martedì 18 febbraio 2014

l’Unità 18.2.14
Governo, da Barca no con polemica: «Avventurismo»
di Federica Fantozzi


Il rebus dell’Economia resta al centro delle trattative di Matteo Renzi per formare il governo. Con un pressing instancabile su Romano Prodi (che resiste strenuamente), il nome nuovo di Guido Tabellini (ex rettore della Bocconi ed economista di rango internazionale), e la carta di riserva del fidatissimo Graziano Delrio.
Ma uno dei principali candidati, Fabrizio Barca, esce di scena in modo clamoroso, per colpa di uno scherzo telefonico della Zanzara a Radio24 con il solito falso Nichi Vendola: «Sono sotto pressione, ma non ci penso proprio - confessa l’ex ministro per la Coesione Territoriale - Ho rifiutato secco. Evitiamo una cosa a cui sono forzato. Mai una volta a chiedermi che farei da ministro: se facessi una patrimoniale da 400 milioni andrebbe bene? C’è un livello di avventurismo...». Inoltre, credendo di parlare davvero con il leader di Sel, Barca si lamenta di non essere stato chiamato direttamente da Renzi ma da «quarte, quinte persone». E indica in Carlo De Benedetti il regista dell’operazione: «Il padrone di Repubblica ha cominciato una sarabanda, con un forcing diretto di sms, attraverso un suo giornalista, attraverso il sito. Lui non si rende conto che io più vedo un imprenditore dietro un’operazione politica più ho conferma delle mie preoccupazioni». De Benedetti si dice «sbalordito, da me nessuna pressione, rispetto l’autonomia della politica ».
Un fuorionda pesante, che rivela come Via XX Settembre sia ancora lontana dal trovare un inquilino. Negativi anche Lucrezia Reichlin, indisponibile «ad andare in Europa a chiedere di sforare il 3% senza aver concordato prima con il premier le riforme», e Bini Smaghi. Franco Bassanini resterebbe alla Cassa Depositi e Prestiti, posto più sicuro e meno impopolare. In compenso spunta il nome - staffetta anche lì - di sua moglie, Linda Lanzillotta, ex ministro prodiano, oggi senatrice di Scelta Civica e sostenitrice delle liberalizzazioni. Girano i nomi di Tito Boeri, Franco Bernabé e Mauro Moretti. Ma la serie di no prestigiosi ha fatto sorgere l’ipotesi di spacchettare il superministero. Staccando il Bilancio, da affidare magari a Delrio nell’ottica di una spending review su cui il premier avrebbe il massimo controllo. Sebbene a tutt’oggi lui vorrebbe affidare al suo ministro di riferimento il ruolo di sottosegretario a Palazzo Chigi.
Allo studio anche l’eventualità di accorpare la Sanità con il Lavoro in un maxi-ministero del Welfare. Che difficilmente resterebbe a Beatrice Lorenzin: mettere in sinergia la riforma del lavoro e degli ammortizzatori sociali con il servizio sanitario indicherebbe una strategia precisa, che il premier affiderebbe a un nome suo (si torna a parlare di Piero Ichino). In parallelo, Maurizio Lupi potrebbe vedere i Trasporti divisi dalle Infrastrutture. Ma è una partita che coinvolge il Nuovo Centrodestra e non può prescindere dal Viminale. Al quale Alfano non si decide per ora a rinunciare: “Matteo” non vorrebbe lasciarglielo quando il pericolo di elezioni è sempre imminente, ma si rende conto che non può forzare più di tanto la trattativa con il Ncd appena accusato da Berlusconi di fare «la stampella della sinistra ». Al punto che si riparla di un ministero anche per Gaetano Quagliariello. Non le Riforme, prenotate per Maria Elena Boschi, ma che potrebbero addirittura essere soppresse. Del resto, il sindaco di Firenze non fa mistero di considerarlo un posto poco utile: «Meglio avere le riforme senza un ministero ad hoc che viceversa».
E fino all’ultimo resteranno aperte anche le altre caselle. Dario Franceschini punta alla Cultura. Federica Mogherini alle Politiche Comunitarie. C’è chi sussurra che potrebbe persino finire agli Esteri. Dove c’è Lapo Pistelli in pole per sostituire Emma Bonino (ma la questione della «continuità» alla Farnesina esiste). Mario Mauro vuole mantenere la Difesa per i Popolari (ma Dellai lo incalza). Grande confusione in Scelta Civica, dove per (al massimo) due ministeri sono in corsa Stefania Giannini (Istruzione o Cultura), Andrea Romano, Benedetto Della Vedova. Ma non è fuori dai giochi Luca Cordero di Montezemolo. Ieri mattina presto si è incontrato con il segretario del Pd. Per parlare di Alitalia, giurano i due. Ma il ministero del Made in Italy, magari attraverso il ripristino del Commercio Estero, non è tramontato.

Corriere 18.2.14
Barca tradito dalla radio: mi vogliono al governo, ma non ci penso proprio Vittima di uno scherzo, parla di un ruolo di De Benedetti
di Marco Galluzzo


ROMA — Lui, il dirigente dello Stato, il ministro possibile di Renzi, l’ex ministro di Monti, colui che doveva candidarsi alla guida del Pd e poi non si candidò, si chiama Fabrizio Barca ed è caduto nella trappola. Lo scherzo della Zanzara di Radio24 riesce, lui crede di parlare con Nichi Vendola e le spara un po’ su tutti: su De Benedetti che lo starebbe pressando per fare il ministro dell’Economia, su Renzi e i suoi metodi, su un Paese che «fra un mese potrebbe scoprire che non c’è nulla, il niente».
A fine giornata, dopo che la frittata è fatta, c’è poco da recuperare. Fabrizio Barca è affranto e riesce solo a dire che si sente «violato, come se fossero entrati i ladri a casa». Non è la prima volta che la Zanzara mette in qualche modo nei guai un personaggio pubblico, in questo caso il Barca «violato» è anche lo stesso che al telefono si lascia andare senza rete, dicendo tutto quello che pensa del momento.
Ecco cosa ha detto, almeno ritenendo di non essere ascoltato: «Non amo gli assalti. Sono sotto pressione, Nichi, una pressione che è crescente... Ma io non ci penso proprio, tanto per essere chiaro, ma proprio proprio!». Insomma niente dicastero di via XX Settembre.
Ancora: «Ho parlato con Graziano (Del Rio, ndr ) e pensavo 48 ore fa di averla stoppata questa cosa. Se fallisce anche questa è un disastro, però non possono pretendere che le persone facciano violenza ai propri metodi, ai propri pensieri. Quindi sono stato proprio chiarissimo». Anche se dai vertici del Pd assicurano di non avergli fatto proposte.
Barca difende la sua storia, la sua coerenza, dice che il governo nasce con un metodo sbagliato, «irresponsabile, con un livello di personalismo...», poi prosegue puntando l’indice sul proprietario del quotidiano La Repubblica : «È iniziata la sarabanda del padrone della Repubblica, che continua... Lui non si rende conto che io più vedo un imprenditore dietro un’operazione politica, più ho conferma di tutte le mie preoccupazioni. Si fa sentire, con un forcing diretto di sms, attraverso un suo giornalista... Questi sono i metodi. Legittimi, per carità. Questo è il modo di forzare, di scegliere, di discutere. Non una volta chiedendomi: ma se lo fai cosa fai?».
Ma il giudizio forse più allarmante è il pronostico su Renzi: «Nichi — prosegue Barca — è una cosa priva, dove non c’è un’idea, c’è un livello di avventurismo. Non essendoci un’idea, siamo agli slogan. Questo mi rattrista, sto male, sono preoccupatissimo perché vedo uno sfarinamento veramente impressionante».
Barca coinvolge anche la giornalista e amica Lucia Annunziata, direttrice del quotidiano online Huffington Post , edito in collaborazione con il gruppo l’Espresso. Lei: «Ho fatto come sempre solo il mio mestiere, fare telefonate, nessuna pressione». Lui: «Le ho dovuto mandare un sms scritto così: vi prego di non farmi arrivare nessuna telefonata». La telefonata che sarebbe potuta arrivargli era di un non meglio identificato «presidente»: per lei si trattava del capo dello Stato, che secondo le indiscrezioni avrebbe gradito Barca, «non certo De Benedetti»; per lui è meglio «non parlarne più».
Ultimo sfogo: «Sono colpito dall’insistenza, il segno della loro confusione e disperazione. E tutto questo non capendo neanche le persone. Se mi chiami, vengo, ci vediamo mezz’ora, ti spiego in cinque minuti e ti do anche qualche consiglio. No, invece tutto questo attraverso terzi, quarti, quinti, un imprenditore...».
L’imprenditore in questione, Carlo De Benedetti, poco dopo sente il bisogno di emettere una nota: «Da molti anni conosco e stimo Fabrizio Barca. Sempre che siano vere le dichiarazioni attribuitegli, rimango sbalordito. Non lo vedo, non lo sento e non scambiamo messaggi da diverso tempo. Non capisco pertanto da chi abbia ricevuto queste presunte pressioni a fare il ministro, certamente non da me. Non mi occupo di nomine politiche perché non è il mio mestiere. Ho sempre rispettato l’autonomia della politica».

Repubblica 18.2.14
La polemica Totoministri, Barca cade nella trappola del finto Vendola “Ho rifiutato l’economia”
“Pressioni da De Benedetti”. La replica: non è vero
di Tommaso Ciriaco


ROMA - Non è la prima volta che durante la trasmissione “La Zanzara” entra in azione un finto Nichi Vendola. Ieri l’imitatore del leader di Sel ha ingannato Fabrizio Barca. Al centro dello scherzo telefonico le voci che vogliono l’ex ministro del governo Monti candidato al dicastero dell’Economia. «Non amo gli assalti. Sono sotto pressione, Nichi - dice al telefono Barca - una pressione che è crescente... Ma io non ci penso proprio, tanto per essere chiaro, ma proprio proprio!».
Nel colloquio, trasmesso dalla trasmissione di Radio 24, Barca sostiene di aver ricevuto un insistente pressing per accettare il dicastero di via XX settembre: «Ho parlato con Graziano (Del Rio, ndr) e pensavo 48 ore fa di averla stoppata questa cosa. Se fallisce anche questa è un disastro, però non possono pretendere che le persone facciano violenza ai propri metodi, ai propri pensieri, alla propria cultura». Dal quartier generale di Renzi fanno sapere che né il segretario, né Guerini né Del Rio hanno avanzato proposte ministeriali a Barca.
Quindi Barca aggiunge: «Poi è iniziata la sarabanda del patron della Repubblica che continua... Lui non si rende conto che io più vedo un imprenditore dietro un’operazione politica, più ho conferma di tutte le mie preoccupazioni ». Una pressione che Barca sostiene essere frutto di Carlo De Benedetti. Di chi parli, chiede il finto Vendola: «Del padrone della Repubblica, con un forcing diretto di sms, attraverso un suo giornalista - risponde - con una cosa che hanno lanciato sul sito “chi vorresti come ministro dell'Economia dove ho metà dei consensi”. Questi sono i metodi. Legittimi, per carità». E ancora: «Non una volta chiedendomi: ma se lo fai cosa fai? Se io dico che voglio fare una patrimoniale da 400 miliardi di euro, cosa che secondo me va fatta, tu cosa rispondi? Mi dici che va bene?».
De Benedetti ha subito smentito quanto sostenuto da Barca: «Da molti anni conosco e stimo Fabrizio Barca. Sempre che siano vere le dichiarazioni attribuitegli, rimango sbalordito. Non lo vedo, non lo sento e non scambiamo messaggi da diverso tempo. Non capisco pertanto da chi abbia ricevuto queste presunte pressioni a fare il ministro dell'Economia, certamente non da me. Non mi occupo di nomine politiche perché non è il mio mestiere. Ho sempre rispettato l’autonomia della politica». Nello scherzo telefonico Barca chiama in causa anche Lucia Annunziata: «Ho rifiutato secco. Ieri ho dovuto scrivere un messaggio. Attraverso la Annunziata mi è arrivato un messaggio: ma se ti chiama il presidente? Ho dovuto mandare un sms scritto così: “Vi prego di non farmi arrivare nessuna telefonata”». Anche Annunziata ha prontamente smentito: «L’sms a Fabrizio Barca? Era mio, facevo il mio mestiere. Gli ho scritto “ma se ti chiama il presidente?”, intendendo naturalmente il presidente della Repubblica non De Benedetti. Comemolti altri giornalisti immagino ho mandato in queste ore un sms ai nomi in circolazione tra i possibili nuovi ministri di governo. I tabulati sono a disposizione».
Secondo l’ex ministro, non c’è stato alcun contatto con Matteo Renzi: «No, lui no. Tutto questo non capendo neanche le persone. Se mi chiami, vengo, ci vediamo mezz’ora, ti spiego in cinque minuti e ti do anche qualche consiglio perché io sono fatto così. No, invece tutto questo attraverso terzi, quarti, quinti, un imprenditore... ».

il Fatto 18.2.14
Renzi l’incaricato in barca
Nel giorno in cui viene designato premier, il segretario Dd si incaglia tra i “no” dei ministri e quelli dei possibili alleati.
E da Radio24 arriva la mazzata finale
di Wanda Marra


Sono le 10 e 20 quando Matteo Renzi, alla guida di una Giulietta bianca, accompagnato solo dal capo ufficio stampa del Pd, Filippo Sensi, varca la porta del Quirinale, per andare a ricevere l’incarico di formare il governo. Dieci minuti di anticipo. Alla direzione del Pd aveva rivendicato l’ “ambizione sfrenata” che l’ha portato fin qui: il sogno di fare il premier, la convinzione di poter riuscire dove molti hanno fallito. È serio, quasi compunto, Renzi, elegantissimo in abito blu, camicia bianca e cravatta scura, quando scende dalla macchina e si avvia a piedi al colloquio con Napolitano. È meno spavaldo del solito. Pochi minuti prima della fine dell’incontro - ben un’ora e mezza - la porta della sala alla Vetrata si apre, poi si richiude. E s’incastra. Ecco, che le cose non procedono esattamente a gonfie vele si capisce alle 18 e 50, quando Barca alla Zanzara, pensando di parlare con Vendola, dice: “Io ministro dell’Economia? Non ci penso proprio”. E il film dalla mattina si riavvolge, si vede in controluce. Niente colori sgargianti per il trentanovenne Renzi, che ottiene l’investitura più importante della sua vita, ma una sorta di bianco e nero, con molte ombre. Quello di Barca infatti è l’ennesimo no, che arriva dopo quelli dei Leopolda boys (Baricco, Farinetti, Guerra) e di quasi tutti i nomi che contano per l’Economia. Mentre è sempre più pressante la richiesta dei “piccoli” per una poltrona al sole.
DONATO MARRA annuncia che il “dottor Renzi” ha avuto l’incarico. Lui fa passare qualche minuto prima di uscire. È emozionato quando si avvicina ai microfoni e annuncia i contorni dell’operazione. Prima di tutto un “orizzonte di legislatura” e poi la doppia maggioranza: “una di governo e una per le riforme”. Il doppio cerchio che Napolitano teorizzava da mesi, che piace tanto a B. e molto meno ad Alfano. Renzi, parlando con i suoi, si dice molto soddisfatto del lavoro impostato con il Presidente. I problemi, a questo punto, sono altri. È chiaro, che l’asse portante sono le riforme, con Fi (“Ok farle secondo il calendario concordato con Berlusconi”, chiarisce la Gelmini). Altrettanto chiaro che di Ncd non può fare a meno, ma la trattativa non procede.
Renzi annuncia un programma talmente ambizioso da sembrare impossibile: “A febbraio legge elettorale e riforme, a marzo lavoro, ad aprile Pa, a maggio fisco”. Graziano Delrio, insieme a Lorenzo Guerini, Angelo Rughetti e Matteo Richetti sta sovrintendendo alla scrittura del programma. Programma che dovrà essere confrontato con quello di Ncd. Ieri il gruppo analogo, coordinato da Gaetano Quagliariello, ha ultimato un programma in foglio excel con proposte programmatiche e accanto voci di spesa e coperture. Inutile dire che il programma diverge in punti essenziali da quelli annunciato da Renzi, come la tassazione delle rendite finanziarie, le unioni civili per i gay e lo ius soli. E gli alfaniani vogliono anche alcune modifiche sull’Italicum. Renzi e Alfano si sentiranno oggi per cercare di mettersi d’accordo su contenuti e ministeri. Prima delle consultazioni ufficiali che sono in serata.
“METTERÒ tutto il mio impegno e la mia energia in una situazione difficile”, chiarisce Renzi, mentre spiega però: “Stiamo lavorando sui contenuti , abbiamo bisogno di qualche giorno in più”. Le consultazioni sono oggi e domani, giovedì e venerdì se li prende per chiudere la squadra, sabato dovrebbe giurare e presentarsi alle Camere a inizio settimana prossima. Non c’è lo sprint annunciato. Dopo il giro di prassi con Boldrini e Grasso, il premier incaricato va a Firenze, per l’ultima Giunta. Ai suoi parla di giornata “davvero molto positiva”. Chi lo conosce bene lo vede “consapevole” del peso della situazione. L’unica battuta che si concede nelle dichiarazioni ufficiali ai giornalisti gli esce un po’ sghemba: “Mi sono venuto a noia da solo leggendovi”.

il Fatto 18.2.14
Fabrizio Barca
Uno studioso nel deserto della sinistra
di Enrico Fierro


Lo scherzo non gli è piaciuto. Chi lo conosce bene dice che si sta mordendo le mani per essere caduto nella rete della Zanzara come un pivellino. Trappole della giungla dei mass media, un mondo feroce che Fabrizio Barca conosce poco e frequenta peggio. L’uomo è antitelevisivo e odia la politica ridotta a spettacolino da talk-show-spazzatura. Meglio i libri, l’economia, gli studi. Quel mondo sì, l’economista Barca lo conosce bene. In quel mondo è nato e cresciuto. “La sinistra è fatica”, si diceva una volta. E quella sinistra, quella politica speciale, fatta di analisi rigorose che poco e male si accompagnano alle battute a effetto, ai tweet, ai post, sono stati per anni la sua vita.
UNA CASA PIENA DI LIBRI, quella del papà Luciano (partigiano, dirigente comunista, direttore de l’Unità), tomi e riviste d’acciaio. Rinascita, Critica marxista, Politica ed Economia. I partiti producevano cultura una volta. Per questo, appena presa la tessera del Partito democratico, e iniziata l’impossibile impresa della conquista dei vertici, lancia lo slogan della “mobilitazione cognitiva”. Una frase che avrebbe stroncato un toro. Il partito è liquido, “americano”, evanescente. Lo hanno costruito così. Una macchina da primarie, con gruppi, correnti e sottogruppi. “Giovani turchi” e vecchi apparati, “rottamatori” e conservatori del potere che fu. Tutti in lotta tra di loro. Un mare agitatissimo nel quale l’economista Barca è un pesce fuor d’acqua. Gira per le sezioni, che nel frattempo hanno cambiato nome e si chiamano circoli. È il suo “Viaggio in Italia”. Una delusione. “Ma dove sono gli operai?”, si chiede. Non ci sono più, quei pochi che ancora resistono nelle fabbriche non frequentano il Pd. La politica non li vuole, li ritiene un ingombro, un orpello del passato. Paghino due euro e votino alle primarie. L’amarezza è tanta, l’analisi spietata: “La sinistra è un deserto di cultura politica”, scrive in un articolo. Difficile dargli torto. Anche il linguaggio del professore (Barca ha insegnato in varie università) è anomalo. Fuori tempo. A tratti incomprensibile. Nel suo “Manifesto per il buongoverno” getta nel panico militanti e dirigenti parlando di “catoblepismo”. Termine difficile, comprensibile solo a raffinati economisti. Si spiega: “Si tratta dell’espressione e del neologismo usati nel 1962 da Raffaele Mattioli per indicare il legame perverso prodottosi in Italia alla vigilia della crisi 1930-1931 fra grandi banche italiane di credito ordinario e industria”. Al Nazareno capirono in pochi. In molti sorrisero leggendo poi di “monitoraggio in itinere” e, peggio ancora, di “disintermediazione”. Fabrizio Barca è stato un “anomalo” anche da ministro per la Coesione territoriale del governo Monti. Nel paese frantumato da vent’anni di leghismi, lui se ne va a L’Aquila a parlare con i terremotati sfiancati dalle promesse di Berlusconi. Oppure, in pure spirito desanctisiano, si spinge fino a Bisaccia, quattro case nell’Irpinia d’Oriente, per conversare col suo amico scrittore Franco Arminio, paesologo e sognatore, di sviluppo e riequilibrio Nord e Sud. Pensieri fuori tempo per un personaggio che della sua diversità e del rifiuto della semplificazione della politica ha fatto la sua cifra. In tanti bramano per una poltrona da ministro, tantissimi sgomitano per salire sull’utilitaria del vincitore Renzi. Fabrizio Barca no. Perché “siamo agli slogan, non c’è un’idea. Non possono pretendere che le persone facciano violenza ai propri metodi, ai propri pensieri, alla propria cultura. Quindi...sono stato proprio chiarissimo ...evitiamo che nasca una cosa alla quale vengo forzato”. Lo ha detto a un finto Nichi Vendola. Era uno scherzo. Sta diventando una cosa maledettamente seria.

il Fatto 18.2.14
“De Benedetti mi voleva nel governo: ho detto no”
Tranello de “la Zanzara” all’ex ministro della coesione territoriale che confessa: “L’insistenza è il segno della loro confusione e disperazione”
di Stefano Feltri


Sembrava il favorito, anche se mai una volta aveva espresso l’ambizione di ricoprire l’incarico più difficile del momento, quello di ministro dell’Economia del nascente governo Renzi. A chi gli chiedeva se era pronto, Fabrizio Barca rispondeva sempre la stessa cosa: “Non ci penso proprio”. Anche perché da Matteo Renzi in persona non era mai arrivata nessuna richiesta formale, come ci ha tenuto a sottolineare l’ufficio stampa del segretario del Pd. Ma ieri questo messaggio è stato trasmesso in modo molto più esplicito di quanto desiderato, colpa di una intemerata telefonica della Zanzara, la trasmissione di Giuseppe Cruciani e David Parenzo su Radio24.
UN FINTO Nichi Vendola ha chiamato Barca e l’ex ministro della Coesione territoriale ha raccontato molti retroscena che non avrebbe voluto rendere pubblici: “Capirai che mi costa, visto come sono fatto. Ho parlato con Graziano (cioè Delrio. il braccio destro di Matteo Renzi, ndr) e pensavo di averla stoppata questa cosa... se fallisce anche questa è un disastro, però non possono pretendere che le persone facciano violenza ai propri metodi, ala propria cultura”.
Il finto Vendola della Zanzara insiste e Barca racconta di pressioni di Carlo De Benedetti , l’editore di Repubblica, sia “con un forcing diretto di sms” sia tramite un sondaggio del sito web del giornale in cui Barca risultava ricco di consensi. “Lui non si rende conto che io più vedo un imprenditore dietro un’operazione politica più ho conferma di tutte le mie preoccupazioni”, dice Barca, che ha passato gli ultimi mesi a girare l’Italia incontrando militanti del Pd, teorizzando un partito fatto di volontari ed emancipato da ogni sudditanza, culturale o economica. De Benedetti replica subito: “Da molti anni conosco e stimo Fabrizio Barca. Sempre che siano vere le dichiarazioni attribuitegli, rimango sbalordito. Non lo vedo, non lo sento e non scambiamo messaggi da diverso tempo”.
Nella telefonata Barca cita anche Lucia Annunziata, direttrice dell’Huffington Post dove l’ex ministro ha un blog: “Attraverso la Annunziata mi è arrivato un messaggio: ma se ti chiama il presidente? Ho dovuto mandare un sms scritto così... vi prego di non farmi arrivare nessuna telefonata”. Visti i buoni rapporti che ha sempre avuto con De Benedetti, Barca voleva evitare l’imbarazzo di una telefonata con l’Ingegnere avente oggetto il ministero dell’Economia. Quindi dallo staff di Barca, con un sms, hanno fatto arrivare il messaggio all’Annunziata, che ben conosce De Benedetti (l’Huffington è per metà del Gruppo Espresso). E il riferimento al “presidente” negli sms con l’Annunziata era il capo dello Stato Giorgio Napolitano, non De Benedetti (nessuno lo chiama “presidente” anche se presiede il Gruppo Espresso).
MA LE PERPLESSITÀ di Barca sul progetto renziano, comunque, sembrano più strutturali: “Sono colpito dall'insistenza, il segno della loro confusione e disperazione... e poi in tutto questo ovviamente io dovrei essere quello tuo.. E ovviamente c’è pure la copertura a sinistra... sono fuori, sono fuori, sono fuori di testa!”. L’ex ministro tecnico è anche perplesso perché si parla del suo nome ma non di un eventuale programma, solo della poltrona: “Non una volta chiedendomi: ma se lo fai cosa fai? Se io dico che voglio fare una patrimoniale da 400 miliardi di euro, cosa che secondo me va fatta, tu cosa rispondi? Mi dici che va bene?”. Quella della patrimoniale sembra una provocazione, giusto per evocare qualcosa di estremo (in questo momento la patrimoniale la evocano più i banchieri che i politici) e la scarsa attenzione per i programmi.
Anche quando Mario Monti gli aveva chiesto di fare il ministro della Coesione, Fabrizio Barca era convinto di avergli risposto di no in maniera abbastanza chiara. Poi, quando ha sentito il suo nome nella lista dei ministri, per quanto stupito, non si è tirato indietro. Questa volta è più difficile che la storia si ripeta. Ma di candidati credibili alternativi a Barca per il Tesoro al momento non ce ne sono.

il Fatto 18.2.14
La telefonata “Fra trenta giorni, quando si capisce che non c’è niente...”


Fabrizio Barca non viene portato nel discorso dall’imitatore della Zanzara. Risponde solo a una domanda: “Come stai?”. E questa è la risposta: “Non amo gli assalti, eccetera. Sono sotto pressione, Nichi, una pressione che è crescente. Ma io non ci penso proprio, tanto per essere chiaro, ma proprio proprio! (...) Capirai che mi costa, visto come sono fatto. Ho parlato con Graziano (Delrio, ndr) e pensavo 48 ore fa di averla stoppata questa cosa, se fallisce anche questa è un disastro, però non possono pretendere che le persone facciano violenza ai propri metodi, ai propri pensieri, alla propria cultura. Quindi sono stato proprio chiarissimo, evitiamo che nasca una cosa alla quale vengo forzato”.
Barca non si trattiene: “Poi è iniziata la sarabanda del paron della Repubblica che continua... Lui non si rende conto che io più vedo un imprenditore dietro un’operazione politica più ho conferma di tutte le mie preoccupazioni. Un imprenditore che si fa sentire...”. Il finto Vendola si fa ripetere il concetto ripetendo a chi si riferisca: “Del padrone della Repubblica, con un forcing diretto di sms, attraverso un suo giornalista, con una cosa che hanno lanciato sul sito ‘chi vorresti come ministro dell’Eco - nomia’ dove ho metà dei consensi. Questi sono i metodi. Legittimi, per carità. Questo è il modo di forzare, di scegliere, di discutere. Non una volta chiedendomi: ma se lo fai cosa fai? Se io dico che voglio fare una patrimoniale da 400 miliardi di euro, cosa che secondo me va fatta, tu cosa rispondi? Mi dici che va bene?” (...) “Nichi è una cosa che è priva... non c’è un’idea, c’è un livello di avventurismo. Non essendoci un’idea, siamo agli slogan. Questo mi rattrista, sto male, sono preoccupatissimo perché vedo uno sfarinamento veramente impressionante, Nichi”. L’imitatore di Vendola, Andro Merkù, continua a chiedergli del rifiuto: “Ho rifiutato secco, ma secco in un modo. Ieri ho dovuto scrivere un messaggio... attraverso la Annunziata mi è arrivato un messaggio: ‘Ma se ti chiama il presidente?’. Ho dovuto mandare un sms scritto così: vi prego di non farmi arrivare nessuna telefonata. (...) Sono colpito dall’insistenza, il segno della loro confusione e disperazione e poi in tutto questo ovviamente io dovrei essere quello tuo e ovviamente c’è pure la copertura a sinistra sono fuori, sono fuori, sono fuori di testa!”. Ma Renzi l’ha chiamato? “No, lui no. Tutto questo non capendo, Nichi, neanche le persone. Se mi chiami, vengo, ci vediamo mezz’ora, ti spiego in cinque minuti e ti do anche qualche consiglio perché io sono fatto così. No, invece tutto questo attraverso terzi, quarti, quinti, un imprenditore”. Il finto Vendola incalza sull’alleanza con i “diversamente berlusconiani”. E Barca: “Certo, certo, cosa è cambiato? (...) E poi non si ha idea entrando dentro cosa fai. C’è anche una questione di rapporti di fiducia. (...) C’è una cosa che si chiama umanità. Io penso che in tutta questa vicenda oltre alla irresponsabilità politica, ci sia anche un elemento disumanizzante. Cioè, il metodo è contenuto. Tutto questo è avvenuto con irresponsabilità e dei modi, con un livello di personalismo, con un passaggio all’i o”. La chiusura è senza scampo: “Il problema è un altro. Ma tra 30 giorni, quando si capisce che non c’è niente, il Paese dà di testa”.

il Fatto 18.2.14
Repubblica si ribella: “Non è il più furbo”


A REPUBBLICA sono di nuovo costretti a occuparsi del proprio editore, Carlo De Benedetti che, dopo essere stato una delle fonti dello “s co o p” di Alan Friedman (per Rcs e Corriere della Sera) sui contatti tra Napolitano e Monti nel 2011, ora è protagonista del caso Barca. Nella telefonata rubata dalla Zanzara a Fabrizio Barca, fino a ieri favorito per guidare il Tesoro, si fa riferimento a pressioni dell’Ingegnere per convincere il riluttante economista ad accettare la poltrona di via XX Settembre. Il direttore di Repubblica.it , Giuseppe Smorto, scrive un tweet polemico: “Barca pensa che @repubblicait faccia i sondaggi per favorirlo. Ma se ne facciamo uno su chi è più furbo, lui arriva u l t i m o”. Fabrizio Barca infatti aveva visto nel sondaggio del sito web che lo dava tra i potenziali ministri più popolari il segnale che il Gruppo Espresso lo spingeva. Lucia Annunziata, direttore dell’Huffington Post (partecipata del Gruppo Espresso), non ha gradito essere citata, anche se soltanto come ambasciatrice per riferire a De Benedetti di non chiamare Barca. “L'sms a Fabrizio Barca? Era mio, facevo il mio mestiere. Gli ho scritto ma se ti chiama il presidente?´, intendendo naturalmente il presidente della Repubblica, non De Benedetti. Nessuna dietrologia, nessuna pressione”. Barca le ha risposto su Twitter: “L'equivoco è solo su riferimento all'amica Lucia A che, come lei chiarisce, ’faceva suo mestiere’. Per il resto forte amarezza per violazione”.

il Fatto 18.2.14
A favore di flash e TV
“Sono uno di voi”, lo spot della Giulietta
di Andrea Scanzi


La manovra è così sfacciatamente mediatica che persino Chiara Geloni, non proprio una giaguara delle strategie, ha avuto buon gioco a ironizzarci su Twitter: “’Ma perché ogni volta va al Quirinale con una macchina diversa?’ ‘Perché così i giornalisti lo scrivono’”. Le ha fatto eco, tra un insulto e l’altro dei renziani, il deputato piddino Andrea Sarubbi: “Non trovo ancora interviste al concessionario della Giulietta. Nun me fate sta' in pensiero, eh”. In Rete è già nato il “generatore automatico di foto di mezzi di trasporto di Renzi”, che sta spopolando non meno del “generatore automatico di totoministri di Renzi”. Forse perché disquisire dei dettagli è quasi sempre meno stancante, da giorni si discute appassionatamente della Smart di Renzi: quella con cui è andato ad affrontare Enrico Letta, nella indimenticabile sfida all’Ok Corral dei democristiani 2.0. Ieri è toccato a una Giulietta. Intellettuali e fiancheggiatori stanno eroicamente tessendo le lodi di una tale scelta doppiamente proletaria. Tra una esegesi e l’altra, il fedelissimo Ernesto Carbone – proprietario della Smart – ha rivelato aspetti oltremodo avvincenti: “È comoda, sale e facciamo due chiacchiere”. Prima che un’ondata di “sticazzi” lo travolgesse, qualcuno - i soliti giustizialisti - ha biecamente sostenuto che Renzi accelerasse troppo. Carbone, protetto dai soliti quintali di gel e avvolto in gessati già fuorimoda ai tempi di Al Capone, ha per fortuna fugato ogni dubbio: “L’auto ha 13 anni. Accelera a fatica, poi parte di colpo". Quindi è colpa della Smart da rottamare, non del quasi rottamatore. Innamorato dell’apparenza forse perché debole in sostanza, Renzi ha un feticcio dichiarato per le auto minimali. Quando può, anzi, si presenta in bicicletta. Magari è una finta, come sostengono Alberto Ferrarese e Silvia Ognibene, autori del libro Matteo il conquistatore: magari a volte parcheggia l’auto (elettrica) dietro l’angolo, per mostrarsi in bici a giornalisti e fotografi. L’importante è che passi il messaggio: “Io sono come voi”. Già Francesco Rutelli raggiunse il Campidoglio con lo scooter e pure Ignazio Marino ama farsi ritrarre in bici, con tanto di casco e scorta pure lei pedalante. Perfino Enrico Letta era andato la prima volta al Quirinale con una Fiat Ulysse e l’ultima con una Lancia Delta. Se l’elettore pare odiare la casta, lo stratagemma più comodo è fingersi estraneo a essa. Per Renzi è un aspetto chiave. Agli amici racconta che la sua guerra alle auto blu sarà senza esclusione di colpi. Intento nobile, ovviamente. Si ha però la sensazione continua che il cambiamento renziano si fermi al superfluo: che la rivoluzione anelata dal sindaco part time di Firenze si accontenti della superficie. Del marginale. L’auto comune, in questo senso, assurge a simulacro da esibire per sancire la discontinuità con un passato che pure le mosse gattopardesche renziane sembrano invece voler reiterare. Renzi giura “di essere più grillino di Grillo” e quasi tutta la grancassa mediatica, con zelo commovente, celebra il Miracolo della Smart: del ragazzo-Premier della porta accanto. Sentendosi nel suo piccolo un po’ Papa, San Matteo gioca al Bergoglio del Mugello e preferisce dunque al pulpito la monovolume. Tutto molto bello, tutto molto furbo. Per quanto ammirati e anzi abbacinati di fronte a cotanto pauperismo post-paninaro, permane però un dubbio: forse la priorità degli italiani non è la vettura scelta da Renzi, bensì qualche mossa politicamente appena più rilevante e incisiva.

l’Unità 18.2.14
Il programma dei 100 giorni
L’ipoteca della legge elettorale
Lavoro, Pubblica amministrazione, fisco: l’agenda che Renzi vuol realizzare entro le elezioni europee
Ma nella maggioranza che lo sostiene c’è chi vuole prima ridiscutere l’Italicum
di Maria Zegarelli


È intenzionato a far dimenticare il prima possibile «il peccato originale», il suo arrivo a Palazzo Chigi senza la legittimazione elettorale. «C’è un solo modo per lavarsi del peccato originale: il battesimo ». Matteo Richetti, che di Matteo Renzi è stato convinto sostenitore dagli esordi dell’ormai ex sindaco, risponde così. Il battesimo. Che tradotto nel renzese vuol dire una road map stringente, incisiva, in grado di far arrivare agli elettori un segnale tangibile subito. Solo così Renzi può sperare di far dimenticare il prima possibile il trauma della direzione di giovedì scorso e conquistarsi il consenso di cui ha bisogno per affrontare la tornata elettorale che, secondo i beni informati, non dovrebbe andare oltre il 2015, malgrado le dichiarazioni ufficiali parlino di un orizzonte che punta al 2018.
Segnali forti su costi della politica, riforme, lavoro, pubblica amministrazione: tutte questioni da affrontare entro i primi cento giorni, che poi corrispondono all’appuntamento con le elezioni europee, primo vero test per il premier. L’unico problemino che ha si chiama Angelino Alfano, con il quale non c’è mai stato un feeling immediato, si lavora a trovarlo, Renzi lo rassicura sul perimetro della coalizione, ma il leader Ncd mette paletti e detta condizioni, a partire da peso e quantità dei ministeri per arrivare all’Italicum. Sulla legge elettorale il paletto lo ha posto Renzi: nel programma di governo ci entra solo per i tempi. Brevi. Il leader Pd parte da una constatazione: Alfano non può tirare la corda perché se si spezza l’unico a rischiare il soffocamento, per mano di Fi, è proprio lui.
È per questo che ieri il premier in pectore ha rilanciato proprio sui tempi appena concluso il lungo colloquio al Colle con il capo dello Stato: il suo governo procederà con una riforma al mese, a partire proprio dalla legge elettorale e le riforme istituzionali, febbraio, per proseguire con lavoro, marzo, pubblica amministrazione, aprile e fisco a maggio. Misure choc per un Paese sotto choc è la parola d’ordine dei Renzi boys. Ma da Ncd parte l’ avvertimento, una sorta di prova di forza pre-accordo di governo: è dalla maggioranza che dovrà partire il premier per le riforme, Italicum in primis, avverte Enrico Costa, presidente dei deputati alfaniani. In realtà è una risposta a Maria Stella Gelmini che da Fi dice che Fi è pronta «confermare l’intesa sulle riforme, purché non siano annacquate», ma il messaggio è diretto al Pd. Sarà il primo scoglio di Renzi in Parlamento: l’Italicum, quella legge elettorale che il premier assicura di approvare entro febbraio ma che il realismo di chi la politica la conosce, vede meno spedita verso la meta. Alfano vuole l’abbassamento delle soglie di ingresso per i partiti in coalizione e per quelli che si presentano da soli, oltre alle candidature plurime, ovviamente. E come se non bastasse anche al minoranza Pd torna alla carica sul tema.
Renzi, per ora, resta saldamente ottimiste, ha messo i suoi al lavoro e non accetta tentennamenti. Sul fronte delle riforme istituzionali il percorso è noto: superamento del bicameralismo e dunque Senato delle Autonomie a costo zero indennità per i suoi membri e una sola Camera che vota la fiducia al governo; attuazione del Titolo V con trasferimento di alcune materie di legislazione concorrente alla sola sfera dello Stato, soprattutto in settori come energia, infrastrutture e conflitto di interessi; superamento delle Province.
Sul capitolo lavoro molto è già individuato nel Jobs Act, le misure più importanti su cui il premier punta sono la riduzione dell’Irpef per i redditi più bassi (operazione che potrebbe valere 5 miliardi di euro con la riduzione di un punto per le prime due aliquote del 23 e del 27% ) e il taglio dell’Irap tra il 5 e il 10% per favorire imprese e nuovi posti di lavoro. A questo andrebbero affiancate misure per il welfare (previdenza, ,scuola) con interventi di sussidio che seppur non monetizzabili renderebbero più facile la vita dei lavoratori.
Allo studio gli introiti che dovrebbero derivare dalla spending review e dal rientro dei capitali all’estero, oltre al risparmio effettivo del calo degli interessi sul debito. Il minore gettito derivante da un taglio dell’Irap verrebbe compensato con una maggiore tassazione delle rendite finanziarie che non sarebbe però, quella patrimoniale che ancora ieri Susanna Camusso dalla Cgil è tornata a evocare e che Renzi vorrebbe invece evitare (Alfano non condividerebbe). Altro capitolo è la rivoluzione nel settore della Pubblica Amministrazione. «Noi puntiamo a rivoluzionare tutto - dice Angelo Rughetti - tagliando i mille tentacoli di questo mostro che si chiama burocrazia». Snellimento delle procedure, digitalizzazione, trasparenza dei tagli, incarico a termine per i dirigenti e bonus legato alla valutazione dei risultati ottenuti da un organismo terzo. Falce su doppi incarichi, doppie retribuzioni, poteri radicati e finora immobili.
È possibile, invece, che salti il decreto sul taglio del finanziamento ai partiti, ora al Senato, perché su questo sia Renzi sia Alfano sono sulle stesse posizioni: troppo lungo quel termine di tre anni. Meglio tagliare e farlo in maniera più radicale perché anche su questo fronte deve arrivare un segnale più forte. Ma se la scure scivola a dopo maggio è meglio perché in questo caso i rimborsi legati alle Europee sono assicurati e per un Pd che ha le casse vuote sarebbe un bella boccata d’ossigeno.

Repubblica 18.2.14
Il rischio dell’impasse
di Sebastiano Messina


E D’IMPROVVISO Matteo Renzi si ritrova prigioniero del fattore T, come tempo. Lui che ha fatto della rapidità la sua bandiera e della lentezza il suo nemico, lui che per tutti è diventato lo Speedy Gonzales della nuova politica e come l’ultrasonico Beep Beep beffa puntualmente ogni Willy Coyote che si illude di farlo cadere in trappola, all’uscita dallo studio di Napolitano è apparso per un attimo sospeso sul vuoto di un’impasse.
Mentre spiegava agli italiani che lui è perfettamente consapevole che «fuori da qui c’è un senso di urgenza delicato», e tuttavia adesso «ci prendiamo il tempo necessario», perché la virtù della rapidità non deve trasformarsi nel vizio della fretta, e d’altra parte «un orizzonte di legislatura necessita di qualche giorno di tempo», insomma se vogliamo conquistare tempo per questo Parlamento, se vogliamo «l’allungamento della prospettiva politica della legislatura», oggi dobbiamo perdere un po’ di tempo prima di far nascere il nuovo governo.
E naturalmente ha ragione, perché assemblare i cento pezzi del mosaico dei partiti richiede innanzitutto la virtù della pazienza, come sa bene Enrico Letta che dopo nove mesi s’è dichiarato pronto a tenere corsi zen nei monasteri buddisti, e infatti le parole di Renzi sarebbero suonate naturali sulla bocca del suo predecessore, ma la sorpresa è proprio in questo, nella scoperta che appena investito della nomina presidenziale Matteo Piè Veloce ha dovuto adottare la cauta circospezione di Enrico Il Prudente. E anche se il presidente incaricato ha bilanciato la sua brusca frenata con un’accelerazione della prospettiva, promettendo nientemeno che una riforma al mese e garantendo prima ancora di mettere piede a Palazzo Chigi che farà correre il suo governo al ritmo implacabile di un metronomo, quelle cinque parole («Ci prendiamo il tempo necessario») suonano strane come l’appello di un sequestrato, come una campana che per un tocco sembra incrinata da una crepa.
Matteo Renzi sa meglio di tutti che la rapidità è la sua arma migliore, quella che sa usare più di chiunque altro, rapidità nelle decisioni ma soprattutto nelle mosse tattiche, ed è stato grazie alla rapidità con cui è riuscito nella missione impossibile della riforma elettorale che si è fatto perdonare il peccato altrimenti mortale di stringere un patto con il condannato Berlusconi. Quella stessa machiavellica rapidità con cui ieri pomeriggio, con la nomina a presidente incaricato in tasca, si è precipitato a Firenze per quelli che ha pubblicamente definito «adempimenti istituzionali da sindaco», e mentre tutti pensavano che andasse a dire addio al Comune ha dimissionato il vicesindaco, spostandolo sulla poltrona di vicepresidente della Regione, e lo ha sostituto con il fidatissimo Dario Nardella, suo successore in pectore, che si farà le primarie da Palazzo Vecchio, una vera mossa del cavallo.
Proprio la parentesi fiorentina - nella quale Renzi è tornato Speedy Gonzales per un pomeriggio - ci ha mostrato la differenza con il surplace al quale è costretto il premier incaricato. «Muoviti fermo» dicono i siciliani a chi non deve andare né avanti né indietro, e forse il siciliano Alfano vorrebbe che il fiorentino Renzi cominciasse anche lui a «muoversi fermo», per poterlo chiudere nell’invisibile rete della trattativa senza fine e della contrattazione permanente, sul Viminale o sulle alleanze, sui sottosegretari o sulla soglia di sbarramento, sulle unioni civili o sulle poltrone dei boiardi di Stato. E magari, dopo aver incassato con un soddisfatto silenzio la fine dell’incubo del ritorno alle urne, dovendosi alleare obtorto collo con quegli «inutili idioti» che fino all’altro ieri gli contendevano la fiducia del Capo, Angelino sogna di ripetere l’impresa dei socialdemocratici tedeschi, che hanno perso le elezioni ma sono riusciti a inchiodare la Merkel per due mesi prima di firmarle un patto di governo più dettagliato di un contratto d’affitto.
Certo, una coalizione non può cambiare leader alla stessa velocità con cui Beep Beep fa il giro della montagna, ma è difficile non leggere nel semaforo rosso imposto al presidente incaricato dai suoi alleati la voglia di fargli rispettare i vecchi limiti di velocità del Palazzo, il desiderio trasparente di mettere un po’ di kryptonite nelle tasche del Rottamatore, per farlo diventare presto uno di loro. Sperando che Renzi non abbia il tempo di leggere quel sonetto del Belli che avvertiva: «Er tempo, fija, è peggio d’una lima / Rosica sordo e t’assottija/ che gnisun giorno sei quella de prima».

Corriere 18.2.14
Renzi in un percorso a ostacoli
I due rischi del bipolarismo forzoso
di Michele Salvati


Matteo Renzi è apprezzato per la sua propensione ad assumere rischi, accollarsi missioni all’apparenza impossibili; giusto apprezzamento perché quella propensione è uno (uno tra i molti) dei caratteri che un vero politico deve possedere. Domanda: quali sono i rischi principali che Renzi si è assunto con la sua decisione di sfiduciare il governo Letta? I rischi incombenti sono due, e hanno nome e cognome, perché rischi molto simili avevano assunto due suoi predecessori alla guida dei democratici, Massimo D’Alema e Walter Veltroni. E in entrambi i casi il rischio non era andato a buon fine e la scommessa era stata persa.
Rischio D’Alema. Anche D’Alema era diventato capo del governo, nel 1998, senza la legittimazione del consenso elettorale, con il voto in Parlamento che fece seguito alla caduta del primo governo Prodi. Di questa debolezza D’Alema era consapevole: oltretutto, allora, all’inizio della Seconda Repubblica e del bipolarismo, l’esigenza di una investitura popolare era ancor più sentita di adesso. Di qui il bisogno di trovare una conferma elettorale allo stato di fatto che si era creato, una sanatoria ex post di quello che era percepito come un vulnus originario. Com’è noto l’occasione venne offerta dalle elezioni regionali del 2000 e fu una sconfitta, che determinò il passaggio della presidenza del Consiglio da D’Alema ad Amato. Se diventerà presidente del Consiglio, anche Renzi oggi, come allora D’Alema, dovrà cercare una conferma e una sanatoria, e l’occasione è imminente: le elezioni europee di fine maggio. Se il Partito democratico a guida Renzi otterrà un buon successo, Renzi potrà andare avanti e passare ad affrontare il rischio successivo. Altrimenti Berlusconi troverà il modo di convincere Alfano — incerto se supererà la soglia per entrare in Parlamento — a far cadere il governo, subito o appena finito il semestre europeo, e chiedere elezioni anticipate. Tre mesi ci separano dalle elezioni europee: messo in salvo l’obiettivo della nuova legge elettorale, l’azione del governo e le dichiarazioni del suo capo saranno una lunga campagna ricca di iniziative e di promesse — popolari e populistiche — che consentano a Renzi di conquistare il favore degli elettori quando si voterà per il Parlamento europeo. Che diano l’immagine che il vento è cambiato, che il decisore decide, che spezza i vincoli che ci condannano al declino. Nel nostro Paese, basta l’immagine, com’è ben noto.
Ma veniamo al rischio successivo, il «rischio Veltroni». Lo si vede se facciamo l’ipotesi che Renzi sopravviva, e sopravviva bene, alla prova delle elezioni europee. Quello che avrebbero fatto Berlusconi e Alfano se fosse stato sconfitto, è probabile che lo farà ora Renzi: andare a elezioni anticipate per togliersi dalle costole un alleato scomodo come Alfano e costruire un gruppo parlamentare Pd più affidabile di quello con cui si ritrova. Quando? Sia per Alfano-Berlusconi, nel caso di insuccesso di Renzi, sia per Renzi, nel caso sia percepito come vincitore, la tentazione forte sarebbe quella di battere il ferro finché è caldo e andare ad elezioni nazionali il più rapidamente possibile dopo le Europee, anche in mezzo al semestre in cui l’Italia ha la presidenza del Consiglio europeo. Non è certo bello e confermerebbe l’immagine di confusione e inaffidabilità che all’estero hanno di noi, ma nulla lo impedisce ed è già avvenuto in alcuni casi per altri Paesi. Per Renzi altri sei mesi in compagnia di Alfano, e con questo Parlamento, potrebbero essere pericolosi se alle dichiarazioni di riforma non seguono riforme vere e la situazione economica non migliora decisamente. Si tratterebbe di una situazione che potrebbe metterlo in difficoltà quando dovrà affrontare il «rischio Veltroni», quello che l’allora segretario del Pd affrontò nelle elezioni del 2008 e si risolse in una sconfitta. Perché un conto è avere un buon successo nel contesto proporzionale e senza immediate conseguenze politiche delle elezioni europee, un altro è vincere nella singolar tenzone tra centrodestra e centrosinistra che la legge elettorale ora in discussione dovrebbe imporre. Ai sondaggi odierni che danno la prevalenza al centrodestra sul centrosinistra va dato lo scarso peso che hanno: ma occorrerà un Renzi al massimo del suo smalto per battere lo squadrone che il centrodestra è potenzialmente in grado di organizzare.
Questo è quanto si può dire oggi, con un ragionamento che già sconfina nella fantapolitica, perché molti possono essere gli incidenti di percorso e neppure è certo che Renzi, ottenuto il mandato, ottenga poi la fiducia parlamentare. Si entrerebbe allora in una situazione di stallo il cui esito potrebbe essere il ricorso alle urne con la legge proporzionale che risulta dalla sentenza della Corte costituzionale. E dunque un aggravamento della ingovernabilità, per l’assenza di una stabile direzione politica, che ormai perdura dalla fine dello scorso decennio. Per il bene del Paese, mi auguro che ciò non avvenga e che «l’energizzazione vitalistica del processo» — come Asor Rosa irride sul manifesto la scommessa di Renzi — abbia uno sbocco di governabilità e di chiarezza politica. Che potrebbe anche essere diverso da quello che il Pd e Renzi si augurano: avete voluto la bicicletta del bipolarismo forzoso? Allora pedalate.

La Stampa 18.2.14
Il possibile asse occulto Renzi-Forza Italia preoccupa Alfano
di Marcello Sorgi


La vittoria di Pigliaru in Sardegna, dove fino all’ultimo i sondaggi davano per favorito il presidente uscente Cappellacci, se non altro è un buon viatico per Renzi, da ieri presidente incaricato e ex-sindaco di Firenze. Un’ora e mezza di colloquio con Napolitano, a segnalare un’attenta disamina della situazione, un’insolita cautela istituzionale nelle parole dette prima di lasciare il colle dal leader del Pd, che subito è partito per Firenze per presentarsi dimissionario al consiglio comunale, e oggi comincia le consultazioni alla Camera.
In cima ai suoi problemi, il rapporto con i due tronconi del centrodestra, impegnati in una guerriglia mai vista prima. Renzi deve superare la diffidenza di Alfano, manifestata in modo diretto al Capo dello Stato, e pubblicamente dopo le consultazioni.
La polemica sugli «utili idioti», come Berlusconi ha definito gli esponenti del Ncd (replica di Alfano: è il Cavaliere che si circonda di «idioti inutili»), che ha inaugurato la stagione più dura dei rapporti interni alla destra, nasce proprio di qui. Gli ex berlusconiani, che erano gli alleati più vicini a Enrico Letta, temono che nel nuovo assetto Renzi possa avvalersi di un sostegno parlamentare aperto o occulto di Forza Italia, ciò che renderebbe ininfluente l’apporto, finora decisivo, del Ncd.
Renzi promette che la sua maggioranza sarà uguale a quella del governo precedente, Berlusconi si schiera dichiaratamente all’opposizione, ma tutto ciò non basta a rasserenare gli alfaniani, perchè al di là delle dichiarazioni il feeling tra il giovane incaricato e l’anziano leader del centrodestra è evidente, e confermato a qualsiasi livello all’interno di Forza Italia.
Inoltre Renzi si è presentato con un programma che prevede una riforma importante al mese, marzo la legge elettorale e l’avvio di quella del Senato, aprile il lavoro, maggio la pubblica amministrazione, e così via.
Al di là della difficoltà di imporre a un Parlamento abitualmente lento ritmi così serrati, va detto che su tutte queste materie un confronto, e in qualche caso un’intesa come quella già siglata sulla legge elettorale, tra Renzi e Berlusconi è possibile. Di qui l’inquietudine del Ncd, che tra l’altro deve fronteggiare un’inevitabile riduzione del numero dei propri ministri nel nuovo governo.

La Stampa 18.2.14
Strada in salita per il Tesoro I candidati si sfilano
La Reichlin chiede chiarezza, si lavora all’ipotesi Padoan
di Fabio Martini


La pressione, che è continuata, su Enrico Letta perché accetti di fare il ministro dell’Economia, dimostra e conferma che il presidente incaricato Matteo Renzi per ora naviga a vista nella definizione della “casella” più importante di tutte. Il premier dimissionario non ha cambiato idea, neppure davanti all’ipotesi di una Economia arricchita dalle Politiche comunitarie, una sorta di super-ministero Italia-Europa. La risposta di Letta agli interlocutori è stata cortese, ma lui informalmente e successivamente l’ha sintetizzata così: «No. Punto». Le pressioni su Letta segnalano una difficoltà sul dicastero più strategico, ma anche quanto sia complesso riuscire a realizzare il piano di Matteo Renzi nel rapporto tra i ministeri-chiave. Il presidente incaricato immagina di costruire una sorta di testuggine lungo l’asse Palazzo Chigi-XX Settembre, un blocco unico pronto a lanciare tutte le sfide e poi a realizzarle. In particolare nella sua sfida verso i conservatorismi europei, «una sfida rispetto alla quale bisogna anche saper essere impopolari a Bruxelles», dice il renziano Matteo Richetti, con l’obiettivo di imprimere uno choc ad dibattito finora ripetitivo e sterile su crescita e rigore.
Ma il piano della testuggine presuppone una sintonia totale tra presidente del Consiglio e ministro dell’Economia e da questo punto di viste le pressioni su Letta mal si conciliano con questa impostazione. Ma non soltanto Enrico Letta ha opposto il suo «niet». Ieri si sono persi per strada (o quasi) altri due papabili ministri: Fabrizio Barca e Lucrezia Reichlin. Il primo è fuori non solo perché non ha alcuna intenzione di entrare al governo, ma anche perché sarebbe impossibile farlo entrare in gioco dopo tranello che gli ha tirato la trasmissione radiofonica la “Zanzara”. Già ministro per la Coesione nel governo Monti, tra i principali teorici di una politica economica di “sinistra”, ieri pomeriggio Barca - immaginando di parlare con Vendola e non invece con un suo imitatore - ha svelato di aver già detto di no a Renzi, di considerare impossibile la realizzazione con questo governo di riforme incisive come una corposa patrimoniale e di considerare immorale lo sfratto a Letta. Uno scherzo dal quale l’intergrità della figura di Barca è uscita rafforzata, al tempo stesso annullando qualsiasi speranza di coinvolgerlo nel nuovo governo. E ieri si è fatta via anche Lucrezia Reichlin, economista con un nome da difendere, che da una settimana è chiamata in causa dai giornali come papabile all’Economia e che ha consentito di scambiare qualche battuta con una giornalista dell’Unità. Dice la Reichlin: «Io non vado in Europa a chiedere di sforare il 3% senza aver concordato prima con il premier le riforme necessarie all’Italia». Cosa che, finora, non è accaduta: «Non conosco il piano di Renzi e quel poco che ho letto finora non lo condivido». 
E considerando che si fatica a trovare un ministro politico che occupi questa poltrona, due sere fa è stato riservatamente avviato un sondaggio su Carlo Padoan, fresco presidente dell’Istat, già vice Segretario Generale dell’Ocse. Il rischio di binario morto è confermato anche dalla ipotesi, che pure non trova conferma, che alla fine a prendersi l’onere dell’Economia possa essere Graziano Delrio, uomo di fiducia di Renzi. Ieri mattina il quasi-premier ha incontrato il presidente della Ferrari Luca Cordero Montezemolo, provando a sondarne le disponibilità per un ministero di rillievo, ma l’incontro è stato interlocutorio. Complicata resta la partita a scacchi con il Nuovo centro destra, anche se Beatrice Lorenzin e Maurizio Lupi sembrano certi di poter ottenere la conferma. Con una preoccupazione ulteriore per Renzi, che si affianca a quella del toto-ministri: l’affare Etihad rischia di essere messo in discussione per effetto dello sconcerto suscitato tra gli emiri per l’azzeramento del promotore dell’intesa, Enrico Letta.

il Sole 18.2.14
La maggioranza
Alla ricerca di una cornice politica
Lo snodo della legge elettorale
di Stefano Folli


Il piglio del presidente incaricato, Renzi, appena uscito dal colloquio con il capo dello Stato, ha ricordato a molti altre figure del passato repubblicano. Amintore Fanfani è un nome al quale il sindaco di Firenze è già stato accostato e non solo per essere entrambi toscani. Stesso profilo decisionista, identica energia vitale incontenibile. Fanfani fu un riformista dinamico, Renzi aspira a diventarlo in fretta. Tuttavia Fanfani è stato uomo di grandi sconfitte nella Dc della sua epoca. Sapeva sempre riemergere dalle sue ceneri («Rieccolo» l'aveva soprannominato Indro Montanelli), ma il sistema politico era diverso da oggi. Chissà se Renzi sarebbe capace oggi di risalire la china qualora, ad esempio, il suo governo fosse stroncato in culla da qualche congiura politica.
Non accadrà, quali che siano le ombre che si allungano sul tentativo in atto. Niente di davvero ostativo. Il giovane quasi-premier ha preso lo slancio con uno stile franco e determinato che vuole essere anche un investimento su se stesso. E infatti l'altra figura del passato a cui in queste ore Renzi viene paragonato è Bettino Craxi. Quel modo di ruotare il capo a destra e a sinistra in modo ritmico, mentre scandisce bene le parole. Quel tono secco ed essenziale di chi dimostra di sapere quello che vuole e non ama essere intralciato.
Anche Craxi fu a suo modo un riformatore; anche lui – come in precedenza Fanfani – dovette scontrarsi con un coriaceo muro conservatore. La sua parabola coincise con la fine della Prima Repubblica, se vogliamo semplificare. E oggi Renzi si presenta come il profeta di una Terza Repubblica non ancora definita, ma che si annuncia.
Il problema del giovane incaricato è la necessità di confrontarsi con una politica sfilacciata in un sistema paralizzato. Il suo non sarà un «governo del presidente», come in un certo senso furono Letta e Monti, ma questo non fa che accrescere le sue responsabilità. Spetta a lui costruire la cornice politica entro cui collocare il suo governo. Che sarà pur sempre un governo di coalizione (Pd più centristi) e non un esecutivo mono-partitico, come Renzi ama pensare nei momenti in cui dimentica di essere in Italia.
È giusto affermare che la maggioranza sarà la stessa su cui si fondava l'esecutivo di Enrico Letta. Eppure questo non vuol dire che il terreno sia già pronto e dissodato per il nuovo presidente del Consiglio. Le frizioni con Alfano sono superabili, però indicano che il patto di coalizione va rinnovato attraverso una serie di opportuni tasselli. I ministeri, certo, ma anche alcuni aspetti del programma che sono parte integrante di un equilibrio di potere.
In altri termini, i punti programmatici annunciati da Renzi, con l'astuzia mediatica di promettere una riforma al mese, vanno calati all'interno di una cornice politica che dovrà essere chiara nei suoi contorni. La cornice di una «coalizione suo malgrado» che ciò nonostante deve offrire adeguate garanzie di reggere in Parlamento. Questo è un passaggio essenziale perché Napolitano chiese a suo tempo lo stesso rigore all'incaricato Bersani (ricordate?) impedendogli di rastrellare voti fra Camera e Senato senza un preciso accordo preliminare.
A Palazzo Madama, ad esempio, i voti per Renzi sono piuttosto stretti e infatti si parla di apporti da «dissidenti» grillini o del Sel. Contributi che sarebbero solo aggiuntivi se Renzi stipulasse un'intesa di coalizione con il Nuovo Centrodestra di Alfano. Serve una trattativa, naturalmente, e una certa capacità di compromesso da entrambe le parti. Ma in mancanza di tale intesa è difficile credere che il premier sarebbe autorizzato dal Quirinale a cercarsi una maggioranza al Senato nel giorno per giorno. E qui si arriva a uno dei due nodi politici più delicati. L'altro è la scelta del responsabile dell'Economia, una figura che deve assicurare competenza e sensibilità politica all'esecutivo: rendendosi garante in Europa della serietà riformatrice italiana e in Italia della convenienza di una scelta europea irreversibile.
Ma restiamo al nodo, diciamo così, politico-istituzionale. Allo stato delle cose esiste un accordo con il centrodestra di Berlusconi sulle riforme costituzionali e sul modello elettorale (che è legge ordinaria). Renzi ha rivendicato questa intesa che adesso va calata in un voto parlamentare. Si può dubitare, tuttavia, che la maggioranza di governo possa prendere forma senza interferire in nulla nell'intesa parallela fra Renzi e Forza Italia, un partito che si collocherà all'opposizione del governo.
La questione è cruciale. Se Alfano diventa partner irrinunciabile della maggioranza di governo è difficile pensare che non voglia chiedere correttivi a una riforma elettorale che, così com'è, lo cancella dalla scena politica. E se Renzi paga un prezzo ai centristi non è detto che il partito di Berlusconi voglia restare a tutti i costi il suo partner parlamentare per le riforme. I nodi vengono al pettine e quello della legge elettorale è un grosso nodo.

Il Sole 18.2.14
L’intesa con Alfano si gioca sulle soglie della riforma elettorale
di Barbara Fiammeri


Più che le poltrone, l'appoggio al governo Renzi di Angelino Alfano e Ncd si deciderà sulla legge elettorale. Il ministro dell'Interno chiede che vengano riviste al ribasso tutte e tre le soglie previste dall'Italicum: al 4% lo sbarramento per i partiti che partecipano ad una coalizione; dall'8 al 6% per chi si presenta da solo; dal 12 al 10% per le coalizioni. Sono paletti non negoziabili per Alfano (soprattutto il secondo) perché da questi dipende il futuro del Ncd, il suo potere contrattuale nei confronti di Fi.
Se la soglia dovesse rimanere all'8% per chi decide di non coalizzarsi, Alfano sarebbe costretto a tornare da Berlusconi e non a contrattare il suo eventuale ingresso in coalizione. La sconfitta del centrodestra in Sardegna contribuisce a rafforzare questa tesi. «In Sardegna non c'eravamo e Cappellacci ha perso per cinque punti percentuali. La presunzione e l'arroganza portano questi frutti», dicono i due capigruppo Costa e Sacconi con riferimento anche al durissimo scontro degli ultimi giorni con Silvio Berlusconi, al reciproco scambio di insulti tra il Cavaliere e l'ex delfino.
In attesa delle consultazioni ufficiali che si apriranno oggi alla Camera, anche ieri sono proseguiti i colloqui preparatori e le riunioni per mettere a punto le richieste da presentare al premier incaricato. Si era vociferato di un possibile incontro in serata tra Renzi e Alfano, smentito però da entrambi gli entourage.
Ncd continua a ripetere di voler sottoscrivere un «patto alla tedesca», sul modello di quello realizzato dalla cancelliera Angela Merkel e la Spd. «Abbiamo preparato un piano in cui sono indicate le priorità per i primi 100 giorni, la tempistica per realizzarle, le risorse da destinare e naturalmente la fonte di copertura», spiega uno dei ministri uscenti del Ncd. Si va dall'incremento delle detrazioni fiscali per i figli all'aumento della franchigia Irpef; dall'abolizione della nuova Imu per i capannoni industriali e gli esercizi commerciali all'accelerazione dei pagamenti dei crediti maturati dalle imprese. Ci sono poi temi "sensibili" che vengono inseriti nel programma come le unioni civili, ma «solo in seconda battuta, nella seconda parte della legislatura».
L'altra grande partita resta naturalmente quella della squadra di governo. Alfano insiste per voler mantenere il ministero dell'Interno. Al Viminale nessuno sta preparando scatoloni. Anche Maurizio Lupi (Infrastrutture) e Beatrice Lorenzin (Sanità) per il Ncd devono rimanere al loro posto. L'unico dato in uscita al momento è il ministro per le Riforme Gaetano Quagliariello. Ma siamo solo all'inizio della trattativa. Alfano vuole almeno un ministero istituzionale (quindi Interno, Giustizia o Esteri) ed uno economico. Senza contare che in discussione c'è anche il suo ruolo attuale di vicepremier.
Ma il punto fondamentale resta la legge elettorale. «Se Renzi pensa di fare con Berlusconi l'accordo sulle riforme contro la sua maggioranza di governo, non cominciamo neppure...», ammoniva ieri sera un senatore ricordando che se si andasse al voto oggi, la legge uscita dalla Consulta andrebbe «benissimo» al Ncd.

La Stampa 18.2.14
Matteo, premier a misura di fan
Immagini per ogni occasione: dalle auto al calcio, alle foto con i supporter
di Mattia


Il nodo della cravatta è perfetto, informano le cronache minute di giornata. La Giulietta con cui arriva al Quirinale è bianca. Sarà la Giulietta del portavoce, Filippo Sensi? Mah. Però è la stessa Giulietta con cui dopo se ne va. Era lui, al volante. Lascia il Quirinale e, strappo alla regola, invece di girare alla sinistra della statua equestre, gira alla sua destra. Ah, a proposito: poco fa era uscita un’auto simile ma non era la sua. Per l’occasione ha rispolverato il look istituzionale. Gallerie fotografiche ricordano quando dal presidente ci andò in grigio chiaro. Lui però ama il look informale, camicia bianca coi primi bottoni slacciati. Possiede giacche morbide sui fianchi e cravatte color glicine. Il famoso giubbotto di pelle alla Fonzie che «copiò da me», rivendica Roberto Formigoni sulle agenzie. Talvolta il «Marchionne style», cioè maglione blu, talaltra il total black. Dunque: oggi aveva la Giulietta bianca, ieri la Mercedes nera, l’altroieri la Smart blu. Ne siamo sicuri perché che ci è andato a messa a Pontassieve. Abbiamo letto che sono arrivati anche la moglie e i figli. Poi è tornato a casa. Poi ha caricato i bagagli ed è andato a Roma. Un giorno spuntò anche una Smart nera. Però ama il treno e quando ci sale legge i giornali. Oppure, twitta, certo. Qualche volta prende il taxi: ci sono le foto. A Firenze gira in bici.
Gli spunti sono molti anche se non si tocca il sublime della volta in cui Mario Monti, presidente incaricato, uscì dall’Hotel Forum, accanto ai Fori Imperiali, e ai cronisti disse soltanto: «Che bella giornata». E noi cronisti trovammo che fosse una battuta magnifica e ogni tre per due dicevamo «che bella giornata». Poi c’era il cane di Monti di cui non si conosceva il nome per la tradizionale riservatezza del professore. E il barbiere di Milano che aprì di domenica mattina per sistemare la bocconiana acconciatura e qualcuno gridò ai diritti sindacali violati, altri al deciso cambio di direzione di un’Italia che aveva da rimboccarsi le maniche. Anche stavolta c’è il barbiere, si chiama Tony. È stato lui a consigliare il taglio del ciuffo (segue galleria fotografica di testa con ciuffo e testa senza ciuffo) e chiede se le basette non stiano una meraviglia. Poi c’è il titolare della pizzeria Far West di Pontassieve. È foriero di dettagli: mangia la margherita, sempre e soltanto la margherita. Lui ha provato a metterci due acciughine ma niente. Mangia il primo quarto di pizza con le mani e il resto con le posate. Intanto che sta finendo la prima ordina la seconda e talvolta ne mangia un’altra mezza. Totale: due pizze e mezzo. Niente birra, solo coca. Paga sempre. La mattina va a correre alle 5.30 e si fa venti-ventidue chilometri. Fitta l’aneddotica del barista, della compagna di classe, dell’amico scout.
E allora se ne va dal Quirinale, guida ancora lui. Arriva sul lungotevere e c’è rosso e allora che fa? Si ferma. Gli operai al lavoro lo riconoscono e lo festeggiano: «Dajeee!». In via del Tritone uno gli lascia strada e lo saluta. Va al Senato e incontra una scolaresca di Sulmona. Ciao ragazzi, gli dice. Dammi cinque! Si danno il cinque (galleria fotografica di mani che si battono il cinque e di un pollice alzato a un vigile urbano). Toh, c’è un suo omonimo! È un commesso di Palazzo Madama. Che combinazione. Fa la foto al tesserino. Ma sarai mica di Firenze? No, dice l’omonimo, sono di Roma. Ciao. Ciao. Va alla stazione. È attorniato da giornalisti ma non parla. Saluta gli altri viaggiatori, si fanno un po’ di selfie. Lo esortano a cambiare l’Italia. Ci proverò, risponde lui. Escono alti auspici degli scienziati per la scienza, dei presidi per la scuola, del telefono rosa per le donne. Arriva a Firenze. Ancora folla, ancora cronisti, ancora bocca cucita, ancora selfie. Uno grida: adesso vinci lo scudetto. Giovanni Galli, portiere del Milan e suo avversario cinque anni fa per Palazzo Vecchio, dice che «come calciatore è scarso» (galleria fotografica di antiche e recenti prestazioni atletiche). Si clicca per leggere tutti i tweet. Tweet in cui dice «con tutta l’energia e il coraggio». Tweet in cui saluta il trionfatore in Sardegna, cioè @F_Pagliaru. L’hashtag è #cominciamoildomani (segue galleria fotografica con i suoi storici hashtag).
Ps. Per dare il contributo a una così ricca e minimalista cronaca, forniamo un succoso particolare: aveva la mano sinistra bruciacchiata. Ve ne siete accorti? La scottatura se l’è procurata un quindici giorni fa mentre preparava la cena ai bambini. Uova al tegamino.

La Stampa 18.2.14
Donne “fedeli” cercansi Matteo e il rebus quote rosa
di Maria Corbi


A.A.A cercasi donna ministro possibilmente bella presenza. Il toto quote rosa impazza e si cercano «le ministre» che nella squadra di Matteo Renzi dovrebbero occupare la metà delle poltrone. E ieri nei palazzi istituzionali come nei palazzi dei partiti si cercavano candidate adatte. Adagiato su un divanetto del Transatlantico, accanto al bar, Matteo Orfini (probabile ministro alla Cultura o all’Ambiente) chiedeva a una dei suoi: «Ma noi una donna decente giovane e in gamba non ce la abbiamo?». 
Evidentemente non rientra più in questa categoria Marianna Madia, la responsabile lavoro della segreteria di Renzi, fedelissima di Orfini e adesso di Renzi (ma prima ancora di Bersani sostenuto contro l’attuale premier incaricato). Insomma la onorevole di bella presenza - ma di qualche assenza quando si tratta di riconoscere i ministri (pensava di parlare con il ministro Giovannini e invece stava parlando con Zanonato) - sembra finita in una terra di nessuno. Troppi cambi di corrente. Un curriculum deboluccio. Mentre Matteo Renzi che sta valutando con cautela, spaccando i dubbi a metà, su una cosa è certo, quella di voler con se fedelissimi. Già le larghe intese creano problemi alla stabilità, meglio che non ci siano congiurati amici. 
Cercasi ministra. E se Emma Bonino sembra certa, Paola Severino sembra gradita. La Boschi sembra imposta dal neo premier. La Lorenzin da Alfano. Per le altre è meno facile.
Stefania Giannini di «Scelta civica» all’Istruzione? La più accreditata. Per adesso. Perché Matteo Renzi in quella poltrona vorrebbe avere una «sua» ministra visto che sul tema vuole intervenire a gamba tesa dopo i nodi delle riforme e delle tasse. E allora quel posto potrebbe essere di Simona Bonafè, renziana della prima ora, componente della commissione cultura, scienze e istruzione della Camera dei Deputati. In corsa anche Maria Elena Boschi, mentre sembra che la governatrice Deborah Serracchiani resterà in Friuli. 
E in questo toto quote-rosa all’ambiente potrebbe andare Chiara Braga, classe 1979, urbanista, componente della commissione Ambiente e della commissione bicamerale per i procedimenti di accusa.
Sembra certa Roberta Pinotti, senatrice, sottosegretario al Ministero della Difesa, folgorata sulla via di Renzi dopo un incontro a palazzo Vecchio, a Firenze. Alla Leopolda le chiese di coordinare un tavolo sulla Difesa. Lei rispose che avrebbe preferito un tavolo delle donne «perché bisogna finalmente passare dal parlarne al farle agire», spiegò.« Non basta metterle nel 50 per cento degli organismi. Devono avere agibilità». Un monito buono per adesso. AAA cercasi donna competente, non richiesta bella presenza.

La Stampa 18.2.14
Blair: “L’Europa sostenga Renzi”
Bruxelles insiste con il rigore. Rehn: siamo sicuri che continuerà sulla strada del consolidamento
di Francesca Paci


Matteo ha la forza il dinamismo e la creatività per farcela oltre a combinare il realismo e l’idealismo che sono necessari
Tony Blair ex primo ministro britannico

ROMA Se gli italiani sono a dir poco perplessi sulla staffetta di Palazzo Chigi a non esserlo affatto è Tony Blair, il parallelo politico più citato dai media internazionali nel tentativo d’inquadrare il rottamatore.
«Bruxelles ha bisogno che l’Italia assuma il ruolo di leadership che le compete e i leader europei dovrebbero sostenere compatti Renzi mentre si prende la responsabilità del futuro del suo Paese» osserva l’ex premier britannico oggi inviato Onu per la pace in Medioriente. Le sfide sono «formidabili», ammette Blair. Ma, a torto o a ragione, il laburista della Terza via ha sempre preferito l’ottimismo della volontà al pessimismo della ragione: «Matteo ha il dinamismo, la creatività e la forza per farcela oltre a combinare il realismo e l’idealismo necessari nei tempi in cui viviamo».
Mentre Renzi prepara la sua squadra, il resto del mondo aspetta di capire quali saranno i rapporti con Roma. Cosa pensa per esempio Angela Merkel, lady di ferro di quell’Europa di cui a luglio Renzi diverrà presidente? Il portavoce della Cancelliera Steffen Seiber glissa sulle impressioni dell’incontro con il leader del Pd, invitato a Berlino l’estate scorsa: «Quello fu solo un colloquio riservato». Ma a Bruxelles sono tutt’altro che disinteressati.
«Ho fiducia che le istituzioni democratiche italiane faciliteranno la nascita dell’esecutivo senza intoppi per fronteggiare la sfida della competitività e l’alto debito pubblico» commenta il commissario Ue all’economia Olli Rehn ribadendo di credere «che l’Italia continuerà a impegnarsi nelle riforme e nel consolidamento del bilancio nel rispetto dei Trattati». Primo: tagliare il debito, conferma il presidente Eurogruppo Dijsselbloem: «Seguo da vicino gli sviluppi politici in Italia che deve migliorare la competitività e fare ciò che deve».
Sebbene Moody’s abbia promosso la staffetta portando l’outlook italiano da «negativo» a «stabile» e lo spread sia ulteriormente sceso, la crescita potenziale del paese resta «debole» scrive l’agenzia di rating Fitch, spiegando che Renzi «avrà probabilmente le stesse difficoltà del suo predecessore» nel «fare le riforme che rilancerebbero la crescita e la competitività economica dell’Italia».
L’economia è la minaccia più insidiosa alla «irresistibile ascesa del Tony Blair italiano», come il quotidiano economico francese «Les Echos» definisce l’avvento del «più giovane premier dell’UE» che gli ricorda un mix di New Labour e Sarkozy.
Per quanto concentrata su se stessa, l’Italia non è un’isola. C’è l’Europa (Renzi ha spesso definito «anacronistico» il vincolo del 3%), c’è l’America di quell’Obama a cui il leader del Pd sarà stato lusingato di essere accostato dal quotidiano spagnolo «El Mundo» («l’Obama italiano»), c’è il Mediterraneo, di cui l’Italia è un importante partner commerciale. Le aspettative sono molte, prova ne sia che, in modo eccezionalmente speculare, rimbalzano dai media israeliani (secondo cui Renzi è «l’ultima chance per la politica italiana») a quelli arabi (Al Ahram fa gli auguri al «baby-faced Boy Scout»). Letta, poco sexy per gli italiani, aveva però un certo fascino all’estero tanto che ancora ieri ha ricevuto telefonate da Cameron, Netanyahu e dal premier francese Ayrault. Renzi, per cominciare, incassa l’endorsment di Tony Blair.

l’Unità 18.2.14
Pd, minoranza divisa tra no alla fiducia sostegno pieno e sì condizionato a Renzi
Documento dell’area Cuperlo, i Giovani turchi per ora non firmano
Bologna, si evoca la parola espulsione
«Il disagio qui al Senato va oltre la nostra mozione» spiega Mineo che al congresso ha sostenuto Civati
di Andrea Carugati


Gianni Cuperlo parla di un «sentimento di preoccupazione per come si è arrivati al passaggio di questi giorni». Spiega che «la decisione della Direzione del Pd, anche al di là di quanto avessimo immaginato, ha sollevato dubbi sui modi che hanno accompagnato la fine del governo Letta, una scelta oggettivamente traumatica, e l’annuncio di una svolta radicale». E ora chiede a Matteo Renzi una discussione sui «contenuti» e sull’«impianto» del nuovo governo.
Nelle prossime ore il leader della minoranza sarà a colloquio con il premier incaricato. E gli consegnerà un documento- elaborato con Stefano Fassina, Guglielmo Epifani e Cesare Damiano che mette in chiaro i desiderata della minoranza per dare contenuti a quel «cambiamento profondo» che è «l’unica giustificazione per le decisioni assunte negli ultimi giorni».
Cuperlo mette in fila i temi: il rapporto con l’Europa, la politica economica e industriale, la redistribuzione di risorse verso le fasce sociali più colpite, un investimento convinto sul capitolo dei diritti civili, della cultura e della scuola, una crescita sostenibile». Non manca un riferimento alla legge elettorale, su cui i cuperliani continuano a chiedere modifiche, dal superamento delle liste bloccate alla parità di genere. Fassina spiega: «Occorre rinegoziare gli obiettivi di finanza pubblica con l’Ue, per sostenere lavoro e imprese». E ancora, un «servizio civile per il lavoro» gestito col Terzo settore: sei-otto mesi di stipendio pari all’indennità di disoccupazione per gli under 32. Senza dimenticare la «soluzione strutturale» del problema degli esodati.
Un documento «riformista e di sinistra », spiega un bersaniano, che però non trova d’accordo tutta l’area Cuperlo. I Giovani turchi per ora non l’hanno firmato, «Non abbiamo letto nulla», spiegano Matteo Orfini e Francesco Verducci. Al di là delle bozze, si registra una differenza di linea tra le due anime. Con i Giovani turchi più convinti della staffetta tra Letta e Renzi e inclini «a vedere prima quale sarà la proposta del segretario», e i bersaniani più orientati a smarcarsi dal governo.
Ieri in Transatlantico Cesare Damiano ricordava che «io non ero per il voto favorevole in direzione». «Ora questa scelta va spiegata e bene ai nostri elettori, perchè in tanti non capiscono», ricorda Davide Zoggia. Le primarie per i leader regionali che hanno segnato un flop di partecipazione. E molti, non solo Fassina, pensano che sia una conseguenza dell’affondamento del governo Letta. La deputata bolognese Donata Lenzi parla di un «errore della minoranza ». «Questo nostro voto rischia di essere non solo un voto di responsabilità, ma di condivisione acritica. Quanto avvenuto non ha rispettato nulla dello stile insito nel rispetto delle istituzioni.
Questo è incomprensibile fuori dall’Italia e ci sarà rimproverato per molti anni a venire». Francesco Verducci, dei Giovani turchi, rivendica invece la scelta fatta: «In direzione ho votato sì con convinzione, senza leggerezza né superficialità. In questa fase non serve più un governo di servizio, ma costituente e di legislatura. Nel momento in cui il segretario del Pd decide di fare del governo costituente il “nostro governo”, è giusto che sia lui a guidare questo percorso».
Sul fronte Civati, l’altra minoranza è decisamente più ostile al governo Renzi. La fiducia dei sei senatori che hanno sostenuto il deputato di Monza alle primarie non è scontata. «E il disagio qui in Senato va decisamente oltre la nostra mozione», spiega a l’Unità Corradino Mineo: «Il segretario deve rispondere alle questioni politiche che abbiamo posto. Altrimenti, il rottamatore non può pretendere una obbedienza staliniana ». Mineo rilancia la tesi di Civati: «Bisogna fare una proposta a Sel e ai delusi dei 5 stelle, non si può pensare di andare avanti 3-4 anni con Alfano».
A Bologna scoppia un piccolo caso. Il segretario Raffaele Donini minaccia «espulsioni» per i parlamentari che non voteranno la fiducia. Tra i civatiani infatti c’è il senatore bolognese Sergio Lo Giudice. E anche Sandra Zampa, che però ha assicurato il suo sì. «Non sono un gendarme e non proporrò alcuna espulsione, che peraltro non mi compete. Ma un voto contrario al governo significherebbe nei fatti una rottura con il Pd», smussa Donini. «Non mi pare un grande segnale di rinnovamento minacciare espulsioni per chi pone problemi politici», replica Lo Giudice. «Sulla fiducia da parte nostra non ci sarà una decisione pregiudiziale. Contiamo di trovare nel programma di Renzi le risposte alle questioni che poniamo, dai diritti civili alle spese militari al lavoro». «Il problema- spiega il senatore bolognese- è che i nostri elettori non hanno compreso le ragioni di questa inversione di linea. Non puntiamo alla rottura, ma pretendiamo risposte da Renzi che non sono arrivate ». Sandra Zampa, vicepresidente del Pd, si chiama fuori e garantisce il suo sì a Renzi. «Ma non sono più disponibile a ingoiare rospi come nell’ultimo anno. Non è opportuno darsi come scadenza il 2018. Il segnale di un Paese sano consiste nell’andare alle urne».

Repubblica 18.2.14
L’intervista
Fassina: “Ecco le proposte della sinistra democrat Non ci chiedano di tacere”

di Tommaso Ciriaco

ROMA - Sta mettendo a punto la carta d’intenti della minoranza dem. Stefano Fassina ci lavora da giorni e la presenterà presto a Matteo Renzi.
Onorevole, è una sfida al segretario del Pd?
«No. Se di sfida si tratta, è per le riforme».
È la vostra ricetta “di sinistra” per il nuovo governo.
«Non è una brutta parola, ma in questo caso non si tratta di una ricetta di sinistra, solo di buon senso. Che l’Eurozona - dopo sei anni di austerità - si trovi su una rotta insostenibile, è opinione ormai prevalente. Ed è tesi comune che occorra intervenire per spezzare il circolo vizioso tra recessione, disoccupazione e aumento del debito pubblico».
Molto spazio sarà dedicato anche al nodo lavoro.
«Per noi il lavoro è una vicenda macroeconomica. Le regole del mercato del lavoro sono marginali, puntiamo su maggiori attività produttive, flessibilizzazione dei tempi di lavoro, contratti di solidarietà, incentivazione del part-time. E pensiamo che la disoccupazione giovanile vada attaccata con il servizio civile per il lavoro».
Dica la verità: volete imbrigliare Renzi.
«Dati l’allungamento dei tempi, è chiaro che non può esserci una soluzione in solitudine. Non può esserlo perché serve il consenso delle altre forze politiche. Noi offriamo un contributo, poi valuteremo i risultati».
Prima chiedete a Renzi di governare, poi iniziate a frenare?
«Scusi, in quale Paese il segretario del principale partito di governo sostiene che è fallimentare l’esecutivo di un premier del suo partito? Noi abbiamo chiesto solo di sciogliere questa ambiguità. Renzi l’ha sciolta, ma la scelta politica è stata sua. Noi abbiamo solo sollecitato un chiarimento».
Da una parte Alfano, dall’altra voi.
«Sappiamo che non è un governo di centrosinistra, sappiamo che ci vuole una mediazione e indichiamo risposte».
Condizioni irrinunciabili per il vostro sostegno al governo?
«Non possono esserlo, siamo tutti responsabili. È chiaro che rappresentano il nostro punto di vista: misureremo i provvedimenti del governo nel merito di questi punti».
C’è chi dice che avete già iniziato a logorare Renzi.
«Se l’alternativa è stare qui ed alzare le mani fino alle prossime primarie, lo dicano. Noi vogliamo contribuire a dare risposte. Se poi non bisogna disturbare il manovratore, basta saperlo così faremo le nostre valutazioni».

l’Unità 18.2.14
L’agenzia di rating
«Avrà gli stessi problemi di Letta»
Fitch non crede nella staffetta con Renzi


Le dimissioni di Enrico Letta e l’incarico a Matteo Renzi «sottolineano la volatilità della politica italiana». Lo afferma l’agenzia di rating Fitch in una nota. «L’incertezza sulla durata dei governi e sulla loro capacità di attuare le riforme strutturali e il consolidamento fiscale è tra le ragioni dell’outlook negativo sul rating “BBB+” dell’Italia», si legge nella nota. «Non è chiaro che continuità ci sarà tra l’amministrazione Renzi e il governo Letta», prosegue la nota sottolineando che il rating dell’Italia rimane legato all’attuazione della politica fiscale e alle riforme strutturali. «Il potenziale di crescita rimane basso», si legge, e «il significativo consolidamento fiscale ha lasciato uno spazio molto limitato per rispondere a shock economici».

il Fatto 18.2.14
Così si va a sbattere
di Antonio Padellaro


Dalla telefonata del finto Nichi Vendola che carpisce all’inconsapevole Fabrizio Barca una serie di indebite pressioni subìte per accettare la poltrona di ministro dell’Economia, ne esce benissimo il galantuomo modello di coerenza politica e disinteresse personale. Ne esce così così l’ingegner Carlo De Benedetti nelle vesti di padrone delle ferriere (e delle rotative di Repubblica),che sembra troppo interessato a quel dicastero (ma lui smentisce). Ne esce male Matteo Renzi: e non tanto perché, nella beffa ordita dai conduttori de La Zanzara (con relativa violazione della privacy), il regista dell’operazione Barca sembra proprio lui, manovrando da dietro le quinte; quanto per lo spaccato di intrighi che emerge, con l’assalto alla diligenza del nuovo esecutivo e con il leader Pd che non sembra recitare la parte dello sceriffo. Intendiamoci: da che mondo è mondo i governi si fanno così. Ma la novità Renzi, chissà perché, aveva fatto immaginare uno stile diverso, più lineare e trasparente, finalmente estraneo ai manuali Cencelli e alle trame di palazzo. È proprio questo il punto, poiché l’origine stessa dell’incarico ricevuto ieri da Renzi al Quirinale manca di trasparenza e linearità. Non è ancora chiaro, per esempio, che cosa ha portato una settimana fa alla liquidazione improvvisa di Enrico Letta, tanto è vero che da tutti i sondaggi d’opinione traspare una forte diffidenza per l’opacità della manovra. Il caso Barca, per le sue modalità, è un pessimo segnale che Renzi dovrebbe saper cogliere finché è in tempo, per “cambiare verso”. Procedendo sulla strada dell’ambiguità e del non detto, il rischio infatti è che, insieme al giovane e spericolato premier, a sbattere contro un muro vada l’intero Paese.

Il Sole 18.2.14
Il flop di domenica
Primarie democratiche rovinate dalla retorica
di Guido Compagna


Qualcuno l'ha detto e qualcun altro lo avrà pensato. Ma attribuire esclusivamente a un "effetto Renzi" il clamoroso flop di partecipazione alle primarie del Pd per scegliere i segretari regionali sarebbe, oltre che forzato, fazioso. Certo, e lo ha sottolineato Stefano Fassina, nella disaffezione verso i gazebo ha anche giocato il modo brusco, se non brutale, con il quale la direzione del Pd (non soltanto i renziani) hanno posto fine al governo guidato da Enrico Letta. Chi frequenta i circoli del Pd ha chiaro che nei giorni di vigilia di queste primarie, i sostenitori (a suo tempo) di Cuperlo e del sindaco di Firenze si ritrovavano nel lamentare la disinvoltura usata nel liquidare chi, prima di diventare primo ministro, era stato il vicesegretario del partito.
Ma fin qui siamo a un malessere che potrebbe essere anche soltanto occasionale. Invece l'insuccesso del voto per le primarie (che riguardavano cariche di partito) è dovuto a qualcosa che più che contingente è strutturale. Ieri sull'Unità Claudio Sardo parlava di "gabbie" che lo stesso Pd si è costruito, le quali avrebbero ridotto le primarie da «un'opportunità democratica a una condanna». C'è insomma una domanda che militanti ed elettori del Pd hanno il diritto di farsi e porre ai propri dirigenti: ha senso che a scegliere i dirigenti di un partito siano, oltre agli iscritti, gli elettori? Se, come dicono i suoi sostenitori, in questo modo si protegge il partito dall'influenza dell'apparato, dall'altro lo si espone al rischio che i suoi dirigenti siano il frutto di una sorta di circolazione "extracorporea", costituita cioè dal voto di elettori che potrebbero anche essere, in teoria, del tutto estranei al partito, visto che le primarie devono essere aperte.
La questione primarie riguarda solo incidentalmente il ruolo di Renzi. Il quale è stato scelto come segretario anche dagli iscritti ed è stato incaricato di formare il Governo dal capo dello Stato. Resta però una domanda: il ricorso più o meno permanente alle primarie giova o meno al Pd? In un bel saggio (Il libro nero della società civile), Michele Prospero ha denunciato il fatto che «la metafisica delle primarie le esalta come un bene indisponibile e resiste alla dura smentita dei fatti che per gli ideologi sono sempre irrilevanti». E si ricorda come l'essere passati dalle primarie non salvò Prodi dalle insidie della sua maggioranza e non consentì a Bersani di trovarne una sufficiente nel responso delle politiche vere. Quel che è difficilmente smentibile e che la "retorica" delle primarie abbia finito per mettere in crisi le primarie stesse. Le quali sono uno strumento efficace di democrazia per ridurre i danni di sistemi elettorali che non consentono la scelta dei candidati, ma sono prevalentemente occasione di confusione se usate per scegliere i dirigenti di partito. L'obiezione è che lo statuto del Pd prevede che si faccia così. Ma gli statuti si possono cambiare. Nei congressi. I quali però non si svolgono da tempo in quanto sono stati sostituiti (o meglio aggirati) dalle primarie.
Conclusione: Renzi è impegnato a fondo nel costruire il governo delle riforme. La sua tenacia è un buon viatico. Ma, visto il suo doppio incarico, dovrà occuparsi anche del partito e della sua organizzazione interna, la quale non può vivere di sole primarie. O, peggio, di retorica delle primarie.

l’Unità 18.2.14
Primarie flop
I segretari: Pd spaesato, ascoltiamolo
Interviste a Raciti e Alfieri: il caso Letta ha disorientato gli elettori
di Lura Marcucci e Gigi Matteucci


Il risultato finale ha rispecchiato i pronostici, il superfavorito Alessandro Alfieri - varesino del ‘72, ex bocconiano e capogruppo in consiglio regionale - è il neoeletto segretario del Pd lombardo. La sorpresa sta tutta nelle percentuali. Lui, renziano della prima appoggiato anche dai cuperliani, che già ricopriva il ruolo come reggente dopo che l’ex segretario Maurizio Martina era volato a Roma per entrare nel governo Letta, ha avuto il 57,2% dei voti. Cifre di tutto rispetto, ma non plebiscitarie. L’outsider Diana De Marchi, civatiana, la cui candidatura sembrava dovesse essere di pura testimonianza e data alla vigilia intorno al 15%, ha chiuso con il 42,8%, peraltro conquistandosi la piazza di Milano città. Insomma, pareva non dovesse nemmeno esserci partita (complice un battage promozionale pressoché nullo), e invece è stata pure combattuta. Altri numeri da tenere in considerazione, quelli in media nazionale della scarsa partecipazione: le primarie di domenica erano aperte, come le altre, invece hanno votato quasi solo tesserati Pd, e non più di 24mila.
Il malessere è diffuso, il segnale da parte della base è stato forte e chiaro, le pare? «È evidente che in alcune zone queste elezioni sono state vissute come un referendum pro o contro la staffetta Letta-Renzi. E il fatto che Civati si sia fatto paladino contro la staffetta ha favorito l’astensionismo e il recupero di De Marchi. Una settimana fa avrei vinto con un distacco più netto. L’astensionismo c’è stato, ma non ho mai pensato che i votanti sarebbero stati più di 30 mila al massimo: veniamo da un lungo congresso, che ci sia una stanchezza di fondo è fisiologico. Più preoccupante che la gente sia spaesata, arrabbiata, è chiaro che si è aperta una ferita profonda».
Lei condivide la svolta di Renzi?
«La condivido perché quando si è nella palude non si esce con la mediazione, ma con uno strappo. Sul metodo, però, ho forti perplessità: lo strappo va condiviso, spiegato. Noi infatti la settimana prossima partiremo con assemblee provinciali, proprio per confrontarci con le persone».
Come si recupera il disagio? «Con i fatti, con il lavoro concreto di tutti i giorni. Ci sono le condizioni per fare un ottimo lavoro sul territorio e per uscire dai palazzi. Meno mozioni, più presenza sul territorio, per affiancare chi ci vive e ci lavora».
La prima assemblea regionale sarà il 2 marzo: che rapporti intende avere con DeMarchi e coi civatiani in genere?
«La incontro domani (oggi, ndr), decideremo insieme il da farsi. Che ci sia bisogno di lavorare tutti uniti mi sembra evidente».
Questo è un messaggio per Civati?
«Non mi sembra che Civati abbia votato molte fiducie al governo Letta di cui adesso è strenuo difensore. Bisogna tenere insieme il partito con responsabilità, deve decidere da che parte stare, non abbiamo bisogno di persone che remino contro, ma che diano un contributo, anche critico».
Il suo programma si intitola «Lombardia 2018», perché le prossime regionali si iniziano a vincere adesso: a partire da quali temi?
«A parte il fatto che la prima sfida a Maroni sono le amministrative di quest’anno, per noi prioritario è il lavoro. Abbiamo sempre parlato di lavoro, sì, ma per lo più di quello garantito. Qui invece la realtà è complessa, variegata, abbiamo una miriade di micro e piccole imprese artigianali, di partite Iva, molto terziario avanzato. È anche questo il lavoro che dobbiamo sostenere, ed è importante valorizzare la specificità lombarda all’interno del partito nazionale. Quando Renzi parla di un piano per il lavoro, io vorrei sapere che significa questo per la Lombardia. Perché è chiaro: qui la situazione è ben diversa da quella, che so, siciliana o laziale».
La prima mossa? Anche lei, come Renzi, pensa ad una proposta al mese?
«La settimana prossima presentiamo la nostra riforma sanitaria. Prevenzione, razionalizzazione della rete ospedaliera, ridefinizione del rapporto pubblico- privato, progressività per i ticket, nuovo sistema di controlli, dopo gli scandali San Raffaele e Maugeri. Voglio proprio vedere se la bocciano».

«Troppe elezioni e la “staffetta” ha spiazzato molti»

Sì, l’affluenza è stata scarsa ma solo da un punto di vista relativo. In Sicilia hanno votato 75mila persone e questo è un dato importante in termini assoluti, soprattutto se teniamo conto che quelle persone sono andate a eleggere un segretario regionale. Comunque è evidente che c’è una certa stanchezza per l’eterno ciclo convenzioni- primarie, primarie-convenzioni, oltre alle elezioni vere, a cui sottoponiamo i militanti del Pd ormai da quando ci fu la sfida tra Renzi e Bersani ». Fausto Raciti, che guidava una coalizione di cuperliani e renziani, è il neosegretario siciliano del Pd. Non ancora trentenne, ha vinto con oltre il 60 per cento dei voti.
Insomma, troppo spesso alle urne?
«Sì, e poi c’è un disorientamento legato al recentissimo dibattito del Pd, quello che ha portato alle dimissioni di Letta. Direi che c’è partito disorientato trasversalmente, perché quella di Renzi è una mossa che, per quanto io la condivida, ha spiazzato moltissimo».
Molti tendono a ridimensionare la portata della cosiddetta “staffetta” sull’affluenza ai gazebo.
«No, invece un peso lo ha avuto. Qualcuno si aspettava elezioni anticipate, altri un deciso rimpasto di governo. In pochi avevano previsto questo esito. Ripeto, considero questo esito positivo, ma sarebbe fare un danno al Pd non rilevare che ha provocato disorientamento. Dopo vent’anni di presidenzialismo di fatto, in cui il popolo ha indicato direttamente il presidente del Consiglio - e dopo una retorica che è stata accompagnata dalla retorica nostra di segno solo in parte diverso - che si arrivi a uno scontro del genere tra persone dello stesso partito è stato percepito come traumatico ».
C’è il rischio che la tenuta del Partito democratico rimanga un po’ in ombra rispetto ai problemi del governo?
«Il tema su cui ci dobbiamo focalizzare se dobbiamo dare una risposta a questo disorientamento è quello del rilancio dell’azione di governo, dello sviluppo, in particolare quello del Mezzogiorno».
Forse c’è anche un problema di strumenti. Le primarie, così come sono, possono ancora reggere? «Il regolamento è rimasto quello di prima perché l’assemblea che lo doveva modificare (quella che, per intenderci, ha eletto Epifani) era nel frattempo invecchiata. È comunque chiaro che eleggere un segretario regionale con le primarie è una cosa piuttosto inedita in Europa».
Non c’è forse un ricorso eccessivo a questo strumento?
«È chiaro che il doppio ricorso alle primarie e alle convenzioni crea una macchinosità, soprattutto quando hai appena fatto convenzioni e primarie per eleggere il segretario nazionale ».
Occorrerà rimettere mano allo statuto del partito?
«Mi auguro che questo avvenga e che si cerchi di organizzare un partito in grado di gestire meglio il proprio pluralismo. Bisogna trovare dei luoghi migliori per le decisioni. Perché un conto sono le cariche monocratiche elettive, sulle quali le primarie possono avere un senso. Un conto sono gli organismi interni, per i quali lo strumento primarie mi sembra che sia piuttosto logorato».
Lei rappresenta sia cuperliani che renziani. Operazione apparentemente non semplice.
«L’unità che si è raccolta intorno alla mia candidatura è nata prima della mia candidatura. C’è un problema attinente la capacità del Pd di recuperare credibilità e autorevolezza e di incidere nei processi di governo. Di fronte a questo, la prima riflessione fatta in Sicilia è che era necessario superare le lacerazioni degli ultimi anni». E queste lacerazioni fino a che punto possono essere considerate superate?
«Il problema è che il Pd si presentava per la presidenza della Regione come un partito diviso. Oggi si presenterà come un partito unito, determinato a dire la sua sui processi di governo».

il Fatto 18.2.14
Primarie, crisi di nervi nei seggi vuoti
Crollo di affluenza nelle urne per i segretari regionali dem. Denunce di brogli in diverse città
di Luca De Carolis


Non è andata male, è andata peggio. Con l’affluenza crollata ovunque, un candidato barricatosi in sede come “prigioniero politico dei brogli”, accuse e ricorsi da Nord a Sud. Tirava una brutta aria, alla vigilia delle primarie per i segretari regionali del Pd. Ieri le urne hanno dimostrato che non era un venticello pessimista. Renzi potrebbe comunque sorridere, perché i nuovi coordinatori di 14 regioni (più la provincia autonoma di Bolzano) sono in gran parte suoi, o comunque scelti d’accordo con i renziani. Ma a sminuire le bandierine piazzate ovunque dal prossimo premier ci sono i seggi semivuoti: dal Lazio, dove i votanti sono stati 52 mila, a fronte dei 120 mila del 2012, alla Liguria, dove ieri sono andati ai gazebo in 20 mila. Meno di un quarto rispetto al 2009, quando per il segretario regionale votarono in oltre 87 mila. Numeri in caduta libera anche in Sicilia (dai 197 mila del 2009 a 77 mila), nelle Marche (da 79 mila a 12 mila scarsi) e in Piemonte, dove ieri hanno votato in appena 24 mila. Certo, nel paragone con le primarie del 2009 va ricordato che cinque anni fa ai gazebo si andò per scegliere anche il segretario nazionale (era la corsa tra Bersani, Franceschini e Marino): un evidente traino, per le consultazioni locali. Ma le cifre rimangono ugualmente quelle di un flop. Peraltro, accompagnato da una pletora di segretari scelti con accordi tra correnti prima di domenica. A gettare una luce plumbea sulle primarie sono però le denunce di brogli, già copiose nella scorsa tornata nazionale.
L’EPICENTRO DEI NERVI, come già accaduto a dicembre, è Salerno: feudo di Vincenzo De Luca, renziano acquisito. Due mesi fa l’eterno sindaco aveva trascinato il rottamatore al 72 per cento in città. Ieri ha pesato parecchio sul successo della candidata renziana Assunta Tartaglione, nuovo segretario regionale con oltre il 58 per cento dei voti. A Salerno la deputata ha dilagato con oltre l’87 per cento. Ma un altro dei tre concorrenti, il lettiano Guglielmo Vaccaro, non ha gradito. Domenica sera ha occupato la sede di Salerno dei Democratici, e ora accusa: “Mi dichiaro prigioniero politico dell’università dei brogli del Pd salernitano. Non è pensabile e non è possibile che a Fisciano, un comune di 11 mila anime, votino 1.550 persone in un seggio in 12 ore, con una media di una ogni 27 secondi”. Vaccaro assicura che uscirà “solo quando avrò avuto soddisfazione dalla commissione regionale di garanzia e da quella nazionale”. De Luca tira dritto: “Non mi interessano i cabaret”. Nuvoloni neri anche sulle primarie in Calabria, dove va ancora trovato un vincitore. Il renziano Ernesto Magorno, sindaco di Diamante (Cosenza), non avrebbe raggiunto la maggioranza del 50 per cento più uno. Sarà quindi l’assemblea regionale a eleggere il nuovo segretario. Magorno ha ugualmente rivendicato la vittoria al primo turno, mentre Canale parla di “assemblea sicura”. A dirimere tutto dovrà essere la commissione regionale, tirata in ballo da ricorsi incrociati. I cuperliani accusano: “A Diamante Magorno ha preso 1512 voti su 1567, a Belvedere 1004 su 1054”. I renziani parlano invece di “irregolarità nel voto e nell’insediamento dei seggi” a Vibo Valentia. Ma i brogli sono una rogna anche sopra Roma. Da Sarzana (La Spezia) arriva la denuncia di Matteo Delvecchio, scrutatore al seggio dell’Olmo: “Sono arrivato nel pomeriggio, e a fronte di 65 votanti ho trovato solo 8 euro”. Una chiara anomalia, visto che il contributo minimo per elettore è di due euro. Delvecchio (sostenitore del cuperliano Giovanni Lunar-don) racconta di persone che hanno votato due, anche tre volte nello stesso giorno. E di un presidente di seggio che lo avrebbe supplicato di “non verbalizzare”. Il caso è esploso al punto che il candidato renziano Alessio Cavarra, primo con oltre il 90 per cento nel seggio, ha chiesto alla commissione regionale di invalidare i circa 100 voti della sezione. E in serata la commissione ha annullato. A scegliere il prossimo segretario ligure sarà comunque l’assemblea regionale.

l’Unità 18.2.14
Non ritiriamoci nella delusione
di Andrea di Consoli


Ho letto con interesse l’articolo dello scrittore Paolo Di Paolo, uscito ieri sulla prima pagina de l’Unità, intitolato «Avevo sperato in Renzi ma ora sono deluso». Personalmente stimo molto, e da tempo, il lavoro giornalistico e letterario del giovane Di Paolo.
Ma da un punto di vista politico vorrei provare a fornirgli alcuni spunti di riflessione più avanzati e meno impulsivi. Partiamo da un dato preliminare: oggi la nostra generazione - quella dei nati negli anni 70 e 80 - sta andando al governo, e questo non può essere liquidato con obiezioni procedurali o con malinconie di chi non vede l’ora di fare il deluso o il reduce di sogni naufragati. E non si tratta, com’è ovvio, di essere supinamente «renziani», di posizionarsi come fanno tanti arrivisti, specie negli enti pubblici e nelle aziende di Stato; no, si tratta più responsabilmente di cogliere questa nuova opportunità storica per contribuire a riempirla di contenuti, di cultura, di classi dirigenti nuove, di una diversa filosofia della governance. Renzi, senza questo contributo di tutti - anche di coloro che hanno riserve su alcune «forme» del sue potere, del suo linguaggio e della sua cultura politica - non andrebbe da nessuna parte, perché ovviamente non è un Uomo della Provvidenza.
Oggi che il potere di Renzi è fragile ed è esposto alle mille incognite a cui espone l’«accelerazione» di un processo politico che avrebbe richiesto più tempo, è normale che a stringersi intorno a lui siano i «fedelissimi», quelli che, con brutta locuzione settaria, vengono definiti «renziani della prima ora». Ma domani, quando la nave sarà varata, Renzi dovrà riempire di sostanza la sua «rivoluzione», e dunque avrà bisogno di una pluralità di culture politiche, sociali, manageriali, purché, io spero, finalmente depurate di ataviche malattie italiane quali clientelismo, improvvisazione, privilegi insostenibili, corruzione, cultura del clan, giustizialismo alimentato dalla crescente attitudine alla delazione, disprezzo per quel che si fa (quanti manager di Stato di tutto parlano fuorché del prodotto o della mission del proprio lavoro?).
Caro Paolo, non facciamo i reduci ancor prima di aver perso, ancor prima di aver sperimentato il senso di responsabilità della nostra generazione; proviamo a dare credito a un processo politico che potrebbe risanare il nostro Paese dai parassitismi del sottogoverno, da irresponsabilità debitorie, da fiscalità suicide (per le imprese), da rancori, egoismi e cinismi che hanno fatto a pezzi culture, storie, linguaggi. Ma tutto dobbiamo fare fuorché dichiaraci renziani per zelo e per interesse personale, perché questo sì - e spero che Renzi avrà la forza necessaria per evitarci questo spettacolo - ci renderebbe uguali a ieri, quando troppe banderuole si definivano pateticamente e spudoratamente ora berlusconiane, ora dalemiane, ora casiniane, ora prodiane, ora veltroniane a seconda degli indici del potere. Di tutto ha bisogno, Renzi, fuorché di lacchè; pure, mi auguro che a breve saprà allargare - non appena sarà più consolidato - il cerchio dei suoi collaboratori, de-fiorentinizzare la sua squadra, considerare e tener presente in ogni suo atto la complessità geografica, storica e culturale del nostro Paese, perché è evidente, per esempio, che sul Mezzogiorno Renzi è carente, scarsamente incisivo, poco pratico di problemi e risorse, attese, storie e potenzialità.
Si parla in questi giorni delle grandi nomine: Enel, Finmeccanica, Poste, Eni, Rai. Giustamente Renzi sapeva bene, all’indomani della sua elezione a segretario del Pd, che non essere protagonista di queste scelte gli avrebbe tolto molti strumenti di intervento concreto. Ma Renzi non deve solo nominare «fedelissimi», ma valorizzare manager e dirigenti che sappiano finalmente riportare rinnovato entusiasmo, voglia di progettare insieme, di sperimentare, di trovare nuove strade per aziende importanti che troppo spesso sono gestiti come costosi carrozzoni spartiti a sorte da abili surfisti del Palazzo. Saprà farlo, oppure cederà alla vanità del codazzo e dei «cerchi magici»? Non dobbiamo pensare a quel che Renzi ci potrà dare, ma a quel che tutti noi possiamo dare a Renzi, che senza il contributo di noi tutti - critici e diffidenti compresi - sarà solo l’ennesimo potente da blandire e poi da scaricare non appena la sua luce diventerà opaca. Il momento è troppo drammatico per poterci ancora permettere questo cinismo, oppure questo aventinismo malinconico. Perché il Paese rischia davvero di non farcela. Noi, caro Paolo, dobbiamo essere pronti per questa sfida. Solo fra qualche anno potremo dirci delusi - e lo diremo, anche con rabbia, se dovesse accadere. Ma oggi no: oggi non possiamo proprio permettercelo. A maggior ragione tu, che sei una delle intelligenze vive della nostra generazione.

l’Unità 18.2.14
Ma ora il premier non può fallire
di Michele Ciliberto


Ma questa è ormai acqua passata e non serve recriminare. Il problema sul tappeto è, ora, la costituzione del nuovo governo e l’azione che esso può svolgere in condizioni di gravi difficoltà. Esprimo con chiarezza il mio punto di vista: la possibilità dell’Italia di cominciare a uscire dalla crisi che l’attanaglia da alcuni decenni è strettamente legata alle forme e ai contenuti con cui si svolgerà e si concluderà questa vicenda. La formazione e la presentazione di un governo sono sempre un atto solenne nella vita di una Nazione, ma in questo caso in ballo c’è qualcosa più profondo, di più radicale, di cui, anche a sinistra, occorre avere consapevolezza.
La crisi italiana ha avuto, tra molti aspetti, un tratto specifico, rappresentato dalla crisi e poi dalla sostanziale rottura del rapporto di fiducia tra «governanti» e «governati», fra il popolo sovrano e le sue classi dirigenti, specialmente quelle impegnate nella sfera politica. È qualcosa che viene da lontano, fin dagli ultimi decenni del secolo scorso, accentuato dalla crisi dei primi anni Novanta con il declino e la fine dei partiti della prima repubblica, acuita al massimo nel ventennio berlusconiano. Quando il presidente della Repubblica decise di affidare la guida del governo a Mario Monti, cioè a un tecnico, prese atto di questa situazione, e con gli elementi a disposizione cercò di trovare una via di uscita, che facesse i conti con questa situazione. Si può discutere, come ha fatto di recente un giornalista americano, la procedura seguita, ma questa è la sostanza della cosa: una presa d’atto della crisi della rappresentanza politica, in un momento gravissimo sia sul piano nazionale che su quello internazionale.
In che modo siano andate le cose è sotto gli occhi di tutti, e non sto qui a sottolinearlo, se non per dire che lo scarto tra «dirigenti» e «diretti », in quel periodo, si è ulteriormente approfondito, come era del resto prevedibile: la tecnica non ha mai risolto i problemi della politica e della rappresentanza politica, a meno di non imboccare strade autoritarie; ma, con questo, si esce fuori dalla democrazia.
Considerati oggi, i tentativi di Monti di dar vita a un nuovo partito di Centro sorprendono per l’incomprensione che rivelano del livello e dei caratteri della crisi italiana. Eppure, c’era già Grillo a testimoniare, con il suo successo e il suo lessico a quale punto di deterioramento fosse ormai arrivato il rapporto di fiducia - fondamento di ogni democrazia - tra «dirigenti» e «diretti», e come la crisi della Repubblica stesse, in effetti, precipitando a una sorta di punto di «non ritorno», con una rottura delle stesse basi costituzionali.
La vicenda politica del nuovo segretario del Pd va collocata su questo sfondo, per essere decifrata in modo adeguato. Viene da lontano, non è improvvisata, ma certo è stata fortemente favorita, negli ultimi anni, dalla sua indubbia capacità di incrociare alcune dinamiche profonde della Nazione e di entrare in sintonia con esse, sia a destra che a sinistra, scegliendo, in modo programmatico, di mettersi oltre i confini tradizionali della politica, rottamando il vecchio e venendo incontro, con un lessico politico essenziale e «selvatico», al bisogno di cambiamento che esiste nel Paese; una esigenza, un’ansia di novità tanto profonde quanto indifferenziate, ma assai diffuse dopo la fine del ventennio berlusconiano, sia a destra che a sinistra. In questo senso è vero, per quanto paradossale, che il segretario del Pd è al tempo dentro e fuori i confini del suo partito. Se non si capisce questo non si intende né la sua figura né perché abbia avuto successo con le primarie battendo concorrenti che apparivano o più legati a logiche e storie di partito o più nettamente schierati in un orizzonte di sinistra. Il segretario del Pd ha vinto perché è riuscito a sparigliare il gioco su entrambi i lati. Dire che è un frutto del berlusconismo non serve a niente, anzi è una sciocchezza: certo, si serve delle «forme» di comunicazione e propaganda messe in circolazione nel ventennio, ma le situa in un contesto assai diverso, coerente - se si vuole - con il mondo da cui proviene.
Di tutto questo le primarie sono state un effetto e una conferma notevole, nonostante il tentativo - inutile - che oggi si fa di ridurre, sul piano quantitativo, la forza di quel successo. Non sono comunque i numeri che, in questo caso, contano: ciò che conta, sul piano politico, è che in esso si è espresso l’ansia di cambiamento e di novità che percorre, come un fiume carsico ma assai potente, la nostra società: ferita, dolente, ma non vinta. Di qui, da questo bisogno, occorre partire se si vuole esprimere un giudizio corretto sulla situazione attuale: se esso fosse frustrato non sarebbe grave solo per le sorti personali del segretario del Pd, ma per il Paese. Questo è, oggi, il punto su cui occorre riflettere, per le duplici, e opposte, prospettive che questa vicenda può aprire.
Se il segretario del Pd riesce a fare un governo all’altezza delle aspettative che si sono concentrate sulla sua persona, verrà fatto un importante passo in avanti; se invece fallirà aumenterà il livello di sfiducia, di risentimento politico e sociale, di distacco dalla politica, e prenderanno sempre più corpo le forze che già di sono poste fuori dal sistema democratico rappresentativo giocando con durezza la carta della democrazia diretta per scardinare le basi della legalità repubblicana.
Siamo dunque a un passaggio importante che bisogna considerare con mente fredda, senza farsi travolgere dai sentimenti e dalle emozioni. Oggi, è importante che il segretario del Pd vinca la sua partita, non in «assenza di gravità» ovviamente; ma sulla base di un programma che raccolga i punti più innovativi delle sue proposte: lavoro, scuola, cittadinanza agli immigrati, diritti civili...
Ce la farà con il materiale a sua disposizione? Questo è il punto veramente decisivo, e qui si misureranno le sue capacità, anche nel riuscire ad attrarre forze nuove nel suo progetto. Colpisce, ad esempio che personalità di primo piano stiano rifiutando di entrare nel governo: è un segno ulteriore, se ce ne fosse bisogno, della frattura che c’è oggi fra «politica» e «società», della diffidenza verso l’azione politica anche nei suoi punti più alti: il Parlamento e la funzione del governo. E questo conferma anche che nelle nostre classi dirigenti non c’è adeguata consapevolezza della crisi in atto, e degli esiti in cui essa può sfociare.
Nel medioevo si attribuivano ai re capacità taumaturgiche con cui, secondo la leggenda, guarivano gli «scrofolosi» attraverso l’imposizione delle mani. Non so se il segretario del Pd abbia qualcuna di queste capacità miracolose: gli sarebbero necessarie. Ma una cosa invece è chiara, e spero sia chiara anche a lui: se non è possibile formare un governo che rappresenti un effettivo elemento di novità e avviare una politica che corrisponda all’ansia di mutamento del Paese, meglio fermarsi e cercare di imboccare altre strade.

il manifesto 17.2.14
Lista Tsipras, è polemica sulla parola “sinistra”
di Roberto Ciccarelli


Fa discu­tere l’esclusione della parola «sini­stra» dai quat­tro sim­boli pro­po­sti sul sitolista tsi pras .eu. Tutti su sfondo rosso e con il nome di Ale­xis Tsi­pras, lea­der di Syrizache è un acro­nimo in greco di «Coa­li­zione della Sinistra-Fronte sociale uni­ta­rio». Nes­suno di que­sti sim­boli ripro­pone però l’augusto con­cetto. La deci­sione del comi­tato dei sei garanti (Guido Viale, Bar­bara Spi­nelli, Andrea Camil­leri, Marco Revelli, Luciano Gal­lino, Paolo Flo­res) è stata accet­tata da Tsi­pras, cofir­ma­ta­rio dell’appello per la lista ita­liana a soste­gno della sua can­di­da­tura alla pre­si­denza della Com­mis­sione Euro­pea che ha rac­colto 23 mila ade­sioni online.
La deci­sione ha creato malu­mori tra gli iscritti di Rifon­da­zione Comu­ni­sta. La segre­te­ria del par­tito ha dif­fuso un comu­ni­cato in cui cri­tica dura­mente i garanti. «La nostra richie­sta di costruire un per­corso demo­cra­tico nella defi­ni­zione dei sim­boli e della com­po­si­zione della lista è stata com­ple­ta­mente disat­tesa – si legge – È un grave errore poli­tico. Que­sta è una lista civica anti­li­be­ri­sta e non la costru­zione di uno spa­zio pub­blico di sini­stra». Per i ver­tici di Rifon­da­zione l’obiettivo delle euro­pee dovrebbe essere l’avvio di un per­corso per costruire una «Syriza ita­liana». Un obiet­tivo, sia pur ancora non troppo espli­ci­tato, anche di altri ambienti.
Per Rifon­da­zione l’errore poli­tico» dei pro­mo­tori non mette tut­ta­via in discus­sione «l’importanza di fare una lista uni­ta­ria con­tro le poli­ti­che di auste­rità». Lo spet­tro di una Sel che pre­senta una lista sepa­rata, e del man­cato rag­giun­gi­mento del quo­rum al 4% segne­rebbe un nuovo, tre­mendo, fal­li­mento per tutti. Il giu­di­zio nega­tivo allora si stem­pera e il par­tito diPaolo Fer­rero riven­dica infine l’operazione poli­tica che ha por­tato Tsi­pras a essere il can­di­dato della sini­stra europea.
I pro­mo­tori della lista hanno spie­gato la loro deci­sione per­ché «la parola sini­stra non ha un con­te­nuto pro­gram­ma­tico defi­nito — spiega Guido Viale — A que­sto con­cetto si appel­lano sia i Si Tav che i No Tav, i libe­ri­sti più sca­te­nati e i comu­ni­ta­ri­sti più radi­cali». «Per il suo pro­gramma euro­pei­sta, demo­cra­tico e radi­cale — aggiunge Viale — que­sta lista ha una chia­ris­sima con­no­ta­zione di sini­stra. Rite­niamo impos­si­bile che chi si iden­ti­fi­chi nella sini­stra non possa iden­ti­fi­carsi con que­sti con­te­nuti. La scelta si spiega anche per­ché inten­diamo rivol­gerci a una fascia di cit­ta­dini che non si iden­ti­fica diret­ta­mente con quella che è stata la sini­stra radicale».
Ai «garanti» della lista è stata anche rivolta l’accusa di «dispo­ti­smo illu­mi­nato». «Sono scioc­chezze — risponde Viale — Que­sto dispo­ti­smo lo vor­reb­bero eser­ci­tare i par­titi, met­tendo le can­di­da­ture ai voti nelle assem­blee che, come abbiamo visto con l’esperienza fal­li­men­tare della lista “Cam­biare si può”, si tra­sfor­mano in rodei molto nega­tivi, oppure mobi­li­tando gli iscritti come fa Grillo nelle sue vota­zioni online, con risul­tati non sem­pre bril­lanti. Da tempo Rifon­da­zione ci cri­tica per­ché non siamo dispo­ni­bili per le assem­blee. Adesso chie­dono che metà dei can­di­dati ven­gano votati online. Ma per noi è assurdo anche per­ché non si capi­sce quali can­di­dati dovreb­bero sot­to­porsi al voto on line e chi a quello dell’assemblea. Per le euro­pee que­sto discorso è dif­fi­cile da fare: in cir­co­scri­zioni con cin­que sei regioni è impos­si­bile con­tare su can­di­dati conosciuti».
Inte­grare l’orizzontalità della rete con le pra­ti­che della par­te­ci­pa­zione diretta (l’assemblea, ad esem­pio) rap­pre­senta in effetti uno dei rom­pi­capo della demo­cra­zia oggi. I «garanti» hanno affi­dato la solu­zione a un comi­tato di 15 per­sone che dal 21 feb­braio si riu­nirà per valu­tare le can­di­da­ture cari­cate sul sito lista tsi pras .eu. Il numero dei par­te­ci­panti al comi­tato nel frat­tempo dovrebbe aumen­tare, con­si­de­rato la quan­tità dei moduli sca­ri­cati in poche ore: 710 alle 18 di ieri. Sulla scelta influi­ranno, tra gli altri, que­sti cri­teri: i can­di­dati non devono essere stati eletti negli ultimi 10 anni, anche se c’è un’apertura agli eletti negli enti locali; la parità dei genere; spa­zio ai gio­vani. La con­sul­ta­zione sulla scelta di nome e sim­bolo è stata posti­ci­pata a causa del sovrac­ca­rico del ser­ver che non ha retto il numero dei contatti.
Il refe­ren­dum si con­clude oggi alle 15, ieri ave­vano votato solo in 13 mila, pro­ba­bil­mente a causa delle disfun­zioni tele­ma­ti­che. «Può anche darsi per­ché non ci sia il ter­mine sini­stra nel sim­bolo» ipo­tizza Viale. Si parla della pos­si­bi­lità, tutta da veri­fi­care, di can­di­dare anche Andrea Camil­leri e Bar­bara Spinelli.


il Fatto 18.2.14
Concorso farsa
Università, l’orgia degli eterni baroni
di Giorgio Simonelli


Risultati già scritti; commissari con profili peggiori dei candidati, e curricula truccati; studiosi di profilo internazionale bocciati e modesti concorrenti promossi; giudizi che si ripetono e tempi impossibili per l’esame delle domande. Con un’inchiesta a più puntate, il Fatto ha raccontato il caos dell’Abilitazione universitaria, il nuovo sistema di reclutamento dei docenti voluto dall’ex ministro Mariastella Gelmini. Pubblichiamo il resoconto di uno dei candidati.
Non avrei voluto tediare i lettori con una vicenda personale. Ma, dopo gli articoli di Carlo Di Foggia e Francesco Ridolfi sui pasticci del concorso nazionale per l’abilitazione alla docenza universitaria, penso che anche quello che sto per raccontarvi possa essere interessante. Dunque, ho partecipato a questo concorso per la prima fascia nel settore delle discipline di cinema, fotografia, televisione, teatro e sono risultato non idoneo. Non che la cosa mi abbia turbato più di tanto. L’eventuale passaggio alla prima fascia era per me un po’ uno sfizio, essendo da anni tranquillamente sistemato nella comoda e per nulla disdicevole seconda fascia, dove posso insegnare i contenuti che ritengo opportuni, nei modi che ritengo opportuni, rinunciando, senza troppi rimpianti, alle insegne, ai privilegi e anche ai molti oneri propri dei vertici del potere accademico. Ma dopo aver saputo della mia bocciatura, anche su suggerimento di alcuni colleghi amici che si manifestavano sorpresi e un po’ scandalizzati, sono andato a leggere le motivazioni della sentenza, i giudizi dei 5 commissari e la loro sintesi finale che valutavano criticamente i miei titoli, ritenendoli insufficienti. E qui davvero ci sono cose che vale la pena di raccontare, alcune comiche, altre tragiche. Cominciamo dalle prime. Sembra serpeggiare, tra i membri della commissione, un po’ di distrazione, visto che si sottolinea la mancanza nei miei titoli di pubblicazioni in lingua straniera, mentre c’è un saggio (a me sembrava anche piuttosto interessante) in inglese. Ma si sa: se, come dicevano i latini, talvolta dormicchia anche il grande Omero, figuriamoci quanto è comprensibile l’appisolarsi di un commissario costretto a leggere migliaia di pagine. Il quale, però, al suo risveglio, si lancia in giudizi un po’ avventati: non solo gli piacciono poco i miei scritti, ma ha da ridire anche sugli editori, che giudica mediocri. E pensare che il mio ultimo libro è uscito per Bruno Mondadori, che tutti considerano editore prestigioso, rigoroso e molto ambito dagli autori di saggistica. Insomma un giudizio che assomiglia a quello che, con un francesismo molto usato alla Sorbona, si dice pisciare fuori dal vaso.
Ma quello che più colpisce in questi giudizi è la loro uniformità. Non solo i commissari si dicono tutti e cinque convinti dell’insufficienza dei miei titoli, ma lo fanno usando lo stesso stile, la stessa prosa, stesse parole, stessa sintassi e stessa retorica. Più che un’unanimità, una profonda sintonia, come dice Renzi dopo aver incontrato Berlusconi, una corrispondenza di sensibilità, un’affinità elettiva che appartiene, di solito, all’esperienza amorosa, alla fase dell’innamoramento. Un vero peccato vederla sprecata in una banale vicenda concorsuale. A meno che, invece che nascere da così nobili sentimenti, tutto ciò non sia il frutto di un volgare lavoro di copia e incolla, a cui io però non voglio pensare. Cioè che la commissione prima decide idonei e non idonei in base alle solite logiche di appartenenza, di lottizzazione, di baronie e di scambi e poi accrocchia dei giudizi che uno, un vecchio lupo dei concorsi, traccia e gli altri copiano. Mi è tornato alla mente, leggendo i giudizi, una sequenza di un celebre film di Costa-Gavras, di tanti anni fa, sulla nascita della dittatura greca dei colonnelli, Z L’orgia del potere, dove un giudice valoroso si accorge che le autorità vogliono far passare per incidente stradale un omicidio politico (quello di Lambrakis), quando nota che tutti i testimoni, imbeccati dalla polizia, usano la stessa frase: “Agile e veloce come una tigre”. Ma, nel caso del concorso, è solo un’ipotesi per assurdo: come si può immaginare che illustri studiosi, chiamati a leggere e valutare l’altrui produzione scientifica, non trovino il modo di esprimere pareri autonomi e replichino tutti lo stesso giudizio, come studentelli sorpresi a copiare? Ma basta scherzare. Veniamo agli aspetti più seri della faccenda. Ruotano tutti attorno a una frase che riferendosi alla mia produzione scientifica la definisce discreta, ma – cito testualmente – “più sul piano della presenza nel dibattito pubblico che nella ricerca scientifica”. Ecco, qui sta il vero, tragico nodo della questione. Considerare il valore di una serie di studi nel dibattito pubblico come se fosse in contrapposizione alla cosiddetta ricerca scientifica (in un settore, poi, come quello in cui io lavoro, quello della comunicazione di massa!), significa rivelare una ben strana visione dell’università e della funzione che essa svolge. Una visione dell’università come corpo separato, con delle sue logiche, delle sue gerarchie di valori del tutto estranee alla società civile, una visione dell’università di stampo puramente accademico, nel senso deteriore dell’aggettivo. E questo è davvero un bel guaio, non tanto per me, ma per l’università e la cosiddetta ricerca scientifica.

Corriere 18.2.14
I precari chiudono le scuole Migliaia di studenti restano fuori
Settanta istituti bloccati dalla protesta degli addetti alle pulizie
di Fulvio Bufi


NAPOLI — Arriva fin dentro le scuole la protesta dei lavoratori che negli istituti napoletani svolgono mansioni di pulizia e che ora rischiano di ritrovarsi per strada o, nel migliore dei casi, con lo stipendio dimezzato. La scorsa settimana, per sollecitare un incontro al ministero, avevano occupato gli uffici della direzione scolastica regionale. Ieri mattina hanno deciso invece di bloccare direttamente l’attività delle scuole, occupandone prima una quindicina in città, e poi, con il passare delle ore, sempre di più, in totale una settantina, spingendosi anche in provincia. Materne, elementari, medie, licei: sono migliaia i bambini e i ragazzi che hanno trovato i cancelli chiusi e hanno dovuto tornarsene a casa. E che non sanno quando potranno tornare a sedersi tra i banchi.
Perché la vertenza non potrà che andare avanti, vista la situazione delicatissima in cui si trovano i circa cinquemila addetti alle pulizie delle scuole napoletane. Alla fine di questo mese scadranno i contratti con le cooperative di ex lsu, i lavoratori socialmente utili, che oltre a provvedere ai servizi di pulizia, svolgono anche mansioni da ausiliari in segreteria. Ora a causa dei tagli imposti dal governo, la prospettiva è nerissima. In gran parte del Paese, i contratti sono stati rinnovati su nuove basi, con un accordo promosso dalla Consip (società del ministero delle Finanze) che prevede non più le sette ore di lavoro giornaliero, ma 3 ore e 40 minuti, a fronte di un taglio del cinquanta per cento dello stipendio, passato da quasi novecento euro a poco più di quattrocento. Non in Campania e Sicilia, però, dove le gare sono state sospese per eccesso di ribasso.
Al 28 febbraio si arriva quindi senza nessuna certezza. Se si dovesse andare in regime di proroga verrebbero applicati i nuovi parametri, ma non è affatto da escludere che, se non interverranno fatti nuovi, il rapporto di lavoro si interrompa completamente. La portavoce degli ex lsu, Anna Persico, accusa «le lobby partitiche che hanno deciso di rivedere gli accordi al ribasso per affamarci», e assicura che «la protesta non si fermerà, anzi, occuperemo altre scuole e porteremo con noi pure i nostri familiari».
L’obiettivo dei lavoratori è ottenere un incontro al ministero dell’Istruzione per scongiurare l’eventualità di rimanere tra poco più di dieci giorni senza alcuna forma di reddito e per aprire una vertenza destinata a rivedere gli accordi. Ma segnali dal governo finora non ne sono venuti («Non c’è stata volontà di affrontare il problema», lamenta la Cgil), e questo non è certamente il momento migliore per aspettarsene a breve, visto lo scenario politico in evoluzione. I lavoratori della scuola però la questione l’hanno cominciata a porre da tempo, eppure non è servito, come non è servito occupare la scorsa settimana la direzione scolastica. Non era lì l’interlocutore giusto. Il dirigente Diego Bouché spiega che il suo ufficio non può risolvere la situazione «perché i fondi vanno direttamente dal ministero alle scuole che poi li girano alle cooperative che hanno vinto i bandi». A lui restano solo le lamentele che da ieri presidi e genitori gli stanno riversando addosso. E oggi il suo telefono potrebbe addirittura impazzire se davvero gli ex lsu decideranno di bloccare altre scuole, oltre alle circa settanta prese di mira ieri. A meno che non diano retta al sindaco Luigi de Magistris che si è detto solidale con loro ma li ha invitati a far rientrare la protesta.

Corriere 18.2.14
Gli insegnanti che non vogliono fare i test anti-alcol
di Elena Tebano


Gli insegnanti del liceo Regina Margherita di Torino hanno deciso di usare l’ironia e ieri mattina alle 10 hanno organizzato una «colazione berlinese» a base di prosciutto, salame e — soprattutto — spumante. Il «brindisi allo spreco» serviva a protestare contro i test per l’alcol imposti ai 130 docenti dell’istituto: iniziati venerdì scorso, proseguiranno fino alla prossima settimana. «Sono controlli inutili, umilianti e anche costosi, che pesano sui fondi risicati delle scuole», dice Mario Frisetti, che insegna Storia dell’arte ed è delegato sindacale del Cub. «Ho provato a rifiutarmi, ma la preside mi ha detto che avrebbe dovuto sospendermi. Quindi mi toccherà fare la visita».
I controlli non sono un’invenzione astrusa della dirigente del Regina Margherita, Maria Torelli: lei è stata soltanto molto puntigliosa nell’applicare subito una norma nazionale. E cioè il decreto legislativo 81 del 2008 che obbliga i datori alla «verifica della assenza di condizioni di alcoldipendenza e di assunzione di sostanze psicotrope e stupefacenti» per alcune categorie di lavoratori. E qui sta la pietra dello scandalo, perché tra i lavori a rischio, come quello di pilota, chirurgo, poliziotto e guardia armata o la «conduzione di generatori di vapore» e «impianti nucleari», compare l’«insegnamento nelle scuole pubbliche e private di ogni ordine e grado». «I nostri professori quando va bene maneggiano il tablet, altrimenti il registro di carta: non è la stessa cosa di una pistola o un aereo», dice Tommaso De Luca, dirigente di un’altra scuola torinese, l’Itis Avogadro, e presidente dell’Associazione scuole autonome piemontesi (Asapi). «Oltretutto non serve: in caso di comportamenti sospetti, i presidi potevano già sottoporre gli insegnanti a una “visita medico-collegiale” obbligatoria».
Il Piemonte, con Toscana, Puglia e Friuli Venezia Giulia, è stato una delle prime Regioni a recepire la legge del 2008, che invece dispone verifiche a tappeto ogni tre anni. «Richiedono anche le analisi del sangue e costano almeno 80 euro a docente: una spesa insostenibile per le scuole — spiega De Luca —. L’anno scorso noi dell’Asapi abbiamo posto due volte il problema all’assessore all’Istruzione, che ci ha promesso di cercare una soluzione. Intanto abbiamo proposto di organizzare incontri informativi con gli insegnanti sulla questione. Nel mio istituto abbiamo fatto così».
I presidi, però, nel frattempo rispondono direttamente in caso di problemi con insegnanti che abbiano bevuto anche solo un caffè corretto (è vietato il consumo di alcol tout court , non oltre una soglia limite come per chi guida). La dirigente del Regina Margherita ha voluto tamponare il problema e ha disposto intanto delle visite mediche. «Dodici all’ora, si può immaginare quanto siano efficaci — commenta il professor Frisetti —. Costeranno tra i tre e i quattromila euro. Poi mancano i soldi per tutto il resto: il fondo per i docenti è stato tagliato da 62 mila a 28.700 euro e quello per i corsi di recupero da 30 mila a diecimila: addio lezioni». Il risvolto kafkiano è che senza analisi del sangue le visite, nonostante le buone intenzioni, lasciano comunque il liceo «fuori legge».

il Fatto 18.2.14
Lo scrittore
Uomo contro Personaggio Il dilemma di Roberto Saviano
di Elisabetta Ambrosi


A volte mi domando se finirò in un ospedale psichiatrico. Ho bisogno di psicofarmaci e questa cosa non mi piace per nulla. Avrei potuto fare le stesse cose con lo stesso impegno e coraggio, ma senza distruggere tutto. Invece sono stato impetuoso, ambizioso”. Non è la prima volta che Roberto Saviano parla dell’insostenibile fatica di condurre una vita blindata: seguito a ogni passo dalla sua scorta, impossibilitato a prendere un caffè liberamente, come un cittadino qualsiasi. Ma se finora aveva sempre dichiarato che avrebbe rifatto tutto, senza dubbi, nell’intervista a El Pais, rilasciata in vista dell’uscita spagnola del suo libro Zero Zero Zero, confessa che no, non è valsa la pena. Né di scrivere Gomorra, né di rinunciare alla propria felicità per un obiettivo superiore, “perché se tu anteponi la denuncia al resto diventi un mostro e le tue relazioni diventano terribili”. A differenza di altre volte, Saviano non parla dell’ossessione della morte, ma di un altro demone, quello dell’ambizione. Ammette il suo desiderio di proteggersi e al tempo stesso quello di non buttare via quello che ha ottenuto – popolarità planetaria, programmi tv ed editori che se lo combattono a suon di anticipi. “Chi non mi ama”, aveva detto a luglio al Festival della cultura ebraica, “pensa: prima non era nessuno, ora guadagna, ha la fama. Chi invece crede in ciò che faccio si chiede: non soffre? La verità sta a metà tra l’accusa e la comprensione: lo faccio perché credo nella mia battaglia, dall’altro per ambizione”.

Corriere 18.2.14
Saviano: fui troppo ambizioso, ora uso psicofarmaci
di F.B.


NAPOLI — A otto anni di distanza dalla pubblicazione del suo romanzo, diventato un bestseller, «Gomorra», lo scrittore Roberto Saviano dice, in una intervista rilasciata al quotidiano spagnolo El País , di essere stato «impetuoso, ambizioso». E spiega che quel libro, in un certo senso gli ha rovinato la vita. «Non credo sia nobile aver distrutto la mia vita e quella delle persone che mi circondano per cercare la verità. Avrei potuto fare lo stesso, con lo stesso impegno, con lo stesso coraggio ma con prudenza, senza distruggere tutto».
Saviano confessa di vivere «un dramma interiore», e spiega: «Se tu anteponi un obiettivo, la verità, la denuncia, a qualunque altra cosa della tua vita, diventi un mostro. Perché tutte le tue relazioni umane e professionali sono orientate a ottenere la verità. Forse alla fine sarà nobile, una cosa generosa. Tuttavia la tua vita non si converte in generosa, le relazioni diventano terribili».
Poi, rinunciando alla difesa della propria privacy, racconta di aver «bisogno di psicofarmaci per tirare avanti e non era mai accaduto prima. Non ne faccio abuso, ma a volte ne ho necessità. E questa cosa non mi piace per nulla». Arriva addirittura a chiedersi «se finirò in un ospedale psichiatrico».
Ma per quanto possano sembrarlo, le sue dichiarazioni non sono una presa di distanza dal libro che lo ha reso famoso, anche se alla domanda «ne valeva la pena» risponde: «No. Vale la pena cercare la verità e vale la pena arrivare fino in fondo, ma proteggendoti».
Saviano non prende le distanze da «Gomorra» perché dopo che la sintesi dell’intervista ha fatto il giro della Rete, lo scrittore ha deciso di ritornare sull’argomento con un post sul suo profilo Facebook, lamentandosi che sia stata diffusa «solo una parte di un’intervista sul mio lavoro e su “ZeroZeroZero” (il suo secondo libro, ndr ), ma fa più notizia il gossip che informazioni che potrebbero davvero cambiare il nostro presente: arresti, sequestri, riciclaggio».
Per porre rimedio al torto subito, quindi, Saviano si rivolge direttamente ai suoi lettori. E scrive: «In Italia tutto è possibile e non escludo che i soliti giornali del fango possano in futuro utilizzare questa notizia per darmi del matto», ma «so che a porre argine ci sarete voi. Ancora una volta, grazie. I poteri che racconto non temono le mie parole, temono i miei lettori. E la vostra pericolosità risiede nella capacità di leggere, approfondire, diffondere, capire».
Non è la prima volta che Roberto Saviano racconta di essere stato penalizzato dall’enorme successo riscosso dal suo primo libro. Per le minacce subite dalla camorra vive sotto scorta, come il giornalista dell’Espresso Lirio Abbate e la giornalista del Mattino (oggi senatrice del Pd) Rosaria Capacchione e come molti magistrati. Ma lui a ne parla spesso, descrivendo la sofferenza per non poter più disporre della propria vita.

La Stampa 18.2.14
I tormenti (e le distrazioni) di Saviano
di Federico Varese


«Scrivere Gomorra mi ha rovinato la vita. A volte mi domando se finirò in un ospedale psichiatrico. Sul serio. Già adesso ho bisogno di psicofarmaci per tirare avanti». Roberto Saviano affida ad un intervista per El País il suo travaglio, e aggiunge: «Non valeva la pena giocarmi tutto per la ricerca della verità». I detrattori noteranno che questa confessione coincide con l’uscita in spagnolo di Zero Zero Zero, mentre gli ammiratori rinnoveranno la loro facile solidarietà virtuale, con migliaia di messaggi su Facebook e Twitter.
E ancora una volta questo paese avrà perso un’occasione per riflettere seriamente su come il sistema mediatico-politico costruisce e distrugge i suoi idoli.
Chi scrive va annoverato tra gli ammiratori di Saviano. Nel 2006, Saviano pubblicò un libro imperfetto ma illuminante, che parlava ad un pubblico che io e i miei colleghi non avremmo mai raggiunto. L’autore non svelava episodi ignoti, ma con le armi della letteratura raccontava la storia di un giovane che cresce in un mondo con i valori rovesciati, dove il lavoro, il merito, la giustizia e l’amore lasciano il passo al sopruso, alla violenza, ai rapporti mercenari e alla morte. Pur avendo un’esperienza limitata del mondo, Saviano era l’erede di una grande cultura minoritaria in Italia, che annoverava i classici del Gulag sovietico (Evgeniya Ginzburg, Shalamov e Herling), il romanzo civile di Albert Camus e George Orwell, e la tradizione del non-fiction novel inaugurata da Truman Capote. La sua formazione (come la mia) doveva molto all’insegnamento di Goffredo Fofi e alla frequentazione dei giovani riuniti intorno alle riviste Linea d’Ombra e Lo Straniero. Finalmente era comparso sulla scena letteraria uno scrittore libero.
Poi è successo qualcosa. Le minacce di morte da parte della Camorra e il successo mondiale del libro hanno spinto una fetta consistente del sistema politico-mediatico italiano a fare di Saviano un’icona. Solo un paese che non ha intenzione di combattere seriamente la mafia si inventa questi miti. Ricordo ancora quando pareva che lo scrittore dovesse diventare il leader del partito democratico e ogni politico di sinistra si faceva fotografare con lui. Chi, come me, ha osservato questa trasformazione da lontano non poteva non notare la superficialità delle classi dirigenti italiane. Un ceto politico delegittimato, autoreferenziale e non disposto a farsi da parte investiva Saviano di un ruolo salvifico, buono per una o due elezioni. In quegli anni si è allestito un circo mediatico dove la rappresentazione del Male era troppo superficiale per produrre una trasformazione duratura. Una volta finito lo spettacolo, non è mai iniziato il duro e ingrato lavoro sul campo. Del resto, quel protagonista non poteva avere tutte le risposte e tutti gli strumenti. L’autore di Gomorra è diventato così una celebrity, vittima di quel vizio tutto italiano di non fare mai il proprio mestiere fino in fondo. Oggi non sappiamo più se Roberto sia uno scrittore, un presentatore televisivo, un politico in pectore, un giornalista oppure la vittima della mafia.
«Perché scrivo?» si chiedeva George Orwell nel 1947. Scrivo per scoprire la verità e per diventare famoso, fu la sua risposta. Chi mette nero su bianco i propri pensieri pensa di aver commesso un atto eroico, che cambierà il mondo. Con gli anni ci si accorge che quella fama tanto agognata non arriva oppure dura solo lo spazio di una stagione letteraria. In più, la palingenesi universale tarda a materializzarsi. L’unica salvezza è sapere di aver fatto bene il proprio mestiere. Senza dubbio, quando si racconta il mondo nella sua complessità, bisogna proteggersi, come ci ricorda oggi Saviano dalle colonne de El País. Ma le forze da cui si deve guardare lo scrittore napoletano sono anche le distrazioni e la superficialità dello star system di casa nostra. Questo, a mio parere, può rovinare una vita.

il Fatto 18.2.14
Noi e loro
Il caso marò: quello che l’Italia non dice
di Maurizio Chierici


MENO male che resta la Bonino, garanzia di efficienza per i nostri marò prigionieri in India. Speriamo di riaverli a casa malgrado i pasticci delle diplomazie anche se è esagerato considerarli “prigionieri”. Vita d’albergo, Tv con satellite. E poi passeggiate e studi. Salvatore Girone ha superato l’esame d’ammissione al corso serale dell’istituto tecnico Marconi di Bari. Media dell’8 via Skype. E la Farnesina si preoccupa della dieta. Menu mediterraneo che l’India paga senza battere ciglio: pizza, pane, cappuccino, eccetera. Girone è un secondo capo del battaglione San Marco; primo capo Massimiliano Latorre. Due anni fa hanno puntato i loro Berretta (dotazione Nato) sul barcone di pescatori confusi per pirati: due morti. Chi sopravvive avvisa la Guardia costiera che obbliga la petroliera italiana nel porto di Kochi. Pasticcio raccontato con protocolli disperatamente partigiani.
Trascurano le registrazioni dei satelliti, le analisi dei proiettili. “Abbiamo sparato in acqua”, ed ecco il ricamo dei colpi sul barcone. Senza contare che la nostra nave non navigava in acque internazionali, 33 miglia dalla costa come giura il comandante. Latorre e Girone premono il grilletto a 24,5 miglia “zona contigua” che autorizza l’India a giudicare i colpevoli. Lo racconta Matteo Miavaldi nel libro I due Marò, edizioni Alegre. Vive in Bengala, caporedattore del giornale China Files. Se il buonsenso della Bonino rifiuta che la sventatezza dei marò diventi “terrorismo”, non è ragionevole trasformare l’incapacità in senso del dovere. L’ultimo saluto del Letta con valigia in mano li assicura con “sentimenti di vicinanza” mentre il Quirinale annuncia per il ritorno gli onori dovuti. Onori perché? Il pasticcio l’ha disegnato l’ex ministro La Russa: scorte armate in divisa ai mercantili che affrontano il mare dei pirati mentre ogni paese affida l’accompagnamento a contractors, mercenari privati.
L’ITALIA di due governi fa si affida alla Marina Militare non sempre addestrata a dovere. Dalla roccaforte della petroliera gigante i marò sparano su un peschereccio lungo 12 metri, velocità lumaca. Da una parte sei rambo di professione più 24 marinai che immaginiamo un po’ armati. Sul barcone 16 pescatori, due folgorati, gli altri dormono. Indovinare chi è Golia. Il groviglio giudiziario indiano trasforma gli sbadati in capitani coraggiosi nella sfida a Sandokan immaginari. Un filo nero lega il La Russa alla perizia italiana affidata al finto ingegnere Luigi di Stefano, non solo vicepresidente della CasaPound che subito inonda Roma con manifesti da ultima spiagga: “Riprendiamoci i nostri soldati”. A un atto di guerra si risponde con la guerra, cose così. Nel convegno a Montecitorio, Di Stefano ammette d’aver basato la perizia su informazioni di giornali e YouTube, subito sbugiardate dal satellite Maritime Rescue Center di Mumbai. Quando i prigionieri torneranno, immagino che la Procura militare avrà qualche domanda sulla loro professionalità. Evitiamo sbrodolamenti patriottardi, tipo medaglia d’oro, valor civile al contractor Fabrizio Quattrocchi, ucciso in Iraq. Medaglia che ancora rattrista la vedova Calipari e le famiglie dei carabinieri bruciati a Nassiriya. Per loro cortesie di routine. A Quattrocchi si è messa in bocca “vi faccio vedere come muore un italiano” quando la registrazione di Al Jazeera non esalta l’orgoglio di un idealista. Solo due parole: “Sono italiano”. Per fortuna all’Onu non sanno che Roma, Firenze e Trieste gli hanno dedicato una strada. Ma per i marò l’Italia ha coinvolto Ban ki-moon. Evitiamo il ridicolo internazionale sull’incapacità che diventa eroismo.

il Fatto 18.2.14
Legge-boomerang
La Svizzera teme la ghigliottina europea
di Alessio Altichieri


Adesso la Svizzera ha paura, e si chiede se chiudere le frontiere agli europei non si rivelerà una scelta catastrofica. Bruxelles ha già bloccato le trattative su “Horizon 2020”, un programma di ricerca, ed “Erasmus+”, per lo scambio di studenti, perché Berna ancora non accetta cittadini dell’ultimo membro Ue, la Croazia. E figurarsi che accadrà se anche gli altri europei saranno contingentati.
Paolo Bernasconi sfoglia i giornali e indica la pagina dove spicca un Bratwurst, la salsiccia del cantone San Gallo, e si chiede: “Non sono in pericolo solo i wurstel, ma migliaia di marchi industriali, dalla chimica all’informatica: se facciamo cadere il pilastro della libera circolazione delle persone, Bruxelles farà cadere la ghigliottina anche sui pilastri economico-finanziari”.
Bernasconi, lo storico procuratore ticinese che indagò su Sindona, sulla Pizza Connection, con magistrati italiani come Giovanni Falcone, Francesco Greco, Gherardo Colombo, ormai da anni fa il giurista (sua la legge anti-riciclaggio svizzera) e l’avvocato. Racconta: “Vengono a trovarmi imprenditori europei. Ci spieghi, dicono: vorremmo aprire un’attività finanziaria, portando qui 5 eccellenti broker europei, che poi darebbero lavoro ad almeno venti cittadini svizzeri. Se si può, bene. Altrimenti andiamo altrove”. È stato, visto da qui, un voto storico. Fino a ieri gli svizzeri di città vedevano la carta geografica dell’Europa come un mare blu pieno di stelle d’oro, la bandiera dell’Unione europea, con un buco al centro, la Svizzera, come l’ultima tessera che completa il puzzle. Ma erano gli svizzeri dell’economia , dell’industria, della finanza. Adesso invece prevale la visione delle campagne, che hanno votato a valanga nel referendum contro l’immigrazione: è la Svizzera che si vede come un’isola assediata dall’Europa cosmopolita, multiculturale e multietnica. È un cruccio esistenziale: se l’Europa può fare a meno della Svizzera, può la Svizzera fare a meno dell’Europa?
CIRCOLA VELENO nei Cantoni. Christoph Blocher, capo del partito di estrema destra Udc che ha promosso il referendum, ha accusato gli svizzeri romandi, francofoni, che hanno votato contro la chiusura, di non essere “veri svizzeri”. E nel del Canton Ticino va ancora peggio: la Lega dei Ticinesi, più a destra persino dell’Udc, è il primo partito sia al cantone che nel comune di Lugano.
Chi voglia farsi un’idea di che sia questa Lega vada a vedere il loro giornale online – mattinonline.ch – dove spicca la domanda che mette terrore: presto un milione di musulmani? “È la solita politica della paura, alla maniera di Le Pen: in Ticino s’è fatto un referendum contro il burqa, ma quando mai s’era visto un burqa a Lugano? E il referendum contro i minareti? Ce n’è uno solo in Svizzera, ma il trucco è facile: s’inventa un pericolo che non esiste, e cavalcando la tigre della paura si crea consenso”. Ma la tigre non si rimette in gabbia: “Anzi, alla fine si mangia anche il domatore”.
Ma se la destra vince, è colpa anche degli altri: “La sinistra è rimasta ideologica, non ha saputo fare campagna: dice che questo è razzismo, e chiude la discussione con un insulto. Al centro, i liberali e i democristiani, che perdono voti a favore della destra, non hanno il coraggio di schierarsi, fanno l’occhiolino, e lasciano andare”. Com’è cambiata la Svizzera, nel profondo: “Quarant’anni fa, al tempo del golpe in Cile, facemmo un’iniziativa in Ticino, chiamata ‘Azione posti liberi’: 500 famiglie accolsero un profugo cileno, gratis, per salvarlo dalla dittatura. Oggi abbiamo riprovato con i profughi siriani, ma è difficilissimo, perché sono state approvate leggi sempre più restrittive”. C’è un paradosso amaro: “Ormai è più facile fare entrare una donna con il permesso G, quello per le prostitute, che un vero profugo. Il Ticino è il bordello della Lombardia. Alle donne, se profughe, si potrà dare un permesso d’immigrazione, non ai bambini, ai vecchi, ai maschi. La beffa è che Il Mattino, il giornale della Lega dei Ticinesi che tuona contro gl’immigrati, si regge sulle inserzioni delle prostitute, tutte straniere”.

Corriere 18.2.14
«Banche svizzere a rischio stop in Italia»
Sale la tensione con Berna dopo il referendum sull’immigrazione
di Claudio Del Frate


«Il governo italiano potrebbe impedire alle banche svizzere di vendere prodotti finanziari ai cittadini italiani»: la bomba che scuote l’ovattato mondo finanziario e politico scoppia nel tardo pomeriggio quando le agenzie riportano le parole di Jacques de Watteville, segretario di stato per le questioni finanziarie internazionali del governo di Berna. Autorevole la fonte, ufficiale la circostanza: il rappresentante elvetico pronuncia quelle parole nel corso di una conferenza stampa in cui traccia il bilancio delle trattative avviate in campo bancario dalla Svizzera nell’ultimo anno.
Il possibile boicottaggio di Roma ai prodotti finanziari elvetici viene letto come una misura ritorsiva all’esito del referendum di una settimana fa in seguito al quale la Svizzera introdurrà limiti agli ingressi degli stranieri nel suo territorio: una misura che potrebbe colpire anche i lavoratori frontalieri italiani ma che soprattutto incrina il principio della libera circolazione delle persone sottoscritto da Berna con la Ue.
Ma quanto è reale il rischio che l’Italia imponga l’embargo all’attività delle banche svizzere? Sul punto le parole di de Watteville sono state sfumate: «La settimana scorsa sono stato a Roma — ha riferito testualmente — e mi è stato chiaramente detto che non può esservi accesso ai mercati finanziari europei senza la libera circolazione delle persone. Il sostegno che potevamo attenderci da certi Paesi non è più scontato». Secondo il segretario di Stato, Roma imporrà il blocco se non verrà assicurato ai lavoratori italiani il libero ingresso nel territorio elvetico. Un accordo sull’attività delle banche svizzere nei Paesi Ue è stato sottoscritto proprio pochi mesi fa ma esso prevede che ogni singolo stato possa recedere autonomamente da quel patto.
Il ministero di Fabrizio Saccomanni per il momento non ha commentato ufficialmente le frasi di de Watteville. Fonti del Tesoro tuttavia fanno sapere che il negoziato con la Svizzera andrà comunque avanti ma che la stella polare di questo dialogo sono i trattati sottoscritti con la Ue secondo i quali la libertà di circolazione dei capitali e delle persone non sono distinguibili. Nessuna ritorsione, ma verrà compiuta una valutazione complessiva del comportamento di Berna alla luce di quel trattato.
La possibilità che l’Italia alzi barriere protettive come risposta al referendum antimmigrati è stata per il momento accolta con molto aplomb sulla piazza finanziaria d’oltreconfine. «Mi pare che per il momento siamo nella fase della missilistica verbale — è la battuta di spirito con la quale Claudio Generali presidente dell’associazione delle banche del Canton Ticino prova a stemperare la tensione — e dopo il voto a sorpresa di una settimana fa era quasi scontato che saremmo entrati in una fase per così dire muscolare. In ogni caso la mossa italiana non ci preoccupa: sono poche le banche svizzere che attualmente hanno l’autorizzazione a vendere prodotti finanziari in territorio italiano. Anzi, il libero accesso delle nostre aziende del credito sul mercato italiano era uno dei punti della trattativa in corso tra Roma e Berna».

Corriere 18.2.14
I dilemmi del belga Elio Di Rupo Dalla fede cattolica all’eutanasia
Il primo ministro di origine abruzzese, gay dichiarato, ha alle spalle un sofferto cammino personale
E la sua foto a torso nudo diventa sui media «affare di Stato»
di Luigi Offeddu


BRUXELLES — Era una giornata di caldo tropicale, lo scorso 21 luglio. Si incoronava il nuovo re Filippo. Ma lontano dalle sale cerimoniali, mezzo Belgio era in canotta, o a petto all’aria. Anche il primo ministro Elio Di Rupo, però solo per il mezzo minuto necessario a cambiarsi una camicia bianca di gala, a casa sua. La telecamera di una Tv fiamminga, che da mesi — con l’accordo del premier — cuciva un documentario sulla sua vita, lo riprese di spalle, in pantaloni, la schiena nuda. Trenta secondi in tutto, forse. Ed ora, diffuso finalmente il documentario su tutti gli schermi, la prima pagina del giornale fiammingo Ultime notizie grida: «Affare di Stato!». Mentre i talk show televisivi si interrogano angosciati: «Qual era il messaggio politico del premier? Che cosa voleva dire con quel gesto?». E lo Standaard , altro giornale fiammingo, si dichiara sommessamente «scioccato».
Con Di Rupo, è quasi sempre così. I media sono calamitati dalla sua figura, anche se chi lo conosce bene sa che è un uomo tutto sommato semplice, per quanto può esserlo un primo ministro. In due anni ha tirato fuori il Belgio dalla recessione, Angela Merkel lo cerca regolarmente come mediatore nelle baruffe dei vertici Ue. Eppure sono gli aspetti privati di Di Rupo,quelli che smuovono di più i media: le origini italiane, di famiglia povera, l’infanzia non facile da orfano, e poi l’omosessualità dichiarata, sempre. La domanda rintocca come un mantra dai microfoni dei giornalisti stranieri: «Lei è gay?». E lui. «Sì certo». Ma anche, qualche volta, con un sorriso: «Ho sempre mantenuto la sincerità nei miei amori. E certo l’ho fatto con la donna che ha convissuto con me per lungo tempo. Io e lei siamo stati insieme in un modo più che soddisfacente, felice. Una donna davvero ammirevole».
Ogni televisione, ogni giornale, cerca di ricreare il proprio Di Rupo da raccontare ai lettori: l’eterno cravattino rosso a farfalla, l’eleganza sempre curata, i capelli così neri, i 62 anni tenuti a bada dagli esercizi in palestra. Negli ultimi tempi poi, il desiderio di plasmare il personaggio è salito alle stelle: perché Di Rupo si è trovato ad essere, in contrapposizione con l’arcivescovo di Bruxelles André-Joseph Leonard, l’altro polo di una coppia intorno alla quale si polarizzano molte coscienze di questo Paese. Succede, naturalmente, per la legge appena approvata dal Parlamento, che concede l’eutanasia anche ai bambini senza limiti d’età, e che ha finito per dividere anche la coalizione di governo messa insieme da Di Rupo,
Sull’eutanasia estesa anche a bambini e neonati, lui ha motivato apertamente la sua opinione: «Questo è un nuovo spazio di libertà addizionale che si apre, per tutti. Ma certamente nessuno sarà obbligato ad applicarlo. Capisco molto bene la delicatezza del tema, l’esitazione, la questione di coscienza che si spalanca su temi così delicati, che riguardano dei bambini malati. Ma ripeto: è uno spazio in più di libertà». Obbligata la risposta degli avversari: e la libertà dei bambini malati, allora? Niente implicazioni religiose, però, nella discussione con il primo ministro: da bambino, Di Rupo era cattolico come la sua famiglia, ma da adulto si dice « ateo, razionalista, e massone».
Tutto spiegato, dunque? Probabilmente no, perché il personaggio è più profondo e complesso di quanto vogliano dipingerlo le Tv o i blog. Non è, come qualcuno cerca di mostrarlo (leggi: i media fiamminghi) un elfo con il papillon: ma ha dentro molte memorie, cultura, consapevolezza dei mondi in cui gli è toccato vivere. Intanto, per le radici culturali affondate fra gli immigrati italiani degli anni Quaranta-Cinquanta, i minatori che —pur ben integrati— pagarono sulla pelle una loro «diversità» ormai dimenticata: una diversità che magari non stava negli stili di vita sessuali, ma nell’attaccamento alle proprie tradizioni, nella religiosità popolare fatta di poche ma salde certezze, nel rispetto degli anziani che morivano tutti in casa, nei propri letti (la parola «eutanasia» era probabilmente ignota) e dei bambini che erano la garanzia di un futuro meno faticoso. Poi il ricordo della madre, naturalmente: vedova con 7 figli, «con niente, ci dava felicità. Nei giorni di festa comprava panini che tagliava in due. Quando morì, sentii un’infinita, indescrivibile tristezza».. Oggi lui fa il politico, ha le sue idee e le difende. Ma chissà se, ogni tanto e su certi temi, sente qualcosa che lo pizzica lieve, sotto il cravattino rosso.

Repubblica 18.2.14
“Genocidio in Corea del Nord” Onu, rapporto shock sul regime
L’accusa a Kim Jong-un: “Voi criminali come i nazisti”
di Giampaolo Visetti


PECHINO - «Adesso il mondo sa, non c’è più nessuna scusa, bisogna agire». L’Onu addita ufficialmente la Corea del Nord come un «regime criminale che non ha paragoni nel mondo contemporaneo » e chiede che la Corte penale internazionale dell’Aja, o un tribunale Onu istituito ad hoc, accertino le responsabilità dei dirigenti di Pyongyang. Il durissimo atto d’accusa della commissione d’inchiesta delle Nazioni unite, presentato ieri a Ginevra, equipara per la prima volta i metodi della dittatura nordcoreana a quelli della Germania nazista, delineando il quadro agghiacciante di «una popolazione sterminata per motivi politici».
Per il presidente del pool di investigatori Onu, l’ex giudice australiano Michael Kirby, i responsabili delle atrocità commesse a nord del 38° parallelo negli ultimi cinquant’anni «potrebbero essere centinaia di migliaia». Sul banco degli imputati, se pure non accusato direttamente, finisce però prima di tutti il leader trentenne Kim Jong-un, succeduto da poco più di due anni al padre Kim Jong il e reduce dalle purghe spietate con cui ha ordinato lo sterminio di famigliari e funzionari legati allo zio Jang Song-thaek, ex numero due del potere accusato di un tentativo di colpo di Stato. Per questo i tre coordinatori della commissione Onu, oltre a Kirby un’esperta di diritti umani serba e un giurista indonesiano, hanno inviato una lettera a Kim Jongun, informandolo dei crimini rilevati e del cosiddetto «principio di comando e di responsabilità superiore». Questo stabilisce che comandanti militari e civili, in caso di crimini contro l’umanità, rispondano personalmente di azioni compiute da persone sotto il loro controllo. Un avvertimento esplicito: l’attuale dittatore di Pyongyang potrebbe essere processato quale mandante diretto e indiretto dello sterminio del proprio popolo.
Il condizionale è d’obbligo. Per attivare i giudici dell’Aja serve il sì del consiglio di sicurezza Onu e la Cina, membro permanente, ha anticipato che eserciterà il diritto di veto. «Un processo - la posizione di Pechino - non migliorerebbe la situazione, mentre occorre il dialogo». Pyongyang ha «respinto totalmente» il rapporto, definendolo «privo di fondamento e inaccettabile perché basato su informazioni false fornite da forze ostili, sostenute da Usa, Giappone ed Europa». La storica ricostruzione dei crimini nordcoreani isola però ancora di più Kim Jong-un, impegnato nella corsa al nucleare, e pone con le spalle al muro la stessa Cina, suo unico alleato e finanziatore.
In oltre 400 pagine l’Onu descrive per la prima volta l’inferno della dittatura comunista ereditaria dei Kim, che «ha condannato a morte centinaia di migliaia di prigionieri politici rinchiusi nei gulag». Tra i crimini accertati, omicidio, infanticidio, riduzione in schiavitù, tortura, stupro, privazione della libertà, aborto forzato, carestie deliberate, trasferimento e sparizione forzata, esecuzioni, lavoro forzato, persecuzioni politiche, religiose, razziali e di genere. Media e associazioni internazionali denunciano da anni il massacro della popolazione nordcoreana, ridotta alla fame e decimata dal gelo invernale, ma la relazione Onu rilancia ora anche la tragedia di quattro campi di concentramento ancora aperti «in cui sono rinchiusi tra 80 e 120 mila prigionieri politici». «Le indicibili atrocità che continuano ad essere commesse contro i detenuti - è scritto nel rapporto - somigliano agli orrori dei campi creati dai peggiori Stati totalitari del XX secolo». Corea del Nord e Cina hanno negato l’accesso alla commissione delle Nazioni Unite, istituita nel marzo 2013. Le accuse, tra cui quella di aver scatenato una campagna di rapimenti politici all’estero, si fondano così sulla testimonianza di sopravvissuti, rifugiati e disertori riusciti a fuggire in Corea del Sud, Giappone e Stati Uniti, oltre che su decine di mappe aeree che documentano l’esistenza dei lager. Per Pyongyang è «un complotto», ma ad oltre sessant’anni dalla sospensione della guerra civile tra Nord e Sud, il mondo ricorda a Kim Jong-un i crimini di famiglia e gli intima di sospenderli. Meglio tardi che mai, anche perché un primo risultato si vede già: da giovedì le famiglie coreane separate dall’ultimo Muro sopravvissuto al Novecento, potranno riunirsi in un resort sul monte Kumgang. Non accadeva dal 2010. I crimini di Pyongyang loro li subiscono, e li raccontano invano, dal primo giorno.

Repubblica 18.2.14
Sorpresa sudamericana
di Moisés Naím


In Venezuela ammazzano gli studenti e il Governo chiude una rete televisiva che ha osato trasmettere le proteste di piazza. L’Argentina continua a correre senza freni verso il precipizio economico. I presidenti di tutta l’America Latina si sono riuniti in un vertice democratico… all’Avana. L’economia brasiliana è entrata in recessione e il 2014 sarà il quarto anno consecutivo di crescita economica fiacca. I brasiliani ultimamente scendono in strada non per ballare, ma per protestare. Nel 2013 il Paese carioca ha subito la più grande fuga di capitali da oltre un decennio.
È il segnale che la festa è finita per l’America Latina? No.
Mentre le cattive notizie in arrivo da quella regione si accavallano, questa settimana quattro presidenti latinoamericani si sono riuniti a Cartagena, in Colombia, per dare vita a un patto economico. Si chiama Alleanza del Pacifico e ne fanno parte Messico, Colombia, Perù e Cile. Si sarebbe tentati di ignorare la notizia e passare ad altro. Che può esserci di più noioso di un vertice di capi di Stato? E chi è l’ingenuo che può credere alle promesse di presidenti che cercano di dimostrare quanto è stata importante la loro riunione quando in realtà, di norma, questi eventi servono solo a ingrassare le società che organizzano ricevimenti? Non c’è da stupirsi, quindi, che pochi si siano accorti dell’esistenza di questa Alleanza del Pacifico, e che quelli che se ne sono accorti l’abbiano ignorata.
Stavolta, però, potrebbe essere un errore non prendere sul serio questo tentativo di integrare le quattro economie di maggior successo dell’America Latina. Messico, Colombia, Perù e Cile sono i Paesi con la migliore crescita economica e l’inflazione più bassa di tutta la regione. Complessivamente rappresentano il 36 percento dell’economia dell’America Latina, il 50 percento di tutto il suo commercio internazionale e il 41 percento di tutti gli investimenti esteri. Se questa economia fosse un Paese, sarebbe l’ottava economia mondiale e la settima potenza esportatrice. I quattro Paesi che ne fanno parte sono in cima alle classifiche di competitività dell’America Latina. Considerando che l’interscambio fra di loro rappresenta appena il 4 percento del loro commercio totale, è evidente che le potenzialità di sviluppo sono colossali.
Da questo punto di vista l’Alleanza del Pacifico non rappresenta certo una novità: l’America Latina ha una lunga storia di progetti di integrazione economica animati da grandi speranze ma che alla fine si sono risolti in un insuccesso. Il Mercosur è un buon esempio in tal senso: quando, nel 1991, l’Argentina, il Brasile, il Paraguay e l’Uruguay annunciarono l’unione delle loro economie ci fu un grande entusiasmo. Le potenzialità insite nell’unione di due colossi come il Brasile e l’Argentina erano evidenti. Ma i risultati, purtroppo, non sono stati all’altezza: dopo oltre un decennio, il commercio tra i membri del Mercosur rappresenta un misero 15 percento del loro commercio totale (contro il 20 percento dell’interscambio con l’Europa e il 14 percento di quello con la Cina).
L’Alleanza del Pacifico non è stata ben accolta dai leader del Mercosur e di altri blocchi regionali. Il boliviano Evo Morales, per esempio, ha dichiarato che è una cospirazione ordita a Washington per dividere la regione. Rafael Correa, il presidente ecuadoriano, l’ha liquidata così: «Più neoliberismo, più libero scambio». In Brasile Lula da Silva ha dichiarato che è un tentativo di resuscitare l’aborrito Consenso di Washington, mentre l’ex ministro degli Esteri António Patriota ha detto che è «solo marketing, una nuova confezione per un prodotto vecchio ». Marco Aurélio Garcia, il principale consigliere internazionale di Dilma Rousseff, l’ha definita «irrilevante ».
Come rispondono i quattro presidenti dell’Alleanza? «Noi non siamo contro nessuno. È un’alleanza economica, non un’iniziativa politica », ha detto il presidente colombiano, Juan Manuel Santos. «Abbiamo una visione comune sulla gestione dell’economia, un approccio comune verso gli investimenti esteri e rispettiamo la proprietà privata».
La risposta più forte, però, l’hanno data forse con le decisioni che hanno assunto. I quattro Paesi hanno già eliminato i dazi doganali sul 92 per cento dei prodotti e hanno eliminato la necessità di visti per chi viaggia per promuovere commercio e investimenti. Hanno creato le condizioni per integrare le loro Borse valori e in diversi Paesi le quattro nazioni sono rappresentate da un’unica sede diplomatica.
Chi volesse stilare una lista delle ragioni che porteranno anche l’Alleanza del Pacifico a concludersi con un buco nell’acqua non dovrebbe certo scervellarsi. Ma la lista degli incentivi che hanno questi Paesi per fare in modo che l’impresa riesca è altrettanto lunga. E se l’impresa riuscisse, la mappa economica dell’America Latina non sarebbe più la stessa.

Corriere 18.2.14
Il Venezuela alla resa dei conti
Espulsi anche tre diplomatici Usa
Studenti in piazza, inflazione alle stelle, casse dello Stato vuote
di Rocco Cotroneo


RIO DE JANEIRO — Alla fine il «latitante» ha deciso: si consegnerà oggi, alla testa dell’ennesima marcia di studenti contro il governo. E con l’arresto di Leopoldo López — se davvero avverrà — lo scontro tra il potere chavista e l’opposizione in Venezuela raggiungerà il punto più alto da anni. Il Paese è in fiamme. Le manifestazioni non cessano, così come i proclami nelle piazze e in tv del presidente Nicolas Maduro, l’erede designato da Hugo Chávez prima di morire, poi eletto per una manciata di voti lo scorso anno. Sulla crisi pesano i tre manifestanti uccisi lo scorso 12 febbraio, e il fatto che una fetta dell’opposizione — dopo molto tempo — ha deciso di riconquistare le strade nella speranza di dare una spallata al chavismo. Il governo accusa López di essere responsabile di quel sangue e ha emesso un mandato di cattura. «Codardo, fascista, consegnati!», gli ha urlato Maduro l’altro giorno in catena tv nazionale. «Non sono colpevole di nulla e scenderò in strada con il popolo. Non mi nascondo e mostrerò la mia faccia», ha risposto da un video diffuso sulla Rete (l’opposizione non ha praticamente più accesso alla tv). Nella capitale la tensione è alta, per il governo quella di oggi è una manifestazione non autorizzata .
L’eventuale arresto di López — già candidato alle primarie dell’opposizione, molto popolare tra i giovani a Caracas — rappresenterebbe un salto di qualità della crisi, con esiti imprevedibili. L’autoritarismo chavista è da sempre attento a non superare alcuni limiti: nei suoi anni al potere lo stesso leader scomparso si era trovato parecchie volte davanti a difficoltà simili, riuscendo sempre a uscirne con la legittimazione delle urne. Ma stavolta non ci sono elezioni o referendum in vista, Maduro non ha il carisma di Chávez, e la crisi economica si è fatta molto pesante. L’inflazione è altissima, la moneta locale in polvere, mancano beni di prima necessità nei negozi, le casse dello Stato sono vuote a causa di una politica economica dissennata. E’ in questo scenario che l’opposizione, dopo anni di unità, si è spezzata. Dalla moderazione di Henrique Capriles, il numero uno, contrario alla «spallata», hanno preso le distanze altri leader conosciuti, tra i quali proprio López. Le piazze si sono riempite soprattutto di studenti, i quali sembrano intenzionati a non mollare.
Il governo risponde con la repressione e l’accusa di sempre: è in corso un tentativo di golpe con la mano nascosta dell’imperialismo. Maduro ha ordinato che tre funzionari dell’ambasciata Usa lascino il Paese entro 48 ore: sono accusati di aver avuto contatti con il movimento degli studenti con il pretesto di un programma di intercambio. Il governo di Caracas si fa forte anche del silenzio degli alleati della regione: non una parola di dubbio sugli avvenimenti sta arrivando dal Brasile o dall’Argentina. E il movimento degli studenti cileno, il più forte del continente, si è schierato addirittura contro i coetanei venezuelani.
Caracas sembra tornata indietro di un decennio, quando i quartieri erano divisi per appartenenza politica: l’opposizione trincerata ad est, nella zona più ricca, i chavisti attorno al centro e ai palazzi del potere. L’ultima minaccia di Maduro, che ha dichiarato la capitale «territorio libero dai fascisti», è ora quella di far occupare dall’esercito tutti i luoghi di ritrovo degli studenti. Mentre chiama alla reazione i suoi, organizzando contromarce a favore del governo. Come nei giorni del 2002, quando Chávez fu defenestrato da un golpe maldestro per due giorni, è guerra di testimonianze, foto e video. I due schieramenti si accusano a vicenda di manipolare le prove su chi ha ucciso i tre manifestanti la scorsa settimana. López sostiene di avere un dossier che dimostra l’azione violenta di squadre paramilitari. Si sospetta la mano del governo anche nei frequenti blackout di Twitter. Ma ovviamente il potere di fuoco mediatico del chavismo non ha paragoni, soprattutto tra gli strati più poveri della popolazione che ancora credono al «socialismo del XXI secolo» .

Corriere 18.2.14
Non ha mai fine la ricerca del sapere
Per sua natura l’uomo è un essere sempre in cammino
E le contraddizioni sono il sale che arricchisce il pensiero
di Giovanni Reale


Mi sono innamorato della filosofia già al liceo, nella seconda metà degli anni Quaranta dello scorso secolo. Tutto è cominciato da una conferenza tenuta da un giovane studioso, che voleva far conoscere le novità dell’epistemologia, allora ignota. Ha portato tre manuali di fisica: quello del nonno, quello del padre e il suo. Ha letto le prefazioni di ciascun manuale, in cui si diceva che le teorie della fisica erano verità universali e necessarie. Poi ha letto ciò che i tre manuali dicevano sul calore, ed è risultato che sostenevano tesi fra loro contraddittorie: a partire dal fluido calorico del manuale del nonno al richiamo della dottrina sugli atomi del suo. Dunque, risultava che le dottrine fisiche non erano affatto universali e necessarie.
La cosa mi ha sconvolto, in quanto avevo sempre letto e sentito che le verità scientifiche sono incontrovertibili. Naturalmente, ho subito pensato alla geometria, richiamando alla mente quanto spesso sentivo dire, ossia che una determinata cosa era vera quanto era vero che la somma degli angoli di un triangolo è di trecentosessanta gradi. Ma mi è stato presto dimostrato che questo rimane vero solamente nell’ambito della geometria euclidea, perché in quelle non euclidee la somma degli angoli di un triangolo è superiore o inferiore a trecentosessanta gradi.
L’epistemologia dimostrava che le tesi delle scienze sono coerenti e consistenti solo nell’ambito di un determinato paradigma, e mutano completamente quando muta il paradigma. Popper ha inoltre presentato prove convincenti che le tesi della scienza sono tali, solo se e nella misura in cui sono «falsificabili».
Ben si comprende, di conseguenza, in che misura la filosofia, rimasta a lungo soggiogata dalle scienze dopo la rivoluzione scientifica, torni a imporsi come necessaria, in quanto aiuta le scienze e gli scienziati a comprendere l’identità che è loro propria, e quindi ad autoconoscersi. Alcuni scienziati hanno già tratto cospicui vantaggi da questo, ma non sono pochi (e con loro gran parte dell’opinione pubblica) che rimangono ancorati a una concezione assolutistica della scienza, trasformata in un vero e proprio idolo.
Ricordo due significativi esempi. All’università di Parma (dove ho insegnato per un paio d’anni filosofia morale), uscendo dall’aula ho trovato alcuni studenti iscritti alla facoltà di matematica, che mi hanno domandato che cosa potevano rispondere al professore di geometria, il quale voleva dimostrare che, sulla base di un certo teorema, non era possibile l’esistenza di Dio. Io, stupito, ho domandato che tipo di geometria seguiva quel professore, e alla risposta che si trattava della geometria euclidea, non ho esitato a rispondere che quel teorema nelle geometrie non euclidee aveva altro senso, e che, comunque, le scienze non possono in alcun modo pretendere di avere a che fare con realtà che non rientrano nel loro ambito. Robert Edward, padre della fecondazione in vitro, premio Nobel, in una intervista sulla sua scoperta scientifica ha affermato: «Fu un enorme successo che andò ben oltre il problema della fertilità. Riguardò anche l’etica del concepimento. Volevo scoprire chi fosse davvero al comando, se Dio stesso o gli scienziati. Ho dimostrato che noi eravamo al comando».
Solo la filosofia può smitizzare tali convinzioni. Popper ha precisato: «Il vecchio ideale dell’episteme — della conoscenza assolutamente certa, dimostrabile — si è rivelata un idolo. (…) La concezione sbagliata della scienza si tradisce proprio per il suo smodato desiderio di essere quella giusta».
La scienza ha un valore conoscitivo, ma non è l’unico tipo di sapere, e Nicholas Rescher precisa: «Anche nell’ambito strettamente cognitivo, la conoscenza scientifica è soltanto uno dei vari tipi di conoscenza: ci sono altri progetti epistemici e intellettuali ugualmente validi».
Ma che cosa ne è oggi dei grandi problemi metafisici da cui la filosofia è nata, e in base ai quali si è sviluppata? Jürgen Habermas con la sua «filosofia post-metafisica» afferma che sui grandi problemi metafisici e morali «la filosofia non è più autorizzata a intervenire in modo diretto», e che deve limitarsi «ad indagare le caratteristiche formali dei processi di autocomprensione, facendo astrazione dai loro contenuti».
Ma, se fa questo, la filosofia non solo rinuncia a essere ciò che è stata per secoli, ma non risponde a quei problemi ultimativi che l’uomo non può non porsi, perché costituiscono un bisogno essenziale della sua stessa natura. Durante una mia lezione, colpita da certe idee ontologiche dei filosofi greci di cui parlavo, un’allieva mi ha detto che sua sorella, di tre anni, le aveva posto la domanda: «Perché ci sono le cose?». E mi è stato riferito dai genitori che il loro figlio di tre anni e mezzo aveva fatto questa domanda: «Perché mi avete fatto?». Si tratta di problemi che in filosofia sono stati espressi nella formula di Martin Heidegger: «Perché c’è l’essere e non il nulla?». E sono i problemi che i bambini formulano con il loro linguaggio, non appena si aprono con l’intelligenza alla realtà, e che non possono essere dimenticati.
Qualche studente si è talvolta lamentato con me di non trovare nella filosofia risposte definitive, come desiderava. E la stessa cosa mi è stata detta più volte da varie persone, che respingevano la filosofia per le sue contraddizioni. In risposta, io citavo loro un pungente aforisma di Nicolás Gómez Dávila: «Lo stupido si scandalizza e ride quando si accorge che i filosofi si contraddicono. È difficile far capire allo stupido che la filosofia è proprio l’arte di contraddirsi reciprocamente senza annullarsi»; e, aggiungevo, non solo senza annullarsi, ma arricchendosi dialetticamente proprio in questo contraddirsi.
E subito dopo citavo il grande Platone, anche oggi il filosofo più letto e amato, che spiegava come sophos , ossia sapiente, sia solamente di Dio, mentre l’uomo, per sua natura, è philo-sophos , ossia ricercatore e amante della sapienza.
L’uomo è, in effetti, per sua natura, homo viator , continuamente in cammino. E le idee che cerca e trova non possono mai essere ultimative, perché è sempre in viaggio, e non è mai alla meta. Ma proprio per questo, come Eros, che per Platone è filosofo per eccellenza, l’uomo può trovare nella filosofia quelle ali che gli permettono di volare molto in alto, al di sopra della realtà puramente fisica del contingente, e di realizzare, in questo continuo cercare, la sua vera natura spirituale. E credo che sia proprio per questo che i testi dei filosofi siano, oggi, sempre più ricercati. Forse l’uomo comincia a sentire il forte desiderio di uscire dalla gabbia del pianeta in cui si è chiuso con la tecnica, e ricordarsi, come diceva Eugène Ionesco, che «si può guardare il cielo».

Corriere 18.2.14
È dedicato a Kant il secondo volume della serie
di I. Bo.


Oggi in edicola la nuova uscita della collana «Grandangolo» del «Corriere della Sera» dedicata ai grandi filosofi, con Kant, il saggio sul pensatore tedesco curato da Tommaso Tuppini. Si tratta del secondo volume di una serie di 35, in uscita ogni martedì fino al 16 settembre, e che comporranno una biblioteca di monografie curate da importanti studiosi (a € 5,90 più il costo del quotidiano, mentre per il formato ebook il prezzo è € 3,59). Come Tuppini, che spiega il significato del criticismo di Immanuel Kant, tutti i curatori sono specialisti non solo del pensiero filosofico ma di quel preciso ambito, con nomi come Roberto Radice, Alfredo Civita, Carlo Chiurco e così via. Dopo Platone (uscito la settimana scorsa) e Kant, seguiranno Einstein (il 25 febbraio), Nietzsche (il 4 marzo), Aristotele (l’11 marzo), Schopenhauer (il 18 marzo), Freud (il 25 marzo) e molti altri, non solo filosofi ma anche caposcuola in altre discipline. Ciascun saggio è diviso in tre parti, il «panorama» il «focus» e l’«approfondimento»: tra i dati biografici si inquadra anche l’ambiente storico in cui il filosofo è maturato, mentre nella seconda parte si esplorano i contenuti teoretici del pensiero, mentre nella terza parte si trovano brani e citazioni, e un’ampia bibliografia commentata.

Corriere 18.2.14
Italiano come lingua ufficiale: adesso la Crusca ci riprova


«La lingua non è un cavo telefonico» sostiene da sempre Francesco Sabatini, famoso italianista, già presidente dell’Accademia della Crusca. Come dire, non basta schiacciare un pulsante per sostituire un concetto espresso nella nostra lingua con un altro inglese: perché il collegamento di ogni parlante con il suo idioma materno è profondo, non una pura convenzione e ha a che fare con madre natura, come è attestato dalla ricerca scientifica e persino neurologica.
Ripeterà il concetto, Francesco Sabatini, durante il convegno che si aprirà domani a Roma, nella sede del Cnr, con all’ordine del giorno la proposta di «costituzionalizzare», cioè di rendere ufficiale, l’italiano quale lingua della Repubblica.
Ma come, molti si chiederanno, non lo è già? Eh no, anzi non è neppure nominata — per quanto stravagante possa sembrare — negli articoli della nostra Carta fondamentale. E ce ne sono tre che potrebbero richiamarla benissimo: il sesto che tutela le minoranze linguistiche (dunque estendibile anche ai parlanti nell’idioma nazionale); il nono (dove si promuove il patrimonio storico e artistico in generale); il dodicesimo (in cui si rende ufficiale la bandiera tricolore). Dunque, perché esitare a seguire l’esempio della maggioranza in Europa? Stati grandi come la Francia o piccoli come la Slovenia hanno nella loro Carta fondamentale la definizione della lingua ufficiale. Da noi, invece, esitò al tempo della Costituente chi temeva di favorire il nazionalismo: il risultato è che l’italiano è stato abbandonato in una specie di terra di nessuno.
A Roma prenderanno la parola, oltre agli esponenti della Crusca, quelli del Comitato Lingua madre e i giuristi della Associazione italiana dei costituzionalisti. Presenza fondamentale, quest’ultima, perché è chiaro che la questione della lingua coinvolge ormai sia il diritto sia la politica: in passato varie iniziative si sono arenate nei dibattiti o per la fine anticipata delle legislature. Senza contare che, ai lati estremi dello schieramento, siedono contestatori accesi: o perché temono che l’ufficialità dell’italiano sia la premessa per l’esclusione dalla cittadinanza degli immigrati o perché difendendo lingue e dialetti locali sono portati a considerare con sospetto qualsiasi iniziativa che puzzi di «centralismo».
«Ma entrambe le posizioni nascono soltanto dall’ignoranza» sostiene Sabatini «dal momento che la conoscenza della lingua dev’essere al contrario un traguardo e un valore per gli immigrati desiderosi d’integrazione e le lingue minoritarie sono efficacemente tutelate dalla Repubblica, sicché il loro uso e la loro diffusione non subirebbero alcun contraccolpo dall’ascesa dell’italiano a lingua ufficiale.
Senza contare, naturalmente, che la riforma costituzionale tutelerebbe — ricorda ancora Sabatini — il diritto soggettivo di qualsiasi docente a servirsi della lingua nella quale ritiene di esprimersi meglio (con buona pace degli istituti e università che richiedono obbligatoriamente, e masochisticamente, l’uso dell’inglese). E inoltre, se l’italiano diventasse ufficiale, potrebbe essere utilizzato come potente veicolo di penetrazione politica, culturale, commerciale del nostro Paese all’estero.
Ecco dunque il senso del convegno. Ci saranno oltre venti relatori, scelti tra i protagonisti del dibattito culturale e scientifico, nazionale e internazionale; tra questi, studiosi provenienti da diverse aree scientifico-disciplinari (dalla linguistica al diritto, dalla storia dell’arte alla filosofia), per offrire una pluralità di punti di vista.
La scelta finale più probabile? Chiedere alla politica di integrare l’articolo 9. Sei parole che sarebbero incise nel bronzo: «L’italiano è la lingua della Repubblica». E potrebbero far sentire il loro peso attraverso il tempo e lo spazio.

Repubblica 18.2.14
Il terrore dei russi
Storia di Shamil, il santo guerriero che sfidò gli zar
La ribellione che incendiò il Caucaso nel 1800 avvenne dove oggi si svolgono le Olimpiadi. Fu un autentico scontro di civiltà
di Pietrangelo Buttafuoco


Krasnaja Poljana, 8 ottobre 1991. Nevica su Roza Chutor e il vento, che si porta tutto quel bianco sulle cime del Caucaso, segue la schiena di un soldato dell’Armata Rossa. L’insubordinazione è in atto. Dietro di lui – scalzi, con i cappotti a far da tappeto – altri trentasette soldati. Sono in preghiera. Solo nove uomini restano in piedi, smarriti davanti a quella scena. Igor Man, inviato de La Stampa, nei giorni del crollo dell’Unione sovietica detterà al telefono una verità molto complicata: «L’Armata Rossa è il più potente esercito musulmano». Con il rosario al polso, gli uomini in arme gorgogliano i Novantanove nomi di Dio, rinnovano la tariqa (la via mistica dei sufi) e – giusto in quella radura, nel territorio di Krasnodar, la stazione invernale di Sochi – fanno menzione di Imam Shamil, il santo.
L’insubordinazione non avrà esiti in fureria. Doku Zagaiev, segretario del partito comunista ceceno, ha già presentato le proprie dimissioni da un mese. Djokhar Dudaiev ha preso il suo posto e offre a Boris Eltsin, per le opportune scaramucce nei giorni del golpe, i riservisti ceceno-ingusci della Repubblica, che però non arriveranno a Mosca. Tornati ai propri villaggi – dopo ottanta anni di materialismo scientifico – potranno proclamare ilghazawat, ovvero il Jihad d’indipendenza nel nome di Shamil, il Leone.
Imam durante la Guerra caucasica, dal 1834 al 1859, Shamil – il santo che ancora oggi dà il nome ai ceceni – fu per i russi quello che Osama Bin Laden è stato per l’Occidente: un incubo, al quale però i francesi e gli inglesi, durante la Guerra di Crimea, guardarono con ammirazione fino a farne un eroe romantico. Shamil – il terrore dei russi – è il brigante delle impervie sommità che diede l’alfabeto alle tribù da sempre divise, impose la legge ai clan il cui unico credo era il sangue, e volle una tipografia in ogni borgo, costringendo alla modernità coloro i quali, nei secoli, dediti alla durezza della vita selvatica avevano dimenticato la scienza e la parola. Alexandre Dumas lo descrisse in Viaggio tra i ribelli ceceni. In lui vide 'la Guerra santa'. In Gran Bretagna, invece, lo raccontarono nelle gazzette e nei libri con il metro di Thomas Carlyle: l’eroe.
Eroe in una battaglia impari, Shamil. Il suo pugnale contro l'artiglieria, la sua tunica di maestro sufi contro le uniformi di Sua Altezza Imperiale, lo Zar. La sua è una storia di requisizioni di beni, persecuzioni, incendi, migrazioni forzate. E se la Russia ha fatto del Caucaso un destino di due secoli di guerra senza pace, in Shamil – nella sua storia, nella leggenda che vive in film, in fumetti – l’Aquila a Due Teste di tutte le Russie ha specchiato se stessa. «Giudicate il futuro a partire dal passato», diceva Shamil ai suoi confratelli, i murid sufi. «Onorate la Russia a partire dal suo più fiero nemico», proclamò lo Zar Nicola I quando ai propri ufficiali presentò Shamil, ormai prigioniero, per tributargli onori militari e una scorta di guerrieri avari per accompagnarlo a Mecca, in pellegrinaggio, e poi in esilio a Medina, dove oggi i ceceni vanno a pregare sulla sua tomba e dove non è mai cresciuta l’erba che cancella il ricordo.
È il “cimitero degli invasori”, il Caucaso. Le donne non sposano un uomo se prima questi non ha ucciso un nemico, è un magnete di fuoco e di cuore se perfino un domenicano italiano, Giovan Battista Moetti, arrivato in Cecenia nel 1773, tornò all’Islam con il nome di Mansur Ushurma per combattere i cosacchi e trovare il martirio. Padre Moetti, preda della follia di Dio, amò l’irriducibile libertà ai piedi delle madri. E sono quelle donne oggi trasfigurate nella macabra maschera delle vedove nere, imbottite di tritolo e di odio wahabita, l’eresia dell’ortodossia letteralista che tradisce la dolcezza sufi e la fierezza militare di una storia che con Shamil – già formato all’insegnamento coranico, studioso di retorica e logica – fu conoscenza del cuore, misericordia e onore al punto di saper sopportare l’atroce strazio del figlio di pochi mesi, raggiunto da un proiettile russo, mentre lo portava in braccio saltando da una roccia all’altra per aggirare l’agguato dell’invasore. Quello stesso giorno, ad Akhulgo, dopo aver dato sepoltura al proprio pargolo, Shamil portò alla vittoria la sua gente. E pregò: «La preghiera», scriverà Tolstoj in Chadzi-Murat,
descrivendone il carisma di capo spirituale, «era per lui stesso così indispensabile come il pane quotidiano».
La storia di santo e di guerriero di Shamil inizia quando – ancora giovanissimo, figlio di un’agiata schiatta di mercanti di origine àvara – trova un recinto in un remoto pascolo. E’ l’abominio: all’interno di quello steccato, esseri umani vengono allevati al modo delle bestie, allo scopo di riprodursi. Sono privati di qualsiasi barlume di coscienza, destinati al mercato degli schiavi, sorvegliati da guardiani ben contenti di ingravidare le donne e sempre attenti a evitare che, in preda a chissà quale feroce istinto, i maschi tra i prigionieri più forti possano uccidere i deboli o divorare i neonati.
Quel campo è una pozza di orrore. La stessa scena, nello stesso momento, è sotto gli occhi di un giovane russo, fresco d’accademia: il principe Alexander Baryatinsky, al comando di una pattuglia russa. Si accorge di Shamil e, quando lo vede lanciarsi con il pugnale alla gola di uno dei guardiani, comanda l’assalto ai propri uomini per dare man forte al ceceno. Eliminati i guardiani, il principe e ilmuridsi adoperano per liberare i prigionieri, che non riescono ad alzarsi dai loro giacigli avendo ormai atrofizzata l’anima: «Sono come nella grotta di Platone», disse Shamil sfoggiando il greco antico appreso nella madrassa di Ghazi Muhammad, «si sono nutriti di ombre e adesso devono svegliare in sé la luce».
Baryatinsky e Shamil si incontreranno ancora. Il principe diventerà generale, il murid sarà proclamato terzo Imam. La Guerra caucasica, dal 1834 al 1859, li vedrà protagonisti, a capo dei rispettivi eserciti. Shamil sarà leggenda e Baryatinsky, il vincitore, non potrà che riconoscere nel santo guerriero il più degno dei nemici. Duello di incontri, quello tra il soldato russo e il Leone del Daghestan: legame profondo dove i confini della più irriducibile ostilità cederanno al campo della più specchiata lealtà. Un figlio di Shamil verrà preso ostaggio e lo Zar, a dimostrazione della superiore civiltà dei cristiani, vorrà farne un ufficiale del proprio esercito, accogliendolo tra i cadetti dell’Aleksandrivskij di Carskoe Selo. Alexandra Lapierre, in Tutto per l’onore(Il Saggiatore), racconta la fatica di questo reciproco riconoscimento di due nemici, al punto di voler rischiare, lo Zar, di consegnare, con l’ostaggio, un nuovo guerriero all’Islam, e questa volta un nemico cui l’arte russa delle armi – rischiando, alzando al massimo la posta della lealtà – ha insegnato tutto.
Carskoe Selo, 12 dicembre del 1839 del calendario giuliano. Il figlio del nemico deve tornare nel Caucaso. Lo Zar giunge a cavallo nella stazione ferroviaria della guarnigione militare e impartisce un ordine alquanto complicato: «Circondatelo di amici». Il cadetto, cui il sangue degli antichi avari colora di guizzi barbari il volto, torna nelle sue montagne dopo aver dato la giovinezza allo Zar. Sulla banchina della stazione è tutto un baluginare di ammirazione e lampi. Sono i bagliori delle sciabole nel present’arm. Salutano lo sbuffo del treno in accelerazione, mentre tutti i suoi camerati di corso, inquadrati, cantano l’arrivederci “Confidando in Dio”. Il ragazzo toglie l’uniforme dell’accademia e indossa la tunica dei murid solo quando il muso del treno comincia farsi largo tra i binari innevati del Daghestan. Ad attendere il convoglio, con Shamil, ci sono dei prigionieri russi. Tra loro, velate, le principesse di Mosca. Scende l’ostaggio e comincia lo scambio. Prima le donne. Shamil si profonde in un inchino e, a dimostrazione della superiore civiltà dei musulmani, così dice al nemico, a Baryatinsky: «Ve le restituiamo pure come gigli».
Fu scontro di civiltà. A dimostrazione della superiore lealtà dei guerrieri. E dei santi.

Corriere 18.2.14
Confisca, l’arma più potente nelle mani dell’Inquisizione
Ma poteva capitare che il Sant’Officio aiutasse gli ebrei
di Paolo Mieli


Per capire il modo in cui sono andate davvero le cose bisogna osservare come si sono mossi i soldi. Un principio che, secondo Germano Maifreda, ben si applica all’Inquisizione, una storia sviluppatasi per due secoli e mezzo: dalla nascita della Congregazione del Sant’Officio (1542) alla fine del Settecento. E che ora fa da spina dorsale al libro originale e intelligente di Maifreda, I denari dell’inquisitore. Affari e giustizia di fede nell’Italia moderna , che esce oggi per Einaudi. Quante persone sono state coinvolte in questo non breve percorso? Andrea Del Col, ne L’Inquisizione in Italia dal XII al XXI secolo (Mondadori), ha stimato che i processi di cui qui stiamo parlando furono tra i 50 e i 75 mila. E gli imputati tra i 200 e i 300 mila. Le loro storie, se ben passate al setaccio, ci svelano aspetti inediti (o, comunque, fin qui mai analizzati in sé) dell’entrata di Chiesa ed Europa nella modernità. Tanto più che, come scrive Maifreda, le confische e le altre pene pecuniarie furono, per gli inquisitori, «ben più che una fonte di denaro». Anzitutto «esse costituirono un agile strumento di amplificazione del potere della giustizia di fede, la quale, deprivando persone di tutti i ceti sociali delle proprie sostanze e spezzando la trasmissione ereditaria di casate di grande prestigio e visibilità, sanciva tangibilmente la propria supremazia su alcune delle più antiche e prestigiose istituzioni sociali dell’Antico Regime: la persistenza del cognome, la conservazione unitaria e la trasmissione intatta del patrimonio alle generazioni successive». Oltre tutto la «confisca dava agli inquisitori l’opportunità di procurarsi informazioni non emerse nell’ambito del processo già concluso e aprire, così, nuove procedure offensive».
Le pene pecuniarie costituirono, dunque, «un cruciale strumento di alleanza e di dialogo — anche, ma non solo, nei termini della contesa — fra tribunali ecclesiastici e autorità secolari», che si occupavano materialmente dell’incameramento dei beni. Chiusa la fase del processo inquisitoriale, condotto da autorità ecclesiastiche sotto un manto di segretezza difficilmente penetrabile, la giustizia di fede, al momento della confisca, «si schiudeva alla piena visibilità sociale e dialogava compiutamente con le autorità secolari, sviluppando un linguaggio politico e un progetto repressivo comuni». Laddove si comprende che tutto ciò rappresentò per il Sant’Officio non solo una rilevante fonte di entrata, ma anche (e soprattutto) un’occasione di negoziazione politica con i governi locali. Il tutto in un’epoca assai particolare. L’epoca in cui nacque la Congregazione del Sant’Officio e in cui si consolidò la gestione economica della sua rete territoriale, scrive Maifreda, «fu la stessa che vide — a fronte di una demografia in crescita, dell’aumento dei consumi e dei prezzi e di un’espansione dei commerci infra e interregionali, non accompagnata da un adeguamento dell’offerta di credito bancario in senso proprio — un crescente numero di persone e istituzioni familiarizzarsi con tecniche finanziarie anche sofisticate e procedere a concessioni di denaro a prestito». Si stabilì in tal modo «un tessuto connettivo di crediti minuti e diffusi, che funzionava in base a meccanismi sociali di fidelizzazione reciproca e di circolazione di informazioni e garanzie reputazionali fra prestatori e debitori… Meccanismi entro cui la detenzione di una pubblica fama di ortodossia religiosa giocava sicuramente un ruolo determinante».
La preistoria dell’Inquisizione ha inizio da un momento indeterminato, tra la fine del XII e la metà del XIII secolo, quando si formò una struttura sovrannazionale di governo ecclesiastico. È la conseguenza dell’opera di due papi: Gregorio VII (1073-1085) e, soprattutto, Innocenzo III (1198-1216). Pontefici che sancirono non solo la superiorità del vescovo di Roma sull’imperatore in tema di nomina e deposizione dei principi e dei vescovi feudatari, ma anche il potere di governare gerarchicamente tutta la cristianità occidentale. La struttura inquisitoriale della Chiesa agli inizi del secondo millennio operava in modi rudimentali, per delega diretta del Papa e grazie ai membri dei nuovi ordini mendicanti: domenicano e francescano. Le aree di influenza di questi agenti, che si dedicavano a combattere le eresie, furono prevalentemente la penisola italiana, la Francia del sud e l’Aragona. In terra franco-tedesca le potenti Chiese episcopali fecero da sé. Fin dal Medioevo i giudici di fede inflissero ai loro condannati pene pecuniarie, talvolta in cambio dell’attenuazione di castighi fisici o spirituali. E si segnalarono quasi subito casi di malversazione.
A mettere ordine in questa complicata situazione provvide la creazione delle tre Inquisizioni mediterranee: la spagnola (1478), la portoghese (1536) e, ultima, quella romana (1542). Le prime due nacquero, secondo l’autore, come «frutto di una connessione istituzionale tra giurisdizione ecclesiastica e potere statale». E fu proprio la natura di tribunale ecclesiastico controllato dallo Stato, sostiene Maifreda, «a farne uno strumento repressivo di grande duttilità e potenza, in grado di superare le norme canoniche medievali per procedere con la notoria durezza e con grande libertà d’azione». Tutti gli ufficiali dell’Inquisizione spagnola avevano il rango di ministri del re e come tali erano pagati dal sovrano. I pontefici si riservavano un forte potere di intervento, finché entrarono con loro in aperto conflitto. Urto che portò alla decisione di Leone X, nel 1520, di imporre le dimissioni di massa di tutti i suoi ufficiali, con l’unica eccezione dell’inquisitore generale Adriano di Utrecht. E allo smantellamento dell’intera struttura spagnola. Anche stavolta al Papa si poneva il problema di reagire ad accuse di malversazioni che venivano dal reggente di Castiglia, Francisco Jiménez Cisneros, il quale aveva rimproverato agli inquisitori di essersi dedicati a «vender la fe’ catolica». Ma non fu soltanto per ovviare a questo genere di problemi (i quali, anzi, si sarebbero riproposti) che Paolo III, al secolo Alessandro Farnese, nel 1542 — più o meno all’epoca in cui convocò il Concilio di Trento — creò quella che presto avrebbe preso il nome di Congregazione del Sant’Officio. A fargli prendere la decisione di compiere questo passo era stato il governatore della Milano spagnola, il marchese del Vasto che, considerando insufficiente l’impegno dell’inquisitore locale nel combattere la diffusione delle dottrine protestanti, invocò un intervento della Curia romana.
Paolo III, nel concistoro del 15 luglio 1541, assegnò ai cardinali Gian Pietro Carafa de Girolamo Aleandro «la cura universale della Inquisitione», concedendo loro «i poteri di nominare liberamente, inviare e coordinare l’azione di nuovi giudici di fede in tutta la cristianità». Il disegno di Paolo III e ancor più quello dei suoi successori (Carafa in primo luogo, che, in segno di continuità con il Farnese, prese il nome di Paolo IV), era quello di fronteggiare l’eresia luterana, restituendo alla Chiesa di Roma una centralità indiscussa. Centralità che determinò una rivoluzione economica. La redistribuzione delle risorse che, tra Cinque e Seicento, i pontefici attuarono a vantaggio dell’Inquisizione e a danno delle diocesi costituì, secondo Maifreda, « un momento importante e fino a ora poco indagato del rafforzamento del centralismo romano». È la tesi già sostenuta da Rudolf Lill ne Il potere dei papi dall’età moderna a oggi (Laterza). Dopo il Concilio di Trento si pose il problema di far capire quanto contasse davvero il Papa. Tutto quel che avvenne in seguito, scrive Maifreda, faceva parte di «una strategia volta a riequilibrare i poteri che il Concilio aveva conferito ai vescovi, affiancando loro i membri degli ordini vecchi e nuovi, ritenuti meno condizionabili dalle pressioni dei ceti aristocratici e dai potentati locali».
Ma con il pontificato di Paolo IV Carafa (1555-1559) si ha anche un fondamentale momento di discontinuità nella storia dell’Inquisizione moderna. Tutto era iniziato a Bergamo, dove dal 1550 frate Michele Ghisleri (futuro papa Pio V) aveva indagato in segreto sull’ortodossia del vescovo Vittore Soranzo, subendone un’aggressione armata che lo costrinse addirittura a fuggire a cavallo dal convento. Non prima però che avesse messo in salvo l’incartamento processuale contro l’ordinario. Dopo che Soranzo nel 1554 ebbe la meglio, la diocesi fu di fatto commissariata dal Sant’Officio e questo non fu che il caso più eclatante del conflitto, incoraggiato da numerosi papi, tra inquisitori e vescovi. Di qui inizia un fenomeno che si protrarrà a lungo e sarà detto della «renitenza vescovile». Nel 1594 il vescovo di Vercelli fece addirittura sequestrare le entrate beneficiarie dell’Inquisizione locale. Conflitti del genere si ebbero poi lungo il corso di tutto il Seicento: a Rovigo, Gubbio, Imola.
Lo storico poi si sofferma sulla confisca, da intendersi come una forma di «cancellazione del passato». Confisca che, quando nel 1542 nacque l’Inquisizione romana, aveva alle spalle una storia millenaria che affondava le proprie radici nel diritto di Roma antica. Pochi, scrive Maifreda, «oggi ricordano che l’istituto giuridico della confisca dei beni dei condannati, che riguarda soprattutto chi riceva la pena di morte, praticato fin dall’epoca romana e poi per tutto il Medioevo e l’età moderna, fu al centro di un acceso dibattito nell’età dei Lumi, principalmente per le implicazioni morali e filosofiche che gli erano intrinseche». Mise ben a fuoco il tema Cesare Beccaria in Dei delitti e delle pene (1764). Osservò, Beccaria, che confiscare i beni legittimamente accumulati da un individuo equivaleva a estenderne la pena ai collaterali e discendenti, sebbene fossero giuridicamente innocenti: «Ciò, oltre che moralmente ingiusto… rappresenta una condanna a morte di fatto, con il troncamento di ogni suo legame con il consorzio civile, e la cancellazione non solo del suo presente e del suo futuro, ma anche del suo passato». La confisca «turbava in misura irreparabile gli assetti sociali e fiduciari che spingevano gli attori a stipulare dei contratti — compravendite, prestiti, affittanze, lasciti e quant’altro — contando sulla continuità della garanzia dei diritti di proprietà e dei legami informali». Sicché i circuiti economici animati in Italia da mercanti provenienti da aree europee a preminenza religiosa riformata, o da colleghi peninsulari che periodicamente soggiornavano o avevano dimorato a lungo in tali aree fino a quando ciò fu consentito — vale a dire la fine del Cinquecento — vedevano, in questo quadro, il più alto rischio che i loro protagonisti rimanessero impigliati nelle maglie dell’Inquisizione romana. Ciò che creava sui mercati italiani un clima di incertezza generalizzato anche se, ammette Maifreda, è impossibile dire in che misura tutto questo avvenisse.
In ogni caso, però, con la confisca l’Inquisizione si diffondeva nella società «moltiplicando le dignità, gli uffici e i soggetti che con essa collaboravano e, in ultima istanza, la sua visibilità e la sua forza». Donne e uomini «che mai si sarebbero inoltrati volontariamente nei meandri delle procedure d’Inquisizione furono mobilitati da autorità pubbliche e religiose, le quali convocandoli, interrogandoli, nominandoli forzatamente loro rappresentanti, intaccandone direttamente o indirettamente i diritti patrimoniali, li precipitarono nel gorgo della repressione del dissenso religioso». Essi furono così trasformati in «testimonianze viventi, in mano ai tribunali confessionali, del potere superiore» di «disarticolare alcuni fondamenti morali del sistema sociale, tra cui la certezza dei diritti di proprietà, la perpetuazione del sistema successorio e il legame tra unitarietà patrimoniale e identità familiare, che una grave condanna poteva spezzare per sempre»
Ma la situazione che si venne a creare nel mondo che ebbe al centro l’Inquisizione è ancora più complicata. Valga per far comprendere la portata dell’intreccio una vicenda della seconda metà del Cinquecento. L’autore ricorda il caso di un inquisitore di Milano il quale, nel corso di una confisca, scoprì che l’eretico Bernardino Appiani di Pallanza — medico studioso di teologia e scienze occulte fuggito dal carcere nel 1571 e successivamente arso in effigie — vantava un credito di quasi duemila scudi d’oro nei confronti del conte Giorgio Costa della Trinità, capitano generale della tragica spedizione militare voluta nel 1560 da Emanuele Filiberto di Savoia contro le valli valdesi. Il grande dissidente si scopriva così essere stato finanziatore di una crociata contro gli eretici.
Gli inquisitori romani di età moderna, scrive Maifreda, «non furono, come potrebbe lasciar intendere una letteratura storiografica tutta schiacciata sulla dimensione processuale, oscuri teologi claustrali, periodicamente affioranti da buie aule conventuali per castigare crudelmente delitti di fede e tornare, subito dopo, a una vita di erudizione e contemplazione, in attesa di perseguire una nuova vittima». Essi furono invece «costantemente immersi in un fluire vitale di relazioni politiche e sociali, nello sforzo di gestire attività economiche la cui cura richiedeva un impegno prosaico, puntuale e continuo». Gradualmente, «gli inquisitori impararono a trasformarsi in amministratori di patrimoni accumulati dai loro predecessori tramite confische, multe, compravendite, prestiti di denaro, lasciti ereditari e diverse altre forme di investimento». E in ciò «manifestarono una vitalità che, seppur entro i limiti e la vigilanza stabilita da Roma, li avvicinò a possidenti privati e li fece entrare entro segmenti rilevanti dei circuiti commerciali e creditizi dell’Antico Regime». Le principali sedi peninsulari del Sant’Officio manifestarono, lungo tutta la loro storia, una intraprendenza finanziaria e patrimoniale «per certi aspetti sorprendente». Per gli inquisitori, che così attentamente amministravano il patrimonio dei tribunali locali, rappresentare l’Inquisizione poteva costituire un significativo vantaggio sul «mercato» del credito, degli immobili e dei contratti agrari.
Ma ci fu anche dell’altro. All’inizio del Seicento si ebbero alcune situazioni che testimoniano un’evidente «sovrapposizione fra giurisdizione inquisitoriale, intrecci politici e interessi materiali». Ranuccio Farnese, duca di Parma e Piacenza, istruì e condusse personalmente un imponente processo per stregoneria dopo aver ottenuto da diversi nobili locali la «confessione» di aver preso parte ad una fantasiosa congiura contro alcuni sovrani della penisola, 18 cardinali e lo stesso Papa. Processo che si concluse nel maggio del 1612 con la decapitazione e l’impiccagione di dieci persone nella piazza principale di Parma, nel corso di una lugubre cerimonia che durò oltre tre ore. In agosto poi furono impiccati due prelati. Successivamente il Farnese si impadronì di terre e beni dei condannati a morte. Qualcosa di analogo — anche se di segno diverso — accadde nella Torino dei Savoia. Qui, nel 1634, una «posseduta», la nobile decaduta Margherita Roera, esorcizzata da un frate domenicano, accusò il plenipotenziario ducale Lelio Cauda di aver ammaliato Vittorio Amedeo I. Venne inscenata anche una finta possessione. Ma fu subito evidente il tentativo dell’inquisitore, Girolamo Robiolo, di screditare Cauda per mandare in frantumi il suo sistema di potere. Vittorio Amedeo reagì e riuscì a ottenere l’arresto dell’inquisitore da parte del provinciale domenicano. E dal Sant’Officio venne una condanna esemplare di coloro che avevano partecipato al complotto.
Contemporaneamente, in epoca «immediatamente successiva alla chiusura della fase più acuta della repressione antiluterana» si ebbe, poi, quella che può essere definita una «specializzazione antiebraica» dei tribunali inquisitoriali. Siamo qui, ha scritto Adriano Prosperi «nel cuore dell’antiebraismo cattolico, cioè di quella lunga guerra di posizione condotta dal cattolicesimo nei confronti di una presenza tollerata ma certamente non amata». «Specializzazione antiebraica» o forse «specializzazione ebraica» (tema ben approfondito in alcuni studi da Marina Caffiero), che diede una forte caratterizzazione al Sant’Officio. Quantomeno fino al 1769, quando papa Clemente XIV trasferì dall’Inquisizione, che la deteneva dal 1581, al vicariato di Roma, la giurisdizione su tutte le cause non religiose o commerciali in cui fosse implicata la locale comunità israelitica. Ma, attenzione, le cose andarono in modo diverso da come le si è percepite. Colpiscono i numerosi casi in cui il Sant’Officio romano nel Sei e nel Settecento, fu capace di respingere le cause intentate dai negozianti cristiani i quali, per difendere i loro monopoli sui mercati cittadini, inventavano ogni genere di accuse contro i concorrenti israeliti. Marina Caffiero e Angela Groppi hanno individuato molti casi in cui il Sant’Officio «si fece garante degli ebrei» nei confronti dei gentili che miravano a limitarne la presenza fuori dai ghetti, «minacciando o rompendo monopoli commerciali di cui i cristiani godevano da secoli». C’erano stati, è vero, episodi terribili come quello dei roghi degli ebrei anconetani di metà Cinquecento, in cui anche l’Inquisizione ebbe una parte non di secondo piano. Orrori finalizzati ad appropriarsi dei beni degli ebrei. Ma, afferma lo storico, «allo stato attuale degli studi non pare tuttavia possibile scorgere entro il sistema dei tribunali centrale e locali italiani di metà e secondo XVI secolo una sistematica opera di incameramento dei beni di persone coinvolte in processi inquisitoriali, né un’integrazione fra procedura di fede ordinaria e indagini patrimoniali paragonabili a quelle evidenziate dagli studi inerenti il caso spagnolo».
E restiamo nelle Marche. Nell’agosto del 1624 l’inquisitore di Ancona ricevette una richiesta d’aiuto da parte della comunità ebraica locale, che si riteneva molestata dal neofito Giovan Giorgio Aldobrandino. È interessante notare come gli ebrei preferissero rivolgersi all’Inquisizione piuttosto che al vescovo. Ritenevano evidentemente che il tribunale del Sant’Officio «fornisse loro maggiori garanzie di correttezza procedurale rispetto all’asserita rapacità di quello vescovile». E infatti l’autorità diede loro ragione. Con l’inquisitore che denunciava come le cause del Sant’Officio alla corte episcopale di Ancona si facessero «malissimo, perché non vi è segretezza et ogni cosa è venale, et in cambio di trattarle santamente servono per fare estorsioni de’ denari (che se nella corte episcopale si facessero le cause del Santo Officio gratis, et pro Deo amore, come in questo santo tribunale, non sarebbono così solleciti in procurare dette cause con dare anco buona mano o stipendio a denuncianti» . E si riconosceva il torto di un altro neofito, Paolo Savello, che aveva accusato un ebreo per stupro ad esclusivo scopo di lucro. Savello, secondo l’inquisitore, aveva fatto «questa inventione diabolica per cavarli (all’ebreo, ndr ) danari dalle mani, fingendo che ne sia accusato all’Inquisitione». Per merito dell’Inquisizione venivano alla luce personaggi all’interno delle corti episcopali, specializzati in pratiche quali «coprirsi del Santo Officio e sotto il suo nome con false iniuntioni rubbare li denari alli poveri hebrei». Il caso di Ancona, secondo Maifreda, «da un lato richiama la consumata abilità degli israeliti, frutto di plurisecolare necessità, nello scivolare tra le maglie giurisdizionali dei tribunali ecclesiastici e fra questi e le corti e magistrature secolari, a scopo autodifensivo; dall’altro dimostra però che i rapporti fra Inquisizione e comunità ebraiche furono più plastici di quanto non evidenzi l’analisi dei processi fondati su aspetti strettamente religiosi».
Già Grado Giovanni Merlo ne Il cristianesimo medievale in Occidente (Laterza) ha fatto notare come il ricorso agli strumenti di coercizione violenta non sia stato determinante nella vittoria della Chiesa romana sugli eretici. Per quanto «il pubblico non specialista, come già in passato eruditi mossi da, espressi o sottaciuti, intenti polemici» avverte Maifreda «possa inevitabilmente essere sedotto dalla miscela di attrazione e repulsione suscitata dalla dimensione cruenta dell’operato inquisitoriale, è oramai da ritenersi superata un’impostazione del discorso sull’Inquisizione imperniata sulla contrapposizione fra apologetica e Leyenda negra». Lo storico, però, poi mette le mani avanti: la sua «lettura aperta del funzionamento dei tribunali dell’Inquisizione non si propone assolutamente di schiacciare il loro operato sulla mera dimensione economica, ciò che sarebbe scorretto sotto il profilo epistemologico oltre che, allo stato attuale della documentazione e delle ricerche, rigorosamente indimostrabile». Tale modo di guardare all’Inquisizione, però, «può consentirci di dischiudere l’interpretazione dell’operato dei tribunali di fede a una pluralità di variabili e a una circolarità di decisioni e funzioni, i cui molteplici presupposti e conseguenze sono da vagliare caso per caso». E, talvolta, sezionando anche il singolo caso. Meritoriamente.

La Stampa 18.2.14
Non ci indurre in tentazione ma liberaci dalla cioccolata
Un biblista ricostruisce la disputa teologica intorno all’alimento venuto dal Nuovo Mondo nell’Europa cattolica tra Cinque e Seicento
di Massimiliano Panarari


L’uomo è ciò che mangia, diceva un po’ di tempo fa Ludwig Feuerbach, sulla scorta del chimico e fisiologo Jacob Moleschott; e ce lo confermano oggi Masterchef, Eataly e il dilagare di una passione irresistibile per la cucina. Ma la considerazione si applica anche allo scrupolo con il quale le religioni hanno esteso i loro precetti alla tavola, come racconta un libro curioso e ben documentato appena uscito.
In La cioccolata cattolica (Edizioni Dehoniane, pp. 96, € 8,50) il biblista Claudio Balzaretti ci ricorda quanto il cibo ricorra nella liturgia, nei riti e nella dottrina della Chiesa apostolica romana, già a partire dalla «scena originaria» (la mela mangiata nel giardino dell’Eden) fino all’eucaristia, dall’Ultima cena alle virtù dell’astinenza e del digiuno in taluni periodi dell’anno, retaggio dello «scontro di civiltà» gastronomiche tra l’abbuffata prediletta dall’aristocrazia cavalleresca e militare (direttamente discendente dal «modello carnivoro» dei barbari) e gli ordini monastici che predicavano la temperanza (debitori del «paradigma del pane e dell’olio» della cultura mediterranea greco-romana). Ma, soprattutto, il libro di Balzaretti ripercorre una vicenda, quella dell’arrivo della cioccolata sul desco degli europei, nella quale si compendiano molte di queste relazioni speciali tra la teologia e l’alimentazione, e che, pur non avendo rappresentato una vivanda tabù, suscitò una notevole serie di grattacapi dal punto di vista religioso.
Il digiuno ecclesiastico (quello normato con estrema precisione dalle gerarchie cattoliche) prevedeva il principio per cui liquidum non frangit: la bevanda (per così dire) non valeva, e non andava dunque considerata come una sua interruzione o trasgressione. Tra la fine del Cinquecento e il debutto del Seicento esplose così una impressionante diatriba di natura teologica, nella quale si infilarono anche i medici, portatori di un ulteriore punto di vista, «tecnico», sulla materia.
A dare il via alle dispute era stato il medico Juan de Cardenas, autore del primo scritto interamente consacrato al cacao (e ispirato alla teoria dei quattro elementi), che ne giustificava, sotto il profilo della salute, il consumo da parte di chi viveva nelle Indie, ma evidenziava anche come contrastasse con il
precetto del digiuno a causa della sua componente burrosa – ragione per la quale il dibattito si concentrerà moltissimo sugli ingredienti usati nella preparazione. Dal mondo religioso si alzò da subito il fuoco di sbarramento, dal beato Iordan de Santa Catalina (vissuto in Messico) alla confraternita dei domenicani (perentoriamente contrari, senza se e senza ma). E la nutrita e agguerrita corrente anti-cioccolata (che annoverava tra le proprie argomentazioni più «incisive» quella relativa al potere lascivo e afrodisiaco della bevanda) poteva pure contare su vari fiancheggiatori laici, che andavano da Francisco Hernández de Toledo, medico personale di Filippo II (e da lui inviato nella prima «missione scientifica» oltreoceano, durata sette anni) a uno dei maggiori ingegni dell’età barocca, il letterato e politico Francisco de Quevedo, che parlava del «diavolo della cioccolata», trovando i suoi fan (i chocolateros) quasi dei posseduti dall’estasi del gusto.
Il cleavage della cioccolata diventava così un ulteriore motivo di contesa nei posizionamenti e negli scontri tra gli ordini religiosi, con la Compagnia di Gesù molto più possibilista al riguardo (e una sua ala interna nettamente a favore). Nel 1627 il tema faceva ufficialmente il suo ingresso nei libri di etica, nella monumentale Teologia morale di uno dei pesi massimi dell’intellettualità gesuitica, il «dottor sottile» padre Antonio Escobar y Mendoza (con il quale incrociò le lame Blaise Pascal), che, giustappunto, «assolveva» di fatto la cioccolata, da considerarsi quale pura bevanda se conteneva solo un’oncia di cacao e una e mezza di zucchero sciolte in acqua. Mentre, alla metà del XVII secolo, la frazione «giustificazionista» della degustazione della bevanda al cacao conquistava esponenti illustri della Curia e della gerarchia, dal cardinale Juan de Lugo al cardinale Francesco Maria Brancaccio.
Ad accompagnare la diffusione della cioccolata dalla Spagna al resto del Vecchio Continente sarà così anche questa vivace discussione, che abbandonerà via via la dimensione teologica per intrecciarsi sempre di più, da un lato, con il mutamento dei paradigmi della medicina (e il tramonto di quella ippocratica, che era profondamente dietetica) e, dall’altro, con la «questione sociale» concernente i suoi estimatori. Il consumo dei derivati del cacao – espressione tipica di quei generi voluttuari che hanno veicolato una delle prime forme della globalizzazione dei commerci – ancora a metà Settecento era infatti riservato alle élite; tanto da aver suggerito allo storico delle mentalità Wolfgang Schivelbusch di mappare una geopolitica del gusto, che vedeva la frattura tra un’Europa della cioccolata (adorata dall’«inerte e parassitaria» nobiltà di rito cattolico) e quella del caffè (simbolo della «sobria e attiva» borghesia di religione riformata). Ma, col passare del tempo, della bevanda al cacao si approprieranno sempre più largamente le rampanti classi medie, ed essa arriverà infine a deliziare anche il palato del popolo, facendo dimenticare quanto nei secoli precedenti, all’interno della confessione cattolica, si fossero confrontati aspramente un partito pro e uno anti-cioccolata.

Repubblica 18.2.14
Le città insensibili
Quei ghetti che non vediamo nelle metropoli della solitudine
Perché la paura del contatto con l’altro provoca la fuga dai quartieri “misti” E influenza sempre più i piani urbanistici
di Richard Sennet


Nelle moderne forme urbane, in modo forse meno evidente, è assente quell’esperienza che Guy Debord definisce “non rappresentabile”, cioè quella mescolanza di popoli e di attività che possono far percepire l’ambiente come sconosciuto, uno spazio problematico che porta una persona a interrogarsi sul suo habitat. La città, al contrario, è diventata una mappa sempre più chiara di funzioni distinte in spazi segregati. Dal momento che queste divisioni, che sono burocratiche, non producono stimoli, la nostra epoca si configura come quella in cui la forma urbana non favorisce la vivacità dell’esperienza dei sensi.
In realtà, questa deprivazione sensoriale dovrebbe sorprenderci, visto che il corpo è diventato un’icona della cultura moderna altamente consapevole di sé. (...) Il corpo, oggi, è costantemente esplorato come chiave per comprendere se stessi: le persone parlano di accettazione del proprio corpo come passo per il raggiungimento della libertà personale. Eppure, il nostro modo di costruire non contribuisce alla cultura della consapevolezza corporea di sé. Visto come stanno le cose, potremmo essere tentati di mettere sotto accusa quelli che appaiono solo come costruttori di strutture asessuate e di spazi pubblici neutri. Gli scrittori che pensano in termini di “corpo politico” dovrebbero piuttosto trattare l’esistenza di spazi morti in una cultura ossessionata dalla sensazione corporea come l’indizio di una più generale dimensione culturale; forse l’ossessione somatica non è esattamente quello che sembra. (...) Dare la colpa ai progettisti professionisti per aver realizzato spazi morti è un po’ come sparare sul messaggero che porta cattive notizie. In realtà, la cattiva notizia che ci arriva dai portavoce dell’architettura è un’altra: e cioè che un pubblico così avido di corpi fatti a pezzi, e di letture di argomento sessuale – in cui si descrivono atti fino al più piccolo dettaglio anatomico – possa sentirsi appagato da un corpo politico in cui impera la passività.
Uno dei modi possibili di definire la passività dei sensi nella vita di ogni giorno è “fastidio nel contatto”. A questo proposito, un paio di incisioni realizzate da William Hogarth nel 1751 possono risultare illuminanti per l’osservatore moderno. In Beer Street e in Gin Lane, Hogarth cercava di rappresentare l’ordine e il disordine nella Londra del suo tempo. Beer Street mostra un gruppo di persone sedute insieme a bere boccali di birra in tutta tranquillità. Gli uomini si appoggiano a vicenda le braccia sulle spalle e in alcuni casi compiono lo stesso gesto anche con le donne. L’atto del toccare, in questa incisione, mostra una condizione del vivere nella società: rappresenta l’ordine sociale. Gin La ne raffigura invece una scena in cui non c’è contatto fisico tra i corpi, dove ogni persona è catatonicamente ritirata in se stessa e ubriaca di gin, dove la gente non ha consapevolezza fisica né delle altre persone, né delle scale, né delle panchine o degli edifici presenti nella strada. Questa mancanza di connessione fisica trasmette l’idea hogarthiana di disordine nello spazio urbano.
Se oggi uno sconosciuto con una bottiglia di birra in mano vi si avvicinasse per la strada e provasse a toccarvi l’avambraccio, probabilmente fareste un balzo indietro per la paura - e così del resto farei anche io. Il toccare è percepito più come una violazione che non come un atto generatore di ordine. Questa paura del contatto fisico trova espressioni diverse nell’ambiente costruito che ci circonda. Nel decidere il percorso delle strade, per esempio, gli urbanisti cercano di incanalare il traffico in modo da isolare lacomunità residenziale dal quartiere degli affari, oppure, se il traffico attraversa zone residenziali, fanno in modo da separare le aree ricche da quelle povere o etnicamente diverse. Nello sviluppo della comunità, i progettisti prevedranno la costruzione di scuole o di edifici residenziali nel cuore della comunità stessa, piuttosto che ai margini dove le persone possono entrare in contatto fisico con gli estranei. Sempre di più, le comunità recintate e sorvegliate 24 ore su 24 sono presentate agli ipotetici acquirenti come modello di vita ideale.
Dal punto di vista urbanistico, la paura del contatto si traduce in paura del contatto fisico con gli estranei. È facile sentir parlare di quanta capacità di sopportazione sia necessaria per gestire il contatto con esseri umani “esterni”. Un modo più mirato per comprendere questa paura è quello di risalire alle sue origini, rintracciabili nell’evoluzione di un’altra esperienza corporea nello spazio: il movimento.
Un importante punto di partenza per questa storia congiunta del contatto e del movimento è stata l’apparizione, nel 1628, del
De motu cordis del fisico William Harvey, un lavoro che analizza il cuore presentandolo come una gigantesca macchina che pompa sangue in tutto il corpo. Secondo Harvey, il meccanismo della circolazione è ciò che permette al corpo di crescere e di rimanere sano fino alle sue estremità inferiori – una visione che ha sfidato sia le vecchie credenze mediche sul calore innato del sangue che quelle religiose sul cuore come sede dell’anima. Questa nuova comprensione del corpo si è rivelata rivoluzionaria, modificando non solo le pratiche dei medici ma anche quelle di altre figure professionali.
Prima fra queste, la progettazione urbanistica. Gli urbanisti hanno infatti adottato le scoperte di Harvey sulle virtù del movimento, ritenendo che la circolazione desse vita al corpo politico urbano così come al corpo umano. Tali convinzioni si sono quindi espresse nei piani delle villes circulatoires del XVIII secolo, come Karlsruhe in Germania e, in particolare, nel piano L’Enfant per Washington DC, elaborato da Ellicott. Per descrivere le strade, i progettisti parlavano di vene e arterie. La scoperta di Harvey che la circolazione del sangue unifica il corpo in un sistema totale è stata adattata a una visione di coerenza sistematica della città: l’insediamento più lontano lungo il perimetro deve essere collegato al centro città attraverso ciò che l’urbanista Manuel Castells chiama “lo spazio di flussi”. (...) Queste credenze sul movimento sistematico nell’ambiente costruito hanno determinato una rottura significativa con le vecchie credenze barocche sulle virtù del movimento. Quando Papa Sisto V pianifica la Roma barocca, immagina il movimento lungo le strade della città come se si trattasse di percorsi verso destinazioni precise: le strade diventano vie di pellegrinaggio in direzione dei sette luoghi sacri della Roma cristiana. Il Piano L’Enfant per Washington, al contrario, non è pensato solo in termini di pellegrinaggio verso i luoghi del potere. Non tutte le strade principali sfociano infatti in edifici monumentali. Si tratta invece di una visione più democratica, in cui le persone sono libere di muoversi nell’intera città e non sono costrette a dirigersi ineluttabilmente verso i luoghi e i santuari del potere.
È stato durante l’esplosione urbanistica del XIX secolo che i progettisti hanno elaborato la discontinuità tra il movimento e lo spazio e hanno continuato a usare il vecchio immaginario harveyiano delle strade come arterie e vene. A poco a poco, però, il movimento ha assunto una forma più direzionale: l’allontanamento dal centro è diventato più importante del movimento verso il “cuore” della città. La direzionalità è apparsa, ad esempio, nel grande piano stradale del barone Haussmann, elaborato tra il 1850 e il 1860 per la città di Parigi. Quando Robert Moses concentrava la sua pianificazione stradale sul modo in cui lasciarsi alle spalle New York City con tutti i suoi problemi, faceva leva sull’impulso tipico della grande espansione urbanistica avvenuta all’epoca del grande capitalismo: quello di fuggire dai centri di diversità della città, densi e incontrollati.
Velocità significava che la gente “perdeva il contatto” con il luogo: questa non è solo una metafora. Perché in effetti le tecnologie della velocità hanno de-sensibilizzato e placato il corpo in movimento. Alla guida di un’automobile, il piede compie micro-movimenti, gli occhi si spostano solo a tratti dalla strada che si ha davanti allo specchietto retrovisore. La stessa velocità diminuisce la stimolazione sensoriale dei luoghi che si vedono passare. Guidare è come guardare la televisione, perché le rappresentazioni scorrono rapide davanti a un corpo immobile, o in una posizione fissa per ore e ore come davanti allo schermo del computer. In questa condizione, il contatto con gli altri, in particolare il contatto con l’ignoto, il non programmato, si affievolisce, e viene sostituito dalla mera visualizzazione dello schermo. Il moderno corpo politico è segnato dalla perdita delle capacità sensoriali causata dalla circolazione sempre più rapida di beni, di servizi e di informazioni.

Repubblica 18.2.14
Cosa rende il paesaggio un paesaggio storico
Nasce l’osservatorio del ministero delle Politiche agricole per difendere il territorio

di Francesco Erbani

L’agricoltura prende in consegna il paesaggio. O, almeno, una sua parte consistente. Muove infatti i primi passi l’Osservatorio del paesaggio rurale, un organismo del ministero per le Politiche agricole che intende censire e poi salvaguardare e, semmai, recuperare, quelle porzioni di territorio che, nonostante le modifiche, conservano una serie di caratteristiche storiche, sia per l’assetto (i terrazzamenti della Costiera amalfitana o del Chianti, per esempio), sia per le pratiche di coltura (dall’uso di concimi naturali al mantenimento di diverse produzioni). L’obiettivo è di costruire un registro dei paesaggi storici, ognuno dei quali sarà certificato: questo marchio accompagnerà i prodotti, che potranno contare sulle loro qualità e anche sul valore che a essi si aggiunge perché provenienti da quel determinato paesaggio. Un paesaggio, però, che non va stravolto.
Bellezza e benessere, dunque. L’Osservatorio ha indetto una prima riunione un paiodi settimane fa e per prima cosa sono stati definiti i criteri perché un paesaggio possa essere inserito nel registro. Criteri molto selettivi che coinvolgono Regioni e agricoltori. Con le Regioni, inoltre, è avviato un dibattito perché fra le voci che consentono agli agricoltori di ottenere gli incentivi della Pac (la politica agricola comuni-taria), che per il settennato 2014-2020 prevedono 21 miliardi di euro, c’è proprio la conservazione delle forme tradizionali di un paesaggio (prati e pascoli permanenti, per esempio, siepi e filari) e l’invito a non prediligere le monoculture, cioè le grandi estensioni con una sola coltivazione, che banalizzano i paesaggi rurali.
L’Osservatorio non parte da zero. Cinque anni fa è stato condotto uno studio che selezionava oltre un centinaio di paesaggi rurali storici, poi pubblicato da Laterza. Ha coordinato il lavoro Mauro Agnoletti, professore di agraria a Firenze e ora membro del comitato scientifico dell’Osservatorio (insieme, fra gli altri, a Giuseppe Barbera, agronomo palermitano, autore di molti libri, l’ultimo dei quali è Conca d’oro, edito da Sellerio; e Tiziano Tempesta, economista agrario, fra i più attivi misuratori del consumo di suolo nel suo Veneto). Regione per regione sono stati individuati e schedati i paesaggi storici. Dai piemontesi Alpeggi della Raschera alle colline vitate tra Tarzo e Valdobbiadene in Veneto; dalle Biancane della Val d’Orcia in Toscana ai Piani di Castelluccio in Umbria; dagli orti arborati delle colline di Napoli ai pistacchieti di Bronte, in Sicilia. Ne venivano raccontate le caratteristiche, i tratti rimasti integri nei secoli e le trasformazioni intervenute. Di questi paesaggi venivano indicate anche le vulnerabilità, che ancora dipendono dall’incedere del cemento, ma anche dall’abbandono, dal prevalere delle sterpaglie o dalla diffusione dei boschi e dai sistemi di conduzione tipici dell’agricoltura industriale.
In cento anni, dal 1911 a oggi, calcola Agnoletti, la superficie agricola si è ridottada circa 22 milioni di ettari a poco più di 12 milioni, mentre quella boschiva è cresciuta da 4 milioni e mezzo a 11 milioni. La diversità delle tessere paesaggistiche si è andata riducendo sensibilmente a vantaggio di paesaggi più omogenei, quelli fissati dall’agricoltura industriale. Ma l’abbandono, l’assenza di manutenzione e la scomparsa di alcune forme di assetto agricolo, come i terrazzamenti, è anche causa di dissesti. Secondo Agnoletti, l’85 per cento delle frane avviene in terreni unavolta terrazzati e laddove la vegetazione prevalente è arbustiva o boschiva.
«Il paesaggio agrario», spiega Agnoletti, «non è paragonabile a un monumento per il quale discutere se sia lecito darlo in uso a un privato per farci degli eventi. È una parte di territorio che può mantenere il suo valore se è in grado di produrre cibo o anche di fare turismo mantenendo i caratteri storici, estetici ed ambientali». Entro il primo marzo di ogni anno, si legge nel decreto, il ministero e le Regioni raccolgono e trasmettono all’Osservatorio le candidature per l’inserimento nel registro. Ed entro il 15 settembre l’Osservatorio decide, a maggioranza, se i paesaggi proposti sono meritevoli di entrare nell’elenco «in base all’origine, al valore storico, allo stato di conservazione, alla ricchezza di diversità bio-culturale e alle qualità estetiche ». Basta perdere una o più caratteristiche, basta una manipolazione grave, neanche uno scempio, e dal registro, però, si può anche uscire.

Corriere 18.2.14
Da Roma una mostra sui tesori distrutti in Siria


ROMA — «Tutti noi siamo angosciati per la situazione umanitaria in Siria, per le 130 mila vittime in tre anni di conflitto, per il dramma umanitario globale di milioni di profughi. Ma questa profonda preoccupazione non può e non deve farci ignorare l’autentico disastro che sta distruggendo uno dei più importanti patrimoni culturali del mondo, una autentica tragedia che è di segno sia artistico che umano». Francesco Rutelli, da tempo volutamente lontano dalla scena politica italiana, è ora presidente onorario dell’Icd (Institute for Cultural Diplomacy, che favorisce il dialogo culturale internazionale e la risoluzione di possibili contrasti tra Paesi su questo terreno) ed è il fondatore dell’associazione Priorità Cultura.
Da tempo Rutelli segue le vicende siriane con l’occhio di chi ha retto, tra il maggio 2006 e il maggio 2008 come vicepresidente del Consiglio di Romano Prodi, il dicastero dei Beni Culturali. E oggi gioca la carta della sua posizione di interlocutore internazionale per lanciare una campagna di sensibilizzazione sul dramma anche culturale della Siria: «Non c’è bisogno di aver visitato Palmira, le città antiche di Damasco e di Aleppo, il Crac de Chevaliers, Bosra, Qalat Salah El-Din, i quaranta villaggi del Nord inseriti nel patrimonio mondiale dell’Unesco per vivere con angoscia questa situazione che trafigge un Paese dalle plurimillenarie civiltà. Molti dei diecimila monumenti censiti sono campi di battaglia. Assistiamo alla sistematica distruzione di moschee, di suk, di luoghi in cui tuttora si parla in aramaico».
Le preoccupazioni di Rutelli sono ben sintetizzate nel video di quattro minuti firmato dal giovane regista Matteo Barzini, con le musiche regalate dal maestro Ennio Morricone, che è stato proiettato giorni fa alla Casa del Cinema di Roma in occasione dell’anteprima del film «Monuments men», scritto e diretto da George Clooney. Un reportage su distruzioni, crolli, bombardamenti.
La campagna avrà come scopo non solo la sensibilizzazione dell’opinione pubblica, il sostegno ai programmi internazionali e la collaborazione ai progetti di ripristino e restauro. Il progetto più suggestivo è la realizzazione di una grande Mostra itinerante in Europa, con prima tappa a Roma, che offra la possibilità di ammirare alcuni capolavori e insieme di capire, con video e immagini, cosa è stato distrutto. E’ già nato un Comitato scientifico presieduto dal grande archeologo Paolo Matthiae, scopritore della città di Ebla e decano degli archeologi attivi in Siria: «La civiltà siriana ha dato all’umanità l’avvio dell’agricoltura e dell’allevamento diecimila anni fa sulle sponde dell’Eufrate, la nascita degli insediamenti urbani e quindi dell’idea stessa di città, il primo alfabeto. Il maggiore architetto romano, Apollodoro, era di Damasco».
Quindi per Matthiae è un dovere per noi contemporanei, eredi di tanto retaggio, intervenire. Del Comitato scientifico fanno parte studiosi italiani (Eugenio La Rocca, Cristina Tonghini, Stefano Tortorella) così come Frances Pinnock (La Sapienza, Roma) Pascal Butterlin (Sorbona, Parigi), Hartmut Kuehne (Freie Universitaet, Berlino), Karin Bartl (Deutsches Institut, Amman-Beirut-Damasco). Per saperne di più, il progetto è sul sito www.identitacultura.it

La Stampa 18.2.14
Il “Tondo Doni” in alta definizione:
Michelangelo come non s’è mai visto
Medialab-Esplora il gioiello dell’arte

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