venerdì 14 febbraio 2014

Renzi “Ho un’ambizione smisurata”
La direzione democratica lo lancia verso il potere con 136 sì, 16 no e 2 astenuti
Corriere 14.2.14
Se il segretario rivendica un’ambizione smisurata
di Luca Mastrantonio


Matteo Renzi Il segretario twitta dopo la Direzione: «Un Paese semplice e coraggioso #Proviamoci» Enrico Letta Il premier, invece, ringrazia tutti «per i tanti messaggi ricevuti in queste ore» Angelino Alfano Per il leader ncd questo governo «avrebbe meritato parole più generose dal Pd» M
atteo Renzi è così sicuro di sé da rivendicare come virtù ciò che gli viene rinfacciato come vizio: l’ambizione. Ieri, durante la Direzione del Pd a Roma, ha detto che è necessario avere una «ambizione smisurata», cioè fuori misura, per far uscire l’Italia dalla «palude». Deve averla tutto il partito, dal segretario all’ultimo delegato. L’ambizione, sa bene il sindaco di Firenze che si rifece a Dante per il suo libro Stil novo , può diventare uno dei peccati peggiori, la superbia; ma per Renzi, evidentemente, è meglio dell’ipocrisia. In quel libro, poi, parlava di Cosimo de’ Medici come rottamatore ante litteram; ma per i suoi detrattori, al sindaco si addice di più la parabola di Benedetto Cellini, artista violento che fece parlare più di sé che delle sue opere. Osservando la galassia di riferimenti di Renzi, e delle generazioni a lui vicine, viene in mente Steve Jobs e il celebre imperativo categorico rivolto ai giovani americani: «Stay hungry, stay foolish!». Siate affamati, siate folli! Ambiziosi. Dante insegna, però, che può finire male chi si produce in un «folle volo», per mare, come l’Ulisse della Divina Commedia , o per aria, come Icaro (mito caro a Massimo D’Alema). A molti rappresentanti delle classi dirigenti di vecchio stampo, e magari d’alto lignaggio come Enrico Letta, i modi sbrigativi e vistosi, rampanti di Renzi, dalla rottamazione alla ostentazione dei simboli, dal carisma contundente alla febbre di successo, ricordano Il Grande Gatsby, l’affascinante outsider dell’età del jazz americana (interpretato sul grande schermo, per altro, da un Leonardo DiCaprio che in questi giorni incarna anche la sfrenata ambizione finanziaria ne Il lupo di Wall Street ). Gatsby e Renzi sono entrambi personaggi fuori misura, dotati di carisma e ambizione; ma i moventi sono diversi: il protagonista del romanzo di Francis Scott Fitzgerald vede nel successo sociale un mezzo per riconquistare Daisy (quasi un rimpianto, da esaudire); Renzi rivendica l’ambizione personale in sé, come valore, e per sé (diventare il presidente del Consiglio più giovane d’Italia?). Il risveglio di Gatsby dal sogno in cui aveva creduto smisuratamente è amaro. Speriamo non faccia la stessa fine l’Italia di Renzi.

Repubblica 14.2.14
L’amaca
di Michele Serra


La cosa che più impressiona, in queste ore, è la totale giustapposizione tra il Pd e l’area del potere. Dal Colle a Palazzo Chigi alla sede del partito alla Smart di Renzi è dentro il Pd che tutto accade, così come, un tempo, tutto accadeva dentro la Dc. Con una differenza sostanziale: che la Dc, anche in virtù della sua immeritata rendita (la guerra fredda, l’appoggio degli Usa, la benedizione della Chiesa) poteva contare su un sostanzioso primato elettorale (veleggiava tra il 35 e il 40 per cento), nonché sull’appoggio di alleati che le furono vassalli fedeli, quasi organici. E in anni in cui andava a votare il 90 per cento degli italiani. Mentre al Pd, per fare e disfare governi, basta un 25,42 per cento, per giunta calcolato su un elettorato complessivo quasi dimezzato, per giunta con alleanze precarie e mutevoli. Da elettore del centrosinistra dovrei essere entusiasta del peso sproporzionato del mio voto. Non lo sono, forse perché, pur essendo italiano fino al midollo, mi sento prima cittadino e solo dopo parte di una fazione. Leggo lo strapotere del partito che ho votato come il sintomo di una malattia di sistema. Vedo la fresca investitura popolare di Renzi gettata come una fiche su un tavolo da poker.

Repubblica 14.2.14
L’azzardo dell’acrobata
di Ezio Mauro


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Dunque tocca a Renzi, in anticipo sui tempi, cortocircuitando i modi, a dispetto forse perfino delle convenienze. Il sindaco di Firenze ha cambiato la scena in tre mosse, sempre muovendosi su un terreno di gioco parallelo a quello che voleva conquistare. Prima, puntando al governo, ha guadagnato la leadership del partito con le primarie. Poi, guardando alle elezioni, ha fatto ripartire in quindici giorni il treno delle riforme istituzionali bloccato da anni. Infine, scommettendo sul Pd, ha portato il governo sull’orlo del piano inclinato guardandolo scivolare ogni giorno più giù, fino a diventarne la naturale alternativa.

Nei confronti dell’esecutivo ha usato la formula “né aderire, né sabotare”. Lo ha trattato da governo “amico”, ma non da governo del Pd. Tutto questo ha accentuato la fragilità congenita del ministero, forte dalla cintola in su (per il buon credito di Enrico Letta in Europa), debole in Italia per la gestione troppo prudente di una somma algebrica dei veti incrociati in una maggioranza spuria, con il minimo comun denominatore come risultato. Era inevitabile che il protagonista delle riforme diventasse primattore politico. Era probabile che questo ruolo lo candidasse ad alternativa di governo. Era sperabile che tutto ciò avvenisse in forme e modi po-litici, attraverso un percorso condiviso e guidato da un partito in cui i contendenti si riconoscono e che parla al Paese più dei loro caratteri e dei loro progetti personali. Guida, comunità, condivisione non ci sono state.

Renzi ha badato solo all’opportunità da cogliere, accettando la sfida con tutti i pericoli che comporta. Letta ha reagito all’esaurimento del suo progetto provando a resistere per un giorno, ma la delusione personale non è un progetto politico e non cammina. Soprattutto se a lato cresce la calamita di una leadership forte, che attira a sé i soggetti di una politica debole e promette di dar loro un futuro o almeno quell’orizzonte che finora è mancato.

L’arma usata appare infatti semplice e antica: la promessa del tempo, l’impegno a usarlo per cambiare il Paese. Il sistema politico, parlamentare e istituzionale aveva introiettato il sentimento della propria precarietà, vivendo dall’agonia di Berlusconi in poi su un terreno instabile, con maggioranze innaturali, alleati-nemici, veti incrociati, programmi senza ambizione, elezioni inefficaci, prospettive di breve termine, navigazione a vista. Soprattutto, aveva assorbito come naturale la condanna all’interruzione permanente della legislatura, il ricorso alle elezioni anticipate come rimbalzo continuo più che come rimedio definitivo. Anche oggi, anzi fino a ieri, il cammino del governo e il cammino delle riforme erano destinati a congiungersi a breve in un unico punto terminale, con le Camere sciolte e il ricorso agli elettori, questa volta almeno nella speranza di una nuova legge elettorale.

Renzi ha detto che questo paesaggio poteva cambiare, perché non era una condanna obbligata. Il sistema poteva cioè provare a vivere di vita autonoma, come se fosse normale, impegnando la legislatura fino al suo termine naturale, cioè quattro anni, per provare a cambiare davvero il Paese. Una tentazione irresistibile per i piccoli partiti, terrorizzati dal voto mentre devono ancora definire la loro incerta identità, ma anche per il Pd, che per la prima volta può far pesare per quattro anni la massa dei suoi parlamentari, conquistati grazie al Porcellum: e nel Pd la tentazione è forte sia per la maggioranza che può portare al governo il suo leader e la sua voglia di cambiare, sia per la minoranza che può allontanare il momento della formazione delle liste elettorali nelle mani di Renzi, e può anzi contare intanto su un rimescolamento interno al partito.

Gli alleati - partitini, minoranza Pd - hanno dunque aperto la strada a Renzi, minando il governo in carica. Restavano due ostacoli materiali, Letta e soprattutto Napolitano, che in questo Paese senza maggioranza si è dovuto assumere il compito di Lord Protettore del governo, in nome della stabilità, garantendo sul piano internazionale per l’Italia e proteggendola sui mercati. Di fronte ad un trasloco del quadro politico, che ha cambiato il suo riferimento da Letta a Renzi credendo di trovare qui più forza, più durata, più garanzia soprattutto di dare quello scossone di cui il Paese ha necessità per uscire dalla crisi, il Presidente ha preso atto, ha dismesso il ruolo di protezione necessitata, ha riconosciuto l’autonomia ritrovata della politica e ha detto ai partiti: fate il vostro gioco, purché mi garantiate stabilità, riforme e solidità nei numeri. Il piano delle riforme, il piano del governo diventano a questo punto concentrici, nelle mani di Renzi, con due maggiopost-ranze diverse. Il sindaco ha ottenuto in poco più di un mese una sovraesposizione smisurata, quasi più una solitudine che una delega, qualcosa che concentra nelle sue mani buona parte dell’avventura politica del 2014 perché arriva addirittura a interpellare il berlusconismo, all’opposizione del governo, al tavolo per le riforme, alla finestra della curiosità mimetica per l’esperimento della novità renziana davanti alla sterilità politica di una destra con troppi delfini ma senza un erede.

In un sistema politico estenuato che perde forza, efficacia e fiducia a destra e sinistra - per non parlar del centro - è quasi una superstizione da ultima spiaggia questo investimento al buio che tutti fanno in Renzi, come se il Paese avesse toccato il fondo, immobile, e solo l’energia di cambiamento che il sindaco promette potesse farlo ripartire, più ancora di un progetto o di un programma. Se è così, siamo un passo oltre la personalizzazione della leadership: è l’antropologia che oggi viene scelta per dar carattere, natura e sostanza all’agire pubblico trasformandolo in meta-politica, psicopolitica, performance.

In questo senso Renzi non fa promesse di cambiamento, “è”una promessa di cambiamento. Qualcosa di biologico, pre-politico, naturale, addirittura primitivo. Per chi accetta questa scommessa il modo di realizzarla è secondario, conta il dispiegarsi della leadership. Anzi, la contraddizione è parte dell’azzardo, che è una componente della sfida, la quale a sua volta è indispensabile alla rappresentazione in forma nuova di una politica che invece di procedere con prudenza cammina ogni volta sul filo. Si sta col naso all’insù per applaudire l’acrobata alla fine, se ce la fa, ma anche per l’emozione che trasmette il rischio consapevole di vederlo cadere.

Tutto ciò ha delle conseguenze: l’attore politico in questo nuovo teatro è tecnicamente spregiudicato perché gli interessa solo essere se stesso e arrivare in fondo, è quindi disancorato da tradizioni ed esperienze precedenti perché vive della propria leggenda e deve raccontare di continuo solo quella, è ideologico perché la sua forza è la contemporaneità, anzi l’adesione istantanea a tutto ciò che è contemporaneo, senza legami, obblighi e carichi pendenti, come se contasse solo la storia che ogni volta si inaugura, non quella che si è già compiuta.

Questa sollecitazione permanente al cambiamento, in mezzo ai riti stanchi del passato replicati senza vita, appare moderna, anzi innovativa, certamente diversa. Seleziona dunque attenzione e consenso nei due poli opposti, i delusi e gli innovatori, riattiva automaticamente un meccanismo di interesse e di attenzione, spinge a prendere parte. In questo preciso significato, la novità (generazionale, di modi, di forma e di linguaggio) diventa forza, o almeno energia politica, prefigurazione di potere. Accade quindi che un sistema traballante si affidi a questa opzione, con motivazioni diverse e addirittura contraddittorie: c’è chi spera davvero di cambiare la sinistra, il governo, il Paese; chi si augura che la velocità possa almeno essere un surrogato della politica; chi crede nei nuovi metodi per spazzare le troppe incrostazioni del passato; chi calcola almeno di guadagnare tempo mentre la novità si dispiega e magari si consuma. C’è anche chi progetta di dar corda a Renzi premier in attesa che la premiership lo bruci, o perché non sarà all’altezza o perché l’Italia - definitivamente - non è riformabile. Messa alla prova, l’anomalia renziana potrebbe ridimensionarsi banalizzandosi, fino ad essere riassorbita in una medietà sfiduciata e omologante nella quale si affonda lentamente e definitivamente, tutti insieme.

Prima di prendere il comando Renzi sa benissimo di dover affrontare la contraddizione - grande come le sue ambizioni - che ha costruito tra le sue parole e le opere. Non è tanto il fantasma di D’Alema che lo imbarazza. È piuttosto la mitologia di sé costruita tutta contro il Palazzo e le sue manovre, dove il sindaco era sempre uno sfidante esterno, un outsider che invocava le regole contro le rendite di posizione, puntando tutto sulla democrazia diretta e il rapporto con i cittadini contro gli apparati, in una perenne riconsacrazione dal basso. Andare al governo perché la maggioranza lo ha deciso a tavolino, senza la legittimazione del voto popolare è un problema soprattutto per l’uomo delle primarie. Ma anche per il segretario del Pd che non ottiene l’investitura attraverso la battaglia elettorale, battendo la destra. E infine e soprattutto per il leader della sinistra, che va a palazzo Chigi ancora una volta dall’ascensore di servizio e non dallo scalone d’onore.

L’unica risposta possibile viene dalla prova del nove, dal cambiamento. Se il governo sarà capace di dare una scossa nei tempi, nei modi, nei nomi, nei fatti, allora è possibile che il Paese si rimetta in piedi e che la contraddizione venga scusata dai risultati, perché l’Italia è ancora in grave ritardo davanti alla crisi e non può più perdere tempo: il “tutti per Renzi” si spiega così, finché dura. Altrimenti, la sinistra avrà divorato un altro leader e un’ultima occasione. Per queste ragioni palazzo Chigi per Renzi non è un punto d’arrivo, ma una partenza. E il cambiamento non è un’opzione politica, ma una magnifica condanna.

Corriere 14.2.14
Un passaggio opaco
di Massimo Franco


Si può anche ironizzare sull’incoerenza di un Matteo Renzi che dice una cosa per settimane e alla fine ne fa un’altra. Oppure additare l’irritualità di una crisi di governo che non si consuma con un voto di sfiducia parlamentare ma dentro la Direzione di un partito. L’impressione, tuttavia, è che ormai non serva a molto scandalizzarsi: il problema non è solo Renzi. Il paradosso di quanto accade in queste ore sono la lacerazione e il conformismo di un Pd che aspira a essere il pivot della politica. Ma intanto sprigiona instabilità, scaricando sull’Italia le sue faide interne. E passa in pochi giorni dagli applausi a Enrico Letta ad un ruvido benservito. Di fatto, opaco.
Non basta dare in «streaming », in stile grillino, i lavori della Direzione del Pd. Ci sarà tempo per rivedere la liquidazione di un governo nato tra mille difficoltà e boicottato proprio da chi doveva sostenerlo. Né basta la constatazione che, soprattutto nell’ultimo periodo, il premier apparisse esitante. Forse lo era anche perché avvertiva l’ostilità del suo partito. Presto si vedrà se la scossa promessa da Renzi, successore in pectore , ci sarà davvero: pur restando affidata alla maggioranza di prima, tanto bistrattata, con l’ipotesi di aggiungere schegge del Sel di Vendola.
L’ambizione di arrivare alla fine della legislatura è enorme, e affidata ad una velocità che confligge con una realtà da maneggiare con pazienza e prudenza. Ma il segretario del Pd conta sicuramente su doti capaci di sorprendere. Basta che tutto non si riduca a «effetti speciali» destinati a durare lo spazio effimero di pochi mesi, per poi presentare al Paese il conto di elezioni anticipate. Altrimenti, la scossa verrebbe percepita come il velo calato su un’operazione dettata da ambizioni personali e logiche trasformistiche.
Il modo in cui la nomenklatura del Pd ondeggia da una leadership a un’altra non sembra un indizio di convinzione, ma di un primitivo istinto di sopravvivenza. È difficile sottrarsi al dubbio che il grande consenso cresciuto intorno a Renzi non sia il frutto virtuoso delle primarie, ma della paura di un voto anticipato a maggio. Nel probabile presidente del Consiglio i gruppi dirigenti, politici e non solo, vedono la polizza di assicurazione per scongiurare il «tutti a casa»; e magari compiere l’ennesima spartizione. La speranza è che Renzi sventi queste manovre.
Gli manca l’esperienza, è vero, ma non difetta di spregiudicatezza e abilità. Forse, per aiutare l’opinione pubblica a decifrare un’operazione che si fatica a non definire «di Palazzo», non sarebbe stato male chiarirla in Parlamento come chiedono le opposizioni: a costo di sfidare strumentalizzazioni. Se l’unico motivo per archiviare il governo Letta con una riunione di partito è di non acuire le divisioni interne, è un po’ poco. Un Pd davvero convinto delle sue buone ragioni dovrebbe spiegare davanti al Paese i motivi della crisi. Altrimenti, la Terza Repubblica nascente rischia di somigliare ad una caricatura ringiovanita della Prima.

il Sole 14.2.14
La nuova scommessa e le sue contraddizioni
di Stefano Folli


Matteo Renzi può essere soddisfatto. Aveva l'obbligo di spiegare agli italiani la crisi del governo Letta (perché adesso, perché con queste modalità) e al tempo stesso aveva la responsabilità di evitare la lacerazione interna del Pd. Non poteva arretrare, ma nemmeno dare l'impressione che tutto si riducesse a una banale rivalità personale, cioè a una lotta di potere. Tutto sommato è riuscito a cavarsela.
In precedenza il sindaco-segretario per qualche ora aveva costeggiato il disastro. È accaduto nell'intervallo fra l'atto d'orgoglio del premier uscente, mercoledì sera, e l'inizio dei lavori della Direzione democratica, ieri pomeriggio. In quell'arco temporale, benché l'epilogo della vicenda fosse ormai scontato, gli interrogativi si sono moltiplicati e si è capito che i danni sarebbero stati immani se Renzi non fosse riuscito a chiudere subito la ferita. O almeno a tamponarla.
Lo ha fatto. Ed è anche riuscito a nobilitare l'operazione con l'unico argomento logico a sua disposizione. Il cambio a Palazzo Chigi, ha spiegato, si è reso necessario perché è giunto il momento di un orizzonte più largo, un orizzonte di legislatura. È il solo punto ben argomentato della brevissima relazione. In sostanza: un esecutivo impegnato a cambiare il volto dell'Italia, accompagnando le riforme strutturali fin qui mai realizzate, non può avere un respiro corto (come il povero Letta). E dunque ecco il capo del partito di maggioranza, la cui forza politica è indiscutibile, scendere in campo saltando a piè pari le proprie contraddizioni: prima fra tutte aver ostentato disinteresse per Palazzo Chigi fino a tre giorni fa.
Ora non tutti sono convinti di questa spiegazione. Per esempio il "Financial Times" ha parlato di una "pugnalata" che prima o poi si ritorcerà contro l'assassino. Tuttavia in termini politici, e pensando alla condizione in cui versano l'economia e le istituzioni nel nostro paese, un governo più dinamico e proteso ad affrontare i mille problemi irrisolti avrebbe parecchio senso. E in tal caso la piccola congiura di Renzi potrebbe diventare una di quelle astuzie della storia di cui si favoleggia.
Si tratta allora di rovesciare tutti gli schemi. Il governo Renzi non solo non potrà coincidere, è ovvio, con un qualsiasi "governicchio" destinato a logorarsi entro pochi mesi. Ma dovrà saper innovare in forme radicali fin dal primo giorno. Di tale esecutivo Renzi, specie dopo l'intervento di ieri, non potrà essere una sorta di super capo delle pubbliche relazioni, dedito al rapporto permanente con la pubblica opinione.
Ci sarà anche la comunicazione, senza dubbio. Ma il successo della "leadership" renziana da oggi si misura sulla capacità di governo, sull'intelligenza di affrontare con linguaggio nuovo questioni antiche, sull'abilità di tenere insieme una coalizione che sarà la stessa di Enrico Letta (non a caso Alfano ha cominciato a porre condizioni, ma era prevedibile).
E naturalmente sullo sfondo c'è il doppio registro: l'intesa con Berlusconi sulle riforme costituzionali e sulla legge elettorale, nata poche settimane fa, mentre adesso Renzi è il capo di una maggioranza politica e di governo contro la quale Forza Italia è all'opposizione (sia pure un'opposizione che all'inizio non sarà troppo aspra).
Il neo-premier dovrà tenere la rotta senza smarrirsi e soprattutto senza appannare la propria immagine di giovane spavaldo e fortunato davanti ai primi inciampi. Non sarà facile. Per cui nessuno, in fin dei conti, crede davvero alla promessa di un governo di legislatura. A meno che non abbia la convenienza a crederlo. Ma di solito questi annunci sono scritti nella sabbia. Niente lascia pensare che la promessa di Renzi faccia eccezione.

Corriere 14.2.14
Il programma? Solo intenzioni
È ancora da scoprire
di Enrico Marro


Il difficile comincia adesso. Per fare un governo ci vuole una maggioranza con un programma condiviso — per giunta di legislatura, chiede Matteo Renzi — che è tutto da costruire. Non è un caso che il segretario del Pd non abbia spiegato le cose che il suo esecutivo dovrebbe realizzare. Ha ripetuto che serve la riforma elettorale e quella istituzionale, che bisogna aggredire la «burocrazia opprimente» e cambiare una normativa sul lavoro e sul fisco che «mostra i segni del tempo». Generiche intenzioni che nulla dicono di quale potrebbe essere un accordo di programma nella «attuale coalizione», come dice il documento approvato ieri dalla Direzione del Pd, un piano quindi sul quale ci sia il sì del Nuovo centrodestra di Angelino Alfano e di Scelta civica. Ora, non si erano ancora spenti i microfoni al Nazareno che Alfano ha acceso i suoi per avvertire che, al contrario di Renzi, non è interessato a un orizzonte di legislatura, ma a un piano di «grandi cose» per «il tempo necessario» a realizzarle. Inoltre, il programma non dovrà risultare spostato a sinistra, altrimenti meglio il voto, ha concluso Alfano. Ius soli, omofobia e coppie di fatto sono i primi nodi che vengono in mente, per non dire della giustizia e del conflitto d’interessi. Ma forse le questioni decisive sono quelle economiche. Renzi è per sfondare il tetto del 3% del deficit, una posizione dirompente in Europa che richiederebbe una ferrea condivisione nella maggioranza e un ministro dell’Economia capace di sostenerla. Le linee guida del Jobs act di Renzi prevedono anche l’aumento del prelievo sulle rendite. Che ne pensa il Nuovo centrodestra? Nello stesso piano per il lavoro si prefigura un contratto unico di inserimento e una legge sulla rappresentatività sindacale, fumo negli occhi per Ncd, che punta invece sulla flessibilità e la pluralità dei contratti e sull’abolizione dell’articolo 18. Tagliare il cuneo, cioè le tasse sul lavoro, cosa da tutti condivisa, significa trovare qualche decina di miliardi. Togliendoli a chi? Scontentando quale elettorato? Il pubblico impiego o il lavoro autonomo? Le grandi rendite o le migliaia di società partecipate con il loro sottobosco clientelare? Infine: privatizzazioni e nomine, partite dagli interessi enormi e dai compromessi ardui. Eh sì, come aveva avvertito Letta, da oggi Renzi, Alfano e gli altri entrano in una «cristalleria».

l’Unità 14.2.14
Quella ferita che si doveva evitare
di Pietro Spataro


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Certo, forse non c’erano altre possibili strade. Il bivio indicato da Renzi - voto anticipato o governo di legislatura - non lasciava molte scelte. O l’una o l’altra, tertium non datur. Certo, l’Italia ha bisogno come l’aria di una svolta radicale perché l’area del disagio è così ampia da mettere quasi a rischio la coesione nazionale. Certo, restare nella palude sarebbe stato il male peggiore ed èmeglio essere trascinati da un’«ambizione smisurata» che essere prigionieri di una modesta navigazione a vista.

E certo, la lotta politica non è mai un pranzo di gala e molto spesso è «merda e sangue», come diceva un vecchio socialista della Prima Repubblica. Tutto giusto. Però il disorientamento che questa strana guerra tra Renzi e Letta ha creato nel popolo del centrosinistra una ragione ce l’ha. E non per una questione di bon ton. Tocca invece l’idea stessa della politica che una forza come il Pd dovrebbe avere e quel senso di comunità, tanto evocato e troppo spesso soffocato, che dovrebbe essere il fondamento della sinistra.

Qualcuno può chiedere: ma c’era un modo diverso per far nascere il nuovo governo? Sì, c’era. Si poteva- anzi, si doveva - evitare lo scontro diretto degli ultimi giorni (un duro faccia a faccia, una conferenza stampa con toni di sfida e una Direzione di totale sconfessione) e risparmiarci, ieri, il licenziamento del premier in diretta streaming. Era possibile seguendo - Renzi e Letta, ognuno per la sua parte - una strada più lineare, più trasparente, più sincera. L’uno avrebbe dovuto dire quel che pensava sin dal giorno dopo la vittoria delle primarie, evitando giri di parole e stop and go sul futuro del governo. E l’altro avrebbe dovuto prendere atto prima, molto prima, che il cammino dell’esecutivo era troppo incerto, i risultati non esaltanti e che il suo tempo stava per scadere. Si sarebbe evitata una ferita che, nonostante l’alto consenso ricevuto dal segretario in Direzione, comunque resta sul corpo del Pd e che non si rimarginerà tanto presto.

Ma ora siamo qui, all’inizio di un’avventura che lo stesso Renzi considera azzardata e rischiosa. Con le dimissioni di Letta si apre una nuova pagina che ha molte opportunità ma anche qualche pericolo. Però, una cosa deve essere chiara al di là di ogni ragionevole dubbio: la sfida lanciata dal segretario del Pd va sostenuta pienamente. Con forza, coraggio e soprattutto senza alcun retropensiero. Togliendo via ogni amarezza e mettendo sul tavolo le idee giuste. Perchè in discussione non c’è solo il destino di un partito così centrale nella vita nazionale, ma quello dell’Italia, che pagherebbe a caro prezzo un fallimento o un altro periodo di logoramento. Se la velocità che Renzi ha impresso alla politica in questi due mesi riuscirà a dare impulso a un cambiamento radicale del Paese sarà un bene per tutti. Ci sono alcuni problemini che vanno affrontati di petto: la crisi del lavoro, le disuguaglianze, le difficoltà delle imprese e la decadenza del nostro sistema industriale. Milioni di giovani che vogliono ritrovare il filo del loro futuro aspettano da tempo un segno. E il sistema democratico richiede da anni quella profonda revisione che lo possa rendere più funzionante ed efficiente. È l’Italia che ha bisogno di forti innovazioni radicali. L’orizzonte dell’intera legislatura, da qui al 2018, offre il tempo adeguato per tentare di spezzare l’immobilismo che ci ha gettato negli ultimi posti in quasi tutte le classifiche europee e che spinge le cancellerie a guardarci ancora con qualche sospetto. È chiaro che Renzi ha sì davanti a sé quattro anni per centrare l’obiettivo, ma solo poche settimane per dimostrare subito al Paese che, nonostante gli strappi, la scelta compiuta è giusta e che il consenso ricevuto servirà davvero a voltare pagina.

Il segretario ha infatti qualche contraddizione da farsi perdonare. Aveva detto mai più larghe intese e ora governerà con una parte del centrodestra. Aveva detto mai a Palazzo Chigi senza un voto popolare e ora entrerà a Palazzo Chigi senza un voto popolare. Aveva detto, invadendo Twitter con l’hastag #enricostaisereno, che non voleva prendere il posto di Letta e oggi prende il posto di Letta. Certo, si dirà che questo è il realismo della politica. Ma per convincere gli italiani che ne è valsa la pena Renzi dovrà puntare subito in alto, molto in alto. Con un governo che abbia un profilo di alto livello nella scelta dei ministri, che dia l'immagine del rinnovamento e non sia solo il frutto delle inevitabili mediazioni tra i partiti. E con un programma dei «primi cento giorni» che faccia capire all'Italia, con tre quattro scelte chiare, che si cambia verso sul serio, e il verso è quello di un Paese che ritrova se stesso sulla via dell’equità, della ripresa e dell’innovazione. Non sarà facile visti i vincoli europei che tuttora legano le mani dei governi e sui quali Renzi dovrà battagliare presto a Bruxelles. Ma è una sfida obbligata: dalla palude si deve uscire. Non dimentichiamoci che alle nostre porte premono i venti pericolosi del populismo che nella palude vogliono annegarci.

Repubblica 14.2.14
La famiglia “Matteo ha scelto, niente recriminazioni.Io first lady? Non lo sono e mai lo sarò”
La moglie Agnese: ha dovuto fare i conti con la realtà
di Massimo Vanni


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Firenze - L’ha sentito «per un secondo» prima del discorso alla direzione del Pd, racconta. Ma non è il tempo che conta: in un modo o nell’altro Agnese ha sempre accompagnato i momenti di svolta del marito Matteo Renzi. Era con lui il giorno della sconfitta delle primarie contro Bersani, quell’amaro 2 dicembre 2012. Era in platea il giorno gioioso della vittoria delle primarie da segretario del Pd, l’8 dicembre scorso. Ed è vicina a lui oggi. Anche se la via per Palazzo Chigi non dovesse essere quella delle elezioni: «Un rischio arrivarci così? Non spetta a me dare giudizi politici, ma come si dice il meglio è nemico del bene. Nessuno lo avrebbe pensato, nessuno se lo sarebbe augurato. Poi però si deve fare i conti con la realtà, non siamo sciolti dalle contingenze, non si possono fare proclami assoluti: nell’imprevisto i bravi sanno scegliere il meglio e lo vivono senza recriminare», dice Agnese affacciandosi dal cancello di casa di Pontassieve, a tredici chilometri dal capoluogo toscano.

Per lei è stata una giornata come le altre: lezione a scuola la mattina, i figli nel pomeriggio. E, schiva com’è, non pare intenzionata a cambiare vita: «Io ‘first lady’? Io non sono niente, non c’è stata nessuna formalizzazione. Eppoi lo sapete, quell’appellativo non mi appartiene, anche se Matteo diventasse premier». Agnese sa solo che, se tra qualche giorno dovesse accadere, l’impegno di Matteo sarà totale: «Lo conosco, so che ci metterà l’anima. Ci metterà l’energia consueta che mette in tutte le cose che fa», assicura. Per poi salutare con un sorriso: «Adesso rientro in casa per vedere come va a finire ».

Anche a casa dei genitori il televisore è rimasto accesso tutto il pomeriggio. Quindici chilometri più in là, a Rignano sull’Arno, il paese dove Matteo è cresciuto e tutti lo salutano per strada, il babbo Tiziano e la nonna Maria alle 15 erano già in poltrona davanti alla Tv: «Voglio sentire cosa dice», spiega babbo Tiziano, ex consigliere Dc e oggi segretario del Pd locale. Non ne può più dei giornalisti che lo assediano: «Ho grande rispetto del lavoro dei giornalisti, ma anche della mia vita privata. D’ora in poi non esisto », ha postato su Facebook. E tanto per chiarire da lunedì non ci sarà neppure fisicamente: lo attende con la moglie una vacanza a Miami, a casa di amici. «Vedrò il giuramento di mio figlio, se ci sarà, via web», chiarisce. Quanto al rischio di arrivare a Palazzo Chigi senza elezioni, nessuna incertezza: «Matteo non ascolta certo quello che dico. E io sono il meno indicato per consigliargli prudenza: quando ero insegnante a tempo indeterminato mi sono dimesso rischiando tutto per fare il rappresentante», spiega babbo Tiziano. Come dire, l’audacia è un vecchio vizio di famiglia.

La sorella Matilde, più piccola di qualche anno di Matteo, abita nel cuore del paese, proprio in faccia alla chiesa. Ed è gelosissima della sua privacy: «Scusate, rispetto il vostro lavoro ma noi non c’entriamo niente», taglia corto rientrando a casa a metà pomeriggio.

A Rignano i quarantenni lo ricordano sul campetto di calcio, proprio accanto alla chiesa, dove Matteo trascorreva i pomeriggi: «Voleva sempre vincere. E quando perdeva portava via il pallone ». Il parroco don Giovanni Nerbini conosce bene Matteo: «Ci siamo conosciuti e frequentati negli scout». Don Nerbini conosce però altrettanto bene la famiglia: ogni domenica pomeriggio il babbo Tiziano va a suonare l’organo in chiesa, alla messa delle 17. E spesso condividono il viaggio a Medjugorje. «Matteo si è mostrato abile, tifo per lui come fanno tanti altri rignanesi - dice- anche se ho paura dei lacci in cui potrà imbattersi, dei lacci che possono mettergli. Avrei preferito la strada delle elezioni ma sarebbe bello se diventasse premier e riuscisse dove tanti hanno già fallito. Ha già impresso accelerazione alla politica».

Il sindaco di Rignano Daniele Lorenzini, anche lui esponente Pd, dedica ogni anno un premio speciale ad un concittadino che si sia distinto per qualche opera: «E quest’anno non avrò certo il problema di chi scegliere tra i cittadini rignanesi», annuncia fin d’ora. Per lui vedere Renzi sul trampolino della premiership è una «grande soddisfazione». Ed è anche convinto che «farà molto bene». Del resto, aggiunge il sindaco, «in paese chi lo ha visto nascere e crescere lo ha sempre considerato un leader».

La Stampa 14.2.14
Ascesa di un boy scout
L’irresistibile sprint verso il successo è cominciato con la cura dimagrante
Dieta ferrea e ambizione
Lo sprint verso il potere L’autoeducazione da premier del boy scout di Rignano sull’Arno
di Michele Brambilla


Quando, il 13 settembre del 2012, al palazzo della Gran Guardia di Verona, in camicia bianca e maniche arrotolate alla Obama, Matteo Renzi a un certo punto disse: «Ci candidiamo a guidare questo Paese per i prossimi cinque anni», fummo in molti a pensare che fosse un megalomane. Non per il plurale maiestatis, ma per la sproporzione tra l’obiettivo dichiarato e la sua esperienza politica.
Invece, aveva ragione lui. E lui lo sapeva, di avere ragione. Gli uomini come Renzi hanno dentro un qualcosa che li convince di veder giusto anche quando gli altri, tutti intorno, gli dicono che stanno sbagliando. È la forza dei vincenti. E Renzi sa di essere un vincente. Quando pronunciò quell’apparentemente pretenzioso discorso della discesa in campo, sapeva che il suo destino era quello di ottenere sempre quello che vuole. A cominciare dal 1994, quando, ancora diciannovenne, andò come concorrente a «La ruota della fortuna» e portò a casa quarantotto milioni di lire. Racconta il prete che l’ebbe, bambino, negli scout, che a pallone non era un granché e allora, piuttosto che far brutta figura, faceva l’arbitro: ma perdere non era una possibilità contemplata.
Nel 1999 il ventiquattrenne Renzi ottiene già il suo personae triplete: si laurea in giurisprudenza con una tesi su «Giorgio La Pira sindaco di Firenze» (più un annuncio che un presagio); diventa segretario provinciale del Partito Popolare; sposa la donna che voleva sposare, Agnese Landini, insegnante di liceo. Nel 2001 è coordinatore della Margherita fiorentina, nel 2003 segretario provinciale, dal 2004 al 2009 presidente della Provincia di Firenze.
Nel settembre del 2008 si mette in testa un’altra idea da matti, candidarsi alle primarie per il sindaco di Firenze. Tutti a dirgli Matteo sta’ bono, non fare il passo più lungo della tu’ gamba. Eppure vince, e vince contro uno favoritissimo, Lapo Pistelli, deputato e responsabile nazionale Esteri del partito. Ancora una volta aveva ragione lui, il giovane Matteo, che naturalmente poi l’anno dopo sbanca le elezioni comunali e diventa sindaco di Firenze, lui che oltretutto viene dalla provincia, cresciuto a Rignano e abitante a Pontassieve.
Ecco perché quando Renzi cominciò la corsa per Palazzo Chigi era sicuro di farcela. Si mise a girare l’Italia in camper per una campagna elettorale surreale: mai un deputato del Pd a seguirlo; mai una bandiera del partito ai suoi comizi; un ragazzo, l’amico Luca, a fargli da organizzatore; una ragazza, Antonella, a fargli da addetta stampa. La giovinezza incosciente contro la formidabile macchina da guerra di Bersani.
Ovunque andava, però, Renzi radunava le folle che pareva un messia. L’abbiamo visto pronunciare discorsi della montagna e quasi moltiplicare pani e pesci in paesi ultra leghisti della Bergamasca e a Trani, nell’Emilia rossa e a Campobasso. Per settimane ha fatto una vita d’inferno. Dormire, dormiva tra una tappa e l’altra, e si preoccupava di non farlo sapere, perché non si potrebbe col camper in movimento, e anche una violazione del codice della strada, con i tempi che corrono, guai. Mangiare, non mangiava. Perché in questo, diciamolo, Renzi un po’ berlusconiano lo è. Il Cavaliere mette a stecchetto i suoi, lui si mette a stecchetto da solo. Se guardate le foto del Matteo di qualche anno fa, vedrete un giovanotto paffutello. Adesso è un figurino. Va a correre. Fa le maratone. E sul camper, quando siamo stati in compagnia con lui, abbiamo scoperto che si nutriva solo di banane. Potassio. Come i tennisti. Perché la vita è un match.
A un certo punto di quella forsennata campagna per le primarie del centrosinistra, Renzi ha davvero pensato che la vittoria fosse lì, a un soffio. Gli misero in mano dei sondaggi che dicevano più o meno così: se va con Bersani candidato, il centrosinistra non arriva al trenta per cento; se ci va con te, è al quaranta-quarantadue. Era il momento in cui, soprattutto al Nord, con Berlusconi nei guai e la Lega in rotta, molti elettori di centrodestra erano sedotti da lui.
Ma un po’ per questo suo essere gradito a destra, e un po’ (o un molto) per la vocazione al suicidio che ha la sinistra italiana, il Pd gli fece terra bruciata. Qualcuno dice che, in certe sezioni, non aprirono neanche gli scatoloni con le schede. Probabilmente non è vero, ma sta di fatto che l’apparato fu tutto per Bersani, e Renzi conobbe la prima sconfitta della sua vita.
Eppure. Eppure fu proprio quella domenica sera in cui perse il ballottaggio che Matteo Renzi preparò la sua rivincita. Arrivò alla Fortezza da Basso, a Firenze, guidando la sua normalissima station wagon niente autisti e niente scorte con la moglie Agnese a fianco e il rosario sullo specchietto. Pronunciò un formidabile discorso in cui disse soprattutto una cosa: ho perso. In un Paese dove alle elezioni non perde mai nessuno, Renzi si mostrò, forse più che mai, diverso. E lì cominciò la sua rimonta.
Che sarebbe riuscito così presto a riprendersi quel che le primarie contro Bersani gli avevano sottratto, e cioè palazzo Chigi, probabilmente non lo immaginava nemmeno lui. Da grande calcolatore, ha però cadenzato nella sua mente le tappe: primo prendersi il partito; poi il governo. Complici i pasticci del Pd e un po’ di tutta la politica, il ribaltone è stato rapido: Renzi diventa segretario del Pd lo scorso 8 dicembre, festa dell’Immacolata Concezione, e chissà se c’entra qualcosa con il fatto che sua mamma, la signora Laura, l’ha affidato alla Madonna.
Durissimo e a volte iracondo con i collaboratori aspiranti martiri e sprezzante delle vecchie e paludate regole del bon ton partitico, Renzi è uno che non guarda in faccia nessuno per arrivare alla meta. Solo quando va a vedere la Fiorentina si distrae. È anche furbo, e questo rassicura chi teme che, accettando di fare il premier, cada in un trappolone. Potrebbe però avere un punto debole: la smania di bruciare le tappe. Vedremo presto (perché in tutta la Renzi story tutto si brucia in un attimo) se in questi giorni sta prevalendo in lui la forza della scaltrezza o la debolezza della fretta.

Corriere 14.2.14
«Quelle riunioni di Matteo nel solarium sul retro»
Tony Salvi, il suo barbiere di fiducia: «Passa di qui due volte alla settimana»
di Giovanna Cavalli


«Eeehh... Lo sa perché sono il suo barbiere di fiducia? Perché faccio come queste qui», dice Tony dal baffetto sornione e prende dal registratore di cassa un ninnolo di pietra con le tre scimmiette. «Io non vedo, non dico e non sento, quando Renzi si mette di là nella stanzetta sul retro e viene a trovarlo uno dei suoi».
Riunioni lampo, quelle del segretario Pd nel solarium del salone di bellezza di via Sant’Agostino 20: durano il tempo di una seduta di lampada abbronzante sulla poltrona reclinabile, due minuti, 5 euro. «Che poi da me c’è una regola: di politica e di donne non si parla», si vanta il titolare, Antonio Salvi da Teano, Caserta, 74 anni, naturalizzato fiorentino da quel dì, in questa vecchia barbieria d’Oltrarno con le poltrone di pelle marrone, il seggiolone a cavalluccio, i tralci mesti di potos e il vassoio con le caramelle gusto arancio e limone, dove il Rottamatore di tutto e tutti, premier inclusi, da nove anni in qua viene a tagliarsi i capelli, prima da presidente della Provincia, poi da sindaco, poi da segretario e adesso da che cos’altro, chi può dirlo. «Due volte a settimana, per un ritocco alla sfumatura, una manicure, o giusto per un caffè. La barba no, se la fa da sé. Arriva in bici, da solo, prima mi avvisa sempre».
Sono state le forbici di Tony («Le macchinette non le uso») a sfrondare nel tempo la vaporosa frangia un po’ troppo Renzie/Fonzie. «Mi disse: fai tu. Il ciuffo era sempre spettinato. Ora li porta più corti, pratici, una testa classica. Basetta lunga. Sta bene, no? Lo fanno sembrare più atletico. Che poi Matteo ha dei capelli bellissimi, lavorarli è una gioia, come li metti stanno, lui non si pettina nemmeno. Una strofinata di asciugamano e via, è pronto». Nessun aiutino: «Il nero è naturale, niente tinta, nemmeno un riflessante». Lozioni, balsami, integratori? «Nossignore». Listino prezzi popolare: barba 10 euro, capelli 20, shampoo 10. «Paga, Renzi, certo che paga. La mancia no, non la lascia, non lo fa più nessuno. Però è educatissimo, grazie, prego, per favore». Il cellulare, come c’è scritto sul cartello, da Tony Estetica si spegne e la regola vale per tutti. «Chiacchieriamo del più e del meno, della Fiorentina, della vita. Quando posso gli faccio trovare una bella mozzarella di Caserta, ce la mangiamo insieme con la schiacciata».
Per il compleanno numero 39 del segretario, a gennaio, hanno brindato qui dentro, con lo champagne. «L’ho preso io, mica lo porta il festeggiato. Ma tra amici va bene pure un bicchiere d’acqua. Matteo per me è come un figlio. Politica nisba. Lui non dice, io non chiedo. Di Enrico Letta ripete spesso che è una gran brava persona. E quando doveva andare a trovare Berlusconi mi domandò: che ne pensi, Tony, faccio bene? E io: se devi, vai».
Non servono ritocchi per un eventuale look presidenziale. «Come lo pettino, lo pettino: creda a me, la gente lo vota uguale».

il Fatto 14.2.14
L’invasione degli Ultrarenzi
Delrio sta gestendo la lista dei ministri
In prima fila partono Boschi e Carbone
Franceschini vede il Viminale
All’economia è lanciata la Reichlin. Nodo giustizia
di Stefano Feltri


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L’uomo con la lista in mano è Graziano Delrio, il ministro degli Affari regionali del governo Letta che sta per passare a Palazzo Chigi come sottosegretario alla presidenza del Consiglio. È l’unico di cui Matteo Renzi si fida davvero ed è lui che sta lavorando alla formazione della squadra dell’esecutivo Renzi. La casella più delicata è quella di ministro dell’Economia: i renziani cercano qualcuno che abbia un profilo e un’autorevolezza sufficienti a negoziare in Europa per conto di una compagine di novizi (e in questa chiave potrebbe essere utile la conferma di Enzo Moavero agli Affari europei). Si parla molto di Lucrezia Reichlin: è donna, economista di fama internazionale, ha lavorato alla Bce, è stata in Unicredit, sarebbe la persona giusta. Lei dice: “Non ho sentito nessuno in Italia” e sta aspettando risposte dalla Bank of England, la Banca centrale d’inghilterra, cui ha inviato il suo curriculum per il posto di vicegovernatore (a Londra scelgono così i banchieri centrali, sul mercato). Racconta qualche renziano che la Reichlin e Renzi si erano conosciuti durante la campagna per le primarie 2012, quando il leader Pd cercava interlocutori economici dopo aver perso Luigi Zingales: stima reciproca tanta, ma conciliare due caratteri così forti non è semplice. A fianco di un ministro tecnico, comunque, ci saranno due vice politici che vigileranno sull’ambizioso programma che sta scrivendo Filippo Taddei, l’uomo della politica economica nella segreteria. Primo punto: un taglio delle tasse duraturo, alimentato da coperture strutturali e non una tantum come quelle usate da Enrico Letta anche nel suo testamento presentato due giorni fa, il documento Impegno 2014. L’idea di offrire l’Economia proprio a Letta è durata un’ora, immediate le smentite imbarazzate. Dei nomi noti che riempiono i giornali in questi giorni l’unico papabile è Tito Boeri, economista della Bocconi che al Welfare dovrebbe introdurre la riforma del contratto unico a tutele crescenti, ideata proprio da lui. Molto più difficile che entrino l’imprenditore Oscar Farinetti e lo scrittore Alessandro Baricco, quasi impossibile poi che Andrea Guerra lasci Luxottica, cui è legato da milioni di euro di stock option.

Il primo passo è l’applicazione di un rigoroso manuale Cencelli della lottizzazione partitica: per Ncd resteranno Maurizio Lupi (Trasporti) e Beatrice Lorenzin (Sanità), delicato il ruolo di Angelino Alfano (sempre all’Interno? e può fare il vicepremier? Renzi è nervoso). Il Pd cerca di offrire qualcosa a Sel, sperando almeno in un appoggio esterno: se non entreranno i leader (tipo Gennaro Migliore), gira il nome di Paola Balducci, giurista, ex Verdi. Anche la minoranza del Pd avrà la sua quota: dovrebbe essere riconfermato Andrea Orlando, all’Ambiente o in un altro dicastero. Anche l’attuale capogruppo del Pd alla Camera Roberto Speranza potrebbe trasferirsi al governo e molti deputati sperano che la guida del gruppo tra i renziani adatti al ruolo vada a Matteo Richetti. L’ex lettiano, ora renziano e sempre franceschiniano Dario Franceschini avrà sicuramente un ministero, forse Cultura, forse qualcosa di più. Si prepara Michele Emiliano, sindaco di Bari. Per l’Agricoltura è pronto Ernesto Carbone, che in quel ministero ha già lavorato e che da tempo spera di tornarci da numero uno.

Gaetano Quagliariello va a occuparsi di strutturare il partito, Ncd, e lascia le Riforme alla super renziana Maria Elena Boschi. Tra le cariche che contano quella su cui c’è maggiore incertezza è la Giustizia: il nome di Michele Vietti non è credibile, la responsabile Giustizia del Pd Alessia Morani resta al partito. Vedremo, forse il Quirinale vorrà dire la sua in materia.

Renzi conta di risarcire Roberto Reggi, un tempo braccio destro immolato dopo una battuta feroce sui bersaniani durante le primarie 2012, sarà almeno sottosegretario.

il Fatto 14.2.14
Piccoli D’Alema crescono
I nuovi “lothar” a Palazzo Chigi


E adesso che Matteo Renzi si è portato quasi tutti i suoi uomini di fiducia in segreteria e si appresta a metterne altri al governo, chi saranno i suoi consiglieri a Palazzo Chigi, quelli con il primo e unico compito di consigliarlo? Difficile dirlo. Ma vista l’abitudine del segretario a decidere e poi delegare, accentrare per poi distribuire, c’è da dire che molti continueranno a fare quello che fanno ora: Maria Elena Boschi alle Riforme sarà ancora la “frontwoman” per le Riforme. E Graziano Delrio, come sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, sarà il super consigliere. E poi, ci sono una serie di figure che probabilmente resteranno al partito, ma faranno la spola con Palazzo Chigi: d’altra parte il Pd, Renzi e il suo governo che nasce sono ormai un unicum, un solo progetto, un solo destino. A gestire questo magma saranno in posizione centrali Guerini, che avrà il compito di tenere insieme il partito e Lotti, quello che gestisce i dossier più difficili. E il cerchio magico, da Faraone a Carbone

il Fatto 14.2.14
È business
La patata preoccupa l’onorevole Nardella
di al. fer.


Partiamo dalla smentita, o precisazione: “È una stupidaggine, comunque le patatine mi piacciono, anche se non le vendo e soprattutto non conosco nessuno che le vende”, spiega l’onorevole Nardella, possibile prossimo ministro o sindaco di Firenze. Ora arriviamo ai fatti: ieri mattina, giornata di coltelli tra i democrat. Ma Nardella è seduto alla Caffetteria, vicino Montecitorio con due uomini. Squilla il cellulare, e rassicura: “Dobbiamo portare la patata San Carlo da Eataly, è l’unica della filiera italiana... cosa? Ci penso io, parlo con il braccio destro di Oscar (Farinetti)... Sì, se gli altri presentano un’offerta, basta replicare con un euro in meno”. Per inciso: anche Farinetti è tra i papabili ministri, magari potranno discutere la questione come affare di Stato.

il Fatto 14.2.14
Urne e compassi
Massoneria al voto, con lo spettro della ‘ndrangheta
Sta per finire il regno di Raffi
Il favorito è Bisi, l’uomo del “groviglio armonioso” di Mps
Decisivi i calabresi
di Gianni Barbacetto


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Si va alle urne. Il 2 marzo si vota. Non per le elezioni politiche, ma per eleggere il nuovo Gran Maestro del Grande Oriente d’Italia (Goi), la più grande comunione massonica italiana. Quel giorno finirà l'era di Gustavo Raffi, al vertice del Goi dal 1999. Dopo tre mandati consecutivi non può più ricandidarsi: aperte le grandi manovre per la successione. Candidati, Stefano Bisi, giornalista di Siena, l'ex vicesindaco socialista di Livorno Massimo Bianchi e il notaio di Messina Silverio Magno.

Raffi lascia la scena dopo 15 anni di governo massonico. Arrivò a Villa il Vascello, la splendida sede romana del Goi, promettendo di rinnovare l'Istituzione e far dimenticare le ombre del passato.

Veniva da Ravenna e diceva che la massoneria “doveva ripudiare l'affarismo e diventare una casa di vetro”. Dichiarava che “la P2 sta al Grande Oriente come le Br al Partito comunista”. Una volta gli sfuggì addirittura che “il cuore della massoneria batte a sinistra”. Ma subito smentì e fu poi subissato di critiche: lo accusarono di essere un falso amico della sinistra, venendo sì dai repubblicani, ma quelli presidenzialisti e un po' golpisti di Randolfo Pacciardi; e di essere lui il vero affarista. Si è raddoppiato l'emolumento annuo (portato a 130 mila euro) e ha perfino favorito il fratello (non massonico, di sangue) affidando all'agenzia turistica di famiglia l'organizzazione dei viaggi e soggiorni a Rimini per l'annuale Gran Loggia, il parlamento massonico. Raffi ha sempre respinto al mittente le accuse velenose dei fratelli coltelli, esibendo i suoi successi. I massoni del Goi erano 13 mila nel 1999, oggi sono esattamente 22.181. Le Logge sono aumentate: erano meno di 600, oggi sono quasi un migliaio. L'età media si è abbassata. La comunione ha riallacciato le relazioni (che erano state sospese) con la massoneria svizzera, belga e francese. Con la riforma elettorale (“un Maestro un voto”), Raffi ha esteso la partecipazione alle elezioni massoniche a tutti i Maestri (oggi sono 16.252), mentre prima votavano soltanto i Maestri Venerabili (quelli a capo di una Loggia).

Ecco dunque il voto del 2 marzo. Sarà eletto al primo turno il candidato che raccoglierà almeno il 40 per cento dei voti. Sennò, ballottaggio il 23 marzo, a ridosso del giorno esoterico dell'equinozio di primavera.

Stefano Bisi, il favorito, è giornalista e dirigente del Corriere di Siena. È l'inventore della definizione “groviglio armonioso” affibbiata a Siena e al Montepaschi: un “sistema” capace di tenere insieme gli opposti e di durare dal Medioevo fino a oggi. Con lo scandalo della banca e il crollo del suo presidente Giuseppe Mussari, il groviglio ha preso il sopravvento e l'armonia è finita, anche perché sono finiti i soldi che il Montepaschi distribuiva a pioggia. Anche ai giornali di Bi-si, naturalmente, che ringraziava invitando Mussari come ospite “profano” ai convegni massonici e assumendo la direzione responsabile di Siena News, il giornale on-line fondato dal portavoce di Mussari, David Rossi, morto tragicamente nei giorni più drammatici dello scandalo. La voce di Bisi è rimasta registrata più volte nelle intercettazioni dell'inchiesta sull'aeroporto di Ampugnano, mentre parlava con due degli indagati, il presidente Mussari e l'amministratore delegato della società aeroportuale Enzo Viani, ex dirigente Montepaschi ma anche fratello massone, nonché amministratore di Urbs, la società che controlla il grande patrimonio immobiliare del Goi, da Villa il Vascello all'ultima delle Logge, vera cassaforte dei massoni.

Massimo Bianchi è definito da qualcuno dentro le logge “candidato di disturbo”: ha fatto una campagna elettorale d'opposizione alla gestione Raffi, dopo essere stato però per 15 anni il suo numero due, come Gran Maestro Aggiunto. Gli oppositori della passata gestione faranno dunque confluire i voti sul notaio messinese Silverio Magno. C'è chi, dentro il Grande Oriente, mostra preoccupazioni per il pericolo di infiltrazioni mafiose. Tra questi, l'avvocato calabrese Amerigo Minnicelli, che già nel 2012 segnalava che molti tra gli indagati e gli arrestati in Calabria per mafia e corruzione erano appartenenti al Goi. Per tutta risposta, è stato accusato di fomentare una campagna denigratoria contro la massoneria ed è stato espulso dal Grande Oriente. Un anno dopo, lo stesso Raffi ha dovuto evidentemente prendere atto che il problema era reale, tanto che ha provveduto a sospendere la Loggia Verduci, nella Locride, proprio per infiltrazioni mafiose. Oggi Minnicelli solleva di nuovo il problema. Delle tre regioni ad alta presenza massonica – Piemonte, Toscana e Calabria – quest'ultima ha ben 2 mila iscritti, di cui circa 1.500 Maestri votanti. Minnicelli calcola che si può risultare eletti con 4-5 mila voti validi. I massoni calabresi sono dunque determinanti: lo furono alle ultime elezioni, quando Raffi vinse grazie ai mille voti ricevuti in Calabria, che gli permisero di superare per una manciata di voti (meno di 400) il suo sfidante Natale Di Luca. Ma per sapere quale sarà il futuro della massoneria italiana dovremo aspettare l'equinozio di primavera.

Corriere 14.2.14
Al vertice arriva D’Alema: meglio evitare il voto
Ma la minoranza è travolta
di Alessandro Capponi


ROMA — Gianni Cuperlo, prima versione: «Chiedo che la Direzione non venga a chiamata a esprimersi con un voto». Gianni Cuperlo, seconda versione: «Assumiamo la linea politica indicata dal segretario, avevamo auspicato che non ci fosse un voto per evitare ulteriori lacerazioni ma di fronte alla necessità di esprimersi sul documento, proposto dal segretario, voteremo a favore». Evitare lacerazioni: mai facile nel Pd, figurarsi oggi. Ci sono i sedici che hanno votato contro (civatiani, ben consci dello spazio interno al partito che si apre loro davanti), i lettiani che escono, Civati durissimo, Fassina critico. E poi c’è la base, la Rete, i messaggi (molta ironia, qualche insulto, alcuni «non vi voto più», anche sulla pagina Facebook del Pd).
Ma per capire quanto accaduto nel pomeriggio bisogna fare un passo indietro, alle 13, secondo piano della palazzina dei gruppi della Camera, sala Bruno Salvadori: Giovani turchi e cuperliani ma non solo, la minoranza senza civatiani, per fare qualche nome ci sono la Miotto — bindiana, che poi si asterrà — Meta, Gasbarra, Epifani. E, a sorpresa, c’è Massimo D’Alema: ciò che chiede il líder máximo è semplice, «nessun documento, nessun voto, serve una dilazione». Dice, D’Alema, che «non si può arrivare a questo» e lascia capire che non bisogna spaccare il partito. Secondo alcuni, avrebbe anche accusato Cuperlo di avere un atteggiamento ondivago nei confronti di Renzi, ma ciò che è certo è che i toni si alzano.
Interviene Matteo Orfini: «Come potete immaginare che non si arrivi a un documento, al voto?». Gasbarra chiede di «metterci la faccia, dare risposte, al Paese e alla base». E, insomma, è così che Cuperlo arriva alla Direzione pd: e dunque prima chiede di non votare, poi accetta la linea del segretario. Interviene Pippo Civati: «Negli ultimi giorni si è assistito a una via di mezzo tra la Prima Repubblica e Shining ». La staffetta Letta-Renzi, per lui, «è una decisione avventata e pericolosa, non vedo cosa cambierebbe con la stessa maggioranza». Si rivolge a Renzi: «La mia smisurata ambizione è ridare la parola ai cittadini e andare al governo con una vittoria elettorale». Per questo, conclude, «io voterò contro con una preoccupazione: spero davvero che Berlusconi non ne voglia approfittare di questo passeggio e questo sarebbe altrettanto se non più doloroso».
Contrari, evidentemente, ci sono anche i lettiani: basta notare le espressioni corrucciate di Paola De Micheli, di Anna Ascani. E poi ci sono le reazioni su Internet: la pagina Facebook del Pd è presa d’assalto. Certo, ci sono tanti grillini pronti ad accusare il Pd, ma ci sono anche molti che «da elettore di centrosinistra» giurano: «Non vi voterò più». Il parlamentare Gianluca Benamati è costretto a intervenire per limitare i post a una sola parola sul suo profilo Facebook: «Buffoni». Il regista Paolo Virzì, in diretta Twitter, commenta quasi tutto: «Il grande Piero (Fassino) ha parlato col Paese: a lui ha detto che non vuole andare a votare». Paolo Madron (Lettera43): «Evidente che il discorso di Fassina è figlio dell’abolizione della Fini-Giovanardi». La deputata Giuditta Pini: «Visto che anche senza D’Alema siamo capaci di incasinarci?». E Roberto Giachetti cinguetta pensando all’assenza di Letta: «Mmmm... vengo? No, non vengo?». Nanni Moretti, del resto, in Rete è usatissimo: «Continuiamo così, facciamoci del male».

Repubblica 14.2.14
L’intervista
Stefano Fassina: abbiamo liquidato un esecutivo per farne un altro di radicale cambiamento ma con la stessa maggioranza, è incomprensibile
“E ora temo la svolta a destra sul programma”
di Giovanna Casadio


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«Potevamo risparmiarci l’ipocrisia delle lodi a Enrico per accompagnarlo alla porta». Stefano Fassina, ex vice ministro all’Economia, si è astenuto nella direzione del Pd sul documento di Renzi. Ha rivolto al premier Letta un ultimo appello perché si dimettesse prima del voto di sfiducia del partito: «Volevo evitare un passaggio traumatico».

Fassina, lei si è astenuto, perché?

«Mi sono astenuto, sì. Il modo in cui è avvenuta l’archiviazione del governo Letta è poco comprensibile agli occhi di tanti elettori del Pd e rischia di lasciare spazio alle interpretazioni più negative».

Il Pd come esce da questa storia?

«Ne esce segnato. Il governo Letta, a differenza di quanto qualcuno in direzione ha provato a sostenere, non è stato un esecutivo tecnico ma politico, presieduto da quello che fino a un anno fa era il vice segretario del Pd. Io mi sono dimesso da vice ministro perché avvertivo l’ambiguità: da una parte il Pd votava la fiducia ai provvedimenti del governo e dall’altra Renzi giudicava i 10 mesi di attività governativa del tutto fallimentari».

Lei ha sentito Letta in queste ore?

«No. La mia astensione deriva dal fatto che si liquida un esecutivo con l’obiettivo di fare un governo di radicale cambiamento, del quale però non conosciamo il programma e che avrà la stessa maggioranza».

Cosa la preoccupa di un governo guidato da Renzi?

«Mi preoccupa il programma, almeno a sentire gli interventi in direzione del partito. Perché più che un radicale cambiamento il pericolo è la riproposizione della fallita ricetta liberista di tagli al Welfare e di ulteriore deregolazione del mercato del lavoro ».

Letta ha sbagliato a non lasciare prima?

«Si sarebbe dovuto dimettere dopo la direzione del 17 gennaio, quando dal segretario democratico è venuta una valutazione completamente negativa sul governo. Renzi avrebbe dovuto proporre prima un chiarimento».

Quindi cosa le è dispiaciuto di più in questa storia?

«La superficialità della discussione e, come ha detto Cuperlo, l’anomalia di chiudere un’esperienza di governo attraverso il voto di un partito».



l’Unità 14.2.14
La base è «delusa» I circoli sono vuoti
Il pomeriggio più atteso è vissuto dai militanti sui social network: «Siamo arrabbiati, che fate?»
di Marco Bucciantini


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La base in carne e ossa è un ragazzo con un pacco di fotocopie rilegate, le pagine marcate dal lapis, il suo tempo è l’Università. Daniele Piva studia un bellissimo libro di storia, L’etàpost eroica di James Sheehan, l’Europa e i suoi cittadini che escono dalle guerre e scoprono una possibile identità civile, fondata sullo Stato sociale e sui trattati commerciali, rinunciando al delirio di diventare (insieme) superpotenza in cambio di una sonnolenta «pace perpetua», direbbe Kant.

Ma questo non è un giorno di pace, forse è il primo o forse l’ultimo giorno di guerra, non si capisce. Un giorno nuovo? Un giorno antico come un fratricidio biblico? «Pensavo che Renzi cercasse la via delle elezioni. Lo pensavo e lo speravo perché vedere un partito mandare a casa il “suo” premier fa un certo effetto. E poi la maggioranza resta sempre quella: se era complicato per Letta lo sarà anche per Renzi». Daniele è il 25enne presidente del circolo Pd di San Paolo, a cento metri dalla basilica. È solo in una stanza disadorna, con le sedie impilate, nell’angolo ci sono due bottiglie d’acqua avviate. Qui votarono per Bersani, poi simpatizzarono per Cuperlo ma alle primarie vinse Renzi, in scioltezza. A Roma il circolo ha avuto notorietà per il voto dei fuori sede, che premiò Civati.

Gli altri circoli della Garbatella sono chiusi, il rione dei partigiani e dei comunisti oggi ha una sede anonima in un sottoscala, che nessuno per strada o nei bar sa indicare con precisione, mentre la mitica, suggestiva Villetta - che fu riconquistata ai fascisti, che avevano messo la loro targa al posto di quella del Pci - è un condominio dei partiti della sinistra, con la bandiera di Sel che domina. A via del Gasometro numero 1 appendono ancora l’Unità in bacheca,mal’inferriata è bloccata, le luci spente. Non c’è nessuno. Accanto, al numero 3, in un circolo ricreativo, pensionati e ragazzi si confrontano alle carte, i cinque tavoli sono pieni. A via dei Giubbonari, nella sede più “viva” del centro storico, il telefono suona a vuoto.

La base non ha vissuto insieme questo pomeriggio. Queste ore attese, intense e teatrali non hanno aggregato “fisicamente” gli appassionati della politica, non ci sono volti da raccontare, pugni sui tavoli, brindisi o bestemmie. È certamente una mutazione della partecipazione che diventa sostanza nel nuovo modo di pensare ai partiti, la gente di giovedì lavora, è vero, ma ormai la presenza è online, dove però è difficile distinguere il militante autentico dall’intruso (e naviga un esercito di professionisti della molestia). A leggerli in colonna nelle pagine facebook di Renzi o Cuperlo o del Pd sono tutti iscritti delusi, «non vi voterò mai più», è una frustrazione da setacciare e comunque il tono è quello, pochissimi si distinguono, qualche incoraggiamento ma bisogna cercarlo bene, come una conchiglia in una spiaggia di sassi.

Si accenta la repentina inversione di marcia di Renzi, in fiorentino acciarpato: «’aro Matteo Renzi, penso 'he oggi te tu ha’ fatto una delle più grandi bischerate mai 'ompiute da quando Jeppetto fabbrì’ò Pinocchio!». «Era meglio andare al governo con il voto» è il rammarico diffuso. «Democristiani», «vergognatevi », «è questo il cambiamento?». «roba da prima Repubblica...», «il peggior modo di fare», «Renzi sarà il terzo premier consecutivo che nessuno ha eletto...», e così via, spesso il tono è greve, altre volte colto: «Un partito serio - diceva Enrico Berlinguer a Enzo Biagi - non può permettersi di enunciare una linea e di comportarsi dopo in maniera opposta». Nemmeno Cuperlo può scorrere a cuor leggero la “sua” pagina Facebook, contestato per non aver fatto opposizione, per non esser stato «duro e tenace» come promesso. «Perché la minoranza ha votato quel documento, dopo essersi detta contraria a quel voto?». Anche con affetto: «Mi dispiace Gianni, siete stati assenti, siamo delusi». Anche con rabbia: «Ti ho votato, avete ammazzato la democrazia». Pippo Civati invece fa il pieno delle pacche sulle spalle, il suo indefesso “no” a quasi tutto è in fondo coerente, «bravo, ci hai reso orgogliosi, ma ormai sei come il Panda, sei una razza in via di estinzione».

Laura Catalisano, una pensionata che pubblica sul suo profilo la foto del Cristo morto del Mantegna, si domanda: «Ma la direzione ascolta la base del partito?». Forse la base, gli iscritti, gli appassionati, la gente che si raduna enorme nei giorni delle primarie, e poi si ritrae a battere i tasti del computer, deve ritrovare qualcosa.

il Fatto 14.2.14
A porte sbarrate
Nelle sezioni chiuse rimpianti per il Pci
di Carlo Di Foggia


Non lo so che è successo, adesso accendiamo la tv e vediamo”. Roma, via dei Giubbonari, la sezione storica del Pci, ora del Pd, è vuota. Ha aperto alle cinque del pomeriggio, quando da due ore tutta Italia parlava della direzione nazionale. Fuori, un militante osserva la strada. Ma lei vota Pd? “Io? Io votavo Pci...”. Chi si aspettava di vedere i militanti ammassati nei circoli a guardare “la sfida” in diretta streaming è rimasto deluso: “Ognuno se la vede da casa”. Non è una di quelle occasioni dove si aspetta insieme il risultato? “Ma co’ questi ogni giorno è n’occasione. È un casino, nun se capisce niente”. Ieri, mentre il segretario licenziava il premier in direzione, a Roma non un solo circolo del partito era aperto: “Alberone”, “Aurelio”, “Esquilino” etc... Nessuno ha pensato di aprire le porte ai militanti disorientati dall’ennesima lotta fratricida nel partito. “Provate a San Giovanni o Garbatella, lì le fanno queste cose”. Niente, le porte sono chiuse, e nella seconda hanno anche portato via l’insegna. Alla vista di una luce accesa, nella sezione di Trastevere, lo stupore del cronista si dissolve presto: “Siamo attori, proviamo uno spettacolo”. Non c’è nessuno del partito? “No, perché, oggi che c’era?”. Alle cinque le luci si spengono. Non arriverà più nessuno. Ultimo tentativo, San Saba: siete aperti per la direzione? “Eh? Se è per l’incontro di sabato, stiamo raccogliendo adesioni...”.

Repubblica 14.2.14
Nella storica sezione di via dei Giubbonari a Roma, a stragrande maggioranza cuperliana: “Sosteniamo Renzi, ma certe sue indelicatezze fanno rabbrividire”
E il “fortino rosso” vacilla: “Militanti sconcertati”
di Tommaso Ciriaco


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Enrico Letta esce di scena davanti a tre immobili spettatori del circolo Pd di via dei Giubbonari. Gli schermi mostrano un flash d’agenzia che non ammette rivincita: “Domani al Colle per dimissioni”. Il signor Renato, iscritto dal 1970 nella sezione più rossa della Capitale, sembra stordito. Più in là, la signora Maria ignora la tv, persa in un solitario scacciapensieri. Ma è un attimo: «Si segano le gambe da soli - sibila - Io mi vergogno, nessuno ci capisce più niente». È la staffetta democratica vista da chi milita. Atmosfera crepuscolare. Ti aspetti gioia o rabbia, vince una malinconica rassegnazione. La cuperliana Giulia Urso guida il circolo, anche se oggi è costretta a casa: «Mi stanno chiamando tutti. Gli iscritti sono sconcertati».

Sulla porta della sezione c’è ancora la Quercia, sul muro d’ingresso la targa del vecchio Pci. «Ero rossa che più rossa non si può - giura Maria, quella del solitario a ‘sto punto non so più a chi credere. Ci rinuncio, se continuano così straccio la tessera». Nel fortino della minoranza dem (90% a Cuperlo alle primarie di circolo) tutti sanno che tra gli sponsor dell’operazione Renzi ci sono proprio cuperliani, bersaniani, dalemiani. E il malessere non trova sfogo.

Responsabilità e rammarico vanno a braccetto. «Prendiamo atto di quanto accaduto - dice Urso - ma la verità è che il partito nonera pronto. Va bene, la situazione gravissima imponeva un’accelerazione forte. Renzi se ne fa carico, lo sosteniamo. Eppure tante sue indelicatezze fanno rabbrividire».

«Le persone mi chiamano - racconta la presidente - si stanno contorcendo». Contorcendo, dice proprio così. Si affaccia un anziano signore modenese e conferma: «Ero a casa, davanti alla tv. Sono dovuto venire qui, sentivo una cosa allo stomaco. Ero troppo nervoso. Mi hanno fatto riflettere i miei figli, però. Pensano che sia giusto così». Le pochissime sentinelle del circolo non sembrano d’accordo. E neanche la Rete, affollata da migliaia di tweet che bombardano la staffetta.

Sul tavolo (rosso) c’è un pacco di volantini. Accanto spunta un manifesto, scritto a mano da un anziano militante: «In questo circolo: 1) Mai più nominati, ma preferenze su ampie liste 2) Ridurre i costi della politica 3) Emarginazione dei delinquenti in politica tipo Berlusconi. Renzi ha fatto tutto il contrario e non va bene». La versione originaria era “Renzi fa schifo”, ma la presidente l’ha fatta cancellare. Stavolta, però, non è solo il sindaco nel mirino: «Il malessere c’è - ammette Urso - noi dobbiamo farcene carico. Con responsabilità, per evitare che si scada nel populismo. E dobbiamo vigilare affinché il Pd non diventi un partito personale come quello di Berlusconi».

Nessuna riunione, stasera. «Faremo un’assemblea nei prossimi giorni». E allora in quattro chiudono in fretta il circolo. Fuori tempo massimo si affaccia un’altra iscritta: «Roba da matti, quello di oggi non è un metodo democratico. Così ci rivolgiamo alla pancia della gente, non alla testa». Poi, voltandosi: «Comunque noi restiamo qua, sul fronte. Vero, Renato? ». Renato è di poche parole: «Non mi piace, così». «Pensavo di trovare qualcuno - volta le spalle la signora Maria - Non vado neanche al cinema, che se poi il film è una bufala davvero nun ce la posso fa’». Tutti a casa alle 19, è meglio così: «Tanto chi vuoi che viene, stasera?».

il Fatto 14.2.14
L’intervista Achille Occhetto
Letta e Renzi come noi? C’era tutto un altro stile
“È solo il peggio di Pci e Dc”
di Salvatore Cannavò


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Ha rottamato il peggio del Pci, gli resta da rottamare il peggio della Dc da cui proviene”. La sintesi del suo giudizio sui riti e le modalità di quanto avviene nel Pd, Achille Occhetto la offre in una battuta efficace. L’autore della “svolta”, colui che ha cambiato nome al Pci, e poi è stato estromesso dal gruppo dirigente di quel partito, ha seguito la direzione. In realtà, ha anche votato alle primarie dell’8 dicembre: “Un voto per Civati, per ancorare Renzi a sinistra”.

Occhetto, ha provato un po’ di pena per Letta o comunque cosa ha provato a vedere il vecchio rito della defenestrazione andare in onda nella direzione Pd?

Ho provato pena per le dosi di ipocrisia e untuosità a cui ho assistito. A partire dalle posizioni della minoranza. Tutti a ribadire la necessità storica della formazione del governo Letta, tutta da dimostrare e poi, dopo l’esaltazione di rito, tutti a sottolineare che la politica italiana si trova nel pantano.

Un’ipocrisia diffusa?

Sì, perché una discussione è anche legittima, ma non si fanno salamelecchi da vecchia Dc per non dire quello che invece va detto con chiarezza.

Cioè?

Secondo la politica che eravamo abituati a fare ai miei tempi, avrei detto che la continuità tra il governo Monti, quello Letta e un’idea dell’emergenzialità per cui non si vota mai, è una politica sbagliata.

Ma allora erano meglio Dc e Pci?

Rispetto all’ultima fase, rispetto a quello cui stiamo assistendo, erano sicuramente meglio.

E come ne esce Renzi da questa vicenda?

Di Renzi ho apprezzato la volontà di cambiamento e di rottamare tutto il vecchio gruppo dirigente, responsabile delle sconfitte della sinistra. In realtà, non ho apprezzato l’idea della rottamazione, sparare nel mucchio senza individuare le responsabilità non mi pare una buona idea. Però c’era una volontà di cambiamento. Per questo ho votato Civati alle primarie, per ancorare il voto a Renzi che, in quel frangente, puntava a far saltare le larghe intese e riaprire la fase delle alternative. Che poi è quello che gli hanno chiesto milioni di cittadini.

E ora?

Dopo la direzione siamo di nuovo in una ambiguità. Io credo che Renzi sia stato messo nelle condizioni di smentire gli obiettivi di fondo che si era dato alle primarie. Con la scelta della direzione, le larghe intese dureranno fino al 2018. La continuità con la politica messa in campo da Napolitano che si è dimostrata fallimentare.

Il Quirinale ha dunque fallito?

Il presidente della Repubblica ha fatto due scommesse: il governo Monti e poi il governo Letta. Le ha perse tutte e due.

La categoria di sinistra è ancora valida per questo Pd?

La sinistra va ripensata da cima a fondo.

Ma Renzi può essere definito un figlio della sua “svolta”?

No, perché viene da un’altra storia politica. Ho sempre sostenuto che il Pd non è filiazione della Bolognina perché ha messo insieme il peggio del vecchio Pci e il peggio della vecchia Dc. Se vuole andare fino in fondo, Renzi dovrebbe rottamare anche la vecchia Dc che si trova dentro.

In fondo mantiene ancora un’apertura di credito nei suoi confronti, vero?

È un atteggiamento doveroso quello di associare la prova dei fatti alle giuste critiche. Finora Renzi ha mostrato di possedere vitalità, freschezza, una voglia di rinnovamento che è piaciuta molto ai militanti. Li vedo bene quelli della Toscana o dell’Emilia, rimasti rossi, ma oggi occorre capire su che terreno vuole vincere.

E dopo questa svolta?

Questo passo gli toglie carisma?

Quanta ipocrisia

Nella direzione a cominciare dalla minoranza. Hanno voluto il governo Letta e le larghe intese e ora si trovano nel pantano. Perché?



il Fatto 14.2.14
Renzi già col pallottoliere, al Senato rischia grosso
L’orazione dell’autoincoronazione, poi la lunga notte tra trattative e proposte
Vendoliani fuori dai giochi, Alfano pressa per restare
di Fabrizio d’Esposito


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Giovedì 13 è un film dell’horror ammantato di poesia. È pur sempre la vigilia di San Valentino, che oggi Renzi festeggerà da sindaco a Firenze. Il Rottamatore spara versi come crisantemi sulla tomba politica di Enrico Letta. Una citazione banale dall’Attimo fuggente: “Due strade trovai nel bosco e io, io scelsi quella meno battuta”. La direzione del Pd si tramuta in esecuzione e funerale allo stesso tempo. Il metodo di “Matteo” è spietato, per usare l’aggettivo scelto da Civati, e fa coniugare all’imperfetto tutti gli interventi di stampo comunista nordcoreano. D’improvviso Letta “governava” anziché governa. La bara è vuota perché il premier assente è un morto che cammina. I grazie si sprecano e si trasformano in un gigantesco amen, che per Renzi si trasfigura in un potente “vento in faccia”, altra lunga citazione poetica. Sangue e poesia alle tre del pomeriggio. Il segretario del Pd completa la conversione del partito al suo vangelo. Adesso dopo Shining (sempre Civati) o Giovedì 13 c’è l’Oceano Mare, antico titolo di Baricco, autore neorenziano. Cioè la navigazione tra i flutti e le trappole della Capitale.

Subito fallita l’operazione per allargare a Sel

La prima incognita è il perimetro della maggioranza. Che garanzie e numeri offrirà Renzi a Napolitano per arrivare al 2018? Il rischio è che la maggioranza sia la stessa di Letta perché l’operazione Vendola è fallita. I due, “Matteo” e “Nichi”, hanno parlato lunedì, prima che il leader del Pd andasse a cena da Napolitano al Quirinale. Al di là della Camera, dove i numeri non sono un problema, la discussione è stata tutta sul Senato. Renzi avrebbe addirittura accarezzato il progetto di sganciarsi dagli alfaniani per “autonomizzarsi a sinistra” mettendo insieme i sette senatori di Sel e almeno dieci dissidenti grillini, se non quindici. Ma la spaccatura a rischio scissione nel partito di Vendola ha bloccato tutto. In cambio il premier in pectore aveva già assecondato la principale richiesta di Sel: il reddito di cittadinanza. Nulla da fare. Anche se i renziani assicurano che almeno tre senatori vendoliani (Stefàno, Uras, De Cristofaro) più una grillina voteranno la fiducia, tra mercoledì e giovedì della prossima settimana.

La voglia di fare a meno di Angelino

A questo punto sarà determinante il sostegno del Nuovo Centrodestra di Alfano, partito governativo per vocazione altrimenti all’opposizione morirebbe appena nato. La tentazione del futuro premier è quella di escludere Alfano, già delfino berlusconiano poi tra i ministri più inefficienti e “scandalosi” di Letta. Un esempio per tutti: il caso Shalabayeva. A Ncd dovrebbero andare due ministri, Lorenzin e Lupi, ma è in corso una serrata trattativa per far rientrare Alfano dalla finestra. In ogni caso non con i gradi da vicepremier. A Palazzo Chigi Renzi non vuole vice.

Obiettivo: asfaltare subito il Movimento cinque stelle

Alle dieci di ieri sera il cerchio magico renziano confidava: “La cosa che più fa godere Matteo in queste ore non è la dipartita di Letta ma il silenzio dei grillini. Sono trentasei ore che non si sentono”. I primi cento giorni di Renzi a Palazzo Chigi coincidono con la scadenza delle elezioni europee e il suo obiettivo sarà “asfaltare il Movimento 5 Stelle”. Altrimenti il rischio è che dalle urne di maggio escano Grillo e Berlusconi con più del cinquanta per cento. Ma se c’è una cosa “che fa arrapare Matteo quella è la parola rischio, lui è abituato a strafare e a forzare, ci saranno tanti fuochi d’artificio, vedrete”. Chi non la pensa così è quella maggioranza silenziosa del Pd convinta che Renzi si vada a schiantare. E con una sonora sconfitta alle Europee la sua “dalemizzazione”, in senso negativo, cioè di dimissioni, sarebbe fin troppo evidente.

La solita telefonata al forzista Verdini

Ieri Renzi è riuscito a sentire per telefono anche il concittadino Denis Verdini, lo sherpa di Berlusconi, per il patto sulle riforme. Il Condannato è stato rassicurato sul rispetto degli accordi anche se l’Italicum probabilmente subirà altre modifiche. Tipo l’abbassamento delle soglie di sbarramento. Il leader del Pd vuole arrivare alle elezioni solo dopo le dimissioni di Napolitano, non prima del 2015, alla fine del semestre italiano alla presidenza europea. Il premier in pectore vuole al Quirinale un presidente diverso quando si tratterà di votare: “Non voglio sorprese sull’incarico dopo i risultati”. L’ennesima conferma che sarà questo Parlamento a eleggere il successore di Re Giorgio. Ma cosa succederà se l’ultima spiaggia renziana si impaluderà a sua volta, facendo ritornare lo spettro del voto a ottobre?

Corriere 14.2.14
I numeri al Senato
La difficile impresa di mettere insieme Ncd, Sel e centristi
di Dino Martirano


ROMA — Come farà Matteo Renzi, premier in pectore, a far sedere allo stesso tavolo il Nuovo centrodestra (che assicurerà anche a lui la maggioranza al Senato con 31 «seggi marginali») e la pattuglia «riformista» di Sinistra Ecologia e Libertà che vorrebbe tanto cedere alle sue avances? L’operazione «soccorso rosso» non sarà poi così facile per il sindaco di Firenze che, infatti, ha già inviato un suo «scout» ad esplorare i territori della Lega in cerca di appoggi (15 senatori) su tutt’altro fronte.
La quadratura del cerchio è davvero difficile perché gli ex berlusconiani traghettati da Alfano e i comunisti di Sel devono rispondere, rispettivamente, ad elettorati che si guardano in cagnesco. Conferma Nichi Vendola, che in vista dell’Assemblea nazionale di domani, detta la linea di (apparente) chiusura a chi — nel suo partito — fosse tentato di collaborare con il sindaco di Firenze alleato del Ncd e del centro moderato: «Sel come sempre è disponibile a discutere alla luce del cambiamento necessario, che significa rompere qualsiasi compromissione con ambienti di destra, berlusconiani o diversamente berlusconiani». Dunque, chiosa Vendola, «vorrei lanciare un’avvertenza; nessuno pensi di giocare in casa d’altri per reclutare qualche malpancista. Perché questa sarebbe un’attività corruttiva...».
Così l’operazione «soccorso rosso» — che porterebbe addirittura sei voti in più al Senato e dieci alla Camera in uscita dai gruppi di Sel — inizia a creare qualche pesante problema ai piani alti del Pd. Dove,senza fare troppi misteri, molti contavano sull’aiutino targato Sel grazie a due autorevoli apripista come Gennaro Migliore, alla Camera, e Dario Stefano al Senato.
E poi ci si è messo anche l’ex presidente del Senato, Renato Schifani (Ncd), che ora accarezza l’idea di ereditare da Alfano la poltronissima del Viminale: «Siamo alternativi a Sel e questo è un fatto politico rilevante...». A ruota, Mario Mauro (Popolari per l’Italia), che si troverebbe benissimo a continuare al ministero della Difesa, manda avanti i suoi per dire a Renzi che «una maggioranza sbilanciata a sinistra» sarebbe altamente sgradita.
Ecco, allora, che Renzi manda in avanscoperta il fidato Ernesto Carbone (il deputato della Smart blu) che ha iniziato il suo corteggiamento rivolto alla Lega: «Se La Lega, eventualmente, ha dei punti programmatici che condivide con noi, nessun problema...». E questo va letto con quanto va dicendo il segretario del Carroccio, Matteo Salvini: «La posizione della Lega è andare a votare domattina, poi, come segretario del movimento, è mio dovere andare a sentire che cosa pensa e cosa vuol fare Renzi per il Nord».
Un Renzi che da ieri sera non è più all’«opposizione interna» del governo. E dunque, da oggi si deve preoccupare seriamente della tenuta della sua maggioranza, non solo al Senato. Alla Camera, dove i numeri gli sono più che favorevoli, il segretario d’aula del Pd, Ettore Rosato (renziano convinto), è preoccupato per i decreti che vanno in scadenza a fine mese. Si inizia stamattina con il decreto «mille proroghe» che scade il 26 febbraio e che viaggia con 437 emendamenti e l’annuncio di un’opposizione dura dei grillini: «Senza tempi contingentati e senza la possibilità di porre la fiducia perché ora non c’è un governo che lo possa fare, questo vuol dire almeno 437 ore di discussione». A seguire ci sono in arrivo dal Senato il decreto «Salvaroma» (che porta con sé l’ emendamento di Linda Lanzillotta, di Sc, sull’Acea e le municipalizzate che fa tremare il Pd) e quello che cancella in tre anni il finanziamento pubblico ai partiti. Per questo ieri sera il segretario d’Aula del Pd impartiva ordini tassativi ai suoi deputati, ma anche agli alleati del Ncd e dei Popolari: «Il fine settimana non si torna a casa. Si resta a Roma a votare». Perché ora un decreto non convertito in legge andrebbe tutto sul conto di Renzi.

La Stampa 14.2.14
Le condizioni di Alfano da Vendola allo ius soli
«No a un esecutivo politico e di sinistra Scadenza nel 2018? Dipende dai fatti»
di Amedeo Lamattina


ROMA Alfano è l’unico che difende Letta e il governo che ha tenuto in piedi, rompendo con Berlusconi e fondando un nuovo partito. Dice di sentirsi in dovere di spendere «parole più generose» rispetto a quelle sentite alla direzione del Pd. Del resto, «abbiamo trovato l’economia con il segno meno e la lasciamo con il segno più. Lo dirà oggi l’Istat». Per questo il leader del Nuovo Centrodestra definisce «kafkiana» tutta la vicenda che ha portato alle dimissioni di Letta. Detto questo, riconosciuto meriti e onori a Letta, Alfano è ormai salito sulla barca di Renzi, anzi su quella che spera diventi un transatlantico che porti il suo partito fino alla fine della legislatura, nel 2018. Non vuole che il nuovo premier apra a Vendola, ma sa che Renzi ha intenzione di sfilare al governatore della Puglia pezzi di Sel e di agganciare i grillini dissidenti. Un’altra cosa cui punta Alfano è mantenere almeno tre ministri, ma potrebbero toccargliene due (in questo caso verrebbe mandata a casa Lorenzin perché il ministro dell’Interno e vicepremier vuole rimanere al suo posto al governo).
Per non diventare una costola della sinistra, Ncd deve puntare i piedi sul programma. Infatti Alfano dice che nulla è scontato. «Se non ci saranno le condizioni politiche per far valere le nostre istanze, noi diremo no alla nascita del nuovo governo. Noi non siamo innamorati dello scenario della durata del governo fino al 2018. Non siamo disponibili a un governo che abbia connotati politici di sinistra e di centrosinistra». La cosa che più apprezza delle parole di Renzi è che abbia precisato il perimetro della maggioranza: lo stesso che sosteneva Letta. «Noi siamo il centrodestra. Se sarà possibile realizzare gli obiettivi che abbiamo deciso di darci, faremo parte di un governo di emergenza, o di servizio o di necessità che dir si voglia ma non di un governo politico, che dovrà durare il tempo necessario per realizzare i nostri obiettivi. Noi vogliamo ribadire: siamo la voce del centrodestra e avremo sempre bene in mente i bisogni e le necessità del ceto medio italiano dal lato del centrodestra».
Insomma, Renzi non pensi di scrivere il programma in poche ore e sottoporlo a Ncd per la firma. Non pensi di inserire le unioni civili e lo ius soli. Alfano e il suo partito sono convinti di essere centrali e in effetti lo sono visto che senza i loro voti non potrebbe nascere il nuovo esecutivo. Prima Renzi quasi li svillaneggiava, ora dovrà coccolarli. Almeno così pensano i dirigenti del Nuovo Centrodestra. Sempre che Renzi, temono altri di Ncd, non faccia un’altra delle sue mosse fulminanti e «spregiudicate» e apra a Berlusconi di volta in volta sui singoli provvedimenti. Quasi a fare le larghe intese di fatto. Un’ipotesi che Alfano esclude, soprattutto se nel suo gruppo parlamentare a Palazzo Madama arriveranno altri senatori.
«Noi saremo un valore aggiunto politicamente e numericamente», sostiene il senatore Naccarato convinto che Ncd in questo ramo del Parlamento presto passerà da 31 a 40 componenti. Naccarato fa una scommessa: «Il governo Renzi al Senato otterrà 180 voti di fiducia, 8 in più dell’attuale maggioranza che ha appoggiato Letta».
In sostanza, spostandosi l’orizzonte della legislatura verso il 2018, ci saranno degli smottamenti interessati dal gruppo misto e in seguito da Forza Italia. La maggiore forza di Ncd renderà stabile Renzi in cambio di un programma che guarda all’elettorato moderato. Quello che vorrebbe intercettare Alfano per diventare in futuro il leader di tutto il centrodestra. Sempre che non finisca per diventare il centro di un nuovo centrosinistra.

il Fatto 14.2.14
Sinistra radicale
Per Vendola è solo “palazzo”. Governisti delusi
di Sal. Can. 


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Sel poteva spaccarsi nell’ipotesi di un nuovo esecutivo renziano, il modo in cui il segretario del Pd ha impostato l’operazione, finirà per ricompattare Sinistra Ecologia e Libertà. Basta ascoltare Nichi Vendola che bolla tutto come una semplice “mossa di Palazzo”. Oppure ascoltare il sospiro di sollievo dell’attuale maggioranza, pronta a riconoscersi nel nuovo coordinatore della segreteria, Nicola Fratoianni, sabato prossimo a Roma. Ma anche colui che veniva indicato come pronto a passare con Renzi, il capogruppo alla Camera, Gennaro Migliore, ammette il suo dispiacere per la continuità che si intravede tra il governo di Enrico Letta e quello che sta per nascere. “Io avrei voluto festeggiare la fine del governo Letta” spiega al Fatto , “ma il modo in cui si profila la continuità dell’attuale maggioranza non consente alcun dialogo. Mi dispiace ma io con il Nuovo centrodestra non posso governare”.

L’ipotesi di una spaccatura definitiva di Sel, in realtà, non è mai esistita anche se i “renziani” pensano di strappare qualche senatore. All’ultimo congresso del partito, quello che ha deciso il varo della lista Tsipras - ormai nella fase decisiva - la maggioranza è passata saldamente nelle mani di un’area trasversale guidata da Nicola Fratoianni, braccio destro di Vendola in Puglia, Massimiliano Smeriglio, vice di Zingaretti alla Regione Lazio, e Fabio Mussi, ex dirigente dei Ds, già occhettiano, e ora di nuovo in pista per sostenere il rilancio della sinistra radicale. A finire in minoranza sono stati Claudio Fava, anch’egli proveniente dai Ds e, appunto, Gennaro Migliore, propugnatori di un rapporto privilegiato con il Pd. Con loro, la maggioranza del gruppo parlamentare alla Camera (circa 20 deputati su 37) e probabilmente le simpatie della presidente della Camera, Laura Boldrini. Ma al Senato, dove si fa davvero la maggioranza di governo, Sel conta sette deputati di cui solo 3, forse 4, attratti dal rapporto con il Pd. Tra di loro anche Dario Stefàno, presidente della Giunta per le Elezioni che ha fatto decadere Silvio Berlusconi e che è dato come prossimo candidato alla Regione Puglia in sostituzione di Vendola. Anche Migliore è stato dato dal Corriere del Mezzogiorno come possibile candidato a sindaco di Napoli, a nome di un’ampia lista di sinistra, compreso il Pd, nelle elezioni che si terranno fra due anni: “Il fatto che questa notizia, che smentisco, sia stata fatta circolare ora - dice Migliore - dimostra che forse al nostro interno il clima non è buono”.

In effetti in Sel si respira un’aria di scontro molto pesante. L’ex allenatore, Renzo Ulivieri, candidato di Sel non eletto, ha scritto senza molto diplomazia che “Chiedo scusa perché non è mia abitudine, ma Gennaro Migliore ha rotto i coglioni”. Se domani la questione del governo passa in secondo piano lo scontro ci sarà sia sulle modalità con cui sta nascendo la lista Tsipras che sulla formazione degli organismi dirigenti. Dei nove componenti la prossima segreteria forse uno verrà concesso alla “minoranza”. Oltre alla conferma di Vendola alla presidenza, ci sarà la nomina di Fratoianni al coordinamento, di Smeriglio all’organizzazione, l’entrata di Giorgio Airaudo come responsabile Lavoro e anche l’ingresso di Fabio Mussi che torna a un ruolo attivo (Paolo Cento assumerà, invece la presidenza dell’Assemblea). Ora, svanita la possibilità Renzi, Sel dovrà scommettere tutto sulla lista Tsipras per le europee.

l’Unità 14.2.14
La Lega
Apertura di Salvini: da noi possibile una «benevola astensione»


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«Mai nella vita entreremo in un governo di sinistra». È quanto ha messo in chiaro Matteo Salvini a chi gli chiedeva il senso dell’apertura di credito manifestata riguardo all’ipotesi di un incarico di governo a Matteo Renzi.«Se Renzi ci stupisce nonè detto che gli voteremo contro», ha poi aggiunto il segretario federale della Lega Nord, precisando che, come accaduto durante il voto di fiducia al governo di Enrico Letta, il suo movimentoè pronto a una «benevola astensione». Salvini ha poi ribadito che la Lega è per andare subito alle elezioni. «Renzi sarebbe il terzo premier incaricato senza passare dal voto: queste cose succedono solo a Cubao in Corea del Nord». E ancora, senza alleggerire il tono: «Siamo un regime, è palese. Il discorso di Renzi è deludente: ho sentito poco o niente su lavoro, Europa, immigrazione. Sembra una guerra interna al Partito democratico, che la fa scontare agli italiani». E tuttavia «noi continuiamo a non avere pregiudizi» e «se sarà Renzi» il presidente del Consiglio incaricato «diamogli un minimo di credito e vediamo cosa vuol fare».

Salvini, che ieri si trovava a Genova per alcune iniziative del partito, non chiude nessuna porta. «Vedremo cosa succederà nelle prossime ore, se si chiariranno, chi vivrà e chi morirà all’interno del Pd. Quando ci sarà un presidente del Consiglio incaricato un minuto dopoio chiederò di andare a parlargli».

l’Unità 14.2.14
Francesco Russo
«Enrico è stato sacrificato a vantaggio di Berlusconi»
di Andrea Carugati

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Francesco Russo, classe 1969, senatore Pd, è uno dei lettiani di più stretta osservanza. Amico del premier uscente da oltre vent’anni, dai tempi della giovanile dei popolari e dell’Arel di Beniamino Andreatta. Risponde al telefono da Palazzo Chigi, al termine di un breve brindisi di Letta con i collaboratori più stretti. «Un brindisi sereno», racconta, la voce un po’ rotta dall’emozione.

Senatore Russo, come valuta la decisione della direzione Pd?

«Questa scelta non è figlia delle difficoltà del governo Letta, che erano tutte preventivate alla luce della strana maggioranza. Ma del risultato delle primarie del Pd. È la vittoria di Renzi alle primarie che oggi lo porta a Palazzo Chigi: una scelta legittima, l’errore è non averlo detto dall’inizio. Leggendole reazioni della base, nelle mail che arrivano e anche sui social network, si ha l’impressione di un passaggio che consegna il Pd agli antichi demoni dei conflitti interni, proprio nel momento in cui il partito poteva vantare le due personalità politiche più autorevoli in Italia. Letta e Renzi potevano essere come Coppie Bartali, aiutarsi a tirare il gruppo in una salita ancora lunga. Mi pare incomprensibile perché si sia dovuto sacrificare uno dei due leader a tutto vantaggio di altri spettatori interessati, in primis Berlusconi, che segna un’altra tacca sui leader di centrosinistra che ha visto passare oltre».

Eppure ilPd ha votato chiaramente...

«Non c’è una motivazione comprensibile. Questo passaggio nonè stato preparato, e non è compreso dai nostri elettori. Letta nella sua conferenza stampa ha dimostrato che c’era un programma di governo chiaro e in larga parte già in itinere. Per citare Renzi, l’Italia con questo governo è già uscita dalla palude: Enrico ha navigato nella palude, oggi gli indicatori vedono un segno più sulla crescita, lo spread è sotto controllo, le aste dei titoli di Stato vanno bene. Mi stupisco della poca considerazione di Renzi verso un sentimento diffuso nel Paese: i sondaggi dicono che oltre il 70%degli italiani è contrario a questa staffetta. Non è un caso che la posizione di Civati, che ha votato contro, stia registrando consenso». Come vi muoverete rispetto al nuovo governo?

«Lavoreremo in assoluta lealtà dal primo minuto».

È possibile un futuro politico di Letta fuori dal Pd? «Assolutamente no. La storia politica di Enrico e di tutti noi nasce quando con Romano Prodi e Beniamino Andreatta abbiamo iniziato a sognare il Pd. Letta rimarrà impegnato a fa diventare questa storia ancora più forte e a superare le difficoltà e le incongruenze che pure ci sono. Non esistono altri spazi politici, sono solo maldicenze. Così come l’idea che Enrico potesse chiedere o accettare degli incarichi di consolazione. Non cerca poltrone, né in Italia e neppure in Europa».

È vero che gli sia stato proposto il ministero dell’Economia?

«Letta ha fatto sapere da subito che era un’ipotesi del tutto inesistente».

Il rilancio del governoè stato tardivo?

«È ingeneroso accusare il governo di aver avuto le pile scariche negli ultimi due mesi, odi aver frenato. Quel programma presentato mercoledì era pronto da inizio gennaio: è stato tenuto fermo su esplicita richiesta del Pd perchè prima bisognava fare la legge elettorale. C’è qualcuno che quelle batterie le ha volute scaricare, staccando più volte la spina del caricatore. L’unico foglio excel che mancava al programma era il contributo del Pd. Letta ha avuto il demerito di fidarsi della parola data dal suo partito. Ma non è pentito, questo è il suo stile».

C’è la percezione di una fiducia tradita, anche dal punto di vista umano?

«In politica le relazioni personali passano in secondo piano. Registro che fino a qualche giorno fa si invitata il premier a stare sereno e a lavorare»

Crede che, con la stessa maggioranza, le difficoltà svaniranno?

«Al contrario, resteranno le stesse».

C’è stato un deficit di vitalità e energia nel governo Letta?

«Questo governo non ha saputo raccontare al meglio i segnali di ripresa e di speranza di cui il Paese ha bisogno. L’errore è stato quello di fare prima le cose e poi raccontarle. Una buona prassi, troppo spesso abbiamo visto promesse roboanti e poi non mantenute. Allude a Berlusconi?

«Non è il solo. Del job act abbiamo solo il titolo dopo settimane...».

il Fatto 14.2.14
Accompagnato alla porta Letta sbotta: “Filibustieri”
L’analisi di Civati: “gli hanno fatto fare la fine della giraffa di Copenhagen”
di Antonello Caporale


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Da notevole uomo di Stato Renzi non ha atteso neanche la pubblicità per licenziarlo. In venti secondi la vita politica di Enrico Letta è stata sciolta nell’acido e il suo corpo è divenuto gas. A Palazzo Chigi, dove ha indossato la fascia di capitano per l’ultimo pomeriggio, sono giunte le prefiche: Alfano, Quagliariello e Lupi. Espulso dal centrosinistra, fantasma a largo del Nazareno, il premier è stato consolato dal centrodestra, e così la visione in streaming della sua decapitazione è stata più sopportabile. Se Renzi si nutre di sè, Letta ha purtroppo il corpo fragile e la digestione delicata. La gastrite, la più temuta nemica, si è subito riacutizzata quando sono apparsi i capelli dritti come chiodi al vento di Luigi Zanda, il capogruppo al Senato. Un perfetto ex amico. Che ha ricordato il governo attuale come un incidente remoto, e con un tale rispettoso distacco... “Che filibustieri”, ha sibilato Enrico, ed è stato il massimo della virulenza mentre Angelino Alfano commiserava, da par suo, il vizio del tradimento. E a proposito di ex amici o presunti tali Dario Franceschini ieri ha sbottato: “Sul Corriere leggo di un litigio totalmente inventato tra me e Letta”. Ma intanto il premier è divenuto fantasmino, esonerato da Renzi come quei mister del calcio: “Grazie per la sua generosità, e anche per il suo contributo”. Il contributo, proprio così. Solo ieri Enrico era riuscito a presentare decine di fogli con date, importi, investimenti, risparmi. Un librone cestinato. “Notevole impegno”, gli ha detto Renzi. Ma il segretario e futuro premier sembrava che scherzasse. Anzi, sembra sempre un burlone professionista.

L’accoltellamento è durato circa tre ore, Letta si è spento da premier intorno alle 18, ma solo per ragioni di burocrazia. Perché bisognava votare la sua decadenza: “Vi prego di attendere il voto”, ha raccomandato la presidente dell’assemblea. Cosa superflua perchè, come detto, Renzi aveva già impegnato tutto il primo minuto del suo messaggio alla nazione per licenziarlo. E Stefano Fassina si era rammaricato che bisognasse andare alla conta: “Spero che Letta non ci costringa a votare”. Alla tribuna citazioni di poeti e letterati, e soprattutto invocazione al senso di responsabilità. Qui Enrico non ha retto per la seconda volta, perchè la parola “responsabilmente” è la sua fatina turchese, il gancio a cui appende ogni fatica, ogni disegno, ogni virtù.

Non gli è restato che raccogliere le foto dei bimbi, quella di sua moglie Gianna, ricevere via cavo la solidarietà di zio Gianni, e chiudere bottega. Stava per andare via, quando ha saputo che i suoi fedelissimi, in tutto quattro, avevano lasciato la direzione senza partecipare alla sepoltura, cioè alla conta. Ci ha pensato l’impertinente Pippo Civati a suggerirgli di spegnere tv e computer e correre a casa toccando continuamente ferro. Pippo, riflettendo, ha detto: “Gli hanno fatto fare la fine della giraffa di Copenaghen”. Si chiamava Marius: uccisa con un colpo di pistola alla tempia, è stata vivisezionata davanti a una platea di ragazzini. Che forse erano più dei 101 dirigenti del Pd che accoltellarono Prodi nella corsa al Quirinale, ma meno dei 136 che ieri sera hanno salutato Enrico, nipote di Gianni.



Repubblica 14.2.14
La storia Bruto, Machiavelli e le faide democristiane l’eterna lotta per la conquista del potere
Il siluramento di Letta tra lacrime di coccodrillo e paragoni horror
di Filippo Ceccarelli


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Doveva, ma non sarebbe mai potuto essere un Letticidio dolce. O almeno, ci hanno provato. Ma poiché il delitto perfetto non esiste, dall’ipocrita riconoscenza «per il notevole lavoro svolto», nel giro di una mezzoretta si è passati a evocare la giraffa squartata coram populo nello zoo di Copenaghen.

La preziosa immagine si deve all’onorevole Pippo Civati, che del partito-killer è divenuto ieri il capo della maggioranza, e che sempre riguardo alla defenestrazione del presidente del Consiglio ha cinematograficamente evocato l’horror di Shining e, con indubbio scatto di fantasia, «una Dc splatter».

Quest’ultima entità è come ovvio uno studiatissimo controsenso. Nel farsi fuori l’un l’altro, a partire dall’affare Montesi (1953-54) e per il successivo quarantennio, i capi democristiani non scherzavano affatto. Erano lotte crudeli, le loro, e anche tragiche maledizioni, macchinazioni e strumentalizzazioni - basti pensare alle code di paglia che per anni e anni spuntavano periodicamente attorno al caso Moro.

Il principio generale vale anche per il buon Letta, cioè per la vittima di oggi: chi si mette in politica e conquista il potere sa di dover rinunciare a sonni tranquilli. Però al momento di toglierlo, questo benedetto potere, anche le forme sono importanti. A loro modo un indizio di civiltà, certo molto relativo, ma pur sempre corrispondente a unostile, perfino a un’estetica del cinismo.

Così vuole la leggenda che Giulio Andreotti non si stupì poi tanto, anzi forse fu addirittura orgoglioso allorché, godendosi in una saletta cinematografica riservataIl Padrino-parte terza, notò sullo schermo un gangster che strangolando un suo ex sodale con un apposito filo di nylon, gli sussurrava all’orecchio: «Il potere logora chi non ce l’ha».

E dunque, per tornare all’oggi, al grottesco sanguinolento della giraffa danese e alle copiose lacrime di coccodrillo versate da tanti durante la direzione del Pd, è irresistibile richiamare la perenne lezione di Niccolò Machiavelli: «A uno principe è necessario saper bene usare la bestia e l’uomo». Almeno da questo punto di vista il giovane Renzi ha dimostrato di non aver molto da imparare.

I leoni e le volpi sono sempre lì, belli affamati. Ma ieri al Nazareno è stato il giorno dei poeti. Il vento in faccia, le strade nel bosco, la statura che si alza fino al cielo. Oh, che squisitezza d’animo! E quanta generosa gratitudine per Letta, anzi per «Enrico»come lo chiama il suo imminente successore - quando non lo chiama meno simpaticamente «il Nipote».

«Apprezzamento», comunque, da parte di Speranza; «riconoscimento non formale» secondo Fassino, pure disposto a ravvisare con una certa partecipazione nel presidente «un turbamento personale e umano». Il trepido Orfini si è forse sbilanciato: «Risultati straordinari», compreso il «capolavoro» di aver determinato una scissione nel berlusconismo. Mentre Bettini è stato solenne: «La sua sobrietà», «la sua onestà», «il suo senso dello Stato».

Ma anche questi toni, insieme alla veloce determinazione con si è svolto il colpo di palazzo e la mancanza di qualsiasi e preventiva «macchina del fango», renderanno questo ennesimo assassinio politico difficile da dimenticare, e in ogni caso impossibile da rubricare all’insegna del «killing him softly with their song», come da fortunato brano anni 70-90.

Qui semmai la canzone è la solita e spietata che ha a che fare con il potere. Gli analisti della stampa internazionale, primi fra tutti gli inglesi, cercano e trovano facili agganci con la storia romana, donde «Matteo Brutus Renzi ». Per poi magari rivolgersi, un domani, al bacio di Giuda - anche se all’ultimo piano del Nazareno nessuno per la verità ha estratto la spada per tagliare l’orecchio a qualche esagitato esecutore di giustizia venuto ad arrestare il leader d’Israele.

Letta d’altra parte non è Gesù, proprio no. Ma anche per questo, freschi di lettura del suggestivo «Machiavelli, Tupac e la Principessa» di Adriano Sofri (Sellerio), si può tentare di racchiudere quanto accaduto con la massima: «La via de lo inferno era facile, poiché si andava allo ingiù e a chiusi occhi».

E insomma, si avrebbe qualche scrupolo a richiamare le deposizioni e i tradimenti ai danni di De Mita, Occhetto, Prodi o Veltroni. Ora, Renzi potrà riderne o schernirsi, i twitter sono senz’altro efficaci nella loro istantaneità e alcuni suoi lasciano anche il segno, ma il cuore della faccenda, più che nei poeti di pronta citazione, sta scolpito nei grandi classici.

Per cui non paia incredibile che di fronte all’ipotesi di togliersi di torno - dopo tanti altri - anche l’«amico Enrico», qualcuno o magari qualcuna non gli abbia fatto la terribile domanda che Lady Macbeth rivolge al suo maritino nel momento decisivo: «Hai paura ad essere nell’azione e nel coraggio quello che sei nel desiderio?». Per poi dispensargli il grazioso consiglio e risolutivo: «Appari come il fiore innocente, ma sii la serpe che vi si nasconde sotto». E Machiavelli, in diverso contesto, ma fino a un certo punto: «Il veleno che vi è sotto».

Perché anche di questo è fatto il potere. Serpenti, veleni, lacci, stiletti, frecce, spade e altri ameni utensili. Chi fa politica deve saperlo, e in genere lo sa. Ma il gentile pubblico non pagante ha pur sempre il sacrosanto diritto di scandalizzarsene. Che forse è meglio di fregarsene del tutto come verrebbe naturale quando i personaggi appaiono tragiche caricature.



il Fatto 14.2.14
E il condannato Berlusconi salirà al Colle per Forza Italia
di Sara Nicoli
a cura di fd’e


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Se Enrico Letta, in un impeto d’orgoglio e di vendetta, avesse deciso di portare la crisi in Parlamento, Forza Italia gli avrebbe votato la fiducia. Per mandare in mille pezzi il Pd che “a quel punto – diceva ieri il Cavaliere nella sede romana del partito, poco prima di ricevere una delegazione dei balneari, che da sempre lo considerano il loro leader – neppure uno sveglio come Renzi sarebbe riuscito a tenere più insieme”. E per il centrodestra si sarebbero aperte praterie. Peccato. Adesso, sarà comunque proprio lui, Silvio il pregiudicato in persona, a salire al Quirinale come capo delegazione del partito per le consultazioni. Con lui, Brunetta e Romani, i capigruppo. Una nemesi. Ma lui la vede in modo diverso. Dicono i suoi: “Ha intenzione di parlare a Napolitano dell’importanza delle riforme e del suo incondizionato appoggio a questa nuova fase con Renzi a capo del governo; il ruolo di costituente è quello che si sente meglio addosso”. C’è poi un altro vezzo: “Berlusconi vuol parlare a Napolitano da pari a pari – sosteneva sempre ieri uno dei suoi – la fase critica dei loro rapporti può dirsi superata...”. Chissà se anche il capo dello Stato è dello stesso avviso. Per Berlusconi, comunque, quello di ieri è stato un giorno “felice”. Su più fronti. Ha osservato da Palazzo Grazioli, per tutto il giorno, l’evoluzione dello scenario politico, oggi sarà in Sardegna per chiudere la campagna elettorale di Ugo Cappellacci e battezzerà, nel giorno di San Valentino, la sua nuova creatura politica sul territorio , “Innamorati dell’Italia” con tanto di simbolo (un cuore tricolore, di forte richiamo “forzista”) con lo scopo di recuperare quel 4% perduto nelle ultime politiche a causa dei delusi “dagli scandali”. La macchina della propaganda è sempre in moto. Berlusconi, infatti, è e resta in campagna elettorale, convinto che anche questa manovra di palazzo che porterà Renzi sul trono di Letta non potrà durare l’intera legislatura. “Il Cavaliere – raccontava uno dei suoi più stretti ‘famigli’ – sa che Renzi brucerà molte delle sue attuali possibilità di vincere le prossime elezioni, dovrà fare scelte impopolari che inevitabilmente gli faranno perdere appeal; per noi non c’è nulla di meglio”.  

Per Berlusconi, insomma, non esiste la prospettiva di “lunga distanza” paventata da Renzi con il mandato di legislatura che ha voluto dal suo Pd; lo sgambetto con cui ha messo a terra Letta “non ha cambiato di una virgola la strategia del partito”. Che è questa, a grandi linee: Forza Italia si renderà disponibile a sostenere le riforme, nella convinzione che Renzi e il governo sopravviveranno giusto il tempo di farle (e, comunque, non tutte), il Cavaliere continuerà a fregiarsi dell’onore di essere considerato una sorta di “padre riformatore e costituente”, ruolo a cui non vuole affatto rinunciare. Ma nel frattempo c’è anche la possibilità che “il rottamatore” esca di scena da solo diventando un rottamato, lasciando così campo libero a un suo ritorno in grande stile. E lui pensa che questo tempo arriverà prima del previsto.

Repubblica 14.2.14
“È stato un errore rilegittimare il Cavaliere”
La costituzionalista Lorenza Carlassare: è un condannato in via definitiva, così si mette in imbarazzo il Colle che ora non può dire di no
di Liana Milella



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«È stato Renzi a rilegittimare Berlusconi... e adesso Napolitano non può dire di no». La pensa così Lorenza Carlassare, la costituzionalista di Padova che si è schierata anche contro la legge elettorale.

Ha sentito la notizia che sarà Berlusconi a guidare la delegazione di Forza Italia al Quirinale?

«Certo che l’ho sentita, e se non fosse un momento tragico sarebbe divertente».

E perché mai?

«Certamente non è consueto che le consultazioni con il capo dello Stato vengano guidate da una persona che, a parte i processi in corso, ha subito una condanna definitiva per un reato infamante come la frode fiscale, e che è anche decaduto da senatore. Tutto è abbastanza inconsueto. Il modo stesso in cui si è fatto cadere il governo Letta, del tutto fuori dal Parlamento, quasi che quest’organo sia ormai un inutile orpello così come gli elettori, lascia esterrefatti».

Le leggi consentono a Berlusconi di salire sul Colle perché la sua interdizione dai pubblici uffici non è ancora definitiva.

«Dipende se guardiamo alla forma o alla sostanza. È sempre una questione di sensibilità. Certamente, in tal modo, mi sembra che si metta in imbarazzo il Quirinale».

Il capo dello Stato potrebbe rifiutare l’incontro con un condannato definitivo?

«È una situazione talmente inconsueta che non saprei rispondere. L’imbarazzo cresce di fronte al fatto che si tratta della persona che guida il terzo partito italiano e, in termini di coalizione, quella che dai sondaggi risulta al primo posto».

La mossa di Berlusconi crea un grave imbarazzo al Colle?

«A me pare proprio di sì, anche perché già la situazione politica e le modalità che hanno determinato la caduta di questo governo già di per sé sono anomale. Quindi ad imbarazzo si aggiunge imbarazzo».

Com’è possibile che Berlusconi sia decaduto da senatore, ma possa guidare un partito?

«Questo fa parte dell’anomalia italiana. Non bisogna dimenticare che la sua potenziale emarginazione è stata risolta proprio dall’attuale segretario del Pd Renzi, che con lui si è messo d’accordo per la riforma elettorale, portandolo addirittura nella sede del partito. Sempre fuori dal Parlamento e tra loro due, hanno concordato un testo da presentare nella sede istituzionale come un fatto compiuto, visto che i margini di modificabilità sono ristrettissimi».

Se Renzi ha accettato Berlusconi come interlocutore politico privilegiato questo mette Napolitano di fronte al fatto compiuto di non poter rifiutare di riceverlo?

«Temo che la risposta debba essere affermativa».

Però c’è chi trova anomalo che al Colle salga anche Grillo, visto che anche lui è un condannato definitivo.

«Anomalia per anomalia... ».


Repubblica 14.2.14
Un grande uomo
di Alessandra Longo


Per quel miracolo che è la Resurrezione di Silvio Berlusconi manca ancora un’iconografia adeguata. Lui, Silvio, che cammina sull’acqua, che si toglie le bende dell’oblio, che trasforma i pani e i pesci in euro per i poveri. Nell’attesa ci si può accontentare del manifesto che gli ha preparato l’affezionatissimo Domenico Scilipoti: un Berlusconi sorridente, a braccio teso (non necessariamente fascista) e dei sottotitoli enfatici quanto piace a chi li ha coniati: «Un Grande Uomo per un grande cambiamento in una Grande Terra!». Il Grande senatore Scilipoti celebrerà Berlusconi al circolo Mediterraneo di Gioiosa Marea. Appuntamento il 22 febbraio con i Grandi Simpatizzanti dell’area, incluse Mazzarrà Sant’Andrea e Barcellona Pozzo di Gotto.

il Fatto 14.2.14
I risultati delle elezioni Questo strano optional
di Luisella Costamagna


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Care italiane e cari italiani, provo a riassumere alcuni fatti che hanno riscritto la storia recente del nostro paese. Tra il 2006 il 2008 – secondo i magistrati napoletani – il Sen. De Gregorio, eletto con l’Idv, sottoscrive un “patto scellerato” (parole sue) con Berlusconi per far cadere il governo Prodi, che al Senato si regge su una maggioranza risicata. Il passaggio a Forza Italia e il “sabotaggio” del governo gli vale, dice, 3 milioni di euro: uno ufficiale al suo partito Italiani nel Mondo e due in nero tramite Lavitola. Nel gennaio 2008, con le dimissioni del ministro Mastella indagato e il ritiro dal governo dell’Udeur, Prodi cade. Alle elezioni 2008 stravince il centrodestra. Si insedia il quarto governo Berlusconi.   Nella direzione Pdl dell’aprile 2010 – quella del “Che fai? Mi cacci?” – si consuma la rottura con Fini, che nel luglio (espulso di fatto dal partito) dà vita a un gruppo autonomo: Futuro e Libertà.   Il 7 novembre, a Bastia Umbra, Fini chiede a Berlusconi di dimettersi e aprire la crisi. Una settimana dopo i finiani lasciano il governo. Mentre si preparano le mozioni di sfiducia, entra in campo Napolitano: “La Finanziaria è inderogabile”, dice, e fissa con i presidenti di Camera e Senato il voto sulla sfiducia solo dopo l’approvazione della manovra. Uno slittamento provvidenziale per Berlusconi (“Un mese è pure troppo per la compravendita dei parlamentari” disse Di Pietro), che ha il tempo per “mettere in campo le sue risorse economiche, seduttive e politiche” (parole del politologo Piero Ignazi) con i “responsabili” Scilipoti & C. e salvarsi nel voto del 14 dicembre. Cosa sarebbe successo se Napolitano non fosse intervenuto? Probabilmente Berlusconi sarebbe caduto. Invece va avanti, con una maggioranza rabberciata e la crisi sempre più nera. Napolitano – sono le ipotesi di queste ore – studia contromosse: già a giugno-luglio 2011 (prima della lettera della Bce) sonda Monti per Palazzo Chigi. Il 9 novembre lo nomina senatore a vita, tre giorni dopo Berlusconi si dimette e l’indomani Monti ha l’incarico per il nuovo governo. Cosa sarebbe successo se Napolitano non fosse intervenuto? Probabilmente si sarebbe votato e il centrosinistra avrebbe vinto. Monti dura poco più di un anno, poi il Pdl gli toglie la fiducia e a febbraio 2013 si vota. Ecco di nuovo Napolitano: rieletto capo dello Stato dà il pre-incarico (nota bene) a Bersani e poi l’incarico a Letta. E dopo Letta ora tocca a Renzi. Perché Letta non va più bene? Il capo dello Stato vuole rafforzare il governo o anche se stesso?  

Care italiane e cari italiani, la storia che ci raccontano questi elementi – tra presunte compravendite e giochi di palazzo – è molto diversa da quella che avete indicato con il vostro voto nel 2006 (Prodi), nel 2008 (Berlusconi) e nel 2013 (no larghe intese). Si sono fatti e disfatti governi non scelti, in nome di una presunta stabilità e per impedire al Paese di “precipitare verso nuove elezioni anticipate”. Perché questo terrore per le elezioni, se poi manco vengono rispettate? Chi ci fa davvero “precipitare”: voi o loro? In bocca al lupo.

il Fatto 14.2.14
Lista Tsipras, al via la consultazione online sul simbolo


IL PRIMO PASSO per la “costruzione della lista di sostegno ad Alexis Tsipras si farà a partire da sabato 15 febbraio quando il comitato promotore darà vita alla consultazione online sul nome e simbolo della lista. I nomi proposti agli oltre 25 mila aderenti sono quattro: “Cambiamo l’Europa con Tsipras”; “L’a l t ra Europa con Tsipras”; “Con Tsipras riprendiamoci l'Europa”; “Con Tsipras Risorgimento Europeo”. Ai nomi corrispondono anche altrettanto bozze di logo. La consultazione si svolgerà dalle ore 10 di sabato 15 febbraio alle ore 18 di lunedì. Votano coloro che hanno sottoscritto o lo faranno fino a domenica, l’appello sul sito della lista ( www.listatsipras.eu  )
s.c.

il Fatto 14.2.14
Nuova archeologia
2114, la riscoperta dell’urna sepolta
di Francesca Fornario


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Quella mattina del 14 febbraio 2114, Festa delle Larghe Intese, sotto le macerie dell’ennesimo edificio scolastico crollato in pieno centro a Roma – la scuola elementare Francesco Caltagirone, al Km 20 della via Tiburtina, in località Pomezia – gli archeologi avevano rinvenuto i resti di un misterioso edificio di era Napoletanica databile al secolo precedente, intorno all’anno 2013. Si trattava di una struttura a pianta quadrata di circa un metro per un metro, con tre mura di compensato vinilico e senza finestre, che per queste sue caratteristiche aveva fatto pensare a una casa popolare dell’epoca, ma la superficie interna era risultata essere troppo ampia per quel genere di abitazioni del 2013.

La Struttura parve quindi riferirsi a una villetta prefabbricata destinata ad accogliere le vittime del terremoto che aveva colpito nel 2009 la città de L’Aquila, capoluogo di provincia dell’Abruzzo prima della definitiva abolizione (di L’Aquila, non delle province. Quelle c’erano ancora). Anche questa seconda ipotesi era stata accantonata, poiché l’edificio era collocato troppo vicino al centro de L’Aquila rispetto alle zone dove avevano costruito le New Town. Il mistero si era quindi infittito: a cosa serviva quel cubicolo di compensato, abbandonato nel sotterraneo di una scuola abbandonata? Potevano essere d’aiuto le incisioni decorative rinvenute sulle pareti interne, numerose scritte ornamentali a matita copiativa tra le quali ricorrevano “Vaffanculo”, “Ladri!”, “W Beppe!”, “Forza Italia!”, “W la figa” e “È l’ultima volta che voto Pd”? Sul luogo del ritrovamento erano giunte le autorità. Per primo era arrivato il ministro dei Trasporti Absolute Elkann, che nel nuovo governo di larghe intese aveva preso il posto di suo padre, Vintage Denim Elkann, figlio dell’ex ministro dei Trasporti Lapo Elkann. Proprio gli appunti che Lapo aveva lasciato in eredità a suo figlio Vintage Denim insieme all’Olanda parvero utili a decifrare il mistero dell'abitacolo. Si trattava del prototipo della Fiat JJHHYRgggHtk, disegnata da Lapo nel 2032 sul retro del tovagliolo di carta di un bar e mai prodotta perché avveniristicamente sprovvista delle ruote (accantonato anche lo slogan ideato da Lapo: “Nuova Fiat JJHHYRgggHtk, Parcheggiala in seconda fila e lasciala lì per sempre”). Di diverso avviso il ministro delle Attività Improduttive Nathan Falco Jr Jr, secondo il quale lo strano cubicolo era chiaramente “una cabina”. Sì, una vecchia cabina dello stabilimento balneare Twiga, sostituita dopo il condono del 2024 con il modello in porfido a tre navate. Per il leader del nuovo partito di governo Forza Italia (ex Pdg-Popolo della Gente, ex Gdp-Gente del Popolo, ex Ab-Abbasso Germania, Ex Forza Italia, ex Pdl-Popolo della Libertà, ex Forza Italia) Silvio Berlusconi, apparso in grande forma sulle sue 194 televisioni dopo il recente trapianto di corpo, si trattava invece di “Una Dark Room dove si faceva… cene eleganti”. Più fantasiosa l’opinione dei giornalisti stranieri, secondo i quali si era di fronte a una “cabina elettorale”: un arnese anticamente utilizzato nel periodo delle cosiddette “elezioni”. Le elezioni – aveva spiegato un inviato della tv spagnola – erano una pratica in voga anche in Italia, nella seconda metà del Novecento e nel primo decennio del secolo successivo, allo scopo di indicare a maggioranza il partito o la coalizione che doveva governare il paese: all’estero erano ancora in uso. L’affermazione aveva suscitato l’ilarità dei presenti, ma lo spagnolo aveva insistito: “È scritto nella vostra Costituzione! Titolo IV, Artcolo 48...”. “Ceeerto”, lo aveva bonariamente rassicurato il ministro dell’Istruzione Cardinal Alfonso Boggi: “E la Costituzione è sacra. Come la Bibbia. Dove c’è scritto che nell’ultimo giorno verrà un enorme drago rosso con sette teste e dieci corna e sulle teste sette diademi… Apocalisse 12, versetto 3. Figliuolo, i testi sacri non vanno presi alla lettera”.

Fu allora che il ministro dello Stage e delle Politiche sociali ebbe una folgorazione: “Le elezioni! Certo, me ne parlava mio nonno… ora ricordo. Hanno smesso di usarle quando si sono rotte”. “Rotte?”, aveva domandato Absolute Elkann. “Sì. davano sempre lo stesso risultato, come il termometro quando si rompe la colonnina del mercurio. Vinceva questo o quello, ma al momento di fare il governo saltavano sempre fuori le larghe intese. Così, sono cadute in disuso”. “Le larghe intese?”. “No, le elezioni”. “Ah, mi pareva”. “Povero Nonno, a lui piacevano”. “Le larghe intese?”. “No, le elezioni. Non ci stava più con la testa. Ogni tanto i vigili lo trovavano che vagava per le strade con la tessera elettorale in mano. Si metteva in coda alla fermata dei taxi convinto che fosse la fila per sezione n. 2201”.

Un passante che si era fermato ad ascoltare la conversazione si azzardò a proporre: “Ora che abbiamo ritrovato la cabina potremmo tornare a votare!” ma venne sopraffatto dalle proteste dei ministri: “Votare senza approvare la riforma elettorale?!”, “approvare la riforma elettorale senza abolire il Senato?!”, “abolire il Senato senza abolire le Province?!”, “abolire le Province senza ridurre il cuneo fiscale?!”. Si allontanò con aria mesta, sentendoli mormorare in lontananza: “...riconoscere pari diritti alle coppie omosessuali senza completare la Salerno-Reggio Calabria?!”.

Le elezioni si svolsero solo diversi anni più tardi, nel 2138, anno in cui l’anziano Silvio Berlusconi aveva finalmente saldato il suo debito con la giustizia e si poteva ricandidare.



Repubblica 14.2.14
La Corte costituzionale
“Abu Omar, le attività degli 007 coperte dal segreto di Stato”
di L. Mi.


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Mannaia della Consulta sul processo Abu Omar. Escono le motivazioni della sentenza del 14 gennaio. Restano le condanne dei 22 agenti della Cia, ma sulle responsabilità dei nostri 007 - il direttore del Sismi Niccolò Pollari e il vice Marco Mancini - la Corte decide di far valere totalmente il segreto di Stato invocato da Berlusconi, Prodi, Monti, Letta. Cancellata la condanna a 10 e 9 anni per Pollari e Mancini. «Annullate» le sentenze d’appello e della Cassazione. L’ultima parola spetta ai giudici della Suprema corte (23 febbraio), ma il rinvio a un nuovo appello è inutile perché la prescrizione scade ad aprile. Singolare l’interpretazione totalizzante del segreto e la convinzione che le attività extrafunzionali degli 007 sono coperte dal segreto «a condizione che gli atti e i comportamenti degli agenti siano oggettivamente orientati alla tutela della sicurezza dello Stato».


Repubblica 14.2.14
La tragedia a Osimo, nelle Marche: aveva ventitré anni. Lavorava in discoteca come ragazza immagine per pagarsi gli studi
Elisa suicida per anoressia: bellissima, ma si sentiva grassa
di Giuseppe Caporale


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“Ely”, la ragazza immagine della discoteca Noir di Jesi, non c’è più, si è uccisa a 23 anni. Il pomeriggio di due giorni fa ha preso un lenzuolo da un cassetto, lo ha arrotolato, ha bloccato una estremità ad un’anta chiusa della finestra della sua camera da letto e l’altra l’ha stretta intorno al collo. Poi, ha usato tutta la sua forza per smettere di respirare.

Soffriva di anoressia ed era convinta di essere brutta, di essere grassa. Nessuno dei clienti del locale notturno dove lavorava poteva sospettare che quella bella hostess che tutti ammiravano e che ogni weekend li accoglieva all’ingresso, in realtà soffriva di disturbi alimentari ed era in cura presso l’ospedale di Ancona, al reparto di igiene mentale.

«Si è uccisa perché soffriva di depressione. Si sentiva brutta, si vedeva grassa...» hanno messo a verbale, ieri, i medici di quel reparto. E per i carabinieri l’indagine è già conclusa. Non ci sono misteri, almeno per gli inquirenti.

Elisa Caimmi da alcuni giorni aveva inspiegabilmente smesso di prendere le pillole per combattere la sua malattia e mercoledì pomeriggio ha ceduto alla depressione. A trovare il corpo senza vita della ragazza è stata la madre, Sabrina, insegnante alla scuola materna di Osimo. “Ely” lavorava in quel locale per pagarsi gli studi: era iscritta al corso di biologia all’Università Politecnica delle Marche. «Era una ragazza splendida, solare, disponibile con tutti, bellissima, aveva degli occhi verdi incredibili, nessuno di noi si era reso conto del suo dolore...» racconta Omar, un suo collega.

«Era dolcissima, ci portava spesso i dolcetti quando andavamo a lavoro. A volte si fermava a dormire da me, ma non ha mai detto nulla dei suoi problemi, per questo non posso credere che sia successo davvero », racconta Giulia, con la voce strozzata dal pianto, anche lei giovane ragazza immagine del Noir.

Ad alcuni amici “Ely” aveva anche confidato che voleva iscriversi come volontaria alla Croce Rossa. E sono centinaia i messaggi che da ieri circolano su Facebook. Sulla sua bacheca virtuale campeggiano tante foto scattate al Noir. Lo staff della discoteca ha annunciato che stasera, San Valentino, il locale non aprirà, in segno di lutto. Ma domani la pista già riapre. «Sabato - fa sapere la direzione della struttura in una nota - la serata sarà ovviamente di basso profilo. Senza dunque i festeggiamenti previsti per l'elezione di Miss Jesi».

Eleonora, un’amica della ragazza, ieri le ha lasciato un messaggio su Facebook: «Ely, oggi la nostra città è silenziosa e triste, è triste perché non potrà più avere quel sorriso che la illuminava, un bacione, divertiti anche lassù e fai vedere tu a quegli angeli che bella sei».

Repubblica 14.2.14
Ladri di bambine
di Natalia Aspesi


Non è detto che la colpa sia tutta dei social network se gli adulti vanno a caccia di adolescenti — e viceversa — e se, secondo l’indagine commissionata da Save The Children, un italiano su tre considera questi incontri normali. Bisogna risalire al 1871 perché nella civile Inghilterra fosse emanata, dopo scontri in Parlamento, una legge che alzava dai 12 ai 13 anni “the age of consent”: c’erano strade dove i buoni padri di famiglia incontravano frotte di prostitute adolescenti, che dovevano essere impuberi per fare affari. Non se ne parla più, ma non è detto che siano davvero finiti i viaggi in Asia a caccia di bambine, mentre della guerra fascista in Etiopia, si ricordano le fotografie di soldati con la loro momentanea sposa undicenne. Può darsi che l’indagine sia inesatta, però se milioni di italiani hanno continuato ad adorare un uomo già condannato in primo grado per i suoi passatempi con una minorenne, può darsi che molti di loro pensino, se l’ha fatto lui…

Repubblica 14.2.14
Avvocati contro abogados “Via dai nostri tribunali chi fa l’esame all’estero”
Quattromila abilitati in Spagna. L’Ordine: ora basta
di Irene Maria Scalise


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La chiamano la “via spagnola” per diventare avvocati. Anzi, abogados. È la via più breve e più facile: un viaggio in Spagna (ma ultimamente anche in Romania), biglietto aereo più albergo ed esame, e si porta a casa l’ambito titolo. Sono già 3.452 i laureati in giurisprudenza nei nostri atenei che all’esame di abilitazione in Italia preferiscono la scorciatoia di quello all’estero.

Benvenuti nel nuovo turismo professionale. Basta navigare sul web per farsi un’idea del pacchetto: «Come diventare avvocato senza esame in Italia in quattro mosse». Oppure «Offerta Abogado 2014, la via più conveniente». Il prezzo del miracolo? Dai 5 mila euro in su. Contro il fenomeno ha deciso di intervenire ora il Consiglio nazionale forense con un lungo dossier. E i dati che emergono lasciano senza parole. Per carità, non c’è nulla di illegale nell’abilitarsi in uno Stato straniero: anzi, è una direttiva europea a consentire agli avvocati abilitati in un Paese della Ue di svolgere l’attività in uno Stato diverso da quello nel quale hanno ottenuto il titolo professionale. E dunque non c’è nulla di strano se un avvocato spagnolo abilitato in Spagna esercita in Italia. Diventa però singolare che su un totale di 3.759 professionisti abilitati all’estero ma che operano in Italia, il 92% degli iscritti a questo elenco speciale siano italiani. Cifre che diventano ancora più sorprendenti se si vanno a vedere i dati di alcune città. A Roma, su 1.131 abilitati all’estero, 1.058 sono italiani. A Milano 314 su 397. A Latina 129 su 129. Ad Ancona 28 su 28. E a Bari 39 su 40.

Proprio questi numeri hanno portato, giorni fa, due abogados italiani davanti alla Corte di giustizia europea. Il Consiglio nazionale forense, infatti, ha chiesto ai giudici di chiarire se l’iscrizione in Italia di chi si è abilitato in Spagna debba essere automatica, anche quando c’è il sospetto che il test all’estero sia stato un modo per aggirare la prova in Italia. La vicenda era iniziata a Macerata, dove l’ordine professionale si era rifiutato di iscrivere due fratelli abogados che tre mesi prima si erano abilitati in Spagna. «Abbiamo preferito essere estremamente prudenti e ricorrere al silenzio-dissenso » spiega il presidente dell’ordine marchigiano Stefano Ghio. Ai due fratelli non è rimasto che chiedere l’iscrizione direttamente al Consiglio nazionale, che a quel punto, sdoganando le remore dell’ordine locale, si è rivolto ai giudici. Bisognerà aspettare qualchemese per una sentenza che potrebbe creare un precedente per tutti gli Stati membri. Spiegano infatti dalla Corte Ue: «La sentenza dovrà stabilire se l’iscrizione all’albo nazionale di un abilitato all’estero deve davvero essere automatica o se, viceversa, bisogna prima verificare che non ci sia un abuso». Ma in cosa si differenziano gli esami di abilitazione spagnoli da quelli italiani? Questi ultimi prevedono tre giorni di prove scritte e, dopo sei mesi, gli orali. Il candidato spagnolo, invece, deve affrontare un solo esame e, poi, esercitare la professione per un periodo di almeno tre mesi, cosa che però non sempre accade. Per passare da abogado ad avvocato, poi, basta una prova attitudinale o tre anni di pratica presso un tutor. «Ma molti candidati italiani scelgono l’esame all’estero forzando il diritto comunitario », accusa il presidente del Consiglio nazionale Guido Alpa. «Abbiamo verificato come alcuni abogados italiani non esercitino la loro professione in Spagna prima di tornare in patria. E i loro clienti, non sempre consapevoli, si fidano, rischiando di compromettere i propri interessi».



Repubblica 14.2.14
Erika Azzolini, di Rovigo: “Per molti siamo colleghi di serie B”
“Ci discriminano, ma abbiamo studiato come tutti gli altri”
di I. M. S.


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Erika Azzolini, 37 anni, potrebbe essere una “secchiona”. Parla tre lingue, è avvocato ordinario al Foro di Rovigo e ha passato brillantemente la prova attitudinale presso il Consiglio nazionale forense, una delle due strade (l’altra è la pratica per tre anni con un avvocato tutor) che trasforma un abogado inavvocato.

Avvocato Azzolini, perché una con il suo curriculum ha scelto la via spagnola?

«Perché l’esame in Italia è difficilissimo, io l’ho provato quattro volte e non ci sono riuscita pur studiando tantissimo. Ho fatto dei sacrifici con passione perché sono innamorata del diritto».

Come si è trovata da abogado in Italia?

«Non ho niente da nascondere, ho sempre viaggiato e lavorato all’estero, il mio commercialista ha il resoconto dei miei viaggi spagnoli. In principio ho sofferto non poco, perché per molti ero una “collega” tra virgolette. Poi ho scelto di fare la prova attitudinale presso il Consiglio nazionale (l’alternativa è lavorare per tre anni da un avvocato tutor) e sono diventata avvocato anche per l’Italia ed è finita la discriminazione».

I suoi colleghi hanno avuto gli stessi problemi?

«C’è molta diffidenza per chi ha ottenuto l’abilitazione all’estero. Gli abogados non hanno vita facile, ho incontrato ragazzi che avevano voglia di lavorare e non ci riuscivano per una selezione troppo rigida».

Corriere 14.2.14
L’università italiana sempre più vecchia
Solo un docente su 8 ha meno di 40 anni
Agli ultimi posti anche per numero di professoresse e spesa per la ricerca
di Gian Antonio Stella


Un dato umiliante. La Francia, rispetto a noi, di docenti sotto la quarantina ne ha oltre il doppio. La Gran Bretagna quasi il triplo. La Germania il quadruplo. Uno spreco assurdo di energie, intelligenza, creatività. Che pesa sulla ricerca, sull’innovazione, sul futuro del Paese.
Mette di malumore, la lettura in anteprima della decima edizione (speciale) dell’Annuario Scienza Tecnologia e Società 2014 di Observa Science in Society, curato da Massimiano Bucchi (Università di Trento) e Barbara Saracino (Università di Firenze) ed edito da il Mulino. Mette di malumore perché, certo, puoi trovarci dati assolutamente positivi, come lo spazio che i nostri ragazzi hanno nei laboratori e nei centri d’eccellenza e sulle riviste scientifiche di tutto il mondo. Ma sono fiori che sbocciano dalla fanghiglia di una realtà troppo spesso vecchia, mediocre, trascurata dalla politica.
Spiega il dossier, ad esempio, che i ricercatori italiani pur essendo solo 4,3 ogni mille occupati (gli europei sono mediamente 7 cioè quasi il doppio, i tedeschi 8,1, i francesi 9, i portoghesi 9,9, i danesi 13,4 e i finlandesi addirittura 16) sono ottavi al mondo per articoli sulle riviste che contano (un settimo di quelli statunitensi pur avendo gli americani una dimensione enormemente più grande) e quarti nei progetti di ricerca europei finanziati dal «7° Programma Quadro».
Sono in gamba, i nostri. E il loro successo europeo e mondiale certifica come, nonostante tutto, le nostre scuole e le nostre università riescano a regalare degli studiosi di livello altissimo. Dietro, però, il panorama è sconfortante. E non solo nella scoperta che tra i primi 20 atenei e istituti di ricerca europei piazziamo solo il Cnr (quarto) contro 2 della Svizzera, 2 della Danimarca, 3 della Francia, 3 della Germania e 5 del Regno Unito.
Basti scorrere la tabella dei Paesi che (settore militare escluso, ovvio) spendono di più per la ricerca rispetto al Pil. Con l’1,3% (e va già impercettibilmente meglio che cinque anni fa) siamo ventottesimi, molto al di sotto della media europea (1,9%) e di quella Ocse (2,4%) e staccatissimi dai Paesi che hanno scelto con decisione di puntare sul futuro come il Giappone (3,4%), la Finlandia (3,8%), la Corea (4%) e Israele, che svetta con uno stratosferico 4,4%: quasi il quadruplo di noi.
Vale per il settore pubblico, vale per l’università, vale per il comparto privato. La nostra azienda che più investe in R&S (ricerca e sviluppo) è la Fiat: 2.175 milioni di euro. Ma tra i suoi stessi concorrenti è dietro le grandi case europee e staccatissima dalla Volkswagen che per i suoi laboratori spende molto più del triplo.
È l’intero Paese ad arrancare. Il 92,4% delle famiglie ha almeno un cellulare ma quelle che hanno un computer sono meno di una su sei. E il confronto fra i consumatori di televisione e quelli di Internet è da incubo. Siamo quinti al mondo per il tempo passato davanti al piccolo schermo: quattro ore e 12 minuti. Il doppio abbondante degli svedesi pur avendo loro un inverno lungo lungo che potrebbe invogliare alle lunghe sedute in divano. Per contro, 37 italiani su 100, cioè quasi quattro su dieci (la media europea è del 20%) sono analfabeti del digitale: mai toccato un computer e mai navigato sul web. Vale a dire che su Internet, che già oggi rappresenta una enorme fonte di ricchezza (in un solo giorno, l’11 novembre scorso, i soli consumatori cinesi hanno speso 5 miliardi di dollari e nel 2015 il solo e-commerce cinese varrà 300 miliardi) i nostri cittadini sono staccati di 22 punti dai francesi dai tedeschi, 27 dai britannici, 31 dai danesi e dagli olandesi, 32 dagli svedesi. Un ritardo storico umiliante. Che rischia di aggravare la crisi in cui annaspiamo.
Aggiunge l’Annuario che nella classifica («Innovation Union Scoreboard 2013») dei Paesi europei più innovativi, compilata sulla base di un insieme di 24 indicatori, ci ritroviamo (a dispetto del nostro vanto di essere il secondo Paese manufatturiero continentale) molto al di sotto della media delle 28 nazioni Ue e lontanissimi da quelli di testa: Olanda, Finlandia, Danimarca, Germania e soprattutto Svezia.
È ormai una guerra, la competitività internazionale sulla innovazione. E in guerra, come ricorda sempre Umberto Veronesi parlando proprio della ricerca, devono andarci i giovani. Lo dice la storia. Senza tornare ad Archimede che aveva vent’anni quando intuì la teoria del peso specifico dei materiali o ad Isaac Newton che ne aveva 23 quando cominciò a sviluppare il calcolo infinitesimale o ad altri talenti giovanissimi nei secoli dei secoli, val la pena di ricordare almeno alcuni casi più recenti. Marie Curie ebbe il suo primo Nobel a 37 anni, William Lawrence Bragg vinse quello per gli studi sui raggi X a 25, Albert Einstein si impose nel suo «annus mirabilis» a 26, Guglielmo Marconi dimostrò la bontà del suo telegrafo senza fili con un collegamento con l’isola di Rathlin quando ne aveva 24, Federico Faggin inventò il microchip che ne aveva 30. È la gioventù la stagione della creatività. Poi subentra l’esperienza, ed è importante. Ma la creatività è dei giovani.
Eppure, come dicevamo, il nostro è un Paese per vecchi. Con tutto il rispetto per il loro lavoro: possibile che i ricercatori dell’Enea abbiano mediamente 49 anni e che il 43% di chi in Italia frequenta i laboratori e gli istituti di R&S abbia più di 45 anni e cioè un’età media nettamente più alta di quella degli altri Paesi europei?
Lo vedi anche nella presenza femminile, quanto sia statico e chiuso il mondo della ricerca italiana. Ci sono 41 donne ogni 100 addetti in Sudafrica, quasi 44 in Estonia, 45 in Portogallo, 46 in Romania e 53 in Argentina. Noi siamo al 34,5. Una percentuale ancora più bassa di quella delle donne presenti fra i docenti universitari, ricercatori compresi: ne abbiamo il 36,2 percento. Contro il 43,5 del Regno Unito, il 45,4 del Portogallo, il 47,5 della Romania, il 54,7 della Lituania e addirittura il 58,7% della Lettonia.
Come dicevamo all’inizio, tuttavia, i numeri che fanno più impressione sono quelli sull’invecchiamento della nostra classe dirigente universitaria. Un problema, scusate la battuta, vecchio. Già nel gennaio 2007 una indagine del ministero dell’Università della ricerca sulla base dei codici fiscali accertò che su 18.651 docenti di ruolo nei nostri atenei, quelli con meno di 35 anni erano 9: lo zero virgola zero cinque per cento. Al contrario, quelli con più di 65 anni erano 5.647: quasi un terzo.
Sette anni dopo, i numeri dell’Annuario Scienza Tecnologia e Società 2014 dicono che su 28 Paesi dell’Unione Europea i docenti che hanno meno di quarant’anni (ricercatori compresi e questo dovrebbe abbassare la media) sono quasi la metà (49,2%) in Germania, il 43,4 nei Paesi Bassi, il 40,5 in Polonia, il 35,8 in Portogallo, il 29,5 nel Regno Unito, il 28 in Austria, Svezia e Finlandia, il 27,4 in Spagna, il 25,9 in Francia e giù giù, staccata di oltre sei punti dalla Slovenia che è penultima, c’è l’Italia. Con quel 12,1% di professori e ricercatori insieme che hanno meno del doppio dell’età che aveva Bill Gates quando fondò la Microsoft.

il Fatto 14.2.14
Archeo-scelte
Necropoli romana: l’avete vista, ora la ricopriamo
di Silvia D’Onghia


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Piuttosto che una latrina a cielo aperto, o il drive in delle trans, è meglio sotterrare tutto. Con buona pace, anzi, buon riposo, di quei 104 romani del I secolo dopo Cristo che lì trovarono degna sepoltura. Siamo a Roma, in via Cristoforo Colombo, a un isolato dalla Regione Lazio. Nel 2006 il terreno è di proprietà dell’i-Post, l’Istituto dei Postelegrafonici, la previdenza dei lavoratori delle Poste. L’ente ha acquistato con l’intenzione di costruire, ma come sempre accade a Roma alla prima trivella i lavori si devono fermare. Il sottosuolo nasconde una necropoli, che occupa per metà il terreno dell’iPost e prosegue, verosimilmente, sotto via Padre Semeria. Viene chiamata la Sovrintendenza e, con i soldi garantiti dall’iPost, viene avviato un grande lavoro di scavo.

GLI ARCHEOLOGI riportano alla luce le 104 tombe alla “cappuccina”, ne catalogano i corredi funerari (soprattutto balsamari), recuperano i frammenti di intonaci e di stucchi dipinti. La necropoli è povera, nel senso che le persone sepolte lì non erano abbienti, ad accezione di un paio di famiglie. Viene ritrovata, unica nel suo genere, la tomba di quella che folkloristica-mente viene definita una stregona: qualcuno che si doveva seppellire lontano dagli altri e la cui tomba venne addirittura piombata. Un pezzo di storia, meno importante di Ville e fori, ma sempre un pezzo di storia ramenta al Fatto Rita Paris, sovrintendente del Parco archeologico dell’Appia Antica –. Nel 2006 la nostra condizione era che l’area venisse musealizzata, c’era un progetto che ora non esiste più. Abbiamo più volte chiesto cosa avessero intenzione di fare. Non possiamo lasciare che l’incuria e il tempo rovinino ulteriormente i muri della necropoli. La stiamo ricoprendo con tessuto-non-tessuto, strati di pozzolana e terra. Così almeno la preserviamo”. Certo, a Roma tutto non si può fare, la storia riemerge ovunque e ci vorrebbero troppi soldi per rendere musei a cielo aperto le aree archeologiche. Ma tra questo e il rassegnarsi a reinterrare, forse ci starebbe bene un gesto a favore della cultura del nuovo commissario Inps, Vittorio Conti, che ha appena preso il posto di Mastra-pasqua.

mana. L’iPost, d’accordo con la Sovrintendenza, realizza un piano di recupero dell’area che deve essere inglobata, e valorizzata, all’interno dell’edificio moderno. Lo si fa spesso. E però l’iPost, nel 2010, viene soppresso per legge e tutte le sue funzioni vengono trasferite all’Inps. Terreni compresi. Per la necropoli della Colombo inizia un lungo cammino di incuria e abbandono. La zona di notte è frequentata dalle trans, che scavalcano la recinzione. Dall’altra parte della strada vivono, in tre roulotte, tre famiglie di poveracci che hanno perso tutto. Ma che, non avendo i bagni, utilizzano la necropoli per le proprie funzioni corporali. Pioggia e vento fanno il resto, sgretolando i muri sui quali sono stati solo appoggiati dei teloni. L’altro giorno gli abitanti di via Padre Seme-ria si sono svegliati con le ruspe. Qualcuno ha gridato allo scandalo: “Stanno sotterrando la necropoli”. E in effetti così è. “Si deve reinterrare – commenta al Fatto Rita Paris, sovrintendente del Parco archeologico dell’Appia Anitica -. Nel 2006 la nostra condizione era che l’area venisse musealizzata, c’era un progetto che ora non esiste più. Abbiamo più volte chiesto cosa avessero intenizone di fare, Non possiamo lasciare che l’incuria e il tempo rovinino ulteriormente i muri della necropoli. La stiamo ricoprendo con tessuto non tessuto, strati di pozzolana e terra. Così almeno la preserviamo.” Certo a Roma tutto non si può fare, la storia riemerge ovunque e ci vorrebbero troppi solti per rendere musei a cielo aperto le aree archeologiche. Ma tra questo e il rassegnarsi a reinterrare, forse ci starebbe bene un gesto a favore della cultura del nuovo commissario Inps, Vittorio Conti, che ha appena preso il posto di Mastrapasqua.

l’Unità 14.2.14
Eutanasia per i bambini
Il Parlamento belga dice sì
La legge riguarda i malati terminali, richiesto il consenso dei genitori
Primi al mondo a non porre limiti d’età, favorevole il 75% del Paese
di Marina Mastroluca


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Passa a larga maggioranza nel parlamento belga, 86 sì, 44 no, 12 astenuti. Eppure non c’è un senso di trionfo, qualcuno dal pubblico grida: «Assassini». Non è facile votare una legge, la prima al mondo, che consente l’eutanasia anche per i bambini, senza indicare limiti di età. Non è facile neanche se i sondaggi dicono che il 75 per cento della popolazione è a favore, a dispetto di polemiche accesissime. Fino all’ultimo minuto il fronte del no alla legge si è fatto sentire. Fiaccolate, lettere aperte, appelli disperati di genitori di ragazzini gravemente malati che temono un futuro dove figli come i loro possano essere «eutanizzati ». Ma il sì alla norma era atteso. Nel dicembre scorso il primo via libera al senato, con una schiacciante maggioranza: 50 a favore, 17 contrari. Ora l’ultimo passaggio sarà la firma del re Filippo, una formalità.

Il provvedimento al voto integra la legge del 2002 che consentiva l’eutanasia per gli adulti dietro una richiesta «volontaria, ponderata e ripetuta» esaminata da tre medici. Nel caso dei bambini non basterà però che ci sia un’intensa sofferenza, impossibile da alleviare. Dovranno essere malati terminali, comunque in grado di comprendere a pieno una scelta così definitiva, davanti ad uno psicologo e a uno psichiatra infantile e con il consenso dei genitori. Definizioni sufficientemente precise, a detta dei sostenitori della legge, per restringerne sostanzialmente l’applicazione ai teen-ager: finora grandi abbastanza per capire, ma non per poter dire basta. Ma di fatto non è previsto un limite minimo d’età, si valuterà caso per caso. «Parliamo di minori che sono davvero arrivati alla fine della loro vita - spiega Gerland van Berlaer, dell’unità di pediatria intensiva dell’ospedale universitario di Bruxelles -. La questione che ci pongono è: “Non fatemi morire in un modo terribile, lasciatemi andare quando sono ancora un essere umano con una sua dignità” ».

«Gesto d’umanità» Contraria la chiesa cattolica che ha organizzato gruppi di preghiera, ma anche esponenti musulmani e di fede ebraica. Gruppi contrapposti di pediatri hanno lanciato appelli di segno diametralmente opposto. Divisi tra chi invoca un gesto compassionevole e chi insiste perché ai minori siano riservate tutte le cure possibili per non sentire dolore, ma non l’eutanasia, perché non si può chiedere alla giovanissima età quel discernimento previsto dalla legge. Per cercare di placare le polemiche, i fautori della legge hanno messo in chiaro che nessun medico sarà costretto ad applicarla e che in ogni caso saranno garantite le cure palliative, mentre ogni richiesta di eutanasia da parte di un minore verrà esaminata anche dal team curante.

Le posizioni dei partiti restano distanti. Philippe Mahoux, leader del gruppo socialista al senato e promotore della legge è tra quanti credono nella necessità di consentire un «estremo gesto d’umanità». «Lo scandalo è lasciare che i bambini muoiano di malattia. Non è cercare di evitare la sofferenza dei minori in queste condizioni». Pollice verso da parte dei due partiti cristiano democratici, che hanno paventato il rischio di una banalizzazione dell’eutanasia. In un estremo tentativo di persuasione, 160 pediatri hanno fatto appello al presidente della Camera chiedendo il rinvio del voto, in ragione di una definizione troppo vaga della capacità di discernimento dei minori.

Da quando è stata introdotta la legge nel 2002, ogni anno in Belgio circa un migliaio di persone ricorrono all’eutanasia. Nel 2012 ci sono stati 1432 casi, con un incremento del 25% rispetto all’anno precedente. Uno solo ha riguardato un ragazzo con meno di 20 anni. In Europa il Paese che finora aveva la legge più permissiva è l’Olanda, dove l’eutanasia è consentita anche ai minori: dai 12 ai 15 anni con il consenso preventivo dei genitori, dai 16 ai 17 anni solo dopo aver informato la famiglia. In media si contano tra i 2000 e i 4000 casi all’anno e finora quelli riguardanti minori sono stati 5 in tutto. L’eutanasia è anche consentita in Lussemburgo dai 18 anni, mentre la Svizzera autorizza il suicidio assistito, che prevede però una partecipazione attiva dell’interessato. Negli Stati Uniti il suicidio assistito è consentito in Montana, Oregon, Vermont e nello Stato di Washington.

Repubblica 14.2.14
Parla l’oncologa Franca Fossati Bellani: “Non sono d’accordo”
“Non servono leggi ma coscienza e sensibilità”
Per evitare l’accanimento terapeutico dovrebbe bastare l’etica del medico
di Alessandra Baduel


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«Intorno a un bambino che sta per morire ci deve essere un “presepe” fatto di medici, infermieri, famiglia, amici - e si va avanti così, con farmaci e presenze che fanno in modo che il passaggio possa avvenire con un compimento di cose giuste fatte tutti assieme. Serve sensibilità, e coscienza professionale. In questo campo, non ci devono essere leggi: diventano una prigione». Franca Fossati Bellani ha lavorato quarant’anni con i bambini all’Istituto nazionale tumori di Milano: in Italia, è la pioniera del campo e tuttora è presidente della sezione milanese della Lega italiana lotta contro i tumori, oltre che membro del Comitato etico dell’ospedale di Varese. La nuova legge appena approvata in Belgio la fa reagire con la fermezza di chi sa di cosa si parla.

Dottoressa, a chiedere la legge in Belgio sono stati dei medici: vogliono essere tutelati nei loro interventi.

«Sono medici che non mi piacciono. C’è forse una legge, quando si cerca di far sopravvivere a ogni costo un prematuro di 450 grammi? Davanti a un bambino terminale, il tema è così delicato, particolare, grave, che dare indicazioni legislative non è nelle mie corde di medico con una visione “religiosamente laica” della vita. Il testamento biologico deve esserci senz’altro. Ma non queste leggi. Se fossi più giovane, mi piacerebbe anche andare a verificare con la nostra sensibilità di persone del Sud cosa accade in Olanda, dove usano un protocollo particolare».

In Belgio, rispetto all’Olanda, c’è la novità della richiesta del consenso del minore.

«Le dico solo che sono contraria anche al consenso informato del minore per l’uso di un farmaco sperimentale. Bisogna saper giudicare caso per caso, insieme alla famiglia».

Sta cambiando il ruolo del medico?

«Io so che devo garantire assistenza, evitare il dolore, non prolungarlo per accanimento terapeutico. Per tutto ciò, dovrebbe bastare l’etica medica. Ma oggi la pressione del “fare prodotto”, l’aziendalizzazione della cura, sono sempre più forti. E non si studiano abbastanza filosofia e antropologia».

Il 73% dei belgi si è detto favorevole a questa legge.

«Non sanno di cosa si parla. Dove la cultura delle cure palliative è corretta, non c’è bisogno di eutanasia. C’è la sedazione in fase terminale. Rispetto l’adulto che sceglie di morire, però oggi abbiamo i farmaci per controllare la fase del trapasso. Andando avanti in gruppo, restando intorno al bambino. Una mia paziente, Lorena, aveva 13 anni, e un tumore osseo. Era terminale, ma voleva fare l’esame di terza media. La commissione venne a sottoporla alla prova in ospedale. Fecero tutto in perfetta regola. Lorena passò l’esame, e morì il giorno dopo».

Repubblica 14.2.14
La legge shock del Belgio
Eutanasia per i bambini
di Adriano Sofri


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Credenti o no, a un’interrogazione sull’eutanasia per i bambini si vorrebbe solo rispondere: Allontana da me questo calice. In Olanda, Belgio e Lussemburgo l’eutanasia è depenalizzata. In Olanda è legale anche per i minori dai 12 anni in su. In Belgio, col voto di ieri della Camera (era già passata al Senato) è legale per i minori senza alcun limite di età.

La legge belga, cui si sono opposti soprattutto i responsabili religiosi, cattolici (la confessione prevalente) e altri cristiani, musulmani ed ebrei, mentre più del 70 percento dei cittadini le si dichiarava favorevole, stabilisce che l’eutanasia si applichi a minori con malattie terminali, sofferenze «costanti e insopportabili» (fisiche, e non anche solo psichiche, come per gli adulti) e una prognosi di morte prossima; che siano in grado di discernere nella propria decisione - facoltà che va accertata da psicologi e psichiatri; e per i quali ci sia il consenso dei genitori. Condizioni, dichiarano i sostenitori della legge, che impediscono errori e abusi, e rispondono a una sollecitudine “umana”. Gli avversari della legge - più forti fuori che dentro il Belgio, paese “secolare” come pochi, che ha visto crollare la pratica religiosa e il prestigio della gerarchia cattolica, specialmente per lo scandalo della cosiddetta pedofilia - avanzano argomenti diversi.

La legge, dicono alcuni pediatri e specialisti, è il frutto superfluo di un accanimento ideologico, perché nessun bambino e nessuna famiglia ha mai chiesto il ricorso all’eutanasia. L’argomento, anche ammesso che non abbia eccezioni, ha un’efficacia relativa, dal momento che un cambio nella casistica riproporrebbe intatto il problema. Altri, con rilevante autorevolezza scientifica, protestano che le cure palliative sono oggi in grado di rendere sopportabili le sofferenze, che il problema è dunque di assicurarle pienamente a tutti, e che grazie a esse «i piccoli in fin di vita possono avere ancora momenti privilegiati coi loro genitori, foss’anche una sola ora al giorno… ». L’argomento è fondato benché controverso quanto alla sua assolutezza: la legge parla di sofferenze che «non possano essere placate». Ancora, si obietta alla «capacità di discernimento» circa la volontà di morire di quei minori che in diversi campi civili si ritengono irresponsabili di sé fino alla maggiore età. Argomento ispido e greve di contrasti: la tutela necessaria - sacra, diciamo - dei minori è sempre esposta a diventare derisione o sottovalutazione della loro intelligenza e libertà. Fra i medici e gli psichiatri fautori della legge, si sottolinea che «in casi di morte prossima, i minori sviluppano velocemente un forte livello di maturità». Orrendo lessico e constatazione ragionevole, ma lo è anche l’opposta, e non solo per i minori, che l’incombenza della morte sconvolga i criteri ordinari di maturità.

Su scelte così drammatiche pesa tremendamente e ineludibilmente il passato. L’eutanasia infantile fu un capitolo mostruoso dell’eugenetica nazista, estesa a una gamma infinita di disabilità, deformità, debolezze, inferiorità e insomma “vite indegne di essere vissute”. Ma l’aberrazione eugenetica aveva preceduto il nazismo, si era immaginata come l’avanguardia del progressismo scientifico, e sarebbe sopravvissuta alla fine del nazismo, com’è noto, anche in paradisi socialdemocratici come i paesi scandinavi, o negli Stati Uniti. I fautori della legge belga protestano inorriditi a quel richiamo, com’è comprensibile. All’altro capo, gli avversari “assolutisti” della legge, se così si possono chiamare, religiosi e non solo, sono anche i nemici giurati della depenalizzazione dell’aborto o gli impositori dell’idratazione forzata a persone adulte e capaci di discernere e di comunicare la propria volontà.

Il Consiglio d’Europa è contrario alla legge belga, protesta che i bambini non siano nelle condizioni necessarie al consenso informato. In Italia, benché sia notoria la propensione di una maggioranza di cittadini all’eutanasia, una discussione seria e informata è ancora evitata con cura, per una preoccupazione sincera o per ipocrisia bigotta. Basta ripercorrere la vicenda del “fine vita”. Di fronte a un tema tremendo come quello dell’eutanasia per i bambini - e il suo tremendo sotto capitolo, dell’eutanasia neonatale - conviene intanto fermarsi. Non perché l’astensione dal giudizio esima da una responsabilità che fa paura: si è altrettanto responsabili per azione che per omissione. Ma il passo compiuto dal parlamento belga è troppo oltre la nostra comune “capacità di discernimento”. Forse proprio il confronto con la prepotenza aberrante di quella legge incostituzionale sulla nutrizione e l’idratazione forzata, che doveva spaventare e indignare più di ogni record dello spread, può suggerire una prima trincea.

Ci sono situazioni estreme e singolari, ognuna delle quali fa storia e tragedia per sé, che bisogna rinunciare a definire per legge. Le leggi accomunano i casi cui si applicano, li spogliano della loro eccezionalità e della loro sfera peculiare. Si dice che medici e infermieri facciano “clandestinamente” ciò che la legge vieta. È vero, ma questa è ipocrisia o, peggio, violenza, quando investe condizioni sociali vaste se non enormi: è così per l’aborto clandestino, per l’accanimento nel fine vita, la negazione del diritto del malato a decidere delle proprie cure. In Olanda, tra il 2002, quando è entrata in vigore la legalizzazione, l’eutanasia è stata applicata a cinque minori (abbiamo visto, sopra i 12 anni). Mentre fra gli adulti i casi di eutanasia vanno dai 2000 ai 4000 all’anno. In Belgio, dove sono più di 1000 fra gli adulti, fra il 2006 e il 2012 essa si è applicata a un solo adulto minore di 20 anni.

Una posizione come questa, che può sembrare opportunista o addirittura vile - si può essere vili del resto, e indietreggiare, di fronte a responsabilità simili - costringe al contrario, una volta che si accetti di misurarsi davvero con i problemi di vita e di morte, e di non affidarsi alle spalle coperte dei principii assoluti né al commento estemporaneo di scelte altrui, a conoscere la questione e riconoscere se stessi. E ammettere che tanti di noi, quasi tutti noi, alla fine, più o meno da vicino, li affrontiamo già questi problemi, e quello che le leggi regolano o ignorano non è quasi mai la soluzione, e molto spesso l’ostacolo. Dove la legge si ritira, resta il campo alla brutalità o alla compassione. Affare nostro, di ciascuno di noi.



Corriere 14.2.14
Uccisa la «signora della dolce morte»
Olanda scossa dalla fine della ministra che aveva voluto la legge
di Luigi Offeddu


BRUXELLES — Lei, che per tutta la vita aveva invocato per sé e per gli altri la «dolce morte», ha avuto invece una fine cruenta, dolorosa e forse opera di uno o più assassini. Ferite sul corpo abbandonato nel garage di casa, «non per cause accidentali», dice la polizia. Una rapina, forse. Ma qualcuno in Olanda si chiede oggi se Els Borst, 81 anni, già ministro della Sanità, abbia pagato così il fatto di aver proposto e firmato la prima legge sull’eutanasia nei Paesi Bassi, nel 2001-2002. Negli anni aveva ricevuto minacce; e l’Olanda è un Paese che ha conosciuto altri delitti originati da moventi ideologici o pseudoreligiosi, le cui vittime si chiamavano Theo Van Gogh, o Pym Fortuyn, il leader gay.
«Mamma Eutanasia», come qualcuno l’aveva battezzata, è morta nelle stesse ore in cui, nel vicino Belgio, il Parlamento discuteva se autorizzare o no la «dolce morte» anche per i bambini, di qualsiasi età. Sia in Belgio che in Olanda, vi sono gruppuscoli integralisti, autodefinitisi cristiani, che periodicamente minacciano di ricorrere alla violenza per difendere «la sacralità della vita umana», ma non pare che finora siano mai passati dalle minacce ai fatti. Per contro, il tema della «dolce morte» sembra scuotere tutte le comunità religiose o laiche: a Bruxelles, contro l’eutanasia, hanno protestato insieme vescovi cattolici, rabbini ebrei e imam musulmani, mentre il fronte opposto — «rispetto per la libertà dell’individuo» — riunisce scienziati, scrittori, politici socialisti o liberali.E lo stesso è sempre accaduto, sia pure in tono molto minore, in Olanda.
Els Borst era un medico di professione, conosciuta soprattutto per le sue idee liberal sull’aborto, l’eutanasia, la ricerca sugli embrioni. Una volta entrata in politica, nel 1994, divenne ministro della sanità e anche vicepremier. Nel 2001-2002, l’evento che ha segnato tutta la sua biografia politica: la legge che accordava la «dolce morte» ai malati terminali, con l’assenso di almeno due medici. Dieci anni dopo, nel 2012, a quella legge si erano appellate 4 mila persone. Con un limite di età: i minori di 12 anni non potevano né ancora possono, ricevere la «dolce morte».
Uno dei gruppi antieutanasia più attivi in Olanda si chiama «Non ancora morti»: spesso ha riferito che (anche se non si sa fin dove arrivi la leggenda metropolitana) molti anziani negli istituti portano sugli abiti un cartellino con l’invocazione «non voglio l’eutanasia». La legge promossa 12 anni fa da Els Borst è assai dettagliata e prevede ogni minimo particolare delle procedure. Come nel caso dei neonati malati, per i quali si avverte: «A volte nascono dei bambini con malformazioni o disturbi così gravi che la soppressione della vita è considerata come l’opzione migliore… e deve essere assicurata con tutta la dovuta sollecitudine». Ancora: la sofferenza del bambino dev’essere insopportabile e senza prospettive di miglioramento. Questo significa che la decisione di interrompere la terapia è giustificata… I genitori devono dare il loro assenso alla cessazione della vita». Secondo alcuni media olandesi, di orientamento conservatore, nel 2011 i casi di eutanasia sono aumentati del 18% fino a toccare quota 3695. Nello stesso anno, vi sarebbero stati anche i casi di 13 handicappati mentali morti per eutanasia, in forte aumento rispetto ai soli 2 registrati nel 2010.

Repubblica 14.2.14
Sotto accusa il saggio di Wendy Doniger. La “Penguin” lo ritira e a Delhi protestano gli intellettuali
Offende l’induismo, libro al macero la rabbia di Arundhati Roy: “Fascisti”
di Raimondo Bultrini


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Non è il primo libro vietato in India per via delle rigide censure applicate dalla più grande democrazia del mondo. Ma mai prima d’ora una potente casa editrice internazionale come la britannica Penguin aveva accettato di mandare al macero un testo di religione, per lo più accademico, spaventata dalle ritorsioni legali di un gruppo fondamentalista dell’induismo.

Vittima della “fatwa” è il saggio

The Hindus, An Alternative History (Gli induisti, una storia alternativa) della studiosa e cattedratica americana Wendy Doniger, 74 anni e una lunga carriera di storica delle religioni, colpevole di riferimenti «blasfemi e offensivi » al simbolismo sessuale dei testi vedici e alla stessa figura del Mahatma Gandhi. A cinque anni dalla pubblicazione negli Usa e nel resto del mondo, Penguin è stata chiamata davanti a un tribunale di Delhi per togliere dalla circolazione in tutto il Continente le copie del libro e chiudere così la causa giudiziaria aperta nel 2009 dal Shiksha Bachao Andolan, ala “educativa” dei gruppi ultrareligiosi induisti.

Alla protesta di numerosi intellettuali indiani e della stessa autrice, che ritiene l’editore solo parzialmente responsabile della sorte riservata alla sua opera, si è aggiunta ieri la voce di una delle più autorevoli scrittrici indiane della scuderia Penguin, Arundhati Roy. Con una lettera aperta dove minaccia di divorziare dalla casa editrice «tradizionale paladina del libero pensiero» – scrive l’autrice del Dio delle piccole cose- ha espresso a nome di tutti gli autori la preoccupazione per un precedente che cade a due mesi da elezioni politiche delicate, dove i temi della religione avranno una parte importante, come sembrano confermare i sondaggi a favore del leader del partito fondamentalista del Bjp Narendra Modi. «I fascisti sono, finora, solo in campagna elettorale – scrive la Roy – Sì, la situazione sembra brutta, ma non sono al potere. Non ancora. E voi avete già ceduto?», chiede provocatoriamente.

Intanto, Bachao Andolan grida vittoria e il suo presidente, Dinanath Batra, sintetizza in numerose interviste i “capi d’accusa” contro The Hindus, a cominciare dai riferimenti al sacro Shivalingam, descritto a suo dire come il «fallo eretto di Shiva». «In questo libro – ha detto Batra – si sostiene che il Signore Krishna siede sulle natiche di donne nude; che Gandhi Ji era una strana persona abituata a dormire con le ragazze giovani; che Swami Vivekananda (uno dei santi moderni dell’induismo) suggeriva di mangiare carne di manzo e il fratello del dio Ram aveva un infatuamento sessuale per sua cognata Sita».

È soprattutto lo sdegno per i riferimenti al sesso degli dei a infiammare da giorni il dibattito sul libro, in un Paese dove le relazioni omosessuali sono punite con 10 anni di carcere e l’eco dei crudeli stupri di gruppo non si è ancora spenta, così come la polemica contro santoni hindu e politici che li hanno attribuiti alla «occidentalizzazione dei costumi». Per questo, alla vigilia del voto, il caso della studiosa americana e dei puristi contrari all’educazione sessuale dei giovani rischia di aprire un nuovo capitolo del ricorrente «scontro di civiltà» tra l’India e il resto del mondo.

La Stampa 14.2.14
Hashem, il pacifista iraniano impiccato perchè la sua poesia corrompe l’Islam
Scriveva e traduceva la poesia farsi in arabo, attività considerata sovversiva
Dall’elezione di Rohani a oggi ci sono state 400 esecuzioni di dissidenti
di Francesca Paci

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La Stampa 14.2.14
Prime crepa anche nel fronte chavista, l’erede Maduro non riesce a gestire la crisi economica
Venezuela, la rivolta degli studenti
La polizia spara: tre morti. Fuga di dollari verso gli Usa, introvabili carta e latte in polvere
di Francesco Semprini

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Corriere 14.2.14
L’Onu insiste sui marò: «Questione bilaterale»
di Virginia Piccolillo


ROMA — «Italia e India siedano a un tavolo e trovino una soluzione sui due fucilieri». Suona quasi beffardo l’appello giunto ieri dal segretario generale dell’Onu, Ban Ki-moon, nel momento in cui il governo Letta riceveva il colpo di grazia e a meno cinque giorni dall’udienza in cui la Corte suprema formulerà l’accusa di terrorismo per Massimiliano Latorre e Salvatore Girone. Così le speranze accese in mattinata dall’intervento alle Camere del ministro degli Esteri, Emma Bonino, sembrano di nuovo affievolite. «Ban Ki-moon mi ha assicurato comprensione e l’assicurazione di una sua successiva azione nei confronti delle autorità indiane», aveva detto la titolare della Farnesina ieri, riferendo della telefonata avuta con il segretario Onu. Un colloquio nel quale dopo le proteste per la riduzione della vicenda a «questione bilaterale» aveva ricevuto l’impegno del segretario Onu ad affrontare una questione che, al di là degli errori compiuti dall’Italia, coinvolge tutti i Paesi impegnati nelle missioni antipirateria nell’Oceano Indiano. Invece ieri sera il portavoce di Ban Ki-moon, pur riferendo delle preoccupazioni per una vicenda che «può avere ripercussioni sulle operazioni di sicurezza antipirateria e sullo stato di diritto» è tornato a parlare di Italia e India come di «due parti» che devono trovare una soluzione «concorde».
Ma chi se ne occuperà? Oggi, tra gli ultimi atti del suo governo, Enrico Letta, riunirà il comitato Marò. Un incontro già programmata anche con il ministro della Difesa, Mario Mauro, e l’inviato Staffan De Mistura, di ritorno dall’India. Intanto a New York da Ban Ki-moon arriverà Catherine Ashton per «risollevare il caso», come ha annunciato ieri la Bonino respingendo le critiche, durissime, di Lega e Fratelli d’Italia, e rivendicando di aver «ottenuto» l’Unione Europea e la Nato: «Non è più, non può più essere una disputa bilaterale. Sono in gioco principi di fondo dello Stato di diritto, è in gioco l’applicazione delle convenzioni antiterrorismo, e di due risoluzioni del Consiglio di Sicurezza».
«Continueremo su questa strada convinti come siamo che il nostro obbligo prioritario è riportare in Italia in dignità i nostri due marò», ha promesso, riferendo anche di «lettere inviate al ministro degli Esteri indiano e al National Security Advisor», e di un nuovo canale aperto, quello con l’Alto commissario Onu per i diritti umani Navi Pillay, «con la quale rimarrò in contatto e che incontrerò a Ginevra». Ieri sono arrivate proposte dal Parlamento: ridiscutere le future missioni antipirateria, hanno suggerito i presidenti delle commissioni Difesa di Camera e Senato, Pierferdinando Casini e Nicola Latorre. Mentre Gian Piero Scanu, capogruppo pd in commissione Difesa alla Camera propone di far rientrare sotto l’egida Onu le missioni antipirateria.

Corriere 14.2.14
«L’Europa non boicotta Ma Israele ora rischia»
L’inviato Ue: «C’è isolamento internazionale»
di Davide Frattini


TEL AVIV — Nel 1976 un giovane danese decide di passare cinque mesi in Israele a lavorare in un kibbutz. È attratto dalla vita in comune, la condivisione socialista: fatica nei campi sotto la protezione delle guardie armate di mitra, dall’altra parte del confine sparano colpi di mortaio. Il Libano non è lontano, Naot Mordechai sta sulle colline dell’Alta Galilea.
Adesso la vista dalla finestra al sedicesimo piano del grattacielo a Tel Aviv racconta un’Israele diversa da quella di quarant’anni fa, più ricca, meno egualitaria: la nazione edificata sull’organizzazione pianificata delle comunità agricole corre con il disordine creativo delle start-up. «Il cambiamento è stupefacente, io ho conosciuto un Paese quasi povero». Lars Faaborg-Andersen sta seduto nell’ufficio dell’ambasciatore dell’Unione Europea, è tornato alla fine dell’anno scorso per affrontare uno degli incarichi diplomatici più complicati in questa fase di relazioni tormentate tra Israele e Bruxelles.
Fin dalle origini a Naot Mordechai, il kibbutz del suo viaggio da ragazzo, è stata installata una fabbrica che produce sandali e scarpe. La Teva-Naot ha aperto un outlet nella zona industriale di Gush Etzion, dentro una colonia. Alcuni gruppi ne chiedono il boicottaggio.
«L’Unione Europea non ha intenzione di boicottare i prodotti legati agli insediamenti. Certo a questi beni non applichiamo i dazi agevolati previsti dagli accordi con Israele perché per noi le colonie sono illegali e non sono parte di Israele. Va avanti il progetto di etichettare le merci provenienti dagli insediamenti, così i consumatori possono essere consapevoli dell’origine».
Yair Lapid, il ministro delle Finanze, ha avvertito che il fallimento dei negoziati con i palestinesi comporterebbe sanzioni economiche per Israele.
«Come ha ribadito Martin Schulz, il presidente dell’Europarlamento, l’Ue non ha intenzione di imporre un embargo. Quello che temo per Israele — se le trattative falliscono e le costruzioni negli insediamenti continuano — è l’isolamento. Lo dico da amico, non è una minaccia. Già ora alcune banche e alcuni fondi pensione stanno decidendo di disinvestire da compagnie israeliane coinvolte nelle colonie. Se la situazione non cambia, è un fenomeno destinato a crescere».
L’intervento di Schulz mercoledì in parlamento a Gerusalemme ha spinto Naftali Bennett, il ministro dell’Economia, e i deputati del suo partito ultranazionalista a lasciare l’aula.
«Il discorso è stato di grande sostegno a questa nazione, decisamente pro-israeliano. Il presidente Schulz ha sollevato una questione o meglio ha riportato una domanda che gli è stata rivolta da un ragazzino palestinese: perché gli israeliani hanno diritto a consumare 70 litri di acqua al giorno e noi solo 17? Ha ammesso di non aver verificato le cifre, ma le sproporzioni nell’accesso e nell’utilizzo sono quelle».
Yuli Edelstein, presidente della Knesset, ha criticato Schulz: «Le dichiarazioni erronee fatte ogni giorno dagli europei forniscono munizioni a chi vuole delegittimare Israele».
«Non capisco come si possa paragonare una domanda legittima che riguarda le condizioni di vita con la campagna aggressiva del BDS (Boicottaggio Disinvestimento Sanzioni), un movimento che non vuole la soluzione dei due Stati ma punta a un solo Stato bi-nazionale».
Nei negoziati con John Kerry, il segretario di Stato americano, gli israeliani vogliono ottenere garanzie per la sicurezza.
«Il Paese è circondato da una situazione caotica. Capisco benissimo le preoccupazioni: significa prendere una decisione che potrebbe esporre a nuovi rischi. Cito la frase che preferisco detta da Shimon Peres, il presidente israeliano: “Ci sono due cose che non si possono fare senza chiudere gli occhi, l’amore e la pace”. Gli israeliani devono chiudere (un po’) gli occhi consapevoli che avranno sempre l’Europa al loro fianco. L’alternativa — niente accordo, resta l’occupazione — è peggiore: l’impossibilità di mantenere un Paese ebraico e democratico».
Il governo di Benjamin Netanyahu chiede proprio che i palestinesi riconoscano Israele come Stato ebraico. Da sinistra Ari Shavit commenta sul quotidiano Haaretz : «L’accordo tra noi e i palestinesi è sostanzialmente a senso unico. Noi concediamo — territori e diritti — loro ricevono. Con il riconoscimento di Israele come Stato ebraico darebbero in cambio l’unico regalo che possono offrire: legittimità».
«Mi sembra un buon punto. Quando verrà firmato un accordo tutti devono essere certi che la questione è superata: questo è mio, quello è tuo, ci sono i confini. Non arriveranno altre rivendicazioni, come il ritorno dei rifugiati. Non può essere che a una settimana dall’intesa i palestinesi dicano: a proposito, c’è anche la città di Haifa da discutere».

Corriere 14.2.14
Pechino «invivibile» per lo smog

Lo smog ha fatto di Pechino una città «quasi invivibile per l’essere umano». Lo assicura uno studio dell’Accademia di Scienze Sociali: «L’alto tasso di inquinamento a Pechino è molto al di sopra della media e la qualità dell’aria è lontana dagli standard di sicurezza».

il Fatto 14.2.14
Giornale in crisi
Libération, è tutti contro tutti
di Luana De Micco


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Cercasi direttore a Libération. Nicolas Demorand, l’uomo della radio approdato tre anni fa al principale foglio della gauche in Francia, ha sbattuto la porta. “La mia decisione di dare le dimissioni è dettata innanzitutto dalla situazione che Libération sta vivendo in questi giorni. Il giornale - ha dichiarato al sito online di Le Monde - è ormai in aperta crisi e su di me si cristallizza parte del dibattito. Ritengo dunque sia mia responsabilità restituire margini di manovra alle parti». In realtà è da tempo che rien ne va plus tra Demorand e la redazione. A novembre l’ormai ex direttore è stato sfiduciato dall’89,9 per cento dei giornalisti votanti. La settimana scorsa, questi ultimi hanno chiesto all’unanimità le sue dimissioni e ne hanno boicottato un editoriale. Il quotidiano, fondato quaranta anni fa da Jean-Paul Sartre e difensore di un giornalismo da battaglia, è sull’orlo del baratro finanziario. Nel 2013 ha perso più di un milione di euro e le vendite sono crollate del 15 per cento, precipitando a novembre sotto quota 100 mila copie. Non era mai andata così male negli ultimi 15 anni. Per risparmiare sono stati già proposti tagli per 4 milioni di euro, con una riduzione degli stipendi del 10 per cento e la chiusura definitiva in tipografia entro le ore 20 (e non più alle 21.30).

Ma è l’ultimo piano di crisi presentato a sorpresa degli azionisti a far urlare al tradimento i giornalisti del quotidiano. Per loro si tratta ora di combattere contro la volontà degli uomini d’affari Bruno Ledoux e Édouard de Rothschild e del gruppo Ersel di trasformare il giornale in un social network. La storica sede della rue Bérenger, affidata alle mani del designer Philippe Stark, diventerebbe a sua volta un centro culturale “dedicato all’universo di Libération”, con tanto di set tv, news room digitale e bar. Il logo del giornale di Sartre ridotto ad un marchio? Mai. Dopo un giorno di sciopero, i giornalisti di Libération hanno deciso che il miglior modo di battersi era tornare alle scrivanie. Sabato 8, in prima pagina hanno urlato: “Siamo un giornale. E non un ristorante, un social network, un’incubatrice di start-up”.

Ma il tempo stringe. Gli azionisti hanno chiesto un prestito allo Stato. Per Libération potrebbero essere messi sul tavolo 2 milioni di euro e altrettanti potrebbero essere versati dagli azionisti. Oggi il giornale ha pubblicato una petizione firmata da una sessantina di nomi del cinema, tra cui l’attrice Juliette Binoche: “Vogliamo il nostro giornale tutte le mattine”. Ma a Umberto Eco spetta l’ultima parola: “Parigi è piena di ristoranti eccellenti - ha scritto - ma i bei quotidiani sono rari”.

La Stampa 14.2.14
Da Sartre alla sfida digitale
Libération in cerca d’autore Via il direttore Demorand, giornale spaccato fra nostalgici e innovatori
di Alberto Mattioli

qui

il Fatto 14.2.14
Berlino. Ken Loach Orso d’Oro alla carriera
di Anna Maria Pasetti


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Berlino sì, ma Torino (ancora) no. Ken Loach ha ritirato ieri sera l’Orso d’Oro alla carriera conferitogli dalla 64esima Berlinale e, in occasione di un incontro con la stampa, ha confermato di essere “ancora in contatto con gli operai di Torino non regolarmente contrattualizzati dal Museo del Cinema: finché non saranno regolarizzati, io manterrò fede alla decisione di non ritirare il premio al Festival torinese”. Resistente come le pietre che letteralmente piovono nel suo film del 1993 (scelto per la proiezione celebrativa di Loach), il 78enne Ken il Rosso ha dichiarato la ferma volontà di continuare il suo “lungo viaggio dentro il cinema, ci sono ancora tante storie e personaggi da raccontare”. Specie perché le varie crisi di cui è da sempre vate nelle sue memorabili pellicole non accenna ad attenuarsi, anzi: “Oggi oltre al lavoro si è persa l’identità e i giovani, seppur arrabbiati, non sanno focalizzare la loro rabbia.. c’è uno spirito di accettazione delle ingiustizie che per quanto mi riguarda è intollerabile”.

Se ancora forte è dunque il suo monito sempre puntato sulle colpe delle società occidentali, altrettanto forte ieri si è elevato l’applauso al film-capolavoro del concorso: quel capolavoro che – appunto – mancava all’appello e che ha finalmente risposto al titolo di Boyhood (Infanzia). L’artefice è il texano Richard Linklater, che l’ha realizzato in 12 anni, girando qualche giorno ogni anno. Una sorta di Heimat “contratto” che in 164’ mette in scena una famiglia americana qualunque, in cui il punto di vista è quello del figlio minore, Mason, “osservato” da Linklater dai 6 ai 18 anni. Difficile definire questo magnifico “oggetto” filmico, anomalo e unico nel suo genere, tra il romanzo di formazione e il dramedy, lontano dalle retoriche e perfettamente aderente al suo obiettivo: capire quanto sia straordinaria la quotidianità della vita, giorno dopo giorno. Ovazioni in sala per il film più accreditato all’Orso d’Oro 2014.

Corriere 14.2.14
Deputato accusato di pedofilia «I ministri tedeschi sapevano»
Il caso di Sebastian Edathy coinvolge i vertici della Spd
di Paolo Lepri


BERLINO — Sembrava una vicenda, già grave, che coinvolgeva un deputato socialdemocratico, Sebastian Edathy, sospettato di avere acquistato materiale pedopornografico e dimessosi venerdì scorso, per «ragioni di salute» poco prima della perquisizione della sua casa e del suo ufficio. Ma sta diventando anche un caso politico-istituzionale, molto delicato, che coinvolge i vertici del governo tedesco. I massimi dirigenti della Spd, Sigmar Gabriel e Frank-Walter Steinmeier — oggi rispettivamente vicecancelliere e ministro degli Esteri — sapevano infatti già da ottobre che il loro compagno di partito era sotto inchiesta. Furono avvertiti dall’allora ministro degli Interni, il cristiano-sociale Hans Peter Friedrich, adesso responsabile del dicastero dell’Agricoltura nella grande coalizione guidata da Angela Merkel. Perché Gabriel e Steinmeier vennero messi a conoscenza di quanto stava accadendo? Quali le ragioni dell’intervento di Friedrich? Che uso fecero delle informazioni riservate ricevute? Sono le domande che si intrecciano in queste ore, mentre il parlamentare continua a proclamare la sua innocenza in un’inchiesta sulla quale le autorità tedesche hanno mantenuto fino a questo momento un riserbo molto stretto.
È stato l’attuale capogruppo della Spd Thomas Oppermann, successore di Steinmeier in questo incarico dopo la nascita del terzo governo Merkel, a rivelare ieri il risvolto «politico» dello scandalo, forse anticipando le indiscrezioni che stavano arrivando nelle redazioni dei giornali. Stando alla dichiarazione diffusa da Oppermann, Friedrich fece sapere che il nome di Edathy era collegato ad un’inchiesta internazionale. Secondo Oppermann, che fu avvertito da Gabriel, le notizie riservate non furono però comunicate al diretto interessato. Edathy, intanto, ha nuovamente ribadito la sua totale estraneità. «Credo che la presunzione di innocenza si debba applicare anche a me», sono state le sue parole. Ma la possibilità che fosse effettivamente in possesso di materiale illegale scaricato da un sito di pornografia infantile basato in Canada viene accreditata con insistenza da fonti vicine all’inchiesta.
Nato ad Hannover, di origine indiana, esperto di problemi di sicurezza interna, il quarantaquattrenne Sebastian Edathy non frequentava il Bundestag già da qualche settimana prima delle sue improvvise dimissioni. Il suo ruolo era stato molto importante l’anno scorso quando aveva presieduto la commissione d’inchiesta sugli «omicidi del kebab», i delitti compiuti da una cellula di estremisti neonazisti che hanno seminato morte e terrore in tutta la Germania uccidendo dieci immigrati turchi dal 2000 al 2006 in varie località del Paese. Nel rapporto finale il parlamentare socialdemocratico aveva denunciato le inefficienze delle indagini che avevano permesso agli assassini di colpire ripetutamente. «Si è registrata — si legge nel documento — una drammatica sottovalutazione del pericolo rappresentato dall’estrema destra in Germania».

Corriere 14.2.14
È nata una stella (nucleare): riuscito negli Stati Uniti test sulla fusione
Per la prima volta prodotta più energia di quella necessaria a innescare la stessa reazione che sostiene gli astri
di Massimo Gaggi


NEW YORK — Centonovantadue raggi laser sparati contro una piccola sfera di combustibile di due millimetri di diametro: per la prima volta gli scienziati del laboratorio californiano di Livermore sono riusciti a generare, con un processo di fusione nucleare, più energia di quella necessaria per innescare la reazione. Un traguardo storico, un obiettivo perseguito per decenni, qualcuno parla addirittura di Santo Graal della fisica.
La verità, purtroppo, è che il sogno di sostituire petrolio ed energia nucleare (coi suoi rischi di radioattività) con una fusione «pulita» simile alla reazione che avviene nel cuore delle stelle è ancora lontana diversi decenni. Nel campi della fusione nucleare il lavoro da fare è enorme e i progressi sono lentissimi: basti dire che già nelle prime visite organizzate per i giornalisti più di 25 anni fa, gli scienziati americani che lavoravano sui progetti per la fusione a Boston e in California consideravano quasi alla loro portata l’obiettivo centrato solo ora.
Gli esperimenti descritti in un articolo appena pubblicato dalla rivista Nature risalgono ad alcuni mesi fa (settembre e novembre), ma gli scienziati del team, guidato da Omar Hurricane e del quale fa parte anche l’italiano Riccardo Tommasini, li hanno tenuti segreti finché non hanno ricontrollato e completato tutti i calcoli. La materia è complessa, difficile da penetrare per chi (come lo scrivente), di fusione sa piuttosto poco.
Le cose essenziali, al di là delle caratteristiche dell’esperimento (la sfera di carburante, una miscela di deuterio e trizio, scaldata dal bombardamento di raggi laser che ha generato temperature superiori ai tre milioni di grandi), sembrano essere due: 1) gli scienziati che nel mondo si occupano di fusione seguono due strade diverse: quella del confinamento magnetico, di gran lunga la più battuta col costosissimo reattore sperimentale Iter (15 miliardi di euro) al quale lavorano anche molti italiani nell’ambito di un consorzio che coinvolge Unione Europea, Usa, Russia, Cina, Giappone, India e Corea del Sud, e il confinamento inerziale, la via battuta a Livermore, fin qui considerata meno promettente. 2) Il risultato conseguito è importante, ma per arrivare a produrre più energia non solo di quella necessaria per innescare la reazione, ma di quella bruciata in tutta la complessa procedura (i 192 laser ne assorbono moltissima), la reazione medesima dovrebbe essere ripetuta un gran numero di volte (20 al secondo, dice uno degli scienziati).
Insomma, c’è ancora molto da fare, ma questo lavoro merita di essere seguito con molta attenzione. Se e quando sarà disponibile, dicono gli economisti, l’energia da fusione rivoluzionerà le nostre vite: cambierà il modo di produrre e consumare, più della rivoluzione elettrica e di quella del motore a scoppio messe insieme.

La Stampa 14.2.14
Stress, depressione, nervosismo
”I giovani sono sempre più arrabbiati”
Una ricerca dell’American Psychological Association registra risultati preoccupanti: il 27% dei giovani ha risposto di avvertire “stress estremo” durante l’anno scolastico, contro il 20% degli adulti nello stesso periodo lavorativo
di Paolo Mastrolilli

qui

Corriere 14.2.14
Quel divario tra ricchezza e povertà che minaccia crescita e coesione sociale
di Alberto Martinelli


Secondo il rapporto Istat «Noi Italia, 100 statistiche per capire il Paese in cui viviamo» nel 2011 una famiglia italiana su quattro era in una situazione di «deprivazione»(ovvero aveva almeno tre dei nove indici di disagio economico come, per esempio, non poter sostenere spese impreviste, arretrati nei pagamenti o un pasto proteico ogni due giorni). Si tratta di un’ulteriore conferma di un problema generale di particolare gravità, quello della crescente disuguaglianza sia nelle diverse società nazionali, sia a livello dell’intero mondo. Per quanto riguarda il nostro Paese, anche l’analisi della Banca d’Italia sui bilanci delle famiglie nel 2012 mostra disuguaglianza in aumento: il 10% delle famiglie più ricche possiede il 46,6% della ricchezza netta (ovvero la somma delle attività reali, ossia immobili, aziende e oggetti di valore; e attività finanziarie, dunque depositi, titoli di Stato, azioni, eccetera), mentre l’indice Gini di concentrazione della ricchezza ha raggiunto il 64%, in aumento rispetto al 60,7% del 2008. Quanto alla situazione mondiale, basti citare il rapporto dell’Oxfam da poco discusso al World Economic Forum di Davos: lo 0,7% della popolazione mondiale (32 milioni di persone) possiede il 41% della ricchezza, il 7,7% una percentuale di ricchezza più o meno equivalente a quella del primo gruppo (42,3%), al 22,9% spetta il 13,7% della ricchezza, mentre alla grande maggioranza della popolazione (il 68,7%) rimane solo il 3% residuo.
Il processo di aumento delle disuguaglianze di ricchezza e reddito è generale. Si verifica nei grandi Paesi emergenti, sia in società già fortemente diseguali — come quella indiana, o brasiliana, o nigeriana — sia in società un tempo più egualitarie, come la cinese o l’indonesiana.
Ciò non sorprende: diverse ricerche comparative sui processi di modernizzazione mostrano un incremento delle disuguaglianze nelle prime fasi dello sviluppo economico e una successiva diminuzione in virtù di condizioni favorevoli, come l’industrializzazione, la crescita delle classi medie, lo sviluppo dell’istruzione, l’attuazione del welfare state e di politiche ridistributive.
Nel mondo contemporaneo in realtà le diseguaglianze stanno aumentando sensibilmente anche nei Paesi sviluppati. Dopo i «trent’anni gloriosi», dalla fine della Seconda guerra mondiale agli anni Settanta, in cui una certa ridistribuzione dei redditi è stata favorita da politiche socio-economiche riassumibili nella formula Keynes at home and Smith abroad (Keynes a casa e Smith all’estero), ovvero politiche anticicliche e di welfare in sede domestica e liberalizzazione degli scambi in ambito internazionale, nei successivi tre-quattro decenni — quelli della globalizzazione — si sono sì create le condizioni per l’emersione dalla povertà di centinaia di milioni di cinesi e indiani ma, d’altro lato, sono fortemente aumentate le disuguaglianze nella grande maggioranza sia dei Paesi sviluppati sia di quelli in via di sviluppo.
Una distribuzione fortemente disuguale del reddito e della ricchezza tra classi sociali, generi, generazioni, gruppi etnici minaccia la crescita economica, la coesione sociale e la stabilità politica dei Paesi in cui si verifica. In primo luogo, un aumento dei consumi da parte di una ristretta minoranza di super-ricchi, per quanto possano accrescere la loro propensione all’acquisto di beni e servizi, non riuscirà mai a compensare la contrazione della domanda determinata da un impoverimento relativo di una assai più ampia classe media, e impedirà il ciclo virtuoso rappresentato dall’aumento dei salari e della produttività con conseguente crescita della domanda di beni e servizi e ulteriore sviluppo della produzione. Inoltre, la percezione di disuguaglianze eccessive — sia all’interno di una stessa organizzazione ( in cui il reddito di alti dirigenti è centinaia di volte il salario medio dei dipendenti), sia tra tipi di lavoro (come nel caso della retribuzione di un medico ospedaliero, pari a una frazione di quella di un consulente finanziario o un consigliere regionale), sia tra gruppi che ricevono remunerazioni diverse per lo stesso tipo di lavoro (donne rispetto a uomini) — viola il fondamentale principio di equità nei rapporti sociali, incrina il patto di cittadinanza, ovvero la solidarietà e la collaborazione che rendono possibile la società, e mette a rischio la stessa tenuta democratica perché favorisce le oligarchie del denaro e del potere, il clientelismo e la corruzione. Come scrive Rousseau, infatti, in una società democratica «nessun cittadino deve essere tanto ricco da poterne comprare un altro e nessuno tanto povero da essere costretto a vendersi».

Repubblica 14.2.14
Basaglia, mio padre
“Come è difficile crescere con i matti in casa”
Parla Alberta, la figlia dello psichiatra, che in un libro rievoca la lotta ai manicomi
“Dimostrò che l’impossibile diventa possibile”
di Simonetta Fiori


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Le nuvole di Picasso di Alberta Basaglia e Giulietta Raccanelli (Feltrinelli, pagg. 96 euro 10) 

Venezia. «Vieni qua, siediti in braccio e spiegami come vedi. Per esempio quella lampada là come la vedi?». «La vedo grande, giusta». «Ma giusta come?». «Giusta». «Cosa vuol dire giusta?». «Beh, è quella lampada lì». Padre e figlia potevano andare per ore, più o meno come avveniva con i matti. Cinquant’anni più tardi, questo dialogo privato di casa Basaglia diventa pubblico. E diventa pubblico un ritratto intimo di Franco, in un bellissimo libro scritto dalla figlia Alberta insieme a Giulietta Raccanelli (Le nuvole di Picasso. Una bambina nella storia del manicomio liberato, Feltrinelli). Una sorta di “lessico famigliare” che rivela come la rivoluzione di Basaglia sia cominciata in famiglia, dove niente era considerato impossibile, «nessuna separatezza, nessun solco e confine impenetrabile » tra le persone. Maschi e femmine, matti e “normali”, malati e sani, gente famosa e gente comune. Tutti dovevano vivere la loro vita, anche la bambina Alberta con le sue lesioni al fondo dell’occhio, diagnosticata come cieca. «Prima di scrivere questo libro ci ho pensato tanto», racconta Alberta che ora è un’elegante signora a suo agio in una casa piena di scale e scalette. «Non è stato facile da dire. Ma poi ho pensato che anche da questa piccola mia storia si può capire tutto il resto». Il limite, Basaglia, cominciò a spostarlo dentro le mura di casa. «Non fu inventata una vita per me. Mi hanno lasciato vivere. E mi hanno insegnato che si può vivere in tanti modi, scoprendo nuove strategie». La madre Franca non è mai intervenuta per aiutarla. «“Ma quando scii come fai?”, mi domandava preoccupata.

“Chiudo gli occhi e vado”.

Era terrorizzata, ma non mi fermava». Alberta si è laureata in psicologia evolutiva, ha fatto a lungo la “bambinologa”, ha fondato a Venezia un importante centro sulla violenza contro le donne e ora segue le politiche giovanili. Sulle pareti di casa giganteggiano orologi panciuti che sembrano disegnati da Lewis Carroll. «Li collezionava mio padre tra un robivecchi e l’altro». Le lancette sono ferme a quel tempo, gli anni della “rivoluzione”.

Gorizia, 1961. Ha inizio l’avventura di Basaglia. Lei lo definisce un “esilio”.

«Sì, un esilio. Lui veniva dalla clinica neurologica di Padova da cui uscivano i grandi della neuropsichiatria. Ma non era molto in linea con la classe medica. Intrecciava in modo scandaloso filosofia e psichiatria. E più che la malattia gli interessava il malato. Se ne sbarazzarono mandandolo in un manicomio di frontiera».

Il direttore aveva diritto all’appartamento dentro il manicomio. Però lui lo rifiutò.

«Non voleva che vivessimo lì dentro. Rimase sconvolto da quello che vi aveva trovato: catene, camicie di forza, reti, grate, sbarre, degrado. Figurarsi se due bambini - mio fratello Enrico ed io - potevamo crescere dentro quell’edificio chiuso. Il paradosso è che ci ritrovammo a vivere all’ultimo piano del Palazzo della Provincia, simbolo austroungarico dell’istituzione. Proprio Basaglia che negava l’istituzione totale del manicomio».

Il manicomio gli ricordava l’odore del carcere. Lui l’aveva conosciuto da ragazzo.

«Sì, da partigiano aveva fatto un mese digalera. Ma non ne voleva mai parlare, forse temeva l’agiografia resistenziale. Avevamo i racconti di nonna Cecilia, una vera borghese eccentrica, anche un po’ svagata. Quando ne 1944 i fascisti arrivarono per prenderlo, lui era già sul terrazzo pronto a saltare. L’idea terrorizzava la nonna, così istintivamente gli urlò di non scappare sui tetti. E la polizia lo beccò subito».

Non vivevate in manicomio, però a casa i matti circolavano. Lei li racconta senza ipocrisia.

«Certo che avevo paura. Ma il problema non è se la paura esiste o non esiste. Il problema è imparare a conviverci. E i miei mi hanno fatto vedere come si fa. Ricordo ancora certi pranzi dentro il manicomio: donne orribilmente grasse, dilatate dalla cotonatura dei capelli, che mi stropicciavano in modo goffo, come a scoprire nel mio corpo immaturo la loro femminilità. Ero “la fia del direttor”, dovevo abituarmi».

Però il sabato facevate ritorno a Venezia.

«Credo che mio padre avesse bisogno di uscire dall’atmosfera totalizzante di Gorizia. E poi c’era il richiamo dell’acqua: i veneziani come loro non possono starne molto tempo lontani».

Lei ritrae suo padre come una sorta di Re Artù, circondato dai suoi cavalieri nella grande tavola goriziana.

«Eh sì, mi spiace, ma il re era proprio lui. Tornava a casa per cena con quaranta persone. E non smettevano di parlare. Marcuse e Sartre, Hegel e Goffmann, Heidegger e Gramsci. Al centro c’era il nuovo modo di leggere la malattia mentale e la segregazione. Parlavano della dignità dei pazienti, dei loro esperimenti. C’erano persone che avevano recuperato la parola dopo decenni di mutismo».

Un ambiente illuminato, che però viene spiazzato dal “limite” di una bambina.

«Sì, fu quella volta che la figlia piccola di uno dei dottori mi chiese perché stavo con la testa storta. Sulla tavola precipitò il silenzio, probabilmente pieno di pensieri politicamente corretti. “Perché così ci vedo meglio”, risposi secca. I grandi, anche tra i migliori, fanno molta più fatica a dare un nome alle cose».

Anche in casa Basaglia arriva il Sessantotto, ma c’è un problema. Suo padre diventa un’icona del movimento. E la figlia non lo può contestare.

«Non ho mai dovuto uccidere il padre, se è questo che vuole dire. Però ci facevo delle grandi litigate. Anche quando cominciai a studiare psicologia - e lui mi diceva “ma sei matta?” - lo provocavo con la storia della nipote di Freud. Non mi bastava essere la figlia di Basaglia: come nonno volevo Freud. Certo, non mi sono mai sentita antagonista, perché la mia famiglia era diversa dalle altre. E io ci stavo bene. Forse non ho neppure avuto il tempo di contestarlo: è morto che non avevo neppure 24 anni. Ero ancora molto figlia».

Anche una figlia un po’ gelosa. Nelle assemblee studentesche suo padre veniva acclamato da ragazze bellissime.

«Sì, ammetto: era diventato una rockstar e la cosa mi dava molto fastidio. Una volta all’Università di Padova arrivò una studentessa alta e bruna, che si fece largo in prima fila spingendomi nelle retrovie. Ero molto spaurita. Però era in gioco una rivoluzione culturale, e io mi ci sentivo dentro».

E lui come reagiva alla popolarità?

«Assolutamente a suo agio. Era un comunicatore istintivo, gli veniva naturale».

Giovanni Jervis l’avrebbe accusato di essere prigioniero del suo stesso mito.

«Su questo terreno non vorrei entrare. Credo che abbiano litigato molto, ma rimangono fatti loro».

È anche una questione culturale. Jervis lo ritrasse come un direttore autoritario e accentratore.

«Temo che Jervis non l’abbia capito fino in fondo. Si trattava di un rovesciamento culturale profondo, non indolore. C’erano voci molto diverse, bisognava mediare. Era un movimento con tutte le sue contraddizioni, non la favola bella come l’hanno voluta raccontare».

Cosa intende per favola bella?

«C’è chi ha voluto fare di mio padre una sorta di padre Pio che liberò i matti dalle catene. Oppure, all’opposto, ecco il ribelle velleitario che chiuse i manicomi infischiandosene delle conseguenze».

Chi era invece suo padre?

«Dimostrò che l’impossibile diventa possibile. Dieci anni prima del suo esperimento, era impossibile che un manicomio potesse essere distrutto. Lo disse anche poco prima di morire: magari i manicomi torneranno a essere chiusi, ma abbiamo dimostrato che si può assistere le persone folli in un altro modo. Non aveva ancora vinto, e lo sapeva bene. Il suo progetto è stato realizzato solo in parte. Ma è riuscito a imprimere una svolta da cui non si torna più indietro. Ora bisogna andare avanti».

Anche a casa dimostrò che l’impossibile diventa possibile.

«Per la scienza medica io dovrei essere cieca. Ora non so se vedo come tutti gli altri, però ci vedo».



Repubblica 14.2.14
Appunti sulla Curia, su Dio e sulla letteratura. Il Papa aveva chiesto a Dziwisz di bruciarli dopo la sua morte Ma il cardinale li ha pubblicati in Polonia tra le polemiche
Wojtila segreto
di Marco Ansaldo e Agnieszka Zakrzewicz

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Non lascio dietro di me alcuna proprietà di cui sia necessario disporre. Gli appunti personali siano bruciati. Chiedo che su questo vigili don Stanislao». Così si espresse il Grande polacco nel suo testamento, il 6 marzo 1979. Perché allora queste disposizioni sono state violate?

Perché i suoi appunti non bruciati come richiesto? Quelle note, gelosamente custodite per anni dal suo segretario personale, alla morte di Giovanni Paolo II furono trasferite alla diocesi di Cracovia. Dove don Stanislao Dziwisz, poi divenuto cardinale e successore di Karol Wojtyla alla guida pastorale della città, li ha appena fatti pubblicare presso la casa editrice Znak sotto il titolo: Sono saldamente nelle mani di Dio. Appunti personali 1962-2003. Non tutti, in Polonia, hanno preso bene questa operazione. Le polemiche anzi infuriano, perché le due agende segrete di Wojtyla sembrano essere trasformate in reliquie. L’editore polacco spiega che questo è un libro che dovrebbero leggere tutti. Ma non risponde alla domanda sulle copie tirate, o se il cardinale Dziwisz riceverà delle royalties sotto qualche forma. Assicura però che i ricavi andranno alla costruzione del Centro “Non abbiate paura” nei pressi di Cracovia.

Eccoli, comunque, i diari del Grande polacco, prima da semplice vescovo, e poi da Pontefice massimo. Un’agenda risale al 1962, l’altra al 1985. Dentro, ci sono le sue riflessioni su grandi temi - tuttora - al centro del dibattito nella Chiesa. Come la guida della Curia. O il celibato dei sacerdoti. Ma anche giudizi che mescolano la spiritualità del Pontefice alla curiosità dell’uomo, del Wojtyla artista e letterato. E così appunti su grandi personaggi storici (Hitler, Bismarck), e scrittori di fama assoluta (Hemingway, Dostoevskij, Tolstoj, Manzoni, Sartre). Rimarranno però delusi tutti quelli che sperano che nelle Note personali di Giovanni Paolo II si trovino informazioni o retroscena. Nelle due agende Wojtyla tenne solo il suo diario personale.

LO STILE

Le note wojtiliane non sono caotiche. E un buon grafologo potrebbe svelare molto sulla personalità dell’uomo che il 27 aprile 2014 sarà proclamato santo. Eppure basta dare un’occhiata alle pagine delle agende per capire che abbiamo a che fare con un persona disciplinata, sistematica, molto attenta ai particolari, con una grande capacita di sintesi, e un rapporto intimo e rigoroso con il proprio diario.

UN PAPA-PASTORE

Adesso, con i grandi cambiamenti voluti da Papa Francesco, le parole di Wojtyla sul ruolo del sacerdote- pastore e sui poveri ci colpiscono per attualità. Leggiamo: «Pastore. Prima caratteristica - un vero pastore riceve il potere da Cristo. Seconda caratteristica - conoscenza del gregge e delle pecore: ciò spiega anche le strutture: la diocesi, le parrocchie, le comunità di base. Terza caratteristica: deve essere la vera guida (non può andare troppo in fretta o troppo lentamente) - sapendo che gli altri lo seguono. Quarta caratteristica: essere pronto a cercare la pecorella smarrita. Quinta caratteristica: essere disponibili».

IL GOVERNO DELLA CURIA

È un punto centrale. Ecco cosa ne scriveva: «Essere Curia del Papa nella Chiesa. “Presidenza dinamica nella carità” e “complesso antiromano”. Conoscenza - e applicazione del Vaticano II. Nuova evangelizzazione. Ministero della santificazione. Si governa animando - si anima governando. Ministero di Pietro nella collegialità. Alcune priorità: 1. Applicazione del Vaticano II. 2. Apertura alla comunione, all’ecumenismo, altre religioni ecc.. 3. Riferimento alle chiese particolari. 4. Apertura al laicato. 5. Spirito di servizio, bontà, parole di Paolo VI».

IL CELIBATO DEI PRETI

Ci sono le sue convinzioni, ma anche i forti dubbi personali. «Purezza. Il corpo proviene da Dio. Cristo è la purezza stessa e la verginità stessa! Il celibato sacerdotale è un mistero soprannaturale (vedi le parole di Cristo: non tutti capiscono), e anche un dono di Dio. Questo dono si realizza in un uomo concreto, nonostante le sue debolezze. È quello che penso?».

L’AMORE PER GLI SCRITTORI

È curioso vedere a margine delle note del Papa nomi significativi della storia o della letteratura, come Dostojevski, Hemingway, Manzoni, Dante, Heidegger, Tolstoj, Sartre, Bonhoeffer, san Tommaso, Giovanni Bosco, Madre Teresa, Hitler, Bismarck. Frammenti di citazioni si intrecciano con riflessioni sulla fede e la Chiesa. Accanto alla frase «La morte è un mistero. Cristo cambia il mistero della morte in testimonianza della morte, Evangelo», mette il nome di Tolstoj. E vicino a quella «La morte è un assurdo? La vita è solo un pellegrinaggio, dopo il quale ci aspetta l’incontro con Cristo nella perenne felicità. Allora: non è un assurdo ma Logica Divina / Piano Divino », scrive invece il nome di Sartre. Hemingway spunta poi a margine di questa nota: «I Vangeli hanno riportato solo poche frasi di Maria. “Come è possibile se non conosco il Marito”... “la verginità come testimonianza di Dio”. “Eccomi, sono la serva del Signore, si compia la Tua volontà”». Scrivendo questa riflessione su Maria, Wojtyla aveva forse in mente le difficoltà e la solitudine del protagonista de Il vecchio e il mare, popolarissimo in Polonia, e che il giovane Wojtyla sicuramente lesse e portò nel cuore. Ma come interpretare il nome di Heidegger piazzato a margine della frase: «Il celibato sacerdotale è un mistero soprannaturale »? Scrivendo questa nota il futuro Papa, amante delle montagne polacche, aveva in ogni caso in mente il filosofo tedesco nella sua baita della Foresta Nera. E a cosa pensava annotando il nome di Hitler vicino alla frase: «Il peccato più grande - in quanto l’ideale più grande»? Alla superbia umana che sta alla base delle «strutture del peccato»?

“IL POVERO SALVA IL MONDO”

È uno dei concetti più intensi delle agende. «Il povero salva il mondo. Il povero trasforma il mondo. Cristo sceglie i poveri: Optio pro pauperibus. La povertà – non: rassegnazione, ma: scelta di amore».

GLI ULTIMI ANNI

Il carattere della scrittura, prima vigoroso, con il passare degli anni si affievolisce. Il 22 febbraio 1999 Giovanni Paolo II appone una nota: «Le conferenze sono molto ricche di contenuti. Difficile annotare tutto». Dal 2001 comincia avere difficoltà a centrare le righe dell’agenda. L’ultima frase: «Giona, ossia la paura di annunciare l’amore di Dio», è già scritta con sforzo evidente il 15 marzo 2003. Un istante simbolico, quando la malattia piega le forze intellettuali del Papa, e il suo rigore di cronista di tutti i ritiri spirituali in Vaticano viene meno.