lunedì 24 febbraio 2014

Dall’Unità:«Chi dice 'Civati sei un venduto' si deve lavare la bocca perchè la mia posizione è la peggiore»
«Renzi? Sono 15 giorni che non lo sento, non ho avuto il piacere»
Questa mattina ad “Agorà” su Rai 3: «A Bologna si è svolta una quasi una seduta di psicanalisi collettiva»
Un lettore ci scrive: «Se alle Primarie è evidente che a far vincere Renzi sono stati i voti dei berlusconiani, Civati crede veramente che alla sua consultazione, circa il sostegno in parlamento al governo, abbiano votato solo i suoi fedeli civatiani o non per caso, forse, tanti o tantissimi renziani?»
l’Unità on line 24.2.14
Civatiani spaccati sulla fiducia
Civati: «Resto nel Pd»

qui

l’Unità 24.2.14
Civati ci ripensa: vota sì
Lunga e partecipata assemblea a Bologna, culla dell’Ulivo
Sondaggio sul web, oltre il 50% favorevole al sì
Gli interventi «I centrodestra sono diventati due, siamo alleati con tutti e due»
La lista Tsipras resta un riferimento così come alcuni Cinquestelle disponibili
di Gigi Marcucci

Farà «la cosa giusta», resterà nel Pd. Ancora non dice che voterà la fiducia al governo Renzi, ma cos’altro può essere il «sì condizionato» di cui parla? Glielo consiglia il50%dei suoi sostenitori, oltre 20.000 persone consultate attraverso un sondaggio on line. A giudicare dagli applausi, vuole restare nel Pd il 90% dei circa mille supporter convenuti ieri alle Scuderie di Bologna, locale consacrato al jazz, per una jam session durata oltre quattro ore. Il flusso ininterrotto di una coscienza esulcerata da novità che per molti sono molto meno o molto peggio di un semplice rimpasto; da un «partito che improvvisamente si fa stato», dando in direzione il benservito a un presidente del Consiglio; da un «ministero dell’Ambiente affidato a un commercialista innamorato del nucleare».
Delusione e rabbia trasmesse in diretta streaming, con la platea divisa a metà. «Diciamo no, ma restando nel Pd», suggerisce qualcuno. «Diciamo sì, ma cercando forme e modi», replicano altri, «se anche un “ni” è possibile possiamo discuterne». Pippo Civati ascolta, chiosa, a volte scherza, ma almeno apparentemente non scioglie la riserva più importante, quella sul primo passaggio parlamentare del nuovo esecutivo. Ma decifrare il suo messaggio non è difficile. Chi vota no è fuori, spiega l’amico Filippo Taddei, responsabile economico della segreteria Renzi. «C’è stato un voto e questa è la vera novità. In passato certe cose non venivano discusse in pubblico». Se manca il voto di fiducia, dice Taddei, «il Pd si priva del contributo di molti.E voi vi private del Pd». Eil pensiero di Civati diventa più chiaro davanti a microfoni e telecamere: «Se non dovessi votare un governo che ha la legittimazione del Pd, uscirei dal Pd».
Le Scuderie si riempiono quasi subito. Alle 10 del mattino, l’assolata piazza Verdi è attraversata da una fila ordinata che sfiora i portici del Teatro Comunale. Bologna è la città elettiva di Pippo Civati. È stata la culla dell’Ulivo e una bandiera con quel simbolo viene esibita in assemblea ed esposta sul tavolo della presidenza. Le presenze incoraggiano il parlamentare milanese. «Prepariamo il dopo Renzi iniziando a costruire immediatamente un nuovo centrosinistra», è la proposta lanciata ai simpatizzanti. La maggioranza degli elettori ha criticato le modalità con cui si è formata la nuova legislatura. La linea prevalente è dare battaglia dentro il Pd e votare sì, magari turandosi il naso, per evitare la scissione del partito. Ci sono anche proposte molto più radicali, come quella della pugliese Daniela Ciullo. «Nel Pd non ci sono più spazi per agire, starne fuori è forse un salto nel buio. Ma c’è un mondo di gente che aspetta la sinistra ». Insomma, niente fiducia e scissione. Ma è un’ipotesi di lavoro poco condivisa. Diversa ad esempio l’opinione di Roberto Renò, economista, per il quale abbandonare il Pd «non è certo un tabù, ma non bisogna bruciare in maniera autolesionistica il capitale politico accumulato. Se si tornasse al congresso prenderemmo tre volte i voti che abbiamo preso».
Domenico si interroga: «Se non volevamo Letta, non capisco perché dovremmo volere Renzi. In che misura ci può rappresentare l’alleanza con il Nuovo centrodestra. Renzi ha tradito i propri elettori, governa con modalità antiche».
«Secondo me, Matteo Renzi ci vuole cacciare e questo è un ottimo motivo per restare nel Pd», sostiene Marco Tiberi, «nei prossimi mesi dovremo smascherare parecchi bluff, ci sarà da divertirsi». Andrea Pertici, docente di diritto costituzionale, che con Civati ha a lungo discusso di riforme, non ha dubbi, «o si sta dentro o si sta fuori. Non si può scegliere di non votare la fiducia e poi rimanere dentro il partito. Rimanere dentro il Pd è sicuramente più fruttuoso che formare un nuovo partito che con il Pd si deve alleare». L’analisi dei limiti del nuovo Pd è severa. «Si è fatto un nuovo governo con un vecchio schema - spiega Pertici - non c’è stata alcuna definizione di punti programmatici. Dopo che i centrodestra sono diventati due, il Pd ha deciso di allearsi con tutti e due».
Civati prova a sintetizzare gli esiti del sondaggio on line e gli umori di un’assemblea vecchio stile, «come quelle che si facevano una volta», dicono dal palco. «Siamo a disagio perché ci sono parlamentari che devono votare cose che non vogliono. In mezzo questo disagio dobbiamo provare a costruire il nuovo centro sinistra. Forse dobbiamo a ragionare su cosa ci sarà dopo il governo Renzi. Restiamo nel Pd per guardare fuori e allargare lo sguardo». Pensa a una vocazione maggioritaria modello Ulivo: «Vi chiedo per le prossime settimane di contribuire a costruire qualcosa. Facciamo un centrosinistra fuori dalle etichette» lanciando un confronto anche con la cosiddetta lista “Tsipras” e i 5 Stelle»

Repubblica 24.2.14
Il Partito democratico Pd, retromarcia di Civati
“Voterò la fiducia e non farò la scissione”
Anche Bersani si schiera: sì al governo
di Giovanna Casadio

Un libro breve e importante di Donatella Di Cesare cambia le carte in tavola sulla infinita e confusa “conversazione su Israele". L’autrice si domanda se il vasto, impetuoso fiume della storia, della vita, del Libro del popolo ebraico possano confluire nel contenitore dello Stato nazione, se la grande diaspora che si sparge nei secoli e nei luoghi possa diventare “lo Stato Ebraico”. E anche: “L’invenzione di una nuova politica richiede un ripensamento della pace. Ma quale parola è più abusata e logora, quale più irrisa e contestata?”. Il piccolo, intenso, libro (Donatella Di Cesare, Israele, terra, ritorno, anarchia, Bollati Boringhieri) è un saggio fondamentale, in questi anni, sul rapporto fra Europa politica, cultura occidentale, diaspora ebraica, Shoah e Stato di Israele. “Pur essendo ufficialmente riconosciuto, il nuovo cittadino del nuovo stato si guarda intorno e scopre di essere isolato”. Attraverso le voci di Sholem, Levinas, Buber (forse l’autore che fa più luce in questo libro) si accende un teso dialogo sul ritorno a Sion, “quel grande evento della Storia di cui non si riesce ancora a cogliere la portata”. Di Cesare nota due problemi. Il primo è che il dramma non è la sovrapposizione di popoli , ma il fatto che ognuno è stato agito da potere, governi e politica come materiali della storia degli altri (e contro gli altri). Il secondo è il giudizio di Annah Aarendt: “Il sionismo non deve essere inteso come un nazionalismo. Il popolo ebraico non può essere confinato nei limiti di una nazione”. In altre parole, Arendt rivendica la situazione apolide degli ebrei che hanno rifiutato un ruolo di appartenenza e obbedienza e di conseguenza non lo eserciteranno sugli altri. “Israele porta il dono della estraneità” concorda Di Cesare con Arendt. L’idea è che un’epoca nuova sarebbe sul punto di rivelarsi, in cui non è lo stato-nazione il contenitore ma è la convivenza fra comunità, perchè ogni stato-nazione è fondato sul vuoto. Domanda l'autrice: si può ridurre a nazione la vocazione profetica di Israele? E ricorda che la legislazione della Torà affronta il problema dello “straniero residente” e comanda: “Non angustiare lo straniero”. Ecco il carattere di questo libro. Cerca esclusivamente dentro la legge, la storia, la scrittura, la pratica dell’ebraismo. Lo fa al punto da tornare ai grandi utopisti come Gustav Landauer che hanno preceduto il socialismo scientifico di Marx e Engels, e anzi ne sono stati tenaci avversari. Ma vede qualcosa che non era mai stato visto. La Shoah, dice Di Cesare, divide per sempre e cambia il concetto di guerra. Nasce la libera caccia con mezzi ed efficacia militare alle popolazioni inermi e non combattenti, la caccia ai popoli, che un tempo erano vittime occasionali benchè immancabili e numerose. Dopo la Shoah le “vittime innocenti” sono il senso stesso della guerra. Allora si rovescia anche la definizione della pace, che non può essere la conclusione logica e attesa e civile della guerra, che in queste condizioni non può finire. La pace deve venire prima. Prima che la guerra ci sia. E in luogo della guerra.


La Stampa 24.2.14
Fiducia, Civati rinuncia allo strappo
Questa sera il voto al governo in Senato

Il dissidente: diremo sì, ma l’esecutivo si è spostato a destra
di Andrea Malaguti


Matteo chi? Il popolo del Pd che detesta Renzi, che considera Demolition Man un re illegittimo affascinato da Berlusconi e obnubilato dall’ambizione - l’artefice di una mutazione genetica della casa comune, da luogo della condivisione a quello dell’imposizione - si è dato appuntamento in piazza Verdi per capire di che pasta è fatta la sua ala sinistra. E soprattutto se sia giusto votare la fiducia, a cominciare da stasera in Senato, alla curiosa creatura di governo partorita dall’ex sindaco di Firenze. Scelta non secondaria per i parlamentari democrat. Perché chi non lo fa è fuori dal partito.
Così, adesso, in attesa dell’arrivo di Pippo Civati, leader naturale dell’antirenzismo, è in fila davanti alle ex scuderie Bentivoglio per organizzare una sorta di contro Leopolda permanente. Bologna contro Firenze. Rosso contro biancorosso. Un partito nel partito divorato da una voglia crescente di scissione che, per il momento, non si farà. «Se sperano che faccia come Cuperlo si sbagliano. Io non mi dimetto. Nessuno ci scipperà il partito democratico», giura la prodiana Sandra Zampa, che del tormentato Pd è la vicepresidente. Troppo tardi? Forse. Ma l’idea, a tarda sera - quando sarà chiaro che, anche per l’impossibilità di trovare un accordo rapido con i senatori inquieti dei Cinque Stelle, il momento degli strappi non è arrivato e che anche Civati e il ribellissimo senatore Tocci diranno sì turandosi il naso al Nuovo che Avanza - è quella di tentare il golpe dall’interno, con un meccanismo da Ucraina Dolce fondato su uno slogan ormai virale: «il dopo Renzi è già iniziato». Quello che si dice anticipare i tempi.
Due buttafuori da discoteca regolano l’ingresso di un piccolo fiume umano. Forse duemila persone. Famiglie. Anziani. Molti studenti universitari. Neoiscritti. Qualche centinaia di loro non riesce a entrare e si mette in fila. Arriva Civati. Boato. Lo accerchiano. Lui, giacca e cravatta, esterna subito. «Aspetto il risultato del nostro sondaggio per decidere se dire di sì o di no al governo. Ma Renzi ha spostato l’asse del Pd ancora più a destra. Adesso hanno scoperto che la Guidi è berlusconina. Se mi facevano una telefonata glielo dicevo io». Non proprio concilante. «Pippo, Pippo, Pippo». Entra. Qualcuno accende il computer per vedere in tempo reale il risultato del sondaggio sul sito (votiamo la fiducia o no?) mentre sul palco parla Federico Taddia, consulente economico di Civati durante le primarie, finito nella segreteria di Renzi dopo. Sintetizzando dice: per evitare sgradevoli conseguenze, è meglio per tutti votare la fiducia. Civati lo incenerisce. Come se volesse tirargli addosso la sua espressione da: guarda che ho capito, gli altri forse non se ne sono accorti, ma io sì. «Federico, è una minaccia o un consiglio che ci stai dando?». In realtà hanno capito tutti. Quando Taddia lascia il palco i fischi lo inseguono.
Destino diverso per il ventitreenne Francesco Ciancimino e per il costituzionalista Andrea Pertici. «Renzi e i renziani hanno sfregiato il patto con gli elettori, ma a dare fastidio siamo noi. Dico no a un grande leader carismatico e dico no alla fiducia», grida Ciancimino. Osanna. «Siamo passati dal governo Letta che sosteneva: non ci sono alternative, a quello di Renzi che invece sostiene: non cerchiamo alternative», dice Pertici, che però invita la platea a restare nella grande pancia del partito. Dibattito acceso. Con molta passione vera dentro. Un militante stende la bandiera dell’Ulivo sul tavolo dei conferenzieri. Civati l’accarezza. «Bei tempi, quelli. Torneranno». Esce a fumare una sigaretta inseguito dalle telecamere. «Il vero garante di questo governo è Silvio Berlusconi. Renzi aveva detto: mai larghe intese. E le ha fatte. Mai al governo senza consenso popolare. E ci è andato. Nonostante questo voterò la fiducia. Perché non voglio uscire dal Pd». Lo vuole ribaltare. Impresa eventualmente lunga. Il sondaggio in rete finisce con il 50,1% dei partecipanti favorevoli alla fiducia. Un mondo spaccato. I duemila della scuderia sciamano storditi come ubriachi che di notte si mettono a scrivere alla ex fidanzata. Ma questa volta è solo per dirle: nel mio cuore ti ho già rimpiazzata. Matteo chi?

il Fatto 24.2.14
Bologna, Civati convoca i suoi: “Voterei no alla fiducia, ma non voglio lasciare Pd”
di Giulia Zaccariello

qui

il Fatto 24.2.14
L’indeciso democratico
Civati ri-tentenna: “Sì, voto la fiducia”


Giuseppe Civati ha incontrato un migliaio di iscritti ed elettori del Partito democratico alle Scuderie di Piazza Verdi a Bologna per confrontarsi sul voto di fiducia al governo Renzi. “Potessi scegliere liberamente senza mettere in discussione i rapporti col Pd – ha detto il deputato brianzolo – voterei no convintamente. Non è una questione di disciplina di partito , ma se io non dovessi votare un governo che ha una legittimazione del Pd dovrei uscire dal partito. Indicativamente quindi voterò per la fiducia al Go-ve r n o”. Sabato sul proprio blog Civati aveva lanciato un sondaggio online per valutare il parere dei cittadini. Era prevalso il sì alla fiducia, con il 50,1 per cento.

Repubblica on line 24.2.14
Governo, Civati: "Voterei no ma non voglio lasciare il Pd"

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Civati.it 23.2.14
Ricognizione sulla fiducia: i risultati

I risultati del nostro questionario online ha dell’incredibile: in 24 ore quasi 20mila risposte a una serie di domande strutturate come le nostre non si erano mai viste.
Il risultato complessivo è equilibrato: il 50% pensa che complessivamente si debba votare una fiducia positiva al governo (il 27% condizionata ad una verifica dei risultati) mentre il 38% ritiene che si debba votare no. Solo l’11% pensa che sarebbe più opportuna una posizione di astensione o di uscita dall’aula.
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l’Unità 24.2.14
Fassina: Guidi è una ministra in conflitto, il caso va risolto
«Guidi è in conflitto di interessi e vicina al Cav. Il premier provveda»
«La famiglia è proprietaria di un’azienda che ha molte commesse pubbliche
Al suo dicastero anche
le comunicazioni, sembra un messaggio a Berlusconi»
di Bianca Di Giovanni

Il caso Guidi, un brutto segnale: per il conflitto d’interessi tra la ministra e la sua azienda e per il legame con Berlusconi. Così Stefano Fassina in un’intervista a l’Unità.
Il «caso» Guidi pesa sul nuovo esecutivo come un macigno, e fa salire il termometro delle tensioni all’interno della maggioranza. La figlia di una dinastia imprenditoriale piazzata al vertice dello Sviluppo economico è già di per sé un azzardo. Quando poi si tratta di un’imprenditrice di sicura fede berlusconiana, diventa davvero troppo per un esecutivo a guida Pd. Tanto che il sottosegretario Graziano Delrio è stato costretto a chiarire, specificare, rassicurare, parlando da Lucia Annunziata. In buona sostanza ha detto due cose. Primo, che i dossier che potranno suscitare conflitti d’interesse, saranno seguiti direttamente dal premier. Secondo, che nella scelta dei tecnici, non si è pensato alle loro inclinazioni politiche. Questione chiusa? A sentire Stefano Fassina, importante esponente della minoranza Pd, pare proprio di no. Anzi: la questione è più calda che mai.
Guidi si è dimessa dagli incarichi che aveva in azienda. Questo secondo lei supera il conflitto d’interessi?
«Assolutamente no, perché lei e la sua famiglia restano proprietari di un’azienda che ha molte commesse dalla pubblica amministrazione. Qui non si tratta di un manager di una public company: le dimissioni sono irrilevanti rispetto al conflitto. Sarebbe utile che il premier affronti questo problema prima di chiedere la fiducia in Parlamento».
Delrio ha detto che il premier seguirà i dossier più esposti al conflitto.
«Immagino sia una battuta. Il conflitto non può essere evitato dall’intervento del premier, per il semplice fatto che l’azienda della Guidi ha molteplici rapporti con la pubblica amministrazione. Non si tratta di evitare singoli dossier: il conflitto si esplica nell’azione di diverse amministrazioni. Parliamoci chiaro: la presenza di Federica Guidi è inopportuna e per quanto mi riguarda inadeguata in un governo a guida Pd». Si spieghi meglio: a cosa si riferisce? «Penso al suo orientamento di politica economica, al fatto che è favorevole al nucleare, ed è lontana dalla cultura dell’intervento pubblico in economia, che invece in questa fase è decisivo».
Delrio ha spiegato che, nel caso dei ministri tecnici, non hanno certo chiesto per chi votavano. Insomma, si è seguito un atteggiamento pragmatico.
«Masiamo seri. No nera certamente necessario chiedere alla Guidi per chi vota, visto che da mesi compare sui giornali come uno dei volti nuovi che Silvio Berlusconi avrebbe voluto in FI».
E come si spiega allora questo incarico?
«Credo che il governo abbia voluto dare un messaggio chiaro a Berlusconi, scegliendo questa persona per un ministero che ha competenza anche sulle telecomunicazioni».
Lei crede alle ricostruzioni che indicano Verdini come regista dell’operazione?
«Io non credo a ricostruzioni, io sto ai fatti. E i fatti dicono che a capo del ministero con competenza sulle tlc c’è una persona vicina a Silvio Berlusconi».
Delrio ha anche annunciato una legge sul conflitto d’interessi.
«Una qualunque decente legge sul conflitto d’interessi renderebbe molto complicata la permanenza di Guidi a quel ministero. Per quell’incarico c’erano molti altri candidati con uno spessore e un orientamento di politica economica più adeguati».
Considera in conflitto d’interessi anche Giuliano Poletti, come dice qualcuno?
«Non mi pare che Poletti sia proprietario della Lega delle cooperative. Il caso è completamente diverso: sarebbe come dire che un esponente del sindacato o della Confindustria non può assumere l’incarico di ministro». Per le riforme si parla di un accentramento a Palazzo Chigi. Lo ritiene possibile?
«Attenzione: il governo nazionale non è come una giunta comunale. Consiglierei di evitare questa scorciatoia, dato il livello di complessità tecnica e politica. Palazzo Chigi coordina, ma poi resta il protagonismo dei singoli ministri. Considero un errore molto grave aver eliminato il ministero per le politiche europee. Averlo accorpato agli Affari esteri ci fa tornare indietro di 50 anni, quando si considerava l’Europa aspetto della politica estera».
Come giudica la scaletta: legge elettorale, lavoro e fisco?
«Per me il lavoro è una priorità. Ma è anche vero che oggi non serve l’ennesimo intervento sulle regole del mercato del lavoro, ma una politica macroeconomica alternativa. Spero che il premier condivida questo punto del documento della minoranza Pd». Sul fisco? «Si dovrà approvare la delega già in Parlamento. Sulle rendite, in realtà sono redditi da capitale, spero ci sia un ripensamento perché quell’operazione colpisce solo le famiglie e per più della metà conti correnti e depositi postali, per un maggior gettito che supererebbe di poco il miliardo».
Il sottosegretario a Palazzo Chigi ha anche detto che si rispetterà la soglia del 3%. «Devo dire che Delrio mi stupisce. Avevo inteso che il governo Renzi avrebbe introdotto discontinuità. Noi abbiamo bisogno di andare oltre il deficit tendenziale di mezzo punto di Pil all’anno per aumentare gli investimenti, altrimenti rimarremo in stagnazione e con alta disoccupazione».
Si punta ad aumentare il taglio del cuneo fiscale. È davvero possibile?
«C’è la norma della legge di Stabilità che destina automaticamente a questo scopo le risorse provenienti dalla voluntary disclosure, cioè dall’emersione dei capitali illegalmente esportati. Quella è la strada per intervenire sul cuneo».


l’Unità on line 24.2.14
Quella cena ad Arcore con il Cav
E' polemica su Guidi ministra

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l’Unità 24.2.14
Basta intrecci tra le aziende e la politica
di Vittorio Emiliani

TORNA D’ATTUALITÀ, IMPROVVISAMENTE, IL CONFLITTO DI INTERESSI. E CI TORNA PER UNA ASSICURAZIONE DATA DA GRAZIANO DELRIO, il sostanziale vice del premier Renzi, alla vasta platea televisiva di Lucia Annunziata su Raitre: «Sì, faremo una legge sul conflitto di interessi. Il Paese la merita». Da condividere al 101 per cento visto che la legge Frattini del 2004, voluta dallo stesso Berlusconi, è acqua fresca e l’organo competente del Consiglio d’Europa l’ha dichiarata inadeguata.
Non solo, ma ha anche sollecitato l’Italia a «trovare una soluzione appropriata». Sin qui invano. Per anni e anni soltanto rivendicarla significava tirarsi addosso la nomea di oppositore radicale della pax berlusconiana.
Per cui l’affermazione, del tutto pacata, “normale” ecco, del sottosegretario Delrio è stata di quelle che fanno sobbalzare sulla sedia anche in un dopo pranzo domenicale. Negli ultimi giorni Silvio Berlusconi non ha fatto che ostentare un’aria soddisfatta per l’intesa di fondo con Matteo Renzi sul governo di cui è “responsabilmente” all’opposizione, ma che sosterrà in pieno sui tre punti-cardine (legge elettorale, riforma del Senato e del Titolo V). Anche sulla compagine di governo pare che a cena, ad Arcore, sia stato tutto un sorriso specie per la presenza dell’imprenditrice Federica Guidi al ministero dello Sviluppo che si dovrà occupare anche della vendita di frequenze tv, di telecomunicazioni, di Telecom, ecc. Materie che lo interessano da vicino. «Abbiamo un ministro pur stando all’opposizione», avrebbe commentato un po’ da “bauscia”. Del resto a Federica Guidi è stato chiesto più volte di candidarsi nell’allora Pdl visto che l’imprenditrice emiliana aveva espresso idee solidamente “di destra”, ultraliberiste ed euroscettiche. Solo esuberanze giovanili? Proprio per lei è stato riaffacciato sulla stampa di ieri il conflitto di interessi che le dimissioni dalla Ducati Energia non avrebbero cancellato dato che l’azienda di famiglia ha e avrà rapporti molto fitti con aziende pubbliche, statali, regionali e locali. E quindi col suo ministero.
Il conflitto di interessi era ricomparso con una certa forza un anno fa nel programma del Pd per le politiche di febbraio vinte a metà. Otto punti in testa ai quali figurava «abrogare la legge Frattini», seguito da «costruire sistemi di controllo per prevenire situazioni di conflitto di interesse di titolari di cariche di governo», «attribuire poteri e strumenti » all’anti-trust «per agire efficacemente», incandidabilità a tutti i livelli per «chi ha precedenti penali », ecc. Ma non se n’era più fatto cenno con l’avvio delle “larghe intese”.
Per anni e anni un grande economista, Paolo Sylos Labini, scomparso nel 2005 a 85 anni, ha continuato a sollevare il problema. Sosteneva, fra l’altro, che Berlusconi era ineleggibile già in base alla legge del 1957 che sancisce tale stato di cose per i titolari di concessioni pubbliche (come le Tv di Mediaset) e per i suoi collaboratori e che comunque una legge severa sui conflitti di interessi era la prima pietra del muro da alzare contro la corruzione che si giova di quella mancanza di confini certi fra interessi privati e interesse pubblico per far prevalere i primi. Sylos Labini faceva notare che gli interessi molto corposi di Berlusconi, dei suoi famigliari e collaboratori (come Marcello Dell’Utri) «non si fermano alle televisioni», ma, grazie alla pubblicità, condizionano «altri importanti settori» industriali e dei consumi, con Mediolanum entrano in campo assicurativo e pensionistico, con Mondadori ed Einaudi in quello editoriale, e così via. ùMa, ripeto, risollevare questi macigni che da vent’anni condizionano la vita politica italiana pareva atteggiamento da estremisti. Oltre che nel programma di un anno fa del Partito Democratico se ne trova traccia nel sito di Pippo Civati in una nota dove si legge, fra l’altro, che «deve essere riaffermata l’idea per cui chiunque svolga una funzione pubblica (politica e non) deve farlo senza essere condizionato da propri interessi privati», e che, al fine di ridare trasparenza e quindi moralità alla nostra vita pubblica, e quindi di combattere la corruzione dilagante che concorre ad allontanare gli investimenti stranieri, ci vogliono misure preventive adeguate alla gravità di un problema cresciuto a malattia del sistema-Italia.
Non sappiamo per quali ragioni Graziano Delrio, uomo politico sperimentato, dal carattere posato, certo non impulsivo, abbia concluso la interessante intervista con Lucia Annunziata con quell’impegno («Faremo una legge sul conflitto di interessi») aggiungendovi che «il Paese lo merita» (verissimo) e che il governo Renzi vuole andare in Europa e «dire che non siamo più il Paese che annuncia le riforme ma il Paese che le fa». Sappiamo che ha detto una cosa seria e attesa. Da tanti cittadini. Da tanti anni.

DEL MACROSCOPICO CONFLITTO DI INTERESSE DI GIULIANO POLETTI NEOMINISTRO DEL LAVORO E DELLE POLITICHE SOCIALI, INVECE NON PARLA PIU’ NESSUNO: TROPPO POTENTE PERCHE’ SOSTENUTO CONTEMPORANEAMENTE DALLE COOPERATIVE “ROSSE” PIDDISTE E DA QUELLE “BIANCHE” DELLA COMPAGNIA DELLE OPERE, CIOE’ DI COMUNIONE E LIBERAZIONE...
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Corriere 24.2.14
«Gratteri consulente». Lui: non parlo

Il silenzio continua anche dopo l’ultima offerta, fatta in diretta tv. Perché Nicola Gratteri, il procuratore aggiunto di Reggio Calabria, non dice nulla a nessuno, anche dopo la proposta fatta dal sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, Graziano Delrio, durante la trasmissione «In mezz’ora» in onda su Raitre, di diventare consulente del premier, Matteo Renzi, per la criminalità. «A costo di ripetermi — ha detto Gratteri, contattato dall’agenzia di stampa Ansa — non dico neppure una sillaba»

Corriere 24.2.14
Da Sindaca-icona a Ministra-alibi
Il Sud flagella Lanzetta e se stesso
Renzi la usa, il Sud la getta. Povera ministra Lanzetta, condannata a fare la fine del Kleenex
di Marco Demarco


Nella perenne disputa tra terronisti, e cioè tra italiani del Nord, del Centro e del Sud che vivono di pregiudizi e rivendicazioni, chi ora rischia di più è proprio lei, l’ex sindaca anti ‘ndrangheta di Monasterace, nella Locride abbandonata. Al governo non ci sono veneti e piemontesi, eppure chi si lamenta per questo non aggiunge al danno dell’esclusione anche la beffa dell’autoflagellazione. Nel caso della neoministra, invece, le due cose si sommano. Matteo Renzi, dicono i sudisti, la usa come alibi, come specchietto per le allodole. Ma così dicendo, gli stessi inevitabilmente la gettano via, ne sottovalutano la presenza nell’esecutivo fino a ritenerla insignificante. Cosa vuoi che sia averla ripescata all’ultimo minuto, probabilmenteal posto di Nicola Gratteri, procuratore aggiunto di Reggio Calabria destinato alla Giustizia, per collocarla agli Affari regionali?
È pur vero che prima, con Massimo Bray, Nunzia de Girolamo e Gaetano Quagliariello, di ministri meridionali ce n’erano di più, ma è un fatto che, nella foga localistica, di Angelino Alfano, siciliano di Agrigento, quasi ci si dimentichi. Così come è un fatto che alla povera Maria Carmela Lanzetta, ieri icona da esibire, oggi nulla venga perdonato. Perfino quel suo abbandonare la carica di sindaco per protesta contro l’immobilismo generale ora le si ritorce contro. Eppure, ancora non molti mesi fa, la sua storia, raccolta da Goffredo Buccini in L’Italia quaggiù , riceveva applausi al limite della commozione. Da sindaca, vestiva camicette di seta anni Settanta; da ministra, sabato al Quirinale era l’unica a indossare gli stivali e non i tacchi a spillo. Lei di certo non è cambiata.
Mentre l’Italia leggera, oltre alla genovese Arisa, festeggia il salernitano Rocco Hunt, cantore della Terra dei fuochi, e lo difende dalle battute equivoche della Gialappa’s, l’Italia pesante dei sindacalismi territoriali torna a dividersi. C’è poco Mezzogiorno nel governo, lamenta da Napoli a Bari. Vero o falso, l’assunto merita una premessa. Pochi dibattiti si sono rivelati tanto noiosi quanto inconcludenti come quello sulla questione meridionale. Se dunque Renzi volesse una volta tanto rispondere con i fatti e non con le teorie, perché scoraggiarlo? Una riforma al mese, ha promesso. E allora facciamo così: quella relativa al Mezzogiorno mettiamola in coda, a novembre o a dicembre, ma mettiamola.

Fanpage 23.2.14
Il ministro dell’Istruzione Giannini agli insegnanti: “Stop agli scatti di anzianità”

qui

l’Unità 24.2.14
Più studenti, meno prof Crescono le classi-pollaio
L’allarme dei sindacati: «Da settembre la situazione peggiorerà»
Polemica: «La ministra non abolisca gli scatti di anzianità Sono l’unica arma di difesa del potere d’acquisto»
«Tra il 2007 e il 2012 soppresse oltre 100mila cattedre»
Nel 2014 34mila alunni in più
di Nicola Luci

L’anno scolastico è ancora lontano ma i sindacati già lanciano l’allarme sulle le classi. Il fatto è che a settembre le scuole italiane si troveranno con 34mila studenti in più che si siederanno sui banchi scolastici. Non che questo sia un fatto negativo in assoluto. Per anni si è parlato di una diminuzione degli studenti legato alla decrescita della natalità. Questa tendenza non c’è più, anche grazie alla presenza degli immigrati. Semmai, da anni, esiste il problema contrario: che a una crescita seppure modesta degli alunni non corrisponde una crescita similare del corpo degli insegnanti. Così soprattutto in qualche grande città del Nord si rischiano «classi-pollaio» con oltre trenta alunni.
L'Anief, associazione sindacale del settore scuola ha messo in evidenza come «tra il 2007 e il 2012 l'amministrazione abbia soppresso oltre 100mila cattedre». Nel dettaglio per il prossimo anno scolastico sono previsti 33.997 allievi in più: l'incremento più consistente sarà nelle classi superiori con +25.546 allievi (+ 1,03%); in aumento anche gli scolari della primaria (+9.216, +0,36%). Previsto invece un lieve decremento nella scuola media: ci saranno 785 alunni in meno (-0,05% rispetto all'anno scolastico in corso). «Ma anziché adeguare l'organico dei docenti a questo importante boom di allievi, il ministero dell'Istruzione - denuncia l'Anief - ha comunicato ai sindacati che non ci saranno variazioni del corpo docente. A ben vedere, però, la forbice prof-alunni si sta sempre più allargando. Scorrendo gli ultimi dati forniti dalla Ragioneria Generale dello Stato si scopre che tra il 2007 e il 2012 il personale della scuola ha perso oltre 124 mila posti».
L'incremento degli alunni per l'anno scolastico 2014-2015 è stato comunicato in un incontro tecnico tra ministero e sindacati. «L'incremento riguarda soprattutto alcune regioni del nord - riferisce Massimo Di Menna della Uil scuola - e il rischio è che soprattutto nelle grandi città avremo classi particolarmente numerose, con oltre trenta alunni».
Ora è atteso un atto amministrativo, un decreto interministeriale (Istruzione- Economia) per la determinazione degli organici. «Sarebbe più opportuno prima provvedere alla formazione delle classi e poi verificare i posti da assegnare», dice ancora il sindacalista della Uil. Tra i problemi - spiega Marcello Pacifico, presidente Anief e segretario organizzativo Confedir - c’è anche «la legge del 2011 con la quale il legislatore ha fatto cadere l'autonomia delle scuole d'infanzia, primaria e secondaria di primo grado, accorpandole in mega-istituti senza capo né coda, rette da dirigenze in perenne affanno. Non è un caso che il nostro sindacato abbia deciso di contrastare questa impostazione, patrocinando gratuitamente i ricorsi ai Tar contro il dimensionamento selvaggio. Un’opera che abbinata al blocco degli organici, anche a fronte di un incremento sostanzioso di alunni, come avverrà nel prossimo anno, sta producendo timori sempre maggiori, purtroppo fondati, sulla funzionalità del servizio scolastico». Tra l’altro, spiegano i sindacati, gli insegnanti italiani non solo devono confrontarsi anche con classi di trenta alunni, ma lo fanno con una paga mensile tra le più basse in Europa (una media di 1.200-1.300 euro al mese, uno stipendio che si colloca al penultimo posto in Europa). Ieri il neo ministro dell’Istruzione Stefania Giannini ha auspicato che si possa superare per gli stipendi degli insegnanti il meccanismo degli scatti automatici. Ora, rintuzzano ancora i sindacati, parlare di blocco degli automatismi significa «non tenere conto della realtà», del fatto che l'anzianità è l'unico modo per difendere il potere d’acquisto dei salari e che per premiare davvero il merito occorrono risorse. «Queste idee meritocratiche, queste vecchie impostazioni di stampo gelminiano non tengono conto della realtà, ovvero che il contratto nazionale della scuola è bloccato dal 2006 e che gli stipendi degli insegnati italiani sono tra i più bassi d'Europa », commenta il segretario generale della Flc Cgil Domenico Pantaleo.
Il sindacalista evidenzia poi che «in tutta Europa l'anzianità contribuisce alla valorizzazione della professionalità. Quindi c’è tutta la nostra disponibilità a discutere ma si deve aprire un tavolo perché in questi anni con il blocco dei contratti i salari nella scuola, e in tutto il settore della conoscenza, hanno subito un vero e proprio attacco ». «Non bisogna considerare l'anzianità in maniera dispregiativa, negativa, perché in tutta Europa è considerata un elemento della carriera», dice Francesco Scrima, segretario generale della Cisl Scuola.


Eliminato fin dall’inizio lo scomodo ministero per l’integrazione di Cecile Kyenge, si procede...
Corriere 24.2.14
Diritti civili
Il premier rassicura Alfano su ius soli e unioni di fatto
Renzi «Sta facendo i conti con la realtà: le emergenze sono altre»
di Ernesto Menicucci


ROMA — Forse non sarà una priorità dell’azione di governo, magari saranno questioni messe «in coda» dopo lavoro, economia, fisco, riforme, sburocratizzazione, ma su ius soli e unioni civili si gioca buona parte della tenuta del governo Renzi/Alfano. Ne è prova la telefonata di ieri, tra il premier e il leader di Ncd, alla vigilia della fiducia al Senato. Renzi, nel colloquio, ha «rassicurato» l’alleato: «Su ius soli e unioni civili non faremo forzature», la promessa. E Alfano? «Gli è venuto in mente lo “stai sereno” detto a Letta...», replicano i suoi. Battute a parte, però, il tema è delicato e, fanno sapere dal Nazareno, sede del Pd, «dovrebbe essere accennato dal premier anche nel discorso di insediamento».
Da settimane, infatti, tra democratici e alfaniani si tesse la tela: Davide Faraone e Ivan Scalfarotto da una parte, Gaetano Quagliariello e Maurizio Sacconi dall’altra. Obiettivo, arrivare a una proposta condivisa. Per ora, però, niente di scritto: «Solo qualche appunto scambiato», dicono negli staff. Sullo ius soli , un’intesa di massima c’è: «Superiamo la legge attuale (chi nasce qui diventa italiano a 18 anni, ma ha un solo anno per esercitare la scelta, ndr ), stabilendo che l’acquisizione della nazionalità è un percorso», dice Sacconi. Si parte dalla scolarizzazione e dalla cultura. Il limite, per gli alfaniani, è «l’aver concluso elementari e medie, a 14 anni». Per il Pd, invece, «basta anche un ciclo scolastico». In ogni caso, la linea sembra tracciata. Il resto, sono divisioni terminologiche. Roberto Formigoni, ad esempio, lo chiama «ius culturae» e twitta: «Non si faranno unioni civili né ius soli, l’abbiamo posto come condizione e ottenuto». Significa che c’è uno stop? L’ex governatore della Lombardia spiega: «Intendo dire che non passa il principio che chi nasce in Italia diventa automaticamente italiano, ma deve assimilare la nostra cultura». E sulle unioni civili? «Niente equiparazione tra il matrimonio uomo/donna e altre forme di unione. Siamo, però, per il riconoscimento di tutti i diritti individuali», spiegano da Ncd. No alla reversibilità pensionistica, però: «Sarebbe — dice Sacconi — lo stesso ministro Padoan a mettere il veto: l’Inps andrebbe in tilt». Stessa cosa per gli altri impegni economici: «Ogni anno, per i coniugi, lo Stato spende 70 miliardi tra pensioni, assegni e detrazioni fiscali». Il centrosinistra, invece, punta al cosiddetto «modello tedesco»: registrazione/celebrazione in Comune, stessi diritti e doveri dei matrimoni etero, tranne le adozioni. Su questo, le posizioni restano distanti. Il problema, comunque, è anche di priorità. Col governo Letta, Renzi spingeva molto sui due temi. E ora? «Sta facendo i conti con la realtà: le emergenze sono altre», dice Quagliariello. Mentre al Pd provano a mediare: «È tra i grandi temi che dobbiamo affrontare, ma le cose possono anche marciare insieme». La sinistra dei democratici è in subbuglio. Lo spiega Stefano Fassina, ex viceministro: «Ius soli e unioni civili sono nelle proposte che l’area Cuperlo ha presentato a Renzi. Se si va avanti bene, altrimenti cercheremo un’altra maggioranza in parlamento con Sel e M5S». Possibile? «Renzi — dicono gli alfaniani — ci ha assicurato che non ci saranno maggioranze variabili. Altrimenti qui salta tutto... ».

il Fatto 24.2.14
Grazie Matteo, ci togli subito la fatica di sperare
Chi si era illuso ancora una volta, ora può rilassarsi
di Ferruccio Sansa

Venerdì ore 19. Silenzio. Dalle finestre vicine arriva solo la voce di Napolitano. E poi dicono che gli italiani non si interessano di politica. Sembra di essere alla finale dei Mondiali, ai rigori. Poi ecco il nome: Alfano! Come far tirare al difensore del Pizzighettone contro il Brasile. Venerdì ore 19. Silenzio. Dalle finestre dei vicini arriva solo una voce: è Lui, Giorgio Napolitano. E poi dicono che gli italiani non si interessano di politica. Sembra di essere alla finale dei Mondiali, ai rigori. Se sbagli sei fuori. Tutto è sospeso. Tacciono perfino i cellulari. Chi andrà al dischetto? E per un attimo commetti il solito errore: sogni, speri. Ti pare di sentire la voce della tv che annuncia: Gratteri, Zagrebelsky, Magris, Piano, Spinelli. Potrebbe essere, se si volesse, perché no?
Infine la porta si apre, entrano quei signori vestiti di scuro, circondati da commessi e corazzieri con l’elmo luccicante. Dovrebbe essere un rito solenne, ma ha assunto un tocco lugubre. La serietà che si svuota e diventa cerimonia. Eppure tu speri, ti batte perfino il cuore. Ridicolo. Eccola finalmente la formazione: Angelino Alfano all’Interno. L’uomo che ha lasciato rapire una bambina e sua madre per rispedirle a un dittatore? Alfano il servitore – nemmeno troppo fedele – di Berlusconi? Come mandare un difensore del Pizzighettone (senza offese per il prode calciatore) ai rigori contro il Brasile. Ti guardi allo specchio, sei paonazzo come se ti fossi scolato un litro di barolo. Vabbé, dai, alla Giustizia c’è Gratteri. E invece… Andrea Orlando, che passa dall’Ambiente alla Giustizia come dall’hockey al calcio. Ah già, è un Governo politico, dimenticavi. Come l’Andreotti bis, ter, quater dove un giorno ti occupi di cereali e quello dopo di asfalto (e i risultati si vedono). Dove alla Giustizia in un Paese con seimila magistrati, un esercito di avvocati e professori mandano uno neanche laureato in legge. Non una cattiva persona, ma uno che era consigliere comunale e ragionava di coalizioni quando ancora i suoi compagni di scuola andavano in discoteca. Ma a questo punto non sei più arrabbiato. Anzi, ti prende una strana euforia. Un perverso e masochistico godimento. Il ciellino Lupi alle Infrastrutture mentre nella Lombardia di Cl si spenderanno miliardi per l’Expo? Evviva. Roberta Pinotti, arrivata terza alle primarie per il sindaco di Genova, alla Difesa? Evviva. Gian Luca Galletti dell’Udc, partito che ha votato i condoni, all’Ambiente? Evviva. Pier Carlo Padoan, ex direttore della fondazione di D’Alema, all’Economia? Evviva. Marianna Madia, ex fidanzata di Giulio Napolitano con un curriculum simile a tanti coetanei che incroci per strada disoccupati? Evviva.
Ecco i rottamatori. Spesso passati dalle aule di scuola a quelle della politica. Saltando quasi – premier compreso – la casella del lavoro. Ti ritorna in mente Shakespeare: “Ci sono più cose in cielo e in terra di quante ne comprenda la tua filosofia”. Figurarsi nei corridoi della politica.
Eppure sì, sei contento. Renzi ti ha tolto un peso: sognare, sperare. Dai, che quest’anno ci sono i Mondiali!

La Stampa 24.2.14
La carica dei sottosegretari
In 60 per accontentare tutti
di Amedeo La Mattina


Tra oggi e domani ufficializzati i nomi. Delrio e Guerini lavorano per riempire le caselle
Squadra di ministri snella; il resto del governo pesante. Ci saranno bisogno un battaglione di viceministri e sottosegretari se il premier vorrà imporre il «ritmo renziano» ai lavori parlamentari in commissione e all’approvazione dei provvedimenti in partenza da Palazzo Chigi. Infatti dovrebbero essere poco meno di sessanta gli uomini e le donne che completeranno l’esecutivo. La trattativa con i partiti della maggioranza è in mano al sottosegretario alla Presidenza del Consiglio Delrio e al coordinatore della segretaria Pd Guerini (dovrebbe concludersi tra oggi e domani in coincidenza con il voto di fiducia).
Il premier vuole portarsi a Palazzo Chigi altri suoi fedelissimi come Luca Lotti e Matteo Richetti. A uno dei due potrebbe essere affidata la delega ai servizi segreti. Ci sono però delle controindicazioni dovute all’inesperienza in un settore tanto delicato. Nel Pd e negli ambienti dell’intelligence sono forti le spinte affinché venga confermato Marco Minniti. Innovazione ma anche continuità. È una logica che si impone nei ministri di peso come l’Economia. A via XX settembre il Nuovo Centrodesstra vorrebbe la riconferma di Luigi Casero a viceministro e di Alberto Giorgetti a sottosegretario. In questo dicastero un altro numero due di Padoan potrebbe essere una new entry: l’ex senatore Pd liberal Enrico Morando. Gira pure il nome di Benedetto della Vedova come sottosegretario in quota Scelta civica. Verso un’altra riconferma quella di Pierpaolo Baretta, area Dem del Pd. 
Anche il ministero degli Esteri ha bisogno di persone con esperienza da affiancare a Federica Mogherini: porebbe avvalersi della continuità del viceministro Lapo Pistelli (Pd) e del sottosegretario Mario Giro (Ncd). Alla Farnesina non è escluso l’ingresso del segretario dei socialisti Riccardo Nencini. Allo Giustizia il ministro Andrea Orlando potrebbe trovarsi come vice il piemontese Enrico Costa con il quale ha avuto modo di lavorare da fronti opposti: il primo responsabile giustizia del Pd, il secondo del Pdl. Se dovesse accadere, Costa lascerebbe la carica di capogruppo Ncd della Camera alla quale guarda l’ex ministro Nunzia De Girolamo.
Nel governo oltre a Costa potrebbero arrivare altri piemontesi nella logica di un riequilibrio territoriale: Stefano Ambrosini, vicino a Sergio Chiamparino, e la deputata renziana Silvia Fregolent.
Capitolo Sviluppo Economico: dovrebbero trovare riconferma la sottosegretaria Simona Vicari e l’economista Claudio De Vincenti, amico del neo ministro all’Economia Padoan (insegnavano insieme alla Sapienza di Roma) che ha avuto in mano i dossier più importanti delle crisi industriali (l’ultima, ad esempio, l’Electrolux) .
C’è un problema di «ritmo renziano» ma anche di compensazioni politiche. L’uscita di Mario Mauro dal dicastero della Difesa dovrebbe essere ricompensata con posti da sottosegretario. Abbiamo già visto la possibile permanenza di Mario Giro come sottosegretario agli Esteri. Ma circolano altri nomi in quota Popolari per l’Italia, quelli di Andrea Olivero, della senatrice Angela Donghia, del senatore Aldo Di Biagio e di Tito Di Maggio. 
L’equilibrio di maggioranza deve tenere conto soprattutto dei numeri al Senato. Numeri che ballano attorno ai 170 voti e che dovrebbero consolidarsi almeno a 175 per garantire a Renzi una navigazione tranquilla. E allora è necessario accontentare alcuni senatori o comunque quei gruppi parlamentari che sono determinanti a Palazzo Madama, come appunto i Popolari di Mauro e il Nuovo Centrodestra del ministro dell’Interno Alfano. A proposito di Viminale, qui la delega agli enti locali potrebbe essere affidata al renziano Angelo Rughetti. 
C’è anche la sinistra Pd da accontentare. Si fanno i nomi di Nicola Stumpo, Davide Zoggia, Alfredo D’Attorre, ma anche di Matteo Orfini. 

Corriere 24.2.14
L’autostima non basta più
di Gian Antonio Stella


«Anche a Dio piace sentir suonare le campane», ammiccò un secolo e mezzo fa il poeta e diplomatico Alphonse Marie Louis de Lamartine. Sono galeotti, però, i troppi elogi: prima o poi arriva sempre il momento in cui ti vengono ribaltati contro. E se Mario Monti ancora è ferito dalle ironie feroci sul tormentone della sua sobrietà (c’è chi si avventurò a scrivere che alla domanda sul nome del suo cane aveva risposto «no comment»), Matteo Renzi può scommettere che gli verranno rinfacciate scampanate varie, su tutte quella di essere «un magnifico incrocio tra Pico della Mirandola e Niccolò Machiavelli». Bum!
Il neo-capo del governo dovrebbe perciò render grazie agli sketch di Maurizio Crozza o a Max Paiella che a «Il ruggito del coniglio» si è inventato una canzonetta che ride della sua «fissa» del calendario: «Sì, sì, che bel calendario / nessuno ha mai avuto un programma più vario / ogni mese, ogni mese, quante sorprese!».
Il rischio più grosso che corre l’ex sindaco fiorentino, infatti, è quello di ripetere lo stesso errore di tanti suoi predecessori. Quello di pensare, partendo da un buon gruzzolo di consensi personali (sia pure non convalidati da un passaggio elettorale) e da una dose esuberante di autostima (che in politica fino a un certo punto può essere perfino una virtù: nessuno ti segue se non credi tu per primo in te stesso), di poter supplire anche a eventuali debolezze di questo o quel giocatore della squadra. Nella convinzione di saper tappare ora questo, ora quel buco. Non è stato così, in passato. Neppure quando erano in sella uomini che, allora, parevano dotati di non minore carisma. Da Fanfani a Craxi, da D’Alema a Berlusconi.
Ricordate il Cavaliere? Via via che perdeva per strada un ministro e ne prendeva il posto ad interim, spiegava d’esser l’uomo ideale agli Esteri («resterò finché non troverò una persona capace di sostituirmi») e l’ideale all’Economia e l’ideale allo Sviluppo economico… E nella foga del «ghe pensi mi» spiegò che Pietro Lunardi gli aveva chiesto una mano al ministero delle Infrastrutture al quale avrebbe dedicato «un giorno alla settimana»… Risultati? Mah… Meglio un’orchestra dove il direttore fa il direttore, il pianista il pianista e l’oboista l’oboista. La speranza, quindi, è che a dispetto del modo in cui è nato il nuovo esecutivo e delle diffidenze per questa o quella figura che appaiono davvero fragili a fronte dell’impegno titanico, Renzi li abbia davvero indovinati tutti, i suoi principali compagni di viaggio.
Al premier che si presenta oggi al Senato viene chiesto infatti molto più che ai predecessori. Viene chiesto, come lui stesso ha promesso mille volte prima, di «cambiare l’Italia». Un impegno che farebbe tremare le vene e i polsi pure a un governo di statisti e fuoriclasse. Immaginiamo l’obiezione: l’assalto al cielo potrebbe riuscire proprio a un manipolo di giovani più freschi. Può darsi. Non per altro, su molti punti, fa il tifo anche chi renziano non è. Purché il presidente del Consiglio si liberi della «fissa» del record (il primo in questo, in quello, in quell’altro…) e della tentazione di piacere a tutti. Non ci serve un recordman. Ci servono un governo (non un uomo: un governo) e una maggioranza che facciano finalmente, in tempi ragionevoli ma stretti, le cose che vanno fatte. Lasciandoci alle spalle la stagione degli annunci.

Corriere 24.2.14
Se sulla legge elettorale ora non c’è più fretta
di Michele Ainis


Il gabinetto Renzi I ha appena prestato giuramento nelle mani di Napolitano. Ora giuri di dire la verità, tutta la verità, sulle riforme. A partire da quella più essenziale: la legge elettorale. Volete farla o no, questa riforma sempre promessa e sempre rinviata alle calende greche? A tendere l’orecchio, sullo sfondo già echeggia la risposta: sì, ma senza fretta. Anche se il mese scorso proprio Renzi aveva messo fretta agli altri partiti e partitini. Anche se ci aveva garantito di sbrigare la faccenda in un baleno
E anche se Renzi ha poi disarcionato quel lentocrate del suo predecessore invocando l’esigenza di far presto, di non sprecare tempo.
Diciamolo: siamo preoccupati. Ci è venuta un’altra ruga sulla fronte, e in quest’epoca giovanilista non sta bene, non è più di moda. Ma sta di fatto che la legge elettorale resta urgente, perché è urgente mettere il sistema in sicurezza. Altrimenti al primo inciampo (e in Italia i governi inciampano ogni anno) rischiamo di votare con il Porcellum sforbiciato dalla Consulta: senza premio di maggioranza, ma con un premio parlamentare ai nanetti che viaggiano sotto il 2%.
Qual è invece la loro ricetta? Prima la riforma del Senato, poi la legge elettorale. Idea geniale, benché non proprio inedita, dato che ci risuona nelle orecchie da due legislature. È il vecchio gioco dell’uovo e della gallina: chi è nato prima? Ed è meglio un uovo oggi o una gallina domani? Però in questo caso è nuova la gallina, ossia il Senato brevettato da Renzi. Un Senato a costo zero, senza indennità per i suoi 150 componenti. E con funzioni sottozero. Dimenticando tuttavia che Palazzo Madama ha 800 dipendenti, e c’è qualche bolletta (salata) da pagare. La democrazia non è mai gratis. Sicché, meglio sbarazzarsi del Senato che trasformarlo in un orpello. Tanto più se l’orpello farà spazio a 21 senatori nominati dal capo dello Stato: un partito del presidente, suvvia.
E l’uovo? Anche in questo caso lo infiocchetta una trovata: l’emendamento Lauricella, a quanto pare l’autentico collante dell’accordo tra Renzi ed Alfano. Significa che la legge elettorale si può anche scrivere domani, ma andrà in vigore quando verrà approvata la riforma del Senato. Una bizzarria legislativa, o meglio una finzione: come dire che il nuovo Senato scatterà dopo la riforma del Titolo V, e il Titolo V dopo il presidenzialismo, e il presidenzialismo dopo che un disco volante atterrerà sul Cupolone. No, c’è bisogno d’una legge vera, mica falsa. E oltretutto non sarà semplice timbrarla, oggi più di ieri. Perché l’Italicum ha per padrino Berlusconi, e perché fa strage dei piccoli partiti. Ma la doppia maggioranza è praticabile quando i piloti sono due, com’erano Letta e Renzi. Non se quest’ultimo incarna il doppio ruolo, non se ha bisogno dei piccoli partiti per continuare a governare.
Dice: però ritardare l’Italicum è un’assicurazione sulla vita del governo. Perché i parlamentari vogliono durare, e perché sanno che la riforma elettorale permetterebbe a Renzi di correre al voto. Balle. Il governo dura se fa cose, non se rimane fermo come un pappagallo sul trespolo. E Renzi può far cose se c’è una nuova legge elettorale, se può condizionare il Parlamento attraverso il ricatto delle urne. Dunque sbrighiamoci, anche perché la vita è breve.

l’Unità 24.2.14
La sinistra secondo Matteo
Ma Bobbio aveva già risposto a Renzi
di Bruno Gravagnuolo

E a venti anni dalla sua esplosione editoriale, Matteo Renzi prova a rileggere Destra e sinistra, il best seller di Norberto Bobbio. Anzi, a riscriverlo. Con un contributo «esegetico» apposto alla nuova edizione del volumetto, ultimato da Bobbio per Donzelli proprio nel febbraio 1994, in piena discesa in campo berlusconiana.
Il saggio del premier, anticipato ieri da Repubblica, è in buona compagnia. Infatti nella nuova edizione approntata da Donzelli compare accanto ai i contributi di Daniel Cohn-Bendit e di Massimo Salvadori, radical-ambientalista il primo, socialdemocratico classico il secondo.
Ma ciò che lo connota è appunto «l’ambizione » teorica. L’ambizione in Renzi di rivedere integralmente le idee di Norberto Bobbio. E a partire proprio dal sottotitolo del pamphlet che fece scuola: «Ragioni e significati di una distinzione politica». Riassumiamole le ragioni di quella «distinzione», che stavano in una doppia coppia oppositiva: destra/ineguaglianza e sinistra/uguaglianza. Vale a dire che per Bobbio, storicamente e in termini di valori, la destra rappresentava il polo dell’asimmetria tra gli uomini, cioè l’ineguaglianza. Mentre la sinistra quello della simmetria e quindi l’aspirazione a una tendenziale eguaglianza, non «egualitarista», come il filosofo non mancava di ricordare. Ebbene Renzi capovolge un po’ le cose, e nell’apprezzabile tentativo di riattualizzare il Bobbio del 1994, finisce in realtà con lo sbiadirla alquanto, la sua faticata distinzione, se non proprio con il toglierla di mezzo. E che cosa inserisce al posto della coppia oppositiva bobbiana? Subentrano varie coppie concettuali alternative, delineate in via ipotetica dal neo-premier. Ma tali da spiantare il ragionamento originario del filosofo torinese. Vediamole, le coppie di Renzi: conservazione/innovazione, aperto/chiuso, avanti/indietro, movimento/ stagnazione. Ma cita anche Tony Blair, Matteo Renzi. E con lui anche Clinton e i favolosi anni della «terza via», di cui il segretario premier trova gli addentellati nel «socialismo liberale e nell’utopia azionista di Bobbio». Benchè quegli anni e quei nomi, siano stati quelli della grande illusione dell’economia virtuale. Con la fine della distinzione canonica tra banche commerciali e banche d’affari e danza macabra di «derivati», sino allo tsunami del 2008.Emalgrado - oltre al pasticcio e alle bugie delle armi chimiche - il governo Blair sia stato quello che ha fatto della Gran Bretagna il paese bobbianamente più ineguale al mondo (10% della popolazione che detiene il 90% delle ricchezze). In sorprendente continuità con quella che Renzi stesso definisce, criticamente nel suo scritto, «maschera di durezze dell’era Reagan-Thatcher», da superare appunto con la «terza via» (e abbiamo visto come). Ma al di là di tutto questo, che è materia di bilancio per gli storici, qual è il punto di attacco e «revisione» di Renzi, all’idea bipolare destra/ sinistra di Bobbio? Due sono i punti di scenario che inducono Renzi ad accantonare - di fatto - Bobbio: globalizzazione e fine dei «blocchi sociali». Con conseguente irruzione dell’«atomismo sociale»: dell’individualismo di massa senza appartenenze ideologiche o di categoria. E parallelo esplodere nel mondo della questione degli «ultimi» (migranti, emarginati, precari). Da integrare senza «ignavia» e mettendosi al loro servizio.
Dunque un mix in Renzi di «meriti e bisogni », con ampie citazioni di Papa Francesco, ma con un rifiuto netto di far coincidere necessariamente progresso ed «eguaglianza», innovazione ed emancipazione organizzata dei subalterni. E affidando piuttosto «la missione storica della sinistra» all’inclusione delle «chance». Della cittadinanza allargata sostenuta da innovazione, tecnica e competizione. Nonché da un altro Welfare. Diretto agli individui si suppone, e non più sorretto dalla concertazione tra parti e blocchi sociali, che per Renzi non esistono più (ma in Germania?...). Bene, intanto però una cosa va osservata: Bobbio stesso aveva già previsto questo insieme di obiezioini alla sua distinzione destra/sinistra imperniata sulla «stella polare» dell’eguaglianza. E lo aveva fatto sia nel pamphlet originario, che nelle successive edizioni in risposta ai suoi critici.
Ecco l’argomento chiave del filosofo: cittadinanza, ambizioni, merito, diversità, diritti (e doveri) richiedono l’espansione della civiltà democratica. Contro le asimmetrie del potere e dell’economia globale. Dunque esigono un rilancio continuo dell’eguaglianza, come modello ideale e stigma identitario della sinistra. Nonché come sostanza stessa del progresso, annotava Bobbio nel citare di continuo il conservatore Tocqueville. Insomma anche la libertà - che assumeva per Bobbio stili di vita e «antropologie» inedite - richiedeva per il filosofo torinese un innesto sostanziale sui «diritti sociali». Come da art. 3 della Costituzione. E in termini di reddito, potere, redistribuzione e diritti spendibili: per far valere la libertà. Inoltre Bobbio osservava - già in quegli anni e in quelle pagine - che l’innovazione del mondo globale non era garanzia di progresso civile, nell’atto stesso in cui si delineava una forbice inaudita di diseguaglianza tra ricchi, poveri e impoveriti su scala planetaria. Di là delle magnifiche e progressive sorti del capitalismo dilagante sulle ceneri del totalitarismo comunista. Dunque è imprescindibile il tentativo di agganciare la moderna sfida dell’eguaglianza alle questioni dell’efficienza e del rilancio produttivo: senza sprechi e privilegi. Ma anche questo Bobbio lo aveva già chiarito: la sinistra è l’incivilimento materiale e morale in lotta contro tutti i privilegi.


Repubblica 24.2.14
Anticipiamo la postfazione di Cohn-Bendit alla riedizione di un testo che si è rivelato fondamentale
Mentre crescono nel mondo le lotte per i diritti democratici in Occidente la politica è in crisi
Bobbio vent’anni dopo
Cosa rimane oggi di Destra e Sinistra?
di Daniel Cohn-Bendit

 
Sono passati vent’anni dalla pubblicazione di Destra e sinistra. Due decenni segnati da sommovimenti profondi. L’Unione europea si dibatte in una crisi pluridimensionale di portata eccezionale. «Per la prima volta nella loro storia, gli europei sperimentano la finitezza dell’Europa». Così si esprime il sociologo Ulrich Beck nel suo ultimo libro,Europa tedesca.
Cambiamenti di eguale portata si sono prodotti sulla scena internazionale. Tra questi ultimi, le rivoluzioni inauguratesi nel 2010 contro l’autoritarismo e la corruzione delle classi dirigenti del mondo arabo. Insieme con esse, sono letteralmente andate in pezzi le strategie opportunistiche dell’Occidente a sostegno di regimi non-democratici – strategie promosse dalla sinistra come dalla destra, in nome della stabilità. Questa messa in scacco del cinismo politico dei partiti al potere – in Occidente, in Africa e in Medio Oriente – ha contemporaneamente messo in rilievo un altro fenomeno. Quello di un “progresso civile” irreversibile, anche se “non necessitato”, per riprendere i termini di Bobbio. Se la transizione resta altamente problematica per i paesi della “primavera araba”, ciò non impedisce che queste rivolte abbiano per orizzonte comune la democrazia. È in nome della dignità umana che la resistenza è continuata nonostante la violenza della repressione. È in ragione dei valori democratici che la spartizione diseguale delle ricchezze è diventata sempre più intollerabile per queste società oppresse.
Detto in altro modo, le rivolte emancipatrici che scoppiano nelle più diverse parti del mondo mostrano tutte le volte che la democrazia non è un’avventura qualsiasi. Il suo manifestarsi, e i valori su cui si fonda, anche se storicamente e geograficamente definiti, hanno una portata universale. I diritti dell’uomo e lo Stato di diritto democratico fanno ormai parte del “patrimonio comune dell’umanità”. La logica democratica è una “logica di libertà”. Detto altrimenti, anche se non risponde a una logica di causa- effetto – caratterizzata com’è dalla sua fragilità intrinseca e dalla possibilità di regressione – la sua messa in moto introduce una coerenza nella storia umana tale per cui le sue sequenze non sono intercambiabili. Il nostro patrimonio democratico trae la sua forza dalla possibilità di essere riattivato in ogni istante, in qualunque parte del mondo, da un qualunque individuo appartenente alla comunità umana.
Questa idea di progresso e di una crescente consapevolezza di una eguale dignità umana si ritrova a più riprese, sotto la penna di Bobbio. La si trova, in particolare, in un passaggio come questo: «La spinta verso una sempre maggiore eguaglianza tra gli uomini è irresistibile. Ogni superamento di questa o quella discriminazione rappresenta una tappa, certo non necessaria, ma almeno possibile, del processo di incivilimento. Mai come nella nostra epoca sono state messe in discussione le tre fonti principalidi diseguaglianza: la classe, la razza e il sesso. La graduale parificazione delle donne agli uomini è uno dei segni più certi dell’inarrestabile cammino del genere umano verso l’eguaglianza». (...) Di fatto, la battaglia democratica è lungi dall’essere conclusa. Non soltanto perché la democrazia non è il solo tipo di regime che esista al mondo, ma anche perché i nostri Stati di diritto democratici sono lontani dal garantire l’effettivo rispetto dei diritti dell’uomo, persino all’interno dell’Unione europea. Alcuni pretendono che il progetto democratico europeo si sarebbe esaurito. Le aspirazioni degli uni e le disillusioni degli altri ci dicono il contrario. E se si è insediata la stanchezza europea, ciò dipende forse innanzitutto dal fatto che la classe politica europea – di destra e di sinistra – non è stata all’altezza dell’esigenza democratica che caratterizza il progetto politico dell’Unione europea. Invece di assumere come indispensabile la mutazione del loro patrimoniopolitico, i leader delle nazioni europee si sono votati all’impotenza, in un mondo in cui l’economia, la finanza, i media… funzionano ormai a scala planetaria.
Un’impotenza che certe nazioni, nei loro sogni più folli, immaginano di poter combattere da sole. A forza di rifiutare di impegnarsi insieme nella democratizzazione della globalizzazione, e nella realizzazione della democrazia europea, i leader degli Stati si sono assuefatti a una tolleranza di fronte all’ingiustizia, all’interno dell’Unione europea e ancor più al di fuori delle sue frontiere. I malfunzionamenti democratici, non solo al livello istituzionale, ma soprattutto nella realtà quotidiana, costituiscono senza alcun dubbio un ingrediente fondamentale della crisi simbolica acuta che incancrenisce il nostro continente. Questa crisi attiene al registro specificamente identitario e deve essere presa molto sul serio. Io sono convinto che la sua risoluzione passa tra le altre cose attraverso la spiegazione del significato del “politico”. E ciò impone di esporsi pubblicamente attraverso un progetto impegnativo per le società e per gli individui che le compongono. Il progetto politico si determina senza alcun dubbio a partire da una visione del mondo. Ma esso è anche un qualche cosa in cui ciascuno deve potersi riconoscere per appropriarsene veramente. In questo senso, esso funziona come uno “stabilizzatore identitario” che non necessariamente è sinonimo di particolarismo o di regresso. Quella che si suole chiamare la «crisi di legittimità» che investe l’ordine politico delle nostre democrazie liberali ha dei legami evidenti con la crisi identitaria europea.
Ed è assai spiacevole che i partiti politici, quale che sia il loro orientamento, abbiano preso l’abitudine di puntare il dito sulla crisi di legittimità europea, quando quest’ultima è in qualche modo null’altro che un’amplificazione della crisi di legittimità che già da tempo ha eroso l’ordine politico nazionale. Si tratta di una rottura socio-politica che concerne i sistemi politici moderni in generale. Detto in altro modo, la sfida si situa su un terreno più grande: quello del valore della politica e della fiducia nei confronti delle istituzioni democratiche rappresentative, vale a dire della classe politica tout court. Ora, questa fiducia si basa sulla qualità della performance del processo di identificazione in generale. È così che le chiusure identitarie – lequali possono raggiungere proporzioni deliranti – si possono interpretare come altrettante lacune nel processo di identificazione, considerato nel suo insieme.
Se questo libro di Bobbio rimane attuale, non è tanto in ragione degli argomenti che sviluppa, ma soprattutto per ciò che esprime: un bisogno di ritrovare il senso della politica.

ieri:
Repubblica 23.2.14
Il documento
“Innovazione e uguaglianza la mia idea di destra e sinistra nell’Europa della crisi”
Il manifesto di Renzi: “ La lezione di Bobbio è viva”
di Matteo Renzi

su spogli

Altritaliani.net 19.1.14
Destra e sinistra: “la famigerata distinzione” di Bobbio esiste ancora.
di Noemi Ghetti

qui

Left 12.3.10
Quella irriducibile differenza
In occasione del centenario della nascita, esce la nuova edizione del celebre saggio di Norberto Bobbio Destra e sinistra che offre, a sedici anni dalla prima edizione, suggestioni di forte attualità
di Noemi Ghetti

qui

l’Unità 24.2.14
Il Pd nel Pse: fine dell’anomalia italiana
Sabato a Roma il congresso che sancirà l’ingresso dei democratici nel Partito socialista europeo e candiderà Schulz alla guida della Commissione
di Paolo Soldini

Sabato il Pd farà il suo ingresso nel Partito socialista europeo. Con il congresso di Roma si aggiungerà un mattone al muro del bipolarismo politico dell’Unione europea. Nelle assise sarà formalizzata la candidatura di Martin Schulz alla presidenza della Commissione Ue.
Anche così l’Italia diventa quel «Paese normale » che in passato non è stato, o non è stato abbastanza. Con l’ingresso del Pd nel Partito socialista europeo, che sarà sancito proprio a Roma sabato prossimo, scompare un’anomalia e la scena politica italiana si allinea a quella dei grandi paesi del continente: una sinistra che si richiama ai valori e all’esperienza della socialdemocrazia (rinnovata quanto è indispensabile, va da sé) contro una destra conservatrice che è andata negli ultimi anni allontanandosi dalla matrice cristiana e sociale e ha perso progressivamente l’ispirazione «popolare» di cui conserva il nome. Un sostanziale bipolarismo che costringe allo schieramento a sinistra o a destra le altre forze, pur per nient’affatto marginali, che esistono sulla scena europea. Dall’estrema sinistra ai Verdi alle destre nazionalisteggianti e antieuropee: quelle che potrebbero essere il frutto avvelenato da raccogliere nelle elezioni di maggio degli errori di governi ed istituzioni di Bruxelles e Francoforte nella strategia contro la crisi. Con l’eccezione, forse, di una componente liberal-democratica (ma non neoliberista in economia) che, sia pure un po’ malconcia, può nutrire ancora la ragionevole speranza di incarnare un terzo polo con cui fare i conti, almeno sulle questioni che riguardano i diritti civili e le libertà.
Non a caso, per fare solo un cenno alle vicende politiche più casarecce, il nuovo presidente del Consiglio qualche tempo fa, da segretario del Pd, fece un riferimento piuttosto esplicito alla necessità che i Democratici aderissero al Pse proprio per «ancorare» lo scenario politico italiano al bipolarismo europeo. Opinione per niente scontata, venendo da un uomo politico nel cui passato il socialismo non c’è mai stato, né italiano né europeo, e che proviene da un’area nella quale le resistenze alla «socialistizzazione» del Pd sono state aperte e forti, e forse lo sono ancora. E va detto che la stessa posizione era stata rappresentata anche da Enrico Letta, che proviene dalle stesse file.
Il congresso di Roma del Pse, insomma, aggiungerà un mattone al muro del bipolarismo politico nell’Unione europea. I suoi protagonisti saranno consapevoli però del fatto che si tratta di uno schema incompiuto e molto lacunoso. Intanto perché in molti paesi l’evoluzione delle politiche nazionali ha portato all’affermazione di forze e movimenti che sfuggono per la tangente alla dialettica destra-sinistra. Il caso del movimento di Grillo in Italia non è l’unico: gli Alternativen anti-euro in Germania, lo stesso partito indipendentista britannico Ukip incarnano forze antisistema che non sono certo di sinistra e che solo per certi versi sono assimilabili alla destra. Ma anche per un altro motivo: il vero nemico del bipolarismo europeo si nasconde ben più in profondità, nella natura stessa dell’assetto istituzionale comunitario e nell’impasse in cui si è arenata, e da tanto tempo, la costruzione europea.
Il congresso di Roma, si sa, nominerà ufficialmente Martin Schulz candidato del Pse per la presidenza della Commissione. Tutte le famiglie politiche hanno fatto o faranno lo stesso. La novità è epocale perché, come ha detto lo stesso Schulz, il presidente attuale è stato votato da qualche centinaio di parlamentari europei, mentre sul prossimo potranno dire la loro qualche centinaia di milioni di elettori. Ma tutti sanno fin d’ora che questa possente espressione di volontà popolare avrà limiti quasi altrettanto possenti in un sistema elettorale che spinge all’accordo tra le grandi forze e, soprattutto, nel fatto che la scelta dell’esecutivo dell’Unione resta saldamente nelle mani del Consiglio, e cioè dei governi. Anche se gli elettori dovessero votare massicciamente a sinistra, o a destra, si ritroverebbero comunque alla fine con una Commissione frutto di equilibri che con la loro volontà c’entrano poco.
Questo deficit democratico, che esiste da sempre ma che queste elezioni rendono particolarmente evidente, impone che le sinistre riprendano l’iniziativa delle riforme e del compimento dell’Europa. Non soltanto i «socialisti e democratici», come si chiameranno «quelli del Pse» con la modifica del logo che accompagnerà l’ingresso del PD, ma anche le sinistre radicali, che hanno marcato una novità con la candidatura di Alexis Tsipras e una piattaforma che propone profonde modifiche dell’Unione nel segno della democrazia, ma si riconosce pienamente nel disegno europeo e che offrono ai socialisti un confronto e una possibile alleanza. Nei dieci punti del Manifesto di Roma, il programma con cui il Pse chiederà i voti per il 22-25 maggio, il legame tra la necessità di modificare profondamente la strategia economica passando dall’austerità agli investimenti e alla promozione del lavoro e l’urgenza di intraprendere le riforme politiche indispensabili alla democrazia della macchina europea viene affermato. Ma è il terreno sul quale, anche nella campagna elettorale, bisognerà fare di più.


Repubblica 24.2.14
I due volti della sinistra europea
di Marc Lazar

SUBENTRATO a Enrico Letta, Matteo Renzi è diventato l’undicesimo capo di governo o di Stato di sinistra nei ventotto Paesi dell’Unione Europea. Tra questi leader, il presidente della Repubblica francese François Hollande e il nuovo presidente del Consiglio italiano incarnano due figure antinomiche - benché siano entrambi alle prese con dilemmi consimili: i dilemmi che si pongono alla sinistra al potere.
Il primo, sessantenne, ha percorso tutte le tappe del cursus honorum dei politici francesi. Brillante negli studi, accede a una carica di alto funzionario e nel 1979 aderisce al partito socialista di François Mitterrand, che servirà fedelmente. Primo segretario del Ps dal 1997 al 2008, François Hollande è un uomo di partito a tutto tondo. Per restare alla guida del Ps ha realizzato di volta in volta sintesi morbide tra le varie correnti. Condizionato com’era dalle molteplici contraddizioni politiche e ideologiche della sinistra francese, ha dovuto attendere il gennaio scorso - un periodo di crescente impopolarità della sua figura e di degrado della situazione economica e sociale in Francia - per esprimere con chiarezza i propri convincimenti social-liberali. Questo professionista della politica, che ha profonde radici nel suo dipartimento, conosce perfettamente i leader e gli eletti dei partiti e sa tutto dei meccanismi e degli arcani della vita politica. Aveva incentrato la sua campagna sul tema del “presidente normale” proprio quando la congiuntura mondiale, europea e francese erano lontanissime dalla normalità, e le istituzioni della V Repubblica avrebbero avuto bisogno di una personalità forte per poter funzionare al meglio. Poco carismatico, legato alla cultura dell’uguaglianza, François Hollande non è a suo agio nella comunicazione moderna; preferisce le riunioni vecchio stile o i dibattiti con un avversario, nei quali brilla per eloquenza e presenza di spirito e per l’efficacia delle sue battute. Intelligente, molto preparato, scaltro, smaliziato, sa essere duro quando serve. Vero artista della tattica, Hollande simboleggia la figura del politico tradizionale di sinistra persino nell’ineleganza dei suoi completi di taglio scadente, con la cravatta perennemente di traverso.
Matteo Renzi è l’esatto opposto, e proprio per questo affascina e intriga, in Italia come all’estero. Con i suoi trentotto anni, gioca la carta del cambiamento generazionale. È riuscito a presentarsi come l’uomo nuovo, pur essendo entrato in politica appena ventunenne, in seno al Ppi e nei comitati di sostegno a Romano Prodi. Per lui il partito è solo un mezzo, che ha dovuto innanzitutto neutralizzare per strumentalizzarlo d’ora in poi al servizio della sua persona e del suo progetto. Vero animale politico, è in sintonia con le attese di molti italiani, e risponde perfettamente al loro bisogno di un uomo nuovo. La profusione dei qualificativi cui ricorrono giornalisti e analisti per tentare di definirlo dà la misura dell’originalità che rappresenta: “erede a sinistra di Berlusconi”, “leader postberlusconiano”, “post-ideologico”, “anti-politico”, “populista”, “outsider” - e l’elenco non finisce qui. Ma si è anche dimostrato un “killer” - avendo cacciato dal Partito democratico gran parte della vecchia guardia - e un abile manovratore: di fatto non ha esitato a fare il contrario di quanto aveva annunciato in relazione al governo di Enrico Letta, ricorrendo a procedimenti degni del costume di quella prima Repubblica che si compiace di aver conosciuto solo indirettamente. Virtuoso della comunicazione e dei media, appare a suo agio sia in tv che sui social network o nei suoi show all’americana. Ha cura della sua immagine disinvolta, usando e abusando del linguaggio dei giovani; ai completi classici preferisce jeans e giubbotti. Il vasto programma di riforme che annuncia a gran voce stravolge i canoni della sinistra classica - ad esempio sulla questione del mercato del lavoro. Matteo Renzi incarna un centro-sinistra disinibito, pragmatico, innovativo, e rivendica senza turbamenti il primato del leader.
Il paradosso sta nel fatto che al di là delle differenze personali e delle diverse caratteristiche dei rispettivi Paesi, Hollande e Renzi devono fare i conti con sfide analoghe: le tre sfide che ogni formazione di sinistra si trova ad affrontare quando va al potere. Innanzitutto, come governare, soprattutto quando si è privi di esperienza in materia, e sempre esposti al sospetto di scarsa competenza? È la grande domanda che si pone Matteo Renzi; la stessa - tuttora irrisolta - posta anche nel caso di François Hollande, che al pari del suo primo ministro, e nonostante la sua lunga carriera, non era mai stato investito di responsabilità a livello nazionale. In secondo luogo, quale politica adottare? Matteo Renzi e il François Hollande del 2014 sono assai vicini tra loro, sia sui temi economici e sociali che su talune riforme della società. Ma come promulgarle, con quali procedimenti e mezzi d’azione, in funzione di quale narrativa? E infine, come dare nuovo slancio all’Europa in crisi di ispirazione?
Quale dei due - la volpe francese o il giovane lupo italiano - sarà in grado di raccogliere queste sfide nel modo più efficace? L’Italia, la Francia e tutta la sinistra europea sono in attesa, con un misto di ansia e speranza.

Repubblica 24.2.14
Ricerca-shock sul capitale umano in Italia “Una donna vale la metà di un uomo”
L’Istat: 342mila euro il dato medio. “ Pesano disoccupazione e salari”
di Maria Novella De Luca

ROMA - Il capitale umano di una donna è esattamente la metà di quello di un uomo. Tradotto in cifre: un maschio in termini economici ha una potenzialità produttiva nell’arco della vita stimata in 453mila euro, una femmina in 231mila euro. In Italia cioè ci vogliono due donne per creare il reddito di un uomo... E poi: il capitale umano di un over sessanta vale, soltanto, 46mila euro. Non importa quanta esperienza o saggezza abbia egli accumulato nella vita già vissuta, il suo futuro è dietro le spalle e quindi parlando di contributo al Pil del paese, è redditizio poco o nulla. Sono i dati, sorprendenti e amari, diffusi ieri dall’Istat che per la prima volta ha calcolato sulla base dei parametri Ocse, “l’ammontare” in euro degli italiani e delle italiane in quanto individui, arrivando a definire il nostro valore medio intorno ai 342mila euro. Mescolando una serie di parametri che sulla base del genere, dell’età, della preparazione scolastica e delle potenzialità professionali, indica il nostro capitale umano, che non è in questo caso una categoria morale, bensì un puro modello matematico.
Alessandra Righi ricercatrice Istat, ha curato il volume “Il valore monetario dello stock di capitale umano”, promosso dall’Ocse. E spiega: «Sulla base di questi indicatori possiamo monetizzare le potenzialità di un individuo e quindi il suo impatto sul Pil. L’anomalia dell’Italia, che si colloca comunque in basso nella classifica mondiale, è la conferma della distanza profonda tra donne e uomini. Nella quale si manifesta tutto il dramma della disoccupazione femminile». Soltanto il 50% delle donne italiane infatti lavora, e quando anche ha un’occupazione, prosegue Righi, «il suo stipendio è inferiore a quello maschile».
Dunque nel computo del capitale umano il suo “peso” sarà di 231mila euro contro i 453mila del partner. Se invece a questo si sommasse il lavoro invisibile delle e cioè quello di cura, la famiglia, i figli, la casa, ecco che ai 231mila euro si dovrebbero aggiungere altri ben 431mila euro di attività domestiche. Il famoso e mai riconosciuto né monetizzato welfare familiare. «Sono dati che mi indignano ma da studiosa non mi stupiscono», dice Daniela Del Boca, docente di Economia politica all’università di Torino. «Nel conteggio del capitale umano l’occupazione femminile viene ulteriormente penalizzata dalla sottrazione dei periodi di maternità, dai congedi... Le donne subiscono poi una doppia discriminazione: non soltanto negli stipendi, ma anche in quella che si chiama discriminazione preventiva. Sapendo cioè di dover fare una scelta inconciliabile tra famiglia e occupazione, si autoescludono dal mercato. E tutto questo viene naturalmente calcolato nella potenzialità o meno di produrre reddito».
Per arrivare a quantificare in euro il capitale umano, l’Istat si è basato sulla capacità degli individui di generare reddito nell’arco della vita e il valore complessivo che ne viene fuori, riferito al 2008 (non esistono altri aggiornamenti), è di 13.475 miliardi di euro, pari a oltre otto volte e mezzo il Pil dello stesso anno. Una cifra che porta a 340 mila euro a testa il “prezzo” di un italiano medio. Interessante osservare come un giovane tra i 15 e i 34 anni, valga 556mila euro, visto il tempo e le energie che potrà mettere nel fabbricare ricchezza, contro i 139mila euro di una donna over sessanta. La quale comunque in questa età della vita produce assai più di un suo coetaneo maschio, che per le statistiche vale non più di 46mila euro. Tutto abbastanza gelido e terribile se ci si ferma riflettere. E infatti l’economista Del Boca invita a fare delle distinzioni. «Un conto è applicare modelli, e ipotizzare cifre. Altro è intendere il capitale umano come l’insieme anche non monetizzabile di ciò che si è, e di ciò che si è fatto nella vita». Perché infatti questa è un’altra storia.


Repubblica 24.2.14
In quei numeri tutti i ritardi del nostro Paese
di Chiara Saraceno

LA CAPACITÀ di una società di produrre i beni e servizi necessari a soddisfare i propri bisogni dipende dalla quantità, qualità e combinazione delle risorse a propria disposizione. Per questo il capitale umano viene sempre più frequentemente incluso tra le risorse economiche.
Insieme all’ambiente e al capitale fisico, il capitale umano rappresenta il patrimonio di una nazione. Ed ecco perché l’investimento in capitale umano è diventata la parola d’ordine delle politiche sociali europee (ancorché non con la stessa forza e cogenza del pareggio di bilancio). Parallelamente, il concetto di capitale umano e la sua stessa misurazione si sono affinati, superando una visione strettamente economicistica.
I risultati della misurazione fatta dall’Istat sul capitale umano degli italiani sono a prima vista sconcertanti. Se si tiene conto solo del potenziale di reddito, il capitale umano delle donne vale molto meno di quello degli uomini: 231mila euro contro 453mila. Il gap si chiude quasi del tutto solo se si tiene conto delle attività non di mercato. Il valore di questa attività è stimato in 431 mila euro per le donne, 384 mila per gli uomini. La differenza è dovuta principalmente al fatto che le donne svolgono la gran parte del lavoro famigliare, ovvero il lavoro a favore dei membri della famiglia, uomini adulti inclusi. Significa che le donne hanno meno capacità degli uomini e quindi non vale la pena di investire nel capitale umano delle donne, specie nelle dimensioni più rilevanti per la partecipazione al mercato del lavoro (istruzione, servizi)? Al contrario. Il basso valore di mercato del capitale umano femminile deriva da due fattori molto italiani, che contribuiscono a comprimere il potenziale complessivo del capitale umano italiano. Il primo è il più basso tasso di occupazione femminile, dovuto anche al carico di lavoro famigliare. Il secondo è la minore valorizzazione, a parità di competenze, delle donne che stanno nel mercato del lavoro. In altri termini, in Italia si spreca allegramente una grossa fetta del capitale umano teoricamente disponibile. Allo stesso tempo, le donne contribuiscono parecchio, a titolo gratuito, al benessere complessivo.
Vi è un secondo risultato sconcertante dell’esercizio effettuato dall’Istat. I giovani sono teoricamente portatori di un capitale umano più consistente di chi è più anziano. Non solo, infatti, sono mediamente più istruiti, ma hanno una vita (di lavoro nel mercato) davanti a sé più lunga. Il reddito da loro generato nel corso della vita è stimato in oltre 556 mila euro, contro i 293 mila euro dei lavoratori nella classe centrale (35-54anni) e ai soli 46 mila euro dei lavoratori tra 55 e 64 anni. Questa stima teorica, tuttavia, come segnala anche l’Istat, non tiene conto della crescente e prolungata disoccupazione giovanile, specie negli anni successivi al 2008. La disoccupazione non solo accorcia la durata del tempo in cui si può mettere a frutto il proprio capitale umano, ma rischia di depauperarlo, invece di farlo ulteriormente sviluppare. Anche nel caso dei giovani, quindi, l’Italia sta minando alle basi la propria ricchezza. Per questo si colloca ultima, per valore del capitale umano, nel gruppo di paesi Ocse che hanno fatto lo stesso esercizio: Stati Uniti, Canada, Regno Unito, Francia e Spagna.
Anche senza farne un caso di equità e democrazia, questi due dati dovrebbero indurre i politici italiani ed europei a fare in modo che le politiche di investimento e valorizzazione del capitale umano - istruzione, salute, strumenti di conciliazione tra famiglia e lavoro, di sostegno all’accesso alle risorse di valorizzazione delle capacità - sono altrettanto, se non più, importanti delle politiche di investimento nelle infrastrutture. Perciò devono rientrare a pieno titolo nelle negoziazioni sul patto di stabilità e il pareggio di bilancio.

l'Unità 24.2.14
La legge vergogna
Fecondazione assistita, la “40” compie dieci anni
di Marco Bucciantini

Dieci anni: nel febbraio del 2004 il parlamento italiano votò e legiferò su una materia che nutriva la vita e le speranze di milioni di persone: la procreazione assistita. Quella legge ha un numero identificativo: 40. Ha madri e padri da cercare in un brodo culturale che colloca l’Italia abbastanza indietro nella classifica della modernità e dell’umanità, anche se chi volle e difese quella legge aveva in bocca le parole più struggenti (e le irrobustiva con dati spesso falsi, e le impressionava di paure medievali). In quegli anni per le immonde leggi che salvavano uno (uno solo, Berlusconi, nelle intenzioni, e molti altri accidentalmente) si disse: leggi vergogna. Questa legge aveva un numero, molti fieri oppositori, molti indefessi difensori, un po’ di gente che raccolse firme per un referendum che non vide il quorum nemmeno da lontano (intorno al 25%), un legislatore succube di chi vedeva la vita ovunque (negli embrioni, intestatari di diritti, nel corpo di Eluana) e spaventato da chi voleva crescerla nelle coppie con problemi di fertilità. Ma era una legge vergognosa.
Sono passati dieci anni. Nonostante il referendum fallito, quella legge così rattrappita, nata vecchia, che impediva perfino la diagnosi pre-impianto, è stata “rifinita” e addolcita da ripetuti interventi dei giudici, stimolati dai cittadini, dalle associazioni, dai medici (non dalla politica, che discute ma sostanzialmente non c’è, a parte la correzione sulla diagnosi pre-impianto nel periodo del governo Prodi, quando già i tribunali si erano messi in moto). Ventotto (28) processi, qua e là, nei tribunali italiani e alla Corte europea di Strasburgo (Italia condannata per aver violato, con i suoi precetti, due norme della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo). La Corte costituzionale ha bollato come illegittimi il limite di produzione di soli tre embrioni e l’obbligo di «un unico e contemporaneo impianto».
Mentre questi interventi raddrizzavano un po’ la legge 40, cominciava e fioriva il cosiddetto «turismo procreazionale» verso i paesi europei dove le leggi consentono più possibilità alla coppia con problemi di fertilità (condizione che turba ogni anno50-70mila nuove coppie) e dove giocoforza le tecniche di fecondazione assistita e le stesse apparecchiature dei laboratori biologici sono più all’avanguardia rispetto all’Italia: circa il 50% delle coppie che decidono di avere un figlio con la procreazione assistita, parte. Per la Svizzera, la Spagna, la Grecia, il Belgio, la Repubblica Ceka. È dimostrato che queste mete estere vengono scelte anche per prestazioni e trattamenti ormai garantiti anche dalla legge italiana (conservazione degli ovociti, fecondazione omologa, stimolazione ovarica): se la legge spagnola dal 1988 regola la donazione di ovociti e di sperma, è ovvio che la ricerca abbia potuto lavorare con maggiore profitto su questo tema e forse su tutta la materia. La fecondazione eterologa - semplicemente: un donatore è esterno alla coppia - è la frontiera da conquistare in Italia e resta ancora il movente principale di chi parte. Per capire: così possono diventare madri le donne portatrici di malattie genetiche, quelle che sono totalmente prive di ovuli, le pazienti oncologiche trattate con chemioterapici, quelle che soffrono di ovaio policistico, di endometriosi, di menopausa precoce.
La perdita di fiducia verso il nostro Paese è un danno che è possibile riparare, che già è tamponato dalle sentenze suddette (e infatti i numeri italiani tornano a crescere) e su questo s’impegnano anche i giovani ginecologi italiani che si sono “radunati” a Ferentino per spiegare parole nuove, parole difficili, criopreservazione, vitrificazione, che è il linguaggio loro ma è anche il racconto di una società. Questo Corso di medicina della riproduzione è stato organizzato da Valentina Berlinghieri, Antonio Di Cioccio e Matteo Buccheri, medici - appunto - giovani ma già fortificati da esperienze estere (Buccheri lavora ancora a Barcellona, alla clinica Eugin, assai bazzicata dai nostri connazionali, Belringhieri è al Cermer di Villa Mafalda, Roma mentre Di Cioccio è all’ospedale San Paolo di Civitavecchia). Gli interventi avevano il pregio di tener presente la realtà, di rivolgersi a al quadro storico e sociale. L’Italia è il Paese europeo dove è più alta l’età della mamma che partorisce il primo figlio: 32 anni. I motivi sono intuibili, la precarietà lavorativa è al primo posto (ma ce ne sono altri). Quindi “congelare” una gravidanza in età fertile per poi impiantarla in età più adulta è un’opportunità sociale in un Paese a bassa tasso di natalità. Questo è un pezzo di legge 40 che è stato abbattuto, informare le coppie - tramite anche il lavoro dei medici di base - su come fare, quando, dove, è importante. Il congelamento degli embrioni evita alla donna di doversi sottoporre nuovamente all’iperstimolazione ormonale, che è dolorosa fisicamente e psicologicamente. Certo, il legislatore deve regolarizzare l’ampia casistica, fissando l’età “massima” per congelamento e impianto, evitando un futuro di mamme-nonne. Ma l’unica legge esistente, seppur rammendata, è sempre quella.
Nuove e ampie sono anche le tecniche per stimolare la fertilità. Anche queste sono state presentate. Ma resta quel dato Istat: 70 mile coppie ogni anno tentano la fecondazione assistita, il 40% delle volte per un problema di lei, il 30% è un guaio di lui, nel 30%dei casi è impossibile sapere cosa non funziona. A quel punto due persone si muovono, incontrando spese (che si moltiplicano, quando si è costretti al viaggio all’estero), frustrazioni, illusioni e delusioni, perché il rapporto fra trattamenti e gravidanze portate a termine è attorno al 20%, ma è una media che mescola buone percentuali “giovanili” con altre più avare, sopra i40anni,quando la ricerca della maternità è difficile per “colpa” dell’invecchiamento ovarico, ma nient’affatto impossibile: solo il 35% delle over 40 non ha chance, o meglio: non ne ha in un Paese dove la fecondazione eterologa è vietata.


il Fatto 24.2.14
I fondi Ue dimenticati
Il tesoro di 80 miliardi che l’Italia non cerca
di Giampiero Gramaglia

Siamo sul fondo della classifica: stiamo provando a rimontare posizioni, ma restiamo in zona retrocessione. Fortuna che l’Ue è come l’Nba: una volta che ci sei dentro, ci resti, anche se le becchi da tutti. Dietro di noi, solo gli ultimi arrivati, Paesi come Bulgaria e Romania che sono nell’Unione dal 2007 appena. E, poi, ce la battiamo con i greci, gli ultimi cronici della classe europea.
La classifica è quella della capacità d’utilizzo dei fondi di coesione dell’Unione, soldi che devono contribuire allo sviluppo delle aree più arretrate o ad attenuare situazioni di disagio sociale. L’inefficienza dell’Italia non è una novità: già negli anni ‘80 e ‘90, arrancavamo dietro Grecia, Portogallo e Spagna, altri grandi beneficiari dei fondi Ue regionale e sociale; poi, dopo l’allargamento a Est, le somme a noi destinate si sono ridotte, mentre non è migliorata la nostra capacità di usufruirne bene e tempestivamente. A fine 2013, siamo riusciti con un forcing finale ad evitare la perdita di risorse: merito, soprattutto, di Fabrizio Barca, ministro della coesione nel Governo Monti e, poi, referente del suo successore Carlo Trigilia. Al 31 dicembre, tutti i 52 programmi operativi dei Fondi strutturali europei avevano così superato i target previsti da Bruxelles.
IN TOTALE, LA SPESA italiana aveva raggiunto il 52,7% delle risorse disponibili, a fronte di un obiettivo minimo del 48,5%. A fine 2012, la spesa era ferma al 37%. Lo indicano i dati aggiornati a fine 2013 e validati dal Dipartimento per lo Sviluppo e la Coesione economica e dal Ministero del Lavoro relativi alla spesa certificata, che misura lo stato d’attuazione della politica di coesione nell’insieme delle regioni italiane.
In primo luogo, capiamoci bene, prima di fregarci le mani per la soddisfazione: il dato significa che, al 31 dicembre, avevamo speso poco più della metà della somma messaci a disposizione nel periodo 2007/2013. Di quella somma, ci avanzano ancora ben oltre 10 miliardi, cui vanno già aggiunti i 29 miliardi previsti per il settennio 2014/2020: altro che ‘tesoretto’. A saperli usare bene e presto, lì c’è un’Isola del Tesoro, che il ministro degli Affari europei Enzo Moavero stimava, compreso il co-finanziamento nazionale, a circa 80 miliardi in sette anni: di che innescare crescita e posti di lavoro.
A saperli spendere bene e presto, appunto. Nell’ultimo anno, c’è stata un’indubbia accelerazione, anche per lo spauracchio di perdere i fondi. Fra il 1° gennaio e il 31 dicembre 2013, sono state certificate alla Commissione europea spese pari a circa 6,8 miliardi. Il cambio di passo italiano è evidenziato anche dai dati del bilancio comunitario, con pagamenti all'Italia per oltre 5 miliardi nei primi 11 mesi del 2013: siamo addirittura secondi nella classifica dei maggiori utilizzatori delle risorse comunitarie lo scorso anno - tenete a freno gli entusiasmi: molti avevano ormai da spendere solo le briciole, perché avevano fatto prima i loro compiti -.
Alla fine, la spesa certificata per l’Italia nel suo complesso ha superato del 4,2% il target nazionale. Le Regioni più sviluppate (Obiettivo Competitività) raggiungono il 62,2% della spesa certificata, quelle meno sviluppate (Obiettivo Convergenza) arrivano al 48,3%.
"Il positivo risultato – sostiene il Ministero - è stato reso possibile dalle incisive iniziative d’accelerazione che hanno coinvolto amministrazioni centrali e regionali e dalla riprogrammazione con la azioni previste nel Piano di Azione e Coesione".
Soddisfatto il ministro Trigilia, secondo cui "lo sforzo di accelerazione della spesa per evitare la perdita di fondi riceverà un ulteriore forte impulso dai provvedimenti di riprogrammazione delle politiche di coesione prese nel 2013". Non bisogna abbassare la guardia: la scadenza ultima per certificare a Bruxelles l’utilizzo delle risorse 2007-2013 è il 31 dicembre 2015. In due anni, cioè, dobbiamo riuscire a spendere quanto siamo riusciti a fare negli ultimi sette. Quel che resterà inutilizzato, andrà perduto.
Le situazioni sono molto diverse da Regione a Regione. L’analisi dei dati mostra che l’Italia non può ancora dormire sonni tranquilli. In molte casi, infatti, gli obiettivi sono stati centrati per il rotto della cuffia: è accaduto nel Lazio, in Campania, in Sardegna, nel Molise e pure in Liguria. In altri, si viaggia ben oltre gli obiettivi minimi imposti da Bruxelles.
Per capire quanto siano state brave le singole Regioni nello spendere il denaro disponibile, basta confrontare gli obiettivi di spesa con il livello effettivamente raggiunto a fine 2013. Partiamo dall’obiettivo Convergenza, relativo alle aree meno sviluppate. In Basilicata, il target del Fesr (fondo europeo di sviluppo regionale) era di 439 milioni di euro e ne sono stati spesi 445, solo sei più del minimo. In Campania, il target del Fes (Fondo sociale europeo) era di 435 milioni e la spesa è stata di 439 milioni.
NON VANNO molto meglio alcune Regioni dell’obiettivo Competitività, quelle più sviluppate. L’ha scampata per un pelo l’Abruzzo per il Fes, superando la soglia minima di appena mezzo milione d’euro. Il Lazio è andato oltre l’obiettivo minimo per 1,5 milioni nel Fesr e per poco meno di due nel Fes. La Liguria è andata oltre il target del Fes di un milione esatto. Il Molise ha avuto uno scarto di appena 100mila euro per il Fesr. Due piani operativi interregionali, Attrattori culturali ed Energie, sono stati rimessi in carreggiata quasi in extremis: il primo, che al precedente rilevamento appariva in condizioni disperate, ha superato il suo target di appena un decimo di punto, pari a soli 200mila euro; il secondo è andato oltre di meno di due milioni di euro.
Però, gli elementi positivi del monitoraggio di fine 2013 sono indubbiamente molti. Il primo è costituito dal fatto che neppure un euro è stato lasciato per strada, nonostante si potesse ben temere il contrario. Il secondo è rappresentato dall’ottima performance di alcune Regioni, sia dell’obiettivo Convergenza sia di quello Competitività, e di alcuni programmi nazionali, come quello Reti, che supera il target minimo di nove punti. Lato Regioni, la Calabria è andata oltre l’obiettivo minimo per il Fesr di sette punti, l’Emilia Romagna di 10 punti sui due fronti, il Trentino fa il botto e il record con un margine di 20 punti.
Uno strumento per capire come vanno le cose programma per programma e Regione per Regione è il portale Open Coesione, voluto da Barca quand’era ministro, con l’intento di favorire “un cambio di grammatica istituzionale”. E’ un balzo in avanti in termini di trasparenza e un modo per mettere l’Italia sulla strada della nuova politica di coesione europea 2014-2020. Fare meglio di quanto abbiamo finora fatto non è difficile, anche se sarà difficile battere i ‘campioni’ dell’Est dell’Ue, Polonia, Paesi Baltici, Slovenia, anche Slovacchia.


l’Unità 24.2.14
Lista Tsipras Camilleri sarà candidato
Ancora incerta Spinelli
di Rachele Gonnelli

Dà più sull’arancione che sul rosso il simbolo definitivo della lista Tsipras con il motto «L’Altra Europa» presentato ieri al Teatro Valle Occupato quasi pieno dal comitato romano.
Le candidature in totale saranno 73, con alternanza uomo-donna e un terzo dovranno essere di under 40enni, secondo il volere dei sei proponenti. Di nomi di prestigio ne girano molti ma le proposte, arrivate dai partiti (Sel e Rifondazione comunista) e dalle associazioni sono circa 200 e i sei garanti (Barbara Spinelli, Marco Revelli, Guido Viale, Andrea Camilleri, Luciano Gallino, Paolo Flores d’Arcais) opereranno la cernita definitiva solo tra mercoledì e giovedì. Non è ancora sicuro neanche che Barbara Spinelli accetti di guidare la lista mentre è certo che si candiderà Andrea Camilleri, probabilmente dimettendosi dal comitato dei garanti. Il padre del commissario Montalbano dovrebbe spendere la sua notorietà in Sicilia e forse anche altrove. Altri nomi più che probabili: Raffaella Bolini dell’Arci, il giovane Claudio Riccio della Rete della Conoscenza e della rivista teorica Quaderni Corsari, Luca Casarini, Sandro Medici, il segretario di Tilt, associazione giovanile di Sel, Marco Furfaro, Claudio Berardi detto «Bifo ». La raccolta delle firme per la presentazione della lista «dal basso» (ne occorrono 150mila, da 3mila a 30mila per ciascuna circoscrizione), inizierà lunedì 3 marzo. Per il momento si stanno formando i comitati locali ed è iniziata la raccolta di fondi, anche quella rigorosamente a sottoscrizione.
Ieri al Teatro Valle Occupato è stata annunciata la nascita di un comitato di ricercatori dell’Enea che dovrebbe coordinarsi anche con un altro costituendo comitato di dipendenti del ministero dell’Ambiente per l’elaborazione di parte del programma. Un altro comitato, dedicato alle questioni dell’immigrazione, è stato annunciato dall’antropologa Annamaria Rivera. E c’è tempo solo entro oggi per i migranti comunitari - di nazionalità rumena, polacca e croata etc - per iscriversi nelle liste elettorali dei comuni dove sono residenti per votare in Italia alle elezioni europee. Le disponibilità personali per partecipare all’organizzazione dei comitati vengono intanto raccolte sia nel corso delle prime iniziative pubbliche sia sul sito nazionale (listatsipras.eu).

il Fatto 24.2.14
Vicenda Marò
Il governo indiano dà “picche” a Renzi
L’esecutivo si è subito interessato alla vicenda
ma il ministro di New Dehli has risposto: “Giudicati con le nostre leggi”
di Sara Nicoli

Staffan De Mistura? Chi era costui? Sembra passato un secolo da quel lontano 28 novembre del 2012 quando Federica Mogherini, all’epoca semplice emergente franceschiniana del Pd, twittava serena contro l’attuale premier: “Ok, Renzi ha bisogno di studiare un bel po’ di politica estera, non arriva alla sufficienza, temo! #csxrai #terzaelementare”. Bei tempi. Quelli di oggi, invece, narrano di una Mogherini neo ministra degli Esteri saldamente insediata fin da ieri alla Farnesina (at work, ha twittato felice) con in mano il dossier dei due marò. Decisa a risolverlo, “costi quel che costi”. È solo che quando le hanno detto che l’intera questione, in queste ore, era ancora saldamente in mano proprio a Staffan De Mistura, uomo di fiducia sul caso di Emma Bonino e forse il miglior diplomatico su cui può contare il ministero degli Esteri, soprattutto alla vigilia della nuova udienza davanti alla Corte Suprema del Kerala, la Mogherini, che probabilmente – si spera – stava pensando ad altro, se n’è uscita con un “E chi è?” che ha fatto sobbalzare tutti i funzionari presenti. Poi si è ripresa, Mistura (che era lì) si è presentato e tutto si sarebbe sciolto in una risata generale, ma l’impatto dell’incidente è stato di quelli destinati a restare negli annali della Farnesina.
GIÀ, PERCHÉ l’affaire marò sembra ora davvero in mani acerbe (tutte) e rischia di diventare il primo su cui l’altrettanto acerbo governo Renzi andrà a sbattere. E dire che Emma Bonino è stata mandata a casa proprio con la scusa che sulla questione marò non si sarebbe mossa con la dovuta forza e intransigenza; “È solo un pretesto!”, si è arrabbiato Marco Pannella, costringendo la stessa Bonino a porre sul tavolo una doverosa chiosa contro le voci maligne dei renziani: “Ce l’ho messa tutta, ho fatto tutto il possibile”.
E il governo Renzi come ha intenzione di muoversi? Quali azioni intende portare avanti per sbloccare la situazione? Al momento, come sempre quando si parla di questo nuovo Esecutivo, siamo solo all’annuncio spot: prima Renzi che twitta: “Faremo semplicemente di tutto”, poi le due ministre, la Mogherini, appunto, ma anche la Pinotti (Difesa) che ci tengono a far sapere che il loro primo pensiero è stato proprio per i Marò, con tanto di telefonata di entrambe di saluto ai due (cosa che ha rincuorato le mogli di Girone e Latorre), ma quanto a strategie il vuoto è pressochè assoluto. E dell’assenza – ma anche della fragilità politica e diplomatica – di questo nuovo governo, si deve essere accorto subito anche il ministro della Difesa indiano A.K. Antony. Che saputo dei “proclami” di Renzi, ieri ci ha tenuto a far sapere che gli indiani, quando ci si mettono, son gente seria: nessun cedimento del governo del Kerala sul processo ai marò. “Stiamo andando avanti su questa vicenda in base alle leggi indiane”, ha detto, assicurando che “non c'è spazio per compromessi” e non “faremo marcia indietro”: “Saranno processati con le leggi del nostro Paese”.
OGGI, COMUNQUE, l'India metterà le sue carte sul tavolo della Corte Suprema a New Delhi svelando così una volta per tutte la soluzione scelta per procedere contro i marò, ma pare, almeno a sentire Antony, che “nessun compromesso” sarà possibile, malgrado il pressing dell'Italia che tra le varie ipotesi nelle settimane scorse aveva evocato la possibilità di ricorrere a un arbitrato internazionale per risolvere la vicenda. Sembra, comunque, che la Procura locale sia intenzionata ad abbandonare la minaccia di utilizzo della legge per la repressione della pirateria (Sua Act) per la formulazione dei capi d'accusa, concentrandosi invece sulla legge ordinaria indiana. Fonti locali hanno lasciato intendere che oggi il procuratore Vahanvati, che ha in mano il fascicolo, tenterà di convincere la Corte che abbandonare l’appoggio della Nia, ossia della polizia antiterrorismo che fin qui ha seguito la faccenda, affidandola alla polizia locale (di fatto derubricando il reato) il che però significherebbe far accumulare al processo un “forte ritardo”, ipotesi che la difesa italiana dovrebbe respingere con forza.
In aula, accanto a Latorre e Girone, non vi saranno però né l'ambasciatore d'Italia, Daniele Mancini, né De Mistura, ieri a Roma, come si diceva, per capire, anche lui, quale strategia ha in mente il nuovo governo Renzi. Sempre che ne abbia davvero una.


l’Unità 24.2.14
«Ucraina, il futuro nelle mani di Ue, Usa e Russia»
di Umberto De Giovannangeli

«Yanukovich ha puntato tutto sul sostegno di Putin, finendo per perdere anche quello del suo partito. Il presidente defenestrato ha sottovalutato la profondità della rivolta e questo insieme di errori di valutazione gli sono costati il potere». La crisi ucraina vista da uno dei più autorevoli analisti di politica internazionale: Stefano Silvestri, già presidente dell’Istituto Affari Internazionali. «Molto del futuro dell’Ucraina, della sua stessa integrità nazionale – rimarca Silvestri - dipenderà dai negoziati in corso tra l’Europa, gli Stati Uniti e la Russia».
Professor Silvestri, come leggere gli avvenimenti che hanno sconvolto la vita politica dell’Ucraina.
«La mia impressione è che Yanukovich puntando sul sostegno di Vladimir Putin abbia ritenuto che esso fosse sufficiente per garantirgli la tenuta del suo partito e del suo regime anche di fronte alla protesta montante e alla repressione messa in atto contro le opposizioni. Una valutazione rivelatasi alla prova dei fatti sbagliata, perché quello che è successo, in Parlamento, è stata la dissoluzione del partito di Yanukovich, tant’è che una gran parte dei suoi deputati ha votato per la sua destituzione, probabilmente incoraggiati in questo anche dalla presenza degli inviati dell’Unione europea, oltre che dal veder dilagare la protesta non solo nell’Ucraina occidentale ma anche in quella orientale. Quel voto in Parlamento dimostra, peraltro, che il partito non si identificava più con Yanukovich e con la sua fazione interessata maggiormente a fare gli affari propri che a governare il Paese. Sempre più Yanukovich aveva preso ad agire come il referente della potente oligarchia ucraina, che ora sembra avergli voltato le spalle alla ricerca di nuovi interlocutori politici, piuttosto che da capo dello Stato e neanche da leader di partito. A ciò si aggiungono i due errori esiziali commessi dal presidente defenestrato…». Quali sono questi errori?
«Yanukovich ha sbagliato sia quando ha imposto gli accordi economici con Mosca sia quando ha deciso di “rimangiarsi” l’accordo commerciale con l’Ue che pure lui stesso aveva negoziato e sottoscritto».
Dal presidente in fuga, alle opposizioni che esultano a Kiev. Cosa attendersi ora dalle opposizioni?
«Le mosse sono già state indicate dal nuovi presidente provvisorio, l’ex vice di Yulia Tymoshenko, e cioè nuove elezioni presidenziali e prim’ancora la formazione di un governo di unità nazionale. Bisognerà vedere se all’atto pratico, Yanukovich avrà la forza di opporsi a queste decisioni e di mettere in discussione l’autorità del prossimo governo almeno in alcune parti dell’Ucraina orientale, dove è più forte il legame con la Russia. In tal caso, potrebbe esserci il rischio di una guerra civile e persino di un intervento russo in appoggio al presidente defenestrato. Molto dipenderà dai negoziati in corso tra l’Unione europea, gli Stati Uniti e Mosca, per vedere se sarà possibile trovare delle formule che consentano all’Ucraina l’avvio e il consolidamento di un processo di pacificazione. Se questo sarà reso possibile, il problema delle forze ispirate da Yulia Timoshenko e dalle componenti che appaiono maggioritarie nell’opposizione, sarà quello di prendere il controllo sulle fazioni estremiste, minoritarie ma armate che potrebbero voler perseguire delle vendette o continuare nelle violenze. La pacificazione passa anche da qui».
Come valuta l’atteggiamento sin qui tenuto dall’Unione europea?
«Il comportamento dell’Ue è stato abbastanza corretto e tutto sommato buono. Adesso, però, sono necessarie due mosse importanti: garantire all’Ucraina aiuti straordinari e urgenti, per evitare che si aggravi la crisi economica e umanitaria. E, parallelamente, è necessario avere un dialogo con Mosca nei limiti del possibile per cercare di convincere Putin che il gioco non è a somma zero ma che sia l’Europa che la Russia possono guadagnare da una pacificazione condivisa dell’Ucraina». La Russia, per l’appunto. L’Ucraina potrebbe segnare la prima bruciante sconfitta per il leader del Cremlino? «Potrebbe, ma non c’è da augurarselo, per il bene dell’Ucraina e anche per la stabilità del quadro europeo. Non va dimenticato, né sottovalutato, il fatto che questa crisi si è manifestata in un’area di marcato interesse strategico per la Federazione Russa. E di questo noi europei faremmo bene a tenerne conto».


l’Unità 24.2.14
Da Kiev la sfida a Mosca: rispetti la scelta europea
di U.D.G.

Alla piazza che l’osannava ha parlato, per l’ultima volta, come la «Giovanna d’Arco di Kiev», come ama definirsi: l’Ucraina «vede il sole e il cielo», ma non è finita: «Siete degli eroi, ma dovete rimanere in piazza, fino alla fine». Ma subito dopo, nella sua piazza, Piazza Maidan, che l’osannava, Yulia Tymoshenko ha vestito i panni del presidente in pectore e, guardando alle elezioni presidenziali del 25 maggio, annuncia: «Io mi candiderò». La seconda sfida di Yulia prende corpo l’altra notte nella Kiev che festeggia la «cacciata» del dittatore: il presidente deposto Viktor Yanukovich. Sulla sedia a rotelle, l’eroina della Rivoluzione arancione del 2004 ha arringato la folla: «Se qualcuno vi dice che avete finito il vostro lavoro e dovete andare a casa non gli credete: dobbiamo andare avanti fino alla fine». E la «fine» non è dietro l’angolo. Soprattutto, non è detto che sia un «happy end». Ne è consapevole Evgenya, la figlia dell’ex premier. L’Unità è riuscita, sia pur per pochi minuti, a raggiungerla telefonicamente. La sua voce è incrinata dalla commozione e dalla stanchezza: «La prigione – dice Evgenya Tymoshenko – ha fiaccato mia madre nel fisico ma ha rafforzato la sua determinazione a battersi per una Ucraina libera, proiettata in Europa». Quanto al regime di Yanukovich, Evgenya ribadisce quanto ci aveva qualche giorno fa aRoma: «Chiediamo giustizia, non vendetta. E giustizia vuole che Yanukovich sia processato per i crimini contro l’umanità di cui si è macchiato». E sul futuro dice: «Vogliamouna Ucraina unita, democratica, plurale. Non abbiamo combattuto una dittatura per sostituirla con un’altra».
Il Parlamento ucraino completerà entro domani la formazione di un nuovo governo d'unità nazionale. Lo fa sapere il nuovo presidente dell’organo legislativo, Oleksandr Turcinov, appena nominato nuovo presidente ad interim dell’Ucraina. Turcinov è il braccio destro della Tymoshenko. «Per l’Ucraina incomincia anche il momento della resa dei conti», ha detto Turcinov. «Siamo pronti al dialogo con la Russia...a patto che tenga conto della scelta europea dell' Ucraina, che io spero sarà confermata alle elezioni (presidenziali)», del 25 maggio, ha spiegato Turcinov parlando alla tv. Ieri mattina i parlamentari hanno deciso di congedare il ministro degli Esteri, Leonid Kozhara, un uomo vicino all’ex presidente Viktor Yanukovich. Passano solo pochi minuti e il Parlamento vota il decreto n. 4216 che toglie l’incarico al ministro della Salute Bogatyreva. Quasi cinquantenne, Turcinov, proviene da Dnipropetrovsk nell’Ucraina sudorientale, la stessa città della Tymoshenko. Un altro nome tra quelli favoriti per la carica è quello di Petro Poroshenko, parlamentare di un gruppo indipendente. Ma circola anche quello di Arseniy Yatsenyuk, autorevole capo dell’opposizione protagonista delle proteste e dei negoziati con Yanukovich. Quanto alla «Giovanna d’Arco» di ha fatto sapere di non essere interessata al posto di primo ministro nel governo che dovrebbe essere formato entro domani. «La notizia secondo cui sarei in lizza per il posto di primo ministro mi è giunta come una sorpresa», dichiara l’ex premier in una nota del suo partito, Batkivshchyna («Patria»). «Questo tema non è stato discusso con me, grazie per il vostro rispetto ma vi chiedo di non considerare la mia candidatura per quell’incarico». L’obiettivo di Yulia, confidano a l’Unità fonti a lei vicine, è di vincere le elezioni e divenire la presidente della «nuova Ucraina» attraverso l’investitura popolare. Quanto a Yanukovich, di cui si sono perse le tracce, è tempo di fare i conti con la sconfitta. Il Partito delle Regioniha deciso di scaricarlo. Accusa lui e i suoi più stretti collaboratori come «responsabili» delle violenze di Kiev in cui, tra agenti e insorti, sono morte almeno 82 persone: «L’Ucraina», si legge in una nota, «è stata tradita. La responsabilità di ciò ricade su Yanukovich e sulla sua cerchia». Il «regime» è sfaldato, l’opposizione mostra i muscoli e si prende il potere. Il Parlamento ha deciso che la sfarzosa villa di Yanukovich ritorni allo Stato. Si trova a Mezhighiria, a circa 20 chilometri da Kiev. Ieri le guardie di confine non hanno permesso Yanukovich di lasciare il Paese. La sua scorta armata ha cercato di corromperli per far decollare un charter con a bordo Yanukovich. A quel punto l’ex presidente si è infilato in un’auto, partita poi alla volta di una destinazione ignota.
DIPLOMAZIA TELEFONICA. L’Ucraina si prepara anche a nuove alleanze all’estero e guarda all’Europa. L’ex premier ucraina incontrerà «molto presto» la cancelliera tedesca Angela Merkel, con cui ha già avuto una conversazione telefonica. Dal canto suo, Merkel si è congratulata con Tymoshenko «per la sua liberazione» dopo tre anni agli arresti con l’accusa di abuso di potere e ha espresso «la convinzione che il suo ritorno alla politica sarà unodei principali fattore di stabilizzazione della situazione in Ucraina». Fonti del governo tedesco hanno riferito che la cancelliera ha affermato che Tymoshenko «si dovrebbe impegnare politicamente per tenere insieme il Paese». Merkel, e il presidente russo, Vladimir Putin, hanno concordato sul fatto che va garantita «l’integrità territoriale» dell’Ucraina. In una telefonata di cui ha dato notizia il portavoce della cancelliera, Stefan Seibert, i due leader «hanno convenuto che l’Ucraina si deve dare rapidamente un governo capace di agire e che l’integrità territoriale deve essere preservata». La necessità è condivisa anche dagli Stati Uniti. «Non è nell’interesse dell’Ucraina, né della Russia, né dell’Europa né degli Stati Uniti di vedere un Paese diviso», ha sottolineato il consigliere per la Sicurezza nazionale della casa Bianca, Susan Rice, parlando al programma «Meet the press» sulla Nbc. E oggi a Kiev arriva l’Alto rappresentante per la politica estera dell’Ue, Catherine Ashton. L’Europa vuol essere protagonista di una soluzione della crisi. Ne ha tutto l’interesse.

La Stampa 24.2.14
Il ritorno di Yulia inquieta
Klitschko e gli eroi di Maidan
L’ex leader della Rivoluzione arancione punta alla presidenza I vecchi amici e gli alleati saranno i prossimi avversari
di Mark Franchetti

*Corrispondente da Mosca  del «Sunday Times» di Londra

Raramente il panorama politico di un Paese è cambiato tanto rapidamente come è successo in Ucraina. Ci sono volute solo 24 ore perché il presidente Yanukovich perdesse il potere e fuggisse da Kiev e la sua acerrima nemica e rivale, la leader dell’opposizione Yulia Timoshenko, venisse liberata dalla prigione.
Dopo un discorso vagamente delirante in cui pretendeva di essere ancora il presidente, ancora non si capiva dove Yanukovich fosse finito. Alcuni sostenevano che fosse stato fermato, mentre stava per imbarcarsi su un aereo diretto in Russia, dalla guardie di frontiera, ormai non più sotto il suo controllo. Quasi contemporaneamente e meno di due ore dopo il suo drammatico rilascio dall’ospedale della prigione di Kharkiv, Timoshenko era già a Kiev. Astuta populista con un’impeccabile sensibilità di intuire quello che la folla si aspetta da lei, l’ex premier è andata in via Grushevskovo, a deporre fiori sul luogo dove sono stati uccisi i primi manifestanti nella crisi che ha devastato l’Ucraina per tre mesi. Poi si è diretta verso Maidan, piazza Indipendenza. Parlando per la prima volta dal suo arresto, nel 2011, Timoshenko è salita sul palco in sedia a rotelle, su cui è costretta a causa di un infortunio alla schiena. «Questa è la vostra vittoria. Avete rimosso questo cancro dal nostro Paese», ha detto con voce commossa.
Timoshenko ha anche sollecitato il giudizio nei «tribunali più severi» per Yanukovich, che i manifestanti vogliono mettere sotto processo per la morte di circa 100 persone in piazza, la maggior parte uccisi dalle pistole della polizia.
Alcune parti della piazza sono esplose in cori che invocavano «Yulia! Yulia!», ma molti manifestanti non l’hanno applaudita e alcuni l’hanno anche fischiata. Una figura assai discussa e controversa, Timoshenko - che porta i capelli raccolti in una lunga treccia che la fa sembrare la Principessa Leila di «Guerre Stellari» - , ha subito annunciato che avrebbe corso per la presidenza alle elezioni di maggio.
Il suo rilascio e le sue rinnovate ambizioni complicheranno la situazione politica dell’Ucraina. Timoshenko rimane immensamente popolare tra molti elettori che la vedono come la Lady di ferro ucraina. Altri l’accusano di corruzione e di usare la sua posizione per arricchirsi - tanto che è soprannominata la Principessa del gas, un riferimento denigratorio al suo ricco ex incarico di ministro dell’Energia del Paese. «Ho sempre votato per Yulia e continuerò a farlo - dice Stepan, un tassista che si è unito ai manifestanti -. Lei è intelligente, tosta e carismatica. La gente l’accusa di rubare, ma io non ci credo». Altri, invece, puntano il dito contro di lei per il caos degli anni post rivoluzione arancione: Timoshenko ha portato le proteste di piazza nel 2004 a fianco di Viktor Yushchenko, che divenne presidente, ma la loro alleanza crollò rapidamente per le sue ambizioni personali, non appena la rivoluzione finì. «È carismatica, ma non mi fido di lei neanche un po’, e ormai è una figura del passato - dice Alexei, uno dei manifestanti nazionalisti più radicali -. È guidata da ambizioni personali e ora tenterà di dirottare la nostra rivoluzione. Non glielo permetteremo, vogliamo cambiare e non vogliamo ripetere gli stessi errori del passato».
Soprattutto, il rilascio della Timoshenko e la sua candidatura a presidente spaccherà profondamente il voto dell’opposizione e danneggerà Vitaly Klitschko, il campione di boxe diventato uomo politico dell’opposizione, il volto più importante delle recenti proteste, con chiare mire presidenziali. Sulla carta il pugile e la principessa sono alleati - Klitschko ha contribuito alla sua liberazione - ma in pratica diventeranno sicuramente acerrimi rivali.
«La gente dice scherzando che solo una persona avrebbe segretamente voluto tenere Yulia in carcere più di Yanukovich, e questa persona è Klitschko. Ora che lei è fuori ha un nuovo avversario», ha detto un ex consigliere del campione di boxe. In competizione ci sarà anche Oleh Tyahnybok, leader del partito nazionalista «Svaboda», che ha anche avuto un ruolo pesante nelle proteste Maidan. Ma il vero re della piazza, l’unica figura ad aver ottenuto il rispetto diffuso dei manifestanti, è un uomo dell’Ucraina orientale, praticamente sconosciuto prima che le proteste iniziassero, tre mesi fa: Dmitry Yarosh.
Il 42enne è il leader di «Pravý Sektor», Settore Destro, un gruppo ultranazionalista di destra in prima linea negli scontri con la polizia. Mentre le proteste diventavano sempre più violente i politici moderati come Klitschko vedevano calare la loro popolarità e autorità. Al contrario l’intransigente Yarosh e il suo piccolo esercito di giovani uomini in passamontagna, mazze e bottiglie molotov che per primi hanno invocato la resistenza armata, si sono guadagnati il rispetto autentico della strada.
Le sue ambizioni politiche a lungo termine rimangono poco chiare, ma mentre il pugile e la principessa si preparano ad entrare sul ring, è Yarosh che non dovrebbero perdere di vista.

Corriere 24.2.14
Tradito dai complici e Viktor rischia la fine di Ceausescu
di Liudmila Ulitskaja


Gli eventi accaduti negli ultimi giorni in Ucraina basterebbero per un anno. Il primo e il più atteso è stato che, l’opposizione di piazza Maidan, il vasto movimento popolare antigovernativo, ha sconfitto il potere di Yanukovich.
Dopo che il presidente ha abbandonato Kiev, altri 64 voli partivano dalla capitale ucraina con a bordo i collaboratori più vicini a Yanukovich. Non vorrei usare la parola «complici», ma viene fuori da sola. Puntavano verso mete diverse — uno l’Europa, altri la Russia —, molto probabilmente i luoghi in cui avevano proprietà immobiliari e capitali... Yanukovich mi fa pena: è stato abbandonato e tradito da tutti quelli a cui, per tanti anni, ha dato da mangiare. Non c’è niente da fare: nel mondo della malavita, da cui viene anche Yanukovich, si usa così.
Alcune ore dopo si è saputo che l’ex primo ministro Yulia Tymoshenko, che stava scontando la sua detenzione in un ospedale, era stata liberata. Subito, dalla sedia a rotelle, ha annunciato che intendeva candidarsi alla presidenza. Con questa dichiarazione metteva fuori gioco il capo del partito «Udar» («Colpo», ndt), l’ex campione del mondo di pugilato Klitschko, e i suoi collaboratori. L’autorità della Tymoshenko è molto sentita: lei è l’unica tra i politici che oggi aspirano al ruolo di leader che abbia esperienza alla guida del Paese, ed è l’unica capace di condurre il processo di contrattazione. Insieme a questi due eventi — l’uscita di scena di Yanukovich e il ritorno alla vita della Tymoshenko —, è stata reintrodotta la Costituzione del 2004, che, pur non essendo un modello di perfezione, priva il presidente Yanukovich dei molti poteri ottenuti con la Costituzione attuale.
Questa storia potrebbe essere la trama di un thriller a sfondo politico, se nel corso degli ultimi eventi in piazza fossero cadute controfigure e non persone reali, uccise mentre si battevano contro le autorità. In apparenza questi fatti ricordano molto dei film già visti: l’ombra di Ceausescu incombe su Yanukovich, e si spera che lui non faccia la sua stessa fine. Anche se, a dire il vero, il destino dell’Ucraina ci preoccupa molto di più.
Cosa ci riserverà il domani? Oggi l’Ucraina si divide tra due schieramenti politici inconciliabili. La parte occidentale del Paese è storicamente più legata alla Polonia, alla Lituania e, di conseguenza, all’Europa; la stragrande maggioranza della popolazione parla inglese e ucraino, e ha vissuto meno a contatto con il regime sovietico. La parte orientale dell’Ucraina, economicamente più forte, ha sempre gravitato intorno a Mosca: lì vivono molti russi e il russo è la lingua predominante. L’economia dell’Ucraina dell’Est è strettamente connessa con l’economia della Russia. E poi esiste il problema della Crimea e delle basi militari russe che si trovano nella regione.
In questi eventi c’è anche una componente simbolica. Nelle ultime due notti sono state distrutte alcune decine di statue di Lenin: l’Ucraina si congeda così dal suo passato sovietico, non uno dei periodi più illuminati, bisogna riconoscerlo.
Oggi il pericolo è che l’Ucraina si spacchi in due o persino in tre Stati diversi, tutti in odio tra loro, con una tensione da guerra civile. Un «divorzio» consensuale, simile a quello avvenuto alla dissoluzione della Cecoslovacchia, è quasi impossibile. A quanto pare, le prospettive migliori per il Paese si avrebbero se rimanesse uno Stato unitario: grazie a una posizione geografica unica e alla sua storia, potrebbe trasformare le proprie debolezze in vantaggio, diventando un anello di congiunzione tra Oriente e Occidente. A quel punto tutti e quattro — la Russia, i due fronti dell’Ucraina e l’Europa — ne trarrebbero beneficio. La Russia è in gran parte responsabile di questa situazione. Sarebbe stato molto più saggio mostrare rispetto verso vicini e parenti, e dare all’Ucraina la possibilità di risolvere da sola i suoi problemi interni.
(Traduzione di Sara Bicchierini)

Corriere 242.14
Faglia di frontiera tra Europa e Russia
Le sfide dell’Ucraina oltre le barricate
di Antonio Armellini


La vittoria del Maidan rappresenta un successo per la democrazia e riafferma il primato dell’Europa nella promozione dei valori fondanti della società civile. L’opposizione celebra un risultato pagato a caro prezzo e si interroga su quanto possa considerarlo definitivo. Viktor Yanukovich è sparito da Kiev lasciandosi dietro l’immagine di una spoliazione rapace: quella incredibile residenza — con il suo parco, i campi da golf e il galeone simil-spagnolo — più che al lusso un po’ paesano di Nicolae Ceausescu ha fatto pensare alla protervia pacchiana dei tanti palazzi che Saddam Hussein aveva disseminato in Iraq. Non si sa dove sia, ma è probabile che non sia riparato in Russia, come si è detto, e stia cercando di riannodare i fili di una possibile reazione partendo dalle roccaforti nell’est del Paese. Il presidente provvisorio Oleksandr Turchyonov garantisce un rapporto saldo con Yulia Tymoshenko e cerca di imprimere una sembianza di ordine a una situazione che rimane confusa ed esposta al rischio di provocazioni. Non solo da parte degli sconfitti: il peso dei movimenti dell’estrema destra nazionalista è controverso, ma il fatto che abbiano cominciato a svolgere un servizio d’ordine in accordo non si sa quanto definito con le forze di polizia dovrebbe far sollevare più di un sopracciglio. L’Ucraina non ha davvero bisogno in questa fase di risvegliare il demone dell’antisemitismo: non vorrei che i cartelli inneggianti all’ambiguo estremista nazionalista Stepan Bandera facessero apparire all’orizzonte il fantasma di un nuovo Viktor Orban (che tante preoccupazioni sta già destando in Ungheria).
Ha fatto bene Yulia Tymoshenko a chiamarsi fuori per il momento dalla contesa: avrà tempo e modo per recuperare appieno il ruolo che le compete, ma adesso le si presenta il compito forse più difficile. Quello di essere a un tempo l’icona di un movimento rivoluzionario che mira a ripristinare la legittimità democratica e il possibile punto di giunzione fra le diverse anime di un Paese che, per quanto fratturato, può ben difficilmente diventare qualcosa di molto diverso, se non a costo di prezzi che nessuno — e men che meno l’Europa — intende sopportare. È osannata dal suo popolo ma conosce e sa come trattare con la Russia; è l’alfiere di una lotta alla corruzione che vorrebbe vedere uscire di scena il gruppo di oligarchi arricchitisi all’ombra di Yanukovich, ma può contare su un suo (più o meno...) oligarca, quel Petro Poroshenko che ha finanziato la protesta e ha intanto fondato per buona misura un suo partito.
L’Ucraina resta una faglia di frontiera, fra l’area dell’influenza democratica dell’Europa e quella della residua influenza russa. Diversamente da qualsiasi altro Paese della regione, la faglia non gli corre accanto, bensì lo attraversa nel bel mezzo, e nessuna soluzione stabile può essere immaginata se non partendo da questo dato di fatto. Chi aveva pensato che la fine della Guerra fredda e la caduta del Muro avrebbero aperto la strada a una evoluzione democratica dell’insieme dell’ex Est europeo, ha trovato nella crisi ucraina una ennesima smentita: la spinta verso il ricongiungimento delle due Europe sotto le bandiere dei valori occidentali di libertà e democrazia si è andata indebolendo man mano che la Russia — che per un momento era sembrata decisa, o quantomeno rassegnata, ad avviarsi in questa direzione — ha recuperato le caratteristiche di «democrazia oligarchica» consone alla sua tradizione e tutto sommato non ostiche alla maggioranza della sua popolazione. La Polonia — e le postazioni di missili russi nell’enclave di Kaliningrad — erano sembrate a un certo momento rappresentare un punto finale di confine, ma il compromesso era in questo caso ancora possibile, stante la collocazione geopolitica e la radicata tradizione antirussa del Paese. Con l’Ucraina no: essa è al tempo stesso parte inscindibile della storia russa, come di quella tedesca e polacca. Le divisioni interne rispecchiano questa connotazione: il punto di equilibrio nella faglia dovrà passare attraverso il riconoscimento di due anime che né russi né europei sono disposti a separare.
Sebastopoli è la principale base della Marina russa. Vladimir Putin non potrà mai accettare una Ucraina nella Nato (sarebbe per lui un vulnus ben più grave di quello evitato nel sangue in Georgia), e vede nel rapporto di Kiev con l’Unione Europea il cavallo di Troia di una deriva in senso occidentale che rischia di mettere a rischio le sue esigenze di sicurezza. L’Europa, dal canto suo, non può rinunciare alla possibilità di offrire un ancoraggio democratico che corrisponde alle aspirazioni non solo della parte occidentale, ma di buona parte del Paese. Bisognerà trattare con Putin e rassicurarlo che non è necessaria la secessione della Crimea per garantire il libero accesso della flotta russa a Sebastopoli. Al tempo stesso, egli dovrà accettare di non opporsi a un più stretto legame con la Ue, cominciando dall’indispensabile supporto economico già saggiamente annunciato da Olli Rehn a Sydney. L’Ucraina ha bisogno di consolidare in tempi brevissimi la situazione interna, per mettersi nella condizione di avviare un simile negoziato che, una volta passate le elezioni di maggio, vedrà probabilmente in Yulia Tymoshenko il timoniere indispensabile. Sarà questo il modo per stabilizzare quella linea di confine all’interno di un faglia per altri versi destinata a restare aperta. Sarà un equilibrio fragile, esposto al rischio di continue strumentalizzazioni, ma si tratta anche dell’unica via d’uscita consentita dal contesto geopolitico dell’Europa.
Una breve notazione conclusiva italiana. La Ue ha parlato quasi esclusivamente attraverso la voce di Angela Merkel, con il controcanto francese e polacco. Che il fatto rispecchi i rapporti di forza al suo interno, e lo specifico interesse tedesco nell’area, è pacifico; il rapporto con Mosca e con Kiev è tuttavia strategico per l’Italia e, senza mettere in discussione percorsi annunciati che rispondono anche al nostro interesse, dovremmo cogliere l’occasione per una voce un po’ più assertiva nel reclamare una conduzione della politica estera comune dell’Unione più collegiale e meno «per delega».

La Stampa 24.2.14
“Al Sisi come Mubarak, abbatteremo anche lui”
Ahmed, protagonista del docufilm candidato all’Oscar
“Con i nostri video sul Web mostriamo il vero volto del regime”
di Giovanna Loccatelli


Voce rauca, volto sorridente, sguardo curioso. Si chiama Ahmed, ha 27 anni, è il protagonista di «The Square», il documentario egiziano nominato all’Oscar. «Vado sempre in giro con la macchina fotografica. La nostra rivoluzione non è finita qui». Secondo Ahmed, i video sono l’unico strumento per immortalare la verità nel Paese: «Le parole volano, le immagini restano. I soprusi della polizia, i cittadini colpiti a morte durante le manifestazioni, la ferocia dei militari: è tutto documentato. Sono 1600 ore solo quelle filmate nei giorni che hanno portato alle dimissioni di Mubarak». Al momento, sta lavorando a un progetto molto ambizioso: mettere insieme tutti i video girati dagli attivisti durante la Rivoluzione di tre anni fa: «Faremo un grande archivio per restituire la verità alle future generazioni. Nulla andrà perso».
L’incontro si svolge nel suo appartamento nel centro del Cairo, a due passi da piazza Tahrir. Qui si riunisce con gli amici attivisti per organizzare il lavoro e promuovere il documentario nel Paese. Premiato all’estero, non può essere proiettato in Egitto: «Sono in aperta battaglia contro la censura- spiega -. Gli egiziani hanno il diritto di vedere documentario. Per questo motivo, abbiamo organizzato una campagna in tutti governatorati del Paese. Lo proiettiamo negli uffici dei partiti rivoluzionari di sinistra, negli edifici delle organizzazioni non governative ma anche nelle case private». Poi si ferma, accende una sigaretta e conclude con un ghigno di soddisfazione: «La grande stanza che hai visto all’entrata, la utilizzo come sala cinematografica: in questo appartamento abbiamo fatto vedere “The Square” due volte».
Ahmed impiega tre ore tutti i giorni per girare i caffè del centro: «Stare in mezzo alla gente è il modo migliore per tastare gli umori della popolazione. E’ per questo che ti dico, con sicurezza, che la gente tornerà presto a riempire le piazze. Il popolo chiede nuovamente pane, libertà e giustizia sociale». E riguardo al futuro, azzarda un pronostico: «Al Sisi vincerà le prossime elezioni presidenziali e sono contento per questo. Così potremo cacciarlo, come abbiamo fatto con Mubarak nel 2011». Secondo il protagonista di «The Square», sarà la crisi economia ad affossare il prossimo regime: «La gente muore di fame. I cittadini non vogliono la “democrazia”, così come scrivete sulla stampa estera. Non non sappiamo bene cosa significhi veramente. Gli egiziani vogliono lavorare e poter mantenere la propria famiglia. Se viene a mancare il pane, mancherà anche la stabilità politica».
Gli altri due protagonisti del documentario si chiamano Khalid e Magdy. Il primo è un attivista, il secondo un membro della Fratellanza. Ahmed è molto preciso nel descrivere i diverse tipologie di attivismo in Egitto: «Io ho vissuto sempre per strada. Conosco così bene il popolo che sento, sulla mia pelle, i sentimenti che lo animano. Viceversa, Khalid - che adoro come un fratello - viene da un ambiente molto più istruito e colto del mio. Ha fatto l’università, anche il padre è un intellettuale. Ma abbiamo gli stessi obiettivi: combattiamo contro i regimi corrotti». Poi conclude: «Magdy è un mio amico ma non la pensiamo allo stesso modo: è stata proprio l’ambiguità politica dei Fratelli Musulmani ad aver rovinato la rivoluzione di tre anni».
È critico anche nei confronti della stampa nazionale: «Molti giornalisti lavorano per il regime. Spesso mi capita di incontrarli per strada: abbassano lo sguardo, non hanno neanche il coraggio di guardarmi negli occhi. La “sisimania” è divulgata nel Paese anche a causa della stampa corrotta». Di colpo prende il cellulare e mostra, compiaciuto, una frase - appena pubblicata sulla sua pagina Facebook - che recita: «Giornalisti, voi avete la penne e scrivete. Ma non aspettate l’approvazione del capo per raccontare i fatti».
Ahmed spiega che il giornalismo partecipativo, il citizen journalism, ha un ruolo: «Ho messo tanti video su YouTube. È un mezzo strategico per divulgare i filmati, dentro e fuori il Paese. Attraverso il materiale pubblicato su Facebook e Twitter, abbiamo pressato la stampa affinché scrivesse quello che stava succedendo realmente in piazza. Durante le manifestazioni si vedono tanti attivisti come me, con macchina da ripresa e cellulare, ma pochi giornalisti. Il nostro ruolo è indispensabile». Infine un monito al generale Al Sisi : «Noi rivoluzionari lo aspettiamo al varco. Il suo governo non durerà più di un anno».

Corriere 24.2.14
Palazzi, omicidi e Rolls Royce
La caduta dei «miliardari mafiosi»
Arrestato il tycoon Liu, espulsa dall’Assemblea la «deputata più bella»
di Guido Santevecchi


PECHINO — Liu Han era il n° 148 nella lista Forbes dei cinesi più ricchi, con una fortuna personale di 855 milioni di dollari. A 48 anni era alla guida di un impero che spaziava dall’energia solare alle miniere, dall’edilizia all’intrattenimento, 70 società con asset per 6,5 miliardi di dollari e partecipazioni in aziende minerarie in Australia e Stati Uniti. Nel Sichuan, la provincia famosa per i panda e i giacimenti di ferro, Liu Han era popolare, rispettato e temuto. Aveva una flotta di automobili (Rolls Royce, Bentley e Ferrari); ma era anche apprezzato per gli aiuti generosi ai sopravvissuti del terribile terremoto del 2008. «Sono anch’io un sopravvissuto», si era vantato nel 2010 con il Wall Street Journal : «Un concorrente ha cercato di farmi fuori con una bomba». Liu Han era scomparso dal marzo del 2013: ora è riemerso sui giornali cinesi che ne hanno annunciato l’incriminazione. Le accuse sono omicidio plurimo, corruzione di ufficiali di polizia e politici, costituzione di una banda armata. Negli uffici del suo gruppo sono stati trovati decine di mitra, pistole, bombe a mano. «Liu Han, il miliardario mafioso», è il titolo di un lungo articolo del Quotidiano del Popolo .
L’hanno arrestato assieme al fratello e a 33 suoi uomini che secondo l’inchiesta costituivano una gang colpevole dell’assassinio di nove concorrenti, sequestri di persona, ricatti, pestaggi. La procura della Repubblica ha passato ai giornali una quantità impressionante di dettagli: i membri dell’esercito privato del miliardario picchiavano i contadini che osavano protestare se la loro terra veniva venduta dalle autorità locali per progetti di sviluppo edilizio. E ai palazzinari rivali Liu amava dire: «Fatti da parte finirai i tuoi giorni in una colata di cemento». Pare che sei concorrenti riposino per sempre nelle fondamenta di qualche grattacielo del Sichuan. Altri tre furono ammazzati in una sparatoria nel 2009.
Il capo militare della banda era il fratello, Liu Wei, che nel 2008 si era anche tolto lo sfizio di fare il tedoforo durante la staffetta per portare la torcia olimpica ai Giochi di Pechino. Si sentivano intoccabili i fratelli Liu. E lo erano stati per molto tempo, dall’inizio degli anni Novanta. Ora gli investigatori dicono che Liu Han non avrebbe potuto agire per tanti anni se non avesse avuto «un ombrello protettivo» fornitogli dal potere politico locale, compensato con denaro e feste settimanali a base di droga. Il «miliardario mafioso» era anche stato cooptato nell’Assemblea consultiva del Sichuan, il parlamento provinciale. Il Quotidiano del Popolo commenta che questa ascesa «non sarebbe stata possibile senza l’assenso e la complicità di certi settori del partito, del governo e del potere giudiziario». «Smantellare la rete di Liu è stato facile, ma se non saranno snidati i suoi padrini politici altri prenderanno il suo posto», conclude un editoriale del giornale comunista.
Ma quali sono i «settori del partito» che sostenevano Liu? La stampa di Pechino non fa il nome, ma tutti gli indizi portano a Zhou Yongkang, ex membro del Comitato permanente del Politburo e fino al 2012 capo dei servizi di sicurezza di tutta la Cina. Zhou, 71 anni, ora in pensione, è scomparso da mesi, dicono che sia agli arresti domiciliari con la moglie, accusato di corruzione. Zhou aveva la sua base nel Sichuan e uno alla volta stanno finendo in carcere i suoi protetti, gente che era ai vertici delle società petrolifere statali.
Venerdì è caduta in disgrazia la signora Liu Yingxia, n° 46 nella lista delle cinesi più ricche: l’hanno espulsa dall’Assemblea politica consultiva del popolo di Pechino. A 42 anni, l’agenzia Xinhua l’aveva definita «la più bella deputata della Cina». I giornali ricordano che aveva fatto affari con China National Petroleum, il gigante petrolifero statale, presieduto fino al 2013 da Jiang Jiemin, arrestato per corruzione. Jiang era l’uomo di fiducia di Zhou Yongkang. Arresto improvviso anche per Liang Ke, capo della sicurezza della città di Pechino. E ieri è toccata al vicepresidente di PetroChina International, Shen Dingcheng. Stessa formula per dire che Shen era stato «segretario di un leader particolare». Il leader particolare era Zhou. Sono quattro i segretari di Zhou finiti in cella: rispolverato per loro il marchio d’infamia «banda dei quattro». Il presidente Xi Jinping sta facendo piazza pulita.

La Stampa 24.2.14
Londra trasforma Scientology in una religione
di Monica Perosino


Una «vittoria» trasmessa in streaming in tutto il mondo, per condividere in trenta minuti «uno storico matrimonio». Sembra una cerimonia come tante: damigelle, fiori, fotografo e invitati commossi. Sullo sfondo il refrain di «All you need is love». Ma quello di Louisa Hodkin e Alessandro Calcioli, 25enni di East Grinstead, Sussex, farà davvero storia, almeno in Gran Bretagna: è la prima coppia autorizzata a sposarsi in una Chiesa di Scientology, quella di Queen Victoria Street a Londra, dopo aver vinto una battaglia legale durata cinque anni. Dopo il divieto di un tribunale di celebrare cerimonie religiose sotto la croce a otto punte - il simbolo di Scientology - la Corte Suprema inglese ha stabilito invece che la cappella di Scientology era un «luogo di culto religioso», quindi anche di cerimonie. Così Louisa e Alessandro hanno avuto il loro matrimonio «storico». E non certo per la mise delle damigelle.
La sentenza della Corte è un precedente che segna una svolta: i giudici inglesi hanno stabilito per la prima volta che la definizione di religione non deve limitarsi a fedi che coinvolgono una «divinità suprema». Quindi Scientology è una religione e non una setta.
«Siamo lieti e orgogliosi che la nostra vittoria sancisca la fine di un’ingiustizia - ha commentato la sposina - non solo per gli Scientology, ma per le persone di tutte le fedi. La Corte suprema ha ora fornito una descrizione definitiva di ciò che una religione è che non esisteva prima nel diritto inglese». Fuori dai confini del Regno le cose sono ben diverse: Svizzera, Germania e Belgio definiscono Scientology come un «culto totalitario». La Francia un «culto pericoloso» e il Parlamento europeo la annovera tra le sette.

il Fatto 24.2.14
Israele, la vera pace viene prima della guerra
di Furio Colombo

Un libro breve e importante di Donatella Di Cesare cambia le carte in tavola sulla infinita e confusa “conversazione su Israele". L’autrice si domanda se il vasto, impetuoso fiume della storia, della vita, del Libro del popolo ebraico possano confluire nel contenitore dello Stato nazione, se la grande diaspora che si sparge nei secoli e nei luoghi possa diventare “lo Stato Ebraico”. E anche: “L’invenzione di una nuova politica richiede un ripensamento della pace. Ma quale parola è più abusata e logora, quale più irrisa e contestata?”. Il piccolo, intenso, libro (Donatella Di Cesare, Israele, terra, ritorno, anarchia, Bollati Boringhieri) è un saggio fondamentale, in questi anni, sul rapporto fra Europa politica, cultura occidentale, diaspora ebraica, Shoah e Stato di Israele. “Pur essendo ufficialmente riconosciuto, il nuovo cittadino del nuovo stato si guarda intorno e scopre di essere isolato”. Attraverso le voci di Sholem, Levinas, Buber (forse l’autore che fa più luce in questo libro) si accende un teso dialogo sul ritorno a Sion, “quel grande evento della Storia di cui non si riesce ancora a cogliere la portata”. Di Cesare nota due problemi. Il primo è che il dramma non è la sovrapposizione di popoli , ma il fatto che ognuno è stato agito da potere, governi e politica come materiali della storia degli altri (e contro gli altri). Il secondo è il giudizio di Annah Aarendt: “Il sionismo non deve essere inteso come un nazionalismo. Il popolo ebraico non può essere confinato nei limiti di una nazione”. In altre parole, Arendt rivendica la situazione apolide degli ebrei che hanno rifiutato un ruolo di appartenenza e obbedienza e di conseguenza non lo eserciteranno sugli altri. “Israele porta il dono della estraneità” concorda Di Cesare con Arendt. L’idea è che un’epoca nuova sarebbe sul punto di rivelarsi, in cui non è lo stato-nazione il contenitore ma è la convivenza fra comunità, perchè ogni stato-nazione è fondato sul vuoto. Domanda l'autrice: si può ridurre a nazione la vocazione profetica di Israele? E ricorda che la legislazione della Torà affronta il problema dello “straniero residente” e comanda: “Non angustiare lo straniero”. Ecco il carattere di questo libro. Cerca esclusivamente dentro la legge, la storia, la scrittura, la pratica dell’ebraismo. Lo fa al punto da tornare ai grandi utopisti come Gustav Landauer che hanno preceduto il socialismo scientifico di Marx e Engels, e anzi ne sono stati tenaci avversari. Ma vede qualcosa che non era mai stato visto. La Shoah, dice Di Cesare, divide per sempre e cambia il concetto di guerra. Nasce la libera caccia con mezzi ed efficacia militare alle popolazioni inermi e non combattenti, la caccia ai popoli, che un tempo erano vittime occasionali benchè immancabili e numerose. Dopo la Shoah le “vittime innocenti” sono il senso stesso della guerra. Allora si rovescia anche la definizione della pace, che non può essere la conclusione logica e attesa e civile della guerra, che in queste condizioni non può finire. La pace deve venire prima. Prima che la guerra ci sia. E in luogo della guerra.


Corriere 24.2.14
La rivoluzione ungherese e le reazioni degli Usa e del Pci
risponde Sergio Romano


Vorrei informarmi sulla rivoluzione ungherese del 1956. Quali conseguenze ha avuto per l’assetto geostrategico dell’epoca? Risponde a verità che Giorgio Napolitano ha votato allora una mozione a favore dell’intervento sovietico?
Marcello Sassoli

Caro Sassoli,
Alla sua prima domanda temo di dovere rispondere: nessuna. Quella degli ungheresi fu certamente una protesta popolare e democratica con la partecipazione di tutti i ceti sociali, ma l’avvenimento, in ultima analisi, fu trattato dalle potenze interessate con il più classico dei criteri: quello dell’equilibrio delle forze. L’Urss intervenne militarmente perché temette che la rivoluzione ungherese avrebbe contagiato gli altri Paesi del blocco sovietico e offerto al blocco occidentale l’occasione per estendere la propria influenza sino alle sue frontiere. Gli Stati Uniti e gli alleati della Nato capirono quale importanza Mosca attribuisse al controllo dell’Ungheria e non vollero rischiare un altro conflitto mondiale.
Aggiungo, caro Sassoli, che nell’autunno 1956, mentre si combatteva nelle strade di Budapest, gli americani si preparavano a votare nelle elezioni presidenziali. Eisenhower ottenne infine il rinnovo del mandato, ma prima del voto non poteva mettere in discussione la sua rielezione con mosse che una parte dell’elettorato avrebbe verosimilmente considerato azzardate. Il punto dolente dell’intera vicenda fu l’incoraggiamento alla lotta che gli insorti ungheresi credettero di vedere nelle reazioni indignate delle società occidentali e di molti uomini di governo dei Paesi della Nato. Questo spiega i sentimenti di rabbia e delusione che sono riemersi a Budapest in occasione delle celebrazioni per il cinquantenario nel 2006.
Le prime reazioni del Partito comunista italiano furono probabilmente ispirate dal convincimento che quella di Budapest fosse una controrivoluzione, magari finanziata dai servizi d’intelligence degli Stati Uniti. Più tardi, tuttavia, dovettero capire che i moti erano spontanei e che la partecipazione popolare era innegabile. Ammisero che la dirigenza ungherese aveva commesso molti errori, ma continuarono a difendere la politica dell’Urss nella convinzione che la coesistenza pacifica, avviata dopo l’avvento di Kruscev al potere, potesse venire preservata soltanto rispettando gli equilibri creati dalla Seconda guerra mondiale. A giudicare dalla sua polemica con Antonio Giolitti, fu questa, credo, la posizione di Giorgio Napolitano. Messo di fronte alla necessità di una scelta — con il partito o contro il partito — si ispirò probabilmente alla massima che è attribuita a un grande cardinale inglese, John Henry Newman, il sacerdote anglicano convertito al cattolicesimo nel 1845. Discorrendo degli errori della Chiesa romana, Newman avrebbe detto che è meglio sbagliare con la Chiesa piuttosto che avere ragione fuori della Chiesa.
Il graduale distacco di Napolitano dal Pci comincia più tardi, durante gli anni Settanta, e ricorda per molti aspetti, anche se con altro stile e in circostanze diverse, quello di Altiero Spinelli. Alla fine di questo percorso Napolitano non esitò a riconoscere in un libro autobiografico e in altre occasioni di avere commesso un errore. A Budapest, per il cinquantesimo anniversario dell’insurrezione, volle rendere omaggio alla tomba di Imre Nagy, l’uomo che aveva pagato la sconfitta con la vita.