giovedì 13 febbraio 2014


● I giornalisti dell’Unità hanno festeggiato il novantennale del giornale con un’iniziativa di grande successo e un prodotto editoriale di indubbio valore, andato esaurito in edicola. Questa straordinaria risposta, il successo della nostra festa, la vicinanza dei nostri lettori dimostrano che l’Unità è viva, ha uno spazio riconosciuto nel mercato editoriale e nel cuore del popolo della sinistra. Questo grazie esclusivamente al lavoro delle giornaliste e dei giornalisti, che hanno dimostrato ancora una volta dedizione, generosità, capacità professionale. Purtroppo l’azienda non si è mostrata all’altezza perché non ha supportato adeguatamente l’iniziativa.
IL CDR
● L’Azienda plaude al successo dell’iniziativa editoriale che in un oggettivo periodo di crisi del mercato ha permesso all’Unità di triplicare le vendite in edicola. L’inserto, ovviamente voluto da Azienda ed Editore, verrà riproposto domenica 16, sempre in allegato con l’Unità ed è sempre disponibile al prezzo di 1 euro nella sua versione digitale.
L’AZIENDA

Repubblica 13.2.14
L’animale viene citato diverse volte nella Genesi, ma fu introdotto in Terrasanta solo centinaia di anni dopo La scoperta di un team di archeologi rafforza l’ipotesi che l’Antico Testamento sia stato “corretto” nei secoli
“Troppi cammelli così la Bibbia è stata riscritta”
di Fabio Scuto


Gerusalemme. Percorrere le strade della Terrasanta con le Sacre Scritture in mano cercando riferimenti geografici e tracce degli elementi che ne hanno fatto il crogiuolo delle tre grandi religioni monoteiste, rischia di essere una grande delusione. Per questo storici e ricercatori che operano in questa terra si muovono con grande cautela. Adesso grazie alla datazione con il carbonio 14, una ricerca di due archeologi israeliani della Tel Aviv University è in grado di dimostrare che nella Bibbia, ci sono troppi riferimenti ai cammelli in un’epoca in cui questo animale, era forse presente in Terrasanta, ma certamente non era addomesticato, anzi era ancora cacciato per le sue carni e l’uso del pellame.
Secondo la ricerca dei professori Erez Ben-Yosef e Lidar Sapir- Hen - riportata da Haaretz - che hanno a lungo effettuato scavi nella valle di Arava (sud di Israele) e in Giordania, si dimostra che i cammelli probabilmente fecero la loro comparsa più di 300 anni dopo di quanto si sia ritenuto finora, quindi molto tempo dopo i regni di Davide e Salomone e che nella vita dei primi Patriarchi ebrei come Abramo, Giacobbe e Giuseppe, questi animali avevano poca o nessuna importanza. Ma nella Bibbia i cammelli sono ampiamente citati: nella Genesi 24 si racconta di un servo di Abramo che a dorso di cammello parte peruna missione destinata a trovare una moglie per Isacco, oppure (Genesi, 32) Giacobbe invia come doni a suo fratello Esaù «insieme a duecento capre e venti caproni, trenta cammelle da latte con i loro piccoli». La menzione dei cammelli nella Genesi è un anacronismo ben noto all’archeologia. Si tratta per lo stesso motivo di una delle prove giudicate decisive per dimostrare che la Bibbia è stata scritta, o corretta, centinaia di anni dopo gli eventi che narra. Tutte le prove archeologiche raccolte a Arava e Wadi Finan in Giordania rafforzano la teoria che il cammello non venne addomesticato in questa regione fino al 930 aC.
Stando allo studio della Tel Aviv University le ossa di cammello più antiche finora trovate in Israele sono quelle rinvenute nei pressi delle miniere di rame di Timna, che si trova poco a nord dell’odierna Eilat, sul Mar Rosso, e risalgono all’ultimo terzo del 10° secolo aC., quindi secoli dopo la vita dei Patriarchi e decenni dopo il Regno di Davide. Gli egiziani, dopo la campagna militare del Faraone Shoshenq I, presero il controllo di queste miniere ed è probabilmente allora che il cammello - addomesticato secoli prima ma fuori dalla Penisola Araba - venne introdotto come bestia da soma. «L’introduzione del cammello nella nostra regione ha costituito un importante sviluppo economico e sociale», ha spiegato Ben-Yosef che ha guidato gli scavi a Timna per anni, «ed è stato grazie al cammello che si è potuto commerciare con l’India e l’Arabia. Muli e asini non ce l’avrebbero fatta a sopportare la traversata del deserto, il cammello ha accelerato lo sviluppo di queste rotte commerciali che iniziano ad essere praticate infatti nel IX° secolo aC. E sono proseguite per più di 1.500 anni».

Corriere 13.2.14
Spinta di Cgil e Confindustria dietro la corsa del segretario
Quella telefonata al Cavaliere
Il leader del Pd ha chiamato Berlusconi prima di imprimere la svolta decisiva
di Francesco Verderami


ROMA — Perché? Perché ha cambiato la linea con cui si era imposto alle primarie del Pd? Perché ha stracciato il «patto di programma» proposto a Letta per il 2014? Perché ha disatteso l’intesa con Berlusconi sulle riforme che non prevedeva un cambio di governo? Insomma, perché il leader democratico ha sconfessato se stesso, decidendo di muovere subito su Palazzo Chigi? È vero, Renzi va veloce per indole. Ma stavolta ha accelerato anche perché «spinto». Lo ha fatto capire nei conversari riservati dello scorso weekend, nei colloqui e nelle telefonate con le quali ha preannunciato ai suoi interlocutori la decisione di puntare alla guida dell’esecutivo.
Certo, in parte Renzi ha fatto dipendere la scelta da fattori politici e dall’analisi dei sondaggi: con l’esecutivo in carica segnato da una progressiva crisi di consensi e con il rischio di veder compromessa la corsa delle Europee «non ho alternative», aveva spiegato ad Alfano per sondarlo. Chissà, forse di «alternative» ne avrebbe avute, se non fosse che a spingerlo per impegnarsi in prima persona — a suo dire — si erano messi in tanti: da Confindustria a Cgil. E lui per tempo li aveva assecondati. Già la decisione di convocare la direzione del Pd per il 20 febbraio — il giorno dopo la mobilitazione generale delle imprese a Roma — era parso un segnale chiaro, specie all’indomani delle dichiarazioni di Squinzi, secondo cui se Letta il 19 si fosse presentato al direttivo degli industriali con la «bisaccia vuota» sarebbe stato «un problema»: «Tanto varrebbe andare a votare».
«Non si è mai visto un presidente di Confindustria trattare così un presidente del Consiglio», aveva commentato l’Ncd Cicchitto: «La verità è che si sono schierati con Renzi. Vogliono la staffetta a Palazzo Chigi». E la moral suasion verso il capo democrat pare provenga anche dal mondo delle aziende pubbliche, dove in primavera andranno in scadenza centinaia di incarichi: dai vertici di Enel a Finmeccanica, a quelli di Eni, il cui capo è in grande sintonia con Renzi. Almeno così è sembrato agli ospiti di Porta a Porta invitati all’ultima apparizione del leader democratico alla trasmissione tv. Tra gli invitati infatti c’era anche Scaroni, che — prima di andare in onda — nella saletta dove viene servito un buffet, si era avvicinato a Renzi e a voce alta gli aveva detto: «Matteo, hai visto quello schema che ti ho mandato? Se c’è qualcosa che non si capisce, chiamami...».
Difficile capire se la scelta di «Matteo» sia il frutto del pressing esterno o piuttosto di un convincimento interiore, è certo che domenica sera aveva già scelto, quando ha fatto squillare il telefono di Arcore. Berlusconi non immaginava che all’altro capo ci fosse Renzi, e men che meno immaginava di sentirsi fare quel ragionamento. Il leader del Pd non ha usato giri di parole quando ha spiegato al Cavaliere l’intenzione di sostituirsi a Letta, di voler andare avanti sulle terreno delle riforme insieme a Forza Italia, ma di non puntare a una maggioranza di larghe intese. E non meno eloquente è stato quando ha chiesto all’ex premier un’opposizione «non pregiudiziale» in cambio di scelte di governo «non aggressive». Così Berlusconi ha raccontato la conversazione ai suoi commensali, dopo la telefonata.
Anche a quella tavola si sono interrogati sulle motivazioni che hanno indotto il segretario del Pd a puntare su Palazzo Chigi. Il Cavaliere è parso lì per lì quasi comprensivo: «Si logorerà al governo, ma se rimanesse fuori lo logorerebbero ugualmente». Gli ospiti si sono divisi. C’è chi ha spiegato che «i consiglieri economici di Renzi sostengono che in questo modo intercetterà l’uscita dell’Italia dalla recessione» e chi invece — in modo più prosaico — ha posto l’accento «sulle nomine nelle aziende pubbliche che sono roba di potere». Berlusconi — che quando era al governo ha sempre delegato la questione a Gianni Letta — è andato al sodo. Un accenno al tema della giustizia, più di un cenno sul tema delle comunicazioni, e infine la linea da dettare al partito: opposizione «senza sconti» ma anche «senza barricate».
Il resto appartiene alla sfera della politica: al «cannibalismo dei leader» praticato nel Pd e che ha stupito Berlusconi per la sua «efferatezza»; alle mosse di Alfano che — dopo aver mostrato «la nostra lealtà» a Letta — «senza patti chiari» non farà certo da spalla a Renzi; a Napolitano che non intende comunque ascoltare «la sciocchezza» del voto anticipato. Si vedrà se Renzi, oltre ad andar veloce, saprà anche andar lontano. Sul campo si stanno già schierando i giocatori. Sugli spalti ci sono gli spettatori. Alcuni molto interessati.

La Stampa 13.2.14
Viaggio a Rignano
La madre di Matteo sospira: “L’ho affidato alla Madonna”
di Michele Brambilla

qui

Corriere 13.2.14
Chi spinge e consiglia Matteo
Obama, Prandelli, il parrucchiere Tony: eroi, alleati e amici nel mondo di Matteo
L’intesa con ex avversari come Boschi e Bonifazi, la rottura con Gori e Civati
di Aldo Cazzullo


Più che dal finanziere Davide Serra e dalle Cayman, per entrare nel mondo di Renzi bisogna passare dal parrucchiere Tony Salvi e dal suo salone di bellezza, via Sant’Agostino 20, Oltrarno. Qui, nel quartiere fiorentino che preferisce, il sindaco viene tre volte la settimana. Questo è l’unico posto in cui stacca il cellulare.
Qualche volta Renzi si fa spuntare i capelli (è stato Tony a convincerlo a tagliare il ciuffo) o si stende dieci minuti sul lettino abbronzante. Altre volte si ferma solo a prendere un caffè con Tony, che è arrivato a Firenze nel 1951 da Caserta ed è anche il parrucchiere di sua moglie Agnese: l’11 gennaio scorso si è brindato qui al compleanno del sindaco, con una bottiglia di Veuve Clicquot.
L’unico amico invitato nella casa di Pontassieve quella sera era però il suo coetaneo Marco Carrai. Rampollo di una famiglia di imprenditori, presidente dell’Aeroporto, consigliere dell’Ente Cassa di risparmio di Firenze, Carrai è anche l’unico ad accompagnare Renzi a sciare, nelle gite dalla sera alla mattina all’Abetone. Gli ha costruito una serie di rapporti, non solo economici e finanziari: è stato lui ad esempio a presentargli Baricco. Ma neppure Carrai è l’eminenza grigia che più volte a Firenze si è cercato di indovinare dietro il sindaco (un gioco in cui sono entrati e usciti in molti, dall’ex procuratore Pino Quattrocchi all’ex patron dei jeans Rifle, l’immobiliarista Sandro Fratini). In realtà, Renzi non è mai stato e soprattutto non si è mai sentito un «uomo di». Tanto meno di Lapo Pistelli, di cui fu assistente parlamentare («portaborse!», lo bollò Stefano Fassina), e che batté alle primarie per il Comune di Firenze. Terzo arrivò il dalemiano Michele Ventura, nonostante il sostegno di due giovani che oggi siedono nella segreteria pd, Francesco Bonifazi e Maria Elena Boschi. Renzi non ha mai esitato a pescare tra gli uomini del nemico, e a rompere con i suoi: Giorgio Gori, Pippo Civati, Giuliano da Empoli, in parte lo stesso Roberto Reggi; gli assessori con cui ha iniziato il mandato se ne sono andati tutti, tranne il vicesindaco Stefania Saccardi (che ora sta per diventare vicepresidente della Regione). Sarebbe sbagliato anche sopravvalutare l’influenza di amici cui pure è vicinissimo, come Oscar Farinetti («se non fossi Renzi vorrei essere Farinetti», disse una volta) e Alessandro Baricco («una delle persone più intelligenti che abbia mai conosciuto»): Renzi decide di testa sua, spesso facendo il contrario di quel che gli viene consigliato. Gli accade di restare incantato dal carisma altrui, ad esempio davanti all’arcivescovo di Vienna Christoph Schoenborn; nessuno però l’ha mai visto in soggezione, neanche quando riuscì a infilarsi da Obama alla Casa Bianca con cinquanta sindaci americani, grazie ai buoni uffici di un diplomatico fiorentino amico suo, Niccolò Fontana (anche lui classe 1975). È una spregiudicatezza rivendicata, che Renzi sintetizza con una formula ricorrente: «Io son di Rignano!»; come a dire del contado, del popolo.
Popolani sono di sicuro il bar Marcello di corso Europa, dove si ferma a fare colazione, e la pizzeria Far West di Pontassieve, che frequenta anche perché è l’unico locale della zona aperto fino a tardi (talora vi porta anche i figli Francesco, Emanuele ed Ester, e la sorella Matilde, l’unica che vive in zona: l’altra sorella Benedetta è a Bologna, il fratello Samuele è medico in Svizzera). Tra i suoi amici ci sono osti fiorentini come Fabio Picchi, Torello Latini, Chiara Masiero della trattoria Cammillo («ogni volta ordino la bistecca e lei mi convince a mangiare qualche sua ricetta strana…»). A pranzo vede volentieri Cesare Prandelli, con cui ha un rapporto molto forte, Lorenzo Cherubini (insomma Jovanotti), e Patrizio Bertelli, di cui è stato ospite quest’estate a San Francisco, a bordo di Luna Rossa. Qualche volta, in via riservata, ha visto Roberto Saviano. Le giacche colorate che indossa sono del suo amico Ermanno Scervino, ma è legato anche allo stilista Stefano Ricci: è stato lui, che ha investito in Sud Africa, a portarlo da Nelson Mandela. Si deve invece a Giuliano da Empoli l’incontro con Tony Blair, da cui derivano i rapporti con i fratelli Miliband e con Peter Mandelson, il «principe delle tenebre» che Renzi ha incontrato più volte a Londra. Con Roberto Cavalli l’amicizia è recente. All’inizio fu scontro: il Comune sequestrò la pedana che Cavalli aveva fatto mettere davanti al suo locale, nonostante il divieto della Sovrintendenza. Poi si trovarono insieme a commemorare il massacro di Cavriglia, il borgo dell’Aretino dove i nazisti fucilarono 191 innocenti. Renzi scoprì che tra loro c’era Giorgio Cavalli, il padre dello stilista. Si abbracciarono. Anche con Diego Della Valle era cominciata male: il presidente della Fiorentina convocò una conferenza stampa per chiedere le scuse del Comune sulla questione stadio, l’assessore allo Sport Barbara Cavandoli si dimise, ma poi la passione viola ha ricucito il rapporto con il sindaco. Pure con l’arcivescovo di Firenze Giuseppe Betori ci fu qualche contrasto, cui seguì la pace.
Tra i giornalisti Renzi ha rapporti di stima con Beppe Severgnini e Massimo Gramellini, ma non ha amici, se non la coppia Daria Bignardi-Luca Sofri (con Fabio Fazio, dopo una distanza iniziale, si sentono ogni tanto). Al di là dell’antico rapporto con Luigi De Siervo (fratello di Lucia, sua compagna ai tempi degli scout), l’uomo cui se potesse affiderebbe la Rai è Antonio Campo dall’Orto, magari con Enrico Mentana al Tg1.
Tra i politici la prima alleanza fuori le mura di Firenze fu con Rutelli: dei suoi portavoce uno, Michele Anzaldi, oggi è deputato renziano; l’altro, Filippo Sensi, è il nuovo capufficio stampa del Pd (anche se il portavoce di Renzi rimane il fidato Marco Agnoletti, «il mio unico amico juventino»). Tra i veterani, quello con cui è in maggiore sintonia è Walter Veltroni, che però non gli perdonerà mai di avergli scherzato i romanzi («la cosa migliore che ha fatto in questi anni», disse Renzi). Nel tempo ha costruito una rete di sindaci: il novarese Andrea Ballaré, il savonese Federico Berruti, e il lodigiano Lorenzo Guerini, ora in predicato di diventare sottosegretario alla presidenza del Consiglio, forse accanto a Luca Lotti, che Renzi considera un fratello minore (il «fratello maggiore» è Graziano Delrio). Dario Nardella, il più strutturato politicamente della prima cerchia, è stato in questi mesi l’ambasciatore presso la vecchia guardia: D’Alema, Amato, il presidente Napolitano. Strettissimo è da sempre il legame con Simona Bonafé, di cui Renzi è stato testimone di nozze.
Gli è simpatico Flavio Briatore: a chi gli rinfacciava il loro pranzo fiorentino, rispose di essere curioso della destra (non capendo che Briatore non è la destra italiana, ma la sua caricatura). Ha conosciuto le famiglie dell’aristocrazia toscana (il maglione color senape con cui lo si vede spesso in tv è il regalo di compleanno di Giovanna Folonari). Ma il suo riferimento restano gli scout, dove oltre alla moglie ha conosciuto uno dei più cari amici, Matteo Spanò; suo caposcout era Nicola Danti, consigliere regionale, che lo iniziò alla politica, insieme con l’ex comunista Emanuele «Mene» Auzzi, scomparso nel 2008, di cui ha appeso il ritratto nella stanza da segretario pd. Perché accanto alla spregiudicatezza c’è in Renzi una forte vena moralista, che gli viene anche dal rapporto con il gesuita padre Enrico Deidda, il suo confessore, e con il cognato sacerdote, Filippo Landini, il fratello di Agnese.

il Fatto 13.2.14
Dopo Eataly, Carrai: alla Scuola Holden entrano i Renzi boys
Farinetti, socio principale della società di Baricco, impegnata in un mega progetto da 4 milioni di euro
E nel Cda siede il fund raiser di fiducia del sindaco
di Davide Vecchi


Alessandro Baricco e Oscar Farinetti sono tra gli ipotetici ministri dell’altrettanto ipotetico esecutivo Renzi. Tra smentite ufficiali e non, è plausibile che il sindaco fiorentino tenti di presentarsi al soglio governativo con gli uomini più fidati. E i due, Baricco e Farinetti, oltre a essere amici del segretario democratico, da pochi mesi sono anche soci. Con esattezza dal 13 maggio 2013, quando il patron di Eataly, attraverso una sua controllata affidata al figlio Francesco e creata ad hoc appena dieci giorni prima, la Eataly Media, ha acquistato il 25% della Holden srl di Baricco per 800 mila euro. Partecipazione poi aumentata fino all’attuale 36,7% a scapito degli altri due soci, Baricco e la Effe 2005 Gruppo Feltrinelli, che oggi detengono rispettivamente 31,78 e 31,52 per cento.
Nella Srl torinese c’è anche l’uomo più fidato di Renzi: il suo fund raiser Marco Carrai, che siede nel consiglio di amministrazione sin dal 14 marzo 2012. Ed è stato Carrai a presentare Baricco al sindaco fiorentino e a convincerlo a intervenire alla Leopolda del novembre 2012. Nulla di complesso per chi, come Carrai, è bravissimo a persuadere imprenditori e finanzieri ad aprire ciò che hanno più a cuore: i portafogli, così da finanziare le campagne elettorali di Renzi. La scuola Holden in meno di un anno è diventata un perno dell’universo renziano. L’arrivo di Eataly Media ha apportato un fondamentale innesto di nuovi capitali, benché la società di Farinetti sia una srl con un capitale versato di appena 25 mila euro. Ha un amministratore unico, Francesco Farinetti, e non si conoscono ancora i conti economici, visto che è nata solamente nel 2013. Abbiamo più volte cercato di contattare Eataly senza però riuscire a ottenere una risposta dall’ufficio stampa, in dieci giorni.
Decisamente più disponibile la Holden. La società chiuderà in perdita il 2013, come già avvenuto nel 2012. A confermarlo è il direttore operativo nonché procuratore speciale Lea Iandorio . “La perdita della Holden srl del 2012 è precisamente di 69.874,00 euro” ed “è stata riportata a nuovo e non è stata coperta avendo un capiente capitale sociale” versato pari a 2 milioni 180 mila euro.
“Non sappiamo ancora come uscirà il bilancio 2013 che però sarà sicuramente in perdita dato che la Holden ha investito in un progetto tutto nuovo e prevede gli stessi tempi di rientro degli investimenti di una start up (almeno cinque anni )”, ha spiegato Iandorio al Fatto. La scuola di Baricco nel settembre 2012 ha infatti firmato una convenzione con il Comune di Torino per avere in uso la ex Caserma Cavalli, un’area di circa 4 mila metri quadrati in cui trasferire la propria sede. Uno spazio enorme concesso per 30 anni in cambio della ristrutturazione degli edifici. I lavori saranno completati nel giugno 2014 e hanno richiesto un investimento economico di 3 milioni 600 mila euro. Un impegno notevole, considerati anche i risultati registrati dalla Holden negli ultimi anni. L’ultimo bilancio in utile, per 11 mila euro, risale al 2010. Insomma il progetto è più che impegnativo, eppure la Holden ha vinto il regolare bando del Comune ricevendo la benevola benedizione del sindaco Piero Fassino che ha anche partecipato all’inaugurazione dei primi spazi ristrutturati nel quartiere di Borgo Dora lo scorso 14 settembre. Quella sera c’erano tutti . Matteo Renzi è prima intervenuto alla festa del Pd, ha cenato con Oscar Farinetti e poi i due, insieme, si sono presentati alla Holden dove ad aspettarli hanno trovato anche Fassino. “Sono qua per amicizia, che è la cosa più bella che c’è”, disse Renzi all’epoca già impegnato nella campagna elettorale per le primarie dell’8 dicembre. E magari sarà sempre per amicizia che porterà al governo Baricco alla Cultura. Non è certo una novità, il sindaco di Firenze è accerchiato da fidatissimi. Carrai e pochi altri. Maria Elena Boschi, per dire, è stata inserita nel board della Fondazione Open (evoluzione della Big Bang) e con ogni probabilità entrerà nell’eventuale esecutivo Renzi.
Ma lei è una politica, non è un imprenditore come Farinetti, fra l’altro prossimo allo sbarco in Piazza Affari. “Eataly prima o poi si quoterà, ma non adesso, forse nel 2017, prima deve diventare un po’ più globale”, ha detto martedì il patron alla presentazione del progetto Fico a Bologna: 80 mila metri quadrati con un fondo di investimento compreso fra i 95 e i 400 milioni di euro. “Accidenti ai quattrini, finiscono sempre col darvi una malinconia del diavolo”, diceva il giovane Holden. Renzi invece preferisce una frase tratta da Novecento di Baricco: “Non è quello che vidi che mi fermò, ma quello che non vidi”. L’ha usata per le primarie a sindaco nel 2009. Da allora non s’è mai fermato.

il Fatto 13.2.14
Individualismi
La Repubblica dei capricciosi
di Franco Arminio


I bambini in Italia sono pochi e durano pochissimo, fino a sei anni. L’adolescenza ormai va dai sei a sessant’anni. Poi comincia una terra di nessuno, un’ampia fascia di confine tra l'adolescenza e la vecchiaia. Dunque, le pizzerie sono piene di adolescenti, il Parlamento è pieno di adolescenti. Dunque, Renzi è uno statista o un brufolo? Il suo successo viene dalla sua immagine di figlio. Non ci sono padri sulla scena politica italiana. La faccia da padre apparteneva a Togliatti, a De Gasperi, a Berlinguer. Berlusconi, ovviamente, non è padre, al massimo zio impertinente.
Viviamo nella dittatura del capriccio. D’Alema è un capriccioso gelido. Grillo è un capriccioso furente, sempre di capricciosi si tratta. Se il Pd a suo tempo avesse dato la tessera a Grillo, il suo movimento avrebbe avuto tutta un’altra storia. Poi ci sono quelli fintamente pacati, capricciosi anche loro. Penso al Presidente della Repubblica. I capricciosi non si stancano mai. Il nostro Presidente non è ancora stanco. Non è stanco Casini. E ovviamente non è stanco Berlusconi. Tutti animati non da ideali, ma dall’idea di non darla vinta agli altri. Tutti accesi dal gruppo elettrogeno del rancore, dalle pile della miseria spirituale. Il tratto distintivo della casta non è l’ingordigia, quella è distribuita in tutta la popolazione, ma una particolarissima diserzione dalla serenità. Per arrivare al potere, sia esso culturale, economico o politico, bisogna essere dotati di un qualche squilibrio, di una foga senza fine. E allora c’è da riflettere sulla democrazia. Tutti possono concorrere, ma vincono i più aggressivi, i più ossessivi, non quelli che hanno le idee migliori. La differenza col passato è che non abbiamo e forse non avremo più Caligola e Hitler e Mussolini, ma gente come Berlusconi, Renzi, Casini. Più che cupe follie, ora siamo all’agonia ciarliera di una democrazia consumista che è diventata sempre più merce di se stessa. L’uomo politico è un intrattenitore, in qualche caso un artista, anche se di infima categoria. Berlusconi ha portato in Italia il surrealismo di massa. Renzi ha riesumato il futurismo. Più che di correnti politiche, dovremmo parlare di correnti letterarie. Non ci sono più i progressisti e i conservatori, ma i cultori del sonetto, Napolitano, e i cultori del verso libero, Grillo. In nessun posto al mondo esiste un programma televisivo che dura tre ore, ma che conta solo per le cose che dice un comico nei primi cinque minuti: tutto il resto è una sorta di appendice, un velo lunghissimo e pietoso. Crozza illustra come stanno le cose. Gli invitati in studio stanno lì a convalidare lo stato inerte e delirante di tutta la nazione.
In un contesto del genere non ha senso cambiare governo e neppure Parlamento, è come truccare una faccia che non esiste. Gli italiani, ognuno col suo potere (nessuno ne è completamente privo, perfino il più avvilito mendicante), devono capire che lo spettacolo della politica non può durare all’infinito. Il mondo si fa per le strade, nelle case, dentro la terra, non sugli schermi della finzione globale, non tra le ombre digitali della finanza e della Rete. L’agenda delle riforme dovrebbe vedere al primo posto il ritorno delle cose vere. E ognuno di noi deve partecipare a questa riforma con un gesto, con un pensiero radicalmente onesto. Essere adulti è questo, nient’altro che questo. Forse facciamo ancora in tempo a evitare il tempo in cui di noi diranno che fu finta anche la vita più convinta.


l’Unità 13.2.14
Uno scontro pericoloso che mette a repentaglio il Pd
di Michele Prospero


Riuscirà la direzione Pd convocata per oggi a conservare una unità politica reale risolvendo però le antinomie che agitano questa convulsa fase parlamentare? La crisi è in una cristalleria, dichiara Letta. E bisogna muoversi con delicatezza perché tutto si può rompere rimanendo feriti tra i vetri andati in frantumi.
senza farsi del male? Chi prevedeva un Letta remissivo, pronto a lasciare la strada al nuovo che avanza, deve ricredersi. Rivendica con puntiglio i successi mietuti contro l’emergenza economica e rilancia sul patto di coalizione. Accenna anche a grandi piani per la crescita e il lavoro indicando degli stringenti tempi di attuazione programmatica. Egli stesso però rivela la sua estrema debolezza politica quando dichiara che a Palazzo Chigi ha vissuto come se ogni giorno fosse l’ultimo. Come rilanciare una credibile grande politica se non muta la forza che dovrebbe sorreggerla e anzi il sostegno alla sua leadership declina in una maniera che pare irreversibile?
Lo scontro nel Pd è esplicito, come chiara è la maschera che ciascuno dei duellanti indossa per affrontare la prova finale. Da una parte si colloca l’uomo delle istituzioni, che si presenta come il capo di un governo di servizio, senza alternative perché maturato in un Parlamento bloccato e immerso nell’emergenza più cupa. Anche se con garbo e qualche pizzico di ironia su chi gli aveva garantito di governare sereno, il presidente del Consiglio resiste all’assalto, lui le chiama esplicitamente manovre di partito. Dall’altro si muove il leader del partito che dopo le primarie crede che solo la sua immediata assunzione della guida del governo sia la condizione per ricaricare la batterie bagnate dell’esecutivo.
Nella direzione di oggi l’esito del duello può ritenersi scontato. Visti i rapporti di forza usciti dalle primarie, si sa dove pende la bilancia, tanto più che anche la minoranza pensa di inchiodare il suo vecchio antagonista, ma consegnandogli i pieni poteri di governo e di partito. In ogni caso, il confronto è senza infingimenti e pare tutt’altro che indolore la soluzione del rude contrasto. Due punti di vista in netta antitesi si affrontano, e nessuno dei contendenti sembra disposto ad arretrare di un palmo. Letta non può accettare che in condizioni politiche invariate proprio a lui tocchi firmare la resa, quasi a certificare che solo un deficit personale di leadership sia alle origini dell’immobilismo. E però è palese che la diarchia tra partito e governo non può perdurare in una stasi altamente conflittuale.
Se la debolezza principale dell’esecutivo risiede nella diarchia competitiva che ha eroso la sua base di sostegno, l’accorpamento delle cariche di segretario e di premier in una sola persona, e senza la ratifica di un passaggio elettorale di investitura, non basta a scappare dalla palude. Non solo rimangano le sorde resistenze di chi è stato defenestrato in maniera che ritiene cruenta e serba un naturale spirito di vendetta.Ma se i rapporti parlamentari restano nella sostanza invariati rispetto agli attuali, è una grossa incognita la velleità di trasformare un governo di scopo (sotto continua tutela del Quirinale) in un autarchico governo di partito.
Il peso dei piccoli partiti e il calcolo delle loro convenienze immediate (può Alfano, in cambio di una utile rassicurazione circa un lungo governo di legislatura accettare una coloritura sempre più politica dell’esperienza?) può minare alla radice la svolta annunciata. Anche l’esaurimento del mandato politico-istituzionale all’insegna di una discreta supplenza con cui era stato configurato il secondo mandato di Napolitano, apre scenari sistemici al momento imprevedibili. Per non parlare della preventivabile reazione di Berlusconi che non si lascerà certo depotenziare dopo il clima idilliaco della «profonda sintonia» riscontrato sulle materie elettorali. La mancanza di condizioni economico-finanziarie favorevoli per determinare una credibile inversione di rotta, la invarianza delle condizioni europee e internazionali di fondo, la comparsa di guerriglie parlamentari fratricide: questo è il presumibile scenario di una staffetta non consensuale.
Il Pd rischia di esplodere. Il ritorno a pratiche da prima repubblica, con i nuovi equilibri congressuali che mutano rapidamente la geografia di governo, senza però la presenza di quegli attori e soprattutto delle pratiche di assorbimento delle accese tensioni, rischia di lasciare per strada solo cadaveri e nessun reale vincitore. Il paradosso che la riunione del Nazareno deve rimuovere è quanto mai insidioso: non ci sono le condizioni politiche né per sostenere il sogno di Letta, di vedere la metamorfosi di un governo incerto in un alfiere di grande politica, né per sorreggere un governo di legislatura evocato da Renzi e operante con un tocco miracoloso in ogni campo, dal lavoro alle riforme costituzionali. Saprà il Pd trovare un comune obiettivo realistico per impedire che un irriducibile scontro di personalità tra loro antagoniste assuma i segni di un epilogo drammatico?

Corriere 13.1.14
Giochi pericolosi
di Ernesto Galli della Loggia


Nell’Europa «normale» si diventa capi del governo dopo aver vinto le elezioni, in Italia no. Da noi basta vincere (sia pure alla grande) le primarie del Pd. Infatti, salvo colpi di scena dell’ultima ora sempre possibili, Matteo Renzi sarà chiamato tra pochissimo alla carica di presidente del Consiglio: non solo senza aver mai partecipato a una competizione politica nazionale, e tanto meno aver in essa vinto alla testa di un partito, ma senza neppure sedere in una delle due Camere elettive, dal momento che, come si sa, egli non è né deputato né senatore. Una delle tante anomalie della vita pubblica nella patria della Costituzione «più bella del mondo».
Le anomalie però talvolta costano care. E ad accorgersene potrebbe essere proprio Renzi. Sostanzialmente inviso a una parte notevole del suo partito, la vera forza del sindaco di Firenze è stata fino a oggi nella simpatia e nel consenso che egli sapeva ottenere presso l’opinione pubblica. Ma quando siederà a Palazzo Chigi — non portatovi però dal successo elettorale che quel consenso prometteva, bensì da una decisione tutta interna al Pd — sarà principalmente se non solo con il suo partito che egli dovrà vedersela. Da presidente del Consiglio — arrivatovi tuttavia nel modo che proprio lui aveva tante volte condannato: per designazione di una nomenclatura di partito — non potrà fare appello ad alcuna volontà popolare, ad alcun patto politico con gli elettori. Sarà solo. Solo, alle prese con quegli intrighi, quelle giravolte, quelle vendette, abituali nel campo dei Democratici, che oggi amareggiano il triste commiato di Enrico Letta, e che domani — come dubitarne? — cominceranno subito, implacabilmente, a lavorare ai fianchi anche lui.
Renzi dunque dovrà governare senza l’appoggio manifesto di alcun «Paese reale». Per giunta dovrà farlo dovendo vedersela con due potenziali contraddizioni destinate con molta probabilità ad agitare in permanenza la sua maggioranza. La prima è l’eterogeneità di questa stessa maggioranza. Il suo, infatti, per il programma e per l’ambizione rinnovatrice, non potrà che presentarsi come un governo di centro-sinistra organico, come si dice: perché solo così egli potrà dare un segnale di svolta rispetto alle «larghe intese». E però sarà l’unico governo di centrosinistra al mondo in cui siederanno ministri di un partito che si chiama Nuovo centrodestra. Un Ncd, tra l’altro, che difficilmente, c’è da immaginare, potrà sottoscrivere alcuni punti caratterizzanti del programma «rinnovatore» del presidente del Consiglio (unioni civili et similia ). Che cosa farà allora Matteo Renzi?
E come farà, per dire della seconda delle due contraddizioni di cui sopra, a condurre in porto le riforme istituzionali, sulle quali pure egli si gioca tanta parte della propria fortuna politica?
Come farà cioè — poiché i numeri sono quelli e non c’è nulla da fare, dei voti di Berlusconi egli ha bisogno — a convincere Forza Italia, principale forza d’opposizione, a votare però insieme a lui le suddette riforme? Sarà mai possibile far procedere il programma di governo con una maggioranza e quello delle riforme istituzionali con un’altra, nonostante che ci sia la stessa persona a rappresentare entrambi? Come si vede la decisione che Renzi deve prendere in queste ore è quanto mai difficile. In sostanza è una scommessa sulle proprie capacità poliedriche, di essere in grado di giocare sulla scena della politica e della vita parti diverse tenendole insieme, o passando da una all’altra senza rompersi l’osso del collo. Fino a oggi la parte di Giamburrasca del Pd, domani quella di Mandrake di Palazzo Chigi.

Corriere 13.2.14
Il dualismo tra i leader diventa un conflitto che avvicina la crisi
di Massimo Franco


I punti fermi sono due: il «no» di Giorgio Napolitano all’ipotesi di elezioni anticipate; e il «no» di Enrico Letta all’idea di farsi da parte senza una sfiducia esplicita. Ma oggi potrebbe arrivarne un terzo, destinato almeno nelle intenzioni a sparigliare i precedenti: la decisione del segretario del Pd, Matteo Renzi, di porre un aut aut al premier.Non ci sarà un appoggio al «patto per il 2014». O il sindaco di Firenze va a Palazzo Chigi, o, se Letta non getta la spugna, si rischia di andare tutti alle urne: questo direbbe oggi Renzi alla Direzione del proprio partito. Magari additando il capo del governo come figlio del Pd che non ha vinto le elezioni del 2013, e che si rifiuta di prendere atto dei nuovi rapporti di forza. Uscire dal ginepraio sarà difficile. Soprattutto, sembra impossibile un compromesso tra i due.
Se non arriva una mediazione in extremis del Quirinale, che ha definito «sciocchezze» le voci di voto, si intravede un percorso che non esclude una crisi di governo; forse elezioni anticipate con il sistema proporzionale, perché non ci sarebbe tempo per la riforma. E magari primarie per Palazzo Chigi con Letta e Renzi a contendersi la carica. Ma lo scontro nel Pd sta portando rapidamente l’Italia sull’orlo dell’ennesima anomalia. La riconsegna a un’instabilità che non è solo politica ma anche economica, con conseguenze internazionali immaginabili e un po’ da brivido. Senza volerlo, la nuova generazione del Pd rischia di logorarsi e di fare una splendida campagna elettorale a beneficio di Silvio Berlusconi e di Beppe Grillo.
D’altronde, che qualcosa non funzionasse si è capito dopo l’incontro tra Letta e Renzi ieri mattina a Palazzo Chigi. Le fonti del partito sostenevano che il colloquio era andato bene, o almeno «benino», nella versione del segretario. Ma quasi in tempo reale, Letta faceva sapere che ognuno dei due «è rimasto sulle rispettive posizioni». Il fantasma della rottura si è materializzato in quel momento, col segretario pronto a replicare: «In Direzione parlerò a carte scoperte». Seppure in maniera guardinga, gli alleati di Letta e i candidati al governo di Renzi già fanno capire di essere pronti a un altro esecutivo.
Una maggioranza che va dal Nuovo centrodestra di Angelino Alfano al Sel di Nichi Vendola, magari con qualche scheggia del Movimento 5 Stelle, sa di azzardo. E comunque, per provare a formarla bisogna aspettare la Direzione odierna del Pd e il modo in cui sarà chiesto a Letta di gettare la spugna. Ieri, nella conferenza stampa nella quale ha presentato con parole orgogliose e un’ira fredda «Impegno Italia», il premier ha tenuto a ribadire di essere «un uomo del Pd» e delle istituzioni. Non è chiaro, dunque, se basterà la sfiducia del suo partito a farlo dimettere, senza un passaggio in Parlamento. Ma avvertendo Renzi che la crisi potrebbe «finire male» perché ci si muove «come in una cristalleria», ha mandato un avvertimento chiaro.
Ha accusato il segretario del Pd di avere perso tempo, per poi imputare a Palazzo Chigi i ritardi. «Ognuno deve dire quello che vuole fare, a carte scoperte: soprattutto chi vuole venire al posto mio. Le dimissioni non si danno per dicerie e manovre». Letta, tuttavia, è il primo ad ammettere che il governo «ha cambiato natura». Nella sua ottica, questo legittima un «Letta bis»; per Renzi, invece, impone un cambio col segretario a Palazzo Chigi fino al termine della legislatura, nel 2018. Progetto ambizioso; e contraddittorio, dopo avere negato per mesi di volere prendere il posto di Letta senza passare per le elezioni. Un Pd spaventato dalle urne proietta Renzi al governo: non da «rottamatore», però, ma come puntello di un Parlamento che cerca di sopravvivere, e di gruppi economici che considerano l’instabilità politica non un limite ma un’occasione.

il Fatto 13.2.14
Sindrome Pd, Renzi-Letta botte da orbi
Lo scontro sul governo arriva oggi in Direzione
Il premier non si sposta da Palazzo Chigi
Il rottamatore minaccia i suoi di portarli alle urne
Intanto il partito è già alla frutta
di Wanda Marra


L’hashtag è io sono sereno, anzi zen”. Enrico Letta strappa la risata ai cronisti accorsi alla sua attesissima conferenza stampa convocata alle 18 a Palazzo Chigi per rilanciare l’azione di governo, mentre praticamente tutto il suo partito, per non dire tutto l’arco parlamentare, lo dà per morto. “Per lui ci vuole un trattamento sanitario obbligatorio”, commenta una deputata democratica della minoranza. Battuta forte, che dà il senso degli umori di una giornata che corre come un treno lanciato a velocità supersonica verso la direzione di oggi. Quella in cui il Pd dovrebbe togliere la fiducia al governo del suo ex vice segretario. Con una resa dei conti plateale di cui non si ha memoria nella storia di un partito che ha sempre tramato nell’ombra e consumato i suoi leader, ma mai alla luce del sole.
La giornata si svolge nella più classica altalena di notizie, supposizioni, smentite. Comincia con il Renzi uno che sembra praticamente fatto. C’è solo un ostacolo: il presidente del Consiglio in carica. E allora, ecco, che i due, premier e segretario, si incontrano. Sono le 11 e mezza quando Renzi arriva a Palazzo Chigi su una smart. Enrico e Matteo parlano per un’ora e un quarto. Un incontro “franco” e “sincero” lo descriverà più tardi il presidente del Consiglio. In realtà è così teso che anche il racconto che ne fanno le parti è totalmente diverso. Renzi dice ai suoi che Enrico alla fine avrebbe ceduto: “Mi dimetto. Cerca di attrezzarti, perché fare il premier non è facile”. I lettiani raccontano un altro film, con il premier che avrebbe sfidato il sindaco: “Sei tu che mi devi sfiduciare”. Finisce con strette di mano tanto poco cordiali, quanto interlocutorie. Il tempo di arrivare al Nazareno e Renzi si trova davanti l’agenzia in cui Letta annuncia la conferenza stampa di rilancio chiarendo: “Renzi e Letta dopo l’incontro sono rimasti sulle loro posizioni”. Il segretario è furibondo: “Non mi aveva detto di voler andare allo scontro”, si sfoga con i fedelissimi. Gli vengono anche dei dubbi: sarà stato lo staff a fargli cambiare idea? Fuma rabbia, studia la controffensiva. Il governo Renzi sembrava cosa fatta e non lo è. Nel frattempo , Sel è divisa e non così pronta a fare un governo con lui. Anzi, in serata Vendola lo chiarisce: “Se resta lo schema di Letta è impossibile sostenere Renzi”. I grillini in Senato da dieci sono arrivati a 4.
Non sembra esattamente un arrivo in carrozza a Palazzo Chigi, un pressing così insostenibile da giustificare la staffetta. E allora, partono i dubbi, le paure. Matteo non è ancora arrivato a Palazzo Chigi e il logoramento è già partito. Lo dicono le facce dei renziani, che si aggirano per il Transatlantico senza sapere bene cosa fare e cosa dire. “Come se n’esce?”, la domanda più gettonata. Renzi al partito convoca la solita cabina di guerra. Con lui fissi ci sono Davide Faraone, Maria Elena Boschi, Stefano Bonaccini, Lorenzo Guerini, Luca Lotti. Nel corso della giornata si affacciano un po’ tutti. Prova a mediare tra i due Dario Franceschini. A un certo punto il segretario chiama il capogruppo a Montecitorio, Roberto Speranza. Il messaggio più o meno è questo: “Io Letta non lo posso sostenere, a questo punto dì a tutti di prepararsi al voto”. Ci pensa Napolitano a chiarire: “Elezioni? Niente sciocchezze”. Renzi è furibondo per buona parte della giornata. Poi a un certo punto si calma. I riscontri gli sembrano positivi da tutti. Alfano in chiaro non si sbilancia: “Renzi premier? Nulla è scontato”. A molti sembra un’apertura di credito. Lui comunque mette il turbo e va avanti. È deciso a non mollare, a non fermare la corsa verso Palazzo Chigi. “Serenità” è il messaggio che trasmette. “Tra una settimana cambia tutto”. La conferenza stampa di Letta i renziani se la vedono al partito. “Il programma di Letta è il pro- gramma di Renzi”, ironizzano. Il premier parla non di rimpasto ma di nuovo governo, con un orizzonte lungo, le riforme. “Sono un uomo delle istituzioni. Le mie personali aspettative non c’entrano niente, né quelle attuali, né quelle che mi hanno prospettato”. Affonda: “Le dimissioni non si danno per dicerie e manovre di palazzo. Chi viene al posto mio deve venire a dire cosa vuole venire a fare”. Il messaggio è chiaro: Matteo è un ambizioso sfrenato e inaffidabile. E Napolitano è con lui, dice. “Non è vero - si sfoga Renzi - il Quirinale lo ha mollato”. A Montecitorio i renziani danno corpo ai sospetti: “Enrico vuole fare un altro partito, una formazione centrista”. Davanti alla sfiducia di oggi della direzione, Letta fa capire che potrebbe prendere atto e dimettersi. Ma glielo devono dire in faccia. I renziani sono sprezzanti. Carbone dà la linea: “L’obiettivo di Letta è tirare a campare”. Nel Pd l’operazione Letta-dimissioni va avanti. Renzi sonda un po’ tutti: nessuno ha voglia di difendere il soldato Enrico.
La minoranza al massimo sta a guardare: in fondo è uno scontro tra due uomini che nulla hanno a che fare con la storia degli ex Ds. Forse qualcuno si asterrà, ma i renziani sono l’80%. “Quando c’era da fare la battaglia contro Renzi ci ha lasciati da soli”. Si lavora per trovare chi dovrà fare l’intervento ufficiale per chiedere la testa del premier. Renzi riflette con i suoi: “Pensava di farmi saltare i nervi, ma non ci riuscirà. In direzione ascolterà un po’ e poi si dimetterà”. Poi, la battuta per la lapide: “Pensava di essere Andreatta, è solo un Andreotti minore”.

l’Unità 13.2.14
Ora il Pd rischia di farsi male. Oggi Direzione ad alta tensione /1
Letta sfida Renzi: «Vuoi il mio posto?
Sfiduciami. Ma la gente è contraria»
di Ninni Andriolo


Raccontano che l’incontro «franco» di Palazzo Chigi, durante il quale - spiega Letta - «ognuno ha fatto le proprie valutazioni molto sinceramente », ha assunto in realtà le caratteristiche del muro contro muro fin dall’inizio. «Enrico me lo chiedono in tanti - avrebbe esordito Renzi - Anche perché il governo non è all’altezza. Io voglio provarci, ma voglio il tuo via libera ». «Matteo li hai visti i sondaggi che bocciano la staffetta? - avrebbe replicato il premier - Hai visto i tweet e Facebook? Nessun via libera, io non mi dimetto. Assumiti le tue responsabilità alla luce del sole e sfiduciami apertamente». La reazione del premier ha destato sorpresa, spiegano. Fin da martedì i renziani davano per imminente il passo indietro di Letta dopo l’annuncio della disponibilità del leader Pd a guidare il governo. Il presidente del Consiglio però non si è fatto da parte. Martedì sera ha fatto filtrare la sua intenzione di andare avanti e ieri ha convocato una conferenza stampa per presentare Impegno per l’Italia (coppie di fatto, promozione di nuova occupazione, riduzione del costo dell'energia, sostegno alle imprese, ius soli, ecc.). Il contratto di maggioranza pronto da tempo e messo nel cassetto «per garbo istituzionale », perché Renzi - segretario del maggior partito della coalizione - aveva chiesto di dare precedenza alla riforma elettorale. «Perché lo presentiamo solo adesso? - ha spiegato ieri il premier - Perché sono rispettoso degli impegni che ci siamo presi. Il primo era sulla legge elettorale. Io ho atteso, com'è giusto che si facesse, perché sono un uomo del Pd, e rispetto il partito. Il Pd ha chiesto e deciso di votare prima la legge elettorale». La frecciata a Renzi, quindi. «Sono stato accusato di aver perso tempo. Se perdita di tempo c'è stata, non è stata colpa mia...».
Sfida in campo aperto
Ma la polemica nei confronti del leader Pd va oltre. «Tutto deve avvenire in campo aperto - ha spiegato ieri il presidente del Consiglio - La discussione sul futuro del governo dovrà svolgersi sui contenuti e non sui personalismi. Ho sentito parlare già di liste di ministri, ma io sono al governo e sono abituato a partire dalle cose da fare. Le dimissioni poi, non si danno per dicerie e giochi di palazzo e io non rompo la continuità di governo per dare ascolto a questi...». Sfida aperta di Letta al sindaco di Firenze alla vigilia di una direzione Pd che dovrà decidere sul governo. Il premier non ha ancora deciso se si sposterà al Nazareno o rimarrà a Palazzo Chigi. La cosa certa è che non intende «fare alcun regalo a Renzi» dandogli vantaggi, mentre dal Pd vengono fatte filtrare notizie su un leader democratico «furibondo » con il presidente del Consiglio.
Letta, in realtà, è convinto che la base del Pd - fax e social network alla mano - non ha compreso l’accelerazione verso la crisi, «l’operazione tutta mediatica» che punta a portare Renzi a Palazzo Chigi, nelle stesse settimane in cui è in corso il pressing del premier per imprimere una svolta all’azione di governo e per mettere in campo un Letta bis che imponga all’esecutivo un cambio di passo. Osservata da Palazzo Chigi, e a dispetto dei titoli di prima pagina che danno per certa «la staffetta» entro la settimana, la partita per il governo «è tutta aperta». Anche perché l’iniziativa di Renzi, e il «vado avanti» di Letta, avrebbero determinando ripensamenti in quello che sembrava un fronte esteso che si orientava verso il sì al Renzi 1. Chiaro che gli spazi su cui cerca di far leva la reazione del premier potrebbero richiudersi decretando la bocciatura Pd al governo. Ma lo scontro non sembrava scongiurato, stando a ieri sera. E questo malgrado un po’ tutti - lettiani, renziani, ecc - ammettessero che «la notte sarà lunga e i colpi di scena sono possibili».
Il conflitto d’interessi
«Chi vuole venire al mio posto dica cosa vuol fare - attacca il premier, alludendo a Renzi - Giochi a carte scoperte ». E rilancia sull’economia e sulle riforme (conflitto d’interessi compreso), perni del contratto di governo che destina 30 miliardi per ridurre le tasse e venire incontro a famiglie e imprese. Il Letta bis che il premier ha in mente? Un governo non a termine, la cui durata à legata alla realizzazione delle riforme. Se Renzi promette un esecutivo che duri fino alla fine della legislatura, il premier mette da parte il traguardo del 2014, convinto com’è - tra l’altro - che si debba andare «oltre» il semplice rimpasto. Il ministero degli Esteri o la poltrona di Commissario europeo che gli avrebbe offerto Renzi? «Le mie prospettive personali non contano nulla - ribadisce il premier - sono qui per un profondo attaccamento alle istituzioni È per quello che è nato questo governo di servizio. Mi considero un uomo delle istituzioni e da tale mi comporterò».
Evidenza istituzionale
Letta potrebbe dimettersi solo se sfiduciato dal Parlamento qualora la direzione Pd sancisse la fine del Letta 1? Il premier sfuma, si lascia tutte le porte aperte. Quella di prendere atto di un pronunciamento del Pd oggi stesso, perché il pollice verso del gruppo dirigente del maggior partito della coalizione potrebbe rappresentare una di quelle «evidenze istituzionali » che potrebbero essere espresse «in vari modi». L’importante è che «la crisi venga affrontata con la logica della cristalleria (cioè della trasparenza, ndr.), altrimenti può fare male». «Vari modi» però significa anche salire al Quirinale e chiedere di «parlamentarizzare » la crisi. Per chiedere un voto di fiducia o - in alternativa - per presentare Impegno per l’Italia (il lavoro fatto) e dimettersi subito dopo davanti alle stesse Camere che gli votarono la fiducia.
«Ogni giorno è come se fosse l’ultimo e in tanti hanno cercato di cacciarmi in questi otto mesi», commenta Letta. E ricorda che «abbiamo realizzato molto» e che il Paese segna oggi «una crescita piccola che rappresenta un’inversione di tendenza». «Dopo questa esperienza - ha concluso ieri il premier - potrei perfino insegnare pratiche zen in qualunque monastero ».

il Fatto 13.2.14
Il primo ministro
“Le dimissioni non si danno per manovre di Palazzo”
di Antonello Caporale


Come se una bolla magica l’avesse trasformato in mezzo brigante, tutto d’un tratto Enrico Letta ha presentato all’Italia il suo quid alternativo: se Matteo mi vuole cacciare me lo deve dire. Senza acuti, con spirito zen, la faccia levigata, perfettamente rasato e di un magnifico pallore dc, Letta ha sferrato calci e pugni con quella gentilezza che lo distingue, “io sono un uomo delle Istituzioni”. Tonico e perfino su di giri è giunto nella palestra di Palazzo Chigi per dare al Paese la prova che nulla è impossibile: oggi è la volta dei due premier in contemporanea. Altro che la lotta tra D’Alema e Veltroni. Il nuovo che avanza è pieno di sciabolate. Chi spinge per entrare e chi non si sposta. Letta ha ritrovato anche gli aggettivi giusti, ed è parso molto free, persino disinibito. Ha detto che Matteo è un casinista (gli crediamo) e sta “incasinando” l’Italia come peggio non potrebbe fare.
E’ un manovratore di Palazzo, si muove come un elefante in cristalleria, si nutre di sé. Protagonista e insieme vittima del suo ego, della sua personalità biodegradabile, dell’assetto mutevole delle poche e blande convinzioni. Un incontinente, un animale che spiana, pialla, distrugge, affossa. Un rottamatore professionista, il peggio del peggio possibile. “Chi vuole venire qui al posto mio sa cosa deve fare”, ha avvertito Letta. Incredibile, ma era ancora Letta che stava parlando, quello della Provvidenza (solo ieri l’altro aveva invocato l’Onnipotente salmodiando alcuni concetti), l’oltranzista delle parole imbelli, caramellose, convenzionali e anche tristarelle. È successo che la visione di Renzi al mattino, quell’incontro disturbatore (“Tu sei sleale”, gli ha detto Enrico) gli avesse ricaricato le batterie e gonfiato i muscoli, come braccio di ferro a contatto con gli spinaci. Da ex mite, si è andato decisamente sviluppando in lui l’ira dell’oppositore. Perciò le sue parole sono parse più affilate, la gomma è scomparsa e i trucchi della diplomazia, le cerimonie di Palazzo non hanno retto. Letta non ha ridotto l’enfasi dello scontro inchiodando Renzi ai suoi brufoli. Dunque l’animo calmo si è gonfiato di un sentimento cattivello e un tantino carognesco. E compresa appieno la dimensione della festa che gli sta preparando il suo segretario nei brevi scambi di colpi mattutini (incontro “franco”) ha deciso che bisognasse assestare colpi precisi sopra e sotto la cintura. La vista dell’arrogante Smart parcheggiata dall’usurpatore a Palazzo Chigi (il ministro Franceschini è corso a fotografare l’auto del nuovo Capo, forse in segno di giubilo) gli ha fatto decidere per lo scontro totale. È andato a pranzo a casa, ha scelto la cravatta giusta (quadratini istituzionali su un viola riflessivo) ed è tornato nella sua stanza consapevole che all’Italia non potesse essere risparmiato il più grande spettacolo che si ricordi. Tu spingi? Io resisto. La prova di Letta è stata anche molto più suggestiva di quella che ebbe per protagonista Gianfranco Fini. Non solo perchè il “che fai, mi cacci?” diretto a Berlusconi suona ora assai più dozzinale della metafora del foglio excel (nella grammatica renziana il computer e particolarmente Twitter è il Sol dell’avvenire): ecco il programma, c’è scritto cosa faremo, in che temnpi, e con quali soldi. “E io metto l’hashtag: sonoserenoanzizen”. Se Fini, poveretto, gridava ai piedi del palco sul quale era assiso un tonante e dominante Berlusconi. Enrico invece parlava seduto ancora sulla poltrona di premier. “Sono pronto a un nuovo governo”. Bellissimo . La mossa puramente teatrale ha però sortito i suoi effetti. Perchè la resistenza ha iniziato a infastidire Renzi e anche a renderlo un po’ nervoso.
Figurarsi Napoletano, che mai si era trovato spettatore di una guerra così banditesca, efferata, distruttiva. Il Pd è stato colpito da un poderoso silenzio, una sorta di sforzo riflessivo perchè la commedia politica, che assume aspetti tragici, sta andando oltre le previsioni. Ieri pomeriggio parlavano tutti tranne loro. Parlava Alfano, pronto a salire sul carro di Renzi ma con profondo dispiacere (“È vero, ha detto Letta, lui con me è stato leale”). Parlavano i quattro gatti di Scelta Civica, pronti alla nuova avventura. Si divideva perfino Sel. Vendola vorrebbe centrare l’obiettivo di dare i voti a Matteo, col quale si deve alleare alle prossime elezioni, senza dirlo troppo in giro. Tutti a commentare, ma i protagonisti no. Oggi Renzi reagirà da par suo. Letta giura che aspetterà la gragnuola di fendenti seduto sulla sedia, coraggiosamente col petto in fuori. Interverrà nella discussione e tenterà di portare la conta verso il disordine, una spaccatura finora non registrabile. Se fosse così proseguirebbe la sua corsa andando a chiedere il voto di fiducia ai parlamentari. Ma sa di non potersi illudere: le truppe sono già allineate e coperte. Toglierà le tende quando si alzerà il moto ondoso, l’indice all’ingiù degli ex amici. Dalla sua parte solo pochi aficionados. La politica è convenienza, si sa. Enrico ha già convocato il consiglio dei ministri per l’addio (venerdì alle ore 14), e ieri ha fatto la foto insieme a tutti i suoi collaboratori. “Oggi siamo andati benissimo”, ha detto. Chiuso il fascicolo, rimesso nella cartellina il documento programmatico, ha spento la luce ed è andato a casa.

l’Unità 13.2.14
Ora il Pd rischia di farsi male. Oggi Direzione ad alta tensione /2
Il segretario deciso alla rottura «Questo governo ha chiuso»
di Maria Zegarelli


È furibondo Renzi quando legge la nota di Palazzo Chigi che riassume l’incontro tra lui e Letta. Il premier sostiene che nulla è cambiato, ognuno sulle sue posizioni.
È furibondo perché il segretario del Pd aveva avuto un’altra impressione, l’aveva anche scritto in un sms ai suoi parlamentari, «incontro positivo ». Vale a dire: Letta potrebbe fare il passo indietro che ormai tutti gli chiedono di fare. Perché il segretario era stato chiaro con il premier: «Enrico per il partito il sostegno a questo governo non è più sostenibile, l’opinione pubblica non ha più fiducia nell’esecutivo, le forze sociali chiedono un cambio di passo deciso ». Letta aveva sì difeso il suo lavoro e il suo Patto 2014 ma non aveva alzato un muro. Ecco perché è molto più che furibondo Renzi quando ascolta la conferenza stampa del premier, indetta alle sei del pomeriggio (e di cui non gli aveva fatto menzione durante il faccia a faccia di fine mattinata) con la quale Letta lo sfida senza giri di parole: «Chi vuole il mio posto dica cosa vuole fare».
Un affronto che, raccontano i fedelissimi del segretario Pd, Renzi non si aspettava in questi termini. Tanto che il commento a caldo che fa con i suoi fedelissimi è che questo governo «per quanto mi riguarda è finito. È un’esperienza conclusa». E questo intende ripetere stamattina nella sua relazione, una relazione con la quale ripeterà il concetto, resta da solo da capire con quanta durezza, di un governo che avrebbe potuto fare e non ha fatto e di un tempo che ormai è scaduto. Sarà Napolitano, è il ragionamento, a decidere se ci sono ancora le condizioni per andare avanti. Per il segretario Pd no, non ci sono.
Meno che mai dopo l’evoluzione della giornata di ieri. Letta, di fatto, mette il cerino nelle mani del segretario - decida lui, decida la direzione del partito, decidano le Camere. «Ecco il mio programma, ecco le coperture economiche e se finora non ho agito non è colpa mia ma di chi mi ha detto che era necessario approvare prima la legge elettorale. Cioè Matteo Renzi - .Eallora adesso decida lui», questo il senso nudo e crudo del messaggio che urbi et orbi il premier manda in diretta tv.

il Fatto 13.2.14
Il segretario
“Mi ha preso per il culo”, ma ora è arrivata l’offensiva finale
di Fabrizio d’Esposito


Dalla staffetta, abusata metafora, al derby. Dal Jobs act, sospeso nel limbo degli annunci, al Jab Act: il gancio al Nipote, nomignolo sprezzante con cui Renzi appella il premier, è stato fulmineo, improvviso, forte. L’effetto stordimento è durato per tutta la giornata, iniziata con l’arrivo in Smart a Palazzo Chigi (l’auto è del suo amico Ernesto Carbone, deputato) e con un post del papà Tiziano su Facebook. Di rigore il linguaggio calcistico: “Ricevo appassionati post che mi implorano di sconsigliare Matteo dall’accettare il trappolone. Anche se fossi ciecamente convinto che mio figlio stesse assumendosi un rischio elevatissimo di battere una boccata, mai e poi mai suggerirei di non affrontare il rischio, e per dirla con le sue parole, mai e poi mai suggerirei di rifiutarsi di battere un calcio di rigore per paura di sbagliarlo”.
Da giovedì tredici, non proprio venerdì, Matteo Renzi è costretto a inseguire se stesso in una direzione destinata a diventare il film più atteso della stagione. E che potrebbe essere il primo caso repubblicano di una direzione di partito che sfiducia un proprio presidente del Consiglio a viso aperto. Qui siamo oltre la sinistra modello Tafazzi. Molto oltre. A “Matteo”, dicono i suoi il pericolo non sfugge. Il duello è più sanguinoso del previsto e di politico ormai non ha più nulla. Tra i due è una questione personale, tra l’odio e il disprezzo. Beppe Fioroni, che di democristiani se ne intende, certifica che “Matteo è il vero democristiano tra i due”. Se davvero fosse così, oggi “Letta” verrà pugnalato in una precisa liturgia di partito. La relazione di Renzi, poi i capigruppo che faranno la cerimonia delle pugnalate, sostenendo la necessità di un altro governo. Nuovo. Ma è prevalere, tra i gruppi parlamentari, è un’immagine di “tristezza e imbarazzo che nemmeno con Veltroni e D’Alema”. Colpa dello streaming, forse. I due premier come i due papi. Il primo, Letta, che resta comunque “troppo debole per andare avanti”. Il secondo, invece, che “si è spinto troppo avanti per tornare indietro”. La verità sul faccia a faccia con il Nipote emerge dopo la conclusione, quando il premier lancia la conferenza stampa per il suo Impegno Italia. Renzi resta spiazzato. Per lui l’incontro è andato bene, così fa dire ai suoi. Un pareggio in attesa di sbloccare la partita con l’assalto finale.
Palazzo Chigi e il Nazareno diventano due trincee in guerra. In mezzo la Camera, dove tutti, renziani e antirenziani, si aggirano smarriti e confusi per la ripartenza di “Enrico”. Renzi è furibondo. Una frase secca: “Mi ha preso per il culo, non ne sapevo nulla”. Il Rottamatore lascia il Nazareno nel pomeriggio per poi tornare in serata. La rabbia sbollisce nel giro di qualche ora, lasciando il posto alla voglia di vendicarsi. Soprattutto dopo aver visto e ascoltato Letta in tv. Le opzioni per oggi salgono e scendono. È un ottovolante. Dal voto anticipato al Letta bis per riapprodare al Renzi uno. Il sindaco di Firenze riprende in mano pure la lista dei ministri. Il dicastero chiave è l’Economia, dove i nomi fioccano a seconda di dove scrivono i candidati ministri, Corriere o Repubblica. Si va da Bini Smaghi e Padoan a Boeri. Dagospia butta nella mischia anche Lucrezia Reichlin. Un po’ di renziani (Delrio e Boschi, innanzitutto), la riconferma della Lorenzin alfaniana, persino l’ingresso del centrista Vietti alla Giustizia, dello scrittore Baricco e dell’eatalyano Farinetti.
Il totoministri rischia di essere esercizio vacuo e in ogni caso il metodo del renzismo prevede una solitaria sintesi finale. Ma prima c’è la direzione di oggi. Lo scontro totale con il premier dovrebbe portare alla sfiducia. Il Pd che dice al suo premier attuale di andarsene a casa. A quel punto la logica politica imporrebbe le dimissioni lettiane, sempre che la resistenza non conduca a un impazzimento totale. Per Renzi, il rilancio del Nipote è “arrivato troppo tardi”. Per la precisione dopo due mesi di bombardamento, a partire dall’Immacolata delle primarie, l’otto dicembre dello scorso anno. In serata al Nazareno, al cerchio magico di “Matteo” si aggiunge anche Dario Franceschini, miglior attore non protagonista in questo film apocalittico del Pd. Lettiano poi renziano, la sua presenza al partito in serata dovrebbe confermare l’offensiva del sindaco quasi premier. Da stamattina tutto può succedere. Il pressing su Letta per non andare al massacro non cesserà, ma “Enrico” vuole guardare in faccia i pugnalatori. “Matteo” lo accontenterà, facendo l’elefante nella cristalleria del Nipote. Se tutto va nel verso giusto, quello da cambiare, le consultazioni di Napolitano potranno tenersi già nel fine settimana. E Renzi tenterà di battere tutti i record di velocità.

l’Unità 13.2.14
Ora il Pd rischia di farsi male. Oggi Direzione ad alta tensione /3
Le ore più difficili del Pd
Ma Renzi fa il pieno tra i democratici
Minoranza schierata col leader per il cambio a Palazzo Chigi
I renziani evocano  il ritorno alle urne
di Andrea Carugati


Sono ore difficilissime per il Partito democratico. Oggi pomeriggio la riunione della direzione rischia di trasformarsi in un ring tra i duellanti Matteo Renzi e Enrico Letta. In un «western», dice Pippo Civati, o un «bagno di sangue», come sussurrano in tanti a Montecitorio. La conferenza stampa del premier, la sua sfida a Renzi e la volontà di resistere, hanno spiazzato quanti insistevano per un passaggio di consegne morbido tra i due leader. Ed ha alimentato il fronte dei dubbiosi, che comprende anche alcuni renziani scettici sulla staffetta. Timorosi di uno strappo troppo lacerante, che indebolirebbe anche l’eventuale governo Renzi.
E tuttavia, i numeri della direzione sulla carta appaiono schiaccianti. Anche la minoranza che fa capo a Gianni Cuperlo si è convinta a sostenere la marcia del segretario verso palazzo Chigi. Dunque tra i contrari restano Pippo Civati e i suoi fedelissimi e alcuni pretoriani del premier: una esigua minoranza. Nella serata di ieri si è parlato persino di un documento contro il governo che oggi potrebbe essere presentato dalla sinistra Pd, una sorta di assist a Renzi per dimostrare al premier, con la forza brutale dei numeri, che il suo rilancio non convince. Che ormai il tempo per un Letta bis è scaduto. «Se il segretario del Pd non vuole più sostenere Renzi non è mica colpa nostra...», è lo sfogo di un deputato di area Bersani. Certo, l’ex leader, ancora in convalescenza a Piacenza, avrebbe fatto pervenire il suo sostegno all’amico Enrico sulla via del confronto a viso aperto in direzione. E tuttavia ormai il percorso della minoranza sembra segnato: tra il Bis di Letta e il “Renzi 1” la seconda strada è quella considerata più «forte per garantire una lunga fase di riforme ».
Ieri all’ora di cena la situazione era ancora caotica, con Letta determinato a non dimettersi prima del passaggio in direzione, e soddisfatto della conferenza stampa in cui ha chiaramente detto «chi vuole cacciarmi deve dirlo». E Renzi asserragliato con i fedelissimi Boschi, Lotti, Guerini e Faraone a largo del Nazareno, sede Pd, dove è arrivato anche il ministro Franceschini, in un estremo e forse inutile tentativo di mediazione. Il segretario è furioso per il rilancio del premier, prepara una relazione molto dura che conterrà una sfiducia implicita a Letta. Sarà votata con tutta probabilità anche dalla sinistra, a quel punto il cerino tornerà nelle mani del premier. In serata Gianni Cuperlo, a nome della sua area, spiega che «dopo avere ascoltato la conferenza stampa del capo del governo, non è possibile nascondere la grande preoccupazione per la piega che ha assunto il confronto interno alla maggioranza e al nostro partito ». «Tocca al segretario del Pd dire parole di chiarezza sul percorso che il primo partito della maggioranza intende seguire», aggiunge. «Ci comporteremo con il senso di responsabilità che è proprio non di una minoranza, ma di un gruppo dirigente impegnato a lavorare per l'unità del Pd ». Un modo per dire che la sinistra interna non ostacolerà il percorso di Renzi.
La reazione dei renziani all’affondo di Letta è durissima: «Il fatto che ora parli di programma senza scadenze dimostra che il suo unico obiettivo è restare a palazzo Chigi. Altro che i 18mesi per fare le riforme: le riforme sono naufragate, a rivitalizzarle ci ha dovuto pensare il Pd. Magli italiani non possono aspettare un altro anno senza riforme, con il tirare a campare», dice Ernesto Carbone. «Dal premier una mossa tardiva, con un programma esiguo », attacca Andrea Marcucci.
L’unica cosa che appare certa è che Letta, per ora, non intende andare in Parlamento a chiedere una nuova fiducia. E che dunque il match di oggi pomeriggio dovrebbe essere decisivo. Ma il premier dal suo partito vuole un pronunciamento chiaro. Nel bene o nel male. Il segretario Pd ieri sera ha passato molte ore a cercare una contromossa. Timoroso di eventuali contraccolpi negativi di uno strappo troppo lacerante. Tanto che a un certo punto si è iniziato a parlare anche di una frenata. Di una tregua armata, seguita poi da una guerriglia parlamentare su ogni provvedimento. In modo da provocare una crisi e, a quel punto, il ritorno alle urne. È questa una delle armi che i renziani di rito ortodosso stanno utilizzando in queste ore. Far capire a tutti, dentro e fuori il Pd, che mettere i bastoni tra le ruote di «Matteo» avrebbe un solo risultato: ammazzare la legislatura. «Si torna al voto, anche con la legge della Consulta », spiegano alcuni renziani. «Le elezioni restano sempre la strada principale », dice Maria Elena Boschi.
Una prospettiva esplicitamente esclusa dal Capo dello Stato, e tuttavia l’ipotesi della guerriglia parlamentare per costringere il resistente Letta a sloggiare viene presa in considerazione anche fuori dal cerchio stretto dei renziani. Anche nella minoranza l’ipotesi viene citata come «possibile». La strada di Letta, dunque, sembra totalmente in salita. Impervia. Fuori dal coro Pippo Civati, che ricorda sul suo blog tutte le dichiarazioni di Renzi per negare mire su palazzo Chigi. E titola: «Coerenzi». Poi aggiunge: «Matteo rischia di finire in una logica da Gattopardo. Viviamo una pagine più brutte della storia del Pd».

La Stampa 13.2.14
I tormenti dei democratici
E nel Pd scatta l’incubo peggiore: votare in Aula la sfiducia al premier
di Carlo Bertini


Il fumo si taglia a fette come in un cinema Anni 50 nel corridoio attiguo al Transatlantico dove si radunano drappelli di peones davanti ai due schermi che mandano il discorso del premier in diretta. Appartengono a tutte le tribù del Pd, franceschiniani come Gianclaudio Bressa ed Emanuele Fiano, «turchi» come Silvia Velo, c'è Fioroni, e ci sono anche bindiani, dalemiani, insomma la galassia del corpaccione di un gruppo che conta quasi trecento anime è al gran completo. Ma sono i fedelissimi di Franceschini e di Bersani i più angosciati.
Appena il premier lancia la sua sfida, «i partiti dovranno assumersi le loro responsabilità», appena squaderna il concetto che i governi non eletti dal popolo nascono in Parlamento, l’incubo si materializza. Il riflesso è immediato. «Vuole venire in aula», sussurra subito ad un costernato Gianclaudio Bressa, la cuperliana Elisa Simoni, gran fumatrice di toscani.
«Questa ce la poteva risparmiare», si sfoga Teresa Bellanova, leccese bersaniana doc. Che non si capacità del perché Letta voglia lo strappo, visto che la sfiducia del suo gruppo l’ha registrata martedì quando nessuno lo ha difeso dopo che Renzi aveva parlato di batteria scarica da sostituire. E il perché lo spiega in camera caritatis un lettiano, «Enrico vuole marcare la sua diversità e porsi in sintonia con quegli italiani che vedono la staffetta come una manovra di palazzo».
Comunque vada, che sia in aula o sfiducia in Direzione, il passaggio traumatico se lo sarebbero risparmiati tutti. Certo, perfino i lettiani ammettono che se un voto in Direzione sancirà che lui non deve andare più avanti non servirà un passaggio parlamentare; ma Letta volutamente si è tenuto aperto questo sbocco e il fantasma aleggia in Transatlantico. Ora la speranza di tutti è che Napolitano impedisca lo show down in aula. La previsione di Giacomo Portas, «Enrico non si dimetterà», sintetizza lo sbocco più temuto da quelli che per un motivo o per l’altro non vedevano l’ora di voltare pagina e di blindarsi fino al 2018. E invece dovranno passare nel cerchio di fuoco di votare contro il premier che fu vicesegretario del Pd. E come sempre nel Pd fioccano le dietrologie: Fioroni prima si inalbera contro chi ha permesso che «le due maggiori risorse del Pd si sfracellino a trecento all’ora» e poi nota che «Enrico non parla da premier sfiduciato, ma da leader di un futuro soggetto politico». Quale? Magari nascerà «l’Asinello di Letta», alludendo al partito fondato da Prodi e che fece dura concorrenza ai Ds di D’Alema e al Ppi di Marini.
Ma sgomento, incredulità e sconcerto avvolgono le truppe mentre Letta snocciola impegni di spesa e le possibili entrate da spending review. Intanto nelle segrete stanze, la minoranza di sinistra è riunita con Cuperlo per decidere che fare: abbandonare Letta al suo destino votandogli contro è cosa brutta assai per chi lo avrebbe candidato alle primarie contro Renzi. Ma la maggioranza metterà ai voti in Direzione la linea del cambio di passo e la minoranza non metterà i bastoni tra le ruote al segretario. Ma nessuno è sicuro che Letta non vorrà lo stesso chiedere un voto delle Camere. «In quel caso lo manderemo al Senato», dicono gli uomini di Speranza, visto che lì i numeri sono risicati. La tempesta perfetta insomma, lo psicodramma del Pd. Alcuni ricordano il precedente di un partito che votò contro il suo premier, «una volta con Fanfani ma fu una crisi pilotata», ricorda l’ex Dc Gero Grassi. Altri sperano che sia Angelino Alfano a togliere le castagne dal fuoco al Pd. Ettore Rosato, segretario d’aula e uomo di Franceschini, sdrammatizza: Letta salirà al Colle e dopo le consultazioni, in aula arriverà un premier incaricato che non sarà lui, senza strappi o bagni di sangue...

l’Unità 13.2.14
Letta prigioniero del liberismo
Serve una svolta
di Stefano Fassina


Dopo settimane di incertezza, siamo a un tornante decisivo per il governo del paese. L’Italia deve riscrivere la legge elettorale, superare il bicameralismo perfetto e riorganizzare l'architettura federale. Ma l’emergenza è sul terreno economico e sociale. Le riforme costituzionali, necessarie e urgenti, richiedono almeno 24 mesi. Lavoratori e imprese aspettano interventi efficaci subito. Dal racconto quotidiano sembra che il problema sia la «staffetta» tra Letta e Renzi, possibilità inevitabilmente in campo, in alternativa alle elezioni, date le caratteristiche del congresso del Pd (elezione mediante primarie aperte del segretario-candidato per la presidenza del Consiglio) e un premier senza mandato degli elettori. Invece, il problema è innanzitutto e soprattutto il programma per rispondere a chi, oltre a lavoro o azienda, ha perso anche speranza e dignità. Il governo Letta è rimasto prigioniero dell'insostenibile europeismo liberista - rappresentato in Italia dall’«Agenda Monti» - riproposto con insufficienti discontinuità a causa di un'oggettiva crisi finanziaria, una maggioranza di larghe intese, un’ereditata subalternità culturale e un malinteso senso di «responsabilità nazionale».
Il programma per la svolta deve articolarsi a partire da una chiara e oramai oggettiva analisi: la rotta mercantilista dell’euro-zona, segnata da austerità cieca e svalutazione del lavoro, è insostenibile: aggrava le condizioni dell'economia e gonfia i debiti pubblici, aumentati nell'euro-zona dal 65% del 2008 al 95% del 2013. Nell’euro-zona e in Italia, una ripresa in grado di riassorbire la disoccupazione non è in vista. E non sono raggiungibili gli obiettivi di finanza pubblica per il 2014 previsti nel Def. È, infatti, impossibile ridurre o stabilizzare il debito pubblico in uno scenario di stagnazione di medio-lungo periodo. Sarebbe autolesionistico e controproducente accanirsi e tentare di raggiungere gli obiettivi con ulteriori manovre correttive nei prossimi mesi. Inutile affidarsi al marketing per curare le aspettative degli «agenti economici»: l’ottimismo va fondato su dati di realtà.
Che fare? Le mitizzate riforme strutturali non sono condizione sufficiente per l’uscita dal tunnel. L’invocazione disinvolta, tanto di moda, al taglio di una indefinita «spesa pubblica improduttiva» per la riduzione delle tasse e del costo del lavoro è pericolosa. La spesa pubblica italiana al netto degli interessi sul debito, in termini pro-capite, è tra le più basse dell'euro-zona. Va liberata da inefficienza e sprechi. Risparmi significativi possono derivare soltanto da una profonda ristrutturazione dello Stato e del Titolo V. Le risorse recuperate devono, però, in primis integrare i capitoli decimati dai tagli orizzontali, in particolare la scuola pubblica e le politiche sociali (es. reddito minimo d’inserimento). L’eccessivo peso delle imposte va ridotto attraverso il recupero di evasione fiscale, la variabile davvero fuori linea (il doppio) rispetto alla media europea. Invece, puntare a un consistente taglio della spesa non vuol dire riformare ma ridimensionare, fino allo snaturamento, il welfare. Sarebbe un sacrificio inutile, anzi dannoso, poiché un taglio della spesa, accompagnato da una corrispondente riduzione di tasse, ha documentatissimi effetti recessivi.
Allora, bisogna avere come stella polare il lavoro e virare verso una politica economica alternativa per l'euro-zona. I capisaldi per l’inversione di rotta sono specificati in un «Memo per il programma di un governo di svolta», proposto alla Direzione di oggi insieme a un gruppo di parlamentari. Soltanto l’allentamento della irrealistica politica di bilancio può aprire spazi per innalzare il livello dell'attività produttiva e creare lavoro. La variabile decisiva è la domanda aggregata: quindi sostegno a investimenti produttivi e miglioramento della distribuzione del reddito. L’unico Jobs Act utile è una politica di bilancio espansiva, accompagnata dall’introduzione di un «Servizio civile per il lavoro», un Piano per la redistribuzione del tempo di lavoro, politiche industriali per l’innovazione sostenibile e ri-organizzazione delle pubbliche amministrazioni. Le difficoltà politiche nell'euro area per una svolta sono enormi. Ma l'euro-zona è sulla rotta del Titanic e dobbiamo comunque tentare. O la svolta condivisa a Berlino e a Bruxelles. Oppure, in un’alleanza da costruire tra i Paesi soffocati nella spirale svalutazione del lavoro-recessione-debito pubblico, un piano B: la permanenza nell’euro e la rinegoziazione degli impegni sottoscritti. Qualunque governo senza cambiare radicalmente rotta in Europa farebbe perdere all’Italia l’ultima chance per la ricostruzione morale, democratica e economica.


l’Unità 13.2.14
Napolitano boccia il voto: «Sciocchezze»
Il Capo dello Stato interviene da Lisbona
Il punto fermo: il Paese ha bisogno di stabilità
di Marcella Ciarnelli


«Non diciamo sciocchezze». È questa la replica lapidaria con del presidente della Repubblica a chi gli ha chiesto, durante il suo soggiorno a Lisbona per partecipare alla riunione del Cotec, se per superare la contrapposizione tra Letta e Renzi fosse ipotizzabile un ritorno alle urne in tempi brevi. Una soluzione che, è più che noto, Napolitano non ha mai preso in considerazione. Tanto più in assenza di quella riforma elettorale tante volte sollecitata e che sta muovendo solo i primi passi in Parlamento. Per non parlare delle ipotizzate altre riforme da mettere in cantiere per modificare almeno il bicameralismo perfetto, con la diversificazione tra le funzioni della Camera e del Senato. Gli echi dello scontro in casa Pd sono arrivati fino in Portogallo e, d’altra parte, Napolitano ne aveva avuta diretta testimonianza ricevendo al Quirinale, poco prima della partenza, prima il segretario del Pd e poi il presidente del Consiglio. L’uno a cena. L’altro per un colloquio. Il presidente ha contezza di una profonda contrapposizione anche se non vuole sentir parlare di «muri contro muri». Ma non intende in alcun modo inserirsi nella questione che riguarda, al momento, le vicende interne al partito di maggioranza relativa. L’asse portante del governo Letta che sembra essere messo in discussione da una parte consistente degli esponenti del Pd che quest’oggi vivrà il momento della verità nella direzione convocata per il primo pomeriggio.
Nei due colloqui, e anche in altri possibili confronti con gli esponenti del partito democratico e con altre forze politiche, la preoccupazione espressa da Napolitano va nel solco di una apprensione costante per il Paese che sta vivendo nel più tragico dei modi una crisi economica come mai prima di questi anni. La situazione dell’Italia non può sopportare contrapposizioni e strappi. C’è bisogno di stabilità. Per la stabilità passa la credibilità da spendere sui mercati internazionali, nell’Europa che tra pochi mesi l’Italia sarà chiamata a guidare e che «ha attraversato una delle pagine più difficili della sua storia».
Una timida ripresa
Il simposio del Cotec riunisce le Fondazioni di Portogallo, Spagna e Italia, Paesi «costretti a scelte tanto dolorose quanto improcrastinabili». La situazione è ancora fragile ma si intravede «una timida ripresa» ha sostenuto Napolitano sollecitando «un contributo rilevante idoneo a declinare tali primi positivi segnali» per raggiungere gli obbiettivi di innovazione, ricerca e crescita. In questo scenario si inserisce lo scontro in casa Pd che, come sottolineato dallo stesso presidente con chiarezza, deve essere superato nell’ambito del Partito democratico, senza che nessuno si aspetti un suo intervento diretto. «La parola spetta al Pd» aveva detto l’altra sera il presidente sbarcando a Lisbona. La sua posizione non è cambiata anche se è aumentata la preoccupazione che tempo prezioso vada perso in una disputa che rischia di danneggiare gli interessi stringenti del Paese. Nel suo intervento al Cotec il presidente ha sottolineato «l’impegno del governo di procedere con misure di sostegno immediato alle attività innovative e di ricerca delle imprese» prevedendo a tal fine il ricorso a fondi strutturali europei.
Citando il governatore Visco, Napolitano ha allertato sulla possibilità negativa che l’Italia rischi di «perdere la fiducia faticosamente riguadagnata che non deve essere indebolita dal riaccendersi di timori sulla risolutezza a proseguire sulla strada delle riforme e delle responsabilità sia dell’Italia che di altri Paesi europei». Nel discorso il presidente ha saltato il passaggio che è stato poi confermato come letto. Nessun retroscena. Nessun giallo.

Repubblica 13.2.14
Il retroscena “Lascia, entrerai nel nuovo governo” “Non accetto trattative sottobanco”
Matteo ed Enrico, a Palazzo Chigi confronto al veleno
di Goffredo De Marchis


Roma - L’arrivo in treno, la Smart, il leggero ritardo sono le note di colore. Matteo Renzi, appena entra nello studio di Enrico Letta al primo piano di Palazzo Chigi, va dritto al punto e mette sul piatto il prendere o lasciare che è una cifra del suo modo di agire. «La tua esperienza al governo è finita. Ho la processione di personalità, forze sociali, categorie che mi dicono che così non si può andare avanti. Lo sai anche tu. Fatti da parte e riceverai tutti gli onori». Il premier lo guarda, ascolta, non replica. Lo lascia continuare. «Il Pd dirà che hai svolto un buon lavoro, che il momento era di merda, che è stato fatto il possibile ma è arrivato il tempo di una nuova fase». È l’exit strategy che il segretario del Pd offre al presidente del Consiglio del Pd. Una guerra fratricida, si conclude, nelle intenzioni del sindaco, con una resa infiocchettata. Il fiocco è l’offerta di un posto al governo. Che c’è stata, chiara e forte, in quella stanza della sede del governo. E ha fatto imbestialire Letta, tanto da suggerirgli la battuta più taglientedel faccia a faccia: «Queste trattative sottobanco qualificano la moralità di chi le propone».
L’uscita soft proposta dal segretario si connota così: ministro degli Esteri o un posto garantito nella commissione europea che sarà rinnovata dopo le elezioni continentali. Oppure entrambi gli incarichi: prima la Farnesina, poi l’“esilio” a Bruxelles. Ma Letta si sente ancora in sella. Fa capire di essere pronto a sfidare il Pd e la sua maggioranza, a celebrare la conferenza stampa di presentazione del programma per i prossimi anni. «Io sono qui per servire il Paese, l’ho sempre detto. E sono stato votato dal Parlamento. Certo, non per rimanere a ogni costo». Sono le parole che fanno dire a Renzi, rientrando a Largo del Nazareno, «è andata così così ». È chiaro che Letta non intende cedere senza un passaggio ufficiale, che sia del partito o delle Camere. Non vuole dimettersi come gli sta chiedendo Renzi annunciandogli «il capolinea». Il trauma dev’esserci, il sangue deve scorrere.
Qui le versione divergono. Letta racconta di un confronto a muso duro perché, come racconta a un amico, «non pensavo che Matteo fosse così spregiudicato, che potesse spezzare un patto concordato con il Quirinale per far durare l’esecutivo fino al 2015». Renzi affronta il tema del Quirinale anche durante il faccia a faccia. «Tu sai Enrico cosa pensa il capo dello Stato. “Se è il Pd a dire che è arrivato il momento di cambiare, che devo fare io?”». Letta tace e ascolta.
La versione del sindaco è diversa. Il premier non avrebbe mostrato i muscoli a viso aperto. Anzi, avrebbe ascoltato con attenzione gli argomenti a favore di un addio anticipato da Palazzo Chigi. Per questo il segretario scorre i siti e le agenzie e si sfoga appena torna al partito. Lo indispettisce la descrizione di un incontro di fuoco. Soprattutto per l’annuncio (che però è una conferma) della presentazione di “Impegno Italia”, il patto di coalizione, che viene fissato per il pomeriggio.
«Non me l’aveva detto che sarebbe andato avanti». La verità è che il segretario si aspettava una pausa riflessione e le dimissioni del premier, formalizzate già ieri sera a Napolitano dopo il suo ritorno dal Portogallo. Dario Franceschini gliel’aveva garantito: «Vedrai che Enrico si fermerà un attimo prima e non andrà fino infondo». Renzi però esce dal vertice di Palazzo Chigi non proprio convinto che finirà così. Risale sulla Smart del deputato Ernesto Carbone e riunisce il gabinetto di guerra a Largo del Nazareno. Un gabinetto che si attende una mossa del premier da un momento all’altro, ma nel quale Renzi è il più prudente. «Se vuoi lo scontro frontale allora si può anche andare a votare. È una soluzione, stiamo attenti», è una parte del discorso fatto nello studio di Palazzo Chigi. Certo, c’è anche quella terza via. Non la vuole il Colle, non la vuole il Pd, non la vogliono i parlamentari di tutte le forze politiche, ma come escluderla?
Tutto dice che il gelo assoluto, durato ben tre settimane senza telefonate, senza sms, è stato rotto solo per una parentesi di 60 minuti, in cui «ognuno è rimasto sulle sue posizioni». In pratica, è andata così: Letta seduto forse per una delle ultime volte sulla poltrona da premier e di fronte a lui il Rottamatore pronto a incassare le terze dimissioni dopo quelle di Cuperlo e Fassina e a sedersi al posto di “Enrico”. Un gelo esteso alle diplomazie, se alla fine il premier va davvero in conferenza stampa e si propone per i prossimi anni alla guida dell’esecutivo. Anche Renzi dice di fermare le macchine. «Aspettiamo le sue mosse - comunica all’ora di pranzo - . È gravissimo che sia lui a far scorrere il sangue parlando di colloquio andato male quando gli aveva offerto l’onore delle armi. Gravissimo perché io sono il segretario del Pd, ovvero del partito che è anche il suo e che praticamente tiene in piedi la baracca del governo da solo». Ma il sangue scorre da giorni, difficile fermarlo in un’oretta scarsa.

Repubblica 13.2.14
“Così il partito rischia di diventare un far west”
Civati scrive un post intitolato “Coerenzi” in cui ricorda le dichiarazioni passate del segretario sulle larghe intese: “Ci stiamo incartando”
intervista di Matteo Pucciarelli



Milano - «Ci faranno scegliere se sfiduciare il nostro segretario o il nostro primo ministro?», è la battuta di una collega parlamentare che Pippo Civati fa sua. Di una cosa è convinto: il sindaco deve diventare premier, ma passando dal voto.
Insomma, lei ha capito cosa sta succedendo?
«Allora: Renzi vuole andare a Palazzo Chigi e basta, una scelta deliberata. Ma sbagliata, visto che per mesi ha assicurato ben altro. Ora si stanno dando dei giudizi al governo Letta durissimi, che in confronto i miei sono quelli di un moderato».
Nel mentre Letta tiene duro...
«Tabacci ha detto che sembrano Forlani e Andreotti, il che è tutto dire. Ci stiamo incartando, la direzione rischia di trasformarsi in un far west».
Lei ha scritto un post sul suo blog dal titolo un po’ grillino “coerenzi”, citando tutte le volte in cui il segretario del Pd garantiva per Letta. Insomma, Renzi è inaffidabile?
«Non è questione di inaffidabilità, ma appunto di coerenza. Se si viene eletti segretario dicendo no alle larghe intese, come fai ad andare al governo con Alfano? Se dici no agli inciuci, come fai a lavorare ad una manovra di potere di questo genere?».
Ma non è che sta cadendo in una trappola?
«Non saprei, di certo i primi delusi sono i suoi elettori. Nel mentre ministri del governo Letta a lui vicini preparano il suo avvento. Renzi crede di risolvere il tutto con un suo governo di impatto, ma è una scelta davvero rischiosa perché di fatto dovrebbe tenere in piedi un esecutivo con centrodestra, pezzi di Sel, ex grillini.Ma come fai?».
Quindi Renzi è semplicemente presuntuoso?
«È molto convinto di sé. Ma anche sulla legge elettorale: sembrava aver fatto tutto in un mese e siamo punto a capo. E ora già non se ne parla più. E il piano per il lavoro? Arenato anche quello».

Repubblica 13.2.14
Nel Pd oggi la resa dei conti in direzione il voto contro il premier e torna il rischio della scissione
Cuperlo: “Tocca al segretario fare chiarezza sul percorso”
di Giovanna Casadio


Roma - Il Pd si prepara a sfiduciare Letta. Fino a tarda sera sono in azione i mediatori tra i due contendenti, tra Enrico Letta e Matteo Renzi, per evitare la sfida all’O.K Corral nella direzione convocata per questo pomeriggio. Il partito si trova a scegliere tra il “suo” premier e il “suo” segretario.
Renzi ha preparato un ordine del giorno molto duro contro il governo: «Il compito dell’esecutivo Letta è esaurito». È l’operazione- verità sull’inadeguatezza del governo che il segretario ha in mente di fare. Non si proporrà però per la staffetta a Palazzo Chigi: non vuole apparire come colui che si presta a manovre e manovrine di Palazzo. Nel recinto in cui vuole schiacciarlo Enrico, il leader dem non vuole restarci.
Il documento renziano sarà messo in votazione. E la direzione sarà in streaming. Tanto per stanare le posizioni di tutti i dem e evitare che qualcuno giochi poi a rimpiattino. «Parlerò a viso aperto», premette il segretario. È stata ieri una lunga giornata di colloqui e di riunioni al Nazareno, la sede del Pd. Stamani prima della direzione ne sono previste altre. Il “correntino” guidato da Gianni Cuperlo si è dato appuntamento poco dopo mezzogiorno. Ma la posizione sembra scontata. La si ascolta a Montecitorio dove capannelli di deputati seguono davanti alle tv la conferenza stampa nella quale Letta scandisce il suo “non ci sto” e promette di resistere e andare avanti. «Ormai è troppo tardi », ripetono in tanti.
Cuperlo passa il cerino al segretario: «È lui che deve chiarire - spiega in una nota il leader della minoranza - Nei giorni scorsi abbiamo noi per primi chiesto un chiarimento di fondo su un governo di svolta. E dopo avere ascoltato la conferenza stampa del capo del governo, non è possibile nascondere la grande preoccupazione per la piega che ha assunto il confronto interno alla maggioranza e al nostro stesso partito». È una porta ancora non del tutto chiusa al premier, perché sia Cuperlo che Cesare Damiano valutano positivamente il merito delle proposte, quel programma di Impegno 2014 illustrato da Letta. Però - è l’altra riflessione - «alla luce dei giudizi politici espressi da Renzi, tocca proprio al segretario del Pd dire parole di chiarezza sul percorso che il primo partito della maggioranza intende seguire». Un conflitto così forte è drammatico per la tenuta dei Democratici. Pippo Civati parla di Far West, di un western a cui si assisterà in direzione. Civati non voterà nessun documento, e segue la linea di sempre: varare la legge elettorale e poi al voto. «Non si trova l’algoritmo del Pd», ironizza amaro Emanuele Fiano, il capogruppo in commissione Affari costituzionali. Beppe Fioroni, leader dei Popolari, dice che lo scontro ormai è giunto fino a un punto di non ritorno. «Letta sembra avere parlato più da leader politico...», riflette Dario Ginefra.
Se il duello tra Enrico e Matteo arriverà allo showdown in direzione, sarà per i Democratici «una guerra atomica». La definizione è di Gero Grassi. «È una rivoluzione in corso, un redde rationem », avverte Civati. Letta potrebbe partecipare alla riunione dem: «Sono un uomo del Pd...», ha detto in conferenza stampa invitando proprio il partito e in primo luogo il segretario Renzi ad assumersi la responsabilità sul destino del governo. Di voto subito, se la situazione si impantanasse in un braccio di ferro, parlano i renziani. E il segretario stesso potrebbe rilanciare.
Alcuni dem intravedono scenari in cui Letta potrebbe mettersi a capo di un nuovo partito. Fioroni ricorda che quando Prodi fu costretto alla staffetta con D’Alema, i prodiani diedero vita all’Asinello. Ernesto Carbone, renziano della prima ora, a bordo della cui Smart Renzi è andato a Palazzo Chigi all’incontro con il premier, attacca: «Il fatto che Letta ora parli di programma senza scadenze dimostra che il suo unico obiettivo è restare a Palazzo Chigi. Altro che i 18 mesi per fare le riforme: le riforme sono naufragate, a rivitalizzarle ci ha dovuto pensare il Pd». I Democratici sperano che il peggio possa essere scongiurato e un accordo tra i due leader si trovi.

Repubblica 13.2.14
Micaela Campana, deputata democratica: la situazione non è colpa del premier, ma il segretario adesso ha più possibilità
“Enrico e Matteo, i migliori. Purtroppo si odiano”
di Concetto Lo Vecchio


Onorevole Campana, Renzi o Letta?
«Io farò la scelta migliore per ilgoverno, per il Paese, per il partito».
Mi svicola subito.
«Ma io prima voglio sentire quel che dirà il segretario in Direzione».
Poniamo che il segretario dica: Lettava sfiduciato.
«Io sosterrò un governo forte e solido che possa fare le riforme che servono al Paese».
Voi bersaniani passate per i primi tifosi di Renzi.
«Renzi è il nostro segretario, eletto alle primarie con uno straordinario successo. La sua leadership è fortissima, aspettiamo che ci indichi una strada».
Quindi viva Matteo?
«No, le sto solo dicendo che voglio un esecutivo il più compatto possibile. E che
duri, perché le elezioni non servono».
Ecco, vede, siete per Renzi perché così salvate la poltrona per tutta la legislatura.
«Io non avrei paura delle elezioni, ho preso 7mila voti alle primarie, sono stata scelta dagli elettori».
Ma meglio non rischiare, no?
«Non sono utili. Quelli della mia generazione sono alla canna del gas, le famiglie non arrivano alla fine del mese, questa gente ha bisogno di risposte».
Le è piaciuto il discorso di Letta?
«È stato schietto, ha detto il governo è nato in Parlamento e lì si deve decidere la sua sorte».
Come finirà?
«Spero nessuno sovrasti l’altro, che si salvi il partito. Sono due grandi risorse, le migliori che abbiamo».
Ma si odiano!
«Ha ragione».
Se oggi ci sarà un ordine del giorno contro Letta lei lo vota?
«Vediamo, le ricordo che siamo stati noi con Cuperlo a porre per primi pubblicamente il tema del rapporto tra il governo e il partito».
Avrebbe mai pensato di votare con tanto slancio l’odiato Renzi?
«Ho sempre avuto la consapevolezza che i comportamenti vanno commisurati alla realtà contingente, alla situazione politica del momento».
Adesso parla come una dorotea.
(Ride) «Ho solo 35 anni».
Appunto!
«Non dica così, in tutte le mie scelte ci ho sempre messo la faccia».
È colpa di Letta se si è arrivati a questo punto?
«No, questo non lo penso. Ha avuto un compito difficilissimo, una maggioranza non omogenea».
Però Renzi ora sembra in vantaggio, giusto?
«Diciamo che politicamente ha più possibilità».

Repubblica 13.2.14
La ribellione dei militanti sul web “Un suicidio, lottano per la poltrona”
Ironie e rabbia della base. Nicodemo: ma sono voci grilline
di C. L.


Roma - Al termine della giornata più strampalata che si ricordi dentro il Partito democratico (in attesa di quella di oggi), tra faccia a faccia al vetriolo e conferenze stampa velenose, forse le somme le tira su Twitter Pasquale Pugliese col suo «dubbio della sera: ma Antonio Gramsci che 90 anni fa fondava l'Unità, oggi starebbe con #Letta o con #Renzi?» Giusto per dire quanto la base del Partito democratico, lo zoccolo duro che non proviene dalla Dc ma con radici più a sinistra, osservi con una certa costernazione quanto sta accadendo.
Archiviate le primarie 66 giorni fa, l’unico modo per farsi sentire, anzi cantarle, sono i social network. Nessun valore statistico, chiaro. Solo rumori e parecchio di pancia. Ma nelle ultime 24 ore da Facebook a Twitter se ne leggono di tutti i colori, molti gli interventi anche piuttosto critici nei confronti del segretario Renzi, della sua intenzione di entrare a Palazzo Chigi ma passando dall’ingresso posteriore. Va detto che tra grafomani e commentatori anonimi la gran parte certo non solo non milita nel Pd ma, ma quel partito nemmeno lo ha votato. Né lo voterà. Tant’è che vero in serata i post sulla pagina Facebook del partito sono talmente tanti e pungenti che deve intervenire Francesco Nicodemo, responsabile comunicazione (renziano) per prendere le distanze e precisare. «Stupisce che si prendano fake e troll grillini sulla pagina Facebook del Partito democratico per attaccare il Pd. Come se non fossero in moltissimi casi profili fasulli usati strumentalmente». Dunque, «nessuna rivolta, solo attacchi fatti ad arte per inquinare il dibattito, aperto e trasparente, sulle nostre pagine web».
Non solo Fb ma anche Twitter trasuda commenti, è l’argomento del giorno. Nicola Tamburro, arrabbiato: «#Renzi e #Letta si scannano per la poltrona. Inutile dire chi beneficerà di questo balletto in perfetto stile prima repubblica. complimenti». E ancora. «Stimo #Renzi, ma staffetta é colpo alle regole democratiche. Se #Letta non regge si torni al voto » scrive Maurizio Matteucci. E un anonimo che si firma “La torre normanna” rincara: «Come passare da sicuri vincitori a sicuri perdenti in un mese (e non è la prima volta)». L’aria che tira, sul web, tra i simpatizzanti democratici è un po’ questa, alla vigilia della direzione di oggi pomeriggio che qualcuno, come Civati, prefigura già come un western. Di certo si è sparato, e parecchio, anche su Facebook. E il sindaco di Firenze è l’indiscusso protagonista sulla pagina del partito. Alcuni niente affatto teneri con lui: «Un giorno ne dice una e il giorno dopo un’altra! Mi ricorda qualcuno» scrive Gianna Degano. Altri come Chiara Amèlie Meazza ne prendono le difese: «No ma scusate, più che dimostrare di fare anche da fuori, che deve fare? Ancora non ha mai avuto modo di 'fare', non ha mai ricoperto ruoli nazionali. Io attenderei, prima di sparare a zero». E giù altre ironie sul presunto feeling con Berlusconi (sulle riforme) e sulla comparsata ad “Amici”. Stefano Ruggeri la vede nera: «Avanti sorridenti verso l’ennesimo suicidio». Mentre Andrea Gurioli prova a mettere in guardia il sindaco, sta con lui, quasi un appello: «Non cadere nella trappola, x l’amor di Dio. È una trappola. Ti bruci, prendi le colpe di questo governo e non ti faranno fare nulla. Vai al voto, vinci e governa da solo».
Poi ci sono quelli che si lanciano a dipingere scenari abbastanza fantasiosi ma che sul web fanno presa. «Renzi presidente del Consiglio e Letta presidente della Repubblica subito », prevede su Twitter Manuela Ruaben. «Nel governo Renzi, la Boldrini sarà ministro» scrive sicuro invece Nico di Messina. E poi i “simpatici”, che non mancano mai, e alleggeriscono un po’ la tensione anche sui social nei momenti più hard. Come Stefano Vedovato: «#Renzi premier sceglie #Letta ministro degli esteri. Lo spediamo in India e ci riprendiamo i #marò»

La Stampa 13.2.14
I malumori della base democratica
I militanti tra sconcerto e incredulità “Aveva promesso di essere diverso”
di Jacopo Iacoboni

qui

Corriere 13.2.14
Sel tentata, ma si spacca su Alfano
Fava: prima Renzi dovrà dire da chi si fa accompagnare
di D.Mart.


ROMA — «Io al governo con Renzi? Fantascienza», taglia corto Nichi Vendola che cerca di allontanare i fantasmi alimentati ad arte da chi vuole usare Sel in chiave anti-Alfano negli equilibri di un possibile nuovo governo guidato dal sindaco di Firenze. Da 48 ore, il governatore della Puglia e leader di Sel sta cercando a fatica di ridimensionare i «boatos» di marca renziana che parlano di «scissione» e danno «alcuni dei suoi parlamentari» in pista per sostenere il cambio della guardia a Palazzo Chigi: «Se lo schema resta quello del governo Letta non esiste alcuna possibilità per Sel di sostenere Renzi a Palazzo Chigi... Un governo che comprenda i diversamente berlusconiani, è per noi un governo antropologicamente respingente».
Eppure, nonostante le rassicurazioni di Vendola, che si fa vedere in conferenza stampa accanto ad Alexis Tsipras, nella trincea di Sel qualcosa si muove. C’è un’immagine plastica — che gira nei tg della sera — in cui si vede un Renzi sorridente che incontra all’esterno di Montecitorio Gennaro Migliore (il numero due del partito di Vendola) e lo bacia con una familiarità che non corrisponde alle dichiarazioni ufficiali. Migliore, poi, è anche il deputato che ha discusso per settimane i dettagli della legge elettorale con i renziani Maria Elena Boschi e Gianclaudio Bressa.
Il dramma di Sel ha un nome e cognome: Angelino Alfano. Perché, salendo sul treno di Renzi, la prospettiva sarebbe poi quella di dover condividere il viaggio con il ministro dell’Interno del caso Shalabayeva contro il quale proprio Sel presentò una mozione di sfiducia. «Se Sel va al governo con gli ex berlusconiani i nostri militanti arriveranno a Roma con i forconi», dicono ai piani alti di Sel.
Eppure molti parlamentari di Sel sono in mezzo a un vero tormento che, da un lato, apre la strada indicata dal carisma magnetico del leader comunista greco Tsipras e, dall’altro, quella della socialdemocrazia europea del Pse.
A sentire il deputato Claudio Fava — che dagli anni lontani della sceneggiatura dei «Cento Passi» è arrivato a un passo della presidenza dell’Antimafia — questa eventuale occasione offerta da Renzi non va scartata a priori: «Certo, di tutto questo si discuterà all’assemblea nazionale di sabato. È quella la sede in cui il partito prenderà le sue decisioni. Personalmente, ritengo che un’eventuale proposta di Renzi vada valutata solo se rappresenta un vero cambio di passo rispetto al governo Letta. Andrà giudicata, questa proposta, anche sulla base di quello che ci dirà Renzi sulla maggioranza che intende aggregare: ecco, Renzi ci deve dire da chi vuole farsi accompagnare e poi decideremo». Anche di votare la fiducia se ci sarà a breve un nuovo governo Renzi? «Dipenderà da quello che ci viene raccontato».
Al Senato, dove i voti di Sel pesano molto, il pugliese Dario Stefàno (presidente della giunta per le Immunità che ha condotto in porto la difficile partita della decadenza di Berlusconi), ragiona da riformista (e con lui altri tre colleghi) e cita le esperienze di governo targate Sel-Pd in Puglia, nel Lazio, in Friuli e in prospettiva in Sardegna: «Sarebbe un errore non valutare questa proposta tanto più se il progetto di Renzi prevede forti elementi di discontinuità. Perché se si tratta solo di un cambio di leadership vorrà dire che Renzi ama solo gli esercizi di potere».

il Fatto 13.2.14
Lista Tspiras
L’impossibile? Si può fare
di Paolo Flores d’Arcais


È perfettamente esatto, e confermato da tutta l’esperienza storica, che il possibile non verrebbe raggiunto se nel mondo non si ritentasse sempre l’impossibile”. Non è un sognatore a parlare così, ma un classico del più esigente realismo politico, Max Weber.
La lista della società civile alle prossime elezioni europee, il cui nome verrà deciso con una consultazione on line sul sitowww.listatsipras.eu  durante questo weekend, corrisponde alla lettera ai canoni di questo realismo.
Sembrava un’impresa impossibile, la solita velleità di qualche intellettuale che gioca all’engagement (così ghignavano i soloni dell’establishment). Eppure, in pochi giorni, 24 mila cittadini hanno aderito, non con una firma tanto per mettersi a posto la coscienza, ma offrendo disponibilità a essere protagonisti attivi nel lavoro organizzativo e comunicativo per realizzare questa lista. E in forme artigianali, dunque talvolta a tentoni e con inevitabili errori, si stanno organizzando fin nelle più piccole città. D’altro canto, le adesioni più note (da fratel Arturo Paoli, 102 anni, medaglia d’oro per la sua azione durante la Resistenza, figura imprescindibile del cristianesimo contemporaneo, a Gustavo Zagrebelsky, presidente emerito della Corte costituzionale, a Furio Colombo, Curzio Maltese, Adriano Prosperi, Lorenza Carlassare, Corrado Stajano, Moni Ovadia, Carlo Freccero. Andrea Scanzi, Luciano Canfora, Roberta De Monticelli, Ermanno Rea, Nadia Urbinati, Massimo Carlotto...) testimoniano di quanto sia ampio lo spettro dell’opinione pubblica che vive come una amputazione claustrofobica di democrazia la prospettiva che riduce la libertà di voto all’alternativa “o Renzi o Grillo”. L’appello “l’Europa al bivio”, lanciato da Andrea Camilleri, Luciano Gallino, Marco Revelli, Barbara Spinelli, Guido Viale (e chi scrive), dopo la giornata italiana di Alexis Tsipras (il leader greco in testa ai sondaggi nel suo paese, e che sarà il candidato alla presidenza europea di questa lista) sta dunque diventando realtà. L’“impossibile” – una lista autonoma della società civile che sfondi lo sbarramento del 4% – si sta rivelando un possibile in via di raggiungimento. Un acuto giornalista come Riccardo Barenghi, inizialmente assai scettico, lo ha riconosciuto su La Stampa in una cronaca esemplare per onestà. E l’ammissione che la “linea Tsipras” è l’unica ragionevole perché l’Europa (quella dei cittadini) non tracolli sotto le cure micidiali della cancelliera Merkel e della finanza d’azzardo, ogni giorno che passa fa nuovi proseliti e tra breve diventerà senso comune.
Non solo fra gli economisti riformisti, ormai perfino dentro il Pd. Lo riconosce Civati nel suo blog, lo riconosce Fassina in un lungo articolo su il manifesto. Peccato che entrambi, con impavido sprezzo della logica aristotelica, restando nel confortevole calduccio del Pd, continuino a portare vasi alla Samo della “Grosse Koalition” europea che Merkel e Schulz (candidato del Pd) hanno già messo nella bisaccia. Ma il coraggio..., come diceva un personaggio del Manzoni, con quel che segue.
Cambiare l’Europa si può. Cambiamo l’Europa, con Tsipras, è quindi il realistico messaggio, affidato a ciascun cittadino. Perché la concreta possibilità non si vanifichi, guardiamo però il bicchiere mezzo vuoto. Le difficoltà. Gli ostacoli. Le insidie.
150 mila firme, di cui almeno 30 mila in ciascuna circoscrizione (compresa quella che riguarda solo Sicilia e Sardegna) e almeno 3 mila in ciascuna regione (compreso il Molise e la piccolissima Valle d’Aosta), certificate da notai o pubblici ufficiali comunali: sono una enormità. Esprimono la ferrea volontà dei partiti già rappresentati in Parlamento di difendere gelosamente il loro monopolio, sbarrando la porta alla società civile e alle sue liste.
Una enormità. Che però si può raggiungere. Se una parte rilevante dell’associazionismo democratico, impegnato in questi venti anni in una miriade di lotte locali e nazionali, spesso vittoriose e poi “tradite” per mancanza di rappresentanza (l’acqua pubblica, ad esempio) si mobiliterà pienamente. Se i ventiquattromila cittadini che hanno firmato non aspetteranno che “dall’alto” (siamo quattro gatti!) arrivino risorse organizzative, ma inventeranno tutti i modi per auto-organizzarsi, utilizzando il sito www.listatsi pras.eu  per coordinarsi e moltiplicare le energie. Se i piccoli partiti che vogliono davvero combattere, in Europa come in Italia, il regime asfittico delle larghe intese sosterranno questa iniziativa senza pregiudiziali. Se il mondo della cultura e della scienza vedrà un ampliarsi ulteriore delle adesioni, e se quello del cinema, della musica, dello spettacolo, vedrà fiorire uno slancio di passione civile e di impegno lucido e generoso, tanto più essenziale quando il monopolio mediatico d’establishment cerca di annegare una iniziativa scomoda nel silenzio. Mentre la politica “politicosa” dei palazzi continua nelle sue beghe di potere, questi “se” possono trasformarsi in altrettanti “sì”, dimostrando che c’è un mare di cittadini pronto a riprendersi la politica anziché rassegnarsi.


l’Unità 13.2.14
Palazzo Madama
Finanziamento ai partiti: passa in Senato tra le proteste dei grillini

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il Fatto 13.2.14
Finanziamento ai partiti, decreto già in bilico


TETTO DI 100 MILA euro per le donazioni di privati, pagamento dell’Imu sulle sedi di partito e cassintegrazione per i dipendenti che perderanno il posto. Sono queste le principali novità del decreto legge sul finanziamento ai partiti approvato dal Senato e che ora torna alla Camera in seconda lettura, dove rischia di essere nuovamente modificato. A quel punto dovrebbe tornare a Palazzo Madama, ma si tratterebbe di una corsa contro il tempo in quanto il decreto del governo scadrà il 26 febbraio. Soddisfatta la maggioranza, mentre il M5S protesta in aula, dopo l’approvazione, con una serie di cartelli definendo il provvedimento una “legga truffa”. Il testo è stato approvato da una larga maggioranza, 171 voti a favore e 55 contrari. Alcune novità: le sedi dei partiti pagheranno l’Imu e saranno aboliti i contributi per le “scuole di partito” che avrebbero ricevuto fondi per la formazione. In extremis, però, i dipendenti dei partiti ottengono (con un emendamento a firma Pd) l’estensione per la cassa integrazione: la spesa per lo Stato è di 15 milioni di euro per il 2014, 8,5 milioni per il 2015 e 11,25 milioni l'anno a decorrere dal 2016.

il Fatto 13.2.14
Intervista con Romano Prodi
“D’Alema mente. È una gabbia di matti e la chiave s’è persa”
Prodi replica all’ex Ds: “La vicenda della caduta del mio governo non è certo quella che racconta lui”
di Emiliano Liuzzi


Al professor Romano Prodi, come sempre, bastano poche parole. “Le cose non andarono così e non capisco neppure perché lo abbia fatto”. Si riferisce alla lunghissima lettera al Corriere della Sera nella quale Massimo D’Alema ricostruisce gli ultimi giorni del primo governo Prodi, quando l’allora segretario dei Democratici di sinistra prese il posto a palazzo Chigi dell’unico esponente del centrosinistra che sia mai riuscito a sconfiggere Silvio Berlusconi.
Il governo guidato dal professore - ministro della Difesa Nino Andreatta, alla Giustizia Giovanni Maria Flick, al Tesoro Carlo Azeglio Ciampi, non un governicchio, per intenderci - restò in carica per due anni, cinque mesi e quattro giorni, ma venne affossato da quello che sostanzialmente le cronache di allora ci raccontarono come un complotto dello stesso D’Alema, appoggiato nel suo disegno da Franco Marini. E D’Alema, ieri, forse richiamato in causa da molti che vedono quello tra Letta e Renzi come un remake di quelle trame, o forse spinto da altri giochi, ridisegna la storia di quei giorni. Ma lo fa spostando troppe pedine e persone. In sostanza dice che gli errori furono tutti di Prodi, che avrebbe voluto il voto, mentre il presidente della Repubblica di allora, Oscar Luigi Scalfaro, non voleva e non aveva la minima intenzione di sciogliere le Camere. E così la scelta, dopo aver sondato Ciampi, ricadde su lui, Massimo D’Alema. Non solo: secondo l’ex premier diessino, fu determinante l’azione esclusiva di Francesco Cossiga che bocciò Prodi e affossò la possibilità di un governo Ciampi.
Prodi, raggiunto al telefono dal Fatto Quotidiano, non solo dice che così le cose non andarono, ma spiega di far “molta fatica a capire perché sia stata scritta quella lettera”. E, aggiunge, disarmante, ma tutt’altro che disarmato: “Ormai siamo in una gabbia di matti e qualcuno ha buttato via la chiave. Ma non voglio andare oltre. Quei giorni del 1998 hanno una loro storia, ci sono dei fatti. E quelli restano”.
Cosa accadde, retroscena a parte, è noto. E che un complotto di D’Alema ai danni di Prodi ci fu, lo sappiamo anche grazie a una intervista che Franco Marini rilasciò nel maggio 2001 al Corriere della Sera. Sia Marini, sia D’Alema in quei giorni avevano l’interesse di affossare Prodi. C’era un patto tra i due per far saltare Prodi e con lui lo spirito ulivista della coalizione. Obiettivo dell’accordo, ricordava nel 2001 Marini, era esaltare piuttosto il potere dei due partiti, Ds e Ppi. Al primo, con D’Alema a Palazzo Chigi, sarebbe spettata la presidenza del Consiglio. Al secondo sarebbe spettato nel 1999 il Quirinale. Poi il patto saltò quando al Quirinale andò Ciampi e Marini non la prese bene, ma questa è un’altra storia. Quel 9 ottobre 1998 Prodi rimase stritolato e con lui il futuro del centrosinistra.
In quell’autunno del 1998 a Marini spettò il compito di lavorare ai fianchi gli umori di Cossiga, decisivo in quell’equilibrio fragile (il governo Prodi non ottenne la fiducia per un voto) e D’Alema invece dovette ingraziarsi il Vaticano. Perché in quel momento un post comunista alla presidenza del Consiglio non era assolutamente gradito nella Chiesa. Ma c’è un passaggio chiave in tutto questo: il leader degli allora Ds, proprio in quei giorni, da presidente del Consiglio quasi incaricato, riesce a farsi ricevere pochi minuti da papa Giovanni Paolo II. Clemente Mastella definirà il colloquio “amorevole”.
Sembra storia vecchia, archeologia, ma in realtà, da quel momento in poi, D’Alema aprirà la breccia per quelle che sono le larghe intese che - pur essendosi materializzate solo anni dopo - già erano nell’aria da tempo. L’epilogo lo conosciamo. D’Alema a Palazzo Chigi durò abbastanza poco. Il primo a voltargli le spalle fu proprio quel Marini che oggi il nostro ha dimenticato nella lettera al Corriere della Sera. Così come vengono dimenticati un’altra serie di particolari.
A chi voglia rivolgersi D’Alema non lo sappiamo. Forse invita Renzi a darsi una calmata. Prodi non ne ha proprio idea. Più maliziosi, invece, sono i pensieri dei prodiani che non vedono altra lettura possibile: “Si tratta del seguito della guerra dei 101, secondo noi molti di più, e della mancata elezione di Prodi al Quirinale. Solo a questo gioca D’Alema”.


l’Unità 13.2.14
La detenzione nei Cie è inutile e dannosa
di Luigi Manconi e altri


Per l’associazione Medici per i Diritti Umani (Medu) appena il 45,7% delle persone trattenute nei Centri di identificazione e di espulsione viene rimpatriata. Una percentuale che conferma lo scarso apporto che tali luoghi rappresentano nella cosiddetta «lotta all'immigrazione irregolare». Un rimpatrio che altro dato eloquente - rappresenta lo 0,9% del totale degli immigrati senza titolo di soggiorno presenti sul territorio italiano. Una conferma (e un paradosso) di quanto i Centri di Identificazione e di Espulsione risultino inutili rispetto agli stessi propositi dell' espulsione e dell’identificazione. Anche perché, nella maggior parte dei casi, l'espulsione a opera delle forze dell'ordine, non avviene perché non preceduta dall'identificazione della persona trattenuta. Un problema che nasce dai rapporti con le autorità consolari dei paesi di provenienza che, spesso, non collaborano con quelle italiane per accertare l'identità di chi si trova nel centro.
L'effetto disastroso ed evidente di tale situazione si riflette sull'intera società. Riguarda gli ingenti costi di gestione, l impiego di risorse umane, l’organizzazione delle strutture di sicurezza. Per non parlare del danno culturale prodotto dall’assimilazione della figura del migrante a quella di un potenziale criminale.
Il tutto per un periodo di trattenimento che si fa sempre più lungo, arrivando anche ai 18 mesi.
Per questo i numeri riportati da Medu confermano, dunque, da un lato l inefficacia e l irrilevanza dello strumento della detenzione amministrativa, dall altro l inutilità e l irragionevolezza dell estensione del trattenimento dai 6 a 18 mesi (dal giugno del 2011) ai fini di un miglioramento nell’efficacia delle espulsioni. Del resto, l abnorme prolungamento dei tempi massimi di detenzione amministrativa sembra aver contribuito unicamente ad esacerbare gli elementi di violenza e disumanizzazione di queste strutture. Tale evidenza è stata sistematicamente riscontrata dai team di MEDU durante le 18 visite effettuate in tutti i centri nel corso degli ultimi due anni. Sebbene i dati del 2013 della Polizia di Stato segnalino un tempo medio di permanenza all’interno dei CIE di 38 giorni, tale dato deve essere scorporato, per un adeguata analisi, dal momento che rappresenta una media di tutte le persone transitate nei centri, includendo categorie di migranti trattenuti anche per periodi brevissimi, come ad esempio i migranti il cui fermo non è stato convalidato dall’autorità giudiziaria. Il rapporto di Medu non si limita solo alle statistiche: si avanzano alcune concrete proposte per migliorare il sistema di gestione dei migranti irregolari: la richiesta di chiusura degli otto Cie temporaneamente non operativi, ma anche di quelli ancora formalmente aperti, eppure considerati strutturalmente inadeguati; la riduzione a misura eccezionale, o comunque del tutto residuale, del trattenimento dello straniero ai fini del rimpatrio; per giungere, più in generale, all’adozione di misure di gestione dell’immigrazione irregolare, caratterizzate dal rispetto dei diritti umani.

La Stampa 13.2.14
Cagliari, immigrati in fuga dal Cie
Chiuso l’aeroporto, due voli dirottati
Lo scalo Elmas è rimasto interdetto ai passeggeri per ragioni di sicurezza
per oltre un’ora. Disagi ai passeggeri. Individuati due dei nove fuggiaschi

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l’Unità 13.2.14
Fini-Giovanardi bocciata Benefici per 10mila
Per la Consulta illegittima la legge del 2006. Torna la distinzione tra droghe leggere e pesanti
Per migliaia di detenuti si aprirebbe il carcere
Ora legalizzare la cannabis
di Luigi Cancrini


Sono passati otto anni dall’approvazione della legge 49 del 2006 (la cosiddetta Fini Giovanardi) che con un colpo di mano di evidente illegittimità costituzionale portò indietro le lancette dell’orologio.
Cancellando, di fatto, l’esito del referendum del 1993 che aveva sancito la depenalizzazione della detenzione di stupefacenti per uso personale. Introducendo la tabella unica delle sostanze e quindi la parificazione delle pene per tutte le droghe, leggere e pesanti. Sanzionando pesantemente (da sei a venti anni di carcere) la detenzione (non lo spaccio) di tutte le sostanze stupefacenti in quantità superiore ad una soglia al di sopra della quale sarebbe valsa la presunzione di spaccio e incriminando così i consumatori per il semplice possesso anche di una quantità minima in eccedenza rispetto a quanto fissato da un decreto del Ministero della Sanità. Aggravando e burocratizzando pesantemente, infine, le sanzioni amministrative per l’uso personale fino al determinarsi di una commistione ricattatoria tra cura e pena.
Il clima in cui questa legge fu approvata va ricordato. Il governo Berlusconi e la sua maggioranza parlamentare avevano perso il consenso del paese e le elezioni ormai vicine (maggio del ’96) erano quelle che sarebbero state vinte dall’Unione di Prodi. Porcellum e Fini-Giovanardi, due leggi ambedue oggi cancellate dalla Corte Costituzionale, furono allora scelte portate avanti a colpi di maggioranza senza che di questi problemi si potesse discutere nel Parlamento o nel Paese per motivi dettati dalla disperazione di chi stava per perdere e voleva creare problemi alla nuova maggioranza (il Porcellum) o tentare una manovra propagandistica utile a catturare, sulla pelle di tanti ragazzi normali e di tanti tossicodipendenti, il voto dei «benpensanti « (la legge sulla droga): utilizzando una maggioranza parlamentare che fra poco non ci sarebbe stata più. Senza seguire l’iter normale di una legge, la Fini – Giovanardi, in particolare, fu proposta (ed è questa oggi la ragione del suo annullamento) in forma di emendamento aggiuntivo di una legge che riguardava le Olimpiadi di Torino. Con che risultati? Drammatici. Come ben documentato dal 4° Libro Bianco sulla legge Fini- Giovanardi presentato dalla Società della ragione e dal Forum Droghe nel 2013. È sulla base di quel famigerato articolo 73 della legge sulle Olimpiadi, infatti, che sono entrati in carcere, dal 2006 al 2012 percentuali sempre superiori al 30% (nel 2012 il 34,47%) di tutti i nuovi detenuti ed è per colpa dello stesso articolo 73 che risultavano detenuti in carcere, al 31 dicembre del 2012, il 38,46% di tutti i detenuti. Nuovi e vecchi. Trafficanti? No. L’articolo di legge che punisce il traffico «vero» è un altro e ha portato in carcere una percentuale almeno 4 volte inferiore di soggetti che, spesso, non sono tossicodipendenti.
I ministri della Giustizia e i partiti politici non hanno riflettuto abbastanza in questi anni su questi dati. Si sarebbero resi conto, se lo avessero fatto, del fatto per cui una percentuale importante (fra 1/3 ed 1/4) della popolazione carceraria è costituita da persone che andrebbero curate e non recluse. Ma si sarebbero resi conto, soprattutto, del fatto per cui la stragrande maggioranza di queste persone è stata incarcerato non perché spacciava ma perché deteneva quantitativi di droghe, spesso leggere, di poco superiori a quelle previste dalle tabelle ministeriali: di persone, cioè, che detenevano le sostanze per uso personale e la cui attività di spaccio era presunta sulla base dell’idea folle ma radicata nella mente fantasiosa di Fini, di Giovanardi e dei loro obbedienti colleghi per cui il tossicodipendente che ha bisogno o desiderio della sua droga ma che per poterla usare deve comunque comprarla e dunque detenerla viene considerato per legge, per principio, come una persona che la detiene per venderla o darla ad altri: cosa che il tossicodipendente vero, in realtà, non farebbe mai o quasi mai.
Che fare adesso? Quello che vorrei dire con forza al governo che verrà è che partendo da questa sentenza è possibile e necessario oggi andare oltre la legge Iervolino-Vassalli modificata dal referendum del ’93 che annullava l’articolo (voluto, allora, soprattutto da Craxi) che trasformava in un reato il semplice atto di drogarsi. C’è in atto nel mondo, oggi, infatti, dopo il documento dei saggi nominati dall’Onu nel 2010 sulla necessità di cambiare regime a proposito delle droghe leggere, una rivoluzione sempre più ampia e convinta degli atteggiamenti da tenere nei confronti dello spinello che è stato legalizzato, come sostanza da assumere per ragioni mediche e per ragioni di puro e semplice piacere o divertimento, in un numero crescente di paesi e in quasi tutti gli Stati Uniti d’America. Usati in modo moderato e ragionevole gli spinelli sono molto meno pericolosi per la salute degli esseri umani dell’alcool e delle sigarette. Commercializzarli legalmente significa da una parte difendere la salute dei consumatori controllando la quantità di principio attivo che contengono e dall’altra togliere all’economia criminale una delle sue fonti di reddito fra le più importanti.
Ci riusciremo anche in Italia? Dimenticheremo finalmente anche da noi le farneticazioni dei Giovanardi, dei Muccioli e dei Serpelloni? Riusciremo sul serio e finalmente ad evitare l’alleanza perversa che da decenni si è stabilità nei fatti fra l’avidità dei trafficanti di droga e la crudeltà dei politicanti travestiti da tutori di una ipocrita morale degli altri?

Repubblica 13.2.14
Quelle leggi ideologiche
di Gianluigi Pellegrino


A una a una ci liberiamo delle scorie velenose di un ventennio devastante.
Della sua legislazione abusiva. Porcellum, norme ad personam, a servizio del padrone, di uno slogan, di una dottrina o un’ossessione. In danno del paese e dei suoi cittadini.
Abusare di vino o di vodka, di sigarette o spinelli è una violenza contro se stessi, un cupio dissolvi che nessuno si sognerebbe di incentivare e reclamizzare. Ma, come sanno anche le pietre, criminalizzare le droghe leggere realizza il capolavoro di conseguire insieme più risultati.
Crescita esponenziale del mercato illegale e delle mafie, ingolfamento di tribunali e carceri, consegna al circuito criminale di masse di giovani, un aumento dell’uso di stupefacenti solleticato dal fascino caldo e perverso della clandestinità. Se qualifichiamo “complici” chi vende morte spacciando eroina e chi fuma una canna in compagnia, il crimine non si combatte ma si genera. Il cerchio si chiude (ma forse si spiega) con la conseguente periodica pretesa di amnistia per i delinquenti veri, colletti bianchi, corrotti e corruttori, concussi e concussori.
Ancora una volta è dovuta intervenire la Corte costituzionale a porre rimedio. E a ricordarci quanto purtroppo la politica di questi anni sia stata incapace e dannosa proprio nella sua più alta proiezione istituzionale che è la funzione legislativa. Così come ha dovuto cassare l’inaccettabile Porcellum che altrimenti sarebbe rimasto lì per sempre, la Consulta oggi, semplicemente applicando la Costituzione, e spazzando via una norma assurda, garantisce la più razionale, equilibrata ed efficace misura svuota carceri mentre anche qui in Parlamento si balbetta.
Niente però avviene per caso. Abbiamo assistito ad una progressiva rottura del principio di rappresentanza culminata con la “legge porcata” che non a caso, in quella legislatura che moriva, veniva varata negli stessi giorni della Giovanardi, approvata per servire l’ossessione ideologica dell’allora fedelissimo del Cavaliere.
Parlamentari ormai sotto ricatto del potere di nomina ebbero così l’impudenza di inserire la criminalizzazione delle droghe leggere in un decreto sulle Olimpiadi invernali. Ora l’ex ministro grida che la Consulta farebbe politica. Ma, così come allora, Giovanardi non sa di che parla. La Corte ha fatto semplicemente applicazione di un suo ribadito insegnamento (decisioni 22 del 2012, 32 e 237 del 2013), fondato su un principio basilare del nostro ordinamento, ricordato anche in numerosi messaggi di Ciampi e di Napolitano. Utilizzare la conversione di decreti per inserire norme “intruse” è il tradimento sostanziale della funzione del parlamento, perché genera una legislazione di “soppiatto”, sfuggendo non solo al principio di rappresentanza ma anche a quello di responsabilità.
Il che tra l’altro ci ricorda quanto giusta fosse nel merito costituzionale la recente critica per la misura su Bankitalia appiccicata al decreto Imu, ma pure quanto miope sia stato trasformarla in violenta gazzarra.
Se poi la legislazione di soppiatto è puramente ideologica come la legge Giovanardi, la torsione va al di là del singolo provvedimento perché vuol transitarci bendati sulle spire dello Stato etico, che impone con legge costumi e dottrina. Come del resto si tentò di fare sul “fine vita” con goffa esibizione di servilismo verso presunte aspettative curiali speculando sulle spoglie martoriate della povera Englaro. «Assassini! » gridò un Quagliariello invasato. Anche quest’abisso abbiamo conosciuto. Ma non sarà mai una nuova stagione se non tornerà con una decente legge elettorale, un consapevole principio di rappresentanza e la decisione responsabile della politica.

l’Unità 13.2.14
“Ragazzi normali”
Violentano la compagna Fermati quattro alunni
di Adriana Comaschi


Quattro studenti, tutti tra i 15 e i 16 anni, affidati ad altrettante comunità per minori su decisione del giudice, allontanati da casa e soprattutto da scuola dove - questa è l’accusa, pesantissima - si sarebbero resi colpevoli di una violenza sessuale di gruppo ai danni di una compagna di classe. Consumata nei bagni dell’istituto, tra una lezione e l’altra. L’ultima, drammatica storia di violenza su una minorenne arriva dalle aule dell’istituto alberghiero Migliorini di Finale Ligure, in provincia di Savona. Un istituto apprezzato, ora scosso da quanto denunciato da una sua studentessa o meglio ex studentessa: la ragazzina ha abbandonato la scuola, fa sapere il legale che la segue, denunciando anche che avrebbe ricevuto molti sms minacciosi e pieni di insulti da altri ex compagni. Parla poi di molestie precedenti, non denunciate per pudore. I fatti contestati dal giudice risalgono al 31 gennaio scorso, la magistratura si è mossa dunque in fretta, la misura cautelare disposta dal Gip Giuliana Tondina della Procura dei Minori di Genova è stata eseguita lunedì. E solo allora forse i ragazzi coinvolti si sono resi conto di quanto veniva loro contestato.
Ragazzi “normali”
Ragazzi ancora una volta di famiglie “normali”, senza insomma criticità o disagi particolari, e non è la prima volta che episodi di cronaca nerissima coinvolgono studenti “qualunque”, quelli di cui tutti direbbero - e magari dicono - che no, non è possibile, «non farebbero mai una cosa del genere». In questo caso secondo l’accusa a fine gennaio, in un giorno come un altro, avrebbero costretto una coetanea, compagna, che dunque ben conoscevano, a subire diversi atti sessuali. Figure familiari che in un attimo varcano un confine da cui non c’è ritorno, e si trasformano in aguzzini, più o meno consapevoli di commettere un reato.
Uno di loro avrebbe preso sottobraccio la ragazzina, e portata verso gli spogliatoi della palestra, nei bagni. Gli altri tre li avrebbero seguito assistendo alla violenza, a cui avrebbe messo fine l’arrivo dell’insegnante che in quel momento aveva la responsabilità della classe e che passando di lì ha sentito rumori strani, sospetti. La ragazzina non ha aspettato per confidarsi con i genitori, e subito la famiglia ha presentato denuncia ai carabinieri di Finale Ligure. I militari allora hanno ascoltato come testimone anche l’insegnante e compiuto un sopralluogo a scuola. Quindi hanno girato il rapporto ai giudici minorili competenti, che hanno disposto l’audizione della quindicenne con l’ausilio di uno psicologo.
Valutati questi elementi, il gip ha deciso di fermare i quattro studenti coinvolti. Niente carcere per loro, in considerazione del fatto che sono incensurati. Il giudice insomma non ha scelto la strada più pesante, ma ha comunque agito, e in fretta, con misure cautelari, il quadro indiziario a carico dei giovanissimi sembra dunque essere considerato solido. I carabinieri che con il capitano Michele Morelli del comando di Albernga seguono le indagini sul caso si sono mossi con discrezione. I quattro studenti sono stati chiamati in caserma con le loro famiglie, che si sono trovate faccia a faccia con la gravità delle accuse e dei possibili provvedimenti, l’imputazione di violenza sessuale di gruppo è punibile con diversi anni di reclusione.
L’allontanamento
Lunedì poi i quattro studenti sono stati prelevati nelle loro abitazioni e accompagnati in diverse comunità, a Genova e La Spezia, fino a Massa Carrara e Alessandria. Nei prossimi giorni saranno ascoltati dal Gip, anche loro con il supporto di uno psicologo oltre che con l’assistenza di un legale, non si esclude che vengano chiamati altri testimoni. Intanto i quattro sono stati sospesi da scuola, un allontanamento temporaneo mentre si aspettano i prossimi passi della magistratura. Il preside, Luca Barberis, ha smentito di aver sminuito in alcun modo la vicenda, la collaborazione con gli inquirenti è stata piena. Le lezioni continuano, il collegio docenti si è riunito in questi giorni, ma quanto successo non può che interrogare tutti.


Repubblica 13.2.14
Melita Cavallo, presidente del Tribunale dei Minori di Roma
“In gruppo perdono il senso del limite così giustificano le loro violenze”
intervista di Maria Elena Vincenzi


Roma - «Il problema è che oggi i giovani non hanno limite, non sono in grado di fermarsi e basta nulla per arrivare alla violenza. È sufficiente pensare agli episodi di bullismo: non ci si ferma più, anzi spesso c’è chi rinforza, chi aizza, chi rincara la dose». Melita Cavallo, è presidente del Tribunale dei Minori di Roma, e da anni si occupa dei giovanissimi.
Presidente, spesso accade che anche quando vengono arrestati, gli adolescenti non capiscano che hanno fatto qualcosa di grave.
«Non credo che non sappiano cosa sia un reato, lo sanno eccome. Il problema è che quando sono insieme non si rendono conto, non capiscono che avere avuto un ruolo, anche se marginale, è comunque avere partecipato. Sa quante volte nella mia carriera mi è capitato di sentirmi dire: “Ma io ho fatto solo quello”? Come se fosse una parte e non il tutto. E per questo non si sentono colpevoli».
E spesso poi accade che le famiglie o la comunità in cui vivono li giustifichino.
«Il processo penale per i minori è studiato per questo. Per metterli di fronte alle proprie responsabilità, alle conseguenze di ciò che il reato ha prodotto sulla vittima. È tagliato sulla personalità del ragazzo per ottenerne il cambiamento ».
Magari non bisognerebbe arrivare in un’aula di tribunale per capirlo.
«Certo. Ma purtroppo è saltato il rispetto dell’altro. È saltato negli adulti, figuriamoci nei minori che sono fragili, oggi più che mai. E le famiglie in questo hanno una grandissima responsabilità perché poco regolative. Voglio però aggiungere che ci sono comunque tanti minori che hanno le idee ben chiare e si comportano bene».
Quanta e quale pensa che sia la responsabilità del mondo esterno oltre che dei genitori?
«Tanta. È la società che è così. Poi c’è la televisione e, soprattutto, ci sono internet, facebook».
Sembra che i ragazzi ormai vivano in un’altra dimensione, scollegati dalla realtà.
«Questi mezzi sono utilissimi perché permettono di mantenere il contatto con il mondo esterno. Ma anche in questo serve un limite. Quando li ascolto mi rendo conto che spesso, anche nelle famiglie semplici, i ragazzi hanno il computer in camera e ne fanno l’uso che vogliono. Sono su internet giorno e notte. E questo non va bene. Torniamo sempre allo stesso discorso: ci vorrebbe un limite che spesso non c’è».

Corriere 13.2.14
Pedofilia, papa Francesco più severo della giustizia italiana
di M. Antonietta Calabrò


ROMA — «Ridotto allo stato laicale», cioè «spretato». Non più prete, senza possibilità di celebrare la Messa, o amministrare i sacramenti, e tanto meno essere parroco, a contatto con i fedeli ed i ragazzi. «Spretato» con sentenza canonica definitiva dell’ex Sant’Uffizio, che è arrivata prima ancora della sentenza definitiva di condanna penale italiana, per pedofilia. E’ l’ultimo caso che è accaduto nel nostro Paese, il 13 dicembre dell’anno scorso, a Marco Mangiacasale, un ormai ex prete della diocesi di Como già condannato nei primi due gradi del processo penale a 3 anni, 5 mesi e 20 giorni di carcere per abusi sessuali su 4 ragazze minorenni. L’ex parroco e poi economo della parrocchia di San Giuliano, con una sentenza firmata dal Papa argentino e dal Prefetto per la Congregazione della Dottrina della Fede, monsignor Gerhard Ludwig Mueller, non è più sacerdote.
Il provvedimento, giunto dopo l’indagine (Investigatio praevia ) del delegato all’inchiesta, il reverendo Andrea Stabellini come vicario giudiziale, equivale per un prete al massimo della pena applicabile secondo il diritto canonico. E’ l’ultimo clamoroso esempio di come il Vaticano stia incrementando l’opera pulizia per estirpare la piaga degli abusi sessuali su minori, con Papa Francesco. Del resto, a meno di un mese dall’elezione, il 5 aprile 2013, ricevendo in udienza per la prima volta Muller (che diventerà cardinale al prossimo Concistoro del 22 febbraio 2014), il Pontefice era stato chiaro: tolleranza zero contro la pedofilia nel clero e protezione dei minori e continuità assoluta con l’azione del suo predecessore Benedetto XVI. Tra il 2011 e il 2012 Benedetto XVI, al termine di processi canonici per pedofilia, ha ridotto allo stato laicale ben 400 preti e molti vescovi non lo sono più (soprattutto in Australia, Irlanda e Stati Uniti) per non essere intervenuti in modo efficace contro un fenomeno così odioso. Nonostante questo il Comitato Onu per i diritti dei bambini di Ginevra, la scorsa settimana ha pubblicato un durissimo rapporto contro la Santa Sede. Il 31 gennaio 2014 Papa Francesco ha elevato un nuovo monito. Sempre rivolto all’assemblea plenaria della Congregazione per la dottrina della Fede ha detto: «Pensate al bene dei bambini e dei giovani che nella comunità cristiana devono essere sempre protetti e sostenuti nella loro crescita umana e spirituale». E ai membri dell’ex Sant’Uffizio, il Pontefice ha prospettato il prossimo collegamento del loro Dicastero con la specifica Commissione per la protezione dei fanciulli che, ha affermato Bergoglio, «vorrei che sia esemplare per tutti coloro che intendono promuovere il bene dei bambini». Si tratta della Commissione istituita dal Papa ( e la cui composizione, struttura e poteri sarà resa nota nelle prossime settimane) che è è stata annunciata il 5 dicembre 2013 dal cardinale di Boston Sean Patrick O’Malley, membro del gruppo degli otto porporati (il cosiddetto G8) e campione della lotta contro gli abusi nella sua diocesi.
Ieri, intanto, la Corte d’appello di Palermo ha condannato padre Aldo Nuvola a un anno di reclusione per atti sessuali a pagamento con un minore. Nuvola era già stato arrestato alcuni mesi fa e sospeso a divinis (senza poter esercitare il proprio ministero) per un’altra accusa di induzione alla prostituzione minorile. Anche per lui è aperta la procedura per la riduzione allo stato laicale.

Corriere 13.2.14
Il teatro Valle non sarà fondazione
Il prefetto boccia la richiesta degli occupanti. Il Comune: non cambia nulla
di Laura Martellini


ROMA — Avevano sperato in una via d’uscita, gli occupanti e i giuristi da Stefano Rodotà a Ugo Mattei, corsi in appoggio di una «Fondazione Bene Comune» che restituisse lo status di teatranti agli abusivi del Teatro Valle. Uno dei più antichi palcoscenici della Capitale, gioiello settecentesco ricco di storia e di cimeli, occupato il 14 giugno 2011 da giovani attori e artisti al grido «Difendiamo la cultura», quando il Comune stava per allestirvi una prima stagione che colmasse il vuoto lasciato dall’Eti.
Ieri la Prefettura di Roma ha messo un freno alla «lucida follia», come viene definita nel sito, dicendo no ad un riconoscimento giuridico alla Fondazione Teatro Valle per «carenza dei presupposti richiesti dalla legge». A Palazzo Valentini si sono fatti alcune domande che in un procedimento amministrativo non possono restare senza risposta. Figurarsi se si tratta di un palcoscenico da centinaia di spettatori a sera: chi sono i referenti, chi l’interlocutore? Quale la sede legale? Si può non tener conto del fatto che a carico di alcuni occupanti è aperta un’inchiesta giudiziaria? Si può ignorare che manca la certificazione sulla sicurezza? Che il vento non fosse favorevole per quelli del Valle s’era capito nei giorni scorsi, quando la Digos era andata a bussare alle porte della sala. Gli agenti non erano riusciti ad entrare, ma avevano fatto arrivare le loro ragioni a chi stava in ascolto dietro la vetrata: cinque indagati per occupazione abusiva di uno spazio pubblico, nessuna attestazione d’agibilità, assenza totale di quei permessi che a garanzia degli spettatori gravano su qualsiasi teatro, pubblico e privato.
«Se non fossimo in Italia si sarebbe già arrivati da un pezzo all’unica soluzione possibile: lo sgombero» hanno puntato il dito specialmente in questi ultimi mesi Agis, Siae, e altre associazioni dello spettacolo. E certo il passaggio di ieri fa scricchiolare molto la costruzione di un teatro nelle intenzioni di chi se l’è accaparrato libero da condizionamenti politici e in mano ai cittadini. Anche fossero gonfiate le cifre altissime pubblicizzate sul sito del Valle, 5.000 adesioni per la Fondazione e più di 150.000 euro raggiunti per dare corso ai principi egualitari raccolti nello Statuto, resta l’adesione nel tempo alla «causa» di nomi come Elio Germano, Fausto Paravidino, Emma Dante, Peter Brook, Fabrizio Gifuni e tanti altri. Giorni fa c’era Valeria Golino. Fra poco ospite il regista Otar Iosseliani. Il fuoco iniziale s’è affievolito, insomma, ma non spento, anche se ieri nessuno è intervenuto in difesa del Valle occupato e respinto.
Ora le indicazioni della Prefettura hanno il tono di una stretta finale a decidere per il Campidoglio e per il ministero (Bray è stato avvistato una sera in platea per la presentazione di un libro), rimasti finora alla finestra, nonostante le ripetute rassicurazioni. Rimuovere gli impedimenti e riavviare l’iter amministrativo succede in altri casi, qui si rischierebbe l’avvitamento. Allora? «Per noi non cambia nulla — ha commentato Flavia Barca, assessore alla Cultura di Roma Capitale —, nel senso che proseguono il dialogo e la riflessione che stavamo costruendo. Una Fondazione non avrebbe autorizzato la presenza degli occupanti. A breve avremo un appuntamento con il sindaco e nei prossimi giorni dichiareremo le intenzioni di Roma Capitale». L’ex sindaco Alemanno, sotto la cui amministrazione aveva avuto avvio l’inchiesta, ha definito «giusta la decisione del Prefetto di bocciare una Fondazione basata sull’illegalità. Non si può costituire una Fondazione utilizzando come bene strumentale un teatro pubblico occupato ormai da troppo tempo da persone prive di ogni legittimazione sociale e culturale. Il prossimo passo è riconsegnare il Teatro a Roma Capitale perché lo possa gestire per il bene comune di tutti i cittadini romani». «Quando ci fu l’occupazione — ha invece ricordato il coordinatore nazionale di Cantiere democratico, Stefano Pedica — molti parlamentari aderirono all’iniziativa di salvare il teatro Valle, e in parecchi sottoscrissero la nascita della Fondazione. Promuoverò una raccolta di firme tra tutti parlamentari e invierò al prefetto una nuova richiesta per tenere vivo uno dei luoghi simbolo della cultura romana».

Corriere 13.2.14
Un patrimonio si sbriciola in silenzio
Castelli, mura del Seicento e monumenti Il patrimonio italiano si sta sbriciolando
Dalle fortificazioni di Palmanova ai bassorilievi della Galleria Umberto I a Napol
di Gian Antonio Stella


Non sono venute giù, fermandoci il fiato, solo le mura di Volterra. La verità è che da settimane, un giorno dopo l’altro, vengono giù pezzi della nostra storia. Castelli medievali, antichi palazzi gentilizi, muraglioni, archi… Colpa dell’acqua? Sicuro: erano decenni che non pioveva tanto. Ma è troppo comodo maledire il cielo.
Troppo comodo scaricare sugli Dei altre responsabilità: l’incuria, la sciatteria, il disinteresse per la sana manutenzione quotidiana che nessuno gioca in campagna elettorale.
Gli ultimi a schiantarsi al suolo, rischiando di ferire i passanti, sono stati due pezzi del bassorilievo di uno degli archi dell’elegante (e ammaccata) Galleria Umberto I di Napoli, in faccia al teatro San Carlo. Uno di quegli archi sotto i quali, in una scena indimenticabile del film di Ettore Scola «Maccheroni», Marcello Mastroianni faceva conoscere a Jack Lemmon i piaceri irresistibili di un gigantesco babà con panna.
Più o meno nelle stesse ore, crollavano a Palmanova venti metri del «rivellino», una delle cinte fortificate della magnifica «città stellata» friulana. Una ferita. Tanto più che, dopo decenni di abbandono che avevano consentito agli sterpi di impossessarsi delle mura e agli alberi di affondare in profondità le loro radici tra i mattoni, la meravigliosa fortezza veneziana del 1593 edificata contro i turchi nella piana friulana all’incrocio tra l’antica via Julia Augusta e la Strada Ungheresca, è finalmente al centro d’un piano di recupero. Un’iniziativa bellissima basata, in mancanza di soldi, sulla generosità della Protezione civile, del Corpo forestale e dei volontari che da qualche tempo si sono messi d’impegno a ripulire le mura più antiche. «Non è un caso se lo smottamento ha riguardato uno dei rivellini che non sono rientrati nel piano di pulizia della vegetazione infestante», ha spiegato Francesco Martines, il sindaco cui va il merito di avere avviato il recupero: «Gli alberi e i fichi selvatici con le proprie radici hanno modificato i percorsi di canalizzazione fatti dai veneziani per far defluire le acque piovane e così quando piove i terrapieni si caricano d’acqua che non trova sfogo. Dove la vegetazione è stata rimossa e sono state collocate le reti di contenimento da parte del Corpo dei forestali, i danni sono stati evitati. Ma l’allarme è alto...».
In queste prime settimane del 2014, spiega, a Palmanova sono già precipitati 610 millimetri di pioggia, corrispondenti a 7 tonnellate d’acqua per ettaro. Un diluvio. Proprio la tenuta delle parti delle mura già restaurate, però, dimostra come siano determinanti le opere di manutenzione troppo spesso trascurate: «È necessario un piano di salvaguardia che impegni anche lo Stato, proprio in vista del percorso di candidatura Unesco, un riconoscimento per il quale ci stiamo spendendo molto tutti e che richiederà — come prevede la commissione di Parigi — la definizione di un piano di gestione per la conservazione del bene. Non vorrei che Palmanova diventasse un’altra Pompei...».
Un richiamo scontato. Dallo schianto della Scuola dei Gladiatori non c’è stata pace. Come spiega il presidente dell’Osservatorio patrimonio culturale, Antonio Irlando, in attesa che parta operativamente l’agognato piano di recupero, «crolli diffusi di intonaci decorati e parti di murature si susseguono quotidianamente in molte domus. Da tempo spieghiamo che per ogni crollo reso noto ve ne sono almeno nove, uno per ogni regione in cui è suddivisa Pompei, di cui non si ha notizia».
E se è vero, come ha scritto il New York Times , che «i crolli a Pompei sono diventati una metafora dell’instabilità politica e dell’incapacità dell’Italia di prendersi cura del suo patrimonio culturale», ogni pietra che si stacca dai nostri monumenti aggiunge nuovi elementi allo sconcerto che gli stranieri provano davanti all’inadeguatezza di chi ci amministra. Risuona nelle orecchie l’accusa del Guardian : «L’abbondanza di siti archeologici e culturali porta l’Italia all’indifferenza. La conservazione non si classifica tra le priorità di un Paese costellato di acquedotti, anfiteatri e altri siti di grande rilievo culturale».
Che sia costosissimo, e di questi tempi forse al di fuori della nostra portata, un gigantesco piano di recupero di ogni singolo tesoro che abbiamo, dalle Gualchiere di Remole al castello normanno di Maddaloni, dalla rocca di Sutera agli affreschi di Santa Maria Nova di Sillavengo, è vero. Ma certo l’elenco dei lutti culturali che hanno colpito il nostro patrimonio nelle ultime settimane e negli ultimi giorni è impressionante.
A Pozzuoli, racconta sul Corriere del Mezzogiorno Antonio Cangiano, è rovinato al suolo vicino a una stazione della ferrovia Cumana un grande frammento murario del complesso dello stadio di Antonino Pio che un tempo ospitava gli Eusebeia, giochi ginnici quinquennali sull’uso di Olimpia. A Stigliano, in provincia di Matera, è venuta giù l’ultima facciata del castello medievale danneggiata nel Seicento da un violento terremoto.
A Frinco, in provincia di Asti, è smottata verso le case una parte del maniero che da secoli domina il paese, dando ragione ai timori del sindaco che qualche settimana fa aveva denunciato il rischio di una frana pericolosa. A Roma è crollato un contrafforte di una torre delle Mura Aureliane, già colpite da un cedimento simile, non lontano, nel 2001. A San Vito Chietino un gruppo di famiglie è rimasto isolato dallo sbriciolarsi di un tratto delle mura di cinta di un castello risalente all’anno Mille. A Subiaco il maltempo ha fatto crollare parte del tetto della Rocca Abbaziale, meglio nota come la Rocca dei Borgia. A Spoleto sono venute giù due capriate e parti della copertura del complesso dell’anfiteatro. E altre mura antiche hanno ceduto, sotto le piogge di questi giorni, a Vignola, in provincia di Modena. Per non dire dei crolli nei centri storici di Taranto o alla Vucciria di Renato Guttuso, nel cuore di Palermo.
Troppi traumi, in pochi giorni. Troppi. L’unica speranza è che almeno questi aiutino i ministri, i governatori, i sindaci e tutti i cittadini a capire che, nell’attesa di faraonici e costosissimi megaprogetti di recupero, che mai potranno accontentare tutti, l’immobilismo è un suicidio. E che un minimo di decorosa manutenzione quotidiana, porti o non porti voti, è un dovere verso noi stessi e verso quei tesori di cui siamo, forse immeritatamente, i custodi.
Gian Antonio Stella

Repubblica 13.2.14
Le elezioni europee e i trattati da rifare
di Luciano Gallino


l’Unità 13.2.14
Caso marò, schiaffo Onu all’Italia
di Umberto De Giovannangeli


Si complica ogni giorno di più il caso dei marò, con Italia e India sempre più contrapposte su tempi e modi con cui potranno essere giudicati Salvatore Girone e Massimiliano Latorre. Stavolta però a riaccendere le polemiche sul versante italiano è stata la sortita del segretario generale delle Nazioni Unite, Ban Ki-moon, che ha raffreddato le speranze di Roma per un ricorso agli organismi giurisdizionali dell’Onu, come il Tribunale per il diritto del mare. «È una questione bilaterale» tra Italia e India che non coinvolge le Nazioni Unite, ha affermato il suo portavoce, Martin Nesirsky.
Scontro totale
Parole che hanno scatenato una bufera a Montecitorio e Palazzo Madama, tanto che c’è chi ha chiesto di sospendere l’esame per il rifinanziamento del decreto missioni. La ministra degli Esteri, Emma Bonino, che nella notte ha avuto un colloquio telefonico con il numero uno del Palazzo di Vetro, parlerà oggi in Aula al Senato per chiarire la posizione del governo. Intanto, Ban ha ricevuto ieri il Rappresentante italiano presso le Nazioni Unite, ambasciatore Cardi, che aveva richiesto urgentemente un colloquio su istruzione della ministra degli Esteri. «Il nostro ambasciatore», si legge in una nota della Farnesina, «ha espresso la preoccupazione del governo italiano - condivisa pubblicamente dall’Alto rappresentante dell`Unione Europea Ashton e dal segretario generale della Nato, Rasmussen - in merito alle ripercussioni negative che l`applicazione della legge antiterrorismo nei confronti dei duemarò»trattenuti in India, Massimiliano Latorre e Salvatore Girone, «potrebbe avere sulla lotta alla pirateria ed al terrorismo internazionale ». «Il segretario generale ha prestato grande attenzione a quanto illustrato dal nostro Rappresentante permanente », si precisa nella nota.
Pressing diplomatico
«In queste ore si terrà a New York una riunione di coordinamento dell'Ue a 28 in relazione alla decisione indiana di sottoporre i due fucilieri italiani» Massimiliano Latorre e Salvatore Girone «al Sua Act», precisa la Farnesina nella nota di ieri sera, sottolineando che la riunione è stata «promossa a seguito di un colloquio telefonico tra la ministro Bonino e il suo omologo Venizelos, presidente di turno dell’Unione Europea».
A Roma, le Commissioni Esteri e Difesa del Senato hanno chiesto «un immediato chiarimento al governo», perchè la ministra proprio martedì aveva «sostenuto in sede parlamentare di aver acquisito le convergenze necessarie per internazionalizzare il caso». Si chiede che il governo chiarisca quali iniziative intenda prendere «in sede di Nazioni Unite per sostenere la posizione italiana e gli ulteriori passi che intende intraprendere in sede europea e multilaterale». Il presidente della Commissione Esteri del Senato, Pierferdinando Casini, ha chiesto di sospendere l’esame del decreto missioni finchè il Governo non venga a riferire in Aula.
«Noi non potremmo che vedere intrinsecamente legate le vicende di questo pronunciamento giudiziario, con il nostro impegno internazionale. È indispensabile che si riconosca il carattere internazionale del problema. Quindi questa azione va portata avanti con determinazione ». Così il ministro della Difesa Mario Mauro ieri mattina a L’Ariache Tirasu La7 sulla vicenda dei due marò. «Sul caso dei marò, il governo - aveva premesso Mauro - hai impostato due azioni chiare: una è l’internazionalizzazione del caso, quindi il braccio di ferro fosse anche con le Nazioni Unite va vinto per questo. Non si può pensare che questa questione sia una questione solo tra Italia e India, per una semplice ragione. Si tratta di due militari che sono impegnati in una missione, che è si una missione nazionale, ma che risponde a una esigenza di una collettività globale, che è quella di porre un argine alla pirateria e al terrorismo». «Noi paghiamo un prezzo altissimo nel rapporto con la comunità internazionale. Il Senato fa bene oggi (ieri per chi legge, ndr) a prendere posizione chiedendo che temporaneamente si sospenda il tema del finanziamento delle missioni internazionali fino a quando il Governo non si sarà pronunciato su questo. È un fatto necessario» ha anche spiegato Mauro. Intanto, in vista dell'udienza del 18 febbraio in cui la Corte Suprema di New Delhi deciderà se i due fucilieri di Marina possono essere incriminati in base alla legge anti-terrorismo, l’inviato speciale del governo, Staffan De Mistura, è rientrato in Italia per consultazioni urgenti. Già domenica, però, tornerà in India. L’altro ieri De Mistura aveva spiegato che il suo viaggio era dovuto al fatto che «l’udienza in Corte Suprema del 18 febbraio è della massima importanza per il futuro dei nostri fucilieri di Marina». Ma New Delhi ha insistito che intende applicare le leggi indiane: «È un caso unico» perché non ci sono precedenti né in India né in Italia, ha osservato il portavoce del ministero degli Esteri, Syed Akbaruddin. «Comprendiamo», ha continuato, «che questo processo è qualcosa di cui i nostri amici italiani non sono contenti. Siamo pronti a spiegare loro la situazione, ma il diritto nazionale prevarrà nei nostri tribunali fino a quando le nostre autorità lo riterranno opportuno».
Il segretario generale della Nato, Anders Fogh Rasmussen, si è schierato dalla parte dell’Italia nella vicenda dei due marò, sostenendo che le accuse di terrorismo nei loro confronti avranno «negative implicazioni» nella lotta alla pirateria. «Sono personalmente preoccupato per la situazione dei due marinai italiani», ha detto Rasmussen nel corso di una conferenza stampa a Bruxelles. «Sono anche preoccupato dall’ipotesi che possano essere processati per terrorismo. Questo potrebbe avere delle negative implicazioni nella lotta internazionale contro la pirateria, una battaglia che è tutta nel nostro interesse».

Repubblica Fatto 13.2.14
Eutanasia anche sui bambini la legge shock che spacca il Belgio
Cristiani, ebrei e musulmani lanciano un appello per il “no”
di Andrea Bonanni

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l’Unità 13.2.14
Marine Le Pen sempre più su
Pronto a votarla un francese su 3
di Virginia Lori


Continua a macinare consensi nei sondaggi la francese Marine Le Pen, sempre più in corsa per l’Eliseo. Sotto la sua guida il Fronte Nazionale, il partito di estrema destra «sdoganato » dalle accuse di xenofobia, punta ad essere il maggiore partito di Francia. Lo conferma l’ultimo sondaggio, quello fornito da Tns Sofres: più di un francese su 3, precisamente il 34%, aderisce «alle idee del Fronte nazionale». Un vero picco positivo per l’estrema destra francese che ha registrato un aumento costante di consensi. Si è partiti dal 22% del 2011 ereditato dal padre, Jean-Marie Le Pen che del Fronte Nazionale è stato il fondatore. È bastato un anno e nel 2012 Marine ha portato i consensi al 31%, passando al 32% lo scorso anno, il 2013. Il sondaggio spiega così questi consensi in crescita: per il 56% degli intervistati la leadership di Marine Le Pen starebbe nella sua capacità di «comprendere i problemi quotidiani dei francesi», mentre il40%degli interpellati le riconosce «idee nuove per risolverli».
Il Fronte Nazionale di Marine Le Pen sarebbe un alleato essenziale per le prossime elezioni europee per Lega Nord, intenzionata a formare un «fronte per un’altra Europa» con i più significativi movimenti euroscettici, quindi oltre al francese Fronte Nazionale, l’olandese Pvv. Lo ha assicurato ieri, il segretario federale del Carroccio, Matteo Salvini. Vi sarebbe, assicura, «un percorso comune anti-euro che credo sia più ampio di quanto si pensi». «Marine Le Pen e Geert Wilders, i leader dei due movimenti politici - assicura - non sono assolutamente i mostri di cui si parla, anzi. I mostri, soprattutto in Europa sono altri. La nostra “macro-battaglia” è per costruire un’altra Europa ». «Abbiamo alcune posizioni differenti, masiamo vicini soprattutto sul fronte della difesa delle autonomie, del territorio e sulla tutela della religione » ha assicurato Salvini. Il fronte degli «euroscettici» dovrebbe basarsi su «no all’euro, ai vincoli di Bruxelles, all’immigrazione e agire contro la disoccupazione». L’ambizione è conquistare un quarto dei seggi a Strasburgo.
La stessa Marine Le Pen si dice ottimista. «Penso che saremo al potere entro il decennio» afferma convinta. Lo fa cercando di mettersi alle spalle le caratteristiche più xenofobe e estremiste del suo Fronte Nazionale. Per sdemonizzarlo lo presenta come un movimento più in sintonia con il Tea party degli Stati Uniti, o l’Ukip di Nigel Farage in Gran Bretagna.

l’Unità 13.2.14
Spagna, la legge contro l’aborto supera il primo esame
di Sonia Renzini


A niente sono valse le proteste dei giorni scorsi in Spagna contro il progetto di legge di riforma dell’aborto del ministro della Giustizia Alberto Ruiz Gallardòn che restringe le possibilità di ricorrervi. Non sono servite le migliaia di donne scese in piazza a Madrid al grido di «Decido io», né i presidi e le assemblee pubbliche davanti alle ambasciate spagnole nelle altre città europee. E neppure l’impressione sempre più netta, e confermata dagli ultimi sondaggi, che la maggioranza del Paese (fino all’80%), compresi i cattolici praticanti, ritenga non necessario il provvedimento.
 La mozione socialista che chiedeva la revoca della riforma della legge sull’aborto è stata bocciata con una votazione a scrutinio segreto dal Parlamento spagnolo dove il partito popolare del premier Mariano Rajoy dispone di una solida maggioranza: 183 voti contrari su 151 favorevoli, 6 gli astenuti. Deluse le opposizioni che fino all’ultimo hanno sperato in una spaccatura della maggioranza parlamentare prodotta dal voto segreto.
È vero che l’iter per il varo definitivo non è concluso, il disegno di legge deve ancora approdare al Congresso per la decisione di merito e non sono escluse modifiche, richieste dagli stessi esponenti del Partito popolare.
Ma è altrettanto certo che questo primo sì incassato dal governo spagnolo segna indiscutibilmente un passo in avanti a favore del fronte conservatore. Il disegno di legge, contestatissimo da subito e accusato di riportare il paese 10 anni indietro nella lotta per i diritti delle donne, non ha mancato di provocare screzi nella stessa maggioranza conservatrice, tanto che la vicepresidente della Camera Cecilia Villalobos ha chiesto al partito di lasciare libertà di voto. Sostenuto dalla comunità cattolica era stato approvato dall’esecutivo a dicembre in quello che è stato interpretato da molti come il tentativo di assecondare la parte più conservatrice del partito.
Passo indietro
Nel nuovo testo si limita la possibilità di ricorrere all’aborto entro la 14ma settima e solo in caso di stupro confermato dalla polizia o in caso di rischio certificato per la salute della madre. Una cesura netta rispetto alla legge in vigore - approvata nel 2010 - che prevede l’aborto su richiesta e il diritto di abortire fino a 22 settimane se la salute della madre è in pericolo o se il feto presenta gravi malformazioni: una legge che secondo i suoi fautori ha portato nel 2012 alla riduzione di 6mila casi di aborto rispetto all’anno precedente. «Le donne spagnole saranno ancora una volta divise in due gruppi, quelle che possono viaggiare in un paese vicino e sottoporsi a un aborto sicuro e quelle che non possono », ha detto la vice segretaria del partito socialista Elena Valenciano. «Non ci fermeremo fino a quando la legge non sarà cancellata», ha detto il leader socialista Alfredo Perez Rubalcaba, sostenuto dal senatore Joan Saura del partito verde catalano Icv secondo cui si tratta di «una legge per la sofferenza delle donne, non per i loro diritti».Adifendere a spada tratta la riforma è il suo promotore, il ministro della Giustizia Alberto Ruiz-Gallardon, convinto della necessità di bilanciare i diritti delle donne con quelli dei bambini ancora non nati: «L’aborto non è un diritto fondamentale, la nostra riforma non è contro le donne, ma a favore della loro tutela».

Corriere 13.2.14
Passaporti agli eredi degli ebrei cacciati da Isabella
La legge che Madrid vuole approvare per riparare al crimine del 1492 scatena l’assalto ai consolati in Israele
di D. F.


GERUSALEMME — La legge non è ancora stata approvata, sono passati 522 anni, le origini potrebbero essere difficili da provare, il ladino ormai lo parlano solo gli anziani. Eppure le incertezze non hanno attenuato la frenesia degli israeliani per quello che il quotidiano Yedioth Ahronoth ha chiamato «il sogno spagnolo».
Venerdì scorso il governo di Madrid ha annunciato la bozza del progetto: offre la possibilità di ottenere la cittadinanza a chi possa dimostrare di discendere dagli ebrei espulsi nel 1492 dalla regina Isabella e da re Ferdinando. «Vogliamo riparare a uno dei più grandi errori storici commessi dal nostro Paese — ha proclamato Alberto Ruiz-Gallardón, il ministro della Giustizia — e abbiamo aperto la porta che permetterà a questi uomini e donne di ridiventare quello che non hanno mai smesso di essere: cittadini della Spagna. La proposta riflette la realtà di una società pluralista». Il testo della legge precisa che la cittadinanza può essere ottenuta da persone di origine sefardita che abbiano «un legame speciale» con la Spagna, indipendentemente dalla religione, l’ideologia, il credo. La formulazione fa ipotizzare che anche i discendenti dei cosiddetti «marranos», ebrei costretti nel 1492 a convertirsi al cattolicesimo, siano idonei.
I giornali israeliani hanno pubblicato nel fine settimana una lista di 5.200 cognomi che potrebbero rientrare nei criteri previsti dalla norma. Da allora i centralini dell’ambasciata e del consolato continuano a ricevere telefonate per avere informazioni. Quello che attira è la possibilità di ottenere un passaporto europeo senza rinunciare a quello israeliano, come invece è previsto dalla legge attuale (oltre all’obbligo di risiedere in Spagna da almeno due anni).
L’economia spagnola ha ricominciato a muoversi, ma quello 0,3 per cento in più per il Pil nell’ultimo trimestre 2013 resta lontano dalla crescita del 3,4 per cento del Prodotto interno lordo israeliano. Così le motivazioni sono più sentimentali, un ritorno alle radici. Come per Mordechai Ben-Abir, nato Marcus Cabalero, che a 88 anni non ha rinunciato alla speranza: «Ottenere quel documento ha consumato la mia vita — racconta a Yedioth —. Sono tornato all’università sei anni fa, ho dedicato la tesi di dottorato alla scoperta delle mie origini e sono in grado di poter provare scientificamente il mio legame con la Spagna fino a 1200 anni indietro».
Chi non vuole fare lo sforzo di Mordechai deve presentare un certificato della Federazione delle comunità ebraiche di Spagna o di un rabbinato riconosciuto ufficialmente che dimostri la discendenza. Parlare il ladino aiuta, così come il cognome. In Israele vivono 2-3 milioni dei 3 milioni e mezzo di ebrei sefarditi sparsi per il mondo dopo l’espulsione. La modella Natalie Dadon vede l’opportunità spagnola come un investimento per il futuro: «Non si sa mai che cosa potrebbe succedere, meglio avere il documento nel cassetto». Il comico Nadav Abekasis ironizza sul doppio passaporto che molti ebrei ashkenaziti, di origine europea, già posseggono: «Finalmente abbiamo l’eguaglianza, adesso anche gli israeliani che arrivano dal Nord-Africa avranno un posto dove fuggire quando scoppia la prossima guerra».

La Stampa 13.2.14
Berlino
Tanja: lo Stato non mi protegge
Ho lasciato i neonazisti. Vivo baraccata

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La Stampa 13.2.14
Parigi
“Ho detto addio alle Femen setta di fanatici

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La Stampa 13.2.14
Ungheria, giro di vite  contro contadini stranieri e artisti
Orban promette 5 anni di carcere a chi compra terreni e non ha il passaporto magiaro
E continua l’epurazione dei non allineati nelle istituzioni culturali
di Tonia Mastrobuoni

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il Fatto 13.2.14
Ucraina, ucciso giudice ragazzino Paese nel caos
Freddato con due colpi alla schiena il magistrato che aveva disposto gli arresti per i manifestanti di Kiev
di Roberta Zunini

Kiev - Due colpi di pistola alla schiena mentre stava rientrando a casa in tarda serata nella città di Kremenchuk, 300 chilometri a sud-est di Kiev, in quella che di fatto è già l’area russofona. Non ha visto in faccia i suoi assassini Oleksandr Lobodenko, un giudice di 34 anni che la settimana scorsa aveva condannato alcuni dimostranti alla carcerazione preventiva di due mesi per “incitamento alla violenza di massa”. Non è trascorsa nemmeno una settimana da quando la ministra della Giustizia ucraina in quota Yanukovich aveva avvisato di possibili atti terroristici. Ma chi siano i terroristi dipende dai punti di vista. Per il presidente e il suo governo sono ovviamente quegli ucraini che da più di due mesi resistono, e talvolta vengono uccisi a colpi di pistola (finora 6) a Maidan e nei palazzi pubblici occupati (non solo di Kiev ma anche di altre città come Leopoli, dove sono già al lavoro con le amministrazioni comunali i cosiddetti comitati del popolo costituiti da semplici cittadini) allo scopo dirimanere indipendenti dalla Russia, ottenere elezioni presidenziali anticipate e la revisione della Costituzione. Per i partiti di opposizione e per circa la metà dell’opinione pubblica milioni di persone – invece il terrore viene elargito e praticato dallo Stato attraverso le forze antisommossa, i teppisti titusk assoldati dal ministero dell’Interno e la magistratura. Prova ne sarebbero le sparizioni, i pestaggi e le torture nei confronti di attivisti e giornalisti scomodi come la reporter investigativa Tetiana Chornovil, che a Natale fu picchiata a sangue. Il processo contro ignoti si è concluso in una sola seduta con la derubricazione del reato da tentato omicidio a teppismo stradale. Un altro fatto avvenuto quasi in concomitanza con l’assassinio del giudice dimostrerebbe la parzialità della magistratura. Si tratta dell’assoluzione e reintegro, grazie alla recente introduzione della legge sull’amnistia (parziale), di Oleksandr Popov e Volodimir Sivkovich, rispettivamente capo dell’amministrazione comunale di Kiev e vice presidente del Consiglio nazionale di Sicurezza e Difesa, sospesi dallo stesso Yanukovich per aver ordinato lo sgombero violento degli studenti che stavano facendo un sit-in pacifico a favore dell’associazione all’Unione Europea, nel novembre scorso. “Da questa sentenza assolutoria risulta evidente che il potere sta preparando una prova di forza contro i manifestanti antigovernativi. Reintegrandoli ha dimostrato di proteggerli anche se violano la Costituzione e brutalizzano i cittadini pacifici anziché proteggerli”, ha commentato con una nota il maggiore partito di opposizione, Patria, di Yulia Tymoshenko. Il partito Udar dell’ex pugile Vitali Klitschko ha chiesto la liberazione immediata dei manifestanti “vittime di giustizia arbitraria”, dopo aver ha denunciato che “la procura ha chiesto 15 anni di reclusione per un uomo che trasportava pneumatici nel bagagliaio della sua auto, mentre Popov e Sivkovich sono amnistiati”. Centinaia di pneumatici sono stati usati per realizzare le barricate di Piazza Maidan. Chi abbia davvero ucciso il giudice probabilmente non si saprà mai ma, di sicuro, questo omicidio fa gioco al governo. Ora tutti attendono con il fiato sospeso l’ultimatum del 17. Il procuratore di Kiev ha invitato i manifestanti a lasciare gli edifici occupati entro questa data. Se non lo faranno, le forze dell’ordine saranno autorizzate a procedere con ogni mezzo, ammesso dalla legge. Ma qui la legge non è uguale per tutti

Repubblica 13.2.14
Svizzera
Quella piccola grande potenza spina nel fianco dell’Europa
Il referendum contro l’immigrazione riporta l’attenzione sulla Repubblica elvetica, con
la sua forza economica e il tradizionale orgoglio per lo splendido isolamento
di Lucio Caracciolo


Gli Stati, come i pugili, sono classificati per categorie di peso. Sul ring della politica internazionale, la Svizzera è fuori quota. Più precisamente, come stabilì l’allora segretario generale delle Nazioni Unite, Kofi Annan, è un paese che “combatte in una categoria superiore” rispetto a quanto indicato dalla bilancia, spesso truccata, che determina il rango di un pugile o di uno Stato.
La Confederazione cambia infatti di valore a seconda dell’unità di misura adottata: con appena 8 milioni di abitanti (di cui quasi un quarto stranieri) in 41 mila chilometri quadrati, è il novantaduesimo Stato per popolazione e il centotrentaduesimo per superficie. Ma è nel club delle venti massime economie planetarie ed è soprattutto la settima piazza finanziaria, con la quinta moneta al mondo quanto a volume di transazioni – il franco svizzero, simbolo di stabilità per antonomasia. È la cassaforte riservata di mezzo mondo (almeno di quello ricco),storicamente fondata sul segreto del cliente, ma che con l’esplosione della crisi finanziaria globale e la necessità per gli Stati di recuperare quote di evasione fiscale si trova sotto schiaffo, bollata con lo stigma della “lista nera” da paesi che spesso coltivano serenamente i propri capitali anonimi. Di qui il braccio di ferro negoziale con l’Italia, che verte sul destino di quei 160 miliardi di euro di provenienza nostrana che secondo Roma sono impropriamente custoditi da banche elvetiche.
Non solo banche, però. La Svizzera schiera grandi aziende globali, coltiva la fama di produttore di qualità (al di là della cioccolata e degli orologi), esibisce tecnologie avanzate e università di punta, come i politecnici di Losanna e Zurigo. Sotto il profilo geopolitico, giocando la carta della neutralità e del pragmatismo, Berna è spesso al centro delle grandi partite internazionali senza troppo apparire, così evitando di esporsi alle conseguenze della sovraesposizione di potenza di cui soffrono quei pesi massimi che non riescono a trattenersi dall’esibire i muscoli.
Insomma, la Svizzera conta. Per questo l’effetto del referendum con cui il 9 febbraio il 50,3% dei suoi elettori ha approvato la volutamente vaga proposta di contingentare l’immigrazione ha suscitato un’onda d’urto intimorositernazionale. Specialmente europea. Perché questo piccolo grande paese incastonato nel cuore dell’Unione Europea, cui rifiuta orgogliosamente di aderire, ha di fatto ancorato la sua moneta all’euro e sviluppa oltre due terzi del suo commercio con i paesi comunitari. Sicché limitare la libertà di circolazione delle persone significa rimettere in discussione l’insieme degli accordi e delle prassi che connettono in materie diverse e in variabile misura la Svizzera all’Unione Europea e ai suoi Statimembri.
Il voto del 9 febbraio non è dunque solo politica interna elvetica, è soprattutto politica europea. Tocca infatti alle diplomazie comunitarie e a quella svizzera sciogliere i nodi del paradosso prodotto da un voto che risponde alla paura dell’invasione straniera – riflesso profondo che di tanto in tanto riemerge in superficie – colpendo di fatto gli materiali di chi si è schierato a favore dell’iniziativa promossa dalla destra anti-europea di Christoph Blocher, blandamente osteggiata dai “poteri forti” e dallo stesso governo di Berna. L’ex presidente della Banca nazionale svizzera e attuale numero due di BlackRock, Philipp Hildebrand, ha colto perfettamente sul Financial Times i termini del dilemma: «Un paese situato nel cuore dell’Europa ora affronta una dura scelta. Vuole continuare a godere della prosperità che deriva da un’economia profondamente integrata in Europa e accettare la parziale perdita di sovranità politica che ne scaturisce? O preferisce ridiventare padrone assoluto di se stesso, scontando l’abbassamento della qualità della vita conseguente al progressivo distacco dai mercati europei?». In parole povere: la Svizzera può tornare isola o restare giocatore globale. Non le due cose insieme.
La scelta investe la stessa unità nazionale, in un paese multiculturale che almeno a partire dalla prima guerra mondiale entra in tensione lungo le linee di faglia linguistiche – francofonia versus germanofonia, con gli italofoni vicini alla seconda famiglia – ogni qualvolta le acque europee si agitano. Il 9 febbraio abbiamo ritrovato la Romandia più aperta e tollerante versus i tedescofoni dei cantoni “forestali” e i ticinesi italofobi, dell’“inforestierimento” e del dumping sociale alimentato dalla manodopera poco qualificata proveniente da sud.
Dopo le prime reazioni a caldo con relative contromosse dei Ventotto sui dossier negoziali euro-svizzeri e le minacce nemmeno troppo velate di ben più aspre rappresaglie, anche le cancellerie europee dovranno scegliere un percorso, che presumiamo come sempre cacofointeressinico (ognuno per sé nessuno per tutti), con Bruxelles impegnata in un pallido quanto futile esercizio di regia. Il rapporto con Berna in questa partita apertissima – il governo svizzero ha tre anni di tempo per fissare le quote migratorie – sarà un interessante rivelatore di come i membri dell’Unione ne immaginano il futuro. Sotto la pressione di elettorati sempre più scettici quando non fobici nei confronti di “Bruxelles” e insofferenti per “gli stranieri che vengono a rubarci il lavoro”, vedremo probabilmente il fronte nordico, imperniato su Londra, impegnarsi nello smantellamento dei vincoli comunitari. Obiettivo: trasformare l’Ue in un’area di libero scambio. Dove l’aggettivo “libero” non ha valenza universale, visto che non si applicherebbe pienamente ai movimenti delle persone. Resta da stabilire come Germania, Francia, Italia, Spagna e Polonia, pesi massimi e medio massimi dell’Unione, vorranno o meno contrastare il riduzionismo britannico-scandinavo.
Non ci stupiremmo se un giorno gli storici stabiliranno che il referendum svizzero ha segnato l’avvio del percorso verso un’altra Europa – o non-Europa – che avrà poco in comune con l’Unione Europea come la conosciamo oggi e nulla con quella sognata dai padri fondatori.

Repubblica 13.2.14
La problematica convivenza tra diverse componenti linguistiche
L’identità difficile di un Paese unico
di Orazio Martinetti


Parlare di “identità”, per il caso svizzero, è facile e difficile ad un tempo. Facile se risaliamo all’età medievale, al mito di Guglielmo Tell, il Robin Hood alpino che si ribella al balivo inviato dagli Asburgo, uccidendolo con un dardo; difficile se consideriamo lo sviluppo storico della Lega confederata o Corpus Helveticum, sia in età moderna, sia negli ultimi due secoli, in particolare dopo il varo della Costituzione del 1848, la carta fondante della Svizzera moderna, liberale e repubblicana.
Dall’esterno parve più agevole identificare i tratti specifici degli svizzeri. Già nel ’500 Machiavelli e Guicciardini intuirono che nel cuore delle Alpi si era andata formando una comunità di montanari diversa da tutte le altre, non tanto nei costumi quanto nel modo di governarsi: gestione oculata delle (scarse) risorse naturali, forme di democrazia diretta, difesa armata. Rousseau, “citoyen de Genève”, rimase colpito dalla semplicità e frugalità di quei rustici che, per fortuna loro, erano rimasti immuni dai vizi della vita urbana. Diderot e d’Alembert, addirittura, ne esaltarono l’indole scrivendo della “felicità di essere svizzeri” (espressione poi ripresa da vari autori in tempi recenti). Le corti europee, invece, ostentarono sufficienza, se non disprezzo. Gli svizzeri erano in fondo dei semplici vaccari (“Kuhschweizer”), gente rozza e avvezza unicamente all’uso delle armi.
Caduto l’antico regime, e con esso le monarchie assolute, l’immagine della Confederazione, nel frattempo diventata Stato federale, subì una drastica revisione, almeno tra le classi colte. Pian piano si scopriva che il paese s’era dato un insieme di istituzioni e regole di condotta che potevano fungere da modello: democrazia semi-diretta, impianto governativo di tipo federale, ovvero preminenza del potere decentrato, neutralità in politica estera, esercito di milizia (ogni cittadino maschio è anche soldato). Si diffuse così l’idea che la Svizzera non fosse uno stato come gli altri, bensì un “Sonderfall”, un’eccezione, un caso particolare nel panorama europeo. La sua neutralità integrale l’ha salvata dalle dittature e dalle catastrofi belliche che hanno insanguinato la prima metà del Novecento; e successivamente le ha concesso di seguire con distacco, nel secondo dopoguerra, la costituzione del Mercato comune europeo. Nel frattempo, tuttavia, la fisionomia della Svizzera mutava, non più un’arcadia incontaminata ma un arcipelago di centri urbaniin rapida espansione, trainati da un’economia che faceva dell’alta tecnologia e dell’intermediazione bancaria i suoi punti di forza. Fabbriche e imponenti opere del genio civile (gallerie, dighe, linee ferroviarie, autostrade) attiravano sul suolo elvetico migliaia di “Gastarbeiter”, provenienti soprattutto dalle regioni povere dell’area mediterranea.
Vista dall’interno, invece, l’identità non è mai apparsa nettamente definita. Le vicende endogene, soprattutto in epoca contemporanea, offrono un paesaggio costellato d’incomprensioni e fratture, di attriti tra la maggioranza tedescofona (che oggi compone il 66% della popolazione) e le altre minoranze linguistiche: più consistente e combattiva quella romanda, più ridotta ma non meno orgogliosa quella svizzero-italiana (Ticino e valli italofone dei Grigioni).
All’Esposizione universale di Siviglia del 1992 fece scalpore il motto “Sviza no existe” utilizzato per pubblicizzare il Padiglione rossocrociato. Anche il saggista Alain Pichard giunse alla conclusione che «la Romandie n’existe pas», la Romandia non esiste. Ma gli esempi si potrebbero moltiplicare. La crisi più seria, che condusse il paese sull’orlo della dissoluzione, si verificò alla vigilia della prima guerra mondiale, con gli svizzeri francesi schierati, idealmente, accanto alla Francia e ai suoi alleati, e i cantoni germanofoni sedotti dalla potenza militare degli imperi centrali. La successiva ascesa, negli anni Venti e Trenta, dei regimi totalitari provvide a colmare il fossato e a cementare la coesione nazionale.
Un altro banco di prova lacerante furono le iniziative xenofobe promosse dall’Azione nazionale alla fine degli anni ’60: anche qui le spaccature furono profonde, perché le campagne prendevano di mira non soltanto gli immigrati (perlopiù italiani), ma i valori a cui si rifacevano le singole stirpi minoritarie, quella italofona e quella romancia in particolare.
Siamo dunque di fronte a un paradosso, ad un’identità che si afferma attraverso la sua negazione? Nella realtà elvetica è proprio questo che avviene, un’identità come costruzione sociale sempre in fieri, sempre in cantiere, frutto d’innumerevoli mediazioni tra maggioranze e minoranze, tra autoctoni e stranieri, tra città e campagna, tra il globale e il locale; un «composto chimico instabile» che a volte produce reazioni esplosive, com’è successo lo scorso 9 febbraio.

Repubblica 13.2.14
Svizzera
di Francis Scott Fitzgerald

La Svizzera era un’isola, bagnata su un lato dai rimbombi di tuono intorno a Gorizia e sull’altro lato dalle cateratte lungo la Somme e l’Aisne. Per una volta sembrava che nei cantoni ci fossero più stranieri degni di nota che ammalati, ma per scoprirlo ci voleva intuito: gli uomini che sussurravano nei dimessi caffè di Berna e di Ginevra potevano anche essere venditori di diamanti o commercianti in viaggio d’affari. Comunque non erano passati inosservati i lunghi convogli di uomini ciechi o con una gamba, o addirittura ridotti moribondi. Nelle birrerie e nelle vetrine spiccavano i vivaci manifesti che mostravano gli svizzeri in difesa delle loro frontiere nel 1914: con coinvolgente ferocia, giovani e vecchi scrutavano dalle cime dei monti i fantasmi dei francesi e dei tedeschi; lo scopo era rassicurare i cuori svizzeri di aver presoparte alla contagiosa gloria di quei tempi.

Corriere 13.2.14
L’Europa e la Svizzera post referendum
Prove di una Guerra che non scoppierà
di Franco Venturini


Alle prese con una crisi economico-finanziaria che non è finita, scossa da gravi disagi sociali che nelle urne di maggio rischiano di tradursi in voti antieuropei, impegnata sul fronte esterno a recuperare una Ucraina tornata in bilico, l’Europa non aveva certo bisogno di ricevere una pugnalata dagli elettori svizzeri. E ora che così è stato con il referendum di domenica sul ripristino delle quote per gli immigrati, non si sa se considerare più esplosiva la rabbia di Bruxelles o l’imbarazzo di Berna.
L’ultimo capitolo di questa saga tra ex amici ha avuto luogo ieri: dopo aver bloccato i negoziati per l’inserimento della Svizzera nel mercato europeo dell’elettricità, gli europei hanno deciso di congelare anche la trattativa per un trattato istituzionale globale con la Confederazione. Ed è assai probabile che la burocrazia europea stia passando in rassegna l’insieme degli accordi bilaterali conclusi con Berna, per vedere cosa può essere sospeso a titolo di monito. Sempre che non si arrivi all’arma atomica che José Manuel Barroso ha teoricamente a disposizione: il blocco di tutti gli accordi. Evento in realtà improbabile, tanto più che il messaggio della rabbia europea è comunque già arrivato in Svizzera: attenti — vi è simbolicamente scritto — se voi vi rimangiate la libertà di circolazione sappiate che per noi essa va di pari passo con altri pilastri europei come il movimento dei capitali. Capito, gentili banche elvetiche?
Sull’altro fronte, quello svizzero, c’è per Berna il dovere politico di rispettare il risicato verdetto degli elettori, e una nuova legge sull’immigrazione sarà pronta entro giugno per entrare in vigore alla fine dell’anno. In parallelo con intense consultazioni, e con i migliori intenti per la collaborazione futura con la Ue. Insomma, l’Europa agita il bastone ma è improbabile che abbia davvero l’intenzione di mandare all’aria le sue relazioni con la Svizzera. La Svizzera si dà un contegno mentre rivendica l’obbligo di rispettare il verdetto delle urne, ma c’è da giurare che farà di tutto per salvaguardare un insieme di rapporti che è nel suo interesse. Sarà una drôle de guerre , e durerà almeno quanto quella del ‘39-40.

il Fatto 13.2.14
La scommessa di Obama sull’isola che non c’è
Cuba: Il vecchio regime non è molto cambiato
Ma l’economia globale impone agli Usa di abbattere anche gli ultimi tabù rimasti
di Maurizio Chierici


Nell’isola che non c’è gli Stati Uniti di Obama giocano la grande scommessa. Non c’è per l’agonia del socialismo reale. Ormai non c’è perché si è rotto lo specchio nel quale si affacciavano ideologie travolte dalla storia. Vecchie verità parziali mentre le terze generazioni fanno i conti con la realtà di qua e di là dal mare: il 63 per cento dei cubani della Florida ripete d’essere “stanco di divisione ed embargo”.
Rompendo un interminabile tabù, l’organizzazione che riunisce gli Stati Americani (Oea) per la prima volta si è riunita all’Avana dove le regole non sono cambiate. Partito unico con una sola voce che rimbalza dai giornali alla tv. Dei diritti violati non parlano mai. Malgrado le aperture (cubani liberi di girare il mondo, venti voli al giorno Mia-mi, California, New York) le dissidenze sono punite come negli anni di Mosca. Se Dilma Rousseff e Cristina Kirchner hanno abbracciato ciò che resta di Fidel, la visita di Peña Nieto, presidente liberista del Messico, fa capire quale strada si sta per aprire. Peña Nieto ha privatizzato lo storico petrolio di Stato ed è arrivato all’Avana per sollecitare una collaborazione economica non prevista dall’embargo Usa: non importa se Città del Messico è legata a Washington nel mercato comune del Nafta. Colpo di testa o disobbedienza pilotata in previsione di cosa? Anche l’Unione europea annuncia una collaborazione non occasionale: continua e programmata.

il Fatto 13.2.14
Stati Uniti. Aumenta il salario minimo

Dieci dollari e dieci centesimi l’ora: sarà questo il nuovo salario minimo per tutti i lavoratori che lavorano nelle aziende sotto contratto nell’Amministrazione federale. L’ha annunciato Barack Obama, che di questa misura ha fatto una battaglia personale. LaPresse

Repubblica 13.2.14
“Bugiardo”, la Knesset contesta Schulz
Gaza e colonie, il presidente del Parlamento europeo aveva criticato Israele
di Fabio Scuto


Gerusalemme - Contestazione per il presidente del Parlamento europeo Martin Schulz, durante il suo intervento al Parlamento israeliano. Schulz ha detto alla Knesset che l’Unione europea dovrebbe sempre stare al fianco di Israele, in un discorso che ha toccato l’importanza di ricordare l’Olocausto, e la sua prospettiva personale dei crimini della Germania durante la seconda guerra mondiale. Ma le sue osservazioni sulle condizioni di vita dei palestinesi hanno provocato una dura reazione da parte dei 12 deputati di Bayit Yehudi (Focolare ebraico), il partito religioso-nazionalista, e di qualche parlamentare del Likud. Il loro leader Naftali Bennett - ministro del governo Netanyahu - ha successivamente spiegato alla Radio israeliana che «non poteva sopportare oltre le bugie di Shulz» sulle condizioni di vita dei palestinesi, e il suo uso della parola «assedio» per definire il blocco della Striscia di Gaza. «Chiedo al primo ministro una correzione immediata in nome dell’onore dello Stato di Israele», ha proseguito Bennett, «e non voglio accettare un sermone sulla falsa moralità diretta a Israele nel Parlamento israeliano e sicuramente non in lingua tedesca».
Nel suo discorso Schulz aveva affermato che «un palestinese ha accesso a 17 metri cubi di acqua al giorno contro i 70 di un israeliano»; aveva poi aggiunto però per chiarezza: «Non ho controllato questi dati e chiedo a voi se siano corretti», e aveva definito «dannoso il blocco» che Israele ha imposto a Gaza. Il presidente ha cercato poi di minimizzare le urla rivolte contro di lui - Vergognati! Bugiardo! - e scandite anche dai deputati del Likud del premier Benjamin Netanyahu. «A confronto con quel che accade nel Parlamento europeo», ha detto all’uscita della Knesset, «sono cose accettabili».
La contestazione alla Knesset ha finito così per cancellare un’importante dichiarazione che Shulz aveva fatto in mattinata a proposito della decisione della Ue di non importare più in Europa prodotti che vengano dagli insediamenti israeliani nella Cisgiordania occupata. L’Unione europea - aveva spiegato Shultz - non ha intenzione di approvare una risoluzione per il boicottaggio di Israele, in caso di fallimento dei negoziati di pace. Sarà una decisione che spetterà ai singoli Paesi della Ue e non dell’Unione. «Nel Parlamento europeo di sicuro non c’è», aveva precisato, «una maggioranza a favore di un potenziale boicottaggio, e se devo dire la mia opinione personale penso che sia una soluzione buona a nulla».
La polemica in questi giorni in Israele è rovente, la destra, il partito dei coloni, il Likud del premier Netanyahu sentono forte la pressione di Usa e Ue per uno sviluppo positivo della trattativa di pace con i palestinesi. Il continuo annuncio di nuove case nelle zone oggetto del negoziato non aiuta. E oggi ci sarà una nuova manifestazione del movimento dei coloni alla quale hanno annunciato la loro presenza ben 6 ministri del governo Netanyahu, per spingere il premier a rompere gli indugi sulla “famosa” collina E1 - in Cisgiordania lungo la strada per il Mar Morto - e avviare la costruzione delle 1.200 case finora bloccate dalle pressioni degli Stati Uniti. Se accadrà sarà il colpo finale al negoziato. È in questa atmosfera che Netanyahu si accinge a fine mese a incontrare il presidente Obama.

Corriere 13.2.14
Schulz parla alla Knesset. I deputati lo contestano
«Palestinesi senz’acqua». Netanyahu critica la sua parzialità
di Davide Frattini


GERUSALEMME — «Un giovane palestinese mi ha chiesto perché abbia diritto a 17 litri d’acqua al giorno, quando gli israeliani possono consumarne 70. Mi ha commosso e adesso giro a voi la sua domanda». La risposta di Naftali Bennett e dei suoi deputati è stata alzarsi in piedi e lasciare l’aula della Knesset dove Martin Schulz stava parlando. La visita e il discorso del presidente dell’Europarlamento avrebbero dovuto rattoppare i buchi diplomatici nelle relazioni tra Israele e l’Unione Europea. Lo strappo è invece diventato ancora più grande.
Il premier Benjamin Netanyahu ha scelto di non criticare la protesta del suo ministro dell’Economia e leader del partito ultra-nazionalista Focolare ebraico. Le parole di rammarico sono state indirizzate a Schulz: «Ha dato retta a una sola fonte e purtroppo sta diventando il vizio degli europei. Ha ammesso di non aver controllato i dati. È quello che succede sempre: ascoltano, non verificano, lanciano accuse».
Bennett ha considerato inaccettabili anche la denuncia contro le nuove costruzioni nelle colonie in Cisgiordania e le critiche al blocco della Striscia di Gaza. «Non sono disposto a ricevere lezioni basate su falsità. Soprattutto in tedesco». Alla cena ufficiale Yuli Edelstein, il presidente della Knesset, ha continuato a polemizzare con Schulz. «Le dichiarazioni inesatte che vengono pronunciate ogni giorno contro di noi contribuiscono a delegittimare Israele».
Andreas Michaelis, l’ambasciatore tedesco, ha definito irrispettosa la provocazione di Bennett, che ha lasciato capire: l’Olocausto toglie il diritto a Schulz di attaccare lo Stato ebraico. «Il presidente dell’Europarlamento è un sostenitore di Israele — ha ribadito l’ambasciatore — ed è sempre aperto al dialogo».
Nel discorso Schulz ha citato Willy Brandt («La pace non è tutto, ma senza la pace tutto è niente») e lo ha definito «il premio Nobel che combatté i nazisti tedeschi e si inginocchiò davanti al memoriale che commemora gli ebrei sterminati». A sorpresa ha ricordato anche Ariel Sharon. «Disse una frase per cui lo ammiro: “È impossibile avere uno Stato ebraico democratico e allo stesso tempo controllare tutta la Grande Israele. Se insistiamo nell’inseguire interamente un sogno, rischiamo di perderlo del tutto”».
Il partito di Bennett rappresenta i coloni che stanno ancora inseguendo quel sogno e sono contrari a un accordo di pace con i palestinesi: le terre conquistate nella Guerra dei 6 giorni devono secondo loro restare israeliane. Gli americani — rivela il telegiornale del Canale 10 — temono che Bennett e altri oltranzisti nel Likud, la formazione del premier Netanyahu, riescano a compromettere i negoziati condotti da John Kerry, il segretario di Stato americano. Dan Shapiro, ambasciatore Usa a Tel Aviv, ha ricevuto istruzioni di incontrare i rappresentati delle fazioni più estremiste.
Schulz ha visitato anche Ramallah e nel discorso ha elogiato il presidente palestinese Abu Mazen. Agli israeliani ha promesso che l’Unione Europea non metterà in atto un boicottaggio economico, se le trattative dovessero saltare. È quello che teme Yair Lapid, il ministro delle Finanze, ed è quello che temono i manager e gli imprenditori israeliani.
Il rischio di sanzioni o di perdere investimenti dall’Europa sta cominciando a preoccupare anche Netanyahu che vuole rispondere con una campagna globale di pubbliche relazioni.

Repubblica 13.2.14
L’iniziativa
Da Grossman a Noa lettera degli artisti per sostenere Kerry


GERUSALEMME — Un gruppo di artisti israeliani - con scrittori come David Grossman e cantanti come Noa - si è schierato a sostegno del segretario di Stato americano John Kerry, con una lettera in cui lo invita a proseguire i suoi sforzi per giungere ad un accordo di pace nella regione. Kerry è oggetto da mesi in Israele di una feroce campagna, che arriva all’insulto personale e comprende persino attacchi da parte dei ministri di Netanyahu. «Condurre negoziati tra Israele e palestinesi è un compito difficile ma il suo paziente approccio di cooperazione con entrambe le parti fa avanzare una sostenibile soluzione al conflitto », scrive il gruppo, secondo quanto riportava ieriYedioth Ahronoth.
Negli ultimi 8 mesi la trattativa non ha fatto un solo passo avanti significativo mentre la “finestra” del negoziato di pace si sta per chiudere.

La Stampa 13.2.14
Quei tremila beduini dimenticati: “Fu Sharon a deciderne il destino”
David Landau, direttore di “Haaretz”, in una biografia dell’ex premier Ariel Sharon descrive come fu lui a decidere nel 1972 lo spostamento di una tribù beduina per consentire alle manovre di svolgersi
L’Operazione “Oz” costò ai beduini almeno 28 morti
di Maurizio Molinari

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Corriere 13.2.14
Homs e lo spettro di un’altra Srebrenica
di Lorenzo Cremonesi


Cosa avverrà degli uomini di Homs? Non si rischia che i mediatori dell’Onu si rendano complici di una Srebrenica siriana? Il fantasma del massacro di quasi venti anni fa in Bosnia domina la seconda tornata dei negoziati di Ginevra tra esponenti dell’opposizione siriana e i rappresentanti del regime di Assad. Il pericolo è infatti che l’unico e scarno risultato raggiunto finora da questi difficili colloqui, iniziati tre settimane fa e mirati ad una soluzione per la guerra civile siriana grazie alla mediazione delle Nazioni Unite, si riveli una colpevole copertura dell’ennesimo crimine di guerra. Le immagini e i racconti che giungono nelle ultime ore dalle rovine fumanti della città assediata da oltre 22 mesi dai soldati lealisti non sono affatto rassicuranti. Centinaia di profughi infagottati, con i bambini in braccio, vecchi e feriti trascinati su barelle di fortuna, valige fatte di coperte per cercare di salvare le ultime, povere cose, raggiungono a stento i gipponi con i vessilli azzurri dell’Onu e quelli della Mezza Luna Rossa. In maggioranza sono donne con i figli piccoli. Si guardano attorno smarriti, terrorizzati dai cecchini mentre percorrono strade ingombre di macerie fiancheggiate da palazzi sventrati e condotte dell’acqua secche da tempo. Lasciano i quartieri controllati dalla guerriglia ribelle. Sono affamati, emaciati, malati. Ad attenderli dall’altra parte non ci sono però i funzionari internazionali, bensì le truppe scelte di Bashar. Le quali recensiscono i profughi, requisiscono le carte d’identità. E trattengono tutti gli uomini considerati «in grado di maneggiare un fucile». Quanti i sequestrati? Il numero è difficile da precisare. Sembra che dall’inizio dell’evacuazione venerdì scorso siano partire circa 1.400 persone, probabilmente meno della metà di quelle ancora nei quartieri circondati. Impossibile invece stimare il numero dei guerriglieri, qualcuno parla di una sessantina. Secondo i funzionari dell’agenzia Onu per i rifugiati, sarebbero stati arrestati 366 uomini in età compresa tra i 15 e 55 anni. A detta del governatore di Homs, il lealista Talal Barazi, di questi «111 sono stati rilasciati». «Chi è in regola è libero di andare dove vuole», osserva Barazi. Ma è proprio questo il punto? Chi decide le regole? Dal campo dei ribelli si alzano già accuse di violenze e torture. E inevitabile torna il parallelo con i circa 8.000 bosniaci massacrati dalle milizie serbe nel luglio 1995. Anche allora dalla massa di profughi di Srebrenica vennero selezionati gli uomini, compresi anziani e ragazzini. Doveva essere un «controllo», vennero invece uccisi. L’Unprofor, la forza di protezione Onu, avrebbe dovuto garantirli. Ma, con le spalle al muro, non fece nulla. E la comunità internazionale divenne corresponsabile del crimine.

Repubblica 13.2.14
Turchia, così Erdogan controlla i giornalisti
Sul web gli ordini impartiti dal premier. Un direttore: “Tutti noi abbiamo paura”
di Marco Ansaldo


«L’onore del giornalismo è stato calpestato. Ogni giorno ci cade addosso una pioggia di direttive. Si può scrivere quello che si vuole? Tutti hanno paura. È risaputo che chiunque lavori nei media affronta queste situazioni. Un giorno si saprà che tutti sono nella mia situazione».
È una confessione vera e propria quella di Fatih Altayli, uno dei più importanti direttori di media turchi, prima a Sabah, poi volto noto della tv, oggi al quotidiano
Haberturk.
Seguire le sue parole, lunedì sera alla Cnn-Turk, è stato uno shock per molti nel Paese. Un Paese dove la libertà di stampa appare ora un’emergenza assoluta. Un tema sul quale l’Europa, di cui la Turchia aspira a far parte, potrebbe incidere fortemente rispetto ad argomenti meno decisivi.
Tre giorni fa, su Internet, sono uscite le registrazioni degli ordini distribuiti per telefono dal premier Tayyip Erdogan a direttori di giornali e tv. Quali? Ad esempio, cambiare una notizia sullo schermo. Oppure, togliere un articolo sgradito. Le risposte dei direttori di molti grandi giornali sono state spesso sempre uguali: «Sì, signore!». «Sarà fatto subito, signore!».
E la paura si diffonde. Da qualche tempo, in Turchia, i giornalisti vengono licenziati a grappoli. Gli ultimi, per l’appunto, sono tre reporter del quotidiano Haberturk, cacciati dopo una chiamata del “sultano” per avere pubblicato una notizia critica verso il governo. Altre registrazioni emerse sulla rete hanno permesso di ascoltare due dirigenti di un giornale mentre si preparano a modificare i risultati di un sondaggio, a vantaggio del partito islamico.
Non tutti, però, stanno zitti. «Fosse successo in Inghilterra o in qualsiasi altra democrazia - dice Yavuz Baydar, ex garante dei lettori (poi licenziato) - il premier si sarebbe immediatamente dimesso. Ma qui no: Erdogan va avanti come se niente fosse. E così i direttori dei media ». I media turchi stanno diventando «come la Pravda» sovietica, avverte Devlet Bahceli, capo del Partito di azione nazionalista, la seconda compagine di opposizione. E la socialdemocratica Emine Ulker Tarhan commenta: «La Turchia è diventata un Paese nel quale titoli dei giornali e programmi tv possono essere cambiati con una telefonata ».
Come sono finite in rete le telefonate del premier? Probabilmente per iniziativa dei magi-strati, rimossi nelle ultime settimane da Erdogan per le loro inchieste sulla corruzione del governo. Dopo la rivolta di Gezi Park lo scorso giugno, costata 5 morti nelle dimostrazioni contro il pugno di ferro adottato dal premier, la piazza si è virtualmente riunita in Internet. Strumento odiato da Erdogan, e contro il quale il Parlamento di Ankara (composto a maggioranza da deputati del partito islamico che guida un governo monocolore) la scorsa settimana ha votato una legge-bavaglio, dopo che lo stesso premier aveva già denunciato Twitter e Facebook come «la più grande minaccia alla società».
Ieri l’uomo forte del Paese ha reagito con la consueta asprezza: «Nessuno può darci lezioni»,ha tuonato in Parlamento. E all’emittente araba Al Jazeera ha dichiarato: «La Turchia è molto più libera di praticamente tutti i Paesi UE». Il 30 marzo ci saranno elezioni amministrative. Ad Ankara, però, cominciano a contare come un voto dirimente sul governo conservatore islamico.

l’Unità 13.2.14
Caccia agli islamici. A Bangui è pulizia etnica
La denuncia di Amnesty, migliaia di persone in fuga
La presidente annuncia guerra alle milizie cristiane che seminano il terrore: «Le fermerò»
di Roberto Arduini


Una tragedia quasi senza testimoni. È questa la situazione nella Repubblica Centrafricana, martoriata da oltre un anno dalla violenze tra cristiani e musulmani. Già peggiorata agli inizi di dicembre, in queste ultime settimane si è fatta davvero drammatica. Sono le ong internazionali a denunciarlo, spiegando che è ormai in corso una vera e propria «pulizia etnica». Nonostante l’intervento della Francia, di una forza africana dei Paesi confinanti e del prossimo coinvolgimento anche dell’Unione europea, intere zone del Paese sono abbandonate a se stesse. E presto arriverà la stagione delle piogge.
Da quando il presidente François Bozizé è stato rovesciato dal «Seleka», una coalizione eterogenea a maggioranza musulmana, la guerra tra fazioni religiose divide in due il Paese. E la possibilità è davvero concreta, visto che il segretario generale dell’Onu Ban Ki-Moon ha avvertito che «è un rischio da tenere in seria considerazione ». «Nessuno accetterà una partizione dell’Africa Centrale», ha detto il ministro della Difesa francese Jean-Yves Le Drian, giunta ieri a Bangui per la sua terza visita nel Paese dall’inizio, il 5 dicembre, dell’operazione Sangaris, la missione militare francese. Sia la Francia sia l’Onu in questa fase accusano i combattenti cristiani anti-Balaka di alimentare violenze e impunità. Imiliziani inizialmente si erano presentati come un movimento nato per proteggere i civili dagli attacchi dei ribelli Seleka, che avevano destituito il presidente lasciando l’esercito in frantumi. Nelle scorse settimane, però, hanno preso parte a linciaggi di civili musulmani in un’ondata di violenza che ha spinto decine di migliaia a fuggire verso il Ciad, Paese vicino dove la maggioranza della popolazione è islamica.
«Andremo in guerra contro gli anti- Balaka», ha annunciato il neo-presidente di transizione Catherine Samba Panza. Ma il problema più grande è che le forze di pace sono schierate solo nella capitale Bangui e nelle sue vicinanze. I musulmani accusano i peacekeeper francesi e africani di non aver disarmato gli anti-Balaka, così come hanno invece fatto per i ribelli Seleka. Nelle ultime settimane, Amnesty International ha raccolto oltre 100 testimonianze dirette di attacchi su larga scala compiuti dalle milizie anti-Balaka contro la popolazione civile musulmana nelle città di Bouali Boyali, Boussembele, Bossemptele e Baoro. I peacekeeper non sono stati dispiegati in queste aree, lasciando i civili senza protezione. L’attacco più grave, riferisce Amnesty International, «è avvenuto il 18 gennaio a Bossemptele e ha provocato almeno 100 vittime tra la popolazione musulmana, tra le quali donne, anziani e un imam settantenne». Per scampare agli attacchi, molti islamici hanno lasciato le proprie case, i pochi rimasti hanno cercato riparo in chiese e moschee. Parigi ha finora dispiegato nella Repubblica Centrafricana 1.600 militari, che lavorano insieme ai seimila caschi blu africani. La missione europea dovrebbe essere composta da 500-600 soldati e sarà dispiegata nell’aeroporto della capitale Bangui, dove si sono rifugiate circa 100mila persone. L’ambasciatore francese all’Onu, Gérard Araud, ha detto che in questo modo le truppe francesi potranno lasciare lo scalo e occuparsi della sicurezza in altre parti di Bangui e fuori dalla città.
Esodo
Sono soprattutto il nord e l’ovest le regioni coinvolte dalle violenze. «L’intera popolazione civile è intrappolata da una violenza estrema e radicalizzata, e ogni giorno i civili pagano il prezzo degli abusi commessi dai due principali gruppi armati», racconta Stefano Zannini, direttore del dipartimento per il supporto alle operazioni di Medici Senza Frontiere (Msf). «Ormai ci sono più di 900mila sfollati nel Paese, più del 20% della popolazione. Gli alti livelli di violenza rendono molto difficile l’accesso alle cure mediche a causa dell’insicurezza, non hanno accesso alle cure mediche e molti si nascondono nella boscaglia per sfuggire alle violenze», continua Zannini. I combattimenti nelle città nord-occidentali hanno costretto la popolazione musulmana ad andarsene. «Trentamila rifugiati hanno già attraversato il confine verso il Ciad mentre 10.000 hanno raggiunto il Camerun. A Bangui, le famiglie musulmane si stanno radunando in un campo separato all’aeroporto, nella grande Moschea o in siti di sfollati isolati come quello a PK12». La ong ha raddoppiato le proprie forze da dicembre scorso e ora fornisce cure mediche gratuite a circa 400mila persone in 12 ospedali, 16 centri sanitari e 40 centri di salute. «Solo a M’Poko, il campo sfollati dell’aeroporto della capitale, hanno trovato riparo più di 100mila persone », conclude Zannini. E il Pam, il Programma alimentare mondiale, ha attivato un ponte aereo tra Douala e Bangui per fornire cibo alla popolazione. Oltre un milione di persone ha bisogno di assistenza alimentare. Quando, tra poco, inizierà la stagione delle piogge, le condizioni sanitarie peggioreranno e il nord del Paese sarà completamente isolato.

La Stampa 13.2.14
Niente amanti per i funzionari pubblici
Cina, chi sbaglia rischia il posto
di Ilaria Maria Sala

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Corriere 13.2.14
Pilastri di marmo restituiti ai cinesi dalla Norvegia
Diplomazia dell’Arte
di Marco Del Corona


Oggi i musei di tutto il mondo sembrano avviluppati in una tela globale che lega le loro collezioni al passato da cui provengono, le razzie e i mecenatismi che misero insieme i capolavori si trovano impigliati nelle speculazioni politiche dei Paesi che subirono le spoliazioni. Scheletri di dinosauri passano da New York alla Mongolia, statue khmer tornano a casa, istituzioni europee restituiscono reperti di tribù che si trovano alcuni oceani più in là, recriminazioni secolari si riaccendono.
È un trend globale, dove cozzano ambizioni nazionalistiche e stratificazioni di valori (estetici ma non solo). Si è aggiunto George Clooney, regista e interprete del film Monuments Men sui militari statunitensi a caccia d’opere d’arte saccheggiate dai nazisti. L’americano Clooney ha invitato Londra a restituire ad Atene i fregi del Partenone. I greci ringraziano. Altri no.
A questo panorama di potenziali traslochi, si aggiunge quanto sta accadendo sull’asse Cina-Norvegia. In autunno, torneranno a Pechino sette pilastri di marmo appartenuti al Palazzo d’estate distrutto nel 1860 dagli anglo-francesi durante la seconda guerra dell’oppio: erano conservati al museo Kode di Bergen, donati dall’avventuriero norvegese Johan Wilhelm Normann Munthe, a lungo residente in Cina tra fine Ottocento e primi del Novecento.
Come ricorda il New York Times , il rientro a Pechino dei pezzi è frutto di un accordo siglato in dicembre: da una parte il museo, dall’altra l’imprenditore-poeta Huang Nubo, lo stesso che aveva voluto acquisire enormi appezzamenti in Islanda. Huang versa al Kode oltre un milione e mezzo di dollari.
Vincono tutti: il museo avrà fondi; il governo cinese avanza nel risiko cultural-patriottico del rimpatrio del patrimonio trafugato dagli occidentali; la Norvegia può ammansire un po’ Pechino, che aveva fatto scontare a Oslo l’affronto del Nobel per la Pace assegnato nel 2010 al dissidente Liu Xiaobo. Mecenatismo diplomatico, diplomazia mecenatistica. L’arte come merce di scambio. E pure le star di Hollywood dicono la loro. Come avrebbe detto il presidente Mao: grande è il disordine sotto il cielo .

La Stampa 13.1.14
E il “mangiapreti” Craxi disse: non fate mancare i soldi ai preti
Veniva firmato trent’anni fa il nuovo Concordato che inventò l’otto per mille
Acquaviva: il premier pensava che le parrocchie avessero un ruolo positivo
di Marcello Sorgi

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La Stampa 13.2.14
Lsd per vincere la Guerra fredda
Il progetto americano nato dalla collaborazione con scienziati nazisti
Nell’arco di tre mesi vennero trasferiti negli Stati Uniti, evitando accuse e processi per la collaborazione con Hitler
di Maurizio Molinari


Oltre 1600 scienziati nazisti lavorarono per il governo degli Stati Uniti preparandosi a
combattere la «guerra totale» con l’Urss, e fra le armi che realizzarono ve ne era una a base di Lsd,per «portare scompiglio nell’Armata Rossa sul campo di battaglia» e «piegare le menti dei sovietici».
A rivelare l’episodio inedito della Guerra fredda è la giornalista americana Annie Jacobsen con il libro Operation Paperclip, nel quale descrive il programma segreto dell’intelligence Usa con cui vennero reclutati gli ex scienziati di Adolf Hitler. Il primo passo, nei giorni immediatamente successivi alla resa della Germania, fu la creazione da parte dell’Us Army di lavorare, nei laboratori militari e di intelligence, alla realizzazione di un nuovo tipo di armi. Washington era convinta che entro il 1952 vi sarebbe stata una «guerra totale» contro Camp King, un centro di detenzione nei pressi di Francoforte dove gli scienziati furono raccolti assieme alle famiglie.
UN LIBRO RIVELA
I chimici pensavano di usare la droga per creare scompiglio nell’Armata Rossa
Mosca, con l’impiego di ogni tipo di armamenti nucleare, chimico e batteriologico e dunque aveva bisogno degli scienziati a cui Hitler aveva affidato lo sviluppo dei gas più aggressivi, come il sarin. Fra loro c’erano Walter Schreiber, ex ministro della Sanità del Terzo Reich, e il suo ex vice Kurt  Blome che aveva partecipato alla ricerca sulle armi batteriologiche. Dai laboratori militari nacquero così sostanze per la «guerra totale», incluso un allucinogeno basato sull’Lsd, considerato una «potenziale arma» perché prometteva di «far perdere il controllo ai soldati sovietici senza essere costretti a ucciderli». La Cia, formatasi dopo la fine del conflitto, mostrò un forte interesse per l’Lsd «militarizzato» immaginandone più usi, compreso quello di adoperarlo negli interrogatori dei sovietici detenuti per «fargli perdere il controllo» e «manipolarne le menti».
Nacque così un’altra operazione top secret, «Bluebird», che ipotizzava il ricorso all’Lsd «militare» a fini di controspionaggio ovvero per «fare il lavaggio del cervello alle spie sovietiche in maniera da cancellare ogni ricordo di conversazioni con agenti americani».

Repubblica 13.2.14
“La Gioconda deve ritornare a Roma” la battaglia di Clooney per le opere d’arte

Riportare in Grecia i marmi del Partenone, custoditi nel British Museum. E la Gioconda, il capolavoro di Leonardo, in Italia, da secoli al Louvre di Parigi. È l’appello di George Clooney, e di altre star di Hollywood, lanciato durante la presentazione di “Monuments Men” di cui l’attore è anche il regista oltre che interprete. Il film racconta la missione dell’unità speciale dell’esercito Usa inviata in Europa per salvare le opere d’arte trafugate dai nazisti.

Repubblica 13.2.14
La città delle donne
Storia di un villaggio che rinunciò ai maschi
Arriva in Italia “L’uomo seme”, il racconto di un’esperienza avvenuta in Francia a metà dell’Ottocento Che ripropone l’utopia letteraria di un mondo senza una sua parte
di Elena Stancanelli


Violette Ailhaud aveva sedici anni quando, nel 1851, sparirono tutti i maschi dal suo villaggio. Un minuscolo paese nelle Alpes-de Haute-Provence. Borgogna, Provenza: fu quella l’unica zona di Francia in cui scoppiò la rivolta che avrebbe dovuto seguire il colpo di stato di Luigi Napoleone. Parigi tacque, mentre contadini, artigiani, borghesi abitanti del Midi - che non parlavano neanche il francese, ma una dialetto provenzale, un patois - si armarono per combattere il tiranno. Formarono una sorta di guardia nazionale, e scelsero come simbolo la farigoule, il timo, la pianta aromatica che non smette di rifiorire. I repubblicani conquistarono e tennero le città del sud della Francia per tutto il mese di dicembre, prima di cedere alle truppe bonapartiste-monarchico-clericali. Che, una volta ottenuta la vittoria, massacrarono, imprigionarono e deportarono tutti gli insorti con efficentissima ferocia.
Gli uomini, dunque, sparirono. Le madri, le mogli, le fidanzate li aspettarono a lungo, poi capirono che non sarebbero tornati. Da quel momento avrebbero dovuto fare a meno di loro. Fecero un accordo. «Sembravamo un gruppo di faraone impazzite. Le nostre idee volavano come cavallette, si incrociavano con le ali aperte di tutti i colori: blu, rosse, arancioni. Avevamo detto tutte la stessa cosa in mille modi diversi. Ma eravamo d’accordo». Tra queste donne, c’è Violette. Molti anni dopo, quando nel 1925 morì, tra le carte del suo testamento trovarono una busta e la richiesta che non fosse aperta prima dell’estate 1952. Alla data prevista, la maggiore dei suoi discendenti di sesso femminile, Yveline, secondo le istruzioni entrò in possesso del suo contenuto. Un manoscritto, poche decine di pagine scritte in patois, un lessico semplice, metafore terrigne e un’enorme potenza icastica. Oltre alla efficacia di una storia che sembra una parabola del vangelo.
L’homme semence è il titolo scelto dalla casa editrice Parole, che lo ha pubblicato in Francia. Decine di migliaia di copie vendute, ha ispirato spettacoli di teatro, danza, fumetti. C’è persino un festival a Digne dedicato a L’homme semence.
Che somiglia a un racconto distopico, e invece è una storia vera. Violette Ailhaud era una contadina e scriveva col coraggio e il pianto, la vergogna e l’orgoglio di chi ha vissuto, non di chi sa. Non sa niente, tranne quello che accade. «Piango quelle braccia perdute, fatte per stringerci e rovesciare la pecora durante la tosatura. Piango quelle mani falciate, fatte per accarezzarci e per tenere la falce per ore». Ripetizioni e slanci lirici sono a carico dell’autrice, e sono conservati, giustamente, anche nelle traduzione italiana che Monica Capuani cura per l’editore Playground, che mantiene il titoloL’uomo seme.
Che cosa manca, quando mancano gli uomini? Qualcuno che regga le pecore, certo. Abbracci. Ma a tutto c’è rimedio tranne che a una cosa: il seme appunto. Almeno fin quando non avremo imparato a riprodurci in maniera un po’ meno brutale. Il mondo senza uomini (o senza donne, senza bambini, senza animali...) è un topos letterario. Per ragioni diverse, dalla terra scompare di colpo una categoria di esseri viventi: disastri naturali, epidemie, guerre fratricide, effetti nucleari mirati... Esiste addirittura un batterio, tra i più diffusi per altro, che agisce in maniera selettiva attaccando solo i maschi della specie. La “wolbachia” uccide, oppure trasforma i maschi infettati in femmine. In Herland (1915), romanzo della scrittrice femminista Charlotte Perkins Gilman, si racconta che dell’eliminazione dei maschi fu responsabile l’eruzione di un vulcano. E fu una benedizione. Da allora le donne vivono in pace, in una società egualitaria, riproducendosi per partenogenesi, nella bellezza e nell’intelligenza. E il sesso tra donne, secondo le abitanti di Herland, sarebbe molto più soddisfacente e articolato.
Anche la scienza lo sostiene, scoperta che provocò una reazione furibonda nel mondo accademico. Quando negli anni Sessanta uscirono i risultati degli studi del dottor William Master e la sua collega Virginia Johnson, fu un bel colpo per gli uomini venire a sapere che l’orgasmo femminile vale dieci volte quello maschile, e che anche senza la loro preziosa anatomia otteniamo grandissima soddisfazione. Ma se sul sesso non c’è niente da eccepire, la partenogenesi umana sembra ancora un po’ lontana. Nonostante l’entusiasmo suscitato dalla nascita di
Kaguya, nel 2004 in un laboratorio giapponese: la prima topolina venuta al mondo con un patrimonio genetico interamente femminile. La partenogenesi è un processo presente in natura e quindi, chissà quando, applicabile anche agli esseri umani: si prende un ovulo femminile e attraverso un processo chiamato “mitosi” si ottiene un embrione. Ovviamente femminile, dal momento che il cromosoma Y non partecipa alla festa, e quindi in grado di produrre soltanto esseri di sesso femminile.
Ma questo è il futuro. Quando nel 1851 spariscono i maschi dal villaggio di Violette (uccisi dalla guerra) il patto tra le donne non riguarda la manipolazione genetica. Il primo uomo che fosse capitato per caso sulla collina, decidono invece, sarebbe stato di tutte. Fine del matrimonio, della coppia, persino dell’amore: l’uomo è il seme, e il seme si divide. Sera dopo sera le donne del villaggio si divertono a immaginare come sarà quest’uomo. Come parlerà, riderà, dormirà e mangerà. Lo vestono e lo spogliano mille volte, come fosse una bambola. Fin quando un giorno, dalla collina, vedono finalmente salire un uomo...

Repubblica 13.2.14
Cinema vs poesia
Bertolucci Obrist e il mestiere dell’arte
Il regista e il critico si sono incontrati a Londra. Ecco cosa si sono detti tra Roland Barthes e Sergio Leone, ricordi e miti, la dolce vita e l’effetto Oscar
di Enrico Franceschini


Londra. La poesia, Roma, Pasolini, Moravia, Elsa Morante, Godard, Sergio Leone, la commedia all’italiana, Marlon Brando, Roland Barthes, Novecento, Hollywood. Tutta la vita di Bernardo Bertolucci, l’unico regista italiano ad aver vinto l’Oscar per il miglior film in assoluto (non per il miglior “straniero”), in due ore di dialogo a ruota libera con Hans Ulrich Obrist, direttore della Serpentine Gallery, celebre museo di arte moderna, insieme alle domande di un folto pubblico e di qualche giornalista all’Istituto Italiano di Cultura di Londra. Una intervista “impossibile”, come la definisce la direttrice Caterina Cardona, evocando quelle “impossibili” davvero che Giorgio Manganelli faceva alla Rai nei primi anni ’70. Un’opportunità unica per ascoltare “l’ultimo imperatore” del cinema italiano, a 72 anni sprizzante energia anche dalla sedia a rotelle, con un occhio al futuro («farò un altro film, l’idea c’è, manca la forma ma arriverà») e una montagna di ricordi dietro le spalle.
Obrist: Cominciamo dall’inizio: lei non doveva diventare un poeta?
Bertolucci: Per il figlio di un grande poeta era normale cominciare scrivendo poesie e così feci anch’io, tra i 6 e i 18 anni. Ma mio padre Attilio era anche critico cinematografico della Gazzetta di Parma e mi portava con sé a vedere le proiezioni. Da bambino ne rimanevo incantato, mi ero perfino convinto di somigliare a John Wayne. Poi a 16 anni ricevetti una cinepresa a 16 millimetri e girai il mio primo film, La teleferica.
Da allora pensai meno alla poesia e di più al cinema.
Obrist: Come fu il passaggio da Parma a Roma?
Bertolucci: Avevo 12 anni quando la mia famiglia si trasferì nella capitale e in principio non mi piacque per niente. Mi sentivo in esilio. Le facce dei piccoli borghesi romani del nostro quartiere mi sembravano infinitamente meno nobili di quelle dei contadini emiliani delle mie origini, un pensiero che mi sono portato dietro fino a quando ho girato Novecento, che è un film sulla contrapposizione tra i contadini e le altre classi sociali.
Obrist: A un certo punto nella sua vita entra una seconda figura paterna: Pasolini. Come vi conosceste?
Bertolucci: Il primo incontro rischiò di finire male. È domenica, suonano alla porta di casa, apro e vedo un bel giovane elegante che dice di avere un appuntamento con Attilio Bertolucci. Lo faccio aspettare fuori, sveglio mio padre che riposava e gli dico: c’è un tizio che ti cerca, ma secondo me è un ladro, chi vuoi che venga a cercarti di domenica a quest’ora? E mio padre mi grida di correre ad aprirgli, che quello è un grande poeta.
Obrist: Invece finiste entrambi per fare cinema.
Bertolucci: Pier Paolo venne a vivere da noi e ogni volta che scrivevo un poema andavo subito a farglielo leggere. Diceva che dovevo raccoglierli in un libro. Ma finite le scuole andai un mese a Parigi, lo passai tutto dentro la Cinémathèque e quando tornai ero cambiato. “Ti piace il cinema?”, mi chiese Pier Paolo e risposi di sì. “Allora farai il mio aiuto regista per Accattone”, che sarebbe stato il suo primo film. Obiettai che non sapevo nulla del lavoro di regista. “Neanch’io”, mi rispose tranquillo.
Obrist: Come furono i suoi primianni ’60 a Roma?
Bertolucci: Roma era una città molto più interessante di com’è oggi. Passavo quasi ogni sera fuori a cena con Pier Paolo, Moravia ed Elsa Morante a discutere di tutto. Mio padre mi rimproverava di non essermi laureato, io gli rispondevo: ho avuto la mia educazione a Campo de’ fiori. Una fantastica educazione. Vorrei che i giovani d’oggi potessero avere amici più vecchi e più saggi, ma che non ti trattano dall’alto in basso, come ebbi io con loro tre.
Obrist: Quindi ha lavorato con Sergio Leone: come andò?
Bertolucci: Io sono cresciuto amando la Nouvelle Vague del cinema francese, Godard e Truffaut, al punto di pensare di essere diventato francese anch’io. La prima volta che un giornalista di un quotidiano romano venne a intervistarmi gli dissi che avremmo dovuto parlare in francese. Perché mai, fece quello, e io: perché è il linguaggio del cinema. Non amavo la commedia all’italiana, neanche la migliore, nemmeno Monicelli e Risi, perché non erano interessati al linguaggio del cinema. Mi piacevano Antonioni, Pasolini, Visconti, questo sì. E Sergio Leone. Perché aveva qualcosa di diverso dagli altri. Dopo Il buono, il brutto, il cattivo, mi chiamò e mi chiese: perché dici in giro che ti piacciono i miei film? Perché, risposi, mi piace come giri il culo dei cavalli, so-lo tu e John Ford fate vedere il culo, gli altri li riprendono sempre davanti o di fianco. Allora, sentenziò lui, lavorerai con me. E così scrissi per lui, insieme a Dario Argento, un po’ di C’era una volta il west e C’era una volta in America, il suo film proustiano.
Obrist: È vero che Godard non le disse se gli era piaciuto Il conformista?
Bertolucci: Godard era il mio dio. Ma a quel tempo era diventato maoista, non andavamo d’accordo politicamente, tanto che mi iscrissi al Pci quasi per ripicca, e cominciavano a piacermi di meno anche i suoi film. Però aspettavo con trepidazione il suo parere sul Conformista. Finalmente mi dà appuntamento a Saint-Germain-des-Prés una sera alle 10, piove, è pieno di giovani con l’impermeabile, ma Godard non arriva. Infine eccolo, sigaretta in bocca, immancabili occhiali da sole. Mi porge un pezzetto di carta e scompare. Lo apro, c’è una gran foto di Mao e una scritta: “Abbasso l’imperialismo e l’individualismo”. Volevo una sua parola sul Conformista e mi diede uno slogan maoista.
Obrist: Come scelse Marlon Brando per il protagonista di Ultimo tango a Parigi?
Bertolucci: Prima proposi la parte a Gian Maria Volonté, che rispose: non se ne parla nemmeno. Poi a Jean-Paul Belmondo, che quasi mi cacciò via a calci dicendo: io non faccio film porno. Quindi ad Alain Delon, che accettò a patto di fare lui il produttore e dunque poter cambiare tutto. Poi una sera a Piazza Navona parlando con Moravia, che mi aveva scritto qualche dialogo per il film, saltò fuori il nome di Brando. Marlon venne a incontrarmi a Parigi, gli feci vedere lì Il conformista e accettò, ma volle che io andassi a casa sua per un mese a Los Angeles per parlare del film. Ci andai e parlammo della vita, di letteratura, di tutto, tranne che del film. Ma intanto aveva detto di sì.
Obrist: Cos’è stato per lei Novecento?
Bertolucci: Un’esibizione di megalomania: dopo il clamore di
Ultimo tango sentivo di avere un grande potere e di poter fare quel che volevo. Pasolini diceva che il successo è atroce: ma la mancanza di successo è ancora peggio. Passai un anno a girarlo nella valle del Po, un anno duro e magnifico. Roland Barthes nel Piacere del testo parla di un futuro in cui si mescoleranno tutti i generi, tragedia e commedia, e questo era esattamente ciò che volevo io con Novecento.
Obrist: Che effetto le fece l’Oscar per L’ultimo imperatore?
Bertolucci: Ad alcuni l’Oscar fa un effetto mistico, ma per me fu pura gioia. E poi avevamo avuto nove nomination e diventarono nove Oscar, ne vincemmo così tanti che persi la premiazione di uno perché ero andato alla toilette.
Obrist: A proposito di Oscar, pensa che La grande bellezza di Paolo Sorrentino lo vincerà? E a lei è piaciuto?
Bertolucci: Sono quasi sicuro che lo vincerà e lo voterò senz’altro. È un film di straordinaria potenza. Ha dei momenti che mi piacciono meno, quando Sorrentino vuole confrontarsi con
La dolce vita, un confronto impossibile, anche perché Fellini aveva Mastroianni, un Marcello giovane e bello, e Servillo, che pure è un grande attore, è un’altra cosa. Ma è un film che la gente ama o odia, e pochi film suscitano sentimenti così contrapposti.

Repubblica 13.2.14
Così si salvano le carte del caso Sifar - De Lorenzo
di Simonetta Fiori


Tintinnio di sciabole. Bastano queste parole per evocare “il piano Solo”, uno dei più discussi complotti dell’Italia del dopoguerra. E per evocare una pagina di storia del giornalismo italiano: il processo per diffamazione al direttore e all’inviato dell’Espresso- Eugenio Scalfari e Lino Jannuzzi - che avevano denunciato il tentativo di golpe preparato tre anni prima da Giovanni De Lorenzo, ex capo del Sifar e allora comandante dei carabinieri, con la complicità del presidente della Repubblica Antonio Segni. Un dibattimento ricco di colpi di scena, tra amnesie, ritrattazioni, l’improvvisa retromarcia di Jannuzzi sul coinvolgimento del Quirinale. Cominciato nel novembre del 1967, il processo si chiuse il primo marzo del 1968 con una clamorosa condanna, nonostante il pubblico ministero Vittorio Occorsio avesse chiesto il proscioglimento. Sedici mesi a Jannuzzi. E diciassette mesi a Scalfari. La vicenda giudiziaria si sarebbe definitivamente chiusa nel dicembre del 1972, con la remissione di querela da parte di De Lorenzo. Intanto sia Scalfari che Jannuzzi erano stati eletti in Parlamento, entrambi nel-le file del Psi di Pietro Nenni.
Finora gli studiosi ne hanno ricostruito i vari passaggi limitandosi ai resoconti giornalistici. «Da oggi le carte processuali saranno consultabili», dice Mimmo Franzinelli, che al piano Solo ha dedicato un documentato volume (I servizi segreti, il centro-sinistra e il “golpe” del 1964, Mondadori). L’iniziativa si deve alla sensibilità di Michele Di Sivo, lo studioso dell’Archivio di Stato che ha salvato gli atti dal macero e si sta battendo per creare nuovi spazi e profili professionali in grado di conservare documenti giudiziari altrimenti condannati alla distruzione. «Non possiamo permetterci di perdere queste come altre carte fondamentali per la storia d’Italia della seconda metà del Novecento, tra stragi, corruzione, terrorismo », dice Di Sivo. «Dopo circa 40 anni i fascicoli dei tribunali vengono buttati via. E la digitalizzazione non consente di conservare i documenti originali».
Oggi pomeriggio, all’Archivio di Stato di Roma (ore 16,30, corso Rinascimento 40), saranno presentate le carte del processo contro Scalfari e Jannuzzi, in particolare i documenti prodotti dall’istruttoria di Occorsio, esponente della magistratura illuminata poi ucciso dai terroristi neri. Carte rilevanti per le deposizioni di protagonisti della storia italiana, da Andreotti a Parri. E per le testimonianze dei militari. «I generali Manes, Gaspari e Zinza», spiega Franzinelli, «confermarono l’inchiesta giornalistica sugli allestimenti militari di carattere eccezionale». All’incontro, che porta lo stesso titolo dell’inchiesta dell’Espresso - Complotto al Quirinale - parteciperanno Scalfari e l’attuale direttore del settimanale Bruno Manfellotto, Di Sivo e il presidente del tribunale ordinario di Roma Mario Bresciano, la direttrice generale degli Archivi Rossana Rummo e il direttore dell’Archivio di Stato Eugenio Lo Sardo. È previsto anche l’intervento degli storici Miguel Gotor e Franzinelli, che illustrerà le nuove carte americane “a carico” di Segni. Brani dal processo saranno letti da Maddalena Crippa.
Il golpe strisciante di De Lorenzo rivelò quell’Italia dei poteri occulti che ha continuato ad agire sotto traccia fino alla P2, e anche oltre. Un paese “parallelo” che è una costante della storia nazionale. «Non fu un golpe», scrive Scalfari in La sera andavamo in via Veneto. «Non ci fu nessun concreto movimento né militare né di piazza, non si produsse nessun atto specifico, nulla di nulla. Ci fu, semplicemente, un rumore di sciabole. Ma fu sufficiente a mutare il corso della politica italiana».

il Fatto 13.2.14
A Milano il latino è vivo, anche sul web
di Gianni Barbacetto


Giancarlo Rossi è l’anima di “Sodalitas Latina”, un’associazione nata a Milano che vuole diffondere l'amore per il latino e il suo uso come lingua viva, con cui parlare di ogni argomento, dai classici al web. “Siamo contro l’uso punitivo del latino”, racconta, “di cui nelle scuole si fa un insegnamento grammaticale, astratto e scolastico. Per noi è invece una lingua viva, che si apprende parlandola. Siamo in tanti a pensarla così, in tutta Europa”. Gli amici della “Sodalitas” leggono Cicerone, ma discutono anche di internet (“internexus”), di computer (“machina ordinatoria” o “computatrum”), di facebook (“prosopobiblion”, con espressione mutuata dal greco).
Hanno iniziato, nel 1986, in tre: Giancarlo (Joannes Carolus), architetto, Claudio (Claudius), ingegnere stoico sessantottino, e Stefano (Stephanus), musicista cattolico conservatore. L’amore per la lingua latina ha superato le divisioni ideologiche e politiche e li ha portati a far crescere un gruppo che oggi è stato cooptato dal Circolo Filologico Milanese, la più antica istituzione culturale della città, nata nel 1872, un anno prima del Corriere della sera. Si ritrovano ogni due settimane nei bei saloni del Filologico e leggono e discutono Erasmo da Rotterdam (titolo delle serate: “Miscellanea interjectis Desiderii Erasmi Adagiis”). Stimati professionisti e giovani studenti si ritrovano insieme, uniti nel rivendicare – e soprattutto praticare – un uso del latino non punitivo e incartapecorito, ma divertente e intellettualmente stimolante. Diremmo “glamour” o addirittura “cool”, se l’inglese come lingua universale non fosse bandito, in quei bei saloni.
Parlando latino, non si sentono gli ultimi dei soldati giapponesi nella foresta, assediati da un mondo che parla inglese. Intanto perché ormai il mondo parla cinese e arabo, castigliano e russo. Ma anche perché sanno di essere in tanti, in tutto il mondo, con centinaia di siti web (“interrete”) in cui si comunica in latino.
C’è uno stato e c’è un’istituzione in cui il latino è (o dovrebbe essere) la lingua ufficiale: lo Stato del Vaticano e la Chiesa cattolica. Facile allora schiacciare gli amici del latino su quella istituzione e quello Stato. Anzi, identificarli come i passatisti che non hanno capito e accettato la rivoluzione del Concilio Vaticano II che ha sostituito nella liturgia cattolica il latino con le lingue “vive ”. Che i sopravvissuti amici del latino siano dei lefevriani mascherati, tradizionalisti, nostalgici e anticonciliari? Joannes Carolus lo nega con decisione. “Io credo che la Chiesa cattolica abbia realizzato uno scambio tra liturgia e teologia: rivoluzioniamo la liturgia, mettendo in soffitta il latino, per non rinnovare la teologia, restata impermeabile alle sollecitazioni di chi tra i cattolici chiedeva la fine della compromissione della Chiesa con il potere”. Hanno fatto finta di essere diventati moderni perché non usano più il latino, lingua che i preti e i cardinali non conoscono più, mentre invece non hanno rinnovato la teologia e gli equilibri di potere.
“Gianfranco Ravasi, presidente del Pontificio Consiglio della Cultura, ha messo al vertice della Pontificia accademia di latinità (Pontificia Academia Latinitatis) il rettore dell’università di Bologna Ivano Dionigi”, sostiene Joannes Carolus, “che è un nemico del latino e ha trasformato la rivista Latinitas in un giornale scritto in più lingue”. Imperdonabile, per un vero amico del latino.

Repubblica 13.2.14
Una macchina che superi l’Lhc, quattro volte più grande e capace di far scontrare le particelle con un’energia dieci volte superiore I fisici ne studiano la fattibilità: le sfide per i prossimi anni riguardano gli ostacoli tecnologici e la disponibilità di nuovi materiali
“Ecco il super-acceleratore” la sfida del Cern oltre il bosone
di Matthias Meili


In questomodo si aspettano nuove conoscenze sugli ultimi segreti della materia. Lo scorso autunno il direttore del Cern, Rolf Dieter Heuer, ha dichiarato che un nuovo acceleratore non sarebbe stato costruito in nessun caso. La pole position indiscussa spettava all’acceleratore lineare Ilc (International Linear Collider), che sarà costruito in Giappone: un tunnel rettilineo di 31 chilometri, nel quale vengono sparati elettroni che collidono al centro. Nel frattempo però l’opinione dei fisici europei è cambiata.
La discovery machine
Il nuovo strumento potrebbe essere usato sia come acceleratore di elettroni che come acceleratore di protoni. Gli acceleratori di protoni fungono da discovery machine, e con il loro aiuto è stata scoperta anche la particella di Higgs. Ma certe proprietà della particella, ad esempio la massa, non possono essere misurate con la necessaria precisione, a causa della complessità delle collisioni di protoni. Questa precisione può essere assicurata da un acceleratore di elettroni, poiché qui avvengono collisioni di elettroni con l’energia desiderata.
In questi giorni all’Università di Ginevra si tiene un meeting che prende spunto da uno studio preliminare della comunità dei fisici europei: saranno discusse le sfide scientifiche e tecniche del nuovo acceleratore. Allo stesso tempo è stato avviato uno studio di fattibilità per analizzare fino al 2018 i principali problemi di questo mega-progetto. Per lostudio sono previsti cinque anni perché difficoltà e ostacoli sono enormi, per non parlare delle questioni socio-economiche. Vale la pena spendere miliardi di franchi svizzeri (secondo le stime almeno 20)?
Il nuovo acceleratore circolare viene presentato con il nome di Future Circular Collider(Fcc), “acceleratore circolare del futuro”. Negli studi preliminari è stata approntata una road map con i dati fondamentali. L’anello dovrebbe avere una circonferenza da 80 a 100 chilometri, mentre l’acceleratore Lhc ha una circonferenza di 27 chilometri. Prendendo come parametro l’energia di collisione, si avrebbe un miglioramento di dieci volte. Nell’Fcc potrebbero essere raggiunti con i protoni valori fino a 100 TeV (teraelettronvolt), mentre in futuro l’Lhc arriverà a 13-14 TeV. Poiché l’energia di collisione determina la massa massimale delle particelle che possono essere scoperte, questo valore è decisivo per i fisici.
Quale variante alla fine sarà costruita, e in che modo sarà utilizzata non è chiaro. Le risposte dipenderanno dai risultati ottenuti dall’Lhc nei prossimi anni. Tuttavia gli scienziati non vorrebbero aspettare a lungo, perché una macchina così grande non nasce dall’oggi al domani. Ad esempio, dalla prima idea alla messa in opera dell’Lhc nel 2008 passarono 25 anni. Oggi i fisici stimano che l’Lhc fornirà risultati fino, al massimo, al 2040, dopodiché i dati acquisiti non consentiranno più nessuna nuova conoscenza.
Il problema dei materiali
«Il nuovo sistema potrebbe funzionare dieci anni come acceleratore di elettroni, per realizzare la fisica di precisione di Higgs», dice Jörg Wenninger, che lavorerà allo studio di fattibilità. Nel frattempo potrebbe essere sviluppata la tecnologia per il nuovo acceleratore di protoni, poiché certe componenti (come i magneti) non sono nemmeno allo stadio di prototipo. Se fossero costruite con materiali superconduttori migliori, si potrebbe smontare l’acceleratore di elettroni e installare nel tunnel la nuova discovery machine.
L’acceleratore di elettroni è tecnologicamente più semplice, ma in questo caso il problema è il fabbisogno di energia. Le particelle elementari che ruotano quasi alla velocità della luce irradieranno una potenza elettrica di 100 megawatt. Ipotizzando che l’acceleratore lavori con un’efficienza del 50 per cento, dovrebbero essere forniti 200 megawatt solo per l’accelerazione degli elettroni. «Dobbiamo chiederci se i fisici possano premettersi di consumare tanta energia, visto che ovunque la si risparmia», dice Wenninger.
«Un Fcc come acceleratore di elettroni sarebbe il progetto concorrente dell’acceleratore lineare giapponese Ilc», continua. Tuttavia, anche il progetto Ilc ristagna, il finanziamento non è assicurato, e molti fisici europei sperano nella sede di Ginevra - tanto più che qui è disponibile parte dell’infrastruttura necessaria. Ma anche la Cina sta pensando a un nuovo acceleratore circolare. E benché la situazione finanziaria degli Usa sia fosca, anche gli statunitensi vogliono fare il loro. Tutti gli scienziati concordano solo sulla necessità, dati i costi, di costruire un solo impianto.


La Stampa 13.2.14
La fusione nucleare ora è più vicina Successo dei test in America
Per la prima volta prodotta una quantità di energia superiore a quella necessaria a innescare la reazione. È il passo in avanti atteso da decenni in tutto il mondo
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