lavoratori non qualificati, anche se cittadini di membri dell’Unione. Ma di tutte le soluzioni possibili, questa è la più inaccettabile. Abbiamo il diritto di essere realisti, ma non sino al punto di calpestare il principio di solidarietà. Se vuole essere qualcosa di più di una semplice aggregazione utilitaria, l’Europa non può voltare le spalle alle persone maggiormente colpite dalla crisi. Anche questo è realismo. Non si fa nulla di serio e duraturo se la costruzione non è fondata su diritti e doveri comuni. 
La Svizzera è legata all’Ue da un accordo e non potrà applicare il referendum senza un negoziato con Bruxelles. Ma se il problema è europeo tanto vale cogliere questa occasione per affrontare la questione della libera circolazione delle persone in tempi di crisi. Sarà più facile farlo, tuttavia, se il problema della solidarietà verrà affrontato in un contesto più largo. Qualche giorno fa, al Parlamento di Strasburgo, Giorgio Napolitano ha ricordato che la politica del rigore deve essere accompagnata e completata da nuovi investimenti privati e pubblici al servizio di progetti europei e nazionali. Vi è forse in quelle parole il disegno di un New Deal per l’Europa, nello spirito di quello voluto da Franklin D. Roosevelt per gli Stati Uniti quattro anni dopo la grande crisi del 1929. La politica del rigore, applicata sinora dall’Ue, era indispensabile. Oggi quella della crescita non è meno necessaria. Se il problema dell’immigrazione e del lavoro verrà affrontato in questa prospettiva, qualche temporaneo aggiustamento al principio della libera circolazione sarà forse opportuno e comprensibile .

La Stampa 10.2.14
Hamas sequestra statua di Apollo ritrovata a Gaza: “Alto valore politico”
Un pescatore aveva provato a venderla su eBay. Per le autorità che controllano
la Striscia è la prova “che vi sono state diverse generazioni di palestinesi”
di Maurizio Molinari

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La Stampa 10.2.14
«Puntare sulla Cina non è fuori moda»
5 domande a Alida Carcano

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l’Unità 10.2.14
Serve tempo per imparare. L’invito del latinista a non trascurare l’approfondimento
La nuova cultura tecnologica ed elettronica ha meriti di concretezza e velocità ma anche pericoli di una eccessiva superficialità
di Luca Canali


Quando si è molto vecchi, come io sono, e si sono attraversati quasi tutti i possibili ambienti, e io li ho attraversati, dalle università alle carceri politiche, al Pci - che già di per sé li conteneva quasi tutti -, dalle cellule operaie ai ceti medi, dai bancari agli assicuratori, alle redazioni dei giornali, ma anche a quelli frivoli della dolce vita (ciao Fellini, scomparso troppo presto!), e si è tipi che si affezionano e hanno molti amici, anche se poi molti e molti se ne sono andati, e altri tradiscono e te ne restano sì e no due o tre che poi hanno altro da fare, mentre tu, con le cataratte agli occhi devi cessare di leggere (maledetta grafia minuscola!) e per scrivere devi lasciare le predilette biro e sostituirle con i pennarelli a grafia «neretta» per me di più facile lettura, allora ti immergi nel passato con nostalgia di tante persone care e il loro ricordo ti ingoia e devi difenderti persino da tentazioni suicide (se dall’aldilà mi sentite, vi abbraccio Carlo Lizzani e Lucio Magri e altri ancora, che a quella tentazione, autodistruttiva, purtroppo non avete resistito), e ti consoli ricordando la pubblicazione dei primi versi del De rerum natura di Lucrezio da te tradotti e pubblicati su Rinascita, e ti viene in mente Togliatti che volle conoscere quel giovanissimo segretario politico della sezione Colonna, che la sera andava con i compagni ad attaccare i manifesti e, se capitava, a picchiarsi con i fascisti, ragazzi in buona fede anche loro, e poi t’immergi in quell’abisso di poesia che è il poema lucreziano, oppure ricordi Giancarlo Paietta che ti avvertì (stavi per accettare una cattedra a Cuba): «Guarda Canali, se lì fai i capricci politici come qui, là ti fucilano».
Insomma ora io mi lascio pervadere dalla nostalgia, ma cerco anche di immergermi nel presente, anche se mi fa ribrezzo, non parlo della gente, parlo dei cosiddetti «potenti» e «poteri forti » che non valgono un pelo di compagni quali Trusiani, capo della cellula degli operai delle Officine Centrali Atac, o Taticchi, segretario politico della sezione Colonna, che però tutte le estati tornava a trebbiare nella sua Umbertide, città dove era nato, o Virginio Bologna detto «er cocomero », capo dei gasisti motorizzati della Romana Gas. Certo non si può negare che attualmente si sta diffondendo una nuova cultura che potremmo definire tecnologica ed elettronica alla quale io per ragioni anagrafiche e di formazione - legate a una cultura tradizionale e fortemente ancorata ai valori estetici della letteratura e dell’arte - non riesco ad adeguarmi anche perché credo che, nonostante tutti i suoi meriti di concretezza e velocità di apprendimento, queste nuove modalità di apprendimento e di comunicazione superficializzino l’attività di ricerca e di riflessione.
Così accade che anche la formazione di una nuova classe dirigente, che con eccesso di enfatizzazione punta sulla categoria etico-politica del cosiddetto giovanilismo e della un po’ volgare definizione di rottamazione (più adatta agli sfasciacarrozze che agli uomini di cultura o semplicemente degli intellettuali e dei politici) rischia di produrre invece guasti difficilmente riparabili nell’intera società. Aggettivi e trovate linguistiche di tipo avanguardistico possono talvolta ottenere l’effetto contrario alle intenzioni di coloro che le hanno inventate ed essere pericolosamente vicine a una terminologia di vago e forse involontario sentore «di estrema destra».
Non dimentichiamo che su questi concetti di distruzione e ricostruzione di valori teorici si sostanziarono ideologie pericolose che finirono per disumanizzare la lotta politica e la spinsero pericolosamente vicina a fenomeni deteriori di comportamento umano. A tale proposito è inutile fare esempi chiari e raggelanti.
La civiltà dei nuovi mezzi di comunicazione va accettata. Serviamoci dunque dei telefoni cellulari che fanno tutto, aiutiamoci con google e altri motori di ricerca, ma cerchiamo al tempo stesso di evitare che questa digitale semplificazione e velocizzazione diventi una specie di pericolosa chimera per le giovani generazioni che andrebbero invece educate alla severità dell’impegno per scongiurare l’impoverimento progressivo, e a velocità trionfante, della società soggetta in questi ultimi anni a programmi economici basati sui tagli, tagli e ancora tagli anche sulla scuola, sulla ricerca, sull’Università e sulle misure per la tutela e la valorizzazione dei beni culturali. Tutte le facilitazioni introdotte dalla cultura tecnologica ed informatica stanno rischiando di diventare la premessa di una ulteriore divaricazione tra la povertà (anche intellettuale) e il lusso, lo snobismo di quella parte, non molto limitata come si crede, costituita dagli estremamente privilegiati membri della società affluente.

Corriere 10.2.14
Siate filosofi, cercate voi stessi
Da Sant’Agostino a Rousseau, confessarsi per capire la via maestra e il proprio posto nella realtà
L’essenza della speculazione dell’Occidente sta tutta in una frase di Sartre: il bisogno di sentirsi essenziali al mondo
di Pierluigi Panza


Ciò che spinge l’individuo a superare i traguardi raggiunti in un qualsiasi campo dell’attività umana è determinato da quello che Sartre definì «il bisogno di sentirsi essenziali al mondo». All’origine di questo desiderio, che si è manifestato in modi diversi (dall’aspirazione alla gloria degli umanisti, alla moderna costruzione di consenso, al proprio quarto d’ora di notorietà in tv), risiede uno stato di disagio nei confronti del mondo che ci induce a comprenderlo e migliorarlo. 
Anche i grandi filosofi, da Sant’Agostino a Cartesio, da Rousseau a Nietzsche, sono partiti dall’interrogazione sul rapporto tra se stessi e il mondo per salpare alla ricerca delle loro verità. 
Sant’Agostino, che da ragazzo aveva condotto una vita allegra, iniziò le proprie Confessioni ricordando lo stato nel quale era precipitato con una frase dall’efficacia mai eguagliata: «Io ero diventato per me stesso un problema». Chi non si è mai sentito in questa umana condizione? Di certo si sentì Jean-Jacques Rousseau quando incominciò a raccontare se stesso, ovvero cos’erano stati i suoi 53 anni di vita trascorsi tra infanzia errabonda, belle donne, il rifugio di Chambery, l’ostilità di Voltaire e Diderot, i figli lasciati allo stato di natura... «Intendo mostrare ai miei simili - scrisse quel giorno - un uomo in tutta la verità della sua natura, e quell’uomo sono io». 
Ecco, pensare se stessi, non solo esporsi o raccontarsi su un social network: questo è il modo d’esserci dei filosofi. Pensare se stessi nei confronti del mondo, a qualunque costo. Qualcuno lo ha fatto indagando tra i segreti dell’arte della memoria, finendo sul rogo (Giordano Bruno); qualcun altro salendo sulla Torre di Pisa per osservare la caduta dei gravi e finendo scomunicato (Galileo), un altro ancora sedendosi un giorno intero di fianco a una stufa, cercando un metodo «geometrico» per liberarsi dai preconcetti dell’istruzione (Cartesio). 
Come può non piacere la filosofia? È quel frutto ingenuo, quel sentire spontaneo, fanciullesco, di voler conoscere il mondo, capire le cose che ci circondano, chiedersi ogni giorno: ma io che cosa ci faccio al mondo? Perché c’è la vita? Perché dobbiamo morire? È quel pensiero muto che ci raggiunge la notte con la testa sul cuscino prima di addormentarci e ci sorprende sul tram quando piove, che ci fa scrivere «perché?» in un sms, che ci fa chiamare gli amici per spiegare cos’è successo, strillare, urlare, chiedere se «mi ami», dirti se «ti amo». Il filosofo è colui che si mette in fuga dalla vita quotidiana ritagliandosi uno spazio per pensare la vita quotidiana, fosse anche un minuto chiuso in bagno, sulla panca di una chiesa, confinato in macchina da solo nel piazzale del discount ad aspettare la mamma. 
La filosofia di un innamorato è amare, di un allenatore è il modulo per giocare e per uno scrittore è svelare al mondo se stessi proponendolo alla generosità del lettore, ricorrere alla coscienza altrui per farsi riconoscere come essenziali. Ma sempre interrogandosi. La filosofia è il «siate affamati, siate folli» gridato da Steve Jobs agli studenti di Stanford ed è la sommatoria di tutte le verità, come ha ricordato l’epistemologo Ian Hacking nella sua Lezione inaugurale al Collège de France nel 2001: «Ogni stile di ragionamento introduce nuovi modi di trovare la verità»; in materia di prova e di dimostrazione ogni stile introduce propri criteri e determina proprie condizioni di verità. 
Ciò è quanto andò pensando per decenni il filosofo francese Michel Foucault e quanto aveva sintetizzato il povero Friedrich Nietzsche, che morì pazzo, in un celebre aforisma: «Nur als Schaffende », ci salviamo solo come creatori. Creatori di filosofie. 
Durante il Medioevo, il senso del pensare ha coinciso con la rimemorazione. Conoscere voleva dire ricordare una mappa di luoghi topici. Questa costruzione del sapere è stata una barriera contro l’oblio i cui nemici, come ricordava la medioevalista Mary Carruthers, erano cose come la curiositas , ovvero il vagare disordinato della mente, o la fornicatio , ovvero il coinvolgimento del pensiero nella realtà sensibile. 
La retorica era la disciplina che ordinava questa filosofia. Ma da quando Cartesio si sedette a fianco di quella stufa riemerse il problema del fondamento, ovvero del punto dal quale partire per interrogarsi sulla conoscenza. E da quando Galileo e Copernico scoprirono le leggi che governavano la natura, riordinando il cosmo e posizionando la Terra non più al centro dell’universo, la filosofia non è stata più un ricordare o un creare idee di mondo, ma anche sottoporle a criteri di veridicità stabiliti intersoggettivamente, per rendere queste idee falsificabili. 
E oggi, dunque, c’è una dura realtà di cose e fatti che ci circonda, che trasmette stimoli ai nostri sensi, oppure ciò che vediamo e sentiamo dipende da noi stessi, da strutture di base del cervello, dalla nostra esperienza, dal vissuto? Una parte dei pensatori credono che la filosofia sia una critica della cultura, una forma retorico-letteraria che aiuta razionalmente a individuare le soluzioni pragmaticamente più valide (Richard Rorty) per disciplinare l’ordine delle cose, le leggi e i costumi. Il contributo individuale alla conoscenza starebbe nel partecipare a questo ininterrotto dibattito. Gli anglosassoni avvicinano invece la filosofia alle scienze dure, e indagano con strumenti che definiremmo scientifici qual è il modo di pensare dell’homo sapiens e di comprendere il mondo esterno. Altri ritengono che la filosofia abbia una sua autonomia nel pensare il mondo, e trovi in se stessa i propri fondamenti. 
Sì, è vero. La filosofia si attorciglia in concetti, teorie e scuole di pensiero che appaiono difficili, talvolta sconclusionati, a volte inesplicabili. Ma tutto parte da lì: chi sono io per me stesso? Che cos’è il mondo? 
La filosofia non è un’archeologia. Il filosofo non scopre reperti scavando tra le tombe di un passato la cui grandezza ci domina e ci schiaccia come topolini. La filosofia non è un alfabeto perduto per novelli Indiana Jones. Pensare è stato ed è l’unico modo poetico e moderno che l’uomo ha per poter vivere da uomo.

Corriere 10.2.14
Inseguendo la verità nel nostro cervello
di Edoardo Boncinelli


I libri che affrontano più o meno direttamente il tema del cervello e del suo funzionamento si vanno moltiplicando: un po’ perché l’argomento è uno di quelli che attrae di più e un po’ perché si annunciano sempre interessanti novità sul tema. Le novità derivano dagli eccezionali progressi delle neuroscienze o dalle continue speculazioni sulla mente e sulla psiche di cui l’animo umano è ghiotto, anche se dietro di quelle non ci sta assolutamente niente di serio. D’altra parte, ciò dietro al quale non sta niente, non può mai essere contraddetto. 
Al primo gruppo di libri appartiene certamente Il bello, il buono, il vero. Un nuovo approccio neuronale di Jean-Pierre Changeux (a cura di Chiara Cappelletto, Raffaello Cortina Editore, pagine 385, € 29), che costituisce l’ultimo prodotto dell’autore basato sulle sue lezioni al Collége de France di Parigi, dove uno studioso di grido è invitato a tenere un ciclo di lezioni in un linguaggio accessibile e aperto a tutti. Io stesso posso testimoniare di avervi fatto lezione a persone qualsiasi spesso stipate o sedute per terra. Changeux è uno dei più prestigiosi neuroscienziati, dopo essere stato un pioniere della biologia molecolare e dell’enzimologia nei lontani anni Sessanta. 
Il libro non parla solo di neuroni e circuiti ma contiene un impressionante numero di riferimenti storici di ogni tipo. Il titolo riecheggia ovviamente la posizione di Platone, che il nostro autore sembra amare molto, secondo la quale bello, buono e vero coincidono. Riesce a persuaderci di questo Changeux? Direi proprio di no. E come potrebbe? Ma il titolo costituisce comunque un’ottima scusa per parlare di estetica, di morale e di teoria della conoscenza dal punto di vista delle neuroscienze. C’è qualcosa da imparare da tale approccio e da una tale visione delle cose? 
Secondo me, e secondo la maggior parte dei neuroscienziati in attività nei vari laboratori del mondo, direi di sì, ma ci sarà certamente gente che non sarà d’accordo, come traspare anche dalla postfazione inserita nell’edizione italiana del volume: si tratta delle solite persone per le quali c’è sempre «dell’altro», un altro che però non ci dicono mai che cosa sia, se non per miti e analogie o semplici notazioni nostalgiche: come era bello il mondo quando non c’erano quei rompiscatole degli scienziati! 
C’è molto da imparare in questo libro - particolarmente forte è il trattamento dei meccanismi che stanno dietro alla capacità di leggere - ma anche da riflettere: direi che sia la prima volta, infatti, che uno scienziato, ottimista per tradizione e temperamento, non è del tutto ottimista sul futuro, anche della mente. Anche uno scienziato non può non essere colpito dalla siderale distanza che separa i progressi della conoscenza razionale da un lato e, dall’altro, il persistere di prevenzioni e ostilità alimentate dalla nostra parte animale: il fatto è che noi amiamo studiare quello che ci piace, non quello che non ci piace. Ma questo non è un atteggiamento scientifico e nemmeno progressivo o costruttivo. A quando la neurobiologia della stupida cattiveria e del dispetto per il dispetto? Si parla tanto di conflitti di interesse. Ma la maggior parte del male è fatto da persone che in realtà non ci guadagnano niente, anzi.

Corriere 10.2.14
Processo al ’68. Per stupro
La «versione di Popi», da leader del Movimento a reietto
Saracino, accusato da una sua studentessa e poi assolto rievoca il caso e le sue implicazioni
di Pierluigi Battista


Il Tg della sera fece addirittura questo titolo: «Leader del ’68 condannato per stupro». Messa così, era una condanna a un intero movimento, lo sgretolamento di un mito. Si era nel cuore degli anni Ottanta, negli spensierati anni Ottanta. Il ’68 accostato allo stupro? Gli squillanti domani che cantano intrecciati a una vicenda spregevole? Del resto, non era solo il Tg della sera. Anche tra i suoi amici e compagni - gli amici del leader accusato, si intende - ci fu chi, come il «Carisma», si fece afferrare dal più cupo pessimismo politico: «”Questo è un attacco al ’68”, sentenziò con la sua voce di basso profonda». Che poi il «Carisma» era Mario Capanna, celeberrimo leader del Movimento Studentesco milanese. E a riferire quell’osservazione di Capanna adesso è Popi Saracino, che era stato anche lui un celebre leader del Movimento Studentesco, e che era esattamente il «leader del ‘68» accusato per stupro. Poi assolto. Innocente. Vittima di un errore giudiziario. Ma intanto il ’68 se la cavava. Lui, Saracino, ne sarebbe rimasto marchiato a vita. 
Le vicende giudiziarie passano come pesanti rulli che schiacciano le vite delle persone. Quello di cui si sta parlando è un lontano fatto di cronaca dimenticato dall’opinione pubblica: «Come si chiamava quello del ’68 accusato per stupro all’inizio degli anni Ottanta? Ah sì, Saracino, Popi Saracino. E lei, la ragazza più giovane, l’allieva che lo aveva accusato? Simonetta Ronconi, si chiamava». Nelle nebbie vaporose della cronaca. Ma nella carne viva di Popi Saracino, che oggi propone quella storia in un breve e denso memoir, un’autobiografia sotto forma di ritratto letterario, «la versione di Popi», e che i lettori possono acquistare in ebook (edito da Vanda Epublishing). Un supporto modernissimo per riesumare una storia del Novecento appena trascorso. E per riflettere sulla violenza delle reputazioni date in pasto ai media famelici, alle generalizzazioni irrispettose della dimensione personale. 
Saracino venne assolto perché «il fatto non costituisce reato». Con formula piena, come si diceva quando era in vigore il vecchio codice di procedura penale che prevedeva ancora la mannaia dell’«insufficienza di prove», un modo retorico per dire che tutto il mondo ti considera colpevole, ma purtroppo non ci sono gli elementi probanti che possono dimostrarlo. Come se l’essenza dell’azione giudiziaria non fosse proprio questa: illustrare le solide prove di un’accusa. Altrimenti non è Stato di diritto, ma giustizia sommaria. 
E giustizia sommaria, nei titoli del Tg e nelle pagine dei giornali, fu. Fu giustizia sommaria tra molti collettivi femministi cresciuti sull’onda del ’68 di cui Saracino fu protagonista e che emisero un inappellabile verdetto di condanna sulle parole di una donna e ignorando totalmente le accorate dichiarazioni di innocenza del «mostro maschilista». Fu giustizia sommaria nelle redazioni dei giornali che gradirono molto questa perversa commistione di sesso e ’68. Fu giustizia sommaria per i moralisti e gli scandalizzati di professione perché il «fattaccio», come lo ribattezza Saracino, accadde a poche ore dall’uccisione di Walter Tobagi. Il nesso fattuale tra i due eventi naturalmente era quanto mai evanescente. Ma la coincidenza temporale sembrava fatta apposta per sottolineare in quali abissi di frivolo cinismo potesse cadere un rappresentante del ’68. Mentre i terroristi rossi sparavano e ammazzavano, un loro ex compagno si dedicava criminalmente alla violenza sessuale per martirizzare con i suoi bassi istinti una povera allieva, vittima dell’arroganza del nuovo potere. 
Del resto i terroristi di cui sopra, in una specie di referendum tenuto nei penitenziari di Padova e San Vittore in cui Saracino era stato incarcerato (innocente), optarono per l’ostracismo punitivo nei confronti dello stupratore: stare in carcere contro la «democrazia borghese» o per aver violentato una donna come asseriva la ragazza e come perentoriamente affermavano le compagne femministe era tutta un’altra storia, moralmente, a loro parere, molto più riprovevole. 
E invece no, in Appello la sentenza proclamò l’innocenza del reprobo. La reputazione del ’68 era salva. Le colpevoliste si misero presto l’anima in pace. Per Saracino, passata l’euforia dell’assoluzione, cominciò invece un periodo di amarezza e di ripiegamento. A leggere queste pagine, almeno, si ha questa impressione. Pagine segnate dallo sconforto. Ma anche da una struggente nostalgia per una stagione di cui certo non si condividono più le espressioni ideologiche, i rituali, le liturgie, i dogmi, ma di cui rimane un’aura indelebile. 
Il ’68, passaggio-chiave della biografia di Saracino, di questo schizzo autobiografico e dell’interesse morboso della vicenda giudiziaria appena evocata, non viene idealizzato e colorato di rosa. Il Movimento Studentesco di Milano, del resto, e Saracino si immagina che lo sappia, non godeva nemmeno di un’ottima reputazione «libertaria» con tutto quell’armamentario di «Katanga» e di bastoni nodosi orrendamente ribattezzati «Stalin». Ma in queste pagine ne viene rievocato, senza fastidioso autocompiacimento, uno spirito di avventura che banalmente è lo spirito di avventura dei vent’anni, quando il mondo sembra una porta spalancata verso le infinite possibilità e ci si sente protagonisti della Storia con ogni probabilità in modo abusivo, ma almeno con sincera convinzione. 
Per questo La versione del Popi può essere letto come un frammento di un passato condiviso che ha pure una sua rilevanza letteraria (o cinematografica). Un passato che fu bruscamente interrotto da una brutta vicenda che cambiò per sempre la vita del «leader del ’68 accusato di stupro». E che oggi può rivivere, senza acrimonia e in modo più posato, in un libro che ci permette di vedere quello che abbiamo lasciato dietro. Macerie. Ma non solo.

Corriere 10.2.14
Von Trier indaga la psicanalisi con il gusto della provocazione Ma «Nymphomaniac» diviso in due parti è un limite
di Paolo Mereghetti


È una delle prime cose che ti insegnano a educazione sessuale: il coitus interruptus non solo è rischioso ma abbassa molto anche la soglia del piacere. E infatti, alla fine delle due ore e 25 minuti di questo Nymph()maniac vol . I (la «o» del titolo è sostituita da due parentesi tanto per non cadere nel dubbio: si parla di quella cosa lì!), proprio sui titoli di coda scorrono delle immagini del vol. II e la sensazione di essere rimasto a metà, e per giunta sul più bello, si fa strada. 
Le ragioni di questa scelta tronca sarebbero state da chiedere al regista Lars von Trier, dopo la presentazione fuori concorso al festival di Berlino della sola prima parte, pur se integrale, ma il discusso regista danese non si è presentato alla conferenza stampa: ha partecipato al photo-call (dove ha sfoggiato una maglietta con scritto «persona non grata» sotto il simbolo della palma di Cannes, da dove era stato allontanato tre anni fa per delle avventate dichiarazioni antisemite) ma ha evitato le domande dei giornalisti. Così come ha fatto Shia LaBeouf che ha lasciato la conferenza stampa dopo aver risposto a chi gli chiedeva del suo coinvolgimento nel film con un sibillino «il gabbiano segue il veliero perché spera che gli tirino le sardine». E sempre l’attore si è presentato sul red carpet con un sacchetto di carta in testa con la scritta che da giorni continua a postare su Twitter: «Non sono più famoso». E così siamo restati tutti con i nostri dubbi. Che cosa racconta allora questa prima parte? L’incontro casuale tra Joe e Seligman, cioè tra Charlotte Gainsbourg e Stellan Skarsgård. Il secondo la trova pesta e priva di sensi per strada e la porta a casa, dove lei comincia a raccontare all’uomo come è finita così malconcia. E la prende da lontano, dalla scoperta infantile della propria sessualità, che lei chiama nel modo più diretto possibile. 
Da subito, fin dalla postura dei due (lei sdraiata a letto, lui su una sedia) si capisce che quello a cui von Trier ci invita è un viaggio psicoanalitico intorno al tema della sessualità vista dalla parte femminile. Lei racconta, mettendo subito in chiaro la sua «ninfomania», e lui domanda, puntualizza, spiega. È la parte più convincente del film, anche per merito dei due attori che sanno restituire, attraverso una serie di primi piani sempre più ravvicinati, la forza emotiva dei discorsi. Qualche volta viene il dubbio che von Trier stia provocando a bella posta - il paragone tra l’adescamento femminile e la pesca con la mosca - altre volte sembra voler usare il film per scusarsi (dopo le accuse di antisemitismo fa del comprensivo personaggio di Seligman un ebreo) o per smontare le certezze dei luoghi comuni (difficile contestare Joe quando sostiene che il rapporto tra i delitti commessi per amore e quelli per sesso è di cento a uno) ma in generale l’ambizione non comune dell’operazione mi sembra sorretta da una drammaturgia adeguata. Dove il gusto della provocazione fine a se stessa ritorna a fare capolino è nei tanti flash back con cui Joe racconta la sua odissea sessuale. Qui la Gainsbourg lascia il campo all’esordiente Stacy Martin (tornerà protagonista al 100% nella seconda parte) a cui tocca il compito di dare un volto e un corpo al suo lungo viaggio nel sesso. E qui le immagini, spesso molto realistiche, finiscono per dimostrare minor efficacia delle parole, di cui perdono la forza evocativa e allusiva. 
Con un’eccezione, però, quando Uma Thurman entra in scena: una lunga, straordinaria scena, fatta di rabbia vendicativa e dolore trattenuto, di grande forza e ancor più grande emozione, che riscatta le inutili scivolate nel troppo esplicito che ogni tanto fanno capolino. E che fa rimpiangere un film sullo stesso argomento ma con una forma diversa. Anche se vederne solo metà resta l’errore più grande e imperdonabile di von Trier.

l’Unità 10.2.14
Il porno molto colto
Al Festival arriva il primo capitolo di Nymph()maniac
Lars Von Trier si presenta in t-shirt che ha sopra il simbolo di Cannes e la scritta «persona non grata»
E il film? Il migliore che il regista danese abbia mai fatto
di Alberto Crespi


Se Lars von Trier sia o no un grande regista, è una sentenza che lasciamo volentieri ai posteri. Ma ieri, dopo la presentazione fuori concorso di Nymph()maniac (si deve scrivere così, con le due parentesi allusive) al Festival di Berlino, siamo sempre più convinti di una cosa che pensammo già molti anni fa, all’epoca del Dogma: Lars Von Trier è il più abile ufficio di stampa di se stesso che ci sia in circolazione, un manipolatore dei media veramente diabolico. Forse solo Lady Gaga (nella musica pop) e José Mourinho (nel calcio) sono altrettanto astuti nel far parlare di sé. Riassumiamo: le chiacchiere su Nymph()maniac girano in rete da anni, da quando Von Trier annunciò la propria intenzione di realizzare un film porno d’autore. Ora il film esiste ed è uscito a Natale, in una versione di circa 4 ore, in Danimarca, in Francia e in altri paesi. Una simile uscita internazionale pregiudica in teoria ogni partecipazione ai festival di fascia A; ma a questo punto cosa si inventa, il diabolico? Divide il film in due «volumi» e allunga il brodo, aggiungendo sequenze tagliate e soprattutto insertando le scene di sesso con dettagli hard estremamente più espliciti. Così, ieri a Berlino abbiamo visto Nymph()maniac vol. 1, per una durata di circa due ore e mezzo. Il volume2sarà probabilmente destinato a un altro festival, e qui la cosa si fa divertente.
Nel 2011 Von Trier presentò a Cannes il precedente Melancholia, e in conferenza stampa si lanciò in una scriteriata dichiarazione antisemita in cui si dichiarava «scherzosamente » nazista. Era una boutade tristissima, che però Cannes prese terribilmente sul serio dichiarando il regista «persona non grata». E ieri, a Berlino, che ti combina il diabolico (e dalli)? Si presenta al photo-call con una maglietta recante il simbolo di Cannes e, sotto la Palma d’oro, la famigerata scritta «persona non grata». Capita l’antifona? Da un lato Von Trier ha rilanciato la sfida al festival che l’ha ripudiato (come a dire: vediamo se ora avete il coraggio di non invitare Nymph()maniac vol. 2), dall’altro ha trasformato un’oggettiva retrocessione (tutti i suoi film precedenti sono stati in concorso a Cannes, un passaggio berlinese per lui è una diminutio) in un atto d’orgoglio.
In conferenza stampa, poi, Lars non si è fatto vedere. Ieri sera ha fatto la passerella, punto e stop. È ritornato ai tempi di Dancer in the Dark, quando anche a Cannes non si degnava di incontrare i giornalisti. Anche questa è una mossa astuta: una maglietta provocatoria vale più di qualche altra sciocchezza pronunciata in un microfono. A dire stupidate per lui ci ha pensato Shia LeBoeuf, uno dei suoi attori, che ha pronunciato la famosa battuta sui gabbiani che seguono la nave finché questa butta in mare le sardine, e poi se n’è andato sdegnoso. Probabile che LeBoeuf non lo sappia, ma quella è una celeberrima frase di Eric Cantona, il calciatore francese del Manchester United: il senso è uno sberleffo alla stampa, come dire «ci venite dietro finché noi vi buttiamo qualcosa di cui scrivere», ma Cantona era un genio e la diceva in modo consapevole (non a caso Ken Loach usò il filmato per chiudere lo splendido film Looking for Eric), mentre l’attore l’ha detta senza capire di essere lui, a questo giro, la sardina. La campagna pubblicitaria su Nymph()maniac è una delle più ciniche da anni. Vogliamo parlare, ad esempio, del manifesto sul quale tutti gli attori sono inquadrati nudi, dalle spalle in su, in inequivocabili espressioni orgasmatiche? È un manifesto da vero film porno, quando alcuni di quegli attori - almeno Uma Thurman, Stellan Skarsgard e Christian Slater, per quello che abbiamo visto ieri - nel film non si spogliano, non fanno sesso e interpretano tutt’altro. Ma Von Trier e i suoi produttori hanno capito che cavalcare lo scandalo permetterà di vendere qualche biglietto in più; se invece Nymph()maniac venisse pubblicizzato per quello che è, una riflessione quasi filosofica sulle pulsioni sessuali in cui i momenti «porno» sono pochissimi, la gente scapperebbe dai cinema.
A questo punto vorrete sapere anche voi cos’è e com’è, questo film. Tenetevi forte: il volume 1 visto ieri a Berlino è probabilmente il miglior film che Von Trier abbia mai fatto, quello in cui le sue ossessioni artistiche ed esistenziali vengono rappresentate sullo schermo con maggiore consapevolezza. In fondo, da Le onde del destino in poi, di che cosa parla Von Trier? Di eroine passionali che lottano per uscire dagli schemi in cui la società costringe le donne, facendo esplodere la propria follia o la propria sessualità e scontrandosi in modo tragico con le convenzioni dell’Occidente bianco e borghese. L’eroina di Nymph()maniac si chiama Joe, nome volutamente ambiguo: ad inizio film la incontriamo mezza morta in un vicolo. Un uomo anziano, di nome Seligman, la soccorre, la porta a casa e ascolta la sua storia. Capiamo subito di essere di fronte a un unico personaggio scisso in due, ad un Io razionale e ad un Es «selvaggio» che si confrontano. Joe racconta le proprie sfrenate avventure (sessuali, ma non solo) e Seligman, che a un certo punto rivela di essere ebreo e di non vivere quindi il senso di colpa cattolico, le razionalizza. Esempio: Joe racconta di aver perso la verginità con un uomo che, nel corso del rapporto, le ha dato tre colpi davanti e cinque dietro, per un totale di otto; Seligman nota subito come i siano i numeri della Sequenza Fibonacci e siano legati alla sezione aurea. Joe, insomma, racconta - avendole vissute - tutte le pulsioni primarie dell’essere umano, Seligman le nobilita culturalmente tirando in ballo anche Bach, Kubrick (la citazione del walzer di Sostakovic che apriva Eyes Wide Shut), la polifonia medioevale e la scienza dell’etologia. Nymph()maniac è il «porno » più colto che sia mai stato girato, ma non ditelo a Von Trier, potrebbe arrabbiarsi.

Repubblica 10.2.14
“Meno sesso se lui lava i piatti” Ecco perché troppa parità può uccidere il matrimonio
Un saggio scatena il dibattito negli Usa: “Meglio i ruoli tradizionali”
di Federico Rampini


New York - Vuoi essere davvero eguale a tuo marito, nei diritti e doveri? Preparati a una vita asessuata. Troppa parità spegne il desiderio. L’allarme lo lancia una psicoterapeuta di Los Angeles, Lori Gottlieb, autrice di un saggio dal titolo inquietante: “Marry Him: The Case for Settling for Mr.Good Enough”. Si potrebbe tradurre liberamente: sposalo e basta, ecco le ragioni per accontentarsi di un marito che sia appena passabile… Perché il marito perfetto, quando esiste davvero, ha delle controindicazioni: è il partner ideale ovunque fuorché a letto. In un articolo sul magazine delNew York Times,la Gottlieb elenca una serie di statistiche a sostegno di questa tesi controcorrente. «I mariti che cucinano, passano l’aspirapolvere e si occupano del bucato regolarmente, fanno sesso 1,5 volte in meno al mese rispetto a quelli che non si occupano delle incombenze domestiche». Forse perché i primi sono esausti, spossati? No, la fatica non c’entra, la spiegazione andrà cercata piuttosto attingendo a “Cinquanta sfumature”… Ma andiamo avanti con i dati della Gottlieb. Il seguente ci ricorda quanto la condizione economica della donna americana sia in costante miglioramento: «Il 23 per cento delle donne sposate e con figli, ha un reddito superiore a quello dei mariti». Si può aggiungere che proprio nel corso dell’ultima crisi economica, la partecipazione femminile alla forza lavoro ha superato quella maschile: gli uomini venivano licenziati di più. Un po’ come accadde nella seconda guerra mondiale con il massiccio reclutamento delle donne negli uffici e nelle fabbriche per sostituire i maschi al fronte, una catastrofe (la recessione) si è trasformata nell’occasione per accelerare la marcia verso l’eguaglianza. E i segnali si moltiplicano a tutti i livelli. Hillary Clinton travolge qualsiasi rivale maschio, per il momento, nella battaglia virtuale dei sondaggi per la Casa Bianca (orizzonte 2016). La Silicon Valley ha visto di recente una “ondata rosa”, tante donne top manager hanno scalato i vertici di un’industria digitale che un tempo sembrava territorio maschile.
Le brutte notizie riguardano quel che accade una volta che la giornata di lavoro è conclusa, e si passa in camera da letto. «Se il marito ha dei passatempi tipicamente maschili – scrive ancora la psicoterapeuta californiana – ci sarà sesso per il 17,5 per cento in più, rispetto a un marito più simile alla moglie». S’intende cioè se lui taglia la legna in giardino, o passa le ore libere nel garage a trafficare col motore della sua Harley Davidson… Insomma tutto ciò che ne fa un vero macho, darà dividendi consistenti sotto le lenzuola. E la carica erotica alla lunga ha conseguenze anche sulla tenuta della coppia. Ecco ancora la Gottlieb: «Il rischio di divorzio è a livelli minimi, quando la donna ha solo il 40 per cento dello stipendiodel marito, e lui fa solo il 40 per cento delle incombenze domestiche ». Sembra un peana reazionario, in favore delle coppie più tradizionali e diseguali. Solo in parte, però. Perché per lei vale il brivido della trasgressione, un po’ di tradimento le fa un gran bene: «Il 34 per cento delle donne che hanno relazioni extraconiugali si dicono felici nel loro matrimonio». La conclusione dell’autrice della ricerca: «Quei valori che fondano delle buone relazioni sociali, non sono gli stessi che scatenano l’appetito sessuale e il desiderio erotico. La maggioranza di noi donne, quando si spegne la luce, siamo eccitate da quelle stesse cose contro le quali saremmo pronte a protestare nel resto della giornata». Cinquanta sfumature, appunto… Quando iniziò il successo della famosa serie di romanzi sado- maso soft, scritti da una donna per un pubblico prevalente di lettrici, la proto-femminista Tina Brown dedicò una copertina di
Newsweek (con tanto di top model bendata) ad una esaltazione colta e raffinata delle pratiche di sottomissione a scopo erotico. Nessuno si aspetta che Hillary venga a raccontarci le sue fantasie proibite, ma la Brown è quanto più si avvicina al prototipo della donna di successo, potente, e ricca.
Quel che accade nelle gerarchie del lavoro, con l’ascesa costante delle donne, è descritto nella battuta di un’altra femminista storica, Gloria Steinem: «Noi donne stiamo diventando gli uomini ideali che vorremmo sposare »… Sposare, non vuol dire concupire. Curiosamente, altre ricerche citate dalla Gottlieb rivelano che perfino nelle coppie lesbiche un eccesso di parità conduce a una minore frequenza e intensità dei rapporti sessuali. La Gottlieb azzarda un’ipotesi bio-evolutiva. Forse siamo ancora portatori di un bagaglio culturale legato a una fase precedente della specie umana. Non abbiamo fatto in tempo ad aggiornare il nostro software erotico, per incorporarvi nuovi stimoli del desiderio, adeguati a una coppia più paritaria. Auguri alle prossime generazioni.

Repubblica 10.2.14
Alessandra Graziottin, direttore del Centro di ginecologia del San Raffaele Resnati
“Compiti diversi per moglie e marito le differenze scatenano l’attrazione”
intervista di M. E. V.


«Quando in una coppia i ruoli sono intercambiabili è quasi inevitabile che cali l’attrazione sessuale». Alessandra Graziottin, direttore del Centro di ginecologia del San Raffaele Resnati di Milano, non è stupita dai dati pubblicati sul magazine del New York Times.
Succede anche in Italia questo fenomeno?
«Da noi si conservano ancora ruoli più arcaici. Le compagne non sono così indipendenti e anche quando l’uomo partecipa, lo fa facendo cose da maschio. Questo è un modo per preservare l’attrazione senza far diventare la famiglia una società di servizi».
Insomma, lui non deve essere perfetto?
«La parola desiderio deriva da desidera che in latino vuole dire “dalle stelle”. Un’etimologia non casuale che ha in sé i concetti di distanza, differenza, mistero. Se uomo e donna diventano speculari, per cui uno si può sostituire all’altro, magari la vita di coppia ne guadagna, ma ne perde la dimensione sessuale».
Qual è la ricetta giusta?
«Credo che l’uomo debba aiutare perché questo gratifica la donna. Ma senza sostituirsi. Deve fare le cose che storicamente faceva come aggiustare le cose rotte o accompagnare i figli a fare sport. E la donna deve cercare di dedicare tempo a se stessa. E, infine, una coppia deve mantenere la partnership fuori dalla stanza da letto. Sa quante coppie che stanno insieme e hanno figli non si baciano più profondamente? Tantissime, è la prima cosa che si perde pur continuando a volersi bene. Ma è un segnale da non sottovalutare».

Repubblica 10.2.14
L’ingiustizia culturale
Cresce il divario econmico e libri, arte, teatro non sono più per tutti
di Rosaria Amato


Non potersi permettere neanche una settimana di ferie, o un pasto proteico ogni due giorni, non poter riscaldare la casa, dover fare a meno del televisore a colori o del frigorifero: questa è deprivazione materiale, e secondo l’Istat riguarda in misura “severa” il 14,5 per cento degli italiani. Ma c’è un’altra deprivazione: non potersi permettere di leggere un libro, o di andare a una mostra, o a teatro. Quasi un italiano su due tra chi non ha letto neanche un libro nell’ultimo anno dichiara di avere risorse economiche limitate. Una percentuale del 47,8, in crescita rispetto al 45,8 del 2012. Aumenta leggermente anche la quota dei “non lettori” in seria difficoltà economica, che passa dal 9 per cento del 2012 al 9,6. Dati che fanno pensare che il calo consistente della quota dei lettori, che secondo l’ultimo report Istat nel 2013 scende dal 46 al 43 per cento (calo confermato anche dai dati Aie: secondo l’associazione degli editori nel 2013 c’è stata una riduzione di quasi due milioni di lettori) sia dovuto anche alle difficoltà economiche, e che il rischio di povertà o di esclusione sociale(che riguarda ormai il 29,9 per cento degli italiani) sia anche un rischio di esclusione culturale. Una situazione figlia anche della «polverizzazione del ceto medio», osserva Alex Turrini, direttore del corso di laurea in Economics and Management in Arts, Culture, Media and Entertainment dell’Università Bocconi: «Con la polarizzazione tra i tanto ricchi e i tanto poveri, si riscontra anche un allontanamento dei poveri dai consumi culturali alti, e un maggiore consumo da parte dei ceti più abbienti. Un fenomeno che si sta verificando anche in Italia ».
Secondo l’ultima indagine della Banca d’Italia, il 10 per cento delle famiglie più abbienti nel nostro Paese possiede il 46,6 per cento della ricchezza netta familiare totale; nel 2010 si fermava al 45,7 per cento. La concentrazione della ricchezza, misurata secondo l’indice di Gini, è al 64 per cento: pochi anni fa, nel 2008, era al 60,7 per cento. L’aumento della disuguaglianza ha ricadute dirette e gravi sui consumi culturali, spiega Luciana Quattrociocchi, dirigente del servizio “Struttura e dinamica sociale” dell’Istat: «Concentrazione del reddito e spesa per consumi culturali delle famiglie presentano una relazione inversa: in altri termini, quando la ricchezza è detenuta pressoché completamente da poche persone, devastante è la ricaduta sui livelli di spesa per consumi culturali delle famiglie, che di conseguenza diminuiscono. Se, in generale, la spesa media mensile per famiglia nel 2012, pari a 2.419 euro, registra una diminuzione, in valori correnti, del 2,8 per cento rispetto al 2011, nello stesso arco temporale la spesa relativa al tempo libero e alla cultura registra una diminuzione ancora più sostenuta pari al 5,4 per cento. In particolare, le famiglie limitano la spesa proprio per cinema, teatro, giornali, riviste, libri».
Risultato, a leggere sono soprattutto le persone abbienti, o che comunque non soffrono per problemi economici. Il 57,9 per cento di chi nel 2013 ha letto almeno un libro dichiara di godere di risorse economiche “ottime o adeguate”, quasi due lettori su tre. Il 35,4 per cento dichiara risorse “scarse” e appena il 6 per cento dichiara di avere risorse “assolutamente insufficienti”. E i lettori “forti”, cioè quelli che leggono almeno 12 libri l’anno (e che secondo i dati Aie nel 2013 calano dell’11,4 per cento, 650mila in meno), sono in condizioni economiche anche migliori: il 65,6 per cento ha risorse “ottime o adeguate”, il 28,5 per cento dichiara risorse “scarse”, solo il 5,4 per cento è povero.
Rispetto a dati di questo tipo, è difficile affermare che la scarsità dei lettori in Italia sia dovuta al disinteresse. Certo, ci sono barriere culturali, ma anche queste sono spesso collegate al reddito. I librai sono in sofferenza, e da tempo chiedono un intervento pubblico. Nell’ultimo report Istat sulla lettura dei libri il 35,3 percento degli editori indica come principale ostacolo alla lettura proprio l’inadeguatezza delle politiche pubbliche di incentivazione all’acquisto dei libri, oltre al basso livello culturale della popolazione e alla mancanza di efficaci politiche scolastiche. La risposta del governo, annunciata da tempo, si è concretizzata nel bonus libro, uno sconto fiscale del 19 per cento inserito a dicembre nel decreto “Destinazione Italia”. La conclusione della vicenda è nota: il governo a fine gennaio si è accorto che i fondi non sono sufficienti, e in sede di conversione del dl ha ripiegato su un più modesto buono sconto da distribuire agli studenti delle scuole superiori con un reddito familiare sotto i 25mila euro. I librai recupereranno lo sconto con un credito d’imposta, soluzione certo non gradita agli esercenti, che lamentano molti mancati rimborsi per i buoni libro scolastici.
L’aumento della povertà edella disuguaglianza non si riflette solo sulla riduzione dell’acquisto e della lettura dei libri, ma anche sulle altre attività culturali. Per esempio va a teatro almeno una volta l’anno il 31,8 per cento dei lettori, ma solo l’8,6 per cento di chi non legge neanche un libro l’anno. Una situazione che si è aggravata con la crisi, e che ci allontana dalla maggior parte dei Paesi europei: «Il confronto internazionale – rileva Luciana Quattrociocchi – mostra per l’anno 2010 come la quota di spesa delle famiglie italiane destinata a consumi culturali (7,2 per cento) sia decisamente inferiore a quella media dei paesi Ue (8,9 per cento). Insieme a noi si collocano nella parte più bassa della graduatoria europea, con valori prossimi o inferiori al 6 per cento, Lituania, Grecia, Bulgaria e Romania. All’estremo opposto un nutrito gruppo di paesi, tra cui quelli nordici e il Regno Unito, la cui spesa destinata a consumi culturali supera nel 2010 il 10 per cento».
Il 37,5 per cento delle persone di 6 anni e più nel 2013 non ha partecipato ad alcun evento culturale: si tratta del valore più elevato dal 2008, anno di deflagrazione della crisi economica. Le riduzioni più consistenti, con percentuali adue cifre, riguardano però soprattutto lo sparuto drappello dei lettori con difficoltà economiche. Tra il 2008 e il 2013 si è ridotta del 9,1 per cento la quota dei lettori di “7 o più libri con risorse economiche insufficienti” che dichiara di andare a teatro; è calata del 14,8 per cento la frequentazione del cinema, del 7,7 percento quella dei concerti di musica classica, del 5 per cento quella degli altri concerti, dell’8,9 per cento la lettura dei quotidiani.
Tra le pieghe del report Istat emerge anche un’altra considerazione. Se «la mancata frequentazione dei libri risulta correlata con l’esclusione da altre forme di partecipazione e fruizione culturale», questo vale anche per i figli dei non lettori. Perché a leggere in Italia sono soprattutto i figli dei lettori: la scuola incide, ma evidentemente non abbastanza. Tra i ragazzi di 6-14 anni legge il 75 per cento di chi ha madre e padre lettori e solo il 35,4 per cento di coloro che hanno entrambi i genitori non lettori. C’è persino una stretta correlazione tra il numero dei libri tenuti in casa e la lettura. Senza interventi adeguati, l’esclusione culturale può dunque diventare una maledizione che si tramanda di padre in figlio.