sabato 1 marzo 2014

il Fatto 1.3.14
Civati continua il corteggiamento degli esuli M5s

IL SIPARIO non è ancora calato, ma si è interrotta con il fine settimana anche l’assemblea permanente nella quale si era chiuso il Movimento 5 Stelle. Restano i quattro senatori espulsi e gli altri cinque dimissionari in attesa di sapere se le dimissioni verranno accolte dal parlamento o, come prassi, respinte. Ieri sull’a rgo - mento è tornato Pippo Civati, il deputato del Pd che negli ultimi mesi ha tentato di accreditarsi come interlocutore primario del Movimento: “È presto per parlare di nuova maggioranza e poi Renzi è convinto di Alfano. Ma c’è un problema alla sinistra del Pd grande e largo, c’è un subbuglio nell’M5S e un dibattito in Sel che ci fa pensare ci possa essere qualcosa di diverso”.
Civati attraverso una delle sue senatrici è stato sicuramente protagonista all’interno del dissenso tra i “grillini”: si sono incontrati, hanno parlato più volte di strategie, alleanze e questo è stato anche uno dei motivi che ha scatenato l’espulsione. Sulla quale né Grillo né Casaleggio hanno fatto capire di voler tornare indietro: “Non vogliamo dialoghi sotterranei”, hanno detto. “Sono cose da politicanti, non da 5 stelle”. (e.l.)

Corriere Tv 1.3.14
Civati al sindaco di Parma Pizzarotti: «Se fossi nei 5 Stelle mi avrebbero espulso»
Incontro a Milano nella «Libreria del Mondo Offeso» per la presentazione del libro di Marta Serafini, «Il primo cittadino»
di Nino Luca

qui
 

l’Unità 1.3.14
Renzi e l’arte di creare la domanda di se stesso
di Hamilton Santià


I PRIMI GIORNI DEL GOVERNO RENZI HANNO VISTO IL DIBATTITO INTERESSARSI PRINCIPALMENTE ALLE COMPONENTI STILISTICHE E FORMALI DELLO «SHOCK CULTURALE». Al di là degli aspetti collaterali che hanno riguardato ironie varie sui ministri (dalla barba di Franceschini come elemento fondamentale per diventare ministro della Cultura, al vestito di Maria Elena Boschi), la maggior parte della comunicazione si è concentrata sul corpo del capo.
Renzi fa questo e quello, Renzi arriva a piedi o in macchina, Renzi parla con questo e con quello, si mette le mani in tasca e non le manda a dire, Renzi beve il caffè. Una sorta di pornografia dell’informazione che estremizza la disgregazione del confine tra informazione e intrattenimento. L’infotainment è ormai l’unico modo per parlare di politica e Renzi pare essere risultato ultimo e perfetto di un processo che ha perfezionato l’offerta a questa domanda. Inutile pensare che Matteo Renzi faccia qualcosa a caso. Chi pensa all’ingenuità dei biglietti a Di Maio prende un granchio. Non c’è niente nel gergo, nella gestualità e nei comportamenti del nuovo presidente del Consiglio di avventato. La strategia della vicinanza, il populismo «soft», opposto al populismo «hard» di Beppe Grillo, il reiterare ossessivo sul fare come risposta ai bisogni profondi di un Paese (come se i problemi politici italiani fossero ascrivibili alla solo mancanza di volontà): tutto suggerisce la costruzione perfetta di una macchina di consenso trasversale, che guarda oltre i contenitori di riferimento (il Partito democratico, in quanto post-ideologico e vuoto, è la piattaforma ideale) per creare contatto empatico con te. Sì, proprio con te. Renzi detta l’agenda della comunicazione sia che tu sia a favore, sia che tu sia contro. Sfruttando una conoscenza profonda dei mass media, delle logiche di intrattenimento e dei tempi per dire le cose giuste (o sbagliate) al momento giusto, Matteo Renzi è riuscito a costruire la «domanda» di se stesso. La profezia auto-avverata.
In un’interessante analisi pubblicata sulla rivista South European Society and Politics dal titolo Matteo Renzi: A «Leftist Berlusconi » for the Italian Democratic Party?, Fabio Bordignon legge le strategie comunicative renziane come ultimo capitolo della «rivoluzione postmoderna» che in politica ha visto la sua esplosione con Silvio Berlusconi e il suo radicamento in Beppe Grillo. Trasversalità, sentimento, simbolismo, personificazione della lotta e metaforizzazione del nemico come entità astratta. Una grande macchina che produce la stratificazione di un messaggio che, scarnificato, si riduce sempre a un ipotetico noi contro un altrettanto ipotetico loro (e l’aleatorietà di questo messaggio è dimostrata dalla composizione del nuovo esecutivo).
Lo «shock culturale» renziano va ridimensionato: non è un cambio di paradigma - cioè uno di quegli eventi talmente importanti capaci di segnare un passaggio tra varie fasi (la caduta del Muro di Berlino, Tangentopoli, l’11 Settembre) - ma la manifestazione, sotto altre forme, e in altri luoghi, di un modello consolidato e perfezionato. Renzi è post-moderno perché l’Italia vive con almeno quindici anni di ritardo rispetto al naturale corso degli eventi. Il blairismo del fiorentino è efficace perché rappresenta un’uscita dagli anni Ottanta per entrare finalmente negli anni Novanta. Solo che siamo nel 2014 e il mondo sembra andare da tutt’altra parte (vedi la vittoria di De Blasio a New York o l’affermazione di un leader «debole» come Miliband nel Labour inglese).
Matteo Renzi non è l’uomo che fa scoppiare la «bolla» in cui l’Italia è immersa: ha sostituito una necessità con un’altra. Proiettando su di sé le aspettative, i successi, i fallimenti e i bisogni di un Paese che non riesce a lavorare di squadra ma vuole proiettarsi in un individuo che rappresenta perfettamente il me stesso ideale: Renzi fa le cose che farei io se fossi al governo quindi è come me, ma meglio perché le fa. L’assoluta potenza di questo tipo di leadership, dimostrata dall’annullamento del contraddittorio all’interno del Partito democratico (i «no» in direzione sono stati 16, civatiani), rende il gioco di Renzi rischioso perché è un film già visto. La politica del nervo scoperto, della frenesia adrenalitica, del riformismo spinto e veloce, della liquidazione di ogni rallentamento come burocratese (quando in realtà sarebbe semplice dialogo). Tutte fotografie che ben rappresentano gli ultimi vent’anni di storia repubblicana e che non siamo ancora pronti ad archiviare.

Repubblica 1.3.14
L’amaca
di Michele Serra


Tutti lì a scrutare Renzi con ansia eccessiva, come se da lui solo davvero dipendessero le sorti di un Paese ansante e depresso. Il vantaggio della “vecchia politica” era che le responsabilità parevano (e forse erano) ben più spalmate sulla società intera: dunque su tutti noi. Le classi sociali, i partiti di massa, i sindacati, i padroni erano magari un'approssimazione; ma efficace. Ognuno, in quella mappa sterminata, aveva l'impressione di riconoscere il suo puntino, il suo “io sono qui”.
Questa idea dell'uomo solo che redime oppure danna una Nazione è il frutto più indigesto della politica nuova; ed è un'idea di destra in sé, anticollettiva, antipartecipativa. Non è colpa di Renzi, né è stato colpa di Bersani il fallimento dell'estremo tentativo di un partito “senza leader”, plurale. Quel tentativo piaceva a noi di vecchia scuola perché ci restituiva l'illusione della politica come grande architettura di massa. Se non funziona più così, se i riflettori sono puntati sulla mano in tasca di Renzi come prima sul predellino di Berlusconi è perché la mediaticità è diventata la natura stessa della politica; il suo essere prima di tutto comunicazione e show. La realtà è altrove. Ogni tanto batte un colpo, anche in assenza di troupe televisive.

Corriere Tv 1.3.14
Crozza-Renzi e le prove del discorso di fiducia

un breve video qui


il Fatto 1.3.14
Renzi-Carrai, lo strano affare dell’aeroporto

PRIMA OPERAZIONE “di sistema” per il renzismo: il gruppo argentino Cedicor ha comprato il 33,4 per cento dell’aeroporto di Firenze (Adf) per 13,42 euro ad azione, come scrive Dagospia. Il presidente di Adf è Marco Carrai, uno dei collaboratori più stretti di Matteo Renzi. A vendere è stato soprattutto Vito Gamberale, con Aeroporti Holding, una società in cui Gamberale è presente con il fondo F2i assieme a Intesa Sanpaolo. La Cassa di risparmio di Firenze, di cui è stato presidente Jacopo Mazzei (banchiere che molto ha sponsorizzato Renzi), è azionista sia di Intesa Sanpaolo che di Adf, con il 17,5 per cento. A capo di Cedicor c’è Eduardo Eurnekia, imprenditore che ben conosce l’Italia e il nostro settore aeroportuale, visto che ha detenuto quote nella Sea, gli aeroporti di Milano (vicenda molto confusa ), e in Volare, compagnia aerea poi finita in bancarotta. Nel 2010 voleva acquistare Telecom Argentina da Telecom Italia, nell’ambito di una operazione che coinvolgeva mediatori italiani e su cui poi la Procura di Roma ha aperto una indagine.

La Stampa 1.3.14
Le mosse di Berlusconi
Il sogno del Cavaliere: patto con Renzi per riabilitare l’onore
Il berlusconiano “Chi”: “Silvio e Matteo mai così vicini”
Lodi sperticate sui giornali di area
di Ugo Magri

qui

Repubblica 1.3.14
Matteo teme la trappola “Subito l’Italicum”
di Francesco Bei


SULL’ITALICUM dobbiamo andare veloci, non possiamo aspettare». Matteo Renzi ha fiutato la trappola. La prossima settimana, quando la riforma elettorale arriverà in aula, palazzo Chigi rischia la sua prima sconfitta parlamentare. Non è un caso se, nelle conversazioni private di queste ore, il premier abbia più volte fatto riferimento a «manovre contro il governo» da parte di forze trasversali.
INEDITE alleanze (anche con la complicità di una parte di Forza Italia ostile a Denis Verdini) che potrebbero mettere a rischio l’intesa raggiunta con Berlusconi. «C’è chi vuol far fallire tutto».
Il punto decisivo, il vero terreno di scontro su cui si giocherà la battaglia finale - oltre alle soglie, agli sbarramenti, alle preferenze, all’algoritmo per il calcolo dei voti - è l’ormai famoso emendamento presentato dal deputato del Pd Giuseppe Lauricella, area Cuperlo, che rinvia l’entrata in vigore dell’Italicum all’approvazione della riforma del Senato. Un condizionamento «inaccettabile » per Renzi, che si vedrebbe privato dell’unica arma a sua disposizione - il possibile ricorso alle urne - per “domare” una maggioranza riottosa ed eterogenea. E tuttavia, sull’emendamento Lauricella, si sta compattando un fronte ampio trasversale. Ne fanno parte i piccoli partiti, tutta l’ala sinistra del Pd e, soprattutto, l’Ncd di Alfano. Il neo coordinatore del partito, Gaetano Quagliariello, non è disposto a mediazioni: «Dal Lauricella non se ne esce, ormai è diventato un simbolo. La razionalità dice che non si può votare con una legge che, in teoria, può portare a due ballottaggi diversi tra Camera e Senato». Secondo Quagliariello in questo modo si andrebbe anche contro la sentenza della Consulta, che ha imposto il principio della «governabilità », rendendo di fatto tutto l’Italicum - se applicato a Camera e Senato - «incostituzionale ». Così, in una riunione tenuta dal vertice Ncd giovedì sera, alla presenza di Alfano, si è deciso di alzare una barricata invalicabile. Gli alfaniani ricordano che proprio sulla contestuale entrata in vigore dell’Italicum e della riforma del Senato furono date «ampie rassicurazioni » da parte di Franceschini e Guerini durante la trattativa che portò all’intesa sulla riforma elettorale: «Adesso Renzi non si può rimangiare la parola data». Il timore, ovviamente, è che il premier, appena incassata la nuova legge, trascini subito il paese alle urne d’accordo con Berlusconi. Un sospetto rafforzato dalla dichiarazione fatta ieri dal Cavaliere: «Dobbiamo prepararci alle elezioni. Io non penso si arriverà al 2018, penso che tra un anno, un anno e qualche mese, quando si sarà fatta finalmente la legge elettorale, come promesso dal presidente del consiglio attuale, si potrà andare a votare».
Lo scontro sul Lauricella da martedì si sposterà sulle procedure di voto. Per gli alfaniani è infatti pacifico che l’emendamento si possa votare, su richiesta, a voto segreto. I renziani, al contrario, sostengono che, essendo una norma transitoria, si debba procedere a voto palese. In questo modo impedendo quelle «manovre trasversali» paventate dal premier. La decisione in merito è nelle mani della presidente della Camera, Laura Boldrini, che in queste ore è al centro di pressioni opposte da parte dell’uno e l’altro schieramento. Renzi intanto attraverso i suoi ambasciatori - tra cui si segnala il ministro delle riforme Maria Elena Boschi - sta facendo sapere ai “lauricelliani” che il governo potrebbe accedere a una soluzione mediana. Un compromesso che non vincolerebbe l’entrata in vigore dell’Italicum all’approvazione della riforma costituzionale, ma si limiterebbe a sospendere la nuova legge per qualche mese. Per esempio fino all’inizio del semestre europeo. Niente di più. Anche perché il premier ha compreso che la legge elettorale è parte di quel pacchetto di riforme su cui le cancellerie lo giudicheranno, è un tassello del suo processo di accreditamento europeo. Nelle prime telefonate dopo aver ricevuto l’incarico, quelle fatte con il primo ministro britannico David Cameron e con la Cancelleria tedesca Angela Merkel, se ne è parlato esplicitamente. L’Europa si aspetta una riforma che garantisca all’Italia un governo certo e una maggioranza solida. A palazzo Chigi parlano di una richiesta pressante di «accountability», di affidabilità, di cui l’Italicum è una parte importante. E Renzi ha bisogno di incassare la riforma prima dell’inizio del semestre europeo, per potersi presentare «con i compiti a casa fatti» e provare così a strappare una maggiore flessibilità nel rapporto Deficit/Pil. Una condizione essenziale per far ripartire gli investimenti.

Corriere 1.3.14
La doppia maggioranza del leader
Le larghissime intese necessarie a Renzi per non franare alla prova dell’Aula
di Francesco Verderami


A Renzi serve la doppia maggioranza per evitare che in Parlamento si formi la doppia opposizione, vissuta dal premier come un’autentica minaccia. Ecco il motivo che l’ha indotto a stringere l’intesa sulle riforme con Berlusconi, conscio che, se Forza Italia si saldasse all’ostruzionismo dei Cinquestelle, il governo finirebbe per impantanarsi nelle Aule.
L’agibilità parlamentare è un vero cruccio per il presidente del Consiglio, già costretto a caricarsi l’onere di alcuni decreti ricevuti in eredità da Letta e sui quali aveva espresso giudizi a dir poco negativi. Il «caso salva Roma» è stato solo il primo intoppo, il resto deve ancora venire. Ma il problema di Renzi è come assicurare un iter veloce ai suoi provvedimenti, e certo la riforma dei regolamenti parlamentari — citata nel discorso per la fiducia — se mai fosse varata non arriverebbe in tempo utile per i primi mesi del suo governo, i più importanti, perché gli servono per far dimenticare il peccato originale della «staffetta» e per lanciarlo verso le Europee.
Il test elettorale di primavera sarà determinante per il premier, anche per soffocare la resistenza interna al Pd. Ma un conto sarà arrivarci dovendo fronteggiare solo Grillo e i suoi parlamentari, altra cosa sarebbe se anche Berlusconi portasse i suoi deputati e senatori sulle barricate. Il modo «responsabile» con cui (per ora) il Cavaliere promette di fare opposizione al governo è legato agli impegni che il premier ha assunto con il capo di Forza Italia. E ieri in Consiglio dei ministri molti rappresentanti dell’esecutivo — compresi alcuni democratici — hanno avuto la netta sensazione che il patto c’è e (per ora) regge.
Quando il Guardasigilli Orlando ha letto la lista dei sottosegretari assegnati al suo dicastero, ha chiesto conto a Renzi: «È rimasto Ferri, allora al Nuovo centrodestra non sono toccati nove posti, ma dieci». In effetti Ferri — ex esponente di Magistratura Indipendente — era giunto in via Arenula con il governo Letta su indicazione di Berlusconi. E al momento della scissione nel Pdl — pur non aderendo a Ncd — non si era dimesso: «Sono un tecnico», aveva spiegato. Il neo ministro della Giustizia pensava tuttavia che fosse stato Alfano a indicarlo, ed è rimasto a bocca aperta quando si è sentito rispondere da Renzi: «No, è una roba di Firenze... L’ho scelto io». E infatti, a legger bene, sul foglio delle nomine c’era scritto in piccolo: «Tecnico/Pd».
Da quel momento è stato tutto un pissi-pissi nel salone di Palazzo Chigi, su quale definizione dare all’esecutivo: la più gettonata è stata «governo delle larghissime intese». È un «governo politico», ha sorriso il capogruppo di Ncd Sacconi, come a evocare i gabinetti della Prima Repubblica, quelli dove le scelte venivano fatte misurando la forza dei partiti e delle loro correnti. Ognuno ieri si è sentito soddisfatto, compreso Alfano, che ai suoi ha spiegato come Renzi — completando la squadra — abbia «dato prova di rispettarci».
I rapporti tra il premier e il titolare dell’Interno sembrano (per ora) marciare, così raccontano i ministri centristi presenti al dibattito sull’addizionale della Tasi. Tema spinoso per Ncd, visto che Forza Italia ha subito iniziato a sparare sull’aumento delle tasse sulla casa. Ma l’approccio di Lupi in Consiglio è stato conciliante: «...Mi raccomando però di spiegarlo bene alla stampa. I comuni che vorranno applicare l’aumento dell’otto per mille, dovranno aumentare anche le detrazioni». E il presidente del Consiglio ha condiviso il ragionamento del ministro delle Infrastrutture.
Ma il vero banco di prova per la tenuta della maggioranza di governo tra Pd e Ncd arriverà la prossima settimana alla Camera, quando sulla legge elettorale verrà messa alla prova la tenuta della maggioranza per le riforme tra il premier e il Cavaliere. «Sulla legge elettorale Renzi ha già un patto con noi», assicura Alfano. Sarà, però nel discorso per la fiducia a Montecitorio, è stato proprio Renzi a dire: «Manterrò gli impegni con tutti», rivolgendosi ai banchi di Forza Italia. Il nodo è il famoso emendamento Lauricella, che rimanda l’entrata in vigore della legge elettorale alla riforma del Senato. Attorno a quella modifica, che è stata ribattezzata «norma salva-legislatura», già si notano strane manovre, e la richiesta di farla «comunque» votare a scrutinio palese.
Non è dato sapere al momento da chi arriverebbe questa richiesta. È certo che sulla questione la presidente della Camera Boldrini ha già messo al lavoro gli uffici di Montecitorio: ma il caso — per quanto tecnico — è anzitutto politico. Se l’emendamento venisse votato a scrutinio palese, infatti, Renzi sarebbe costretto a prendere posizione, e dovrebbe abbandonare l’ambiguità che ha salvaguardato finora la sua strategia della doppia maggioranza. Il voto a scrutinio segreto, invece, garantirebbe al premier la possibilità di affidare il destino dell’emendamento ai giochi d’Aula. Giochi nei quali entrerebbe anche di un pezzo di Forza Italia...
Ecco il primio bivio per Renzi, che ambisce alla doppia maggioranza per non dover contrastare una doppia opposizione. D’altronde, ora che è diventato presidente del Consiglio, ha concentrato su di sé la cabina di regia sul governo e sulle riforme. Perciò starà a lui sciogliere questi nodi, sapendo che se non ci riuscisse potrebbe rimanere impigliato in uno dei due.

l’Unità 1.3.14
Il congresso Pse a Roma «La sfida è al populismo»
Accolta all’unanimità la richiesta di adesione presentata dal Pd
D’Alema: «Siamo l’unica alternativa a tecnocrazia e austerity»
di Umberto De Giovannangeli


Una data da segnare in rosso. Per molteplici ragioni. La prima uscita da premier, e segretario del Pd, di Matteo Renzi in assise internazionali. L’ufficializzazione della candidatura di Martin Schulz alla presidenza della Commissione europea; una scelta, quella dell’attuale presidente dell’Europarlamento, rafforzata dalla presenza, con tutta probabilità, del suo nome nella scheda elettorale alle elezioni europee del 25 maggio. Basta e avanza per fare del congresso del Pse a Roma un evento politico di straordinaria importanza. Un congresso chiamato a ratificare la decisione, presa all’unanimità ieri, dell’Ufficio di presidenza del Pse di accogliere la richiesta di adesione del Pd come «full member». Basta e avanza per fare del congresso del Pse un evento politico di primaria importanza.
A darne conto sono il parterre e la tribuna del Palazzo dei Congressi: a Roma si ritrovano leader di partiti socialisti, socialdemocratici, progressisti che governano in 18 dei 28 Paesi dell’Ue (Francia, Germania, Italia, Austria, Grecia, Romania, Malta, Belgio, Olanda, Danimarca, Finlandia, Irlanda, Lituania, Slovenia, Lussemburgo, Repubblica Ceca, Slovacchia). Il clou è oggi, con la sessione plenaria a cui saranno presenti tutti i nomi di punta del socialismo europeo. Ma il lavoro di elaborazione ha segnato la giornata di ieri con workshop tematici al Palazzo dei Congressi, l’incontro del vertice dell’associazione culturale del Pse, la Feps, il vibrante summit delle donne del Pse (il cambiamento è tale se si coniuga al femminile), momenti di riflessione sui temi più caldi che saranno al centro della campagna elettorale: una economia progressista per la crescita, il lavoro ed i diritti sociali, l’immigrazione, sicurezza e difesa, lotta ai populismi.
SFIDA PER IL CAMBIAMENTO. Il congresso di Roma sancisce anche l’ingresso ufficiale del Partito democratico nella famiglia del socialismo europeo. Un ingresso dalla porta principale, consono ad un partito che, da oggi, diviene per rappresentanza il secondo gruppo dopo la Spd tedesca. A concludere i lavori del congresso saranno Matteo Renzi - che ieri ha incontrato a Palazzo Chigi il vice cancelliere tedesco Sigmar Gabriel e i primi ministri di Romania, Malta, Austria e Belgio - e Martin Schulz. «Che il primo impegno internazionale di Renzi sia quello di presentare il candidato alle europee del Pse è un gesto incredibilmente incoraggiante », annota Julian Priestley, consigliere speciale di Schulz e coordinatore del suo tour elettorale. «Non si può parlare di disimpegno nei confronti dell’Europa, anzi - rileva Priestley - quello che ha fatto Renzi è un segnale del profondo interesse dell’Italia nelle questioni europee. Siamo molto ottimisti ».
A rilanciare la sfida del cambiamento è Massimo D’Alema. «A Renzi consiglierei di stare attento ai pop corn, lo vedo un po’ soprappeso». A margine dei lavori del congresso del Pse, l’ex premier replica con ironia al presidente del Consiglio, che l’altro ieri con una battuta aveva detto di essere pronto ad assistere «con i pop corn in mano all’epico scontro tra D’Alema e Fioroni » sul tema dell’adesione del Pd al Ppe.
Battute a parte, D’Alema afferma di ritenere la tradizione culturale del cattolicesimo democratico, di cui Beppe Fioroni si sente erede, non estranea alla storia del socialismo: «Lo dimostrano personalità come Jacques Delors e Antonio Guterres: c’è una storia del cattolicesimo sociale e democratico, che ha molto a che fare con la storia del socialismo. Quanto alle prossime elezioni europee, D’Alema ha detto di augurarsi «che siano imperniate sull’Europa e non una somma di elezioni nazionali ».Apreoccupare l’esponente democratico è soprattutto il possibile mix derivante da una diserzione delle urne «da parte di quelli che nell’Europa non ci credono più e una partecipazione di quelli molto arrabbiati con l’Europa. Se si sommassero questi due elementi, il risultato sarebbe molto negativo, direi devastante. Otterremmo l’effetto contrario di quanto da molti auspicato: un Parlamento europeo debole e disgregato lascerebbe infatti tutto nelle mani della signora Merkel». D’Alema partecipa assieme a Stefano Rodotà a uno degli workshop più seguiti e di stretta attualità: quello sui populismi. «Di fronte all’assedio delle forze populiste, il Pse correrebbe un rischio mortale, se facesse un patto con le forze moderate europeiste», avverte il presidente della Feps. «Quello - aggiunge D’Alema - è un terreno in cui il Pse si troverebbe accerchiato con uno spazio politico eroso. Bisogna, invece, rendere più forte e netta la dialettica tra destra e sinistra». Alla domanda su cosa accadrà a giugno, se né il Pse né il Ppe avranno il 51% dei seggi nell’Europarlamento, D’Alema risponde: «Il Pse deve presentare se stesso e Martin Schulz come un’alternativa all’Europa tecnocratica e dell’austerità. Più la sinistra si distinguerà in questo campo, più si ridurranno gli spazi per il voto di protesta, che risulterebbe inutile». Per le prossime elezioni europee, D’Alema vede il rischio «di una bassa partecipazione degli elettorati tradizionali e un’alta motivazione per coloro che spingono per il voto di protesta. Il rischio è quello di avere un Parlamento frammentato. Il Pse deve dire chiaramente no all’austerità, che è una scelta politica sbagliata. Obama fa un’altra politica. L’Europa, intesa come comunità politica, non sta insieme intorno alla regola del 3%. L’Europa dei governi viene percepita come l’Europa dei governi più forti. Il risultato è terribile, perché così risorgono i nazionalismi».
MARTIN ALL’ATTACCO «Angela Merkel non è mia moglie...». Con questa battuta e in attesa dell’“incoronazione” di oggi Martin Schulz ha fotografato i suoi rapporti con la cancelliera tedesca durante il suo incontro di ieri con la Presidenza del Pse.
«Io - ha proseguito Schulz - rappresento una Germania responsabile ed europea, molto diversa da quella della signora Merkel, che ha il voto solo di una minoranza dei miei connazionali. Noi lottiamo per i diritti sociali, la crescita e gli investimenti, siamo contrari al capitalismo selvaggio».
«Soprattutto – ha concluso il presidente dell’Europarlamento - vogliamo un’Europa dove i ricchi e i poveri abbiano gli stessi diritti. Questo deve valere sia per i cittadini sia per i Paesi membri della Ue». Coniugare crescita e giustizia sociale, investire su formazione, nuove tecnologie, green economy, grandi infrastrutture, puntando su giovani e donne. È l’Europa del futuro, vista da sinistra. È il socialismo del Terzo millennio, quello del «Manifesto di Roma ».

il Fatto 1.3.14
Il senso di Renzi per il socialismo
Il Pd aderisce ufficialmente al Pse
La “famiglia” europea ristabilirà il bipolarismo che interessa al premier
di Salvatore Cannavò


L’appuntamento più importante è previsto per oggi ma la decisione è giunta ieri. La presidenza del Partito del socialismo europeo (Pse), infatti, ha accolto all’unanimità la richiesta di adesione del Pd. Che da oggi fa parte a pieno titolo della “famiglia” socialista. Il Pse non ha alcun potere, è soprattutto uno “spazio” di coordinamento dei grandi partiti nazionali, in particolare quelli di Germania, Francia e Gran Bretagna. Ma prima di ogni Consiglio europeo, si tiene il Consiglio dei premier socialisti che concordano una posizione comune. Renzi ora ne farà parte a pieno titolo. Se si vuole giocare una partita europea bisognava decidersi di entrarci.
QUESTA VICENDA, però, non si riduce a una questione di prestigio. Anche quello, visto che ormai è avviata la campagna per le elezioni europee del 25 maggio in cui il Pse ha imposto l’indicazione del candidato alla presidenza della Commissione. Martin Schulz, presidente dell’Europarlamento è il nome designato e il Pse, se avrà il maggior numero di seggi a Strasburgo, lo designerà al posto di Manuel Barroso, a novembre, quando si rinnoverà la Commissione. Ma il punto che più sta a cuore al neo-presidente del Consiglio italiano è quello di poter costruire un modello politico bipolare che possa valere anche per l’Italia. La scelta della famiglia socialista, contrapposta a quella popolare, significa soprattutto questo. L’ideologia c’entra poco. “L’obiettivo finale - spiega al Fatto Giacomo Filibeck, che per il Pd ha lavorato all’evento, al fianco della neo-ministra degli Esteri, Federica Mogherini - è quello di un centrosinistra europeo e di un’alternanza a livello europeo con i popolari”. Prospettiva che si lega al progetto di riforma elettorale pensato da Renzi, quello che permetterebbe la piena alternanza anche in Italia: “Se facciamo l’Italicum, conferma ancora Filibeck, avremmo finalmente una corrispondenza. Se uno pensa di superare davvero le larghe intese, ancorarsi a una famiglia europea è essenziale. Rimanere nell’ambiguità non aiuta”.
IL LIVELLO “IDEOLOGICO” in ogni caso resta sullo sfondo. Il socialismo europeo, oggi, è un “campo frammentato”, per usare la parole di Sergio Cofferati, parlamentare europeo del Pd. Dopo i fasti della “terza via” di Tony Blair e la contestuale caduta del “socialismo mediterraneo” rappresentato dallo spagnolo Zapatero, dopo “blairismo” e “anti-blairismo” le idee oggi sono diventate molto più confuse.
In Francia, François Hollande è in difficoltà e questo anima una componente di opposizione incarnata dalla “nemica” Martine Aubry. In Germania continua una decadenza elettorale progressiva nonostante Schulz. In Gran Bretagna occorrerà vedere se l’alleanza del Labour di Ed Miliband con i sindacati darà risultati. E in Italia c’è Renzi. “Su cui c’è curiosità, perplessità e attesa” confessa Cofferati.
Lo schema di riferimento è un “centrosinistra europeo” per superare l’austerità. La campagna del Pse, ispirata a Barack Obama e che si chiamera Knock the door, bussa alla porta, è stata ieri annunciata a Roma dallo stesso Schulz con queste parole: “Non vogliamo l’Europa delle banche, dei mercati finanziari senza controllo, vogliamo un’Europa giusta, equa, democratica”. Si guarda a sinistra e non al centro (anche se nessuno mette in discussione il Fiscal compact). Ma resta l’incognita delle elezioni. È Massimo D’Alema, infatti, ad avvertire del rischio che il successo dei populismi possa costringere il Pse “ad allearsi con il conservatorismo, un terreno sul quale verremmo accerchiati”. L’ex rottamato, rimesso in gioco dalla scena europea, propone di non dire “più Europa”, che per molti significa il taglio del welfare, ma “un’Europa diversa”. E a Renzi, che diceva di voler assistere “con i popcorn allo scontro tra D’Alema e Fioroni”, risponde ridendo: “Stia attento con i pop corn, lo vedo sovrappeso”.

l’Unità 1.3.14
Dedicato a chi non vuol morire socialista
di Nicola Cacace


IL 15 NOVEMBRE 1959 I SOCIALISTI TEDESCHI  SI RIUNIRONO A BAD GODESBERG PER APPROVARE UN NUOVO STATUTO, CHE AFFONDAVA le sue radici nell’etica cristiana e nei valori dell’umanesimo, che difendeva libero mercato e stato sociale, valori tuttora dominanti nel socialismo europeo. Vorrei rileggere con Beppe Fioroni e Matteo Richetti alcuni passi di quel documento, perché possano vivere più tranquilli da qui all’eternità.
Incipit. «Il socialismo democratico, che in Europa affonda le sue radici nell’etica cristiana e nell’umanesimo, non ha la pretesa di annunciare verità assolute, non per indifferenza riguardo alle diverse concezioni della vita o verità religiose, ma per rispetto delle scelte individuali in materia di fede, scelte sul cui contenuto né lo Stato né un partito hanno il diritto di decidere. L’Spd è un partito composto da uomini liberi provenienti da diversi indirizzi religiosi ed ideologici, la cui intesa si fonda sulla comunanza di valori etici fondamentali e di obiettivi di libertà, giustizia, solidarietà».
Ordinamento statale. «L’Spd propugna l’inclusione di tutta quanta la Germania in una zona europea di distensione nella quale gli armamenti siano sottoposti a limitazione controllata e dalla quale devono essere sgombrate le truppe straniere. In questa zona la fabbricazione, il deposito e l’impiego delle armi atomiche e di altri mezzi di sterminio dovranno essere aboliti».
Ordinamento economico-sociale. «La politica socialdemocratica in campo economico persegue il raggiungimento di un benessere crescente, una equa ripartizione del prodotto nazionale, una vita nella libertà senza sfruttamento. La politica economica deve assicurare la piena occupazione, accrescere la produttività ed aumentare il benessere collettivo. La libera scelta dei consumatori e del posto di lavoro, così come la libera concorrenza e la libera iniziativa, sono fondamento essenziale della politica economica socialdemocratica.
L’economia totalitaria annienta la libertà. Per questo l’Spd approva la economia di mercato ovunque esista effettiva concorrenza. Nel caso in cui taluni mercati siano monopoli naturali o dominati da singoli o da gruppi, si rendono necessarie misure per ristabilire la libertà economica: concorrenza nella misura del possibile, pianificazione nella misura del necessario. La proprietà privata dei mezzi di produzione deve essere incoraggiata nella misura in cui non intralci lo sviluppo di un equilibrato ordinamento sociale. La concorrenza mediante imprese pubbliche è un mezzo da usare per prevenire un dominio privato di settori del mercato o laddove, per motivi naturali o tecnici, prestazioni indispensabili ai cittadini possono essere fornite solo con mezzi pubblici.
Poiché l’economia di mercato non assicura di per sé una equa ripartizione di redditi e patrimoni, sarà necessaria una politica nazionale dei redditi e dei patrimoni».
Sistema di sicurezza sociale. «Ogni cittadino ha diritto a percepire dallo Stato un minimo di pensione per vecchiaia, disabilità al lavoro, morte di colui che gli assicura il sostentamento. Tutte le prestazioni sociali in danaro dovranno essere adeguate all’inflazione.
Poiché il singolo non può difendersi da tutti i rischi inerenti la salute, un sistema pubblico di protezione sanitaria è indispensabile. La durata del lavoro, a reddito invariato, deve essere gradualmente ridotta nella misura assicurata dal progresso tecnico e dalle libere scelte contrattuali.
La parità dei diritti della donna deve essere attuata realmente in senso giuridico, economico e sociale. Stato e società devono proteggere, favorire e rafforzare la famiglia e la gioventù».
Da partito della classe operaia a partito di popolo. «Le forze sociali che hanno diretto la costruzione del mondo capitalistico non sono in grado di assolvere, da sole, il grande compito della nostra epoca, socializzare e stabilizzare lo sviluppo economico. La loro è stata storia di grande sviluppo tecnico ed economico ma anche di disoccupazione di massa, guerre devastatrici, inflazioni esproprianti, diseguaglianze sociali ed insicurezza per i più. Perciò la speranza del mondo è un ordine fondato sui valori del socialismo democratico, che intende creare una società civile nel rispetto della dignità umana, una società libera dall’indigenza e dalle paure, da guerre ed oppressioni, in unità di intenti con tutti gli uomini di buona volontà».

l’Unità 1.3.14
Governo al completo ma c’è il nodo Giustizia
I casi Ferri e Gentile
di Claudia Fusani


IL 15 NOVEMBRE 1959 I SOCIALISTI TEDESCHI  SI RIUNIRONO A BAD GODESBERG PER APPROVARE UN NUOVO STATUTO, CHE AFFONDAVA le sue radici nell’etica cristiana e nei valori dell’umanesimo, che difendeva libero mercato e stato sociale, valori tuttora dominanti nel socialismo europeo. Vorrei rileggere con Beppe Fioroni e Matteo Richetti alcuni passi di quel documento, perché possano vivere più tranquilli da qui all’eternità.
Incipit. «Il socialismo democratico, che in Europa affonda le sue radici nell’etica cristiana e nell’umanesimo, non ha la pretesa di annunciare verità assolute, non per indifferenza riguardo alle diverse concezioni della vita o verità religiose, ma per rispetto delle scelte individuali in materia di fede, scelte sul cui contenuto né lo Stato né un partito hanno il diritto di decidere. L’Spd è un partito composto da uomini liberi provenienti da diversi indirizzi religiosi ed ideologici, la cui intesa si fonda sulla comunanza di valori etici fondamentali e di obiettivi di libertà, giustizia, solidarietà».
Ordinamento statale. «L’Spd propugna l’inclusione di tutta quanta la Germania in una zona europea di distensione nella quale gli armamenti siano sottoposti a limitazione controllata e dalla quale devono essere sgombrate le truppe straniere. In questa zona la fabbricazione, il deposito e l’impiego delle armi atomiche e di altri mezzi di sterminio dovranno essere aboliti».
Ordinamento economico-sociale. «La politica socialdemocratica in campo economico persegue il raggiungimento di un benessere crescente, una equa ripartizione del prodotto nazionale, una vita nella libertà senza sfruttamento. La politica economica deve assicurare la piena occupazione, accrescere la produttività ed aumentare il benessere collettivo. La libera scelta dei consumatori e del posto di lavoro, così come la libera concorrenza e la libera iniziativa, sono fondamento essenziale della politica economica socialdemocratica.
L’economia totalitaria annienta la libertà. Per questo l’Spd approva la economia di mercato ovunque esista effettiva concorrenza. Nel caso in cui taluni mercati siano monopoli naturali o dominati da singoli o da gruppi, si rendono necessarie misure per ristabilire la libertà economica: concorrenza nella misura del possibile, pianificazione nella misura del necessario. La proprietà privata dei mezzi di produzione deve essere incoraggiata nella misura in cui non intralci lo sviluppo di un equilibrato ordinamento sociale. La concorrenza mediante imprese pubbliche è un mezzo da usare per prevenire un dominio privato di settori del mercato o laddove, per motivi naturali o tecnici, prestazioni indispensabili ai cittadini possono essere fornite solo con mezzi pubblici.
Poiché l’economia di mercato non assicura di per sé una equa ripartizione di redditi e patrimoni, sarà necessaria una politica nazionale dei redditi e dei patrimoni».
Sistema di sicurezza sociale. «Ogni cittadino ha diritto a percepire dallo Stato un minimo di pensione per vecchiaia, disabilità al lavoro, morte di colui che gli assicura il sostentamento. Tutte le prestazioni sociali in danaro dovranno essere adeguate all’inflazione.
Poiché il singolo non può difendersi da tutti i rischi inerenti la salute, un sistema pubblico di protezione sanitaria è indispensabile. La durata del lavoro, a reddito invariato, deve essere gradualmente ridotta nella misura assicurata dal progresso tecnico e dalle libere scelte contrattuali.
La parità dei diritti della donna deve essere attuata realmente in senso giuridico, economico e sociale. Stato e società devono proteggere, favorire e rafforzare la famiglia e la gioventù».
Da partito della classe operaia a partito di popolo. «Le forze sociali che hanno diretto la costruzione del mondo capitalistico non sono in grado di assolvere, da sole, il grande compito della nostra epoca, socializzare e stabilizzare lo sviluppo economico. La loro è stata storia di grande sviluppo tecnico ed economico ma anche di disoccupazione di massa, guerre devastatrici, inflazioni esproprianti, diseguaglianze sociali ed insicurezza per i più. Perciò la speranza del mondo è un ordine fondato sui valori del socialismo democratico, che intende creare una società civile nel rispetto della dignità umana, una società libera dall’indigenza e dalle paure, da guerre ed oppressioni, in unità di intenti con tutti gli uomini di buona volontà».

Corriere 1.3.14
Presenze ingombranti
La lista delle amnesie
di Sergio Rizzo


Che in molti masticassero amaro dopo aver letto la lista di viceministri e sottosegretari lo davamo per scontato. Magari non ci si aspettava che a lamentarsi fosse pure un deputato di Fratelli d’Italia, Edmondo Cirielli.
Motivo, il sindaco democratico renziano di Salerno Vincenzo De Luca, in quell’elenco non c’è. «Matteo Renzi mortifica la nostra Provincia», si è indignato Cirielli. Dimenticando forse i trascorsi: De Luca era rimasto per mesi imbullonato alla doppia poltrona di sindaco e viceministro delle Infrastrutture, creando un caso imbarazzante. Ma non che lo stesso premier non sia rimasto vittima anch’egli, procedendo a quelle nomine, di un paio di amnesie ancora più significative. Tipo l’episodio avvenuto una decina di giorni fa a Cosenza, quando la rotativa del quotidiano l’Ora della Calabria si è inspiegabilmente bloccata. Un guasto che ha impedito, accusa l’associazione Media Initiative, di «pubblicare la notizia dell’indagine giudiziaria (falso ideologico, associazione a delinquere) che riguarda il figlio di Antonio Gentile». Ovvero il senatore alfaniano che ieri ha preso al governo il posto di De Luca, come sottosegretario alle Infrastrutture.
Amnesia bis, il ritiro dalla corsa per la carica di governatore della Sardegna, perché coinvolta nell’inchiesta sulle spese dei consiglieri regionali, dell’europarlamentare Pd Francesca Barracciu: ora sottosegretario alla Cultura. Michela Murgia, candidata sconfitta a quelle elezioni, l’ha ricordato a Renzi con un twitt velenoso: «Troppo indagata per fare il governatore, ma sottosegretario è ok».
Sappiamo bene che quello dei sottosegretari è un passaggio di realismo. Nel senso che serve anche a risarcire qualche promessa tradita, blandire i partitini, bilanciare gli equilibri fra le correnti, onorare impegni segreti. Un pedaggio alla vecchia politica, insomma. Che stavolta ci ha regalato anche perle quali la nomina di due figli della Prima repubblica a sottosegretari alla Giustizia: Enrico Costa, figlio dell’ex ministro liberale Raffaele Costa, e Cosimo Ferri, figlio dell’ex ministro socialdemocratico Enrico Ferri. Per non parlare di alcune scelte all’apparenza contraddittorie: un governo che ha ai primi punti del programma l’abolizione delle Province nomina sottosegretario l’ex presidente dell’Unione Province, Giuseppe Castiglione. O del numero delle donne, in un esecutivo che si vanta di avere affidato per la prima volta a loro la metà dei posti da ministro: fra i viceministri e i sottosegretari sono appena nove su 44. Sotto il minimo sindacale.
Auguriamo buon lavoro a tutti, domandandoci però se per far avanzare il nuovo non serva un pizzico di coraggio in più e qualche amnesia in meno.

La Stampa 1.3.14
Scoppia subito il caso Giustizia
In via Arenula due esponenti di centrodestra (Ferri e Costa).
Il ministro Orlando stupito: “Ma non mi farò condizionare”
di Amedeo La Mattina

qui

La Stampa 1.3.14
Sia Gentile
di Massimo Gramellini


Come tutti coloro che da Renzi si aspettavano il governo dei fuoriclasse – se non Baricco Guerra e Farinetti, almeno Gratteri – ero rimasto un po’ deluso dalla lista dei ministri. Ma mi sbagliavo. Quella lista aveva un suo fascino, se paragonata a quella dei sottosegretari. Dai, mi dicevo, vorrai mica che alla Giustizia rimettano un berlusconiano di ferro? Infatti ne hanno messo uno di Ferri. Cosimo Maria Ferri, affiancato da un’altra figura neutrale: il relatore del lodo Alfano. Però il senatore Tonino Gentile, no. Si deve trattare di un refuso. Mai e poi mai il Renzi che conosco farebbe salire a bordo un signore accusato, non più tardi del 19 febbraio scorso, di avere impedito l’uscita di un giornale. Il direttore e l’editore dell’Ora della Calabria sostengono di avere ricevuto pressioni per interposta persona affinché fosse estirpata la notizia di un’indagine che riguardava il figlio del senatore. Il «mediatore» avrebbe spiegato ai giornalisti riottosi che «il cinghiale quando viene ferito, ammazza tutti». Un linguaggio che, più che i documentari di Quark, richiama i dialoghi del Padrino.
Il giornale non uscì, a causa di una misteriosa rottura della rotativa. Cose che capitano. Mentre non può capitare che, appena dieci giorni dopo, la persona su cui aleggia un sospetto simile venga nominata sottosegretario. E nemmeno all’Editoria, settore col quale parrebbe avere una certa dimestichezza. Alle Infrastrutture, pozzo senza fondo di appalti pubblici. Dottor Renzi, sia gentile con Gentile e lo accompagni all’uscita. Ci ha promesso che con lei l’Italia cambierà verso. Non che ci andrà di traverso.
Come tutti coloro che da Renzi si aspettavano il governo dei fuoriclasse – se non Baricco Guerra e Farinetti, almeno Gratteri – ero rimasto un po’ deluso dalla lista dei ministri. Ma mi sbagliavo. Quella lista aveva un suo fascino, se paragonata a quella dei sottosegretari. Dai, mi dicevo, vorrai mica che alla Giustizia rimettano un berlusconiano di ferro? Infatti ne hanno messo uno di Ferri. Cosimo Maria Ferri, affiancato da un’altra figura neutrale: il relatore del lodo Alfano. Però il senatore Tonino Gentile, no. Si deve trattare di un refuso. Mai e poi mai il Renzi che conosco farebbe salire a bordo un signore accusato, non più tardi del 19 febbraio scorso, di avere impedito l’uscita di un giornale. Il direttore e l’editore dell’Ora della Calabria sostengono di avere ricevuto pressioni per interposta persona affinché fosse estirpata la notizia di un’indagine che riguardava il figlio del senatore. Il «mediatore» avrebbe spiegato ai giornalisti riottosi che «il cinghiale quando viene ferito, ammazza tutti». Un linguaggio che, più che i documentari di Quark, richiama i dialoghi del Padrino.
Il giornale non uscì, a causa di una misteriosa rottura della rotativa. Cose che capitano. Mentre non può capitare che, appena dieci giorni dopo, la persona su cui aleggia un sospetto simile venga nominata sottosegretario. E nemmeno all’Editoria, settore col quale parrebbe avere una certa dimestichezza. Alle Infrastrutture, pozzo senza fondo di appalti pubblici. Dottor Renzi, sia gentile con Gentile e lo accompagni all’uscita. Ci ha promesso che con lei l’Italia cambierà verso. Non che ci andrà di traverso.

Repubblica 1.3.14
Sottosegretari, 5 nomi che fanno discutere
di Alberto D’Argenio


UNA trattativa lunga e complessa andata avanti tutta la notte e terminata giusto davanti alla porta del salone del Consiglio dei ministri. Matteo Renzi ci ha messo 48 ore più del previsto a chiudere il negoziato su viceministri e sottosegretari, ma alla fine più o meno tutti i partiti sono rimasti soddisfatti dalle nomine.
EPPURE non mancano i casi che fanno discutere. Dallo staff di Palazzo Chigi minimizzano, o meglio ricordano che se il governo coincide fedelmente con lo spirito del premier, le 44 poltrone di sottogoverno «rispecchiano quello che è il Parlamento ». I nomi che scottano sono almeno cinque. Come quello del nuovo sottosegretario alle Infrastrutture Antonio Gentile, toccato da un’inchiesta sulla sanità calabrese e accusato dal direttore de “L’ora della Calabria” di avere bloccato la stampa del giornale nella notte tra il 18 e il 19 febbraio per censurare la notizia dell’iscrizione sul registro degli indagati del figlio. Tra l’altro l’esponente del Nuovo Centrodestra nel 2002 si è segnalato per avere “candidato” Berlusconi al Nobel per la pace.
Certo, ieri mattina Renzi ha bloccato almeno altre due figure che avrebbero suscitato polemiche. La conferma di Antonio Catricalà alle telecomunicazioni, ministero sensibile per il mondo berlusconiano, e la nomina di Vincenzo De Luca, il sindaco di Salerno che per mesi ha tenuto in scacco il governo Letta rifiutando di optare tra la poltrona di primo cittadino e quella di viceministro. Però è entrata la democratica Francesca Barracciu, che si era ritirata (anche su pressione del partito) dalla corsa la presidenza della Sardegna perché indagata nelle spese pazze sostenute proprio a carico della regione e ora arriva al governo. Così come viene nominato Vito De Filippo (Pd), sottosegretario alla Sanità che si è dimesso dalla presidenza della Basilicata sempre per i rimborsi facili. E non è un caso che il nuovo sottosegretario che veniva accreditato in quota Letta da giorni è stato scaricato dai fedelissimi dell’ex premier, che si sono prodigati nello spiegare che la sua nomina non nasce da pressioni della corrente ma da un semplice accordo interno al Pd lucano nella formazione delle liste elettorali del 2013.
Sono due i casi entrati direttamente in Consiglio dei ministri, quelli di Cosimo Ferri e di Umberto Del Basso de Caro. Il primo è stato confermato come sottosegretario alla Giustizia, posto che aveva già nel governo Letta su indicazione di Berlusconi (i boatos di palazzo vogliono che l’ex magistrato sia vicino a Verdini). La sua permanenza al governo ha fatto infuriare il ministro Andrea Orlando, che durante il Cdm ha posto apertamente il caso che però Graziano Delrio ha stoppato ricordando che Ferri è considerato un tecnico. C’è infine Del Basso, il grande accusatore di Nunzia De Girolamo nello scandalo dell’Asl di Benevento che ha portato alle dimissioni dell’allora ministro di Letta. Non a caso la sua nomina è stata osteggiata fino all’ultimo dall’Ncd, che ha anche fatto notare come il suo nome sia comparso tra quelli della rimborsopoli campana. Ma gli alfaniani hanno dovuto ingoiare il rospo, così come hanno lottato (invano, ma dopo avere ottenuto praticamente tutto non si sono potuti impuntare) per avere una decima poltrona per Barbara Saltamartini.

Repubblica 1.3.14
Ecco la rivincita dei “ripescati” da Barracciu a De Filippo
Gli strani casi di Ferri, Gentile e Del Basso De Caro
di Alberto D’Argenio


UNA trattativa lunga e complessa andata avanti tutta la notte e terminata giusto davanti alla porta del salone del Consiglio dei ministri. Matteo Renzi ci ha messo 48 ore più del previsto a chiudere il negoziato su viceministri e sottosegretari, ma alla fine più o meno tutti i partiti sono rimasti soddisfatti dalle nomine.
EPPURE non mancano i casi che fanno discutere. Dallo staff di Palazzo Chigi minimizzano, o meglio ricordano che se il governo coincide fedelmente con lo spirito del premier, le 44 poltrone di sottogoverno «rispecchiano quello che è il Parlamento ». I nomi che scottano sono almeno cinque. Come quello del nuovo sottosegretario alle Infrastrutture Antonio Gentile, toccato da un’inchiesta sulla sanità calabrese e accusato dal direttore de “L’ora della Calabria” di avere bloccato la stampa del giornale nella notte tra il 18 e il 19 febbraio per censurare la notizia dell’iscrizione sul registro degli indagati del figlio. Tra l’altro l’esponente del Nuovo Centrodestra nel 2002 si è segnalato per avere “candidato” Berlusconi al Nobel per la pace.
Certo, ieri mattina Renzi ha bloccato almeno altre due figure che avrebbero suscitato polemiche. La conferma di Antonio Catricalà alle telecomunicazioni, ministero sensibile per il mondo berlusconiano, e la nomina di Vincenzo De Luca, il sindaco di Salerno che per mesi ha tenuto in scacco il governo Letta rifiutando di optare tra la poltrona di primo cittadino e quella di viceministro. Però è entrata la democratica Francesca Barracciu, che si era ritirata (anche su pressione del partito) dalla corsa la presidenza della Sardegna perché indagata nelle spese pazze sostenute proprio a carico della regione e ora arriva al governo. Così come viene nominato Vito De Filippo (Pd), sottosegretario alla Sanità che si è dimesso dalla presidenza della Basilicata sempre per i rimborsi facili. E non è un caso che il nuovo sottosegretario che veniva accreditato in quota Letta da giorni è stato scaricato dai fedelissimi dell’ex premier, che si sono prodigati nello spiegare che la sua nomina non nasce da pressioni della corrente ma da un semplice accordo interno al Pd lucano nella formazione delle liste elettorali del 2013.
Sono due i casi entrati direttamente in Consiglio dei ministri, quelli di Cosimo Ferri e di Umberto Del Basso de Caro. Il primo è stato confermato come sottosegretario alla Giustizia, posto che aveva già nel governo Letta su indicazione di Berlusconi (i boatos di palazzo vogliono che l’ex magistrato sia vicino a Verdini). La sua permanenza al governo ha fatto infuriare il ministro Andrea Orlando, che durante il Cdm ha posto apertamente il caso che però Graziano Delrio ha stoppato ricordando che Ferri è considerato un tecnico. C’è infine Del Basso, il grande accusatore di Nunzia De Girolamo nello scandalo dell’Asl di Benevento che ha portato alle dimissioni dell’allora ministro di Letta. Non a caso la sua nomina è stata osteggiata fino all’ultimo dall’Ncd, che ha anche fatto notare come il suo nome sia comparso tra quelli della rimborsopoli campana. Ma gli alfaniani hanno dovuto ingoiare il rospo, così come hanno lottato (invano, ma dopo avere ottenuto praticamente tutto non si sono potuti impuntare) per avere una decima poltrona per Barbara Saltamartini.

Corriere 1.3.14
Barracciu e Gentile, le scelte che dividono
E le donne (dimenticate) protestano
La candidata mancata in Sardegna e il senatore coinvolto
nel caso dell’Ora della Calabria. Agli uomini l’80 per cento dei posti
di Monica Guerzoni

qui

il Fatto 1.3.14
Ecco i vice-impresentabili
Berlusconi torna al governo

Renzi vara la grande abbuffata dei 9 viceministri e dei 35 sottosegretari. Il Caimano s’impossessa della Giustizia con Costa (leggi vergogna) e il pm Ferri (intercettato negli scandali Calciopoli, Agcom e P3). Altri quattro, tutti Pd, sono sotto inchiesta: Barracciu, Bubbico, De Filippo, Del Basso De Caro. Il ministero dell’Economia diventa un esecutivo parallelo senza i renziani, che si asserragliano nello staff di Palazzo Chigi

il Fatto 1.3.14
La carica dei 44: inquisiti, incompetenti e lottizzati
Renzi: “tornate a casa con un po’ di sana inquietudine e un senso di vertigine per la sfida”
di Car. Tec.


Il numero di Matteo Renzi è 62: il presidente, 16 ministri, 9 vice e 36 sottosegretari, appena 9 donne. L’alchimia da maggioranza per largheintesehaprodotto44nuovi incarichi. Qualche non iscritto ai partiti e la distribuzione è finita così: 24 per i democratici (dentro anche il socialista Nencini),9peril Nuovo Centrodestra di Angelino Alfano, 4 per i montiani di Scelta Civica e 4 per i Popolari per l’Italia di Mario Mauro, risarcito con una discreta delegazione. Non manca una rappresentanza di indagati: Filippo Bubbico (Interni), Vito De Filippo (Salute), Francesca Barracciu (Beni Culturali) e Umberto Del Basso de Caro (Trasporti). Con un elemento in più rispetto all’esecutivo di Enrico Letta, il presidente Renzi ha licenziato la squadra nel Consiglio dei ministri: non prima di aver riunito Alfano, assieme a Graziano Delrio, per cesellare le ultime caselle. Quando le agenzie di stampa centellinavano le nomine, il democratico Emanuele Fiano esalava un tremendo disappunto: “Impossibile delle volte continuare a credere nel proprio lavoro”. E non sapeva che Renzi ha dovuto mediare, rabberciare e ricucire per accontentare le correnti che, in precario equilibrio politico, reggono il governo. Il presidente ha blindato palazzo Chigi con la promozione del fidatissimo Luca Lotti (deleghe per l’Editoria) e Sandro Gozi (Affari Europei), più la conferma per Marco Minniti ai Servizi segreti.
L’EX PRODIANO di strettissima osservanza Gozi è appena reduce da una gaffe televisiva: non gli riusciva proprio trovare una definizione per la tassa Irap, acronimo di imposta regionale per le attività produttive. Renzi ha (quasi) rinunciato a un ruolo per l’Economia perché al ministero di via XX settembre, oltre al ministro (dalemiano e tecnico) Padoan, ci vanno il veltroniano Enrico Morando, il montiano Enrico Zanetti e l’alfaniano Luigi Casero. L’ex sindaco fiorentino non ha dimenticato, però, di ricompensare i lealisti Roberto Reggi (che fu escluso dal listino bloccato per il Parlamento) e Angelo Rughetti. Viceministro unico agli Esteri è ancora Lapo Pistelli, l’apripista politico di Renzi, che cominciò accanto al fiorentino con la casacca di portaborse. Dopo aver rinunciato a Nicola Gratteri per la Giustizia, la triade Renzi-Delrio-Alfano ci ha infilato Enrico Costa (relatore del Lodo Alfano, ora Ncd) e ha prolungato la permanenza di Cosimo Ferri, di una famiglia storicamente e politicamente aderente al Cavaliere. Come promesso, la responsabilità per le Comunicazioni, allo Sviluppo Economico con Federica Guidi, viene affidata a un democratico, Antonello Giacomelli. E sempre come promesso, nonostante le tiepide ribellioni nel partito, Simona Vicari non sloggia dal medesimo ministero: amica di Renato Schifani, ex sindaco di Cefalù, risulta fra i tanti fortunati che hanno trascorso le vacanze a scrocco nei villaggi Valtur.
NON È PASSATO neanche un mese, neanche un umano oblio, da un episodio inquietante che riguarda il senatore Antonio Gentile, accusato di aver bloccato le rotative del quotidiano L’Ora della Calabria che riportava la notizia del figlio inquisito. Ex sottosegretario all’Economia con Silvio Berlusconi, Gentile va ai Trasporti. Come ai Trasporti, assessore regionale in Calabria, è il fratello Giuseppe. Nel primo discorso in Parlamento, Renzi ha esaltato la scuola: ruolo centrale, essenziale, fondamentale. E il primo viaggio lontano da Roma, l’ha fatto in una classe di bambini, in un istituto di Treviso. Ma il ministero lo ignora. Al dicastero il capo è la montiana Stefania Giannini, segretaria di Scelta Civica, e adesso arrivano l’imprenditrice di abbigliamento Angela D’Onghia – che può tornare utile per i grembiuli, è la battuta che gira nei palazzi
– e l’ex coordinatore di primarie (nonché ingegnere elettronico) Reggi. Nel verminaio del ministero per l’Agricoltura, dove girano miliardi sonanti, plana il centrista Andrea Olivero (ex Acli), che doveva andare all’Ambiente. Ma un posto vale l’altro. A fine giuramento al Quirinale, Renzi non assolve i 44: “Tornate a casa con un po’ di sana inquietudine, un senso di vertigine per questa sfida”.

il Fatto 1.3.14
Giustizia
B. arraffa la Giustizia con Costa & Ferri (l’ha chiesto Verdini)
Il gruppo di Forza Italia plaude per il “rispetto” mostrato al Cav
di Carlo Tecce


Quando c’era da sbertucciare un magistrato, da smontare un’indagine o da rammentare una leggina, l’avvocato Enrico Costa, erede di papà Raffaele, liberale con sette legislature e pluriministro con quattro governi, non mancava mai. Reattivo, soltanto Niccolò Ghedini lo precedeva per veemenza. Chirurgico, soltanto la Consulta ha sminato il Lodo Alfano che contribuì a scrivere. Quasi beffardo: “A differenza dei pubblici ministeri di Milano che sono a loro agio a parlare di bordelli, noi vorremmo che la frenesia che li acceca per mandare a casa il presidente Silvio Berlusconi non li inducesse a trasformare le aule di giustizia in volgari palcoscenici sui quali distorcere la realtà”. Il viceministro Costa, forse, non s’aspetterà una calorosa accoglienza al dicastero per la Giustizia dove la spartizione di poltrone residue l’ha dirottato. Ma avrà un buon collega di palazzo, il sottosegretario Cosimo Maria Ferri, magistrato, terzogenito di Enrico, ex reggente socialdemocratico, quindici anni europarlamentare, militanza con Berlusconi e Mastella.  
IL CONFERMATO Cosimo è entrato berlusconiano, ora lo scoprono tecnico. E non c’è da contestare nulla perché la rassicurazione più insindacabile a Matteo Renzi l’ha fornita Denis Verdini, amico di famiglia, toscano di Fivizzano come i fiorentini Ferri. Sempre devoto al Cavaliere di Arcore, Costa ha sostenuto la scissione agrodolce di Angelino Alfano, e ne ha ricavato due nomine: capogruppo a Montecitorio per Ncd e adesso la catapulta per via Arenula. Il viceministro ha così alacremente studiato le sudate carte e servito commi e codici a Berlusconi che, per competenza, via Arenula è la destinazione naturale. Se l’intenzione fosse quella di provocare le toghe. Oltre a produrre cavilli per sottrarre il Cavaliere ai giudici, relatore per il Lodo Alfano e teorico del legittimo impedimento, Costa ha inventato la legge bavaglio per le intercettazioni. Un coacervo mostruoso di limitazioni per la stampa che indussero Giulia Bongiorno a lasciare la Commissione Giustizia di Montecitorio, seggiola che Costa pretese per indiscutibili meriti. E ottenne a furor di partito, che lo trattava come ausiliare di Niccolò Ghedini, tanto premuroso nei confronti del Cavaliere e tanto inviperito contro i magistrati. Chiese al ministro Nitto Palma di spedire un’ispezione a Napoli perché la Procura subodarava uno strano rapporto fra Gianpi Tarantini e Berlusconi. Quando le truppe di Arcore hanno abbandonato l’esecutivo di Enrico Letta, il sottosegretario Cosimo Ferri, estremamente riservato, non s’è sentito in dovere di consegnare le proprie dimissioni. Non ha aderito né a Forza Italia né al movimento di Alfano. I partiti di maggioranza non hanno indicato la casella di Ferri, scontata che fosse libera. Tutti smentiscono la raccomandazione. E tutti suggeriscono di domandare a Denis Verdini. I parlamentari berlusconiani plaudono a un segnale che attestata il rispetto di Renzi per il Cavaliere. Se interpellato, Cosimo Ferri risponde: “Io sono un tecnico”. Meno appariscente e meno chiacchierato dei fratelli Jacopo, consigliere regionale in Toscana per Forza Italia, condannato a un anno per tentata truffa e di Filippo, ex poliziotto coinvolto nel processo per la mattanza nella scuola Diaz di Genova, 3 anni e 8 mesi (pena sospesa) in Cassazione per falso aggravato più 5 di interdizione ai pubblici uffici. Jacopo continua a fare politica, Filippo ha trovato lavoro al Milan, responsabile per la sicurezza. Coinvolto in Calciopoli, sfiorato nelle intercettazioni sui casi P3 e Agcom-Annozero, Cosimo (mai indagato) deve contribuire al corso di riforme del ministro Andrea Orlando. Ma c’è un episodio curioso da raccontare con protagonista il sottosegretario Ferri. Il pur cauto Cosimo invitò il presidente Antonio Esposito, qualche settimana prima che pronunciasse la storica sentenza su Mediaset in Cassazione, al premio Bancarella a Pontremoli, feudo di famiglia. Esposito declinò.  
SMALTITA SENZA rimpianti l’esperienza di Anna Maria Cancellieri, il dicastero per la Giustizia attraversa un periodo di “vorrei ma non posso”. Il presidente Renzi scalò il Colle con la candidatura del magistrato Nicola Gratteri, simbolo di lotta contro la criminalità organizzata, e s’affacciò al pulpito quirinalizio con la sorpresa Orlando, chiamato per neutralizzare un’emergenza. Lo stesso Orlando, incolpevole e furibondo, viene affiancato da Ferri e Costa. Senza un preavviso formale o, quantomeno, un’assistenza pratica (o psicologica). La presenza di Ferri e Costa rafforza le convinzioni dei berlusconiani: oppositore dialogante e padre costituzionale, neanche i servizi sociali potranno riabilitare così il Cavaliere pregiudicato.

il Fatto 1.3.14
Istruzione cattolica
Tutti di “area” i nuovi arrivi in Viale Trastevere

LA TRUPPA di sottosegretari al ministero dell’Istruzione, seppur divisa tra gruppi politici di diversa estrazione, ha una matrice chiara: quella cattolica. La neo ministro Stefania Giannini può contare su ben tre sottosegretari. Roberto Reggi, già sindaco di Piacenza, renziano di ritorno, è un Democratico che proviene dalla Margherita. Angela D’Onghia è invece una Popolare, vicina all’Unione Cristiana Imprenditori Dirigenti, associazione privata di imprenditori e dirigenti che hanno per obiettivo la la promozione nella società di “una alta moralità professionale alla luce dei principi cristiani e della morale cattolica” e “la conoscenza, l’attuazione e la diffusione della dottrina sociale della Chiesa”. Gabriele Toccafondi è un ciellino, in quota Ncd. È stato riconfermato nell’incarico in cui già si distinse per la difesa delle scuole private parificate (nel referendum di Bologna) e contro l’estensione dell’Imu alla Chiesa.

il Fatto 1.3.14
Economia
Comunione e Liberazione
Casero e Vignali, ciellini per ogni larga intesa

LUIGI CASERO ha una lunga consuetudine con il Mef, acronimo di governo che indica il ministero più pesante, quello dell’Economia. Riconfermato viceministro al Mef, Casero è stato lì anche con Letta e pure nell’ultimo esecutivo di Berlusconi (da sottosegretario). Casero, insieme con Lupi, è una delle punte di diamante della lobby cattolico-imprenditoriale di Comunione e Liberazione all’interno di Ncd. Un partito nel partito, chiamato anche a sostenere il peso economico di una creatura che nasce. Non a caso, il tesoriere degli alfaniani è Raffaello Vignali, oggi deputato ma per cinque anni, dal 2003 al 2008, potente presidente della Compagnia delle Opere, il braccio finanziario di Cl. Casero, Lupi, Vignali: senza dimenticare il senatore Roberto Formigoni, ex governatore lombardo. Tra le tante anomalie del governo Renzi, il sostegno ciellino è una certezza. Da ricompensare.

il Fatto 1.3.14
Sono solo 9 le donne (su 44)

Poche donne. La parità di genere rispettata nella scelta dei ministri (8 su 16) sparisce dalla squadra dei sottosegretari. Sono nove: Maria Teresa Amici, Teresa Bellanova, Franca Biondelli, Francesca Barracciu, Angela D’Onghia, Silvia Velo, Barbara Degani, Ilaria Borletti Buitoni, Simona Vicari.

il Fatto 1.3.14
Cencelli docet
Rappresentate tutte le correnti Pd

I sottosegretari democratici sono ben distribuiti nel governo. I renziani sono almeno sei (con diverse sfumature), sei anche i cuperlian-bersaniani. Cinque sono franceschiniani. Ci sono un dalemiano, un prodiano, un fioroniano, un veltroniano (ma in quota Renzi), un unico lettiano.

il Fatto 1.3.14
Lavoro
Cassano e il cibo avariato ai militari

Nel 2008 il nuovo sottosegretario al Lavoro, Massimo Cassano, finì in un’inchiesta della Procura di Roma. Oggetto dell’indagine: la qualità delle derrate alimentari con cui l’azienda del senatore barese (la “Cianciola Montanari”) riforniva i militari italiani di stanza in Libano.

il Fatto 1.3.14
Cultura
Incandidabile in Sardegna Ma Renzi premia Barracciu
di Giorgio Meletti


Altro che rottamazione. Matteo Renzi, quando serve, restaura. E ieri con mossa audace ha rimesso a nuovo la carriera politica di Francesca Barracciu, ex candidata Pd al governatorato della Sardegna, disarcionata in corsa perché indagata dalla Procura di Cagliari per lo scandalo dei fondi del consiglio regionale. Un intervento d’autorità del premier sulla faida che da mesi dilania il Pd sardo. Francesco Pigliaru, l’economista incensurato che ha sostituito in corsa Barracciu portando il centrosinistra a un’inaspettata vittoria sull’uscente Ugo Cappellacci, aveva detto subito
dopo il voto del 16 febbraio scorso: “Niente indagati in giunta”. La reazione rabbiosa di Barracciu aveva fatto capire che aveva in mano promesse autorevoli. Ieri, puntualmente, l’europarlamentare sarda ha messo all’incasso la cambialona firmata da Renzi o suo delegato.
RENZI RISERVA a Barracciu l’unico posto da sottosegretario spettante alla Sardegna, piazzandola ai Beni culturali. Per premiare l’indagata lascia a casa Paolo Fadda, ex deputato di Cagliari, fino a ieri sottosegretario alla Salute. Il ministro Beatrice Lorenzin si è battuta inutilmente per la conferma del suo vice. Ma Fadda, ex democristiano di lungo corso oggi cuperliano, è (insieme all’ex governatore Renato Soru) uno dei “capibastone” accusati da Barracciu di averla fatta fuori nella drammatica riunione tenuta il 30 dicembre scorso a Oristano. E ieri sera preannunciava una conferenza stampa di fuoco per lunedì.
La stessa Barracciu probabilmente non credeva ai suoi occhi quando ha visto davvero il suo nome nella lista dei sottosegretari, e ha subito espresso gioia e gratitudine incontenibili: “Sono felicissima, ringrazio il premier Matteo Renzi per questa scelta: onorerò l’incarico con tutta me stessa ogni secondo”. Per capire come si possa essere prima esclusi dalla corsa regionale in quanto indagati e poi chiamati al governo nazionale bisogna ricostruire la storia.
All’inizio del 2013 Barracciu diventa europarlamentare subentrando come prima dei non eletti al neo governatore siciliano Rosario Crocetta. Ma ha già la testa altrove. Si piazza al secondo posto tra gli eurodeputati più assenteisti nell’anno, onorando solo il 41% delle sessioni e facendo fare la figura degli stakanovisti dell’aula ad assenteisti del calibro di Clemente Mastella e Ciriaco De Mita. Prepara infatti la candidatura alle primarie Pd per il governatorato. Vince nettamente a fine settembre contro il sindaco di Sassari Gian Franco Ganau, ma pochi giorni dopo arriva l’avviso di garanzia. Insieme ad altri 33 consiglieri regionali (ed ex) del Pd è indagata per peculato aggravato. I magistrati di Cagliari le contestano soldi destinati alle spese del gruppo consiliare e invece spesi in proprio e senza rendiconto. Barracciu si presenta il 6 dicembre dal pm Marco Cocco e spiega per due ore che i 33 mila euro spesi tra il 2006 e il 2009 sono andati tutti in benzina. “Abbiamo anche indicato uno per uno tutti gli appuntamenti politici cui la signora ha partecipato, viaggiando con la propria automobile”, spiega ai cronisti il principe del foro torinese Carlo Federico Grosso, accorso alla bisogna. La Nuova Sardegna fa i conti: “Sono 62 chilometri al giorno, 942 chilometri al mese, 24 mila all’anno percorsi dall’instancabile”.
IL 30 DICEMBRE la svolta. Fadda, Soru, lo stesso segretario regionale Silvio Lai (pure indagato con lei) le chiedono il fatidico passo indietro. Barracciu deve arrendersi. Ma il 4 gennaio vola a Firenze e chiede udienza a Luca Lotti, braccio destro di Renzi. Lotti sa che a qualche renziano eccellente come il consigliere regionale uscente Gavino Manca dovrà essere garantito un posto in lista, benché indagato nella stessa inchiesta di Barracciu. La scelta è tra promessa e rumorosa protesta. L’8 febbraio, quando Renzi va in Sardegna a comiziare per Pigliaru, Barracciu è in prima fila sia a Sassari la mattina che a Cagliari il pomeriggio, e il futuro premier la incorona eroina: “Abbiamo donne intelligenti e capaci come Francesca in grado di fare un passo indietro per far vincere la squadra”.
Così arriva la vittoria di Pigliaru e l’immediata candidatura di Barracciu ad assessore alla Sanità, il posto più ambito. Pigliaru le sbatte la porta in faccia. Lei reagisce: “Decide il partito, non Pigliaru”. Invece ha deciso il governo della Repubblica italiana.

il Fatto 1.3.14
Difesa
Domenico Rossi. Da ineleggibile a sottosegretario
Grazie a Monti finisce alla Difesa
di Loredana Di Cesare


DOMENICO ROSSI, sottocapo di Stato maggiore dell’Esercito, vince un’altra battaglia. È stato appena promosso sottosegretario alla Difesa del governo Renzi. Il generale, alle scorse politiche, era stato chiamato a far parte della squadra di Mario Monti. In gran fretta, Rossi s’era messo in licenza straordinaria, anziché in aspettativa, come previsto dalla legge, per candidarsi con Scelta Civica. Con una modifica della norma sulle elezioni, il governo Monti, allora in carica, riuscì a superare lo scoglio che lo avrebbe dichiarato ineleggibile: doveva cessare dal suo incarico e porsi in aspettativa almeno sei mesi prima delle elezioni. Ma il governo guidato da Monti fa approvare una disposizione che - “limitatamente alle elezioni politiche del 2013, qualora lo scioglimento della Camera dei deputati e del Senato della Repubblica anticipi di oltre 30 giorni la scadenza naturale della legislatura” - consente termini ben più ristetti dei sei mesi previsti. A quel punto Rossi può candidarsi. Ma continua a mantenere l’incarico di sottocapo di stato maggiore per tutta la campagna elettorale. Un incarico senza limiti: il suo staff elettorale è formato da uomini dell’esercito. Rossi viene eletto, ma la sua ineleggibilità approda nella Giunta delle elezioni, dove si contesta proprio la sua posizione di comando militare durante la campagna elettorale. Prima di candidarsi, secondo la legge, Rossi avrebbe dovuto chiedere l’aspettativa dall’Esercito, e non la licenza straordinaria, fatto che gli ha permesso di svolgere le funzioni di sottocapo di Stato maggiore e di continuare a percepire l’indennità di ufficiale. La partita si gioca nel Comitato per le eleggibilità e si conclude a novembre con la vittoria di Rossi, che può rimanere deputato con il consenso di tutti, M5s incluso. I Cinque stelle, unici scettici sul caso, volevano far decadere Rossi ma poi hanno cambiato idea: “Abbiamo fatto rispettare una legge sbagliata”. La sua ineleggibilità, nelle intenzioni del M5s, doveva essere “un caso politico”. Vinta la battaglia in Giunta, ieri Rossi ha vinto la guerra: promosso Sottosegretario alla Difesa nel nuovo governo di Matteo Renzi.

il Fatto 1.3.14
Salute
De Filippo “spese pazze” in francobolli
di Marcello Longo


Con la sua passione per i francobolli forse si aspettava una delega alle Comunicazioni. Ma Vito De Filippo, l’ex presidente dalla Basilicata indagato per peculato nell’inchiesta sui rimborsi illeciti, ha conquistato una poltrona di tutto rispetto: da ieri è il sottosegretario alla Salute del governo Renzi. Per saperne di più sul personaggio bisogna tornare a un anno fa. Ad aprile 2013 è costretto a lasciare la guida della giunta regionale lucana, dopo che la procura di Potenza iscrive nel registro degli indagati 40 persone tra consiglieri regionali, assessori e collaboratori. Lo scandalo somiglia a quello di molte altre regioni italiane: rendiconti irregolari, fasulli o manipolati per accedere ai rimborsi previsti per i gruppi politici rappresentati in Consiglio regionale. Ma in questo caso ha l’effetto di azzerare il quadro politico e portare a nuove elezioni: le vincerà Marcello Pittella (Pd) a novembre. La somma contestata a De Filippo ammonta a 3.840 euro rendicontati fra gennaio 2010 e dicembre 2011. Tutti spesi in francobolli in due tabaccherie di Potenza. La prima anomalia riguarda l’intestazione delle ricevute. Se alcune, per un totale di 1.500 euro, presentano il nome di Vito De Filippo, su molte altre (2.340 euro in tutto) manca qualsiasi indicazione. La seconda criticità evidenziata dagli inquirenti si riferisce allo scarto fra la quantità di francobolli che l’allora governatore dichiarava di aver acquistato e la loro disponibilità nelle tabaccherie: i numeri delle ricevute non collimano con gli effettivi approvvigionamenti delle tre tabaccherie potentine. I gestori, sentiti dagli inquirenti, riconoscono le ricevute: “Lo stampato
- dice uno di loro - è quello che abitualmente utilizzo in caso di vendite per importi più importanti”. Ma i dubbi restano sulla grafia: “La firma sul timbro non è leggibile, non riconosco come mia la calligrafia”. E si aggiunge un vuoto di memoria: “Non ricordo vendite così importanti di francobolli nel 2011, ma voglio precisare che potrebbe trattarsi che i singoli importi siano riferibili solo a francobolli ma anche ad altri valori quali marche da bollo”. De Filippo si difende e minimizza: non rientra fra i compiti di un presidente “contare i francobolli in uso alla segreteria” e se c’è stata un’anomalia si tratterà di “errore materiale”.
LA CONSISTENZA delle accuse la valuteranno i giudici. A luglio scorso la procura di Potenza ha chiesto il rinvio a giudizio per i 40 indagati, compreso l’ex governatore chiamato ora a Roma da Matteo Renzi. L’iter dell’udienza preliminare non è ancora terminato e si attende la decisione del gup. Contro la sua nomina si è scagliato ieri su Facebook il leader de La Destra, Francesco Storace, rievocando il 2006: “La faccia tosta di Renzi è inarrivabile. Io mi dimisi da ministro della Salute per un articolo di giornale e senza neppure aver ricevuto un avviso di garanzia per il Laziogate da cui sono uscito innocente dopo un calvario durato ben sette anni. Nello stesso ministero, come sottosegretario, arriva Vito De Filippo, governatore uscente e uscito”.
In questi mesi Vito De Filippo si è dato da fare. Quasi inevitabile con una biografia politica come la sua: cominciata a 26 anni nella Democrazia cristiana e traghettata nel Pd, con vari incarichi provinciali e regionali, eletto governatore nel 2005 e riconfermato nel 2010. Da indagato è stato chiamato a guidare la segreteria regionale del partito a settembre scorso, quando Roberto Speranza ha lasciato la poltrona di segretario per dedicarsi al ruolo di capogruppo alla Camera. Ora il salto di qualità con un ruolo chiave in un ministero importante.

Corriere 1.3.14
Lente europea sulle quote Bankitalia
La lettera di Bruxelles al ministero del Tesoro sui possibili aiuti di Stato
di Luigi Offeddu


BRUXELLES — All’inizio, molti decenni fa, la grande fortezza chiamata Palazzo Koch era presidiata da pochi guardiani, che vestivano tutti la stessa divisa: banche pubbliche. Poi, una dopo l’altro, nella Banca d’Italia trovarono un posto anche le banche private, o appena privatizzate: Intesa San Paolo, Unicredit, Cariparma, Generali, e così via. Poi ancora, solo 3 mesi fa, l’allora governo Letta annunciò la rivalutazione delle quote di Bankitalia: alcuni fondi, fino ad allora al sicuro e intoccabili come riserve, sarebbero divenuti parte del capitale dell’istituto, e nel «giro» delle rivalutazioni qualcuno dei soci avrebbe potuto beneficiarne, o questa almeno era un’eventualità. Infine, 3 giorni fa, l’inevitabile: la Commissione Europea, cui quell’eventualità non era piaciuta, spedisce una sua rituale lettera con richiesta di informazioni, di solito il preludio a una procedura di infrazione. E’ l’Antitrust del commissario alla Concorrenza Joaquim Almunia, a muoversi: sospetta che, fra una quota rivalutata e l’altra, il governo italiano voglia o abbia voluto fornire degli aiuti illegittimi di Stato ad alcune di quelle banche. Se l’ipotesi sarà confermata, per l’Italia, già primatista della lista nera Ue, questa sarà la centoventesima procedura d’infrazione.
Quando, a fine novembre, l’allora ministro dell’economia Fabrizio Saccomanni comunicò tempi e modi dell’operazione «nuove quote», disse che «la misura serve essenzialmente a migliorare la patrimonializzazione delle banche». E nello stesso tempo, dicono ora i tecnici di Bruxelles, non avvisò della possibile esistenza di un aiuto illegittimo aiuto di Stato. Può anche darsi, aggiungono i più benevoli fra loro, che questo sia avvenuto perché allora non era emersa chiaramente una tale possibilità. Ma i dubbi sono forti. E radicati nella storia di palazzo Koch: ai tempi della guerra d’Etiopia, 1936, le sue quote valevano sui 300 milioni di lire, oggi sono balzate a 7,5 miliardi, con il divieto a qualunque azionista di superare il 3% del capitale. Diversi, però, quello stesso limite l’hanno varcato da tempo: da Intesa San Paolo, con il 30,3% del capitale, all’Inps, o alla Carige. Per tutti costoro potrebbe già profilarsi un plusvalore dalla vendita delle quote in eccesso, nell’ordine dei miliardi. Ma non sarebbe neppure questo l’oggetto dei massimi sospetti di Bruxelles. Se infatti le banche azioniste non troveranno compratori adeguati sul mercato per quelle loro plusvalenze, sarà proprio Bankitalia a farsi avanti e ricomprare ciò che è appena uscito dai suoi forzieri. Come ben spiegato nel decreto dei mesi scorsi: Bankitalia, «al fine di favorire il rispetto dei limiti di partecipazione al proprio capitale, può acquistare temporaneamente le proprie quote di partecipazione e stipulare contratti aventi ad oggetto le medesime». E in questo caso per gli esperti dell’Antitrust del commissario Almunia, l’aiuto illegittimo di Stato sarebbe probabilmente più che dimostrato. Ma le vere o presunte astuzie italiane, fanno arrabbiare anche altri, a Bruxelles e dintorni: ieri la Germania, probabilmente temendo nuove richieste di «clemenza» da parte italiana sui conti pubblici, ha attaccato la Commissione Europea per le concessioni fatte negli ultimi mesi sul tetto deficit/Pil a Paesi come la Francia o la Spagna.

Repubblica 1.3.14
Via XX Settembre e Bruxelles confermano la richiesta di chiarimenti sulla rivalutazione. All’attacco M5S, Forza Italia, Sel e associazioni consumatori
Quote Bankitalia, il Tesoro valuta la lettera della Ue
di Rosaria Amato


ROMA - Noi l’avevamo detto. È questo il commento quasi corale alla lettera con la quale la Commissione Ue chiede alle autorità italiane «ulteriori informazioni» sulla rivalutazione delle quote della Banca d’Italia, un commento che parte dal M5S, passa dai Fratelli d’Italia, Forza Italia e arriva fino a Sel. La richiesta Ue, anticipata ieri da Repubblica, è stata confermata in mattinata da fonti del Tesoro: «Il ministero sta ora valutando». Poco dopo anche la conferma del commissario Ue all’Antitrust, Joaquin Almunia. Se i partiti che si sono strenuamente opposti all’approvazione del decreto mostrano grande soddisfazione per l’iniziativa Ue, anche le associazioni dei consumatori rivendicano il ruolo avuto nella vicenda, in particolare Adusbef e Federconsumatori che, all’inizio di febbraio, avevano presentato un esposto a circa 130 procure generali e alla Corte dei Conti contro la riforma di Bankitalia.
L’indagine, spiega tuttavia il portavoce di Almunia, «è nata da un’iniziativa autonoma della Commissione». Tant’è vero che la lettera che «è stata inviata qualche giorno fa, prima dell’iniziativa dell’eurodeputato» Niccolò Rinaldi (Idv), autore il 20 febbraio di un’interrogazione alla Commissione proprio sul decreto Bankitalia. «Ora sta alle autorità italiane rispondere alla nostra richiesta di informazioni», conclude il portavoce.
«Avevamo spiegato in tutti i modi che si trattava di un favore alla lobby dei banchieri, una manovra criminale nel merito e pasticciata nel metodo», esulta il Movimento 5 Stelle. Il leader Beppe Grillo ha anche premiato con una medaglia i 26 deputati sospesi dalla presidente Laura Boldrini per l’ostruzionismo al decreto (approvato a un certo punto grazie alla “ghigliottina” che, per la prima volta nella storia, ha interrotto tutti gli interventi). Ma anche Forza Italia, con il presidente della Commissione Finanze della Camera, Daniele Capezzone, fa il suo affondo: «Il fatto che l’Ue possa considerare aiuto di Stato il recente provvedimento pro-banche su Bankitalia corrisponde alle nostre inascoltate denunce». «L’operazione è talmente sfacciata - spiega il presidente dei deputati di Fratelli d’Italia-Alleanza Nazionale Giorgia Meloni - che perfino il commissario Ue per la Concorrenza non ha potuto far finta di nulla». Il capogruppo di Sel alla commissione Finanze della Camera Giovanni Paglia si augura che il nuovo governo possa fare chiarezza sulla questione: «Avevamo detto che uno dei principali limiti del provvedimento era che apriva una voragine d’incertezza sui bilanci delle nostre banche. Ci avevamo visto giusto, e ora ci auguriamo che il nuovo governo abbia sulla questione un atteggiamento più responsabile del suo predecessore».

il Fatto 1.3.14
4,2 miliardi vendendo le quote
Bankitalia, Bruxelles indaga sul gran regalo alle banche
La Commissione europea scrive una lettera al tesoro: Almunia vuole capire se la rivalutazione delle quote di via Nazionale è un aiuto di stato
di Stefano Feltri


Le obiezioni dei critici non erano poi così assurde: la Commissione europea vuole capire se la rivalutazione delle quote di Bankitalia da 156mila euro a 7,5 miliardi (con annesso aumento dei dividendi alle banche private di via Nazionale) non rappresenti un aiuto di Stato illegittimo per le norme comunitarie. Come anticipato ieri dal quotidiano la Repubblica, il commissario Antitrust Joaquin Almunia ha scritto al ministero del Tesoro per chiedere chiarimenti. Il testo della lettera è riservato, ma un portavoce di Almunia ha confermato l’esistenza della lettera e ha spiegato che si tratta “semplicemente di una richiesta di maggiori informazioni che ovviamente non pregiudica la nostra valutazione”. Tradotto: il ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan dovrà convincere Almunia che la rivalutazione delle quote di Bankitalia non rappresenta “un aiuto di stato per alcune banche”, questo il sospetto del commissario. È il primissimo passo di un percorso che potrebbe portare a sanzionare l’Italia per aiuti di Stato o, come più probabile, a introdurre correttivi nella legge per evitare di essere puniti.
AD ALMUNIA sarebbe bastato leggere il Sole 24 Ore di ieri per appagare le proprie curiosità: “Quote Bankitalia, via libera alle plusvalenze per sei miliardi”. Svolgimento: ottenuti i chiarimenti dell’Agenzia delle entrate, e forti di due pareri giuridici autorevoli (Pier Gaetano Marchetti e Angelo Provasoli) consegnati all’Abi, la associazione di categoria, le banche italiane sono finalmente pronte a registrare in bilancio il regalo governativo, pagando sulla rivalutazione un’imposta contenuta, il 12 per cento.
CI SONO TRE BENEFICI per le banche, ai tempi della privatizzazione, hanno ereditato le quote di via Nazionale (una legge del 2005 prevedeva che lo Stato se le ricomprasse, salvando la proprietà pubblica della banca centrale, ma il governo Letta l’ha abolita). Primo: le quote vengono rivalutate da 156 mila euro a 7,5 miliardi, usando riserve di Bankitalia, e cambia il modo di calcolare i dividendi. Potenzialmente, le banche private otterranno da via Nazionale fino a 450 milioni all’anno invece che i 60-70 degli ultimi anni. Secondo beneficio: chi detiene più del 3 per cento del capitale, lo deve vendere e se nessuno compra, se ne fa carico la stessa Banca d’Italia. Intesa ha il 42,4 per cento, Unicredit il 22,1, vendere la componente in eccesso rappresenta un incasso di almeno 4 miliardi di euro, di cui oltre la metà per le due prime banche italiane. Terzo beneficio: dal prossimo anno le quote rivalutate miglioreranno anche il patrimonio di vigilanza, un balsamo contabile per bilanci provati dalla recessione (il parametro del Core Tier 1 migliorerà dello 0,5 per cento).
DA QUEL POCO che sappiamo, l’aiuto di Stato che la Commissione potrebbe contestare è a Unicredit e Intesa: per come è congegnata la norma, è a loro che andrà il grosso dei benefici previsti dalla legge. L’Adusbef, un’associazione di consumatori guidata dall’ex senatore Idv Elio Lannutti, ha fatto un esposto in Procura a Roma sulla legge Bankitalia. Il Movimento Cinque Stelle ha fatto un duro ostruzionismo in aula alla Camera (ma non al Senato) e il decreto sarebbe decaduto se il presidente Laura Boldrini non avesse applicato la “ghigliottina”, una procedura di approvazione accelerata. I parlamentari del Pd che conoscono la materia – da Walter Tocci a Massimo Mucchetti – hanno espresso molte riserve, ma poi i democratici hanno votato a favore anche perché il governo Letta aveva inserito il regalo alle banche in un decreto che serviva a coprire la seconda rata dell’Imu. Bloccarne la conversione avrebbe evitato il beneficio alle banche, ma anche costretto gli italiani a pagare metà dell’Imu sulla prima casa. E con questo argomento, dal Pd a Ncd hanno approvato tutto (mentre Forza Italia, con il presidente della commissione Finanze alla Camera Daniele Capezzone, si opponeva).
IL MINISTERO del Tesoro, gestione Fabrizio Saccomanni, si è impegnato in una massiccia offensiva di comunicazione per difendere la norma Bankitalia: sul sito web c’è un’apposita sezione intitolata “Decreto legge Imu-Bankitalia”, con tanto di dossier di articoli di giornale da confutare. Evidentemente alla Commissione europea tutte le informazioni divulgate dal Tesoro non sono bastate. E il sospetto che l’operazione Bankitalia nasconda un regalo alle banche è rimasto abbastanza forte da spingere Almunia a scrivere a Padoan.

il Fatto 1.3.14
Il caos alla Camera
Quando il Pd festeggiava con “Bella ciao”
di Tommaso Rodano


Il decreto Imu-Bankitalia è appena diventato legge. Sette miliardi e mezzo di euro per ricapitalizzare la Banca d’Italia a tutto beneficio delle banche private che vedranno salire i dividendi e potranno vendere le azioni ereditate con la privatizzazione. È la sera del 28 gennaio. L’epilogo di una settimana di battaglia parlamentare: dai banchi del Partito democratico parte “Bella Ciao”.
IL PRESIDENTE della Camera ha appena abbassato la mannaia della “ghigliottina” per mettere il punto su una settimana di ostruzionismo e opposizione dura, soprattutto dei 5 stelle. Niente più interventi: si vota. Laura Boldrini legge i risultati rapidamente, gelida. Poi abbandona l’aula in fretta, inseguita dalle grida. Sotto di lei, i deputati del Movimento 5 stelle sono scesi in massa a occupare i banchi del governo. Agitano cartelloni e bavagli, ne lanciano alcuni verso la presidenza. Nella ressa succede di tutto, come ricostruiranno le immagini delle telecamere e le cronache parlamentari dei giorni seguenti. Proprio in quel momento il Pd fa partire l’inno della resistenza partigiana. È rivolto alla protesta eclatante dei Cinque stelle, ma dà la sensazione – stonatissima – di essere il sigillo a una legge per cui dovrebbero esultare soprattutto le banche.
IL DECRETO Imu-Bankitalia è stato praticamente l’ultimo atto dell’agonizzante governo Letta. Un provvedimento combattuto dal M5s con un’intensità senza precedenti in questa legislatura. Il “manifesto” è un intervento del deputato Sebastiano Barbanti, rilanciato sul blog di Beppe Grillo: “Avete voluto nascondere la Banca d’Italia dietro la foglia di fico della cancellazione dell’Imu (...) Ditelo agli italiani che gli state rubando la Banca Centrale! (...) Ditelo agli italiani che state prendendo 7,5 miliardi di soldi loro per darli agli azionisti privati di Banca d’Italia! Ditelo ai cittadini che sui loro investimenti prendono lo 0% che state garantendo agli azionisti un rendimento addirittura del 6% senza rischi!”.
Dopo essere passato in Senato senza scossoni, l’approvazione a Montecitorio si trasforma in un Vietnam parlamentare. Primo atto clamoroso, il 24 gennaio. Il decreto sarebbe decaduto alla mezzanotte del 29, il governo pone la fiducia. Alcuni Cinque stelle improvvisano un “picchetto”, sedendosi sotto il banco della presidenza, bloccando i colleghi e impedendogli di votare. In quel momento il presidente in Aula è un altro “grillino”, Luigi Di Maio, che sospende la seduta ed espelle i suoi compagni. È il primo atto di un ostruzionismo che va avanti per giorni. Alla ripresa dei lavori, il 27 gennaio, restano solo due sedute per convertire il decreto. I deputati M5s chiedono di separare il provvedimento sull’Imu da quello su Bankitalia, approvando il primo e mettendo da parte il secondo. La maggioranza va avanti per la sua strada. L’ultima carta dei Cinque stelle è la presentazione di centinaia di ordini del giorno per spingere il voto di fiducia oltre la soglia della decadenza. La strategia funziona: il 28 gennaio, a poche ore dalla mezzanotte, mancano ancora decine di interventi.
Il decreto si salva in extremis con la “ghigliottina” della Boldrini. A margine del voto, e nei giorni successivi, si scatena uno spettacolo da saloon, tra le botte di un questore, gli insulti degli onorevoli grillini, l’occupazione delle commissioni e Bella Ciao che si alza dai banchi della maggioranza.

il Fatto 1.3.14
Tutte le balle di Penati sulla sua prescrizione
Come, nonostante le numerose dichiarazioni, l’ex presidente della Provincia di Milano ha poi ceduto alla tentazione
di Gianni Barbacetto


Aveva detto: “Rinuncerò alla prescrizione”. Ora la prescrizione è arrivata e Filippo Penati l’ha acchiappata al volo. Ma senza metterci la faccia, anzi, mostrando di non volerla, di subirla come una sciagura che chissà come gli è capitata sulla testa. Per tre anni ha ripetuto: “Non la voglio”. Ora però è arrivata e non può far altro che incassarla. Tutto comincia quando scoppia lo scandalo di Sesto San Giovanni. Una storiaccia di aree industriali ormai inutilizzate, a un passo dal confine nord di Milano, trasformate in preziose aree commerciali e residenziali. Con relativo pagamento di tangenti all’ex sindaco di Sesto, ex Stalingrado d’Italia: questo, almeno, è ciò che raccontano due imprenditori che hanno avuto a che fare con quelle aree, Giuseppe Pasini e Piero Di Caterina. Penati viene indagato e poi rinviato a giudizio per concussione: secondo l’accusa, avrebbe preteso soldi e aiuti per far andare avanti i lavori sulle aree. Mazzette milionarie, che sarebbero state pagate in Lussemburgo e in Svizzera. I fatti avvengono tra il 2000 e il 2004. La concussione è un reato grave, con pena alta e prescrizione lontana: punisce severamente il pubblico ufficiale che costringe un imprenditore o un cittadino a pagargli una tangente o un’altra utilità. O meglio: puniva. Perché nel novembre 2012 il ministro della giustizia Paola Severino fa approvare una nuova norma che smonta come fosse di Lego una legge che funzionava benissimo . Distingue il comportamento di chi “costringe” a pagare (concussione per costrizione), da quello che lo “induce” a un comportamento illegittimo, senza pressioni o violenze (concussione per induzione). In questo caso, non solo si apre un caos interpretativo per distinguere quando finisce l’“induzione” e comincia la “costrizione”; ma le pene sono ridotte, così la prescrizione galoppa e arriva ad azzerare tanti processi. Uno di questi, quello più noto e segnalato fin da subito, è proprio quello di Penati. Ma lui giura solennemente: “Rinuncerò alla prescrizione”. 30 agosto 2011: “Ristabilire la mia onorabilità significa per me uscire da questa vicenda senza ombre e senza macchie. Se, al termine delle indagini in corso, tutto non verrà chiarito, non sarò certo io a nascondermi dietro la prescrizione. Intendo ristabilire il mio onore non certo evitando il processo, ma rispettando le regole all’interno del contesto processuale, la giustizia arriverà a ristabilire la verità”. Le indagini procedono, Penati resta nel processo e il ministro Severino avvia la sua “riforma” ammazza-concussione. 8 ottobre 2012: “Se il testo finale del disegno di legge anticorruzione avrà effetto su qualche reato, rinuncerò alla prescrizione”. 13 maggio 2013: inizia il dibattimento a Monza e Penati non si presenta in aula. “È mia intenzione essere presente in aula durante il processo. Oggi non lo sono stato perché non era necessaria la mia presenza, in quanto le questioni erano di carattere tecnico e queste erano di competenza dei miei legali”. Tra le questioni “tecniche” c’è la richiesta di prescrizione che, in assenza dell’imputato, scatta automaticamente. Penati annuncia: “Ho dato fin d’ora mandato ai miei legali di ricorrere in Cassazione al fine di ottenere lo svolgimento del processo”. 27 febbraio 2014: la sesta sezione penale della Cassazione non può far altro che stabilire che il ricorso è inammissibile e dichiarare l’estinzione del reato. Penati è prescritto: a sua insaputa.

Repubblica 1.3.14
Arriva la Tasi con l’aliquota extra
Caos sugli immobili della Chiesa
di Roberto Petrini


ROMA - E’ giallo sul pagamento della Tasi da parte degli immobili della Chiesa, anche quelli «esclusivamente » adibiti a luogo di culto o esercizio religioso finora esenti. La nuova Tasi, infatti, trova ragione nell’utilizzo dei cosiddetti servizi indivisibili (illuminazione, viabilità ecc.) mentre l’Imu era una tassa sulla proprietà. Il cambiamento di motivazione dell’imposta imporrebbe dunque il pagamento a tutta una serie di edifici, appartenenti alla Chiesa che oggi sono esentati dall’Imu.
Per evitare che anche 25 edifici di proprietà del Vaticano ed extraterritoriali potessero essere chiamati a pagare la Tasi (mentre non pagavano l’Imu) il governo avrebbe introdotto nel decreto enti locali di ieri, nel quale si definiscono le aliquote Tasi, una esenzione esplicita per edifici, che vanno dalla Basilica di San Paolo a Castel Gandolfo. «Nel passato la tassa era sul patrimonio, non sui servizi, come invece è la Tasi», ha spiegato ieri sera il sottosegretario al Tesoro Pier Paolo Baretta. Dunque, ha aggiunto, è una novità per la Chiesa ma «la tassa stessa è una novità». Gli immobili adibiti al culto, dunque, sarebbero chiamati a pagare. Come del resto confermano alcuni parlamentari esperti della materia e alcuni tecnici del settore. Anche la Chiesa, si nota, con il nuovo corso, sembrerebbe orientata a rinunciare a qualsiasi sospetto di privilegio.
Solo in tardissima serata Palazzo Chigi ha emesso una nota nella quale precisa che la norma che esenta i 25 immobili varata ieri è una norma attuativa di una disposizione programmatica dei Patti Laternensi. E spiega «che non incide per nulla sul regime impositivo attualmente in vigore per altri beni immobili ecclesiastici ». Un regime che tuttavia, secondo l’interpretazione circolata ieri e avallata anche dal governo, prevede il pagamento della Tasi e l’esenzione solo per la parte restante dell’Imu. Il giallo non si dirada.
Il piatto forte del primo decreto Renzi è comunque l’introduzione della nuova addizionale dello 0,8 per mille per finanziare il ritorno delle detrazioni per le fasce più deboli. Attualmente sulla Tasi per la prima casa si paga una aliquota che va da un minimo di 1 per mille fino ad un massimo del 2,5 per mille: tuttavia la Tasi, fino ad oggi, a differenza della vecchia Imu, non prevedeva detrazioni forfettarie e per i figli a carico. I Comuni hanno protestato e il precedente esecutivo Letta trovò un accordo per consentire ai Municipi di aggiungere al 2,5 per mille una addizionale mobile dello 0,8 per mille il cui gettito veniva vincolato all’introduzione, autonomamente da parte di ciascun sindaco, di detrazioni per i ceti più deboli. «E’ la prima tassa di Renzi», attacca il forzista Capezzone ma anche nel Pd ci sarebbero mal di pancia.
Il decreto enti locali, che prevede anche l’esenzione dalla Tasi per i terreni agricoli e proroga al 31 marzo la sanatoria sulle cartelle esattoriali, elimina anche la web tax, introdotta dalla legge di Stabilità. Renzi ieri ha twittato: «Siamo stati di parola». Immediata la replica di Boccia (Pd): «Sei stato di parola con le multinazionali » Il riferimento è web company che con la norma su tracciabilità dei fatturati e obbligo Iva avrebbero pagato 137 milioni invece dei 6 del 2013.

Corriere 1.3.14
«Atti truccati dai Salesiani»
Inchiesta su prelati e mediatori, Bertone sentito di nuovo
di Fiorenza Sarzanini


ROMA — La spartizione dei beni dei Salesiani è stata effettuata falsificando le autorizzazioni emesse dall’ordine ecclesiastico. L’accordo che riconosce un indennizzo di ben 130 milioni di euro agli eredi del marchese Alessandro Gerini e ai loro mediatori è stato siglato grazie alla contraffazione dei documenti ufficiali. La clamorosa denuncia arriva direttamente dal Vaticano. E ha convinto il Rettor Maggiore Pascual Chavez Villanueva, assistito dall’avvocato Michele Gentiloni Silveri, a rivolgersi alla procura di Roma, già titolare di un’inchiesta sulla vicenda, chiedendo nuovi accertamenti su alti prelati e faccendieri che hanno gestito la trattativa.
La Santa Sede ha già emesso il decreto di nullità dei «visti» con l’obiettivo di impedire la liquidazione della somma, soprattutto la vendita all’asta dei beni, compresa la sede generale della Congregazione fondata da don Giovanni Bosco. «A questo punto — sottolinea il legale — costituisce un obbligo morale che le somme destinate ai bisognosi, vengano sottratte a chi ha cercato di appropriarsene senza averne titolo».
È ormai una storia infinita quella che rischia di mettere finanziariamente in ginocchio i Salesiani. E il nuovo capitolo ruota intorno a una perizia effettuata sui sistemi informatici della Santa Sede e disposta dalle stesse gerarchie vaticane con l’avallo di papa Francesco. La relazione è stata già consegnata al procuratore Giuseppe Pignatone e al sostituto Paola Filippi che qualche settimana fa hanno interrogato per la seconda volta l’ex segretario di Stato, monsignor Tarcisio Bertone, e nei prossimi giorni decideranno le ulteriori mosse dell’inchiesta.
L’indagine già aperta riguarda i possibili illeciti compiuti dal mediatore Carlo Moisè Silvera e dall’avvocato Renato Zanfagna al momento di trattare per conto dei nipoti di Gerini un accordo sull’immenso patrimonio che il nobiluomo aveva lasciato ai Salesiani. La guerra giudiziaria andata avanti per 17 anni — il marchese morì il 5 giugno 1990 — era stata chiusa l’8 giugno 2007 con l’impegno a versare 25 milioni, oltre a 100 milioni da versare al legale come provvigione. I Salesiani hanno però deciso di non procedere alla consegna della cifra sostenendo di essere stati ingannati — anche grazie alla complicità di alcuni appartenenti alla Congregazione — e Silvera ha chiesto e ottenuto dal tribunale il sequestro di beni mobili e immobili dei religiosi. Adesso tutto potrebbe essere rimesso in discussione.
I responsabili degli enti ecclesiastici non possono firmare alcun accordo superiore al milione di euro senza l’autorizzazione della Santa Sede. Per questo l’economo dei Salesiani, don Giovan Battista Mazzali, aveva sollecitato per ben due volte il via libera. Durante l’ultimo interrogatorio Bertone ha ribadito di «essere stato ingannato» ma non ha potuto negare di essere stato lui a sollecitare i vertici della Fondazione a concedere l’approvazione. Ebbene, la perizia ha accertato che la lettera firmata il 19 maggio 2007 dal segretario generale dei Salesiani Marian Stempel per concedere il nulla osta all’accordo, è stata modificata in più punti. In particolare è stato aggiunto un paragrafo che chiama direttamente in causa la «Direzione generale Opere Don Bosco» coinvolgendola nell’obbligo di versamento dell’indennizzo. E questo renderebbe non valida l’intera transazione.

il Fatto 1.3.14
Parlamento, quanto potere ha davvero?
risponde Furio Colombo


CARO FURIO COLOMBO, in giorni come questi (fiducia al Governo) il Parlamento appare possente. Si resta per ore in attesa di sapere il suo umore e la sua decisione. Subito prima e subito dopo Camera e Senato sembrano capaci solo di eseguire le istruzioni del governo, le maggioranze approvano ciò che hanno pensato e deciso altri. Come spiegare questa personalità sdoppiata?
Alberto

LA REPUBBLICA italiana ha un Parlamento ombra di cui non si discute mai, come se non fosse un normale organo di attività legislativa. Non lo è. Da molti anni, in ogni legislatura le leggi di iniziativa parlamentare si contano sulla punta delle dita e sono sempre o molto speciali (come l’istituzione del Giorno della Memoria della Shoah) o molto piccole, per le necessità di un luogo o la soluzione fin troppo ritardata di un problema. Direte che questa descrizione non corrisponde ai violenti scontri verbali (e qualche volta fisici) che si vedono così spesso nei telegiornali. Ma quegli scontri hanno due sole origini: la resistenza di una parte di deputati o senatori a qualcosa imposto dal governo, oppure una libera (e frequentissima discussione) su fatti del giorno come se l’aula della Camera o del Senato fossero uno studio televisivo. Il colmo (anch’esso frequente) del dibattito inutile è quando la discussione si accende intorno a un programma televisivo appena trasmesso o a una dichiarazione in rete, e può durare un giorno intero. Non saprei dire se l’epoca che ha ormai segnato nel marmo il nome di Renzi, sarà la volta buona del ritorno al Parlamento. Temo di no. Renzi non è (non è ancora, e se ha ragione lui, non lo sarà per anni) membro del Parlamento e inoltre ha uno stile di conduzione del governo molto personale. Tutto ciò fa pensare che il Parlamento sarà inondato di lavoro e spinto, come i rematori delle navi romane, ad accelerare la voga. Non vedo un aumento di responsabilità del lavoro dei parlamentari, delle Commissioni, delle Camere. Non vedo la possibilità di passare dalla pura e semplice approvazione delle leggi dell’esecutivo alla restituzione al Parlamento della sua funzione originale di fare le leggi. Lo stile di fretta impresso da Renzi alla politica non promette, su questo, niente di buono. Eppure non è il problema. Il problema è il potere esclusivo dei partiti. È sempre stato più grande e ingombrante che in ogni altra democrazia. Ora è arrivato Grillo con il suo M5S e, con sorpresa, ha confermato e raddoppiato il potere del partito-leader e l’umiliante posizione dipendente del parlamentare: niente si decide in parlamento, tutto è nelle mani dei leader. Non è la strada più promettente per un cambio democratico della vita italiana.

l’Unità 1.3.14
Bergamo, al congresso Fiom uova contro il segretario Cgil
Luigi Bresciani aggredito da un delegato di «Rete 28 aprile» che fa capo a Cremaschi
Condanna di Camusso e Landini: gesto provocatorio e violento
di Giuseppe Vespo


Uova in faccia, urla e spintoni: cose mai viste in Cgil stanno inasprendo il clima di un congresso che ormai conta qualche ferito (lieve). Dopo i tafferugli di Milano, con protagonista l’ex Fiom Giorgio Cremaschi, un nuovo episodio di violenza si è verificato ad Albino, dove le tute blu di Bergamo hanno chiuso ieri il loro congresso provinciale.
Quando il segretario della Cgil bergamasca, Luciano Bresciani, che presiedeva i lavori, si è alzato per intervenire nel dibattito, dalla prima fila sono partite accuse e insulti nei suoi confronti: «Hai venduto i lavoratori! », ha urlato un delegato della Fiom, talmente irato da tirare pure un uovo in faccia al suo collega sindacalista. Bresciani si è anche fatto male. Medicato, ha comunque terminato il suo intervento, mentre in sala non c’era più traccia del suo aggressore. Lui si chiama Cosimo D. è un delegato delle tute blu alla Brembo, l’azienda del presidente di Scelta Civica, Alberto Bombassei, e fino a ieri era anche membro del direttivo dei metalmeccanici Cgil di Bergamo. Cosimo è aderente alla corrente sindacale «Rete 28 Aprile», che ha in Giorgio Cremaschi il suo esponente più conosciuto.
Cremaschi appena due settimane fa a Milano si è reso protagonista di un episodio che ha fatto molto discutere. È stato bloccato e allontanato senza complimenti dal Teatro Parenti dove, durante un incontro alla presenza di Camusso e di altri segretari nazionale, avrebbe preteso di parlare scavalcando gli interventi dei delegati iscritti al dibattito.
IL PRECEDENTE DI MILANO. Al Parenti si teneva un attivo dei delegati regionali delle categorie non aderenti a Confindustria (non era stata invitata la Fiom, che pure rappresenta anche lavoratori la cui controparte non è confindustriale) per discutere dell’opportunità di estendere a queste categorie l’accordo su democrazia e rappresentanza firmato il dieci gennaio da Cgil, Cisl, Uil, insieme all’organizzazione guidata da Giorgio Squinzi.
Un’intesa, questa, che rappresenta il vero nodo attorno al quale si sta aggrovigliando il congresso di Corso Italia. La Fiom, contraria a quell’accordo, ha chiesto prima di interrompere l’iter congressuale per far votare i lavoratori sulla rappresentanza, poi ha presentato delle richieste alla Cgil che sostiene siano state disattese. A questo punto l’organizzazione guidata da Maurizio Landini aspetta il comitato centrale di lunedì per decidere come comportarsi. «Ma dalla critica alla violenza c’è un bel salto», dice Mirco Rota segretario della Fiom in Lombardia. La condanna per quanto è avvenuto ieri, così come per i tafferugli di due settimane fa, è arrivata subito da parte della Cgil e delle tute blu.
L’aggressione a Bresciani «è stata una cosa mai vista durante un congresso, uno così non dovrebbe più far parte della Cgil», dice Rota. Verrà espulso? «Lo deciderà la commissione di garanzia di Bergamo», che aprirà un’inchiesta. Per il momento resta la condanna, che arriva secca anche da parte di Landini. «La mia stima personale e la mia solidarietà umana al compagno Luigi Bresciani - dice il segretario generale delle tute blu - L’atto commesso nei suoi confronti non è compatibile con i valori, la storia, la tradizione e la pratica di confronto e democrazia che forma l’identità e l’essere della Fiom-Cgil».
Di «gravità inaudita» parla anche la Cgil, per la quale interviene Susanna Camusso, che indica come «un episodio di inciviltà personale» quello di cui è stato vittima il segretario bergamasco. La segretaria di Corso Italia, che ieri era a Milano, ha poi ribadito che non è mai stata presa in considerazione l’ipotesi, ultimamente apparsa sulla stampa, di una separazione della Fiom dalla Cgil. Concetto più volte espresso anche da Landini. «Sono voci messe in giro da chi ci vuole male», riprende Rota. «Non usciremo mai dalla Cgil. Significherebbe la fine della nostra storia politica».

il Fatto 1.3.14
Delegato Fiom lancia uovo in faccia al segretario Cgil


AGGRESSIONE ai danni del segretario generale della Cgil di Bergamo, Luigi Bresciani. È accaduto ad Albino, nel corso del congresso provinciale della Fiom. Il programma dei lavori prevedeva l’intervento di Bresciani, che sedeva alla presidenza. Dalla prima fila un delegato della Brembo appartenente alla Rete 28 Aprile (aderente alla mozione a firma Giorgio Cremaschi), ha insultato lo stesso Bresciani accusandolo di “aver venduto” i lavoratori. Alle parole è seguito anche il lancio di un uovo che ha colpito Bresciani in faccia. Rimasto lievemente contuso, dopo essere stato medicato, Bresciani è tornato alla presidenza e ha preso la parola. Quando la situazione è tornata alla normalità, dell’autore del gesto, contestato anche da alcuni partecipanti al congresso, non c’era più traccia. “Quest’ultimo grave episodio - commenta la Cgil lombarda- ha dei precedenti che hanno alimentato un clima di odio e di intolleranza nel dibattito interno”. “Condanno, a nome personale e di tutta la segreteria nazionale della Fiom-Cgil, l’episodio provocatorio e violento”, ha detto il segretario della Fiom-Cgil, Maurizio Landini.

l’Unità 1.3.14
Risse invece del confronto
È grave e triste si corra ai ripari
di Bruno Ugolini


HO CONOSCIUTO TEMPO FA LUIGI BRESCIANI, SEGRETARIO DELLA CGIL DI BERGAMO. È IL DIRIGENTE SINDACALE, non contestato con argomenti convincenti, ma colpito al viso con un gesto violento. Non da un crumiro, non da un sicario fascista, bensì da un delegato della Fiom (seguace di Giorgio Cremaschi e non di Landini). Il tutto durante una seduta congressuale, una delle tante che preparano l’assise nazionale. Avevo incontrato Luigi Bresciani per una rievocazione di Luciano Lama. Ecco, ora, mentre leggo le cronache di quell’episodio rimango triste e stupefatto. Emi chiedo che cosa direbbero, se fossero ancora in vita, uomini come Lama, come Trentin, come Garavini, come Foa, per non parlare di Di Vittorio, Santi, Boni. Certo potrebbero guardare con angoscia alle sorti di questo Paese stremato dalla disoccupazione e dalla precarietà, ma darebbero in escandescenze di fronte a un episodio come quello di Bergamo.
E non si facciano paragoni insensati. Una cosa sono i bulloni scagliati a Firenze nel 1992 da una folla delusa, in polemica per accordi indigeribili, una cosa è un atto che ricorda risse da osteria, nella sede autorevole di un congresso Cgil. E non basta, credo, l’indignazione, oppure il ricorso a misure repressive, la tacitazione del dissenso. È sperabile che si corra ai ripari rifacendosi alle armi del confronto democratico. La Fiom, come si sa, non condivide l’apprezzamento per un’intesa sulla rappresentanza che finalmente (dicono tutte le altre categorie) misura l’entità quantitativa dei sindacati e non lascia la «conta» nelle mani furbe di ogni singola organizzazione. Ma ci sono aspetti come le sanzioni per chi non rispetta gli accordi (anche per gli imprenditori) e l’intervento mediatorio delle confederazioni, che non piacciono. È stata rivendicata, come da statuto, un’approvazione affidata agli iscritti e alla fine la Cgil l’ha decisa. Ma le sue modalità non soddisfano. Alcuni giuslavoristi di fama, come Umberto Romagnoli, hanno spiegato che la Fiom ha ragione. Ora però sarebbe opportuno riportare il dissenso nelle regole di un confronto democratico. Se si accusano non le tre confederazioni, ma tutte le categorie (dagli edili, al pubblico impiego, ai tessili, ai chimici eccetera) di muovere un attacco alla democrazia, si fanno passare Camusso e tutti gli altri, come tanti Marchionne usurpatori dei diritti di chi lavora. E così additando si eccitano gli animi e si trasforma la discussione in rissa. Negli stessi giorni in cui il Paese avrebbe bisogno di un guizzo di vitalità e di speranza. Mentre oggi appare fermo, bloccato, privo di energia anche nelle sue parti migliori, quelle che si richiamano al lavoro. Qualcuno, autorevole, dovrebbe lanciare un appello a Camusso e a Landini. Soprattutto a quest’ultimo. Un dirigente spesso invidiato perché «buca il video» e che molti, da destra e da sinistra, additano come intento a costruire un nuovo soggetto politico. Io sono convinto che lui sappia benissimo che oggi, con i tempi che corrono, l’unico spazio politico chiaramente di sinistra può resistere e innovare, nel suo sindacato, nella sua Cgil. Se rimane unita nella bufera.

La Stampa 1.3.14
Muos di Nisceni, il Pentagono tira dritto
“Sarà operativo entro il 2017”
Alta tensione in Sicilia per il corteo di oggi contro il piano
di Francesco Semprini

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La Stampa 1.3.14
Il disastro del lavoro. Spariti 478 mila posti
I disoccupati sono 3,2 milioni, fra i giovani il tasso cresce al 42,4%
di Luigi Grassia

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La Stampa 1.3.14
Mamme fuori dal mercato del lavoro: una su quattro lo perde entro due anni
Ma Sabbadini (Istat): “È un dato strutturale, che non cambia fra generazioni”
di Laura Preite

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Il Sole 1.3.14
Lavoro e giovani
Il mondo corre con WhatsApp, l'Italia affonda nei suoi ritardi
di Guido Gentili


«Allucinante» è la parola con la quale il capo del Governo Matteo Renzi ha commentato il dato sulla disoccupazione: 12,9% a gennaio dopo un 2013 che ha visto la perdita di mezzo milione di occupati. A sua volta questo dato ne porta in grembo un altro: la disoccupazione giovanile è al 42,4%.
In entrambi i casi, siamo ai dati peggiori dal 1977, quando Renzi aveva due anni, nell'Italia insanguinata dalle Br esordivano (con due lustri di ritardo rispetto agli altri Paesi europei) le trasmissioni a colori della Rai Tv e negli Usa usciva il primo episodio della saga cinematografica "Guerre Stellari".
In una biografia nazionale dove pure abbondano le belle pagine, certi dati e confronti provocano in effetti allucinazioni. L'Espresso era ieri in edicola con l'inchiesta sulla "Fuga dei laureati" e la perdita nazionale della classe dirigente del futuro. Chi può se ne va, dal Paese dove 2,2 milioni di "under 30" non trovano lavoro, non lo cercano e non partecipano ad alcun processo di formazione.
L'Italia bloccata che ha bruciato speranze allo stesso ritmo con cui ha aumentato il suo debito pubblico, s'affaccia in un mondo dove le guerre stellari, e non solo quelle virtuali del cinema, erano già in corso negli anni Settanta, mentre noi decretavamo le "domeniche a piedi" come contromossa per il rialzo choc del prezzo del petrolio.
Uno dei due fondatori di WhatsApp (il gigante della messaggistica mobile nato nel 2009 e acquisito ora da Facebook per 19 miliardi dollari), Jan Koum, classe 1976, è più giovane di Renzi. Ebreo ucraino costretto a 16 anni a trasferirsi con la famiglia a Mountain View, in California, qui i servizi sociali gli assegnano una casa e un primo sostegno. La madre, casalinga a Kiev, trova un impiego come babysitter e Koum "esordisce" sul mercato del lavoro facendo le pulizie in un negozio di alimentari. Autodidatta programmatore e solo dopo iscrittosi alla facoltà di Scienze informatiche, oggi, a 38 anni (il co-fondatore di WhatsApp Brian Acton ne ha 42) ha venduto la sua quota incassando 6,8 miliardi di dollari, in pratica il budget annuale di San Francisco.
E togliendosi anche la soddisfazione di firmare simbolicamente l'accordo con Facebook davanti alla palazzina un tempo sede di quei servizi sociali americani che l'accolsero e lo salvarono.
Ma anche l'Italia, si dirà, ha i suoi servizi pubblici. Prendiamo il caso dei Centri per l'impiego così come l'ha raccontato con una lettera una preside di liceo al senatore Pietro Ichino. La preside viene a conoscenza che gli enti pubblici possono avvalersi della collaborazione dei lavoratori in mobilità per impiegarli nei lavori "socialmente utili". Si rivolge allora al Centro d'impiego della sua città e «dopo l'iniziale sconcerto dell'impiegata – scrive – che mi scrutava per cercare di scorgere le antenne verdi, sono riuscita a carpire qualche vaga informazione sugli elenchi nominativi di questi ex lavoratori detenuti dall'Inps che forse... chissà quando, me li potrebbe rilasciare ma... privi di profilo professionale. Rifletto: migliaia di lavoratori stretti dalla crisi non sanno che fare, ricevono un sussidio e nessuno li interpella? Possibile? Che benefici trarrebbe una scuola dalla presenza di operai, tecnici etc che collaborano al funzionamento della stessa in più settori...».
Risposta di Ichino. «Questa è la situazione di molti Centri. Qualcuno a Roma e negli assessorati regionali dovrebbe chiedersi: se i Cpi non dispongono neppure della lista dei disoccupati che dovrebbero collocare (per non parlare dei rispettivi professionali) come è pensabile che svolgano la loro funzione essenziale di collocamento? E prima ancora, come è pensabile che le imprese si rivolgano a questi Centri per trovare i lavoratori di cui hanno bisogno?».
Non è pensabile e infatti non accade: il servizio è una foglia morta. Ma non negli Stati Uniti del famoso, e antisolidale, "liberismo selvaggio", ma qui in Italia. Che però è il Paese, vedi il caso, dove nel 2014 il direttore generale della Banca d'Italia Salvatore Rossi pone all'evidenza che «le ragioni del libero mercato attendono ancora pieno riconoscimento», con ciò indicando non un inciampo contingente ma un ritardo storico.
«Allucinante, subito il Jobs Act», ha detto Renzi. Ma questo è ancora un titolo con delle buone indicazioni, non un provvedimento articolato del Governo il cui successo in chiave pro-crescita dipenderà, e molto, da ciò che in parallelo verrà fatto sui terreni della spending review e della riduzione del cuneo fiscale.
Nell'attesa, mentre sta per entrare in pista il "Piano garanzia" per 900mila giovani sul cui programma di spesa la sorveglianza dovrà essere massima (perché lo spiega Davide Colombo a pag. 5) potrebbe essere utile per il nuovo ministro del Lavoro Giuliano Poletti esaminare come funzionano e cosa offrono in Svezia i servizi all'impiego per i giovani (modello citato alla Leopolda, a dicembre scorso, dallo stesso Renzi). Il piano "Labour market initiatives for young people" è facilmente rintracciabile sul sito del governo svedese. Brevissima introduzione del ministro, tre cartelle in tutto, strategia chiara tradotta da tempo in fatti.

Repubblica 1.3.14
La capitale della grande bruttezza
Varato il decreto con i fondi che evitano il default, ma i bilanci di Roma finiscono sotto tutela
di Francesco Merlo


CARLO Verdone mi dice che dal suo balcone al Gianicolo vede già «il buio del magnifico fallimento della mia città, una nuvola di depressione». È la stessa che io respiro a Termini già alle 6 del mattino con il puzzo d’orina che si sprigiona dall’ultima uscita della metropolitana e si diffonde, unica fragranza in mancanza di ponentino, sul piazzale dove si staglia l’orrenda statua di Papa Wojtyla che è romanissima arte per amicizia e non per valore estetico. Verdone nota con dolore che «mentre a Los Angeles si celebra la Roma metafisica di Sorrentino, qui fallisce quella fisica ». E prevede che, alla fine, «quando saranno finiti anche i 750 milioni che sono stati stanziati adesso, venderanno Roma ai cinesi come hanno fatto in Kenya».
«VENDERANNO Roma agli asiatici e Pompei ai tedeschi. Quelli sanno come intervenire. Noi facciamo solo eventi e niente interventi ».
Dunque leggiamo, io e Verdone, il tempo dello stesso fallimento di Roma ognuno nel suo spazio. Girando a piedi tutte le mattine io ho imparato a riconoscere i borseggiatori fissi di Termini, che si nascondono tra le auto posteggiate, «finti poveri che ogni tanto picchiano i veri poveri» mi spiegano i carabinieri e io penso che somigliano ai furfanti organizzati che ho visto a Calcutta. Verdone invece, che ha lavorato in periferia, è come entrato dentro la canzone di Renato Zero («C'è chi fin là non giunge mai / è lì che muore il mondo») e perciò dice che lì Roma è strafallita molto tempo fa». Io invece a Termini ho visto all’opera la banda delle baby scippatrici: una decina di bambine che “lavorano” sotto, sulle banchine in direzione Laurentina, e sopra, nei treni dei pendolari. Tra i portoghesi che regolarmente non pagano il biglietto, ne riconosco sempre uno che salta i tornelli come un atleta. E ho pure notato che i vigili urbani si voltano dall’altra parte. Li ho invece visti multare un giovane dall’aria per bene che diceva di avere smarrito il biglietto. Ha versato 50 euro ripetendo con l’aria umiliata: «Ma ho la faccia di uno che non paga il biglietto, io?».
Racconto a Verdone che oggi, a Termini, sulla parete di un’edicola ho annotato un nuovo orribile scarabocchio decifrabile come “Marino sei un fallito”, firmato dal graffitaro Lash Dirty Ink, che ha persino un sito Internet dove esibisce i tatuaggi. Commenta Verdone: «Ne prendessero uno, almeno una volta. Certo, questi sono dei gran maleducati, ma gli educatori, a Roma, dove stanno?».
Ne parlo con Massimiliano Tonelli che dirige il giornale online Romafaschifo.it ed è un grido d’amore così esasperato da capovolgersi in dannazione. Il sito è la modernizzazione della statua di Pasquino dove venivano postati, come i file di oggi, i pizzini di denunzia che allora si chiamavano cartigli. E le divinazioni di un tempo oggi sono i video. Ebbene, Tonelli riceve minacce di morte - «ti faremo fuori» - perché riesce ogni tanto a beccare in azione i graffitari che dice «sono peggio della mafia dei cartellonisti, dei caldarrostai che dominano il mercato dei camion-ristoro e dei bulli travestiti da antichi romani. Il graffitaro più distruttivo è quello che si firma Reps perché non usa il solito spray ma l’acido con cui ha sfasciato, per esempio, tutte le nuove pensiline».
Non so quante siano, ma di sicuro sono molte centinaia queste pensiline dell’Atac in cristallo chiaro e in metallo. Ne racconto una per tutte, quella di via Manzoni: il sedile è stato asportato (vengono riciclati nei mercatini selvaggi) e le scritte sono indelebili e trasversali: «merda a Berlusconi» e «comunisti di merda». Quelli dell’impresa Clear Channel, che forniscono gratis le pensiline sperando di recuperare e guadagnare con la pubblicità, sono disperati e progettano la fuga. Dice Verdone: «In tutta Europa hanno eliminato i graffiti tranne a Roma dove sono tutti artisti imbrattatori, tanto restano impunti».
Dunque Verdone la guarda dal Gianicolo e la vede «spenta nonostante il tramonto meraviglioso» ma la malinconia estetica non è nulla in confronto al dolore fisico: «La deformano sino alla bruttezza e la sformano sino al pericolo ». E racconta Verdone: «Per ben due volte ho rischiato di morire cadendo, anzi precipitando con la moto in una buca». Ed è un’immagine da fallimento di guerra questa città sventrata, con la terra che si sbriciola, «e ogni tanto ci buttano una balla di catrame ma, dopo una settimana, la buca è di nuovo là, più profonda di prima». E mi dice che per andare a casa «percorro ogni giorno una bella strada larga, ma a sinistra, come in Inghilterra, perché è meglio rischiare di sbattere con le auto che ti vengono incontro piuttosto che finire dentro le buche».
Chiedo a Tonelli se il suo sito ha mai tentato una mappa, una carta geografica di queste famose buche, un indirizzario, una topografia sovversiva del fallimento, da mostrare magari al sindaco che, tarantolato come il vecchio Ciccio Franco di Reggio Calabria, crede che il default dipenda davvero dalla contabilità, dai soldi che, mannaggia, lo stato non gli voleva dare. E invece la diagnosi del tempo è già nella descrizione dello spazio: «Il fallimento - dice Verdone - comincia dalla mancanza di manutenzione ». Tonelli sostiene che è impossibile disegnare la topografia del terrore «ma stiamo lavorando al contrario, faremo la mappa della Roma senza buche, e sarebbe bello presentarla al sindaco, come il curriculum vitae – ah, la lingua batte dove il dente duole – del fallimento». Anche Verdone, per esempio, potrebbe disegnare il suo curriculum, ma nel senso in cui lo sognava Walter Benjamin, il diagramma di una vita perennemente con l’acqua alla gola: «Dal balcone del Gianicolo sino all’ultima buca evitata». Quali sono i suoi palcoscenici del fallimento di Roma, caro Verdone? «Beh, cominciamo con corso Vittorio Emanuele, il rione Monti, e poi via Cavour, in mezzo a gelati che sanno di sapone, panini precotti, pizze a taglio e gente che ti vuol far mangiare a tutti i costi porcherie. E dove c’era una libreria ora ci sta una saracinesca chiusa con la scritta “vendesi”. E in via Giulia, che era la più bella strada del mondo, non ci si può andare né in macchina né a piedi. E dappertutto vendono la stessa fregnaccia, la solita statuetta di Giulio Cesare fabbricata in Cina. E i Fori imperiali, che sono una pedonalizzazione sbagliata e pure finta… e la nuova Metropolitana che sono sicuro che io muoio e manco la vedo, capolavoro di un nuovo stile architettonico: l’incompiuto romano. E ancora quel raccordo anulare da terzo mondo. È come nel film di Fellini. Quello era cosi visionario che aveva già filmato anche il fallimento della città di Marino».
Dico: c’è anche la pista ciclabile del Tevere che umiliando l’idea stessa di passeggiata, con i tronchi d’albero, la spazzatura, il fango e i pavimenti divelti, sbugiarda persino la bici del sindaco. «Io - dice Verdone - so che questa città, negli anni scorsi, ha sopportato menzogne di ogni genere, e subìto tanti e tali scandali che capisco bene quelli che non volevano dare soldi a Roma. Pensano: tanto se li rubano».
L’idea di fallimento è quindi la traccia di un’epoca, e ogni mattina, in piazza Santa Maria maggiore, dove la Basilica è sempre transennata per impedire ai clochard di sistemarsi sui gradini di Dio, c’è una signora che esce dalla sua stabile tana di stracci , plastica e cartoni, dove vive rasoterra. Ingenuamente mi stupisco che si svesta e si rivesta senza neppure guardarsi intorno. Ci sono giacigli dappertutto sui marciapiedi, e rimasugli di cibo sui cartoni. È questo che chiamano «desocializzazione estrema» ed è difficile immaginare come Roma, ora che ha avuto i sui 750 milioni, possa assicurare a questa umanità dannata non dico la fraternité del 14 luglio ma almeno un po’ di decenza.
E vedo il fallimento anche nel palazzo dell’Opera dove il sindaco Marino si è esibito in una delle sue peggiori performance minacciando la chiusura e – rieccolo - il default, ma anche domandando preoccupato: «Quanto dura questa Manon Lescaut?».
Sulla via Nazionale passo davanti al piccolo Eliseo e all’Eliseo. I teatri a Roma sono luoghi di ricreazione per la terza età, quando va bene. E il teatro Valle è diventato il “centro sociale” degli artisti che lo hanno requisito. In alto c’è il Viminale, so che lì c’è Angelino Alfano e che la nostra sicurezza è nelle mani del ministro del Kazakistan. Verdone, affacciato dal suo balcone come da un palco di anfiteatro, ha una vista che toglie il fiato sul magnifico fallimento. Al punto che legge anche i segni che non vede: «Lo so che sembra un’ingenuità ma non c’è nessuno che dia il buon esempio, forse a Roma tutti meriterebbero di fallire».
Vado avanti e c’è il Palazzo delle esposizioni, un’istituzione antica e ancora efficiente che parla di un’altra Roma. Poi una curva a gomito prepara la sorpresa dei fori imperiale e di Palazzo Venezia con l’altare della patria, e nessuno ormai sa di quel foro dove poggiando l’occhio vedi in linea retta l’obelisco di piazza del Popolo, una prova della potenza della geometria e dell’ordine massonico. Infine c’è la Roma cartolina dei provinciali, con la casa di Berlusconi che è diventata folklore, come le orribili bancarelle del centro storico che è «il vero fallimento di Roma» secondo Verdone.
Nella bellissima piazza Lovatelli, dove ha sede la Sovrintendenza, si può scoprire persino che è vero quel che mi dice Tonelli e cioè che «è stato divelto il palo che segnalava l’isola pedonale, è stata rotta la catena e ora beatamente parcheggiano le auto tutti quelli della Sovrintendenza». E per me è questo il segno più romano del fallimento di Roma. Conclude Verdone: «È una città tutta sbagliata, biglietto da visita di un Paese tutto sbagliato. Sorrentino è stato bravo perché ha rimosso tutti i segni del fallimento mostrando che sotto c’è sepolta la grande bellezza».


il Fatto 1.3.14
Crisi capitale
Marino credeva fosse Roma, invece era un trompe-l’oeil
di Daniela Ranieri


Noi romani siamo un popolo perfido e ospitale: ci scappa un sorrisetto se il tassista chiede 200 euro ai giapponesi per un tragitto da via Veneto al Tritone, ma ci piange il cuore se un forestiero trova i carciofi mosci da Giggetto, con tutto il carico dell’orgoglio ferito e il giramento di culo, ché poi magari quello lo mette su Internet e il giorno dopo lo sanno pure in Texas. Così ci dispiace davvero se Ignazio Marino, venuto qui da Genova per tirarci fuori dalla pozza in cui Alemanno ci guardava annaspare, si è trovato male a Roma; se non se l’è manco goduta come si dovrebbe, mettendosi a mezzogiorno faccia al sole in un baretto del Pincio o salendo su fino alla palla del Cuppolone, ché quando è sereno si vede fino alla Bufalotta.
E ci vergogniamo pure un po’ che ne abbia intravisto le parti che avremmo preferito tenere nascoste, come gli angoli pieni di muffa di certe case del dopoguerra quando il dottore veniva a casa e bisognava mettere una tenda dalla cucina alla stanza diciamo da letto. Che abbia visto la monnezza grufolata dai maiali sul ciglio delle strade e sotto i portoni per via del fatto che i camioncini ecologici voluti da lui non passano sempre, e quella che prima era una prova di anarchia affidata all’estro del singolo – scaricare rifiuti abusivamente – s’è fatta sistema necessitato. E stai a guardà il capello se è colpa della sua amministrazione, infatuata di Svezia. Ci dispiace pure che si sia accorto che Roma non è quella spalmata nei piani-sequenza lirici di Sorrentino, ché quella la teniamo per i fuorisede blasé e per gli artisti che hanno fatto i soldi. E menomale che non gli è toccato il peggio, capitando per caso di notte in un Pronto Soccorso di Monti Tiburtini, tra zombi di eroina, infartati per varie cause, rifiutati da altri ospedali; o trovandosi verso le 6 di sera in una qualche periferia che fosse Saxa Rubra o Casalotti o La Rustica nell’inferno immobile delle macchine ad aspettare un autobus, l’unico che ci passa, che ben che vada si farà attendere 20-30 minuti e arriverà scassato, maleodorante, pieno della rabbia sorda di un’umanità senza parola né speranza sul volto, quando non di violenza vera e propria da ripararsi con l’ombrello, se mai, o scendendo alla prima fermata buia del km 18.
GLIEL’ABBIAMO fatto credere, finché ci è riuscito, che Roma fosse percorribile in bici, e non solo in quel tratto che separa il Campidoglio dal Colosseo. Gli abbiamo costruito intorno un Marino Show di compensato pieno di comparse vestite da gladiatori felici e giovani che fanno il brunch e vanno a piedi dall’ufficio a casa su un tappeto di sampietrini sonanti nel tremolante tramonto sul Tevere, raggiunte dalle truppe del più matteo-giovane Governo di sempre, riprese mentre sfrecciano in centro dentro spiritosissime macchinine o camminano, smartphone all’orecchio, in blazer leggero davanti al Capranichetta o a ristoranti bostoniani pieni di elegantissimi stronzi e preti glamour. Ma poi un giorno, e come poteva essere altrimenti, ha scoperto che era tutto un inganno, un trompe-l’oeil da poveracci, un baraccone senza più una lira, e c’è rimasto male. “Blocco tutto”, ha minacciato, e si sono messi paura giusto i parenti di Alemanno rimasti in carica nei posti pubblici, che invece, al massimo, abbiamo pensato “e sai che novità”, paventando quel po’ più di fila la sera sul lungotevere, se c’è la partita. Ché la condizione normale di Roma è proprio il blocco, la stasi, l’immobilità fatalista in cui ogni pioggia è uno tsunami e l’automobile si deve parcheggiare in tripla fila per ostinato amor fati, e l’unico intermezzo è il tram che strombazza se ci passa (storia vera: Alemanno contestava non so cosa con non so chi in mezzo alla strada e all’apparir del tram e un barista usciva sulla soglia e intimava al Sindaco: “Alemà, lèvate, ché deve passa tù cuggino”).
Per il resto, la notte ci si accoltella e di giorni si smadonna lo stesso sull’asfalto sbriciolato dalle tangenti di Romeo e dei furbetti del quartierino, con cui certo Marino non ha nulla a che fare, Che volete che ci cambi, a noi, se la metro p ferma tutto il giorno anziché solo nelle ore in cui dobbiamo andare al lavoro, per un suicida di disperazione o di attesa, o per un qualche frana o disservizio che gli americani riprendono con l’iPad come fosse una performance sulla caduta dell’Impero. Anzi, un blocco vero, pulito, preciso, sarebbe una specie di ordine, da noi mai sperimentato, un inopinato affermarsi della regola sul Caos.
Ecco, forse solo un blocco o una moratoria totale, come una cartina di tornasole, farebbe veder a tutti Roma com’è davvero e non come si finge di essere per tirare innanzi e non deludere i turisti: una grande location di sporcizia e rovine, una cornucopia per i politici corrotti, un Policlinico-parco-giochi per sindaci volenterosi ma inadeguati ad affrontarne la grande, sordida bellezza.

Il Sole 1.3.14
Il nuovo piano. Tra i criteri dettati dall'esecutivo previste dismissioni e valorizzazioni immobiliari
Stretta su Atac, Ama e spa «minori»: gare, cessioni e personale ai raggi x
di Laura Di Pillo e Giorgio Santilli


ROMA Non è la scossa che molti auspicavano per la selva delle partecipate di Roma Capitale, ma un primo colpo il Governo Renzi lo ha battuto e, rispetto all'immobilismo del passato, segna comunque un'inversione di rotta. Nel predisporre il «piano di rientro», il comune di Roma dovrà applicare i criteri dettati dal Governo: spending review basata più sul «metodo Cottarelli» e sul «metodo Consip» che non sulla «centrale unica di acquisto» all'acqua di rose varata dal Campidoglio; passaggio ai raggi X dei reali fabbisogni di personale delle società partecipate; modelli innovativi e gare per la liberalizzazione della gestione dei servizi di trasporto pubblico locale e di raccolta dei rifiuti; dismissione delle società partecipate «minori» che non svolgano attività di servizio pubblico; valorizzazione e dismissione del patrimonio immobiliare del comune.
Che impatto reale potranno avere queste misure sulle società? L'unica azienda che al momento sembra esclusa totalmente dall'applicazione di questi criteri è Acea (7.257 dipendenti, 3,62 miliardi di fatturato) che con l'assegno del dividendo anticipato da circa 27 milioni staccato a Natale al Comune di Roma, anche nel 2013 ha salvato le casse capitoline.
Non c'è traccia, nelle norme varate ieri dall'esecutivo, dell'emendamento Lanzillotta che aveva chiesto la vendita di una quota di minoranza di Acea per abbattere il debito comunale. La disciplina non esclude, però, che si possa andare nella direzione della vendita di ulteriori quote della società. I piani di rientro dovranno centrare il risultato e la dismissione di partecipazioni può contribuire a ritrovare l'equilibrio del conto economico e una riduzione dell'indebitamento.
Il nuovo decreto mira in modo diretto ed esplicito, invece, alle altre due società di maggiori dimensioni del Campidoglio, Atac e Ama. Anzitutto perché sono queste le società delle assunzioni facili dell'era Alemanno cui certamente si rivolge «la ricognizione dei fabbisogni di personale» (senza ovviamente escludere le altre). Basti pensare al debito da un miliardo e 600mila euro di Atac, la società di trasporti capitolini (11.800 dipendenti, 270 milioni di indebitamento finanziario, 864 milioni di fatturato). Riferimento diretto alle due municipalizzate quando si parla di prevedere nel piano di rientro la cura a base di «liberalizzazione» che tocca proprio «la gestione dei servizi di trasporto pubblico locale, di raccolta dei rifiuti e di spazzamento delle strade».
Quanto alle dismissioni vere e proprie, riguarderanno «società partecipate che non risultino avere come fine sociale attività di servizio pubblico». Teoricamente ci sarebbe dentro anche l'Auditorium che è però l'altro gioiello del Campidoglio insieme ad Acea. L'Auditorium Parco della Musica ha infatti chiuso il 2012 in positivo, mentre a rischio potrebbero essere Zètema (in sostanziale pareggio il preconsuntivo 2013) e Risorse per Roma.
Per non parlare di Farmacap, l'azienda capitolina che raggruppa le farmacie comunali (362 dipendenti): a un debito pregresso di 15 milioni va ad aggiungersene un altro da circa 20. In questa «giungla» di partecipazioni, quello messo in campo dal governo è uno strumento che sarà comunque utile al sindaco per razionalizzarle in una holding unica. Progetto annunciato ma non ancora definitivamente decollato su cui Marino ha promesso di lavorare. In primis perché la riorganizzazione garantirebbe alle casse del Campidoglio non pochi benefici fiscali.
Infine c'è da capire che tratti assumerà la spending review e quanto gli strumenti governativi – la task force del commissario Carlo Cottarelli e la Consip - saranno messi in campo per controllare e rafforzare la centrale unica varata dal Campidoglio. Certamente ci saranno dei «vincoli» sulla spesa, ma è ancora impossibile dire quanto saranno penetranti.

La Stampa 1.3.14
Pene più severe per abuso sessuale e tratta di minori
di Francesca Paci


ROMA Tutela dei più piccoli e garanzie legali per gli stranieri. La prima firma da Guardasigilli An- drea Orlando la mette sotto l’inasprimento del- le pene per lo sfruttamento sessuale dei minori e la pedo-pornografia e sotto il riconoscimento del diritto degli immigrati all’interpretazione degli atti nei procedimenti penali. Il consiglio dei ministri ha approvato ieri un decreto legi- slativo sulla tratta di esseri umani che prevede nuove aggravanti per le violenze più gravi, nor- me contro il «darknet» (gli escamotage che im- pediscono di essere tracciati su internet), possi- bilità di ricorrere alle intercettazioni anche nei reati di adescamento di minori, vincoli più fer- rei per chi assume persone incaricate di lavora- re a contatto diretto con ragazzini e ragazzine. L’altro testo estende invece il diritto alla difesa degli stranieri fino alla traduzione gratuita di dossier e atti durante i procedimenti giudiziari (l’onere extra è di 6 milioni di euro coperti fino al 2016 dal fondo di rotazione).
«Abbiamo voluto dare due segnali forti ri- spetto a reati odiosi che generano allarme so- ciale e rafforzare le garanzie per gli immigrati» commenta Orlando. È l’inizio dell’azione del go- verno sul terreno giustizia che, dice, ha ricevuto dal premier Renzi una tabella di marcia abba- stanza serrata: «Immagino che il primo contri- buto alla riscossa dalla crisi economica riguardi innanzitutto un’accelerazione sul civile, una delle principali ragioni dell’incapacità del no- stro Paese di attrarre investimenti: quando uno Stato non sa dirimere le controversie tra privati ci sono soggetti criminali che si incaricano di svolgere questa funzione». La criminalità «eco- nomica» è uno dei maggiori disincentivi allo sbarco in Italia per gli investitori stranieri.
Poco dopo, via Twitter, lo scrittore Roberto Saviano raccoglie la palla e sollecita il governo ad occuparsi il prima possibile del patrimonio della mafia, circa 170 miliardi di euro. «Tempi rapidi» promette Orlando.

Corriere 1.3.14
Adolescenti con la fretta di crescere hanno bisogno di modelli culturali
di Matteo Lancini

Psicoterapeuta Istituto Minotauro
Docente Psicologia Milano-Bicocca

Sempre più spesso la cronaca racconta fatti terribili che vedono gli adolescenti protagonisti e che travalicano l’accettabile trasgressione di questo periodo della vita. È l’assenza del limite che spaventa di più, non solo rispetto alla qualità dei comportamenti messi in atto, ma anche per le motivazioni sottostanti. Nel caso delle adolescenti di Imperia non sembra che si possano attribuire responsabilità al disagio familiare, sociale o economico: tutto accade nella cornice della più assoluta normalità. Siamo di fronte quindi a delle nuove emergenze educative che riguardano da un lato la precocizzazione delle condotte e il desiderio di visibilità, dall’altro il rapporto con il mondo virtuale.
Questa spinta in avanti, a diventare grandi in fretta, propria del nostro tempo, si accompagna al bisogno di apparire belli e seducenti. In adolescenza è proprio attraverso il corpo, le manipolazioni anche violente, così come attraverso comportamenti a rischio, che il disagio più facilmente trova espressione, perché è ancora difficile elaborare con la mente i conflitti e le tensioni della crescita. Il dolore di queste, come di altre adolescenti, potrebbe allora trarre origine proprio dalla difficoltà di integrare nell’immagine di sé un ideale tanto grandioso quanto prepotente, insieme alla fatica di divenire autonome in un contesto sociale in cui è difficile modulare la dipendenza dai legami. La soluzione che alcuni adolescenti escogitano per lenire queste sofferenze può talvolta provenire dal mondo virtuale.
Nella Rete ci si può ritirare, eliminando dalla scena delle relazioni il corpo reale, oppure «sovraesporre», con conseguenze spietate nei confronti del bisogno di proteggere la propria integrità, non solo emotiva ed affettiva. Le minacce allo sviluppo identitario che provengono dal mondo interno e dal mondo esterno possono spingere i ragazzi a farsi del male. Per tale ragione è fondamentale promuovere nuovi modelli culturali ed educativi, che si diffondano prima di tutto nelle scuole, ispirati al rispetto del corpo e della sua preziosità, in favore del riconoscimento delle potenzialità e dei limiti propri di ciascuna fase di sviluppo.

Corriere 1.3.14
La scuola, tanti ministri, nessuna riforma
Cari ministri la scuola non è (solo) affar vostro
di Orsola Riva


I ministri cambiano, i problemi dellascuola restano. In una girandola di personalità anche carismatiche(siamo al terzo rettore universitario in poco meno di due anni e mezzo), si moltiplicano gli annunci ma si faticaa intravvedere un’idea organica di scuola.Basti pensare allo psicodramma del bonus maturità neitest delle facoltà ad accesso programmato: decretato da Francesco Profumo, eliminato in corsa da Maria Chiara Carrozza e che Stefania Giannini ora vorrebbe reintrodurre...
In assenza di una politica educativa se non ambiziosa almeno saggiamente realistica, il campo viene occupato dai tifosi (spesso veri e propri hooligan ) delle diverse squadre. È così che il dibattito si fossilizza sullo scontro fra i sostenitori della cultura umanistica e quelli della formazione tecnica, in un moltiplicarsi di appelli a favore della filosofia e della storia dell’arte o contro il latino e il greco. Chi rivendica che il compito della scuola è di formare cittadini consapevoli, chi fa presente che in un momento di crisi bisognerebbe creare almeno una passerella fra il mondo della scuola e quello del lavoro, potenziando tirocini e stage.
Nell’ultimo giro di poltrone è rimasta appesa anche la sperimentazione del liceo di quattro anni autorizzata dal ministro Carrozza in una manciata di scuole pubbliche e paritarie. Pensata in un’ottica di spending review , ha incontrato da subito la ferma opposizione dei sindacati che lamentavano la perdita, così, di decine di migliaia di posti. Ci aveva già provato Luigi Berlinguer, il quale pure aveva tentato di accorciare il percorso di studi, lasciando però intatto il liceo e accorpando invece elementari e medie in un ciclo unico di sette anni. Nel successivo passaggio di mano con Letizia Moratti, la riforma divenne lettera morta.
E ora? Cosa succederà del liceo di quattro anni nel passaggio fra Carrozza e Giannini? Il ministro finora non si è sbilanciato: prima ha detto che l’idea non la entusiasmava, poi ha corretto il tiro dicendo che non ha nulla in contrario ma vuole prima «approfondire la questione». L’impressione è che affrontare una riforma dei cicli della scuola in Italia sia più complicato ancora che immaginare una riforma dei cicli economici.
E allora a Matteo Renzi, che dice di voler rilanciare il Paese partendo proprio dalla scuola, vorremmo dire che va bene mettere mano ai muri, ma poi, subito dopo, bisognerebbe iniziare a pensare come aggiustare le cose dentro la scuola. Vogliamo rendere i nostri giovani più competitivi sul mercato del lavoro tagliando un anno di scuola? Bene: ma allora ci si rimbocchi le maniche e si metta mano a un ripensamento più complessivo dei «curricoli» con un occhio particolarmente attento alla scuola della preadolescenza, ovvero le medie, da molti, e con buone ragioni, segnate a dito come l’anello debole della scuola italiana. Il rischio altrimenti è che il taglio si traduca in un’amputazione che costringerebbe a fare di corsa in quattro anni quello che prima si faceva in cinque.
Un’amputazione tanto più pericolosa perché, da Berlinguer a Maria Stella Gelmini, la scuola italiana ha già subito due importanti interventi chirurgici: il primo ha dato il via, con l’autonomia, a un decennio e più di sperimentazioni molto creative ma altrettanto disordinate, tanto che alla fine si contavano 900 indirizzi diversi. La seconda ha avviato una necessaria semplificazione, raggruppando i diversi indirizzi all’interno di dieci «percorsi» principali, sei licei, due istituti tecnici e due professionali. Ma è un cambio, quest’ultimo, di cui non conosciamo ancora gli esiti (andrà valutato quando, l’anno prossimo, si diplomeranno i primi ragazzi del «ciclo Gelmini»).
E allora va bene dire come fa Renzi che bisogna ridare valore sociale alla figura del professore, ma una chiamata d’intenti non può bastare. Tocca alla politica farsi carico di un’emergenza educativa che troppo spesso viene scaricata sulle spalle dei soli docenti. E per farlo il governo, e segnatamente il ministro Giannini, deve avere il coraggio di ripensare la scuola in modo globale, tenendo conto delle istanze dei docenti ma avendo come unico obiettivo i ragazzi. Che sono i cittadini di domani, ai quali la Costituzione riconosce il diritto-dovere del lavoro. Non basta ricalibrare di volta in volta in un mix diverso le materie di studio: un po’ più di inglese qui, un po’ più di informatica là. Bisogna immaginare un percorso di formazione che dalla scuola d’infanzia all’ultimo anno delle superiori sia teso a preparare i ragazzi per il dopo, dando loro non solo le competenze ma anche le capacità umane necessarie per essere forti in un mercato del lavoro sempre più asfittico. E per farlo ci vogliono idee, e soldi.

La Stampa 1.3.14
Crimea, blitz russo in aeroporti e tv
Kiev: “Questa è un’invasione”
Operazione con 13 aerei e duemila uomini. Il governo ucraino chiude lo spazio aereo
Sono circa 60mila i militari di Mosca di stanza nella Penisola. Ieri sono intervenute anche truppe speciali
di Domenico Quirico

qui

l’Unità 1.3.14
Ucraina
Il gas del Mar Nero nei contratti dell’Eni
La partita energetica in primo piano negli affari italiani nell’area
Il nostro Paese è il secondo partner commerciale dell’Ucraina
di Umberto de Giovannangeli


Il Cane a sei zampe annusa con crescente preoccupazione i venti di guerra che soffiano in Crimea. Per comprenderne la ragione va fatto un passo indietro nel tempo, al 27 novembre 2013, quando l’Eni ha firmato a Kiev con il governo ucraino, rappresentato dall’allora ministro dell’Energia Eduard Stavytsky, alla presenza del defenestrato presidente Viktor Yanukovich, un Production Sharing Agreement (Psa) per l’esplorazione e lo sviluppo di un’area situata nelle acque del Mar Nero ucraino. L’area dal potenziale significativo - informava un comunicato - si estende su circa 1400 chilometri quadrati nelle acque al largo della Crimea orientale, e include la licenza Subbotina, dove è stata fatta l’omonima scoperta di petrolio, e le licenze Abiha, Mayachna e Kavkazka, conosciute complessivamente come Pry Kerch block, dove sono state individuate diverse strutture potenzialmente mineralizzate di petrolio e gas.
Eni è operatore, con una partecipazione del 50%, di una joint venture composta anche da EdF (5%) e dalle aziende di Stato Vody Ukrainy (35%) e Chornomornaftogaz (10%), interamente controllate rispettivamente da Njsc Nadra Ukrainy e Njsc Naftogaz Ucraina. L’esperienza di Eni - puntualizzava ancora la nota - nella esplorazione, sviluppo e produzione in bacini analoghi e la sua vasta competenza nell’impiego delle tecnologie necessarie allo sviluppo di attività offshore, combinate con la competenza apportata dai partner ucraini, rappresentano una combinazione eccellente per il successo del progetto.
Il progetto sul Mar Nero, che fa seguito agli accordi di collaborazione stabiliti nel 2011 con le società di Stato, rafforza in modo significativo la presenza di Eni in Ucraina, dove la società è presente dal 2011 nelle licenze Zagoryanska e Pokroskoe situate nel bacino Dniepr-Donetz. Nel 2012, Eni ha acquisito una quota di partecipazione del 50,01% e l’operatorship in LLC Westgasinvest, società che attualmente detiene i diritti di nove aree a gas non convenzionale nel bacino di Lviv, in Ucraina occidentale, per un totale di circa 3.800 chilometri quadrati. Il bacino del Lviv è considerato una delle aree a più elevato potenziale d’Europa per l’esplorazione di gas non convenzionale. «Sto facendo fare un’analisi sullo scenario peggiore possibile, non ho ancorai risultati ma mi sembra che non ci dovrebbe essere crisi del gas neppure di fronte allo scenario peggiore, cioè che non transiti neppure un metro cubo di gas», prova a rassicurare l’ad di Eni, Paolo Scaroni, in merito agli ultimi eventi in Ucraina. «Non ci sarebbero problemi di approvvigionamento del gas fino all’estate», aggiunge Scaroni. Ma il condizionale è quanto mai d’obbligo così come la finestra temporale di sicurezza indicata dall’ad del Cane a sei zampe.
D’altro canto non sono meno cospicui e di valenza strategica, gli interessi italiani negli idrocarburi russi e nei gasdotti che passano attraverso ilMar Nero. Basti pensare che nello sviluppo del progetto South Stream l’Eni è in prima fila insieme alla russa Gazprom, ai francesi di EdF e ai tedeschi di Wintershall. Eguale discorso si può fare per il Blue Stream che unisce Eni e Gazprom nella joint-venture «Blue Stream Pipeline BV».
Resta il fatto che tutto il gas in arrivo in Italia dalla Russia transita dall’Ucraina e si teme che l’instabilità politica nel Paese, sul baratro di una guerra civile, possa avere effetti imprevedibili sulla gestione dei gasdotti. In particolare, un’Ucraina sempre più indebitata potrebbe cercare di fare pressione sulla Russia per avere sconti sulle proprie forniture, minacciando di chiudere i rubinetti verso l’Europa.
IMPRESE TRICOLORE. L’Italia è il secondo partner commerciale dell’Ucraina, il primo importatore nell’Europa Occidentale. Oltre al settore energetico, i maggiori investimenti italiani sono nel campo assicurativo- finanziario, nel settore della trasformazione alimentare, in quello delle ceramiche, legno, tessile e calzature. Solo a titolo indicativo, tra le maggiori aziende italiane presenti in Ucraina nel comparto banche e servizi finanziari si possono citare Unicredit, Intesa Sanpaolo e Generali, nel settore degli impianti produttivi, invece, Fashion Group, Guala Closures, Campari e Buzzi Unicem. Tra le società che hanno commesse pubbliche/private in corso si trovano Danieli (realizzazione di una acciaieria chiavi in mano a Dnipropetrovsk), Todini e Salini Costruttori (costruzione di due tratti dell’autostrada Kiev-Chop) e Saipem (installazione di impianti per l’estrazione di idrocarburi). Infine, tra i maggiori uffici commerciali ci sono quelli di Iveco, New Holland, Indesit, Marazzi, Manuli Alitalia e Eni, mentre commercializzano, tramite reti di aziende ucraine importatrici, i marchi dell’automobile (Fiat, Maserati e Ferrari), della motoristica (Ducati), della moda italiana e dell’arredamento. Presente, inoltre, in base ad accordi di franchising con partners locali, il gruppo Benetton.

l’Unità 1.3.14
La mia Ucraina era bilingue e si chiamava Maxim
di Moni Ovadia


L’UCRAINA È NEL MIO CUORE ANCHE PER RAGIONI PERSONALI DI NATURA AFFETTIVA. HO LAVORATO CON SEI DANZATORI DI QUEL PAESE, DANZATORIIN PENSIONE. Li ho voluti pensionati perché fossero spogliati di quel naturale narcisismo che caratterizza la titolarità.
Grazie alla loro arte ebbi l’opportunità di mettere in scena, l’allestimento italiano del musical Fiddler on the roof (il violinista sul tetto), con quell’inimitabile animus coreutico che viene dal mondo slavo espresso con eleganza crepuscolare anche nei numeri virtuosistici. Grazie alla mia conoscenza della lingua russa, modesta ma appassionata, ho potuto comunicare con loro con quella familiarità che solo la condivisione di una lunga comune ti consente.
Brindando in russo, lingua capolavoro di bellezza e musicalità, abbiamo bevuto insieme corteggiando l’eccesso, come solo sanno fare gli slavi, in fondo in quanto nato in Bulgaria sono slavo anch’io.
Uno di quei danzatori, Maxim Anatolievic Shamkov alla fine delle tournée del musical è rimasto con me. Maxim, 138 chili per un metro e ottanta, collocati in parte significativa nell’immenso ventre, mandava il pubblico in delirio, perché a dispetto del peso volteggiava e si librava nell’aria come una libellula, sfida alle leggi della gravità. Con l’andar del tempo la nostra relazione diventò molto familiare, Maxim, di vent'anni più giovane di me mi chiamava - in russo - papà. Io lo chiamavo, sempre in russo, ragazzo mio anche se in dieci anni di conoscenza abbiamo continuato a darci del voi.
Maxim, secondo l’uso russo, diceva che l’affetto non deve fare dimenticare il rispetto dovuto. Parlava un russo elegante da madrelingua ovviamente. Una volta gli dissi: «Maxim, il russo è una lingua di una bellezza sconfinata, non credete?». Lui rispose: «L’ucraino è più dolce e musicale». E mi insegnò una canzone popolare struggente in quella lingua, di cui lui, perfettamente bilingue, cresciuto nel tempo sovietico, era molto fiero.
Maxim è mancato a 48 anni pochi mesi fa. Mi manca molto, e in questi ultimi giorni la sua mancanza si è fatta lancinante. Se fosse qui ci sentiremmo tutti i giorni via skype e sicuramente dopo avere espresso il suo punto di vista, mi chiederebbe, in russo: «E cosa ne pensate voi, papà?». Io gli risponderei: «Che infamia, l’Occidente con la fine del comunismo aveva promesso democrazia, eccola: un satrapo corrotto al governo, i lavoratori e il ceto medio impoveriti, la “rivoluzione arancione” fallita, la giusta ribellione contro il regime corrotto di Yanukovich avvelenata da nazionalismo, xenofobia e antisemitismo, l’Europa, imbelle e vile invece di fare proprie le ricchezze della molteplice identità slava finisce soprattutto per aprire le porte alla Nato e agli interessi di pochi. La Russia non può che reagire con logiche imperiali. Slavi contro slavi. Niente di buono, Maxim, niente di buono».

Repubblica 1.3.14
La doppiezza dello zar
di Bernardo Valli


ASSOMIGLIA a una trovata teatrale la messa in scena del Cremlino. L’imprevedibile linguaggio russo, oscillante tra minaccia e distensione, invita alla prudenza. Da un lato il governo di Kiev denuncia l’irruzione in Crimea di truppe russe, duemila uomini con elicotteri, di fatto un’invasione dicono i rappresentanti ucraini in quella provincia a maggioranza russa.
DALL’ALTRO la regia di Vladimir Putin nelle ultime ore appare una lenta, graduale svolta nella crisi. In realtà, colto di sorpresa dalla rivoluzione nazionalista o antirussa a Kiev, Putin si comporta come un prestigiatore.
Usa d’astuzia. Passa dalla carota al bastone. In Crimea mette in azione gli uomini della base di Sebastopoli, abusando dei diritti dei militari russi in quella provincia, e adottando la tattica già praticata in Georgia nel 2008; mentre sul piano internazionale garantisce agli interlocutori occidentali l’integrità del Paese. Per lui la Crimea, provincia russa aggregata all’Ucraina soltanto nel 1954 dal potere sovietico, resta forse una terra da recuperare. O comunque dove mostrare la sua forza militare. Questo gli dà popolarità in patria ed anche tra i circa dieci milioni di russi col passaporto ucraino (o col doppio passaporto), che vivono principalmente nelle province orientali. Una popolazione che sente i richiami dei parenti nella patria d’origine. Putin appare come il protettore, che può tenere a bada le intemperanze nazionaliste, spesso estremiste di Kiev, dove le barricate della Majdan sono ancora in piedi.
La duplicità di Putin alimenta poi un altro dramma, che si svolge su due palcoscenici e che ha altri obiettivi. Il primo è a Mosca, e il laconico protagonista non può essere che lui, Putin. Il secondo sipario si apre a Roston sul Don, e l’attore è Viktor Yanukovic, fuggito da Kiev dove il parlamento l’ha destituito e denunciato per strage al Tribunale penale internazionale, ma che in Russia è chiamato ancora “il presidente”, come se rappresentasse la sola autorità ucraina.
A Mosca, nella notte, il presidente fa diffondere una dichiarazione in cui invita il governo a «continuare i contatti con i partner di Kiev» per trattare i problemi economici urgenti. Dalle poche parole scritte, dettate dallo stesso Putin, emerge un uomo col cuore in mano, preoccupato dei guai umanitari che affliggono la sorella ribelle ucraina. Sarebbe sconveniente accennare ai centocinquantamila soldati in stato d’allerta, con aerei e blindati, lungo il confine occidentale. Sarebbe altrettanto fuori posto mettere sul tappeto i tanti nodi politici. Ad esempio la negata legittimità al nuovo governo di Kiev e al parlamento voltagabbana che l’ha eletto, dopo avere legiferato per anni al servizio di Viktor Yanukovich, il presidente che ha poi destituito. Sarebbe puro cinismo, Vladimir Putin lo evita, e sposta la crisi sul solo terreno economico, che è anche quello umanitario. Al suo governo ordina di proseguire i contatti (quindi già iniziati) con i partner di Kiev, definiti banditi, fascisti o addirittura nazisti dalla propaganda russa. Loro sono presentati da Putin come gli interlocutori validi. Lo sono già e lo restano. E sulla loro identità non ci sono dubbi: non possono essere che i responsabili politici ai quali spetta di gestire gli affari economici. Persone dunque non molto lontane dal governo illegale appena eletto dal parlamento, anch’esso ritenuto illegale da Mosca. Forse si tratta di stessi membri del governo.
Non una parola di Putin per Viktor Yanukovich il presidente destituito a Kiev ma ancora presidente per Mosca. Cosi lo chiama del resto la presentatrice che annuncia la sua conferenza stampa su un canale della tv pubblica. Questa è la seconda scena, poche ore dopo la diffusione della dichiarazione di Putin. Yanukovich è a Rostov sul Don dove è finito dopo un rocambolesca fuga, da Kiev e attraverso la Crimea, coadiuvato con tutta probabilità dai servizi russi. Non dai suoi, di cui eppure poteva o doveva disporre come capo dello Stato ucraino. Non si è fidato. Se l’è svignata nella notte dalla residenza privata, alle porte della sua capitale, senza neppure pensare all’esercito, del quale era il comandante supremo. La gelida, ma protocollare, accoglienza trovata in Russia ha espresso la scarsa considerazione in cui era ed è tenuto il leader che se l’è data a gambe levate, senza tentare la minima resistenza, e che ha cercato rifugio nella grande potenza protettrice come un esule qualunque.
Il suo disprezzo Putin l’ha dimostrato non citandolo nella sua prima dichiarazione dopo la vittoria della rivoluzione nazionalista di Kiev. Invece nel breve documento invita il governo «a continuare i contatti con i partner di Kiev». Yanukovich è ormai soltanto una comparsa. È presentato come il legittimo presidente, nell’attesa di stabilire i rapporti con il nuovo potere di Kiev, ma non merita neppure di essere ricevuto al Cremlino. Putin non l’ha invitato, né sentito. E lui, Yanukovich si lamenta alla televisione. Dice di essere «stupito dal silenzio di Putin». E’ stato accolto come un ospite di riguardo, gli è stata messa a disposizione un’ora di televisione, ma le porte del Cremlino sono rimaste chiuse. E’ patetico l’ex presidente quando ribadisce di essere ancora il legittimo capo di Stato della Repubblica ucraina. Non chiede un intervento militare, ma ripete che la Russia «deve, è obbligata ad agire» per riportare la legalità a Kiev. Si presenta bene, sembra disteso, riposato Viktor Yanukovich, ma la situazione lo rende patetico. Egli spera in una telefonata di Putin e forse l’avrà.
La regia di Putin, che mette in scena i “partner di Kiev” e che esclude il presidente fantoccio, concedendogli uno sfogo televisivo, non lascia intravedere soltanto l’intenzione di allacciare, con cautela, e al momento soltanto per problemi economici, il nuovo potere di Kiev. Là, nella capitale ucraina, c’è la Tymoshenko, donna di carattere con la quale ha avuto dissensi politici gravi, ma che ha apprezzato. E per la quale ha avuto gesti di amicizia quando era in carcere. Il nuovo primo ministro, Arseni Yatseniuk, è un suo fedele compagno di partito. E’ un europeista, ma un moderato, col quale si può dialogare. Non uno della Piazza. Putin non si è limitato ad esortare il suo governo a continuare i contatti con quelli dio Kiev. Gli ha chiesto di consultarsi con i partner stranieri e di lavorare con le grandi istituzioni internazionali, il G8 e l’FMI, per un’azione economica in favore dell’Ucraina che sta fallendo. Le stesse idee ha probabilmente espresso ad Angela Merkel e a David Cameron nelle telefonate che ha fatto a Berlino e a Londra, e poi a Bruxelles, al presidente dell’Unione europea. Spostare la crisi ucraina sul terreno economico è un’abile manovra di Putin che da potenziale aggressore diventa cosi un soccorritore (avendo una forte presenza economica nel paese). Ma la sua credibilità subisce un duro colpo quando arrivano le notizie dalla Crimea.

Il Sole 1.3.14
Chi controlla i miliziani del nuovo (dis)ordine
di Alberto Negri


La divisa grigioverde, l'elmetto in kevlar, il passamontagna sul volto, il mitra a tracolla: soldati senza mostrine che sembrano miliziani oppure guerriglieri che somigliano a paramilitari e mercenari. All'improvviso compaiono, nelle loro infinite versioni a seconda delle latitudini, per presidiare i punti strategici: ai loro check-point ci si deve fermare, ispezionano i documenti, scrutano gli occupanti delle vetture. Gli occhi dei viaggiatori si abbassano per non incrociare il loro sguardo, le mani restano ben in vista e ogni gesto può essere interpretato come una sfida. Sono questi i nuovi padroni del territorio mentre gli stati falliscono e si sfaldano. Lo si era già capito a Sinfernopoli, capitale della Crimea, quando i miliziani hanno occupato il Parlamento sventolando la bandiera della Federazione russa: un anticipo di quanto accaduto ieri negli aereoporti della regione autonoma che ospita la marina russa. L'autorità che li sostiene può essere lontana, a migliaia di chilometri, come Vladimir Putin, oppure assai vicina, nei comandi delle truppe speciali o di eserciti in dissoluzione, perché nello sgretolamento delle istituzioni sopravvivono a volte soltanto le micro-entità locali e allora devi essere veloce a capire chi hai davanti: una parola sbagliata può essere fatale. Mosca e l'Occidente in Ucraina, ormai percepita come un campo di battaglia tra la sfera di influenza europea e quella russa, rischiano grosso perché qui riemergono i fantasmi dei Balcani. E forse non è proprio casuale che Vladimir Zhirinosvky, grande amico dei capi serbi Karadzic e Arkan, sia stato accolto da un bagno di folla a Sebastopoli. I miliziani che assicurano il nuovo ordine rappresentano la legge del più forte e seguono più i codici personali che quelli del diritto, abituati a obbedire soltanto al capo, che di solito emerge tra tutti per essere il più spietato, svelto e brutale. Non meraviglia che Mosca abbia dato un passaporto russo ai Berkut, gli agenti di Yanukovitch: la guardia pretoriana, anche se disciolta e in ginocchio, merita un premio-fedeltà. È come tornare a una sorta di Medioevo post moderno. Parliamo molto di strategie e geopolitica ma sul terreno le dinamiche in cui vengono inghiottite le grandi potenze sono spesso innescate dai gruppi locali: milizie, estremisti, clan di potere. Questi gruppi fanno riferimento ai protettori esterni e poi agiscono in maniera indipendente per affermare interessi specifici. In Ucraina la tigre è uscita dalla gabbia mentre fuori si coltiva l'illusione di avere un potere di controllo. Le forze centrifughe approfittano dei protettori esterni ma anche della loro impossibilità a intervenire direttamente: Balcani e Medio Oriente sono dei casi classici. Ed è questa forse la maggiore differenza con la guerra fredda classica: all'epoca gli alleati erano assai più manovrabili. Si verifica così un effetto di rimbalzo: sono le potenze che ora vengono condizionate dagli attori locali, molto più abili di prima a usare social media, diplomazia e armi. E sempre di meno le potenze esterne riescono a imporre soluzioni moderate o ragionevoli, ammesso che lo vogliano.

Il Sole 1.3.14
Il ruolo strategico di Sebastopoli
L'«arma» della deterrenza per tutelare la base navale
Gianandrea Gaiani


Nonostante i diffusi timori che Mosca possa cedere alla tentazione di avventure militari in "stile sovietico", ormai anacronistiche sul piano politico e inattuabili sul piano militare, l'impiego delle forze russe nella crisi ucraina sembra avere per ora un carattere difensivo. Il passaggio di Kiev nell'orbita occidentale rappresenta un incubo per Vladimir Putin che teme l'ulteriore spostamento a Est dei confini tra Russia e Nato e una prossima destabilizzazione anche della Bielorussia, ultimo alleato del Cremlino in Europa. Valutazioni aggravate dal rischio di perdere il controllo delle ampie infrastrutture militari di Sebastopoli, che includono la base della Flotta del Mar Nero, aeroporti, caserme e strutture logistiche e manutentive che ospitano 26mila militari, rafforzati negli ultimi giorni da unità di forze speciali e paracadutisti.
Gran parte dei militari presenti appartengono alla Marina, hanno compiti logistici o costituiscono gli equipaggi di una flotta composta da una quarantina di unità d'altura, mentre i reparti da combattimento impiegabili sul terreno sono costituiti da appena 1.500 fanti di marina. Non si tratta di forze in grado di sostenere offensive, neppure con i rinforzi recentemente affluiti, ma sono comunque sufficienti ad assumere il controllo degli aeroporti della penisola e delle due strade che collegano la Crimea al territorio ucraino attraverso sottili strisce di terra qualora la situazione dovesse degenerare.
L'Ucraina dispone di forze navali irrilevanti sul piano militare, mentre le navi russe a Sebastopoli sono in grado di mantenere il controllo incontrastato delle acque circostanti la Crimea. La Flotta del Mar Nero conta una mezza dozzina di fregate e cacciatorpediniere, altrettante navi da sbarco, due sottomarini, una decina di corvette e altrettanti dragamine più diverse motovedette con compiti costieri; unità navali attive anche nel Mediterraneo Orientale dove gravitano soprattutto intorno alla base di Tartus, in Siria. La base di Sebastopoli ha quindi un ruolo strategico che va ben oltre la crisi in Ucraina: la sua difesa è vitale per le ambizioni da grande potenza di Mosca e da lì transitano gran parte degli aiuti militari russi al regime di Damasco e i rifornimenti destinati a Tartus. Un'eventuale cacciata dei militari russi dalla Crimea aiuterebbe il rinnovato asse Washington-Riad, impegnato a sostenere con addestramento, fondi e armi i ribelli siriani e coglierebbe in contropiede la Marina russa che sta nutrendo aspirazioni globali con l'apertura di nuove basi a Cuba e in Vietnam.
Per queste ragioni le limitate iniziative militari russe in Crimea, con l'afflusso di rinforzi e il movimento di piccole colonne blindate, sembrano avere uno scopo di deterrenza, un monito a chi puntasse a minacciare le infrastrutture militari di Sebastopoli, il cui controllo è assicurato a Mosca fino al 2042 da accordi con Kiev rinnovati di recente. Le basi di Sebastopoli (che ospitano anche due dozzine di bombardieri Sukhoi 24, una trentina di elicotteri e velivoli e un decina di aerei cargo) rappresentano inoltre un importante indotto economico per tutta la Crimea e soprattutto per la comunità russa della penisola, che probabilmente ha armato le sue milizie con armi provenienti dagli arsenali russi di Sebastopoli.
Anche le grandi manovre militari in atto nei distretti occidentali russi a ridosso del confine ucraino sembrano avere un ruolo di deterrenza. Pur se programmate da molti mesi per mobilitare circa 150mila militari con 200 aerei, altrettanti elicotteri e un migliaio di carri armati e blindati, le manovre hanno oggi l'effetto di mettere in guardia il nuovo governo che sta nascendo a Kiev da iniziative contro la comunità russa e le province orientali ucraine che rifiutano il nuovo corso. Se le forze militari e di polizia ucraine dovessero sfaldarsi e far precipitare il Paese in una guerra civile, Mosca assumerebbe un ruolo di garante delle comunità russe adducendo la necessità di proteggere i civili come fece nel conflitto georgiano del 2008 (su scala ben più ridotta) sostenendo le province secessioniste di Abkhazia e Ossezia del Sud.

La Stampa 1.3.14
Va in Borse il gioiello creato dall’Esercito
Cina, fenomeno Poly la casa d’aste “militare”
di Ilaria Maria Sala


HONG KONG Si avvicina l’ingresso formale in Borsa della casa d’aste cinese Poly Culture, il 6 marzo, e le prime, ben informate indiscrezioni dicono che si sia già assicurata un gruzzolo di tutto rispetto con le sottoscrizioni iniziali: 331 milioni di dollari Usa, 77,8 milioni di azioni vendute al margine massimo di prezzo previsto. Le prenotazioni erano più del doppio delle azioni disponibili, vendute così con un grosso premio.
Poly, che chi vuole mantenersi sul sicuro descrive come una casa d’aste che «conta su ottimi appoggi», è già da oggi la terza al mondo per profitti dietro alle storiche Christie’s e Sotheby’s -, per quanto a una distanza che rimane tutt’ora ragguardevole. E che dire degli «ottimi appoggi»? Si tratta niente di meno che dell’Esercito di Liberazione del Popolo, o Pla, che negli Anni Novanta creò l’intero gruppo Poly, poi diversificato in vari settori e che oggi non ha più legami diretti con l’esercito.
Per quanto Poly si schernisca dicendo che la «vecchia» connessione potrebbe danneggiarne la reputazione, l’entusiasmo con cui è stata accolta la quotazione mostra che il mercato apprezza gli amici altolocati. Militari a parte, infatti, oggi alcuni dei collezionisti più attivi sono proprio in Cina, dove le vendite d’arte moderna, antica o applicata riportano record d’incassi ad ogni edizione.
Certo, il mercato cinese è ancora giovane, e soffre di una crisi di fiducia data dall’imponente numero di falsi che circola: ma in questo, Poly si distingue come uno degli operatori più affidabili. Alcuni analisti mettono in guardia dalla possibilità che il mercato dell’arte si sia tramutato in una bolla speculativa, ma l’accoglienza data a Poly fa pensare che lo scoppio sia ancora lontano.

Il Sole 1.3.14
Yuan, svalutazione pilotata
Pechino. La Banca centrale interviene contro la speculazione in vista di nuove misure sulla convertibilità
La moneta cinese accusa il calo settimanale più elevato dal 2005
di Rita Fatiguso


PECHINO. Pur di colpire la speculazione il Governatore Zhou Xiaochuan non sta esitando a strapazzare lo yuan, che ha chiuso la settimana ai minimi contro il dollaro: 6,1450 (-0,27).
Zhou ordina di acquistare dollari e, in contemporanea, svaluta la moneta nazionale, 1,4% in meno in un solo mese, nel tentativo di rimettere sui binari giusti il sistema.
E, si capisce: per due lunghi anni lo yuan è stato il beniamino degli scommettitori, si è rivalutato del 35% dal 2005, e l'anno scorso ha calamitato un fiume di hot money, 150 miliardi di euro, stando a stime Ubs che oggi comincia a infastidire una Cina che vuol crescere senza pericolose distorsioni.
In più lo yuan indebolito potrebbe far implodere una serie di prodotti derivati acquistati soprattutto da clienti cinesi in vena di ulteriori profitti speculativi sul rampante yuan.
Le banche cercheranno di garantirsi contro possibili default con un ulteriore irrigidimento nei confronti delle imprese, già vittime del drenaggio di liquidità attuato da Pboc per frenare la crescita del credito facile.
Ma i capitali speculativi continuano a tormentare la Cina. A gennaio le banche hanno effettuato acquisti per conto della loro clientela per 76.300 milioni dollari di valuta estera, la fonte Safe, quindi ufficiale.
In realtà questi flussi danneggiano gli esportatori e fanno gonfiare i prezzi delle case, un tallone d'Achille dell'economia cinese afflitta dalla crescita dei bad loans, in particolare nel sistema parallelo dello shadow banking, un mix di società fiduciarie, assicurazioni, società di leasing e altri finanziatori informali.
Le aspettative di riforma includono la decisione che Pechino potrebbe presto ampliare la banda di oscillazione giornaliera per consentire guadagni o perdite a 1,5% o 2%, rispetto ai limiti dell'1 % attuale.
Certo, c'è anche una spinta ulteriore a internazionalizzare la moneta della seconda più grande economia del mondo, a Londra, a breve, dovrebbe aprire la prima banca in grado di effetturare il clearing sul renminbi con la benedizione del governo britannico.
Intanto le prove generali vanno avanti, Pboc ha appena autorizzato operazioni cross border in renminbi nella Shanghai free trade zone, una misura molto attesa dagli operatori.
La Pboc promette che la liquidità necessaria sarà e resterà adeguata, ma la Cina ha vissuto momenti di panico nei mesi di giugno, dicembre e gennaio, quando Zhou ha stretto i cordoni della liquidità.
L'effetto congiunto della diminuzione dei tassi monetari e dello yuan in caduta fa intuire piuttosto le difficoltà di dar seguito al programma sui tassi di interesse, un'azione per la quale da sola la Banca centrale non basta, si deve agire di concerto con (troppi) altri soggetti.
La prossima settimana si apre la sessione annuale del National People's Congress, e l'indice Pmi di febbraio atteso per lunedì, se particolarmente negativo, potrebbe abbattersi negativamente sulle misure in cantiere in Parlamento e delle quali si vocifera ormai da tempo.

Il Sole 1.3.14
Yuan e obiettivi di crescita
Se il partito cinese fa male all'economia


La Banca del Popolo Cinese (Bpc) ha alzato i tassi, da agosto in poi, per permettere ai troppi crediti - qualcuno la chiama una bolla - di sgonfiarsi in modo ordinato. Ha così attirato capitali dall'estero che, semplificando un po' di cose, hanno alimentato la bolla stessa. Ora la Banca centrale sta cambiando orientamento, ma così facendo rischia di prolungare la fase di riequilibrio. Non è una situazione facile, quella della Cina, ma non è diversa da quella di altri Paesi impegnati in un ampio deleveraging. A peggiorare le cose, nell'Impero di mezzo, ci sono però gli obiettivi fissati di anno in anno dal Congresso del Partito comunista: è stata la necessità di frenare la crescita della massa monetaria al 13% annuo a rendere la Bpc molto decisa da agosto in poi, e persino aggressiva a dicembre.
A molti sfugge spesso il fatto che l'economia cinese, per quanto molto dinamica e in alcune aree piuttosto flessibile, resta guidata dal Partito. Un partito confuciano, in cui la meritocrazia ha un certo spazio (anche se non domina certo, e non impedisce ai figli dei burocrati di far rapida carriera); ma anche un partito che si è costruito come superiore allo Stato: la rule of law, il governo della legge, non ha spazio in quel sistema. Lo stretto controllo dall'alto dell'economia ha ora cominciato a farsi sentire negativamente: mettere d'accordo tutti i pezzi del sistema cinese sarebbe complicato per i mercati, arduo per la politica economica, ma è difficilissimo per una burocrazia di partito che immagina di imporre i propri obiettivi dall'altro e cambiarli da un anno all'altro.

l’Unità 1.3.14
La modernità del Rinascimento
Un libro di Quondam dimostra che il tema non riguarda soltanto l’arte
di Giulio Ferroni


OGNI TANTO RITORNA IN EVIDENZA IL RINASCIMENTO: INTESO COME EPOCA DI SPLENDORE ASSOLUTO, DELLA PIENA CAPACITÀ UMANA DI PRENDERE POSSESSO DEL MONDO, del trionfo dell’arte e della cultura, propagatosi dall’Italia all’Europa moderna, in un “rinascere” e rifiorire della vita collettiva, in un movimento irresistibile verso la modernità. Nella percezione straniera (e specialmente in quella del mondo anglosassone) l’immagine dell’Italia si inquadra perlopiù entro il fascino della grande arte rinascimentale (specie in versione fiorentina), nel segno di un’eleganza e di uno splendore che non riusciamo più ad attingere, residuo di un passato offerto ormai solo al consumo turistico e che non siamo nemmeno tanto capaci di tutelare.
Ma da noi c’è ogni tanto qualcuno che si riconosce figlio del Rinascimento e prospetta trionfalmente nuovi Rinascimenti: e ora occorre mettere in guardia il fiorentino Matteo Renzi da coloro che pretendono di incoronarlo come adeguato erede attuale del grande Rinascimento. È il caso del berlusconiano Carlo Rossella, che, dopo aver dialogato con Renzi in tribuna allo stadio durante l’ultima Fiorentina- Inter, ha potuto affermare con entusiasmo (intervistato dal «Corriere della sera» del 17 febbraio) che il sindaco ora premier costituisce un «magnifico incrocio » tra Pico della Mirandola (con cui condivide «la capacità di ricordare subito tutto e tutti») e Niccolò Machiavelli (con cui condivide l’«intelligenza sottile e anche un po’ spregiudicata »). Senza contare il fatto che l’acutissimo Pico finì per subire il fascino del “medievale” Savonarola e che a Machiavelli le cose non riuscirono proprio bene (ma sarebbe il caso di fare il punto sulle tante deformazioni a cui è stato sottoposto Niccolò in occasione del trascorso centenario del suo Principe), questi ritorni di fiamma rinascimentale andrebbero almeno messi a confronto con la discussione suscitata in questi giorni da un libro del grande storico medievale Jacques Le Goff, Faut-il vraiment découper l’histoire en tranches? (Éditions du Seuil, di prossima pubblicazione in Italia da Laterza), che nega ogni sostanziale rottura di continuità tra le società europee del XVI secolo e quelle del “buio” Medioevo.
Fu già Petrarca e poi soprattutto gli umanisti del Quattrocento ad affermare una “rinascita” della cultura antica, in opposizione ai secoli precedenti: ma, variamente rilanciata dagli illuministi e poi dalla borghesia ottocentesca, la nozione di Rinascimento appare piuttosto effetto di una proiezione ideologica, smentita dalla persistenza di forme di vita e di antichi valori e modelli mentali, ancora lontanissimi dallo sviluppo della modernità. Secondo Le Goff la realtà sociale e mentale dell’occidente fino al XVIII secolo mostrerebbe una relativa continuità con quello che arbitrariamente chiamiamo Medioevo; il cosiddetto Rinascimento non costituirebbe affatto il punto di partenza dell’età moderna, dato che un reale cambiamento della vita collettiva e degli schemi mentali si sarebbe avviato solo poco prima della grande rivoluzione, nella seconda metà del Settecento.
Su questo giornale già Michele Ciliberto ha discusso la tesi di Le Goff, mettendo opportunamente in luce il carattere più complesso e articolato di quello che chiamiamo Rinascimento, notando in esso il rilievo di molteplici elementi culturali che conducono verso la modernità, in un rapporto conflittuale e contraddittorio con tante persistenze del passato. Su «la Lettura» del «Corriere» punti di vista tra loro opposti sulla questione hanno espresso Giuseppe Galasso e Franco Cardini: ma a me sembra che, a chiarire il dato fondamentale della proiezione del Rinascimento verso la modernità e della sua continuità/ differenza con il cosiddetto Medioevo altri dati determinanti vengano offerti dal libro recente di Amedeo Quondam, Rinascimento e classicismi. Forme e metamorfosi della modernità (il Mulino 2013, pp. 275, euro 24,00).
In modo atipico, e davvero sorprendente per un libro sul Rinascimento, Quondam prende avvio da un viaggio tra i castelli del Tirolo, luoghi di controllo del territorio in cui erano insediati i bellatores, la nobiltà militare: le trasformazioni subite nel tempo da diversi castelli, con l’immissione di modelli culturali umanistici, di strutture e a forme che intendevano riconnettersi all’antichità, permettono di notare il passaggio dei loro signori da bellatores a «gentiluomini», in un contesto di educazione fondato su nuove regole sociali e identitarie, su un nuovo bisogno di equilibrio, di misura, di modalità etiche ed estetiche (che trovano la loro più immediata manifestazione nelle «buone maniere » e nell’esercizio della «conversazione»). Dai castelli del Tirolo il percorso di Quondam riconduce poi a tante forme e situazioni italiane ed europee, con particolare attenzione ad ambiti di fruizione sociale dei modelli culturali. Rinascimento viene a rivelarsi insomma un processo condotto da una nobiltà che si affida agli umanisti, studiosi, maestri e segretari che si propongono al suo servizio e offrono i nuovi modelli culturali basati sulla riscoperta dei classici antichi: si impone così l’abito del classicismo, in un intreccio ideale tra bello e buono che appunto viene a regolare le forme del vivere, distinguendole dall’immediatezza materiale, proiettandole verso convenienza, dignità, magnificenza, verso una nuova razionalità dell’essere sociale. Questa nuova «economia simbolica» viene attestata dal modo stesso in cui le classi dominanti individuano se stesse e resiste su vasta scala fino alla grande rivoluzione, con prolungamenti non trascurabili ancora nell’Ottocento. Sono pratiche di classe, che si svolgono in modo contraddittorio, tra metamorfosi varie e intrecci molteplici tra continuità e discontinuità: ma in esse e attraverso di esse si dà un’apertura dinamica e contraddittoria verso la modernità, una nuova fondazione dell’essere sociale, la diffusa aspirazione a un consumo dell’esistenza come valore, misura, equilibrio, distacco dall’effimera casualità.
Da tutto ciò erano escluse le classi inferiori, sottoposte a repressione e a controllo spesso spietato; e ne erano respinte ai margini le forme culturali più radicalmente critiche, più audaci e dirompenti. Ma è vero che proprio entro questi sistemi simbolici si è aperta la possibilità di forme vita pienamente coscienti di se stesse, di rottura dei modelli autoritari, di spazi di libertà e razionalità (tutto ciò che fu poi affermato dall’illuminismo, in questo ancora legato ai modelli classicistici rinascimentali).
Il libro di Quondam (che tocca tante altre questioni che meriterebbero più diretta discussione) mostra insomma che la modernità del Rinascimento va verificata, oltre che nei grandi risultati dell’arte e del pensiero, nella costruzione di una nuova «forma del vivere», di una misura etica ed estetica dell’essere in società.
Certo si può avere l’impressione che oggi, mentre si suggeriscono innesti tra Pico e Machiavelli, si sia totalmente al di là di ogni possibile «forma», ben al di là del moderno, in un universo “altro”, per cui non sembra più credibile nemmeno l’etichetta di «postmoderno ».

Repubblica 1.3.14
Il sesso illustrato ai bambini
Dopo anni di rimozione nasce una nuova pedagogia “Occorre più coraggio”
Così la letteratura infrange l’ultimo tabù e l’eros spiegato ai piccoli diventa racconto
di Christian Raimo


Quando con i miei amici anche i più colti e disinibiti, femministe, intellettuali, persone di vedute amplissime - parlo di pornografia, c’è sempre qualcuno o qualcuna che senza falsi pudori confessa di non avare mai visto un video porno in vita sua. A trenta, quaranta, cinquant’anni. Se pongo la stessa questione in classe - insegno in un trienno di un liceo - la reazione è rovesciata: una risatina d’imbarazzo e una sbruffoneria, però non c’è mai nessuno che si ritragga scusandosi perché non si sa di che cosa si tratta.
Ma non è che io abbia amici particolari né studenti speciali, il mio osservatorio non è per nulla privilegiato, faccio parte dello standard - me ne ha dato conferma Ilaria Bonato, che l’anno scorso ha realizzato una ricerca nelle scuole della provincia di Bologna, intervistando sul tema della pornografia 600 ragazzi di terze medie e prime superiori (età media: 14/15 anni) e il principale dato che ne ha ricavato è già molto significativo: solo tre persone del campione non guardavano porno online. Lo 0,5%. Per il resto: molti hanno dichiarato di mandarsi foto intime col cellulare (sexting),anche se la maggior parte degli intervistati non ha saputo cosa rispondere sul problema dell’adescamento da parte degli adulti (il grooming). Il 70% non sapeva cosa pensare nei casi di cyberbullismo (un compagno manda in giro delle nostre foto intime), mentre non pochissimi hanno risposto di essere stati coinvolti nella compravendita di immagini porno.
La riflessione su questi e altri interessanti, per molti versi inquietanti, dati Bonato l’ha affidata all’ultimo numero di Hamelin, una rivista bolognese, una delle riviste più belle d’Italia, che si occupa in genere di letteratura per ragazzi, che a ogni uscita riesce attraverso questa lente a entrare nel vivo delle più cruciali questioni sociali che attraversano l’Italia, e che ha appena realizzato un numero intero dedicato all’argomento: la sessualità dei ragazzi e come se ne parla, tra amici, su internet, in tv, nei romanzi, nei fumetti...
Leggersi questo numero di Hamelin, il 34esimo, è come navigare in mare aperto. Perché se è vero che l’interrogativo è ineludibile - e lo sa qualunque genitore che abbia dei figli dai dieci (otto? sei?) anni in su - , è vero anche che la sessualità infantile e adolescenziale è ancora - dopo più di un secolo di psicanalisi - un territorio inesplorato, minaccioso, non solo per adulti inesperti, ma anche per i media: «Dei bambini e persino dei pre-adolescenti si conserva perlopiù un’immagine candida e celestiale che, tempo il passaggio a una compiuta adolescenza, è irrimediabilmente trasformata nel suo esatto contrario». A poco valgono le ricerche militanti di una Loredana Lipperini (Ancora dalla parte delle bambine) di un Joel Bakan (Assalto all’infanzia) o da ultimo di Stefano Laffi (La congiura contro i giovani), capaci di svelarci un universo fatto di minori perversamente adultizzati - nei consumi, e quindi nelle relazioni, e quindi nella sessualità. Dalla parte degli educatori si avanza a tentoni: non solo la famiglia, ma la scuola o l’editoria, come si devono comportare?
L’impasse è duplice. Se laboratori sull’educazione di genere sono stati sempre sporadici, affidati alle energie dei singoli, se anche la questione dell’educazione sessuale tout-court a scuola non è mai stata affrontata in modo sistematico; per quanto riguarda i libri c’è ancora più confusione. I tentativi raccontati da Hamelin sono, prevedibilmente, quasi tutti problematici. Quei testi che hanno uno scopo didattico, roba come C’è un bambino nella pancia della mamma? o E ora parliamo di sesso, vengono analizzati per farne uscir fuori un case-study di una ventina di titoli recenti: con cosa abbiamo a che fare? In genere troviamo pagine molto caste, spesso piene di eufemismi e metafore viete: «Molto di rado è illustrata una penetrazione, o due corpi complici o innamorati che fanno l’amore, o un’eiaculazione». La paura paradossale sembra quella di risultare pornografici con dei ragazzi che però sanno benissimo la differenza tra un bukkake e un threesome.
Dall’altra parte, c’è la letteratura. In Inghilterra nel 2013 è nato un dibattito sui giornali: Malorie Blackman e Philip Pullman, due scrittori, sul Daily Telegraph e in un programma radiofonico, Today - si sono dichiarati a favore di una maggiore presenza del sesso nella narrativa per ragazzi - meglio conoscere il sesso nelle pagine di un romanzo che in video porno, no? Meglio Lady Chatterley che red tube? C’è da dire che qualche romanziere c’ha provato in questi ultimi anni. Non soltanto il caso editoriale The Vincent Boys di Abbi Glines o simili, esperimenti che vogliono ricalcare in minore il successo delle Cinquanta sfumature, una grande quantità di proposte cosiddette steamy: romanzi ammiccanti, soft core, per adolescenti smaliziati; ma anche libri che hanno azzardato a essere seminali, traducendo in storie credibili grandi astrazioni teoriche sulla pedagogia sessuale; l’esempio più citato è quello di Melvin Burgess, che nel 2005 ha pubblicato Il chiodo fisso. Anche qui tuttavia essere espliciti non è una soluzione e nemmeno una strada in sé: se si elimina il pudore, il rischio può essere quello di venire censurati dagli stessi educatori (lo racconta Nicoletta Gramatteri quando propone a un gruppo di insegnanti di lavorare con i bambini sul testo di
Ulf Stark, Il paradiso dei matti, in cui si trovano frasi del tipo «Ero distesa con la testa appoggiata al suo petto, e gli guardavo le dita del piede allargate. Tra un piede e l’altro vedevo il suo pisello che si era rizzato») o anche di risultare paternalistici, didascalici, insomma di scrivere romanzi edificanti. E che ce ne facciamo di una letteratura edificante? Di fronte a questa serie di fallimenti, la domanda iniziale viene riformulata: sconfortati dalla nostra incapacità di adulti di rivaleggiare con il porno online in tema di racconto del sesso, forse dovremmo semplicemente arrenderci con realismo al fatto che la generazione dei nativi digitali imparerà, sta imparando, a amare e fare sesso, barcamenandosi tra modelli di milioni disponibili di video di rapporti sessuali?
Ci sono però due esempi di critica letteraria - un saggio su Tom Sawyer e un’intervista a Manuele Fior - che riescono a darci un ultimo spunto prima di gettare la spugna: il discorso sul sesso e sulla pornografia, capiamo con gli Hamelin, è fuorviante se non lo si esprime in modo diverso. La nostra difficoltà è più ampia: è quella di raccontare i corpi. E, precisamente, la debolezza dei corpi. Il porno questo non lo mostra, il tabù non sono le scene hard ma la fragilità dei nostri corpi: in una società drogata da ansia di prestazione, avere a cuore questa debolezza può farci solo che bene.

Repubblica 1.3.14
Storia di Marina
I diari segreti della Cvetaeva dove l’orrore diventa poesia
Escono i taccuini scritti dalla grande autrice a Mosca tra il 1919 e il ’21
Una testimonianza dall’Urss del dopo rivoluzione tra guerra, sogni, ricordi e miseria di una donna che, nonostante tutto, non rinuncia ai suoi versi
di Giuseppe Dierna


«La vita di Marina Cvetaeva – osservava Gustaw Herlig – è una fiaba degli orrori, di quelle che si raccontano ai bambini per educarli, mostrando loro i casi estremi della vita». Di quell’orrorifica fiaba, iniziata nella sonnolenta Russia ancora zarista del 1892 e conclusasi, nel 1941, nell’Urss del doppio terrore (quello stalinista e quello cadenzato dall’avanzata tedesca su Mosca), i Taccuini 1919-1921, pubblicati per la prima volta in italiano da Voland nella bella traduzione di Pina Napolitano, ci offrono un’impietosa carrellata lungo i feroci anni del comunismo di guerra visti dalla capitale, dove la Cvetaeva si trova da sola (il marito, Sergej Efron, ha deciso di combattere la Rivoluzione con l’Armata bianca nel Sud del paese) a barcamenarsi tra la gestione di una casa che le si sta sbriciolando tra le dita, due bambine di due e sei anni, gli approvvigionamenti che scarseggiano e il mondo della (nuova) cultura del dopo-rivoluzione che la ignora, prontamente ricambiato. E cercando poi, in quella baraonda, anche di scrivere, perché – senza – lei proprio non riesce a starci.
Aveva esordito, diciottenne, con una raccolta che non era passata inosservata (cui aveva fatto seguito nel ’12 già la seconda). Ma ora è un po’ che non pubblica nulla. La committenza ha esigenze diverse dalle sue. Lontana dall’ostentata dirompenza dei futuristi alla Majakovskij («arcangelo dal passo pesante », «schianto di ciòttoli», come scriverà ammirata nel ’21) o dallo sperimentalismo oltranzista di un Chlebnikov (ma anche dalla scrittura ancora elegantemente levigata dei padri simbolisti), nei suoi versi la Cvetaeva ama affastellare ardimentosi incastri verbali, sequele dissonanti, sconquassando il ritmo delle frasi.
La sua poesia – orgogliosa e arrogante – è tutto un accavallarsi di invocazioni al lettore (come poi le sue lettere), mentre sul tessuto intimistico di quelle confessioni poetiche si aprono squarci dove, come nelle dissolvenze del cinema, si stagliano Amleto, Ofelia, Re David e Saul morente, Elena, Arianna, ma anche Marina Mniszek, figura quasi da leggenda, che nella Russia dei Torbidi aveva sposato il falso Dmitrij (o meglio: due falsi Dmitrij in successione), condividendone il destino di morte («non l’amica essere, ma la complice! Gemello – sosia – slanciato fratello di sangue, fiamma di rogo, la sua scimitarra ricurva»). Calamita troppo forte per resistervi, per una poetessa come lei («digrignante eretica, sorella del Savonarola») sempre propensa al gioco dell’identificazione sprezzante. «Caparbia, indocile, sempre sovreccitata, sempre immersa nel folto del cataclisma» (A. M. Ripellino), lei non stava certo lì a cercare una qualche rappacificazione. Anzi, invitata nel dicembre del ’20 a un’improbabile «serata di poetesse», si presenta – tra colleghe «vestite di pizzi e merletti» – con cinturone in pelle, giberna e stivali di feltro. A introdurre la serata c’è oltretutto Valerij Brjusov, un tempo stimato poeta, ma oramai zelante carrierista e osteggiatore della sua poesia. Nella sua prolusione ricorda che da sempre la donna «ha saputo cantare solo amore e passione». La Cvetaeva dal palcoscenico si affretta a smentirlo, declamando versi dall’Accampamento dei cigni, raccolta dedicata alle Guardie bianche in guerra – una guerra ormai persa – contro l’Armata rossa. Dirà poi soddisfatta: sette poesie e mai una volta la parola “amore”!
I taccuini ci raccontano, col loro andamento sconnesso, la Cvetaeva di quei tragici anni. A partire dal ritratto che ne fa la figlia Ariadna (Alja), sei anni ma alquanto precoce («così amiche noi due! Così orfane entrambe! »): «Ha gli occhi verdi, meravigliose sopracciglia folte, capelli chiari vaporosi che terminano in favolosi boccoli. Se si taglia una ciocca, si può pensare che sia un braccialetto senza fibbia, per un piccolo braccio».
Perché c’è sempre qualcosa d’irreale in quella vita nell’appartamento sgangherato in vicolo Boris e Gleb, dove regna «un tale disordine, tutto cade a pezzi». Appartamento saccheggiato dai nuovi inquilini imposti dalle leggi della coabitazione, dove domina una povertà tale che un ladro che vi si è introdotto offre generosamente del denaro, e si vive col terrore che possa andar via la luce, non essendoci «nemmeno un lumino […]. Cosa farò per tutta la sera, se non posso neanche scrivere il taccuino?». La Cvetaeva non aveva all’epoca un lavoro stabile. Nella primavera del ’19 aveva lasciato, dopo cinque mesi, l’impiego di archivista al Commissariato del Popolo per le questioni nazionali, procuratole da uno dei nuovi inquilini, membro della Polizia segreta («Non lavorerò più. Mai. Dovessi morire»). Scherzi della sorte: a dirigere il Commissariato c’era all’epoca Stalin in persona.
La poetessa vive – con le bambine – di pasti gratuiti che bisogna faticosamente andare a recuperare, addosso «giorno e notte sempre lo stesso vestito marrone di fustagno», costretta a tagliar legna per la stufa («Venere stessa con l’ascia in mano spacca la legna negli scantinati», si legge in una poesia del ’19), a dar via per soldi i libri di casa. In un questionario inviatole nel ’26 a Parigi da Boris Pasternak per un progettato Dizionario degli scrittori, dopo aver ricordato che a Mosca vi sono tre biblioteche donate dai suoi genitori, conclude: «donerei anch’io la mia, se non fossi stata costretta a venderla negli anni della Rivoluzione ».
Come nelle vecchie soffitte, la Cvetaeva nei suoi affascinanti taccuini – diario e romanzo a un tempo – c’infila di tutto: sogni, canzoncine infantili, lettere, lunghi brani di Alja, considerazioni sulla propria poesia («ogni mio verso è l’ultima cosa che so su me stessa»), parole terribili sulla morte per stenti della figlia più piccola, sulla crescente emarginazione, sull’angoscia di non sentirsi indispensabile. E poi una feroce autopsia dei propri reiterati amori ancora in corso d’opera, sorta di bilancio continuo, ma anche dialogo con l’amante assente, ammissione tacita dell’impossibilità a farlo nello spazio estraneo del reale.
E in questo straripamento, stupisce nelle pagine la quasi totale assenza del marito, partito per la Crimea nell’autunno del ’17 e di cui per quattro anni si perdono le tracce. È proprio in una sua lettera del ’24 – dopo il ricongiungimento a Berlino – che troviamo la messa a fuoco forse più attenta del carattere della Cvetaeva, di quella sua «necessità di gettarsi a capofitto nell’uragano », nell’«autoinganno», qualunque aspetto esso prenda: «una persona viene inventata e comincia l’uragano», e poi «tutto viene trascritto in un libro. Tutto si riversa con matematica precisione in una formula. Come un’enorme stufa che per funzionare ha bisogno di legna, tantissima legna».
Sarà in larga misura lui il motore di alcune decisioni che muteranno la sorte della Cvetaeva, già schiacciata dall’estenuante lotta per la sopravvivenza nella «Mosca-trappola per topi» dei taccuini del ’19. Sarà lui a spingerla a lasciare nel ’22 la Russia per raggiungerlo in un vagabondare che li sballottolerà a Berlino, Praga e poi in una Parigi salottiera ed estranea. E sarà infine ancora lui, ormai agente della Polizia segreta sovietica, a indurre – prima la figlia Alja, poi la moglie e il figlio Mur, nato a Praga nel ’25 – a tornare tra il ’37 e il ’39 in una Mosca di nuovo trappola per topi, dove il destino dei quattro si perderà in un campo di lavoro (per Alja, l’unica sopravvissuta), davanti a un plotone d’esecuzione (per Efron), sul campo di battaglia (per Mur), nel cappio di una corda per la poetessa Marina Cvetaeva.

Corriere 1.3.14
Gaspara, scandalosa in nome dell’amore
Così invertì i ruoli del corteggiamento
di Anna Meldolesi


Quanto ha amato Gaspara Stampa, e quanto ha scritto. Oltre duecento poesie dedicate allo stesso uomo, il conte Collaltino di Collalto, che troppo tiepidamente la ricambiava. Poetessa, cantatrice, donna ribelle alle convenzioni del tempo, in bilico tra successo e scandalo come una cortigiana. Con una franchezza e una modernità inaspettate per il Rinascimento, nelle sue «Rime» ha cantato i brevissimi diletti e lunghe doglie dell’amore, il desiderio femminile soddisfatto e insoddisfatto. Quando’l disio m’assale, ch’è si spesso / Non essendo qui meco chi l’appaga / La vita mia è un morir’ espresso.
Non era aristocratica, non era sposata, non era neppure una vera veneziana. Gaspara nasce a Padova, probabilmente nel 1523, da un mercante di gioielli che vuole per lei una buona educazione letteraria e musicale. Dopo la morte del padre si trasferisce a Venezia con madre, fratello e sorella. Si esibisce nei salotti e nelle feste con un’arte che incanta molti e una condotta morale che scandalizza più d’uno. Morirà a soli 31 anni, avvelenata secondo un resoconto settecentesco, più probabilmente uccisa dall’influenza. Novella Saffo, gli estimatori la chiamavano «divina», i detrattori «landra» (meretrice).
Il suo canzoniere riprende il modello petrarchesco e inverte i ruoli. Il poeta che si strugge d’amore questa volta è una donna, l’amata che ispira quei versi è un uomo. Petrarca è lei, mentre lui è Laura. Lo fa negli stessi anni anche l’aristocratica romana Vittoria Colonna ma Gaspara ne è l’antitesi. Quella canta l’amore perfetto, coniugale, di una sposa-vedova fedele e casta, per un marito carico di virtù morali con cui è stata felice. Gaspara arde di un amore imperfetto e doloroso, acceso dai sensi oltre che dai sentimenti, per un amante più giovane e socialmente superiore a lei, che l’abbandona. Un uomo che nella sua vita e nella sua opera non resterà neppure l’unico. Una dozzina di poesie, tra le più irriverenti, sono dedicate a un altro, Bartolomeo Zen. La fedeltà di Gaspara non è per l’amato ma per le leggi dell’amore, nota Marina Zancan («Il doppio itinerario della scrittura», Einaudi). Chiama Collaltino «illustre mio Signore», ma gli rimprovera di avere un cuore d’orsa o di tigre, scrive che Venere gli ha donato la bellezza e Mercurio l’eloquenza, ma ha ricevuto la freddezza dalla luna. L’empio è lui perché non onora l’amore. La virtuosa è lei, perché sa amare. Oltre duecento poesie per un uomo, anzi no: oltre duecento poesie su se stessa che ama. La protagonista è lei. Non si uccide come una Didone abbandonata, non vuole la pietà dei posteri ma la gloria, si augura l’invidia delle donne che verranno. Soffia su quel fuoco che ha nel petto e grazie a quello si afferma, per mezzo della scrittura poetica, in un’epoca in cui non era affatto scontato. Si racconta capace di attraversare le fiamme come la salamandra della leggenda e risorgere come la fenice. Amor m’ha fatto tal, ch’io vivo in foco / Qual nova Salamandra al mondo, e quale / l’altro di lei non men stranio animale / Che vive, e spira nel medesmo loco. Benedetto Croce le riconosceva «versi, immagini, sonetti interi di bellezza e gentilezza mirabili» anche se pensava che a volte la sua poesia rischiasse di diventare quasi un diario. L’opera di Stampa si alimenta di vita vissuta, la sovrasta e ne è schiacciata. È un peccato che la sua reputazione ne abbia a lungo oscurato l’arte. Le «Rime» sono uscite postume, per iniziativa della sorella Cassandra, e la vera fama è arrivata con qualche secolo di ritardo. Ma è bello pensare che Gaspara alla fine vendichi tutte le donne colpevoli di aver troppo amato. L’uomo di lettere e d’armi che tanto bramava oggi è considerato solo un «modesto poeta». Lei è diventata cara ai romantici e ai neoromantici come Rilke, Jane Tylus ne ha tradotto i versi per la University of Chicago Press e molti la considerano una delle figure femminili più luminose e originali della letteratura italiana.

Repubblica 1.3.14
L’omaggio ad Asor Rosa per i suoi ottant’anni
Ieri con Eco la presentazione dell’ultimo Bollettino diretto dallo studioso
di Simonetta Fiori


Può essere solo il magistero, l’altissimo magistero, a tenere insieme geografie culturali e politiche così distanti? Nel caso di Alberto Asor Rosa, bisogna andare a cercare anche qualcos’altro. E questo qualcosa era palpabile ieri mattina, nel Dipartimento di Scienze filologiche, dove si presentava il Bollettino di Italianistica dedicato ad Asor per i suoi ottanta anni (l’ultimo numero da lui diretto). Una corrente di affetto per il festeggiato che anche nelle pagine della rivista avvicina fisionomie sideralmente lontane, da Eugenio Scalfari a Mario Tronti, da Tullio De Mauro a Toni Negri. Voci molto diverse per interessi e collocazione nel mondo, però legate ad Asor da assonanze di volta in volta differenti.
Così succede ai maestri, usciti dal Novecento e non più riproducibili. Maestri assoluti nel proprio campo e “infedeli” al tempo storico vissuto, avendo scelto il conflitto come principio irrinunciabile. Una personalità mai prevedibile, scrive Scalfari sulla rivista. Un maestro «che ha allevato generazioni libere e non cloni», è intervenuto ieri mattina l’ex allievo Paolo Mauri. E a leggere bene il Bollettino si intravedono sotto traccia anche le separazioni dolorose che la libertà comporta, una trama di non detti o di ammonimenti che prendono corpo nella testimonianza di Alberto Abruzzese, che parla di figli che uccidono i padri e viceversa. O nelle pagine di Tronti, eterno amico, che gli “regala” una domanda di Gottfried Benn: «Si deve fare di sé una vecchia gazzella se si è stati un giovane sciacallo?».
Studioso di letteratura. Insigne accademico. Dirigente politico del Pci. Intellettuale militante. Ambientalista. In ultimo anche romanziere. C’è un filo comune che Ernesto Franco, direttore editoriale della Einaudi, ha definito ieri “il metodo Asor Rosa”. Una visione di insieme che va oltre ogni steccato disciplinare. Uno stile intellettuale che si nutre anche di curiosità. E spetta a Benedetta Tobagi restituirne lo sguardo curioso verso i più giovani. Una retta, quella attraversata da Asor? «No, semmai una cicloide», scherza Umberto Eco, che si presenta al tavolo con un bellissimo discorso scritto. «Apparentemente ci siamo mossi lungo due parallele destinate a non incontrarsi mai, ma di fatto ci siamo incontrati molte volte». La prima volta fu con Scrittori e Popolo, che per il Gruppo 63 rappresentò «un grande atto liberatorio». Poi è accaduto con i romanzi. «L’alba di un mondo nuovo è uscito mentre io stavo lavorando al mio La misteriosa fiamma della regina Loana. E, pur appassionandomi, mi aveva imbarazzato perché stavamo raccontano le stesse cose: l’oscuramento, Salgari e Verne, i bombardamenti, i partigiani, il Corriere dei Piccoli, i bossoli e lo sten. Così, per timore di essere influenzato o di copiare, quel libro l’avevo un poco rimosso. E forse a causa delle sue splendide pagine sugli animali, nel mio romanzo poi di animali non ce ne sarebbero stati». Le parallele si incontrano ancora, un po’ per affetto, un po’ per solidarietà generazionale. E allora si ride, certo, ma ci si emoziona un po’ pensando all’ultimo tratto. Con un’intonazione insolita, Eco legge la noterella finale dell’Ultimo paradosso.
«L’ultimo paradosso è che uno sa tutto quello che gli serve per vivere nel momento in cui ha già vissuto». Ma «il momento in cui si sa tutto e nulla resta più da conoscere è anche quello in cui si smette di vivere». E «quando il rullo si ferma, tutto è chiaro. Ma l’assoluta chiarezza coincide con l’assoluta oscurità. Sappiamo tutto: non possiamo più niente». Un brano, confessa Eco, che l’ha sempre accompagnato e «di cui si potrebbe ritrovare echi lontani in certi finali dei miei romanzi».
A spezzare il clima commosso interviene un finale asorosiano in crescendo, con fisarmoniche di Monticchiello che intonano Cielito Lindo e l’ingresso in aula del mitico golden retriever, Pepe, divenuto nei Racconti dell’errore una sorta di doppio dell’autore. «La mia prossima opera? Scrittori e Pepe», si accomiata Asor. E così si torna alla domanda di partenza. No, il magistero non basta a spiegare tante cose.

Repubblica 1.3.14
Oggi Eugenio Scalfari a “Una montagna di libri”


CORTINA D’AMPEZZO - “Incontri con l’autore” è il sottotitolo della rassegna letteraria “Una Montagna di Libri”, in programma a Cortina d’Ampezzo, in provincia di Belluno. Oggi tocca a Eugenio Scalfari, che racconterà la genesi e la realizzazione della sua ultima opera, L’amore, la sfida, il destino (Einaudi). Durante l’incontro, condotto da Vera Slepoj e Francesco Chiamulera e previsto presso il Cinema Eden alle 17 (ingresso libero fino a esaurimento posti), il fondatore di Repubblica illustrerà ai presenti il suo libro, un ricco racconto autobiografico scaturito da una profonda ricerca introspettiva sul senso della vita e arricchito dalla folta presenza di personaggi mitologici, da Narciso a Eros, Edipo e Telemaco fino a Tristano e Isotta, tutti impegnati a declinare con la loro storia personale il grande interrogativo dell’esistenza.
“Una Montagna di Libri”, che nelle ultime settimane ha già ospitato, tra gli altri, Gustavo Zagrebelsky, Emmanuel Carrère e Dacia Maraini, è giunta alla nona edizione. L’ospite di domani è Khaled Fouad Allam, che presenta il suo libro Avere
vent’anni a Tunisi e al Cairo.