domenica 16 febbraio 2014

La Stampa 16.2.14
«Gli scissionisti sono loro»
Civati: dieci nostri senatori possono non votare la fiducia
«Gli scissionisti sono i fedelissimi di Matteo, non io che provo disagio»
intervista di Antonio Pitoni


La parola più ricorrente è «disagio». Pippo Civati è rimasto fermo sulle sue posizioni: «Ma come, per non fare le larghe intese con le elezioni, finiamo per farle senza votare?». Granitico sul no al nascituro governo Renzi. Su cui «una decina di parlamentari, soprattutto al Senato» potrebbero convergere quando ci sarà da votare la fiducia.
Nel Pd c’è chi l’accusa di voler fare la scissione per interesse personale…
«Gli scissionisti sono loro, non io. Io pongo un problema politico dicendo che stiamo facendo una cosa azzardata. Non ho mai parlato di scissione, ho solo segnalato che c’è qualcuno che la fiducia, magari, non la vota». 
Per esempio?
«Per esempio la dichiarazione di Casson (“Diremo no se non ci ritroveremo sui contenuti e i metodi”), che non ho neppure sentito e che è del tutto indipendente da me. C’è un disagio, ma il problema sarebbe Civati che non vota la fiducia?».
Quindi conferma che non la voterà?
«Quando saprò qual è il governo, da chi è composto e quale sarà il programma esprimerò il mio giudizio. Al momento sono solo molto a disagio». 
Perché?
«Il problema che sollevo è politico, non personale. Ma continuano ad attribuirmi intenti che non ho: lo sto scrivendo sul mio blog cosa penso, mica sto facendo magheggi sottobanco». 
Cosa non la convince?
«La maggioranza è la stessa di prima, con la differenza che durerà quattro anni. E per non fare le larghe intese con le elezioni (per via del proporzionale), le facciamo senza. Assurdo».
E come lei anche altri?
«Il Pd non sta facendo quello che il Pd è stato incaricato di fare, né all’inizio né a metà di questa legislatura. C’è qualcuno quindi che, legittimamente, solleva obiezioni. Siccome sono tutti preoccupati dal sì di Alfano, che è condizionato non si sa bene a cosa, magari, oltre a me, c’è anche qualcun altro che si sente a disagio».
Li potremmo definire sostenitori della «mozione» Civati?
«Non c’è nessuna mozione Civati. C’è una decina di parlamentari, soprattutto al Senato, che sono in difficoltà. E c’è un articolo della Costituzione che esclude il vincolo di mandato».
Dieci al Senato è un numero che pesa per la tenuta della maggioranza, non trova?
«Renzi non deve temere, può sbagliare da solo anche senza i dieci. Non sono decisivi».
Ha chiesto al Pd di smentire trattative in corso tra Renzi e Verdini tese a ridimensionare il peso di Alfano in maggioranza. Alla fine è arrivata…
«Meno male, siamo stati in pena tutto il giorno».
Vendola ha tagliato tutti i ponti col governo Renzi, se lei non fa la scissione del Pd ma, come sostiene sempre lei, la fanno gli altri, può nascere qualcosa di nuovo?
«Siamo in un passaggio di fase micidiale. Vendola ha parlato di nuovo mondo, di una nuova “Repubblica”, in senso ironico ovviamente, e in effetti non ha tutti i torti. Un passaggio che supera quello che c’era stato l’anno scorso, perché adesso lo stiamo facendo a freddo non come conseguenza del tradimento dei 101. Lo facciamo intenzionalmente. Certo che c’è la possibilità che nasca qualcosa di diverso. Anche senza che le colpe siano addebitate a me».

Corriere 16.2.14
Bufera Pd, Pippo Civati non ci sta: «Quasi quasi fondo il Nuovo Centro Sinistra»
L’ex candidato alle primarie lancia l’idea della scissione sul suo blog. È una provocazione, ma Vendola risponde subito

qui

Corriere 16.2.14
Il caso responsabili scuote il Pd
Civati pensa a un gruppo autonomo
L’idea di un asse con Sel al Senato. Guerini: nessun accordo con Verdini
di Dino Martirano


ROMA — L’asse strategico Renzi-Verdini, che andrebbe ben oltre le riforme costituzionali e la legge elettorale, ora provoca intensi maldipancia anche in casa del Partito democratico dove, ormai con un crescendo, si evoca la scissione ad opera della minoranza. In particolare, Pippo Civati (14% alle primarie di dicembre) intima al segretario e premier in pectore Matteo Renzi di smentire gli accordi con Denis Verdini, plenipotenziario del Cavaliere, finalizzati a ridimensionare nel tempo il ruolo del Ncd nella trincea del Senato dove il governo, ancora in gestazione del sindaco di Firenze, ballerebbe senza i 31 senatori di Alfano. Senza smentita, è la minaccia neanche troppo velata del giovane Civati, potrebbero esserci alcune defezioni già al momento di votare la fiducia al governo Renzi.
Al Senato, dunque, si iniziano a intravvedere le prime spine per il nascituro governo Renzi. Per cui, provoca una raffica di smentite piccate la notizia di un patto segreto Renzi-Verdini capace di mettere in campo una sorta di «gladio» (una trentina di senatori ex FI e di Gal sotto copertura ) per disinnescare le «pretese» di Alfano. Le truppe per l’operazione «salva-Renzi da Alfano» le avrebbe fornite Nicola Cosentino che controlla molti senatori campani: «Sono tutte stupidaggini», replica però l’ex sottosegratario all’Economia sotto processo ormai da tre anni a causa dei suoi presunti rapporti disinvolti con la Camorra e ora ispiratore del partito regionale Forza Campania. Spiega Cosentino, che non nega comunque di «vedere, anche se non più di tanto», l’amico Verdini: «Sono stanco di essere costantemente tirato in ballo per queste vicende e per altre comunque destituite di fondamento».
Anche i senatori campani di Gal e di Forza Italia smentiscono poi di essere stati convolti nell’operazione «salva-Renzi da Alfano»: «Basta con le illazioni. Smentiamo un nostro eventuale passaggio in un altro gruppo per dare sostegno al nascente governo Renzi». Firmato: Antonio Milo, Vincenzo D’Anna, Pietro Langella, Giovanni Mauro e Ciro Falanga. I quali, però, chiosano, allusivi: «Sia pure in attesa delle decisioni che vorrà prendere Silvio Berlusconi sugli assetti del partito in Campania, ribadiamo, con serietà, che siamo e rimaniamo di Forza Italia». Prima di loro, per smentire qualsiasi appoggio presente e futuro a Renzi, avevano preso carta e penna anche i pugliesi di Fi Luigi d’Ambrosio Lettieri, Pietro Iurlaro, Pietro Liuzzi, Luigi Perrone, Lucio Tarquinio e Vittorio Zizza.
Più dolorose le smentite — circa l’asse Renzi-Verdini che va oltre il terreno delle riforme — in arrivo dai piani alti del Pd. La denuncia del Ncd, che voleva regolare i conti con Forza Italia, provoca infatti grande imbarazzo al Nazareno, sede del Partito democratico. E infatti si muovono i «big». Trattativa con alcuni senatori di Forza Italia? «Priva di fondamento e surreale», risponde il ministro uscente (e probabilmente entrante) Dario Franceschini. Che aggiunge: «Leggo frasi a me attribuite mai pronunciate e che si riferiscono a cose di cui non so nulla». Ancora più ufficiale la presa di posizione di Lorenzo Guerini, portavoce di della segreteria di Renzi destinato al ruolo di «reggente» del partito anche se lo statuto consentirebbe al sindaco di mantenere il doppio incarico: «Non ci sono contatti e trattative in corso tra il Pd e FI sul tema della composizione del governo». Argomenta dunque Guerini: «Una cosa è il piano delle riforme istituzionali su cui abbiamo avviato un cammino comune (con Berlusconi,ndr ), altro è il piano del nuovo governo su cui il Pd non ha coinvolto vertici ed esponenti di FI».
Le smentite piovono ma i sospetti restano soprattutto nella minoranza del Pd. Si fanno sentire anche Davide Zoggia («Inaccettabile eventuale coinvolgimento di FI») e Stefano Fassino («In direzione si è consumata una ferita profonda»). Civati, poi, avrebbe preso in prestito l’idea del gruppetto-corsaro anti-Alfano per creare qualcosa di analogo nella parte sinistra dell’emiciclo del Senato. In altre parole, una decina di senatori «civatiani», i sette di Sel e un pugno di grillini, sarebbero sulla carta capaci di dare vita a un gruppo spalla di sinistra che permetterebbe forse a Renzi (una volta liquidato Alfano) di sostenere un governo di scopo con l’unico obiettivo di perfezionare la legge elettorale prima di andare a votare. Insomma, in questa ipotesi remota, ciò che non riuscirebbe a Verdini sarebbe agevole per la minoranza del Pd. Ma resta il fatto che ora, al Senato, la quota marginale di 31 seggi, che garantirebbe la governabilità a Renzi, ce l’ha salda in mano Angelino Alfano. Che ieri infatti se l’è giocata alle consultazioni con il capo dello Stato.

Repubblica 16.2.14
Il centrosinistra
Civati verso lo strappo con 6 senatori “Potremmo fondare la nuova sinistra”
La sponda di Vendola: “No a Renzi”
I paletti dei cuperliani: lavoro, unioni civili e stop al rigore Ue
di Tommaso Ciriaco


ALTA tensione alla sinistra di Matteo Renzi. Mentre i leader salgono al Colle per le consultazioni, le minoranze dem fanno a gara per alzare l’asticella del nuovo governo. Mugugnano, fissano condizioni, mettono nero su bianco proposte. Si preparano insomma a sfidare il segretario sul terreno delle riforme.
CON l’obiettivo di far pesare la folta pattuglia parlamentare e condizionare l’esecutivo. Nichi Vendola, invece, sbatte direttamente la porta in faccia al Pd, negando il consenso al sindaco fiorentino.
Il più duro di tutti è Pippo Civati. Il giovane deputato si infuria per le voci di trattative sotterranee fra Renzi e il ras berlusconiano Denis Verdini. Minaccia di non votare la fiducia. Sostiene che una dozzina di senatori sono in bilico - ma al momento ne risultano solo sei - e non esclude neanche la scissione: «Quasi quasi fondo il Nuovo Centro Sinistra». A sera, poi, si sfoga: «Noi non ricattiamo nessuno, io posso anche ritirarmi dalla politica, dal Parlamento, dal Pd. Non è un complotto, né sono io che controllo parlamentari. Pongo solo un problema ». E il problema si riassume così: «È possibile non andare ad elezioni perché c’è il rischio di larghe intese e dare il via libera a larghe intese senza elezioni, fino al 2018?». Insomma, per il parlamentare dem peserà soprattutto cosa riuscirà a proporre il nuovo premier: «Abbiamo buttato fuori Letta in una notte, possiamo perdere dieci giorni per stilare un programma? ».
Ma non è solo la pattuglia civatiana a mostrare malessere. Gianni Cuperlo si appresta a presentare un documento che assomiglia a una sfida al premier. Al testo lavora in queste ore Stefano Fassina. Con un obiettivo chiaro, sottolinea Davide Zoggia: «Non abbiamo firmato cambiali in bianco. E siccome non si conosce il programma che ha in mente Renzi, presenteremo una piattaforma - di matrice riformista e di sinistra - augurandoci che sia raccolta nell’agenda del premier».
Un programma di sinistra, promette la minoranza. A partire dal nodo del lavoro. Il problema - sostiene chi sta limando il documento - non è intervenire sui diritti dei lavoratori, ma sulla condizioni necessarie a creare posti di lavoro. Ma non basta. Al nuovo premier i cuperliani chiedono anche uno scatto sull’Europa, promettendo battaglia contro le politiche del rigore. E c’è spazio pure per un forte richiamo alla lotta all’evasione.
Di fatto, la sfida è rivolta anche ad Angelino Alfano. Il pilastro destro della coalizione, infatti, sarà costretto a fare i conti con le richieste della minoranza dem. Sul terreno dei diritti civili, a partire dallo ius soli. E scintille si prevedono anche per il riconoscimento dei diritti civili delle coppie omosessuali. Senza dimenticare le riforme, perché i cuperliani reclamano un percorso parallelo per la legge elettorale, la riforma del Senato e del Titolo quinto. Non è ancora chiaro, invece, se nel documento troverà posto anche l’appello per nuove regole sul conflitto d’interesse.
Chi ha già deciso è Sel. Vendola - pure «pronto all’autocritica se Renzi dovesse stupirci» liquida intanto come «pura fantapolitica » l’ipotesi di un sostegno al segretario dem. Anzi, rileva ad Affaritaliani, «la prima carta che abbiamo visto fa schifo». Il leader di Sel, però, osserva incuriosito lo strappo di Civati, confidando: «Ha usato espressioni forti per descrivere una situazione a metà tra Shining e il peggio della Prima Repubblica ». Molto si muove, alla sinistra di Renzi.

l’Unità 16.2.14
Pd, minoranze in fermento Civati verso il no alla fiducia
Documento dei cuperliani sulle misure economiche e sociali necessarie per un’inversione di tendenza
Cuperlo: «In Direzione non abbiamo firmato una cambiale in bianco. E non era un duello rusticano»
Sei senatori democratici sono intenzionati a far mancare il loro sì a Renzi
di M. Ze.


Dire che nel Pd ci sono acque agitate è come dire che ad agosto fa caldo. Ma stavolta la superminoranza - cioè quella minore del 18% di Gianni Cuperlo - capeggiata da Pippo Civati, l’amico del tempo che fu di Matteo Renzi, spara col cannone. Minaccia di non votare la fiducia al compagno della Leopolda prima versione, lontano 2010. E non votare la fiducia è come dire «me ne vado». E potrebbe essere un incubo per Renzi perché in Senato sono sei i civatiani (Felice Casson, Corradino Mineo, Sergio Del Giudice, Donatella Albano, Lucrezia Ricchiuti, Walter Tocci).
«Sto valutando... È cambiato tutto - dice parlando con Affaritaliani.it Civati - ed essere coerente tra incoerenti è sempre più difficile e non dà riferimenti a nessuno. Valuterò in queste ore anche in base a che cosa fa Renzi. Non ho capito che cosa farà il suo governo. Lui ci porta tutto il Pd addirittura come premier, prima Letta era del Pd ovviamente - e forse avremmo dovuto ricordarcelo prima di defenestrarlo - ma non era una figura così centrale come quella di Renzi. Valuteremo insieme ai parlamentari e agli elettori che cosa sia meglio fare. È chiaro che non votare la fiducia a questo governo vuol dire uscire dal Pd o qualcosa di molto simile».
A caldo, Civati aveva detto che era il caso di pensare a un nuovo centrosinistra, iniziando, perché no, a istituire un gruppo autonomo con i parlamentari. Di buon mattino, ieri, sul suo blog un post dopo aver letto i giornali: «Renzi avrebbe sentito Verdini (dico Verdini) per poter ridimensionare Alfano con qualche senatore. Ecco, personalmente l’avrei già smentita di prima mattina ». Per Davide Zoggia, ipotesi «inaccettabile » quella di un’intesa con Fi. Alla fine interviene Lorenzo Guerini per smentire tutto. Ma Casson attacca: «Sul governo un problema c’è… La gente è arrabbiata: a Vicenza hanno occupato la sede del Pd. A Venezia hanno presentato un documento contrario alla cacciata di Letta…».
Gianni Cuperlo che in direzione ha dato il via libera alla defenestrazione di Letta e all’ingresso di Renzi a Palazzo Chigi è alle prese con la sua base e con diversi dei suoi parlamentari. «Votando l’ordine del giorno di Renzi non abbiamo firmato una cambiale in bianco. Né quella è stata la soluzione per un duello rusticano tra leader che ha lasciato il nostro mondo stranito e non risponde alla mia idea di cosa è un partito», spiega. Come Renzi, sostiene di aver sostenuto Letta «con lealtà assoluta», ma, ragiona «il governo non c’era più da prima che giovedì il segretario (e 136 membri della direzione, ndr) togliesse la fiducia al premier». Dunque, Cuperlo in un’intervista a Repubblica spiega il «sì» a quel documento e aggiunge che non era una cambiale in bianco.
È uno sforzo di comprensione titanico quello che il Pd chiede ai suoi elettori mentre Angelino Alfano nel giorno delle consultazioni al Colle manda in scena la solita, vecchia, trita e ritrita, scenetta pre-governo. «Il nostro sì non è scontato ». Alza il prezzo, questo il succo. Dinamiche da vecchia, trita e ritrita politica da prima e seconda Repubblica. È Civati - lui che contribuì ad accendere le luci della Leopolda e quindi di tutti i media, sul giovane sindaco -, a dare voce a quel disagio profondo della base. «Capisco che il Pd ora debba trasformarsi nel partito di Renzi, nel Pdr, e che alla fine Renzi che iderà fiducia totale, perché più la fai grossa e più devi chiedere una fiducia ampia, segnalo però che c’è un problema: siamo passati da un’idea di centrosinistra moderato ad un’altra che mette trattino sull’intera parola sinistra ».
Il voto in parlamento
Intanto la minoranza cuperliana ha messo nero su bianco un documento programmatico da presentare al futuro premier con proposte per interventi economico-sociali sui quali segnare un’inversione di tendenza, ovvio a sinistra da parte loro, tanto che ieri Cuperlo avrebbe telefonato a Renzi per chiedergli di non nominare all’Economia un ministro liberista. Massimo D’Alema resta critico sull’intera operazione, Pier Luigi Bersani, che sa di cosa parla, in una lunga telefonata a Letta gli ha espresso la propria vicinanza prendendo invece una siderale distanza da quel voto che pure i suoi hanno dato all’ordine del giorno. Sui territori è partita l’operazione «spieghiamo cosa sta accadendo » dei segretari a elettori e militanti inferociti, preoccupati, disorientati. Ma quello che sembra chiaro sin da ora è che sarà difficile, cambiali o non cambiali, non votare la fiducia al nuovo governo. È lo sarà anche per Pippo Civati perché è vero che dopo il siluramento di Franco Marini e Romano Prodi al Quirinale nel Pd tutto è possibile, ma un altro strappo a così stretto giro di posta sarebbe pericolosissimo. Ancora più complicato per la minoranza cuperliana, poi, presentare la cambiale al governo in corso d’opera, se accetta ministeri o sottosegretariati.

Il Sole 16.2.14
Civati tentato dallo strappo: fiducia a Renzi non scontata
di Andrea Gagliardi

qui

l’Unità 16.2.14
Rodotà: all’Italia non basta un uomo serve un progetto
«La discontinuità non può essere rappresentata dal singolo. Le larghe intese hanno fallito
Ora fatico a capire il Pd. Grillo? Un errore non andare al Colle»
intervista di Federica Fantozzi


Professor Stefano Rodotà, dall’ipotesi di Letta bis al Renzi Uno inventi giorni. Che momento politico stiamo vivendo?
«Un momento di estrema difficoltà che condizionerà molto il futuro. Questo modo di proporre una soluzione potrebbe rivelarsi piuttosto un altro elemento del problema». La sua critica alla cosiddetta staffetta tra Letta e Renzi riguarda il metodo?
«Non solo. Lo considero un fattore, oltre che problematico, negativo. Non si esce dalla crisi nel modo aggressivo in cui è stato trattato Letta. Gli si possono muovere molte critiche politiche, lo ho fatto anche io, ma in una situazione difficile si è comportato in modo dignitoso ».
L’obiezione diffusa è che servisse un’azione di governo più incisiva e che Letta non fosse più nella condizione di intraprenderla.
«Guardi, non si tratta di una staffetta. La maggioranza resta più o meno la stessa. Del programma non si sa nulla. È il traghettamento della vecchia compagine affidandola sulle spalle di una sola persona. Era inadeguato Letta e andava sostituito da un premier con più vitalità e capacità mediatiche? Non mi convince».
Eppure, gran parte dell’Italia pensa che Renzi possa far ripartire il Paese. Un’illusione ottica?
«Senza fare la contabilità delle dichiarazioni, un po’ non dico di coerenza ma almeno di linearità oggi è più necessaria che in passato. Il discredito dei politici passa anche per la loro inaffidabilità nei confronti dell’opinione pubblica. La sensazione è di una partita che si gioca all’interno di un’oligarchia: cambiano le posizioni su convenienze del brevissimo periodo».
Che cosa rappresenta, allora, questa fase per il Paese? «La mia opinione è che siamo alla fine di un ciclo. Un progetto cominciato con Monti e poi con Letta, le larghe intese, non ha dato i suoi frutti. Sul logoramento di questa formula non si spende una parola. Non basta un’aggressione personale. Servono una valutazione politica e un nuovo progetto».
Che tipo di progetto servirebbe?
«Una discontinuità che non può essere solo su base personale».
Per il Pd, già provato dalle vicende successive alle elezioni, è l’ennesimo avvitamento. Nella base c’è molta perplessità. C’è il rischio, secondo lei, che il partito non sopravviva? «Il Pd ha deciso di uscire così dal conflitto personale tra premier e segretario, che non era necessariamente nella natura delle cose. Francamente, capisco poco il Pd in questo periodo. Renzi aveva promesso: mai più larghe intese. Ora indica il 2018 come scadenza. Più che una scommessa è un azzardo. Mi chiedo come farà visto che la distanza teorica tra Pd e Ncd è enorme su un’infinità di temi».
È rimasto stupito dalla rapidità con cui il Pd ha seguito la linea di Renzi?
«Prima di quest’ultima accelerazione, mi ero già espresso sulla chiusura oligarchica del Pd e sul legame sempre più debole con la società, che non può essere colmato con le primarie. Renzi ha vinto senza bisogno di combattere. Una vittoria frutto del suo successo ma anche dell’estrema debolezza del Pd, che si è riflessa anche nelle ultime decisioni. Ma tutto ciò potrà portare contraccolpi ».
Quali contraccolpi teme?
«Come reagirà il partito nel suo insieme? Io sono affezionato alla parola sinistra. So che c’è una disinvoltura liquidatoria degli schemi destra e sinistra, ma è un modo per non occuparsi dei problemi. Abbiamo diseguaglianze enormi, milioni di poveri. Elkann dice che in sostanza i giovani non vogliono lavorare negli alberghi, e dai vertici Pd non c’è una dichiarazione. Non è folklore, è gravissimo. Mi sarei aspettato una reazione forte da Renzi».
Tra pochi giorni, ci sarà lui a Palazzo Chigi. Che politica servirebbe all’Italia?
«Riprendere una politica costituzionale, l’unica che consente ai cittadini di riconoscersi in un governo. Ho apprezzato che Renzi abbia messo sul tappeto ius soli e unioni civili. Non perché siamo maniaci del tema, ma perché riaprire quella partita dopo 30 anni è importante. Ora leggo che c’è il veto di Formigoni. Ma si tratta di ricostruire la civiltà dei diritti e riportare la società italiana all’avanguardia. Nel 1970, in un anno, ci furono divorzio, referendum, statuto dei lavoratori e regioni ordinarie». La crisi economica che viviamo non ha invertito le priorità?
«Disegnare questo orizzonte politico, non utopico, consentirebbe di sottrarsi alla subordinazione alla tirannia di finanza ed economia. Poi, Napolitano ha detto basta all’austerity. Renzi e il Pd con che linea arriveranno alle Europee? Per ora non vedo traccia di nulla. Se c’è una straordinaria novità, io cerco il nuovo non soltanto in una persona ».
Grillo ha fatto bene o male a non andare alla consultazioni al Quirinale?
«Alle istituzioni si deve rispetto: è sbagliato coinvolgerle in polemiche che riguardano le persone. Se esistono procedure consolidate nella storia repubblicana, vi si entra con rispetto».

Repubblica 16.2.14
Il senatore della minoranza dem: è la terza volta che tiriamo il Cavaliere fuori dalla fossa
Casson: “La scelta sulla giustizia mette in gioco la credibilità del Pd”
intervista di Liana Miella


ROMA - Giustizia? «No alle trattative sottobanco». Il nuovo ministro? «Senza scheletri nell’armadio, e con tanta voglia di lavorare ». La legge più importante da fare? «Ce ne sono almeno cinque ». Felice Casson è preoccupato e sta alla finestra per vedere che farà Renzi.
Nuovo governo. Alle spalle l’incontro tra Renzi e Berlusconi per la legge elettorale. Teme un inciucio sulla giustizia?
«Più che temere, ho l’impressione che sarà proprio così. Già il punto di partenza è negativo, perché il governo Letta aveva scelto in materia di giustizia e legalità un basso profilo. I casi Shalabayeva e Cancellieri lo stanno a dimostrare».
Letta ormai è alle spalle. Anzi Renzi contesta proprio l’eccessiva prudenza dell’ex premier. Dove starebbe la continuità?
«Già nella scelta della stessa coalizione, che per di più dovrebbe durare fino al 2018. Io però in direzione ho votato contro».
Si appresta forse a votare contro anche al governo Renzi?
«È prematuro parlarne... Certo che quando si è discusso di giustizia, conflitto di interessi e legalità, con il centrodestra di Alfano, Schifani e Giovanardi, ci siamo sempre scontrati di brutto».
Sì, ma ora c’è qualcosa di più, c’è il rapporto diretto tra Renzi e Berlusconi, ci sono contatti riservati. La giustizia, di cui Renzi non parla mai, non rischia di essere il prossimo terreno di scambio?
«È sintomatico che non ne parli mai, perché è materia incandescente. Se il Pd vuol parlare di riforma della giustizia va in direzione opposta alla destra. Esempi chiarissimi ci sono su prescrizione, falso in bilancio, corruzione».
Temi del tutto dimenticati...
«Volutamente dimenticati, proprio per evitare scontri».
Risponda da ex magistrato. Il prezzo che si sta pagando per avere una nuova legge elettorale non è eccessivo?
«Rispondo da politico. Su questa legge si sta facendo una grande manfrina, perché il fatto di non averne una nuova impedisce nuove elezioni. Sia chiaro che io non ho pregiudizi nei confronti di Renzi, tanto che in Veneto lavoro benissimo con i suoi uomini, in trasparenza e con spirito costruttivo».
Scusi, ma il famoso incontro nella sede del Pd non ha di fatto “sdoganato” un condannato definitivo?
«È la terza volta che il Pd tira fuori Berlusconi dalla fossa. Prima è stato D’Alema, poi Veltroni. Adesso Renzi. Ma ora è peggio, perché l’ex premier è un pregiudicato per il grave di frode fiscale».
Per dimostrare che non c’è inciucio quali sarebbero le cinque leggi sulla giustizia che Renzi dovrebbe varare nei suoi primi cento giorni?
«Nuova legge sulla corruzione, prescrizione, falso in bilancio e auto-riciclaggio, conflitto d’interessi, via Bossi-Fini e Fini-Giovanardi».
Nuovo ministro della Giustizia. Qual è il suo identikit?
«Non basta che garantisca dalle porcate e che non ne abbia già fatte, deve essere in grado di agire e di cambiare la macchina dei processi e del carcere».

Corriere 16.2.14
La rabbia di Asor Rosa
«Aberrazione inenarrabile»


Dalle colonne del manifesto il professor Alberto Asor Rosa è tornato ad attaccare frontalmente Matteo Renzi e il Pd. Lo aveva già fatto a metà gennaio, ma questa volta i toni sono ancora più drastici. A proposito della marcia di Renzi verso Palazzo Chigi, Asor Rosa scrive: «Mai mi sarei aspettato che nel giro di pochi giorni il nuovo che avanza svelasse chiaramente il grumo di ottusa brutalità che nasconde». Intellettuale molto ascoltato nella sinistra radicale, storico della letteratura e saggista, nel suo editoriale Asor Rosa punta il dito contro la Direzione del Pd che «rovescia a larghissima maggioranza un presidente del Consiglio» senza che della decisione venga data «nessuna spiegazione politica credibile». Le ragioni dell’avvicendamento alla guida del governo, secondo l’analisi, risiedono esclusivamente nell’«energizzazione vitalistica» che Matteo Renzi e le sue «presunte, molto presunte, capacità spettacolari» dovrebbero imprimere alla politica italiana. Il giudizio nei confronti del Partito democratico è senza appello e si estende allo strumento delle primarie, «l’unica fonte del potere renziano». «Le primarie — sostiene il docente di letteratura italiana — possono avere un valore orientativo nella scelta di un candidato per le elezioni» ma diventano «un’aberrazione inenarrabile» quando il meccanismo viene trasferito «di peso» alla formazione di un governo «che dovrebbe rappresentarci tutti». «Che c’entriamo noi — si domanda Asor Rosa — con l’arroganza e la stupidità del gruppo dirigente del Pd?». Dalle colonne del manifesto l’intellettuale sostiene che di fronte alle ultime mosse di Renzi ci sia «un senso di smarrimento senza pari: questo Paese — conclude — cui si vorrebbe negare tutto, si sta indignando».

l’Unità 16.2.14
Governo e Tsipras, scontro in Sel
di Rachele Gonnelli


Alle volte i congressi non finiscono. Così è sembrato ieri mattina per Sel che ha celebrato, con la prima Assemblea nazionale dopo Riccione, una sorta di girone di ritorno, una discussione persino più aspra sempre sugli stessi temi: il rapporto con il Pd di Renzi e soprattutto la scelta, da confermare o meno, di sostenere la lista Tsipras. È finita di nuovo con una spaccatura, ma anche con la conferma a stragrande maggioranza delle scelte già fatte che collocano Sel all’opposizione e confermano la disponibilità a continuare il percorso di presentazione delle 150mila firme deciso dai “professori”, cioè dai sei intellettuali che hanno per primi lanciato la candidatura del leader della sinistra greca Alexis Tsipras per le europee anche in Italia.
È proprio questo secondo punto all’ordine del giorno che ha fatto scaturire il documento emendativo su cui 51 delegati «dissidenti» - una ventina tra deputati e senatori - hanno chiesto la conta. Ma a ben vedere è l’argomento della minore o maggiore ostilità al nuovo esecutivo a guida Pd che ha arroventato il dibattito, invelenito dalle voci che si sono rincorse per giorni sulla stampa a proposito di una possibile scissione o comunque di mercanteggiamenti da parte di parlamentari di Sel in fuga verso più sicuri approdi nella nuova costituenda maggioranza. «Qualcuno ha pensato che ci fossero i saldi, che qualcuno che era in vendita dentro Sel», ha confermato lo stesso Nichi Vendola ergendosi a protettore della solidità e dignità dei gruppi parlamentari e della stessa presidente Laura Boldrini, a cui pure è toccato smentire un preteso interesse per un posto da ministro. «L’ho dovuto dire per proteggere Sel da chi ci vuole ridurre a un partito a perdere - ha spiegato Vendola, nella replica - persino io sono stato costretto a rispondere a telefonate di giornalisti che mi chiedevano quale ministero intendevo chiedere per me». Una operazione «di inquinamento» che - ha confermato nella conferenza stampa dopo la consultazione al Quirinale - «sta proseguendo in queste ore con i sindaci delle grandi città eletti nelle liste del mio partito». L’allusione a tentativi di compravendita renziana di deputati di Sel è stata giudicata ingiusta e persino infamante da chi si è sentito chiamate in causa, da Claudio Fava a Ileana Piazzoni, deputata dei Castelli romani portabandiera della mozione del dissenso interno insieme al collega padovano Alessandro Zan, fino alla giovane Celeste Costantino. «Una raffigurazione caricaturale mentre si tratta solo di diverse articolazioni di pensiero», spiega Titti Di Salvo. Lei - che è entrata in segreteria - ad esempio teme gli imput grillini e le condizioni messe dai «professori » e vorrebbe, come Gennaro Migliore, la presentazione del simbolo di Sel alle europee o almeno una ricontrattazione delle condizioni per la partecipazione alla lista Tsipras, ma giudica il governo Renzi peggiore di quello Letta «perché ha la stessa maggioranza di larghe intese ma organica e duratura: fino al 2018». A tagliare corto sulla possibilità di ricontrattare l’adesione alla lista Tsipras è toccato a Fabio Mussi: «Purtroppo siamo partiti in ritardo, ad ottobre ancora pensavamo a una lista Europa Bene Comune ». Per Mussi - e per Sel - il Pse resta un riferimento ma per il futuro, «prima bisogna ricostruire un campo largo». Con Tsipras ma non contro Schulz.

Repubblica 16.2.14

Il senatore della minoranza dem: è la terza volta che tiriamo il Cavaliere fuori dalla fossa
Casson: “La scelta sulla giustizia mette in gioco la credibilità del Pd”
intervista di Liana Miella


ROMA - Giustizia? «No alle trattative sottobanco». Il nuovo ministro? «Senza scheletri nell’armadio, e con tanta voglia di lavorare ». La legge più importante da fare? «Ce ne sono almeno cinque ». Felice Casson è preoccupato e sta alla finestra per vedere che farà Renzi.
Nuovo governo. Alle spalle l’incontro tra Renzi e Berlusconi per la legge elettorale. Teme un inciucio sulla giustizia?
«Più che temere, ho l’impressione che sarà proprio così. Già il punto di partenza è negativo, perché il governo Letta aveva scelto in materia di giustizia e legalità un basso profilo. I casi Shalabayeva e Cancellieri lo stanno a dimostrare».
Letta ormai è alle spalle. Anzi Renzi contesta proprio l’eccessiva prudenza dell’ex premier. Dove starebbe la continuità?
«Già nella scelta della stessa coalizione, che per di più dovrebbe durare fino al 2018. Io però in direzione ho votato contro».
Si appresta forse a votare contro anche al governo Renzi?
«È prematuro parlarne... Certo che quando si è discusso di giustizia, conflitto di interessi e legalità, con il centrodestra di Alfano, Schifani e Giovanardi, ci siamo sempre scontrati di brutto».
Sì, ma ora c’è qualcosa di più, c’è il rapporto diretto tra Renzi e Berlusconi, ci sono contatti riservati. La giustizia, di cui Renzi non parla mai, non rischia di essere il prossimo terreno di scambio?
«È sintomatico che non ne parli mai, perché è materia incandescente. Se il Pd vuol parlare di riforma della giustizia va in direzione opposta alla destra. Esempi chiarissimi ci sono su prescrizione, falso in bilancio, corruzione».
Temi del tutto dimenticati...
«Volutamente dimenticati, proprio per evitare scontri».
Risponda da ex magistrato. Il prezzo che si sta pagando per avere una nuova legge elettorale non è eccessivo?
«Rispondo da politico. Su questa legge si sta facendo una grande manfrina, perché il fatto di non averne una nuova impedisce nuove elezioni. Sia chiaro che io non ho pregiudizi nei confronti di Renzi, tanto che in Veneto lavoro benissimo con i suoi uomini, in trasparenza e con spirito costruttivo».
Scusi, ma il famoso incontro nella sede del Pd non ha di fatto “sdoganato” un condannato definitivo?
«È la terza volta che il Pd tira fuori Berlusconi dalla fossa. Prima è stato D’Alema, poi Veltroni. Adesso Renzi. Ma ora è peggio, perché l’ex premier è un pregiudicato per il grave di frode fiscale».
Per dimostrare che non c’è inciucio quali sarebbero le cinque leggi sulla giustizia che Renzi dovrebbe varare nei suoi primi cento giorni?
«Nuova legge sulla corruzione, prescrizione, falso in bilancio e auto-riciclaggio, conflitto d’interessi, via Bossi-Fini e Fini-Giovanardi».
Nuovo ministro della Giustizia. Qual è il suo identikit?
«Non basta che garantisca dalle porcate e che non ne abbia già fatte, deve essere in grado di agire e di cambiare la macchina dei processi e del carcere».

il Fatto 16.2.14
Tsipras, alle elezioni scompare la “sinistra”
Il termine non previsto nei simboli proposti alla consultazione
Base in rivolta, Vendola dà il via libera e attacca Renzi


Alle prossime elezioni Europee la parola “sinistra” non sarà presente in nessun simbolo elettorale. Scomparso dalle bandiere del maggior partito, il Pd, il termine-chiave con cui vengono collocate le forze politiche nelle democrazie parlamentari, viene cancellato anche dall’altro simbolo che, presumibilmente, si presenterà al voto. La lista Tsipras, infatti, avvia oggi le consultazioni online per scegliere il proprio simbolo ma delle quattro ipotesi proposte agli aderenti, nessuna contiene quel riferimento. C’è “altra Europa” oppure “cambiamo l’Europa”, addirittura “Risorgimento europeo”. Ma la parola “sinistra” non c’è mai. E questo sta facendo imbestialire molti dei suoi possibili elettori, almeno quelli che fanno riferimenti ai partiti della sinistra radicale. Ieri pomeriggio Sinistra Ecologia e Libertà ha dato il proprio via libera con la stragrande maggioranza del proprio parlamentino nazionale. Unico oppositore pubblico l’ex diessino Claudio Fava che ha però ha dovuto sottostare alla dura replica di un ex compagno di partito come Fabio Mussi. A dimostrazione della convinta scelta di Sel, due fatti: l’elezione di Nicola Fratoianni, che sta lavorando a fondo alla lista, a coordinatore nazionale - il numero 2 del partito; e poi, le parole pronunciate da Nichi Vendola su Matteo Renzi, all’uscita dal suo colloquio con Giorgio Napolitano: “Sta spostando a destra l’asse del Paese”.
MA IL MONDO di sinistra non vive comunque una situazione serena. Basta leggere quanto scrive il segretario del Prc, Paolo Ferrero, sulla propria bacheca facebook ai tantissimi messaggi di protesta per i nomi che sono stati sottoposti alla votazione: “Cari compagni e care compagne è il momento della pazienza”. Una risposta che non convince affatto chi, invece, ricorda la simbologia della sinistra europea che si riferisce a Tsipras. Syriza in greco vuol dire “Coalizione della sinistra radicale”; in Spagna si utilizza Izquierda unida, in Francia Front de gauche, “Fronte della sinistra” e Linke, “sinistra” è il termine utilizzato in Germania. In Italia, no. Di fronte al trambusto che la vicenda sta provocando uno dei promotori della lista Tsipras, Marco Revelli, ha spiegato così la decisione del comitato dei garanti di cui fa parte insieme a Barbara Spinelli, Andrea Camilleri e altri: “Il termine sinistra non compare per tre buone ragioni: 1) perché da anni non è più, in Italia, portatore di un preciso contenuto programmatico ma un’etichetta in cui c’è tutto e il contrario di tutto; 2) perché rischia di farci confondere con quanti si sono in questi anni dichiarati “di sinistra”; 3) perché il nostro obiettivo è quello di conquistare il cuore e la mente dei milioni di elettori che non si sentono più di sinistra”. Un modo, dicono molti contestatori, per strizzare l’occhio all’elettorato “grillino”? Può darsi.
Paradossalmente l’unico altro riferimento storico senza la parola “sinistra” è l’elezione del 1948 quando il Pci e il Psi contrapposero alla Dc di De Gasperi il Fronte democratico e popolare con il volto di Garibaldi. Fu un disastro. Neanche dopo il cambio di nome realizzato da Achille Occhetto, quel simbolo scomparve del tutto, visto che fino all’avvento dei Ds di Massimo D’Alema la falce e il martello rimasero alla base della Quercia. E comunque ci fu Rifondazione comunista a rappresentare il simbolo. Fino al 2008 e all’idea di riunificare tutte le varie diaspore dentro l’Arcobaleno. Un disastro, in scala minore, ma che aveva ancora la “Sinistra” come nome. Per chi propone la lista Tsipras, tutto ciò è la prova che i riferimenti storici non bastano a proteggersi dagli errori. Anche perché è passato diverso tempo da quando Nanni Moretti nel corso del proprio film si rivolgeva così a Massimo D’Alema: “Di’ una cosa di sinistra, di’ almeno una cosa di civiltà”. Lo sventurato non ha mai risposto. E forse anche per questo, oggi, le parole non hanno più un senso.

l’Unità 16.2.14
Dov’è finita la promessa di una politica nuova?
Giovedì la Direzione del Pd ha avallato un’operazione di potere spregiudicata
di Livia Turco


Se facessi parte della direzione del PD, giovedì scorso avrei votato no all’ordine del giorno che dichiarava conclusa l’esperienza del governo Letta . Per una ragione molto semplice. In quell’atto non è contenuta alcuna proposta politica ma si avalla in modo ipocrita una operazione di potere cinica e spregiudicata. Dal mio punto di vista, grondante di immoralità. Si chiude un’esperienza di governo nata in un momento di eccezionale crisi sociale e di rappresentanza politica, un governo voluto dal Pd, e guidato da un suo leader di primo piano, in nome della responsabilità verso il Paese; si compie un atto duro e senza precedenti come la sfiducia del proprio leader in una sede di partito: e tutto questo viene fatto senza che ne siano indicate le ragioni e che sia tracciata una prospettiva politica e programmatica per il futuro. L’unico elemento chiaro è che bisogna cambiare leader e compagine di governo. Guardo alle vicende con passione ma senza partigianeria. Ho criticato il presidente Letta quando non è stato capace di sostituire la ministro Cancellieri, ho criticato come tanti la vicenda dell’Imu che un giorno c’era, l’altro scompariva per poi tornare di nuovo. Ma questo governo ha fatto cose buone e importanti per l’Italia e se il Pd non impara a valorizzare ciò che fa, se non adotta uno spirito di squadra, non sarà mai percepito come forza credibile e di cui fidarsi. Bisogna cambiare passo, adottare una politica più netta per il lavoro, la crescita, contro le diseguaglianze e nella consapevolezza che questa partita si gioca prima di tutto in Europa.
Ciò che mi colpisce del linguaggio e delle mosse del segretario del Pd è l’enfasi sulla velocità, sulla vitalità della giovinezza, sull’azzardo, sul giocarsi tutto. Come se la questione della crisi italiana e del governo del Paese fosse legata essenzialmente alle capacità ed alla forza di un leader. È stata importante la determinazione con cui ha imposto la riforma della legge elettorale, la riforma del Senato e del federalismo. È bastato che dalle conferenze stampa si passasse alle aule parlamentari perché la velocità si smorzasse e le indicazioni temporali si facessero più caute. Perché un conto sono le dichiarazioni, altro è il percorso parlamentare, che certo va rivisto e razionalizzato ma, obiettivamente e fortunatamente, contempla il tempo del dialogo, del confronto e della costruzione condivisa delle soluzioni. Perché questa è la democrazia. Ha ragione Enrico Letta quando osserva che da tempo chiedeva al Pd le proposte per una nuova fase del governo e gli veniva risposto che prima bisognava portare a casa la riforma della legge elettorale. Non è questione di galanteria ma di scelte politiche, di concezione e pratica della politica. Un partito che si rispetti e una leadership all’altezza dichiara in modo esplicito le sue intenzioni e la sua strategia. Io credo che sarebbe stato meglio per il Paese la distinzione dei due piani: l’azione di governo aggiornata ed affidata ad un Letta bis; l’azione delle riforme istituzionali e della politica affidata al partito e al suo leader. Il segretario del Pd, proprio grazie al mandato delle primarie che lo ha eletto segretario, avrebbe dovuto proseguire l’azione per le riforme istituzionali accompagnandola con una mobilitazione del Paese, attraverso un dialogo vero con i cittadini, coinvolgendo il popolo delle primarie. Perché la crisi profonda della politica è una crisi di legittimità e autorevolezza, è una crisi della rappresentanza. Per risalire la china bisogna ricostruire un legame vero e profondo con le persone. Bisogna frequentare i luoghi della vita quotidiana, le roccaforti del disagio sociale. In questi mesi il partito, gli iscritti, il popolo delle primarie sono stati ridotti a spettatori delle mosse del leader e siamo ricaduti in taluni momenti al peggior politichese.
Quello che è accaduto in questi giorni ha aperto una ferita. Credo siano in tanti a viverla. La ferita provocata da una politica come gioco di potere, come personalismo, come indifferenza verso la comunità. Dove è finita la promessa di una politica nuova?

Repubblica 16.2.14
Sulle rive del fiume
di Alessandra Longo


Faremo un’opposizione responsabile, dice Silvio Berlusconi. Ma non c’è da star tranquilli leggendo il sito di Forza Italia: «Sediamoci e aspettiamo — è l’invito dei militanti —. Vedremo passare Renzi lungo il fiume. Troppo vanitoso e presuntuoso!». Strategia d’attesa: «Vedrete, sarà bruciato dal suo stesso partito. Storia già vista, intanto l’Italia scivolerà verso l’abisso». Ironia sul coraggio del nuovo premier: «Rischia più una persona ad aprire un bar che non lui ad andare a Palazzo Chigi». Stupore per la situazione in cui Renzi si è messo: «Si fa inghiottire dal gorgo... Non pensavamo fosse così pollo». Anche una domanda velenosa sul programma: «Oltre la benzina a metà prezzo, la bolletta della luce meno cara, è compreso il set di pentole?».

l’Unità 16.2.14
Renzi: non accetto ricatti
«Se salta tutto dritti al voto»
«Con le urne io rischio meno di altri»
Il segretario avverte: se salta tutto si vota
Tensioni nel Pd: Civati minaccia il no
di Vladimiro Frulletti


Non ha nessuna intenzione di fare l’Achille “pie’ veloce” costretto a inseguire la tartaruga senza raggiungerla mai. Tanto più se la testuggine assume le sembianze di Angelino Alfano. Ma certo un po’ di rallentamento oggettivamente Renzi dovrà metterlo in conto. Perché Napolitano dovrebbe prendersi una domenica di riflessione e poi chiamare Renzi domani e quindi non oggi come sembrava. Il che significa che il candidato premier a quel punto potrebbe andare a giurare entro mercoledì e poi ottenere la fiducia dal Parlamento entro la fine della settimana. È un calendario che ovviamente il segretario Pd condivide col Colle. Ma quello che non può e non vuole accettare e far passare l’idea che a rallentarlo possano essere gli altolà del leader del Nuovo centrodestra. Quel «non bastano 48 ore» dettato da Alfano appena uscito dall’incontro con Napolitano al segretario del Pd sono sembrate un’inutile dimostrazione muscolare di chi però non ha grandi bicipiti da mettere su un tavolo per un eventuale braccio di ferro. «Se continua a dire che 48 ore non sono sufficienti ce ne metterà 46» spiega chi conosce bene il segretario del Pd. Uno che se sfidato, spiegano i suoi, non solo accetta la partita ma poi alza anche la posta. Anche perché l’eventuale ricatto potrebbe diventare un autogol per Alfano e i suoi. «Se salta tutto devono sapere che qui si va a votare e in quel caso è ovvio che io rischio molto di meno di loro», spiega Renzi a chi gli sta attorno in queste frenetiche ore. Anche lo spauracchio di una possibile intesa segreta (tramite Verdini) con pezzi di Forza Italia che tanto preoccupa l’ex vicepremier (ma pure i civatiani del Pd) è tutta una bufala come certifica il portavoce della segreteria Lorenzo Guerini.
Insomma da parte del segretario democratico non c’è nessuna intenzione di rallentare rispetto alla sua tabella di marcia. Certo c’è chi lo invita alla cautela. Ma Renzi, che incassa anche il via libera di Prodi, non pare intenzionato a togliere il piede dall’acceleratore o addirittura a tirare il freno perché glielo chiede Alfano.
Che il programma di governo debba essere puntuale e concordato riga per riga «siamo i primi a dirlo», spiegano i renziani. Ma questa non può diventare una scusa. Soprattutto, fanno notare, se dietro ci sono altri e meno nobili motivi. Che poi sono riassumibili nel timore di Alfano di rimanere fuori dai giochi. In particolare sembra che il leader di Ncd abbia cominciato a mostrare un certo nervosismo da quando Renzi ha cominciato a considerare il ministro Mario Lupi come suo vero (e in qualche caso unico) interlocutore dentro il Nuovo Centrodestra. «La verità è che Alfano ha paura di non rifare il ministro dell’Interno», si racconta dalle parti di Renzi. La questione insomma sarebbe assai prosaica e ovviamente legata al toto ministri che sta impazzando in queste ore. Una girandola di nomi da cui si stanno iniziando a scremare alcune certezze.
Colloqui fiorentini
A Firenze ieri c’è stato un gran via vai. Si sono visti in giro anche il patron di Tods Diego della Valle e il presidente di Medusa Carlo Rossella. In un posto tenuto abilmente nascosto (e lontano dai giornalisti che s’aggiravano attorno a Palazzo Vecchio) Renzi ha continuato colloqui e incontri. Ha visto lo scrittore Alessandro Baricco che ha declinato l’invito per il ministero della cultura pur spiegando che darà una mano, e l’ad di Luxottica Adriano Guerra per il quale sarebbe pronto il ministero dello Sviluppo. Al momento comunque i nomi che vengono considerati sicuri al cento per cento sono la giovane deputata Pd e responsabile riforme della segreteria Maria Elena Boschi che avrà, appunto, il ministero già di Quagliarello. E poi il ministro Graziano Delrio probabilmente sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, appunto Lupi e infine Emma Bonino confermata agli esteri dove Napolitano chiede continuità. Per Delrio ci sarebbe anche l’Interno ma qui è più gettonato Franceschini a meno che ovviamente non la spunti Alfano. Anche Luca Montezemolo è della partita o allo Sviluppo, se Guerra declinerà, o in un ruolo ad hoc. Tanto più per il ministero già di Zanonato, o più probabilmente per l’Economia, non va scartato il nome di Giampaolo Galli, l’economista portato in Parlamento da Bersani. Una nomina quindi eventualmente da considerarsi come segnale per la minoranza interna. Alla giustizia restano i nomi di Michele Vietti e Paola Severino ma s’aggiunge quello della giurista Livia Pomodoro presidente del Tribunale di Milano. In Scelta Civica c’è il derby fra la segretaria Giannini (istruzione) e il professore Ichino.

Il Sole 16.2.14
Il paradosso italiano nel ritorno di Berlusconi al Quirinale
di Stefano Folli


Il paradosso italiano è anche questo. Nei giorni in cui prende forma il governo dell'uomo nuovo, il "pié veloce" Renzi, al Quirinale si presenta per le consultazioni il simbolo del ventennio passato. Berlusconi non solo è un condannato in attesa di scontare i nove mesi della pena, ma è stato anche espulso dal Senato. Eppure egli è e resta il leader di Forza Italia, dimostra di sapere ancora come si raccoglie il consenso e da poco è diventato l'interlocutore privilegiato di Renzi sulle riforme istituzionali e la legge elettorale. Perciò guidava la delegazione del suo partito ed era legittimato a esser lì. Se non si coglie il paradosso, non si capisce il mistero italiano. Passato e presente s'intrecciano in forme insondabili. Il nuovo deve farsi strada scavando un tunnel nella complessità del sistema e le istituzioni sono un caleidoscopio che riflette questa "realtà romanzesca". Chi ha mancato di rispetto al capo dello Stato non salendo al Quirinale e chi è salito per mostrare al mondo di essere ancora in sella. Un tempo le consultazioni servivano a offrire aiuto e sostegno al presidente della Repubblica. Oggi servono ad altro.

il Fatto 16.2.14
Condannato e statista B. al Quirinale apre la strada a Renzi
di Fabrizio d’Esposito


Il Re e il Condannato. E la Pitonessa gode come una riccia. Dice Daniela Santanchè: “Ho visto Berlusconi fra due carabinieri. Non ci sono manette: sono sull’attenti e salutano. Il tempo è galantuomo”. A caldo, il racconto di Silvio Berlusconi al suo cerchio magico è un miscuglio strano. Gronda soddisfazione, gelo, imbarazzo: “Napolitano non ha avuto il coraggio di guardarmi negli occhi, ha tenuto lo sguardo basso e praticamente non ha detto nulla”. Diciotto minuti nella stessa stanza, B. e Giorgio Napolitano. Una formalità breve. Ma il tempo si dilata a seconda dei sentimenti. Soddisfazione, gelo, imbarazzo.
Dieci minuti di anticamera
Sabato 15 febbraio, alle sei e mezzo di sera. Berlusconi torna al Quirinale da pregiudicato. Dopo la condanna definitiva d’agosto, per frode fiscale. Dopo la decadenza di novembre da senatore, per la legge Severino. Dopo la mancata grazia motu proprio di Re Giorgio. Dopo, infine, le rivelazioni di lunedì scorso sul complotto estivo del 2011, per mettere Mario Monti a Palazzo Chigi. Il Condannato è arrivato senza il solito corteo di scorta. Due auto blu. Una per lui. Una per i capigruppo parlamentari di Forza Italia, Paolo Romani e Renato Brunetta. Le consultazioni lampo vanno comunque per le lunghe. Quanto basta per costringere B. e la sua corte a fare anticamera. Dieci minuti, fino alle 18 e 40, quando esce la delegazione di Sel, Nichi Vendola in testa. Poi entra Berlusconi. In cuor suo, B., avrebbe voluto affrontare a viso aperto Napolitano e persino polemizzare sulle sue vicende politico-giudiziarie (da Monti 2011, appunto, alla condanna e tutto il resto). Ma stavolta il pressing di falchi e colombe (in primis Gianni Letta) è stato unanime. Per la serie: “Silvio torni al Quirinale da statista, di nuovo centrale nel quadro politico. Non c’è nulla da aggiungere, credici”. E il Condannato si è attenuto al copione moderato. Ha parlato quasi solo lui. Il modo “irrituale” con cui si è aperta questa crisi, a causa della faide del Pd, e soprattutto la promessa di mantenere i patti con Renzi su riforma elettorale e istituzionale. In ogni caso, la sua sarà “un’opposizione responsabile”, oppure “patriottica”, secondo la Santanchè. Una volta fuori, il Condannato ha ripetuto ai cronisti il pistolotto mandato a memoria per Napolitano. Senza dimenticare, ovviamente, la raccomandazione di “ridurre l’oppressione giudiziaria”.
La voglia matta di abbracciare “Matteo”
In realtà, Berlusconi muore dalla voglia di abbracciare il governo Renzi. La tenaglia tra il Giovane Matteo e il Vecchio Silvio sarà la chiave per decifrare le fasi strategiche della nuova era, la prima dopo tre anni svincolata dal controllo totale del Napolitanistan. Il primo indizio riguarda le manovre del fiorentino Denis Verdini per aiutare l’amico sindaco in Senato ed emarginare gli odiati scissionisti del Nuovo Centrodestra. L’ipotesi di creare un gruppetto con dissidenti forzisti del sud, tra la Puglia e la Campania di Nicola Cosentino il Casalese, ancora in auge, ha scatenato polemiche e smentite dai senatori indicati ieri dal Fatto . Pippo Civati del Pd ha invece chiesto in mattinata una smentita a Renzi che è arrivata solo in serata da Lorenzo Guerini, portavoce della segreteria: “Nessun contatto tra Pd e Forza Italia”. Nessun contatto ufficiale. Quelli riservati però continuano. E sempre tra “Matteo” e “Denis”.
Dichiarazione d’amore/1: Alessandro Sallusti
Secondo la versione di un altissimo berlusconiano in grado “saranno Renzi e Berlusconi a determinare la durata della legislatura e a gestire la successione a Napolitano”. Di qui le dichiarazioni d’amore vergate dal Giornale e dal Foglio. Scrive Alessandro Sallusti, direttore del primo: “Un amico vero Renzi ce l’ha. Si chiama Silvio Berlusconi. A mio avviso solo uno sprovveduto può pensare che Renzi pensi di governare, o di riuscire a farlo, fino al 2018 ostaggio da una parte di Alfano e dall’altra di un fetta del suo partito che non vede l’ora di restituirgli pan per focaccia. Per operare sul campo gli serve altro, voti veri in Parlamento che nessuno dei suoi padrini può dargli. L’amico Berlusconi i voti li ha eccome, e sono certo che in caso di necessità ne farà buon uso”.
Dichiarazione d’amore/2: Giuliano Ferrara
L’Elefantino direttore del Foglio si prodiga invece in una serie di consigli, con tanto di bocca in lupo. Renzi è “self made man” modello Condannato. Il sunto della lettera aperta di Ferrara è questo: “Fa’ un governo di staff, con i tuoi, senza contrattazioni, se ha la fiducia bene, sennò si vota”. Magari a ottobre. Scommettiamo?

il Fatto 16.2.14
Ahi ahi Renzi, l’affare si complica
di Antonio Padellaro


TurboRenzi e i mostri della palude: la mitica striscia di Stefano Disegni potrebbe arricchirsi di una nuova impressionante avventura. Senza inventarsi nulla, la realtà basta e avanza. Abbiamo lasciato il fantastico sindaco di Firenze, nonché segretario Pd lanciato a velocità supersonica verso la soluzione lampo della crisi: addirittura domenica sera con la lista dei ministri in tasca, annunciava la stampa amica di Metropolis. Ma ecco che gli alfanoidi, avide creature dell’acquitrinio, gli impongono i loro voleri (più poltrone) e ne frenano la spinta propulsiva, mentre i nemici rottamati agiscono nell’ombra della sinistra assetati di vendetta. Solo l’anziano Caimano gli offre il suo aiuto. TurboRenzi cadrà nella trappola? Ma c’è davvero poco da scherzare con un Paese impantanato tra un governo che non c’è più e un governo che non c’è ancora e quasi nessuno ne ha capito bene la ragione. È un aspetto che Renzi farà bene a non sottovalutare. Il politico supermediatico che per un anno ha occupato militarmente giornali e tv per annunciare l’avvento del messia (egli stesso) e straordinari cambiamenti epocali, non è stato capace di comunicare il passaggio più importante della sua scalata al potere. Nella percezione della gente comune resta impressa una cupa manovra di partito ordita da un giovane capoclan per eliminare il rivale perfidamente logorato, giorno dopo giorno. Lo dicono anche i sondaggi che tolgono a Renzi qualche punto di popolarità. Vecchi pugnali e i soliti veleni: niente a che vedere con il rinnovamento della politica e con la fine del cannibalismo rituale della casta. Sicuramente oltre alla scelta dei ministri e alla declinazione del programma, il turbopremier dovrà molto presto spiegarsi con gli italiani e dare loro un motivo serio per ricredersi sulla morte della politica. Lui, che è stato votato alle primarie del Pd come l’ultima chance, questo lo sa bene. Certo non gli manca il sangue freddo. Ieri sera lo abbiamo visto nella tribuna dello stadio di Firenze che tifava l’amata Viola (che ha perso). Tranquillo e sereno, beato lui.

il Fatto 16.2.14
Renzi nella palude il no delle “figurine” , la minaccia di Alfano
A vuoto i colloqui fiorentini con lo scrittore Baricco e l’ad di Luxottica guerra
Ncd pone paletti e chiede poltrone: “da noi buona volontà, ma l’esito è incerto”
di Wanda Marra


Il Pd pensa che per superare questa difficile situazione sia necessario che il partito di maggioranza relativa metta a disposizione tutta la forza politica di cui dispone a cominciare dalla persona del suo segretario, Matteo Renzi”. La delegazione democratica esce dalle consultazioni al Quirinale e per bocca del capogruppo al Senato, Luigi Zanda, mette sul piatto la sua proposta. Che a ben guardare si condensa tutta in un nome. Quello, scontato, di Renzi. Dietro di lui Lorenzo Guerini, portavoce della segreteria Pd, mandato lì insieme ai due capigruppo (l’altro è Roberto Speranza, a capo dei deputati) affinché tutto andasse come doveva andare, sposta il peso da una gamba all’altra e guarda davanti a sé con aria impaziente. Lui, che per mettere a punto il governo ci sta lavorando, ha il suo daffare. Renzi è il rottamatore, il velocizzatore, il fenomeno. Ora anche il Salvatore della patria.
ANCHE i Turbo Renzi, però, nel loro piccolo ogni tanto s’incartano. E la giornata di ieri non è proprio delle più semplici. Renzi rimane rigorosamente a Firenze. Consultazioni informali con alcuni dei Leopolda boys, lo scrittore Alessandro Baricco e Andrea Guerra, ad Luxottica. Un modo per ribadire che lui con i riti stanchi della politica tradizionale non ha niente in comune. Ma non è così facile. E i colloqui fiorentini non vanno benissimo: Baricco esce e dichiara che lui il ministro non lo fa, anche se è disposto “a collaborare”. Guerra non dice niente, ma pare piuttosto difficile che decida di lasciare Luxottica per andare a guidare lo Sviluppo economico. A Firenze a un certo punto arriva Luca Lotti, dopo una riunione romana con Lorenzo Guerini. Da Reggio Emilia arriva Graziano Delrio, che sovrintende alle varie operazioni e cerca di comporre il gioco delle caselle. La task force renziana è a Firenze. Al Quirinale, intanto, sfilano le delegazioni. Alfano minaccia: “Diremo di no a una coalizione che si allarghi a sinistra”. E: “Siamo pronti a un nuovo governo, ma senza fretta”. Insomma, “da parte nostra c’è buona volontà ma l’esito è incerto”. Tradotto: Ncd vuole tenersi almeno tre ministeri, quello dello stesso Alfano agli Interni, la Lorenzin alla Salute, Lupi a Trasporti e Infrastrutture. E sa benissimo che allungare i tempi gioca a sfavore di Matteo. Spiega un renziano che si sta riflettendo se fare un governo in continuità, ovvero che lasci gli stessi ministri, oppure se cambiare la maggior parte della squadra. Sorge spontanea la domanda: se va così, Renzi voleva sostituire solo il premier? Fatto sta che non è così facile per lui non cedere ai ricatti di Ncd. Che vanno anche oltre. “Altro che ministri, dobbiamo decidere se ci stiamo. Domani (oggi, ndr) vedremo per la prima volta quelli che stanno lavorando al programma”, spiega Gaetano Quagliariello, che vuole un programma fino al 2018 concordato al dettaglio. Gli equilibri di potere sono tutti a favore di Renzi. Che però dalla palude ci deve almeno passare. Intanto Vendola chiarisce che l’appoggio di Sel “è fantapolitica”. Mentre Berlusconi parla di “opposizione responsabile”. E diventa sempre più chiaro che l’asse con Fi su legge elettorale e riforme e l’unico sul quale il quasi incaricato può contare. Come se non bastasse Civati e Casson minacciano la sfiducia e arrivano a paventare scissioni. Al Senato hanno 6 voti: non pochi in questa situazione. Intanto, tutti parlano di squadra forte e programma choc. Per ora, si vede poco. All’Economia Renzi vuole un politico, ma con buoni rapporti nel mondo delle banche. L’operazione Lucrezia Reichlin non si quaglia. Alla fine la scelta potrebbe ricadere su Fabrizio Barca. Per il lavoro è ancora in corsa Stefano Boeri.
POI ricominciano i guai: alla Giustizia? Ci vuole un profilo che piaccia al Colle e alla destra. E dopo le resistenze di Andrea Orlando, che preferirebbe rimanere all’Ambiente, si fa strada Dario Franceschini. Agli Affari regionali ci potrebbe andare Vasco Errani, uno degli uomini più vicini a Bersani. Inamovibili la Boschi alle Riforme e Delrio come sottosegretario alla Presidenza del Consiglio. L’idea di portare Luca Cordero di Montezemolo a un ministero per il Made in Italy (l’idea fu già di Berlusconi) sembra più suggestiva che realizzabile. Ieri sera Matteo (in attesa dell’incarico oggi o domani) se ne va a vedere Fiorentina-Inter. Un break da trattative, mediazioni e bluff. Sperando che un colpo d’ala eviti di trasformare l’attimo fuggente in attimo sfuggente.

Corriere 16.2.14
«Lo chiamavano il Bomba, le sparava grosse»
Quando Renzi al liceo voleva cacciare Forlani
Le battute, il look, gli scout. La carriera costruita (sin da piccolo) sulla guerra all’establishment
di Aldo Cazzullo

qui

Repubblica 16.2.14
Matteo e il suo “altrove” così Firenze diventa rifugio dalle trame del Palazzo
“Se sento parlare di rimpasto scappo dalla mia gente”
di Filippo Ceccarelli


SPERO di non diventare mai la parodia di me stesso» scriveva meno di un anno fa Matteo Renzi in un libro, Oltre la rottamazione (Mondadori, maggio 2013), che riletto con il senno di poi dovrebbe suscitargli oggi, in eguale misura, orgoglioso conforto e mesto imbarazzo.
L'IMBARAZZO, tanto vale partire da quest’ultimo, straborda dalle pagine 28-31, laddove con l'aggravante di un brioso autobiografismo, come al solito con un linguaggio chiaro, baldanzoso e pure un po' pop, Renzi promette lealtà al povero Letta, e insomma se nella vecchia e lurida politica il mors tua vita mea era la regola, adesso lui, Matteo, dice: «No, grazie. È uno stile che non mi appartiene. Sarà una mia beata ingenuità, ma credo che essere leali non soltanto sia eticamente giusto. Ma sia anche conveniente. Non è solo per amicizia personale verso Enrico Letta che mai accetterei di fare il segretario del Pd per avere in mano la vita o la morte del suo governo ».
E via per quattro pagine, ma siccome i libri, fino a prova contraria, valgono più di twitter e dei ritagli di giornale c'è da trasecolare rileggendo: «Io sono fatto in modo diverso», per cui «faccio il tifo per Enrico», «spero che questo governo duri, duri il più possibile », «se mi capiterà mai di salire le scale di Palazzo Chigi, questo avverrà attraverso la strada maestra della vittoria elettorale, non in altro modo» e «basta con il derby dei personalismi per cui siamo tutti amici e poi basta girare per trovarsi una coltellata alle spalle». E così, ottenuta l'ennesima conferma che i libri dei politici vanno presi con le pinze e che comunque “mai dire mai”, nell'agevole testo si trova però anche la spiegazione del perché, proprio nel momento in cui sta per ricevere l’incarico, Renzi abbia scelto di starsene ben lontano da Roma, si direbbe nell'Altrove, asserragliato in quella Firenze che mai come in questi giorni ha imparato a sentire tanto più sua quanto più gli ha finora consentito di «riportare la politica alla vita di tutti i giorni», e quindi – non è cosa da poco – di essere e rimanere se stesso.
Si perdoni qui l'ermeneutica pedanteria, ma il motivo di orgoglioso conforto arriva a pagina 48. Quando l'imminente premier, nell'osservare gli altri politici alle prese con gli affari del potere, scrive (o forse detta a qualcuno): «Voglio credere che non fossero aridi alla mia età. Voglio pensare che si siano ridotti così solo perché il troppo tempo passato in politica li ha segnati. Mi dico che non voglio finire così. Non voglio fra trent'anni stare sulla scena politica solo per avere una qualsiasi soluzione che vada bene per me. Spero solo di accorgermene prima di diventare ridicolo. Che ci sia al mio fianco qualche amico capace di fermarmi prima che diventi la parodia di me stesso».
È possibile che nel suo timing Renzi si sia spinto troppo in là nel tempo, trent'anni invece di qualche mese – così come si spera abbia capito che nel peggiorare gli individui il potere corre più veloce di lui. Ed è qui che assume un significato la fuga o meglio l'importanza che egli si ostina a dare a Firenze: ieri l'impegno municipale che l'ha reso differente da tutti gli altri “politicanti” della Seconda Repubblica, ora lo sforzo di non dimenticare l'amministrazione concreta, la salutare distanza dal palazzi romani il rapporto con i cittadini, le loro rabbie, le loro allegrie, insomma il vissuto di un leader che più dei capricci di Alfano, del caos di Scelta civica o delle trame dei Giovani Turchi è stato finora costretto a misurarsi con mille faccende minute e grandiose, l'allargamento dell'area pedonale, la piccola mendicante di viale Belfiore, gli impicci sull'aeroporto o la laboriosa cancellazione delle scritte sulle mura degli Uffizi.
E il maltempo, i vecchietti, le palestre, i vigili, il Maggio, i turisti, la partita della Fiorentina con la sciarpa al collo (ieri sera era allo stadio per assistere alla sconfitta della Viola contro l’Inter) le strette di mano e le proteste animose e insieme protettive cui dover far fronte, per strada, senza scorta. L'aneddoto di Rita, ad esempio, si spera non inventato da qualcheghost-writer, una signora scelta come personificazione dello spirito fiorentino, che durante le primarie incontra Renzi e gliene dice di tutti i colori, ma quando uno dei giornalisti al seguito rimarca la cosa, Rita si ribella: «Fermo lì, te. Come ti permetti? Il mio sindachino me l'offendo da sola!» Qualcosa di incomparabile a ciò che Bologna rappresentava per Prodi, o villa La Certosa per Berlusconi.
La città del giglio come rifugio, sollievo, marcatrice di estraneità, risorsa di purificazione, anche fisica, a livello di terapia addirittura, «quando sento parlare di rimpasto mi vengono tutte le bolle e allora scappo a Firenze, in mezzo alla gente...». Firenze magnifica e iraconda, elegante e becera, cosmopolita e provinciale. Come al solito non s'inventa nulla, e la si scopre meglio quando viene meno: “così bello viver di cittadini, così fida cittadinanza, così dolce ostello” (Paradiso, XV).
«Una piccola e povera città», l'insultò a suo tempo Marchionne, e il sindaco nel suo libro gli rispose con le parole di una signora al mercato di San Lorenzo: «Noi s'è fatto il Rinascimento, lui gli ha fatto la Duna!». Sennonché, giusto l'altro ieri sera anche Berlusconi dalla Sardegna se n'è uscito pure lui con la storia che al governo andrà il sindaco di una «piccola città» - e Renzi però stavolta zitto. Il potere fa già, e pure, di questi scherzi.

il Fatto 16.2.14
Futurismo del bullo Rissa di quartiere
The Wolf of Pd, contro i figli di papà e il nipote di zio
di Daniela Ranieri


Dunque faceva sul serio, il giovane spavaldo vestito da giovane. Il suo futurismo da videogame ha dato i suoi frutti: la retorica velocista è diventata solubile, e il 39enne ha bruciato gli ultimi livelli della sua ascesa, conseguita con una gavetta dura tra veleni e insidie. È chiaro che l’onda su cui viaggia non è più solo quella delle primarie: 2 milioni di persone sono tante, ma sono sempre un quarto di quelle che hanno visto il film di Checco Zalone. La polarizzazione degli entusiasmi sulla sua persona è l’eterno scintillio del carisma che ritorna; la rottamazione è un gioco cruento a vite limitate. Nello sparatutto non distingue tra nemici e fuoco amico.
IL SENATO sarà colpito e affondato. La politica è movimento, puro divenire, e non ci si bagna mai nella stessa palude. Ma non ci aspettavamo un abbrivio così brusco: al cospetto del mite, immobile Letta, Renzi ha preso il joystick in mano e ha sfoderato un gesto d’imperio, una manovra ruvida tra lo sfondamento e lo scasso con destrezza. Le femmine sono arrossite, i maschi hanno bagnato le penne. È salito sul leggio e quando ne è sceso aveva destituito un premier che fino a due giorni prima stava salvando l’Italia. Contro il congegno eterno della Provvidenza, The Wolf of Pd ha attivato il motore dell’ambizione smisurata, che solo la sua ambizione smisurata gli ha consentito di far passare per amor di patria. Ha citato Whitman, ma forse il film che lo cita, ma forse lo spot della Apple che cita il film che gira in questi giorni. E anche la parresia dei cinici, il mostrarsi nudi per evitare che siano gli altri a farlo. In questo bravissimo: la franchezza dichiarata, tra tutte, è l’arma più potente per manipolare qualcuno. Ha colto l’attimo. Ha fatto la volpe con la volpe. Non ne sbaglia una. Come Madonna. Come Fiorello. Certo ha la lingua sciolta, i tempi comici e un repertorio di risposte, tutte giuste. “Di tattica si muore”, disse, e infatti lui ha lavorato di strategia, da conquistatore, spacciandola per improvvisazione. È odiosamente simpatico, studiatamente impulsivo, e strappa sorrisi con trasgressioni da oratorio. Mentre scherza, dà a intendere che la ricetta ce l’ha ma non la enuncia per non annoiare. Fa politica estrema, disciplina al limite tra il free climbing e il bunjee jumping, attività da cardiopalma che rilascia endorfine e adrenalina ma che può portare a paralisi, epilessia, psicosi, nevrosi importanti. Va in tv col Mac, versione 2.0 del contratto con gli italiani; beffa la Programmazione neurolinguistica con un linguaggio da pubblicitario che convince i giovani e piace agli anziani. Quanto nella sua smania si celi dell’impeto byroniano e quanto, invece, della volontà di prepotenza che altri e più disinibiti ci hanno fatto conoscere, ancora non si sa. È tutto avvolto nel mistero di un futuro che è talmente vicino che può cambiare in corso d’opera: il giorno prima #enricostaisereno, il giorno dopo… È il nostro uomo. Si trattava di infierire sul cadavere della Seconda Repubblica bis, oppure aprire la porta al demiurgo che, dopo ciarlatani, venditori di fumo e preti con l’olio, dicesse d’un botto: ora te lo rimetto in piedi, sto Lazzaro. Emoziona e fa sperare, questo figlio della provincia con la s blesa e il corpo che ringiovanisce. Non ci sentiamo scemi a parlare della “sua” Smart: l’alternativa è parlare di Dudù. Con lui la politica è ormai pura fenomenologia del presente, i tempi morti un salvaschermo cretino. Ci fa preoccupare: persino i più scettici volevano che non si bruciasse. Renzi tribuno del popolo, depositario di investimenti, scommesse e voglia di riscatto, che mentre distrugge fa i rumori con la bocca. È come assistere alla rissa tra lo spavaldo e i ragazzi dei quartieri alti: sul bullo non punteremmo una lira, ma vedendolo lottare ne intuiamo la natura generosa, un’ombra di onore, e cominciamo a tifare per lui contro i figli di papà (o nipoti di zio) con la bicicletta lucente.
NEGLI OCCHI ci brilla la sete di sangue: picchia duro, Matteo, da’ una lezione a questi privilegiati. Certo, avremmo preferito che il bullo battesse i cattivi sul piano politico, mediante estrazione del bastoncino più corto. Ma ci dà alla testa il nostro sadismo vicario, dopo anni in cui siamo stati vittime consenzienti di torbide manovre. Il vero problema è uno: nel futuro raggiunto su razzi-missili, il programma di governo non c’è, o non si è ancora capito. Si sa che c’è un Job Act, ma la riforma elettorale stilata col bullo anziano e pregiudicato lo ha scalzato dall’avanguardia. Le donne della segreteria vanno in tv ma non spiegano niente se non la loro pura presenza. I maschi s’avanzano in qualità di bracci destri, soci fedeli, vice-qualcosa, grandi nomi e guru. Di certo per ora c’è solo che è riuscito a diventare il presidente del Consiglio più giovane della Storia d’Italia, battendo il futurista Mussolini del ’22 per soli due mesi.

il Fatto 16.2.14
su Formiche.net
Macaluso “Al governo per le nomine di Stato”
Renzi al governo? Ci va per piazzare gli amici”


Ci va giù duro Emanuele Macaluso, “grande vecchio” del Pci, storico amico del presidente Napolitano. In un’intervista al quotidiano web Formiche.net  , indica tre ragioni per spiegare il rapido defenestramento di Enrico Letta: la prima è il mantenimento del doppio incarico, governo e Pd, in modo da poter “scegliere quando interrompere la legislatura e promuovere nuove elezioni”. “La seconda motivazione attiene al timore di un logoramento inesorabile del Pd e della propria leadership”. La terza ragione sembra essere quella più scabrosa: “Nelle prossime settimane - spiega Macaluso - bisognerà procedere a circa 50 nomine dei vertici di grandi aziende pubbliche, tra cui Eni, Enel, Poste ”. “È partita una corsa - aggiunge Macaluso - che Renzi non poteva lasciare nelle mani di Letta. ”Nell’ambizione sfrenata a governare - osserva l’ex direttore dell’Unità - rientra la voglia di protagonismo nell’imminente stagione di designazione dei ‘manager di Stato’”. Renzi, insomma, “vuole governare anche organizzando il potere diffuso nei gangli economici”. Alla domanda se il sindaco voglia “rottamare” anche il Presidente della Repubblica, la risposta è ambigua: “Napolitano ha governato una fase che oggi ha assunto una nuova connotazione politica grazie all’iniziativa intrapresa da Renzi. Lui stesso ha più volte spiegato che è tornato al Quirinale per accompagnare e garantire il percorso di riforme a partire dalla legge elettorale. Dopodiché rassegnerà le dimissioni”.

il Fatto 16.2.14
Amicizie sospette
E da Firenze parla l’avversario Galli: “Verdini mi tradì per farlo vincere”
I sospetti del portiere “Denis mi consegnò a Matteo”
Parla Galli, consigliere d’opposizione a Firenze: “Controllate gli appalti”
L’ex numero uno della Nazionale, candidato sindaco di Firenze per la destra: “nel 2009 per la prima volta eravamo arrivati al ballottaggio, ma i miei mi lasciarono solo”
Sergio Staino: Il disegnatore satirico non ama il rottamatore
“Per colpa sua continueranno ad avanzare i Cinque Stelle”
di Davide Vecchi


Verdini? L’ultima volta l’ho sentito nel 2009, il giorno del ballottaggio. E mi creda: lui è uno concreto, quindi si vede che in questi anni non gli è più servito parlare con me, parlerà con qualcuno di più importante del sottoscritto dentro Palazzo Vecchio”. Per ricostruire il rapporto di oggi tra Matteo Renzi e Denis Verdini si deve tornare lì, a quel 2009. In questi ultimi mesi i due si sono più volte incontrati di lunedì sera, hanno mediato per definire la nuova legge elettorale e ora tentano di plasmare una maggioranza che in aula possa sostenere Renzi ed evitargli l’immobilismo legislativo che ha afflitto l’esecutivo Letta. Verdini, inoltre, ha rivelato Fabrizio d’Esposito ieri su questo giornale, ha coinvolto l’amico Nicola Cosentino per creare in Senato un gruppetto di sicurezza nel centrodestra che sostenga il Governo Renzi sempre, a prescindere dagli umori tattici di Ncd. Così mentre nel Pd Pippo Civati minaccia problemi proprio a seguito delle notizie sul patto Renzi-Verdini, il sindaco segretario quasi premier coprirebbe la falla grazie al fu nemico.
I DUE SI SONO conosciuti nel 2008. Ma la scintilla, racconta chi c’era, è scoccata solo un anno dopo e con precisione l’ultima settimana del ballottaggio per le amministrative tra Giovanni Galli, candidato sindaco per il centrodestra, e Renzi. “Verdini l’ultima volta l’ho sentito il 20 giugno”, ricorda Galli. “Mi aveva scelto lui, io feci una lista civica , mi portò anche a Palazzo Grazioli da Silvio Berlusconi poi, dopo il ballottaggio il silenzio: ho cercato di parlargli all’inizio; gli dicevo ‘abbiamo fatto un ottimo risultato ora lavoriamo per vincere nel 2014; risposte? Zero”. E allora, racconta Galli, “ho cominciato a farmi qualche domanda”. E a cercare risposte. In vista del primo turno per sostenere la sua candidatura a Firenze arrivarono tutti, da Altero Matteoli a Berlusconi. Per il ballottaggio “venne solo Brunetta; ma come: mai nessuno prima era riuscito a costringere il centrosinistra al ballottaggio e nel momento di accelerare loro frenano? In quegli ultimi giorni per Renzi arrivarono Prodi, Veltroni, persino Massimo D’Alema; io? Abbandonato”. Galli tira le somme: “Forse i miei davano per scontata la sconfitta al primo turno”.
Renzi era un anonimo presidente di Provincia accomodato lì dai suoi padri politici: Francesco Rutelli e Lapo Pistelli in particolare. Si fa largo a spallate, allora come oggi. E costringe il partito a sostenerne la candidatura: alle primarie sfida Pistelli e Ventura. Li batte a mani basse. Ma fino a quel momento Verdini lo osserva, “lo annusa, lo studia”. Poi cominciano a simpatizzare. “La vecchia strategia della sinistra - sintetizza Sergio Staino - che scandisce i tempi della sconfitta: ‘ignori il nemico, lo minimizzi, poi lo combatti ma scopri che è troppo tardi e allora ti ci allei”. Staino è decisamente critico con Renzi. “Io sono terrorizzato dall’avanzata dei Cinque Stelle che avverrà anche a causa di Renzi, uno che dopo aver parlato di trasparenza, rottamazione, innovazione si mette a fare manovre bieche da democristiani della prima Repubblica; allora significa che sei anche una persona falsa”. Dei rapporti tra Renzi e Verdini però, Staino dice di non sapere nulla. “Ci mancherebbe anche questa; certo è che Renzi crede di poter riuscire a fare ciò in cui Letta ha fallito. Ma il governo mica se lo può fare da solo, speriamo bene”.
Negano l’esistenza di qualsiasi tipo di rapporti anche alcuni degli uomini più fidati di Renzi.
ANCHE QUELLI negli anni scaricati dal sindaco. Come dice il presidente del Consiglio comunale e futuro sottosegretario nell’esecutivo renziano, Eugenio Giani, “Matteo non ha mai lasciato dietro di se né feriti né prigionieri”. Che tradotto significa: nessuno dirà mai nulla.
Quello di Renzi appare come un esercito di terracotta, puoi torturarli ma se la consegna è il silenzio otterrai solo silenzio. Ora poi che dall’ufficio del sindaco gli scatoloni escono per andare a Palazzo Chigi, a nessuno verrebbe in mente di sbarrarsi da solo una possibile discesa nei Palazzi romani. “Rischi che io non corro”, dice Galli. “Io sono l’unico o quasi all’opposizione in Comune dal 2009, guardo l’ascesa di Renzi, questo rapporto con Verdini e ripasso mentalmente quanto è accaduto in questi anni”. Cosa? “Bè, pensiamo ai lavori pubblici e a chi erano stati assegnati, quali imprenditori interessavano? L’area Castello era Ligresti, la Caserma dei Marescialli era Fusi. Qualcuno venne anche arrestato. Poi Tramvia, Etruria, Tav... Il dubbio a questo punto è più che lecito: solo il dubbio, per carità”. E perché Verdini “non ha ancora scelto il candidato sindaco di Firenze per sfidare il renziano Dario Nardella? Doveva decidere entro il 31 gennaio, ancora niente”. Magari perché anche nel Pd nulla è deciso? Per carità “se Renzi al governo fa bene io son solo contento, perché se sbaglia si muore tutti”. E Verdini, dice, “è bravo a fare il suo mestiere”.

il Fatto 16.2.14
Twitter amari
“#Enricostaisereno, grattati”
di Marcello Longo


La sorte di Enrico Letta era già nota ai frequentatori di Twitter. Almeno dal 17 gennaio, quando Matteo Renzi, ospite de Le Invasioni Barbariche su La7, suggerisce al premier di non preoccuparsi e non temere scalate alla sua poltrona di Palazzo Chigi. Il segretario Pd lancia in diretta l’hashtag #Enricostaisereno. In poche ore, la ti-meline del social network si riempie di ironia. Qualcuno in rete immagina già l’epilogo. Un poetico @GioMantoan parafrasa Ungaretti: “Si sta come d’inverno #Letta al governo”. Un altro preferisce le fiabe: “Che bocca grande che hai. #Enricostaisereno, rispose il lupo vestito da nonna”. Claudia è più esplicita: “#Enricostaisereno, un corno”. Seguono in tanti: “Che poi lo sanno tutti la fine che ha fatto sereno. O forse era tranquillo”, “#Enricostaisereno e variabile”, “Stai sereno e goditi le ultime ore da premier”, “Enrico, faccio solo un inciucio con Berlusconi e torno da te, forse”. Qualcuno si ispira a una nota pubblicità della camomilla: “Notti calde sogni belli, filtro-fiore Renzicelli”. Il più scaramantico: “#Enricostaisereno, grattati”. La fantasia non manca. Gli appassionati dei messaggi in 140 caratteri hanno intuito la trappola. La spiega @VujaBoskov con una metafora calcistica: “Ho sentito tante volte dire agli allenatori di stare sereni, poi cacciati la giornata dopo”. I tweet si moltiplicano, il flusso dei messaggi ironici s’ingrossa il giorno dopo con il faccia a faccia al Nazareno fra Matteo Renzi e Silvio Berlusconi.
LA RETE insiste: “#Enricostaisereno, più ti agiti più ti fa male”, “Ci pensa la zio alla legge elettorale”, “Non sentirai niente, solo un leggero pizzicare”. Passano i giorni, l’hashtag #Enricostaisereno perde quota, scavalcato da altri trending topic, gli argomenti più discussi. Ma la rete, si sa, ha una memoria lunga, le tracce rimangono. Così, quando cresce l’ipotesi di una staffetta a Palazzo Chigi fra Letta e Renzi, il tam tam riparte. L’occasione è il discorso del premier, la presentazione del programma “Impegno Italia”. Letta non si dimette e lancia il suo hashtag, che si diffonde in rete in due varianti: #iosonosereno e #iosonoserenoanzizen. Nel flusso di Twitter, la parola chiave di Letta si mescola con altri hashtag: #staffetta, #impegnoitalia, #zen. Ma, soprattutto, riporta in auge il vecchio #Enricostaisereno del 17 gennaio. L’ironia è ancora il denominatore comune. “#Iosonosereno, tu sei sereno, egli è sereno. Che tempo è? Tempo di levare le tende”. La staffetta si avvicina, @AlanLogan si pone una domanda legittima: “Se vedeste Letta che insegue Renzi brandendo un bastone, direste che è una #staffetta?”. Nella guerra degli hashtag interviene il M5S: Beppe Grillo lancia #CoeRenzie, contro il rapido cambio d’opinione di Matteo Renzi. Finite le consultazioni al Quirinale, la rete aspetta i nuovi hashtag. L’ultima citazione se la merita l’utente@ldigregorio. In 140 caratteri ha svelato l’arcano: “L’hashtag originale era #enricostaiserenoperunmese ma era troppo lungo. Ergo, #enricostaisereno”.

il Fatto 16.2.14
LeccaRenzi L’amore a mezzo stampa
Marinetti, Velardi e altri renziani in love
di M. Pa.


Noi vogliamo cantar l’amore del pericolo, l’abitudine all’energia e alla temerità”. Il manifesto del movimento futurista di Filippo Tommaso Marinetti, come si vede, è renziano. È, per così dire, in buona compagnia visto che l’intera stampa italiana - con qualche eccezione in via di guarigione - ama Matteo d’un amore purissimo che ha molto a che fare con l’ebrezza della velocità: l’era dei bravi ragazzi è finita, ora c’è il monello, sboccato e pericoloso, che vuole tutto e subito.
Lui lo sa. “Mentre noi e i nostri colleghi ci attardiamo nei riti eterni dell’analisi, là fuori ribolle la rabbia del ceto medio e la protesta sociale sale. La fretta di Renzi è l’urgenza dell’Italia”. (Fabrizio Rondolino, già nello staff di D’Alema, Italia Oggi)
Lui doveva. “Che i politici dicano una cosa e ne facciano un'altra è del tutto normale. Renzi ha cambiato idea su palazzo Chigi perché ha capito che non avrebbe avuto la riforma elettorale. È stata una mossa dovuta. Il problema delle crisi di sistema è che si risolvono solo con una leadership autorevole”. “Farà una sparata nei primi giorni di governo che non avete manco idea” (Claudio Velar-di, altro ex collaboratore di D’Alema, a Matrix)
Lui non voleva. “Due settimane fa non pensava che la situazione precipitasse così in fretta. Hanno influito, certo, le pressioni delle forze sociali (...) Un allarme che Renzi si è sentito ripetere ieri anche da interlocutori che non entreranno al governo” (Aldo Cazzullo, Corriere della Sera)
Ricordati degli amici. “In realtà un amico vero Renzi ce l’ha. Si chiama Silvio Berlusconi, al quale la malasorte aveva assegnato il fratello venuto male di Renzi : Angiolino Alfano da Agrigento, un tontolone (tutto quello che tocca va a ramengo) che con la sinistra, a differenza di Matteo, si trova benissimo (Alessandro Sallusti, Il Giornale, che denuncia pure - con Paolo Guzzanti - denuncia pure la “prepotenza tedesca” che “dà già gli ordini a Matteo l’amerikano”)
La Pravda. “È la sua qualità migliore, la più pericolosa, la meno italiana perché l’ambizione esibita è peccato mortale nella patria dei falsi umili”. “L’ambizione esibita ha difetti vistosi che forse oggi servono all’Italia più dei meriti oscuri”. “Anche Spadolini fu toscanaccio come lo è Matteo e non toscanuccio come Enrico Letta” (Francesco Merlo, la Repubblica , che è un po’ la Pravda renziana. Va detto che Merlo un po’ fa fatica con la natura antropologica del soggetto: “Renzi si fa le lampade”)
La tauromachia. “Per i giovani subito 200mila nuovi contratti”: “Già circolano dossier e tabelle, corredati di analisi e proiezioni realizzate da università straniere con specifici focus”; “stando a uno studio di un’università bostoniana”; “gigantesca battaglia”, “obiettivo titanico”; “non sarà secondario lo sforzo, anche quello titanico, per dotare la nazione tutta di una vera banda larga (Carlo Bertini, La Stampa)
Trailer holliwoodiano.
Demolition man, lo scout che s’è fatto generale, il bambino-adulto che ha tirato una spallata improvvisa e micidiale al sistema, si aggiusta la cravatta viola e allarga le dita come se volesse abbracciare uno a uno gli uomini e le donne che ha davanti”. Poi Renzi parla. “Applauso. Trombe. Demolition man si rilassa” (Andrea Malaguti, La Stampa)

Corriere 16.2.14
Bondi-Repetti e il fascino del sindaco: «Coraggioso e liberale»
I senatori azzurri tifano per l’astensione: «Ha riconosciuto la leadership di Silvio»
di Fabrizio Roncone


«Vuol sapere cosa penso di Matteo Renzi?».
Segue pausa, con sospiro profondo.
Potete immaginare, il personaggio è noto: l’aria un po’ curiale, la voce soffice del mediatore berlusconiano, struggenti poesie scritte per hobby. Ma la proverbiale mitezza di Sandro Bondi, adesso, sembra schiacciata, sopraffatta dall’amarezza (gli scontri avvenuti dentro il Pdl, prima e dopo il ritorno di Forza Italia, sono stati particolarmente aspri e, talvolta, simili a risse).
«Penso che se davvero, come appare probabile, Renzi farà ingresso a Palazzo Chigi, Forza Italia ha la straordinaria occasione di condurre un’opposizione intelligente: decisa e severa quando serve, ma anche collaborativa se sarà possibile agire per il bene degli italiani».
Due giorni fa, lei ha già detto: dobbiamo smetterla con «un’opposizione alla Santanché».
«L’opposizione di propaganda, gridata, a mio parere deve cessare. Con Renzi è giunto il momento di un confronto reale, su contenuti reali. Renzi è innegabilmente un fenomeno nuovo, un uomo che sembra voler puntare diritto ai risultati».
A Novi Ligure è un pomeriggio di pioggia. Manuela Repetti e suo marito Sandro Bondi, senatrice e senatore di Fi, sono rimasti in casa. Si sente un cane abbaiare. «È Grisbì. L’abbiamo chiamato così perché il colore del suo pelo è come quello di certi biscotti...» (questa, ora, è la voce della Repetti; Bondi le ha ripassato il telefonino: «Come avrà capito ho poca voglia di parlare... ma resto qui accanto, vi ascolto volentieri» ).
Ci sono giorni simili ai nostri anche in casa dei politici. Bisogna piegare i maglioni, controllare la dispensa. Tivù accesa, le dirette dal Quirinale, consultazioni, pensieri sul governo che verrà.
Lei e suo marito, senatrice Repetti, che pure siete ritenuti tra i berlusconiani più fedeli, avete accolto il probabile arrivo di Renzi a Palazzo Chigi con sorprendente benevolenza...
«Sorprendente, scusi, perché?».
Beh...
«Guardi, le dico: sa cosa mi piace di Renzi? Il coraggio. Certo, lo so, ad alcuni può apparire spregiudicato. Invece è solo coraggioso e trasparente nell’esserlo. Tutto questo, ovviamente, non lo rende ipocrita: e sappiamo bene quanto l’ipocrisia sia uno dei mali peggiori della vecchia politica...».
Siamo al santino.
«È la verità, piaccia o no: e a certi, come s’è capito, forse non piace del tutto. Qua e là, io e Sandro abbiamo letto e sentito che Enrico Letta sarebbe stato vittima di Renzi... Ma scherziamo? Renzi ha solo capito quanto immobile fosse l’esecutivo guidato da Letta e, accettando un bel rischio, ha avuto la forza di prendere in mano la situazione. Letta è solo vittima di se stesso. Ha avuto una grande occasione, e l’ha sprecata. Punto».
Non pochi osservatori rimproverano a Renzi di aver rimesso Silvio Berlusconi, un condannato in via definitiva, al centro della scena politica...
(Adesso si sente la voce bassa, come un soffio, di Bondi, che dice qualcosa. Manuela Repetti tace per un momento: c’è un punto, preciso, su cui entrambi concordano ).
«Renzi ha il merito, a nostro parere, di aver finalmente riconosciuto la leadership di Berlusconi. Una leadership che certa sinistra, per anni e anni, aveva faticato ad ammettere. E poi non c’è solo questo: a noi piace molto anche il Renzi che dimostra di essere un liberale, un liberale che, come dice Berlusconi, è inserito a sinistra. Ed è lì, a sinistra, che noi speriamo riesca a liberarsi dai tanti lacci che bloccano la crescita di questo Paese, a cominciare, ovviamente, dai lacci del sindacato...».
Ascoltate queste parole, non deve stupire che, l’altro giorno, Manuela Repetti si sia spinta a immaginare, nel caso d’un voto di fiducia, l’astensione del suo partito. Non ha cambiato idea. «Dirgli di no, a priori, mi sembrerebbe ingiusto, sarebbe un miope sfoggio di pregiudizio». Naturalmente, aggiunge, «su Renzi alla fine deciderà, come sempre, il Presidente Berlusconi... il quale, comunque, nutre per Renzi una grande, sincera simpatia».
Questa chiacchierata telefonica volge al termine. Sembra che a Novi il cielo si stia un poco aprendo, e quindi per Grisbì — che continua ad abbaiare — si prospetta la possibilità di una passeggiata.
Però un’ultima cosa vuole dirla Sandro Bondi.
È un consiglio affettuoso per Renzi, detto da chi, essendo stato a lungo parlamentare e ministro, conosce bene Palazzo Chigi e certe paludose zone lì intorno.
«Matteo ha un solo modo per salvarsi dalle sabbie mobili della politica italiana: deve correrci sopra. Dev’essere velocissimo. Solo così non verrà risucchiato».

il Fatto 16.2.14
Crisi di paese
Rivoluzione d’interni (e senza popolo) in corso
di Furio Colombo


Caro Furio Colombo, per prima cosa le chiedo che cosa pensa di questa " marcia forzosa " di Renzi verso la Presidenza. Fra qualche ora avremo il verdetto, ma sono certo che lei avrà notizie molto più vere e analisi più profonde di quel che si apprende a mezzo stampa. Marco Caruso
Gravi fatti avvengono e dicono in tanti modi che c’è una rivoluzione in corso. C’è il rifiuto di accettare le istituzioni anche all’interno delle istituzioni. C’è una proclamata volontà di spezzare i legami, svincolandosi da tutti i limiti (leggi, regolamenti, prassi, Costituzione).
Nessuno ne sa di più, neppure fra coloro che erano presenti nella stanza del Destino (detta anche Direzione del Partito democratico), non coloro che hanno parlato come leggendo un foglietto unico distribuito prima, o quelli che hanno taciuto e poi votato insieme l’estromissione del modesto ma fedele governo in carica, non si sa per conto di chi o per le ragioni di che cosa.
Quel che sappiamo è ciò che vediamo, e che i giornali raccontano, per prudenza, in capitoli separati, come se fossero storie diverse che per caso convergono. Ma, se letti insieme od osservati di seguito, questi fatti sono senza dubbio rivoluzionari, in una versione anarcoide piuttosto che ideologica. Il compito di questa rivoluzione non è un mondo nuovo, per quanto idealizzato o impossibile. Il compito è spazzare via il prima, comunque. Vi si impegnano leader che vengono da un lato e dall’altro della storia, tutti dentro lo spazio istituzionale che – prima del disastro – i cittadini consideravano “il potere” o per elezione o per nomina. Ma in questa scena niente conta niente. Il dovere (interpretato da diversi punti di vista, con storie diverse e mezzi più o meno adeguati) sembra la necessità di considerare il fattore tempo essenziale: adesso, subito.
FARE PRESTO vuol dire vincere. Vincere cosa? Ti guardi intorno e noti il fatto unico di questa rivoluzione: non c’è popolo. È una rivoluzione da Camera (o da Senato, o da Palazzi alti). Fuori, un popolo abbandonato non c’entra, non conta, aspetta, e non è lambito dalla rivoluzione. Serpeggia, diffusa e più pericolosa di un incitamento alle barricate, la persuasione che quel mettersi le mani addosso nelle stanze affrescate, quello sbugiardare alle tre del pomeriggio il governo lodato e votato alle dodici, quel identificare l’istituzione più alta (purtroppo con la sua partecipazione) prima nella fonte assoluta del bene, poi nel colpevole, che tutto ciò riguardi solo i protagonisti.
Basta aspettare e vedere chi uscirà vivo e degno di attenzione, dalla rivoluzione in interni. Esaminata caso per caso, la vicenda si complica, non si chiarisce. Per esempio, il rifiuto di partecipare alle consultazioni è ridicolo quando riguarda la Lega, che voleva solo far cagnara con i suoi pochi e disperati elettori e non avrebbe mai dovuto avere avuto il riscontro di una dichiarazione presidenziale “che si rammarica”. Rammaricarsi con Salvini, sapendo che è il partito di Borghezio, è certamente un errore che aggrava la confusione.
Ma è sbagliato chiamarsi fuori per i Cinque Stelle, che sono tanti, rappresentano tanti, e in nome del voto chiesto (proprio per questo lavoro) e ricevuto, devono (devono) ascoltare e parlare e riferire.
Arriva invece Berlusconi, e qui avviene una confusione che pure dovrebbe essere facile da chiarire. La condanna non annulla milioni di voti. Giusto. Ma è vero anche il contrario: milioni di voti non annullano la condanna definitiva che prevede espulsione dai pubblici uffici. Sono due corsie separate. Berlusconi continuerà ad avere, in nome dei voti, tutti gli onori dai suoi. Ma, a causa della condanna e delle pene accessorie, non può avere onori dal Quirinale. Possibile che non glielo abbiano detto?
Quanto a Renzi, il poderoso delfino non andrà al Quirinale perché lui si gode la giornata a Firenze. Ma non è lui che deve ricevere l’incarico di natura magica, dal momento che non passa dal voto? Lo sa anche lui che la sua improvvisa ascesa al potere non porrà fine alla violenta rivoluzione in corso nelle stanze del palazzo, squadre di deputati e senatori contro squadre di deputati e senatori, (la prima rivoluzione della storia senza popolo). Come spiegare questa decisione, lui che non è né Salvini né Grillo ma, ci assicura, il loro contrario, lui che vuole apparire come lo Zorro della nostra sfortunata epoca?
IL POPOLO, estraneo e anzi escluso, si tiene alla larga e pensa ad altro (ai troppi problemi che nessuno affronta e nessuno risolve). Ed è probabile che manchino del tutto studi veri e sondaggi attendibili sui nodi per ora nascosti, di furore e di rivolta. Un vento di mutevolezza tra disorientamento e rabbia sposta continuamente gli umori. Il lavoro, la salute, i figli, i vecchi, i poveri, la classe media che precipita, il commercio che va in pezzi, una vasta deindustrializzazione che si allarga, tutto sembra avvenire in una scena resa più assurda dalla mancanza di suono, da un prolungato silenzio.
Renzi, compare dunque accanto a una scena drammatica, e con una modesta lista di ministri, nomi e volti che non cambiano nulla, se si sta alle prime notizie. Certo ha buoni amici. Pensate al vigoroso attacco di Confindustria, che ha aperto, al momento esatto, l’offensiva contro Letta, e al miracoloso libro di Alan Friedman apparso giusto in tempo per dare un buon colpo di squilibrio alla traballante scena. Adesso tocca a lui, Renzi. Come sentite dire in televisione, “a lui piace il rischio”. Si ripete ciò che accadeva nei secoli: quando il re cambiava religione, tutto il popolo cambiava religione. Adesso viene chiesto a tutti noi di amare il rischio. Sono previsti dissensi.

Repubblica 16.2.14
Matteo il seduttore e i conti con la realtà
di Eugenio Scalfari


ENRICO Letta si è dimesso irrevocabilmente dopo il voto della direzione del Pd che l’ha bocciato quasi all’unanimità dopo la relazione di Matteo Renzi che ne ha ipocritamente lodato l’azione di governo e poi l’ha distrutta come inefficace, sbagliata, inesistente. Un anno perduto - ha detto - con gravi conseguenze sull’economia, sui sacrifici vessatori su tutti gli italiani e sulla rabbia sociale che hanno provocato.
Fino a pochi giorni prima il segretario del Pd non se n’era accorto e così risulta dalle sue pubbliche dichiarazioni molte volte ripetute, nelle quali si impegnava a sostenere il governo fino al semestre di presidenza europea assegnato all’Italia che avrà inizio nel prossimo giugno. Ma poi, improvvisamente, ha cambiato idea e la direzione del Pd con lui.
È stata una sorta di mannaia crudele e senza sconti, senza precedenti nella nostra storia repubblicana. I governi della Dc cambiarono frequentemente ma senza strepiti e condanne “ad personam”. Il premier fiutava l’aria e si dimetteva, il Parlamento votava il suo successore e il presidente della Repubblica ratificava. Il premier decaduto rientrava nella schiera dei notabili, pronti per altri incarichi e persino per un ritorno a palazzo Chigi. Così si alternarono Fanfani, Scelba, Andreotti, Moro, Segni, Piccioni, Forlani, Cossiga, De Mita. Staffetta e gioco dei quattro cantoni, ai quali partecipavano i cavalli di razza. La partitocrazia, bellezza, che nell’ultima fase si estese a Craxi e si estinse con Mani Pulite.
Non fu un bel periodo, ma quello venuto dopo, costato al paese il ventennio berlusconiano, è stato certamente peggiore. Tuttavia la mannaia d’un partito che fa a pezzi un governo guidato da uno dei suoi maggiori dirigenti non si era ancora mai visto. Evidentemente i tempi sono bui, “Stormy Weather”.
Ho riascoltato quella canzone subito dopo avere seguito la cronaca televisiva della direzione del Pd. La voce di Ella Fitzgerald si alternava alla tromba di Louis Armstrong: «I tempi sono bui, il mio uomo mi ha abbandonata e fuori continua a piovere».
Qui non è l’uomo che ha abbandonato il partito, al quale con estrema lealtà voterà la fiducia tra pochi giorni quando toccherà al Parlamento di esprimersi, ma è il partito ad averlo massacrato. Stormy Weather.
Grillo e la Lega, che stanno scoprendo tra loro sorprendenti analogie (i populismi hanno diversi colori ma identica natura) attaccano Napolitano perché ha accettato una crisi extraparlamentare. Ma è un procedimento che ha numerosissimi precedenti nella storia dell’Italia repubblicana e anche di quella monarchica. Se un governo viene sfiduciato da un partito che ha la maggioranza assoluta in almeno una delle Camere e se il suo premier dà le dimissioni irrevocabili nelle mani del Capo dello Stato, spetta a quest’ultimo la scelta di accettarle o rimandarlo in Parlamento che comunque avrà l’ultima parola sull’esistenza del nuovo governo nominato dal Quirinale.
Rinviare Letta in Parlamento l’avrebbe esposto ad un’altra umiliazione perché avrebbe avuto contro di lui non solo i voti del Pd ma anche quelli della Lega, dei grillini e di Forza Italia. Cioè la quasi totalità, forse con l’astensione di Alfano e dello sparuto gruppo centrista. In più si sarebbe perso tempo mentre è interesse del paese che la discontinuità nel personale di governo venga superata al più presto per impedire che i mercati e l’Europa entrino in allarme sulla stabilità italiana. Questo spiega perché Napolitano ha accettato la procedura extra-parlamentare che non spossessa affatto il Parlamento dal suo giudizio finale.
Su quel giudizio però si fanno alcune ipotesi in queste ore. Due soprattutto, che riguardano Berlusconi e Alfano. In un certo senso la seconda è condizionata dalla prima.
La maggioranza che appoggerà il costituendo governo Renzi dovrebbe essere la stessa di quella che appoggiò Letta anche se il personale di governo sarà quasi interamente modificato. La vera piattaforma su cui l’esperimento di Renzi si basa sta nell’impegno a durare per l’intera legislatura, cioè per altri quattro anni fino al 2018.
Per i deputati questa è una manna e in parte lo è anche per i senatori poiché l’attuale forma del Senato, che dovrà comunque essere cambiata, invece di realizzare il cambiamento entro i prossimi sei mesi, potrà tranquillamente attendere un anno o addirittura due. Non c’è più molta fretta perché ora l’obiettivo si sposta sulla politica economica e sociale. La legge elettorale sarà approvata subito per quanto riguarda la Camera, ma per il Senato non c’è fretta.
Veniamo alle ipotesi: come voterà Forza Italia sul governo Renzi? Non fa parte di quel governo e quindi voterà contro. Ma fa parte del programma di Renzi per quanto riguarda la legge elettorale e le riforme costituzionali. Renzi si è impegnato a non fare governi con Forza Italia e - si spera - manterrà l’impegno, ma gli accordi con Berlusconi si estendono ad una buona parte del suo programma di riforme. Non comprendono la politica economica e i provvedimenti che la riguardano. Ma, nelle ancora vaghe dichiarazioni di Renzi in proposito, non si ravvisano sostanziali diversità da Forza Italia: sgravi ai lavoratori e alle imprese e quindi cuneo fiscale ridotto per quanto possibile; prevalenza del contratto di lavoro aziendale su quello nazionale; nuove forme di ammortizzatori sociali; semplificazione delle procedure, più elasticità finanziaria rispetto ai vincoli di Bruxelles; diminuzione delle tasse e tagli delle spese.
Queste finora sono le dichiarazioni di Renzi. Ricordano sia quelle di Letta sia quelle di Squinzi e della Confindustria, sia quelle della Cgil, sia quelle di Forza Italia quando ancora si chiamava Pdl.
Il pregio di Renzi è sempre stato quello d’essere d’accordo con tutti affinché tutti siano d’accordo con lui. In più - e non è poco - ci mette la sua «smisurata ambizione» e la sua smisurata vitalità.
A mio avviso somiglia moltissimo a Berlusconi per quanto riguarda le sue capacità di seduzione. È un leader a 24 carati come il Berlusconi giovane. E perché il Berlusconi vecchio dovrebbe lesinargli la sua comprensione e il suo appoggio?
Questo gli consiglia Giuliano Ferrara sul Foglio e questo gli consiglia anche Verdini e anche Bondi e anche Confalonieri. È un padre della patria? Ma è Renzi che l’ha fatto risorgere dalle ceneri. Berlusconi votò per Monti e anche per Letta fino a quando ci fu la scissione di Alfano che Letta agevolò in tutti i modi. Ma ora Letta non c’è più e c’è Renzi al suo posto, Renzi il simpatico, Renzi che è un Berlusconi giovane. Allora perché non votargli la fiducia? O almeno astenersi? La Santanché è contraria a questo progetto, ma chi se ne frega della Santanché.
Berlusconi forse ha pensato a questa soluzione ma alla fine ha scelto l’opzione negativa e l’ha comunicata a Napolitano e alla pubblica opinione durante le consultazioni di ieri: non voterà la fiducia a Renzi né si asterrà ma voterà contro. Naturalmente sarà un’opposizione costruttiva e comunque manterrà il patto sulle riforme. È un padre della patria, che diamine! E quindi i provvedimenti che giudicherà buoni li voterà.
Per ora dunque Alfano è salvo ma il tremore sotto i piedi lo sente, perciò ha messo i suoi paletti prima di sottoscrivere la continuazione dell’alleanza col Pd: niente accordi a sinistra e tanto meno a destra. Posti chiave nel ministero, programma economico messo in carta e firmato prima del voto di fiducia. Se questi paletti non verranno condivisi Alfano esce dal governo. Ci vorrà comunque il doppio di tempo per soddisfarne le condizioni.
Qualcuno rimprovera Napolitano perché non si è opposto all’arrivo in scena al Quirinale per le consultazioni di ieri. Aveva invitato anche Grillo e la Lega e si è irritato per la loro risposta negativa. Quindi non poteva mettere un veto a Berlusconi, ancorché condannato con sentenza definitiva per frode fiscale e decaduto da senatore.
Questo impedisce a Napolitano di concedergli quella grazia “motu proprio” che Berlusconi da tempo chiede anzi pretende. Quella grazia non ci sarà mai perché Napolitano mai la darà in assenza d’una ammissione di colpevolezza da parte del richiedente che significa assunzione delle sue responsabilità e rinuncia a proclamarsi innocente. Ma quest’aspetto della questione è completamente diverso dal Berlusconi uomo politico e leader di un partito con rilevante seguito parlamentare. Se ci sono consultazioni al Quirinale, al capo d’un partito presente in Parlamento non può essere opposto un veto.
Su questo punto debbo dire che, per quel che vale il mio parere, la Costituzione non prevede consultazioni e descrive l’andamento della crisi in un modo estremamente semplice e chiarissimo: «Il presidente della Repubblica nomina il presidente del Consiglio e su sua proposta i ministri». Questo dice e basta, sicché, secondo la lettera della Carta, Napolitano non ha alcun obbligo di consultarsi con chicchessia. Naturalmente può consultarsi con chi vuole ma è lui a stabilire come e con chi; perciò avrebbe potuto anche limitarsi ai presidenti delle Camere o estenderlo ai presidenti dei gruppi parlamentari o addirittura a nessuno. I precedenti non mancano. Luigi Einaudi non consultò nessuno quando nominò il governo Pella; Scalfaro agì nello stesso modo quando nominò Ciampi dopo aver consultato soltanto Giuliano Amato all’epoca presidente del Consiglio. Anzi fu Amato a fargli il nome di Ciampi.
Resta il tema della politica economica che è il solo che stabilirà il successo del governo Renzi o la sconfitta sua e del suo partito.
Quello che vuole fare e i problemi che dovrà affrontare sono gli stessi del governo Letta, indicati e aggiornati nelle proposte da lui inviate alla direzione del Pd e giudicate da Renzi come contributi (marginali) ma non erano solo contributi, era l’elenco del fattibile, in parte già in corso di attuazione e positivamente considerato dalle autorità europee e dalla Bce di Mario Draghi.
Ora è il programma di Renzi ma con una differenza non da poco: Renzi vuole andare oltre le coperture previste dagli impegni europei, come vuole Squinzi, come vuole la Camusso, come vuole Vendola, cioè le parti sociali e la destra come la sinistra. Ma possono fare queste operazioni in barba all’Europa e agli impegni assunti dal governo precedente?
Questa è la domanda e la risposta è questa: se rispetta gli impegni con l’Europa il suo governo sarà eguale a quello di Letta e non molto più veloce nelle realizzazioni; se non li rispetta innescherà il commissariamento europeo e i sacrifici ancora maggiori sugli italiani.
Chi fa il mestiere di informatore e di osservatore non ha che da aspettare seguendo gli eventi con costante e obiettiva vigilanza, dandone conto alla pubblica opinione.

Repubblica 16.2.14
Gli strappi alle regole
di Nadia Urbinati



Siamo abituati agli strappi alle regole. Nei due decenni che hanno preceduto questa recentissima crisi di governo, ne abbiamo subiti e criticati diversi: strappi nel nome degli interessi privati e personali di un capo di partito, e più nobilmente per il bene del paese e la governance dell’emergenza economica. Un argomento per giustificare lo strappo alle regole è quello usato in queste ore per metabolizzare la serie di strappi che hanno segnato il passaggio di consegne da Enrico Letta a Matteo Renzi: se da qui ne risulterà del bene per il paese allora esso perderà molto del suo sapore amaro.
Tuttavia, la giustificazione post-factum è ardua da argomentare, per due ragioni almeno: perché qualcuno troverà sembra un buon motivo per dire che il bene del paese è stato fatto, e la catena di argomenti pro e contro si prefigura indefinita, anche perché il giudizio sulle conseguenze è in sé non oggettivo; e in secondo luogo perché nessuno strappo alle regole del gioco dovrebbe essere giustificato con argomenti consequenzialisti, poiché in questo caso nessuna norma sarebbe più sicura e infine poche resisterebbero all’argomento del buon risultato. La stessa democrazia, se ci si basa sui risultati, sarebbe davvero poco difendibile, e infatti non è per la qualità delle sue decisioni che noi l’apprezziamo e la vogliamo.
La sequenza di vicende rocambolesche che porta Renzi da Palazzo Vecchio verso Palazzo Chigi deve essere giudicata con riflessività e ponderatezza. Sono almeno due i problemi che meriterebbero attenta analisi e considerazioni libere da pregiudizi. La prima riguarda l’investitura del futuro premier via primarie. Occorre tenere a mente che si è trattata dell’investitura di un segretario di partito non di un premier; i modi in cui avvengono le primarie nel nostro paese sono informali, lasciati alla decisione di un gruppo politico (che è a tutti gli effetti un’associazione della società civile), fuori dalle regole del gioco stabilite per legge. Sono naturalmente degne di rispetto e potenti strumenti di designazione politica del leader ma non danno una legittimità formale a governare.
Questa legittimità viene o dalle elezioni o, se c’è crisi di governo prima dello scioglimento delle Camere, dagli organi stabiliti dalla Costituzione: la Presidenza della Repubblica insieme al Parlamento. Ecco il tema della seconda riflessione: il Parlamento è per norma l’organo nel quale si formano e si consumano le maggioranze nelle democrazie parlamentari. Certo, nella pratica le maggioranze si formano, si consumano e finiscono fuori dal Parlamento, ma devono avere poi nel Parlamento la loro formale registrazione.
Attendere come le cose evolveranno non è una strategia saggia, anche se il carattere del leader sembra in questo caso avere una forza dirompente tale da rassicurarci, con la celerità della sua ascesa, che la foga dell’acqua non tracimerà ma rientrerà quanto prima nell’alveo. Il cesarismo è una possibile manifestazione della democrazia elettorale, per ragioni che solo in parte sono legate al carattere del leader. Un fattore saliente è la trasformazione in senso plebiscitario dei partiti politici che le primarie hanno accelerato.
Certo, meglio il cesarismo che si forma nel partito e con il volere espresso del suo popolo che il cesarismo che si alimenta del denaro privato e del potere economico. Tuttavia, le derive plebiscitarie dovrebbero trovare quando si manifestano attenti sistemi di contenimento: Max Weber aveva pensato che il parlamento fosse l’istituzione che meglio consentisse di limitare il potere energico del leader plebiscitario, proprio per la sua natura discorsiva e l’azione regolamentata. Fattori prosaici che sono fondamentali a contenere e dar forma alla materia vulcanica delle passioni politiche che il carattere del leader può impersonare e muovere.
Pensando proprio alla dimensione importante che questo cambio di guardia al governo del paese avrà, l’opinione competente e pubblica dovrebbe porre già da ora il problema di regolare le primarie con una riforma complessiva dei partiti, in modo da togliere a questo strumento di selezione e lancio della leadership quel senso privato e informale che ha se lasciato alla volontà e alle forme organizzative dei partiti che lo gestiscono. Non è dunque la presenza del leader in sé che deve suggerire un atteggiamento guardingo e ponderato, bensì il modo con il quale avviene la sua investitura, nel partito e poi nelle istituzioni.

La Stampa 16.2.14
L’alieno alla prova del nove
“Un dovere il cambio radicale”
Renzi ha rottamato tutto ciò che ha incontrato sulla strada per Palazzo Chigi
di Federico Geremicca

qui

Corriere 16.2.14
L’impazienza di un leader
di Sergio Romano

qui

Corriere 16.2.14
La corsa del leader deve fare i conti  con alleati diffidenti
Il Quirinale accoglie le riservedel Nuovo centrodestra
di Massimo Franco

qui

Repubblica 16.2.14
Machiavelli e il principe impetuoso

risponde Corrado Augias

Caro Augias, Jean-Paul Fitoussi, in un articolo sull’Unitàdi ieri, parlava di machiavellismo della politica italiana. Non solo per la spregiudicatezza o amoralità. Nel capitolo XXV delPrincipe, il segretario elabora la cosiddetta teoria del riscontro: «Credo… che sia felice [il principe] che riscontra el modo del procedere suo con le qualità de’ tempi, e similmente sia infelice quello che con il procedere suo si discordano e’ tempi». In altre parole un principe «respettivo» (cioè cauto) avrà successo in “tempi quieti”, ma soccomberà in “tempi impetuosi” (che richiedono altrettanto impeto); viceversa un principe «impetuoso» soccomberà in “tempi quieti”. Si provi a indovinare a quale tipo di principe si può avvicinare Enrico Letta, a quale Matteo Renzi. Machiavelli conclude il capitolo con un’altra celebre affermazione: «Io iudico bene questo: che sia meglio essere impetuoso che rispettivo; perché la fortuna è donna, ed è necessario, volendola tenere sotto, batterla e urtarla… e, come donna è amica de’ giovani, perché sono meno rispettivi, più feroci e con più audacia la comandano ». Che fosse già tutto scritto?

Il grande Machiavelli è stato tirato in ballo più volte in questi giorni essendosi tra l’altro appena chiuso il cinquecentenario della composizione del suo fondamentale trattato politico,(1513). Enrico Letta ha molti meriti, tra l’altro ha lasciato il suo incarico nel momento in cui arrivano conferme ufficiali di alcuni segnali di ripresa in un paese fin qui stremato. Un’uscita di scena di grande dignità che ha suscitato notevoli rimpianti, certamente provvisoria perché nel desolante panorama dei nostri uomini pubblici lasciare uno come lui ad accompagnare i figli a scuola sarebbe uno spreco delittuoso. Se Machiavelli ha ragione, è tuttavia possibile che i tempi richiedessero altri strumenti. Il martello pneumatico e non il cacciavite, come ho letto da qualche parte, ovvero un capo del Governo più «impetuoso mi fa presente una preoccupazione che condivido: «È quella relativa, qualunque possa essere la maggioranza, di una tenuta parlamentare efficace durante la fase del consenso su riforme davvero rigorose e coraggiose. Devastante il ricordo di quei 101 che hanno tracciato in modo indelebile non solo il corso di questa legislatura ma anche, credo, la storia di molti anni a venire. Quei 101 saranno dunque ancori lì, pronti a ferire, a minacciare, a condizionare quello che invece non dovrebbe essere condizionabile». Ce la farà Renzi? Soprattutto ce la faranno i partiti, maggioranza o opposizione, a mantenere quel minimo di coerenza repubblicana che permetta le indispensabili riforme? 101 compresi?

Corriere 16.2.14
Il segretario e quell’insegnamento di Machiavelli
Donzelli, curatore delle opere del politologo fiorentino: «La sua lezione è che conviene sempre giocare d’attacco Ma attenti, il paragone rischia di portare sfortuna»
di Antonio Carioti


MILANO — Scrive nel Principe Niccolò Machiavelli: «Io iudico bene questo, che sia meglio essere impetuoso che respettivo (cioè cauto, ndr )». E qui l’editore Carmine Donzelli coglie in Matteo Renzi un tratto machiavelliano, forse involontario, ma reale: «Sta applicando l’idea secondo cui le situazioni vanno affrontate con piglio risoluto, senza troppi tatticismi, perché in politica conviene sempre giocare all’attacco. Bisogna stare molto attenti a non forzare questi paralleli, che sono più che altro suggestioni, dato che parliamo di situazioni storiche distanti anni luce. Ma mi pare che Renzi, anche per indole, dimostri un atteggiamento in sintonia con quanto diceva Machiavelli circa l’opportunità di prendere le situazioni di petto e di non sottrarsi allo scontro, quando è necessario. Mi ricorda un po’ la metafora per cui il principe deve agire con la furbizia della volpe e la forza del leone».
Insomma, la stampa internazionale non ha tutti i torti quando accosta i due fiorentini, benché li dividano cinque secoli. Donzelli se ne intende: nel 1975 ha curato un’edizione annotata del Quaderno 13 di Antonio Gramsci su Machiavelli e nel 2013 ha ripubblicato Il Principe , per i 500 anni dell’opera, accompagnando il testo originale con una sua traduzione in italiano moderno (più un vasto apparato critico di Gabriele Pedullà), per renderne il pensiero più accessibile ai giovani.
C’è anche un altro elemento di assonanza: «Machiavelli — ricorda Donzelli — era nettamente contrario agli eserciti mercenari e insisteva sulla necessità di creare milizie cittadine, fedeli al principe e sempre pronte alla mobilitazione. Oggi ovviamente non si parla di forze militari, ma certo è ben spiccata nello stile di Renzi la tendenza a saltare le mediazioni, ricercando un rapporto diretto con la base degli elettori. Non gli piace fare politica nelle segrete stanze, preferisce basare la sua strategia sull’appello alla mobilitazione popolare».
Però Donzelli non vuole spingere il richiamo oltre un certo limite, «anche perché rischia di portare sfortuna a Renzi. Non dimentichiamo che Machiavelli, dopo la caduta della Repubblica fiorentina e il ritorno al potere dei Medici nel 1512, è un uomo pesantemente sconfitto, anche se da quella esperienza amara sa trarre una lezione di alta teoria politica. Di fatto scrive Il Principe nel disperato tentativo di rientrare in gioco. Non a caso le note scritte da Gramsci in carcere su Machiavelli hanno un carattere altamente autobiografico: sono il tentativo di capire le ragioni di uno scacco e trovare dei rimedi. Qui il parallelismo esistenziale è davvero pregnante. Invece Renzi è un leader con il vento in poppa, che si appresta a diventare presidente del Consiglio».
Però tre capi di governo italiani, diversi tra loro ma tutti all’apice della carriera, hanno scritto introduzioni al Principe : Benito Mussolini, Bettino Craxi, Silvio Berlusconi. Come mai? «Machiavelli — risponde Donzelli — è un interlocutore obbligato per chiunque sia interessato alla politica. Non c’è quasi intellettuale impegnato o leader importante che non si sia cimentato con le sue opere. Ma gli esiti sono stati spesso discutibili, con attualizzazioni decisamente improprie. Quasi sempre al grande autore fiorentino sono state addebitate responsabilità che non gli competono. Spero proprio che Renzi non ambisca a scrivere testi su Machiavelli, ma impegni tutte le sue energie nell’azione di governo».
D’altronde la situazione italiana, certo non catastrofica come nel Cinquecento delle invasioni straniere, è tuttavia molto difficile. Forse per questo si avverte il bisogno di una leadership forte, tipo il «redentore» invocato nell’ultimo capitolo del Principe . «Ribadito che parliamo di epoche completamente diverse — osserva Donzelli —, senza dubbio il nostro Paese vive una fase di disgregazione, incertezza e instabilità, con la politica frenata da troppi condizionamenti minuti. Se si va avanti con il bilancino degli equilibri, la paralisi è assicurata. Renzi ha colto lucidamente, quasi con un riflesso istintivo, che non si poteva continuare a traccheggiare e bisognava prendersi dei rischi. Credo proprio che un ipotetico Machiavelli redivivo, dinanzi all’Italia di oggi, avrebbe una reazione analoga».

Corriere 16.2.14
Nessuno ascolta più la società reale I leader tornino nelle piazze
di Giuseppe De Rita


Per quel poco che esiste e che riflette, la nostra classe dirigente è oggi concentrata sui temi della governabilità, alla luce delle esigenze decisionistiche e bipolari dell’esercizio del potere. Esigenze che sembrano superare, quasi asfaltare, i bisogni e le sedi della rappresentanza degli interessi e delle identità sociali; e non a caso nessuno sembra porsi una semplice questione: in nome di chi, di quale consenso collettivo, di quali interessi, si opera l’attuale slittamento verso i piani alti della politica?
La risposta più semplicistica è che oggi vince la personalizzazione della leadership , senza troppa attenzione alla sua legittimazione sociale; la risposta più pericolosa è che nella complessità della realtà italiana è doveroso sperimentare una «politica senza consenso», libera dai lunghi e lenti processi di ascolto e partecipazione di base; la risposta più «cattiva» è che la politica non può guardare in basso, alla rappresentanza degli interessi, per la semplice ragione che tale rappresentanza è in crisi agonica: a livello locale come a quello periferico, nel mondo sindacale come in quello datoriale.
Di queste tre risposte le prime due sono materia da cultori del primato della politica. Ma è sulla terza, quella attinente al funzionamento consensuale o conflittuale del corpo sociale, che va concentrato un sovrappiù di attenzione. Se non ha processi di rappresentanza una società non funziona, né nella sua quotidiana fisiologia, né nel suo dialogo con la politica e le sue decisioni.
Certo abbiamo strutture collettive che hanno svolto bene il mestiere di fare rappresentanza, ma esse non riescono ad essere altrettanto incisive nell’attuale momento; e tocca quindi a loro capire perché hanno perso la loro aderenza sia alla politica sia all’evoluzione della realtà sociale.
Guardando alle ragioni intime di tale fenomenologia colpisce subito la tendenza un po’ schizofrenica a spaccare in due l’azione quotidiana della rappresentanza. Da un lato l’alta dirigenza (sindacale, datoriale, associativa, di terzo settore) è convinta che per contare politicamente deve avere un pensiero politico e parlare alla pari con i leader politici (si pensi all’atteggiamento dei capi sindacali dal ’69 in poi o a quello degli ultimi presidenti confindustriali) non avvertendo però che così ci si incammina verso un infruttuoso «camino d’aria calda». Dall’altro gli apparati organizzativi ritengono che si debba vivere terra terra, nel lobbismo più mirato, con potere degli uffici (di comunicazione, come di relazioni istituzionali) che alla lunga connota la rappresentanza come azione puramente corporativa. Ed è il combinato disposto di questi due divaricanti processi che porta alla crisi attuale della rappresentanza, resa inefficace dall’esposizione politica della alta dirigenza e dell’appiattimento lobbistico degli apparati.
Se vogliono uscire da tale inefficacia le strutture di rappresentanza devono allora registrare i loro poteri interni; ma soprattutto devono riandare alla sorgente della loro forza, agli interessi concreti ed agli umori della gente di cui sono portatrici. Ne devono diventare la voce, magari anche rifrequentando la piazza, verrebbe da dire, per non lasciare che vadano in piazza solo avventure di protesta (si pensi ai cosiddetti «forconi») incapaci di stare in dialettica sociopolitica sui tavoli della decisione. La rappresentanza non è una attribuzione stabilita per legge e tanto meno è una gentile concessione di spazio concertativo da parte della politica: essa è invece combinazione di interessi, conflitti e partecipazione. E ha bisogno di orgoglio e coraggio: orgoglio di essere una componente indispensabile nella gestione della società complessa, coraggio di riprendere le fila delle proprie origini di «movimento», collettivo e di massa.
Chi nei decenni ha vissuto loro accanto sa quanto sia difficile, per le strutture di rappresentanza sociale, negarsi la tentazione di far politica alta o di appiattirsi alla potenza degli uffici interni: ma se non cambiano registro esse rischiano di essere con il tempo assimilate alle tante caste da abbattere o ai tanti «costi della politica» da ridurre o eliminare. C’è quindi da augurarsi che vadano pure in piazza (comincia Rete Imprese Italia il prossimo 18 febbraio), a riconquistarsi il coraggio di rappresentare le loro basi, in un reciproco aiuto a crescere e svilupparsi.

l’Unità 16.2.14
Pd, oggi le primarie per scegliere i segretari regionali
Dalle 8 alle 20 si torna ai gazebo per rinnovare i vertici locali
di Osvaldo Sabato


Fino all’ultimo respiro e non è detto che in alcune regioni la vittoria non giunga sul filo di lana, con distacchi minimi. Potrebbe essere il caso della Sicilia o del Lazio dove la sfida per la segreteria regionale è molto accesa. Nell’isola, cuperliani, renziani e il Megafono del governatore Crocetta appoggiano il deputato Fausto Raciti, che è anche segretario nazionale dei giovani democratici. A sfidarlo è il segretario regionale uscente e parlamentare siciliano Giuseppe Lupo. I due in queste settimane si sono dati battaglia a colpi di dichiarazioni taglienti. Così se Raciti chiama in causa Lupo per come ha gestito il partito («Un Pd unito saprà incidere sul progetto di governo. Diversamente da quanto è accaduto finora »), quest’ultimo controbatte che «solo chi non conosce la Sicilia perché da troppi anni vive a Roma può commettere errori così grossolani». E che dire del sostegno a Lupi di Valdimiro Crisafulli, il politico siciliano forse più inviso ai renziani? È Raciti che ci tiene a sottolinearlo.
A rendere la bagarre dialettica ancora più incandescente ci hanno pensato Leoluca Orlando e Fabio Giambrone, per loro il numero uno dei Gd è il candidato imposto da «apparati perdenti». Immediata la replica e nel botta e risposta il giovane parlamentare del Pd non le manda a dire al sindaco di Palermo «se Orlando aderisce al Pd bene. Altrimenti saremmo di fronte a un’ingerenza nei confronti di una forza politica che non è la sua». Il tutto mentre la terza candidata, la civatiana Antonella Monastra, protesta per il ritardo con cui sono stati resi noti i luoghi dei gazebo.
Nel Lazio, tanto per rendere tutto più semplice, il Pd per la successione a Enrico Gasbarra dovrà giocare un derby tra la parlamentare Lorenza Bonaccorsi, fedelissima del quasi premier Renzi, appoggiata dallo stesso segretario uscente, dal deputato Paolo Gentiloni e da un gruppo di consiglieri comunali del Campidoglio, e l’altro deputato Fabio Melilli, anche lui renziano, ma sostenuto da Area dem, cuperliani e Giovani turchi di Orfini e da alcuni esponenti vicini al governatore Zingaretti. I civatiani spingono Marco Guglielmi.
Si vota oggi dalle 8 alle 20 versando un contributo di 2 euro e sottoscrivendo l’albo degli elettori, non bisogna pre - registrarsi prima. Le primarie sono aperte a tutte le persone che abbiano compiuto 16 anni. Seggi aperti in quindici regioni e a Bolzano, dove si voterà per eleggere il segretario provinciale, primarie rimandate in Emilia Romagna, Basilicata, Abruzzo, Sardegna e Trento. E addirittura cancellate in quelle regioni dove il Pd presenta un candidato unitario. Succede in Valle d’Aosta, Toscana, Veneto e Puglia con i renziani Fulvio Centoz, Dario Parrini, Roger De Menech e del sindaco di Bari Michele Emiliano. In Molise e nelle Marche gli aspiranti segretari renziani avranno come candidati nomi scelti dagli alleati di Area Dem.
Ma in queste primarie non sono mancati i ricorsi e qualcuno in alcune regioni grida addirittura al golpe. È il caso delle Marche dove l’esclusione del sindaco di Pesaro Luca Ceriscioli, ritenuto incandidabile in quanto sindaco seppur a fine mandato, ha scatenato una vera e propria guerra nel partito tanto da spingere gli amministratori e i dirigenti del Pd maceratese a chiedere il rinvio delle primarie. Niente da fare, la richiesta viene bocciata dal responsabile Organizzazione del Pd, Luca Lotti. Quindi oggi nelle Marche si voterà regolarmente. «Quella di Ceriscioli non è un’esclusione è lo statuto... » dice l’onorevole Lotti. Il sindaco di Pesaro però ricorda che con il suo collega barese Emiliano il Pd ha avuto un diverso atteggiamento. «Emiliano è un candidato unitario e decade se qualcuno dice che è incandidabile, a lui invece hanno fatto ricorso, come era scontato che fosse» è la spiegazione che dà il dirigente nazionale dei democratici. Per Lotti, dunque, il caso non esiste. Nel resto d’Italia: in Molise la corsa è fra Laura Venittelli e Micaela Fanelli; in Umbria Stefano Fancelli se la dovrà con Giacomo Leonelli; in Campania è sfida a tre fra Assunta Tartaglione, Michele Grimaldi e Guglielmo Vaccaro; in Liguria in corsa ci sono Alessio Cavarra e Giovanni Lunardon; in Piemonte ci sono Davide Gariglio, Gianna Pentenero e Daniele Viotti. In Lombardia Alessandro Alfieri spera nella sua riconferma contro Diana De Marchi.

il Fatto 16.2.14
Primarie a sganassoni E l’ira della base Dem
Davanti alla sede PD i militanti contro le nuove larghe intese: “Fateci votare”. Calci e pugni per la scelta dei candidati . Dubbi sulla staffetta
di Luca De Carolis


I militanti protestano con le tessere tra le mani, gli elettori hanno cattivi pensieri, i sondaggi virano al nuvoloso. E le primarie per le segreterie regionali, tra risse e ricorsi, assomigliano già a un bel guaio. Il Renzi che corre verso palazzo Chigi ha lasciato molto dietro il suo partito, quel Pd che in larga parte non ha capito il suo strappo. Il segretario che picchiava sul governo Letta e rispondeva a muso duro a Fassina e a Cuperlo “perché ho preso tre milioni di voti nelle primarie” sarà premier senza passare per le urne. E nel segno sempre delle larghe intese, con gli Alfano e gli Schifani. Contraddizione da gastrite, per la pancia (e non) dei Democratici. Il Pd potrebbe pagare dazio già oggi, con larghi vuoti nei seggi delle primarie e nei congressi per le segreterie dem di 14 regioni. E sempre oggi si vota per le Regionali in Sardegna, dove già i Democratici corrono con un candidato dell’ultimo minuto, Francesco Pigliaru, gettato nella mischia dopo il ritiro (forzato, anche da Renzi) di Francesca Barracciu, vincitrice delle primarie e indagata per peculato. L’aria che tira la racconta la protesta davanti al Nazareno, la sede nazionale del Pd, dove ieri mattina si è materializzato un gruppo di militanti con tanto di bandiere. Nelle mani, la tessera elettorale e quella di partito. Messaggio chiaro: “Fatecele usare”. Un monito al segretario, spiegato così da un portavoce del gruppo: “Renzi aveva lanciato l’hahstag #Enrico stai sereno; noi invece diciamo ‘Matteo non stare affatto sereno, stai attento’. Quanto sta accadendo non piace a tanti di quelli che lo hanno votato nelle primarie”. Un chiaro sintomo della febbre del malcontento.
ALTRI SEGNI si trovano sul web, dove traboccano lo stupore e la rabbia di tanti militanti, pure renziani. E, soprattutto, circola un appello: non andate a votare alle primarie regionali. Un appuntamento rimasto parecchio sotto traccia, visto il trambusto sulla scena nazionale. Ma sul voto di oggi pesa anche una gestione affannosa, sul piano organizzativo e politico. In lode al dogma del “tutti sul carro del vincitore”, le varie correnti in molte regioni hanno lasciato spazio a un candidato unico, ovviamente renziano. Dal Friuli Venezia Giulia al Veneto, fino alla Puglia, oggi si svolgeranno molti congressi per ratificare un segretario già deciso nella stanze di partito. Dove invece c’è gara, è tutti contro tutti. Per esempio a Cosenza , dove ieri due dirigenti, il segretario del circolo del centro storico Damiano Covelli e il vicecapogruppo del consiglio comunale Marco Ambrogio, se le sono date. Motivo del contendere, la costituzione di un seggio elettorale in contrada Donnici. Sufficiente perché volassero, pare, schiaffi e pugni. Ricorsi e veleni nelle Marche, dove si fronteggiano Francesco Comi e Gianluca Fioretti . Ma Luca Ceriscioli, escluso perché sindaco di Pesaro ancora in carica, invita tutti a non votare. I suoi ricorsi per l’ammissione, o almeno per un rinvio del voto, hanno sbattuto contro il muro del partito nazionale. Dalla sua parte il vicepresidente nazionale del Pd Matteo Ricci, che sibila di “primarie farsa”, e la senatrice Camilla Fabbri: entrambi assenti sicuri ai seggi. Nervi tesi pure in Campania, dove uno dei tre candidati, Michele Grimaldi aveva chiesto l’esclusione degli altri due candidati, Assunta Tartaglione e Guglielmo Vaccaro, accusandoli di aver presentato le liste fuori tempo. L’istanza è stata respinta, (anche) con la motivazione curiosa che “esistono numerosi precedenti in cui un ritardo nella presentazione non è stato considerato ragione di esclusione”. Poi ci sono le regioni con due candidati renziani, Lazio e Liguria: a conferma che il vagone del rottamatore è il più ambito.
A MARGINE, le domande sull’effetto della staffetta Letta-Renzi sui sondaggi. Secondo una rilevazione di Ipr Marketing per Matrix, il 54 per cento degli italiani boccia il cambio in corsa. Dato che sale al 59 per cento tra gli elettori del Pd. Renato Mannheimer (Ispo) conferma la tendenza: “Nei nostri sondaggi la maggioranza degli italiani è contraria al cambio. Il mal di pancia è forte, anche se è difficile . Roberto Weber (Ixè) va oltre: “Renzi aveva un rilevante e trasversale patrimonio di immagine. Ma ora ha un percorso in salita. Se non dà subito segnali forti nei primi mesi di governo, rischia di pagare cara l’accelerazione”.

Repubblica 16.2.13
La protesta degli autoconvocati Cgil contro l’intesa sulla rappresentanza
Landini e Rodotà con i 2mila delegati: “Stravolge l’idea di partecipazione”
di Marco Bettazzi


BOLOGNA - «Se ci sarà consultazione deve essere trasparente, diversamente non accetteremo truffe democratiche e non ci sentiremo vincolati». Davanti a quasi duemila delegati autoconvocati che arrivano da tutta l’Italia spetta di nuovo al segretario Fiom Maurizio Landini incalzare la segretaria nazionale Susanna Camusso.
Dopo le botte e gli spintoni di Milano riparte da Bologna l’avanzata degli “anti-Camusso” che contestano il testo sulla rappresentanza firmato dalla Cgil con Cisl, Uil e Confindustria, ma stavolta forte dell’appoggio che arriva, deciso, dal giurista ed ex candidato alla presidenza della Repubblica Stefano Rodotà, ospite d’onore a Bologna, che loda le lotte della Fiom di questi anni e assicura il suo aiuto per una battaglia che definisce «non di categoria ma di cittadini preoccupati per la democrazia. Per la libertà sindacale - continua Rodotà, che viene chiamato “presidente” dai delegati - sequestrata da questo accordo che stravolge il senso della partecipazione. Forse sono troppo malizioso, ma c’è il rischio che da questo testo prenda le mosse la legge da più parti auspicata sulla rappresentanza ».
Un Rodotà a tutto campo, che bacchetta John Elkann ricordando «quel giovanotto che sappiamo, che si può permettere di dire quelle cose sui giovani senza che ci siano reazioni». O che ricorda che «la stessa maggioranza misteriosa oggi al lavoro è quella che ha portato all’accantonamento violento di Letta».
Ma dal palco, scarno e colorato di rosso, da cui parlano gli arrabbiati della Cgil, spetta ancora a Landini il ruolo di protagonista, anche perché davanti a lui la maggior parte delle persone indossa la felpa della Fiom, pur se sono presenti rappresentanti dei bancari, del pubblico impiego, dei chimici. Prima commenta l’esecutivo che sta prendendo forma in queste ore sotto il segno di Matteo Renzi. «L’idea di governi non eletti dalle persone non mi convince, l’ho detto con Monti e con Letta - spiega al suo arrivo - Anche prendendo per buona la volontà di cambiare tutto di Renzi com’è possibile cambiare con questo parlamento, con Scelta civica, con Alfano? È un rischio anche per lui - continua - tra l’altro è un parlamento eletto con una legge che è stata dichiarata incostituzionale».
Poi però, davanti alla platea che alla fine approverà un documento che esprime «solidarietà a chi subisce interventi volti a impedire la discussione», con un riferimento chiaro a Cremaschi, e chiede il ritiro della firma della Cgil da quell’accordo, l’argomento principe è quello che Landini definisce «un’esplicita crisi democratica della Cgil». «Un sindacato che esclude alcune sue categorie da un incontro è una follia - dice Landini - se non fai parlare qualcuno è segno di paura e debolezza del sindacato. Dobbiamo discutere dei contenuti dell’accordo e fare esprimere i lavoratori conoscendo i diversi punti di vista». Ciononostante non pensa nemmeno alla scissione, perché come dicono più persone dal palco «la Cgil siamo noi».
Tra i delegati che prendono parola c’è Ciro D’Alessio, di Pomigliano, che dice che «chi ha letto l’accordo sa bene che è la morte del sindacato», oppure Nico Vox del pubblico impiego, che era a Milano venerdì quando sono volati spintoni. «La segretaria Camusso ha negato l’unico intervento critico sul testo, il mio», attacca. «La Cgil in questi anni non ha combattuto con la dovuta forza - recita il documento finale dell’assemblea - Se alziamo la voce non è perché difendiamo il passato, ma per costruire il futuro».

Repubblica 16.2.14
Il retroscena
Schiaffi, ricorsi, strategie contrapposte i giorni più neri del sindacato rosso
Camusso non parla più con il segretario Fiom. Cremaschi: “Congresso truffa”
di Roberto Mania


C’È UN clima tesissimo in quello che resta il più grande sindacato italiano (oltre sei milioni di iscritti, pensionati compresi). Volano schiaffi e calci nelle assemblee dei delegati, come è accaduto a Milano venerdì scorso, davanti agli occhi della Camusso. A Bologna arrivano gli autoconvocati contro la Camusso. Che, all’inizio del mese, per contrastare il niet di Landini all’intesa sulla rappresentanza si era rivolta al Collegio Statutario. Giorgio Cremaschi, ex fiommino, primo firmatario del documento congressuale alternativo per un sindacato movimentista e radicale, che èstato tra i protagonisti dell’inedita zuffa milanese, dice che «c’è una gestione truffaldina del congresso». Difficile ritrovare le parole, la tradizione, la cultura, la tolleranza, i gesti di quel che è stato il sindacato di Giuseppe Di Vittorio, Luciano Lama, Bruno Trentin. L’unica grande organizzazione in cui hanno sempre convissuto tutte le anime della sinistra italiana. Oggi la Cgil è ancora solo di sinistra, senza contaminazioni.
Ma cosa succede in Cgil? Milano rimane un caso unico, peraltro senza precedenti nella storia centenaria confederale. L’ “agibilità”, come dicono i sindacalisti, non è stata impedita a nessuno nei congressi di base, quelli che si svolgono nei luoghi di lavoro. Ma gli spintoni di Milano sono la spia di un malessere profondo. Si è superato un confine. Tutti l’hanno capito, soprattutto i funzionari che abitano il palazzone romano di Corso d’Italia. «Siamo sconcertati - dice uno di loro che chiede di non essere citato - , questa vicenda finirà male. Alla fine la Fiom non si adeguerà e ci saranno due sindacati: la Cgil e la Fiom». Ma senza scissioni, in una convivenza impossibile.
«I toni sono troppo alti, esasperati », sostiene Nino Baseot minoranzato, segretario generale della Cgil Lombardia, la prima Regione con i suoi 915 mila iscritti. Aggiunge: «È un momento molto difficile. Credo che ci sia la volontà di una personalizzazione e radicalizzazione dello scontro». Certo l’ultimo carteggio tra Landini e Camusso colpisce per l’asprezza dei toni. Soprattutto nell’ultima lettera inviata, proprio venerdì, da Landini alla Camusso dopo aver constatato l’impossibilità di una riunione tra il segretario generale della Cgil e il Comitato centrale della Fiom, al quale in quattro anni non ha mai partecipato. «In questo modo - scrive Landini - si nega la possibilità di svolgere una vera discussione di merito sui contenuti dell’accordo e si conferma una logica autoritaria di gestione della Cgil». È scritto nero su bianco, non è una dichiarazione espressa a caldo. Ormai è del tutto evidente che Landini, con la Fiom, non sosterrà più la mozione congressuale della Camusso. «Il congresso è cominciato con una maggioranza, penso che finirà con un’altra. L’accordo sulla rappresentanza ha cambiato le carte sul tavolo », osserva Marigia Maulucci, ex cofferatiana di ferro, passata all’area de “La Cgil che vogliamo” guidata da Gianni Rinaldini, predecessore di Landini alla Fiom. Rinaldini come altri ex Fiom è rimasto senza incarichi in Cgil. Non ha ricevuto alcuna proposta. Landini non esita a parlare di «discriminazioni ». «Sono espressione della per questo è più difficile trovargli una collocazione », ribattono dallo staff della Camusso. Questo è diventato il clima quotidiano nella Cgil.
Riaffiorano vecchi rancori, come potrebbe essere quello della stessa Camusso che a metà degli anni Novanta venne cacciata dalla Fiom da Claudio Sabattini, il padre putativo di Rinaldini ma anche di Landini, per aver firmato con la Fiat un accordo sul lavoro notturno per le donne. Oppure si intravede il malessere degli ex comunisti nel constatare che gli ex socialisti, un tempo la minoranza della confederazione, ora siedono, a cominciare proprio dalla Camusso, nei posti chiave di Corso d’Italia. Anche il responsabile organizzativo, Vincenzo Scudiere, era socialista.
Affiora l’insofferenza di altre categorie nei confronti dei metalmeccanici. Walter Schiavella, segretario generale degli edili (la Fillea), di stretta osservanza camussiana: «L’accordo sulla rappresentanza non riguarda solo la Fiom. Riguarda anche noi edili e io vorrei che venisse esteso alle piccole imprese. Questo è il problema vero ». Ma serpeggia anche tra i membri della segreteria nazionale qualche dubbio sulla gestione dell’intera vicenda. «Penso che si dovesse discutere di più sull’accordo anziché blindarlo. Quell’intesa andava spiegata meglio», spiega Fabrizio Solari.
È come assistere a una metamorfosi della Cgil. Per gli scontri di Milano, ma pure per questioni più tecniche, molto sindacali. Paolo Feltrin, politologo all’Università di Trieste la sintetizza così: «È uno scontro tra confederazione e categoria sulla titolarità a contrattare. La Fiom rivendica la sua supremazia. Negli anni ‘60 era la posizione della Cisl. Così sta giungendo a conclusione un’epoca: l’aprirono Trentin e Sabattini, la stanno chiudendo altri due esponenti della Fiom». Una guerra fratricida.

Repubblica 16.2.14
Primarie regionali, rissa a Cosenza calci e schiaffi tra i democratici


ROMA — La costituzione di un seggio elettorale a Cosenza, alla vigilia delle elezioni primarie del Pd per l'elezione del segretario regionale della Calabria, finisce con uno scontro fisico tra due dirigenti. Coinvolti il segretario del circolo del centro storico Damiano Covelli ed il vicecapogruppo del consiglio comunale Marco Ambrogio. Secondo ques’ultimo, Covelli lo avrebbe colpito e poi spinto. Ma proprio Covelli sostiene invece di aver subito una aggressione a suon di calci da Ambrogio, il quale gli avrebbe gridato «ora comandiamo noi». Alcuni componenti dell'assemblea provinciale del Pd di Cosenza chiedono ora un «immediato intervento degli organismi dirigenti per assumere le conseguenti sanzioni a carico di Ambrogio».

l’Unità 16.2.14
Rappresentanza, la Fiom pianta i paletti per il voto
«Si esprimano solo i lavoratori dell’industria», dice Landini a Bologna
1000 autoconvocati chiedono il ritiro della firma dal testo e un referendum
di Andrea Bonzi


«Se la Cgil decide di avviare una consultazione, questa dovrà riguardare solo i lavoratori dell’industria. Non mi si dica che devono votare le altre categorie: se la competizione sarà trasparente e democratica, accetterò il risultato, in caso contrario non mi sentirò vincolato. Non accetto prese in giro né plebisciti sul segretario ». Il giorno dopo i tafferugli seguiti al blitz dell’ex metalmeccanico Giorgio Cremaschi a Milano, da cui le tute blu si sono dissociate (pur descrivendola «una brutta pagina per la Cgil, che deve permettere a tutti di poter parlare »), Maurizio Landini, segretario generale della Fiom, torna all’attacco sul tema della democrazia interna al sindacato. E fissa i paletti che porterà al direttivo del 26 febbraio, in cui verranno decise le modalità del referendum. Lo fa a Bologna, davanti a una platea di un migliaio di delegati da tutti Italia «autoconvocati» per protesta contro la firma della Cgil in calce al Testo unico di rappresentanza, siglato insieme a Cisl, Uil e Confindustria. Un consesso dal quale, nel documento finale, arriva «solidarietà a chi subisce azioni volte a impedire la discussione», e la richiesta di ritiro della firma e di un voto certificato. Al Palanord le felpe rosse della Fiom spiccano, in maggioranza schiacciante, ma ci sono anche rappresentanti di altre categorie, dai bancari ai trasporti, dai chimici ai lavoratori del commercio, passando per qualche pensionato.
Non ci separiamo
Landini, unico segretario generale di categoria che ha risposto alla chiamata degli organizzatori ripete i punti critici del testo - dalle previste sanzioni ai delegati, all’arbitrato confederale -, e chiede di non personalizzare lo scontro. «Qui non si tratta di schierarsi con uno o con l’altro, né di cambiare vertici, né di separarsi dalla Cgil - insiste Landini -: ma non si può non chiedere il parere dei lavoratori coinvolti su un testo che cambia la natura stessa del sindacato». Per questo, il segretario delle tute blu chiede un voto «trasparente» e dedicato ai lavoratori delle aziende che fanno capo a Confindustria (con l’esclusione soprattutto dei pensionati, che rappresentano, oltre a una bella fetta di iscritti, un tradizionale serbatoio di voti per i vertici confederali) con assemblee dove «vengano illustrate entrambe le posizioni».
Prima di chiudere, un veloce passaggio sul governo che verrà. «Renzi? È il terzo esecutivo di fila che non è espressione del voto dei cittadini, e questo mi preoccupa - osserva il numero uno delle tute blu Cgil -. Diamo per buono che voglia cambiare tutto: con chi lo farà, visto che il Parlamento è sempre quello? Con Alfano? È un grosso rischio anche per il sindaco di Firenze...».
A legare il quadro politico a quello sindacale è il costituzionalista Stefano Rodotà. «Se azzeriamo e mortifichiamo la rilevanza del lavoro, ne risente la democrazia del nostro Paese», avverte. Poi fa un parallelo con la nascente legge elettorale («Una “serrata” che impedisce a chi ha meno dell’8% di essere rappresentato »), censura il «violento accantonamento di Letta» e chiude con un sospetto: «Non vorrei che, da parte del nuovo governo, ci fosse la tentazione di trasformare l’accordo siglato da Cgil, Cisl, Uil e Confindustria nella legge sulla rappresentanza, di cui pure c’è bisogno ». Un timore, quello dell’omologazione del sindacato, condiviso anche dal giurista Umberto Romagnoli. Il clima dell’assemblea è caldo, le parole sono pesanti, ma nessuno eccede. Nina Leone, delegata Fiom a Mirafiori, lega l’intesa alla Marcia dei 40mila rievocata dagli industriali torinesi: «Oggi come nel 1980 si cerca di cambiare il modo di fare sindacato, e ancora una volta tutto parte dalla Fiat. Io non ci sto, e rivendico gli strumenti per continuare a tutelare i lavoratori. Se vogliono cacciarci, ci cacceranno tutti». Ha parlato anche Nico Vox, delegato pubblico milanese, che invita «alla mobilitazione vasta» per contrastare «questo accordo che vìola la democrazia ». Infine, c’è la combattiva Rosa, da Catania, che si lamenta dell’assenza della leader Camusso, e lancia l’allarme: «Con questo testo perdiamo il diritto allo sciopero».

Repubblica 16.2.14
L’ex segretario Cofferati: finiti in un cono d’ombra proprio in una fase in cui sviluppo e lavoro sono centrali
“In mancanza di forti obiettivi ci si riduce agli scontri interni”
di R. Ma.


ROMA - Sergio Cofferati, ex segretario generale della Cgil, la prende da lontano prima di dire cosa pensa sullo scontro in quello che resta il suo sindacato. Sostiene che «in una fase storica in cui i temi dello sviluppo e del lavoro sono centrali, i sindacati sono paradossalmente finiti in un cono d’ombra». «Senza una proposta organica - spiega - non sono in condizione, da una parte, di incalzare il governo e, dall’altra, di avere un largo consenso nel Paese».
Questo cosa c’entra con lo scontro in atto tra la Cgil e la Fiom?
«C’entra perché se non sei in grado di mettere in campo un’azione forte nel rapporto con il governo e le imprese, inevitabilmente vieni attratto da temi più interni come quello che riguarda le caratteristiche della contrattazione. Proprio l’accordo contestato sulla rappresentanza è, secondo me, figlio di questa riduzione degli obiettivi generali e anche la spia di uno stato di difficoltà e debolezza. Che viene confermata con l’introduzione nel sistema di relazioni sociali dell’idea della punizione con le sanzioni previste contro chi vìola le intese. Ma questo vuol dire che si vuole combattere il dissenso, del tutto legittimo, con un strumento coercitivo e dimostra anche che si ha poca fiducia nella propria azione».
In realtà c’è chi sostiene che l’attuale duello Camusso-Landini sia frutto del fatto che lei, quando era il capo della Cgil, evitò di trovare una soluzione alle tensioni con la Fiom di Claudio Sabattini. Insomma, questa sarebbe una sua eredità.
«Non è vero. Abbiamo risolto di volta in volta i dissensi in una maniera semplice: discutendo».
Mi faccia un esempio.
«In diverse vertenze di ristrutturazioni industriali. E poi firmai io, come segretario generale della Cgil, un contratto nazionale dei metalmeccanici perché la categoria non riusciva a trovare una via per l’accordo con gli industriali».
Ritiene che il sindacato sia oggi più debole rispetto a quello degli anni Novanta?
«Non è un problema di debolezza. Il problema è la mancanza di volontà di confrontarsi. Bisogna aver voglia di usare più democrazia e di essere più tolleranti verso il dissenso. Va restituito ai lavoratori, cioè ai destinatari degli accordi, il diritto di decidere».
Quali sono, a suo avviso, le responsabilità della Camusso e di Landini?
«Evito di dare consigli. Ciascuno faccia il proprio compito. Come ex segretario generale della Cgil mi piacerebbe che su questi temi ci fosse un confronto pubblico di fronte ai delegati dei metalmeccanici e con la altre categorie».
Lei è un iscritto alla Cgil, quale documento voterà al congresso: quello della Camusso o quello di Cremaschi?
«Sono affezionato a Giorgio Cremaschi, ma non potrei proprio votarlo».
Ci sarà un “effetto Renzi” sul sindacato?
«No. Oggi non vedo pericoli per l’autonomia del sindacato. I pericoli vengono dalla vita interna con chiusure che non hanno ragione d’essere».
Cosa pensa della ritrovata unità tra Cgil, Cisl e Uil?
«Perché, secondo lei c’è? Se ci fosse sarebbe una buona cosa»

il Fatto 16.2.14
Camusso nel mirino: la rivolta dell’altra Cgil
Dopo le manovre per cacciare Landini, migliaia di iscritti si ritrovano a Bologna per dire no alla linea della Segreteria
Stefano Rodotà: “C’è un parallelo tra l’intesa sindacale e l’Italicum di Renzi: si negano democrazia e rappresentanza e si limita la Costituzione”
di Salvatore Cannavò


UN’ALTRA CGIL formata non solo dalla Fiom ma da delegati di base di tutte le altre categorie. “Qualcosa si è mosso” ha esordito nella sua introduzione Ciro D’Alessio, delegato Fiom di Pomigliano, “la partita non è chiusa e noi ce la vogliamo giocare fino in fondo”. Il suo discorso ha dato il la a una serie di interventi accomunati dalla delusione nei confronti di un sindacato “che volta le spalle alla democrazia sui posti di lavoro”. A dare loro conforto le parole autorevoli del giurista Umberto Romagnoli, ma soprattutto di Stefano Rodotà, intervenuto all’inizio e secondo cui, a proposito dello scontro con la Fiat, “la Fiom ha condotto una delle più grandi battaglie costituzionali di questo Paese”. Invece, come sintetizza D’Alessio, “abbiamo tenuto testa alla Fiat, siamo stati un punto di riferimento per questo Paese e ora la Cgil ci volta le spalle. Io mi sento derubato”.
Cosa significhi rischiare la sanzione a causa di proteste, oltre ai delegati di Pomigliano, lo spiega Emanuela Marcon dell’Electrolux di Pordenone: “Abbiamo fatto 100 ore di sciopero senza risultato, poi l’azienda ha cambiato atteggiamento quando abbiamo bloccato le portinerie. Ma nel sindacato ora c’è chi dice che le proteste sono di esclusiva responsabilità delle Rsu”.
Rodotà argomenta l’analogia tra l’accordo sindacale e “l’talicum” di Renzi: “Entrambi limitano la democrazia e la rappresentanza”, entrambi sono passibili di rilievi costituzionali.
Ma la tensione dello scontro che pervade il sindacato è rappresentata plasticamente dalla scena del delegato milanese, Nico Vox, che sale le scale del palco con fatica e appoggiato a una stampella. E il lascito del servizio d’ordine milanese che lo ha buttato fuori dal Teatro Parenti di Milano dove, alla presenza di Susanna Camusso e sostenuto da Giorgio Cremaschi, aveva chiesto di intervenire: “Qui sento aria di democrazia che invece ieri (venerdì, ndr) non ho sentito. Ma fino a prova contraria la Cgil è casa mia”. Niente scissione, dunque, ma scontro totale. Confermato dall’applauditissimo intervento di Landini: “Non ci fermeremo , se pensano che ci accontenteremo di una consultazione-truffa se lo scordano”. Landini dice che non vuole un “referendum interno su chi è il segretario” ma solo su “quali politiche fa”. L’accordo “cambia la natura della Cgil” e non può essere approvato solo dai gruppi dirigenti. Quindi, consultazione “trasparente e certificata” dei lavoratori interessati all'accordo (circa un milione di iscritti), possibilità di presentare in forma paritaria le due posizioni e vincolo al risultato finale. Altrimenti, scandisce Landini, “noi non ci sentiremo vincolati”. Le stesse parole che gli sono costate la minaccia di sanzioni e che vengono ribadite puntualmente.
IN CGIL, INVECE , al momento si pensa alla realizzazione di assemblee unitarie con Cisl e Uil in cui le tre organizzazioni presentino le ragioni dell’accordo per passare subito dopo al voto dei soli iscritti Cgil. Un “pasticcio” secondo la Fiom. Tra le due strutture avrebbe dovuto tenersi una riunione congiunta il 22 febbraio, prima del direttivo nazionale convocato per il 26. Quel giorno, però, Susanna Camusso sarà in Israele e quindi ha disdetto l’appuntamento. La Fiom ha proposto, allora, una data a scelta tra il 16 e il 21 febbraio ma Camusso ha negato qualsiasi disponibilità. La riunione Fiom si terrà lo stesso il 22 febbraio e “se la Cgil vuole venire è benvenuta”.
L’assemblea di ieri, infine, nell’approvare la richiesta alla Cgil di ritirare la firma dall'accordo e di procedere a una consultazione democratica ha anche deciso di formare un coordinamento nazionale. Una “struttura nella struttura” di cui in Cgil non si sentiva parlare dagli anni 90, dalla stagione “dei bulloni” e dal disaccordo sulla politica della concertazione inaugurata da Bruno Trentin. I tempi sono cambiati, ma la Cgil è di nuovo a un passaggio cruciale.

l’Unità 16.2.14
La crisi uccide: suicidi in aumento nel 2013
di Nicola Luci


È un tema complesso che spesso sui media trova una rappresentazione frettolosa e approssimativa. È il suicidio legato a momenti di difficoltà economica, il «suicidio a causa della crisi» come viene spesso ridotto. Ovviamente, dietro all’estrema scelta personale possono esserci molti motivi, taluni decisivi, altri solo aggravanti. Però che le nuove condizioni di povertà o fallimento siano in qualche modo influenti lo dimostrano i dati: un suicidio ogni 2 giorni e mezzo, nel 2013 sono state complessivamente 149 le persone che si sono tolte la vita adducendo motivazioni economiche, rispetto agli 89 casi registrati nel 2012 di cui il 40% nel solo ultimo quadrimestre. Una parte riconducibile a una situazione di difficoltà economica generale, un’altra parte a causa - anche - della perdita del lavoro. È un inventario di Link Lab, il Laboratorio di ricerca socio-economica dell’Università degli Studi Link Campus University, che da oltre due anni studia il fenomeno e che adesso pubblica i dati complessivi di un’attività di monitoraggio avviata nel 2012. Il dato che sposta verso la crisi economica quelle che si possono ragionevolmente chiamare concause è quello legato agli imprenditori: circa un suicida su due (45,6%) è infatti titolare dell’azienda (68 i casi nel 2013, 49 nel 2012 e molti meno negli anni precedenti). Ma, rispetto al 2012, cresce il numero delle vittime tra i disoccupati: sono 58, infatti, i suicidi tra i senza lavoro, numero che risulta più che raddoppiato rispetto al 2012 quando gli episodi registrati furono 28 (e va detto che gli strascichi della crisi hanno aumentato il numero di chi è senza lavoro).
Dopo i mesi estivi, il numero dei suicidi per ragioni economiche è tornato a salire vertiginosamente: a settembre, 13 episodi registrati. Ottobre ha contato 16 vittime, novembre ha registrato 12 casi mentre nell’ultimo mese dell’anno in cui le vittime sono state ben 18. Più specifico questo dato: in 19 casi si è arrivati al gesto estremo dopo che il consueto stipendio non è stato percepito. Molte persone vivono esclusivamente di ciò che guadagnano, lottando per arrivare a fine mese: se salta una «mesata» diventa impossibile. Il fenomeno non conosce differenze geografiche: al Sud come al Nord. Nel 2012 il numero più elevato dei suicidi si registrava nelle regioni del Nord-Est (27 casi con un’incidenza percentuale pari al 30,3%), un’area geografica a maggior frequenza di suicidio tra gli imprenditori a causa della maggiore densità industriale. L’analisi complessiva dell’anno 2013 sottolinea come il fenomeno sia andato uniformandosi a livello territoriale interessando con la stessa forza tutte le aree geografiche. Persino nel Mezzogiorno dove il tasso dei suicidi per crisi economica è sempre stato storicamente più basso rispetto alla media nazionale, vi è stato un allarmante aumento: 29 i casi del 2013 contri i 13 casi complessivi dell’anno precedente.
L’indagine è stata allargata anche ai casi di «tentato suicidio», e i dati parlano di un raddoppio della casistica.

il Fatto 16.2.14
Italiani brava gente, pestaggi contro immigrati e clochard
A Ostia picchiati tre egiziani, a Genova massacrati quattro senza tetto
di Carlo Di Foggia


Una bevuta con gli amici al bar per il compleanno, e per festeggiare un raid punitivo contro un negozio di immigrati. Razzismo, noia e violenza come passatempo, un mix che nella notte di ieri ha mandato in ospedale, con fratture e lesioni varie, tre egiziani titolari di un forno a Ostia, litorale romano. Verso le due del mattino, una dozzina di persone è entrata nel locale, in via della marina, armata di mazze e spranghe, picchiando i dipendenti e devastando tutto. Il motivo di un gesto così violento sarebbe stato uno sguardo di troppo. Tutto ricostruito dagli agenti del commissariato di Ostia. Uno scontro nato poche ore prima nel bar di fronte, dove i tre erano seduti ad un tavolo. Verso le undici di sera, il diverbio, non cercato, con un ragazzo seduto in una macchina ferma davanti all’ingresso.
C. D., 24 ANNI, conosciuto nella zona, con precedenti per spaccio e reati contro il patrimonio, gli avvicina a brutto muso: “Cazzo stai guardando?”, poi gli insulti, le minacce, e l’alcol che accende gli animi. Nessuno capisce il motivo del gesto. Ma non c’è nessuna possibilità di chiarirsi, tutto avviene in un attimo, e uno dei tre fornai viene subito preso a schiaffi. Nasce una colluttazione, volano parolacce e qualche pugno. I tre decidono di allontanarsi, ma la punizione è solo rimandata. Il ragazzo è su di giri, ha appena festeggiato il suo compleanno, forse è ubriaco. Va a chiamare gli amici e in poche ore il negozio, che di solito lavora tutta la notte per rifornire i bar della zona, viene preso d’assalto. In dodici entrano e iniziano a spaccare tutto, massacrano di botte i tre, che non fanno in tempo a chiamare aiuto, li lasciano a terra, sanguinanti e scappano. Nessuno vede niente. Gli agenti li hanno trovati ancora lì, davanti al forno, sanguinanti. Immediatamente sono scattate le indagini. Si cerca di ricostruire la banda guidata dal giovane romano, l’unico finora identificato, e per il quale è scattato il processato per direttissima con l’accusa di lesioni aggravate dai futili motivi . Il giorno dopo, sono in molti in città a interrogarsi su un episodio inquietante. Scontri tra giovani e stranieri non sono nuovi nella zona. Mai prima d’ora, però, si era assistito a un caso simile. “Un gesto di inusitata violenza”, per il capogruppo del Pd in Campidoglio, Francesco D’Ausilio: “È un raid squadrista. Vicende come questa turbano profondamente”. Vicende che ormai si ripetono sempre più spesso, da nord a sud del Paese. Azioni lampo, quasi sempre contro immigrati, spesso senza motivi apparenti.
IERI, A GENOVA, il Corriere Mercantile ha svelato nuove immagini del raid contro i quattro clochard slovacchi pestati a sangue nella notte tra il 24 e il 25 gennaio in piazza Piccapietra, considerata un po’ il salotto della città. Anche qui, l’aggressione si è svolta in tempi rapidissimi. Il commando ha agito di notte, cogliendoli nel sonno, avvolti da coperte e cartoni per resistere al freddo pungente. Nessuno dei quattro (due dei quali feriti in modo grave) è riuscito a fissare un volto. Le immagini mostrano un pestaggio messo in atto in modo scientifico. Prima il capobanda si accerta che i clochard dormano. Ad un suo cenno, il gruppo si divide.
Mentre due massacrano a bastonate una coppia, Alice Velochova, 45 anni, e Jan Bobak, 30, gli altri si accaniscono su Susana Jonasova e il suo compagno, Jonas Koloman, entrambi di 49 anni. Bobak è stato sottoposto a un intervento chirurgico per la riduzione di una seria lesione alla testa. Le indagini puntano al mondo degli ultras. Due dei quattro componenti del commando, sarebbero stati identificati dalla polizia.

Repubblica 16.2.14
Quella ferocia contro i clochard
di Gad Lerner


LA FEROCIA abbattutasi su due coppie di senzatetto che dormivano all’aperto in un gelido sabato notte, nel pieno centro di Genova, si presenta ora nuda e cruda sotto i nostri occhi, grazie ai fotogrammi sconvolgenti di una telecamera di sorveglianza. Guardiamoli. Impossibile girare la testa.
Vediamo quattro giovani resi anonimi dalle felpe o da passamontagna. Hanno i guanti per non lasciare impronte. Impugnano chi un tubo Innocenti, chi un manganello, chi mazze d’altro genere. Si appostano, fermi in attesa che il capo dia un segnale. Quindi, all’unisono, si avventano sui corpi addormentati. Bastonano con furia mirando alle teste sopra un giaciglio di cartone e una tendina da campeggio estivo. Li vediamo usare tutte e due le mani per colpire con maggior forza. Trentuno secondi in tutto, poi fuggono.
Anche i clochard meritano di essere riconosciuti per nome. Si chiamano Alice Velochova e Jan Bobak (ora è fuori pericolo, dopo una difficile operazione alla testa); e poi Susana Jonasova e Jonas Koloman (lui pure ferito grave). Hanno cittadinanza europea, slovacca. Sono vivi per miracolo. E allibiti.
I frequentatori del salotto buono di Genova, fra piazza De Ferrari e i portici di Piccapietra, fino al Teatro Carlo Felice e alla Galleria Mazzini, hanno una certa familiarità con questi clochard talvolta alticci e importuni, senza mai essere pericolosi. Cercano una grata che sputi aria calda dal parcheggio sottostante, s’imbottiscono di giornali, bevono vino dal cartone e tirano su una coperta. Getti uno sguardo, provi disagio e passi oltre.
La tentazione è di liquidarli come umanità di scarto, destinata prima o poi allo smaltimento. Gli stessi volontari e assistenti sociali che cercano di farsene carico offrendo loro un ricovero, spesso trovano ostacolo nel loro disagio psichico che li spinge ad aggrapparsi a un’illusoria autonomia: il loro illusorio simulacro di libertà. Talora occorrono anni di consuetudine per vincere la loro diffidenza e convincerli a lasciarsi curare. È anche il nostro alibi: cosa possiamo farci se rifiutano un tetto?
Solo che il “fenomeno”, se così vogliamo chiamarlo, lungi dal circoscriversi tende all’espansione. In mezzo alla strada arrivano pure gli sfrattati italiani e magari vanno fuori di testa persone che fino a ieri erano i nostri vicini di casa. Gli scarti umani si moltiplicano e insieme a loro non cresce la pietà ma piuttosto quella oscura tentazione dello smaltimento. Già, perché gli scarti umani tendono a raggrupparsi in centro, dove trovano isole pedonali, compagnia, illuminazione, qualche grado centigrado in più e il lusso da rimirare. Secondo la Comunità di Sant’Egidio, a Genova i clochard sarebbero duecento. A Milano gli studenti della Bocconi hanno fatto un censimento (“racconta Mi”) e ne hanno contati 2616. Nasconderli è diventato impossibile, e ora tocca fare i conti con chi vorrebbe semplicemente spazzarli via.
Speriamo che la polizia sappia dirci presto chi sono i quattro giustizieri della notte, con età compresa fra i 20 e i 30 anni, che volevano ripulire a modo loro le strade della movida. Si vocifera di ultrà da stadio, ma chissà. In cerca di spiegazioni si ipotizza una vendetta seguita a un conflitto territoriale nei giorni precedenti. Ha poco senso anche parlare di razzismo: questi si sono avventati su corpi dormienti come gli toccasse debellare non persone, ma una nuvola di insetti nocivi.
Già prima di guardare le fotografie in cui si descrive l’odio che culmina nel crimine, si era mossa una trentina di cittadini genovesi, dandosi appuntamento per una notte di condivisione all’addiaccio in Galleria Mazzini. Si sono appuntati sul sacco a pelo un foglietto con scritto: “Io è te”.
D’accordo, “Io è te”. Ma invece chi sono loro? Chi sono i quattro incappucciati propagatori di questa atroce pulizia cittadina?
Da tempo avvertiamo che la serpeggiante propaganda del disprezzo per gli Untermenschen (sottouomini) - così i nazisti etichettavano i popoli inferiori non degni di vivere - rischia di sfuggire al controllo di chi aspira solo a lucrarci vantaggi politici. Il passaggio dalle parole ai fatti, la militarizzazione del rancore, l’importazione dalla Grecia dell’ideologia criminale organizzata di Alba Dorata, forse sono già un fatto compiuto anche tra noi. I pogrom, i linciaggi del Ku Klux Klan, non sono eventi lontani. Le obbrobriose fotografie del massacro di Piccapietra ci resteranno impresse come una testimonianza indelebile.

Corriere 16.2.14
Raid notturno contro i clochard
La violenza che uccide l’umanità
di Isabella Bossi Fedrigotti


Bastano trentuno secondi per dimostrare di che pasta si è fatti? Guardando le immagini notturne, immortalate dalle telecamere, di quattro persone che prendono a randellate altrettanti barboni addormentati nei loro giacigli di cartone, si direbbe di sì. Tanto, infatti, è durato il raid nella notte genovese contro dei senzatetto slovacchi accampati in una via del centro; e il video della mattanza — perché, pur senza morti, a una mattanza di animali fa pensare la scena — è quasi inguardabile per la violenza cieca, stupida e crudele che trasuda. A una sequenza particolarmente brutale di un brutto film di guerra fa pensare.
Arrivano vestiti di nero i quattro aggressori — è la notte del 25 gennaio — guantati e incappucciati, armati di grosse spranghe con le quali furiosamente si gettano addosso agli uomini coricati negli scatoloni come se fossero mortali nemici infine stanati dal loro nascondiglio, sui quali vendicare le sconfitte, le ingiustizie, le frustrazioni, i torti che tutti quanti ci tocca subire dalla vita: ma che loro non possono a nessun costo sopportare.
Il video della telecamera che ha ripreso l’aggressione per fortuna non ha audio, altrimenti saremmo costretti ad ascoltare l’inascoltabile: gli urli, i pianti, le invocazioni, cioè, che necessariamente salgono dalla scena insanguinata.
Poi scappano i quattro uomini neri lasciandosi il massacro alle spalle, vanno via svelti, topi che fuggono a precipizio dal luogo del delitto. Si saranno divertiti? Si saranno complimentati tra loro per la spedizione portata a buon fine? Saranno poi andati a scolarsi qualche birra per festeggiare la grande impresa di sprangare quattro clochard addormentati? Risate e pacche sulle spalle? Magari un salto in discoteca? È probabile: ormai si sa che sono questi i riti abituali del dopo crimine, anche del più feroce e sanguinoso. In conclusione, sì, lo si può confermare: trentuno secondi sono ampiamente sufficienti per dimostrare di quale pasta si è fatti.
E per fortuna che ci sono le telecamere, grazie alle quali le forze dell’ordine sono riuscite a individuare i quattro picchiatori.

il Fatto 16.2.14
Roma Ponte Galeria tensioni durante il corteo

Ieri il movimento “No Cie” ha manifestato per chiedere la chiusura del Centro di Ponte Galeria. Ci sono stati momenti di tensione: alcuni manifestanti hanno cercato di aprire le recinzioni. Agenti hanno risposto con un’azione di contenimento lanciando lacrimogeni.

Corriere 16.2.14
Stranieri, uno su tre vuole la linea svizzera
Il 34% degli italiani voterebbe sì per limitare l’ingresso anche dei cittadini comunitari
di Nando Pagnoncelli


L’opinione pubblica italiana ha seguito solo in parte il recente referendum che si è tenuto in Svizzera sul tema dell’immigrazione: complessivamente il 41% in modo approfondito o negli aspetti più importanti mentre il 45% ne ha solo sentito parlare e il 15% ignora la vicenda.
I risultati della consultazione svizzera hanno fatto molto discutere in Europa, tenuto conto dell’affermazione, sia pure di misura, di coloro che intendono introdurre un tetto massimo di immigrati sia extracomunitari che provenienti dai paesi europei, ivi compresi i frontalieri, cioè i lavoratori italiani che si recano quotidianamente a lavorare nel Canton Ticino.
L’esito referendario divide gli italiani: 30% ritiene che si tratti di una decisione giusta, perché ogni paese deve difendersi dall’eccesso di immigrazione e 17% la considera giusta solo per gli immigrati extracomunitari ma non per i cittadini europei. Sommando le due voci si arriva a un 47 % di favorevoli a una limitazione degli ingressi. Al contrario il 47% la giudica una scelta sbagliata.
Le critiche espresse dall’Ue e dalla Germania alla decisone che contravviene agli accordi sulla libera circolazione incontrano il favore del 58% degli intervistati ma si osserva una cospicua minoranza (21%) convinta che la Svizzera, nonostante abbia sottoscritto l’accordo, sia libera di scegliere perché non fa parte dell’Ue e il 15% dissente perché ritiene opportuno limitare il diritto di circolazione in tutti i paesi europei. Quest’ultima opinione è più diffusa tra i ceti più popolari, le persone meno giovani e istruite, i lavoratori autonomi, gli operai le casalinghe e i pensionati.
Nell’ipotesi che anche in Italia si facesse un referendum analogo quasi un italiano su due (46%) voterebbe «no» perché contrario a limitare la circolazione in Europa, mentre un terzo dei rispondenti (34%) voterebbe per contenere l’ingresso di tutti gli stranieri, compresi quelli comunitari. Anche in questo caso si tratta in particolare dei ceti più esposti agli allarmi sociali e di coloro che temono maggiormente la competizione degli immigrati, comunitari o meno, per il rischio di «dumping salariale», cioè gli artigiani, i commercianti, gli operai e in generale chi svolge un lavoro di tipo esecutivo.
Le risposte dei diversi elettorati evidenziano aspetti sorprendenti rispetto a quanto emergeva dai sondaggi soltanto fino a qualche anno fa, in particolare nel centrosinistra nel quale, pur prevalendo atteggiamenti di maggiore apertura nei confronti dell’immigrazione e dei diritti di circolazione in ambito comunitario, si osservano aree di elevato dissenso: il 30% condivide in toto la decisione svizzera e il 19% solo in parte; inoltre il 20% voterebbe «sì» nell’ipotesi di un analogo referendum in Italia.
I risultati del sondaggio vanno interpretati alla luce di tre aspetti: innanzitutto la preoccupazione per un possibile aumento degli immigrati nel nostro paese soprattutto in un periodo di crisi come quello attuale; infatti, mentre prevale un atteggiamento di apertura nei confronti della popolazione straniera residente in Italia, in particolare quella presente da tempo costituita da famiglie e individui che si ha occasione di conoscere e frequentare a scuola, nei luoghi di lavoro e nei quartieri, al contrario si paventa un ingresso incontrollato di immigrati che potrebbe rappresentare un problema in termini sociali.
Ciò spiega le opinioni largamente favorevoli allo ius soli che sembrano contraddire quanto emerso dal sondaggio. In secondo luogo le posizioni riguardo alla circolazione dei cittadini comunitari riflettono gli atteggiamenti difensivi nei confronti dell’Unione Europea che da qualche tempo sta vivendo un forte appannamento di immagine ed è giudicata sempre più distante. Da ultimo le opinioni dei cittadini sono meno influenzate dalle appartenenze politiche rispetto al passato: queste ultime si sono fortemente indebolite e i cittadini sono sempre meno tifosi e si sentono più liberi di dire ciò che pensano nel merito delle singole questioni.

Corriere 16.2.14
Ma secondo gli ultimi dati dell’Istat arrivano sempre meno immigrati
di Claudio Del Frate


Proprio mentre l’Italia si scopre insofferente agli stranieri come mai lo era stata in passato, gli immigrati voltano le spalle all’Italia. Le ultime rilevazioni dell’Istat hanno infatti certificato che i flussi di arrivo nel nostro paese sono in evidente frenata. Non solo, mentre arrivano meno stranieri hanno ricominciato a fare le valigie dal Belpaese proprio gli italiani, soprattutto se giovani e laureati.
Gli ultimi dati elaborati dall’istituto di statistica sono stati diffusi alla fine di gennaio e fanno riferimento a tutti i movimenti registrati nel corso del 2012. Un numero emerge con forza su tutti gli altri: nel corso dell’anno i nuovi stranieri che si sono accasati in Italia sono stati 351mila, 35mila in meno rispetto al 2011 con un calo del 9,1%. Si tratta della crescita più scarsa a partire dal 2007. Assieme alla flessione nell’arrivo degli stranieri l’Istat registra anche un calo nel rientro degli italiani, passati da 31 a 29 mila. Nel mix etnico di chi cerca approdo tra la Sicilia e le Alpi calano bruscamente i moldavi, gli ucraini e i peruviani, con percentuali che oscillano tra il 40 e il 30% mentre aumentano gli arrivi dalle zone dell’Africa e dell’Asia che sono scenario di gravi conflitti.
Se gli arrivi sono in frenata, è ripreso sull’altro versante l’esodo dall’Italia verso paesi ritenuti più attrattivi e in grado di garantire un futuro migliore. Anche in questo caso i numeri più significativi riguardano i cittadini stranieri: le cancellazioni dalle liste anagrafiche dei comuni hanno riguardato nel 2012 ben 106mila extracomunitari con un segno più di 24mila persone rispetto all’anno precedente.
Ma il fenomeno (non nuovissimo ma ora certificato in dimensioni significative) più preoccupante riportato dall’Istata è l’abbandono dell’Italia da parte degli italiani. Nel periodo preso in considerazione hanno detto addio 68mila connazionali, con un incremento del 36% sul 2011. La perdita non è pesante solo in termini numerici. «Le migrazioni per l’estero di cittadini italiani con più di 24 anni di età — scrivono nel loro report gli analisti dell’Istat — riguardano per oltre un quarto del totale individui in possesso di una laurea. La loro meta preferita è la Germania».
Oltre al paese di Angela Merkel altre destinazioni scelte sono il Regno Unito, la Svizzera e la Francia. Messi in fila tutti questi numeri ne esce che il 2012 si è chiuso tra immigrazione ed emigrazioni con un saldo attivo di 245mila persone, anche in questo caso l’indice più basso a partire dal 2007. Ma esistono anche spostamenti considerevoli anche all’interno dei confini italiani e hanno riguardato ben 249mila stranieri che si sono mossi tutti dalle regioni meridionali verso quelle del Centro e del Nord Italia.
In definitiva, l’Italia continua a ricevere stranieri ma appare meno attrattiva di quanto avveniva in passato e calano la composizione di questi flussi: meno arrivi dall’Est Europa dovuti in particolare alla ricerca di nuovi posti di lavoro, a vantaggio di sbarchi dovuti a motivi umanitari da zone di guerra.

La Stampa 16.2.14
Avamposto Lampedusa dove i militari presidiano il nulla
L’incaricato del Consiglio d’Europa nel centro senza immigrati
di Nicolò Zancan


A un certo punto, mister Chope sembra quasi perdere la pazienza. Un lampo di insofferenza gli passa negli occhi azzurri: «Questa storia degli immigrati che non vogliono rilasciare le impronte digitali è proprio un concetto nuovo. Non capisco. Gente che sfugge dalle persecuzioni e poi pretende di voler andare negli Stati Uniti, piuttosto che nel Nord Europa. Io credo che dovrebbero essere molto grati al Paese che presta loro soccorso. Dovrebbero collaborare con l’Italia e farsi identificare». Non è così, mister Chope, proviamo a ribattere. Non vogliono stare qui, ormai è un passaparola mondiale. Si oppongono all’identificazione. E allora, fino a che punto l’Italia deve spingersi per ottenere le impronte digitali? «Dovremo trovare un modo per garantire la sicurezza, se ancora non c’è. Un modo affinché i migranti siano subito tutti identificati, senza possibilità di errore». 
Christoper Chope, 67 anni, parlamentare britannico, conservatore, è l’uomo che sta stendendo il rapporto sull’immigrazione per il Consiglio d’Europa. La prima bozza del suo lavoro è stata resa pubblica il 4 ottobre, il giorno dopo il naufragio in cui morirono 366 migranti. Una sintesi brutale potrebbe essere questa: «A causa di sistemi di intercettazione e dissuasione inadeguati, l’Italia si è trasformata in una calamita per l’immigrazione». Ma adesso Chope è venuto a Lampedusa per guardarci da vicino, vuole rendersi conto. Deve ancora stendere la versione conclusiva del suo rapporto, anche se sembra avere le idee già abbastanza chiare. Negli incontri privati si spinge a dire: «L’Italia deve attrezzarsi per rilevare il Dna dei migranti». Non contempla incertezze. Altre destinazioni possibili. E chissà che effetto gli fa questo centro di accoglienza arrugginito e completamente svuotato, a parte il placido cagnone Cesare che accoglie gli ospiti al cancello. «L’Italia non è Malta - dice Chope - ha tutti i mezzi per affrontare questa situazione». Con tanti cari saluti dal resto d’Europa... 
Non si è era mai vista Lampedusa così. Alberghi chiusi, strade deserte. Gli ultimi sei profughi siriani sono stati trasferiti a Trapani lo scorso 15 gennaio. Da allora, più nessuno. Anche se tutto l’apparato di sicurezza è ancora in funzione: militari con mezzi nuovi, medici con il camice lindo per l’occasione. Anche se i ventisette dipendenti di Lampedusa Accoglienza - e questa è un’autentica sorpresa - sono ancora al loro posto. E’ la società che gestisce il centro di Contrada Imbriacola. Il contratto doveva essere rescisso, dopo lo scandalo di quelle immagini trasmesse dal Tg2, con ragazzi eritrei lavati nudi, in cortile, davanti a tutti, per togliere la scabbia. Eppure... «Abbiamo ottenuto una proroga per febbraio, speriamo di riuscire ad andare oltre», dice uno di loro con un certo imbarazzo. Addirittura spiegano a mister Chope il funzionamento delle cucine. 
Fuori, ci sono gli ultimi telefoni pubblici d’Italia. Servivano per permettere ai migranti di telefonare a casa. Molti sono scassati, presi a pugni. Gli operai lavorano per ricostruire l’ala del centro bruciata durante le rivolte del 2011. Chope, domanda: «Sarà pronta ad aprile?». «Dovrebbe», risponde il prefetto di Agrigento Nicola Diomede. Tutti sorridono, amichevoli. Ma si capisce che è un incontro fra mondi distanti. 
Il sindaco Giusi Nicolini: «Non dimenticatevi che le decisioni che prenderete saranno decisive per le periferie come Lampedusa». Chope sorride sarcastico: «Nel caso, potete sempre rendervi indipendenti dall’Europa...». 
Ad accompagnarlo c’è il viceministro dell’Interno Filippo Bubbico. Ha appena scritto una relazione che fotografa il tragico 2013 delle coste italiane: 42.925 sbarchi (+325% rispetto al 2012), 3.818 minori non accompagnati, Libia, Egitto e Turchia i porti di provenienza. È stato l’anno dei profughi siriani: 11.307. Ma forse, il dato più sorprendente è un altro: a gennaio 2014 sono sbarcati 2.156 migranti, nello stesso periodo dell’anno scorso erano 582. L’emergenza continua. Anche se nessuno ne parla. 
Mister Chope si informa sul costo giornaliero per ogni singolo immigrato accolto a Lampedusa. «29 euro - dice il prefetto - ma la Croce Rossa sostiene che ne servirebbero 40». La scena è surreale. Le stanze dei container sono state lucidate per l’occasione. Le brandine sembrano addirittura nuove. Il deputato Sandro Gozi, del comitato parlamentare che si occupa di immigrazione, è colpito dalle parole nette di Chope: «In realtà avremmo bisogno di più Europa. Se davvero vogliono obbligarci a prendere le impronte digitali a tutti costi, persino con la forza, deve essere una normativa comunitaria a prescriverlo. Altrimenti rischiamo di incappare nelle sanzioni della Corte europea dei Diritti dell’Uomo. Anche l’operazione Mare Nostrum fa pensare. L’impegno della nostra Marina sta dando risultati importanti, 6127 migranti salvati. Ma l’Italia è sola anche su questo fronte». 
Il cane Cesare abbaia nel vento. Lampedusa è vuota, mentre il Palasport di Augusta è affollato di migranti accampati. Durante le partite di basket, devono lasciare il posto, bagni compresi, per poi tornare a fine giornata. Anche a Trapani la situazione è esplosiva. Come da giorni denuncia Save the Children. 
Oggi, alla frontiera d’Europa è rimasto un solo operatore sociale. Si chiama Mohamed Aman, sbarcato nel 2008. E’ diventato un mediatore culturale: «Tutti mi dicono che è dura vivere qui. Ma io credo che quest’isola entrerà nella storia, e nel mio piccolo ne sto facendo parte. Per me Lampedusa è come Ellis Island a New York. Diventerà un museo. Per questo resisto e aspetto il prossimo sbarco, in questo spazio sospeso fra due continenti». 

l’Unità 16.2.14
Aldro, la piazza piena di Ferrara: «Via la divisa»
In cinquemila alla manifestazione contro il reintegro in Polizia degli agenti che nel 2005 uccisero il giovane
La sentenza li definì «schegge impazzite». Ma dopo sei mesi tornano a lavoro
di Adriana Comaschi


«Ci saranno sempre madri, sorelle, zie, le famiglie. Noi non staremo mai zitti. Quei poliziotti devono essere licenziati ». Quando Patrizia Moretti, madre di Federico Aldrovandi, scandisce queste parole davanti alla Prefetura di Ferrara il corteo aperto dallo striscione #Vialadivisa si scioglie in un lungo applauso liberatorio. È una promessa: i familiari di Federico, morto a soli 18 anni con la cassa toracica schiacciata dall’anfibio di un agente delle volanti, non saranno lasciati soli. Come non lo erano ieri, circondati da almeno tremila persone.
Piercing e capelli bianchi, biciclette e passeggini, alcuni centri sociali da Bologna, gli ultrà della Spal (di cui Federico era tifoso) accanto a quelli del Bologna e della Fortitudo Basket. Il segretario del Pd ferrarese Paolo Calvano, l’assessore allo Sport del Comune di Bologna Luca Rizzo Nervo, una ragazza all’ottavo mese di gravidanza che porta alto il cartello «chiediamo giustizia». Arriva da Riccione, di Federico non sapeva nulla fino a un anno fa «poi ho visto il film È stato morto un ragazzo (di Filippo Vendemmiati ndr) e oggi sono qui. È una storia che mi fa rabbia: la pena per quegli agenti doveva essere maggiore, e non dovevano avere il reintegro. Ora che divento madre non posso pensare che una cosa del genere potrebbe succedere a mio figlio». Gigliola Marangoni invece è di Ferrara, «non sono contro la polizia, ma se un poliziotto sbaglia deve pagare come chiunque. Ho seguito ogni manifestazione per Federico dall’inizio. Speriamo che ci sia una fine».
È insomma un impegno, quello preso ieri a Ferrara. Si andrà avanti, finché non saranno accolte le richieste della famiglia: niente reintegro per Paolo Forlani, Enzo Pontani, Luca Pollastri e Monica Segatto; introduzione del reato di tortura e dell’obbligo di rendere identificabili le forze dell’ordine con il numero di matricola.
Perché il dolore degli Aldrovandi si è moltiplicato, da quel terribile 25 settembre 2005, così come si è moltiplicata la loro voce. Che ora è anche quella di Ilaria, sorella di Stefano Cucchi, «morto dopo soli sei giorni in mano allo Stato», o di Lucia Uva, sorella di Giuseppe, deceduto in ospedale nel 2008 dopo essere stato trattenuto in caserma a Varese per alcune ore perché ubriaco. C’è la figlia di Michele Ferrulli, morto a Milano in circostanze simili a quelle di Aldro, la famiglia ha denunciato il suo pestaggio per strada da parte di quattro agenti «e loro continuano a negare tutto».
Si abbracciano in via dell’Ippodromo, «forse unite ce la faremo ad avere non vendetta ma giustizia», là dove Federico è stato immobilizzato a morte dagli agenti. Agenti condannati a 3 anni e mezzo ridotti per l’indulto, definiti «schegge impazzite» nella sentenza della Cassazione, hanno scontato sei mesi e ora sono di nuovo poliziotti. Non più a Ferrara e alle volanti, ci mancherebbe. A Treviso, Venezia, lontano, dietro una scrivania. Ma, appunto, con la divisa indosso: mai come in questo caso un simbolo. «I processi saranno inutili se i colpevoli vestiranno ancora l’uniforme », quasi grida Lucia Uva. Altri familiari di vittime della violenza istituzionale si agitano, «se il massimo della pena è carcere ridotto, tenere la divisa e pretendere lo stipendio, perché non dovrebbero rifarlo?». Laura Budroni sospira, «chi ha ucciso il mio Dino (un poliziotto durante un inseguimento sul Gra di Roma) è tornato in servizio e ha pure la pistola...». «Pregiudicati in servizio nella polizia di Stato - chiosa papà Lino, la voce fatica a non rompersi -, pure premiati. Così la vedo io, molti vorrebbero andare in ufficio al posto loro, è più comodo. Dopo l’incontro con il capo della Polizia Manganelli nel 2011 ero tornato a sperare. E invece...». Invece la famiglia ha saputo per caso che la condanna per «eccesso colposo in omicidio colposo» si risolverà in una farsa all’italiana. «La legge giustifica l’uso della forza, ma non ammette la violenza fuori da ogni regola», ricorda il padre di Federico davanti al Castello Estense e anche qui l’applauso è catartico, si cerca di scacciare la paura per quello che sembra incredibile e invece è accaduto. Sarebbe stato diverso se il Parlamento avesse fatto la sua parte introducendo il reato di tortura, con pene più severe, «non credo dia fastidio ai poliziotti onesti».

il Fatto 16.2.14
Il “lupo” del sesso che violentava le operaie
Giampiero Manfredini è stato condannato a 10 anni per aver abusato di tre sorelle, tutte assunte nella sua azienda
di Davide Milosa


Il racconto, terribile, inizia così: “Mi ha toccata, lui se n’è andato, camminavo dietro a lui e gli ho detto: senta signore, lei non mi deve toccare e lui mi aveva risposto: ma va, guarda, qua è così”. Il senso è chiaro: “Devi soltanto darmela, qua in Italia è così, nessuno ti darà un posto di lavoro, nessuno ti farà quello che io vado a fare per te, se no vai via”.
Le parole sono quelle di Rebeca, una donna sudamericana che assieme alle due sorelle ha lavorato nella ditta di materiale plastico di Giampietro Manfredini, nato a Melzo nel 1938, condannato in primo grado a dieci anni di carcere per violenza sessuale e maltrattamenti.
NEL 2011, REBECA si licenzia e denuncia. La polizia inizia a indagare. La sentenza arriva il 29 gennaio scorso, dopo che il 20 marzo 2013 l’imprenditore viene rinviato a giudizio. Ieri il deposito delle 55 pagine di motivazioni firmate da Fabio Roia presidente della Nona sezione penale del tribunale di Milano. E dove Manfredini viene descritto come un “lupo” che ha “costruito” un “clima di macelleria ambientale e relazionale”, tenendo, per anni, un comportamento ispirato “da una concezione quasi schiavista del ruolo della lavoratrice donna, sempre potenzialmente oggetto di attenzioni di tipo sessuale”. Non solo. Secondo la Corte, Manfredini era riuscito a creare “un rapporto di imposta sudditanza personale della vittima nella costante minaccia di licenziamento e di interrompere il processo di regolarizzazione personale e familiare che le donne avevano intrapreso per radicarsi con i loro cari in Italia”. La storia inizia nel 2001 quando proprio Rebeca, la prima delle tre sorelle, arriva a Milano e inizia a lavorare per Manfredini. Assunta a tempo determinato nella ditta composta da un solo capannone nell'hinterland milanese e dove erano impiegate al massimo sette persone. La seguiranno le altre due sorelle. L’ultima arriva a Milano nel 2003. Fin da subito iniziano le minacce e le pressioni psicologiche. L’argomento di Manfredini è sempre lo stesso. “Guarda, tu me la devi dare, tu devi venire con me a letto se vuoi che ti sistemi, che faccia venire i tuoi figli, se no dimenticati di tutte queste cose che ti ho detto (...) tu domani devi venire e me la devi dare assolutamente”. Parole riferite da una delle tre sorelle e messe a verbale durante le udienze del processo iniziato il 12 giugno 2013. La donna prosegue nel descrivere la violenza: “Ho fatto quello che ho dovuto fare sopra una scrivania che era il posto dove lui se ne approfittava, voleva farlo ogni giorno”. Una situazione, ragiona il giudice, “decisamente drammatica” e dove, soprattutto la prima delle tre sorelle, “è stata costretta a una vera e propria sottomissione sessuale violenta da parte dell’imputato”.
ECCO DI NUOVO il racconto della donna: “Mi fischiava, come quando si chiama un cane”. E se lei non rispondeva, Manfredini si arrabbiava: “Mi diceva: chi cazzo ti credi di essere? Mi spintonava. Non vedi che io sono un uomo importante, non sai quante ragazze vogliono fare sesso con me!”. Il risultato di quello che il giudice definisce “un mobbing padronale” è stato trascinare le donne “sull’orlo del suicidio a causa di una storia devastante che le ha tolto completamente la capacità di godere della vita”. Dopo il 2003, poi, una delle tre sorelle rimane incinta. Martha, racconterà Rebeca, faceva la magazziniera e dunque il lavoro era molto pesante. Quando Manfredini lo viene a sapere va su tutte le furie. Dirà l’imprenditore a un’altra sorella: “Quella lì deve andare via di qua, quella puttana. Quello che ha dentro (...) quello che ha la tua sorella ha una scimmia”. Il marito della donna, spiega sempre Rebeca, “è un signore di colore molto scuro di pelle”. Questa la vicenda alla quale si aggiunge l’atteggiamento tenuto in aula da Manfredini e che “non ha dimostrato alcun segnale di presa di coscienza del disvalore di un atteggiamento quantomeno di natura padronale nelle relazioni con le sue dipendenti limitandosi”. Da qui la scelta della Corte di condannarlo a versare una provvisionale alle tre donne (350 mila euro, 150 mila euro e 80 mila euro), definendolo, anche in base ai racconti dei testimoni convocati in aula, “una persona certamente di impronta e mentalità fortemente maschilista e sessista, assimilabile ad un regime di tipo padronale (...) e qualificato da forme di devianza e perversione sessuale”.

Corriere 16.1.14
Licenziata la vigilessa che aveva denunciato il comandante per violenza sessuale
«Mi aveva costretta a guardare un video hard».
Il giudice archivia e il comune decide: «Ora deve andarsene»
di Nicola Catenaro

qui

Repubblica 16.2.14
Il tribunale ecclesiastico ligure: così il genitore diventa il vero coniuge
La Chiesa avverte i figli mammoni “Il vostro matrimonio è annullabile”


ROMA - Volere bene alla mamma va bene, ma quando si esagera, beh, può essere un problema per la vita di coppia. E addirittura una delle cause di nullità del matrimonio. A dirlo è stato proprio il tribunale ecclesiastico coniando il termine “mammista”. Che, secondo la Sacra Rota, descrive chi «per ogni scelta, per ogni mossa - spiega il vicario giudiziale del tribunale della Liguria, monsignor Paolo Rigon - ha necessità di avere l’approvazione del genitore che di fatto diventa psicologicamente il vero coniuge mentre la persona che si è sposata sarà solo la sostituta».
Parole che arrivano dopo che venerdì durante l’incontro per San Valentino con i fidanzati, papa Francesco aveva scherzato: «Non esiste la moglie o il marito perfetto. Non parliamo della suocera perfetta». Quella era solo una battuta. Questa, invece, è una decisione giuridica destinata ad avere conseguenze.
Ma attenzione. I prelati in toga hanno selezionato con cura le parole: mammista non si deve confondere con mammone, genere assai frequente in Italia. Mammista è chi fa entrare la madre (o il padre) in ogni cosa della vita di coppia, rendendo di fatto impossibile costruire una famiglia propria. Chi, insomma, nonostante il sì, continua a cercare nella mamma tutte le sue risposte. Autorizzandola a interferire su qualsiasi cosa, dal modo di cucinare al colore delle tende, passando per le prestazioni nel letto coniugale e l’educazione dei figli. Il mammismo, avvertono gli uditori ecclesiastici, «porta a una dipendenza che inficia gravemente la vita coniugale». “Cuori di mamma” avvisati, dunque. Non ripetete continuamente al coniuge «mamma avrebbe fatto così» o «mamma pensa che... » perché la Sacra Rota non ci metterà molto a farvi tornare sul divano di mamma. Celibi o, perché no, nubili.

Corriere 16.2.14
Una Venere del Canova da sindrome di Stendhal
Vertigini da bellezza Come si manifestano? Perché ha il nome dello scrittore? Chi colpisce in prevalenza?
di Mauro Pigozzo


POSSAGNO (Treviso) — Lo scenario era lo stesso nel quale si immergeva un amico di Antonio Canova a cavallo tra il Sette e l’Ottocento. La luce soffusa di una lanterna. La perfezione di una Venere. L’apparizione della bellezza. E poi un fragore nella testa, un mancamento di fronte all’emozione universale. È capitato la notte di San Valentino alla Gipsoteca di Possagno, nel Trevigiano: Patrizia, che ha chiesto di essere identificata solo col suo nome di battesimo, è stata vittima della sindrome di Stendhal di fronte ad un’opera dell’artista veneziano.
Il racconto inizia alle 21.30 di venerdì sera. In programma, c’era la visita della casa e del museo alla luce di sei lanterne. Presenti una settantina di persone, tra cui il presidente della fondazione Canova, Giancarlo Galan, e Tiziano Bembo, presidente di Cav, la società del Passante.
A guidare il gruppo di Patrizia c’era Giancarlo Cunial, profondo conoscitore del Canova, che stava raccontando la tecnica dell’artista, capace di passare dall’argilla al gesso e quindi al marmo. «Eravamo nelle sale dove è allestito il laboratorio della scultura — spiega Cunial — quando, di fronte alle due Veneri, la signora è stata colta da svenimento». Il marito l’ha sorretta mentre lei sussurrava un «aiuto, mi sento mancare». «Le abbiamo portato un bicchiere d’acqua, l’abbiamo fatta sedere per dieci minuti — aggiunge il vicepresidente della fondazione, Renato Manera —. Poi ha deciso di ricominciare la visita». «Mi era già capitato, durante una mostra dedicata ai Maya», avrebbe confessato dopo la donna.
E così ritornano d’attualità le parole dello scrittore Marie-Henry Beyle, detto Stendhal, che nel 1817 descrisse così quella che sarebbe poi divenuta la «sua» sindrome. «Ero giunto a quel livello di emozione dove si incontrano le sensazioni celesti date dalle arti ed i sentimenti appassionati. La vita per me si era inaridita, camminando temevo di cadere».
Cunial non si stupisce. «Di fronte a tanta bellezza, può capitare di tutto». Anche perché secondo un’indagine dell’Istituto di Psicologia psicoanalitica di Roma la Gipsoteca canoviana è decima, a livello nazionale, nella classifica dei musei con un’alta probabilità di essere colti da un’altra «sindrome»: quella di Rubens. Per chi non la conoscesse, è ciò che accade quando si viene travolti da un irresistibile desiderio erotico di fronte alle opere d’arte.

il Sole 16.2.14
Il collasso dei politici europei
Se il cielo e la terra cambiano posto e nessuno se ne accorge
di Guido Rossi


A tre mesi dalle elezioni europee, che potrebbero dare una svolta decisiva all'errata politica di austerità che ha provocato recrudescenza della crisi economica, aumento di diseguaglianze, disoccupazione e povertà, la Commissione Lavoro e Affari Sociali del Parlamento Europeo ha bocciato le azioni della troika. La sua relazione, appena approvata a larga maggioranza, che passerà in aula il prossimo marzo, riguarda soprattutto i piani di salvataggio di Grecia, Portogallo, Irlanda e Cipro e, considerando i loro effetti disastrosi, chiede formalmente agli Stati membri e all'intera Unione di lanciare progetti di sviluppo per «combattere la disoccupazione e garantire la protezione sociale». Il relatore Alejandro Cercas, al termine della votazione, ha lamentato che: «il Parlamento europeo è stato completamente tagliato fuori dal processo decisionale , mentre i cittadini europei pensano che sia stata "l'Europa" ad aver agito, sicché essa non è vista come strumento di aiuto per uscire dalla crisi, ma come parte del problema».
L'incomprensibile indifferenza dei diversi governi degli Stati membri, vittime di pressioni populiste, che di tutt'altro si stanno occupando, piut-tosto che dell'avvenire dell'Europa, non si sono neppure resi conto che secondo il detto cinese – ripreso dal Financial Times – questa è stata la settimana, nella quale «il cielo e la terra hanno cambiato posto».
Gli Stati membri della Ue rimangono, è vero, nazioni distinte, ma il loro maggior peso e significato politico e culturale viene dal far parte dell'unico "SuperStato" che esiste al mondo. Di questa ignorata occasionale "fortuna", qualora non sia corrisposta da una pari "virtù", come avrebbe commentato Niccolò Machiavelli, non si potranno giovare a lungo, preferendo, in una sorta di cupio dissolvi, una reciproca disgregazione, un ignorante separatismo tribale, che porterebbero alla loro totale irrilevanza storica.
Ed è proprio forse, di fronte ad un possibile vicino sostanziale cambiamento della politica europea, che improvvisamente arrivano inaspettate bordate antieuropee dall'esterno e dall'interno. Il risultato della scorsa domenica del referendum svizzero sull'immigrazione è un gravissimo segnale antieuropeo che proviene, è vero, non da uno Stato membro, ma da uno Stato estraneo all'Unione, che tuttavia di essa ha, per il suo bene e spesso per il male degli altri, ampiamente beneficiato.
Viene così messa in questione la libera circolazione delle persone, che costituisce uno dei principi fondamentali dell'Unione Europea, legata alla Svizzera da 7 accordi bilaterali, fra i quali proprio quello sulla libera circolazione, entrato in vigore nel 2002, e insieme al quale anche gli altri potrebbero caducarsi. E così, anche il progetto di scambio di informazioni in materia fiscale, in discussione da tempo, fra la Commissione e il Governo svizzero, con l'inevitabile scomparsa dell'odioso segreto bancario, è destinato a spegnersi. Su questi problemi i ministri degli esteri dei 28 Paesi riuniti a Bruxelles, dovrebbero iniziare a discutere da domani, dopo la prima immediata, non certo tenera reazio-ne.
Ma all'interno della Ue si presentano altre e ancor più pericolose forze centrifughe. Il caso di maggior rilievo e forse il più trascurato è quello della possibile disgregazione del Regno Unito, proprio al momento, se sono vere le previsioni della Banca d'Inghilterra, in cui l'economia dell'Uk raggiunge un aumento del 3,4%, paragonandosi alle ormai passate star dei Paesi emergenti. Eppure, il Regno Unito costituisce, all'interno, il più inquietante problema di questa travagliata Europa. Infatti, nell'autunno di quest'anno sarà indetto un referendum per decidere sulla creazione di uno Stato scozzese sovrano, autonomo e indipendente, attualmente nel programma fortemente sostenuto dal partito di maggioranza. Significherebbe semplicemente la scomparsa del nobile e regale Regno Unito. Ma il futuro della Scozia non riguarda solo la durata dell'Uk, le cui corone furono unificate nel 1603 e i Parlamenti di Londra ed Edimburgo fusi nel 1707, poiché è destinato a riverberarsi sull'intera Europa, sulla sovranità, sulla governance e sull'esistenza stessa del Superstato, creando un pericoloso precedente. Sembra invero che il Regno Unito abbia perso ogni identità: una monarchia diventata una federazione, sognando di essere uno Stato unitario, e che nel sogno semplicemente svanisce. Passerebbe così, in secondo quanto inutile piano, il referendum promesso entro la fine del 2017 dal premier Cameron per approvare le eventuali condizioni poste per la permanenza del Regno Unito all'interno dell'Unione europea.
Per quel che riguarda la Germania, la situazione non pare recentemente cambiata, neppure di fronte alla sentenza della Corte Costituzionale di Karlsruhe, sulle varie questioni riguardanti il sistema europeo delle Banche centrali, l'Esm e il Fiscal Compact, poiché ogni decisione è rinviata al 18 marzo 2014, mentre i programmi non risultano minimamente cambiati rispetto alla tradizionale decisa politica di un'Europa tedesca.
La Francia invece presenta una situazione peculiare, dovuta a due fenomeni. Più di un terzo dei francesi, nei sondaggi, segue con passione la candidata dell'estrema destra antieuropeista, Marine Le Pen, la quale ha accolto con scomposte manifestazioni di gioia il risultato del referendum svizzero. Ma il presidente Hollande? Sconcertanti appaiono i suoi costanti riferimenti alla sovranità nazionale al di fuori dei problemi europei. In un tagliente articolo apparso recentemente sul New York Times, Paul Krugman, dopo aver fornito un quadro preciso della crisi economica, esamina i piani pubblicamente dichiarati dal presidente Hollande per cambiare la Francia. Il suo programma, di ridurre le imposte sugli affari e adottare indiscriminati tagli di spesa, è stato accompagnato da dichiarazioni teoriche a dir poco sconcertanti, quale quella che: «È nell'offerta che bisogna agire, poiché è l'offerta che crea la domanda». Ricorda Krugman che questa è la sintesi dell'ormai screditata legge di Say, la quale risulta ancor più erronea nella Francia del 2014, dove lavoro e capitale giacciono inattivi poiché la domanda è inadeguata. La conclusione è che le classi politiche europee (e che dire della nostra?) sono risultate vittime rassegnate dell'ideologia e della politica dell'austerity e sono finite in preda ad un collasso intellettuale.
Contro questo sostanziale antieuropeismo asociale un gruppo di grandi personalità della cultura francese (Eiffel Europe) ha reagito proponendo la creazione di una "communauté politique de l'euro" in parallelo con le tesi del "Glienicker Gruppe" tedesco, nonché con diverse iniziative, anche italiane, di vario genere, che stanno sorgendo in questa direzione, in una larga parte dell'opinione pubblica europea.
In conclusione, una cosa è certa e cioè che la ripresa dell'Europa ha un senso se insieme a un rafforzamento istituzionale democratico la politica economica e finanziaria subisce un radicale cambiamento, sicché, abbandonata la frenetica fissazione del debito, si orienta verso la tutela dei diritti, la lotta alla disoccupazione, l'abbandono dei vetusti canoni del neoliberismo, riprendendo le fondamentali tradizioni di civiltà europea per ridurre le disuguaglianze sempre crescenti e poter costituire così anche un punto di riferimento globale.

il Sole 16.2.14
L'Europa sospesa fra economia sociale e tecnocapitalismo
di Aldo Bonomi


Il recente referendum svizzero sulla regolamentazione dell'ingresso degli stranieri fa riapparire due archetipi del '900 che credevamo superati: il corpo migrante e la frontiera. La contemporaneità del nuovo secolo, l'ipermodernità del lavorare comunicando nella rete dello spazio globale, si basa sui flussi. Da quelli finanziari, che elaborano nell'istante milioni di informazioni di borsa e titoli tossici e meno tossici, la cui regolazione è questione aperta nella crisi, sino alle transnazionali che sorvolano frontiere fiscali e di costo del lavoro scegliendo dove atterrare, dall'Electrolux tra Porcia e la Polonia o la Fiat olandese e inglese, tanto per stare su questioni italiche.
Delle internet company è inutile dire con i loro flussi virtuali che creano community deterritorializzate ove si scambia e si cinguetta. Fatto salvo il ricordarci che il mezzo iper-leggero per connettersi è prodotto in Cina nella più grande fabbrica mondiale: 300mila addetti ove gli operai come forma disperata di protesta a volte si negano la vita suicidandosi. Verrebbe da dire cinicamente "è il capitalismo bellezza"; è il capitalismo infinito con le sue contraddizioni. Dove noi, Paese al margine dei flussi, cerchiamo di sopravvivere con il nostro capitalismo di territorio fatto da imprese che cercano di andare per il mondo. Ben raccontato dall'appello e dalla marcia virtuale, ma molto reale, lanciata a Torino da Confindustria. Tornando al referendum svizzero, c'è un ultimo flusso che si dimostra irriducibile e difficilmente regolabile quasi quanto la finanza speculativa, nello schema dei flussi che mutano e cambiano i luoghi in quello che Mauro Magatti nel suo ultimo libro "Una nuova prosperità" definisce «il tecno-capitalismo nichilista»: è il flusso delle migrazioni. Perché, parrà strano ai tempi del virtuale, anche le migrazioni sono un flusso di uomini, culture, usi e costumi che impattano nei luoghi, li cambiano economicamente, socialmente e nell'antropologia profonda. Fanno apparire una netta divisione tra chi sorvola il mondo, che giustamente fa dire a Marchionne essere indifferente ove abbia la sede, essendo la sede il suo aereo che sorvola l'Atlantico, e chi cammina territorio per territorio attraversando frontiere con la fisicità del corpo che incontra frontiere e muri solidi, molto solidi. Tutt'altro che liquidi per dirla con Bauman.
Val la pena tratteggiare alcuni flussi migratori che si concentrano e precipitano sulle frontiere. Ci aiuta una letteratura del margine delle odissee senza Itaca come la storia di Samia ricostruita con empatia mirabile da Giuseppe Catozzella nel suo "Non dirmi che hai paura". Si racconta il suo corpo votato alla corsa verso i flussi spettacolari delle Olimpiadi. Arriva dalla Somalia dilaniata dalle guerre tribali dei fondamentalismi alle Olimpiadi di Pechino. Poi il corpo attraversa deserti sino in Libia con il mito delle Olimpiadi di Londra. Affoga nel muro del Mediterraneo davanti a Lampedusa. Dei corpi profughi della Siria, emblema di una primavera araba diventata presto autunno, sappiano dalla cronaca della guerra civile e li vediamo nelle enormi tendopoli sulle frontiere libanese e turca e, per chi ci arriva, a Lampedusa. Guardando a Est, noi italiani siamo ancora segnati dalla sindrome da invasione delle navi albanesi che arrivavano stracolme al porto di Bari. Pur allargandosi formalmente l'Europa, ci sentiamo invasi da figure perturbanti come l'idraulico polacco o il camionista rumeno o il frontaliere per stare sul dumping sociale dell'economia informale o in nero. Che spesso è nelle nostre case con i volti delle badanti. E intanto non ci accorgiamo che di nuovo Sarajevo brucia. Non più per i bombardamenti nella guerra civile combattuta in nome del sangue, del suolo e delle religioni, ma per la rivolta di una generazione senza futuro cresciuta dentro frontiere tracciate in attesa di un'Europa di là da venire, come in Ucraina. Tra flussi e luoghi appare il territorio come spazio geoeconomico e geopolitico in divenire. Intanto ognuno si tiene le sue frontiere che scavano anche nei microcosmi.
Sono nato sul confine con la Valle di Poschiavo del Canton Grigioni. Non ho mai colto le differenze attraversando la dogana. Le differenze, per me adolescente, stavano più al centro: da una parte la Milano città-infinita, dall'altra la Sankt Moritz dei ricconi. Mi sono sempre sentito frontaliere come i tanti convalligiani che lavorano in Svizzera. Sono 60mila i frontalieri italiani con la Svizzera che ha il 60% della forza lavoro che arriva da oltre frontiera, 140mila dalla Francia. La disoccupazione è al 3,5% e nel Canton Ticino al 5,3 per cento. Eppure la crisi fa paura, semina incertezza, rinserramento. Qui scava anche la lettera del sindaco di Ravenna a Renzi che chiede «nuove regole che fissino un tetto al numero degli ingressi nel nostro Paese». Dopo avere realizzato la moschea, aver fatto eleggere due consiglieri comunali aggiunti votati dai 15mila immigrati che vivono a Ravenna, anticipando la logica dello ius soli. Tutto politicamente corretto. Intervistato ha spiegato che in 10 anni gli immigrati da 4mila sono diventati 16mila e che oggi lui ha il dramma di 28mila disoccupati. E che si trova con il cerino in mano vicino alla benzina del razzismo. Anche nella virtuosa Emilia-Romagna, più che operosa la comunità rischia di diventare rancorosa. Ben vengano lo ius soli e regole per i flussi, per tutti i flussi.
Rischiando di essere tacciato di "benaltrismo", per evitare che le elezioni europee che verranno abbiano come stracci che volano nel turbine del neopopulismo i corpi migranti e frontiere blindate, sarà il caso di chiedersi e discutere se vogliamo l'Europa dei flussi, del tecnocapitalismo nichilista. O l'Europa di un'economia sociale di mercato, che è la nostra storia, che riconosca la società che viene, fatta anche del corpo di Samia, dell'idraulico polacco, del camionista rumeno, delle badanti e dei giovani si Sarajevo.

Repubblica 16.2.14
Il sogno infranto dei baby campioni feriti al checkpoint dagli israeliani
Erano due promesse del calcio palestinese: non giocheranno più
di Fabio Scuto


RAMALLAH - Due giovani promesse del calcio nazionale palestinese non potranno mai più scendere in campo; sarà un miracolo – dicono i medici palestinesi – se potranno riprendere a camminare. I dottori dell’ospedale di Ramallah dicono che i due ragazzi – Jawhar Nasser Jawar di 19 anni e Adam Abd al-Rauf Halabiya di 17 – avranno bisogno di almeno sei mesi di trattamenti prima di poter sciogliere la diagnosi, che sembra però lasciare poche speranze.
Il loro sogno si è infranto il pomeriggio del 31 gennaio, mentre tornavano a casa dopo una sessione di allenamento dallo Stadio Feisal Husseini di Al-Ram, quello dove gioca e si allena la nazionale palestinese nei pressi di Gerusalemme, appena oltre il Muro di sicurezza. La tuta sportiva, le scarpe da ginnastica e un borsone a tracolla con gli scarpini e la divisa dentro, hanno allarmato una pattuglia israeliana, che ha giudicato sospetta la loro camminata nei pressi di un checkpoint militare e ha aperto il fuoco a raffica contro la coppia senza preavviso. Poi ha liberato i cani-poliziotto mentre i due ragazzi crollavano a terra in un lago di sangue. Semi-incoscienti per ferite sono stati ammanettati e portati via da un’ambulanza militare e trasportati in un ospedale israeliano di Gerusalemme dove sono stati sottoposti a una serie di interventi chirurgici, prima di essere trasferiti all’ospedale palestinese di Ramallah.
I rapporti medici indicano che Jawhar è stato ferito da 11 proiettili - sette nella gamba sinistra, tre in quella di destra e uno nella mano sinistra - ad Adam un solo colpo ha maciullato un piede. Non ci sono centri specialistici in Cisgiordania, così tra le lacrime delle famiglie sono stati trasferiti al “King Hussein Medical Centre” di Amman, in Giordania, che ha la reputazione di un ospedale di eccellenza.
È furibondo Jibril Rajub, il presidente della Football Association palestinese, che ha durissime parole di condanna della sparatoria: «È la dimostrazione della brutalità dell’occupazione israeliana, del desiderio di distruggere lo sport palestinese ». Giocare al calcio in una terra sotto occupazione militare non è facile né semplice, ci vuole motivazione, impegno e tanta, tanta, pazienza. Ambasciatore di una Palestina diversa, il calcio qui è molto più di uno sport. È accaduto nel passato che calciatori siano stati arrestati – il caso di Mahmoud Sarsak, 24 anni, mezzala della nazionale per 3 anni in cella senza un accusa e liberato nel 2012 solo dopo uno sciopero della fame di 95 giorni, quand’era uno scheletro di 45 chili e mezzo cieco – ma nessuno era mai stato ferito da un’arma da fuoco.
Il problema per gli atleti palestinesi è sempre lo stesso: per spostarsi hanno bisogno dei permessi israeliani per circolare in Cisgiordania fra le varie città, così come per andare all’estero se giocano nella Nazionale. Spesso hanno perso a tavolino perché il team non era completo visto che a tre-quattro giocatori non veniva dato il permesso di espatrio. Le partite della Lega A, spesso, il venerdì saltano perché la squadra di Betlemme non ha il permesso di andare a Nablus o viceversa. Il presidente della Fifa Sepp Blatter promette da anni il suo impegno presso le autorità israeliane per superare queste restrizioni ma finora sono rimaste parole. Hossam Wadi, per esempio, ala della Nazionale palestinese, è di Gaza dove ha la famiglia ma da quattro anni non torna a casa: ha paura che una volta rientrato nella Striscia, Israele non gli dia più il permesso di uscire e tornare in Cisgiordania dove si allena e gioca. «Concentrarsi sullo sport, sul calcio, è stata la scelta più razionale che l’Anp potesse fare», aveva detto qualche tempo fa Jibril Rajub a Repubblica, «la lotta non violenta è certamente la più proficua per la causa palestinese e lo sport ne è parte integrante». «Ogni volta che un ragazzino prende a calci qualcosa per strada, lì ricomincia la storia del calcio», ha insegnato il grande Jorge Luis Borges. Perché la Palestina dovrebbe essere diversa? Lo tenga a mente Blatter, quando nelle foto-opportunity si circonda di star che guadagnano milioni di euro l’anno.

La Stampa 16.2.14
“Io, bambino soldato ho ucciso per non morire”
di Tomaso Clavarino


Ingannati, portati nella foresta del Congo, rapiti e costretti a combattere Parlano i ragazzi hutu che sono riusciti a salvarsi con l’aiuto di una Ong
Il viso è quello di un adolescente, la voce anche. Gli occhi sono neri, lo sguardo profondo. Emmanuel muove le mani con frenesia, come se stesse battendo il tempo alle parole che escono come un fiume in piena. Ha voglia di parlare, ora che, finalmente, ha la possibilità di farlo.
Ora che ha la possibilità di incontrare persone disposte ad ascoltarlo e non, come fino a due mesi fa, solamente pronte a dargli ordini. Sì perché Emmanuel per cinque anni non ha fatto altro che prendere ordini. Era un soldato, un bambino soldato. A dodici anni gli hanno messo in mano un fucile e gli hanno ordinato: spara!
«E io l’ho fatto, non avevo altra scelta. Se no avrebbero ucciso me - racconta questo ragazzo 17enne -. Mi hanno preso con l’inganno, mi hanno rapito. Un uomo che conoscevo, di un villaggio vicino al mio nell’Est del Ruanda, mi ha chiesto un giorno se potevo dargli una mano a pascolare le vacche. Gli ho detto di sì, e non sono più tornato a casa». 
L’hanno portato nella foresta, in quella distesa di alberi e vulcani che copre la zona al confine tra Repubblica Democratica del Congo, Ruanda e Uganda, gli hanno fatto un lavaggio del cervello, l’hanno minacciato di morte. «Sono entrato a far parte del Fdlr (Forces Democratiques de Libération du Rwanda) senza volerlo, senza saperlo – continua -. Mi hanno obbligato per cinque anni a rubare, saccheggiare villaggi, uccidere. Ho subito violenze, ho visto donne violentate, famiglie distrutte. Poi non ce l’ho più fatta, mi sono fatto forza e appena ho avuto l’opportunità sono scappato». 
Non è un caso isolato quello di Emmanuel, sono centinaia, forse migliaia, i bambini soldato reclutati con l’inganno e la forza dalle milizie ribelli, in primis Fdlr e Rud-Urunana, che operano in quella che è una delle zone più instabili dell’intera Africa. Milizie, come l’Fdlr, composte da guerriglieri hutu, già carnefici durante il Genocidio ruandese di 20 anni fa, scappati dal Paese subito dopo la fine della mattanza del 1994 per paura di rappresaglie e vendette. Milizie che si sono riorganizzate nella foresta, e che dalla foresta hanno lanciato una guerra contro il governo di Kigali.
Attentati, violenze, imboscate, questi gruppi rappresentano la minaccia più grave per la fragile stabilità del paese guidato con pugno di ferro da Paul Kagame. Gruppi che puntano a riprendere il controllo del Paese, come hanno sempre affermato, a sfruttare le miniere e le risorse di questo ricco territorio, ma che stanno perdendo uomini uno dopo l’altro perché la vittoria sembra essere sempre più lontana. Ed ecco quindi che servono nuove leve, nuove braccia per lavorare, nuove teste da traviare. Come Emmanuel, ma anche come Innocent, John, Martin, Jean, e i circa trenta ragazzi tra i 12 e i 18 anni che, scappati dalla foresta e dalle armi, hanno trovato rifugio al Muhoza Child Ex Combatants Rehabilitation Centre di Musanze, nel Nord del Ruanda, quasi al confine con la Repubblica Democratica del Congo.
Qui vengono aiutati a essere reinseriti nella società, gli vengono impartite lezioni, gli viene insegnato un mestiere. Gli viene data assistenza nel tentativo di rintracciare le proprie famiglie, anche se la maggior parte di loro non ha più nessuno. Come Jean, 16 anni, due anni passati sul fronte con l’Fdlr. «Un giorno di due anni fa, era marzo se non sbaglio, sono sceso dal mio villaggio per andare al mercato. Ho incontrato un gruppo di ribelli che avevano appena finito di saccheggiare alcune case. Ho provato a scappare, ma mi hanno preso. Per due anni ho fatto da scorta armata a un colonnello dell’Fdlr, ho partecipato a scontri a fuoco. Non ho mai provato a scappare perché mi dicevano che se fossi tornato in Ruanda i soldati governativi e la polizia mi avrebbero ucciso, che era in corso una battaglia e che l’Fdlr la stava vincendo. Quando ho scoperto che non era vero sono scappato». 
Ragazzi cresciuti troppo in fretta, che invece di giocare a calcio nei campi polverosi sono stati costretti a imbracciare un fucile, un kalashnikov, e a sparare. Rapiti con la forza, presi con l’inganno, ma anche nati semplicemente nel posto sbagliato. «Sono nato in un campo dell’Fdlr - racconta John -. Mio padre era un combattente, mia madre era stata rapita dal proprio villaggio nel Congo. Appena ho raggiunto l’età e la stazza per combattere mi hanno dato un’arma e mi hanno mandato sul fronte, a sparare e saccheggiare. La vita nella foresta è dura, sfinente. Sono riuscito a resistere per quattro anni, poi ho deciso di fuggire. Mi sono presentato a una base Monusco nel Congo e da lì sono stato rimpatriato». Storie di violenza, di infanzia e adolescenza perduta, che, purtroppo, non sono un’eccezione in questo continente. I ragazzi, i bambini, sono più malleabili, sono facilmente persuasibili. Carne fresca, sacrificabile. In Centrafrica così come tra le foreste del Ruanda e del Congo.

La Stampa 16.2.14
I treni cinesi alla conquista del West
Ecco la nuova “Via della Seta”: i treni per garantirsi i mercati del Medio Oriente
di Maurizio Molinari


Trecento chilometri di alta velocità fra Eilat e Ashdod per collegare il Mar Rosso al Mar Mediterraneo ovvero l’Asia all’Europa: è il progetto «Red-Med», promosso da Pechino e varato da Gerusalemme, ad alzare il velo sulla strategia cinese per il «West Asia».
«West Asia» è il termine che la «China Shipping Container Lines» adopera per descrivere l’area di operazioni fra Hormuz, Suez e Haifa.
È la regione dove oltre trenta porti di varie dimensioni e funzioni consentono di importare in Cina il 60% del fabbisogno annuo di petrolio ed esportare beni in transito verso l’Europa, primo mercato globale per il «made in China», e l’Africa, dove la presenza di un milione di lavoratori cinesi testimonia un interscambio da 120 miliardi di dollari che sfrutta ogni tipo di risorsa naturale: dall’agricoltura alle miniere.
Il West Asia è una regione di importanza strategica per la Cina osserva Robert Lawrence Kuhn, banchiere internazionale con una lunga esperienza a Pechino perché le consente di importare energia dal Golfo e al tempo stesso commerciare con Europa e Africa». Adoperare il termine di «Asia Occidentale» al posto di Medio Oriente non è casuale: significa far prevalere la dimensione del legame economico con la Cina piuttosto che quella dell’appendice geopolitica dell’Europa, frutto della stagione del colonialismo. È questa cornice che spiega l’attivismo del ministro degli Esteri Wang Yi, protagonista di una raffica di viaggi che negli ultimi 90 giorni lo hanno portato a incontrare il premier israeliano, il principe ereditario saudita, il collega iraniano e una moltitudine di plenipotenziari del Golfo e Nord Africa.
L’agenda di Wang è assai prudente sulle crisi in atto nucleare iraniano, Siria, negoziato sul Medio Oriente preferendo dedicarsi a posizionare i tasselli di una vasto disegno economico: dalla realizzazione a Nanxun di un parco tecnologico israeliano alla ricostruzione del porto iraniano di Chabahar, dalla decisione della «United Arab Shipping Company» di investire 1,4 miliardi di dollari per diventare la più grande compagnia di container del mondo stringendo la cooperazione con la «China Shipping Container Lines» fino a una ferrovia egiziana ad alta velocità per collegare Hurgada, Luxor e Cairo ad Alessandria.
Come spiega un recente studio del Centro di ricerche in Affari Internazionali di Herzliya, ciò che distingue la proiezione cinese verso il «West Asia» sono «gli investimenti nelle infrastrutture»: porti per l’importexport di merci e ferrovie veloci per creare una via di trasporto alternativa capace di continuare a funzionare se una violenta crisi dovesse portare a bloccare il Canale di Suez o gli Stretti di Hormuz. Se gli Usa dalla crisi del 1973 hanno protetto le proprie rotte petrolifere con l’Us Navy, Pechino vuole garantirsi il fabbisogno energetico con una imponente rete di ferrovie veloci. Si spiega così la strategia della «New Silk Road» Nuova Via della Seta che ha visto le forze armate cinese investire nelle linee veloci interne consentendo a Pechino di firmare nel 2010 con Teheran l’accordo per una tratta attraverso l’Asia Centrale destinata a raggiungere Istanbul e infine Londra e puntando a realizzare entro 10 anni un avveniristico «Orient Express» capace di viaggiare da Pechino alla Manica in due notti. La ferrovia euroasiatica attraverserà almeno 28 Paesi, estendendosi lungo 81 mila km ricorrendo all’alta velocità della Shangai-Nanchino, 350 km orari, per collegare via terra la Cina al trampolino commerciale del «West Asia». La ferrovia Luxor-Alessandria si presenta in tale ottica come un’infrastruttura aggiuntiva per assicurare alle merci «Made in China» l’accesso all’Africa così come quella EilatAshdod svolgerà la stessa funzione verso il Mediteraneo.
Si spiega così la determinazione con cui Netanyahu punta a realizzare in fretta il tratto attraverso il Negev, affrontando una spesa di 2 miliardi di dollari in cinque anni con l’obiettivo di iniziare i lavori entro i prossimi 12 mesi. «È la prima volta che saremo in grado di aiutare le nazioni di Europa ed Asia a tenere sempre aperto un canale commerciale» afferma Netanyahu, che ne avrebbe già discusso con re Abdallah l’estensione alla città giordana di Aqaba, rendendo così possibile anche un futuro collegamento con la rete saudita. «Per la Cina questo significa poter contare fra pochi anni in una linea di terra alternativa al Canale di Suez spiega l’ex diplomatico israeliano Oded Eran in servizio al Centro di studi strategici di Tel Aviv sul quale incombono crescenti minacce a causa del rafforzamento dei terroristi salafiti nel Sinai ed all’instabilità dell’Egitto».
Ma non è tutto, perché lì dove i piani ferroviari non riescono ancora ad arrivare, la Cina pensa ad altre infrastrutture. Per capire di cosa si tratta bisogna guardare a Halfaya, il capo petrolifero iracheno gestito dalla China National Petroleum Corp dove per i tecnici cinesi è stato costruito un mega-residence con tanto di lago artificiale, dove andare con barca a vela e rilassarsi.

Corriere 16.2.14
In Cina il tunnel sottomarino  più lungo del mondo, 123 km
Se sarà approvato dal parlamento a marzo, i lavori partiranno l’anno prossimo e si concluderanno entro il 2026
di Guido Santevecchi

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il Fatto 16.2.14
Ora la Svizzera si vendica
risponde Furio Colombo


CARO FURIO COLOMBO, si direbbe che gli svizzeri, travolti da un nazionalismo incontrollabile, abbiano votato contro se stessi. Infatti i “frontalieri” rifiutati guadagnano di meno e lavorano di più. C’è un senso in tutto ciò? Bernardo
SÌ, IN TUTTA EUROPA, e la Svizzera non fa eccezione (benché il voto sia stato quasi 50 a 50), la destra, specialmente la parte più rigorosa e più estrema, è la sola scheggia politica dell’universo frantumato della guerra fredda, a restare abbracciata a una ideologia del passato risultata mille volte perdente. Un fervido credo ideologico può portare spesso a battersi contro i propri interessi. La destra americana lo ha fatto due volte, sostenendo appassionatamente Reagan che, con la sua corsa alle armi, ha triplicato il debito americano. E lo ha fatto George W. Bush, che ha prostrato il suo Paese con due guerre dannose, sanguinose, immensamente costose, in Iraq e Afghanistan. Anche nella politica dell’immigrazione la destra americana si segnala come particolarmente dannosa per gli interessi americani. Si batte per un blocco quasi assoluto ai confini degli Usa che strangolerebbe l’economia americana almeno in tre settori: agricoltura, edilizia, e servizi. L’Europa, quando si tratta di immigrazione, ha dato continue prove di avere una destra che è la peggior nemica di ciascun Paese. Basti pensare al movimento di Marine Le Pen in Francia, che intende ciecamente negare decenni di percorso culturale del suo Paese (che, insieme con la Gran Bretagna, è il più multietnico e multiculturale d’Europa) e trova largo seguito popolare per proposte immensamente dannose. In Italia la Lega è stata ed è un sottoprodotto del favoloso regno di Berlusconi, ha vissuto molto al di sopra dei propri mezzi e, se resterà da sola, sarà uno di quei partitini che non varcheranno la soglia di qualunque ragionevole legge elettorale. Ma sotto Berlusconi ha governato da posizioni chiave facendo danni gravissimi, da Lampedusa alle migliaia di morti in mare all’osceno patto di fraterna amicizia con Gheddafi. La Svizzera aveva un conto in sospeso con l’Europa di Schengen, un’Europa finalmente aperta, moderna e senza guardie e sbarre di frontiera ogni duecento chilometri. E non appena quell’Europa, che per breve tempo è stata orgogliosa di se stessa, è entrata nella spirale della crisi, la Svizzera è stata pronta a dare una mano per peggiorare la crisi. Bisognava colpire il concetto (e il compiacimento civile) di un’Europa senza frontiere. Dal punto di vista della destra svizzera, missione compiuta. È evidente che il risultato di questo referendum danneggia la Svizzera, che poteva contare su molto lavoro a paghe basse. Ma questa è la specialità delle destre, in ogni Paese: levarsi una soddisfazione, ovvero affermare un proprio principio dogmatico, pensando di farla pagare ad altri. Pagano loro. Non è vero, pagano tutti. Molti, che votano a destra, capiscono solo dopo questo trucco malefico.

il Fatto 16.2.14
“Sapeva del pedofilo” Il vice Merkel nei guai
di Mattia Eccheli


Berlino. AVANTI UN ALTRO. Dopo il volontario addio al Bundestag di Sebastian Edathy, 44enne rampante socialdemocratico il cui nome è spuntato nell'ambito di un'inchiesta internazionale sulla pedo-pornografia, e le dimissioni “fo r za te ” del ministro dell'Agricoltura Hans-Peter Friedrich (Csu, l'alleato bavarese della cancelliera), adesso è il turno della Spd. I cui vertici sono stati accusati dal governatore della Baviera, Horst Seehofer, di essere “chiacchieroni”. Friedrich non ha nascosto di aver informato dell'indagine il segretario socialdemocratico Sigmar Gabriel, oggi vice cancelliere, per evitare possibili imbarazzi. Lo stesso Gabriel ha reso pubblico di averne parlato con Frank-Walter Steinmeier, oggi agli Esteri, e Thomas Oppermann, capogruppo Spd al Bundestag. Quest'ultimo ha riferito di essersi fatto confermare la notizia dal presidente della Polizia criminale, circostanza smentita dall'interessato, Ziercke. Costretto a “sacrificare” il fido Friedrich, Seehofer è passato all'attacco invitando i vertici Spd a “chiarire atteggiamenti e contraddizioni” nel corso del fine settimana”. Quasi un ultimatum all'alleato di grande coalizione.
La domanda senza risposta è chi abbia avvisato Edathy: già in novembre il suo legale aveva tempestato di telefonate diverse Procure per scagionare l'assistito . Edathy ha fatto sapere che nessun esponente della Spd lo aveva messo in guardia. Gabriel si è detto sicuro che né Steinmeier né Oppermann abbiano esteso la notizia: “Escludo conseguenze personali”, ha dichiarato alla Bild Zeitung. Pochi sono disposti a credere che Edathy non sia stato allertato, consentendogli di distruggere eventuali prove compromettenti. Seehofer dovrebbe indicare domani il nome del successore. Anche due donne tra le “papabili”: Dorothee Bär e Marlene Mortler.

il Fatto 16.2.14
Altro che gay
Il buco nero dell’eroina e la generazione perduta dell’ex Urss
di Elisa Battistini


All'inizio degli anni 90, dopo la caduta del regime, la Russia conobbe l'emergenza di alcuni fenomeni sociali: l'arrivo massiccio delle droghe pesanti a cominciare dall'eroina del vicino ed ex nemico Afghanistan (che produce il 76% di oppio del mondo), lo scoppio di un'epidemia di Hiv che vide un picco nella metà del decennio, una lunghissima crisi demografica che ridusse la popolazione di 7 milioni di abitanti nel giro di 17 anni. Fenomeni che si sono consolidati silenziosamente nel disagio di un paese in cui – nel 2006 – gli aborti sono stati 1,6 milioni e le nascite 1,5 milioni. Nel 1994 si stimava che in Russia ci fossero circa 1 milione di eroinomani e che circa il 25% degli adolescenti avesse iniziato a bucarsi. La droga si diffuse così tanto che, secondo Anna Politkovskaya, la generazione nata dal 1978 al 1982 sarebbe stata letteralmente falcidiata dalle overdose nel corso del decennio.
DA ALLORA LA SITUAZIONE delle dipendenze non è migliorata. Alla fine del 2011, secondo stime del World Drug Report dell'Oms, le persone che usano droghe per endovena sarebbero circa 3 milioni e 290 mila. Una cifra per difetto secondo la stessa organizzazione – i consumatori saltuari sarebbero quasi 5 milioni – ma che significherebbe, più o meno, che chi si inietta droga in Russia rappresenta il 2,3% della popolazione interna – circa 143 milioni di abitanti – e quasi un quarto dei consumatori dell'intero pianeta. Con una crescita di mezzo milione di nuovi tossici, nel periodo 2008-2001, il numero è in perenne aumento. Non parliamo solo eroina, ma di codeina, oppio acetilato o desomorfina. Principio attivo del “Krokodil”, mix così chiamato perché dopo poche iniezioni la pelle inizia a squamarsi. Una droga “fai da te”, a base di antidolorifici e sostanze chimiche fuse in casa, a basso prezzo, che dà forte dipendenza e viene iniettata con maggior frequenza dell'eroina, peggiorando le infezioni da buco. Anche di Hiv che, dopo un calo nel primo decennio del nuovo secolo, è tornata alla ribalta. La piaga della droga nel paese delle Olimpiadi invernali ha ovviamente una portata molto più vasta, perché vengono consumate copiosamente anche anfetamine, Mdma e affini. Ma le droghe per vena sono anche un disastro sanitario. Per quanto riguarda l'Aids, la Russia è in controtendenza rispetto al mondo. Ovvero: i contagi sono stabili o calano , lì aumentano. Sarebbero più di 1,3 milioni i russi sieropositivi. Nel 2001 erano meno di un milione. E con un +12% nel 2012 sul 2011 e un atteso +10% nel 2013 secondo il Russian Federal Aids Center, la situazione sembra in peggioramento. Nel mondo, tra chi usa droghe per vena ed è sieropositivo (sarebbero quasi 2 milioni) il 21% è russo, tasso impressionante cui si lega anche il fatto che il metadone in Russia è proibito e i programmi per distribuire siringhe nuove poco diffusi. L'impennata di sieropositivi è un fenomeno che negli ultimi anni ha toccato anche un altro paese: la Grecia. Dove l'aumento del consumo di eroina – ma soprattutto di droghe da strada – legato al riuso degli aghi ha portato a un +52% di infezioni tra il 2010 e il 2011. Così, l'idea che le crisi economiche seguite da disastri sociali mal gestiti uccidano lentamente è difficile da non considerare. L'aspettativa di vita di un drogato è attorno ai 58 anni (per gli altri è 70, dopo che era precipitata a 57 nel 1994), ma anche l'alcol resta un grande nemico.
SECONDO UN RECENTE studio pubblicato su Lancet la vodka è stata – tra il 1999 e il 2008 – una delle prime cause di morte per gli uomini sotto i 55 anni. Tanto che, del vero e proprio tracollo demografico 1992-2009, uno dei massimi responsabili fu proprio il consumo di superalcolici. Oltre a suicidi, omicidi, overdose, alta mortalità infantile, natalità sotto terra. Almeno in questa materia, il 2010 è stato l'anno della svolta positiva: 1 milione 700 mila morti e 2 milioni di bambini. Non accadeva da lustri e a metà degli anni “zero” si calcolò che il perdurare della decrescita avrebbe portato il paese più vasto del mondo sotto i 100 milioni di abitanti entro il 2050. Se il pericolo in questo caso pare scampato, la Russia di Putin dovrà - per stessa ammissione del presidente - fare i conti con il difficile equilibrio che si è creato tra le classi di età: entro pochi anni la popolazione in età lavorativa dovrebbe scendere di circa 8 milioni di unità. Dati che diventano economia. E che raccontano i drammi di un paese in cui l'omofobia è la punta di un iceberg.

Corriere 16.2.14
Bloccati i medici maschi: ragazza saudita muore
La giovane si era sentita male all’università ma i soccorritori non sono stati fatti entrare
di Cecilia Zecchinelli


Amna Bawazeer, 27 anni, studentessa saudita di sociologia, è morta una settimana fa per un attacco cardiaco nella sua università, la prestigiosa King Saud di Riad. Potrebbe essere questa la notizia, ed è così che ha tentato di presentarla la direzione dell’ateneo, due enormi complessi incomunicanti tra loro, in vago «stile De Chirico»: quello maschile reso ancora più surreale dal fatto che tutti indossano identiche tuniche bianche e kefie rosse in testa, quello femminile un po’ più «normale», perché all’interno le ragazze si tolgono gli informi soprabiti neri e i veli. Ma se a distanza di giorni il clamore continua a crescere, se la rabbia dei social network non si placa e Amna è diventata un (ennesimo) simbolo della discriminazione delle saudite, è perché in realtà è stata uccisa dalla segregazione tra sessi, ossessione del Regno wahabita. «Mia sorella era a lezione e si è sentita male poco dopo le 11, ma i medici e gli infermieri sono riusciti ad entrare solo alle 13 perché erano maschi e non potevano avere contatti con le studentesse», ha denunciato la sorella di Amna alla tv Al Arabiya . Il fratello era subito corso all’università per portarla in ospedale, ma anche a lui era stato fermato alla porta. «C’era il caos assoluto, noi allieve in lacrime, le professoresse che imploravano di far entrare lo staff dell’ambulanza che era arrivata appena dato l’allarme — ha raccontato una compagna —. Ma al cancello li hanno mandati via, dicendogli di entrare da un altro ingresso ma anche lì li hanno bloccati. Un enorme spreco di tempo». Amna, intanto, era in fin di vita. E quando è finalmente arrivata in ospedale — erano le 13.39 — era già morta.
È un brutto déjà-vu per l’Arabia saudita, dove tutti ricordano (e citano in questi giorni) il più clamoroso caso di una serie di «incidenti», non sempre conosciuti nel mondo. Nel 2002, nella città santa della Mecca, morirono 15 ragazze in un liceo dov’era scoppiato un incendio e più di 50 furono ferite per il crollo di parte dell’edificio o ustionate. Erano stati i mutawa , la temuta polizia religiosa, a impedire loro di uscire «perché non vestite secondo le norme islamiche». La cosa suscitò scandalo in Arabia, anche se l’inchiesta poi concluse che erano stati i sistemi di sicurezza carenti a causare la strage, non l’ottusa e criminale intransigenza dei mutawa .
Da allora, qualche piccolo passo è stato compiuto sul fronte dei diritti delle donne. Solo nel 2013, il consiglio consultivo del Re (Majlis al Shura ) ha aperto le porte a 30 signore; le prime avvocate sono state autorizzate a esercitare, così come le prime poliziotte; è stato permesso alle donne di andare in bicicletta (in zone riservate) nonché approvata una legge contro la violenza domestica. Ma la strada è lunga, soprattutto perché il Paese che interpreta l’Islam in una forma ritenuta da molti stessi musulmani distorta e maniacale continua ad avere nell’assoluta divisione tra i sessi uno dei suoi cardini. Che «giustifica» tra l’altro, unico caso al mondo, il divieto a guidare per le sue cittadine che devono stare a casa sotto controllo. E che ieri è stato ribadito da uno dei massimi teologi, sheikh Al Mubarak: le donne, ha detto, non possono farsi visitare da medici uomini. Poi, visti gli ultimi eventi, ha aggiunto: «A meno che non siano accompagnate dal loro tutore e ci sia seria urgenza». Ma anche con questa concessione, è improbabile che Amna si sarebbe salvata.

Corriere 16.2.14
Bulgaria

Nazionalisti attaccano la moschea

SOFIA — Una manifestazione nazionalista nella bulgara Plovdiv (Filippopoli in italiano), capitale della Tracia e terza città del Paese, si è trasformata in un scontro violento con la polizia. Almeno 120 persone sono state arrestate. La folla aveva attaccato una moschea con pietre e petardi nelle stesse ore in cui un tribunale valutava la richiesta della comunità musulmana di rientrare in possesso di un altro luogo di culto espropriato in epoca comunista. Negli scontri sono rimaste ferite diverse persone, tra le quali un agente di polizia. I manifestanti, secondo la ricostruzione del ministero dell’Interno, erano in gran parte ultrà sostenitori di squadre di calcio locali. In 3.000 si erano radunati davanti al tribunale prima di dirigersi verso la moschea urlando slogan come «Non vi daremo una pietra del suolo bulgaro». Quando è cominciata la sassaiola è intervenuta la polizia. Pietre sono state lanciate anche contro la sede del partito che rappresenta la minoranza turca e oggi sostiene il governo centrale. «È stato un attacco alla democrazia, una minaccia grave — ha detto il muftì Mustafa Hadzi —. Impedire ai cittadini di professare la propria fede ci riporta a un passato autoritario».

Corriere 16.2.14
Riunione di antisemiti nell’ex Sinagoga
L’Ungheria non abbandona il passato
di Maria Serena Natale


C’è una guerra della memoria in corso nell’Ungheria che si avvicina alle elezioni del 6 aprile, consumata tra riposizionamenti linguistici e simbolici, nella subdola riduzione del passato a terreno di scontro politico. L’ultimo episodio ha visto protagonisti gli ebrei della cittadina di Esztergom, 50 chilometri a nord di Budapest, e il partito di estrema destra Jobbik, terza forza in Parlamento, noto per la retorica xenofoba e antisemita dei suoi leader.
Venerdì scorso Jobbik ha organizzato una riunione politica nell’ex sinagoga di Esztergom, eretta nel 1888 e luogo di culto fino al termine della Seconda guerra mondiale, quando la maggior parte degli ebrei della città era ormai scomparsa nei campi nazisti. L’occupazione tedesca dell’Ungheria durò dal 19 marzo 1944 alla primavera del 1945. Gli ebrei deportati furono circa mezzo milione.
La stella gialla sul bavero, i manifestanti hanno circondato l’edificio che dal 2006 ospita un centro culturale municipale e sfidato il massiccio dispiegamento di polizia denunciando la «scandalosa provocazione», mentre all’interno il leader di Jobbik Gabor Vona proclamava: «Non sono un nazista. Non ho nulla di cui vergognarmi».
Nelle stesse ore la federazione delle comunità ebraiche ungheresi riceveva il sostegno del Congresso ebraico mondiale per il boicottaggio delle commemorazioni dell’Olocausto organizzate nel 2014 dal governo conservatore di Viktor Orbán. Un anno della memoria partito tra aspre polemiche, come quella sull’inaugurazione prevista in marzo di un monumento in ricordo di «tutte le vittime dell’occupazione»: formula contestata dalle associazioni che denunciano l’ennesimo tentativo di sminuire il ruolo delle autorità nazionali che appoggiarono la macchina dello sterminio. Lo scorso ottobre il vice premier Tibor Navracsics aveva tentato invano un’inversione di rotta dichiarando durante la conferenza internazionale sull’antisemitismo: «Anche noi fummo responsabili dell’Olocausto».
Negli ultimi sondaggi Jobbik cresce; il 48 per cento degli ebrei ungheresi ha pensato di emigrare, l’aria a Budapest e dintorni si è fatta pesante.

Corriere 16.2.14
Il 26% degli americani è convinto che il sole giri intorno alla Terra


WASHINGTON — Il 26% degli americani crede che sia il sole a girare intorno alla Terra, secondo una ricerca della National Science Foundation su un campione di 2.200 cittadini Usa. La stessa ricerca mostra che soltanto il 39% ritiene correttamente che l’universo sia nato da una grande esplosione (Big Bang). Solo il 48% sa che gli esseri umani sono il frutto di un processo evolutivo, poco più della metà conosce l’inefficacia degli antibiotici sui virus. L’ignoranza scientifica degli americani si riscatta però di fronte a quella europea (sia pure evidenziata da un sondaggio meno recente): una ricerca condotta nella Ue e in Cina nel 2005 aveva dimostrato che ben il 34% degli europei (e il 30% dei cinesi) non sapeva che è la Terra a girare intorno al sole.

l’Unità 16.2.14
Così nel 1925 nacque la «società Unità»
di Jolanda Bufalini


Il documento di cui pubblichiamo qui sopra una fotografia è conservato alla Camera di commercio di Firenze, dove, ci racconta Fabrizio Vanni, collega e ex bibliotecario, che ce lo ha inviato, è conservata l’unica copia cartacea delle Spa e delle Srl costituitesi in Italia dal 1910 al 1960.
È l’11 luglio 1925,un gruppo di rivoluzionari di professione si reca dal notaio. Emoziona vedere nell’atto costitutivo della «Società anonima editrice Unità - Milano», che ha per scopo «la pubblicazione del giornale quotidiano politico l’Unità nonché di edizioni di coltura e propaganda» i nomi di Alfonso Leonetti, presidente del Consiglio di amministrazione, di Umberto Terracini, fra i sindaci, e di Ruggero Grieco, sindaco supplente e degli altri, meno celebri, le cui vite si intrecciarono nella clandestinità e negli arresti, nelle botte ricevute dalle squadracce fasciste e nelle lotte politiche, rese più aspre dalle condizioni di rischio e dai sospetti, a cui erano sottoposte quelle vite di «rivoluzionari » nelle dittature. Francesco Buffoni, il primo nella lista dei costituenti, davanti al notaio Buffoli, è un esponente dei «terzini» ovvero della corrente di Serrati, socialista di sinistra, che aderì al Pcd’I. La Seum sostituisce la «Libreria editrice l’Unità» che, fino allora, aveva pubblicato il quotidiano e gli opuscoli di propaganda.
Leonetti, che sarà espulso dal Partito comunista nel 1930 per la sua contrarietà alla politica del «socialfascismo», era, allora, l’effettivo direttore, anche se nella gerenza risultano, per prudenza, altri nomi (Malatesta, Ravagnan). C’è una sua testimonianza sulla costituzione della Seum, in un articolo apparso su l’unità del 16 febbraio 1964 e poi pubblicato nel libro Note su Gramsci: «L'amministrazione dell'Unità dall'agosto 1925 fino alla chiusura ebbe sede a Via Napo Torriani a Milano. E qui ebbe sede anche la Seum (Società editrice Unità Milano) da me presieduta, creata per dare personalità giuridica al giornale del partito e per pubblicare alcuni volumi ed opuscoli di teoria ed attualità politica (...)per i quali ci furono intentati processi dalla magistratura del tempo. Completava la nostra organizzazione, che era gestita dal compagno bolognese Orfeo Zamboni». «Nella sede di via Napo Torriani, - continua il racconto di Leonetti - Gramsci trascorreva i suoi soggiorni milanesi che divennero sempre più lunghi e frequenti, durante la discussione per il III Congresso del partito (Lione), discussione che si svolse dal giugno 1925 al gennaio 1926 e che Gramsci diresse personalmente. Assistito affettuosamente da Aladino Bibolotti, detto "Bibo" o "lo zio", amministratore della Seum che con la famiglia occupava l'appartamento di via Napo Torriani, Gramsci alloggiava in una stanzetta, il cui arredamento consisteva in un solo lettino da campo».
Leonetti vi accenna: con una scusa o con un’altra l’attività editoriale dei comunisti era oggetto di persecuzione. L’Unità non era illegale e non era clandestina fino alla promulgazione delle leggi speciali, però l’edizione nazionale subì 146 sequestri fra il febbraio 1924 e l’ottobre 1926. Lo stesso Leonetti fu sospeso due volte dalla carica per ordine del prefetto, una prima volta dal 4 al 17 gennaio 1925, la seconda dopo l’attentato fallito di Zaniboni a Mussolini, il 4 novembre 1925. (Articolo scritto con la preziosa collaborazione di Luisa Righi, della Fondazione Istituto Gramsci)

l’Unità 16.2.14
D’Alema: «Quel giorno quasi bucammo la Bolognina»
Quando Occhetto va alla Bolognina D’Alema è direttore del giornale e ricorda:

«Per mia prudenza non enfatizzammo la notizia che infatti fu data in prima con un titolo generico...»
intervista di Francesco Cundari


Mentre il discorso della Bolognina occupa solo il taglio centrale («Occhetto ai veterani della Resistenza: “Dobbiamo inventare strade nuove” »). Intervistato oggi da quello stesso giornale di cui allora era direttore, in occasione del novantesimo anniversario dalla sua fondazione, D’Alema comincia dunque con un’autocritica.
«Non c’è dubbio che l’Unità di quel 13 novembre rivela una certa freddezza, con un titolo così generico in prima e la notizia relegata a pagina 8, dove invece c’era il titolo più forte (“Il Pci cambierà nome? Tutto è possibile”). Insomma, il contrario della logica giornalistica».
Per quale motivo?
«Prevalse in me la prudenza. In fondo, pensavo, Occhetto aveva solo risposto alla domanda di un giornalista, dicendo che non escludeva nulla. La notizia era questa e io scelsi di non enfatizzarla, di darla in questo modo, nella sua dimensione problematica. E così il giorno della Bolognina divenne per l’Unità il giorno di Modrow ».
Possibile che lei, anche come dirigente del Pci, fosse preso così alla sprovvista?
«Non ne sapevamo nulla, fummo colti di sorpresa. Lo stesso Occhetto ha poi raccontato di avere maturato la decisione all’ultimo, mentre tornava da Mantova, dove aveva riflettuto a lungo davanti a “La caduta dei giganti”, l’affresco di Giulio Romano a Palazzo Te. Fu una decisione solitaria. Non che non fossero in corso discussioni su come uscire dalla crisi in cui ci trovavamo: un partito in declino, una situazione politica bloccata, un cambiamento del mondo che avveniva in una forma molto diversa da quella che avevamo potuto immaginare noi, che avevamo a lungo coltivato l’illusione di una riformabilità del comunismo».
Dunque, la svolta era poi così imprevedibile?
«Era chiaro che vivevamo un passaggio d’epoca che richiedeva un cambiamento. Avevamo fatto un congresso all’insegna del “nuovo Pci”. Su questo sforzo di promuovere un cambiamento radicale si era aperta una discussione, in particolare sul rapporto col movimento socialista e l’idea di entrare nell’Internazionale socialista. A questo stava lavorando il gruppo dirigente. Occhetto fece il salto: l’idea di sciogliere il Pci, di promuovere un nuovo inizio. Rappresentò un salto di qualità improvviso e bisogna dire tutto sommato provvidenziale».
Per molti fu un trauma.
«Personalmente non solo fui colto alla sprovvista, ma fui attraversato da molti e sofferti dubbi. Andai a parlarne con mio padre, il quale, sorprendendomi, disse: “Ha ragione Occhetto”. Io ero dubbioso sul modo in cui questa operazione veniva avanti, per la rapidità, i rischi di rottura, non sulla direzione di marcia. Ma lui mi disse che quello era l’unico modo possibile, che altrimenti non ce l’avremmo mai fatta».
Torniamo all’Unità. Domenica Occhetto lancia il sasso della Bolognina. Poi che succede?
«Lunedì mattina ci fu la segreteria del partito, Occhetto si presentò con un testo scritto e rese del tutto chiare le sue intenzioni, quindi si convocò subito la direzione. Normalmente aveva un carattere riservato, in questo caso invece i verbali furono pubblicati sull’Unità. Insomma, dopo l’incertezza della domenica, la trasparenza fu totale e si aprì un grande dibattito, che fu un dibattito politico ma per molti anche un bilancio esistenziale, una discussione di grande intensità e di grande drammaticità. Quella settimana, che si concluse con la riunione del comitato centrale, fu cruciale per le sorti della svolta ».
Immagino anche per l’Unità, o sbaglio?
«Di sicuro in quei giorni vendemmo un sacco di copie. Il fatto straordinario fu che in pochissimi giorni si aprì un dibattito democratico di enorme portata. Martedì 14 la direzione, con 45 interventi, il 20 la riunione del comitato centrale, con 230 iscritti a parlare. Dal punto di vista del giornale il bello di quella settimana secondo me fu che riuscimmo a tenere sempre insieme tre elementi: la discussione nel gruppo dirigente, il contesto internazionale - perché il nostro travaglio stava dentro un grande cambiamento del mondo, con il muro di Berlino che era appena caduto - e le reazioni del nostro popolo. Alcuni articoli a rileggerli appaiono ancora veramente belli, parlo di reportage da luoghi emblematici dove andammo a raccogliere le reazioni della nostra gente, per esempio tra gli operai della Fiat, o nella sezione romana di Ponte Milvio che era stata la sezione di Enrico Berlinguer».
La redazione come visse quel passaggio?
«In redazione era nettamente prevalente il consenso alla svolta. Il giornale prese posizione a favore, ma con l’impegno a raccontare tutto. “Fischi e applausi sotto il palazzo di Botteghe Oscure”, come recita un titolo sulla riunione del comitato centrale. E poi c’era la preoccupazione politica, che marcò un po’ gli editoriali, a cominciare da quello che scrissi io mercoledì, il bisogno di dire che non era una svendita, che intendevamo continuare a essere una forza di cambiamento».
Quali furono le prime reazioni all’esterno del partito?
«Lo sforzo dell’Unità fu anche quello di raccontare un dibattito che si apriva nel mondo politico e intellettuale, le diverse reazioni, che furono particolarmente entusiaste nella sinistra diffusa, perché l’idea di Occhetto era che questa fase costituente potesse coinvolgere un mondo che fino a quel momento si era tenuto lontano dal Pci». E all’interno del partito?
«Il fronte del no che gradualmente andava formandosi temeva che fosse la fine della sinistra. Noi invece tentavamo di spiegare che cambiavamo allo scopo di evitare semmai che quel patrimonio di idealità e valori fosse travolto dal crollo del comunismo. E poi l’altra idea che era sottesa alla svolta era che con la fine della diversità comunista e della guerra fredda si apriva la strada alla possibilità di un’alternativa di governo nel nostro Paese. La possibilità di sbloccare il sistema, ma senza passare sotto le forche caudine dell’unità socialista lanciata da Bettino Craxi. Questo fu il rovello fin dal primo momento ».
O la contraddizione?
«C’era un elemento di acrobazia, lo si vede anche nel mio editoriale di quel mercoledì, che in sostanza consisteva nell’intenzione di diventare socialisti bypassando Craxi. Dicendo che l’ostacolo all’unità non era solo la diversità comunista ma anche la diversità del Psi craxiano rispetto alle altre forze del socialismo europeo ».
Certo la polemica con i socialisti non si attenuò, neanche sul giornale.
«In quei giorni sia a me che a Michele Serra capitò di polemizzare con Giuliano Ferrara, a me in tv e a lui sul giornale. Ferrara aveva detto che era lieto di accoglierci tra gli ex comunisti. Io gli dissi: “C’è una differenza, ed è che tu te ne sei andato da solo, noi invece stiamo cambiando tutti insieme e andiamo da un’altra parte”.
Serra invece gli scrisse: “Comunque sia, caro Ferrara, mi consola una certezza, che ovunque noi stiamo andando tu non ci sarai”».
In conclusione, che ricordo ha dell’Unità di quel tempo?
«Era un grande giornale, che naturalmente in quella fase aveva un accesso privilegiato alle fonti, a cominciare dal fatto che il direttore partecipava alle riunioni della segreteria e della direzione. Anche se devo dire che io mi sdoppiavo e non raccontavo mai i retroscena... ».
Nemmeno da direttore dell’Unità?
«Mai».
Non dava le notizie ai giornalisti dell’Unità?
«Non raccontavo i retroscena. Del resto io, quando ci fu la riunione della segreteria del partito per decidere di cambiare nome al Pci, tornai a casa e non dissi nulla a mia moglie. Me lo ha sempre rimproverato. E io le dissi: “Ma era la riunione della segreteria, era riservata”».
Non è mai venuto meno a questa regola?
«Una sola volta, perché era uscita un’agenzia su un battibecco con Cervetti che si diceva fosse avvenuto in direzione. Ne discussi con i caporedattori, che volevano riportare questa notizia per dimostrare che l’Unità era indipendente. Io dissi: “Rompo un vincolo, vi racconto come sono andate le cose”. In breve, la storia non era vera. Loro mi guardarono e mi diedero una straordinaria lezione di giornalismo. Mi dissero: “Ma che sia vero o falso non importa nulla, il buco lo prendiamo lo stesso”. In quel momento pensai che forse il giornalismo non era un mestiere adatto a me».
L’articolo cui è rimasto più legato?
«Un articolo che scrissi perché ero arrabbiato per il modo in cui seguivamo il Parlamento. Dicevo: non seguiamo mai un dibattito parlamentare, riportiamo solo chiacchiere da Transatlantico. E così una cronaca me la scrissi da solo. Un dibattito sulla violenza sulle donne, illuminante, in cui veniva fuori davvero la civiltà di un Paese, con quelli che parlavano di “vis grata puellae”, quelli che dicevano “ma anche queste donne con le minigonne…”. Feci il resoconto. Credo sia uno dei miei migliori articoli».

il Fatto 16.2.14
Da Togliatti a Berlinguer. I diari segreti dell’Unità
Il rapporto tra giornale e partito raccontato attraverso l’archivio dell’Istituto Gramsci Dalle scuse a Vttorini per una “disastrosa” recensione al Pcus che si lamenta
Dagli scontri con la redazione sul ruolo dell’Urss fino ai giornalisti poco “compagni”
di Eduardo De Blasi  e Marco Palombi


Novant’anni lo scorso 12 febbraio, l’Unità fondata da Antonio Gramsci non è mai stata solo un giornale. E’ “l’organo centrale del partito”, come lo chiamano al Pci. Partito e giornal, militanza e informazione realizzano un equilibrio difficile. Qulla che segue è - per brevi flash, suggestioni e qualche minuzia scavati nell’archivio del Pci all’Istituto Gramsci - la storia di quel rapporto: dalla compattezza d’acciaio del Dopoguerra ai segnali di sfaldamento degli anni Settanta e Ottanta. La storia di quel giornale, d’altronde, è un bel pezzo di quella della Repubblica
ORGANO CENTRALE. Nel marzo 1944 l’Agitprop chiarisce una cosetta al Comitato federale dell’Umbria: “L’Unità è il titolo dell’organo centrale del partito e non è opportuno – se voi conservate lo stesso titolo – chiamarlo ‘organo umbro del pc’ (...) Questo perché è bene che l’Unità resti una sola anche se con parecchieedizioni”. Suggerimenti dell’Agitprop: l’edizione umbra deve contenere tutti gli articoli importanti nell’edizione centrale. Deve riportare fedelmente la linea. Deve avere in prima pagina tutti gli articoli della prima nazionale. Sulla seconda, semmai, si possono inserire notizie regionali.
INTELLETTUALI. Il 7 ottobre 1945 Palmiro Togliatti scrive a Elio Vittorini. L’Unità di Roma, il 12 settembre precedente, ha stroncato Uomini e no, primo romanzo sulla Resistenza di Vittorini. Il Migliore, tornato in Italia da due anni, rassicura l’autore: “Da tempo avevo in mente di scriverti queste due righe, ma forse, con molto lavoro, non sarei riuscito a farlo, e non l’avrei fatto se non fosse stato di quella disgraziatissima recensione apparsa su l’Unità di Roma. Non voglio che tu possa credermi in nessun modo solidale o anche solo tacitamente consenziente con quello scritto, che mi è costato invece un'arrabbiatura di più tra tutte quelle che mi procura il nostro quotidiano romano”. Assicura: “Il tuo libro mi pare veramente un’o p e ra d’arte certo la migliore ch’è venuta nelle mie mani da quando sono tornato nel mio paese”. L’11 marzo 1950 lo storico Ambrogio Donini scrive a Mario Socrate, della direzione del Pci, in merito a La lunga notte di Medea di Corrado Alvaro. È una critica feroce alla recensione entusiasta fatta da l’Unità: “So già che non gioverebbe a nessuno dire alcune dure verità alla Pavlova (...) Che quando corre 17 volte avanti e indietro dalla scena per esprimere ‘l’attesa gelosa’, e poi si rotola per tre volte per terra per esprimere ‘l’a m o re t ra d i to’, non ci fa ricordare di Corinto ma, salvando il rispetto, di Troia. (...) Un testo da prima liceale (...). Mi pare che Alvaro abbia compiuto un’altra delle sue brutte azioni. (...) Ho lasciato il teatro deluso e disgustato. Poi ho letto Euripide e ho dormito benissimo”.
UGOLINI E L’ALBERGO SBAGLIATO. Nel settembre 1947 scrive a Togliatti Amedeo Ugolini: è stato direttore de l’Unità di Torino e nel direttivo del Cln piemontese. In quell’anno è inviato del giornale a Mosca. Viene alloggiato all’Hotel Lux che, a dispetto del nome, è in realtà il luogo che i sovietici adoperano per tenere d'occhio spie e dissidenti: “Dopo circa due settimane dal mio arrivo a Mosca Scevgliaghin (del Comitato Centrale, ndr) mi avvertiva di essere indispensabile il mio immediato trasferimento all’Hotel Metropole essendosi rilevata l’inopportunità che il corrispondente di un giornale legale italiano risiedesse all’hotel Lux”, scrive a Togliatti. “Il telefonista de l’Unità a nome di Amerigo Terenzi (direttore generale Editrice l’Unità, ndr) mi ingiungeva perentoriamente di lasciare il Metropole e di tornare al Lux”. Gli mandano 5.000 rubli e una lettera di Terenzi “che diceva che il partito non poteva concedermi un suppletivo comfort e mi invitava a tornare al Lux”. Ugolini è ferito dalla lettera e dal fatto che nelle redazioni di Torino e Genova (all’epoca l’Unità aveva quattro edizioni: Roma, Milano, Torino e Genova) si sparla dei suoi “comfort”. Così il giornalista si sfoga con Togliatti: “Ho versato regolarmente alla Federazione di Torino, dall'insurrezione al giorno in cui ho lasciato la direzione dell'Unità piemontese, sia quanto percepivo da direttore che come membro del Cln regionale, trattenendo per me solo 1/4 di quanto percepito”. Togliatti scrive allora a Felice Platone, direttore de l’Unità, per chiedere conto. Lui risponde al Migliore e poi a Ugolini. “Una bega di poca importanza”. La faccenda, poi, si risolve. I soldi sono un tema scabroso: nel giugno 1948 Mara Montanari (“compagna dattilografa capace” e che dà “garanzie politiche”) non ha accettato “di venire a lavorare alla direzione del partito”. A l’Unità prende 5.000 lire in più di “quello che le sarebbe corrisposto dall’apparato”.
RACCOLTA. Nell’agosto del 1949 la Direzione lancia “il mese della stampa”. L’obiettivo è quello di raccogliere 300 milioni di lire: 100 resteranno alle sezioni, 100 andranno al partito e 100 a l’Unità. Il giornale del resto già va bene: “L’Unità guadagna sempre maggiori consensi e simpatie in tutti i ceti, insomma fra tutti coloro i cui interessi non collimano con quelli degli imperialisti stranieri e dei loro servi nostrani”, si legge nella nota della Direzione. A due settimane dallo scadere del “Mese” Luigi Longo avvisa: sono stati raccolti 366.788.426 milioni.
STRILLONI. Amerigo Terenzi, tra i fondatori dell’Ansa, è direttore generale dell’Editrice l’Unità e pure presidente degli “Amici de l’Unità” la possente “macchina” dello strillonaggio. Verso la fine degli anni Quaranta non erano rari arresti e sequestri di copie per “vendita di giornali senza licenza”. Il 25 febbraio 1949, nell’aula del Senato, Mario Berlinguer (padre di Enrico e Giovanni) ricordò i “fermi, sequestri e denunzie” agli strilloni. Dai banchi del governo rispose il sottosegretario Andreotti: “Io ho sentito parlare di difficoltà che avrebbe fatto la Questura per lo strillonaggio di deputati in quella nota forma domenicale da parte de l’Unità. Non conosco i dettagli di questa forma di propaganda, ma se posso esprimere una valutazione, debbo dire che questo sforzo per lanciare la propria stampa e per valorizzarla è uno sforzo che fa onore al Partito comunista”. Dopo qualche mese gli arresti cessarono. Anche perché gli “Amici” e la Segreteria avevano studiato un vademecum per gli strilloni: comprare e poi rendere copie all’edicolante; vendere lontano dalle edicole; non sconfinare dalle zone assegnate; attenersi nello strillonaggio alla titolazione del giornale; tornare in edicola se si finiscono le copie.
I CONTI PEGGIORANO. Il 15 gennaio 1968 Amerigo Terenzi relaziona alla Segreteria: “Vi è una continua immissione di ingenti capitali da parte della borghesia per rafforzare e migliorare gli strumenti di informazione ormai sotto il diretto e sempre più sfacciato controllo dei monopoli”. Corriere, Stampa e Giorno “stanno già modificando rapidamente i loro impianti”. E il Pci non potrà seguirli. Quell’anno il partito ha versato 2,5 miliardi per la stampa. L’Organo centrale del partito ha 151 redattori e un piano di ristrutturazione inevaso che avrebbe dovuto portarli a 116. Si discute di tagliare la redazione di Roma. Ma dopo un lungo dibattito si decide di no: i tipografi potrebbero occupare la tipografia. E la politica non capirebbe. In quel 1969 l’Unità viaggia tra le 230 mila e le 286 mila copie, con 47 mila abbonati. Costa 60 lire, 70 a luglio.
ORIENTAMENTO. Il 29 gennaio 1969, nella riunione della IV Commissione del Comitato Centrale, Alessandro Natta relaziona sui “Problemi della nostra stampa”. Lui, che aveva tenuto la relazione per l’espulsione del gruppo del Manifesto dal partito, si dice in questo finire d’anno preoccupato per “l’esplosione delle riviste di taglio ideologico-politico espressione di gruppi di dissidenza o di generica impostazione marxista”. Dice che bisogna “salvaguardare il carattere nazionale, popolare e militante de l’Unità”. Sottolinea: “Per l’Unità più forte deve essere l'informazione sui fatti e la sicurezza dell’orientamento”. Giancarlo Pajetta osserva: “Dove si discute dell'Unità? In direzione da anni non ce ne occupiamo”. Salinari dettaglia: “Parecchi lati positivi. Eccellenti le pagine di resoconto del C. C.”, ma “la pagina sportiva non soddisfa”. La situazione economica negli anni, come previsto da Terenzi nel 1968, va sempre peggio: le prospettive per il 1974 sono “pesanti e difficili”, si prevede di perdere 2,8 miliardi. LETTORI. Secondo una ricerca Isegi, nel 1975 l’Unità è il secondo giornale più letto d’Italia dietro il Corriere e sopra Stampa e Gazzetta dello Sport. È letta per il 74,6 per cento da uomini, per il 25,4 da donne. Il 90 per cento dei suoi lettori sono impiegati, insegnanti, artigiani con dipendenti, contadini con aziende, operai non specializzati, pensionati, ambulanti.
PICCOLE PURGHE. Il 19 giungo 1970 Armando Cossutta (Ufficio di segreteria) scrive a Salvatore Cacciapuoti e Giancarlo Pajetta: il 15 maggio la Segreteria aveva deciso che la “compagna Bona-da” non dovesse più scrivere su l’Unità, ma quella firma continua ad apparire. Salvatore Cacciapuoti scrive allora una lettera di fuoco ai suoi: “Ora vorrei sapere: i compagni che dirigono l'Unità furono messi al corrente della decisione? E se furono sì, perché non l'hanno applicata? Sono forse compagni di tipo speciale che non sono tenuti a rispettare le decisioni dell'ufficio di segreteria? Sono forse essi padroni del giornale? ”. Nell’archivio de l’Unità la sigla “M. D. Bonada” compare l'ultima volta il 19 giugno 1970.
FEDELI ALLA LINEA. Grazia Curiel invia un articolo a l’Unità per riabilitare il fratello Eugenio dopo che Rinascita l’aveva indicato come confidente della polizia durante il fascismo. Nota di Gian Carlo Pajetta alla segreteria Pci del 13 marzo 1978: “Ho il dovere di dire che se si pubblicasse una cosa simile senza un commento anche più esplicito di quel che si è scritto già, chiederei di pubblicare ipotesi e argomenti che mi paiono attendibili e vanno, naturalmente, nel senso contrario alla lettera della sorella”.
INFEDELI ALLA LINEA. Tra il dicembre 1978 e il gennaio 1979 ben due giornalisti litigano con la direzione (Reichlin e Petruccioli) per la linea di sostanziale appoggio all’Urss di partito e giornale. Il primo è Alberto Jacoviello, corrispondente da Washington, a cui cambiano un pezzo senza neanche dirglielo. Si passa da: la Cina cerca l’alleanza degli Stati Uniti “per sconsigliare l’uso della forza da parte dell'Urss” a “per rilanciare le tensioni con l’Urss anche sul piano della forza militare”. Ne segue un carteggio assai aspro con Petruccioli, inviato in copia alla segreteria del Pci (che dava il suo parere su chi inviare all’estero), chiuso dal condirettore: “Non ritengo opportuna politicamente e per il giornale la pubblicazione di una rettifica che metta in evidenza una divergenza tra l’Unità e il suo corrispondente dagli Usa”. L’altro caso riguarda Emilio Sarzi Amadè, nome pesante della sezione esteri: qui la discussione riguarda l’invasione della Cambogia da parte del Vietnam, sostanzialmente appoggiata dal giornale. Sul sud-est asiatico, scrive Amadè in una lettera finita nell’archivio del Pci con la dicitura “molto riservato”, stiamo dicendo delle falsità per fare contenti i russi: “Il Vietnam ha attaccato solo dopo aver firmato il Trattato di amicizia con l’Urss, prima diceva che non lo avrebbe mai fatto”, in funzione anti-cinese è in atto “un tentativo di ricreare nel movimento operaio una situazione da anni 50”.
SCOLLAMENTO. Emanuele Macaluso nella Direzione del Pci del 10 febbraio 1984: “Nel corpo redazionale del giornale sono intervenuti profondi mutamenti negli orientamenti politici e culturali. Il vecchio quadro è andato in pensione. C'è una fascia intermedia di redattori che ha un rapporto labile col partito e tuttavia capisce che bisogna fare i conti con la realtà del giornale. La fascia dei più giovani ha invece un rapporto molto precario col partito (come sono giunti al giornale? c'è da domandarselo) ”.
RITORNI. La segreteria alla Federazione di Milano (7 marzo 1979): “Il compagno Elio Grisenti, che per tanti anni è stato correttore di bozze a l'Unità di Torino e Milano, e che dal 1964 al 1979 ha lavorato all'estero per incarico del nostro Partito, rientra definitivamente in Italia alla fine di aprile. Dal primo maggio assumerà nuovamente il suo antico incarico di correttore di bozze”.
SUGGERIMENTI. La segreteria del Pci alla direzione nell'agosto 1979: “Cari compagni, scadono in questo secondo scorcio di anno due avvenimenti: il 40esimo dell'aggressione nazista alla Polonia e il 35esimo anniversario della fondazione dello Stato polacco (…) Certamente voi avrete preparato il materiale necessario per qualche iniziativa giornalistica, ma abbiamo voluto lo stesso ricordarvi le due scadenze”.
TOVARICH CHE SBAGLIANO. Victor Zagladin, pezzo grosso del dipartimento internazionale del Pcus, scrive a Enrico Berlinguer: non gli è piaciuto come l'Unità ha riportato il contenuto di un suo pezzo apparso sulla Pravda: “L’Unità, pur avendo un suo corrispondente a Mosca, s’è aggrappata all'informazione dell'agenzia Ansa” e ora sembra “che io abbia scritto un pezzo sull’eurocomunismo, mentre gli ho dedicato una sola frase: la borghesia utilizza l'eurocomunismo per i propri scopi”. Conclusione: “Più grave del contenuto è il fatto che ancora una volta l'Unità è rimasta imbrigliata nell'informazione borghese e ha voluto sparare contro i suoi”.
L’INIZIO DELLA FINE. Nel settembre 1979 quando l’amministrazione dell’Unità informa quella del partito di un incontro col cdr della redazione di Milano: c’è qualche problema coi contributi Inpgi e i colleghi chiedono notizie sul “necessario aumento degli stipendi”. Franco Antelli, allarmatissimo, gira il carteggio alla segreteria: “A parte l’aspetto specifico delle richieste, non mi pare di poco conto il ruolo assunto dal Cdr di Milano, un ruolo da rappresentanza sindacale, che il contenuto della lettera valuta normale mentre rappresenta una novità da considerare con attenzione per i processi che ne possono derivare”.
NUMERI 1976-1983. Fare il giornale costava circa 20 miliardi nel 1976, mentre i ricavi si fermavano a 15,3 miliardi. Nel 1983 si parlava di costi per 61,5 miliardi contro 43,1 di ricavi. La perdita di esercizio dell'83 era di oltre 18 miliardi, che scendevano a 1,3 miliardi a bilancio dopo i trasferimenti dai soci (partito e federazioni). Nel 1976 il giornale perdeva 50,45 lire a copia, nel 1983 erano invece 268,24. Nel 1984 i dipendenti erano 783, quattrocento in meno rispetto al 1981: “425 funzionari e 358 tipografi, di cui cento in cassa integrazione”. Nel 1983 le vendite annuali ammontarono a 68 milioni di copie (13,5 milioni in abbonamento).
LA CRISI. Relazione di Macaluso sulla crisi de l’Unità nella Direzione del Pci del 10 luglio 1984: “La massa dei debiti pregressi sfiora i 60 miliardi”; “il giornale ci costa tre volte di più che se lo stampassimo fuori”; “per ‘liquidare’ le tipografie servono 25 miliardi a disposizione e il partito non può darci queste somme”; “siamo in una situazione pre-fallimentare”. Enrico Lepri, amministratore delegato, timidamente: “Nel bilancio che abbiamo presentato non abbiamo potuto evitare di evidenziare la ‘morosità’ del socio Pci”. Il piano portato in Direzione: chiudere le tipografie e liberarsi dei circa 370 tipografi; pagamento dei debiti pregressi in 18 mesi grazie a una sottoscrizione straordinaria da 50 miliardi; venti miliardi di tagli entro il 1987. Il segretario della Cgil, Luciano Lama: se bisogna farlo si fa, ma sia chiaro che “in questo modo il partito diventa una controparte”. Gerardo Chiaromonte sul punto ha, per così dire, qualche dubbio: “Ci saranno scioperi, occupazioni: è giusto che il sindacato appoggi, ma c’è modo e modo. Lo faranno Cisl e Uil, non lo può fare la Cgil”. La Direzione approva il piano. Commento di Macaluso: “Da due anni non faccio ferie: capita tutto sempre a luglio e agosto... ”. L’annuncio pubblico è affidato a un editoriale del 13 luglio. Titolo: “Decisioni da prendere”. Svolgimento: “È chiaro che la questione è posta ormai in termini drammatici: l'Unità deve essere salvata”.
LAMENTELE. Gerardo Chiaromonte, migliorista, membro della segreteria, non ha gradito il modo in cui l’Unità ha riportato – a firma Marco Demarco – una conferenza stampa di Enzo Scotti a Napoli. Se ne lamenta in una lettera tanto con Macaluso quanto con Berlinguer: “C’è incompletezza nell'informazione, c’è diniego (ma di chi? del Pci? di Demarco?) verso ogni possibilità di governo diverso della città (…) Data la delicatezza della questione, la mia domanda è se Demarco abbia chiesto consigli a qualcuno su cosa scrivere: e, in particolare, naturalmente, a qualcuno della Federazione o del Comitato regionale di Napoli. E, se questo non è avvenuto, chi autorizza Demarco a prendere una posizione politica, mentre da parte nostra si cerca, sia pure cautamente, di porre la questione delle alleanze per i comuni con più elasticità? ”.
ADDIO ENRICO. Rapporto di Luciano Carli, ispettore cittadino per Roma de l'Unità, sulle copie vendute in città nel periodo che va dal malore di Enrico Berlinguer alla sua morte. 8 giugno. Titolo: “Berlinguer gravissimo”. Copie vendute: 14.900. Commento: “C’è stato un raddoppio, ma rispetto al fatto non si può considerare buona la vendita”. 9 giugno. Titolo: “L’Italia col fiato sospeso”. Copie vendute: 16.750. 10 giugno. Titolo: Berlinguer, condizioni disperate”. Copie vendute: 26.100. 11 giugno. Due edizioni. Titolo della straordinaria: “È morto”. Totale vendite della giornata: 62.175. 13 giugno. Edizione straordinaria. Titolo: “Addio”. Copie vendute ai soli concentramenti: 130.000. Commento: “È sicuramente la vendita più alta mai registrata in una manifestazione”.

il Fatto 16.2.14
Novant’anni
Il quotidiano fondato da Antonio Gramsci il 12 febbraio 1924, fu per lunghi anni anche l’organo che veicolava idee e prese di posizione del più ampio Partito comunista dell’Occidente


IL PCI aveva diversi organi di propaganda, ma un solo quotidiano di informazione, ovviamente negli anni della Guerra fredda molto prossimo alle decisioni del Partito. La cifra del quotidiano comunista però non era dettata solo dalla “linea” ma anche da quella che l’apparato chiamava “popolarizzazione”. Doveva cioè essere un giornale per tutti: con pagine di cultura e sport, cronaca e spettacoli. E doveva essere diffuso ovunque, non solo nelle edicole ma anche nei luoghi di lavoro e nelle case, “casa per casa”. Come ai tempi delle diffusioni militanti, quando alla domenica si passava dalle 200 mila alle 800 mila copie vendute, la prima edizione delle pagine storiche de l’Unità, mandata in edicola martedì scorso dal quotidiano oggi diretto da Luca Landò, è finita esaurita. Oggi, vista la richiesta, il giornale ristamperà e rimanderà in edicola quelle pagine. Nello sfoglio (dagli anni Venti alla Liberazione, da Achille Occhetto che “non vince” la segreteria, all’allunaggio, fino alla storia recente delle grandi manifestazioni di piazza del sindacato alla vittoria ai Mondiali), si può notare quel carattere “popolare”.

Corriere La Lettura 16.2.14
La provocazione
Rivalutare Togliatti
Moriva 50 anni fa il leader storico del Pci scisso tra Urss e via italiana al socialismo
Aveva contraddizioni irrisolte Ma cercava soluzioni condivise Sinistra e grillini oggi spaccano
Il dilemma è se separare etica e politica o se in nome della prima si possa tenere bloccata la seconda
Invece bisogna tentare di tenerle insieme, anche se sembra impossibile
di Francesco Piccolo


Sono nato nell’anno in cui Togliatti è morto. I suoi funerali li ho vissuti lo stesso, come capita per quasi tutti gli eventi che non abbiamo potuto vivere in diretta, attraverso un libro o un film — stavolta un film: I sovversivi dei fratelli Taviani, in cui c’è un montaggio tra le immagini reali di quei giorni e la finzione di personaggi che arrivano a Roma per assistere ai grandi funerali. A interpretare Ermanno è Lucio Dalla, che a un certo punto dice a qualcuno «io sono più comunista di te». Una frase rabbiosa e ironica, che però non sa ancora di essere una frase profetica sulla storia dei comunisti da allora fino ai giorni nostri: tutti faranno a gara a chi è più di sinistra, e intanto la storia si muoverà per conto suo. Ho letto di Togliatti nei libri degli scrittori che raccontano le loro vite e i loro incroci con il segretario, lì dove lo nomina la Ginzburg («Io quel Togliatti non lo posso soffrire!», dice il padre nel Lessico famigliare); e poi, sia ne La linea gotica di Ottieri sia nel Memoriale di Volponi, il resoconto autobiografico attraversa il mitico attentato al segretario del Pci, il 14 luglio 1948, quando le pallottole di una calibro 38 lo colpirono alla nuca e alla schiena, quando di conseguenza ci furono tumulti in tutto il Paese (diciassette morti e centinaia di feriti), furono bloccate linee telefoniche e ferroviarie e si ebbe prima la sensazione poi quasi la certezza che stesse per cominciare una guerra civile. Infine si disse che l’Italia la salvò Bartali con la vittoria al Tour, che bloccò sul nascere la rivolta dei comunisti.
In realtà, pur considerando il supporto della gioia patriottica che contribuì ad abbassare l’asticella delle divisioni, fu proprio Togliatti a fermare tutti con un appello che lo collocò per sempre dalla parte della democrazia. Gli bastò dire alla sua gente di stare calma, di non fare pazzie; e la sua gente obbedì. E soprattutto ho rivissuto gli anni di Napoli, quando Togliatti tornò in Italia dopo il lungo esilio a Mosca dai tempi del fascismo, dentro le pagine del Mistero napoletano di Ermanno Rea, lì dove racconta che uno dei suoi protagonisti, Renzo Lapiccerella, non fu scelto dal segretario come suo collaboratore futuro, a favore di Massimo Caprara. Un passaggio che nel romanzo di Rea spinge il gruppo napoletano che ha scelto di raccontare (e di cui faceva parte) ai margini del partito, e perfino ai margini di un futuro felice. I romanzi aiutano a capire gli umori, intanto che la storia cammina a passo svelto, soprattutto nel dopoguerra.
Ma questa facoltà della letteratura, Togliatti non l’accettò mai e cercò fino all’ultimo giorno della sua vita di piegare gli scrittori al consenso politico: si scontrò con Vittorini sulle funzioni del «Politecnico», e quando questi disse che l’intellettuale non deve «suonare il piffero per la Rivoluzione», Togliatti per tutta risposta fece chiudere la rivista più importante del dopoguerra. Al comitato centrale del 1957 attaccherà Calvino, reo di aver scritto un apologo sulla politica: «Il letterato che ha scritto la novelletta, per buttar fango...». Calvino era stato persino sul punto di diventare funzionario del partito e il segretario dei giovani comunisti, Enrico Berlinguer, aveva dovuto avvertirlo: «Se lo fai non ti illudere di poter continuare a scrivere romanzi». Intanto c’era Bilenchi che diceva che come comunista era disposto a seguire le idee di Lenin e Togliatti, ma come scrittore se ne sarebbe vergognato.
Il rapporto di Togliatti con la vita culturale era molto problematico, quindi. Ma irrinunciabile, come dimostra la scelta (tutta politica, è ovvio) della pubblicazione dei Quaderni di Gramsci, che daranno una sterzata potente alla costellazione di riferimenti — in fondo è davvero il primo atto di autonomia dalla dottrina sovietica, e fonda un punto di riferimento tutto italiano per le generazioni a venire. Ma appunto: a che cosa serve ricordare Togliatti oggi, in un’Italia e in una vita politica tutte diverse?
Appena finita la guerra, ciò che Togliatti sta costruendo si immette in una specie di irrisolvibile (o meglio, irrisolto) doppio canale. I cattolici e i comunisti insieme (in compagnia dei socialisti e di altri ancora), anche se senza mai confondersi, hanno appena realizzato la magnifica pagina della Resistenza al fascismo. Fondano l’Italia repubblicana, cominciano a governare fianco a fianco — con la motivazione dell’emergenza, Togliatti sarà più volte ministro. Poi il suo accordo con De Gasperi pian piano arretra: prima smette di far parte del governo (ma lasciandovi ben tre ministri comunisti). Poi, De Gasperi conclude che nell’esecutivo non c’è più posto per il Partito comunista — il presidente americano Truman aveva appena deciso che il suo Paese doveva manifestare apertamente l’anticomunismo e il segretario di Stato George Marshall scrisse all’ambasciatore a Roma, James Dunn, suggerendo di far presente a De Gasperi che era diventata ineluttabile la necessità che in Italia si governasse senza i comunisti.
Così, in quell’anno decisivo, il 1947, nasce il Togliatti più irrisolto, la cui ombra si stenderà sulla sinistra italiana fino alla caduta del Muro. Scelse — per sempre, lasciando tale eredità ai suoi successori — di fare opposizione parlamentare («fu a suo modo un moderato e un moderatore», scrisse Eugenio Scalfari quando Togliatti scomparve); non solo: ma decise di avere la pazienza di attendere il ravvedimento di De Gasperi, come se all’improvviso il resto dell’Italia potesse finalmente rendersi conto che al governo c’era bisogno dell’apporto dei comunisti. Esattamente la stessa attesa che mise in campo Berlinguer, anni dopo, dalla morte di Moro fino al terremoto in Irpinia, quando l’indignazione di Pertini per la mancanza dei soccorsi lo scosse dal torpore dell’attesa e lui decise di cambiare strategia.
Nell’uno e nell’altro caso, risulta quasi incredibile, quasi commovente, la somiglianza tra Togliatti e Berlinguer nell’avere fiducia in ciò che non sarebbe più accaduto, prima per opera degli americani e poi per ostinazione nemica di Bettino Craxi. Ma allo stesso tempo, mentre mostrava tutte le facoltà democratiche e moderate, Togliatti non ebbe mai e poi mai la tentazione di tagliare il cordone ombelicale con Stalin e l’Unione Sovietica. Così, il suo partito divenne un particolarissimo ibrido, un prototipo europeo pieno di involuzioni ed evoluzioni, progressismi e reazionarietà, passi in avanti e passi indietro, capacità di comprensione rapida degli eventi storici e ostinazione ottusa nel ricorrere alla difesa del grembo sovietico (anche per ragioni economiche, certo, è quello che si ripete da anni, ma queste ragioni non sono sufficienti a spiegare una complessità inestricabile). E su questa contraddizione — sia virtuosa (il miglior partito comunista europeo, in senso democratico) sia viziosa (il partito più ottuso nei confronti di coloro che dissentivano) — si costruisce tutto il resto della storia della sinistra nel Novecento (e oltre).
Palmiro Togliatti era definito il Migliore, da amici e nemici. E anche questo è un marchio profetico per la sinistra italiana, che ancora oggi non riesce a togliersi di dosso il mantello della superiorità. Togliatti incarna già pienamente, in tempi (in teoria) non sospetti, la sinistra bipolare che Berlinguer realizzerà: il continuo elastico tra il desiderio di collaborazione con partiti diversi e lontani, e l’arroccamento nella solitudine dei giusti e intoccabili. Ma Togliatti è stato, appunto, pur nella contraddizione, anzi addirittura nella schizofrenia che caratterizzava i comunisti italiani, un democratico, nonostante il filosovietismo ostinato che faceva paura a tutti. Il suo filo rosso con Berlinguer è stato questo. La parte dialettica di Berlinguer, il compromesso storico, non era nata dal nulla, ma si costruiva partendo dall’idea togliattiana del comunismo in Italia — e ancora nel marzo del 1963, poco prima di morire, riproponeva «un accordo tra comunisti e cattolici per salvare la civiltà umana».
Forse questa tesi viene dimostrata proprio quando l’idea del compromesso viene meno. Giorgio Napolitano nel 1981 pubblica un articolo intitolato Perché è essenziale il richiamo a Togliatti, e in maniera non esplicita rivolge critiche al segretario dell’epoca, Berlinguer. In quel momento prende corpo l’area migliorista del partito, quella che chiederà un lento cammino verso le riforme e quindi la collaborazione con i mondi più vicini (inteso il Partito socialista). Tesi profondamente moderna nella teoria, ma inattuabile nella pratica: perché Craxi aveva individuato nel partito di Berlinguer il nemico principale da combattere (e viceversa...).
Ma il richiamo decisivo che contrappone la scelta della diversità di Berlinguer a Togliatti è incarnato da Nilde Iotti, compagna di Palmiro per molti anni, e con altre poi irrisolte contraddizioni sulla condotta morale di un capo politico nella vita personale. Nel 1983, l’intervento di Nilde Iotti in direzione è molto duro contro Berlinguer e il suo «isolamento»: e la Iotti si richiama proprio al Migliore per ricordare a Berlinguer lo sforzo continuo e ostinato della ricerca di collaborazione. Quasi lo accusa di tradimento dello spirito togliattiano — ma anche se la sua è una presa di posizione virtuosa, sta accusando l’uomo sbagliato: Berlinguer non stava tradendo né Togliatti né Nilde Iotti né lo sforzo di collaborazione; aveva creduto nel compromesso più di chiunque, ma ormai non aveva altre possibili strade davanti a sé: constatare l’ineluttabilità dell’emarginazione a opera di democristiani e socialisti, e trasformarla in orgoglio della diversità. Fu un’intuizione politica basata sull’orgoglio, che si è trasformata in eredità solo perché l’evento tragico della sua improvvisa morte è caduto nel mezzo di quell’emarginazione politica. E quindi, oggi, siamo ancora piuttosto fermi lì, sempre ossessivamente in quel punto di svolta, in quella perfetta e ibernata schizofrenia bipolare: collaborare con gli altri per le regole o arroccarsi nella convinzione della diversità e respingere ogni contaminazione? A questa domanda, Palmiro Togliatti ha sempre dato una sola risposta. Questo è il suo insegnamento oggi, al netto dei tanti errori commessi.
Il discorso, nella sostanza, è se separare etica e politica. Se in nome dell’etica si possa tenere bloccata l’azione politica per timore di sbagliare. Togliatti, in tempi difficilissimi e con un carico ideologico quasi insostenibile, tentò sempre di tenerle insieme, anche quando fu impossibile, anche quando rendevano più evidenti le contraddizioni del suo partito; Berlinguer fece di questa pratica necessaria la base teorica del compromesso storico e poi, sconfitto dagli eventi, fu costretto a separarle, e finì per fare una denuncia etica contro i partiti quando non ebbe più a disposizione una proposta politica attuabile (mentre la questione morale doveva necessariamente accompagnarsi a una collaborazione politica). Quel germe di separazione, oggi, viene coltivato con ostinazione da alcuni puri di sinistra («io sono più comunista di te»); e quel che è peggio, è stato trasformato in un mostro illogico dal Movimento Cinque Stelle, che proprio in nome della morale onnivora si disinteressa di ogni possibile pratica politica.
Quindi, se c’è un insegnamento che di Togliatti si può conservare, spogliandolo dalle contraddizioni cui ho solo accennato, è l’ostinata propensione alla ricerca di una soluzione condivisa — che è l’essenza della democrazia parlamentare. Anche verso il fascismo, che pure lo costrinse a molti anni di esilio, ebbe un approccio da studioso, quasi da entomologo: a Mosca intitolò Corso sugli avversari le lezioni sul fascismo e Mussolini, e spiegava agli allievi che era un regime reazionario, certo, ma «di massa». E su quest’ultima questione chiedeva concentrazione e capacità di analisi. Ecco: negli ultimi vent’anni la sinistra italiana non ha avuto un segretario o un qualsiasi teorico capace di tenere un «corso sugli avversari», altrimenti non sarebbe messa così male. Molti di loro erano troppo occupati a urlare con voce rabbiosa: «Io sono più di sinistra di te».

Corriere La Lettura 16.2.14
La discussione tra gli storici
I rapporti con Gramsci
La fase costituente
Tempo di guerra fredda


Il volume di Aldo Agosti Togliatti. Un uomo di frontiera (Utet, 1996) è la biografia più articolata del leader comunista (sopra, su «Time» il 5 maggio 1947), che viene presentato dall’autore come un politico combattuto tra il legame con l’Urss e il sincero sforzo d’inserire il Pci nel sistema democratico italiano. Assai diversa l’impostazione del saggio Togliatti e Stalin (Il Mulino, 1997) di Elena Aga Rossi e Victor Zaslavsky, che sottolinea la forte matrice stalinista del Pci di Togliatti sulla base di una vasta documentazione tratta dagli archivi di Mosca

I rapporti con Gramsci

Il volume Gramsci a Roma, Togliatti a Mosca, curato da Chiara Daniele (Einaudi, 1999), contiene il carteggio relativo al contrasto esploso nel 1926 tra i due leader. Ai rapporti tra Gramsci e Togliatti Mauro Canali ha dedicato il recente libro Il tradimento (Marsilio, 2013). Altri testi sul segretario del Pci: Renato Mieli, Togliatti 1937 (Rizzoli 1964); Luciano Canfora, Un ribelle in cerca di libertà (Sellerio, 1998)

Una vita per la politica
Nato a Genova il 26 marzo 1893, Palmiro Togliatti studia a Torino, dove si unisce ai giovani socialisti, guidati da Antonio Gramsci, che pubblicano la rivista «L’Ordine Nuovo». Con loro partecipa alla scissione da cui nel 1921 nasce a Livorno il Partito comunista d’Italia

In esilio a Mosca
Di fronte all’ascesa della dittatura fascista, Togliatti nel 1926 si rifugia a Mosca e nello stesso anno entra in contrasto con Gramsci, che aveva criticato i metodi di Stalin. Durante l’esilio Togliatti diviene il principale esponente italiano dell’Internazionale comunista (Comintern) e approva tutte le scelte di Stalin

La fase costituente
Nel marzo 1944 Togliatti torna in patria, dove assume la guida del Pci e, con la «svolta di Salerno», entra nel governo Badoglio. Finita la guerra, teorizza un’originale «via italiana al socialismo» e cerca di mantenere l’alleanza tra le forze antifasciste impegnate a stendere la Costituzione: accetta anche il Concordato di Mussolini con la Chiesa e, da ministro della Giustizia, vara l’amnistia per i fascisti. Ma non riesce a evitare che Alcide De Gasperi estrometta il Pci dal governo nel maggio 1947

Tempo di guerra fredda
Dopo la sconfitta del Fronte popolare (comprendente Pci e Psi) alle elezioni dell’aprile 1948, Togliatti subisce il 14 luglio un attentato che provoca gravi disordini. Poi contrasta l’adesione all’Alleanza atlantica e resta allineato con Stalin anche sulla repressione dei comunisti ritenuti infidi nei Paesi dell’Est, ma nel 1951 rifiuta di trasferirsi a Praga per dirigere il Cominform (successore del Comintern), come gli aveva chiesto il despota sovietico

La destalinizzazione
Nel 1953, anno della morte di Stalin, Togliatti si batte contro la riforma elettorale chiamata dalle sinistre «legge truffa», il cui premio di maggioranza non scatta. Quando il nuovo capo del Cremlino Nikita Krusciov denuncia i crimini di Stalin, nel febbraio 1956, Togliatti nota che i guasti non possono essere addebitati solo alla personalità del dittatore. In autunno però non solo approva, ma sollecita con una lettera ai vertici del Pcus, l’invasione dell’Ungheria, dove gli insorti avevano abbattuto il regime comunista

Il «Memoriale di Yalta»
Dopo la tragedia ungherese molti intellettuali lasciano il Pci, che però non perde voti. Togliatti si pronuncia contro il Mercato comune europeo, ma accentua l’apertura ai cattolici e modera la polemica verso il Psi, che si è staccato dal Pci e approda al governo nel 1963. Il leader comunista muore in Crimea il 21 agosto 1964. Lascia un documento, il famoso «Memoriale di Yalta», che contiene rilievi critici verso l’Urss. C’è chi sostiene però che essi fossero rivolti soprattutto contro Krusciov, per agevolare la manovra che ne provocò subito dopo la destituzione

L’immagine
I funerali di Togliatti, dipinto nel 1972 da Renato Guttuso (1911-87) ed esposto al Mambo (Bologna)

l’Unità 16.2.14
L’invettiva al potere
I linguaggi usati da Grillo e Casaleggio e la «macchina» dell’indignazione
di Alessandro dal Lago


Le mobilitazioni in nome dell’indignazione hanno rappresentato in questi anni una delle poche voci pubbliche contro lo strapotere della finanza e le politiche recessive. Tuttavia, per quanto si possa simpatizzare con le loro motivazioni, si tratta di proteste morali più o meno di massa, che non hanno trovato sbocchi politici. Il loro limite è proprio nella loro natura. (....)
È caratteristico del populismo fondere istanze storicamente eterogenee in una dimensione in cui i leader si appellano direttamente al popolo, cioè a una «realtà» politica fondamentale, non mediata e quindi assolutamente legittima. Il populismo non può che essere nazionalista, perché la nazione – entità ovviamente immaginaria, esattamente come il «popolo» con cui finisce per coincidere – è il crogiolo più ampio in cui trovano spazio sia le istanze sociali, sia quelle patriottiche, e quindi l’avversione per i nemici interni ed esterni. In questo senso, come vedremo, la richiesta di un reddito di cittadinanza è del tutto compatibile con l’ostilità di Grillo per gli stranieri. Si tratta infatti di stabilire i confini della nazione (e del popolo che la riempie), attraverso i meccanismi più sperimentati di inclusione ed esclusione .
In ogni caso, la forza del messaggio di Grillo e del M5S consiste nell’ancorare l’idea di nazione alla purezza morale di chi non appartiene alla casta, e quindi del popolo incorrotto.
L’opposizione binaria
Si assiste dunque, per la seconda volta in vent’anni, alla riduzione della complessità della questione politica (partiti, conflitti, tipo di governo, gestione delle risorse, politiche sociali ecc.) all’opposizione binaria, spoliticizzata e assoluta, tra «noi» e «loro». Binaria com’è quella tra guardie e ladri, giudici e criminali, onesti e corrotti, «popolo» e «casta», cittadini ed alieni. È del tutto logico, in questa prospettiva, che l’unica istituzione salvata da Grillo e Casaleggio, i quale vorrebbero eliminare partiti e sindacati, l’indipendenza del Parlamento, nonché la burocrazia (cioè lo stato o gran parte della costituzione materiale), sia la magistratura.
Come dice Casaleggio: «L’80% della burocrazia è senza senso. Il 50% della restante burocrazia utile può essere cancellato dall’uso della rete. Il parlamentare è l’esecutore del volere della collettività. Per questo ogni decisione importante va sottoposta a referendum. Un discorso a parte va, invece, fatto per la magistratura: il potere giudiziario deve mantenere la sua indipendenza».
La magistratura è citata dunque a guardia e garanzia dell’opposizione tra indegni e indignati. Qui si impone una riflessione sulle conseguenze della trasformazione della politica in «lotta per la giustizia assoluta». Come è noto, il modello giacobino dello stato d’eccezione, o della salute pubblica, non solo ebbe vita brevissima (dal 1793 al 1794),ma fu sostituito dapprima dal Direttorio e poi dalla restaurazione napoleonica del potere assoluto. Qualcosa del genere, sia pure in modo infinitamente più farsesco, è avvenuto, dopo «Mani pulite», con il berlusconismo. E ora, con Grillo? Che ne sarà dell’indignazione cavalcata da Grillo, quando presumibilmente il M5S si sarà istituzionalizzato o sarà andato al governo? Anche se Berlusconi sparirà dalla scena politica, l’Italia è stata profondamente segnata dal berlusconismo. Analogamente, quali conseguenze del grillismo sono ipotizzabili, se Grillo dovesse fallire o scomparire? Per il momento, se ne possono individuare almeno due: la prima è senz’altro un’ulteriore scossa alla struttura delle due formazioni politiche che hanno appoggiato il governo dopo le elezioni del febbraio 2013.
Al di là delle sue prospettive personali, un tipo come Renzi non sarebbe pensabile senza l’irruzione di Grillo sulla scena politica. Personaggio quasi esclusivamente mediale, dalle idee generiche o inesistenti, ma dall’appeal moderato e bipartisan, Renzi è il perfetto antagonista potenziale di Grillo. Se questo è la personificazione fin troppo concreta di uno stile politico virtuale, Renzi è la risposta virtuale della politica tradizionale – una via di mezzo tra Giamburrasca e Chance il giardiniere di Oltre il giardino. In questo quadro, chi sembra definitivamente superato, al di là del suo destino giudiziario, è Berlusconi. Leader ideale all’epoca dei media tradizionali (stampa e tv generaliste), con la sua triplice natura di politico, imprenditore editoriale (e televisivo) e tycoon calcistico, Berlusconi è del tutto inadeguato alla politica della rete, cioè alla demagogia virtuale. E con lui, è probabilmente inadeguata la stessa struttura della destra italiana, per tre quarti partito personale del boss e un quarto partito di notabili. È chiaro, dunque, che con il suo ingresso clamoroso in politica Grillo ha già modificato, in modo probabilmente irreversibile, il palcoscenico politico italiano.


La Stampa 16.2.14
Casa Fenoglio, quello sparo in cucina
Nel racconto della sorella, gli “scontri violentissimi” dello scrittore con la madre: parlavano lingue diverse, ma non c’era solo antagonismo
di Marisa Fenoglio

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La Stampa 16.2.14
Né mito né riscatto nell’Italia contadina della Malora
Torna il romanzo del ’54, storia di povertà e di servitù vissute come una condanna
di Paolo Di Paolo

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La Stampa 16.2.14
Come gli ebrei, sulla Terra siamo tutti stranieri residenti
Un saggio di Donatella Di Cesare sui fondamenti “filosofici” di Israele: nel sionismo si esprime la comune condizione umana
di Elena Loewenthal

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Repubblica 16.2.14
Darwin, Bruno e Galilei Tre anniversari rivoluzionari
di Piergiorgio Odifreddi


Il periodo che va dal 12 al 17 febbraio vede affollarsi in soli sei giorni tre ricorrenze fondamentali per la cultura scientifica. Il 12 febbraio è infatti il 205esimo anniversario della nascita di Charles Darwin, il 15 febbraio il 450esimo anniversario della nascita di Galileo Galilei, e il 17 febbraio il 414esimo anniversario della morte di Giordano Bruno. Il 12 febbraio è ormai celebrato in mezzo mondo come Darwin Day: una specie di Natale laico che si contrappone a quello religioso, e fornisce l’occasione per ricordare il grande scienziato inglese, e per diffondere una visione materialista e naturalista dellavita, secondo gli insegnamenti della sua teoria dell’evoluzione. Visione che non contempla alcuna finalità nella storia biologica, e spiega nei dettagli come si sia passati dalla materia inanimata all’infinita varietà e complessità della materia vivente, uomo compreso.
Il 17 febbraio è anch’esso celebrato ogni anno, a Campo de’ Fiori. Cioè, nel luogo in cui l’Inquisizione bruciò sul rogo il frate nolano, che aveva osato proporre una visione del cosmo analoga a quella della scienza moderna. Una visione di un “infinito universo et mondi”, in cui il ruolo della Terrae dell’uomo venivano riportati alla marginalità che loro compete, nella grandiosità dell’universo.
Il 15 febbraio passa invece in sordina, a causa dell’ignavia dimostrata da Galileo nei confronti del potere ecclesiastico. I suoi studi lo pongono al livello scientifico di Darwin, ma la sua abiura lo squalifica umanamente di fronte all’eroismo di Bruno. Per questo Galileo, benché sia ricordato come un grande scienziato, lo è anche come un piccolo uomo: da ammirare per la sua intelligenza, ma non per il suo coraggio.

Repubblica 16.2.14
Riscoprendo la mitezza nella lezione di Bobbio
di Francesca Bolino


La mitezza? È “la più impolitica delle virtù”, dice Norberto Bobbio all’inizio di questo saggio che viene ristampato vent’anni dopo la “scoperta” tra le carte del professore.
All’elogio seguono altri saggi su etica e politica, la natura del pregiudizio, libertà e tolleranza. E per finire il tema del Male, inferto e sofferto, affrontato laicamente. Ma al centro c’è il mite, ovvero colui che «lascia essere l’altro quello che è anche se l’altro è l’arrogante, il protervo, il prepotente. Non entra nel rapporto con gli altri con il proposito di gareggiare, di confliggere e alla fine di vincere. È completamente fuori dallo spirito della gara, della concorrenza, della rivalità e quindi anche della vittoria».
Era un “mite”, Bobbio? «No, mi piacerebbe, ma non è così». La città ideale, scrive il filosofo non è quella descritta dagli utopisti in cui regna «una giustizia tanto rigida e severa da diventare insopportabile, ma quella in cui la gentilezza dei costumi sia diventata una pratica universale». Una società mite è facilmente una società democratica, una società violenta produce un governo violento. Se vogliamo un governo democratico, dobbiamo volere anche una società democratica.
ELOGIO DELLA MITEZZA E ALTRI SCRITTI MORALI di Norberto Bobbio Il Saggiatore, pagg. 270, euro 16

Repubblica 16.2.14
Quanto sono folli questi mitici eroi
di francesco Pacifico


Eroi e miti sonoancora moneta corrente nella cultura occidentale: “tallone d’Achille” e “filo d’Arianna”, gli Avengers-Argonauti della saga Marvel, Edipo dall’analista, Antigone campionessa della dignità umana. Nei dodici saggi raccolti inEroi, Giorgio Ieranò ricapitola in dettaglio le avventure di questi figli illegittimi di dei e uomini – da Teseo a Giasone, da Edipo ad Achille – lasciandoci apprezzare l’assurdità del mito rispetto alle forme di narrazione cui siamo più abituati: il racconto mitologico non condivide il bisogno che abbiamo oggi, come lettori e spettatori, di archi narrativi solidi in tre atti, messaggi edificanti, significato, giustizia poetica.
Le storie degli eroi di Ieranò sono articolate, senza morale, parlano di uomini e donne straordinari e imprevedibili, che un giorno si distinguono per bontà e coraggio, un altro per la violenza e l’egoismo. Eracle è un «ammazzasette violento e rissoso», un «pancione ottuso, rozzo e ingordo, che faceva scomparire tonnellate di cibo nel suo stomaco insaziabile » e «poteva distruggere una città per futili motivi». Su Teseo e Elena: «Non sappiamo come fu la notte d’amore tra il voglioso cinquantenne e la bambina Elena. Di sicuro, l’episodio non rende onore al re di Atene».
Eroi è un libro strano: è divulgativo, quasi per ragazzi, o per i cosiddetti ignoranti colti, ma non semplifica anzi restituisce una complessità che la nostra percezione opaca del mito come storia emblematica ha ridotto. Più che parabole sembrano disastrose accozzaglie di eventi tragici. Prendiamo il viaggio degli Argonauti, che a ogni fermata lascia sbigottiti e frustrati: «Passarono nel paese dei Dolioni, dove regnava il re Cizico, che li accolse da amici. Fu una parentesi triste. Avevano già lasciato il paese ma il mare infido li respinse indietro» dai Dolioni. Non se ne accorsero, e siccome era notte «si scatenò una battaglia. Gli Argonauti uccisero molti di quelli che credevanonemici, compreso il re Cizico. Quando l’equivoco fu chiarito si persero lacrime amare. La moglie del re, disperata, appese una corda a una trave e si impiccò ».
La stoffa del mito è più liberata e sgargiante della narrazione come la concepiamo oggi: il mito non ha redenzione duratura, non ha giustizia se non di rado. Se prendiamo Antigone, la prima persona a battersi per il diritto alla sepoltura, Ieranò aggiunge una cosa che di solito non consideriamo nella versione orale santificata della sua storia: «un figlio o uno sposo Antigone li avrebbe lasciati insepolti, in pasto ai cani, perché erano sostituibili. Ma per un fratello è pronta a immolarsi. Un punto di vista abbastanza inquietante». E spiega che «non si può dimenticare neppure che Antigone riserva comunque il suo affetto a un casato particolare, quello delspessol’incestuoso Edipo (…). Il suo rapporto con Polinice è un rapporto necessariamente morboso, viziato alla radice dalla nascita incestuosa».
L’occhio contemporaneo, seguendo queste storie paragrafo per paragrafo, annaspa alla ricerca di un senso morale. Quando leggiamo che Cnosso artista di corte di Minosse «costruì una vacca di legno, dentro la quale la regina si sarebbe adagiata: in questo modo Pasifae avrebbe potuto accostarsi al toro restando al tempo stesso al riparo dal suo furore animale », sgraniamo gli occhi e ricominciamo il paragrafo per capire se abbiamo inteso bene cosa si intende per “accostarsi”. C’è un umorismo impassibile, quasi anglosassone, nell’approccio narrativo di Ieranò. Ecco Pasifae (raccontata da Euripide) che si giustifica con Minosse: «Sono impazzita per volere di un dio: io non ho colpa (…) la mia storia non ha alcun senso. Perché, se fossi stata padrona della mia mente, avrei voluto accoppiarmi con un toro?».
È disorientante. Ed ecco Eracle impazzito che ammazza uno dei figli: «Siccome il bambino era troppo vicino per essere ucciso con l’arco, prese la clava e gli fracassò la testa».
EROI di Giorgio Ieranò Sonzogno pagg. 255 euro 16

Corriere La Lettura 16.2.14
Il Medioevo finisce soltanto nel Settecento. Parola di Le Goff
di Antonio Carioti


Rinascimento addio? Il titolo del nuovo libro di Jacques Le Goff è Faut-il vraiment découper l’histoire en tranches? («Bisogna davvero tagliare la storia a fette?»): pubblicato in gennaio dalle É ditions du Seuil (pp. 224, e 18), uscirà in Italia da Laterza. Qui il grande storico medievista francese, pur trattando il tema generale relativo all’opportunità di isolare singole epoche nel lungo corso degli eventi, si concentra soprattutto su un caso specifico di periodizzazione. A suo avviso, la civiltà medievale è durata in Europa dalla tarda Antichità (un arco compreso tra il III e il VII secolo d. C.) fino a metà del XVIII secolo, quindi è sbagliato far cominciare l’età moderna con la scoperta dell’America, nel 1492. Ne esce svalutato il Rinascimento, che lo storico francese declassa a uno dei vari momenti di fioritura culturale del Medioevo, inaugurati dalla rinascita carolingia. Le Goff tira così le fila di una riflessione nella quale si è impegnato da tempo, in particolare con gli interventi, pubblicati in origine tra il 1980 e il 2004, che ha raccolto nel volume Un lungo Medioevo , edito in Italia da Dedalo nel 2006. La sua attenzione principale — secondo l’insegnamento della scuola delle «Annales», di cui è il continuatore più prestigioso — va ai fenomeni sociali legati alla vita quotidiana: in campo produttivo, sostiene, non si verifica in epoca rinascimentale alcun salto di qualità nel processo che condurrà alla nascita del capitalismo. Siamo sempre nell’ambito di un’economia rurale incapace di autentica crescita, tant’è vero che le carestie si susseguono fino al Settecento avanzato. Più o meno lo stesso vale per le epidemie di peste, che durano fino al 1710. Quanto alla religione, la Riforma protestante non pare a Le Goff una frattura decisiva, poiché rimane nell’ambito del cristianesimo, mentre l’incredulità prenderà piede solo con l’Illuminismo. E in politica la forma monarchica rimane dominante fino alla rivoluzione francese, con una breve parentesi in Inghilterra (1649-1661) e l’eccezione della Repubblica olandese delle Province unite (1581-1795). Le Goff ridimensiona anche la scoperta dell’America, afferma che le sue ripercussioni si fanno sentire in modo incisivo solo a partire dal Settecento. Tesi forti, su cui abbiamo dato la parola a Giuseppe Galasso e a Franco Cardini, l’uno in dissenso e l’altro in sintonia con Le Goff. Completa il quadro lo storico francese Maurice Aymard, studioso della civiltà mediterranea, con un intervento sulle nuove frontiere della periodizzazione.

Corriere La Lettura 16.2.14
Perché Le Goff sbaglia
Rinascimento Addio?
Quella primavera svegliò il mondo rivendicando la dignità dell’uomo
di Giuseppe Galasso


Un errore di fondo
Disconoscendo le partizioni e la ragioni che si affermarono nel vivo del corso storico si ottiene soltanto di rendere tutto più confuso, indistinto

«Tagliare la storia a fette». Lo si dice per indicare la «storia a cassettini»: in uno la politica, in un altro l’economia, e così via; oppure per fare fronte alle implicazioni dello specialismo, che parcellizza scienza e tecnica; oppure per le varie epoche e tempi in cui si suole ripartire la fitta trama della storia. Su quest’ultima questione, in particolare, la discussione non è nuova. Divampò nella storiografia europea già tra Ottocento e Novecento. Da un lato c’era chi definiva un arbitrio le scansioni cronologiche, che, introducendovi fratture o «svolte» che la vita e la storia non conoscono, ne rompono l’ininterrotta corrente. Dall’altro lato c’era chi opponeva a ciò la realtà obbligante dei vari momenti della storia, per cui fare storia è, anzitutto, periodizzare.
Al taglio della storia in fette cronologiche si è applicato Jacques Le Goff con tutta la sua notoria, amplissima dottrina. Se ne occupa, in particolare, riguardo a Medioevo e Rinascimento. Lo fa, è ovvio, con tutta la sua esperienza di studioso, si può dire, di ogni piega e risvolto, innanzitutto, di Medioevo e dintorni; e lo fa anche come studioso che al tempo nella storia ha dedicato pagine fondamentali come quelle sul «tempo della Chiesa» e sul «tempo dei mercanti».
Nel nuovo libro il suo obiettivo è, in effetti, il Rinascimento: periodizzazione inutile e infondata, a suo avviso, in un corso storico ininterrotto dalla fine dell’età antica fino al secolo XVIII, che forma un lunghissimo Medioevo. Fino all’ultimo quest’epoca conserva i suoi caratteri di fondo e cioè, anzitutto, la visione cristiana della vita. Ad essa appartengono anche Cristoforo Colombo e Shakespeare: il primo cercava qualcosa in nome della sua fede cristiana, il secondo riflette e drammatizza il mondo tipicamente medievale di nobili, borghesi, ebrei, in cui viveva. Il cosiddetto Rinascimento non fa che prolungare il Medioevo, così come la Riforma protestante. Ciò sarebbe vero anche sul terreno della storia dell’arte, ossia nel dominio in cui meno ci si aspetterebbe una tale affermazione. Nella musica solo con Mozart si avrà il passaggio dall’artista artigiano all’artista indipendente, che è il segno della modernità. E così via, tra le luci suggestive di una sempre fervida immaginazione storica.
Quanto a rimanerne persuasi, è un’altra cosa. Un lunghissimo Medioevo (di 1500, non di 1000 anni) è stato teorizzato anche da altri e da tempo. Il Rinascimento, poi, è già in disgrazia, essendo caduto nel tritatutto di un revisionismo pregiudiziale e integrale, come tante altre nozioni (Medioevo compreso) della storiografia europea.
Ad esempio, che senso ha continuare a chiamare Medioevo quei presunti 1500 anni? Età di mezzo tra antichità e modernità? Ma tutte le epoche storiche sono età di mezzo tra un passato e un futuro (quando c’è). Nella storiografia europea quel nome aveva un senso. Indicava un periodo oscuro, buio, di povertà artistica e culturale, cui aveva posto fine la grande primavera umanistica del Rinascimento, di cui l’Umanesimo era il contrassegno-principe.
Umanesimo il cui nome non era casuale, poiché presumeva che la rinascita, ossia il ritorno all’eccellenza artistica e culturale avveniva ed era intesa in rapporto a un concetto dell’umano, in cui quell’eccellenza era il contrassegno della dignità dell’uomo e di ciò che dell’uomo è degno. Poi il concetto si allargò. La Riforma si pose come rinascita dell’originario Cristianesimo evangelico. Le scienze riconobbero un loro nuovo inizio, che superava gli antichi in quella che noi definiamo «rivoluzione scientifica». Con l’Illuminismo la modernità teorizzata dai primi umanisti comprese tutti i campi della vita civile e, a sua volta, il Medioevo si fece ancora più buio. E non parliamo delle ripercussioni culturali, religiose, economiche, politiche della scoperta dell’America, già evidenti dalla metà del Cinquecento.
Peraltro, col tempo la storiografia moderna tese anche a riempire quell’oscurità di un alto senso storico, a vedervi sempre più una sua grande anima, nonché il travagliato processo che aveva partorito la società dell’Europa moderna, passando attraverso la rivoluzione culturale umanistico-rinascimentale. E ciò senza contare la scoperta e valorizzazione di tutte le luci, anche artistiche e culturali, e la finale fase di sviluppo demografico ed economico dei «secoli bui», per cui non si contano più le «rinascite» e i fermenti di modernità ravvisati nel vecchio Medioevo, senza rinunziare, peraltro, alla grande idea dell’Umanesimo e del Rinascimento come momento epocale della storia europea. Della storia europea, beninteso, ché fuori dell’Europa le nostre partizioni non hanno senso, così come non hanno senso per noi quelle cinesi, indiane, dell’islam e di altri (ma ora il nuovo verbo della World History ci assicura che anche questa vecchia idea sarà superata). Sta il fatto però che le partizioni europee sono quelle della parte del mondo che del mondo negli ultimi cinque secoli ha guidato il corso, e che, quindi, le sue partizioni hanno un particolare rilievo.
In tali partizioni il Rinascimento ha un luogo inaugurale che, per quanto ci si possa sforzare di disconoscerlo, è destinato a resistere e non è riducibile a una delle tante «rinascite» medievali venute poi di moda. I concetti storiografici che via via sorgono nel caldo stesso delle vicende storiche (come Medioevo e Rinascimento) hanno sempre basi e ragioni che non è lecito ignorare o sottovalutare. All’Oriente musulmano e bizantino l’Europa dei «secoli bui» appariva «barbara». Ci sarà stata qualche ragione. Gli europei dal secolo XV in poi parlavano di rinascita delle arti, delle lettere e delle scienze e se ne sentivano protagonisti. Avranno avuto anch’essi una qualche ragione.
Disconoscendo queste ragioni nate nel vivo del corso storico si ottiene solo di rendere tutto più confuso, indistinto. Rifiutando le ragioni dei contemporanei, si perde, infatti, un elemento storico, che, esso almeno, è un dato di fatto indubbio, e si entra in un gioco di «Lego» storiografico aperto a tutte le soluzioni. Il Medioevo potrebbe essere reso ancora più lungo e considerato alla fine solo con l’inizio dell’era digitale. Oppure, più breve, e finito già (e non sarebbe troppo male) con l’anno Mille, quando l’Europa cominciò a vestirsi di «una bianca veste di chiese» ed ebbero inizio tante altre cose, che anche il Rinascimento ereditò belle e fatte. A che giova?

Corriere La Lettura 16.2.14
Perché Le Goff ha ragione
La spinta verso l’innovazione risale almeno al Duecento ma roghi e oscurantismo bigotto furono duri a morire
L’età dei miracoli è un’invenzione Il parto della Modernità durò secoli
di Franco Cardini


Dopo l’impresa di Colombo
Le scoperte geografiche cambiarono il volto del nostro Continente, ma ci vollero almeno duecento anni di lenta penetrazione delle novità

Nel suo ultimo successo editoriale, Jacques Le Goff torna a presentarci una sua tesi forte che non è ancora stata recepita come dovrebbe, soprattutto da noi: quella di un «lungo Medioevo»,
che affonda le sue origini nella tarda Antichità e si protende tra XII-XIII e XVIII secolo, segnato da una sostanziale continuità nel mutamento. Lo strumento dialettico di cui egli si serve è il «disincanto» weberiano. Che cosa sono difatti l’«Antichità», il «Medioevo», il «Rinascimento», se non concetti convenzionali che c’illudono di controllare quel vivo flusso di eventi, di istituzioni, di strutture ch’è la storia?
Facciamo qualche esempio. Alla parola «Antichità» fu solo Montaigne, nel 1580, ad attribuire il senso che gli diamo noi: prima di lui, non si era fatto che polemizzare su ciò che fosse meglio, se quel ch’era «antico» o quel ch’era «moderno»; e si continuò anche dopo. Il «Medioevo», poi, se lo inventarono alcuni intellettuali tre-quattrocenteschi, a cominciare dal Petrarca, convinti che dopo la grande e perfetta stagione greco-romana, culminata con l’era augustea, il mondo fosse precipitato in una «età di mezzo» fatta di barbarie e di superstizione, dalla quale si era emersi solo ai loro giorni. Tre-quattro secoli dopo, alcuni illuministi ripresero e aggravarono la mistificazione umanistica: ed ecco il «buio Medioevo» di Voltaire e dell’Encyclopédie.
Ma, dopo la rivalutazione di quello stesso periodo in età romantica, furono gli intellettuali dell’Ottocento come Michelet e Burckhardt a riproporci un’Europa liberata dalle tenebre, inventando il nome stesso di un’età felice, tra Quattro e Cinquecento, nella quale la bellezza, l’armonia e la ragione antiche sarebbero prodigiosamente rinate: appunto la Renaissance, il «Rinascimento». Quel concetto attecchì soprattutto in Italia, sia perché essa ne era indicata come la culla, sia perché gli italiani, che non avevano conosciuto alcun Grand Siècle, alcun Siglo de Oro, dopo il Cinquecento scorgevano solo il trionfo dell’ignoranza, della repressione inquisitoriale, del barocco crocianamente inteso come «brutto», dell’oppressione straniera. Per questo sono soprattutto gli italiani a doversi liberare dal pregiudizio di un Rinascimento come breve e intensa stagione dei miracoli.
Ed ecco l’implacabile rullo compressore del disincanto legoffiano. Il Rinascimento sarebbe stato l’età della scoperta dell’individualismo, della liberazione della vita dalle pastoie dell’ipoteca religiosa, del razionalismo, dell’individuazione del bello nelle arti e nella musica, del razionalismo filosofico, dell’ampliamento del mondo con le scoperte geografiche e del perfezionamento delle risorse umane con le invenzioni? Vediamo.
Nessun dubbio sul prodigioso rinnovamento, specie artistico e intellettuale, verificatosi in Italia e soprattutto in città come Firenze (ma non solo) durante il Quattrocento. Il fatto è che esso era stato già anticipato e preceduto da una lunga serie di fasi innovative (a loro volta definibili come «Rinascimenti») in età carolingia, poi ottoniana, quindi e soprattutto fra XII e XIII secolo: la grande età del ritorno in Occidente della filosofia greca attraverso le traduzioni dall’arabo, insieme con la matematica, la medicina, l’astronomia-astrologia; della riscoperta della natura con la scuola di Chartres e l’arte gotica; dell’affermarsi di un robusto senso estetico, come ha dimostrato Umberto Eco; il momento nel quale si cominciarono anche ad affinare quegli strumenti creditizi che avrebbero preparato l’avvento dell’economia capitalistica; e in cui invenzioni come la bussola, la velatura mobile e il timone assiale, insieme con gli sviluppi cartografici, gli avvii dell’uso delle armi da fuoco e le prime esplorazioni oceaniche, aprirono la strada alla grande stagione di Colombo e di Vasco de Gama, mentre in politica dalle monarchie ancora «feudali» si sviluppavano, a cominciare dalla Francia del Due-Trecento, i precedenti dello Stato assoluto.
Quella dinamica, avviata prima del Rinascimento, si concluse solo molto più tardi. Individualismo e secolarizzazione dovettero combattere a lungo, in pieno Cinquecento, con un duro ritorno dell’autoritarismo religioso in area tanto cattolica quanto protestante: e solo fra Sei e Settecento si affermarono sperimentalismo, sensismo e perfino libertinismo.
Allo stesso modo, è vero che le scoperte geografiche cambiarono il volto dell’Europa: ma per questo ci vollero due secoli di lenta penetrazione delle novità. Ne sono simboli le nuove colture come il pomodoro e la patata, importate ai primi del Cinquecento, che solo dal secolo successivo intervennero a mutare costumi alimentari e convinzioni dietetiche: nello stesso periodo in cui si avviava il declino dei generi di vita tradizionali, con i loro ritmi e costumi. E il tutto avvenne non senza fasi di ristagno e d’inversione di tendenza. La grande tradizione magica sapienziale, che avrebbe condotto a Bruno e a Campanella, è frutto del Medioevo: mentre il «luminoso» Rinascimento fu tale anche perché di continuo rischiarato dai roghi di eretici e streghe. Sarebbe un escamotage troppo comodo attribuire tutto il male al Medioevo e tutto il bene al Rinascimento, presentando come «anticipazioni della Modernità» tutti gli aspetti del primo che ci sembrano positivi e ricacciando nelle nuove «tenebre del Medioevo» tutti i fenomeni regressivi dei quali la Modernità è punteggiata.
La gestazione della Modernità fu lunga e complessa: durò oltre mezzo millennio, dal XII secolo, che avviò il processo della «ragione naturale» abelardiana, fino alla prima rivoluzione industriale e quindi alle due rivoluzioni politiche del Settecento. Il «lungo Medioevo» di Le Goff è, appunto, il tempo di questa dinamica che condusse l’Europa a rendersi padrona del mondo. Tale grande stagione fu tuttavia sigillata da quella che già negli anni Trenta del secolo scorso Paul Hazard denunziava come la «crisi di coscienza» settecentesca; e di recente sembra giunta alla sua eclisse.

Corriere La Lettura 16.2.14
Ma ora la storia va allargata oltre gli steccati eurocentrici
di Maurice Aymard


Il titolo dell’ultimo saggio di Jacques Le Goff vuol provocare il lettore, e ci riesce perfettamente: lo sappiamo tutti, la storia non è un salame da tagliare a fette più o meno spesse. Eppure continuiamo non solo a usare tali fette temporali, ormai accettate da tutti, ma anche a proporne di nuove, che sono il frutto delle richieste o dei risultati delle ricerche più recenti. Non c’è scrittura della storia senza una divisione del passato in sezioni successive, che attribuisce a ognuna di esse la sua fisionomia particolare e le sue caratteristiche. Anche lo storico delle durate più lunghe non può fare a meno delle periodizzazioni. E Le Goff per primo. Da più di mezzo secolo (Gli intellettuali del Medioevo , 1957) si è imposto come l’avvocato più appassionato e convincente di un Medioevo al quale voleva restituire i colori, la vita, le dinamiche, i rinnovamenti interni, ma anche le vere dimensioni cronologiche. Da una parte un «altro Medioevo», liberato dalla tenace leggenda nera dei «secoli bui». E dall’altra un «lungo Medioevo», che inizierebbe fra V e VI secolo, con la vera fine del mondo antico, e supererebbe i limiti imposti dalla tradizione (1453 o 1492) per prolungarsi fino alla seconda meta del Settecento, e forse, per alcuni aspetti, più avanti, quasi fino a noi: tale tema, da Le Goff anticipato da almeno 25 anni in vari articoli e interviste, costituisce nel libro il filo rosso della sua dimostrazione. Tale ambizione lo porta a negare, o piuttosto a relativizzare, le interpretazioni proposte dagli inventori di questa aetas media, che avevano voluto sottolineare ciò che vivevano come una rottura profonda e la nascita di un mondo nuovo o piuttosto di un rapporto nuovo degli uomini con il mondo: Petrarca a metà del Trecento, gli umanisti fiorentini verso la metà del Quattrocento. Per Le Goff, il lungo Medioevo è un periodo ricco di dibattiti, di innovazioni, di rinascite successive, di cui il cosiddetto «Rinascimento» va visto come l’ultima: ogni volta contano più le continuità che le rotture. E lo stesso si potrebbe dire dell’età «moderna», che gli anglofoni chiamano early modern . Come la maggior parte degli storici delle società e delle economie rurali e urbane, condivido in larga parte la visione di un lungo ciclo agrario che sarebbe stato il quadro, fra XI e XVIII secolo, della formazione, dello sviluppo e della strutturazione dello spazio europeo. Ma il problema più nuovo che pone Le Goff, senza trattarlo fino in fondo, va ben al di là della validità «essenziale» di una periodizzazione storica come quella di Medioevo. Partirei più volontieri dalla definizione data da Christian Amalvi nel Dictionnaire raisonné de l’Occident Médiéval (1999), curato dallo stesso Le Goff e da Jean-Claude Schmitt : «Non esiste il Medioevo». È infatti soltanto una rappresentazione culturale, risultato di elaborazioni e reinterpretazioni successive durante l’ultimo mezzo millennio. Ma lo stesso vale per il Rinascimento. Ogni periodizzazione nasce da una domanda posta al passato, e dallo sforzo per identificare articolazioni coerenti fra varie categorie di fattori, politici, economici, sociali, religiosi, culturali e cosi via. Ogni ricerca nuova necessita invece di uno sforzo per rivisitare i quadri interpretativi ereditati dal passato. Ma necessita oggi soprattutto di uno sforzo per proporre sia nuove periodizzazioni sia nuovi découpages spaziali, che corrispondano alle sfide attuali. Dobbiamo considerare sia l’allargamento del tempo storico – la protostoria e i lunghi processi di neolitizzazione iniziati 10 o 12 millenni fa e, a monte, tutta la «preistoria» — sia le periodizzazioni delle civiltà extraeuropee, ognuna delle quali ha seguito la sua strada del tutto indipendente e originale fino al loro incontro, recente a scala dei millenni, con l’Europa. La storia ha davanti a sé un lungo futuro.

Corriere La Lettura 16.2.14
Il mio pianto, il pianto degli scarafaggi
Il massacro in Ruanda frutto di una pedagogia dell’odio
I miei morivano e io non c’ero. Andavo ai funerali degli altri
Dall’aprile 1994 per cento giorni gli hutu sterminarono i tutsi. Ottocentomila vittime
Ma all’origine stanno i miti razzisti dei colonizzatori europei e il loro stile di dominio
di Scholastique Mukasonga


Chi aveva sentito parlare del Ruanda prima dei tragici mesi di aprile, maggio e giugno 1994, durante i quali un milione di tutsi (800 mila secondo le stime più citate, ndr ) furono massacrati in condizioni atroci? Il Ruanda non era facile da individuare su una cartina dell’Africa, un coriandolo, appena la metà della Svizzera. I meglio informati avevano sentito parlare dei giganti tutsi, dei vulcani sui pendii dove vivevano gli ultimi gorilla. Altri ne facevano un Paese modello: molto cristiano, paradiso di organizzazioni non governative, un’oasi di pace in contrasto con un vicino immenso e turbolento come il Congo.
Il più delle volte, si ignorava che era un Paese molto popoloso (oggi quasi 12 milioni di abitanti), una densità all’olandese. Si sapeva che inizialmente era stato colonizzato dai tedeschi, poi, dopo la Grande guerra, sottoposto al regime di mandato belga. Eppure, il Ruanda non era una creazione coloniale come tanti altri Stati africani dalle frontiere artificiali, tracciate per bene dagli interessi europei. Il Ruanda, prima dell’arrivo degli europei, era una nazione a tutti gli effetti. Le tradizioni orali, ricche e abbondanti, ci fanno risalire alla fine del Seicento, l’archeologia al primo millennio. La complessità della società, la ricchezza dei riti intorno alla regalità sacra avevano stupito i primi europei, amministratori coloniali, missionari, che soggiornavano nel Paese. La popolazione era forte dell’appoggio di una quindicina di clan che giocavano un ruolo politico essenziale e si ripartivano in tre gruppi: hutu, tutsi e twa.
Queste tre categorie non avevano niente delle etnie né tantomeno delle razze. I ruandesi parlano tutti la stessa lingua, abitano gli uni accanto agli altri, non ci sono regioni tutsi né regioni hutu, condividono la stessa cultura. I tutsi erano più specializzati nell’allevamento, gli hutu nell’agricoltura, i twa sono in prevalenza vasai. Se la regalità era tutsi e alcuni clan detenevano delle prerogative e considerevoli ricchezze in bestiame, va detto che la maggior parte dei tutsi non si distingueva in nulla dalla maggioranza della popolazione. L’élite politica ed economica comprendeva sia tutsi che hutu, ma sarà omologata dagli europei sotto la denominazione unica di tutsi. La carta d’identità imposta dai belgi negli anni Trenta fisserà definitivamente le cosiddette «etnie».
Inoltre, i tutsi saranno vittime dei miti dell’antropologia razzista imperanti nell’Ottocento e fino alla metà del Novecento: gli africani non sono capaci di edificare Stati stabili né di elaborare culture raffinate e complesse, come nel caso del Ruanda. Tutto ciò proviene dall’esterno, è stato portato dagli invasori che hanno imposto ai «negri» la propria civiltà. Ma questo ruolo verrà attribuito ai tutsi. Non possono essere completamente neri: sono etiopi, egiziani, discendenti dalle dieci tribù perdute d’Israele... I colonizzatori, come i missionari, si appoggiano ai capi tutsi, e difatti si sono premurati di nominarli al posto dei recalcitranti alla conversione e alla colonizzazione.
Ma alla vigilia dell’indipendenza, la potenza belga e la Chiesa cattolica onnipotente in Ruanda abbandonano i tutsi, i cui intellettuali scalpitano troppo per ottenere l’indipendenza immediata. Siamo in piena guerra fredda e la paura del comunismo e l’esempio del vicino Congo hanno probabilmente indotto a quell’improvviso mutamento politico. Una élite hutu formatasi nei seminari rivendica riforme che potrebbero essere giustificate se non si ispirassero agli schemi razzisti che le sono stati inculcati: i tutsi sono degli invasori, i primi colonizzatori, degli stranieri parassiti che bisogna scacciare, se non sterminare. Nel 1959, innegabilmente orchestrati, scoppiano i primi pogrom contro i tutsi: ormai i tutsi sono considerati stranieri nel proprio Paese. Presto non saranno nemmeno più considerati esseri umani, ma bestie nocive, serpenti, inyenzi , ossia scarafaggi che un giorno ci si dovrà ben decidere a sradicare.
Dal 1959, i tutsi sapevano perfettamente di essere destinati a una morte violenta. Conoscevano i loro futuri assassini. Ci vivevano accanto. Scherzavano perfino con loro sulla sorte che li attendeva.
A quattro anni, ho visto bruciare la mia casa. La mia famiglia è stata deportata in una regione fino ad allora riservata ai grandi animali, il Bugesera. Le persecuzioni quotidiane, i massacri a ripetizione ci ricordavano che il genocidio era la nostra sola promessa di futuro. Ci potevano annientare in ogni istante, con il minimo pretesto. La paura era un’ombra che ci accompagnava giorno e notte. Ma forse quella paura era ciò che allertava i nostri sensi e che ci ha permesso di sopravvivere più a lungo. Mia madre mi ripeteva: «Ammira la mosca che vede da tutti i lati. Devi essere gli occhi della mosca, devi dirti che sei una mosca».
Eppure non eravamo rassegnati. Eravamo ben decisi a sopravvivere. Molti erano già andati in esilio nei Paesi circostanti, Burundi, Uganda, Congo. Io stessa, nel 1973, cacciata dalla scuola di assistente sociale, ho preso la strada dell’esilio verso il Burundi. Da allora, ero la memoria dei nostri, dei deportati di Nyamata destinati al genocidio.
Aprile, maggio, giugno 1994: 100 giorni, un milione di morti. I massacri non potevano stupirmi. Massacri oscuri, violenze tribali, ataviche, primitive, dicevano i media. I governi del mondo intero tendevano a rifiutare il termine genocidio per non dovere intervenire. In lingua kinyarwanda c’era già una parola — gutsembatsemba , che significa sradicare —, una parola che veniva impiegata a proposito delle erbe cattive e anche dei tutsi. La prima sensazione è stata di sollievo: finalmente! L’attesa era finita. Era accaduto ciò che da tempo aspettavamo nella paura. Finalmente ora riposano. Ma quanti morti, quante umiliazioni prima di essere uccisi, quante atrocità impensabili.
Certo, come ogni essere umano, cercavo di sapere se, della mia famiglia rimasta in Ruanda, ci fosse un superstite. Non mi facevo illusioni, a Nyamata c’erano solo tutsi. E poi è arrivata una lettera dal Ruanda. Era la lista dei miei. La lista dei miei morti: 37 nomi. È allora che ti invade il senso di colpa per essere sopravvissuto, proprio come l’ho descritto per il personaggio di uno dei miei racconti de L’Iguifou , che porta sempre con sé la lista dei suoi morti: «Di quelli che sono morti lontano da lei, senza di lei, senza che lei potesse fare nulla, neanche morire insieme a loro». Si dice che il dolore si plachi piangendo. Ma si può piangere davanti a un foglio di carta stropicciato? In Ruanda, le donne, vedove o orfane, hanno potuto piangere insieme. Mi sembra che, da quella sofferenza comune, abbiano attinto risorse. Io invece ero sola. Nei mesi successivi al genocidio, ero colta da un desiderio irrefrenabile di intrufolarmi nelle cerimonie di tumulazione. Avrei pianto con le famiglie a lutto che si domandavano chi fosse quella nera sconosciuta che mostrava tanto dispiacere. Al ritorno da quei funerali estranei, mi vergognavo un po’: ero un parassita del lutto altrui. Certo, sapevo che un giorno sarei dovuta tornare in Ruanda per piangere i miei Morti. Per dieci anni mi è mancata la forza. Ho finito per andarci nel 2004. A Nyamata, nel villaggio dei «rifugiati interni» di Gitagata, non esisteva più niente del villaggio dei profughi della mia infanzia, della mia famiglia, della casa dei miei genitori. Nessuna tomba sulla quale raccogliersi. La savana aveva invaso tutto. Avevano voluto sradicare perfino il ricordo della loro esistenza. Non restano che ossa e teschi anonimi esposti in vetrine nella chiesa dei missionari di Nyamata. È stato allora che ho capito cosa i Morti attendevano da me.
Di tutti coloro che erano stati chiamati scarafaggi, che erano stati sterminati senza risparmiare i neonati, di coloro di cui si era voluto sradicare perfino il ricordo, io ero la sola memoria ed era in me, grazie alla scrittura, che dovevano sopravvivere. Il genocidio aveva fatto di me una scrittrice.
Il dovere della memoria si era dunque mutato per me in dovere di scrivere. I miei primi due libri sono puramente autobiografici. Il primo, Inyenzi ou les Cafards («Gli scarafaggi»), ripercorre la mia infanzia nel villaggio profugo di Gitagata, le persecuzioni quotidiane, i ripetuti massacri, ma anche le gioie dell’infanzia perché, dopotutto, anche nella terra dell’esilio e dell’infelicità, l’infanzia lascia sempre, per quanto minimo, un piccolo posto al paradiso. Come ho scritto, quel libro era la tomba di carta per coloro che sarebbero rimasti per sempre senza sepoltura. La mia seconda opera, La femme aux pieds nus («La donna scalza»), è un omaggio a mia madre e al coraggio di tutte le donne esiliate, che si ingegnavano a sopravvivere e soprattutto a salvare i figli da una morte annunciata. È il sudario nel quale non ho potuto avvolgere il corpo di mia madre come lei mi aveva fatto promettere. Il libro ha ricevuto il prix Seligmann des Universités de Paris contro il razzismo e l’intolleranza. L’Iguifou è una raccolta di racconti che segna il mio passaggio verso la narrativa romanzesca. Ha ricevuto il premio Renaissance per il racconto breve e il premio dell’Académie des Sciences d’Outre-Mer.
Nostra Signora del Nilo, come il titolo del romanzo, è un liceo femminile arroccato a 2.500 metri di altezza, non lontano da una presunta sorgente del Nilo sovrastata da una statua della Vergine. È lì che si forma la nuova élite femminile, la prima repubblica hutu. Se hanno costruito quel liceo in quel luogo così solitario, è stato per proteggere le ragazze, future mogli di ministri o di ricchi uomini d’affari, dai pericoli della città. Ma il liceo d’élite non è preservato dall’apartheid etnico che imperversa nel resto del Paese: una quota limita al 10% il numero di alunne tutsi.
Chiuse nel liceo e nella stagione delle piogge che corrisponde all’anno scolastico, le passioni che lacerano il Ruanda finiscono pian piano per scatenarsi anch’esse nell’animo delle studentesse di quinta. Il futile chiacchiericcio tra adolescenti, le rivalità amorose, la rocambolesca spedizione dai gorilla, la ridicola visita della regina Fabiola potrebbero contrassegnare un anno scolastico in fondo simile agli altri in un liceo cattolico forse un po’ rigido, ma dove tutto sfocerà in una tragedia premonitrice di quella che vent’anni dopo annienterà un milione di innocenti. Appena apparso, Nostra Signora del Nilo (in uscita in Italia il 20 febbraio per i tipi di 66thand2nd, ndr ) ha ottenuto il premio Ahmadou Kourouma al Salone del libro di Ginevra e, nel novembre 2012, il premio Renaudot.
(traduzione di Stefania Ricciardi )

Corriere La Lettura 16.2.14
Tredici settimane in Ruanda: 800 mila persone uccise in meno di 100 giorni, «il più veloce genocidio della storia»


21 marzo 1994 A Hollywood Schindler’s List vince 8 Oscar. Viene aprile e a Kigali l’unica lista è quella delle vittime designate dalle autorità. Mentre in Sudafrica si celebrano le elezioni e Mandela presidente grida «Mai più» oppressione, in Ruanda sotto gli occhi dell’Onu e delle diplomazie mondiali non si scatena il caos della cieca violenza tribale tra hutu e tutsi, ma una mattanza prevista e oculatamente pianificata: lo sterminio della minoranza tutsi (e degli oppositori hutu) organizzato da una classe dirigente hutu in cravatta e tailleur, che ama lo shopping francese e si sente minacciata da una guerra che rischia di perdere. Un genocidio portato a termine da militari, milizie di partito, gruppi «di autodifesa» disposti sul territorio da prefetti e «borgomastri», migliaia di zelanti persone comuni che si alzano la mattina nei villaggi per finire «il lavoro» ovvero uccidere gli ultimi nemici tutsi e spartirsene gli averi.
Ogni tentativo di ridurlo a una breve sequenza di date è un’arrischiata operazione di distilleria cronologica. Che però serve ad allargare il cono di luce sulle responsabilità, al di là di quanto fatto dal Tribunale internazionale per il Ruanda (Ictr), che finora ha processato un centinaio di persone. Il Paese del genocidio, vent’anni dopo, è un motore economico e una potenza militare nel cuore dell’Africa. Le divisioni hutu-tutsi sono state cancellate dalle carte d’identità e dal dibattito pubblico. Al potere (talvolta accusati di autoritarismo) i leader dei «ribelli tutsi», quel Fronte patriottico ruandese (Fpr) che dall’esilio in Uganda nel 1990 mosse guerra al regime autoritario e settario del presidente hutu Juvenal Habyarimana, in sella dal 1973.
6 aprile Verso sera Habyarimana viene ucciso da un missile terra-aria mentre il suo Falcon privato (con equipaggio francese) atterra a Kigali. I pretoriani della Guardia presidenziale cominciano il massacro dei civili. Nella capitale c’è anche una delegazione (scortata da 400 uomini armati) dell’Fpr per la formazione del nuovo governo di unità nazionale. Sulla carta gli accordi di Arusha dell’anno precedente, voluti dalla comunità internazionale, hanno messo fine alla guerra. L’Onu ha appena mandato in Ruanda un debole contingente di peacekeeper . Ma sull’Africa spira il vento del disimpegno mondiale, dopo il massacro dei caschi blu in Somalia nel 1993. La classe dirigente hutu, che osteggia la condivisione del potere con l’Fpr, sfrutta quel vento e quel vuoto, agli ordini del generale in pensione Théoneste Bagosora (oggi all’ergastolo). Chi uccise il presidente, che dopo molti voltafaccia sembrava deciso a fare posto ai ribelli? Tutte le parti avevano interesse a farlo. La Francia di François Mitterrand, grande protettore di Habyarimana, accuserà Paul Kagame, leader Fpr e attuale presidente del Ruanda. Ma Parigi, con un’inchiesta ufficiale nel 2012, lo ha scagionato. Il mistero rimane. Certo è che la morte del presidente fu il pretesto per la «soluzione finale» contro i tutsi. Nei tre anni precedenti, c’erano state «prove tecniche»: 17 massacri di tutsi pressoché ignorate all’esterno. Dal gennaio 1993 al marzo 1994 furono importate 581 tonnellate di machete (il doppio dell’anno precedente) per armare i miliziani. Per mesi le trasmissioni governative su radio Mille Colline ha cantato la propaganda dell’estremismo hutu: i tutsi, antichi dominatori della nazione, collaborano con i ribelli e vanno eliminati.
15 aprile Truppe francesi, belghe e italiane, con l’aiuto dei soldati Onu dell’Unamir, evacuano 4 mila stranieri da Kigali. Stessi giorni, stesse strade: 20 mila ruandesi vengono uccisi. Dal comando Unamir arrivano al Palazzo di Vetro le notizie di migliaia di civili che cercano rifugio nelle basi Onu. L’allora capo delle operazioni di peacekeeping, Kofi Annan, risponde che manca il mandato per proteggerli. Gli americani (Bill Clinton presidente) vorrebbero la partenza di tutti i caschi blu. Se nella prima settimana l’Onu avesse mostrato i denti e le armi, è possibile che il regime quasi in bancarotta avrebbe fermato i piani. Invece alle spalle di Annan il segretario generale Boutros Ghali parla di «calamità», come se fosse un disastro naturale: solo il 4 maggio pronuncerà la parola «genocidio», il giorno dopo la dura condanna del Papa.
Maggio È il mese della «pacificazione», indetta dalle autorità dopo le pressioni internazionali: la mattanza continua ma più «discretamente». I tutsi rimasti vengono invitati a uscire dai nascondigli. Molti vengono ammazzati dopo interrogatori farsa. Maggio è il mese in cui si uccidono più donne e bambini. I ribelli avanzano. Le milizie, senza più tutsi, prendono di mira anche gli sbigottiti fratelli hutu.
Metà giugno La Francia annuncia la missione Opération Turquoise «per proteggere la popolazione» (oltre che la propria influenza). Arrivano tardi (c’è chi non è mai arrivato). Di fatto il genocidio viene fermato dai ribelli del Fpr, che il 2 luglio conquistano Kigali (dopo aver massacrato a sangue freddo, secondo un rapporto Onu, 45 mila hutu ritenuti responsabili dello sterminio dei tutsi). Il 18 luglio nasce il nuovo governo dei vincitori, l’Italia è in lutto: il giorno prima la nazionale ha perso la finale del Mondiale con il Brasile.

il Sole Domenica 16.2.14
Chi siamo? Cavalli-Sforza lo dice coi geni
di Armando Massarenti


Il libro era ed è dedicato «alle donne che ci hanno trasmesso i loro mitocondri», senza i quali
non sarebbe stata possibile la straordinaria avventura che Luigi Luca Cavalli-Sforza ci racconta in Chi siamo. La storia della diversità umana. Scritto con il figlio Francesco, pubblicato da Mondadori nel 1993 e ora riproposto in una nuova edizione (Codice, pagg. 428, € 27,00) arricchita nel testo e con l'apporto iconografico di un altro giramondo, il fotografo Giovanni Porzio, il volume mantiene tutta la sua efficacia di narrazione avvincente e argomentata. Racconta un'impresa davvero eccezionale, di cui lo stesso Cavalli-Sforza è protagonista e che riassume così: «Questo libro racconta com'è stato ricostruito il nostro passato, dai primi lontanissimi antenati fino alla vicenda di una minuscola popolazione umana, comparsa circa 100mila anni fa, che si è diffusa sull'intero pianeta. La chiamiamo "uomo moderno", e siamo noi». L'intera storia genetica dell'uomo è stata ricostruita a partire dall'analisi della popolazione attuale. Studiando le differenze tra le diverse popolazioni, dopo una lunga opera di campionatura del sangue, Cavalli-Sforza, è stato in grado di disegnare la mappa completa, storica e geografica, di quelli che possono essere stati i movimenti e le migrazioni dei nostri antenati nel corso di decine di millenni. L'intuizione che ha guidato il suo intero programma di ricerca, realizzatosi in diversi decenni, è quella secondo cui le antiche migrazioni possono essere ricostruite analizzando le differenze genetiche della popolazione attuale. Quando
una popolazione si sposta da un'area geografica a un'altra e non interagisce più con il gruppo d'origine, tende a differenziare, anche solo di poco, il proprio patrimonio genetico. Le differenze aumentano a mano a mano che le popolazioni si allontanano dalla loro terra d'origine e finiscono con
lo stabilizzarsi in altri luoghi. Più sono state lontane e isolate più il patrimonio genetico si è differenziato. La mappa che riproduce la conformazione genetica della popolazione attuale è dunque anche l'immagine degli spostamenti umani negli ultimi 100mila anni, quando comparve l'homo sapiens: dalle comuni origini africane, l'uomo si è spostato, passando per l'Asia, verso Europa, America e Australia, concludendo questo processo circa 60mila anni fa. Un viaggio che Cavalli-Sforza ha percorso prelevando campioni di sangue in tutto il mondo e facendosi, oltre che genetista, antropologo e attento osservatore, oltre che dell'evoluzione biologica, dell'evoluzione culturale e della straordinaria diversità umana. Diversità che non deve far dimenticare l'unità del genere umano e il messaggio di civiltà che il libro propone. Chi siamo contiene infatti una delle più belle confutazioni del razzismo e dell'odio etnico svolta su basi biologiche. È proprio perché siamo tutti diversi l'uno dall'altro, e le differenze esteriori, come il colore della pelle, sono assai meno profonde di quanto si creda, che il concetto di razza perde ogni possibile senso.

Il Sole Domenica 16.2.14
Fantastica zoologia
La realtà dell'unicorno
Michel Pastoureau, instancabile indagatore dell'immaginario medievale, rivela i segreti dell'animale più misterioso e puro della fauna dell'epoca
E lo rende, più che mai, attuale
di Stefano Salis


Si potrà sempre dubitare, si farà presto a dire «è un falso, non ci credo, tutte panzane, portatemene uno vero». Sarà. Eppure se anche, facilmente, risponderete «no» alla domanda «gli unicorni esistono?», magari, come me, invece, sareste ben lieti di rispondere «sì», o potreste lasciarvi aperta ancora una minima speranza. E per tutta una serie di motivi. «Descritto per la prima volta cinque secoli prima dell'era cristiana, l'unicorno ha sempre intrigato gli zoologi, catturato l'attenzione dei viaggiatori, sedotto gli artisti e fatto sognare i poeti». Non vi basta? A me avanza, addirittura. Ed è per questo che all'unicorno, figura iconica della cultura medievale e rinascimentale – per poi sparire man mano, sopraffatto dalla zoologia reale di Linneo e dei Lumi –, animale divenuto libresco, letterario, fantasioso, meraviglioso e non per questo meno reale, seppure incantato, dovremmo prestare, oggi più che mai, non solo la nostra attenzione ma anche rinnovare la nostra sorpresa venerazione. La frase che ho citato sopra è del massimo conoscitore dei bestiari medievali, Michel Pastoureau che sui Secrets de la Licorne (il francese, curiosamente, è l'unica lingua che attribuisce all'animale il genere femminile) ha scritto un libro, in collaborazione con Élisabeth Delahaye, appena uscito in Francia e che meriterebbe senz'altro di approdare anche da noi.
Animale gentile, solitario, purissimo, raffigurato in vari modi (quasi sempre rassomigliante a un cavallo, però) e sempre più spesso con un manto bianchissimo e un potentissimo corno in mezzo alla fronte, l'unicorno ha popolato l'immaginario umano per secoli. E non ne è ancora uscito. Avverte bene, Pastoureau, che è inutile, e persino dannoso, farsi beffe o giudicare la zoologia medievale con i criteri delle scienze attuali. Quella era una cultura nella quale l'immaginario era reale e presente non meno di ciò che poteva essere toccato. E così, se si parla di animali, insieme all'unicorno c'erano grifoni e draghi, fenici e sirene, basilischi e manticore. Ma attenzione, perché alla medesima zoologia fantastica – anzi, no, meglio a quella fantastica zoologia – appartenevano non di meno animali che ci sono oggi ben noti, che so, leoni, pantere, cervi ed elefanti. Anche per essi vigevano le regole di fantasia e immaginazione adoperate per gli animali mai repertoriati dai naturalisti. Tutto, infatti, era simbolo di qualcosa d'altro. Perché mai il non concretamente esperibile dovrebbe essere falso? Dopotutto: avete mai toccato un sogno?
Sia come sia, l'unicorno è ben reale nell'esperienza quotidiana delle alte sfere come del popolino, quando il papa Clemente VII – non proprio un pagano miscredente – manda in dono un corno di unicorno (certo, ai nostri occhi è un dente di un narvalo) al re Carlo di Francia. Per augurargli buona sorte e proteggerlo dagli eretici, viste le proprietà di quella incredibile, e rarissima, reliquia. Pare che il papa, nel 1533, avesse pagato per il regalo sontuoso 33mila ducati (per dire: a Michelangelo, per la Sistina, ne vennero riconosciuti 3mila). Non era solo un talismano contro gli eretici, del resto. L'unicorno era divenuto prima di quella data addirittura una figura cristologica (cioè era divenuto un simbolo cristiano, e non sono poche le rappresentazioni di Gesù in forma di unicorno, come di cervo o di leone) e il corno era metafora dell'unità di Spirito Santo e corpo. Ma, anche più prosaicamente, aveva poteri eccezionali, quel corno, ed ecco perché era così ricercato. Guariva dalle malattie, toglieva i veleni, rendeva potabile l'acqua agli animali, poteva allontanare dalla morte i moribondi – ancora in questa funzione lo ricorda Harry Potter nel primo episodio della saga della Rowling, quando ne incontra uno. L'animale era selvaticissimo e indomabile: l'unico modo per catturarlo era mettere una vergine su una radura e aspettare che l'unicorno, attratto irresistibilmente dall'odore della sua castità, arrivasse a inginocchiarsi davanti alla fanciulla di turno e poi dormire posando la testa sopra il di lei grembo. A quel punto, i cacciatori potevano intervenire. Sono centinaia, per tutto il Medioevo, le rappresentazioni artistiche di questo tipo di scena: si va dai capolavori pittorici (variante: le donne dell'unicorno, ritratti di fanciulle rappresentate mentre tengono in mano – sì, a volte gli unicorni sono piccoli come gatti, avete presente il Raffaello della Galleria Borghese? – o sono vicine alla bestia) a quelli di altro tipo artistico: su tutti gli arazzi raffinatissimi di Cluny, sui quali a lungo si sofferma Pastoureau. L'unicorno era dunque simbolo di purezza e innocenza, ma indubbiamente anche di forza e unione. Non a caso, dai primi del Seicento e fino a oggi (!) l'unicorno e il leone sono i simboli delle insegne della regina d'Inghilterra, arrivandole, per parte araldica, l'unicorno dal trono di Scozia. E, per verificare quanto sia ancora presente (e reale!) l'unicorno, fate un salto a Parigi al Museo della Caccia e della Natura, dove ha una sala dedicata (con tanto di prime pagine de «Le Monde» che annuncia il ritrovamento di veri unicorni in Africa, siamo negli anni Cinquanta...), o ammirate lo stupendo pesce d'aprile della British Library, che nel 2012, dichiara di avere ritrovato un antico e perduto manoscritto medievale contenente le ricette per cucinare l'unicorno, una volta catturato. Un modo intelligente e divertito di prendere con leggerezza, ma non stupidamente, la propria missione e il proprio lavoro. E, forse, uno dei lasciti più duraturi dell'unicorno è questo. Che bisogna avere occhi per "saper vedere" l'invisibile, che la forza trascendente dell'immaginario è presso di noi, è con noi,
e ci rende umani. Perché siamo capaci di fabbricarci e credere, infine, agli unicorni, a dispetto della noia quotidiana. Ogni tanto, una miracolosa e inaspettata apparizione bianca, pura, ineffabile, ci ricorda la potenza della nostra immaginazione. Ed è la letteratura, è l'arte, è la poesia. L'unicorno è il richiamo del meraviglioso: io, per me, lo voglio ascoltare.

Michel Pastoureau, Élisabeth Delahaye, Le secrets de la Licorne, Editions de la Réunion des Museés Nationaux, Parigi, pagg. 140, € 29,00.
Da ricordare: Michel Pastoureau, Bestiari del Medioevo, Einaudi, Torino, pagg. 336, € 35,00; Boria Sax, Imaginary animals, Reaction Books, Londra, pagg. 278, £ 25,00

Il Sole Domenica 16.2.14
Le ultime crociate / 1
Mamma li Turchi!
Pellegrini ricostruisce il fenomeno, nel '400, delle imprese volte a bloccare l'avanzata ottomana nel cuore dell'Europa
di Gianluca Briguglia


Quando si evocano le crociate si pensa subito a Gerusalemme, alla liberazione del santo sepolcro, alle oscurità, vere o presunte che siano, del medioevo. Raramente si associa invece la crociata all'Umanesimo o al Rinascimento che la storiografia ottocentesca e l'industria culturale ci hanno trasmesso come secoli di luce e splendore. Eppure per tutto il periodo umanistico-rinascimentale si assiste al fenomeno che è stato definito della "crociata tardiva" – anche se l'espressione a sua volta risulta ambigua perché non ne chiarisce il cambiamento di natura – che presenta proprie peculiarità geopolitiche. La crociata di questi secoli è in primo luogo, anche se non esclusivamente, il tentativo di risposta all'avanzata dei Turchi ottomani, che da piccola agglomerazione politica ai bordi inquieti dell'Impero bizantino diventano dal XIV secolo, con un'impressionante progressione, uno stato ben strutturato e onnivoro, capace di strappare sempre maggiori territori a Bisanzio e agli stati vicini. Organizzata sulla forza di un esercito dai tratti moderni, che aveva nei Giannizzeri il suo nerbo – i Giannizzeri erano addestrati alla guerra fin da piccoli, cioè fin da quando venivano strappati dalle famiglie dei villaggi, soprattutto balcanici, come tributo al sultano –, la potenza turca sembra avviarsi ben presto a quello che con sguardo retrospettivo sembra essere un tenace progetto geopolitico, cioè sostituirsi all'Impero di Bisanzio, conquistandone un pezzo alla volta, fino alla caduta stessa dell'ormai isolata città di Bisanzio, nel 1453.
Ma l'espansione ottomana non si limita all'area che fu di Bisanzio e punta costantemente al cuore del continente europeo attraverso l'area balcanica, mettendo sotto continua pressione l'articolazione di regni, città, principati, repubbliche che rappresentavano di fatto i contrafforti cristiani del continente, dalla Valacchia al regno d'Ungheria, dalle città della sponda orientale dell'Adriatico alla Serbia, dall'Albania al Peloponneso, alle isole del Mediterraneo orientale.
Insomma narrare la storia delle crociate rinascimentali, che sono la risposta a questa minaccia strategica, vuol dire dislocare il racconto su vari livelli – militari, culturali e simbolici - ma vuol dire anche mostrare il reticolo di interessi divergenti e di aree diversissime che la crociata cerca di comporre. Con un libro a tratti avvincente, Le crociate dopo le crociate. Da Nicopoli a Belgrado (1396-1456), Il Mulino, Marco Pellegrini rende conto dei complessi scenari delle crociate dalla disfatta franco-ungherese di Nicopoli fino alla caduta di Bisanzio e alla battaglia di Belgrado con cui i Turchi vengono quasi miracolosamente fermati sul fronte serbo. Marco Pellegrini presta attenzione in primo luogo alle complesse e differenziate poste in gioco geopolitiche di tutte le forze e gli attori in gioco, ma non trascura i principali elementi simbolici e le ricadute culturali di quasi un secolo di crociate "dopo le crociate".
Il libro si apre appunto con la disastrosa sconfitta degli eserciti cristiani a Nicopoli nel 1396. La crociata era stata coordinata da Bonifacio IX, pur impigliato tra le difficoltà politiche dello scisma d'Occidente. La pressione ottomana sul regno d'Ungheria infatti aumentava e fu proprio re Sigismondo a prendere pragmaticamente l'iniziativa diplomatica e militare. Ma le élites europee, imbevute di spirito cavalleresco, e che pure aderirono alla crociata, sottostimarono l'entità dello scontro e si disinteressarono colpevolmente delle caratteristiche della potenza turca. La crociata doveva peraltro comporre un quadro di interessi eterogenei. I principi francesi e inglesi ad esempio vi trovarono anche una buona ragione per bloccare allo status quo la guerra tra Inghilterra e Francia. Proprio a scapito di principi e baroni infatti, i sovrani dei due regni stavano approfittando della guerra per portare a compimento il loro disegno di accentramento monarchico. I veneziani invece, mai troppo vicini alle politiche ungheresi per questioni legate alla Dalmazia e all'Adriatico, ma da sempre interessati al Mediterraneo orientale, appoggiarono la crociata con un atteggiamento spesso ambiguo, prudente e opportunista. Interessi variegati spingevano poi i duchi tedeschi, i cavalieri di Rodi e gli altri membri della compagine crociata.
Ciò che è certo è che il disegno strategico papale e europeo risultava spropositato. I fronti previsti erano almeno due. Il primo sarebbe stato una grande avanzata terrestre dall'Ungheria verso i Balcani, per spingere i Turchi fuori dal continente europeo. Il secondo fronte sarebbe stato condotto dalle flotte cristiane contro i Mamelucchi in Egitto, per stabilizzare il sistema delle isole del Mediterraneo orientale e per ottenere la Palestina. È una delle ultime volte in cui Gerusalemme sarà ancora un obiettivo crociato. Questo secondo fronte non si concretizzò mai e l'armata di terra franco-ungherese fu annientata a Nicopoli. Tra i principi francesi riottosi a qualsiasi organizzazione imposta dal più accorto Sigismondo d'Ungheria, che concepivano la battaglia come una prova personale di valore, come un attacco sconsiderato al pari grado dell'altro esercito e un'armata turca organizzata razionalmente, che manteneva fresche le truppe migliori per l'ultimo assalto, questa seconda ebbe un successo schiacciante che chiuse ogni ulteriore velleità cristiana. Nell'immaginario europeo si ripeteva Roncisvalle. Solo qualche decennio dopo, il problema turco si ripropone con forza e ancora una volta il papato ha un ruolo fondamentale, come mostra molto bene Pellegrini. Bisanzio è ormai priva da tempo del suo impero e rimane di fatto circondata da territori turchi, escludendo il controllo del mare che le consente collegamenti sicuri con i suoi domini nel Peloponneso e con l'Occidente.
Per ottenere un aiuto occidentale l'imperatore Giovanni VIII Paleologo, nel concilio di Ferrara e Firenze del 1439, si fa addirittura promotore insieme al papa di Roma della riunificazione della chiesa latina e di quella greca. A Firenze la riunificazione delle chiese, premessa di una crociata di liberazione, è firmata dai latini e dai greci, che però non riescono poi neppure ad accordarsi sulla liturgia per la messa comune di ringraziamento. Pellegrini coglie l'importanza, la novità, ma anche la fragilità di quell'accordo politico e ecclesiologico, destinato a consumarsi in una sconfitta (e lo stesso accordo ecclesiologico si rivela di fatto irrealistico). Da quel momento rinasce certamente un ordito di iniziative per la crociata da parte di papa Eugenio IV, ma nel 1444 una nuova disfatta, a Varna, rende chiaro lo strapotere turco e la frammentazione cristiana. Bisanzio è di fatto consegnata alla sua fine, mentre i Balcani e l'Est europeo si preparano a ulteriori impatti con i Turchi.

Il Sole Domenica 16.2.14
Le ultime crociate / 2
Guerra santa all'Islam
di Silvia Ronchey


Quando nel 2001, pochi giorni dopo l'11 settembre, Osama Bin Laden lanciò attraverso al-Jazeera il suo storico appello «contro i crociati americani», definendo l'allora presidente George W. Bush «il crociato più importante sotto la bandiera della Croce», l'occidentale medio fu preso leggermente in contropiede. Le crociate, sui libri di scuola, venivano presentate come una cosa buona, i «crociati più importanti» – Goffredo di Buglione, Riccardo Cuor di Leone – come gente dal cuore d'oro. Pochi conoscevano le posizioni inaugurate dall'illuminismo e sviluppate poi da storici novecenteschi come Steven Runciman, che aveva definito le crociate «le ultime invasioni barbariche». Poco si parlava della violenza armata degli eserciti che portavano nel nome di dio – «Dieu le veult» – devastazione e massacri di massa. Ancora meno si ricordava la Quarta Crociata, che ai luoghi santi nemmeno si era avvicinata, ma nel 1204 aveva "deviato" su Costantinopoli, scagliando sul ricco impero di Bisanzio una razzia ben più vandalica e rovinosa di quella portata due secoli e mezzo dopo dalla conquista turca. Ma all'indomani dell'11 settembre neppure ci si ricordava bene contro chi fossero state combattute le crociate. Molti sostenevano, in buona fede, «contro gli arabi», il termine designando correntemente, ancorché astoricamente, tutto l'islam. L'accezione negativa era estranea anche all'ambito laico, dall'Ottocento risorgimentale in poi la parola servendo anzi a caricare di un'automatica valenza positiva campagne genericamente progressiste, dalla "crociata contro la prostituzione" di mazziniana memoria a quelle più attuali contro l'alcool o il fumo.
In poco più di un decennio, dopo la torsione semantica propalata urbi et orbi dal sanguinario leader del terrorismo internazionale, i medievisti di tutto il mondo hanno dovuto dare conto all'opinione pubblica di cosa fossero veramente le crociate, con una chiarezza mai adoperata prima. Studi storici e testi divulgativi si sono moltiplicati, l'antica omertà papalina degli europei e l'affabulazione epica degli anglosassoni, ibridata di esoterismi new age, si sono squarciate, lasciando per la prima volta trapelare dati esatti sulla cruenta jihad cristiana medievale, i suoi moventi politico-economici, la sua brutale ideologia. Fortuna che il fenomeno apparteneva al medioevo. Questo confinamento cronologico delle crociate serviva a corroborare quella lettura dominante del cosiddetto scontro di civiltà, la cui causa era da scorgersi nel ritardo civile e culturale del mondo islamico, ancora immerso nel buio medioevo jihadista da cui il mondo cristiano era invece da tempo emerso, trainato dal carro trionfale della storia.
A scardinare anche quest'ultimo appiglio degli storici, vanificando l'appello alla medievalità delle crociate, arriva oggi il ponderoso libro di uno storico del cristianesimo e studioso della prima età moderna, Marco Pellegrini. Le crociate dopo le crociate (il Mulino, pagg. 384, € 25,00) colma un vuoto storiografico parlandoci delle non meno numerose e non meno rilevanti "Crociate del Rinascimento": quelle che per tre secoli, dal XV al XVII, opposero iniziative belliche a conduzione compatta, insieme imperiale e papale, al nemico islamico nel frattempo divenuto, nel segno dell'unificazione ottomana, grande e strutturata potenza demografico-militare.
Molto più delle crociate medievali, il cui afflato ideologico e la cui affabulazione collettiva Pellegrini colloca nella «sfera della fantasia applicata alla geopolitica», continuamente ribadendo «connaturato alla crociata fin dal suo nascere l'elemento irrealistico e talora delirante della fantapolitica», possono accostarsi alle crociate odierne queste crociate rinascimentali, in cui peraltro le caratteristiche formali di «guerra santa cristiana» furono ben chiare sul piano giuridico-istituzionale, regolate dal diritto canonico e meticolosamente codificate nelle procedure dell'autorità ecclesiastica.
Il Medio Oriente vi diventa teatro secondario, l'azione militare vera e propria coinvolge due nuovi scenari geostrategici, quello balcanico e quello asiatico-caucasico-mesopotamico, su cui vediamo esercitarsi la prassi occidentale della "guerra preventiva" (chiamata dall'autore alternativamente e un po' incongruamente «guerra di contenimento» e «di riscossa») contro il blocco islamico, incendiato allora dalla costruzione oggi dalla dissoluzione dell'impero ottomano in modo quasi egualmente minaccioso.
Come scrive Pellegrini, il tema della crociata fu coltivato con particolare fervore da molti dei maggiori esponenti dell'umanesimo quattro-cinquecentesco; il che non fece che dare nuova carica ideologica ed emotiva all'«atavica contrapposizione tra oriente e occidente»: anzi, così «l'antropocentrismo umanistico si rivelò essere l'altra faccia dell'eurocentrismo». Il problema vero infatti «non era rappresentato dall'impero ottomano: il problema era l'Europa, un'Europa malata»; era «la cittadella cristiana disgregata», e in generale la decadenza dell'occidente, dinanzi alla quale «la guerra santa fu l'unica procedura percepita come legittima per una mobilitazione». Il mezzo per giustificarla è ciò che Pellegrini chiama «l'esotizzazione del tremendo nemico», che «viene ridotto a categorie di giudizio imprecise e emotive», letteralmente demonizzato, se si pensa alle raffigurazioni del mostruoso demone islamico dalle sembianze di drago tipiche di tutta l'iconografica di quell'età tutt'altro che buia, ma di luminoso progresso che fu, secondo i manuali in contrapposizione al Medioevo, il Rinascimento.

Il Sole Domenica 16.2.14
Un mondo senza passato, senza domani
Marco Belpoliti analizza i volti dell'estremismo. Quel che accade è il prodotto diretto o indiretto della crisi della democrazia rappresentativa
di Stefano Folli


Verso la fine del suo saggio sull'età contemporanea, o sulla frammentazione estremista delle nostre società, Marco Belpoliti pone un interrogativo che ne riassume mille altri. Egli analizza i sommovimenti dell'estate 2011 nel mondo arabo e in particolare in Egitto. E si domanda: «Ma, a parte il valore metaforico della parola rivoluzione, che nel caso degli avvenimenti egiziani è stato enfatizzato, si può davvero parlare di rivoluzione?». La risposta aiuta a capire qualcosa del tempo che stiamo vivendo e delle sue incessanti contraddizioni: l'età dell'estremismo, appunto, con la sua tendenza a fissare l'attimo privo ormai di spessore storico, senza passato e senza futuro. Una società incatenata a un eterno presente, fatto di momenti improvvisi e successivi, a volte tragici e a volte banali, avviluppati insieme e scanditi dalla rete mediatica.
In Egitto, scrive dunque Belpoliti, non abbiamo avuto niente di simile a una rivoluzione tradizionale di impianto classico, secondo lo schema che si è sviluppato in Europa a partire dal Seicento. In Egitto e altrove ha preso il sopravvento la rivolta. Quella rivolta che è il segno distintivo di questa nuova epoca dedita a un ossessivo compito di de-strutturazione e ri-strutturazione, ma al di fuori di un disegno coerente in cui siano rintracciabili le radici storiche e un disegno per l'avvenire. La rivolta «non ha progetto, non si proietta nel tempo futuro». E citando il lavoro di Furio Jesi, Belpoliti ne coglie un pensiero illuminante: «Prima della rivolta e dopo di essa si stendono la terra di nessuno e la durata della vita di ognuno, nelle quali si compiono ininterrotte battaglie individuali».
È qui il nuovo spazio post-ideologico che un tempo era appannaggio dei vecchi rivoluzionari capaci di intrecciare i loro fili nell'ombra come la talpa della storia. Ma all'epoca c'erano i rapporti di classe da ribaltare e una nuova società da immaginare. Oggi si vive per l'istante e il simbolo, non a caso, è l'11 settembre, sono le Torri Gemelle che rovinano al suolo: trionfo del fanatismo narcisista e suicida. Perché il «kamikaze» non cerca proseliti, non è interessato ad allargare il suo «credo» fra nuovi fedeli: egli vuole piuttosto fissare l'attimo perché in quell'attimo, quasi un presente dilatato all'infinito, egli giustifica insieme la sua esistenza e la sua stessa fine nel terrore. Non tutto naturalmente è fanatismo nel mondo moderno e nemmeno fra i rivoltosi che in nome di un'illusione estremista appiccano fuochi nelle piazze mediorientali piuttosto che nelle metropoli della vecchia Europa. Ma qualcosa di profondo è mutato in Occidente e in quelle aree del pianeta che un tempo erano oggetto di dominio coloniale e oggi sono segmenti spesso impazziti di una realtà globalizzata.
Quello che accade, scrive Belpoliti, può essere considerato il prodotto diretto o indiretto della crisi della democrazia rappresentativa «che sembra aver perso, per cause complesse, la propria funzione storica». E forse qui è il fulcro del problema. Chi si ribella, chi alimenta le rivolte senza futuro, in realtà scandisce il proprio rifiuto della politica o delle ricette sociali che hanno segnato gli ultimi decenni. Ma un rifiuto che non contenga in sé il seme di un'alternativa, magari solo intuita, è un paradosso storico. Sarà l'effetto del «pensiero unico», però lo scenario che si apre è inquietante. Un nichilismo post-moderno carico di tendenze auto-distruttive. Sullo sfondo di una società fluida e sbriciolata in tanti coriandoli: una società dove tutto sembra spettacolo e magari nulla lo è davvero, perché dietro il palcoscenico fa capolino l'orrore quotidiano.

Marco Belpoliti, L'età dell'estremismo, Guanda, Milano, pagg. 290, € 18,00

Il Sole domenica 16.2.14
Anniversari del’arte
Michelangelo ultimo giorno
Il 17 febbraio 1564 moriva a Roma il grande Buonarroti
Poche ore prima della fine era ancora al lavoro davanti a una scultura: la celebre «Pietà Rondanini»
di Antonio Paolucci


Michelangelo lascia questo mondo alle 23 del 17 febbraio 1564 a 89 anni non ancora compiuti. Le ultime ore di lucidità, prima di ammalarsi, entrare in coma e morire, le dedica alla Pietà che oggi sta al Castello Sforzesco di Milano e che tutti conoscono come "Rondanini". La testimonianza è di Daniele da Volterra, l'allievo che fu presente alla fine del maestro. Scrivendo a Vasari il 17 marzo 1564, a un mese esatto dalla morte di Michelangelo, e poi al nipote Leonardo Buonarroti l'11 giugno successivo, scrive: «Egli lavorò tutto il sabato che fu inanti al lunedì che si ammalò;…lavorò tutto il sabato della domenica di Carnevale e lavorò in piedi studiando sopra quel corpo della Pietà…». La casa studio dell'artista in Macel de' Corvi oggi non esiste più, demolita alla fine dell'Ottocento negli sventramenti per la costruzione del Vittoriano. Noi possiamo solo immaginare quella notte di sabato quando il Carnevale tumultuava al Corso di Roma distante poche centinaia di metri e il grande vecchio affrontava in solitudine il suo ultimo duello con l'arte. «In piedi» – dice Daniele da Volterra – e «studiando». Le due espressioni non sono scelte a caso. «In piedi» perché il confronto con l'arte è, appunto, un duello, un indomito affrontamento; «studiando» a significare che per Michelangelo l'espressione figurativa è stata sempre, fino all'ultima vigilia, ricerca, rovello mentale, strenuo sperimentalismo.
La prima registrazione documentata, involontariamente e inconsapevolmente "critica", della Rondanini, ci viene da una fonte del tutto imprevedibile. L'autore non è un artista né uno storico dell'arte ma un oscuro burocrate, un piccolo funzionario del Tribunale di Roma. Il 19 febbraio 1564, il giorno dopo la morte, viene stilato l'inventario delle cose esistenti nello studio dell'artista. Michelangelo era una celebrità internazionale, le sue opere avevano un altissimo valore di mercato e questo spiega la sollecitudine delle autorità. Il funzionario incaricato compila un elenco a uso legale e quindi veloce e sintetico come avviene in questi casi, allora come oggi. Ma ecco come l'impiegato in questione descrive la Rondanini: «Un'altra statua principiata per uno Christo con un'altra figura di sopra, ataccata insieme, sbozzata e non finita». L'estensore dell'inventario è così sommario nella descrizione (e forse così imperito) che non arriva nemmeno a definire l'iconografia («uno Christo con un'altra figura di sopra») eppure scrive che quelle figure, sbozzate e non finite sono «ataccate insieme». Attaccate insieme: il fulcro poetico della Rondanini sta tutto qui, in quel corpo di Cristo che si attacca alla Madonna come per annullarsi in lei, come per rientrare nel grembo materno.
La Rondanini, singolarità all'epoca più unica che rara, nasce senza committente e senza destinazione. Sembra che sia esistita e abbia preso forma soltanto per il suo autore, quale strumento e specchio di una privata riflessione spirituale e artistica. Tutte le notizie e i documenti in nostro possesso lo confermano. Giorgio Vasari che probabilmente la vide a Roma negli anni fra il 1550 e il '53, durante una sua visita allo studio dell'artista, la mette in relazione con la «Pietà» oggi custodita nel Museo dell'Opera del Duomo di Firenze. Così ne parla: «E tornando a Michelangelo, fu necessario trovare qualcosa poi di marmo perché e' potessi ogni giorno passar tempo scalpellando e fu messo un altro pezzo di marmo dove era stato già bozzato un'altra Pietà, varia da quella (s'intende la Pietà fiorentina) molto minore».
Il passaggio non è chiaro. Si capisce tuttavia che Michelangelo nei suoi anni tardi amava lavorare a una Pietà che aveva già conosciuto una precedente parziale elaborazione. La frase vasariana («perché e' potessi ogni giorno passar tempo scalpellando») fa pensare a una attività privata, svincolata da una committenza o da una occasione precise, altrimenti lo storico non avrebbe mancato di segnalarcelo.
Dobbiamo quindi guardare alla «Pietà Rondanini» come all'opera più privata e sperimentale di Michelangelo, un'opera alla quale egli ha lavorato solo per se stesso e che gli è servita per meditare intorno al tema del rapporto fra il Figlio e la Madre. È un tema questo che attraversa tutta la vita del Buonarroti. Dalla giovanile «Pietà» di San Pietro, quella che a Giorgio Vasari apparve come un miracolo («È un miracolo che un sasso da principio senza forma alcuna si sia mai ridotto a quella perfezione che a fatica la natura suol formare nella carne»), alla «Pietà» fiorentina dove la Madre, nel gesto di disperato possesso e quasi di fisica compenetrazione col Figlio morto «si vede sottentrare a quel corpo col petto, colle braccia e col ginocchio in mirabil atto». Così il Condivi il quale mostra di capire, meglio del Vasari, quale era l'idea che ossessionava Michelangelo negli anni della tarda maturità: l'idea cioè della Madre che si riappropria del corpo del Figlio morto quasi a volerlo riportare nel grembo che l'ha generato. La Rondanini rappresenta il punto di arrivo di questa meditazione. Lo possiamo capire da un disegno dell'Ashmolean Museum di Oxford nel quale Michelangelo elabora con finitezza maggiore o minore ma con varianti importanti fra le varie proposte, tre idee. Il tema è quello del Cristo morto in posizione verticale sostenuto dalla Madonna. Se esaminiamo le tre idee grafiche pensando alla Rondanini ci accorgiamo che c'è stato un processo di graduale avvicinamento.
I tre schizzi visti in successione testimoniano di un processo di smagrimento formale e, quasi, di spiritualizzazione. Diminuiscono a poco a poco l'evidenza e la venustà del corpo di Cristo, sempre di più la Madre che sostiene diventa la Madre che copre, che assorbe, che si identifica con il Figlio senza vita. Attraverso i disegni del l'Ashmolean Museum, la cui datazione più probabile si colloca nei primi anni Cinquanta del Cinquecento, l'idea delle due figure «attaccate insieme» prende forma, si definisce come l'immagine di un obiettivo gradualmente messo a fuoco.
A questo, alle due figure «attaccate insieme», pensava e lavorava l'ottantanovenne Michelangelo nelle ultime ore della sua vita cosciente.

Il Sole Domenica 16.2.14
I quartetti di Beethoven
Scrigni carichi di speranza
Sono le ultime opere del compositore, ma forse le più importanti e cariche di energia. Un monito per l'Occidente in declino
di Quirino Principe

Nella lettera di mercoledì 1° luglio 1801 all'amico Carl Amenda, Beethoven tortura il povero violinista con un'altalena di funeste notizie, d'irragionevoli richieste, di ritorni alla ragione, di virile coscienza del destino contro il quale i mortali sono disarmati, e, infine, di soprassalti che restituiscono evidenza a uno stato d'animo che amo molto in Beethoven, e che cerco in lui per trasferirlo in me, e, disperatamente, in noi.
Fra le rarissime realtà che amo nell'esistente è quel topos ricorrente nell'interiorità beethoveniana, formulato come didascalia di prassi esecutiva nelle misure 1-2 della sezione Andante nel Molto adagio del Quartetto op. 132, «neue Kraft fühlend», «sentendo nuova forza». È anticipato due anni prima da una sorta di recitazione: s'intravede quasi un dramma schilleriano nella Sonata op. 110. Nella prima fase della scena tragica, la didascalia appare alla ripresa dell'Arioso: «ermattet, klagen», ripetuto in italiano, «perdendo le forze, dolente". La seconda fase si apre alla ripresa della Fuga: "nach und nach wieder auflebend», ripetuto in italiano, «poi a poi di nuovo vivente».
Ma il microdramma che si svolge nell'op. 110 è del 1822, e il cadere e il risorgere nella Danksagung dell'op. 132 è datato 1824. Il destino è agli sgoccioli. Il 1° luglio 1801, Beethoven è trentenne. Nella lettera, egli annuncia all'amico la catastrofe: l'annunciata, crescente e infine totale sordità. Poi pretende l'assurdo: se la malattia non mostrerà clemenza, Amenda dovrà lasciare la sua patria, la Curlandia, dovrà abbandonare la sposa Jeanette, venire a Vienna per soccorrerlo (come "badante", per usare l'orrenda odierna parola), vivere per sempre con lui. Poi, la rinuncia alla pretesa: ma no, è inutile, così vuole la sorte. Infine, il sobbalzo, meraviglioso e atroce: «Mi sono proposto, è vero, di essere superiore a tutto, ma ora come sarà possibile?». E poi: «Sono persuaso che la fortuna non mi abbandonerà: con che cosa non potrei ora misurarmi ?».
Quel gesto, un risollevarsi e un guardare con immotivata fiducia verso il futuro, da molti anni è divenuto uno specchio, che riflette uno sguardo volto con immotivata speranza a quell'epoca, a quell'uomo, Ludwig van Beethoven, che l'Occidente sta perdendo nella propria memoria: una memoria umiliata, che la distruzione degli strumenti linguistici, indispensabili a chi voglia ricordare, studiare, leggere, ha depredato e ferito a morte amputandole gli arti, sì da tagliarle la strada verso la verità e la bellezza antiche. Di questa deliberata e programmata estinzione della memoria storica, la ferrea conseguenza è la paralisi, che con turpe simmetria blocca il cammino verso un possibile futuro.
Nella lettera del 1801, lo sguardo di Beethoven cerca nel futuro, forse in noi, il riconoscimento della sua musica; possiamo noi cercare in quello sguardo il nostro riconoscimento? ... La condizione cui la musica che definisco "forte" è costretta in Occidente non è limpida né lieta, poiché i segni di un "Untergang des Abendlandes" sono eloquenti. Ma se la musica forte, nata insieme con la nostra civiltà, alla fine della nostra civiltà dovesse sopravvivere, sarebbe un destino accettabile, una nemesi lacrimevole ma forse meritata. ... L'illuminismo ha liberato i viventi da molti inganni e da molti terrori, «ma la terra interamente illuminata risplende all'insegna di trionfale sventura». Con queste parole si apre Dialektik der Aufklärung ("Dialettica dell'illuminismo") di Max Horkheimer e Theodor Wiesengrund Adorno, libro capitale la cui prima edizione (Querido Verlag, Amsterdam 1947) apparve due anni dopo la fine della seconda guerra mondiale. L'Occidente era naufragato, come nel dipinto di Max Ernst, Europe after the rain (1942), ma oggi l'Europa inondata, che pareva essersi asciugata per poi rifiorire, è divenuta fossile, a un passo dal polverizzarsi. La profezia di Thomas Eliot in The Hollow Men, «this is the way the world ends, / not with a bang but a whimper», sarà soltanto il penultimo gradino dell'annunciato "Untergang".
Neppure il lamento, neppure il sospiro strozzato: l'Occidente saprà soltanto tacere. Sarà silenzio, ma non quello del momento solenne e tragico, quello degli assediati e circondati pronti all'estrema difesa o al supplizio. Sarà la somma di tutte le reticenze, il silenzio della viltà. Sarà l'istante in cui si soffocherà la musica, costringendo anch'essa e con essa ogni suono che sia pensiero, ratio, logos, a tacere. Alla fine di Doktor Faustus di Thomas Mann, Adrian Leverkühn dichiara di voler ritirare tutto ciò che è giusto, buono e nobile, e di ripudiare la Nona Sinfonia che tutto ciò compendia: «Non dev'essere». Ma quella suprema negazione chiama in causa anche i Quartetti di Beethoven, poiché alla Nona Sinfonia oppone il rovesciamento dell'exergo, "Es muß sein!", apposto al Finale del Quartetto op. 135, l'ultimo. Questo mio libro si propone di rovesciare il rovesciamento. I Quartetti beethoveniani si tendono verso il futuro, e l'energia prima e illimitata è la loro essenza.

Il Sole 16.2.14
Christine de Pizan (1364-1430)
L'amore, che cosa irragionevole
Sibylle de Monthaut, la dama di compagnia di una nobildonna amata da un duca di cui non viene rivelata l'identità, le scrive per metterla in guardia dalle trappole dell'eros
di Christine de Pizan


Mia carissima signora, mi sono giunte, a proposito della vostra condotta, delle notizie che mi affliggono profondamente poiché mi fanno temere di veder offuscarsi la vostra buona reputazione.
Mentre nel passato voi possiedevate tutte le maniere che convengono a una principessa di alto rango, parrebbe che al presente siate molto diversa. Siete divenuta molto più briosa, molto più loquace e molto più civettuola di come eravate. Ora, un cambiamento di contegno lascia generalmente intuire che anche il cuore è cambiato. Desiderate rimanere sola, lontana da tutti, a eccezione di una o due delle vostre dame e di alcuni dei vostri servitori. Con costoro, vi intrattenete e scherzate, anche in presenza di altri, parlando per allusioni e dando l'impressione di intendervi perfettamente. Tutti comportamenti e attitudini che seminano gelosia e invidia tra gli altri servitori e che fanno pensare che siate innamorata. Ah! Mia dolcissima signora, in nome di Dio, considerate chi siete e a quale rango elevato Dio vi ha posta. Non vogliate dimenticare la vostra anima e il vostro onore in nome di un piacere insensato. Non lasciatevi tentare dai pensieri frivoli che nutrono moltissime giovani donne, le quali credono non ci sia nulla di male ad amare purché non si commetta nulla di vergognoso – sono convinta che niente al mondo possa farvi condividere questo modo di vedere – e che ciò permetta di vivere più felici, contribuendo ad accrescere il valore e la fama di un uomo per la posterità.
Mia cara signora, le cose vanno molto diversamente. Mio Dio, non ingannatevi e non lasciatevi ingannare. Prendete l'esempio di certe nobildonne che avete conosciuto nel corso della vostra vita e che, per essere state soltanto sospettate di amori di questo genere, senza che la verità sia mai stata provata, hanno perduto l'onore e la vita. Ve ne è più d'una. Sono intimamente convinta che non avessero commesso né peccato né colpe vergognose; tuttavia i loro figli, l'avete visto, ne hanno subito il biasimo e il disprezzo. E se un amore così irragionevole attenta all'onore di qualsiasi donna, povera o ricca, è ancor più sconveniente e pregiudizievole per una principessa o una dama di condizione elevata, e questo in proporzione al suo rango. A giusto titolo, poiché il nome di una principessa risuona nel mondo intero e se la sua reputazione è intaccata la voce si diffonde nelle contrade lontane molto di più che nel caso di donne di modeste condizioni. È altresì necessario che ogni nobile dama presti un'attenzione più costante rispetto alle altre donne nei confronti delle proprie maniere, della propria condotta e dei propri propositi. Mia carissima, non trovate sconveniente per una gran signora, a ben vedere per ogni donna, che questa sia di colpo più gaia dell'ordinario, più civettuola, e che desideri sentir parlare più a lungo d'amore, e poi, nel momento in cui i suoi sentimenti cambiano per una ragione o per l'altra, che divenga tutto a un tratto sgradevole, accigliata, di umore litigioso, mai soddisfatta del servizio che le si presta, e che non si curi più del suo aspetto? La gente ne conclude che era innamorata e che ora non lo è più. Mia cara, non sono quelli i modi di una dama. Codesta deve badare, quali che siano le sue disposizioni di spirito, a conservare attitudini e maniere che la mettano al riparo da simili giudizi. Ma il mantenere questa misura nella vita amorosa è di fatto soltanto una scommessa e, per questa ragione, la cosa più sicura è schivarla e fuggirla del tutto. Sappiate, mia cara, che ogni nobildonna, così come ogni donna, deve mostrare ben più ambizione nell'acquisire una buona fama che qualsiasi altro tesoro, poiché quest'ultima fa risplendere il suo onore, le resta per sempre e ricade sui suoi figli. Riverita signora, seguendo il filo del mio discorso, mi figuro e immagino senza fatica le ragioni che possono spingere una giovane donna ad abbandonarsi a un amore di siffatto genere.
Giovinezza, Piacere e Ozio le mettono in testa: «Sei giovane, non devi vivere che per il piacere, puoi dedicarti all'amore senza vergogna, non c'è alcun male in questo se non vi è peccato. Permetterai a un uomo di diventare valoroso. Nessuno saprà nulla. La tua vita sarà più felice e tu ti sarai guadagnata un perfetto servitore e un amico fedele». E via di seguito. Ah! Signora, in nome di Dio, non lasciatevi trarre in inganno da così folli opinioni! Per ciò che riguarda il piacere, imparate che in amore ci sono centomila volte più dolori – e dei più cocenti – e pericoli estremi che piaceri, in special modo per le donne. Poiché, oltre al fatto che Amore porta con sé una folla di mali amari, la paura di perdere il proprio onore e che questo si sappia le ossessiona di continuo e fa pagare loro a caro prezzo tale piacere. Quanto al dire che non ci sarebbe alcun male poiché non si commetterà peccato, aimè, Signora, nessuno – uomo o donna – saprebbe essere così sicuro di sé da rimanere certo, quali che siano le sue buone risoluzioni, di conservare sempre la misura in un siffatto amore, e che questo non sia scoperto da nessuno. È una cosa impossibile, poiché non c'è fuoco senza fumo, ma c'è spesso fumo senza fuoco. All'argomento «Io renderei un uomo valoroso», rispondo che è una vera follia distruggersi per nobilitare un altro, quand'anche questi dovesse diventare valoroso! Poiché si distrugge del tutto, colei che si disonora a vantaggio di un uomo.
Quanto al dire: «Avrò guadagnato un vero amico e servitore», Dio! A che cosa un simile servitore potrebbe essere utile alla dama, dal momento che, se lei si trovasse immischiata in qualsivoglia affare, egli non oserebbe intervenire in suo favore, nel timore di nuocere al proprio onore? In più, Signora, immaginiamo che voi o un'altra vogliate giustificarvi dicendo: «Ho uno sposo poco leale nei miei confronti, che mi concede ben pochi piaceri, ecco perché posso, senza commettere delle manchevolezze, gustare dei piaceri con un altro per dimenticare la mia malinconia e passare il tempo».
Sicuramente una tale giustificazione non vale nulla, salvo il rispetto dovuto alla vostra persona e alle donne che parlano in questo modo: folle colui che appicca il fuoco in casa propria per incendiare quella del vicino. Al contrario, se colei che ha un tale marito lo sopporta con pazienza, senza avvilirsi, codesta accresce per questo motivo il merito della propria anima e la rinomanza del proprio onore. Per quanto riguarda il piacere, senza dubbio una nobildonna, così come tutte le donne, se lo desidera, può trovare innumerevoli piaceri consentiti e onesti per passare il proprio tempo fugando la malinconia, senza bisogno di darsi a tali amori. Quelle che hanno dei fanciulli, quale piacere più dolce e più delizioso potrebbero desiderare di quello di approfittare della loro compagnia? Badare che siano ben educati e istruiti, come si conviene al loro rango e condizione, educare le proprie figlie in modo che, a partire dall'infanzia, esse si abituino a condurre una vita onesta e saggia? Aimè, se la loro madre non è davvero saggia, che esempio darà alle proprie figlie?
Resta ancora da discutere, mia carissima dama, dei pericoli e degli scogli che risiedono in questi amori, e sono innumerevoli! Il primo e più terribile, è che si offende Dio. In secondo luogo, se il marito o la famiglia arrivano ad accorgersi di qualcosa, la donna è perduta o cade nella vergogna, e mai più vi si risolleva. Supponiamo che questo non accada, ammettiamo anche in favore degli amanti che siano tutti fedeli, discreti, sinceri (ciò che non è proprio il caso: ciascuno sa che sono d'abitudine ipocriti e che per ingannare le dame fanno promesse menzognere che non hanno assolutamente in animo di mantenere); è gioco forza constatare che l'ardore di questi amori non dura a lungo, nemmeno per i più fedeli, e questo è innegabile. Ah, Signora, che cosa credete che succeda quando questo amore si affievolisce e la dama, che si è lasciata accecare sotto l'influenza di un piacere sfrenato, si pente amaramente, ritornando in sé, al pensiero delle follie e dei pericoli di tutti i tipi nei quali si è precipitata mille volte? Come desidererebbe, a qualunque prezzo, che tutto questo non sia mai accaduto, e di non essersi mai macchiata di una tale colpa! Senza dubbio non sapreste concepire il profondo pentimento e il penoso tormento che le pesano sul cuore. Inoltre, voi, così come le altre dame, potete constatare la follia insita nel gettare il proprio onore e la propria persona in pasto ai maldicenti, e nel riporli nelle mani di cavalier serventi, poiché è così che questi si designano! Ma il risultato di questo servizio, nonostante vi abbiano promesso e giurato di mantenere il segreto, è che generalmente le loro lingue si sciolgono e, alla fine di questo amore, molto spesso il biasimo e le calunnie si riversano sulle dame. È così che esse cadono in schiavitù.
Ecco il risultato di questo bel servizio d'amore! In più, i domestici che condividono i vostri segreti e nei quali avete riposto la vostra fiducia, credete davvero che tengano a freno la lingua a dispetto dei giuramenti che voi avrete fatto loro prestare? Dio! Che schiavitù per una dama, e per qualsiasi donna di ogni condizione, il giorno in cui ella non oserà redarguire o biasimare il proprio servitore o la propria fantesca, supponendo che li sorprenda nell'atto di causarle un grave torto, poiché sa di essere in loro potere, e il giorno in cui li vedrà così arroganti che non oserà proferire una sola parola, ridotta a subire da costoro ciò che non tollererebbe da nessuno.
Signora umilmente riverita, che dire ancora? Come non si potrebbe sondare un abisso, tenetelo bene a mente, così non si saprebbero enumerare tutti i pericoli minacciosi che cospargono il cammino della vita amorosa, siatene persuasa. Per queste ragioni, carissima signora, evitate di proseguire in un siffatto pericolo, e se un pensiero simile vi ha sfiorato, per l'amore di Dio, evitate di cedervi prima che mali molto più gravi vi opprimano: è meglio presto che tardi, e meglio tardi che mai. Potete già ora immaginarvi quali voci nascerebbero se persistete nella vostra condotta, che è già stata notata e fa sparlare in ogni dove.
Che dire di più, se non supplicarvi umilmente, per quanto mi è possibile, di non volermene per questi intenti, ma di considerare seriamente le buone intenzioni che me li dettano? Per provarvi la mia buona fede, vi confesso che desidero molto di più fare il mio dovere avvertendovi lealmente, con il rischio di attirarmi il vostro scontento, piuttosto che guadagnare la vostra compiacenza consigliandovi la vostra distruzione, o tacendovela.
Prego Dio che vi regali una vita lunga e felice e vi accordi il paradiso.
La vostra devotissima serva
Sibylle de Monthaut, dame de la Tour.
(traduzione di Chiara Pasetti)

Esce, per la prima volta con traduzione in francese moderno a fronte, e corredato da un ricchissimo apparato critico, Le Livre du Duc des vrais amants, di Christine de Pizan, édition bilingue, publication, traduction, présentation et notes par Dominique Demartini et Didier Lechat, «Champion Classiques», Honoré Champion, Paris, pagg. 480, euro 14,00. Ne pubblichiamo uno stralcio