giovedì 27 febbraio 2014

il Fatto 27.2.14
Innovazioni
Quel che Renzi non sa di Bobbio
di Maurizio Viroli


Matteo Renzi che l’editore Donzelli ha pubblicato nella nuova edizione di Destra e sinistra. Nessuno può arrogarsi il titolo di unico interprete autorizzato del suo pensiero, ma a mio giudizio le considerazioni di Renzi sono in parte una superficiale condanna di uno degli aspetti più attuali del pensiero di Bobbio, in parte un evidente travisamento della realtà storica, in parte un maldestro tentativo di appropriarsi della sua eredità ideale.
La condanna sta nelle poche parole che Renzi dedica all’azionismo di Bobbio: “Mi chiedo se oggi che la seduzione della ‘terza via’ – che pure nel socialismo liberale, nell’utopia azionista di Bobbio, ha trovato più che un riflesso – si è sublimata perdendo slancio, la coppia eguaglianza/diseguaglianza non riesca a riassorbire integralmente la distinzione destra/sinistra”.
Oscurità linguistiche a parte – non riesco a capire che cosa voglia dire che la seduzione, si badi, della terza via si è sublimata perdendo di slancio – Renzi qualifica come utopia l’ideale azionista che Bobbio ha seguito, e difeso tenacemente, per tutta la vita, fino agli ultimi anni. L’azionismo di Bobbio non aveva nulla di utopistico. Era piuttosto un modo di intendere l’azione politica come impegno coerente ispirato al rigoroso rispetto degli ideali etici di libertà e giustizia, e per questo era ed è la vera innovazione, la vera alternativa alla secolare corruzione italiana. Chi, come Renzi, si proclama banditore del cambiamento dovrebbe fare dell’azionismo di Bobbio, e dei suoi maestri e compagni, la sua bussola, non liquidarlo, in ossequio all’ideologia dominante.
IL TRAVISAMENTO è nell’affermazione che la sinistra cara a Bobbio, “quella socialdemocratica e anticomunista, ha insomma vinto la sua partita”. Bobbio non è mai stato nei confronti del Pci, anticomunista. Glielo hanno rimproverato tante volte. Ha discusso, polemizzato, dialogato con i comunisti italiani, e contribuito alla loro evoluzione in senso democratico, ma non è mai stato un loro nemico. Ancora nei suoi ultimi anni di vita si preoccupava del fatto che in Italia “si è passati dall’antifascismo all’anticomunismo” (Dialogo intorno alla repubblica, Laterza, 2001, pagg. 113).
La sinistra cara a Bobbio non ha affatto vinto per la semplice ragione che non ha mai avuto, nell’Italia repubblicana, un serio peso politico, ma soltanto una forza intellettuale.
Il maldestro tentativo di presentarsi come erede delle idee politiche di Bobbio è l’idea che la sinistra non debba più fondare la sua azione sulla coppia eguaglianza/diseguaglianza, ma su quella “innovazione/conservazione” o “movimento/stagnazione”. Missione precipua della sinistra, conclude Renzi, deve essere “accettare di vivere il costante movimento dei tempi presenti e accoglierlo come una benedizione e non come un intralcio”. Maldestro perché Bobbio ci ha insegnato che nella vita politica a volte ha ragione il conservatore rispetto all’innovatore, a volte ha ragione l’innovatore rispetto al conservatore. In merito alla riforma costituzionale, ad esempio, Bobbio aveva una posizione saggiamente conservatrice: “Non vedo, ha scritto, la necessità di una riforma costituzionale” e aggiungeva, nel 2001, che “attuare una riforma costituzionale con il Parlamento che c’è adesso è impensabile” (Dialogo intorno alla repubblica, pp. 110-111). Vedeva poi nella realtà italiana pericoli gravissimi, in particolare la nascita di Forza Italia, che giudicava “un partito eversivo” guidato da un demagogo e su questo problema si è sempre schierato invece con i progressisti.
DA BOBBIO Renzi avrebbe potuto trarre preziose lezioni di saggezza politica. In questo scritto non ha saputo farlo. Peccato per lui, e soprattutto per l’Italia. Se vorrà provare una seconda volta, consiglio di partire da questa frase: “I valori morali, cui va la mia preferenza, sono quelli dell’operare per la buona causa senza ambizioni, della coerenza e della intransigenza, della fermezza, della serietà, del disinteresse e dell’abnegazione, del rigore e dell’autodisciplina, dell’umiltà di fronte alla grandezza della storia e alla insufficienza del proprio compito. Senso tragico (che io chiamo volentieri religioso) della storia, e insieme rassegnazione e fedeltà” (Italia civile. Ritratti e testimonianze, prefazione).

l’Unità 27.2.14
Esplode il M5S: quattro espulsi tra gli insulti
La rabbia degli esclusi: «Peggio dei fascisti»
Dimissioni annunciate da altri parlamentari

di Rachele Gonnelli

L’empatia delle posizioni politiche, che è il motore del Movimento Cinque Stelle come non partito o partito liquidissimo, ha giocato contro, questa volta, le posizioni del dissenso interno. Non come sull’immigrazione, non come sul confronto con Renzi. Questa volta il web ha dato pollice su al leader Beppe Grillo e ha deciso a larga maggioranza (69% dei votanti, unici ammessi gli iscritti al Blog alla data del giugno 2013) a favore dell’espulsione dei quattro senatori dissidenti: Luis Orellana, Francesco Campanella, Lorenzo Battista, Francesco Bocchino.
Il risultato del referendum interno, organizzato proprio con un sì-no da dare in blocco sui quattro sotto giudizio, è stato comunicato in calce, scritto piccolo a corsivo, in un post finito in fondo all’homepage: «Hanno partecipato alla votazione 43.368 iscritti certificati. 29.883 hanno votato per ratificare la delibera di espulsione. 13.485 hanno votato contro». Ma la questione ha tenuto il fiato sospeso a tutto il mondo grillino, fino alle 19 di sera, e in parte anche all’intero mondo della politica. In ballo c’era in effetti - e forse c’è ancora - la possibilità di una scissione.
Di questo si trattava e lo stesso Francesco Campanella, il principale indiziato nientemeno che di «tradimento», ha ammesso, ripubblicando un post di qualche giorno fa, che la partita su cui era chiesto il voto di tutti gli attivisti era esiziale. «Ho idea di manifestare in chiaro il mio dissenso per svolgere il ruolo di catalizzatore di un movimentismo slegato da proprietari di marchio e megafoni ingombranti. Di gente che è su queste posizioni è piena l’Italia. Solo che non crede di poter andare da sola. C’è bisogno di qualcuno che ci mette la faccia, io me la sento. E non sono solo», aveva scritto lo scorso 19 febbraio. Ieri ha aggiunto: «Questo è ciò che penso (in genere per parlare di questa ipotesi estrema ho sempre parlato, scherzando, di Movimento 6 stelle), oggi lo penso ancora di più dopo il post, un po’ indecente, con cui Grillo ha annunciato la votazione sull’espulsione dei quattro senatori». «Basta per far partire la macchina del fango? Decidete voi», è stato il suo appello al no.
Cosa succederà adesso non è del tutto chiaro. Sicuramente Campanella ha ottenuto la solidarietà di una parte dei gruppi, sia alla Camera sia al Senato. Alla riunione congiunta a palazzo Madama, per la messa in stato d’accusa di fronte al tribunale del web, alla fine non tutti erano presenti. Anzi, alla votazione a porte chiuse pare fossero presenti circa una quindicina - su 50 - di senatori e una cinquantina - su 106 eletti e rimasti - di deputati. L’esito era scontato e persino voluto per andare al voto online della base ma restano nel day after le recriminazioni sul mancato rispetto delle regole del codice di condotta interno, che prevedeva prima una assemblea del gruppo del Senato. Proprio per il mancato rispetto delle regole, una parte dei dissidenti ora minaccia le dimissioni. In realtà questo esito - che è esattamente l’obiettivo di Grillo: rimpiazzarli - non è scontato. E comunque c’è da prendere in esame ciò che è successo ieri e nella notte. A partire dalla riunione notturna una serie di parlamentari ha infatti annunciato le dimissioni per protesta di fronte all’atteggiamento aggressivo del capogruppo di turno al Senato, Maurizio Santangelo, di Trapani. Tanto aggressivo da mandare alle lacrime un paio di colleghe tra cui Alessandra Bencini, portata a minacciare: «Gli avrei tirato la borsetta» (e c’è anche chi urla: «sono peggio dei fascisti »). Bencini e altri tre senatori si sono espressi in solidarietà con i quattro sotto accusa (gli altri sono Cristian Iannuzzi, Maurizio Romani, Laura Bignami) mentre il senatore Alessio Tacconi con un tweet oltre alla solidarietà ha aggiunto, lapidario: «Consideratemi in quinto».
I solidali però sono sembrati inizialmente molti più di una decina. Secondo quanto si è lasciato sfuggire il senatore Roberto Cotti - quello criticato da Grillo per aver recentemente commentato in tv il voto sardo -, contrario alle espulsioni anche se non d’accordo con le esternazioni dei quattro, sarebbero una trentina i parlamentari pronti a seguire i dissenzienti. Sempre a sentire Cotti, ora che sono fuori, i quattro alla fine decideranno di restare nel gruppo misto. Tacconi ieri sera parlando a ruota libera a La Zanzara ha annunciato: «Esco dal gruppo dei 5 Stelle alla Camera e con me ci sono altri cinque deputati», dando colpa al responso negativo alla gestione di Casaleggio e Grillo delle votazioni, per lui «poco trasparenti ». Battista e Orellana però hanno già annunciato le loro dimissioni per seguire chi li ha difesi. Ma lo stesso Battista ammette che «forse servirà fare un ragionamento tutti insieme». Orellana in serata a Sky si è limitato a ripetere le sue ragioni: «Per Grillo siamo solo pedine da manovrare. Uno vale uno? Grillo vale più degli altri e poi uno vale l'altro».
Il problema sarà come non deludere i molti che, come il deputato Bernini, hanno votato no all’espulsione, chiedono più democrazia interna e possibilità di dissenso, ma non hanno intenzione di seguire gli espulsi in un nuovo movimento.

il Sole 27.2.14
Grillini. La decisione dell'assemblea dei parlamentari confermata da un sondaggio web: via Orellana, Campanella, Battista e Bocchino
Espulsi i dissidenti, M5S nel caos
Altri sei senatori pronti a lasciare il gruppo per protesta - Grillo: saremo meno ma più uniti
di Andrea Marini


ROMA Turbolenze hanno attraversato il Movimento 5 Stelle fin dal suo ingresso in Parlamento. Ma ieri il contrasto tra dissidenti e fedeli alla linea Grillo-Casaleggio («tutti a casa», «no ad alleanze con i partiti») ha registrato un salto di qualità, che mette a rischio la tenuta del gruppo, e apre scenari su nuovi equilibri maggioranza-opposizione (soprattutto al Senato). Una decina di senatori, tra espulsi e non, hanno annunciato un gesto clamoroso: dimissioni dal Senato. Ma ci sarebbero anche i numeri per la creazione di un nuovo gruppo.
La giornata di ieri tra i grillini a Palazzo Madama è stata caratterizzata da urla, insulti, espulsioni, lacrime e dimissioni. Il movimento ieri è stato privato di quattro suoi componenti – i "dissidenti" Lorenzo Battista, Luis Orellana, Fabrizio Bocchino e Francesco Campanella, che avevano criticato l'atteggiamento di Grillo durante le consultazioni con Renzi – in seguito a un voto (29.883 sì, 13.485 no) degli attivisti sul blog di Grillo. Voto giunto dopo che nella nottata di martedì l'assemblea congiunta deputati-senatori M5S aveva deciso di proporre l'espulsione.
Ieri, mentre i militanti si pronunciavano, durante una riunione è finito sul banco degli imputati il capogruppo pro tempore Maurizio Santangelo, che ha proposto la procedura di espulsione direttamente all'assemblea congiunta, dribblando una riunione preventiva del gruppo di palazzo Madama, dove in molti sono critici contro i "dissidenti" ma la maggioranza per le espulsioni non ci sarebbe stata. La riunione si è sciolta in modo burrascoso, con Alessandra Bencini in lacrime che si lamentava di essere stata insultata; e nel pomeriggio si sono susseguiti gli annunci di dimissioni dalla carica di senatore di alcuni degli espulsi come Bocchino, Orellana e Battista e di almeno altri cinque "grillini": oltre alla Bencini, Maurizio Romani, Maria Mussini, Monica Casaletto e Laura Bignami. Ma altri, riferisce un senatore tra i meno schierati, ci stanno pensando, come Cristina De Pietro e Enrico Cappelletti. Poi a fine giornata Orellana ha annunciato: «Siamo in nove ad avere rassegnato le dimissioni e penso che rimarremo in nove».
«Ora ci sarà il gioco al massacro – ha raccontato una fonte interna al M5S – e l'inizio è stata la pubblica denuncia di Mario Giarrusso delle firme false apposte da Santangelo in calce alla proposta di sfiducia individuale per i due ministri» Poletti e Guidi: «Partiranno le carte bollate». L'ex comico ieri mattina ha cercato di orientarne il voto attribuendo ai quattro senatori posizioni che non risulta abbiano espresso: dicono «solo cazzate. Non sono più in sintonia con il Movimento: "fate alleanze ... perché non ha fatto alleanze con Letta ... perché non fate". Tutte persone - ha sostenuto Grillo - che sul palco quando c'ero io dicevano esattamente il contrario». Ci sarebbe anche la necessità di compattare il gruppo e preparare la campagna per le europee dietro la scelta di Grillo e Casaleggio di andare al redde rationem con i dissidenti: «Ora dobbiamo concentrarci sulle cose da fare perché – ha detto Grillo – c'è un importante appuntamento, quello delle europee. Non possiamo arrivarci con questi continui distinguo, con questo lavorio continuo in negativo che sfianca anche i più entusiasti».
I senatori 5 stelle, prima della bufera, erano in 50 (senza considerare i 4 già passati nei mesi scorsi al gruppo misto). Nonostante le dimissioni annunciate (che richiedono tempi lunghi per essere ratificate dall'Aula) c'è già chi parla della nascita di un possibile gruppo autonomo di ex grillini. Con annessi corteggiamenti: «È un vero peccato che il nuovo governo sia nato con la stessa maggioranza che sosteneva Letta – ha detto Pippo Civati (Pd) – c'è la possibilità che si costituisca un nuovo centrosinistra».
Alla Camera, dove i grillini sono 106, il fenomeno dei dissidenti è meno pronunciato. Eppure, ieri il deputato Alessio Tacconi alla Zanzara su Radio24 ha detto: «Esco dal gruppo dei 5 Stelle alla Camera e con me ci sono altri cinque deputati». E sul sistema di voto per cacciare i dissidenti ha aggiunto: «È in mano alla Casaleggio Associati e ci dobbiamo per forza fidare. Se fosse affidato a terzi sarebbe più trasparente, non lasciando spazio a dubbi»

Repubblica 27.2.14
Le espulsioni di Grillo decise in un clima da psico-setta
di Filippo Ceccarelli

c’è sempre qualcosa di superiore e assoluto, e infatti i risultati della consultazione si sono imposti immediatamente come un Giudizio di Dio, extra ecclesiam nulla salus, fuori dalla chiesa on line di Grillo e di Casaleggio non c’è salvezza per alcuno, quindi siano espulsi i senatori avidi, impuri, infedeli, e buona notte.
La Rete, come dire la divinità, ha deciso in questo modo. E adesso può anche suonare come un cervellotico collegamento, ma i grillini hanno una certa dimestichezza con le ordalie se è vero, com’è vero, che per selezionare i militanti da mettere in lista prima delle ultime elezioni misero in atto un particolare metodo - in pratica si trattava di un’intervista televisiva con domande molto toste e il rischio sostante di essere additati al pubblico ludibrio - che gli stessi organizzatori cinquestelle, magari anche per scherzo, comunque designarono: «La graticola ».
Nel medioevo l’ordalia cosiddetta «del fuoco» aveva diverse varianti, tutte visibili in antiche pitture (non di rado riadattate nei siti sadomaso): passeggiate sui carboni ardenti, consegna di ferri incandescenti, collocamento di corpi su vere e proprie griglie a pochi centimetri dalle braci. In tempi di riemersioni arcaiche in chiave tecnologica la ricerca della purezza era affidata alle fiamme che alimentano il sistema mediatico. Ma qualcosa, in quel metodo purificatorio e in quelle filtratissime liste, deve aver fatto evidentemente cilecca.
Senza considerare Tavolazzi, infatti, e Favia e la Federica Salsi, che si sentì rinfacciare nientemeno che il punto G per essere andata a Ballarò, in meno di un anno, cacciati o dimessi, da Palazzo Madama e da Montecitorio hanno abbandonato la retta via: Adele Gambaro, Marino Mastrangeli, Fabiola Anitori, Paola Da Pin, Vincenza Labriola, Alessandro Furnari, Adriano Zaccagnini e adessoi Quattro Senatori e domani magari altri sei.
Dinanzi a tutti questi casi pare francamente esagerato evocare, come pure è stato fatto, il fascismo, la Gestapo e il Politburo; così come non porta a molto mettere a confronto le varie ormai quasi seriali purghe grilline e quelle che hanno segnato più o meno gloriosamente la Prima e la Seconda Repubblica: Melloni (il futuro Fortebraccio) e Bartezzaghi espulsi dalla Dc l’opposizione alla Ced, o i tanti comunisti radiati dopo l’invasione dell’Ungheria e per l’eresia del «Manifesto»; o ancora i rautiani usciti dal Msi, i dissidenti anti-Craxi sbattuti fuori dal Psi, i radicali ostili a Pannella, e via, dissidenza dopo dissidenza, affannosamente arrivando al Fini di «che fai, mi cacci?».
L’universo cinquestelle davvero non c’entra nulla, e non solo perché costituitosi nel tempo evoluto e selvaggio della post-politica, ma perché quanto a democrazia gli odierni partiti lasciano molto a desiderare, né s’intravede a destra come a sinistra chi davvero sia disposto a considerare il dissenso come una ricchezza, e a non disprezzare perciò gli eventuali dissidenti come delle nullità («Fassina chi?») o dei traditori (vedi Alfano per i falchi berlusconiani).
Sembra piuttosto, il movimento di Grillo & Casaleggio, da osservarsi nelle sue dinamiche con categorie poco legate alle culture ideologiche e politiche del secolo scorso. Se veramente la tecnologia ha cominciato a mettere in crisi la nozione di rappresentanza; e se la Rete ha spossessato la politica di tutti gli utensili della modernità, a cominciare dalle istituzioni, ecco, è possibile che il modo fin troppo brutale con cui il M5S si affanna a risolvere le sue inevitabili beghe, non sia che una specie di anticipazione del futuro remoto.
Certo colpiscono i processi, le lacrime, lo psicodramma permanente, il manicheismo, il messianismo, il fideismo digitale, e poi anche i richiami alla fedeltà, gli anatemi, le scomuniche, l’eventuale lavacro delle colpe, la chiamata a vigilare su complotti e infiltrati. Tutto questo, per dirla chiara, sa di religione, o di setta, tra Scientology (che pure l’anno scorso ha protestato per essere stata accomunata al M5S) e una delle mille comunità esoteriche di cui lo studioso Massimo Introvigne produce interessanti repertori.
Il dispotismo, in altre parole, è nella forza delle cose; la democrazia, come la si è intesa finora, un vago ricordo. Più che i manuali di scienza politica per orientarsi nelle traversie grilline servirebbero Orwell e Foucault, oppure un romanzo in chiave come quello che lo scorso anno ha scritto Vincenzo Latronico, «La mentalità dell’alveare » (Bompiani), dove il MoVimento si configura come una sorta di Inquisizione 2.0 rispetto a cui inquisitori e inquisiti si scambiano i ruoli nell’illusione di essere liberi di sceglierseli, e c’è chi vota contro le sue stesse proposte, e chi ritiene giusto essere fatto fuori.
Dalla vecchia società disciplinare alla nuova società del controllo diffuso, inedita struttura di dominio all’altezza dei tempi. Ma forse si è andati troppo lontani, e magari da oggi, con buona pace di Grillo & Casaleggio, il governo Renzi ha solo una mezza dozzina di voti in più - cosa abbastanza irrilevante considerata la pregressa graticola.

La Stampa 27.2.14
Civati apre la porta ai fuoriusciti “C’è spazio per fare un gruppo”
Uno dei transfughi M5S ammette: “Se Pippo avesse più coraggio, saremmo già con lui in un nuovo soggetto politico”
di Andrea Malaguti

qui

La Stampa 26.2.14
Direzione Pd ad alta tensione
Civati valuta gruppo autonomo
“Pronto il simbolo del Nuovo centrosinistra”
L’ipotesi scissione
qui

il Fatto 27.2.14
Pippo Civati Il Democratico “incerto”
“Come fa Gianni a lamentarsi ora?”
intervista di Antonello Caporale


Pippo Civati è un rompiballe professionista. A volte eccede con la sua vitalità.
“Pensi quale nebbia avvolgerebbe il Pd se anche io tacessi sulle consorterie, le piccole ambizioni personali, le fregature e gli errori che il mio partito fa”.
Ha detto no a Renzi in direzione, però sì al voto di fiducia e poi è sembrato ricredersi ancora. Siamo a un surplus di riflessione.
Ho parlato contro solo io nel luogo deputato, il partito, e ho fatto il mio dovere. Sono stato mandato in minoranza e non mi era concesso da parlamentare del Pd negare la fiducia. Ho poi spiegato quel che si muove a sinistra del Pd, e che il partito non vuole vedere. Fa il finto tonto pur di stare con Alfano.
È notizia di oggi: la compagine che si allontana da Grillo insieme ai suoi e a Sel potrebbe formare un gruppo parlamentare autonomo.
La questione centrale è un’altra: ci sono i numeri per avanzare la richiesta di un governo di centrosinistra, ma il Pd sceglie di fare un esecutivo di centrodestra. Troveremo il modo opportuno per organizzarci.
Se fa il gruppo autonomo è fuori dal Pd.
Ma no! Dobbiamo solo trovare il modo che questa risorsa politica, questo serbatoio sia linfa vitale per la sinistra e interlocutore prezioso per il Partito democratico. Magari si può pensare a una rete, a una colleganza diversa. Quel che non si deve fare è tacere questa grande opportunità.
Ha votato Renzi piangendo.
Cos’altro dovevo fare? Se però in direzione si fosse opposto anche Cuperlo, invece di spingerlo a Palazzo Chigi, credo che Renzi non avrebbe tolto di mezzo Letta. Noto che Gianni ora parla di una ferita aperta. Se ne accorge solo adesso?
Cosa gli è successo, secondo lei?
Si sono incartati, si sono auto ingabbiati . Chi lo ha fatto per ignavia, chi pensando al seggio, chi per ambizione, ritenendo che mandando Renzi a Palazzo Chigi avrebbe trovato un partito disabitato, chi invece ha pensato a una poltrona da ministro nel nuovo esecutivo. Faccia la somma di questi atteggiamenti e metta poi che dalla trincea nella quale Letta era riparato riceveva consigli da amici poco sinceri che invece di aiutarlo lo avrebbero condotto sulla strada dell’immobilismo, del suicidio. Aggiunga infine che negli ultimi mesi Letta è andato nel pallone e vede che si ritrova coi conti.
Quanti traditori.
L'incredibile è che Renzi si piglia il governo coi voti di Bersani ma coopta le truppe di Franceschini.
Frankenstein, l’ha definito.
L’ho chiamato così per sfotterlo. Ma certo il suo è stato un protagonismo opaco. In politica il ravvedimento è comunque pratica comune e conosciuta. Devo dirle che neanche i dalemiani (non tutti) mi sembrano determinati alla lotta, quindi comprende che gli spazi di manovra per il nuovo premier sono ampi.
Durerà?
Penso fino al prossimo anno. Le elezioni sono nelle cose, il suo programma adesso è piuttosto taciuto. Capisco che non voglia impegnarsi troppo su un singolo tema, sennò finisce come con l’Italicum: a giorni alterni diviene legge dello Stato o tema da approfondire, testo pronto per l’uso o disciplina al di là da venire. Si tiene cauto.
Le ha persino nominato ministro una dirigente della sua area.
Solo allo scopo di sfregiarmi. Ritenendomi residuale, ha voluto procurare un dissidio interno, mettermi in difficoltà. Anche questa è politica.
Vada a confortare i grillini fuoriusciti.
Ci avessero pensato prima!

Civati: «È un peccato che il nuovo governo sia nato con la stessa maggioranza che sosteneva Letta, perché c'è la possibilità che si costituisca un nuovo centro sinistra»
l’Unità 27.2.14
Pd, è alta tensione sui nuovi incarichi
L’ipotesi che Renzi affidi a Serracchiani il ruolo di portavoce del partito agita non solo la minoranza
Civati lavora a «un nuovo centrosinistra» E Mineo ai fuoriusciti M5S: «Disposti a fare insieme un gruppo»
di Maria Zegarelli


«Se Matteo affida il ruolo di portavoce della segreteria alla governatrice Debora Serracchiani faccia pure. Ma lo dica che vuole dare il partito in mano a Dario Franceschini, dopo aver già dato tre ministeri ad Areadem». Il giudizio duro arriva direttamente dal cerchio dei renziani, condiviso da un bersaniano e diversi lettiani (per i quali Franceschini resta «innominabile»).
L’umore non è esattamente alle stelle mentre si sta giocando la partita delicatissima dei sottosegretari e viceministri con il manuale Cencelli sulla scrivania per cercare di tenere insieme equilibri interni al partito e alla coalizione stessa, mentre dal Senato i civatiani, come Corradino Mineo si dicono pronti a formare un gruppo con i grillini dissidenti. Tante le partite aperte e qualche certezza: è a Lorenzo Guerini che il segretario- premier intende affidare il ruolo di coordinatore della segreteria e responsabile Organizzazione. Ancora incerto il nome di chi ricoprirà il ruolo di portavoce, ritenuto centrale da Renzi anche in vista della campagna elettorale per le europee. I nomi su cui si ragiona sono quello di Simona Bonafé, ex amministratrice, chilometri in giro per l’Italia quando si tratta di lavorare per Renzi, sgobbona in X Commissione alla Camera, spesso presente nei talk show, come Matteo Richetti, d’altra parte, amministratore rodato, spigliato in televisione ma concreto in Commissione Affari istituzionali. Sempre che non siano assegnati come sottosegretari. Infine, Debora Serracchiani, miss preferenze da sempre, l’unica che è riuscita a prendere più voti di Silvio Berlusconi nella regione che oggi governa, il Friuli, se dovesse assumere anche l’incarico di portavoce rischierebbe di dover fare più che altro la testimonial, considerato che è anche membro della segreteria. Un altro messaggio chiaro che Renzi ha dato ai suoi fedelissimi è stato quello di lavorare per allargare la segreteria alla minoranza, ma su questo fronte Gianni Cuperlo intende porre prima un’altra questione: «Il problema è capire prima di tutto che partito abbiamo in mente. Per il resto aspetto di ascoltare quali proposte Renzi avanzerà il direzione».
E se nella sua stessa minoranza, tra i bersananiani, c’è chi critica la sua leadership, c’è invece chi, come Alfredo D’Attorre, coordinatore di Fare il Pd, che spiega: «Non c’è nessuna sfiducia nei confronti di Cuperlo di cui riconosciamo, anzi, pienamente il lavoro fatte durante e dopo il congresso. A proposito del governo, stiamo ragionando sulle competenze e sul lavoro svolto da diversi membri dell’esecutivo Letta e non sulle quote di corrente». Ieri sera Cuperlo si è incontrato con Roberto Speranza e Guglielmo Epifani per fare il punto. «Dei sottosegretari se ne occupa il governo, non io», dice Cuperlo. I nomi che la minoranza ha proposto a Guerini e Lotti sono quelli di Legnini, Bubbico, Fadda, Amici, Guerra e Beretta. Quanto al partito, D’Attorre sostiene che «il tema adesso è capire come si affronta il passaggio della legge elettorale, quali sono le priorità del governo, che rapporto ci deve essere tra partito e governo. Si parte da qui e non dal riempire i vuoti della segreteria». Il rapporto con Cuperlo? «Con lui - risponde - si affronterà la discussione su questa nuova fase politica che segna in maniera definitiva la chiusura del congresso».
Altra storia quella di Pippo Civati. «Io adesso penso ad una possibile collaborazione tra una parte del gruppo Pd e le altre forze politiche, i dissidenti M5s e Sel. Se non sarà un nuovo gruppo – dice almeno sia un’area politica». Il logo del Nuovo Centro sinistra, da contrapporre al Ncd? «È una provocazione», dice, ma forse anche no. Corradino Mineo è esplicito: «Da tempo alcuni di noi dialogano con questi senatori di cui abbiamo assoluto rispetto». E va oltre: «Se questi senatori hanno bisogno di un aiuto a formare un gruppo autonomo noi siamo assolutamente disposti a farlo, non abbiamo nessun problema». Lui, come Walter Tocci, aggiunge Mineo. Dal punto di vista di Civati questo potrebbe essere anche un segnale ad Angelino Alfano: se si forma un gruppo consistente allora Ncd dovrà stare molto attenta a piazzare paletti. «È un peccato che il nuovo governo sia nato con la stessa maggioranza che sosteneva Letta, perché c'è la possibilità che si costituisca un nuovo centro sinistra - scrive infatti Civati, sul suo blog -. Può sembrare paradossale, ma con tutto il giovanilismo che si respira in questi giorni è il Senato a essere attraversato dai cambiamenti più forti». Ma nel Pd i mal di pancia non si possono ascrivere soltanto ai civatiani. Miguel Gotor, bersaniano, non è stato meno tenero. Ha votato la fiducia per disciplina di partito e lo ha detto chiaramente. Altri sono stati meno espliciti ma il poco calore con cui hanno accolto i due discorsi del premier alle Camere. Renzi lo sa, per questo preferisce parlare agli italiani, che invece, come dimostrano i sondaggi, lo hanno apprezzato e hanno fiducia più in lui che nel suo governo. Per un Parlamento più amico, quello che Renzi immagina con una sola Camera elettiva, il premier è pronto ad aspettare il secondo giro. Cerca di sminuire le tensioni il renziano Andrea Marcucci: «La dialettica è un valore, ma nel Pd poi si decide. Non preoccupano le interviste critiche di qualche collega, l'importante è che i gruppi parlamentari siano uniti come durante la fiducia».

il Sole 27.2.14
Il partito. Nardella saluta l'ingresso nella famiglia socialista europea: «Portiamo la nostra carica innovativa»
Pd in agitazione tra Pse e logo di Civati
di Em. Pa.


ROMA Bipolarista in Italia, se l'operazione Italicum andrà davvero in porto nelle prossime settimane, e bipolarista in Europa. E tra la famiglie europee dei popolari e dei socialisti Matteo Renzi non ha incertezze: da tempo ha schierato il suo Pd con il Pse chiedendo formalmente l'ammissione il 19 febbraio scorso. Oggi una direzione del Pd che si terrà insolitamente nell'auletta dei gruppi della Camera, e forse non sarà trasmessa in streaming, voterà appunto il sì all'ingresso nel Pse. Toccherà dunque all'ex popolare Renzi traghettare il Pd nella famiglia socialista europea, riuscendo in un'impresa che non era riuscita al fondatore ex comunista Walter Veltroni. Il Pse – che si riunirà a congresso a Roma nel week end per lanciare la candidatura di Martin Schultz alla presidenza della Commissione Ue – cambierà anche nome per accogliere i cugini italiani: nel logo, sotto la scritta Pse ci sarà anche la dicitura "Socialists & Democrats". Le resistenze degli ex Ppi ci sono ancora ma molta acqua è passata sotto i ponti dal 2007 e il voto di oggi della direzione non riserverà soprese, anche se il combattivo Beppe Fioroni farà la sua testimonianza («dirò la mia»).
Renzi come il conservatore Nixon che chiuse la guerra in Vietnam, dunque? «In un certo senso questo annoso problema poteva essere risolto solo da chi ha una visione post ideologica della politica – ragiona Dario Nardella, che proprio ieri ha annunciato le sue dimissioni da deputato Pd per succedere a Renzi come sindaco di Firenze e che nei mesi scorsi ha lungamento lavorato al dossier Pse –. Ma va detto che non si tratta di un'adesione al vecchio Pse. Il fatto che il Pse diventa il partito "dei socialisti e dei democratici" testimonia il fatto che il nostro ingresso innova profondamente la famiglia socialista europea, che diventa in questo modo l'unico antidoto ai populismi crescenti».
Malumori di Fioroni a parte, proprio quando Renzi fa una cosa "di sinistra" come l'ingresso nel Pse, alla sinistra del Pd si registrano le maggiori fibrillazioni. Se molti – da Stefano Fassina e Miguel Gotor – hanno votato la fiducia al governo Renzi con molte riserve e «per disciplina di partito», c'è anche chi già pensa a nuovi loghi. Pippo Civati, che comunque il suo sì al governo lo ha dato, gira a Montecitorio con il simbolo di un Nuovo centrosinistra sulla falsariga del Nuovo centrodestra di Alfano: «Il simbolo è pronto, ma è una provocazione – spiega Civati –. Ncd ha un simbolo che è un quadrato azzurro, e noi facciamo un simbolo che è un bollino rosso». Nessuna scissione dal Pd sembra dunque essere in vista. Piuttosto Civati pensa a «una Rete» o addirittura «un gruppo parlamentare» in cui far confluire i 4 senatori già espulsi dal M5S più altri dati in uscita (6? 10?), i 7 senatori di Sel e i 6 civatiani. «Con il sì alla fiducia io ho confermato che voglio restare nel Pd – dice –. Ma in Senato il governo un problema ce lo ha o no? Come lo risolviamo?». Insomma, per ora una sorta di progetto per una stampella di sinistra al governo, in posizione di «coscienza critica», che potrebbe addirittura tornare utile a Renzi. Il premier e segretario del Pd incassa intanto le parole di appoggio di Massimo D'Alema: «Il governo di Enrico Letta incontrava diverse difficoltà – dice D'Alema a "8 e mezzo" –. Letta ha temporeggiato troppo e Renzi ha realizzato il suo obiettivo. Ma questo governo ha una missione, ossia realizzare alcune riforme, spero e cercherò di aiutarlo a realizzarle». E ancora, dopo aver lodato la scelta di Pier Carlo Padoan all'Economia: «Il Pd non può permettersi polemiche retrospettive. Questo governo ha la missione delle riforme e ora sento solo il dovere di dare una mano a Renzi».

Corriere 27.2.14
I malumori della minoranza pd
D’Alema frena: diamo una mano
Civati va avanti con il Nuovo centrosinistra: voglio risposte
di M. Gu.


ROMA — «Dissi prima che Renzi si candidava per fare del Pd il trampolino per Palazzo Chigi...». Massimo D’Alema è tra coloro che provarono a stoppare il treno del sindaco quando era ancora fermo alla stazione di Firenze. Ma poiché la mission è fallita e Matteo è diventato premier, l’ex capo del governo sente «il dovere di dargli una mano». Anche se in testa aveva «un altro partito e un’altra forma di leadership».
Lo stato d’animo di D’Alema racconta gli umori della sinistra bersaniana, dei lettiani e di quanti hanno accolto con malcelato disagio il debutto del premier. Ma se Renzi non dovesse farcela il Paese ne uscirebbe a pezzi e così il Pd. Ecco perché, il giorno dopo la fiducia, a Montecitorio anche i meno simpatizzanti si sforzano di smussare gli spigoli dei ragionamenti. E se due giorni fa c’era chi, forte del ritorno di Pier Luigi Bersani, si spingeva fino a evocare il congresso, ora (con le seggiole di sottogoverno ancora da assegnare) il tema esplosivo del doppio incarico viene maneggiato con cautela.
Lo spiega il bersaniano Alfredo D’Attorre: «Il problema dell’uomo solo al comando? Esiste. Ma Renzi resterà segretario. Abbiamo provato a cambiare lo statuto però ha prevalso un’altra linea, abbiamo scelto un leader che ci fa vincere». Giusto un anno fa, il 25 febbraio, Bersani fallì il bersaglio delle elezioni e ora D’Attorre la mette così: «Pier Luigi torna a dà una mano alla ditta». Alla ditta, o a Renzi? «Dare una mano a Renzi vuol dire darla alla ditta». Le ferite del congresso (e della staffetta) fanno ancora male e per chiuderle servirà tempo.
Matteo Orfini chiede la gestione collegiale del partito e sprona Renzi ad «aggiustare la filiera economica», dalla Guidi a Paoletti. Davide Zoggia assicura che la minoranza «non vuole boicottare», ma ricorda che il premier non può investire solo sul governo: «Il Pd è una risorsa che non può essere annientata». E D’Alema, in tv da Lilli Gruber, si toglie un’altra pietruzza dalle scarpe: «Se invece di trattare con Berlusconi alla luce del sole mi fossi visto con Verdini, forse avrei avuto più consenso...». Allusione agrodolce alla Bicamerale. Renzi ha detto più volte «no» alla sua candidatura per le Europee, ma D’Alema non ha rinunciato: «Deciderà il partito».
Oggi alla Camera il premier-segretario chiederà alla direzione del Pd di votare l’adesione al Pse, che domani sarà a congresso a Roma. La vittoria di Renzi è scontata. Beppe Fioroni voterà no, in orgogliosa solitudine: «Noi Popolari abbiamo chiuso il vecchio partito con l’impegno di non morire socialdemocratici, ma di vivere da democratici». Pippo Civati ha votato la fiducia e nega volontà scissioniste, ma intanto lavora alla formazione di un gruppo (o di una «rete») a Palazzo Madama con sette grillini, sette di Sel e sei democratici di rito civatiano. L’embrione del Nuovo centrosinistra? Il simbolo c’è già. «Un bollino rosso, ma è una provocazione — giura Civati —. Io voglio restare nel Pd, però Renzi al Senato ha un problema politico». Un altro è il nuovo organigramma. L’ipotesi di un vicesegretario che affianchi Renzi prende quota e si rafforza l’idea di nominare un coordinatore unico da scegliere tra Lorenzo Guerini, Simona Bonafé, Matteo Richetti e Debora Serracchiani.

Repubblica 27.2.14
Il piano per far nascere un’altra maggioranza
La scissione dei dissidenti pronti i gruppi autonomi “Possiamo sostituire l’Ncd”
L’ipotesi dell’appoggio a Renzi: “ Siamo 23”
di Tommaso Ciriaco


PIÙ che una scissione, una slavina. Un bollettino di guerra con numeri da brivido. Almeno dieci senatori sbattono la porta in faccia a Beppe Grillo, altri cinque sono pronti all’addio. Un magma per ora indistinto, informe, caotico. Pronto però, nelle prossime settimane, a strutturarsi in gruppo assieme a Sel e civatiani.
CON un sogno che prova a farsi progetto politico: sostituire il Ncd di Alfano, dando vita a una diversa maggioranza di governo. Pippo Civati, per dire, già si lecca i baffi: «L’area del nuovo centrosinistra è a quota 23 senatori». E come se non bastasse, anche alla Camera una manciata di deputati lavora a una mini fronda.
Piangono tutti, nel giorno più amaro della giovane storia grillina. Oppure urlano e si insultano, mentre il Movimento cinque stelle va in frantumi. Il capogruppo Vincenzo Santangelo punta il dito contro l’eretico Lorenzo Battista: «Esci da questa stanza!». Tutto si compie in una sala riunioni di palazzo Madama, mentre la Rete ratifica l’espulsione dei quattro parlamentari messi all’indice dal Fondatore. «Venduti - si sgolano i falchi - serpi in seno». «Neanche i fascisti si comportano così», ribatte una dissidente in lacrime. È ormai l’ora di una scissione covata per mesi, annunciata sulla stampa, negata con una buona dose di sarcasmo dai guardiani dell’ortodossia pentastellata. «Una ferita si è aperta ai tempi dell’elezione di Grasso - allarga le braccia Nicola Morra - e mai è stata suturata».
Nel quartier generale grillino tutto ha il sapore amaro del processo trasmesso in streaming. Il comico genovese, a metà pomeriggio, contatta una senatrice: «Mi dispiace, ma è una cosa che andava fatta in vista delle Europee. Non possiamo permetterci errori». «È stata l’uccisione della democrazia», si infuria Laura Bignami. Dall’alba al tramonto tutti attendono solo che si consumi il passaggio più scontato, il sigillo degli attivisti sulla cacciata. Quel che gli ortodossi non hanno previsto, però, è la reazione furiosa dell’ala dialogante. Almeno cinque - Romani, Bencini, Mussini, Casaletto, Bignami si dimettono per solidarizzare con gli espulsi. Altri due sono pronti ad aggregarsi. Una è Michela Montevecchi. L’altra Cristina De Pietro. Sconsolata, trattiene a stento il pianto: «Le dimissioni? Sto troppo male, ci sto pensando. Non possiamo farefinta che non sia successo nulla».
Al Senato i numeri rischiano di spaventare anche il gelido Gianroberto Casaleggio. «È come un domino», profetizza Bignami. «Non è finita», giura Battista. Il malessere accomuna anche Francesco Molinari, Elena Fattori e Roberto Cotti. «Restiamo nel Movimento», assicurano però a sera. La contabilità è comunque dalla parte dei dissidenti. Quattro espulsi, quattro ex grillini che militano da mesi nel Misto, cinque dimissionari (che l’Aula con ogni probabilità obbligherà a restare in Parlamento): tredici in tutto, sufficienti per dare vita da soli a un nuovo gruppo. Ma c’è chi lavora a un progetto più ambizioso.
Nessuno è disposto a votare la fiducia a questo governo Renzi, sia chiaro. Di fronte a un altro scenario, però, tutto diventa possibile. Luis Orellana l’ha spiegato in mille occasioni: «Soffro a non mettermi in gioco». Nel Misto, poi, lavorano dall’inizio della legislatura sette senatori di Sel. Un matrimonio con i dissidenti grillini compenserebbe almeno sulla carta - il Nuovo centrodestra di Alfano. «Non credo che il premier pensi a un’altra maggioranza - frena la capogruppo vendoliana Loredana De Petris - Noi comunque non siamo interessati a sostenere questo governo. Altro sarebbe se Renzi annunciasse una nuova maggioranza e un nuovo esecutivo, ma non c’è nulla di concreto ».
E invece tra i civatiani c’è chi la pensa in un altro modo. Walter Tocci è sempre in bilico, vicino all’addio. Corradino Mineo immagina di lavorare al fianco dei grillini, senza rompere con il Pd: «Se serve, possiamo aiutarli a costruire un gruppo». Civati, poi, è ancora più esplicito. E immagina una sorta di sottogruppo: «C’è un’area di centrosinistra che si sta articolando, Un nuovo centrosinistra, inteso come rete di relazioni politiche. I numeri sono simili a quelli del Ncd. Ora apriamo un cantiere, lavoriamo insieme sui temi e vediamo cosa succede».
Prima, però, devono consumarsi nuovi e più traumatici passaggi. Alla Camera, dove i numeri della maggioranza sono meno incerti che al Senato, lo strappo di Alessio Tacconi è la scintilla capace di accendere un’altra mini scissione. Con un piede fuori dalla porta c’è Tancredi Turco. Come lui, anche Tommaso Currò e Ivan Catalano sembrano rassegnati all’addio. E poi Marta Grande, Gessica Rostellato, Paola Pinna, Walter Rizzetto e Aris Prodani vivono con crescente malessere la battaglia che lacera il Movimento.
Gli espulsi del Senato, fra l’altro, potrebbero presto strutturarsi anche sul territorio. Così, almeno, ipotizza un avversario interno come Riccardo Nuti: «Campanella ci dica se è vero questo simbolo: Movimenti attivisti liberi». Il senatore nega sdegnato, ma certo la partita è lontana dal fischio finale. In fondo, è quanto profetizza anche Battista: «Cosa succede adesso? Chiedetelo al grande Fondatore...».

il Fatto 27.2.14
Rischio “staffetta”
Sondaggi, Matteo già col fiatone mentre il Pd rischia di affondare
di Tommaso Rodano


I numeri cambiano, la sostanza rimane la stessa. Per i sondaggisti Matteo Renzi rischia tantissimo (e questo si sapeva). La notizia è che la sua ambizione avrebbe già mietuto la prima vittima: il Partito democratico. La fiducia nel nuovo presidente del Consiglio rimane su livelli accettabili (anche se non trascendentali), mentre le percentuali del Pd nei giorni della nascita del governo sono calate in maniera sensibile.
ANTONIO NOTO, direttore di Irp Marketing, ha in mano i numeri freschi dell’ultimo sondaggio, realizzato dopo i due discorsi di Renzi a Montecitorio e Palazzo Madama. “Esattamente un italiano su due ha fiducia nel nuovo capo del governo. Renzi piace al 50 per cento degli intervistati. È un risultato discreto, non eccezionale: Letta era attorno al 48, mentre Monti, Berlusconi e Prodi all’inizio avevano un consenso personale più alto, tra il 54 e il 58 per cento”.
Roberto Weber, sondaggista di SWG, commenta numeri simili, leggermente più lusinghieri per il presidente del Consiglio. Il gradimento personale di Renzi sarebbe attorno al 52 per cento, ma l’ultimo campione risale alla scorsa settimana, prima della presentazione della squadra di governo: per conoscere gli effetti dei primi discorsi del rottamatore in Parlamento bisogna aspettare ancora qualche giorno.
Su un dato i due sondaggisti non hanno nessun dubbio: gli elettori del Partito democratico sono disorientati. La “staffetta” tra Letta e Renzi non è stata capita. E se è stata capita, non è stata apprezzata. Secondo Irp, la settimana in cui la direzione del Pd ha sancito il passaggio di consegne a Palazzo Chigi, il partito ha subìto un’immediata diminuzione dei consensi, di circa due punti e mezzo. “Un fenomeno di questa entità in così poco tempo è rarissimo – spiega Noto –. La ‘staffetta’ è stata vissuta come un evento traumatico. Dopo le primarie di Renzi il Pd era stabilmente sopra il 30 per cento. Prima del colpo di mano al governo era al 32. Dopo la fiducia è sceso al 29,3”. Weber riconosce la stessa tendenza, attenuandone un po’ le proporzioni: “Il Pd ha perso circa un punto e mezzo. Alle Europee rischia molto. I voti in uscita vanno divisi tra M5s, indecisi e Lista Tsipras. L’investimento personale su Renzi invece rimane alto: la sua figura prevale sui contenutio”.
ANCHE SECONDO Alessandra Ghisleri, di Euromedia, il blitz di Renzi a Palazzo Chigi non ha fatto bene al Pd: “Nelle ultime settimane ha perso quasi un punto e mezzo, scendendo attorno al 28 per cento”. Ma per Ghisleri l’operazione ha macchiato l’immagine dello stesso premier: “Renzi è passato in poche settimane dal 48-49 per cento al 42-43”. Pure le cifre sulla fiducia dell’esecutivo non sono di buon auspicio: “Il consenso sulla sua squadra non supera il 33 per cento. Un numero più basso di quello dei primi giorni del governo Letta e non molto più alto dei suoi ultimi: dopo un anno difficile e deludente, Enrico era al 24”. Un quadro non confortante, per l’ex rottamatore. Ora Renzi deve correre. I tre sondaggisti hanno numeri diversi, ma lo stesso, identico pronostico: “Si gioca tutto nei primissimi mesi”.

La Stampa 27.2.14
Democratici spiazzati
“Sta venendo meno il senso di comunità”
di Francesca Schianchi


«Sa cosa mi ha detto la mattina della fiducia una collega?», chiede quando le votazioni sono finite e sta ormai abbandonando la Camera la deputata Pd Sandra Zampa, storica portavoce di Prodi, vicepresidente del partito in quota Civati. «È una collega non più giovanissima, una persona solida: “Mi sento straniata”, mi ha detto». Straniamento. Smarrimento, dice qualcun altro. Attesa, definisce qualcun altro ancora lo stato d’animo prevalente nel Pd: attesa che si facciano i sottosegretari e le nomine nel partito, due match intrecciati che si giocavano ieri pomeriggio, dove la minoranza conta di avere un peso; attesa anche che si arrivi al dunque, ai provvedimenti, alle riforme, «il rapporto tra governo e gruppo parlamentare si giocherà sulle cose da fare, sulle proposte», prevede il dalemiano Enzo Amendola. E non è detto che tutto sarà facilissimo: la settimana prossima arriva in Aula alla Camera la legge elettorale, «e noi sull’emendamento Lauricella andiamo fino in fondo», giura un cuperliano facendo riferimento a quella modifica che lega la riforma del sistema di voto a quella del Senato: potrebbe creare problemi al premier, ma qualcuno nella minoranza ha già deciso, appunto, che non ci si può rinunciare.
Straniamento e attesa, si respira nel gruppo parlamentare del Pd, all’indomani della fiducia del governo Renzi e all’avvio dei suoi primi passi, a pochi giorni dalla repentina messa alla porta (di Palazzo Chigi) di Enrico Letta. «Gli applausi in Aula, per Bersani e Letta, nascondevano anche tanti sensi di colpa: quando Renzi dice “sono qui perché me l’ha chiesto il partito”, è un’affermazione all’80% vera», sottolinea ancora la Zampa. Anche un pizzico di senso di colpa, aggiungiamo al calderone degli umori democratici. E timore di uno sfarinamento generale, se il deputato genovese Mario Tullo sospira ricordando come al congresso regionale del partito, a nessuno è venuto in mente di ricordare con un applauso i due ministri liguri al governo: «Sta venendo meno il senso di comunità, dobbiamo recuperare un senso di solidarietà e appartenenza».
Per questo la partita per la gestione del partito è importante. Ora che comunque questo nuovo governo è insediato e, come suggerisce Massimo D’Alema, tornato ieri in tv ospite di «Otto e mezzo», «il maggior partito del Paese tutto può permettersi tranne le polemiche retrospettive». L’ascesa di Renzi alla presidenza del Consiglio «non è una sorpresa: come era prevedibile, ha usato il Pd come trampolino per arrivare a palazzo Chigi, ha realizzato il vero programma delle primarie», tanto più che Letta ha fatto errori («avrebbe dovuto reagire con più tempismo, doveva rilanciare l’azione del governo, ha temporeggiato troppo»), ora però è il momento di «dargli una mano». Quello che anche i deputati, pure i più scettici sull’operazione, convengono si debba fare. «Il cambio di passo lo abbiamo visto sulla comunicazione: ora – dice la cuperliana Enza Bruno Bossio - aspettiamo di capire se riesce a farlo anche sulla realizzazione delle proposte…».

La Stampa 27.2.14
Umiliati, offesi e folgorati
Si rimescolano le anime del Pd
L’avvento di Renzi ha cambiato la geografia all’interno del partito
di Mattia Feltri


Le tempeste che scuotono il Pd sono soprattutto nell’anima, e la suddivisione del partito in correnti ha oggi meno senso di una geografia sentimentale. L’arrivo di Matteo Renzi alla guida di partito e governo ha infatti sovvertito l’ordine e gettato scompiglio nelle truppe; lì dentro, perduti i punti cardinali, hanno cominciato a muoversi lungo le direzioni indicate dal cuore (diciamo così). Il grande abbraccio dell’altroieri a Montecitorio fra Pier Luigi Bersani ed Enrico Letta non apparteneva alla grammatica politica, ma era l’abbraccio dei reduci della cruenta battaglia che a fine guerra invocheranno la Convenzione di Ginevra. Sono gli Umiliati, categoria numerosa a cui sono iscritti i grandi capi, da Massimo D’Alema a Rosi Bindi (e forse pure Walter Veltroni). C’è Stefano Fassina, abbattuto con un pronome di tre lettere (chi); alla Camera ha detto di non votare fiducie in bianco, vedrà di volta in volta, come di solito promette l’opposizione sedicente responsabile. Si annota che Letta martedì mattina ha preso un aereo da Londra dove è tornato la sera stessa pur di rimarcare il suo sdegno fra le braccia del vecchio capo. Gli esperti in dinamiche politiche ritengono che gli affettuosi sensi fra Bersani e Letta contengano una minaccia: arriverà Norimberga.
Attigui agli Umiliati ci sono gli Offesi, il cui leader è Pippo Civati, quotidianamente impegnato a ricordare l’antica e poi tradita familiarità con Renzi. «Ciao Matteo», gli ha detto in aula contro ogni etichetta. Aveva il tono malinconico di chi nota che le cose non sono andate come dovevano. Fra gli Offesi ha un ruolo Lapo Pistelli, maestro politico di Matteo di cui divenne il primo rottamato. Renzi lo cita nelle repliche alla Camera e Pistelli regala qualche parola agli intervistatori, un gran sapore di amarezza che cresce alla fine: «Era meglio se non faceva il mio nome, lasciamo perdere...». Umiliati e Offesi hanno un trait d’union, che è Gianni Cuperlo, umiliato alle primarie e offeso subito dopo: «Nella legge elettorale vuoi le preferenze, ma è un tema di cui avrei voluto sentir parlare quando ti sei candidato», gli disse Renzi. Cuperlo si dimise da presidente e da allora pencola fra due emozioni e due posizioni che dispongono di un braccio armato: i Partigiani, e cioè le seconde linee deputate a mantenere il nemico sotto fuoco in attesa della controffensiva (se mai arriverà). Come da tradizione, i Partigiani sono pochini, ma ne arriveranno. Il primo a salire in montagna è stato il bersaniano Alfredo D’Attorre, seguito in questi giorni da Miguel Gotor, Felice Casson, Corradino Mineo e qualche altro. Non si fanno problemi tattici, dicono a Renzi che è una jattura, gli ricordano che la vittoria non è ancora totale.
C’è poi una grande area di spiriti combattuti. Lì meditano innanzitutto i Delusi, come il sindaco di Bari, Michele Emiliano, e quello di Salerno, Vincenzo De Luca; erano stati così generosi di elogi (con Renzi arriva la rivoluzione, disse il primo; con Renzi cambia tutto, disse il secondo) da aspettarsi la convocazione al governo. Niente. Si segnala un disperato Emiliano a Un giorno da pecora: «Gli ho mandato molti sms, ma niente». Non distanti dai Delusi, alloggiano i Semplici Conoscenti. È gente che si direbbe in attesa di elementi più solidi su cui fondare i rapporti. C’è Alessandra Moretti, che fu bersaniana, poi quasi renziana, ora boh; c’è Anna Finocchiaro, che diede di miserabile a Renzi e adesso ammette «ci ha spaesati»; c’è Matteo Orfini, fiero nemico dei vecchi tempi («Renzi in campo? È una follia, vada ad Amici») piegato dal pragmatismo: il Pd sta vivendo un passaggio «lacerante ma inevitabile».
Tutte queste categorie sono però una drammatica minoranza perché ce n’è un’ultima straripante: i Folgorati (che si sommano ai Fedelissimi, di cui qui non ci si occupa). Costoro sono al governo, nel partito, nelle amministrazioni locali, vanno da Dario Franceschini e Deborah Serracchiani, da Federica Mogherini e Nicola Latorre, da Marianna Madia a Laura Puppato. Il loro leader spirituale è il capogruppo al Senato, Luigi Zanda, che al termine di un discorso di Renzi disse: «Mi è piaciuto tutto quello che ha detto, tranne una cosa... Una cosa che mi è piaciuta anche di più...». (La geografia sentimentale del Pd muterà sensibilmente dopo la nomina dei sottosegretari).

La Stampa 27.2.14
Il premier tenga in conto le alleanze tra antirenziani
di Marcello Sorgi


Superata la fase della sorpresa, e in alcuni casi dell’entusiasmo per la novità, occorrerà cominciare a riflettere sulle caratteristiche dell’antirenzismo, un atteggiamento politico e culturale emerso anche prima della corsa di Renzi alle primarie per la segreteria, ma apertamente dichiarato nei due giorni del passaggio parlamentare sulla fiducia.
Non deve stupire il fatto che molti degli argomenti siano gli stessi con cui vent’anni fa si era manifestato l’antiberlusconismo: personalismo, dilettantismo, fanfaronismo, autoritarismo, disprezzo delle regole e delle liturgie democratiche, conflitto di interesse (in questo caso legato al ministro Guidi) e così via. Colpisce, invece la composizione dello schieramento: mentre infatti nel ’94 a dividere i berlusconiani dagli antiberlusconiani era il confine politico tra centrodestra e centrosinistra, con quest’ultimo che aveva trovato nell’opposizione sempre e comunque al Cavaliere l’unico vero cemento di una coalizione per il resto divisa, adesso la divisione avviene tra due schieramenti trasversali.
Contro Renzi è infatti tutta la minoranza di sinistra del Pd, da Bersani a D’Alema, Cuperlo, Fassina, Zoggia, per citare quelli che sono usciti allo scoperto, più Civati, giunto a minacciare una scissione, più l’ex premier Letta, non del tutto sicuro di restare nel partito, più l’ex-sinistra democristiana che ha in Rosi Bindi la sua esponente più forte, e con l’eccezione di Dario Franceschini, schieratosi con il nuovo leader già al congresso e ora al governo con lui. A questi si aggiunge, non del tutto ridotto al silenzio, il variegato mugugno berlusconiano che unisce tutti i nemici del duo Verdini-Santanchè, dal neo-portavoce Toti, che non perde occasione di manifestarlo nelle interviste in cui promette che Forza Italia farà opposizione dura, al capogruppo dei deputati Brunetta, pronto a denunciare anche il minimo scartamento del premier rispetto all’accordo sulle riforme, ad alcuni lealisti che lo dicono sottovoce, a Casini, che lo dice apertamente. I loro argomenti vanno dal dubbio che Berlusconi si sia presa una cotta eccessiva per Renzi, a quello sulla speranza che il premier, pur governandoci insieme, asfalti i «traditori» alfaniani del Ncd.
Non c’è, al momento, alcun punto di contatto tra antirenziani di sinistra e di destra, se non quello ovvio di far fuori Renzi prima possibile. E il parallelo fronte renziano, comprensivo della «doppia maggioranza» (contro e con Berlusconi) si presenta sicuramente più forte. Ma nella politica italiana, si sa, le cose cambiano velocemente. E il premier farà bene a metterlo in conto.
Superata la fase della sorpresa, e in alcuni casi dell’entusiasmo per la novità, occorrerà cominciare a riflettere sulle caratteristiche dell’antirenzismo, un atteggiamento politico e culturale emerso anche prima della corsa di Renzi alle primarie per la segreteria, ma apertamente dichiarato nei due giorni del passaggio parlamentare sulla fiducia.
Non deve stupire il fatto che molti degli argomenti siano gli stessi con cui vent’anni fa si era manifestato l’antiberlusconismo: personalismo, dilettantismo, fanfaronismo, autoritarismo, disprezzo delle regole e delle liturgie democratiche, conflitto di interesse (in questo caso legato al ministro Guidi) e così via. Colpisce, invece la composizione dello schieramento: mentre infatti nel ’94 a dividere i berlusconiani dagli antiberlusconiani era il confine politico tra centrodestra e centrosinistra, con quest’ultimo che aveva trovato nell’opposizione sempre e comunque al Cavaliere l’unico vero cemento di una coalizione per il resto divisa, adesso la divisione avviene tra due schieramenti trasversali.
Contro Renzi è infatti tutta la minoranza di sinistra del Pd, da Bersani a D’Alema, Cuperlo, Fassina, Zoggia, per citare quelli che sono usciti allo scoperto, più Civati, giunto a minacciare una scissione, più l’ex premier Letta, non del tutto sicuro di restare nel partito, più l’ex-sinistra democristiana che ha in Rosi Bindi la sua esponente più forte, e con l’eccezione di Dario Franceschini, schieratosi con il nuovo leader già al congresso e ora al governo con lui. A questi si aggiunge, non del tutto ridotto al silenzio, il variegato mugugno berlusconiano che unisce tutti i nemici del duo Verdini-Santanchè, dal neo-portavoce Toti, che non perde occasione di manifestarlo nelle interviste in cui promette che Forza Italia farà opposizione dura, al capogruppo dei deputati Brunetta, pronto a denunciare anche il minimo scartamento del premier rispetto all’accordo sulle riforme, ad alcuni lealisti che lo dicono sottovoce, a Casini, che lo dice apertamente. I loro argomenti vanno dal dubbio che Berlusconi si sia presa una cotta eccessiva per Renzi, a quello sulla speranza che il premier, pur governandoci insieme, asfalti i «traditori» alfaniani del Ncd.
Non c’è, al momento, alcun punto di contatto tra antirenziani di sinistra e di destra, se non quello ovvio di far fuori Renzi prima possibile. E il parallelo fronte renziano, comprensivo della «doppia maggioranza» (contro e con Berlusconi) si presenta sicuramente più forte. Ma nella politica italiana, si sa, le cose cambiano velocemente. E il premier farà bene a metterlo in conto.

Repubblica 27.2.14
Berlusconi insiste negli elogi verso il premier: “Di lui mi fido, rispetterà i patti e ha il gradimento della gente. Peccato non sia dei nostri”
“Matteo sta facendo fuori più comunisti di me”
di Carmelo Lopapa


Il governo è nuovo. Ma la battaglia resta la stessa. La prossima settimana la legge elettorale tornerà in aula per essere approvata almeno da un ramo del Parlamento. E, assicurano i renziani, con le modifiche già concordate. Nulla da fare quindi per l’emendamento Lauricella che vincola l’approvazione di un nuovo sistema di voto alla modifica del Senato ma soprattutto è la clausola di salvaguardia di una legislatura fino 2018. «Sull’Italicum l’obiettivo del Pd è andare avanti con determinazione», dice Lorenzo Guerini, portavoce della segreteria Pd. «Tra sei mesi si va votare», tagliano corto i più giovani dei renziani.
Governo nuovo, squadra ancora in pieno cantiere – la riserva su viceministri e sottosegretari sarà sciolta solo oggi – ma non è cambiato nulla. Alla faccia della promesse fatte durante le consultazioni soprattutto a Ncd. «Se qualcuno cercava l’esatta interpretazione delle parole del premier circa precedenza e contestualità di legge elettorale e riforma del Senato, oggi ha avuto la risposta», commenta un deputato presente alla riunione dei capigruppo ieri alla Camera. È da qui che bisogna partire per raccontare come il primo giorno di vita del Renzi 1, nato con i numeri del precedente esecutivo, assomiglia invece all’inizio di un lungo conto alla rovescia. A fine mattinata il governo ritira il decreto salva-Roma che rischia di essere affondato da 350 emendamenti grillini. La presidente Boldrini convoca la capigruppo per decidere come impegnare l’aula rimasta improvvisamente senza provvedimenti da discutere. La proposta è di approvare il ddl sugli eco-reati e la delega fiscale. Votano tutti compatti. Tranne il capogruppo di Forza Italia Renato Brunetta: «In meravigliosa solitudine e massima coerenza chiedo che invece venga subito portato in aula l’Italicum. Possiamo approvarlo in due giorni». Gelo. Che diventa imbarazzo quando prende la parola il vicepresidente della Camera Roberto Giachetti (Pd). «Mi spiace per il mio capogruppo Roberto Speranza, ma propongo anch’io di cominciare subito a votare sull’Italicum». Boldrini opta per la prima scelta. «La maggioranza affonda l’impegno di Renzi» provoca Brunetta. La legge elettorale sarà in aula la prossima settimana. Ma l’accelerazione di Giachetti, «più renziano di Renzi» non può passare inosservata.
Il punto adesso è quale Italicum sarà votato. Sono in cassaforte, perché risultato di trattativa diretta Renzi-Berlusconi, l’innalzamento dal 35 al 37% della soglia per accedere al premio e l’abbassamento dal 5 al 4,5% della soglia minima per ciascun partito per entrare in Parlamento. Il governo, si apprende da fonti di palazzo Chigi, non sarebbe però intenzionato ad assumere come proprio l’emendamento Lauricella. «Sarà un ordine del giorno» è l’ipotesi che viene fatta circolare. «Impossibile – dice l’onorevole del Pd che lo ha presentato – il governo non può impegnarsi a modificare la Costituzione». L’emendamento sarà quindi presentato e messo in votazione «a scrutinio segreto» visto che si tratta di materia elettorale. «E a quel punto sarà approvato dall’aula». I dadi tornano così alla casella di partenza: per avere una nuova legge elettorale, con le forze e i numeri di questo Parlamento, occorre come minimo la modifica costituzionale del Senato. Almeno un anno di tempo. Può reggere il governo Renzi rispettando tempi e promesse? Molto difficile. A meno che lo diaspora grillina non offra una nuova maggioranza.
In questo clima, oggi sarà completata la squadra di governo, circa 45 caselle che si aggiungono alle 18 (premier, sottosegretario e 16 ministri) già occupate. L’accordo sui numeri è stato faticosamente trovato: 22 al Pd di cui 8 all’area Cuperlo, 5 all’area dem e 9 ai renziani; 9 a Ncd; 5 a Scelta civica; tre ai Popolari, uno al Centro democratico di Tabacci, uno ai socialisti, uno al Maie (italiani all’estero). Il premier tiene il punto su Lotti, Di Giorgi, Ginetti, Manzione, Bonafè, Rughetti, Richetti, De Angelis e un paio di esterni comeLuna o Quintarelli (agenda digitale) e Giani (Sport). Cuperlo ha blindato Velo, Legnini (Infrastrutture o Sviluppo economico) Bubbico, Basso di Caro, Merlo, Rubinato. L’area dem, Giacomelli (editoria), Fiano e Baretta. Morando dovrebbe entrare come veltroniano. Enrico Letta ha chiesto ai suoi di non entrare nonostante gli inviti.

Corriere 27.2.14
Italicum, il premier avverte i suoi: rispettare i patti
di Marco Galluzzo


ROMA —Francesco Paolo Sisto, presidente della prima commissione, deputato di Forza Italia, relatore del provvedimento, interprete parlamentare dell’accordo fra Renzi e Berlusconi, la vede così: «I tempi saranno contingentati, ci sono 22 ore disponibili che possono arrivare a 26, diciamo 3 giorni di lavoro e la legge è approvata. Senza forzature e con un approccio molto laico».
Se l’Italicum andrà in Aula la prossima settimana, veramente, lo sapremo solo oggi. Ma Renzi punta a farlo approdare martedì: «Pacta sunt servanda, noi i patti li manteniamo, niente scherzi». Doveva essere approvato entro la fine di febbraio, almeno così promise Renzi, ma una settimana di slittamento, o forse due, non sarebbero un dramma. Il vero dramma si aprirebbe se oggi, alle 13, la seconda capigruppo consecutiva in due giorni dovesse non approvare il calendario. È successo ieri e Renato Brunetta ha promesso «guai» a tutti coloro che nel governo e nella maggioranza «stanno giocando al rinvio».
Quello di ieri è stato per Forza Italia un trucco dilatorio del governo e del Pd. Null’altro che un fatto tecnico, invece, per i renziani e le altre costole della maggioranza. Anche se ieri, sull’argomento, c’è stato un vertice dei ministri Delrio e Boschi con i capigruppo del Pd. La presidente della Camera, Laura Boldrini, ha sottolineato l’importanza che la prossima settimana siano considerati temi «centrali» la riforma della legge elettorale e il dibattito sulla situazione carceraria e della giustizia. Ma la capigruppo non ha comunque deciso; se ne riparlerà oggi.
Dietro il tira e molla di Montecitorio i sospetti incrociati di più attori: per Alfano la legge non può entrare in vigore prima della riforma del Senato, per Brunetta deve accadere il contrario. Nel primo caso ci vuole un anno, ha sottolineato ieri Roberto Formigoni. Nel secondo, appunto, pochi giorni, almeno per la prima lettura.
«Dieci giorni fa, Renzi prometteva: una riforma al mese, la legge elettorale entro febbraio. Oggi, durante la conferenza dei capigruppo c’era l’opportunità di calendarizzarla subito, ma non è stato fatto. Riecco “il bomba”, come lo definivano i compagni di scuola, per quanto le sparava grosse», è la sintesi del deputato di Forza Italia Luca Squeri. Brunetta lo dice in altro modo: «Il suo primo impegno è andato a vuoto, speriamo sia l’ultimo che va a vuoto e che la legge elettorale si incardini e venga approvata la prossima settimana alla Camera e dopo un altro paio di settimane al Senato altrimenti ne vedremo delle belle».
Poco dopo, dalla maggioranza, arrivano assicurazioni. «Impegno prioritario», risponde il presidente dei deputati democratici Roberto Speranza. Angelino Alfano, da Berlino, dopo un incontro con la cancelliera Angela Merkel: «Non rallenteremo la legge elettorale, ma non vogliamo fare un pastrocchio». E infine: «Siamo pronti ad iniziare già la settimana prossima il dibattito in Aula», garantisce il portavoce della segreteria dei democratici, Lorenzo Guerini, aggiungendo che «gli accordi sono impegnativi, dal momento che abbiamo il dovere di portare avanti la stagione delle riforme».
Una lettura da retroscena, alludendo al partito del Cavaliere, la dà il socialista Marco di Lello: «La fretta di FI sull’Italicum è indicativa. C’è chi vuole tornare al voto con una legge elettorale sganciata dall’abolizione del Senato, così da poter soddisfare meglio i propri interessi personali». Entrano invece nel merito i popolari Per l’Italia: «Noi non abbiamo posto problemi a Renzi sui cosiddetti partitini, sulle soglie di ingresso. Ma sulla legge elettorale bisogna alzare la soglia del premio di maggioranza. L’accordo con Berlusconi è al 37%? Appunto, l’accordo è con Berlusconi, non con noi. Ci vuole una soglia di governabilità più alta, almeno del 40%», chiosa Mario Mauro.

l’Unità 27.2.14
I renziani accelerano sull’Italicum per essere pronti al voto
La prossima settimana la legge in aula, ma il vincolo con la riforma del Senato perde sempre più quota
di Claudia Fusani

5

Corriere 27.2.14
Sul tavolo di Renzi il piano nomine
Dalle Poste a Eni e Enel:  quei 350 manager da nominare
Per la prima volta da 12 anni tocca a un governo di centrosinistra decidere i vertici delle aziende di Stato
Renzi punta a un rinnovamento profondo
di Sergio Rizzo

qui

ha incontrato i bambini, gli imprenditori, gli amministratori: gli operai...? meglio di no!
l’Unità 27.2.14
Primo giorno a scuola Renzi: ridurrò l’Irap
Salta il faccia a faccia con gli operai Electrolux


Chissà perché è venuto proprio da noi?» Il tassista che ri-attraversa Treviso subito dopo la fine della visita del premier non riesce a darsi una risposta precisa. Renzi ha salutato e la calma si è ri-imposessata del bellissimo centro storico. Dietro però si è lasciato parecchie tracce.
Alcune visibili, e francamente dimenticabili, come la contestazione anche violenta di una trentina di persone, quasi equamente divisi fra esponenti di Forza Nuova, ultras travestiti da forconi (e viceversa) e Liga Veneta, che insegue Renzi nella corsa (altro che passeggiata) nel centro fra le due tappe intermedie del suo tour: dall'incontro con i sindaci al museo Santa Caterina al faccia a faccia con le imprese in Comune. Altre amare come il mancato incontro con gli operai dell' Electrolux. Li incontrerà al tavolo con tutti le parti, la risposta di Palazzo Chigi. E poi ovviamente le tracce che dovrebbero servire a capire dove andrà a dirigersi l’azione economica del governo: ridare ossigeno al sistema, asfittico oramai anche nel mitico Nordest.
Renzi pensa, come spiega prima ai sindaci poi agli imprenditori, di allentare un po’ i cordoni pubblici attorno a aziende e enti locali, mettendo nello stesso tempo un po' di soldi in investimenti pubblici. Il tetto del rispetto del 3%nel rapporto debito/Pil rimarrà (anche perché ora in Europa non c'è la forza per cambiare), ma il patto di stabilità sarà rivisto in maniera orizzontale dando più spazio agli sforamenti dei comuni compensandoli con una maggiore rigidità statale. Dai sindaci, uno alla volta, si fa raccontare quanti soldi hanno in cassa ma che non riescono a spendere e quale è l’opera prioritaria ferma. Ne viene fuori un elenco corposo e un tesoretto (congelato) non disprezzabile. L'idea insomma è di sbloccare un'opera pubblica in ogni comune d'Italia liberando un po' dei soldi che hanno obbligatoriamente chiusi nei cassetti. Così, usando anche il piano di sistemazione delle scuole promesso per giugno, farebbe ripartire un po’ l’edilizia. Alle imprese inoltre conferma il taglio di 10 miliardi (la linea Maginot indicata da Confindustria) del cuneo fiscale. Il come è ancora aperto. O tagliando l’Irap che pesa 30 miliardi (quindi sforbiciata di 1/3) o l’Irpef. Ma in questo caso, annota, il vantaggio a favore dei lavoratori sarebbe di una ventina di euro, quasi impercettibile. A questo poi si sommerebbe lo sblocco totale dei debiti della pubblica amministrazione. Una scossa in grado di mettere in moto un circolo virtuoso.
Ma il segno più profondo che Renzi lascia nella sua prima uscita pubblica da premier rimane sottotraccia. Tanti sassolini bianchi che Pollicino-Renzi si lascia dietro nelle sei ore passate nella Marca trevigiana: dalla scuola media Colletti fino alla H-Farm, l'incubatore di imprese iper-avanzate, passando da sindaci e imprese. «Non sono andato a Treviso per inaugurare qualcosa. Non volevo fare una passerella e non l'ho fatta. - si confronta sulla via del ritorno coi suoi collaboratori -. Avevo bisogno di ascoltare e capire. E di far vedere concretamente che il presidente del Consiglio non può essere qualcosa di lontano, appartenente a un altro mondo ». Renzi cioè prova ad azzerare la distanza fra paese reale e politica: con grande preoccupazione della scorta ogni volta che scarta di lato per salutare qualcuno. Come Cristina, disabile, 29 anni che davanti alla scuola abbraccia. «La sua vera sfida - analizza Giovanni Manildo, il sindaco Pd che ha sfidato e battuto il dominio leghista a Treviso - è di cambiare radicalmente il linguaggio delle politica per recuperare un rapporto di fiducia tra chi è chiamato ad amministrare la cosa pubblica e i cittadini».
Con gli studenti Renzi batte il cinque, parla di calcio, evita le poltroncine e si va a sedere in mezzo a loro cantando l’Inno d’Italia, fotografando con l’iPhone e presentandogli i ministri che l’accompagnano così: «questa è Stefania (Giannini ndr) si occupa di voi e dei vostri insegnanti. Questo è Giuliano (Poletti ndr) si occupa del lavoro ». Con gli amministratori si scambia l’email («scrivetemi a matteo@governo. it») e riprende una consigliera che osa il «lei».
Stesso atteggiamento con gli imprenditori e poi coi ragazzi che alla H-Farm stanno costruendo realtà produttive partendo da idee anche un po’ strambe. Come quel gruppetto che s’è inventato un braccialetto in grado di fornire tutte le misure di chi lo indossa per acquisti online di abbigliamento. Fa il sindaco-premier e la cosa incontra pare destinata a continuare.
«Io sto a destra, l’ultimo voto l’ho dato a Grillo, però mi hanno deluso. Dicono solo no, così non servono a nulla. Invece Renzi ci sta provando. Non ho mai votato a sinistra, ma forse se ci fossero le elezioni questa volta ci penserei”. Il tassista riparte dandosi da solo la risposta.

il Fatto 27.2.14
Supercazzole
Figli di papà e interessi, guai da Pd
di Giorgio Meletti


Il problema non è più il conflitto d’interessi, ma i figli del conflitto d’interessi. Come se B., con la nomina di Federica Guidi al ministero dello Sviluppo economico (“Ho un ministro pur stando all’opposizione”), volesse testare il mercato per la discesa in campo di altre figlie, le sue.
L’imbarazzo del neoministro è palpabile. L’ex presidente dei Giovani industriali ammette una telefonata di felicitazioni da B. e l’eloquente silenzio del presidente degli imprenditori Giorgio Squinzi: “Non frequento più Confindustria”. E ieri ha constatato che l’imbarazzo è vasto. Sul Corriere della Sera a pagina 6, il piddino bersaniano Miguel Gotor la bolla come “portatrice di un conflitto di interessi evidente di natura familiare, anomalia che va denunciata”, mentre a pagina 8  ( la pagina 7 è pubblicitaria) il piddino bersaniano Matteo Colaninno sferra un duro attacco alla   pagina 6  : “Trovo ingiusta la campagna dei media contro di lei. Ho rischiato di trovarmi nella stessa situazione”. Chi ha ragione? Sicuramente Colaninno, conoscitore della materia. Anche lui ex presidente dei Giovani Industriali, anche lui figlio. L’unica differenza è che Federica non possiede azioni della Ducati Energia di suo padre Guidalberto, mentre Matteo è anche socio di Roberto Colaninno in Piaggio e Alitalia.
COLANINNO FIGLIO sa cose che Gotor ignora: “Nel 2008 l’allora candidato premier Walter Veltroni mi volle capolista in Lombardia pensando di affidarmi un ministero di rilevanza economica nel caso di vittoria”. Fu dunque l’elettorato a proteggere gli interessi del Paese da quelli della famiglia Colaninno, mentre il Pd non seppe tutelare se stesso affidando al giovanotto ruoli crescenti, fino al posto in segreteria come responsabile economico. Adesso Matteo tuona: “Ci vuole una legge sul conflitto di interessi che consenta a tutti, compresi gli imprenditori, di assumere ruoli di responsabilità”. Ecco, tutti a rimproverare il Pd di non aver mai fatto una legge sul conflitto d’interessi che vietasse le stranezze, e giustamente un autorevole deputato piddino chiede il “liberi tutti”. Gotor se ne faccia una ragione. Tanto ci ha pensato Renzi ad affidare l’interesse generale all’autocontrollo di Guidi figlia. Che ieri ha opposto all'incredulo Roberto Mania, intervistatore di Repubblica , risposte come questa: “L’Italia rappresenta per la Ducati Energia meno di 20 milioni di euro di fatturato su un totale consolidato di 147 milioni. E in Italia ha clienti come Enel o Ferrovie ma anche privati”. L’unico precedente è quello della ragazza un po’ incinta: il conflitto d’interessi, se c’è, è piccolo. L’importante è “faaare”, secondo il motto di Crozza-Renzi. E nei casi disperati estrarre la supercazzola. La Ducati Energia è campione di delocalizzazione e il giornalista chiede, sensatamente: “Come potrà chiedere agli imprenditori di restare in Italia?”. Risposta: “Io ho sempre parlato di multilocalizzazione, non di delocalizzazione”. E allo stesso modo: “Non sono mai stata ad Arcore”, perché andava nella villa di Portofino di B. E adesso si dichiara fervente renziana, infatti due anni fa, quando circolò il suo nome per il ticket elettorale con B., rispose inorridita: “Non ne so nulla, ma mai dire mai”. Su tanta flessibilità il conflitto d’interessi rimbalzerà come una palla.

Corriere 27.2.14
I conti in tasca ai piani di Renzi
Troppe cifre senza reali riscontri
di Enrico Marro

qui

Corriere tv 25.2.14
Le promesse di Renzi? Sogni o Realtà?
Ecco quello che concretamente può realizzare il nuovo premier
di Roger Abravanel e Daniele Manca

qui

Corriere 27.2.14
Sartori: «È sveglio, ma si sgonfierà presto»

«È sveglio, veloce, ma in politica è un peso piuma». Il professor Giovanni Sartori, uno dei massimi esperti di scienza della politica, ha giudicato l’ascesa di Matteo Renzi in un’intervista per la nuova trasmissione di Gad Lerner su laeffe, la tv della Feltrinelli. Secondo Sartori Renzi fa parte di quella tipologia di leader «che sa vincere, entusiasmare l’elettorato, ma sul resto poi si perde». Il politologo prevede che il nuovo presidente del Consiglio possa essere poco più che una «meteora»: «Si sgonfierà rapidamente — dice nell’intervista — e mi spiace» perché in questo periodo «l’Italia ha bisogno di qualcuno che sia bravo». Secondo il professore quello di Renzi non è decisionismo ma «velocismo». Ma — conclude — il nuovo premier promette provvedimenti a una velocità «che non potrà rispettare».

il Fatto 27.2.14
Barbara Spinelli
Matteo sta a Berlusconi come Berlusconi stava a Craxi

GIUSTIZIA, CONFLITTO DI INTERESSI, Europa: dopo anni di berlusconismo, queste sono in Italia le prove del nuovo. Non i modi di parlare, twittare. Renzi per ora le ha mancate. Ha accettato il veto su Gratteri guardasigilli, opposto dal Colle e da parte del Pd: non perché sia un magistrato, ma perché troppo antimafia e riformatore. Orlando è meglio: dal 2010 (intervista al Foglio), sposa le tesi della destra. Il conflitto d’interessi resta dov’era, non intralcio ma condizione d’ascesa politica: il ministro Guidi si dimette dalla Ducati, ma sarà benigna quando tratterà temi caldi come comunicazioni, Tv, eolico (“Abbiamo un ministro”, ha detto Berlusconi). L’Europa infine: Renzi dice che deve essere “una speranza, non un affare di virgole e percentuali”. Speranza è vuoto lirico, se non aggiungi qualcosa. Renzi fa accordi sottobanco col Cavaliere, e promette di esser l’uomo che mantiene il berlusconismo al potere senza Berlusconi. Come Berlusconi mantenne al potere il craxismo senza Craxi.

il Fatto 27.2.14
Sandra Bonsanti
Ho paura del legame con B. e della sua mancanza di lealtà

L’ASPETTO che più mi inquieta della politica di Matteo Renzi è la possibilità che la trasparenza tanto sbandierata nasconda qualcosa di oscuro, nella origine del suo potere e negli obiettivi della sua politica. Mi fa paura in un personaggio che in questo momento suscita tante speranze l’assenza di lealtà. Posso elencare alcuni perché a cui vorrei una risposta convincente: perché piace tanto a Berlusconi? Cosa si sono promessi negli incontri riservati? Quali i veri accordi sulla giustizia o sulla Costituzione? A Matteo Renzi piace il Potere: certo, ne aveva bisogno per rottamare i capi storici del suo partito, una operazione interessante. Ma c’è come un sovrappiù, qualcosa di troppo. Firenze è già commissariata. L’Italia è sul punto di esserlo, affascinata dall’uomo forte, giovane e abile con le parole, come lo fu Berlusconi. Un uomo per cui l’Italia non ha mai votato e che non ha alcuna fretta di andare alle elezioni. È troppo facile però conquistare l’anima di tanti italiani delusi dalla politica corrotta e tanto duro, dopo, raccontare dove ancora una volta si erano sbagliati.

il Fatto 27.2.14
Antonello Caporale
Se vince, perde il Palazzo Con lui il Pd non ha più senso

UN PARTITO ESISTE se esiste un destino comune. Conferendo a Matteo Renzi i poteri di commissario straordinario, il Pd perde ogni scopo perché il segretario-presidente assume su di sé l'onere di condurre tutti in un luogo imprecisato, a sua scelta. Sarà un viaggio senza ritorno. Ma lui è vincente, il Palazzo lo sconfitto. Del tutto naturale la ritrosia, la paura e la nascente ma tardiva opposizione che si costruirà anzitutto nel Pd per fermare quella che appare una deriva personalistica. A un Paese con la memoria precaria e senza voglia di un destino comune, la soluzione dell'uomo solo al comando è la più gradita perché agevola la proiezione fantastica di riversare sulle spalle di uno (l'unto del Signore?) ogni necessità, bisogno o soltanto sogno. Renzi è figlio legittimo dell'egemonia culturale berlusconiana che ha immerso l'Italia in uno stato di astenia. Non c’è sforzo collettivo, chiamata alla responsabilità dei singoli, durezza della prova. Prima era Silvio, adesso è Matteo che ci cambierà la vita.

il Fatto 27.2.14
Furio Colombo
Vuole fare tutto da solo, ma l’ambizione non basta

C’È DIFFERENZA fra ambizione e passione. L’ambizione riguarda una persona, la passione coinvolge un popolo. Il caso Matteo Renzi, anni 39, professione sindaco che diventa segretario di partito che diventa primo ministro che diventa (collocherete qui il seguito della sua futura carriera) è un caso da studio di ambizione. L’ambizione non è riprovevole. È una delle grandi spinte di civiltà. Esistono però due versioni, l’ambizione fredda (ti occupi solo di te stesso, persino se sei un chirurgo che tocca ogni giorno il confine vita-morte degli altri) o l’ambizione unita con la passione. Esempio: Abbado, il direttore d’orchestra, è apparso subito bravo, dunque ambizioso, ma c’era un altro fattore nella sua vita: la passione. Era la passione a portare la sua bravura dentro chi suonava e ascoltava con lui. La passione fredda accelera il passo anche se gli altri restano indietro, cambia strada all’improvviso perché vede la convenienza, afferra un ruolo nuovo perché lui ci riesce e tu puoi solo dire “che bravo!”. Renzi è ambizione fredda. Dice che lui farà molto per noi, se lo lasciamo lavorare, compreso andare ogni mercoledì nelle scuole, perché vuole vedere lui, di persona, come stanno le cose. Non possiamo fare niente per lui. Solo applaudire alla fine. Poco, per un Paese da salvare.

il Fatto 27.2.14
Mr. Bean o ultima spiaggia? La stampa estera sul premier

RENZI con la campanella del governo; accanto Mr. Bean con in mano le palle natalizie. È solo una delle undici immagini proposte dal quotidiano tedesco Tageszeitung in cui gli scatti del neo premier vengono giustapposte a quelle di Rowan Atkinson, il celebre attore britannico famoso per interpretare Mr. Bean. Ogni fotomontaggio è accompagnato da una salace didascalia. Nel commento alla foto si legge: “Guardate con quanta nonchalance mostra il proprio sentimento di superiorità”. La stampa tedesca non è l’unica voce critica nei confronti di Renzi. L’Independent si chiede se non sia stato un trionfo “dello stile sulla sostanza”, Le Nouvel Observateur parla di “Programma groviera di Matteo il sognatore”, mentre la Bbc vede una “montagna da scalare” per il nuovo premier e il Telegraph prevede che “Renzi è l’ultima spiaggia per l’Italia”.

Corriere 27.2.14
Ironie dei tedeschi, Renzi come Mr Bean

Anche i quotidiani tedeschi iniziano ad occuparsi di Renzi e del suo nuovo governo. La maggior parte degli articoli danno risalto soprattutto alla giovane età del nuovo premier e al governo composto per metà da donne. Scherza invece il quotidiano di Berlino, Die Tageszeitung, che, in una gallery, paragona Matteo Renzi a Mr Bean. Mimica e gesti del 39enne, scrive il giornale, parlano da sé, esattamente come il personaggio interpretato da Rowan Atkinson (Elmar Burchia)
qui

il Sole 27.2.14
Il linguaggio di Renzi
Stile didattico, molte figure retoriche
di Gianluca Giansante

Docente di Comunicazione politica alla Luiss

Fanno discutere in queste ore i discorsi con cui Matteo Renzi ha chiesto la fiducia al Senato e alla Camera. I suoi interventi mettono in luce alcune caratteristiche chiave del suo linguaggio. Proviamo a vederne alcune.
La semplicità come elemento distintivo. I termini usati sono di uso comune, le parole vengono scandite a voce alta e in modo chiaro. Siamo lontani anni luce dalle parole trascinate, pronunciate velocemente e a voce bassa da Bersani.
I concetti più importanti sono ripetuti più volte. Il suo è uno stile quasi didattico, molto lontano dal sinistrese, la lingua parlata da molti politici di centrosinistra, infarcita di termini tecnici, per addetti ai lavori. La chiarezza viene portata all'estremo quando Renzi scandisce il suo impegno per «uno sblocco TO-TA-LE, non parziale, TO-TA-LE dei debiti della Pubblica amministrazione».
Renzi non ha parlato al Senato ma al Paese. Con il suo discorso non ha chiesto la fiducia al Senato ma ai cittadini. Non a caso il discorso conteneva molti elementi comuni ai discorsi elettorali. Ad esempio il tema del «Paese al bivio», dell'urgenza di prendere delle decisioni per non rischiare mali peggiori.
Giochi di parole, come sempre. Una caratteristica ricorrente dei discorsi di Renzi è l'ampio ricorso a figure di parola. Ad esempio la contrapposizione Paese «finito» e «Paese infinito» o fra «mercati rionali» e «mercati finanziari». Su questo tema vale la pena citare un recente articolo della semiologa Giovanna Cosenza: «Esagerare con le figure retoriche (specie quelle di parola) rende non solo lezioso il discorso, ma lo svuota, lo fa apparire tanto più vacuo quante più figure usi».
Tracce di Programmazione neurolinguistica. I discorsi e i ragionamenti di Renzi sono spesso discorsi che parlano in positivo, che guardano alle soluzioni piuttosto che ai problemi. È un atteggiamento che vuole portare anche in politica quando critica l'abitudine di molti programmi televisivi.
Quello di Renzi è un invito a uscire «dal coro della lamentazione» che rivela il suo retroterra culturale, ancora più evidente quando afferma che «la differenza tra sogno e obiettivo – ha detto qualcuno – è una data». Si tratta di una frase attribuita a Walt Disney ma spesso ripetuta nei corsi di Programmazione neurolinguistica, nota anche come Pnl, la disciplina insegnata dai coach motivazionali e dai guri del pensiero positivo, che aiuta chi la pratica focalizzarsi sul raggiungimento del successo.

l’Unità 27.2.14
Le purghe grilline ai tempi di Renzi
di Claudio Sardo


DEMOCRAZIA È DA TEMPO LA PAROLA PIÙ STONATA NELLA BOCCA DI BEPPE GRILLO. Il mito orwelliano di una rete che presto cancellerà le Costituzioni, i corpi intermedi e la stessa politica poggia su una quotidianità fatta di squadrismo verbale, di dispotismo mediatico, di disprezzo per le sofferenze del Paese (a cui si oppone la linea del «tanto peggio tanto meglio»).E tuttavia sorprende la brutalità dei modi e l’inconsistenza degli argomenti che hanno sancito ieri l’espulsione dei quattro senatori dissidenti.
Anche perché l’espulsione ha innescato la scissione, o quantomeno un’emorragia, nei gruppi parlamentari dei Cinque stelle.
Il delitto compiuto dai senatori «criminali » è aver osato criticare il Capo assoluto e infallibile per quella penosa performance alle consultazioni di Matteo Renzi. E il processo, anziché riguardare la (in)consistenza delle accuse politiche, si è concentrato sul disprezzo, sull’odio, sul complotto conclamato e mai dimostrato, sulla delegittimazione delle persone. Lo streaming dell’assemblea del gruppo, guarda caso, ha perso l’audio proprio quando la parola è stata data a uno dei dissidenti, Francesco Campanella. Infine la sentenza è stata emessa dalla solita limitata platea di utenti, già accuratamente selezionata da Grillo e Casaleggio, che dovrebbe rappresentare la volontà suprema del popolo web e che invece, drammaticamente, ne conferma il carattere di setta. Potremmo archiviare il tutto come una sceneggiata dal gusto horror, se non fosse che i Cinque stelle sono uno dei principali attori istituzionali, anzi sono il partito che alle elezioni di un anno fa è risultato il più votato. Quanto è avvenuto ieri lascerà un segno nella legislatura. Renzi può essere soddisfatto: è stato il suo incontro con Grillo a provocare il casus belli, e quindi la frattura tra i grillini. È vero che il segno della crepa comparve già il secondo giorno della legislatura, quando alcuni senatori (probabilmente gli stessi che oggi abbandonano Grillo) si ribellarono agli ordini e nel segreto dell’urna votarono per Pietro Grasso. Poi quel segno si è fatto sempre più marcato, ma non è indifferente che la rottura sia avvenuta all’indomani della formazione di un governo politico, guidato dal neosegretario del Pd. Grillo e Casaleggio avevano scommesso su una legislatura incerta e breve. E hanno fatto di tutto per spingere il Pd verso l’intesa con Berlusconi. Hanno rifiutato, in ogni occasione, la benché minima assunzione di responsabilità. Hanno usato anche la candidatura di Stefano Rodotà allo scopo di spaccare la sinistra, dopo aver respinto qualunque dialogo sul governo. Non prevedevano però che la prima frattura nelle larghe intese si sarebbe aperta a destra, dopo la condanna e la decadenza del Cavaliere. E non prevedevano ora il rilancio di Renzi (del resto, lo spiazzamento ha riguardato molti).
La preoccupazione di Grillo e Casaleggio, a questo punto, è di alzare il muro, il più alto possibile. La priorità è condurre una campagna elettorale per Strasburgo, usando toni così urlati da battere ogni altra concorrenza populista e antieuropea. E se il prezzo da pagare è rinunciare a qualche deputato e senatore, bene, che il prezzo si paghi. I due guru preferiscono che il governo Renzi si muova con margini di manovra maggiori, anziché sopportare il dubbio e la contraddizione nelle proprie file. Che i Cinque stelle possano discutere di politica, di strategia, di futuro, ecco, tutto questo è assolutamente vietato. È pericoloso per l’identità del partito-setta, la cui dimensione proprietaria non può essere messa in discussione. L’alternatività totale a tutti gli altri soggetti della politica democratica non consente contaminazioni. I deputati possono discutere dei singoli provvedimenti, occuparsi di questioni settoriali, ma guai a immaginare una scenario politico diverso da quello prescritto attraverso il blog o i portavoce autorizzati dal despota.
Nascerà probabilmente in Senato il gruppo dei grillini dissidenti. Anche questo non è un fatto da poco. Difficilmente saranno disponibili a breve a sostenere il governo Renzi. Può anche darsi che non lo saranno mai. Ma Renzi si trova oggi un Parlamento diverso, più articolato, di quello che si trovò di fronte prima Bersani (al tempo del suo fallito tentativo) e poi Letta. E per il premier è un vantaggio. Perché lo renderà più libero dall’abbraccio di Berlusconi sulle riforme elettorali e istituzionali, e soprattutto quando proverà a chiudere anticipatamente la legislatura. I grillini dissidenti hanno nel loro dna una voglia di partecipare, di contare, di incidere anche sulle questioni di sistema, che invece Grillo vieta assolutamente ai suoi. Renzi non è più obbligato a rispettare il patto leonino di Berlusconi sull’Italicum (cioè la riproposizione del biporalismo coatto del Porcellum). E può guardare anche allo svolgimento della legislatura con maggiore libertà: sarebbe autolesionista non usare questa opportunità, e non sembra che Renzi abbia una vocazione all’autolesionismo.
Peraltro, la sfida a Grillo sull’antipolitica è stata la prima che il segretario del Pd ha lanciato all’indomani della sua vittoria alle primarie. È il terreno più difficile, ma anche il più importante, dal momento che è stato Grillo (e non Berlusconi) a impedire la vittoria elettorale al centrosinistra. In fondo, la diretta-streaming della scorsa settimana è stata l’ennesima puntata di una battaglia molto intensa, che ha come posta l’elettorato più incerto, più spaventato, più insicuro. Chi vincerà questa battaglia, probabilmente vincerà le prossime elezioni.

l’Unità 27.2.14
La retorica del «voto no»
di Luigi Manconi


Per capirci e per dirla in estrema e ruvida sintesi. Le mie posizioni o, se si vuole, il mio personale programma politico si collocano, nella toponomastica convenzionale, alla «estrema sinistra». Praticamente su tutto: sui diritti e le garanzie, così come sulla rappresentanza sindacale e sull’immigrazione, sul rapporto tra Stato e cittadino e sulle scelte economiche. Detta ancor più grossolanamente: le mie posizioni sono, sempre nella consunta mappatura politica, «più a sinistra» di quelle, che so, di Pippo Civati (e cito proprio lui perché è un amico).
Evidente che non si tratta di una vanteria (di che ci sarebbe da menar vanto, poi? È una semplice scelta, mica un talento o un merito). Né si tratta, tanto meno, di una competizione agonistica tra me e qualcun altro: ma solo di una descrizione la più possibile oggettiva di opzioni peraltro verificabili e «misurabili».
Se dunque ricorro a questo un po’ puerile esercizio di «tostaggine», è solo per dichiarare immediatamente la mia collocazione politica. E per argomentare l’apparente contraddittorietà della mia risoluta scelta «di governo ». In questi giorni ho avvertito come davvero insopportabile la ricorrente minaccia, da parte di settori del Pd, di non votare la fiducia al governo Renzi. Una retorica tonitruante e declamatoria: ma se tutto ciò non produce, alla resa dei conti, un voto - un solo voto - di sfiducia e nemmeno un voto - un solo voto - di astensione, questa vociferazione un po’ loffia si rivelerà mero chiacchiericcio. E proprio questo è il punto. C’è una Grande Bugia che grava sul discorso pubblico e che occulta la semplice verità dei fatti: non si può andare al voto in queste condizioni e con questa legge elettorale. Lo sanno benissimo, e non possono e non vogliono andarci i democratici (nessuno di loro), né Sel, né 5 Stelle. Figuriamoci gli altri. E dunque, se non si vota la fiducia, non è che si aprano nuovi scenari, si formino maggioranze più coese, si promuovano più avanzati programmi di emancipazione sociale. Non succederà nulla di questo. Semplicemente altri si dovranno e già si fanno carico di votare la fiducia, evitare le elezioni anticipate, governare una situazione terribilmente incerta e precaria. O si fa così o c’è lo sfascio. Forse che si può votare con questa legge, col rischio serissimo di trovarsi esattamente nella situazione precedente? O qualcuno pensa davvero che si possa costituire una maggioranza alternativa con quel partito autoritario e nullista che è 5 Stelle?
Non lo ritiene, credo, alcuno. E tuttavia, un certo numero di parlamentari sembra arrovellarsi tormentosamente intorno al seguente dilemma: all'interno del sistema dei media porta più consensi urlare per due settimane la propria ferma intenzione di sfiduciare il governo Renzi o, invece, arreca più disdoro il fatto di non farlo dopo averlo fieramente annunciato? Personalmente preferisco un altro approccio e un’altra scelta. E sono d’accordo con Mario Tronti, per la prima volta da quando - era il 1966 ed ero ancora piccino - pubblicò «Operai e Capitale». Il senatore Tronti, nella riunione del gruppo democratico, ha detto: «Voto la sfiducia qui, nel confronto con i colleghi, e ovviamente voto la fiducia in aula» (o, come ha detto Walter Tocci in un bell’intervento, «Voto la fiducia al governo perché se dovesse fallire aumenterebbe la sfiducia di un paese già molto provato. Non c’è bisogno però che proprio tutti si aggiungano al coro»). Giusto. Poi, votata la fiducia, ciascuno condurrà la sua battaglia, farà le sue vertenze, perseguirà i suoi obiettivi, anche i più radicali. Ma nella massima chiarezza.

l’Unità 27.2.14
Dissenso sì ma costruttivo
risponde Luigi Cancrini

psichiatra e psicoterapeuta

«Non sono d'accordo, ma voto a favore, altrimenti mi espellono dal Pd» Civati. Grande esempio di forte coraggio, di grande personalità, di indubbio carisma. Il piccolo posto batte l'idea 10-0. Bravo Civati. Ma non era Grillo, l'antidemocratico, quello che espelleva i dissidenti?
Giuseppe

Avrei preferito anch’io che Civati dissentisse nel merito. Integrando il discorso di Renzi. Discutendone la fattibilità. Senza citare la possibilità di una espulsione e vantandosi, magari, della libertà che è naturalmente collegata all’idea di appartenere ad un partito democratico. Non grillino o berlusconiano. Così come avrei preferito che Cuperlo (cui io ho dato il mio voto a dicembre) non ponesse da subito il problema della segreteria. Protagonismo? Paura di essere omologati al ciclone Renzi? Può darsi. Al di là dei distinguo e delle valutazioni di dettaglio, tuttavia, quello che a me sembra importante riconoscere, oggi, è che quella del governo Renzi è un’occasione da non perdere per il Pd e per la sinistra. Da giocare con spirito di squadra. Criticando costruttivamente quello che c’è da criticare dall’interno di una discussione ancorata ai problemi e non puntata sulla legittimità, morale o politica, dell’altro. Dall’interno di un clima che deve distanziarsi ogni giorno di più da quello che si percepisce fra i forzitalioti e fra i grillini dove il valore fondante sembra, al di là del merito, quello della obbedienza e/o della fedeltà al capo. Ricordando a Renzi che rappresentare un partito vuol dire, umilmente, «servirlo» e non «comandarlo». Con «umiltà» appunto, come ben segnalato da Bersani che è tornato alla Camera per votarlo ed a cui vorrei dire da qui, insieme ai nostri lettori quanto sono contento di averlo rivisto: sereno, pacato e in forma. È di uomini come lui, infatti, che abbiamo soprattutto bisogno.

l’Unità 27.2.14
La fiducia dopo il voto
di Gianfranco Pasquino


Uno stile in parte deliberato in parte naturale, comunque poco consono a un capo di governo. Colto da pochi, il problema vero non era, però, di stile quanto di contenuti e, soprattutto, della molto carente sensibilità istituzionale da parte di Renzi.
Contrariamente a troppe affermazioni errate, comprese la sua e quelle di alcuni suoi ministri, i governi parlamentari entrano in carica anche senza passaggi elettorali. Di recente, nel 2007, nella patria delle democrazie parlamentari, la Gran Bretagna, Gordon Brown succedette al (non più) potentissimo Tony Blair senza che nessuno chiedesse a gran voce elezioni anticipate. Il cancelliere tedesco che ha il record di durata in carica fra i governanti europei del dopoguerra, Helmut Kohl (1982-1998), subentrò al socialdemocratico Helmut Schmidt grazie ad un voto di sfiducia costruttivo. Entrambi furono debitori della loro carica ai rispettivi Parlamenti. Entrambi stabilirono un rapporto di fiducia, rispettivamente, con la House of Commons e con il Bundestag poiché con il Parlamento intendevano lavorare.
I pochi applausi per Renzi al Senato sono stati cancellati dai molti applausi, come si dice con lessico parlamentare «da tutti i banchi», ricevuti alla Camera dal rientrante Pier Luigi Bersani e dal presidente del Consiglio uscente Enrico Letta, fino a quella che è parsa quasi una prolungata ovazione quando i due dirigenti politici sconfitti da Renzi si sono abbracciati. Certamente, i voti che hanno poi confermato la fiducia al capo del governo contano, eccome, ma gli applausi per Bersani e Letta meritano di essere interpretati. Sono stati un omaggio alla serietà di due dirigenti politici, di due ex-ministri, di un presidente del Consiglio che non hanno mai sminuito il ruolo del Parlamento, che hanno, al contrario, dimostrato di tenerlo in grande conto, che hanno costruito e mantenuto un rapporto di fiducia con i colleghi parlamentari e con l’istituzione Parlamento.
Fin dall’inizio è sembrato invece che Renzi parlasse e, se posso permettermi, gesticolasse, non per informare e convincere i senatori e i deputati, ma per stupire con la novità rappresentata, più che dal suo governo metà rosa, da lui stesso (il coniglio che si era tirato fuori dal cappello quasi da solo, come ha scritto, spiritosamente ma cogliendo un punto politico rilevante, Landò), i telespettatori. Volesse mandare sostanzialmente solo a loro il messaggio che proprio coloro che erano davanti alla televisione contano di più dei parlamentari. Sì, en passant, la televisione distorce i discorsi e i comportamenti parlamentari persino più dello streaming.
Invece, no: i parlamentari contano di più dei telespettatori proprio perché sono stati eletti da molti di quegli stessi telespettatori per rappresentare le loro preferenze e i loro interessi; per dare vita a governi stabili e operativi (e il lavoro comincia in Parlamento, non un noioso ostacolo cui sbarazzarsi, e lì ritorna); per controllare quello che i governi fanno, non fanno e fanno male; infine, per rendere conto di quello che loro stessi hanno fatto. Da cittadini sono stati eletti parlamentari per svolgere compiti importanti, spesso essenziali per il buongoverno (che non è mai il governo di una persona sola) e, se svolti con dedizione, gravosi. Allora, il rapporto di fiducia che deve intercorrere fra governo e Parlamento non soltanto si esprime più negli applausi (calorosi) che segnalano stima, che nei voti, anche se, ovviamente, i freddi numeri debbono contare e valere, ma nel riconoscimento del ruolo delle istituzioni.
Renzi avrà più o meno successo dei suoi molti diversi predecessori. Parte del suo successo e di quello dei suoi ministri, donne e uomini, dipenderà dalla loro consapevolezza che le istituzioni sono importanti; meritano rispetto (espresso, per esempio, con almeno una citazione per il presidente della Repubblica che ha facilitato la formazione del nuovo governo); svolgono il compito ineludibile di interlocutore per tutta l’attività del governo. Nella misura in cui ne sono capaci, e molti di loro sicuramente hanno le competenze necessarie, i parlamentari contribuiscono dalle file della maggioranza e dai banchi dell’opposizione (quella dialogante non insultante) a migliorare i provvedimenti del governo. La condizione è che si sia instaurato, nelle commissioni e in Aula, e venga preservato un rapporto di fiducia.

La Stampa 27.2.14
Per le riforme servirebbe la costituente
di Giovanni Orsina

qui

il Fatto 27.2.14
Parla Il “sospetto”
Chi ha ucciso Letta nipote?
di Fabrizio d’Esposito


Il mostro di Firenze e il Nipote assassinato. La produzione giallistica del Partito democratico è incessante, copiosa. Dalla carica dei famigerati 101 anti-Prodi alla pugnalate politiche per ammazzare il fu premier Enrico Letta. L’indagine parte dall’immagine regina di martedì scorso: il Nipote entra nell’aula di Montecitorio, non guarda mai il suo successore (in pratica, bissa il gelo della campanella a Palazzo Chigi) e va dritto ad abbracciare Bersani. Ovazione. E schiaffo a Renzi. Il nuovo mostro di Firenze, appunto. Il quale, però, la sera a Ballarò non si trattiene: “Io sono molto triste per come è stata riportata la vicenda del cambio della guardia a Palazzo Chigi: io so com’è andata e non solo io. Ma il tempo è galantuomo”. Traduzione: sul pugnale non ci sono solo le mie impronte digitali. Anzi. La soluzione riecheggia l’epilogo di Assassinio sull’Orient Express, di christiana memoria.
La liturgia nordcoreana per congedare il Nipote
L’ovazione antirenziana di Montecitorio è l’esatto contrario della liturgia nordcoreana della famosa e decisiva direzione di giovedì 13, titolo di un altro horror del Pd. Renzi introduce, poi tocca a Luigi Zanda, capogruppo al Senato, aprire le orazioni funebri per il defunto governo. Tutti coniugano i verbi al passato. Eppure, ufficialmente, si è fermi alla conferenza stampa di ventiquattr’ore prima, al culmine di un’altra giornata convulsa. Mercoledì 12 febbraio. Renzi e Letta si vedono di mattina. Ognuno fa sapere che è rimasto sulle sue posizioni. Ma il sindaco di Firenze ai fedelissimi confida: “Ho sentito Enrico tantissime volte in queste ore e mi ha detto che se ne va”. Invece, il premier tenta l’ultima disperata mossa. Convoca una conferenza stampa per rilanciare il suo governo. Impegno Italia. Carlo Bertini sulla Stampa rivela che c’è stata anche una telefonata tra Letta e Bersani, ancora convalescente: “Enrico vai avanti”. È la strategia per guardare in faccia i traditori. Non solo Renzi. Il sindaco assiste alla resistenza lettiana in tv e sbotta: “Mi ha preso per il culo, stamattina non mi ha detto nulla”.
Il numero dei Giuda ripartito per correnti
La sera del 12, tra Montecitorio e il Nazareno, sede democrat, la preparazione dell’assassinio sul Letta Express non subisce scossoni di rilievo. In Transatlantico un notabile centrista del Pd si diverte a contare i “Giuda” che stanno tradendo Letta. È questo il termine che usa: “Giuda”. Il primo della lista è Dario Franceschini. Seguono nell’ordine: i giovani turchi (ex dalemiani) Matteo Orfini e Andrea Orlando, il capogruppo bersaniano alla Camera Roberto Speranza, persino Gianni Cuperlo e i cuperliani. Un’altra fonte autorevole distingue: “I veri traditori sono stati i mediatori, cioè chi trattava tra Enrico e Matteo”. Ricorrono due nomi già citati: Franceschini e Speranza.
Salvare il Pd salvare la legislatura
Tutto il partito, tranne civatiani e lettiani, vuole inchiodare Renzi all’atto estremo: fargli prendere Palazzo Chigi. È l’unico modo per tentare di arrivare a fine legislatura e di rallentare la corsa dell’Italicum sottoscritto con Berlusconi. Fino alla settimana prima Renzi e i suoi fedelissimi negavano l’ipotesi della staffetta, ritenuta un “trappolone”. Per la serie: enricostaisereno. La situazione precipita nel weekend e così lunedì 10 il sindaco va a cena al Quirinale e martedì 11 annuncia che la direzione convocata per il 20 febbraio è anticipata al 13. I numeri sono dalla sua parte, per effetto dell’accordo con le maggiori correnti del partito. Solo in 16 votano contro. Ben 136 i favorevoli alla staffetta. La prova? La composizione del governo. Tutti toccano palla, compresi i bersaniani che vanno all’Agricoltura con il lombardo Martina. Venerdì 14 è l’amaro San Valentino di Letta, che usa il plurale per sfogarsi: “Sono dei farisei”. Non solo Renzi. Il letticidio è compiuto e l’immagine di martedì scorso va vista per intero. Dopo l’a b-braccio con Bersani, il Nipote va a sedersi altrove, lontano dal plaudente gruppo del Pd. E se D’Alema andrà in Europa da commissario il cerchio più che stringersi si chiuderà. Il mostro di Firenze ha tanti compagni di merende.

l’Unità 27.2.14
Cgil decide l’iter del voto ma Landini dissente
Via libera dal direttivo alla consultazione tra i lavoratori, la proposta approvata a larghissima maggioranza
Il leader della Fiom: convocherò il comitato centrale per decidere che cosa fare

di Massimo Franchi

Qualche passo in avanti, l’una verso l’altro - e viceversa. Ma rimangono distanze forti, quasi incolmabili fra Susanna Camusso e Maurizio Landini, fra la segreteria confederale della Cgil e la Fiom. Nonostante un incontro informale, prima che incominciasse il Direttivo, il Testo unico sulla rappresentanza continua a dividere e a creare tensioni. E rischia ancora di portare ad un sostanziale boicottaggio da parte della Fiom della consultazione decisa e votata (139 presenti con un solo voto contrario) dal parlamentino della Cgil, mentre 16 componenti(fra cui, con motivazioni differenti, Landini e Cremaschi) non hanno partecipato al voto.
Anticipata da Camusso a Landini, è toccato a Vincenzo Scudiere illustrare al Direttivo di Corso Italia la proposta della segreteria confederale: «per svelenire il clima », «per un atto di responsabilità», «per ribadire la scelta unitaria sull’accordo del 31 maggio e sul documento congressuale» - entrambi appoggiati dalla Fiom- entro la fine di marzo tutti gli iscritti attivi saranno chiamati a votare un «dispositivo di appoggio al Testo unico sulla rappresentanza». Le modalità della consultazione prevedono due collegi: uno composto dai lavoratori afferenti a Confindustria e Confservizi - organizzazioni datoriali che hanno già firmato il Testo - l’altro formato dai lavoratori di imprese «che non lo hanno ancora sottoscritto » più i lavoratori pubblici, sottolineando così come l’obiettivo della Cgil sia quello di estendere l’accordo a tutte le categorie. È chiaro dunque che in caso di sconfitta nel collegio Confindustria e Confservizi (la confederazione dei servizi gas e acqua) - 6 milioni di lavoratori con i metalmeccanici che ne rappresentano 1,5milioni e una proporzione simile anche rispetto agli iscritti Cgil - le conseguenze sarebbero gravi per l’attuale dirigenza. Un voto che sarà «certificato», come chiedeva la Fiom, ma che non avverrà tutto negli stessi giorni e che sarà anticipato da assemblee unitarie (con Cisl e Uil, che però non voteranno) con l’organizzazione che verrà demandata alle categorie - la Fiom dunque potrà spiegare la sua posizione almeno nelle fabbriche dove ha la maggioranza fra i metalmeccanici.
Una proposta che ha fatto rientrare la protesta dell’altro membro critico: Nicola Nicolosi. Il leader della componente Lavoro e Società ha appoggiato la «nuova» linea chiedendo però «che nel disciplinare del Testo che viene demandato alle varie categorie siano eliminate le sanzioni per i delegati sindacali».
Landini dal canto suo ha riproposto le condizioni già presentate nei giorni scorsi (oltre a quelle già citate, «assemblee con due punti di vista rappresentati») definendo come «strada non praticabile» la proposta della segreteria: «Convocherò il Comitato centrale per decidere cosa fare». Per il segretario della Fiom «il fatto che oggi non si sia affrontato il merito dà il senso della gravità della crisi democratica in Cgil», sottolineando che «per noi serve un accordo, ma cambiando i contenuti su sanzioni ai delegati, arbitrato confederale, maggioranza Rsu che decidono su accordi aziendali senza voto dei lavoratori e piattaforme contrattuali nazionali che possono essere presentate solo dal 50% più uno».
Ad appoggiare le posizioni della segreteria sono arrivati gli interventi di molti segretari di categoria: Franco Martini del commercio della Filcams, Stefania Crogi dell’agroalimentare della Flai («non è possibile andare avanti nelle discussioni come se ci fosse una categoria che ha più titolarità di un'altra») e Walter Schiavella degli edili della Fillea («la proposta è il frutto proficuo della volontà di ricercare un punto di sintesi»).
Pontiere tra le due posizione ha invece cercato di essere la segretaria dei pensionati dello Spi, Carla Cantone. Dopo aver spiegato come «i nostri iscritti non parteciperanno al voto perché abbiamo già votato l’ordine del giorno dello scorso direttivo durante le assemblee congressuali», Cantone ha sottolineato: «Dobbiamo ritrovare l’unità all’interno della Cgil perché altrimenti stavolta i nostri iscritti non ci perdonerebbero, quanto successo nelle ultime settimane non mi è piaciuto, ci siamo fatti del male da soli. In momenti più complicati della vita interna alla Cgil il gruppo dirigente con la sua autorevolezza ha saputo ricostruire l’unità. Noi - ha concluso - non possiamo permetterci di sbagliare»
Oggi la stessa Susanna Camusso terrà una conferenza stampa per ribadire pubblicamente la sua posizione e fornire i primi dati sul congresso. Da Corso Italia filtra «soddisfazione» per la partecipazione alle assemblee sui luoghi di lavoro. Ora i congressi territoriali, poi quelli di categoria. Nella pausa toccherà alla consultazione sulla rappresentanza. Praticamente un altro congresso nel congresso.

Repubblica 27.2.14
Il leader della Fiom contesta le regole della consultazione
Lite Camusso-Landini sul nodo rappresentanza


ROMA - Ennesimo scontro in Cgil. Ieri il Comitato direttivo della confederazione ha deciso le modalità per consultare gli iscritti sul contestato accordo sulla rappresentanza sindacale, ma al momento del voto la Fiom, guidata a Maurizio Landini, e altri dirigenti (in tutto sedici) hanno scelto di non partecipare per marcare il proprio dissenso. Dunque la Cgil consulterà a marzo gli iscritti, come chiedeva la Fiom, ma lo farà con modalità che la minoranza contesta. Ed è molto probabile che gli stessi metalmeccanici non partecipino alla consultazione. Lo deciderà il Comitato centrale che sarà convocato entro questa settimana.
Landini ha definito «inaccettabili » le regole varate. Dalla consultazione hanno deciso già di sottrarsi i pensionati. Ma non in maniera polemica. Con l’obiettivo, infatti, di svelenire il clima visto che i pensionati non sono direttamente interessati all’intesa ma con la loro massa d’urto (sono la metà degli iscritti) possono ben condizionarne l’esito.
Prima del referendum tra gli iscritti si svolgeranno le assemblee informative nei luoghi di lavoro. E qui c’è il primo punto contestato dalla Fiom. Perché le assemblee saranno unitarie con Cisl e Uil e i termini dell’accordo saranno illustrati da un delegato di una delle tre organizzazioni, senza che possa essere illustrata anche la posizione contraria. Tra l’altro gli iscritti a Cisl e Uil non voteranno perché per le due confederazioni la partita è chiusa.
Ma la Fiom contesta anche il fatto che votino tutti i lavoratori compresi quelli per i quali non si applicano le nuove regole, per esempio i dipendenti delle aziende del commercio. Per venire incontro a questa critica, la Cgil ha deciso che le urne saranno due: la prima per le categorie che «afferiscono » a Confindustria; la seconda per quelle che saranno successivamente coinvolte.
Un faccia a faccia in mattinata, prima dell’avvio dei lavori del Direttivo, tra il segretario generale della Cgil, Susanna Camusso, e quello della Fiom Landini non ha consentito alcun avvicinamento. E ora saranno inevitabili ripercussioni sul congresso che inizialmente vedeva un patto di non belligeranza Camusso-Landini.


il Fatto 27.2.14
Cgil sbatte la porta in faccia a Landini: la Fiom affila learmi
Il Direttivo del sindacato decite una consultazione che blinda l’accordo sulla rappresentanza
Le tute blu: “c’è una crisi democratica, noi non parteciperemo”
di Salvatore Cannavò


La consultazione degli iscritti Cgil sull’accordo sulla rappresentanza si terrà a marzo. Ma, come previsto alla vigilia, rappresenterà l’ennesimo strappo interno alla Cgil. La Fiom, infatti, si prepara a disertare quel voto le cui modalità Maurizio Landini ritiene “inaccettabili”. Ed è pronta a nuove iniziative eclatanti.
AL TERMINE DEL DIRETTIVO, la Cgil ha definito un documento che stabilisce le modalità con cui si svolgerà la consultazione. Ci sarà “una campagna di assemblee informative già definite tra Cgil, Cisl e Uil da tenersi nel mese di marzo” e, “nello stesso periodo” un’ulteriore espressione di voto di lavoratori iscritti alla Cgil”. A votare saranno questi ultimi che però avranno due seggi: da una parte “coloro che sono ricompresi nelle intese già raggiunte (Confindustria e Confservizi)” e dall’altra “coloro a cui estendere gli accordi”. Consultazione e risultati delle operazioni di voto saranno a cura delle categorie. Infine, i lavoratori non voteranno sul testo dell’accordo ma su un “quesito” in cui, ricordando che il giudizio della Cgil sull’accordo stesso è “positivo” si chiede di apporre un “sì” o un “no”. Susanna Camusso aveva già spiegato questa modalità, in mattinata, allo stesso Landini presentatosi a un incontro a quattrocchi con in mano le richieste di modifica della Fiom: “Ma non ne hanno accettata nemmeno una” spiega al Fatto .
Non sarà consentito, come chiedeva il segretario Fiom, presentare la posizione alternativa. Né il voto limitato solo al milione di lavoratori interessati: voteranno invece i 2,7 milioni di “attivi” esclusi i pensionati. La segretaria dello Spi, Carla Cantone, si è infatti tirata fuori dalla contesa proponendo una mediazione in grado di superare “gli errori” fatti in questi mesi. Un intervento che, però, è stato accolto gelidamente dalla segreteria nazionale. Landini, invece, parla di “una crisi democratica mai vista” contestando anche il metodo di voto sul “quesito”: “Nei fatti è un referendum sul gruppo dirigente che mette l’accordo al riparo dalla consultazione. La Cgil non dice a Cisl, Uil e Confindustria che il testo è congelato fino al risultato del voto: l’accordo è già operativo. Si tratta di una doppia finta”.
LA DECISIONE È STATA presa a larga maggioranza con la sola opposizione della Fiom e dell’area di Cremaschi, che non hanno partecipato al voto perché ritenuto illegittimo. Cremaschi, inoltre, reduce dall’aggressione subita al Teatro Parenti di Milano, ha mosso un attacco durissimo al vertice della Cgil accusato di aver falsificato i voti del congresso, “come fa Putin in Russia” e chiedendo, anche per quanto avvenuto a Milano, le dimissioni di Susanna Camusso. Sono invece rientrati i distinguo dell’area di Lavoro-Società che, tranne un esponente Fiom, Augustin Breda, ha votato a favore del provvedimento. La questione, ora, è sapere cosa succederà nei prossimi giorni. La maggioranza, dopo aver chiuso qualsiasi ipotesi di dialogo con la Fiom, andrà avanti senza esitazioni. “Il vero problema della Fiom? L’autolesionismo” si dice nei corridoi. L’accordo del 10 gennaio, infatti, una volta applicato, provocherà la perdita di alcuni diritti sindacali per chi non lo riconosce, come avvenuto a Pomigliano. Solo che, nel caso della Fiat, la Fiom ha visto riconosciute le proprie prerogative da una sentenza della Corte costituzionale. Quindi si annunciano contenziosi rilevanti. Ma in gioco, in questa partita, c’è anche altro. Camusso e compagni non possono accettare la richiesta di autonomia che avanza la Fiom. D’altro canto, quest’ultima non può accettare un modello contrattuale in cui “sindacati confederali e aziende decidono al posto delle Rsu o delle categorie”. “Faranno la fine dei Cobas” si ribadisce in Cgil. “Loro invece diventeranno come la Cisl”, è la risposta che si può ascoltare tra i dirigenti Fiom. A guardarli da fuori sono già due sindacati.
La Fiom, ieri, non ha partecipato al voto e non parteciperà nemmeno a una consultazione ritenuta “non democratica”. Landini ha già annunciato che riunirà i suoi organismi per decidere cosa fare. Si pensa a una grande manifestazione nazionale, una sorta di Stati generali della Fiom, in contemporanea alla consultazione, riunendo alcune migliaia di delegati e dirigenti per dimostrare, anche fisicamente, di essere, appunto, un altro tipo di sindacato. La lotta continua.

l’Unità 27.2.14
Due lavoratori su tre aspettano il contratto
Otto milioni e mezzo di dipendenti con gli stipendi congelati: il top dal 2008
Industria: produzione in picchiata nell’ultimo biennio
di Felicia Masocco


Due terzi dei lavoratori dipendenti aspettano il rinnovo del contratto, non è un’attesa gradevole visto che si tratta di una delle poche occasioni per vedere qualche euro in più in busta paga, anche solo quei pochi che servono per adeguare gli stipendi al costo della vita.
I contratti «congelati» erano 51 a fine gennaio, corrispondono a circa 8,5 milioni di dipendenti, pari al 66,2% nel totale dell’economia e al 56,3% nel settore privato. È l’Istat a rilevarlo e si tratta del dato più corposo dal 2008. In pratica si tratta di 8 milioni e mezzo di uomini e donne il cui potere d’acquisto è drammaticamente fermo. A ingrossare le fila è l’esercito dei lavoratori dei settori pubblici, circa 3 milioni (e 15 contratti): i loro accordi sono fermi da cinque anni per decreto, uno dopo l’altro gli ultimi governi hanno infatti deciso di farne oggetto di spending review. L’attesa del rinnovo per i lavoratori con il contratto scaduto è in media di 24,5 mesi per l'insieme dei dipendenti e di 11,8 mesi per quelli del settore privato. Tra i contratti monitorati dall’indagine Istat, a gennaio è stato recepito un solo accordo e ne sono scaduti cinque. Tradotto: a fronte di un contratto rinnovato (gomma e materie plastiche) ne sono scaduti altri cinque (agricoltura operai, servizio smaltimento rifiuti privati, servizio smaltimento rifiuti municipalizzati, commercio e Rai). A conti fatti solo 4,4 milioni di lavoratori dipendenti (il 33,7% del monte retributivo complessivo) percepisce retribuzioni «ritoccate» di recente.
LE RETRIBUZIONI Un dato che andrebbe tenuto a mente quando si parla di rilancio dei consumi. Ameno che non si consideri sufficiente l’aumento di una manciata di decimali delle retribuzioni contrattuali registrato sempre in gennaio. Si tratta di un incremento, rispetto a dicembre, dello 0,6% e dell'1,4% in confronto a gennaio 2013. Con riferimento ai principali macrosettori, a gennaio le retribuzioni contrattuali orarie registrano un incremento tendenziale (cioè rispetto all’anno precedente) dell'1,8% per i dipendenti del settore privato e una variazione nulla per quelli della pubblica amministrazione. Da notare che si allarga ancora la forbice con l'inflazione, ferma a gennaio allo 0,7%: In pratica i salari crescono il doppio dei prezzi, ma il divario è quasi esclusivamente dovuto alla frenata dei prezzi.
LA COMPETITIVITÀ Spostando lo sguardo su un’altra criticità della nostra economia, l’istituto centrale di statistica registra la caduta verticale della produzione industriale: nel biennio 2011 -2013 la riduzione è risultata in Italia più ampia rispetto a quella registrata in molti tra i partner dell'Unione economica e monetaria. E questa è una significativa differenza rispetto agli anni 2008-2009. «La Germania - spiega l’Istat in un focus sulla competitività - è l'unico Paese ad avere recuperato quasi pienamente i livelli produttivi precedenti la crisi; Italia e Spagna hanno perso, rispettivamente, quasi un quarto e un terzo del prodotto industriale; Francia e Regno Unito si situano in un ambito intermedio tra questi due poli. Gli effetti della crisi sono stati notevolmente marcati per il settore dei beni di consumo durevoli, in particolare in Spagna e in Italia». Nel tessuto produttivo di questi Paesi ci sono stati cali produttivi di oltre il 20 per cento in ben due terzi dei settori negli anni tra il 2007 e il 2013.
Tra i fattori presi in esame dal 2010 al 2013, l’export è quello che ha mostrato il trend migliore: c’è stato infatti un diffuso aumento della propensione a esportare, misurata dalla percentuale di fatturato esportato su quello totale.

La Stampa 27.2.14
Segreto di Stato, un dubbio resta irrisolto
di Vladimiro Zagrebelsky


Dopo gli attacchi terroristici del settembre 2001, gli Stati Uniti presero misure straordinarie di indagine e prevenzione. In particolare, con l’approvazione del presidente Bush e il parere favorevole del Dipartimento della giustizia, la Cia venne autorizzata ad istituire all’estero centri di interrogatorio di sospetti terroristi. Ove questi potessero essere segretamente interrogati con le modalità che risultano da un rapporto del 2004 della stessa Cia: usando ad esempio il totale isolamento anche con l’esposizione del soggetto a suoni altissimi, la privazione del sonno (per, come si precisa, non più di undici giorni!) o il ricorso alla tecnica del waterboarding (soffocamento tramite acqua). Tutte pratiche che nella concezione e nella cultura europea dei diritti umani sono qualificate come tortura. La tortura è vietata in ogni circostanza non solo dalle convenzioni internazionali e dalle leggi interne, ma anche da un inderogabile principio del diritto internazionale generale.
I sospetti da sottoporre agli interrogatori venivano sequestrati ovunque si trovassero e trasferiti mediante voli segreti nei centri di detenzione e interrogatorio istituiti fuori degli Stati Uniti. Questi sequestri e conseguente trasferimento sono noti come «extraordinary renditions». Tali pratiche sarebbero durate fino al 2006, quando venne disposto il trasferimento dei detenuti nella base americana di Guantanamo, ove molti di essi sono ancora ristretti senza processo. Le «extraordinary renditions» negli anni recenti sono state oggetto di indagini e severi giudizi del Parlamento dell’Unione europea e della Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa. Gli Stati membri sono stati sollecitati a indagare sulle responsabilità legate alla collaborazione prestata per realizzare i sequestri e gli interrogatori. In occasione della discussione dei rapporti parlamentari la condotta italiana è stata apprezzata per l’efficacia e l’indipendenza delle indagini che l’autorità giudiziaria di Milano conduceva su un sequestro avvenuto in quella città.
Nel 2003 infatti un rifugiato politico in Italia, noto come Abu Omar, era stato sequestrato, trasferito in aereo in basi americane e poi condotto in Egitto per essere interrogato. L’Abu Omar era in quel tempo oggetto di indagini della procura della Repubblica di Milano che cercava di ricostruire la rete di relazioni che questi intratteneva. Il sequestro e il trasferimento all’estero hanno evidentemente interferito con le indagini; solo recentemente l’Abu Omar, che naturalmente non è rientrato in Italia, è stato condannato a Milano a 6 anni di reclusione per associazione terroristica.
Il processo ai responsabili del sequestro, finalizzato al trasferimento e interrogatorio dell’Abu Omar, ha portato alla ricostruzione della partecipazione di agenti italiani insieme ad agenti della Cia e alla loro condanna. La Cassazione ha scritto che il sequestro era avvenuto «superando di prepotenza la sovranità dello Stato italiano sul proprio territorio e scavalcando le competenze delle autorità giudiziarie e di quelle di polizia che stavano indagando su Abu Omar». E la Corte Costituzionale nel 2009 aveva convenuto «innanzitutto con le risoluzioni del Parlamento europeo circa la illiceità delle cosiddette “consegne straordinarie”, perché contrarie alle tradizioni costituzionali e ai principi di diritto degli Stati membri dell’Unione europea e integranti specifici reati». Ma un problema si è posto per ricostruire le responsabilità degli appartenenti al Sismi italiano, poiché gli imputati eccepivano di non potersi difendere, avendo il governo opposto il segreto di Stato. La vicenda è stata lunga e complessa. La magistratura si è impegnata nel distinguere ciò che poteva essere utilizzato nel processo e ciò che doveva essere eliminato perché dichiarato segreto. I presidenti del Consiglio dei ministri dei vari successivi governi hanno confermato il segreto e sollevato conflitti contro la magistratura davanti alla Corte Costituzionale. La Corte Costituzionale si è pronunciata più volte e all’inizio di quest’anno ha ancora deciso che spetta al governo insindacabilmente opporre il segreto di Stato. Conseguentemente la Cassazione ha dovuto annullare le condanne inflitte agli agenti e ai vertici del Sismi per il ruolo svolto nel sequestro.
Il resoconto che precede era necessario, perché indica la natura e gravità della questione ora chiusa dalla sentenza della Corte Costituzionale e le implicazioni che ne derivano per il futuro. Va intanto notato che questa volta la questione non riguarda «i servizi deviati», cui abitualmente si fa riferimento in vicende imbarazzanti per le autorità statali. La Corte Costituzionale ha infatti richiamato il tenore della legge, la quale esclude che il segreto possa riguardare «i fatti, le notizie o i documenti relativi alle condotte poste in essere da appartenenti ai Servizi di informazione per la sicurezza in violazione della disciplina concernente la speciale causa di giustificazione prevista per l’attività del personale dei Servizi di informazione per la sicurezza». Il governo aveva dunque potuto opporre il segreto di Stato perché la condotta degli agenti italiani si era svolta nell’ambito del servizio. E nella sua sentenza la Corte Costituzionale ha ritenuto che il segreto «si proietti su tutti i fatti, notizie e documenti concernenti le eventuali direttive operative, gli interna corporis di carattere organizzativo e operativo, nonché i rapporti con i Servizi stranieri, anche se riguardanti le renditions ed il sequestro di Abu Omar». Con la conseguenza che ciò che «risulta inibito agli organi della azione e della giurisdizione è l’espletamento di atti che incidano – rimuovendolo – sul perimetro tracciato dal presidente del Consiglio dei ministri, nell’atto o negli atti con i quali ha indicato l’”oggetto” del segreto; un oggetto che, come è evidente, soltanto a quell’organo spetta individuare, senza che altri organi o poteri possano ridefinirne la portata, adottando comunque comportamenti nella sostanza elusivi dei vincoli che dal segreto devono – in relazione a quello specifico “oggetto” – scaturire, anche nell’ambito della pur doverosa persecuzione dei fatti penalmente rilevanti». Per nostra tranquillità resta dunque doverosa la persecuzione dei reati; ma il segreto, come la vicenda insegna, la rende impossibile.
La materia del segreto di Stato è certo estremamente delicata. Impossibile escluderlo del tutto. E in questo caso la vicenda si colloca nel quadro di questioni riguardanti la cooperazione internazionale in materia di sicurezza. Ma quel che colpisce nella sentenza della Corte Costituzionale è la mancata considerazione della natura dei reati di cui si trattava e degli obblighi di indagine e punizione che l’Italia ha assunto in materia. Obblighi che sono stati recentemente ricordati dalla Corte europea dei diritti umani, proprio con riferimento al segreto di Stato usato per impedire l’accertamento di extraordinay renditions come quella commessa in Italia. In quella sentenza la Corte europea ha dichiarato la responsabilità della Macedonia sia per le torture cui un altro sequestrato era stato sottoposto, sia per non avere efficacemente indagato e punito i responsabili. Un altro ricorso analogo è ora pendente contro la Polonia e non è difficile immaginare che l’esito sarà simile al precedente. E se verrà anche una condanna dell’Italia, questa riguarderà il cuore stesso della Convenzione europea dei diritti umani, quello che vieta in ogni circostanza di sottoporre una persona a tortura o di collaborare a che altri lo faccia. Purtroppo una tale condanna si riferirà alla condotta degli organi di vertice dello Stato, quelli politici e quelli di garanzia. Affermare che l’opposizione del segreto spetta al governo non chiude il discorso, ma lascia aperto quello delle circostanze in cui al governo dovrebbe essere impedito di opporlo. L’Europa dei diritti ha dato indicazioni chiare a questo proposito.

l’Unità 27.2.14
Decade il Salva Roma, Marino: «Non faccio l’ufficiale liquidatore»
di Jolanda Bufalini


In una manciata di ore il Salva Roma è diventato il Salta Roma e il sindaco Marino si è trovato catapultato in un incubo surreale, il sorriso ottimista che ha offerto, sin qui, alle matite dei vignettisti, il tratto più tipico su cui lavorare, ieri pomeriggio era scomparso. Scuro in volto e teso, Ignazio Marino è andato a palazzo Chigi con le dimissioni in tasca. Poi, al ministero dell’Economia, dove ha incontrato Graziano Del Rio.
La tentazione di mollare si è materializzata in tutta la sua drammaticità verso l’una, quando il ministro Maria Elena Boschi, preso atto «dell'indisponibilità di Lega e M5s e della conferma a continuare l'ostruzionismo», ha annunciato il ritiro del travagliatissimo decreto rimasto fermo al Senato per 57 dei 60 giorni che la legge concede per la conversione in legge. Niente voto di fiducia, non è questo l’esordio che Matteo Renzi ha immaginato per il suo governo. E di reiterare il decreto per la terza volta non se ne parla.
«Non sto minacciando le dimissioni, ma voglio sapere qual è la mia job description, perché non faccio il commissario liquidatore » sono state le parole del sindaco prima di entrare a palazzo Chigi dove lo aspettava l’ex sottosegretario Giovanni Legnini, al quale Del Rio ha chiesto di continuare ad occuparsi del dossier Roma, insieme ai vertici tecnici del governo e del comune.
«Io sono felice di fare il sindaco perché ho avuto l'onore di essere eletto dai cittadini» ha spiegato Marino a politici e tecnici, «ma se c'è bisogno di un commissario liquidatore che licenzi il personale, venda Atac e Ama, dismetta Acea emetta in cassa integrazione tutto il personale, non sono disponibile». «Non metto la faccia su un disastro annunciato» ha aggiunto, uscendo, due ore dopo, per spostarsi in bicicletta a via XX settembre. «Tutti sanno che ho ereditato un buco di 816 milioni di euro sul 2013 e che sto cercando di riparare i danni. Roma non chiede favori ma la restituzione di un prestito alla gestione commissariale, che i romani pagano con le loro tasse».
La denuncia di Marino (che incassa la solidarietà del collega De Magistris) verso i cinque stelle, che «tengono in ostaggio la città perché sono ostili al nuovo governo » è tanto più bruciante in quanto il sindaco aveva ottenuto, tramite i consiglieri grillini in Campidoglio, un diverso impegno dei parlamentari M5S.
Intanto, il segretario cittadino del Pd, Lionello Cosentino, ha convocato per oggi i parlamentari romani, alla vigilia del Consiglio dei ministri che dovrà risolvere il gran pasticcio cucinato in parlamento, con l’ostruzionismo di M5S e Lega.
Ostruzionismo ma non solo, al primo giro fu il presidente Napolitano a chiedere il ritiro del decreto diventato un omnibus per piccole e grandi elargizioni. Poi c’è stata la battaglia della senatrice Linda Lanzillotta, che avrebbe voluto nel decreto la privatizzazione di Acea e delle società in house. «Una ingerenza ideologica - spiega il neosegretario regionale del Pd Fabio Melilli, relatore alla Camera del provvedimento - perché si può chiedere un piano di rientro ma non si può ledere l’autonomia dell’ente locale, imponendogli per legge dove fare cassa ».
Negli uffici di palazzo Chigi e del Mef si studia, in queste ore, la soluzione tecnica. Matteo Renzi, che ieri non era a Roma, ha fatto sapere di essere stato in contatto telefonico con Graziano Del Rio, perché la rinuncia a porre la fiducia non significa disinteresse, «L’esecutivo è a piena disposizione sul piano politico e sul piano tecnico per superare l’impasse ».
Ma non c’è solo il decreto. «Quale è il rapporto del nuovo governo con la capitale d’Italia?», chiede Lionello Cosentino. «Alemanno - sostiene il segretario del Pd romano - si è accontentato del nome, ma Roma Capitale significa investimenti e significa il riconoscimento di maggiori spese ». Ed Enrico Gasbarra chiede al sindaco «la presentazione urgente di un grande piano anti crisi all’assemblea capitolina, coinvolgendo Municipi, forze politiche, terzo settore, sindacati, categorie produttive, e su queste basi costruire col governo il nuovo decreto».
Il problema vero, spiega Marco Causi, che è stato assessore al Bilancio in Campidoglio e che, ora, segue la vicenda in Parlamento, «riguarda il 2014». Il rischio commissariamento per la capitale non c’è, «perché il bilancio preventivo 2013 è stato approvato secondo le norme vigenti » (il decreto caduto ieri), e solo nel bilancio consuntivo si creerà l’eventuale assenza di copertura ma, nel frattempo, si spera che la questione sia sanata. Invece, per l’anno in corso, «ora mancano le basi minime» e ha ragione Marino quando dice che non può governare «in dodicesimi », cioè secondo i parametri, mese per mese, del bilancio precedente.
Il meccanismo su cui si sta lavorando potrebbe essere un nuovo decreto, più snello, e dovrà essere pronto per il consiglio dei ministri di domani. Gli obiettivi: mettere in sicurezza gli effetti giuridici degli atti compiuti a decreto vigente e assicurare il trasferimento dei 475 milioni previsti dal decreto decaduto. Queste le urgenze. rimane aperta la questione del finanziamento della legge «Roma Capitale».

il Fatto 27.2.14
La grande corruzione Arrestato il vigile di Roma
Ik Gip: “L’ex comandante della Municipale inquinava l’attività del Comune e minacciavaAlemanno”
Accuse anche per l’ex Dg Rai Meocci
di Rita Di Giovacchino


A tre anni dallo scandalo che ha travolto la Polizia municipale, accusata dai commercianti romani di mazzette ed estorsioni, è finito agli arresti domiciliari l’ex comandante Angelo Giuliani per corruzione e falso ideologico. Fino all’ultimo era convinto di uscire indenne dalla bufera e, dopo la rimozione dall’incarico nell’agosto 2012, si era asserragliato nella Scuola superiore del Corpo da dove continuava a controllare l’attività dei circoli sportivi al centro dei suoi interessi. Sempre per corruzione sono agli arresti anche 3 dirigenti della Sea (Sicurezza e ambiente): Angelo Cacciotti, amministratore di fatto, il genero Giovanni Scognamiglio e Iano Santoro del cda. La Sea è l’azienda che nel 2010 riuscì ad aggiudicarsi un appalto da 10 milioni l’anno, grazie ai buoni uffici di Giuliani e all’intervento di Alfredo Meocci, l’ex dg della Rai, che nella sua qualità di consigliere dell’Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici, aveva dato parere favorevole sull’appalto, benché svoltosi senza regolare gara, in cambio dell’assunzione di un amico. Sia lui che Giovanni Bort, sono sfuggiti all’arresto: l’accusa è di corruzione semplice, solo utilità e niente soldi.
I SINGOLI episodi di corruzione, nelle 124 pagine dell’ordinanza, si collocano all’interno di una “trama unitaria” in cui spicca il ruolo “apicale” di Giuliani che avrebbe abusato della sua posizione per interesse personale ricorrendo al ricatto e all’intimidazione. Oggetto dell’inchiesta è una serie di fatti gravissimi, sintomo di un “serio inquinamento dell’attività amministrativa del Comune di Roma”, confermata da intercettazioni. Il nervosismo assume toni da turpiloquio nell’estate 2012, quando i riscontri alle accuse mosse dai fratelli Bernabei, definiti “i bibitari”, portarono all’arresto di 6 vigili, e l’allora sindaco Alemanno si convinse a rimuovere Giuliani dall’incarico. Il comandante non ci sta e minaccia Alemanno. In vista dell’incontro si sfoga con gli amici, rivendica un “patto” con il sindaco. Un patto che gli ha consentito di ottenere l’incarico di comandante della Scuola allievi ufficiali? Al telefona sbotta: “Se mi toccate il gruppo sportivo, io mando 5-6 siluri, non ci provate... Sono anche presidente di commissioni... il gruppo sportivo non lo dovete toccare, ogni atto ostile che mi fate, leggasi gruppo sportivo, lo considero un atto ostile verso di me e agirò di conseguenza...”. Il comandante è fuori controllo, dalla sua bocca fuoriescono parole che, a dire del gip, destano “allarme sulla sua personalità”. Queste: “Sono pronto a fare la guerra, lo faccio crepare, io avevo fatto il patto con il sindaco, gli ho detto sindaco lasciateme perde almeno quello... Vi rompo il c...”. Quale patto lo legava ad Alemanno? Perché tanta agitazione sulla gestione dei circoli sportivi, in particolare quello di Lungotevere Dante, la cui gestione era affidata alla moglie Angela Cantelli?
SEMPLICE, le sponsorizzazioni, leggi mazzette, passavano di lì. Negli ultimi mesi Giuliani aveva preteso che i Bernabei sottoscrivessero un finanziamento alle attività sportive, poi aveva fatto firmare un documento analogo ai responsabili della Sea, senza data però, quando l’azienda aveva già versato almeno 30 mila euro. Alla fine di luglio, quando è ormai chiaro che Giuliani deve andarsene si pone il problema di accelerare i termini di un concorso per l’assunzione di 300 vigili urbani. Il presidente di commissione deve essere lui, a ogni costo. Seguono telefonate concitate con Maurizio Sozi, un vigile , che di prendere l’aereo da Brunico dove si trova in vacanza non ci pensa neppure. “Fate come se io ci fossi”, cede disfatto. I tempi stringono e viene costruito un falso verbale che nomina Giuliani. Ora, a partire da lui, i 5 commissari devono tutti rispondere di falso ideologico. Anche Donatella Scafati, la vice che aveva i numeri per succedergli. “Condotte caratterizzate da aspetti intrinseci e significativi della sistematicità e pervicacia dell’attività illecita con ricorso spregiudicato a ogni mezzo di pressione”, scrive il gip. Per Giuliani altre indagini sono in dirittura di arrivo, come quella sulle “licenze d’oro”. L’ex sindaco Alemanno in serata commenta: “Giuliani non si è mai permesso di minacciarmi, né glielo avrei consentito”.

Repubblica 27.2.14
Il Partito democratico entra nel Pse e Renzi sarà vice
Assise a Roma per lanciare le europee
Ritocco al simbolo per le “ nozze” tra socialisti e democratici
di Goffredo De Marchis


ROMA - Sul Partito socialista europeo Matteo Renzi fa seguire le parole ai fatti. Si chiude oggi l’adesione del Pd, senza le interminabili e sterili discussioni del passato, con una riunione della direzione convocata alla Camera proprio perché la sede del Nazareno è in prestito alle donne socialiste europee che lì tengono la loro conferenza. Il Partito democratico entra nel Pse e lo fa attraverso il voto del suo massimo organismo. Rimane la protesta quasi isolata di Beppe Fioroni che ricorda i patti sui cui era nato il Pd, sette anni fa: mai con i socialisti del Vecchio continente e mai con i Popolari. Bisognava costruire una casa nuova. Invece Renzi non inventa e si affida a una delle grandi famiglie politiche della Ue. Nel frattempo Fioroni ha già ricevuto una spilletta del Pse da un vecchio amico ex Pd Lucio D’Ubaldo, accompagnata da un bigliettino: «Te l’avevo detto, morirai socialista».
Del resto il premier e segretario compie quasi una scelta obbligata, tanto più alla vigilia di difficili elezioni europee. Si doveva scegliere per forza ora che il presidente della commissione europea è in qualche modo emanazione diretta dell’esito elettorale. Il Pd ha scelto come futuro numero uno di Bruxelles Martin Schulz e sarebbe stato folle rimanere in mezzo al guado «né aderendo né sabotando». E’ addirittura probabile che il Pd, il 25 maggio, metterà sulla scheda il nome dello stesso Schulz dentro il suo simbolo. In compenso i socialisti cambiano (un po’) nome. Rimane, nel simbolo, la scritta Pes, rimane il quadratino rosso con la virgola ma si aggiunge «socialists and democrats». Un segnale rivolto a molte forze politiche continentali ma soprattutto a quella italiana che con il suo 25 per cento rappresenta un ottimo bacino di voti per il progressismo in crisi del Vecchio continente.
L’adesione verrà festeggiata al congresso del Pse che si tiene da oggi a Roma. Cominciano le donne, al Nazareno. Domani è il giorno dei workshop tematici al Palazzo dei Congressi e del vertice della Feps, l’associazione culturale del Pse presieduta da Massimo D’Alema, sabato arrivano i big per gli interventi della sessione plenaria. Più convention che congresso: non si fanno organigrammi, non si corregge lo statuto. Sostanzialmente è la prima tappa della campagna elettorale delle Europee. Ma i socialisti celebreranno solennemente l’ingresso del Pd, soprattutto ora che il suo leader è andato a Palazzo Chigi e può diventare una risorsa anche per gli altri partiti d’Europa.
Da subito Renzi entra nel cosiddetto “leaders meeting”, il consesso dei capi di governo, di Stato e di partito del Pse che si riunisce per esempio alla vigilia di ogni consiglio europeo, così come fa il Ppe. Non diventerà subito vicepresidente del Partito socialista perché il congresso di Roma non ha i poteri di elezione degli organismi dirigenti. Succederà alle prossime assise ordinarie. L’esperienza del gruppo dei socialisti e dei democratici all’Europarlamento ha spianato la strada al nuovo Pse e all’ingresso italiano. Il capodelegazione David Sassoli ha lavorato cinque anni a questo appuntamento e a metà febbraio ha riunito anche la componente cattolica del Pd, la più scettica con in testa Pierluigi Castagnetti, per spiegare le buone ragioni di un’adesione. Adesione che anche un uomo del centrosinistra come Romano Prodi non aveva mai realizzato ma che adesso era diventata ineludibile. E non è certamente un caso che oggi l’area dell’ex Margherita sente più sua questa opzione, ora che a guidare il Pd c’è un uomo con la sua stessa storia e non un ex comunista.
Ad accelerare il processo è stata però Federica Mogherini, ex Ds e da pochi giorni ministro degli Esteri. E’ lei ad aver chiuso il cerchio strappando la promessa a Schulz e ai più gelosi della tradizione socialista di un allargamento della cultura e della ragione sociale del Pse. Da settimane è un italiano, Tommaso Giuntella, a coordinare gli attivisti del socialismo europeo per preparare l’appuntamento di Roma. E D’Alema ha completato il lavoro con i suoi contatti internazionali.

Repubblica 27.2.14
C’è un’Europa oltre Bruxelles scegliamola con il voto
di Ulrich Beck


IL PROSSIMO maggio le cittadine e i cittadini saranno per la prima volta chiamati alla scelta sul futuro dell’Europa. Quale Europa vogliamo? Dal momento dell’entrata in vigore del trattato di Lisbona e per tutta la durata della crisi i cittadini non hanno mai avuto l’opportunità di esprimere il loro giudizio sul futuro dell’Unione Europea, in un processo di formazione democratica della volontà. Questa volta, la novità è costituita dalla presenza di diversi candidati alla carica di presidente della Commissione europea, con la possibilità di scegliere tra diversi modelli d’Europa. È un salto quantico politico. Infatti, nel medesimo momento e in tutta l’Europa discuteremo in lingue diverse sugli stessi temi – cioè su persone e sui loro programmi. Vogliamo il “meno Europa” di un David Cameron, dettato dagli imperativi del mercato, oppure un’ “altra Europa”, che sottopone il mercato a regole democratiche, come ha in mente il presidente del Parlamento europeo, Martin Schulz?
I partiti anti-europei e i loro candidati vogliono essere eletti democraticamente per minare la democrazia in Europa.
Invitiamo i cittadini d’Europa a negare il loro voto a questo attacco politico suicida.
Ma è assolutamente necessario prendere sul serio lo scetticismo dei cittadini. Per la rinascita dell’Europa è indispensabile mettere pubblicamente in luce i difetti congeniti dell’Ue. Noi siamo contrari a una politica europea capace di mobilitare 700 miliardi di euro per stabilizzare il sistema bancario, ma che vuole spendere soltanto 6 miliardi per contrastare la disoccupazione giovanile. Molti, e tra di loro anche tanti giovani europei, hanno la sensazione che esista un mondo parallelo anonimo chiamato “Bruxelles”, e che esso minacci la loro identità, la loro lingua e la loro cultura. È sorta un’Europa delle élites, senza un’Europa dei cittadini. Per guadagnare i cittadini all’Europa, la politica deve affrontare i temi che stanno a cuore alle persone.
L’Europa si trova in un moment of decision. Dipenderà essenzialmente dall’esperienza, dagli orientamenti di fondo, dal coraggio e dall’abilità del prossimo presidente della Commissione europea se riusciremo a superare in Europa il “dispotismo benintenzionato” (Jacques Delors) e a far acquisire al vecchio continente una posizione energica e una voce che parli del futuro in un mondo globalizzato.
Hanno firmato l’appello
Zygmunt Bauman, Elisabeth Beck-Gernsheim, Daniel Birnbaum, Angelo Bolaffi, Jacques Delors, Chris Dercon, Slavenka Drakulic, Ólafur Elíasson, Péter Esterházy, Iván Fischer, Anthony Giddens, Lars Gustafsson,Jürgen Habermas, Ágnes Heller, Harold James, Mary Kaldor, Navid Kermani, Ivan Krastev, Michael Krüger, Pascal Lamy, Bruno Latour, Antonín Jaroslav Liehm, Robert Menasse, Christoph Möllers, Henrietta L. Moore, Edgar Morin, Adolf Muschg, Cees Nooteboom, Andrei Plesu, Ilma Rakusa, Volker Schlöndorff, Peter Schneider, Gesine Schwan, Hanna Schygulla, Tomáš Sedlácek, Kostas Simitis, Klaus Staeck, Richard Swartz, Michael M. Thoss, Lilian Thuram, Alain Touraine, António Vitorino, Christina Weiss, Michel Wieviorka

Corriere 27.2.14
Un altro spettro si aggira per l’Europa
La lotta di classe è ormai tra generazioni
di Mauro Maré


Un libro molto famoso, tanto tempo fa, iniziava così: «Uno spettro si aggira per l’Europa...». I tempi sono cambiati, ma le lotte sono sempre «di classe». Anche se questo aspetto è ora più sfumato, probabilmente perché le classi sono meno nitide, più fluide, accresciute di numero, con forti sovrapposizioni (si pensi, per il confronto, al Saggio sulle classi sociali pubblicato nel 1974 da Paolo Sylos Labini). Il conflitto è forse meno legato alla distribuzione originaria del reddito e più al tipo di lavoro. Sia chiaro, il conflitto distributivo esiste sempre: ma ha contorni più sbiaditi e complessi. Le analisi mostrano che l’origine delle diseguaglianze va attribuita più a fattori come l’accesso all’istruzione o il possesso di patrimoni, soprattutto per via ereditaria, e meno al reddito. La società attuale non ha «superato le contrapposizioni di classe, ha prodotto nuove forme di conflitto fra classi».
Negli ultimi trent’anni è però anche emerso un altro tipo di conflitto: quello generazionale, tra giovani e vecchi, tra attivi e non attivi. Forse ancora un conflitto di classe... che però ha come base l’età anagrafica. Karl Marx non poteva prevederlo per varie ragioni, soprattutto perché in quegli anni la famiglia era al centro dell’attività economica e si occupava di tutto. Al suo interno il conflitto era mediato. Il nucleo familiare svolgeva un ruolo cruciale di copertura pensionistica e sanitaria. I figli si occupavano direttamente dei genitori e li assistevano.
Il primo ambito in cui questo conflitto è emerso in modo fortissimo sono i sistemi di welfare . Nel secondo Dopoguerra, quasi ovunque nei Paesi dell’Ocse si sono affermati sistemi pensionistici «a ripartizione»: indubbiamente, una notevole conquista sociale. D’altro canto, i tassi di crescita elevati e una demografia molto positiva li rendevano attraenti e sostenibili. Per molti anni questi sistemi hanno così assicurato condizioni di vita adeguate e una buona copertura dei rischi individuali. Sono sistemi che funzionano bene, però, solo con una demografia e una crescita economica positiva.
È successo poi che la globalizzazione abbia redistribuito le risorse tra le aree del pianeta. Le difficoltà strutturali dei Paesi Ocse — dalla rigidità del mercato del lavoro al peso della finanza — hanno prodotto crisi economiche e una riduzione marcata del tasso di crescita potenziale. A ciò si sono aggiunti sviluppi demografici negativi e costosi per i sistemi di welfare : una caduta drammatica del tasso di natalità e un forte aumento della longevità. Si vive più a lungo, segnale di indubbio progresso sociale, ma questo ha effetti drammatici sui vincoli di bilancio. Si può essere di qualsiasi religione o squadra, ma l’aritmetica del vincolo di bilancio è molto semplice: un numero inferiore di persone attive dovrà finanziare il welfare di un numero crescente di «inattivi» per molti più anni. L’invecchiamento della popolazione farà anche invecchiare l’elettore cosiddetto «mediano», che decide chi vince le elezioni: il potere «politico» degli anziani, già forte, aumenterà di peso e potrà impedire riforme che redistribuiscano in modo più equo il costo tra le diverse generazioni.
Ma la vera questione è il sistema «a ripartizione». Non è ancora chiaro a tutti che, con il passaggio dal metodo retributivo a quello contributivo, si è modificata solo la regola di determinazione dell’ammontare delle pensioni: adesso è fissato non più in percentuale rispetto alla retribuzione, ma in funzione dei contributi versati. Il sistema resta però a ripartizione, non a capitalizzazione: sono gli attivi che pagano le prestazioni con i contributi. E questi contributi, versati dai lavoratori, sono utilizzati per pagare le pensioni altrui «subito», nello stesso anno. Non c’è nessuna accumulazione reale. Quindi: i diritti sono scritti sulla carta. In cambio del versamento (certo) dei contributi si ottiene (solo) una promessa di pagamento futuro.
Data l’evoluzione dei mercati del lavoro nei Paesi Ocse, i giovani («attivi» compresi) hanno cominciato a realizzare che non avranno molto «spazio» per pagare le prestazioni dei loro genitori. Se le pensioni che si è chiamati a pagare con i contributi sono molto diverse da quelle a cui si pensa di avere un giorno diritto, sarà difficile convincere gli attivi a sottomettersi a questo tipo di prelievo. Prima o poi ci sarà un rifiuto. La polemica sulle pensioni d’oro in Italia è il primo ma chiaro sintomo di un ripudio generazionale che sta prendendo forma, del fatto che pensioni «acquisite» secondo leggi vigenti verranno presto o tardi rimesse in discussione. Insomma: una guerra tra le generazioni.
Chi deve tentare una mediazione? I governi, naturalmente. Però, data la loro durata media relativamente breve, essi presentano una forte incoerenza temporale. Ovvero: le «promesse» tra le generazioni non sono credibili. I sistemi a capitalizzazione, se ben congegnati e gestiti, possono in parte spezzare il gioco che scarica sulle generazioni successive il costo di offerta delle prestazioni. D’altro canto, i sistemi a ripartizione da soli non sono più sostenibili. Si deve agire il prima possibile, anche considerando in sede Irpef la differenza di potere d’acquisto che esiste, a parità di reddito, tra lavoro dipendente e parasubordinato.
C’è molto da fare e poco tempo per evitare di trovarci allo «spettro» che si aggira per l’Europa sotto un nuovo slogan: «Giovani (o anziani) di tutto il mondo unitevi».

l’Unità 27.2.14
Lo spettro della battaglia del gas tra Mosca e Kiev
Circa l’80% del gas russo diretto in Europa passa per l’Ucraina
La Russia ha congelato i prestiti ma Bruxelles ha pronti aiuti per 20 miliardi di euro
di Umberto De Giovannangeli


Oltre l’aspetto militare. Oltre e più del controllo delle rotte strategiche del Mar Nero. La partita più importante tra Russia e Occidente che si gioca in Ucraina è quella energetica. L’Ucraina è un Paese chiave delle relazioni tra l’Europa e la Russia, dal momento che vi transita la quasi totalità del gas russo utilizzato dagli europei che proviene dalla penisola dello Yamal, nell’ovest della Siberia. Da oltre quarant’anni questo gasdotto è al centro di gran parte delle dispute geopolitiche mondiali. La Russia ha bisogno dei gasdotti ucraini per mandare il suo gas in Europa, l’Ucraina può decidere come e a che prezzo, entro certi limiti, questo gas può arrivare in Europa. «La prima e più importante arma di pressione della Russia - rimarca Lorenzo Colantoni, analista della rivista italiana di geopolitica Limes- è data dalla possibilità di assetare l’Europa isolandola dai suoi fornitori energetici. Se l’importanza dell’Ucraina sta anche nei suoi quasi 40mila chilometri di gasdotti, l’area del Mar Caspio (Turkmenistan, Kazakistan, Azerbaigian e Uzbekistan) dispone di quasi 21mila chilometri cubi di riserve di gas naturale, a fronte dei 33mila chilometri cubi di tutto il territorio russo».
PARTITA VITALE. Quanto a l’Europa, annota ancora Colantoni, « l’arma più affilata di cui dispone la Ue è il Terzo pacchetto energetico, che prevede la liberalizzazione del mercato del gas e dell’elettricità e la separazione tra chi produce l’energia e chi la trasporta. Esattamente l’opposto di quello che vorrebbe la Russia, che al centro della sua strategia ha il controllo dei centri di trasmissione, ucraini in primis. Il problema principale è che questo pacchetto è riservato ai soli Stati membri e non è teoricamente applicabile al di fuori dell’Ue: in realtà, il Trattato della comunità dell’energia estende il Terzo pacchetto anche ad alcuni Stati al di fuori dell’Unione, dove la legge europea diventa applicabile». Una cosa è certa, concordano analisti indipendenti, la mancanza di una stretta alleanza tra Russia e Ucraina sarebbe deleteria per gli affari di Gazprom e la sicurezza energetica che questa deve garantire all’Europa. Quasi tutti i gasdotti russi, progettati prima degli anni ’90, facevano dell’Ucraina il fulcro per le diramazioni della rete in Europa. Sono tre i gasdotti di epoca sovietica che transitano attraverso l’Ucraina. Il principale è il Western Siberia Pipeline, che ha una capacità di 32 miliardi di metri cubi l’anno. Seguono il Soyuz, il Brotherhood e il Northen Lights, che si allacciano poi ad altre due tratti di pipeline che prendono il nome di Transgas e di Tag quando arrivano in Slovacchia e Austria per rifornire il centro Europa, soprattutto la Germania e l’Italia.
Infine, sul territorio ucraino passa una diramazione dello Yamal-Europe, il gasdotto principale per l’approvvigionamento tedesco, che devia in Ucraina per giungere in Austria. Così, circa l’80 per cento del gas che Gazprom vende ai mercati europei passa per le pipeline ucraine. Una dipendenza strategica cui Mosca non ha voluto sottostare, pensando soprattutto agli investimenti necessari nel lungo periodo. Per questo motivo, il Cremlino ha ritenuto essenziale la costruzione di nuove pipeline che aggirino il territorio ucraino e rispondano alla domanda in crescita dei mercati europei (Gazprom prevede un aumento del fabbisogno energetico di gas nei prossimi venti anni del 25% e questo surplus europeo dei consumi sarà legato per l’80% alle importazioni. Putin sembrava aver sbaragliato la controparte (europea) lo scorso novembre, quando aveva convinto Viktor Yanukovich a congelare l’accordo di associazione con l’Ue. In quel caso il presidente russo ha manovrato diverse leve: la promessa di aiuti pari a 15 miliardi di dollari per risanare l’economia ucraina; l’abbassamento del costo del gas russo da 400 a 268.50 dollari per mille metri cubi; un vero e proprio embargo alimentare contro i prodotti ucraini. Nel 2013 il debito pubblico del Paese era pari a 73 miliardi di dollari. La pressione esercitata dagli oligarchi ucraini impegnati nel settore degli idrocarburi (vicini a Mosca) è stata determinante per persuadere Yanukovich. Oggi nella sfida tra Ue e Russia la palla è tornata al centro. Il 23 febbraio il presidente ad interim Turchinov ha manifestato l’intenzione di dare nuova linfa ai rapporti con l’Ue. Bruxelles è pronta a offrire degli aiuti economici a Kiev per un totale di 20 miliardi di euro. Mosca invece ha congelato il suo prestito.
Il leader del Cremlino, rimarcano fonti diplomatiche ed esperti del «pianeta » ex Urss non rinuncerà facilmente all’egemonia sull’ex repubblica sovietica. Tuttavia, un intervento militare russo a difesa dei territori filo-russi è al momento improbabile, anche se i blindati schierati in Crimea ne possono essere un’avvisaglia. Per riavvicinare l’Ucraina a Mosca e tenere sotto scacco l’Ue, Putin potrebbe servirsi della leva energetica. L’ex repubblica sovietica e il Vecchio Continente dipendono in maniera consistente dal gas russo. Ma anche Putin è dipendente dal mercato di sbocco. I giochi sono aperti. Giochi pericolosi. Per la «nuova Ucraina» e per la stabilità stessa dell’Europa.

La Stampa 27.2.14
Limonov: “In Crimea è guerra civile Andrò a difendere i nostri russi”
Lo scrittore recluta volontari e accusa Putin: leader debole, non farà nulla
intervista di Lucia Sgueglia


Mentre sale la tensione in Crimea e Mosca non esclude manovre militari al confine con l’Ucraina, il russo Eduard Limonov, nato a Kharkiv, recluta i seguaci a sostenere l’indipendenza di Simferopol, auspicando un effetto «a catena» in tutto l’Est ucraino: «Non staremo a guardare come uccidono i russi» dice, e sul suo blog apre le iscrizioni per la «Società dei fan del turismo in Crimea», possibilmente con esperienza militare e pronti a partire se «la stagione turistica si aprisse all’improvviso». 
Non le sembra di giocare col fuoco? 
«E perché? C’è già la guerra civile laggiù! Tutte quelle persone uccise, i Berkut... Kiev è già una rovina, come nella guerra mondiale. La nostra iniziativa serve a coordinare e unire tutte le persone che vogliono aiutare la Crimea. Dobbiamo dimostrare che nessuno può imporle la propria volontà».
In che modo? Secondo lei la Russia dovrebbe mandare i carri armati? 
«Non dico che dobbiamo attaccare. Ma la Russia per me deve dichiarare il proprio sostegno alla Crimea: o inviando dei volontari, come minimo, per aiutare la popolazione russa in loco ad auto-organizzarsi. O appoggiandone, ad esempio, l’indipendenza. E come opzione massima, mandare un contingente militare». 
L’Ucraina per lei è Russia? 
«No, certo, l’Ucraina non è Russia. Ma ci vivono 9 milioni di russi: sono nostri compatrioti. L’interesse della Russia è appoggiare l’Ucraina. L’Ucraina non è mai stata unita, è stato il potere sovietico a crearla e unirla, a partire dalla Repubblica Socialista Sovietica Ucraina (1919, capitale Kharkov), fino al 1991. Lo Stato ucraino non è mai esistito. Ma hanno un Paese, una cultura, una lingua eccezionali. E quelli che ora distruggono le statue di Lenin, forse vogliono rifiutare anche la Crimea che gli fu regalata da Krusciov nel 1954? È una enorme contraddizione. Io vorrei che l’Ucraina si dividesse in due: l’Occidente è austro-ungarico, mentre l’Oriente da sempre è stato parte dell’Impero russo». 
Come giudica il governo attuale instaurato a Kiev? 
«Rappresenta solo l’Ovest del Paese, che è arrivato tardi, per ultimo, nell’Ucraina: nel 1939 la Transcarpazia annessa dalle forze sovietiche, e poi nel 1945. Lì vigono valori diversi: c’è l’influenza del cattolicesimo, più quella austro-ungarica. La guerra dei partigiani di Bandera contro i sovietici lì è durata fin quasi agli Anni 60».
A Mosca ora si grida ai «pogrom antirussi» puntando il dito contro il «nazionalismo» di Kiev. Ma Lvov, da sempre roccaforte europeista e pro-opposizione, ieri ha dichiarato una «giornata della lingua russa» in solidarietà con l’Est del Paese, contro la decisione del parlamento di abrogare il russo come seconda lingua. 
«Sono solo pubbliche relazioni. È un nazionalismo campanilista. I rappresentanti ora al potere a Kiev vengono tutti dall’Ucraina occidentale, sono nazionalisti occidentali».
Putin tace, come mai? 
«Lui cerca sempre di nascondersi. È un leader debole, ma comunque più forte di Yanukovich, che è un imbroglione. Se Putin dicesse che la Russia sostiene la Crimea, lì subito si attiverebbero. Ma non mi aspetto nulla da lui, la sua è una politica evasiva».
E l’Europa? 
«Per l’Europa è indifferente chi distrugge i Paesi. Guardi cos’è successo in Siria: lì hanno scelto gli estremisti islamici per compiere l’opera, ora in Ucraina per questo ruolo hanno preso gli estremisti-nazionalisti».
L’Ucraina è così importante per i russi? 
«Certo, e molto: quel che accade è la situazione più tragica dalla fine dell’Urss. Nel 2004 noi (oppositori russi, ndr) appoggiammo la rivoluzione arancione: perché era diversa, era pacifica e liberale. Ora invece lì non ci sono europeisti contemporanei, ma modelli di fine guerra». 
Sarebbe pronto a lottare in prima persona per i russi di Crimea, come fece quando sparò su Sarajevo al fianco dei cecchini serbi? 
«Questo lo dice lei. Io posso dire solo che sono pronto ad andare in Ucraina, se sarà necessario, per aiutare il popolo».

Corriere 27.2.14
I ragazzi scomparsi della rivoluzione di Kiev
Sono 304 i «desaparecidos» ucraini rapiti, uccisi o solo irreperibili
La battaglia delle madri di Maidan
di Francesco Battistini

qui

l’Unità 27.2.14
Nube di smog assedia Pechino
Uno scienziato: «Presto l’agricoltura al collasso»
Calo di turisti stranieri alla Città Proibita
Da sei giorni la cappa dell’inquinamento sul Nord-Est. La Cina: «Non uscite di casa»
di Roberto Arduini


Sempre più critica la situazione dell’inquinamento nelle aree nord-orientali della Cina. Lo smog ha coperto circa il 15% del territorio nazionale, e ieri è stato il sesto giorno consecutivo di allerta arancio a Pechino, il grado più alto dopo il rosso. Le autorità hanno chiesto ai cittadini delle aree più colpite di non lasciare le loro abitazioni, se non per casi urgenti. I siti web dei maggiori gruppi di e-commerce, come Tmall, hanno esaurito le mascherine anti- smog, ma la richiesta aumenta, soprattutto per i nuovi modelli made in Singapore, le Totobobo, trasparenti e riutilizzabili.
Pechino è sommersa da una coltre di smog: la concentrazione di particelle di «particolato» PM 2.5 (le più fini) nell’atmosfera è vicina ai 500 microgrammi per metro cubo. Il record di località più inquinata della Cina lo detiene un piccolo centro dello Hebei, la provincia confinante con la capitale, a quota 761 nella rilevazione di ieri, trenta volte più alto del limite massimo di concentrazione di polveri sottili nell’atmosfera stabilito dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, che è fissato in 25 microgrammi per metro cubo di aria. Proprio l’Oms negli scorsi giorni si è detta preoccupata per gli effetti sulla salute che potrebbe avere l’aria nelle zone più inquinate del Paese. Anche martedì, il record di concentrazione di smog nell’aria apparteneva allo Hebei, e al piccolo centro di Tangshan, a quota 576.
Gli alti livelli di inquinamento hanno dato vita anche a forum on line e discussioni tra gli utenti di internet. Gli studi compiuti dagli accademici dell’università Tsinghua nel 2013 hanno evidenziato la presenza di oltre 1300 microbi nell’atmosfera di Pechino. Già da tempo, le autorità sanitarie hanno evidenziato un aumento nel numero di casi di cancro ai polmoni, senza, però, specificare con chiarezza la causa dell’aumento delle malattie. Negli scorsi giorni, Pechino aveva deciso la chiusura di diversi impianti industriali, cementifici e cantieri edili, e il governo aveva mandato dodici squadre di ispettori nelle aree più colpite, come lo Hebei, sede di alcune tra le maggiori acciaierie del Paese, per accertare che le disposizioni anti-inquinamento del governo centrale fossero rispettate. CAUSE CIVILI. C’è stato anche chi, proprio nello Hebei, ha fatto causa all’amministrazione provinciale per l’inquinamento atmosferico. È accaduto martedì a Shijiazhuang, la capitale provinciale: l’uomo, Li Guixin, potrebbe passare alla storia come il primo cittadino cinese impegnato in una causa per danni dovuti all’inquinamento. La città di Shijiazhuang non avrebbe svolto regolarmente il proprio dovere nell’impedire l’aumento delle emissioni inquinanti. L’uomo ha fatto causa alla municipalità per diecimila yuan, circa 1200 euro, lamentando un aumento delle spese sostenute per fare fronte all’emergenza: non solo mascherine e purificatori d’aria per interni, ma anche un tapis roulant per fare esercizio fisico in casa. «Il mio scopo è quello di fare accrescere la consapevolezza tra i cittadini sul fatto che siamo noi le vere vittime» ha detto Li. I media hanno augurato buona fortuna all’uomo per la sua iniziativa, sottintendendo che difficilmente la sua richiesta verrà accolta.
COLTIVAZIONI IN DIFFICOLTÀ. Le condizioni in cui si vive in questi giorni di smog sono da «inverno nucleare ». Se la situazione rimarrà inalterata, l’agricoltura cinese patirà condizioni «simili a un inverno nucleare», ha spiegato al quotidiano Guardian He Dongxian, docente all’Università per gli Studi agricoli. L’inquinamento atmosferico sta impedendo la fotosintesi delle piante, mettendo così a rischio la produzione agricola del Paese. «Oggi quasi tutte le imprese agricole stanno vivendo una situazione da panico da smog», ha aggiunto. Già all’inizio del mese, l’Accademia di scienze sociali di Shanghai aveva sostenuto in un rapporto che l’inquinamento sta rendendo Pechino quasi «inabitabile per gli esseri umani». Solo il presidente cinese Xi Jinping, nella sua passeggiata di ieri tra gli antichi vicoli della capitale cinese, è sembrato non accorgersi che il Pm 2.5 aveva superato i 400 microgrammi per metro cubo, e si fatto riprendere dalle telecamere senza protezioni sul volto. I meteorologi assicuravano nei giorni scorsi che da domani la situazione dell’aria nel nord e nel nord-est della Cina dovrebbe migliorare, con l’arrivo del vento e della pioggia che dovrebbero spazzare la coltre di smog che persiste sulla capitale e sulle aree limitrofe.
L’inquinamento ha provocato disagi anche al turismo. Secondo l’ente della capitale cinese, nella Città proibita, l’antica sede imperiale nel cuore storico di Pechino, lunedì scorso i visitatori erano circa diecimila, contro i 40mila turisti previsti. Sensibile calo anche per le visite alla Grande Muraglia, che lo smog ha reso quasi invisibile.

La Stampa 27.2.14
Hong Kong, agguato al reporter  che ha sfidato i corrotti di Pechino
Accoltellato, è gravissimo. Era stato licenziato il mese scorso
di Ilaria Maria Sala

qui

La Stampa 26.2.14
“Ciò che Israele fa a Gaza e Ramallah equivale all’apartheid”
L’americano inviato speciale delle Nazioni Unite Richard Falk punta il dito contro il trattamento imposto dagli israeliani alla popolazione che vive nei Territori: “Una sistematica oppressione nei confronti dei palestinesi”
di Maurizio Molinari

qui

La Stampa 27.2.14
Immigrati, l’Ue punisce la Svizzera
Studenti fuori dal progetto Erasmus
La scelta dopo il il referendum sui frontalieri
Dal prossimo anno accademico
gli allievi resteranno fuori dal programma di scambio. Penalizzati i ricercatori
qui

il Fatto 27.2.14
Il giornalista-scrittore Manlio Cancogni
Gli intellettuali italiani sono un branco di pecore
intervista di Silvia Truzzi

Nei giorni in cui l’Unione europea denuncia l’eccesso di corruzione in Italia abbiamo incontrato Manlio Cancogni, giornalista, scrittore, soprattutto intellettuale libero. La circostanza dell’euro-reprimenda non è ininfluente: è lui il cronista di “Capitale corrotta, nazione infetta”, titolo (in realtà era un occhiello) entrato nella storia. Era il 1956, l’inchiesta de l’Espresso sui rapporti opachi tra la Società generale immobiliare e il Consiglio comunale di Roma ebbe un’eco incredibile, anticipando di parecchi decenni una stagione che si sarebbe identificata perfino nominalmente con la parola “tangente”. Manlio Cancogni – compirà 98 anni in luglio – ha attraversato il Novecento con irriverente grazia: pensatore inquieto e allergico alle ideologie, è stato un narratore prima che un giornalista. Vissuto a Roma, a Parigi, negli Stati Uniti, dove abitano i bisnipoti, si gode una vecchiaia lunghissima (“da quando ero giovane ho sempre avuto paura di morire...”) guardando il mare della Versilia dalle finestre. Ci apre la porta la moglie Rori: stanno insieme da quando lei aveva 17 anni e lui, venticinquenne, la andava a prendere a scuola.
Perché nel '56 fece così tanto scalpore la sua inchiesta su l’Espresso?
Ancora quella storia! Ma guardi che io non inventai nulla: i comunisti si erano già occupati della situazione fondiaria dell’amministrazione capitolina, ma erano all'opposizione e nessuno dava loro retta. Feci quell’inchiesta senza particolari aspettative, il titolo lo fece Arrigo Benedetti. L’accusa era contenuta in due righe dell’articolo, dove dicevo che la società immobiliare faceva pressioni sull’amministrazione municipale: se i corruttori delle società immobiliari non ci avessero querelati, sarebbe finita lì.
Ci racconta qualcosa degli anni dell’Espresso?
Sono molto grato a Benedetti: ha sempre sopportato le mie bizze, che erano numerose. Non mi sono mai preso sul serio. Questo ruolo di accusatore pubblico, di Robespierre, non mi stava bene, ma mi fu cucito addosso. A me piaceva il giornalismo, però non lo consideravo il mio mestiere. Il periodo più felice è stato quando facevo giornalismo di Terza pagina, con Montanelli al Giornale: dieci anni formidabili. Sono stato benissimo con Indro: l’avevo letto quand’era inviato di guerra, mi sembrava fascista. E certo, lui lo era stato da ragazzo, ma la sua rottura con il regime era avvenuta nel ’37. Era un grandissimo giornalista, non c’è dubbio. La sua Storia d’Italia ogni tanto la rileggo ancora, è così piacevole... Comunque Indro era un liberale, io un radicale del Partito d’Azione: nel ’36 ero fortemente antifascista. Non mi sarei sacrificato per la causa. Avevo combattuto sul fronte greco-albanese per poco tempo: mi ammalai , con febbri altissime, e mi rimandarono a casa.
E Scalfari?
Non posso che parlarne bene: con me è sempre stato gentile, ma non siamo mai stati intimi. Che dire di Scalfari? Ottimo organizzatore di giornali, ottimo articolista. Vanitoso. Io non credo che fosse un genio, Eugenio. Ma ha il merito di aver fondato un impero editoriale.
Mario Pannunzio?
M’invitò a collaborare al Mondo, nel ’49. Poi per caso incontrai a Marina di Pietrasanta Arrigo Benedetti, che veniva qui in villeggiatura. Al mattino facevo lunghissime passeggiate, soffrivo di depressione, pensavo di essere vicino alla morte. Mi sentii chiamare ed era Benedetti che stava sotto un ombrellone con Emilio Radius, caporedattore del suo Europeo. Era agosto e c’era il Premio Viareggio. Benedetti mi chiese di scriverne le cronache. Era un giornale bellissimo, l’Europeo: ricordo che aspettavo il sabato per leggerlo. Feci quest’insignificante articolo, che però dava la notizia di un litigio in giuria. Cominciai a collaborare, l’estate successiva Benedetti tornò qui al mare e mi disse che dovevo trasferirmi a Milano. Insegnavo in un liceo Storia e Filosofia, un bellissimo mestiere molto mal remunerato: per i quattro pezzi sull’Europeo in un mese guadagnavo 100 mila lire, il mio stipendio di professore era di 40 mila lire. Così andai a Milano e nel ’52 a Parigi, come corrispondente. Rimasi fino al ’54 quando Benedetti lasciò l'’Europeo. Allora m’ingaggiò Gualtiero Jacopetti che faceva un settimanale, Cronache. Scrivevo da Marina di Pietrasanta, ricordo che ancora non avevo il telefono: dettavo il pezzo da un apparecchio pubblico. Poi l’editore lo vendette a una cordata di cui faceva parte Arrigo Olivetti, e Cronache diventò l’Espresso: entrai automaticamente.
Lei ha detto: “Dopo Croce la cultura è stata il festival della fregnaccia irreggimentata”.
Non sono mai stato crociano, anche se apprezzavo la personalità dell’uomo. Appena finita la guerra tutta l’intellettualità che prima lo venerava, lo ha ripudiato in un attimo. Gli intellettuali italiani hanno poca indipendenza, vivono meglio in branco. Nel dopoguerra erano tutti marxisti. Poi negli anni Sessanta tutti a seguire Husserl, tutti fenomenologisti. Ora non c’è più niente.
Nel ’73 ha vinto il Premio Strega.
Sì, con Allegri, gioventù. Il premio era nato durante l’attesa degli alleati, tra il ’43 e la Liberazione. Era il premio letterario della Resistenza: vede, l’unica resistenza possibile a un certo punto è stata quella culturale. La resistenza al fascismo era stata politicamente inefficace e di scarsa consistenza: quelli in carcere e al confino erano pochi. Ma la resistenza culturale si faceva, eccome. Vinsi lo Strega con Rizzoli, l’avevo tentato nel '65 con Mondadori. Quell’anno vinse Volponi, meritatamente, con La macchina mondiale. Poi ha seguito le vicende dello Strega? No, ho letto alcuni libri che hanno vinto il premio, come Canale Mussolini di Pennacchi: bellissimo.
Legge gli autori contemporanei?
Dipende cosa vuol dire contemporanei. Mi capita ancora di rileggere Giorgio Bassani. Ma ci sono grandi scrittori del primo Novecento come Pea, Tozzi, Comisso, Bartolini che non sono più letti da nessuno. Tre croci di Tozzi è un meraviglioso romanzo, va letto anche Pea, per la freschezza e l’originalità.
Cassola era un suo amico.
Un caro amico. Anche se c’è stata con lui una strana rottura. Era già cominciata la malattia, soffriva di ossessioni quando gli venne in mente la storia del disarmo unilaterale dell’Italia. Io ero incredulo, non capivo: questa sua attività divenne pressoché esclusiva, tra l’altro a danno della letteratura perché i libri che scrisse in quel periodo non erano veramente granché. Era stato di una grandissima originalità: La visita, Il cacciatore, Il soldato, Ferrovia locale, Tempi memorabili. Deve il suo successo a La ragazza di Bube, anche se a mio avviso non è il suo lavoro migliore.
Dove vi siete conosciuti?
A Roma, al Ginnasio Torquato Tasso di via Sicilia, si abitava nello stesso quartiere. Lui era un anno addietro a me, perché era più piccolo ma si andava insieme a ginnastica, due volte alla settimana. La vera amicizia è iniziata nel ’35, all’insegna dell’antifascismo: lui fondò una specie di partito, ma non s’era più di cinque...
Gli altri suoi amici scrittori sono stati Carlo Levi, Giorgio Bassani e Bianciardi. Soprattutto Levi e Bassani. Anche Pea l’ho conosciuto: era del 1881, molto più anziano di me. Era un bellissimo vecchio, con la barba e i capelli bianchssimi. Peccato che i suoi libri siano introvabili. Ma sento che si legge sempre meno, in Italia. E pensare che io credevo che la crisi economica avrebbe portato un incremento della lettura: ero convinto che la gente si sarebbe raccolta in sé e dunque che avrebbe letto di più. Ma si vede che gli italiani sono proprio refrattari alla lettura...

Corriere 27.2.14
L’ultima accusa di Romano Bilenchi
Siamo in una dittatura democratica
Fra delusione ed entusiasmo; la caduta del Muro e Gorbaciov
intervista di Corrado Stajano

Non conoscevo Bilenchi e avevo sempre desiderato conoscerlo. I suoi libri mi piacevano molto. Avevo letto ancora ragazzo Mio cugino Andrea e poi, via via, Conservatorio di Santa Teresa , Il bottone di Stalingrado e Amici che me l’aveva reso famigliare con quei ritratti cosi veri di Vittorini, di Rosai, di altri. Era davver o uno «splendido raccontatore orale» come di lui aveva scritto Gianfranco Contini. Sempre secondo il sommo critico, Bilenchi era «cronologicamente il primo in quel gruppo di valenti narratori toscani che a circa vent’anni di distanza, scevri d’ogni ornamentazione, ripresero la lezione di Tozzi».
Avevo sempre considerato Bilenchi un maestro. Lo ammiravo per i suoi libri e per le sue passioni mescolate, la politica, la scrittura, il giornalismo. Quel bellissimo giornale che aveva fondato e tenuto in piedi dal 1948 al 1956, «Il Nuovo Corriere» di Firenze, chiuso per la cecità del gruppo dirigente del Partito comunista, era stato una delle sue creature. Vi avevano scritto uomini come Calamandrei, Parri, Jemolo, Salvemini, De Robertis, Garin, Cases, Delfini, Mila, Luigi Russo, Carlo Bo, Roberto Longhi, Fortini, Antonicelli, Tobino, Bianchi Bandinelli. Politicamente e culturalmente era troppo avanzato per quei tempi.
Il colpo di grazia fu, il primo di luglio del 1956, l’articolo di Bilenchi intitolato I morti di Poznan che si schierò dalla parte degli operai polacchi in rivolta: «I morti di Poznan — scrisse in quell’articolo — sono morti nostri, non vostri». Si rivolgeva cosi agli uomini della destra di casa, ai governanti impudichi che avevano ordinato il fuoco della polizia contro gli operai e i contadini di Modena, di Melissa, di Comiso, di Barletta, di Venosa, e che ora speculavano su quei morti polacchi: «Questi morti ci incitano sempre piu a percorrere intera la nostra strada». La strada di Bilenchi fu accidentata. Perché antepose sempre a tutto le ragioni della libertà, non tacque mai. 
Alla fine del 1988 scrivevo sull’allora terza pagina del «Corriere della Sera» dove ero approdato l’anno prima quando era diventato direttore Ugo Stille. Avevo proposto una serie di articoli — allora si usavano — Padri e maestri . Bilenchi non doveva mancare, finalmente l’avrei conosciuto. Avevo già intervistato Eugenio Garin a Firenze, Gianandrea Gavazzeni a Bergamo, Carlo Dionisotti a Londra. Nel gennaio 1989 era venuta la volta di Romano Bilenchi, nel quartiere fiorentino delle Cure. L’articolo usci l’11 gennaio. Chiusi quella serie andando ad ascoltare Franco Venturi a Torino e Aldo Garosci a Roma.
Con Bilenchi si creò subito una grande consonanza. Era come l’avevo sempre immaginato, un uomo libero, anche se così sofferente, ammalato di una polineuropatia diabetica molto dolorosa che prendeva i nervi, i muscoli di tutto il corpo, le gambe e gli impediva di camminare. Non usciva di casa da sette anni, le sue giornate erano tremendamente uguali. La mattina si alzava tardi, sedeva a un grande tavolo con tutti gli attrezzi — li chiamava così — che gli servivano: i telecomandi, le scatole delle medicine, una bottiglia d’acqua, il tabacco. Aveva alle spalle qualche fotografia-simbolo di uomini che per lui avevano contato: Tolstoj, con un caffetano bianco, Lenin, Gramsci e Ottone Rosai, soldato della Grande guerra.
A Ugo Stille piacevano da sempre i libri di Bilenchi e mi aveva pregato di chiedergli di scrivere sul «Corriere». Quel che voleva.
Bilenchi, nel passato, aveva scritto sul giornale di via Solferino, quattro articoli nel 1970-71, otto articoli nel 1981 entrati nel Gelo , il libro dell’adolescenza.
Riuscii nel compito che mi era stato affidato, favorito dal clima di reciproca simpatia e dal fatto che Bilenchi avesse letto qualcuno dei miei libri. Scriverà sul «Corriere» cinque articoli: il 23 aprile, Un elefante di marmellata per l’amico Linder ; il 25 maggio, Due veri Ucraini e un falso partigiano ; il 25 giugno, E portai Maccari alle «Giubbe Rosse» ; il 25 luglio, Quando lessi la mia condanna a morte ; il 27 settembre, Quando tornano i fantasmi dell’infanzia . Il suo mondo, come sempre.
L’intervista durò ore, tutto il pomeriggio. Bilenchi non smise mai di parlare, ne aveva voglia. Non era facile capire quel che diceva; il male aveva intaccato le corde vocali. La moglie dello scrittore, la signora Maria, che per tutta la vita gli era stata accanto, mi aiutava con gentile premura quando capiva che ero in difficoltà.
Ho ritrovato gli appunti di quel giorno, li rileggo, almeno in parte, e mi sembra di rivederlo, Bilenchi, imprigionato dietro quel tavolo, lucido nella memoria, lieto di rinverdire ancora il passato.
«Come sta Bilenchi?»
«Male, ho dei dolori da impazzire, da non capire più nulla. Vivo così da 16 anni e sette mesi. Non cammino, non ci fo dieci metri. Non esco di casa dall’inverno del 1981. Ora era il momento che avevo smesso di fare il giornalista bischero. Adesso vo in pensione, mi dicevo, scrivo quei 5-6 libri che devo scrivere. Ne ho scritti due e poi mi sono bloccato».
Non era facile riuscire a tenere un filo logico con Bilenchi. Seguitava con me a esprimere i pensieri che da anni gli dovevano martellare la testa, senza contraddizioni, ma senza una continuità. Il fascismo, il comunismo, Togliatti, il tempo presente si intersecavano tra loro con naturalezza.
«Che mondo è quello che lei vede da qui?»
«Non mi piace. Questa democrazia bloccata non mi va giù. Questa specie di dittatura democratica... Lei può dir tutto e tutti se ne fottono, c’e questa differenza col fascismo. Io vedo i giornali oggi e mi sembrano quelli del ’36-’37. Tutti uguali, come i giovani che vengono qui. Il Pci va giù per tante cose, perché non ha mai preso un treno in tempo. Bisognava che avesse coraggio. Gli uomini del partito sono privi di qualità. Togliatti era un grand’uomo».
«Anche se lei dopo la chiusura del “Nuovo Corriere” gli mandò una letteraccia. Ringraziò tutti, nel suo Congedo, non il Partito».
«Più di una volta, anche a voce gli dissi quel che dovevo. Con Togliatti si parlava. Era un democratico. La famosa doppiezza non la vedo. Se dicessi che era uno stalinista sarei un porco».
«Lei è una persona piena di umori, di attenzioni per gli altri. Togliatti non era particolarmente simpatico».
«A me sì, parecchio. “Sono stato fascista”, ho detto una volta, e lui mi fece una carezza. “Tutti sono stati fascisti”. “Voi no, quelli che erano in galera e chi era in Francia e chi in Russia”. “Non importa”. E infatti quel suo libro di Lezioni sul fascismo per me è di importanza grande. Col giornale che facevo seguivo tutti i movimenti popolari al di fuori dei partiti che dessero garanzia di antifascismo e di democrazia perché, dicevo anche a Togliatti, da noi non ci si fa».
«È strana questa sua amicizia e fedeltà nei confronti di Togliatti. È stato lui, alla fine, a dare il suo consenso alla chiusura del “Nuovo Corriere”. Il Pci era un partito ben centralizzato».
«“Sta’ attento, mi diceva di fronte ai dirigenti del partito. Sta’ attento, difendi questo giornale perché te lo levano”. Era stato attaccato da Pajetta, da Terracini. “Sei sulla strada giusta, vai avanti — mi diceva —. Però corri troppo, ti romperai la testa e io non potrò nemmeno ricucirtela perché devo arrivare con tutti gli altri”. Il partito aveva ancora il cuore e il cervello a Mosca».
«Lei è un uomo strano. È stato un “fascista bolscevico” e poi un “comunista liberale”, come si suol dire. Ha sempre rifiutato gli anarchismi e tutto quanto è fuori dalla regola. Ma lei è sempre stato un ribelle».
«Come no? Sono e sono sempre stato in una gran confusione forse perché sono attaccato minuto per minuto a quel che succede. Oggi è cosi, domattina bisogna essere in un’altra maniera».
L’intervista andò avanti a balzelloni. Il fascismo, nel discorrere, tornava di continuo, ossessivo, ricorrente.
«Perché lei è sempre là col pensiero?»
«Era partito bene in piazza San Sepolcro — repubblica, comproprietà dell’industria, nazionalizzazione. Mussolini garbava molto perché alla gente uno che facesse tutto per lei andava bene. Per me fu una grande delusione vedere, negli anni Trenta, il fascismo “rivoluzionario” finito in mano ai pescecani. Accadde poi che con un gruppo di amici fummo convocati a Palazzo Venezia per render conto di un manifesto realista. In quest’occasione vidi il mito crollare. Il duce indossava un vestito buffo. Sa quei circhi equestri di paese col direttore vestito con una giacchetta lunga, non si capisce se è una palandrana, un tight, i pantaloni a righe, un clown. Mi venne il mal di stomaco, da sputargli sul muso. Era solo un tragico buffone».
Non riuscivo a fargli abbandonare la politica e le sue memorie. Era il 1989, l’anno della caduta di Berlino di cui seppe negli ultimi giorni della sua vita. Era entusiasta di Gorbaciov. «L’aspettavo — mi disse —, la via è segnata, la via è quella».
Ma io volevo farlo uscire dalla politica, fargli raccontare del suo scrivere, dei suoi libri. Con poco successo.
«Che cosa è contento di aver fatto nella vita, soprattutto?», tentai.
Pervicace, rispose cosi: «Di essermi iscritto al Pci» — era rientrato nel Partito nel 1972. «Dei miei libri non me ne fotte molto. Quello è un dono di Dio».
«Quali sono state le cose importanti dell’esistenza?»
«La moglie e la politica, la famiglia, gli amici. La mia storia di uomo dentro la società. E poi la natura. La letteratura non è stata la cosa più importante. Non lo concepisco, uno che s’alza da letto e alle otto della mattina pigia la macchina da scrivere e finisce a mezzogiorno. L’odio, uno così, m’ammazzerei piuttosto. Ho avuto sempre lunghi periodi di silenzio: dal ’41 al ’58 non ho scritto nulla. Scrivo solo quando non ne posso più, quando sento che devo farlo».
«E nella testa adesso sta rimuginando qualcosa che le piacerebbe scrivere?»
«Sì, un romanzo d’amore. Vent’anni fa, tra Siena e Firenze, intitolato L’innocenza di Teresa . E poi racconti, trame ne avrei, ma non riesco neppure a dettare». E mi guardò con malinconia.
Da quel garbuglio cavai l’intervista che uscì sulla terza pagina del «Corriere» l’11 gennaio 1989 e fece poi da introduzione al volumetto pubblicato da Vanni Scheiwiller, Tre racconti , uscito per gli ottant’anni dello scrittore.
L’Istituto Gramsci di Firenze organizzò per quell’occasione nella sua sede di via Giampaolo Orsini una festa convegno. Era l’11 novembre 1989, un sabato pomeriggio. Parlarono in molti nella piccola sala. Romano doveva comparire anche lui in collegamento video. Si seppe allora che stava male, non l’avremmo visto. La festa di compleanno finì malinconicamente.
Ugo Stille, Gianfranco Piazzesi e io decidemmo allora di andarlo a salutare nella sua casa, in via Brunetto Latini. Ci aspettava immobile dietro quella sua plancia dove aveva vissuto per tanti anni. In quel 1989, l’avevo visto e sentito più volte, ci eravamo anche scritti.
La visita era un addio, ne eravamo coscienti e anche lui lo era. Ci rendemmo conto, dalla fatica con la quale si esprimeva, che stava molto male. Voleva parlare e le sue parole si attorcigliavano l’una nell’altra. Che cosa voleva dirci? Qualcosa di preciso che avremmo dovuto fare. Un invito, un monito, un moto di coraggio? Si rivolgeva sopratutto a Misha (Stille) e a me.
Sono rimaste nel cuore quelle parole spezzate. Romano è morto pochi giorni dopo. Col dolore di molti perché era un uomo di passioni vere e di affetti profondi.

Corriere 27.2.14
Il libro nero della guerra civile
Pansa rilancia la «controverità»
Si tentò di fare dell’Italia una «Repubblica sovietica»
di Dario Fertilio

Se un regista deciderà di trarne un film revisionista sulla Resistenza, l’ultimo saggio di Giampaolo Pansa, Bella ciao , gli offrirà un’overture da far tremare i polsi.
Il luogo è Galliate, provincia di Novara. La data: agosto 1944. Il protagonista: un oscuro segretario del fascio repubblicano, Giuseppe Ugazio, che se ne sta seduto con alcuni amici al tavolo di una trattoria, sul finire di un’afosa giornata estiva. Parla dei bombardamenti sul Ticino, abbraccia le figlie di ritorno da una giornata in bicicletta: ventuno e tredici anni. Gli si presenta una pattuglia di militi che invita tutta la famiglia a salire su un’auto: in realtà sono partigiani garibaldini, comunisti. Fanno scendere i tre in una cascina isolata, dove ad aspettarli c’è una ventina di partigiani che hanno occupato i locali: questi mangiano e bevono, godendosi l’angoscia degli ostaggi. Quindi, in una successione terribile, legano l’uomo a un albero, lo torturano sotto gli occhi delle ragazze, infine gli spaccano il cranio con il calcio dei moschetti. Poi violentano le due giovani tutta la notte, finché non danno più segni di vita; le stanno seppellendo quando il freddo del terreno le fa rinvenire.
Allora massacrano la più grande a colpi di moschetto e soffocano la piccola, schiacciandole il collo con uno scarpone.
Questo racconta Giampaolo Pansa ai suoi agghiacciati lettori, nel libro che ha come sottotitolo perentorio «Controstoria della Resistenza» (edito dalla Rizzoli, pp. 432, e 19,90) e non risparmia nulla, con uno stile narrativo di apparente impassibilità destinato ad accentuare il pathos degli avvenimenti.
È giusto riconoscerlo: nonostante le tinte fosche, qui siamo di fronte al miglior Pansa. Né solo romanziere storico né revisionista ad oltranza, piuttosto artigiano abilissimo nel far comparire i suoi personaggi al centro di un genere tutto suo, forse definibile come «storia narrata». Nel senso che la tesi di fondo, più che enunciata esplicitamente, è affidata a scene, ricordi, personaggi: quello della famiglia Ugazio è forse l’episodio più crudo, ma tanti altri contribuiscono a formare un mosaico sanguigno.
E la morale della «controstoria» è chiara: la Resistenza non fu quella che i «guardiani della memoria» vorrebbero farci credere, ma una catena di crudeltà più che di eroismi, un susseguirsi di vendette più che di atti ispirati a giustizia.
Dunque potremmo chiederci: perché stupirsi? Lo sapevamo, almeno dalla lettura de Il sangue dei vinti , che una guerra civile non è un pranzo di gala, e che quando il vento soffia forte volano gli stracci. D’accordo, ma la necessità di un giudizio morale, prima ancora che storico, diventa necessario se non si vuole tradire la memoria delle vittime e condannarle definitivamente all’oblio.
Così Giampaolo Pansa, per una dichiarata coerenza al se stesso ventenne — studente universitario di Scienze politiche all’università di Torino — va a rileggersi il resoconto stenografico di un suo intervento a un convegno sulla Resistenza, e vi ritrova l’uso insistito di un sostantivo, «revisione», e del verbo che ne deriva, «revisionare». Come dire: Giampaolo Pansa in quel lontano 1959 era già Giampaolo Pansa, il revisionista senza se e senza ma, la bestia nera dell’antifascismo ortodosso. Benché ancora non lo sapesse.
È alla luce di questa orgogliosa rivendicazione del proprio passato che si devono leggere le storie raccolte in Bella ciao : i giudizi storici e politici, ci sono, certo, ma valgono soltanto come filo conduttore. Attraverso le vicende reali, così come si svolsero, o come lui le ricostruisce, l’autore ci ribadisce che la Resistenza fu quasi tutta una vicenda comunista; che i partigiani dissidenti, anche i socialisti, fecero spesso una brutta fine; che la differenza tra loro stava nella presenza di commissari politici e nel modello sovietico; che le uccisioni individuali dei Gap avevano precisamente lo scopo di eccitare le rappresaglie fasciste in una spirale distruttiva; che lo scopo finale della lotta comunista non era la libertà dell’Italia, ma l’instaurazione di una democrazia popolare in stile sovietico.
Tutte cose, per molti, già passate in giudicato al tribunale della storia; per altri, invece, ancora scandalose. Pansa in ogni caso se ne va per la sua strada, incurante. Nessuno come lui, in questo libro, avrebbe avuto il coraggio di alludere all’impotenza dei Cln di fronte all’egemonia comunista, definendoli ironicamente «Comitati Liberi di fare Nulla». E lo stesso titolo Bella ciao , canzone di cui ricorda l’origine non partigiana, assume forse involontariamente un tono di amaro congedo dal catechismo di un credo intoccabile.

Repubblica 27.2.14
L’errore di Einstein
Trovato un manoscritto in cui il grande scienziato sosteneva una tesi poi smentita dal “Big bang”
“L’universo non si espande riuscirò a dimostrarlo”
di Marco Cattaneo

Un universo stazionario, in espansione ma con una densità di materia costante, grazie alla continua formazione di nuova materia nel vuoto cosmico. È una teoria che a metà del Novecento fu sviluppata e ostinatamente difesa da Fred Hoyle, brillante e poco ortodosso astronomo britannico. La elaborò nel 1948 per contrastare il crescente consenso al modello che con disprezzo chiamava del “big bang”, coniando involontariamente una delle espressioni di maggior successo della storia della scienza. Ma un embrione di quell’idea era già contenuto in un breve manoscritto di Albert Einstein risalente probabilmente alla primavera del 1931 e riscoperto di recente da Cormac O’Raifeartaigh, del Waterford Institute of Technology, in Irlanda, e da alcuni suoi colleghi all’Archivio Einstein della Hebrew University di Gerusalemme.
Il padre della relatività accarezzava l’idea di un universo statico fin dal 1917, quando tentò di risolvere un problema che assillava sia la gravità newtoniana che la sua relatività generale introducendo un termine che chiamò «costante cosmologica». Il problema era che, senza quel termine, a lungo andare l’attrazione gravitazionale di stelle e galassie avrebbe fatto collassare l’universo su se stesso. Un’ipotesi alternativa, messa a punto indipendentemente tra il 1922 e il 1927dal cosmologo russo Aleksandr Fridman e dal fisico e presbitero belga Georges Lemaître, prevedeva che, senza nessuna costante cosmologica, l’universo fosse in espansione e in continua evoluzione. Ma quell’idea comportava che lo spazio e il tempo avessero avuto un inizio, e Einstein - al pari di molti suoi autorevoli colleghi - non la digeriva volentieri. Per semplici ragioni filosofiche, era di gran lunga preferibile un universo eterno.
La prima svolta sperimentale, o per meglio dire osservativa, arrivò nel 1929. In quell’anno Edwin Hubble - a partire appunto dall’osservazione delle galassie - formulò la legge che porta il suo nome, secondo la quale le altre galassie si allontanano da noi tanto più velocemente quanto più sono lontane. Dimostrando inequivocabilmente che l’universo è in espansione. E di solito i biografi di Einstein collocano a questo punto la sua “conversione”. Venuto a sapere dei risultati di Hubble, il grande fisico tedesco avrebbe definito la costante cosmologica «il mio più grande errore».
In verità - come dimostrano le sue accese, interminabili discussioni con Niels Bohr sui fondamenti della meccanica quantistica, l’altra grande rivoluzione del Novecento - Einstein non era propriamente un tipo rinunciatario. Prima di abdicare alle sue visioni estetiche e filosofiche delle leggi della natura perseverava fino al parossismo, per darsi vinto soltanto quando trovava prove inoppugnabili del contrario. E il manoscritto rinvenuto da O’Raifeartaigh ne è una notevole testimonianza.
È intitolato semplicemente Zum kosmologischen Problem (Sul problema cosmologico). Ed è passato inosservato fino a oggi perché era stato catalogato come un testo preliminare per un articolo successivo, dal titolo quasi identico. Invece è un estremo tentativo - piuttosto maldestro, in verità - di aggiustare la costante cosmologica al mutato quadro fenomenologico. Ovvero alla legge di Hubble, che aveva incontrato poco tempo prima al California Institute of Technology durante un viaggio di tre mesi negli Stati Uniti. E dove lavorava anche Richard Tolman, che nel 1930 aveva pubblicato un’ipotesi di universo in cui l’espansione cosmica avrebbe potuto derivare dalla continua trasformazione di materia in radiazione.
Einstein cita Tolman proprio all’inizio del manoscritto. Ammettendo che la sua soluzione «non sembra finora essere stata presa in considerazione». Morale, si mette a tavolino e lavora alle equazioni. Ma commette un errore, all’apparenza, che correggerà soltanto più tardi. E non introduce mai nelle sue equazioni un termine che renda davvero conto di quella continua formazione di materia che ipotizza. Formalmente, le sue speculazioni anticipano di quasi vent’anni la teoria dello stato stazionario di Hoyle, ma in realtà Einstein non arriverà mai a pubblicarle. Già nell’aprile del 1931 e poi nel 1932 - scrivono O’Raifeartaigh e colleghi nell’articolo sottoposto per la pubblicazione allo European Physical Journal - pubblicherà due modelli, oggi noti come modelli di Fridman-Einstein e Einstein-de Sitter - che già abbracciano in pieno l’idea di un universo in espansione. Qui la densità della materia diminuisce con l’aumentare del raggio dell’universo, e la costante cosmologica è definitivamente tramontata.
Alla fine, anche l’indomabile riluttanza di Einstein si era piegata al suo amore altrettanto radicato per la semplicità: perché quella materia che si creava di continuo dal nulla gli appariva troppo artificiosa. Da allora tornò a combattere la sua battaglia contro il Dio che gioca ai dadi della meccanica quantistica e a elaborare una teoria unificata che non avrebbe mai visto la luce.
Richiesto, quasi vent’anni più tardi, di un’opinione a proposito della teoria di Hoyle, la liquidò in due parole come una «speculazione romantica», fondata su basi troppo fragili per essere presa sul serio.
Bisogna arrivare al 1964, quando due ricercatori dei Bell Laboratories, Arno Penzias e Robert Wilson, scoprono la radiazione cosmica di fondo, la testimonianza fossile del big bang, per archiviare definitivamente le velleità dei sostenitori dello stato stazionario. La famigerata costante cosmologica inventata da Einstein nel 1917 per mantenere statico l’universo, invece, tornerà in gioco, con un ruolo assai più inquietante, nel XXI secolo. E precisamente quando gli astronomi accertano l’esistenza dell’energia oscura, la forza ignota che accelera l’espansione dell’universo. E che farà terminare il cosmo, secondo i modelli cosmologici più accreditati, in un Big Freeze; un inesorabile, gelido buio. Ma questa è un’altra storia.

La Stampa 27.2.14
Azincourt 1415, scende in campo il futuro
Contro le preponderanti forze francesi, il re inglese Enrico V trionfa facendo leva sulla disperazione degli umili: finisce l’età aristocratica dei guerrieri, s’inizia quella dei soldati
di Antonio Scurati

Davanti a sé ha soltanto la piana, a perdita d’occhio.
Jean Le Meingre in persona gli ha riconosciuto l’onore di potersi schierare nella prima linea. Lui va così fiero del favore del Maresciallo che tra il cuore e il capo del proprio scudo, nel posto d’onore, ha chiesto e ottenuto di poter mettere il suo blasone, l’aquila rossa membrata d’azzurro.
Ora tutto è pronto e tutto è perfetto. Il terreno, certo, è fangoso e solcato dall’aratro ma è sgombro da ostacoli e da trabocchetti. Pare che l’Onnipotente stesso abbia scelto il luogo per la carica dei Suoi cavalieri nella radura tra le foreste di Azincourt. E quei cavalieri non mancheranno al loro dovere verso se stessi, verso i propri compagni d’arme, verso i prìncipi di Francia e verso l’Altissimo: fra pochi minuti caricheranno a fondo e non si sottrarranno ai colpi del nemico sulla linea di battaglia.
Lui indossa un’armatura completa e monta un cavallo da guerra. Il suo corpo di carne è interamente rivestito d’acciaio, dall’elmo a coppo fino alla scarpa a zampa d’orso infilata nella staffa. Ma la cavalcatura non è da meno del cavaliere. Gli scudieri l’hanno strigliata, abbeverata e foraggiata, poi l’hanno corazzata, quindi l’hanno sellata. Non manca niente al suo orgoglio di guerriero: il cavallo lo solleva da terra e lo innalza verso il cielo, l’armatura sublima la sua carne. Lui non disdegna la carne, perché è nella carne che gode e che soffre. Ma la verità di un uomo non sta nella sua carne. E quell’armatura, che non lascia scoperto nemmeno un brandello di pelle, non serve a proteggere il suo corpo, serve a nascondere e a rivelare. A nascondere la menzogna del corpo e a rivelare la verità dell’anima. Le placche d’acciaio sono la manifestazione visibile dell’invisibile spirito di un uomo. Sono spirito forgiato nel ferro.
Tutto è perfetto tranne il terreno e il nemico. Lui vorrebbe lanciarsi contro un battaglione di cavalieri suoi pari, che come lui amassero il gioco bello della guerra, che volentieri danzassero in quella festa crudele. Ma gli hanno comandato di caricare gli arcieri inglesi, dei villani che hanno appena smesso la vanga per imbracciare l’arco. Quella plebaglia non combatte per l’onore ma per vivere ancora. Non combatte per la gloria ma per vincere. Non cercano la mischia, la fuggono. Combattono a piedi, seminudi, senza alcun segno manifesto della loro anima, ragion per cui lui dubita che ne abbiano una. Quella gente scaglia dardi di lontano, non c’è verso che uno di loro possa essere ricordato. Combattono per mettere le mani sui gioielli di un principe, per poi scambiarli con un fiorino e comprarci il pane da portare alle loro famiglie sui monti del Galles. Davanti a lui, adesso quei pezzenti impastati di fango piantano in silenzio pali nel terreno. Come falegnami.
Ma poi nemmeno questo importa perché accanto a lui i suoi compagni lanciano urli di guerra, agitano le loro insegne, si passano fiasche di vini odoriferi, millantano, motteggiano, si amano e ammirano a vicenda, ricordano e si preparano a essere ricordati.
Lui è pienamente felice. Ancora solo quelle due piccole crepe nella sua felicità. Il fango che rallenterà la corsa dei cavalli e il silenzio che proviene dal fondo della piana: la schiera degli arcieri inglesi è laboriosa ma muta, non c’è gioia tra le loro file, soltanto una cupa ferocia.
Fortunatamente non c’è più tempo per i pensieri. A momenti giungerà l’ordine della carica e lui sente attorno a sé l’aria impregnarsi degli umori del sangue che ribolle quando migliaia di cuori pulsano all’impazzata nel buio delle armature. Ma l’ordine non viene, le bandiere rosse non volano, la voce profonda del corno non risuona e su tutti loro, invece della gloria di Dio, comincia a scendere una sciocca pioggia di frecce.
Immedesimarsi in un cavaliere francese negli istanti che precedettero la battaglia di Azincourt è fondamentale per comprenderne gli esiti. Azincourt non fu, infatti, una grandiosa vittoria ma una grandiosa sconfitta. Vi furono sconfitti il Medioevo cavalleresco e l’orgoglio del guerriero a cavallo. Un’intera epoca tramontò nel massacro e un’altra vi si annunciò. Se non si comprende questo sarà impossibile spiegare quella memorabile carneficina.
Quando il 25 ottobre 1415 i francesi sbarrarono la marcia degli inglesi verso Calais, l’esercito d’invasione di Enrico V era effettivamente ridotto a una banda di pezzenti. Decimati dalle febbri e dalla dissenteria, sfiniti dalle marce, braccati da settimane, indeboliti dalla fame, gli inglesi contavano non più di seimila combattenti – mille uomini d’arme (vestiti di corazza) e cinquemila arcieri – a fronte di circa venticinquemila francesi, quasi tutti uomini d’arme dei quali circa un migliaio a cavallo, ben nutriti e ben equipaggiati. Ma contro la coscienza della superiorità numerica e della supremazia che le aristocrazie guerriere dei cavalieri avevano esercitato lungo tutto l’Alto Medioevo, Enrico schierò la tenace disperazione degli umili, la rigida disciplina dei fanti, il professionismo militare come arte servile. Schierò, insomma, il futuro.
Il sovrano inglese dispose i suoi in tre gruppi, con gli uomini d’arme al centro e il grosso degli arcieri collocati sui fianchi, leggermente aggettanti. Attesero così quattro ore all’inpiedi, ore di fame e di freddo, l’attacco dei francesi, poi Enrico ordinò ai suoi di avanzare fino al punto in cui le zone boscose che delimitavano il campo convergevano a formare un imbuto (a circa 270 metri dai francesi). Fu allora che gli arcieri cominciarono a piantare indisturbati i loro pali nel terreno trincerandosi contro la carica dei cavalieri. Se i francesi li avessero caricati in quel momento, li avrebbero sbaragliati facilmente. Ma i francesi erano impegnati da ore a bere, vantarsi, soprattutto a disputarsi i posti d’onore in prima fila sotto lo stendardo del loro signore feudale. Caricarono soltanto quando calò su di loro la prima pioggia di frecce, offesi più nell’onore che non nel corpo da quel tiro indiretto. La carica però si infranse contro l’istrice di pali appuntiti dietro cui si schermavano gli arcieri che adesso potevano abbatterli con il tiro diretto. La rotta della cavalleria si trasformò in una controcarica di cavalli imbizzarriti che ruppe l’avanzata degli uomini d’arme appiedati che sopraggiungeva alle loro spalle. Questi, del resto, sdegnarono di battersi con gli arcieri – che pure li tartassavano indisturbati – e si ammassarono tutti al centro per incrociare le spade con i loro pari inglesi. Si raggrumarono così in tre colonne la cui densità amorfa, sommata all’intralcio dell’armatura, gli impediva quasi ogni movimento. Sotto la spinta dei propri compagni alle spalle, crollavano come birilli. La vecchia ideologia della guerra aveva trasformato in inermi i guerrieri di un’altra epoca.
Ebbe allora inizio la mattanza. Gli arcieri, disinteressati alla distinzione e interessati solo al bottino, deposero gli archi, impugnarono asce, mazze e coltelli, e con la sapienza plebea o piccolo borghese di macellai, maestri d’ascia e corazzai attaccarono i fianchi scoperti dei francesi aggredendo in piccoli gruppi i singoli uomini d’arme sconcertati e umiliati. Li finirono a terra, cercando con punteruoli e squarcine le giunture tra le piastre di metallo. Alla fine della giornata, accatasteranno più di diecimila cadaveri rivestiti di acciaio splendente.
Ma già dopo mezzogiorno gli inglesi erano padroni del campo. I cavalieri francesi della terza schiera rinunciarono alla carica. Volsero le terga dei cavalli e se ne tornarono ciascuno al proprio castello. Il Medioevo cavalleresco era finito. Cominciava la modernità, l’epoca della «universale, indifferente e impersonale morte». Finiva l’età dei guerrieri, iniziava quella dei soldati.

La Stampa 27.2.14
Addio alla pittrice psicoanalista Edith Kramer
madre dell’arte-terapia


È morta a 97 anni l’artista austriaca Edith Kramer, matriarca dell’arte-terapia (nella foto, davanti a un autoritratto). Allieva prediletta di Friedl Dicker-Brandeis, con cui studiò prima al Bauhaus e che poi seguì a Praga, Edith Kramer è stata una delle pioniere dell’arte come terapia, concepita come mezzo di sostegno alla psicologia, in grado di favorire lo sviluppo di un senso di identità e promuovere una generale maturazione e integrazione dell’individuo. Autrice di numerosi quadri riconducibili per stile al movimento del realismo sociale, a lei si deve un libro considerato fondamentale in materia, dal titolo Arte come terapia nell’infanzia (1971), tradotto in undici lingue, in italiano da La Nuova Italia. Rifugiatasi negli Stati Uniti poco prima dello scoppi della Seconda guerra mondiale, Edith Kramer studiò negli Anni 40 scultura e pittura per poi dedicarsi alla psicoanalisi. Per tutta la vita ha continuato a dipingere quadri figurativi dedicandosi all’insegnamento in varie università. Dal 1973 al 2005 ha diretto il programma di arte-terapia alla New York University.

il Fatto on line 27.214
Repubblica, nel 2013 rosso da 4,5 milioni. Crollano utili per L’Espresso: no dividendi
I profitti del gruppo editoriale sono crollati da 21,8 a 3,7 milioni, mentre il fatturato è sceso del 12,4% e anche il margine operativo lordo si è quasi dimezzato
Pesano le difficoltà nella raccolta pubblicitaria

qui

Corriere 27.2.14
L’Espresso, ricavi a 711 milioni e niente dividendo

Per il 2014 «segnali incerti dalla pubblicità»
MILANO — Fatturato e utili in calo per il gruppo L’Espresso. Il consiglio ieri ha approvato il consuntivo 2013 che si chiude con ricavi consolidati scesi del 12,4% a 711,6 milioni e un risultato netto in calo da 21,8 a 3,7 milioni. Il board del gruppo presieduto da Carlo De Benedetti ha quindi deciso che non distribuirà dividendo. Per quanto riguarda le attese per quest’anno, nella nota diffusa dopo il consiglio si sottolinea che «la visibilità resta limitata in quanto sono fortemente dipendenti dall’evoluzione del mercato pubblicitario, relativamente al quale si registrano segnali incerti: se da un lato la radio appare in ripresa, dall’altro l’evoluzione della pubblicità su stampa rimane critica». Nel 2013 in particolare i ricavi pubblicitari sono scesi del 15,4% a 403 milioni, con riduzioni pari al 19,5% nel settore della stampa, al 9,5% nelle radio, e allo 0,9% nel web.