lunedì 3 marzo 2014

l’Unità 3.3.14
Alfano sulle barricate È scontro su Gentile
Non si può lasciar correre
di Michele Prospero

Un governo nato con il mito dell’alta velocità sembra rallentare in questi giorni tra gli scogli della vicenda dei diversi sottosegretari pescati con palesi problemi di compatibilità alle spalle. Questioni di coerenza politica, di opportunità e di sensibilità formale emergono con una certa nettezza in molteplici nomine effettuate da Renzi.
Un senatore del partito di Alfano, che è accusato dai giornalisti di aver bloccato l’uscita di un quotidiano per evitare la pubblicazione della notizia di un’inchiesta riguardante suo figlio, può far parte della squadra di governo senza sollevare pesanti questioni di incompatibilità? E una personalità politica che il segretario del Pd reputava non candidabile per gli scranni della Regione Sardegna a quale titolo può essere poi promossa dal presidente del consiglio alla funzione di governo senza temere su novità di rilievo dal fronte giudiziario?
La doppia carica di leader di partito e di capo di governo, ricoperta senza un passaggio elettorale in grado di tramutare il segretario di un’organizzazione in un leader parlamentare legittimato, comincia a mostrare dei possibili inconvenienti gestionali destinati ad accrescersi in un sistema così fortemente destrutturato. Il capo di governo di solito è nelle grandi democrazie europee il leader del partito maggioritario. Ma altrove non esiste un leader di partito che non sia anche un leader parlamentare. E proprio questo anello mancante (che le file ai gazebo non possono realmente surrogare in una maniera efficace) potrebbe costituire un problema che incide negativamente nel rendimento istituzionale del dicastero.
Anche la riconducibilità del ministro alle attività produttive o di sottosegretari alla giustizia all’«area esterna» di Berlusconi segnala l’esistenza di alcune zone d’ombra in merito alla prioritaria esigenza di delineare una trasparente tracciabilità dei confini della maggioranza che sostiene l’esecutivo. C’è chi parla di ben tre maggioranze sulla carta possibili e tra loro intercambiabili a piacere. Con il Cavaliere collocato un po’ dentro e un po’ fuori, e comunque sempre pronto a rivendicare un diritto di prelazione nelle scelte cruciali per le riforme elettorali e istituzionali, si dovrebbe piuttosto paventare il timore di una maggioranza allargata all’ingerenza del più classico e scomodo dei convitati di pietra.
Con Alfano indotto con il passare del tempo ad attutire sempre di più il contenzioso competitivo con Berlusconi, e quindi costretto dalle contingenze della politica a lavorare di sponda con lui per colpire uniti in vista del voto, il governo (che in termini elettorali è pur sempre di minoranza, composto cioè da formazioni politiche che dopo il rapido sfaldamento di Scelta civica raggiungono non più del 36 per cento dei consensi) potrebbe essere vulnerabile ed esposto a venti assai contrastanti. Anche per questo la patata più bollente, quella che riguarda il sottosegretario Gentile, non può essere derubricata a semplice questione che coinvolge la sovranità interna di un partito alleato, che tocca solo ad Alfano risolvere a propria assoluta discrezione.
La delicatezza della vicenda, il coinvolgimento in essa di taluni diritti costituzionali indisponibili, non consente al presidente del consiglio di prendere la risoluzione di lasciar correre e di affidare il superamento del malessere alla capacità lenitiva del tempo. Il rischio è che decidendo di non risolvere rapidamente un problema così scottante, tollerando cioè l’apporto di sottosegretari discussi già sul nascere, il premier possa apparire come un «finto leone». Dapprima minaccioso, fin quando si trattava di incalzare Letta invitandolo a risolvere seduta stante le grane delle disavventure ministeriali di Alfano o Cancellieri, poi cedendo alla tentazione di mettersi sulle spalle il carico di un sottosegretario impresentabile per non urtare la suscettibilità del nuovo centro destra. In questa situazione la gran vecchia fretta di decidere di non decidere sarebbe la strada sbagliata per un governo che vuole fare e non solo durare.

Repubblica 3.3.14
Il premier decisionista
di Gad Lerner

MI AUGURO che sia inutile ricordarglielo, ma sulla scabrosa vicenda calabrese del sottosegretario Gentile si parrà la nobilitate del nostro premier decisionista. A casi estremi, estremi rimedi.
Se, come pare, Angelino Alfano privilegia le sue convenienze di partito rispetto alla doverosa sensibilità che ci si attenderebbe da un ministro dell’Interno, Renzi si rivolga al magistrato Nicola Gratteri, che di intimidazioni politico-affaristiche in Calabria se ne intende. Voleva, Renzi, portare Gratteri al ministero della Giustizia? Potrebbe impiegarne efficacemente le competenze al Viminale. Di certo il premier decisionista non può tollerare che il capodelegazione al governo del Nuovo Centro Destra faccia quadrato in difesa di un impresentabile dalla posizione in cui si trova, cioè come massimo responsabile dell’ordine pubblico, tanto più in territori dove il sopruso dei potenti tende a intrecciarsi con la criminalità organizzata. Glielo diciamo proprio perché abbiamo apprezzato, e preso alla lettera, gli impegni in tal senso messi per iscritto da Renzi nella lettera a Roberto Saviano pubblicata ieri su questo giornale. Chiunque abbia ascoltato le telefonate con cui lo stampatore de L’Ora della Calabria faceva pressione sull’editore, affinché bloccasse la pubblicazione di notizie giudiziarie sul figlio del sottosegretario Gentile, si è reso conto che allusioni e minacce erano pervenute a lui da quel soggetto. Non vi sono margini di dubbio ragionevole, in proposito. La successiva nomina a un posto di delicata responsabilità nel ministero delle Infrastrutture del medesimo Gentile, già resa inopportuna dal fatto che suo fratello riveste l’incarico di assessore regionale nel medesimo settore, configura uno scandalo del quale vogliamo sperare Renzi fosse all’oscuro.
L’unanime sollevazione dei direttori delle principali testate giornalistiche italiane, dai più diversi orientamenti culturali, non segnala solo l’offesa alla libertà d’informazione perpetrata col blocco in tipografia de L’Ora della Calabria, pur di impedire la divulgazione di una notizia scomoda. C’è di più. Ormai è generalizzato il rigetto dell’opinione pubblica nei confronti di simili esibizioni di arroganza del notabilato politico, abituato all’impunità. Non c’è equilibrio di maggioranza parlamentare che possa renderle digeribili. Renzi aveva dimostrato di comprenderlo bene nel novembre scorso, quando, durante la campagna elettorale delle primarie per la segreteria del Pd, chiese pubblicamente al premier Enrico Letta di estromettere dal governo la ministra Cancellieri. Avvertiva con ragione, il futuro segretario del Pd nonché primo ministro, che le telefonate intercorse fra la ministra e la famiglia Ligresti rischiavano di compromettere la credibilità dell’intero esecutivo.
Oggi viviamo una situazione identica, semmai peggiore. Alfano si è dimenticato di essere il ministro dell’Interno quando, per convenienze le cui origini preferiamo ignorare, ha preteso che Antonio Gentile facesse parte della delegazione di governo del Ncd. Renzi ha subìto quella pretesa, commettendo un errore. Ma ora che a chiedergli di rimediare è il suo stesso partito, insieme alle associazioni della società civile impegnate nella lotta contro le mafie (come Libera di don Luigi Ciotti), e a tutto il giornalismo italiano, non perda tempo. Agisca con destrezza e velocità, lui che ci ha messo la faccia. Lo attendiamo fiduciosi.

il Fatto 3.3.14
Una intercettazione del 2006
E la Pd Bossio disse:“Gentile è nu mafius”
di Marco Lillo

Con Tonino Gentile non bisogna avere a che fare perché non è un galantuomo, anzi è un mafioso”. Il giudizio sull’attuale sottosegretario alle Infrastrutture è stato espresso 8 anni fa da Enza Bruno Bossio, oggi deputato del Pd calabrese che sostiene il Governo. La telefonata è stata intercettata dai carabinieri sul telefono del suo interlocutore: Antonio Saladino, leader della Compagnia delle Opere in Calabria, indagato nell’inchiesta Why Not dell’allora pm Luigi De Magistris, conclusa dopo alterne vicende, tra condanne nei primi gradi, prescrizioni, rinvii e assoluzioni in un nulla di fatto. Anche Bruno Bossio è stata assolta definitivamente e poi si è candidata. La conversazione avviene quando Enza Bruno Bossio è un pezzo grosso in Calabria: amministratore della Intersiel, gruppo Telecom, e moglie di Nicola Adamo, allora segretario regionale Pd.
IL 18 FEBBRAIO 2006 Bruno Bossio commenta al telefono un pranzo al quale Saladino ha appena partecipato. C’erano i due fratelli Gentile: Giuseppe (oggi assessore alle Infrastrutture in Calabria) e Antonio (oggi sottosegretario) poi tra gli altri l’architetto Mario Occhiuto e il re dei supermercati Despar in Calabria Tonino Gatto, allora in buoni rapporti con Adamo. Quando Enza Bruno Bossio scopre che l’imprenditore Gatto e l’architetto Occhiuto (nel 2011 eletto sindaco di Cosenza con vicesindaco Katia Gentile del Pdl, figlia del sottosegretario Antonio) se la fanno con Gentile si infuria. Il pranzo serviva - secondo lei - per convincere (tramite l’ex sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Angelo Sanza, che poi non andò) Giuseppe Pisanu a liberare il posto per far salire Antonio Gentile al Senato. Si capisce che pochi giorni prima Bruno Bossio ha avuto un duro scontro verbale con Gentile in aereo e sostiene che con lui non bisogna parlare: “Dovevano quindi stabilire delle relazioni romane favorevoli a Tonino Gentile, perché parliamoci chiaro se Pisanu non si dimette dalla Calabria… Antonio Gentile non sale… quindi è evidente che si sta facendo una lobby a favore di Antonio Gentile . Il fatto stesso che l’ha invitato è un fatto negativo (...) ma scusami Tonino… ma tu non sai quello che mi ha detto quella ‘m…’ di Gentile sopra l’aereo… ma te l’ho raccontata? Siccome io ho detto a Nicola (Adamo, il marito, Ndr) che doveva sfidare a duello Tonino Gentile. Nicola non può andare dietro a Tonino Gatto che va dietro a Tonino Gentile. Per me il cerchio si chiude. Cioè Tonino Gatto non può continuare a fare quello che da le carte a tutti e si deve dare una regolata da questo punto di vista. Non dico tra destra e sinistra ma tra galantuomini e non galantuomini e Tonino Gentile non è un galantuomo. Anzi è un mafioso”. “Nu mafius’’, per l’esattezza, nell’audio.
Bruno Bossio ha in parte sminuito in un’intervista successiva quelle parole. “Quando ci fu la polemica per la sua nomina a membro della commissione Antimafia, qualcuno tirò fuori la telefonata - racconta oggi - e un emissario di Gentile mi chiese di precisare in suo favore. Io dissi che la frase era stata decontestualizzata e che, dall’intera telefonata, si capiva il senso. Non volevo dire che Gentile fosse davvero un mafioso . Feci questa dichiarazione principalmente perché sono contraria alle intercettazioni ma lui, per ringraziamento, annunciò, dopo l’intervista, che mi querelava per quella frase detta anni prima. Immagini la mia rabbia”. Fatta questa precisazione sul senso di quella parola, Enza Bruno Bossio non arretra sul giudizio negativo: “Avete scritto che io non mi sarei espressa contro Gentile. Ma scherziamo? Abbiamo fatto mercoledì sera un gruppo dei parlamentari del Pd per segnalare il rischio al segretario regionale appena eletto, Ernesto Magorno, che si professa amico di Renzi, prima della nomina. Non penso che Renzi sia stato avvertito del rischio che correva con questa nomina”. Conferma che non è un galantuomo? “Premesso che non tutti possono avere lo stesso concetto che ho io del galantuomo, certamente esprime un modello politico che non è il nostro. Questa ultima vicenda della mancata uscita del giornale non è casuale. Il modello di potere di Tonino Gentile si incarna in questa vicenda: la gente deve stare sotto lo schiaffo se no la politica non funziona. Quindi Gentile non è mafioso e non volevo dire che lo fosse, ma siamo di fronte a prepotenza e arroganza”.
IL PESO determinante del Ncd in Calabria, con 5 senatori, salverà Gentile? “Questa non è una vicenda calabrese ma - spiega Bruno Bossio - è una battaglia politica nazionale. Lo dimostrano le posizioni dei direttori delle maggiori testate nazionali pubblicate sul Fatto quotidiano ieri. Il rinnovamento vero non sta negli slogan ma nei contenuti. E per questo non sto con Renzi ma con Cuperlo. Gentile non è il rinnovamento, incarna un modello medievale, tailandese. Nell’epoca dei social network non vuole nemmeno che si parli male di lui sui giornali. Questo modello nemico della libertà e della democrazia non deve vincere. Se Gentile resterà al governo, la gente capirà la lezione e continuerà ad abbassare la testa”.

il Fatto 3.3.14
Silenzio di governo
“Il cinghiale ferito fa paura a Renzi?”
di Marco Palombi

Dal cinghiale alla pitonessa, del caso di Antonio Gentile ieri hanno parlato tutti. Tutti, tranne uno: Renzi Matteo, di professione premier e dante causa politico del sottosegretario alle Infrastrutture calabrese, accusato di aver bloccato l’uscita di un giornale - L’Ora di Calabria - per evitare la pubblicazione di una notizia sgradita su suo figlio. “Non l’ho fatto”, ha detto ieri l’esponente calabrese di Nuovo centrodestra, caro ad Angelino Alfano e al governatore Scopelliti: “La macchina del fango partita dalla mia regione ha contaminato i grandi giornali”. In sostanza, secondo Gentile, la ricostruzione de L’Ora di Calabria è falsa. Motivo? Pietro Citrigno, ex editore del giornale e padre dell’attuale, Alfredo, è un suo avversario: “Vivo sotto scorta da tre anni per avere denunciato le stabilizzazioni operate nel periodo di gestione del vecchio centrosinistra all’Asp di Cosenza. In quella stessa Asp sedeva un pregiudicato, rinviato a giudizio con Citrigno per oscene operazioni immobiliari del servizio pubblico”. Il direttore de L’Ora di Calabria, Luciano Regolo, che per primo denunciò l’episodio, ha replicato che “non si farà intimidire”: “Ho letto le parole di Gentile , ma piuttosto che fornire una spiegazione del fosco accaduto preferisce sparare fango sul padre del nostro editore per confondere le acque”. Il cdr del giornale, peraltro, ha annunciato querela nei confronti del sottosegretario. Anche sul fronte politico per Gentile non è una giornata piacevole. Parte Daniela Santanchè: “Renzi lancia i 5 punti per combattere le mafie. Bene, ma finché anche lui ha paura dei ‘cinghiali feriti’ di Alfano le sue restano parole vuote”. Anche la presidente dell’Antimafia Rosi Bindi, a non contare il Pd calabrese, chiedono le dimissioni di Gentile, M5S e Lega valutano la mozione di sfiducia. Quelli di Ncd, però, non ci stanno e da Cicchitto a Schifani e Sacconi fanno a gara per difendere il collega. Il renziano Ernesto Carbone dice che “per la soluzione bisogna aspettare qualche giorno”. Il presidente del Consiglio? Non pervenuto

Repubblica 3.3.14
Lo scontro
Alfaniani in trincea per Gentile
Renzi congela l’ipotesi di revocarlo: “Prima la legge elettorale”
Il Pd insiste: dimissioni subito
di Alberto D’Argenio

È ACCUSATO dal direttore de L’Ora della Calabria di aver fatto bloccare le rotative del quotidiano per non fare uscire il giornale con la notizia dell’iscrizione nel registro degli indagati del figlio. Ieri Matteo Renzi e Angelino Alfano hanno inevitabilmente parlato del caso Gentile in occasione di una serie di contatti originariamente dedicati alla legge elettorale. E in mattinata il fedelissimo del premier Ernesto Carbone spiegava: «Direi di aspettare i prossimi giorni, questa vicenda si chiuderà. È Alfano che deve risolverla ». Per ora lo schema renziano sembra prevedere proprio la soluzione interna all’Ncd, con il partito dei “diversamente berlusconiani” che dietro le quinte spinge e ottiene il passo indietro del sottosegretario. Se così non fosse, il premier sarebbe intenzionato ad intervenire direttamente per mettere fine alla partita. Una mossa che però verrebbe calibrata sulla necessità di superare, prima, il tornante della legge elettorale. Palazzo Chigi preferisce in sostanza attendere che l’Italicum ottenga alla Camera l’approvazione compatta da parte della maggioranza, prima di affrontare una “grana” destinata a creare tensioni tra alleati.
Il Pd, in ogni caso, continua l’assedio. L’attacco a Gentile era stato lanciato dalla minoranza del Pd, ora è tutto il partito a schierarsi contro il senatore ncd, che da parte sua ieri ha replicato con veemenza parlando di «macchina del fango» e negando qualsiasi responsabilità nella storia del giornale calabrese. Rosy Bindi, presidente dell’Antimafia, parlando a Maria Latella su Sky ha esortato Renzi a «revocare la nomina del sottosegretario, non può restare al suo posto». Si muove anche il Pd calabrese, di stretta osservanza renziana, con centocinquanta presidenti di circolo che scrivono al premier chiedendo la rimozione di Gentile dal governo: «Crediamo davvero che sia la volta buona, che il tuo governo possa rappresentare quella svolta che l’Italia e il Mezzogiorno attendono da tempo». Con loro il segretario regionale Ernesto Magorno, anch’egli vicino al premier, per il quale «la scelta dell’Ncd è stata decisamente inopportuna». Manifesta «inquietudine» per la nomina di Gentile anche Franco Siddi, segretario della Fns, sindacato dei giornalisti (che definisce «poco rassicuranti» pure le scelte di Costa e Ferri per il ministero della GiustizIa).
Se già Sel e M5S avevano annunciato battaglia contro il sottosegretario ai Trasporti, ora anche la Lega e Forza Italia salgono sulle barricate. Il segretario dei lumbard Matteo Salvini si dice pronto «a sfiduciare tutti gli indagati al governo». Il grillino Nicola Morra oggi chiederà ai colleghi di «presentare una mozione di sfiducia» ad personam contro Gentile. Potrebbe essere questo il muro contro il quale sbatterà la resistenza del Nuovo Centrodestra, che per ora tiene duro e difende il big di Cosenza ma di fronte a un voto destinato a spaccare la maggioranza potrebbe fare marcia indietro.
Il coordinatore Gaetano Quagliariello - in contatto per tutto il giorno con Gentile - parla di polemica «superficiale» e di «barbarie». La tesi del partito viene spiegata così da un big del partito: «Se non è provato che la telefonata di pressioni tra stampatore ed editore sia partita su input del senatore, cosa dobbiamo fare? Noi fino a prova contraria gli dobbiamo credere e lo difendiamo». Infatti lo stesso Quagliariello sposa la tesi di Gentile sulla sua estraneità alla vicenda de L’ora della Calabria, posizione che avvalora ricordando che il sottosegretario ha sporto querela e ha inviato documentazione al presidente del Senato Piero Grasso. Poi ricorda che Gentile non è indagato e conclude che in nome del garantismo il partito lo difenderà. «Non accettiamo patenti di indegnità », attacca il capogruppo al Senato Schifani, mentre Cicchitto parla di «speculazioni di basso conio». Ma una frase sibillina di un alto dirigente del partito di Alfano apre a quella che potrebbe essere la soluzione del caso: «Noi non facciamo fuori nessuno e fino a prova contraria crediamo alla sua versione, ma se poi i dati a disposizione cambiano o lui fa autonomamente un passo indietro... ». Come dire, se dovessero uscire nuovi elementi a suo sfavore la difesa di Gentile vacillerebbe e comunque nessuno avrebbe nulla in contrario se si facesse da parte per togliere le castagne dal fuoco al partito. Tanto, ricordano i più navigati, di calabresi da mettere al governo al suo posto l’Ncd ne ha molti.


Corriere 3.3.14
Quell’Idea di Giustizia che (per ora) manca
Orlando, i sottosegretari guardiani e il derby giocato da una sola parte
Cosimo Ferri 42 anni, magistrato, di Magistratura indipendente, sottosegretario alla Giustizia
Enrico Costa 44 anni, avvocato, ex berlusconiano ora del Ncd, sottosegretario alla Giustizia
di Luigi Ferrarella


Con La grande bellezza agli Oscar siamo applauditi, ma con «la grande ipocrisia» siamo imbattibili: tutti a impallinare il neosottosegretario alle Infrastrutture, senatore Gentile, al quale il direttore de l’Ora della Calabria aveva ricondotto le pressioni intermediate dallo stampatore del quotidiano per bloccare la pubblicazione di una notizia sul figlio indagato del senatore calabrese.
Giustissimo, ma Gentile non si è nominato da solo. E, soprattutto, la storia delle pressioni sulla stampa nell’interesse del senatore che ieri ha però affermato di non averle mai chieste, non è stata una sorpresa sfortunatamente appresa dal premier dopo la nomina: era invece stata già da giorni ampiamente trattata sulle prime pagine dei giornali. Anzi, se si riascolta l’audio della telefonata pubblicato sul sito del giornale calabrese, la pressione sul direttore era motivata dallo stampatore del quotidiano proprio con la necessità di non rovinare l’immagine di Gentile nel momento in cui lo si sapeva appunto in corsa per un posto da sottosegretario. Ecco perché questa nomina, che oggettivamente ha premiato una pressione sul giornale anziché sanzionarla con il discredito reputazionale, più ancora di Gentile interpella il presidente del Consiglio, il cui frequente «ci metto io la faccia» mal si concilia ora con la goffa giustificazione da Prima Repubblica, per cui la nomina sarebbe stata frutto di una non rifiutabile indicazione del socio di maggioranza governativa Alfano, che di Gentile è il capopartito e lo sponsor.
Tutto e il contrario di tutto, senza una rivisitazione critica o una condivisione argomentata, possono stare insieme solo e proprio perché la grande ipocrisia è l’unica cecità che permette di non voler vedere il vero nodo: e cioè l’assenza nel premier, almeno sinora, di una idea di giustizia che non si riduca all’aneddotica estemporanea sugli arresti da cambiare quando viene assolto un top manager che conosce o sui nuovi reati stradali da inventare quando emoziona la tragedia di un ragazzo investito; e che non si esaurisca nella promessa di intestarsi l’ultimo segmento di percorsi, come l’introduzione del reato di auto riciclaggio, in realtà ormai da tempo avviati perché dettati dall’Europa e elaborati già in dettaglio da tre apposite commissioni.
È di questa assenza di una idea di giustizia che «parlano» certe nomine, alle quali peraltro il neoministro pd Orlando pare assistere con imbarazzo. A parole, ad esempio, il correntismo togato è unanimemente bollato come un morbo della magistratura, eppure il governo Renzi conferma Cosimo Ferri sottosegretario alla Giustizia, cioè proprio il magistrato proverbialmente leader di una delle più forti correnti, all’interno della quale sta crescendo il mal di pancia appunto per la commistione tra corrente come espressione culturale e corrente come veicolo politico.
Tra ciò che sulla giustizia ha operato Berlusconi e ciò che in questi 20 anni hanno opposto i suoi contraddittori, Renzi fa pari e patta con la sbrigativa espressione «basta con i derby ideologici, tanto nessuno cambierebbe idea»: poi però nomina un altro sottosegretario alla Giustizia in Enrico Costa, parlamentare che legittimamente è stato tra i massimi pasdaràn di una delle due fazioni asseritamente in derby, quella degli ultraberlusconiani (oggi neoalfaniani) in prima fila nelle leggi ad personam, contro una imprescindibile riforma dello scandalo di 130.000 prescrizioni l’anno, a favore di stringenti limiti alle intercettazioni, e all’attacco della giurisdizione se si esprime in processi sgraditi.
Passa così quasi in secondo piano che, appena insediato e a dispetto dei propositi, nel governo una sola mano già cominci a non bastare più per contare gli indagati tra ministri e sottosegretari: si può in teoria ritenere che sia un problema, si può motivare invece che non lo sia mai, o a quali condizioni non lo sia, e sarebbero tutte posizioni legittime se argomentate e rivendicate. Ma il punto è che questo governo non si sa cosa pensi.

l’Unità 3.3.14
Italicum, è scontro tra Ncd e Fi In gioco c’è la data delle urne
La legge domani in aula Renzi sente sia Alfano che Verdini
L’incognita dell’emendamento Lauricella, che lega il testo alla riforma del Senato
di Claudia Fusani

Intorno alla legge elettorale ruotano tre scenari. Il primo: Renzi tiene fede al patto con Berlusconi, fa mandare avanti l’Italicum svincolato dalle altre riforme( Senato e Titolo V). Il secondo: Renzi salva la faccia ma fa fare il lavoro sporco, chiamiamolo così, al Parlamento che invece approverà, a scrutinio segreto, l’emendamento Lauricella (deputato della minoranza Pd) che vincola l’una all’altra le riforme fissando un tempo di legislatura lungo, così come dice l’altro patto stretto però con il socio di maggioranza del Nuovo centrodestra. Terzo scenario: Renzi rompe il patto con Berlusconi perché l’Italicum non può funzionare per eleggere due Camere che hanno, tra l’altro, basi elettorali diverse. E a quel punto, tutto può succedere. Ma anche nulla.
Ieri il Mattinale di Forza Italia ha dato una linea chiara. «Se passa il tragico emendamento Lauricella cade tutto», ha scritto il capogruppo Brunetta. «Votarlo significa disinnescare l’Italicum e non riconoscere l’urgenza dell’approvazione della legge elettorale, una questione su cui pesa una sentenza della Corte Costituzionale, che forse molti hanno dimenticato, magari anche perché significherebbe riconoscere l’illegittimità di tantissimi parlamentari ». «Sostenere e votare l’emendamento Lauricella», prosegue la news letter «significa rischiare di andare al voto con il Consultellum». Ma, soprattutto, da parte di Renzi, significherebbe «non rispettare la parola data».
Alle giornate decisive siamo abituati ormai da qualche mese. Tante, troppe, ce ne sono state. Ma la settimana che si apre oggi lo sarà veramente per capire quanto può durare la legislatura, se e fino a che punto il premier Renzi crede nella scadenza naturale del 2018 così spesso tratteggiata e quanto siano concreti i patti stretti in queste settimane con le forze di maggioranza e non. Domani la legge elettorale sarà in aula alla Camera. La promessa, l’impegno, è di approvarla entro la settimana (i tempi sono contingentati, 22 ore) e poi mandarla al Senato per il via libera definitivo che, nei piani del governo, deve arrivare entro marzo. Seppure, e qui è la variabile decisiva, il premier abbia detto, anche nel discorso programmatico della scorsa settimana alla Camera e al Senato, che «l’Italicum ha un nesso logico con la riforma del Senato». Una riforma costituzionale che deve muovere i suoi passi a palazzo Madama, che ha bisogno di quattro letture e non può quindi essere approvata prima di un anno. Ad essere ottimisti.
Gli emendamenti per l’Italicum scadono oggi alle 12. Berlusconi e Renzi lo hanno blindato, due articoli, uno per la Camera e uno per il Senato, soglia di sbarramento per accedere al premio di maggioranza (37%), soglie di accesso per i partiti (entra in Parlamento chi ha ottenuto il 4,5%) più alcuni correttivi per Lega e Sel (salvataggio del miglior perdente di ogni coalizione). Le due settimane di crisi di governo hanno permesso di dare alla legge quella “benzina” che gli mancava e di cui gli estensori si erano dimenticati (gli algoritmi che permettono di tradurre i voti in seggi).
Ma la differenza, in tutta questa storia, la fa l’emendamento Lauricella. E la minoranza Pd, che ha già rinunciato a decine e decine di correzioni, non ha alcuna intenzione di fare passi indietro. Ieri ha alzato la voce anche la presidente dell’Antimafia Rosy Bindi. «Le debolezze di questa legge elettorale sono tre» ha detto intervistata da Maria Latella su Skytg24 annunciando battaglia in Parlamento. «Non può dare una maggioranza certa anche al Senato e quindi è necessario vincolarla alla riforma della camera alta; non c’è la parità di genere; non è pensabile ripresentarsi agli italiani senza consentire loro di scegliere i propri parlamentari ».
Ieri ci sono stati contatti, telefonate e sms, tra Alfano e Renzi. E anche tra il premier e Verdini, plenipotenziario di Berlusconi sulle questioni elettorali. Ognuno deve, a suo modo, salvare faccia e sostanza, le parole date e le promesse fatte. La soluzione individuata prevede che il governo non faccia proprio l’emendamento Lauricella, come invece è stato promesso ad Alfano, e dando invece soddisfazione alla parola data a Berlusconi che non vuole vincoli temporali per la legislatura. Al tempo stesso, però, il governo non può imporre alla sua maggioranza parlamentare di ritirare l’emendamento. Che a quel punto sarà votato con voto segreto e passa a mani basse. Così si salvano le promesse a Berlusconi e ad Alfano. Che poi in fondo neppure il Cavaliere vuole andare a votare a breve (il 10 aprile inizia i dieci mesi di detenzione). Soprattutto, il premier tutela se stesso. Almeno per un po’.

La Stampa 3.3.14
L’Italicum, prima prova per il governo
Il premier dovrà decidere se mantenere l’impegno con Alfano
e “tradire” l’accordo con Berlusconi sulle riforme
di Ugo Magri

qui

Repubblica 3.3.14
Italicum valido solo per la Camera, ipotesi d’intesa tra Renzi e Alfano
I sospetti di Berlusconi. Domani in aula rischio voto segreto
di Goffredo De Marchis

ROMA - Un lungo colloquio con Alfano nel pomeriggio. Un altro fissato per stamattina. E la probabile presenza questa stasera alla riunione del gruppo parlamentare del Pd alla Camera. La prima vera prova per Matteo Renzi è la legge elettorale, mancano una manciata di ore. Oggi a mezzogiorno scade il termine per la presentazione degli emendamenti. Domani pomeriggio si comincia a votare in aula. «Non voglio rinvii e non voglio neanche dare l’impressione che l’approvazione dell’Italicum sia legata ad altri giochi di palazzo. Bisogna procedere con la riforma, entro la settimana va votata alla Camera. Abbiamo preso un impegno, andiamo avanti. Il resto verrà dopo». Su questo si gioca la tenuta dell’accordo con il Nuovo centrodestra, che teme un’accelerazione verso le elezioni, e l’unità del Partito democratico. Berlusconi per il momento sta alla finestra. Ma è lui il coautore dell’accordo.
Nei contatti con Alfano però è spuntato uno schema di mediazione che gli uomini di Renzi giudicano praticabile. A dimostrazione che in questo momento il premier guarda più alla stabilità del governo che alla sponda di Forza Italia. Che tra le due maggioranze ha scelto quella che lo ha portato a Palazzo Chigi. Secondo il compromesso di cui si discute in queste ore, l’Italicum verrebbe approvato nel giro di due mesi e senza collegarlo alle riforme costituzionali. Ma varrebbe solo per la Camera dei deputati e non per il Senato. Come se Palazzo Madama fosse già abolito. In questo modo, si realizzerebbe comunque un deterrente a elezioni anticipate, magari tra un anno come ha dichiarato Silvio Berlusconi. In effetti, è difficile immaginare che la politica porti i cittadini al voto con due sistemi diversi per Camera e Senato anziché procedere all’abolizione del secondo. Una garanzia per Alfano e per Renzi uno strumento per calibrare la sua azione di governo verso orizzonti temporali non limitati.
È un’intesa da costruire nelle prossime ore e che incontra l’opposizione di Forza Italia come dimostrano le parole di Brunetta. Ancora giovedì scorso Renzi diceva ai suoi di non cercare «arzigogoli strani». Ma sono passati quattro giorni e i contatti dentro la maggioranza tra gli esperti e il ministro delle Riforme Maria Elena Boschinon si sono mai fermati. La minoranza del Pd e l’Ncd hanno messo su una saldatura di fatto, intorno all’emendamento Lauricella, il deputato Pd che ha scritto una norma transitoria che collega l’entra in vigore della legge elettorale alla definitiva abolizione del Senato. Emendamento rifiutato da Berlusconi e Verdini e non gradito nemmeno a Renzi che non vuole precludersi l’uso di elezioni anticipate. Ora però si lavora a un’intesa di compromesso.
Oggi sarà Alfredo D’Attorre, bersaniano, a presentare l’emendamento che prevede lavalidità dell’Italicum solo per Montecitorio. «Non vedo come Renzi possa dire di no. La sua legge funziona solo con una Camera, quel sistema è congegnato così. Lo ha detto anche lui», ricorda D’Attorre. Ma Lauricella ritirerà la sua proposta? «Non lo so - dice il deputato bersaniano - ma non è un problema. Il suo emendamento verrebbe votato dopo quello che stiamo preparando noi». I tecnici sono convinti che una legge valida solo per un ramo del Parlamento non avrebbe i problemi di costituzionalità di altre forme di vincolo al-le riforme costituzionali. «Un emendamento che impedisce di andare a votare prima di una certa data non si può fare», taglia corto Roberto Giachetti, il renziano che ha fatto più di uno sciopero della fame contro il Porcellum. Eppure la partita è ancora aperta. La riunione del gruppo Pd, che alla Camera conta ben 293 deputati, è decisiva. Giachetti non si fida e mette le mani avanti: «Discuteremo e poi decideremo. Se ci sarà un’indicazione a maggioranza mi auguro che tutti la rispettino in aula. Così come io ho dovuto ritirare la mia mozione a favore del Mattarellum».
In effetti l’aula, da domani, può diventare un Vietnam per il governo. I voti segreti sono tantissimi, ciascuno è una trappola potenziale per Renzi, per il suo accordo e per il governo. Per questo il capogruppo Pd Roberto Speranza è in contatto con il premier ed è avvisato di una sua possibile presenza all’assemblea di stasera. Se la situazione fosse ancora in bilico, la partecipazione di Renzi appare scontata. Perché quello sull’Italicum è il primo passaggio parlamentare che affronta da presidente del Consiglio.

Repubblica 3.3.14
Brunetta: il premier così torna ostaggio dei partitini
“Via il lodo Lauricella oppure salta l’accordo sulla partita elettorale”
intervista di Goffredo De Marchis

ROMA - «Io li chiamo emendamenti “campa cavallo” o “Penelope”. Se non li ritirano, significa che Renzi non tiene né il Pd né la maggioranza dei partitini. Allora salta l’accordo e la responsabilità ricadrà tutta sul premier». Il capogruppo di Forza Italia alla Camera Renato Brunetta si prepara ad affrontare la battaglia della Camera sull’Italicum. Vede segnali che non gli piacciono, proposte di modifica già presentate o annunciate che puntano a ritardare l’approvazione della legge elettorale e la sua entrata in vigore. «Potrei anche definirli emendamenti “coda di paglia” perché chi vuole legare la legge elettorale all’abolizione del Senato non vuole nessuna delle due cose».
Da Renzi però non arrivano segnali di perdite di tempo.
«Infatti non credo che il premier voglia stracciare l’accordo. Ma esistono varie dichiarazioni da parte della maggioranza a favore dell’emendamento Lauricella e consimili tipo l’abolizione dell’articolo 2 del Senato. Tutto questo è fuori dagli accordi».
Rispetto ai giorni del colloquio Renzi-Berlusconi è cambiato quasi tutto. C’è un nuovo governo.
«Ma c’è un’intesa diciamo istituzionale con noi e con i partiti della maggioranza, firmata anche da Alfano. Mi chiedo perché dovrebbe essere cambiata la posizione del presidente del consiglio e del suo partito».
In quell’intesa ci sono anche la riforma del Titolo V e l’abolizione di Palazzo Madama. Perché dovrebbe essere inaccettabile un collegamento?
«Sarebbe incostituzionale. Quando si fa una nuova legge elettorale in un regime di bicameralismo, qual è ancora il sistema attuale, non penso siano ammissibili emendamenti che legano la legge elettorale e altre riforme. L’Italicum è un provvedimento ordinario, il resto richiede una revisione costituzionale che prevede la doppia lettura e il referendum confermativo. Alla fine, chi cerca di tenere insieme le due cose non vuole né la legge elettorale nè le riforme».
E chi non le tiene insieme, vuole andare a votare appena approvato l’Italicum?
«Non è così. L’accordo è complessivo ma va in parallelo. La legge elettorale si approva in un mese, quelle costituzionali in un anno e mezzo».
Appunto.
«Guardi, la nostra posizione è comunque tranquilla o come si usa dire adesso molto serena. Berlusconi è in una posizione di win win. In ogni caso vinciamo. Se Renzi mantiene l’accordo, vinciamo noi, lui e l’interesse degli italiani che hanno bisogno di un nuovo assetto istituzionale. Se Renzi non mantiene l’accordo, anche se io non lo credo, o se un colpo di mano lo manda sotto perde solo lui. Vincerebbero allora i piccoli partiti perché dimostrerebbero che il premier non governa la sua maggioranza. Ma conviene?«.
Vuol dire ad Alfano?
«Dopo Renzi non c’è un altro governo, ci sono le elezioni. E per chi vuole allungare i tempi della legislatura sarebbe un boomerang ».


La Stampa 3.3.14
Giuseppe Lauricella
“Capiremo chi vuole il cambiamento e chi bluffa
intervista di Antonio Pitoni


«C’è una forte pressione, per usare un eufemismo, da parte di Forza Italia, per evitare il mio emendamento». L’emendamento in questione è quello del deputato del Pd, Giuseppe Lauricella, che aggancia l’entrata in vigore dell’Italicum alla riforma costituzionale del bicameralismo.
Teme un blitz azzurro anti-Lauricella?
«Non credo che riusciranno ad inficiare l’approvazione del mio emendamento».
Però anche FI ha sottoscritto l’intesa sull’Italicum…
«Ma non ha alcun interesse a fare le riforme costituzionali. Ha solo l’obiettivo di approvare una legge elettorale per andare subito al voto, pur sapendo che, senza la parallela revisione del bicameralismo, non garantirà alcuna governabilità. Credo che questo sia ormai evidente a tutti».
L’emendamento Lauricella è diventato l’indicatore della durata della Legislatura?
«Piuttosto segna una linea di demarcazione tra chi vuole davvero le riforme e chi, invece, sta solo bluffando».
Tra pro e contro?
«Chi lo vota sposa l’idea di un percorso di riforme, comprendendo la necessità di agganciarvi anche quella della legge elettorale. Chi non lo vota è contrario a quel percorso. D’altra parte, il mio emendamento pone un problema di assetto del sistema».
In che termini?
«Ho solo tradotto in norma il percorso indicato dal segretario del mio partito, dal momento che il primo passo è stato mosso proprio sul terreno della legge elettorale. Se fossimo partiti dalla riforma del bicameralismo il problema non si sarebbe posto».
Sul suo emendamento potrebbero incombere le insidie del voto segreto…
«E’ ancora da vedere. Ma visto che il regolamento della Camera prevede che, se viene richiesto, sulla legge elettorale si vota a scrutinio segreto, anche una norma che ne fa parte dovrebbe essere votata a scrutinio segreto».
Esponendosi al rischio dei franchi tiratori, non crede?
«Ovviamente. Ma, ciò detto, per il solo fatto di averlo presentato, il mio voto è già palese. Lo stesso vale per il Pd».
C’è chi pensa che il suo emendamento miri solo ad allungare la Legislatura…
«L’effetto è questo, ma il senso è un altro. Se approvassimo l’Italicum senza il mio emendamento, la sua applicazione ad entrambe le Camere non garantirebbe la governabilità».

l’Unità 3.3.14
Nomine pubbliche, la vera prova del cambiamento
Il governo Renzi dovrebbe chiarire se intende seguire i criteri di Letta. Con la scelta di 600 nomi si fa la politica economica. Non dimenticare il caso Consob
di Angelo De Mattia

Una volta superato il test della composizione del Governo, al Premier ora si prospetta, in tema di conferimento di incarichi, l’altro e non meno importante passaggio, quello delle nomine in imprese pubbliche. Tra nomine disponibili più o meno direttamente e nomine conferibili da imprese partecipate dallo Stato o da partecipate di partecipate, è stato calcolato un complesso di circa 600incarichi, al centro in periferia, da attribuire. In particolare, le principali imprese pubbliche sono coinvolte con cariche di rilievo in scadenza. Concentrandoci sugli amministratori delegati, basti ricordare l’Eni (Paolo Scaroni), l’Enel (Fulvio Conti), le Poste (Massimo Sarmi), Terna (Flavio Cattaneo). Vi è, poi, anche la possibilità del coinvolgimento di Finmeccanica , il cui presidente è Gianni De Gennaro e a.d. è Alessandro Pansa. Il Governo Renzi si trova così a decidere sulla spina dorsale dell’intervento pubblico in economia. In altre epoche, l’accrescimento della torta delle cariche da distribuire sarebbe stato molto ben visto perché avrebbe reso più agevole il metodo spartitorio tra i partiti di governo, come accadeva per le nomine dei vertici delle banche pubbliche, consentendo la perpetuazione della lottizzazione. Ma ora siamo, o comunque dovremmo essere, anche sulla base delle dichiarazioni programmatiche del Premier, in una fase nuova in cui dovranno essere valorizzati sempre più il merito, le capacità, la credibilità, il rigore, l’autonomia intellettuale. E allora è legittimo attendersi una svolta anche nel modo in cui questa complessa vicenda sarà affrontata, nella consapevolezza che le decisioni riguarderanno in senso lato il modo di concepire il governo dell’economia.
Se così è, bisognerà avere salda e netta la visione del rapporto tra governo e imprese della specie. I vertici aziendali non debbono essere fedeli all’esecutivo, ma debbono attuare il mandato loro conferito, operando in autonomia, e rispondendo a consuntivo del loro operato. Il giudizio ex post deve essere rigoroso, non inferiore per profondità e documentazione a quelli che danno gli azionisti che hanno posizioni di rilievo o di controllo in società di vario tipo allorché debbono decidere, alla scadenza degli incarichi, le scelte da compiere. Per i nuovi candidati alle nomine è in corso il lavoro preparatorio di due società di consulenza, volto alla raccolta delle informazioni e dei curricula per conto del Tesoro, dopodiché, se non saranno apportate innovazioni, il materiale messo a punto dovrebbe passare, per l’esame di competenza, al Comitato dei garanti presieduto dal presidente emerito della Corte costituzionale, Cesare Mirabelli. Intanto, il nuovo governo dovrebbe chiarire se intende intervenire sui criteri che sono stati indicati dall’esecutivo Letta. Un’attenzione particolare dovrebbe riguardare la prevenzione di incompatibilità e di potenziali conflitti di interesse. Poi occorrerà passare all’applicazione ai singoli casi e in ciò potrebbe consistere il lavoro più impegnativo, mentre non sono da escludere sollecitazioni, sponsorizzazioni, comparsa di clientes attraverso le classiche “ raccomandazioni”. Diversi sostenitori della nuova linea del governo si fanno avanti informalmente. Da Colao a Farinetti, a Bini Smaghi sono i nomi che circolano non si sa con quanto fondamento. Si dovrebbe rifuggire, però, dall’accedere a informali raccolte di aspirazioni o a sondaggi tra conoscenti. D’ora in avanti è probabile che si assista alla messa in evidenza di questo o quel boiardo o aspirante tale per potere attrarre l’attenzione di chi dovrà decidere su nomine e riconferme, alla predisposizione ad hoc di precise strategie. E, allora, solo l’oggettività rigorosa dei procedimenti e la terzietà delle selezioni possono dare il segnale della svolta. Del resto, non si può essere così duri nei confronti della burocrazia e poi “largheggiare” nei giudizi su coloro che, in effetti commis d’Etat o aspiranti tali, si candidano a ricoprire incarichi nelle imprese pubbliche.
Non andrebbe escluso, nel procedimento delle nomine, un ruolo del Parlamento (pur in mancanza di una legge). E, soprattutto, bisognerebbe disciplinare i trattamenti economici dei nominati nella parte fissa e in quella variabile. Ma il governo non potrà dimenticare che, accanto agli incarichi nelle imprese pubbliche, bisognerà finalmente nominare il terzo commissario della Consob, il cui vertice è ridotto a due soli componenti da due mesi e mezzo, con una grave sottovalutazione dell’esigenza di avere un collegio decisionale completo: una vacatio finora non superata che, se dovesse permanere, la direbbe lunga sul modo in cui l’esecutivo vede questi poteri neutri di garanzia. Speriamo che così non sarà.

La Stampa 3.3.14
“Renzi? Un rivoluzionario non so se di sinistra o di destra”
Cohn-Bendit: i partiti socialisti sono vecchi e non attirano più i giovani
intervista di Francesca Paci


Che aspetto ha l’irregolare premier Renzi agli occhi di un trasgressivo doc come Daniel Cohn-Bendit, rottamatore ante litteram di qualsiasi regola scritta prima e dopo il suo ’68? 
«Difficile giudicare, Renzi è stato sindaco di Firenze ma non ha esperienza di governo» risponde il leader «liberale-libertario» del maggio francese passato negli anni dalla fede marxista a quella nell’Europa, dove è stato a lungo parlamentare dei Verdi. Un ecologista convinto che, diversamente dai NoTav, difende l’alta velocità. 
Basta l’adrenalina di Renzi a fare un leader politico? 
«L’energia è importante soprattutto in un paese bloccato come l’Italia che resiste ai cambiamenti. Ma non è sufficiente. Personalmente non ho ancora capito la sua posizione politica, se è un liberale o se è per le regole. Sembra un libro aperto ma con le pagine bianche». 
È un libro rivoluzionario? 
«Di certo Renzi ha fatto una rivoluzione, nel senso che ha preso il potere con una rivolta interna al suo partito. Non so però dove vada questa rivoluzione, a destra, a sinistra, verso l’altro, verso il basso..»
Il debutto internazionale del neo premier italiano è stato il congresso romano del PSE. Che peso ha oggi la famiglia socialista in Europa? 
«Grazie a un paio di governi i socialisti potrebbero avere un ruolo ma non si mettono d’accordo. Hollande non ha saputo lavorare né con i suoi colleghi italiani né con gli spagnoli. Il limite del PSE è che manca di una strategia riformista e socialdemocratica per l’Europa».
Renzi ha parlato dell’Europa dei popoli, dell’urgenza di colmare lo spread sociale prima di quello politico. 
«Belle frasi ma del tipo che possono essere pronunciate da tutti, conservatori compresi. Nessuno direbbe mai che vuole l’Europa dei governi. Il punto è avere una visione, lavorare perché gli Stati Uniti d’Europa diventino una realtà che si muove compatta sul riscaldamento globale, su come regolare la globalizzazione, sulla difesa delle economie dei paesi del sud dall’attacco dei mercati, sull’ambiente. Ecco, Renzi non ha idee sull’ecologia, pare qualcosa che per lui non esiste».
Dopo il voto del 25 maggio il Parlamento di Strasburgo sarà invaso dai barbari, populisti, nazionalisti, neonazi? 
«Ci sarà un’avanzata dei populismi. Ma non prenderanno la maggioranza. Tra l’altro sono molto diversi l’uno dall’altro, si va dal qualunquismo italiano alla Beppe Grillo al nazionalismo francese. Ma il loro impatto dipenderà dalla resistenza che sapranno apporre le forze democratiche disposte a fare compromessi, i conservatori, i socialisti, i liberali, i verdi di cui in Italia parlate così poco».
Dei verdi italiani si parla quando ci sono proteste NoTav. 
«In Italia ci sono forze con un potenziale ecologista. La Tav è fondamentale se vogliamo ridurre l’impatto degli aerei. Ma la questione è complessa: se non può passare da lì, la discussione non dovrebbe vertere sul no ma sul dove farla passare in alternativa. Io credo che ci serva».
Vent’anni fa l’Europa era sinonimo di Erasmus per i giovani, un vero mito. Come mai oggi interessa così poco ai ragazzi? 
«I giovani vivono l’Europa quotidianamente, vedi italiani, francesi, spagnoli, lavorare in tutte le città di tutti i paesi. Solo che seppure sono nell’associazionismo non si interessano alla politica tradizionale. Il problema è che oggi Bruxelles fa una politica tradizionale. Io vorrei che la Commissione finanziasse ogni anno lo studio all’estero di un milione di studenti europei che poi statisticamente si fidanzerebbero tra loro. Che nazionalità avrebbe il figlio di un’olandese nata a Amsterdam da genitori turchi e un francese nato a Parigi da genitori marocchini? Europea».
Una volta i partiti socialisti e comunisti seducevano i giovani. Oggi, se va bene, i loro genitori. Com e mai? 
«Perché i partiti socialisti sono vecchi e non solo sull’Europa. Come può un giovane essere attratto da Hollande? Lo dico da verde, ma è così. Dobbiamo parlare ai ragazzi, spiegare loro che in un futuro prossimo la soluzione a tanti problemi non sarà più nazionale, dal clima al regolamentare la globalizzazione, e la sovranità europea farà la differenza. Anche oggi potremmo sperare di avere un peso sulla crisi Ucraina se, per esempio, dicessimo in coro a Putin che nessuno parteciperà alla Coppa del mondo tra quattro anni e mezzo e i suoi stadi resteranno vuoti. Tra trent’anni nè la Francia, nè l’Italia nè la Germania saranno nel G8. O conteremo qualcosa nel mondo come Europa o saremo nulla».

La Stampa 3.3.14
Per le riforme ci vuole un metodo
di Ugo De Siervo

qui
 

Corriere 3.3.14
Il consenso a caro prezzo

di Ernesto Galli della Loggia

Qual è la causa profonda della crisi italiana, che ormai sappiamo bene essere una crisi niente affatto congiunturale? Un filo per imbastire una risposta adeguata lo si trova leggendo i saggi di un volume curato da Gianni Toniolo — L’Italia e l’economia mondiale dall’unità a oggi — e pubblicato nella bella collana storica della Banca d’Italia. Come spesso capita, la prospettiva dei tempi lunghi, soprattutto centrale nel saggio introduttivo del curatore, serve a far vedere meglio le cose.
All’incirca verso il 1990 lo sviluppo del nostro Paese aveva più o meno raggiunto quello dell’Europa occidentale. Un’impresa ragguardevolissima, se si considera che solo un secolo prima rispetto a quella parte del continente non eravamo ancora usciti dalla decadenza secolare che ci aveva colpito dalla fine del Cinquecento. Ma dai primissimi del Novecento sopraggiunge una crescita sostenuta e pressoché costante, divenuta impetuosa a cominciare dalla Grande Guerra alla fine degli anni Venti e quindi nel trentennio 1950-1980, durante il quale diminuirono anche — e non di pochissimo — la distanza tra Nord e Sud e la diseguaglianza nella distribuzione della ricchezza tra i gruppi sociali.
Da allora, invece, se non proprio un precipizio, quasi. Basti dire che il rapporto tra il Prodotto interno lordo pro capite italiano e quello degli Usa è tornato nel 2010 ai livelli del 1973. In questo secolo, insomma, la nostra crescita è semplicemente inesistente, e da un certo punto in poi inizia addirittura una decrescita. Un deterioramento complessivo di cui può essere considerato un preannuncio simbolicamente esemplare ciò che a cominciare dagli anni Ottanta avviene del rapporto debito/Pil: da circa il 60 per cento nel 1979 si passa in un solo decennio al 90, per arrivare nel 1992 al 105 per cento.
Che cosa è successo per giustificare la drammatica inversione avutasi nello sviluppo italiano? In queste pagine si danno parecchie spiegazioni (poche grandi imprese, mancato inserimento nell’imponente rivoluzione tecnologica e dei servizi di fine Novecento, aumento eccessivo del costo del lavoro, eccetera), ma se ne affaccia di continuo, mi sembra, una in particolare, benché mai sviscerata fino in fondo. Vale a dire che in Italia ciò che è venuto meno non è qualcosa che attiene direttamente all’economia, ma è piuttosto una generale «capacità sociale di crescita» (Toniolo).
Diviene allora impossibile non collegare il ciclo economico a quello politico, e chiedersi se negli Anni 70/80, data di inversione del primo, non sia cominciato ad accadere anche nel secondo qualcosa di significativo che possa essere messo in relazione con esso. Ebbene, questo qualcosa è senz’altro accaduto, e si chiama avvento di un consenso elettorale ad alto tasso di contrattazione. Mi spiego: fino a quegli anni il voto appare in gran parte determinato da forti motivazioni di appartenenza ideologica. Il voto mobile, cosiddetto d’opinione, è piccola cosa, e specialmente lo spostamento da uno all’altro dei due grandi blocchi elettorali — democristiano e comunista — è decisamente limitato dalla natura del Pci quale partito sostanzialmente delegittimato a governare.
Le cose però cominciano a cambiare dopo il Sessantotto. Gruppi sempre più consistenti di elettorato «d’ordine» si staccano dalla vecchia fedeltà elettorale; gli strati giovanili in quanto tali mostrano una spiccata tendenza a sinistra; la sindacalizzazione coinvolge vasti strati del ceto medio; si alza in generale il livello di richiesta di servizi e di garanzie sociali (previdenza, assistenza, eccetera). Al tempo stesso l’immagine del Partito comunista va perdendo i caratteri negativi che fin lì aveva avuto ed esso pertanto diviene un competitore credibile al governo del Paese.
Questo svolgersi delle cose rappresentava di certo una crescita democratica, un positivo ampliamento degli spazi di azione sociale: da una dimensione ideologicamente ingessata e asfissiante a una assai più libera. Ma come sempre maggiore libertà avrebbe richiesto maggiore responsabilità. Di cui invece, per varie ragioni qui troppo lunghe a dirsi, la società italiana non era certo pronta a farsi carico. In Italia maggiori spazi di democrazia vollero dire che a partire dagli anni Settanta si aprì un mercato elettorale nel quale diveniva sempre più difficile per il compratore politico opporsi alle richieste molteplici e inevitabilmente settoriali dei diversi gruppi sociali decisi a sfruttare al meglio il proprio voto. Si spiega in questo modo tutta una serie di fenomeni destinati nei decenni successivi ad aggravarsi e a produrre conseguenze negative molto importanti: l’espansione caotica e costosa dello Stato sociale, i sussidi indiscriminati alle imprese, il peggioramento della qualità dell’istruzione e della Pubblica amministrazione a causa di concessioni «permissiviste» dall’alto e pansindacalismi e agitazioni democraticiste dal basso. Nel mentre l’istituzione delle Regioni e le varie «riforme» non mancavano di produrre una progressiva perdita di controllo del centro su tutte le periferie e su tutti gli insiemi.
Storicamente, dal ’45 in poi, la democrazia italiana ha voluto dire i partiti, non la società: che anzi, nel lungo Dopoguerra, è stata piuttosto da essi dominata, organizzata e disciplinata. È peraltro impossibile negare che, in una misura significativa, il grande sviluppo economico del Paese fu reso possibile proprio grazie ai partiti: all’efficacia delle loro scelte e della loro direzione. Ma a partire dagli Anni 70/80 la tendenza si rovescia. In un certo senso la società reclama il suo primato «democratico» e comincia a sfuggire ai partiti, i quali ne perdono progressivamente il controllo fino a conoscere la virtuale dissoluzione del loro sistema con le inchieste di Mani pulite. E da allora in avanti, non a caso, essi vivono e sono vissuti soprattutto come qualcosa di superfluo, di parassitario, precisamente come una «casta».
A questo punto, però, la società che prende il sopravvento si rivela per ciò che è: una società con un assai debole «capitale civico», familistica e corporativizzata, complessivamente poco istruita e poco interessata a informarsi, il cui interesse per la libera discussione è scarsissimo, dislocata geograficamente, divisa in interessi particolari accanitamente decisi ad autotutelarsi; dove il privato tende sempre a prevalere su ciò che è pubblico o a piegarlo al proprio servizio; dove non esistono élite sociali e culturali unanimemente riconosciute. Dove sì, le energie non mancano, ma dove si manifesta sempre fortissima la resistenza al cambiamento, al merito, alla mobilità.
È compatibile — questo è il punto — una società del genere con un moderno sviluppo economico? E soprattutto: può riuscire a esprimere una strategia appena appena coerente rispetto allo sviluppo anzidetto un sistema politico che deve operare in un tale clima «democratico»? Che è costretto a contrattare periodicamente il proprio consenso con una tale società? Ecco altrettanti interrogativi cruciali a cui peraltro s’incarica la realtà, mi sembra, di dare una risposta ogni giorno più netta.

La Stampa 3.3.14
Camilleri, Spinelli, Ovadia e Prosperi: quattro candidati di lusso per Tsipras
Una squadra di intellettuali, registi e scrittori per L’Altra Europa del leader greco
di Syriza

Se eletti, dicono, lasceranno il posto ad altri “più competenti”
di Davide Lessi

qui

l’Unità 3.3.14
Firenze, Giani fuori dal governo ma non sfiderà Nardella
Il consigliere non vuole rompere con Renzi
Rischio bassa affluenza alle primarie di fine mese
Il civatiano Ghelli potrebbe correre contro il vicesindaco reggente
Cuperliani divisi
di Osvaldo Sabato

La macchina delle primarie per la scelta del candidato sindaco a Firenze si è messa in moto. Saranno solo del Pd e non di coalizione. Anche perché di fatto ancora non c’è. Si faranno, nonostante al momento ci sia solo un concorrente: il vicesindaco reggente Dario Nardella, il grande favorito. Potrebbe essere della partita anche Iacopo Ghelli, del circolo del Varlungo, in quota Civati. Il bancario sembra molto deciso perché i civatiani vogliono un loro candidato e poi servirebbe anche a lui per crearsi quella visibilità da spendere poi durante la campagna elettorale per entrare in consiglio comunale. Quanto ai cuperliani sono divisi fra chi ritiene inopportuna una candidatura di bandiera («rischia di farci rinchiudere in un ulteriore recinto» dice Mirko Dormentoni), mentre una parte del gruppo più vicino alla consigliera regionale Daniela Lastri è più combattivo: sta chiedendo con insistenza di candidarsi ad Alessandro Lo Presti, esponente dell’area Marini, ma è ancora dubbioso, come ha spiegato lui stesso nell’ultima assemblea cittadina del Pd, e non intende candidarsi in rappresentanza di «un gruppo o di un sottogruppo». Si è quindi detto pronto a correre solo in nome di un progetto, il suo, che è quello della «felicità pubblica ».
L’incertezza su Lo Presti resta anche se per ogni evenienza sta raccogliendo le 25 firme fra i componenti dell’assemblea, 125 tra gli iscritti, da consegnare entro domani sera. Si è definitivamente tirato fuori anche l’ex assessore Claudio Fantoni, che dopo aver sbattuto la porta è uscito dalla giunta di Palazzo Vecchio ed è stato il primo a lanciare la sfida a Renzi quando ancora era il candidato sindaco. In ogni caso le primarie sono già fissate per domenica 23 marzo, senza ballottaggio, vince chi prende più voti ai gazebo. Ma ora anche fra i renziani inizia a farsi largo il dubbio su una bassa partecipazione. Insomma si teme il rischio flop e ciò non farebbe bene né al Pd e né a Nardella, che invece ha bisogno di una investitura popolare per scrollarsi di dosso l’etichetta del nominato.
Chi non ci sarà sicuramente è Eugenio Giani, l’unico vero contendente in grado di sfidare Nardella. Ma il consigliere regionale e presidente del consiglio comunale di Firenze, nonostante sia rimasto fuori dalla squadra dei sottosegretari, non ha nessuna intenzione di rompere con il premier Renzi. Il suo è un segnale distensivo dopo la delusione arrivata da Palazzo Chigi.
Del resto nei giorni caldi che portarono alla scelta di Nardella come vicesindaco reggente e che di fatto significò l’uscita di scena di Giani potenziale sindaco fu proprio lui stesso a dire che era uno che sta in squadra. Sarà così nonostante la forte amarezza. Del resto una sua eventuale scesa in campo alle primarie contro Nardella avrebbe aperto una ferita tutta interna ai renziani. La questione politica è tutta qui. Il dilemma amletico se rompere o non rompere con Renzi in questi giorni gli sarà balenato molto nella sua testa. «Non credo che correrà» è la previsione del segretario metropolitano Fabio Incatasciato. Anche nel Pd fiorentino sono convinti che non correrà, per lui potrebbero spalancarsi ugualmente le porte di Palazzo Chigi con un incarico di consigliere della presidenza del Consiglio per gli affari dello sport. Al momento è solo un’ipotesi, da prendere con le molle visto come è andata a finire sul sottosegretariato.

l’Unità 3.3.14
Beni confiscati alla mafia, di troppa prudenza si muore
di Mila Spicola

«ABBIAMO BISOGNO NON SOLO DI IMPEGNARE LA NOSTRA INTELLIGENZA MA ANCHE LA COSCIENZA. DOBBIAMO OSARE, SI MUORE PER TROPPA PRUDENZA». Lo hai detto sabato, caro don Ciotti, durante la giornata organizzata a Roma da Libera per discutere sull’uso sociale dei beni confiscati. Esattamente per impegnare insieme intelligenza, coscienza e forse, un po’ di sana mancanza di prudenza, prendo carta e penna e ti scrivo perché ho bisogno di chiarezza. Sono tra coloro che pensa che parte dei beni confiscati potrebbero essere venduti per destinare i proventi e non solo la gestione per usi sociali. Hai tuonato forte sabato contro chi vorrebbe «trasformare in mercato» la confisca dei beni e mi sono sentita profondamente mortificata anche se comprendo perfettamente quali sono le tue ragioni: etiche, simboliche, morali.
Ho qualche domanda dunque da farti, per chiarire e confrontarmi. Intanto vorrei capire cosa è mercato e se la parola reca automaticamente in sé il male. Ovviamente non è così, perché tutto quello che è frutto del lavoro umano è in sé nobile. Il mercato, nella sua accezione positiva, persino il guadagno, diventa fonte di bene, quando è onesto, quando è trasparente, regolare e sano. Anzi proprio l’assenza di mercato sano favorisce la presenza di «mercato» insano. Magari si trasformassero in mercato sano tutti i beni confiscati, specie dalle mie parti. Dunque il punto non è il mercato in sé, ma le responsabilità che sono sempre individuali e personali, come la libertà. Alcuni dicono: non si possono vendere i beni confiscati alle mafie perché potrebbero ricomprarseli i mafiosi. A me viene la tristezza ancor di più: possibile che crediamo così poco nello Stato da non credere che si possano regolarizzare processi e metodi di vendita in modo trasparente, certo e controllato? Io, che sono insegnante, che credo che lo Stato siamo noi e non quell’entità astratta posizionata da qualche parte a volte lontana, a volte messa là a fungere da capro espiatorio, beh, io non mi ci rassegno a tale idea.
Facciamo l’esempio di un grosso albergo confiscato alla mafia, chiuso da anni, che magari abbia bisogno di spese ingenti per essere rimesso in funzione, spese che lo Stato non può sostenere e nemmeno una cooperativa di giovani può affrontare. È davvero così insensato proporre di acquistarlo a un imprenditore con attività sana e certificata? E con quel denaro costruire cinque asili ad esempio e donarli a un ente locale, o farli gestire da giovani maestre? Hai parlato anche di dispersione scolastica sabato, tocchi una ferita aperta: la Sicilia è la regione più colpita, e io li vedo i ragazzi che lasciano la scuola, ragazzi che arrivano a scuola col segno meno. Lo sai che la dispersione si combatte più con gli asili che coi progetti discontinui destinati ai ragazzi più grandi? Progetti di buone intenzioni, di ottima realizzazione, ma che si rivelano inefficaci sul piano del contrasto complessivo del fenomeno.
Torniamo al punto: è davvero così immorale e poco etico fidarsi della capacità dello Stato di alienare in modo sicuro alcuni di questi beni? Non voglio crederlo, purché si assicuri l’uso sociale dei proventi. Uso sociale dei beni o uso sociale dei proventi: non è egualmente simbolico ed etico? Ci sono patrimoni confiscati che rimangono sospesi in amministrazione giudiziaria anche per 20 anni. La mia intelligenza e la mia coscienza mi pongono l’obbligo di ricordare che non è meno grave il fatto che per anni e anni Comuni e Province hanno pagato l’affitto per immobili confiscati e mai assegnati, in cui c’erano scuole. In quel caso «il mercato» è stato il prendere tempo. Lo hai detto tu: il tempo assume caratteri etici in questi casi. È mala amministrazione? Quanto spazio lascia aperto alle irregolarità la cattiva burocrazia, quanto tempo perso, quanti soldi sprecati? Un bambino su due in Sicilia è povero, possiamo permettercela la troppa prudenza? Non è retorica, per quel bambino abbiamo l’obbligo di costruire un futuro migliore, ma anche quello di assicurare un presente perché ha l’urgenza di un’infanzia migliore. Ci sono 12.946 beni confiscati in Italia, circa 4mila immobili e quasi duemila aziende sono in gestione e non sono assegnati. Troviamo un modo più trasparente e sicuro affinché tutti i beni si assegnino entro un tempo definito e breve e quelli che è difficilissimo assegnare e usare subito, che sono tantissimi, si vendano. Si destinino le somme al welfare per i bambini: asili e assistenza all’infanzia. Senza timore e senza perdere altro tempo. Lo hai detto tu, si muore per troppa prudenza, dobbiamo osare. Con il giusto rigore.

l’Unità 3.3.14
A Pompei altri due crolli «C’è un vuoto gestionale»
Pietre sono cadute dal Tempio Venere, cede anche il muro della necropoli di Porta Nocera
di Franca Stella

Non c’è pace a Pompei. Il maltempo e le cospicue piogge di venerdì e sabato hanno provocato due crolli all'interno dell'area archeologica. Nel pomeriggio di sabato si è verificata la caduta di alcune pietre dalla spalletta del quarto arcone sottostante il tempio di Venere. La muratura, interessata da alcune lesioni, era già stata puntellata. L'area è interdetta al pubblico. Nella prima mattina di ieri, crollo del muretto di una tomba della necropoli di Porta Nocera, prospiciente l'antica strada. Il muretto, alto circa 1,70 metri e della lunghezza di circa 3,50 metri, serviva da contenimento del terreno in cui erano state poste le sepolture ed era pertanto costruito contro-terra. Si è provveduto a chiudere tutti gli accessi alla necropoli, che rimarrà chiusa al pubblico fino al completamento delle verifiche del caso e al ripristino del muretto.
Secondo Antonio Irlando, responsabile dell'Osservatorio Patrimonio culturale «la notizia di questi due crolli arriva nel momento in cui Pompei è nel pieno di un vuoto gestionale senza precedenti. Infatti, la nomina del soprintendente Massimo Osanna non è stata ancora perfezionata dalla Corte dei Conti e incombono su di essa alcuni ricorsi amministrativi. Inoltre, il direttore generale del Grande Progetto Pompei e il suo vice sono di fatto impossibilitati ad operare in quanto lo staff di 25 persone che li dovrebbe supportare nel difficilissimo compito di dare impulso al piano per la città non è stato ancora insediato». Irlando sostiene che «la drammaticità dello stato conservativo di Pompei conferma una nostra ricognizione sul territorio secondo la quale per ogni crollo reso noto ce ne sono 9 di cui non si ha notizia, vale a dire almeno uno per ognuna delle 9 regioni in cui è suddivisa Pompei». Il responsabile dell'Osservatorio ricorda l'importanza dei due siti al centro dell'attenzione. «Il Tempio di Venere era l'avamposto della città verso il mare. Il suo stato di conservazione era da tempo compromesso. Per quanto riguarda la necropoli di Porta Nocera si tratta della più rilevante, per numero e importanza di monumenti funerari, tra quelle rinvenute nell'area archeologica».
Il degrado del sito archeologico di Pompei ha costituito una delle maggiori preoccupazioni dei ministri dei Beni Culturali che si sono avvicendati negli ultimi governi. A partire da Sandro Bondi, sotto il cui mandato si sono verificati i crolli più importanti, fino a Massimo Bray. E lo stesso Dario Franceschini, ad appena una settimana dal suo insediamento, deve già fare i conti con nuovi cedimenti nella città romana sommersa dall’eruzione del Vesuvio del 79 d.C, dal 1997 patrimonio dell' umanità Unesco.
E proprio per affrontare il problema di Pompei che il neo ministro ha convocato per domani una riunione operativa. Che servirà ad avere un rapporto esatto sulle motivazioni dei crolli che hanno interessato il sito archeologico e più in generale negli ultimi mesi, a cominciare da quello di dicembre 2013, nonché a verificare l'efficacia degli interventi di ordinaria manutenzione e, complessivamente, a valutare lo stato di attuazione del Grande Progetto Pompei.
Alla riunione, che si terrà alle ore 10.30 presso il Mibact, parteciperanno anche il soprintendente incaricato Massimo Osanna, il direttore generale delle antichità, Luigi Malnati e il direttore generale del Grande Progetto Pompei, Giovanni Nistri. Già ieri mattina Nistri, con cui il ministro aveva avuto un primo incontro giovedì scorso, e Malnati sono stati contattati da Franceschini per avere un report completo sulle ragioni dei crolli avvenuti.
Di Pompei si sta parlando ormai da troppo tempo. Il primo allarme è del 6 novembre 2010, quando la Domus dei Gladiatori si sbriciola sotto il peso di un tetto in cemento armato e per le infiltrazioni d’acqua dovute alla pioggia. E si scatenano le polemiche contro Bondi, ministro dei Beni Culturali nell’allora governo Berlusconi. Bondi si difende chiamando in causa i sovrintendenti, che per tutta risposta gli ricordano i pesanti tagli al settore. Meno di un mese dopo, il primo dicembre, crollano due muri della casa del Moralista, fortunatamente senza affreschi, e Bondi propone un piano straordinario per la manutenzione con il ritorno di una soprintendenza autonoma con poteri più incisivi. Il nuovo ministro, Giancarlo Galan, nel marzo 2011 sceglie Pompei per la sua prima conferenza stampa e promette un piano di manutenzione programmata che punti anche sul coinvolgimento di sponsor e che sfrutti i fondi europei. A ottobre, però, crolla un altro muro romano. Un anno dopo, arriva il sostegno europeo. La Commissione Ue approva un piano per 105 milioni di euro. I lavori, annuncia il nuovo ministro dei Beni culturali del governo Monti, Lorenzo Orgaghi, iniziano a febbraio 2013. In aprile è il turno del governo Letta. Il neoministro Massimo Bray, che va in visita privata a Pompei in Circumvesuviana, promette: «Mai più un caso Pompei». Quindi annuncia la nascita del progetto Grande Pompei con una soprintendenza speciale con Ercolano e Stabia. Che ancora non è operativo. A Franceschini il compito di dipanare la matassa.

La Stampa 3.3.14
le Domus in pericoloCrolli a Pompei, ora tocca a Franceschini
Le promesse dei ministri naufragate tra ricorsi burocrazia e inchieste
I fondi non mancano: ecco perché non vengono spesi
di Giacomo Galeazzi


È la burocrazia ad uccidere Pompei. «I ritardi fanno più danni del bombardamento alleato del 1943», spiegano alla soprintendenza. In pratica salvare questo colossale patrimonio artistico dell’umanità si configura come una corsa contro il tempo. E gli ostacoli sono dietro ogni angolo. L’Italia, infatti, ha un anno di tempo per impiegare i finanziamenti comunitari, ma per spendere questi soldi (105 milioni di euro) bisogna fare a tempo di record le gare d’appalto.
Il problema, però, è che le ditte che perdono fanno sistematicamente ricorso alla magistratura bloccando così l’assegnazione dei lavori. Quando poi finalmente gli operai delle aziende vincitrici degli appalti riescono a mettere piede nei cantieri arrivano mensilmente i pur necessari controlli della Dia di Napoli contro le infiltrazioni camorristiche nella riqualificazione dell’area archeologica. Alle lungaggini che stoppano le opere si unisce la questione del ribasso del prezzo su base d’asta. Pur di aggiudicarsi i lavori le aziende fanno prezzi stracciati a discapito della qualità e delle effettive realizzazioni. «Sull’appalto della Casa del Criptoportico, assieme a quello sulla Casa dei Dioscuri e della Casa di Sirico, è stata aperta un’indagine della procura : i tre lavori di restauro sono stati aggiudicati tutti con ribassi superiori al 50%», spiega il presidente dell’Osservatorio patrimonio culturale, Antonio Irlando.
Insomma nel disastro infinito del sito più celebre del mondo si sommano i ritardi che sono la conseguenza inevitabile di ricorsi, verifiche, iniziative giudiziarie. Tutto ciò mentre incombe la mannaia europea per i fondi stanziati e non spesi. In pratica dei 105 milioni di euro destinati a Pompei dall’Ue, finora ne sono stati spesi o impegnati solo un terzo e Bruxelles minaccia di riprendersi gli altri. «Sono fondi che devono essere spesi entro il 2015 oppure li perdiamo: sono state fatte 16 gare fino ad oggi e altre otto sono in corso», precisano i tecnici della soprintendenza. Come se non bastasse, con un tempismo che sembra una beffa del destino, venerdì, poche ore prima dei nuovi crolli, si erano conclusi i lavori del primo dei cinque cantieri del «Grande Progetto Pompei», quello per la domus del Criptoportico. Il degrado del sito archeologico ha costituito una delle maggiori preoccupazioni dei ministri dei Beni Culturali che si sono avvicendati negli ultimi governi. Cambiano i ministri, ma i crolli non si arrestano. Un’eterna «staffetta» tra politici e tecnici, scandita da cedimenti e ritardi.
A partire da Sandro Bondi, sotto il cui mandato si sono verificati i crolli più importanti, fino a Massimo Bray. E lo stesso Dario Franceschini, ad appena una settimana dal suo insediamento, deve già fare già i conti con nuovi danni nella città romana sommersa dall’eruzione del Vesuvio del 79 d.C, dal 1997 patrimonio dell’umanità Unesco. Il primo campanello d’allarme arriva il 6 novembre 2010, quando la Domus dei Gladiatori si sbriciola sotto il peso di un tetto in cemento armato e per le infiltrazioni d’acqua. Secondo Bondi la questione non sono le risorse, ma il modo in cui sono gestite: chiama in causa i sovrintendenti, che per tutta risposta gli ricordano i pesanti tagli al settore. Allora Bondi propone un piano straordinario per la manutenzione con il ritorno di una soprintendenza autonoma con poteri più incisivi.
Nel marzo 2011 Galan promette un piano di manutenzione programmata che punti anche sul coinvolgimento di sponsor e che sfrutti i fondi europei. La Commissione Ue approva un piano per 105 milioni di euro. I lavori per restaurare le cinque Domus del sito iniziano a febbraio 2013. In aprile è il turno del governo Letta. Bray, che va in visita privata a Pompei in Circumvesuviana, promette: «Mai più un caso Pompei». E istituisce una soprintendenza speciale con Ercolano e Stabia. Ruolo per il quale viene nominato Massimo Osanna. Riapre dopo un anno di restauri la Casa degli Amorini Dorati, una delle più famose del sito, registrando il boom di visite. Poi però arriva l’altolà dell’Unesco: carenze strutturali. Il governo ha tempo fino al 31 dicembre per adottare misure idonee. Spunta anche l’ombra della camorra e la Dia ispeziona i cantieri contro il rischio di infiltrazioni mafiose. Intanto, la pioggia e l’incuria continuano a flagellare i resti romani, provocando nuovi cedimenti, fino ad oggi. La «patata bollente», adesso, è nelle mani del neoministro Franceschini.

La Stampa 3.3.14
Pompei e le altre: basterebbe
l’ordinaria manutenzione
di Mario Tozzi


Un brivido di freddo ci percorre la schiena quando sentiamo annunciare ricostruzioni lampo e il restauro immediato di monumenti in un Paese al centro di un clima ormai cambiato e geologicamente giovane e irrequieto. La verità è che abbiamo l’impressione di esserci già passati.
Qualche mese dopo il terremoto aquilano del 2009 ci hanno spacciato per quasi avvenuta una ricostruzione che non poteva saltare la fase del container, anche se si trattava di abitazioni antisismiche ben rifinite. Messe però a caso su un territorio che certamente non le vedrà ospitare in maniera stabile una popolazione che ha, come unico desiderio, quello di tornare a stare dove aveva sempre vissuto. Ora la pretesa ricostruzione aquilana sente già i segni del tempo e viene additata dagli specialisti di tutto il mondo come l’unica cosa da non fare dopo un terremoto (e per fortuna in Emilia non si è seguito quell’esempio sciagurato). D’altro canto ci vantiamo di avere il più vasto patrimonio storico artistico e monumentale del mondo (non è poi proprio così, ma insomma) e però ne perdiamo i pezzi un po’ dappertutto.
Terra di sismi e frane, l’Italia del terzo millennio vede sfaldarsi il suo patrimonio monumentale e culturale incurante dei passaggi politici che dovrebbero provvedere almeno alla ordinaria manutenzione. Le mura aureliane a Roma, la cinta medievale di Volterra e, a più riprese, Pompei. Ed è vero che negli ultimi anni sono cambiate le piogge, e sono diminuiti paradossalmente i fondi, ma quella che è mancata è stata soprattutto la cura, l’attenzione a quello che resta il nostro patrimonio più grande. Nonostante le denunce e gli sforzi delle tante persone di buona volontà, che pure ci sono. Eppure lezioni ne abbiamo avute parecchie: ci sono voluti quindici anni per ricucire la ferita del terremoto di Colfiorito (1997), e non perché si andasse lenti. Quello è il tempo tecnico che, più o meno, ci vuole per riportare in sicurezza la torre campanaria di Nocera Umbra, con i suoi cuscini dissipatori di onde sismiche, o le 400 chiese danneggiate fra Marche e Umbria. Ed è il tempo che ci è voluto per ordire una trama di fili d’acciaio che permetta alla basilica di San Francesco di reggere al prossimo terremoto di Assisi. Ce ne sono poi voluti circa venti per l’Irpinia e, a far le cose per bene, è difficile che a L’Aquila si arrivi al risultato in meno di un’altra decina d’anni, considerando che molto tempo è andato perduto e che si tratta di ricostruire un tessuto urbanistico che concentra straordinarie ricchezze artistiche.
Qualcosa si potrebbe fare di diverso? Sì, ricostruire bene, prima che in fretta, e soprattutto porre mano quotidianamente al nostro patrimonio: come dimostra il sisma emiliano, spesso basta una ordinaria manutenzione per evitare i danni dei terremoti di media magnitudo e l’onta delle piogge torrenziali. Non è così difficile: i nostri antenati lo facevano già. Nello stesso Abruzzo e in Campania centri storici restaurati dagli antichi regnanti reggono benissimo ai terremoti che si sono ripetuti solo perché costruiti con attenzione. La stessa cura proteggerebbe anche dalle piogge concentrate. Ricominciamo dall’inizio, e se la ricostruzione si annuncia quando è veramente completata si attribuiranno con più piacere i giusti meriti.

Repubblica 3.3.14
Bocciati i migliori, promossi i figli di papà l’università travolta dalle abilitazioni truffa
Raffica di ricorsi. E alcuni commissari rivedono i giudizi in extremis
di Corrado Zunino

ROMA - L’abilitazione scientifica per la stagione 2012-2013, prova che ha certificato i meritevoli a insegnare negli ottanta atenei d’Italia da qui al 2017, si sta rivelando un pozzo di malaffare, un’appendice - su base nazionale - dei corrotti concorsi locali (comunque non cancellati, solo posticipati). Dei concorsi locali, l’abilitazione ha assorbito molte disfunzioni. L’ultima, segnalata ieri da Repubblica, ha messo in evidenza come ricercatori e docenti insigni non sono stati ammessi a vantaggio di perfetti sconosciuti con curriculum vitae gracilini.
ESCLUSI ECCELLENTI. Il professor Andrea Ferretti, primario dell’ospedale Sant’Andrea di Roma, già medico della Nazionale di calcio, ha segnalato l’incongruenza certificata a Ortopedia (Medicina), cento candidati. Grazie a un’interpretazione varia e mai spiegata nei criteri dei sottosettori (spalla, gomito, anca) e degli ambiti di ricerca (scienza di base, traumatologia), la commissione del settore disciplinare “Malattie dell’apparato locomotore” ha tagliato fuori clinici di peso come il milanese Alessandro Castagna di Milano e i bolognesi Stefano Zaffagnini ed Elisabetta Kon. Ha denunciato il professor Ferretti: «Elisabetta Kon è una vera scienziata, un’autorità in campo internazionale. Questo concorso non fa onore all’intera università italiana».
Sono diversi gli studiosi importanti umiliati da giudizi superficiali, spesso errati. Un economista come Giampaolo Galli (studi al Mit di Boston, formazione e lavoro al Fondo monetario internazionale e in Bankitalia, oggi deputato Pd) «ha prodotto poco negli ultimi tempi» (dichiarazione della commissione che lo ha definito non idoneo). Non sono passati scienziati di fama mondiale come il vulcanologo Augusto Neri (direttore dell’Ingv), climatologi come Antonio Navarra (dirigente di ricerca dell’Ingv, 92 pubblicazioni). Il geofisico Giorgio Spada, associato dell’Università di Urbino, ha mostrato «un livello di maturità scientifica non compatibile con l’abilitazione alla prima fascia ». Sono state bocciate la letterata italiana Maria Serena Sapegno e l’esperta di criminalità organizzata (48 lavori, molti tradotti all’estero) Isaia Sales: «Mi hanno giudicato persone le cui pubblicazioni nonho mai letto».
SOLITI NOTI. Giuseppina Novo, classe 1974, è la giovane figlia di Salvatore Novo, già direttore della scuola di specializzazione in malattie dell’apparato cardiovascolare di Palermo e già presidente della discussa Società italiana di cardiologia. Giuseppina ha partecipato all’abilitazione per professore di seconda fascia in malattie dell’apparato cardiovascolare ed è passata, ma un commissario insigne ha vergato su di lei questo giudizio: «Nelle molte pubblicazioni che presenta il candidato occupa spesso una posizione di “first author” anche se, in realtà, il “senior author” risulta quasi sempre essere il padre».
CURRICULUM GONFIATI. La prima prova nazionale contro tutte le baronie ha rivelato anomalie anche per chi è stato chiamato a giudicare i meritevoli. Tre medievisti hanno gonfiato i loro curriculum per essere scelti come commissari. Il presidente della commissione, Giuseppe Meloni, Storia medievale a Cagliari, ha inserito un testo sui migranti che nel Novecento lasciarono la Sardegna per le Americhe e un secondo sugli indiani Anasazi, antichi abitanti pellerossa del Nuovo Messico e dell’Arizona. L’esodo dei sardi e degli indiani d’America appaiono fuori contesto rispetto alla storia medievale. Nel curriculum, poi, ha segnalato la creazione di un sito internet (non richiesta) indicando quattro monografie quando in realtà erano due. Il professor Pietro Dalena, docente all’Università della Calabria, si è attribuito piena paternità di due monografie scritte insieme ad altri autori: «È come se fossero miei». Il professor Roberto Greci, Università di Parma, responsabile di una collana editoriale per la piccola casa Clueb, si è preso la curatela di monografie altrui.
Nel settore “Politica economica” anche il presidente di commissione Antonio Garofalo, Università di Napoli Parthenope, è sotto il minimo sindacale tra le pubblicazioni su rivista, quelle in fascia A e le monografie. Contestazioni a “Sociologia dei processi” per il curriculum del professore di Criminologia e commissario Ocse Federico Varese.
VALUTAZIONI ILLOGICHE. Per quattro commissari del macrosettore “Storia del Cristianesimo” a volte la pubblicazione di una monografia negli ultimi dieci anni da parte dei candidati era necessaria, spesso no: «La commissione si riserva la libertà di abilitare anche chi non soddisfi questi criteri». Facciamo come ci pare, ecco. Il commissario di Paleografia latina ha ripetuto decine di volte lo stesso giudizio per diversi candidati variando il copia e incolla - qui e là - con qualche aggettivo. Tutti e cinque sono riusciti a definire collaboratore di un candidato uno studioso defunto il 3 marzo 1900, hanno attribuito a un secondo una monografia sulla peste che non esiste e per una terza candidata ignorato gli otto anni di insegnamento universitario trascorsi a Torino e a Ferrara.
Per “Storia dell’arte” una lettera firmata da trenta accademici sostiene questo: «Il sistema di riconoscimento del merito in base a parametri oggettivi si è trasformato in un concorsone destinato a premiare gli accoliti e gli amici degli amici. I commissari hanno abilitato coloro con i quali hanno collaborato o che hanno pubblicato nelle riviste dirette da loro stessi».
Molte commissioni ne sono così consapevoli che - questo è un inedito - hanno chiesto in massa al ministero dell’Istruzione di riaprire le buste, di rivedere i giudizi: 33 commissioni su 165 che hanno concluso i lavori. «Siamo intervenuti per autotutela ». Il ministero dell’Istruzione ha accettato.

Repubblica 3.3.14
Gioventù bevuta
Mezzo milione di adolescenti è a rischio alcolismo. Un fenomeno che sfugge a genitori e istituzioni. E che sta bruciando una generazione
di Maria Novella De Luca

I più stupiti di solito sono i genitori: «Pensavamo che fossero soltanto delle sbronze». Invece il baby alcolista ha gli occhi spenti e la vita segnata. Uno di quei cinquecentomila ragazzini italiani che nella deriva delle notti ubriache di milioni di adolescenti, perdono la testa e i confini della realtà. E poi è davvero dura risalire. Neknominate, eyeballing, binge drinking: il clamore delle sfide mortali a base di liquori pesanti che mietono vittime sui social network, riporta l’attenzione sulla piaga dell’alcolismo giovanile, droga sommersa e sottovalutata. E se i nomi di questi giochi pericolosi (versarsi vodka negli occhi, bere fino a stordirsi, filmare se stessi mentre si ingurgitano litri di birra) suonano ostili a chi ha più di vent’anni, attenzione perché dietro c’è molto altro. C’è la storia di come e quando, in meno di due decenni, le nordiche sbronze collettive del sabato sera abbiano conquistato i riti dei teenager italiani, facendo impennare i numeri di chi finisce nella vera e propria dipendenza.
Dallo sbarco pianificato sul mercato degli “alcolpops” ai micidiali “shortini”, cocktail dolci a pochi euro per bevute seriali che complice l’assenzio arrivano subito alla testa, il “binge drinking” coinvolge oggi oltre due milioni di giovanissimi tra i 16 e i 24 anni, soltanto per citare la fascia d’età più numerosa. E un quarto di questi rischia ogni weekend di saltare il fosso, sono ormai tante le storie di bevitori-ragazzini che affollano i centri alcologici italiani, il 17% delle intossicazioni etiliche registrate nei pronto soccorsi riguarda, addirittura, adolescenti tra i 13 e 16 anni. Gli ultimi a rimetterci la vita sono stati i giocatori del “Neknominate”, il folle drink-game nato in Australia e viralizzato su Facebook, che consiste nello sfidare la morte affogandosi di birra, vino o liquori, e chi ce la fa passa il turno e indica un altro utente del social come prossimo giocatore. Chi spezza la catena viene ricoperto di insulti. Naturalmente i primi gruppi sono fioriti anche in Italia (un ragazzo finito in coma ad Agrigento) si spera che abbiano vita breve nonostante il rifiuto di Fb di rimuoverli dalla Rete. Per fortuna c’è anche chi si ribella, come un diciassettenne romano che respingendo al mittente la sua “nomination” ha postato il suo ritratto accanto ad una bottiglia di latte. Ricevendo a sorpresa non pochi consensi su Facebook.
Ma dietro questi episodi estremi c’è il racconto di una gioventù “ebbra”, l’età acerba che diventa l’età ubriaca, con i suoi corollari di vittime e disabilità. Quel mondo che Emanuele Scafato, direttore dell’Osservatorio Nazionale Alcol dell’Istituto superiore di Sanità, traduce in dati, cifre, analisi, e non si stanca di andare a discuterne con i ranagergazzi delle scuole. Perché magari loro non ci caschino. «Il bere smodato, il binge drinking è un fenomeno drammaticamente sottovalutato in Italia, a partire dalle famiglie. Per non parlare delle ragazzine che mescolano sbronze e digiuno. “Drunkoressia” si chiama. L’alcol in età giovanile produce danni cerebrali uguali a quelli delle droghe, è anzi un ponte verso molti tipi di sostanze. Ci sono studenti delle scuole medie che abitualmente, prima di entrare in classe, si fermano a bere qualcosa al bar di fronte. Come è possibile? Come mai chi vende loro quel bicchiere non viene fermato e multato? I giovani amano il rischio, si sa, la tecnologia amplifica le loro ritualità, ma il punto è che manca una griglia di controllo e di protezione. E i genitori, terrorizzati dalle droghe, troppo spesso minimizzano di fronte ad un figlio che torna a casa barcollando... ». Invece a volte, ricorda Scafato, “bastano norme rigorose” per dimezzare vittime e lutti. «È stato sufficiente imporre il livello zero di alcol nel sangue ai guidatori al di sotto dei 21 anni, per abbattere il numero degli incidenti stradali legati alla guida in stato di ebbrezza».
Eccola, allora, la movida alcolica, Ponte Milvio, zona Nord di Roma, piazza diventata celebre per i lucchetti dell’amore (poi rimossi) dei romanzi di Federico Moccia. Alle due del mattino una folla di tee- ubriachi vaga tra chioschi e bar accumulando birre e bicchierini di superalcolici (shortini). Caos di moto e di costosissime mini-car. Prezzo delle consumazioni, in piedi, tra i due e i quattro euro. Nessuno si preoccupa dell’età legale al di sotto della quale (sedici anni) sarebbe vietato bere. Gruppi di ragazzine brille camminano abbracciate, la risata facile e convulsa, la voce alterata, il selciato è un tappeto di vetri e chiazze di vomito. Provando a parlarci si ottengono frasi sincopate tipo “mi ubriaco perché è fico”, “perché è divertente”, “ma che dici non sono sbronza”, “fatti gli affari tuoi”. La verità è che così le difese si abbassano, e a forza di andare avanti e indietro per la piazza i gruppi si mescolano, il tasso alcolico facilita gli incontri, l’amicizia, il sesso, anche le risse, le miscele della sbornia comprendono birra, liquori, amari, cocktail, energy drink.
Emblematici i nomi dei famosi shortini: Tricolore, Morte Lenta, Cane rabbioso, Killer, prevedono in dosi variabili sambuca, tequila, whisky, vodka, assenzio, succhi di frutta e a volte aggiunta di alcol puro. «Non bevo sempre, soltanto il venerdì e il sabato - racconta Guido, 17 anni con fare da adulto, gli occhi rossi, la faccia sgualcita - per me è naturale, il resto della settimana sono sobrio, vado bene a scuola, faccio sport, non mi drogo, insomma sono un bravo ragazzo e per i miei genitori va bene così...». L’inizio di una carriera di alcolista, direbbero gli esperti, e chissà veramente cosa sanno i genitori di Guido.
Paola Nicolini, docente di Psicologia all’università di Macerata, ha scritto per “Franco Angeli” il libro “Sentirsi brilli”. E spiega che oggi la sbronza per gli adolescenti non è il bicchiere di troppo che sfugge, bensì “un rito per affrontare la socialità”. «Si beve per esorcizzare preventivamente il dolore di un fallimento, per rendersi simpatici, per essere accettati dal gruppo, perché ci si sente fragili, ma il rischio è che ogni volta c’è bisogno di aumentare le dosi...E spesso i genitori negano, minimizzano, come se in fondo l’alcol non fosse così pericoloso, storie di ragazzi, dicono, con un ottimismo del tutto irreale».
Ed è proprio di questa sottovalutazione del rischio, ma anche delle gravi responsabilità del mercato, che parla Valentino Patussi, responsabile del Centro alcologico regionale della Toscana e di quello dell’ospedale universitario di Careggi. «Il binge drinking nasce dall’immissione nel mondo dei teenager di alcol a basso prezzo, in forme e modi che lo rendessero attraente e fruibile per il loro gusto e le loro tasche. Dunque una precisa strategia commerciale che ha puntato a far consumare liquori ai ragazzi in un’età in cui sarebbe addirittura proibito per legge. E lo Stato su tutto questo guadagna attraverso le accise sull’alcol. Una colpevole contraddizione, di cui però non si parla mai, ma invece noi medici ne vediamo le drammatiche conseguenze sui giovanissimi».
Le cifre dell’Istituto superiore di sanità citano circa 500mila baby alcolisti, ma soltanto una piccolissima parte di questi arriva poi nei centri alcologici. Perché prima di capire che le sbronze del proprio figlio sono l’anticamera della dipendenza, si sono persi anni preziosi. «Aiutare un giovane a smettere di bere - aggiunge Valentino Patussi - vuol dire aiutarlo a capire che ha un problema. Ma è tutto il nucleo che entra nel programma, genitori, fratelli, fidanzate, perché è solo partendo dalle relazioni più intime che si possono modificare i comportamenti ». E forse fermare la sua discesa di baby bevitore nel tunnel dell’alcolismo.

Repubblica 3.3.14
Se la società ti nega un ruolo, la sbronza diventa palcoscenico
di Umberto Galimberti

I GIOVANI bevono. E questo lo sappiamo. Ma oggi si è diffusa una sorta di gara tra chi beve di più, con ovvia esposizione dei propri primati sui social network che fanno da incentivi e da moltiplicatori delle gare, spesso mortali, perché l’organismo non è in grado di assorbire tutto l’alcol assunto.
I giovani bevono per la stessa ragione per cui molti di loro si drogano, e l’alcol è la droga più economica e la più socialmente accettata. Alla base ci sono ragioni psicologiche e ragioni culturali. Annoiati da una vita che pare a loro povera di senso, cercano in qualsiasi modo di provare emozioni che non trovano nella routine della loro esistenza quotidiana, in quel mondo chiassoso delle discoteche, dove l’alcol facilita i processi di socializzazione, disinibisce la comunicazione, facilita i contatti, abbassa le difese. In discoteca si va in ora tarda, dopo aver già ingerito una buona dose di alcol nei bar, dove ci si trova per combinare la serata. Qui comincia la gara tra chi è più spiritoso, più disinvolto, più in vista, più disinibito, più audace nelle avances. Le ragazze non meno dei maschi, per avere una giustificazione dopo un incontro sessuale casuale e non programmato: “Ero ubriaca”. In fondo il sesso oggi non è più un tabù. Separato e scisso dal sentimento, il sesso è diventato puro piacere fisico, a cui si può accedere più facilmente se la propria psiche è intorpidita e, grazie all’alcol, la coscienza non più tanto vigile.
Fin qui le ragioni psicologiche. Quelle culturali, che a mio parere preoccupano di più, sono da ricercare nel fatto che i giovani oggi vivono sostanzialmente esclusi dal mondo lavorativo e sociale. E siccome di giorno nessuno li convoca, nessuno li chiama per nome, si creano un mondo di notte, tutto loro, per mettere in scena le forze della giovinezza che sono: il corpo, la bellezza, la sessualità, l’eccesso, la sfida, la gara, per diventare protagonisti nel fine settimana, dal momento che durante la settimana vengono sostanzialmente ignorati o vissuti dalla nostra società più come un problema che come una risorsa. E siccome il mondo reale li ignora i giovani ne hanno creato uno virtuale, dove le loro imprese, anche se spesso tragiche, trovano un riconoscimento di cui hanno un estremo bisogno, perché, come tutti sappiamo, senza riconoscimento, non nasce né si costruisce alcuna identità. E se l’identità è negata, resta solo quel surrogato che è la visibilità.

Repubblica 3.3.14
La svolta del cardinale teologo “Più donne ai vertici della Chiesa”
Kasper: basta con l’immobilismo clericale, tempi maturi per una guida femminile nei dicasteri vaticani
di Paolo Rodari

CITTÀ DEL VATICANO - Chiede ruoli di «piena responsabilità» per le donne nella Chiesa e, contro «la smania» del carrierismo, suggerisce «il rimedio» di incarichi «a tempo determinato». Sono due passaggi importanti di una lunga intervista concessa ieri dal cardinale tedesco Walter Kasper a Stefania Falasca su Avvenire.
Kasper, grande elettore di Jorge Mario Bergoglio allo scorso conclave (fra i tanti europei a scegliere da subito un uomo proveniente dai confini del mondo), investito il 20 febbraio scorso del compito di tenere la relazione introduttiva su matrimonio e famiglia al Concistoro convocato dal Papa, entra con coraggio dentro un tema che da tempo fa discutere la comunità ecclesiale: la presenza delle donne nella Chiesa. Una presenza, ricorda il porporato, che non deve riguardare solo la curia, perché «la Chiesa non è la curia», ma anche e soprattutto le varie realtà pastorali nel mondo.
Kasper non banalizza il tema. Per lui non esiste un problema di quote rosa, piuttosto il fatto che senza le donne «la Chiesa è un corpo mutilato». E tanto più quella Chiesa che, in scia al Concilio Vaticano II, vuole essere finalmente sinodale, aperta all’ascolto di tutti. Ricorda il cardinale: «Nell’Evangelii gaudium il Papa si chiede se è proprio necessario che il prete stia in cima a tutto». Mentre, oltre l’«immobilismo clericale», può essere lasciato spazio alle donne «là dove si prendono decisioni importanti», ad esempio nei Pontifici consigli, o anche nelle Congregazioni. Certo, «anche le donne possono essere mosse dalla smania di far carriera sul modello maschile ». Ma contro il carrierismo «l’impiego con incarichi a tempo determinato potrebbe essere un rimedio».

l’Unità 3.3.14
L’Europa di fronte al deficit di democrazia
di Paolo Soldini

UN TEMPO LA SINISTRA DICEVA CHE GLI EUROPEI HANNO BISOGNO DI «PIÙ EUROPA», ORA DOVREBBE DIRE CHE GLI EUROPEI hanno bisogno di «un’Europa diversa». L’invito esplicito a cambiare una formula che ebbe discreta fortuna e indubbi meriti è venuto da Massimo D’Alema, a conclusione di un’analisi molto preoccupata sull’emergenza del populismo nei Paesi dell’Unione, ma i problemi che ne sono la ragione hanno dominato il clima della grande sala del bianco palazzone littorio in cui sabato il congresso dei socialisti e democratici europei ha prima accolto l’adesione del Pd alla famiglia e poi affidato solennemente a Martin Schulz la candidatura alla presidenza della Commissione Ue.
Si tratta di un cambio di strategia (non solo comunicativa) in qualche modo obbligato perché è abbastanza chiaro a tutti quanto gli anni della crisi e dell’austerity abbiano eroso il fascino e le speranze che si raccoglievano un tempo dietro all’idea dell’integrazione e dell’Europa così com’era e come si pensava che fosse destinata ad evolversi. Il congresso di Roma ne è parso ragionevolmente consapevole e Schulz, chiudendo i lavori, ne ha dato nel suo bel discorso una percezione abbastanza chiara. In che modo l’Europa da presentare agli elettori del 22-25 maggio debba essere «diversa » d’altra parte è ben raccontato nei dieci punti del Manifesto towards a new Europe, il programma «verso una nuova Europa» in cui si legge che l’occupazione deve essere al primo posto, che l’economia deve ripartire, che i mercati vanno regolamentati, i diritti civili salvaguardati, il benessere e la salute promossi, la partecipazione democratica garantita.
A giudicare i propositi, insomma, si direbbe che la svolta sia stata consumata e che lo scenario del prossimo futuro sia delineato. I socialisti e democratici vincono le elezioni di maggio, Martin Schulz, a novembre (quando scade il mandato di José Barroso) diventa presidente della Commissione e Bruxelles, sotto la sua guida, abbandona l’austerity, riscopre le virtù del welfare che furono le ragioni costitutive del pensare sociale in questo continente, riprogramma la crescita, promuove gli investimenti e mette l’occupazione al primo posto, non prima di aver sistemato per sempre le regole dei mercati finanziari.
Sarebbe bello, ma non è così. È possibile, certo, che il Pse diventi, il 25 maggio, il primo partito europeo scavalcando i Popolari, ma non esisterà nel futuro Parlamento europeo alcuna maggioranza che non comprenda il Ppe, neppure con la (per ora ipotetica) confluenza su Schulz dei voti della sinistra di Tsipras. Lo scenario delle «larghe intese europee » è stato variamente esorcizzato a Roma, anche dallo stesso neocandidato socialista, però onestamente non pare avere realistiche alternative. Ma non è questo il punto. La «rivoluzione » con cui il Parlamento europeo uscente è riuscito a imporre che siano gli elettori a indicare il futuro presidente della Commissione è incompiuta, non solo perché l’ultima parola sul presidente, secondo i Trattati, spetta comunque ai governi, ma anche perché in ogni caso saranno i governi stessi a designare i commissari. Il «governo» dell’Unione avrà sì un capo scelto dai cittadini, ma continuerà ad essere emanazione dei governi nazionali e delle loro impostazioni politiche.
Questa incompiutezza è il vero problema. E porta dentro di sé la durissima sostanza del deficit di democrazia che accompagna da sempre la costruzione europea ma che nel fuoco della crisi degli ultimi anni si è acuito drammaticamente e ha raggiunto la sensibilità di parti sempre più larghe dell’opinione pubblica. Le quali, con consapevolezza giuridica e istituzionale come ha fatto più volte la Corte costituzionale tedesca o (più spesso) in modo irrazionale e qualunquistico sulle piazze o nelle urne, non accettano le decisioni prese da «quelli di Bruxelles» che nessuno ha eletto e a nessuno che sia stato eletto rispondono. Oppure, in una versione per così dire di sinistra, dalle banche e dai mercati: l’uno per cento contro il nostro novantanove. Questo sentimento diffuso dovrebbe essere sempre considerato con attenzione da chiunque affronti la questione del populismo antieuropeo e dei pericoli che porta con sé. Proviamo a farlo riprendendo la dialettica tra «più Europa» e «Europa diversa» evocata al congresso di Roma. C’è il rischio che il rifiuto del primo polo significhi rinuncia, da parte della sinistra, all’ambizione di riformare le istituzioni dell’Unione nel senso di una maggiore integrazione e che l’accentuazione del secondo nasconda l’idea che sia possibile proporre una politica più sociale e meno liberista rebus sic stantibus dal punto di vista istituzionale.
Se fosse così sarebbe la riproposizione dell’errore in cui è caduta una parte preponderante della sinistra europea e del quale solo ora comincia a fare, faticosissima, ammenda: l’idea che esista un quadro di compatibilità immodificabile all’interno del quale debbano contenersi tutte le scelte di politica economica dell’Europa. In una parola, l’adesione suicida al pensiero unico economico che ha improntato, e (non ci si faccia illusioni in proposito) impronta ancora, la strategia di Bruxellese Francoforte contro la crisi dell’euro e dei debiti sovrani.
Entusiasmarsi per i dieci punti del Manifesto di Roma sarebbe certo più facile se non si dovesse fare i conti con la sgradevole consapevolezza che quasi tutti i partiti nazionali che formano il Pse hanno approvato il Fiscal compact, hanno accettato di costituzionalizzare il pareggio di bilancio, hanno avallato la trasformazione dei fondi salva-Stati in fondi salva- banche, hanno digerito le condizioni imposte dalla trojka alla Grecia. E si potrebbe continuare, come sappiamo tutti. C’è una contraddizione, c’è forse qualche autocritica da fare. In ogni caso c’è bisog

Repubblica 3.3.14
Kiev
Piazza smarrita, governo incerto. Defezioni nella Difesa
di Bernardo Valli

È UN po’ smarrita la gente della Majdan. Non le ha certo rimontato il morale la notizia che la Marina nazionale basata in Crimea, con l’ammiraglio in testa accusato di alto tradimento, è passata agli ordini delle autorità filo russe locali, fuorilegge per Kiev.
UNA defezione senz’altro provocata dai russi che nella penisola meridionale sul Mar Nero ormai si comportano da padroni. La Majdan, la Piazza, sembrava fino a pochi giorni fa l’ombelico del mondo, il centro di un’insurrezione che aveva cacciato un presidente corrotto, e con lui spazzato via un regime alleato della vicina intoccabile potenza. C’era di cui essere fieri. Uno schiaffo di Kiev a Mosca meritava almeno un paragrafo nei libri di storia. Putin umiliato era la prova che l’orgoglio nazionale infonde audacia.
Adesso però la Piazza sta per ritornare ad essere una semplice bella piazza. Non si è arresa. Non è impaurita. Ma è appunto smarrita. Il morale è basso. Le bandiere afflosciate dalla pioggia non sono state ammainate. Nei comizi improvvisati risuonano parole di fuoco. Ma le decisioni si prendono altrove. Il nuovo governo, i cui ministri sono stati esposti al giudizio della Majdan prima che al voto del Parlamento, nelle ultime ore ha deliberato a porte chiuse. Senza riferire il dibattito alla piazza. Ha preso decisioni indispensabili ma prudenti. Non rivoluzionarie come pretendeva un tempo la gente sulle barricate.
Il primo ministro, Arseni Yatseniuk, aveva il volto segnato, esibiva una giustificata espressione drammatica, quando ha detto che la Russia «ha dichiarato la guerra» all’Ucraina. E di conseguenza è stato deciso di richiamare una parte dei riservisti e di mettere in stato d’allerta le forze armate affinché proteggano le centrali nucleari e le principali installazioni pubbliche. Ma non si è parlato di stato di guerra da opporre alla denunciata aggressione russa in Crimea. Kiev non vuole offrire pretesti al Cremlino.
«Evitiamo di provocare i provocatori », dice un deputato della Patria, il partito del primo ministro, davanti al colonnato neoclassico del Parlamento, mentre è in corso la sessione straordinaria. A suo avviso, ed anche per il governo, la via diplomatica è la sola possibile. Il cancelliere tedesco svolge un ruolo essenziale. Infatti Angela Merkel parla con Vladimir Putin e con Yulia Tymoshenko. Un incontro tra i due antagonisti che si stimano è prematuro. Si è parlato con insistenza di una visita al Cremlino dell’ex primo ministro ucraino da poco uscita di prigione, ma adesso apparirebbe un atto di sottomissione. Per quelli della Majdan un tradimento. Yulia Tymoschenko non rappresenta soltanto se stessa ma inevitabilmente il governo, i membri più importanti, e lo stesso primo ministro, essendo della Patria, il suo partito. Angela Merkel è tuttavia un messaggero tenace e alla prima schiarita potrebbe realizzare l’incontro Putin-Tymoshenko o chi per lei.
Il governo è convinto che i russi stiano applicando un piano preparato con cura. Nulla è accaduto a caso in Crimea quando unità russe senza mostrine e bandiere hanno preso il controllo di edifici e punti strategici. È stata un’operazione astuta anche sul piano politico. È infatti difficile parlare di un’invasione, dal momento che i soldati provenivano dalla base navale russa di Sebastopoli (dove si trovano in permanenza quasi quindicimila uomini) e quindi non hanno violato nessuna frontiera nazionale e possono rientrare alla svelta quando il Cremlino riterrà che la popolazione russa della provincia autonoma «non sarà più in pericolo». Adesso la Crimea è sotto il controllo di Mosca e il futuro auspicato per la penisola sarà rivelato dal quesito posto al referendum in programma il 30 marzo. Per ora si parla di un’autonomia più accentuata di quella attuale. Putin scopre le carte una alla volta.
Preparate con altrettanta cura sarebbero le manifestazioni pro russe nelle province orientali, in particolare a Dnipropetrovsk, a Donetsk, a Lugansk e a Kharkiv, zone industriali e minerarie dove, oltre alle origini della maggioranza della popolazione, sono russi anche gli investimenti. Il trenta per cento del commercio e la quasi totalità dell’energia dipendono dalla Russia. Mosca paga l’affitto della base navale di Sebastopoli col gas. Il governo ucraino scopre via via la propria debolezza. Anzitutto sente che l’appoggio della Majdan, una settimana fa decisivo, è adesso quello di una minoranza. La stessa Kiev, più che la capitale nazionale, è un compromesso tra le varie anime del paese. Non è dunque la sicura roccaforte della rivoluzione. Sono dubbi alimentati dallo sconforto dopo tre mesi di esaltazione. La fragilità dell’esecutivo provvisorio è anche nei mezzi di cui dispone. L’economia è da tempo in recessione e le finanze sono state saccheggiate dal vecchio regime. Settanta miliardi di dollari sono stati trasferiti all’estero negli ultimi anni.
Gli strumenti militari restano un’incognita. Le Forze armate sono di un buon livello. Nel 1991, quando è implosa l’Unione Sovietica e la Repubblica ucraina, che ne faceva parte, è diventata indipendente, l’esercito nazionale è stato ricavato da quella che era stata l’Armata rossa. Così l’aviazione e la Marina. Gli specialisti hanno sempre espresso giudizi positivi, mettendo tuttavia in rilievo col tempo il deterioramento del materiale non sempre rinnovato. I rapporti tra militari russi e ucraini sono stati messi seriamente alla prova negli ultimi giorni, quando Vladimir Putin ha appesantito la crisi, con le manovre al confine e l’operazione Crimea. Le defezioni non sono mancate. In particolare nella Marina. Il nuovo governo ha cambiato il capo di Stato maggiore: venerdì ha nominato il generale Mykhailo Kotsin, sostituendo l’ammiraglio Ilvyn rifugiatosi nella Crimea dissidente, dove sarebbe stato colto da un infarto. L’esercito si è dichiarato neutrale durante il confronto politico. Se messo alla prova nei suoi ranghi potrebbero rispecchiarsi le divisioni della società, tra filo russi e ucraini. In caso di emergenza, vale a dire se Putin dovesse decidere l’invasione già legittimata dal Parlamento, non sono in pochi a pensare alla formazione di milizie, destinate a un’azione di guerriglia. Ma nessuno osa esternare un’idea del genere che apparirebbe una provocazione. Questa possibilità è senz’altro presa in considerazione anche dai russi e funziona da deterrente.

La Stampa 3.3.14
Le lacrime degli ucraini nella Crimea occupata “Ci portano via la patria”
I russi prendono il controllo delle navi di Kiev e della basi “Dovevamo entrare subito nella Nato, ora siamo spacciati”
di Domenico Quirico


Ho visto gli ucraini piangere per la morte del loro Paese. Ieri nel centro di Simferopoli. Le parole scorrevano limpide, semplici, e senza pietà. Sentivi l’odio che si addensava come la nebbia in una vallata. I propagandisti dei movimenti pro-russi, nella piazza sotto il Parlamento, ora parlano non più della Crimea, ma della parte Est del Paese, il nuovo capitolo, la prossima mossa. «La primavera di Crimea è solo l’inizio, la natura si sveglia, la vita, le coscienze, siamo il modello per i nostri fratelli dell’Est, a Karkhiv, a Cherson, a Donetsk. Vi gridiamo: state saldi, non abbiate paura. Putin ci aiuterà». Le canzoni di fondo erano quelle di Vladimir Visostzkj, era idolo canoro della vecchia Urss. C’è molto di stantio in queste adulterazioni della Storia tirate a servire passioni e fazioni del momento. Tutto vi è autenticamente falso. 
In un angolo vicino a me un uomo ascolta: «Non è così, non è così, è l’Ucraina il nostro Paese. Sono andato all’estero per lavorare, per vivere e adesso mi portano via la patria». Silenziose lacrime gli scorrono giù dalle guance: «Mi chiamo Volodimir, mi raccomando Volodimir: in ucraino. Non Vladimir». Si concede quel pianto pubblico. Come se tutto il pianto represso nel suo cammino doloroso di questi giorni, furore e guerra che lievita, riservato per le ore solitarie quando nessuno lo vedeva, gli fosse improvvisamente venuto su dal cuore e chiedesse liberazione. Piange la fine della Crimea, e forse la fine dell’Ucraina come nazione libera.
Prove di guerra 
Rimbalzano, febbrili, stordenti, le notizie: Kiev ha richiamato i riservisti (era una volta l’inizio ufficiale delle guerre), il primo ministro Iatseniuk non si attarda, non pospone più: «Non siamo di fronte a una minaccia, ma a una dichiarazione di guerra russa, siamo sull’orlo del disastro». E poi le voci, ancor più fitte: le trincee e le postazioni per cecchini alzate ad Armiank, dove passa il collegamento terrestre con l’Ucraina, caserme e basi circondate dai soldati russi, gli ultimatum, a Kerch dove il comandante ha invocato aiuto, a Teodosia che sarebbe assediata dalle forze di autodifesa ormai armate. E ondate di rinforzi rovesciati da aerei ed elicotteri, Kiev annuncia anche il nome del comandante dell’operazione, il generale Galkin. Mosca e i filo-russi che annunciano, esultanti, basi e depositi sono abbandonati, militari ucraini che si dimettono o passano al nuovo governo filorusso, anche il comandate della marina ammiraglio Berezovskiy; seicentomila profughi che avrebbero già passato la frontiera russa in cerca di salvezza, «una catastrofe umanitaria se non prosegue il caos della rivoluzione».
Il pianto di Volodimir 
Volodimir fino ad ora ha lottato, deciso a resistere. Ma adesso questi avvenimenti sono superiori alle sue forze. Le guance rigate di lacrime, alza verso di me i suoi occhi: «Andiamo via di qui, non è prudente parlare». Nella folla che applaude gli oratori pro-russi girano uomini dalle giacche di cuoio, al braccio il contrassegno delle milizie, la polizia del nuovo Potere. Hanno notato il pianto, sospettosi se interpretarlo come gioia o dolore.
Entriamo nel cortile di una casa dalla facciata elegante; dentro tutto, dall’intonaco dei muri alla vernice delle persiane, tutto precipita dall’opulenza nella miseria, è come ficcarsi dal palcoscenico tra le quinte polverose e vedere le scene dalla parte dei rattoppi e dei chiodi. La stanza sembra l’antro di un mago: stracci, ferri trespoli, vecchi giornali. E un cane che si chiama Dantés che ci guarda immobile (Dantés sì, come il Conte di Montecristo). «Da giovane ho tentato di fare l’attore, mestiere difficile, le parole sono come l’aria e l’acqua, le stringi e non trovi niente. Ma guarda le mie mani, non era destino, non c’era lavoro, sono andato in Polonia e in Germania, muratore, benzinaio, giardiniere». Dall’appartamento vicino, nitido come se la parete non esistesse, giunge il pianto di un bimbo. La immensa Ucraina dei poveri, di quelli che vivono con duecento euro al mese, che non ha altro soccorso se non la sua forte e sobria pazienza. Guardo quest’uomo: nella sua chioma canuta, i pochi capelli che sono rimasti neri, le labbra larghe e dritte, gli occhi di volontà di un grigio azzurro. E penso a coloro che qui in Crimea non esultano, ma piangono. Lacrime: come quelle dei cecoslovacchi invasi da Hitler, anche allora «per salvare tedeschi in pericolo» fu il pretesto e gli ungheresi. Ombre, tutte ombre.
I morti di Maidan 
«Quando sono arrivati i russi ho pensato ai morti di Maidan, a come erano giovani, diciassette diciotto anni, belli come angeli, disarmati. E qui invece i fucili e i blindati. In Crimea la presenza ucraina è sempre stata quasi assente, soffocata, i giornali, i libri in ucraino quasi introvabili, le tv fanno solo propaganda per la Russia; i deputati della Crimea, ostentatamente, a Kiev parlavano in russo alla tribuna. Se fossimo entrati in Europa e nella Nato! Saremmo salvi, e io potrei avere un visto per girare il mondo liberamente». Ma cosa potete fare, ora? «Ascolta: negli Anni 80 c’era ancora l’Urss, sono stato tra i primi a manifestare contro le centrali nucleari, avevamo montato una tenda, mi hanno condannato a pagare duecento rubli per turbamento dell’ordine: c’era scritto che la nostra tenda “disturbava l’aspetto architettonico della città!”. Occorre che in Russia tornino in piazza per dire no al martirio dei fratelli ucraini, no a Putin. Dobbiamo restare fedeli a questa terra, per quei ragazzi che non hanno visto nulla della vita, dovremmo scrivere i loro nomi sulle pietre di Maidan innumerevoli volte».
Il referendum in Crimea 
Via via, ho bisogno di andare, di muovermi, di liberarmi dall’angoscia. In tv, a casa di Volodimir scorrevano le immagini della manifestazione a Maidan, a migliaia di nuovo insieme per fermare le guerra e Putin. Su un’altra piazza, quella del governo a Simferopoli, si raccoglievano invece le schede del referendum sulla statua di Lenin: tre domande, volete che resti, che venga abbattuto, che venga spostato? Ho votato anche io: firma e residenza in Crimea. Ho segnato l’indirizzo dell’albergo. Un giovane del partito comunista locale sta attaccando sulla base del monumento un cartello: «Non toccate il nostro leader!»: «Da 20 anni mi inculcano una nuova ideologia, da 20 anni cercano di spiegarmi che mio padre e mio nonno erano degli occupanti e dei bugiardi. Da 20 anni mi fanno imparare a memoria lo scrittore ucraino Scevchenko invece che Gogol. Da 20 anni tutto ciò che è russo è uno spazio bianco sulla carta del mondo. Basta! Non sono un malato di mente, sono per l’amicizia dei popoli, il rispetto e la dignità. Ma so che lingua parlo e in che terra vivo. Io sono russo, sono a casa mia. La mia terra è la Crimea!». Penso alle lacrime di Volodimir.

Corriere 3.3.14
Le truppe in Crimea si sono già arrese
il capo della Marina passa con Mosca
di  Francesco Battistini


A una a una, le basi s’arrendono. La mossa, sacrificare la Crimea per salvare l’Ucraina.
E’ un pdf protocollato 4336, data 02/03/2014. In cirillico. Firmato dal nuovo capo della Difesa ucraina. Riprende le proposte del deputato Sarubi, il barricadiero di Maidan. Alle 12.08, lo spediscono da Kiev al Comando generale delle forze armate ucraine in Crimea: pomposamente, al luogo dove si studiano le strategie sul campo per tamponare l’invasione russa; prosaicamente, in un ufficio sbarrato ai curiosi su via Subhi, sul marciapiede davanti il bazar degli stracciaioli e un poliziotto che ramazza, «oggi è domenica e a parte le riunioni d’emergenza, qui non c’è nessuno…». Il documento, avanti marsch, s’intitola: «Settore di registrazione dell’accordo. Risoluzione. Indicazioni per le operazioni militari e di altri gruppi a difesa dell’Ucraina». Otto punti. Primo, «la resistenza si prepara in modo segreto» (seguono dettagli e suggerimenti tattici…). Due, «l’addestramento delle forze non militari a disposizione sarà, con discrezione, di competenza dei comandanti territoriali» (s’allega l’elenco delle strutture messe a disposizione…). Tre, «il Consiglio dei ministri sostiene finanziariamente ogni iniziativa utile alla difesa» (più sotto, le spese urgenti…). Quattro, «protezione dei diritti dei cittadini e dell’unità territoriale...».
Segretezza, silenzio… Carta straccia. La guardia è già bassa, s’ammaina il bicolore. A una a una, le basi s’arrendono. L’unico ordine è di non sparare. L’unica mossa, sacrificare la Crimea per salvare l’Ucraina. Tutti gli ufficiali delle guardie di frontiera finiscono agli arresti dei russi. Tre accerchiamenti e molte rese: a Sudak, sulle rampe missilistiche di Sebastopoli, la 36ma e la 39ma Brigata di artiglieria, negli hangar che riparano i caccia Su-27… La quinta armata d’Europa si squaglia come un esercito di Franceschiello: pochi marò di Putin e la regione è subito presa. «Fate vedere come ci trattano!», twittano ai giornalisti i cadetti all’accademia militare Nachikov che promettono di tentare, almeno loro, una piccola resistenza. E’ un’occupazione ottocentesca, dice il segretario americano Kerry: l’epica dei social network cita il grido «resisteremo fino alla morte!» d’un piccolo contingente, il 36mo, assediato a Perevalnoye sulla strada per Yalta. Ma è tutto lì: non si spara, ci si ripara. «La cosa positiva è che la nostra Marina difende Balaklava!», è sicuro il deputato Dimitri Bilozerkovic, di Euromaidan: passano quattro ore e i russi dicono che dieci navi nemiche sono già salpate da Kerk e Sebastopoli, rotta su Odessa e Mariupol. L’ammiraglio Denis Berezovski, comandante della flotta del Mar Nero nominato soltanto venerdì, diserta addirittura con una conferenza stampa. Giurerà fedeltà al nuovo governo filorusso di Sinferopoli. Non gl’importa di finire sotto processo: chiede ai suoi uomini di seguirlo.
Si richiamano i riservisti. Un milione subito. E quattordici milioni sotto i 40, se sono sani e servirà. Esercito di popolo, da affiancare a 100 mila soldati di professione e ai 50 mila della naja: «Questa non è la Georgia – scrive la rivista strategica Jane’s – e senz’armi moderne, l’unico modo per contrastare Putin è trascinarlo in un conflitto non limitato alla penisola, ma su un territorio vastissimo. Dove il numero di truppe conta». La disfatta di Crimea sciocca Kiev: com’è stato possibile? Il vuoto di potere, la cacciata dei vecchi generali legati a Yanukovich. E poi la sfortuna d’un infarto che venerdì ha colpito il nuovo capo delle forze armate, Ilyin, sostituito in corsa. In vent’anni, nessuno ha rinnovato gli arsenali: anzi, si gira ancora coi Bmp-1 dell’era sovietica. C’è qualche tank fatto in casa, ma chi ha seguito le missioni internazionali sa che i contingenti ucraini non hanno mai brillato per efficienza: a Sarajevo, furono pure scoperti in un traffico di prostitute e il contributo, in Libia o in Afghanistan, non è memorabile. La Nato tentò un addestramento, ma Yanukovich fermò tutto. I piloti hanno poche ore di volo. «E’ colpa del precedente regime – dice il premier Yatseniuk – , ha volutamente indebolito le nostre forze armate». Nella Penisola, sono di stanza quindicimila uomini. Ufficialmente. Perché al momento dell’invasione, nelle basi ce n’era la metà. Perché ai ragazzi di Crimea è concesso di fare la naja sotto casa. E perché sono quasi tutti filorussi. Quando arriva Golia, Davide non ha nemmeno il tempo di prendere il sasso: sta davanti alla tv, da mamma, dorme, si volta dall’altra parte con una scusa, insomma non c’è… Non sono mancati i sabotaggi. In una base sul mare, la convivenza è tesa ma cordiale: dopo due giorni d’occupazione, i russi hanno chiesto ai colleghi ucraini rimasti dentro se potevano usare il wc.
Senza esercito, si prepara il popolo. «C’è un po’ d’esaltazione – prevede l’ex ambasciatore Usa, Steven Piefer –, molti sognano già d’imitare il nonno che combatteva i comunisti». Comitati di difesa organizzati dall’ultradestra di Pravi Sektor, pronti a scendere da Kiev. Le mamme tatare che vanno davanti alle basi e fanno da scudi umani. Il loro leader radicale, intervistato ieri dal Corriere , che il ministro filorusso ora accusa d’organizzare «ronde terroristiche». Qualche pensionato antirusso si ritrova a Sinferopoli, dietro il monumento del poeta Tara Shevchenko. Un manipolo. Scrivono su un cartello un detto della Crimea: è l’uccello più veloce che prende il verme, non il più grande. Ce n’è da volare.

Corriere 3.3.14
Nell’Est che invoca i «fratelli russi»
Sulla piazza di Donetsk si raccolgono le firme per chiedere l’intervento
E oltre confine si muovono come ombre 150 mila soldati del Cremlino
di Giuseppe Sarcina


DONETSK — Oggi potrebbe essere il giorno. Appuntamento alle 12 in piazza Lenin e nel viale Krusciov. I controrivoluzionari di Donetsk torneranno davanti al palazzo del governo regionale che hanno occupato sabato scorso, issando il tricolore russo sul pennone più alto. Oggi si potrebbe capire fin dove vuole (o può) spingersi il leader del movimento, Pavlo Hubarev, uomo d’affari del giro di Viktor Yanukovich e ora capo della «Milizia del Donbass». Sabato scorso la piazza invasa dalle bandiere russe lo ha proclamato Governatore voluto dal popolo, seguendo l’esempio della Crimea.
La domenica è filata via senza incidenti. Nel primo pomeriggio, sotto la statua di Lenin si sono ritrovati non più di due-tremila manifestanti. Poca cosa rispetto ai venti, forse trentamila di sabato scorso. Hanno piazzato qualche tavolino con un foglio di carta da firmare: una petizione indirizzata direttamente a Vladimir Putin, anzi una richiesta di intervento militare per «salvare» l’Ucraina dai «fascisti» di Kiev.
E’ quasi notte. Nella piazza, a tenere compagnia al rivoluzionario bolscevico restano solo due gazebo verdi, una bandiera rossa con falce e martello, due tricolori russi. A centro metri sul lato opposto l’edificio neoclassico del ministero delle Miniere è molto più allegro, con cinque gigantesche luminarie a forma di comete: coda blu, stella gialla. I colori dell’Ucraina, scelti per mettere insieme il cielo e il grano. Due strade in più là, dietro il teatro dell’Opera, lungo il viale Krusciov, otto agenti della milizia e una macchina della polizia sorvegliano da lontano le macchie nere che si muovono intorno a un bidone fiammeggiante, davanti alla sede del Governatorato locale: un blocco enorme plasmato secondo i canoni dell’architettura razionalista. Sulle due gigantesche colonne di cemento armato svettano le bandiere della regione e quella russa. Il tricolore di Mosca copre anche la vetrata di ingresso.
Vlad è l’unico che parli un po’ di inglese. Ha 42 anni, produce e vende medaglie: minuto, barba in arretrato, giacca militare. Ma non ha nulla di marziale: «Stiamo proteggendo il nostro territorio, lo faremo fino alla vittoria». Ama la Russia, ma dice che i «veri» ucraini sapranno difendersi da soli. Per il momento qui non c’è nulla che ricordi neanche in miniatura i giorni di Maidan, nella capitale. Tre tende da campeggio e anche malmesse: non più di venti militanti. Si vedrà oggi. «Riempiremo questo viale e la piazza Lenin». Vlad e gli altri ne sono sicuri. Per intanto si allontano per strappare qualche ramo nei dintorni e alimentare il fuoco.
A Donetsk, come a Kharkiv, nell’est profondo del Paese, è inevitabile fare anche altri calcoli. Ci sono ombre russe alle porte di queste città. Ombre che hanno il profilo minaccioso dei 90 Mig, dei 120 elicotteri da combattimento, degli 880 carri armati, dei 1.200 pezzi di artiglieria pesante e delle 80 navi che hanno partecipato a un’esercitazione straordinaria il 26 febbraio (all’indomani della vittoria di Kiev) per ordine del Presidente e del Supremo Comandante in Capo (le maiuscole sono obbligatorie) Vladimir Putin. Una forza complessiva di 150 mila soldati usciti dalle basi Sud-occidentali russe e che sarebbero ancora in movimento lungo il corridoio a ridosso della frontiera ucraina. E Donetsk dista 90 chilometri da quel confine e 700 da Kiev. Non occorre aggiungere altro.
Che fare allora? Una domanda d’obbligo in Piazza Lenin. Aspettare l’armata di Putin? Proclamare una secessione di fatto? O, semplicemente, continuare a gridare?
Ombre russe alle porte di una città che sembra più stordita che in allarme. Anche i simpatizzanti di Maidan (e ce ne sono) non si fanno vedere. I leader locali hanno chiesto a tutti di restare a casa, di non raccogliere «provocazioni», probabilmente obbedendo alle raccomandazioni inviate dalla capitale. L’aeroporto è libero e discretamente affollato. Non si vedono presidi militari lungo le arterie principali o agli incroci. Il centro è pulito, con le luminarie sugli alberi nei viali, sulle facciate dei teatri e dei ristoranti. La gente pare preoccuparsi soprattutto del freddo e accelera il passo per rientrare.
Donetsk non è Kiev, ma non è neanche la Crimea. L’etnia russa copre il 48 per cento su un milione di abitanti; quella ucraina il 46 per cento. Le altre minoranze, dai tatari ai bielorussi, aggiungono qualche sfumatura. I sentimenti di amicizia, di condivisione con il potente vicino toccano anche una parte degli ucraini, così come l’indipendenza di Donetsk, della regione è motivo di orgoglio anche per gli abitanti russi.
Non è facile per gli europei. Ma non è semplice neanche per Putin. Proprio in questi giorni, per altro, il numero uno del Cremlino ha dovuto incassare una diserzione clamorosa. Rinat Akhemtov, l’oligarca più potente e l’uomo più ricco del Paese, ha rinnegato in modo clamoroso il sodalizio d’affari con Viktor Yanukovich. «Non ho affari in comune con lui e la sua famiglia», ha dichiarato. Ancora fino a metà febbraio Akhemtov controllava tra i 50 e gli 80 deputati (a seconda delle stime) sui 203 schierati con il Partito delle Regioni guidato dall’ex presidente.
L’imprenditore è di fatto il proprietario materiale di Donetsk. Il tradimento dell’oligarca potrebbe avere un peso se in città e nella regione verrà il momento di schierarsi e contarsi. Fino a quando i suoi miliardi saranno custoditi nelle banche di Londra e del Principato di Monaco, Akhemtov sceglierà l’Europa.

Corriere 3.3.14
I Tatari eredi dell’Orda d’Oro, da sempre vittime di Mosca
Dopo secoli di dominazione ora guardano all’Occidente
di Ettore Cinnella


All’inizio dell’ottobre 1552 un esercito russo comandato dallo zar Ivan IV il Terribile espugnava la città di Kazan, sul medio corso della Volga, capitale dell’omonimo canato tataro, uno dei regni nati dalla disgregazione dell’Orda d’Oro. Quattro anni dopo, con la conquista del canato di Astrachan, l’intera regione della Volga passava sotto il dominio di Mosca. Lo storico Andreas Kappeler ha osservato a ragione che l’annessione dei canati di Kazan e di Astrachan dev’essere annoverata tra gli «avvenimenti epocali nella storia della Russia e di tutta l’Eurasia». Infatti, se fino allora i sovrani moscoviti avevano lottato per riprendersi i territori russi, conquistati da Gengis Khan e dai suoi successori nella prima metà del XIII secolo, l’espansione verso la Volga mutava radicalmente i tratti fondamentali della politica estera degli zar. Occupando quella regione, lo Stato russo veniva ad incorporare terre abitate da popoli di tradizioni e culture assai distanti dal mondo degli slavi. Inoltre, l’eredità del gigantesco impero mongolo, il quale si stava ora frantumando, imprimeva il suo inconfondibile marchio sull’espansionismo moscovita, attratto per forza di cose dal crescente vuoto di potere creatosi negl’immensi territori uralo-siberiani.
Tra i canati eredi dell’impero tataro dell’Orda d’Ora, quello di Crimea sfuggì a lungo al dominio della Russia. Anche il nome della penisola, che i greci avevano chiamato Chersoneso Taurico (Chersónesos Tauriké, cioè Penisola dei Tauri), veniva dai conquistatori tatari e sarebbe rimasto in russo e in ucraino (Krym). Controllando le coste settentrionali del mar Nero, i padroni della piccola penisola erano in grado di condurre escursioni e razzie verso i territori dello Stato russo e dell’Ucraina (la quale, nel 1654, si unì al regno moscovita). Un ingegnere francese del Seicento, Guillaume Le Vasseur de Beauplan, autore di una vivida descrizione e di una dettagliatissima mappa dell’Ucraina, rievocò nella sua Description d’Ukranie anche le spedizioni militari approntate dai cosacchi contro i tatari.
Fu Caterina II ad annettere la Crimea, nel 1783, dopo aver sconfitto militarmente l’impero ottomano, del quale il piccolo canato era vassallo. Per i tatari si trattò di un’esperienza drammatica, perché cominciò allora quella diaspora verso le province della Turchia che avrebbe assottigliato sempre più la popolazione locale turcofona e musulmana. L’importanza strategica della penisola accelerò e inasprì il processo di russificazione. Le peripezie dei tatari di Crimea sotto il dominio russo furono, forse, ancor più amare di quelle subite da altri popoli non russi del vasto impero multietnico.
I tatari rimasti in quella che, un tempo, era stata la loro terra furono anch’essi vittime e protagonisti delle vicende e dei travagli dell’impero russo fino alla Prima guerra mondiale. La pagina più interessante della loro storia fu la partecipazione al Movimento di rinascita musulmana, che si ebbe tra Otto e Novecento. Era originario della Crimea l’intellettuale tataro Ismail bey Gaspirali (1851-1914), il quale si batté per l’unità dei musulmani turcofoni ed enunciò un programma liberale, mirante anche all’emancipazione della donna. Se il sogno panturco di Gaspirali può apparirci ingenuo e magari torbido, ammirevole e fecondo fu senza dubbio il suo impegno pedagogico per la creazione di scuole moderne e basate su metodi innovativi.
Uno spiraglio di autonomia parve aprirsi, per la gente tatara in Crimea, con l’avvio della politica sovietica di apertura verso le nazionalità non russe negli anni 20. Ma si trattò d’un breve sogno, al quale seguirono le atrocità della collettivizzazione forzata e le feroci repressioni politiche. Alla fine della Seconda guerra mondiale, poi, la deportazione verso l’Asia centrale della popolazione tatara, accusata di collaborazionismo con i tedeschi, fu vissuta come un genocidio, anche per l’altissimo numero di deceduti.
La destalinizzazione portò ai tatari di Crimea meno benefici di quelli concessi alle altre nazionalità straziate da Stalin. Essi, infatti, ebbero difficoltà a tornare nelle loro terre e non ottennero il ripristino della regione autonoma, che li avrebbe meglio tutelati. La cose parvero migliorare per loro con la fine dell’Urss e la nascita dell’Ucraina indipendente. Essendo stata donata all’Ucraina da Krusciov nel 1954, la Crimea restava a far parte del nuovo Stato. Ma gli interessi militari del Cremlino e la volontà sopraffattrice della popolazione russofona hanno complicato le cose, come tutti sappiamo.
Avendo patito molto nella Russia comunista, i tatari di Crimea non si aspettano nulla di buono dalla Russia di Putin. Possono solo sperare in un’Ucraina libera, democratica e legata all’Occidente.

il Fatto 3.3.14
Prossimi all’entrata
Balcani, nuovo bacino per allargare l’Unione
di Giampiero Gramaglia

Per crescere da 6 a 15, la Comunità e poi l’Unione europea ci hanno messo circa 40 anni, dal 1957 al 1995. Poi, quasi d’un botto, nel primo scorcio del XXI Secolo, i Paesi dell’Ue sono diventati 27: l’allargamento, andato a discapito dell’approfondimento dell’integrazione, fu un modo di ancorare alla democrazia i Paesi dell’ex blocco sovietico dell’Europa centrale e del Baltico.
Oggi, c’è meno ressa, alle porte dell’Unione: i Paesi realmente in lista d’attesa per l’adesione all’Ue sono solo due, la Serbia e il Montenegro, con Albania e Kosovo di rincalzo. Bosnia e Macedonia sono più lontane dall’obiettivo. La Turchia di Erdogan s’è quasi dimenticata la prospettiva dell’ingresso nell’Ue, anche se i negoziati vanno avanti senza che nessuno davvero ci creda.
I confini dell’integrazione si fermano lì: ai Balcani smembrati della ex Jugoslavia. La nuova cortina, che non sarà di ferro, ma resta piuttosto rigida, lascia fuori Bielorussia, Ucraina, pure Moldavia e Georgia. Sono Paesi che la Russia considera parte della sua zona d’influenza: una percezione che nessuno, a Bruxelles e neppure a Washington, è pronto a contestare a fondo, perché il prezzo – e l’Ucraina rischia di esserne la dimostrazione – potrebbe essere quello di processi secessionisti. Che, in Georgia, sono già passati attraverso un conflitto.
I BALCANI DA STABILIZZARE. Fra gli obiettivi dell’Ue dichiarati, “c’è la stabilizzazione dei Balcani col processo d’integrazione”, ricordava tempo fa su AffarInternazionali Andrea Cellino, uno dei responsabili della missione Osce in Bosnia Erzegovina. Due Paesi della ex Jugoslavia sono già approdati nell’Unione, la Slovenia, che è addirittura nell’euro, fin dal 2004, e la Croazia, che, il primo luglio 2013, è divenuto il ventottesimo Stato.
Nel Balcani, il potere d’attrazione dell’Unione resta relativamente alto: in Croazia, il referendum sull’ingresso nell’Ue vide la vittoria dei sì con i due terzi dei voti espressi, nonostante la crisi abbia indubbiamente mitigato l’entusiasmo per modelli e politiche europei.
Della stabilizzazione, l’adesione all’Unione è, per ogni Paese, l’ultima tappa, una sorta di visto sull’acquisizione d’una almeno relativa credibilità democratica ed economica. Del resto, la Regione, solo 15 anni or sono, era teatro di conflitti e di interventi di peace enforcing – la guerra di Serbia è del 1999- ed è tuttora luogo di missioni di peace keeping.
LE TRE COPPIE. Paesi formalmente candidati all’adesione sono attualmente la Serbia e il Montenegro: per ottenere lo statuto e l’avvio dei negoziati, Belgrado ha dovuto depurare la sua immagine dalle scorie ultra-nazionaliste dell’era Milosevic, accettando di consegnare l’ex presidente e i principali responsabili di crimini di guerra e pulizia etnica alla magistratura internazionale.
C’è pure voluto un doppio accordo col Kosovo: uno sulle frontiere, uno sull’accettazione informale da parte serba della presenza kosovara in consessi internazionali. Al Montenegro, lo statuto di candidato all’adesione è costato politicamente di meno, ma i negoziati sono lenti e complessi, visti i problemi economici, la presenza diffusa della criminalità organizzata e la difficoltà del governo di Porgorica a fare applicare le leggi, a varare le riforme e ad assicurare un funzionamento delle istituzioni efficiente. Dopo Serbia e Montenegro, potrebbe toccare ad Albania e Kosovo, anche se, in quell’area, ci può essere la tentazione di costruire l’unità della nazione albanese, prima di puntare davvero all’integrazione europea. E comunque i progressi da fare, sul piano sia economico che istituzionale, a Tirana e a Pristina, sono ancora molti.
Più lontani dall’Ue, a Sud la Macedonia, che deve ancora fare i conti con la diffidenza della Grecia, e – nel cuore dei Balcani – la Bosnia-Erzegovina: le cronache di disagio e divisione, di violenza e rabbia delle scorse settimane testimoniano che l’esasperazione economica è oggi più forte e più urgente delle tensioni etniche, che pure non sono state del tutto superate.
Il sogno, che qualcuno aveva magari coltivato, di celebrare, nel 2014, a cent’anni dallo scoppio della Grande Guerra, vero e proprio conflitto civile europeo, la pacificazione e l’ “europeizzazione” dei Balcani s’è fatto più nebbioso. E proprio Sarajevo, da dove partì la scintilla di quella carneficina con l’assassinio dell’arciduca Francesco Giuseppe, è la capitale dell’area più lontana da Bruxelles.
CASO TURCO E I CONFINI DELL’IMPERO. La mappa dell’allargamento dell’Ue non cancella la Turchia, ma il desiderio d’adesione di Ankara non è mai stato così labile e la voglia d’integrazione di Bruxelles così impalpabile. La Turchia post Erdogan potrebbe cercare di ridare vitalità alle trattative, che, per il momento, proseguono, ma non vanno sostanzialmente avanti.
Se il confine del Bosforo è culturale e psicologico, oltre che economico e sociale, il confine ad Est è soprattutto geo-politico e potenzialmente persino militare: Bielorussia e Ucraina soprattutto, Moldavia e Georgia in misura minore, sono per Mosca avamposti russi irrinunciabili. E, in ciascuno di quei Paesi, ad eccezione della Georgia già depotenziata territorialmente, c’è un’opinione pubblica che condivide l’approccio russo.
L’EURO “COLONIZZATORE”. Capita che la moneta arrivi prima dell’economia e della politica: l’euro brucia le tappe, non solo nell’Unione, che non ne regge il ritmo, ma anche fuori. Così, da oltre dieci anni è la divisa legale nel Montenegro e nel Kosovo. In entrambi i casi, spiega Giorgio Gomel, capo del Servizio studi e relazioni internazionali di BankItalia, si trattò di una decisione unilaterale per ragioni economiche -iperinflazione e forte contrazione- e politiche – la voglia di sganciarsi dalla Serbia e dal suo dinaro –. C’è, irrisolto, un problema di congruità di tali regimi monetari atipici con i Trattati europei.
E c’è l’ipotesi, quasi assurda, che se dovessero mai entrare nell’Unione i due Paesi dovrebbero… uscire dall’euro, perché le loro economie non rispettano i criteri dell’eurozona.

La Stampa 3.3.14
La denuncia del «New York Times»
New York, 22mila bambini senza casa
Il sindaco De Blasio sotto pressione
Esplode l’emergenza causata soprattutto dalla crisi economica
di Paolo Mastrolilli

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La Stampa 3.3.14
La memoria dei kamikaze fa infuriare Pechino
È guerra sulla storia: festività per ricordare i massacri di Tokyo
di Ilaria Maria Sala


Pechino annuncia la creazione di due festività «anti-giapponesi»: una per commemorare il massacro di Nanchino, il 13 dicembre, l’altra per il giorno della fine della Seconda guerra mondiale, il 3 settembre (il cosiddetto «Giorno della vittoria della guerra di resistenza del popolo cinese contro l’aggressore giapponese»). 

Ora, nelle crescenti tensioni fra i due rivali asiatici, viene chiamato in causa anche l’Unesco, con due proposte controverse. La prima viene dal Giappone, dalla città di Minami-Kyushu che chiede di conservare le ultime lettere dei kamikaze, i giovani piloti inviati in missioni suicide, 333 delle quali sono conservate nel museo della città di Chiran.
La reazione cinese è stata sdegnata. La Cina, infatti, che nel corso della Seconda Guerra Mondiale ha subito una brutale invasione da parte dell’Esercito del Sol Levante, dopo un lungo silenzio ha fatto della memoria della violenza subita uno dei capisaldi della sua dottrina patriottica e nazionalista. 
Né la Cina, né il Giappone, infatti, si avvicinano alla storia senza secondi fini: «Bisogna distinguere fra il governo Abe, che ha deciso di utilizzare le affermazioni provocatorie sulla storia per muovere l’elettorato tradizionale del Partito Liberaldemocratico (centro-destra) e l’iniziativa sui kamikaze che proviene da una municipalità. I kamikaze sono una figura ambigua: sono stati i vettori della distruzione inflitta dal Giappone durante la guerra, ma sono anche delle vittime del regime militarista», spiega Sebastian Veg, direttore del Centro francese per gli studi sulla Cina contemporanea a Hong Kong.
«È dal 1982 anche il governo cinese è impegnato nella manipolazione della memoria della guerra a fini politici, il che è senz’altro legato al fatto che in quel periodo ci fu l’abbandono di una parte dell’ortodossia comunista. Con questo, il governo cerca il sostegno di una popolazione che non ha interamente accettato come la memoria dei massacri (giapponesi) sia stata occultata da Mao». 
La ferita inflitta dal Giappone è stata profonda. Basta guardare proprio a Nanchino, dove, nel 1937, le truppe dell’invasore trucidarono, violentarono e saccheggiarono con ferocia, uccidendo dalle 100 alle 300 mila persone (i dati sono controversi). 
Così, la Cina ha risposto alla proposta di conservare le lettere dei kamikaze chiedendo l’iscrizione dei documenti del Massacro di Nanchino nella stessa lista. 
Oggi in Cina è come se la Seconda guerra mondiale fosse finita ieri. Non è stato sempre così. «Sotto Mao non si parlava del Massacro di Nanchino: oggi, invece, il Giappone è diventato per la Cina un espediente necessario un nemico esterno per distrarre la popolazione dalle difficoltà interne», dice Frank Dikötter, professore di Storia Contemporanea all’Università di Hong Kong.
Mao Zedong reputava suoi nemici i nazionalisti di Chiang Kai-shek ancor più che i giapponesi, e una volta vinta la guerra civile preferì che la popolazione si esaltasse con il racconto delle gesta epiche degli eroi rivoluzionari, accantonando la guerra. Negli Anni 80 di pari passo con le riforme economiche e l’abbandono di un’ideologia comunista più classica, ecco che il Giappone è divenuto l’arci-nemico. E in un’era di crescente nazionalismo cinese questo potrebbe avere risvolti pericolosi. Basti pensare, ad esempio come in tutti i musei cinesi sulla guerra all’uscita troneggi il monito dell’ex-Presidente cinese Jiang Zemin, quattro caratteri scolpiti nel marmo che intimano: «wuwang guochi», mai dimenticare l’onta nazionale.
Intanto le ferite che il Paese si è inflitto da solo – dalla carestia del Grande Balzo in Avanti allo spargimento di sangue di Tiananmen – restano tabù. Pechino però continua un’assordante campagna anti-giapponese alla televisione, nelle scuole e sui media, denunciata dallo scrittore Murong Xuecun, che chiede «come potremmo non odiare il Giappone, con tale propaganda?». 
Il Giappone, invece, pur dopo un mea culpa minore che non, per esempio, quello tedesco, si reputa in un’altra era, e paradossalmente l’insistenza cinese fa il gioco proprio dei politici revisionisti giapponesi. 
Nel conflitto per la sovranità contesa sulle isole Senkaku-Diaoyu, i cinesi vorrebbero che tutti dessero la ragione a Pechino, non sulla base delle leggi marittime, ma proprio per le colpe antiche giapponesi. Così le tensioni diplomatiche potrebbero scoppiare proprio con la Germania, dove il segretario generale e Presidente, Xi Jinping, sta per recarsi in visita ufficiale. Xi vorrebbe che l’intero viaggio si dipani nei luoghi della memoria dell’Olocausto, mostrando quanto Tokyo, invece, non si penta abbastanza. Berlino ha fatto sapere che l’idea è balzana, e di non volerla assecondare.

Corriere 3.3.14
Cina
I terroristi puntano a colpire le città dell’Est
di G. Sant.


PECHINO — Il popolo cinese del Web è scosso. C’è chi ha paragonato la carneficina di Kunming all’11 settembre di New York. «Dobbiamo reagire a questi terroristi come fecero gli americani, siamo tutti di Kunming», ha scritto un blogger in un messaggio sul Quotidiano del Popolo . La reazione contro i terroristi annunciata da Pechino si svolgerà nella «Nuova Frontiera»: questo significa il nome Xinjiang. Le dinastie imperiali cinesi hanno combattuto secoli per conquistare quella nuova frontiera occidentale fatta di deserto, pascoli, montagne (e come si è scoperto di recente, giacimenti minerari importanti). In origine la maggioranza della popolazione era di etnia uigura, ma dopo la penetrazione cinese il ceppo più antico è diventato minoranza: 10 milioni circa di uiguri musulmani su una popolazione di 22 milioni. Alla fine della seconda guerra mondiale, appoggiati dai sovietici, gli uiguri proclamarono la Repubblica del Turkestan Orientale che sopravvisse fino al 1949, quando l’Esercito popolare di liberazione cinese ristabilì l’autorità di Pechino. Negli anni Novanta, spinti dalla proclamazione d’indipendenza delle vicine repubbliche dell’ex Urss, il movimento separatista uiguro riprese a farsi sentire. Pechino ha investito molto nello Xinjiang. L’anno scorso la crescita della regione è stata dell’11%, a fronte di un dato nazionale del 7,7. Ma in cambio dei progetti di modernizzazione e di valorizzazione delle risorse naturali, i cinesi hanno lanciato un programma di assimilazione che per una parte degli uiguri è sinonimo di colonizzazione e repressione. Le azioni violente si sono moltiplicate, con responsabilità difficili da verificare. Finora il sangue era stato versato solo nello Xinjiang: i fatti più gravi nel 2009, quando a Urumqi erano state uccise 200 persone, soprattutto cinesi han. Poi uno stillicidio di attacchi notturni a posti di polizia e di «terroristi eliminati». Ora la ferocia sconfina. Gli esperti di terrorismo se lo aspettavano: da mesi parlano di «due Cine» dal punto di vista della sicurezza, con una situazione militarizzata nello Xinjiang e maglie necessariamente più larghe nelle lontane città dell’Est. Per sfuggire al grande schieramento di forze cinesi nella loro regione e anche per trovare visibilità, i terroristi uiguri avevano bisogno di agire a Est: hanno cominciato con l’autobomba sulla Tienanmen e sabato è toccata a Kunming. E qualche analista teme che anche l’internazionale jihadista ora cominci a guardare ai separatisti della Nuova Frontiera.

La Stampa 3.3.14
Pistorius a processo. il Sudafrica si spacca
Domani la prima udienza: l’ex atleta ha dovuto vendere cavalli e auto da corsa.
I bianchi sono con lui, i neri contro
di Lorenzo Simoncelli

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l’Unità 3.3.14
Psiup, il partito provvisorio
La scissione della sinistra socialista cinquant’anni fa
Il libro di Aldo Agosti ripercorre la storia degli uomini, delle strategie e del pensiero che attraversarono un «pezzo» di Repubblica
di Giuseppe Cacciatore

docente di storia della filosofia
SONO PASSATI CINQUANT’ANNI DA QUANDO, AGLI INIZI DEL GENNAIO DEL 1964, SI CONSUMÒ LA SCISSIONE DELLA SINISTRA SOCIALISTACHENEGÒ,COI SUOI 25 DEPUTATI E 13 SENATORI, la fiducia all’appena costituito governo Moro-Nenni. Pur avendo il Psiup, nella sua breve vita (1964-1972), assunto un ruolo importante nel delinearsi di alcuni passaggi-chiave della strategia del movimento operaio, specialmente negli anni cruciali del «lungo sessantotto», l’anniversario della sua nascita è passato sotto silenzio. La fortunata circostanza della pubblicazione del libro di Aldo Agosti (Il partito provvisorio. Storia del Psiup nel lungo Sessantotto italiano, Laterza, Bari, 2013) ha posto riparo a questa ingiusta smemoratezza. Il volume non analizza e racconta soltanto la storia di un partito politico. Ciò che sta prima e dietro una puntuale e rigorosa ricognizione delle vicende di questo partito è la storia di una tradizione alla quale non sempre la storiografia degli ultimi decenni ha dato il dovuto spazio. È la tradizione della sinistra socialista, di una componente del socialismo italiano (da Serrati a Morandi, dal primo Nenni a Luigi Cacciatore, da Basso a Foa, da Lussu a Vecchietti), che ha contribuito in modo determinante a costruire quell’anomala collocazione di sinistra classista ed unitaria del Psi rispetto alle socialdemocrazie europee.
Una consistente parte di questa tradizione doveva poi costituirsi come corrente organizzata dentro il Psi, specialmente dopo il congresso di Venezia del 1957 e l’incontro di Pralognan tra Nenni e Saragat del 1959, che sancirono la svolta autonomista del Psi e avviarono quel percorso che di lì a qualche anno avrebbe portato al governo di centro-sinistra. Scorrono in parallelo, nel libro di Agosti, due storie e due strategie: quella più ampia e maggioritaria della convinzione del gruppo dirigente del Psiup di poter rappresentare l’anello di congiunzione delle diverse anime del movimento operaio italiano; quella più ristretta e minoritaria di costruire una organizzazione autonoma della sinistra socialista dentro un rinnovato ruolo rivoluzionario delle avanguardie operaie.
Il libro di Agosti - storico riconosciuto ed apprezzato del movimento socialista e comunista - si segnala per la capacità di tenere insieme la descrizione analitica degli eventi e i tratti essenziali di biografie politiche di alcuni dei maggiori protagonisti: Vecchietti, Valori, Basso, Lussu, Libertini, Foa, Ferraris, etc. Il libro racconta con puntualità il tragitto del «partito provvisorio» tracciandone una compiuta radiografia e rilevandone punti forti nel programma di lotte sociali, ma anche aporie e contraddizioni, specialmente nella politica internazionale, oscillante tra la fedeltà al vecchio schema dell’internazionalismo proletario a guida sovietica e le simpatie verso i modelli eterodossi di Cina e Cuba. Malgrado l’entusiasmo e i successi dei primi anni di vita, il Psiup doveva lentamente avvitarsi in una crisi interna (lo scontro tra gli eredi dell’apparato morandiano e l’ala movimentista e operaista) e in una crisi esterna provocata dall’ambivalenza di una posizione che appariva indecisa tra l’obiettivo dell’unità a sinistra delle forze socialiste e l’attrazione fatale ora verso le lotte operaie e studentesche ora verso la macchina organizzativa e ideologica del Pci.
Fu il cruciale 68 - secondo Agosti e non a torto - a segnare l’avvio della crisi provocata dalla sempre più netta separazione tra movimentismo e organizzazione, ma pure dall’ambiguo atteggiamento assunto a proposito dell’invasione della Cecoslovacchia, forse anche per pagare il pedaggio dovuto ai finanziamenti ricevuti dall’Urss. Agosti ha il grande merito di aver riportato alla luce un momento della storia della sinistra italiana del quale si è progressivamente smarrita la memoria, anche se, sfogliando le pagine del libro, vengono incontro al lettore insospettati nomi di militanti e intellettuali che a quel progetto avevano dedicato intelligenza e militanza: Della Mea, Asor Rosa, Giuliano Amato, Pietro Ichino, Chiamparino, Gian Mario Bravo, lo stesso Agosti. Fa un certo effetto ripercorrere i mesi dell’agonia e della morte del «partito provvisorio» (definizione inventata da Arfé e ripresa da Agosti) scioltosi nel 1972 in maggioranza nel Pci e i cui dirigenti e militanti non sempre furono trattati alla pari, per non dire umiliati, dai nuovi compagni di strada. Eppure quella esperienza recava con sé elementi di rinnovamento nelle strategie e nelle analisi della sinistra che avrebbero dato non pochi frutti negli anni successivi. L’eredità del «partito provvisorio» - questa la conclusione di Agosti - non va dunque dispersa se si pensa a ciò che esso rappresentò in quella cruciale seconda metà degli anni ’60, ma il patrimonio ideale della sinistra socialista era destinato a scomparire dallo scenario politico e ideologico, stretto com’era tra il doppio riformismo: quello governativo del Psi e quello dell’opposizione consociativa del Pci.

il Fatto 3.3.14
Basaglia, la crociata dei matti e dei bambini
di Furio Colombo

Ti aspetta, lettore, un lungo corteo colorato, affollato di matti e bambini, di adulti saggi che non si preoccupano di tutto quel darsi da fare. Ci sono anche Marcuse, Sartre, Conolly, Goffmann, Heidegger, Hegel, Marx, Gramsci, nel corteo colorato, e, a volte la mamma e il papà, che hanno molto da fare e vanno e vengono, ma da qualche parte ci sono sempre, a meno che non compaia uno zio o una nonna.
Il fatto strano di questa scena, che dura le 91 pagine di un libro abbastanza sorprendente e diverso, è la sua quieta e lieta normalità. I matti sono appena stati liberati, e non sono esagitati, sono sorpresi, anche se non sempre contenti perchè prima vogliono toccare tutto con mano.
I BAMBINI NON SONO nè sotto nè sopra la vita, stanno in equilibrio come piccoli acrobati, senza sforzo, con una certa gioia naturale, però consapevoli che la natura è natura, la vita è la vita, e la storia, certe volte, finisce lì. Ma se la spingi (tanto sei appena arrivato e sei abbastanza forte) forse prosegue, e funziona e va bene, persino se hai qualche limitazione, come vedere il mondo un pò storto, però vederlo tutto, “grande giusto” e tutto tuo, nel senso che se lo vuoi, lo prendi, cioè lo abiti con tutte le sue stranezze. Gorizia è attraversata proprio a metà da un muro che divide non solo la piccola città, divide anche un manicomio e il mondo , come a Venezia, a Londra, a New York e di nuovo a Gorizia e a Venezia. Forse non in quest'ordine, ma anche la narratrice non è ordinata. Il fatto è che è impegnata in ogni pagina a ritrovare quella felicità normale, spavalda e sottintesa dei bambini che occupano il mondo spinti da un vento che porta dettagli trovati, dettagli perduti e dettagli inventati (però più veri di un verbale), e che poi dimenticano da adulti (e la chiamano, giustamente, infelicità). Qui, nel piccolo grande libro di Alberta Basaglia, Le nuvole di Picasso (con Giulietta Raccanelli, Feltrinelli Editore) il corteo colorato di matti e bambini, di adulti saggi, con Marx, Marcuse, e a volte papà e mamma, (Franco e Franca Basaglia) che ci sono sempre e non ci sono mai, quel corteo che si spinge nell’avventura ancora ignota di vivere e di vivere liberi, c’è ancora, continua.
Nella vasta e ben illuminata soffitta dell’autrice (a cui certo appartiene, nonostante la collaborazione ricevuta, il tono rimbalzante di gioia bambina) c’è tutto. C’è anche la voce di Zavoli che racconta Basaglia e descrive Gorizia (il manicomio che esce dalla storia tra la meraviglia dei bambini e dei matti).
C’è anche l’Italia in cui il cambiamento, il più audace e inaspettato, era in casa, era nostro. E il futuro era dove doveva essere, davanti.

il Fatto 3.3.14
Bilenchi, le illusioni diventate passioni
di Adele Marini

Per innamorarsi della scrittura di Romano Bilenchi basta leggere le prime fulminanti righe di alcuni suoi memorabili racconti. “In quel tempo volevo molto bene a mio cugino Andrea. Era un ragazzo, proprio un ragazzo” (Mio cugino Andrea); “Bruno aveva cominciato ad amare Anna, sua madre, per una strada di campagna” (Anna e Bruno); “L’anno della siccità segnò il culmine dell’amicizia tra me e mio nonno” (La siccità). I racconti di Bilenchi, soprattutto i primi scritti fra il 1930 ed il 1932, sono importanti anche perché aiutano a comprendere quale fosse il rapporto degli intellettuali italiani con il fascismo. Si prenda ad esempio Il capofabbrica (Roma, Edizione Circoli 1935) che è la sua prima raccolta di racconti. La storia che dà il titolo al volume, attraverso la vicenda del protagonista Andrea, rende la testimonianza più vera di un’epoca, il primo periodo fascista, in cui molti giovani intellettuali erano ancora illusi che il fascismo potesse aprire nuovi orizzonti umani e sociali. Andrea è costretto con dolore a prendere coscienza che Marco, padrone della fabbrica ancora illuso che il fascismo sia “la cosa giusta”, si rivela assai migliore di chi invece dovrebbe essergli amico e sodale anche per le comuni idee politiche antifasciste. Sono gli anni in cui Bilenchi collabora al settimanale della federazione fascista fiorentina, Il Bargello, a Rivoluzione, organo del gruppo universitario fascista fiorentino e a L’Italiano di Longanesi. Ma in Bilenchi si faceva ormai strada la passione di verità e giustizia che contribuirà a fargli aprire gli occhi sulla vera realtà sociale e politica dell’Italia. Nel 1939 verrà espulso dal partito, insieme ad Elio Vittorini, ed entrerà nelle fila dei partigiani combattenti.

Repubblica 3.3.14
Altamira, riapre la Cappella Sistina della preistoria. Tra le polemiche
di Silvia Bencivelli

LA GROTTA di Altamira, la Cappella Sistina della preistoria, è stata riaperta al pubblico tra le proteste dei ricercatori spagnoli, preoccupati per lo stato di conservazione dei suoi affreschi. Il motivo della riapertura (il pretesto, dicono gli scienziati): una sperimentazione sull’impatto della presenza umana sulle pitture del Paleolitico.
La grotta era stata scoperta nel 1879 da una bambina in gita col padre. Una frana aveva smosso la terra e divelto gli alberi che avevano ostruito per migliaia di anni l’apertura, e per la prima volta dalla preistoria un occhio umano era tornato ad ammirare le decine di figure di animali affrescate sulla volta. Nel 1917, riconosciuta l’importanza della scoperta (e il potenziale turistico), la grotta era stata aperta al pubblico e da allora folle di visitatori vi sono entrate.
Il picco si ebbene nel 1973, con la cifra record di 175.000 turisti. Ci si accorse allora che il microclima interno si stava modificando, a causa soprattutto dell’aumento di temperatura, dell’umidità e dell’anidride carbonica prodotte dalla respirazione dei visitatori. Così nel 1977 la grotta fu chiusa. Ma durò poco. Nel 1982 fu di nuovo permesso l’accesso ai visitatori, sebbene in numero limitato. Fino al 2002, quando si trovarono colonie di microorganismi vicino alle fonti di luce, e la grotta fu chiusa di nuovo.
Dal 2002 a oggi sono stati dodici anni di tranquillità per la grotta, ma non per gli scienziati del Csic, il Cnr spagnolo, che si oppongono con forza alla sua riapertura: nelle grotte di Lascaux, spiegano, la presenza dei microorganismi di cui sopra ha provocato un deterioramento irreversibile degli affreschi. Non solo: il Patronato del Museo di Altamira ha interpellato una commissione scientifica internazionale, ma chi le grotte le studia e le conosce da anni non è stato nemmeno ascoltato. E la sperimentazione, insistono, è del tutto inutile: sappiamo fin troppo bene che cosa si rischia.
Nonostante questo, il programma delle visite andrà avanti fino ad agosto. Ogni giovedì verranno estratti cinque tra i visitatori che si saranno presentati sul sito e a loro toccherà una visita di 37 minuti, con due guide, copriscarpe e mascherine.

Repubblica 3.3.14
C’era una volta la massoneria
Quei sogni egualitari di Herder e Lessing
In un volume le opere in forma di dialogo dei filosofi tedeschi, entrambi affiliati
di Giuseppe Montesano

Il perfido Montresor attira il suo amico Fortunato in una cantina che è una cripta; giunti in fondo Montresor lo incatena e con una cazzuola lo mura vivo: la vendetta, raccontata nella
Botte di Amontillado di Edgar Allan Poe, è compiuta. Ma poco prima della trappola fatale c’è stata una bizzarra scena: Montresor, a cui Fortunato ha chiesto se è anche lui “un fratello”, per convincere l’incredulo ha tirato fuori la cazzuola di sotto al mantello rassicurando l’amico: sì, anche lui è un libero muratore, un fratello massone. Il Poe della Botte di Amontillado si faceva beffe delle logge trasformando un simbolo massonico nell’arma di un delitto, però pochi anni prima i riti segreti dei venerabili erano stati cose serissime per Mozart, che aveva scritto musica per la sua Loggia e per Il Flauto magico, un viaggio iniziatico verso la luce della saggezza massonica; e per Goethe, che fu affiliato dai trent’anni fino alla morte, e che attraverso la sua loggia zeppa di aristocratici pensava di realizzare le tre nobili idee massoniche: Tolleranza, Fratellanza, Umanità. Insomma niente a che fare con gli affari tra delinquenti e le trame sovversive delle sette post-massoniche dei Gelli e dei politici e potenti italiani.
Eppure la massoneria, fondata in Inghilterra agli inizi del 1700 da Anderson, era stata a lungo un magnete per ogni specie di bizzarria, perché in quel Settecento che immaginiamo come il culmine della Ragione, in realtà fioriva di tutto. Un amico di Goethe, il magnetizzatore Mesmer, che sosteneva di essere al di sopra delle Logge massoniche, faceva cadere in stato di convulsione i pazienti ed era convinto che la crisi convulsiva li guarisse grazie all’energia magnetica. Invece sosteneva di essere il solo massone autentico, detentore dei segreti egiziani, il conte di Cagliostro: l’ex Giuseppe Balsamo, autonominatosi Cagliostro e conte oltre che guaritore prodigioso, ipnotizzava bambini e donne, diceva di essere un alchimista che creava l’oro e alla fine della vita fu coinvolto in un “giallo” per il furto di una collana alla regina di Francia: eppure a lui Goethe dedicò una poesia,
Il gran Cofto, che era il nome sacerdotale e segreto di Cagliostro. Un altro semiscienziato, l’inventore della fisiognomica Lavater, fu allievo dell’illuminato Douchanteau-Touzay, che oltre a convertirsi all’ebraismo per scoprire i segreti cabbalistici dei rabbini, si convinse di poter realizzare la pietra filosofale alchemica che cambia il piombo in oro bevendo per quaranta giorni solo la sua urina: naturalmente morendo molto prima di riuscirci. Ferdinand de Brunswick, che apparteneva alla setta degli Illuminati, era convinto che la vera Massoneria fosse legata non solo ai muratori che avevano edificato il tempio di Salomone, ma anche e soprattutto ai Templari.
Imitando le logge massoniche gli Illuminati propagandavano la Fraternità, ma spesso interpretandola in maniera comunistica, fino a ipotizzare la divisione dei beni: come dichiarava madame Bathilde d’Orléans, duchessa di Borbone e zia del futuro Luigi Filippo “Egalité”, la quale credeva nell’arrivo di un’apocalisse rivoluzionaria che avrebbe portato il bene e la fratellanza sulla terra, offrì i suoi beni alla Repubblica, fu soprannominata Citoyenne Verité, la “cittadina verità”, ma poi, per scampare alla ghigliottina, fuggì. Tra la metà del Settecento e i primi anni della Rivoluzione francese sembrò che tutte le idee potessero convivere senza problemi: il conte di Saint-Germain diceva di possedere il segreto della giovinezza eterna, ma si definiva cattolico; tutti si dicevano cristiani però sostenevano la superiorità dell’Ermetismo e delle religioni segrete dell’Egitto, dichiarando che “ex Oriente Lux”: la luce viene dall’Oriente; i Papi scomunicavano i massoni, ma un ultra-cattolico papalino come De Maistre si affiliò a una loggia; Cazotte, l’autore del Diavolo innamorato, si riteneva un fervido credente, ma diceva di poter evocare il diavolo; e l’Incorruttibile, ovvero Robespierre, si recò a una seduta spiritica in cui una donna gli profetizzò che sarebbe stato “il re dei sacrifici di sangue” della nuova epoca.
Qual era il confine tra la Massoneria dei Goethe e dei Mozart e gli Illuminati, i Mistici, gli Alchimisti, i Rosacrociani e altri bizzarri? Sulla questione è da poco uscito per i classici Bompiani un libro frizzante e intelligente, rococò e musicale, illuminante e sorprendente: si intitola Dialoghi per massoni e contiene alcune opere di Lessing e di Herder in forma di dialogo, ispirate a quella Massoneria tedesca che si mescolò all’Illuminismo e che in parte lo precorse. A questi dialoghi teatrali e vivi, il traduttore Claudio Bonvecchio premette un’introduzione che ha il pregio di essere ben addentro al suo argomento ma allo stesso tempo limpida, e che insieme alle splendide e ricche note forma una sorta di romanzo di idee sulla massoneria intellettuale in Germania tra Settecento e Ottocento, la massoneria razionale, illuminata e illuminista di Goethe e di Mozart. Passando in rassegna il caos che ruota intorno alle Logge in Germania, Lessing e Herder, che erano stati affiliati, si dichiarano intenzionati a salvare ciò che c’è di meglio nella massoneria. Per Herder lo scopo autentico della massoneria è la “costruzione dell’umanità” e la realizzazione del bene là dove la politica dei governi non arriva o fallisce, vale a dire nel dare aiuto ai deboli, ai poveri e ai giovani; e così aveva già detto Lessing, affermando che le azioni dei veri massoni servono a rendere inutile tutto ciò che la società considera come opere buone. Ma Lessing andò oltre, dichiarando che il nucleo della massoneria come necessità spirituale dell’epoca nuova era l’eguaglianza tra gli uomini; non solo un’eguaglianza tra pari grado, che era ovvia e fasulla, ma un’eguaglianza tra classi sociali diverse; un’eguaglianza che fosse in grado di togliere le barriere che separavano l’operaio, il notaio, l’aristocratico e il contadino, perché la legge fondamentale dei veri massoni «è accogliere nel loro ordine ogni uomo degno e di buona disposizione, senza distinzione di patria, senza distinzione di religione, senza distinzione di posizione sociale». Quella di Lessing era, dieci anni prima del 1789, quell’égalité associata alla fraternité e alla liberté nelle parole d’ordine della Rivoluzione, e che stava alla base dell’illuminismo. Che tempi confusi ma allegri e pieni di speranze, quelli di Lessing e Herder, e che massoneria simpatica la loro.

Repubblica 3.3.14
Giuseppe De Rita
“La nostra Italia da sempre ammalata di presente”
Il sociologo racconta i cinquant’anni del Censis l’istituto che ha fondato e che, fra molte ostilità, ha svelato il paese a se stesso
intervista di Simonetta Fiori

«No, non lo scriverò. Però ne ho una gran voglia». Nell’elegante villino del Censis, riflettendo sui cinquant’anni dell’istituto, Giuseppe De Rita immagina un libro a cui affidare pensieri lungamente coltivati, e mai detti. «Me ne sono sempre infischiato, ma con un po’ di rabbia».
Che cosa le fa rabbia?
«Mi hanno sempre considerato uno di serie B. Uno che studiava delle cose non degne di un intellettuale. Ma se dovessi togliermi lo sfizio di scrivere qualcosa di mio come esperienza finale di vita... ».
Cosa scriverebbe?
«Farei una rivisitazione ideologica del mio lavoro».
Che vuol dire?
«Ho molto riflettuto su questo anniversario. La realtà è sempre meglio delle opinioni. C’è una bellissima frase di papa Francesco: le opinioni non radunano, la realtà è. Ecco: io sono sempre stato duramente dalla parte della realtà. Realismo gesuitico? Forse. Ma ha inciso anche l’ambiente culturale cattocomunista dei Felice Balbo, Franco Rodano e Giorgio Ceriani Sebregondi. Facevano una rivista che si chiamava Cultura e realtà. Ancora una volta, la realtà».
Lo dice quasi con spirito rivendicativo.
«Sì, perché chi aderisce alla realtà non fa la figura di un insigne teorico. Quando cominciammo con il Censis, tra il 1963 e il 1964, fummo aggrediti da ambienti molto diversi. Eravamo accusati di non capire le cose più importanti».
Chi erano i vostri critici?
«La sinistra del Manifesto. Ed anche quella del Pci, del mio amico Gerardo Chiaromonte. Quando scoprimmo il sommerso, Rinascita titolò: Siamo al folclore economico.
Ma neppure la grande industria e la grande cultura economica ci guardavano con favore. Per Franco Modigliani e per Gianni Agnelli io ero 'l’amico degli stracciaroli'. La realtà che raccontavamo non piaceva all’opinione dominante».
E invece?
«Se avessi avuto più coraggio, non mi sarei limitato a raccontare quel che vedevo. Avrei dovuto ricavarne un’ideologia. L’ideologia del piccolo, del territorio, del localismo, dell’orizzontalità dei processi. Se avessimo fatto un’elaborazione raffinata e non puramente descrittiva, il paese ne avrebbe tratto vantaggio».
Fu un errore non farlo?
«No, non credo di aver sbagliato. Il nostro mestiere era un altro, però... Prendiamo l’economia sommersa. La scoprimmo a Prato sul finire degli anni Sessanta. I telai nascosti nel sottoscala, la macchina in funzione 24 ore su 24. Ovunque in Italia esisteva questa occupazione occulta. Nel rapporto annuale del Censis non la chiamammo 'economia sommersa' perché ci pareva poco professorale. L’avremmo chiamata così l’anno successivo, nel 1971, tra gli insulti del sindacato che ci accusava di dare dignità a una schifezza».
Il 'sommerso' è una categoria che ha avuto grande successo.
«Ogni tanto scherzando dico che ci saremmo meritati il Nobel. Scoprimmo un fenomeno che poi ha dominato il mondo. Se però avessimo anche elaborato un’idea del mercato del lavoro più flessibile, aperto al sommerso, forse avremmo reso un servizio al paese ».
Un’altra cosa che vedeste prima degli altri fu l’immigrazione. Nel 1977 registraste già cinquecentomila clandestini, nella totale indifferenza della classe politica.
«Sì, fummo i primi, anche grazie all’intuizione dell’ambasciatore Falchi. Perché nessuno se ne fece carico? Perché il fenomeno sarebbe esploso più tardi, a quel punto terrorizzando tutti quanti. Nell’89, da presidente del Cnel, dedicai una conferenza all’immigrazione. Con il suo bel vocione, padre Turoldo tuonò contro le nostre chiusure verso i migranti. Cossiga si arrabbiò con me: ma perché l’hai invitato? In galera dovrebbe stare».
Aveva ragione padre Turoldo.
«È un altro di miei rimorsi da ideologo mancato. Se non mi fossi limitato a dire: guardate che ci sono gli immigrati, e avessi cercato anche una cornice istituzionale, lavoristica e contrattuale, per l’Italia sarebbe stata un’opportunità».
Altri rimpianti?
«Potrei farle molti esempi. Preferisco affrontare il nodo centrale. Nel nostro paese c’è stata una divaricazione della cultura economica: una parte è andata per strade raffinate e un’altra ha scelto il realismo quotidiano che però non ha mai esercitato la stessa autorevolezza. Se ho un rimorso è proprio questo: non aver avuto l’ambizione di nobilitare il mio mestiere. Anche perché non ne ho avuto il tempo».
In che senso?
«Da mezzo secolo il Censis sta sul mercato: far quadrare il bilancio non è facile. Dobbiamo fare almeno quattro milioni e mezzo di fatturato, che poi significa circa cinquanta/sessanta ricerche all’anno. Non c’è stato il tempo per fare gli ideologi di se stessi».
Il Censis viene percepito come un istituto pubblico.
«Vittorio Feltri continua a sfotterci: prendete soldi pubblici e poi parlate male del pubblico. Non sono riuscito a convincerlo che viviamo in una condizione di mercato brutale, che è anche quella che ci garantisce piena libertà».
Lei è sempre stato ritenuto vicino alla Dc.
«Non l’ho mai smentito perché non smentisco mai quello che scrivono i giornali. Sono stato amico di tutti i leader democristiani e socialisti, ma non ho mai fatto vita di partito, né mai candidato alle elezioni. L’unico che mi chiese di entrare nel governo fu Berlusconi nel 1994. Un democristiano a cui devo molto è Tommaso Morlino, moroteo di stretta osservanza, che quando fondammo il Censis mi disse: scordati il mestiere che facevi prima, non fare più programmi. Vai in giro e vedi cosa c’è. L’altra figura che ha avuto su di me uno straordinario influsso è Rossana Rossanda».
Davvero?
«Una vera amica. In suo libro recente, Quando si pensava in grande, l’unico italiano non comunista citato sono io. Non siamo mai andati d’accordo su nulla. Però mi ha sempre fatto da specchio dialettico. Rossana è sempre stata la mia alterità».
Torniamo alla rabbia a cui alludeva prima. È come se lei avesse a lungo patito un’estraneità rispetto all’establishment economico.
«Scusi, ma dove sta l’establishment? Io ho conosciuto l’ultimo vero establishment, che era quello dei Beneduce, dei Mattioli, dei Cuccia e dei Menichella. Una classe dirigente che, pure nella diversità degli interessi, coltivava un’idea del paese: se non sembra retorico, direi patriottica. Di questa élite, che accompagnò il passaggio dal fascismo alla democrazia, faceva parte anche Pasquale Saraceno, che è stato il mio padrone alla Svimez per otto anni. Qualche volta andavo a mangiare al Buco, al collegio Romano, e lì vedevo Raffaele Mattioli con Claudio Napoleoni e ogni tanto Piero Sraffa. Più tardi avremmo conosciuto un’altra cosa, che anche nelle sue parti migliori non fa establishment. Prenda la 'macchina Banca d’Italia', che ha fornito al paese gente straordinariamente brava. Anche quella ha esaurito la benzina: non può essere un bancomat della classe dirigente».
Scriverà mai il libro di cui mi parlava?
«Intende L’ideologo che non fui? No, sarebbe un errore. Significherebbe dire: l’Italia sarebbe stata più bella se avessi costruito un’impalcatura teorica intorno a quello che ho visto. Invece il paese va accettato per quello che è. Qui sta la differenza ».
Che intende?
«Io, gli italiani, non li ho mai voluti cambiare. Ho odiato con tutte le mie forze - no, odiato no perché sono incapace di odiare - ho reagito con rabbia ai propositi: dobbiamo cambiare gli italiani. Ma che dici? Poi senti in giro: gli italiani ci hanno tradito. Eh no, sei tu che non li hai riconosciuti. E non riconoscere la realtà, in nome di una superiorità intellettuale, è un bel paradosso».
Pensa anche lei che quella italiana sia stata una grande illusione: un’illusione dettata dall’idea che il progresso fosse infinito?
'No, questo no. Da noi ha pesato un’altra illusione che è quella dell’eternità del presente. Oggi stiamo bene, staremo sempre bene. È quello che ci ha fregato sul piano antropologico, perché vivere nel presente significa distruggere la memoria del passato e non avere curiosità per il futuro. C’è una bellissima frase di Manlio Sgalambro: il passato non mi interessa, perché era il presente di altri. Il futuro non mi interessa, perché sarà il presente di altri. A me interessa il mio presente, oggi. Questa è stata la malattia italiana».

Corriere 3.3.14
L’Europa rinasce dal perdono
La lezione della Arendt: oltre i risentimenti c’è un futuro
di Maurizio Ferrera


Il carattere democratico di una comunità federativa dipende dal coinvolgimento dei cittadini, tanto nel processo costituente quanto nei processi decisionali disciplinati dalle norme costituite. Pur con tutti i suoi limiti, riconoscendo una sovranità condivisa fra cittadini e Stati, il Trattato di Lisbona ha già indicato la strada per risolvere il deficit democratico dell’Unione europea. L’organizzazione dei poteri nel Trattato non è tuttavia pienamente coerente: l’equilibrio fra Parlamento e Consiglio non è completo, il diritto d’iniziativa resta esclusivamente nelle mani della Commissione, il Consiglio europeo ha un peso eccessivo. Inoltre l’Unione post-Lisbona presenta una vistosa asimmetria di fatto fra le opportunità di partecipazione, da un lato, dei cittadini nel loro ruolo «nazionale» a quel che i loro governi fanno dietro i sipari della scena di Bruxelles e l’esercizio concreto di partecipazione da parte dei cittadini nel loro ruolo «europeo» a Strasburgo. La crisi ha esacerbato la situazione rafforzando il modello del «federalismo fra esecutivi».
Se questa diagnosi è corretta, allora mettere in coerenza il sistema euro con la sfera della rappresentanza significa riavviare il processo costituente basato sulla sovranità condivisa, correggere gli squilibri mantenuti dal Trattato del 2009, riportare nell’alveo di questo processo la moltitudine di procedure e istituti intergovernativi creati durante la crisi. (…)
La grande recessione ha creato sentimenti di profonda sfiducia e persino di risentimento reciproco che sarà difficile superare. Ciò che occorre è una «massima di transizione», una bussola normativa che possa spegnere l’incendio. Dove trovarla? In un discorso tenuto nel 2010 Jacques Delors pronunciò le seguenti parole: «Dalla guerra gli europei uscirono trafitti da memorie tragiche, risentimento e sfiducia. Il progetto d’integrazione offrì loro una possibilità di riconciliazione, riconoscimento reciproco e tolleranza. Vennero in mente le parole della grande sociologa ebrea Hannah Arendt: perdonare e promettere. La promessa era che le generazioni venute dopo la grande tragedia sarebbero state tutte egualmente benvenute nella nuova comunità che si stava creando».
La grande recessione non è (stata) una guerra, ma il parallelo non è così azzardato. Può la massima della Arendt (perdonare e promettere) esserci di nuovo d’aiuto? Credo di sì. L’Unione monetaria (Uem) ha prodotto effetti inattesi e proprietà emergenti, di fatto irreversibili. Ciascun Paese è entrato nell’euro con il suo carico di problemi, in parte non dichiarati (pensiamo alle reali condizioni della finanza pubblica greca).
Negli anni le regole non sono state pienamente rispettate (Francia e Germania sforarono il tetto del deficit e non furono sanzionate). L’imputazione di responsabilità (per non parlare di «colpe») è complicata, scivolosa, politicamente inopportuna dopo l’incendio della crisi.
Nell’anno in corso l’Ue dovrà affrontare passaggi delicatissimi: le elezioni per il Parlamento, la formazione di una nuova Commissione, la definizione del nuovo sistema di accordi contrattuali (le «promesse»…) che dovrebbero incentivare, ma anche facilitare (il «perdono»…) l’agenda delle riforme nei vari Paesi, soprattutto i periferici. Se presa sul serio, la riflessione che ho cercato di abbozzare può produrre risorse preziose per ribattere ai molti argomenti empiricamente falsi avanzati dagli euroscettici. Potrà servire per dare una prospettiva agli elettori pro-europei (e a molti incerti) che ascoltano le invettive euroscettiche e non sanno bene come reagire. Il grosso rischio è infatti che gli elettori pro-europei non siano consapevoli della posta in gioco, non vadano a votare e lascino il campo a chi vuole disfare l’Uem.

La Stampa 3.3.14
Escher, l’olandese volante nei meandri dell’immaginazione
di Marco Vallora


Beh, basta sfiorare con gli occhi, od arare, una gremita (d’inganni capziosi) incisione di Escher, per capire che non è facile comunque saper da dove iniziare, da dove intraprenderne l’iniziazione. Da dove spiccare il bandolo aggomitolato dei suoi inacciuffabili e reiterati «nastri di Moebius», che si fanno d’improvviso paesaggi vertiginosi o bestiari barocchi, e che sono un poco le «stringhe» cosmiche della sua «piastrellata» grafica-visionaria.
Questa, la legge di Escher che c’inquieta, felicemente: non sai bene dove t’intrufoli con l’occhio, e sei già in uscita, precipitando, come in un travolgente tapis roulant verticale, o pattinando tra i riccioli d’una cascata, che rulla frenetica, salendo, come un salmone. Che però è anche un airone, come in una rima visiva (secondo le leggi del barocco Bestiario di Saint-Amand, riletto da Genette. Con i pesci che solcano il cielo, come rapide frecce scoccate, per lasciare ai volatili il sotto-dominio degli Oceani. Paesaggi specchianti, in accordo con il conterraneo olandese Mondrian).
Ebbene, ci piacerebbe incominciare dalla chiusa della lettera, inviata nel 1974, all’agente di Mike Jagger, che gli aveva spedito (sì, il leader dei Rolling Stone in persona) un messaggio innamorato e complice. Di plauso lisergico. Per ottenere anche la collaborazione ad una copertina di Lp, psichedelico. «A proposito» (dopo un bel no categorico): «La prego di dire al signor Jagger che non sono Maurits, per lui, ma/ Molto sinceramente: M.C. Escher». Quasi una sigla di difesa. E di disdegno: troppa confidenza non sta bene, con un signore baudleriano un po’ dandy, di troppa età, per gettarsi nella mischia hippyzzante. Un isolato, un flâneur attardato nella campagna romana, che gli pare subito nordico-olandese (lui nasce nel 1898 nella cittadina fiamminga di Leeuwardenla stessa del «prospettivista teoretico» Vredeman de Vries: una sorta di Luca Pacioli impazzito e peggio che piranesiano, che non può non averlo esaltato, nei suoi sogni infantili). Un riottoso sarcastico e sdegnoso, che nell’Italia littorial-piacentiniana (e qualcosa gli rimane, nella coda dell’occhio, di quel gusto monumentale e neo-greco, partenonico) va però a scoprirsi i micro-scoscesi villaggi della Calabria e degli Abruzzi, che nessuno varcava allora, altro che turismo! E che s’impregna (seguace delle lezioni di Adolfo Venturi) della sintassi sgangherata dei primitivi senesi, che anni dopo Lionello Venturi e Previtali avrebbe illuminato. Che ha a che spartire, lui, con le confidenze giovanilistiche d’uno Jagger, che lo investe con il tu cameratesco e, men che peggio, con i deliri al Lsd di zuzzurelloni vocianti, quando a lui basta semplicemente guardare il diorama del mondo, squadernato, dalla balaustra della sua rifrangente pupilla d’insetto, per vederlo già subito storto e bislacco, sbilenco e capillarmente traforato di trabocchetti topografici.
Che Dalí (con la sua «paranoia critica», che ti suggerisce di «vedere doppio», di guardare sfalsato) e Magritte (con i suoi calembours visivi) al cospetto, paion principianti? La sua «solitudine», anche in senso grafico, la sua modernissima inattualità, è subito evidente, e lui ne è ben consapevole. Scrive: «Sto cominciando a parlare un linguaggio che è capito da pochi. Mi fa sentire sempre più solo. Dopo tutto, non sto da nessuna parte. I matematici possono essere amichevoli e interessati e darmi una paterna pacca sulle spalle, ma alla fine per loro sono un dilettante. Gli «artisti» in genere si irritano, ed io sono a volte assalito da un immenso senso di inferiorità». Un senso d’inferiorità, che si rovescia subito in una sorta di magnifica alterigia stilistica: di protervia multi-prospettica, speculativa. Vero, è nutrito di molteplici referenze, sottolineate anche dal curatore Marco Bussagli, che ricorda giustamente l’aeropittura di Tato, Dottori e Benedetta Marinetti, ma anche padre Pozzo, il secentesco quadraturista illusivo e poi le anamorfosi di Maignan, e soprattutto le inquietanti vicinanze degli sfondi bifidi del secessionista viennese Kolo Moser. E a questo proposito non bisognerebbe trascurare gl’influssi della Psicologia della Gestalt viennese, con lo studio degli inganni ottici, e poi le teorie di Riegl, sull’ornamento, quale fonte d’astrazione.
In un’altra mostra romana, Federica Pirani aveva già indicato fonti nostrane d’influenza, ma oltre a Bruno d’Osimo e allo xilografo Triverio, non bisognerebbe dimenticare nemmeno Balsamo Crivelli, risalire alle tarsie lignee dei Lendinara e ricordarsi soprattutto del grande belga Frans Maserel, illustratore di Erasmo e di Tagore, con i suoi grafici «romanzi senza parole». Ma evviva ritrovare qui un animalista superbo come Mesquita, cui Leida dedicò un’agnizione sorprendente. Comunque è la passione per la matematica, per la geometria non euclidea, per la «tassellazione del piano» (complessa teoria spaziale, che Escher va addirittura a scoprire nell’Alhambra moresca) a renderlo così unico, originale. Così gl’incastrati suoi «solidi platonici», cubi, sfere o tetraedri, «simboleggiano in maniera impareggiabile l’umana ricerca di armonia e di ordine, ma allo stesso tempo la loro perfezione ci incute un senso di impotenza». Per cui vano è esplicare. Si vedano i pur utili saggi in catalogo Skira di Odifreddi, Giudiceandrea e Grasselli, con il rischio che tutto rimanga però come appiattito, stirato, risolto. Mentre in Escher è catturante vedere che i suoi camaleonti, monaci e coleotteri s’arrampicano sulle gobbe del mondo per poi rientrarvi. Periodici. Inesausti.

Corriere 3.3.14
Addio a Resnais
Il regista della Nouvelle Vague che rivoluzionò il cinema tra passioni, solitudini e guerra
di Paolo Mereghetti


Il più francese (e il più letterato) dei registi della Nouvelle Vague se ne è andato sabato notte a Parigi. Avrebbe compiuto 92 anni il prossimo 3 giugno ma per lui l’età non era mai stata un ostacolo: all’ultimo Festival di Berlino, meno di un mese fa, aveva presentato il suo 19esimo lungometraggio, Aimer, boire et chanter , e tra gli applausi di tutti si era aggiudicato il premio «per il film più innovativo», un inno all’intelligenza, alla creatività, all’invenzione. Oltre che al piacere della visione.
Figlio di un farmacista, Alain Resnais nasce a Vannes, in Bretagna, il 3 giugno 1922 rivelando ben presto una salute piuttosto delicata che lo spinge verso le letture e la musica. Non ancora diciottenne si trasferisce a Parigi, dove nel 1943 si iscrive alla neonata scuola di cinema Idhec e si specializza in fotografia e montaggio. Le sue prime prove affrontano i temi dell’arte (i documentari V an Gogh , 1948; Paul Gauguin e Guernica , 1950; Les Statues meurent aussi , 1953) e della memoria (Toute la mémoire du monde , 1956, sulla Bibliothèque Nationale, e Notte e nebbia , sempre 1956, «per non dimenticare e invitare alla vigilanza. Senza sosta» sulla tragedia dell’Olocausto). Che insieme a un curioso elogio dei composti chimici (su testo di Queneau: Le Chant du Styrène , 1958), mettono in mostra i valori fondanti del suo cinema —la «bellezza» (dell’arte e della letteratura), la «memoria» (come ricordo ma anche guida) e la «politica» (vicino ai Cahiers du Cinéma , ne incarnava l’ala «sinistra», con Agnès Varda e Chris Marker) — oltre a un’attenzione particolare alle forme narrative non tradizionali («Occorre trattare l’immaginario all’interno del quotidiano»).
Tutti temi che si intrecciano mirabilmente nei suoi primi film: in Hiroshima mon amour (1959, scritto da Marguerite Duras) l’amore tra una francese e un giapponese rimanda al legame che la donna aveva avuto quindici anni prima per un soldato tedesco, mescolando guerra, memoria e morale; in L’anno scorso a Marienbad (1961) i testi di Alain Robbe-Grillet aiutano il regista a riflettere sulla forza ingannevole della memoria (e dividono il pubblico della Mostra di Venezia, dove vinse il Leone d’oro tra applausi e insulti); in Muriel, il tempo di un ritorno (1963, scritto con Jean Cayrol) il gioco di scambi e di tensioni tra i personaggi fa emergere la memoria che la Francia vorrebbe censurare della guerra d’Algeria e della tortura; e infine in La guerra è finita (1966, scritto da Jorge Semprun) un militante comunista tra Francia e Spagna — e tra passato e presente — interroga la Politica sulle sue «vere virtù».
Il discutibile risultato di Je t’aime je t’aime - Anatomia di un suicidio (1968, specie di divagazione fantascientifica «à la Borges») e il fallimento delle tensioni politiche che avevano attraversato la Francia negli anni Sessanta, spingono Resnais verso film meno emotivamente coinvolgenti, come se un certo scetticismo e disincanto finissero per prevalere su tutto. Sono gli anni di film interessanti ma più involuti, come Stavisky il grande truffatore (1974, su un banchiere-squalo, realmente esistito, amante del teatro), Providence (1976, sulle ossessioni di un vecchio scrittore che «regna» sui figli e la famiglia), Mon oncle d’Amérique (1980, dove le teorie del biologo Laborit offrono lo spunto per riflettere sui comportamenti del cervello) e La vita è un romanzo (1983, dove la ricerca — impossibile — della felicità è costruita come un puzzle temporale).
Con Melò (1984, da una pièce di Henri Bernstein) prende sempre più spazio la rilettura e reinvenzione di un testo teatrale, a volte volutamente datato e fuori moda, che offre a Resnais l’occasione di lavorare con un gruppo ricorrente di attori (Sabine Azéma, ultima compagna del regista, Pierre Arditi, André Dussolier, Lambert Wilson) con i quali l’eleganza della messa in scena e la sottolineatura del gioco delle parti finisce per portare lo spettatore verso una riflessione sul cinema, i suoi limiti e le sue possibilità narrative. In Voglio tornare a casa! (1989), per esempio, sfrutta la sceneggiatura di Jules Feiffer per invadere il campo dei fumetti. Con Smoking/No Smoking (1993) usa la commedia di Alan Ayckbourn per stravolgere le convenzioni della messa in scena (due soli attori, Sabine Azéma e Pierre Arditi, interpretano nove ruoli) e per giocare con gli scherzi del destino perché la storia cambia a secondo che lei si fermi o no a fumare in giardino. Con Parole, parole, parole... (1997) sfrutta mezzo secolo di canzoni popolari per continuare la sua riflessione sulle apparenze dei sentimenti. Con Cuori (2006, interpretata anche dalla nostra Laura Morante), un’altra pièce di Ayckbourn, sottolinea come spesso la ricerca della felicità finisca nella solitudine e nel fallimento.
E se Gli amori folli (2009) rischia di sfiancare lo spettatore tra capricci del caso e peripezie sentimentali, la sua penultima opera, Vous n’avez encore rien vu (2012), è una specie di summa-omaggio sulle passioni di tutta una vita: un gioco di specchi e di citazioni, di rimandi e di riletture, che con una freschezza sorprendente intrecciano teatro, letteratura e naturalmente cinema, in una specie di film-saggio che ribadisce la fiducia, coltivata per tutta una vita, sulla centralità del ruolo del regista, le ambiguità della visione e l’amore per un cinema di parola. Amore che si ritrova in Aimer, chanter et boire (2013) ma questa volta con un tocco di leggerezza in più e un piacere quasi infantile nel contraddire i sogni d’amore delle tre donne che devono contendersi le grazie di un personaggio invisibile. Un’ultima, meravigliosa e sorprendente dimostrazione di una vitalità e di una intelligenza che hanno lasciato un segno indelebile nella storia del cinema.