venerdì 28 febbraio 2014

La Stampa 28.2.14
L’Insonne
di Massimo Gramellini

Alle sei e mezzo del mattino, mentre molti italiani rubano le ultime russate alla notte o cercano di zittire la sveglia smanacciando nel buio, qualcuno è già al lavoro per il nostro bene e vince la proverbiale timidezza pur di comunicarlo al mondo. È il capo delle giovani marmotte di Palazzo Chigi, Matteo Renzi, reduce dalla consueta pennichella notturna di un paio d’ore, durante la quale continua comunque a messaggiare sul sito narcisiesonnambuli.statesereni.com. Dopo avere bevuto un caffeletta a colazione, il Presidente che non ha bisogno di Consiglio fa il saluto del lupetto, lancia un «hip hip urrà» allo specchio e si affaccia fresco e riposato alla finestra del suo studio per fotografare il cortile ancora deserto e dare il buongiorno su Twitter ai connazionali. Non prima di averli informati che lui è già curvo «sui dossier più urgenti del Governo». 
Chissà cosa avrebbe combinato il meno democratico ma non meno energico Mussolini se avesse avuto a disposizione Twitter. Agli italiani, specie a quelli più addormentati, il mito del capo insonne è sempre piaciuto. Il guaio, per il capo, è che a un certo punto si svegliano. Di solito di pessimo umore. 

La Stampa 28.2.14
“A lavoro dalle 7”, il tweet dell’iperattivo Renzi
di Alberto Infelise

qui

Repubblica 28.2.14
Con un tweet alle 6,43 il premier che dorme poco dà il buongiorno all’Italia
E il Mattinale di Forza Italia evoca il Minculpop
di Filippo Ceccarelli


BUONGIORNO Italia, e l’insonne di Palazzo Chigi si è già manifestato, o forse in qualche modo si è manifestato ancora.
Sta di fatto che alle ore 6,43 di ieri, per l’esattezza cinque minuti prima del sorgere del sole, il nuovo presidente del Consiglio Matteo Renzi ha lanciato nel cyberspazio il seguente tweet: «A #PalazzoChigi lavorando sui dossier più urgenti del Governo.#buongiorno #lavoltabuona ». In allegato una fotografia, scattata dallo stesso premier, del cortile del prestigioso edificio completamente vuoto e, s’immagina, anche immerso nel silenzio.
Ma all’occhio maliziosetto dell’osservatore professionale, e non solo, non sfuggono due o tre finestre accese. Certo, appaiono lontane dal luogo in cui, presumibilmente il suo appartamento, si trovava Renzi con i suoi dossier e l’inseparabile smartphone; però bene o male l’immagine di una luce accesa nel Palazzo addormentato del potere reca in sé qualcosa di simbolico e come tale già visto e rivisto; un sovrappiù di partecipazione e intervento, un messaggio al tempo stesso ragionevole, ingenuo ed esorbitante.
Tra i primi ad accorgersene e a farlo notare, sia pure con divertita leggerezza, il Mattinale, il sempre più vivace bollettino del gruppo berlusconiano della Camera, che l’ha messa così: «Tutti dormono, lui è già lì a lavorare. Qui siamo all’auto- agenzia Stefani, al MinCulTwitter ».
Ora, per evidenti e magari anche salutari ragioni anagrafiche il presidente Renzi non è obbligato a sapere che la Stefani era l’unica agenzia di stampa negli anni del fascismo (il suo direttore, Manlio Morgagni, fu l’unico italiano noto che si sparò il 25 luglio del 1943); così come il Minculpop, Ministero per la Cultura Popolare, era l’ente governativo delegato alla censura e alla propaganda del regime. Si può aggiungere che entrambi i compiti quell’amministrazione svolse con veline e fogli d’ordine di così ardente meticolosità che dopo la caduta del Duce Mussolini presero a suonare di colpo inammissibili e anzi grotteschi.
Così va il mondo. Ma dicendo «MinCulTwitter» è chiaro come il sole che il
Mattinale intendeva sfruculiare Renzi con una delle più sintomatiche e persistenti leggende mussoliniane. Quella della luce accesa che nottetempo rifulgeva attraverso la vetrata della Sala del Mappamondo, lo studio del Duce a Palazzo Venezia. A riprova del suo incessante e incommensurabile impegno - oggi si direbbe «h24» - per gli italiani. Insomma, quelli dormivano e Lui, lassù, fervido e indefesso, a capo chino sulle sudate carte, intensamente e costantemente vegliava su di loro.
La faccenda della finestra ha in realtà scarsissime basi storiche. Allora si cantava anche: «Duce, tu sei la luce/ la fiamma tu sei nel cuore» eccetera. C’è chi ipotizza che fu Achille Starace, vescovo e officiante del culto mussoliniano, a suggerire tale espediente. Ma già a quei tempi i romani, popolo piuttosto scafato, diffidavano di quel luminoso segnale, immaginandone - spesso a ragione - altri meno nobili scopi.
E tuttavia, come spesso capita alle cose finte che però toccano gli abissi dell’animo, l’archetipo del potere instancabile sopravvisse al fascismo e al suo Duce. Per cui l’Italia conobbe altri capi tendenzialmente insonni e almeno un altro paio di finestre accese di notte.
Così Andreotti certamente si svegliava prestissimo, ma per andare a messa, dove poi sul sagrato distribuiva copiose elemosine. Allo stesso modo s’è detto che l’energeticissimo Fanfani, detto anche «il motorino», facesse ginnastica a ore antelucane sul terrazzo di casa.
Ma non furono mai i democristiani gli eredi della mitologia di febbrile infaticabilità. Ad altri due protagonisti della Seconda Repubblica, semmai, toccò di essere proclamati capi che non spegnevano mai di notte la luce dei loro uffici. Uno è Tonino Di Pietro, il frugale supereroe, immaginato all’opera tra faldoni e computer per incastrare i ladroni di Tangentopoli.
L’altro - e quelli del Mattinale dovrebbero per cortesia ricordarsene - è stato Berlusconi, che sempre è stato prodigo di auto-confidenze tipo «ho scritto il discorso alle tre di notte perché mi bastano due-tre ore di sonno»; e che con i suoi ritmi di lavoro infernali, veniva fatto scrivere agli aedi di quella stagione, schiantava i collaboratori, tanto che una volta una volta il povero Schifani finì in ospedale. Poi s’è capito che il Cavaliere faceva sì le ore piccole, ma non esattamente per vegliare gli italiani - e infatti, poveraccio, si addormentava dappertutto.
Ora è già il turno di Renzi («Dormo cinque ore per notte»), e dei suoi evoluti tweet all’alba, con foto di finestrelle illuminate a Palazzo. Buongiorno Italia - e buongiorno Maria, con gli occhi pieni di malinconia.

il Fatto 28.2.14
Lecca Renzi
Non molestiamo troppo Matteo


NOI GIORNALISTI? Troppo molesti, il caro leader lo disturbiamo. “Sempre all’inutile assalto per carpire qualche battuta”. E cosa otteniamo? Una battuta, una soltanto. Però gagliarda. “Il premier era appena uscito dalla mensa e vedendosi accerchiato, sorridendo, ha detto: ‘Scusate, noi si sta andando in bagno, vorremmo non andarci con il microfono”. Il caro leader, a quanto pare, parla sempre con il plurale maiestatis e il prodigo Brambilla, su La Stampa, racconta come si deve la visita trevigiana, “organizzata in un battibaleno”. Prima tappa, la scuola perché “un vero politico non deve pensare alle prossime elezioni ma alle prossime generazioni”. Poi i sindaci, “quelli che i problemi li conoscono davvero”. Terza tappa, gli imprenditori, non quelli “qualsiasi”, ma i tartassati dal fisco e dalla burocrazia, “spina dorsale del paese”. Infine, i giovani aspiranti imprenditori. Tranquilli, “tra un incontro e l’altro il nuovo presidente del Consiglio ha trovato il tempo per una breve conferenza stampa”. Brambila non ha dubbi: “Questo è un personaggio che faticherà a star dentro una certa etichetta”. Un vero leader. Anzi, un caro leader.

Repubblica 28.2.14
Nel gineceo del giovane Matteo
di Guido Ceronetti


VORREI suggerire al giovane neopresidente del Consiglio una lettura non superficiale (possibilmente) dei miei, ignorati ma veridici, Poemi del Gineceo editi da Adelphi. La novità del suo è di essere un ministero molto prossimo a un gineceo-matroneo, escogitato come progresso di Uguaglianza al di sopra del sesso, e in realtà ribadente una cesura esemplare in un contesto politico che s'illude di poterla superare con la povera materialità della parità numerale.
IL GRAN Vizir può prevedere comportamenti e reazioni dei suoi ministri-uomini, ma contro l'imprevedibilità di tanti ministri-donne, giovani e sicuramente intelligenti, il Vizir arrischia l'esito della sua scommessa.
Finirà per dover confessare la sua impotenza e attenersi a una docilità simulata, a una sottomissione sussultoria d'incerta durata. Durerà fino alla fine del mondo l'inegualità dei sessi, le leggi della natura non le abbiamo fatte noi, legislatori dell'Inutile, brancicanti nel buio.
Non sappiamo neppure come chiamarli, i ministri-donne.
La grammatica vorrebbe il rispetto del genere, ma ministra è brutto come uno sfregio. Qualche deputato osa spingere il suo mal parlare fino all'appellativo: signora Ministro, inviso perfino ai polli. Per parte mia rinuncio a proporre una soluzione qualsiasi per una questione così mozzafiato.
Dispiace a molti, e a me pure, la rimozione misteriosamente punitiva e madornalmente errata, di Emma Bonino. Ma in un governo da Gioventù Littoria, sebbene donna, la Emma figlia e cittadina del mondo non faceva, per la sua età, Gineceo. È del marzo 1948, sessantasei anni, e si considera da sé anziana. Un mese prima, se non sbaglio, a New Delhi, venne assassinato Gandhi, il Mahatma. Come indefessa gandhiana radicale, si direbbe che in lei un frammento della Grande Anima abbia (nulla è per caso) trasmigrato. Un merito suo grandissimo è stata la strenua battaglia contro lo spaventoso flagello, la schifosa pestilenza, delle mutilazioni genitali femminili. Un altro merito, aver preso per più anni residenza al Cairo per imparare l'arabo e meglio comprendere il mondo islamico standone vicino e parlando con la gente. Ma forse qui le è mancata una conoscenza di fondo del fenomeno religioso coranico, chiave di tutto nell'universo musulmano. Diceva un grande arabista che per conoscere a fondo la lingua bisognerebbe studiarla per una quindicina d'anni. Ma di quel mondo dall'enorme potenzialità di guerra religiosa, obiettivo un califfato a misura planetaria, in un governo così scialbo come il Letta, condizionato all'estremo, la sua bravura di piemontese secca non poteva emanare che un lume flebile. Avrebbe mai potuto, a bacchetta, far cessare le orribili stragi siriane?
Dopotutto, una così non è fatta per vegetare in un governo romano.
Renzi, inconsapevolmente, ha liberato la illustre Emma internazionale, da un disagio di Capinera in una clausura.
Lo ripeto a dei sordi da premio Nobel, ma non riesco a togliermi il vizio: se si vuol parlare di problemi reali, l'Ambiente, la contaminazione avanzata dell'aria e del cibo, va posto al centro di tutto. La perdita dell'unità linguistica è l'equivalente d'ombra della catastrofe ambientale. Di quale nazione, in Italia, si è realmente cittadini?
«Più demoliamo carceri più crescono » (Poemi del Gineceo, XX).

il Fatto 28.2.14
Il Pd renziano alla prova dell’autoriciclaggio
Un emendamento di Civati prova a introdurre il reato decisivo contro gli evasori che farebbe recuperare un tesoro
Arriva alla Camera il provvedimento per far rientrare dalla Svizzera, con sanzioni, i capitali esportati illecitamente
Da che parte starà Matteo?
di Gianni Barbacetto


Il Parlamento si prepara a discutere l’introduzione di due norme che qualche soldo potrebbe farlo entrare nelle casse dello Stato, per realizzare le mirabolanti promesse annunciate da Matteo Renzi. La prima è quella sulla voluntary disclosure, cioè sulla collaborazione volontaria per far rientrare in Italia i capitali nascosti all’estero. La seconda è quella che introduce il reato di autoriciclaggio, cioè la possibilità di punire anche in Italia il riciclaggio di denaro di provenienza illecita, compiuto dalla stessa persona che ha ottenuto il denaro in maniera illecita.
MA C’È UN PERÒ, anzi due. Le due norme erano contenute insieme in un decreto del governo Letta che ora dovrà essere convertito in legge dal Parlamento. Prima della caduta, però, il governo Letta ha sfilato dal decreto la parte sull’autoriciclaggio, con il proposito di inserirla in un contenitore diverso. Non ha fatto in tempo a farlo, perché Renzi ha decretato il tutti a casa. Così ora l’autoriciclaggio rischia di rimanere confinato nella casella dei buoni propositi non realizzati.
Per questo il deputato Pippo Ci-vati e la senatrice Lucrezia Ricchiuti, del Pd, hanno chiesto ai loro compagni di partito di ripescare l’autoriciclaggio e inserirlo di nuovo nel decreto sul rientro dei capitali. Si può farlo già da settimana prossima, quando il decreto sulla voluntary disclosure comincerà il suo viaggio in Parlamento per essere convertito in legge, alla commissione Finanze della Camera. La proposta di Civati e Ricchiuti è che il Pd presenti un emendamento che reinserisca la norma sull’autoriciclaggio. Sarà il banco di prova per verificare se tutto il Pd vorrà impegnarsi in questa direzione, ma anche se vorrà puntarci Renzi, finora silenzioso sui temi dell’evasione fiscale e della criminalità economica. Civati è pronto a presentare l’emendamento, ma vorrebbe che la sua non fosse una scelta individuale o, al massimo, del gruppo di parlamentari che fanno riferimento a lui, ma una scelta dell’intero Partito democratico.
Intanto approderà in commissione Finanze almeno la parte del decreto sul rientro dei capitali. Una norma pensata per funzionare in modo diverso dai condoni o dallo scudo fiscale del passato.
QUELLI GARANTIVANO l’anonimato degli evasori e “sbiancavano” i capitali nascosti all’estero in cambio di una modesta quota da pagare all’erario. Questo impone l’autodenuncia di chi ha nascosto capitali all’estero, affinché su questi vengano calcolate le tasse da pagare, con la riemersione dei conti esteri da sottoporre da qui in avanti al monitoraggio fiscale.
I costi potrebbero essere alti: regolarizzare un milione di euro frutto di evasione potrebbe costare tra l’80 e il 90 per cento del malloppo, quindi tra gli 800 e i 900 mila euro. Ma per gli evasori con capitali in fuga dovrebbe essere l’ultima occasione per chiudere i conti con il fisco. Non aderire potrebbe costare molto di più: nel caso del milione di euro, considerando tasse e sanzioni, potrebbe costare più del doppio. Del resto, nel luglio 2015 scatterà lo scambio automatico delle informazioni tra Paesi. Quelli che vorranno uscire dalla black list internazionale (come la Svizzera) dovranno mettere a disposizione dell’Italia i dati bancari in loro possesso e a quel punto i costi dell’evasione saranno davvero pesanti. Inoltre – come ha sottolineato il procuratore aggiunto di Milano Francesco Greco in un recente convegno a Lugano, davanti a una platea di intermediari e bancari ticinesi – dei reati finanziari contestati agli evasori potranno essere chiamati a rispondere anche gli intermediari “agevolatori” e le società per cui lavorano, le fiduciarie e le banche. Greco ha presieduto la commissione di esperti che ha contribuito a formulare le proposte di legge su rientro dei capitali e autoriciclaggio.
Naturalmente, però, dipende da quello che succederà da settimana prossima in Parlamento, cioè da come sarà eventualmente modificato il decreto sulla voluntary disclosure. Dall’inserimento o meno nel decreto del reato di autoriciclaggio. E dall’atteggiamento del governo su questa materia. Renzi non ha detto finora una parola su evasione e reati economici: da settimana prossima il silenzio sarà impossibile.

il Fatto 28.2.14
Pippo Civati tentenna ancora
“Al premier piacciono le destre”


Fondare un nuovo partito di centrosinistra? “No, io voglio rimettere insieme la coalizione di centrosinistra, che è un po’ come mettere insieme i Rolling Stones diciamo...”. Così il deputato del Pd, Pippo Civati, ieri a Un giorno da pecora su Radio2. È vero che i civatiani al Senato stanno per fare un nuovo gruppo con i fuoriusciti grillini e Sel? “Ne bastano cinque – ha risposto Civati ai conduttori – per fare un gruppo al Senato, quindi non c’è bisogno dei miei amici”, ha risposto. Se ci fossero i numeri per fare un governo coi grillini al posto di Alfano, secondo lei il premier Matteo Renzi accetterebbe? “Lui ha deciso di fare il contrario , a lui piacciono tutte e due le destre, sia quella di Berlusconi che quella di Alfano”. Quanti sono i senatori del Movimento Cinque Stelle che usciranno dal gruppo? “Sono una decina quelli in difficoltà”. Dieci, inclusi i quattro già usciti? “No, più quei 4, in totale potrebbero essere 14”, ha spiegato Civati tentennando.

Repubblica 28.2.14
Il Pd Corradino Mineo: discutiamo senza inciuci
“Ma adesso è possibile un nuovo centrosinistra”
di T. Ci.


ROMA - Corradino Mineo è soddisfatto. «Tutto sta cambiando. Un quarto dei voti degli italiani erano congelati, ora questa ambiguità va sciogliendosi.
E noi discutiamo con alcuni di loro in modo esplicito, senza inciuci».
Partiamo da voi civatiani: niente scissione, al momento?
«Mica sono un imbecille! Il Paese ci chiede di fare le cose, anche se non ci piace il modo con cui siamo arrivati a questo punto. Io ho votato la fiducia non perché ho paura, ma perché un pezzo d’Italia considera Renzi l’ultima chance».
Diversi grillini, però, sono usciti. Niente gruppi comuni?
«Ma che significa, scusi? Bisogna rispettare il processo in corso. Vediamo quanti ne escono, altrimenti sembriamo davvero la barzelletta della stampella al governo...».
Veramente siete stati voi ad aver ipotizzato questo scenario.
«Partiamo da un dato: in ogni processo ci sono dei tempi tecnici. Ecco, ci sono persone che devono elaborare il lutto».
E allora come farete a costruire il Nuovo centrosinistra?
«Tutto nasce da una battuta di Civati. Ricordiamo il contesto: Alfano diceva che sarebbe nato un governo di “destra-sinistra”. Ecco, noi abbiamo detto: se questi rompono, noi tiriamo la giacca dall’altra parte».
Torniamo al punto: come costruire il Nuovo centrosinistra?
«Sel, civatiani e una parte dei grillini possono portare avanti una battaglia comune, questo è certo. Il Nuovo centrosinistra non è un partito, né si può inventare in cinque minuti. Ma può esserci in Parlamento».
In che modo? Pensate di dare presto un segnale?
«Certamente un segnale ci sarà. Intanto rispettiamo questo processo in atto, e diamo sostegno fraterno a chi fa i conti con una vicenda che non è di convenienza, ma di democrazia. Quindi auspico anche un rapporto, un collegamento tra noi, Sel e una parte del Movimento».
Con il tempo puntate a sostituire il Nuovo centrodestra?
«Non so, dipende da come agirà Renzi. Da intellettuale e giornalista vedo un premier che fa appello ai cittadini fuori dal Parlamento. E che vuole gestire il Parlamento in modo molto libero, con maggioranze variabili. Non fissatevi sulle maggioranze organiche: ce ne sono già tre, questo è evidente».
Così, però, Alfano minaccerebbe la crisi.
«Chi minaccia, il Nuovo centrodestra? Hanno due elementi che li mettono in difficoltà. Innanzitutto Berlusconi. E poi questo movimento a sinistra, che sembra prefigurarsi come una grossa rottura».

La Stampa 28.2.14
I fuoriusciti del M5S verso un nuovo gruppo con Civati per scalzare Alfano
di Andrea Malaguti

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Corriere 28.2.14
Gruppo in Senato, gli espulsi si contano
Nuovi contatti con i civatiani. L’ipotesi di una forza alternativa a Ncd
di Alessandra Arachi


ROMA — Inutile fare la domanda diretta. La risposta di tutti è invariata. E la più accorata, forse, è quella del senatore Fabrizio Bocchino, astrofisico palermitano specializzato in stelle supernove: «Non voglio fare gruppi con nessuno. Il mio gruppo è il M5S e non basta impedirmi di adoperare il simbolo per allontanarmi. Io rimango Cinque Stelle dentro».
No, nemmeno a parlare con il triestino Lorenzo Battista, il più giovane senatore della legislatura, uno dei «dissidenti» per antonomasia, si arriva ad un risultato diverso. Oppure tentare con un altro palermitano, Francesco Campanella, un altro degli espulsi dal M5S del Senato insieme a Luis Alberto Orellana, il venezuelano caliente, da sempre in contrasto con il capo.
Per loro oggi essere stati cacciati dal Movimento vuol dire una sola cosa: finire nel gruppo misto. E basta. Eppure sono in tanti a fare i conti su quel bel «gruzzoletto» di senatori dissidenti di Beppe Grillo. E se Pippo Civati è stato il primo, anche Lorenzo Battista (M5S) non ha potuto fare a meno di prendere il pallottoliere: «Eravamo in 54, siamo diventati 50 e adesso sono rimasti in 46...». E aggiungiamoci i cinque che ieri hanno dato le dimissioni, che tutti pensano verranno respinte, anche se i senatori di M5S sono i primi che voteranno a favore.
Comunque: se fossero respinte arriveremmo a 13 senatori liberi (anche se c’è chi giura che in Senato ce ne sono altrettanti pronti a fare le valigie) ed ecco che il pallottoliere lo prende in mano il pd Pippo Civati. I suoi al Senato sono 7 e se si aggiungono i 7 di Sel, con i dissidenti di Grillo ci si avvicina ad insidiare i 30 senatori del Ncd, creando in tutto e per tutto una maggioranza alternativa, in appoggio al governo Renzi.
È chiaro che si tratta, per ora, solo del pallottoliere. Ma proprio ieri un «civatiano» di ferro come il senatore Corradino Mineo ha parlato apertamente di un gruppo possibile con i fuoriusciti dal Movimento di Grillo e poco importa che Pippo Civati abbia voluto smentire platealmente «cene segrete» con gli espulsi dal M5S (così come aveva accusato il deputato cinque stelle Roberto Fico): volendo, per prendere accordi, può bastare la buvette di Palazzo Madama.
Eppure dai dissidenti di Beppe Grillo arrivano soltanto smentite. Anche l’infermiera di Scandicci Alessandra Bencini, dopo aver scritto le sue dimissioni tra le lacrime, si è lanciata in una dichiarazione decisa: «Nessun nuovo gruppo, rimango nel M5S , fino all’esito della votazione sulle mie dimissioni». E allora?
Tutti i «dissidenti» contestano apertamente il loro capo. Tutti però sono attaccatissimi al Movimento. Francesco Campanella ieri è arrivato a dire: «Il Movimento 5 Stelle ha un solo difetto: l’invadenza di Grillo e di Casaleggio». E Laura Bignami, analista programmatrice di Legnano, altra dimissionaria fresca fresca, a contestare Grillo ci aveva pensato apertamente già nell’ottobre scorso. Così come un’altra dimissionaria, Monica Casaletto, brianzola videomaker: in settembre si era spesa apertamente in difesa del senatore Orellana contro il leader Grillo.
E se volessero organizzarsi per tenersi il movimento e fare fuori proprio lui, il capo dei capi? Al senatore Maurizio Romani, anche lui tra i dimissionari di ieri, il coraggio non dovrebbe certo mancare. Medico fiorentino sessantenne, nel luglio scorso non esitò ad ingaggiare un duello televisivo con l’allora suo sindaco Matteo Renzi. Eppure, se alla fine davvero, nonostante le smentite e l’incertezza sul futuro, le dimissioni respinte sfociassero in accordo con la sinistra si potrebbe aprire lo spazio per un dialogo con la maggioranza guidata proprio da Renzi.

il Fatto 28.2.14
Tutti i contabili dell’Opus Dei
Nella nuova Chiesa di Francesco la solita Opus Dei non molla la cassa
di Marco Politi


Nei gialli è sempre buona regola cercare la donna o il profumo dei soldi. Nel caso della rivoluzione di Bergoglio, vale la pena di guardare anche dove sta l’Opus Dei. E le sorprese sugli opusdeini e il loro ruolo non mancheranno di sicuro. Nei gialli è sempre buona regola cercare la donna o il profumo dei soldi. Nel caso della rivoluzione di Bergoglio vale la pena di guardare anche dove sta l’Opus Dei. E non si sarà sorpresi a scoprire che gli opusdeini, teologicamente e culturalmente così lontani dalla visione di papa Francesco, sono però riusciti a collocarsi al centro degli organismi di controllo economico. Quegli strumenti con i quali il pontefice argentino vuole portare pulizia nel sottobosco affaristico-prelatizio vaticano, denunciato a suo tempo da mons. Viganò (le cui proteste i lettori del Fatto lessero in anteprima nel 2012) e in messaggi riservati anche dall’ex presidente dello Ior Gotti Tedeschi.
I NUOVI ORGANISMI creati da papa Francesco, pochi giorni fa, il Consiglio per l’Economia e il Segretariato per l’Economia, sono frutto della “Commissione per la riforma economico-amministrativa della Santa Sede”, il cui segretario è mons. Lucio Angel Vallejo Balda: spagnolo e membro dell’Opus Dei, il quale già prima dell’avvento di Francesco era arrivato a occupare la posizione di segretario della Prefettura per gli Affari economici in Vaticano.
Il Consiglio per l’Economia – composto da otto vescovi e cardinali e sette professionisti laici – ha l’incarico di “sorvegliare la gestione economica e di vigilare sulle strutture e sulle attività amministrative e finanziarie” dei dicasteri della Curia, dello Stato Città del Vaticano e degli enti collegati alla Santa Sede. Un ruolo nevralgico, che papa Francesco ha affidato al cardinale australiano George Pell, attuale arcivescovo di Sidney (posizione che abbandonerà), confidando nella sua cultura anglosassone estremamente attenta e severa nell’uso del denaro del denaro pubblico o comunitario. Il Segretariato, che risponde direttamente al pontefice, deve attuare il controllo economico sugli enti vaticani e soprattutto determinare gli indirizzi per quanto riguarda la politica degli acquisti (e si presume anche degli appalti) in Vaticano: fonte primaria di inghippi e traffici sin dalla nascita del nuovo stato vaticano nel 1929.
Insomma i nuovi organismi saranno la “torre di controllo” di tutti i flussi finanziari che riguardano la gestione degli enti della Santa Sede. È opinione comune, che quando saranno pronti gli statuti del Consiglio e della Segreteria e si passerà alle nomine mons. Vallejo Balda occuperà un ruolo di rilievo, questione che preoccupa i settori della Curia che non vedono di buon occhio un eccessivo potere dell’Opus.
A DIFFERENZA di Comunione e liberazione – uscita ammaccata dal passaggio da un pontificato all’altro e che anzi ha contribuito per i suoi intrecci con il regime berlusconiano a danneggiare la candidatura del cardinale Scola nel conclave dell’anno scorso– l’Opus Dei si è dimostrata una sorta di araba fenice. Era forte con Giovanni Paolo II, era ideologicamente molto vicina alla linea teologica ratzingeriana, si è silenziosamente allineata al nuovo pontefice dopo il 13 marzo 2013. Anzi in un’intervista al Corriere della Sera il prelato dell’Opus Dei mons. Echevarria ha tenuto a sottolineare di avere accolto l’elezione di Francesco con “profonda gioia” e di averlo incluso nella sua “preghiera a Sant’Ignazio di Loyola… un santo molto apprezzato dal fondatore dell’Opus Dei”.
Omaggi a parte, un altro esponente dell’Opus Dei è inserito nella commissione di indagine sullo Ior, che sta studiando il profilo che dovrà assumere l’Istituto per le opere di religione. Si tratta di mons. Juan Ignacio Arrieta Ochoa, un profondo conoscitore di diritto canonico ed esperto di “Diritto dell’organizzazione della Chiesa cattolica ecclesiastica”, già docente presso l’università (opusdeina) Santa Croce.
CON QUESTE personalità l’Opus è veramente ben piazzata nei gangli finanziari vaticani. Si può aggiungere che un altro prelato opusdeino, l’argentino Carlos Maria Nannei, procuratore dell’Opus presso la Santa Sede, è in rapporti di amicizia con il pontefice. Va detto, peraltro, che papa Francesco è allergico alle lobby di qualsiasi tipo, specie quelle ecclesiastiche, e quindi non intende avere rapporti privilegiati con nessun gruppo in particolare. Semmai la sua politica è inclusiva: cioè il suo obiettivo è di coinvolgere tutte le tendenze presenti nel mondo cattolico nel cantiere di riforma della Curia e della Chiesa nel suo complesso. Basti pensare che il cardinale Pell, nominato a capo del nuovo Consiglio per l’Economia (e membro del “consiglio della corona” di otto cardinali), è un autentico conservatore.

il Fatto 28.2.14
Delrio tiene famiglia: a Reggio un appalto per la ditta del cugino
Lo stesso familiare entra poi in un consorzio delle coop rosse di Poletti, appena diventato ministro
di Marco Lillo


La società è del cugino del sindaco Del Rio, Paolo Del Rio, che ne controlla il 99 per cento in qualità di socio accomandatario con poteri di amministrazione. Nel verbale di determinazione del 22 aprile 2010 nel quale Paolo alza bandiera bianca e presenta richiesta di concordato per evitare il fallimento, il cugino dichiara di risiedere al civico 40 di una via di Reggio Emilia, che non indichiamo per ragioni di privacy. La società ha sede al numero 16 della stessa via e anche il sottosegretario Del Rio è comproprietario con la sorella (i figli hanno l’usufrutto della sua quota) di metà di 2 appartamenti da 4 vani, un appartamento da 7 vani e mezzo e tre box da 13 metri quadrati nella stessa strada, al civico 40. Probabilmente si tratterà delle case ereditate da Achille e Firmino Del Rio, padri rispettivamente di Graziano e Paolo. I due cugini conservano anche le quote di 4 magazzini, sempre a Reggio Emilia, per un centinaio di metri quadrati complessivi, ereditati in comunione tra cugini. Anche la restante quota dell’uno per cento della società in accomandita di Paolo Del Rio vanta un socio interessante: socio accomandante è Rita Enrica Montanari, moglie di Paolo Del Rio e funzionaria (non è il dirigente ma è definita ‘responsabile’) dell’ufficio gare e contratti del comune di Reggio Emilia.
Stando al rapporto annuale dei contratti pubblici pubblicato dalla Regione quell’anno la società del cugino del sindaco e della moglie ha vinto un solo appalto pubblico in Emilia Romagna: quello della scuola Allende di Reggio. Stando ai rapporti annuali, la società di Paolo Del Rio si aggiudica il primo appalto da 122 mila euro nel 2004. Nel 2005 fa due lavori per complessivi 994 mila euro. Nel 2006 nulla. Nel 2007 altri 2 appalti per 429 mila euro complessivi, nel 2008 nulla e nel 2009 solo l’appalto da 140 mila euro della scuola Allende. Nell’aprile 2010 arriva il concordato.
Eppure nel giugno 2003 Paolo Del Rio era entrato nel grande giro: l’Acer di Reggio Emilia, ente pubblico che si occupa dell’edilizia popolare (ex IACP) fa un bando per individuare tre società partner della sua controllata Acer Iniziative Immobiliari (poi sciolta nel 2009) a cui affidare la costruzione e ristrutturazione delle case popolari. Ci sono 43 milioni di euro in ballo e l’Ance, cioé l’associazione dei costruttori, presenta un ricorso al Tar, poi ritirato, perché non accetta la procedura seguita: Acer Iniziative Immobiliare fa entrare con tre quote uguali, di circa il 16 per cento ciascuna, le tre società private scelte con il bando e lascia ad Acer la maggioranza. Una delle tre partner prescelte è la Consacer, creata a febbraio 2004, nella quale troviamo socio (con il 3 per cento) la solita accomandita di Paolo Del Rio. Acer è un ente controllato da tutti gli enti locali e il comune di Reggio Emilia è il primo socio con il 25 per cento delle quote.
GRAZIANO DEL RIO quando l’operazione parte è un consigliere regionale della Margherita in Emilia. Diverrà sindaco solo a giugno del 2004, un anno dopo il bando, tre mesi dopo la creazione di Consacer. I soci di suo cugino comunque sono ben messi con la politica. Nel consorzio troviamo la Cooperativa Muratori di Reggiolo, aderente alle Lega Coop allora guidata dal ministro Giuliano Poletti, finita poi in concordato nel 2012, con il 30 per cento; segue un altro socio di Lega Coop: il CIE di Modena con il 25 per cento, poi la Cooperativa Artigiani Muratori Appennino Reggiano con il 20 per cento e a sorpresa la Italcantieri Spa con il 15 per cento. La società di Lacchiarella è appartenuta per decenni alla famiglia Berlusconi. Nel 1973 se ne occupava Silvio poi passò al fratello Paolo che la cedette alla fine degli anni novanta all’ex presidente della Spezia Calcio Giuseppe Ruggieri, arrestato nel 2009 per altre vicende e che racconterà come testimone di avere consegnato 50 mila euro a un suo socio a Reggio Emilia nell’agosto del 2003 per pagare alcuni amministratori , in relazione ad affari liguri. I soci più piccoli del consorzio Consacer sono la Poledil di Montanari Vanna (non parente di Enrica) con il 7 per cento e la società di Paolo Del Rio, con il 3 per cento. Consacer fattura 1 milione e 157 mila euro nel 2004, 4 milioni e 898 euro nel 2005, un milione e 615 mila nel 2006, 1 milione e 49 mila nel 2007. Sono circa 9 milioni di euro, concentrati nel 2005, anno in cui secondo i bilanci solo 63 mila euro sarebbero ricavi di Del Rio Paolo per manutenzione strade a Reggio Emilia.
Rita Enrica Montanari spiega: “Sono stata assunta nel 1993 dal comune e dal 1995 sono all’ufficio gare. Graziano Del Rio non faceva nemmeno politica. Nella gara che è stata vinta dalla società di mio marito il criterio di aggiudicazione era il massimo ribasso e dunque non era possibile favorirlo. Io non mi occupo della scelta dei partecipanti. La mia quota è davvero minima e serve per evitare il socio unico. Non mi sono mai occupata di nulla. La società non esiste dal 2010 per il concordato. Le sue cose sono state messe all’asta. Questo mi pare dimostri quanto sia insensato pensare che il sindaco Del Rio possa avere aiutato suo cugino”.
L’avvocato Santo Gnoni, dirigente dell’ufficio legale del comune di Reggio Emilia sulla gara vinta dal cugino del sindaco precisa: “Era una procedura negoziata con invito di alcune società e una gara con l’aggiudicazione al massimo ribasso. Ovviamente il sindaco non si occupa e non ha alcuna competenza su queste materie. Non vedo nessun problema legale nella partecipazione minima della dottoressa Montanari”. Paolo Del Rio, contattato tramite la moglie, non ci ha ricontattati. E anche il sottosegretario Graziano Del Rio, contattato tramite il suo ufficio stampa, non si è fatto vivo. La sua portavoce però precisa che “non c’è niente di irregolare”.

Repubblica 28.2.14
“Matteo, che errore la staffetta” dimissioni nel circolo ex Prodi
Lasciano la segretaria civiatiana, che ora guarda a Tsipras, e quattro membri del direttivo
di Silvia Bignami


BOLOGNA - Dimissioni di massa nel circolo Pd che fu di Romano Prodi. Si dimette «da tutti gli incarichi nel partito» Cecilia Alessandrini, la segretaria civatiana del piccolo circolo in pieno centro storico dove era iscritto il Professore, e dove ancora giace abbandonata la sua tessera, mai più ritirata dopo il tradimento dei 101. «Non ho condiviso la scelta di appoggiare il governo Renzi» scrive la segretaria, seguita nelle sue dimissioni «irrevocabili » dal Pd da quattro membri del suo direttivo. Tutti giovanissimi, tra i 36 e i 18 anni.
«Che il Pd spinga a fuggire energie cosí, mi fa capire che questo non è più il mio partito» spiega la Alessandrini, insegnante precaria, poco più che trentenne, dopo aver pubblicato sui social network la sua lunga lettera d’addio al Pd, e dopo aver restituito la sua tessera. Parole che scuotono il Pd di Bologna, col segretario Raffaele Donini che attacca: «Non si può mollare il Pd ora. È ingeneroso verso un partito che ha fatto un congresso con milioni di persone, e che sta provando a cambiare il Paese. Remeremo anche per chi se ne va».
Eppure questa per la Alessandrini, che fino all’ultimo ha provato a convincere Prodi a tornare nel Pd, era una decisione obbligata «dopo aver visto avvicendarsi alla presidenza del consiglio tre persone», Mario Monti, Entico Letta e Matteo Renzi, «non votate dall’elettorato, mentre l’unico al quale non è stata data questa possibilità è stato Pierluigi Bersani». Impietoso è pure il giudizio nei confronti del Pd: «Un partito che, non per colpa di Renzi, di progressista non ha nulla, che non ha coraggio, nè la forza di buttare il cuore oltre l’ostacolo». E in cui ora, per giunta, si respira un clima irrespirabile, con la minoranza civatiana «costretta a votare sí al nuovo governo nonostante avesse espresso il suo no in direzione ». Scelta pure quella difficile da mandar giù per la Alessandrini, che domenica era al conclave con Civati proprio a Bologna: «Ci si poteva almeno astenere, e vedere se avevano il coraggio di cacciarci». Fatto sta che adesso, «se alla subalternità al sistema di cui il Pd ha sempre sofferto, si aggiunge anche l’impossibilità di dissentire, che precedentemente non è mai mancata e che è stata ampiamente usata e abusata da tutti, vuol dire che non c’è davvero più spazio per un agire politico autonomo». L’accusa di mancanza di democrazia interna - totalmente negata dal cuperliano Donini: «È semplicemente una bugia» - rende impossibile ora tornare indietro: nemmeno se il governo dovesse cambiare maggioranza, coi grillini ora esuli dai 5 Stelle? La Alessandrini scuote la testa: «Per le Europee penso che darò fiducia a Tsipras. So che il Pd è entrato nel Pse, finalmente. Ma anche il Pse è complice dell’Europa di austerity che ha ridotto la Grecia come è oggi. Dunque penso che voterò altrove».

il Fatto 28.2.14
Salerno, il Pd vuole cacciare una senatrice anti-renziana
di Vincenzo Iurillo


A dimostrazione che le espulsioni dei dissidenti non sono un’esclusiva del M5S, la federazione provinciale del Pd di Salerno ha avviato l’iter per cacciare la senatrice Angelica Saggese, il segretario salernitano dei giovani democratici Vincenzo Pedace e coloro che insieme al deputato Guglielmo Vaccaro, candidato sconfitto alle primarie per la segreteria regionale, nei giorni scorsi hanno occupato la sede del partito per contestare i presunti brogli del voto e i risultati bulgari ottenuti dalla candidata di Vincenzo De Luca, la vincente renziana Assunta Tartaglione.
Vaccaro, che ha dormito in sede per una settimana – nei giorni successivi è stato raggiunto da chi ha voluto esprimergli solidarietà – per il momento è ‘salvo’ dall’avvio del procedimento disciplinare perché è iscritto a Napoli. Denuncia “purghe staliniane” e si dichiara “autosospeso” dal Pd. Il segretario provinciale democrat Nicola Landolfi reagisce parlando “di colpo di cabaret” del duo Sagge-se-Vaccaro e accusando la “violenza” di chi ha occupato il partito.

Repubblica 28.2.14
Il Partito democratico Pd nel Pse, D’Alema fa asse con Renzi
Solo Fioroni vota no. Ironia del premier: pop corn per godermi lo scontro tra lui e Massimo
di Goffredo De Marchis


ROMA - Il caso è chiuso. Il Pd aderisce al Partito socialista europeo con un voto della direzione: 121 sì, 1 no e 2 astenuti. Rimangono agli atti il dissenso di Beppe Fioroni e, a sorpresa, i dubbi del renziano Matteo Richetti. Ma si risolve una vexata quaestio che dura da 7 anni ossia dalla nascita del Partito democratico che avrebbe dovuto trovare una casa nuova nell’Unione ma alla fine ha scelto di stare in una delle vecchie famiglie. Anche per rimarcare il carattere bipolare della sua natura e replicarlo nel Continente dove si fronteggiano socialisti e popolari.
A dare l’accelerazione definitiva è stato Matteo Renzi che si presenterà domani al congresso del Pse di Roma come uno dei leader dell’organizzazione, segretario del partito e premier in carica. «Non è un punto di arrivo, è un punto di partenza», dice l’ex sindaco. Il Partito socialista cambia simbolo (ma non il nome), diventa Pse-Socialists & democrats. Quando ci saranno le assise ordinarie modificherà anche il suo statuto permettendo a Renzi di diventare vicepresidente. Su questo tema si salda un’asse tra il premier e Massimo D’Alema. Un viatico per la candidatura alle Europee? A Largo del Nazareno dicono di no, è confermato il veto di Renzi su D’Alema. Almeno per ora. L’unico a dare battaglia è il cattolico Fioroni. «Non voglio morire socialista. Sono sicuro che il Pd di Renzi prenderà una marea di voti di moderati e di delusi di Berlusconi. Ma il Pd dentro il Pse e con il nome di Schulz nel simbolo quei voti li perde». Gli ribatte D’Alema: «Il mio amico Beppe Vacca non vuole morire democristiano, tu non vuoi morire socialista. Fermiamoci alla prima parte della frase». Ovvero, evitiamo di morire. «E se vuoi organizzo un seminario per spiegarti l’influenza del cristianesimo nel socialismo europeo ». Renzi li prende in giro entrambi: «Comprerò i popcorn per assistere allo storico scontro tra D’Alema e Fioroni». È la pietra tombale su una discussione lunghissima. Che può riaprirsi polemicamente solo se domani, al Palazzo dei Congressi, suoneranno l’Internazionale. L’inno fu cantato al congresso di Madrid (2008) ma non a Bucarest (2012) per non mancare di rispetto a un Paese ex comunista.
Per suggellare l’intesa alla direzione partecipa anche il presidente bulgaro del Pse Serghei Stanishev. Fioroni ironizza: «Diciamo che la mia storia non è la stessa della Bulgaria». L’isolamento non spaventa il deputato cattolico: «Il Pd è nato sapendo che costituiva un’anomalia e proprio per questo dobbiamo creare uno spazio nuovo, del riformismo democratico». Richetti invece si lamenta del poco tempo concesso alla riflessione. Da fuori, via Twitter, arriva anche il dissenso di Arturo Parisi: «Il Pd si associa ai Ds entrando nel Pse: come sempre troppe parole vane e troppi voti insinceri per una decisione tanto importante».
Domani al congresso l’ingresso del Pd verrà salutato solennemente. È atteso anche Pierluigi Bersani, alla seconda uscita dopo l’operazione («Sono soddisfatto, c’è stato un passo avanti da parte di tutti» il suo commento di ieri). Il socialista Riccardo Nencini, che nel Pse c’è dalla fondazione, però rilancerà subito durante la sessione plenaria: «Adesso non c’è più motivo per non costruire una lista socialista alle Europee. Con il Pd, noi e una parte di Sel».

Repubblica 28.2.14
Il sisma che porta il Pd nel socialismo europeo
di Piero Ignazi


ALLA vigilia della riunione del Partito socialista europeo per la preparazione del programma elettorale il Pd, finalmente, supera quelle ritrosie che l’hanno lasciato a lungo in un limbo indefinito e aderisce alla famiglia dei socialisti (e democratici) europei.
Questo passaggio, che non era riuscito alle precedenti leadership “di sinistra”, da Veltroni a Bersani, viene ora attuato da un segretario che proviene da tutt’altra tradizione politica. Anche questa decisione segnala la crisi verticale del vecchio establishment di derivazione Ds-Ppi. I ritardi, le incapacità e le debolezze di quelle tradizioni si erano talmente incrostati negli ultimi due decenni da aver prodotto un collasso per estenuazione. Non c’era più linfa vitale: si era esaurita la capacità di definire progetti, saldare alleanze, incrociare domande della società civile. Il leader del Pd, nonostante le sue origini politiche, possiede una carica rivoluzionaria: non ha tabù né reverenze. Se l’adesione al Pse è una condizione necessaria per poter giocare un ruolo in Europa grazie al sostegno dei partiti socialisti, allora al bando le pruderie post-democristiane.
Questa disinvoltura, nel bene e nel male, è agli antipodi della ponderata prudenza della vecchia classe dirigente. Nemmeno i nuovi antagonisti interni hanno preso le misure della forza trasformativa e della spregiudicatezza del loro leader. Non ci è riuscito il soave e riflessivo Cuperlo, e fatica anche l’irrequieto Civati, la cui determinazione è inversamente proporzionale a quell’aria casual e distaccata, come fosse capitato lì per caso. Il 68% di voti a Renzi nelle primarie esprimeva una volontà insopprimibile di voltare pagina, alla quale si sono acconciati anche tanti che non condividevano le idee del sindaco di Firenze. L’importante era cambiare verso. Smuoversi dalle pastoie, da quel senso di inconcludenza che faceva sprofondare il Pd nell’irrilevanza. Ed è proprio il diffondersi ancora di questa terribile sensazione che ha perso Letta.
Renzi ha (re) introdotto nel Partito democratico quella “durezza” che un tempo non mancava nei vecchi partiti di massa e che poi si era persa nella immaterialità della fascinazione dei partiti leggeri. Con il brutale passaggio di consegne alla guida del governo (plasticamente rappresentato da quei 16 secondi di gelo tra Renzi e Letta durante il rito della campanella) il Pd, da lato, si è democristianizzato accedendo a modalità cannibaliche di eliminazione dei propri dirigenti, dall’altro, si è modernizzato adottando stili da Wolf of Wall Street, spregiudicati, diretti, ultimativi. Per molti, tutto ciò è comunque meglio della palude e degli infingimenti del passato.
Al di là di ogni giudizio, la defenestrazione di Letta risponde all’imprinting della nuova classe politica democrat entrata massicciamente negli organi dirigenti del partito (i renziani) e nei gruppi parlamentari (bersaniani e giovani turchi). In un anno il rinnovamento tanto nel partito quanto in Parlamento è stato tellurico. E Renzi incarna all’ennesima potenza questa rivoluzione di modi, stili e riferimenti, senza una stella polare ideologica da inseguire (nemmeno l’omaggio di rito a Norberto Bobbio convince) ma piuttosto con un caleidoscopio cangiante di opzioni, di cui l’adesione al Pse costituisce un esempio: valutato il danno di una posizione ambigua e indefinita in Europa e il rilievo della competizione bipolare anche nel Parlamento europeo, Renzi ha buttato alle ortiche le resistenze d’un tempo e immesso il Pd nel suo alveo naturale.
La politica postmoderna ha trovato il suo cantore sul versante del centrosinistra proprio quando dall’altra parte dello schieramento politico Silvio Berlusconi ha perso il touch, il contatto con la realtà, condannandosi alla ripetizione ossessiva dei refrain del passato. Con l’innesto di una leadership veloce, interconnessa e digitale il Pd ha un solo contraltare di fronte a sé: il Movimento 5 Stelle, l’unico che si muova sul suo stesso terreno. Il conflitto più aspro non riguarderà più la contrapposizione con la destra berlusconiana ormai decisamente superata, tanto che Renzi ha giocato di sponda con il Cavaliere in tutta souplesse, senza esserne condizionato in nulla. Game over aveva detto, e così è in effetti. Poi la destra manterrà i suoi consensi, com’è ovvio. Ma la competizione vera, per la conquista dei voti contendibili, è ora con il M5S, al fondo molto più sintonico al renzismo di quanto non facciano trasparire le polemiche di questi giorni. Anzi, proprio l’impennarsi della tensione tra Pd e M5S e la reazione scomposta di Grillo con le espulsioni a raffica dimostrano che la competition è tra quei due partiti.

l’Unità 28.2.14
Adesione al Pse Meglio tardi che mai
di Umberto De Giovannangeli


A Roma, oggi, si archivia un’«anomalia italiana». E lo si fa con l’ambizione di essere parte di un movimento che coniuga al futuro, valori, principi, identità che fanno parte di una storia.
Una grande storia: quella del socialismo europeo. Nel congresso del Pse che si apre oggi a Roma, il Partito democratico entra a far parte ufficialmente della «famiglia» socialista europea; una famiglia che è al governo in 17 dei 28 Paesi dell’Unione europea. Una «famiglia» che si rinnova, articolandosi nella sua dizione, Socialists and Democrats: ma dietro questa definizione c’è la comprensione, sostanziale, che il fronte progressista, in Europa e nel mondo, ha rotto vecchi «argini » ideologici per allargarsi a culture, esperienze, classi dirigenti che arricchiscono un orizzonte di cambiamento proiettato nel Terzo millennio.
«Con Fassino al congresso Pse a Porto - ricorda la neo ministra degli Esteri Federica Mogherini - gli allora Ds avevano proposto un cambio di statuto del Pse che sanciva il cambio di natura politica e identitaria della famiglia socialista, includendo non solo i partiti socialisti nello statuto del Pse ma anche i partiti socialdemocratici, laburisti e democratici. Non era un caso, era la fotografia di una realtà già esistente». E bene fa Massimo D’Alema a sottolineare che la scelta del Pd di entrare nel Pse ha la forza di una svolta e non il sapore, amaro, di una resa. Una scelta, e una svolta, politica e non ideologica. Legata ad una idea altra, forte di Europa. Ad un sogno che può divenire realtà: quello degli Stati Uniti d’Europa. L’Europa dei diritti sociali e di cittadinanza, e non l’Europa dei mercati. L’Europa inclusiva e non emarginante. Un’Europa sostanzialmente bipolare. «La costruzione di forti partiti europei - ricorda ancora l’ex premier - è oggi un forte antidoto di fronte a un rischio di disgregazione nazionalistica dell’Europa». L’Europa progressista va oltre l’austerità, ponendosi l’ambizioso obiettivo di segnare una svolta, epocale, rispetto al fallimentare ciclo conservatore. L’Europa dei Socialists and Democrats punta infatti a una svolta strategica nella politica economica, passando dall’austerità agli investimenti, puntando sulla valorizzazione del capitale umano, sulla formazione, i saperi. E solo le forze che si riuniscono da oggi a Roma, e che domani approveranno il Manifesto dei 10 punti e ufficializzeranno la candidatura di Martin Schulz a presidente della Commissione europea, possono rappresentare un efficace argine alla deriva populista, soprattutto in vista delle elezioni del 22-25 maggio.
L’adesione del Pd al Pse «è per molti un punto di arrivo, ma è anche e soprattutto un punto di partenza», rimarca Matteo Renzi nelle sue conclusioni ai lavori della Direzione dei Democratici. È così. Ed è un bene. Ed è un bene il contributo, prezioso, che il Pd può dare perché l’Europa che verrà guardi con sempre maggiore attenzione verso Sud, spostando il suo asse verso il Mediterraneo. Va dato atto al presidente del Consiglio, e segretario del Pd, di aver portato a termine questo percorso di adesione cogliendone la sua modernità, il suo essere un investimento sul futuro. «C’è entusiasmo a Bruxelles per l’apporto, in termini di innovazione e di arricchimento, che può portare il Pd, in Italia e in Europa», annota la titolare della Farnesina, cogliendo un elemento, importante, di verità politica. Innovazione che s’invera in quel «Manifesto di Parigi» fortemente voluto da Pier Luigi Bersani e che ha segnato la sua segreteria. «Rotamare» la vecchia Europa, quella conservatrice, ripiegata su se stessa: è questa la sfida di cui il «nuovo Pse» sarà protagonista. Ricordando, per usare le parole di Jean-Paul Fitoussi, che «non sarà l’austerità a tirarci fuori dalla recessione né a contrastare una preoccupante deriva populistica ». Ma perché ciò accada bisogna cambiare le politiche europee, operando per una modifica sostanziale del Patto fiscale. L’Europa che nasce a Roma ha questo segno. Il segno di una svolta.

L’Huffington Post 28.2.14
Partito Democratico aderisce al Pse
Matteo Renzi: "È un punto di arrivo ma anche di partenza"
di  Laurence Figà-Talamanca

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Repubblica 28.2.14
Bankitalia, lettera Ue al Tesoro sospetto aiuto di Stato dietro il decreto
La rivalutazione delle quote potrebbe favorire gli istituti di credito
di Federico Fubini


FOSSE così, il decreto che rivaluta il capitale di Palazzo Koch andrebbe riscritto. E il premier Matteo Renzi avrebbe la certezza di aver ereditato dal suo predecessore un’eredità politicamente radioattiva. A maggior ragione se Beppe Grillo continuerà a usarla per accusare il governo e le authority di colludere con i grandi banchieri.
Per ora Bruxelles non salta alle conclusioni, perché l’esame del caso Bankitalia è appena agli inizi. Tutto è partito dal ricorso alla Commissione da parte dell’eurodeputato dell’Idv Niccolò Rinaldi (gruppo Alde) sulla rivalutazione del capitale della Banca d’Italia. In realtà però i guardiani della concorrenza che lavorano per il vicepresidente della Commissione, lo spagnolo Joaquin Almunia, avevano inevitabilmente notato l’operazione su Via Nazionale. È dunque molto probabile che avrebbero comunque cercato di capirci qualcosa di più, anche perché la posta in gioco è elevata. Proprio in questi mesi le grandi banche italiane sono sottoposte all’esame sulla qualità e la tenuta dei loro bilanci da parte della Banca centrale europea e dell’Eba, la European Banking Authority. E dall’estate scorsa le nuove disposizioni di Bruxelles impongono perdite sugli azionisti o i creditori degli istituti in caso di aiuti di Stato: se il decreto su Bankitalia non passasse il controllo dei guardiani della concorrenza, si aprirebbe uno dei casi più difficili di sempre nel rapporto fra l’Italia e Bruxelles.
L’ex ministro dell’Economia Fabrizio Saccomanni non ha mai notificato a Bruxelles il decreto Bankitalia (poi convertito in legge) come un caso di possibili sussidi pubblici. Ma il testo contiene misure che in Commissione europea non sono passate inosservate. Le quote di Via Nazionale sono rivalutate da 300 milioni di lire (il valore fissato all’origine, nel 1936) a 7,5 miliardi di euro e viene proibito a qualunque azionista di detenere più del 3% del capitale. Poiché Intesa San Paolo oggi ha il 30,3% e Unicredit il 22,1% e anche Generali, Cassa di Risparmio di Bologna, l’Inps e Carige sono sopra la soglia, per loro si prospetta una plusvalenza dalla vendita delle quote in eccesso. Sulla base della rivalutazione fissata dal decreto Intesa incasserebbe 2 miliardi di euro e Unicredit 1,6 miliardi. In entrambi in casi sarebbe il doppio o comunque molto più dell’utile netto per il 2013, anche se il flusso in entrata varrà solo sul bilancio del 2015.
In base all’esame di Bruxelles, i profili di aiuto di Stato potrebbero nascondersi a vari stadi dell’operazione. Si tratta di capire se la rivalutazione delle quote, con il passaggio di risorse da riserva a capitale di Bankitalia, permette alle banche socie un rafforzamento ingiustificato del loro patrimonio. Dato che il decreto Saccomanni prevede che Via Nazionale possa distribuire un dividendo annuo fino al 6% del valore di ogni singola quota, stimato in 25 mila euro, Bruxelles vorrà anche capire se è corretto che le riserve della banca centrale siano da considerare risorse distribuibili ai soci. Questi punti sono già stati sollevati nell’interrogazione di Rinaldi alla Commissione Ue. Poi c’è l’aspetto forse più delicato, l’opzione che Bankitalia ricompri le quote rivalutate dai suoi stessi azionisti. L’istituto centrale, recita il testo di legge, «può acquistare temporaneamente le proprie quote (...) con modalità tali da assicurare trasparenza, parità di trattamento e salvaguardia del patrimonio». In altri termini, se Intesa, Unicredit, Generali o altri non riescono a vendere sul mercato i loro titoli, li può comprare Bankitalia stessa con il vincolo di rivenderli a un prezzo che non comporti per lei delle perdite. Qui rischia di annidarsi un aiuto di Stato, in base ai dubbi presenti a Bruxelles, perché Palazzo Koch rafforza le banche socie direttamente con le proprie risorse. La Banca d’Italia invece si considera solo un tramite fra entità private, dato che compra le quote a prezzi non di favore e poi si impegna a rivenderle.
L’esame della Commissione non sarà solo un atto dovuto, ma una verifica approfondita. E potrebbe tener conto anche della forte irritazione delle banche estere attive in Italia per il trattamento fiscale che il decreto riserva agli azionisti italiani di Bankitalia. La plusvalenza dovuta alla rivalutazione del capitale viene tassata al 12,5%, come si fa con i titoli di Stato, e non al 20% come invece succede per gli altri strumenti finanziari: un trattamento fiscale incomprensibilmente di favore, secondo le banche estere. Inoltre, Bruxelles vorrà capire se è corretto per il diritto comunitario che il decreto vieti a società europee di diventare socie di Bankitalia. Nella campanella che Enrico Letta ha passato a Renzi pochi giorni fa, rischia di nascondersi un ultimo regalo a sorpresa.

il Fatto 28.2.14
Il tesoro nascosto
La tentazione di usare i fondi strutturali
di Carlo Di Foggia


Esiste un tesoro miliardario costituito dai fondi europei che l’Italia spreca o non riesce ad utilizzare? Da anni siamo in fondo alla classifica dell’utilizzo dei soldi che l'Unione destina alla politica di coesione (i “fondi strutturali”), peggio di noi fanno solo Bulgaria e Romania. Le inefficienze abbondando in una macchina amministrativa gigantesca. Da ottobre, la neonata Agenzia per la Coesione Territoriale voluta da Fabrizio Barca dovrebbe aiutare regioni ed enti locali, ma non è ancora operativa: mancano i vertici e non è ancora partito il bando per 120 nuove assunzioni (costo 5,5 milioni).
1. Quanti sono e a cosa servono i fondi strutturali stanziati dall’Unione europea?
Si dividono in fondi strutturali - Fondo europeo di sviluppo regionale (Fesr) e Fondo sociale europeo (Fse) - e Fondo di coesione, impegnati attraverso programmi operativi (nazionali e regionali). Sono lo strumento della politica regionale dell’Unione per livellare le disparità tra regioni e tra Stati membri. Per il periodo 2007-2013, la dotazione è stata di circa 348 miliardi di euro, di cui 278 destinati ai fondi strutturali e 70 al Fondo di coesione. Nel complesso, il 35 per cento del bilancio comunitario, la seconda voce di spesa. Per il 2014-2020 Bruxelles ha messo a disposizione 325 miliardi, 29 destinati all'Italia. A questi si aggiunge il cofinanziamento: fatta 100 la spesa, 50 spetta all’Ue e 50 all’Italia. I soldi non spesi tornano indietro (per i fondi 2007-2013, c’è tempo fino al 2015 per le somme già impegnate).
2. Quanto vale il tesoro dei fondi europei non utilizzati?
L’Italia ha speso (al 31 dicembre) 25 miliardi di euro dei 47 stanziati, il 52 per cento delle risorse disponibili, superando di poco il minimo fissato dalla Commissione europea (48,5 per cento). Abbiamo lasciato il lavoro a metà. Ci sono 15 miliardi spendibili ma non utilizzati, mancano i bandi e i progetti, per i prossimi sette anni ce ne sono altri 29 disponibili. Se a questi aggiungiamo la quota che dovrebbe fornire lo Stato italiano nel cofinanziamento, arriviamo a 80 miliardi di possibili mancati interventi nell’economia reale, come ha stimato l’ex ministro per gli Affari europei Enzo Moavero.
3. Perché non riusciamo a spendere i soldi che l'Ue destina all'Italia?
Spendiamo poco e male i fondi. Ma più che per gli sprechi, che pure rappresentano una quota non secondaria (l’Italia è al secondo posto per numero di segnalazioni all’Olaf, l'ufficio europeo che vigila sulle frodi ai fondi), la parte più corposa ce la lasciamo sfuggire per l’incapacità delle amministrazioni locali. Non sappiamo come spendere i soldi. È un ingorgo burocratico, tra piani nazionali, regionali, e decine di sottopiani. Molte amministrazioni stanno ancora cercando di spendere le somme impegnate prima del termine dopo il quale si perde il diritto ai soldi.

il Fatto 28.2.14
M5S, è l’emorragia
Addio da due deputati Lasciano 6 senatori
di Luca De Carolis


Il giorno dopo la tempesta. Fatto di nuovi addii, dimissioni messe nero su bianco e riunioni fiume per rimettere assieme i cocci in Senato. Di contorno, insulti incrociati tra lealisti e ribelli, e il rischio concreto di nuove uscite a breve: almeno due, a Palazzo Madama. Dopo l’espulsione via web dei 4 dissidenti e le dimissioni annunciate da altri sei senatori, il Movimento Cinque Stelle riparte dal nuovo bollettino di caduti e feriti. Il conto racconta di due deputati, Alessio Tacconi e Ivan Catalano, che lasciano M5S per passare al gruppo Misto. E di sei senatori che hanno presentato formalmente le dimissioni. Nella lista c’è uno dei cacciati, Luis Orellana, assieme a 5 dei senatori in rivolta contro le espulsioni: Maurizio Romani, Alessandra Bencini, Maria Mussini, Laura Bignami e Monica Casaletto. Nessuna mossa formale dagli altri tre espulsi: Francesco Campanella, orientato a restare a Palazzo Madama (“Ma prima voglio sentire la base sul territorio”), Fabrizio Bocchino e Lorenzo Battista, che pure avevano lanciato segnali su dimissioni imminenti. È invece sicura l’uscita dal M5S dei deputati Tacconi e Catalano. Il primo, veronese di 36 anni, aveva annunciato l’addio già giovedì sera, dopo essersi proclamato “il quinto espulso”. E Luigi Di Maio l’aveva “salutato” così: “Se ne va per non rendicontare le spese”. Ieri, nella email di dimissioni inviata al capogruppo D’Incà, Tacconi ha invocato “una smentita, visto che quanto detto da Di Maio è un vergognoso insieme di falsità. Ho sempre rendicontato e restituito tutto. In assenza di tale presa di posizione, dovrò concludere che anche M5S usa la macchina del fango”. Catalano, lombardo di 27 anni, già a rischio espulsione per problemi sulla rendicontazione, si è accapigliato su Twitter con alcune deputate sul tema stipendi. Durissima la nota di altri 9 deputati, tra cui Luigi Di Maio e Alessandro Di Battista: “Finalmente zavorra che va via, gente che non c’entra nulla con il M5S, diventeranno parassiti visto che non hanno neanche la dignità di dimettersi”. Ma è Roberta Lombardi a scrivere parole da ultimatum: “Noi siamo in guerra, chi non è completamente convinto del nostro percorso decida cosa fare da grande. O dentro o fuori”. Il clima è (anche) questo, alla Camera. Dove i malpancisti che riflettono sul da farsi sono almeno 5. “Ma per ora non se ne va nessun’altro, vogliamo riflettere” spiega un deputato.
IN SENATO, giornata di volti provati e discorsi infiniti. Segnata dalla nota di Romani: il primo ad annunciare le dimissioni giovedì, punto di riferimento dei critici. “Non voglio essere complice di questo linciaggio” scrive il medico toscano. Convinto che “definire dissidente e arrivare a espellere chi pensa con la propria testa e ha il coraggio delle proprie idee è una mossa suicida: a ciò si aggiunge la rabbia e la violenza che ho visto usare verso i nostri colleghi”. Giovedì molti colleghi avevano provato a farlo recedere. Ma Romani è stato irremovibile. Arriva la notizia delle sei lettere di dimissioni. Manca quella della genovese Cristina De Pietro, tra i dimissionari giovedì notte. Ieri non si è vista a Palazzo Madama. La descrivono come molto incerta. I moderati sperano di recuperare lei e anche i 5 che hanno dato le dimissioni. Perché l’aula voti, decidendo se accettarle o meno, potrebbero passare diverse settimane. E di solito l’aula le respinge sempre in prima istanza. Il tempo insomma ci sarebbe. I senatori si riuniscono nel pomeriggio, anche per decidere come votare in aula sulle dimissioni. La riunione dura oltre 4 ore. Ci sono anche tre dimissionari, Romani, Mussini e Bencini. Su proposta di Elisa Bulgarelli, ci si scambia proposte scritte per migliorare il gruppo. Si discute di come migliorare il regolamento sulle sanzioni. La tensione sale sul finale, con Vito Crimi che “punge” Romani e il collega che replica duro. Discussioni anche tra il capogruppo Santangelo e un paio di senatori. Niente decisione sul voto in aula. A margine, Mussini: “Finché non accettano le mie dimissioni rimango nel M5S, costituire un nuovo gruppo sarebbe inutile”.
PER ORA i 5 dimissionari non si smuovono. Ma ballano altri nomi, De Pietro in primis. In bilico anche Ivana Simeoni, eletta a Latina (il figlio, Cristian Iannuzzi, è deputato M5S). Su Facebook si era detta contraria alle espulsioni: “Non condivido né metodo né motivazioni”. In sofferenza anche l’emiliana Michela Montevecchi e Bartolomeo Pepe.
Intanto continuano le voci sul nuovo gruppo di centrosinistra che nascerebbe a Palazzo Madama con civatiani, fuoriusciti di M5S e Sel. Ieri Civati ha negato “cene segrete con dissidenti” ma ha rilanciato: “Oltre ai 4 espulsi potrebbero uscire altri 10 dai Cinque Stelle. Potrebbero fare un gruppo da soli, senza bisogno dei miei amici”. Da Parma invece arriva la presa di distanza del sindaco grillino Federico Pizza-rotti: “Non ho capito le espulsioni, perdere tempo in spaccature e dissidi interni ci indebolisce”.

l’Unità 28.2.14
Con le sette non si fa politica
risponde Luigi Cancrini

psichiatra e psicoterapeuta

Grillo si è sbarazzato dei quattro dissidenti con una scena dei film di 007: il capo della Spectre accarezza il gatto bianco, il traditore di fronte a lui cerca di difendersi disperatamente dalle accuse, ma viene inesorabilmente inghiottito in una botola direttamente collegata con la vasca degli squali. La conquista del mondo richiede disciplina.
MASSIMO MARNETTO

Ha scritto ieri efficacemente su questo giornale Claudio Sardo che il M5S si sta caratterizzando ogni giorno di più come una setta. Guidata da un guru e da un santone. Organizzata intorno a una convinzione per cui buono è chi è convinto del fatto che loro hanno sempre ragione. Dove non c’è spazio per le discussioni di merito. Per i contatti con l’esterno e per gli sforzi di mediazione. Concretamente e con riferimento all’oggi del movimento di Grillo la finalità del gruppo infatti è la glorificazione fine a se stessa del suo guru e del suo santone. Essere di meno, dice Grillo, conta poco, l’importante è essere più uniti. Intorno a lui. Nel modo che sia il più cieco e il più appassionato possibile. Ha qualcosa a che fare, tuttavia, tutto ciò con la politica? Nei tempi delle dittature, forse, dove la religione si sviluppa intorno a un capo indiscusso e non nel tempo, però, della democrazia. Di cui l’ascolto senza scomunica dell’altro è l’elemento fondamentale e che sta sgretolando dall’interno un movimento che avrebbe potuto dare molto per il rinnovamento del Paese. Setta, oggi, per la stupidità autocelebrativa di un capo che andrebbe prima di tutto curato ma che non accetterà di curarsi fino a quando loro, i suoi seguaci, non riusciranno ad allontanarlo. Liberando una soggettività capace di confrontarsi con quella degli altri.

l’Unità 28.2.14
Il governo Renzi e la rivincita del Parlamento
di Claudio Sardo


QUALUNQUE OPINIONE SI ABBIA DELLO STRAPPO DI MATTEO RENZI, NON SI PUÒ NEGARE CHE ILVOTO DI FIDUCIA al suo governo segni una rivincita del Parlamento. La promessa di prolungare la legislatura oltre il 2015 potrà anche rivelarsi una beffa, tuttavia da queste Camere, che sembravano incapaci di esprimere una maggioranza coerente, è nato un esecutivo «politico » con un programma sociale e istituzionale quanto mai ambizioso. Lo stesso Renzi espresse una prognosi infausta dopo il voto del febbraio 2013: ora invece su quel risultato così disprezzato ha deciso di innestare nientemeno che il governo della «svolta».
Si tratta di un rivincita al tempo stesso politica e istituzionale. Per vent’anni è stata quasi negata la legittimità di formare un secondo governo di legislatura. In disprezzo della Costituzione formale si è usato ogni genere di violenza verbale - dal «ribaltone » al «golpe» - per demolire l’autonomia del Parlamento, come se questo fosse un impedimento al diritto dei cittadini di eleggersi direttamente il governo. Il mito presidenzialista - sostenuto dall’ipocrisia di chi voleva cambiare la Costituzione senza avere il coraggio di dirlo esplicitamente - ha trovato alimento in uno stallo intermittente, in un trasformismo patologico, nel tracollo dei partiti (ridotti per lo più a strutture padronali). Così sono nati governi tecnici, governi deboli, governi «eccezionali ». Senza una piena responsabilità della politica. Lo stesso esecutivo di Enrico Letta, descritto come frutto di «larghe intese », è nato in realtà senza intese programmatiche e ha avuto il suo apice politico quando ha prodotto la frattura a destra, infliggendo a Berlusconi una dura sconfitta. Renzi si è insediato a Palazzo Chigi con una maggioranza impensabile in campagna elettorale, e tuttavia non ha chiesto scusa, non ha dichiarato alcuna inferiorità. Monti, Letta, persino D’Alema nel ’98 si proposero in Parlamento come cerniera, come transizione verso il ripristino della «normalità» perduta. Renzi invece ha presentato il suo governo come il destino migliore della legislatura.
La rivincita del Parlamento passa da una rivincita dei partiti. La sfida di Renzi è nata chiaramente nelle primarie che lo hanno eletto segretario del Pd. La vitalità del sistema parlamentare è sempre legata alla dignità, all’autostima dei partiti. La determinazione del leader Pd ha persino costretto il Capo dello Stato a compiere scelte che avrebbe preferito evitare. E questa è anche la più clamorosa smentita delle idiozie sul «monarca» al Quirinale. Napolitano avrebbe voluto che il governo Letta proseguisse il cammino fino alla fine del semestre europeo. Ma ha dovuto prendere atto della decisione di Renzi e del consenso da lui raccolto nel suo partito e tra gli alleati. Ogni governo della Repubblica è figlio sia del Parlamento che del Capo dello Stato. Ma la fisarmonica dei poteri presidenziali, che si allarga quando le Camere sono in stallo, si restringe inesorabilmente di fronte a una maggioranza che esprime una ferma volontà. Napolitano tentò di formare un governo anche nel 2008, dopo la crisi del secondo Prodi. Ma si sentì opporre il rifiuto. Una maggioranza invece diede la fiducia ai governi Monti e Letta: e l’intera responsabilità politica è in capo ai partiti che diedero il loro consenso. Altro che complotti o golpe, come ripetono Berlusconi e Travaglio.
Ora il problema è quale seguito immagina Renzi. La riforma elettorale è il primo banco di prova. La scelta cruciale è se confermare il bipolarismo coatto oppure restituire autonomia ai partiti. Nella forma attuale l’Italicum è purtroppo una riproposizione del Porcellum. Occorre cambiarlo. Per farlo Renzi deve rinunciare all’asse privilegiato con Berlusconi e valorizzare quell’articolazione del Parlamento, che si è prodotta tanto a destra quanto tra i grillini. Si tratta di rendere il doppio turno un’ipotesi più probabile di quanto non voglia il Cavaliere. Si tratta di schierare i partiti al primo turno senza apparentamenti e di comporre le alleanze, davanti agli elettori, tra il primo e il secondo turno. Non è impossibile liberarci dal Porcellum.
Non meno importante sarà poi la riforma del Senato. Fin qui c’è stata troppa superficialità: cambiare ruolo e funzione al Senato vuol dire modificare 45 articoli della Costituzione. Se il Senato diventerà la Camera delle Autonomie bisognerà stare molto attenti alla composizione, alla modalità di elezione e anche ai numeri. Cambiando il Senato, si cambia anche la platea dei grandi elettori del presidente della Repubblica e si incide profondamente sugli organi di garanzia costituzionale. Se la Camera avrà un forte carattere maggioritario, con premi potenzialmente molto elevati, non saranno compatibili i 630 deputati con soli 100 senatori. In questo modo l’elezione del presidente della Repubblica verrebbe corrotta: il premio di maggioranza diverrebbe funzionale a una diarchia presidente-premier, all’interno della medesima area politica. Lo squilibrio è così forte da far sorgere il dubbio: non è che si vuole aprire la strada all’elezione popolare diretta del Capo dello Stato? Ecco, tenere insieme un premier più forte (con il premio di maggioranza e la fiducia votata da una sola Camera) con un presidente più forte (perché eletto dal popolo) porterebbe il Parlamento dalla rivincita di oggi a una sconfitta di lungo periodo.

l’Unità 28.2.14
Camusso: il governo ascolti le parti sociali
«Tanti titoli, ora seguano le proposte e le coperture»
La Cgil incalza Renzi e si prepara al voto sulla rappresentanza
Nel 2013 iscritti in lieve calo


Il taglio dell’Irap, se da annuncio dovesse diventare la proposta unica o prevalente per la riduzione del cuneo fiscale, troverebbe la Cgil contraria. «I lavoratori non avrebbero benefici fiscali», taglia corto Susanna Camusso nel corso di una conferenza stampa in cui fa il punto sui prossimi appuntamenti del suo sindacato, il congresso e la consultazione sul Testo unico sulla rappresentanza. Inevitabilmente il discorso cade sul governo ed è un mix di attesa e paletti. Attesa per le proposte, «di titoli ne abbiamo sentiti e letti tanti», e per un confronto tra governo e parti sociali «che al momento non mi pare sia nell’agenda di Renzi. Questo è un problema - aggiunge il segretario generale della Cgil - Il primo messaggio per il premier è che non si può saltare la rappresentanza sociale, non siamo solo sigle». E ricorda che se prima della riforma sulle pensioni si fosse fatto un serio confronto con i sindacati «non staremmo qui, dopo tre anni a parlare di esodati».
NO AL TAGLIO DELL’IRAP. No al taglio dell’Irap, perché come già accadde sotto il governo Prodi non portò sollievo neanche ai consumi. E perplessità su di un’eventuale riduzione dell’Irpef perché premierebbe tutte le persone fisiche indistintamente «con un gradito omaggio agli evasori». Meglio sarebbe far leva sulle detrazioni come già la Cgil aveva indicato a Letta. In ogni caso servono le coperture finanziarie: sulla spending review, ad esempio «credo si stia vendendo la pelle di un orso ma non so dove sia l’orso». Insomma per Camusso «è necessario discutere con nettezza delle forme di finanziamento perché al momento ci sono elementi poco traducibili e comprensibili». Il sindacato di Corso d’Italia aspetta le mosse del nuovo governo «constatando e non lamentando » di non aver ancora visto il Job act, o sentito - tra le tante cose dette da Renzi riferimenti al tema della cassa integrazione che anche la Cgil vuole riformata ma nel segno dell’estensione delle tutele. Il lavoro, «soprattutto quello che manca », e le pensioni, «con le ferite aperte» della legge Fornero, sono stati al centro delle assemblee congressuali, oltre 50 mila a fronte delle 42 mila del congresso precedente. La Cgil va all’assise di maggio scontando per la prima volta da moltissimi anni un calo degli iscritti. Il 2013 si è chiuso con 5.686.210 tesserati, con una flessione dello 0,46% rispetto al 2012. «Nel quinto anno di crisi economica possiamo dire con vera soddisfazione che chiudiamo con una leggerissima perdita », commenta Camusso, specificando che il calo si è verificato nei settori industriali mentre nelle telecomunicazioni e nel terziario si è verificata una lieve crescita ma - a differenza degli anni precedenti - non tale da compensare la flessione nell’industria che più di altri paga l’emorragia di posti a causa della crisi. Come testimonia il calo dell’1,5% degli iscritti alla Fiom «che tuttavia non è la categoria industriale che perde di più», precisa il segretario. In calo anche i pensionati. Il dato complessivo, ragiona Camusso, «è in netta contraddizione con quanto avviene sul lavoro che è in continua diminuzione, e riflette la nuova sindacalizzazione che spesso va di pari passo con la perdita di lavoro».
Last but not least, la delicata e complessa partita del Testo unico sulla rappresentanza su cui il direttivo della Cgil mercoledì ha deciso di avviare una consultazione degli iscritti. Una scelta che per le modalità e il quesito posto viene contestata dalla minoranza del sindacato e dalla maggioranza della Fiom che ne fa parte. Il voto si terrà a marzo. «Se l’accordo venisse bocciato - ha annunciato Camusso - la Cgil ne trarrà le conseguenze ». In pratica verrebbe ritirata la firma posta sotto l’intesa con Cisl e Uil e Confindustria e Confservizi. Rispondendo a chi le chiedeva dell’ipotesi che la Fiom decida di non partecipare alla consultazione, Camusso ha risposto che sarebbe «un danno per i lavoratori metalmeccanici dirgli che non possano votare». Decisioni a riguardo sono attese per lunedì quando si riunirà il comitato centrale dei metalmeccanici. Il leader, Maurizio Landini, ieri con una nota è tornato a denunciare «la crisi democratica e di strategia che coinvolge la Cgil, lamia organizzazione».

Il Sole 28.2.14
Rappresentanza. A marzo le assemblee unitarie e il voto dei soli iscritti Cgil, contestato dalle tute blu
Ultima chiamata per la Fiom
Camusso: «Dannoso sottrarre i meccanici alla consultazione»
di Giorgio Pogliotti


ROMA «Sarebbe un danno per i lavoratori metalmeccanici dire loro che non possono partecipare alla consultazione» sul testo unico sulla rappresentanza. La leader della Cgil, Susanna Camusso, auspica che i vertici della Fiom che il 3 marzo riuniranno il comitato centrale «sappiano distinguere tra le schermaglie teoriche e lo straordinario fatto di partecipare al voto».
A marzo i lavoratori attivi iscritti alla Cgil sono chiamati a votare sul testo unico di attuazione dell'accordo sulla rappresentanza firmato lo scorso 10 gennaio con Cisl, Uil e Confindustria (successivamente con Confservizi) - su cui il direttivo di corso d'Italia aveva già espresso il parere positivo - oltrechè sull'intesa applicativa del 31 maggio 2013. Per l'accordo interconfederale del 28 giugno del 2011 su 1 milione e 70mila aventi diritto votarono in 660mila e i "sì" furono l'80%. Il direttivo della Cgil con un'ampia maggioranza (tra 139 aventi diritto, 1 no e 16 non hanno partecipato al voto, tra loro il leader della Fiom Maurizio Landini) ha stabilito il voto dei lavoratori delle categorie comprese nel perimetro delle associazioni datoriali con cui sono state raggiunte le intese (Confindustria e Confservizi) verrà conteggiato in modo separato dagli altri lavoratori che si esprimeranno sull'estensione dell'accordo con le nuove regole sulla rappresentanza. L'esito di ciascuna delle tre consultazioni sarà vincolante per la Cgil che in caso di vittoria dei "no" nei settori in cui ha già siglato l'intesa «trarrà le conclusioni e ritirerà la firma», ha annunciato Camusso in una conferenza stampa. Gli iscritti della Cgil voteranno dopo le assemblee organizzate con Cisl e Uil in cui un relatore esporrà l'accordo unitario, procedura contestata dalla Fiom (propone che si svolgano assemblee con due relatori per esporre entrambe le posizioni e che siano escluse dal voto le categorie a cui non si applica l'intesa).
La leader della Cgil ha anche tracciato il bilancio dell'effetto dei cinque anni di crisi sugli iscritti della Cgil in calo dello 0,46%, più marcato tra i settori industriali (-1,5% per la Fiom), che si estende anche ai pensionati, a fronte della crescita del terziario e delle comunicazioni, portando le tessere a poco più di 5milioni e 686mila. In vista del XVII congresso di maggio si sono svolte 50mila assemblee congressuali alle quali hanno partecipato 1,5 milioni di iscritti (contro le 42mila assemblee con 1,2 milioni di partecipanti del precedente congresso) che hanno votato in prevalenza per il documento della maggioranza, mentre quello alternativo di Cremaschi al momento non raggiunge il 3% (il dato non è definitivo).
Camusso sollecita l'avvio del confronto con il governo: «Rispetto ai tanti annunci sentiti in questi giorni, vorremmo conoscere proposte concrete, perchè di titoli ne abbiamo visti tanti – sostiene –. Invece dell'ennesima discussione sulle regole del mercato del lavoro, il problema è come si crea lavoro. Vorremmo esporre le nostre proposte». Sul taglio del cuneo fiscale: «C'è un tema di taglio dei costi alle imprese che è di reale interesse – aggiunge – ma non vorremmo che si concentri tutto su un taglio dell'Irap, come accadde con il governo Prodi. Chiediamo che sia esteso anche ai lavoratori attraverso detrazioni che vanno a vantaggio dei dipendenti e dei pensionati e non con un intervento sull'Irpef che si spalma su tutti, evasori compresi».

L’Huffington Post 28.2.14
Disoccupazione a gennaio al 12,9%, tra i giovani sale al 42,4%. Record dal 1977. I dati Istat

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il Fatto 28.2.14
Marino ricatta Renzi:: “I soldi o io chiudo Roma”. E Chigi cede
Imvece di un lento Ddl il sindaco ottiene un nuovo decreto
Il premier: “Ha ragione, ma toni sbagliati”
di Marco Palombi


Matteo Renzi ha appena imparato a sue spese la profonda verità di quel vecchio adagio secondo cui “si fa campagna elettorale in poesia, ma si governa in prosa”. Anche non volendo citare il suk dei posti di sottogoverno, la vicenda del cosiddetto decreto “Salva-Roma” è di plastica evidenza: il nuovo governo, lasciando decadere il testo, si è semplicemente trovato in una situazione di cui non aveva compreso la portata, visto che al disastro dei conti della Capitale s’è intrecciata ora la vicenda infinita della Tasi per il 2014: entrambe dovrebbero essere risolte nel Consiglio dei ministri di oggi.
IL RICATTO. Palazzo Chigi e Tesoro, nella serata di mercoledì, s’erano accordati su una soluzione: un decreto che prorogasse la presentazione dei bilanci comunali e poi un disegno di legge per risolvere in tutta calma i problemi aperti. Questo avrebbe, però, terremotato il Comune di Roma, che si sarebbe ritrovato senza soldi e con un vistoso buco da 800 milioni circa nei conti del 2013 e in quelli di previsione del 2014. Il sindaco Ignazio Marino non ha gradito e ha portato la vicenda in piazza. Alla Renzi, per così dire: se non arrivano i soldi “da domenica blocco la città. Le persone dovranno attrezzarsi, fortunati i politici che hanno le autoblu”, ha scandito di buon mattino. Poi in una escalation radiotelevisiva: “Diciamolo con chiarezza: per marzo non ci saranno i soldi per i 25 mila dipendenti del Comune, per il gasolio dei bus, per tenere aperti gli asili nido o raccogliere i rifiuti e neanche per organizzare la santificazione dei due Papi”.
IL COMMISSARIO. L’ipotesi di mettere sotto tutela la Capitale esautorando il sindaco ha fatto sorridere più di qualcuno, persino dentro al Pd, ma è impraticabile per un motivo semplice: quello che significa per la città. È stato lo stesso Marino a spiegarlo ai romani: “Il commissario dovrebbe licenziare circa metà del personale del Comune, cioè 12.500 persone, almeno il 50 per cento del personale Ama, 4.000 persone, dovrebbe vendere Atac dando ai privati il potere di licenziare almeno metà del personale amministrativo, dovrebbe vendere Acea e consegnarla ai privati contravvenendo alla volontà popolare che ha detto che l’acqua dev’essere pubblica”. Come si vede la partita, e gli interessi in gioco, è assai complessa.
MARCIA INDIETRO. Venuto allo scoperto Marino, il governo è stato costretto a ripensarci: oggi, secondo i rumors circolati ieri sera, dovrebbe esserci un nuovo decreto per consentire alla Capitale di respirare, anche se non sarà certo “la soluzione strutturale” invocata dal sindaco. Commento, irritato, del premier: “Facciamo il decreto, ma inviterei a usare anche tra noi un linguaggio diverso: le motivazioni di Marino erano comprensibili, il tono no”.
LA PRIMA TASSA. Anche la vicenda Tasi – la nuova tassa sui servizi comunali che debutta quest’anno – verrà risolta oggi secondo le linee concordate da Enrico Letta con l’Anci. Insomma, primo decreto e primo aumento di tasse per Renzi. L’intesa coi comuni prevede, infatti, che l’aliquota massima possa salire dal 2,5 per mille iniziale al 3,3: gli introiti, però, dovranno essere destinati alle detrazioni. Intanto la Tesoreria dovrà anche sbloccare il mezzo miliardo già stanziato nel ddl Stabilità per compensare i comuni dei minori incassi nel passaggio da Imu a Iuc (l’Anci, in realtà, chiedeva 700 milioni, ma al Mef lavorano su stime meno disastrose di quelle dei sindaci).
GOOGLE TAX. Tra i provvedimenti decaduti col decreto, curiosamente, c’è anche il rinvio al 1 luglio per le multinazionali che fanno e-commerce nel nostro paese di usare solo fornitori con partita Iva italiana. Renzi, come si ricorderà, è stato il principale oppositore della cosiddetta Google Tax (pure nata tra i parlamentari renziani come Francesco Boccia) e ora ne ha involontariamente accelerato l’entrata in vigore: l’obbligo sarà in vigore da domani. A guardare i risultati per l’erario, non è una brutta idea. La sola tracciabilità dei pagamenti (già in vigore da gennaio) secondo la Ragioneria generale porta gli incassi per l’erario dai sei milioni totali del 2013 a 137,9 milioni e senza il fuggi fuggi delle multinazionali previsto dai critici. Con l’obbligo di partita Iva si potrebbe salire a circa mezzo miliardo l’anno.

Corriere 28.2.14
Slalom tra buche, sprechi e Irpef esagerata
Ma un avvocato costa 300 mila euro
I romani pagano un’addizionale più che doppia rispetto alla media italiana
di Paolo Conti e Sergio Rizzo

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Corriere 28.2.14
Melodramma di un fallimento
Il peccato Capitale
di Paolo Conti e Sergio Rizzo

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Il Sole 24.2.14
Nell'urto con il Campidoglio il «renzismo» perde un pezzo della sua anima
Addio all'alleanza fra i sindaci. Il decreto è inevitabile ma premia una cattiva gestione
di Stefano Folli


Come è lontano il giorno in cui il neo-sindaco di Roma, Marino, e il suo collega di Firenze Renzi, candidato alla segreteria del Pd, passeggiavano insieme lungo i Fori Imperiali in procinto d'essere chiusi al traffico. Da allora molta acqua è passata sotto i ponti. Ieri la questione romana è esplosa e poi è stata in qualche misura tamponata. Ma non è davvero archiviata, al di là dei provvedimenti economici d'emergenza che ovviamente il governo è costretto a varare per impedire il collasso economico della Capitale. Si potrebbe anzi dire che la frizione fra il governo nazionale e il Campidoglio acquista un valore simbolico e contribuisce a definire alcuni contorni del "renzismo" come fenomeno politico. Non è irrilevante che il contrasto aspro e duro nei toni abbia riguardato due sindaci: quello di Roma, che nell'intervista a Minoli per "Mix 24" si è concesso un linguaggio assai poco istituzionale, intriso di rancore; e il premier che per sua stessa ammissione ragiona e si comporta ancora come un sindaco (nel senso di voler essere vicino ai normali cittadini).
L'irritazione di Renzi verso Marino va al di là dell'incidente. Il problema è che si è spezzata l'illusione: la speranza che fosse realistica una sorta di "santa alleanza" dei sindaci nel segno della concretezza e del pragmatismo. Non è così, naturalmente, e lo screzio con Roma a pochi giorni dall'insediamento del governo, infrange il sogno. È come se Marino avesse voluto dire che il sindaco-premier di Palazzo Chigi non è abbastanza sensibile ai problemi dei municipi.
Si capisce quindi che la polemica lascerà uno strascico, se non altro di ordine psicologico. Anche perché l'emergenza finanziaria di Roma è una condizione permanente e deriva da cattive gestioni che si sono accumulate negli anni, ben prima dell'elezione dell'attuale sindaco. Intervenire per metterci un tappo così, a fondo perduto, non è certo nelle corde di Renzi. Tutta la sua ostentata filosofia meritocratica dice fra le righe che l'epoca degli aiuti a pioggia e delle sanatorie indiscriminate è finita. Di sicuro a livello nazionale, ma soprattutto a livello municipale. Perché è proprio lì, nel mito delle buone amministrazioni di sinistra o di destra, che il "renzismo" alimenta il proprio populismo morbido.
Ora Roma sarà salvata per non farla sprofondare in un "default" le cui ripercussioni sarebbero incontrollabili. Ma se volesse essere coerente, il sindaco-premier dovrebbe abbandonare la capitale al suo destino. O almeno chiederle di rinnovare in radice il modello di governo, operando una drastica e drammatica "spending review". Non accadrà, è logico. Troppo complicato mettere il dito in certi ingranaggi, almeno in questa fase. Il decreto ci sarà, non riguarderà solo Roma ma determinerà comunque una vittoria del Campidoglio, sia pure una vittoria di Pirro. Ne deriva che il "renzismo" uscirà in qualche misura intaccato o disturbato dalla questione romana. Questo spiega il volto tirato del presidente del Consiglio mentre prometteva il provvedimento a spron battuto e al tempo stesso sibilava al sindaco Marino che una cosa non può permettersi: attaccare il governo nei termini usati ieri. Comunque la si voglia giudicare, la vicenda dimostra che la realtà è meno rosea di quello che si vorrebbe credere. A tutti i livelli. Lo screzio con il sindaco di Roma è per Renzi un segnale di pericolo, un indizio su cui riflettere.

il Fatto 28.2.14
Neonazi e mafia, il battesimo a Milano
La sede del movimento “Lealtà e Azione” nello spazio di proprietà di un costruttore vicino al clan De Stefano
di Davide Milosa


Il tratto finale è quello di viale Certosa. Via Pareto la incrocia in diagonale. Strada stretta, alberi sui lati. Zona tranquilla con il cimitero Maggiore a due passi. Lembo nord di Milano. Dopodiché l’hinterland verso la costruenda area dell’Expo. Qui, come riporta il sito dell’Osservatorio democratico, nascerà l’ultimo avamposto dell’estrema destra. Inaugurazione fissata per marzo. Tre vetrine all’angolo con via San Brunone accoglieranno la sede di Lealtà e azione, sigla dietro la quale opera il movimento degli Hammerskins, network internazionale ispirato da idee neonaziste nato negli anni Ottanta dopo la scissione con il Ku Klux Klan americano.
CAMERATI, DUNQUE. Ma non solo. Perché al battesimo dei nuovi locali ci sarà un convitato di pietra: la ’ndrangheta della supercosca De Stefano-Tegano. Mafia e fascisti. Un mix fatto di rapporti tra gli emissari dei boss e personaggi del neofascismo milanese come Pasquale Guaglianone, ex tesoriere dei Nar condannato per banda armata. Questo il quadro. Dentro al quale non sorprende trovare il leader degli Hammer milanesi, Domenico Bosa, in rapporti con narcotrafficanti serbi legati al boss Pepè Flachi. Torniamo in via Pareto. Qui gli spazi sono della Milasl srl. Il proprietario è il calabrese Michelangelo Tibaldi che la controlla attraverso la Brick. Un risiko societario riassunto in una nota della Banca d’Italia del 2013. Il documento è messo agli atti dell’indagine calabrese sull’ex tesoriere della Lega nord Francesco Belsito. Il nome di Tibaldi, pur non iscritto nel registro degli indagati, compare in un’altra indagine della Procura reggina. Si tratta del primo tempo sulle infiltrazioni mafiose nella municipalizzata Multiservizi. Tra i soci privati compare la Brick di Tibaldi. L’organigramma è riassunto nel report della commissione d’accesso che porterà allo scioglimento del Comune di Reggio. Per i commissari “Tibaldi favoriva il mafioso Santo Crucitti attraverso l’intermediazione di Dominique Suraci”. L’affermazione si fonda sugli atti dell’inchiesta Sistema che nel 2007 fotografa l’ingresso della ‘ndrangheta nella Multiservizi. Obiettivo: ottenere una convenzione tra la municipalizzata e la Finreggio riconducibile a Crucitti. Il piano si compie con la mediazione dell’ex consigliere comunale Suraci che “sfrutta l’appoggio di Tibaldi socio privato della Multiservizi”. Nel 2013, Tibaldi finisce nelle carte della seconda tranche dell’indagine su Belsito. L’accusa: concorso esterno per aver favorito gli affari dei De Stefano. Con lui viene coinvolto anche Guaglianone. E del resto già nel 2009, l’ex terrorista nero viene fotografato con Paolo Martino, referente del clan in Lombardia. La Procura ordina le perquisizioni. Nel mirino la Milasl costituita nel marzo 2007 da Guaglianone, dalla sorella del legale Bruno Mafrici (indagato) e da Giorgio Laureandi , funzionario dell’Agenzia delle entrate licenziato per corruzione e animatore del circolo di An Protagonismo sociale. Nell’ottobre dello stesso anno la Milasl passa alla famiglia Tibaldi anche se, ricordano gli analisti della Banca d’Italia, Guaglianone ne resta amministratore fino al 2010. Il legame tra la srl e l’ex Nar resta forte. A tal punto che fino al 2012 il figlio risulta delegato a operare sul conto della società.
I RAPPORTI TRA LA MILASL e l’estrema destra risalgono al 2008, quando i locali di via Pareto vengono affittati all’ex ultras dell’Inter Alessandro Todisco che apre “Il sogno di Rohan”, negozio di oggettistica nazi. Nello stesso anno si insedia il centro sociale Cuore nero, la cui prima sede in viale Certosa viene incendiata nell’aprile 2007. L’esperienza dura poco. Cuore nero, oltre ai locali, lascia 9 mila euro di birre non pagate. Debito saldato da un consigliere regionale Pdl. Quindi la nuova esperienza di Lealtà e azione, movimento nato nel 2011 e diventato il più numeroso della galassia nera. Il suo leader è Giacomo Pedrazzoli arrestato nel 2004 per tentato omicidio dopo un blitz davanti al centro sociale Conchetta.

l’Unità 28.2.14
Immigrazione: derive disumane
Il libro di Murard-Yovanovitch ne esplora le zone critiche
Una narrazione obiettiva che riporta le vicende come in una sorta di diario, dai fatti di violenza contro i migranti ai centri di accoglienza
di Luigi Manconi e Valentina Brinis


LE VICENDE CHE RIGUARDANO IL TEMA DELL’IMMIGRAZIONE IN ITALIA, QUANDO FANNO NOTIZIA, VENGONOESPOSTE SEGUENDO DUE LINEE NARRATIVE: QUELLA DEL PIETISMO E QUELLA CHE UTILIZZA TONI PER LO PIÙ ACCUSATORI E CRIMINALIZZANTI DELLAFIGURA DEL MIGRANTE. Il linguaggio utilizzato è spesso filantropico e le stesse argomentazioni sono più inerenti a un atteggiamento sentimentale, che al fondamentale principio del rispetto dei diritti umani.
Il libro di Flore Murard-Yovanovitch, Derive. Piccolo mosaico disumano, (Nuovi Equilibri, 2014) vuole smontare tali categorie interpretative e raccontare i fatti dell’immigrazione «senza retrocedere a una dimensione di carità cristiana». Lo fa attraverso una narrazione obiettiva, organizzando le vicende in ordine cronologico come fosse una sorta di diario. Si astiene molto spesso dal commento, perché le vicende che riporta parlano da sé, e vuole che il suo lavoro contribuisca a restituire «uguaglianza psichica tra gli esseri umani». Si tratta di un obiettivo che si deve porre come prioritario se si vuole che - come desidera l’autrice - lo straniero sia «considerato nella sua irriducibile umanità uguale alla mia».
L’incipit del libro richiama a una storia violenta accaduta nel 2009 a Nettuno, vicino a Roma. Qui, il signor Navtej Sind Sindhu di origine indiana, è stato arso vivo da «mani italiane» - come era stato scritto da alcuni quotidiani - mentre dormiva su una panchina. Quel fatto, anche se appena accennato, è emblematico della violenza che a volte viene scatenata contro persone straniere e che è da ricondurre, secondo l’autrice, ai «legami tra violenza razzista e sintomi di “malattia mentale” (come disturbi caratteriali di massa)». Interpretazione particolarmente audace, che suscita qualche perplessità, ma che va presa in serissima considerazione. Ma di esempi, nel libro, ce ne sono altri che rimandano ad emozioni e sensazioni analoghe. Tra questi: la detenzione degli stranieri, i pogrom contro i Rom e la morte nel Mediterraneo dei migranti. A questo proposito l’autrice ricorda l’uscita del film Come un uomo sulla terra (2008) di Dagmawi Yimer e di Andrea Segre. Il viaggio dei profughi eritrei verso l’Europa in cui non vengono celati gli abusi e le deportazioni che si compiono sul territorio libico. Sono storie di cui si hanno ora esaurienti immagini ma delle quali, al tempo in cui il film è stato girato, nulla o quasi si sapeva.
Oggi, invece drammi di questo tipo sono noti e si sa che ne accadono continuamente, tanto da poter stimare una frequenza di sei-sette vittime al giorno. E la maggior parte degli «incidenti» in cui incorrono le imbarcazioni che tentano in maniera irregolare di traversare il Mediterraneo per raggiungere le coste dell’Europa, non arriva alle agenzie di stampa. Ciò succede per vari motivi ma il principale è, sicuramente, il sovrapporsi di più irregolarità: quella delle imbarcazioni, quella del numero dei passeggeri, quella di chi li trasporta in Italia e quella delle condizioni di navigazione. E non finisce qui, perché per chi rimane in Italia il percorso non sarà meno irto di ostacoli. A partire dal sistema dei centri di accoglienza in cui oltre al vitto e all’alloggio, spesso, non viene fornito alcun servizio utile a incentivare la persona alla realizzazione del proprio percorso autonomo di integrazione.
È questa un’altra delle criticità sottolineate dall’autrice, che prende a esempio il fallimento del centro di accoglienza di Pozzallo. Qui vengono descritte non solo la scarsità di servizi messi a disposizione, ma anche la violenza (e non solo fisica) indirizzata contro gli ospiti.
La forza del testo della Murard-Yovanovitch, sta nello sviluppare una riflessione sulla questione, da lei proposta come prioritaria, della produzione del «disumano nella società contemporanea». Un’analisi che si rivela sempre più necessarie perché, sottolinea l’autrice, «sono in atto vere e proprie rivoluzioni che scombussolano il nostro relazionarci al diverso». Un diverso ormai così presente tra noi da indurci, sempre più spesso a chiederci, provvidenzialmente, quali siano - e se effettivamente vi sono - i confini del normale.

Corriere 28.2.14
Gli insegnanti? Sono pagati troppo poco
Il ministro Giannini rilancia sul contratto
«Mortificante, è da rivedere, mancano meccanismi premiali»
di Valentina Santarpia

qui


Corriere 28.2.14
L'ex ministro Carrozza: «La Giannini deve imparare ad essere più prudente»
qui


Corriere 28.2.14
Coppie assolte per l’utero affittato
Il dilemma della genitorialità
«Fare figli non è un diritto». «Ma i tempi sono cambiati»
di Elvira Serra


Si può veramente diventare genitori a ogni costo? Dove «ogni costo» non è un modo di dire, ma significa proprio sottoscrivere un contratto di maternità surrogata con ovodonazione a qualunque prezzo? La legge 40 sulla procreazione assistita lo vieta. Tuttavia la sentenza del Tribunale di Milano che ha assolto una coppia accusata di «alterazione di stato di un atto di nascita» (i coniugi avevano chiesto un utero in affitto a Kiev, in Ucraina; è ammesso anche in Georgia e in Russia) apre un nuovo scenario sul diritto alla genitorialità. La decisione dei giudici lombardi è solo l’ultima di una serie. Proprio ieri a Viterbo è stata pubblicata la sentenza di assoluzione dallo stesso reato per un’altra coppia. I tribunali di tutta Italia hanno già affrontato una ventina di casi simili e finora soltanto due giudici si sono pronunciati per la condanna: a Brescia (cinque anni e due mesi per «alterazione di stato») e a Varese (un anno e due mesi per «falso ideologico»).
L’editoriale che ieri il quotidiano cattolico Avvenire ha dedicato alla notizia si chiudeva con una domanda: «È forse una inaccettabile provocazione chiamare tutto questo, anziché un diritto alla “genitorialità”, piuttosto un diritto alla “discendenza”, cioè quella che una volta veniva chiamata “la stirpe”?». Il senso del ragionamento è che se ciò che conta è l’assunzione di responsabilità verso un figlio, perché allora non viene contemplata piuttosto l’adozione?
Il filosofo Giovanni Reale interviene e parla addirittura di «forme di egoismo spaventoso, in cui prevale l’amore acquisitivo, con la pretesa di avere tutto ciò che si vuole, sull’amore donativo, che invece mette in primo piano l’interesse del generato e non quello dell’aspirante genitore».
Difficile trovare una risposta rispettosa di ogni punto di vista. Anche se le ultime argomentazioni spazientiscono non poco il bioeticista Amedeo Santosuosso. «Le conosco le loro dimostrazioni e sono deboli, perché sovrappongono il concetto biologico di discendenza a quello sociale e giuridico di genitorialità. Ma anche in passato esistevano varie forme di genitorialità, tutta una pluralità di rapporti sociali in parte superati dai tempi e i tempi oggi portano all’uso di tecniche diverse». Il docente di diritto insiste sulla ineccepibilità giuridica della sentenza milanese, che peraltro risponde alla ispirazione della legge 40, che tutela il bambino e ne vieta il disconoscimento.
Ma è agli antipodi Francesco D’Agostino, presidente emerito del Comitato nazionale di bioetica, per il quale è inaccettabile il presupposto: l’esistenza di un diritto alla genitorialità. «Non può essere assoluto. Altrimenti, per paradosso, dovremmo avallare qualunque modalità immaginabile per diventare padre e madre, fino alla compravendita dei bambini. L’esempio è brutale, ma serve a mostrare la posta in gioco». Il giurista cattolico è ancora più duro quando sostiene che «l’utero in affitto è una cosa indegna, un gravissimo attentato alla dignità dei bambini e della donna. Ed è un vero tormento, per me, che una convenzione internazionale non lo proibisca».
Non si pensa, però, o si pensa poco, al fatto che le coppie che vanno all’estero — e sono poco meno di una cinquantina l’anno, stando alle segnalazioni dell’ambasciata italiana a Kiev, con costi variabili tra i 30 e i 50 mila euro — ci arrivano al termine di un percorso a ostacoli. Spiega Ezio Menzione, legale che da dodici anni si occupa di questi temi e che ha seguito la maggior parte delle cause sull’argomento. «Sono veri drammi, per molti l’utero in affitto è l’ultima spiaggia. Bisogna che le procure prendano atto di ciò che è legittimo sulla base del testo unico sullo stato civile e trovino di meglio da fare che tormentare queste povere persone. Se ai fini della legge ucraina un uomo e una donna sono genitori, bisogna accettarlo».
Resta da capire cosa sia meglio per il bambino, da un punto di vista strettamente psicologico. Su questo parla Tilde Giani Gallino, che avverte: «Fino ai cinque, sei anni a quel bambino importerà poco di come è nato. Le domande se le farà da adolescente, e lì devono essere pronti i genitori. Se sia meglio adottare o aver un figlio con l’utero in affitto spetta soltanto a quel padre e a quella madre deciderlo. Oltretutto anche il primo caso presenta dei problemi, perché non è la stessa cosa accogliere un neonato di pochi giorni o un bambino di otto anni. Insomma, non ci sono mai garanzie».

Corriere 28.2.14
Diventare genitori con una sentenza
di Isabella Bossi Fedrigotti


Esiste il diritto ad avere figli? È la domanda di fondo che siamo costretti a porci dopo che il tribunale di Milano ha assolto, con questa motivazione, una coppia italiana che si è procurata un neonato in Ucraina tramite il metodo dell’utero in affitto, pratica legale in quel Paese, non però nel nostro. Non è la prima sentenza del genere ed è facile prevedere che ne verranno altre ancora, più o meno uguali, per il semplice motivo che, a cose fatte, una condanna danneggerebbe gravemente in primo luogo il bambino. I genitori, per così dire, «adottivi» sarebbero, infatti, costretti a restituirlo, con la conseguenza che il povero piccolo finirebbe con tutta probabilità sballottato tra una madre naturale riluttante a riprenderselo e un istituto per l’infanzia abbandonata.
Una sentenza, per così dire, umanitaria, somigliante in qualche modo a un condono, è, dunque, quella di Milano, e in questo senso la si può comprendere: lascia, invece, nella perplessità quando cita il diritto ad avere un figlio. La legge prevede un bel numero di diritti, quella americana addirittura un utopistico diritto alla felicità, un po’ come, di questi tempi, appare utopistico il diritto al lavoro sancito dalla nostra Costituzione. Ma un figlio spetta a chiunque in tutti i casi, maschi e femmine, giovani e anziani, single oppure in coppia, indipendentemente dal metodo usato per procurarselo? Comprandolo, per esempio, da qualche madre povera, facendosi inseminare a qualsiasi età, o, come in questo caso, con il sistema dell’utero in affitto, che non si differenza poi molto dal nudo e crudo acquisto?
Trentamila euro sono stati versati alla madre surrogata ucraina, ma in India ne sarebbero bastati diecimila e ventottomila in Cina, mentre in Guatemala se ne sarebbero dovuti sborsare sessantamila e ottantamila negli Stati Uniti: ovvio che un bimbo nato in America e quindi, con passaporto americano, costi di più. Sono questi i prezzi di mercato e pare difficile sostenere che non si tratti di un procedimento assai somigliante a un commercio riservato a compratori ricchi.
Poi c’è la questione della scelta della donna giusta cui affidare il delicato compito: su catalogo? Via internet? O dal vivo? Dovrà essere povera, ovviamente, ma giovane e sana, possibilmente anche bella o almeno fatta bene, non fumatrice, non bevitrice, di buon carattere. Serviranno certificati medici e magari anche un’occhiata ai famigliari: prima di investire nell’affare necessitano certezze, è naturale. E durante la gravidanza ci vorranno controlli, esami, verifiche, buon cibo e ambiente igienico affinché la vicenda vada a buon fine; salvo poi — così si immagina — una volta consegnato il bimbo, saldare la puerpera e dimenticarla al più presto.
All’estero, in molti Paesi, tutto questo è routine perfettamente legale, se non addirittura, nelle zone più povere del mondo, una vera e propria industria: da noi non ancora, e si è fortemente tentati di aggiungere «per fortuna».
Potrebbe — come molti sostengono — essere l’adozione una risposta, a questo ipotetico «diritto ad avere un figlio»? Potrebbe, sì, però — conviene riconoscerlo — soltanto in parte. Attese lunghissime, accertamenti di ogni tipo, esami su esami, ripetute indagini psicologiche, cui si aggiungono, com’è successo di recente, vere e proprie truffe o, anche, divieto di espatrio dei bambini già assegnati da parte dei Paesi di provenienza, la rendono, infatti, un percorso particolarmente arduo che soltanto i più forti e ostinati riescono a portare a termine. In più, paradossalmente, la possibilità concessa ora ai figli adottati di risalire ai loro genitori naturali, spesso sembra contribuire a una destabilizzazione del rapporto con quelli adottivi.
Assai meno virtuoso ma purtroppo anche molto più facile commissionare un bambino a qualche sana ragazza ucraina in pesanti ristrettezze economiche.

Corriere 28.2.14
Pillola del giorno dopo da record

La pillola contraccettiva è poco usata dalle donne italiane, ma quella del giorno dopo ha avuto una diffusione vertiginosa: il 60% in più in 7 anni. Inoltre sei italiane su 10 non usano contraccettivi. È quanto emerge dai dati presentati dalla Società italiana di ostetricia e ginecologia (Sigo), durante il lancio della campagna «Love it! Sesso consapevole».

Corriere 28.2.14
Occorre un Libro bianco per spiegare il caso dei Marò
risponde Sergio Romano


Negli scorsi giorni abbiamo appreso che il procuratore generale indiano G. E. Vahanvati ha presentato l’opinione del governo favorevole ad abbandonare
il “Sua Act” (la legge anti-terrorismo per la repressione della pirateria), ma ha chiesto che i capi di accusa vengano formulati dalla polizia Nia (National Investigation Agency) vale a dire dall’agenzia che tratta, per l’appunto, casi di terrorismo. La difesa si è opposta a quest’ultima ipotesi e il giudice ha fissato una nuova udienza tra due settimane.
 Abbandonare il Sua Act per la repressione della pirateria significherebbe che i marò Massimiliano Latorre e Salvatore Girone non sarebbero processati come presunti terroristi. La stessa Corte, che ha aggiornato l’udienza al prossimo 7 marzo, ha deciso, come mi sembra giusto e logico, anche di esaminare la richiesta del governo italiano di contestare la giurisdizione della Nia sul caso. Speriamo in bene, e che i due nostri marò ritornino in Patria sani e salvi, e assolti per insufficienza di prove!
Andrea Delindati

Caro Delindati,
La sua lettera contiene una buona sintesi della vicenda e ha il merito di non avanzare proposte stravaganti. Qualcuno ha scritto che l’Italia dovrebbe liberare i marò con una operazione di commando. Altri sostengono che il governo dovrebbe nominarli ambasciatori e dar loro un passaporto diplomatico. Altri ancora propongono di rompere le relazioni diplomatiche ed economiche con l’India senza chiedersi quale dei due Paesi ne sarebbe maggiormente danneggiato. Molti invocano il precedente della funivia del Cermis e dimenticano che un trattato internazionale, in quella circostanza, impediva all’Italia di giudicare i piloti americani responsabili del massacro. E quasi tutti infine accusano il governo di inettitudine e di insipienza.
Come risulta anche dai puntuali commenti di Danilo Taino sul Corriere , sono stati certamente commessi alcuni errori. Le regole d’ingaggio, forse, non erano sufficientemente chiare. Sarebbe stato meglio evitare che la nave entrasse in un porto indiano. E la posizione dell’Italia sarebbe stata molto più forte, sul piano della coerenza politica e giuridica, se il suo governo avesse continuato a sostenere fermamente sin dagli inizi che l’India non aveva il diritto di processare i due fucilieri di marina e che il caso poteva essere giudicato soltanto da una corte internazionale.
Mi chiedo ancora quali ragioni abbiano indotto il governo ad accettare di fatto la giurisdizione indiana. Posso immaginare qualche attenuante. Erano stati uccisi due pescatori, l’opinione pubblica indiana era indignata, il clima elettorale nello Stato del Kerala non favoriva compromessi e accomodamenti. Forse le autorità italiane a Roma hanno pensato che in quel momento convenisse adottare un atteggiamento meno antagonistico. Con questa linea sono stati raggiunti alcuni risultati: dapprima gli arresti domiciliari, poi due ritorni in patria e, infine, una sorta di libertà vigilata a New Delhi. Ma quando chiede che ai suoi cittadini non venga applicata una legge da cui è prevista la pena di morte, il governo accetta implicitamente che ne venga applicata un’altra. Sarebbe stato meglio sostenere che soltanto l’Italia ha il diritto di giudicare i suoi soldati soprattutto quando il fatto è accaduto nel corso di una operazione di polizia internazionale. Forse non ha torto chi sostiene che un mandato di comparizione, firmato da un procuratore italiano in occasione di uno dei due ritorni in patria, avrebbe autorizzato il governo a trattenerli e avrebbe risparmiato al Paese la pessima figura di una promessa non mantenuta.
Ne concludo, caro Delindati, che il governo, non appena possibile, dovrà pubblicare sul caso dei marò un Libro Bianco, vale a dire una raccolta di documenti ufficiali. Vorremmo sapere esat-tamente che cosa è accaduto e quali lezioni si debbano trarre da questa vicenda.

Repubblica 28.2.14
La crisi Ucraina e il dilemma di Putin
di Bernardo Valli


KIEV. IL NEO primo ministro ucraino appare fragile. Lo ascolto e se potessi gli darei una mano. È asciutto. Pallido. Lo sguardo dietro gli occhiali rivela un carattere forte. Ne ha bisogno. Mentre ArseniJ YatsenJuk, 39 anni, parla davanti alla Rada, il Parlamento, decine di jet russi sorvolano la zona confinante con le province orientali ucraine. E a terra centocinquantamila soldati sono in stato d’allerta per ordine del generale Sergei Shojgu, ministro della difesa ed esecutore della volontà di Vladimir Putin, per ora silenzioso. Nelle stesse ore su molti edifici pubblici della Crimea sventolano bandiere russe, messe dai partigiani di una secessione che per la maggioranza degli abitanti russofona sarebbe un ritorno alla patria d’origine. La penisola meridionale potrebbe essere il primo pezzo a staccarsi dalla Repubblica d’Ucraina.
È una provincia autonoma, con un’importante base navale russa su Mar Nero, che sopporta male la rivoluzione nazionale scatenata da Kiev. Ma non è con la forza che si può affrontare la questione. Per l’Ucraina nazionalista sarebbe un’amputazione dolorosa. Anzi, «un atto di aggressione», ha precisato, il moderato neo primo ministro.
Concluso il discorso Arsenij Yatsenjuk viene eletto con 371 voti in favore, 1 contro e 2 astenuti. Un’unanimità eccezionale da parte di un’assemblea in cui da giorni volavano gli insulti, ci si accapigliava, e non si contavano i voltagabbana. L’ovazione tributatagli dopo lo scrutinio è dettata dall’emozione, dall’emergenza che non tollera esitazioni. Dalla fretta. È un atto di fiducia carico di rischi, dice il deputato che mi fa da interprete. Il giovane avvocato catapultato al vertice del governo mentre la patria (parola ricorrente a Kiev) rischia di andare in frantumi è al corrente della natura kamikaze della missione affidatagli. Sa di non avere gli strumenti per esercitare il potere gettatogli tra le braccia. Quando prende la parola, non promette nulla.
È un moderato non un rivoluzionario. Per questo la Piazza, la Majdan, al cui giudizio sono stati sottoposti mercoledì sera i nomi dei ministri, prima ancora che venissero votati in Parlamento, gli ha lesinato gli applausi e dedicato qualche fischio. La Piazza non ama i politici, avrebbe voluto un esecutivo senza gli uomini dei partiti. Lui è stato giudicato appena passabile. La rivoluzione non l’ama troppo. Le classi medie spinte all’emigrazione o alla rivolta dalla povertà non si riconoscono in lui. Politici e oligarchi suscitano diffidenza. In quanto ai russi non lo considerano per ora un interlocutore. Viktor Yanukovich, l’ex presidente in fuga, è ancora il loro uomo anche se non lo stimano. L’ospitano e lo proteggono e fanno come se fosse al potere. Lo usano per intimidire Kiev. Un fantoccio da agitare. Oggi dovrebbe parlare da Rostov.
Il Parlamento che ha appena eletto Yatsenjuk è giudicato illegittimo da Mosca, e quindi per il Cremlino lui, Yatsenjuk, è per ora un usurpatore, o addirittura un bandito, anche se ha l’aspetto di un intellettuale nevrotico. La sua alleata, amica e protettrice, Yiulia Tymoshenko dovrà fargli da sponsor quando riprenderà il dialogo con Vladimir Putin, di cui lei godeva la stima malgrado le divergenze politiche. Per le capitali occidentali la Rada è invece un’istituzione nel limbo. Né illegale né legale. Nell’attesa di essere riabilitata e riconosciuta. Soprattutto da rinnovare al più presto con elezioni. Ma Stati Uniti ed Europa non potranno aspettare le previste presidenziali del 25 maggio per soccorrere Asrsenij Yatsenjuk. Il paese è a rischio per l’integrità territoriale e per il fallimento incombente sul piano finanziario. Il Fondo monetario internazionale ha già ricevuto da Yatsenjuk, stimato come ex direttore della banca centrale, una domanda di prestiti: trentacinque miliardi per i prossimi due anni. Diventati urgenti dopo che Mosca ha sospeso, versata la prima trancia di tre miliardi, il versamento dei quindici miliardi di dollari promessi. Ma l’Fmi vuole garanzie, stabilità e riforme, e l’Europa nonostante la buona volontà non è nelle condizioni di fare elargizioni.
No, non è una guerra fredda, ma ne ha l’aria. Il focoso ministro degli esteri polacco, Rodoslaw Sikorski, dice che rischia di essere un conflitto regionale. Non è neppure questo, ma ne ha certi aspetti. Durante la guerra fredda, nei decenni successivi alla Seconda guerra mondiale, non si usavano le armi sui campi di battaglia ma si confrontavano e si opponevano gli armamenti, come mostri silenziosi, anche atomici, dipendenti dalla capacità economica e tecnica delle due grandi potenze. Era una gara colossale tra ideologie, espresse dalle rispettive economie e quindi società. La crisi ucraina avviene in un mondo in cui la potenza russa non è paragonabile a quella americana, ma cerca di esercitare la sua influenza nei paesi dei continenti su cui si stendeva il defunto impero sovietico.
Il grande progetto di Putin è l’Unione euroasiatica, di cui l’Ucraina dovrebbe essere la più importante sponda europea. La sua perdita blocca il progetto. E fa perdere prestigio a Mosca. La discredita agli occhi delle grandi repubbliche asiatiche, del Kazakistan, dell’Uzbekistan. Per Putin è una severa sconfitta. L’uso della forza, se mai si osasse usarla, degraderebbe ancora più l’immagine della Russia, come fratello maggiore. La crisi attuale si riflette dunque ben al di là della sfera regionale. Nonostante le dichiarazioni provenienti da Est e da Ovest è evidente l’esigenza di un dialogo tra le potenze direttamente o indirettamente interessate alla futura posizione politica dell’Ucraina uscita dalla stretta (corrotta e avvilente) influenza russa. Non ci sono altre strade. Se non un cratere aperto nel cuore dell’Europa.
Arsenij Yatsenjuk misura le parole. Il suo spazio di manovra è ridotto. Da un lato la Piazza dall’altro i russi. Da un lato le province occidentali rivolte verso l’Europa, dall’altro le province orientali sensibili ai richiami russi, e in queste ore allo sfoggio di forze militari dispiegate da Putin ai confini. Yatsenjuk è un europeista convinto. E vuole stringere rapporti associativi con l’Unione, ben sapendo che un’adesione non è neppure in discussione. Non lo era neppure quando Viktor Yanukovich interruppe bruscamente le discussioni provocando l’insurrezione. L’Europa significa rendere meno vincolante le relazioni con la Russia. Ma quelle relazioni devono restare amichevoli dice il neo primo ministro al Parlamento. «Non ci affrontate, ha scandito, perché siamo amici e partner»

Il Sole 28.2.14
L'inesorabile declino della visione di Putin
di Ugo  Tramballi


Henry Kissinger e tutti i cremlinologi della vecchia scuola sostenevano che l'Unione Sovietica non sarebbe sopravvissuta senza l'Ucraina. E se l'Ucraina se ne fosse andata, in Europa sarebbe fatalmente scoppiata la terza guerra mondiale. Nel tentativo di salvare Mikhail Gorbaciov, l'allora presidente George Bush padre andò a Kiev a implorare i separatisti a recedere dai loro propositi, senza riuscirci.
I leader di allora ebbero ragione e torto. A negare all'Urss ogni speranza di sopravvivenza non furono le repubbliche baltiche, e nemmeno la Georgia nel Caucaso, ma l'uscita dell'Ucraina nel 1990. Tuttavia, nonostante una minoranza di nove milioni di russi e l'imponente base navale in Crimea, non scoppiò nessuna guerra continentale. Né ci furono pulizie etniche locali. Dopo aver conquistato mezzo mondo e sfidato l'altra metà, l'Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche si scioglieva in pace. Le eccezioni sanguinose del Nagorno-Karabakh e della Cecenia furono nulla rispetto alla potenzialità distruttiva della fine del grande impero.
Il rischio di secessione delle province filo-russe e le immagini dei blindati a Sebastopoli sembrano far tornare la Storia a quel punto: alla guerra che in 25 anni non ci fu e che oggi potrebbe scoppiare. Ma il vero problema non è quel passato ormai lontano né la secessione. La Crimea in cui il 60% degli abitanti è russo può anche tornare alla sua repubblica originale. C'è legittimità nella rivendicazione: fu il Soviet Supremo di Mosca il 19 febbraio 1954 a trasformare la Crimea da oblast russo a provincia ucraina, spostando frontiere che 60 anni fa non avevano importanza.
Il punto non è questo ma la credibilità della Russia di Putin di essere "sexy": di sapersi proporre come esempio, forza d'attrazione per tutte le repubbliche ex sovietiche che dovrebbero ricostituirsi sotto la sua ala benefica: non più uno zar, né un segretario generale del Partito ma una specie di "imperatore patronale". La crisi ucraina rappresenta la fine o almeno la grave crisi dello spazio post-sovietico che ha in mente Putin. La disgregazione alla fine della Guerra fredda era ineluttabile: è ciò che Putin vuole costruire al suo posto a essere fallimentare.
Del rapporto fra Vladimir Putin e il passato in cui è nato e in qualche modo vuole tornare con qualche importante accorgimento, esistono due frasi rivelatrici: «Il collasso dell'Unione Sovietica è stato la più grande tragedia del XX secolo», e «Chi vuole restaurare il comunismo è senza cervello, chi non lo rimpiange è senza cuore». Non occorre Freud per scoprire che il suo modello è l'autocrazia spurgata dal marxismo-leninismo o, come la chiamano i suoi, la "managed democracy". Difficile che a XXI secolo iniziato da un pezzo, i popoli un tempo apparentemente felici di guardare al faro moscovita e ora dotati di Internet siano attratti da quel modello revisionato ma non cambiato. I loro dittatori, i loro oligarchi, i capi delle loro polizie, sì. Non i popoli.
Comunque finiscano le cose a Kiev, dove perfino la Chiesa ortodossa che crede agli stessi Cirillo e Metodio si è separata dal patriarcato di Mosca, accadrà prima o poi altrove. In Bielorussia, nelle repubbliche asiatiche quando nel mondo ci sarà troppo petrolio perché possa essere l'unica ricchezza di una nazione. Un giorno accadrà anche a Mosca e San Pietroburgo. La democrazia è un processo molto lento e imperfetto ma il più delle volte inesorabile

l’Unità 28.2.14
«Putin sottovaluta piazza Maidan»
di Umberto De Giovannangeli


La crisi ucraina, i venti di guerra che spirano sempre più minacciosi fra Mosca e Kiev, il ruolo dell’Europa e l’ira di Vladimir Putin. L’Unità ne discute con Lucio Caracciolo, direttore di Limes, la rivista di geopolitico.
I filorussi occupano il Parlamento in Crimea. Le nuove autorità di Kiev avvertono Putin: «Se muovete le truppe, reagiremo. I venti di guerra spirano fra la Federazione Russa e l’Ucraina?
«No, per ora sono più che altro venti di guerra civile. In realtà sono due mesi che le diverse fazioni ucraine si scontrano non solo a Kiev ma anche nell’Ucraina occidentale e in modo più pericoloso e visibile in Crimea. Questo ha creato una situazione che il nuovo primo ministro ad interim, Arseny Yatseniuk, ha definito come una sorta di collasso economico e politico».
Resta il fatto che, al momento solo in termini verbali, assistiamo ad un indurimento dei toni da parte del leader del Cremlino. Cosa implica questo crescente nervosismo di Vladimir Putin?
«Implica che finora le cose non sono andate bene per Mosca. Kiev, la radice storica dell’Impero russo, sembra perduta per il tempo prevedibile. Inoltre, Putin non sembra avere un interlocutore affidabile nemmeno nella parte dell’Ucraina più filorussa. Viktor Yanukovich continua pateticamente a rivendicare la sua legittimità e pretende, ricevendola, la protezione russa. Putin, che non l’ha mai amato, ha bisogno, però, di tutt’altra personalità cui rapportarsi in Ucraina. Forse Yulia Timoshenko, con cui Putin ha sempre fatto buoni affari, se per qualche miracolo la “Giovanna d’Arco di Kiev” dovesse tornare a contare. Ma Maidan (la piazza cuore della rivolta, ndr), vuole ricominciare da capo e non dalla fallimentare Rivoluzione arancione».
E l’Europa?
«In Ucraina, l’Europa è stata finora Germania, Polonia e Francia, in ordine di attivismo e di importanza. Così confermando non solo la diversità di approccio fra i Ventotto, la sua sostanziale ininfluenza. La partita dell’Ucraina, è stata e rimane in primo luogo fra Russia e America».
Vorrei tornare su Maidan. Raccontando della rivolta di queste settimane, c’è chi ha parlato di una piazza «europeista». È una lettura corretta?
«Parlare di europeismo di Maidan mi pare piuttosto improprio. Per quanto riguarda la parte più democratica e aperta della piazza, l’Unione europea è stata più un riferimento generico che un obiettivo concreto, anche perché gli europei non hanno mai fatto cenno all’integrazione dell’Ucraina nello spazio comunitario. Per quanto riguarda poi la parte ultranazionalista o seccamente neonazista (Svoboda e Pravisektor), la loro idea di Europa è razziale; un’idea fondata sulla paura dei russi , dei polacchi e degli ebrei. Il fatto che le comunità ebraiche ucraine abbiano chiesto a Israele guardie armate per la loro sicurezza, è indicativo di questo clima ».
In Ucraina si gioca anche una partita energetica.
«Una partita strategica. Dall’Ucraina transita una quantità decisiva di gas diretto al mercato europeo e anche italiano. Una guerra civile in un territorio di tale rilievo energetico avrebbe conseguenze inimmaginabili sulla nostra economia. Da un punto di vista razionale, questo dovrebbe essere un motivo di prudenza e di dialogo fra tutti gli attori interni ed esterni della crisi. Mi pare, però, che oggi in Ucraina di razionale non ci sia più molto».
In precedenza, lei faceva riferimento ai veri attori internazionali della partita ucraina: la Russia di Putin e l’America di Obama. Quale ruolo sta giocando Washington?
«Gli Stati Uniti non appaiono ma hanno certamente avuto una notevole influenza a Maidan. Per esempio, attraverso organizzazioni non governative e altri strumenti informali. Dal punto di vista americano, attrarre l’Ucraina nella zona di influenza atlantica è sempre stato un obiettivo fondamentale».
La Crimea. Un nome che evoca pagine tragiche della storia...
«Il passato governa la crisi ucraina. Ogni parte in conflitto rivendica i suoi diritti storici. Così in Crimea, la maggioranza russa ricorda i 3 secoli di presenza dell’Impero russo in quella penisola del Mar Nero. Quando si comincia a ragionare in termini di diritti derivanti da situazioni passate, si entra in una spirale di follia, potenzialmente infinita ».
Piazza Maidan ha «eletto» il nuovo governo di transizione. A guidarlo è un trentanovenne, Arseny Yatseniuk. Nella rivolta si è formata una nuova classe dirigente?
«Non ancora. Finora l’Ucraina post sovietica è state retta dagli oligarchi che giocavano i politici come pedine in una scacchiera. La rivolta di Maidan ha rovesciato la scacchiera. Vedremo se gli oligarchi o nuovi attori politici vorranno ristabilire le regole di un gioco più o meno condiviso, oppure se il caos attuale si prolungherà a lungo».
In questo scenario perturbato, quale ruolo può giocare l’Italia?
«La crisi ucraina ci ha colto in una fase di transizione da un governo all’altro. Si spera che una delle priorità più urgenti di quello nuovo, con l’intento di far sentire la voce italiana come fattore di moderazione e di equilibrio in un Paese sull’orlo della guerra civile, la cui destabilizzazione avrebbe serie conseguenze anche per noi. Non dimentichiamo, peraltro, le decine di migliaia di ucraini che vivono nel nostro Paese e che certamente sono coinvolti nelle vicende che decideranno del futuro della loro patria di origine».

La Stampa 28.2.14
L’illusione chiamata Europa
di Roberto Toscano


Nubi nerissime si addensano sulla parte orientale del continente europeo. La Russia preannuncia una vasta e oggettivamente intimidatoria esercitazione militare ai confini dell’Ucraina e concede al ricercato Yanukovich un’ospitalità che è un implicito appoggio alla sua pretesa di essere ancora l’unico Presidente legale.
Nella capitale ucraina, intanto, l’euforia per la cacciata di un Presidente corrotto e autoritario deve fare i conti con una serie di interrogativi. Come passare dal potere della piazza ad un normale funzionamento delle istituzioni? In che misura è fattibile un’ipotesi di normalizzazione basata su personalità politiche - soprattutto Yulia Timoshenko, appena uscita dalla prigione - certamente anti-Yanukovich, ma anche parte di un vecchio sistema ritenuto inaccettabile da chi si è battuto sulla piazza Maidan? Come controllare i radicali, fra cui gli inquietanti estremisti nazional-socialisti? Come scongiurare un collasso economico che si avvicina rapidamente?
Ma il problema principale, quello che fa addirittura temere che le tensioni possano sfociare in un conflitto militare, ha a che vedere con la profonda divisione del Paese. Finora si era parlato soprattutto della spaccatura fra un Est russofono e un Ovest fortemente caratterizzato dalla cultura e dalla lingue ucraine, ma oggi la crisi trova il suo punto più delicato in Crimea. La Crimea, storicamente russa, passò all’Ucraina nel 1954 solo a seguito della decisione demagogica di Khrusciov. Oggi la maggioranza russofona – e russofila - della popolazione teme che gli eventi di Kiev, con il prevalere dei nazionalisti ucraini, abbiano rotto a loro sfavore il delicato equilibrio su cui si basava la convivenza. E in effetti una delle prime decisioni del nuovo vertice politico nella capitale è stata quella di togliere al russo il precedente status paritario di lingua ufficiale. A Simferopoli, capoluogo della Crimea, gli attivisti russi sono passati all’azione, occupando il Parlamento regionale e issando sull’edificio la bandiera russa in sostituzione di quella ucraina.
Di fronte al vasto dispiego di unità militari russe ai confini, i vertici politici sia americani che europei fanno sfoggio di cautela e di nervi saldi, partendo evidentemente dal presupposto che Mosca pagherebbe un prezzo troppo alto se decidesse di trasformare l’esercitazione militare in un’invasione. Probabilmente la vera intenzione russa è solo quella di lanciare un pesante ammonimento ai governanti ucraini: no all’uso della forza contro i russi di Crimea e, soprattutto, che nessuno osi mettere in dubbio lo status della base navale russa di Simferopoli. Ma sarebbe forse bene ricordare che sono passati solo sei anni da quando la Russia usò la forza contro la Georgia, alla quale, come risultato di un breve ed impari scontro, vennero sottratte Abkhazia e Sud Ossezia, teoricamente indipendenti ma in realtà passate sotto il dominio russo.
Il fatto è che Putin si gioca moltissimo in questa crisi ucraina, i cui sviluppi stanno mettendo in dubbio quella legittimazione nazionalista su cui a Mosca si punta fin dalla caduta del comunismo e la fine dell’Unione Sovietica. Con un’Ucraina ostile la Russia verrebbe ancora più clamorosamente spinta verso una marginalità geopolitica certo non compensabile con il disegno «eurasiatico», che fra l’altro senza l’Ucraina diventerebbe inevitabilmente più asiatico che europeo.
Pochi giorni fa si poteva leggere, sul New York Times, l’esortazione di un accademico polacco ad Europa e Stati Uniti a mettere in atto, lasciando da parte eccessive prudenze, «uno sforzo congiunto per includere l’Ucraina nel campo occidentale». E’ proprio questo l’incubo principale di Vladimir Putin, tanto più se si pensa che questa inclusione potrebbe, in prospettiva, prendere forma non tanto in un improbabile ingresso dell’Ucraina nell’Unione Europea quanto piuttosto nella Nato.
Gli ucraini, soprattutto i giovani, che hanno rovesciato Yanukovich sventolavano le bandiere dell’Europa, ma le loro aspettative non hanno alcuna base nella realtà, e sarebbe eticamente giusto per noi europei non essere prodighi più di illusioni che di effettivo sostegno. L’adesione all’Unione Europea non solo non è per domani, ma nemmeno per dopodomani, e per quanto riguarda la drammatica situazione economica del Paese, non si vede come l’Europa possa - in un momento di non superata crisi interna - far fronte all’urgente necessità di aiuti finanziari che sono stati quantificati in 35 miliardi di dollari su due anni. Paradossalmente non sembra esservi un futuro sostenibile, per l’Ucraina, che escluda un sostanziale rapporto con la Russia in campo finanziario, commerciale e soprattutto in tema di forniture energetiche. Quando si parla infatti della possibilità di un intervento del Fondo Monetario Internazionale in aiuto all’Ucraina non si può dimenticare che l’aiuto del Fmi verrebbe corredato di condizionalità che, si sa, includerebbero l’abrogazione del «prezzo politico» dell’energia, oggi inferiore a quello che l’Ucraina paga per il suo acquisto dalla Russia. Una prospettiva che i nuovi governanti di Kiev non potrebbero facilmente gestire, con un’opinione pubblica convinta che, con la cacciata del tiranno filorusso, non solo la libertà, ma anche il benessere, siano a portata di mano.

La Stampa 28.2.14
In viaggio con i filorussi
“La Crimea è terra nostra. Quelli di Kiev? Fascisti”
Blitz al Parlamento di Simferopoli, sul tetto ora c’è la bandiera russa I jet di Mosca pattugliano il confine e il governo allerta le truppe
di Domenico Quirico


Ieri è stato come se un scossa elettrica, di quelle che saldano i metalli, avesse attraversato i cuori. Un giorno convulso di brighe pericolose.
Morbida e doviziosa, agiata e pacata, è la terra di Crimea, ma dovunque l’attraversano brividi antichi, trasalimenti, memorie di travagliate esistenze, crucci e orrori. E i nodi irrisolti della rivoluzione di Maidan. Dovunque. I russi invocano la protezione di Putin contro «i terroristi» diventati padroni a Kiev, i nazionalisti ucraini minacciano di spedire a sud, a tutto vapore, «i treni dell’amicizia»: ma la parola ha un suono funesto, ricorda i convogli dei bolscevichi per cui l’amicizia era il pugno di ferro. Mosca fa sapere che i suoi jet pattugliano i confini, Kiev replica: i vostri carri stiano nelle caserme. E intanto allerta polizia e truppe speciali. I tatari attorno alle loro moschee spalleggiano gli ucraini in odio ai russi. Ma hanno i loro piani e vogliono, nel caos, rafforzarsi. Identità mai sopite, estremismi rinascenti, incendiari che aspettavano l’occasione. La verità è una cosa fragile. Se intonata in ogni angolo da mille gole di acciaio, immediatamente anche la verità più indiscutibile diventa bugia, violenza, pretesto per uccidere.
Le città dai tempi dei tempi sono sempre state delle macchine di simboli, luoghi che in un tessuto di strade, colli, edifici religiosi e civili narrano una storia sacra. La storia di Sebastopoli è la storia russa. Il porto è laggiù, in fondo a via Lenin, diritta come un fuso, lavata e linda dalla pioggia, verde di alberi già fioriti e variopinta di passanti, con la sua selva di ciminiere fumose, di gru immense. La sirena di un rimorchiatore mugge nella foschia. La gente seduta dietro le vetrate dei caffè ha un’aria annoiata, testarda, di gente che aspetta l’ora della partenza chi sa per dove. I giovani di questa città pare attendano tutti qualche grande evento e i vecchi sembrano tornare da un lungo viaggio.
In piazza Nakimov, la statua voltata al porto come volle Kruscev quando lo rimise in sella, la folla è già riunita davanti al palazzo della Amministrazione cittadina. Alla porta un cartello: «Kiev non è l’autorità per noi». Tipi trucibaldi in tuta mimetica, bellezze stagionate e stazzonate dalla pioggia, bandiere tante, russe. Arriva un anziano circondato, entra senza sorridere, svelto. È il nuovo sindaco, ha il passaporto russo, lo ha nominato la piazza. Quello vero, scelto da Kiev, si è «ritirato». Lo applaudono. Andrj Merkulov ha il megafono, la mimetica e l’aria da capo. «Se arrivano i treni dell’amicizia…? Allora è la guerra, ma saranno loro che hanno cominciato. Noi siamo andati a Leopoli o all’ovest per dare lezioni, comandare? Per niente. Il nuovo primo ministro Yatseniuk? Ma non conta niente: lì comandano il Settore destro, i fascisti di Svoboda».
Merkulov guida le squadre di autodifesa, il rovescio di Maidan: qui difendono i monumenti russi, «sì anche Lenin, la Grande Caterina, gli ammiragli, le stele degli eroi della guerra patriottica e dei caduti in Afghanistan, l’anima di questa città, la nostra anima. Al Parlamento di Kiev, dannazione! ci sono dei nazionalisti che hanno proposto di proibire il russo, che vogliono cacciarci dal Paese».
Irrompe, da un’auto, circondato da guardie spicce, un altro anziano. È Mironov, deputato della Duma russa. Mediatore? Messo di Putin? Passa in un boato patriottico di cori e bandiere, bocche dure, sguardi sprezzanti.
Una voce lenta e ruvida. «Il mio bisnonno, mio nonno, mio padre sono stati marinai della flotta russa. Siamo russi, pensiamo in russo, la nostra identità le nostre radici. Adesso c’è qualcuno che ci vuole cacciar via. Guarda che qui sappiamo che cosa è la guerra, vai in giro, ci sono duemila monumenti in città che ricordano le battaglie, gli assedi, i massacri. Come vuoi che non amiamo la pace, ma…».
Valentina ha gli occhi come due olive nere dall’umida lucentezza bruna; Irina, smagliante, ha occhi azzurri e pelle candida. Mi fanno attraversare la piazza dove c’è Casa Mosca, il centro culturale russo, con l’amministrazione della base navale. Nell’Ottocento era l’albergo elegante degli ufficiali. «Leggi questa lapide: qui nel 1854 ha soggiornato durante l’assedio il conte Leone Tolstoj...». «Identità, identità. Russi, ucraini uffa… sai cosa leggo: Lavrenev :… Ragazzo! Ama la rivoluzione! È la sola cosa al mondo meritevole di amore… Bello, sublime. Non ti sembra che sia perfetto anche per Maidan?». E ridono come per uno scherzo riuscito.
Un porto: ecco tutto. La città non è che un sobborgo del porto, una deliziosa arnia tra la fortezze e il mare, un insieme di palazzi, alberghi, ospedali, scuole, prigioni, caserme, cimiteri, chiese, minareti, costruite nella fretta di imbarcarsi di prendere il largo prima che la flotta nemica chiuda il cerchio, un accampamento di pietra e di cemento, una raggiera di forti e magazzini dove la gente si affollava sotto le bombe, gli assedi, aspettando l’ora della partenza.
La statua di Lenin, immensa, è lassù sulla collina nuda, bianca di tufo, e pare una nave arenata su un’alta scogliera, lasciata in secco dalla bassa marea. Il braccio indica il nord: come a dire, attento se sbagli laggiù c’è il gulag, la punizione. «Far saltare tutto questo bronzo e i massi e il marmo? Ma è impossibile e poi perché: è una grande fetta di storia…».
Dietro la chiesa di un altro Vladimir, il santo, la sola che si è salvata dalle bizze staliniane. Mi portano nella cripta dove sono le tombe dei quattro ammiragli che difesero Sebastopoli contro inglesi e francesi. Sento delle donne che avvicinano il prete: «Padre, non sarebbe meglio cominciare a raccogliere medicine e bende? Se arrivano quelli da Kiev la chiesa diventerà certo un ospedale…». Il prete le guarda paziente: non bisogna spaventarsi prima del tempo…
All’ammiragliato, nessun carro armato, sentinelle distratte, gli ufficiali russi entrano ed escono protetti dai loro chepì immensi come ombrelli. «Ma aspettate aiuto da Putin?». «Ci sono sessantamila russi in città, i marinai con le loro famiglie, che dici?».
La strada scende bruscamente, sparisce, in una nebbiolina sporca. Eccolo il mare in fondo alla grande rada, un grigio popolo di onde pronto all’ira, un mare duro, sgraziato, estraneo depositario di una antica tirannica forza. Il forte di Costantino e il suo grande cartello rosso e blu: onore alla marina russa, dietro i gabbioni di travi di ferro delle gru. Nella rada sud, una di quelle che la Russia affitta a caro prezzo dall’Ucraina, un nero sommergibile salpa, il ronzio delle eliche, il richiamo malinconico e selvaggio delle sirene, i rimorchiatori neri e piatti che, impennacchiati di fumo, scavano un triangolo schiumoso davanti alle prue di altre navi da guerra.
Cosa c’è di più sovietico di Sebastopoli? Fino a Gorbaciov era una città chiusa, proibita persino ai russi. Parla ancora a gran voce, della Russia sovietica, delle sue glorie e dei suoi orrori, nel ferro, nella pietra, nella rabbia degli uomini. Anche qui l’uomo davanti allo Stato onnipotente è stato rimpicciolito, la sua vita è diventata una vergogna continua, uno sminuimento incessante, la sua impotenza è sigillata e non deve più scegliere. La stagnazione eternamente provvisoria, confortevole, pigra che continua anche nella rassegnazione.
Merkulov fa grandi gesti di richiamo, urla, la gente si incolonna, scalpiccio di piedi, un litaniare languido: «A Simferopoli, la capitale della Crimea, la bandiera russa sventola sul Parlamento, i nostri sono entrati stanotte. I bus stanno arrivando, vieni anche tu, andiamo… andiamo a fermare i tatari, gli alleati di Kiev se tentano di riconquistarla».
Il convoglio parte: canti, urla, attesa febbrile. Superiamo i posti di blocco agli ingressi della città: la replica di quanto fanno nell’ovest quelli di Maidan. Sfilano immense distese di frutteti abbandonati, ovunque capanne di calcare tirate su in fretta, innumerevoli, che sembrano non essere mai state utilizzate. Merkimov mastica amaro: «Sono i tatari… ricevono le terre come compenso per la deportazione in Uzbekistan nel 1944, montano le casupole per far vedere che è terra occupata… Sono furbi i tatari. I loro capi regolano le assegnazioni, controllano gli aiuti che arrivano dalla Turchia... sono furbi i tartari». Centomila famiglie deportate, non tutte sono ancora tornate.
Andrj non ha un momento di tregua: guarda gli immensi depositi scavati nelle montagne per le munizioni e là, là ancora i cippi che Potenkin aveva piantato sul percorso della visita della sua amante imperiale, Caterina. «Tutto è nostro qui, nostro per sempre».
Urla dal fondo del bus: «Yanukovich ha ordinato ai soldati e ai marinai di Sebastopoli di mettersi ai suoi ordini, dice che il presidente è sempre lui». Risate, schiamazzi. «Fascista, traditore, settanta miliardi di dollari ha rubato».
«La radio dice che ci sono già i blindati russi a Temistenkoye, arriveranno prima di noi!». Il villaggio è lì, vuoto.
Ecco Simferopoli: grigi casamenti brezneviani, dal cielo gocciola la disperazione. Si scende, ci si incolonna, bandiere in testa, gladi cavalli rampanti, aquile plananti, cori: «Crimea, Russia». Il palazzo del governo sembra vuoto, una modesta barricata di mobili all’ingresso, pochi poliziotti tristi, nell’anima come sedimenti di tetri pensieri. I tatari, oggi, misteriosamente non ci sono.
Chiamo il loro capo, Refat Ciubarov: che fate, dove siete? Vi sfidano. «La situazione è in movimento, non dico niente». L’oscurità cala. Sul palazzo sventola sempre la bandiera russa. «Il 25 maggio con le elezioni presidenziali ci sarà un referendum per allargare l’autonomia!».
A tutto volume parte un inno, solenne, impetuoso come una preghiera. È quello che gli altoparlanti nella piazza rossa urlarono quando i soldati tedeschi arrivarono davanti a Mosca. Non ci si può toglier di dosso la materia del Tempo.

Corriere 28.2.14
Gli avvertimenti di Pechino alla stampa di Hong Kong
Nell’ex colonia britannica le libertà «occidentali» sempre più a rischio
di Guido Santevecchi


PECHINO — Stava per salire in macchina alle dieci del mattino di mercoledì. L’auto era parcheggiata a cento metri dal comando della polizia di Hong Kong. Kevin Lau, fino a gennaio direttore del Ming Pao , importante giornale in lingua cinese della metropoli, non ha fatto in tempo a girarsi: un uomo lo ha colpito alla schiena con un coltello da macellaio, tre volte. Una ferita di 16 centimetri è arrivata al polmone e altri due fendenti alle gambe. Ora è ricoverato in condizioni gravi. «Un classico attacco da triadi, non volevano ucciderlo ma mandare un segnale», dice ora la polizia. Kevin Lau, 49 anni, era diventato direttore del Ming Pao nel 2012 ed era stato rimosso improvvisamente e senza spiegazioni all’inizio del mese scorso. I suoi 270 giornalisti avevano protestato, gli editorialisti avevano lasciato spazi bianchi sulle pagine per denunciare quello che era subito apparso un attacco alla loro libertà. Ming Pao sotto la direzione di Lau ha pubblicato inchieste e commenti sulla corruzione dei leader politici di Pechino e sulla violazione dei diritti umani. L’ultimo colpo, a gennaio, era stata l’inchiesta sui conti segreti di diversi leader di Pechino nel paradiso fiscale delle Virgin Islands.
Hong Kong è tornata alla Cina nel 1997, come territorio autonomo speciale: tra le eredità lasciate dall’impero britannico c’è una stampa libera e aggressiva. Molte notizie che in Cina non si possono nemmeno accennare sono pubblicate ogni giorno sui quotidiani della città quasi-Stato.
Ma negli ultimi mesi la pressione di Pechino è aumentata. L’anno scorso contro il cancello di casa di un editore è stata lanciata un’auto; ci sono stati pestaggi e licenziamenti in tronco. E poi ci sono gli avvertimenti sul fronte economico: diverse testate critiche verso Pechino hanno perso la pubblicità delle aziende cinesi. Il governo della Repubblica popolare è innervosito dalle richieste dell’opinione pubblica di Hong Kong che vuole mantenere la sua libertà politica, invoca elezioni senza interferenze nel 2017 e prepara grandi manifestazioni per giugno, quando ricorrerà il 25° anniversario della repressione sulla Tienanmen.
Kevin Lau, laureato in legge a Hong Kong, master in scienze politiche alla London School of Economics, non è stato cacciato: la proprietà lo ha «spostato» alla sezione che si occupa di libri online e scolastici, sostituendolo con un direttore di origine malaysiana poco pratico dell’ex colonia britannica. Kevin Lau ha accettato l’avvicendamento e ha invitato la redazione a tornare al lavoro. Per questo qualcuno ora dice che bisogna aspettare l’esito delle indagini per stabilire i motivi per i quali è stato pugnalato «alla maniera delle triadi».
Ma chi ha assoldato l’aggressore, fuggito su una moto guidata da un complice, aveva bisogno di un professionista: chi meglio di un sicario delle triadi mafiose? Centinaia di dipendenti del suo giornale ieri sono andati sotto l’ospedale vestiti di nero, anche la testata rossa del Ming Pao è uscita colorata in nero. Domenica a Hong Kong si era svolta una manifestazione di giornalisti contro la pressione liberticida orchestrata da Pechino. E il Ming Pao ha promesso un milione di dollari di Hong Kong a chi aiuterà a individuare il sicario e i mandanti.

Repubblica 28.2.14
La Cina pilota la caduta dello yuan a Wall Street tremano gli hedge fund
di Federico Rampini


NEW YORK - La prossima crisi globale verrà dalla Cina? L’allarme lo lanciano gli americani: il detonatore potrebbe essere la svalutazione competitiva del renminbi (o yuan), la moneta cinese. Il suo deprezzamento si è accelerato dalla scorsa settimana, e ha determinato la più pesante caduta del renminbi dal 2005. E’ una netta inversione di tendenza, dopo anni di lenta ma inesorabile ascesa della valuta cinese. Le conseguenze sono tante, politiche e finanziarie. A Washington cresce il coro di proteste contro il governo di Pechino, accusato di non stare ai patti. E in un anno di elezioni legislative, molti parlamentari Usa invocano misure di ritorsione tariffarie e doganali per punire il made in China. A Wall Street l’incubo principale è un altro: dalle imprese cinesi agli hedge fund americani, una pletora di operatori davano per scontato che il renminbi potesse andare solo verso l’alto, e quindi hanno scommesso capitali importanti sulla tendenza al rialzo. L’inversione di rotta può scavare una voragine di perdite nei bilanci di grandi aziende e fondi d’investimento.
«La Cina interviene per indebolire lo yuan», è il titolo a tutta pagina con cui apre il Wall Street Journal.
Il quotidiano non ha dubbi: «E’ la banca centrale cinese a spingere verso il basso». Tra le reazioni politiche da Washington c’è quella del senatore democratico Charles Schumer: «La Cina deve consentire allo yuan di muoversi liberamente in base alle forze di mercato, anche se il mercato lo spinge al rialzo». Alla Camera un disegno di legge che infliggerebbe dazi punitivi sulle importazioni dalla Cina ha raccolto più della metà delle firme necessarie. Per ora l’Amministrazione Obama non si pronuncia. Anche perché gli Stati Uniti non sono del tutto innocenti, in fatto di svalutazioni competitive. Anzi, la “guerra delle monete”, come venne definita due anni fa dal ministro dell’Economia brasiliano Guido Mantega, venne aperta proprio dalla Federal Reserve. La massiccia creazione di liquidità che la banca centrale Usa ha operato per rilanciare la crescita, ha anche avuto come effetto collaterale l’indebolimento del dollaro. Il “manuale” americano è stato successivamente studiato e ricopiato da altre banche centrali: ultima quella del Giappone, che ha manipolato anch’essa la moneta al ribasso, consentendo allo yen debole di aiutare l’export made in Japan. Naturalmente sia Washington che Tokyo respingono questi paragoni. Né la Fed né la Banca del Giappone “manipolano” direttamente le proprie valute, visto che i tassi di cambio vengono fissati dalla domanda e dall’offerta sui mercati globali (l’influenza delle banche centrali è indiretta, agisce sui tassi d’interesse, la creazione di liquidità, e sulle aspettative). Il caso della Cina è diverso perché il renminbi o yuan continua ad essere un moneta solo parzialmente liberalizzata, il cui valore esterno è ancora orientato dal governo. Del resto l’attuale indebolimento del renminbi sarebbe stato deciso anche in vista dell’ultima tappa nella liberalizzazione monetaria, quella che dovrebbe portare la valuta cinese ad essere mossa solo dai mercati.
Restano i rischi macroeconomici, se la Cina tenta di “esportare” i suoi problemi, ovvero di uscire da una fase di rallentamento della crescita rilanciando l’export attraverso la svalutazione competitiva. E c’è il timore di Wall Street per quella mina vagante che sono i derivati in renminbi: 350 miliardi di dollari di “titoli strutturati” emessi dalle banche Usa solo l’anno scorso, chiamati “target redemption forward”. Prevalentemente sono coperture di rischio, o scommesse speculative, che davano per scontato il rialzo del renminbi. Ora con la brusca inversione di rotta le perdite possono destabilizzare qualche hedge fund americano, e tante imprese cinesi.

La Stampa 28.2.14
L’ambasciatore sino-americano lascia la Cina: “I diritti umani più importanti dello sviluppo”
di Ilaria Maria Sala

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La Stampa 28.2.14
Germania, cresce il divario ricchi-poveri
Secondo l’istituto Diw è il paese con le maggiori differenze nell’Eurozona: diseguaglianze crescenti
di Tonia Mastrobuoni

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Corriere 28.2.14
Tutte le strade portano a Berlino
di Massimo Nava


L’Europa era sogno, è diventata un insieme di regole, spesso incomprensibili. L’Europa è un modello di garanzie sociali, smantellato da politiche di austerità che speculazioni e fallimenti della finanza hanno imposto ai governi. L’Europa come l’avevano immaginata i padri fondatori si è ridotta a un castello kafkiano abitato da una burocrazia costosa e lontana dai cittadini. Tutto oggi rema contro l’Europa: le nuove povertà, le ondate di populismo, la nostalgia delle monete e dei confini nazionali, i bizantinismi dei suoi dirigenti politici, che navigano a vista, abilissimi — con un occhio ai sondaggi interni — soltanto nel «gioco della colpa», ovvero l’attribuzione a Bruxelles di tutte le cattive notizie.
Se questa è in sintesi la diagnosi, si capisce come il naufragio completo e irreversibile possa rivelarsi una prospettiva tutt’altro che remota. Ciò che invece i cittadini europei stentano a immaginare (e le pubbliche opinioni ad analizzare) sono gli scenari che si aprirebbero con il crollo delle istituzioni comunitarie e la fine della moneta unica. Per quanto alcuni «menestrelli» della politica riescano a rendere seducente il ritorno ai confini e alle monete nazionali, le conseguenze per le economie e la vita dei cittadini sarebbero catastrofiche. Per di più, con la beffa di riprodurre, con costi sociali ed economici ancora più elevati, un analogo quadro di politiche finanziarie. In altre parole, tutte le strade porterebbero ancora a Berlino, alle ragioni e ai torti della Germania, alle origini di una dimensione europea costruita sulle macerie della guerra mondiale e della caduta del Muro.
Difficile essere ottimisti. E a pochi mesi dalle elezioni, che potrebbero rafforzare drammaticamente le compagini populiste e antieuropee che prosperano un po’ dappertutto, riesce quasi impossibile immaginare un’inversione di tendenza. Eppure una medicina esiste. Semplice e banale come un’aspirina che spesso è l’unico rimedio quando la febbre è altissima. La indica Martin Schulz, presidente del Parlamento europeo, nel suo saggio Il gigante incatenato. Ultima opportunità per l’Europa? , (Fazi editore, pp. 256, e 18) in questi giorni in libreria.
Europeista di lungo corso, socialdemocratico e uomo politico tedesco, Schultz potrebbe incontrare qualche difficoltà nel risultare credibile in mezzo a tanta disaffezione e all’ostilità che serpeggia un po’ dovunque nei confronti della Germania. Tanto più che la sua famiglia politica, la Spd, è quella che con Gerard Schroeder ha sostenuto in larga misura le politiche di austerità e di riforme della spesa pubblica: introdotte prima in Germania e poi sostanzialmente imposte al resto d’Europa.
Ma l’analisi puntuale e coraggiosa dei deficit europei e delle responsabilità tedesche non deve nascondere una realtà ben diversa, oltre che più confortante, se le opinioni pubbliche ritrovassero la voglia e la passione di considerarla. L’Europa «ammaccata» è infatti ancora un modello sociale invidiato, cui aspirano popoli e nazioni che ne stanno fuori. È un patto integrativo fra nazioni che ha trovato e trova imitatori in diverse aree del mondo. La moneta unica è una realtà decisiva sulla scena globale, messa in discussione più da pregiudizi che da alternative percorribili. La società europea, per quanto in regressione economica, è ancora l’area civilmente e socialmente più avanzata del mondo. Così seduta sulle proprie conquiste di pace, democrazia e benessere, da avere dimenticato in fretta il punto di partenza.
Certamente — avverte Schulz — non sta scritto nei trattati come uscire dalla crisi, ma è scritto nel Dna della civilizzazione europea come ritrovare le ragioni del proprio cammino. È una questione di coesione politica, di qualità delle classi dirigenti, di pedagogia e sensibilità delle nuove generazioni. Il gigante è in gabbia. Ma è pur sempre un gigante. Non dimentichiamolo.

Corriere 28.2.14
Wulff assolto dopo lo scandalo
L’etica tedesca delle dimissioni
di Paolo Lepri


Era rimasta in piedi solo un’accusa, delle tante che si erano accavallate in quell’inverno di passione del 2011-2012, costringendo Christian Wulff a lasciare lo Schloss Bellevue, il Quirinale tedesco. L’ex presidente federale è stato processato, e ieri prosciolto, soltanto per uno «scambio di favori» con il produttore cinematografico David Groenewold. A Wulff, che a quell’epoca era governatore della Bassa Sassonia, sarebbe stato pagato il conto di un albergo a Monaco in cambio di un intervento con la Siemens per il finanziamento di un film. In tutto settecento euro. «Non ci sono prove contro l’imputato», ha però stabilito il tribunale di Hannover, riabilitando così la figura di quello che era stato uno degli uomini di punta del partito cristiano-democratico di Angela Merkel. «Voglio andare a prendere i miei figli all’asilo per far vivere loro un padre più sereno di quanto sia stato negli ultimi anni», sono state le sue parole dopo la sentenza.
Si chiude così quello che era apparso, inizialmente, uno scandalo di grosse proporzioni, in cui hanno giocato un ruolo determinante anche le inchieste e le pressioni della stampa. Era sembrato che dietro Wulff agisse un sistema di potere dominato dalla corruzione e dal malaffare. Sono stati scritti fiumi di parole, per esempio sul prestito che aveva ricevuto da un amico imprenditore, a condizioni vantaggiose, per la costruzione di una villa. Si è poi scoperto che non esistevano irregolarità, almeno dal punto di vista penale. Il suo grande errore fu di minacciare «guerra», in un messaggio telefonico, al direttore del quotidiano popolare Bild se l’inchiesta sul prestito fosse stata pubblicata. Una mossa che non gli fu mai perdonata.
Nel bene e nel male, comunque, il caso Wulff ha dimostrato la capacità di reazione di un sistema politico in cui l’istituto delle dimissioni è un passaggio obbligato quando scatta il procedimento giudiziario. L’ex presidente, inoltre, ha dato un’altra prova di coraggio quando ha voluto evitare un patteggiamento e ha preferito essere giudicato, convinto della propria innocenza. I fatti gli hanno dato ragione. E gli restituiscono l’onore.

Corriere 28.2.14
Wall Street sotto tiro ora anche da destra
di Massimo Gaggi


Due sole aliquote fiscali, 10 e 25 per cento, al posto delle sette oggi in vigore negli Usa (la massima al 39,6 per cento). E fin qui siamo nella tradizione dei conservatori americani: tasse molto basse, possibilmente «flat», e massima semplificazione per favorire gli affari, senza troppo preoccuparsi delle eccessive diseguaglianze nella distribuzione del reddito. Ma poi c’è anche una sovrattassa del 10 per cento sui ricchi (redditi oltre i 450 mila dollari l’anno), la cancellazione di alcune esenzioni delle quali oggi godono soprattutto imprenditori e liberi professionisti e un prelievo sulle grandi banche, quelle con un patrimonio di più di 500 miliardi di dollari.
La riforma fiscale proposta l’altro ieri dai repubblicani al Congresso non ha alcuna possibilità di essere approvata in questo anno elettorale (il voto di «mid term» del prossimo novembre), ma fa ugualmente discutere perché segna per la prima volta un cambiamento di rotta e la caduta di un tabù: fin qui la destra americana aveva sempre detto no a nuove tasse di qualunque tipo e si era opposta a ogni tentativo di colpire fiscalmente il mondo della finanza. E invece adesso Wall Street finisce anche nel mirino tributario dei repubblicani. Le banche non staranno certamente a guardare e infatti la controffensiva lobbistica è già iniziata. E la proposta presentata dal presidente della Commissione Finanze della Camera, Dave Camp, oltre che dai democratici, è stata già liquidata anche dal capo dei repubblicani al Senato, Mitch McConnell: «Non è roba per questa legislatura». E anche il leader conservatore alla Camera, John Boehner, ha detto di considerarla solo il buon inizio di un lungo percorso.
Annunciare e al tempo stesso bloccare può apparire incomprensibile, ma una spiegazione politica c’è: proponendo la sovrattassa, i repubblicani pensano di togliere ai democratici l’arma elettorale di presentarsi come il partito che si preoccupa solo di proteggere i miliardari. Ma poiché al tempo stesso, nonostante sbandamenti e spaccature interne, i conservatori sono dati come favoriti al voto di mezzo termine, per la riforma preferiscono aspettare il 2015, ed equilibri parlamentari più favorevoli, per negoziare un compromesso comunque indispensabile, se si vuole davvero riformare una materia complessa come il «tax code». Ma quella riforma ormai potrebbe essere davvero imminente, nonostante la semiparalisi della politica Usa: destra e sinistra si rendono conto che il sistema attuale — farraginoso, squilibrato, con una giunga di detrazioni ed esenzioni ormai incomprensibili — non sta più in piedi. Cambiarlo è esigenza di tutti.
Un colpo di coda della finanza non è escluso: c’è già chi chiama il prelievo sulle grandi banche una «tassa sui prestiti». Ma molti repubblicani in privato ammettono che, dopo i disastri combinati da Wall Street negli anni scorsi, è necessario prendere le distanze da banche che continuano a chiedere aiuti e privilegi normativi, costruendo anche una specie di polizza assicurativa rispetto a possibili nuovi salvataggi di istituti troppo grossi per essere abbandonati al loro destino.

Corriere 28.2.14
La Spagna dice addio alla «giustizia universale»


MADRID — Da fine marzo i magistrati spagnoli non potranno più indagare liberamente su crimini commessi all’estero in base al concetto di «giustizia universale» che portò all’arresto di Augusto Pinochet (foto) e a recenti incidenti diplomatici con Cina e Israele. I deputati del partito popolare, maggioranza in Parlamento, ieri hanno approvato una legge con molti limiti a tale principio, sollevando le proteste della sinistra e dei movimenti per i diritti umani secondo cui ha prevalso l’interesse economico. Il concetto di «giustizia universale» fu lanciato dal giudice Baltasar Garzón nel 1988 e nel 2005 la Corte costituzionale l’ammise nel diritto spagnolo. Tra i casi che ora «salteranno» quello contro l’ex presidente cinese Jiang Zemin per il genocidio in Tibet.

La Stampa 28.2.14
Oscar, la grande speranza dei palestinesi
“Omar” di Abu-Assad, rivale di Sorrentino come miglior film straniero vissuto dalla popolazione come un simbolo di riscatto nazionale
di Maurizio Molinari


A breve distanza dalla moschea Husseini, il piccolo ristorante Hashem sforna i falafel apprezzati tanto dai militanti dei Fratelli Musulmani che dal re Abdallah. Fra i pochi tavoli di legno il tema del giorno è Omar, il thriller di Hany Abu-Assad in lizza per l’Oscar al miglior film straniero e dunque il rivale più agguerrito della Grande Bellezza di Paolo Sorrentino. Il motivo di tanta attesa per il verdetto dell’Academy Awars lo spiega Mariah, 27 anni, seduta al tavolo con la coetanea Farah: «Ad Amman e in Giordania siamo quasi tutti palestinesi e questa è la prima pellicola che si presenta come tale» dice, riferendosi alla scelta della produzione di indicare «Palestine» come nazione di origine. La conversazione sul film di 96 minuti attira altri avventori del ristorante che espone con orgoglio le immagini scattate al re durante le sue frequenti visite. Luay, 50 anni, discende da una famiglia di Ramallah, in Cisgiordania: «Io questo film non l’ho visto ma la notte degli Oscar la mia intera famiglia starà attaccata davanti alla tv sperando che ottenga il premio, perché a vincere saremmo tutti noi». Se Paradise Now, realizzato sempre da Abu-Assad, nel 2006 fu il primo film palestinese a guadagnarsi una nomination, questa volta Omar sembra avere maggiore possibilità di farcela anche grazie ad una trama più articolare: non il dialogo aspro fra due possibili kamikaze, ma una storia d’amore intrecciata con la sfida fra tre ragazzi palestinesi e un agente dello Shin Bet , il servizio di sicurezza interno israeliano.
«Ciò che conta per noi è che questo film è il primo a candidarsi come palestinese - spiega Farah - è un’emozione simile a quella che abbiamo vissuto quando l’Assemblea dell’Onu ha votato nel 2012 a favore dello Stato di Palestina». Lasciando il centro in direzione di Abdoun si arriva al Taj Mall dove le comitive di liceali e universitari vanno la sera a vedere i film americani nel cinema multisale, per poi cenare nel «food court» al piano terra. Adel, 18 anni, ha visto il trailer di Omar sul computer: «E’ un film che mi rende orgoglioso, racconta una storia palestinese come le viviamo noi palestinesi di ultima generazione, se la giuria lo premierà sarà un risultato storico». I suoi amici fanno a gara nel voler esternare cosa provano. Laila, nata a Firenze e fan di Francesco Totti, dice: «Amo l’Italia, so che voi tifate per un vostro film ma questa volta spero che a vincere sia Omar, voi fate tanti film di valore e avrete presto altre opportunità, per noi invece un’occasione come questa potrebbe non ripetersi più”. Rina: «Siamo tutti un po’ emozionati, quest’Oscar è diverso dagli altri perché qui in Giordania i palestinesi sono la grande maggioranza». Khaldun: «Se Omar vincerà sarà festa grande nelle città e nei campi profughi, anche in Libano e perfino in Siria, nonostante la guerra e le stragi».
Ciò che colpisce è come nessuno, al Taj Mall come da Hashem, sfrutti la sfida dell’Oscar per inveire contro Israele. I toni non sono quelli della resistenza ideologica o della condanna appassionata dell’occupazione. Ciò che prevale è la speranza di «ottenere un riconoscimento come palestinesi» sottolinea Zeid. E Tana, sorseggiando Coca Cola, annuisce: «Come cittadini giordani abbiamo passaporti, documenti e riconoscimenti, esistiamo, ma siamo anche palestinesi e in quanto tali sembriamo una specie di fantasmi. Questo Oscar può contribuire a cambiare le cose». E’ uno stato d’animo diffuso e il Jordan Times lo riassume così: «Lo Stato di Palestina ancora non esiste ma ad Hollywood ha già un film finalista nella corsa agli Oscar». Hany Abu-Assad sembra consapevole della posta in palio: «Sono particolarmente orgoglioso del fatto che Omar lo abbiamo prodotto con fondi palestinesi, attori palestinesi e tecnici quasi tutti palestinesi, non mi occupo di nazionalismo, voglio fare dei film che guardino oltre il conflitto, al bisogno di avere tutti pari diritti». 

Corriere 28.2.14
La sonda Kepler scopre 715 nuovi pianeti extrasolari
Quattro sono collocati in zone compatibili con la vita
Data per moribonda dalla Nasa, ha ripreso a funzionare e ha offerto nuovi straordinari risultati
di Giovanni Caprara

qui

l’Unità 28.2.14
Léger, l’arte del tubo
I cilindri materia prediletta del maestro francese
di Renato Barilli


IL VENEZIANO MUSEO CORRER HA IL MERITO DI PRESENTARCI UNA BUONA SELEZIONE DI DIPINTI DI FERDINAND LÉGER (1881-1955), UNO DEI MAESTRI DELLE AVANGUARDIE STORICHE, ma non troppo visto tra noi, non rientrante quindi nella stucchevole riproposta dei «soliti noti» cui si danno in genere i nostri musei. Ma il merito è controbilanciato dal fatto che la rassegna ci giunge «chiavi in mano» da Philadelphia, senza alcun tentativo di farla reagire rispetto a passi analoghi che allora vennero compiuti anche presso di noi. Inoltre si arresta al 1930, mentre l’artista è stato attivo per ben altri 25 anni, e proprio il suo lavoro delle ultime stagioni è stato considerato attuale, quasi un anticipo del clima Pop Art.
Speriamo che quel taglio secco nella carriera di Léger non sia corrisposto a un giudizio critico, come voler eliminare un ramo secco o in discesa. Invece Léger è caduto ingrandendo, e non riducendo «ad piscem» il proprio repertorio, come pure si deve dire per certi suoi grandi partner, basti pensare a Georges Braque, che proprio quando il Nostro, nel ‘10, si metteva in cammino, aveva già dato testi formidabili del Cubismo, accanto a Picasso. E proprio nelle file del Cubismo esordisce Léger, ma per fortuna, in mostra, non è stato schiacciato ponendogli al fianco i monumentali Picasso e Braque, dato che lui aveva optato già in partenza per una variante più colloquiale, impigliata nell’aneddoto, in una voglia di racconto. Ci sta bene quindi metterlo in linea con i Cubisti di complemento, Metzinger, Gleizes, Gris, che in definitiva si limitavano a «placcare» scene di vita urbana con l’aggiunta di cubetti. Léger, in merito, ha uno scatto di originalità, in quanto al cubo, coi suoi spigoli aguzzi e taglienti, preferisce il cilindro, il tubo, tanto da meritarsi, allora, l’epiteto di essere un «tubista», forse con qualche intento denigratorio, ma lì viceversa risiede un suo quoziente di originalità. Il tubo infatti, allungandosi, diventa una sorta di tubolare Innocenti, di quelli che si usano per le impalcature, e dunque col suo aiuto Léger ci offre panorami affollati della «città che cresce», con tanto di epica di operai al lavoro per erigere castelli incantati di nuovo conio. Si aggiunga che quelle forme arrotondate, smussate, «soft» possono assumere andamenti decorativi, degni delle nascenti Arts Déco, e siamo ormai nel cuore degli anni Venti, entrando a gara con un movimento che era già una reazione alle forme dure, «hard» del Cubismo picassiano, una strada lungo la quale il Nostro poté pure incontrare il purismo dei fratelli Jeanneret, Charles Edouard, ben più noto col nome di Le Corbusier, e Pierre, rimasto invece a distillare sagome pacate con l’aiuto del compasso, sostituito al regolo calcolatore.
Non solo, ma sempre l’affidarsi a tratti circolari consentiva anche di sfiorare certi andamenti antropomorfi, ovvero Léger, nel corso dei Venti, riusciva a valersi cautamente di sagome di omini, molto simili a robot incaricati di dirigere quei grandi lavori della «città che sale», festeggiandola anche a colpi di danza, purché si trattasse di un «balletto meccanico», condotto anch’esso con mosse anchilosate e a scatti. Per questa strada sarebbe stato opportuno far incontrare il Francese con un dirimpettaio militante nelle file del Bauhaus tedesco quale Oskar Schlemmer, oppure praticare un coraggioso inserto in direzione del balletto meccanico di cui era capace anche il nostro Fortunato Depero, nel quadro di quel ramo del Futurismo che, patrocinato a Roma da Balla, e avendo proprio Depero stesso nelle vesti di efficace scudiero, avrebbe avuto anch’esso vita lunga, non sdegnando esiti di decorativismo, pur sempre adattato ai ritmi severi dell’urbanesimo e dell’industrialismo. Invece, come già detto sopra, la mostra in questione non si dilunga su questa via, anche se dà ampio spazio ai capolavori di Léger realizzati lungo i Venti, con tutte le opportune connessioni in direzione delle forme allora rispondenti proprio alla «visione della città contemporanea », come suona il sottotitolo della mostra. E dunque, vediamo Léger nelle vesti di straordinario disegnatore di affiches pubblicitarie, o di film muti che rendono un pieno omaggio ai balletti meccanici. E la sua pittura di quegli anni sembra essere fatta inserendo vasti spezzoni, larghi pannelli, che gli omini, solerti costruttori, si passano di mano in mano per andare a montare un castello di carte policrome.

La Stampa 28.2.14
E il liceo di Fenoglio non applaudì il Federale
Ad Alba s’ inaugura il riordinato archivio storico del “Govone”, un’aristocrazia di alunni e professori
di Bruno Quaranta


Nella biblioteca del liceo albese «Govone» c’è un bronzeo Fenoglio, tra gli allievi illustri. Accanto, posata da chissà chi, una statuetta di Proust. Sarà il professor Petronio a insegnare all’alter ego del partigiano Johnny «a leggere Proust, Svevo, Melville». Ancorché il dandy della Recherche non sia riuscito a conquistare un posto di prima fila nel pantheon di Beppe. In Una questione privata non si esita a prenderne le distanze: «Milton ricordava che Fulvia leggeva Il cappello verde, La signorina Else, Albertine disparue... A lui quei libri nelle mani di Fulvia pungevano il cuore. Malediceva, odiava Proust».
Che cosa vi è, nonostante la diversa sensibilità, di proustiano in Fenoglio? Il culto del «classico», quale Proust fra l’altro esemplificò nella Prisonnière. Là dove si ironizza sulla smania di essere à la page, chi per esempio considera «una carrozza di prima classe a priori come più bella di San Marco».
L’elogio del «classico» ad accomunare Fenoglio e Proust, Fenoglio come Johnny: «Il suo desiderio correva al liceo; l’università non l’amava, poteva anzi dire di odiarla, proprio per aver troppo amato il liceo». L’odio verso Proust, verso l’università, verso i tedeschi, nonostante la raccomandazione di Leone Ginzburg...
Il liceo di Fenoglio, il Govone, nel 2012 ha compiuto centotrent’anni. Si varò allora il riordino dell’archivio storico, adesso ultimato, per la cura di Carlo Bonfanti. Domani, il «taglio del nastro». Non nasconde l’orgoglio il preside Piercarlo Rovera, un ex allievo che è rimasto allievo, alla scrivania ottocentesca dove sedette, tra i suoi predecessori, il grecista Leone Riccomagno, patendo il vento sessantottino, non così rispettoso del suo sentire risorgimentale. 
Ha il respiro di un convento laico, il Govone, di un’accademia che non ha nulla di accademico, di un cenacolo dove la via alla maturità è una primavera di bellezza. Nel solco di una tradizione che non assilla, ma soccorre, rischiara, garbatamente sovraintende, «dietro la porta», come Bassani titolò il racconto del suo liceo ferrarese.
Ettore Paganelli, un ex del Govone, classe 1929, già sindaco di Alba e deputato democristiano, indica il lato destro del cortile dove il Federale per un’ora concionò gli allievi, neppure ottenendo un flebile battito di mani: «Il liceo era una ridotta antifascista» (ridotta, vocabolo che riconduce a una remota materia d’insegnamento, «Cultura militare»).
I «maggiori»? In tasca, Ettore Paganelli conserva una «reliquia», gli appunti delle lezioni di filosofia di Pietro Chiodi, «bandito» nella guerra civile, lo studioso princeps di Heidegger, formatosi con Nicola Abbagnano. Un frammento: «Il problema è: ”essere o non essere” ma l’uomo se veramente decide di essere è perché ha fede. L’esistenza è possibile solo sulla base della fede. L’esistenza, che è per l’uomo essenzialmente decisione, implica una fede. Una fede non in un’idea politica, in una missione particolare, nell’amore o nell’arte, ma una fede in Dio. Fede in Dio, se per Dio intendiamo non l’essere, ma qualcosa di più dell’essere. Dio non può essere o esistere, perché è ciò che rende possibile “l’essenza” e “l’esistenza”».
Maestri e scolari. Qui studiò Achille Mario Dogliotti, futuro chirurgo, e Oreste Badellino (redigerà un dizionario - il dizionario? - della lingua latina). Qui onorarono la cattedra don Natale Bussi, sacerdote conciliare ante litteram, il matematico Umberto Perazzo, l’anglista Maria Luisa Marchiaro, Luigi Galante (padre di Alessandro Galante Garrone), Leonardo Cocito (italiano e latino), martire della Resistenza, medaglia d’oro al valor militare, impiccato con un gancio da macellaio vicino a Carignano. 
Quel tragico 1944. Il sipario sull’archivio storico del liceo Govone si alza nel settantesimo anniversario della repubblica albese: «Alba la presero in duemila il 10 ottobre e la persero in duecento il 2 novembre dell’anno 1944». I ventitre giorni... Mentre si annuncia Il ventiquattresimo giorno, il journal redatto allora da uno studente ormai ottuagenario, qua e là ricorrendo al greco per disorientare gli eventuali lettori tedeschi. 
Al Govone gli spari del 1944 sono nitidi come il colpo di pistola che nel 1872, poco lontano, suggellò l’esistenza di Giuseppe Govone. Ventimila lire della sua eredità contribuirono a «fondare» il liceo. Un tesoretto che il generale aveva accumulato grazie a un’operazione del ministero (Sella) di cui faceva parte. Donato al Comune di Alba per fugare ogni sospetto di non cristallino arricchimento. È, fu, un costume che si riverbererà di stagione in stagione nelle aule di via Teobaldo Calissano (a proposito: giolittiano ministro delle Poste), nello stile che le impronta. Una certa Italia. Non tutto l’Ottocento merita il congedo. Da qualche parte il burbero professor Riccomagno sorride.

Corriere 28.2.14
Zeus, il dono di Atena e l’olio La prima pulitura è in lavatrice
L’olio. Carburante, cosmetico ma anche medicinale: nel museo Carli le mille vite di un ingrediente-chiave
di Roberto Perrone


F u Fidia il primo a mettere, scalpello su marmo, il mito dell’olivo, al Partenone di Atene. Gli dei dell’Olimpo non stavano mai calmi, disputandosi la terra in una sorta di Risiko permanente. Dunque Atena dea della sapienza e Poseidone dio del mare, si scontrarono per l’Attica. Zeus decise che la vittoria sarebbe andata a chi gli avesse offerto il dono più intrigante. Poseidone, con il suo tridente fece comparire un magnifico destriero, Atena percosse la terra con la sua lancia e da questa nacque il primo olivo. Ovviamente vinse lei. L’olivo è un ragazzo di almeno 7.000 anni e se ne ha traccia a Babilonia. A portarlo nella sua culla ideale, il Mediterraneo, sarebbero stati i Fenici. Così questa pianta meravigliosa, «la nostra cattedrale» secondo il poeta Giovanni Boine, è diventata l’oro delle coste (e non solo). L’affascinate percorso dell’olio può essere seguito nel bellissimo Museo dell’Olivo di Imperia, creato dalla famiglia Carli, dal 1911 marchio storico dell’olio d’oliva. In queste ricche sale scopriamo i rapporti ancestrali tra uomo e olio, attraverso i manufatti collezionati con cura dalla famiglia. L’olio è stato ed è luce, lubrificante, calore, cosmetico, unguento, medicinale, legno. Però noi lo preferiamo come alimento/condimento. Si va da ampolle, vasi, lampade, piatti alla riproduzione di antichi frantoi e perfino a quella della stiva di una nave romana di piccolo cabotaggio con le anfore olearie dall’inconfondibile forma appuntita che permetteva di incastrarle facilmente.
Dal museo alla filiera. All’azienda agricola che i Carli hanno inaugurato dieci anni fa a 300 metri di altezza ci sono 13 ettari curati con passione da Marco De Kunovich che si è affidato a quello che lui definisce un guru, il professor Pannelli dell’Oliveto sperimentale di Spoleto. La vista spazia sulle colline e verso il mare in una giornata ligure che strizza l’occhio alla primavera. Dove c’era un terreno non adatto (prima coltivato a uve vermentino) ora c’è un oliveto modello, dove tutto è studiato nei particolari, dall’irrigazione alla potatura fino alla raccolta. Questa, un tempo era affidata quasi interamente alle «sciasceline» cioè alle donne di Sassello con cui, per un certo periodo, vennero identificate anche le ragazze piemontesi che scendevano qua, sorta di mondine controcorrente. Le olive raccolte (quelle per il Dop sono tutte di Imperia, altre arrivano dalla Sicilia e dalla Puglia, dalla Spagna e dalla Grecia) finiscono in azienda e fanno la loro strada verso l’olio. Con Mauro Amelio, responsabile del laboratorio Carli (che esiste fin dal 1925) seguiamo i passaggi della lavorazione, dalla lavatrice che fa la prima pulitura al decanter che separa acqua, olio e sansa, cioè buccette, residui di polpa, frammenti di nocciolino. Infine la degustazione: l’olio si assaggia come se fosse vino, anzi di più, perché prevede un movimento mandibolare particolare. Del Ponente ligure, a me ragazzo di Levante, giungevano due cose: la prima acqua minerale, le Fonti Bauda di Calizzano, il primo olio (oltre a quello per cui mio padre mi faceva raccogliere le olive e poi portarle al mulino lungo il fiume): l’olio Carli che mia madre ordinava perché, allora non si trovava nei negozi. Anche ora è così, ma la Carli, oltre allo store di Imperia ha aperto punti vendita a Torino, Milano e Padova. È una storia di amore e professionalità che ritrovo come condimento, insieme con l’acqua della mia adolescenza, sui tavoli di Enrico Calvi al ristorante Cacciatori. Un filo d’olio versato a crudo sul brandacujun (patate, stoccafisso, pinoli, prezzemolo) o usato per condire uno dei formaggi di Barbara «la signora delle capre» o usato nella tipica Stroscia di Pietrabruna, la sbrisolona del Ponente, mezzo chilo d’olio ogni chilo di farina.
L’olio per noi italiani è una ricchezza insidiata però, come per altri prodotti, dagli stranieri, sicuramente privi della nostra cultura e del nostro artigianato. Stiamo perdendo terreno anche perché ci rifugiamo sempre più in (ottimi) prodotti di nicchia mentre dovremmo farli convivere con una produzione industriale di qualità, trainante per i mercati esteri. Il «sistema» è quello che paga. E allora qui citiamo cogliendo l’occasione , anche se è siciliano, l’olio dell’azienda agricola Miccione di Buccheri, del collega Daniele curatore di «Gazza Golosa» che ha appena ottenuto il Sol di Bronzo al concorso Sol d’Oro di Verona, terzo nella categoria oli monovarietali. Complimenti e buon olio a tutti.

Corriere 28.2.14
Doctorow: dai corsi di scrittura il rischio di autori senz’anima
«Non insegno a diventare romanzieri ma a leggere i classici»
intervista di Livia Manera


«Ha in mente quando Philip Roth a 80 anni ha detto che smetteva di scrivere? Beh, io non ho nessuna intenzione di fare altrettanto!».
Se la ride Edgar Doctorow, che a ottantatré ha appena pubblicato negli Usa un romanzo straordinario, Andrew’s Brain , in cui accompagna il lettore nel lucido delirio mentale di un neuroscienziato, attraverso tali cambiamenti di piani narrativi e sorprese, da risultare il libro più cerebralmente ardito della sua carriera. Il cervello di Andrew sarà pubblicato nel 2015 dalla Mondadori, che intanto manda in libreria in questi giorni una sua raccolta di racconti dal titolo — quasi ironico, in questo contesto — Tutto il tempo del mondo (traduzione di Carlo Prosperi).
Se la ride, dunque, Doctorow, anche se è costretto a camminare con una stampella perché si è fatto male giocando a tennis nel campo di un albergo della Cinquantasettesima strada a Manhattan, dove mi ha dato appuntamento per un caffè e quattro chiacchiere su un tema di attualità culturale come il fenomeno dei corsi di scrittura creativa, di cui è un veterano con quasi mezzo secolo di esperienza. L’idea è nata quando Richard Ford, in una conversazione recente, mi ha detto che il primo a insegnargli a scrivere è stato E.L. Doctorow. E Ford ha appena compiuto 70 anni.
Lei, Doctorow, deve essere il professore più di lungo corso dei master di «creative writing». Quando ha cominciato?
«Ho cominciato nel ‘69, quando stavo scrivendo Il libro di Daniel e ho capito di essere a un bivio. O continuavo la carriera che avevo intrapreso nell’editoria dieci anni prima — ero direttore editoriale della “Dial Press” — o diventavo uno scrittore. E in quel momento mi è piovuto dal cielo un invito a insegnare alla University of California, Irvine: un lavoro che mi avrebbe permesso di scrivere. Ho messo moglie e bambini in macchina e abbiamo attraversato il Paese. Era il mio primo incarico di insegnante e nella mia classe c’era Richard Ford. E ho pensato. Caspita! È facile insegnare! Sono bravi questi studenti!», ride.
E poi?
«Poi ho insegnato a varie riprese: Princeton, Yale, Sarah Lawrence College… E ho scoperto che era un lavoro che non interferiva con la scrittura perché potevo dedicare la mattina ai miei libri e il pomeriggio a insegnare».
Tra le università in cui è stato professore, non ha nominato la New York University (Nyu), di cui è da anni la stella più brillante…
«Questa è una storia buffa», sorride. «La NYU mi aveva invitato a insegnare solo un corso temporaneo. Poi un giorno mi chiama il presidente dell’università e mi dice: abbiamo ricevuto un grosso finanziamento per una cattedra nel dipartimento di inglese, a condizione che questa cattedra sia in permanenza affidata a te. E io ho pensato: questo è un errore. Nessuno scrittore dovrebbe prendere un impegno simile. Ma quando ho cercato di spiegare le mie ragioni ho visto che il presidente faceva una faccia disperata. Edgar, mi ha detto alla fine, tu non capisci: se tu muori domani noi continueremo ad avere la cattedra e i soldi lo stesso», e scoppia in una risata.
Che cosa insegna esattamente alla Nyu?
«Un corso che si chiama “Artigianato della scrittura” in cui studiamo opere importanti di epoche e stili diversi, per insegnare agli studenti come leggono gli scrittori. Quest’anno il programma comprende Von Kleist, Kafka, Edgar Allan Poe, Virginia Woolf, Sebald, Faulkner e Mark Twain. È scioccante scoprire quanto poco siano letti questi scrittori».
Ma per anni ha insegnato scrittura creativa. Un’invenzione tutta americana…
«Sì, è una cosa che è nata qui alla fine della Seconda Guerra mondiale, per via del GI Bill (una legge che permetteva ai veterani di frequentare l’università gratis, ndr ). Grazie a questa legge molte persone che non avrebbero potuto andare all’università hanno avuto invece questa possibilità. Parlo di romanzieri ma anche di poeti. E quando un poeta usciva dall’università con un dottorato, aveva la possibilità di trovare un lavoro insegnando ai giovani poeti in erba. O ai romanzieri in erba. E così l’università americana è diventata lo sponsor ufficiale della letteratura del Paese».
Quanto sono utili davvero questi corsi?
«Molti ragazzi che frequentano i master di scrittura creativa non diventeranno mai seriamente scrittori. Diciamo che su una classe di quindici persone, ne hai due o tre bravi, quattro o cinque che diventeranno giornalisti, e altri due o tre che avevano solo bisogno di una psicoterapia», ride ancora mentre sorseggia il suo espresso decaffeinato.
Ma non le pare che questo sistema di insegnamento abbia cambiato il modo in cui oggi si scrive in America?
«Sì, nel senso che gli studenti ne escono tecnicamente più intelligenti dei loro predecessori che erano formati dai giornali. Ma sono anche più timidi, meno disposti ad abbracciare il mondo intero. E questo a causa della natura accademica della formazione. D’altro canto, i master di scrittura creativa sono diventati un modo di finanziare l’industria editoriale. Ai vecchi tempi un editore individuava un talento e poi doveva mantenerlo in vita per tre anni perché producesse qualcosa. Oggi gli editor valutano manoscritti già approvati da insegnanti che spesso sono scrittori affermati. E questa è una manna per l’industria editoriale. È anche un sistema che genera grossi profitti per le università».
Allora tutti ci guadagnano e non ci rimette nessuno?
«No. Un pericolo c’è. Quello principale è che qualcuno prenderà un diploma, pubblicherà un libro e poi troverà un lavoro in qualche college, dove insegnerà ad altri come lui a diventare scrittori-insegnanti. Il che crea una sottocultura che non ha niente a che vedere con la vita letteraria, ma ha a che vedere con insegnanti che scrivono, e che insegnano ad altre persone a diventare insegnanti che scrivono. E non c’è niente che si possa fare a riguardo».
Il sospetto è anche che questi corsi abbiano creato una generazione di scrittori più addomesticata della precedente, con meno grinta, più secchiona…
«No, su questo non sono d’accordo. Io penso che ci siano più veri scrittori trenta o quarantenni oggi, di quanti ce ne fossero quando ho cominciato io. C’è più vivacità, più azione. E più diversità di voci. E questo forse perché non c’è una guerra a tenerli insieme. Lei sta pensando alla crema, ai Bellow, Mailer, Styron, Vonnegut e Cheever, che la guerra ha tirato su, in un certo senso. Ma non sa quanti loro coetanei oggi sono dimenticati. Aspetti vent’anni e vedrà quanti nomi di questa nostra epoca saranno ancora in circolazione».