martedì 4 marzo 2014

il Fatto 4.3.14
Autoriciclaggio, ecco la norma Civati: freddezza dal Pd
Emendamento, ispirato dalle proposte del pm Greco, per introdurre il carcere fino a 12 anni
di Gianni Barbacetto


Milano - Il testo dell’emendamento che introduce il reato di autoriciclaggio è pronto. Nei prossimi giorni sarà presentato alla commissione Finanze della Camera, che da oggi comincia a esaminare il decreto governativo da convertire in legge sulla voluntary disclosure, cioè sulla collaborazione volontaria per far rientrare in Italia i capitali nascosti all’estero. L’emendamento è stato proposto dai due parlamentari del Pd Giuseppe Civati e Lucrezia Ricchiuti, con l’idea di farlo diventare proposta comune di tutto il partito: per unire alla norma che favorisce il rientro dei soldi in nero anche quella che punisce chi ricicla o reimpiega i soldi illeciti dei suoi delitti. Finora in Italia è punito soltanto chi ricicla denaro frutto di reati altrui. L’autoriciclaggio era stato inserito nel decreto del governo Letta e poi stralciato, con l’intenzione di inserirlo in un altro pacchetto normativo.
CADUTO LETTA, ora si tratta di trovare la strada per farlo diventare legge. E la strada appare ancora assai incerta e accidentata.
Il testo messo a punto da Civati e Ricchiuti modifica l’articolo 648-bis del codice penale (quello che punisce il riciclaggio) e dice: “È punito con la reclusione da 4 a 12 anni e con la multa da 5 mila a 50 mila euro chiunque sostituisce o trasferisce denaro, beni o altre utilità provenienti da delitto non colposo, ovvero compie altre operazioni in modo da ostacolare l’identificazione della loro provenienza delittuosa”. La formulazione attuale ha invece una “clausola di riserva” che punisce soltanto chi non abbia commesso, o non abbia concorso a commettere, anche il reato presupposto del riciclaggio. Esclude insomma di perseguire chi ricicla i soldi provento di suoi stessi reati. Il testo dell’articolo prosegue: “Si applica la pena della reclusione da 2 a 8 anni e della multa da 2 mila a 25 mila euro se il denaro, i beni o le altre utilità provengono da delitto non colposo per il quale è stabilita la pena della reclusione non superiore nel massimo a 6 anni”. Pene inferiori, dunque, a chi ricicla per esempio soldi frutto dell’evasione fiscale. E infine: “La pena è aumentata quando il fatto è commesso nell’esercizio di una professione ovvero di attività bancaria o finanziaria. La pena è diminuita fino a due terzi per chi si sia efficacemente adoperato per assicurare le prove del reato e per evitare che l’attività delittuosa sia portata a conseguenze ulteriori. Si applica l’ultimo comma dell’art. 648”.
PREMIO DUNQUE per chi collabora a far scoprire i soldi sporchi e aggravio di pena invece per chi ricicla come professionista: così cadrebbe definitivamente l’impunità dei fiduciari e dei banchieri che si nascondono dietro il loro ruolo “tecnico” e si aprirebbe la possibilità di incriminare per riciclaggio anche le società che lo realizzano, comprese le banche e le fiduciarie. Questo testo recepisce le proposte fatte dalla commissione presieduta dal pm milanese Francesco Greco.
Quale sarà il destino di questo emendamento? Dipende dalle decisioni del governo. Ci sono voluti molti giorni prima che il presidente del Consiglio Matteo Renzi affrontasse il problema : non una parola sui temi della criminalità economica nei suoi discorsi d’investitura alla Camera e al Senato, non una risposta alle domande sull’autoriciclaggio sollevate venerdì scorso da questo giornale, Renzi ha preso di petto l’argomento soltanto rispondendo a Roberto Saviano, domenica, su Repubblica. Le organizzazioni criminali, ha scritto il presidente del Consiglio, sanno “di non rischiare molto sul piano penale, anche perché nel nostro codice manca il reato di autoriciclaggio. Il paradosso di un estorsore o uno spacciatore di droga che non viene punito se da solo ricicla o reimpiega il provento dei suoi delitti sarà superato con assoluta urgenza attraverso l’introduzione del delitto di autoriciclaggio. In questo senso, aggredire i patrimoni mafiosi può essere una delle grandi risposte che il governo è in grado di dare, dal punto di vista economico, per fronteggiare la crisi. Una giustizia più veloce, più efficace da questo punto di vista, è uno degli strumenti che possiamo mettere in campo come Paese per uscire dalla situazione economica in cui ci troviamo”.
DOPO QUESTA netta presa di posizione, resta però da vedere come il reato di autoriciclaggio sarà inserito nel codice e quando scatterà la proclamata “assoluta urgenza”. Il ministro della Giustizia Andrea Orlando, che proviene anch’egli dal Pd, si dichiara favorevole all’introduzione di quel reato, ma si chiede quale sia la strada più rapida ed efficace. “Si potrà inserire come emendamento nel decreto sulla voluntary disclosure”, ha dichiarato al Fatto quotidiano, “oppure potremo presentare un nuovo disegno di legge, da far correre in corsia preferenziale, che contenga quattro o cinque articoli: uno sull’autoriciclaggio e gli altri sull’accelerazione del passaggio dal sequestro alla confisca dei beni frutto di reato. Le due strade possono essere percorse entrambe, possono anche correre parallele, e non so quale delle due potrà arrivare prima alla meta”. Il capogruppo del Pd nella commissione Finanze della Camera, Marco Causi, tende invece a escludere che nei lavori ripresi oggi possa trovar spazio l’emendamento Civati. “Su questi temi è già al lavoro la commissione Giustizia che preparerà un testo più complessivo, che tenga conto di tanti contributi e anche dell’emendamento Civati”. Conclusione: tutti a parole d’accordo, ma l’introduzione dell’autoriciclaggio sembra un gioco dell’oca di cui ancora non si vede la casella d’arrivo.

Repubblica 4.3.14
L’adesione al Pse spacca la minoranza del Pd
Fioroni a Cuperlo: hai oscurato i cattolici. La replica: non rappresenti gli ex popolari
di T. Ci.


ROMA - Si spacca la minoranza del Pd. La frattura si consuma sull’annosa disputa della collocazione europea, infine sciolta da Matteo Renzi con l’adesione al Pse. È una frangia dei Popolari - quella che fa capo a Beppe Fioroni - a comunicare a Gianni Cuperlo il divorzio, con una missiva del deputato Gero Grassi. Il punto di non ritorno è indicato proprio nella scelta dei socialisti in Europa.
«Non ci sentiamo più rappresentati da te», scrive Grassi a Cuperlo. L’accusa è di non aver coltivato il pluralismo interno alla minoranza, limitandosi a mediare «all’interno delle diverse sensibilità degli ex Ds». Insomma, attacca Grassi, «l’idea che il congresso fosse perso ha portato le sensibilità della sinistra interna a difendere la propria presenza e basta». A Cuperlo, poi, la pattuglia di popolari imputa anche «uno stile decisionale autoreferenziale e leaderistico», che nega il «confronto» e oscura «il patrimonio ideale del cattolicesimo democratico».
La replica di Cuperlo non si fa attendere: «Sono dispiaciuto della lettera di Grassi ma ne rispetto il merito. Mi conforta l’idea che non si tratti della posizione degli ‘ex popolari’, verso i quali la mia attenzione è stata costante, non per motivi di opportunità ma di profonda convinzione sulla ricchezza del pluralismo dentro il Pd». Cuperlo sorride di fronte all’accusa di “derive plebiscitarie”: somiglia a «una battuta di spirito», sostiene. Lo scontro, però, è ormai uscito allo scoperto. E tocca a Fioroni controreplicare: «Non sta a Cuperlo dire chi rappresenta gli ex-popolari - si infuria -. Chi rappresenta i socialdemocratici e chi i cattolico-democratici si è visto nel voto dell’ultima Direzione sull’adesione al Pse. Tutto il resto è noia».
Il partito, intanto, è alle prese con una serie di nodi da sciogliere. A partire dall’attesa nomina di Lorenzo Guerini a coordinatore del Pd, in agenda per la direzione del 13 marzo. Restano inoltre da definire le staffette interne, dopo l’ingresso nel governo di alcuni membri della segreteria. Quanto alla Presidenza del partito, il nome che continua a circolare resta quello di Pierluigi Bersani.

Repubblica 4.3.14
L’ex leader del Ppi, Marini, sconfessa i suoi ex compagni di partito: “Una scelta inevitabile dibattuta per molto tempo”
“Giusto quel sì, non si vive nel passato morire socialdemocratici è una fine nobile”
intervista di Tommaso Ciriaco


ROMA - Sarà stato pure un approdo brusco, celebrato con una certa fretta da Matteo Renzi. Eppure, il matrimonio tra Pd e Pse trova in Franco Marini uno sponsor convinto. «Era una scelta inevitabile », sostiene l’ex Presidente del Senato. Nonostante i malumori di alcuni Popolari: «Non possiamo vivere nel passato, che pure fu positivo».
Il padre nobile dei popolari sostiene la scelta di Renzi, mentre alcuni ex Ppi protestano.
«Capisco la loro tensione, l’ho sentita anche io. Ma era una scelta fondamentale, la fine di un lungo percorso. Non capirei, invece, appunti di altra natura, più strumentali».
È un paradosso che lei faccia questo favore a Renzi. Il premier affossò la sua candidatura al Colle...
«Ma no, cosa c’entra? Io e Renzi siamo, come dire, dialettici... Io questa sua accelerazione la comprendo. C’era un’opportunità e l’ha colta al volo, in vista del semestre europeo. Per tentare di rivedere le modalità di abbattimento del debito, non calcolare nel deficit le spese per gli investimenti e completare l’unione bancaria».
La svolta si è compiuta con una direzione lampo.
«La riunione della direzione può essere sembrata un po’ superficiale. Forse si poteva chiudere il percorso in modo più solenne. Ma sa perché non sono intervenuto? Perché ho seguito il dibattito fin dai tempi della Margherita».
Un lungo travaglio, Presidente.
«Dal 1995 stavamo con il centrosinistra, in Italia. In Europa eravamo nel Ppe. Restammo per un po’, con i conservatori inglesi e Berlusconi... Si trattò di una convivenza contraddittoria, complicata, scomoda».
Il percorso si complicò anche negli anni successivi.
«La discussione andò avanti quando nacque il Pd. Poi, in Europa nel 2009, è nato il gruppo dei socialisti e dei democratici. Non sottovaluto quel passaggio, si decise di lasciare spazio all’autonomia e alla cultura che vogliamo coltivare. E poi la linea della Merkel è duramente conservatrice, il Ppe non risponde alle nostre ragioni politiche».
In Ue, però, i cattolici presidiano il fianco conservatore.
«Ma l’Italia è l’Italia. E questo passaggio divenne inevitabile con la fine della Dc e la definizione del bipolarismo. Tentammo di tenere in vita la continuità della Dc, ma con i Popolari prendemmo nel 1994 l’11%. Martinazzoli prese atto del fallimento. Si divisero anche i dirigenti. Se si tiene conto della complessità della Dc, era ineluttabile e non spregevole che ci fosse chi voleva finire accanto ai conservatori di FI».
Socialdemocratici, d’ora in poi.
«Il Ppe e il Pse non rispondono più alla logica della loro nascita, alcuni ex Ds addirittura dicono che non sono mai stati comunisti... . Se poi facciamo riferimento alle prime lotte sociali, alle leghe rosse e bianche, vediamo chele esperienze non sono così lontane dalla dottrina sociale della Chiesa. Dicono: vogliamo morire con i socialdemocratici? Dico che sarebbe una morte nobile».
Alcuni cattolici del Pd potrebbero inorridire, Presidente.
«Anche i loro valori sono la libertà e la centralità della persona, la giustizia sociale, l’economia sociale di mercato. Sono i principi fondamentali delle democrazie cristiane più avanzate ».
Intanto alcuni Popolari rompono con Cuperlo.
«L’unica cosa che non si può dire è che i popolari abbiamo poco ruolo nel Pd. Così sarà anche in Europa. Una terza via non c’è, né esiste la volontà di questi amici che protestano di lasciare il Pd. Non condivido ma posso capire la loro insofferenza, la cosa che mi pare incomprensibile sono le critiche a Cuperlo».

l’Unità 4.3.14
Legge elettorale, nuova fumata nera
Oggi al voto in aula
Forza Italia non vuole gli emendamenti Lauricella e D’Attorre
Il premier tratta fino a stamattina con il Cav
di Claudia Fusani


L’unica cosa certa è che oggi pomeriggio la Camera comincia a votare la nuova legge elettorale. E che tra i circa 400 emendamenti ce ne sono almeno due, Lauricella e D’Attorre, entrambi parlamentari della minoranza Pd, che blindano la legislatura per un paio d’anni. Il contrario del patto di sangue tra Renzi e Berlusconi che invece si regge sul principio «subito la legge elettorale e poi le altre riforme». Accordo altrimenti traducibile: pronti per andare a votare.
Ieri sera ci doveva essere una riunione del gruppo parlamentare Pd per decidere se e quale emendamento ritirare. Si profilava una lunga e difficile discussione visto che sia Giuseppe Lauricella che Alfredo D’Attorre non hanno intenzione di ritirare le loro proposte. Poi non se n’è fatto di nulla. «Il premier Renzi è ancora in attesa di risposte da Berlusconi, stiamo valutando i vari emendamenti» è stato spiegato ai deputati. C’è tempo fino a stamani perchè Verdini, gli ambasciatori di Alfano e i renziani trovino un’intesa per uscire dall’impasse. È stata l’ennesima giornata di contatti, telefonate, offerte e rilanci per cercare di far quadrare il cerchio dell’Italicum senza che nessuno ci rimetta la faccia o rinneghi la parola data. Senza mettere a nudo eventuali e sempre ipotizzati accordi sotto banco tra il premier e il Cavaliere per andare a votare quando si sono stufati di dover trovare compromessi in Parlamento. Forza Italia ribadisce il punto: «L’emendamento Lauricella è irricevibile e se passa facciamo saltare il tavolo dell’accordo con Renzi. E non ci piace neppure quello D’Attorre» ha tenuto il punto il capogruppo Renato Brunetta che da giorni lancia ultimatum via news letter, tweet e interviste.
Gli onorevoli Lauricella e D’Attorre, in realtà, si stanno passando il testimone facendo solo finta di restare a turno fermi un giro. Ne viene fuori un gioco di specchi dove il risultato, però, non cambia: impossibile andare a votare se prima non è stato riformato il Senato. Forza Italia se n’è accorta. E non ha mangiato la foglia di dire sì all’emendamento D’Attorre che è un Lauricella travestito.
Il Lauricella è noto: sopprime l’articolo 2 dell’Italicum, la parte relativa al Senato e indica, come conseguenza, la clausola dell’entrata in vigore rinviata a quando sarà effettiva la riforma del Senato e il sistema parlamentare sarà quindi passato da bicamerale a monocamerale. Anche l’emendamento D’Attorre non è una novità, era stato presentato nella prima mandata di modifiche e si limita a sopprimere l’articolo 2 dell’Italicum, la parte relativa al Senato. Resta implicito che per la camera alta resta in vigore il cosiddetto Consultellum il sistema proporzionale puro indicato dalla Consulta. Al voto con due sistemi elettorali diversi: il massimo del contorcimento delle regole.
Ma se D’Attorre è un Lauricella meno qualcosa, nella montagna di emendamenti che giacciono in aula si scopre che Lauricella ne ha presentato anche un altro «aggiuntivo del soppressivo di D’Attorre».
Un guazzabuglio. Forza Italia non ci sta. Il Nuovo centrodestra, che aveva già eretto un busto in onore di Lauricella, dopo un iniziale gioco delle parti, alla fine converge sul D’Attorre. Provvede Gaetano Quagliariello, coordinatore nazionale del partito, a precisare la posizione: «Non siamo contrari all’emendamento D’Attorre. Ci permettiamo però di ricordare che andare a votare con l’Italicum con due camere che danno la fiducia comporta rischi d’ impazzimento. Ad esempio due ballottaggi diversi o una camera che viene assegnata al primo turno e l’altra quindici giorni dopo».
Ieri sera i capigruppo Pd, Speranza e Zanda, si sono chiusi a palazzo Chigi per mediare ed evitare una spaccatura del partito al momento delle votazioni in aula che saranno a scrutiinio segreto. L'obiettivo è insistere su Renzi perchè ottenga il via libera di Berlusconi su una norma che leghi l'Italicum alla riforma del Senato ma che preveda anche la scappatoia dell'entrata in vigore immediata della riforma elettorale qualora la legislatura dovesse interrompersi prima. Le dimissioni del sottosegretario Gentile (Ncd) sono arrivate nel mezzo delle trattative. Una parte della trattativa.

«Nel 1978 la legge Basaglia ha chiuso i manicomi. Riapriteli di corsa: c’è un matto pericoloso da internare. È il legislatore schizofrenico, l’essere che comprende in sé il non essere, la volontà che vuole e disvuole»
Corriere 4.3.14
Il senno perduto sulla legge elettorale
di Michele Ainis


Nel 1978 la legge Basaglia ha chiuso i manicomi. Riapriteli di corsa: c’è un matto pericoloso da internare. È il legislatore schizofrenico, l’essere che comprende in sé il non essere, la volontà che vuole e disvuole. In passato ne avevamo avuto già il sospetto, dinanzi a certe leggi strampalate, a certe norme subnormali. Adesso c’è un certificato medico, la prova che il seme della follia ha ormai attecchito nelle meningi dei nostri parlamentari. Come? Con un doppio emendamento alla legge elettorale, da quest’oggi all’esame della Camera.
Proviamo allora a raccontarla, questa «Storia della follia» che meriterebbe la penna di Foucault. Tutto comincia con l’accordo Renzi-Berlusconi sul doppio turno eventuale: se superi un determinato tetto incassi il premio di maggioranza, altrimenti ballottaggio fra le due coalizioni più votate. È l’Italicum, ed è un sistema — almeno sulla carta — ragionevole. Perché taglia le unghie ai piccoli partiti, contemplando una soglia minima per guadagnare seggi. E perché lega la governabilità al consenso (implicito o esplicito) degli stessi governati.
Sennonché il diavolo s’annida nei dettagli. In questo caso i dettagli sono numeri, e numeri impazziti. Un premio troppo basso (52% con il 37% dei suffragi), che lascia l’esecutivo in balia di 6 deputati. Tre soglie diverse (12%, 8%, 4,5%) per le coalizioni, per le liste coalizzate, per i partiti che corrono da soli. Deroghe per le minoranze linguistiche, deroghe per la Lega Nord, però nessuna deroga se il voto si spalma sulle schede come una marmellata elettorale. Può ben succedere, in fondo è già successo: siamo l’Italia dei mille campanili. E dunque se il fronte di minoranza conterà un solo partito in grado di superare la boa dell’8%, quest’ultimo intascherà il 48% dei seggi: tombola! Se il fronte di maggioranza verrà presidiato da una coalizione di 11 partiti (quanti ne imbarcò l’Unione di Romano Prodi nel 2006), se nessuno degli 11 sforerà il 4,5%, mentre tutti insieme sommeranno il 37%, il risultato in seggi sarà zero tagliato. E, via via, potremmo esercitarci a lungo su questo manicomio elettorale.
T’aspetteresti che l’esercizio lo svolgano pure lorsignori, invece no: discettano, rimuginano, almanaccano su come scrivere la legge elettorale senza scriverla. Da qui l’emendamento Lauricella, che ne subordina l’entrata in vigore alla riforma (ipotetica e futura) del Senato. Più che una legge, una promessa di matrimonio; vatti a fidare. Da qui — ed è storia di ieri — l’emendamento D’Attorre, che circoscrive l’Italicum alla sola elezione della Camera. E il Senato? Lì rimarrebbero in vigore le regole di adesso: un proporzionale puro. Siccome su quest’emendamento la maggioranza è già andata in solluchero, siccome a quanto pare offrirà l’inchiostro della nuova legge elettorale, sarà il caso di ragionarci su. Anche se è complicato ragionare con i pazzi.
Domanda: ma sarebbe incostituzionale stabilire regole diverse fra Camera e Senato? Niente affatto. In primo luogo, la Costituzione stessa differenzia le due assemblee legislative, collegandole a elettorati differenti (18 e 25 anni). In secondo luogo, in origine ne aveva differenziato pure la durata (5 e 6 anni). In terzo luogo, già il Porcellum confezionava un premio nazionale per la Camera, e al Senato 20 premi regionali. Però, attenzione: proprio questa disarmonia ha alimentato una censura d’incostituzionalità. Scrive infatti la Consulta (sentenza n. 1 del 2014, punto 4 della motivazione): il Porcellum «favorisce la formazione di maggioranze parlamentari non coincidenti nei due rami del Parlamento, pur in presenza di una distribuzione del voto nell’insieme sostanzialmente omogenea»; sicché viola, in conclusione, «i principi di proporzionalità e ragionevolezza».
Morale della favola: è ragionevole diversificare, è irragionevole contraddire. Si può adottare, per esempio, un maggioritario con sistemi differenti: alla Camera con il premio, al Senato con i collegi uninominali. Si può scegliere un proporzionale variando le soglie minime d’accesso nelle assemblee legislative. Ma non si può decidere per un «maggiorzionale», non si possono trattare le due Camere come se appartenessero a due Stati lontani. Per rispetto del buon senso, se non anche del buon senno.

Corriere 4.3.14
Premier nella tenaglia di problemi reali e logiche contrapposte
di Massimo Franco


C’è da chiedersi se Matteo Renzi avrebbe avuto maggiore potere di influire sulla riforma elettorale stando fuori da Palazzo Chigi. Gli attacchi preventivi che sta ricevendo in questi giorni dicono infatti quanto sia scomoda la sua posizione come presidente del Consiglio. È in atto un’offensiva di Forza Italia, che sente odore di rinvio e teme il cedimento del premier alle spinte dei partiti minori contrari al cosiddetto Italicum col suo ballottaggio: un atteggiamento che fa minacciare a Silvio Berlusconi la disdetta dell’asse istituzionale col segretario del Pd. Poi c’è la tenaglia degli emendamenti parlamentari, decisi dagli alleati e dalla minoranza del Pd per rendere difficile, se non improbabile, quanto sembrava quasi fatto. E le dimissioni forzate del sottosegretario Antonio Gentile, del Nuovo centrodestra, sono un segnale controverso per il governo.
L’irritazione berlusconiana è segnalata dalle parole quasi liquidatorie usate da Giovanni Toti, il consigliere oggi più accreditato del leader. Parlare di «credito che si sta esaurendo», e mettere in fila critiche sul modo in cui si è formato il governo e sulle prime scelte di Renzi, sa di preultimatum. La riunione di ieri pomeriggio tra premier, coordinatore di FI, Denis Verdini, e Gianni Letta, racconta il tentativo di raddrizzare la situazione e di evitare il naufragio dell’«altra maggioranza»: non di governo, ma altrettanto importante per definire la riforma del sistema. Renzi si trova adesso nella posizione non di padrone di due alleanze alternative, quanto di parafulmine di due logiche e di altrettante strategie almeno in apparenza inconciliabili.
Le forze minori vogliono evitare un sistema elettorale che li schiacci e li costringa a scegliere tra due schieramenti, col ruolo di comprimari. Per questo chiedono che si approvi intanto la riforma alla Camera, subordinando quella al Senato al momento in cui sarà cambiato il ruolo di Palazzo Madama: il vero pomo della discordia. «Con due sistemi diversi sarebbe la paralisi», avverte il segretario del Nuovo centrodestra, Gaetano Quagliariello. Ma Forza Italia teme che questo significhi rallentare la marcia verso le elezioni anticipate.
Giorno dopo giorno, cresce il sospetto, non si sa quanto fondato, che l’obiettivo sia di offrire spazio a rinvii e manovre tese a rallentare e alla fine modificare l’impianto dell’Italicum concordato da Renzi con il Cavaliere. La polemica, in realtà un po’ a sproposito, del berlusconiano Maurizio Gasparri che si chiede se Giorgio Napolitano «possa consentire trucchi sulla riforma elettorale», marca un certo nervosismo. Idem l’avvertimento del capogruppo di FI alla Camera, Renato Brunetta, secondo il quale «se i partitini si mettono di traverso» e a fine marzo non c’è la nuova legge, «sarà responsabilità di Renzi». Ma le difficoltà sono oggettive. «Sarà dura», ammette il renziano Roberto Giachetti. «Sono tanti che non vogliono cambiare».
Il premier assicura che fin dalla prossima settimana arriveranno i primi provvedimenti economici. Eppure, le prime indiscrezioni su uno dei punti qualificanti del suo programma, il «piano per il lavoro», (Jobs act), seminano qualche perplessità. Si parla infatti di un progetto «in due tempi»: prima una serie di norme sul mercato del lavoro, che non hanno bisogno di copertura finanziaria; e in un momento successivo misure che la richiedono: dalla riduzione del cuneo fiscale alle imprese all’estensione del sussidio di disoccupazione. I sindacati già ironizzano sulle «norme che non producono posti di lavoro». E temono «promesse che poi non si possono mantenere». Si tratta di un’impazienza forse eccessiva, spiegabile solo con le grandi aspettative create da Renzi. Per paradosso, il premier ha bisogno di più tempo. E sarà inevitabile concederglielo.

il Fatto 4.3.14
Legge elettorale Renzi appeso a Berlusconi
D’Attorre (minoranza Dem) presenta un emendamento per far valere l’Italicum solo alla Camera
D’accordo Alfano. FI insorge, il premier media
di Wanda Marra


Possiamo portare a casa l’Italicum entro la settimana. Berlusconi scenderà a Roma mentre io sarò a Tunisi”. Così spiegava ieri sera ai suoi Matteo Renzi (che oggi fa una visita lampo in Tunisia, primo viaggio internazionale). Una dichiarazione esplicita che la legge elettorale dipende dal sì di Forza Italia. Tant’è vero che il premier ieri ha condotto la trattativa in proprio: ha sentito Alfano, ha visto Denis Verdini e Gianni Letta. E poi, a fine giornata, ha rimandato l’assemblea del gruppo Pd alla Camera: avrebbe dovuto portare ai deputati democratici un’indicazione sull’Italicum, frutto della trattativa con FI. Trattativa che però non è finita.
Oggi arriva in Aula alla Camera la legge elettorale (quella che secondo il programma annunciato dal premier al Quirinale sarebbe dovuta essere approvata entro febbraio). Ma l’accordo a tre - quello di Renzi di governo con Alfano, e quello di Renzi sulle riforme con Berlusconi - non c’è. Anzi ieri ha rischiato di saltare del tutto. Il caos s’è fatto evidente dopo le 12, orario in cui scadeva la presentazione degli emendamenti a Montecitorio. Con l’arrivo di una modifica presentata dal deputato bersaniano Alfredo D’Attorre, secondo la quale l’Italicum dovrebbe valere solo per la Camera e non per il Senato. Il punto è quello secondo il quale la legge elettorale va agganciata alle riforme costituzionali, nella fattispecie all’abolizione del Senato. In pratica, in gioco è la possibilità di andare a votare subito, o non prima di un anno. Ncd l’aveva posta come condizione per la nascita del governo. Condizione che Renzi formalmente non ha accettato. Mentre Forza Italia ha subito chiarito che l’Italicum (e la possibilità di votare) li vuole pronti all’uso.
IN QUESTO gioco, la minoranza Pd fa sponda con gli alfaniani, insistendo su modifiche e inadeguatezze del sistema così com’è. Anche se poi sono tutti pronti a dichiarare, D’Attorre in testa: “Noi la legge la vogliamo solo migliorare”.
Tutto è cominciato col cosiddetto emendamento Lauri-cella, che rimanda l’entrata in vigore della legge all’abolizione del Senato. D’Attorre ne ha proposto una variante di compromesso, presentando una modifica per abolire l’articolo 2 dell’Italicum e cancellare dalla legge le norme su Palazzo Madama. In caso di fine della legislatura si andrebbe alle elezioni con due sistemi diversi nei due rami del Parlamento. Una soluzione che i democrat dicono possibile a livello costituzionale. Ma che farebbe da deterrente a un voto immediato. È su questi due punti che ieri Renzi ha cercato una mediazione. Per Ncd entrambe le soluzioni potrebbero funzionare (il sì ufficiale al lodo D’Attorre è arrivato da Gaetano Quagliariello). Forza Italia però non appena resi noti i nuovi emendamenti è salita sulle barricate. “L’emendamento D’Attorre è incostituzionale”, tuonava Brunetta. “Si rispetti l’accordo Berlusconi-Renzi”, rinforzava Matteoli. Un’alzata di scudi in piena regola.
Se Berlusconi dovesse dire di no alle due modifiche sul tavolo, c’è già pronta un’altra proposta. Quella di legare l’Italicum a una data di entrata in vigore. Perché poi Renzi non può permettersi di fallire sulla legge elettorale, né ha l’interesse a questo punto di andare a votare subito dopo, passando come quello che non è stato in grado di governare. Insomma, si lavora a un sistema elettorale prossimo venturo, che conterrebbe una scadenza per quanto ipotetica della legislatura. Tra un anno, o meglio un anno e mezzo, come spiegava ieri un esponente del governo. Sono arrivati il “lodo Pisicchio (entrata in vigore dopo un anno o 18 mesi) e il lodo Balduzzi (gennaio 2016). E ancora: si potrebbe approvare la norma alla Camera così com’è, e poi rimandare tutto in Senato. Tutte strade in salita: come ammetteva ieri sera lo stesso presidente del Consiglio i nodi sono ancora da sciogliere.
NEL FRATTEMPO , ha trovato il tempo per una “distrazione” nel suo stile: una lettera ai Sindaci in cui chiede di segnalargli una scuola da riparare (con tanto di mail annessa sindaci@governo.it  ). E ieri sera a cena a Palazzo Chigi c’è stata la prima riunione ufficiale per il jobs act: una cena tra Padoan, Poletti e Delrio.

Repubblica 4.3.14
Toti, consigliere politico di Berlusconi: “Possibili solo piccoli correttivi alla riforma”
“Ci siamo fidati, il premier non sgarri se salta l’accordo per Silvio cambia tutto”
di Carmelo Lopapa


ROMA - «Matteo Renzi deve stare attento. Sta dilapidando nel giro di poche settimane l’enorme credito che aveva acquisito nei confronti del Paese, dei suoi elettori e delle altre forze politiche. Noi ci siamo fidati di lui. Se saltasse l’accordo, allora tutto tornerebbe in discussione e anche la nostra linea muterebbe repentinamente ». Giovanni Toti risponde al telefono da Arcore. La complicata partita romana il consigliere politico la osserva dallo studio di fianco a Silvio Berlusconi. E il quadro da lì appare poco rassicurante, il patto sulle riforme rischia di franare e allora, rispetto al premier, i toni cambiano, gli apprezzamenti diventano avvertimenti.
Il problema è che per una parte del Pd appare indispensabile legare la riforma elettorale a quella del Senato. E adesso?
«Noi stiamo ai fatti e ai patti: Renzi aveva detto che la legge elettorale sarebbe stata la sua prima riforma già nel mese di febbraio. Febbraio è finito, siamo al 4 di marzo, ci sono state incombenze che hanno occupato le Camere, lo comprendiamo, abbiamo atteso pazientemente che si insediasse. Ma a questo punto, la riforma così come è stata sottoscritta deve essere approvata. E subito, senza ulteriori tentennamenti. Piccoli correttivi sono possibili, ma certo non provvedimenti che snaturino il senso dell’accordo siglato da Berlusconi e Renzi».
Si riferisce a emendamenti come quello di D’Attorre che vorrebbero l’Italicum valido solo per la Camera?
«Il riferimento è a tutto ciò che posticiperebbe l’entrata in vigore della legge. Non dare la possibilità all’elettore di esprimere la propria preferenza sembra diventato un vizio di questo paese. Noi non ci stiamo. Se la legislatura dovesse interrompersi, sarebbe folle non avere una legge con cui votare».
Che accade se il premier dovesse rivedere l’accordo siglato?
«Non approvare quella riforma vorrebbe dire tradire la fiducia degli elettori, innanzitutto. Renzi marca male. Aveva promesso che non sarebbe andato a Palazzo Chigi senza il passaggio elettorale e invece lo ha fatto, ha promesso di non aumentare la pressione fiscale e ha introdotto la Tasi, ha promesso di fare riforme condivise: se ora anche questo impegno decadesse in meno di due settimane, beh, non sarebbe un buon inizio».
Strano, Berlusconi non ha lesinato elogi nei confronti di Renzi, ancora nei giorni scorsi.
«Abbiamo dialogato con lui sulle grandi riforme proprio perché dopo vent’anni di assoluta sordità abbiamo creduto di trovare un interlocutore disponibile a un dialogo largo e aperto. Abbiamo concesso tutta la nostra fiducia, sottolineando gli elementi di novità che lo hanno reso politicamente simpatico al presidente Berlusconi, ma se adesso quegli elementi dovessero cadere uno a uno, saremmo costretti a rivedere anche il nostro giudizio politico».
Come giudicate le prime mosse del governo?
«Piuttosto male. Questo governo nasce col peccato originale dell’operazione di palazzo, poi la Tasi, infine i sottosegretari non rappresentano la scossa in cui speravamo».
Ecco appunto, la squadra di vice e sottosegretari? Adesso le dimissioni di Gentile.
«È un governo sostenuto dagli stessi equilibri che reggevano l’esecutivo Letta. Nutriamo parecchi dubbi sulla reale capacità di avviare la svolta promessa. Quanto a Gentile, siamo garantisti, lo siamo verso gli amici e ancor più verso gli avversari».
Una curiosità, consigliere Toti, ma che fine ha fatto Silvio Berlusconi? Sembra si sia inabissato.
«Il presidente è attivissimo. Sta incontrando varie categorie, sta lavorando all’organizzazione dei club e alle Europee. A breve si lancerà nella campagna elettorale. Insomma, come promesso, resta in campo e al centro della vita politica italiana. Lui gli impegni li rispetta. Speriamo anche altri mantengano la parola data».

l’Unità 4.3.14
Evitare il bis del Porcellum
di Claudio Sardo


LA RIFORMA ELETTORALE È NECESSARIA. MA L’ITALICUM VA CAMBIATO, E NON IN PARTI MARGINALI. Il testo da oggi all’esame della Camera è troppo simile al Porcellum: nega ai cittadini il diritto di scelta dei deputati, conferma il bipolarismo coatto incentivando le coalizioni lunghe con micro-partiti e liste civetta, ripropone contro il buonsenso una vasta gamma di soglie di sbarramento. Per di più, i gravi difetti tecnici (il famigerato «algoritmo») sul riparto dei seggi non sono stati ancora superati e le simulazioni continuano a dare esiti casuali (nel senso che un partito può ottenere più voti a Catanzaro ma quei voti servono a eleggere un parlamentare a Treviso).
Eppure, nonostante l’imminenza del voto a Montecitorio, tutta l’attenzione politica è concentrata sul contesto, e non sul merito della riforma. Si possono comprendere le ragioni. La legge elettorale è logicamente legata alle riforme del bicameralismo e del titolo V, ma per queste ultime c’è bisogno di tempo, almeno un anno e mezzo. Renzi invece ha assunto l’impegno solenne di approvare velocemente la legge elettorale. E l’obiettivo è sostenuto da Berlusconi. Un legge maggioritaria può diventare una pistola carica sul tavolo del governo, e può cambiare le convenienze alla chiusura anticipata della legislatura. Ecco perché il merito dell’Italicum passa oggi in secondo piano. La scelta tra l’emendamento Lauricella (posticipare l’entrata in vigore della legge elettorale al varo della riforma del Senato), l’emendamento D’Attorre (limitare l’Italicum da subito alla sola Camera dei deputati) o una terza soluzione, ha molto a che fare con il profilo e l’immagine del governo e assai poco con i contenuti del sistema futuro. Si tratta, in sostanza, di capire se regge l’asse Renzi-Berlusconi costruito negli ultimi giorni del governo Letta oppure se Renzi, divenuto premier, intende ora ridimensionare quel rapporto: in fondo, per dirla andreottianamente, Renzi dispone anche di altri «forni» in Parlamento e non si capisce perché debba regalare a Berlusconi un privilegio. A Renzi e al Pd conviene assai più un confronto a tutto campo, con gli alleati di governo e anche con ciò che si sta muovendo a sinistra, tra Sel e i ribelli grillini. Per difendere la centralità conquistata, il neo-premier può usare diverse leve: e forse, anche grazie alla trattativa in corso sulla legge elettorale, ieri ha costretto Alfano a far dimettere il sottosegretario Gentile.
Tuttavia, il merito della legge elettorale non è una variabile secondaria. Si dice che la Camera deve approvarla comunque entro la settimana. E che poi si vedrà in Senato se e come apportare le modifiche di sostanza. Il ragionamento è traballante, visto che la legge era stata spostata dal Senato alla Camera proprio per consentire una sua migliore definizione: tuttavia, la politica ci ha abituato a situazioni tanto illogiche quanto inevitabili. L’importante è che alla fine i nodi si riescano ad affrontare con serietà. In ballo c’è un diritto fondamentale per la democrazia. Tanto per cominciare, sappiamo che Berlusconi vuole conservare le liste bloccate e che trasversalmente questo proposito è condiviso anche da qualcuno che non lo dichiara. Ma le liste bloccate sono inaccettabili, ancor più dopo la sentenza della Consulta. E i collegi di 3-6 seggi non riducono di un centesimo il furto agli elettori: anzi, l’algoritmo maligno smentisce chiunque si avventuri nella teoria della maggiore «vicinanza » tra eletto ed elettore. Non si può sfuggire all’alternativa: o collegi uninominali o preferenze. La stessa ipotesi di elezioni primarie garantite per legge appare molto fragile: quali migliori elezioni primarie di quelle assicurate da una scheda elettorale che consenta a tutti gli aventi diritto di votare un partito e due candidati? Sì, due candidati, perché la parità di genere è ormai un principio democratico irrinunciabile. Dove è stata adottata la doppia preferenza (un uomo e una donna), le assemblee elettive hanno finalmente prodotto risultati dignitosi in termini di rappresentanza. Indietro non si può tornare.
Maci sono altre correzioni di sistema necessarie per evitare l’effetto-fotocopia del Porcellum, come riconosce lo stesso professor D’Alimonte. Sarebbe stato meglio uscire del tutto dalla gabbia del maggioritario di coalizione (che, non a caso, non esiste al mondo),ma se è proprio impossibile accordarsi su un modello di tipo europeo, almeno si evitino le storture più evidenti della legge Calderoli. Il secondo turno, ad esempio, non può ridursi a un evento quasi impossibile. La soglia del 37% è bassa e speriamo che venga alzata, in ogni caso bisogna impedire che siano calcolati i voti delle liste apparentate che non superano la soglia di sbarramento. Questa regola era una delle chiavi di volta del Porcellum perché su di essa poggiava il bipolarismo coatto e la pratica delle coalizioni lunghe con partiti e partitini, che avevano il compito di raccattare voti marginali e portarli in dote al leader. Le coalizioni lunghe sono state l’altra faccia, la legittimazione del trasformismo parlamentare, piaga dell’ultimo ventennio. Per eliminarlo si dovrà anche intervenire sul regolamento della Camera, ma intanto va cambiata la norma elettorale.
Al primo turno dovrebbero presentarsi i partiti senza coalizioni. Se la sintonia tra due partiti è davvero forte, si presentino con una sola lista. Lo sbarramento, poi, non può che essere uguale per tutti. 4%? 4,5%? Il Parlamento scelga una cifra e non consenta eccezioni. Se nessuna lista supera il 37%, al secondo turno, davanti agli elettori, si formeranno le coalizioni. Così il cittadino diventerà arbitro di partiti, alleanze e maggioranze future. Il maggioritario di coalizione è salvo, ma almeno non ci saranno incentivi a comporre alleanze infedeli (regolarmente smentite il giorno dopo). Saranno tutti più liberi nel decidere se coaliizzarsi: i partiti più grandi e quelli intermedi (che supereranno la soglia).

il Fatto 4.3.14
Massoneria, Stefano Bisi eletto Gran Maestro Goi


GRAN MAESTRO del Goi (il Grande Oriente d’Italia, la più numerosa comunione massonica italiana) è Stefano Bisi, il giornalista di Siena che coniò la formula “groviglio armonioso” per definire la città toscana e i suoi rapporti con il Montepaschi. Il 2 marzo hanno votato 16 mila Maestri per eleggere chi dovrà sostituire Gustavo Raffi, Gran Maestro del Goi da 15 anni. Lo spoglio dei voti terminerà solo oggi, con l’a r r i vo a Roma dei voti dell’Emilia Romagna. Ma, salvo sorprese, Bisi risulterà il più votato. Sembra aver già raggiunto il 40 per cento dei suffragi , tanto da risultare eletto al primo turno, senza bisogno del ballottaggio. A Bisi, considerato il candidato della continuità con la gestione Raffi, si contrapponevano l’ex vicesindaco socialista di Livorno Massimo Bianchi e il notaio di Messina Silverio Magno. (gb)

Corriere 4.3.14
«Il mio papa» Un settimanale tutto su Bergoglio


Si chiama Il mio papa ed è il primo periodico al mondo dedicato a papa Francesco: si tratta di un’iniziativa lanciata da Mondadori, che intende così rispondere all’ondata di popolarità del primo anno di pontificato Bergoglio. «L’idea di un giornale pensato per raccontare e condividere gli atti e le parole di Francesco è nata osservando come la sua elezione abbia provocato una nuova attenzione nei confronti dei temi etici, religiosi e di morale», ha spiegato il direttore Aldo Vitali lanciando il settimanale che sarà in edicola da domani, mercoledì — giorno di uscita il mercoledì, lo stesso dell’udienza generale che ogni settimana il Santo Padre concede al pubblico — al prezzo lancio di 50 centesimi e con un dvd celebrativo del primo anno di pontificato.

Repubblica 4.3.14
Il gesto esclamativo e l’arte di governo
di Franco Cordero


Nell’eloquio del premier esordiente ricorrono i gesti esclamativi, abilmente usati. Definiamolo in greco: anziché dal nóos, organo intellettivo, sale dal thumós, sede degli spiriti vitali; volano parole esca cariche d’effetto; e talvolta catturano l’uditorio. Ad esempio, «rottame», da cui il verbo «rottamare»; o «mettere la faccia»; «se questo governo fallisce, la colpa è mia»; annunciava «una riforma al mese». Manca ancora la trama razionale: come stiano effettivamente le cose; quid agendum ossia la scelta del fine e i motivi; fin dove sia conseguibile; con quali risorse; come spenderle ecc. Perdurando lacune sintattiche, siamo nella sfera del grido o segno mimico: N. batte pugni sul tavolo; solleva un sopracciglio; sta mani in tasca; dà manate sul palmo della mano altrui anziché stringerla. La politica, materia ibrida, ha testa e viscere: gestire l’interesse pubblico richiede mente fredda, acume percettivo, fantasia intellettuale, calcoli esatti; è una scienza ma chi comanda dura finché i sudditi non se lo scrollino, essendosi spenti i carismi che irradiava; e lì siamo sul terreno sensitivo. La caduta dell’ex premier è caso classico: poco carismatico, teneva banco da 10 mesi, covato dal Quirinale; i punti deboli erano visibili da quando è emerso, sotto pesante parentela, ma pareva inamovibile, così protetto, avendo dalla sua l’inerzia d’una legislatura i cui reddituari, nominati dai partiti, mirano al quinquennio; e d’un colpo risulta fuori gioco. Quanto influiscano gli sfondi emotivi, spesso determinanti, lo dicono quattro esempi.
Nicola nasce nella Roma ancora semigotica, primavera 1313, tra i mulini del Tevere, sotto la Sinagoga, figlio dell’oste Lorenzo (Cola di Rienzo) e impara benissimo l’arte notarile. L’anonimo autore d’una Cronica romanesca lo descrive ferrato latinista: «deh, como e quanto era veloce lettore»; «tutta die» studia epigrafi delle quali pullula l’Urbe; decifra «li antiqui pataffii», interpreta figure, evoca tempi gloriosi. Le lapidi gli servono da scala: ha estro politicante; non ancora trentenne, sale ad Avignone, speaker del governo popolare; e torna con un buono stipendio, notaio del Tesoro comunale. Era posto strategico: in tale veste sferra «luculente » arringhe» contro i magnati, talmente stupidi da subire inerti un colpo di Stato (20 maggio 1347); nominatosi tribuno, governa a mano dura, col favore popolare, ma ha l’Io gonfio. L’inflazione megalomaniaca culmina nella fantasmagoria 31 luglio-1 agosto: cita Sua Santità, l’Imperatore, gli Elettori, i pretendenti; declina titoli immaginari («Candidatus Spiriti Sancti miles, Nicolaus Severus et Clemens, liberator Urbis, zelator Italiae, amator Orbis, Tribunus Augustus »). Ha dei soprassalti. Venerdì 14 settembre convoca i baroni, li imprigiona e condanna a morte ma l’indomani mattina cambia idea, convitandoli in Campidoglio. S’è candidato all’Impero. Chiama il popolo a parlamento e racconta dei sogni. Se ne stava sgomento quando i baroni vengono alla Porta Tiberina, 29 novembre, avendo complici tra le mura, ma il tentativo fallisce, allora. canta vittoria, sfila, arringa, nega la sepoltura ai tre Colonna morti. In fondo labile, dopo 15 giorni abdica rifugiandosi nel Castello, indi s’imbosca tra Napoli e Roma, ospite dei francescani spirituali sulla Maiella, poi in blanda prigionia boema dall’estate 1350, finché emissari papali lo riconducono ad Avignone (estate 1352). Morto Clemente VI, offre servizi nei domini italiani al successore Innocenzo (stesso numerale) e torna al seguito del cardinale legato. Era capolavoro d’arte ipnotica il modo in cui affascina i due fratelli del terribile e ricchissimo condottiero fra’ Moriale, con i soldi dei quali affitta una compagnia, accolto trionfalmente, ma ormai lo vedono deforme, malfermo, beone. La guerra contro i baroni ristagna. A tradimento cattura fra’ Moriale, decapitato sotto il Campidoglio, sulle cui scale mercoledì mattina 8 ottobre 1354 cade miserabilmente (tentava la fuga, travestito da rivoltoso).
L’impetuoso Francesco Crispi (1818-1901), due volte presidente del Consiglio, va soggetto a lampi allucinatori: teme attacchi dalla flotta francese; crede d’avere acquisito l’Impero etiopico con un imbroglio diplomatico, fallito il quale, manda al macello quattro brigate italiane nella giornata d’Adua, domenica 1 marzo 1896; e trova un culto postumo, quale precursore del Duce. Il quale rifonda l’Impero e ne sogna uno mediterraneo-atlantico, guadagnato con mille o duemila morti nella scia delle vittorie hitleriane, a spese d’Inghilterra e Francia, paesi capitalisti. Dopo vent’anni d’una sbornia epica all’Italia «proletaria» (già Pascoli la chiamava così) restano gli occhi per piangere, ma gl’irriducibili rimpiangono l’uomo forte, taumaturgo, mago delle vie brevi, finito orribilmente appeso come Cola di Rienzo, perché dove gl’impulsi viscerali prevalgano sulle idee, ci vuol poco a convertirli nel contrario, dall’entusiasmo adorante al ludibrio del cadavere. Rimane costante un’acuta idiosincrasia: non piace chi parli poco, attento ai nessi, contando sul raziocinio; il difetto d’enfasi è piuttosto raro e chi vi cade lo paga. Vedi Giolitti, aborrito in chiavi multiple: emette prosa secca, mentre gli antagonisti declamano (l’unica volta che cita Dante, molto a proposito, Montecitorio scoppia in una risata); tiene d’occhio i fatti, anziché cantare meraviglie; disegnando un socialismo riformista nell’area governativa, offende oligarchi e piccoli borghesi rampanti, consumatori d’erba retorica dannunziana; e colpa imperdonabile, non vede perché l’Italia debba giocarsi la testa saltando gratuitamente addosso a due potenti paesi dei quali è alleata da trent’anni.
Eravamo partiti dalla lingua politica italiana. Il premier in carica gioca d’effetto innestandovi locuzioni estranee alla parlata ufficiale. L’idem storico non esiste, irripetibile essendo ogni contesto, ma l’analogia aiuta a capire quel che avviene. Il punto interessante è cosa sia pronosticabile sul governo misteriosamente nato dai patti tra mercoledì 12 febbraio e l’indomani.

il Fatto 4.3.14
La vecchina e il governo boy scout
risponde Furio Colombo


CARO COLOMBO, ho ascoltato con disagio la “parabola della vecchietta” narrata a Lucia Annunziata dall'Alter Ego di Renzi, Delrio (“una vecchietta con un risparmio di 100 mila euro non si accorge se gliene porti via 50”). Ma è questo il mondo degli ex boy scout? Lydia

L'ALTER EGO ha certamente sbagliato, nella sua parabola, definendo una ipotetica risparmiatrice abbiente “vecchietta”, tra l'altro mostrando di ignorare che, se la risparmiatrice è anziana, la somma indicata è l'accumulo finale, non destinato a crescere, di tutto ciò che ha. Buono, ma non da manomettere liberamente a ogni occasione di nuove tasse. La parabola mostra anche indifferenza o insensibilità per il senso di paura che è tipico dell'età avanzata. È facile immaginare che la vecchietta in questione abbia rinunciato ad alcune cose e venduto alcune cose per avere quella minima sicurezza in caso di emergenza. L'emergenza, con il passare degli anni, è quasi sempre la salute che, in certe circostanze, può essere costosissima. Dunque la frase, come dice la lettrice, provoca disagio perché l'Alter Ego si dimostra un contabile che sa confrontare 50 a 100 mila, ma non la vecchiaia con la paura che ti tocchino i risparmi nell'età in cui puoi solo prendere, non mettere. Ma questo avveniva domenica 23 febbraio. Il 26, giorno di udienza generale, anche Papa Francesco ha parlato di anziani. E ha detto che lui sa benissimo che un anziano che vede arrivare il prete pensa subito al funerale. Usando anche un tono scherzoso, Francesco ha cercato di persuadere i suoi fedeli che non è vero, che può esserci ancora tanta vita davanti. Strano, anche Bergoglio è uno che va in fretta, con i suoi scarponi da marcia lunga. Ma non è una ragione per dare spallate intorno, e prove continue di disattenzione per gli altri. Sta attento e si rende conto che alcuni esseri umani sono più esposti all'ansia e alla paura. E la sua “parabola” – quella della persona anziana e malata che non deve spaventarsi se vede arrivare il prete – è molto più incoraggiante e affettuosa, almeno per i credenti come Matteo Renzi (che riceve la comunione in televisione) piuttosto che la “parabola” dell'Alter Ego e della vecchietta distratta a cui puoi sfilare una banconota impunemente. Però qualcos'altro trapela dalla storia della vecchietta a cui si può portar via qualcosa, tanto lei è al capolinea. Trapela la volontà di non tassare i grandi capitali perché altrimenti scappano, trapela l'intento di lasciare in pace la vera ricchezza, vecchia o giovane. Se è vero, il magico cuneo fiscale dovrà aspettare ancora un po’, o sarà di nuovo ridicolmente piccolo.

l’Unità 4.3.14
A segno il pressing di Renzi su Ncd
Ora cerca la mediazione col Cav
di Vladimiro Frulletti


Tenere insieme Alfano e Berlusconi. È questo l’obiettivo (oggettivamente complicato) che s’è dato Renzi per avere la certezza di condurre in porto le riforme istituzionali, a partire dall’Italicum, senza far smembrare la maggioranza che lo sostiene. Può sembrare paradossale ma di fronte a Renzi si sta ponendo la stessa questione che aveva Letta. Solo che adesso Renzi non è più soltanto il segretario del partito di maggioranza della maggioranza, ma è il capo del governo.
E quindi il problema della tenuta della maggioranza adesso è un suo problema. Che riguarda ovviamente i rapporti col Ncd. Che ora sono più solidi visto che alla fine è andato a segno il pressing su Alfano per far fare un passo indietro al sottosegretario Antonio Gentile, evitando al governo pericolosi passaggi in Aula sulle mozioni di sfiducia, e interrompendo l’ancor più dannoso stillicidio di critiche esterne. Ma l’attenzione del premier è rivolta anche alla minoranza Pd da dove vengono gli emendamenti Lauricella per congelare l’entrata in vigore dell’Italicum fino alla conclusione della riforma del Senato e D’Attorre che lascia per Palazzo Madama l’attuale sistema elettorale proporzionale (con preferenze) uscito dalla sentenza della Corte Costituzionale. Renzi cioè è consapevole sull’Italicum di dover lavorare con un Parlamento che non è «suo», e quindi a rischio costante di imboscate (col voto segretato). In più però s’è reso conto che il senso dell’obiezione portata avanti dal senatore Lauricella non è infondata. Anzi. Perché è ovvio che il cambiamento di sistema avverrà quando ci sarà non solo una nuova legge elettorale che eviti nuove larghe intese, ma anche la Camera delle Autonomie e la fine del bicameralismo perfetto di oggi e la riforma delle Regioni. «Dobbiamo cogliere la sostanza di quell’emendamento epurandola dal  tentativo di farne uno strumento per allungare i tempi» il ragionamento che il premier ha fatto ai suoi.Equindi è su questa base che adesso Renzi sta cercando di convincere l’altro contraente del patto: Berlusconi. Trattativa che per il momento non ha portato a nessuna conclusione. Tanto che, in attesa che l’Italicum oggi pomeriggio faccia il proprio ingresso alla Camera la riunione del gruppo Pd alla Camera previsto per ieri sera vista l’assenza del premier è stato spostato a stamani. Mentre i capigruppo Speranza e Zanda sono saliti da Palazzo Chigi: una spaccatura nei gruppi Pd sarebbe la pietra tombale di qualsiasi riforma.
L’idea è di legare riforma elettorale a riforme costituzionali ma con la clausola che se poi la legislatura cade l’Italicum possa subito essere applicato. Ed è lungo questa strada che il premier ieri ha lavorato per tutto il giorno con incontri (anche con Letta) e telefonate. Il principio rimane che il patto, sottoscritto con Berlusconi ma anche con Ncd, si cambia solo con l’accordo di tutti i contraenti. A sentire le dichiarazioni ufficiali degli esponenti di Forza Italia, a cominciare da Brunetta, grandi spazi non ci sarebbero. Renzi non vuole rompere con Forza Italia e aVerdini ha spiegato che è nell’interesse di tutti avere un testo blindato che una volta in aula tenga rispetto al voto segreto. Perché serve sì un impianto che «garantisca la governabilità e ci liberi dal ricatto dei partitini» ma occorre anche essere certi che i voti alla Camera e soprattutto al Senato poi ci siano. «Siamo alla stretta finale, possiamo davvero portare a casa la legge elettorale entro la settimana» ha spiegato Renzi, ma ci sono ancora «qualche difficoltà». C’è da aspettare cosa dirà Berlusconi che domani, quando il premier sarà in Tunisia, incontrerà i suoi Renzi insomma è convinto che la sintesi possa trovarsi. Il che consentirebbe al suo governo di avere anche il tempo per mettere in piedi anche le misure economiche. Ieri ha scritto agli 8mila sindaci per chiedergli di segnalargli un edificio scolastico da sistemare e far partire così «l’investimento più significativo ma fatto da un governo sulla scuola», annunciando che «fin dalla prossima settimana arriveranno i primi provvedimenti economici». Ieri sera erano a cena con Renzi e il sottosegretario Delrio i ministri Padoan e Poletti per mettere a punto il jobs-act. Arrivare almeno a fine anno, dopo il semestre di presidenza europea insomma è il traguardo minimo.

il Fatto 4.3.14
Gentile è fuori, l’autogol di Renzi no
di Emilio Sirianni

Consigliere della Corte d’Appello di Catanzaro

Signor Presidente del Consiglio, mi trovo a scriverle, anche se non credo che risponderà a questa mia lettera, perché da alcuni giorni mi tormenta una vicenda che riguarda il governo da lei appena formato e di cui molto si sta parlando. Mi permetta prima di presentarmi. Vivo a Cosenza e in Calabria faccio il giudice da oltre vent’anni. Il mio lavoro non mi ha mai impedito di partecipare al dibattito pubblico sulle questioni di maggiore attualità, essendo fra quanti ritengono che un magistrato non sia un “eunuco sociale” e che, anzi, conoscere quanto accade fuori dalle aule di giustizia e sentirsene coinvolto ne accresca le capacità di giudizio e la professionalità. Le scrivo, però, in quanto calabrese, un calabrese che da anni avrebbe potuto trasferirsi in una tranquilla città del centro o nord Italia, ma non lo ha fatto e che adesso comincia a non ricordare bene il perché. Perché ha deciso di restare in questa terra disgraziata.
Qui, molto più che altrove, le cose cambiano per non cambiare mai. Qui, molto più che altrove, ci si sente sudditi e non cittadini. Qui, molto più che altrove, bellezza e speranza sono bottino di guerra e la dignità non è altro che una parola. Eppure, ostinatamente e a dispetto di tutto, ci sono calabresi che rimangono e cercano di fare la loro parte. Come farebbero a Modena, per dire, o nella sua Firenze. Calabresi che guardano i mafiosi negli occhi, denunciano i loro soprusi e occupano i loro beni. Che coltivano la memoria e difendono la bellezza. Calabresi che raccontano – e qui ci vuol coraggio per farlo – il volto più impresentabile e maleodorante del potere.
Partiamo dai fatti che non si possono smentire. Qualche settimana fa, il direttore generale dell’Azienda Sanitaria di Cosenza, la più grande della regione, è stato raggiunto da un provvedimento del giudice delle indagini preliminari che lo ha sospeso dalla carica per gravi reati. Il 18 febbraio si diffonde la notizia che il figlio di un importante senatore cittadino sarebbe coinvolto nell’indagine. Il 19 febbraio il quotidiano L’Ora della Calabria non si trova nelle edicole. Il giorno successivo quel quotidiano esce con grandi titoli che denunciano che la mancata messa in stampa sarebbe dipesa dal rifiuto del suo direttore, Luciano Regolo, di acconsentire alle richieste di non pubblicare la notizia relativa al coinvolgimento nell’indagine del figlio di quel senatore. Da allora, quel giornale pubblica ogni giorno articoli ed editoriali che informano sulla vicenda e la vicenda, per come emerge da tali articoli, è sconvolgente persino per un calabrese. Lo stampatore – ex presidente di Confindustria regionale e attualmente presidente della società finanziaria della Regione – avrebbe telefonato all’editore del giornale, affermando di parlare a nome di quel senatore e del fratello del medesimo, anche lui importante uomo politico e assessore regionale alle infrastrutture, chiedendogli di non pubblicare, il giorno dopo, quella notizia. Al mancato accoglimento della richiesta sarebbe seguito l’arresto delle rotative. Alcune delle telefonate sarebbero state registrate e il testo integrale è stato pubblicato e si può anche ascoltare in Internet. È un ascolto che lascia annichiliti: la richiesta è perentoria e l’ipocrita tono paterno che la drappeggia è quello con cui, da queste parti, si condiscono le minacce peggiori.
Nelle sedi giudiziarie competenti ci si occuperà delle svariate e “ponderose” querele, che molti dei protagonisti hanno annunciato, ma certo è che quel giorno la notizia non è uscita, anzi che non è proprio uscito il giornale.
L’accaduto è talmente enorme che in città si dava per scontato che avrebbe compromesso la nomina a sottosegretario di quel senatore, da tempo pronosticata. Persino fra noi disincantati, rassegnati, delusi cittadini calabresi, l’opinione prevalente era che, questa volta, la politica non avrebbe avuto bisogno di aspettare la magistratura per sottrarre il governo a una simile ombra.
Così non è stato, come è ormai noto. La nomina a sottosegretario (poco cambia che Gentile, ieri, si sia dimesso) puntualmente è arrivata e ha vanificato in un attimo la sua ansia d’apparire diverso, rivelandola tristemente uguale.
Se la dignità delle persone si fonda, come io credo, su libertà e diritti, se fra le libertà, come sancisce la nostra Costituzione, quella d’informare è una delle più importanti, da queste parti, signor Presidente, siamo oggi ancora meno liberi e degni. Penso a questo, mentre passeggio col mio cane fra le montagne di spazzatura che, da mesi, assediano il bel centro storico della mia città e l’intera regione e penso alla definizione che della libertà di stampa ha dato lo stampatore in quella telefonata, replicando all’editore, che timidamente provava a spiegare perché non avrebbe potuto bloccare l’uscita della notizia: “Ma ti vuoi rovinare per un prurito di culo”?

il Fatto 4.3.14
Un caso è risolto, ma rimangono cinque indagati
Sono Barracciu, del Basso De Caro, De Filippo e i riconfermati Bubbico e Lupi: 4 democrat e il ministro diversamente berlusconiano
di Marco Palombi


Fabrizio Cicchitto, mentre ancora il suo compagno di partito Antonio Gentile era inchiodato alla poltrona di sottosegretario, avvertiva il Pd del rischio di “non vedere la trave nel proprio occhio, ma solo la pagliuzza nell’occhio altrui”. Più o meno tutti quelli del Nuovo centrodestra - con significative differenze di stile espressivo - si schieravano sulla stessa trincea.
La sostanza del ragionamento è questa: Gentile non è nemmeno indagato e se ne deve andare, a maggior ragione devono farlo gli indagati del Pd, che sono quattro. In realtà i seguaci di Angelino Alfano si dimenticano di citare un altro indagato del governo Renzi, l’unico ministro: trattasi di Maurizio Lupi, Ncd pure lui, inquisito dalla Procura di Tempio Pausania per concorso in abuso d’atti di ufficio per la nomina del commissario dell’Autorità portuale del Nord Sardegna. Va detto che effettivamente ha ragione Cicchitto: un bel pezzo del Pd tende a dimenticare le sue pagliuzze o travi che siano. Non Rosy Bindi, per la verità: “Sono stata molto critica anche nei confronti delle nomine a sottosegretario che riguardano il mio partito - ha detto la presidente dell’Antimafia - Soprattutto nel momento in cui si vuole riformare il finanziamento pubblico ai partiti e si punta il dito sui rimborsi ai consiglieri regionali, trovo che sia poco opportuno e poco corretto che chi è inquisito per reati relativi al finanziamento dei gruppi regionali sieda nel governo”.
Questi infortuni del moralizzatore Renzi hanno un nome e un cognome. La più famosa è Francesca Barracciu, sottosegretario alla Cultura, sarda e fedelissima del nuovo premier. Indagata, con molti altri consiglieri regionali, per peculato aggravato: i magistrati di Cagliari le contestano spese non rendicontate per 33mila euro tra il 2006 e il 2009. Lei sostiene di averli spesi tutti in benzina. Comunque la condizione di indagata le impedì la candidatura a governatrice, ma ora non è di ostacolo alla sua presenza al governo. C’è poi il caso di Vito De Filippo, sottosegretario alle Salute, accusato per 3.840 euro con cui - così dice lui - l’ex presidente della Basilicata del Pd comprò francobolli in due tabaccherie. Un altro caso riguarda il beneventano Umberto Del Basso De Caro, ex socialista, avvocato di Nicola Mancino nel processo sulla trattativa Stato-Mafia, anche lui sotto inchiesta per i rimborsi facili in regione (la Campania, nel suo caso). Ultimo ma non ultimo Filippo Bubbico, confermato viceministro nientemeno che all’Interno, che è sotto processo a Potenza per abuso d’ufficio. Chi sarà il prossimo?

Repubblica 4.3.14
“Io non mi dimetto per cinquecento euro al mese”
Il sottosegretario Pd Del Basso De Caro, indagato per le mancate rendicontazioni alla Regione Campania: non ho violato la legge. Gentile? Non mi interessa
di Cocetto Vecchio


OMA - «Neanche per sogno!»
Sottosegretario Del Basso De Caro, non si dimette dopo che l’ha fatto Gentile?
«Non ci penso affatto».
Ma lei è inquisito, come Barracciu e De Filippo, mentre Gentile non lo è.
«Indagato, precisiamo, ma per una cosa che fa vomitare, una cosa per la quale non c’è la legge, non c’è il regolamento, e quindi non c’è nemmeno il reato».
Rimborsi non rendicontati: Rimborsopoli.
«Cinquecento euro al mese! Ma se c’era la legge che me lo imponeva io secondo lei non facevo la scheda carburante? Che poi, mi dica un po’: chi chiede le mie dimissioni, sentiamo».
L’opinione pubblica.
«Ah, l’opinione pubblica. E questo sentimento popolare ora è sconcertato dal mio avviso di garanzia».
Ne dubita?
«Che peraltro non ho mai ricevuto un avviso di conclusione delle indagini, che come sa riconnette all’indagato numerose facoltà». (E d’improvviso accelera nell’eloquio al punto da diventare immarcabile).
Ah...
«Che peraltro non ho ricevuto alcuna richiesta di rinvio a giudizio ».
E quindi...
«Che peraltro richiesto dal pm ho prodotto congrua memoria difensiva....».
Onorevole!
«Che peraltro mi sono sottoposto a interrogatorio, dopodiché non ho saputo più nulla e nel frattempo sono diventato pure deputato... ».
Gentile ha sbagliato a dimettersi?
«Non lo so, non m’importa. Non entro nelle decisioni degli altri».
Non le sembra grave bloccare l’uscita di un giornale?
«Non so bene cosa sia accaduto, ho letto le cronache, ma come forse avrà capito non mi fido molto dei giornali».
Quindi anche Barracciu deve rimanere al suo posto?
«Eh, certo, sicuro».
Insomma, un indagato può fare il sottosegretario?
«Cento volte! È solo un cittadino sottoposto a indagine, non è né imputato né condannato. E allora il ministro Lupi non dovrebbe dimettersi?».
Perché dice che nel suo caso il reato non c’è?
«Il procuratore Colangelo l’ha definita “una norma opaca e di dubbia interpretazione”. Ma è peggio: la norma non c’è proprio».
Non prevedeva la rendicontazione?
«Nessuno mi obbligava a rendicontare 11mila euro in tre anni: sai come hanno cambiato la vita a un poveraccio come me».
Allora perché la indagano?
«Quod lex voluit, dixit, quod non dixit noluit. Ciò che il legislatore volle, disse, ciò che non disse non volle. Difatti il reato non esiste».
E se la costringessero a lasciare?
«Sono passati 18 mesi e non è successo niente. Inutile che mi rompano con questa storia».
Sottosegretario!
«Se poi bisogna trovare uno da crocifiggere, non mi farò crocifiggere. Sono stato chiaro?».

il Fatto 4.3.14
Il mancato ministro
No a Gratteri, sconfitta per tutti
di Marco Vitale


Il Fatto Quotidiano ha già espresso rammarico per il fatto che la nomina di Nicola Gratteri a ministro alla Giustizia sia, all’ultimo minuto, caduta. Ha anche illustrato che ciò non è in applicazione di un principio che impedisce il passaggio dalla magistratura al ministero, perché tale principio per ora non esiste e in passato passaggi analoghi non sono stati fermati. Il fermo sembra proprio sul nome di Nicola Gratteri.
Forse non è inutile riflettere sulle presumibili ragioni di tale scelta e sul perché quella nomina sarebbe stata di grande significato. Gratteri è un procuratore aggiunto presso la Dda di Reggio Calabria e da molti anni si batte con grande coraggio, indipendenza e competenza contro la ‘ndrangheta, la mafia più ricca e potente del mondo, forse non a caso radicata nella regione più povera d’Europa, e che è il nemico numero uno dell’Italia civile, insieme alla corruzione diffusa, che è anche strumentale alla diffusione delle mafie. Oggi Gratteri è probabilmente il maggiore conoscitore mondiale della ‘ndrangheta e delle sue ramificazioni internazionali. Le sue azioni e i suoi risultati sono sotto gli occhi di tutti. Il suo pensiero, limpido, lucido, concreto e basato sui fatti, è documentato in due libri di grande interesse: Malapianta (2010), La giustizia è una cosa seria (2011), entrambi scritti con Antonio Nicaso, storico delle organizzazioni criminali, con il quale ha scritto anche Fratelli di Sangue(2009). In questi libri ci sono le risposte al quesito dal quale ho preso le mosse:
Gratteri conosce a fondo la potenza economica della ‘ndrangheta ed il suo fortissimo radicamento nel Nord. Fu uno dei primi a lanciare l’allarme venti e più anni fa quando autorevoli esponenti del Nord negavano il fenomeno. Di conseguenza sa che la lotta alla criminalità organizzata non è questione morale, come tante anime belle continuano a ripetere, ma è questione centrale del funzionamento dell’economia e della democrazia: “Se il problema delle mafie non verrà risolto non riusciremo mai a essere competitivi rispetto ad altri paesi industrializzati; per prima cosa bisogna prendere coscienza dei rischi che le mafie rappresentano. Sono concreti e crescenti pericoli che condizionano la vita delle persone e minacciano la democrazia stessa”.
GRATTERI sa che la corruzione diffusa è l’altra faccia della stessa medaglia. È attraverso la corruzione che la malavita conquista potere, penetrando nelle amministrazioni locali, nei partiti, nelle banche, nei ceti professionali che, con la corruzione, diventano suoi alleati. Gratteri sa che, in questa grande lotta, occorrono oltre a delle guide competenti, un forte contrasto della magistratura, una forte polizia giudiziaria (che Gratteri giudica, al di là di singoli episodi negativi “per competenza, passione e impegno tra le migliori del mondo”) anche dei leader, delle bandiere, delle persone che sappiano suscitare consapevolezza del pericolo e consenso e impegno nella popolazione, che possano spiegare, come lui fa, che l’omertà nel Nord è oggi più forte che in Sicilia, che la posizione delle associazioni imprenditoriali del Nord è totalmente inadeguata, che l’Europa deve svegliarsi serrando le fila contro un nemico comune, che “sarebbe importante che la Chiesa facesse di più”. E questo lo può fare un ministro, non un consulente. Gratteri sa che la riforma della giustizia, per la quale ha tante proposte pratiche e utili, deve essere indirizzata in modo da rendere più efficace questa battaglia. Sono questi, a mio personale giudizio ovviamente, i motivi principali per i quali Gratteri è stato fermato, ed al posto di un Cassius Clay è stato messo un peso piuma. Cinque anni fa, in un’intervista in tv, alla domanda cosa si può fare per debellare i clan della ‘ndrangheta, Gratteri rispose, e ripete oggi: “Basterebbe fare, con semplicità, tutto il contrario di quanto fatto finora o, almeno negli ultimi venti anni, dai governi di destra e di sinistra”.
Il silenzio assordante del presidente del Consiglio su questi temi (rotto solo dalla recentissima risposta giornalistica a Saviano, con la “grande” trovata del commissario per la corruzione, misura puerile e già penosamente sperimentata), la sua scelta di un peso piuma alla Giustizia affiancato da due viceministri guardie del corpo, dal curriculum parlamentare non equivoco, ci dice che la partita anche questa volta non verrà seriamente giocata.

il Fatto 4.3.14
Lista Tsipras si spacca su Casarini
I garanti divisi sull’ex disobbediente.
Camilleri ritira la candidatura, Sonia Alfano resta fuori
di Salvatore Cannavò


Il comunicato arriva nel pomeriggio ed è molto scarno: “La notizia della candidatura di Andrea Camilleri – scrivono i garanti della lista Tsipras – è destituita al momento di fondamento. La definizione della lista è ancora in fieri”. Il padre del Commissario Montalbano, in realtà, era sicuro capolista dell’esperimento elettorale battezzato dal leader greco Alexis Tsipras e promosso in Italia dai sei garanti, Barbara Spinelli, Paolo Flores d’Arcais, Luciano Gallino, Marco Revelli, Guido Viale e lo stesso Camilleri. Il suo passo indietro, che potrebbe però rientrare oggi, è l’esito di uno scontro molto duro che ha riguardato la possibile candidatura dell’europarlamentare Sonia Alfano e quella dell’ex disobbediente, leader dei centri sociali, Luca Casarini.
UNO SCONTRO dietro il quale si intravede il problema del profilo politico che la lista Tsipras dovrà avere: molto esposta sul lato sinistra, conflittuale oppure capace di farsi carico dei temi della giustizia e di essere attrattiva per una parte dell’elettorato grillino. Per assolvere a questo compito, nei giorni scorsi, una parte dei garanti, tra cui Camilleri, aveva avanzato la candidatura di Sonia Alfano, europarlamentare eletta nella lista Di Pietro nel 2009, prima che il M5S conoscesse il boom che sappiamo e tipica esponente di quella fetta di elettorato. Il problema di Sonia Alfano, però, è quello di essere parlamentare in carica e quindi fuori dai criteri, assolutamente stringenti, che i garanti hanno prefissato all’inizio della proposta della lista Tsipras: “Non possono candidarsi coloro che hanno ricoperto l’incarico di parlamentare italiano, europeo o consigliere regionale dal 2004 in poi”. Un modo per sbarrare la strada alla politica professionale e al peso dei partiti che però ha impedito l’operazione Alfano. A quel punto si è verificato lo scontro su Luca Casarini candidato su cui pesano diverse inchieste giudiziarie, tutte per reati “sociali”, cioè relativi all’attività politica ma anche rappresentante di un profilo di lista nettamente spostato a sinistra.
Il caso ha tenuto occupati i sei garanti per tutta la sera dell’altro ieri fino a produrre una spaccatura: Camilleri, Flores d’Arcais e Gallino contrari alla candidatura mentre Spinelli, Revelli e Viale si sono dichiarati favorevoli. C’è voluto l’intervento di Tsipras per risolvere la questione e mantenere la candidatura dell’ex disobbediente.
La spaccatura è giunta inattesa. Della candidatura di Casarini si parlava da diverso tempo e finora non erano state avanzate obiezioni. Di scontri analoghi, però, se ne erano avuti anche altri. Ad esempio sul nome di Vladimir Luxuria, avanzato dagli esponenti di Sel nei giorni scorsi, ma che ha visto un’obiezione diffusa nel comitato dei garanti. Anche l’ex parlamentare, del resto, non rientrava nei parametri della lista.
DIFFICILE CAPIRE se la divergenza possa produrre strascichi negativi nella imminente campagna elettorale che per la lista Tsipras inizierà prima visto che vanno raccolte le circa 150 mila firme necessarie ai sensi della legge.
La lista in ogni caso è quasi pronta e vede un ventaglio ampio di candidature di gran parte della cosiddetta società civile a partire dall’impegno diretto di Barbara Spinelli, che sarà capolista al centro insieme alla giornalista Lorella Zanardo, autrice del documentario Il corpo delle donne. Come annunciato nei giorni scorsi, però, l’editorialista di Repubblica ha accettato la candidatura con spirito di servizio pronta a dimettersi per lasciare spazio ad altri. Nelle ipotesi al vaglio dei garanti ci sono anche altri nomi di prestigio come il giornalista di Repubblica Curzio Maltese e il professor Adriano Prosperi. Al Sud lo scrittore Ermanno Rea e la scrittrice Valeria Parrella mentre a Milano c’è Moni Ovadia e nel nord-ovest il magistrato Mario Almerighi. Nel Trentino ci sarà una rappresentanza dei Verdi altoatesini e poi da più parti rappresentanti di vari movimenti come i NoTav o i No-Muos, figure dell’associazionismo come Raffaella Bolini dell’Arci.
Sel punta soprattutto su figure di area riconoscibili, come Casarini e Zanardo, e su sindaci di piccole città, Rifondazione su esponenti dei movimenti, come Nicoletta Dosio dei NoTav e su dirigenti del partito mai stati parlamentari come Fabio Amato ed Eleonora Forenza. In lista, poi, rappresentanti dei Comitati per l’acqua pubblica e del Teatro Valle di Roma.

l’Unità 4.3.14
Rappresentanza: la Fiom terrà una sua consultazione
di Massimo Franchi


Un referendum sul Testo unico sulla rappresentanza tra tutti i lavoratori metalmeccanici. La Fiom dunque non parteciperà alla consultazione lanciata della Cgil, ma lo strappo di Landini viene attutito dalle parole di Susanna Camusso che davanti al Comitato centrale della Fiom spiega le sue ragioni e ribadisce: «non pretendo di convincervi, dobbiamo continuare a discutere».
Per essere due che litigano e che si devono rottamare a vicenda, Susanna Camusso e Maurizio Landini si vedono anche troppo. Dopo l’incontro organizzato dai delegati del Nuovo Pignone di Firenze, dopo gli interventi nei due Direttivi della Cgil - il secondo anticipato da un incontro informale - ieri il segretario generale della Cgil ha partecipato al parlamentino dei metalmeccanici, senza essere mai contestata. Come auspicato da tanti dirigenti, il livello dello scontro dunque scende ad un confronto civile.
Non che i due si siano risparmiati frecciate e giudizi secchi sull’altrui operato. Ha cominciato Landini nella sua relazione. Dopo aver definito «un onore avere il segretario confederale tra noi», ha subito ricordato come gli inviti a partecipare al Comitato centrale fatti per discutere una proposta di compromesso «sono stati rifiutati: il metodo è sostanza e si arriva qua con una proposta già votata dal Direttivo Cgil» e «questo impedisce una discussione libera e una sintesi». Poi è passato a ribadire le critiche al merito del Testo: «non è un regolamento attuativo, ma un nuovo accordo non discusso che definisce un nuovo modello sindacale» dove «le Rsu decidono i contratti aziendali in deroga », «il 50 per cento più uno può vincolare tutti gli altri sindacati», «l’esigibilità e le sanzioni mettono a rischio anche il diritto di sciopero», «come nel modello Fiat». Poi arriva la critica alla consultazione che la Cgil ha previsto per fine marzo: «Non si può dire che la rappresentanza è una pietra miliare della democrazia sindacale e poi non lo si fa votare ai lavoratori democraticamente». La Fiom aveva chiesto parità nelle assemblee di presentazione, voto solo per gli afferenti a Confindustria e modalità eguali e certificate per tutte le categorie. Da qui la proposta - poi approvata all’unanimità con l’astensione della Rete 28 aprile e l’uscita dall’aula della minoranza riformista - di un referendum aperto a tutti i metalmeccanici, iscritti e non iscritti, coinvolgendo Fim e Uilm (che hanno già risposto «No»).
L’attesissima risposta di Susanna Camusso è arrivata dopo qualche ora, passata dal segretario generale ad ascoltare gli interventi dei dirigenti Fiom e a prendere appunti in prima fila. Rivolgendosi a «Maurizio», Camusso ha basato il suo intervento sul concetto di «confederalità» e sulla presunta centralità dei metalmeccanici. «Ognuno di noi rischia di rappresentare ciò che c’era e non ciò che c’è e ci sarà». Se sul merito Camusso difende la scelta di firmare «un accordo voluto fin dal 2009 che non è un modello perfetto ma nel quale la Cgil è l’organizzazione che più ha determinato la conclusione», sul metodo riconosce che «c’è stato un problema nella fase finale di accelerazione della firma». Gli unici brusii della platea sono arrivati quando Camusso ha parlato delle sanzioni: «È il punto più dolente - ha riconosciuto - ma confederalità significa mettersi nei panni di quelle categorie in cui si applica la legge sullo sciopero: abbiamo posto dei limiti - ore di permesso e trattenute sindacali - per chi è più debole». «Nessuno - dunque - ce l’ha con la Fiom, non alimentate il sospetto», è la chiusa accompagnata dalla richiesta - lasciata cadere - di prevedere due urne (una per gli iscritti) per il referendum in modo da «capire l’intendimento della categoria».

il Fatto 4.3.14
Prostitute per legge, ci prova pure il Pd
“Licenza, fattura fiscale e zone rosse”
di Lu. Dec.


Il più antico dei mestieri regolato per legge. Con tanto di licenza per esercitare, fattura fiscale e obblighi vari, come l’utilizzo del profilattico. Mentre lo Stato incasserebbe tasse per miliardi. “Ogni anno se ne potrebbe ricavare l’equivalente di una mini Imu” sostiene Maria Spilabotte, senatrice del Pd. È lei l’ideatrice e la prima firmataria di un disegno di legge che vuole regolamentare la prostituzione, sottoscritto da un ampio e trasversale fronte: dai senatori dem (“di tutte le anime” precisa la cuperliana Spilabotte) a Forza Italia (Alessandra Mussolini), fino a M5S. La senatrice afferma: “L’obiettivo è sottrarre le donne alla strada e agli sfruttatori, ma senza tornare alle case chiuse. Vogliamo lasciare la libertà di scelta a chi vuole fare questo lavoro, conciliandola con le esigenze di sicurezza e di rispetto della morale dei cittadini. Secondo i sondaggi, oltre il 60 per cento degli italiani è favorevole”. E allora, ecco le norme per prostitute, trans e gigolò. Si parte da un principio: “Non è punibile né altrimenti passibile chi per esercitare la prostituzione utilizzi una dimora privata di cui ha la legittima disponibilità, anche ospitando persone dedite alle stesse attività, senza che intermediari conviventi traggano profitto dall’attività di altri”. Insomma, si potrebbe esercitare in casa propria e in più persone (“È prevista la forma della cooperativa”), a patto che non ci siano sfruttatori di mezzo. E sarebbe legale affittare appartamenti a prostitute “purché non vi siano minori”. Ma il ddl prevede anche la possibilità di “luoghi pubblici” nei quali prostituirsi liberamente. A individuarli dovrebbero essere i Comuni, “di comune accordo” con organismi pubblici (Asl, servizi sociali) e privati (comitati cittadini, associazioni di prostitute), fissando orari e modalità per usare gli edifici. Zone rosse, in pratica, come ne esistono già in altre città d’Europa. “Perché no? L’importante è che non siano vicine a scuole, luoghi di culto o parchi”, conferma Spilabotte .
TUTTE LE PROSTITUTE dovranno essere dotate di un patentino: una sorta di licenza da richiedere a una camera di commercio, rinnovabile ogni 6 mesi. Per ottenerla sarà necessario presentare un certificato di idoneità psicologica che “attesti l’effettiva volontà di esercitare la professione”, e pagare mille euro al mese per l’esercizio a tempo pieno, 3 giorni alla settimana (500 per il part time). Una tariffa calcolata sulla base del prezzo medio di una prestazione (30 euro), da destinare poi al Fondo per le politiche sociali. Ogni “libera professionista” dovrebbe rilasciare la fattura, lavorando con partita Iva. Spilabotte fa qualche stima: “In Italia si prostituiscono circa 70 mila persone e i clienti sono circa 9 milioni, per un giro d’affari tra i 5 e i 10 miliardi annui. L’erario potrebbe ricavarne miliardi”. Oggi presenterà il ddl assieme alla vicepresidente del Senato Fedeli, alla Mussolini e alla trans turca Efe Bal, che nei giorni scorsi si era denudata di fronte alla sede del Corsera invocando una legge sulla prostituzione.

Corriere 4.3.14
Ius soli e ius sanguinis
Ma integrare non è assimilare
di Giovanni Sartori


Quando Letta creò il suo governo inventando per l’occasione un ministero dell’Integrazione affidato a Cécile Kyenge «donna e nera», laureata in farmacia (o medicina) e specializzata in oculistica, pensai che questa signora, spuntata dal nulla e manifestamente incompetente in materia di integrazione, fosse una super protetta di chissà quanti colli e montagne. Per fortuna mi ero sbagliato visto che non è stata inclusa nel governo Renzi. È sì previsto che Cécile Kyenge si presenti alle elezioni europee e sembra certo che la nostra sinistra terzomondista intenda farne il suo nuovo portabandiera ideologico.
Ma al momento la nostra Cécile non è più (come ha scritto l’autorevole Foreign Affairs americano) una delle cento donne più potenti del mondo. Al momento si è solo manifestata come dogmatica fautrice dello ius soli e ora con il preannunzio di un libro (che echeggia nel titolo Martin Luther King) «Ho sognato una strada: i diritti di tutti». In attesa approfitto della pausa per riflettere sullo ius soli e, correlativamente, sullo ius sanguinis .
Giuridicamente parlando, la cittadinanza italiana è fondata sullo ius sanguinis : siamo cittadini italiani se siamo nati in Italia da cittadini italiani. Dopodiché restiamo italiani per sempre in patria e fuori. La soluzione opposta è quella dello ius soli : si diventa cittadini del Paese nel quale entriamo e ci insediamo. Storicamente questa differenza è facile da spiegare. I Paesi sottopopolati (l’America del Nord fino al 1620 era quasi vuota) adottano lo ius soli perché hanno bisogno di popolazione, di nuovi cittadini, mentre i Paesi con antiche popolazioni stanziali adottano di regola lo ius sanguinis : chi nasce in Italia è cittadino italiano e lo resta anche se poi va a spasso per il mondo.
Di per sé la distinzione in questione è logica e storicamente giustificata. Ma è stata sempre più travalicata dagli eventi. Secondo le statistiche i Paesi che adottano il criterio dello ius sanguinis sono ancora una maggioranza. Ma molti Paesi sono oggi piccole isole sperdute nei vari oceani. E anche le statistiche al riguardo variano troppo per dare affidamento. Restando in Italia, il nostro è oggi uno dei tanti Paesi in bilico tra lo ius sanguinis e l’apertura allo ius soli . È così perché la tecnologia delle comunicazioni unita all’esplosione delle popolazioni africane e asiatiche creano nuovi e difficili problemi. Sono problemi che mi propongo di esaminare in un prossimo articolo.
Al momento vorrei soltanto precisare che «integrare» non è lo stesso che «assimilare», e che la integrazione in questione è soltanto l’integrazione etico-politica: l’accettazione della separazione tra Chiesa e Stato, tra religione e politica. Per i musulmani tutto è deciso dal volere di Allah, dal volere di Dio. Qui il potere discende soltanto dall’alto. Per le nostre democrazie, invece, il potere deriva dalla volontà popolare e quindi nasce dal basso, deve essere legittimato dal demos .
La ex ministro Kyenge ha dichiarato che siamo tutti «meticci». Si sbaglia. Qualsiasi buon dizionario glielo può spiegare. Dulcis in fundo l’Arcivescovo di Milano, cardinale Scola, ha dichiarato che «siccome la mescolanza dei popoli è inevitabile… io dirò sì allo ius soli ». Santa semplicità.

il Fatto 4.3.14
Pompei crolla, ma i fondi dormono al ministero
Lo Stato si è inceppato: su 105 milioni di cofinanziamento europeo ne sono stati spesi appena 600 mila. E 55 milioni aspettano ancora i bandi
di Tomaso Montanari


La retorica della grande bellezza non salva Pompei: ieri è avvenuto il terzo crollo in tre giorni, l'ennesimo muro millenario che si sgretola sotto i secchi d'acqua di un febbraio monsonico. La procura apre un fascicolo per disastro colposo: ma se il disastro c'è – e c'è – è tutto tranne che colposo.
Esattamente come per l'ambiente, anche per il patrimonio non è infatti mai decollata una vera conservazione programmata fondata su metodi e strumenti scientifici: ad essa preferiamo il 'restauro' (cioè il recupero a posteriori, spesso solo estetico). Come ha scritto Bruno Zanardi, Pompei si salva «attraverso un rapido ripristino di tetti, finestre e porte degli edifici antico romani, così come la realizzazione di sistemi di smaltimento delle acque meteoriche a partire dalle fogne ... un progetto di ricerca e sviluppo aperto anche a università e industria».
A QUESTO si deve aggiungere il definanziamento degli ultimi anni: tutto il patrimonio italiano agonizza perché il suo bilancio, già sul livello di galleggiamento, fu ridotto a un terzo ai tempi di Bondi, Tremonti e Berlusconi e non si è più ripreso. Per Pompei questo si è tradotto, per esempio, nell'interruzione delle catene di professionalità artigianali che si tramandavano il mestiere di generazione in generazione. Senza mosaicisti, nessuno ripristina i mosaici: e così via.
Ma nella lunga morte in diretta di Pompei emerge qualcosa in più: la morte dello Stato.
E non solo perché lì tutto è in mano all'antistato della criminalità organizzata. Certo, anche per questo: siamo al punto che le buste con le offerte per le gare spariscono nell'ufficio postale di Pompei prima che possano essere recapitate. Il consiglio comunale di Pompei è stato sciolto nel 2001 e commissariato per tre anni, e ancora nel luglio scorso la Dia ha dovuto chiedere alla Prefettura di conservare i filmati delle videocamere di sorveglianza degli scavi, per poter sapere chi entra e chi esce.
Ma soprattutto perché lo Stato si è inceppato, non decide e non fa più nulla. La notizia clamorosa, fin qui non uscita, è che in due anni esatti, dei famosi 105 milioni di euro disponibili grazie al cofinanziamento europeo, il Ministero per i Beni Culturali è riuscito a spendere solo 588mila euro! Che 55,4 milioni di euro sono ancora da bandire, contro soli 18,7 già banditi. E che sui 55 interventi da realizzare ci sono solo 5 cantieri aperti, e 9 progetti aggiudicati. Perché? È triste ma necessario rilevare che l'intera catena di comando dell'archeologia – dalla soprintendenza su su fino alla direzione generale romana – si è rivelata del tutto inadeguata : incapace di gestire il personale, inconsapevole di governare non un museo o un sito, ma una vera e propria città. Un episodio sintomatico: qualche mese fa una troupe della Rai che filmava alcuni turisti stranieri che staccavano, e si mettevano in tasca indisturbati, le tessere dei mosaici è stata accompagnata all'uscita da ben cinque dipendenti con il distintivo del concessionario, Civita. Ecco un buon esempio di uso delle risorse, oltre che di trasparenza!
A questo disastro endemico si è sommata l'ipertrofia burocratica di strutture che si sommavano le une alle altre: il Comitato di Pilotaggio, il Gruppo di Lavoro, l'Unità Grande Pompei e il Comitato di Gestione. Un'orgia di maiuscole utili solo a frantumare e diluire le responsabilità, insabbiare le decisioni, favorire l'immobilismo.
QUANDO, nel maggio del 2013, si è trovato di fronte a tutto questo l'allora neoministro Massimo Bray non solo ha imposto una brusca accelerazione al progetto (varando ben 9 dei 14 progetti attivi), ma ha anche deciso di imporre un modello di governo che segnasse una brusca discontinuità: ora tutto è nelle mani di una struttura capace di decidere, e formata da un direttore generale (il generale dei carabinieri, ed ex capo del nucleo di tutela, Giovanni Nistri), un vice (il direttore Mibac Fabrizio Magani, cui si deve l'avvio vero della ricostruzione dell'Aquila monumentale), un soprintendente (l'archeologo di fama internazionale Massimo Osanna). Un autorevole osservatore terzo (il giurista Lorenzo Casini) ha scritto che la soluzione Bray «ha il pregio di fronteggiare congiuntamente i seri problemi esposti: criminalità organizzata, assenza delle amministrazioni locali, inefficienze amministrative, urgenza Unesco».
Ma ci sono voluti nove mesi di estenuanti battaglie con i poteri forti esterni al Mibac e con la struttura interna: e la macchina non è ancora a regime perché un'irresponsabile guerriglia burocratica è riuscita finora a impedire la formazione dello staff di Nistri e Magani, e a rinviare la presa di servizio di Osanna.
La partita per Pompei si vince o si perde a Roma: Dario Franceschini è avvisato.

Repubblica 4.3.14
Roma
Meno male che adesso non c’è Nerone
di Alessandro De Nicola


Ormai che ha ottenuto il Decreto Salva Roma, potremmo pure perdonare l’intemperanza del sindaco Marino che così tanto ha fatto irritare Renzi. In effetti, l’invocazione dei forconi e la minaccia di chiudere e mandare a piedi la città non è stata proprio una mossa da statista: tuttavia, al di là della forma, quel che preoccupa è la sostanza, sia dei fatti che dei proponimenti.
Il dissesto di Roma non si può ovviamente addebitare a Marino, in carica da soli 10 mesi; però l’attitudine che egli ha dimostrato nei confronti della voragine apertasi nei suoi conti non è affatto quella giusta. Riassumiamo: l’Urbe è già indirettamente commissariata, in quanto 22 miliardi circa di debiti furono affidati nel 2008 ad un commissario straordinario che nel corso di qualche anno, a spese dei contribuenti sia nazionali che romani (500 milioni l’anno), li sta ripagando, magari con qualche tosatura ai creditori. Ad oggi c’è un debito di 14,9 miliardi.
Ebbene, su un bilancio di uscite di 5,5 miliardi ed entrate di 4,6 (per Ernst & Young il disavanzo strutturale è addirittura di 1,2 miliardi), il proclama del primo cittadino di aver approntato un piano per risparmiare 260 milioni di euro è in realtà ben poca cosa. Assai più significativa è la sua dichiarazione di non essere il commissario liquidatore della Capitale, con ciò intendendosi come colui il quale dovrebbe vendere le partecipazioni di Acea, Ama e Atac e licenziare migliaia di dipendenti.
Ecco, qui il sindaco si sbaglia di grosso, perché non può pensare che la soluzione dei mali che affliggono Roma e molti comuni italiani a rischio di crac sia la prosecuzione dell’inefficiente capitalismo municipale, la gestione in perdita di pletoriche aziende di servizi e il mantenimento di livelli occupazionali che preservano posti di lavoro inutili ed impediscono, prosciugando le risorse, la nascita di altri.
La Città Eterna è un caso emblematico: circa 60.000 dipendenti tra Comune e municipalizzate e partecipazioni in decine di società ed enti privati che non hanno nulla a che fare con il servizio pubblico: dalle assicurazioni alla centrale del latte, dalle farmacie (le quali riescono addirittura a generare delle perdite!) al centro agroalimentare, passando per società di investimenti, immobiliari, fondazioni di ogni genere e una miriade di società controllate. Se poi esaminiamo Atac (trasporti pubblici) scopriamo che negli ultimi 10 anni ha accumulato perdite per 1,6 miliardi, peggio di Alitalia e - attenzione - senza contare i copiosi contributi pubblici di circa 7/800 milioni che riceve ogni anno. Sui 12.100 dipendenti solo 70 fanno i controllori: nessuna sorpresa se l’evasione dal biglietto si attesta sul 40%. Il costo per chilometro percorso, per dire, è quasi 3 volte quello delle analoghe aziende britanniche e il doppio di quello svedese dove lo stipendio dei dipendenti è pure più alto! Tralasciamo poi le assunzioni sotto Alemanno, che hanno perlomeno prodotto la simpatica parodia di “Aggiungi un posto all’Atac che c’è un parente in più”. Ama (ambiente e rifiuti) ha una situazione finanziaria squilibrata e riesce a raggiungere il pareggio solo grazie ai contributi pubblici e si segnala per un tasso di assenteismo inaudito, mentre Acea (energia e acqua), unica società in utile con azionisti di minoranza Caltagirone e Gdf Suez, viene dichiarata incedibile. Inoltre, il Comune è proprietario di ben 44.000 immobili al netto di aree archeologiche, strade ed edifici scolastici, di cui ben 70 mercati per i quali non c’è una ragione al mondo per farli rimanere pubblici.
Allorché si discuteva la prima versione del decreto Salva-Roma la senatrice Lanzillotta ed altri avevano introdotto un ragionevole emendamento secondo il quale gli aiuti avrebbero dovuto essere condizionati all’estensione dei vincoli del patto di stabilità a tutte le società controllate; alla riduzione dei costi portandoli alla media di quelli dei Comuni italiani; alla liberalizzazione dei servizi pubblici; alla riduzione immediata del personale attraverso la procedura di ricollocamento (12 mesi pagati con riqualificazione professionale). Inoltre, liquidazione di tutte le società che non avessero come fine prioritario il servizio pubblico e privatizzazione delle società quotate e del patrimonio immobiliare. Si trattava di proposte di buon senso, nemmeno troppo radicali, che sono state bocciate a causa dell’opposizione del Pd.
Ecco perché bisogna cambiare paradigma culturale: i sindaci continuano a lamentarsi della mancanza di fondi, ma dal disastro di Napoli gestito dal sindaco che viene chiamato affettuosamente dai suoi concittadini “Giggino ‘o bluff” (e il cui piano di “risanamento” è stato sonoramente bocciato dalla Corte dei conti), alle strategie da investment bank del Comune di Milano e della Regione Lombardia che, invece di disfarsi di aeroporti e trasporti che gestiscono male, progettano aggregazioni societarie in mano agli enti locali, passando per i 57 Comuni in stato di fallimento e per i 46 che nel solo 2013 hanno avviato la procedura di riequilibrio finanziario pluriennale (una specie di concordato preventivo), si vede che ovunque troviamo sprechi, irregolarità, assunzioni inutili, artifici contabili e indissolubile attaccamento a quelle 6.000 aziende controllate che permettono di distribuire prebende e aumentare il proprio potere politico.
Fino a qualche anno fa il “partito dei sindaci” andava per la maggiore ed era sinonimo di relativo buon governo rispetto all’inefficienza del potere centrale. Ora si sta scoprendo che questa immagine era stata costruita anche grazie all’incrocio di sussidi, favori, distribuzione di posti che sosteneva l’intero sistema. Perciò è ora di cambiare, subito. Altrimenti si corre il rischio che non sia più solo la Lega a invocare Nerone e questo sarebbe un dramma: gli incendi non hanno mai reso una città migliore di prima.

Repubblica 4.3.14
Bimbi in provetta
Dopo dieci anni a colpi di sentenze, smantellata la legge sulla fecondazione. Le associazioni ne chiedono un’altra
Divieti e permessi quel che resta della legge 40
A dieci anni dall’entrata in vigore, dell’impianto originario è rimasto ben poco
E la prossima sentenza della Corte Costituzionale potrebbe demolirla del tutto
Non sarebbe il caso di riscriverla?
di Elvira Naselli


Il 10 marzo di dieci anni fa entrava in vigore la legge 40, che regola le tecniche di procreazione assistita. Oggi, sentenza dopo sentenza - ben 28 volte la legge è finita in tribunale dell’impianto originale è rimasto poco. E anche la parte sopravvissuta sarà oggetto di nuovo giudizio della Corte Costituzionale, il prossimo 8 aprile.
Le future sentenze riguarderanno il divieto di utilizzare spermatozoi ed ovociti da donatori, la possibilità di concedere alla ricerca scientifica gli embrioni non adatti ad una gravidanza, l’accesso alla diagnosi preimpianto dell’embrione per le coppie non sterili ma portatrici di malattie genetiche. Prassi - questa della selezione dell’embrione per avere un embrione sano - che si sta diffondendo negli Stati Uniti, come ha rivelato una recente inchiesta del New York Times, soprattutto tra le coppie con più alto rischio di malattie genetiche. Non senza dubbi
etici. Era già stato cancellato, invece, il divieto di produrre più di tre embrioni e l’obbligo di impiantarli tutti e tre, così come era stato ridimensionato il divieto di crioconservazione degli embrioni. Nonostante tutti i divieti, che hanno spinto all’estero migliaia di coppie con costi enormi e non solo economici, si calcola che siano quasi ottantamila i bambini nati in Italia da Pma in otto anni, dal 2005 al 2012, circa il 2 per cento sul totale.
Tanti i numeri presentati al recente convegno romano della Sifes (la società italiana di fertilità, sterilità e medicina della riproduzione) sui dieci anni della legge. Numeri che possono essere desunti anche dal registro nazionale Pma dell’Istituto superiore di Sanità: 358centri censiti a gennaio di quest’anno, 160 che applicano tecniche di primo livello (inseminazione intrauterina) e 198 centri di II e III livello (fecondazione in vitro e Icsi, iniezione di un singolo spermatozoo in un ovocita). Di questi 198 centri, solo 91 sono pubblici o convenzionati. E se è vero che in Italia il 64,5% dei cicli di Pma viene svolto nel pubblico, è pur vero che ci sono differenze regionali abissali: in Toscana e Lombardia il 95% dei cicli viene offerto dal servizio sanitario, in Sicilia, Calabria, Puglia e Lazio tra l’84 e l’88% dei cicli avviene invece nel privato, con costi non indifferenti. Per non parlare delle coppie che continuano ad espatriare: il 63% delle fecondazioni eterologhe che si effettua in Spagna è su coppie italiane, circa ottomila euro a tentativo. Ma allora non avrebbe più senso pensare ad una nuova norma che sostituisca la legge 40? «Secondo me è indispensabile pensare aduna legge che tenga conto anche del mutato spirito dei tempi e dei progressi della medicina - premette Andrea Borini, presidente Sifes - oltre che delle modifiche imposte dai tribunali. Dal 2004 ad oggi sono caduti molti divieti ma molti sopravvivono e tante coppie preferiscono continuare a curarsi all’estero. Guardo con favore ai modelli legislativi anglosassoni, che sono centrati sul grande rispetto per le persone, che non vuol dire assenza di regole, al contrario. Oggi continua a mancare la chiarezza: i giuristi si chiedono se non possa essere accusato di malpractice un medico che trasferisce tre embrioni in una donna di trent’anni, quando fino a qualche tempo fa era obbligatorio per legge. È evidente che la legge va cambiata e qualsiasi Parlamento dovrebbe prendere in considerazione l’idea».
«Di proposte di legge ne abbiamo presentate tante - racconta Filomena Gallo, avvocato e segretario dell’associazione Luca Coscioni per la libertà della ricerca scientifica - ma purtroppo non sono mai state calendarizzate e nulla lascia pensare che ci sia oggi volontà politica per una riscrittura della legge. Certo è che se, dopo la sentenza della Corte Costituzionale, la legge 40 dovesse essere dichiarata incostituzionale, dell’impianto originario resterebbe ben poco: il registro nazionale della Pma, strumento utilissimo, e la tutela dei nati da fecondazione assistita. Tutela che vale anche per chi ha un bambino all’estero con una tecnica vietata in Italia, come l’utero in affitto. Inoltre è vietato il disconoscimento nei confronti di un bambino nato con tecniche di Pma ed è vietato anche l’anonimato per la madre, che invece è garantito ad ogni donna che partorisce».

Un libro de L’Asino d’oro
Repubblica 4.3.14
Consultori. quarant’anni di successi aspettando un (necessario) rilancio
Sono ancora un punto di riferimento per famiglie, giovani e stranieri: un saggio di Fattorini sulla loro funzione
di Mariapaola Salmi

Un adolescente di oggi sa poco o niente di consultori. Eppure, malgrado l’indebolimento complessivo di questi servizi istituiti nel nostro paese a metà degli anni Settanta (legge 29 luglio 1975, n. 405), il loro successo continua, in attesa di un rilancio. Le peripezie organizzative e le avventure professionali che nei decenni i consultori hanno affrontato, vengono raccontate da Giovanni Fattorini, ginecologo bolognese, nel saggio I consultori in Italia edito da l’Asino d’Oro. «Nati sulla scia di una stagione storica e politica di grandi conflitti positivi - spiega Fattorini - i consultori familiari (CF) hanno rappresentato la sintesi del presidio sanitario al servizio delle donne e del presidio socio-assistenziale al servizio delle famiglie».
Promozione della procreazione responsabile e prescrizione dei mezzi necessari per conseguirla, tutela della salute della donna e assistenza psicologica e sociale della famiglia, della coppia e di minori, i consultori si sono presentati da subito con tre grandi novità: servizio capace di integrare temi sanitari e temi sociali; evoluzione della cultura sanitaria in contrapposizione a quella medica tradizionale; punto di riferimento di più soggetti: famiglia, coppie, minorenni, immigrati. A distanza di 40 anni la realtà dei servizi è cambiata.
Scarsi finanziamenti, poca informatizzazione, criticità strutturali e burocratizzazione hanno frammentato i CF. «Oggi abbiamo circa 2100 consultori sul territorio nazionale, manca un coordinamento e l’equilibrio iniziale tra prevenzione e assistenza si è perso - osserva Fattorini - negli anni Novanta l’introduzione delle campagne di screening oncologico, nel 2000 il POMI (Progetto Obiettivo Materno- Infantile) e nel 2005 la legge 40 sulla procreazione medicalmente assistita sono opportunità rimaste sulla carta». Oggi i consultori sono attivi nella sorveglianza delle gravidanze (oltre alle immigrate si rivolgono ai CF tante italiane, in certe regioni il 50% delle donne), nella promozione del controllo della fertilità e nella certificazione dell’interruzione di gravidanza (Ivg), dato in crescita. Quanto agli screening i consultori sono punto di mero prelievo; scarsa invece l’attività per le problematiche inerenti l’infertilità e la procreazione medicalmente assistita.

si ringrazia Giovanni Senatore

l’Unità 4.3.14
L’Europa divisa, tre scenari per Kiev
di Paolo Soldini


Tre è il numero magico della crisi tra la Russia e l’Ucraina. Tre sono gli scenari possibili e tre sono gli schieramenti sul che fare che si stanno delineando in seno all’Occidente. Il primo scenario è la guerra. Non la drôle de guerre di queste ore, con i soldati russi che occupano senza colpo ferire le installazioni militari in Crimea e i soldati ucraini divisi tra chi sta a guardare e chi passa al nemico, ma la guerra guerreggiata, con le armi che sparano e i morti. Con il passare delle ore, se non ci sono svolte, l’incubo può divenire realtà in ogni momento: basta un nervosismo, un errore.
Il secondo scenario è una mediazione internazionale, condotta dall’Osce, o nel seno dell’Osce, l’Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa con sede a Vienna che ha il pregio di essere oggi l’unica in cui sono presenti tutti i protagonisti della crisi: gli europei, gli americani nonché quelli che potrebbero trovarsi un giorno o l’altro in condizioni non dissimili dall’Ucraina, e cioè gli Stati nati dalla dissoluzione dell’Unione Sovietica. L’obiettivo sarebbe un negoziato che garantisca l’integrità territoriale dell’Ucraina(Crimea compresa?) ma obblighi Kiev a impegnarsi nel rispetto delle minoranze russofone, garantendo qualche sorta di droit de régard a Mosca sulle regioni in cui quelle minoranze sono maggioranza, e cioè nell’est del paese ma anche in parte del sud. A cominciare dalla regione di Odessa, che rischia di diventare un nuovo pericoloso focolaio di conflitto, con una popolazione che si considera ucraina ma continua a parlare prevalentemente russo, erede di un passato imperiale in cui il russo era la koiné di un ricchissimo plafond di culture diverse - greca, ebraica, turca, rumena, tedesca - che caratterizzava anche altre regioni occidentali del paese, come la Bucovina dove (a testimoniare quanto l’Ucraina sia una realtà tremendamente complicata) le lingue franche erano il tedesco e il rumeno.
La soluzione Osce potrebbe essere avviata con la creazione di un gruppo di contatto e potrebbe sfociare nell’invio di osservatori permanenti incaricati di vigilare sul rispetto degli accordi.
Il terzo scenario contempla il collasso economico e politico dell’entità statale ucraina con la secessione o il passaggio puro e semplice di intere regioni alla Russia e la sopravvivenza di una Ucraina notevolmente impiccolita. È evidente che questa ipotesi comporterebbe la nascita di un problema inverso a quello attuale, con la necessità di assicurare tutele e protezioni ai non russi, un problema che sarebbe particolarmente complicato del sud, dalla Transnistria (oggi in Moldavia) ad ovest alla Crimea ad est, passando per Odessa, dove etnìe e lingue sono molto mescolate.
Si potrebbe pensare che lo scenario su cui la diplomazia internazionale si dovrebbe orientare più facilmente sia il secondo. Ma non è così, o è così solo in parte. O, se si preferisce, solo a parole. Alle tre ipotesi di sviluppo del conflitto corrispondono tre schieramenti. Nessuno, certo, sostiene apertamente l’opportunità che la crisi sfoci in una vera guerra, e tuttavia l’ipotesi viene di fatto contemplata da chi preme per una chiara scelta di roll back da imporre a Mosca con l’adozione di sanzioni dure, l’isolamento internazionale di Putin e l’appoggio incondizionato al nuovo governo ucraino prima ancora che riceva una qualsiasi legittimazione popolare. Sostenitori di questa linea sono in genere i Paesi dell’Europa orientale, Polonia in testa, e le repubbliche baltiche. I motivi che li animano sono ben comprensibili alla luce della loro storia: più la Russia è lontana, meglio è. Meno radicali sono quei paesi che, ispirati soprattutto dall’amministrazione di Washington (tutta?) premono per un atteggiamento «fermo» con Mosca, proponendo il boicottaggio del G-8 di Sochi o addirittura l’esclusione della Russia dal clan, ma senza l’atto esplicito di rottura che sarebbe l’imposizione di sanzioni. I governi di Londra e Parigi sono su questa linea.
EREDITÀ DA GUERRA FREDDA. Prima di passare al terzo schieramento, sarà utile notare come i primi due, pur con le loro differenze, si fondano su una premessa politica comune: la Russia va contenuta. E non la Russia di Putin, con le sue deviazioni autocratiche e le evidenti pulsioni neoimperiali, ma la Russia in quanto tale. È un postulato geopolitico che è sopravvissuto alla Guerra Fredda e che in qualche modo la scavalca, riallacciandosi a problematiche storiche che hanno attraversato i secoli. In nome del contenimento della Russia, alla fine della Guerra Fredda l’Occidente, gli Usa, la Nato e un poco anche l’Unione europea, hanno cercato di allargare la loro area di influenza verso l’est senza curarsi del fatto che ciò veniva percepito da Mosca come un pericolo e eccitava un nuovo nazionalismo e uno spirito di revanche che hanno contribuito non poco a creare e a consolidare l’autocrazia al Cremlino.
Anche la percezione di questi errori passati sostiene le posizioni dello schieramento pro negoziato e (oggi) pro Osce, del quale hanno preso la guida la cancelliera tedesca e il suo ministro degli Esteri e che trova l’appoggio del nuovo governo di Roma.
Vedremo chi prevarrà. Intanto andrebbe subito sgombrato il campo dal malinteso secondo il quale dietro l’idea della mediazione si nasconderebbe una debolezza politica e morale verso la prepotenza aggressiva dei russi. L’accusa è circolata e Angela Merkel ha dovuto smentire chi a Washington, Londra e Parigi ne propalava il sospetto e chi a Mosca se ne stava servendo propagandisticamente. L’invasione della Crimea è una violazione della legalità internazionale e i movimenti di truppe russe sono una minaccia inaccettabile. Male minacce a chi minaccia non sono una risposta.

La Stampa 4.3.14
Fra i fantasmi di Balaclava torna la Crimea degli Zar
L’ultimatum alla base voluta da Stalin, ma gli ucraini non ci sono più
di Domenico Quirico


La colonna con l’aquila dei Romanov che ricorda l’eroismo degli artiglieri russi sovrasta la pianura di Balaclava dove la brigata leggera galoppò, follemente, verso la gloria. Guardo le vigne placide e i mandorli che cominciano a fiorire, il trionfo mite, lento, magico, di una magia affettuosa della luce primaverile. Tredici ottobre 1854. Qui molti uomini morirono. Per un conflitto in cui nessuno, alla fine, fu vincitore: l’eterna idiozia della guerra, l’inutilità criminale del sacrificio di esseri umani.
Aerei russi e ucraini si sfiorano nel cielo della Crimea; per ore è circolato, ieri, l’annuncio di un ultimatum che l’ammiraglio Aleksander Vikto, comandante della flotta del Mar Nero, aveva lanciato agli ultimi soldati ucraini che in Crimea non sono stati ancora sopraffatti. Poi la smentita. Mosse, contromosse, pericolose, della guerra psicologica. Uno sparo, un gesto di nervosismo può trasformarsi in scontro aperto. Ogni minuto. I soldati ucraini non hanno speranza, ma forse qualcuno, per onore, per coraggio, resisterà. Ci saranno morti. La vita degli uomini nel tempo è tortuosa e complicata, ma quando la si guarda dall’alto di questa collina si vede che nasconde una sua linea retta: dolore, sofferenza, inutilità. L’ira degli imbecilli riempie di nuovo il mondo.
Ma questa volta nessuno combatterà una nuova guerra di Crimea. Nessuno sbarcherà per aiutare l’Ucraina a riprendersi la penisola perduta. Almeno per ora Putin, il grande Semplificatore, ha vinto. Perché ha la determinazione, i mezzi e il cinismo che mancano ai suoi avversari. In quarantotto ore, con poche mosse, senza neppure un morto, ha corretto gli errori di Kruscev e di Eltsin. La nuova Guerra Fredda non assomiglierà certo all’antica, non sarà globale, ma congelerà l’Est dell’Europa per molto tempo. Se Putin non si spingerà troppo lontano.
Guardano l’affannarsi diplomatico dell’Occidente, eccellente esempio di come si possa parlare di cose sublimi e poi agire meschinamente. Hanno capito: non sarà Danzica quando l’Europa indignata alla fine reagì. La loro Crimea assomiglierà a Praga. Tutti gli ucraini che ascolto mi dicono, rassegnati, che questo capitolo è chiuso: «A Simferopoli annunciano che si preparano ad allinearsi sull’ora di Mosca e non più su quella di Kiev. Dopo appena tre giorni dall’aggressione, che fretta spudorata».
Con gli uncini per cui un fatto tira l’altro, il potere centrale, martirizzato da eredità disastrose, da un’economia al collasso e da una legittimità incerta che non tutti gli ucraini riconoscono, si sta sgretolando. Nelle città è cominciata la raccolta delle firme per il referendum che deve sancire il distacco da Kiev, la formula per tornare nelle braccia di Mosca non sarà difficile trovarla. Le magre truppe che presidiavano questa penisola, soverchiate dai russi, escono dalle caserme, alzano le mani, si mettono in civile, tornano a casa: non era difficile prevederlo, sono in rapporto di uno a dieci. Questa è l’ultima classe di ragazzi richiamata per la leva obbligatoria. Da quest’anno doveva essere organizzato un esercito di professionisti. Saranno i diciottenni di Maidan, dunque, che dovranno morire se ci sarà la guerra.
«Ieri - fa la conta, trionfalmente, Mosca - altri seimila soldati si sono arresi». Ottocento a Belbeck, l’aeroporto militare di Sebastopoli: nella base c’erano 45 mig, una buona forza per resistere. Solo quattro erano in grado di alzarsi in volo. La forza brutale domina, affiocchisce ogni diritto; la fragilità degli altri, la loro cecità, i loro errori fanno il resto. Che banalità! 
Sulla strada da Simferopoli a Balaclava un trasporto truppe russo è rimasto in panne. I soldati fumano, placidamente, in attesa dei soccorsi. A duecento metri da loro una pattuglia della polizia stradale locale, con un implacabile multavelox, setaccia le auto che infrangono il limite dei settanta all’ora. Un’altra colonna russa è ferma vicino a un villaggio tataro, dai camion-cucina i cuochi sgamellano per comprare provviste nei mercatini sulla strada: non si nascondono più, le targhe russe sono tornate al loro posto. Vecchine tatare scrutano, enigmatiche, questi ragazzoni che indossano pesanti giacche a vento e colbacchi con le insegne tricolori, e sudano sotto il sole già bruciante di primavera. Il tempo sembra essere balzato, qui, su una macchina da corsa e all’auto che corre non si può gridare: fermati, voglio capire meglio! Si può solo descrivere la luce fuggente dei fari. E si può anche finire sotto le ruote.
L’autista accende la radio: arrivano, implacabili, le nuove tappe del piano russo, i denti dell’ingranaggio che stritolerà l’Ucraina si agganciano scricchiolando. A Donetsk una plebe russofona ha invaso il palazzo del governatore alzando la bandiera russa. Un tal Pavel Gubarev, autoproclamatosi governatore, ha tuonato: «Abbiamo preso il potere!». Il referendum per proclamare la volontà popolare contro «i fascisti di Kiev» è già in preparazione. C’era un governatore nominato dal nuovo governo. Non è mai riuscito ad arrivare qui. Anche a Odessa, la multietnica, elegante, sciupata Odessa i russofoni hanno assalito il Palazzo. Ma qui i favorevoli a Maidan ancora li fronteggiano in piazza: bastoni, caschi, odio.
Sì, l’ira degli imbecilli riempie il mondo. Concentra veleni che rendono il popolo dell’Est disponibile, palmo dopo palmo, per ogni sorta di violenza. È folla illusa dall’Oratore invisibile, dalle voci che arrivano da ogni parte, voci che l’hanno ormai presa nelle viscere tanto più potenti sui suoi nervi quanto più si sforzano di parlare il linguaggio dei suoi desideri, dei suoi odi, dei suoi terrori. 
Nella rada di Balaclava l’aria è trasparente, venata di argento come le ali delle cicale, indugia pigra sulle pietre della fortezza genovese, sulle colline che declinano al mare con lievi pendii chiazzate da selve di arbusti. La presidiano all’ingresso non più sommergibili e cannoni, ma ville e yacht degli oligarchi ucraini, i tetti verdi, le sagome di antiche dimore aristocratiche sconciamente convertite allo stile internazionale dei nuovi ricchi. Famigliole sbarcate da auto agonizzanti, ignare della guerra che incombe e starnazza ovunque, il viso ricamato con i punti interrogativi della curiosità, spiano i vascelli immensi.
Di fronte c’è l’antro da cui uscivano i sommergibili sovietici, il «Progetto 825», uno dei segreti più custoditi del mondo, l’imbocco degli inferi della potenza staliniana. Acqua marcia accarezza il cemento sgretolato, rifiuti si insinuano nel canale di un chilometro scavato nella roccia, dove i sottomarini venivano armati con le atomiche. La montagna ha il suo scheletro nell’armadio.
«Eppure non era meglio quella gloria, quella fatica, quella Storia di questi ladri, del loro denaro, delle loro ville?». Laievski, ex marinaio della Flotta russa, custodisce per vivere la barca di un inglese ormeggiata nella rada. È un uomo debole e smarrito, han fatto cadere dal cielo, molti anni fa, la sua stella e la sua traccia si è confusa con l’oscurità della notte. Il padre era venuto qui dalle miniere del Donbass, convocato da Kruscev che voleva completare questa follia militare di Stalin: «Guadagnavano il doppio, ma dovevano tenere la bocca cucita». Quella stella non tornerà più. Perché la vita si dà soltanto una volta e non si ripete. Se fosse possibile far tornare i giorni e gli anni avrebbe sostituito in essi la menzogna con la verità. Ma ora è il tempo degli oligarchi e di Putin. Illusioni, miraggi. I despoti sono sempre stati degli illusionisti.
In fondo alla rada, la base della marina ucraina, al molo è attraccato un pattugliatore. Murales giganteschi sul muro di cinta annunciano sbarchi memorabili, bombardamenti da scolpire nel bronzo. Ma sono sparite le bandiere gialle e blu. E con loro i soldati russi che appena due giorni fa la assediavano. Tre miliziani dei gruppi di autodifesa, attraverso i passamontagna di ordinanza, spiano la quieta impudicizia delle minigonne transitanti. La base è passata sotto il controllo del nuovo governo filorusso. Il loro ammiraglio ha giurato fedeltà alla Crimea: «Che potevamo fare?». Già: che potevano fare? 

Repubblica 4.3.14
Idea shock a Londra: togliere i figli agli estremisti islamici
Boris Johnson: “ Evitiamo che crescano terroristi”. È polemica
di Enrico Franceschini


LONDRA - Lo Stato dovrebbe togliere i figli a estremisti, radicali e sospetti terroristi islamici, per affidarli alle cure dei servizi sociali; e quindi, in prospettiva, offrirli in adozione ad altre famiglie più rispettabili. È la provocatoria proposta fatta dal sindaco di Londra, Boris Johnson, in uno dei suoi articoli per il quotidiano Daily Telegraph. Una misura che non viene applicata generalmente nemmeno per i bambini di ergastolani.
«Ma dobbiamo smettere di essere prigionieri di questi assurdi concetti politicamente corretti», afferma il primo cittadino della capitale. «Sempre più spesso i giovani vengono radicalizzati a casa propria dai genitori, che insegnano loro cose pazze come le idee esposte dagli assassini di Lee Rigby», il soldato britannico ucciso lo scorso anno a colpi di machete da due fanatici islamici britannici fuori dalla sua caserma in una strada di Londra. «La polizia e i servizi sociali sono riluttanti a intervenire, anche quando hanno le prove» che i bambini ricevono insegnamenti estremisti, osserva Johnson, «tanto da crescere con una visione nichilistica del mondo», che potrebbe fare di loro, una volta adulti, dei terroristi.
«Un bambino può essere affidato ai servizi sociali se viene abusato sessualmente dai genitori o se viene esposto alla pornografia », conclude il sindaco, ma non se viene incoraggiato alla violenza e al terrorismo. A suo parere, è una pratica da modificare, permettendo alle forze dell’ordine, alla magistratura e ai servizi sociali di intervenire in famiglie che espongono i figli a teorie del genere.
L’intervento di Johnson ha suscitato critiche fra gli educatori e fra i difensori dei diritti civili, poiché è difficile decidere quando e in che condizioni le autorità dovrebbero intervenire e in base a quali leggi potrebbero portare via i figli a chi espone idee diverse dalla norma. Qualcuno solleva ironicamente il fantasma del Grande Fratello: se un genitore dice ai figli qualcosa che al sindaco non piace, la polizia andrà a portargli via i figli.
C’è da dire che Johnson ha l’abitudine di spararle grosse, particolarmente quando ritorna alla sua precedente professione, quella di giornalista e soprattutto columnist, il cui compito è fare notizia, provocando se necessario. Insomma, per il momento nessuno sembra prendere la proposta sul serio. Perfino il Telegraph, riassumendola in un trafiletto in prima pagina, sembra quasi voler dire: il sindaco ne ha detta un’altra delle sue. Pur di attirare l’attenzione su di sé, pensano in molti, con l’obiettivo a lungo termine di rimpiazzare in futuro David Cameron alla guida del partito conservatore e provare a prenderne il posto a Downing Street.

Corriere 4.3.14
Il maestro Schiff: «Non torno in Ungheria»

Il pianista e direttore d’orchestra a Milano: «Ormai non riconosco più la mia patria diventata un Paese xenofobo e razzista»
di Giuseppina Manin


Ungherese, naturalizzato cittadino britannico oltre dieci anni fa, András Schiff ha sempre criticato duramente le politiche del governo di Viktor Orbán, premier dal 2010 Cultura Oggi alla Società del Quartetto di Milano affronterà le ultime tre Sonate per pianoforte di Ludwig van Beethoven. Al genio tedesco, Schiff ha dedicato il libro «Le sonate di Beethoven e il loro significato» (Il Saggiatore e Società del Quartetto, 2012)
«Leggi spaventose, messe a punto contro i rom, contro gli ebrei e i gay. Leggi contro la libertà di stampa. È spaventoso pensare quello che è diventata la mia Ungheria...». È molto triste András Schiff, grande pianista e direttore d’orchestra nato a Budapest 60 anni fa. Un sommo artista della musica, da sempre attento osservatore delle capriole della storia e della cronaca. «Mai avrei immaginato — riprende — che il mio Paese, terra antica di civiltà e tolleranza, si trasformasse in uno dei più xenofobi e razzisti d’Europa. Prima il partito Jobbik a seminare retorica ultranazionalista, poi le leggi autoritarie del governo Orbán... No, questa Ungheria non è più la mia patria. Non voglio più metterci piede».
Dichiarazioni molto dure, che le sono costate il marchio di «persona non grata».
«La stampa ungherese ha scritto cose terribili su di me e ho ricevuto minacce pesanti dal web. Qualcuno ha persino promesso di tagliarmi le mani».
Ma il cambio di rotta è nato da libere elezioni.
«È quello che fa più paura. È stata la maggioranza del mio popolo a volere quelle sterzate incivili. Ad aprile si tornerà a votare e nulla cambierà. Si andrà avanti sulla cattiva strada di negare la realtà. E persino la storia. L’Ungheria è stata a fianco di Hitler fino all’ultimo ma ora si dice che la colpa era tutta dei tedeschi. Ci si inventa una falsa innocenza per non affrontare un esame di coscienza. La Germania ha avuto il coraggio di farlo. Ed è rinata».
La rimonta della destra sembra però dilagare.
«Gran parte dell’Europa dell’Est è in marcia verso un nuovo fascismo. Del resto la sinistra è sempre più debole, ha fatto tanti sbagli. E allora la gente si rivolge ai fronti più reazionari sperando in garanzie contro la criminalità e l’immigrazione. Succede anche in Italia...».
Lei da anni abita in Toscana, che idea si è fatta del nostro Paese?
«Che è il più bello del mondo, il più ricco di talenti. Proprio per questo non riesco a capire come così tanti italiani abbiano creduto, e continuino a credere, a personaggi come Berlusconi. O anche a Renzi, un altro che promette mari e monti. Evidentemente esistono pure i creduloni di sinistra».
Forse è colpa di una crisi che spinge a sognare.
«È da quando sono nato che sento parlare di crisi... Certo, le diseguaglianze economiche esistono ma in Russia o in Cina ce ne sono ben di più. In Europa siamo ancora dei privilegiati».
L’Europa è un concetto che molti mettono in dubbio.
«L’Europa è un’idea bellissima ma così com’è non funziona. È nata sul denaro, per un gruppo ristretto di Paesi benestanti. Gli altri, l’Ungheria, la Romania, la Bulgaria, sono entrati troppo presto. Per una vera Europa c’è bisogno di cultura, ideali, valori comuni».
Che compito hanno in questo gli artisti?
«Grandissimo. Arte e politica non sono realtà separate. L’arte come intrattenimento non mi interessa, il suo compito è aiutarci a entrare meglio nel nostro tempo. Ci sono esempi illustri: Pablo Casals schierato contro la dittatura di Franco, Toscanini contro il fascismo, Thomas Mann contro il nazismo. Altri invece sono stati zitti o peggio. Penso a Richard Strauss o a Wagner. Non li ho mai diretti, in ogni loro nota avverto un insopportabile opportunismo politico».
Le piace invece Beethoven.
«Un carattere difficile, collerico, ma schietto e coraggioso. Da giovane preferivo Mozart e Schubert. Beethoven appartiene alla maturità. Certe sue pagine non si possono capire fino in fondo se non hai alle spalle molta esperienza. Solo a 50 anni ho deciso di affrontare le sue Sonate per pianoforte».
Ormai è la 21ª volta che esegue il ciclo... Oggi al Quartetto di Milano, in residence per questa integrale, affronterà le ultime tre, la 30, 31 e 32.
«L’ultima stazione, la più straordinaria. Mi piace eseguirle in ordine cronologico per mostrarne lo sviluppo. Mi hanno così coinvolto da scrivere anche un libro («Le sonate di Beethoven e il loro significato», Il Saggiatore e Società del Quartetto, ndr ). Le ultime tre sono state composte nello stesso periodo della Missa solemnis e sono impregnate di metafisica e filosofia. Tra tutte, la numero 32, opera 111, per me è la più grande. Il primo movimento ti porta all’Inferno, l’arietta del secondo in Purgatorio e in Paradiso. E alla fine, come succede a Dante, si esce fuori a riveder le stelle».

Repubblica 4.3.14
Il pugno del sultano così Erdogan imbavaglia la Turchia
di Marco Ansaldo



ISTANBUL - “SAGLAM Irade”. Volontà d’acciaio. Il cartellone con la scritta minacciosa, sormontata dalle occhiaie profonde e lo sguardo fermo di Tayyip Erdogan, spunta ovunque a Istanbul. Come un Grande fratello, insegue il visitatore sulla strada fra il moderno aeroporto Ataturk e l’antica Moschea blu. Riempie facciate vuote di palazzi. Corre lungo i parchi che costeggiano lo Stretto del Bosforo. Compare sui bus che solcano il ponte dei pescatori sotto la Torre di Galata.
È un senso di claustrofobia che prende i turchi alla gola. Il primo ministro islamico incombe dappertutto: sugli alberi difesi a stento dalla rivolta di Gezi Park, in ogni (blando) notiziario alla tv, persino dietro la preghiera del muezzin. I cittadini laici, gente di spirito che ancora ieri sulla piazza di Kadikoy spargevano soldi falsi presi a manciate da casseforti di cartone, hanno imbrattato la scritta con disegni di animali e slogan ingegnosi: “Corruttore d’acciaio”. “Fascista di metallo”. “Nemico di ferro”.
Il pugno di Erdogan soffoca la Turchia. Subissato da critiche impietose che lo paragonano a un dittatore o a un despota, il premier che guida il Paese da 12 anni con il 50 percento dei voti, soprattutto anatolici, nelle ultime settimane ha piazzato una legge bavaglio dietro l’altra, al ritmo di una ogni tre giorni. Prima un provvedimento contro la libera navigazione su Internet. Poi una bozza per limitare l’indipendenza della magistratura. Quindi una norma che dà poteri speciali ai servizi segreti del Mit, l’intelligence turca, adesso posta sotto il suo diretto controllo. Assieme al record di cronisti finiti in carcere, se non licenziati o costretti a cambiare giornale, e alle richieste fatte a Google di rimuovere 12mila voci, la Turchia è diventata il Paese al mondo con più giornalisti in prigione (più di Iran e Cina), e il numero uno nel controllare il celebre motore di ricerca. Dati imbarazzanti per un candidato all’ingresso in Europa che si proclama democratico.
Eppure, a dispetto dei bavagli, le notizie filtrano ugualmente. Ad esempio dagli odiati social network, quasi gli unici qui a dar conto di quel che davvero succede. Quando l’altra notte 4 milioni di visitatori hanno ascoltato con sconcerto su Youtube le intercettazioni - contestate da Erdogan come «un montaggio» - in cui il premier intimava al figlio di sbarazzarsi da casa di enormi quantità di danaro, e la gente si riversava in strada in 11 città diverse, alla tv non si trovava riscontro di quel che scriveva l’agenzia di stampa Reuters (altro media vituperato). «Qui ci sono solo show e documentari», diceva adirato un imprenditore straniero cliccando vanamente sul telecomando. Nella cappa plumbea dei media tradizionali era allora necessario collegarsi su Twitter per assistere, in tempo reale, agli scontri di piazza e ai gas lacrimogeni lanciati dalla polizia.
Ma il volto duro del leader turco, contro il quale già lo scorso giugno si erano levati «gli uomini in piedi» nella silenziosa protesta a Piazza Taksim, in quella che resta una delle più belle affermazioni di dissenso mai viste contro un potere, rivela una crepa. Appena un anno or sono, la sua Turchia era sinonimo di stabilità. Persino i laici ai quali Erdogan non è mai piaciuto per l’islamismo sempre meno tenuto a freno, dovevano ammettere l’industriosità dei calvinisti pii venuti dall’Anatolia, e l’innegabile sviluppo economico del primo decennio del Duemila. Il resto era conseguente: l’aggancio al sogno europeo, l’esposizione della Turchia nel mondo, il declassamento politico dei militari un tempo golpisti. Soprattutto l’ultimo punto, la caduta dei generali, era arrivato grazie all’alleanza scaturita con il movimento anch’esso islamico di Fetullah Gulen, predicatore autoesiliatosi in Pennsylvania, influentissimo per le 2000 scuole fondate in 160 Paesi. E mentre il Partito della giustizia e dello sviluppo di Erdogan costruiva scuole e ospedali sotto lo sguardo compiaciuto del potente vegliardo, l’organizzazione misteriosa contribuiva a mandare a processo stormi di ufficiali.
In una Turchia liberata dal secolare controllo militare, la compagine di Erdogan, innalzata a sicuramente democratica dalla macchina mediatica di Fetullah, si dedicava a progetti edilizi faraonici, non esenti da copiose tangenti: un terzo ponte sul Bosforo, un secondo Stretto, una serie di costruzioni mirabolanti ad ovest e ad est del Paese. Quando poi il delirio del mattone aggredì la piazza centrale di Istanbul, Taksim, con l’annunciato taglio dei 600 alberi di noce del Gezi Park, seguito dall’abbattimento della vicina caserma ottomana, il popolo reagì in modo sorprendente. Per strada scesero non solo gli ambientalisti e i comunisti. Ma studenti e impiegati di ogni credo e colore politico, operai e donne con la fionda, persino gente col velo, rimasta stupita dall’arroganza di un leader autoproclamatosi onnipotente. I 19 lunghi giorni di resistenza ai cannoni ad acqua e alle pallottole di gomma della polizia finirono in un massacro, a Istanbul e in tutte le città del Paese, con Erdogan che accusava di complotto gli Stati Uniti e l’Europa, i colossi finanziari e il giornalismo d’inchiesta dei nuovi media.
La sua temporanea vittoria sul campo fu però l’inizio di una battaglia tutta interna all’Islam, che adesso rischia di metterlo in scacco. Già a Fetullah non era piaciuto l’approccio con cui aveva represso la genuina e pacifica protesta popolare. Quando poi a novembre, per tutta risposta, il premier decise di colpire le scuole private del movimento, tagliando i fondi multimilionari a un organismo votato all’istruzione per diffondersi capillarmente, la vendetta di Gulen si abbattè durissima.

La Stampa 4.3.14
Il piano dei giovani palestinesi “Un solo Stato per arabi e ebrei”
Tra gli studenti della Cisgiordania: “Vogliamo essere liberi di arrivare al mare”
di Maurizio Molinari


A metà strada fra El Bireh e Ramallah questo villaggio è una roccaforte di Al Fatah dove si riuniscono gli attivisti che non credono nella formula dei due Stati frutto degli accordi di Oslo, ritenendo più «giusta» la soluzione dello «Stato unico», una nazione con «arabi ed ebrei titolari di pari diritti».
Abu Mazen e Benjamin Netanyahu sono protagonisti di un difficile negoziato con gli Stati Uniti sullo «status definitivo dei confini» destinato a far convivere «due nazioni in pace e sicurezza» come previsto ad Oslo nel 1993, ma per gli attivisti di Nabi Saleh si tratta di un percorso perdente «che non porterà a nulla». Lema Nazeeh, 26 anni, è una dei leader del «Comitato di coordinamento della lotta popolare». Seduta sul muretto di un piccolo giardino, dove ogni venerdì gli abitanti di Nabi Sabeh si ritrovano prima di protestare contro gli israeliani, spiega di «non credere alla soluzione dei due Stati» perché «comporterebbe comunque di vivere fra barriere, posti di blocco e soldati».
Quando Abu Mazen si è detto a favore di schierare i soldati della Nato nella Valle del Giordano, per facilitare un’intesa sulla sicurezza con Israele, la reazione di Lema, Ashira e Diana, assieme ad altri 300 militanti, è stata di andare a occupare le rovine del villaggio cananeo di Ein Hijleh, a ridosso del Mar Morto, per testimoniare che «su questa terra dobbiamo starci noi e non i militari Usa». Dopo una settimana le truppe israeliane hanno evacuato con la forza gli attivisti, ma Lema, Ashira e Diana - tutte sotto i 30 anni - non la considerano una sconfitta. «Le nostre proteste sono diverse - spiega Ashira, 29 anni e la passione per il giornalismo - perché siamo andate nella Valle del Giordano, come in precedenza nell’area E1 davanti a Maalei Adumim, per dimostrare di saper agire fuori dai villaggi arabi, sempre in maniera non violenta». Ovunque il messaggio è «il legame dei palestinesi con la terra» e porta a sostenere la «One State Solution». Lema lo spiega così: «Ciò che la gente palestinese vuole non è vivere dentro aree recitante, più o meno grandi, ma poter andare ovunque in Palestina, a Tel Aviv come ad Haifa, assieme agli israeliani».
Ashira aggiunge: «Non abbiamo nulla contro gli ebrei, siamo pronti a convivere sulla stessa terra e nello stesso Stato, dove ogni cittadino godrà degli stessi diritti, ognuno avrà un voto, ma vogliamo poter arrivare fino alle spiagge sul Mediterraneo». Per molti israeliani ciò implica il piano di una conquista demografica della Palestina con la inesorabile distruzione dello Stato Ebraico. Ma Bassem Tamimi, 46 anni, veterano dell’Intifada con nove arresti sulle spalle, ribatte: «L’errore degli israeliani è stato nell’ideologia sionista di volersi costruire uno Stato-ghetto per separarsi dagli altri, invece su questa terra dobbiamo vivere assieme». Avendo più esperienza degli altri militanti, Bassem affronta anche il nodo politico dei possibili modelli istituzionali dentro la «One State Solution»: «Potremmo vivere negli stessi confini, ma magari avere due Parlamenti diversi dando vita a una sorte di federazione che potrebbe in prospettiva allargarsi anche alla Giordania» dove vivono almeno 3 milioni di palestinesi. «Ciò che conta è cambiare la prospettiva - aggiunge Bassem - la priorità è diritti umani per tutti, non la divisione della terra». Ecco perché il «Comitato di coordinamento della lotta popolare» ritiene che l’errore che i leader palestinesi devono evitare è «rinunciare al diritto al ritorno dei profughi del 1948». Fra i leader di riferimento hanno Sari Nusseibeh, ex rappresentante palestinese a Gerusalemme e docente di Filosofia all’Università di Al Quds, favorevole a «far restare in futuro i coloni israeliani nello Stato di Palestina perché chi fra loro è nato qui, appartiene a questo luogo».
Queste posizioni di opposizione alle politiche di Abu Mazen vedono affiancate persone con identità diverse: Bassem vive a Nabi Saleh dalla nascita e rappresenta la generazione che si è battuta in strada sin dalla prima Intifada mentre Lema è nata a Tunisi dal matrimonio fra uno dei capi della sicurezza di Yasser Arafat e una libanese, ed è arrivata a Ramallah solo dopo Oslo. Palestinesi della Diaspora e dei Territori sono arrivano alla conclusione che «chi ci guida deve cambiare formula, altrimenti resteremo fermi». La sfida ad Abu Mazen arriva da un villaggio imbandierato con i drappi gialli di Al Fatah, dove Jihad islamica e Hamas non sono mai riusciti a entrare, come dimostra il fatto che fra i circa 500 abitanti neanche un quinto frequenta la locale moschea. Per Bassem «almeno il 30 per cento dei palestinesi non crede alla soluzione dei due Stati» e «fra gli israeliani tale percentuale è perfino maggiore» anche se per ragioni differenti, a cominciare dalla sfiducia nell’affidabilità della controparte.
Poco dopo le 12 di ogni venerdì a ritrovarsi sulla piazzetta è gran parte degli abitanti per ripetere la sfida all’insediamento ebraico di Halamish, distante meno di 1 kg in linea d’aria. I militanti sfilano in corteo sulla discesa che porta fuori dal villaggio, puntando a raggiungere una fonte d’acqua nell’adiacente valle che l’esercito israeliano ha assegnato a Halamish mentre «era proprietà di uno dei cittadini di Nabi Saleh». Sulla strada trovano l’esercito che li ferma lanciando i lacrimogeni. Lema, Ashira, Diana e Bassem si disperdono per ritrovarsi poco dopo a casa di Halil, una palazzina biancastra trasformata nel museo degli scontri con i soldati, con tanto di raccolta di proiettili di gomma e lacrimogeni di ogni tipo. C’è chi ritiene che la terza Intifada potrebbe iniziare qui perché lo scontro sul controllo dell’acqua, e più in generale sulle risorse, è il nuovo capitolo della sfida fra i due popoli.
(Ha collaborato Michele Monni) 

La Stampa 4.3.14
“Un solo Stato” Le testimonianze dei palestinesi
raccolte da Maurizio Molinari

un video qui

Repubblica 4.3.14
Il premier: “Palestinesi colpevoli, difendo interessi vitali”
Netanyahu da Obama “Accordo più lontano”
di Fabio Scuto


WASHINGTON - Se il tempo del negoziato di pace sta per scadere, come dice il presidente Obama, il premier israeliano Netanyahu replica che è suo compito di difendere gli «interessi vitali » del suo Paese, anche dalle pressioni internazionali. Più freddo, come la neve che cadeva ieri copiosa sulla Casa Bianca, il clima non poteva essere. Il ritorno in campo in prima persona del presidente Usa per salvare quel che resta del negoziato di pace con i palestinesi, non ha spostato di un millimetro le posizioni del premier israeliano. Quelle «decisioni coraggiose» che Obama ha chiesto a Netanyahu non sembrano per il momento alle viste, il premier israeliano non sembra animato dallo spirito che si augurava Obama. Anzi respinge al mittente le critiche: «I palestinesi non hanno fatto nessun passo avanti in questa trattativa», e implicitamente fa capire che sul presidente Abu Mazen non vengono esercitate le stesse pressioni che subisce Israele.
Che il premier israeliano non fosse ben disposto lo si era capito al suo arrivo a Washington l’altra notte, quando ai giornalisti al suo seguito appena sceso dall’aereo aveva detto che «per ballare il tango della pace in Medio Oriente ci vogliono almeno tre parti. Al momento ce ne sono due, Israele e gli Stati Uniti; dobbiamo vedere se anche i palestinesi parteciperanno ». «In ogni caso», aveva poi aggiunto, «per raggiungere un accordo, dobbiamo insistere sui nostri interessi vitali. Perciò continuerò a non cedere a nessuna pressione esterna». Un riferimento poco velato al possibile isolamento - paventato prima dal segretario di Stato John Kerry e ribadito ieri anche da Obama - se lo sforzo diplomatico di questi anni per un’intesa di pace cadrà nel vuoto.
Il breve faccia a faccia è stato teso, senza nessun sorriso. I rapporti fra i due leader sono sempre stati ruvidi, e adesso che il tempo della trattativa sta per scadere lo sono ancora di più. Nell’incontro, Netanyahu non ha mancato di tornare anche sull’Iran. Secondo Netanyahu Stati Uniti e Europa allentando le sanzioni al regime degli ayatollah commettono un errore perché «alla fine l’Iran riuscirà ad avere la bomba senza aver concesso nulla». E l’impegno ribadito che gli Usa «impediranno a Teheran di dotarsi di armi nucleari», non gli sembra sufficiente. Sull’Iran sarà centrato il discorso che oggi Netanyahu terrà alla Convention annuale dell’Aipac, la più potente lobby israeliana negli Usa.

l’Unità 4.3.14
Ettore Scola
Il grande autore parla della capitale, un luogo «che ne ha viste tante nei secoli e dove anche la tolleranza è distrazione. Una città mostruosa e affascinante»
«È l’eterna indifferenza di Roma»
di Gabriella Gallozzi


«Questo Oscar è tanto più importante per il momento di grande confusione e sfiducia che stiamo vivendo. E non solo nel mondo del cinema. Sono contento che abbia vinto Sorrentino, un autore giovane, perché è uno spiraglio, un segnale di possibile cambiamento per quei milioni di disoccupati, per quei milioni di giovani qualunque mestiere facciano o non riescano a fare». Ettore Scola è tra i tanti che hanno amato la Grande bellezza e, da grande narratore di Roma qual è stato, parla volentieri dello sguardo del cinema sulla città eterna. «Roma è il cinema - spiega l’autore de La terrazza -. Quello italiano dal neorealismo in poi l’ha sempre raccontata. L’ha fatto Rossellini, Fellini, io stesso ed ora Paolo Sorrentino».
Pensando proprio a «La terrazza» come sono «cambiati» gli intellettuali di Sorrentino rispetto ai suoi? «Beh, i miei erano frustrati ed attaccati al loro passato. Chi alla resistenza, chi era stato un grande scrittore. Un grande incontro di falliti, insomma, che si odiavano. Ma tra cui si riconosceva comunque quello che era nel giusto e chi sbagliava. Sorrentino, invece, riesce a dare un’immagine meno manichea di questo mondo, puntando sulla confusione e senza distinzioni. Certamente anche il personaggio di Servillo appartiene alla schiera degli intellettuali scontenti e riversa sugli altri questa mancanza di bellezza».
E Roma? Al momento col susseguirsi degli scandali delle municipalizzate e delle inchieste giudiziare che non risparmiano neanche l’università, sembra di assistere ad un nuovo «sacco»...
«Roma fa morire qualcuno di stupore ma è da sempre crocevia di tante delusioni. Oggi, poi, sembra tutto scoppiare: la monnezza, l’acqua avvelenata... Sembra una catastrofe biblica. Roma è sempre gigantesca in tutto, orrida ma affascinante. Emi pare che Sorrentino, nel suo film, sia proprio riuscito a cogliere questo stato d’animo diffuso in cui tutti i personaggi sono immersi, finendo per assomigliarsi. Il personaggio di Verdone che fa da contraltare a quello di Servillo, ma poi, anche quello della Ferilli che è anche lei il lato femminile di uno stesso fatalismo e delusione. Se parli di Roma devi dire che è pagana e super cattolica... Così come la suora di Calcutta apparentemente fragile ma eterna. Un insieme di credenze e paure comunque figlie della religione».
Ma anche città di tante contraddizioni...
«Certamente. A Roma è più evidente anche la tolleranza, ma non perché sia più evoluta di altre, o più civile, semplicemente perché c’è più indifferenza e questo alle volte può avere anche degli aspetti positivi. Proprio giorni fa parlando con un migrante, mi diceva che alla fine a Roma si stava meglio che in altre città italiane perché si vive un totale senso di invisibilità. Un’invisibilità che magari, nel caso di un clandestino, può persino diventare una forma di garanzia. Ecco credo che la Grande bellezza abbia colto anche questo senso di indifferenza ».
Indifferenza anche al malcostume, alla corruzione però?
«Di sacchi Roma ne ha visti tanti. Ogni tanto riesplode lo scandalo, l’inchiesta... Ma la verità è che fra qualche settimana a nessuno gliene fregherà più niente. E questo perché Roma ha visto passare dagli Unni ai Borboni. C’è una sorta di assuefazione al male che alla fine fa persino star bene ».
Tornando all’Oscar, cosa cambierà per il cinema italiano?
«Un Oscar non ha mai prodotto grandi riconoscimenti alle cinematografie nazionali. Eppure è importante che un premio dedicato al cinema commerciale e autoritario com’è quello americano si accorga di un autore italiano. In qualche modo è un’apertura, una possibilità, una chance. Un momento di positività rivolto non solo ad una persona, ma in questo senso ad una comunità intera. E penso soprattutto ai giovani. Poi certamente, l’Oscar non risolverà i problemi della nostra cinematografia. Per quelli servono interventi seri rivolti a risanare ed aiutare l’intero settore. Compito che spetta anche ai nostri legislatori».

il Fatto 4.3.14
Marzullo è come il tucano: porta la felicità
di Fulvio Abbate


Quando ero ragazzo e fricchettone, c’era tra noi flippati un modo per descrivere certe situazioni particolari, stupefacenti, si diceva: sentirsi in trip. E proprio in trip (nel senso di viaggio allucinante) mi sono sentito l’altra sera imbattendomi nel buio della terza serata nella figura intera di Gigi Marzullo e soprattutto nei suoi ospiti, provo a citarli non senza fatica vista l’ora tarda e la sensazione, già annunciata, di straniamento.
Dunque, in studio c’era il sociologo Domenico De Masi, c’era la critica televisiva de La Stampa di Torino, Alessandra Comazzi, ma soprattutto – über Alles! – c’era il padrone di casa, Gigi Marzullo, l’amico di tutti, da Bertinotti a Raffaele La Capria, l’uomo-timbro a secco del servizio pubblico mondano e culturale. Oh, sia chiaro, l’intento di questa breve nota non è affatto una polemica verso il conduttore residente, tempo sprecato, davvero sprecato accanirsi su un pezzo unico come Gigi, già, il punto critico nostro nella situazione data deve riguardare semmai lo stato mentale degli ospiti presenti, ipnotizzati da Marzullo come già il povero trapassato Cesare da parte del Dottor Caligari. E adesso proverò a spiegare meglio il fuoco della questione, facendo ricorso alla forza suggestiva delle immagini.
DOVETE SAPERE che quand’ero ragazzino, molti anni fa, mia madre mi portò a vedere un film dove c’era un pappagallo (o era forse un tucano?) che portava con sé un germe, anzi, il virus dell’allegria, bastava essere sfiorati da quello, trovarselo nella stessa stanza, e un istante dopo ti sentivi trasformato in personcina felice e cantante. Ecco, da Marzullo ho avuto una sensazione analoga, l’oggetto del discorso era forse un libro della Co-mazzi dedicato alla televisione, ora mi dirai che in presenza del morto non è davvero il caso di dir male del suddetto, e tuttavia, ragionando proprio di televisione, ce ne sarebbero di quaderni di doglianze da riempire con furia, e invece lì da Gigi, Alessandra e Mimmo e l’altro ospite ancora si è perfino riusciti a riempiere in bella copia tutte le righe del quaderno della banalità. Claudio Santamaria nei panni del maestro Manzi? Ma che bel sceneggiato, le gemelle Kessler? Che piacere averle ritrovate a Sanremo, e così via fino alla calma piatta della cordialità imposta forse dall’ora tarda che fa cessare magari l’esercizio critico e non viola le leggi dell’ospitalità così come si sono delineate nell’understatement ufficiale, fra cortesia sabauda all’ombra della Fiat e orgia del potere marchettaro capitolino. Esattamente queste vibrazioni ho ricevuto da “Mille e un libro Scrittori in Tv” su Rai1. Oh, l’ho trovato: il film dell’uccello che portava il virus della serenità si intitolava “Una meravigliosa realtà”, era il 1968 quando uscì con la regia di George Seaton. Un tucano giunto a New York con una nave greca, è portatore di un virus che diffonde serenità fra gli uomini e li induce persino a rinunciare ai loro vizi: fumare, bere… Che sia un tucano di quel tipo anche Marzullo?

Corriere 4.3.14
Filosofia, un antidoto alla stupidità
Dalla «Repubblica» di Platone ai «Saggi» di Montaigne la parola d’ordine è contrastare l’assenza di riflessione
di Armando Torno


Una frase si aggira guardinga e ben commentata in Internet. Porta la firma dello scrittore francese Jean Cocteau: «Il dramma della nostra epoca è che la stupidità si è messa a pensare». La sua fortuna cominciò quando — pensate un po’ all’ironia della sorte — un letterato reazionario amico di Céline, Robert Poulet, la commentò su una rivista che procurava gonfiore al fegato di coloro che si sentivano politicamente corretti, Rivarol . Ci aggiunse quale chiosa la seguente osservazione: «Non sarebbe niente se l’intelligenza non si fosse messa a rimbecillire».
Poulet, cattolico e cittadino onorario della Vandea anche se dadaista, la utilizzò nei suoi libelli (in italiano Castelvecchi ha proposto recentemente Contro l’amore ). La frase ebbe una sua vita, indipendentemente dall’autore e dalle reazioni, finì nei repertori sulla stupidità. I quali, per ragioni che non è difficile comprendere, diventano sempre più voluminosi. Si potrebbe credere che Cocteau, per la battuta ricordata, sia stato ispirato da una conferenza di Robert Musil, tenuta a Vienna l’11 marzo 1937 (e ripetuta sei giorni dopo) su invito della Österreische Werkbund, il cui titolo era appunto Sulla stupidità . Notava il celebre scrittore austriaco: «La stupidità è fittamente intessuta con altro, senza che da qualche parte spunti il filo che sciolga la tessitura. Persino genialità e stupidità sono indissolubilmente legate. Ci si vieta di parlare molto solo per paura di passare per stupidi». Si era preparato a lungo per la bisogna e un amico gli aveva inviato persino il raro testo a stampa di un’altra conferenza, anch’essa avente come titolo Sulla stupidità , tenuta nel 1866 da Johann Eduard Erdman, allievo di Hegel. Studiò anche teologia a Berlino e infine diventò professore a Halle.
Ora non vorremmo scrivere una bibliografia sull’argomento, anche perché le leggi fondamentali le ha ben messe in evidenza Carlo Maria Cipolla. Il sapido economista le affidò a un libello intitolato The Basic Laws of Human Stupidity (la prima tiratura è del 1976, offerta come regalo di Natale agli amici); quindi raccolse le sue mirabili osservazioni in italiano nel 1988 in Allegro ma non troppo (Il Mulino continua a ristampare l’operetta, tradotta in tredici lingue). Tra l’altro scrisse: «Sempre e inevitabilmente ognuno di noi sottovaluta il numero di individui stupidi in circolazione»; e ancora: «Una persona stupida è una persona che causa un danno ad un’altra persona o gruppo di persone senza nel contempo realizzare alcun vantaggio per sé o addirittura subendo una perdita». Un preziosissimo corollario ammoniva: «Lo stupido è più pericoloso del bandito». Parole auree, che riprendono un monito di Nietzsche nel quale il celebre filosofo ricordava che è meglio cadere nelle mani di un assassino che nei progetti di talune persone. Certo, esagerava. Ma, come si suol dire, è bene tenerne conto: almeno dal punto di vista morale. Del resto, anche Wilde ne Il critico come artista notava: «There is no sin except stupidity», ovvero: «Non c’è peccato tranne la stupidità».
Tutto questo discorso non desidera essere un commentario ai problemi della stupidità, giacché avremmo bisogno di ben altro spazio, ma semplicemente la segnalazione di un antidoto: la filosofia. Per carità, lo sappiamo, anche tra i pensatori ci sono degli stupidi ben riusciti (in genere si riconoscono dai titoli delle opere prodotte, che nemmeno loro riescono a spiegare), ma di certo tra i grandi del passato — quelli ben verificati dalla storia — il loro numero tende allo zero. Si prenda Michel de Montaigne, per esempio, con i suoi formidabili Essais . Stefan Zweig, che gli dedica una biografia tradotta in questi giorni da Castelvecchi, coglie da fine psicologo la forza presente nei ricordati Saggi : «In tutta la sua opera ho incontrato un’unica formula, un’unica affermazione categorica ripetuta costantemente: “La cosa più importante al mondo è essere se stessi”». Il magnifico francese mette a punto un sistema per vivere senza servire e, soprattutto, per evitare di cadere nelle trappole del mondo. Abbandona le cariche, rifiuta gli onori, si allontana dalla corte e dalle incombenze; si guarda bene dal partecipare a riunioni o dal frequentare salotti, decide di ritirarsi tra i libri, nella torre del suo castello. Persino gli incontri con sarti e parrucchieri li riduce all’osso, al minimo indispensabile. Assomiglia a Giona nel ventre della balena. Lì conversa, soprattutto in latino e greco, con gli spiriti sommi e si diverte a lanciare dalle finestre della sua biblioteca bombe cariche d’intelligenza sull’umanità. Le fa esplodere senza requie, incurante delle regole accademiche o delle convenzioni di guerra. E impara a ridere di se stesso e di tutti. Già, il riso: Bergson osserverà più tardi, forse con un aiutino di Aristotele, che il criminale è un uomo che ha smarrito il senso del comico.
Platone organizzerà lo stato ideale nella sua Repubblica per sfuggire alla stupidità dei governi del mondo più che per concretizzare sulla terra un modello fissato nei cieli (si legga a proposito il finale del libro IX). Aveva forse capito con due millenni e qualche secolo di anticipo quanto Karl Kraus rivelò in Scrivere e leggere : «Ci sono imbecilli superficiali e imbecilli profondi». Per evitarne l’inventario e la complessa catalogazione politica, il filosofo greco si spinse sino a teorizzare per primo il comunismo. Purtroppo il suo rimase un modello adatto per pensare più che da attuare. Ma questo è il compito della filosofia: alzare le difese immunitarie contro la stupidità e, nel caso fossimo già stati contagiati, avvisarci dei pericoli che stiamo correndo o alimentando.
Ne I demoni l’incomparabile Dostoevskij, per i russi più filosofo che scrittore, pone in bocca a Stepan Trofimovi un’altra osservazione da meditare: «Che cosa vi può essere di più stupido di un imbecille buono? Un imbecille cattivo, ma bonne amie . Un imbecille cattivo è ancora più stupido». Anche di questo occorre tenere conto. E i pensatori veri aiutano a riconoscere meglio di un capoclasse qualunque i buoni dai cattivi, due categorie che nell’era dell’eccessiva comunicazione si possono confondere facilmente. In particolare, essi continuano a prestarci alcuni strumenti utili per l’orientamento e per vivere senza considerare noi stessi criterio di verità assoluta. Perché anche la fede ha bisogno del dubbio. Immaginatevi la vita.

Corriere 4.3.14
È dedicato a Nietzsche il quarto volume


Con uno dei pensatori cruciali per la filosofia occidentale, Friedrich Nietzsche, giunge oggi alla terza uscita l’iniziativa editoriale «Grandangolo» del «Corriere della Sera», 35 volumi sui più grandi filosofi di ogni tempo e sui maggiori teorici del pensiero scientifico e psicoanalitico (ogni volume a € 5,90 più il costo del quotidiano; nel formato ebook, prezzo € 3,59). Anche in questa monografia, il filosofo viene presentato dapprima attraverso biografia e cronologia, e poi con l’analisi del suo pensiero a cura di uno specialista illustre: per Nietzsche, è Tommaso Tuppini a illustrare la complessità di un corpus di opere che fu chiave di volta della filosofia ottocentesca. Sono illustrati nel volume concetti come quello, fondamentale e problematico, di nichilismo, la relazione con le filosofie orientali, l’analisi condotta da Nietzsche su metafisica, morale, sulla misura dell’uomo e sulla figura del «superuomo». Seguono, come in ciascuno dei saggi della collana, brani scelti dell’autore e una bibliografia su titoli ma anche risorse online per approfondire lo studio. La prossima settimana, l’11 marzo, la collana proseguirà con ilsaggio su Aristotele curato da Roberto Radice. (Ida Bozzi)

Corriere 4.3.14
La scoperta di quei nuovi versi di Saffo su papiri (forse) di contrabbando
di Lorenzo Cremonesi


«Che cosa c’è in fondo ai tuoi occhi, dietro il cristallino, oltre l’apparenza?». Citi Saffo e leggi capostipite della poesia d’amore universale. Di lei, la «decima musa», come la chiamava Platone, si sa poco. Se non che fosse nata a Mitilene, nell’isola greca di Lesbo, durante il sesto secolo avanti Cristo. Parte della sua fama è dovuta al fatto che le poesie erano intese come odi da cantare, non da codificare nella scrittura. Solo una è giunta direttamente ai nostri giorni. Si capisce dunque l’importanza della scoperta l’anno scorso di versi appartenuti a due poemi sconosciuti.
Ma il valore della scoperta è direttamente proporzionale all’inquietudine per l’origine sospetta di un numero enorme di reperti antichi provenienti delle caotiche regioni delle primavere arabe o coinvolte nelle guerre che hanno sconvolto il Medio Oriente negli ultimi decenni. Dall’Afghanistan all’Iraq, dalla Libia alle colline insanguinate della Siria, sino all’Egitto. Qui è sufficiente un piccolo tour nella piana desertica attorno alle Piramidi per scoprire gli scavi a cielo aperto dei tombaroli sotto il naso della polizia, che non muove un dito.
Il caso egiziano riguarda direttamente le poesie di Saffo. È stato infatti Dirk Obbink, papirologo all’università di Oxford, a segnalare con stupore che i versi riportati su di un papiro ritrovato su di una mummia egiziana erano della poetessa di Lesbo. La notizia è stata ripresa con clamore a gennaio dal quotidiano britannico The Guardian . Ma proprio tanta pubblicità ha spinto gli studiosi a lanciare il grido di allarme sull’origine del reperto. Sembra infatti provenga da un collezionista privato, che garantisce sulla legalità delle transazioni effettuate, ma rifiuta di rivelare le proprie generalità e chiede il diritto di privacy sull’iter dell’oggetto. Non è dunque strano che oggi siano in tanti a chiedere trasparenza. Come nota tra i tanti il New York Times , anche se il papiro di Saffo avesse una vicenda perfettamente legale, l’indifferenza sulla sua provenienza e qualsiasi distrazione sul mercato clandestino non possono altro che incoraggiare i trafficanti di opere rubate.

La Stampa 4.3.14
Ho spaccato i denti a Luca l’evangelista
Tra saggio scientifico, riflessione epistemologica e romanzo
Il genetista Barbujani racconta la sua avventurosa ricerca per accertare l’autenticità dei resti conservati a Padova
di Piero Bianucci


Padova è la «città del Santo». Il nome non serve, tutti sanno che è sant’Antonio. Ma Padova dovrebbe essere ancora più famosa per le reliquie di Luca, uno dei quattro evangelisti, conservate nella basilica di Santa Giustina, la nona del mondo per dimensioni secondo le guide turistiche.

Il mondo pullula di false reliquie. Nel Medioevo la loro produzione era industriale e il commercio fiorente. Boccaccio ne trasse l’ultima novella della sesta giornata del Decamerone: frate Cipolla riscuote le elemosine dei fedeli promettendo di mostrare loro una piuma dell’arcangelo Gabriele, di nascosto un buontempone la sostituisce nella teca con dei carboni e il frate se la cava dicendo che sono quelli su cui fu bruciato san Lorenzo; poco male, tanto la piuma era di pappagallo. Qualcuno disse che con i (presunti) resti della croce di Gesù si potrebbe costruire un vascello. Ovvio che le reliquie degli evangelisti siano contesissime e, proporzionalmente, numerose. Venezia vanta i resti di san Marco. Nel 1998 il vescovo di Padova, Francesco Mattiazzo, affida a un gruppo di scienziati il compito di accertare l’autenticità dei resti di Luca: uno scheletro senza testa custodito in un sarcofago di piombo. È l’inizio di un’avventura che uno dei protagonisti, il genetista Guido Barbujani, ci racconta in un libro - Lascia stare i santi, in uscita da Einaudi, pp. 175, € 16,50 - difficilmente classificabile: saggio scientifico, riflessione epistemologica, romanzo, autobiografia, diario di viaggio, sociologia della ricerca?
C’è tutto questo nel libro di Barbujani, illuminato da ironia e sottile tecnica narrativa, cosa che non stupisce perché il nostro genetista, che ha lavorato alla State of New York University e dal 1996 ha cattedra all’Università di Ferrara, è noto anche come autore di romanzi. Ma qui ci limiteremo all’avventura scientifica.
Dunque Guido Barbujani, classe 1955, sedici anni fa si trova coinvolto nell’analisi delle reliquie dell’evangelista. Il team è multidisciplinare. Lo guida l’anatomopatologo dell’Università di Padova Vito Terribile Wiel Marin, ci sono specialisti in datazione con il metodo del radiocarbonio (Università di Tucson, Usa, e Laboratorio di archeologia, Oxford), esperti di pollini, di monete antiche e di rettili, perché nel sarcofago vengono ritrovate anche le ossa di 30 serpenti - un serpente nostrano, spiegherà l’erpetologo, il biacco.
Stipulato il contratto con la diocesi di Padova, incomincia il lavoro. Il genetista incontra il vescovo e gli comunica che per analizzare il Dna bisogna distruggere alcuni grammi della reliquia. Gli vengono concessi due denti, anzi, uno e mezzo, perché del secondo c’era solo la radice. Allo scheletro di Padova manca la testa, ma qualche dente si è staccato ed è rimasto nel sarcofago. È quanto basta per fare di Barbujani l’uomo che ruppe due denti a un autore del Vangelo. Il Dna dei denti deve essere confrontato con quello della popolazione alla quale Luca apparteneva. Qui è nebbia: le notizie su Luca sono vaghe e controverse. I più ritengono che appartenne alla terza generazione dopo quella di Gesù. Sarebbe nato ad Antiochia o Aleppo in Siria e morto in età avanzata (tra 74 e 84 anni) verso il 130 d.C. in Bitinia (la regione a Sud del Mar Nero e del Mar di Marmara).
Barbujani parte per la Siria al fine di procurarsi campioni di sangue dei probabili discendenti del popolo che fu di Luca. Faccenda complicata. I reperti biologici sono difficilmente esportabili, e nel mondo arabo si aggiungono tabù religiosi e diffidenza verso chi arriva dall’Occidente cristiano. Una tangente di 300 dollari spiana la strada all’intraprendente ricercatore, ma paurosa è l’operazione per venire in possesso delle provette e per trasferire il sangue su carta assorbente onde poterlo conservare e farlo passare ai controlli di frontiera. Più che la polizia si rivelerà pericoloso e quasi mortale un attacco di dissenteria, alla fine però il genetista, aiutato da consulenti del Gotha della ricerca americana, può mettersi al lavoro sul Dna.
Mentre l’identificazione della provenienza del piombo del sarcofago (pesante 300 kg) non dà esito utile, l’analisi anatomica dice che si tratta dei resti di un uomo anziano. Le datazioni al radiocarbonio sono un po’ discordanti ma, prendendo per buoni i dati più favorevoli, risultano compatibili con un’epoca non troppo successiva alla presunta data di morte di Luca. I serpenti sono padovani e più recenti: 400-450 d.C. Alcune monete si accordano con l’epoca della sepoltura, e così pure la datazione dei pollini trovati nel sarcofago. Secondo la tradizione, Luca nel sonno digrignava i denti, e i reperti lo confermano. Infine, il corpo acefalo di Padova con la sua prima vertebra si attacca bene alla testa attribuita a Luca e donata dall’imperatore Carlo IV alla cattedrale di Praga. Prova cruciale: è 2,5 volte più probabile che il Dna della reliquia sia di un siriano piuttosto che di un greco.
Conclude Barbujani: «Nulla vieta di ritenere che il corpo di Padova venga dalla Siria e sia lo stesso che la tradizione identifica con san Luca». Nulla vieta. La scienza non afferma, tutt’al più esclude. Ma il culto di san Luca, osserva il vescovo di Padova, prescinde dall’autenticità di quelle ossa. La fede è fede. In ogni caso a Luca è andata meglio che a san Gennaro: un team di chimici è riuscito a riprodurre il «miracolo» della liquefazione del suo sangue.

Repubblica 4.3.14
Quando il biologo fa ricerca nel garage
Cosa nasconde il caso di chi a pochi soldi offre dati prima inaccessibili, come la sequenza del genoma
di Massimiano Bucchi


Nel 2008, un gruppo di celebrità si ritrovò a New York su invito di grandi imprenditori dei media come Rupert Murdoch e Harry Weinstein per uno “spit party”. Gli ospiti della serata, che le testate giornalistiche battezzarono ironicamente “Spitterati”, ricevettero un kit per raccogliere la propria saliva, destinata a test genetici personalizzati. Il servizio era offerto da una nuova azienda nel settore delle biotecnologie, 23andMe. Fondata due anni prima da Linda Avey e Anne Wojcicki (moglie di Sergei Brin, co-fondatore di Google), l’azienda si proponeva come «la fonte attendibile di informazioni genetiche personalizzate su scala globale» e già all’epoca offriva direttamente dal proprio sito web, per soli 399 dollari, un’analisi di 580mila marcatori o variazioni genetiche che promettevano al cliente di sapere, tra l’altro, con quale probabilità avrebbe potuto sviluppare un centinaio di patologie, la predisposizione a un quoziente di intelligenza elevato, se un bambino fosse effettivamente figlio di un certo padre. Time la mise al primo posto delle innovazioni di quell’anno, e i media previdero che il servizio di 23andMe sarebbe diventato il prossimo status symbol; al World Economic Forum di Davos l’azienda distribuì mille kit per raccogliere la saliva dell’élite economica mondiale.
Già allora il mondo iniziò a rendersi conto di quale fulmineo sviluppo avesse avuto la tecnologia del settore, mettendo alla portata del singolo paziente dati ed analisi che prima erano accessibili solo ai principali enti di ricerca e istituzioni sanitarie. Ma è di questi giorni l’annuncio dell’azienda californiana Illumina di essere in grado di sequenziare un intero genoma umano per meno di 1000 dollari. Una soglia che all’inizio degli anni Duemila era stata ipotizzata come scenario futuribile, al punto che Craig Venter aveva offerto con la propria fondazione 500 mila dollari a chi l’avesse raggiunto. In pochi anni il costo del sequenziamento è sceso, dai 3 miliardi di dollari investiti per completare il primo, ad un ritmo da far impallidire perfino le “leggi di Moore” sullo sviluppo esponenziale della microelettronica e la riduzione dei suoi costi unitari. Bastano 599 dollari per portarsi a casa OpenPCR, l’Ikea della biologia molecolare: una scatola di montaggio per assemblare da sé la rivoluzionaria tecnica che valse a Kary Mullis il premio Nobel per la chimica, e tutti i disegni e le istruzioni sul web per chi volesse modificare o sviluppare l’attrezzatura. Secondo lo studioso di tecnologia Marcus Wohlsen, «il prossimo Bill Gates della biotecnologia potrebbe sviluppare una cura per il cancro nel suo garage».
Attorno a questi strumenti “low cost”, come spiega Alessandro Delfanti in un suo libro recente, fiorisce non di rado una controcultura che si ispira alle pratiche hacker in campo informatico, in polemica con l’establishment della ricerca biologica ufficiale. DIYbio, ad esempio, è un’attivissima comunità di biologi “fai da te” che offre ai suoi membri supporto informativo, istruzioni per costruire apparecchiature e una micronewsletter formato cartolina, perfetta per chi non vuole dare troppo nell’occhio con i condomini, avendo magari allestito un discreto laboratorio nel sottoscala.
Da un lato, si può guardare a questi fenomeni come a un ritorno della biologia alla dimensione che le era propria sino a buona parte del secolo scorso. I biografi ci raccontano con dovizia di particolari pittoreschi gli esperimenti di Pasteur in un vecchio caffè abbandonato di Arbois, durante la stagione estiva, con un assistente che gli portava acqua dalla fontana e «goffi apparecchi usciti dalle inesperte mani del fabbro e del falegname del villaggio». Gli stessi Watson e Crick condussero le ricerche che li portarono nel 1953 alla scoperta della struttura del Dna in un minuscolo ufficio del Cavendish Laboratory; alcuni anni dopo la scoperta, Crick aveva ancora la propria base operativa in un capannone per le biciclette. Fu solo nel corso degli anni Ottanta che la biologia intravide la possibilità di compiere un salto di scala, intraprendendo progetti ambiziosi anche dal punto di vista delle risorse e dell’organizzazione, sul modello di quelli divenuti comuni in campo fisico sin dal periodo bellico.
D’altra parte, secondo alcuni commentatori, il “genoma da mille dollari” non avrà, almeno nel breve periodo, impatto sui singoli pazienti, e nemmeno sui medici. La novità, infatti, è rilevante per ora soprattutto per i ricercatori i cui studi coinvolgono numeri elevati di pazienti. Per progetti come quello annunciato lo scorso anno dal premier britannico David Cameron, che ambisce a sequenziare il genoma di centomila pazienti, ridurre il costo unitario di ciascun sequenziamento è fondamentale. Insomma, una scienza low cost, ma non ancora alla portata di tutti, anche tenuto conto del fatto che le apparecchiature Illumina sono vendute in blocchi da dieci per una spesa minima di dieci milioni di dollari.
Ancora più incerto pare il futuro del business “direct to consumer”. Dopo un avvio promettente, 23andMe era arrivata ad offrire test per 99 dollari, con l’obiettivo di raggiungere un milione di consumatori entro fine 2013. Poi sono iniziati i problemi: una causa per pubblicità ingannevole da parte di una cittadina californiana, un giornalista che ha reso note tre contraddittorie diagnosi ricevute per il rischio di infarto (una da 23and-Me, due da aziende concorrenti); il sospetto che la vendita di test sottocosto sia solo un pretesto per ottenere preziosi dati dalla clientela, alimentato da un membro del consiglio d’amministrazione che definì 23andMe «la Google dell’assistenza sanitaria personalizzata». In novembre, dopo una minacciosa richiesta della Food and Drug Administration di documentare l’efficacia dei propri test, l’azienda ne ha parzialmente sospeso la vendita online.
Insomma, il genoma da 1000 dollari che pareva un miraggio una decina di anni fa è arrivato, ma per il resto non è facile prevedere se e quando veramente questa tecnologia diverrà effettivamente di uso comune, e soprattutto quali saranno le implicazioni per l’organizzazione sanitaria e per gli stessi pazienti (o consumatori?). Più facile farsi prendere la mano dall’entusiasmo, e perfino dall’ottimismo, come fece quel senatore che nel 2007 annunciò che «nessuna area di ricerca è promettente come la medicina personalizzata ». Chi era? Lo conoscete: Barack Obama.

Repubblica 4.3.14
Le confessioni della divina Elsa
Jean-Noël Schifano e gli ultimi segreti della Morante
di Giuseppe Leonelli


Fra i romanzi di Elsa Morante, che entrano ed escono dalla sua vita, scritti o semplicemente vissuti, ce n’è uno di cui Jean-Noël Schifano, scrittore italo-francese, traduttore di Svevo e, soprattutto, della stessa Morante, è stato l’unico testimone e interprete. Questo romanzo, l’ultimo, della grande scrittrice, si svolge nella clinica Margherita, a Roma, dove Elsa passa, dopo un tentativo di suicidio, l’ultimo anno della sua vita, fra l’ottobre 1984 e il novembre 1985. Solo Giannatale, come lei chiama Schifano, potrà fissare e tradurre in scrittura questa estrema esperienza: c’è in tutto ciò un’implicazione quasi religiosa, il senso di un dovere cui non ci si può sottrarre, anche se ci vorranno trent’anni per vederne l’esito, ovvero, in traduzione italiana, E.M. o la divina barbara. Romanzo confidenziale non finito (Elliot, pagg. 114, euro 16). Perché non finito? Il processo non s’è dunque esaurito, si proietta oltre questo libro, rendendolo una tappa di un evento ancora in corso?
La narrazione s’apre al capezzale di un letto. «Nella luce placata di un pomeriggio di fine ottobre del 1984», la scrittrice, quasi disanimata, stringe la mano di Schifano, che è venuto a trovarla. Poi comincia a parlare. Non è la prima volta che fa «la morta»; le era già capitato tanti anni prima, nel1941, quando era uscito il suo primo libro, Il gioco segreto, e cominciava a fissarsi nella sua fantasia quel che sarebbe stato il mondo della Storia. Allora, stesa a terra, aveva allarmato il marito Moravia, che aveva chiamato i soccorsi; e lei s’era rialzata di scatto, ridendogli «sotto il naso». Ed ecco, un mattino, entrare improvvisamente nella stanza della clinica l’ex marito Moravia: si piega su Elsa, la chiama. Elsa fa la morta anche questa volta, ma non si rialza come aveva fatto tanti anni prima. Moravia viene colto in un bellissimo flash, poche righe in cui c’è tutto lui: «Giacca e pantaloni color tabacco screziato, camicia d’un bianco spento, cravatta di seta rossa, lo vedo sprofondare nello smarrimento. Uno smarrimento che si irrita di se stesso». Schifano va a trovare Elsa tutti i giorni, le tiene la mano. Lei lo guarda con i suoi occhi violetti, «pare una bambola con il viso e le mani di porcellana»: che cosa guarda, che cosa pensa? Il romanzo si raccoglie intorno a quest’immagine tutta figurativa: intravediamo un’emozione subliminale che si scioglie ed esplicita, dopo qualche giorno, nella partecipazione a Giannatale del “grande segreto” di Elsa, quello della insolita nascita di lei e degli altri fratelli, la loro vita condotta tra la figura di un padre biologico e di uno anagrafico, «i miei due padri», ovvero il padre vero e quello finto che aveva dato il cognome alla famiglia. È un segreto che appartiene alla “menzogna”, sublimata in “sortilegio”: sparso, a frammenti, un po’ qua, un po’ là, nei quattro romanzi pubblicati, qui narrato in tutta la sua articolazione biografica all’amico francese, con nuovo, struggente senso di pietas. Un segreto, per la verità, che già gli studiosi dell’opera della scrittrice conoscevano, ma in forma di semplice referenzialità, ora recuperato nella sua piena sostanza emotiva. A questo segreto si congiunge un episodio che riguarda la vita del bambino Giannatale, reinserito in un frammento di realtà ove campeggia un padre che assomiglia a quello naturale di Elsa. Ed altro ancora: la vera storia dell’amore per Luchino Visconti, raccontato direttamente, nella sua autentica sostanza autobiografica, e non straniato e mitizzato fra le scogliere di Procida, fra Elsa-Arturo e il padre Wilhelm, “parodia” per il piccolo delinquente di cui è innamorato. Poi, a un certo punto, entra in scena orribilmente trasformata, quasi Ettore nel sogno di Enea, l’immagine di Pasolini; accanto a lui, quella di un caro amico di Elsa, Luca Coppola, affratellato a Pier Paolo nella morte.

Repubblica 4.3.14
Coscienza e libertà l’eterna giovinezza del saggio Montaigne
Il pensiero del maestro riletto da Zweig in fuga dal nazismo
di Franco Marcoaldi


È proprio vero: i classici, sotto vesti ogni volta rinnovate, si offrono nelle modalità più diverse alle generazioni di lettori che si succedono nel corso del tempo. Prendete il Montaigne riletto con straordinario acume e passione da Stefan Zweig (Castelvecchi, traduzione di Ilenia Gradante). Il grande scrittore viennese di origine ebraica lo elegge a nume tutelare giusto nel pieno della furia nazista e del conflitto mondiale. Quello e solo quello, sostiene, è il momento giusto per riaprire le pagine degli Essais, perché il parallelo storico con la catastrofe in atto è immediato, evidente. Anche l’adolescente di Bordeaux era circondato dalla morte e dalla bestialità: persone torturate, impalate, bruciate vive. Poi era arrivata la guerra civile francese, e con essa il fanatismo religioso: ogni certezza dissolta, ogni ragionevolezza scomparsa.
Ebbene, di fronte a questo insensato furore, che fa Michel de Montaigne? Si ritira nella sua torre e si concentra su un unico problema: come mantenere intatta, malgrado tutto, la propria dignità e purezza di spirito. «La più grande arte: restare se stessi», scriverà nei Saggi.
Non c’è nulla di roboante o di eroico nel suo pensiero, e tantomeno nella sua azione. Il Nostro corre semmai il rischio di apparire «indeciso e codardo», giacché in un tempo che reclama l’aut aut, lui fa di tutto per mimetizzarsi con discrezione. Epperò l’onestà e la forza con cui difende la propria essence, quella “cittadella” di cui parlava Goethe, è, agli occhi di Zweig, «la lotta più consapevole e tenace che l’uomo abbia mai condotto ». Utilizzando formule novecentesche, potremmo dire che Montaigne è agli antipodi dell’intellettuale engagé. Quello schema concettuale è ribaltato. Non si tratta di liberare l’umanità liberando di conseguenza i singoli individui, ma al contrario di invitare ciascuno a salvaguardare la propria libertà interiore: sarà questo il volano migliore per una socialità improntata finalmente alla tolleranza, all’equilibrio, alla decenza. D’altronde Montaigne è troppo scettico, e anche troppo “egoista”, per accollarsi compiti superiori alle sue forze. Si prefigge così un unico obiettivo: «Vivere la propria vita, invece di una vita qualsiasi». Solo che questo obiettivo - a ben vedere - è di portata incomparabile: perché «conservando e descrivendo se stesso», Montaigne «conservò a sua volta l’uomo in nuce, l’uomo nudo e atemporale. E mentre tutto il resto, i trattati teologici e le digressioni filosofiche del suo secolo ci sembrano estranei e obsoleti, lui è un nostro contemporaneo, l’uomo di oggi e di sempre, e la sua battaglia è la più attuale sulla terra».
Questo scriveva Stefan Zweig negli anni del ferro e del fuoco. Oggi le condizioni, quantomeno nella nostra bistrattata Europa, sono radicalmente mutate. Ovviamente in meglio: sarebbe bene non dimenticarselo mai. Eppure la parola di Montaigne non ha perso una briciola del suo valore, anzi. Se Dio vuole non ci circonda più il frastuono delle armi, ma soltanto quello delle parole. Non trionfano più le tirannie delle Chiese e degli Stati, ma la Doxa. Eppure è altrettanto difficile sottrarsi al conformismo, non aderire alla servitù volontaria delle coscienze indotta dalla caciara di un sistema mediatico onnipervasivo. Per questo Montaigne rimane il faro di sempre. Perché è il guardiano della nostra intimità, oggi particolarmente a rischio, e perché non propone ricette precotte, rifugge dalle ideologie e non inneggia a nessuna escatologia salvifica. Solo una cosa ci chiede: di tenere gli occhi aperti, di non essere animati da pregiudizi e di confidare nella ragione critica. Senza farsi tentare dalle sirene del potere, del denaro, di un’ambizione smaniosa, smodata; e senza farsi affliggere dalle difficoltà del mondo esterno, che hanno comunque un valore relativo, perché «l’uomo saggio non ha niente da perdere».
Giustamente Stefan Zweig ricorda che in questa inesausta ricerca di sé, Montaigne non assume mai le parti del misantropo o dell’anacoreta. Al contrario, è un uomo che ama la convivialità, i viaggi, le donne, le discussioni cordiali, la vita buona e bella. La sua curiosità verso l’altro è infinita, la lotta contro ogni fanatismo irriducibile. Montaigne è sempre disposto a “prestarsi”, mai “a darsi per intero”. Vuole e riesce a mantenere la giusta distanza, nella convinzione che “la cittadella” debba restare inaccessibile. «Perché solo chi rimane libero, contro tutto e contro tutti», chiosa ancora Zweig, «incrementa e protegge la libertà sulla terra».
L’unica bussola a cui affidarsi, dunque, resta la coscienza individuale: valeva nella Francia del ‘500 e vale ancor oggi.

Corriere 4.3.14
Nel 1914 Cadorna si preparò ad appoggiare la Germania
Ma subito dopo invocò l’intervento sul fronte opposto
di Paolo Mieli


Ci sono luoghi comuni che, malgrado le elaborazioni più attente della storiografia successiva, continuano a dominare l’opinione corrente a proposito degli oltre trent’anni (1882-1914) in cui l’Italia fu alleata degli imperi tedesco e austroungarico nel Dreibund , la Triplice Alleanza. E non solo di questo. Per smontare alcuni di questi giudizi consolidati, Gian Enrico Rusconi ha scritto un libro, 1914: attacco a occidente (edito dal Mulino) destinato ad essere imprescindibile per chi dovrà affrontare i dibattiti di qui all’estate, nella ricorrenza dei cento anni dall’attentato di Serajevo. Un luogo comune per antonomasia è che quella del Dreibund fosse, come scriveva Gaetano Salvemini, un’alleanza «innaturale». E anche che nello scoppio e nella protrazione del conflitto ci sia stato un che di inesorabile. Come sostenne il ministro degli esteri britannico David Lloyd George, che nelle sue memorie scrisse: «Le nazioni sono scivolate oltre l’orlo del cratere bollente della guerra». Ciò che colpisce Rusconi è il ricorso a quel verbo, «scivolare», quasi a voler dare un senso «preterintenzionale» all’esplosione del conflitto e di conseguente deresponsabilizzazione di coloro che lo causarono.
Qualcosa di preventivamente autoassolutorio lo aveva detto — in tempo reale, il 30 luglio 1914, parlando al Consiglio dei ministri prussiano — il cancelliere Theobald von Bethmann Hollweg che viene qui definito «il principale responsabile tedesco della decisione di guerra (anche se essa sarebbe stata impossibile senza l’approvazione del Kaiser verso il quale egli nutriva lealtà e deferenza, e senza le continue sollecitazioni dei militari)». «Tutti i governi, compreso quello russo e la maggioranza dei popoli in sé sono pacifici», disse quel giorno Bethmann, «ma si è persa la direzione e la pietra sta rotolando».
La verità è, invece, che i dispacci inviati da Berlino alle capitali europee in quell’estate del 1914 «contengono varianti e omissioni che», secondo Rusconi, «fanno sospettare la volontà di confondere il campo avversario». E gli effetti di questa politica studiata per frastornare gli interlocutori si ribaltano contro gli ideatori di questi stratagemmi, configurandosi come una prova di responsabilità. O, se si vuole, di grave irresponsabilità. Talché la tesi di una guerra «inavvertita», ossia sfuggita al controllo in quanto imposta da fattori tecnici, esterni alle intenzioni dei protagonisti, appare «suggestiva ma non sostenibile».
C’è poi un momento, nell’autunno del 1914, nel quale i contendenti avrebbero dovuto accorgersi che le cose stavano andando in modo diverso da come si erano immaginati che andassero. Tra il 6 e il 10 settembre ha luogo un grande scontro lungo un fronte di trecento chilometri tra Meaux e Verdun. È l’inizio di quella che prenderà il nome di «battaglia della Marna». Un evento, scrive l’autore, «paradossalmente decisivo proprio perché non risolve le sorti della guerra, come tutti si attendevano». I tedeschi infatti, «sotto pressione, decidono di ripiegare per assestarsi più a nord in trincee imprendibili». È così che «comincia quella Grande guerra che rimarrà fissata nella memoria collettiva come guerra di trincea con i suoi massacri insensati, i disperati assalti per conquistare poche centinaia di metri, i continui brutali bombardamenti di artiglieria», dopo i quali, come si disse allora (è riportato nel libro di Alistair Horne Il prezzo della gloria , Bur), «non si può distinguere se il fango sia carne o se la carne sia fango». La battaglia della Marna cambia la natura del conflitto: da guerra di movimento, diventa guerra di trincea, «fondendosi poi, con il passare del tempo, con la guerra di materiali». I francesi parlano di «miracolo della Marna», il filosofo Henri Bergson evocherà Giovanna d’Arco e la «lotta della civilizzazione contro la barbarie tedesca». Ma la battaglia non diede un vincitore e un vinto, tant’è che Parigi e Berlino si ostinarono a rimpiangere «un risultato migliore e risolutivo», ognuno a proprio favore. Risultato che si sarebbe potuto ottenere se lo scontro non fosse stato interrotto. «Per ragioni diverse», fa notare lo storico, «francesi e tedeschi ritenevano di poter arrivare a un esito decisivo, anche se erano molto provati». È legittimo chiedersi «perché i contendenti — di fronte all’esito inatteso della battaglia e alla paralisi militare che ne è seguita — non abbiano cercato vie di composizione del conflitto». Già, perché?
Nel 1915 entra in guerra l’Italia. I nostri alleati (e futuri nemici) non hanno una grande opinione di noi. Nel novembre del 1912 l’ambasciatore russo a Parigi, Aleksandr Izvol’skij, scrive al suo ministro degli Esteri Sergej Sazonov: «Nessuno crede che la Triplice Intesa o la Triplice Alleanza possano contare sulla lealtà dell’Italia che… nel caso di una guerra assumerà un atteggiamento di osservazione e poi si assocerà alla parte verso cui arride la vittoria». Dello stesso tono una nota del Conseil supérieur de la défense nationale francese, secondo la quale «l’Italia rimarrà probabilmente neutrale, ma non esiterà a schierarsi dalla parte del possibile vincitore». Tutti la pensano allo stesso modo. In un promemoria del 20 dicembre 1912, il capo di stato maggiore tedesco Alfred von Schlieffen afferma di non coltivare illusioni circa il nostro impegno: se il nostro Paese costringerà la Francia a lasciare due corpi d’armata e relative riserve ai confini alpini «questo è tutto il vantaggio che potremo verosimilmente trarre dall’alleanza con l’Italia in una guerra».
Si differenzia da tutti gli altri, a Roma, il capo di stato maggiore dell’esercito Alberto Pollio, la cui fedeltà al Dreibund suscita l’ammirazione di amici e (potenziali) nemici. Pollio si spinge a proporre ai tedeschi un’azione preventiva: «Non è più logico per la Triplice sbarazzarsi di ogni falso sentimento umanitario e incominciare per tempo una guerra che ci sarà comunque imposta? Per questo mi chiedo, in piena sintonia con il vostro grande re Federico, quando nel 1756 spezzò il cerchio ferreo dei suoi avversari: perché non cominciamo noi adesso questa guerra inevitabile?». Di più: Pollio sostiene che la Triplice debba «agire in guerra come un unico Stato». Ma il suo interlocutore tedesco Alfred von Waldersee inviterà il comandante supremo Helmuth Johann Ludwig von Moltke (sensibile alle suggestioni di Pollio) a non confondere quell’interlocutore con i suoi connazionali: «L’eccellente capo di Stato maggiore italiano è una grande mente, un uomo affidabile. Ma fino a quando durerà la sua influenza?». Per poi così irridere i precedenti di guerra del nostro Paese: «La nuova Italia sinora ha sempre fatto i suoi affari con le vittorie degli altri». Poi, dopo l’attentato di Serajevo, il 1° luglio del 1914 Pollio muore all’improvviso. I tedeschi sospettano si tratti di omicidio (ma non c’è alcuna evidenza in tal senso). Il successore di Pollio, Luigi Cadorna, il 27 luglio manda una lettera a Moltke in cui ribadisce i sensi della lealtà italiana all’alleanza e quattro giorni dopo predispone una «Memoria sintetica» per «il trasporto in Germania della maggiore forza possibile». Documento approvato dal re, o meglio, dal suo principale collaboratore. Vittorio Emanuele, però, la mattina successiva proclama la nostra neutralità. Si arriva così, scrive Rusconi, «all’assurdo» che vede «l’aiutante di campo del re mandare la sua lettera di approvazione a Cadorna pochissimo prima che il sovrano e il governo decidano di congelare l’intera situazione dichiarando la neutralità dell’Italia».
Cadorna, capita l’antifona, in un breve volgere di tempo si trasforma nel «più solerte sostenitore della guerra contro l’impero asburgico, scontrandosi con la riluttanza del governo che intende invece agire con circospezione». Così come Sidney Sonnino, che da posizioni filotedesche passa al fronte opposto, resistendo, da ministro degli Esteri (dopo la morte di San Giuliano, ottobre 1914), alle pressioni della Germania perché l’Italia stia ai patti e, quantomeno, rimanga neutrale. Ma in Germania non è che da noi si aspettino granché. Già il 14 luglio il segretario particolare del cancelliere Bethmann, Kurt Riezler, annota come sia molto improbabile che l’Italia mantenga i suoi impegni, «a meno che a lungo andare la nostra vittoria sia sicura o la ritenga tale». Il 2 agosto Moltke scrive: «Non attribuisco valore alcuno al fatto che l’Italia dia seguito per intero alla promessa di invio di truppe in Germania»; l’importante è che, quantomeno, non rompa platealmente il fronte della Triplice Alleanza. I tedeschi chiedono agli austriaci di promettere qualche compenso in più all’Italia. Ma l’Austria resiste, perché ritiene che in ogni caso l’Italia fiuterà il vento. Anche per il fatto che, come sostiene il primo ministro ungherese István Tisza «è militarmente debole e codarda». I tentennamenti sono infiniti. Quando a fine agosto sembra che l’offensiva tedesca contro la Francia sia coronata da successo, Antonino di San Giuliano (quattro settimane prima di morire) si affretta a scrivere: «Noi abbiamo sempre pensato che le probabilità di vittoria erano per la Germania». E pensare che lo stesso San Giuliano poco prima aveva detto che l’Italia poteva rompere con Austria e Germania. Ma solo, aveva prudentemente aggiunto, se avesse avuto «la certezza di vittoria». Ciò che gli appariva «non eroico», ma «saggio e patriottico».
L’unico a restare coerente è Giovanni Giolitti, il quale sostiene a più riprese che passare «all’aggressione (degli ex alleati) sarebbe un tradimento come ce n’è pochi nella storia». Il 26 aprile del 1915 l’Italia firma (segretamente) il patto di Londra, con il quale si impegna a entrare in guerra a fianco della Triplice Intesa. Poi con il «maggio radioso» le masse vengono mobilitate in modo che si possa pensare che il re abbia deciso in tal senso per appagare un desiderio del «suo» popolo. Olindo Malagodi incontra Giolitti il 9 maggio e lo trova furibondo («ha perduto la sua bella freddezza abituale», annota sul diario). Poi dice: «La gente che è al governo meriterebbe di essere fucilata… è un’idea fissa di Sonnino di fare la guerra per salvare la monarchia che non è affatto in pericolo… Salandra ha mentito! Già è pugliese!». Ma, nonostante sia il più importante uomo politico dell’epoca e benché disponga del consenso della maggioranza dei parlamentari, Giolitti non riesce ad impedire la nostra entrata in guerra a fianco dell’Intesa. Evidentemente, riflette Rusconi, «la riluttanza a fare la guerra non basta a bloccare l’effetto trascinante e intimidente della mobilitazione a favore dell’intervento, che è minoritaria ma potente dal punto di vista comunicativo». Non sarà l’ultima volta nella storia d’Italia che una minoranza «potente dal punto di vista comunicativo» prevarrà su una maggioranza che di quella potenza non dispone (o non sa disporre). Dopodiché lo storico ridimensiona l’accusa all’Italia d’essere venuta meno ai patti, facendo notare come anche l’impero austroungarico facesse in quelle circostanze il doppio gioco. Ma l’onta in qualche modo restava. E qui Rusconi mette in rilievo come Benito Mussolini nel 1940 abbia compiuto il tragico errore di entrare in guerra, a fianco dei nazisti, proprio per evitare di essere accusato di aver tradito la Germania «per la seconda volta».
Fondamentale all’epoca è quella che potremmo definire «la battaglia dei professori». Pochi mesi, scrive Rusconi, «separano le lacrime di commozione patriottica dei docenti berlinesi dalle lacrime per il massacro dei loro studenti». Viene qui riletto l’«Appello dei 93» che sarà sottoscritto, nel 1914, da ben quattromila intellettuali e accademici tedeschi. In esso si sostiene che la «lotta dell’Occidente contro il nostro cosiddetto militarismo» è una «lotta contro la nostra cultura». Chi ha posizioni avverse alla Germania è un «ipocrita»: «Senza il militarismo tedesco infatti la cultura tedesca sarebbe da tempo cancellata dalla faccia della terra». Non è vero, sostiene l’Appello, «che abbiamo criminosamente violato la neutralità del Belgio; è dimostrato invece che Francia e Inghilterra erano decise a violarla, sarebbe stato un suicidio non prevenirle». Né va dimenticato — prosegue il manifesto — che la popolazione belga «ha sparato ai soldati tedeschi alle spalle, ha mutilato feriti, ucciso medici nell’esercizio del loro servizio umanitario». Di più: «I nostri nemici, per atteggiarsi a difensori della civilizzazione europea, non hanno il diritto di allearsi con russi e serbi e di offrire al mondo il disgustoso spettacolo di aizzare mongoli e neri contro la razza bianca».
Tra i firmatari ci sono — salvo pochissime eccezioni — «tutti gli studiosi che ancora oggi sono considerati indiscusse autorità nei loro campi di studio». Non manca un nutrito gruppo di scienziati, come il biologo Ernst Haeckel, il fisico Max Planck e lo psicologo Wilhelm Wundt. È singolare, nota Rusconi, «che le storie ufficiali della filosofia preferiscano ancora oggi sorvolare sul punto, considerando l’euforia bellicista dei filosofi un incidente trascurabile». Per contro in Francia si schierano a favore della guerra André Gide, Marcel Proust, Anatole France, Paul Claudel, Emile Durkheim, Charles Péguy, persino lo storico «giacobino» Albert Mathiez. E in Russia aderiscono alla crociata contro la «barbarie teutonica» nemici giurati dell’autocrazia zarista come Plechanov, Kropotkin. I poeti Blok, Esenin e Majakovskij.
Rusconi è particolarmente incuriosito dalla figura di Thomas Mann, che il 7 agosto del 1914 scrive al fratello Heinrich: «Il mio sentimento fondamentale è di enorme curiosità e, lo confesso, nutro la più profonda simpatia per questa odiata Germania, così gravida di enigmi e di destino». Poi affiderà ai Pensieri di guerra questo ricordo: «Guerra! Quale senso di purificazione, di liberazione, di immane speranza ci pervase allora! Ecco, di questo parlavano i poeti, solo di questo. E quando poi si ebbero i primi risultati decisivi, quando si issarono le bandiere, quando i mortaretti rintronarono annunciando la marcia trionfale del nostro esercito sino alle porte di Parigi, non ci sembrò di avvertire allora una sorta di delusione, di disinganno come se le cose andassero troppo lisce, fossero troppo facili, come se la debolezza del nemico ci privasse dei nostri sogni più belli?».
Quanto poi alle Considerazioni di un impolitico , che Thomas Mann iniziò a scrivere nel 1915 (per sviluppare più ampiamente il libro nel 1917 e darlo alle stampe, a guerra persa, nel 1918), Rusconi afferma: «Non credo che sia un’opera sbagliata, mal riuscita o fallita — come hanno scritto alcuni critici. È un’opera enigmatica, a suo modo unica». Bersagli delle Considerazioni sono come è noto il fratello Heinrich Mann, prototipo del «civil-letterato», e Romain Rolland, premio Nobel della letteratura nel 1915, che ha la pretesa di mettersi «al di sopra della mischia». Agli occhi di Thomas Mann «rappresentano l’ipocrisia dei letterati della civilizzazione che si illudono e vogliono illudere di avere a cuore i valori universali cosiddetti democratici, mentre in realtà perseguono gli interessi materiali della loro parte politica contro la Germania». Con il progetto di «indurla a sgermanizzarsi». Poi, con gli anni, Thomas Mann cambierà idea. Ma non ripudierà mai le Considerazioni e con esse quella che considera «una battaglia di ritirata in grande stile, l’ultima e più tarda di uno spirito borghese tedesco e romantico, combattuta con piena coscienza della sua vanità e quindi non senza nobiltà d’animo» (parole scritte nel 1928, in piena Repubblica di Weimar). Nel marzo del 1952, tre anni prima di morire, tornerà su quel libro ormai considerato scandaloso: «Non me la sono mai sentita di rompere davvero con le Considerazioni , esse sono un’opera di travaglio e di scandaglio faticoso e schietto di me stesso a cui devo essere grato perché solo quella tribolazione ha reso possibile La montagna incantata ». La verità è da ricercarsi, secondo Rusconi, in qualcosa che ha «reso difficile a Thomas Mann un’adesione intima alla democrazia come istituzione e l’accettazione del valore ineludibile delle sue procedure». I meccanismi istituzionali e la logica elettorale, l’imprescindibilità delle regole parlamentari, l’idea stessa dell’egalitarismo sociale non lo «hanno mai davvero conquistato».
C’è però un grande intellettuale tedesco la cui firma non compare in calce all’«Appello dei 93»: Max Weber. Non certo perché sia antipatizzante nei confronti dell’impresa bellica. Anzi. Il 29 agosto del 1914 scrive: «A prescindere da come finirà, questa guerra è grande e meravigliosa». E non ha nemmeno obiezioni all’invasione del Belgio: «La causa della guerra non è stata la nostra marcia in Belgio, lo sappiamo; il Belgio non doveva diventare un varco dei nostri nemici». Eppure il sociologo non indulge alle retoriche che impregnavano le «idee del 1914». L’imperialismo liberale, di cui lui è un rappresentante, vede le relazioni internazionali immerse nella logica di potenza, «potenza temperata da forme di equilibrio in un più ampio sistema delle nazioni». Rifugge, Weber, «da ogni esaltazione vitalistica, razzista o estetizzante della potenza, da ogni euforia bellicista; la sua è piuttosto una visione fatalista, caratterizzata eventualmente da un certo titanismo morale». Ma il sentimento più diffuso (o che, quantomeno, appare tale, è quello del giovane volontario Ernst Jünger: «Siamo partiti sotto una pioggia di fiori, ebbri di rose e di sangue. Non vi era alcun dubbio che sarebbe stata la guerra ad apportarci quella cosa grande, forte, memorabile che tanto sospiravamo. Essa ci appariva un’azione virile, una divertente scaramuccia su prati fioriti, bagnati dalla rossa rugiada del sangue».
Rusconi dà credito a studi più attenti che ci dicono non essere andate le cose esattamente in quel modo: «Accanto all’adesione entusiastica, c’è anche un’oscura paura rimossa grazie alla prima straordinaria operazione mediatica di massa del Novecento, pilotata dalle agenzie statali e dai grandi giornali nazional borghesi, in grado di sedurre, zittire, oscurare le voci dissenzienti o perplesse… Sull’unanimità della festa popolare dell’agosto 1914 (qui in Italia del maggio 1915, ndr ), sulla euforia della partecipazione di tutti gli strati sociali, oggi si hanno forti dubbi». Si registra piuttosto un condiviso «spirito di servizio» per la patria in pericolo, nel quadro di un «patriottismo difensivo». Che è cosa diversa da quella che da cento anni si tramanda.
Attenti, dunque, alle «straordinarie operazioni mediatiche di massa», ci mette in guardia l’autore. Rusconi propone le parole del «supercapitalista» tedesco Hugo Stinnes, che qualche tempo prima dell’inizio del conflitto si opponeva al ricorso alle armi con questo argomento: «In Europa non c’è nessuno che possa contestarci il nostro rango. Dunque, tre o quattro anni di pace e vi assicuro la predominanza tedesca in Europa con tutta tranquillità». Una citazione che, letta oggi, appare maliziosa. La Germania del 2014, mette in chiaro Rusconi, «non ha nulla in comune con quella del 1914 salvo l’eccellenza economica, ma in un contesto internazionale e geopolitico inconfrontabile; il processo della sua integrazione europea e occidentale è irreversibile, a meno di imprevedibili disastri; se esiste un problema tedesco, è perché esiste un problema europeo, ma questo a sua volta non può essere adeguatamente compreso con l’apparato concettuale tradizionale con il quale abbiamo analizzato le vicende che culminano nella Grande guerra».
Parlando dell’oggi, «non è un dettaglio che la nuova assertività tedesca non poggi al suo interno su un sistema politico semiautoritario, come nel 1914, ma su un solido e funzionante modello democratico che ha sempre di mira una più intensa integrazione europea… È da qui che si deve cominciare a capire la Germania nella sua nuova normalità, che sembra porsi addirittura come modello di orientamento per le altre nazioni europee». Soltanto così «la si può eventualmente anche criticare». Che è un modo di puntare l’indice contro coloro che muovono accuse alla Germania richiamando alla memoria quel che fu nel 1914. O, addirittura, nel 1939. Accuse che, è bene ribadirlo, non hanno alcun fondamento storico.

Corriere 4.3.14
1956, l’anno degli inganni da Budapest al Canale di Suez
risponde Sergio Romano


Ho letto la sua risposta sulla rivoluzione ungherese del 1956 e ora vorrei da lei maggiori informazioni su quella rivolta. Durante la rivoluzione ungherese non ero ancora nato e i libri di testo di storia su cui ho studiato ancora non ne parlavano.
Severino Cazzani , Pavia

Caro Cassani,
La rivoluzione ungherese fu l’ultimo degli avvenimenti che scossero dalle fondamenta il blocco sovietico dopo la morte di Stalin il 5 marzo 1953. Il primo fu la grande manifestazione operaia di Berlino Est il 16 giugno dello stesso anno: 30.000 persone nelle vie della città per chiedere migliori condizioni di lavoro e invitare il Paese a uno sciopero generale. Il secondo fu la protesta dei cittadini di Praga, nello stesso mese, contro l’iniqua riforma monetaria dei giorni precedenti. I moti di Berlino furono soppressi con i carri armati dell’esercito sovietico e la manifestazione di Praga venne dispersa dalla polizia.
Ma il XX Congresso del Pcus (partito comunista dell’Unione Sovietica), nel febbraio del 1956, e il rapporto segreto di Kruscev contro gli orrori dello stalinismo offrirono ai polacchi e agli ungheresi occasioni per proteste molto più diffuse e radicali. In ambedue i Paesi i dimostranti, studenti e operai, chiedevano anzitutto il ritorno alla vita pubblica di leader comunisti riformatori che erano stati sospettati di «titoismo» ed epurati durante le ultime purghe staliniane: Wladislaw Gomulka in Polonia e Ferenc Nagy in Ungheria. Ma alle origini della protesta vi erano anche il disagio economico e il risveglio del sentimento nazionale.
I sovietici furono preoccupati soprattutto dagli avvenimenti della Polonia, una nazione che era già insorta contro la Russia zarista nel 1830 e nel 1863. Dopo un viaggio di Kruscev a Varsavia, permisero che Gomulka venisse «riabilitato», richiamarono a Mosca il loro proconsole (il maresciallo Konstantin Rokossowskij, un russo di origine polacca), autorizzarono la liberazione del cardinale Wyszynski e permisero agli agricoltori di conservare i quattro quinti della terra coltivabile.
In Ungheria, invece, la loro reazione fu molto meno conciliante. Fra gli scontri dei dimostranti con la polizia segreta durante la grande manifestazione popolare del 23 ottobre e l’ingresso dei carri armati sovietici a Budapest corrono soltanto poche ore. Seguì una sorta di stallo. Mentre i dimostranti strappavano al regime il ritorno di Nagy, i sovietici stettero a guardare e, anzi, ritirarono i carri armati dalla città. Ma non appena Nagy, alla testa di un nuovo governo, denunciò il patto di Varsavia (la Nato del blocco sovietico) e dichiarò che l’Ungheria voleva essere neutrale, i sovietici tornarono con un corpo di spedizione e spensero la rivoluzione nel sangue. Erano decisi a impedire che il successo della protesta ungherese ridesse fiato a quelle di Berlino, Praga e Varsavia.
L’Urss fu favorita dalla coincidenza di altri due avvenimenti. Il 31 ottobre, le truppe francesi e inglesi s’impadronirono del canale di Suez. Il 4 novembre, le truppe israeliane raggiunsero il Canale. Il 7 novembre, l’Assemblea delle Nazioni Unite ingiunse a Francia e Gran Bretagna di ritirare le proprie truppe; e nello stesso giorno Eisenhower fu eletto per la seconda volta alla presidenza degli Stati Uniti. L’azione anglo-francese ebbe un duplice effetto: dimostrò che il militarismo non era soltanto comunista e dette a Kruscev l’occasione di atteggiarsi a protettore dei Paesi arabi con dichiarazioni che allontanavano da Budapest gli sguardi della società internazionale.

da Repubblica 4.3.14
Bellocchio:“ Ma noi registi siamo lasciati soli”
di Arianna Finos

ROMA Marco Bellocchio si esprime con insolito trasporto: «bello quest’Oscar vinto da un autore che stimo, che ha un suo stile originale. È una festa per tutti, sapendo però che poi noi registi andiamo avanti da soli».