martedì 11 febbraio 2014

Corriere 11.2.14
Da Gramsci ai giorni nostri I 90 anni di storia de l’Unità


MILANO — Una prima pagina per ogni anno: l’Unità compie 90 anni e per festeggiare l’anniversario domani sarà in edicola uno speciale — curato da Fabio Luppino — allegato al quotidiano. Nel numero si ripercorre la storia del giornale, fondato il 12 febbraio 1924, con foto e articoli a firma, tra gli altri, di Alfredo Reichlin, Michele Serra e una tavola inedita del vignettista Staino. Dalla «nascita» della Costituzione alla morte di Enrico Berlinguer, ai giorni nostri con il voto sulla decadenza di Silvio Berlusconi da senatore, riecheggiano nelle pagine le voci e il ruolo della sinistra nella storia italiana. Uno spaccato a trecentosessanta gradi, senza dimenticare i grandi eventi mondiali — la Seconda guerra mondiale, la primavera di Praga, la guerra del Vietnam, la caduta del muro di Berlino e l’elezione di Barack Obama alla Casa Bianca — e le icone del comunismo da Stalin a Fidel Castro. Il direttore Luca Landò nel suo commento ricorda le parole di Antonio Gramsci che in una lettera al comitato esecutivo del Partito comunista il 12 settembre 1923 proponeva la fondazione del quotidiano: «Dovrà essere un giornale di sinistra. Io propongo come titolo l’Unità puro e semplice che sarà un significato per gli operai e avrà un significato più generale».

Repubblica 11.2.14
Meno battesimi e matrimoni in chiesa in vent’anni l’Italia è diventata più laica
Rapporto sulla secolarizzazione: in aumento i no all’ora di religione
di Marco Ansaldo

I sacramenti? Stanchi riti di passaggio. Il battesimo, la prima comunione, la cresima, il matrimonio in chiesa. Tutti questi eventi religiosi, un tempo tappe fondamentali per ogni cattolico italiano, oggi «presentano una tendenza alla diminuzione ». E il modello tradizionale di famiglia? In drammatico calo. «C’è una crescente indifferenza al modello proposto dalla Chiesa cattolica. E si nota la sempre maggior diffusione di un modo alternativo di vivere il privato». L’approccio alla famiglia, insomma, sta radicalmente cambiando. Dopo i sorprendenti risultati emersi dal sondaggio pubblicato domenica su Repubblica, in cui la maggioranza dei fedeli nel mondo appare in disaccordo con la dottrina cattolica vigente, un nuovo rilevamento in Italia conferma la disaffezione dei credenti. Il progressivo incremento della secolarizzazione risulta in un nuovo studio di Critica liberale, il mensile di sinistra liberale diretto da Enzo Marzo, questa mattina presentato a Bologna. Sul rito del battesimo, ad esempio, la percentuale dei bambini con età inferiore a un anno che hanno ricevuto il sacramento appare in diminuzione continua raggiungendo nel 2009 lo 70,3%, con una perdita di 19 punti percentuali rispetto al 1991. E anche per le prime comunioni, passate dal 9,9% del 1991 al 7,4, si conferma la diminuzione Trend che viene spiegato da Silvia Sansonetti, ricercatrice presso la fondazione Giacomo Brodolini, con il «sintomo di un allontanamento crescente dalla religione cattolica, come dimostrano numerose ricerche sulla pratica religiosa realizzate anche da studiosi di orientamento cattolico ». L’ultimo indicatore considerato è la percentuale dei matrimoni concordatari sul totale delle nozze concordatarie e civili. Il dato rivela una tendenza alla crescita dei secondi a svantaggio dei primi. Ma se il modo di fare famiglia in Italia cambia, cambia pure il modo di vivere la genitorialità, affrontata come «una scelta sempre più consapevole, prova ne è il ricorso alle misure anticoncezionali». La percentuale delle donne che consumano quelli orali ne indica un aumento (dal 10,3% nel 1992 al 18,9% nel 2004). Le gerarchie ecclesiastiche, si legge nel rapporto, «tentano di porre un freno a tutti questi mutamenti, soprattutto riguardo alle scelte in materia di procreazione». Tanto è vero che è in crescita continua la presenza dei centri di difesa della vita e dei consultori familiari.
Molto interessante poi l’analisi sulle «due altre scelte per le quali la Chiesa cattolica oggi tende a esporsi meno sotto il profilo pubblico »: la frequenza dell’ora di religione nelle scuole pubbliche e il finanziamento dello Stato con l’8 per 1000 alla Chiesa. Con una strategia che, si legge, «non sembra abbia condotto a risultati utili per quanto riguarda la partecipazione all’ora di religione: dopo essersi mantenuta costantemente intorno al 93% fino al 2003, negli ultimi quattro anni è diminuita, anche se in misura limitata, raggiungendo nel 2010 il 89,8% e nel 2011 89,3%». E sull’8 per 1000 la Chiesa, nel periodo della dichiarazione dei redditi, propone una campagna pubblicitaria sul proprio ruolo nella società italiana. «Questo strumento - commenta Critica liberale analizzando le curve degli ultimi anni - non sembra essere molto efficace ».
La rivista propone poi una seconda ricerca: sulla presenza di chiese e confessioni religiose in telegiornali, fiction, talk show, film. Un progetto sostenuto con i fondi dell’8 per 1000 della Chiesa Valdese - Unione delle chiese metodiste, che ha voluto registrare i dati effettivi della sperequazione televisiva. Il periodo monitorato comprende i primi mesi del nuovo Papa fino a settembre 2013. Ovviamente sulle tv la Chiesa cattolica ha dilagato. Anche qui l’arrivo di Francesco ha ribaltato la tendenza al ribasso di temi religiosi sui canali tv rispetto al 2012, quando si parlava soprattutto dello scandalo pedofilia e di Vatileaks. La comparsa sulla scena del Papa argentino è stata una sorpresa duratura. Perché Francesco, ancora adesso, appare in «luna di miele».
Ma discorso sulla tv a parte, in Italia la laicità prende sempre più campo. Chissà che cosa ne pensa davvero Jorge Mario Bergoglio, che spesso insiste sulla «forza dei sacramenti », e che proprio ieri, nell’omelia a Santa Marta, ha invitato i fedeli a «non guardare l’orologio» in attesa che la messa sia finita?

il Fatto 11.2.14
Il Panzerkardinal che salvò la Chiesa dalla paralisi
11 febbraio 2013. le dimissioni di Ratzinger aprono la strada a papa Bergoglio
di Marco Politi

Un anno dopo quell’11 febbraio, che ha cambiato la storia del papato e rivoluzionato la Chiesa cattolica, c’è una sola parola che si può rivolgere a Benedetto XVI: “Grazie!”. Grazie per avere permesso con il suo gesto umile, nobile, lucido e coraggioso la svolta, che ha portato all’elezione di papa Francesco.
C’è un’espressione tedesca “selbstlos”, che significa “privarsi di sé”. È più forte dell’italiano “disinteressato”, perché implica la forza di sapersi spogliare dell’attaccamento, che ognuno prova per se stesso. Benedetto XVI la mattina dell’11 febbraio, spogliandosi del manto papale di fronte ai cardinali, ha dato prova di questa forza. Il destino di Ratzinger è sempre stato di essere incasellato in caselle stereotipe. Ha avuto lodatori ciechi che per opportunismo hanno taciuto quando le cose non andavano, e che oggi con disinvoltura passano dai contenuti dell’era ratzingeriana ai concetti di Bergoglio come se si trattasse di un cambio di menù stagionale. E avversari per partito preso, prigionieri dell’immagine di Panzerkardinal a lui affibbiata.
Joseph Ratzinger ha avuto una ricchezza di pensiero, che sarà ricordata per il suo sforzo di coniugare fede e razionalità, rifuggendo da ogni patologia integralista, e di riflettere sul ruolo del cristianesimo come forza di minoranza attiva in una società secolarizzata sull’urgenza di trasmettere al mondo contemporaneo un messaggio primario: “Dio è amore e Gesù il suo volto”. Altri aspetti della sua dottrina – a cominciare dai principi cosiddetti non negoziabili – sono stati ampiamente criticati. Ma quello che conta nell’anniversario della sua rinuncia è il percorso del personaggio storico.
Benedetto XVI aveva ed ha molte doti: di teologo, predicatore e pensatore. Non aveva il carisma del governante. La politica è un’arte come saper suonare il pianoforte. Ratzinger non la possedeva come Pio XII o Paolo VI o Giovanni Paolo II (ognuno con il suo taglio particolare). Meno che mai era attrezzato nell’arte di padroneggiare le crisi. E tuttavia, nel momento in cui si è reso conto che il governo centrale della Chiesa cattolica stava entrando in una paralisi distruttiva, Benedetto XVI non si è aggrappato alla carica confidando nella tradizione che la vuole eterna (finché morte non intervenga). Non si è chiuso in un atteggiamento rancoroso, dando la colpa agli altri e autoassolvendo se stesso. Ha tratto le conseguenze, con senso del dovere tedesco così come per senso del dovere – e non per ambizione – aveva accettato l’elezione papale da lui non cercata bensì subita. La lucidità del suo gesto consiste nell’aver demitologizzato la carica papale e nell’aver ridato la parola all’unico corpo elettorale che esiste nella Chiesa cattolica: il collegio cardinalizio. Senza la sua abdicazione i cardinali – la maggioranza dei quali vescovi residenziali nelle più varie nazioni – non avrebbero avuto la libertà di fare un esame critico spassionato dello stato della Chiesa e della Curia e non avrebbero avuto la spinta a cercare un pontefice, uscendo dai confini ormai angusti dell’Europa. Il conclave del 2013 ha mondializzato la Chiesa e l’aver permesso la svolta epocale, sacrificando se stesso, è merito di Ratzinger. Cadde un fulmine la sera dell’11 febbraio proprio sulla cupola di San Pietro. La foto sembrò testimoniare l’evento inaudito, perché dal medioevo in poi non si era più assistito a dimissioni di un pontefice e una commissione segreta, istituita da Giovanni Paolo II, aveva sconsigliato decisamente l’ipotesi. Doveva essere una giornata di routine, con un discorso normalissimo di Benedetto XVI al concistoro dei cardinali in vista della canonizzazione dei martiri d’Otranto uccisi dai turchi più di mezzo millennio prima. Discorso di routine, che la vaticanista dell’Ansa Giovanna Chirri seguì dal suo box in sala stampa vaticana – gli occhi fissi su un piccolo schermo televisivo – senza cedere alla noia.
E fu la sua giornata di gloria, perché dopo il discorso ufficiale Benedetto XVI si fece dare un foglietto e cominciò a leggere in latino l’atto di rinuncia e la Chirri non si lasciò sfuggire la parola “ingravescente aetate… l’avanzare dell’età” e capì che stava succedendo l’impensabile. Cogliere in un lampo la notizia storica, valutarla, ottenere la conferma e trasmetterla per primi è il massimo che un giornalista possa fare. Giovanna Chirri alle ore 11,46 annunciò al mondo la fine del pontificato ratzingeriano. Prima assoluta rispetto a tutti i media. Meno ferrati della Chirri, in quel momento molti cardinali nella sala del concistoro non capirono bene di che si trattava. Benedetto XVI parlava a bassa voce, in fretta, con frasi smozzicate e il latino per molti era un ricordo d’altri tempi. Compresero solo quando il cardinale Sodano, decano del collegio cardinalizio, fece un breve discorso di replica costernato.
Un mese dopo, cinque votazioni di conclave cancellarono ogni ipotesi di papa italiano o europeo. Si scelse l’arcivescovo di Buenos Aires, che per settimane nel pre-conclave non era stato quotato come papabile. L’eletto è andato al di là delle previsioni dei suoi elettori. Non si è limitato a un programma di snellimento della curia e di riordino della banca vaticana. Francesco ha cambiato l’approccio della Chiesa alla società contemporanea e ai problemi del fedeli, specie in campo sessuale, sta creando un papato in cui gli episcopati del pianeta partecipano alle scelte strategiche della Chiesa, ha posto il problema della donna nei centri decisionali ecclesiali. E non è finita.


Corriere 11.2.14
Il Papa festeggia con 25 mila fidanzati
di Aldo Cazzullo


Papa Francesco festeggerà San Valentino con 25 mila fidanzati italiani, francesi, spagnoli, americani, asiatici. L’incontro (11.30 di venerdì prossimo in piazza San Pietro) non ha precedenti nella storia della Chiesa. «Non sono ancora sposati, ma si amano e vogliono amarsi per sempre»: questa la motivazione

Il San Valentino di papa Francesco in piazza con 25 mila fidanzati Monsignor Paglia: «Una domanda di futuro che Bergoglio sa intercettare» «N on sono ancora sposati, ma si amano e vogliono amarsi per sempre». Con questa motivazione, papa Francesco festeggerà san Valentino con 25 mila fidanzati. Un avvenimento senza precedenti nella storia della Chiesa: alle 11 e mezza di venerdì 14 febbraio, piazza San Pietro si aprirà a coppie di fidanzati venuti da 20 Paesi; la maggior parte sono italiani, ma ci saranno anche francesi, spagnoli, americani, asiatici. Un’ora di dialogo in mondovisione, con domande e risposte del Papa, conclusa da una benedizione. Una sola condizione: i fidanzati sono «promessi sposi», che contrarranno il matrimonio entro l’anno.
In un primo tempo, la cerimonia era prevista nell’aula Nervi, intitolata a Paolo VI. Ma le adesioni via Internet sono state tante che in pochi giorni i 7 mila posti erano già bruciati. E quando si è arrivati a quota 25 mila il Vaticano ha deciso: si farà in piazza san Pietro.
L’idea è di Vincenzo Paglia, presidente del pontificio consiglio sulla famiglia, ed ex vescovo di Terni. «Nel terzo secolo dopo Cristo, vescovo di Terni era Valentino — racconta Paglia —. Secondo la tradizione, il santo intervenne per consentire il matrimonio tra una giovane cristiana e un militare pagano. Neanche allora i matrimoni erano facili. La notizia si sparse, e in molti andarono da lui per chiedere aiuto. Ogni anno a Terni si tiene la festa della promessa, vengono in tanti a chiedere la benedizione. Da qui l’idea, in un tempo di spaesamento, di smarrimento, di crisi del matrimonio, di ridare uno scatto alla festa di san Valentino, di coglierla nella sua forza. Debbo dire che il Papa era rimasto contento dell’iniziativa fin dall’inizio. Ma non ci aspettavamo una risposta simile».
Dice Paglia che «è un’esplosione certamente singolare, che va colta nella sua profondità, in una società in cui il matrimonio viene spostato sempre più in avanti negli anni, quando i problemi sono già tutti risolti. Questi fidanzati, invece, si sposano per edificare insieme il futuro, per poter risolvere insieme i problemi, per costruire insieme una casa che sia stabile per loro e per i loro figli». Proprio ieri il Corriere dava notizia dei sette milioni di giovani italiani tra i 18 e i 34 anni che vivono con almeno un genitore. «È un dato che non può non rendere pensosi — commenta Paglia —. La politica deve assolutamente dare una risposta. Se non c’è casa e non c’è lavoro, è ovvio che si ritardi il tempo del matrimonio; ma in questo modo si ritarda l’edificazione della società. Sposarsi da giovani vuol dire rendere la società più dinamica, offrire l’esercizio della responsabilità già in età giovanile e non solo adulta. Piazza San Pietro piena di fidanzati sembra voler dire che una risposta è possibile. Io mi auguro che l’esempio di papa Francesco sia contagioso presso i politici, gli economisti, gli operatori di cultura, perché mettano al centro della loro attenzione la questione della famiglia».
Bergoglio ha voluto che tutta la Chiesa per due Sinodi — il primo nell’ottobre 2014, il secondo un anno dopo — discutesse di famiglia, vista sia come tema ecclesiale sia come tema sociale. E sulla comunione ai divorziati, a cui già Ratzinger aveva aperto, durante un dialogo pubblico con coppie — sposate però — a Milano nel giugno 2012, adesso si profila un confronto tra i vescovi. «Ogni risposta è prematura — dice per ora Paglia —, anche perché la questione va affrontata nel più vasto orizzonte della condizione delle famiglie dei divorziati e dei risposati. Non tutti i casi sono uguali e non si può dare una risposta semplificata a una situazione complessa, che sarà analizzata con attenzione durante i lavori del Sinodo. Non c’è dubbio che la via della misericordia nella verità sarà percorsa fino in fondo».
Dietro il San Valentino 2014, che si profila a suo modo storico, c’è ovviamente la popolarità di Francesco. «Il Papa riesce a intercettare questa domanda, questo bisogno di futuro — sostiene Paglia —. Il problema del matrimonio e della famiglia, prima di essere una questione di dottrina, è una questione di risposta alla solitudine. Questi giovani che verranno qui in piazza San Pietro e ci hanno stravolto il programma sono controcorrente. Non hanno paura di sposarsi in un mondo che non crede più ai legami che durano per sempre. Non hanno paura di mettere su una famiglia in un mondo in cui si crede che è bene che ciascuno pensi a se stesso. In questo senso, questi giovani sono un segno di speranza per la Chiesa e per il mondo. Non che sposarsi risolva di per sé le difficoltà; ma a mio avviso si tratta di ridare fascino al matrimonio religioso. Tra l’altro, le statistiche in Italia mostrano che chi si sposa in chiesa si separa di meno. Non dobbiamo attutire l’ideale del matrimonio; dobbiamo rilanciarlo nel suo fascino e nella sua forza. In una società che si defamiliarizza, magari con l’idea che “tutto è famiglia”, c’è bisogno di riproporre l’altezza del matrimonio e della famiglia».

La Stampa 11.2.14
Dal Vaticano alla scoperta del futuro Salone
Il Salone del Libro che avrà il Vaticano come Paese ospite è previsto dall’8 al 12 maggio. A sinistra il francobollo speciale
di Emanuela Minucci


La parola d’ordine, anche se lo stand sarà di grande impatto scenico (il Cupolone di San Pietro costruito «volume su volume»), durante tutto il sopralluogo, è stata «sobrietà». È questo il concetto più volte ripetuto ieri dalla delegazione della Santa Sede (presieduta da monsignor Pasquale Iacobone) sbarcata al Lingotto per visitare la location del Salone del Libro e più in particolare il 3° padiglione che ospiterà il Vaticano come Paese ospite.
La delegazione ha dedicato oltre un’ora alla visita del Lingotto e poi si è spostata a Palazzo Chiablese che durante i giorni del Salone del Libro (e anche molto oltre) ospiterà l’installazione multimediale ideata e realizzata da Studio Azzurro per il Padiglione Vaticano alla Biennale di Venezia 2013 e ispirata al tema della «Creazione» insieme con altre opere d’arte contemporanea   provenienti dai Musei Vaticani. Ad accogliere il gruppo ,il direttore del Mibact-Polo Reale Mario Turetta nelle belle sale che ospitano oggi la mostra «Doppio Sogno», un percorso tra scultura e pittura visitata in una settimana da 2500 persone). Con lui, il presidente della Fondazione Salone del Libro Rolando Picchioni, gli assessori alla Cultura Braccialarghe e D’Acri del Comune e della Provincia, assente per influenza l’assessore alla Cultura della Regione Michele Coppola. Durante l’incontro si è approdati ad alcune certezze: è confermata la presenza al Salo-
ne del nuovo segretario di stato vaticano monsignor Pietro Parolin. Uno dei momenti clou del programma (previsto il 9 maggio) sarà il confronto a due voci fra il cardinal Gianfranco Ravasi e un noto esponente di levatura internazionale del mondo dell’impresa e/o finanza. La sera di giovedì 8 maggio il Teatro Regio ospiterà un grande concerto del Coro della Cappella Sistina con ingressi aperti ai cittadini. Monsignor Ravasi terrà una lectio magistralis alla serata introduttiva del Salone che si terrà il 7 maggio all’Auditorium del Lingotto. È poi stata data la disponi-
bilità da parte di Rai 5 di trasmettere questa serata o un altro grande evento dal Salone in collegamento diretto: sarebbe la prima volta in 27 anni. Non sarà possibile, invece, per motivi di brevità del prestito e ragioni di sicurezza, trasferire a Palazzo Chiablese i codici, manoscritti e incunaboli provenienti dall’Archivio Segreto Vaticano che verranno esposti invece unicamente al Salone nei cinque giorni d’apertura. Infine il Vaticano farà un’emissione di un francobollo speciale dedicato al Salone del Libro. E l’annullo filatelico è previsto nei giorni della kermesse.

l’Unità 11.2.14
Le dimissioni di Ratzinger e la conversione del papato
di Claudio Sardo

E’ passato un anno dalla rinuncia di Benedetto XVI. Un evento storico, che ha dato ai credenti una chiesa ringiovanita e al mondo una sponda più solida per chi vuole sottrarsi all’omologazione individualista, nichilista, liberista. Ratzinger non sapeva che i cardinali avrebbero eletto Bergoglio, il primo papa dell’emisfero sud del mondo, il primo a prendere il nome di Francesco. Ma ha voluto, cercato, preparato quella rottura. Non basta certo il diritto canonico per spiegare le dimissioni. E non bastano neppure gli scandali, l’ingovernabilità della curia, l’accerchiamento mediatico, la viltà e l’incoerenza di tanti ecclesiastici, l’affanno di fronte alla secolarizzazione dell’Occidente cristiano.
In quell’atto di umiltà e di fede che è stata la rinuncia al papato, c’era un’intelligenza del tempo. E c’era anche lo spirito del Concilio, quello che tanti conservatori e reazionari volevano comprimere e sterilizzare, pensando che proprio il grande teologo Ratzinger fosse il giusto normalizzatore. Invece papa Benedetto ha riaperto alla Rivelazione la porta della storia. Come fece il Vaticano II chiamando i cristiani a cogliere con speranza i «segni dei tempi». E Ratzinger lo ha fatto - qui sta la grandezza del gesto - riconoscendo un proprio limite, anzi una propria impossibilità. Non ha rinnegato nulla del suo magistero, dei suoi scritti, dell’incessante ricerca di un nuovo dialogo tra fede e ragione, di quell’idea di verità che contrasta il relativismo assoluto: ma la dottrina stava diventando impronunciabile in un contesto di crescente ostilità verso la Chiesa, di fronte a incoerenze interne che il vecchio papa non riusciva più a governare, di fronte a pregiudizi che i fatti concreti (gli episodi di pedofilia, i dossier di Vatileaks, le inchieste sullo Ior, gli scontri interni alla gerarchia) confermavano e incrementavano. La rottura - cioè la scelta di spalancare le finestre davanti all’assedio - era il solo modo per riconsegnare intatto il patrimonio apostolico alla comunità cristiana. Papa Francesco è stato eletto in questo contesto, creato consapevolmente da Benedetto. E nel conclave i cardinali hanno dato al nuovo papa il mandato esplicito di riformare la Chiesa. Non sarà facile: il cammino è pieno di ostacoli. Sono già evidenti le resistenze alla «conversione» richiesta da Francesco. Ma è di questo che si tratta: innanzitutto di una conversione della Chiesa, che sola può ispirare e rendere credibile la sua riforma, quella voluta dal Concilio ma mai pienamente attuata. Una conversione che non risparmia il vertice romano: non a caso, papa Francesco ha dedicato alla «conversione del papato» uno dei primi capitoli dell’Evangelii gaudium, documento a dir poco rivoluzionario sia nell’idea di missionarietà della Chiesa, sia nella libertà con cui contesta l’ordine economico e politico mondiale.
La riforma della Chiesa è collegialità, è riduzione del potere curiale a vantaggio dei vescovi, è dialogo ecumenico, è condivisione delle speranze delle donne e degli uomini, è il perdono che viene prima della condanna morale, è la scelta dei poveri, è la verità che si svela nell’amore e non può essere cementata in un idolo. L’enciclica Lumen fidei è il punto di congiunzione tra Benedetto e Francesco: il corrispettivo di quell’immagine che resterà nella storia, con i due papi che pregano in ginocchio, uno accanto all’altro. Ma tutto ciò sarebbe incomprensibile senza il Concilio e senza un suo rilancio, a cui tende la svolta impressa dalle dimissioni. Ratzinger non è stato un papa conservatore. Anche se la destra ecclesiale e i teocon cercavano di erigere una nuova teologia politica attorno al turbo-capitalismo, anche se i «principi etici irrinunciabili» sono stati impropriamente trasformati in «valori non negoziabili », anche se il distacco del papa dal governo concreto della Chiesa ha favorito un marasma in cui sono prosperati clericalismi e opportunismi. Papa Benedetto non è stato un conservatore, nonostante il pregiudizio di una parte della cultura liberale e di sinistra, che lo ha bollato come anti-moderno con superficialità e una certa arroganza: le sue riflessioni sulla crisi antropologica, come substrato e non solo come conseguenza della crisi economica, sono tuttora una risorsa offerta al dialogo sul futuro dell’uomo e delle comunità.
In fondo, a puntare sulla discontinuità tra Benedetto e Francesco sono proprio i conservatori. Loro vogliono isolare Francesco, e chiuderlo in una parentesi per delegittimare la riforma della Chiesa. Non si tratta ovviamente di negare le differenze. Ma guardare a Benedetto con la chiave di Francesco è possibile. E può essere utile per chi non si rassegna all’immutabilità, all’inumanità del mondo presente. La fede cristiana non è cultura, né ideologia. È un incontro che cambia la vita. Ma la vita - per il cristiano la carità, il perdono, la fraternità, la speranza che si fa trascendenza - viene prima della dottrina e della morale. La interpreta, la giustifica, la corregge. Non viceversa.

il Fatto 11.2.14
Quella paura dei mercati risolta dai nuovi “tecnici”

SI CHIAMA “AMMAZZIAMO IL GATTOPARDO” il libro del giornalista Alan Friedman che ha lanciato la bomba dell’avvicinamento tra Napolitano e Monti già nell’estate del 2011. Attraverso interviste a ex premier (Giuliano Amato, Romano Prodi, Silvio Berlusconi, Massimo D’Alema e Mario Monti), a Matteo Renzi, il libro, tra retroscena e racconti dietro le quinte, ricostruisce i giochi di potere che hanno portato la politica italiana, e l’Italia tutta, sull’orlo del precipizio. Il libro non è ancora nelle librerie. Vi arriverà da domani.
ALAN FRIEDMAN IL GIORNALISTA americano di New York, a metà degli anni Ottanta corrispondente del Financial Times da Milano prima di tornare in patria. In Italia ha condotto alcuni programmi tv e scritto quattro libri per Longanesi. Quello che ha avuto maggior fortuna raccontava della famiglia Agnelli.

Corriere 11.2.14
Napolitano: "Il complotto? Solo fumo. Monti una risorsa”
“Quella maggioranza era logorata"
Ecco la lettera del presidente della Repubblica al Corriere della Sera

qui

Corriere 11.2.14
L’emergenza dimenticata
di Massimo Franco


L’idea che di fronte a una situazione in bilico un capo dello Stato sondi la possibilità di governi alternativi non deve scandalizzare, ma paradossalmente rassicurare. E il fatto che Mario Monti fu contattato per Palazzo Chigi anche quando al Quirinale c’era Carlo Azeglio Ciampi, quindi prima di Giorgio Napolitano, rappresenta una conferma: che l’Italia da tempo aveva coalizioni scelte a furor di popolo, eppure in costante affanno e incapaci di rispettare gli impegni presi con l’elettorato e l’Unione Europea; e che, agli occhi delle istituzioni italiane e continentali, a torto o a ragione, Monti era visto come una garanzia per arginare la speculazione finanziaria all’attacco del Paese.
Sulla parentesi successiva del Professore che ha voluto far politica è meglio non addentrarsi. Bisognerebbe invece tornare ai mesi un po’ lunari nei quali esisteva un governo guidato da Silvio Berlusconi, che la comunità internazionale non riteneva credibile. Tra l’altro, a quei tempi la Lega era in rotta di collisione sulla riforma delle pensioni. La maggioranza parlamentare si reggeva in piedi con la colla di pochi voti raccattati qui e là. E, soprattutto, con i mercati in ebollizione l’esposizione debitoria stava avvicinando rapidamente l’Italia al collasso.
Senza tenere a mente questo sfondo non è possibile analizzare le mosse di Napolitano di allora; e forse neanche le più recenti. La tesi, cara a una parte del centrodestra e, di colpo, a una filiera trasversale di avversari del Quirinale, secondo la quale quel governo fu vittima di un complotto, è comprensibile: permette di scaricare all’esterno le convulsioni e l’epilogo di una fase da dimenticare. Ma suona piuttosto singolare: anche perché, se ci fosse stata congiura, Berlusconi non l’avrebbe consentita. Rileggere in modo strumentale alcuni episodi avvenuti in quei mesi non basta a restituire credibilità al complotto; né a mettere sotto tiro il presidente della Repubblica .
Le reazioni dimostrano piuttosto l’avvelenamento delle relazioni politiche; l’incapacità, da parte di molti, di leggere con lenti oggettive quanto è accaduto; e la tendenza sempre più diffusa a usare il Quirinale come parafulmine di vicende nelle quali ha svolto un ruolo obbligato. Altrimenti, non si spiega nemmeno perché sia stato Berlusconi il primo a chiedere al capo dello Stato di ricandidarsi di fronte a un Parlamento lacerato: nel 2013, e cioè due anni dopo il presunto «complotto» che si cerca implicitamente di accreditare.
Non si può escludere nemmeno che l’obiettivo sia proprio il secondo settennato al Quirinale: magari sfruttando la richiesta di messa in stato d’accusa di Napolitano, avanzata dal movimento di Beppe Grillo. Ma per il momento, l’unico vero «golpe» sembra essere quello involontario di una politica alla ricerca eterna di scorciatoie e scaricabarile. Il rischio non è che un presidente della Repubblica pensi a come rimediare agli errori e ai limiti di un governo. Il vero pericolo è che anche questa possibilità si esaurisca, e il «dopo» sia disegnato e deciso direttamente dagli esponenti di un potere sovranazionale dal quale, piaccia o no, l’Italia non può prescindere.

l’Unità 11.2.14
Giù le mani da Napolitano
Asse Berlusconi-Grillo contro il Colle dopo le «rivelazioni» su contatti con Monti prima delle dimissioni del Cav
di Federica Fantozzi

Forza Italia si accoda a Grillo nell’attacco a Napolitano prendendo spunto da risibili «rivelazioni» di Alan Friedman sul Corsera: «Il Capo dello Stato contattò Monti nell’estate 2011», prima cioè dell’incarico. Napolitano: «È solo fumo, la maggioranza era logorata»
L’appello dell’ex comico: «Adesso tutti sul carro dell’impeachment». E gli azzurri voteranno contro l’archiviazione della mozione M5S.
I numeri per la messa in stato d’accusa però non ci sono.
Alla fine di una giornata tesa e nervosa, Forza Italia ufficializza che non aderirà alla mozione di archiviazione per il procedimento di impeachment a carico di Giorgio Napolitano. Chiede un «approfondimento alla luce dei fatti nuovi». Vuole tempo, come minimo mettere sulla graticola il capo dello stato.
Non significa che nel merito aderirà alla messa in stato d’accusa del capo dello stato. Alla quale è difficile si arrivi, dati i numeri in campo: 4 i forzisti, 8 i grillini, un paio eventualmente i leghisti. Ma nella prossima riunione del comitato parlamentare per i procedimenti d’accusa voterà contro l’archiviazione in asse con il M5S, grande accusatore del presidente della Repubblica che ha presentato la denuncia per attentato alla Costituzione. Un gesto dal significato politico evidente.
Esulta Beppe Grillo: «Alla fine tutti saltano sul carro dell'impeachment. Chi vuole inchiodare Re Giorgio alle sue responsabilità accolga le nostre richieste affinché sia discusso pubblicamente in Parlamento». Mentre il Pd fa quadrato intorno al capo dello stato: «Gazzarra sconcertante». Sono «dietrologie inesistenti» stoppa il capo della segreteria di Renzi Lorenzo Guerini.
L’escalation si innesta dopo che il «Corriere della Sera» (ma anche il Financial Times) pubblica le anticipazioni dell’ultimo libro di Alan Friedman, in cui - attraverso le testimonianze di Carlo de Benedetti e Romano Prodi - si ricostruisce che Napolitano sondò Mario Monti come potenziale premier nell’agosto 2011. Cinque mesi prima del passo indietro di Berlusconi, quattro prima della nomina a senatore a vita. L’interessato, non ritenendola un’«anomalia » conferma: diede la sua disponibilità, era “on call if needed”. E in effetti, fu ritenuto necessario.
Rivelazioni che deflagrano come una bomba. Forza Italia grida subito al «complotto». Il Mattinale ricostruisce gli eventi, o meglio «le trame», titolando: «Il re è nudo». I capigruppo parlamentari Romani e Brunetta chiedono spiegazioni: «Troppi punti oscuri. Tutto questo desta in noi forti dubbi sul modo di intendere l'altissima funzione di Presidente della Repubblica da parte di Napolitano» che avrebbe preordinato «un governo che stravolgeva il responso delle urne, quando la bufera dello spread doveva ancora abbattersi». Anna Maria Bernini denuncia: «Manovre sotterranee e poco trasparenti». I falchi leggono nella faccenda ulteriori conferme che «il Colle è stato il regista del logoramento di Berlusconi», sintetizza D’Alessandro. Il falchissimo Minzolini - unico - si spinge oltre: «Valutare con attenzione l’impeachment per gettare una luce di verità». E, a dimostrazione che sul tema i due partiti ora marciano compatti, gli argomenti degli azzurri sono ripresi sul blog di Grillo: «Berlusconi era allora un presidente del Consiglio regolarmente eletto, non era ancora stato condannato. Fu sostituito con un tecnocrate scelto da Napolitano senza che il Parlamento sfiduciasse il governo ». Il senatore Giarrusso rincara. «Cossiga era malato, Giorgio sa come muoversi».
Silvio vuole Italicum e voto
Da parte loro, gli azzurri cavalcano alla grande la mozione grillina. È una giravolta politica eclatante, anche se non del tutto inattesa. Ieri il «Giornale» aveva in prima pagina un dossier su «Tutti i golpe bianchi di Napolitano», e già venerdì 31 gennaio apriva con «Napolitano, che botta. Presidente di parte» proprio sullo «schiaffo» dell’impeachment. Era già cominciata di fatto una campagna contro l’inquilino del Colle. Negli stessi giorni - è questo il paradosso - in cui Berlusconi blinda il patto con Matteo Renzi sulle riforme e si propone di mandare in porto la nuova legge elettorale. Una road map di cui proprio Napolitano è il primo sponsor e il più forte sostenitore. E che, secondo il tam tam di palazzo Grazioli, non sembra stia per saltare.
Eppure, l’ordine di alzare i toni arriva direttamente dal leader. Napolitano per il Cavaliere è anche il nemico numero uno: colui che «avrebbe potuto adoperarsi per la «pacificazione nazionale e invece non ha mosso un dito». L’uomo che non gli ha fornito nessun salvacondotto, che ha chiuso la porta a grazia e amnistia, e che prima ancora lo ha «cacciato» da Palazzo Chigi.
Alla base dunque, ci sarebbe il rancore personale di Berlusconi: l’occasione di consumare una vendetta per il passato. Anche se l’eventuale gesto di votare l’impeachment a fianco del M5S avrebbe conseguenze politiche enormi, ricadute inevitabili sulla «profonda sintonia » con Renzi (che ieri ha difeso il capo dello Stato). Così, diversi big di piazza in Lucina propendono per una «graticola », con Forza Itaia che alla fine scinde i suoi destini dai grillini. Non a caso la parola impeachment dai capigruppo non è pronunciata. Al contrario, il Cavaliere si è convinto, sondaggi alla mano, che lo scenario migliore è andare subito alle urne dopo l’approvazione dell’Italicum. «E se Napolitano si dimette, al Colle ci troviamo Prodi...».
Si vedrà presto. Ieri il comitato interparlamentare per la messa in stato d’accusa (44 componenti tra deputati e senatori, una ventina i presenti) si è riunito e aggiornato. Pd, i PpI, Sel, Scelta Civica, Nuovo Psi, e Lega volevano chiudere subito, mentre Fi eM5S chiedevano più tempo. La Russa, presidente, ha proposto una terza seduta «decisiva», da tenere se non oggi in questa settimana. A questo punto, se passerà la mozione di archiviazione per manifesta infondatezza proposta dallo schieramento guidato dal Pd, quello del comitato sarà un voto finale. Altrimenti, la parola passerebbe all’aula. Ma per l’impeachment servirebbero i tre quarti dell’emiciclo: impossibile.

il Fatto 11.2.14
“Monti in pista a giugno” Altri guai per Napolitano
di Stefano Feltri

Il modo migliore per custodire un segreto è tenerlo in bella vista, così nessuno oserà rivelarlo temendo di sottolineare l’ovvio. Il giornalista americano Alan Friedman non ha questo scrupolo e così rivela sul Corriere della Sera e sul Financial Times che già nell’estate 2011 il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano aveva sondato Mario Monti come possibile premier di un governo tecnico, quattro mesi prima della caduta di Silvio Berlusconi. A dimostrazione di quanto era segreto il segreto, la notizia è contenuta in un libro che Friedman pubblica per Rizzoli, in uscita domani, e l'input viene da un’intervista a Carlo De Benedetti, l'editore di Repubblica , che nell’agosto riceve nella sua casa di Saint Moritz un preoccupato Monti, lo porta in trattoria. Il Professore vuole un parere sulla sua possibile nomina a Palazzo Chigi: “Gli ho consigliato sicuramente di farlo”, racconta De Benedetti, ma subito, a settembre rischiava di essere tardi (intanto il prudente professore bocconiano aveva messo le premesse per l’appoggio, entusiastico, del Gruppo Espresso e di Repubblica , che ieri, forse per discrezione, sul sito web non citava mai il proprio editore). Anche Romano Prodi e Corrado Passera raccontano a Friedman il proprio contributo: l’ex premier vide Monti già a giugno, Passera aveva addirittura preparato un piano di 196 pagine per l’emergenza.
Sull’estate del 2011 è calata una coltre di omertà che solo ora inizia a dissolversi, troppo imbarazzante per tutti quello che è successo. A luglio l’operazione governo tecnico con Monti è già pronta, lo stesso premier rivela a Friedman di aver avuto colloqui con Napolitano in giugno. Le turbolenze sui mercati sono fortissime, la Grecia è caduta, seguita da Portogallo e Irlanda, tutti si chiedono se il prossimo Paese a chiedere aiuti sarà la Spagna o l’Italia. La Banca centrale europea non riesce a contenere le pressioni sul debito pubblico, il governo Berlusconi approva il Documento di economia e finanza che fissa i saldi di bilancio ma poi non convince gli investitori con la manovra di bilancio che ne deriva: il grosso dei tagli, oltre 20 miliardi, sono rimandati a dopo le elezioni del 2013. L’esecutivo Berlusconi è paralizzato. E Monti si prepara. Non c’era bisogno di Friedman per accorgersene: il 13 luglio Monti scrive un editoriale sul Financial Times che appare come una candidatura: “Se l’Italia è stata scelta come bersaglio […]è probabilmente per il recente intensificarsi delle tensioni dentro il governo Berlusconi”. Come dire: cambiamo governo e si risolverà tutto. Il candidato è uno solo: lui, il professore della Bocconi. Di recente Massimo D’Alema ha rivelato di aver avvicinato Monti per discutere con lui di un eventuale esecutivo tecnico già nel dicembre 2010, quando Gianfranco Fini uscì dalla maggioranza di centrodestra. Quindi chi, se non Monti, nel 2011? Gli analisti delle banche straniere tifano per lui, i banchieri italiani si attivano. Il 24 luglio la S ta m p a rivela un incontro riservatissimo a Cà De Sass, la sede di Banca Intesa a Milano, dove si prepara l’operazione Monti con Corrado Passera, il presidente della banca Giovanni Bazoli (già sponsor dell’Ulivo prodiano), il banchiere vaticano Angelo Caloia e poi, ovviamente, Romano Prodi. Dal Co r r i e re della Sera Monti coglie ogni occasione per attaccare l’esecutivo Berlusconi che con la paralisi totale di cui è vittima è facile bersaglio.
Tutto è pronto, dunque. L’allora presidente del Pd Rosy Bindi lo dice pubblicamente a chi le chiedeva se fosse l’ora di un governo Monti: “È un nome autorevolissimo, ma la decisione spetta al Colle”. E il Quirinale è favorevole. Però l’operazione parte solo il 9 novembre, come ricorda Monti parlando con Alan Friedman, cioè nel giorno in cui lo spread (la differenza di rendimento tra titoli italiani e tedeschi) tocca il picco di 575 punti, con il professore bocconiano in Germania per un convegno: “Verso sera il presidente Napolitano mi ha chiamato, mi ha detto che aveva appena firmato il decreto di nomina a senatore a vita, io l’ho ringraziato molto, lui ha aggiunto: ‘Però io vorrei vederti, vieni a Roma il prima possibile’”.
I quattro mesi di ritardo hanno una spiegazione: il 4 agosto 2011 la Banca centrale europea manda una lettera al governo Berlusconi. Il documento firmato dal presidente Jean Claude Trichet e dal suo successore designato, il governatore della Banca d’Italia Mario Draghi, elenca una serie di riforme da adottare subito, a cominciare dall’anticipo del pareggio di bilancio dal 2014 al 2013, cosa che innesca la successiva ondata di tagli e tasse che stiamo ancora pagando. In cambio, è il sottotesto, Francoforte compra titoli di Stato italiani facendone scendere i rendimenti sul mercato e permettendo al governo di rifiatare. Berlusconi, con la regia di Renato Brunetta, trasforma un umiliante vincolo esterno in una garanzia di sopravvivenza. La lettera viene resa nota da Roma, non da Francoforte. E come si fa a licenziare un governo che ha appena preso impegni tanto precisi con la Bce sotto l’occhio vigile dei mercati? Impossibile. Berlusconi riesce comprare tempo. Lo capisce subito anche Mario Monti che, tre giorni dopo la lettera, firma sul Corriere l’editoriale “Il podestà forestiero ”. Il passaggio chiave è questo: “ll governo e la maggioranza, dopo avere rivendicato la propria autonoma capacità di risolvere i problemi del Paese, dopo avere rifiutato l’ipotesi di un impegno comune con altre forze politiche per cercare di risollevare un’Italia in crisi e sfiduciata, hanno accettato in questi ultimi giorni, nella sostanza, un ‘governo tecnico’”. Implicazione: se il governo tecnico c’è già, l’operazione Monti va congelata. I pasticci della compagine di centrodestra e le tensioni tra Berlusconi e Tremonti faranno comunque precipitare la situazione. E a novembre i piani che a luglio erano già pronti diventano operativi. Il 16 novembre Monti giura da primo ministro.


il Fatto 11.2.14
Per re Giorgio è “fumo” (La corsa al Colle è partita)
Letta e Renzi per la prima volta uniti nella sua difesa
di Fabrizio d’Esposito

Quattro mesi prima delle dimissioni di Berlusconi (novembre 2011) il capo dello Stato aveva già deciso di incaricare il professore della Bocconi. Le rivelazioni di Alan Friedman confermate da Prodi e De Benedetti Il partito del Cavaliere rilancia la tesi del complotto Ma per il presidente è “solo fumo”.
Fu omicidio o suicidio? Alan Friedman, per Rizzoli e il Corriere della Sera, simboli dei poteri forti, aggiunge altri dettagli alla morte politica del berlusconismo di governo, nel novembre 2011. E sulla nuova narrazione, o vulgata, del complotto contro B. pende anche un’altra domanda che circola con insistenza in queste ore: cui prodest? A chi giova? Ecco i protagonisti dell’intrigo, in ordine di apparizione.
I falchi di B. sul carro dei grillini
Sin dalla mattinata di ieri, a tenere banco sono pasdaran noti e meno noti di Forza Italia. Sono loro a montare la maionese mediatica sulle rivelazioni di Friedman. E soprattutto a fare balenare la tentazione di appoggiare la richiesta d’impeachment dei grillini. Politicamente un atto esplosivo: come farebbe Renzi a mantenere il patto riformista con B. che a sua volta va all’attacco concreto del Colle? A muoversi in questo senso è Augusto Minzolini: “Invito il mio partito a valutare con attenzione l’impeachment dei grillini”. Politicamente, l’atto più rilevante dei berlusconiani è la nota congiunta dei capigruppo parlamentari Brunetta e Romani: “Apprendiamo con sgomento che il capo dello Stato, già nel giugno del 2011, si attivò per far cadere il governo Berlusconi e sostituirlo con Mario Monti”. Sul suo blog, Grillo dà il benvenuto ai forzisti sul “carro dell’impeachment”. Tutto passa per il triangolo dei leader extraparlamentari: da B. a Grillo, da B. a Renzi. Il Mattinale, sempre di Brunetta, vara uno speciale: “Tutto sul golpe del 2011”. Con un video sul sito del Fo g l i o , Giuliano Ferrara va però controcorrente: “Altro che golpe”. E avvisa B.: “L’impeachment rischia di resuscitare un governo che sta morendo”. In ogni caso, il Condannato sta zitto. Manda avanti i suoi. Urla, strepiti, minacce. Fumo tattico e ammuina, per il momento.
Re Giorgio e Mario la risorsa da “acquisire al governo”
Il fumo è anche la metafora scelta da Napolitano nella sua risposta, stizzita e sarcastica, indirizzata a Ferruccio de Bortoli, direttore del Corsera . Friedman diventa un “brillante pubblicista” che vuole riscrivere la storia del nostro Paese. Andando alla sostanza: Napolitano conferma gli incontri con Monti, considerato come una “risorsa da acquisire, se necessario, al governo del Paese” ma liquida come “fumo, soltanto fumo”, l’accusa di complotto scagliata da Forza Italia. Semmai la colpa fu della traballante maggioranza di centrodestra (che aveva perso Fini e non aveva più i numeri) e le sollecitazioni critiche dell’Europa. Fin qui la lettera. È certo, per averlo scritto lo stesso Friedman, che Napolitano sapesse delle testimonianze di Monti, De Benedetti e Prodi. Lui non ha voluto rispondere prima e adesso si può comprendere meglio la sua osservazione di alcuni giorni fa a Strasburgo: “Letta e Monti non furono miei capricci”.
Il treno partito per la successione
Anche al Quirinale è circolata con insistenza la domanda “Cui prodest?”, riferita in particolare all’autorevole testata che ha riportato le rivelazioni. La suggestione più forte riguarda la partenza del treno per la successione a Re Giorgio. I primi a sollevare il problema sono gli alfaniani che indicano nel “testimone” Prodi il candidato più autorevole. Un amico di Napolitano come Rino Formica, ex socialista, esplicita un retropensiero devastante: “Il Quirinale fa parte del patto tra Renzi e Berlusconi?”. Il tema comincia a diventare attuale. Matteo è l’ultimo a parlare, ma Fi ferma l’impeachment
Anche il premier Letta s’interroga, nella sua difesa d’ufficio del Colle, sulle modalità dell’operazione: “Stupisce la contemporaneità di queste insinuazioni con il tentativo in corso da tempo da parte del M5S di delegittimare il ruolo di garanzia della presidenza della Repubblica”. La reazione di Letta precede di qualche minuto la divulgazione della lettera di Napolitano al Co rs e ra . Solo un’ora e mezzo più tardi, verso le diciannove, arrivano le parole di Matteo Renzi, ultimo a intervenire. Per il segretario del Pd, è “un attacco inaccettabile”. Tra lui e B. sembra un gioco delle parti. Difesa di circostanza, da una parte. Attacco di circostanza, dall’altra. Brunetta rilancia dopo la risposta di Napolitano: “La sua lettera alimenta il fumo non lo dissipa. Il capo dello Stato non occulti le sue trame sotto il manto del segreto di Stato”. Ma l’impeachment per il momento non arriva. Il Grande Gioco contro Napolitano e Letta appare complicato, pieno di sottintesi e ipocrisie.


Il Sole 11.2.14
Passaggio pericoloso in un clima avvelenato
L’inchiesta di Friedman non cambia la storia ma indebolisce il Quirinale
di Stefano Folli


Esistono notizie importanti in sé, per quello che svelano. E altre che lo diventano per l'uso che viene fatto di certe rivelazioni magari poco significative. I particolari diffusi da Alan Friedman sulla calda estate del 2011 appartengono senz'altro alla seconda categoria. Raccontano quello che era ben noto da tempo, ma arrivano nel pieno di una crisi inespressa.
Se si deve stare al merito della ricostruzione, Friedman con il suo libro anticipato dal "Corriere della Sera" ha aggiunto qualche pennellata al dipinto, ma non si può dire che abbia riscritto la storia recente d'Italia, come egli lascia intendere.
Del resto, basta un pizzico di memoria e un po' di attitudine alla lettura dei giornali per rammentare quale fosse il clima di quei mesi. Il problema principale era il discredito del governo Berlusconi, da cui traevano alimento quanti speculavano contro l'Italia. Per meglio dire, più il paese appariva come l'anello debole della moneta europea, più le spinte speculative si accentuavano. In quelle condizioni i contatti informali del presidente della Repubblica erano un dovere istituzionale e il nome di Mario Monti apparteneva, come si diceva una volta, alla "riserva della Repubblica". Peraltro, contatti informali non equivale a dire contatti opachi o misteriosi. I giornali dell'epoca ne parlarono e quando, verso la fine dell'anno, nacque il governo Monti nessuno mostrò sorpresa. Tanto meno Berlusconi che fece buon viso a cattivo gioco, rivendicó anzi di aver indicato lui il nome del nuovo premier e votò la fiducia al governo tecnico, reiterandola nell'arco del 2012. Dopodiché l'allora Pdl votò per la riconferma di Napolitano e aderì all'esecutivo delle larghe intese.
Questi aspetti possono apparire trascurabili ai più intransigenti fra i militanti di Forza Italia, ma di sicuro il leader li ricorda bene. Per cui sarebbe davvero molto strano se Berlusconi lasciasse crescere la marea anti-Quirinale fino al punto di accordarsi ai Cinque Stelle sostenendo la loro richiesta di "impeachement". Anche perché in questo caso l'unico risultato sarebbe una straordinaria campagna elettorale per le europee servita su un piatto d'argento a Beppe Grillo.
Tutto a posto, quindi? Nessuna conseguenza politica da quest'ultimo pseudo-scandalo? Meglio essere cauti con l'ottimismo. La paralisi del sistema è tale che la tensione da qualche parte deve trovare uno sbocco. E non è un caso che il Quirinale stia ormai attirando tutti i fulmini che non riescono a scaricarsi altrove. L'enfasi data alla ricostruzione di Friedman lo dimostra, ma non è che l'ultimo esempio. In precedenza occorrerebbe rammentare almeno le intercettazioni a margine dell'inchiesta sui rapporti Stato-mafia e le ricorrenti campagne di stampa contro "re Giorgio". Ne deriva che si sta tentando da più parti, forse riuscendovi, di indebolire Napolitano nell'intento fin troppo palese di accelerare la sua uscita dal Quirinale.
Qui è la vera insidia implicita nel libro di Friedman. Esso rivela un nervo scoperto dell'assetto politico nel nostro paese. Un assetto, è bene ricordarlo, che si regge tuttora quasi esclusivamente intorno al baricentro rappresentato dal capo dello Stato. In attesa che mettano radici le riforme immaginate da Renzi, il sistema è in una fase di transizione assai delicata. Ci vorrebbe un governo forte per reggere una pressione così schiacciante. Ma al momento non c'è e il Quirinale è esposto a tutte le polemiche. Una condizione stagnante che ormai è assai pericolosa. Ecco perché è bene che il chiarimento nella maggioranza, anzi all'interno del Pd, si svolga al più presto. I colloqui di Napolitano prima con Renzi e poi con Letta vogliono dire questo. Non è più possibile il piccolo cabotaggio ovvero il gioco delle rivalità infinite. Il Quirinale si difende dagli attacchi solo se il governo funziona.

il Fatto 11.2.14
Lecca lecca
Scalfari ordina: massima diffusione al Sacro Testo

Duro attacco di Eugenio Scalfari a Napolitano. Nel sermone domenicale su Repubblica , il Fondatore striglia il Presidente da par suo per il discorso dell’altro giorno a Strasburgo contro le politiche di austerità imposte dall’Europa, che pure parevano piacergli tanto (a Napolitano come a Scalfari): “Molti capi di Stato sono stati invitati dal Parlamento europeo e hanno detto gentili parole di circostanza, ma nessuno era intervenuto esponendo un giudizio sull’Europa di oggi e un’esortazione così intensa e dettagliata su quella di domani”. Non contento, Scalfari rincara la dose: “Il suo discorso a Strasburgo è nel solco della grande tradizione politica europea di Adenauer, De Gasperi, Monnet, Delors, Schmidt, Kohl e di Altiero Spinelli”. L’ex amico di Napolitano lo scarica platealmente con l’a f fo n d o finale: “I protagonisti della nostra politica e i cittadini consapevoli dell’impegno civico del quale tutti dovremmo dar prova dovrebbero leggere il testo del discorso di Napolitano e i media dovrebbero (avrebbero dovuto) dargli un’attenzione maggiore di quanto non abbiano fatto. Preferiscono il gossip, la maggior parte dei nostri media, senza capire che il loro ruolo dovrebbe essere quello di informare e al tempo stesso di educare ”. Gliele ha cantate chiare.


La Stampa 11.2.14
La legge elettorale approda in Aula
Renzi accelera “Direzione il 13”
E all’assemblea dei deputati Pd:  “No a modifiche unilaterali del testo”

qui

Repubblica 11.2.14
Italicum in aula, sinistra Pd in trincea “In vigore con la riforma del Senato”
Oggi assemblea con Renzi. Tensioni anche sul calcolo dei seggi
di Silvio Buzzanca

E via con la legge elettorale. La Camera, superati nei giorni gli scogli delle pregiudiziali, affronta oggi il testo dell’Italicum uscito dall’accordo fra Matteo Renzi e Silvio Berlusconi. Una navigazione che molti si aspettano turbolenta. Vuoi per motivi politici, vuoi per questioni tecniche che dopo avere bruciato le tappe in commissione, sono rimaste irrisolte sul tappeto. Il nodo politico principale lo pone la minoranza del Pd che non vuole rinunciare all’emendamento che lega l’entrata in vigore della nuova legge alla fine del percorso delle riforme costituzionali. In pratica non si potrà andare a votare fino a quando non verrà riformato il Senato e gli annessi e connessi articoli della Carta.
Una sorta di polizza contro la voglia di urne anticipate di Renzi e dei renziani. La linea è uscita ieri da una riunione della minoranza che ha puntato anche su altri due proposte di modifica: le primarie obbligatorie con qualche deroga, - toglierebbero al segretario il potere di definire in solitudine le liste elettorali, - e meccanismi per garantire la parità uomo - donna.
Gianni Cuperlo ha assicurato che l’obiettivo della minoranza «è di aiutare Renzi a portare in porto la riforma elettorale che è un pezzo del pacchetto complessivo delle riforme istituzionali». Ma evidentemente l’idea di mettere mano al testo rende nervoso il segretario che continua a ripetere che l’intesa può essere modificata solo con l’accordo di tutti. Però la norma salvaguardia contro il voto la vogliono tutti, dal Nuovo centrodestra fino ai grillini. «Chiediamo tutti i chiarimenti tecnici necessari circa il funzionamento del nuovo sistema di calcolo», dicono per esempio gli alfaniani Leone e Bianchi . Ma Forza Italia vi legge un tentativo di dare un “aiutino” alla staffetta Renzi-Letta e alla nascita di un governo di legislatura fino al 2018. E dicono no a tutte lemodifiche. Queste richieste creano così un problema serio a Renzi. Ma il segretario, dopo avere sentito ieri Denis Verdini e altri leader, tenterà stamattina in extremis di convincere il gruppo a ritirare gli emendamenti non concordati.
Ieri, poi, a complicare la situazione, ha fatto irruzione nel lessico politico delle leggi elettorali l’“algoritmo”. Un termine che va aggiungersi a nomignoli diventati famosi come “scorporo”, “lista civetta” e così via. Praticamente è successo che ci si è resi conto che il meccanismo dell’Italicum per trasformare i voti in seggi e assegnarli alle forze politiche non funziona.
Un buco, una falla, che qualche esperto avrebbe fatto notare al leader del Pd quando ha guardato le simulazioni dei risultati. «Quel meccanismo - spiega il deputato di Centro democratico Pino Pisicchio - rende random, del tutto casuale, l’assegnazione dei seggi per i piccoli partiti. Ma crea una distorsione del 20, 25 per centoanche per le grandi formazioni».
Problema posto subito da Forza Italia e Pd. Brandito da tutti gli altri come la prova provata che correre, correre, non dà mai buoni frutti. La soluzione del problema, riconosciuto anche dal padre dell’Italicum, il professore Roberto D’Alimonte, è stata così demandata ad un emendamento che il relatore Francesco Paolo Sisto doveva presentare ieri pomeriggio al comitato dei 9. Già alle prese con le proposte di modifica lievitate fino a quota 450.
Ma la riunione è stata annullata e rinviata alla fine della seduta serale dell’aula. «Fino ad ora - spiegava Pisicchio verso le 21 - non abbiamo visto nulla. Circola qualche pezzo di carta, ma nulla di ufficiale. Ma se l’emendamento di Sisto - come dicono - cambia 12 pagine su 16 del testo base non possono chiederci di accontentarci di poche ore per i subemendamenti. E poi dicono già che neanche la nuova versione funzioni».

La Stampa 11.2.14
La minoranza del Pd: insieme la riforma del Senato e del voto
di Francesco Grignetti


Vigilia tesa per la legge elettorale, che approda oggi nell’Aula della Camera. Ieri si sono materializzati 450 emendamenti. Alcuni sono la registrazione delle modifiche concordate tra Renzi, Berlusconi e Alfano. Siccome non c’è stato modo di fare le correzioni in commissione, si faranno direttamente in Aula. C’è poi una valanga di correzioni richieste dal M5S, che notoriamente sta facendo di tutto per far saltare l’accordo. E ci sono quelli degli altri partiti di opposizione. Già, perché in materia elettorale, come è noto, è nata una maggioranza trasversale che tiene i partiti maggiori e poi c’è l’opposizione tra tutti i piccoli, che temono di essere stritolati. Così ci sono emendamenti di Scelta civica, per dire, che puntano ad alzare la soglia per far scattare il premio di maggioranza al 38, 39 o addirittura al 40%, che potrebbero essere votati da Sel come da Fratelli d’Italia.
Un gruppo trasversale propone poi di introdurre l’early vote di stampo Usa: «Non si può avere afferma Pierpaolo Vargiu, presidente della Commissione Affari Sociali un sistema di voto che andava bene 100 anni fa. Introduciamo la pratica dell’early vote anche in Italia per consentire a chi vive fuori dalla propria sede di residenza di esprimere il proprio voto già a partire dalle prossime europee». L’early vote permetterebbe di votare per posta, organizzandosi con congruo anticipo.
Tra gli altri emendamenti, però, ce n’è uno di particolare peso politico. È il relatore, Francesco Paolo Sisto, Forza Italia, presidente della commissione Affari costituzionali, che l’ha annunciato. «È chiaro ha spiegato ai giornalisti che occorre verificare il funzionamento della formula, anzi è opportuno che su questo si espletino tutte le verifiche possibili».
Il punto è il metodo di calcolo dei seggi in rapporto ai voti raccolti. Mancava una chiara formula matematica. E però a questo punto i tempi potrebbero inevitabilmente allungarsi perché un emendamento del genere comporta anche i cosiddetti sub-emendamenti.
Sulla questione dei metodi di calcolo dei seggi, si sono allertati tutti.Perché è nei particolari che si possono annidare le fregature. Ncd ha subito detto che occorre una pausa di riflessione e che la legge deve tornare in commissione per i doverosi approfondimenti. Dice Fabrizio Cicchitto: «Va chiarito un meccanismo tecnicooperativo della legge ancora aperto. Manca un funzionale e organico rapporto tra il voto e gli eletti». Oppure il suo collega Antonio Leone: «Allo stato attuale delle cose, il testo non funziona affatto. Lo denunciamo da giorni. E il relatore Sisto ormai ci dà ragione».
C’è poi una partita aperta dentro il Pd. La minoranza alla fine si è attestata su tre richieste: vera parità di genere, con metà dei capilista al maschile e metà al femminile; primarie obbligatorie per legge, ma non subito, meglio se alla seconda legislatura utile; entrata in vigore della legge elettorale subordinata alla riforma del Senato. Sono tre proposte che impongono tempi lunghi e forti limiti alle segreterie di partito. Stamani ne discuteranno con Renzi, ma senza barricate. Per dirla con Gianni Cuperlo, «non intaccano l’accordo e quindi non rappresentano un rischio». Però nessuno intende strappare. Danilo Leva, della minoranza, conferma: «C’è bisogno che tutto il Pd lavori unitariamente a questo obbiettivo».
Anche i renziani ostentano tranquillità. Dario Nardella: «Dopo un confronto interno ci presenteremo compatti e voteremo uniti». E Maria Elena Boschi: «Il criterio secondo cui si cambia qualcosa solo con l’accordo di tutti non viene messo in discussione da parte della minoranza». Perciò Roberto Speranza, il capogruppo, prevede: «Al dunque non ci saranno emendamenti di area, ma soltanto emendamenti del Pd».

Repubblica 11.2.14
Battaglia di Cuperlo e Alfano per evitare il voto anticipato ma Forza Italia ora alza il muro
Notte di trattative, timore per i voti segreti
di Giovanna Casadio

«Non ci metteremo di traverso sulla legge elettorale, ma l’Italicum e l’abolizione del Senato devono stare insieme». Gianni Cuperlo ha riunito la minoranza dem. Un “serriamo le fila” in vista dell’assemblea dei deputati del Pd che si doveva tenere ieri sera. Poi Renzi è andato al Quirinale e i Democratici hanno pensato che concedersi qualche ora di tempo in più, sarebbe stato anche meglio. Il dossier legge elettorale è diventato la cartina di tornasole della partita politica in corso. Perciò lo slittamento della riunione a stamani, alle 8,30, è un ottimo modo per lasciare depositare la polvere e stemperare la resa dei conti. Obiettivo è convincere Renzi in primo luogo, e fare asse con Alfano.
La posta in gioco è evitare il voto anticipato. In questo la minoranza dem e gli alfaniani si muovono in sintonia. E l’emendamento Lauricella, come quelli simili presentanti da Ncd e dagli altri partititini, che lega l’entrata in vigore dell’Italicum all’abolizione del Senato, che richiede diversi mesi, è la frontiera dalla quale non arretrano. «Ci sono interlocuzioni...», spiega a tarda sera Roberto Speranza, il capogruppo democratico a Montecitorio, a cui spetta il compito di tenere unita la squadra in aula. Ma Forza Italia per ora non ci sta.
Oggi alla prima prova del voto, trabocchetti, “franchi tiratori”, ripensamenti dell’ultimo minuto sono dietro l’angolo. Il “correntino” guidato da Cuperlo garantisce che non tirerà la corda: «Ci muoviamo con spirito costruttivo, come già si è visto nel voto sulle pregiudiziali di costituzionalità, pur ritenendo che alcuni miglioramenti sono necessari ». In pratica, sono tre le questioni su cui tutti nella minoranza del partito - che ha ormai varie anime - si sono ritrovati d’accordo: va introdotta la parità di genere sul serio (quella prevista è fittizia); ai cittadini va restituita la scelta dei candidati (no alle liste bloccate). Sono i primi due emendamenti sul tavolo. Potrebbe però esserci qualche “paletto” in meno, ammettono i cuperliani, a patto che si rispetti quella che giudicano la frontiera: «Non si fa la legge elettorale e poi si va al voto. Ci vuole un quadro di stabilità politica e di governo perché le riforme costituzionali vanno di pari passo ». È il terzo emendamento, appunto quello presentato da Lauricella e sottoscritto da molti, tra cui Rosy Bindi, a fare da pietra miliare del confronto all’interno del Pd. È la clausola di salvaguardia della legislatura, che Berlusconi non vuole.
Le “interlocuzioni”, cioè i colloqui, i “faccia a faccia”, sono tra gli ufficiali di collegamento Lorenzo Guerini e Maria Elena Boschi per il Pd e Denis Verdini per Forza Italia. E sempre Guerini e Boschi cercano di smussare il “correntino”. Sesa Amici, sottosegretario ai Rapporti con il Parlamento, cuperliana, ritiene che gli emendamenti non si possano congelare per fare passare intanto un Italicum blindato alla Camera e poi in seconda lettura, a Palazzo Madama, limare e migliorare il testo. Soprattutto la proposta di legare Italicum e fine del Senato, se non passa alla Camera difficilmente avrà l’ok a Palazzo Madama, dove - per dirla con Renzi - è come chiedere ai tacchini di accelerare la loro fine. Beppe Fioroni si prepara anche allo scontro: «Legge elettorale e riforme costituzionali si tengono ma l’architrave su cui poggiano è un nuovo governo. Un governo nuovo, sia chiaro, non lavato per farlo apparire nuovo. Questo è un punto di non ritorno». Boschi, responsabile delle Riforme della segreteria dem, dà l’alt: «O si trova un accordo e quindi le modifiche tutte sono condivise, oppure è evidente che si torna al “pacchetto” di emendamenti decisi nella direzione del partito. Da parte della minoranza mi pare che non venga messo in discussione».


Corriere 11.2.14
Il sindaco: ora si va sull’ottovolante
di Maria Teresa Meli


«Adesso si comincia ad andare sull’ottovolante»: così Matteo Renzi risponde alla chiamata del capo dello Stato. Il segretario del Pd non ritiene che sia una cosa seria la manfrina che si sta inscenando intorno al governo «paralitico» guidato da Enrico Letta.
Il sindaco: se è rimpastino meglio le elezioni Il segretario mantiene il riserbo sull’incontro con il capo dello Stato I suoi: fra i temi anche la staffetta ROMA — «Adesso si comincia ad andare sull’ottovolante»: Matteo Renzi è fatto così. Anche nei momenti più gravi pensa che un tocco di levità non guasti, ritiene che la politica porti un peso che non è sopportabile per chi non la frequenta per lavoro, amore o ambizione. E sono molti. O, meglio, la maggior parte degli italiani.
Perciò quando risponde alla chiamata del capo dello Stato lo fa sollecito. Per lui, tanto più che è un sindaco, è una cosa seria. E infatti al termine del colloquio si stringe nel più stretto riserbo anche se i suoi ammettono che si è parlato di staffetta. Ma meno seria, a suo giudizio, è la manfrina che si sta inscenando intorno al governo «paralitico». Napolitano gli spiega che Letta resiste. Che ha detto a Gianni Cuperlo che intende andare avanti. L’ex presidente del Pd è rimasto basito e ha detto ad amici e collaboratori: «Il premier non mi ha proposto niente e, secondo me, non ha niente da proporci, però ha tutta l’intenzione di andare avanti, qualunque cosa accada. Il fatto che abbia detto che non ha idea di quando proporre il suo nuovo governo e il suo nuovo rimpasto e che, comunque, lo farà dopo la riforma elettorale, la dice lunga su quello che sta succedendo».
Niente che Renzi non avesse preventivato. Quando varca il portone del Nazareno per raggiugnere il Colle avverte i collaboratori: «È chiaro che Enrico sta cercando di dimostrare che non c’è alternativa a lui e che sarà questo il discorso che mi farà Napolitano, ma non è vero, secondo me ci sono diverse alternative e le ho già spiegate». E, tanto per mettere i puntini sulle i, una la illustra subito al Colle, onde evitare equivoci che di questi tempi certamente non servono: «Se l’oggetto della discussione diventa il rimpastino, vuol dire che fissiamo la data delle elezioni. E a me potrebbe anche andar bene...». Come a dire: decida Letta, che ha paura delle consultazioni e di lasciare palazzo Chigi, che cosa fare, ma non speri lui, e non speri nemmeno il capo dello Stato, con tutta la stima che gli è dovuta, che Renzi si acquieti davanti a un mini-rimpasto e a un mini-cambiamento di programma di governo.
In questo caso il piano non cambia: il premier ha otto mesi di tempo e a ottobre prossimo si va a votare. C’è una sola cosa che il segretario non capisce. Ed è per questo che ha anticipato la direzione del 20 febbraio per dopodomani, sempre che non vi siano dei problemi legati alla legge elettorale su cui qualcuno cerca di tarpargli ali, aspirazioni e ambizioni. «Quello che non comprendo — confessa ai fedelissimi — è per quale ragione il presidente del Consiglio si sottoponga a questa figuraccia: il fatto che lui resista è comprensibile, ma non si capisce proprio per quale ragione non assuma nessuna iniziativa. E men che meno una decisione». Tanto più che chiunque abbia parlato ieri con il segretario del Partito democratico ha avuto la netta sensazione che Renzi abbia i numeri e i partiti, insomma, la maggioranza per mettere insieme un nuovo governo.
Anche se lui, ossia Renzi stesso, convinto al cento per cento, a dire il vero, non lo è: «Le controindicazioni — confessa agli amici — sono tante». Ma poi aggiunge: «Mi rendo conto che per mandare avanti le riforme costituzionali, il jobs act e, in generale, per fare uscire questo Paese dalla crisi e dargli un futuro, occorre anche rischiare di bruciarsi i ponti alle spalle e nello stesso tempo il futuro. Dovrebbe essere una legislatura nell’interesse del Paese...Non nel mio, dovremmo riuscire ad andare tutti oltre il nostro orticello, anche Enrico». Gli amici che sconsigliano il segretario del Pd dal proseguire questa strada lo mettono in guardia ricordandogli che potrebbe finire ostaggio nelle mani di Alfano. Di quello stesso Alfano di cui si racconta in Transatlantico la mitica frase: «Noi vogliamo tanto bene a Letta, ma vogliamo più bene a noi stessi...». Lui, Renzi, ripete convinto, e lo ha detto anche a Napolitano, che «l’importante non è decidere le carriere delle persone ma qual è il progetto che consenta agli italiani di uscire dalla crisi».
Quanto ad Alfano, il Nuovo centrodestra non lo preoccupa: «Lui sa che con me può arrivare fino al 2018 per finire le grandi riforme istituzionali e dell’economia». E alla peggio se il Ncd nicchia ci sono pur sempre i parlamentari di Sel guidati da Gennaro Migliore che preferiscono Renzi a Fratoianni e i transfughi grillini, quindi anche Alfano non potrà alzare il prezzo...E se lo alzerà si troverà nel mezzo di una bella crisi aperta da sinistra, sulla Bossi-Fini o sulle unioni civili, a metà del guado, senza sponde o alleati, senza Berlusconi e senza governo.

Corriere 11.2.14
Il no alla staffetta di Palazzo Chigi
di Monica Guerzoni


ROMA — «Ho sentito dire che mi dimetto, ma non è vero. Io non lascio, no. Sono tutte chiacchiere infondate». Tira dritto, Enrico Letta. Intorno è tempesta e lui, per quanto accerchiato, si mostra «assolutamente determinato» ad andare avanti. A dispetto di tutto e di tutti. Mai ha pensato di mollare la spugna, nonostante il pressing dei renziani che anche ieri, in Parlamento, hanno fatto rullare i tamburi del passo indietro imminente. «Perché dovrei lasciare, quando i sondaggi confermano che gli italiani sono contrari alla staffetta?», resiste il premier, «come ha detto lo stesso Renzi, chi glielo fa fare?». Non solo il premier non molla, ma raddoppia. Se aveva pensato di intitolare il contratto di maggioranza «Impegno 2014», adesso ha cambiato idea. Lo chiamerà «Impegno Italia», cancellando dalla bozza (e dall’orizzonte politico) quel numeretto con cui aveva impresso la data di scadenza al suo mandato. È così che l’inquilino di Palazzo Chigi conta di tranquillizzare i partiti, di convincerli che con lui al timone, non solo con Renzi, la caravella del governo può proseguire la navigazione. Fino al 2015 e oltre. Lo dirà anche in Parlamento, se e quando tornerà in Aula a chiedere la fiducia. Presenterà un programma corposo di riforme, che diano il senso di una vera ripartenza.
È un azzardo e Letta lo sa. Ma il premier sente che la morsa si fa sempre più stretta e ha capito che, se non prova con forza a divincolarsi, sia pure in extremis, non potrà che soccombere e aprire il campo al primo governo Renzi. È in un vicolo cieco, eppure conta di uscirne vivo. Pensa di avere ancora dalla sua parte Giorgio Napolitano, che tanto aveva puntato su continuità e stabilità come valori assoluti. «Il Quirinale mi sostiene al cento per cento» ha confidato Letta ai suoi, dopo aver visto il presidente della Repubblica al Senato e dopo averlo risentito al telefono. Alla ricerca di una via di uscita, Napolitano sta conducendo l’ultima mediazione tra il premier e il segretario, ai quali ha chiesto di vedersi per cercare un accordo.
«La situazione non è più sostenibile», ammette Letta. Ieri lo stallo ha generato un vortice incontrollabile di voci. Il premier getta la spugna? Va al Quirinale assieme al segretario del Pd? No, l’idea di salire al Colle a braccetto col sindaco non lo ha neppure sfiorato. Per marcare la distanza Letta vedrà Napolitano stamattina prima di partire per Milano — dove parlerà di turismo e di Expo 2015 — oppure giovedì, al ritorno del presidente da Lisbona. Se tutto slitta è perché il destino del governo è legato alla legge elettorale (e viceversa), il cui iter è sempre più a rischio. Anche per questo Letta ha deciso di ritardare l’annunciata «iniziativa» con cui conta di rilanciare il suo governo: il coniglio spunterà dal cilindro al più tardi venerdì.
Il premier non ha fretta, sa di non poter fallire. Deve presentare al capo dello Stato «un progetto molto incisivo», che convinca il Quirinale e che il Pd non possa rifiutare. Una proposta che Letta tiene coperta da assoluto riserbo, soprattutto per quanto riguarda i futuri ministri. Quelli che il premier si è rassegnato a sostituire sono noti: Cancellieri, Zanonato, Bray, Giovannini, più la dimissionaria De Girolamo. Mentre sui nuovi arrivi girano nomi in libertà, che nessuno smentisce né conferma: Boschi? Guerini? De Castro? Vietti? Un totonomi prematuro, visto che nessuno si sbilancia fra rimpastino o Letta bis. «Deciderà Napolitano...», è la linea di Palazzo Chigi.
Letta tira dritto, determinato a «parlamentarizzare» la crisi. «Se Renzi vuole che io vada avanti ci metta la faccia — è l’ultima sfida — altrimenti il Pd dovrà votarmi contro in Aula». Anche la minoranza spinge per un cambio in corsa. Gianni Cuperlo è andato a Palazzo Chigi e ha trovato un Letta molto riservato sulle mosse che ha in mente. Non gli ha esposto il programma, né anticipato nomi di papabili per la nuova squadra. Tanto che in Transatlantico erano in molti, nel pomeriggio, a insinuare che il premier non abbia più frecce al suo arco. «L’unica via di uscita per lui — concedeva un renziano — è accettare da Matteo l’incarico di ministro degli Esteri, come ponte per fare il commissario europeo». E un altro: «Renzi deve solo decidere se Letta gli serve, in quel caso lo salva e lo fa cadere quando fa comodo a lui...». Il campo è minato e il generale non ha più un esercito. Può ancora fidarsi di Angelino Alfano? Gaetano Quagliariello la mette così: «Noi di Ncd non saremo gli arbitri dell’eterno duello tra Letta e Renzi, pretendiamo un governo che governi».

Repubblica 11.2.14
“C’è chi vuole la staffetta per bruciare Matteo”
Debora Serracchiani: le pressioni sono tantissime ma servono condizioni chiare, la riforma elettorale sarà la prova del nove
di Giovanna Casadio

«Non credo che tutti i sostenitori della staffetta tra Letta e Renzi siano spinti da buoni propositi, alcuni cercano semplicemente una scorciatoia per bruciare Matteo». Debora Serracchiani, “governatrice” del Friuli Venezia Giulia, renziana, teme una trappola per il segretario del Pd.
Serracchiani, la situazione politica si aggroviglia?
«Diciamo che stanno arrivando al pettine nodi importanti, dalla legge elettorale alle riforme costituzionali, alle questioni del lavoro: l’azione del Pd ha avuto uno slancio con la segreteria di Renzi. È il momento di sciogliere quei nodi».
E al tempo stesso il governo Letta ha finito la sua corsa?
«Il Pd ha lavorato per consegnare al premier strumenti che gli permettessero di impostare, di avviare un lavoro importante di riforme. Avere consegnato in un mese e mezzo il testo di una nuova legge elettorale, avere impostato la discussione sul Job Act e avere posto la trasformazione del Senato in Camera delle autonomie, significa che noi democratici stiamo facendo la nostra parte. Il governo Letta però dovrebbe avere una spinta, un battito d’ala».
Il bivio è tra un governo che vivacchi e uno forte che duri almeno 24 mesi se non l’intera legislatura?
«Ci devono essere le condizioni perché il governo imposti le riforme, dopo di che la scadenza di un esecutivo non gliela diamo noi ma i fatti e i risultati».
Quindi come vede Renzi a Palazzo Chigi?
«Matteo correttamente aspira a una legittimazione popolare: quello resta l’obiettivo primario. Ma credo anche che sono tantissime le spinte ricevute da più parti per sostituirsi a Letta. Lo ha già detto e spiegato: il punto fondamentale non è quello che conviene a lui, ma quello che conviene agli italiani».
In cuor suo lei gli sconsiglia di sostituirsi a Letta?
«Perché Matteo vada a Palazzo Chigi ci dovrebbero essere condizioni chiare. Invece in questa richiesta a Renzi di rendersi disponibile ci sono interessi confliggenti: non tutti coloro che insistono hanno a cuore il bene del paese, per alcuni è il modo migliore per bruciarlo».
La riforma elettorale è il passaggio decisivo?
«La riforma elettorale nelle prossime ore sarà una prova del nove».
Però dei miglioramenti all’Italicum sono necessari?
«Nelle condizioni date è stato prodotto il migliore accordo possibile, tenuto conto che le regole vanno scritte con il più ampio consenso, a parte coloro come i 5Stelle che hanno ritenuto di non partecipare ad alcuna discussione. Ho molta fiducia nel lavoro fatto da Boschi e da Guerini n queste settimane. Anche all’interno del Pd c’è la consapevolezza dell’importanza del momento, mi auguro non si metta a rischio un percorso così delicato, se no non ci sarà molto altro di cui discutere ».
A quel punto si andrebbe a votare?
«Mi pare evidente. Se si affossa la riforma presentata dal maggiore partito della maggioranza, allora si pone un problema politico importante».

il Fatto 11.2.14
Leader 2.0
Matteo, una supercazzola ti seppellirà
di Andrea Scanzi

Forse deluso all’idea di non poter più rottamare nessuno, anche perché son quasi tutti saliti sul suo carro, Matteo Renzi sta forse pensando a rottamare se stesso. Una sorta di cupio dissolvi anticipata e forse inconsapevole. Le sue qualità mediatiche sono innegabili: dire niente ma dirlo bene. Una volta conquistato il soglio della segreteria piddina, Renzi si è però sgonfiato. Sbagliando quasi tutto. Non solo politicamente, ma pure mediaticamente.
Delle sue ultime mosse, l’unica che tutti ricordano è la bravura denotata nel rimettere Berlusconi al centro della scena politica. Renzi sta sbagliando comunicazione anche in Sardegna. Spara duro non sul rivale teorico Cappellacci, che pure è rinviato a giudizio per abuso d’ufficio, ma su Michela Murgia. Sguaina la supercazzola e tuona: “Votare Murgia è un voto che mette a posto la coscienza, ma votare Pigliaru mette a posto la Sardegna”. Poi, nel suo continuo overdose da tapioca prematurata, aggiunge: “Tanta idealità senza concretezza significa fare il bar sport della politica”. Che vuol dire? Niente. Mentre vuol dire molto, ed è l’ennesimo harakiri mediatico, entrare al Teatro Verdi di Sassari scortato da Gavino Manca, renziano della prima ora e più che altro indagato per peculato aggravato nello scandalo dei fondi regionali. Il Renzi post-Primarie, di colpo, ha perso le parole. Peggio di lui fanno groupies e apostoli, in equilibrio precario tra impreparato e fantozziano: chi sbaglia ministero (Madia), chi farfuglia in tivù (Morani), chi si vanta di aver firmato la mozione Giachetti senza poi votarla (Bonafè). E chi, come lo strepitoso Nicodemo, non per nulla responsabile della non-comunicazione Pd, prima esorta su Twitter alla tolleranza (“Applicare le leggi e educare le persone al digitale. Non servono misure restrittive per la rete, ma educazione formazione cultura”) e un attimo dopo dileggia la Murgia come quasi un troll frustrato (“Secondo voi chi si lamenta di essersi svegliata alle 7.30 sarebbe in grado di guidare una Regione come la Sardegna?”). Renzi rischia di ritrovarsi ora come condottiero di un’Armata Brancaleone sbilenca, capace giusto di generare hashtag da nerd democratici (“#cambiareverso, #cominciamoildomani e magari #comefosseantani).
L’involuzione mediatica di Renzi è palese nel rapporto con Letta. Come intende agire, esattamente, il sindaco part time di Firenze? Non si sa. Probabilmente non lo sa neanche lui. In una memorabile intervista a Repubblica di due giorni fa, Renzi ha sostenuto che adesso per il Pd ci sono tre strade: non una, tre. Un’analisi che va bene per uno statista da bar, non per il segretario del massimo (sulla carta) partito italiano. È come se Renzi credesse che la dialettica con Letta sia da equipararsi a una partita di calcio: “1” è Enrico, “2” è Matteo e “X” il Letta Bis.
Un giorno è conciliante con il Premier, quello dopo fa lo sbruffone (su Twitter; dal vivo un po’ meno). Al mattino pare disponibile alla staffetta, al pomeriggio dice che il rimpasto gli fa venire le bolle e che non vuole finire come D’Alema nel ’98. Al lunedì vaneggia di riforme del Senato, al martedì è dubbioso sull’esito finale dell’Italicum-Troiaium. Al mercoledì vuole il voto anticipato, al giovedì torna fedele al partito. Poche idee, e questo è normale; ma confuse, e questo è più strano. Qualcuno dica a Renzi che, in sala, il film è già cominciato. Anche se lui continua a restare nel foyer, mangiando popcorn e aspettando che qualcuno gli spieghi cosa fare e pensare.


il Fatto 11.2.14
La disfida tra Renzi e Letta
Caro Colombo, mi tormenta una domanda: che governi Letta o che governi Renzi, per gli operai della Electrolux che va in Polonia e per gli operai della Fiat che va in Olanda, in Inghilterra, in America, che cosa cambia?
Risponde Furio Colombo

Caro Colombo, mi tormenta una domanda: che governi Letta o che governi Renzi, per gli operai della Electrolux che va in Polonia e per gli operai della Fiat che va in Olanda, in Inghilterra, in America, che cosa cambia?
Difficilissimo, se non sei nella stanza del Pd, calcolare le variazioni. Sono moltissime, se vivi situato fra Cuperlo e Scalfarotto, ma è quasi impossibile trasformarle in un elenco per i non credenti. Per non credenti intendo i tanti che sono disperati, disorientati, spiazzati, che al momento non canterebbero “Bella Ciao”, e che non sono facilmente recuperabili. Cercano di capire quale tipo di sinistra si avanza. Quella attuale getta loro sempre qualche peso in più sulle spalle (già rese deboli da vent’anni di berlusconismo) e insiste, anzi si vanta, di seguire sempre e solo una politica di severa e disciplinata austerità. Infatti Renzi e Letta sono profondamente divisi da una forte, esclusiva, diciamo pure ossessiva volontà (necessità) di essere soli al comando. Ma sono profondamente uniti dall'essere figli ed eredi diretti della stessa parte di mondo, moderata, cattolica e conservatrice, molto più vicina (entrambi) a Comunione e Liberazione che a Papa Francesco. Dunque è facilmente prevedibile che se questa “alternativa” dovesse accadere, porterebbe tra le mura domestiche del Pd un grande subbuglio e una rivoluzione (demolizioni, promozioni, spostamenti, offese, rotture perenni, amicizie rinsaldate, denuncia del vecchio, annuncio del nuovo). Ma tutto ciò avrà ben poco riflesso sulla vita degli italiani. In particolare di quegli italiani che chiedono – e devono chiedere – qualche cosa subito. Per esempio un vigoroso intervento di governo sulle loro imprese che stanno per essere cancellate. Non è disfattismo dire però che non cambierà nulla per gli operai abbandonati sulla strada da Electrolux e Fiat (badate che le questioni, in proporzioni molto diverse, si assomigliano molto, cambiano solo le vie di fuga). Infatti entrambi, Letta e Renzi, sono persone rispettose dell'autonomia delle aziende e di un approccio “di mercato” alle loro decisioni, in base alla persuasione, ritenuta “moderna” e libera dalle influenze sindacali, secondo cui non spetta allo Stato interferire. Entrambi credono che l’energica politica punitiva nei confronti del lavoro sia la giusta soluzione per i difetti italiani (che vogliono favori benevoli invece di prestazioni rigorose). E tutti e due sono esenti dall'influenza di quegli economisti – come i Nobel Stieglitz e Krugman –che vogliono un'Europa salda e forte ma non merkeliana. Uno dei due possibili leader della sinistra italiana sembra incline a fare adesso e subito una nuova legge elettorale, a costo di prendersi Berlusconi in casa. L'altro convive con Alfano ed è comunque incline a “riforme” in comune, genericamente intese. Tutti e due vogliono governare. Se ci sarà una “alternanza” o “staffetta” o “colpo di mano”, cambieranno stile e passo dei telegiornali. Al momento, nient'altro.

l’Unità 11.2.14
Pd, primo test per Renzi in ballo 15 leader regionali
Battaglia aperta per le primarie di domenica prossima
Nel Lazio la sfida tra la fedelissima del segretario, Lorenza Bonaccorsi, e Fabio Melilli, renziano sostenuto anche da Areadem e cuperliani
I civatiani puntano su Marco Guglielmi
di Osvaldo Sabato

Domenica prossima le primarie aperte a tutti (potrà votare anche chi non ha la tessera del Pd e non bisogna pre-registrarsi prima) per la scelta dei nuovi segretari regionali del Pd. Si faranno in quindici regioni, si voterà anche a Bolzano ma per eleggere il segretario provinciale, mentre in Emilia Romagna, Basilicata, Abruzzo, Sardegna e Trento si terranno successivamente. Seggi chiusi invece dove il Pd presenta un candidato unitario. È il caso dei renziani Fulvio Centoz in Valle d’Aosta, Dario Parrini in Toscana, Roger De Menech in Veneto e del sindaco di Bari Michele Emiliano in Puglia. Non è così nel resto d’Italia dove la battaglia si preannuncia ancora aperta specie fra renziani e la minoranza di sinistra, anche se non mancano situazioni in cui si assisterà a un derby fra candidati vicini al leader del Pd Matteo Renzi. Così gli equilibri che a fatica si cercano a livello nazionale anche sul piano locale mostrano tutta la loro fragilità.
Per esempio nelle Marche e Molise gli aspiranti segretari renziani avranno contro candidati scelti dagli alleati di Areadem. Nel Lazio nella corsa alla successione a Enrico Gasbarra si sfideranno la parlamentare Lorenza Bonaccorsi, fedelissima di Renzi, e l’altro deputato ed ex presidente della Provincia di Rieti Fabio Melilli, anche lui renziano, ma non della prima ora, sostenuto da Areadem del ministro Franceschini e dai cuperliani. I civatiani puntano su Marco Guglielmi. A spingere l’onorevole Bonaccorsi, in trattativa anche con i popolari di Beppe Fioroni e lo stesso Gasbarra, sono il suo collega Paolo Gentiloni, il consigliere regionale Eugenio Patanè insieme a diversi consiglieri comunali romani e il vicesegretario del Pd di Roma Luciano Nobili (ex rutelliano, come la Bonaccorsi). Con Melilli si schierano Goffredo Bettini, 11 consiglieri regionali su 13 e alcuni esponenti dell’area che fa riferimento al governatore Zingaretti, a dar manforte anche i Giovani turchi di Matteo Orfini.
In Sicilia cuperliani, renziani e il Megafono di Crocetta puntano su Fausto Raciti, segretario nazionale dei giovani democratici e deputato, che se la dovrà vedere con il segretario regionale uscente Giuseppe Lupo. Nell’isola la sfida è molto accesa, montano le polemiche e i ricorsi, e non sono mancati i colpi bassi fra i due maggiori contendenti. Per esempio Lupo attacca Raciti bollandolo come una candidatura «subalterna al governatore Crocetta». E lui replica: «Hai usato il partito come un trampolino ». Sullo sfondo il rimpasto della giunta regionale. La terza candidata è la civatiana Antonella Monastra. Mentre non hanno superato lo sbarramento del5%per potersi presentare alla segreteria regionale Antonio Ferrante e Giuseppe Lauricella, con quest’ultimo pronto a fare ricorso parlando di scorrettezze e anomalie.
E nel resto d’Italia? In Molise i cuperliani appoggiano la candidata di Areadem Laura Venittelli, contro avrà la renziana Micaela Fanelli. Non mancano i casi in cui si mischiano le carte. Succede in Umbria dove i bersaniani e dalemiani scelgono Stefano Fancelli contro il renziano Giacomo Leonelli, sostenuto anche dai Giovani turchi. In Campania la renziana Assunta Tartaglione battaglierà con il giovane turco Michele Grimaldi e con il lettiano Guglielmo Vaccaro che potrà godere anche dei voti dei dalemiani. Incerto l’esito in Liguria, tra il renziano Alessio Cavarra, sostenuto anche dal governatore Burlando, e il cuperliano Giovanni Lunardon, puntellato dal ministro Andrea Orlando e da un gruppo di renziani e di Areadem.
In Lombardia appare scontata la riconferma del segretario uscente Alessandro Alfieri, forte dell’asse fra renziani e cuperliani, con i civatiani che tentano di mettersi di traverso all’accordo unitario candidando Diana De Marchi. In Piemonte il candidato di area renziana Davide Gariglio se la dovrà vedere con la cuperliana Gianna Pentenero, la sua è una delle tre sole candidature al femminile che si sono presentate in tutta Italia, e con Daniele Viotti schierato dall’area Civati. Numeri alla mano però i candidati bersaniani e dalemiani, Lorenzo Presot in Friuli, Massimo Canale in Calabria e Gianna Pentenero in Piemonte, dovranno darsi da fare per conquistare la segreteria del Pd nelle loro regioni.


Repubblica 11.2.14
Il degrado del linguaggio
di Stefano Rodotà

Il governo del denaro organizzato è pericoloso esattamente come quello del crimine organizzato”. Sfogo irrazionale di un esagitato? No, parole pronunciate nel 1936 da Franklin Delano Roosevelt a conclusione della sua campagna elettorale. Parole nette, come si conviene ad una politica consapevole del modo in cui devono essere affrontate le grandi questioni.
Sottraendosi alla subordinazione all’economia e ritenendo fondamentale il rispetto della legalità. Forse dalla politica italiana doveva venire un segnale altrettanto forte dopo il rapporto della Commissione europea che ci attribuisce il 50% della corruzione nei paesi dell’Unione. E invece si è gridato al complotto, si è fatta qualche variazione sui criteri che hanno portato a quella conclusione, mentre era una buona occasione per riflettere sul fatto che la corruzione italiana non è misurabile solo in termini quantitativi, ma deve esserlo soprattutto in termini qualitativi. Se nell’Ottocento si denunciava il “mostruoso connubio” tra politica e amministrazione, oggi i connubi si sono moltiplicati - tra politica e affari, tra politica e criminalità, tra affari e criminalità - e questo dovrebbe essere tema prioritario.
Questo non avviene perché la politica italiana è precipitata in un vuoto dove ha perduto capacità di comprendere la società, dando spazio alla sfiducia dei cittadini e alla conversione della politica in protesta. Una vera sconfitta, della quale abbiamo potuto misurare l’ampiezza in occasione della conversione del decreto su Imu e Banca d’Italia, quando è divenuta evidente l’incapacità di gestire situazioni difficili, ma non certo drammatiche. Si alzavano i toni, si abbassava la capacità di comprensione e di azione razionale. Né il Governo, né la maggioranza parlamentare e i partiti hanno voluto prendere atto di un elementare dato di realtà: si era di fronte ad un decreto del tutto disomogeneo, al di fuori del binario costituzionale. E, invece di spegnere una così pericolosa miccia, ci si è abbandonati a dissennate prove muscolari, alimentando un indegno spettacolo mediatico. Così la conversione di un decreto legge è divenuta obbligo costituzionale; l’ostruzionismo sempre legittimo in democrazia si è trasformato in blocco fisico del lavoro della Camera e inammissibili aggressioni verbali; l’analisi della situazione è stata affidata a parole gridate, violente contro le donne, con improbabili accostamenti all’eversione e ai colpi di Stato. Si è andati oltre la politica dell’insulto, verso l’estrema degradazione del linguaggio, spia terribile dello stato reale d’una società. Sono comparse liste di proscrizione di chi, magari per un momento appena, aveva sfiorato con un dito l’impuro Grillo.
Si parlava un tempo d’una funzione “teatrale” del Parlamento, perché lì la vicenda politica diveniva palese davanti all’opinione pubblica. Ma oggi questa funzione assomiglia piuttosto a quella delle curve degli stadi, dove gli ultrà organizzano cori e portano striscioni, esibiscono magliette e indicano nemici. Si ha l’impressione che troppi, andando in aula, si preoccupino più di preparare coreografie che argomenti per la discussione. Una sconfitta per la politica.
Nessuno è innocente. E da qui deve partire la stessa valutazione dell’atteggiamento tenuto dai parlamentari del Movimento 5Stelle, che mostra la difficoltà di abitare le istituzioni anche in modo duramente conflittuale,, ma senza confondere un’aula parlamentare con la piazza del Vaffaday. È insensato imputare ad una forza di opposizione i suoi no (anche se l’essere saliti in luglio sul tetto di Montecitorio ha consentito un rinvio della discussione dell’orrido disegno di legge che distorceva la revisione costituzionale, ponendo la premessa per il suo abbandono). È giusto denunciare ogni forma di violenza, verbale o fisica che sia, e non fare alcuno sconto in questa materia. Quando, però, si vuol dare un giudizio più generale, è necessaria una analisi di tutta la prima fase di questa legislatura, sottolineando certamente i limiti delle opposizioni, ma dedicando altrettanta attenzione al sostanziale fallimento delle formule di governo. Di questa sconfitta vogliamo parlare o usiamo la cronaca d’una giornata per esonerarci da questo obbligo?
Il vuoto della politica diventa clamoroso proprio quando si affrontano i problemi della Rete, tema divenuto centrale e che ha rivelato abissi d’ignoranza. Sono anni che si discute dell’ “hate speech”, del linguaggio dell’odio che infesta la Rete, sono stati appena pubblicati dalla rivista “Quaderni costituzionali” saggi che discutono il rapporto tra libertà di manifestazione del pensiero e rispetto della dignità delle persone. Di questo non v’è traccia nel dibattito di questi giorni, e diventa addirittura imbarazzante constatare il rifugiarsi in banalità da parte di appartenenti al Movimento 5Stelle, che della Rete hanno fatto il proprio vangelo. Un numero sempre più largo di persone coglie ogni occasione per vivere aggressivamente in pubblico, restituendoci una versione miserabile del quarto d’ora di notorietà che Andy Wharol diceva dovesse venir garantito a tutti. Non è facile reagire a questo stato di cose, ma un comune punto d’avvio dovrebbe essere costituito dal riconoscimento della necessità di non rendere “accoglienti” per il linguaggio degradato i luoghi della nuova comunicazione. Non sto parlando di censura preventiva. Mi riferisco all’immediata e pubblica condanna di messaggi oltraggiosi. Le incertezze e le furbizie generano equivoci, ma la Rete è implacabile nel far emergere le responsabilità, non si può gettare il sasso e poi nascondere la mano. È emerso un fondo limaccioso, un misto di aggressività, violenza, risentimenti, fine d’ogni rispetto per l’altro, che ci rivela che cosa sia divenuta la società italiana. Tutto questo esige una riflessione sul modo in cui si è consumato in Italia un divorzio tra civiltà, cultura e politica.
La lista delle sconfitte della politica continua con un aspetto sottovalutato della legge elettorale, che riguarda la rappresentanza. Siamo di fronte ad una “Serrata del Maggior Consiglio”, simile a quella che si ebbe nel 1297 a Venezia, quando si riservò ai soli membri delle vecchie famiglie l’elezione del Doge. Con l’argomento della lotta ai partitini, si cuce una legge elettorale su misura dei partiti esistenti, con qualche mancia per i possibili alleati (norma salva Lega, candidature multiple per Alfano, vantaggi al “miglior perdente” delle coalizioni). Alle ultime elezioni i votanti furono trentaquattro milioni. Poiché si prevede una soglia dell’8%, rimarrebbero fuori dal Parlamento anche partiti votati da più di due milioni di persone. Le dinamiche politiche sarebbero bloccate e la rappresentatività del Parlamento pregiudicata.
Ma la questione della rappresentanza ha ormai una portata generale, come dimostra il conflitto che si è aperto nella Cgil intorno all’accordo tra sindacati e Confindustria del gennaio di quest’anno. Siamo anche qui di fronte ad una sorta di serrata, che limita non solo il dissenso all’interno del sindacato, ma incide proprio sul diritto dei lavoratori ad essere rappresentati, tanto che si parla di una libertà sindacale “sequestrata”, in evidente contrasto con quanto ha stabilito la Corte costituzionale accogliendo un ricorso della Fiom. Questa vicenda importantissima ci dice che ormai il tema della rappresentanza e la politica costituzionale fanno tutt’uno.
La voce della politica è tornata con la giusta critica di Napolitano alle logica dell’austerità. Ma, per riprendere la via dell’Europa, non basta “ridemocratizzare” le sue istituzioni, come chiede Habermas. È indispensabile “rilegittimare” l’Unione attraverso un recupero della fiducia dei cittadini che passa attraverso il riconoscimento dei diritti negati in questi ultimi anni.

il Fatto 11.2.14
Genova 2001
Diaz, Caldarozzi “agì come nei peggiori regimi”
Il superpoliziotto condannato in Cassazione per le violenzedel G8
di Valeria Pacelli

Comportamenti illegali di copertura poliziesca propri dei peggiori regimi antidemocratici. Così i giudici della Cassazione hanno definito – nelle motivazioni della sentenza depositate ieri – il comportamento di Gilberto Caldarozzi, l’ex capo dello Sco condannato per falso a 3 anni e 8 mesi di reclusione. La vicenda è quella dell’irruzione violenta nella scuola Diaz avvenuta durante il G8 di Genova la notte tra il 21 e il 22 luglio del 2001. Giorno in cui, come lo definiscono i giudici, avvenne “il pestaggio forsennato, di inaudita violenza e privo di alcuna ragione di inermi dimostranti colti nel sonno”. In questa situazione, Gilberto Caldarozzi, “dirigente di polizia, tutore della legge e della legalità si presta a comportamenti illegali di copertura poliziesca propri dei peggiori regimi antidemocratici, in violazione di diritti fondamentali, di libertà, di tutela giudiziaria, della dignità della persona”. Dal giorno in cui lo Stato fece di una manifestazione una “macelleria messicana”, il super poliziotto non ha mostrato alcun “ripensamento critico della sua condotta, dedotta dalla sua indifferenza rispetto a una prospettiva risarcitoria volontaria delle vittima, dalla lettura minimale delle sue responsabilità, dal rifiuto di esprimere pubblica ammenda”. E per i giudici il volontariato fatto da Caldarozzi dopo la sospensione dal servizio non basta. Con queste motivazioni, quindi, la Cassazione ha spiegato perché ha accolto la decisione del tribunale di sorveglianza che aveva respinto l’istanza di Caldarozzi di ottenere l’affidamento in prova e ha disposto che scontasse gli 8 mesi di pena residua. Gli altri tre anni sono coperti, per sua fortuna, dall’indulto del 2006.


il Sole 11.2.14
Emergenza sovraffollamento
Fra luoghi comuni e allarmismi veri
Il carcere «chiuso» riduce la sicurezza
Gli economisti dimostrano che senza misure alternative aumenta il tasso della recidiva
di Roberto Galbiati e Donatella Stasio


L'aumento della popolazione carceraria è una costante in molti Paesi occidentali. Negli ultimi trent'anni i detenuti sono cresciuti di oltre sei volte negli Stati Uniti e sono raddoppiati in molti Paesi europei, fra cui Italia e Francia. Effetto automatico dell'aumento della popolazione carceraria è l'incremento sia delle persone alla prima esperienza di carcere sia dei recidivi. Di fronte al fenomeno è lecito chiedersi se il carcere svolga o meno la funzione di "riabilitazione" o sia parcheggio, dove soggetti ritenuti pericolosi o indesiderabili sono isolati dal resto della società.
- Fonte: Rielaborazione su dati di Buonanno, Drago, Galbiati e Zanella (Economic Policy, 2011)

Chi va con lo zoppo impara a zoppicare, recita un antico proverbio. E la saggezza popolare trova riscontro in vari studi di economisti - italiani e internazionali - su carcere e recidiva. Gli scienziati sociali lo chiamano «effetto dei pari» ed è la conclusione a cui giungono dopo una serie di studi quantitativi sulla propensione alla recidiva, cioè sulla probabilità di tornare a commettere altri reati e di rientrare in galera. Insomma, il carcere è una scuola criminale: quando entrano, i condannati rafforzano i legami con altri detenuti e allentano quelli con il resto della società; quando escono dal carcere dopo aver scontato la pena, gli ex detenuti diventano reciprocamente un punto di riferimento, influenzandosi a vicenda.
Ben lungi dall'essere affermazioni apodittiche, queste conclusioni sono il risultato, ottenuto empiricamente, di una serie di ricerche che ormai da qualche decennio studiosi di varie parti del mondo portano avanti utilizzando le migliori tecniche di indagine quantitativa. Risultati preziosi in questo delicato passaggio politico-parlamentare sul carcere, perché smentiscono luoghi comuni e allarmismi in nome della sicurezza, che partono da un'idea distorta di "certezza della pena", intesa non come "certezza della qualità della pena" ma come pena da scontare interamente chiusi "dentro", a doppia mandata. E più sono le mandate, più "fuori" ci si sente sicuri.
Al contrario, gli studi economici dimostrano che il carcere "chiuso" produce soltanto altro carcere e che il sovraffollamento (con il suo carico di promiscuità, invivibilità, degrado, insalubrità e morti, che si porta dietro) è un moltiplicatore della recidiva. Dunque, non "conviene" alla sicurezza collettiva.
Piuttosto, è sulle misure alternative alla detenzione (scorrettamente equiparate a "libertà" o a "premi") che bisogna puntare per ridurre la recidiva. In questa direzione si muovono le misure legislative in corso di approvazione (dopo il via libera della Camera, il decreto "svuota carceri, che decade il 21 febbraio, è ora all'esame del Senato). Ma il passo è ancora claudicante perché ancora è troppo radicata la cultura carcero-centrica nonché l'idea, supportata da uno strepitìo politico di fondo, che le misure alternative siano un regalo ai delinquenti e che solo il carcere garantisca la quiete degli onesti.
Il problema non è limitato all'Italia. L'aumento della popolazione carceraria è ormai una costante in molti paesi occidentali. Negli ultimi trent'anni i detenuti sono cresciuti di oltre sei volte negli Stati Uniti e sono raddoppiati in molti paesi europei, fra cui Italia e Francia. Effetto automatico dell'aumento della popolazione carceraria è l'incremento sia delle persone alla prima esperienza di carcere sia dei recidivi. Di fronte a questo fenomeno è quindi lecito chiedersi se il carcere svolga o meno la sua funzione di "riabilitazione" o funga soltanto da parcheggio, dove soggetti ritenuti pericolosi o indesiderabili vengono isolati per un periodo più o meno lungo dal resto della società. In altre parole, la prima domanda è se il carcere riesca a favorire il reinserimento sociale o sia soltanto uno strumento di controllo attraverso l'incapacitation dei detenuti.
A questa domanda se ne aggiungono altre: la detenzione aiuta a ridurre la recidiva? E ancora: il carcere duro, inteso come condizioni inumane e degradanti (costate all'Italia la condanna da parte della Corte di Strasburgo), può indurre gli ex-detenuti a delinquere meno?
Il cittadino italiano, pur di fronte alla gravissima violazione dei diritti umani che si consuma nelle patrie galere, potrebbe pensare che al "costo" sopportato dai detenuti corrisponda un minor "costo" in termini di recidiva, e quindi di sicurezza collettiva, sentendosi così in pace con la propria coscienza. Agli occhi degli scienziati sociali però le cose si presentano in modo un po' diverso.
Uno dei punti cruciali del dibattito politico-parlamentare è l'uso sistematico di misure alternative alla detenzione, come la detenzione domiciliare e/o con braccialetto elettronico. Nella contrapposizione ideologica, i detrattori gridano allo scandalo del "regalo" a delinquenti pericolosi, i fautori replicano che il carcere è ormai un semplice strumento di vendetta. Come uscire da una simile impasse? Paragonare i tassi di recidiva di chi ha scontato la pena ai domiciliari con quelli di chi è andato in carcere è un'idea naïve. In genere, chi va ai domiciliari è considerato meno pericoloso ed è normale che sia meno recidivo. Un recente articolo di Rafael Di Tella ed Ernesto Schargrodsky, apparso sul Journal of Politica Economy, aiuta a comprendere meglio qual è l'effetto di misure alternative, come la sorveglianza elettronica.
Il caso studiato si riferisce all'Argentina. Per risolvere il problema della selezione (il confronto tra pere e pere e non tra pere e arance), idealmente bisognerebbe assegnare in modo casuale condannati con caratteristiche simili a pene diverse. Gli autori approssimano questo esperimento ideale sfruttando la peculiarità del sistema giudiziario argentino, in cui gli imputati sono assegnati ai magistrati giudicanti in modo casuale: attraverso la storia delle decisioni dei singoli giudici, identificano quelli più o meno "garantisti" (cioè più o meno propensi all'uso di misure alternative) e in tal modo possono identificare una componente casuale nell'assegnazione a pene diverse. I risultati dello studio suggeriscono che i soggetti che beneficiano della misura alternativa recidivano il 48% in meno (praticamente la metà) dei detenuti incarcerati.
Si potrebbe eccepire che l'Argentina è un caso particolare e ci si potrebbe chiedere perché aspettarsi un tale effetto di riduzione della recidiva, ovvero, perché mai la detenzione dovrebbe favorire la recidiva. Una semplice ragione è che l'aumento considerevole della popolazione carceraria negli ultimi decenni ha enormemente deteriorato le condizioni di detenzione. Ma come fare a capire se le condizioni di detenzione sono davvero fonte di maggiore recidiva? La risposta è in una serie di studi americani (Chen e Shapiro, American Law and Economics Review 2007 tra gli altri) e in uno studio italiano.
Francesco Drago, Roberto Galbiati e Pietro Vertova (American Law and Economics Review 2011) hanno focalizzato la ricerca su un campione di circa 20mila ex detenuti italiani, utilizzando un elemento casuale nel processo di assegnazione del luogo di detenzione. La pena andrebbe scontata nel carcere più vicino alla residenza del condannato, ma questa regola è spesso disattesa per varie ragioni: dal sovraffollamento del carcere "naturale" a motivi di incompatibilità tra quel carcere e il detenuto. Il quale può quindi finire, in modo parzialmente casuale, in carceri dove le condizioni di detenzione sono più o meno buone, a prescindere dalla propria pericolosità. Questo processo rende possibile, con alcuni accorgimenti statistici, depurare l'analisi da fattori di confusione e consente di comprendere meglio quale sia l'effetto delle condizioni di detenzione sulla recidiva.
In particolare, gli autori hanno analizzato l'impatto del numero di morti in carcere avvenute durante la detenzione, depurando l'effetto delle morti da altre caratteristiche inosservate dell'ambiente carcerario, che potrebbero rendere le correlazioni spurie: l'analisi mostra che maggior sovraffollamento e morti in carcere sono fattori associati a una maggiore propensione a recidivare.
Si potrebbe obiettare che, se il problema della recidiva sono sovraffollamento e condizioni che producono morti, basta costruire nuovi penitenziari o ristrutturare quelli dismessi. Ma, a parte i costi, quest'operazione risolverebbe davvero i problemi? Forse renderebbe le condizioni detentive meno insopportabili, ma non intaccherebbe uno dei fattori alla radice dell'aumento della recidiva a causa del carcere. Questo fattore è quello che gli scienziati sociali chiamano «effetto dei pari». Che equivale, appunto, al proverbio «stando con lo zoppo si impara a zoppicare»: "dentro" si rafforzano i legami con altri detenuti e si allentano quelli con il mondo esterno; una volta "fuori", gli ex-detenuti diventano reciprocamente un punto di riferimento, influenzandosi a vicenda.
L'evidenza empirica di queste affermazioni si trova in molti altri studi. Francesco Drago e Roberto Galbiati (American Economic Journal: Applied Economics, 2012), utilizzando un campione di circa 20mila detenuti italiani, mostrano come la propensione individuale a tornare a delinquere dipenda dal comportamento degli altri detenuti con cui si è condiviso il carcere. Lo stesso risultato lo ritrovano Patrick Bayer e altri (Quarterly Journal of Economics) utilizzando un campione di detenuti americani, e Aurelie Ouss (Harvard University, 2013) con riferimento a detenuti francesi. Insomma, il carcere è una scuola criminale. Del resto, più di un secolo fa (era il 18 marzo 1904) Filippo Turati denunciava: «Noi ci gonfiamo le gote a parlare di emenda di colpevoli, ma le nostre carceri sono fabbriche di delinquenti o scuole di perfezionamento dei malfattori».
* Centre National de la recherche scientifique e Sciences Po Paris

il Fatto 11.2.14
“Il riassetto del ministero ci cancella” La rivolta degli archeologi contro Bray
di Carlo Di Foggia

Così si cancella l'archeologia”. L'appello è indirizzato al ministro per i Beni culturali, Massimo Bray, ormai prossimo a presentare il progetto di riforma del Mibac in Consiglio dei ministri. Gli archeologi sono sul piede di guerra perché nella complessa riorganizzazione interna, la direzione competente viene soppressa. Le funzioni finiranno sotto la gigantesca direzione per il patrimonio storico-artistico, e il suo nome non comparirà neanche nella dicitura dell'ufficio. “Abbiamo il patrimonio archeologico più grande d'Europa e scegliamo un accorpamento burocratico che svilisce ancora di più il settore”, spiega Andrea Cardarelli, firmatario dell'appello insieme agli altri rappresentanti delle consulte di archeologia (con tanto di vignetta satirica, vedi sotto). “Si parla tanto di Pompei e Volterra, e poi scegliamo di sacrificare la conservazione del patrimonio archeologico, privilegiando solo la valorizzazione ai fini del turismo”, spiega Stefania Gigli, presidente della consulta di Topografia Antica. Il ministero smentisce che nell'accorpamento vengano sacrificate funzioni di tutela, ma intanto gli archeologi hanno iniziato la mobilitazione di protesta. Venerdì scorso hanno manifestato sotto il ministero, e minacciano di scrivere direttamente al premier, Enrico Letta o al presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano. Sull’archeologia Bray è già incappato in una gaffe con la nomina di Massimo Osanna alla soprintendenza di Pompei, preferendolo ai candidati interni al Mibact. Osanna non ha competenze pompeianistiche, eppure lo stesso Bray aveva detto il contrario durante un question time in Senato. Dopo mesi di discussione, un'apposita commissione di 38 esperti nominata per formulare una proposta di riforma, ulteriori consultazioni e riflessioni, la bozza è pronta. La spinta originaria, l'aveva data la spending review varata a suo tempo da Monti. Il decreto imponeva solo un taglio dei posti dirigenziali, fissando le quote: 6 fra direttori generali e regionali, 32 fra soprintendenti, direttori di musei o di archivi o di biblioteche. Bray è andato oltre. Non è un mistero che i rapporti con diversi dirigenti siano ai minimi termini. E così si è deciso per una riorganizzazione generale della struttura, dalle direzioni generali a quelle regionali, alle soprintendenze, un'occasione anche per spostare alcuni dirigenti, altrimenti inamovibili. Il malumore interno cresce di giorno in giorno, con i tecnici del ministero che si oppongono duramente. Le direzioni generali restano 8 più una nona per il Turismo. La direzione alle Antichità (competente per l'archeologia) è stata accorpata con quella delle Belle arti, il Paesaggio e l’Architettura facendo nascere una macro direzione al Paesaggio e al Patrimonio Storico e Artistico, che tuttavia perde il settore dell’Arte e Architettura Contemporanea, assorbito dalla Direzione per lo Spettacolo dal vivo, guidata dal potentissimo Salvo Nastasi. L'arte e l'architettura contemporanea finiranno così nella stessa direzione delle fondazioni liriche, mentre l’unica di tipo burocratico si triplica in una dedicata al bilancio, una al personale e una all'innovazione. L'obiettivo della riforma, nelle intenzioni della commissione, era di sfoltire l'amministrazione centrale, dando più poteri e autonomia alle soprintendenze, svincolandole dalle direzioni regionali, da sempre esposte alla pressione della politica locale, con funzioni e incarichi duplicati. Obiettivo centrato solo in parte. Le direzioni perdono diversi poteri a favore delle soprintendenze - a cui andranno le funzioni di vincolo - e avranno un ruolo prettamente amministrativo. Ma viene istituito l’Ufficio di pianificazione, con funzioni simili al segretariato generale, che sopravvive nonostante il parere contrario della commissione.

Corriere 11.2.14
Con Venezia vietata alle supernavi 15 mila posti a rischio
L’appello di Zoppas
di Francesca Basso


MILANO — «L’incertezza sul futuro delle grandi navi da crociera a Venezia mette a rischio migliaia di posti di lavoro. Solo gli addetti diretti sono 4.255, che con l’indotto salgono a 14-15 mila. Il governo prenda una decisione certa sulle soluzioni alternative, altrimenti rischiano migliaia di lavoratori». L’appello al premier Enrico Letta arriva dal presidente di Confindustria Venezia, Matteo Zoppas, che ieri ha avuto un incontro informale con Howard Frank, il presidente del comitato esecutivo della Cruise Lines International Association (Clia), l’associazione rappresentativa dell’industria crocieristica mondiale, e presidente anche di Costa Crociere. «La Clia è stata chiara — spiega Zoppas —. Ha escluso come possibilità l’approdo delle crociere a Marghera per la sicurezza di passeggeri e lavoratori, e anche per la mancanza di infrastrutture ricettive adeguate. Ma vogliono sapere quali sono le alternative, perché devono programmare le destinazioni». Il prossimo 10 marzo si tiene a Miami il Seatrade, il salone mondiale della crocieristica, dove le compagnie decidono rotte e destinazioni per i prossimi anni. «Venezia si deve presentare come una destinazione certa — prosegue Zoppas —. Le compagnie stanno già valutando in alternativa Istanbul e Atene. Una delle due Costa Crociere che arrivavano a Venezia ora va Trieste. C’è bisogno di una soluzione che nella tempistica rispetti il lavoro. In mancanza, le autorità locali e nazionali garantiscano che si faranno carico degli esuberi che deriveranno da queste decisioni: non è un ricatto occupazionale, la stessa Clia ci fornirà a breve i numeri dell’impatto del cambio di destinazione». I tempi per una soluzione sembrano allungarsi. Giovedì scorso il Senato ha impegnato il governo ad assicurare che tutte le soluzioni presentate siano comparate e considerate in sede di valutazione ambientale a prescindere dallo stato di avanzamento progettuale. «Questo vuol dire allungare i tempi — conclude Zoppas —. Il governo avrà 30 giorni per avviare le valutazioni più tre mesi per la conclusione. Troppo per garantire i livelli occupazionali. Chiediamo che la decisione sul canale di accesso a Venezia sia presa in breve e che la realizzazione, contenuta nella legge obiettivo, avvenga in tempi certi con un commissario competente».

La Stampa 11.2.14
Torna “One billion rising” contro la violenza alle donne
Si balla per chiedere giustizia
Appuntamento il 14 febbraio nelle piazze d’Italia e nel mondo
di Laura Preite

qui

La Stampa 11.2.14
“Basta principesse magre nei cartoni”
Una petizione online contro la Disney
Un’adolescente si è rivolta al colosso di animazione: «Vogliamo eroine in carne.
Troppe ragazzine si sentono inadeguate confrontandosi con modelli esagerati»
di Lorenza Castagneri

qui

l’Unità 11.2.14
Errori, affari e ritardi: cosa c’è dietro il caso indiano
Il primo passo falso è il limbo giuridico intorno al ruolo dei militari a bordo di navi mercantili
I fucilieri anti-pirateria sono equiparati a guardie giurate grazie alla legge La Russa
Poi hanno pesato i contratti a molti zeri con New Delhi
di U.D.G.

nostri fucilieri di Marina. Ora, rilancia Palazzo Chigi, è tempo di mostrare agli indiani e alla comunità internazionale di essere un Paese unito. Sarà così. Ma il tempo della verità sulle zone d’ombra che avvolgono l’affaire-marò, e che chiamano pesantemente in causa i due governi precedenti all’attuale, quello guidato da Silvio Berlusconi e l’esecutivo Monti, non può essere procrastinato all’infinito.
Contractor in divisa
Sulla vicenda marò «il problema è anche la legge La Russa, che prevede la presenza di militari a bordo senza definire linee di comando». È un attacco diretto all’ex ministro delle Difesa, Ignazio La Russa, quello lanciato il 27 gennaio scorso dalla ministra degli Esteri, Emma Bonino. «Mi riferisco alla legge La Russa, al decreto missioni. Fu proprio quel decreto che prevedeva inopinatamente militari su navi civili senza stabilire per bene le linee di comando. Alcuni tra coloro che oggi si agitano tanto sono all’origine del “caso marò”. Tutto questo sarà utile rivederlo a conclusione positiva della vicenda», dice la ministra intervistata da Mattino 24. Regole d’ingaggio che equiparano i militari italiani a semplici guardie giurate, a «contractor »; e catena decisionale, prevista dalla convenzione tra Difesa e associazione degli armatori, per la quale i militari italiani a bordo sono di fatto «ufficiali di polizia giudiziaria limitatamente alla repressione di un attacco di pirata, ferme restando per il resto le attribuzioni del Comandante della nave». Un passaggio non secondario, perché la Enrica Lexie tornò in porto e i marò scesero a terra, dove vennero subito arrestati in modo da esser sottoposti alla giustizia indiana e non a quella italiana come avrebbe dovuto essere, per precisa disposizione del Comandante, e dunque dell’armatore: il ministero della Difesa, a quanto se ne sa, fu solo informato. Dunque, le basi del pasticciaccio stanno tutte in due documenti: il decreto legge del 12 luglio 2011, che rende possibile imbarcare militari italiani su navi civili, e la convenzione che la Difesa - allora retta da Ignazio La Russa - e la Confitarma firmano pochi mesi dopo, l’11 ottobre.
Contratti in ballo
Sarà un caso. Una coincidenza temporale. Fatto sta che proprio nelle ore in cui il governo guidato da Mario Monti, con l’ammiraglio Giampaolo Di Paola alla Difesa e Giulio Terzi di Sant’Agata alla Farnesina, stava completando le trattative per il clamoroso dietrofront, rispedendo in India i due marò. il ministro della Difesa di New Delhi ha annunciato il via libera a una commessa del gruppo Finmeccanica. Un accordo da 300 milioni di dollari con la Wass di Livorno per la fornitura di siluri ad alta tecnologia. D’altro canto, a più riprese l’autorevole quotidiano della capitale Times of India si è chiesto apertamente se il ritorno dei marò non sia stato «influenzato» da valutazioni di ordine commerciale: «Non è chiaro se gli imprenditori italiani abbiano fatto pressioni al governo italiano per rimandarci i marò e a che livello, ma è stato comunque espresso l’auspicio per una soluzione “diplomatica” della crisi, affinchè non dovessero risentirsi gli scambi commerciali, ancora relativamente piccoli ma in crescita». E anche l’Hindustan Times ha battuto sullo stesso tasto: «Roma potrebbe aver realizzato che la sua decisione era controproducente, visto che l’India era pronta a riconsiderare i rapporti bilaterali nel caso di un mancato rientro dei due marò (…). Un ridimensionamento dei rapporti avrebbe colpito duramente l’Italia, e la prima vittima sarebbe stata Finmeccanica». In ballo non c’era solo la maxi-fornitura di dodici elicotteri Augusta (per un valore pari a 560 milioni di euro) «congelata», e successivamente annullata dal governo di New Delhi dopo l’esplosione dello scandalo Finmeccanica in Italia. Non solo elicotteri, dunque: attualmente, sono circa 400 le società italiane già operanti in India. Complessivamente, l’interscambio commerciale tra Italia e India si aggira sui 8,5 miliardi. In ballo ci sono anche 1.000 miliardi di grandi opere che l’India vorrebbe realizzare (o quantomeno avviare) entro il 2017.
Silenzio internazionale
Sarà per la convinzione, errata, che alla fine tutto si sarebbe messo a posto, sarà per non dover dividere con altri partner la torta di affari con New Delhi, fatto sta che l’Italia fa passare tanto, troppo tempo, prima di investire le istituzioni sovranazionali del caso marò, in primis l’Unione Europa. Anche questo colpevole ritardo viene lasciato in eredità al governo attuale. Per mesi nessuna cancelleria europea si esprime, Angela Merkel si volta dall’altra parte, gli inquilini dell’Eliseo, prima Sarkozy dopo Hollande, si occupano di altre grane internazionali, tace l’Alta rappresentante per la politica estera dell’Ue, Catherine Ashton. Da Bruxelles si ripete: è un affare tra Italia e India. Si volta pagina con Bonino alla Farnesina.


Repubblica 11.2.14
Neelam Deo, diplomatica indiana: “La nostra gente reputa offensive le dure parole del ministro Bonino”
“Dall’Italia mosse sbagliate e maldestre le minacce non servono a risolvere il caso”
di Valeria Fraschetti

“Se il vostro governo crede di aiutare il caso marò con i suoi modi offensivi, sta sbagliando strada»: consiglia all’Italia di abbassare la cresta, l’ambasciatrice indiana Neelam Deo. Direttrice del think tank di politica internazionale
Gateway House, Deo è stata diplomatico anche a Roma fino al 1980. Da allora ha continuato a seguire da lontano le vicende italiane e oggi sostiene che quella che riguarda i due fucilieri di Marina, accusati dell’uccisione di due pescatori del Kerala due anni fa, è diventata un pasticcio diplomatico soprattutto a causa della 'piega nazionalista” che ha preso a Roma.
Ambasciatrice, quanta attenzione c’è in India verso questo caso?
«Era molto seguito in Kerala, ma ormai ha una risonanza nazionale a causa delle mosse maldestre dell’Italia, come la decisione di non voler far ritornare i marò in India dopo il congedo elettorale. Gli indiani vedono l’atteggiamento delle autorità italiane, le dure parole del ministro Bonino e le minacce Ue come offensivi».
Ma in India si sta invocando l’accusa di terrorismo contro due militari per un incidente avvenuto in acque internazionali.
«Due indiani sono stati uccisi, l’incidente è avvenuto nelle cosiddette acque contigue, l’India ha quindi diritto alla giurisdizione. E l’Italia dovrebbe rispettare la legalità del procedimento. Se l’incidente fosse avvenuto con un Paese sviluppato, porterebbe più rispetto».
La vicenda è inquinata da orgoglio patriottico?
«È così per entrambi i Paesi, ma da noi non si arriva ad appendere le immagini dei pescatori uccisi sui palazzi del governo, come invece viene fatto con le foto di Latorre e Girone».
Le elezioni nazionali indiane sono previste a maggio. Vede un’influenza elettorale sul caso?
«Per il momento nessun partito ne ha fatto un tema della campagna elettorale. Potrebbe diventarlo, però, se Roma continuerà ad alzare i toni».
Con il voto alle porte il governo, guidato dal partito dell’italiana Sonia Gandhi, si guarderà bene dal fare concessioni all’Italia.
«L’italianità della Gandhi non è più un problema per il Congresso: a guidare la campagna stavolta è il figlio Rahul, percepito come un vero indiano».
La destra nazionalista è in testa ai sondaggi: in caso di vittoria, le relazioni Italia-India s’irrigidiranno ancora di più?
«Difficile dire chi vincerà, c’è ancora confusione. Ma l’India resterà comunque interessata a una risoluzione rapida della faccenda, l’Italia è un partner economico strategico».

il Fatto 11.2.14
Marò tandoori, l’Italia cotta a fuoco lento
L’accusa rimane di pirateria, per Roma è “inaccettabile”, ma non ha armi per cambiarla
di Alessandro Cisilin

Non è l’ennesimo rinvio. Il caso dei due fucilieri della Marina accusati dell’omicidio di due pescatori indiani – sabato ricorre il secondo anniversario – è giunto ieri all’atteso passaggio in Corte Suprema. Sollecitata da questa a un’accelerazione, la procura generale di Delhi ha prospettato gli estremi dell’accusa e la difesa ha esposto le sue obiezioni, sicché la decisione procedurale è stata aggiornata alla prossima udienza, forse ancora non decisiva, da tenersi tra una settimana. I pm si sono attenuti alle indicazioni giunte dal governo (che ha competenza nell’istruzione dei processi “speciali”) e dagli inquirenti locali. L’esito, previsto quanto cervellotico, è questo: nelle parole del procuratore Vahanvati “il caso non rientra nei rarissimi che contemplano la pena capitale”, ma sarà comunque processato in base alla legge antipirateria (il “Sua Act” del 2002) che la prevede in caso di omicidio.
L’escamotage è un riferimento a generiche “violenze” (previste nel medesimo articolo di legge) che possono prevedere fino a 10 anni di carcere. Sarebbe una buona notizia, non fosse che vanno a formalizzarsi l’onta e le ambiguità giuridiche. “Un Sua Act dimezzato non funziona”, spiega Mukul Rohatgi, legale dei marò. “Inaccettabile – reagisce il premier Letta - Uso del concetto di terrorismo da rifiutare in toto” (anche se per la verità il “terrorismo” non è neppure citato dalla legge suddetta). Emma Bonino usa parole analoghe, ma frena su reazioni di altro livello (“strade eventuali”) quali un ricorso al Tribunale Onu per gli arbitrati sul diritto del mare, consapevole che l’esito sarebbe tutt’altro che scontato dato che il fatto non avvenne nelle “acque territoriali” indiane ma neppure in quelle “internazionali”, bensì in quella fascia discutibilmente contesa tra le Convenzioni Onu e lo stesso “Sua Act”. La ministra degli Esteri ha anche dovuto nei giorni scorsi placare i rigurgiti della destra italiana e dello stesso collega alla Difesa Mauro (ora a Delhi), che dal Parlamento aveva lanciato moniti sulla nostra partecipazione alle missioni Ue e Nato in caso di mancato esito positivo della vicenda. Invocando un “parliamo con una voce sola”, la Bonino ha ricordato che i militari sono stati inviati a bordo delle navi private da La Russa nel 2011, e non da qualche “missione internazionale”. Insomma, dopo aver indispettito l’India, il rischio è indispettire anche Bruxelles (oggi a vertice diplomatico) proprio mentre sta ergendo un appoggio all’Italia. Nei giorni scorsi si è parlato inoltre di un possibile richiamo del nostro ambasciatore. L’ipotesi però stride col perdurare di ben altri dossier, incluso quello, poco noto, di due turisti italiani condannati all’ergastolo (salvo probabili ulteriori rinvii, è oggi in agenda l’esame del loro ricorso nella stessa Corte Suprema) per l’improbabile accusa di aver ucciso nel 2010 un compagno di viaggio.
La vera battaglia per i due marò è ora dunque anzitutto un’altra, quella ribadita dall’Inviato della Farnesina De Mistura: che la Corte permetta loro di attendere il processo in Italia.


l’Unità 11.2.14
Immigrati, il rompicapo svizzero
Allarme Ue dopo il referendum che reintroduce le quote
A rischio le relazioni con Berna, ombre sulle Europee
Merkel: «Problemi considerevoli». Stampa elvetica divisa: «Danno economico»
di Virginia Lori

Allarme Ue dopo il referendum che reintroduce le quote. A rischio le relazioni con Berna, ombre sulle Europee.
Merkel: «Problemi considerevoli»
Stampa elvetica divisa: «Danno economico»
Il risultato del referendum svizzero sulle quote per i lavoratori immigrati «va in una direzione che non è la più facile in una prospettiva europea». È stato questo il commento dell’alto rappresentante per la politica estera Ue, Catherine Ashton al termine del Consiglio dei ministri degli Esteri tenutosi ieri a Bruxelles. «Sia la Commissione che il Consiglio - ha aggiunto - sono al lavoro per vedere come procedere». E assicura che è in corso la discussione con gli interlocutori svizzeri «per individuare i percorsi futuri».
Pare comunque certa una forte reazione dell’Unione europea alla decisione della Svizzera di porre un tetto agli immigrati. Ad una limitazione della libertà di movimento dei cittadini dell’Unione in territorio elvetico potrebbe seguire la revisione di tutti gli accordi esistenti e in discussione tra la Confederazione elvetica e l’Unione europea.
Per domani è in calendario la firma dell’accordo istituzionale Ue-Svizzera per adattare il corpo legislativo elvetico a quello dell’Unione, ma ora quella firma potrebbe essere a rischio. Non sono pochi i dossier aperti tra la Ue e Berna che ora ha tre anni di tempo per dare seguito al risultato del referendum, ma intanto è invitata a fornire chiarimenti. Da Bruxelles si fa notare che il negoziato sui nuovi accordi «parte in salita» e «non sotto i buoni auspici». Non si nasconde il «profondo rammarico» per l’esito del referendum che ha visto sconfitto il governo elvetico e vincente il partito antieuropeo dell’Unione democratica di centro (Udc).
80.000 posti in bilico
«È andato contro il principio - si legge in un comunicato della Commissione Ue - della libera circolazione delle persone fra l’Unione europea e la Federazione elvetica». Un principio «sacro» per l’Unione. «L’iniziativa svizzera avrà delle conseguenze nell’ambito dei rapporti con i Paesi membri» sottolinea il commissario europeo per la Giustizia, Viviane Reding: «La Svizzera non poteva aspettarsi di godere dei benefici del libero scambio con l’Ue, senza accettare la libertà di movimento. O si accettano gli accordi nella loro totalità o si lascia perdere tutto».
Insomma, aver posto i limiti alla libera circolazione per i cittadini comunitari non sarà indolore per la stessa Svizzera. Lo conferma il presidente del Parlamento europeo Martin Schulz. «È difficile - ha spiegato il socialdemocratico tedesco candidato alla carica di presidente della Commissione dal partito socialista europeo - limitare la libera circolazione delle persone e non limitare la libera circolazione dei servizi». «Se la Svizzera non è più in grado di soddisfare le condizioni dell’accordo sulla libera circolazione delle persone - ha osservato - tutti gli altri accordi firmati nel 1999 sono in pericolo, in base a una clausola che li lega insieme».
Reagiscono anche le cancellerie europee. «Il governo tedesco prende atto del risultato e lo rispetta, ma dal nostro punto di vista è chiaro che ciò pone problemi considerevoli» ha commentato il portavoce della cancelliera tedesca Angela Markel, Steffen Seibert. «Le relazioni che legano la Svizzera all’Unione europea apportano grandi vantaggi alle popolazioni delle due parti e la libera circolazione è il cuore di queste relazioni» ha proseguito Seibert. «Il nostro interesse resta quello di mantenere più saldo possibile il legame tra la Svizzera e l’Unione europea». È netto anche il giudizio del ministro degli esteri francese, Fabius che considera l’esito del referendum «una cattiva notizia per l’Europa» che «ora dovrà rivedere i suoi rapporti con la Federazione elvetica». «Ma - aggiunge - è una cattiva notizia anche per la Svizzera che, circondata interamente da paesi dell’Ue, si chiuderà in se stessa penalizzando l’economia». Non va dimenticato, infatti, che l’Ue è il primo partner commerciale della Svizzera e che il clima di incertezza legato all’introduzione delle quote per gli immigrati, secondo gli economisti del Credit Suisse, potrebbe portare ad un taglio di 80mila posti di lavoro in tre anni. Tra i Paesi più coinvolti vi è l’Italia. Esprime forte preoccupazione la responsabile della Farnesina, Emma Bonino. «A Bruxelles - afferma - si stanno valutando anche le eventuali conseguenze sui rapporti di tipo fiscale fra Ue e Svizzera». In ballo vi è il destino degli oltre 60mila «frontalieri» italiani che ogni giorno attraversano il confine elvetico.

Corriere 11.2.14
L’«inforestierimento», antica paura dei nostri vicini
di Paolo Di Stefano


La memoria torna inevitabilmente, in questi giorni, alle iniziative popolari del passato. Il timore della «Überfremdung» (tradotto dai ticinesi con «inforestierimento») portò il 7 giugno 1970 alle urne il popolo svizzero, chiamato a votare l’iniziativa di James Schwarzenbach, leader del partito xenofobo (allora si usava questo aggettivo) Azione nazionale, che voleva limitare al 10 per cento la presenza degli stranieri, in maggioranza italiani, sul suolo elvetico. Il referendum, che avrebbe comportato l’espulsione di 300 mila lavoratori, richiamò al voto ben il 75 per cento della popolazione, ma fu respinto dal 54 per cento. Erano gli anni del boom economico e dei permessi stagionali che impedivano agli stranieri di avere con sé le famiglie: nel 1964 un documentario di Alexander Seiler, «Siamo italiani», aveva raccontato la disumanità del lavoro degli immigrati. Le successive iniziative di Schwarzenbach (1974 e 1977), ancora più restrittive, sarebbero state bocciate da percentuali crescenti. Della minaccia di «inforestierimento» si tornerà a parlare nel 1988 e nel 2000, di nuovo senza successo: questa volta non erano gli italiani l’obiettivo primario, ma i cosiddetti «extracomunitari». Molti italiani, nel frattempo, erano morti in Svizzera lavorando nelle gallerie e nelle dighe (a Mattmark, nel 1965, un ghiacciaio seppellì 100 operai, 59 dei quali erano italiani). Le tragedie contribuirono ad accrescere, oltre alla consapevolezza del bisogno di manodopera estera, anche il senso di colpa in un Paese profondamente cristiano, anche se perennemente tormentato dal problema dell’identità elvetica (specie nelle zone di confine) e dal senso di accerchiamento. La crisi di oggi, presa in carico dalla demagogia della destra populista, oscura l’antico senso di colpa, ma anche la consapevolezza di un mondo del tutto cambiato. E la fuga nelle rassicurazioni illusorie, come osserva lo storico della lingua Sandro Bianconi, impegnato sul fronte anti-limitazione, «diventa la soluzione più a portata di mano per una democrazia diretta sempre meno adeguata a una realtà molto più complessa che in passato, che richiederebbe decisioni razionali e non anacronistiche, capaci di oltrepassare la vecchia retorica della minaccia». Retorica a cui, paradossalmente, non sono estranei gli immigrati naturalizzati, ormai fieri di sentirsi «supersvizzeri».

Corriere 11.2.14
«Dumping dei salari? Colpa degli industriali non dei lavoratori»
di C.Del.


LUGANO — La famiglia viene dal Salento ma lei, Ada Marra, è nata a Losanna 41 anni fa e oggi è talmente svizzera da sedere in Parlamento a Berna per il partito socialista. E pronuncia parole spiazzanti. «Il referendum? Ha vinto chi ritiene che i problemi di questo Paese derivino dagli immigrati ma non è così, le quote non sono la soluzione. Non tarderemo ad accorgercene». Poche sono state in Svizzera le voci d’accordo con lei. Proviamo ad analizzare il responso delle urne partendo da un quesito: la caduta dei salari provocata dall’immigrazione è reale o no, specie in Ticino? «Lo è senz’altro. Ci sono datori che offrono paghe mensili di 1.500 franchi, una miseria. Sono svizzeri ma anche italiani che hanno delocalizzato le aziende. E allora il problema sono gli immigrati o gli imprenditori che sfruttano il dumping salariale?» .
I sindacati propongono in alternativa un salario minimo di 4 mila franchi: è praticabile ?
«A maggio torneremo a votare proprio sul salario minimo. Sarà interessante vedere la risposta degli elettori».
Ma questo non spiega ancora la vittoria del sì…
«Determinante è stato il voto di cantoni interni molto tradizionalisti ma che di stranieri ne vedono ben pochi. Invece in zone dove il fenomeno è massiccio, come a Ginevra o Basilea, i contrari sono stati la maggioranza. Certo consapevoli che senza gli stranieri l’economia non regge» .
Allora come mai in Ticino i sì sono stati il 68%?
«È probabile che in Ticino la paura giochi un peso maggiore: se la crisi investe persino regioni forti come Piemonte e Lombardia i timori crescono. Ma se il Ticino vuole tutelarsi può prendere contromisure impedendo lo sfruttamento dei lavoratori» .

il Fatto 11.2.14
Svizzeri e contenti “Non possiamo salvarvi”
di Alessandro Madron

Lunedì mattina al valico del Gaggiolo, a pochi minuti di strada da Varese, le code sono quelle di sempre. Due file ordinate di auto in attesa di lasciare l’Italia ed entrare nella terra promessa, per rincorrere stipendi migliori e lasciarsi alle spalle lo spettro di una crisi che anche nel profondo nord, tutto capannoni e partite Iva, si sta facendo sentire. Ma non è un giorno come gli altri. È il giorno della vittoria del referendum “Stop all’immigrazione di massa” promosso dall’Udc, il partito elvetico di ultradestra che da anni si batte per l’introduzione di tetti massimi e contingenti per gli stranieri, senza risparmiare colpi bassi. È loro la campagna anti-italiana che ha dipinto frontalieri e padroncini come dei ratti, arraffoni e approfittatori, pronti a rubare il formaggio dal piatto degli svizzeri. Una campagna pesante che ha fatto leva sulle paure dei più deboli e ha parlato alla pancia della Svizzera più conservatrice: quel 50,3% che ha fatto vincere i “si”. La vittoria è arrivata soprattutto dai territori dove la paura è più forte. Come il Canton Ticino, dove i consensi hanno sfiorato il 70%. Una regione che conta 360 mila abitanti e che ogni giorno “subisce l’invasione di 60 mila lavoratori italiani”.
La gente in strada è soddisfatta. E poco conta che si tratti di cittadini rossocrociati o di anziani immigrati italiani. Il parere è unanime: “dobbiamo tutelare anche le nostre posizioni”. Passeggiando sotto la pioggia nel centro di Lugano, tra via Nassa e il Lungolago, si incrociano persone di ogni provenienza. Qui gli stranieri sono il 24% della popolazione: “Al posto nostro qualche problema ve lo porreste anche voi”, sentenzia Pierre Rusconi, deputato svizzero dell’Udc, che poi incalza: “Non siamo razzisti, sappiamo che gli italiani vengono qui per lavorare, ma adesso qui sono in tanti senza lavoro. Dobbiamo pensare al futuro dei nostri figli, che escono dalle università e non trovano un impiego”. Come lui anche Lorenzo Quadri, deputato federale eletto nelle fila della Lega dei Ticinesi, che ha chiesto l’applicazione immediata delle novità introdotte dal voto popolare. A chi gli chiede se condivide le preoccupazioni dei frontalieri risponde con chiarezza: “Certo, se fossi frontaliere anche io sarei preoccupato”. Poi puntualizza: “I contratti in essere non verranno toccati, ovviamente per il futuro le cose cambieranno a favore degli svizzeri. Non possiamo essere noi a farci carico delle difficoltà del vostro mercato del lavoro”. Sono in pochi a dargli torto: “Speriamo che l’Unione Europea adesso non ci metta in difficoltà - è la perplessità di un giovane svizzero incontrato nel cuore finanziario di Lugano -, siamo un piccolo paese, non possiamo permetterci di rimanere isolati”.
Secondo il deputato leghista il problema invece non si pone: “L’Unione europea non ha da far la voce grossa, noi importiamo molto più di quello che esportiamo” e, sulle preoccupazioni espresse dal mondo imprenditoriale (che ha sostenuto il comitato per il No), Quadri è altrettanto netto: “Gli ambienti economici fanno bene a essere preoccupati, perché hanno una parte di colpa nella situazione attuale: sono stati miopi e hanno pensato troppo al profitto immediato, senza guardare al futuro, hanno permesso che nelle nostre aziende lavorassero stranieri a stipendi più bassi di quelli che servono a uno sviz zero per vivere”. Tra i leghisti di casa nostra, che con i cugini ticinesi vantano un’amicizia ventennale, la notizia è stata accolta con un plauso per la “lezione di democrazia” e la capacità di “tu - tela degli interessi della Confederazione”. Non manca una certa dose di preoccupazione, come quella espressa da Roberto Maroni che auspica l’applicazione di “misure capaci di tutelare i lavoratori e i comuni di confine”, i cui bilanci dipendono in buona misura dai ristorni delle tassazioni dei frontalieri.
Al coro delle inquietudini si sono unite tutte le voci del mondo politico e sindacale, da Forza Italia al Pd passando per la Cgil. E, da quelle auto in coda, arriva un appello che suona come un imperativo: “Per non morire serve che si faccia presto qualcosa. Finché le nostre aziende se ne andranno saremo costretti a rincorrerle”.

il Fatto 11.2.14
Il Ticino è cambiato E non ama gli italiani
di Maurizio Chierici

Il Ticino è portabandiera del no all’invasione straniera: il 68 per cento non vuole gli italiani. Non sopporta chi prende casa col portafoglio pieno: affitti alle stelle, noi del sud non badiamo a spese, mentre le braccia svizzere cominciano a sudare per far quadrare i conti. Italiani raddoppiati dal 2000: 43.685 mesi fa e gli arrivi galoppano. Non solo signori in doppiopetto: 2800 aziende in 13 anni. Boom dei palazzi eleganti nel quartiere Paradiso di Lugano, richiamo alla dolcezza dei trafugamenti tropicali. Alberghi trasformati in condomini di lusso dai campanelli lombardo-veneto-piemontesi coi soldi al sicuro in santuari dispersi fra le colline. Dai box mignon per bottegai dai lingotti d’oro ai caveaux blindati con titoli e mazzette nelle mani di 40 banche e 6 mila impiegati di guardia ai 120-180 miliardi trafugati oltre confine. Disoccupati senza chi imbroglia il fisco. Ma i trafugatori non sono “nemici” che inquietano. Nel 1970, il dottor Schwarzenbach guidava da Zurigo il referendum per buttar fuori 200 mila emigranti per lo più italiani. Ma il Ticino cattolico e socialista respinge l’imbarazzo. Adesso la paura funziona: italiani topi neri che addentano la gruviera. Soprattutto frontalieri pagati meno di chi è nato qui: 3.400 euro al mese, quindi preferiti dagli imprenditori con l’occhio al risparmio. Devono versarne 1.400 in assicurazioni e tasse. E poi gli accordi sciagurati tra Bruxelles e Berna: stornano i 1.400 euro ai municipi dove dormono gli italiani vaganti. Storia di 60 mila lavoratori su e giù dalle province di Como, Varese, Novara. Diventano 350 mila nei via vai con Francia e Germania. “Se rovesciassimo il problema, come voterebbero gli italiani ogni giorno invasi da manodopera a basso costo che non paga le tasse?”. Spiegazione ai giornali degli elettori che hanno votato sì. Il cambiamento comincia vent’anni fa con la Lega Ticinese. Copia Bossi: rompiamo la schiavitù di Berna anche se Berna non è ladrona. Giuliano Bignasca ne è il fondatore. Blocca l’autostrada Airolo Mendrisio per protestare contro il limite di velocità (100 chilometri) perché abbassa il consumo di benzina e “pena - lizza il settore”. Liberi di correre, ma diffidenti verso i lumbard che invitano a non pagare le tasse. “Meglio pagarle che corrompere chi controlla altrimenti il malcostume diventa la legge ombra che gli svizzeri non possono accettare. Non siamo abituati a vivere nel marcio”. Bignasca malsopporta il suk dell’Italia del Nord, e non sopporta il suo Nord protestante che infastidisce la fede Cl. Ingombrante, goffo, niente parolacce, se ne è andato un anno fa senza festeggiare il trionfo nella battaglia contro i frontalieri. La sua Lega governa il Cantone e appoggia il referendum della destra Udc da non confondere (a proposito di coerenza) con l’Udc di Casini.
Resta dura e reazionaria, nei secoli fedele. I leghisti d’Italia ufficialmente sembrano contenti: prendiamo ad esempio, la celebrazione di Salvini il quale trascura il problema di chi rischia il posto e dei municipi minacciati. “Faremo anche noi un referendum”, ma non spiega se contro la minaccia dei frontalieri svizzeri di lavorare in Italia. Il suo senatore Candiani, vecchio sindaco di Tradate, deve avere conoscenze fra i pendolari in pericolo d’esclusione. “I ticinesi accolgono le nostre imprese e i nostri soldi per poi chiudere la porta in faccia a chi sgobba nell’ombra. E il governo di Roma dà solo la caccia ai capitali fuggiti senza pensare ad altro”. La libera circolazione abrogata verrà ridiscussa fra 3 anni tra il governo di Berna e l’Europa. Si trema pensando al compromesso che lascerà a casa chissà quanti pendolari.

l’Unità 11.2.14
«La barca è piena», i populismi insidiano l’Europa
C’è uno schieramento politico minoritario ma non irrilevante, che rifiuta non solo politiche e istituzioni Ue ma anche le sue basi ideali e culturali
di Paolo Soldini

«La barca è piena». Chissà chi la inventò questa metafora che da decenni fa il giro d’Europa. Forse la Cdu tedesca, quando decise che per vincere le elezioni era arrivato il tempo di liberarsi dei tabù del passato che non passa.
O forse la Csu, la ancor più conservatrice sorella bavarese che irresponsabilmente ci ricama sopra ancor oggi. O forse proprio gli svizzeri: quelli del Partito popolare, alias Unione democratica di centro (che non è né democratica né di centro) rifondata sullo scheletro d’un vecchio partitello semirurale da un industriale di Sciaffusa che si chiama Christoph Blocher ed è stato anche ministro federale della Giustizia e della Polizia. I «liberali» austriaci della Fpö che fu di Jörg Heider ed ora è di Heinz-Christian Strache l’hanno fatta propria, mentre il Front National francese e il National Front dei fascisti britannici accarezzano suggestioni più «alte»: Anima, Tradizioni, Foyer, Home. E Popolo, che non manca mai dal tempo in cui i Romantici tedeschi riscoprirono il Volk e - senza saperlo né volerlo, va da sé - ne trasmisero l’idea fino ad Adolf Hitler. La Lega nord italiana ha provato ad essere altrettanto fantasiosa, ma fatica a scrollarsi di dosso il suo imprinting irrimediabilmente provinciale, condito di spadoni, corna (pseudo) celtiche e storia indigerita.
Ecco. A prima vista sembrerebbe che sotto lo sciagurato referendum con cui la metà degli svizzeri più trentamila ha deciso che gli stranieri nel paese di Guglielmo Tell dovranno essere contati e, possibilmente, rimandati a casa loro non ci sia poi granché di nuovo. Tante parti d’Europa non amano gli «altri», i non-svizzeri, i non-tedeschi, i non-francesi, i non-padani, i non-savoiardi, i non-norvegesi, i non-ungheresi. È una novità sconvolgente? Non sapevamo già che il Front National in Francia è primo nei sondaggi? E non predicono gli esperti che i populisti antieuropei prenderanno un sacco di voti alle elezioni di maggio e formeranno forse il terzo gruppo al Parlamento europeo? Cantoni arretrati
Certo che lo sapevamo già. E tuttavia quello che è successo domenica scorsa nella Confederazione rappresenta una novità grossa e inquietante. Per la natura del voto, innanzitutto. I promotori del referendum avevano condotto una campagna molto concreta e terra- terra: gli stranieri sono troppi, tolgono il lavoro agli svizzeri, pesano sul bilancio delle prestazioni sociali nei comuni, intasano le nostre autostrade, riempiono i nostri treni, affollano i nostri tram. E però gli elettori hanno bocciato l’introduzione delle quote proprio dove questi disagi si dovrebbero sentire di più: nelle grandi città come Zurigo, Ginevra, Basilea, Neuchâtel e nei cantoni di più forte immigrazione. A far vincere il blocco agli stranieri sono stati i cantoni tedeschi, quelli meno industrializzati e quelli in cui gli immigrati sono relativamente pochi. Il voto è stato espressione di una arretratezza, un po’ come lo fu, a suo tempo, quello in Italia alla Lega degli esordi. Espressione della paura di perdere ricchezze da poco raggiunte, come nel nostro Nord-est. Il rifiuto degli stranieri è un fatto culturale e ideologico più che una «naturale» reazione a un pericolo reale. La controprova è data dal risultato, in controtendenza, nel Canton Ticino. Una regione prospera, in cui una buona parte della ricchezza locale è data proprio dai frontalieri italiani e dagli industriali lumbàrd che delocalizzano, ma dove è forte l’influenza politico-culturale della Lega ticinese, sorella ed emula della Lega nord italiana. La quale ora pagherà cara la nemesi, come ha capito Maroni che si preoccupa e non ancora Salvini che festeggia.
Proprio il carattere arretrato, regressivo del voto in Svizzera e la soddisfazione con cui, ciononostante, è stato accolto da una consistente platea di partiti di destra, nazionalisti, xenofobi, antieuropei che dispongono di consistenti appoggi popolari nei paesi dell’Unione è ciò che deve preoccupare di più. Gli entusiasmi che si vedono in queste ore mostrano che c’è uno schieramento politico europeo, minoritario ma non irrilevante, che rifiuta non solo le politiche e le istituzioni dell’Europa, ma anche le sue basi ideali e culturali. Non solo l’euro, ma, per esempio, il principio che esiste la libertà di muoversi e di viaggiare: qualcosa che nel secondo dopoguerra nella parte libera del continente nessuno aveva messo in discussione in linea di principio. Rispetto agli anni passati, a quelli precedenti la valanga della crisi, è una novità con cui bisognerebbe cominciare a fare conti seri.
Le reazioni delle istituzioni e delle cancellerie europee sono apparse - è vero - abbastanza consapevoli della natura del problema. Manon pare che lo siano state altrettanto, nel passato, quando hanno scelto politiche economiche e sociali che hanno indubbiamente favorito l’emergere di spinte contro l’Europa così com’è. Sono queste politiche che debbono cambiare.


il Fatto 11.2.14
Bruxelles come Roma
Grande inciucio Ue contro i ‘barbari’
di Giampiero Gramaglia

Lunedì mattina al valico del Gaggiolo, a pochi minuti di strada da Varese, le code sono quelle di sempre. Due file ordinate di auto in attesa di lasciare l’Italia ed entrare nella terra promessa, per rincorrere stipendi migliori e lasciarsi alle spalle lo spettro di una crisi che anche nel profondo nord, tutto capannoni e partite Iva, si sta facendo sentire. Ma non è un giorno come gli altri. È il giorno della vittoria del referendum “Stop all’immigrazione di massa” promosso dall’Udc, il partito elvetico di ultradestra che da anni si batte per l’introduzione di tetti massimi e contingenti per gli stranieri, senza risparmiare colpi bassi. È loro la campagna anti-italiana che ha dipinto frontalieri e padroncini come dei ratti, arraffoni e approfittatori, pronti a rubare il formaggio dal piatto degli svizzeri. Una campagna pesante che ha fatto leva sulle paure dei più deboli e ha parlato alla pancia della Svizzera più conservatrice: quel 50,3% che ha fatto vincere i “si”. La vittoria è arrivata soprattutto dai territori dove la paura è più forte. Come il Canton Ticino, dove i consensi hanno sfiorato il 70%. Una regione che conta 360 mila abitanti e che ogni giorno “subisce l’invasione di 60 mila lavoratori italiani”.
La gente in strada è soddisfatta. E poco conta che si tratti di cittadini rossocrociati o di anziani immigrati italiani. Il parere è unanime: “dobbiamo tutelare anche le nostre posizioni”. Passeggiando sotto la pioggia nel centro di Lugano, tra via Nassa e il Lungolago, si incrociano persone di ogni provenienza. Qui gli stranieri sono il 24% della popolazione: “Al posto nostro qualche problema ve lo porreste anche voi”, sentenzia Pierre Rusconi, deputato svizzero dell’Udc, che poi incalza: “Non siamo razzisti, sappiamo che gli italiani vengono qui per lavorare, ma adesso qui sono in tanti senza lavoro. Dobbiamo pensare al futuro dei nostri figli, che escono dalle università e non trovano un impiego”. Come lui anche Lorenzo Quadri, deputato federale eletto nelle fila della Lega dei Ticinesi, che ha chiesto l’applicazione immediata delle novità introdotte dal voto popolare. A chi gli chiede se condivide le preoccupazioni dei frontalieri risponde con chiarezza: “Certo, se fossi frontaliere anche io sarei preoccupato”. Poi puntualizza: “I contratti in essere non verranno toccati, ovviamente per il futuro le cose cambieranno a favore degli svizzeri. Non possiamo essere noi a farci carico delle difficoltà del vostro mercato del lavoro”. Sono in pochi a dargli torto: “Speriamo che l’Unione Europea adesso non ci metta in difficoltà - è la perplessità di un giovane svizzero incontrato nel cuore finanziario di Lugano -, siamo un piccolo paese, non possiamo permetterci di rimanere isolati”.
Secondo il deputato leghista il problema invece non si pone: “L’Unione europea non ha da far la voce grossa, noi importiamo molto più di quello che esportiamo” e, sulle preoccupazioni espresse dal mondo imprenditoriale (che ha sostenuto il comitato per il No), Quadri è altrettanto netto: “Gli ambienti economici fanno bene a essere preoccupati, perché hanno una parte di colpa nella situazione attuale: sono stati miopi e hanno pensato troppo al profitto immediato, senza guardare al futuro, hanno permesso che nelle nostre aziende lavorassero stranieri a stipendi più bassi di quelli che servono a uno svizzero per vivere”. Tra i leghisti di casa nostra, che con i cugini ticinesi vantano un’amicizia ventennale, la notizia è stata accolta con un plauso per la “lezione di democrazia” e la capacità di “tu - tela degli interessi della Confederazione”. Non manca una certa dose di preoccupazione, come quella espressa da Roberto Maroni che auspica l’applicazione di “misure capaci di tutelare i lavoratori e i comuni di confine”, i cui bilanci dipendono in buona misura dai ristorni delle tassazioni dei frontalieri. Al coro delle inquietudini si sono unite tutte le voci del mondo politico e sindacale, da Forza Italia al Pd passando per la Cgil. E, da quelle auto in coda, arriva un appello che suona come un imperativo: “Per non morire serve che si faccia presto qualcosa. Finché le nostre aziende se ne andranno saremo costretti a rincorrerle”.

Repubblica 11.2.14
Le bandiere dell’isolamento
di Lucio Caracciolo

Ieri in Svizzera, domani in Italia e nel resto d’Europa? Il voto popolare con cui il nostro vicino alpino ha approvato l’idea di contingentare l’immigrazione e di privilegiare la mano d’opera autoctona è un segnale d’allarme per tutti gli europei. È probabile che se analoghe consultazioni si svolgessero nei paesi dell’Unione Europea il risultato sarebbe simile, se non ancora più drammatico (quasi la metà dei votanti elvetici si è comunque espressa contro). Le reazioni a Bruxelles e nelle principali cancellerie europee non riescono a celare lo sconcerto per un risultato che mette a repentaglio i rapporti euro-svizzeri.
Ma apre soprattutto un varco nel quale si infileranno le formazioni xenofobe e protezionistiche in Francia come in Germania, in Gran Bretagna come in Italia.
Già alle imminenti elezioni per il Parlamento europeo potremmo trovarci di fronte al trionfo del riflusso particolaristico, con conseguenze imprevedibili sulla legittimazione delle istituzioni comunitarie. Nulla di straordinario in tempi di declino e d’incertezza. Ma una ragione di più per cercare di decifrare il messaggio svizzero. Di cui occorre tenere a mente almeno tre peculiarità che ci riguardano molto da vicino.
Primo. È stato un voto contro l’establishment. Governo, imprenditori, sindacati e mainstream politico-mediatico avevano invitato il popolo sovrano a respingere l’iniziativa promossa dalla destra radicale impropriamente autodefinita Unione Democratica di Centro. Ma le élite si erano mosse senza troppo compromettersi, fiutando l’aria negativa. L’argomento fin troppo razionale per cui la mano d’opera straniera è imprescindibile per il benessere e lo sviluppo della Confederazione non ha fatto abbastanza presa nella Svizzera profonda. Qui ha prevalso la paura dell’“invasione” straniera che minaccerebbe le radici della convivenza in una piccola ma fiera nazione multiculturale e plurietnica, ancora una volta spaccata lungo il Röstigraben, la linea di faglia fra Svizzera francofona e germanofona (ma anche italofona), oltre che fra città e campagne. Un problema di costume e di criminalità transnazionale, ma anche di dumping sociale: gli immigrati di modesta qualificazione professionale accettano salari nettamente inferiori a quelli standard, così sconvolgendo il mercato del lavoro locale.
Secondo. Quando i referendum sono fatti non per decidere su una questione specifica - che sia la scelta fra repubblica e monarchia o la costruzione di un parcheggio pubblico - ma per raccogliere e sfruttare un sentimento popolare, senza offrire un preciso sbocco normativo, gli effetti sono imprevedibili. E facilmente manipolabili. I promotori del referendum “contro l’immigrazione di massa” si sono guardati dallo specificare le quote annuali da introdurre come limite all’ingresso di stranieri, richiedenti asilo compresi. Il governo dovrà fissarle entro tre anni. Insomma, gli svizzeri non possono conoscere le conseguenze del loro voto. Esse saranno determinate dopo un dibattito interno tutt’altro che tranquillo, mentre la diplomazia di Berna cercherà di ricucire lo strappo con l’Unione Europea e con i suoi singoli Stati membri. Si potrebbe anche finire con il reintrodurre i controlli alle frontiere fra la Svizzera e i suoi vicini. Nel frattempo, il clima dell’economia locale - investimenti esteri inclusi - sarà indubbiamente offuscato dal braccio di ferro sull’immigrazione.
Terzo. La schiacciante vittoria del “sì” in Ticino (68,2%) è un indicatore dell’italofobia cresciuta oltre Chiasso in questi anni di crisi. Soprattutto per l’“effetto frontalieri”: nel cantone italofono i lavoratori che passano e ripassano in giornata il confine italosvizzero sono aumentati dell’80% in dieci anni. Ad essi vanno sommati gli oltre 53 mila residenti italiani, su un totale di 341 mila ticinesi, in un cantone nel quale i residenti stranieri soperno ormai il 26,7% della popolazione. Dumping a parte, persino i più compassati media svizzeri parlano di “turismo criminale”, che accentua il senso d’isolamento dei ticinesi: trascurati da Berna e minacciati dal vicino meridionale. Dunque gli episodi di intolleranza e di xenofobia contro gli italiani si concentrano paradossalmente alla nostra frontiera. Sono invece assai più rari a Zurigo, a Ginevra o a Basilea. Mentre il negoziato fra Roma e Berna sui capitali italiani impropriamente detenuti da banche svizzere segna il passo, c’è da temere per il complesso delle relazioni con un paese che rappresenta il quarto mercato di sbocco del made in Italy, più importante di Cina e Russia messe insieme.
Il tempo non lavora per chi vuole frenare la tendenza alla chiusura reciproca fra europei, che siano o meno parte dell’Ue. In assenza di un chiaro e condiviso progetto europeo, è prevedibile che nei prossimi anni la bandiera dell’Europa - capro espiatorio della crisi - sarà sventolata come un drappo rosso da avventurieri e opportunisti eccitare le fobie e i nazionalismi esclusivi. E così disintegrare quel poco o molto di comune che siamo riusciti a ricostruire sulle macerie di due guerre mondiali. Nessuno potrà dire di non averlo saputo.


Repubblica 11.2.14
“I nudi nell’arte vietati ai minori” nei musei l’ultima crociata di Putin
Proposti settori separati per “tutelare la morale”. È polemica
di Nicola Lombardozzi

Mosca - C’è una voglia di Medioevo che sembra trascinare la Russia di Putin sempre più indietro nel tempo. L’ultima trovata è quella di riservare la visione delle opere d’arte che contengano “nudi e altre forti allusioni sessuali” solo ai maggiori di diciotto anni. Niente foglie di fico né pudiche pecette sulle parti intime, ma qualcosa che rischia di essere ancora più traumatico: la divisione di tutti i musei del Paese in due settori diversi e separati tra loro. Uno consentito ai bambini, un altro agli adulti.
Per capirsi, la copia in marmo del David di Michelangelo che accoglie i visitatori del museo Pushkin di Mosca dovrà essere trasferita in una sorta di sala a luci rosse dove sarà necessario un documento per poter accedere. Stessa cosa per chi vorrà ammirare i due giovani avvinghiati in un bacio lussurioso ne “L’eterna Primavera” di Rodin, orgoglio dell’Ermitage di San Pietroburgo. Per non parlare degli autori russi dell’Ottocento e i maestri del realismo socialista da Gerassimov a Dejneka che, ai tempi dell’Urss, subirono anche loro censure e pressioni di ogni tipo ma quasi mai relative alla nudità o alle effusioni sessuali.
L’idea è venuta ai solerti membri di una commissione governativa che si chiama Roskomnazor e che si occupa di “sorvegliare le comunicazioni, i media e le nuove tecnologie”. Quelli che sei mesi fa hanno varato una lunghissima lista di “parole sconvenienti” e di “espressioni di gergo volgare” da proibire su giornali e tv. Si ispirano alla stessa motivazione, inculcata loro da Putin in persona, che «il rilancio della spiritualità e dei valori della Russia passano dalla salvaguardia delle giovani generazioni ».
Del resto è proprio in nome della tutela dei minori, che viene spiegata agli stranieri l’incredibile legge sulla propaganda gay che di fatto cavalca e alimenta l’omofobia di massa. Su Internet, dove ancora si può leggere qualche forma anonima di dissenso, si spera ardentemente che nemmeno il Presidente possa accettare una simile enormità con l’effetto devastante che avrebbe sull’immagine internazionale del Paese. Ma dopo la pubblicazione della notizia sulle Izvestijadi ieri mattina, nessuno dalle parti del Cremlino ha finora sentito il bisogno di smentire. E gli esperti di Roskomnazor stanno già alacremente lavorando alla loro ipotesi. Studiano come suddividere i settori del museo, come spiegare ai genitori e agli insegnanti che accompagnano minorenni al museo quello che dovranno dire. Per questo scopo hanno già scritto un monumentale trattato di quasi mille pagine che sarà distribuito a tutti i docenti di storia dell’arte per chiarire quali elementi vadano accuratamente nascosti ai giovanissmi «per non incidere negativamente sulla loro formazione psichica».
Tace anche la Chiesa ortodossa che da tempo sembra condizionare senza troppi mascheramenti la politica di Putin. Ma che, secondo molti, avrebbe avuto un suo ruolo come l’ha avuto nella legge anti gay, nel ritorno dell’ora di religione a scuola, perfino nella “condanna esemplare”, chiesta a gran voce dal Patriarca Kirill in persona, per le Pussy Riot.
Abituata a ricevere ordini di ogni tipo, essendo stata la direttrice del museo Pushkin dai sovietici anni Settanta fino a pochi mesi fa, Irina Antonova non nasconde il suo stupore: «In nessun museo del mondo ho mai visto una cosa del genere. E’ un‘idea assurda. Perché mai il nudo dovrebbe traviare i bambini? E la violenza allora? Che ne facciamo del quadro di Repin alla galleria Tretiakovskaya in cui Ivan il Terribile uccide suo figlio?». E il dibattito si allarga ai vari tipi di censura possibile. Nell’Urss, il nudo era consentito quasi sempre. Le censure riguardavano ben altro. L’arte astratta, per esempio, considerata anti socialista come nella celebre scenata di un indignato Krusciov ai giovani pittori che lo avevano invitato a una loro mostra sulla piazza del Maneggio. Stalin fece cambiare sul boulevard omonimo la statua di Nikolaj Gogol perché gli sembrava troppo tetra. E fece, è vero, togliere dal Gorkij Park la statua della ragazza con il remo di Ivan Shadr perché gli sembrava un po’ troppo erotica per un pubblico di famiglie e di atleti. Ma si limitò a toglierla dal parco più frequentato di Mosca e farla trasferire in Ucraina. Alla vista di grandi e bambini.

Repubblica 11.2.14
Così ritorna il vecchio oscurantismo
di Viktor Erofeev

Nella Russia di oggi si ha nostalgia di moralità, pudicizia e perbenismo. Al posto dei costumi assai liberi, sia nella vita che nell’arte, che avevano caratterizzato gli anni ’90, nell’epoca di Putin troviamo il rigorismo ortodosso e il controllo dello Stato sulle arti. Il quotidiano russo Izvestia ha scoperto che nelle viscere di uffici pubblici come il Roskomnadzor, organo di vigilanza nel settore delle comunicazioni, nascono e vengono elaborate strategie di lotta contro il pericolo (soprattutto per le creature più giovani) delle immagini di corpi nudi e delle fantasie erotiche di matrice letteraria.
Non c’è da stupirsi.
La locomotiva russa della nuova censura sfreccia veloce verso le steppe oscurantiste dove, presumibilmente, oltre a Lolita di Nabokov saranno proibiti anche alcuni versi di Puškin, Sergej Esenin e altri poeti che scrissero di amori peccaminosi, malefatte, bevute e bisbocce.
Oggi in una città, domani in un’altra nascono iniziative per proibire libri considerati troppo espliciti per i giovani. Tali iniziative rappresentano una chiara illustrazione della linea di condotta dello Stato russo: meglio proibire che dare in mano ai giovani alcuni libri, in particolare quelli che offendono i preti o che alludono in un modo o nell’altro al tema dell’amore omosessuale. Storia vecchia. La barbarie tende a ripetersi. Ricordo quando in una libreria di Teheran mi sono imbattuto in adesivi che coprivano i pubi, i seni e persino le spalle nude delle eroine dell’arte classica. Ma io, ex scolaro sovietico, so che i divieti generano un interesse ancora più focoso per ciò che è stato vietato. Sono lezioni banali, ma l’umanità è incline a mettere in discussione proprio le verità più banali. Ora il potere russo invoca una pulizia morale di stampo staliniano. E così davanti a noi cala una cortina di ferro di ignoranza. Quanto durerà, stavolta?


Repubblica 11.2.14
A settembre per le elezioni della Duma. Ma è polemica
Le Pussy Riot in politica “Candidate per battere lo zar”

Mosca - Ci saranno anche le Pussy Riot tra gli avversari del partito Russia Unita di Putin alle prossime elezioni di settembre per la Duma della Regione di Mosca. Così almeno hanno annunciato ieri a Berlino, le due ragazze graziate a Natale dal Cremlino e impegnate in un controverso tour in Europa e negli Stati Uniti. Marja Aliokhina e Nadia Tolokonnikova intendono presentarsi all’interno di uno schieramento che si chiama «Zona di diritto» e che si impegnerà soprattutto del miglioramento delle condizioni dei detenuti.
La candidatura dovrà comunque seguire la complessa procedura burocratica che ha già fatto saltare in tempi recenti con motivazioni mai del tutto fondate tante altre liste scomode a cominciare da quella di Mikhail Gorbaciov. Ma le due Pussy Riot devono fare i conti anche con un crollo di consensi e di simpatie tra gli stessi oppositori a Putin che non hanno gradito il loro comportamento dopo la liberazione: la partecipazioni ai talk show, le interviste piene di eccessivi personalismi e soprattutto la partecipazione al concerto organizzato da Madonna a New York. Sei ragazze del gruppo hanno già preso le distanze sostenendo che «la lotta al regime si fa in maniera più concreta e meno spettacolare». Oppositori ormai consolidati come il blogger Aleksej Navalnyj che ha recentemente sfiorato il ballottaggio alle elezioni per il sindaco di Mosca, hanno ripreso a ignorarle dopo i giorni della solidarietà. «Urge un rientro in Russia e un cambiamento di strategia», ripetono i pochi fedelissimi.


La Stampa 12.1.14
Le Pussy Riot sfidano Putin
“Pronte a entrare in politica”
La discesa in campo contro lo “zar”: «Il regime è debole, entreremo alla Duma»

qui

Corriere 11.2.14
Mandato d’arresto per Jiang Zemin & C.
Un giudice imbarazza il Governo spagnolo
di Andrea Nicastro


Non si può cavarsela tirando in ballo Don Chisciotte o il presunto carattere idealista vagamente autodistruttivo degli spagnoli. Qui non si tratta di mulini a vento, ma di giganti veri. Il problema tocca le radici della civiltà occidentale, la parità tra gli uomini, la Giustizia uguale per tutti, ma anche quel senso di superiorità che si impossessa di noi dai tempi in cui le colonie erano «missioni civilizzatrici» e tutti dormivano sereni. Ieri un giudice spagnolo della Procura Nazionale ha emesso un mandato di arresto per l’ex presidente cinese Jiang Zemin. L’accusa è genocidio del popolo tibetano negli anni 80 e 90. Con lui sono ricercati anche l’ex premier Li Peng e altri tre alti responsabili del regime. Stalin chiedeva «quante Divisioni corrazzate ha il Papa». Jiang Zemin starà pensando che l’intera Spagna ha un Prodotto interno lordo pari a una media città della sua Repubblica Popolare.
La legge in base alla quale il giudice Ismael Moreno da Madrid cerca di correggere i mali del mondo ha la data del 2009. «Quando esistano vittime di nazionalità spagnola non ci sono limiti di giurisdizione». È bastato trovare che due delle innumerevoli vittime tibetane avevano passaporto spagnolo e il provvedimento è diventato obbligatorio.
Oggi il ministero degli Esteri di Madrid si affanna per fermare la sua stessa magistratura. Il Parlamento ha dimezzato i tempi di attesa per una legge che cambia tutto. «È un provvedimento molto desiderato dall’esecutivo», sussurrano i parlamentari della maggioranza. Si vergognano di piegarsi, anche loro vorrebbero essere come il giudice Moreno, senza macchia e senza paura. Eppure non crediamo più a un Santo Graal da riconquistare. Persino la favola della democrazia da esportazione di George W. Bush si è rivelata una semplice, tragica guerra. Moreno ha l’onere di applicare la legge. Il governo il dovere di cambiarla. Noi quello di non sognare: Saddam Hussein o Slobodan Milosevic sono finiti in galera quando i B52 hanno annichilito i loro eserciti. Non prima. Se la Spagna vuole mandare i bombardieri a liberare il Tibet lo proponga all’Onu. A salvarci dalla terza guerra mondiale penserà il diritto di veto di Pechino.

il Fatto 11.2.14
Lettera aperta
Le idee esistono, caro Cacciari
di Roberta De Monticelli

Io avrei voluto, quella sera, occuparmi d’altro. Da molte, molte sere vorrei occuparmi d’altro: di idee. Ma come si fa, quando un collega illustre e con un’opera cospicua, il fondatore della mia Facoltà, un professore di filosofia – e un amico – di fronte al pubblico televisivo di Otto e mezzo, ci dice che le idee non esistono, non servono, non contano? E io che vorrei stare in loro compagnia ogni sera, ecco: come un povero, vecchio don Chisciotte ho frenato il mio ronzino, e ora levo la mia povera vecchia lancia arrugginita, con la mano stanca e le lacrime negli occhi, che li fanno ancora più guerci. Le nostre povere idee. Perché, caro Massimo, trattarle così male, sia pure con due giornalisti, una più garrula dell’altro (che cosa ci sarà stato mai da essere così gai poi)? Già, perché a differenza di te, che pratichi con lucida coscienza – e coerenza, in fondo, da sempre – il “pensiero negativo”, loro annuivano nella luce della filosofia, sì sì. Per idee intendo quelle che dovrebbero muovere chi si impegna, da cittadino o da politico, in politica. Dunque intendo idee che non sono disgiunte da ideali o se preferisci, chiamali valori.
Non c’è bisogno allora che le idee siano troppo astratte. Ognuno capisce cosa vuol dire un po’ più di giustizia. Un po’ più di legalità. Un po’ meno corruzione. Un po’ più di rappresentanza dell’interesse pubblico negli uomini delle istituzioni, dai governanti ai parlamentari ai burocrati. Un po’ meno Mastrapasque. Un po’ meno Ilve, un po’ meno Terre dei Fuochi, un po’ meno colate di cemento sulle coste e le colline, un po’ meno mafia, familismo e clientele. Un po’ meno trucchi di pacchetti governativi, tipo finanziare una legge (la soppressione dell’Imu) con un’altra legge (l’han - no detto loro), con resistenza tagliata a colpi di ghigliottina. Vedi che se parliamo di ideali scendiamo subito terra a terra. E allora diamoci un colpo d’ala.
L’ala stanca e spennata di don Chisciotte ha subito un primo, duro colpo. La rappresentazione di un capo del governo e di un segretario di partito che “ovviamente” si muovono solo – rispettivamente – per mantenere e per conquistare personalmente il potere. Sembra proprio così, in effetti: ma come è possibile a un filosofo che insegna Platone e Husserl non dico darlo per evidente, ma darlo per normale senza batter ciglio, come a dire, il fatto e la norma sono la stessa cosa? Normale questa loro contesa, e ciascuno dei due deve fare così – e perciò è ovvio che il governo intanto non governi –. L’ala freme: forse ora dirà che allora è meglio andare alle urne, visto questo straccio di brutta legge elettorale che stanno facendo? Non era questo, del resto, il patto iniziale? Povero don Chisciotte, da quando in qua pacta sunt servanda? Arriva la seconda mazzata: niente si può fare e lì si deve restare, restare a ogni costo fino a quando ci sarà la ripresa. Ma non eri tu che ridevi, una volta, di quelli che in fondo a tutto vedono sempre e solo l’economia? Cambiare idea si può: ma allora prima di combattere qualunque nefandezza bisogna calcolare i centesimi di PIL, che poi a quanto pare saranno proprio e solo centesimi? L’ala si ripiega dolente: cala un’altra mazzata, che questa volta volano tutte le povere piume rimaste. La domanda era: il presidente del Senato ha fatto bene a decidere di costituire il Senato parte civile nel processo per la compravendita dei parlamentari? Fiato sospeso: ti prego, ti prego, almeno qui (mormorano in cuor loro i tuoi allievi). Risposta ieratica, lapidaria: no. Il Presidente del senato ha fatto male. E perché? Perché da che mondo è mondo nei Parlamenti si fanno cose che fanno schifo (hai detto proprio così: “cose che fanno schifo”. Non hai detto, che so, che anche Lincoln corruppe – per far finire la schiavitù, però). Ma sollevare un “dovere morale” (così aveva detto, con un insolito colpo d’ala, il prudentissimo, assai realistico Presidente del Senato) – questo dev’essere proprio il colmo. Il razionale che contesta il reale! Ma dove andremo a finire?
Un minuetto d’anime belle, al posto degli stivali della storia che sono insanguinati e se ne vantano? L’astratto moralismo contro la filosofia della storia? Don Chisciotte cala la sua lancia inutile, spezzata. Fra le ammaccature delle sue povere ossa è questa quella che fa più male: che tutti gli spettatori di Otto e mezzo crederanno che questa sia la filosofia. È una filosofia, indubbiamente. Quella che prima ha tolto ideali alla sinistra. E poi ha tolto speranza alla ragione. E infine, ha tolto ragione alla politica. Viva il pensiero negativo. O mi sbaglio io caro Massimo? Dimmelo tu, dove!


l’Unità 11.2.14
L’atlante delle stragi
Le vittime sono state almeno 15.000
Gli eccidi nazifascisti in Italia e il «dopo» molto fumoso
di Luca Baiada

«Nel nome di Gesù e di Maria, se è paura al bimbo la vada via,
Nel nome di Gesù e di San Pietro, se è paura al bimbo la torna addietro, tutti i Santi, se paura al bimbo la un vanga avanti ». È uno degli incantesimi poveri con cui nelle campagne, in questo caso in Valdinievole, nel dopoguerra si cercava di guarire l’angoscia dei sopravvissuti.
Mi viene in mente leggendo Le stragi nazifasciste del1943-1945. Memoria, responsabilità e riparazione, a cura dell’Anpi, con interventi di Enzo Fimiani, Paolo Pezzino, Carlo Smuraglia e altri (pagine 125, euro 14,00, Carocci).
Marzabotto, Stazzema, le Ardeatine, Civitella, il Padule di Fucecchio e tanto altro sangue. Sono almeno quindicimila, di ogni età, in prevalenza poveri, gli uccisi dall’estate 1943 al maggio 1945. Due anni, con picchi atroci nel 1944, fra lo sbarco di Anzio e l’assestamento del fronte prima dell’inverno. Molti corpi non identificati, alcuni ritrovati tanto tempo dopo. Borghi mai più ripopolati. I castighi. Alcuni processi degli Alleati a generali, con esiti più vistosi che durevoli. Pochi processi italiani a ufficiali. E presto tutti liberi, con lo strascico di Kappler evaso sotto un governo Andreotti, e di Reder liberato sotto Craxi. Sino alla rivisitazione dell’armadio della vergogna, nel 1994. Con altri processi, e la Germania che non consegna gli imputati.
I risarcimenti? La cosa ha dell’assurdo. La costituzione di parte civile, prima impossibile davanti ai tribunali militari, è ammessa dal 1996, a partire dal processo Priebke. A volte i condannati sono ricchi, ma i beni sono all’estero, altre volte non hanno mezzi. Faticosamente, la magistratura arriva a condannare al pagamento lo Stato tedesco. Lesa maestà! Nel 2008 l’Italia è trascinata davanti alla Corte internazionale dell’Aia, e ancora prima della decisione lo Stato, quello italiano, scrive leggi per sospendere i risarcimenti, non sia mai. Intanto, all’Aia la difesa italiana ha tratti di acquiescenza, perplessità, equanimità. Fa venir voglia di rileggere Marc Bloch, La strana disfatta, sulla sconfitta della Francia nel 1940.
A febbraio 2012 la Corte internazionale dà ragione alla Germania. La sentenza è un centone di ipocrisia, una Norimberga pentita: capisce gli italiani, esorta i tedeschi, sorride alla giustizia. Ma pagare, no. Come, il presidente tedesco non era andato a Marzabotto a scusarsi? Parole, quelle sì. Sembra Le serve di Jenet: «Madame ci avvolge nella sua bontà. Ci regala tante cosine che a lei non servono più».
Alla decisione dell’Aia la Cassazione si adegua a maggio 2012, ancora prima della nuova legge italiana, la 5 del 2013, con cui l’immunità della Germania viene blindata. Nella motivazione compare una parola: ineluttabile.
Nel lungo periodo l’effetto è amaro: dal 1994 a oggi, sono condanne senza detenzioni (tranne Priebke e poco più), e senza risarcimenti. Nel 1960 fu un’archiviazione provvisoria, illegale, a serrare l’armadio della vergogna. Adesso sembra un’archiviazione definitiva, camuffata da gioco dell’oca senza uscita. L’armadio è di nuovo verso il muro, ma con le pareti di vetro come un acquario. Guardare e non toccare. Tutto questo attraverso una tutela rimasta lettera morta, o piuttosto lettera sepolta viva. E forse è anche peggio, sentendo certi scricchiolii. Eppure c’è chi sul tema si è impegnato, come l’Anpi.
Si volevano risarcimenti, e ora che non se ne vedono, c’è da preoccuparsi a sentir dire riparazioni. La Germania non paga i danni e finanzia iniziative memoriali. Mostre, musei, pubblicazioni? una fondazione italo-tedesca, col denaro di Berlino e gli italiani graditi ospiti? Già, magari a Villa Vigoni, quella che le vittime avevano pignorato, e che la ragion di Stato ha svincolato. E il lutto diventa un prodotto.
La sostituzione dei risarcimenti con le riparazioni, dei fatti coi simboli, ha un sapore d’uva troppo alta, ma qui la volpe non fa ridere. Già è stato singolare l’intervento tardivo dei tribunali dopo il 1994,maadesso che si parla di soluzioni diplomatiche, tutto sfuma negli arcana imperii. I giudici, almeno, guardano negli occhi i testimoni, i bambini degli anni Quaranta che raccontano di corpi straziati, evirati, bruciati. Hanno i capelli bianchi, li vedi piangere al processo e ti viene voglia di abbracciarli, e non sai se chiamarli genitori o figli. Perché così è il sangue, schiaccia le generazioni le une sulle altre, nel tempo senza tempo del dolore. La diplomazia, non fa udienze pubbliche.
Si parla di un Atlante delle stragi, qualcuno già ci lavora. Chi fa studi sistematici ne ha bisogno, ma appunto è uno strumento filologico, una lampada al neon. Meglio la luce calda del focolare: è tremula e sfumata ma non si dimentica. Anch’io, studiando vicende limitate nel tempo e nello spazio, ho sentito la mancanza di un atlante; poi, atti sparsi e persone hanno parlato più di una tavola sinottica. Serba meglio chi conquista le cose a frusto a frusto, ad ora ad ora. E poi, via: l’atlante del sangue italiano, ce lo paga Berlino? Meglio le mani vuote e il cuore gonfio, che chinare il capo a un’elemosina. Dentro l’armadio, quindicimila morti premono contro il vetro con le mani. E vedono, e conoscono, e ci chiamano.
 La memoria è come l’amore: vale quando non è mercenaria. Ed è più solida quella che non dipende da un lontano mecenate, come un peer-to-peer è meno vulnerabile di un server centrale. Imparare dagli ebrei, che in sinagoga hanno la Bibbia copiata a mano, sfidando la fatica di fare a meno della stampa. Chi fa da sé, fa anche per te e per me.
A proposito di stampa. Dicono bene Fimiani e Smuraglia: bisogna desegretare i documenti sulle stragi, compresi quelli della commissione parlamentare d’inchiesta. Ci sono ombre e lati oscuri, persino dopo il 2003-2006. I dossier e gli omissis, sono veleni.
E ancora a proposito di memoria, Norman Finkelstein: «Di gran moda fra gli intellettuali, il concetto di memoria è senza dubbio il più impoverito fra quelli prodotti negli ultimi anni nel mondo accademico». Non poteva prevedere, che in Italia il concetto avrebbe indossato la toga. La feluca chissà se gli dona.
Durante una ricerca, in Toscana, a due anziane sopravvissute a una strage mostrano le dichiarazioni rese agli inquirenti britannici nel 1945. Una fa: «Se ci si ripensa, si morirebbe ora. Son cose passate, ma...». E l’altra, adorabile: «Ora, con quest’iscrizione che si fa?». L’iscrizione è il verbale di mezzo secolo prima, ma potrebbe essere una sentenza di Roma o dell’Aia. E un giorno, questo foglio di giornale.
Dicevo degli incantesimi. Nel film La notte di san Lorenzo c’è una filastrocca: «Mal d’occhio e maldocchiati, san Giorgio aveva i bachi. Medicina, medicina, un po’ di cacca di gallina. Un po’ di cane, un po’ di gatto, domattina è tutto fatto». La bambina scampata nel 1944 la ripete a suo figlio tanti anni dopo. Ecco, così va meglio.


l’Unità 11.2.14
Questione morale e austerità
Quel che resta di Enrico
Un sondaggio sullo storico leader del Pci
di Jolanda Bufalini

A giugno sono trent’anni che è morto Enrico Berlinguer, significa che una giovane donna di trent’anni, o un giovane uomo, non ha il ricordo fisico della sua presenza. A novembre sono venticinque anni che è crollato il Muro di Berlino. Dunque per una ragazza o un ragazzo appena usciti dalla scuola il mondo diviso in due, la guerra fredda, il comunismo sono un periodo appreso sui libri, piuttosto complicato e difficile da immaginare nelle sue tensioni, nelle sue passioni. Non c’è da stupirsi se alla domanda «Chi era Enrico Berlinguer? » solo il 25% degli intervistati dà la risposta giusta «il capo del Partito comunista italiano» mentre il 30 per cento non sa proprio chi fosse (il 26 non sa, il 4 risponde in modo non pertinente).
Golpe in Cile, Salvador Allende esce dalla Moneda con il mitra in spalla. Gli articoli di Berlinguer sul compromesso storico. Vietnam, grappoli umani appesi ai pattini dell’elicottero militare Usa in fuga da Saigon. Italia, il referendum conquista la legge sul divorzio. Europa, crollano le dittature in Grecia, Spagna, Portogallo. Eurocomunismo, in Italia il più grande partito comunista dell’Occidente conquista il 34,4% dei voti, è a un soffio dalla Dc ma fallisce il sorpasso. I salari agganciati all’inflazione, il diritto allo studio. Governo di unità nazionale, la foto mostra una stretta di mano fra Berlinguer e Moro. Il terrorismo. Rapimento e morte di Aldo Moro. Tremila morti nel terremoto in Irpinia, la svolta di Berlinguer: questione morale e alternativa democratica.
Le gigantesche trasformazioni del mondo al tempo di Berlinguer scoloriscono per densificarsi a quell’ultimo scorcio, il politico lascia il passo alla figura morale.
Quali immagini avranno presenti i giovani intervistati dal sondaggio Ixè di Roberto Weber, fra i mille del campione dai 18 ai 64 anni? Berlinguer nella cerata bianca da velista? Berlinguer in braccio a Roberto Benigni? Berlinguer andava a vela come giocava a calcio e si arrampicava sugli alberi, senza nessuna spocchia, da ragazzo cresciuto in Sardegna. Una volta, già segretario del più grande partito d’occidente, sparì con il mare grosso lasciando tutti col fiato sospeso. Dal sondaggio a campione viene fuori una figura atemporale, che difficilmente potrebbe dire qualcosa oggi: per il 38 la sua figura «appartiene al passato» anche se per il 33% «figure come la sua non tramontano ». Alla domanda «di lui cosa resta?» il 20% risponde «la statura morale», il 32% «il carisma personale», solo il 22% risponde «l’opera politica » mentre per il 26% «non resta nulla di particolare ». La «grande onestà individuale» è di gran lunga il suo merito maggiore (27%) contro il 12% che gli riconosce di «avere posto il tema della corruzione dei partiti e della politica», il compromesso storico è ricordato come un merito dal 6% del campione, l’8% gli riconosce l’aver resistito alle Br, altrettanti di «avere rotto con l’Unione sovietica », ma sono molti di più (il 12%) quelli che ritengono che «non ruppe abbastanza con l’Unione sovietica ».
Sul piano della notorietà la figura di Enrico Berlinguer è superata da quella di Aldo Moro. La fama dello statista Dc appare però legata alla sua tragica fine, infatti il 47% del campione risponde esattamente «il leader della Democrazia cristiana ucciso dalle Br» contro il 39%degli intervistati da 18 a 64 anni che ricordano esattamente chi fosse il segretario del Pci. E solo il 32 % ricorda con esattezza chi fosse Bettino Craxi. Anche nel legame affettivo Aldo Moro è il più ricordato (36%) mentre il 23% ricorda «con affetto» Berlinguer che è, comunque, considerato «un grande leader politico» (43%) e «l’ultimo grande leader comunista » (30%). Interessante che, nella valutazione della sua azione, i più giovani, dai 18 ai 29 anni, che evidentemente hanno già inforcato gli occhiali della storia, valorizzano il compromesso storico (il 54 % pensa sia la sua azione più efficace). I vecchi (45-64), al 75% ritengono la «questione morale» la battaglia ancora attuale di Berlinguer contro il 66% dei giovani.
Lo studio Ixè è stato commissionato in occasione della giornata di studi che si svolgerà oggi, dal titolo «Enrico Berlinguer. La serietà della politica », a Roma, h 10 - 17, Aula dei Gruppi Parlamentari, via di Campo Marzio 78.
La Giornata di studio è promossa da Associazione per il rinnovamento della sinistra, Cespe, Crs, Associazione Berlinguer, Futura Umanità. Il confronto, presieduto da Aldo Tortorella, sarà intessuto su 5 relazioni: Francesco Barbagallo (Enrico Berlinguer nella storia d’Italia), Laura Boella (La politica e la vita), Lucio Caracciolo (Il mondo di Berlinguer), Giorgio Lunghini (L’austerità come filosofia sociale), Alberto Melloni (Chiesa e questione cattolica in alcuni scritti di Enrico Berlinguer).


Corriere 11.2.14
Il pensiero aggiusta la vita (lo sapeva anche Clark Gable)
Idee geniali da esistenze banali. O infernali
di Armando Torno


Nel film Gli spostati (è del 1961, lo diresse John Huston) Clark Gable si rivolse con queste parole a Marilyn Monroe: «Così va la vita. Va anche nell’altro senso, però, non lo dimentichi». È una battuta che invita a dotare di elasticità la materia grigia, caratteristica indispensabile per osservare con corretta prospettiva le cose. Dobbiamo focalizzare le nostre giornate con quanto accade. Per la bisogna forse non c’è via migliore che curiosare nelle esistenze dei grandi filosofi, coglierne pregi e virtù, ma soprattutto comprendere meglio le loro idee. Hanno governato, e stanno ancora condizionando, la nostra vita. Si può scoprire, tra l’altro, che sovente i pensatori di rilievo hanno elaborato progetti immortali ma sono stati costretti a campare tra difficoltà e situazioni balorde. Coglievano problemi eterni e inciampavano in un ciuffo d’erba. Così Socrate, ancora punto di riferimento della spiritualità, dovette sopportare la moglie Santippe, donna che lo considerava più o meno un chiacchierone. E Rousseau, al quale chiediamo lumi per comportarci da cittadini democratici, mise all’orfanotrofio tutti i figli avuti. Kant fu una delle menti più formidabili che passarono sulla terra ma non riusciva ad apprezzare né le donne né la musica: non sapeva cosa farsene. Non l’avremmo mai visto a una prima della Scala (anche perché mai si allontanò dalla Prussia orientale). E via di questo tono.
Conoscere i filosofi, e comprendere come sono nati taluni progetti sociali o qualche sistema teoretico, magari accanto agli avvenimenti delle loro vite, significa giudicare con più equilibrio le grandi cose. La stessa democrazia, di cui tutti parlano e della quale si sono un po’ perse le vere coordinate, è un regalo all’umanità da parte della filosofia più che della politica. Anche molte questioni riguardanti la fede sono passate tra i signori delle idee prima di trovare un ampio consenso nelle masse. Si prenda per esempio il tema dell’immortalità dell’anima. È Platone il grande assertore di essa e non, come molti credono, il cristianesimo. La nuova religione predicava con fermezza, almeno nei primi momenti, la resurrezione della carne e non l’idea di un’anima immortale che sarebbe sopravvissuta al corpo; questa concezione sarebbe divenuta soltanto nei secoli successivi materia per riflessioni teologiche.
La filosofia, anche se a volte ci fa sorridere per l’atteggiamento di qualche suo esponente, ha conosciuto e sovente elaborato le idee che contano dell’umanità. La stessa natura del male, che ha suscitato più interrogativi di ogni altra questione, è una costante problematica che i pensatori cercano di risolvere elaborando sistemi. In fondo, anche il marxismo nasce e si diffonde per eliminare le ingiustizie e le sperequazioni sociali, ovvero per togliere dalla vita degli uomini quel male concreto che è lo sfruttamento del lavoro altrui. Dostoevskij, più filosofo che scrittore, chiede ossessivamente a Dio: «Signore, perché i bambini muoiono?». È una domanda che rimbomba nelle sue pagine, anche se egli faceva libri per pagare debiti, di corsa, tra una crisi epilettica e gli editori che lo tallonavano. Già, Dostoevskij: ebbe anche il pudore di piangere dinanzi a un foglio bianco, perché era impossibile per lui scrivere qualcosa di nuovo; tutto — credeva — era già stato detto.
Di contro, è interessante osservare come nascano talune idee accanto a vite che sembrano a volte normali. Spinoza, per esempio: uno dei suoi primi biografi, il pastore luterano Colerus che aveva un alloggio nella stessa casa, ricorda le sue esigenze alimentari, ovvero pochissimo cibo e scarse bevande. Il menu era monotono: una zuppa di fiocchi d’avena con un po’ di burro e farinata d’avena mischiata a uvetta. Per vivere non faceva il professore (rifiutò una cattedra offertagli a Heidelberg) ma molava lenti; insomma, non desiderava perdere il tempo insegnando, ché lo avrebbe sottratto alla filosofia. Eppure, nonostante questa modestia, Spinoza è diventato un riferimento fondamentale per il pensiero moderno.
E Nietzsche? Lo si cita in mille occasioni e si direbbe che sia stato un don Giovanni della riflessione più che un sistematico; o meglio, per usare un’espressione di Stefan Zweig, con lui «la bandiera nera del pirata compare per la prima volta sui mari della conoscenza tedesca». Eppure colui che annuncia il superuomo e resta il grande psicologo della storia è fragile: ha una miopia fortissima, soffre di mille mali (beve soltanto tè di una certa marca, la carne è pericolosa, i legumi li può prendere preparati in un certo modo), non riesce a dormire, vomita spesso. Trova requie soltanto ricorrendo all’idrato di cloralio. Amerebbe volentieri donne belle per generare un figlio ideale, ma non è ricambiato. Passa gli ultimi undici anni di vita obnubilato, folle. Nonostante queste credenziali, la filosofia moderna (e non soltanto) senza Nietzsche sarebbe ben diversa e tutti i protagonisti, da Heidegger a Freud, da Camus a de Unamuno, sarebbero orfani di importanti idee.

Corriere 11.2.14
Profili, temi e bibliografie nei volumi (e sulla Rete)
di Ida Bozzi


In edicola a partire da oggi con il quotidiano si può trovare la nuova collana «Grandangolo» del «Corriere della Sera» dedicata ai grandi filosofi: primo volume è Platone , sul padre riconosciuto della filosofia occidentale. In totale i libri saranno 35, in edicola ogni martedì, per comporre una biblioteca di monografie filosofiche inedite, curate da importanti studiosi e specialisti italiani di grande prestigio come Roberto Radice, Tommaso Tuppini, Olivia Guaraldo e numerosi altri (il prezzo della prima uscita è € 1, le uscite successive € 5,90; per il formato ebook, prima uscita da € 0,89, e uscite successive da € 3,59). Si tratta di saggi a carattere divulgativo, dedicati ciascuno a una personalità fondamentale del pensiero filosofico (o di rilievo teoretico importante anche se proveniente da altre discipline quali le scienze o la psicoanalisi), come appunto Platone (da oggi), per proseguire con Kant (18 febbraio), Einstein (25 febbraio), Nietzsche (4 marzo), Aristotele (11 marzo), Schopenhauer (18 marzo), Freud (25 marzo) e così via, alternando nelle uscite filosofi e pensatori antichi, moderni e contemporanei, fino al pensiero critico del Novecento. Ciascuna monografia è suddivisa in tre parti riguardanti gli elementi biografici (il «panorama»), il corpus e il significato del pensiero dell’autore (il «focus») e infine la bibliografia commentata e altri contenuti utili (l’«approfondimento») ma ciascuna parte è ulteriormente suddivisa a sua volta in altre sezioni specifiche. Ad esempio, tra i dati biografici si trova, oltre alla cronologia della vita, anche la descrizione dell’ambiente storico sociale dell’epoca, per inquadrare l’ambito in cui il filosofo è maturato; nella parte relativa all’opera, oltre ai contenuti teoretici del pensiero e alle tematiche dell’autore, si può conoscere anche la fortuna nei secoli, l’influenza e l’eredità del suo insegnamento fino ai giorni nostri. E infine, nella parte dedicata all’approfondimento, oltre a leggere brani o citazioni degli autori, è possibile consultare una moderna bibliografia commentata, insieme ad altri apparati, che fornisce una sintetica ma utile guida per orientarsi non solo nel panorama delle altre pubblicazioni — divulgative o più specialistiche — sul personaggio, ma anche tra i link e le risorse disponibili online, per chi desiderasse proseguire nel percorso di conoscenza del filosofo.

Corriere 11.2.14
L’eco della Storia. Passione e carisma
di Aldo Grasso


Per chi come me soffre della «sindrome Fabrizio Del Dongo» (non accorgersi mai dei grandi eventi che ti stanno sfiorando), sarebbe impossibile cogliere l’eco della storia, il rimbombo dei fatti che si riverbera sul presente e sul futuro. Impresa impossibile. Non così per Gianni Riotta, la cui invidiabile sicurezza si esercita su vari campi del sapere.
Rai Storia, diretta da Silvia Calandrelli, ha un compito difficile: ridare un’identità a una rete strategica nell’ambito dell’offerta Rai. Finora i tentativi sono stati incerti, sospesi tra il già visto e l’inadeguato.
A condurre «Eco della Storia», Riotta succede a Paolo Mieli e, per fortuna, tiene alta la bandiera del giornalismo culturale, dell’esploratore curioso, del conduttore appassionato (domenica, 21.10). Per esempio, Riotta ha un senso del tempo, che in tv è uno strano misto di ritmo, carisma e sensibilità, che pochi suoi colleghi possono vantare.
Certo, sugli argomenti si può discutere. Domenica sera, parlava di cinema con il critico Enrico Magrelli e il produttore Mario Gianani. Riotta e Magrelli sono cresciuti alla scuola critica del Manifesto dove il «contenuto» aveva un suo peso. Il sogno di Gianani (marito di Marianna Madia) sarebbe quello di produrre un film di Pier Paolo Pasolini. Insomma i registi che citavano, da Fellini a Rosi, non erano i santi del mio paradiso, ma questo non importa, non bisogna mai farsi ricattare dal contenuto.
La critica cinematografica viene spesso accusata di «scarrucolare» i giudizi (il caso classico è Totò, vilipeso da vivo e osannato da morto; ma bisognerebbe anche fare i nomi di chi, da vivo, lo amava come Ennio Flaiano che forse ha più autorità di un Vice e non ha dovuto aspettare Goffredo Fofi). Il fatto è che lo scarrucolamento appartiene a ogni forma di critica: quando, con il tempo, cambia il punto di vista, cambia anche il testo.

La Stampa 12.1.14
Scoperta la stella più vecchia: ha 13,6 miliardi di anni
Si trova a 6 mila anni luce dalla Terra e potrebbe portare nuove teorie sul Big Bang e sull’evoluzione dell’universo
La stella è stata scoperta da un gruppo di astronomi della Australian National University
di Antonio Lo Campo

qui


Formiche.it 10.1.14
Tamburrano: L’Unità oggi lontanissima si riavvicini a Gramsci
di Carlo Patrignani

qui segnalazione di Nuccio Russo