giovedì 6 marzo 2014

l’Unità 6.3.14
Boschi: no a dimissioni per un’indagine
Si accende la polemica sui sottosegretari al centro di inchieste giudiziarie
Bindi attacca: «Quelle nomine al governo sono state un atto superficiale. Chi non è presentabile alle elezioni non può stare nel retrobottega del governo»
di Andrea Carugati


Rispondendo al question-time dei 5 Stelle sul caso Barracciu, la ministra per le Riforme e i Rapporti col Parlamento, Maria Elena Boschi difende la scelta del governo: «Non si chiedono dimissioni per un avviso di garanzia, aspettiamo le inchieste». Ma la polemica non si placa. E Bindi va all’attacco. Più che un braccio di ferro, quella in corso al Senato tra i grillini somiglia più a una guerra di nervi. Con cinque senatori che la settimana scorsa si sono dimessi per protesta contro l’espulsione di 4 colleghi, e che in questi giorni vivono in un limbo che sta facendo saltare i nervi agli ortodossi della linea Grillo-Casaleggio. Da un alto continuano a presenziare in Aula e nelle commissioni a nome dei 5 stelle, dall’altro se ne infischiano degli ultimatum che il capogruppo Santangelo continua a mandare per invitarli a scegliere: «O ritirate le dimissioni, oppure dovete lasciare il gruppo».
Loro però tirano dritto, consapevoli che il voto dell’Aula sulle loro dimissioni potrebbe arrivare tra alcune settimane, se non mesi. L’ultimatum è stato respinto al mittente, e Maurizio Romani(capogruppo mancato per un paio di voti proprio contro Santangelo), che è un po’ il leader della cinquina, ieri si è fatto beffe del collega, che in una mail lo invitava ad accelerare i tempi «anche a seguito di colloqui intercorsi con il presidente Grasso». Romani ha parlato con il presidente e ha pubblicato la lettera di Santangelo su Facebook. «Il presidente Grasso mi ha detto di non avere avuto alcun colloquio con i vertici del gruppo 5 stelle a proposito delle nostre dimissioni ». E dunque? «Non c’è alcuna necessità di accelerare i tempi della mia risposta ». I fedelissimi sono furiosi con Romani che «ha pubblicato una mail privata su Facebook e ha tirato in ballo persino il presidente del Senato». E ieri mattina in Aula ha fatto una mossa in più: ha preso la parola per spiegare che l’espulsione dei 4 colleghi è avvenuta a seguito di un «processo sommario, senza rispettare le nostre regole interne». Romani ha concluso ribadendo di voler attendere il voto dell’Aula sulle dimissioni. «Se saranno approvate tornerò a fare il medico. Se invece il mio messaggio verrà compreso, allora potrò ritirarle e continuare a fare il mio lavoro di senatore a 5 Stelle». Sulla stessa linea anche le altre4 dimissionarie, Laura Bignami, Monica Casaletto, Alessandra Bencini e Maria Mussini. «Sei stato scorretto», è stata la frecciata lanciata da Santangelo, e intercettata dai banchi della Lega.
La situazione però ha degli aspetti paradossali. Gli ortodossi sono furiosi, e convinti che ormai il «rapporto con i dimissionari sia molto logorato». «Basta tergiversare, non possono stare in questa terra di nessuno, devono decidersi», è l’invito che arriva dagli ex capigruppo Vito Crimi e Nicola Morra. Crimi la vede così: «Se uno per protesta arriva a dimettersi dal Senato pur di uscire da un gruppo di cui non condivide la linea, non può restare in questa situazione ambigua. Deve quantomeno lasciare il gruppo in attesa della pronuncia dell’Aula». È questa la strada che intendono seguire gli ortodossi, e con tutta probabilità la decisione sarà presa nell’assemblea prevista per oggi pomeriggio. Difficile però che si arrivi a nuove espulsioni e ad una nuova pronuncia della Rete, a una sola settimana di distanza dalla cacciata di Campanella, Battista & Co. I fedelissimi ragionano sull’ipotesi di una «sospensione » dei 5, in attesa che l’Aula confermi le dimissioni. «Di certo, se lo scopo di Romani e gli altri è di fare pressione psicologica per cambiare la linea del M5s, noi non accetteremo ricatti», assicura Crimi. «Se pensano che il M5s sia cosa loro si sbagliano», replica la Bignami.
Sull’altro fronte gli espulsi stanno lavorando alacremente al nuovo gruppo, che per ora può contare su 8 senatori (ma ne servono almeno 10). Fatto sta che la truppa arrivata sui banchi del Parlamento esattamente un anno fa, per aprire i palazzi come scatole di tonno, ora è in preda a uno psicodramma. Le diverse fazioni vivono vite a parte, mangiano rigorosamente in tavoli separati, si guardano con sospetto. «Sto molto male, mai avrei immaginato che saremmo arrivati a questo», sospira Ivana Simeoni, una delle più anziane del gruppo. Nel mezzo ci sono 6-7 senatori contrari alle espulsioni e tentati dalla fuga. E anche una questione economica: un gruppo partito con 54 senatori è già arrivato a 46, con i 5 dimissionari espulsi si arriverebbe a 41. Per poi, eventualmente, scendere ancora se gli incerti dovessero scegliere il gruppo di Campanella. «Sarebbe un disastro economico per il gruppo M5s, ora abbiamo 25 dipendenti, dovrebbero cominciare a licenziarne qualcuno », spiega un senatore sotto garanzia dell’anonimato. L’ennesimo fattore economico entra nella vicenda 5 stelle, dopo le infinite querelle sugli stipendi restituiti, che continuano ad alimentare le accuse reciproche tra le fazioni.
Grillo, intanto, dopo una telefonata per tentare di ricucire con il sindaco Pizzarotti, si scaglia al solito contro Renzi: «Con i bimbi della scuola di Siracusa sembrava Mussolini coi figli della lupa». La replica del premier: «Beppe è nervoso. Non vuole che io vada nelle scuole, mi vorrebbe rinchiuso nel palazzo. Ma io sto con gli studenti, le insegnanti, le famiglie e i sindaci. Mentre i suoi stanno fuori ad urlare con Forza Nuova».

Repubblica 6.3.14
Troppi sofismi rischiano di azzoppare il cambiamento
di Liana Milella


PUÒ giocare brutti scherzi lo spartiacque del governo. Il prima e il dopo. Prima di approdare a Palazzo Chigi, la solenne promessa da parte di Renzi del nuovo a ogni costo. Dopo, il gioco in difesa. Prima, la perentoria richiesta di dimissioni a Cancellieri e De Girolamo e quell’inderogabile «se ne devono andare».
DOPO, i sofismi per tenere nell’esecutivo i sottosegretari inquisiti. Gentile, il più impresentabile, è stato dimissionato ed era un esponente dell’Ncd, il partito di Alfano. Quelli del Pd invece restano con il diktat affidato alla Boschi. Una sorta di improvviso “doppiopesismo”.
Sconcerta sentire il giovane ministro dire a Montecitorio che il governo non chiederà le dimissioni «sulla base di un avviso di garanzia». Suona strumentale, politicamente imbarazzante, e anche un po’ cinico, il richiamo alla «presunzione di innocenza». Disgraziata quella frase - «l’avviso di garanzia è un atto dovuto, non è un’anticipazione di condanna» - perché evoca le argomentazioni cui la destra di Berlusconi è sistematicamente ricorsa in questi vent’anni per giustificare il connubio tra illegalità e politica. Manca solo l’attacco ai giudici.
Da chi, come Renzi, dialoga con Saviano e promette una lotta decisa alla corruzione e all’illegalità, c’era da aspettarsi tutt’altra coerenza nella selezione del personale politico. Soprattutto se il capo del governo è al contempo il segretario del “nuovo” Pd. Un partito che in questi anni ha sempre preso le distanze dai politici indagati. E non può scoprirsi improvvisamente garantista solo quando va al governo e quando si tratta di difendere alcuni dei suoi esponenti. Poi bisognerebbe avere la forza e il coraggio di separare la posizione di chi è accusato di un semplice abuso d’ufficio rispetto a chi è indagato per avere usato fondi pubblici a scopo personale.
Ma qui il caso è ancora diverso. La «presunzione d’innocenza » non c’entra. Non si tratta di sottosegretari che hanno ricevuto un avviso di garanzia. Ma di membri dell’esecutivo che erano stati già toccati dalle indagini. Era proprio necessario mettere al governo persone sotto accusa? Non se ne potevano scegliere altre? Se sono stati selezionati quelli, qual è stata la vera ragione? Qui le colpe di Renzi diventano doppie. Non solo ha abiurato alle promesse che egli stesso ha fatto sulla pulizia e trasparenza di chi regge la cosa pubblica, non solo ha usato un criterio per criticare le debolezze di Letta e un altro, ben più corto e flessibile, per assolvere le sue scelte, ma soprattutto sta compromettendo il futuro. Il rischio è di riconsegnare ancora una volta nelle mani dei magistrati il compito di dispensare lasciapassare per i buoni e i cattivi candidati. O dire - con una condanna o una assoluzione - se i sottosegretari possano restare o debbano andarsene.

il Fatto 6.3.14
Renzi cambia verso Gli indagati non si toccano
Indagati a casa? “Non è intenzione del governo”
Il ministro Boschi alla Camera: i sottosegretari non si toccano
di Fabrizio d’Esposito


In un’aula vuota e sorda pure, la Boschi rosa e renziana, dal colore della camicia, completa la mutazione genetica del Pd. Gli indagati di governo non si toccano. Punto. Barracciu, per l’occasione, ma anche De Filippo, Bubbico e Del Basso De Caro. Salvarne una per salvare gli altri tre. La questione morale è morta e sepolta. Con tanto di timbro parlamentare, nasce la questione della doppia morale della sinistra. Il Cinghiale calabro e censore, alias Tonino Gentile di Ncd, a casa ma gli altri no. Nel caso della Barracciu la doppia morale ha persino una variante ad personam, come spiega una deputata grillina, Emanuela Corda: “Noi vorremmo capire secondo quali criteri Matteo Renzi abbia considerato l’onorevole Barracciu non candidabile alla carica di governatrice ma notevolmente idonea invece a ricoprire l’incarico di sottosegretario. Vogliamo capire perché l’avete prima accompagnata alla porta e poi la fate rientrare dalla finestra”.
MARTEDÌ 5 MARZO, alle 15 e
45. A Montecitorio, in aula, non ci sono più di trenta deputati. Si contano facilmente, dalla tribuna stampa. Question time, si chiama così il tempo dedicato alle interrogazioni. Una riguarda proprio la Barracciu, l’ha presentata il Movimento 5 Stelle. La Corda esaurisce il minuto che ha a disposizione e tocca a Maria Elena Boschi, ministro per i Rapporti con il Parlamento, alzarsi e rispondere. La ministra, come la chiama il vicepresidente Luigi Di Maio, altro grillino, ripete il copione quasi a memoria, senza tenere conto del cruciale quesito sollevato dal M5S: “Perché in Sardegna no e al governo sì?”. La giovane Boschi, rosa e renziana, mette il suo viso da Madonna su un Pd democristiano, socialista e berlusconiano allo stesso tempo. Nemmeno il partito dalemiano era mai arrivato a tanto: “Non è intenzione di questo governo chiedere dimissioni di ministri o sottosegretari sulla base di un avviso di garanzia, ma eventualmente per motivi di opportunità politica. Noi tutti abbiamo giurato sulla Costituzione e sappiamo che uno dei principi fondamentali è la presunzione di innocenza. L’avviso di garanzia è un atto dovuto, posto a tutela di ogni cittadino e di ogni indagato per poter esercitare pienamente il diritto di difesa; non è un’anticipazione di condanna. Quindi, questo procedimento nei confronti della Barracciu è nella fase preliminare, il sottosegretario ha chiesto anche una accelerazione dei tempi; all’esito il governo valuterà se suggerire le dimissioni del sottosegretario”. La svolta del Pd si consuma in meno di dieci minuti. Sempre in aula vuota. Sorda e sarda. I grillini non si ritengono soddisfatti e vanno all’attacco. A parlare stavolta è Nicola Bianchi: “Ma la Barracciu non si era fatta da parte perché non era eticamente corretto candidarsi dopo essere stata indagata per aver sperperato soldi pubblici? Ebbene sì: soldi pubblici. Si parla, nello specifico, di 33 mila euro di rimborsi di benzina. Facendo un rapido calcolo, si evince che corrispondono a circa 19.400 litri, l’equivalente che serve a fare il giro della terra per sette volte”. Ma non ci sarà nulla da fare. Gli indagati resteranno al loro posto, con la complicità di Ncd che non chiederà la loro testa per bilanciare il sacrificio di Gentile. Schifani si è premurato di precisarlo : “Noi siamo e resteremo garantisti”. La costituzionalista Lorenza Carlassare sul sito di Libertà e Giustizia ricorda che il capo dello Stato avrebbe potuto impedire la nomina di inquisiti. Articolo 54 della nostra Carta: la garanzia dell’onore.
Non solo. Dalle 15 alle 16, il question time è stato illuminante per capire che cosa è diventato questo partito. Prima della Boschi, un deputato democrat, Matteo Mauro, vicinissimo al famigerato Penati, ha chiesto al ministro Lupi di fare in fretta per il Terzo Valico, quello da Rotterdam a Genova. E Lupi lo ha rassicurato. Ci sono 1,9 miliardi di euro in ballo. Quindi: “Il governo decide e gli enti attuano”. Senza fiatare. Indagati, affari, l’Italicum pasticciato. È una deriva infinita.

il Fatto 6.3.14
Corradino Mineo Il giornalista-senatore
“No a dimissioni automatiche, però Bubbico...”
di Marco Palombi


Intanto premetto una cosa: non faccio la campagna sugli indagati, non mi ci trovo. Non penso che un semplice avviso di garanzia basti. Per dire, la vicenda di Gentile è di una gravità inaudita anche se lui non è indagato. Chissenefrega se non è indagato, ha provato a bloccare un giornale...”. Corradino Mineo, volto della Rai, oggi senatore del Pd, siciliano, ci tiene alla sua premessa e dunque sulla questione dei sottosegretari indagati sembrerebbe in linea col suo governo. Eppure, a entrare nel merito, scarta di lato, non ce la fa a non fare qualche distinzione: “Ho sentito quello che ha detto il ministro Boschi e in linea di principio sono anche d’accordo, però...”.
Però?
Però anche sulla vicenda Barracciu c’è qualcosa che non mi torna e sono d’accordo con Rosy Bindi: non capisco perché si sia evitato di candidare questa signora, sicuramente innocente, a presidente della Sardegna e ora la si nomina sottosegretario alla Cultura. Ma insomma, se non andava bene per le elezioni sarde, perché ora va bene per il governo? Però non è un discorso generale.
Per gli altri indagati non vale.
Non vale in automatico, perché quello che dicono le Procure non è legge. Prendiamo l’abuso in atti d’ufficio.
Prendiamolo.
Quello è un reato che può essere contestato anche al sindaco più integerrimo, anche per dire a quello di Messina, Renato Accorinti, che ho conosciuto recentemente.
Se lei si riferisce al caso del viceministro dell’Interno Filippo Bubbico, però, non si tratta solo di un avviso di garanzia: è in corso il processo.
Dicevo in generale, però è vero e infatti, anche se non significa che sia colpevole, la sua nomina la trovo un fatto inopportuno. Io diciamo che non lo avrei fatto: d’altronde non penso ci sia solo lui in grado di fare quel lavoro.
Quindi Barracciu e Bubbico meglio di no, gli altri passi.
È che non ci sto al discorso che tutti sono impresentabili, l’ho già detto.
Renzi, però, s’è presentato come premier indicando tra le priorità quella di agire sulle spese dei consigli regionali e i sottosegretari Pd proprio per quello sono inquisiti.
Vero, ma io non sono mica Renzi. Chi lo dice che basta non essere inquisiti per andare bene? Per me la questione morale è in primo luogo politica.
Non si unisce alla campagna per le dimissioni dei sottosegretari.
No, non mi ci trovo in queste cose che fanno i miei colleghi civatiani e anche il vostro giornale. Ripeto è una questione politica.
Un po’ va go.
Ripeto: il criterio non può essere quello dell’avviso di garanzia. Faccio un esempio siciliano: com’è possibile che non si candidi Vladimiro Crisafulli perché è inopportuno e poi quello diventi il principale azionista del nuovo segretario regionale? C’è qualcosa che non torna.
Ce lo dica.
O è ancora inopportuno oppure bisogna chiedergli scusa.

il Fatto 6.3.14
Giovani Gattopardi
di Peter Gomez


A dimostrazione di come il potere non sia solo “il più grande afrodisiaco” (parola di Henry Kissinger), ma di come dia pure alla testa, il ministro per i Rapporti con il Parlamento, Maria Elena Boschi, ci mette meno di quattro minuti per demolire, agli occhi dell’Europa e dei cittadini, un altro pezzo di credibilità del governo Renzi. Quando il M5S le chiede come mai sia stata nominata sottosegretario Maria Teresa Barracciu, fattaritirarepropriodaRenzidallacorsaperlapresidenzadellaSardegnaperchésottoinchiestaperpeculato,leinon spiega. Ma dice che Barracciu è un’amministratrice esperta, che è stata pure europarlamentare, e che in ogni caso l’esecutivo “non chiede le dimissioni di ministri e parlamentari sulla base di un avviso di garanzia”. Per tutti loro “vale il principio di innocenza” e le loro eventuali dimissioni saranno valutate solo al termine dell’inchiesta penale. Diventa insomma chiaro che per l’esecutivo promuovere sottosegretari, ministri e viceministri degli indagati o degli imputati – ce ne sono altri 4 – non è stato uno sbaglio, ma una scelta. Nonostante i tanto pubblicizzati buoni propositi di Renzi (“dobbiamo ridare credibilità alla politica”, “dobbiamo essere degni di onore”) non passa nemmeno tra i sedicenti rottamatori l’idea che chi ricopre cariche pubbliche abbia degli oneri diversi rispetto a quelli dei normali cittadini. E che il principio di non colpevolezza debba sempre valere in tribunale, ma che nelle istituzioni del secondo paese più corrotto d’Europa sia invece necessario ricorrere a criteri di elementare buon senso. Cose del tipo: non fa carriera chi non ha ancora chiarito la propria posizione. Intendiamoci, questo non è grave tanto per gli elettori. Loro, intanto, ai gattopardi e ai bugiardi ci hanno fatto il callo. È pericoloso invece per il Paese. Renzi, nel giorno in cui la Ue retrocede l’Italia tra le nazioni il cui debito rischia di finire fuori controllo, invia un segnale devastante: non siamo cambiati. Anzi siamo peggiorati. E questo per chi vive in Capitali dove ci si dimette per aver pagato in nero la colf, è peggio di un downgrade. Perché nessuno darà mai credito e fiducia agli impegni di un governo che, a torto o ragione, sospetta essere come sempre popolato da ladri e da corrotti. Povera Italia. E poveri italiani.

La Stampa 6.3.14
Battiam le mani
di Massimo Gramellini


Signore maestre e signori maestri che ogni mercoledì accogliete l’adorato premier in visita pastorale nelle vostre scuole, è troppo chiedervi di non esagerare con le manifestazioni di giubilo da parte degli allievi? Ve lo dice uno che nella sua tormentata esperienza professionale ha visto bimbi inermi sbaciucchiati da D’Alema, giovani degenti ospedalieri miracolati da Berlusconi e una creatura in lacrime costretta a leggere a Di Pietro una domanda sul rito abbreviato nel processo penale. Ieri però si è passato il segno. In una scuola elementare di Siracusa lo schivo Renzi è stato accolto dai bambini con un coro ritmato («Mat-teo, Mat-teo») e una canzoncina scritta per l’occasione: «Facciamo un salto… battiam le mani… ti salutiamo tutti insieme, Presidente Renzi… alle tue idee e al tuo lavoro affidiamo il futuro». Parole e musica, ne converrete, perfettamente credibili sulle labbra dei dirigenti di qualche ente pubblico in cerca di riposizionamento. Ma alquanto stonate in bocca a dei piccoli fan di Peppa Pig. 
L’adulazione e il servilismo spacciati per entusiasmo genuino sono valori profondamente sentiti nel nostro Paese. Perciò meriterebbero di essere sviluppati in proprio e non per interposto bambino. Ne va dell’equilibrio psicologico degli alunni e anche un po’ di quello del presidente del Consiglio, le cui riserve di autoironia vengono messe continuamente a dura prova. Fatelo voi, un salto. Battetele voi, le mani. Affidatelo voi, il vostro futuro, alle idee del Presidente Renzi, che a furia di volteggiare tra scolaresche non sa neanche lui dove troverà il tempo per farsele venire, le idee. 

il Fatto 6.3.14
Sicilia, altro giro altra scuola e Renzi evita ancora gli operai
Qualche contestazione al premier che incontra imprenditori e forconi
di Giuseppe Giustolisi


Matteo Renzi promette tanto, ai bambini come agli adulti e tratta tutti come un unico pubblico, forse perché il vero pubblico è lui. Parla di investimenti agli alunni della scuola elementare Salvatore Raiti (uno dei tre carabinieri di scorta al boss Alfio Ferlito uccisi nella strage della circonvallazione a Palermo) del quartiere Borgata di Siracusa e anche ai sindaci della provincia giunti in Municipio con il loro carico di problemi e richieste. Renzi arriva puntuale alle nove del mattino nella scuola elementare nuova di zecca di un quartiere storico della città da tempo abbandonato al degrado e viene accolto da un gruppetto di ragazzini che suonano pezzi folk con la gaita. “Sarebbe stato meglio se avesse incontrato gli studenti delle superiori – commenta una di loro – perché i piccoli sono imbeccati dalle maestre”. Renzi spiega ai bambini della Raiti cos’è la bellezza e richiama il film di Sorrentino: “Bisogna fare delle scuole la grande bellezza che è dentro di voi. Sapete cos’è un premio Oscar?”. Per la risposta c’è poco tempo. “Avremmo voluto fare di più – dice Paolo Genovese –, collaboratore del preside ma il protocollo era rigidissimo”. All’uscita da scuola i fischi di qualche centinaio di persone che gli contestano di essere il terzo presidente del Consiglio che non è passato dal voto. “Siamo innanzitutto cittadini incazzati, io ho votato Grillo ma questo non è importante”, dice un signore che regge il cartello “La tua democrazia non è democrazia”.
POI CORSA IN MUNICIPIO per dialogare coi sindaci e incontrare a porte chiuse gli imprenditori guidati da Ivan Lo Bello e una delegazione dei forconi con a capo un Mariano Ferro più conciliante del solito. “Ci ha promesso un incontro a Roma – dice Ferro – io ho fiducia in Renzi. Bisogna lasciarlo lavorare”. Arringa i sindaci il premier sull’importanza delle scuole: “Vogliamo partire dalla scuola come intervento educativo e culturale, ma non c’è stabilità culturale se non c’è stabilità degli edifici e io vi chiedo di segnalarmi le situazioni a rischio. Io vi ho mandato delle email ma avete risposto solo in due”. Replica corale: “ Non ci è arrivata nessuna email”. Imbarazzo. Tra i sindaci c’è anche il prefetto Maria Carmelo Librizzi, commissario del comune di Augusta sciolto per mafia dopo gli avvisi di garanzia per mafia e voto di scambio che hanno travolto la giunta a guida Pd, ma in questa sede Renzi sulla mafia non ha granché da dire, neppure su input di Ivan Lo Bello che gli chiede interventi decisi contro mafia e corruzione “elementi distortivi del mercato”. Lo giustifica Crocetta: “In un discorso fatto a braccio c’è sempre qualcosa che salta, ma la mafia fa parte del suo programma”. E anche lo stesso commissario Librizzi è indulgente: “Non era argomento pertinente con l’incontro di oggi. Sull’edilizia scolastica ha speso parole che fanno sperare e poi l’ho trovato molto preparato sulla problematica degli sbarchi che riguarda anche la città di Augusta”.
CHIAMA TUTTI per nome Renzi, da Paolo Zappulla segretario della Cgil di Siracusa che gli snocciola le cifre delle imprese che chiudono e gli parla delle scuole fatiscenti di Siracusa “Non sono come la Raiti” a Silvia Spadaro che parla della sua cooperativa sociale. “So bene quali sono le vere condizioni delle scuole. A me, quando ero sindaco di Firenze, mandavano sempre in quelle perfette ”, ribatte il premier a Zappulla.
Fuori dal Municipio, ad attendere Renzi ci sono i cartelli dei lavoratori della ex Pirelli, che protestano per la mancata erogazione della cassa integrazione 2013 ma lui li evita, come aveva fatto a Treviso coi lavoratori dell’Electrolux. “Non ci ha nemmeno degnato”, gridano a Crocetta che si sofferma con loro: “Io ci sono. Tra noi siciliani basta uno sguardo per intendersi e io da uno sguardo riconosco il lavoratore che soffre”.

il Fatto 6.3.14
Oltre la realtà
Come costruire il consenso tra gli applausi dei Balilla 2.0
di Daniele Ranieri


Ma eccolo. Il presidente Renzi visita una scuola di Siracusa. La giornata è quasi di primavera, si sente la brezza del mare che qui non riposa mai. Eccolo: cammina, lancia una battuta ai microfoni, un sorriso alle giovani maestre della nostra bella Sicilia.
“Facciamo un salto e battiam le mani”, cantano i bambini, emozionati, in circolo. Le maestre dettano il tempo. “Ma-tteo, Ma-tteo!”, lo acclamano i pargoli: eccolo, l’uomo nuovo che trasforma il Paese con un’alchimia di polso e franchezza.
In questa terra maltrattata, uno spirto di entusiasmo ravviva gli occhi degli abitanti; i disoccupati si godono l’ora lieta, gonfia di una segreta speranza.
“Faremo della scuola la Grande bellezza”, proclama il Presidente, e forse intende “un capolavoro da Oscar”, ché di farne un vaniloquente florilegio di fatuità, fiumi di cocaina e remix della Carrà sarebbe capace pure un Governo Mora, nel senso di Lele.
Quello dell’uomo simpatico e brusco amato da donne e bambini è un paradigma sfruttabilissimo.  Renzi ci si pasce con narcisismo infantile. Avrebbe potuto fermare lo spettacolo patetico di un coretto che lo accoglieva come un divo tra il Gabibbo e un supereroe dei cartoni? Avrebbe potuto chiedere alle maestre di evitare di trasformare la visita in un omaggio alla sua persona da parte di piccoli balilla 2.0, e rifiutare un’accoglienza così imbarazzante e littoria? Ma sì. Ha buttato giù un governo senza un motivo chiaro (parole sue: come sono andate veramente le cose lo so io e altri protagonisti della vicenda) e non poteva interrompere l’insopportabile déjà vu?
Non bisogna ridurre tutto ad Mussolinum, certo. Ogni epoca ha la sua grandezza anche nell’indegnità, e il paragone sminuisce e anestetizza. Così come è ridicolo evocare il duce ogni volta che Grillo si fa una nuotata. Ma il tour delle scuole sa molto di propaganda. Ristrutturarle, ci mancherebbe, è cosa urgente e nobile, che però si può fare da un tavolo dello splendente ufficio romano sempre illuminato, mostrato a tarda sera alle telecamere di Ballarò. Renzi ha rifiutato di cedere alla retorica deresponsabilizzante del “Mezzogiorno” nel suo discorso alle Camere, dove disse di voler entrare in punta di piedi (forse per far fuori il Senato cogliendolo di sorpresa), e poi inzuppa il suo viaggio a Siracusa via Tunisi nella più meticolosa retorica da cinegiornale, pompata dagli specchi riflessi di Twitter.
È risaputo che agli italiani piaccia essere infinocchiati. È una coazione irresistibile. Stanchi di mezzo secolo di padri padroni e fedifraghi, non vedevamo l’ora di farci riscattare da uno più giovane e più furbo. Renzi intasca un assegno in bianco (non) firmato da noi per esasperazione: adesso lavora per conquistarsi il consenso. Forse più bravo di Berlusconi, mira al cuore delle mamme; mette il suo nome di battesimo sulle bocche dei bambini; twitta alle 6 di mattina, per dire “sto scrivendo una nuova Storia”, in 140 caratteri.
La sua sicumera lascia intendere che c’è una strategia, sotto le mosse opinabili dell’ultimo mese: la destituzione di Letta, la fumosità verbosa nella richiesta di fiducia, la megalomania riformista, la nomina di sottosegretari indagati, l’inciampo logico della legge elettorale fatta con un fuorilegge. Sembra saper trattare con chi sullo stomaco ha il pelo di più di un quarto di secolo di scorribande politiche; sul suo volto telegenico si alternano cinismo e candore, bontà e furbizia. Bergoglio laico, chiede ai bambini quanti di loro usano Facebook, WhatsApp. Loro ridono, alzano le mani. Li esorta a non dimenticare che nulla vale la bellezza di un abbraccio fisico. Si vanta di non essersi montato la testa per avere quasi un milione di amici su Twitter. Il coretto riprende: “I ragazzi le ragazze tutti insieme alle tue idee e al tuo lavoro affidiamo il nostro futuro”, nientedimeno.
Un altro capitolo di una narrazione quotidiana mozzafiato, una rete di idolatria che non risparmia neanche i bambini, trasformati in sfondo per ottime copertine di Chi. Forse siamo noi che non capiamo il sottile disegno, ma non ci piace questa roba, Presidente Renzi, per niente.

Repubblica 6.5.14
Se i bimbi cantano il culto di Matteo
di Francesco Merlo


LA CANZONE era così servile che avrebbe messo in imbarazzo i nordcoreani. Perciò Renzi, che ha fama di disobbediente («sono un po’ bullo»), avrebbe dovuto liberare, fare discoli e mandar fuori a giocare quei poveri figli di Siracusa che gli cantavano «facciamo un salto / battiam le mani / muoviam la testa/ facciam la festa».
Diciamolo più chiaro: se fosse stato ancora lo stesso che, appena eletto segretario, scelse come inno “Resta ribelle” dei Negrita, Renzi avrebbe certamente intonato «prendi una chitarra e qualche dose di follia / come una mitraglia sputa fuoco e poesia». E, con l’incitamento a contestare e a irridere i maestri, avrebbe coperto quei miagolii che dai maestri erano stati imposti: «Presidente Renzi, da oggi in poi / ovunque vai, non scordarti di noi».
Non l’ha fatto e l’Italia intera lo ha visto ubriaco di lusinghe. Ha cominciato ad abbracciare tutti e «Facebook non vale un abbraccio» ha detto, e pensate quanto sarebbe stato renzianamente bello sentirgli invece dire: «Disobbedite, se volete il mio abbraccio». Anche quel vezzo stucchevole di farsi chiamare Matteo più che da sindaco d’Italia sta diventando un tic da televisivo, non statista in versione Vasco Rossi ma imbonitore in formato Antonella Clerici, quella di “Ti lascio una canzone” che è appunto la fiera del bambino da salotto, tutto moine e mossette, che nessuno, soprattutto a sinistra, vorrebbe avere per figlio.
C’era in più, in quella filastrocca cortigiana, anche il tentativo del glamour, con il clap and jump, e persino con il blues, la disposizione in semicerchio, il gioco perverso di regolare gli evviva e gli applausi, la fatica ruffiana di tradurre e adattare un testo inglese. Tutto questo per aggiungere charme al solito immaginario canoro degli italiani: una spruzzatina del Sanremo di Fabio Fazio sui bimbi- scimmiette del Mago Zurlì. Ecco il punto: Renzi ha tutto il diritto di girare le scuole d’Italia, se è questa la sua cifra di politica popolare, ma per cambiarle, come aveva promesso, e non per degradarle a serbatoi delle sue majorettes.
Capisco che qui è facile il paragone con l’uso dei bambini nei totalitarismi, sul quale infatti si è banalmente esibito Beppe Grillo: i figli della lupa, gli avanguardisti della ventisettesima legione che salutavano il duce intonando “Giovinezza”, oppure “i battaglioni della speranza”, ragazzini dai dodici a quattordici anni che cantavano nelle parate dell’Est europeo. La verità è che anche in democrazia troppo si abusa dei giovanissimi, perché fa un sacco bello lasciare che i bambini vengano a noi e, come ha scritto Milan Kundera, “nessuno lo sa meglio degli uomini politici: quando c’è in giro una macchina fotografica si precipitano verso il bambino più vicino per sollevarlo in aria e baciarlo sulla guancia”.
A Siracusa dunque non c’è stata la manipolazione sordida tipica dei regimi ma lapaideia, il tentativo di ridurre i bambini a protesi ornamentale, di formarli alla piaggeria e all’adulazione: “non insegnate ai bambini la vostra morale /è così stanca e malata potrebbe far male” cantava il Gaber citato da Renzi persino nei libri. Gaber li vedeva cantare e battere le mani e pensava che facessero “finta di esser sani”, Renzi invece li ha passati in rassegna dando a tutti il cinque.
Ma ieri a Siracusa ho visto di peggio. Un retroscena rivela infatti che nell’esibizione di quella scuola di borgata, vicina alla chiesa di Lucia, santa e sempre più cieca, non c’è stato solo l’accanimento politico - e ridicolo - del sindaco Giancarlo Garozzo. Ecco il colpo di scena: la preside Cucinotta, che è la vera regista responsabile dello spettacolino, e la sua vice Katya De Marco sono accanite militanti di Forza Italia. E dunque io, che da quelle parti sono nato, ci ho visto soprattutto la tristezza infinita di un Meridione che è ancora e sempre lo scenario naturale dello zio d’America, e mi sono ricordato che Silvio Berlusconi a Lampedusa fu accolto come un messia, come un conquistador.
Perché sempre così è salutato l’uomo potente che viene da fuori, l’uomo del cargo che può essere un capopartito, un cantante, un calciatore, un presidente del consiglio o non importa chi, purché venga appunto da fuori.
Renzi si rilegga, per risarcire l’Italia, Carlo Levi che racconta di quel tal Vincent Impellitteri che - cito a memoria - tornato dall’America, entra in paese (era la provincia di Palermo e non di Siracusa) su una lussuosa macchina scoperta, ed è accolto dalla gente in festa che lo tratta come uno sciamano: «‘Tuccamu a machina, così ce ne andiamo in America’ gridavano i ragazzi del luogo». Ebbene, Impellitteri non solo non li abbraccia e non dà loro il cinque, ma si addolora e si rattrista al punto che si mette a piangere.

il Sole 6.3.14
Il monito Ue riporta alla realtà ma Renzi raddoppia la fiducia in se stesso
Le visite nelle scuole come reazione alle sfide del Palazzo. Quanto può durare il contrasto?
di Stefano Folli


La matassa s'ingarbuglia, ma Renzi è animato da ammirevole tenacia. Il suo schema d'azione è semplice. Da un lato ammettere tutto ciò che non va e al tempo stesso promettere un grande cambiamento. Dall'altro, stabilire un netta distanza fra sé e il mondo politico: gli elettori devono vedere la differenza e soprattutto non devono pensare che il giovane premier abbia qualcosa in comune con i palazzi romani.
È un'operazione rischiosa che richiede notevoli doti di equilibrismo. A parte la straordinaria ambiguità dei nuovi accordi sulla riforma elettorale, figli a loro volta del doppio gioco condotto dal premier fra Berlusconi e Alfano, la giornata di ieri ha portato parecchie spine. La Commissione europea, per bocca di Olli Rehn, ha richiamato tutti alla dura realtà dei numeri, battendo dove il dente duole: la necessità di ridurre il debito pubblico. Proprio il tema su cui finora Renzi è stato piuttosto evasivo e si può capirlo.
Porre il problema del debito, anzi giudicare le riforme annunciate solo in relazione alla guerra contro il debito, significa mettere subito con le spalle al muro il nuovo governo. Di fatto siamo stati bocciati, per non dire declassati. Dal che si deduce che la mossa europea ha soprattutto un risvolto politico. Serve a mettere in guardia senza tanti complimenti il capo dell'esecutivo italiano: l'uomo che nei giorni scorsi aveva fatto capire, in modo generoso ma un po' velleitario, di voler allargare i vincoli dell'Unione. Ora gli viene detto: pensa a mettere a posto i conti in casa tua, perché sono in disordine, ed evita di darti per adesso obiettivi troppo ambiziosi.
A questo ruvido rimbrotto, Renzi ha risposto con saggezza usando il solito "Twitter", il suo strumento mediatico preferito. «I numeri sono duri, ma noi dobbiamo cambiare». Nessuna polemica, ma il rinvio ai fuochi artificiali della prossima settimana: quando nell'agenda sono previsti il cosiddetto "Jobs Act", il rilancio della scuola, il piano casa. Ora non è chiaro quale sia il nesso fra questi provvedimenti allo studio e il monito europeo sul debito. Quanto meno si tratta di piani sfalsati. Renzi pensa a introdurre stimoli per il sistema economico, il commissario Rehn vuole vedere subito i risultati anti-debito. Da realizzare, è chiaro, solo con drastici tagli della spesa. E su questo punto assai spinoso finora il nuovo premier si è limitato a rinviare al lavoro di Cottarelli.
Sembra di sentire due linguaggi diversi, ma il segnale d'allarme per Renzi è indiscutibile. L'Europa non ha voglia di dargli una mano. Vedremo se un aiuto potrà venire dalla Banca centrale e dalle misure anche monetarie che saranno adottate. Senza dubbio il sentiero resta stretto per il premier. Il quale ama molto gli incontri periodici con le scuole, cioè con i bambini da cui riceve una facile ovazione. Giusto porre al centro la questione dell'educazione nazionale, proprio come fece Tony Blair all'inizio del suo cammino. Può essere un'assoluta priorità nazionale, intorno alla quale mobilitare le risorse della nazione. Ovvero può essere solo un'astuzia per crearsi una facile popolarità.
È presto per dirlo e non si può fare un processo alle intenzioni. Quel che è certo, non è solo di popolarità che Renzi ha bisogno. I macigni che cadono sulla sua strada (dalla legge elettorale al monito dell'Europa) gli ricordano che non ci sono scorciatoie al duro lavoro. E al realismo.

l’Unità 6.3.14
Italicum al via in Aula ma non c’è la parità
Stralciati gli emendamenti su rappresentanza delle donne in lista e sul Salva Lega, ira di tutte le deputate
Regge l’accordo Pd-Fi alla prova del voto segreto, con quasi trenta franchi tiratori
di Claudia Fusani

Dopo tre scioperi della fame al limite della sopravvivenza è, giustamente, il primo ad esultare. Cinguettando: «Legge elettorale: mercoledì 5 marzo, ore 17.31 si fa il primo voto!!!!!!!». A parte «Chissà se è la volta buona». Il vicepresidente della Camera Roberto Giachetti si fida, ci prova e la immortala via twitter.
L’Italicum è partito ieri. Due ore di navigazione, sette voti, tre segreti in cui la maggioranza allargata a Fi ha tenuto - con qualche sbalzo - e subito l’aggiornamento ad oggi. L’arrivo in porto è previsto tra venerdì sera e sabato mattina. Ci sarà solo l’articolo 1, il sistema di voto relativo solo alla Camera mentre l’articolo 2, per il Senato è stato soppresso. In nome dell’ultimo accordo Renzi-Berlusconi-Alfano. Ma restano pur sempre oltre duecento emendamenti. Le rogne sono rimaste tutte in fondo, parità di genere nelle candidature, salva Lega, multicandidature, soglie per i partiti per entrare in Parlamento, la delega per disegnare le circoscrizioni. Saranno affrontate tutte insieme. Secondo uno schema di cui si comincia a parlare da una parte all’altra dell’emiciclo: barattare la parità di genere con il salva-Lega. E, perché no, rinviare le modifiche più spinose al Senato.
Le opposizioni sono sulle barricate. A cominciare da Sel. Il capogruppo Gennaro Migliore ha chiesto subito il voto segreto. Per capire l’aria che tira. Ma l’emendamento Cozzolino (M5S) 1.1 che nei fatti cassava l’Italicum è stato respinto con 344 no e 188 voti favorevoli. Sono numeri utili da tenere a mente. Al netto di assenze, parecchie, e missioni, si contano una trentina di franchi tiratori tra Forza Italia e Scelta civica. Però è una buona maggioranza. Cinguetta il capogruppo Pd in Affari costituzionali: «Passa il primo voto segreto sulla legge elettorale: 344 voti contro emendamento soppressivo, 188 a favore». La maggioranza tiene, anche se più esile, su un secondo voto segreto, chiesto sempre da Sel, che portava la soglia per il premio al 40 per cento. Lo bocciano 316 voti, una trentina di meno ma sufficienti per fissare la soglia al 37%. La maggioranza risale nel terzo voto (325 voti).
RABBIA BIPARTISAN. Lo scontro che si profila fin dalla mattina vede donne contro uomini. E regala momenti tristi come quando un deputato centrista sbotta in Transatlantico e dice alle colleghe: «Vabbè, se volete andare alla conta facciamolo, in aula siamo più uomini che donne». Fin dalla mattina, infatti cresce il malumore bipartisan delle deputate a cui non va giù che i colleghi uomini abbiano deciso di accantonare gli emendamenti alla legge elettorale sulla rappresentanza di genere. Di emendamenti ne sono stati presentati diversi, da parte di quasi tutti i partiti e chiedono, in sostanza, una vera parità, non solo nei numeri delle donne presenti in lista ma nelle posizioni delle candidate. Le donne, insomma, viste le liste corte, chiedono o l’alternanza tra i capilista (sicuri di essere eletti) o, al massimo, tra il numero uno e il numero due. Ma il Comitato dei nove (in cui siede una sola donna, Dorina Bianchi, Ncd) ha deciso, in assenza ancora di un accordo nella maggioranza e con Forza Italia, di rinviare la questione ad un secondo momento. Gli ostacoli maggiori arriverebbero proprio dai berluscones. Lo stesso presidente della Commissione Affari costituzionali Francesco Paolo Sisto non ha mai fatto mistero, nei giorni passati, di considerare sbagliato l’obbligo della parità di genere in lista. «Che significa? - sosteneva - e se poi non c’è il candidato che merita ne mettiamo una tanto per fare numero?». Peccato che le colleghe Mara Carfagna e Mariastella Gelmini non siano d’accordo con lui. Ma sul punto storcono il naso anche i colleghi uomini nel Pd, tanto da sostenere che, se anche le deputate dovessero «insistere e mettere a votazione gli emendamenti, avrebbero la peggio, visto che gli uomini sono maggioranza in aula».
Gli emendamenti sulla parità di genere sono firmati da Pd, Sel, Scelta civica. A volte sono bipartisan. La dem Roberta Agostini firma insieme a Mara Carfagna, Micaela Biancofiore, Gabriella Giammanco e Annagrazia Calabria. Ma anche le deputate di Sel e di Ncd sono pronte a dar battaglia. Una battaglia dei sessi in aula? La certezza è che le deputate «tutte insieme senza distinzione di gruppo» non ritireranno gli emendamenti e li sottoporranno al voto in aula. A quel punto sarà sicuramente chiesto il voto segreto. Ma le donne sono di meno.
Oggi sarà giorno di battaglia. Si comincia alle 10. Maggioranze diverse potrebbero contarsi sugli emendamenti che vogliono abbassare la soglia d’ingresso dei partiti in coalizione dal 4,5 al 4%. In questo caso, infatti, Pd e Fi sono soli contro il resto del Parlamento.

La Stampa 6.3.14
Una riforma che per ora resta a metà
di Elisabetta Gualmini


Aspettavamo una scossa e la scossa c’è stata. Siamo un po’ tutti sotto shock per il mezzo-Italicum che oggi o domani dovrebbe ricevere il primo suggello parlamentare.
Con un colpo a sorpresa Matteo Renzi ha dato il via libera (tirandosi dietro, con doppia sorpresa, pure Berlusconi) alla proposta dei soci di minoranza dello strano governo (Ncd e cuperlian-dalemiani) di applicare la riforma solo alla Camera, dando per assodato che il Senato quanto prima scomparirà. Anzi, facendo come se fosse già scomparso. Da ieri l’altro. Game over, direbbe Matteo.
L’azzardo è dunque massimo, e pur essendo abituati alle corse senza respiro del Premier e alle vittorie al fotofinish molti elementi della sceneggiatura destano preoccupazioni che forse dovrebbero impensierire lui stesso.
Primo. Il Senato c’è ancora. A dirla tutta, dovrebbe anche approvare la non-riforma del sistema di elezione che lo riguarda, prima di decretare la sua buona morte.
Con una classe politica caduta al minimo della sua credibilità, cosa ci fa pensare che tra un anno e mezzo (referendum compreso) saremo approdati gioiosi e felici alla Terra Promessa? (Cioè alla Terza Repubblica?)
Non solo il testo base della riforma del Senato ancora non c’è. Manca pure l’algoritmo che dica, nero su bianco, come si fa, con il mezzo-Italicum, a trasformare i voti in seggi: non proprio un «dettaglio da addetti ai lavori». Non c’è nemmeno l’accordo tra i partiti della maggioranza su tutto il percorso, se Schifani può dire ai microfoni di Skytg24 e ad Avvenire - non due mesi fa, ma ieri l’altro - che è contrario alla riforma proposta da Renzi e che loro pensano a un Senato con funzioni differenziate rispetto alla Camera, che non dà e toglie la fiducia al governo, ma comunque elettivo. Quindi eletto con la proporzionale pura? Quando ne parleranno con il Pd e si metteranno d’accordo?
Se tira quest’aria nella maggioranza, figuriamoci all’opposizione. Il Movimento 5 Stelle è da sempre per mantenere per intero la doppia casta di senatori e deputati, ma con stipendi ridotti, benché a decidere sarà come sempre l’amatissima Rete. Le resistenze saranno fortissime. Rispunteranno le barricate contro l’eccessiva concentrazione di poteri come nel modello Westminster: una camera sola che decide, con la maggioranza nelle mani del leader del maggiore partito. E prepariamoci a rivedere l’eterno film della contrapposizione tra gli appassionati sostenitori della «più bella Costituzione del mondo» e i pasdaran del semi-presidenzialismo (già che ci siamo perché non cambiare tutto? mah si, rimescoliamo le carte e ricominciamo tutto daccapo…).
Secondo. Fare le cose a metà non equivale a «fare le cose». Bisogna prendere atto che questo governo non è riuscito a mettere in sicurezza la legge elettorale. Punto. L’Italicum-Consultellum è la perfetta combinazione degli opposti (premio e liste bloccate in piccoli collegi accanto a un proporzionale puro e preferenze in grandi circoscrizioni). Dopo eventuali elezioni tenute con quel sistema, la maggioranza fabbricata alla Camera sarebbe del tutto inutile e bisognerebbe negoziarne un’altra molto più larga al Senato. Per non entrare in altri dettagli, tipo il voto di preferenza che la Corte ha preteso di imporre ma che nella legge per il Senato non c’é, o le strampalate soglie differenziate per partiti coalizzati e non coalizzati che sono invece rimaste.
Dopo il tragico errore da parte del Pd di non votare la mozione Giachetti sul ritorno alla Mattarella, siamo ancora alla dimostrazione che non vi è un accordo su un sistema elettorale decente. Si è dunque scelto un rischio massimo e una soluzione pasticciata che per un anno e mezzo ci lascia sospesi in uno strano limbo che offende le istituzioni e sottrae ai cittadini il loro sacrosanto diritto, che dovrebbe essere in qualsiasi momento potenzialmente esigibile, di tornare a votare per scegliere da chi vogliono essere governati.
Siamo abituati con Matteo Renzi a viaggiare sulle montagne russe e a confidare sull’intuito, l’abilità e la fortuna che aiuta gli audaci. Continuiamo quindi a contare sul suo coraggio e ad attendere fiduciosi che il governo faccia le cose. Questa cosa qui, però, per ora zoppica.

La Stampa 6.3.14
Ma la prima mina è la rivolta delle donne
“Così ci fanno fuori”
Tre emendamenti trasversali e una lettera aperta al premier
di Francesca Schianchi


Ieri sera l’ipotesi che alcune donne del Pd e di Forza Italia ancora stavano valutando era quella di un appello pubblico a Renzi e Berlusconi. Nel delicato cammino della legge elettorale, cominciato ieri mattina in Aula alla Camera, la prima mina da dribblare alla vigilia della festa della donna è quella di tre emendamenti firmati trasversalmente da deputate (e anche qualche deputato) della maggioranza e pure di Forza Italia per assicurare la parità di genere. «Nessuno vuole far saltare l’accordo, ma penso che approvare una legge elettorale che garantisca la parità di genere sia un punto qualificante che gli stessi leader dovrebbero intestarsi», ragiona la deputata Pd Marilena Fabbri. E molto simile è il discorso della forzista Stefania Prestigiacomo, che da ministro delle Pari opportunità nel 2006 lottò per fare passare le quote rosa, «ed è triste che dopo otto anni ancora di questo dobbiamo discutere».
Il testo della riforma prevede sì che ci sia un 50% di donne in lista, ma prescrive anche che i candidati possano essere fino a due dello stesso sesso in fila: in pratica, si potrebbero mettere ovunque candidati maschi nei primi due posti, quelli di più certa elezione, lasciando alle donne i posti in fondo alla lista in cui si è certi di non essere eletti. I tre emendamenti – prima firmataria la democratica Agostini, ma a seguire c’è mezzo Pd, anche molti uomini, e poi forziste di prima fila come Prestigiacomo, Carfagna, Polverini, Biancofiore, Calabria – prevedono invece o che si applichi l’alternanza di un uomo-una donna, o che si riservi alle donne il 50% dei capilista, o nella versione più minimalista (e che appare più probabile da far digerire a tutti) il 40%. Ora, il problema che si pone è che il ministro delle riforme Maria Elena Boschi ha spiegato chiaramente alle emissarie dei partiti che le modifiche in questione non fanno parte dell’accordo, necessario è che siano Pd e Fi a dare l’ok. Cosa non facile, perché in Forza Italia, come ammette la Prestigiacomo, le resistenze sono fortissime. Altrimenti, è l’evoluzione logica del discorso della Boschi, il rischio è che il governo debba dare parere contrario. E l’imbarazzo nel Pd sarebbe massimo, a dover votare contro una norma voluta da gran parte del partito, e spesso sbandierata come un proprio cavallo di battaglia dallo stesso segretario Renzi, orgoglioso del suo governo per metà al femminile.
Ecco quindi che gli emendamenti sono stati per ora accantonati: si continua a trattare, sperando di trovare una mediazione accettabile per tutti. Tanto che, per arrivarci, ieri le più impegnate nella trattativa – Agostini, Fabbri e Pollastrini nel Pd; Prestigiacomo e Carfagna tra le berlusconiane – hanno pensato a una sorta di lettera aperta ai leader, per sensibilizzarli sul tema, «una cosa semplice che spieghi come c’è una responsabilità della politica nel trovare soluzione a questioni trasversali di civiltà che appartengono a tutti», spiega la Agostini, una lettera-appello che le forziste raccomandano non sia ideologica, ma molto di buonsenso, in modo che anche loro possano sottoscriverla. Tutte consapevoli però che c’è un’altra insidia sulla strada della parità di genere: il voto segreto. Possono chiederlo 30 deputati: e a quel punto sarebbe facile, per chi lo desidera, affondare gli emendamenti.

il Fatto 6.3.14
Parità di genere o morte: l’Italicum parte male
Arriva in aula la legge elettorale, ma i problemi non finiscono. Con il voto segreto alla maggioranza mancano 31 voti. E l’approvazione slitta ancora
di Wanda Marra


Legge elettorale: mercoledì 5 marzo alle 17 e 31 si fa il primo voto”. Roberto Giachetti su Twitter fotografa la solennità del momento. Non senza una certa evidente ironia, se al tweet di ieri si confronta quello dell’altroieri: “Riforma solo per Camera non ha senso. Spero Matteo Renzi non molli. I frenatori sempre al lavoro temo che oggi non faremo un solo voto”.
TECNICAMENTE , dunque, Matteo Renzi ha mollato. E la legge sbarcata ieri in Aula viene accolta dai più con perplessità e sospetto, dai costituzionalisti decisamente con contrarietà. Un “porcellinum” anti costituzionale il giudizio più diffuso, visto che prevede la possibilità di eleggere con due sistemi non solo diversi, ma opposti, Camera e Senato. Roberto D’Alimonte, il professore che sull’Italicum ci ha messo la faccia e che poi se l’è visto modificare in Parlamento senza più essere consultato sono tre giorni che rilascia interviste e scrive pezzi per sconfessare la sua creatura. Leggere le riflessioni che consegna al Sole 24 Ore per credere: “Fare una nuova legge elettorale solo per la Camera significa non fare la riforma elettorale. Nuove elezioni diventeranno possibili solo con la riforma del Senato. Quando? Chi può dirlo?”. In questo clima ieri inizia il voto. Dopo l’ennesima blindatura dell’accordo tra Renzi e Berlusconi dovevano esserci solo certezze. E invece no. Diligentemente il comitato dei Nove stralcia l’articolo 2, ovvero la parte riguardante Palazzo Madama. Ma il primo ostacolo arriva con gli emendamenti relativi alla parità di genere. La tensione sale dentro Forza Italia dove molte deputate (tra le altre, Stefania Prestigiacomo, Renata Polverini, Mara Carfagna, Michaela Biancofiore e Annagrazia Calabria) minacciano di votare in dissenso dal partito. La ritorsione che i deputati maschi hanno a loro volta minacciato è stata il loro appoggio agli emendamenti che introducono la preferenza. Le donne Pd sono sulla stessa posizione delle loro colleghe. Governo e relatore di maggioranza danno parere contrario. “Nessuna modifica tranne quelle concordate”, ha spiegato Emanuele Fiano. Ma in serata Lorenzo Guerini, portavoce della segreteria Pd, ha assicurato: “Le liste del Pd rispetteranno la parità di genere”. Come, per legge? Nel dubbio, ieri gli emendamenti in questione sono stati tutti accantonati. Come gli altri critici: quelli che delegano il governo a designare le nuove circoscrizioni, il Salva Lega, il voto agli studenti Erasmus. Nel frattempo, i piccoli proposti e Mauro preannuncia un richiamo alla Corte Costituzionale. Sel, poi, che è molto critica con una legge che così com’è ne prefigura la sparizione, ha chiesto per l’articolo 1 (quello abrogativo della legge) il voto segreto. E arrivano i franchi tiratori: rispetto alla fiducia a Renzi, la maggioranza perde 37 voti. E poi, ecco arrivare l’ulteriore dilazione dei tempi: probabilmente Montecitorio non riuscirà ad approvare la legge per venerdì, perché c’è il Congresso di Fratelli d’Italia. Tutto rimandato alla prossima settimana.
INTANTO Matteo Renzi rilancia: “Sull’abolizione del Senato mi gioco tutto”. Promessa consueta, problemi pure: la legge elettorale ancora non c’è, la riforma del Senato è ancora tutta da scrivere e da concordare.

il Fatto 6.3.14
Parola di costituzionalisti
Uno scandalo al sole


L’Italicum ai costituzionalisti proprio non piace: alle critiche che si sono accumulate al suo impianto generale, ora si vanno ad aggiungere quelle riguardo a un sistema valido solo in una Camera
MICHELE AINIS: “Non si può decidere per un maggiorzionale, non si possono trattare le due Camere come se appartenessero a due Stati”
GIANFRANCO PASQUINO: “È un Porcellinum: va buttato. Le liste bloccate non vanno bene, le candidature multiple sono uno scandalo, la presenza di più di una soglia di sbarramento è inaccettabile”
ROBERTO D’ALIMONTE: “Votando con l’Italicum ci sarebbe un vincitore certo alla Camera e certamente nessun vincitore al Senato Cioè si riprodurrebbe la stessa elezione del febbraio 2013”
MASSIMO LUCIANI: “Avremmo una maggioranza alla Camera, ma non al Senato Con un problema di incoerenza politica tra le due maggioranze”
GIANLUIGI PELLEGRINO: “Decidono per legge che è vietato votare La Consulta dice che ci possono essere due sistemi diversi per Camera e Senato, ma non opposti”

l’Unità 6.3.14
Riforme, la minoranza Pd fa male al partito e al Paese
di Sandra Zampa
deputata Pd


NEL PD NON CI ERAVAMO ANCORA ABITUATI ALL’AZZARDO RENZIANO - ANDARE AL GOVERNO SENZA PASSARE DALLE URNE – CHE CON L’ITALICUM, UTILIZZABILE PER LE ELEZIONI DELLA SOLA CAMERA DEI DEPUTATI, ci troviamo ad affrontare un triplo salto mortale nel cerchio di fuoco. «Fare una nuova legge elettorale solo per la Camera - ha scritto Roberto D’Alimonte - significa non fare la riforma elettorale». Ciò è avvenuto con l’apporto determinante della minoranza che ha sostenuto Gianni Cuperlo al Congresso Pd: porta infatti la firma di Alfredo D’Attorre, parlamentare bersaniano, l’iniziativa che ha spalancato le porte all’Italicum dimezzato e che prevede appunto uno sganciamento della riforma della legge elettorale dalla complessiva riforma costituzionale con il superamento del Senato così come lo conosciamo ora. Per dirla in parole semplici: stiamo votando alla Camera una legge che presume che il Senato sia già abolito o sarà certamente abolito e che, dunque, non sarà necessaria alle prossime elezioni alcuna legge per senatrici e senatori. Un pasticcio di cui, prendendo la parola all’assemblea del gruppo parlamentare Pd di martedì pomeriggio, ho chiesto ragione come avrebbe fatto Alice nel Paese delle Meraviglie, per essere certa che tutti, ma proprio tutti, avessimo piena consapevolezza di ciò che stavamo decidendo. «Cosa accadrebbe - ho chiesto - se l’Italicum, che è un sistema maggioritario, passasse e non arrivasse in porto la riforma che abolisce il Senato? Si eleggerebbero i deputati con l’Italicum e si voterebbe invece con un sistema proporzionale al Senato». La domanda di Alice è rimasta senza risposta. I deputati “renziani” hanno fatto sentire voci diverse sul tema: netta la contrarietà di Gentiloni ma anche di Roberto Giacchetti, lo strenuo difensore-digiunatore pro Mattarellum, alla soluzione Italicum dimezzato. Pieno di speranza e ispirato dalla certezza che dall’ennesimo azzardo possa arrivare all’Italia un beneficio, l’intervento di chi, già sostenitore della mozione Renzi, ha invitato il gruppo parlamentare democratico a procedere. Eccoci dunque oggi seduti in aula impegnati nel triplo salto mortale del Pd di era renziana, a fare il tifo perché tutto vada bene e si arrivi al lieto fine. Impegnati però anche a discutere tra noi di chi sia la responsabilità di questo passo che Cuperlo giudica positivo mentre tutti gli osservatori anche quelli “vicini” al segretario Renzi, come D’Alimonte, o Stefano Menichini, direttore di Europa, considerano pericoloso, rischioso, e quelli vicini all’area Cuperlo, come Violante giudicano «irragionevole». Mi assumo volentieri la responsabilità di una riflessione sul ruolo della minoranza in questa vicenda, una riflessione che vorrei venisse estesa a tutte le componenti del Pd nella relazione interna e reciproca anche in futuro. Tutti noi sappiamo (e diciamo) che l’interesse del Paese va messo al primo posto e tutti noi sappiamo che ciò implica dare al Paese una legge elettorale che renda possibile andare alle urne “ogni giorno”. È questo il principio che ha ispirato l’iniziativa di D'Attorre? Non credo proprio visto che, a volere pensare bene, l’approvazione dell’Italicum servirà certamente a rinviare le elezioni a tempo indeterminato. A pensare male si potrebbe ritenere che produca larghe intese nuovamente per via di due maggioranze diverse (una alla Camera e una al Senato) o semplicemente a condizionare e imprigionare l’energia di quella novità che ha condotto Renzi alla vittoria schiacciante solo qualche mese fa. E dire che la legge elettorale fu portata via dal Senato perché si temeva che là si facesse solo melina...! Che senso ha un’opposizione interna che fa male al proprio partito ma soprattutto rischia di far danni a un Paese già tanto provato? Dove ci hanno portati gli stratagemmi e le astuzie di questi anni? A tradire il nostro progetto e a mettere insieme sconfitte. Non sarebbe l’ora di lavorare in coerenza con quel bellissimo progetto politico che abbiamo chiamato Pd? Di sotterrare l’ascia di guerra (lo dico proprio a tutti gli esponenti delle minoranze), e passare a una relazione anche critica ma rispettosa del cuore del nostro progetto? Va in tutt’altra direzione invece la questione di “genere” che poco ha a che fare con i giochi delle correnti e gli equilibri tra maggioranza e minoranza. È vero, come ha ricordato all’assemblea del gruppo parlamentare l’amico Ivan Scalfarotto, oggi sottosegretario, che per portare a casa la legge contro l’omofobia fu a lui necessario mediare e mediare. Ma li partivamo da nulla e andavamo a conquistare qualcosa. Nel caso della parità di genere la rinuncia agli emendamenti che portano la firma di tante e tante deputate dem, implicherebbe un secco ritorno indietro. Quella della parità di genere è questione che non possiamo lasciar perdere. Non lo si chieda alle donne di questo gruppo che rappresenteranno con il proprio voto una storia che non appartiene solo a loro.

La Stampa 6.3.14
Lo spettro del premier: una manovra ad aprile
di Marcello Sorgi


Renzi ha deciso di fermare, per una settimana, il giro d’Italia che lo ha visto ieri a Siracusa, per presentare un nuovo calendario di iniziative e affrontare i problemi più urgenti. A cominciare da quelli che il severo commissario degli affari economici della Ue Olli Rehn è tornato a ricordarci, con toni che potrebbero preludere a una nuova procedura d’infrazione per l’Italia. Debito pubblico eccessivo, crescita insufficiente, per non dire inesistente, spesa da tagliare, occupazione giovanile da incentivare: la lista è sempre quella con cui da anni, e dal governo Monti in poi, l’Italia sa di dover fare i conti: e il nuovo governo, sostiene Rehn, dev’essere consapevole che l’Europa non fa sconti.
La risposta del presidente del consiglio è arrivata con un tweet che annuncia per mercoledì prossimo una conferenza stampa in cui sarà presentata la nuova serie di iniziative del governo, a partire dal «Jobs act», che dovrebbero andare nella direzione richiesta dalla Ue. Ma il rischio vero, Renzi lo immagina, è di dover accompagnare ad aprile la presentazione dei piani italiani per affrontare la crisi economica con una nuova manovra, che restringerebbe i margini di azione dell’esecutivo: ad esempio, dove andare a prendere i dieci miliardi di euro per il taglio annunciato dell’Irap, se intanto la Commissione ci chiede di ridurre la spesa pubblica?
Mentre il premier faceva ritorno a Roma la Camera cominciava a votare i primi emendamenti al testo della legge elettorale, bocciando quello del Movimento 5 stelle che puntava a cancellare la riforma, e approvando quelli concordati nella maggioranza allargata a Forza Italia. Alla prima prova dei fatti, dunque, il patto rinnovato tra Renzi, Alfano e Berlusconi ha retto. Siamo però all’inizio dell’arrampicata: e se la Camera, come si è proposta, riuscirà ad approvare la nuova legge elettorale entro domani, o al più tardi nei primi giorni della prossima settimana, occorrerà vedere come si comporteranno i senatori, quando le votazioni sulla riforma - valida, dopo il nuovo accordo di martedì solo per la Camera - si intrecceranno con quelle sulla trasformazione, leggi cancellazione, del Senato, che dovrebbe smettere di essere elettivo, diventando la Camera dei rappresentanti delle autonomie locali.

Corriere 6.3.14
Se giovanilismo e velocità sono le nuove parole d’ordine
di Corrado Stajano


L’Italia non si è desta, almeno sembra. Appare più passiva che
fervida, non soltanto a causa della crisi economica e finanziaria. È rimasta quel che è sempre stata: non ha perso l’antico vizio di delegare ad altri l’onere di risolvere i problemi della comunità. Si è affidata così all’uomo della provvidenza di turno che non nasconde la sua smisurata ambizione, ma promette di cancellare le brutture, la vecchia politica e fa intravedere una vita serena.
Il giovanilismo, con un’ipoteca populista, e la velocità del fare sembrano le nuove parole d’ordine. Ma l’età giovane priva di esperienza, di competenza, di conoscenza dei problemi di un governo e di uno Stato non può essere una medaglia al valore. I Leopardi, i Gobetti, i Gramsci nascono poche volte in un secolo. Tralasciando i geni si capisce però che c’è un burrone tra la classe dirigente venuta dopo la seconda guerra mondiale e quella di oggi. Le altalene delle generazioni e della storia.
A Renzi non viene qualche sospetto quando, con la sicurezza del neofita, comunica al popolo che risanerà tutto in un battibaleno? Sa che l’Italia è gravemente ammalata, che la crisi della politica, soprattutto, è anche morale, civile, sociale, culturale? I partiti, sbrindellati, in profonda difficoltà, non riescono più a coinvolgere i cittadini.
C’è una gran confusione in quel che sta succedendo o meno.
Che sorte avrà veramente la legge elettorale di cui si parla da anni? Adesso è approdata a Montecitorio, tra rotture e compromissioni. Il costituzionalista Michele Ainis, sul Corriere dell’altro ieri, dopo gli emendamenti presentati sulla data di attuazione, poi ritirati, che hanno buttato tutto all’aria facendo sospettare a ragione chissà quali patti segreti tra Renzi, il suo amico Verdini, plenipotenziario di Berlusconi, e altri, ha scritto che sarebbe il caso di riaprire i manicomi chiusi nel 1978 dalla legge Basaglia.
Dev’essere approvata prima la legge elettorale o quella costituzionale — una lunga marcia — che dovrebbe fare del Senato una specie di camera dei fasci e delle corporazioni, trasformandolo in un’assemblea con i seggi attribuiti a chi ricopre già una carica elettiva? Si è deciso poi — Renzi e Berlusconi — che si voterà con un sistema per la Camera e con un altro sistema per il Senato. Sembra un’assurdità dopo quel che è successo alle ultime elezioni: i guasti, infatti, sono nati proprio di lì. Ci dovrà pensare di nuovo la Consulta? L’impressione è che la vera posta in gioco siano le elezioni. Si sono accelerati i tempi e l’accordo è nato proprio per impedirle?
È chiaro soltanto che questo è il governo Renzi. Un uomo solo al comando, ma non è Bartali, non è Coppi — tempi antichi —, non è neppure Pantani, tempi moderni. Con alle spalle, se si eccettua il non entusiasta ministro dell’Economia Padoan, una squadra grigiastra, «di personalità piuttosto modeste che non gli faranno ombra», ha scritto Marcelle Padovani su Le Nouvel Observateur . «La maggior parte dei ministri sono dei principianti».
Matteo Renzi non ha esperienze parlamentari, governative, internazionali, non conosce i regolamenti delle assemblee e la forza della burocrazia ministeriale, ha solo la pratica di presidente della Provincia e di sindaco di Firenze, 377.000 abitanti, con il suo cerchio magico. Vengono i brividi a pensare che dovrà discutere con la Merkel, con Obama, che siederà all’Onu, parteciperà al G8, avrà a che fare con tutti i marpioni del mondo affidandosi al suo chiaro linguaggio di ragazzo — un fanciullino, come dice Giovanni Sartori — che vuol mettere tutti a proprio agio, minimizzare le gravosità della vita, promettere, soprattutto. Detto e fatto. Il presidente Napolitano, visto che è stata esclusa, chissà perché, dal ministero Emma Bonino, esperta e conosciuta nel mondo, dovrà prendersi, tra l’altro, anche l’interim occulto degli Esteri per non far fare una figura barbina al paese della «Grande bellezza».
Dall’aldilà gli uomini del CAF, Craxi, Andreotti, Forlani e i loro predecessori non nasconderanno l’invidia. Altro che deprecato manuale Cencelli. La giostra dei sottosegretari non è stata mirabile, tra la rimediata storiaccia calabrese, l’esclusa del Pd in Sardegna perché indagata e subito risarcita, i berlusconiani «pentiti» — sembra — protagonisti delle vergognose leggi ad personam, inseriti proprio al ministero della Giustizia, quel che interessa a B..
I sondaggi per Renzi sono ora positivi, ma se le promesse non saranno rispettate con la velocità del suono farà in fretta a diventare una meteora, come ha scritto il Financial Times e ha ribadito L e Monde di sabato: «Potrebbe diventare una stella cadente».
Non tutti i cittadini hanno digerito quel che è successo dalle elezioni dell’anno scorso a oggi, la congiura di palazzo, il Pd che licenzia il suo presidente del Consiglio e mette al suo posto il nuovo segretario, una mescolanza di dramma e di carnevale da cui Enrico Letta e anche Bersani sono usciti con alta dignità. Quella fotografia dei due che si abbracciano nell’aula plaudente di Montecitorio è un documento storico. Ma ad applaudire sono stati anche i 101 suicidi del Pd che hanno votato contro Prodi?
Renzi è il figlio «naturale» di Berlusconi, un pupillo che all’ex piacerebbe avere tra i suoi. La sua visione del mondo è radicata nell’arco che comincia nel 1994 e dovrebbe finire ora, con Berlusconi ai servizi sociali o agli arresti domiciliari. A legarli è la politica disinvolta dei due forni, il mito del successo e del potere, il narcisismo, l’uso dell’io, ossessivo. E viene in mente Carlo Emilio Gadda quando, nella Cognizione del dolore scrive: «L’io, io!... Il più lurido di tutti i pronomi!...(...) I pronomi! Sono i pidocchi del pensiero».

Corriere 6.3.14
Modena e Reggio, primarie Pd nel caos


Bagarre e guerra di esposti nel Partito democratico a Modena e Reggio Emilia. Nel mirino, il voto degli stranieri alle primarie che si sono tenute domenica scorsa per scegliere i candidati sindaci alle Amministrative in programma a maggio.
Il caso più complesso riguarda Modena.
A muovere le accuse è Francesca Maletti, seconda classificata, che ha presentato un esposto al collegio di garanzia delle primarie in cui denuncia presunte irregolarità nel seggio per gli stranieri.
Maletti parla di «gravissime irregolarità ad esclusiva iniziativa dei sostenitori di Gian Carlo Muzzarelli», primo classificato, nonché assessore regionale. Secondo l’esponente renziana, i sostenitori del candidato che ha poi vinto hanno «finanziato sistematicamente il voto dei cittadini extracomunitari munendoli della somma occorrente per votare». A Reggio, dove si sceglieva il successore di Graziano Delrio, indaga anche la procura. Ma politicamente gli effetti saranno minori:
ad essere accusato è infatti lo sconfitto, Franco Corradini, che ha perso sia le primarie sia le deleghe di giunta, revocategli dal vicesindaco Ugo Ferrari.
Il vincitore delle primarie, Luca Vecchi, ha infatti raggiunto un consenso altissimo (66 per cento).

l’Unità 6.3.14
Con Tsipras Da Spinelli a Ovadia (ma solo in lista)
di Rachele Gonnelli


Presentata ieri nella sede della Stampa romana a pochi passi da Montecitorio l’ultima e definitiva versione della lista Tsipras. Nel restyling finale il simbolo è tornato di un rosso scuro, il nome Tsipras più grande campeggia sul motto “L’Altra Europa”.
«Non l’Europa dei tartufi - spiega Barbara Spinelli - falsi europei per cui questa Europa è l’unica possibile e non l’Europa di chi non ci ha mai creduto e sogna il ritorno a sovranità nazionali, complici dello status quo». «Ma la nostra non voglio chiamarla terza via», aggiunge ricordando il manifesto di Ventotene firmato dal padre Altiero e da Ernesto Rossi «che nasceva dalla lotta alla dittatura e alla povertà ». La lista per le europee del 25 maggio si compone di 36 donne e 37 uomini, con molte capoliste donne nelle cinque circoscrizioni, inclusa la stessa Barbara Spinelli. Alla fine, dopo tanto temporeggiare e recalcitrare, la giornalista che ha lanciato l’idea di appoggiare la candidatura alla presidenza della Commissione del leader greco di Syriza, Alexis Tsipras, ha accettato di presentarsi - «metterci la faccia» - e sarà capolista sia al Centro sia nelle Isole ma anche in testa di lista nella circoscrizione Sud. Ha però già escluso, con una lettera al comitato dei promotori, che non intende sedersi nel Parlamento di Strasburgo. Non è un po’ un inganno nei confronti degli elettori? È lunga la risposta di Barbara Spinelli a questa domanda: «Ognuno deve fare ciò che sa fare, il mio mestiere è cercare di smascherare le falsità, non so fare altro, mi è sembrato giusto nel momento in cui ho deciso di espormi con altri per questo progetto, anche metterci la faccia, ma ci sono persone competenti che hanno più attitudine di me alla politica, io non ne ho». È dunque solo per «dare visibilità» a persone brave ma invisibili, che presta il suo nome e il suo volto. È convinta che non ci sia inganno perché lei lo ha detto prima, al momento di presentarsi, che non andrà all’Europarlamento anche se eletta. «A differenza di quanto facevano i partiti candidando persone note che poi rinunciavano per qualche incompatibilità celata prima, io ho chiarito tutto. Inoltre in questo caso - aggiunge –non passerà il secondo in lista ma chi ha preso più voti, perché alle europee c’è la preferenza ». Lo stesso discorso, ammette, vale per Moni Ovadia. Mentre Andrea Camilleri alla fine ha deciso di non candidarsi, a quanto pare perché il suo nome è circolato sui media prima della sua decisione finale. Il resto della lista è sul sito listatsipras.eu.

il Fatto 6.3.14
Movimenti a sinistra
Lista Tsipras, Spinelli guida l’altra Europa
di Salvatore Cannavò


La lista Tsipras è una realtà. Ieri il comitato promotore ha presentato alla stampa i nomi dei 73 candidati che concorreranno alle prossime elezioni europee del 25 maggio per rappresentare a Bruxelles le ragioni di “un’altra Europa”. Scorrendo la lista, che è consultabile integralmente sul sito listatsipras.eu, non ci sono particolari novità rispetto a quanto anticipato nei giorni scorsi dal Fatto . C’è Curzio Maltese di Repubblica e il professor Adriano Prosperi, anch’egli collaboratore del quotidiano di Ezio Mauro. C’è Loredana Lipperini, scrittrice, anch’essa in forza a largo Focecchi (oltre che conduttrice dell’unica vera trasmissione dedicata ai libri in Italia, Fahrenheit su Radio3). Poi l’operaia Electrolux Paola Morandin e lo scrittore Ermanno Rea. Si conferma l’assenza di Andrea Camilleri in seguito a divergenze maturate nel comitato dei garanti attorno alla presenza di Luca Casarini (confermato) e all’assenza dell’europarlamentare Sonia Alfano (assente) mentre la lista è costruita attorno al rilievo politico di Barbara Spinelli, editorialista di Repubblica , impegnata con tutte le sue energie nella battaglia contro “i tartufi europei”, cioè coloro a cui la Ue va bene così com’è e i nostalgici delle sovranità nazionali. Spinelli è l’unica candidata del comitato dei garanti formato, oltre che da lei, da Andrea Camilleri, Paolo Flores d’Arcais (ormai però in forte dissenso rispetto al gruppo), Marco Revelli, Luciano Gallino, Guido Viale oltre ad Alexis Tsipras, presidente di Syriza che sponsorizza il progetto.
LA FIGLIA DI ALTIERO SPINELLI sarà candidata capolista in tre circoscrizioni, al Centro, al Sud e nelle Isole. Ma ha già annunciato che, in caso di elezione, si dimetterà per lasciare il posto a persone “più competenti e con più energia di me”. Una scelta rischiosa, che espone la lista all’accusa di non rispettare gli elettori ma che Spinelli ha difeso con serenità: “Ognuno fa quello che sa fare. Io so scrivere ma posso dare visibilità a candidati competenti che altrimenti non l’avrebbero”.
Tra questi candidati, suddivisi al 50% tra uomini e donne, c’è, come visto, una discreta varietà culturale, una forte provenienza da associazionismo e movimenti e una sobria presenza partitica. Si va infatti da Moni Ovadia, al Nordovest ma anche all’economista già vicino al M5S, Mauro Gallegati e alla verde altoatesina Oktavia Brugger. Dall’operaia Electrolux all’attore Ivano Marescotti, dal giurista Piergiorgio Alleva, vicino alla Fiom, a Isabella Cirelli che ha promosso il referendum sulla scuola pubblica a Bologna. Al centro è forte la presenza di associazioni e movimenti: Raffaella Bolini dirigente dell’Arci, Francuccio Gesualdi, del Nuovo Modello di Sviluppo, Tommaso Fattori, del Comitato acqua mentre al Nordest c’è anche il professor Riccardo Petrella che si scontrò con Nichi Vendola sulla gestione dell’Acquedotto pugliese. Al Sud, dietro Ermanno Rea troviamo la scrittrice Valeria Parrella e lo scrittore Franco Arminio, il legale della Fiom Raffaello Ferrara, l’operaio di Pomigliano Antonio Di Luca (al Nord c’è anche l’operaio della Maserati, Giuseppe Viola), la magistrata Silvana Arbia e nelle Isole l’importante cantante sarda Maria Elena Ledda, l’attivista NoMuos Antonio Mazzeo o l’imprenditrice antimafia Valeria Grasso. Sel sostiene certamente Lorella Zanardo, autrice de Il corpo delle donne, il proprio dirigente Marco Furfaro, lo stesso Casarini, la giornalista Giuliana Sgrena, l’economista Felice Roberto Pizzuti. Rifondazione sostiene la Notav Nicoletta Dosio (ma del Val di Susa c’è anche l’ex sindaco Pd di Agliana, Carla Mattioli), i propri dirigenti Fabio Amato ed Eleonora Forenza oltre ad altri candidati. Resta fuori il Pdci che non dà per scontato l’appoggio alla lista. Nel complesso, la presenza dei partiti è discreta ma bisognerà vedere la corsa delle preferenze. In ogni caso la lista al momento è solo un progetto. Per essere davvero sulle schede elettorali serviranno 150 mila firme, un’impresa non facile. Intanto arriva il primo endorsment importante, quello di Gino Strada, già candidato del M5S alla presidenza della Repubblica.

Repubblica 6.3.14
Tutti i rischi della lista Tsipras
di Stefano Rodotà


DINAMICHE forti attraversano il sistema politico italiano, e lo stanno cambiando profondamente. Ma, se pure questo processo è stato accelerato dalle iniziative di Renzi, per comprenderlo bisogna andare oltre la stretta attualità, gettare lo sguardo sull’intera fase che abbiamo alle spalle.
Altrimenti si rimane prigionieri di formule ingannevoli - «Aspettiamo Renzi alla prova dei fatti», «Se fallisce, è la fine» - che rivelano non tanto una deriva personalistica, quanto piuttosto una sfiducia nella possibilità stessa di condurre analisi politiche. E invece proprio dalla politica bisogna ripartire, registrando che siamo alla fine di un ciclo che si è dipanato attraverso l’emergenza montiana, le larghe intese e le piccole intese, senza offrire né soluzioni a breve né prospettive, sì che Renzi finisce con l’apparire come una sorta di curatore fallimentare. Il suo obiettivo è visibilmente quello di strutturare il sistema politico intorno a due poli, non due partiti, e proprio qui scatta l’impossibilità di liberarsi con una mossa tutta volontaristica dell’eredità del passato. “Padrone”, almeno nelle apparenze, di un partito che aveva conquistato senza combattere, Renzi ha poi rivolto lo sguardo dall’altra parte e, muovendo da una sottovalutazione del suo partner di governo, il Nuovo Centro Destra, si è lanciato verso la rilegittimazione di Berlusconi, impigliandosi però nei prevedibili conflitti determinati dall’affidarsi all’astuzia della “doppia maggioranza”.
Ora la nuova “intesa” intorno alla legge elettorale mostra come egli non debba solo fare i conti con i fallimenti del passato, ma pure con l’esito infelice del suo stesso azzardo. Indicata come un passaggio necessario per un chiarimento del quadro politico, la nuova fase della riforma elettorale produce, al contrario, una inquietante confusione istituzionale, destinata a sfociare in conflitti (ricatti?) incrociati, rendendo più soggetta a condizionamenti l’azione di governo e più esposta la nuova soluzione a chiari vizi di incostituzionalità. Frutto evidente di pure strumentalità partitiche, dissolve la logica, già precaria, della doppia maggioranza, spinge tanto Berlusconi quanto Alfano a perseguire le proprie convenienze, a rafforzare la propria identità, aprendo la via a conflitti inevitabilmente destinati ad influire su tempi e scelte del governo. L’apertura a Berlusconi era stata, nei fatti, una evidente sfida ad Alfano, così come la precedente apertura su lavoro e diritti civili lo era stata nei confronti di Letta. Cambiati i ruoli, mutato Renzi da sostanziale sfidante ad alleato obbligato di Alfano, quale sarà in concreto la linea della maggioranza ora rinsaldata?
Bisogna tornare, a questo punto, alla questione dei due poli, in vista dei quali è stata confezionata la nuova legge elettorale, con chiusure conservatrici a favore di chi già è insediato all’interno del sistema, introducendo così una ulteriore rigidità di cui, prigionieri di una poco riflessiva furia “riformatrice”, non sembra siano stati adeguatamente valutati tutti gli effetti. Sul versante berlusconiano, è evidente l’intenzione di costruire una coalizione nella quale sarà obbligato ad entrare tutto il pulviscolo dei gruppi e gruppetti che si agitano a destra in questo momento per dare l’impressione di una autonomia del tutto finta, poiché sanno benissimo che la nuova legge elettorale, quali che siano le soglie fissate, precluderà loro ogni possibilità di accesso al Parlamento. Si creano così le premesse per negoziati opachi, per contropartite d’ogni genere, mantenendo le condizioni che hanno in passato inquinato il nostro sistema politico e anticipando alla fase preelettorale il potere dei gruppi marginali, ma indispensabili per assicurare il successo della coalizione. Inoltre, l’alta soglia dell’8%, imposta alle liste autonome, diventa un potente disincentivo per avventure solitarie del Nuovo Centro Destra.
Diversa si presenta la situazione nel centrosinistra, dove Renzi sembra aver ripreso la logica della “vocazione maggioritaria” e, fidando sul proprio appeal, non manifesta aperture verso le diverse realtà esistenti, mostrandosi piuttosto interessato al recupero di una parte dell’elettorato del Movimento 5Stelle (strategia peraltro analoga a quella di Silvio Berlusconi). Peraltro, la sua sbrigativa rilettura di quel che oggi sarebbe la sinistra, unita ai quotidiani slittamenti ai quali lo obbliga la convivenza con gli alfaniani, ha creato condizioni propizie all’apertura di un processo che oggi, sia pure in forme ancora da chiarire, vede coinvolti Sel e il gruppo di Pippo Civati, la lista Tsipras e i parlamentari (e non solo) che si allontanano dal Movimento 5Stelle.
Sono realtà diverse, ciascuna delle quali meriterebbe una analisi specifica, ma di cui qui può essere indicato quello che appare un possibile terreno comune. Civati, con quella che non è soltanto una battuta, ha parlato di Nuovo Centro Sinistra, ponendo così un problema: è possibile un processo, tutt’altro che semplice e breve, che abbia come primo obiettivo quello di liberare il Pd dal legame pericoloso con il Nuovo Centro Destra e, in prospettiva, consenta di lavorare intorno ad una ipotesi di sinistra nuova e non velleitaria? Di questo si dovrebbe tener conto, senza rifugiarsi nelle troppo comode obiezioni “realistiche” che, negli ultimi tempi, hanno privato il centrosinistra di ogni capacità di creare le condizioni pur minime per non essere sempre succube di stati di necessità, veri o costruiti. La politica è anche, talora soprattutto, capacità di assumersi rischi, senza la quale nessuna vera innovazione è possibile. Forse è qui che il proclamato “coraggio” di Renzi dovrebbe esercitarsi pure in questa direzione. E si potrebbe anche cominciare a ragionare fuori da un’altra pesante ambiguità, l’indicazione della durata del governo fino al 2018, che sembra un artificio per tener buono Alfano. Qualora al Senato si creassero le condizioni per liberarsi da questa ingombrante tutela, si potrebbe ragionevolmente discutere di un programma limitato e di un ritorno alle urne secondo una logica politica, e non puramente strumentale, anche se ora contro questa possibilità si leva il pasticcio dell’eventuale elezione differenziata di Camera e Senato.
Ripeto. È un processo non facile, che tuttavia può permettere di avviare un cammino che faccia uscire dal deserto politico nel quale continuiamo ad aggirarci. In questa prospettiva si presenta come assai impegnativa l’iniziativa della lista Tsipras perché, in particolare, la partecipazione alle elezioni europee significherà sottoporsi ad un vero confronto pubblico. È una impresa rischiosa e, proprio per questo, vorrebbe dai suoi promotori un rigore estremo. Dal passato vengono esempi che ammoniscono sul rischio legato a logiche autoreferenziali (il fallimento nelle ultime due elezioni politiche dalla Sinistra arcobaleno e della lista Ingroia). Dal presente viene l’obbligo a riflettere su che cosa significhi, al di là del fatto simbolico, il riferimento a Tsipras e al suo partito, Syriza. Si tratta di una esperienza maturata attraverso un lavoro politico non breve e che si è consolidato grazie ad una intensa presenza sociale. Condizioni, queste, che non trovano corrispondenza nella lista italiana e nella variegata coalizione che la sostiene, che peraltro non ha dato una esaltante prova di sé proprio nella scelta delle candidature, come attestano le cronache di ieri. Per tutti quelli che vogliano andare oltre la semplice critica al governo Renzi, si apre una stagione assai impegnativa. Ma proprio con queste difficoltà bisognerà misurarsi.

Repubblica 6.3.14
Le elezioni europee
Scrittori, attori e No Tav nella lista Tsipras
Candidati attivisti di movimenti locali. “ Fermiamo l’austerity che soffoca l’Europa”
di Silvio Buzzanca



ROMA - La scritta bianca a stampatello “L’altra Europa con Tsipras” campeggia al centro di un cerchio rosso. È il simbolo che correrà alle elezioni europee in appoggio alla candidatura del leader greco di Syriza alla poltrona di presidente della Commissione europea. C’è molto rosso in un simbolo, presentato ieri all’Associazione stampa romana, che raccoglie un po’ di quello che resta della sinistra italiana - Sel, Rifondazione comunista, ambientalisti - e molto dei movimenti sociali e civili che sono nati nell’ultimo decennio.
Una voglia di società civile segnalata dalla presenza in lista di personaggi “garanti” come l’intellettuale Barbara Spinelli, editorialista di Repubblica, l’attore e scrittore Moni Ovadia, lo storico Adriano Prosperi. Si sono candidati giornalisti come Curzio Maltese diRepubblica, Giuliana Sgrena, Loredana Lipperini, SandroMedici e Alfredo Somoza. C’è anche Lorella Zanardo, autrice del documentario “Il corpo delle donne”.
Fra gli altri nomi spiccano il docente e giuslavorista Piergiovanni Alleva, lo scrittore Ermanno Rea, la cantante sarda Maria Elena Ledda, la scrittrice Valeria Parrella e l’attivista greco Argyrios Panagopoulus.
Dalle lotte sul territorio arrivano la candidatura di Isabella Cirelli, che ha guidato a Bologna la vittoriosa battaglia contro il finanziamento pubblico alle scuole private, e quella della professoressa di liceo aquilana Annalucia Bonanni. Una leader del “popolo delle carriole” che protestava contro i ritardi nella ricostruzione post terremoto nella città abruzzese. La Bonanni è ancora imputata in un processo per le contestazioni a Silvio Berlusconi del 2010.
La sua presenza rende probabilmente possibile la candidatura Luca Casarini, leader storico dei Disobbediente del Nord-Est, anche lui ancora coinvolto in una seria di processi per le attività politiche dei primi anni del 2000. La sua presenza ha però provocato una spaccatura nel comitato dei garanti della lista. Con Andrea Camilleri, che alla fine ha scelto di non candidarsi, Luciano Gallino e Paolo Flores d’Arcais contrari alla sua presenza. Mentre la Spinelli, Marco Revelli e Guido Viale erano favorevoli.
Insieme a Casarini sono in lista anche altri leader della protesta del G8 di Genova nel 2001: l’ispiratore della rete Lilliput Francuccio Gesualdi, il pioniere dell’acqua pubblica Riccardo Petrella, la rappresentante dell’Arci al Genoa Social Forum Raffaella Bolini e Tommaso Fattori del Social forum di Firenze.
Scendono in campo anche alcuni leader del movimento No Tav: Pierluigi Richetto, l’ex sindaco di Avigliana, Carla Mattioli, area Sel, e Nicoletta Dosio di Rifondazione. Anche lei è stata condannata nello stesso processo che ha visto condannare Beppe Grillo. Dunque tanta sinistra e tanto ambientalismo e movimentismo. Che Nichi Vendola definisce così: «La lista Tsipras è simbolo di cambiamento, di superamento delle lobby dell'austerity e di chi vuole distruggere l’Unione europea. Ora l’Europa dei diritti sociali, ora l’impegno è dare speranza ad un’Europa che deve uscire dall’incubo dell'austerity e che metta al centro diritti e libertà».

Corriere 6.3.14
I nostalgici del novecento
di Pierluigi Battista


La sinistra italiana, quella più «tradizionale», quella più legata a radici antiche, avrebbe uno spazio (meritato) alle prossime elezioni europee. Però sono talmente forti i suoi tic e le cattive abitudini settarie in cui sembra impelagata, che questa chance potrebbe essere gettata via. Prima si è accodata alla marcia di Alexis Tsipras, il leader greco che con Syriza ha ottenuto uno straordinario successo a scapito dei socialisti del Pasok, per formare una nuova lista che unificasse le diverse anime di una sinistra dispersa e depressa. Poi, passo dopo passo, si è messa a smantellare quel poco che era stato costruito. L’operazione di indebolimento autolesionistico non è andata ancora in porto e non ha già compromesso in via definitiva i risultati delle prossime elezioni. Ma il lavoro di autolacerazione sembra a buon punto. Come se una maledizione incombesse su chi sembra condannato a ripetere gli stessi errori.
L’immagine di Tsipras era l’ultima bandiera da sventolare: e si sa quanto la sinistra più oltranzista e massimalista abbia sempre bisogno di «papi stranieri», di mitologie da importare, di esotismi da imitare. Ma era (e resta) una bandiera, un tentativo di superare la deriva minoritaria in cui è caduta in questi anni, per propri errori e per l’avanzata impetuosa del grillismo che ha finito per prosciugare almeno in parte il suo bacino elettorale. Ma appunto, il settarismo, la rissosità permanente sembrano riprendere il sopravvento. Prima la defezione di Andrea Camilleri, che con Barbara Spinelli, Paolo Flores d’Arcais, Moni Ovadia e altri, doveva offrire un contributo ad alta densità intellettuale alla lista prossima ventura. Poi la notizia un po’ sconcertante secondo la quale la candidatura degli intellettuali eccellenti sarebbe stata solo un richiamo per raccogliere voti, visto che nessuno ha intenzione di fare il parlamentare europeo a Strasburgo: prospettiva che non appare molto rispettosa dell’intelligenza e della stessa possibilità di scegliere dell’elettorato. Infine la notizia dell’immancabile frattura che avvelena le buone e generose intenzioni unitarie e che scatena uno scontro durissimo sul nome di Luca Casarini, l’ex leader del movimento no global che vuole partecipare alla competizione per un seggio al Parlamento europeo.
Farsi del male da sola è una vocazione ancora più antica della sinistra rosso antico. Oggi questa sinistra potrebbe essere punto di riferimento per il disagio sociale, per le vittime più deboli della crisi, per chi ha subìto i colpi più duri delle politiche di austerity . Potrebbe togliere spazio alle destre più antieuropeiste, potrebbe dare uno sbocco alle proteste dei disoccupati e di chi ha visto ridurre drasticamente il proprio livello di benessere. Ma per rappresentare un’alternativa convincente che sappia parlare non solo alla sua base militante, la sinistra dovrebbe apparire credibile, non prigioniera delle sue cattive abitudini, non sempre la stessa somma di sigle che si mettono insieme nel nome di Tsipras per poi riproporre l’immagine di sempre. E così, anche quest’altra occasione potrebbe essere gettata al vento.

il Fatto 6.3.14
Derive a sinistra
Cani e vino, il podere di D’Alema e la ritirata velenosa di un Lìder
di Pino Corrias


La passeggiata di Massimo D’Alema tra le terre emerse della sua proprietà umbra fatta in compagnia di Alain Friedman – tra ulivi secolari “che valgono millecinquecento euro, pensa, millecinquecento euro l’uno!” e cani “che non mordono, ma direttamente uccidono” – è un prezioso capitolo sui danni, anche psichiatrici, a cui conduce la deriva del potere e del potente quando corrosi dalle alte temperature della solitudine, del narcisismo ferito e del rimpianto non più riconciliato: “Mi occupo dell’Italia solo nelle pause, tra un impegno internazionale e l’altro”. Ma per fortuna è anche una irresistibile gag comica (per quanto involontaria) di eterna commedia italiana. La quale non conduce mai alla scespiriana tragedia. Ma finisce sempre per riconciliarci con questo amato Paese eternamente fatto di macerie e maccheroni. Perché tra le sue immense risorse (specie emotive) sopravvive la capacità di guardare con un certa tenerezza persino i titolari delle suddette macerie (e maccheroni). In fondo anche loro vittime del crollo, e del troppo sugo, come il Berlusconi impietosamente struccato nelle foto del Sunday Times. O in questo commovente D’Alema danzante, in bianco padronale, che di vigna in vigna, si riempie gli occhi contabilizzando le sue soleggiate proprietà: “Quella collina fa parte dell’azienda, diciamo, e poi anche il versante che non si vede… E anche laggiù, fino a quella altura…”.
ESTENSIONI che deglutisce goloso, preparandosi a esibire le sue nuovissime competenze enologiche: “Facciamo due vini. Uno in purezza senza solfiti. L’altro più strutturato”. E pazienza se “purezza” non vuol dire “senza solfiti”, quello che conta è il braccio teso ad accarezzare il vasto orizzonte campestre che dovrebbe stupirci: “Massì, siamo una piccola azienda agricola, diciamo, che dà lavoro a più di qualcuno”. Ed ecco, dal viottolo, sbucare un cane, che lo sollecita a tranquillizzare l’ospite: “É un cane buonissimo”. Buonissimo? Non del tutto: Be’, se percepisce il pericolo, uccide”, sogghigna. Gli piace la perentorietà del verbo. E quello che gli ispira: “Sempre obliasti, Aiace Telamonio/ogni prudenza in guerra, ogni preghiera”, che poi sarebbe un Cardarelli novecentesco (e ridondante) che recita per presentarci non sé medesimo, ma il cane: “Ecco lui è Aiace, l’unico maschio dell’allevamento”, a confermare un sottinteso, oppure un riverbero, tra le qualità del cane e del padrone, la capacità di uccidere dell’uno e di andare in guerra dell’altro. Che è intrinseca biografia offerta all’anglo giornalista. E privato turbamento, per essersi intestato la sola guerra italiana a non essere rinominata “missione di pace”, quella contro la Serbia, anno 1999, 10mila obiettivi bombardati in due mesi, con il plauso di Cossiga e della Nato, più gli sghignazzi della destra, compiaciuta per come si mostrava al mondo l’ex pioniere del Pci di Togliatti arrivato finalmente a manovrare non solo i bottoni, ma anche gli otturatori del potere. E ora un potere al tramonto lo assedia, proprio lì, tra Narni e Otricoli. Al punto che i 15 ettari di azienda agricola, battezzata proustianamente La Madeleine, che è come dire Nostalgia, non fanno che moltiplicare il rimpianto che emana. A dirne la fissità rurale, il ripiegamento provinciale, dopo le molte avventure di palazzi romani finite in sconfitte. Dopo i marosi cavalcati su Ikarus. E le altrui scale della politica traversate su scarpe cucite a mano. Tutti i residui di quelle fascinazioni danarose – “D’Alema piace alla destra perché anche lui disprezza la sinistra” – sono in questa risacca di nobiluomo in ritiro volontario e sdegnoso. Non rottamato da altri, sia chiaro. Che lo fanno assomigliare allo straziante protagonista dell’Ultimo nastro di Krapp di Beckett, assediato dagli anni ormai trascorsi. Ma sempre raccontandosi come l’eterno viaggiatore del film Tra le nuvole (lo nota Giuseppe Salvaggiulo nella notevole biografia Il peggiore) quando incanta gli anziani nelle feste di paese “con le sue fantasmagoriche avventure planetarie”. “Recentemente sono stato in Brasile”. “Vengo da New York, tutti gli anni partecipo all’assemblea della Clinton Foundation, di cui sono socio”. “Io sono stato al congresso dell’Spd a Berlino”. “Noi abbiamo fatto un convegno a Parigi”. “Arrivo da Bruxelles, sto per partire per la Cina, vuol vedere il visto?”.
È COSÌ che riemerge ogni tanto, elegantissimo, tiratissimo, ospite di Lilli Gruber - “Sono appena rientrato dalla Polonia, è successo qualcosa?” - gonfio di stizza e indispettito. Indispettito dalle domande. Indispettito dall’Italia, dalla bassa politica, da Matteo Renzi, “il ragazzino”. Ma specialmente dal vuoto. “D’Alema non ha più nulla di politico
– dettò il suo ex maestro di sartoria Claudio Velardi - . Lo dico con affetto antico che sconfina nella tenerezza e nella pena. Ha imboccato una deriva triste e biliosa. Ormai siamo nella psicologia non è in pace con se stesso”.
Molti anni fa, quando ancora si immaginava skipper d’ogni corrente, diceva: “Andare a vela è un grande insegnamento per la politica e la vita. In vela sai che non puoi andare controvento, ma sai pure che piegandoti di 30 gradi, puoi risalirlo. Questo è un insegnamento per la vita: se non ti pieghi non vinci”. Peccato che a forza di piegarsi, senza mai andare controvento, abbia perso (quasi) tutto. Perché continua a guardare senza vedere. Neanche con i suoi ulivi ci riesce, pensa che siano soldi sonanti, invece che vita.

l’Unità 6.3.14
Reato di tortura: scusate il ritardo
di Luigi Manconi e Federica Resta


L’approvazione, da parte del Senato, del disegno di legge che introduce nel codice penale il delitto di tortura è un atto importante. Il divieto di tortura fonda uno dei principi essenziali del diritto internazionale.
Non solo, ma rappresenta, per il nostro ordinamento, l’unico caso di incriminazione obbligatoria, cui il Parlamento adempie con più di sessant’anni di ritardo. Quello delle violenze, fisiche o morali, su persone sottoposte a restrizioni della libertà, è infatti l’unico caso in cui il costituente prescrive al legislatore di ricorrere alla sanzione penale per proteggere la persona da violenze, perpetrate abusando di un potere che dovrebbe esercitarsi in nome delle istituzioni democratiche. Un potere che invece tradisce proprio i principi essenziali dello Stato di diritto.
Il divieto di tortura è infatti il più forte limite intrinseco al monopolio della violenza legittima da parte dello Stato: il potere punitivo e il potere di polizia sono legittimamente esercitati solo se e fintanto chè non si risolvano nell’abuso della condizione di privazione della libertà in cui versa chi vi sia sottoposto. La tortura è il limite cui né la pena né l’interrogatorio possono giungere, senza risolversi in pura violenza, oltretutto infrangendo quel dovere - primario per i pubblici ufficiali - di salvaguardia della persona affidata alla custodia dell’autorità pubblica, nel momento di maggiore fragilità.
Il reato di tortura, insomma, è una garanzia soprattutto contro la più grave degenerazione dell’autorità in abuso, del potere in arbitrio, del diritto in violenza. Ed è la prima e minimale forma di tutela che lo Stato deve assicurare alla persona soggetta al suo potere, per impedire quella terribile violazione della dignità che passa, in primo luogo, attraverso l’umiliazione della persona e lo strazio del corpo. Tanto più inaccettabile in un’età, come la nostra, che ha visto il progressivo sottrarsi del corpo (persino) alla pena legittima, trasformatasi - come scriveva Michel Foucault - da arte di «sensazioni insopportabili» in «economia di diritti sospesi». Il corpo e l’inviolabilità della persona tornano dunque a essere, nella tortura, materia di sopraffazione e di vendetta per un potere illimitato e violento, che espropria la persona del diritto all’intangibilità fisica e morale, già sancito con la promessa dell’Habeas Corpus: «Non metteremo le mani su di te». Carattere essenziale della tortura è quindi l’abuso del potere, che consente a chi eserciti pubbliche funzioni di violare, nella persona affidata alle sue cure, insieme con la dignità, la stessa umanità. Proprio per questa intima connessione – storica e simbolica; strutturale e funzionale – tra tortura e potere pubblico, avevamo proposto, con un disegno di legge, la previsione del delitto di tortura come reato proprio, suscettibile di realizzazione, cioè, solo da chi eserciti una pubblica funzione. In conformità, peraltro, a quanto previsto dalla maggior parte delle convenzioni internazionali e degli ordinamenti democratici, che configurano la tortura come reato suscettibile di commissione da parte di chi lo Stato democratico dovrebbe rappresentare, non tradire. La stessa genesi della tortura si inquadra infatti nel rapporto tra suddito e Stato, evolvendosi poi nella relazione tra il cittadino privato della libertà e lo Stato di diritto che anche in suo nome difende le libertà e i diritti.
Il Senato ha scelto una strada diversa, e da noi non apprezzata, configurando la tortura come un reato comune, suscettibile dunque di realizzazione da parte di «chiunque», sebbene aggravato nel caso in cui l’autore sia un pubblico ufficiale. Questo consente, certo, di sottolineare il disvalore specifico dell’ipotesi in cui l’autore sia colui che è tenuto, paradossalmente, a rappresentare il diritto. Ma stempera anche, indubbiamente, il valore simbolico che avrebbe avuto la diversa configurazione di questo delitto come reato proprio.
In ogni caso, e nonostante molti limiti (perché vi sia tortura le violenze e le minacce devono essere ripetute e gravi; ed è previsto, tra le pene, anche l'ergastolo, che in tanti vorremmo abolire), lo stesso fatto che di tortura si torni, finalmente, a discutere, è un dato qualificante per l’intera legislatura. Che potrà essere davvero innovativa solo se porrà i diritti e le libertà al centro della discussione pubblica.

l’Unità 6.3.14
Rapporto Ue, la violenza colpisce una donna su tre
di Sonia Renzini

Picchiate, minacciate, offese e violentate. In Europa non esistono isole felici per le donne e la parità dei sessi è un mito da sfatare a ogni latitudine.
Una donna su tre nell’Unione Europea ha subito abusi fisici o psichici dall’età di 15 anni, percentuale che tradotta in numeri corrisponde a qualcosa come 62 milioni di cittadine europee. A sorpresa, il tasso di violenza si impenna a latitudini insospettabili, non nel profondo Sud come ci aspetteremmo, ma nel lontano Nord dove le donne hanno raggiunto da tempo un alto livello di occupazione: Danimarca (52% di abusi subiti), Finlandia (47%) e Svezia (46%). L’Olanda è al quarto posto con il 45%, seguita da Francia e Gran Bretagna, entrambe al 44%. L’Italia, dove pure le donne che lavorano sono a livelli imbarazzanti, si colloca con il 27% nel settore medio-basso della classifica delle violenze, ma non c’è da esultare.
Secondo gli esperti esiste un diverso livello di consapevolezza di quel che costituisce un abuso a seconda dei diversi Paesi e le italiane sono al terzo posto, in compagnia delle inglesi, a pensare che la violenza sia comune nel loro Paese. La fotografia impietosa è stata scattata dall’Agenzia europea per i diritti fondamentali (Fra) al termine di un’imponente indagine: intervistate 42mila donne di età compresa tra i 18 e 74 anni, 1550 per ognuno dei 28 stati membri.
POCA PREVENZIONE. Il risultato non lascia margini a facili ottimismi: al lavoro, in casa, in pubblico, perfino online, insomma in ogni sfera della loro vita le donne, vedono quotidianamente calpestati i loro diritti. In particolare, il 18% ha dichiarato di essere stata vittima di stalking dall’età di 15 anni, il 55% di essere stata molestata, spesso nei luoghi di lavoro, l’11% di avere ricevuto avance inappropriate su web.
Una donna su 10 ha subito una qualche forma di violenza da un adulto prima dei 15 anni, il 5% è stata vittima di stupro. Nel 22 per cento dei casi è stato il partner l’autore della violenza, spesso causata dal troppo alcol. Ma solo il 14 per cento ha denunciato alla polizia la violenza subita in casa, il 13% nel caso di abusi subiti da altri.
Fatti i dovuti conti questo significa che il 67% delle donne non ha mai sporto denuncia ed è un dato clamoroso. «Ciò che emerge è una situazione di abusi molto estesa che danneggia le vite di molte donne, ma è sistematicamente poco denunciata alle autorità», conferma il direttore dell’Agenzia, Morten Kjaerum.
E qui si arriva al nodo centrale della questione, quello che spiega la predominanza nella classifica nera delle violenze dalle donne di Paesi tradizionalmente ritenuti più rispettosi dei diritti femminili come quelli scandinavi a dispetto di altri come l’Italia dove le cronache ci regalano casi di femminicidio ogni pochi giorni. La responsabile del network di assistenza alle donne Roks a Stoccolma, ha detto che il dato della Svezia è dovuto al fatto che lì le donne sono molto più attente ai loro diritti legali e sanno come farsi aiutare. Ma nel complesso le donne vittime di abusi sono isolate e questo significa per lo più impotenza. Il 19 per cento delle intervistate sostiene che non saprebbe dove cercare aiuto in caso aggressione sessuale o fisica. Mentre gli effetti della violenza fisica e sessuale «possono essere duraturi e sedimentarsi pesantemente ». Dalla ricerca emerge che «oltre un quinto delle vittime di violenza sessuale ha avuto attacchi di panico, più di un terzo si è depressa e la metà ha avuto successivamente difficoltà nelle relazioni ». Urge che la politica introduca al più presto misure di prevenzione alla violenza contro le donne e in particolare si cominci a trattare la violenza domestica come una questione di interesse pubblico. Tra le prime cose da fare, secondo la Fra, è la ratifica della convenzione del Consiglio d’Europa. È la cosiddetta Convenzione di Istanbul che definisce la violenza contro le donne come una violazione dei diritti umani e stabilisce l’obbligo legale di agire contro il problema e perseguire gli aggressori. Anche se il documento è pronto dal 2011, solo tre paesi finora (Italia, Austria e Portogallo) lo hanno ratificato. Sarebbe un primo passo, altri riguardano un approccio che si concentri sulle vittime e sui loro diritti e una vigilanza attenta sul linguaggio usato nei mezzi di comunicazioni o nelle reti sociali.

l’Unità 6.3.14
Perché serve il reato di autoriciclaggio
L’inchiesta sulla «banca delle ‘ndrine» conferma l’urgenza di un adeguamento legislativo e di un chiarimento su ruolo e funzione delle Poste
di Angelo De Mattia


Il decreto legge per il rientro dei capitali illegittimamente esportati, del quale è in corso la conversione, non contiene, come in un primo momento era stato indicato, la previsione del reato di autoriciclaggio riguardante l’autonoma configurazione dell’illecito compiuto da chi impiega i proventi derivanti dalla commissione di un reato, insomma l’autoreimpiego del denaro conseguito con un illecito. Ancorché sia impossibile parlare di un condono vero e proprio, innanzitutto perché il rientro dei capitali deve avvenire non in forma anonima, bensì nominativa, la voluntary disclosure, e previo pagamento di tutte le tasse evase nonché di determinate sanzioni pecuniarie scontate, la mancanza nella relativa normativa dell’introduzione del reato in questione è stata vista da qualcuno come una tenaglia che nasce monca. E si sono accentuate le critiche di coloro che hanno parlato di nuova sanatoria, dopo lo scudo fiscale di tremontiana fattura. Si fa ora l’ipotesi che l’introduzione della descritta fattispecie possa avvenire nell’ambito del «decreto sicurezza».
Negli ultimi approfondimenti dalla proposta sarebbe stato espunto l’autoreimpiego del denaro ottenuto con evasione fiscale, con un approccio che è stato definito soft dal momento che una diversa scelta avrebbe avuto «effetti deflagranti sul sistema del nero di imprese e professionisti», secondo quanto ha detto il procuratore aggiunto di Milano, Francesco Greco, presidente della Commissione ministeriale che ha elaborato il progetto concernente tale ipotesi delittuosa. Piuttosto che pensare ad altri veicoli legislativi, sarebbe, invece, opportuno valutare se cogliere la fase della riconversione del predetto decreto per introdurvi la nuova previsione, prima ancora che lo sviluppo delle discussioni arrivi a depotenziarne ulteriormente la struttura e i contenuti.
Il recente gravissimo episodio della “banca delle ‘ndrine” di Desio, smascherata da una importante operazione della Dda milanese e della polizia, rafforza l’esigenza dell’introduzione del reato di autoriciclaggio. Il gip, Simone Luerti, che ha autorizzato l’arresto di 34 persone, ha messo in evidenza come tutti i reati commessi da costoro erano finalizzati al riciclaggio, mentre il procuratore aggiunto di Milano, Ilda Boccassini, nel sottolineare il ruolo avuto dalle operazioni svolte agli sportelli postali presso i quali l’associazione a delinquere di stampo mafioso si provvedeva di ingenti somme, ha osservato come sia urgente un intervento del legislatore, considerata la trasformazione che Poste ha subìto in una sorta di banca. Questa vicenda suona un campanello di allarme che dovrebbe indurre a rivedere l’intera normativa di prevenzione e di contrasto del riciclaggio di danaro sporco: si deve arricchire di uno strumento fondamentale come la sanzionabilità dell’autoreimpiego di danaro che recherebbe con sé anche un significativo effetto di annuncio, ma ciò non basta. Intanto, all’esigenza più volte rappresentata, pure su queste colonne e in occasione del lancio della privatizzazione, di un chiarimento sulla missione di Poste e Bancoposta stante l’evoluzione dei compiti che ha proiettato questa Spa pubblica in attività bancarie, finanziarie e assicurative, mentre è passata in secondo piano l’operatività nei recapiti, si aggiunge la necessità giustamente prospettata dal procuratore aggiunto Boccassini di rafforzare l’azione di contrasto di attività illecite, il cui compimento, da parte di terzi, potrebbe trovare anche nelle conseguenze di un mandato non ben definito per la Spa il varco per strumentalizzarne, pure nell’inconsapevolezza dei dipendenti, l’operatività per finalità illegittime.
Ma poi, è l’intera materia dell’antiriciclaggio che andrebbe sottoposta a riflessione. Resta un perno la segnalazione delle operazioni sospette da parte delle banche e degli altri intermediari che vi sono tenuti, insieme con gli obblighi di identificazione e registrazione di tutte le operazioni eccedenti il limite di legge. Tuttavia, da un lato occorrerebbe sapere di più delle decine di migliaia di segnalazioni che vengono effettuate annualmente agli organi competenti e, dall’altro, chiedersi se proprio nella mole delle segnalazioni non si nasconda il virus della ininfluenza che, nell’affermativa, dovrebbe indurre a progettare misure integrative e selezioni delle segnalazioni stesse, alcune delle quali possono essere effettuate solo per il classico intento di discarico di responsabilità senza che esistano minimi elementi a fondamento. Sul versante della collaborazione attiva del sistema bancario e finanziario si può fare di più, sempre sulla base del principio che enunciò l’allora Governatore Carlo Azeglio Ciampi secondo il quale la dotazione di strutture organizzative e di procedure da parte degli intermediari per collaborare all’azione di prevenzione e di contrasto di questi illeciti deve essere intesa come investimento per la stabilità dell’intermediario, per poter competere in reputazione. Una convention per mettere a punto una rivisitazione, a distanza di oltre venti anni dalla prima normativa antiriciclaggio, che veda tutte le parti interessate, sarebbe importante. In altri momenti della storia recente in questo campo sono stati compiuti significativi progressi, a partire alla progettazione e dalle iniziative pionieristiche dell’allora Ufficio italiano dei Cambi. Ora ci si può basare anche sull’estesa collaborazione internazionale per combattere, non isolati, una battaglia che richiede una estesa interdisciplinarità.

l’Unità 6.3.14
La capacità di stare accanto a chi muore
risponde Luigi Cancrini


Re Filippo del Belgio ha firmato la legge che autorizza la richiesta di trattamento eutanasico anche per i minorenni in fase terminale, con sofferenze fisiche insopportabili e con l'accordo dei genitori. Perché lo Stato dovrebbe costringere il minorenne alla sofferenza fino all'ultimo sospiro? L'età è davvero una discriminante davanti alla sofferenza terminale? Matteo Mainardi
Dal tempo in cui lavoravo nell'Ospedale di San Giacomo a Roma, l'accompagnamento alla morte di persone che non hanno più la speranza di poter sopravvivere mi è sembrata una delle responsabilità più importanti del buon medico e quelle che ho scolpite nella memoria sono, ancora oggi, le facce, le voci, i gesti, la vicinanza delle persone a cui sono stato accanto in quei momenti. Traendone la convinzione profonda della necessità, per chi in questo tipo di situazioni si trova ad avere delle responsabilità, di fare di tutto per capire quello che chi sta male gli chiede. Quella che conta, mi pare, è la capacità di ascoltare la persona che muore o i genitori che stanno per perdere un bambino e che con lui in qualche modo muoiono. Incontrando la loro serenità o la loro disperazione, la loro stanchezza o la loro volontà di farcela comunque ma sapendo sempre che sono loro i veri protagonisti del dramma a cui noi assistiamo e che discutere in modo generico su ciò che è giusto e sbagliato fare può essere, a volte, un modo di ritrarsi dal rapporto con loro, di non condividere, con il rispetto dovuto, una esperienza che va vissuta accettando il dolore del pensiero e del dubbio. Anche a livello di quadro legislativo. Non imponendo soluzioni uniformi per dilemmi aperti da situazioni che sono sempre e comunque uniche e irripetibili.

il Fatto 6.3.14
Rabbia contro la ‘cricca’ cinese
Per la prima volta proteste a Pechino davanti alla riunione del Parlamento
di Cecilia Attanasio Ghezzi


Si è aperta in maniera inconsueta l'annuale riunione dell'Assemblea nazionale del popolo, ovvero l'istituzione della Repubblica popolare che più si avvicina al nostro Parlamento. In rete sono circolate le foto di almeno due persone che in piazza Tien an men lanciavano volantini. Sono state subito trascinate via dalla polizia, assieme a tutti i loro foglietti. Ma è stata soprattutto un'immagine a catturare l'attenzione. Proprio di fronte all'ingresso della città proibita, dietro a una folla di persone, si è alzata una spessa nuvola di fumo bianco. Erano quasi le 11 di mattina e la piazza era gremita.
UNA TESTIMONIANZA raccolta dal quotidiano di Hong Kong South China Morning Post parla di una donna di 40 anni che ha tentato di darsi fuoco. Sarebbe stata immediatamente portata via, ancora viva. Ovviamente non c'è stata nessuna conferma o smentita da parte degli organi di stampa ufficiali. La Sala del popolo si affaccia sulla stessa piazza. Negli stessi momenti al suo interno i quasi 3 mila delegati provenienti da tutta la Cina, ascoltavano il premier Li Keqiang che ribadiva contenuti già noti. Le linee guida per quest'anno saranno combattere l'inquinamento, mantenere una crescita economica stabile (al 7,5%), aumentare del 12% la spesa militare (ormai seconda al mondo dopo quella Usa) e continuare la politica di urbanizzazione. Il tutto in un'atmosfera improntata alla frugalità. Nessuna cerimonia di benvenuto, nessun banchetto e bottiglie d'acqua personalizzate con i nomi dei delegati. L'idea è quella del vuoto a rendere. Non si può chiedere una nuova bottiglia fin tanto che non si è finita la prima. Tagli agli sprechi, hanno titolato festanti tutti i media di Stato.
Nessuno ha sottolineato il fatto che molti di coloro che siedono in quella sala possono permettersi ben più di una bottiglia da mezzo litro di acqua minerale. 86 di loro, per esempio, sono inserite nella lista Hurun delle 500 persone più ricche del paese. E governare fa bene agli affari. I 56 di loro che hanno già rinnovato il mandato quinquennale, dal 2006 alla fine dell'anno scorso hanno visto le loro fortune incrementate del 316%. Solo la rete non perdona. La foto di Li Xiaolin, figlia dell'ex premier Li Peng, con una semplice shopper di stoffa è diventata immediatamente virale. Anche l'anno scorso le sue foto erano state postate da milioni di utenti. Ma perché indossava un tailleur da 2 mila dollari.

Repubblica 6.3.14
Pechino, sfida a Usa e Giappone 132 miliardi di dollari per il riarmo
La Merkel dice no al “ pellegrinaggio anti- nazista” di Xi Jinping
di Giampaolo Visetti


PECHINO - La Cina rassicura e allarma il mondo e dopo aver indotto gli Usa ad adeguarsi alla nuova diplomazia delle first ladies, costringendo Michelle Obama a Pechino per ricucire lo strappo con Peng Liyuan, imbarazza l’Europa aprendo il «caso Germania» sulla memoria della seconda guerra mondiale. Tutto in poche ore, in un alternarsi globale di euforia economica e depressione politica, mentre Pechino si schiera dalla parte di Mosca sulla crisi ucraina, ricomponendo un’asse da Guerra Fredda. Non un’apertura burocratica, per l’Assemblea nazionale del popolo, rito annuale con cui i leader del partito hanno annunciato ieri gli obiettivi 2014 della seconda potenza mondiale.
Sul fronte economico il messaggio è che la Cina resterà stabile e sosterrà la crescita. Il premier Li Keqiang, al primo rapporto, ha fissato il Pil al più 7,5%, come negli ultimi due anni, livello più basso dal 1999. La stabilità per i mercati è però una buona notizia e Pechino dal 2012 ha poi centrato il più 7,7%. Li Keqiang ha promesso che l’inflazione resterà al 3,5%, che lo yuan allargherà l’oscillazione sul dollaro, ma rimanendo stabile, e che i capitali privati aumenteranno le partecipazioni nei colossi di Stato. Quattro parole d’ordine: riforme, stabilità, privati e mercati, per sedare l’incubo di una brusca frenata cinese.
D’allarme invece il messaggio politico. Nel 2014 la Cina aumenterà la spesa militare del 12,2%, portandola a 132 miliardi di dollari. Lo scorso anno si era fermata al 10,7%. Pechino guadagna terreno sugli Usa e, forte di 2,3milioni di effettivi, rilancia la corsa al riarmo nel Pacifico. Gli analisti assicurano che i finanziamenti reali sono superiori e che in Asia l’armata cinese non ha già più rivali. Pechino ieri ha ripetuto che le forze «sono esclusivamente difensive», ma ha ammesso che lo scontro con il Giappone per il controllo del Mar cinese orientale è «tra le cause» dell’aumento del budget militare. Tokyo si è detta «profondamente turbata» e anche per il Pentagomuscoli, no il problema è interpretare il termine «difensivo»: sarebbe difensivo, o offensivo, un attacco nell’arcipelago conteso delle Diaoyu-Senkaku?
Il dato nuovo è che i leader rossi non rinunciano più a esibire i un tempo ben nascosti. L’avvio delle «due sessioni» del cosiddetto parlamento cinese è scosso però da due «casi». Il più imbarazzante all’interno, è la spaventosa terra bruciata fatta attorno a Zhou Yongkang, ex zardi polizia e forze armate, signore di petrolio ed energia. Nelle ultime settimane Xi Jinping gli ha fatto arrestare figlio, fratello, nuora, suocera e decine di parenti, tutti accusati di corruzione, reato da pena di morte. Lo stesso Zhou, il leader più potente a cadere dai tempi di piazza Tiananmen, sarebbe agli arresti domiciliari. Ufficialmente il caso non esiste, ma nel partito e tra la gente nessuno parla d’altro. L’annuncio del clamoroso arresto del mandarino che ha segnato le epoche di Jiang Zemin e Hu Jintao sarebbe rinviato a riunioni plenarie concluse, per non «distrarre» i 5 mila delegati e tutti i cinesi.
Il caso più imbarazzante a livello internazionale coinvolge invece la cancelliera tedesca Angela Merkel, che si è rifiutata di accompagnare Xi Jinping in un tour della memoria sui luoghi dell’olocausto e della seconda guerra mondiale. Il presidente cinese, a fine mese, visiterà alcune nazioni europee, tra cui Germania e Belgio. Pechino ha tentato di trasformare il viaggio in un pellegrinaggio anti-nazista, eleggendo Berlino ad esempio di chi ha saputo chiedere scusa per gli errori del passato. Chiara la valenza anti-giapponese, il recupero della condanna dell’asse Hitler-Hirohito e delle loro tragiche invasioni, proprio nel momento in cui lo scontro neo-nazionalista Pechino-Tokyo rischia di precipitare in un conflitto. La Merkel, temendo che Berlino e Bruxelles venissero strumentalizzate nella disputa Cina-Giappone, ha detto no. Dalla Città Proibita ieri è filtrato «profondo rammarico»: e l’urgenza di cambiare l’agenda di Xi, atteso ora per lo shopping in Europa non dell’umore migliore.

Corriere 6.3.14
La miliardaria più giovane del mondo
Una ventiquattrenne cinese senza volto
Aperto a Pechino il Congresso del popolo: obiettivo crescita al 7,5%
di Guido Santevecchi


PECHINO — La signorina Perenna Kei è cinese; possiede una fortuna valutata in 1,3 miliardi di dollari; con i suoi 24 anni detiene il record di più giovane nella lista dei super-ricchi di Forbes ; ha altri due nomi che usa per non essere importunata. E poi c’è un mistero: in circolazione non ci sono sue foto. Non sono riusciti a recuperarne una neanche i ricercatori della rivista americana che ogni anno pubblica la classifica dei miliardari. Accanto al suo nome c’è una silhouette femminile grigia.
E anche intorno alla sua vita c’è una vasta area grigia. Sappiamo che non è sposata, che è di Hong Kong ma che la sua azienda nel ramo immobiliare ha sede a Shenzhen, nella Repubblica popolare cinese. Nelle scarne note biografiche della sua società, la Logan Property Holdings di Shenzhen, è identificata come Kei Perenna Hoi Ting; ma a volte si fa chiamare Ji Peili. Ji è il cognome del padre, il signor Ji Haipeng, 47 anni, che ha fondato il business di famiglia. Miss Perenna Kei si è laureata in economia e finanza alla London University.
La Logan Property Holdings si è quotata alla Borsa di Hong Kong a dicembre, dopo aver registrato profitti per circa un miliardo di dollari. Nel primo giorno sul mercato, le azioni sono cresciute subito del 2,4 per cento: questo ha permesso a Perenna Kei di entrare nella lista dei miliardari. Infatti ha una quota dell’85 per cento nella società, oltre al ruolo di «non-executive director».
La lista dei miliardari mondiali quest’anno conta 1.645 nomi, 268 in più rispetto al 2013. Le donne sono 172, in crescita di 42 unità sul 2013. In testa gli americani: 492; secondi i cinesi: 152: terzi i russi: 111 (gli italiani sono 35). Forbes ha fatto una sottocategoria di giovani miliardari, sotto i quarant’anni. E qui trionfa la ragazza cinese del mistero, che con i suoi 24 anni ha tolto il primato a Dustin Moskovitz, cofondatore di Facebook che sta per compierne 30. Perché la miliardaria più precoce del globo non si fa fotografare e cambia nome? Una pratica piuttosto comune in Cina, dove i ricchi e potenti cercano di non richiamare l’attenzione.
L’equivalente cinese di Forbes è lo Hurun Report che pubblica l’elenco dei mille cittadini più ricchi della Repubblica popolare. L’editore, Rupert Hoogewerf, studi al college di Eton e poi laurea in mandarino e giapponese, ha detto una volta alla Bbc di aver ricevuto la visita di un tale che senza dargli il biglietto da visita gli disse: «Sappiamo quello che sta facendo. Vada avanti, ci sta bene». Quell’uomo forse voleva comunicare che al Partito comunista avere qualche informazione sui miliardari emergenti faceva comodo. E qui viene il problema: gli affari in Cina non si conducono se il partito non è d’accordo e non appoggia; perciò per molti è doppiamente meglio non farsi notare. Lo Hurun Report è stato anche definito «la lista della morte». O meglio, in mandarino «la lista dei grassi maiali da macellare», ammette Hoogewerf.
Meglio passare inosservati, oppure avvicinarsi il più possibile al potere politico. Come hanno fatto 86 miliardari (in yuan) censiti da Hurun che ieri sedevano tra i banchi della Grande Sala del Popolo in Piazza Tienanmen mentre il premier Li Keqiang leggeva la sua relazione annuale. Quegli 86 super-beneficiari dell’economia di mercato «con caratteristiche cinesi» sono tra i 2.983 deputati del parlamento comunista e secondo un’inchiesta del Financial Times hanno moltiplicato per quattro la loro fortuna negli ultimi otto anni. Il resto dei cinesi si deve «accontentare» dell’obiettivo di crescita del Pil, fissato anche per quest’anno al 7,5 per cento dal governo.

Il Sole 6.3.14
Al via l’Assemblea del Popolo
La svolta cinese: meno crescita ma più «verde»
di Rita Fatiguso


Tocca alla lotta all'inquinamento il ruolo centrale nel discorso al Parlamento cinese del premier Li Keqiang, che aprendo la seconda sessione del 12° Congresso dell'assemblea, davanti a 3mila deputati, ha promesso che 50mila fabbriche a carbone saranno demolite, che il consumo di energia sarà tagliato del 3,9% e le emissioni di diossido di zolfo del 2%, che le auto obsolete saranno gradualmente rottamate per essere sostituite con vetture non inquinanti. Svolta «verde» e sviluppo sostenibile, dunque, con obiettivo di crescita del Pil per il 2014 al 7,5%, dopo il 7,7% dell'anno scorso. L'inflazione, nei piani del governo, sarà contenuta entro il 3,5%. Salgono invece le spese per la difesa, del 12,2% dopo diversi anni di calo. E nell'intervento del premier c'è spazio anche per l'autocritica: la Cina si trova ad affrontare tanti problemi anche perché «non abbiamo fatto bene il nostro lavoro».

il Sole 6.3.14
Cina. Nell'intervento al 12° Congresso del Parlamento il premier Li Keqiang promette un modello di sviluppo più sostenibile
La svolta «verde» di Pechino
Il governo indica al 7,5% la crescita del Pil nel 2014 - Spese militari in aumento del 12%
di Rita Fatiguso


PECHINO. Nel discorso al Parlamento più tarato sull'economia della storia recente della Cina, un ruolo centrale è toccato alla lotta allo smog e ai suoi effetti perversi sotto gli occhi di tutti, specie nelle megalopoli cinesi.
Il premier Li Keqiang, aprendo la seconda sessione del 12° Congresso del Parlamento davanti a 3mila deputati, ha promesso che 50mila fabbriche alimentate a carbone saranno demolite, che l'intensità di consumo dell'energia sarà tagliata del 3,9% e le emissioni di diossido di zolfo ridotte del 2, che le auto obsolete saranno gradualmente rottamate per essere sostituite con vetture non inquinanti e che i livelli di Pm 10 e 2.5 saranno ridotti drasticamente.
La crescita sostenibile sbandierata dai suoi predecessori va realizzata per davvero. La politica degli annunci non è più sostenibile, specie dopo le terribili manifestazioni dei livelli di inquinamento delle ultime settimane in tutto il Paese.
L'obiettivo del Pil per il 2014, comunque, sarà del 7,5%, siamo sotto il valore del 2013, vale a dire 7,7%, a sua volta il minimo da vent'anni. L'inflazione sarà contenuta entro il 3,5%.
Un quadro macroeconomico confermato, a distanza di poche ore, da Xu Shaoshi, direttore della commissione nazionale per lo sviluppo e le riforme (NDRC) e vera eminenza grigia della politica economica del Governo, per il quale «il 2013 nonostante tutto si è chiuso più che bene, con la crescita del 7,7%, l'inflazione a 2,6 e l'occupazione a 13,1 milioni di nuovi posti e il reddito pro capite nazionale disponibile in aumento dell'8,1%, meglio delle aspettative, anche perché il terziario ha contribuito per 46,1% al Pil. Quest'anno la situazione è in realtà più complicata». Per Xu «limitare il livello generale dei prezzi a circa il 3,5% è cruciale, il Pil non deve scivolare sotto quota 7,5% e nemmeno i nuovi posti di lavoro sotto quota dieci milioni. Altrimenti, dobbiamo ulteriormente rafforzare e migliorare la regolamentazione macroeconomica».
Nel discorso il premier Li ha svelato il budget per la Difesa del prossimo anno. Le spese cresceranno del 12,2% su base annua, a 808,23 miliardi di yuan (132 miliardi di dollari), con un'inversione di rotta dopo diversi anni di calo: lo scorso anno, il Governo aveva deciso un aumento del 10,7%, contro l'11,2% del 2012 e il 12,7% del 2011. Ieri la portavoce dell'Assemblea Nazionale del Popolo, Fu Ying aveva precisato che «l'aumento del budget per la Difesa non avrebbe comportato un rischio per nessuno dei Paesi della regione con cui Pechino ha un contenzioso di sovranità nazionale nei mari della Cina». Invece il Giappone e Taiwan non hanno mancato di reagire all'annuncio.
Per Li Keqiang è necessario non solo salvaguardare gli interessi e la sovranità della Cina, ma anche ricordare la vittoria nella Seconda guerra Mondiale e preservare l'ordine mondiale nato dopo il conflitto. Nel suo discorso ha detto chiaro e tondo che la Cina sta facendo la sua parte nella diplomazia globale, e non solo in quella economica. Per i nuovi vertici di Pechino è la prima pianificazione di spesa della Difesa che capita in un frangente di continue frizioni con i vicini dei mari del Sud della Cina.
R.Fa.

Il Sole 6.3.14
Se il Partito comunista non è più infallibile
Tra inefficienze e malcontento. Mea culpa del primo ministro: «Non abbiamo fatto bene il nostro lavoro»
di Rita Fatiguso


«Alcuni problemi sono sorti in corso d'opera, altri si sono verificati perché non abbiamo fatto bene il nostro lavoro». È scritto proprio così, a pagina 6 del discorso del premier al Parlamento cinese in seduta plenaria. In inglese, la frase fa ancora più effetto: «We have not done our work well».
Lo straordinario mea culpa di Li Keqiang rompe una tradizione autocratica anche dal punto di vista del lessico. È la coraggiosa presa d'atto di un governo che ha appena compiuto un anno di vita: non tutto quello che si doveva fare è stato fatto. In un contesto punteggiato da un ossessivo ma rassicurante «we will», la frase segna un punto di svolta nella gestione di un potere sempre meno insindacabile e, non a caso, chiude un paragrafo che contiene una lista di problemi ancora irrisolti. Il dogma dell'infallibilità ne esce alquanto scosso.
Il premier non nasconde il fatto che esistono rischi e problemi interni nella finanza pubblica e nelle banche, rivela che l'esercizio del macro controllo è diventato sempre più difficile. E poi acqua, aria, terra inquinate, i problemi legati al lavoro, l'insoddisfazione della gente innescata dall'accesso difficile alla casa, la sicurezza di cibo e farmaci, la mancanza di adeguati servizi medici e per gli anziani, l'educazione ingessata, la distribuzione della ricchezza, l'espropriazione della terra, l'ordine pubblico, gli incidenti industriali che si ripetono, troppe volte. La credibilità sociale del sistema che va migliorata, a partire dai dipendenti pubblici proni alla corruzione o incompetenti.
Messi insieme, tutti questi elementi di criticità creano un malessere diffuso, seminano scontento a livello sociale. Ma finora nemmeno il testo del Terzo Plenum di novembre aveva evidenziato queste realtà. I vertici di Pechino lo sanno e sanno anche che il consenso può essere minato da tante piccole grandi disfunzioni. Li Keqiang, non a caso, promette l'abolizione del sistema insensato che tanto ha contribuito alla devastazione urbanistica e ambientale della Cina: quello di concedere prima l'autorizzazione a svolgere un'attività, poi di rilasciare la licenza. Questo non succederà più. Il premier assicura la realizzazione di una blacklist per bacchettare il sistema di aziende che violano la competizione nel mercato e gli interessi dei consumatori. Ribadisce la riforma dell'approvazione delle aziende ad andare all'estero, finora ogni investimento Go global andava sottoposto a una lunga e spesso inutile trafila. Ammette che l'internet banking sta svolgendo di fatto un ruolo di supporto al sistema bancario ordinario nel finanziamento delle famiglie e delle piccole imprese, ma stigmatizza una regolamentazione sana. Stressa la necessità di non mollare la presa dall'inflow cross border di capitali che avvelena il sistema monetario cinese. Assicura l'incremento del 10% dell'accesso degli studenti poveri nella quota riservata loro nelle scuole migliori. Parla della necessità di ripensare una nuova urbanizzazione. Auspica la scure dello Stato sull'eccesso di produzione acciaio, cemento, vetro. E c'è anche spazio per un vecchio spauracchio collettivo: la fame. Li Keqiang sostiene che la porzione di terra coltivata non può scendere sotto la linea rossa dei 120 milioni di ettari perché «dobbiamo avere il pieno controllo delle riserve di cibo per 1,3 miliardi di persone». Questo i giovani della generazione Taobao non lo sanno, ma negli anni Sessanta, Li era solo un bambino, all'epoca del Grande balzo in avanti maoista, milioni di contadini cinesi sono morti di fame.

Il Sole 6.3.14
L'India chiama al voto 814 milioni di persone
di G.D.D.


Trentacinque giorni per svolgere operazioni di voto che metteranno al lavoro 5,5 milioni di funzionari. Circa 814,5 milioni di cittadini chiamati alle urne in 930mila seggi, con 1,4 milioni di macchine per il voto elettronico. Oltre 100 milioni di nuovi elettori. Sono alcuni dei numeri della mastodontica stagione elettorale che sta per aprirsi in India.
Ieri, sono state fissate le date: si parte il 7 aprile per chiudere il 12 maggio. I risultati saranno resi pubblici il 16, per avere il tempo di contare e mettere insieme i voti dalle vette dell'Himalaya al Golfo del Bengala.
In ballo ci sono i 543 seggi della Camera bassa (Lok Sabha) e la guida del Paese nel mezzo della più lenta fase di crescita da decenni. Il favorito è il Partito nazionalista hindu (Bharatya Janata Party - Bjp) di Narendra Modi, governatore del Gujarat, che molto probabilmente supererà la quota dei 200 seggi, necessari per formare una coalizione di maggioranza. Il Partito del Congresso della dinastia Nehru-Gandhi, al potere dal 2004, sembra destinato alla peggior sconfitta della storia, tanto che i suoi leader considererebbero una vittoria conquistare almeno 100 seggi. Oggi è guidato da Sonia Gandhi e il candidato premier è suo figlio Raul.
L'equilibrio del futuro Parlamento sarà condizionato dai partiti regionali, 11 dei quali si sono coalizzati in un terzo fronte dai lineamenti programmatici molto confusi. E poi c'è il Partito dell'uomo comune (Aam Admi), dell'outsider Arvind Kejriwal, l'ex funzionario del Fisco, che qualche mese fa ha conquistato il Governo del Territorio di Delhi, ma è rimasto in carica appena 50 giorni prima di doversi dimettere.

Repubblica 6.3.14
Ceuta
I disperati dell’altra Lampedusa
Migliaia di migranti, di notte, all’assalto della barriera di ferro e filo spinato.
di Daniele Mastrogiacomo


CEUTA. La rete è divelta. L’ultimo assalto, all’alba di martedì scorso, l’ha piegata e bucata in più punti. Non c’è stato neanche il tempo per raddrizzarla. Fronteggiare 1500 immigrati africani e subsahariani avvolti ancora dal buio non è stato facile. Un muro compatto di uomini e di donne. Moltissimi giovani, decisi a tutto. Divisi in due gruppi, sono usciti dai boschi sulla costa nord del Marocco dove erano rimasti in attesa del segnale. Hanno iniziato a marciare verso il ponte che divide la frontiera con l’enclave spagnola di Ceuta. Una parte ha piegato verso la spiaggia di Tarajal; l’altra ha affrontato direttamente la barriera di ferro e filo spinato. Sono stati respinti. A fatica. La rete ora è punteggiata da pezzi di stoffa e di plastica. Chi è riuscito ad arrampicarsi ha usato magliette e sacchetti per proteggersi le mani. Soprattutto in cima al lungo pontile in cemento armato che le onde e il flusso della marea hanno sventrato in piccoli blocchi. La Guardia civile ha creato un blocco con gipponi e autoblindo. Ma ha potuto fare ben poco. Era in allarme da tre giorni: le telecamere munite di sensori per le fonti di calore avevano registrato un movimento massiccio di persone. «Ci aspettavamo un assalto. Ma non di tali dimensioni. È stato impressionante», ammette un ufficiale della polizia spagnola.
Si vede che qui, a tre metri dall’Atlantico, la massa di immigrati si è fatta largo afatica. Prima la pioggia di sassi, bottiglie, bastoni, lattine. Poi la corsa verso la rete, alta sei metri. La spinta verso l’alto, le mani aggrappate alle maglie, le dita che restano impigliate, si slogano, si feriscono; i piedi che cercano un appiglio, le scarpe che scivolano, lo sforzo dei muscoli tesi, la bocca aperta in una smorfia, le urla e le grida degli altri immigrati, degli agenti che accorrono, i rumori secchi dei primi colpi di fucile caricati con proiettili di gomma, i fumogeni che liberano i gas, i bengala che fanno luce nella foschia dell’alba. Il grande salto verso l’Europa. Molti hanno paura. Era terrorizzata anche Mireille, 15 anni, del Camerun. Ha saltato sei metri di barriera con la tibia rotta. Un’eroina di questa battaglia terribile e silenziosa. Se ci ha provato lei, possono tentare tutti.
Sulla spiaggia di sabbia nera a Tarajal, da sempre una sorta di terra di nessuno, ci sono ancora i resti della battaglia. Pietre, sbarre di ferro, vestiti e magliette che nessuno raccoglie. Fare pulizia è inutile. Domani si ricomincia. Ceuta è assediata da 40 mila migranti. Melilla, l’altro avamposto spagnolo in Marocco, 400 chilometri a est, da 30 mila. Le acque scure dell’Atlantico sollevano altri sassi, detriti, fango. Dieci dei 15 morti affogati il6 febbraio scorso li hanno ripescati sul fondo. Erano in trecento. Africani, neri. Troppo scuri in un territorio dominato dai chiari. Per loro era impossibile passare la frontiera a bordo delle auto. Uno è stato abbandonato chiuso in una valigia. Gli agenti faticano a capire come sia riuscito ad entrarci. Il circo della disperazione. Per gli arabi è più facile. Mischiati agli altri passeggeri, muniti dei documenti falsi che le gang locali, legate alla mafia del traffico umano, forniscono per mille euro. L’alternativa è il doppio fondo delle macchine. Con il rischio di soffocare, di restare per ore sdraiati in una bara alta trenta centimetri.
A cento metri di distanza, dall’altra parte della barriera, una rete di acciaio e ferro alta sei metri, sormontata da telecamere e torrette, uomini e donne si accalcano in attesa del segnale. Via sms, Facebook e twitter. Lanciato dalla foresta, rimbalzato a Tangeri, Parigi, Londra, Bruxelles. Tre, quattro registi che decidono tempi e modi della strategia. Soprattutto adesso che alla Guardia civile è stato ordinato di non usare più armi da fuoco in caso di invasione. Il momento è propizio. «Ora o mai più», si legge sui social. Madrid ha spedito altri 400 uomini dopo le notizie che arrivano da Melilla. Qui gli assalti si susseguono senza sosta. Tutte le mattine. All’alba, con il cielo ancora scuro. Molti si tuffano in mare. La maggioranza punta alla barriera. Con il rotolo di filo spinato che ti strappa i vestiti, ti lacera la pelle, si infila nella carne. Assieme alle lame dei coltelli infilate sulla cima come baionette.
I Caronte del nuovo secolo la chiamano la rotta delle Colonne d’Ercole. In onore dell’eroe della mitologia greca, raffigurato da una grande statua che divide i due mondi. Roba per turisti. I trafficanti di schiavi puntano su altro. Soldi e potere. Hanno mezzi e strumenti per soddisfare il mercato. Vittime e carnefici si mischiano in una realtà dove leggi e diritti non contano nulla, dove si lotta solo per sopravvivere. Su tutto resiste il mito di un’Europa costruito in notti gelide dentro caverne e giorni roventi in mezzo al deserto.
Ai confini occidentali del Mediterraneo sorge l’altra Lampedusa. Due enclave spagnole ricavate sulla sponda africana del Maghreb, segnate da secoli di dominazioni, battaglie, trattative e concessioni. Ceuta, un piccolo promontorio di 18,5 chilometri quadrati con 80 mila abitanti. E Melilla, 12 chilometri quadrati, 70 mila abitanti. Porti franchi: poche tasse, molto commercio, industria peschiera, turismo e tanta polizia. Rappresentano il ponte alternativo per sbarcare nella Vecchia Europa. Se ne parla poco. Perché rispetto all’isola siciliana dove approdano 35 mila immigrati l’anno qui il flusso si aggira sui 20 mila.
Ma è proprio ai confini di queste cittadine, illuminate dal sole africano e bagnate da un mare e da un oceano, che si ammassano i dannati della Terra. I servizi segreti spagnoli sono in allarme. L’assalto alla barriera della spiaggia di Tarajal il 6 febbraio scorso, lungo il confine di 8 chilometri, concluso con 15 morti, colpiti da proiettili di gomma, fumogeni, gas lacrimogeni e poi affogati a tre metri dalla riva, ha aperto la botola della disperazione rimasta chiusa per nove anni. La stessa scena si è ripetuta il 23 febbraio. Per tutta la settimana. Venerdì 28 l’assalto ha visto 300 immigrati decisi a tutto. In 200 sono riusciti a superare la tripla barriera di Melilla. Un successo contagioso. Voci raccolte dai servizi di decine di paesi africani raccontano di un fiume di disperati che risale verso nord.
Le immagini della battaglia mortale del 6 febbraio scorso, registrate da 4 delle 37 telecamere della barriera e messe in rete dal ministero degli Interni spagnolo, le hanno viste anche al Ceti, il Centro di accoglienza transitorio creato a Ceuta e Melilla nel 1999. Karim, Ibou, Idris, Francois, tutti del Congo Brazeville e del Camerum, ce lo confermano a testa bassa. Attendono fuori dal Centro di Ceuta: 90 operatori per 521 ospiti, uffici, un ambulatorio, un grande refettorio, la cucina, le aule didattiche dove si insegna lo spagnolo, una lavanderia, perfino una palestra. La struttura scoppia: in due settimane si è riempita con 1300 immigrati in attesa della tessera gialla, il visto per rifugiati. Per la maggioranza il viaggio è durato sei mesi. Guinea, Burkina Faso, Niger, Mali, il Sahara, il Marocco. Camion, bus, auto, a piedi. Per mille, spesso 1500 euro. Anticipati. Nessuna garanzia. Niente documenti. Un salto nel buio. C’è chi ci ha provato tre volte e adesso ritenta. Con più esperienza, seguendo sentieri controllati dai trafficanti locali. Gente di “El Principe”, quartiere musulmano di Ceuta che si è ingrossato fino a 13 mila persone e dove vive anche una comunità indù. Un territorio liberato. La polizia spagnola si tiene alla larga. È la base della mafia locale del traffico umano, del contrabbando, della droga.
I 70 mila in attesa del grande salto sono tornati in montagna. Nascosti nelle grotte che sorgono tra i boschi che avvolgono Ceuta e Melilla. Cucinano animali catturati con trappole improvvisate. Alzano cartelli per i cronisti giunti dopo due ore di marcia forzata: «Siamo qui da un anno». Moltissimi africani. Il Marocco sa che ce ne sono a migliaia anche lungo il confine sud dell’Algeria. Accampati allo stesso modo. Ci sono anche indiani, indonesiani, afgani. Gruppi sempre più folti di siriani. Ognuno con la sua Odissea. L’obiettivo per tutti è il nord Europa. Al sud la crisi ha colpito duro. Niente lavoro, niente soldi. L’importante è il “salto”. Verso una nuova vita.

Repubblica 6.3.14
Le tensioni fra Russia e Ucraina
Crimea
Quella penisola di nessuno eterna terra di conquista
di Andrea Graziosi


La Crimea non appartiene “storicamente” a nessuno: luogo di migrazioni e rimescolamenti costanti, e bersaglio di pianificazioni violente che volevano svuotarla o ripopolarla, essa è divenuta negli ultimi due secoli, contro la sua storia, un simbolo del nazionalismo russo, come dimostra la crisi di questi giorni tra l’Ucraina di cui la penisola fa parte e Vladimir Putin pronto a invaderla per difendere la maggioranza russa della popolazione. Prima però la penisola era stata colonizzata da greci, romani, bizantini e genovesi e solo nel 1783 la vittoria di Mosca mise fine a lunghi secoli di dominio ottomano. Le decine di migliaia di tatari e musulmani che allora l’abbandonarono furono sostituiti con una colonizzazione imperiale, e quindi non etnica, che vide stanziarsi nella regione slavi, anabattisti tedeschi, greci ortodossi, armeni, ebrei e anche piccole comunità italofone.
Nel 1854-55, tuttavia, l’accanita difesa opposta dalla città-fortezza di Sebastopoli all’assedio franco-britannico avviò la trasformazione di questa penisola dallo spiccato carattere plurinazionale in un’icona del nazionalismo russo risvegliato qualche decennio prima dall’invasione napoleonica. La capitolazione della guarnigione, di cui aveva fatto parte anche il giovane Tolstoj, fu infatti trasformata in una nuova epopea della resistenza russa all’Occidente e in un segnale della necessità di riforme che rendessero vittoriosi i futuri confronti con quella parte di mondo.
Subito dopo la sconfitta, militari incattiviti e un’amministrazione ostile spinsero quasi 200.000 tatari, forse due terzi della popolazione originaria rimasta, a partire per l’impero ottomano, e la penisola fu così oggetto di nuove immigrazioni nonché di insediamenti estivi della corte e della nobiltà. La sua bellezza e il suo passato classico ne fecero anche un luogo ideale della cultura russa.
Essa sarebbe poi divenuta durante la guerra civile una roccaforte bianca e nazionalista, l’ultima regione a essere evacuata dalle sconfitte forze antibolsceviche. Proprio per ripulirla dai lasciti di quella presenza, i bolscevichi vi applicarono alla fine del 1920 forse la prima esecuzione pianificata di circa 12.000 giovani ex ufficiali bianchi, condotta con modalità che ricordano da vicino quelle che avrebbero regolato venti anni dopo l’eliminazione degli ufficiali polacchi a Katyn. Nel primo decennio sovietico, il contenimento poi del nazionalismo russo andò di pari passo con una politica favorevole alle minoranze, e quindi in Crimea ai tatari, che lo zarismo aveva tanto represso. Ma la svolta staliniana del 1928-29 portò alla ripresa di un’aggressiva politica anti-straniera: proprio per il carattere cosmopolita della sua popolazione, la Crimea soffrì particolarmente delle purghe e del terrore scatenato contro le minoranze nazionali nel 1936-1938, anche allo scopo di “purificare” le regioni di confine. Fucilazioni e deportazioni di massa ridussero allora la presenza dei non slavi, e anche la piccola comunità italiana fu perseguitata.
Tre anni dopo, gli invasori tedeschi sottoposero Sebastopoli ad un secondo assedio, durato anch’esso più di un anno e costato decine di migliaia di morti. La retorica sovietica e ormai filorussa del regime staliniano celebrò allora la città-eroina i cui difensori si erano battuti come e più di quelli zaristi per fermare un nemico in arrivo da Occidente. Sebastopoli divenne così anche in Urss il simbolo della resistenza russa a un’Europa nemica, un discorso che ha trovato negli ultimi anni grande spazio nelle pubblicazioni favorevoli al regime di Putin, spesso esaltato come riunificatore delle “terre russe” contro un’America ostile e un’Europa aliena, accusate di aver tramato alla fine degli anni Ottanta coi traditori della perestrojka per svendere a un corrotto Occidente la più pura e diversa civiltà russa.
Nel 1944 la sconfitta tedesca provocò un nuovo e radicale mutamento nella popolazione della penisola: i suoi ebrei erano stati sterminati; molti degli slavi erano stati evacuati prima dell’arrivo dei tedeschi o ne erano stati scacciati per ordine di Hitler, che voleva fare della regione un insediamento germanico; i vecchi coloni di ceppo tedesco seguirono la Wehrmacht in ritirata, e subito dopo la vittoria Stalin ordinò la deportazione dei tatari rimasti, accusati di collaborazionismo con gli invasori.
Si pose quindi il problema del ripopolamento della Crimea e già nel 1944 Kruscev propose che esso fosse fatto da ucraini, cui la regione andava assegnata in ricompensa delle loro sofferenze. Stalin rifiutò. Poco più tardi, la proposta di stabilire in Crimea una repubblica autonoma ebraica, anch’essa intesa come compenso per le stragi naziste, fu uno dei capi d’accusa in base ai quali fu sterminato il Comitato antifascista ebraico sovietico.
La regione fu quindi insediata essenzialmente da russi e ridivenne sede della flotta, simbolo del loro nazionalismo e luogo di vacanze di buona parte dell’alta nomenklatura moscovita. Arrivato nel 1953 al potere, però, Kruscev tornò alla sua vecchia idea, e non certo in un momento di ubriachezza decise di assegnare la regione all’Ucraina, di cui non aveva mai fatto parte. Allo stesso tempo egli confermò nel 1956 il divieto ai tatari di tornarvi, unico popolo che quindi non riebbe con la destalinizzazione il pieno ristabilimento dei propri diritti.
Solo alla fine della perestrojka il divieto fu abolito e la Crimea riacquistò così almeno in parte il suo carattere multinazionale. Oggi una maggioranza di russi vi convive con circa un 25 per cento di ucraini e un 15 per cento di tatari: si potrebbe pensare che il problema posto da una penisola dal passato così complesso, e con una popolazione dotata di una così forte tendenza alla differenziazione, meriterebbe forse soluzioni politiche speciali e condivise, fondate su larga autonomia, forte apertura e garanzia dei diritti di tutti i suoi abitanti.

Repubblica 6.3.14
Alla ricerca dell’Eurasia
L’ideologia dell’aggregazione politica e teologica
di Pietrangelo Buttafuoco


Non è solo un'espressione geografica, l’Eurasia. È un progetto ideologico. Parla con la lingua di Eduard Limonov, è nazionalbolscevica nell’accezione più sgargiante, e, infatti, unisce in un’unica affabulazione Solgenitzin e il kalashnikov. È un esito di passionalità e di convenienze. Sorge oltre i luoghi del Novecento, e da queste giornate di Crimea, in cui la civilizzazione liberale di piazza Majdan, a Kiev, incontra lo specialissimo “spirito russo” – irriducibile Kultur di operai e soldati –, pur con la guerra in agguato genera un amplesso che è già una visione del mondo: l’euroasiatismo.
Questa idea dell’aggregazione continentale di Europa e Asia si accompagna, nella versione più profonda, alla ri-cristianizzazione della società. Si fa carico dell’eredità teologica di Pavel Florenskj e si attiva nella “creazione di una comunità giusta”, per dirla con Il destino della teocrazia di Vladimir Solov’ev, teorico della rinascita spirituale.
Tutto diventa teocentrico e politico. Sacro e Romano è Putin, che in visita a Roma ha donato al Papa la copia dell’Icona con cui Stalin fece benedire la “patria sovietica”. E non è un caso che il primo atto ufficiale della crisi ucraina sia stato del Patriarca di Mosca: la rimozione del Metropolita di Kiev. Mosca, oggi, come più di cento anni fa con Solov’ev, sente la responsabilità verso il «sacerdote d’Occidente che ha bisogno della venuta e della protezione del sovrano d’Oriente». Nella terra che fu laboratorio del materialismo scientifico, l’ostacolo alla causa di Dio è l’ateismo e, al tempo stesso, «il frazionamento del potere statale».
L’Occidente attende di diventare Oriente e l’euroasiatismo (che non è un’esclusiva dei russi: uno dei più attivi teorici è Ahmet Davutoglu, ministro degli Esteri turco) è l’approdo della dottrina politica conservatrice. In tema di valori propri della sacralità, infatti, Mosca offre più garanzie di Washington; ed è significativo come in tutti i think tank della destra – una volta esaurita l’islamofobia – con la criminalizzazione dell’euroasiatismo la russofobia sia diventata la questione principale.
L’Occidente muove guerra all’Oriente. E ciò in ragione di un’inimicizia che prescinde la stessa eredità della Guerra Fredda tra i due blocchi. Lo schema, oggi, è quello di un revival: il ritorno del Grande Gioco, The Great Game, dal racconto di Peter Hopkirk; e non ci si muove dall’eterno conflitto per il controllo di quello che la geopolitica descrive come “il cuore della terra”.
L’Eurasia s’invera nel continente dello scacchiere centroasiatico dove perfino la Cina – forte di una primogenitura culturale, Wu Chengh’en in coppia con Marco Polo – a dispetto dei secoli si presenta con i suoi uomini d’affari per svegliare la Via della Seta - e bussare alle porte dell’Occidente. E lo fa sempre con accorta mossa politica, non senza schierarsi, come nel delicato caso dell’Ucraina, al fianco della Russia, la cui Aquila – bicefala – si volge con una testa al di qua degli Urali per cercare un punto d’appoggio esterno, mentre l'altra è compiaciuta nella direzione opposta. Ossia a Oriente, dove Mosca – “terza Roma” avendo mutuato in cesarismo universale l’eredità della Terza Internazionale – vigila sui destini delle repubbliche centro-asiatiche, alleandosi con l’Iran, dove l’Eurasia è già carta d’identità, e poi rinnovando il protettorato con le antiche nazioni indo-saracene, dove, in luogo di Solov’ev, le confraternite sufi e i reduci delle guerre afgane leggono in cirillico i testi di Ahmed Yassavi, il Dante Alighieri (o Francesco d’Assisi) degli sciamani. Non sarà mai una costruzione burocratica, l’Eurasia. Vista da qui, dall’Occidente, è un istinto. Vista da lì, da Oriente, un cammino.

Repubblica 6.3.14
Il ritorno del Capitale
Piketty: “L’economia è soffocata dal denaro. Come ai tempi di Marx”
Lo studioso francese analizza tre secoli di evoluzione dei paesi occidentali: “La rendita cresce più del Pil, per questo aumenta la disuguaglianza”
di Fabio Gambaro


PARIGI. Il ritorno del Capitale. Potrebbe essere questo il sottotitolo di un vasto studio intitolato Le capital au XXIe siècle (Seuil, pagg. 969, euro 25), che in Francia sta avendo un notevole successo e innescando moltissime discussioni. L’autore, Thomas Piketty, uno dei più brillanti economisti francesi della nuova generazione, vi ha raccolto i risultati di una lunga ricerca in cui, incrociando l’economia con le altre scienze sociali, ha ricostruito l’evoluzione e le dinamiche del capitalismo durante gli ultimi tre secoli. Affrontando in particolare le problematiche della ripartizione della ricchezza e della disuguaglianza economica, il corposo volume - che in Italia verrà tradotto da Bompiani - individua nello squilibrio tra crescita economica e rendita del capitale una delle principali contraddizioni del capitalismo. Squilibrio che sarebbe responsabile di un aumento quasi meccanico dei grandi patrimoni, la cui inesorabile progressione minaccia sempre più i valori di giustizia sociale su cui poggiano le società democratiche.
«Rispetto a un secolo fa, anche se le disuguaglianze restano ancora enormi, il capitale del XXI secolo è meglio distribuito », spiega lo studioso che insegna all’Ecole des Hautes Etudes en Sciences Sociales e all’Ecole d’économie de Paris. «All’inizio del Novecento, il 90% del patrimonio era nelle mani del 10% della popolazione più ricca. Oggi, in Europa, questo 10% detiene circa il 60% del patrimonio, mentre negli Stati Uniti e in Inghilterra si arriva al 70%. Nel corso del XX secolo, il 20-30% del capitale è dunque passato nelle mani della classe media. Parallelamente, il capitale ha cambiato natura. Oggi infatti è prevalentemente finanziario e immobiliare, mentre all’inizio del secolo scorso era soprattutto agrario o legato alle aziende familiari».
La crisi però sembra erodere il nuovo patrimonio della classe media. Leggendo il suo libro, si ha l’impressione che si stia tornando al XIX secolo, quando il capitale cresceva più rapidamente della produzione, accentuando le disuguaglianze. La situazione descritta da Marx nella sua opera più celebre. È così?
«Negli ultimi decenni ci siamo allontanati radicalmente dalla situazione che ha prevalso nel secolo scorso, quando l’economia, segnata dai traumi delle due guerre mondiali, ha conosciuto tassi di crescita molti alti. Era però una situazione eccezionale, a cui si è aggiunta un’azione politica molto incisiva per far partecipare il capitalismo privato allo sforzo di ricostruzione. Così, nel periodo 45-80 è stato possibile ridurre le disuguaglianze. Oggi però, finita questa fase, stiamo tornando al capitalismo delle origini, dove l’eredità aveva un peso preponderante. C’è un ritorno di prosperità patrimoniale che ricorda quella della belle époque, all’inizio del XX secolo. Il che naturalmente potrebbe anche essere un dato positivo, giacché è sempre meglio avere dei capitali invece dei debiti».
Significa che siamo più ricchi di quanto pensiamo?
«Globalmente sì. Oggi in Europa, e in particolare in Italia, si insiste molto sul debito. In realtà però abbiamo molto più capitale che debito. Il nostro patrimonio, al netto del debito pubblico e privato, non è mai stato così elevato. In Europa, corrisponde a circa sei anni di Pil, e in Italia addirittura ci si avvicina a sette anni. Nel 1950, il valore dei patrimoni privati in Europa rappresentava solo due anni di Pil. Il nostro patrimonio nell’ultimo mezzo secolo è cresciuto costantemente. Si dice spesso che lasceremo ai nostri figli una montagna di debiti, in realtà lasceremo loro un patrimonio che non ha eguali in passato».
Si pone però il problema della ripartizione di questo capitale, in una fase in cui le disuguaglianze sono tornate a crescere...
«In effetti, quando - come oggi - la rendita del capitale supera durevolmente il tasso di crescita dell’economia si crea uno squilibrio che tende a ampliare le disuguaglianze, erodendo soprattutto il patrimonio della classe media. In realtà, a parte i periodi in cui l’economia cerca di colmare un ritardo, come ad esempio nel dopoguerra, sul lungo periodo la crescita della produzione non supera mai di molto l’1-1,5% all’anno. Senza dimenticare che quando l’incremento demografico è debole o addirittura negativo, la crescita del Pil ne risente. È quello che accade oggi e continuerà ad accadere in futuro. Dobbiamo farcene una ragione e smetterla di sognare un’illusoria crescita dell’economia».
A fronte di questa crescita debole, il rendimento dei capitali invece più sostenuto...
«La rendita media del capitale è del 4-5% all’anno. Naturalmente esistono alcuni investimenti a rischio che possono essere più redditizi, ma sul lungo periodo la media è questa, un po’ come accadeva fino all’inizio del XX secolo. Di conseguenza, come nella prima fase del capitalismo ottocentesco, oggi il rendimento del capitale è più elevato della tasso di crescita. E questa situazione scava sempre di più le disuguaglianze patrimoniali. Il capitale si riproduce da solo molto più rapidamente della crescita economica, e i ricchi diventano sempre più ricchi».
L’ipotesi dell’autoregolazione del sistema economico è del tutto illusoria?
«Non esistono soluzioni naturali. Il sistema da solo non riduce le disuguaglianze. L’errore dei liberali è di credere che la crescita da sola possa risolvere ogni problema, favorendo la mobilità sociale. In realtà non è così. Le disuguaglianze restano e anzi si accentuano. In passato, per ridurre le disuguaglianze e mettere un freno alla concentrazioni dei capitali si è fatto ricorso alle imposte sul reddito esulle successioni. Ciò ha permesso di allargare la base sociale su cui poggia il patrimonio globale. Il che dimostra che per crescere non c’è bisogno della grande concentrazione patrimoniale del XIX secolo né di penalizzare la classe media».
La cultura e l’educazione contribuiscono a ridurre le disuguaglianze economiche?
«Certamente, ma si tratta di un processo molto lento e secondo me non sufficiente. La tendenza del capitale a riprodursi e a accentuare le disuguaglianze non potrà essere combattuta solamente dalle migliori università. Per questo mi sembra necessaria la leva della tassazione. Penso a un’imposta progressiva e trasparente sul capitale a livello internazionale. L’ideale sarebbe di poter tassare tutte le grandi fortune a livello mondiale, da quelle americane a quelle mediorientali, dai patrimoni europei a quelli cinesi. È una proposta che può sembrare utopica, ma un secolo fa anche l’imposta progressiva sul reddito era solo un’utopia. Occorre volontà politica. Potremmo cominciare a livello europeo, visto che la nostra economia rappresenta un quarto del Pil mondiale».
Le leggi dell’economia sono spesso state assimilate a delle leggi di natura indiscutibili, lei invece sostiene il primato della politica sull’economia.
«Certo. Il mercato e la proprietà privata hanno certamente molti aspetti positivi, sono la fonte della ricchezza e dello sviluppo, ma non conoscono né limiti né morale. Tocca alla politica riequilibrare un sistema che rischia di rimettere in discussione i nostri valori democratici e di uguaglianza. La politica però può intervenire in maniera intelligente o distruttrice. Da questo dipende il nostro futuro».

Il Sole 6.3.14
Marx, Malthus e gli sviluppi moderni
Le economie capitaliste funzionano, la politica a volte non tanto
Kenneth Rogoff


La promessa che ogni generazione starà meglio di quella precedente è un principio fondamentale della società moderna. Le economie avanzate hanno onorato la promessa con il miglioramento degli standard di vita, nonostante battute d'arresto come guerre e crisi. Anche nel mondo in via di sviluppo la maggioranza della popolazione ha cominciato a vivere un miglioramento degli standard di vita e le aspettative di crescita sono in aumento. Ma le generazioni future, soprattutto nelle economie avanzate, vedranno realizzate le aspettative? Anche se probabilmente la risposta è affermativa, i rischi sembrano più alti rispetto a qualche decennio fa.
Finora ogni previsione nefasta dell'era moderna sulla sorte dell'umanità, da Thomas Malthus a Karl Marx, si è rivelata errata. Il progresso tecnologico ha superato gli ostacoli alla crescita. Periodici riequilibri politici, pacifici o no, hanno portato beneficio alla maggioranza della gente, anche se ad alcuni più che ad altri. Le preoccupazioni di Malthus sul tema della carestia non si sono avverate in nessuna economia capitalista in pace. Nonostante la sconcertante diminuzione nella distribuzione del reddito da lavoro negli ultimi decenni, lo scenario a lungo termine continua a smentire la previsione di Marx secondo la quale il capitalismo impoverirebbe i lavoratori. Gli standard di vita migliorano in tutto il mondo. Ma l'andamento della crescita passata non significa che la traiettoria manterrà uno sviluppo simile nel secolo. A parte le potenziali perturbazioni geopolitiche, permangono ostacoli non irrilevanti, perlopiù dovuti all'inadeguatezza della politica.
La prima serie di questioni comprende problemi a combustione lenta che comportano esternalità, l'esempio più lampante è il degrado ambientale. Quando i diritti di proprietà non sono ben definiti, come nel caso dell'aria e dell'acqua, deve intervenire il governo a fornire la regolamentazione. Non invidio le generazioni future che dovranno affrontare le conseguenze del riscaldamento globale e della penuria di acqua.
La seconda riguarda il bisogno di fare in modo che il sistema economico sia percepito come fondamentalmente giusto, che è la chiave della sua sostenibilità politica. Questa percezione che non può più essere data per scontata visto che l'interazione di tecnologia e globalizzazione ha esacerbato la disuguaglianza di reddito e ricchezza nei Paesi, anche se il divario fra Paesi è diminuito. Finora le nostre società si sono dimostrate abili ad adattarsi alle nuove tecnologie; ma il ritmo del cambiamento negli ultimi decenni ha provocato tensioni che si sono tradotte in forti disparità di reddito fra Paesi, con divari quasi record fra quelli più ricchi e gli altri. La disuguaglianza può paralizzare il sistema politico e la crescita di un Paese.
La terza questione riguarda l'invecchiamento della popolazione. Come potranno essere stanziate le risorse per l'assistenza agli anziani, soprattutto nelle economie a crescita lenta dove i modelli pensionistici e i sistemi sanitari per la terza età sono insostenibili? La levitazione dei debiti pubblici non farà che esacerbare il problema: saranno le future generazioni a dover pagare debiti e pensioni.
L'ultima sfida riguarda una serie di questioni che necessitano di una regolamentazione per le tecnologie in rapida evoluzione da parte di governi che non hanno necessariamente la competenza o le risorse per farlo in modo efficace. Un esempio significativo è l'offerta di cibo, un settore dove la tecnologia ha continuato a produrre alimenti sempre più lavorati e geneticamente raffinati che gli scienziati cominciano solo ora a valutare. Il problema dell'obesità infantile è diventato endemico in molti Paesi con un aumento allarmante del diabete di tipo 2 e di malattie coronariche che implicano un impatto negativo sull'aspettativa di vita.
Molti eminenti ricercatori che si occupano di salute, tra i quali Kelly Brownell, David Ludwig e Walter Willett, hanno documentato questi problemi. Gli interventi fatti dai governi finora, soprattutto per promuovere una migliore educazione alimentare, si sono rivelati perlopiù inefficaci. I dannosi additivi ai cibi industriali che gli economisti definirebbero un'"internalità", possono abbassare la qualità della vita degli interessati e portare a esternalità sociali come costi sanitari più elevati. Di nuovo, i mercati politici sono sembrati paralizzati.
Tutti questi problemi hanno una soluzione, almeno nel breve e medio termine. Una carbon tax globale mitigherebbe i rischi climatici alleviando il fardello del debito dei governi. Per combattere la disuguaglianza serve una maggiore ridistribuzione attraverso i sistemi fiscali nazionali, oltre a programmi di formazione per adulti, con ricorso alle nuove tecnologie. Gli effetti negativi della decrescita demografica possono essere mitigati allentando le restrizioni sull'immigrazione internazionale e incoraggiando sempre più donne o pensionati a entrare o restare nella forza lavoro. Ma quanto ci vorrà perché i governi entrino in azione resta una bella domanda.
Le economie capitaliste sono state efficienti nel permettere l'aumento del consumo di beni privati, almeno sul lungo periodo. Se si tratta di beni pubblici, come l'istruzione, l'ambiente, la sanità e le pari opportunità, i risultati non sono così strabilianti e gli ostacoli politici al miglioramento sono sembrati aumentare via via che le economie capitaliste maturavano.
Le generazioni future continueranno a godere di una migliore qualità della vita rispetto ai predecessori? Nei Paesi in via di sviluppo che non hanno ancora raggiunto la frontiera tecnologica, la risposta è quasi certamente affermativa. Nelle economie avanzate le sfide stanno diventando sempre più complesse.
(Traduzione di Francesca Novajra)

Repubblica 6.3.14
Dalla matematica ai grandi artisti il rettangolo “magico” che definisce le forme perfette La divina proporzione
Il fascino eterno della sezione aurea che colpisce anche i graphic designer
di Piergiorgio Odifreddi


La “sezione aurea” ha colpito ancora. L’editore inglese GraphicDesign& ha infatti appena pubblicato un libro intitolato Golden Meaning che contiene, come annuncia il sottotitolo, “55 esperimenti grafici” da parte di altrettanti top designer mondiali. Essi effettuano le loro variazioni sul tema aureo del numero più famoso e chiacchierato della storia: quello chiamato appunto “sezione aurea” o “divina proporzione”, e di cui la copertina del libro ricorda e riporta le prime cifre decimali, cioè 1,618.
Il formato delle pagine dell’opera è lo stesso già usato da Piero della Francesca nella Flagellazione di Cristo, le cui due scene illustrano la proprietà caratteristica del cosiddetto “rettangolo aureo”: il fatto che, togliendo il quadrato costruito sul lato minore, rimane un rettangolo che è simile a quello di partenza. Nel libro, due pagine riportano la scritta «la sezione aurea è una cassetta degli attrezzi per i caratteri tipografici», composta doverosamente con caratteri costruiti a partire da rettangoli aurei di varie dimensioni, alla maniera delle scritte digitali.
Poiché il rettangolino che si ottiene da un rettangolo aureo per sottrazione del quadrato è anch’esso aureo, gli si può a sua volta sottrarre il quadratino costruito sul suo lato minore, e così via, innescando un inarrestabile processo, che costituisce una delle prime immagini storiche dell’infinito. Inserendo dei quarti di cerchio nei vari quadrati, via via sottratti ai vari rettangoli, si ottengono poi delle “spirali auree”. E l’immagine più geniale del libro è forse un “sedere d’oro”, le cui due natiche sono semplicemente due spirali auree accostate fra loro, perfette a un grado che può solo essere sognato da attrici e modelle.
Altre immagini rappresentano bottiglie, bicchieri, termometri e altri oggetti, nei quali il contenuto è in proporzione aurea con il vuoto rimanente. Altre ancora riformattano oggetti di uso comune in modo da far loro assumere proporzioni auree. E una pagina rappresenta gli immancabili conigli, che ricordano il fatto che la sezione aurea è approssimata dal rapporto fra due qualunque termini successivi della famosa “successione di Fibonacci”. Questa prende il nome da Leonardo da Pisa, detto Fibonacci, che la pubblicò nel 1202 nel suo Libro dell’abaco, appunto come soluzione di un problema relativo alla riproduzione dei conigli.
La successione parte da 0 e 1, e a ogni passo procede sommando i due numeri precedenti: la sequenza continua dunque con 1, 2, 3, 5, 8, 13, 21, 34, 55, eccetera, il che spiega il motivo della scelta delle 55 variazioni effettuate dai 55 designer. Conigli a parte, le apparizioni, spesso inaspettate e insospettate, della sequenza di Fibonacci in natura sono talmente ubique, da riempire da anni i numeri della rivista quadrimestrale The Fibonacci Quaterly.
E altrettanto vale per le manifestazioni della sezione aurea, descritte nei classici Crescita e forma di D’Arcy Thompson e Le curve della vita di Theodore Cook, e compendiate più recentemente da La sezione aurea di Mario Livio.
L’attrazione estetica della sezione aurea è rimasta immutata nei secoli. Il primo campo in cui essa si è manifestata è stata la matematica: dagli Elementi di Euclide alla Divina proporzione di Luca Pacioli, gli addetti ai lavori si sono estasiati di fronte alla bellezza delle figure e dei solidi in cui essa compare.
Il “poligono aureo” per eccellenza è il pentagono, le cui diagonali stanno in rapporto aureo con i lati, e formano una figura nota come “stella pitagorica”. E un’altra immagine dell’infinito, ancora più evidente di quella telescopica dei rettangoli aurei, si ottiene notando che i lati della stella pitagorica formano al centro una figura che non è altro che un nuovo pentagono regolare, dentro al quale si può costruire un’altra stella pitagorica, e così via. La successione telescopica alternata di pentagoni e stelle, simile a un esercito senza fine di bambole russe contenute una nell’altra, suggerisce che la diagonale e il lato del pentagono siano grandezze fra loro incommensurabili.
Pochi simboli hanno avuto, nella storia, il potere d’attrazione della stella pitagorica a cinque punte. In Italia oggi noi l’associamo automaticamente alle Brigate Rosse, ma il suo utilizzo rivoluzionario ha radici lontane: essa non è infatti altro che la famosa
Stella rossa sulla Cina dell’omonimo libro di Edgar Snow, ed è stata adottata in periodi diversi dall’Armata Rossa, dalle Brigate Garibaldi, dai Vietcong e dai Tupamaros.
Leggendo le loro memorie, si scopre che i primi brigatisti non riuscivano mai a disegnarla bene: veniva sempre un po’ squilibrata verso l’alto, quando addirittura non ci scappava una stella di David a sei punte, come in un sequestro compiuto da Mario Moretti. Perché la costruzione di un pentagono regolare non è immediata come quella di un triangolo, un quadrato o un esagono regolari, e coinvolge, implicitamente o esplicitamente, la “divisione aurea” di un segmento.
Quanto ai “solidi aurei”, i due più noti sono il dodecaedro e l’icosaedro. Il primo si ottiene mettendo insieme dodici facce pentagonali. E il secondo si può costruire congiungendo i dodici vertici di tre rettangoli aurei (o di tre carte di credito, meglio se scadute) incastrati perpendicolarmente fra loro. Questi oggetti hanno affascinato non soltanto i matematici, ma anche gli artisti, da Leonardo a Dalí.
Le illustrazioni del primo per il libro di Luca Pacioli hanno fatto storia, nelle loro versioni piene e vacue. E nei Cinquanta segreti dell’artigianato magico il secondo ha discusso non soltanto i disegni di Leonardo, ma anche il proprio personale uso della stella pitagorica nell’impianto della Leda atomica, e del dodecaedro nella struttura de L’ultima cena.
Se in pittura la sezione aurea si presenta come paradigma di proporzione estetica, non stupisce ritrovarla anche in scultura e architettura, da Fidia a Le Corbusier. Addirittura, spesso il rapporto numerico tra diagonale e lato del pentagono viene appunto indicato con Phi, in onore del primo, oltre che di Fibonacci. Quanto al secondo, il suo Modulor prende significativamente il nome da “module d’or”, e utilizza la sezione aurea per determinare due serie, una rossa e una blu, di dimensioni armoniche a misura d’uomo, da utilizzare nella progettazione non solo degli edifici, ma anche dei mobili e degli oggetti di casa.
Anche in musica la sezione aurea ha giocato un certo ruolo, da Bach a Béla Bartók. Il primo popolarizzò nei 48 preludi e fughe del Clavicembalo ben temperato il sistema di temperamento equabile tuttora in uso, che consiste nella divisione dell’ottava in dodici semitoni uguali fra loro, e matematicamente corrisponde a una “spirale aurea”. Il secondo invece era così affascinato dalla sezione aurea, che la usò ripetutamente per equilibrare le parti della Musica per archi, percussioni e celesta e della Sonata per due pianoforti e percussioni.
Naturalmente, i roboanti aggettivi usati al riguardo suggeriscono che nella sezione aurea sia coinvolto qualcosa di sublimemente estetico, e infatti così pensavano i pitagorici che la scoprirono, due millenni e mezzo fa. Cosa ci sia di divino, o di aureo, nella stella pitagorica, è difficile da intuire a prima vista: certo non il fatto che essa, avendo tante punte quante sono le lettere del nome Jesus, possa impaurire il demonio, come succede a Mefistofele nel Faust di Goethe.
Ma una volta che si impari ad apprezzare l’equilibrio di questo rapporto, si scoperchia una vera cornucopia. E si comincia a dubitare pitagoricamente che si tratti forse dell’unico essere per il quale l’aggettivo “divino” non suoni ridicolo o sacrilego, e cioè un numero.

La Stampa 6.3.14
Quello che le parole non dicono ce lo dice il loro odore
Non si può ridurre la lingua a un sistema “per capirsi”
Quali competenze servono per utilizzarla pienamente?
di Alessandro Perissinotto


Che le parole abbiano un senso è fuori di dubbio, ma le parole hanno anche un gusto o, se si preferisce, un profumo. Sì, un profumo, un odore, come quello delle case. La casa dei nonni, con l’odore del cavolo e della minestra che impregnava le pareti; l’appartamento di quella zia, rimasta zitella, che profuma di lavanda; il sentore di umido di certe vecchie scale, la fragranza di cera del salotto buono. Nella nostra mente, quelle sensazioni olfattive caricano di sfumature i ricordi e ci rinviano a stati d’animo come malinconia, o gioia, o disagio. Con le parole è lo stesso. Le parole hanno un nucleo centrale di significato, ma, nel contempo, hanno la capacità di rimandare a sfere di senso più nascoste, come quelle che riguardano lo scorrere del tempo.
Facciamo tre esempi, tra i meno romantici e letterari che si possano immaginare, tre esempi automobilistici. «Adelmo mise in moto la sua giardinetta», «Mario salì sulla sua familiare», «Kevin chiuse la portiera della sua station wagon». Da un punto di vista puramente dizionariale, i termini «giardinetta», «familiare» e «station wagon», se applicati alle autovetture, sono perfettamente sinonimi e identificano un certo tipo di carrozzeria. È però evidente che, nell’immaginario collettivo, essi rimandano a vetture di foggia ed epoca diverse. Lo stesso dicasi per «Adelmo», «Mario» e «Kevin»; tutti e tre nomi propri di persona, maschili, che identificano però, almeno potenzialmente, uomini vissuti in periodi diversi.
Le parole dunque si rivestono della patina del tempo e hanno la capacità di farci andare con la mente non solo agli oggetti che esse designano, ma anche all’epoca che le ha generate. In linguistica si sostiene che i segni hanno un potere «denotativo» (quello di designare il loro significato) e un potere «connotativo» (quello di farci pensare al loro contesto di produzione), ma, più semplicemente, possiamo stabilire che le parole dicono una cosa e, contemporaneamente, fanno immaginare un «di più» che non è la cosa stessa.
Quando leggiamo «Adelmo mise in moto la sua giardinetta», noi immaginiamo, ad esempio, un uomo vestito secondo l’usanza campagnola degli anni 40 che avvia una Fiat Topolino e si mette in marcia lungo una strada sterrata. A guidarci verso questa interpretazione non è il significato delle parole, ma il loro gusto, o il loro odore, la loro capacità di farci immaginare ciò che, a rigore, esse non dicono. Stando ai puri significati, Adelmo potrebbe essere un neopatentato di oggi (ci sarà almeno un diciottenne in Italia che si chiama Adelmo) e la sua «giardinetta» potrebbe essere tale solo perché fino alle soglie degli anni Duemila la Motorizzazione Civile ha utilizzato quella dicitura sui libretti di circolazione, ma, a meno di non essere smentiti dall’evidenza, noi tenderemo a scartare queste ipotesi, perché la comunicazione non richiede quasi mai una pura decodifica, ma implica una partecipazione interpretativa.
L’esempio, assai banale, riportato qui sopra apre una questione fondamentale per chiunque debba occuparsi di educazione linguistica e di formazione dei giovani: quali competenze occorrono per poter utilizzare pienamente la lingua? Per rispondere dobbiamo prima soffermarci sul concetto di «competenza». Negli ultimi decenni, la didattica si è innamorata di questa nozione. Oggi, a scuola, non si parla più di programmi da svolgere, ma di competenze da raggiungere. La competenza sposta l’attenzione dal «sapere» al «saper fare», dalla conoscenza all’operatività. Nel campo linguistico, ad esempio, la conoscenza delle regole grammaticali passa in secondo piano rispetto alla capacità di utilizzare la lingua per operazioni quotidiane come compilare un modulo o leggere un manuale di istruzioni; scompare definitivamente l’idea del sapere come ricchezza personale e si afferma quella del sapere come strumento asservito a un qualche scopo più o meno pratico.
Il rischio è però quello di ridurre la lingua a un sistema «per capirsi» o per ottenere un risultato accettabile. Negli ultimi anni, i professori che hanno fatto notare ai loro allievi l’uso improprio di un certo termine (ad esempio «reticente» al posto di «riluttante») si sono spesso sentiti rispondere: «Ma tanto ci siamo capiti lo stesso». Se la lingua fosse solo un sistema per capirsi, per mettersi d’accordo, forse avrebbero ragione gli studenti svogliati, ma la lingua è un modo per trasferire emozioni e per creare immagini e sfumature. Per questo, se vogliamo continuare a seguire la strategia educativa che la comunità internazionale, non senza qualche leggerezza, considera vincente, vale a dire quella delle competenze, dobbiamo fare in modo che, anche a scuola, il sapere non venga subordinato solo alle finalità operative, ma venga reso funzionale anche alla sublime inutilità dell’atto creativo.

La Stampa 6.3.14
Quei refusi di 2500 anni fa sui palazzi imperiali di Persepoli


Anche nelle antiche iscrizioni di 2500 anni fa, sulle pareti dei palazzi imperiali di Persepoli, in Iran, c’erano errori di ortografia. Queste antiche iscrizioni della dinastia achemenide - pannelli in caratteri cuneiformi incisi su pietra grigia - erano manifesti propagandistici di grande importanza, redatti dagli scribi di corte, ma incisi da artigiani che a volte incorrevano in qualche refuso. Li ha scoperti il filologo Adriano Rossi, dell’Università Orientale di Napoli, che ha lavorato a lungo in Iran, dove ha illustrato ai colleghi locali il metodo di studio che gli italiani applicheranno alle iscrizioni dei palazzi imperiali di Persepoli-Pasargade (Ciro il Grande, Dario, Serse e successori, 560-330 a.C.). «Possiamo avere diversi tipi di errori nelle iscrizioni trilingui (antico-persiano, elamico, babilonese) achemenidi. A volte si tratta dell’omissione di un segno cuneiforme, in altri casi si tratta di segni scritti in modo che noi riteniamo “sbagliato” dal punto di vista dell’ortografia», dice Rossi. In quest’ultimo caso, per esempio, in un testo antico-persiano, il nome del grande dio della dinastia achemenide, Auramazda, è scritto come se Aura e Mazda fossero due parole separate, anziché una sola.

Corriere 6.3.14
La politica è decisione sui conflitti I tecnici non possono sostituirla
Proprio la frammentazione dei saperi esige forti scelte di sintesi
di Natalino Irti


Non riusciamo a vivere senza l’ausilio di abilità tecniche. Gli oggetti, che ci circondano e che usiamo nella semplice quotidianità, esigono saperi specialistici. Anche il nostro corpo, la nostra struttura fisio-psichica, non può farne a meno. Questi saperi e abilità si raccolgono nel concetto di competenza : che non è un conoscere statico e contemplativo, ma un possesso dinamico di nozioni e capacità pratiche. Si è competenti a far qualcosa, a produrre un bene utile all’uomo. La competenza è sempre funzionale , cioè si esercita e dispiega in vista di uno scopo. O — che è il medesimo — la competenza è fonte di prestazioni , vendute o vendibili, idonee a soddisfare bisogni.
Mentre la «formazione» dell’uomo evoca l’idea di interezza, di armonica e compiuta totalità, la competenza è sempre frazionaria e particolare . Caduta o perduta la fede in un sapere totale, restano i saperi parziali, le competenze tecniche capaci di produrre una od altra prestazione. La «specializzazione» è questo frazionarsi e moltiplicarsi dei saperi, che non si raccolgono nel vincolo di un sapere totale.
Le competenze sono destinate a moltiplicarsi in modo e numero non prevedibili. Il «progresso» delle scienze, lo «sviluppo» delle applicazioni pratiche, la varietà degli impieghi nella vita quotidiana e negli àmbiti economici: tutto sospinge verso saperi sempre più frazionari e particolari.
Non poteva non sorgere il problema dell’unità o unificazione delle competenze. Le quali, lasciate a se stesse — ciascuna rivolta a conseguire il proprio scopo, ciascuna racchiusa nel vincolo di specifici metodi e procedure — susciterebbero innumerevoli conflitti e genererebbero il caos sociale. Il determinismo economico , nelle varie forme storicamente assunte, offre una risposta al problema. O che si creda nella «necessità» di un epilogo storico e di una salvezza comune; o che si speri nella «mano invisibile», capace di indirizzare il corso delle cose; o che si veda la pluralità delle competenze confluire di per sé nell’ordine di un «piano»: sempre queste soluzioni deterministiche presuppongono un’apertura escatologica, un’attesa, che non rimarrebbe insoddisfatta o delusa.
Ma, a colui che rifiuta di nutrire aspettative sul corso inevitabile della storia, stanno dinanzi i conflitti delle competenze , il disordine dei saperi speciali e degli scopi perseguiti. Nessuna competenza detiene il criterio di soluzione del conflitto, o è autorizzata, come tale, a ergersi sopra le altre ed a farsene giudice. Le competenze sono parti in causa , e nessuna può arrogarsi la posizione di terzo e la potestà della scelta. Nessuna è in grado, nella sua conchiusa specialità, di esprimere uno scopo, capace di sottomettere a sé i molteplici scopi dei saperi, di stringerli in unità, e di segnare una direzione comune.
La discorde pluralità delle competenze esige l’atto della scelta . Ci vuol ben qualcuno che scelga, ad esempio in anni dolorosi di crisi economica, fra «rigore» e «crescita», fra una o altra soluzione fiscale, fra una o altra misura di governo. Non c’è una competenza degli atti di scelta, una competenza delle competenze , un sapere più alto governante i saperi speciali.
La decisione sta oltre le competenze . Questo «oltre» è ciò che chiamiamo «politica». La decisione sul destino della polis non appartiene ad alcuna competenza, sta fuori da ogni tecnica, ma tutte le raccoglie e dirige. Non c’è politica — come videro antichi e moderni teorici — senza unità di decisione , quell’unità che i saperi speciali, lasciati a se stessi, non sono in grado di raggiungere. La decisione, come che sia presa , tronca il conflitto e stabilisce la direzione. Non c’è bisogno di fingere una competenza generale del popolo, che si esprima nelle elezioni politiche e si affidi all’esercizio dei rappresentanti: ciò che conta è decidere, porre fine al conflitto, scegliere la strada per il futuro. Anzi, a ben vedere, nulla è più estraneo ai criteri di competenza che le procedure «elettorali» o «democratiche», le quali possono ben ricevere il nostro favore rispetto ad altre, ma, nella loro indifferenza contenutistica, mirano soltanto a produrre una qualsivoglia decisione. Le procedure non sanno ciò che vogliono, ma vogliono sempre qualcosa, ossia compiono una scelta e prendono una decisione.
Se le competenze non sono in grado di sollevarsi alla decisione, la decisione , dal suo lato, ha bisogno delle competenze . Tecnostrutture sono ormai indispensabili per qualsiasi governo (che sia d’impresa economica o di comunità nazionale). I tecnici sono al servizio della decisione, la quale, scegliendo i fini ultimi, anche determina forme e misura delle competenze esecutive. La distinzione di piani — del decidere politico e dell’eseguire tecnico — lascia emergere il principio di legalità, cioè il vincolo che stringe e definisce l’esercizio delle competenze. Posto che la decisione appartiene alla sfera politica, la quale determina i fini ultimi, la scelta tecnica dei mezzi ha da muoversi entro questo àmbito, e non discostarsene in vista di altri e diversi fini. La «legalità» della tecnostruttura esprime la subordinazione dei mezzi ai fini. L’agire tecnico rinvia a «premesse», che stanno fuori dalla competenza di chi agisce.
Un grande statista del XX secolo, Charles de Gaulle, ha così fermato questo rapporto: «È vero che se, dal gradino più alto su cui mi trovo, sta a me il sollecitare perizie, conferme e pareri, e quindi il compiere scelte e assumerne la responsabilità, non mi sostituirò comunque a tutti quelli che, ministri e funzionari, debbono studiare, proporre, dare esecuzione tenendo conto dei dati complessi tra cui vivono per abitudine e vocazione». I «governi tecnici» sono propriamente comitati di funzionari e di commissari ad acta , che talvolta rendono servigi utilissimi e sciolgono situazioni d’emergenza: ma governi ai quali non spetta la decisione sui fini ultimi.
Può accadere, e in fatto è accaduto, che, scelti i fini generali d’uno Stato o di altra comunità, la politica, per così dire, si ritragga dalla scena, o perda prestigio per debolezza di idee e corruzione di uomini. Allora i tecnici, chiamati in funzione di commissari esecutivi, allargano il loro potere e, sotto schermo di interpretare e applicare la volontà politica (quale, ad esempio, sia fissata in accordi e trattati internazionali), si sporgono sul terreno della decisione e riempiono le norme di nuovi e devianti contenuti. In questo quadro si collocano i fenomeni, spesso segnalati e denunciati, di «euro-tecnocrazia». Dove, se colpe vi sono, la politica non può che imputarle a se stessa.
Con inquieta consapevolezza si è usata la metafora del «salire in politica», poiché il tecnico, che voglia decidere o concorrere a decidere circa il governo della città, esce fuori dalla propria competenza, e, fattosi politico fra i politici, corre l’incognita del vincere o del soccombere. Quel «salire in politica» anche spiega l’intrinseca contraddizione di ogni pretesa tecnocratica, ossia di ogni pretesa dei tecnici di elevare a fini ultimi i fini della propria competenza. In ciò fare, il tecnico, detentore di specifica e definita competenza, cessa di esser tecnico, e «sale» al terreno delle fedi e religioni e ideologie politiche, le quali non appartengono ad alcuna competenza, e attendono risposta dall’esito del conflitto.

Corriere 6.3.14
Ben Jelloun Il viaggio e la nostalgia
«Il mio dialogo continuo tra Oriente e Occidente E nell’inverno del desiderio ho trovato un inno alla vita»
di Cristina Taglietti


Tahar Ben Jelloun ama considerarsi uno «scrittore pubblico, che si fa carico di dire ciò che nessuno vuole o può dire», qualcosa di più e di diverso dallo scrittore militante (che pure è stato ed è), dall’intellettuale coinvolto nella società che quando c’è uno scandalo o un’ingiustizia è costretto a far sentire la sua voce.
Letterato sempre in viaggio, a cavallo tra mondo arabo e Occidente, ha affermato (in Marocco, romanzo ) che «uno scrittore che non sia abitato da una passione rischia la sterilità e la deriva». Non stupisce dunque che non ci sia nulla (o quasi) di ciò che è umano che sia estraneo a questo figlio del Marocco, nato a Fès nel 1944, autore in francese (che considera la sua lingua madre letteraria) di quasi cinquanta libri, un mosaico di poesie, romanzi, articoli, saggi, testi teatrali.
«Ogni libro è una tappa del mio lavoro, nato da un’esigenza precisa. Scrivere in francese ha naturalmente influenzato le mie opere, in arabo non sarebbe stato possibile parlare di certi temi, come la sessualità» dice al telefono Ben Jelloun che adesso sta lavorando a un nuovo libro che ben rappresenta la fusione tra mondo arabo e Francia che la sua stessa figura incarna. «È un libro felice, allegro: una versione orientale, alla maniera delle Mille e una notte , dei racconti di Perrault». Francia-Marocco è per lui una tratta abituale, più che una condizione lacerante. Parigi, dove è arrivato per la prima volta nel 1971 anche per fuggire da una situazione politica di oppressione, lo ho premiato con il Goncourt, primo autore arabo a ricevere il prestigioso riconoscimento, ma il Marocco è il luogo dell’eterno ritorno a cui non ha mai risparmiato critiche: «Un Paese sempre vivo e ricco, pur con tutti i suoi problemi, compresa la corruzione. Come scrittore mi danno fiducia, sono popolare anche se molto spesso mi attaccano».
È proprio il suo sguardo molteplice sul mondo, che coniuga l’analisi politica e la discesa negli abissi dell’intimità più profonda, che ha spinto «Dedica» a farne il protagonista di un omaggio lungo due settimane: «È un onore, un omaggio che mi rende felice anche perché mi da l’opportunità di entrare nelle scuole, di parlare con i giovani».
L’occasione coincide con la pubblicazione del nuovo libro di Ben Jelloun, L’ablazione (in uscita da Bompiani) in cui di nuovo lo scrittore spiazza il lettore facendosi trovare dove non se lo aspetta. Il libro, un récit o forse un’autofiction, racconta nel dettaglio il dolore fisico e psicologico di un matematico di 56 anni a cui viene asportata la prostata in seguito a un tumore. Vergogna, impotenza, solitudine, una virilità ferita sono le conseguenze immediate raccontate con brutalità, seguite però da una consapevolezza nuova. «Non esisteva un romanzo su questo tema — spiega lo scrittore — anche se, secondo un rapporto francese, sette uomini su dieci oltre i sessant’anni soffrono di disturbi alla prostata. Esistono testi medici, scientifici, ma non testi letterari. Parlarne è un tabù. E invece il lettore ama molto identificarsi in un personaggio. Io stesso l’ho scritto come se fosse successo a me, anche se io ho avuto problemi molto più lievi. La letteratura serve a questo, ad accettare la realtà, anche quella che Marguerite Duras chiamava “la malattia della morte”, la sofferenza che viene prima dell’attimo finale. Ma questo è anche un inno alla vita, è un libro sulla gioia di vivere».
Forse perché il tema fa molta paura, L’ablazione in Francia è diventato rapidamente un bestseller. «Ho scoperto che lo leggono molte donne per capire qualcosa di più dei meccanismi maschili. L’ho presentato in Marocco e anche lì c’è stata molta curiosità, è stata la prima volta in cui non mi hanno attaccato — scherza. — Lo comprano i giovani per regalarlo ai padri e ai nonni. Si parla di vergogna ma anche di senso di colpa, sentimenti amplificati da una società in cui, attraverso la tv e la pubblicità, c’è l’ossessione del corpo perfetto». La sessualità (e la sua fine) è il tema che occupa la parte centrale del libro. «Ci si chiede se sia possibile una vita senza sesso. Sì, è possibile e d’altronde, ci sono persone sane che rinunciano consapevolmente o che preferiscono la virtualità di Internet. Ci si abitua a tutto e il protagonista trova altre qualità della vita per cui vale la pena continuare a lottare».
Dopo la pubblicazione del libro, Tahar Ben Jelloun in Francia è diventato quasi uno specialista del tema, molto ricercato da tv e giornali, ma anche dalle persone comuni che cercano da lui un consiglio, una rassicurazione. «Mi telefonano, mi consultano, come se avessi inventato una medicina per curare l’angoscia. Mi hanno invitato a parlare a un congresso di medici — ride —. Quando c’è stato lo scandalo di Hollande e a un certo punto era uscita la notizia che Julie Gayet potesse essere incinta, mi chiamavano per dirmi: “Ma non è possibile che sia lui il padre, vero? È stato operato alla prostata”» .
Cristina Taglietti

Corriere 6.3.14
Il clero al servizio dello Stato nella Francia rivoluzionaria
risponde Sergio Romano


Nella sua risposta sul quadro del Perugino lei accenna a una «Costituzione civile del clero». Quando venne promulgata e di che si trattò?
Marta Soriani, Bologna

Cara Signora,
La Costituzione civile del clero è l’insieme delle norme che furono approvate dall’Assemblea costituente francese nel giugno del 1790 per organizzare la Chiesa di Francia con criteri di utilità pubblica. Per molti aspetti era già accaduto in Austria nel 1781 quando l’imperatore Giuseppe II, figlio di Maria Teresa e fratello di Maria Antonietta, aveva promulgato l’Editto di tolleranza. Era stata garantita libertà di culto per gli ortodossi e i protestanti. Erano stati soppressi gli ordini religiosi che non avevano una funzione sociale. Era stata vietata la libera corrispondenza dei vescovi con il Papa ed era stato fissato il numero delle parrocchie nelle zone rurali.
In Francia, dopo le tempestose giornate del luglio 1789, lo Stato si era spinto più in là. La Chiesa era stata privata dei suoi antichi diritti feudali, aveva perduto le decime e, dopo una legge proposta da Talleyrand, allora vescovo di Autun, i suoi beni era stato messi «a disposizione della nazione» per il pagamento del debito pubblico. Ma la norma che venne maggiormente percepita dalla Santa Sede come una intollerabile interferenza nelle sue prerogative, fu l’abolizione del valore legale dei voti monastici. Nel marzo del 1790, pochi mesi prima del voto conclusivo dell’Assemblea, il Papa, nel corso di un concistorio segreto, aveva gia condannato i principi della Dichiarazione dei diritti dell’uomo.
La riforma votata dall’Assemblea costituente aboliva anche le antiche circoscrizioni della Chiesa di Francia. I vescovi sarebbero stati 83 (lo stesso numero dei dipartimenti) e sarebbero stati eletti, come i parroci, dai cittadini, avrebbero avuto un salario statale, non sarebbero stati sottomessi ad autorità ecclesiali straniere, avrebbero giurato fedeltà alla Costituzione e avrebbero governato le diocesi con l’assistenza di un consiglio permanente di vicari. Vi erano sacerdoti disposti ad accettare le riforme, ma l’ostilità della Chiesa romana e degli ambienti conservatori del cattolicesimo francese divenne sempre più evidente. La rottura, che lo storico François Furet definisce scisma, ebbe luogo quando giunse l’ora del giuramento alla Costituzione. Vi furono regioni, come l’Alsazia e la Vandea, in cui i sacerdoti refrattari, come vennero chiamati coloro che non intendevano giurare, constatarono di avere la simpatia e il sostegno di una larga parte della società francese e furono così incoraggiati a disobbedire. Ma vi furono altre zone del Paese in cui accadde il contrario. Furet racconta che nella domenica prevista per la cerimonia «una folla immensa invase la chiesa di Saint Sulpice (a Parigi) e minacciò il parroco recalcitrante che riuscì a mettersi in salvo a stento, tra grida di "il giuramento o la forca"». Sembra che la carta geografica di quella spaccatura sia sopravvissuta più o meno intatta sino alla seconda metà del Novecento. Sempre secondo Furet, la Francia devota e praticante del XX secolo corrisponde a quella dei dipartimenti in cui i sacerdoti e i vescovi rifiutarono di votare la costituzione civile del clero nel 1791.

Corriere 6.3.14
Sacerdozio delle donne augurio per l’8 marzo
di Beppe Severgnini


Così, quando tra vent’anni qualcuno troverà questa pagina in fondo a una scatola da scarpe, o vedrà sbucare un vecchio pezzo degli anni Dieci da un motore di ricerca, potrà dire: che ingenuo! Oppure: ma perché i giornalisti si lanciano in queste previsioni? Non fa niente, io lo scrivo: quel giorno ci saranno maschi e femmine tra i sacerdoti cattolici.
Ho letto con attenzione l’intervista di Ferruccio de Bortoli a Francesco, pubblicata ieri sul Corriere («Vi racconto il mio primo anno da Papa»). Domande chiare, risposte dirette. Meno una, forse. Quella sul ruolo della donna nella Chiesa, dove insieme all’omaggio spontaneo per la Vergine Maria («più importante di qualsiasi vescovo e di qualsiasi apostolo») si intuisce il riserbo papale: «L’approfondimento teologale è in corso».
Ascolto e leggo gli argomenti tradizionali contro l’ordinazione sacerdotale femminile. Gesù Cristo era un uomo, e non ha scelto donne tra gli apostoli; il sacerdozio non è una funzione, ma un carattere spirituale indelebile; l’ordine divino non permette alle donne di esercitare il ministero sacerdotale. Giovanni Paolo II, vent’anni fa, chiuse la questione nella lettera Ordinatio Sacerdotalis : «Dichiaro che la Chiesa non ha in alcun modo la facoltà di conferire alle donne l’ordinazione sacerdotale e che questa sentenza deve essere tenuta in modo definitivo da tutti i fedeli della Chiesa».
Con rispetto, mi sembra che questi argomenti siano sempre meno convinti; e non reggano alla prova della storia e del cuore. Quando la Chiesa difende la diversità, argomenta. Se afferma «Il matrimonio è tra un uomo e una donna» spiega perché (rassicurando alcuni, irritando altri). Al matrimonio tra persone della stesso sesso le società occidentali arriveranno presto, in ordine sparso, per un motivo: gli innovatori, in materia, hanno più passione dei conservatori. Ma la Chiesa cattolica non si lascerà convincere. Sul matrimonio, come sull’aborto, le idee sono chiare.
Non così, ripeto, sull’ordinazione sacerdotale femminile. «La donna può e deve essere più presente nei luoghi di decisione della Chiesa», ma con questa «promozione di tipo funzionale non si fa tanta strada»: lo ha ammesso anche Francesco nell’intervista. Il passaggio successivo, a questo punto, sembra inevitabile: un’equivalenza tra uomo e donna ormai lampante, dopo secoli di ipocrisie biologiche, culturali, sociali. Sarà probabilmente la crisi drammatica delle vocazioni a dare il colpo decisivo. Ma le mura dei difensori dell’indifendibile stanno cedendo: già si sentono gli scricchiolii.
Un consiglio, prima di chiudere. Non date importanza alle mie premonizioni: non ho titoli né motivi per averne, teologia e chiaroveggenza sono fuori dalla mia portata. Consideratelo un pensiero insolito alla vigilia della Festa della Donna. Buon 8 marzo a tutte, comunque la pensiate.