lunedì 17 febbraio 2014

l’Unità 17.2.14
Pippo Civati: «Renzi apra a Sel e delusi M5S altrimenti voto no»
«Voglio verificare se in Senato c’è spazio per un gruppo che faccia da contraltare a Ncd
Se il Pd si consegna ad Alfano noi non ci staremo»
di Andrea Carugati


Un nuovo hashtag su twitter #matteostaisereno, per fare il verso al segretario del Pd che fino a pochi giorni fa ostentava lealtà al premier dimissionato. Pippo Civati sembra sempre più a suo agio nei panni dell’oppositore interno a Matteo Renzi.
Sembra che il leader Pd debba prendersi qualche giorno in più...
«Meno male: se dobbiamo fare un governo che dura 4 anni anche se ci lavoriamo 4 giorni non è un dramma. Questa fretta mi pare una follia, capisco la velocità ma ci vuole cautela. Altrimenti si diventa futuristi...».
Resta sempre dell’idea di dar vita a un Nuovo Centrosinistra per fare da contraltare ad Alfano?
«Io ho posto un problema politico. E invece mi hanno accusato di voler scindere il Pd. Ho fatto una provocazione perché vorrei tenere aperta la riflessione sui tempi e i modi di un nuovo governo. Si dice che non si può andare a votare perché ci sarebbero le larghe intese per 5 anni, e invece noi decidiamo di farle per 4 anni senza neppure passare dagli elettori. Stare con Alfano e lasciare fuori Sel è una decisione che sta prendendo il Pd, compresi Cuperlo e i suoi, e che io giudico sbagliata. Basterebbe coinvolgere Sel e intercettare il disagio che c’è tra i 5 stelle: al Senato ne basterebbero una dozzina. Se invece Renzi vuole consegnarsi nelle mani di Alfano per 4 anni faccia pure. A Ncd la legge uscita dalla Consulta va benissimo, dunque non mi pare che la minaccia delle urne possa spaventarlo».
Lei dunque propone una maggioranza senza Alfano?
«Non sono io che la propongo, è il Pd che deve decidere se vuole provare strade diverse. E poi perché Ncd può fare richieste e il Pd no? Chi tira dall’altra parte, chi tiene alti i temi di sinistra?».
Lei che ruolo intende giocare in questi giorni di formazione del governo? Vuole fare un nuovo gruppo al Senato?
«Io non sono al Senato, i senatori che mi hanno sostenuto al congresso sono persone libere e autorevoli. In questi giorni c’è un clima da liberi tutti, con un Pd che ha preso i voti e continua a fare cose che non aveva detto. In questo clima ci sono senatori che non vogliono mettere la loro credibilità in una operazione che non condividono. Quel post che ho scritto sul nuovo centrosinistra è stato il più letto nella storia del mio blog. Questo vorrà pur dire qualcosa: il problema non sono io. Se Matteo vuole fare il governo con Alfano, Civati non gli serve, se lo può fare da solo. Per questo ho scritto “stai sereno”: non sarò io a impedirgli di fare il governo».
Dunque lei cosa farà?
«Cercherò di capire se in Senato c’è lo spazio per costruire un contraltare rispetto a Ncd. E poter andare da Renzi a dirgli che un’alternativa c’è».
In pratica? Cercherà Sel e i delusiM5S?
«Visto che stavolta il programma sarà messo per iscritto, ed è giusto, io pongo alcuni punti e voglio vedere chi è interessato: anche tra chi ha sostenuto Cuperlo e Renzi». Quali sono questi punti?
«Vendola ha parlato di F35, poi ci sono il conflitto d’interessi, l’inasprimento della legge Severino, il reddito minimo, la Fini-Giovanardi da cambiare, lo sforamento del 3% in Europa. Se si vuole fare questo lavoro, sono a disposizione. Altrimenti non mi si dica che mi comporto male. Io non sono decisivo, posso anche lasciare la vita politica, cerco solo di essere coerente. E non mi dicano che al nuovo governo con Alfano non ci sono alternative. La legge elettorale sembrava l’obiettivo prioritario, e invece si sono fermati ancora prima di cominciare a votare».
Se lei avesse10 senatori però sarebbe abbastanza decisivo per la fiducia...
«Non pongo la questione in questi termini. Ci sono dieci parlamentari che vivono un profondo disagio.
Se Renzi vuole andare avanti così vada avanti, poi però non si stupisca se ci sono diverse persone che non sono d’accordo». Lei è convinto che una pattuglia di5stelle lavorerebbe col Pd? «La divisione ci sarebbe se ci fosse un’operazione diversa in campo. Di fronte alle mosse che ha fatto Renzi, e alla presenza di Alfano, è chiaro che non si fida nessuno». Davvero crede possibile un nuovo governo senza Ncd?
«I numeri ci sarebbero, ma dovrebbe essere Renzi, che si dice coraggioso, a cercare strade alternative. Magari ci sarebbero delle sorprese». Forse Renzi non ha alcun interesse a cambiare alleanze... «Se preferisce Alfano è una precisa scelta politica. Che non condivido».
A quel punto lei fa il nuovo gruppo?
«Potrebbe essere un gruppo al servizio di Renzi o all’opposizione. Dipende anche da lui. Altrimenti ci sarà qualcuno che in Parlamento dirà cose non in linea con quanto deciso in Direzione». Lei la voterà la fiducia? «Non ho ancora deciso».
Rischiate l’espulsione.
«Per quanto mi riguarda posso anche tornare a casa».
Oppure fare qualcosa con Vendola?
«Io voglio che Pd e Sel facciano qualcosa insieme. Di altre ipotesi ne parliamo dopo che sarà votata la fiducia».

Repubblica 17.2.14
Civati: non so se voterò la fiducia, anche altri parlamentari la pensano come me
Bisogna dialogare con Sel e con le colombe grilline, meglio che fare un accordo con Formigoni, no?
“Un ministero? Sciocchezze Se ho rotto con Matteo è perché non voglio Alfano”
di Tommaso Ciriaco


ROMA — Un esecutivo con Sel e le colombe grilline. «Sempre meglio che governare con Formigoni, no?». Pippo Civati non ha ancora deciso se votare la fiducia a Matteo Renzi. Intanto, però, propone una ricetta alternativa: «Se il premier incaricato offre un’alleanza di centrosinistra, il quadro può cambiare. Se lo dico io sembro matto, deve dirlo Renzi. Serve un confronto con altri soggetti politici. O con nuovi gruppi che possono nascere».
Civati, tutto questo polverone per strappare un ministero?
«No, guardi: ho proposto un “toto-no ministri”. Io sono il primo della lista. E dopo la direzione nessuno me lo offrirà... Né mi interessa essere della partita, se questo è il quadro».
Ha lanciato l’hashtag #matteostaisereno. Che fa, provoca?
«Non è una provocazione. Se Renzi fa l’alleanza con Alfano, nasce il governo di centrodestra in due giorni. E nasce anche senza dieci di noi. Del resto, si sa: io sui volantini elettorali avevo scritto “governo di centrodestra”...».
Lei invece cosa propone?
«Lanciare il governo dicendo che si fa con la stessa maggioranza è stato un errore. Dicono: Sel non vuol venire. No, così siamo noi che non la vogliamo. Poi, guardi, io capisco anche che può risultare antipatica una soluzione che preveda il sostegno di parlamentari di altri gruppi, ma rilevo che anche Alfano è un transfuga. Qui siamo al liberi tutti, mi sembra».
Lei pensa quindi a un’intesa con Sel e una fetta del M55?
«Ovvio. Il Nuovo centrosinistra che sostituisca Alfano, ecco. Sempre meglio che guardare a Formigoni, io sono fatto così...».
Sarebbe un’operazione ad alto rischio. Con numeri incerti.
«Se c’è la volontà di costruire un percorso con un governo più coraggioso, magari qualcuno si muove».
Si sta confrontando con Vendola, mediando con Sel?
«Se Alfano uscirà di scena, in Sel accadranno tante cose. Io sono andato al loro congresso: non mi hanno fischiato, mi hanno abbracciato. Ho contatti con più di qualcuno. Sa, in Parlamento ci si parla, mica si comunica con il televoto».
Quale sarebbe l’orizzonte di questo esecutivo?
«Non si parli del 2018, senza legittimazione popolare sarebbe una follia. Ma si potrebbero fare alcune cose: F-35, conflitto d’interesse, reddito minimo, moralizzazione della politica».
Con Ncd dentro il governo lei non vota la fiducia, giusto?
«Non è dirimente, non ho deciso: non conosco il governo. So che non votare significa rompere con il gruppo del Pd. Certo, Renzi disseche non andavano espulsi quelli che non votarono il governo Letta. Stavolta penso che sarebbe meno generoso... Comunque, come me la pensano parlamentari come Tocci e Casson. E non ci siamo messi d’accordo, né parlati».
Renzi assicura che non si farà imbrigliare, intanto.
«Dobbiamo fare un governo per i prossimi quattro anni, possiamo perdere quattro giorni invece di quattro ore? Un po’ di cautela non farebbe male. E poi sul tandem c’è Alfano: è ovvio che il Renzi-Alfano non può essere velocissimo...».

Il Sole 17.2.14
Civati: una decina di parlamentari a disagio, fiducia a Renzi non scontata
di Andrea Gagliardi

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Corriere 172.14
E Civati lancia l’hashtag #Matteostaisereno
Poi l’invito a mettere per iscritto il programma di governo con gli alleati
Il leader della minoranza Pd smentisce la defezione di 10 senatori: «Nessun complotto, ma problemi politici grandi come una casa»
di Alessandro Sala

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l’Unità 17.2.14
«Ora serve discontinuità» Il pressing della sinistra Pd
La minoranza ha preparato un documento da consegnare a Renzi. Parole chiave: sviluppo e lavoro
Cuperlo: «Il segretario deve dirci qual è la sua strategia per realizzare l’annunciata svolta»
di Maria Zegarelli


«Adesso Renzi ci deve dire quale governo ha in mente per fare che cosa. Noi siamo di fronte ad un passaggio storico e il premier incaricato ci dovrà dire quale è l’idea di fondo del suo governo, la sua strategia di fronte ai passaggi fondamentali che abbiamo davanti». Gianni Cuperlo ha appena finito di scrivere le tre cartelle che entro oggi spera di presentare al futuro presidente del Consiglio nelle quali è contenuto il contributo programmatico al nuovo governo. «Deve dare spessore e credibilità all’annuncio di cambiamento radicale che ha fatto l’altro giorno in Direzione. In che cosa consiste questa svolta, che è passata attraverso un trauma, per la quale si è proposto come protagonista?», chiede Cuperlo. Al telefono spiega che vorrebbe incontrarlo, «vorrei parlare con lui perché vorrei davvero capire che cosa vuole fare per dare risposte concrete ad una crisi economica, sociale e drammatica che ha pochi precedenti». La riassume così, con una battuta: «Renzi, dacci la politica». Come a dire, passata la stagione degli annunci ad effetto e degli slogan, «adesso arriviamo al punto e raccontaci quale idea di Paese hai in mente e come la vuoi realizzare perché la richiesta di svolta va fatta anzitutto a chi la propone».
Il leader della minoranza, nel documento rimette sul piatto anche uno degli argomenti forti di Renzi in campagna elettorale: il conflitto di interessi. «Cosa farà Renzi? Metterà mano a quelle riforme istituzionali e non solo che possono riallacciare una sintonia tra i cittadini e le istituzioni?». Già, cosa farà il futuro premier anche alla luce dell’accordo siglato con Silvio Berlusconi per la riforma della legge elettorale, del titolo V della Costituzione e del superamento del Senato? Complicato immaginare un’iniziativa sul conflitto di interessi che non metta in difficoltà il percorso delle riforme. E adesso il timore che c’è nella minoranza è che le riforme stesse vengano piazzate su uno di quei binari a velocità ridotta che ti dicono che sei partito ma non ti diranno mai se arriverai a destinazione.
Ma non è stato facile arrivare alla stesura del documento perché la stessa minoranza al suo interno è articolata. «Deve essere un documento stringato, essenziale, con pochi punti». «Deve essere articolato». «Non lo dobbiamo presentare affatto». I più dubbiosi sono stati proprio i Giovani turchi la cui linea verso il segretario, che oggi riceverà da Giorgio Napolitano l’incarico, è sempre stata più aperta e disponibile. Discussione tormentata e agitata, per tutto il giorno, La mediazione, alla fine, si è trovata su tre cartelle, pochi titoli - Lavoro, Impresa, Sviluppo e Riforme - sintesi del lavoro fatto nei mesi scorsi da Cuperlo e i suoi.
Ci hanno lavorato, tra gli altri, oltre a Cuperlo, Fassina, D’Attorre, Martina, Epifani. Tra le priorità suggerite a Renzi l’esigenza di rinegoziare gli obiettivi di finanza pubblica in sede Ue per avere margini concreti per rifinanziare in Italia investimenti e dare ossigeno all’economia; destinare gli introiti che deriveranno dalle privatizzazioni dei tesori del Paese al servizio civile per il lavoro; misure per la redistribuzione del tempo di lavoro attraverso contratti di solidarietà, pensionamenti flessibili per favorire l’ingresso dei giovani nel mercato del lavoro, part time e congedi parentali obbligatori. «Per una vera svolta - spiega D’Attorre - è necessario mettere l’accento sugli investimenti e sul lavoro, la vera emergenza del Paese e l’approccio non può essere giuslavorista. È evidente che il prossimo governo non sarà di sinistra, ma almeno facciamo in modo che segni una vera discontinuità».
Ma questi saranno giorni cruciali non solo per il governo, anche per il Pd. Gli equilibri interni non sono un fattore secondario in tutta questa partita, perché se il segretario-premier vuole andare avanti e non assistere al fuoco amico - che è stato usato nei confronti di Enrico Letta- non solo dovrà davvero rappresentare una svolta, ma dovrà tenere insieme il partito. Per questo Renzi punta al coinvolgimento al governo - due i ministri che dovrebbero essere scelti tra la minoranza, uno dei quali è certamente Andrea Orlando che all’Ambiente ha fatto un ottimo lavoro - e nell’infornata dei sottosegretari. E se Gianni Cuperlo dice che questo è l’unico aspetto che non lo interessa non tutti nella minoranza lo seguono. Anche per questo c’era una certa cautela, in alcuni, circa la presentazione del documento.

La Stampa 17.2.14
La minoranza Pd in campo su lavoro, impresa e sviluppo
Consegnerà un documento al segretario dopo che avrà ottenuto l’incarico di guidare il governo
di Francesca Schianchi


Oggi, dopo che Matteo Renzi avrà ricevuto l’incarico dal presidente della Repubblica, il capo della minoranza interna del Pd, Gianni Cuperlo, gli consegnerà un documento di quattro pagine. «Un memorandum su lavoro, imprese, sviluppo», annuncia Stefano Fassina, uno degli estensori del testo, pensato come contributo e stimolo al nuovo governo. Un documento su cui la minoranza dei democratici sta lavorando già da qualche giorno: su cui però, nonostante l’ottimismo dell’ex viceministro, rischia di esserci una spaccatura tra «cuperliani». 
Nei giorni scorsi, una prima bozza, in gran parte ricalcata su un documento già presentato e firmato da Fassina, D’attorre e altri bersaniani, non aveva accontentato tutti, in particolare l’avevano bocciata i cosiddetti «Giovani turchi». E ieri sera, il leader di quella componente, Matteo Orfini, cadeva dalle nuvole dinanzi all’ipotesi di un testo già pronto da presentare oggi: «Alle otto di sera io non l’ho ancora letto. Non so di cosa stiamo parlando».
«Il punto dal quale vogliamo partire è quello dello sviluppo, del lavoro e dello stato sociale. Questi argomenti per noi debbono occupare il centro dell’azione del prossimo esecutivo», presenta per sommi capi il testo Cesare Damiano in una nota. Fassina scende nei dettagli, e spiega quali saranno i punti cardinali del documento. Quattro, in particolare: «Primo, rinegoziazione degli obiettivi di finanza pubblica con l’Unione europea, per sostenere il lavoro e le imprese. Secondo, revisione del programma di privatizzazioni, e uso delle entrate così recuperate per finanziare un servizio civile per il lavoro». 
Ossia, un’esperienza di lavoro di sei mesi-un anno, un progetto da fare elaborare e gestire dal Terzo settore, nell’ambito del programma Youth Garantee, che consenta quindi a giovani al di sotto di una certa età (si pensa a 32 anni) e disoccupati da almeno sei mesi, di avere uno stipendio pari all’indennità di disoccupazione. Terzo, continua a elencare l’ex viceministro, «redistribuzione del tempo di lavoro: contratti di solidarietà, età di pensionamento flessibile, incentivazione del part time, congedi parentali obbligatori, misure che redistribuiscano il tempo di lavoro». E infine, quarto punto cardine, «le pensioni: occorre risolvere il problema degli esodati con una soluzione strutturale». 
L’approccio a questi temi, spiega Fassina, è diverso dal jobs act di Renzi: «Per noi il lavoro è una questione di politica macroeconomica, non di regole del mercato del lavoro». E quando dice «noi» intende la minoranza. Anche se fra i sostenitori di Cuperlo, appunto, bisognerà vedere se tutti condividono questo testo. In una riunione nei giorni scorsi alcuni deputati avevano messo in guardia: «Stiamo attenti a presentare il programma di Tsipras e pensare che possa essere recepito. Quando Renzi ci dirà che con questa maggioranza sono punti impossibili da realizzare, che faremo?». Per qualche giorno è andato avanti il confronto sui contributi proposti dalle diverse anime, con Cuperlo a fare la sintesi delle diverse posizioni. Poi, oggi, garantisce Fassina, il testo finale è pronto da consegnare nelle mani del premier incaricato. Ma resta da verificare se tutta la minoranza lo vorrà sottoscrivere.

Corriere 17.2.14
Il peso della sinistra pd sul programma
Civati: «Io e altri dieci siamo a disagio»
Documento della minoranza. Cuperlo: non limitare i diritti dei lavoratori
di Dino Martirano


ROMA — Alla fine, tutto il Partito democratico dovrebbe votare la fiducia al nascente governo Renzi. Ma è probabile che, poi, il programma del l’esecutivo ancora in cantiere sarà influenzato — soprattutto su fisco, lavoro, Europa e riforme — dalla sinistra del partito, che è minoranza in direzione ma che può ancora fare il bello e il cattivo tempo nei gruppi parlamentari.
Così, dopo l’incarico che riceverà stamattina dal capo dello Stato, Matteo Renzi incontrerà le delegazioni dei partiti della coalizione e quando toccherà ai democratici (non potendo ricevere se stesso, in qualità di segretario nazionale) dovrà per forza ascoltare i capi delle due minoranze: Pippo Civati (14 % alle primarie e Gianni Cuperlo che ha superato di poco il 18%). Il primo, alla direzione di giovedì scorso, ha votato contro Renzi, il secondo a favore pur con grande sofferenza.
Per cui, in vista dell’incontro con il presidente incaricato, Civati non nasconde (anzi, la evidenzia ogni giorno) la tentazione di disertare l’appuntamento del voto di fiducia al governo Renzi, specificando che «una decina di parlamentari» della sua area «sono a disagio soprattutto al Senato»: «Quando saprò qual è il governo, da chi è composto e quale sarà il programma esprimerò il mio giudizio. Certo al momento anch’io sono molto a disagio». In realtà, per mettere in pericolo la tenuta del governo Renzi al Senato, ci vuole qualcosina di più dei sei voti sicuri espressi dai «civatiani» a Palazzo Madama, anche se poi alla squadretta guidata da Felice Casson e da Walter Tocci si dovessero unire i 4 o 5 senatori in fuga dal M5S . Alla Camera, con quasi 300 deputati con la casacca del Pd, il problema non si pone proprio.
Diverso il percorso intrapreso dai «bersaniani» e dalle altre aree che si affidano alla rappresentanza di Gianni Cuperlo. In queste ore, c’è una task force al lavoro (composta, tra gli altri, da Cesare Damiano, Stefano Fassina, Davide Zoggia) che sta perfezionando un denso documento programmatico da presentare in queste ore al presidente del consiglio incaricato. I filoni sui quali la sinistra del Pd concentra la sua attenzione sono sostanzialmente cinque: politica economica, lavoro, Europa, diritti, legge elettorale e riforme costituzionali. In particolare, Cuperlo (e Fassina, probabilmente) spiegheranno a Renzi che il nuovo governo non deve cedere a chi chiede «di limitare ancora di più i diritti dei lavoratori» e deve ascoltare, invece, chi invoca «minor rigore all’Europa» per favorire lo sviluppo e, dunque, l’occupazione.
La sinistra del Pd, poi, si trova in sintonia con Lorenzo Dellai (Popolari per l’Italia), che al capo dello Stato ha fatto presente un problema politico di grande rilevanza: vale a dire che la maggioranza chiamata a varare le riforme deve essere la stessa che sostiene il governo. Perché, soprattutto ora che si avvia verso Palazzo Chigi, «Renzi non può giocare su due tavoli, uno con Berlusconi per le riforme e un altro con la sua maggioranza per il programma di governo».
Ma c’è di più. La sinistra del Pd — che non chiederebbero ministri nonostante le insistenze dei renziani che così vorrebbero neutralizzare Cuperlo e compagni sul programma — presenterà al presidente incaricato un suo calendario di massima sulle riforme perché, con la crisi in atto, rischia di saltare la «road map» promessa solo qualche giorno fa dal segretario Renzi. Spiega ancora Zoggia: «In questo modo si scoprirebbe il gioco di Berlusconi che vuole solo la legge elettorale e non è interessato alla riforma del Senato e del Titolo V della Costituzione...».
Insomma, per dirla con le parole dell’ex ministro del Lavoro Cesare Damiano, la minoranza di sinistra del Pd (che controlla però quasi il 50% dei gruppi parlamentari) indicherà a Renzi «le priorità politiche, economiche e sociali che dovrà affrontare il nuovo governo».

l’Unità 17.2.14
Primarie regionali, è flop. Niente code ai gazebo Pd
Consultazioni in 15 Regioni. Da Roma al Piemonte, la partecipazione è stata molto bassa
Fassina: «Effetto della scelta brutale su Letta»
Zoggia: «Rivedere il meccanismo»
I dati non paragonabili con quelli di 4 anni fa quando si eleggeva anche il segretario nazionale
Polemiche a Palermo per gli immigrati costretti a votare in un solo seggio
di Osvaldo Sabato


Gli elettori del Pd hanno scelto ieri i segretari regionali. Ma la nuova tornata di primarie in quindici regioni è stata un insuccesso. Niente code ai gazebo, dalla Lombardia alla Sicilia. E, anche su un confronto con le primarie nazionali dell’8 dicembre sarebbe del tutto improprio, si poteva constatare ovunque il mezzo fallimento. Con annesse, inevitabili polemiche. L’ex viceministro Fassina attribuisce il flop alla disillusione dell’elettorato dopo la «brutale» sostituzione di Letta.
Non si sono viste le code ai gazebo come a dicembre quando si doveva scegliere il leader nazionale del Pd. E sono i numeri a confermarlo. Per esempio nel Lazio e in modo particolare a Roma non si è vista molta gente ai seggi. La diminuzione dell’affluenza nei 500 seggi aperti per eleggere con le primarie il nuovo segretario regionale del Pd è certificato alle 13 di ieri dai circa 18 mila votanti, di cui 3.500 a Roma. Per la Capitale il crollo è verticale se si pensa che nel resto della provincia alla stessa ora hanno votato più elettori, circa 6.700. Nella storica sezione di via dei Giubbonari a due passi da Campo de’ Fiori che fu del Pci, poi passata nelle mani del partito di Matteo Renzi l’affluenza è stata bassa. Non è che in Piemonte sia andata meglio. Anche in questa regione i seggi sono andati quasi deserti. Ma l’emorragia dei voti colpisce tutta l’Italia. Naturalmente non si può fare un confronto con le primarie che quattro anni fa elessero i segretari regionali, perché si tennero in contemporanea con quelle del segretario nazionale. Ma come spiegarsi questo calo dell’affluenza? «La drammatica caduta di partecipazione alle primarie per l’elezione dei segretari regionali è il riflesso della brutale scelta avvenuta giovedì scorso in direzione nazionale con la sfiducia votata a Letta. Larga parte del popolo democratico non ha capito quanto avvenuto e ha inviato un chiaro segnale. Inoltre, ieri in tante regioni ha pesato l’assenza del passaggio nei circoli cosicché il voto è apparso come uno stanco rituale plebiscitario per sancire accordi chiusi da un ceto politico autoreferenziale. Il Pd deve riflettere molto seriamente su quanto sta avvenendo e correggere la rotta prima di ricevere altre amare soprese» scrive in una nota Stefano Fassina. Per Davide Zoggia, parlamentare del Pd ed ex responsabile Organizzazione del partito nella segreteria di Guglielmo Epifani, «forse bisognerà rivedere bene le primarie che eleggono gli organismi politici» commenta «probabilmente non va bene lasciarle aperte a tutti, credo che per esempio i segretari regionali devono essere votati dagli iscritti». Dopodiché, aggiunge, l’esponente Pd, «visto quello che è successo a livello nazionale forse qualcuno dovrebbe porsi il problema su come lo eleggiamo ». Erano quindici le regioni dove ieri si doveva scegliere il nuovo segretario del Pd (Friuli Venezia Giulia, Piemonte, Lombardia, Veneto, Toscana, Marche, Umbria, Lazio, Molise, Puglia, Campania, Calabria e Sicilia) più la provincia di Bolzano. Seggi chiusi invece dove i democratici sono riusciti a presentare un candidato unitario. È il caso di Fulvio Centoz in Valle d’Aosta, Roger De Menech in Veneto e del sindaco di Bari Michele Emiliano in Puglia. In Friuli Venezia Giulia niente primarie, verrà proclamata segretario Antonella Grim, durante l’assemblea regionale del partito. Al congresso del Pd toscano che ha eletto Dario Parrini si è visto che il padre di Renzi, Tiziano. In Toscana si è deciso di non fare le primarie perché il candidato era unico. «Abbiamo deciso di far prevalere ciò che ci univa e non ciò che ci divideva. Un partito plurale può essere un partito decidente. Sta a noi dimostrarlo » dice Parrini a proposito della sua candidatura unitaria senza le primarie
Affluenza bassa, rispetto a dicembre, anche in Lombardia. Nelle Marche potrebbe aver fatto breccia l’invito a disertare i circoli per l’esclusione del sindaco di Pesaro Ceriscioli. Polemiche a Palermo per gli immigrati costretti a votare in un solo seggio. Mentre Guglielmo Vaccaro, deputato Pd e candidato in Campania, denuncia brogli già dalla mattinata. Nonostante i grandi timori sull’astensione a Cosenza due dirigenti del partito, Damiano Covelli e Marco Ambrogio, sono persino arrivati alle mani. A Bari il congresso regionale del Partito Democratico ha eletto, all’unanimità, il sindaco di Bari, Michele Emiliano, segretario del Pd pugliese. Le sue prima parole sull’attualità politica. «Andrò da Nichi Vendola chiedendo di dare una mano a Matteo Renzi e faccio già un appello a Sel affinché aderisca al progetto politico intrapreso dal Partito Democratico » dice il neo segretario Emiliano, parlando all’assemblea dei delegati riunita per l’elezione dei vertici regionali.
Gazebo quasi vuoti anche in Sicilia: nelle aree metropolitane di Palermo, Catania Messina è andato appena il 25 per cento degli elettori che avevano partecipato alle primarie che portarono Renzi alla segreteria nazionale. In attesa dei dati finali il numero complessivo dei votanti si attesterebbe sotto i 50mila, a fronte dei 129mila elettori che andarono alle urne l’8 dicembre.

l’Unità 17.2.14
«Sono qui, ma potrebbe essere l’ultima volta»

Ai gazebo del Pd, tra speranza e indignazione
di Laura Matteucci


L’interrogativo è: ma fuori di qui dove vado? Io un’altra casa non ce l’ho». Domenica pomeriggio in un circolo Pd di Milano, zona centrale: Luisa è presidente di seggio, lo fa da anni, primaria dopo primaria, ma stavolta «sì, per un attimo ho pensato di passare la mano». Invece è lì, un’altra domenica regalata al partito, ancora al lavoro. Anche se di lavoro ce n’è poco, in effetti: alle primarie che incoronarono Renzi in quello stesso circolo votarono oltre 2mila persone, stavolta sono stati accorpati due seggi e «se arriviamo a 100 votanti è tanto ». Così, giusto per farsi un’idea delle proporzioni. D’accordo: nei 661 seggi allestiti la fila, stavolta, non se l’aspettava nessuno. Si elegge la segreteria regionale del Pd: poco battage promozionale per un livello intermedio che non suscita troppe curiosità. Ma qui c’è molto, moltissimo, di più.
«LA BASE NON È STATA ASCOLTATA»
L’aria che tira sulle primarie democratiche di Lombardia è decisamente uggiosa. E non è solo una questione meteorologica. Tessera in mano, nonostante fossero primarie aperte (e in molti casi esibita senza orgoglio), età media oltre gli anta, aria smarrita: il profilo del «comunque votante» è decisamente cambiato rispetto a solo due mesi fa. Nel migliore dei casi, tanta voglia di capire e di giocarsi, comunque, quest’ultimo jolly - «ultimo per me stesso e per tutto il Pd», come dice Giancarlo anche a nome di molti altri - facendo quadrato intorno a Renzi attendendone governo e mosse prossime venture. Altrimenti, solo di sfogare rabbia e delusione. Per la segreteria, qui se la giocavano la civatiana Diana De Marchi e il renziano Alessandro Alfieri, ma al di là di candidati e risultati, è andata più o meno come nelle altre regioni: voti poche migliaia, e quasi solo di tesserati, discussioni tante. Lo sconcerto si riversa sul voto: l’outsider De Marchi, che sembrava dovesse essere una candidatura di mera testimonianza, in molti seggi surclassa il favorito Alfieri.
Delle regionali, ovviamente, si parla poco e niente: dopo aver vagliato la situazione per giorni al chiuso delle proprie case e scaricato batterie intere sui social network, l’ultima chiamata ai seggi di questo percorso congressuale diventa il primo momento di confronto collettivo sui ribaltamenti della settimana. Tutto interno al Pd. La base è scossa: sono discussioni lunghe e accese, filze di domande, giustificazioni e accuse oltranziste, ma per lo più posizioni attendiste e tanta voglia di chiarezza. Giancarlo è un renziano della prima ora, e ammette che «la svolta è stata notevole, sia rispetto alla linea del Pd, sia rispetto a quella personale di Renzi: è ovvio ci sia sorpresa, in molti casi stordimento e indignazione. Anche perché la base non è stata ascoltata per niente». E però. Per spiegare l’accaduto, Giancarlo chiama in causa i «motivi di urgenza, economica e occupazionale». Quindi va sul classico, sulla metafora sportiva: «Quando una squadra sta per perdere che fa? Mette un attaccante. Il nostro è Renzi, è l’ultima carta che abbiamo da giocare. Certo, rischia lui e rischiamo tutti noi. Moltissimo». C’è chi ricorda il prossimo test delle europee di maggio, qualcuno teme il tracollo, altri sono convinti che nel frattempo Renzi sarà riuscito a portare a casa «alcune cose importanti », che «faranno dimenticare» o addirittura «giustificheranno» gli ultimi giorni. Teresa riporta gli umori del suo circolo, Milano nord, dove a fine giornata i voti non sono arrivati a 100 contro i 2000 dell’8 dicembre, comprese molte schede bianche: «Come i renziani, anche i cuperliani sono divisi - dice - c’è chi ha accettato il voto in segreteria, e chi invece parla di guerra tra bande ed è convinto che Cuperlo avrebbe dovuto almeno astenersi».
Sul disagio del militante medio aleggiano intanto le parole di Pippo Civati, che tra l’altro ha votato pure lui in Lombardia, a Monza. L’unico che si è dichiarato contrario al passaggio Letta-Renzi, che ha parlato del disagio di una decina di parlamentari e che ha anche lasciato pensare alla possibilità di una fuoriuscita a sinistra (anche se «non ho mai parlato di scissione», chiarisce poi lanciando l’hastag #Matteo stai sereno »). Provocazione o embrione di progetto che fa gola? «Per me, il Pd resta il progetto più valido - dice il civatiano Luca - E, pensando anche a chi parla di un patto con Berlusconi, non penso che il confronto con Forza Italia possa andare più in là della legge elettorale. Certo, il Pd a febbraio scorso i voti li ha presi con un progetto di centrosinistra, adesso vedremo che linea politica adotterà... ». Come dire, nulla è scontato. Anche Silvia è civatiana, candidata in lista con la De Marchi: «È un azzardo, se Renzi fallisce è finita per lui e per il Pd - dice -Ma la mia è una posizione di lealtà rispetto al partito, voglio fare da stimolo, ma dall’interno. E mi sembra che così la pensino in molti: l’altro giorno il clima era più battagliero, prevaleva la rabbia, adesso c’è voglia di restare uniti e di fare quadrato intorno a Renzi e al nuovo governo». Un’altra civatiana, invece, taglia corto: «Che lo spazio a sinistra ci sia lo sappiamo in tanti. È evidente che bisogna trovare un’alternativa, e che il momento è arrivato». Come dice una vignetta che spopola su Facebook: «Dimmi qualcosa di sinistra. Addio».

il Fatto 17.2.14
Voto a perdere
Gazebo deserti, le primarie fantasma del Pd
di E. Liu.


Verranno ricordate come le primarie più fiacche della storia del Pd. Primarie fantasma, in molti casi, visti i candidati unici (scelti dalla direzione nazionale) che si sono presi la segreteria regionale per mancanza di avversari. In alcuni casi primarie macchiate di giallo (seppur sbiadito) come avvenuto in Campania, dove sono stati denunciati brogli: il deputato piddino Guglielmo Vaccaro , a metà pomeriggio, è sbottato: “Non è possibile che in piccoli paesi di provincia voti una persona ogni 25 secondi”. Un voto che, alla fine, nel migliore dei casi, è stato disertato: affluenza in crollo ovunque, da Roma a Torino. Nel Lazio, 4 anni fa, avevano votato in 120 mila. Ieri hanno contato poco più di 20 mila schede.
TRA LE POCHE certezze Michele Emiliano, sindaco di Bari e sul punto di entrare nella squadra di governo, che è diventato il segretario regionale del Pd in Puglia per acclamazione. Non aveva avversari. “Sento la responsabilità di essere il segretario di tutti”, ha detto. La prima cosa fatta è stata quella di nominare tre vice, tutte donne, una vicina a Gianni Cuperlo, un'altra a Pippo Civati e la terza di sua fiducia. “Non so se diventerò ministro”, ha detto Emiliano, “ma adesso tocca a Nichi Vendola esprimersi a favore del governo Renzi. È uno sforzo che può fare, anche e soprattutto dopo che il Nuovo centro destra ha preso con forza le distanze da Berlusconi”.
Un'altra regione, la Toscana, un altro quasi ministro (Maria Elena Boschi) a sorvegliare le operazioni di voto e un altro segretario nominato e non eletto. Chi l’avrebbe detto: il Pd renziano, nato sotto la stella delle primarie, che sceglie i suoi uomini di punta senza nessuna consultazione. Nella Firenze del presidente del Consiglio quasi incaricato, ieri, è stato il papà di Matteo, da sempre militante del Pd, ha incoronare il nuovo segretario Dario Parrini (superfluo aggiungere che è un renziano della prima ora): non aveva avversari. I giochi erano stati fatti in precedenza.
Le nomine senza voto, ieri, sono arrivate anche per Roger De Menech, plenipotenziario in Veneto, Alessandra Grim in Friuli Venezia Giulia e Fulvio Centoz, già segretario da una settimana in Valle d'Aosta. Hanno votato, invece, senza nessun entusiasmo e con pochi iscritti nei 661 seggi in Lombardia: “Sto passando questi ultimi giorni non tanto a parlare della mia candidatura quanto a spiegare cosa è successo a Roma. La gente non è arrabbiata, ma spaesata sì. Non ha capito. Mi sono arrivati decine di sms e mail con scritto ‘a votare non ci vengo più’”, racconta il favorito e segretario uscente Alessandro Alfieri, renziano sostenuto anche dal grosso degli ex bersaniani, sicuramente confermato segretario.
Questo la dice lunga sul clima che si respira nel Pd. L’Emilia Romagna, la Sardegna e l'Abruzzo hanno rinviato l'appuntamento. Ma anche dove c’erano più nomi di candidati non c'è stata nessuna corsa al voto. L’attenzione in questi giorni è spostata a Roma e i cosiddetti congressi regionali già sulla carta non avevano molto da dire.
E COSÌ È stato. Nessuna coda, entusiasmo sotto i piedi, mal di pancia per l'accelerazione di Renzi. Civati è andato al suo seggio, a Monza: “Affluenza decisamente bassa, massimo il 10% di chi è andato a dicembre, secondo i dati che ho” ha spiegato il parlamentare del Pd. Per poi affondare il coltello: “Più che simpatizzanti ho visto antipatizzanti, da quello che dicevano. Non so se ci rendiamo conto di cosa facciamo”. Non va per le leggere neppure Leoluca Orlando, sindaco di Palermo: “La confusione politica nazionale in Sicilia si somma al permanere di una dirigenza che da oltre 10 anni pur di conservare scampoli di potere ha condannato il centrosinistra alla sistematica sconfitta elettorale. In queste condizioni il Pd ha scoraggiato cinicamente e scientificamente la partecipazione di iscritti e non iscritti”. Durissimo e diretto al segretario l’attacco di Stefano Fassina: “È colpa di Renzi. Le urne vuote sono la conseguenza della brutale sfiducia a Letta”.

La Stampa 17.2.14
I Democratici disertano i seggi delle primarie
Sul voto il peso dello “strappo”
Nel Lazio alle urne si presentano solo in 18mila contro i 120mila del 2012
di A. Pit.


ROMA Dall’Alpi alla Sicilia, tra seggi semideserti e malumori, non è certo l’immagine di un Pd coeso ed entusiasta, nei giorni della staffetta tra Matteo Renzi ed Enrico Letta a Palazzo Chigi, quella proiettata dalla base chiamata ieri ad eleggere, con le primarie, 14 segretari regionali. Bassa affluenza, un po’ dovunque.
Sintomo di un Pd in fibrillazione e di un elettorato frastornato dallo «strappo» interno.
Si votava in Friuli, Veneto, Piemonte, Lombardia, Liguria, Toscana, Marche, Umbria, Lazio, Molise, Puglia, Campania, Calabria, Sicilia e nella Provincia di Bolzano. Ma ieri, in serata, dopo la chiusura dei seggi, è stato proprio il crollo dell’affluenza, a finire al centro delle analisi (preoccupate) di Largo del Nazareno (Fassina: «E’ il riflesso della brutale scelta avvenuta giovedì con la sfiducia votata a Letta»). Eloquente il caso del Lazio (sfida Bonaccorsi-Melilli): alle 13 avevano votato solo in 18mila contro i 120 mila del 2012. Ma anche quelli del Piemonte (calo tra il 20 e il 25%) e della Liguria (14.283 alle 17 contro gli 87.816 del 2009). Alle 20 di ieri, alla chiusura dei seggi, nelle tre regioni in cui il Pd ha optato per una candidatura unitaria, il risultato era di fatto già acquisito: in Toscana Dario Parrini succede a Ivan Ferrucci, in Puglia riconfermato il sindaco di Bari (renziano) Michele Emiliano e in Veneto a guidare il partito sarà un altro renziano, Roger De Menech.
Non sono mancate le polemiche. Da Palermo, a Salerno, dove dove il deputato del Partito democratico e candidato alla segreteria regionale campana, Guglielmo Vaccaro, ha denunciato brogli ai seggi. [A. PIT.]

l’Unità 17.2.14
Avevo sperato in Renzi ma ora sono deluso
di Paolo Di Paolo


Quando scrive di «aberrazione inenarrabile» a proposito del brusco passaggio da Letta a Renzi, Alberto Asor Rosa, come sempre, esagera. «Mai mi sarei aspettato - ha scritto sul Manifesto - che nel giro di pochi giorni il nuovo che avanza svelasse chiaramente il grumo di ottusa banalità che nasconde».
Un famoso italianista dovrebbe pesare le parole, lui non lo fa. Si avverte tra l’altro anche uno strano rancore pregiudiziale verso i cambiamenti, che non aiuta nel ragionamento. Ma si può partire dal radicalismo di Asor Rosa per mettere a fuoco una delusione condivisa. Non è bene pensare - come alcune voci di corridoio vicine a Renzi hanno dato a intendere - che tale delusione possa essere cancellata da un paio di provvedimenti di governo sorprendenti, o semplicemente dal tempo. Se Renzi, nel corso di questi mesi, negli interventi alla Leopolda in particolare, ha spostato l’accento dagli schemi della vecchia, inaridita politica a una politica dei sentimenti, delle passioni, dovrebbe mostrarsi attento - nei fatti - a questo aspetto. Io, nel giorno della sfiducia di partito a Letta, quella delusione l’ho provata. Ha invaso la mia giornata uno strano malessere, un senso di estraneità a quella «manovra», una rabbia che è diventata tristezza. Esageravo anch’io, nel prendermi così a cuore la «forma»? E soprattutto: era davvero solo forma? Non credo. Ho condiviso con molte persone, con molti amici, un profondo sconcerto. Non è neanche tanto questione di promesse non mantenute, o di contraddizioni: il punto è stato vedere un progetto di cambiamento inquinato da un gesto che in parte negava quello stesso cambiamento. Né mi convince o entusiasma chi vede in quel passaggio brutale un segno di vitalità, di energia «machiavellica ».
A me la vecchia storia del fine che giustifica i mezzi ha sempre fatto un po’ orrore (oltre a essere frutto di un Machiavelli ridotto a slogan, più che davvero compreso). E quando sento parlare di semplice calcolo politico, o peggio ancora di «realismo politico», in un istante ripiombo nella più assoluta distanza dalla passione politica che Renzi cerca, o ha cercato, di alimentare. Andreotti, De Mita, Craxi, con il loro cinismo giovane, il loro pragmatismo impermeabile e presuntuoso, non mi hanno mai sedotto.
Ricordo un pezzo di Montanelli, letto a posteriori, sul Craxi degli anni Ottanta: rampante, deciso, «un guappo di cartone». Non lo rimpiango. Mi aspetto tanto da Renzi sul piano delle scelte, come tutti coloro che hanno a cuore l’Italia, ma mi aspetto qualcosa anche sul piano della forma. O meglio: della fedeltà. Della fedeltà a ciò che per mesi ha ripetuto. Non parlo di promesse, parlo del tempo che ha speso a raccontare un nuovo modo di essere politici. O forse un modo antico - quel «modo» che molti figuri di prima e seconda repubblica hanno tradito. Allontanando migliaia di cittadini, forse milioni, portandoli a un rifiuto netto, che diventa indifferenza o anti-politica distruttiva. I 1630 cittadini che nel Cagliaritano si sono disfatti della propria tessera elettorale manifestano un disagio che forse è perfino disperazione.
È una situazione estrema? Meno di quanto si pensi, e non va sottovalutata. Come non va a maggior ragione sottovalutato il malessere di chi continua a essere militante, di chi non si assenta, di chi «resta» - parlo di molti elettori del Partito democratico -ma lo fa stringendo i denti, convivendo con un senso di estraneità, di sfiducia. Una delusione che forse può essere superata se il nuovo governo si mostrasse davvero efficace, ma non del tutto sanata. Lascia comunque un segno, che a volte ti spinge a chiederti - a me è capitato - «questo è il mio partito? ».
Me lo sono chiesto dopo il fallimento, per ragioni più interne che esterne, del progetto del Lingotto guidato da Walter Veltroni. Era il 2008, avevo venticinque anni e forse per la prima volta mi sono sentito parte di qualcosa. Parte attiva, di qualcosa. Qualcosa di possibile, voglio dire. Poi le cose sono andate come tutti sanno, e la storia di delusione è proseguita con alti e bassi ma senza significative battute di arresto. Vorrei che la storia che comincia oggi con un nuovo governo non sia solo una storia di «utili» compromessi, di «realismo politico », di fini che giustificano tutti i mezzi, tutte le amicizie, tutte le alleanze, tutte le complicità, tutte le prepotenze. Vorrei non sentirmi distante ancora una volta.

il Fatto 17.2.14
Renzi e l’inciucio spiegati ai figli
di Ferruccio Sansa


Il rito è sempre lo stesso: prima si controlla il gas. Una, due, dieci volte, come il signor G. di Gaber, finché rischi di lasciarlo aperto davvero. Poi dai un’occhiata alla serratura, alle finestre. Infine passi da loro, nella stanza dei figli. Li guardi, li ascolti: sì, respirano. Chi più veloce, chi a strappi come colto da improvviso trasalimento. Allora ti chiedi che cosa staranno vedendo nei loro sogni irraggiungibili. Così diversi dai nostri appesantiti di adulti.
Ma stasera, in quella penombra un po’ misteriosa, ti viene in mente lui. Sì, Renzi. Hai dei problemi, direte. Il fatto è che vorresti chiederglielo: Signor Renzi (qualcuno lo chiamerà già Matteo), ma lo sa che ha in mano la vita dei miei, dei nostri figli. Lei può cambiare la loro esistenza, come ha fatto, purtroppo, con noi Berlusconi che ci ha funestato vent’anni, che ci ha presi ragazzi e ci ha scaricati adulti dopo averci scippato le illusioni.
Davvero viene il dubbio che quasi nessuno di quelli che hanno guidato l’Italia negli ultimi decenni lo avvertisse davvero: governare un Paese significa cambiare la vita di milioni di persone. Deciderne le scuole (quindi le aspirazioni), il lavoro (cioè il benessere), la giustizia e la salute. In una parola la “felicità”, termine citato forse con ingenuità - forse no - nella Costituzione americana. Chissà, magari sarebbe un pensiero paralizzante. Perfino dannoso. Meglio ragionare in termini di categorie più che di individui: studenti, lavoratori, imprenditori, immigrati, anziani. Eppure ci speri, oggi che con un po’ di disincanto ti accingi a essere governato dall’ennesimo salvatore della patria. Intanto, dopo mezzora che ronzi in camera, sei riuscito a svegliarli. Ti guardano interrogativi con gli occhi a fessura. Ma come potresti spiegarglielo: sai, non mi è piaciuta per niente questa crisi, la più extraparlamentare della nostra storia. Renzi va al governo senza voto. Lui che non è mai stato votato e valutato come possibile premier, che non è nemmeno parlamentare. Nessun passaggio in Parlamento, ma solo nella stanze di partito. Un governo di fatto, deciso da rapporti di forza non scritti. Come se noi cittadini non esistessimo. E... scusa, ma il truffaldino inciucio destra-sinistra, così contrario alla volontà popolare, non era una soluzione di emergenza? Invece è diventato alleanza di legislatura. Poi, diciamocelo, come faccio a lasciarvi nelle mani di uno che per fare il nuovo si presenta al Quirinale con la Smart? Ora vedrai che circo: ministri che vanno a giurare in bici, in monopattino o a cavallo. É questo il cambiamento? C’è qualcuno che si ricorda che auto avevano Allende, Gorbaciov o Mandela?
Ma queste cose non le puoi spiegare a tuo figlio. Puoi solo sperare che gli vada meglio che a te. O che almeno non duri vent’anni. Buonanotte, continua a sognare. Almeno tu.

Corriere 17.2.14
Il sindaco fra trasparenza e «contaminazioni»
Il rapporto costante tra il rottamatore e un politico inviso a sinistra come Verdini fa saltare i veti e i confini della politica
di Luca Mastrantonio


Il rottamatore, spietato persino con i compagni di partito, predica la trasparenza in politica come Savonarola predicava la virtù a Firenze; ma per alleato ha scelto un politico navigato e discusso come Denis Verdini, luogotenente di Silvio Berlusconi. Considerato da molti, nel Pd e non solo, un campione di immoralità politica; per le inchieste che pendono su di lui e per il modo spiccio e brutale, invero efficace, di trattare gli uomini, da capo tribù. È grazie a Verdini che Silvio Berlusconi ha incardinato l’intesa sulla legge elettorale con il segretario del Pd; e sempre a Verdini sarebbe stato affidato il compito di arruolare una pattuglia di guastatori di Forza Italia che possa affrancare Renzi dai voti del Nuovo centrodestra.
Si tratta della riproposizione del piano dei «responsabili» elaborato nel 2010 sempre da Verdini per consentire a Berlusconi di restare a Palazzo Chigi nonostante la mozione di sfiducia di Gianfranco Fini: uno strumento da Seconda Repubblica. Il nome di questi potenziali nuovi «responsabili» potrebbe essere quello di «renzini», in quanto politicamente modificati da Verdini in funzione pro-Renzi.
L’ipotetico asse tra Renzi e Verdini è stato criticato duramente, tra gli altri, da Pippo Civati, co-ideatore della prima Leopolda, nel 2010; ora Civati sembra candidarsi a guidare la minoranza del Pd, contro Renzi, magari con un allargamento a sinistra, dove i «renzini» sono visti come una contaminazione virale, una esposizione del Pd ai peggiori baccelli del berlusconismo.
Alla luce di quanto sta avvenendo, l’incontro tra Berlusconi e Renzi di inizio anno appare un po’ più mefistofelico; all’epoca, le analisi politiche furono coperte dalle battute, come quella di Beppe Grillo, che parlò di un remake del Ritratto di Dorian Gray , con Renzi che si specchia in un dipinto raffigurante Berlusconi. O il contrario, dissero altri. Fa lo stesso, forse. Oggi, in fondo, dopo vent’anni che hanno mescolato la destra e la sinistra, il giustizialismo e l’iper-garantismo, il conservatorismo e il liberalismo, il moralismo e il libertinaggio, il registro culturale alto e quello basso, il cocktail è pronto, servito fresco come uno spritz. Aperol o Campari? Ci sono solo (poche) varianti, la ricetta non cambia molto.
Al di là del grande immaginario pop, il mondo di Renzi più che un pantheon politico sembra un book, un libro fotografico con testimonial e candidati, facce nuove e facce vecchie. Il suo Pd, un non-luogo con porte girevoli: qualcuno è entrato (lo scrittore Edoardo Nesi, da Scelta civica), qualcuno è uscito (il sociologo Giuliano Da Empoli, ex Assessore alla Cultura a Firenze ed ex consigliere). Non mancano, sul menù, le strane coppie: Alessandro Baricco e Flavio Briatore, per esempio. Da un lato, infatti, Renzi fa sfilare lo scrittore più amato dalle italiane, come le cucine delle pubblicità di una volta; il quale all’ultima Leopolda aveva detto di non frequentare solo «fighette intellettuali», per rispondere a una critica di Enrico Letta, ma di conoscere «anche quelli che mi stanno rifacendo il tetto». Dall’altro, il segretario del Pd si gode l’appoggio di Briatore, tornato in auge grazie a una trasmissione televisiva dove licenzia senza pietà i concorrenti che non reputa degni di lavorare con lui; per il filosofo Massimo Cacciari, Briatore è un «cafone megagalattico», anzi di più: «L’idea platonica del cafone».
E ancora: certo, tra i sostenitori del presidente del Consiglio in pectore c’è Oscar Farinetti, affabile patron di Eataly; ma il segretario del Pd ha fatto rientrare nei ranghi, in Sicilia, anche il cuperliano Vladimiro Crisafulli, che il conterraneo Pierfrancesco Diliberto, in arte Pif, renziano duro e puro, aveva attaccato con violenza all’ultima Leopolda: il regista di La mafia uccide solo d’estate aveva chiesto che Crisafulli venisse cacciato dal Pd per le passate frequentazioni mafiose. Era l’ottobre 2013: oggi Crisafulli è ancora nel Pd, renziano dicono alcuni, e Pif andrà al festival di Sanremo. C’è spazio per tutti.
Ieri Fiorello su Twitter ha scherzato sulle voci e le consultazioni per la squadra di governo del segretario del Pd: «Renzi non mi ha ancora chiamato... Aspetto con ansia».
Forse, se parla con Verdini…

La Stampa 17.2.14
Il primo (imprevisto) sfilacciamento per il futuro premier
Manda sms ai suoi per negarlo, ma è nello stallo
È stato forse fin troppo ottimista sui sì di alcune figure, come Reichlin
Nel suo entourage gli uomini più politici gli suggeriscono di prendere tempo
di Federico Geremicca


Eppure, la situazione è quella che è: problemi ancora irrisolti nella formazione della squadra e un lavoro non semplice (e tutto da fare) sul fronte di un programma che, assieme alla composizione dell’esecutivo, dovrà riuscire a dare un senso ad un’operazione politica la si chiami staffetta o come si vuole che resta ancora largamente incompresa fuori e dentro il Pd.
Ieri, alle sei della sera, con un messaggino ai fedelissimi, il premier incaricato ha provato a dissipare dubbi e disperdere stati d’animo depressivi: «Nessun problema serio, al momento. Anzi». Giusto, naturalmente, rincuorare le truppe; soprattutto se si ha chiaro che a partire da oggi e nelle prossime 48 ore va in gioco qualcosa di più e di diverso dalla semplice formazione di un governo: vanno alla prova dei fatti questo è il punto una favola, una speranza e una promessa alla quale hanno creduto milioni di cittadini, fuori e dentro il Pd, che attendono ora conferma di non essersi sbagliati.
In qualche modo, e suo malgrado, Matteo Renzi è insomma finito in quel pantano (le liturgie, i bizantinismi, le “pratiche da prima Repubblica”...) che ha sempre contemporaneamente temuto e denunciato: la “melina” di Angelino Alfano, le resistenze di un pezzo di Pd, i veti ed i consigli sui ministeri-chiave (quello dell’Economia innanzitutto) ed alcuni no ricevuti dal suo mondo, sono lì a dimostrarlo. Un “politico romano”, avrebbe considerato tutto questo prevedibile e normale, a fronte della posta in palio (la nascita di un nuovo governo): per Renzi, abituato
a fare e disfare a Firenze a suo piacimento, invece non è così.
E invece, qualche giorno di lavoro in più prima del varo di governo e programma, potrebbe esser assai utile al premier incaricato per far quadrare il cerchio e soprattutto rispondere in maniera convincente all’interrogativo di fondo che aleggia negativamente sul suo tentativo: e cioè, perchè con la stessa maggioranza e quasi gli stessi ministri Renzi dovrebbe riuscire dove non è riuscito Letta? La domanda non è oziosa, naturalmente: e le primissime risposte squadra e programma condizioneranno in maniera decisiva un giudizio che, poi, sarà assai difficile rimuovere...
Non è che Matteo Renzi tutto questo non lo sappia: ma certo si aspettava qualche difficoltà in meno nel lavoro che lo attendeva. Non aveva messo nel conto, per esempio, alcuni “no” a scendere in campo al suo fianco arrivati da vere e proprie “icone” dell’universo renziano (da Andrea Guerra ad Alessandro Baricco); è forse stato troppo ottimista circa il sì di altre personalità che avrebbero dato (darebbero) lustro alla sua compagine, come Lucrezia Reichlin e Montezemolo; ed ha forse sottovalutato la complessità della trattativa con Alfano, che dal programma alle alleanze, fino (e soprattutto) ai ministeri, pone al premier incaricato un problema ogni mezz’ora...
Ma così è: e l’esperienza dice che entrare nel cosiddetto pantano è semplicissimo, mentre uscirne è un’altra storia... E’ oggi, insomma, in queste ore, che non bisogna sbagliare mossa. E quanto ai tempi, gli uomini a lui più vicini consigliano prudenza e ottimismo: due mesi fa, il sindaco non era ancora nemmeno segretario. Ci ha messo un amen a liquidare Letta: ora prenda il tempo necessario per dimostrare, a chi è scettico e turbato, che non è stato un errore, che l’operazione aveva un senso e che la “rivoluzione” annunciata, come promesso, arriverà...

Il Sole 17.2.14
La partenza e i dubbi
Quattro nodi da chiarire
di Stefano Folli


Stamane comincia dunque l'era di Matteo Renzi. Se sarà lunga o effimera, destinata a cambiare l'Italia o a risolversi in un mero gioco di potere, non lo sappiamo. Quel che sappiamo è che Giorgio Napolitano non metterà vincoli temporali al giovane incaricato, non gli chiederà di affrettarsi per essere fedele al suo personaggio "veni, vidi, vici". Gli chiederà semmai di lavorare intorno a pochi ma essenziali punti di programma, in modo da costruirvi intorno una cornice politica credibile, senza farsi risucchiare nella famosa palude. Quella palude che Renzi vede come pericolo, ma che ora è costretto ad attraversare.
In ogni caso non ci sono ostacoli insuperabili sulla via del sindaco, tali da bloccare la sua ascesa; però ce ne sono abbastanza per determinare il profilo del governo e il suo spessore politico. Perché quando l'incaricato tornerà al Quirinale con la lista dei ministri, forse tra mercoledì e giovedì, non è detto che sarà riuscito a sciogliere tutti i nodi. Alcuni potrebbero essere stati solo accantonati o aggirati, con quel tanto di ambiguità che finora è l'impronta della fase politica in cui stiamo entrando.
Proviamo a riassumere i punti in attesa di chiarimento.
1) Il primo riguarda, come è ormai noto, il rapporto con Alfano e il suo partito di centro. È questione tipica di ogni trattativa. Il governo è fondato su una coalizione, la stessa a cui si era affidato Enrico Letta. Renzi talvolta ragiona come se si preparasse a guidare un monocolore, un governo a forte «vocazione maggioritaria». Ma non è così e quindi non ha molto senso gridare «nessuno mi metterà le briglie...». Se il Nuovo Centrodestra sarà decisivo a Palazzo Madama, dato il sistema bicamerale che non è stato ancora riformato, difficile rispondere «no» alle richieste di Alfano, specie se riguarderanno tre ministeri di peso.
2) C'è tuttavia un "non detto" nella posizione di Alfano, testimoniata dal duro scambio polemico fra lui e Berlusconi nelle ultime ore. È come se i centristi temessero un legame di potere sotterraneo ma tenace fra Renzi e il capo di Forza Italia. Un legame di cui si conosce la punta (l'accordo sulla legge elettorale e sul "pacchetto" delle riforme costituzionali), ma non il resto. E che potrebbe anche contenere qualche risvolto scomodo: per esempio la volontà di dare una mano a Renzi in Parlamento, in vista di rendere meno cruciale o addirittura ininfluente la posizione degli alfaniani. Se n'è scritto e sono arrivate le smentite. Se qualcuno ci ha pensato, è arduo credere che il progetto sia oggi in grado di andare in porto. È vero tuttavia che esiste una zona grigia. Da un lato la "maggioranza per le riforme" sottoscritta da Renzi con Berlusconi; dall'altro la "maggioranza per il governo" che esclude Berlusconi e ha in Renzi il nuovo punto di riferimento. I due piani tendono a incrociarsi e l'esito non è del tutto prevedibile.
3) La legge elettorale. È essenziale per dare senso al rinnovamento, ma si lega al complesso delle riforme, fra cui quella molto importante che ridefinisce i compiti del Senato. Per Renzi il modello maggioritario equivale ad avere alla cintura una pistola carica, perché potrebbe minacciare lo scioglimento delle Camere di fronte alle difficoltà quotidiane. Viceversa oggi la pistola è scarica perché elezioni fatte con il proporzionale imposto dalla Corte Costituzionale sarebbero un fallimento proprio del progetto Renzi.
4) Le priorità. È evidente che il governo Renzi dovrà darsi come obiettivo prioritario la ripresa della crescita economica. Ma dovrà collocarla, almeno in partenza, nel quadro europeo e nei vincoli che ne derivano. Riuscire a conciliare i due aspetti sarà la prova di maturità del nuovo premier e il segno del suo governo. Della legge elettorale potrà occuparsi il Parlamento, ma sulla politica economica dovrà impegnarsi il presidente del Consiglio senza intermediari. Ecco perché la scelta del responsabile di via XX Settembre è la più qualificante.

Corriere 17.2.14
Due terzi degli italiani: scelta Renzi incomprensibile
di Nando Pagnoncelli

LA TABELLA QUI

l’Unità 17.2.14
Liberate il Pd dalla gabbia
di Claudio Sardo


Liberate il Pd dalle gabbie che si è costruito. Perché così può morire. Le primarie sono un’opportunità democratica, non una condanna. Ciò che è accaduto ieri lascia attoniti e apre un’altra ferita: quegli stessi circoli, presi d’assalto due mesi fa nel giorno delle primarie per il segretario nazionale, offrivano vuoti desolanti per l’elezione dei segretari regionali.
Ma non solo. Gli eroici volontari su cui poggia l’intera macchina organizzativa erano preoccupati e arrabbiati: è mai possibile che il vertice del Pd cambi di colpo rotta sul governo nazionale, senza coinvolgere il partito in una discussione, anzi senza neppure parlare con linguaggio di verità, e al povero partito venga invece imposta una fatica collettiva tanto inutile quanto insensata?
Perché i segretari regionali del Pd devono essere eletti da primarie aperte? A che logica risponde questa regola, visto che si può ricorrere alle primarie anche per la scelta del candidato- presidente alla Regione? È così grande la sfiducia del Pd verso i propri iscritti da privarli persino di questo potere? Il Pd, purtroppo, ha uno statuto strampalato e sostanzialmente inservibile: lo dimostra il fatto che, ad ogni passaggio di rilievo, è necessario apportare modifiche altrimenti si rischia la paralisi o la scissione. Ma ormai l’alibi non vale più. Se non è emendabile, come temiamo, lo si getti nel cestino e se ne faccia un altro. Al più presto. Gli iscritti non possono essere mortificati in questo modo. Continuando su questa strada, presto non ci saranno più i volontari per tenere aperte le urne delle primarie.
Gli organi regionali, provinciali, cittadini non possono non essere rimessi al confronto e alle decisioni degli iscritti. Certo, si deve operare per allargare questa comunità, per rompere barriere, per avvicinare il numero degli iscritti a quello degli elettori delle primarie meglio riuscite: ma la pre-condizione è dare senso alla tessera di partito. Se è il Pd che la svaluta, come può il cittadino apprezzarla? Le primarie sono nate per costruire uno spazio democratico più grande e hanno creato attorno al Pd un’area di interesse, di simpatia, che nei momenti importanti è diventata partecipazione attiva. Ma le primarie devono essere legate a una politica, e a scelte comprensibili. Le primarie da sole non ne saranno mai il surrogato. Soprattutto il Pd non può diventare una fabbrica di primarie. La ripetizione meccanica è autolesionismo. In Piemonte ieri si è votato per il segretario regionale e c’è il rischio che le primarie si ripetano a breve per il candidato-presidente alla Regione. Nessuno sembra avere dubbi su Sergio Chiamparino, ma qualcuno spinge al fine di ipotecare una quota di potere. Ecco, questo sarebbe un suicidio. Se il Pd e il centrosinistra sono convinti di Chiamparino e del suo programma, evitino le primarie come supplizio. Altrimenti, quando ci saranno le secondarie, tanti elettori esausti manderanno il centrosinistra a quel paese.
Alle primarie vanno rimesse scelte determinate e chiare. In ogni caso, va evitata la loro trasformazione in un concorso di bellezza. Forse le stesse primarie che hanno incoronato Renzi sono all’origine delle incomprensioni oggi diffuse nel popolo del centrosinistra per questo brusco cambio al vertice del governo, dopo che a lungo è stata raccontata tutta un’altra storia. Il Pd aveva bisogno di un congresso che desse corpo e sostanza alla svolta generazionale. Che ancorasse la nuova leadership a un discorso chiaro sulla ricostruzione del Paese. Invece, ha prevalso la logica del volto, del carisma, dell’energia. Tutte questioni importantissime nella società delle comunicazioni. Ma, senza ancoraggi robusti, le leadership personali possono essere indotte a cambiare direzione senza sentirsi in dovere di fornire spiegazioni. Possono supporre che il mandato è soltanto alla persona.
Il Pd deve rimettere le primarie all’interno del suo progetto democratico. Deve farne strumento di apertura e di servizio. Anche di battaglia costituzionale: per l’applicazione, finalmente, dell’articolo 49 sulla democrazia nei partiti. Ma non può il Pd rinchiudere se stesso e la propria anima dentro una sequenza ininterrotta di primarie prive di intelligenza. Non sono una condanna. Sono un atto di libertà. Che può produrre (e infatti ha già prodotto) esiti ottimi ma anche catastrofici. È difficile dimenticare le immagini di ieri, con i militanti che cercavano di convincere amici e passanti a votare e questi che rispondevano con una domanda: perché è stato cambiato Letta con Renzi? A questa domanda i militanti davano risposte più o meno convincenti. Ma il dramma era che loro stessi avrebbero voluto discutere tra loro e con i dirigenti e i parlamentari del Pd. Speriamo che serva da lezione. Del resto, dove c’è stata un’affluenza leggermente maggiore, non è detto che sia una buona notizia: spesso si è trattato di voto organizzato e, se possibile, si tratta ancor più di un tradimento delle primarie. 
È tempo di una riflessione seria, non ideologica. Il governo Renzi, per cambiare davvero il Paese, ha bisogno di un Pd rigenerato e radicato nella società. Se qualcuno pensa che Renzi possa farcela, archiviando il partito che lo ha voluto come leader, si sbaglia di grosso. La solitudine del leader non sarà mai compensata da un richiamo diretto al popolo.

Repubblica 17.2.14
Il Cavaliere: “Il governo? Entro un anno si torna a votare e vinceremo”
di Carmelo Lopapa


VEDRETE che da qui a un anno si vota, Renzi non si fa cuocere lì a lungo. Ma a quel punto la vittoria sarà nostra». Il giorno è già mesto di suo, nella tenuta di Arcore. E solo il pensiero di una rivincita elettorale rianima Silvio Berlusconi in momenti come questo.
È IMPEGNATO con i figli nella commemorazione dell’anniversario della morte di mamma Rosa, sebbene sia caduto il 3 febbraio. Rientrato in tutta fretta la sera prima da Roma apposta, subito dopo le consultazioni al Quirinale.
Così, le sortite di Angelino Alfano dal palco di Fiumicino hanno contribuito a rovinare una giornata piuttosto grigia di suo. I toni usati dall’ex delfino, racconterà nel pomeriggio chi ha parlato col leader, lo hanno sorpreso, ancor più che indispettito. Si aspettava le reazioni astiose dei vari Cicchitto, Lupi, Quagliariello al suo affondo di venerdì da Cagliari, quando aveva bollato gli “ex” come «utili idioti della sinistra». Ma quella del vicepremier no, non se l’aspettava in questi termini. «Sono attonito - è l’espressione usata dal Cavaliere nei commenti a freddo - Non mi sarei mai aspettato che Angelino arrivasse a questo livello di ingratitudine. Ha già dimenticato che deve tutto a me». I benefici concessi li aveva elencati con la memoria intinta nel veleno l’altro giorno dalla Sardegna: «Era stato fatto ministro della Giustizia a 38 anni, segretario del partito a 40, ministro dell'Interno a 42». Berlusconi dà una sua spiegazione ai dirigenti di Forza Italia che lo hanno chiamato per raccoglierne gli sfoghi ed esprimere solidarietà. «Alfano ormai è un pugile suonato, contrattacca così perché si è parecchio indebolito - è il ragionamento fatto coi suoi - rischia di restare schiacciato tra Renzi e me, lo ha capito, è nervoso».
Non è la prima volta che il leader si abbandona a considerazioni del genere nel salotto di casa, a Villa San Martino come a Palazzo Grazioli. La svolta è maturata venerdì, appunto, quando l’accusa di alto tradimento è stata portata sul palco di un comizio, tagliando il sottile filo che teneva uniti i vertici di Forza Italia e Nuovo centrodestra. Ora davvero la prospettiva di un’alleanza elettorale, pur di là da venire, è ridotta al lumicino. Ora davvero l’unico obiettivo di Berlusconi è spianare i «traditori» già alle Europee del 25 maggio, impedire con tutti i mezzi che il Ncd superi la soglia fatale del 4 per cento. Il passaggio di Alfano che più lo ha irritato è quel «ci siamo rotti le scatole di sentire sempre le stesse cose» riferito alle campagne contro «l’oppressione fiscale e quella giudiziaria». Campagne nelle quali il ministro dell’Interno, ricordano ad Arcore, si era distinto «con convinzione». Ma ora è tutto cambiato, è tutto finito.
Berlusconi resterà in Brianza anche oggi, consueti breafing del lunedì con i vertici delle aziende. Il rientro a Roma è previsto non prima di domani. Sta alla finestra, per ora, osserva le mosse del premier incaricato. E continua a predicare cautela ai suoi. «Nessun attacco personale a Matteo Renzi - è la linea - Non è escluso che sosterremo alcuni provvedimenti utili, del resto lo abbiamo fatto anche con il primo governo Prodi». Avrebbe fatto ieri anche un esempio concreto. «Io ragiono con la testa di un imprenditore, se mi presenta la cancellazione dell’Irap, volete che non gliela voti? Prima di tutto gli interessi dei nostri elettori e del Paese». Tanto il giro di giostra, ne è convinto, non durerà a lungo. Il Cavaliere pensa che, a maggior ragione dopo le riforme, Renzi vorrà passare all’incasso e liberarsi di Alfano con elezioni a breve. E lì medita di consumare la sua vendetta. Fosse pure da leader non candidato, vincolato come sarà alla pena accessoria, magari per portare alla vittoria la figlia Marina.

Repubblica 17.2.14
Dalla Pascale al falco Minzolini gli azzurri innamorati di Matteo
La Calabria: “Con lui cade la logica del muro contro muro”. Le aperture di credito di Confalonieri e Ferrara
di C. L.


ROMA - Nei cerchi di Forza Italia, più ci si avvicina al centro, cioè a Berlusconi, più si incontrano infatuati, innamorati, se non ammaliati dalla figura di Matteo Renzi. Gente pronta a scommettere su una mano del partito, se saranno sfornati provvedimenti interessanti. Del resto è notorio quale sia il pensiero, la stima del capo. E quale sia la linea dettata in questi ultimi giorni dai direttori delle testate amiche.
Sul Foglio di sabato Giuliano Ferrara scriveva: «Il rinnovamento promette di manifestarsi con un trentenne che ha esordito con Mike Bongiorno, che è politicamente un self made man, che non ha paura delle giacche di Fonzie, di Briatore e della De Filippi, che ha detto più volte quanto gli stiano sulle scatole gli atteggiamenti pregiudiziali di chi considera il Cav un arcinemico». Mentre il direttore del Giornale Alessandro Sallustisi sbilanciava: «Gli servono voti veri in Parlamento che nessuno dei sui padrini può dargli. L’amico Berlusconi i voti li ha eccome e sono certo che in caso di necessità ne farà buon uso». Così, nelle ore dell’incarico che segnano l’avvio dell’era Renzi, è difficile imbattersi in un dirigente di San Lorenzo in Lucina pronto a sparare a zero. C’è chi, come Daniela Santanché, resta in guardia: «I metodi sono surreali, speriamo almeno rispetti i patti sulle riforme ». Detto questo, «siamo a un passaggio epocale, Renzi non è più nemico ma avversario». Denis Verdini preferisce restare nell’ombra, lui con il sindaco ha un rapporto collaudato che è stato alla base del patto sulle riforme. I sospetti su una disponibilità dei suoi uomini al Senato, il forzista fiorentino le ha bollate come «bischerate ». Si vedrà tra qualche mese. Alla vecchia guardia appartiene anche Giancarlo Galan, convinto invece che «nelle ultime ore il futuro premier abbia perso buona parte della sua immagine innovativa: in noi troverà sponda solo per alcune limitate proposte». Poi sarà opposizione «senza sconti», per dirla con l’eurodeputato Licia Ronzulli: «Lascia pensare il suo atteggiamento spregiudicato, il suo Pd ha già messo in ginocchio il Paese con le sue contraddizioni».
Al netto delle eccezioni, si registrano le più ampie aperture di credito, anche le più insospettabili. Basta sentire Fedele Confalonieri, intervistato ieri dal Qn, sostenere che «l’incontro di Renzi con Berlusconi può essere un segnale di pacificazione per fare quelle riforme che rilancino finalmente il Paese». È l’auspicio maturato ad Arcore. Nessuno ha dimenticato che quella sera dell’8 dicembre, mentre il sindaco di Firenze brindava alle primarie Pd, il suo telefonino squillava ed era Silvio Berlusconi, affiancato dalla fidanzata Francesca Pascale, dalla deputata Annagrazia Calabria e dalla senatrice Maria Rosaria Rossiche facevano scattare l’applauso e un “bravo” in coro dal ristorante romano nel quale cenavano. Aria da «apertura di credito» come dice la senatrice Annamaria
Bernini «ma con giudizio: la presa della Bastiglia così rapida lascia da pensare. Speriamo rispetti almeno la parola data sulle riforme ». Su quelle, per Daniele Capezzone, «sarà collaborazione piena, mentre sul governo saremo all’opposizione, ma ci avviamo a essere un paese normale». Ma sarà anche tempo per un nuovo galateo, a sentire Augusto Minzolini.
«Renzi parla in modo molto sobrio, dovremo abituarci a usare quel linguaggio. E se abbassa le tasse, non potremo non appoggiarlo, ma come potrà governare con Formigoni e Giovanardi chi ha rottamato D’Alema e Veltroni? » Di certo, chiarisce la vicecapogruppo alla Camera Mariastella Gelmini, «non avremo pregiudizi nei suoi confronti, ecco, opposizione responsabile, ma senza sconti». Insomma, non tutti si sono abbandonati alla sindrome da innamoramento come quella che ha folgorato la coppia Sandro Bondi/Manuela Repetti. Il consigliere politico Giovanni Toti ieri dalla Annunziata precisava che «questo governo Fi lo contesta nel metodo e nel merito».

Corriere 17.2.14
Rossella: questo Renzi accende le speranze
«Io, berlusconiano, lo trovo formidabile
L’ho visto sabato in tribuna È competente, potrebbe fare l’allenatore»
intervista di Fabrizio Roncone


«Matteo Renzi? Oh, beh, personaggio formidabile: un magnifico incrocio tra...».
Tra chi?
«Tra Pico della Mirandola e...».
E?
«E Niccolò Machiavelli».
Sicuro?
«Sicurissimo!».
Non le viene il sospetto di avere leggermente esagerato?
«No, macché! Ci pensi bene: Matteo ha quell’intelligenza acuta e sottile e anche un po’ spregiudicata che era propria di Machiavelli. E poi ha pure quel dono di natura della memoria, quella capacità di ricordare subito tutto e tutti che lo rende simile a Pico della Mirandola...».
(È nota la passione di Carlo Rossella per i potenti, nuovi e vecchi: «Alta società» è il titolo della celebre rubrica che tiene sul «Foglio». Un berlusconiano devoto, frequentatore delle serate di Arcore, un amante del bello, del lusso, gran viaggiatore, 71 anni. Ha diretto quotidiani, settimanali, tigì; adesso è presidente di Medusa, casa di produzione e distribuzione cinematografica di Mediaset ).
L’altra sera s’era sparsa la voce che Renzi l’avesse convocata a Palazzo Vecchio per chiederle un parere sul nuovo governo.
«Una fesseria, un corto circuito. Io me ne stavo a spasso con il mio amico Diego Della Valle in piazza della Signoria quando ci hanno sorpreso alcuni giornalisti. Un cronista ha frainteso, ha immaginato che... In realtà io Renzi l’ho incontrato solo dopo, allo stadio, in tribuna. E anche lì...».
Rossella, anche lì cosa?
«Uno spettacolo. Ce l’avevo seduto dietro. E non ha idea di quanto sia competente, Renzi».
Ci sono milioni di italiani competenti in materia di calcio.
«Sì sì, certo... ma lui, mi creda, potrebbe fare l’allenatore».
Senta, Rossella: ma perché voi berlusconiani siete tutti così entusiasti di Renzi? Non vi basta più il Cavaliere?
«Ah, no, perbacco, non dica questo! Io sono e resto berlusconiano. Certo però questo Renzi accende le speranze. E non c’è niente di male a dire che sì, sembra davvero avere tutte le carte in regola per aiutare questo Paese a uscire dalla palude della crisi...».
In più, forse, si può anche dire che ha restituito a Berlusconi, condannato in via definitiva, un ruolo centrale sulla scena della politica.
«Non ha fatto altro che riconoscerne la leadership. Un atto giusto, dovuto».
Da quanto tempo conosce Renzi?
«Ora le racconto. La nostra conoscenza risale ai tempi in cui io ero direttore di Panorama . Beh, una mattina la mia segreteria mi avverte: c’è il presidente della Provincia di Firenze in linea. Io me lo faccio passare, e lui, veloce, sicuro: “Direttore, posso chiederle un appuntamento? Vorrei conoscerla e farmi conoscere”».
Continui.
«Il giorno dell’appuntamento arriva, ci chiudiamo nella mia stanza e parliamo per un’ora. Quando è uscito, ricordo di essermi detto: ma questo è un fenomeno! Pensi che ero così sorpreso da quel ragazzo, che ordinai subito al mio caporedattore di fargli fare una bella intervista, che naturalmente poi impaginai con tutti gli onori...».

l’Unità 17.2.14
In cinquemila a Ponte Galeria: «Chiudete quel Cie»
Grande folla alla manifestazione per chiedere la serrata del centro di indentificazione di Roma
di F.M.Y


«Chiudere i Cie». Dietro questa rivendicazione circa 5.000 persone si sono radunate sabato scorso a Ponte Galeria per una manifestazione indetta dai movimenti per il diritto all’abitare e dalla rete delle associazioni antirazziste romane. In coincidenza con la manifestazione presso il centro romano, un altro presidio delle organizzazioni anti-razziste è avvenuto in Sicilia per sollecitare le autorità alla chiusura del mega-Cara di Mineo, il più grande centro di non accoglienza d’Europa.
A Roma sabato pomeriggio erano presenti i movimenti, una maggioranza di migranti, alcuni con bambini e famiglie, mamme tunisine con in mano le foto dei ragazzi dispersi (e a chi lo Stato italiano non ha ancora dato una risposta), LasciateCIEntrare, e altri associazioni.
Dietro lo striscione «nessuno uomo è illegale», il corteo partito da Parco Leonardo è riuscito a raggiungere il Centro di identificazione ed espulsione e quasi a circondarlo nonostante le imponenti forze di polizia disposte per bloccarne l’accesso. Con momenti di tensioni, lancio di oggetti e un vero e proprio assalto alla reti del centro di cui una parte sono state abbattute al grido di «Libertà », «Tutti liberi». Il corteo si è sciolto sul piazzale, dopo aver lanciato in aria lanterne rosse per farsi vedere dai detenuti, ancora circa 70, oltre le immense grate che circondano il campo di detenzione.
La protesta è stata indetta in coincidenza all’avvicinarsi del rimpatrio forzato dei13 protagonisti nordafricani della «protesta delle bocche cucite » di dicembre scorso, già denunciato il 14 febbraio dal Garante dei detenuti del Lazio Angiolo Marroni.
Proprio la mattina della manifestazione erano stati espulsi altri due ragazzi di 26 anni verso il Marocco, uno dei quali aveva solo partecipato alla protesta. Cioè se dentro ti ribelli, osi denunciare le indegne condizioni in cui sei recluso e l’illegalità di questa detenzione, la risposta delle autorità è: rimpatrio coatto immediato.
Con collaterale violazione del diritto d’asilo, senza verifica dello statuto giuridico di queste persone; ovvero, se sono rifugiati politici e rischiano persecuzioni, tortura e persino la morte, a seguito del rimpatrio coatto nel paese di origine.
In realtà, lo sgretolamento del sistema Cie - cinque sono rimasti aperti ad oggi a fronte degli 13 esistenti - è in corso da mesi, che hanno visto ripetersi numerosi eventi di ribellioni interne - dai migranti stessi, con l’estrema forma di protesta delle bocche cucite.
Va anche letto nel contesto di un più ampio movimento della società civile, che dopo la strage di Lampedusa ha ripreso parola (con la fondazione della Carta di Lampedusa) e che giudica inaccettabile l’esistenza dei Cie - la segregazione etnica - nel proprio Paese. Questo evento è solo il primo. Ce ne saranno di altri contro quelli che i manifestanti definiscono come veri e propri «lager di Stato». E che hanno mostrato tutta la loro debolezza.

l’Unità 17.2.14
Caos decreti
Roma rischia le elezioni
di Jolanda Bufalini


È allarme rosso per il decreto salva Roma che, per non decadere, deve essere approvato entro il 28 febbraio. Tempi strettissimi per il provvedimento, che a dicembre fu ritirato a causa delle proteste (e del monito di Napolitano) perché in quel decreto aveva trovato alloggio una miriade di miniprovvedimenti di spesa, un vero assalto alla diligenza che non aveva nulla a che fare con la norma originaria. Se per la seconda volta salta tutto, si aprono scenari veramente inquietanti per i bilanci della Capitale: non solo quello del 2014, ma soprattutto quello del 2013, che Ignazio Marino ha ereditato da Gianni Alemanno. Il Salva Roma non regala soldi ma consente di separare i debiti contratti da Alemanno nella bad company costituita cinque anni fa e che i romani pagano con l’addizionale Irpef. Se saltasse il decreto, tecnicamente il bilancio 2013 non ci sarebbe e sarebbero a rischio di legittimità tutti gli atti compiuti, si produrrebbe una sostanziale ingovernabilità, un caos dagli esiti difficilmente prevedibili.
L’esito di questo scenario da incubo sarebbe il commissariamento, la fine della gestione ordinaria e, non ultimo, un possibile ritorno alle urne a meno di un anno dall’elezione di Ignazio Marino. Tempi stretti e divisioni della maggioranza su un emendamento aggiuntivo, l’emendamento “Acea” presentato da Linda Lazillotta (Scelta civica), congiurano e rendono questa prospettiva drammaticamente plausibile.
L’esponente di Scelta civica ha presentato un emendamento in cui si impone a Roma di privatizzare una parte delle quote di Acea (la multiutility capitolina quotata in borsa) e di liquidare le società che non forniscono servizio pubblico, fra queste, in primis, Zetema, potente società di servizi alla cultura che, dalle biglietterie, si è ampliata fino alla organizzazione di eventi, mostre, alla gestione dei restauri. Tutti sono per riformarla ma senza buttare acqua e bambino, poiché Zetema ha dato maggiore efficienza alla gestione dei musei a Roma. La battaglia si è scatenata soprattutto su Acea e sulla gestione dell’acqua pubblica. I parlamentari romani del Pd, dall’ex capogruppo capitolino Umberto Marroni all’ex segretario romano Marco Miccoli, si sono ribellati all’ipotesi di privatizzazione, il sindaco Marino si è assicurato su questo il sostegno del M5S. La norma Lanzillotta, sostengono, lede l’autonomia dell’ente locale. C’è anche un emendamento Pd su Acea e, questa volta il Pd sarà compatto, quindi l’emendamento Lanzillotta non ha probabilità di passare. Ma non c’è alcuna certezza che, esaurite le schermaglie sugli emendamenti aggiuntivi, tutte le forze di maggioranza (quindi anche Sc e Ncd) votino la norma originaria. E, al Senato, l’astensione vale come voto contrario. Di qui la preoccupazione del Pd romano, Marco Causi, capogruppo in commissione Finanze alla camera, si è rivolto con un appello a Scelta civica che, fin qui, non ha trovato risposta: «Non cambiare atteggiamento sul Salva- Roma originario perché sarebbe il caos, anche se gli emendamenti aggiuntivi non passassero».
Il decreto va in commissione Bilancio al Senato questo pomeriggio. Dopo il voto in Aula, il testo arriverà in una Camera ingolfata da altri importanti provvedimenti, dal mille proroghe alla legge elettorale. In più, il regolamento della Camera, lascia più spazio di quello del Senato a operazioni di filibustering e l’occasione potrebbe essere ghiotta per i grillini.

l’Unità 17.2.14
Firenze, Nardella sindaco e Giani sottosegretario a Roma
Siglato il patto del bignè
di O. Sab.


Dal «patto della crostata» al «patto del bignè». Il secondo, sicuramente non avrà peso nella storia italiana, ma sicuramente lo avrà nella storia fiorentina. Perché quella che sarebbe potuta diventare una vicenda politica, che avrebbe potuto spaccare il renzismo a Firenze con il dualismo fra Dario Nardella e Eugenio Giani nella corsa alla massima carica di Palazzo Vecchio, è stata stoppata dallo stesso Matteo Renzi, pronto a diventare premier, riuscendo a mettere d’accordo i due sulla sua successione davanti ad un buffet nell’area vip dello stadio Franchi nell’intervallo della partita di sabato sera fra la Fiorentine e l’Inter. È successo tutto in pochi minuti, ma sono bastati, per far ingoiare a Giani la scelta di Nardella come futuro sindaco di Firenze.
Così mentre i viola perdevano con l’Inter, Renzi invece segnava il suo gol. La tattica del sindaco, quasi premier, non avrà lo stesso fascino del taca la bala di Herrera, ma ha fatto ugualmente centro con la scelta di Nardella come futuro candidato sindaco, convincendo Giani a mollare la presa promettendo gli un posto da sottosegretario allo Sport nel futuro governo. Tutti d’accordo così. E già a inizio settimana Renzi, prima di lasciare la mitica Sala di Clemente VII, nominerà Nardella vicesindaco reggente, aprendogli la strada per i prossimi cinque anni da sindaco. Naturalmente, dovrà vincere le elezioni di maggio, che per molti sono una formalità, ma prima potrebbero esserci le primarie, nel caso dovesse spuntare un competitor della minoranza della sinistra del Pd. Non è detto che succeda.
Nel frattempo però con l’arrivo di Renzi a Palazzo Chigi a Firenze si è messo in moto un effetto domino, che mischierà le carte non solo in Comune. Così con Nardella, vicesindaco reggente, l’attuale vice di Renzi, Stefania Saccardi, diventerà numero due della giunta regionale di Enrico Rosi, mentre Eugenio Giani in attesa di diventare sottosegretario dovrà lasciare lo scranno più alto del consiglio comunale e il consiglio regionale. Non solo. Al posto di Nardella alla Camera andrà la consigliera comunale del Pd Tea Albini, come prima dei non eletti e anche lei dovrà essere sostituita nel Salone dei Duecento. Cambiamenti in vista anche nella giunta di Firenze perché l’assessore Sara Biagiotti è la candidata sindaco di Sesto Fiorentino. Quindi è alle porte anche un rimpasto nel governo fiorentino. Ma nella cordata dei fedelissimi pronti a seguire Renzi potrebberno farne parte il super dirigente dello sviluppo urbano del Comune, Giacomo Parenti e la segretaria generale di Palazzo Vecchio, Antonella Manzione. Ma quest’ultimi però sono solo rumors, che potrebbero rimanere tali.

Corriere 17.2.14
Salvini: la successione al sindaco? Come a Cuba


«Renzi ha una visione molto padronale dell’Italia, della Toscana e di Firenze e le beghe del Pd si ripercuotono sul Paese ormai da tre anni». Così il segretario federale della Lega Nord, Matteo Salvini, che ieri ha manifestato, assieme a un gruppo di leghisti (300 secondo gli organizzatori) in piazza della Signoria a Firenze contro l’euro (foto Ansa) . «I cittadini — ha detto Salvini — sono considerati di serie B, a partire dai fiorentini che avevano un sindaco, forse ne avranno un altro e comunque decide tutto Renzi, manca solo che vada a dare le benedizioni e a distribuire le prime comunioni fuori dalle chiese». «Di solito così funziona a Cuba dove Fidel Castro sceglie il fratello Raoul come successore», ha proseguito il segretario della Lega a chi gli chiedeva un commento sul fatto che Renzi avrebbe già deciso come suo successore a Palazzo Vecchio il deputato del Pd, Dario Nardella. Un’investitura confermata dalle parole che il segretario pd avrebbe pronunciato sabato durante l’intervallo della partita Fiorentina-Inter: «Ora siete nelle sue mani», avrebbe detto parlando con un gruppo di amici e sostenitori, tra i quali era presente lo stesso Nardella, fino ad un anno fa vicesindaco di Firenze ora deputato. Nardella, che è stato in costante contatto in questi giorni con Renzi, avrebbe dato la sua disponibilità al sindaco-segretario. Dati i tempi piuttosto ristretti, per scegliere il candidato sindaco al posto di Renzi non sarebbero previste le primarie. Una scelta che non piacerebbe a Eugenio Giani, presidente del Consiglio comunale e consigliere regionale che non ha mai fatto mistero del suo desiderio di partecipare alle primarie in caso in cui Renzi avesse rinunciato a ripresentarsi a sindaco. Sulle modalità della scelta del candidato critiche anche da Sel, che ha parlato di «un uomo plebiscitario» che nomina «un suo luogotenente. Alla faccia di ogni pratica democratica».

Corriere 17.2.14
Le città italiane ultime per servizi
Ma li fanno pagare molto di più
Dai trasporti ai rifiuti: rincaro reale del 49,2% a fronte del 14,9 europeo
di Sergio Rizzo


Che nei posti in fondo alla classifica europea per qualità dei servizi pubblici locali figuri persino la città di Zurigo è certo una sorpresa per gli svizzeri: ma è una ben magra consolazione per noi italiani.
Dicono i risultati di un’inchiesta della Commissione europea rielaborati dall’ufficio studi della Confartigianato che in quella graduatoria siamo gli ultimissimi. Ultimissimi alla pari con la Grecia. Davanti abbiamo trenta Paesi: tutti gli altri partner dell’Unione europea più Turchia, Islanda, Norvegia e Svizzera. E il fatto ancora più avvilente è che delle 83 città prese in esame per stilare questa graduatoria, Roma occupa la casella, pensate un po’, numero 81. La capitale d’Italia è dunque la peggiore fra tutte le capitali europee per qualità dei servizi locali: trasporti pubblici, pulizia delle strade, rifiuti urbani...
L’inchiesta condotta da Eurobarometro si basa su dati relativi al 2013, anno delle elezioni comunali a Roma, e dà la misura della missione sovrumana che il nuovo sindaco Ignazio Marino ha di fronte a sé. Un compito tuttavia non molto più facile di quello che tocca ai suoi colleghi Luigi de Magistris e Leoluca Orlando, visto che Napoli e Palermo sono ancora più dietro: rispettivamente ottantaduesima e ottantatreesima. Ultime degli ultimi. Non che le nostre città del Nord brillino particolarmente, considerando che Bologna galleggia a metà classifica (posizione numero 39), mentre Verona e Torino non raggiungono nemmeno la mediocrità (rispettivamente ai posti 45 e 52). Ma la differenza fra le aree del Paese, come sottolineano i numeri contenuti nel documento della Confartigianato, è comunque talmente macroscopica da non poter essere trascurata.
Lo spiega con chiarezza il confronto fra il costo sostenuto dalle piccole imprese per smaltimento rifiuti e forniture di elettricità, gas e acqua, e il livello di soddisfazione per la qualità dei servizi pubblici, come misurati da Ref Ricerche per Indis Unioncamere e Istat. A Trento, per esempio, il prezzo è inferiore del 14,8 per cento alla media nazionale mentre l’indice di soddisfazione è superiore del 53,7 per cento. Così a Milano, dove a un costo più basso del 17,5 per cento corrisponde un maggior gradimento del 24,5 per cento rispetto al dato medio italiano. All’opposto troviamo invece Cagliari, dove le tariffe per le piccole imprese sono più alte del 37,8 per cento nonostante un livello di soddisfazione inferiore di ben il 58,4. E Palermo, con prezzi più salati del 17,3 e un gradimento più basso del 55,4 per cento rispetto alla media. E Roma: tariffe più 7,3 e soddisfazione meno 17,6.
Ma è ancora una volta in confronto con l’Europa a mettere in luce quanto queste contraddizioni possano pesare sulle tasche dei cittadini. Negli ultimi dieci anni il costo dei servizi pubblici locali non energetici (le forniture di gas e luce sono fortemente influenzate dai prezzi delle materie prime) è aumentato in Italia del 73,3 per cento, a fronte di un’inflazione del 24,1. Il rincaro reale è stato perciò del 49,2 per cento, quasi tre volte e mezzo la crescita del 14,9 per cento registrata al netto dell’inflazione nei 17 Paesi dell’euro: di cui siamo quindi in larga misura responsabili proprio noi.
Il bello è che nonostante questa progressione impetuosa delle tariffe made in Italy, i risultati di bilancio delle migliaia di aziende pubbliche locali erogatrici di quei servizi non sono certo sfavillanti. Lo studio della Confartigianato mostra che nel 2011 delle 6.151 imprese controllate da Regioni, Province e Comuni soltanto 2.879 (meno della metà) hanno chiuso il bilancio in utile, mentre 1.249 hanno archiviato l’anno in pareggio e le restanti 2.023 hanno presentato conti in rosso. E che rosso: in media un milione 94.768 euro ciascuna, per un totale di due miliardi 225 milioni. Somma tale da azzerare il miliardo e 413 milioni di utili realizzati dalle aziende pubbliche profittevoli (mediamente 490.815 euro ognuna di esse), facendo così gravare sulla collettività una perdita netta di 802 milioni.
Il peso di queste imprese sull’economia nazionale, inoltre, continua a crescere in modo inarrestabile. Nel 2011 la loro spesa consolidata ha raggiunto 65,5 miliardi di euro. È il 4,2 per cento del Prodotto interno lordo, contro il 2,2 per cento del 1998. Con punte vertiginose. Nel Lazio il peso delle imprese pubbliche locali sull’economia regionale è salito in tredici anni dall’1,7 al 4,3 per cento. In Veneto, dall’1,5 al 4,7. In Emilia-Romagna, dal 3 al 6,8 per cento. Nella Provincia autonoma di Trento, dal 4,7 al 10,3. Nella Valle D’Aosta, dal 2,9 al 14,3. Sono dati che spiegano molte cose. Per esempio, la crescita del numero degli addetti, che ha raggiunto quota 212.921: più 7.545 dipendenti soltanto nel 2010, lo stesso anno in cui il personale delle amministrazioni locali si riduceva di 13 mila unità e le imprese controllate dallo Stato ne perdevano 4.830. Per esempio, il fatto che il prezzo di certi servizi, come sostiene ancora la Confartigianato, appaia sempre più sganciato tanto dalla qualità, quanto dalla produttività. Prendiamo il trasporto urbano: il costo per chilometro va da un minimo di 1,48 euro in Umbria fino a 4,42 in Lombardia, 5,16 in Sicilia, 7,14 in Campania e 7,40 nel Lazio, dove la sola municipalizzata romana (Atac) ha quasi 12 mila dipendenti. E sono sempre gli autisti umbri quelli che percorrono più chilometri in un anno: mediamente 54.749. Nel Lazio ogni addetto alla guida ne fa invece 31.543 e in Lombardia 29.629, ma in Campania si scende a 19.170, per toccare il fondo in Sicilia con 17.210. «Nel Mezzogiorno», insiste il rapporto dell’organizzazione degli artigiani, «un autista del servizio di trasporto pubblico urbano ha una percorrenza inferiore del 16,1 per cento alla media nazionale». Ma un guidatore siciliano lavora addirittura un terzo di un suo collega dell’Umbria. Ci si può allora lamentare che neanche un cittadino su quattro, in Sicilia, si dichiari soddisfatto del servizio?

l’Unità 17.2.14
Sardegna, in pochi alle urne. Oggi lo spoglio
di Giuseppe Vittori


Dopo il piccolo balletto di numeri della mattinata, alle sette di sera il dato sull’affluenza sembra quello giusto. Ma certo non è alto. A quell’ora ha votato il 41,02% degli aventi diritto. Dato ovviamente in salita rispetto a quello delle ore 12, quando inizialmente si erano conteggiati 174.476 elettori su 1.480.366, pari all’11,78%: un dato corretto più tardi al rialzo in un 14,5%, dopo l’arrivo dei dati di diversi Comuni che mancavano o che avevano erroneamente caricato lo stesso dato degli elettori con quello dei votanti. In ogni caso un quadro che parla di una affluenza scarsa e comunque non comparabile - in attesa dei numeri definitivi - con quello del 2009 perché in quell’occasione si votò anche di lunedì, mentre in queste consultazioni le urne si sono chiuse alle 22 di ieri sera.
Ed è così che la Sardegna si avvicina all’ora della verità, nelle consultazioni per eleggere il nuovo presidente della Regione e i consiglieri dell’assemblea regionale, che in questa nuova legislatura saranno sessanta e non più, come in passato, ottanta.
Una sfida che si gioca essenzialmente tra il candidato del centrosinistra Francesco Pigliaru - sostenuto da Pd, Sel, Centro democratico, Partito dei sardi, La Base, Rossomori, Sinistra sarda, Upc, Irs, Idv, Verdi e Psi, per un totale di undici liste - e il governatore uscente Ugo Cappelli, che vanta il sostegno di Berlusconi e di sette liste, che vanno da Forza Italia a Udc, Riformatori, Fratelli d’Italia, Partito sardo d’azione, Uds e Zona Franca Randaccio. Una sfida che Pigliaru, docente di economia politica e prorettore all’Università di Cagliari, ha affrontato raccogliendo sempre maggiore favore nel corso di una brevissima campagna elettorale.
Tra i candidati all’incarico di governatore, anche l’ex sindaco di Iglesias ed ex governatore, nonché nome molto legato a Silvio Berlusconi, Mauro Pili, deputato ora iscritto al gruppo misto, che nella corsa sarda ha trovato l’appoggio di una coalizione che raccoglie le liste Unidos, Mauro Poli presidente, Fortza Paris e Soberania. Pier Franco Devias è invece il candidato del Fronte indipendentista unidu, mentre la scrittrice Michela Murgia è sostenuta dalla coalizione Sardegna possibile, in cui si sono riunite Comunidades, Gentes e ProgRes. Gigi Sanna infine, insegnante di latino in pensione, è il candidato del Movimento per la zona franca.
Tra i sei candidati la prima a votare è stata Murgia, l’autrice di Accabadora, che poco prima delle 10 e mezza del mattino era già nella scuola media di via Trieste a Cabras, in provincia di Oristano. Circa 20 minuti dopo Pigliaru ha votato a Cagliari, nel seggio della scuola elementare Satta, in piazza del Carmine. Il governatore uscente Cappellacci ha votato invece poco dopo le 11 alle scuole elementari Randaccio, in via Venezia, nel capoluogo. Con lui anche i suoi due figli, per la prima volta al voto proprio in occasione delle regionali cui si ricandida il padre. Devias, il più giovane tra i candidati, ha votato poco prima di mezzogiorno alla Caletta di Siniscola. Verso l’una invece Sanna si è presentato alle scuole elementari Sacro Cuore di Oristano, accompagnato dalla moglie e da uno dei figli.
NUOVA LEGGE ELETTORALE
Secondo le nuove norme che regolano il voto regionale, la quota di sbarramento per entrare in consiglio è del 10 per cento: questa l’asticella che le coalizioni dovranno superare, mentre le liste che corrono da sole dovranno raggiungere almeno il 5 per cento. La formazione che risulterà vincitrice si aggiudicherà anche il premio di maggioranza, a patto però che raggiunga almeno il 25 per cento dei consensi. In questo caso la coalizione vincitrice avrà 33 consiglieri su 60; nel caso in cui invece si superi il 40 per cento dei consensi la maggioranza salirà fino al 60 per cento.

l’Unità 17.2.14
Quella violenza figlia del vuoto in una società egoista e chiusa
di Andrea Di Consoli


Una volta - erano gli anni 80 - il critico letterario Walter Pedullà disse in tv: «Non è una tragedia: morta una cultura se ne fa sempre un’altra». Qualche giorno fa l’ho incontrato in Calabria e gli ho fatto una domanda.
«Professore, la nostra gloriosa cultura umanistica è morta. Ne vede all’orizzonte una nuova?». Ha scosso il capo amaramente. Per trent’anni, appena dopo il «riflusso» degli anni 80, la cultura dominante che ha sostituito in extremis vecchie ideologie e antiche fedi religiose è stata quella del benessere e del piacere consumistico (l’ideologia della sicurezza individuale). Ora, vacillando quest’ultima sotto i colpi della recessione e della disoccupazione, non rimane altro che la nuda e sperduta vita, l’angoscia della libertà, l’assenza di senso, il magone della solitudine e la fame e la povertà. Morta una cultura non se né fatta un’altra. In che modo leggere, per esempio, i pestaggi ai danni di clochard ed immigrati a Genova e a Ostia? Qualcuno potrebbe trovare rassicurante il movente xenofobo, la lettura consolatoria secondo la quale i balordi hanno agito perché «gli stranieri rubano lavoro agli italiani» (come se gli italiani fossero disposti a raccogliere pomodori a Foggia o arance a Rosarno per 15 euro al giorno). Purtroppo il movente è molto più oscuro e inafferrabile.
In Italia c’è una crisi di senso che nessun dato statistico riesce a rilevare. Per milioni di persone vivere è un’assurdità senza senso, un’angoscia immedicabile, un meccanismo frustrante che genera rabbia e idee deliranti, spesso aggressive (la politica ne è sempre più impregnata). Il disagio psichico dilaga ed è anche questa la ragione per cui sempre più delitti avvengono senza un movente «ragionevole» ma nell’assurdità più spiazzante. Cos’hanno voluto dimostrare gli aggressori di Genova e di Ostia? Niente di niente; il loro atto violento è un non-senso, anche tenuto conto che la violenza - che è sempre orribile - ha spesso una sua logica intrinseca, benché aberrante. Da quale impulso si è agiti quando, nottetempo, si sente l’irrefrenabile istinto di bastonare immigrati che lavorano in un forno (Ostia) oppure clochard che dormono in una tenda raffazzonata (Genova)? Perché umiliare il corpo e la storia di persone sradicate, in difficoltà? Ecco, dunque, i risultati della cinica ideologia del benessere e dell’edonismo individualista, la costante mortificazione del bene, della cultura, delle parole (ormai si parla per slogan e per tweet, ed è morto il fondamento della cultura umanistica: il ragionamento), della gentilezza, della fraternità (frutto della conoscenza dell’uomo, ovvero della sua tremante fragilità), dell’etica del dover-essere migliori (a che serve sforzarsi di essere migliori se tutti non fanno che concentrarsi spietatamente sulle tue cadute e sulle tue mancanze?). Nascerà davvero una nuova cultura sulle ceneri di quella vecchia, che tutti con spregio definiscono «novecentesca»? Oppure dovremo arrenderci a una cultura, chiamiamola pure così, che è fondata su tre cardini («essere giovani», «essere veloci», «essere vincenti»), ovvero a una sorta di turbo-darwinismo sempre meno inclusivo? Il critico d’arte Achille Bonito Oliva sostiene che ruolo del critico sia quello di riprogettare il passato. Essere progressisti, oggi, potrebbe significare essere conservatori? La tolleranza, per esempio, sarà anche un «vecchio» arnese settecentesco, ma funziona meglio di valori «moderni» quali l’impazienza, il non-ascolto, l’anatema facile e l’insulto immediato. E sapete perché il tentativo del bene è preferibile al livellamento istintivo verso il basso? Non per ragioni di morale astratta, ma perché i ragazzi che hanno bastonato clochard e immigrati ora stanno male (ne sono certo), hanno un tarlo che li rode in profondità, stanno rispondendo nel peggior modo possibile a un vuoto di senso diffuso, e che va affrontato con la cultura, la conoscenza della storia e riscoprendo il piacere di costruire cose belle, fosse anche nel cinismo e nell’indifferenza generale. Perché siamo tutti in difficoltà (e spesso disperati), ma il segreto per andare avanti senza abbrutirci in questa lunga crisi di senso è proprio questo: guardarci negli occhi e saziarci, riconoscerci e calmarci reciprocamente con una disperata fraternità. Un gesto fraterno al giorno - moltiplicato per sessanta milioni - comporterebbe la più grande rivoluzione sociale di tutti i tempi.

l’Unità 17.2.14
Mio fratello suicida perché non è stato aiutato
risponde Luigi Cancrini


Mio fratello era laureato in filosofia con 110/110 presso l’Università di Pavia, diplomato in tromba al Conservatorio di Novara e stava frequentando un triennio di specializzazione Jazz presso il conservatorio Giuseppe Verdi di Milano con il prof. Giovanni Falzone. L’anno scorso aveva insegnato musica presso la scuola media Carlo Porta.
Era felice, motivato e gratificato, aveva creato un entusiasmo tale negli allievi che molti di più si erano iscritti per quest’anno ma la cattedra era stata assegnata - con sua grande delusione - dal Provveditorato a un altro con punteggio più alto Soffriva di problemi di ansia, era in cura da circa 8 anni presso un noto psicanalista milanese a cui versava regolarmente quasi un terzo del suo misero stipendio senza mai ricevere una ricevuta fiscale. Accanto alle cure psicoanalitiche lo avevamo spinto a rivolgersi ad una psichiatra per fornirgli un supporto farmacologico contro l’ansia, la psichiatra lo vedeva due/tre volte all’anno e gli aveva prescritto dei medicinali che lui prendeva regolarmente.
A settembre mio fratello, dopo aver appreso che la supplenza non gli è stata confermata comincia a cercare lavoro. All’inizio di novembre compaiono delle manifestazioni persecutorie, che scompaiono a tratti, ma poi ritornano: pensava che la sua attività politica fosse spiata anche attraverso F. B., che si tramasse contro di lui e che qualcuno potesse fargli del male. Erano pensieri che poi lui stesso definiva ridicoli e che attribuiva al suo malessere. Lo psicanalista parla di una crisi passeggera ma non si mette in contatto con la psichiatra. La psichiatra cambia la vecchia terapia e gli prescrive un nuovo medicinale, un antipsicotico. Siamo a circa metà novembre. Il farmaco ha fin da subito un effetto devastante su mio fratello, gli procura un’agitazione enorme: non riesce a stare fermo un secondo, non riesce a leggere, suonare la tromba (la sua vita) neppure a guardare 10 minuti la televisione, deve muoversi in continuazione e alle 8 è costretto ad andare a letto perché non ha forze. Fa presente insieme a mio padre gli effetti (tutti effetti collaterali del farmaco) ma la psichiatra dopo un primo ricorso per una crisi al Pronto Soccorso psichiatrico, in un’importante struttura ospedaliera del Sud di Milano, aumenta la dose prescrivendo un altro farmaco per tranquillizzarlo.
Mio fratello comincia a parlare di eutanasia ed il 27 novembre, trovandosi a casa sua da solo, ingerisce trenta pastiglie di Solian, il suo vecchio farmaco, poi se ne pente e chiama in aiuto mio padre che lo porta in ambulanza al Pronto Soccorso, sempre nella stessa struttura ospedaliera. Lì lo tengono in un lettino in corridoio e gli fanno una soluzione fisiologica, poi lo portano in una stanza in osservazione e suggeriscono un ricovero ma mio fratello si rifiuta di restare in quell’ambiente e la sera torna a casa dei miei genitori.
Torna al C.P.S. ma dal 10 dicembre («Stai meglio! ») gli viene dato un appuntamento dalla psichiatra il 24 dicembre,15 giorni dopo! Mio fratello si suicida il 16 dicembre gettandosi sotto un treno a Locate. Tra il primo tentativo di suicidio - il 27/11 - e il secondo purtroppo riuscito è stato lasciato solo con i miei genitori che si sono presi di cura di lui con tutto l’amore possibile mal’hanno perso di vista solo 20 minuti, necessari però per perderlo per sempre.
Nessuno ha informato mio fratello o la mia famiglia che l’agitazione estrema e il pensiero del suicidio erano effetti collaterali del farmaco - c’è una vasta letteratura in materia - se lo avessero fatto, probabilmente mio fratello non avrebbe pensato di stare peggiorando invece di migliorare, il farmaco andava sospeso immediatamente dopo il primo tentativo di suicidio. La psichiatra ha proposto terapie di gruppo (secondo mio fratello si facevano collanine o si giocava a carte, tutte cose che lo angosciavano!) che hanno ulteriormente agitato e depresso mio fratello, terapie proposte dopo neppure due settimane, non fornendo invece un adeguato supporto individuale a un paziente che a maggior ragione dopo un primo tentativo di suicidio ne aveva diritto e bisogno. Mio fratello si è visto mancare lentamente di tutto quello che aveva, lettura, musica, politica, senza alcun supporto psicologico. Il 17 dicembre, dopo aver appreso della morte di mio fratello, ho chiamato la psichiatra che lo aveva in cura emi è stato detto che era malata, mi ha risposto uno psichiatra che alla notizia si è giustificato dicendo che l’ospedale non ha mezzi sufficienti per seguire tutti i pazienti. Subito dopo la dottoressa ha chiamato i miei genitori dicendo che non se lo aspettava. LETTERA FIRMATA
Pubblicare questa lettera per intero è sembrato a me molto importante. Per una forma di rispetto affettuoso alla testimonianza di uno di noi che non c’è più e alla sua famiglia. Ma per apprendere, soprattutto, dall’esperienza diretta quello che non funziona. Da noi. Nel nostro sistema sanitario, politico e culturale.
Riflettendo prima di tutto, come con garbata fermezza fa la sorella, sul rapporto evidente che c’è fra lo squilibrio emozionale di cui è vittima suo fratello e la perdita della possibilità di portare avanti un’attività di lavoro cui lui si era dedicato con la passione e l’entusiasmo della persona che crede in quello che fa. In termini più generali, perché la disoccupazione giovanile è la vera piaga di questo nostro tempo in Europama in termini più particolari nella nostra scuola di oggi dove il merito (l’aver lavorato bene) non ha nessuna possibilità di incidere sui punteggi di graduatoria che tutto prendono in considerazione tranne questo. Rendendo irrilevanti la passione e la professionalità. Ma riflettendo anche, o soprattutto, sulla profonda inadeguatezza dei servizi pubblici e privati che sono intervenuti in questa difficile situazione. Incapaci, apparentemente, di partire da questo nesso semplice fra i fatti della sua vita ed il suo star male e lontanissimi dunque, dalla sua sofferenza: reale e drammatica. A livello dello psicanalista che non faceva fattura quando si appropriava di «quasi un terzo» del suo stipendio e che si spaventa del suo peggioramento come a livello della psichiatra del servizio pubblico che troppo rapidamente gli prescrive, senza ascoltarlo, un farmaco potente per la sua «pazzia». Senza spiegargliene gli effetti collaterali però e senza rendersi conto di quello che sta davvero accadendo se visitandolo il primo dicembre, dopo un primo tentativo di suicidio, gli chiede di tornare il 24 perché lui «sta meglio» mentre lui muore, suicida, il 16.
Un caso fra i tanti di malasanità? Io penso proprio di sì. Con l’aggravante, però, di una situazione che non desta il clamore dell’appendicite non diagnosticata o dell’infarto rimandato a casa dal Pronto Soccorso perché chiaro è in quei casi, al professionista come al giornalista ed al profano, l’errore che è stato commesso mentre assai meno chiara è, nel caso della malattia mentale, l’oggettività dell’errore che è stato comunque commesso. Confuso nelle remore del pregiudizio e del disprezzo, incerto nelle sue origini e nei suoi sviluppi, il disturbo mentale è oggetto ancora oggi di equivoci spaventosi, infatti, da cui non sarà facile liberarsi con delle risposte di tipo organizzativo e che richiede invece un cambiamento profondo nella cultura e nella professionalità degli operatori se così tranquillamente si continua ad accettare che il servizio pubblico dedichi così poco tempo e tante prescrizioni ad una persona che sta così evidentemente e drammaticamente male. Il diritto ad un ascolto psicoterapeutico dei pazienti più gravi, d’altra parte, è un diritto negato da quasi tutti i servizi.
In Italia ed altrove se quello che non si insegna più (o ancora) nelle università è l’importanza fondamentale della relazione terapeutica e del rapporto personale, profondo e significativo, che si dovrebbe saper stabilire con il paziente se non ci si vuole trasformare in dispensatori di farmaci capaci, nell’illusione alimentata dall’avidità dell’industria, di combattere da soli i sintomi: dalla depressione all’ansia, dalle oscillazioni dell’umore alle psicosi. Permettendo a chi dell’angoscia del suo paziente ha paura di non chiedere nulla sulla situazione attuale e/o sulla storia da cui i sintomi hanno origine ed in cui i sintomi trovano senso. Rendendosi corresponsabili in questo modo, in casi come questo, del suicidio di una persona splendida ma in tanti altri casi di quel gettarsi via, sfiduciato e confuso di tanti giovani, anziani (e bambini!) che tanto potrebbero essere aiutati da una capacità di ascolto e di intervento terapeutico. Di cui avrebbero bisogno. E diritto.

l’Unità 17.2.14
Clochard, cresce il popolo degli invisibili
In tutta Italia sono oltre cinquantamila
di Franca Stella


Se non fosse per l’assalto di Genova, dove un gruppo di persone incappucciate e armate di spranghe e bastoni ha picchiato selvaggiamente quattro di loro lo scorso 31 gennaio, di clochard difficilmente si parlerebbe più. Eppure in Italia i senza fissa dimora sono una realtà considerevole che la crisi economica di questi ultimi anni ha dilatato. Secondo i dati ufficiali, una delle poche associazioni che prova a censirli, nel nostro Paese ce ne sono circa 50mila. Non pochi, rappresentano lo 0,2 per cento della popolazione. La cifra è ufficiale, anche se un po’ vecchiotta, del 2012, ma è garantita dalla prima ricerca dell’Istat sui senza dimora condotta con il Ministero delle politiche sociali, la Caritas Italiana e la Fiopsd, la federazione italiana delle persone senza dimora, che ha descritto anche le cause della povertà estrema. L’istituto di statistica ha scattato la prima fotografia ufficiale degli ultimi della fila distribuendo le schede del censimento in mense e dormitori di 158 comuni italiani.
Dalla rilevazione è emersa emerge che la maggioranza vive nel ricco nord, che a sorpresa la capitale dei senza dimora è diventata Milano con 13mila persone (se ne stimavano 5000), che ha superato Roma (7800 schede contro le 6000 attese) mentre Palermo è terza in questa classifica con oltre 3000 persone.
E proprio nella città siciliana lo scorso 31 gennaio è morto un senza tetto. Bruciato vivo mentre dormiva in una fabbrica dismessa nella zona di Brancaccio a causa di una stufetta allacciata in maniere abusiva alla rete elettrica. L’uomo non era certamente solo. Da anni l’ex fabbrica di mobili di via Pecoraino era diventata il dormitorio di gruppi di senza tetto tra cui una famiglia romena.
Non un caso. La stragrande maggioranza (circa il 60%) dei senza dimora è rappresentato da stranieri mediamente più giovani degli italiani, con titoli di studio più elevati (uno su dieci è laureato) e permanenze inferiori ai sei mesi sulla strada contro i due anni e mezzo della media complessiva. Le cittadinanze più diffuse sono, appunto, la rumena, la marocchina e la tunisina, le etnie più legate al lavoro sommerso, domestico o stagionale in campi e cantieri. Va detto che da questo rapporto non vengono conteggiati irom e che chi sceglie di vivere in strada lo fa quasi esclusivamente per mancanza di alternative. Andare in fondo alla fila non è poi così difficile. Tra le cause più comuni l’assenza o la perdita di una occupazione ma anche la separazione. La conta rileva che il 62% delle persone senza dimora ha infatti perso un lavoro stabile e il 60% si è separato da coniuge e figli. Gli uomini sono quasi la totalità (il 90%) mentre le donne sono in costante crescita (in tutto sono 6200).
Soli e anche fragili. A Napoli, ad esempio, sono 215 i senza fissa dimora morti per strada negli ultimi 16 anni, 22 solo nel periodo che va dal febbraio 2012 al febbraio dello scorso anno. famoso fu il caso del clochard trovato morto per il freddo nel gennaio del 2013 sotto il colonnato della Galleria Umberto, di fronte al Teatro San Carlo, in pieno centro proprio a Napoli. L’uomo, dell’età di 50-60 anni, era avvolto dalle coperte con le quali si riparava la notte come gli agli altri clochard che di solito dormono in Galleria ed è deceduto tra l’indifferenza generale dei passanti.
Intanto a Genova si cercano gli autori del raid. Gli inquirenti stanno guardando anche altri filmati.

Il Sole 17.2.14
Beni culturali
L'arte di non riuscire a spendere
A fine 2013 nei bilanci delle soprintendenze disponibili 600 milioni
di Antonello Cherchi


Si sperava di trovare una soluzione con la riorganizzazione del ministero. Invece l'ennesima riforma dei Beni culturali, fatta oggetto del fuoco incrociato di critiche, è ora più che mai appesa a un filo. E così l'annosa questione dei soldi non spesi dalle soprintendenze e dagli altri istituti di cultura resta lì, sintomo del male profondo di un dicastero spesso sotto i riflettori internazionali perché afflitto da inefficienze da troppa burocrazia, dalle carenze di personale tecnico e – non sembri un paradosso – dai continui tagli ai finanziamenti.
Ed è proprio perché i bilanci sono sempre più risicati che saltano agli occhi i 406 milioni di euro che le soprintendenze non sono riuscite a spendere a fine 2013. Importo che a fine dello scorso mese si è assottigliato di 4 milioni di euro. Cifra a cui va aggiunta quella risultante dai bilanci delle strutture dotate di autonomia contabile – i poli museali e altri istituti –, che a fine dello scorso anno ammontava a 212 milioni (importo che a fine gennaio è sceso a 210 milioni).
Insomma, oltre 600 milioni di euro ancora da spendere. I tecnicismi contabili impongono di fare una precisazione: non si tratta di risorse in cassa pronte per essere investite, ma di soldi già impegnati. Che però si trascinano di anno in anno per via, da una parte, della particolarità dei lavori che i Beni culturali mettono in campo (si pensi ai restauri) che richiedono tempistiche dilatate (e le imprese vengono saldate a cantiere chiuso), ma anche a causa delle lungaggini burocratiche a cui il ministero non è in grado di far fronte. L'insieme dei due elementi fa sì che da anni i bilanci delle soprintendenze chiudano con ingenti disponibilità finanziarie. Nell'anno appena passato i soldi "in cassa" rappresentavano il 60,5% delle entrate: nelle soprintendenze ordinarie – ovvero quelle (e sono la stragrande maggioranza) prive di autonomia finanziaria – a fronte di 671 milioni di risorse, le uscite sono state poco più di 260 milioni. Lasciando, appunto, più di 400 milioni da scrivere in blu nei bilanci.
L'unica consolazione è che le disponibilità in questi anni si sono ridotte: agli inizi del Duemila avevano raggiunto il miliardo di euro. Dopodiché si sono, seppure in maniera altalenante, via via ridimensionate. Ma il dato non può essere letto solo come una recuperata efficienza dei Beni culturali. A voler essere generosi, si può chiamare in causa anche tale elemento. La verità, però, sta nella drastica riduzione dei soldi da spendere: negli ultimi cinque anni c'è stato un taglio del 60% delle risorse da dedicare alla tutela del patrimonio. Dunque, molti meno soldi in entrata e, di conseguenza, saldi di fine anno più contenuti.
A conti fatti, pertanto, il problema dell'incapacità di spesa del ministero rimane tutto. Incapacità che – va ribadito – deve essere riferita a soldi già impegnati. «Alla base di tutto ci può essere il problema – spiega Enzo Feliciani, segretario nazionale della Uil-Beni culturali – di soprintendenze poco organizzate od organizzate male. Ma è, in particolare, alla carenza di personale tecnico che vanno imputati avanzi contabili milionari. Mancano alcune professionalità: quelle tecniche, in grado di recarsi nei cantieri per farli procedere speditamente, e soprattutto quelle amministrative, capaci di predisporre bandi di gara a prova di contenzioso e di seguire tutte le altri fasi che un appalto pubblico comporta».
A lasciare in cassa molti denari sono soprattutto le soprintendenze regionali, con in cima quella dell'Abruzzo (dove ci sono da spendere anche i soldi per la ricostruzione post-terremoto), che ha chiuso il 2013 con una disponibilità di oltre 62 milioni, ovvero il 73% delle entrate. A ridosso dell'Abruzzo c'è la soprintendenza regionale del Lazio, che può contare su 58 milioni, cioè il 66% di quanto ricevuto l'anno scorso. Staccate dalle prime due, ma pur sempre con somme consistenti ancora da spendere, risultano la soprintendenza regionale della Campania e quella dell'Emilia Romagna, rispettivamente con 23 e quasi 22 milioni, ovvero l'84 e il 61% delle risorse incamerate nel 2013. Poco più sotto la soprintendenza regionale del Veneto, con 17 milioni di euro non spesi (il 65% delle entrate).
Al top della classifica dei singoli istituti si colloca, invece, la soprintendenza per i beni paesaggistici di Firenze, che a fine anno aveva in cassa 8,4 milioni, ovvero il 72% delle entrate. Poco sotto, la soprintendenza per il paesaggio di Torino, con quasi 6,8 milioni (58% delle risorse ottenute) e di presso, con 5 milioni non spesi (il 70% delle entrate), la soprintendenza paesaggistica di Potenza.
Se, invece, si mettono sotto la lente gli istituti dotati di autonomia contabile, l'80% delle disponibilità finanziarie è in capo a tre strutture: la soprintendenza archeologica di Roma, che a fine 2013 aveva iscritto in bilancio più di 99 milioni di avanzi, la sopritendenza di Napoli e Pompei (i cui confini sono stati di recente rivisti dalla legge Valore cultura) con 54 milioni ancora da spendere e il polo museale fiorentino, che si è ritrovato una dote di 25 milioni.
C'è di che preoccuparsi. Soprattutto se si pensa che ci sono 105 milioni extra – in gran parte provenienti dalla Ue – da spendere per Pompei entro dicembre 2015. Non sono concessi appelli: in caso di ritardo, quei soldi si perdono. Per quanto sia stata creata una corsia preferenziale – ancora, però, in via di realizzazione – con questo quadro è difficile indulgere all'ottimismo.

La Stampa 17.2.14
Sarajevo, rabbia e fame “Centomila morti per finire in mano ai ladri”
Fra i giovani musulmani che si ribellano alla nomenklatura corrotta
“Siamo tutti senza lavoro e loro si fanno le ville con i soldi degli arabi”
di Domenico Quirico


«Perché perdiamo tempo? Andiamo a bruciare le ville…». Mithad ha il cappuccio in testa e il fosforo negli occhi. E quando li sbarra, quegli occhi! Paiono rubati a un gatto selvatico. Ventisei anni, nessun lavoro. Non ha né padre né madre.
La mamma, «l’ho ammazzata io nascendo…». Il padre se l’è mangiato la guerra contro i serbi, anni Novanta. Mithad: sanculotto bosniacco, ha gettato le molotov che hanno bruciato i Palazzi, rovesciato gli arredi dalle finestre del Potere. Sono quelli come lui che, in passato, hanno raso al suolo la Bastiglia, scardinato il Palazzo d’inverno, incendiato piazza Tahrir. Teppisti? Forse. Ma ci vogliono loro per fare le rivoluzioni, non gli educatini che intervista la Bbc. Solo la loro violenza può dare nerbo alle sommosse blande e un po’ parolaie come questa Maidan bosniacca.
«Dai! Andiamo a bruciarle, le ville. I ladri se la ridono dei vostri coretti». E ha negli occhi un brutto luccicore di fame, si vede bene che per lui questi giorni, dopo la fiammata violenta, di agitazioni e chiacchiere febbrili, sogni acri, dubbi, sconforti, sono tempo perduto. Non lo ascoltano, gli altri giovani restano a scandire slogan davanti alla presidenza ormai vuota. Alle ville, a Pljane, il quartiere degli oligarchi e dei padroni, a cui finora solo in effigie è stata annunciata tempesta e punizione, lo seguiamo solo noi.
Bisogna salir sulla montagna, fuori città, dove i boschi avvolgono le case ben separate l’una dall’altra e l’aria è fresca e leggera, non sudicia di smog come quella di Sarajevo. Un isolamento perfetto dal mondo, impregnato di quiete e di un dolce resinoso silenzio. «Questo prima della guerra era un quartiere di contadini, serbi miserabili, non c’era nemmeno l’acqua corrente. Adesso guarda che roba!». Il terreno prima della guerra costava 1000 marchi al metro quadro, oggi 5000. L’acqua è arrivata e non solo quella. Dopo le balze pettinate del campo da golf la strada sale ripida; telecamere di controllo spuntano da cancellate e siepi, le ville restano quasi nascoste agli sguardi in fondo alle ampie tenute, a fitti boschetti di pini dai tronchi color bronzo e dalle alte chiome frondose. Sì, hai ragione Mithad: quella è vita. Auto della polizia sfilano per le stradine e ci lanciano sguardi sospettosi. Dalle siepi arrivano latrati furenti di cani, non certo gli umili bastardi che si trascinano, a centinaia, per le strade di Sarajevo tramortiti dalla fame. 
La gente che abita qui ce l’aveva raccontata Goran Markovic professore di Diritto alla università di Banja Luka, la capitale della repubblica Sprska: «In parte sono persone che prima della guerra apparteneva al lumpenproletariat, rozze, povere… hanno fatto soldi con i profitti di guerra. Altri erano già nella nomenklatura e ne hanno approfittato per privatizzare le imprese e far denaro. E poi ci sono i politici: senza ideologia, che hanno cambiato bandiera mille volte e hanno fondato partiti fantoccio per continuare a fare affari e dominare. Un sistema marcio, che non è possibile riformare». 
Mithad si eccita: «Quella è la casa del figlio di Izebegovic, l’ex presidente della guerra, che traffica con gli arabi e fa milioni a palate… e quella appartiene ad Al Shaidi, il magnate che fa costruire la grande torre di vetro in centro… ecco dove son finiti i nostri soldi! Bruciare, bruciare!». Stringe i denti come un soldato sotto i ferri, nel sorriso si mescolano odio e supplica, si vede che gli manca la molotov annichilatrice. Sarajevo si stende sotto di noi. Ovunque a perdita d’occhio, tra le case, le macchie grigie: i cimiteri. Divisi anche qui musulmani e cristiani: dal colore, più chiare le lapidi dei primi, più scure quelle degli altri. Esse hanno visto, esse sanno. Bisognerebbe esser ciechi per non vederli, i fantasmi che ci stanno intorno, un mondo invisibile e popolato: centomila morti. La storia segreta scritta su quelle lapidi è indecifrabile per i non iniziati. Eppure è necessario che quei morti muoiano nei cuori, si cancellino dalla memoria; la polvere di quell’odio non è ancora il nulla e deve essere dispersa per ricominciare: insieme bosniacchi, serbi, croati.
Questa rivolta è l’ultima occasione. La prossima volta Mithad e i suoi amici avranno il tabarro islamista e le bandiere nere del Jihad. Sì, l’islamismo avanza, impregna la società bosniaca con i soldi arabi. Come mi racconta lo storico Slobodan Soja, ex ambasciatore a Parigi e al Cairo, «serbo fedele alla Bosnia». «Ho una casa vicino alla capitale, un tempo villaggio di serbi… sono rimasto, io, gli altri fuggiti. Nelle loro case si sono installati i bosniacchi, musulmani scampati a Srebrenica. I miei vicini sono diventati i miglior amici: mangiavamo e bevevamo insieme, controllavano la casa quando non c’ero, gente splendida, gentile. Poi il capo famiglia, in miseria, disoccupato da anni, ha cominciato a ritirare gli aiuti in denaro che arrivano dai Paesi arabi: si è fatto crescere la barba, accorciato i pantaloni, ha velato la moglie. Mi evita, chiedo spiegazioni… ”sai, scusami ma devo mantenere l’apparenza di islamista, se no i soldi non arrivano più… tu sei serbo, cristiano... devo campare…”».
La locanda balcanica come questa, sulla via per Pale, la «balkanska krcma», è più che un luogo fisico, un luogo per bere e mangiare: è uno spazio della mente, il pensiero che si sviluppa. Dove nascono l’opinione pubblica, le leggende, dove si critica, ci si sfoga, si può esser cattivi, grossolani, implacabili, tutto tipico di una società senza vita politica che cresce dal basso, dove i partiti non rappresentano niente, solo gusci vuoti.
Sanja è bionda e arrabbiata: «Sono triste, abbiamo bruciato bei palazzi, documenti antichi che sono roba nostra. Così tornerà la guerra. Io non lo sopporterei: mi uccido se torna la guerra…». 
La rimbecca, aspro, Mujo, sindacalista ormai senza fabbrica, fallita: «Ma sei diventata una di quelle signore di Sarajevo, le madame sempre ben vestite, con la puzza sotto il naso, che mandano a studiare i figli in Inghilterra? Povera Sarajevo qui, povera Sarajevo là, i bei tempi, i palazzi: chi se ne frega dei palazzi! Evviva! finalmente abbiamo compiuto un gesto di santa violenza, abbiamo spezzato il tabù, la paura, con cui i ladri e i politici ci hanno tenuto al guinzaglio per venti anni».
Nella caffetteria dell’università si riunisce il primo Plenum della capitale, copia dell’assemblea popolare inventata a Tuzla: trecento persone, schiacciate l’una all’altra, nel piccolo spazio; gli altri fuori alla pioggia, ad ascoltare. Si affanna il tipo al tavolo della presidenza, testa rotondetta, gira lo sguardo attorno, sembra cercare gli amici e soprattutto i nemici acquattati in lontananze transoceaniche: «Calma, calma… tutti avranno il microfono… dite nome e cognome e quel che volete... in breve».
 Tutti scaricano la loro bile e le loro smanie segrete, urlano con la fretta di chi ha i giorni contati.
«Sono un pensionato, ex elicotterista… cacciare i ladri, non c’è altro da fare…». 
Applausi.
«Una sola richiesta: fuori dai piedi il governo federale non li vogliamo più vedere…».
Applausi da uragano.
«Vietare le importazioni di prodotti non necessari...».
«Bisogna fissare lo stipendio massimo a 1500 marchi bosniaci compresi quelli dei direttori...». 
«Sono d’accordo… ma forse è meglio il tetto di tremila…». 
L’uomo al tavolo della presidenza sembra un mago abbandonato dagli spiriti: snocciola parole aride tentando infiammarsi e di infiammare: «Così non va bene, ordine ordine... sappiamo che ci sono degli infiltrati delle spie, ma le scoveremo… mettete per iscritto quello che volete e lo metteremo nel documento finale». Alla fine sbotta un fiacco isterismo, in sala si urla. Il «presidente» sembra chiedersi: ma cosa sto dicendo? 
«I parlamentari lavorino gratis fino alle elezioni...».
«Sono un ex comandate della difesa di Sarajevo…»: la sua frase è carnosa, importante. Scende il silenzio, rispettoso. «Nominiamo un presidente permanente del Plenum… io sono disponibile…».
Un boato di fischi lo sommerge. 
Ragazzi si baciano indifferenti in mezzo a pensionati che scrivono le petizioni. Ci sono studentesse alte e dritte, la luce dalle finestre le prende con una violenza di incendio, le prende tra i capelli, le vive su dalla gola, i begli occhi si aprono come fiori: sono felici, una tenerezza sale loro dall’anima in quella furente ora ove le cose vibrano come note: eccoci siamo noi, i giovani, i rivoluzionari, tutti uniti in un blocco, amici anche se non ci conosciamo. Tutti d’accordo, tutti per la stessa causa, quel che si dice gli edificatori di un mondo nuovo, per una volta per la prima volta. Ed è per questo che ognuno di noi è tre volte più forte.

La Stampa 17.2.14
“Stop alla strage in Siria
o l’umanità non può dirsi intelligente”
Il fisico britannico: vedere i bambini che muoiono senza aiutarli è un abominio
di Stephen Hawking

qui

Corriere 17.2.14
Il gran rifiuto dell'israeliana Noa
Non vuole il premio per non riceverlo insieme a collega di estrema destra
di Antonio Ferrari

un video qui

l’Unità 17.2.14
Come muoversi in un’Ucraina divisa a metà
di Federica Mogherini


LA CRISI UCRAINA SI PRESTA FACILMENTE A DIVERSE LETTURE. SONO STATA A KIEV QUALCHE GIORNO FA, INSIEME AD UNA DELEGAZIONE DELLA NATO, e ne ho tratto la certezza che ognuna ha un suo fondamento di verità, e che nessuna da sola spiega la realtà. Una realtà molto più complessa di quanto non siamo stati in grado di capire, fin qui.
Si può vedere la rivoluzione di un popolo ansioso di futuro e di occidente, che occupa le piazze e i palazzi di un potere corrotto e venato di autoritarismo. Si possono vedere i passamontagna, le mimetiche e le armi con cui attivisti di estrema destra «difendono » quelle occupazioni dalle forze di polizia. Il Paese è diviso a metà come una mela: l’occidente e l’oriente; chi guarda a Washington e a Bruxelles, e chi a Mosca; chi farebbe di tutto per porre fine alla presidenza di Yanukovich, e chi invece continua a sostenerlo. I sondaggi lo danno ancora al primo posto per popolarità, e i cittadini ucraini, interrogati sull’orientamento strategico del proprio Paese, si dividono equamente tra occidente e Russia. A rendere più complesso un quadro già troppo intricato, si sovrappone alle dinamiche interne - di pura lotta per la conquista e la conservazione del potere - una partita internazionale che, con il ritorno di Putin al ruolo-chiave della Federazione Russa, si è fatta più tesa. Sullo scacchiere ucraino si sta giocando una partita molto più grande: Kiev è per Mosca non solo un tassello fondamentale del progetto di unione doganale centro-asiatica in corso di realizzazione (da qui la necessità per l’Ucraina di «scegliere » tra questo percorso e l’integrazione economica con l’Ue), ma è forse soprattutto l’occasione per affermare la propria egemonia politica sulla regione, anche in una logica di «confronto» con gli Stati Uniti o l’Unione Europea.
Ora, di fronte a un’Ucraina profondamente divisa, armata in modo diffuso, in condizioni economiche disperate, e che molti analisti interni non esitano a definire già in uno stato di «guerra civile non conclamata », l’unica strada che la comunità internazionale e i suoi attori più razionali (a partire dalla Ue) possono provare a percorrere è quella della mediazione: far fermare le violenze (da entrambe le parti); sostenere il dialogo tra le diverse istanze politiche (che formalmente è in corso); evitare che la diffusione di armi arrivi a punti di non ritorno; garantire percorsi trasparenti di gestione della giustizia, e che i responsabili degli atti di violenza ne rispondano. Evitare che la guerra civile diventi conclamata. Non accettare lo schema della contrapposizione. L’unico modo per poterlo fare - in modo efficace e credibile, e coltivando qualche speranza di riuscita in una situazione estremamente complessa - è chiamare la Russia a svolgere un ruolo di responsabilità, nella ricerca di una soluzione della crisi.
Non è detto né che la Russia sia pronta a farlo, né che la Ue si mostri capace di percorrere questa strada. Certamente, la via che più ci allontanerebbe da un ruolo di mediazione è quella di sostenere una delle metà del Paese che si stanno confrontando. Saranno gli ucraini a decidere del loro Paese, e del loro futuro. Quello che noi europei possiamo fare è fermare la corsa al confronto armato, e facilitare invece condizioni di confronto pacifico e democratico. Sono in molti, oggi, in Ucraina, a pensare che l’unica via di uscita siano le armi, o una divisione non necessariamente consensuale del Paese. Potremmo pentirci presto di non aver capito fino in fondo la complessità della crisi di Kiev.

La Stampa 17.2.14
L’eredità coloniale
I Caraibi fanno causa a Londra “Ci paghi i danni della schiavitù”
di Alessandra Rizzo


LONDRA La Giamaica e altri tredici Paesi dei Caraibi hanno deciso di far causa alla Gran Bretagna e ad altre ex potenze coloniali europee per chiedere un risarcimento per la tratta degli schiavi nell’oceano Atlantico. Secondo il «Sunday Telegraph», nelle prossime settimane sarà presentata una lista di dieci richieste, tra cui un indennizzo miliardario e una dichiarazione di scuse ufficiali. Tra i destinatari anche Francia e Olanda. «Se si commettono crimini contro l’umanità, bisogna fare ammenda», ha dichiarato Verene Shepherd, capo del comitato giamaicano per le riparazioni. «I colonizzatori britannici ha detto al quotidiano inglese hanno deturpato i Caraibi».
Dalla metà del 1700, i mercanti britannici mandarono più di tre milioni di schiavi dall’Africa occidentale alle Americhe. In Giamaica molti erano impiegati nelle piantagioni di canna da zucchero, fruttando agli inglesi l’equi-
Uno schiavo in una litografia dell’800
valente di milioni di sterline che furono impiegati per finanziare la costruzione di infrastrutture e altri progetti nella madre patria. In seguito a numerose rivolte (tra cui quelle guidate da Sam Sharpe, eroe nazionale giamaicano), il parlamento britannico votò per l’abolizione della schiavitù in tutto l’impero nel 1833. Gli schiavi furono affrancati e
cominciarono a essere retribuiti per il lavoro svolto nelle piantagioni, ma nè a loro nè ai discendenti nell’ex colonia, divenuta indipendente nel 1962, è mai arrivato alcun risarcimento.
La causa è stata affidata allo studio legale londinese Leigh Day, che spera di poterla presentare l’anno prossimo presso la Corte di Giustizia Internazionale dell’Aia. Lo studio ha già ottenuto da Londra 20 milioni di sterline per i keniani torturati dai britannici nella ribellione Mau Mau degli Anni 50. Ma si prospetta una battaglia dura: gli esperti di diritto internazionale fanno notare che, per quanto oggi susciti orrore, la tratta degli schiavi all’epoca era legale. Il governo per ora non commenta. Nel 2007 l’ex premier Tony Blair parlò di «dolore e rimorso» per la sofferenza causata dal commercio degli schiavi. E il sottosegretario agli Esteri Mark Simmonds, durante una visita in Giamaica nel novembre scorso, ha definito la schiavitù «ripugnante», ma ha escluso risarcimenti.

Repubblica 17.2.14
Ecco perché sono una preda
Noi donne che in India non ci sentiamo più sicure
di Anita Nair


BANGALORE. Era una notte fredda di gennaio. Mi trovavo in Rajasthan per un festival letterario e la serata era ancora animata di scrittori, editori, agenti e invitati. Chi faceva cerchio attorno ai falò, chi in piedi sorseggiava whisky. Tante conversazioni, tante risate. Ero stanca, anche se erano solo le dieci appena passate, e mi defilai dalla festa a bordo piscina, avviandomi verso la hall. Alloggiavo nello stesso albergo. Un uomo giovane e alto si staccò dall’ombra e prese a camminare assieme a me. «È una scrittrice?», mi chiese.
«Sì», risposi osservando che portava il tesserino del festival. «E lei?». «Io sono venuto con mia nonna», disse facendo il nome di un personaggio politico importante. «Spero che il festival le piaccia. Buona notte! », dissi proseguendo per la mia strada.
Invece di capire l’antifona, adeguò il passo al mio. Se mi fermavo a parlare con qualcuno si fermava anche lui. Iniziai a sentirmi a disagio. In più, l’atrio dell’albergo brulicava di invitati a un matrimonio. Uomini, donne e bambini in ghingheri si accalcavano attorno alla sposa mentre il fotografo scattava.
Era impossibile arrivare alla porta dell’hotel e dovetti attendere fuori. Il giovane rifiutava di staccarsi dal mio fianco. Mi voltai decisa dall’altra parte, fingendo di ignorarlo. «È sola?», mi chiese.
«No, sono con amici», dissi sperando di indurlo ad andarsene.
«Volevo dire se è single». Lo guardai perplessa. «Sono sposata. E ho un figlio quasi della tua età».
Neanche questo parve scoraggiarlo perché le sue parole dopo furono: «Vuole che la accompagni alla sua camera?».
Rimasi di stucco. Non era la prima volta in vita mia che ricevevo delle avance. Mai, però, in forma così sfacciata o con tanta naturalezza. Forse durante la serata il giovane mi aveva vista assieme a un gruppo di autori e giornalisti, in maggioranza uomini. Si beveva, chiacchierava, rideva… dovevo essergli sembrata una donna facile.
«No grazie», risposi a denti stretti. «Conosco la strada».
Riuscii a entrare nella hall sperando di essergli sfuggita. Mi accorsi invece che mi aveva seguita e mi ronzava attorno minaccioso come una vespa. Mi lasciai cadere su un divano in attesa che se ne andasse. Se era di quella città non avrebbe certo alloggiato in hotel, mi dicevo.
Nel mio mondo mi sono sempre sentita al sicuro con gli uomini che lo popolano. Anche con perfetti sconosciuti, anche quando ti fanno una corte imbarazzante o sono sbronzi. In qualche modo sono sicura che capiranno che un no è un no. E che non sconfineranno nella molestia o peggio, nella violenza sessuale. Ma per la prima volta in vita mia ero intimorita.
L’atrio dell’albergo stava riempiendosi di altri invitati al matrimonio e pensai che il mio molestatore infine se ne fosse andato. Agli ascensori, mentre aspettavo, lo vidi di nuovo. Mi si era messo accanto in attesa di salire con me. Non poteva o non voleva accettare il mio no.
Per un attimo mi chiesi se non fosse il caso di rivolgermi alla ricezione dell’albergo. Mi trattenni all’idea di una scenata. Inoltre, proprio questo mi terrorizzava, lui avrebbe potuto voltar faccia, dire che era ospite dell’hotel e darmi della paranoica. Poteva fare un caso dell’episodio, trasformarlo in qualcosa di diverso, dato soprattutto il suo peso politico, se davvero la nonna era il personaggio che aveva menzionato. Di nuovo, perla prima volta nella mia vita, mi sentii impotente, vulnerabile e completamente disorientata. Che faccio, pensavo mentre il display segnalava l’arrivo dell’ascensore un piano dopo l’altro, 7, 6, 5, 4… Non sapevo proprio come reagire.
Sono cresciuta a forza di proverbi a sfondo sessuale sulla fragilità della donna, “Che sia la spina a cadere sulla foglia o la foglia sulla spina è la foglia che si buca”. “Non si può lasciare il cotone accanto alla fiamma. Il cotone si Mi chiedevo che razza di menti avessero concepito quei pensieri.
Per essere una nazione repressa, sotto molti aspetti sembra che noi indiani non riusciamo a smettere di pensare al sesso. Proprio ieri ho ricevuto un tweet di commento alle scene di sesso nel mio ultimo romanzo, senza un riferimento a tutto il resto. 1.000 parole, a quanto pare, hanno la meglio sulle altre centomila. È paradossale.
C’è un versetto della Manusmriti che dice (2/215): «I saggi dovrebbero evitare di stare da soli con la propria madre, la propria figlia o sorella. Poiché il desiderio carnale è forte e può indurre in tentazione». Si tratta di un testo da sempre rispettato come i “doveri” del dharma o della propria responsabilità morale, e ha avuto una profonda influenza, seppur indiretta, sulla popolazione indiana. La nostra mentalità è stata improntata ai suoi principi. Mi sconvolge leggervi che un uomo possa non essere in grado di dominarsi neppure se si tratta di sua sorella o di sua figlia. Ma quello che mi spaventa è il sottinteso: una donna non è mai al sicuro.
Oltre al resto - le limitazioni alla sua identità socio-economica - la donna indiana deve affrontare anche minacce legate al sesso. Mio figlio nell’ambito degli studi del suo corso di laurea magistrale ha partecipato a una campagna contro le molestie sessuali. Una sera è rientrato a casa sconvolto dalle reazioni di un gruppo di diciottenni maschi ai quali aveva tenuto un seminario. Uno dei ragazzi pensava che fosse del tutto accettabile fischiare dietro a una donna se indossava un “abito rivelatore”: leggi un abito attillato con una scollatura appena pronunciata. Un altro aveva detto che una donna che va in giro da sola alle dieci si sera è in cerca di guai. Alla domanda sul perché, aveva risposto che era un comportamento contrario alla tradizione indiana e che perciò la donna trasmetteva segnali sbagliati. Ai ragazzi era stato poi chiesto se un abbigliamento come quello di una delle volontarie, jeans e canottiera, provocasse allo stupro. Uno di loro aveva risposto quasi con nonchalance di sì. Mio figlio era orripilato. «Questa è Bangalore, mamma. Che sta succedendo?».
Anche se si trattava di reazioni estreme di un piccolo gruppo di giovani, non posso non pensare che questi concetti esistano nei meandri della loro mente. Quali influssi hanno piantato questi se brucerà”.mi? Chi sono le persone che continuano a coltivare questi pensieri invece di sradicarli? È da questo che bisogna guardarsi. È questo che aveva innescato la situazione in cui mi trovavo.
Mentre l’ascensore si avvicinava al piano terra e mi chiedevo se non fosse il caso di tornare nell’atrio e aspettare, vidi due donne che conoscevo. Una era a capo di una casa editrice femminista, l’altra una poetessa.
Di nuovo per la prima volta nella vita mi avvicinai a qualcuno mormorando «Fatemi un piacere, accompagnatemi in stanza».
L’editrice capì. «Qual è?», chiese sotto voce.
«Quello alto con la giacca blu», dissi.
Quando arrivò l’ascensore, entrammo tutti in silenzio. L’editrice attese che schiacciassi il bottone del mio piano. «Andiamo in stanza di Anita», annunciò a voce alta rivolta alla poetessa. Il giovane mi guardò per un momento e spinse il bottone dell’ultimo piano. Sapevo che non c’erano stanze lassù ma solo un ristorante che a quell’ora doveva essere chiuso. Non ero io la paranoica, dopotutto.
Mentre le due donne mi accompagnavano alla stanza mi sentii invadere da una strana depressione. Ho viaggiato nella maggior parte del mondo senza pensare troppo a dove stavo andando e alla mia sicurezza. Ho sempre creduto nell’innata bontà delle persone. Ho sempre pensato che non mi sarebbe mai successo nulla perché la gente fondamentalmente è buona - sono solo le circostanze a rendere le persone cattive. Ma forse nella mia ingenuità non mi ero resa conto che ero stata solo fortunata a non aver avuto nessun tragico spiacevole incidente. Questo episodio mi aveva insegnato a stare in guardia. Sempre. Avevo perso l’innocenza.
In India è cambiato poco in termini di “empowerment” delle donne. Esistono maggiori opportunità a livello di istruzione e di carriera. Le donne hanno lottato per la parità. Ma in qualche modo abbiamo dimenticato un aspetto importante. Nessuno ha ritenuto necessario insegnare ai ragazzi e agli uomini che i tempi sono cambiati.
Ai maschi fin dall’infanzia viene promessa la luna anche se la madre sa che è fuori portata. Si soddisfa ogni loro capriccio, ogni loro desiderio. Crescendo diventano uomini convinti che sia loro diritto avere tutto ciò che desiderano. Anche se si tratta di una donna che potrebbe essere loro madre o di una ragazza in compagnia del fidanzato. “No” è una parola che non sanno né capire né afferrare.
Questo significa essere donna in India al giorno d’oggi: possiamo diventare quello che vogliamo lavorando sodo. Possiamo essere a capo di aziende o icone della cultura, possiamo essere epitomi di potere o di dignità. Possiamo andare sulla luna o definirci superdonne, ma nella realtà di una mascolinità distorta nulla conta. Perché nel momento in cui usciamo dai nostri spazi siamo costrette a ricordarci che siamo donne. Dimenticarlo equivale a renderci prede.
Ed è questo che mi distrugge. (Traduzione di Emilia Benghi)

Repubblica 17.2.14
Il male sociale che affligge il Paese della pace
di John Lloyd


NEW DELHI. L’India si prepara alle elezioni generali in primavera: il Congress Party al governo - il partito di Gandhi e Nehru - arranca nei sondaggi. La coalizione all’opposizione guidata da Narendra Modi, premier del Gujarat e candidato primo ministro per il partito Bharatiya Janata (Bjp), è saldamente in testa. Poiché il Bjp punta sul nazionalismo hindu, il Congress cerca di rubargli la parte, indossando i panni del partito che si erge a difesa della nazione. Direttamente e indirettamente, sono molti a farne le spese: l’Italia con il caso dei due marò e il contratto rescisso con Agusta Westland e con Vodafone; l’America con lo scandalo della diplomatica indiana perquisita a New York.
Ma ci sono anche altri segnali, non sempre legati alle pressioni del governo. Per esempio il libro della studiosa indologa americana Wendy Doniger, ha attirato un profluvio tale di minacce contro l’autrice da indurre l’editore Penguin a ritirare.
Tutto ciò fa seguito alla campagna hindu del leader Dinanath Batra contro quel che egli definisce “le distorsioni” sull’induismo. Sull’altro versante dello spartiacque religioso, nel 2012 a Salman Rushdie è stato negato di parlare al Festival della letteratura di Jaipur in seguito alle minacce dei gruppi musulmani.
Questo trend ha l’avallo dei vertici della politica indiana: nel 2010 Sonia Gandhi, leader del Congress, ha cercato di fermare la pubblicazione di una sua biografia non autorizzata di Javier Moro, intitolata Il sari rosso, dopo che alcuni attivisti hanno protestato che «l’immagine dei leader nazionali non dovrebbe mai essere macchiata».
Eppure è l’immagine stessa dell’India che ora cambia nel mondo. Un Paese, che per decenni è stato il faro splendente della rivoluzione pacifica di Gandhi e dell’abbraccio di Nehru allo sviluppo nel mondo post-imperiale, ora fa più spesso notizia coi suoi problemi e le patologie sociali. Lo stupro di una giovane in un autobus a Delhi l’anno scorso, la sua morte in seguito alle sadiche violenze, ha gettato luce sull’uso diffuso dello stupro inteso - nelle parole della scrittrice Arundhati Roy, «uno strumento di dominio da parte delle caste superiori, la polizia e l’esercito». Ha portato in primo piano anche il trattamento tuttora discriminante delle donne nella vita quotidiana e sui luoghi di lavoro, assieme al profondo divario fra le caste, soprattutto nelle zone rurali ancora immiserite.
Gli accessi di nazionalismo, avallati dal Congress o dai potenti movimenti nazionalisti hindu, avvengono sullo sfondo di una crescita economica indebolita e della crescente insoddisfazione verso il Congress. La forza del partito al governo maschera, tuttavia, una fragilità di fondo. Il Congress è una creazione di Jawarlahal Nehru, discepolo del Mahatma Gandhi, fondatore di una dinastia politica. La figlia, Indira Gandhi, allevata e preparata a governare, gli subentrò. Dopo il suo assassinio nel 1984, le succedette il figlio Rajiv, assassinato a sua volta nel 1991. La moglie di quest’ultimo, Sonia Maino, nata in provincia di Vicenza, è diventata dopo l’omicidio del marito presidente del Congress. Oggi suo figlio Rahul è candidato all’incarico di premier. Il cognome Gandhi conserva ancora il suo potere (così crede il partito) in un Paese nel quale la famiglia ha raggiunto uno status semidivino. Ma Rahul è un candidato riluttante: è comprensibile che il destino di suo padre e di sua nonna gli pesi.
Negli ambienti politici di Nuova Delhi si dice che la dinastia Gandhi-Nehru sia ormai a corto di principi e principesse in grado di governare: alcuni credono addirittura che dopo quasi settant’anni il Congress abbia perso il suo status morale e non riesca a trovare un proprio ruolo ideologico. Nehru era tutto integrità. Il socialismo che egli abbracciò resta qualcosa di prezioso nell’animo di molti rappresentanti del Congress, malgrado la retorica sul libero mercato abbracciata con riluttanza.
Manmohan Singh, premier uscente, è un illustre economista orientato al mercato: all’inizio del mandato ha garantito una liberalizzazione che ha innescato una forte crescita, ma che ha pesato moltissimo su decine di milioni di poveri contadini. Frenato nel secondo mandato, il Congress non è parso né radicale né riformista: non può abbracciare il socialismo col fervore d’un tempo, e ha perso l’entusiasmo per la deregulation e le soluzioni del libero mercato.
Perciò, ora punta sul nazionalismo, sfidando il Bjp che ha già una forte impronta nazionalista. Ne fa le spese l’immagine dell’India, del Paese dedito alla pace, con una politica estera meno ambiziosa rispetto alle sue dimensioni (presto sarà la nazione più popolosa al mondo). E l’Italia, e il resto del mondo, si ritrovano lungo il percorso di questa valanga travolgente. (Traduzione di Anna Bissanti)

Corriere 17.2.14
Il Mandarino e le sue donne
La caduta del superpoliziotto
L’ex capo dei servizi cinesi usava la tv come harem
di Guido Santevecchi


PECHINO — C’è una legge non scritta ma sacra lasciata in eredità dal saggio Deng Xiaoping: nessun membro o ex membro del Comitato permanente del Politburo può essere sottoposto a processi. Ma ora in Cina è in corso un’inchiesta per corruzione che segna uno strappo con la regola che garantiva un patto di non aggressione al vertice del potere. L’imputato si chiama Zhou Yongkang, 71 anni, fino al 2012 capo della polizia e dei servizi segreti.
Niente è sicuro, perché le autorità tacciono. L’ultima immagine ufficiale di Zhou risale al novembre 2012: sedeva accanto a Xi Jinping nella sessione che nominò il nuovo segretario generale del Partito comunista. Zhou sussurrava qualcosa e Xi si chinava leggermente per ascoltare. Poi su Zhou è calato il sipario della pensione per limiti di età.
Ma presto sono cominciate a girare notizie sui blog cinesi e sulla stampa di Hong Kong: l’uomo che per dieci anni aveva controllato l’immenso apparato della sicurezza era finito sotto inchiesta «per violazione della disciplina del partito». Espressione fumosa che sta per «corruzione». Uno alla volta sono stati arrestati una serie di dignitari, alti dirigenti di industrie statali e politici che facevano parte della sua corte. Anche il figlio Zhou Bin è finito in carcere.
E ora sul dossier di indiscrezioni e fughe di notizie più o meno pilotate si accendono le luci rosa di avventure extraconiugali e quelle gialle di un presunto delitto. Almeno cinque presentatrici, giornaliste e dirigenti della televisione di Stato sarebbero state interrogate sulle relazioni con Zhou. Da tempo si diceva che l’ex capo dei servizi, capelli impomatati e nerissimi nonostante i 71 anni, fosse stato un maschio dalle molte frequentazioni. Aveva sposato in seconde nozze una reporter della Cctv (China Centrat tv) Jia Xiaoye, di 28 anni più giovane. Ma all’interno della redazione, Zhou avrebbe intrattenuto altre amicizie affettuose: con una conduttrice di trasmissioni economiche di 37 anni; una reporter di 36 promossa da corrispondente di provincia a presentatrice delle notizie militari; un’inviata di punta, 41 anni, che commosse la nazione con i suoi reportage dal terremoto del Sichuan nel 2008 ed evidentemente colpì anche l’attempato politico; con la più brillante presentatrice di programmi sportivi, 44 anni. Shen Bing, la giornalista economica, avrebbe ottenuto da Zhou un favore per il marito palazzinaro: è scomparsa dal video da mesi.
Ma c’è un’altra storia inquietante, oltre a quella sul grande palazzo della Cctv usato come riserva di caccia. Zhou sposò la giornalista Jia dopo la morte della prima moglie: la povera donna era rimasta vittima di un incidente stradale nel 2008. E ora è stato rispolverato il sospetto che lo schianto non fosse stato una «tragica fatalità»: alla guida c’era un agente della polizia e accanto a lui una guardia del corpo dei servizi che furono condannati a 10 anni di carcere per guida pericolosa. Ma furono rilasciati per buona condotta dopo un anno e assunti da PetroChina, gigante petrolifero cinese. E guarda caso il compagno Zhou Yongkang aveva cominciato la sua ascesa proprio come dirigente di PetroChina.
L’ex capo dei servizi segreti in disgrazia e la seconda moglie giornalista, secondo molte fonti, sono agli arresti domiciliari a Pechino da dicembre.
Ci sono alcuni punti di contatto tra la vicenda di Zhou e quella di Bo Xilai, l’ex astro nascente del partito comunista condannato all’ergastolo la scorsa estate per abuso di potere e malversazioni. Zhou fino all’ultimo aveva difeso Bo ed entrambi sono stati coinvolti in morti misteriose (la moglie di Bo ha confessato l’uccisione di un inglese che sarebbe stato suo socio ed amante).
A Pechino si dice che Zhou, nonostante i suoi segreti e le sue amicizie, ormai è una tigre senza denti. Tutti aspettano di vedere se Xi Jinping vorrà anche togliere la pelle alla tigre, facendolo processare e rompendo la regola non scritta di Deng.

il Fatto 17.2.14
Il velo che scopre
Le first lady invisibili della Primavera Araba
C’erano una volta le mogli di Atatürk ed Ecevit vestite all’occidentale. Oggi le signore Erdogan e Morsi hanno il velo.
Sempre un passo indietro? Madame Assad è l’icona Vogue
di Francesco Chiamulera


Istanbul. Una fotografia, scattata a fine anni Novanta, che da sola dice molto. Una simbiosi, un legame umano, un’intesa tra anime. Rahsan Ecevit, moglie dell’allora primo ministro turco Bülent Ecevit, che appoggia il capo reclinato sulla spalla di suo marito, come mille altre volte la si era vista fare. Un’intimità pubblica, incisa nella dolcezza dei modi e dei gesti: così, sognante e abbandonata, non ricorda un po’, Rahsan, la donna che Picasso ritrae in Le rêve, il sogno?
Ma l’immagine di Ecevit, donna laica e colta, compagna di un uomo di Stato che padroneggiava il sanscrito, scriveva poesie, traduceva opere di Bernard Lewis e T.S. Eliot, dice anche di un’estetica occidentalizzante che sembra sempre più lontana. C’è un passato e un presente, nell’aspetto pubblico delle first lady dell’Islam. Come certi scatti di Ara Güler, il fotografo turco più conosciuto, l’immagine di Rahsan è un’istantanea di un mondo ormai velato da una patina color seppia. La moglie dell’attuale primo ministro Erdogan, Emine, è infatti la prima da novant’anni a questa parte a portare fieramente l’hijab, il velo che lascia scoperto il viso ma che copre il resto del capo. Segni consistenti della nuova rotta imboccata dal paese da quando l’Akp, il Partito giustizia e sviluppo, ha vinto le elezioni del 2002, portando per la prima volta all’opposizione gli eredi del kemalismo, stretti angosciosamente intorno all’eredità di un leader - Atatürk - che a settant’anni dalla morte è ormai soltanto un simbolo. Guardare, oggi, al modo in cui si conducono le mogli e le compagne dei leader ha un significato tutt’altro che voyeuristico. Perché l’universo femminile di quei paesi trae da loro ispirazione.
PROGRESSO E REGRESSO Non è passata inosservata, ad esempio, la scelta del presidente iraniano Hassan Rohani di far passare molto inosservata... sua moglie. “Who is Iran’s new first lady?”, si chiedeva Radio Free Europe a luglio. Dopo lady Ahmadinejad (il quale, pur tra le celebri intemperanze antisemite, aveva spesso la moglie al fianco), che volto ha la misteriosa consorte del leader che molti giornali occidentali hanno salutato come il “riformista”, il “moderato”, ma che non la porta mai con sé nelle occasioni pubbliche e che l’ha sposata con matrimonio combinato quando lei aveva quattordici anni? La prima foto “leaked” di Sahebeh Arabi Rohani è così comparsa sul web in gennaio: un breve spicchio di volto nel chador. Ma la sua apparizione pubblica si ferma a questi pochi scarni tratti. Anche Naglaa Mahmoud, la moglie del deposto presidente egiziano islamista Mohamed Morsi, indossa il chador: una rottura con la consuetudine delle consorti dei predecessori , vestite all’occidentale. Ha anche rifiutato l’appellativo di “first lady”. “Chiamatemi Umm Ahmed”, ha detto alla stampa: letteralmente, è la madre di Ahmed. La madre di Ahmed è lontana dall’Egitto da rotocalco di qualche decennio fa, quello in cui Fawzia, principessa andata in sposa allo Scià Reza Pahlavi, compariva nel 1942 su una celebre copertina di Life, e poi in una (bellissima) foto dei 1950s, molto glamour con gli occhiali da sole, insieme al compagno di allora. Intanto, in alcuni paesi del Maghreb, dalla tradizione più secolare, le donne del potere continuano a mostrarsi in pubblico abbigliate in modo inequivocabilmente occidentale. Ma ci sono novità. Se la principessa del Marocco Lalla Salma è stata ritratta al fianco di re Mohammed VI con un intento insieme celebrativo e amichevole - la famiglia reale che accudisce i bambini e che veste in modo quasi borghese, in jeans e t-shirt - la nuova coppia presidenziale tunisina è nota per il basso profilo. La moglie del neopresidente Moncef Marzouki, Beatrix Rhein, è molto più sobria di Leila Trabelsi, consorte del predecessore, l’ex dittatore Ben Ali, la quale amava le copertine dei settimanali.
LA DIPLOMAZIA STILE VOGUE Nessun equivoco, e nessun manicheismo, comunque, sul significato infinitamente complesso, spesso sfuggente, della “scelta del velo”. Per quanto l’abitudine di coprirsi sia in crescita presso le élite pubbliche del mondo islamico, è vero che la stampa occidentale, alla ricerca ossessiva di eccezioni e novità, è incorsa in questi anni in incidenti clamorosi. Uno su tutti: nel marzo 2011 un articolo di Vogue incorona con toni a dir poco encomiastici l’eleganza algida, filiforme, di Asma al-Assad, nata Akhras, moglie di Bashar, volitiva first lady siriana. Un ritratto privo di ombre: ha studiato nel Regno Unito, lavorato nella finanza londinese, è quella che gli americani chiamano una “shopaholic”, un’acquirente compulsiva. Ma, soprattutto, è nel mondo arabo la first lady più “moderna” e trendy di sempre. Salvo poi rivelarsi complice, con il marito, delle efferatezze compiute dalle forze governative durante la guerra civile. E cadere con lui in disgrazia su quegli stessi media che prima la salutavano come “una rosa nel deserto”, e che ora ne rivelano le agghiaccianti battute di fronte ai massacri.
EMANCIPAZIONE AL CONTRARIO La situazione è dunque molto complessa, quasi incoglibile nelle sue tante sfumature. Forse, per usare una categoria cara alla psicanalisi, ha a che fare con il “rimosso”. Operando una brusca rottura con secoli di copertura e segregazione del femminile, nella prima metà del Novecento molte società islamiche si volgono allo stile di vita del mondo moderno. Ma il cambiamento è brusco. E, insieme con la segregazione, molti aspetti di privata tolleranza, di affetto familiare, di protezione del femminile, cadono in un colpo. Come racconta Irfan Orga in “Una famiglia turca” (Passigli), pensando alla sua infanzia di privilegiato dell’élite ottomana, a volte il trauma può essere peggiore della continuità. In un caffè di Beyoglu, il quartiere più europeo di Istanbul, davanti alle finestre del Modern Art Museum che si affacciano sul Bosforo, una giovane turca di oggi, Begum, guarda due immagini di Latife Ussaki, la moglie di Atatürk. La prima fotografia la ritrae prima della riforma dell’abbigliamento del 1923, con un hijab che lascia intravedere il volto soltanto. Poi, come per un incantesimo, ecco Latife solo due anni dopo, vestita come una qualsiasi donna europea del tempo. “Questo mi ricorda di una scena che ho vissuto solo qualche anno fa, con mia madre”, dice Begum, che viene da una famiglia laica, ha studiato negli Stati Uniti e lavora presso una grande società turca. “Eravamo in un ufficio. C’era una donna velata. Mia madre, che mi aveva sempre insegnato a diffidare di “loro”, persino a cambiare lato della strada se le avessi incontrate in giro, ci scambiò alcune parole. Uscendo mi disse: ‘sai? Anche se aveva il velo, quella signora era una brava persona’. Ecco, questo doveva cambiare. Doveva venire il momento. Al netto dei suoi errori, il velo esibito dalla moglie di Erdogan ha fatto qualcosa di positivo per i milioni di donne che restavano fuori dagli uffici pubblici, dalle università, dai ristoranti. In un certo senso le ha desegregate”.

il Fatto 17.2.14
Khaled Fouad Allam, uno dei più noti e apprezzati studiosi del mondo arabo. Insegna anche in Italia, all’università di Trieste
“L’Islam della tradizione non era così puritano”
intervista di di Francesco Chiamulera


Nell’Islam di oggi siamo di fronte a una tendenza ideologica di tipo puritano. La mia impressione è che più che di un ritorno alla tradizione si tratti di un’ideologizzazione della tradizione. Qualche anno fa, in Iran, a Isfahan, mi capitò di visitare un bellissimo palazzo che conteneva degli affreschi ottocenteschi. Cosa raffiguravano? Delle donne che facevano un picnic. Vestite con tuniche trasparenti, che lasciavano intravedere i seni. E mentre lo guardavo ero accanto a donne iraniane di oggi, completamente velate. L’idealizzazione del passato porta a costruire dei miti”. Utilizza un concetto hobsbawmiano, quello di invenzione della tradizione, Khaled Fouad Allam.
Tra i massimi esperti del mondo arabo e islamico in Italia, Allam è autore, tra gli altri, di “L’Islam spiegato ai leghisti” (Piemme) e di “Avere vent’anni a Tunisi e al Cairo” (Marsilio), ed è docente di Sociologia del mondo musulmano all’Università di Trieste.
Ideologiche o religiose che siano, ritiene che le scelte di abbigliamento delle donne al potere abbiano un’influenza sul comportamento dei popoli?
“É difficile misurare tale impatto. Di certo il modo di vestirsi delle donne nel mondo arabo e islamico ha una doppia funzione: pedagogica, perché fornisce un modello di comportamento per la società, e simbolica, perché è evidente che se un presidente sposa l’Islam politico, con una certa inclinazione puritana, come nel caso di Erdogan, la moglie ‘sposa’ a sua volta la veste ideologica del marito. Al lato opposto è il caso della famiglia reale giordana: la moglie del re, Rania, che non indossa alcun hijab e ha una visione estremamente aperta, ha una funzione pedagogica ma di tipo emancipatore. In questo caso ‘sposa’ la possibilità che l’Islam possa essere riformato”.
Un quadro estremamente composito. Poi ci sono l’Arabia Saudita, e l’Iran…
“Due casi molto differenti. Nel primo, la donna che fa parte del potere non si vede proprio. Nella famiglia reale saudita è completamente assente. Conosciamo i nomi delle principesse, ma non le vediamo mai. In Iran è un po’ diverso. Nella società iraniana le donne sono piuttosto visibili: in parlamento, nelle università come lettrici... Poi, lo sappiamo, la presidenza è dominata da una gerarchia religiosa che si inquadra in una cultura più puritana”.
In “Arabic Lover”, il suo ultimo libro, lei cita una località marocchina, Ifrane, dove la bellezza delle montagne dell’Atlante si incontra con un’architettura decisamente modernista, tanto che sembra quasi la Svizzera. Il Marocco è portatore di una tradizione più secolare, o semplicemente più subalterna all’Occidente?
“L’occidentalizzazione è stata talmente forte che ha cambiato completamente, anche a livello indiretto, i costumi. Per fare un esempio: oggi a Casablanca si costruisce come a New York, con gli stessi grattacieli e gli stessi appartamenti monovano. E però, accanto a questo, sopravvivono le città antiche. Nel mondo arabo si dice che ogni città ne ha tre al suo interno: quella araba propriamente detta, quella moderna e quella occidentale. Sono, insomma, il frutto di un incontro di culture. Allo stesso modo, quando si parla del modo di vestirsi della famiglia reale marocchina, non dimentichiamo che ci sono vari livelli: la rappresentazione fotografica ‘all’occidentale’, ma anche quella più iconografica, in abiti tradizionali”.
Questo vale anche per le donne comuni?
“Certo. In Marocco accade spesso che la donna vada al lavoro abbigliata all’occidentale, e che, tornata a casa, si vesta in modo tradizionale. Le mura di casa funzionano come una sorta di attraversamento delle frontiere vesti-mentali. Questo accade anche nella mia famiglia, che è un po’ in Algeria e un po’ in Marocco. Ma in fondo non è un fenomeno solo arabo o islamico: prendiamo l’Austria o il Sudtirolo. Là esiste un modo globalizzato di abbigliarsi, ma poi, in determinate occasioni pubbliche o private, ciascuno si sente libero di vestirsi secondo la propria tradizione”.
In Egitto è comparsa nelle strade una grande pubblicità che invita le donne a coprirsi: sono raffigurate come caramelle, e gli uomini come mosche pronte a insidiare la loro purezza. Cosa ne pensa?
“Come ho detto prima, siamo di fronte a un aumento del puritanesimo islamico. Ma che questo puritanesimo corrisponda veramente a ciò che è stata la cultura musulmana nel passato... Ho dei seri dubbi”.

Repubblica 17.2.14
Arendt: Hitler era solo un clown non un demone
Una raccolta di conversazioni inedite tra il 1964 e il ’73
di Nadia Urbinati


«Non ci sono pensieri pericolosi per la semplice ragione che pensare è in se stesso un’impresa pericolosa». Così Hannah Arendt rispondeva a Roger Errera in una delle ultime interviste da lei rilasciate, pochi mesi prima di morire il 4 dicembre del 1973. Una risposta socratica alla domanda del giornalista francese sul “Watergate” (il più pericoloso caso di tentativo tirannico sul suolo americano, secondo Arendt), esempio della trasformazione dell’eccezionalità emergenziale in una pratica ordinaria di arbitrio che nel nome della sicurezza nazionale celava, nascondeva e, soprattutto, spiava ignari cittadini. Una riflessione che torna di grande attualità nel nostro tempo, quando l’autore delle rivelazioni sullo spionaggio americano di milioni di cittadini in tutti i paesi del mondo può meritare il premio Nobel per la pace. The Last Interview and Other Conversations
(Brooklyn e Londra, Melville House) è un piccolo libro prezioso che raccoglie conversazioni, in parte già pubblicate in parte inedite, concesse da Arendt fra il 1964 e appunto il 1973. In uno stile colloquiale, allegro a volte, ironico.
La prima, con Günter Gaus, è forse la più toccante, dedicata alle sue varie dimensioni di estraneità, a cominciare da quella dell’essere stata condannata a vivere senza poter usare la propria lingua, dovendo contare sempre su correttori di stile. Nella prima domanda Gaus le chiede un commento sull’essere «la prima donna» delle conversazioni filosofiche da lui curate, la prima esponente del suo genere a svolgere «un’occupazione veramente maschile», quella della filosofa. La domanda - come percepisce «il suo ruolo nel circolo dei filosofi» così inusuale o peculiare per una donna? - riceve una risposta complessa che non riesce a celare il fastidio di Arendt: «Mi dispiace ma devo protestare. Io non appartengo al circolo dei filosofi. La mia professione, se ha un qualche senso usare questa espressione, è la teoria politica... Circa l’altra questione: lei dice che la filosofia è generalmente pensata come un’occupazione maschile. Ma non deve restare tale! È assolutamente possibile che una donna sia filosofa». Arendt non amava fare del genere un “noi” (non amava nessun “noi”) né pensava che il genere dovesse essere una specificazione del pensiero filosofico. La sua risposta, apparentemente così di buon senso, descrive benissimo il suo atteggiamento mentale possibilista e anti-determinista: che senso ha pensare che ciò che è stato ieri sarà così anche domani?
All’altra risposta, quella sulla filosofia, dedicava molte più parole, e anzi l’intera conversazione (come la sua produzione teorica) si può dire che ruoti intorno a questo tema: la diffidenza per non dire l’ostilità degli amanti della verità assoluta per la politica - con l’eccezione di Kant che distingueva, come anche lei, “l’essere pensante” e “l’essere agente”. Il filosofo, aggiungeva, può essere oggettivo circa la natura e quando dice ciò che pensa su di essa egli parla certo nel nome dell’umanità. Ma non può essere oggettivo o neutrale circa la politica e quando (dopo Platone) vuole ambire a questo, allora diventa nemico della politica.
La politica rischia quando diventa un dipartimento delle scienze esatte o quando l’aspetto tecnico della gestione dello stato prende il sopravvento sul discorso opinabile dei cittadini: di questo Arendt temeva le conseguenze nefaste, che nell’età dello stato-nazione poteva produrre, come produsse, mostri. Il regime che partorì Eichmann appartenne a questa genia di antipolitica, nella quale il “noi” aveva sopravvento sull’ “io” e un capo si era circondato di esecutori e yesmen, funzionari ed esecutori di comandi. Eichmann, che pensava che il «rimorso fosse adatto ai bambini», non aveva nulla per cui sentire rimorso perché aveva sempre eseguito, era sempre stato un “noi”: di questo funzionario che non sapeva ridere Arendt tratteggia quel che resta forse il suo più importante contributo come teorica politica, ovvero la descrizione di un regime politico nuovo, che non è né tirannia né dittatura, e del quale ella volle sfatare la leggenda sulla “grandezza” satanica di cui, pure, fu capace; una diagnosi che, pensava, avrebbe potuto destare ammirazione come tutte le cose grandi. Hannah Arendt si propose, com’ella spiega, di non semplicemente cercare di capire come fu possibile quel male radicale, ma soprattutto di togliere ad esso e al suo capo ogni aura di grandezza: un clown che fece uccidere dieci milioni di persone circondato di esecutori grigi che non sapevano ridere né di lui né di se stessi. «C’era qualcosa di oltraggioso in quella stupidità... ma nessuna profondità- nulla che fosse demoniaco».

Repubblica 17.2.14
Vivere troppo
“Inseguendo la longevità perdiamo il senso della vita”
Il progresso scientifico ha allungato la vecchiaia e sterilizzato l’idea della morte Si tratta davvero di un’evoluzione? Parla il filosofo Salvatore Natoli
di Franco Marcoaldi


MILANO. La vita si sta allungando sempre più, ma questo evento indubitabilmente positivo si porta appresso una terribile domanda, pronunciata a mezza bocca: non è che stiamo campando troppo? Se la fanno tanti vecchi che trascinano le loro giornate nella sofferenza o nell’inedia. E se la fanno tanti figli che li accompagnano nel loro estenuato tramonto. La questione, neanche a dirlo, è oltremodo delicata. Per provare ad affrontarla ci siamo affidati alla lettura di due bei volumi: Luciano Manicardi, Memoria del limite. La condizione umana nella società postmortale (V&P); e Marina Sozzi, Sia fatta la mia volontà. Ripensare la morte per cambiare la vita (Chiarelettere); incrociando poi quelle riflessioni con il pensiero del filosofo Salvatore Natoli, che sulla saggezza del vivere ha scritto cose quanto mai interessanti.
Cosa significa per l’uomo perdere progressivamente il rapporto con la morte come “memoria del proprio limite”?
«Produce un effetto paradosso. Nella storia del mondo l’uomo ha sempre cercato di migliorare le proprie condizionidi vita, e, a partire da quel miglioramento, l’allungamento della vita stessa. Questo processo ha tratti irreversibili. Per dirla in breve: non possiamo uccidere i vecchi. Ed ecco il paradosso: per un verso abbiamo vecchiaie che desideriamo, e le desideriamo al meglio; d’altro canto, tali vecchiaie sono spesso caratterizzate da afflizioni, sofferenze. Cosicché, mentre la vita si è allungata, in parallelo si è sviluppata, grazie anche ai progressi della scienza, una cultura eutanasica in senso lato. Insomma, si allunga la vita per poi toglierla. Un tempo l’unica eutanasia possibile era il suicidio, che implica la lucidità del soggetto; mentre il malato di Alzheimer, che ha perso la propria identità nella malattia, non può compiere quell’atto così drammatico e per certi versi sublime. Il dibattito si sposta allora sulla qualità della vecchiaia, sul grado della sua prolungabilità. Esiste una soglia oltre la quale la vita non è continuabile? In cui si viene espropriati da sé? Ha senso proseguire in un processo di “immortalizzazione”, oppure è meglio trovare le forme più giuste di accompagnamento alla morte, nel caso sospendendo anche gli accudimenti? Io penso che la vita vada sostenuta fino a quando ha risorse per riprodursi».
Ma proprio questo è il punto: grazie a nanorobotica, clonazione, terapia genica, si assiste a un differimento continuo del limite ultimo.
«Senza dimenticarsi mai, però, che ogni progresso scientifico si inceppa da sé. Ogni passo in avanti della scienza crea un problema, quindi l’onnipotenza scientifica appartiene più all’ideologia che alla realtà. È vero, da tempo la morte non è più presente nella vita media, come ricorda quella preghiera cristiana che recita: media vita in morte sumus.
Ovvero, al centro della vita siamo al centro della morte. Basta leggere i libri di Ariès per sapere che a causa di guerre, carestie, peste e pellagra, un tempo i cadaveri circondavano i vivi in ogni momento. Ora no, la morte è stata sterilizzata: gli ammalati finiscono negli ospedali e i vecchi negli ospizi. Naturalmente tutto questo fa sì che l’individuo, già portato di suo a rimuovere il problema della morte, sia indotto ad accentuare tale rimozione. D’altronde esistono nobilissime tradizioni di pensiero che consigliano vivamente questo comportamento. Spinoza ad esempio sostiene che l’uomo libero non pensa alla morte, ma alla vita. Spendere la propria vita riflettendo sulla morte significa non vivere. E in questo riprende una certa tradizione giudaica. Esiste un commento medievale al Qohelet che dice più o meno: perché Dio non ha dato all’uomo la data precisa della sua morte? Perché se l’uomo lo avesse sapu-to in anticipo, non si sarebbe alzato ogni mattina e non avrebbe arato il suo campo. Nella tradizione cristiana invece, che concepisce la morte come transito, e la vita terrena come preparatoria a quella beata, quella riflessione è la modalità indispensabile per guadagnarsi il paradiso».
Proprio nel Qohelet si dice: c’è un tempo per vivere e un tempo per morire. Grazie al trionfo della scienza e della biopolitica, sembra invece che “la morte stia morendo”, come dice George Steiner.
«Questo pericolo c’è, ma va ridimensionato. Per le ragioni che dicevo prima: qualsiasi scoperta scientifica è di per sé ambigua: un potenziale di progresso, ma anche di rovina. Come la clava di Stanley Kubrick in Odissea nello spazio.
Se dalla mitologia scientista si passa alla realtà, tutto cambia: il vecchio che non ce la fa più vuole morire e altrettanto pensa colui che gli sta accanto. È vero, semmai, che si sono molto innalzate le aspettative, e di qui le successive delusioni. Mai come oggi i medici sono considerati alla stregua di nuovi sacerdoti, ma quando non risolvono il problema diventano degli incapaci, dei nemici: li si denuncia, perché non si accetta che la medicina possa fallire, e si passa ai guru».
Un’altra assoluta novità è che oggi il figlio invecchia al fianco del genitore. Non si era mai visto un settantenne che accudisce un novantenne.
«Questa sì che è una mutazione radicale: la si nota di più sul versante della vecchiaia, ma vale anche dal lato nascita e giovinezza. Sono cambiate e si sono moltiplicate le età della vita. Ricorderà quel bellissimo quadro del Giorgione con il giovane, l’uomo e il vecchio a raffigurare le tre età capitali. Ora non è più così. Cominciamo col dire che ai tempi di Giorgione i bambini non erano neppure contemplati, mentre adesso si parla di fase neonatale, natale, fine allattamento e prima infanzia. Le donne possono diventare mamme a quaranta o cinquant’anni, mentre fino all’Ottocento e oltre generavano a quattordici anni, salvo morire a trentacinque. I nipoti conoscevano la storia dei nonni, tranne rare eccezioni, solo dal racconto dei genitori. Non a caso la figura del nonno era apparentata alla nobiltà, per il semplice fatto che all’epoca campavano solo i più forti: i nonni, i vecchi erano i grandi alberi che custodivano la tradizione».
Oggi invece non sono considerati più dei sapienti.
«Salvo rivestire, spesso e volentieri, un ruolo fondamentale negli equilibri del welfare familiare. Naturalmente finché sono in forma e autosufficienti. Quando subentrano depressione e malattie neurodegenerative, allora la vecchiaia comincia a farsi drammatica. Tanto più se al decadimento fisico si accompagna la perdita delle relazioni umane, perché in presenza di un minimo di lucidità c’è il rischio di entrare nell’inedia più totale. Sono quelle che io chiamo le vecchiaie deiette: una parte dell’umanità viene scartata, ma non si ha il coraggio di buttarla via».
Per tornare alla domanda iniziale: dunque, si campa troppo?
«La risposta è sì. Ma poiché, ripeto, si tratta un dato di fatto irreversibile, il problema diventa ora come garantire una buona vita finché è davvero tale, senza prolungarla artificialmente quando si è esaurita. Si tratta di applicare, in termini adeguati alla nuova complessità sociale, lo stesso principio del vecchio abitante del villaggio, che quando si sentiva alla fine del tragitto si allontanava nell’ombra».

Repubblica 17.2.14
In Francia viene pubblicato postumo il corso di Pierre Bourdieu dedicato al pittore ottocentesco
Il rivoluzionario Manet
Quel picnic sull’erba che trasformò la società
di Gincarlo Bosetti


Esce postuma la ricerca di Pierre Bourdieu, il grande sociologo francese scomparso nel 2002, su Édouard Manet (1832-1883): è un esempio di “socioanalisi” della traiettoria di un pittore rivoluzionario nella Parigi di metà Ottocento. La raccolta delle fonti è sterminata e riguarda tutto: le critiche d’arte e le alleanze di Manet contro e con i critici, la competizione con Courbet e il realismo, l’attacco all’art pompier e all’accademia, i suoi distinguo dagli impressionisti e il suo “fare scandalo” per conto proprio. Ma l’analisi di Bourdieu riguarda anche il “capitale” dell’artista e il suo habitus. Manet è un figlio dell’élite parigina, è un erede che rifiuta l’eredità del padre magistrato, ma la tesaurizza per trasferirla in un altro spazio di valori. La sua fu vera, vincente, rivolta, contro il Salon, l’istituzione statale da cui fu inizialmente rifiutato, al Louvre, ma si impose poi nel nuovo corso che cambiò per sempre il Salon.
Come fu possibile? Ci voleva più che il genio di un pittore.
Ora i corsi tenuti da Bourdieu tra il ’98 e il 2000 al Collège de France sono finalmente a disposizione nelle quasi 800 pagine (Manet. Une révolution symbolique, Seuil) curate dal gruppo di Raison d’agir, fatte di trascrizioni vivaci, appunti e anche di un lungo manoscritto inedito. Bourdieu era enormemente attratto dalla svolta pittorica provocata dall’autore del Déjeuner sur l’herbe, come lo era stato dalla svolta letteraria di Gustave Flaubert. Per Bourdieu questi due grandi autori erano gli esempi più limpidi di una “rivoluzione simbolica” capace di generare (o rovesciare) un “campo”, parola chiave del lessico bourdieusano. Il “campo” non designa solo l’area disciplinare in cui gli individui operano, esso è il terreno delle battaglie in cui si stabiliscono le gerarchie interne a una disciplina, a un ambiente culturale, a una professione, l’arena in cui si decide che cosa è rilevante e che cosa no. E il padre e la madre di tutti i “campi” è secondo Bourdieu, fin dalle origini, quello della religione, costituitosi nella competizione tra sciamani e profeti in lotta tra loro, per l’affermazione del primato nel potere simbolico, per decidere che cosa è ortodossia e che cosa eresia. Nelle battaglie culturali la somiglianza con la religione è molto più di una analogia. Chi vince è “consacrato” nei musei, anche se ha cominciato come “eretico” e ha battuto gli “integrati dominanti”, chi perde è fuori, resta un “marginale escluso”.
Niente è più come prima, dopo Manet. Se oggi ammiriamo il Déjeuner o il Bar aux Folies Bergères, più dei ritratti di Fantin-Latour o delle curatissime scene mitologiche di Bouguereau non è semplicemente perché Manet “è più bravo” di loro, ma perché ha trionfato nella sua arena, ha sconvolto la scena che ha trovato e ha costruito ex novo il “campo”. Se oggi i quadri che scuotevano Parigi nel 1862, al Salon alternativo dei “rifiutati”, sono diventati “banali” fino ad essere riprodotti sulla carta delle pasticcerie, le pagine di Bourdieu fanno il percorso inverso e “debanalizzano” la rivoluzione di cui anche il nostro sguardo di oggi è il prodotto. E ricostruiscono le incertezze e la violenza della lotta di allora.
Quando nel 1863 esce il Déjeuner (l’opera più commentata nella storia della pittura dopo la Gioconda), le reazioni sono di violenza inaudita: Manet sfida regole considerate auto-evidenti, rompe un ordine simbolico, dedica un quadro di grandi dimensioni, adatte a fatti solenni o religiosi, a un soggetto di “genere”, volgare: donne nude, ragazze di bassa condizione, amore mercenario (come anche nella successiva Olympia), accanto a studenti borghesi vestiti. Un cumulo di incongruenze: ambientazione pastorale per una scena salace; mancanza di prospettiva; le figure sembrano incollate; il personaggio sulla destra sembra parla-re, ma nessuno lo ascolta; non c’è – dicevano i critici – un senso, una “gerarchia morale”.
E invece il tema c’era: era la sfida all’accademia. Era una “pittura sulla pittura”. Nell’insieme appare come un sacrilegio e Bourdieu legge in parallelo le critiche a Manet e quelle che si scatenarono, tra i cattolici conservatori, contro la riforma del catechismo e l’abolizione del latino. Stessa indignazione. Manet subì l’attacco feroce del “populismo estetico” – forma perenne di conservatorismo – che si scatenò contro di lui come cinquant’anni fa in Italia i cinegiornali e le riviste popolari deridevano l’arte astratta, Picasso, Fontana, Manzoni. L’opera di Manet sfida l’arte “consacrata” non solo per la gioia di provocarla, ma perché vuole a sua volta consacrarsi.
Ha potuto vincere anche grazie all’accumulazione del “capitale” sociale necessario per l’impresa: Manet era il migliore della scuola d’arte di Thomas Couture, l’equivalente delle Grandes Écoles; frequenta l’elitario Collège Rollin dove conosce il suo futuro biografo Antonin Proust; entra nei salotti dove stringe rapporti con Nadar, Baudelaire, Monet (con cui detestava essere confuso), Gambetta, Delacroix, Théophile Gautier; conosce Berthe Morisot, pittrice, sua modella e poi moglie del fratello Eugène, e con lei trova un altro salotto fondamentale, dove passa il resto della Parigi che conta; si allea con l’influente Zola, che lo aiuterà a produrre una svolta tra i pesi massimi della critica: Thoré e Castagnary. Quell’accumulo di “capitale” gli ha dato la capacità di “mantenere la distanza dal ruolo”, e di “tenere” (anche se non funziona mai, nota Bourdieu, senza vere sofferenze anche nei grandi e anche nel successo).
Si sa che Bourdieu si auto analizzava per evitare di cadere nell’illusione biografica: «Manet c’est moi?» come per Flaubert Madame Bovary. Rischio sempre in agguato per tutti gli autori. Certo è difficile confondere due traiettorie così diverse: quella del sociologo di umili origini, figlio di un impiegato postale dei Pirenei, poi “consacrato” al Collège de France, e quella di un dandy che esce dalla noblesse d’état (guardare per capire il ritratto che gli fece Fantin-Latour) e che riesce a unire i due poli sociali dei ricchi banchieri e dei poveri bohémien con il suo habitus divaricato, clivé, capace di imporre il suo carisma nell’elegante Cafè Tortoni, nelle brasserie dei pittori squattrinati e al Louvre. Ma certo le sofferenze e i “rimossi” sociali mettono in gioco tutti, a tutte le latitudini della mappa, non meno di quelli edipici di cui si è occupato Freud.

il Fatto 17.2.14
Le mostre di Monet e Matisse pretesto per visitare l’Italia
di Silvano Rubino


Il bello dell’Italia è che una mostra può anche essere un pretesto. Un pretesto per visitare una delle tante belle città che rendono unica la nostra penisola. Ferrara, per esempio, con il suo fascino un po’ malinconico, le sue mura, il castello estense, il centro medievale e il ghetto con le memorie di una comunità ebraica tra le più antiche d’Italia. E il Palazzo dei Diamanti, capolavoro rinascimentale, con i suoi 8.500 blocchi di marmo appuntiti a renderne unico e inconfondibile l’esterno. All’interno, come da tradizione, arte di gran livello: dal 22 febbraio è di scena Matisse, la figura. La forza della linea, l'emozione del colore, un viaggio nell’opera di uno dei geni dell’arte figurativa del 900 attraverso le sue esplorazioni sulla figura umana (sino al 15 giugno, (www.palazzodiamanti.it ). È invece dedicata al paesaggio la mostra Verso Monet. Storia del paesaggio dal Seicento al Novecento, che approda a Vicenza - dopo il grande successo di Verona - dal 22 febbraio al 4 maggio 2014 (www.lineadombra.it): un viaggio nella rappresentazione della natura da Domenichino alle celeberrime Ninfee. Anche in questo caso, splendido contenuto, ma splendido anche il contenitore: la Basilica Palladiana, che domina, con le sue logge di marmo, la bellissima piazza dei Signori, cuore storico della città. Infine Pavia e altro piccolo gioiello italiano, in questo caso il Castello Visconteo, una delle vette dell’architettura gotica lombarda, noto per i suoi affreschi sulle pareti interne. Qui, per quanto riguarda la mostra si va sul sicuro, con l’impressionismo e uno dei suoi protagonisti, Camille Pisarro. L’esposizione, che ne racconta il percorso artistico, è arricchita di proiezioni video e persino di profumi ispirati alle opere (dal 21 febbraio al 2 giugno, scuderiepavia.com ).

Corriere 17.2.14
L’ultimo viaggio di Gogol nel regno delle anime morte
La patria ideale del suo «poema» è l’Europa intera
di Piero Citati


Nikolaj Gogol chiamava il suo capolavoro, Le anime morte , un poema. Non voleva che si usasse la parola romanzo. Era un poema, perché era ampio e spazioso: si ampliava sempre più via via che si avvicinava alla fine; in realtà, non possedeva una fine determinata e precisa, un epilogo. La fine fu sempre, per Le anime morte , un oceano, dove perdersi: o il fuoco, che dissolse e annullò, nell’aria fumosa della casa di Gogol, i personaggi, gli episodi, i pensieri della seconda parte del libro.
Le anime morte era un’opera ampia come la Russia: sia santa, con una moltitudine di chiese, monasteri, cupole, guglie e crocifissi; sia malinconica e illimitata: «Terra di Russia, terra di Russia!...che inaccessibile, misteriosa forza è dunque questa, che attira a te? Perché riecheggia e di continuo risuona all’orecchio, malinconica, come si diffonde in tutta l’ampiezza tua, da mare a mare, la tua canzone? Che c’è, in essa, in codesta canzone? Che cosa chiama così, e singhiozza, e afferra al cuore? Che suoni sono questi, che morbosamente si insinuano e penetrano nell’aria, e si attorcigliano attorno al mio cuore?».
Gogol guardava in quel vasto infinito, cercando la lingua russa, il culmine del suo amore per la Russia. Con meraviglia e ammirazione, vi coglieva parole che andavano dritte al segno: esse da un lato esprimevano con precisione fantastica e paradossale ogni cosa; e, dall’altro, erano piene di gradazioni, di variazioni e sottigliezze, e cambiavano ogni volta che una persona si rivolgeva alle altre, infinitamente diverse tra loro. Tutto era preciso, tutto era mobile, nell’oceano colorato della santa Russia.
Gogol scrisse Le anime morte viaggiando attraverso tutta l’Europa: Varsavia, Cracovia, Berlino, Bad Gastein, Vevey, Parigi, Marsiglia, Trieste, Venezia, Roma; come se solo la mobilità della carrozza e la rapida successione degli alberghi potesse ispirarlo. Anche Le anime morte è un viaggio. Alla caccia delle «anime morte», Cícikov non si ferma: percepiamo continuamente le strade che si snodano come serpenti benevoli, il passo dolcemente ondulato delle carrozze, gli improvvisi intralci, il cocchiere che frusta i cavalli riluttanti e discorre con loro, che gli rispondono nella loro lingua, e intona canzoni.
Per qualche ora la carrozza si ferma davanti a una casa: Cícikov la esplora, chiacchiera, seduce; e poi via, dove lo conduce il bisogno o l’umore. Ciò che importa è la velocità. «A quale russo non piace la velocità? Volete che proprio la sua anima, che aspira alla vertigine, all’abbandono, a dirsi tratto tratto: ‘Vada tutto all’inferno!’ proprio alla sua anima essa non piaccia? Non piaccia la velocità, in cui si fa sentire un che di esaltato e di meraviglioso? E’ come se una potenza ignota ti prendesse sull’ala con sé e tu voli e tutto vola… E un che di pauroso spira da questo rapido balenio, in cui non fa a tempo a delinearsi l’oggetto che precipita via: solo il cielo sopra la testa e le nubi leggere!».
Di colpo, il movimento vertiginoso delle cose si arresta. Niente più carrozze, né cavalli, né mondi balenanti. Gogol aguzza l’attenzione: guarda verso un oggetto minimo, perché contemplare con il microscopio un microorganismo invisibile non è meno mirabile che contemplare una stella col telescopio; ci vuole profondità e applicazione di spirito. Contempla, osserva, guarda, guarda, finché non riesce a far balzare in luce tutti i sottili, quasi impercettibili lineamenti di ogni cosa. Ecco ora, durante l’ardente solleone, un bianco, lucente pan di zucchero: gli aerei squadroni delle mosche entrano al volo dalle finestre, sicuri come padroni assoluti, e si spandono sui ghiotti bocconi. Volano dentro: non per mangiare, ma per far bella mostra di sé, per passeggiare avanti e indietro in quella massa zuccherina, per strofinare l’una con l’altra le gambette davanti e quelle di dietro, e per grattarsi le alucce. Per un momento il grande poema è dimenticato, la Russia è scomparsa, e l’universo è completamente occupato da questo primo piano, con le mosche che si grattano le ali.
Le mosche non scompaiono presto. Qualche pagina più avanti, ricompaiono: mentre la sera prima, dormivano tranquille sui muri e sul soffitto, ora hanno preso di mira Cícikov: una gli si posa sul labbro, l’altra su un’orecchia, una terza cerca di installarsi nell’occhio; una quarta ha avuto l’impudenza di posarsi vicino a una narice, e lui la inspira, dormendo, così che è costretto a dare uno starnuto fortissimo. Mentre guardiamo col nostro microscopio fantastico, ci convinciamo che le mosche sono completamente umanizzate, a patto che esistano veri e propri esseri umani nelle Anime morte .
Anche le cose sono umanizzate (o animalizzate). Quando un orologio suona, si avverte nella stanza uno strano sfruguglìo, come se tutta la stanza fosse piena di servi: l’ospite si spaventa; poi si tranquillizza perché intuisce che all’orologio è venuta voglia di battere. Subito allo sfruguglìo tiene dietro una specie di rantolo; e, infine, raccogliendo tutte le proprie forze, l’orologio batte le due, con uno strano suono, che assomiglia a quello di un servo che colpisce una cuccuma incrinata. Avremo torto a cogliere soltanto questo movimento. La metamorfosi si compie in tutte le direzioni: dagli animali e dalle cose agli esseri umani; e dagli esseri umani alle cose. Dove prima avevamo visto una graziosa giovinetta di sedici anni, ora vediamo un ovetto fresco, un ovetto di una diafana bianchezza, che resta sospeso controluce tra le mani robuste di una dispensiera.
Cosa fanno i cosiddetti uomini? Mangiano, con un appetito tale da divorare il mondo, loro stessi e il libro dal quale escono. «Prego, favorite un bocconcino, disse la padrona». Cícikov si riscosse e vide che sul tavolo c’erano funghi, pasticci, frittelle, focaccette di pasta frolla, con ripieni assortiti, ripieno di cipolline, ripieno di semi di papavero, ripieno di latte cagliato, ripieno di pesce. E se ci fermiamo nelle stazioni di posta, osserviamo che in una stazione i viaggiatori ordinano prosciutto, nella seguente porcellino da latte, nella terza un pezzo di storione o un salsicciotto fritto con cipolle, e poi, come niente fosse, si siedono di nuovo a tavola, a qualunque ora capiti, e le uova di tonno sfrigolano e gorgogliano fra i loro denti, alternate da bocconate di crostata di pesce o di timballo di code di siluro. Così l’appetito rampolla e si diffonde tra tutti quelli che stanno a osservare.
Quando finiscono di mangiare, i personaggi riempiono il bicchiere di vino, e si avvicinano a Cícikov, o a qualunque altro essere umano, e gli toccano il calice. «No, no, un’altra volta!», dicono i più focosi, e di nuovo si toccano i calici l’un l’altro.
Poi si spalanca la notte. Tutti dormono di un sonno profondo come il loro appetito e la loro sete: cadono addormentati nello stesso istante, e mandano un ronfamento di inaudita corposità, al quale chi occupa la stanza vicina dell’albergo risponde con un sottile sibilo nasale. Così gli abitanti delle Anime morte e della santa Russia dormono tutta la notte, di fianco, supini, e in ogni posizione possibile.
Questi corpi mangianti e dormienti non hanno il tempo necessario per pensare e ragionare; e, del resto, è probabile che non posseggano una mente. Essi sono divisi tra due possibilità. La prima è quella di fantasticare: pensieri vaghi, talora astratti talora corposi, che hanno quasi sempre come centro l’io, e le sue possibili avventure e ascese; oppure si slanciano in vertigini di tenerezza verso un altro, e pensano a come sarebbe bello vivere con l’amico sulla sponda di qualche fiume, poi in un enorme palazzo, in un belvedere talmente elevato, che di lassù si possa scorgere persino Mosca, e bere il tè all’aria aperta, finché l’imperatore, venendo a conoscere la loro meravigliosa amicizia, li promuova generali. La seconda è la fandonia, la menzogna con sé stessi e con gli altri: leggera, colorata, proprietaria di ali, mentre la realtà di ogni giorno è così infima, vischiosa e pesante.
Tutti parlano, con immenso piacere. Non seguono mai un filo; si correggono; fanno considerazioni di una vacuità tale da fondersi con le menzogne; si scambiano i sensi di una vera e finta tenerezza; insinuano nel discorso una quantità di parolette prive di significato, come «signor mio illustrissimo», «in certo qual modo», «nevvero», «non so se mi spiego», «potete figurarvi», «relativamente parlando», «sotto un certo rispetto»; queste parolette mirano a far precipitare il discorso nella verbosità pura, nell’assoluta assenza di senso. Ogni volta che una di queste parolette viene pronunciata e ondeggia nell’aria, Gogol gioisce: egli detesta i romanzi costruiti secondo le leggi della perfetta logica e geometria. Anche lui ammicca: complice dei suoi personaggi e dei suoi lettori, in modi diversi secondo i personaggi e i lettori. Siccome ignora come andrà a finire Le anime morte , fa congetture e ipotesi: ognuna delle quali contraddice l’altra; e imita con gioia infinita i suoi personaggi, abbandonandosi ad ogni possibile divagazione e variazione, visto che il centro del libro sta sempre fuori di esso.
Qualche volta si apre uno spiraglio, che dà non sappiamo dove, forse nel cielo. Appare una ragazza. «Sempre nella vita dovunque, almeno una volta, interviene sul cammino dell’uomo un’apparizione, dissimile da tutto quanto gli è accaduto di vedere finora; e, almeno una volta, desta in lui un sentimento, dissimile da tutto quello che egli è destinato a provare nel corso della vita». Subito dilegua e, in ogni caso, i personaggi non sono in condizione di afferrare e di far propria questa apparizione.
Oppure appare la Natura, la stessa natura di Rousseau, che alleggerisce le masse pesanti, taglia via la cruda regolarità e gli inesorabili buchi, dai quali si tradisce il malcelato progetto umano. Infine la Natura conferisce un meraviglioso tepore a tutte le cose pensate, immaginate e raccontate: nel cogliere questi tiepidi tocchi, Gogol possiede una sottigliezza e dolcezza meravigliose.
Spesso Cícikov, accompagnato da Gogol, si trova davanti a un luogo come questo. «Sulla scrivania, ornata di intarsi in madreperla che qua e là si erano staccati…, stava ammassata una quantità di roba di tutti i colori: un mucchio di carte scritte fitte fitte, e sopra un posacarte di marmo inverdito, sormontato da un uovo; non so che antico libro rilegato in cuoio, con il taglio cremisino; un limone tutto rinsecchito, ridotto non più grosso di una nocciola; un bracciolo di sedia rotta; un bicchiere con dentro un che di liquido e tre mosche, coperte da una lettera; un pezzetto di ceralacca, un pezzetto di straccio raccattato chissà dove, due penne impiastrate di inchiostro, consunte da una specie di tisi; uno spazzolino tutto ingiallito, con cui il padrone di casa si strofinava i denti prima che i francesi facessero la marcia su Mosca».
Forse, pensava Gogol, egli non poteva raccontare nient’altro che questo: un cafarnao, dove tutti gli oggetti, i personaggi, gli eventi, erano abbandonati in un angolo della scena, senza nessun tentativo di ordinarli e di sistemarli. Senza saperlo, Gogol voleva rappresentare il caos.
* * *
Quando, nelle prime righe delle Anime morte , Gogol ci parla di Cícikov, dice pochissimo di lui. Sappiamo cos’è la sua piccola «graziosa vettura a molle»; cosa dicono due muzík sulla porta di un’osteria; vediamo un giovanotto che si accosta alla locanda: com’è la locanda – e un venditore di bibite calde, col suo rosso samovàr di rame e il viso rosso come il samovàr; e così, via via, saremo informati di cose minime e insignificanti, che non appariranno mai più nel corso del poema. Di Cícikov ci viene detto soltanto: «un signore, che non era proprio un bell’uomo, ma non era neppure di brutto aspetto: non si poteva dire che fosse anziano, ma neppure, d’altronde, che fosse troppo giovane»; dunque un seguito di negazioni.
Quattro pagine dopo l’inizio, apprendiamo un fatto capitale: Cícikov «si soffiava il naso con eccezionale sonorità: non si sa bene come facesse, sta il fatto che il naso risuonava come una tromba». E poi via via, nel corso del romanzo, questo soffio sonoro si ripete, insieme a un sempre diverso sventolare di fazzoletti di batista. Ora, per Gogol, il naso non era una comune parte del corpo: ma la parte più eccezionale, straordinaria e stravagante; egli avrebbe voluto perdere il mento, o gli occhi o le orecchie ed essere solo un enorme Naso, con delle narici grandi come due orecchie, tanto da poter aspirare tutti i profumi possibili. Così Cícikov ebbe il privilegio che proprio a lui, sebbene fosse un uomo di nessuna apparenza, spettò il compito di esprimere l’invenzione centrale del libro.
Il romanzo si muove. Cícikov si fa portare l’occorrente per lavarsi, e straordinariamente a lungo, si stropiccia con il sapone tutte e due le gote, puntellandole dall’interno con la lingua; e poi si veste, con singolare attenzione, quale di solito non è dato vedere. Gira intorno gli sguardi, per rammentarsi della disposizione dei luoghi; legge un manifesto teatrale; entra in un’osteria; e domanda all’ostessa se lei stessa teneva l’osteria, o se c’era il padrone, e quanto rendeva l’osteria, e se con loro vivevano insieme anche i figli, e com’era il figlio maggiore, scapolo o ammogliato, e come l’aveva presa la moglie, con una bella dote o no, e così via, senza tralasciare nulla. Abbiamo l’impressione che lo scopo dell’esistenza di Cícikov sia quello di accumulare la maggior quantità possibile di cose viste e udite, così da farsene un tesoro personale.
Nei giorni successivi Cícikov conosce il governatore, il vice-governatore, il presidente del tribunale, il capo della polizia, l’appaltatore delle rivendite di liquidi, il direttore delle fabbriche statali e quasi tutti i principali possidenti del governatorato di N., che occupa un posto indeterminato della Russia. Gioca a carte; pranza dappertutto, con quell’appetito con cui la Russia mangia sé stessa; discorre di sé, con accenti stranamente abissali; parla con tutti, con cortesia, decoro, tenerezza, spirito di conciliazione, modi cattivanti; gioisce se fa un buon affare; e piace a tutti, funzionari e possidenti, uomini e donne. Via via che il libro si trasforma, anche lui si trasforma, diventando una specie di putto. Seguiamolo: «il nostro eroe rispondeva a questo e a quello, e sentiva non so che insolita leggerezza; si inchinava a destra e a sinistra, un pochino di fianco secondo la sua abitudine, ma con perfetta disinvoltura, tanto che tutti ne rimanevano affascinati… Mostrava sempre la testa in posizione di ossequio, un pochino di fianco. Nonostante la rotondità della persona, subito saltellò alquanto all’indietro, con la leggerezza di una palla di gomma… Si inclinava con discrezione quasi da militare, e saltellava indietro con una leggerezza da palla elastica».
Malgrado questa leggerezza confidenziale, Cícikov conserva in sé l’ignoto: una grande idea che né Gogol, né i personaggi, né i lettori del libro comprendono sino in fondo.
Quando va dai possidenti del governatorato, dopo aver parlato un poco del più e del meno, Cícikov fa sempre una richiesta: chiede di comprare le anime (i contadini) che siano morti negli ultimi anni, ma che risultino ancora vivi secondo il censimento statale. Lui avrebbe pagato le tasse sulle anime morte, e versato qualche rublo in più ai proprietari. La richiesta è strana. Tutti fanno domande: uno finisce per dire: «che razza di favole insomma, che razza di favole sono queste anime morte? Non c’è un fil di logica in queste anime morte: o perché mai comprar anime morte? Dove trovare uno sciocco simile? E che denaro della malora vorrà buttarci dentro? E a quale scopo, per quale affare si possono usare queste anime morte».
Cícikov non risponde volentieri: «le compro, dice, non perché ne abbia bisogno, come voi pensate, ma così… per un’inclinazione tutta mia… così, semplicemente, mi è venuta questa fantasia». Poi aggiunge che le anime morte gli erano necessarie per elevare la sua posizione sociale, perché non possedeva terreni importanti, e così, in attesa di tempi migliori, avrebbe avuto almeno queste animucce. Dice che lui desiderava ammogliarsi e che il padre e la madre della sua fidanzata volevano che egli possedesse non meno di trecento anime.
Infine, solo molto tardi, verso la conclusione della prima parte, Cícikov ci rivela le sue intenzioni.
«Se io comprassi tutti questi contadini che sono morti, mentre ancora non si sono redatte le nuove liste di censimento; ne acquistassi, poniamo, mille, le ipotecassi presso il Consiglio di Tutela, e il Consiglio di Tutela, poniamo, desse duecento rubli per anima, eccomi, subito subito, un capitale di duecentomila rubli! E ora è proprio il momento opportuno: poco fa c’è stata un’epidemia e di gente ne è morta, se Dio vuole, a bizzeffe. I possidenti hanno perduto il perdibile al gioco, hanno fatto baldorie e hanno scialacquato con tutti i sentimenti; mezzo mondo è scappato a Pietroburgo, a impiegarsi; i terreni sono abbandonati, mandati avanti alla carlona, le tasse si pagano di anno in anno più a stento: ben volentieri, dunque, chiunque me le cederà, se non altro per il fatto di non pagare per esse le tasse…
Soprattutto c’è questo di buono, che è una cosa che parrà a tutti inverosimile, nessuno ci crederà. È vero, senza terra non si può né comprare né ipotecare: ma vuol dire che io comprerò i contadini per trasportarli altrove; ora le terre, nei governatorati di Tauride e di Chersòn, si danno via gratis, non c’è che da portarci coloni».
Così i possidenti del governatorato di N., malgrado qualche dubbio e mormorio, vendono a Cícikov le loro «anime morte», ricevono in cambio qualche rublo e la certezza di non pagare le tasse su quei contadini.
Contadini, non contadine: non si sa perché, Cícikov non vuole assolutamente acquistare anime di donne. Gogol commenta. «Ed ecco che così mise radice nella mente del nostro eroe questa strana trovata, della quale non so se gli saranno grati i lettori, ma quanto grato gli sia l’autore, non è cosa facile a esprimersi, giacché, si dica un po’ quel che si vuole, se non fosse venuta in mente a Cícikov quell’idea non sarebbe venuto alla luce questo poema». Gogol esulta: con la sua strana esultanza, che ha sempre rapporti col vuoto e con l’informe; ma gonfia l’idea delle «anime morte» di un’ilarità e di un’eco che, felicemente, non si riesce a determinare con precisione.
* * *
Gogol pubblicò la prima, bellissima parte delle Anime morte il 21 maggio 1842: qualche giorno prima l’aveva annunciato durante una festa.
Negli altri dieci anni che gli toccò di vivere, non gli riuscì di finire il libro. Prima dei trentacinque anni la sua potenza creativa si era esaurita. Questa perdita ebbe molti aspetti: semplice debolezza (come nei capitoli della seconda parte che ci sono rimasti), tendenza a scrivere sermoni morali, trasformando il grande poema in una storia edificante. Gogol non faceva che lamentare malattie: malattie difficili da curare, perché erano al tempo stesso vaghe e variabili; crisi di malinconia depressiva che gli offuscavano la mente con presentimenti indicibili, e alle quali solo un brusco cambiamento di ambiente poteva dar sollievo, oppure brividi talmente forti che nessun sovraccarico di indumenti riusciva a scaldarlo.
Non gli restava che distruggere quello che aveva scritto: preda di un oscuro furore, come se il libro fosse colpevole del suo male e delle sue malattie.
Nel giugno-luglio 1845 ne bruciò una parte; nella notte tra l’11 e il 12 febbraio 1852, davanti al suo giovane domestico ucraino, gettò nel fuoco tutto quello che gli restava delle Anime morte . Il 13 entrò in una lunga agonia volontaria: rifiutò di nutrirsi, di curarsi, di parlare. Il 20 entrò in delirio. «La scala… presto la scala!».
Il 21 febbraio 1852, alle 8 del mattino, morì.

il Fatto 17.2.14
Il sogno di Abbado suonato dai ragazzi
i chiama “Sistema”, sono le orchestre giovanili e infantili e sono una delle ultime iniziative promosse dal celebre direttore morto a gennaio. Un’esperienza maturata nel 2010 e mutuata dal Venezuela. A quattro anni un bilancio
di Pirro Donati


Il Sistema delle orchestre giovanili e infantili italiano è una delle ultime iniziative promosse da Claudio Abbado, forse l’ultimo sogno di un musicista che ha fondato ben 7 compagini per lo più dedicate ai giovani come la European Union Youth Orchestra, la Gustav Mahler Jugendorchester, la Chamber Orchestra of Europe.
Il “Sistema”, come lo chiamano confidenzialmente, però è qualcosa di più ambizioso di un’orchestra: creato in Venezuela da José Antonio Abreu nelle intenzioni è un progetto di educazione e pratica musicale gratuita per l’infanzia e l’adolescenza, con una forte attenzione al disagio fisico, psichico e sociale. Trapiantato in Italia da Federculture e dalla Scuola di Musica di Fiesole, con qualche difficoltà sta prendendo piede in un paese come il nostro, che vanta una delle più importanti tradizioni musicali del pianeta di cui a chiacchiere tutti si gloriano, ma dove manca una seria istruzione musicale di base.
Cinquanta realtà in tutto lo Stivale
Arrivato ufficialmente in Italia nel 2010, ma partito con qualche passo falso già un paio di anni prima, il Sistema oggi conta una cinquantina di realtà associate e sono circa 8 mila i bambini o i ragazzi che hanno partecipato o partecipano alle sue iniziative, di cui la più rilevante da un punto di vista istituzionale è stato il concerto natalizio tenuto dall’Orchestra Nazionale del Sistema in Senato lo scorso dicembre. E non è certo mancata una notevole attenzione mediatica alle Mani bianche, vale a dire a quelle compagini di fanciulli con problemi sensoriali, per lo più sordomuti, che assieme a Cori di voci bianche partecipano all’esecuzione di un pezzo muovendo le manine guantate di bianco, con un sicuro effetto coreografico e un forte impatto emozionale sul pubblico.
Il lavoro sul disagio, in questo caso psicofisico ma altrimenti anche sociale, è senz’altro uno degli aspetti più apprezzabili del Sistema, anzi per dirla schietta è una delle sue ragioni fondative. Quando a metà degli anni ’70 del secolo scorso Abreu iniziò a Caracas quel percorso che ha poi portato al Sistema, uno dei principali obiettivi era offrire ai giovani venezuelani, soprattutto delle classi più povere, una alternativa alla strada, al crimine e alla droga. Non a caso il motto del Sistema in Venezuela è Tocar y luchar, suonare e lottare, uno slogan in cui risuonano gli ideali di liberazione e rivincita sociale di un intero continente come il Sud America. Nel giro di una trentina d’anni il Sistema in Venezuela ha assorbito i Conservatori e le scuole di musica e gestisce l’educazione musicale per lo Stato, con 125 orchestre infantili e giovanili, 30 orchestre sinfoniche, di cui la più celebre è la Simon Bolívar che, diretta da Gustavo Dudamel, con le sue tournée scatena gli entusiasmi dei pubblici di tutto il mondo per l’energia e la simpatia con cui quei ragazzi porgono la musica.
Con i suoi 180 nuclei sparsi sul territorio venezuelano il Sistema garantisce l’educazione musicale a 350 mila giovani, talvolta ragazzi e ragazze con storie molto dure e che in alcuni casi trovano nella musica un orizzonte di vita diverso.
Il Sistema si regge su un forte codice etico-filosofico, non a caso centro del percorso educativo è soprattutto la musica sinfonica e in parte da camera, vale a dire partiture dove è fondamentale lo spirito di gruppo, il lavorare assieme, la capacità di ascoltare e di ascoltarsi. La creazione insomma di un’armonia umana prima ancora che musicale. È sintomatico come il Sistema in Venezuela abbia prodotto numerose orchestre, dunque molti strumentisti alcuni dei quali oggi militano in formazioni europee, qualche direttore d’orchestra – un primus inter pares –, ma non dei solisti di fama internazionale.
L’altro cardine del Sistema è l’organizzazione, basata su nuclei territoriali piuttosto flessibili, collegati in senso piramidale: inizialmente inquadrati in compagini formate in base alle fasce di età, i ragazzi se poi maturano delle particolari doti musicali sono instradati verso le orchestre maggiori e i bravissimi arrivano appunto alla Simon Bolívar. Gli stessi allievi sono progressivamente responsabilizzati, poiché chiamati a trasmettere quanto hanno appreso ai più piccoli o a quanti siano arrivati dopo di loro.
In questo senso è possibile parlare di metodo Abreu, che andrebbe inteso come un percorso educativo e organizzativo, altrimenti potrebbe risultare fuorviante. Infatti, sotto il profilo della didattica musicale in senso stretto, il Sistema non ha una precisa metodologia, paragonabile a quella di Carl Orff o di Zoltán Kodály tanto per citare due metodi piuttosto celebri.
La cosa naturalmente può lasciare perplessi da un punto di vista squisitamente didattico, ma a ben vedere era funzionale a un paese come il Venezuela, dove non esisteva una particolare tradizione musicale colta, e dove conservatori e scuole di musica erano assai pochi. Inoltre l’assenza di un metodo didattico specifico si è dimostrata vincente per esportare il Sistema in paesi con differenti culture e tradizioni musicali, come è avvenuto nell’America Latina e del Nord, in Australia, in molti stati europei, tra cui la Francia, l’Austria e appunto l’Italia.
Tuttavia si rimane un po’ sorpresi dai video di cui è piena la rete o dai film divulgativi distribuiti dalla Fundación Musical Simon Bolívar, che gestisce il Sistema in Venezuela, in cui si possono vedere alcune lezioni. L’impressione per dir così di un certo spontaneismo è talvolta forte, in un campo come la didattica musicale dove la vecchia Europa avrebbe ancora molto da dire e da dare.
Cosa fa il Parlamento
Va da sé che in Italia il Sistema usi per lo più i metodi didattici più diffusi nei nostri Conservatori e di spontaneismo magari si potrebbe parlare in altro senso: il Sistema da noi coinvolge molte realtà, alcune anche prestigiose, ma tra loro forse troppo eterogenee. Siamo ancora ai primi passi, ma il fatto che stia appassionando anche pezzi della società civile e ci sia addirittura una legge in Parlamento per riconoscere il Sistema, ricorda un vecchio assioma della fisica classica: il vuoto assoluto non esiste, e in assenza di una vera educazione musicale di base era prevedibile si agglutinassero elementi, magari disparati. Quindi non bisogna cadere vittime di facili snobismi, di altrettanto facili entusiasmi e in prospettiva saper cogliere quanto il Sistema può offrire al nostro paese, comprendendone anche i limiti. Missione impossibile, o quasi, per una politica come quella italiana che si è dimostrata sorda alla musica e forse in generale alla cultura. Da innumerevoli studi risulta infatti che il nostro è un paese a bassissima partecipazione culturale, sono scarsi gli scrittori, le persone che danzano, che recitano, che dipingono e, dal punto di vista musicale, siamo afflitti da un disastroso analfabetismo: pochissimi sanno suonare o cantare, meno ancora sanno leggere la musica.
Un piano di alfabetizzazione musicale nazionale, questo era probabilmente il sogno di Abbado, è quanto il governo e il Parlamento sono da decenni chiamati a corrispondere e non lo fanno. Una simile iniziativa potrebbe trarre sicuro vantaggio dal Sistema, coscienti che in Italia esistono già moltissime scuole di musica private oltre a un sistema pubblico sicuramente imperfetto, migliorabile, e su cui da anni non si investe, anzi si tagliano risorse. Nel bene e nel male sono loro gli eredi della nostra ricchissima tradizione musicale, da non disperdere per inerzia o nel vento di una moda del momento.

il Fatto 17.2.14
La riforma persa dei Conservatori: altro che musica
di Pi. Do.


A tredici anni dall’approvazione della legge di riforma dei Conservatori il sistema pubblico dell’educazione musicale italiana galleggia in una palude. Basti un dato a rappresentare il fallimento: nel 2012 oltre la metà dei diplomati nei nostri Conservatori, hanno ottenuto il titolo di studio secondo il vecchio ordinamento. Varata nel 2000 quella legge al grido di Todos caballeros promuoveva gli oltre 50 Conservatori e più di una decina di Istituti musicali pareggiati a università, la cosiddetta Alta Formazione Musicale. L’Italia si trovava a essere il paese europeo con il maggior numero di università musicali, circa una settantina – in Francia e in Germania non sono più di dieci. Bizzarramente non erano stati creati gli istituti che avrebbero dovuto insegnare la musica nell’infanzia e nella giovinezza, magari con la fantasiosa idea che gli italiani nascessero “musicalmente imparati”, per essere alto formati dalle 70 università musicali. Solo in seguito apparirono medie e licei musicali, altra esperienza nata sull’onda di un’emergenza, in parte un po’ abborracciata e come vedremo nella sostanza deludente, benché non manchino eccezioni. Le bizzarrie non finiscono certo qui, tornando ai conservatori, occorre considerare che già ai tempi della riforma si trattava di realtà tra loro molto diverse, con qualche oasi di eccellenza, ma in genere di livello medio, talvolta mediocre, e in generale a vocazione fortemente corporativa. Fino allora avevano curato l’istruzione musicale dall’infanzia fino al diploma di strumento o in composizione, che erano i massimi titoli di studio musicale pratico che si potevano ottenere in Italia.
ISTITUTI E CONSERVATORI furono però trasformati in università senza alcun investimento, una delle tante inutili riforme a costo zero, e senza alcun reale controllo qualitativo, con professori che fino allora avevano magari insegnato i primi rudimenti del violino, che avrebbero dovuto fare l’alta specializzazione. E il reclutamento del corpo docente che ubbidisce ancora a logiche da burocrazia ministeriale, resta uno dei punti dolenti dell’intero sistema – l’unico che portò investimenti in questo settore con una politica di controlli qualitativi è stato Nando Dalla Chiesa, sottosegretario all’Università e Ricerca (2006 – 2008). Il problema dei licei e delle scuole medie musicali nasce invece dalla mancanza di chiarezza che affligge il sistema dell’insegnamento dell’arte dei suoni, dove andrebbero distinte con chiarezza almeno due tipologie di percorso. Occorrerebbe una alfabetizzazione musicale di base e da impartire in tutte le scuole primarie e secondarie, allo stesso modo in cui si insegna a scrivere. La finalità non è ovviamente creare un musicista professionista, ma un cittadino che possa avere un rapporto diretto con la musica. Altra cosa dovrebbe essere un percorso con finalità professionali: la formazione di un musicista per certi versi non è diversa da quella di un atleta. Così come non si diventa calciatori cominciando seriamente a giocare a pallone a 18 anni, la formazione di un musicista dovrebbe prevedere studi tecnici di difficoltà crescente a partire dalla fase preadolescenziale o al massimo adolescenziale. Va da sé: i due percorsi non dovrebbero funzionare come compartimenti stagni, e se un ragazzino durante l’apprendimento di base mostra spiccate qualità sarà dovere dell’insegnante segnalarlo ai genitori, per indirizzarlo verso una preparazione più tecnica. Licei e medie musicali in genere sono a metà tra i due percorsi, troppo per una semplice alfabetizzazione e forse troppo poco per una reale formazione. Fatto sta che, dopo essersi sparati notevoli pose da università e alti studi, conservatori e istituti musicali hanno voluto continuare a fare quello che hanno sempre fatto: i corsi pre-accademici, vale a dire formazione anche ai fanciulli e agli adolescenti, rendendosi conto che altrimenti avrebbero creato il vuoto intorno a loro, nonché causato una perdita culturale non da poco. L’esito è doppio: da una parte medie e licei musicali dall’altra i corsi pre-accademici dei conservatori, altro segno di mancanza di chiarezza nel percorso formativo. Il tutto non senza contraddizioni di cui caso esemplare è quello di Erica Piccotti, talento al violoncello, diplomatasi nei corsi pre-accademici del Conservatorio di Roma ad appena 14 anni, non poteva accedere ai corsi superiori poiché ancora priva di licenza liceale, dunque avrebbe dovuto aspettare 4 anni. In Svizzera è stata subito accolta in un istituto di alti studi.

il Fatto 17.2.14
Le eccellenze
Dove il suono riesce a regalare delle emozioni
di Pi. Do.


LA SCUOLA DI FIESOLE
Fondata nel 1974 da Piero Farulli, indimenticato violista del Quartetto Italiano, la Scuola di Fiesole è tra le più interessanti realtà. Dalla propedeutica musicale, per la primissima infanzia (0-3 anni), fino ai diplomi di alti studi musicali al perfezionamento post diploma, i suoi corsi seguono l’intero inter formativo di un musicista. A caratterizzare la Scuola di Fiesole è un particolare approccio alla musica, dove possono trovare spazio gli amatori, i dilettanti, i professionisti e la predilezione per la musica d’assieme, sia orchestrale che da camera.
pi.do.
I CONSERVATORI DI MILANO E L’AQUILA
I direttori dei conservatori solo in pochi possono scegliere in base ai titoli i loro docenti, per lo più assegnati da burocratiche classifiche ministeriali, dove la fanno da padrone anzianità, figli a carico, malattie croniche, eventuali disabilità. Si possono segnalare tuttavia tre conservatori che sono riusciti a fronteggiare i danni della riforma: quello di Milano, intitolato a Giuseppe Verdi, quello de l’Aquila, Alfredo Casella, e per i suoi corsi nella musica antica e barocca quello di Palermo, intitolato al catanese Vincenzo Bellini.
L’ACCADEMIA DI SANTA CECILIA
Oltre alle sue stagioni concertistiche, ha numerosi corsi di perfezionamento, tenuti da musicisti dell’orchestra o da docenti esterni, come quelli di composizione con Ivan Fedele. Merita anche l’Accademia musicale chigiana di Siena, fondata nel 1932 dal conte Guido Chigi Lucarini Saracini. Ha recentemente sofferto le disavventure del Monte dei Paschi ma vanta un corpo docenti, forse un po’ ingessato, ma ottimo. E l’Accademia di Imola è celebre per i suoi corsi pianistici, ma vi sono anche per direzione d’orchestra e altri strumenti.

il Fatto 17.2.14
Avvicinarsi alla musica da piccolissimi
di Andrea Apostoli

Aigam, Associazione Italiana Gordon per l'Apprendimento Musicale

QUANDO è il momento giusto per avvicinare il bambino alla musica? Avete mai notato che sappiamo tutti fare ciò che non ci hanno insegnato e che invece siamo in media più scarsi nelle discipline oggetto di corsi e lezioni? Tutti impariamo a parlare, anche più di una lingua, ma se ci chiedono di cantare… Se però ci avvicinano alla musica durante la prima infanzia tutto cambia. É solo una questione di tempi. Impariamo a parlare in quello che Maria Montessori chiamava il “periodo sensitivo” per il linguaggio. L’età neonatale. In questa età, senza bisogno di “lezioni”, apprendiamo in totale naturalezza i linguaggi più complessi della vita. Senza sforzo. La musica è un linguaggio complesso la cui sintassi si può assorbire ed apprendere da piccolissimi se gli adulti che si prendono cura del bambino semplicemente vivono con lui esperienze di ascolto e comunicazione musicale, se lo portano a concerti e magari a incontri tenuti da esperti di apprendimento musicale per la prima infanzia. L’attitudine musicale si sviluppa nei primi anni del bambino se gli adulti si rivolgono musicalmente a lui o se con lui condividono le emozioni che l’ascolto musicale comporta. Non sono la teoria o i nomi delle note ad essere appresi, ma il significato profondo della musica. Nella nostra scuola l’esperto musicale entra alla secondaria. Peccato. Quanto si potrebbe fare se a partire dal nido i bambini potessero entrare in contatto con chi è in grado di “parlargli” musica!
8.000 I GIOVANI STUDENTI DEL “SISTEMA” IN ITALIA
10% GLI ITALIANI CHE SANNO SUONARE UNO STRUMENTO
60 GLI ISTITUTI DI ALTA FORMAZIONE MUSICALE IN ITALIA

il Fatto 17.2.14
Grande idea, poche risorse
I ragazzi di Erasmus un successo a metà
di Carlo Di Foggia


In principio fu un italiano. “C’era un bando dell'università e avevo finito gli esami in anticipo. Non c’era un sistema, non avevamo internet, nulla. Dovevi fare tutto da solo: chiedere a un docente o a un’università straniera di ospitarti. Ma non sapevi come fare. Andai in biblioteca, presi alcuni libri di testo stranieri, a piè di pagina c’erano gli indirizzi degli atenei, mandai tre fax. Mi rispose l’università di Alicante, dissero che mi avrebbero ospitato. Dire che mi ha cambiato la vita è un eufemismo”. Nel 1987, Maurizio Oliviero non sapeva di essere un apripista, e che milioni di studenti lo avrebbero seguito. Nell'anno d’oro dell'integrazione europea, partecipò per primo a un’iniziativa sperimentale per la mobilità degli studenti, embrione di quello che sarebbe diventato il Socrates, poi integrato nel programma Erasmus. Da gennaio 2014, il programma si è evoluto con la nascita di “Erasmus Plus”, che ingloberà tutte le preesistenti iniziative per la mobilità europea, e si allargherà allo sport. L’obiettivo è raggiungere le 5 milioni di unità. I fondi stanziati ammontano a 14,7 miliardi di euro fino al 2020, il “40 per cento in più rispetto al passato”, ha spiegato la Commissione. I fondi sono aumentati soprattutto grazie agli accantonamenti riservati ad altri progetti. Ma difficilmente gli assegni mensili saliranno.
LA GENESI DI UN PROGETTO che a oggi ha permesso a oltre tre milioni gli studenti un soggiorno-studio all’estero, è controversa. Se è certo che la paternità dell'idea appartiene all'associazione Agee-Europe, guidata dal francese Franck Biancheri, è pur vero che l'impulso fu italiano. Nella prima fase del Mercato comune europeo, un progetto avanzato dall'Italia (starting work) proponeva di far circolare i migliori giovani ricercatori in campo scientifico all'interno della nascente Unione. Affiancare al libero scambio delle merci anche quello degli studenti. Un’esperienza unica, divisa in due categorie, studio o lavoro (stage e tirocini), per un periodo da 3 a 12 mesi. Conoscendo sì e no qualche parola della lingua, a migliaia partono ogni anno verso i quattro angoli del continente. Ovunque, il punto di ritrovo è l'ufficio Erasmus, dove si presentano le domande e si assegnano le mete in base alle graduatorie. Media più alta ed esami in regola garantiscono i posti migliori. Una volta arrivati, occorre registrarsi all'ufficio, che spesso fornisce una lista di alloggi disponibili e un “welcome pack”, una guida con nomi, numeri e luoghi più interessanti. Se si è fortunati, nell’università ospitante è attiva un’associazione (la più famosa è la Erasmus student network) che guida i nuovi arrivati alle prese con un’esperienza totalmente inedita .
Nessuno di loro se la dimenticherà facilmente, tanto che crescono i lavori di ricerca sulla “sindrome post Erasmus”. Tornati a casa, tutto diventa noioso, troppo semplice e vuoto, perché manca la novità, la vera costante dell’erasmiano. “Rientrare è stato durissimo – spiega Elisabeth, studentessa francese di Nantes, ora a Parigi – Ho fatto quasi un anno a Palermo. La gente a Parigi non ha il calore degli italiani. Il mio ragazzo è siciliano, e sto facendo di tutto per tornare a vivere in Italia”. C’è chi è rimasto a vivere all’estero, e chi come Gianpaolo di Avezzano lo ha fatto due volte. Prima a Lille, poi a Bruxelles: “Mi sono sentito europeo, e mi sono anche divertito. In Francia ho anche conosciuto la mia ragazza, è olandese”.
Dopo 27 anni, i figli dell'Erasmus, tre generazioni di ragazzi tra i 18 e i 45 anni che a un certo punto della vita hanno fatto i bagagli e sono partiti, sono un piccolo Stato. Nel 2012, 252 mila studenti si sono mossi per l'Europa. L'Italia è al quarto posto (32 mila), dietro Francia, Germania e Spagna. Nel 1988 erano poco meno di 4 mila. L'obiettivo dei 3 milioni, è stato raggiunto lo scorso anno. Apparentemente un successo, eppure siamo ancora a una piccola minoranza rispetto al numero totale di studenti. Ogni anno in media, gli “erasmiani” si aggirano intorno a una percentuale che va dall’1 al 3 per cento. Nella primatista Spagna rappresentano l'1,8 per cento del totale; in Francia sono l'1,4; mentre l'Italia, dopo essere salita nel 2010 (1,3), nel 2012 è scesa all'1,1 per cento, qualche decimale sopra la Germania (1,1). Non è un mistero che le ambizioni non fossero queste. Una storia di successo lasciata a metà, specchio anche delle contraddizioni europee. “È l’unico progetto politico riuscito di integrazione, capace di costruire un concetto vero di cittadinanza europea – spiega Oliviero, ora docente di diritto pubblico all'Università di Perugia e ambasciatore italiano per la promozione dell’Erasmus – ma è incompleto e soffre terribilmente della carenza di risorse. Mi spiace dirlo, ma allo stato attuale rimane ancora un’esperienza riservata ad una ristretta minoranza, che se lo può permettere”.
LA DISTANZA TRA L'IDEA ORIGINALE e i risultati ottenuti è un solco allargato di anno in anno dalla modesta dotazione finanziaria del progetto. Nel novembre 2012, il programma rischiò di essere la prima vittima dei veti incrociati in fase di approvazione del bilancio. In discussione c’erano 10 miliardi euro, ma solo 90 milioni erano destinati a pagare le fatture già emesse per il programma Erasmus di quell'anno. Spiccioli necessari a garantire almeno l'erogazione delle borse comunitarie. L’Erasmus rosicchia gli avanzi del bilancio, concentrato sui fondi per l'agricoltura (40 per cento) e le aree arretrate (30). In media la dotazione è di 400 milioni di euro l’anno (nel 2013 all’Italia sono andati 41 milioni). Di conseguenza le borse restano basse. Funziona così: una parte la mette l'UE (circa 250 euro al mese, 230 in Italia), i singoli stati integrano poi le risorse (in Italia la media è 200 euro). Nel novembre scorso, in Spagna, il ministro dell'Istruzione Josè Ignacio Wert ha tentato di ritirare (o meglio “concentrare”) il supporto economico statale agli erasmus non esentati dal pagamento delle tasse universitarie. In pratica, si concentravano le risorse sulle fasce di reddito più basse, di fatto già tagliate fuori per i costi non sostenibili. Così circa il 70 per cento degli erasmus spagnoli si sarebbe ritrovato improvvisamente senza la quota statale. “Già i soldi sono pochi e senza l’aiuto da casa non ce la fai, poi te li danno quasi sempre quando sei rientrato – spiega Imanol, studente spagnolo di San Sebastian, per lui 6 mesi a Foggia – Così facendo, una volta a casa, ti dicevano che non ti spettava nulla”. Proprio dagli studenti erasmsus a Foggia è partita una petizione per protestare contro il governo di Madrid. Dopo le migliaia di adesioni e l’attenzione dei media nazionali, un gruppo di tre ragazzi (Iñaki, Fernando e German) ha costretto il ministro a ripensarci. Anche in Francia i soldi sono pochi. “Ho preso 1100 euro per un anno, senza l'aiuto dei miei genitori, non sarei mai partita”, spiega Elizabeth. E così è in tutti i paesi. Ma è anche un investimento. Studi e ricerche certificano che in media gli Erasmus trovano impiego più facilmente e accedono al mercato del lavoro con salari più alti.

il Fatto 17.2.14
L’umanità narrata dal nostro Dna
di Laura Berardi


Il Dna ha il potere di raccontare dettagliate storie sul passato dell'umanità”. Parola di Simon Myers dell'Università di Oxford, una vera autorità in materia. Il ricercatore inglese, infatti, insieme ai colleghi dello University College di Londra e altri scienziati internazionali ha pubblicato su Science una mappa completa dei “rimescolamenti” genetici tra diverse popolazioni del mondo, avvenuti in seguito a importanti eventi storici. Lo studio ha rivelato, per esempio, che il genoma della popolazione Tu in Cina reca traccia dell'incontro avvenuto intorno al 1200 d.C. tra una popolazione europea, dal Dna simile a quello dei greci di oggi, e una più simile a quella cinese. Si tratta, probabilmente, di un risultato dei commerci sulla via della Seta, e dei conseguenti incontri tra mercanti del Mediterraneo e donne che vivevano lungo il tragitto commerciale.
Ma gli scienziati non si sono limitati a studiare i Tu: hanno analizzato il genoma di 1490 individui di 95 diverse popolazioni con complessi metodi statistici alla ricerca di pezzetti di Dna che si ripetessero in zone diverse del globo e identificassero un miscuglio genetico avvenuto in periodi storici ben precisi.
L’immensa mole di dati così ottenuta, resa interattiva e consultabile sul sito http://admixturemap.paintmychromosomes.com/  , ha già dato i suoi frutti: se fino ad oggi c’era solo qualche indizio che la popolazione Hazara del Pakistan discendesse da quella mongola, da adesso c’è qualche certezza in più, visto che parte del loro Dna è effettivamente uguale a quello dell’antico popolo combattente. “È come se ad ogni popolo fosse associata una tavolozza di diversi colori, corrispondenti a pezzetti di genoma”, ha spiegato Daniel Falush del Max Plank Istitute di Lipsia in Germania, co-autore dello studio. “Per dipingere il Dna dei moderni Maya si ha bisogno dei colori presenti nelle tavolozze delle popolazioni spagnole, native americane e dell'Africa occidentale”. In effetti, questo mix genetico, anch’esso analizzato nello studio su Science, risalirebbe al 1670 d.C., in accordo con ciò che sappiamo della colonizzazione di quel territorio. Risultati che potrebbero rivelarsi utili anche in medicina. “Comprendere similitudini e differenze nei Dna nel mondo - ha concluso Myers - può aiutarci a mappare i correnti fattori di rischio per alcune malattie, e magari anche la futura diffusione di rare patologie genetiche”.

La Stampa 17.2.14
Lo psicologo Michael Bailey: «L’orientamento dipende dalla natura al 30-40 per cento»
“L’omosessualità decisa dai geni”
Uno studio Usa «Ereditata come il colore degli occhi. Assurdo criticarla»
di Paolo Mastrolilli


NEW YORK L’omosessualità è influenzata dai geni, almeno in parte. Se verrà confermato, lo studio che lo psicologo della Northwestern University Michael Bailey ha presentato nei giorni scorsi al meeting annuale dell’American Association for the Advancement of Science potrebbe cambiare la percezione dei gay, e naturalmente riaccendere le discussioni. I suoi critici, infatti, già dicono che le conclusioni sono parziali.
Da anni gli scienziati indagano questo tema, per dirimere la fondamentale contrapposizione tra la natura e l’ambiente in cui si cresce. Se l’omosessualità è nei geni, e viene ereditata come i capelli biondi o gli occhi castani, cade ogni pretesa di attribuirla alla scelta delle persone, e quindi discriminarla come peccato o comportamento immorale e innaturale.
Già nel 1993 Dean Hamer dello Us National Cancer Institute aveva indagato le storie famigliari di cento gay, ed era arrivato alla conclusione che la loro tendenza era almeno in parte scritta nel cromosoma X. Oltre il 10% dei fratelli omosessuali la condividevano, contro il 3% nella popolazione generale. Una ricerca successiva aveva stabilito che 33 dei 40 gay analizzati avevano ereditato marker genetici simili nella regione Xq28 del cromosoma X. Erano seguite polemiche, corroborate anche da studi che negavano la connessione, dimostrando per esempio come tra i fratelli gemelli era abbastanza frequente che uno fosse omosessuale e l’altro no. Se queste persone che condividevano il Dna avevano inclinazioni diverse, il modo in cui erano cresciute era stato più importante nel definire le loro differenze, rispetto alla natura. Ora Bailey è tornato su questo punto, conducendo una ricerca su 400 omosessuali nati dagli stessi genitori. La sua conclusione è che almeno due geni influenzano la tendenza, uno appunto nella regione Xq28, e l’altro nel cromosoma 8. Questi geni vengono passati dalle madri ai figli, e sarebbero sopravvissuti all’evoluzione perché rendono le donne più fertili. Lo stesso Bailey, però, avverte che la sua scoperta non spiega completamente il fenomeno: «La tendenza sessuale dice non ha nulla a che fare con la scelta. I nostri risultati dimostrano che potrebbero essere coinvolti dei geni. Abbiamo trovato le prove per almeno due che influenzano se un uomo è gay o etero. Lo studio tuttavia non è completamente determinativo, perché anche altri elementi hanno un impatto».
Secondo Bailey, infatti, i geni decidono l’orientamento sessuale solo per il 30 o il 40%. Altri fattori poi giocano un ruolo, come quelli ambientali, o il livello di esposizione agli ormoni durante la gravidanza. Questo consente a lui di sostenere che comunque la natura ha un effetto determinante, e ai suoi critici di continuare a difendere la rilevanza delle scelte e delle condizioni in cui crescono le persone.

Corriere 17.2.14
Perché non capiamo la mente degli altri
Un manuale per aspiranti telepatici
Siamo convinti di sapere cosa pensa chi ci sta vicino ma ci inganniamo
di Massimo Piattelli Palmarini


Un secolo o quasi di divulgazione psicoanalitica ci ha reso tutti ben consapevoli dell’esistenza di un sornione e a volte pericoloso inconscio emotivo: l’inconscio freudiano. Ma le moderne scienze cognitive hanno rivelato l’esistenza di un altro tipo di inconscio, non meno sornione e a volte, seppur più raramente, anch’esso pericoloso. Meglio direi che si tratta non di uno, ma di molteplici inconsci cognitivi.
In numerose pubblicazioni e in un libro appena uscito, il cognitivista Nicholas Epley, dell’università di Chicago, ha sviscerato alcune caratteristiche di questo magma cognitivo interiore, soprattutto per quanto riguarda l’illusione di poter intuire i pensieri altrui. I suoi soggetti sperimentali osservano in un video un’altra persona che getta ripetutamente un dado. L’obiettivo è quello di far uscire il numero 1. Viene detto loro esplicitamente che, statisticamente, l’uno uscirà una volta su sei, cioè circa nel 17 per cento dei casi. A un gruppo si dice che il giocoliere è un normalissimo essere umano. A un altro gruppo viene, invece, presentato come un esperto giocatore professionista, capace di gettare il dado con speciale destrezza e manipolare il risultato a suo favore. Naturalmente è una balla e lo si dovrebbe indovinare, in quanto il dado viene fatto frullare in un boccale, prima di gettarlo sul tappeto verde. Eppure, i soggetti del secondo gruppo, specie dopo una breve serie di tre gettate che danno come risultato, appunto, il numero uno, sono convinti che la serie fortunata continuerà. L’intenzionalità delle azioni altrui, a differenza del puro caso, ci fa credere, inconsciamente, che possiamo prevedere quello che succederà.
Un’altra ossessione (se così posso dire) di Epley è quella di studiare il valore psicologico del dono. Un dono vale per quello che è, per l’oggetto stesso, ma vale anche come simbolo, cioè come manifestazione di un pensiero gentile. Epley si è prefisso di esplorare separatamente queste due componenti. Naturalmente, il donatore, se non è fisicamente presente quando il dono viene aperto, non ha modo di verificare quale di queste due componenti conta di più. Presentando in video situazioni di doni perfettamente azzeccati e di doni, all’opposto, smaccatamente sbagliati, ha chiesto ai suoi soggetti cosa pensavano. Supporre che prevalga la componente simbolica è nettissimo, come previsto, per i doni sbagliati. Tanto più quanto più donatore e donato sono socialmente tra loro legati. Quello che veramente contava, però, in tali suoi esperimenti, era il grande numero di anticipazioni errate. Tanto che Epley così concludeva questo suo lavoro del 2012: «I risultati suggeriscono che le nostre inferenze sugli stati mentali altrui e su quanto contano i pensieri altrui sono sistematicamente errate».
Calarsi nella mente degli altri è una costante irresistibile tentazione, ma poco sappiamo veramente farlo. La miglior guida, forse l’unica guida, sono le espressioni del viso, come i bravi attori ben sanno, soprattutto quando le interpretiamo subliminalmente. Qui spicca un esperimento strabiliante della neuroscienziata cognitiva olandese Beatrice de Gelder, dell’università di Tilburg. Premessa: i pazienti affetti da prosopo-agnosia, a seguito di una lesione in una specifica zona del cervello chiamata area fusiforme, non vedono i volti umani. Vedono benissimo quasi ogni altro oggetto o forma, ma non il volto umano. La de Gelder ha proiettato su uno schermo, a dei pazienti prosopo-agnosici, una dopo l’altra, cinque immagini (per noi) chiarissime di volti umani con altrettante evidenti espressioni: paura, rabbia, gioia, disgusto, sorpresa. Questi pazienti dicono di vedere solo una macchia ovale. Se, però, si chiede loro subito dopo, immagine dopo immagine, di scegliere, a loro piacimento, uno di questi cinque stati psicologici, la loro inconsapevole scelta collima benissimo con l’espressione mostrata. In altre parole, vedono bene l’espressione su quel volto, anche se non lo vedono come volto. Questo dato mostra quanto sia vitale per noi interpretare, magari inconsapevolmente, le espressioni dei volti. Questo sappiamo ben farlo, fino dalla più tenera età, come è stato ben dimostrato da esperimenti su bimbi piccolissimi.
Curiosamente, simmetricamente, forzare delle espressioni sul nostro viso condiziona, a nostra insaputa, i nostri pensieri. Se ci viene chiesto di tenere tra i denti, ben situata entro la bocca, una lunga matita, si forza una specie di sorriso. Ebbene, la nostra visione delle cose è un po’ più rosea del nostro normale. Se, all’opposto, ci viene chiesto di tenere con le labbra una corta matita, forzando una sorta di broncio, la nostra visione delle cose diventerà più pessimista del nostro normale. Increduli? Accorti esperimenti lo hanno mostrato senza ombra di dubbio. Sono effetti sottili, certo, ma insospettati e direi piuttosto preoccupanti. Impariamo, quindi, a essere sospettosi della nostra tendenza a indovinare quello che gli altri pensano. Al più, guardiamoli bene in viso.

Repubblica 17.2.14
Il padre di Internet: “Così la rifonderò 25 anni dopo”
di Enrico Franceschini


LONDRA - Venticinque anni or sono inventò il web. Oggi propone di reinventarlo, proteggerlo dalle minacce che gli sono sorte intorno. Tim Berners-Lee è lo scienziato informatico britannico che nel 1989 ideò per il Cern il World Wide Web, che scrisse il primo server (l’http), il primo browser e la prima versione del linguaggio di formattazione di documenti con capacità di collegamenti ipertestuali (l’html). Innumerevoli studiosi hanno poi contribuito allo sviluppo della rete, ma lui ne è considerato universalmente il “padre”. Adesso propone una serie di iniziative per “salvare il web” e farlo ulteriormente progredire. In un articolo per l’edizione inglese della rivista Wired, Berners-Lee afferma che, come qualsiasi 25enne, il web comincia soltanto ora a mostrare il suo pieno potenziale: «Ma è un potenziale che mi eccita e preoccupa allo stesso tempo, perché è sotto la minaccia di abusi da parte di governi, aziende e attività criminali».
Accanto alle azioni di terroristi cibernetici, di società che cercano di avere il monopolio del settore e di forme di censura statale, il pericolo maggiore è costituito, secondo Berners-Lee, da programmi di sorveglianza di massa da parte di agenzie di spionaggio elettronico negli Stati Uniti e in Gran Bretagna come quelli rivelati dalla talpa Edward Snowden nel Datagate, che rischiano di condurre «a una generalizzata perdita di fiducia e a una balcanizzazione del web».
Le sue proposte si muovono in quattro direzioni. La prima è la «re-decentralizzazione » del web. Chiunque può costruire un nuovo sito. E quando un sito chiude, il resto del web continua a funzionare indisturbato. Ma motori di ricerca, social network e sistemi di software, avverte Berners-Lee, possono oggi realizzare una situazione di quasi monopolio che rischia di limitare la libertà della rete. Sebbene le aziende leader della rivoluzione digitale siano spesso i propulsori di innovazioni positive, conclude, «dobbiamo stare in guardia davanti alla concentrazione eccessiva». Occorre dunque avviare un’opera di nuova decentralizzazione del web, che permetterà di modernizzarlo e difenderlo dagli abusi. Una seconda necessità è mantenere il web aperto a tutti: ogni piattaforma deve essere libera di usare il software che vuole installare. Un terzo impegno è quello di una sempre maggiore inclusione: più del 60% della popolazione mondiale è ancora tagliata fuori dal web. I costi restano una barriera per molti. Infine va combattuta una battaglia per la protezione della privacy e la libertà di espressione: dalla lotta alla censura alla denuncia dei programmi di spionaggio e a norme che impediscano un’indiscriminata sorveglianza di massa.