venerdì 7 marzo 2014

La Stampa 7.3.14
Renzi: “Critiche ridicole anche da chi mi sosteneva. Ma la gente sta con me”
Lo sfogo: “La fiducia cresce eppure continuano ad attaccarmi
Ho smontato le accuse di Grillo: io non sto chiuso nei palazzi”
intervista di Federico Geremicca
qui

l’Unità 7.3.14
Camusso: «Attento al culto del capo»
di Caterina Lupi

«Attento, rischi il culto della personalità ». Dal congresso provinciale del sindacato, a Brescia, Susanna Camusso lancia il suo severo monito a Matteo Renzi. Consigli di stile, contro qualsiasi tentazione di inseguire il consenso, ma non solo, da parte della leader della Cgil che avanza critiche severe sulla proposta del premier che riguarda la riforma del lavoro. «Matteo Renzi rischia di confondere un’azione di riavvicinamento della politica al Paese con il culto della personalità », dice da Brescia Camusso, che poi definisce «insufficiente» il piano sul cuneo fiscale. «I cinque miliardi di risorse che il governo prevede di ricavare dal taglio alla spesa pubblica e destinare al taglio del cuneo fiscale è una misura ancora lontana dall’avere quell’effetto choc che il presidente del Consiglio aveva annunciato in Parlamento », commenta e poi continua ancora più dura: «Ho la sensazione che ci stiamo riraccontando la legge di stabilità che prevedeva un fondo destinato a ridurre la tassazione sulle imprese e sui lavoratori, alimentato direttamente dai tagli di spesa e dagli eventuali proventi del rientro dei capitali ». Secondo la sindacalista «se è di nuovo quella cosa lì era insufficiente a dicembre e non diventa sufficiente adesso». Non solo.
«Sento il governo continuare a parlare di aliquote Irpef e non va bene, perché così si dà una risposta ai lavoratori e agli evasori contemporaneamente». Per la leader della Cgil invece la strada da intraprendere è un’altra e deve cominciare con un intervento sulle detrazioni dei lavoratori dipendenti e dei pensionati. Camusso spera che il Jobs Act annunciato da Renzi «non sia l’ennesima moltiplicazione delle forme di ingresso al lavoro e quindi della precarietà ». Proprio per evitarlo, secondo lei «sarebbe utile, per mettere ordine al sistema, cominciare a tagliare tutte le forme di precarietà e poi, a quel punto, si può discutere anche di contratto unico».
E ancora, secondo la Cgil è prioritario partire da un piano del lavoro e dalla necessità di creare occupazione, concentrando l’attenzione su «alcuni temi che potrebbero determinare un serio e significativo investimento pubblico per creare posti di lavoro, che sono la cura di cui ha bisogno la nostra economia per riprendersi». Camusso raccomanda poi «la creazione di un sistema di ammortizzatori sociali universale, perché oggi è diseguale e ci costringe in pochi mesi a chiedere le risorse per l’anno precedente e quello in corso». Un sistema che «ancora sia fatto di contribuzione delle imprese e di fiscalità generale, perché la contribuzione dei lavoratori e delle imprese da sola non è sufficiente». Il tema oggi non è quello dei licenziamenti ma delle assunzioni, sottolinea inoltre la segretaria generale della Cgil riguardo la possibilità di prevedere con il Jobs Act l’esenzione per tre anni dall’articolo 18 per le aziende che assumano giovano. «Servono politiche per creare il lavoro e per non far fuggire non solo i cervelli ma anche la manodopera giovanile - conclude - altrimenti creiamo un debito straordinario sui nostri figli e sui nostri nipoti progettando un Paese di poveri».

il Fatto 7.3.14
Scontro sul JobsAct
La Camusso attacca: “Ora rischia il culto della personalità”
Sindacati delusi dal premier e da giuliano Poletti: “Ma chi è questo qua?”
di Salvatore Cannavò

Tira una brutta aria sul fronte sindacale per il governo Renzi. Che Susanna Camusso non abbia mai amato l’ex sindaco di Firenze è noto. Che la Cgil si sia schierata, sia pure discretamente con Gianni Cuperlo alle primarie del Pd, anche. Che però – rischiando di mutuare le critiche di Beppe Grillo – si accusi Renzi di “culto della personalità” dopo le sue visite scolastiche attorniato da bimbi in festa, è un attacco piuttosto duro. “Una cosa sono le forme di riavvicinamento della politica al paese” ha detto infatti Susanna Camusso, “un’altra il culto della personalità”. Il punto è che Cgil e Cisl non si fidano di quello che Renzi sta facendo. La prova l’hanno avuta nei giorni scorsi dopo essere usciti dai colloqui, separati, che il neo ministro del Lavoro, Giuliano Poletti, ha avuto con Susanna Camusso e Raffaele Bonanni. La prima ha commentato così l’incontro: “Neanche dal nuovo ministro sono riuscita a scoprire cosa c’è nel Jobs act”. Bonanni, con il suo stile più diretto, si è fatto scappare con i suoi: “Ma conta davvero questo ministro?”. In realtà Poletti è molto stimato sia da Cgil che da Cisl. “Lui è l’uomo più concertativo che ci possa essere”, dicono dalle parti di Bonanni. Rapporti ottimi con le imprese che pure ha guidato, provenienza dal mondo tradizionale della sinistra ne fanno un mediatore, amico di tutti. Quando hanno saputo della sua nomina, Cgil, Cisl e anche Uil si sono dette soddisfatte. Durante gli incontri recenti, però, il ministro, con la sua vaghezza, ha lasciato intendere che il vero dossier è sul tavolo di Renzi, non sul suo. Anche nel corso della puntata di Porta a Porta di ieri sera, Poletti non ha detto nulla sul Jobs Act, limitandosi a parlare di Cig in deroga e lanciando l’allarme sui pochi fondi in cassa: “Rischiano di bastare solo fino a metà anno” ha detto.  
Di piano del lavoro, quindi, si discute da un’altra parte e con i sindacati non si parla. Tranne che con Maurizio Landini, della Fiom. Ancora nei giorni scorsi, infatti, Renzi ha invitato la Fiom a inviare proposte e suggerimenti sul Jobs Act. A infastidire i sindacati c’è anche l’intervista di Pier Carlo Padoan di ieri al Sole 24 Ore da cui si deduce che le risorse a disposizione del “cuneo fiscale” sono meno di quanto annunciato da Renzi. “Con 5 miliardi - dicono in Cisl - la riduzione non serve a nulla”. “Ho la sensazione – aggiunge Camusso – che ci stiamo ri-raccontando la legge di stabilità”. “Se è di nuovo quella cosa lì, era insufficiente a dicembre e non diventa sufficiente adesso”. Renzi è avvertito. Bisognerà vedere se darà retta a questi avvertimenti.

il Fatto 7.3.14
Freccero: “La Rai con Renzi? Era meno servile verso B.”

CON SILVIO Berlusconi non c’era tutto questo servilismo dell’informazione che c’è verso Renzi. È una cosa insopportabile". Parola di Carlo Freccero, che ieri a La Zanzara su Radio 24 si è scagliato contro il nuovo corso preso da viale Mazzini e dall’informazione italiana: “La Rai è già renziana - ha spiegato durante la trasmissione - ma si adegua sempre. Mi colpisce la stampa, è un inno continuo. La7? Sì, Mentana è abbastanza renziano, senza dubbio”. Una situazione frutto dell’abilità del neo premier ma anche dei giornalisti: “Renzi dà il cellulare a tutti. C’è una forma di cameratismo coi giornalisti che vuol dire tante cose. Con Berlusconi non c’era. Ci deve essere un distacco”. Un caso su tutti: “La visita alla scuola di Siracusa è straordinaria, da regime. Renzi sta dimostrando chi è. Mi ha messo tristezza vedere quelle maestre che trovano in lui un nuovo salvatore, è una forma di analfabetismo”. Freccero ha parlato anche degli espulsi del Movimento 5 Stelle. “Sono dalla parte di Grillo. Se tu scegli Grillo devi ubbidirgli. È una forma di fedeltà. M5S è fatto in gran parte di volontari. È un movimento già molto liquido, se dai modo di p


il Fatto 7.3.14
Autoriciclaggio, emendamento Civati per introdurre reato

IL PD HA DEPOSITATO in commissione Finanze alla Camera l’emendamento che istituisce il reato di autoriciclaggio, il cui testo è stato anticipato da Public Policy. L’emendamento ha come primo firmatario Marco Causi, capogruppo Pd in commissione, e le firme di Civati, Colaninno, Fregolent, Bargero, Capozzolo, Carbone, De Maria, De Menech, Di Maio Marco, Di Stefano, Fragomeli, Ginato, Gutgeld, Lodolini, Mattiello, Pastorino, Pelillo, Petrini, Ribaudo, Rostan. L’emendamento prevede di modificare l’articolo 648-bis del codice penale prevedendo di punire “con la reclusione da quattro a dodici anni e con la multa da euro 5 mila a euro 50 mila chiunque sostituisce o trasferisce denaro, beni o altre utilità provenienti da delitto non colposo ovvero compie altre operazioni in modo da ostacolare l’identificazione della loro provenienza delittuosa”. È “si applica la pena della reclusione da due a otto anni e della multa da euro 2 mila a euro 25 mila se il denaro, i beni o le altre utilità provengono da delitto non colposo”.

l’Unità 7.3.14
L’altra metà dell’Italicum
Rivolta delle parlamentari Pd contro l’esclusione della parità di genere dalla legge elettorale
Boldrini: rispettare la Costituzione
La legge elettorale slitta a lunedì ma resta il nodo della mancata eguaglianza di genere in lista
Le deputate di ogni schieramento, tranne le azzurre, si sono riunite dalla presidente Boldrini
di C. Fus.

Si tratta ancora, ma Forza Italia non ne vuole sapere: la parità di genere per ora è esclusa dalla legge elettorale. E scatta la rivolta delle parlamentari Pd. 50 senatori firmano un documento di protesta. La presidente della Camera Boldrini: rispettare la Costituzione.
Fotogrammi di una giornata speciale a Montecitorio. Si vota la nuova legge elettorale. Main palio c’è soprattutto il diritto- dovere delle donne di essere rappresentate nelle liste elettorali. Non i soliti posti in piedi e in fondo. Ma posti buoni, per vincere. Nella pausa pranzo Renato Brunetta, capogruppo di Forza Italia, convoca le amazzoni, Micaela Biancofiore compresa, e le redarguisce, come può, per quella foto su tutti i quotidiani in cui le deputate azzurre si mostrano fiere e decise ai loro posti in aula, a loro modo pioniere di una battaglia secolare: garantire pari accesso alle donne non solo in politica ma in Parlamento, che della politica è la casa madre. Brunetta ottiene che le suddette deputate, Mara Carfagna, Stefania Prestigiacomo, Laura Ravetto, Renata Polverini, Gabriella Giammanco, a turno, negli anni, le preferite del Cav, non si presentino nello studio della presidente della Camera dove, più o meno alla stessa ora, un’altra pioniera, Barbara Pollastrini guida un altro gruppo di deputate per spiegare a Laura Boldrini tutta la loro «preoccupazione». Non è possibile, dicono, che la legge elettorale che rappresenta il primo passo di una rivoluzione di sistema, cominci il suo cammino con una discriminazione così evidente. Con l’evidenza di un diritto negato.
In aula, per tutto il giorno, durante le votazioni sull’Italicum, le deputate di una parte e dell’altra dell’emiciclo si passano biglietti, s’incontrano vicino ai banchi del governo, si scambiano informazioni. L’ordine è tenere duro sui tre emendamenti firmati da donne, e anche qualche uomo, di Pd, Fi, Sc, Popolari, Sel. Sono il 1.88, 1.92 e 1.93. Dicono che non basta una generica parità di genere nelle liste, 50 per cento donne e l’altro cinquanta uomini. Si sa come va a finire: che le candidate restano stipate in basso, in fondo, senza alcuna possibilità. Dicono, quegli emendamenti, che serve fissare per legge l’obbligo di alternare i capilista, un uomo e una donna; oppure il 60 per cento delle circoscrizioni agli uomini e il 40 per cento alle donne. Oppure, infine, l’alternanza pura e semplice, magari cominciando la lista con una candidata.
I deputati, maschi, osservano. Non possono fare altro. Ogni tanto consegnano ai giornalisti in Transtalantico, le loro valutazioni su come andrà a finire. «Non c’è nessuna trattativa, Berlusconi ha chiuso e Verdini lo ha già comunicato al ministro per le Riforme Maria Elena Boschi» spiega convinto un deputato azzurro. «Anche perchè - aggiunge - se passa la norma sulla parità di genere obbligatoria, se il Senato sarà abolito, insomma, per noi, che già scontiamo le preferenze del Cavaliere per le donne, è veramente finita». Un deputato del Pd, uno di quelli che più di tutti segue l’evoluzione dell’Italicum, garantisce: «La trattativa è veramente in salita, Berlusconi non ci sente, dice che ha già fatti troppi passi indietro. E che non riuscirebbe più a tenere i suoi». Intesi come parlamentari di genere maschile.
Un fotogramma anche per il ministro Boschi: in aula viene spesso chiamata in causa, non solo dai Cinque stelle, perchè dica la sua nel merito della legge elettorale. Ad esempio sul rischio, alto, che milioni di elettori restino senza rappresentanza per via delle soglie e degli sbarramenti che tagliano via chi non raggiunge almeno il 4,5% dei voti. La giovane ministro tace, non replica e quando esce dall’aula è sempre scortata da un paio di deputati. Un fotogramma anche per Daniela Santanchè: la pitonessa di Arcore non partecipa alla rivolta delle colleghe. La vera rivoluzione, spiega, «sarà quando potranno essere le donne a fare le liste». I passaggi intermedi, cioè, sono inutili.
Un imbarazzato scaricabarile. Tutti quelli che parlano chiedono l’anonimato perchè «la faccenda è delicata». Anche le donne perchè se a destra temono rappresaglie, a sinistra sono convinte che «a trattativa in corso sia sbagliato dichiarare». Ci sarà tempo dopo, semmai. «Che tanto la legge deve passare al Senato» suggerisce la responsabile Giustizia del pd Alessia Morani.
La trattativa è molto in salita ma ancora in corso. Per tutto il fine settimana, fino a lunedì quando l’aula tornerà a votare l’Italicum. La battaglia di genere occupa scena e restroscena della giornata. Il premier Renzi deve rivedere i suoi piani visto che la legge sarà licenziata dalla Camera non questa ma la prossima settimana, lunedì, forse anche martedì. Le votazioni, ieri, sono andate avanti fino a mezzanotte, una ventina in tutto, duecento pagine di emendamenti su un totale di cinquecento. Nei voti segreti la maggioranza tiene, a corrente alternata però, con improvvisi cali di tensione. A fine mattinata solo 48 voti dividono la maggioranza dall’opposizione. Ci sono una cinquantina di franchi tiratori. «Il 35 per cento sono nostri» fa i conti preoccupato un renziano. Il resto è Forza Italia. Decisamente troppi. Lorenzo Guerini, il portavoce della segreteria, si allarma. Ettore Rosato, che tiene i conti dell’aula, chiede rinforzi. Ecco che arrivano in aula sottosegretari, ministri, persino il sottosegretario alla Presidenza Graziano Delrio. Scene già viste quando le maggioranze scricchiolano. Mail governo Renzi dovrebbe essere ancora in luna di miele.
I nodi e le spine sono stati tutti accantonati per far procedere le votazioni. Per vedere se l’Italicum prende la rincorsa e parte senza inciampare. È passata la soglia del 37 per cento per ottenere il premio. Sono stati messi da parte le soglie, le preferenze, le multicandidature, il salva-Lega, la parità di genere. Si allunga un pensiero in aula, un pensiero tremendo: «Chi vuole affondare l’Italicum e dare una lezione a Renzi sta sfruttando la storia delle donne». Un pensiero meschino.
Si lavora al compromesso. L’ennesimo. Berlusconi potrebbe concedere l’opzione 60/40 ma solo in cambio di un grosso favore: il salva Lega. Che poi può essere anche il salva-Campania (la lista di Nicola Cosentino).E altre liste satelliti, regionali, fedelissime.

l’Unità 7.3.14
Barbara Pollastrini: «Senza donne sarebbe ferita la democrazia»
«Chi dice che questa battaglia può far saltare tutto vuole solo boicottare la legge. Cosa chiediamo? L’alternanza di genere tra i capilista»
intervista di Claudia Fusani

Le battaglie più difficili si possono fare anche in tailleur, armati di un volume di 500 pagine pieno di segna-pagine verdi, il sorriso sulle labbra e i modi di fare pazienti. L’ex ministro alle Pari Opportunità, Barbara Pollastrini, deputata Pd, è in una squadra di parlamentari donne per portare fino in fondo una battaglia che non può non essere combattuta. «Fino in fondo », precisa.
Nella pausa pranzo è stata ricevuta dal presidente della Camera Laura Boldrini. Perché?
«La presidente, che voglio ringraziare per la sensibilità, ha ricevuto deputate di alcune formazioni politiche che hanno firmato gli emendamenti alla legge elettorale per avere una effettiva parità di genere nelle liste. Ci sembrava giusto e necessario esternare alla Terza carica dello Stato, innanzitutto perché è donna, la nostra preoccupazione perché una legge elettorale, seppur imperfetta come questa, non può avere autorevolezza se è fuori dal tempo perché orba di una regola antidiscriminatoria efficace».
L’Italicum ha tante ferite…
«Senza dubbio, le soglie, le liste bloccate. Ma sarebbe una ferita della democrazia approvare una legge elettorale, che tra l’altro è il primo passo per una svolta di sistema visto che andremo a cambiare il nostro ordinamento, senza prevedere una regola certa che garantisca alle donne di partecipare con uguali opportunità alla vita politica e quindi alla direzione della cosa pubblica. Non so se è chiaro: stiamo parlando di diritti e doveri, non di accessori».
L’Italicum prevede la parità di genere.
«Quello che prevede la legge attualmente è una furbata. E chi l’ha scritto lo sa benissimo. Dire parità di genere senza specificare in che modo, è solo un modo meschino di aggirare la questione, provare a lavarsi la coscienza e lasciare le cose come stanno».
Può fare un esempio?
«Una lista di sei persone, i primi tre sono uomini, le ultime tre sono donne. La parità di genere è garantita, metà e metà, peccato che di quella lista passerà il primo e forse il secondo. Gli altri non servono».
Voi cosa avete chiesto?
«Sono tre emendamenti, 1.88, 1.92 e 1.93, e guardi qua, ognuno ha una pagina di firme, di tutti i partiti. Ci sono le ex ministre alle Pari Opportunità Mara Carfagna e Stefania Prestigiacomo, Laura Ravetto, Giammanco, Polverini. Quello che chiediamo è molto semplice: o alternanza di genere nei capilista, un uomo nella circoscrizione x e una donna nella circoscrizione y; alternanza nei capilista 60 a 40; alternanza semplice, dove si può e si deve anche cominciare da un capolista donna».
State trattando?
«Ci stiamo provando e dico cerchiamo tutti insieme ancora una soluzione. Ci sono molte resistenze. Anche se mi chiedo quale può essere il leader politico che potrebbe andare a giustificare con la sua base elettorale una cosa del genere».
Qualcuno suggerisce che la parità di genere sta diventando il grimaldello per far saltare tutto. C’è un rischio strumentalizzazione?
«Chi lo dice non solo è in cattiva fede ma vuole un alibi per boicottare la legge. Faccio io una domanda: davvero un’intesa che deve aprire la porta alla più compiuta riforma costituzionale può saltare perché c’è una norma antidiscriminatoria? Sarebbe un clamoroso controsenso. Nessun leader politico lo potrebbe giustificare. E poi, via, usare le donne per far saltare la democrazia, sarebbe veramente troppo meschino. Non ci crederebbe nessuno».
Cosa dice a quella fetta del suo partito che non vuole?
«Di avere coraggio perché siamo a una vera svolta, c'è un nuovo governo, metà sono donne». Il voto segreto potrebbe aiutare gli indecisi? «So che molti colleghi si chiudono a riccio. Li capisco: se con la parità di genere scompare anche il Senato, i posti in Parlamento diminuiscono e di parecchio. Ma sono sicura che molti di loro voteranno per questa norma semplicemente perché è giusto».
Crede che il premier Renzi appoggerà questi emendamenti?
«Un leader che produce innovazione, un leader di cambiamento non può che volere innovazione nelle regole. E aprire alle donne. Cosa che lui ha fatto con il governo».
Cosa vorrebbe dire al ministro Boschi?
«È un passaggio difficile per tutti, soprattutto per lei che deve cercare di rappresentare il governo e quindi le intese raggiunte. Vorrei dirle però che se uniamo le forze, ce la possiamo fare a raggiungere insieme quel traguardo ».
Un’altra diffusa obiezione è che la parità di genere, quella vera, potrebbe creare problemi nella formazione delle liste specie al Sud. Cosa risponde?
«Anche al Nord, se è per questo. Dico che non è vero. Non è vero che mancano talenti femminili a cui affidare la politica. La società italiana vive della ricchezza delle donne».
Si temono parenti e amiche usate come specchietto per le allodole.
«Questo è un altro grande tema, quello dell’autonomia e dell’indipendenza delle donne. Dico che succede anche con gli uomini, i prestanome sono di ambo i sessi. Però bisogna cominciare. E rischiare. E bisogna farlo adesso perché è arrivato il momento della restituzione. Le donne sono quelle che hanno pagato di più la crisi, sociale, morale e di democrazia».
Ottimista?
«Non è facile. So però che i diritti vanno sempre riconquistati».

il Fatto 7.3.14
Italicum, Forza Italia blocca le quote rosa. E il Pd si spacca sul no alle preferenze
qui

La Stampa 7.3.14
Quote rosa, Bindi avvisa Renzi: “Impegno da mantenere o voto no”
“Mai stata una femminista ma difendo i valori del partito”
intervista di Francesca Schianchi

«Io non sono mai stata una femminista, quindi sono veramente al di sopra di ogni sospetto, ma la parità di genere sta nella Costituzione e nel Dna del Pd, non ci si può rinunciare». Rosy Bindi esce dall’Aula della Camera solo pochi minuti, tra un voto e l’altro. Abbastanza però per manifestare la sua preoccupazione riguardo alla legge elettorale, in particolare sul tema della rappresentanza femminile: se non ci sarà, la combattiva deputata Pd, ex presidente del partito, oggi presidente della Commissione antimafia, potrebbe anche non votare la legge, «mi prendo l’8 marzo, Festa della donna, per riflettere».
Sulla parità di genere andrete avanti, anche se non fa parte dell’accordo stretto tra forze politiche? 
«Noi donne del Pd non arretreremo. Una legge approvata il giorno prima o il giorno dopo la Festa della donna non può fare passi indietro rispetto al dettato della Costituzione, e noi come Pd non possiamo arretrare rispetto al nostro Statuto ma anche alla nostra prassi, noi che abbiamo portato il 40% delle donne in Parlamento. Già questa legge ha molti limiti, ritengo anche qualche profilo di incostituzionalità, ci manca solo questa».
Addirittura qualche profilo di incostituzionalità? 
«Nelle soglie di sbarramento, sia per i partiti che corrono soli che per quelli che si coalizzano. Si rischia di lasciare più di tre milioni di cittadini senza rappresentanza, e non ce lo possiamo permettere. E neanche le liste bloccate, che sono nella percezione popolare l’essenza del Porcellum. La parità di genere sarebbe un modo per correggere almeno in parte le liste bloccate, temperando il potere di scelta nelle mani dei partiti».
Il segretario e premier Renzi vi ha ascoltate? È lui stesso a dirsi orgoglioso del suo governo per metà di donne… 
«Anche se poi la scelta dei sottosegretari è andata in un altro modo… Ma certo un presidente del Consiglio con un governo così femminile non può farsi imporre un accordo che nega la parità di genere! Se il Pd sarà compatto nel voto, con l’aiuto di qualche altra forza politica, si può ottenere il risultato».
Ma se il governo dovesse dare parere contrario? Come fate a votare a favore? 
«Il Pd, che è il principale partito che sostiene questo governo, deve chiedere che su questo punto si mantenga fede ai principi costituzionali e alla nostra prassi».
Col rischio di far saltare l’accordo con Forza Italia? Il portavoce della segreteria, Guerini, ha ricordato che per fare modifiche ci vuole il consenso di tutti quelli che hanno sottoscritto l’accordo… 
«Mi chiedo come farà il Pd a presentarsi agli elettori nel giorno della Festa della donna dopo aver ceduto a questo ricatto di Berlusconi».
Se si arrivasse al voto finale della legge e la parità di genere non ci sarà, la voterà? 
«Se non c’è da parte del Pd un impegno a modificare questo punto, mi prendo l’8 marzo, Festa della donna, per riflettere su come comportarmi».  arlare a casaccio rischi di fare confusione, creare caos, di non capire più nulla“.

Repubblica 7.3.14
Sugli impresentabili due pesi e due misure
di Chiara Saraceno

Gli indagati del Pd sono meno impresentabili di quelli degli altri partiti? La giusta indignazione nei confronti del senatore Gentile, che ha portato quest’ultimo a dimettersi da sottosegretario, nel caso della Barracciu diventa nel migliore dei casi un flebile mugugno. E difesa strenua, piena di distinguo, da parte del suo partito, appunto il Pd.
Non credo che si tratti di un eccesso di politically correct, per evitare di essere accusati di colpire una donna perché donna. I commenti sulle ministre, le loro caratteristiche fisiche, il loro abbigliamento, le loro gravidanze si sono infatti sprecati in questi giorni, così come i dubbi sulle loro competenze –mediamente non eccelse, ma in modo non dissimile a quelle di molti loro colleghi maschi. Non mi sembra proprio che ci siano queste remore nel nostro dibattito pubblico, al contrario.
Allora, perché? Quanto imputato a Gentile è un attacco inaccettabile alla libertà di stampa, fatto con metodi allusivamente mafiosi. Per molto meno, aver chiesto aggressivamente, senza successo, ad un direttore di giornale amico di non pubblicare notizie su un presunto scambio di favori (da cui per altro è poi stato assolto), in Germania dovette dimettersi il presidente della Repubblica, non un qualunque sottosegretario di fresca nomina.
Ma ciò di cui è imputata formalmente Francesca Barracciu non è meno grave, in quanto attiene all’uso privato di fondi pubblici, abuso di posizione, tradimento della fiducia di chi la ha eletta. Barracciu, infatti, come ex consigliere regionale del Pd, è sotto inchiesta per peculato, nell'ambito dell'indagine della procura di Cagliari sulle spese dei fondi assegnati ai gruppi consiliari. Le viene imputato di aver speso circa 33 mila euro per i propri consumi personali, per nulla attinenti al suo ruolo di consigliera. Come sappiamo dalle cronache, è un reato molto diffuso tra i politici, specie a livello locale. Ma non per questo meno grave. Proprio la scoperta della sua capillare e trasversale diffusione è una delle cause della disaffezione e sfiducia neiconfronti della politica e dei politici contro cui Renzi dichiara di voler combattere.
Barracciu si dichiara innocente e forse lo è. Rimaniamo in attesa del giudizio della magistratura. Ma è davvero inaccettabile che un presidente del Consiglio che ha preso la guida del governo in nome di una svolta radicale anche nella selezione del personale politico, abbia deciso di offrire un sottosegretariato ad una persona sotto giudizio penale, per giunta per un reato connesso ad un abuso di posizione politica. Di più, questa offerta sembra assumere i tratti di una sorta di compensazione. Barracciu, infatti, era stata esclusa dal suo partito dalla candidatura per la presidenza della Regione sarda, dopo aver vinto le primarie, proprio perché aveva ricevuto l’avviso di garanzia. Con bella franchezza, ora qualcuno che difende la scelta di nominarla sottosegretario suggerisce che è un modo per rimetterla in pista in politica, dopo che era stata (molto temporaneamente) messa ai margini.
Si ritiene, evidentemente, che i cittadini italiani, siano più di bocca buona di quelli sardi. Tanto più che i sottosegretariati si decidono nelle segrete stanze dove si distilla il manuale Cencelli, non con il voto degli elettori. Rimane il mistero di questa mossa un po’ masochistica da parte di Renzi e del suo partito e della necessità di andare fuori dal Parlamento a cercare un sottosegretario.
Quali imperdibili competenze avrà mai sulle materie dei beni culturali e del turismo da fare superare l’imbarazzo di acquisire al governo un’indagata? Aveva detto bene a suo tempo Renzi, quando ancora correva da premier: «Idem (la ministra delle pari opportunità che si dimise, pur malvolentieri e sotto pressione del Pd e del presidente Letta per una questione di Imu non pagata), un’altra classe». Allora Renzi contrapponeva Idem a Cancellieri. Oggi bisognerebbe contrapporre non solo Idem a Barracciu, ma Letta a Renzi e il Pd di allora (che per altro difese la ben più potente Cancellieri) al Pd di adesso, che sospira di sollievo per le dimissioni di Gentile ma fa finta di ignorare il problema in casa sua.

il Fatto 7.3.14
Boschi, l’insostenibile leggerezza del governo
Per il ministro critiche sui sottosegretari indagati e riforme ferme al palo
di Carlo Tecce

Camera dei deputati, banchi di governo. Graziano Delrio, trafelato, fa un movimento verso sinistra con la mano appiccicata al mento per scongiurare letture di labiali. I centristi Gregorio Gitti e Andrea Romano s’affacciano con la premura dei pensionati al mercato Vucciria che assistono al traffico di spigole e branzini. Il sottosegretario Silvia Velo guarda oltre l’emiciclo in tenuta da sommossa. E Denis Verdini aspetta con impazienza verdiniana un incontro. Col tacco dodici, perfetta anche la rivestitura in giaguaro oppure con le più comode ballerine, che assicura di custodire in borsetta, il ministro Maria Elena Boschi sperava di essere altrove. O di manovrare con algida sicurezza l’orchestra parlamentare, che non funziona, che s’accapiglia, che stecca brutalmente: l’Italicum è pura cacofonia. E ancora risuona la proclamazione di una particolare immunità boschiana per Francesca Barracciu e colleghi, annunciata e recitata in aula con un vestito rosa svenimento che contrastava il blu elettrico selezionato per il giuramento al Quirinale: “Il governo non chiede le dimissioni per un avviso di garanzia”.
MA LE GARANZIE di Maria Elena, toscana di Laterina (Arezzo), avvocato di Firenze che sosteneva l’avversario di Matteo Renzi al giro di primarie di cinque anni fa, non le tutela nessuno. E per non galleggiare come le favorite di un Capo malamente galleggiano, per opportunità o casualità, la Boschi ha scelto un ufficio tra Largo Chigi e via del Corso, sopra la galleria posticcia che porta il nome di Alberto Sordi. Fisicamente e plasticamente lontana dal palazzo di governo che Renzi ha trasformato in residenza privata (al terzo piano) e in studio di rappresentanza (al primo), sorvegliato da Luca Lotti che s’è appoggiato nello stanzone di fronte, mentre Delrio ha preferito la scrivania che fu di Filippo Patroni Griffi. Il ministro che deve cucire e ricucire il Parlamento, curare i rapporti istituzionali e spingere le Riforme non vuole passare per la renziana che sfrutta l’abbrivio di un Capo che promuove e retrocede con fretta a volte cieca. E se fosse costretta a comporre un motto, direbbe: “Io non ho una smisurata ambizione”. Per adesso, l’incarico è smisurato. Fa schermo di governo contro le richieste di Cinque Stelle e pezzi democratici che pretendono la cacciata dei sottosegretari indagati e il pateracchio per l’Italicum che non è patria neanche per le quote di genere (o rosa). Placa l’irrequieto Renato Brunetta che invoca chiarimenti da palazzo Chigi per sapere se l’economia sta collassando in maniera estemporanea o le ramanzine europee sono un punto di programma. E la Boschi, simbolo di un esecutivo messo insieme fra amichetti e lottizzati, reagisce con prontezza: “Sui conti pubblici riferiremo presto”. E va bene, anzi male che la legge elettorale doveva già essere licenziata; le cose s’aggrovigliano o le cose, povero Renzi, non sono concrete. Poi finisce, e finisce spesso così, che ti capita di dover sopportare un faccia a faccia con Verdini, che non lo smuove neppure il Cavaliere, e il massimo di comprensione è la comune accentatura toscana delle consonanti palatali. L’avvocato Boschi, già madonna nel presepe vivente al paesino, che per investitura di Renzi sindaco s’è occupata di acque pubbliche, tocca la macchina burocratica con leggerezza, quasi con neutralità. E s’affida, a sorpresa, all’ex consigliere di Gaetano Quagliariello, il dottor Cristiano Ceresani, che ha celebrato a Montecitorio l’evento, alla mitologica buvette che scongela e inforna squisite sfogliatelle. La secchiona Boschi, la definizione è dei renziani più ortodossi, ha chiesto un capo di gabinetto che provenga dal Parlamento. E sta per accettare la candidatura di Roberto Cerreto, romano di nascita con studi alla Normale a Pisa, già assistente legislativo di Letta nipote, apparso in streaming nelle consultazioni di Enrico con il Movimento Cinque Stelle. Riservata, quasi da agorafobia, non nega di aver apprezzato l’imitazione di Virginia Raffaele a Ballarò: ammaliante, assai sfuggente, un po’ improvvisata, molto Maria Elena Boschi.

il Fatto 7.3.14
Libération
“Renzi s’è piegato alle correnti E ha sbagliato”
di Beatrice Borromeo

Non è solo l’Inghilterra, dove i ministri si ritirano perché la colf non è in regola, a sottolineare l’anomalia italiana. In Francia, racconta il corrispondente da Roma di Libération, Eric Jozsef, c’è una legge non scritta: “Risale all’inizio degli anni ‘90, da quando sono emersi vari scandali, tra cui quello dell’ex deputato Bernard Tapie. È una regola introdotta dai socialisti e mantenuta poi da quasi tutti i governi, anche di destra: quando un ministro o un sottosegretario viene raggiunto da un avviso di garanzia, semplicemente, si deve dimettere.
Il ministro Boschi invoca a gran voce la presunzione d’innocenza.
Non sono pochi i politici che hanno lasciato e sono stati poi scagionati. In Italia poi il problema è ancora più pronunciato, perché i tempi della giustizia sono molto lunghi. Ma ammettiamo che Renzi - invece di adottare la regola più normale, cioè di mandare a casa queste persone - scelga una linea politica più garantista, analizzando i singoli casi. A quel punto deve affrontare un nodo politico.
Quale?
Perché il sottosegretario Antonio Gentile se ne va e gli inquisiti del Pd no? Il Nuovo centro destra dovrebbe trarne le conseguenze. E poi c’è un aspetto anche più delicato: non era Renzi a insistere, quando il premier era Letta, sul fatto che chiunque ha un problema con la giustizia o adotta comportamenti non opportuni deve mollare la poltrona?
È sorpreso?
L’aspetto inquietante è che queste persone, nel momento della nomina, erano già inquisite. L’intransigente linea francese colpisce quei politici che vengono raggiunti da avvisi di garanzia dopo aver assunto l’incarico, non prima. In questo caso li hanno scelti deliberatamente, pur sapendo che sono sotto inchiesta. Lo trovo perlomeno curioso.
Per i renziani Francesca Barracciu non era candidabile in Sardegna perché accusata di peculato aggravato, ma nessuno ha obiettato quando è sbarcata ai Beni Culturali. Qual è la logica?
Il fatto è che questo governo, così come il suo premier, è afflitto da un grave problema di coerenza politica. In un Paese come l’Italia, tra i più corrotti in Europa, ci si aspettava un esecutivo ineccepibile. Soprattutto considerando che Renzi pretende di presentarsi come un grande rinnovatore.
“A noi il compito di ridare credibilità alla politica”, cinguettava.
Infatti quello che sta lanciando non è un bel messaggio. D’altronde aveva già smentito se stesso annunciando il voto nel 2015. Ora parla del 2018. Giurava anche che non avrebbe pugnalato Letta e l'ha fatto lo stesso.
La professoressa Carlassare ha fatto notare che il capo dello Stato, Giorgio Napolitano, avrebbe potuto impedire la nomina di sottosegretari sotto inchiesta. Invece il veto è caduto solo sul pm antimafia Nicola Gratteri.
Gratteri avrebbe rappresentato un messaggio molto forte, che avrebbe fatto credere a un vero impegno per il rinnovamento. E poi che bisogno c’era di nominare chi ha problemi giudiziari? Possibile che non ci fosse nessun candidato in quota Pd senza macchia e senza ombre?
E perchè, secondo lei, Renzi si è piegato?
Per motivi interni al partito, per accontentare varie correnti e per rispettare gli equilibri territoriali. Per le pressioni. Renzi ha cercato di soddisfare un po' tutti: non penso, per esempio, che volesse nominare Gentile, ma ha dovuto farlo. Proprio come è accaduto a Letta, costretto a virare su sottosegretari imbarazzanti. Insomma, è la solita, vecchia politica. Sempre quella.

il Fatto 7.3.14
Süddeutsche Zeitung
“Da noi i cittadini sono più severi con i politici”
di Alessio Schiesari

Meno male che Renzi aveva promesso una politica nuova. A me questa sembra una storia vecchia”. C’è tutta la severità di chi non è abituato ad avere a che fare con certi problemi nelle parole di Andrea Bachstein, corrispondente del quotidiano tedesco Süddeutsche Zeitung da Roma. È in Italia da quattro anni, ma ancora non riesce a capire “come sia possibile che un politico inquisito non si dimetta subito”.
Un ministro e quattro nuovi sottosegretari sono indagati. Che effetto fa su uno straniero una situazione simile?
Mi stupisco ancora. Da noi certe cose sono inconcepibili. Le faccio un esempio recente: il ministro dell’Agricoltura, ed ex ministro dell’Interno , Hans-Peter Friedrich si è appena dimesso. È accusato di avere violato il segreto d’ufficio fornendo informazioni su un’indagine al partito avversario, l’Spd. Era il periodo della Grosse Koalition e l’ha fatto per impedire che al politico inquisito fosse assegnato un incarico. Eppure, quando è emerso che aveva violato la legge si è dimesso immediatamente. Certi errori non si possono fare, altrimenti ne soffre tutto il governo.
Ti sei fatta un’idea del perché in Italia non funzioni così?
La cultura qui è molto diversa. Il caso più clamoroso è quello di Silvio Berlusconi: nonostante tutto – i processi e gli scandali – lui è rimasto sempre, sempre, sempre (lo ripete tre volte, ndr) attaccato al suo ruolo. Non so come spiegarlo ai miei connazionali, da noi i cittadini sono più severi con i politici. Non serve nemmeno un processo, basta un comportamento a rischio per perdere la fiducia.
Qui il ministro ai Rapporti con il Parlamento, Maria Elena Boschi, ha detto che essere inquisiti non è una ragione sufficiente per venire esclusi dal governo.
Invece certe cose vanno chiarite prima di ricevere un incarico. Chi non è completamente a posto va escluso. Al contrario qui è pieno di politici sotto processo. Magari non sono tutti colpevoli, ma non è questo punto. Vanno esclusi comunque.
Se lo aspettava dal rottamatore?
No, questo è un brutto incidente per Matteo Renzi. Non doveva succedere. Ha promesso che avrebbe guidato un governo nuovo, composto da uomini e valori diversi da quelli della vecchia politica. Non mi sembra sia così. Ho sentito ministri dire “io non mi dimetto perché so fare bene il mio lavoro”. Sarà anche vero, ma un’indagine rimane comunque un’indagine.
Cosa si fa in Germania in questi casi?
Si salta un giro: prima ti fai processare, poi fai il ministro. Certo, va detto che i tempi della giustizia in Italia non aiutano. In Germania sono molto più rapidi e questo è un enorme vantaggio per i cittadini, che hanno diritto di sapere in fretta se votano una persona onesta o no.
Quali sono gli effetti del malcostume sul rapporto tra eletti ed elettori?
Qui ho trovato tanta gente che ha perso ogni fiducia e ora è arrabbiata. In pochi credono ancora che la politica possa cambiare. In realtà un miglioramento, rispetto a qualche anno fa, credo ci sia stato, ma poi basta uno scandalo come quello dei rimborsi nelle Regioni per rovinare tutto. Che personale mediocre, per non dire di peggio .
E infatti tre sottosegretari (Umberto Del Basso De Caro, Francesca Barracciu e Vito de Filippo) sono indagati per vicende di peculato mentre ricoprivano incarichi in Regione.
Questa è una cosa orribile. Chi è coinvolto in questi scandali per principio non dovrebbe avere la possibilità di fare politica. Qui invece fanno perfino il salto dalla Regione al governo. Il Movimento 5 Stelle ha provato a risolvere il problema candidando solo persone senza esperienza politica, ma questo crea un problema di competenze. Per migliorare le cose basterebbe così poco, basterebbe un po’ di prudenza.

il Fatto 7.3.14
Lorenza Carlassare La Costituzione lo prevede
“Mancano disciplina e onore. Il Quirinale doveva fermali”
di Antonella Mascali

Professoressa Lorenza Carlassare, la ministra per i rapporti con il Parlamento, Maria Elena Boschi, rispondendo a un’interrogazione di M5s sulla sottosegretaria Francesca Barracciu, indagata, come altri 3 suoi colleghi, ha risposto che “Il governo non chiede le dimissioni di ministri e sottosegretari sulla base di un avviso di garanzia. Abbiamo giurato sulla Costituzione, che contempla il principio fondamentale della presunzione di innocenza”.
È d’accordo?
Assolutamente no. Francamente lascia esterrefatti sentire quelle parole, soprattutto provenienti da un governo che pretendeva di porsi come un fatto nuovo, che rompeva con il passato. Il modo nuovo era quello di assicurare le richieste dell’opinione pubblica per un ritorno di un’etica nella gestione della cosa pubblica. La ministra confonde due piani: la responsabilità penale e l’affidabilità nell’amministrazione della cosa pubblica sono cose diverse. Io mi rifaccio a un articolo della costituzione, il 54 secondo il quale “I cittadini cui sono affidate funzioni pubbliche hanno il dovere di adempierle con disciplina e onore”. Io sottolineerei il verbo affidare, dal latino fides. Affidiamo il nostro futuro, mettiamo nelle loro mani la nostra esistenza e, dunque, devono essere affidabili. Con questo non voglio dire che un’indagine non possa finire nel nulla, ma chi è indagato, apriori non lo ritengo affidabile se deve ricoprire un incarico pubblico.
Il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano avrebbe potuto riferirsi proprio all’articolo 54 per esprimere critiche rispetto alla nomina di indagati a sottosegretari?
A mio avviso certamente sì, la nomina dovrebbe essere fermata prima che diventi effettiva. Ritengo che sarebbe stato opportuno facesse qualche obiezione, augurandomi che l’autorevole intervento del presidente avrebbe indotto il governo a ripensare e a sostituire discutibili nomi.
Il presidente Napolitano se avesse espresso critiche avrebbe potuto essere accusato di ingerenza?
Il capo dello Stato non può interferire nella formazione del governo né esprimere opinioni personali in merito alla scelta di ministri o di altri componenti del governo: è una scelta puramente politica che corrisponde all’indirizzo politico del governo sul quale il capo dello Stato non può avere voce in capitolo. politica perché non può interferire in alcun modo. Ma diverso è il caso di obiezioni che lui muovesse sulla base delle sue funzioni di garanzia, qualora le motivasse con il richiamo a precisi principi costituzionali. E torno a rievocare l’articolo 54 perché rappresenta una obiettiva giustificazione di un intervento presidenziale che non avrebbe nulla di scorretto, anzi sarebbe costituzionalmente opportuno.
Ci sono precedenti?
Certamente, il discorso è pacifico. Penso, ad esempio a Giuliano Amato, che ricorda di aver deciso con il presidente della Repubblica, durante la formazione del suo governo nel 1992 di escludere “tutti coloro per i quali vi erano, sia pure allo stadio più preliminare, indagini giudiziarie in corso”. Mi viene anche in mente l’ex capo dello Stato Carlo Azeglio Ciampi che è intervenuto nella formazione del secondo governo Berlusconi, per non nominare ministro della Giustizia l’indagato Roberto Maroni. E al suo posto venne chiamato Roberto Castelli.

il Fatto 7.3.14
I Cinque Stelle depositano sfiducia sulla Barracciu

IL MOVIMENTO 5 STELLE ha depositato con prima firmataria la portavoce sarda Manuela Serra la mozione per rimuovere dall’incarico il sottosegretario alla Cultura Francesca Barracciu indagata per peculato aggravato. Intervenendo nell’aula del Senato, Serra ha ricordato che “ieri il ministro Maria Elena Boschi ha dichiarato: ’Non è intenzione di questo governo chiedere dimissioni di ministri o sottosegretari sulla base di un avviso di garanzia, ma eventualmente per motivi di opportunità politica’. Chiedo a lei cosa sia l’opportunità politica? Per noi del Movimento 5 Stelle l’opportunità politica è garantire al cittadino che chi amministra la cosa pubblica abbia una reputazione integra. È dunque opportuno politicamente affidare incarichi pubblici a persone che un ordine dello Stato com’è quello giudiziario annovera come potenziali colpevoli di un reato?”, ha sottolineato. “Siamo al paradosso : il governatore sardo Pigliaru non ha voluto indagati in giunta, mentre invece il governo Renzi si è richiamato, con evidente ipocrisia e lampante ‘doppiopesismo’ alla presunzione di innocenza”. Per questo i Cinque Stelle hanno presentato la prima sfiducia (individuale) al governo Renzi.

il Fatto 7.3.14
Inchiesta de L’Espresso
“Il compagno della Guidi ha finanziato Renzi”
di Sara Nicoli

Il ministro Federica Guidi ha conflitti d’interesse? La domanda risuona dal giorno della sua nomina allo Sviluppo economico, ministero chiave anche in vista delle prossime nomine nelle partecipate di Stato (Eni, Enel, Terna, ecc...), ma ieri l’Autorità garante della concorrenza e del mercato ha sciolto il dubbio sostenendo che no, la Guidi non ha conflitti in essere visto che si è dimessa, subito dopo la sua nomina, da tutte le cariche aziendali e dagli incarichi ricoperti. Poi, però, è arrivato l’Espresso e il refrain del conflitto è tornato a risuonare dalle parti di viale America. Già, perché la famiglia Guidi, sostiene il settimanale, sarebbe legata da almeno 20 anni con un finanziere amico intimo e sponsor del premier Matteo Renzi, Vincenzo Manes. Questione di scambi azionari, operazioni immobiliari, alleanze industriali e anche di nomine pubbliche. Manes (che il padre della ministra, Guidalberto, ha rivendicato come suo amico personale da una vita) è presidente e socio di controllo del gruppo Intek. “Il rapporto tra il finanziere e la famiglia del ministro dello Sviluppo economico – si legge sull’Espresso – risale addirittura al ’94, quando il capo di Intek rilevò il 37,5 per cento dell’azienda bolognese dove Federica Guidi ha lavorato fino a pochi giorni fa alle dipendenze del padre Guidalberto. I Guidi si sono ricomprati quella quota nell’ottobre del 2011, ma restano legati a Manes”. “A parte gli ottimi rapporti personali, la Ducati paga l’affitto al gruppo Intek, proprietario dell’immobile di Borgo Panigale dove si trovano fabbrica e uffici dell’azienda. Inoltre l’amico di Renzi è ancora creditore della famiglia per un milione”. Con Renzi, Manes avrebbe un rapporto che si è poi consolidato dentro la Fondazione Open che fa sempre capo al premier, oltre a essere approdato, nel 2010, alla presidenza dell’Aeroporto di Firenze, dove è rimasto per i successivi tre anni, eletto in consiglio su indicazione della giunta Renzi”. “I Guidi invece – conclude l’articolo subito trovato un nuovo alleato; uscita di scena Intek, nel capitale di Ducati è entrata a fine 2012 la finanziaria pubblica Simest sborsando 8 milioni per il 15 per cento del capitale. Solo un anno prima Manes si era accontentato di 3,8 milioni in cambio della sua quota del 37,5 per cento”. Insomma, legami davvero intricati che la dicono lunga sul perché la Guidi è arrivata sulla poltrona più alta del Mise. Inoltre c’è la frequentazione di Arcore, che non è mai stata negata dal ministro, ha solo detto di “non essere stata a cena” a casa di Berlusconi la sera prima della nomina, mentre non è stata smentita la frase che avrebbe pronunciato il Cavaliere alla notizia dell’investitura ufficiale della Guidi: “Abbiamo un ministro!”. Parole di giubilo dettate da semplice amicizia personale? Non proprio. Nelle mani della Guidi, infatti, potrebbe restare una questione molto delicata, la Rai, che Renzi – a quanto si apprende – non vorrebbe mettere nelle mani del neo sottosegretario alle Comunicazioni, Antonello Giacomelli. La Guidi, insomma, si troverebbe a dover gestire, già a fine 2014/inizio 2015 la delicata, delicatissima partita del rinnovo della concessione tra tv pubblica e Stato, quella che garantisce l’introito principale alla Rai, ovvero il canone.

l’Unità 7.3.14
Il vero rischio che corre il Partito democratico
di Claudio Sardo

IL PARTITO DEMOCRATICO NON RISCHIA LA ROTTURA PER IL TIMORE DI QUALCUNO DI «MORIRESOCIALISTA» ORA CHE È APPRODATO UFFICIALMENTE NEL PARTITO SOCIALISTA EUROPEO. E neppure per il timore di qualcun altro di «morire democristiano» ora che Renzi ha conquistato Palazzo Chigi e sconfitto l’ultima generazione di dirigenti nata nel Pci. Sul piano identitario il Pd è più solido di quanto non pensino molti dei suoi stessi esponenti. Nasce dall’Ulivo, ma in realtà le sue radici affondano ancor prima nella storia repubblicana. È oggi il solo partito nazionale e, nel bene come nel male, così è percepito dai cittadini. Ha grandi responsabilità verso l’Italia: non può andare all’opposizione di se stesso. Costituisce l’albero maestro di qualunque ipotesi di sinistra, e le stesse componenti più radicali che si stanno radunando nella lista Tsipras non possono che guardare al Pd come interlocutore necessario se non vogliono scivolare nello spazio dell’alterità totale e anti-sistema ora saldamente presidiata da Grillo.
Ma il Pd non è affatto immune da rischi. Nell’impresa in cui si è gettato si gioca comunque l’osso del collo. Non è questo un ordinario tentativo di governo della crisi. Non c’è più nulla di ordinario con queste cifre di decrescita, con questa morìa di imprese, con questa sofferenza sociale, con questa domanda di lavoro che non trova risposte, con queste politiche sbagliate a Bruxelles. Siamo come in un dopoguerra. E l’opera di ricostruzione nazionale deve avere l’idea di un nuovo sviluppo, ma al tempo stesso anche una seria politica costituzionale per rianimare e riformare un sistema democratico vicino al collasso. Questa capacità guidò l’Italia dopo la Liberazione. Ecco, nella connessione tra ricostruzione economica, cambiamento in Europa e ricostruzione democratica, il Pd si gioca la sua stessa esistenza. E se non fosse capace di affrontare la questione democratica, che non è secondaria o sovrastrutturale rispetto ad ogni ipotesi di rilancio e di innovazione del Paese, il Pd potrebbe anche crollare. Siamo a un bivio. L’alternativa è se affrontare il governo della crisi costruendo un nuovo, vitale circuito democratico oppure se accettare la deriva leaderista e populista. Se rianimare, con partiti rinnovati, trasparenti, contendibili, il sistema parlamentare oppure assecondare la spinta anti-partitica e anti-parlamentare. Un Pd che rinunciasse alla sfida della democrazia perderebbe la ragione sociale. Non è vero che i tempi stretti ci impongono la scorciatoia autoritaria dell’uomo forte. È vero invece che è in atto già da tempo un trasferimento di poteri dalle istituzioni rappresentative ad entità esterne, cioè poteri finanziari, tecnocrazie, oligarchie, istituti internazionali. E che questo processo è esattamente una delle ragioni del nostro declino.
Le questioni istituzionali che il Parlamento sta affrontando non sono allora la ricreazione dei politologi e dei perditempo. Sono un pezzo decisivo del progetto di ricostruzione. Non solo il premier Renzi, ma l’intero Pd si sta giocando la faccia. La legge elettorale è una questione seria, che non può considerarsi conclusa per il solo fatto che Renzi e Berlusconi abbiano trovato un accordo di base. E non c’è soltanto la legge elettorale. La riforma del Senato e quella del Titolo V ridisegneranno la forma di Stato e di governo: il vuoto di contenuti che ancora oggi accompagna questi temi è preoccupante. Ma il compito della legislatura va ancora oltre. Bisogna costituzionalizzare i partiti, altrimenti la crisi di fiducia e di credibilità che li ha travolti nel ventennio passato, diventerà irreversibile. Bisogna attuare finalmente l’articolo 49. L’ha detto ieri molto bene il presidente del Senato Grasso: come si può pensare di affrontare un impegno costituente di questa portata senza garantire nei partiti - cioè negli strumenti veri della democrazia dei cittadini - la trasparenza dei bilanci, le regole di democrazia interna, la parità di genere, una legge sui conflitti di interessi, le incompatibilità, il divieto dei doppi e tripli incarichi? I partiti padronali e patrimoniali hanno distrutto le istituzioni e ci hanno spinto a ridosso di un presidenzialismo straccione, evocato ma non dichiarato.
O il Pd riuscirà a rompere questo schema, o non ce la farà neppure a rilanciare l’economia e la società. I leader servono - oggi ancora più di ieri - per affermare politiche, progetti di cambiamento, stagioni nuove. Ma non sono il surrogato della democrazia. Ne sono uno strumento. Ieri alla Camera è stata una giornata triste. L’Italicum (ancora in una versione simil-Porcellum) sta passando senza modifiche di sostanza. Una volta ridotta la validità della legge alla sola Camera, c’è un tacito accordo a riesaminare il merito in Senato. Persino l’emendamento sull’equilibrio di genere incontra pesanti veti. Addirittura è stata approvata la norma che consente ai partiti più forti della coalizione di «rubare» i voti dei partiti minori alleati che non superano lo sbarramento. Una simile mostruosità serve esattamente a confermare il bipolarismo coatto e le coalizioni lunghe, che nella «seconda Repubblica» sono state armi per demolire i partiti, per incentivare il trasformismo, per trasformare la politica in un teatrino di leader impotenti. Nel sostenere il governo, il Pd deve dare una nuova prospettiva al suo essere partito. Deve creare anche fuori da sé la convenienza a costruire partiti nuovi, ma democratici e autorevoli nelle istituzioni. Se si arrende, se rinuncia ad essere partito, ha già perso.

l’Unità 7.3.14
Minoranza Pd responsabile. Altri sono poco coerenti
di Giuseppe Lauricella

PARTIAMO DA UN DATO: IL TESTO-BASE DELL’ACCORDO CON FORZA ITALIA COSTITUIVA, SOTTO VARI PROFILI, UNO STRUMENTO NELLE MANI DI BERLUSCONI PER ELIMINARE LE MINORANZE ESTERNE ED INTERNE AI PARTITI MAGGIORI, SENZA, IN ALCUN MODO,RISOLVEREILPROBLEMA DELLA GOVERNABILITÀ. Proprio la governabilità costituisce - soprattutto dopo la sentenza n. 1/2014 della Corte costituzionale - un principio ineludibile per qualsiasi legge elettorale.
Fin dal primo atto, Matteo Renzi, da segretario del Pd, ha proposto, ottenendo il sostegno della direzione nazionale del Pd, un unico e coerente percorso di riforme, che andasse dalla legge elettorale alla revisione del bicameralismo, per giungere ad un bicameralismo differenziato, in cui una sola Camera (dei Deputati) accordi o revochi la fiducia al governo. Lo stesso progetto che, poi, diventa il primo punto del programma del governo Renzi.
Avremmo preferito, e lo abbiamo proposto, che, essendo venuta meno anche la «premura», atteso l’impegno di un governo di legislatura, si invertisse l’ordine dei fattori: prima il sistema bicamerale; poi, una legge elettorale coerente e, magari, migliore.
La minoranza del Pd, essendo rimasto invariato l’ordine, con senso di responsabilità e per un sistema coerente, ha assunto fin dalla prima Commissione, tramite l’emendamento che reca la mia prima firma, la posizione più logica e ragionevole: tenere legate la legge elettorale e la modifica del bicameralismo. Dunque, la legge elettorale avrebbe efficacia dall’entrata in vigore della legge costituzionale di modifica del bicameralismo.
D’altra parte, la legge elettorale prevista nel testo-base non avrebbe potuto funzionare così come è stata concepita, atteso che, sia alla Camera che al Senato, sarebbero risultate due maggioranze diverse, in ogni caso. L’effetto: un governo di larghe intese. Quindi nessuna governabilità ma uno strumento utile ad andare subito alle urne, con la probabilità che vincesse Forza Italia o che, al massimo, con Berlusconi avremmo dovuto condividere un governo di larghe intese. Un’operazione a somma zero, se è vero che con Forza Italia non intendiamo «più» governare.
Legare formalmente e per legge il sistema elettorale e la modifica del bicameralismo è una coerenza di sistema, inattaccabile sul piano della logica e della funzionalità, ma «disastroso» (secondo Brunetta) per chi vuole il voto subito ma non le riforme.
Pertanto, la soluzione accettata da Berlusconi rappresenta un male minore per Forza Italia: disciplina il sistema elettorale per la sola Camera dei Deputati, non lega formalmente, ma solo politicamente, legge elettorale e modifica del bicameralismo, lasciando aperta la possibilità tecnica di elezioni, seppur politicamente inconcepibile.
Su un dato non vi possono essere dubbi: se avessimo approvato il testo-base per Camera e Senato avremmo prodotto un’arma per Forza Italia, incostituzionale, ma pronta all’uso e avremmo certificato la fine di ogni revisione costituzionale.
La mediazione trovata rende più difficile la possibilità di andare ad elezioni e crea le condizioni per una possibile modifica del bicameralismo, cui legare la legge per la sola Camera. Altrimenti, tutti avremo fallito.
Non so quanti se ne siano accorti, ma esiste un emendamento «aggiuntivo» che ripropone la formalizzazione del legame tra legge elettorale e modifica del bicameralismo. Approvarlo renderebbe tutto il percorso sicuro e coerente. Ma la coerenza è un bene non comune.

Corriere 7.3.14
Caos primarie locali nel Pd
Ora Bonaccini azzarda: paletti per sedicenni e stranieri
di Francesco Alberti

MODENA — Una volta sono i cinesi (Napoli, gennaio 2011). Quella dopo, un cocktail tra albanesi, romeni e marocchini (Asti, ottobre 2013). Ora tocca ai filippini a Modena e di nuovo agli albanesi a Reggio Emilia. Poi dicono che la politica allontana: al contrario, attorno ai gazebo del Pd c’è anche troppa ressa, e veleni conseguenti, in certi giorni. Ci risiamo. Stesse dinamiche, identiche finalità: stranieri arruolati, pagati (a volte anche solo con un pranzo), muniti di scheda e spediti in massa al seggio (o in certi casi, non si sa mai, addirittura accompagnati) con l’ordine di votare un determinato candidato. Benedette e maledette primarie, che tanti elogi, recensioni ed emuli raccolgono all’estero. Olimpiadi della democrazia, pregevole e faticoso sforzo di fare della partecipazione l’ossatura di una politica vicina al cittadino, questo strumento voluto anni fa da gente come Prodi, Veltroni e Parisi non smette di riservare al Pd gioie e dolori, indubbi successi e sincere mobilitazioni di massa, ma anche cadute rovinose (l’ombra della manina della camorra con tanto di indagini della Dda su quelle di Napoli nel 2011 o l’annullamento in Sicilia nel gennaio 2013 della candidatura al Senato di Vladimiro Crisafulli, detto Mirello, per presunte quanto dubbie frequentazioni e un processo finito in prescrizione).
Stavolta, poi, a rendere il tormento democrat ancora più acuto contribuisce la scena del delitto: Modena e Reggio Emilia, profonda Emilia ex rossa, vetrine un po’ appannate, ma pur sempre serbatoio di tessere e modello di efficienza. In entrambe le città, celebrate le primarie per i candidati sindaci alle prossime amministrative, la situazione è degenerata in rissa. Sotto la Ghirlandina in particolare volano stracci, tra esposti e contro-esposti ai garanti pd, accuse di aver arruolato a pagamento truppe di filippini e un boom di votanti nel seggio riservato agli stranieri che oscilla attorno al 300 per cento, lasciando tutti di stucco. L’ennesimo pasticcio. Non certo una medaglia per il nuovo corso renziano. Stavolta però ai piani alti del Pd pare siano intenzionati a correre ai ripari. A dar voce a quello che per ora è solo «un invito alla riflessione», ma che presto potrebbe portare a una modifica dei criteri coi quali scegliere la platea dei votanti alle primarie, è uno dei renziani in prima fila, Stefano Bonaccini, 46 anni, segretario del Pd emiliano romagnolo, responsabile nazionale Enti locali. Che afferma: «Premesso che mi batto da tempo affinché possa esserci una legge che permetta il diritto di voto amministrativo a tutti i cittadini extracomunitari residenti da almeno 5 anni in Italia, nell’attesa che ciò presto diventi realtà, mi chiedo, anche alla luce delle contestazioni che rischiano di gettare discredito sul Pd e sui tanti immigrati che vanno ai gazebo correttamente, se sia giusto o meno che le platee elettorali che selezionano un candidato a sindaco (le primarie, ndr.) e quelle che effettivamente poi lo possono votare (alle amministrative, ndr.), non debbano coincidere». Tradotto in soldoni: vale la pena, nel segno di una partecipazione al voto sempre più ampia, continuare ad esporre il partito a botte d’immagine come Napoli e ora Modena o non è invece preferibile escludere dalle primarie extracomunitari (ma pure i sedicenni, ora ammessi) in attesa di una legge nazionale? Tema scottante. Intanto a Modena la renziana sconfitta alle primarie, Francesca Maletti, 47 anni, assessore comunale al welfare, e il suo vittorioso rivale, Giancarlo Muzzarelli, 55 anni, assessore regionale, si sono affrontati ieri sera di fronte ai garanti. È finita con un nulla di fatto. «Non sono state riscontrate irregolarità» ha sentenziato la commissione comunale. Pure a Reggio, dove nel mirino è finito l’ex assessore Franco Corradini, 54 anni, uscito sconfitto dalle primarie (qui la Procura ha aperto un’indagine conoscitiva), l’esito delle consultazioni non cambierà. Restano i lividi addosso al Pd. E molto da aggiustare.

l’Unità 7.3.14
Moni Ovadia
«Non capisco le polemiche Io non faccio come Berlusconi, lo dico prima.
Non c’è raggiro: voglio far capire all’elettore quanto tengo alla lista Tsipras»
«Se eletto lascio il seggio ad altri, dov’è il problema?»
di Rachele Gonnelli

Moni Ovadia si candida alle europee, è in testa di lista nel collegio del Nord Ovest sotto il logo «L’Altra Europa per Tsipras». Però, c’è un però. Il teatrante Moni così come la giornalista Barbara Spinelli e lo storico Adriano Prosperi, tre dei più nomi della lista Tsipras, hanno già comunicato che non hanno alcuna intenzione, anche se eletti, di lasciare i rispettivi lavori per un seggio.
Non le sembra in questo modo di ingannare glie lettori che voteranno per lei e si troveranno un altro o un’altra a rappresentarli? 
«Chiariamo subito che io non ho chiesto di candidarmi, mentre ho aderito subito e con grande entusiasmo al progetto della lista Tsipras. Non mi dispiace Martin Schulz ma sono un uomo di sinistra-sinistra, il Pd non lo è, mentre Syriza è un’esperienza sconcertante: un partito di sinistra arrivato alla maggioranza relativa che in Grecia si oppone alle politiche di austerità ma non all’Europa. A un’Europa dei cittadini, per la giustizia sociale, che metta al centro l’uomo e non l’economia della finanza. Una scelta nitida, che guarda al futuro, bellissimo. Quando i garanti, che sono tutte persone che stimo tantissimo, mi hanno chiamato, dicendomi che sarebbe stato importante che mi candidassi, che avrebbe rafforzato la lista, mi sono messo a disposizione. Se i militanti non lo ritengono opportuno non ho alcun problema a ritirare il mio nome. Per me è solo una corvée, un sacrificio. Che interesse ho? Non la visibilità, ne ho fin troppa. Non mi interessa il potere, non la voglio una poltrona. Mi prendo solo la responsabilità piena del progetto. E poi avendolo detto prima chi non apprezza il mio gesto può non votarmi, scegliere un altro».
Però quando Berlusconi o Grillo si sono candidati in passato per poi far eleggere altri, questa pratica è stata duramente criticata. Anche da lei.
«Io e gli altri lo diciamo prima che non andremo, loro no. Non c’è raggiro, c’è trasparenza. Voglio farti capire, elettore, quanto ci tengo, che sostengo questa lista con tutto il cuore, se ti piaccio mi voti, se no non mi voti. Berlusconi o Grillo invece baravano, non lo chiarivano. Non ho mai avuto tessere di partito, non sono mai stato a libro paga di qualcuno, le mie scelte le ho sempre pagate care, non mi hanno mai dato una virgola di vantaggio. Sono un militante della sinistra, al massimo un attivista. Anni fa Mirabelli dei Ds mi chiese di candidarmi a Milano per l’Ulivo. Mi disse: aiutaci a mandar via la Moratti. Accettai ma poi i consigli comunali si svolgevano il lunedì e il giovedì e io ho una compagna teatrale, devo fare le turnée, da me dipendono gli stipendi degli altri. Dovetti lasciare. Tutti furono molto affettuosi, solo un giornale di destra mi schernì con un titolo, “prendi i voti e scappa”. Ripeto, per me è solo una rottura, lo faccio solo finché si ritiene utile. Ma non sono uno specchietto per le allodole».
Ci sono state già lamentele in questo senso?
«Su qualche blog qualcuno ha parlato dei “soliti intellettuali di sinistra”. Devo dire che Internet è una cosa meravigliosa ma magari prima di scrivere la prima cosa che gli passa per la testa certa gente dovrebbe chiedere, documentarsi, farsi delle domande. Perché lo fanno? Cosa gliene viene? Niente. Comunque l’altra sera a Milano ho partecipato a una iniziativa elettorale, c’era un sacco di gente e tutti dicevano: ci piace che stiano con noi le persone in cui crediamo».
Non tutte lodi, c’è anche chi vede la lista come un’accozzaglia di ceto politico e movimentisti di professione. Persino Rodotà non l’ha trovata esaltante.
«Abbiamo dovuto muoverci in fretta e un pochettino se ne risente. Ci saranno anche elementi un po’ così...ma sono pochi. C’è soprattutto un popolo della sinistra che tiene duro. Io non demonizzo Grillo, anzi, credo che gli dobbiamo della gratitudine per aver denunciato cose di cui nessuno parlava. Però non mi piacciono le sue modalità interne, la non condivisione, e alcuni suoi cavalli di battaglia come l’uscita dall’euro. Syriza è una forza politica seria e sobria con valori condivisibili».
C’è chi vi vede come sinistra “oltranzista, tradizionale, massimalista, accozzaglia di sigle e rissosità”.
«I veri estremisti sono i sedicenti moderati. Altrove può darsi che sia una virtù ma in Italia essere moderati è un vizio. La mafia occupa quattro regioni e la mafia è sempre stata moderata. La corruzione è in gran parte una pratica dei moderati. Non è la sinistra massimalista che ha portato allo sfascio questo Paese, è stato Berlusconi. Chi ci accusa, prima si guardi allo specchio».

Repubblica 7.3.14
Sel punta sul successo del leader greco di Syriza per condizionare il Pse: “Questo avrà riflessi anche sull’Italia”
Anche i vendoliani alla corte di Tsipras “Dopo il voto ricostruiamo la sinistra”
di Silvio Buzzanca

ROMA - «Sel entra nella lista Tsipras guardando all’Europa; non si può considerare questa operazione con una logica tutta di politica interna. Bisogna fuggire come la peste da una lettura reducistica, identitaria, pensare alla lista come una sommatoria di forze politiche ». Nicola Fratoianni, coordinatore di Sinistra, ecologia e libertà, spiega così le motivazioni che hanno portato i vendoliani ad appoggiare alle prossime europee la candidatura del leader greco di Syriza. E al momento più che al dopo, a cosa accadrà dopo il 25 maggio, Sel pensa a raccogliere le 150 mila firme per partecipare alle elezioni.
Perché adesso, chiuse le liste, l’obiettivo è farle le elezioni. All’insegna dello slogan “non meno Europa, ma più Europa”. dando però battaglia contro le politiche di austerità e rigore. È evidente, e si è visto anche nella formazione delle liste, che i problemi politici non mancano. E Fratoianni non lo nasconde quando invita gli altri partiti e movimenti «non avere riflessi identitari pur conservando la loro autonomia». E sul dopo 25 maggio dice di «non escludere che il risultato del voto possa diventare un elemento di riflessione per tutta la sinistra italiana». Ma oltre questo, al momento non si può andare: non ci sono sullo sfondo grandi operazioni di riaggregazione.
Però Sel qualcosa vuole ricostruire: il centrosinistra italiano. E il successo della lista Tsipras potrebbe servire anche a questo: creare una sinistra più forte, spostare l’asse delle politiche dei socialisti europei con dei riflessi sul Pd e sugli assetti italiani. «Perché - ricorda Fratoianni - dove il centrosinistra si presenta nella sua struttura “pura”, come in Sardegna, vince ».
Certo nel partito c’erano due linee differenti. Al recente congresso di Riccione ha vinto l’opzione Tsipras, ma nei mesi precedenti Vendola aveva puntato molto sull’affiliazione al Pse. Ma, spiega Fratoianni, quel progetto «è un processo fermo perché il Pse non ha dato risposte». Ma questo non vuol dire che Tsipras combatta contro il Pse e il suo candidato Schultz. Anzi molte delle cose che dice il candidato socialdemocratico sono condivise. Il problema è di incalzare lui e gli altri partiti socialisti per tagliare definitivamente con le politiche dell’austerità e del rigore.
Le due linee sono emerse anche durante la recente crisi di governo, quando alcuni dirigenti avrebbero voluto aprire una linea di credito verso il Pd. Ma alla fine Sel ha scelto l’opposizione e ha rinunciato al suo simbolo confluendo in quello di Tsipras, riducendo all’osso le presenze “ufficiali”. Al punto che Vendola mercoledì non era presente alla presentazione delle liste. Mentre Paolo Ferrero, leader di Rifondazione, la visibilità l’ha cercata. E questo non è piaciuto ai vendoliani.
Ma la rinuncia alla visibilità è un dato saliente di tutta l’operazione: su 73 candidati solo 14 hanno un evidente collegamento con Sel, Rifondazione o gli ambientalisti. Tutti gli altri sono uomini e donne della “società civile”. Scelta conseguente al fatto che le liste sono state fatte escludendo tutti coloro che hanno ricoperto cariche pubbliche negli ultimi 10 anni. Norma rigida che ha lasciato fuori Sonia Alfano, esponente dell’antimafia siciliana.

Corriere 7.3.14
Da Camilleri a Sonia Alfano, già una spaccatura per Tsipras
di Alessandra Arachi

ROMA — Il caso di Sonia Alfano farebbe la gioia di Pirandello: così è se vi pare. Ovvero: ha rifiutato lei di entrare nella lista Tsipras? O sono state le regole stesse della lista che le hanno impedito di candidarsi alle europee di maggio visto che prevedevano l’esclusione di persone già in carica? Non ci può più venire in soccorso uno che di letteratura se ne intende come se ne intende Andrea Camilleri: padre nobile della lista portata in Italia dal leader greco, infatti, da pochi giorni ha sbattuto la porta e se ne è tornato ai suoi libri. Presunto motivo: la candidatura dell’ex no global Luca Casarini.
«Credo che Camilleri, una delle persone migliori di questa lista, abbia avuto questioni con la candidatura di Luca Casarini», sostiene Sonia Alfano. Poi aggiunge: «Del resto neanche io non me la sono sentita di accostare il mio nome a quello di Luca Casarini, visto che da sempre la mia politica si basa sulla legalità, sulle lotte alla mafia, sul rispetto delle divise».
Luca Casarini è uno dei 73 nomi scelti dai garanti della lista per le prossime europee benedetta dal leader che in Grecia ha fatto spopolare la sinistra. «E adesso diventerà il facile bersaglio di tutte le polemiche», chiosa Curzio Maltese, giornalista diRepubblica, messo capolista in Lombardia ed entusiasta di questo progetto.
Dice Maltese: «Sul nome di Casarini, Camilleri ha avuto ragione a protestare, ma non per altro. Nella lista ci sono nomi eccellenti come testimoni di mafia, operai e come Antonia Battaglia che ha denunciato tutte le vicende dell’Ilva , ma adesso tutte le polemiche si concentreranno su questo unico nome. Questa lista ha tutte le potenzialità per recuperare tutti i voti di sinistra che non andranno più al Pd di Renzi, ma anche i tanti pentiti del Movimento 5 stelle».
Davvero Camilleri ha sbattuto la porta alla lista Tsipras per colpa dell’ex-no-global veneto Casarini? Così è se ci pare. In questo caso non ci può venire incontro nemmeno un altro grande della letteratura finito nella lista europea di ispirazioni greche: Ermanno Rea sarà capolista nella sua Napoli. «Questa storia di Camilleri l’ho capita solamente in parte», dice lo scrittore-giornalista. E poi spiega: «Quello che ho capito è che non si è trattato di un problema di carattere ideologico o politico, ma di una semplice incomprensione. Io alla lista Tsipras ho aderito perché mi sembrava una buona proposta, anche se ho chiarito e ricordato che ho 87 anni ed è la prima volta in assoluto che mi candido in qualche cosa di politico. Spero di portare fortuna».
Sul nome di Luca Casarini un’altra candidata della lista Tsipras (zona nord-ovest), Giuliana Sgrena, preferisce tagliare corto: «Le liste sono state gestite dai garanti. Io ci sono entrata perché ho trovato una piena identità di vedute».
E lui? Luca Casarini cosa dice di tutte queste polemiche? Sorride: «Che ci sia stata una discussione sul mio nome, non ne dubito. Ma io, per dirla con una battuta, mi auguro che il commissario Montalbano voglia arrestare i potenti e i mafiosi, non prendersela con chi come me tutte le sue condanne le avute per conflitti sociali a fianco di persone come Don Gallo a Genova o con gli zapatisti in Messico o con i palestinesi a difendere gli ospedali. Ho smesso di essere nei movimenti, ma lo rivendico come mio Dna».

Corriere 7.3.14
Vendola e la Versione Garantista (di se Stesso)
La questione morale sui sottosegretari e il garantismo ombelicale del leader Sel
di Marco Demarco

Vendola, come molti giustizialisti raggiunti dalla legge, coinvolti cioè in una inchiesta nella quale mai avrebbero pensato di entrare, finisce per rivelare una visione ombelicale della giustizia. E ombelicale è più che opportunistica.
Opportunista Vendola lo è quando usa due pesi e due misure, quando attraverso il suo partito chiede a Renzi le dimissioni dei quattro sottosegretari pd risultati indagati per vari reati e non le chiede a se stesso per la richiesta di rinvio a giudizio che lo riguarda.
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l’Unità 7.3.14
Ilva, chiesto il processo per 50. C’è anche Vendola
L’accusa per il governatore è di concussione aggravata per le pressioni sull’Arpa

Quando il 30 ottobre ha saputo con certezza di essere indagato per concussione aggravata, Nichi Vendola ha chiesto di deporre spontaneamente davanti al pool della Procura di Taranto. In quel momento era frastornato, sorpreso. L’interrogatorio, avvenuto in dicembre e durato sette ore all’interno di una caserma dei carabinieri, non ha però convinto i magistrati. Il presidente della Regione Puglia è tra le 50 persone, più tre società, per le quali il procuratore Franco Sebastio, l’aggiunto Pietro Argentino, e i sostituti Mariano Buccoliero, Giovanna Cannarile, Remo Epifani e Raffaele Graziano hanno chiesto il rinvio a giudizio per l’inchiesta «Ambiente svenduto». Al centro delle indagini c’è il disastro ambientale e sanitario prodotto dall’acciaieria Ilva a Taranto e la coltre oscura di una corruttela fatta di omissioni, compiacenze, corruzione, mazzette, delibere, atti amministrativi, mancati controlli, autorizzazioni scellerate, che ha coinvolto, oltre ai Riva, proprietari del siderurgico, tutti i livelli istituzionali: dal Comune alla Regione, dal ministero alle forze di polizia, dal clero all’Università. Di mezzo ci sono malati e morti, circa 30 l’anno ne ha calcolati la perizia della Procura. Nei corridoi della Regione il clima è tetro. Vendola si definisce «ferito, addolorato, triste». La concussione che i magistrati gli contestano riguarda le presunte minacce rivolte nell’estate del 2010 ai danni del direttore dell’Arpa, Giorgio Assennato, affinché non usasse i dati sullo sforamento dei limiti del benzo(a)pirene, micidiale cancerogeno emesso dalle cokerie Ilva, «come bombe carta». Vendola avrebbe agito in accordo i vertici aziendali, in particolare con il responsabile delle relazioni esterne, Girolamo Archinà (intercettato con Vendola nella celebre telefonata in cui il governatore pugliese rideva per lo «scatto felino» col quale aveva tolto un microfono a un giornalista intento a fare domande a Emilio Riva, il patron del gruppo siderurgico sui tumori a Taranto), e con Fabio Riva, figlio di Emilio, facendo intendere ad Assennato che non sarebbe stato riconfermato alla direzione dell’agenzia regionale. Quest’ultimo premeva, invece, affinché si riducesse e rimodulasse la produzione dell’acciaieria in base ai fumi e le polveri monitorate l’anno precedente. Vendola riteneva l’ipotesi inaccettabile «perché l’Ilva è una realtà produttiva cui non possiamo rinunciare» e che «in nessun caso l’attività produttiva dell’Ilva avrebbe dovuto subire ripercussioni». Il 15 luglio Assennato fu lasciato fuori dalla porta dell’ufficio della presidenza, dove Vendola era impegnato in un incontro con Archinà e l’ex direttore dello stabilimento Luigi Capogrosso, aspettando ore prima di essere accolto e subendo presunte ammonizioni da parte di Antonio Antonicelli, dirigente regionale del settore ecologia, su mandato dello stesso governatore. «Non intendo mutare lo stile con cui ho reagito, sempre, a iniziative giudiziarie che mi chiamavano in causa. Persino quando ci si sente feriti e umiliati da una grande ingiustizia, non bisogna mai perdere fiducia nella forza della giustizia », ha commentato il leader di Sel. Assieme al suo nome si ritrovano nelle carte della procura quelli del sindaco, Ippazio Stefano (lista civica vicino a Sel), dell’ex presidente della provincia, Gianni Florido (Pd, dimessosi dopo essere stato arrestato per aver fatto pressioni su un dirigente affinché rilasciasse l’autorizzazione per una discarica, poi legalizzata dal Governo), dell’ex assessore provinciale all’Ambiente, Michele Conserva (Pd, anch’egli dimessosi dopo l’arresto per la medesima vicenda), del collega alla Regione ed ex giudice, Lorenzo Nicastro (Idv), del consigliere regionale, Donato Pentassuglia (Pd) e del parlamentare di Sel ed ex assessore regionale, Nicola Fratoianni, accusato di favoreggiamento per l’episodio legato ad Assennato. Lo stesso direttore Arpa è stato coinvolto nelle indagini, per favoreggiamento nei confronti di Vendola, avendo negato di avere subito pressioni. Per loro potrebbe aprirsi un processo che li vedrebbe sul banco degli imputati assieme a Emilio Riva, patron del gruppo siderurgico, i figli Fabio (ancora a Londra, dopo la latitanza) e Nicola, l’ex pr factotum dell’acciaieria, Girolamo Archinà, e l’ex direttore, Luigi Capogrosso. Nonché dei fiduciari della proprietà, figure che dettavano, ritmi, tempi e modi del lavoro a interi reparti dello stabilimento, senza risultare dipendenti dell’Ilva spa. Figure più volte al centro di manifestazioni e denunce da parte degli operai Fiom, che li hanno definiti «Kapò del padrone». Con la loro condotta hanno contribuito a inquinare, in disprezzo alla salute dei lavoratori e dei cittadini. L’accusa per gli uomini Ilva è di associazione a delinquere finalizzata al disastro ambientale.
La richiesta di rinvio a giudizio riguarda anche Lorenzo Liberti, ex rettore del Politecnico di Bari, incaricato dalla Procura di una perizia, accusato di aver ricevuto una mazzetta di 10 mila euro per mano di Archinà, un dirigente della Digos, che forniva informazioni al pr Ilva, un carabiniere, un sacerdote fiduciario dell’ex vescovo della città, monsignor Benigno Papa, e Luigi Pelaggi, ex funzionario del ministero dell’Ambiente, arrestato nel gennaio scorso per tangenti nell'inchiesta sulla bonifica dell'area ex Sisas di Milano. Nel 2011 era capo della segreteria tecnica dell’ex ministro del governo Berlusconi Stefania Prestigiacomo, e membro della commissione che rilasciò l’Aia all’Ilva, rivista nell’ottobre 2012 da Corrado Clini.

il Fatto 7.3.14
Ilva, troppi “non ricordo” I pm: “Processate Vendola”
Chiesto il rinvio a giudizio per Riva, il governatore pugliese e altri 51 indagati
di Antonio Massari

Sono stato ricevuto dal senatore Kerry a Washington o da Schwarzenegger come leader di una posizione ambientalista… E poi vengo rappresentato come uno che ride dei tumori… Insomma, capisce bene che per me non è una grana giudiziaria, è essere spellato vivo, è essere mutilato della cosa più importante che ho accumulato nella mia vita, che è la reputazione… ”. Si chiude con queste parole, il 23 dicembre scorso, l’interrogatorio di Nichi Vendola, presidente della Regione Puglia, accusato di concussione, dalla procura di Taranto, nell’inchiesta sull’Ilva. Si chiude dopo sei ore e mezza di risposte che non convincono l’accusa: ieri la Procura di Taranto ha chiesto il rinvio a giudizio, per Vendola e altri 53 indagati (50 persone fisiche e 3 società), confermando l’accusa di concussione.
“PER DECENNI - commenta Vendola - a Taranto nessuno ha visto niente e troppi hanno taciuto. Io no. Per decenni gli inquinatori hanno comprato il silenzio e il consenso politico, sociale e dei media. Io no. Infatti non siamo accusati di corruzione. Siamo accusati di essere stati compiacenti, a titolo gratuito, nei confronti dell’Ilva. Accusati in un processo in cui tutti i dati del disastro ambientale sono il frutto del nostro lavoro”. Ben 258 le parti lese dall’inquinamento dell’Ilva individuate dalla Procura. Rischiano di andare a processo il deputato di Sel Nicola Fratoianni, l’assessore regionale all’Ambiente Lorenzo Nicastro (Idv), accusati di favoreggiamento personale nei confronti di Vendola che, secondo l’accusa, avrebbe esercitato pressioni sul direttore dell’Arpa Giorgio Assennato per “ammorbidirlo”, indagato anch’egli di favoreggiamento nei confronti del presidente pugliese. Chiesto il rinvio a giudizio per un intero sistema politico: il sindaco di Taranto, Ippazio Stefano (abuso d’ufficio), l’ex presidente della Provincia di Taranto, Gianni Florido, l’ex assessore provinciale all’Ambiente Michele Conserva. E poi il gruppo Riva: il ‘patron’ Emilio, il vice presidente del gruppo Riva Fire Fabio Riva, il presidente dell’Ilva Bruno Ferrante E il responsabile delle relazioni pubbliche, Girolamo Archinà. . Reati che variano dall’associazione per delinquere finalizzata al disastro ambientale all’avvelenamento di acque e sostanze alimentari. Il verbale di vendola è zeppo di “non ricordo” e anche di un’accusa al Fatto Quotidiano che, in esclusiva, sul proprio sito web, pubblicò la telefonata in cui il Presidente, ridendo con Archinà, assicurava che non si sarebbe defilato. “Hanno avuto bisogno di manipolarla un po’ – dice Vendola – di tagliarla e di rimontarla…”. Falso. Ilfattoquotidiano.it pubblicò sia la versione integrale della telefonata, sia quella montata, ma nessuna versione manipolata. E sulla risata con Archinà - che aveva strappato il microfono a un giornalista che faceva domande - , Vendola commenta così: “Ho avuto la sensazione di averlo offeso, perché ridevo di lui, del suo scatto felino, scatto da servitor zelante, questo era il motivo esclusivo della risata…”.
E su un testimone scovato in esclusiva dal Fatto , a un certo punto, verte l’interrogatorio a Vendola. L’argomento è cruciale per l’accusa: la riunione del 15 luglio 2010, dopo la quale, i Riva, in un’intercettazione commentano: “Tieni presente che già psicologicamente, ieri, è avvenuto questo: Assennato è stato fatto venire al terzo piano però è stato fatto aspettare fuori… come segnale forte…”. “Io non ho memoria di Assennato – risponde Vendola – non era nel palazzo, non era nel mio campo visivo… non lo convocammo nel corso della riunione… non ricordo che nessuno l’abbia convocato con un sms…”. Eppure il testimone rintracciato dal Fatto , interrogato dalla procura, conferma di aver incontrato Assennato in uno stato d’animo “rassegnato” proprio nei corridoi della Regione. “E quando? – risponde Vendola – A che ora? Mi risulta che avesse un appuntamento con l’assessore Nicastro alle 10… è arrivato in anticipo a un appuntamento che aveva con Nicastro… non con me…”. “Ricorda – continua il pm Piero Argentino - se qualcuno dei partecipanti lasciò la riunione per andare a parlare con Assennato?”. “No”.
SONO TANTI, troppi i “non ricordo” di Vendola, e tutti su episodi cruciali per l’accusa che gli viene mossa. Il suo è un interrogatorio costruito su flussi di coscienza: “Ma lei pensa che io potessi anche soltanto pensare di delegittimare Assennato? Ma Assennato per me è un eroe… è un prototipo umano…”. E ancora: “Mi scrivono molti bambini… ho una discreta corrispondenza epistolare con i bambini… raccolgo le loro lettere e i loro disegni… pubblichiamo – se posso consegnarvelo - questo libro ‘Sognando nuvole banche’, con una piccola prefazione scritta da me, che consegnerò a Berlusconi quando chiederemo un intervento del Governo su Taranto e sull’Ilva…”. Oppure: “Quest’indagine mette in discussione tutto quello che ho fatto nella mia vita… da quando ho preso coscienza delle problematiche ambientali… che ho fatto a Brindisi, a Taranto, tutte le volte che ho dormito davanti alla centrale di Montalto… La storia s’incaricherà di dire che mentre un Governo nazionale faceva un regalo ai Riva, forse in cambio della vicenda Alitalia, un governo regionale cercava disperatamente un gancio normativo per impedire che quel decreto, del governo Berlusconi, chiudesse i conti con il benzo(a)pirene nella città di Taranto…”. E inoltre: “La prima domanda che ho fatto a Riva è stata: ‘Lei è credente?’, glielo chiedo perché dovremo parlare a lungo di diritto alla vita’”. La procura, però, vuole risposte sugli appuntamenti con Archinà, sugli incontri tra quest’ultimo e Assennato, tra i suoi funzionari e il direttore dell’Arpa o lo stesso Archinà. Ma è una sequenza di “non ricordo”. Ricorda invece di essere stato “prigioniero nell’ufficio di Gianni Letta”, in un tavolo tecnico a Palazzo Chigi.

Corriere 7.3.14
Terremoto 5 Stelle, nuovi espulsi E altri cinque sono nel mirino
Via i dimissionari. Pressing dei fedelissimi perché chi è incerto se ne vada
Base divisa sul web. Busta con proiettili a Orellana e Battista
di Emanuele Buzzi

MILANO — Il Movimento senza pace. Nuove espulsioni — stavolta senza votazione via web —, un’altra assemblea interna dai toni drammatici e malumore tra gli attivisti. I Cinque Stelle proseguono seguendo la linea dura, dettata da Beppe Grillo. Proprio dal leader ieri in mattinata partono le nuove «scomuniche». Nel mirino, stavolta, i cinque senatori dimissionari. «Bencini, Bignami, Casaletto, Mussini e Romani sono fuori dal M5S», annuncia il capo politico del Movimento. E spiega così la sua scelta, parlando delle dimissioni dei parlamentari: «Questo gesto non è stato motivato da particolari situazioni personali, familiari o di salute, come solitamente avviene in questi casi» . Per Grillo è un «gesto politico in aperto conflitto e contrasto con quanto richiesto dal territorio, stabilito dall’assemblea dei parlamentari del M5S, confermato dai fondatori del M5S e ratificato dagli iscritti certificati in Rete, in merito ai quattro senatori espulsi». Partono subito i commenti. «Movimento Cinque Espelle: grazie Beppe senza di te non avrei mai fatto questa esperienza!!! Non ti curare ti ho già perdonato», ironizza su Twitter Laura Bignami. «Highlander! Resterete tu e Roberto. Ottima prova di democrazia», fa eco Lorenzo Battista — espulso una settimana fa — riferendosi a Grillo e Gianroberto Casaleggio. «Qui dentro ci sono persone che si sentono in guerra. Bene, oggi ci sono i caduti», punge Mussini.
Sul web la base è divisa: qualcuno paragona il leader a Flavio Briatore quando nel reality tv «The apprentice» caccia i concorrenti. A Roma, però, non si respira aria di sarcasmo. Anzi, Nel pomeriggio va in scena una riunione concitata. Streaming non ammesso, giornalisti tenuti a distanza. Ci sono in vista altre 4-5 fuoriuscite, sempre a Palazzo Madama. Non si tratta di dissidenti dichiarati, ma di personalità critiche all’interno del Movimento che hanno contestato la linea imposta dai fedelissimi. C’è chi ipotizza che sia una mossa disperata per far tornare sui suoi passi Grillo. All’appuntamento si presentano tutti e cinque i dimissionari cacciati, Maurizio Santangelo, il capogruppo, invece porta con sé una lavagna per ridisegnare i ruoli nelle varie commissioni dopo l’emorragia di parlamentari. Qualcuno lavora per ricomporre la situazione, si fa pressing sugli incerti per chiarire la loro posizione. «Quello che si deve fare in caso di dimissioni non è previsto dal nostro codice. È un caso che non esiste nel nostro “regolamento”», puntualizza Elena Fattori. Laura Bottici, durante la riunione, propone un «lodo» per un salvataggio in extremis. «Se ci accordiamo per cambiare insieme le regole voi siete disposti a ritirare le dimissioni?». Bencini singhiozza durante il suo intervento. Poi si sfoga: «Voglio andare a casa. Tutti a casa (il motto di Grillo, ndr)? Io a casa!». I cinque neoespulsi non ritirano le dimissioni: sarà l’Aula a votarle. Ma i dissidi tra Cinque Stelle contagiano anche la cronaca. E sfociano nella minaccia. Ieri è stata intercettata presso il centro di smistamento di Roserio, in provincia di Milano, una busta contenente dei proiettili indirizzata agli ex M5S Battista e Orellana. Nella lettera sono citati anche Francesco Campanella, Fabrizio Bocchino e Paola De Pin. La busta, riferiscono dalla Digos, era indirizzata «al Parlamento, piazza Montecitorio, Roma». Dai capigruppo del Movimento, arriva la solidarietà agli ex colleghi:«Apprendiamo con sconcerto la notizia del rinvenimento di una busta contenente pallottole, indirizzata ai senatori ex M5S, Orellana e Battista. Un’azione esecrabile».

Corriere 7.3.14
Critiche, lacrime e ospitate tv: la carica degli epurati
Dagli ex delfini emiliani Favia e Salsi a Mastrangeli, reo di andare dalla D’Urso
«Alla fine ne resterà soltanto uno: Grillo»
di Fabrizio Roncone

Il commesso di Palazzo Madama le dice di non piangere, e anzi, ecco, prego, tenga questo fazzoletto di carta, non faccia così: rossi gli occhi, grigio il viso rassegnato della senatrice Alessandra Nencini, niente a che vedere con lo sguardo rabbioso che mise su Marino Germano Mastrangeli da Cassino, di anni 41, il primo ad esser cacciato dal capo.
«Dovete portarmi via con la forza!», urlò battendo il pugno sul bancone della buvette. Poi si girò verso i cronisti. «Viva la democrazia diretta! Viva Barbara D’Urso!» (era il 30 aprile scorso).
Il capo, qui al Senato, ne ha cacciati undici in undici mesi e il primo a rimetterci le penne fu il Mastrangeli, accusato non tanto di dissentire troppo, quanto — piuttosto — di aver ceduto alla vanità.
Ex poliziotto, baby pensionato — «Vivevo con 800 euro al mese» — eletto senatore con 64 voti, la moglie subito assunta come portavoce, in poche settimane, infischiandosene degli ordini di Casaleggio, fa il giro dei talk show. Pomeriggio 5 , Ballarò , Piazza Pulita . Grillo si irrita e ordina un processo online. Vito Crimi, capogruppo che a piccoli passi si avviava a diventare una leggenda del Movimento, esegue. La sentenza è scontata.
Il comico genovese scrive sul suo blog: «Chi pensa che io non sia democratico, vada fuori dalle palle».
Funziona così in Parlamento, funzionava così anche prima. Valentino Tavolazzi, consigliere comunale a Ferrara, grillino dal primissimo Vaffa-Day, viene eliminato nella primavera del 2012 perché ha organizzato una riunione di militanti. Il sospetto: «Riunione sediziosa».
Dopo di lui tocca a Giovanni Favia e Federica Salsi.
Favia, oggi 33 anni, consigliere regionale in Emilia Romagna, è considerato il vero talento politico del M5s: appassionato, rapido, eloquio sfrontato. Tanto, troppo. Gli fanno passare la difesa pubblica di Tavolazzi, non il fuorionda che quelli di Piazza Pulita catturano.
«La democrazia, nel nostro movimento, non esiste».
«Casaleggio? Un padrone spietato».
Cacciato.
Come Federica Salsi, consigliere comunale a Bologna. Che al sito Affaritaliani.it , dice: «Paradossalmente, i vecchi partiti sono più controllabili dai cittadini di quanto lo siano Grillo e Casaleggio». Il che, ovviamente, potrebbe anche bastare. Ma lei aggiunge pure un paio di dubbi. Il primo: i candidati 5 stelle al Parlamento non sembrano essere preparati a sufficienza. Il secondo: Grillo sembra essere più interessato al giro di affari del suo sito, che alla proposta politica del M5s.
Cacciata.
Grillo e Casaleggio paiono quasi avvertire l’urgenza di dover «educare» il Movimento. Così, nel volgere di poche settimane, epurano un’altra decina di consiglieri comunali e regionali e fanno fuori l’intero gruppo militante di Cento.
Le parole di Grillo sono eloquenti: «Per stare con noi bisogna rispettare certe regole». I senatori e i deputati le conoscono a memoria. Ma la loro applicazione quotidiana si rivela faticosa. Il 7 giugno, a Montecitorio, Alessandro Furnari e Vincenza Labriola lasciano volontariamente: «In questi mesi ci sono state alcune decisioni fatte calare dall’alto». Il 24 giugno va via Adriano Zaccagnini: «Non mi sento più a mio agio» (lo seguiranno Alessio Tacconi e Ivan Catalano)
La senatrice Adele Gambaro, negli stessi giorni, prova a dire che forse, magari, probabilmente, non è detto che Grillo abbia sempre ragione: via, espulsa. Segue rumoroso dibattito sul web. Che però, come sempre, finisce con approvare i metodi del capo. È per questo che un giorno, interpellato sull’argomento, Francesco Campanella — un siciliano che ha avuto un passato da sindacalista, una tessera di Rifondazione e una del Pds — commenta: «Il web, purtroppo, è utilizzato da Casaleggio come una pistola».
Casaleggio prende nota.
La scorsa settimana, Campanella viene espulso insieme a Fabrizio Bocchino, Luis Orellana e Lorenzo Battista.
Questo Battista è un triestino di 40 anni che non ci sta a prendere ordini come un soldatino. Va dai cronisti delle agenzie di stampa e dice una roba di quelle che Grillo, quando le sente, dà fuori di matto. «Non possiamo condannarci a stare sempre all’opposizione».
Invece è questo, senatore, il progetto di Grillo.
«Infatti io sono fuori da questo progetto. E Grillo...».
Continui.
«Beh... se Grillo continua così, rischia di restare solo».
Costituirete un gruppo autonomo?
«Sì, può darsi».
Ha avuto parole di solidarietà da parte dei suoi colleghi del M5s?
«Guardi, le dico: in Aula, ormai, quasi nemmeno mi salutano».
Con le ultime cinque espulsioni di qualche ora fa, è legittimo parlare di epurazione?
«Mhmm... Mi spiace dirlo, ma temo proprio che gli elettori puniranno questa deriva, quest’assenza, totale, di democrazia».
Passa la senatrice Nencini.
Ancora con quei suoi singhiozzi di lacrime.
«Mi viene da piangere, non riesco a trattenermi... Io ci ho creduto in questo movimento... E invece quanto odio, quanto...».
Poco dopo arriva la notizia che ai senatori Battista e Orellana è stata recapitata una busta contenente alcuni proiettili .

Corriere 7.3.14
Ma il drappello dei fedelissimi teme di scendere sotto quota 35
La strategia in vista delle Europee: basta nemici interni
di E. Bu.

MILANO — Flashback. Emilia Romagna, autunno 2012. I Cinque Stelle crescono nei sondaggi, dopo il successo a Parma, il Movimento guidato da Beppe Grillo comincia a essere percepito non più come marginale sulla scena politica. Aumentano le pressioni. E le voci critiche. I consiglieri Giovanni Favia, Federica Salsi e Raffaella Pirini vengono allontanati. Stessa sorte per Fabrizio Biolè in Piemonte. Grillo prepara la campagna elettorale. Massima coesione, massimo risultato. I Cinque Stelle alle Politiche trionfano. Storia nota. Ora, il percorso sembra ripetersi.
Dopo mesi di tensioni, di logoramento interno, la svolta. Una brusca accelerazione nelle espulsioni. La strategia è la stessa. L’intenzione è quella di tirare dritti, compatti, senza voci fuori dal coro a infastidire la campagna elettorale, fino alle Europee (e alle Regionali in Piemonte e Abruzzo). Grillo avanza deciso: vuole vincere. «Il nostro progetto è chiaro», ribadiscono alcuni esponenti Cinque Stelle. Il momento di altri dolorosi addii, insomma, è adesso. Qualcuno a Palazzo Madama inizia a vociferare che la soglia limite, quella oltre la quale non ci dovrebbero essere ulteriori defezioni, è a «quota 35». Ora i pentastellati sono 41, i fedelissimi quasi una trentina. Ieri, intanto, si è discusso — anche apertamente in alcuni casi — della fuoriuscita di altri due senatori e due senatrici. «Nulla di concreto», fanno sapere fonti vicine al Movimento. Si ipotizza un gesto estremo per evitare l’ultimo strappo. In assemblea, uno dei neo-espulsi la mette quasi sul paradosso: «Se voi prendete le distanze da Beppe, io resto». Ma si va avanti. «Abbiamo preso atto delle dimissioni dei cinque senatori, di fatto sono fuori dal gruppo. Abbiamo fatto un ultimo tentativo affinché ritirassero le loro dimissioni, ma non è andato a buon fine», commenta a fine assemblea il capogruppo Maurizio Santangelo. Anche alla Camera si parla di una paio di possibili addii: nel mirino chi non ha seguito le regole dei pentastellati sulle restituzioni delle eccedenze al fondo per le piccole e medie imprese. Espulsioni e transfughi, però, potrebbero anche avere un costo politico non indifferente nell’economia del Movimento a Roma. Ogni cittadino , infatti, porta in dote una cifra — circa sessantamila euro — ai Cinque Stelle. Il Movimento, si sa, ha rinunciato ai rimborsi elettorali e le spese politiche sono in gran parte coperte da quel «tesoretto». La drastica riduzione di parlamentari potrebbe comportare forse anche una riduzione dello staff pentastellato. Di sicuro una minore libertà di azione.
Basterà attendere qualche giorno per scoprire i primi esiti. Il prossimo round per capire l’orizzonte futuro dei Cinque Stelle è in programma lunedì. All’ordine del giorno la redistribuzione degli incarichi nelle commissioni parlamentari.

l’Unità 7.3.14
Cgil, lo strappo di Bologna sul tavolo di Camusso
di Adriana Comaschi

Una grana in più per la leader nazionale Cgil Susanna Camusso. La «ricomposizione » della Camera del Lavoro di Bologna - nessun commissariamento, ma la consultazione da Roma dei 150 del direttivo locale per individuare un nuovo vertice - non sarà semplice, né rapida. Non tanto da spazzare via le polemiche che mercoledì sera hanno portato il segretario Danilo Gruppi a ritirare la sua ricandidatura. L’unica certezza è che non ci sono certezze: nessun documento veramente «alternativo», come accusa Antonella Raspadori della segreteria, e anche i 110 «no» al documento finale votato dai delegati (277 i sì) non bastano a spiegare il frantumarsi di una realtà sindacale di primo piano, Gruppi nel 2010 venne eletto con numeri non troppo diversi. Né basta l’opposizione della Fiom. Anche se il patatrac si consuma proprio su un emendamento sulla democrazia interna.
Viene presentato come «un tentativo di mediazione» con le tute blu, da tempo critiche verso il segretario e salite sulle barricate dopo l’accordo sulla rappresentanza sindacale del 10 gennaio (salutato da Gruppi come «l’avverarsi di un sogno»). Ma le parole del segretario affossato («discussione inquinata da dinamiche non trasparenti») sembrano evocare anche altro. Ed è un fatto che in calce all’«emendamento dei 50» stanno le firme di molti dei «suoi» dirigenti, a sollecitarlo «a fare un passo oltre» sul nodo aperto il 10 gennaio, come riassume la giovane segretaria Flc Francesca Ruocco che lo ha sottoscritto. Si chiede di far votare sempre i lavoratori sui contratti di secondo livello, si difende l’autonomia delle categorie nazionali sulle sanzioni. «Gruppi aveva assicurato che avrebbe lavorato per l’unità e si è trovato davanti senza preavviso un documento così. Altro che “pontieri”, era un chiaro atto di sfiducia al segretario» ribatte Valentino Minarelli, appena riconfermato alla guida dei pensionati, 96 mila iscritti sui 172 mila della Cgil bolognese.
Uno «schiaffo», insomma, condiviso tra gli altri da Slc e Flai, con consensi trasversali oltre le tute blu. Ma i «malpancisti » fanno capolino anche su un ordine del giorno di aperta critica al segretario, per non avere sostenuto (c’era libertà di voto) il referendum che un anno fa chiese alla giunta di Merola di tagliare i fondi alle scuole materne paritarie private, per garantire ulteriori risorse a quelle pubbliche in tempi di crisi. «Non escludo il disagio, veniamo da anni di scarsi risultati» ammette Minarelli, tra servizi a rischio per i tagli ai Comuni e crescenti difficoltà economiche, «ma c’è stato un esercizio puerile del dissenso, che poteva trovare espressioni più adatte. E comunque noto che giovanilismo e antipolitica hanno fatto breccia anche tra noi con urla, fischi, applausi eccessivi».
C’è chi vede anche uno scontro generazionale tra vecchia guardia e giovani leve, «diciamo che ci sono molti nuovi segretari, finalmente, che hanno voluto affrontare dei problemi - chiosa Ruocco - .
E attenzione, nessuno ha “impallinato” Gruppi, è lui che ha ritenuto di non poter essere la persona adatta a garantire l’unità».
Chissà come percepiranno i lavoratori la “svolta” di via Marconi. Qualche delegato il problema se lo pone, «qui dovremmo invece preoccuparci delle fabbriche, sennò viene giù tutto».

l’Unità 7.3.14
134 femminicidi nel 2013: vittime ancora in aumentoL’anno precedente erano 129 secondo la «Casa delle donne» di Bologna
Dal 2000 oltre 1500 bambini senza genitori: mamma uccisa, padre in cella
di Chiara Affronte

Centotrentaquattro donne uccise da uomini nel 2013, erano 129 nel 2012. Cresce il numero delle vittime di omicidi dovuti a motivi di genere (i cosiddetti «femmicidi », come li chiamano i centri antiviolenza italiani).E aumenta anche il numero dei bambini rimasti soli per aver perso la mamma, e spesso insieme il papà che l’ha uccisa, visto che otto volte su 10 l’assassino è proprio il loro padre. Una stima ne conta almeno 1.500, dal 2000.
Sono dati che fanno rabbrividire, ancor di più se li si associa a quelli fatti circolare due giorni fa dalla Ue che conta nove milioni di donne vittime di violenze. E che purtroppo non sono precisi, visto che ogni anno il numero viene elaborato sulla base di faticose ricerche che la Casa delle donne per non subire violenza di Bologna compie a partire dagli articoli usciti sulla stampa.
E proprio da questa constatazione emerge la «grave mancanza» del nostro paese:«Non ci sono informazioni approfondite sul femminicidio, ancora lasciate all’iniziativa della società civile, e non esiste un piano d’azione nazionale a contrasto della violenza di genere», denuncia il centro antiviolenza bolognese. Che scandisce una nuova preoccupazione: «Il governo Renzi non ha nemmeno attribuito la delega alle Pari opportunità e la nostra preoccupazione è enorme, anche perché temiamo che vada perso o si interrompa il lavoro che aveva iniziato il ministro precedente», fa sapere Angela Romanin.
Le donne però hanno immenso bisogno di aiuto: solo a Bologna quasi 800 si sono rivolte al centro antiviolenza bolognese nel 2013. I 3 rifugi segreti e i minialloggi “di transizione” ne hanno ospitate quasi 40.Maad un certo punto da lì devono uscire, affrontare la vita “vera” con tutte le difficoltà che conseguono. Perché nel frattempo spesso devono lasciare il lavoro, per scappare dal loro probabile assassino e si ritrovano vive sì, ma senza sapere come andare avanti. La ricerca elaborata dal centro bolognese rivela un altro dato importante: le donne scampate ad un tentato omicidio di genere sono un centinaio. Mogli o ex compagne di uomini che vogliono possederle, che le considerano oggetti di cui disporre, anche quando dicono di amarle. «Non esistono i femminicidi “passionali”, dobbiamo uscire da questo convincimento - scandisce Romanin - Non ha niente a che vedere con l’amore l’impeto che porta un uomo ad uccidere la sua compagna, neanche con la malattia: è senso del possesso e considerazione della donna come oggetto».
A confermare questa posizione anche l’omicidio di donne costrette a prostituirsi: 13 nel 2013, altro numero in crescita dal 2005 se si esclude il dato del 2012 quando ne sono state ammazzate 14. Anche in questo caso, spiegano dalla Casa delle donne, «la violenza di genere si esplica come strumento di affermazione del potere maschile, è espressione di un desiderio di controllo e possesso dell’uomo sulla donna, tanto nelle relazioni intime, quanto nell’ambito della prostituzione». Un fenomeno anche questo sottovalutato, e spesso relegato al livello di vendette legate alla criminalità organizzata. Altra “credenza” da sfatare, messa in luce dalla ricerca elaborata dal centro antiviolenza, quella legata alla nazionalità delle donne vittime di femminicidio: la prevalenza delle italiane è netta, sono il 67% del totale. Così come gli autori delle violenza non sono “gli stranieri” ma italiani, proprio perché gli omicidi avvengono all’interno del nucleo familiare. Lo stesso di cui sono vittime indirette quei 1.500 bambini le cui mamme sono state uccise, e che vivono una sofferenza atroce. Anche a loro è doveroso pensare, ribadiscono alla Casa delle donne: il progetto Daphne cerca di occuparsene. Ma ancora una volta a farlo non è il governo ma la società civile, il dipartimento di Psicologia dell’Università di Napoli con la coordinatrice Anna Costanza Baldry, consulente Onu.

il Fatto 7.3.14
Resa dei conti al Corriere, lunedì si azzara il Consiglio
Ipotesi Polito per la direzione
di Giorgio Meletti e Silvia Truzzi

Redde rationem in via Solferino: gli stracci volano da mesi - si vedano le “carezze” scambiate a mezzo stampa tra i due azionisti John Elkann e Diego Della Valle - e lunedì il consiglio d’amministrazione, convocato per l’approvazione del bilancio 2013, potrebbe decadere. L’ipotesi è confermata da fonti vicinissime al consiglio: il presidente di Rcs Angelo Provasoli rimetterà il mandato e almeno altri tre lo seguiranno. Un paio di settimane fa si era dimesso Carlo Pesenti.
LUNEDÌ basteranno le dimissioni di altri quattro consiglieri per ridurre l’organo da nove a quattro membri, e quando viene a mancare oltre la metà del consiglio la decadenza è automatica. In questo modo verrà messo fuori gioco l’amministratore delegato, Pietro Scott Jovane, messo sotto accusa in primo luogo dal secondo azionista, Della Valle, ma ormai da tempo bersaglio di azionisti e consiglieri “malpancisti”, critici con la linea imposta dal primo azionista, la Fiat di Elkann, che ha assunto il comando con il 20 per cento delle azioni.
Pesenti si era dimesso dopo una discussa operazione portata a termine a fine gennaio da Jovane, senza informare il consiglio d'amministrazione. E cioè l'acquisto di un sito di prenotazioni alberghiere, Hotelyo, tra i cui azionisti c'è la finanziaria torinese Lamse che fa capo ai fratelli Andrea e Anna Agnelli, cugini di Elkann e soprattutto azionisti indiretti di Fiat.
Lunedì i consiglieri dovranno motivare le loro dimissioni, anche perché Rcs è quotata in Borsa e il tutto deve essere fatto in assoluta trasparenza, senza che sorgano sospetti di una forzatura da parte di qualche socio influente. Dopo la decadenza dell'attuale cda sarà l'assemblea dei soci, già convocata per il 29 aprile per il bilancio, a nominare il nuovo vertice.
È dunque Jovane a fare le spese dello scontro tra gli azionisti. Anche se ultimamente risulta raffreddata la stima dello stesso Elkann nei suoi confronti, Jovane paga soprattutto le accuse di Della Valle, in buona parte condivise nella sostanza, se non nei toni, da altri azionisti e dallo stesso direttore del Corriere della Sera, Ferruccio de Bortoli. Non ha aiutato la serenità dei rapporti la franchezza con cui de Bortoli lo scorso novembre, in occasione di una riunione del cda, ha detto a chiare lettere in una lettera che il piano di ristrutturazione del gruppo era “sbagliato”, a cominciare dalla vendita della sede di via Solferino fino all'aumento del prezzo del quotidiano.
QUANDO si è tenuta la convention tra le concessionarie pubblicitarie di Repubblica e Corriere a dare manforte a Ezio Mauro, in prima fila c'erano Carlo e Rodolfo De Benedetti e l'amministratore delegato Monica Mondar-dini; l'altro relatore era de Bortoli, ma il suo ad Jovane si aggirava al fondo della sala in un’appariscente solitudine. L'idea, insopportabile per la direzione, è che il quotidiano, ancora sostanzialmente sano, paghi la crisi del gruppo. Due settimane fa de Bortoli, in una lunga intervista con il Foglio aveva tirato le orecchie agli azionisti: “Diciamo che il Corriere ha molti azionisti, ma non ha un editore. Se gli azionisti litigassero meno sarebbe meglio. Rcs non è un terreno di battaglia, è un'azienda importante. E il Corriere è un grande giornale in salute, malgrado l'abbiano gravato di debiti non suoi”. Una frase spiega lo stato d’animo del direttore: “Sono a fine carriera e degli azionisti posso anche fregarmene”.
L'INTERVISTA ha ovviamente infastidito molti azionisti, non solo Fiat (tra Elkann e de Bortoli i rapporti da freddi che erano sono peggiorati). Così come la pubblicazione sul Corriere di una parte del libro di Alan Friedman sulle manovre politiche che hanno portato alla fine dell’ultimo governo Berlusconi ha causato malumore da parte di Intesa Sanpaolo (quarto azionista), che l’ha considerata un’operazione irrispettosa del presidente Giorgio Napolitano.
Nel caos riprendono vigore la voci su una successione alla direzione del Corriere . Ma non sarà facile trovare un nome sufficientemente prestigioso e in grado di mettere d'accordo azionisti litigiosissimi. Si è a lungo parlato del direttore della Stampa, Mario Calabresi. Ma se, come sembra, l'idea di fondere la Stampa e il Corriere (ipotesi che consoliderebbe ulteriormente la posizione di Fiat in via Solferino), è difficilmente realizzabile ora, Calabresi dovrà aspettare un turno. Così il nome più gettonato al momento è quello di Antonio Polito, editorialista del Corriere e fresco direttore del Corriere del Mezzogiorno, meno interessato di de Bortoli all’economia, per la gioia di molti azionisti.

La Stampa 7.3.14
La top 100 delle migliori università
Nessuna italiana in classifica
Interviene Andrea Lenzi, presidente del Cun, il Consiglio Universitario Nazionale: “Dipende, come sempre, dalla tipologia di ranking che viene usata, ma che esistano dei problemi nel nostro sistema organizzativo e finanziario è un dato di fatto”
di Flavia Amabile
qui

Corriere 7.3.14
Un tribunale può anche fallire? Gli avvocati di Vicenza ci provano
di Gian Antonio Stella

«Rinvio al 16 maggio 2020 ore 10». «Possiamo fare le 11?». «Che le importa? È fra sei anni!». «Alle 9 dovrebbe venire l’idraulico…».
La fissazione delle udienze al Tribunale di Vicenza somiglia ormai alla vecchia barzelletta sovietica sui tempi biblici della burocrazia. E così l’Ordine degli avvocati, appoggiato da un po’ tutte le associazioni di categoria, ha deciso di fare un passo mai visto. Questa mattina presenta infatti al Tribunale berico un’istanza di fallimento del Tribunale stesso. Per insolvenza.
Che la situazione della giustizia vicentina sia pesante è noto. Non tanto per la penetrazione nella società della mafia, della camorra e della ‘ndrangheta, che pure hanno infettato pezzi del mondo della produzione e del commercio. Né per la violenza in generale, contenuta entro limiti accettabili rispetto ad altre parti d’Italia. Il punto è che, come dicono tutte le analisi, una giustizia semiparalizzata causa danni gravissimi all’economia.
Per capirci, verreste dall’estero a investire in terra berica sapendo che un’azienda artigiana che doveva avere dei soldi da un debitore insolvente ottenne dal tribunale (dopo una denuncia, un’istruttoria e una sentenza) un’ingiunzione di pagamento nel lontano 2005 ma, a causa di una litania di ricorsi del debitore e una via crucis di rinvii, il processo andrà a chiudersi (auguri) il 3 febbraio 2017 e cioè 12 anni dopo l’ordine al debitore di pagare? Rischiereste i vostri soldi lì?
Dicono i numeri che i magistrati di Vicenza, che già sarebbero pochi a pieno organico (36, più 18 onorari) sono scesi a 21. Con un carico ciascuno di 1300 fascicoli pendenti. Oltre il doppio, secondo gli avvocati, di quelli che gravano mediamente sugli altri giudici della penisola. Per non dire dei vuoti mai colmati tra il personale amministrativo. Per dare un’idea: in questa provincia che si vanta di avere la quarta associazione confindustriale d’Italia, un reddito pro capite che nel capoluogo passa i 26 mila euro, depositi bancari che sfiorano i 60 mila euro a famiglia, c’è un magistrato ogni 3.142 imprese, uno ogni 714 milioni di euro di export, poco più di uno ogni 2 miliardi (per l’esattezza 1.809 milioni) di fatturato industriale. A farla corta: il pianeta economico vicentino è così vasto e complesso da imporre una giustizia molto più efficiente.
Mettetevi al posto di Jean Pierre, un operaio d’origine francese licenziato nel 2011: difficile trovare un posto, a 54 anni. Conoscere il proprio destino (ha ragione lui o ha ragione il suo ex datore di lavoro?) è una questione di vita o di morte. Bene: depositato il ricorso nel novembre 2011, la prima udienza fissata nel luglio 2012 è stata rinviata al gennaio 2014 ma, arrivata finalmente la data agognata, non c’era più il giudice, trasferito alla fine del 2013 a Roma. Dunque? Tutto rinviato di nuovo. A data non ancora stabilita: «e non si tratta di un caso limite. Anzi».
Come può reggere un sistema così? Ed ecco che Fabio Mantovani, il presidente dell’Ordine degli avvocati vicentini, con l’appoggio di Confindustria, Apindustria, Confartigianato, Confcommercio, Cgil, Cisl, Uil e altri ordini professionali («i magistrati, per evitare ovvie conseguenze di natura disciplinare non possono aderire formalmente altrimenti lo farebbero»), ha deciso, come dicevamo, di presentare oggi un’istanza di fallimento.
Il documento, firmato anche da Claudio Mondin e Paolo Dal Soglio, accusa il Tribunale di essere «largamente venuto meno» all’adempimento «di gran parte degli obblighi istituzionali dei quali è portatore». Denuncia «intollerabili ritardi nella definizione dei procedimenti pendenti, con rinvii di udienza che, nelle cause civili ordinarie, giungono persino a cinque anni, specialmente per le udienze di precisazione delle conclusioni». Lamenta che «le condizioni di obiettivo e generalmente noto dissesto si sono andate progressivamente aggravando nel tempo, nonostante l’impegno dei magistrati e del personale amministrativo, il cui numero è peraltro andato gravemente diminuendo».
Sotto accusa, insomma, non sono i giudici locali «insostenibilmente congestionati» e impossibilitati a reggere carichi di lavoro impossibili ma quanti, a dispetto di tutte le proteste e tutte le pubbliche denunce cominciate nel lontano aprile del 2001, hanno abbandonato tutto in uno «stato di grave insolvenza».
Conclusione: «Poiché dai fatti menzionati si evidenzia l’assoluta incapacità da parte dell’Amministrazione della Giustizia di adempiere ai fondamentali obblighi propri di una istituzione tenuta a erogare il bene fondamentale della giurisdizione», gli avvocati «fanno istanza affinché il Tribunale (...) dichiari lo stato di insolvenza del Tribunale di Vicenza».
Una provocazione? Certo. Difficile che una corte condanni per insolvenza se stessa. Ma non è anche risolvendo questi problemi che passa il rilancio dell’economia?

Corriere 7.3.14
Per i processi di Roma scatta il numero chiuso
Non più di 12 mila casi all’anno
Scelta della Procura per mancanza di personale: decise le priorità
di Giovanni Bianconi

Troppi fascicoli e poco personale: per queste ragioni la Procura di Roma ha deciso di mandare a giudizio non più di 12 mila casi all’anno. Le richieste di procedimento superano di gran lunga le capacità di smaltimento del tribunale. E così, a causa della cronica carenza di assistenti, segretari e altre categorie, basandosi su criteri di priorità, vengono accantonati e messi in attesa tra i sei e gli ottomila processi.

ROMA — Processi a numero chiuso per mancanza di personale. È ciò che avviene nel palazzo di giustizia della capitale, dove la cronica carenza di assistenti, segretari e altre categorie di ausiliari ha prodotto una grande quantità di procedimenti penali per i quali non si riesce a fissare nemmeno la data d’inizio. Numeri destinati ad aumentare, perché le richieste di giudizio da parte della Procura superano di gran lunga la capacità di smaltimento del tribunale. Se infatti i pubblici ministeri definiscono tra i 18.000 e i 20.000 processi l’anno, i giudici sono in grado di celebrarne non più di 12.000. Dunque ogni dodici mesi ne restano fuori almeno 6.000 per i quali non si sa se e quando si potrà convocare la prima udienza, che andranno ad aggiungersi ai 34.400 accumulati fino al dicembre 2013. E l’Inps ha già preannunciato l’arrivo di circa 36.000 notizie di reato, per il solo 2014, riguardanti omessi pagamenti di contributi.
Da queste cifre è scaturita la decisione del presidente del Tribunale di Roma, approvata dal Consiglio superiore della magistratura, di stabilire criteri di priorità per la trattazione dei processi davanti al giudice monocratico (che tratta reati con pena massima fino a dieci anni di carcere, salvo numerose eccezioni previste dalla legge). La maggior parte delle risorse sono state dedicate a garantire il regolare svolgimento dei processi davanti ai collegi di tre magistrati, che si occupano dei delitti più gravi e preoccupanti, e dunque a soffrire le carenze di organico sono soprattutto le sezioni monocratiche. Alle quali saranno assegnati per il 2014 e ogni anno a seguire, finché la situazione non cambierà, non più di 10.500 procedimenti a citazione diretta. Avendo cura di scegliere, tra questi, quelli per fatti di maggiore allarme sociale. Destinati a rimanere sospesi in attesa di tempi migliori — salvo casi particolari — sono i processi per frodi in commercio, minacce, invasione di terreni o edifici, commercio di prodotti con marchi falsi, danneggiamenti, deturpamenti o imbrattamenti di cose altrui e altri delitti puniti con pene lievi.
A fronte di questa situazione, la Procura guidata da Giuseppe Pignatone ha deciso di adeguarsi, per impedire che tra i 6.000-8.000 procedimenti destinati ogni anno al «limbo giudiziario» (che rischiano di aumentare fino a 10.000-15.000 con la quota dei fascicoli in arrivo dall’Inps e destinati a questa categoria) ce ne siano di rilevanti. Di qui la scelta di inoltrare al giudice non più di 12.000 richieste di fissazione delle udienze, secondo le indicazioni di una circolare firmata dal procuratore che indica i «criteri di priorità» per la loro selezione. Il resto verrà accantonato presso un apposito ufficio chiamato Sdas, Sezione definizione affari seriali, senza procedere alla scansione degli atti a conclusione delle indagini, né alle notifiche degli avvisi alle parti; in attesa che dal tribunale giungano notizie su quando sarà possibile fissare la data dell’udienza. Nel frattempo si cercherà di incrementare il ricorso ai decreti penali (di fatto una multa irrogata dal magistrato, che se accettata dall’imputato chiude il procedimento) con i quali si potrebbe smaltire almeno la metà dei processi lasciati in sospeso e, conseguentemente, a forte rischio prescrizione.
Stiamo parlando di reati «a bassa offensività concreta», come le resistenze e gli oltraggi a pubblici ufficiali, guida senza patente o in stato di ebbrezza, i mancati adempimenti degli obblighi derivanti da misure di prevenzione, fino ai furti sul banco del supermercato o la contraffazione di prodotti venduti al dettaglio. Trasgressioni «minori» che si tramutano in fascicoli che per la statistica equivalgono a procedimenti per rapine o omicidi, ma che nella maggior parte dei casi non hanno nemmeno bisogno di indagini per essere definiti. Il fatto di bloccarli alla Sdas eviterà che vadano ad ingombrare i tavoli dei pubblici ministeri e dei loro ausiliari, garantendo loro più tempo per la trattazione degli affari di maggior peso ed importanza. La selezione allo Sdas per bloccarli anziché mandarli al giudice intasando i calendari delle udienze fino alla saturazione, dovrebbe inoltre impedire che il destino dei fascicoli sia casuale: per esempio che si fissi l’udienza per una banale contravvenzione lasciando fuori un omicidio colposo, una truffa grave o qualche reato ambientale.
La carenza di mezzi determina oggi «l’assoluta casualità nei tempi di concreto esercizio dell’azione penale», spiega il procuratore Pignatone, che s’è richiamato a un provvedimento adottato a Torino nel 2007 ispirato a un «oculato, efficace e realistico esercizio dell’azione penale», avallato dal Csm. Per il capo dei pm romani «l’assenza di un meccanismo regolatore che prenda in considerazione l’effettivo grado di disvalore sociale dei fatti oggetto di procedimento produce effetti non voluti e inaccettabili». Dunque l’introduzione del numero chiuso — fermo restando che le indagini vengono completate in tutti i casi, «anche per valutare eventuali ragioni di urgenza al di là del titolo di reato» — non è una rinuncia ai compiti istituzionali della sua Procura, bensì« un tentativo di mitigare gli effetti patologici provocati dalle condizioni di lavoro, in modo da governare razionalmente la massa enorme degli affari che dobbiamo trattare con le scarse risorse disponibili. Tenendo fermo il principio dell’obbligatorietà dell’azione penale cerchiamo di razionalizzarne i tempi di esercizio, attraverso scelte chiare e rispondenti ai limiti oggettivi fissati dal tribunale».

Il Sole 7.3.14
L'ultimatum della Ue per Pompei
Ieri un altro vertice al ministero: costituita una task force per accelerare i lavori e prevenire i crolli
Il commissario agli Affari regionali chiude all'ipotesi di prorogare i termini per i 105 milioni già erogati: vanno spesi entro giugno 2015
di Francesco Prisco

POMPEI. Stavolta non ci saranno tempi supplementari. Il messaggio che arriva dalla Ue è inequivocabile: «Le deroghe non sono possibili. Invece di cercare le eccezioni, la cosa più importante è concentrarsi e lavorare». A parlare è il portavoce del commissario europeo per le politiche regionali Johannes Hahn che, all'indomani delle preoccupazioni espresse dal neo-soprintendente Massimo Osanna, sgombra il campo da qualsiasi ipotesi di richiesta di proroga.
I 105 milioni del Grande progetto Pompei cofinanziato dalla Ue dovranno essere spesi entro il 30 giugno 2015. «Faremo una check list - ha aggiunto - per monitorare da vicino l'avanzamento dei lavori e un punto della situazione pubblico prima della pausa estiva». Parole dopo le quali lo stesso Osanna ha calibrato il tiro, rileggendo a freddo quanto detto il giorno in cui s'è insediato: «Mi sono limitato a esprimere preoccupazione. Chiedere eventuali deroghe non spetterebbe neanche a me». Non sarà certo facile imprimere in poco più di un anno un'accelerazione a un piano d'intervento da 105 milioni che, per ora, vede un solo cantiere consegnato per un valore di appena 853mila euro, cinque cantieri aperti da complessivi 8,4 milioni, sette gare da 20,2 milioni chiuse e in corso d'aggiudicazione e una procedura concorsuale in corso.
Ma al ministero dei Beni culturali vogliono mettercela tutta. E soprattutto, dopo i tre crolli dello scorso fine settimana, dimostrare a Bruxelles che l'Italia si sta impegnando: ieri al Collegio Romano secondo incontro a tema in tre giorni, con il ministro Dario Franceschini, il direttore generale di progetto Giovanni Nistri, lo stesso soprintendente, il segretario generale del Mibact Antonia Pasqua Recchia e il capo di gabinetto Giampaolo D'Andrea.
Tra i temi affrontati, la prevenzione di eventuali nuove emergenze, soprattutto in vista delle piogge che dovrebbero abbattersi sull'area nelle prossime ore. Tra le misure allo studio, l'intensificazione del pattugliamento, anche di notte e nei fine settimana. In più sarà articolato un piano per conciliare conservazione e fruizione. «Da questo preciso momento in poi - ha detto Osanna a margine dell'incontro - lavoreremo alacremente sul versante del Grande progetto, come sulla manutenzione ordinaria. Siamo una squadra nuova, mi piacerebbe che venissimo giudicati per i fatti. Perché ci sono i presupposti per fare bene».
La manutenzione ordinaria, tema sul quale di recente è intervenuto il ministero sbloccando fondi a disposizione della soprintendenza per due milioni, a Pompei è un vecchio cavallo di battaglia del sindacato. «Ma le risorse - commenta Antonio Pepe di Cisl Beni culturali - contano fino a un certo punto. Per prevenire i crolli servono braccia: occorrerebbero squadre di operai, come quelle che c'erano fino a qualche anno fa, pronte a intervenire a seguito delle segnalazioni di pericolo».
Intanto le notizie riguardanti i nuovi crolli sono arrivate anche a Berlino, dov'è in corso l'Itb, fiera internazionale del turismo. «Molti buyer esteri - racconta Raffaele Ercolano di Incoming Italia, consorzio di promozione turistica che riunisce i principali operatori nazionali - hanno chiesto delucidazioni al nostro stand: temevano che i crolli avrebbero portato conseguenze sul piano della fruibilità del sito». Che sul fronte turistico rappresenta da sempre una nota dolente: «Per fortuna - continua Ercolano - la domanda di pacchetti comprendenti Pompei continua a crescere».
Tuttavia se i flussi internazionali arrivano, secondo Ettore Cucari di Fiavet Campania, «non è certo merito del lavoro compiuto dal sistema Italia, quanto piuttosto di operazioni concepite all'estero come la mostra del British Museum o il film "Pompei". Il guaio è che, dopo le visite, gli utenti si lamentano per le case non visitabili e i servizi approssimativi». Pompei non è a Londra e nemmeno a Hollywood.

Repubblica 7.3.14
La guerra in maschera di Putin l’invasore
di Bernardo Valli

KIEV. VLADIMIR Putin affretta i tempi.
Non avvista ostacoli e schiaccia l’acceleratore. L’annessione della Crimea si profila. Mancano dieci giorni. La crisi più che aggravarsi diventa per certi versi insultante.
GLI affannati tentativi diplomatici in corso non accendono segni di distensione, ma i russi vi partecipano con zelo, mentre sul terreno, incuranti, appesantiscono la situazione. Putin continua ad affiancare con grande disinvoltura un’autentica prepotenza e una finta legalità. Nell’invadenza è pignolo. Non vuole prove evidenti. Muove i soldati in Crimea, ma sono militari senza mostrine. E tiene alla procedura come un procuratore al codice. Non escludendo che un giorno potrebbe intervenire in tutta l’Ucraina, per difendere i suoi compatrioti, ha chiesto il voto della Duma. E sempre alla Duma ha chiesto di rivedere la legge per agevolare eventuali annessioni di territori in mano a potenze straniere. Al tempo stesso, in Crimea, il Parlamento locale, che ha già votato il ricongiungimento alla madre Russia, vuole un’approvazione popolare. Mosca consiglia di rispettare la legalità. Sergei Aksyonov, il primo ministro della Crimea col cuore russo, che non riconosce il governo di Kiev, e che il governo di Kiev vuole arrestare per tradimento, pensava alla data del 30 maggio. Ma poi, visto che tutto scorre liscio, ha anticipato il referendum al 30 marzo. Adesso la data è stata ravvicinata. Le cose vanno a gonfie vele e bisogna approfittarne. Tra dieci giorni, sabato 16 marzo, gli abitanti della Crimea dovranno scegliere tra un’autonomia più accentuata della loro provincia e l’annessione alla Russia.
Quest’ultima già decisa dal Parlamento locale. Legale per Mosca e fuori legge per Kiev.
Agli occhi di Putin l’Unione europea deve apparire in queste ore una grande Svizzera.
La quale, quando s’arrabbia, seleziona i passaggi al confine di Chiasso. Cosi è stato in fondo deciso a Bruxelles ieri, dove i capi dell’esecutivo, indignati dai fatti di Crimea, hanno sospeso i negoziati sui visti in corso con la Russia. Meno oligarchi miliardari nei casinò della Costa Azzurra o negli uffici commerciali di Francoforte? Le eccezioni sono sempre possibili. Anzi auspicabili. Però sui principì non si transige. Quelli devono essere enunciati in coro e ribaditi. Non si sottrae una provincia al Paese vicino. Non si minacciano invasioni. Cosi è stato. Vladimir Putin sa in queste ore di poter osare. Tanto l’Europa che ha di fronte ha un civilissimo comportamento svizzero. Alla sua possiamo affiancare una nostra considerazione. Dopo sessant’anni di non vere guerre sul nostro continente, pensavamo che fosse stata l’Europa a garantire la pace. Invece ci accorgiamo che è la pace ad avere fatto l’Europa semiunita. Ne siamo il prodotto e non i fautori. Quindi, senza tutela, non siamo capaci di gestirla. Come se non ci appartenesse e non ne avessimo la responsabilità. Dovremo imparare. Per ora abbiamo l’impressione che Vladimir Putin ci prenda in giro.
Ho ascoltato con rispetto il dignitoso lamento di Pavlo Sheremeta, il ministro dell’economia ucraino, che dichiarava «incostituzionale» il referendum in Crimea. Solo il governo centrale, o il Parlamento nazionale, può convocarlo. Non un’assemblea locale. Anche il primo ministro, Arseni Yatseniuk, che partecipava al vertice di Bruxelles, ha fatto la stessa denuncia. Ma nel cuore dell’Europa tanto desiderata si deve essere reso conto di quanto essa sia incerta e incapace di assumere decisioni. Durante il soggiorno Yatseniuk ha perlomeno avuto la conferma degli aiuti promessi. Quindici miliardi di euro, anche se non subito, ma quando il Fondo monetario internazionale ne avrà approvato le condizioni. Il primo ministro ha colto l’occasione per ribadire l’adesione all’associazione con l’Unione europea, rifiutata dal precedente governo filo russo. Non si tratta di un’adesione, ma di un semplice “partenariato”, e tuttavia l’impegno non farà piacere a Mosca. Né favorirà la presa di contatto tra responsabili politici russi e ucraini. Finora ce ne sono stati soltanto a livello economico. E i russi ne hanno approfittato per annunciare la fine della riduzione del prezzo del gas fornito all’Ucraina e per chiedere il pagamento dei due miliardi di euro dovuti da Kiev alla Gazprom.
Nel ‘68 ho vissuto l’invasione russa della Cecoslovacchia, e allora ho voluto conoscere gli umori di Praga in questi giorni. Quasi mezzo secolo dopo. Il ministro della difesa, Martin Stropnicki, ha dichiarato fuori gioco le imprese russe che partecipano a una gara per la costruzione di una centrale nucleare. Sarebbe una vergogna se la vincessero e gli americani fossero sconfitti. Per lui bisogna punire i russi. Ma il primo ministro, Bohuslav Sobotka, lo ha richiamato all’ordine: «È impossibile immaginare di bruciare i ponti commerciali con la Russia per questa crisi».
Molto più prudente si è rivelato Gerhard Schroeder. E lo si capisce. L’ex cancelliere socialdemocratico, ritenuto il modernizzatore della Germania, è un dirigente della più importante impresa russa. Per Gazprom, ha la responsabilità dei lavori per la costruzione di un gasdotto attraverso il Baltico. «L’Ucraina? Che cos’è?» ha esclamato in un incontro a Parigi, rifiutando di entrare nell’argomento. Ma indirettamente l’ha poi abbordato criticando gli occidentali che detestano Putin. «Detestare qualcuno non è un criterio in politica. Bisogna essere razionali, usare la ragione». E infatti gli industriali tedeschi, nel loro insieme, la usano quando si esprimono contro eventuali vere sanzioni contro Putin. E con loro sono probabilmente d’accordo in generale i colleghi europei. Gli scambi commerciali dell’Ue con la Federazione russa ammontano a 460 miliardi. Mentre quelli americani, sempre con la federazione, sono inferiori di dieci volte. La Germania è il principale cliente europeo del gas e del petrolio russi, che costituiscono il quaranta per cento del suo fabbisogno. Il vice cancelliere Sigmar Gabriel, ministro dell’Economia e presidente dell’Spd, non ha annullato, ieri, il previsto viaggio d’affari a Mosca. Ma incontrando Putin ha evocato i rischi della crisi. Che per il suo collega agli Esteri, il socialdemocratico Frank Walter Steinmeier, deve essere affrontato con «più diplomazia». Per gli inglesi della City «il Regno Unito non potrebbe sopportare sanzioni commerciali o la chiusura del centro finanziario di Londra alla Russia».

Corriere 7.3.14
Pussy Riot aggredite e «sfregiate»

MOSCA — Due Pussy Riot, Nadezhda Tolokonnkova e Maria Aliokhina, icone dell’opposizione al regime del Cremlino, sono state aggredite e sfregiate ieri da un gruppo di nazionalisti russi mentre facevano colazione in un McDonald’s prima di recarsi in visita alle detenute del carcere di Nizhny Novgorod, 400 km a est di Mosca. Le giovani dissidenti (sopra dopo l’aggressione) sono state attaccate al volto con oggetti metallici, mercurio cromo, spray urticante al peperoncino e antisettico verde. Il video dell’attacco, ripreso da una di loro, è sul web. Nel filmato si vedono gli aggressori indossare simboli patriottici russi. «Sporche puttane, fuori dalla città», grida uno di loro. Nadezhda ha riportato bruciature di primo grado a un occhio, sul volto e sulle mani, Maria soffre di commozione cerebrale .

La Stampa 6.3.14
“Condannato a morte come un cane. In America i detenuti sono schiavi”
Il testamento choc di Ray Jasper, che sarà giustiziato il prossimo 19 marzo
“Se un prigioniero si rifiuta di lavorare lo chiudono in isolamento. Avete idea di che effetto ha questo sulla mente umana?”
di Paolo Mastrolilli
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La Stampa 7.3.14
Gli egiziani più ricchi?
Tutti amici del generale al-Sisi
A tracciare il ritratto del gotha economico dell’Egitto è il magazine “Forbes”. Gli imprenditori più facoltosi nei settori di costruzioni, auto, comunicazioni e media provengono tutti da due famiglie: i Sawaris e i Mansour
di Maurizio Molinari
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Il Sole 7.3.14
Intervista al ministro delle finanze cinese
«La vera chiave è l'occupazione»
di Rita Fatiguso

Strano Paese, la Cina, in cui il ministro delle Finanze è una star stretta d'assedio dai giornalisti. Succede perché Lou Jiwei (nella foto) si concede a colloqui ravvicinati in occasione della sessione parlamentare, rompendo quel protocollo che mette distanze abissali tra i componenti del Governo e il resto del mondo. Il ministro è nato nel 1950 a Yiwu, cittadina dello Zhejiang diventata il regno mondiale delle small commodities e simbolo del miracolo economico cinese.

Lou è stato dal 2007, anno di nascita, fino all'anno scorso, il numero uno di China Investment Corporation (Cic), il fondo sovrano di Pechino. Ora che ha in mano le chiavi della cassa cinese, in un certo senso, ha anche quelle del futuro del suo Paese: le riforme che scottano toccheranno al suo dicastero.
Nel rapporto del Governo al Parlamento il premier Li Keqiang ha detto che la crescita del Pil nel 2014 sarà all'incirca del 7,5. Xu Shaoshi, il capo dell'agenzia di pianificazione economica Ndrc, l'ha definita una soglia sotto la quale non si può scendere, come quella dei 10 milioni di nuovi posti di lavoro.
Le parole del premier vanno interpretate nel loro complesso. Non bisogna però considerare soltanto il Pil, ma anche altri elementi come l'inflazione, se è troppo alta cambia il quadro della situazione. Vedo ugualmente bene una crescita economica anche del 7,2 e 7,3 per cento. La vera chiave è l'occupazione, non l'esatto livello di crescita. In questo senso voglio anche sottolineare l'importanza evidenziata dal premier del maggior contributo fornito dal settore dei servizi alla formazione del Pil. C'è stato un superamento dell'industria e questo è un risultato molto importante per la Cina.
La lotta alle spese dei ministeri e in senso più ampio a quelle legate ai regali di lusso sembra ancora lontana dal centrare gli obiettivi. Cosa pensate di fare?
Gli obiettivi che ci si era posti nella gestione di queste strategie erano molto alti da poterli raggiungere in così poco tempo. Questo può spiegare la reazione della gente. Ma procederemo, anche nella tassazione annunciata dei beni di lusso e non solo.
In che senso, a cosa si riferisce?
Le tasse possono essere usate per migliorare la vita delle persone. Penso alla possibilità di colpire il consumo delle sigarette, ad esempio. E poi vogliamo far pagare le tasse a chi inquina. Abbiamo riordinato decine di imposte, ne vogliamo introdurre di nuove con questo spirito. Stiamo chiedendo alle singole amministrazioni di darci conto di come spendono i soldi, non è semplice, ma il processo è avviato.
A proposito di tasse c'è chi trova odiose le finte separazioni per evitare di pagare il 20% sull'acquisto di una seconda casa. Chi pagherà quel 20 per cento?
La legge oggi lo permette, ma bisognerà fare almeno due cose, per un verso considerare il reddito familiare nell'insieme, quindi non limitarsi in casi come questi alla singola persona, a Pechino hanno già iniziato per fortuna a correggere il meccanismo. Per me comunque quella di cui stiamo parlando non è una buona legge. Stiamo lavorando a una legge per tassare la proprietà immobiliare, stiamo lavorando per capire come e a che tipo di tassazione fare ricorso.
La Cina, si legge nel report del ministero delle Finanze, ha incrementato il gettito fiscale ma, la notizia è freschissima, si è anche deciso di aumentare la spesa per la difesa di oltre il 12 per cento. Esiste una correlazione tra entrate fiscali e spese per la difesa?
La determinazione della spesa per la difesa segue i suoi canali e tra l'altro è uno degli elementi che il Terzo Plenum di novembre ha deciso di riformare. Non bisogna confondere le spese della difesa con quelle per la pubblica sicurezza, estremamente necessarie. Sono due cose completamente diverse.
Come pensate di rimodulare il budget tra governo centrale e governi locali sempre a corto di risorse?
Intanto cerchiamo di mantenere il deficit al 2,1% del Pil. Poi abbiamo rimodulato nel 2014 il budget del governo centrale aumentando la quota del governo centrale e rafforzato il fondo di stabilizzazione. A livello territoriale, invece, il vero problema è che i governi delle province vogliono e avrebbero bisogno di attrarre investimenti, questo darebbe una svolta a tante situazioni critiche. Deve essere il mercato a determinare chi e come debba andare a investire.
Siete impegnati con la riforma del sistema della tassazione, a che punto della strada siete?
Abbiamo lasciato in piedi le 7-8 leggi più importanti, per le altre e sono tante bisognerà ancora attendere per l'approvazione. Lavoriamo a stretto contatto con la Ndrc, il nostro lavoro è tra quelli che più incidono sulla vita delle persone e sul loro benessere. Anche nell'adottare le decisioni dobbiamo pensare alle differenze sociali ed economiche che esistono, quindi non si possono prendere decisioni uguali, bisogna andare a vedere i singoli casi e le decisioni vanno prese considerando la diversità.

Il Sole 7.3.14
Tra vecchia e nuova leadership
La metamorfosi del Dragone
di Francesco Sisci

Al confronto dell'immediatezza della violenza dei soldati armati e degli scontri di piazza in corso da giorni in Ucraina, rispetto alla prospettiva di una nuova Guerra fredda edizione anni 2010 tra la Russia e l'Occidente, la ritualità barocca, il linguaggio involuto e l'organizzazione esoterica del Parlamento cinese sembrano proprio fuori dal tempo.
Eppure molto probabilmente è proprio dal Congresso nazionale del popolo (Npc, il parlamento cinese) in corso in questi giorni a Pechino (incomprensibile ai più proprio come un consesso segreto di cardinali) che verranno le conseguenze maggiori per la politica e l'economia del pianeta.
Con un obiettivo per il 2014 di aumento del Pil fissato al 7,5% (dopo il 7,7% raggiunto l'anno scorso) la Cina darà probabilmente il maggiore contributo singolo alla crescita globale. Questo tasso di sviluppo porterà il Paese alla fine di dicembre ad avere un Pil di oltre 10 trilioni di dollari (circa cinque volte l'Italia) quasi due terzi di quello americano, che a fine anno dovrebbe essere di 17 trilioni di dollari, con un tasso di crescita intorno al 2%. La prospettiva, politicamente ed economicamente rivoluzionaria più di ogni nuova guerra fredda in Europa, di un sorpasso Cina-America entro un decennio diventa molto più concreta. Questo il punto e l'obiettivo profondo della nuova dirigenza cinese: come sarà la struttura economica cinese fra dieci anni, pronta a proseguire la crescita o sull'orlo di un precipizio e dunque prossima a crollare?
Il premier Li Keqiang che mercoledì per la prima volta ha presentato il rapporto programmatico del Paese rispondeva infatti a questo interrogativo.
Diversamente dai suoi predecessori, i quali parlavano più da ministri dell'economia che da capi del governo, Li ha illustrato un programma di riforme che vanno dall'agricoltura alla polizia passando per misure per rendere più facile la vita delle imprese private. Imprese private potranno avere maggiore accesso per entrare nel capitale di aziende pubbliche, potranno aprire istituti finanziarie e soprattutto saranno sottratte alla vessazione annuale di revisioni burocratiche, spesso occasioni di taglieggiamenti da parte di funzionari corrotti.
Dovrà cambiare quindi il modello stesso della crescita. Si dovrà passare da uno sviluppo trainato negli ultimi anni da enormi investimenti pubblici in infrastrutture a uno sviluppo che si affiderà sempre di più alla capacità imprenditoriale delle aziende private, le quali sono state peraltro il motore della crescita nazionale negli ultimi trent'anni.
Queste nuove imprese private dinamiche, concorrenziali, innovative dovranno essere in grado di competere sul mercato globale e quindi creare un mercato interno più sano che dovrebbe continuare a espandersi anche dopo il sorpasso americano, pure senza un diretto aiuto dello Stato. In questo senso l'aumento graduale ma continuo degli stipendi, l'espansione di un sistema di assicurazione sanitaria, la promessa delle sorti progressive della Cina stanno facendo allargare il consumo del mercato interno che dovrebbe poi sostituire le esportazioni come spinta di crescita.
Questo disegno ha molte trappole e tanti punti interrogativi. Il debito interno è il primo ostacolo. Cresciuto senza freni dopo la manovra espansiva del 2009 (per superare la crisi economica globale del 2008), oggi dovrebbe essere stato portato sotto controllo. Il premier non ha fatto cifre, ma ha annunciato che è stato oggi chiaramente contabilizzato e che è prevista l'emissione di obbligazioni locali oltre che freni strettissimi alle spese pubbliche per riportare i conti in ordine. Il secondo interrogativo riguarda l'ambiente internazionale, dove lo sviluppo tumultuoso del Paese attira ansie crescenti. Qui l'annuncio di un aumento del bilancio militare del 12% serve anche a intimidire vicini e lontani contro ogni tentazione di fare pressioni indebite sul paese.
Eppure la trappola maggiore al programma di governo è all'interno. I capi di ministeri e di grandi e piccole aziende di stato avevano costruito grandi fortune personali sfruttando monopoli pubblici per interessi privati. Questi interessi saranno abbattuti, più o meno velocemente, dalla crescita delle dinamiche imprese private oggi sostenute dalla massima dirigenza.
È un sistema di privilegi, corruzione sistemica e parassitismi che va a crollare e che si sta opponendo in ogni modo, come può alla ventata di nuovo. Qui c'è stata l'indicazione politica più forte. I premier e i ministri che stanno parlando in questi giorni sottolineano che le decisioni vengono prese «sotto la leadership del presidente Xi Jinping». È una formula nuova e molto forte che indica il potere di Xi, senza precedenti dai tempi di Mao. Ciò vuole anche dire che chi si oppone alle decisioni della leadership lo fa a suo rischio e pericolo e che l'influenza di tanti ex alti dirigenti, abituati a tessere le fila dietro il palcoscenico, è finita.
In questi giorni circolano a Pechino voci sul prossimo processo pubblico contro l'ex capo supremo della sicurezza cinese Zhou Yongkang. Zhou è il primo ex membro del politburo ristretto (il vertice della dirigenza) a essere messo sotto processo dai tempi della banda dei quattro, alla fine degli anni 70. Egli è ufficialmente accusato di corruzione, insieme a tutta la sua famiglia e decine di collaboratori e sodali. Ma la sua colpa maggiore è quella di avere cercato di opporsi alle riforme di Xi e avere creato e protetto una struttura di potere di fatto molto autonoma rispetto al vertice. La sorte del grande Zhou perciò diventa un esempio ai tanti Zhou minori: se non si adegueranno al nuovo corso sanno cosa aspettarsi.
È allora una questione quasi di vita o di morte per le parti in causa. Molti poteri ex forti sanno di dovere perdere tutto o quasi se non si opporranno, e il vertice sa che rischia di perdere il Paese se non va a fondo con le riforme. La lotta alla corruzione perciò non è finita, e potrebbe riservare nuovi, grandi sorprese, mentre una fase storica della Cina, con funzionari quasi satrapi locali, appare al tramonto e il nuovo ancora non si sa che faccia avrà.
Francesco Sisci è commentatore politico alla televisione centrale cinese (Cctv), www.sisci.com

Repubblica 7.3.14
Rosi: “Volonté un comunista che combatteva con il cinema”
A vent’anni dalla morte del grande attore, il Festival di Bari gli dedica una retrospettiva. Ne abbiamo parlato con il regista che l’ha diretto in cinque film
intervista di Arianna Finos

ROMA. «L’ultima persona che mi ha ricordato Gian Maria non è un attore. È papa Francesco». Francesco Rosi è un signore di novantun anni, lucido e fin troppo esigente con la propria memoria. Nel corso della lunga chiacchierata sull’amico Volonté, nell’attico a un passo dal Quirinale, il regista napoletano si stizzisce quando non trova la parola giusta o non conclude rapidamente un concetto. Per raccontare non aspetta la domanda e parla al presente: «Ci tengo a dire subito qualcosa. Gian Maria è un attore unico. Per tempi, sguardi, intensità. Per la capacità unica di comunicare l’elaborazione del suo pensiero, prima ancora di formulare la battuta».
All’attore-autore, che il 9 aprile 2013 avrebbe compiuto 80 anni e del quale il 6 dicembre ricorrono vent’anni dalla scomparsa, il Bif&st (Bari international film festival, 5-12 aprile) dedica il più vasto tributo mai realizzato, un festival nel festival, ripercorrendo la carriera con mostre, proiezioni e incontri con registi e attori.
Francesco Rosi e Gian Maria Volonté hanno realizzato insieme cinque film, da Uomini contro nel 1970 a Cronaca di una morte annunciata, nel 1989. «Uomini contro è stato un film piuttosto impegnativo sulla prima guerra mondiale. Al potere militare non importava granché delle quantità enormi di soldati mandati a morire. Al momento non fu amato, oggi è uno dei film che i ragazzi guardano di più. Pensai a Gian Maria per il ruolo del tenente che cerca di impedire il massacro dei suoi uomini. Lo scelsi per il modo in cui i suoi occhi e il suo volto esprimevano l’intensità con cui diceva le cose che pensava». Fu l’incontro di due personalità diverse, unite dalla sacralità del mestiere inteso come preparazione e impegno. «Trascriveva tutte le battute, tutta la sceneggiatura, anche quattro volte. Appuntava su un tavolo da disegno tutte le battute e i contraddittori. Durante una scena di Cristo si è fermato a Eboli, Paolo Bonacelli non ricordava la battuta. “Riprendiamo, dicevo io”. Proviamo ancora, ma l’amnesia continua. A un certo punto Gian Maria, con un sorriso quasi giustificatorio dice: “Eh, non ha studiato”».
Rosi si sofferma sullo straordinario mimetismo del suo attore feticcio, «era alla ricerca continua del dettaglio. In Il caso Mattei durante la sequenza in cui il presidente dell’Eni si sveglia in un albergo dopo una notte insonne e scende nella hall, noto che Gian Maria cammina con i piedi piatti. Controllo le foto di Mattei, e vedo che in una ha i piedi sistemati come se li avesse piatti». Sul set di Lucky Luciano, «una mattina Gian Maria mi sorride e io realizzo che ha un’altra bocca, completamente diversa. Si era fatto fare un’applicazione speciale dal dentista. Quando la bimba chiede “Sei Lucky Luciano?” lui sorride ed esce fuori un ghigno terribile. Verso la fine del film ci raggiunge la donna che era stata l’ultima amica del boss. Fissa Gian Maria a lungo, gli occhi negli occhi, si gira verso di me e dice: “È isso”, è lui».
Tra il regista partenopeo e l’attore nato a Milano l’affinità professionale è totale. «Lo accompagnavo dal mio sarto, dal mio barbiere. Mi piaceva che in ogni nostro film avesse almeno un indumento mio, un cappotto, una cravatta, una camicia. Anche per scaramanzia». Fuori dal lavoro le frequentazioni non erano assidue, «avevamo entrambi una casa al Villaggio dei pescatori a Fregene, andavamo in spiaggia. Ma Gian Maria era un uomo chiuso. La nostra non è una di quelle amicizie in cui ci si incontra per andare a pranzo». Volonté aveva fama di carattere spigoloso: «Non ho mai trovato ragioni di contrasto con lui. Mai. Con Petri erano molto amici, ma proprio questa intimità consentiva loro di accanirsi l’uno contro l’altro. Noi l’abbiamo evitata. Per ragioni politiche ci potevano essere momenti di contrasto, specie durante la stagione del terrorismo. Io ero un socialista riformista, lui un comunista idea-lista, se avessimo cominciato a discutere sarebbe finita male». Per entrambi c’era la condivisione di un’idea di cinema civile, d’impegno. Negli ultimi anni Volonté lavorava sempre meno, «sceglieva solo i progetti che lo convincevano davvero. Infatti con me ha fatto cinque film. Molte delle mie opere, oggi considerate culto, non furono accolte bene. Quando uscì Le mani sulla città, a parte gli applausi a Venezia, ci furono pernacchie: le signore portavano il chiavino dei portoni per fischiarci meglio».
Il ricordo più bello è legato a Cristo si è fermato a Eboli. «Vivemmo per mesi in un paesino della Lucania. Mangiavamo tutti insieme, la sera dormivamo nelle case dei paesani. Volonté andava a giocare a carte con i macchinisti, gli elettricisti. Le sue scelte mi ricordano papa Francesco che, da laico, ammiro. Gian Maria frequentava la gente semplice, che aveva problemi nella vita. Amava stare con quelli piuttosto, che cercare altri tipi di compagnia».

l’Unità 7.3.14
E Marx disse: ragazzi sono ancora marxista
di Bruno Gravagnuolo

«EBBENE SÌ, RESTO ANCORA MARXISTA» Così si potrebbe parafrasare la deliziosa Intervista immaginaria con Karl Marx ( Castelvecchi, pp. 46, Euro 6) dello storico britannico Donald Sassoon, già allievo di Eric Hobsbawm, studioso del Pci e del movimento operaio europeo. Una battuta ovviamente, che capovolge il famoso refrain «io non sono marxista», copyright di Marx stesso, con il quale il fondatore del socialismo scientifico si smarcava ironicamente da sè stesso. Ma è questo il filo conduttore e l’umore che pervade la reinvenzione del genere ideato da Eco e applicata al redivivo Marx.
Perché il barbone, nell’immaginazione dello storico, non è affatto pentito e anzi rivendica con puntiglio tutte le sue profezie e le sue analisi. Soffermandosi con cura sull’effetto paradosso della sua predicazione: allontanamento delle crisi in occidente tramite il riformismo socialista. E «inveramento» del marxismo in un dispotismo asiatico e semiabarbarico, che dall’Urss si è irradiato da modello. Dice Marx: che colpa ho io di tutto quel sangue versato in mio nome con Stalin? E come potevo prevedere che le mie idee sarebbero state usate come l’elettrificazione in uno stato feudale da riedificare sulle ceneri zariste? E il capitalismo ha fatto meno massacri del socialismo? In realtà Sassoon su alcune cose poteva essere più incalzante con il suo Marx, «inscenato» in vesti provocatorie e rissose (e Marx era anche così). Per due motivi. Primo, perché Marx si interrogò anche sulla Russia e non è vero che di lì non si aspettasse nulla. Anzi, benché in modo tormentato, ipotizzò prima di morire che la comunità russa (il Mir) potesse essere la base di una industrializzazione che partiva dall’agricoltura. A differenza della comunità indiana, distrutta dagli inglesi in Marx dal loro «inevitabile » capitalismo. E poi perché è vero, come ricorda Marx, che la «dittattura del proletariato» fu concetto da lui usato solo un centinaio di volte. E però è anche vero che parlamento e potere diviso ripugnavano alquanto a Marx. Restano intatte le altre «profezie», sulle quali il Marx di Sassoon è ancora imbattibile. La crisi capitalistica innanzitutto, connaturata al Capitale, come si vede oggi su scala globale. Da un lato il Capitale abbassa i salari dall’altro deve vendere. A chi e come? A debito privato. E allora si inventa gli «imbrogli» della finanza. Marx lo aveva capito e scritto. Pari pari.

l’Unità 7.3.14
La leggerezza di Matisse
Quelle pennellate rade e libere che sbalzano le figure su tela
di Renato Barilli

PER HENRI MATISSE SI PUÒ RIPETERE QUANTO, POCHI GIORNI FA, DICEVO A PROPOSITO DI FERDINAND LÉGER, entrambi appartenenti al Parnaso dei massimi valori espressi dalle avanguardie storiche del primo Novecento, il primo ancor più del secondo, ma non molto visti, almeno di recente, nei nostri musei, e dunque, ben venga, anche per Matisse, una retrospettiva capace di raggranellare un centinaio di opere, tra dipinti, sculture, disegni collages, con cui il ferrarese Palazzo dei Diamanti riesce a offrirci, seppure a maglie rade, un panorama convincente della sua arte.
Un’arte difficile da giudicare, soprattutto se si vuole riconfermare il ruolo di un primo della classe che tutto sommato si è abituati a riservarle. La nascita precoce dell’artista (1869-1954) ha rischiato di imprigionarlo per sempre nell’intimismo fin-de-siècle, quasi confuso tra i Nabis da cui lo separavano solo pochi anni, e dunque gliene è venuto un compito analogo a quello toccato a Vuillard e a Bonnard di saltar fuori dalle spire di «interni» colmi di mobili e carte da parato e vasi di fiori, pur nell’atto di rispettarli.
A dire il vero, Matisse, subito all’inizio di secolo, è riuscito a sottrarsi con forza da quelle spire, tuffandosi risolutamente nella prima avanguardia, quella detta a ragione dei «fauves», delle belve, che affrontavano le parvenze della «belle époque » a scudisciate, con forti sbattimenti cromatici, maltrattando in sostanza le sagome, anche femminili. Anzi, in quella fase Matisse, oltre ad affidare la sua furia ai pennelli, la svolse ben di più con la scultura, in cui sembrava proprio voler strozzare le figure muliebri, allungandole, torcendole, o squartandole come in macelleria. Ma poi, quando, con le picassiane Demoiselles d’Avignon, nel 1907, si prospettò la vera avanguardia che voltava pagina, trattando le forme con i cubi del mondo delle macchine, il Nostro avvertì un impaccio, su quella strada, cui invece aderì senza riserve un compagno di via delle esperienze fauviste quale Georges Braque. Matisse sembrò appartenere alla categoria di «quelli che restano», per usare una famosa etichetta di Boccioni, rifiutando in sostanza di applicare alle sembianze umane, o dei fiori e frutti, gli schemi astratti della geometria. Come se Matisse fosse risucchiato dalle sue origini, quando in definitiva avrebbe potuto abbracciare l’«à plat» di Gauguin, ovvero una pittura aderente alla superficie, rinunciataria rispetto ai risoluti movimenti spaziali che invece erano propri del Cubismo, e sulla sua scia di tutti gli altri «ismi» rinnovatori, Suprematismo, Costruttivismo, lo stesso nostro Futurismo. In parte fu proprio così, per quel verso Matisse fu un «resistente», quasi che avesse già violentato in eccesso le vecchie figure. Ma in realtà egli aveva una ricetta che lo salvava, consistente in una maestria sovrana nel tinteggiare gli spazi, dentro, fuori, attorno alle figure, o alle tavole onuste di chincaglieria varia. Quelle pennellate, spesso magre, rade, libere, riuscivano magicamente a ristabilire le distanze, le varie sagome balzavano avanti-indietro sulla tela, quasi col potere di saltarne fuori.
È stato detto, giustamente, che quelle stesure sapienti valevano come «repoussoirs», noi diremmo «respingenti». Si può fare riferimento alla legge dei liquidi, e dunque, grazie alle diverse gradazioni cromatiche, alcuni corpi, nelle tele matissiane, vengono a galla, mentre altri affondano nelle retrovie, o si inabissano, ma in acque terse che ne consentono comunque la leggibilità. Seduto sulle sponde di quel suo stagno di nuovo conio, l’artista attese paziente di veder passare le spoglie dell’avversario, che ovviamente altri non era se non Picasso, i cui cubi, a un certo punto, andarono in crisi, nel momento in cui il meccanomorfismo non fu più di moda, nella nostra società, e dunque, nel dopoguerra, tanti si affidarono a stesure liquide e sciolte, si pensi a Rothko, negli USA, o addirittura all’arrivo dei Graffitisti, capeggiati da un Jean-Michel Basquiat che può sembrare davvero il magnifico erede della virtù matissiana, di andar via leggero, di far danzare le figure attraverso emersioni minime, ma sicure, da una incantata tappezzeria multicolore. Le imperiose erezioni macchiniste del Cubismo e derivati si sono afflosciate su se stesse, come Matisse in qualche misura aveva previsto, mettendosi ad attendere con pazienza di essere raggiunto dall’avversario di un tempo.

Corriere 7.3.14
Florenskij, lezioni di invisibile

C’è un manoscritto a Mosca intitolato «Corso di base. Introduzione alla filosofia antica». Contiene 15 lezioni tenute agli studenti del secondo anno nel semestre autunnale 1908, presso l’Accademia Teologica. È conservato nell’archivio della famiglia Florenskij. Una parte di esse apparirà sul «Bogoslovskij vestnik» nel 1913 con il titolo «I limiti della gnoseologia. L’antinomia fondamentale della teoria della conoscenza». Ora, curato da Michele di Salvo, esce in italiano questo lungo e fascinoso frammento di Pavel Florenskij con il titolo L’infinito nella conoscenza (Mimesis, pp. 68, e 4,90). Nella breve e densa introduzione si nota che la questione conoscitiva ebbe un ruolo di rilievo tra gli interessi di questo filosofo e matematico, tanto da costituire la coordinata di riferimento della sua opera maggiore, «La colonna e il fondamento della verità». Florenskij era convinto che ogni nostro pensiero «tocca l’infinità della conoscenza» e che in ogni atto del quotidiano si riflette l’eterno. Egli cercava quella «verità vivente» che non rifiuta l’invisibile. E che Platone aveva insegnato.

Corriere 7.3.14
Allarme Svizzera, adesso l’Europa mediti
Equilibrio più compromesso: il modello federale che non sopporta il centralismo
di Paolo Di Stefano

L’edizione numero 67 del Festival di Locarno, che si terrà dal 6 al 16 agosto 2014 sotto la direzione di Carlo Chatrian, presenta una retrospettiva sulla casa di produzione Titanus, l’equivalente italiana della Metro Goldwyn Mayer e della 20th Century Fox, case americane con cui realizzò negli anni Sessanta numerose coproduzioni. Il pubblico di Locarno avrà la possibilità di vedere i grandi melodrammi con la coppia Amedeo Nazzari-Yvonne Sanson diretta da Matarazzo, le serie «Pane amore» e «Poveri ma belli» di Comencini e Risi, ma anche i film di Fellini, Visconti, Lattuada, Olmi, Pietrangeli, Zurlini e le produzioni di genere di Bava, Margheriti, Freda, Mastrocinque

Lo scorso 9 febbraio si è tenuto in Svizzera un referendum sul problema dell’immigrazione, che ha visto il successo della proposta avanzata dal partito conservatore Unione democratica di centro (Udc) per bloccare l’accordo di libera circolazione in vigore con l’Unione Europea e reintrodurre i contingenti per i lavoratori stranieri. L’iniziativa si è affermata di poco, con il 50,3 per cento dei voti popolari, ma avrà conseguenze rilevanti, poiché prevede che vengano fissati «tetti massimi annuali per gli stranieri che esercitano un’attività lucrativa» sul territorio elvetico. Ciò mette a rischio i numerosi frontalieri italiani che lavorano in Svizzera e più in generale le relazioni tra Berna e Bruxelles

Un testo di carattere generale sulla Confederazione elvetica è laStoria della Svizzera dall’antichità ad oggi di Emilio R. Papa (Bompiani, 1994). Su aspetti particolari: Martin Kuder
Italia e Svizzera dal 1945 al 1970 (Angeli, 2012); Etienne Piguet, L’ immigrazione in Svizzera. Sessant’anni con la porta semiaperta (Casagrande 2009)

Equilibrio. È questa la parola chiave che spiega la Svizzera. L’altra è: compromesso. La necessità, a tutti i costi, di trovare un compromesso. A dirlo, in questa fase non facile della storia elvetica, è Marco Solari, 69 anni, presidente del Festival di Locarno, un cursus honorum di tutto rispetto: per anni, dal 1972, direttore dell’Ente Ticinese per il Turismo e dall’88 delegato del Consiglio federale per le celebrazioni del settimo centenario della Confederazione. Nato a Berna da padre ticinese e madre svizzero-tedesca di famiglia protestante, ha frequentato le scuole nella sua città natale, parlando in casa l’italiano, imposto da suo padre perché il ragazzo crescesse bilingue. Università a Ginevra, in Scienze economiche e sociali, con una passione prevalente per la storia. Una nonna paterna molto cattolica che accolse in casa, profugo, Giovanni Battista Migliori, uno dei pilastri della Dc nascente.
«In famiglia — dice Solari — abbiamo sempre sentito l’esigenza di un equilibrio, lo stesso equilibrio su cui si fonda la Confederazione, che sull’asse Nord-Sud è cattolica e sull’asse Est-Ovest è protestante». Solari cita Giovanni Calvino, lo scrittore Jeremias Gotthelf e il teologo sangallese Zwingli. Certo, suona strano sentir parlare di equilibrio dopo la votazione popolare del 9 febbraio, in cui gli svizzeri si sono espressi contro l’immigrazione di massa. «Regioni, cantoni, lingue molteplici. Al suo interno persino il piccolo Ticino ha storie, valori, mentalità, modi di esprimersi diversi: un Sottoceneri che idealmente appartiene all’area lombarda e un Sopraceneri che guarda al Nord, con il Monte Verità che è un vero balcone sulla Mitteleuropa. La cultura politica elvetica ha l’esigenza di tenere in armonia tutte queste varietà straordinarie, tra forze centrifughe e spinte centripete. Per questo il valore più alto è quello del compromesso».
Già, il compromesso interno: a costo di uno squilibrio rispetto all’Europa? Solari sorride. «Lo svizzero sa che acqua e fuoco sono inconciliabili: la democrazia diretta, così come è vissuta da noi, contrasta totalmente con il dirigismo centralizzato dell’Ue, anche quando è a servizio della causa più nobile, e cioè la libera circolazione. Non vogliamo scomparire dentro l’Europa come una zolletta di zucchero nell’acqua. È profondamente ingiusta la reazione europea che tende a demonizzare la decisione svizzera di arginare l’immigrazione: in fondo gli stranieri nella Confederazione sono il 25 per cento della popolazione totale. Senza quell’equilibrio interno che è la nostra ragione di vita diventiamo un’appendice dell’Europa, il Ticino diventa un’appendice della Lombardia e così via».
Qualcuno sostiene però che questo senso di accerchiamento e di minaccia è del tutto anacronistico nel mondo globalizzato. Non è arrivato il momento di rivedere i sacri princìpi che reggono il cosiddetto «Sonderfall», l’idea di separatezza, l’immagine di una Svizzera come caso particolare? «L’esperienza personale — dice Solari — mi ha insegnato, fin dai tempi dei referendum indetti da Schwarzenbach negli anni 70, che il popolo elvetico nelle votazioni ha sempre dimostrato un senso di responsabilità». Anche in tempi, come questi, di grande complessità sociale e di trionfante populismo politico? In fondo, in questa occasione uno scarto di 10 mila voti rischia di avere conseguenze enormi, anche se il Consiglio federale sta già correndo ai ripari mettendo in campo tutte le sue qualità diplomatiche. «Certo, le preoccupazioni sono molto serie e secondo me il principio della libera circolazione avrebbe meritato uno sforzo di comprensione maggiore da parte della Svizzera. Ma anche se personalmente ho votato con la minoranza, accetto le decisioni popolari. È il prezzo della democrazia diretta. L’Europa farebbe bene a considerare il voto svizzero come un grido di dolore e non come una sfida». Solari fa i nomi di Carlo Cattaneo e di Norberto Bobbio, i suoi fari. Risale al Risorgimento per ricordare il contributo dei ticinesi, capaci di sfidare i blocchi austriaci tra il 1848 e il ‘53, la comprensione per gli aneliti lombardi e l’accoglienza di migliaia di profughi anche durante la guerra. «Einaudi, Montanelli, Chiara, Contini, Filippo Sacchi… Nessuno di loro ha mai avuto una sola parola di biasimo nei nostri confronti…».
Il nome di Filippo Sacchi, lo scrittore e critico antifascista, ci riporta in Piazza Grande, a Locarno, dove il giornalista del «Corriere» fuggì dopo l’8 settembre. Anche a lui si deve l’invenzione del Pardo d’oro nel 1946, un’iniziativa che doveva distinguersi dai festival esistenti. La Mostra di Venezia, nata nel ’32, era diventata per anni il vanto di Mussolini e della mondanità fascista in camicia nera e uniforme. Cannes aveva inaugurato la sua Palma alla vigilia della guerra. Per un anno a Mosca Stalin aveva incaricato Eisenstein di mettere insieme una rassegna cinematografica, ma se ne pentì subito quando si accorse di aver affidato il compito a una personalità troppo indipendente e incontrollabile. Nel ’43 a Locarno, Sacchi incontra lo storico dell’arte Virgilio Gilardoni, che allora dirigeva «Il Lavoratore» (periodico del Partito operaio contadino ticinese) e l’antifascista Franco Borghi, due inquieti sperimentatori e amanti del cinema, entra in contatto con la borghesia locale, apre un dialogo, sente che c’è un terreno vivo di idee socialiste e liberali sensibili al nuovo. Non è dunque un caso che proprio nella cittadina ticinese sia nato il Festival cinematografico più libero e sperimentale.
Lugano aveva ospitato per un biennio un festivalino commerciale nel Parco Ciani, — ricorda Solari — ma in giugno la cittadinanza si oppose alla costruzione di un anfiteatro e in tre mesi Locarno riuscì a mettere insieme, con personaggi vicini a Gilardoni e a Sacchi, una rassegna internazionale di tutto rispetto. Partecipò Rossellini, senza successo, con Roma città aperta e furono proiettati ben sei film realizzati a Hollywood, tre dei quali girati durante la guerra: The Bernadette di Henry King, La fiamma del peccato di Billy Wilder e Dieci piccoli indiani , ultimo film americano di René Clair, che sarà il vincitore della prima e della seconda edizione. Rossellini dovrà aspettare il 1948, per vincere, con Germania anno zero . Si guarda a Cinecittà, ma De Sica con Ladri di biciclette vincerà solo il Premio speciale della Giuria. Ricorda Solari: «Quando in Italia il neorealismo ha difficoltà di circolazione, al Grand Hotel sul Verbano arriva O’ sole mio , di Giacomo Gentiluomo, non straordinario ma significativo. È il primo film proiettato al Festival: racconta la resistenza napoletana contro il nazifascismo. E già nella prima edizione il direttore Vinicio Beretta porta Ivan il Terribile , il film di Eisenstein. Il coraggio è il segno distintivo di Locarno, ancora oggi». Arriveranno Fellini e Antonioni, arriveranno Pasolini e Citti, ma si guarda anche altrove: alla Nouvelle Vague francese, ceca, portoghese. I primi quindici anni sono duri: pressioni politiche e commerciali, polemiche, divisioni, ostilità. Solari, presidente da quattordici anni, è difficile che si scomponga, la calma sembra il suo forte. Forse la flemma. Eleganza d’altri tempi. L’ultimo guaio gli è arrivato nell’agosto scorso, con Sangue , il film di Pippo Delbono, in cui compariva l’ex terrorista Giovanni Senzani. «Ma sa, i direttori artistici di Locarno sono i più liberi del mondo», precisa orgogliosamente Solari. «Questo piccolo paese provinciale, che ha avuto una delle prime costituzioni liberali d’Europa, ci tiene molto alla libertà, questo mi affascina, pur conoscendo le gelosie, le ostilità, gli odi… Il Festival è uno specchio, lo specchio di un Paese che resta, nonostante l’ultimo referendum, un paese di grande apertura».
E a proposito di apertura, tra il 10 e il 13 aprile bisognerà salire sul Monte Verità, ad Ascona, dove fu fondata all’inizio del Novecento una comunità di utopisti, vegetariani, naturisti, teosofi… La seconda edizione degli Eventi letterari organizzati dalla Primavera locarnese avrà per tema «I demoni dell’Utopia». Inaugurazione con il premio Nobel tedesco Herta Müller. Seguiranno gli architetti Mario Botta e Vittorio Gregotti. Poi gli scrittori, di varia provenienza: Valerio Magrelli, Nora Gomringer, Durs Grünbein e Valerio Magrelli, Lukas Bärfuss, Fleur Jaeggy, Jonas Lüscher, Anna Ruchat e Urs Widmer. Tra gli altri ospiti Péter Nádas, Joanna Bator, Carlo Ossola, Martin Meyer e Frank A. Meyer. Utopia potrebbe essere una chiave. Per l’Europa e per la Svizzera.

Corriere 7.3.14
Panero, liriche dal manicomio

Una carriera nel segno del dolore Lo scrittore spagnolo Leopoldo Maria Panero, poeta segnato profondamente dall’esperienza del manicomio e autore di versi «trasgressivi e maledetti», è morto a 65 anni in una clinica psichiatrica delle Canarie, dove si era ritirato da tempo. Alla vocazione sperimentale della prima produzione, Panero, considerato capofila della «poesia trasgressiva», aveva sostituito col tempo l’analisi della propria, dolorosa esperienza (alcol, droghe, depressione, schizofrenia e tentativi di suicidio) segnata da frequenti ricoveri psichiatrici. La sua opera più nota sono le sofferte liriche raccolte in «Dal manicomio di Mondragon» (1987), e tradotte in italiano nel 2007 dalla casa editrice Azimut.

Corriere 7.3.14
Disputa su macellazione kosher e halal: se la religione urta la sensibilità moderna
di Marco Ventura

S’immobilizza l’esemplare. S’invoca la benedizione di Dio. La lama affilata recide trachea, esofago, grandi vasi sanguigni del collo. Sono circa seicentomila ogni settimana, solo in Gran Bretagna, gli animali macellati secondo i rituali ebraici e musulmani. Solo così la carne è kosher e halal , conforme alla legge divina. Il rituale, variamente adeguato a bovini, ovini e pollame, contrasta con le moderne tecniche di macellazione: lo stordimento con colpo di pistola o l’elettronarcosi riducono la sofferenza, ma sono incompatibili con il principio religioso per cui la vittima deve essere integra quando se ne versa il sangue.
Dal 1993 l’Ue obbliga allo stordimento, ma fa eccezione per «i metodi di macellazione richiesti da determinati riti religiosi». Il principio era già in vigore in Italia dal 1980. Lo scontro tra la libertà religiosa di ebrei e musulmani e i diritti degli animali è tornato d’attualità a metà febbraio, quando la Danimarca ha imposto lo stordimento anche in caso di macellazione rituale. La tensione è subito salita nel Regno Unito. Nel suo blog sulla religione sul Guardian, Andrew Brown ha difeso le tecniche rituali e ha condannato il bando danese come una «mostruosa assurdità». Invece ieri il presidente dei veterinari britannici John Blackwell ha invitato il suo Paese a seguire l’esempio della Danimarca.
La controversia è in apparenza tra animalisti e fedeli. Ma la questione è più profonda. Chi ha a cuore gli animali si chieda se non ci si preoccupi per la macellazione rituale più di quanto non si faccia per l’allevamento industriale e soprattutto se non vi sia più rispetto per l’animale in chi fa della sua uccisione un atto sacro. Chi teme per la religione s’interroghi sul business delle certificazioni kosher e halal e su chi all’interno delle comunità idolatra l’immobilismo, contro i rabbini e gli imam che interpretano le fonti evolvendo nel tempo. «Macellerai nel modo che ti ho comandato», dice Dio nel Deuteronomio . Sta sempre all’uomo, unico responsabile, tradurre il comandamento dalla pietra alla vita.

Repubblica 7.3.14
Il rabbino e il non credente
La legge mosaica e la rivoluzione di papa Francesco
Un dialogo tra il capo della sinagoga di Roma e il fondatore di “Repubblica”
Caro Scalfari anche quello degli ebrei è un Dio di misericordia
di Riccardo Di Segni

Capita sempre più spesso di incontrare delegazioni ebraiche da tutto il mondo che vengono a Roma per incontrare il papa. C’è una tale presenza di visitatori ebrei in Vaticano che qualche volta penso ironicamente che bisognerebbe anche lì aprire una sinagoga. È anche questo un segno del nuovo clima creato da papa Francesco. Non che prima non ci fossero visite e dialogo con gli ebrei; ma ora si aggiungono altri dati: l’esperienza personale di Bergoglio come amico e collaboratore di alcuni rabbini argentini, il suo carattere e un approccio dottrinale che sembra più aperto. È ancora presto per dire dove questo porterà, ma c’è da parte ebraica ottimismo sul piano teologico, mentre su quello politico (i rapporti con Israele) è tutto da vedere. In generale le aperture di Francesco, il messaggio pastorale e umano, la carica personale di simpatia e modestia, la volontà riformatrice di strutture considerate invecchiate hanno suscitato approvazione anche entusiastica nel mondo dei fedeli cattolici e fuori da questo. Le chiese si riempiono e i cosiddetti “non credenti” osservano ammirati. Per un osservatore esterno, come può essere un ebreo, sarebbe inopportuno commentare questi fatti occupandosi di affari interni della Chiesa, se non per quanto riguarda i suoi rapporti con l’ebraismo; ma la rivoluzione di Francesco non si limita al suo mondo, propone questioni universali che investono altre realtà e per questo merita attenzione.
Un esempio importante di questo impatto è il dialogo che si è sviluppato nelle pagine di Repubblica tra il papa e Eugenio Scalfari al quale sono stati dedicati ripetuti e lunghi articoli. Scalfari è affascinato dalla disponibilità dialogica di Francesco, ne espone e commenta le posizioni che considera eccezionali ed innovative, in particolare sul tema del peccato. Per chi legge dall’esterno questa discussione, a parte le perplessità su una corretta interpretazione – espresse anche da portavoce vaticani – rimane qualche dubbio sull’essenza del problema. Sull’immagine proposta di una Chiesa povera, sulla volontà del papa di lotta alla corruzione, sul suo richiamo all’onestà non ci sono dubbi. Ma cosa c’è di sostanza nella sua apertura al tema del peccato? Perché, per fare degli esempi, un conto è dire che c’è accoglienza per i divorziati, un altro riconoscere il divorzio; un conto è esaltare il ruolo della donna, un altro ammetterla al sacerdozio; un conto è essere comprensivi dell’omosessualità, un altro riconoscere legalmente le unioni. Sono problemi del mondo cattolico, ma anche il mondo ebraico ha i suoi analoghi problemi conflittuali con le durezze del sistema. Certamente l’approccio comprensivo e l’atteggiamento di apertura diminuiscono le tensioni e sveleniscono l’atmosfera ma non risolvono i problemi dottrinali alla radice.
La tradizione ebraica fornisce uno schema interpretativo forte e seducente per questo tipo di tensioni. Cominciando dal piano divino, si ammette che esistano due qualità o attributi contrapposti: da una parte la giustizia, la severità e il rigore, dall’altra l’amore e la misericordia. Il primo progetto creativo del mondo, dicono i rabbini, era basato sulla giustizia, ma vedendo che il mondo non avrebbe potuto resistere, il Creatore optò per il piano “b”, quello della misericordia unita alla giustizia. Per gli esseri umani, per le loro strutture organizzate, per i loro leader, vale la stessa contrapposizione. Con una precisa consapevo-lezza: che nessuna delle due qualità regge da sola, non c’è giustizia senza misericordia, non c’è misericordia senza giustizia. Guardando alle vicende vaticane recenti e al loro impatto universale verrebbe la tentazione di applicare queste due categorie ai due pontefici coesistenti; il primo sembra abbia incarnato l’anima dottrinale e il secondo quella dell’amore. Ma si tratta di una lettura superficiale e rischiosa, ingiusta e limitativa per i due protagonisti. Il fatto è che nel fenomeno religioso, così come viene vissuto nella nostra epoca, le grandi masse cercano prima di tutto accoglienza, inclusione, protezione e comprensione, mentre la fede e la dottrina vengono dopo.
La personalità di Francesco risponde alla richiesta e richiama le folle, ma sarebbe fuorviante pensare che dietro al suo amore non vi sia la giustizia e la dottrina. È per questo che gli entusiasmi di credenti e “non credenti” andrebbero un po’ smorzati. Per inciso, sarebbe meglio evitare l’espressione “non credenti” senza specificare in che cosa non si crede; altrimenti il parametro della fede diventa la verità cattolica e chi non l’accetta viene inserito in un grigio limbo, quali che siano le sue convinzioni filosofiche o religiose. In questa opposizione di simboli o sistemi e nella rappresentazione idealizzata e schematizzata del nuovo corso, a farci in qualche modo le spese è stato l’ebraismo. Perché l’opposizione tra giustizia e amore, in cui Francesco rappresenta l’amore richiamandosi al messaggio originale di Gesù contro le incrostazioni dottrinali e di apparato, diventa il segno della rivoluzione cristiana permanente. Contro chi? Semplice, contro il Dio degli ebrei, dell’Antico Testamento, quello severo e vendicativo. Nessun teologo serio dei nostri giorni – a cominciare dai due papi di oggi – prenderebbe sul serio questa antica opposizione, che fu una delle bandiere dell’antigiudaismo cristiano per secoli. Questa dottrina ha un nome preciso, marcionismo, dall’eretico Marcione che ne fece uno dei cardini del suo insegnamento. Marcione fu condannato dalla Chiesa, ma l’opposizione da lui drammatizzata tra due divinità fu recepita e trasmessa dalla Chiesa, che solo da pochi decenni se ne distacca ufficialmente, riconoscendola non solo come errore, ma anche come strumento illecito di predicazione di antagonismo e di odio.
Il Dio della Bibbia ebraica (per non parlare di quello della tradizione rabbinica) è giustizia e amore, come possono attestare numerose fonti che non c’è spazio qui per citare. È il Dio misericordioso (Es. 34: 6) che perdona chi non ha obbedito alla sua legge. Nulla avrebbe senso nell’ebraismo senza il perdono. E l’esortazione «ama il tuo prossimo come te stesso» è anche evangelica ma viene dalla legge mosaica, Levitico 19: 18. Che poi Gesù di Nazareth sia solo amore e non giustizia, in una melensa rappresentazione di comodo buonismo imperante, è tutto da dimostrare. Ribadire questi concetti in questa sede sembrerebbe fuori luogo e senza senso, ma è proprio in questa sede che le vecchie teorie, banale luogo comune, sono state rispolverate e riproposte per spiegare l’essenza della rivoluzione di Francesco. Che evidentemente non in questo consiste. Ed è paradossale che proprio mentre si cerca di cogliere il buono di una novità, ad incarnare il vecchio e il negativo ci sia l’ebraismo, che invece dovrebbe essere, per la ricchezza della sua tradizione, un compagno ideale dei nuovi percorsi.

Repubblica 7.3.14
Ma per laici e atei il problema resta. Chi ha creato il male?
di Eugenio Scalfari

Ringrazio Riccardo Di Segni della gentile citazione che fa dei miei numerosi articoli su papa Francesco e il dialogo che ho avuto con il Pontefice nel settembre scorso. Ma lo ringrazio soprattutto per il contributo che fornisce nella sua lettera qui pubblicata. Come sappiamo e come l’articolo del rabbino di Roma conferma, anche l’ebraismo ha avuto una sua evoluzione col trascorrere del tempo; le religioni si adeguano ai mutamenti delle società nelle quali sono presenti e tanto più l’ha avuta quel “popolo eletto” che fu all’origine del monoteismo e che, disperdendosi nella diaspora nel primo secolo dell’era cristiana, portò le sue scritture e la sua visione religiosa in tutta l’Asia minore, in tutta l’Africa settentrionale, in tutta l’Europa dall’Est all’Ovest e infine, più recentemente, nel Nord America. Dopo infinite persecuzioni, il genocidio della Shoah provocò l’orrore, la solidarietà e il rispetto del mondo intero e rimarrà sempre nella memoria nostra e dei nostri figli.
Aggiungo a queste considerazioni una notizia personale che forse potrà interessare Di Segni: ho appreso solo da qualche anno d’avere dentro di me una derivazione ebraica da parte materna; la famiglia di mia madre si chiamava e si chiama Fanuele, ebrei sefarditi stabilitisi in Italia da alcuni secoli, molti dei quali convertiti nel Settecento alla religione cattolica e alcuni di loro fervidamente credenti come mia madre e mia nonna. Ciò detto, il rabbino di Roma pone alcune questioni che meritano una risposta. Anzitutto pone una domanda a me personalmente: io mi dichiaro e sono non credente, ma – dice lui – anche il non credente crede in qualche cosa. In che cosa credo io? Rispondo brevemente così, come risposi anche a papa Francesco nel nostro incontro stampato poi in un libro a doppia firma: non credo che esista un Aldilà dove le anime degli individui umani proseguono in qualche modo a vivere; non credo in nessuna divinità; non credo che le nostre persone siano composte da un corpo mortale e da un’essenza immortale chiamata anima; non credo che il nostro transito terreno abbia un “senso ultimo”. Credo che abbia un senso nell’Aldiqua se l’individuo in questione ritiene di darselo, il che molto spesso non avviene. E questo è tutto circa la mia non credenza. Dovrei dilungarmi molto di più sugli aspetti filosofici e anche scientifici della mia non credenza; ne ho parlato ampiamente in alcuni miei libri, un articolo di giornale non è la sede adatta alla bisogna.
Vengo ora ad alcune osservazioni del mio interlocutore su papa Francesco e sulla Chiesa cattolica in rapporto alla religione ebraica. Soprattutto sul tema dell’amore, della giustizia, della misericordia, del peccato.
Storicamente esistono tre religioni monoteistiche che in ordine alla loro apparizione vedono l’ebraismo al primo posto, il cristianesimo al secondo e l’islamismo al terzo. Tutte e tre credono in un solo Dio il quale, per tutte e tre, non ha un nome pronunciabile e infatti non deve essere nominato. Dio è Dio e basta. Creò l’Universo e tutte le cose esistenti.
Le “sacre scritture” che ciascuno dei tre monoteismi ha prodotto come racconti ed anche come leggi alle quali obbedire e regole alle quali adeguare i propri comportamenti, attribuiscono a Dio una serie di potenzialità che non variano molto tra l’una e l’altra anche se si sono notevolmente modificate attraverso i secoli. Il Dio monoteista è amato, rispettato, pregato e i suoi fedeli lo considerano eterno, onnipotente, onnisciente, onnipresente. Credono anche che sia giusto, misericordioso, severo con i malvagi, amoroso con i buoni. Chi non rispetta le leggi divine e le regole provenienti dalle “scritture” commette peccato, ma se e quando si pente sarà perdonato. Questa è l’essenza dei tre monoteismi.
Come non credente osservo: le potenzialità del Dio monoteista non sono possedute dagli uomini ma sono da tutti desiderate: noi vorremmo essere ardentemente eterni, onnipotenti, onniscienti e onnipresenti. Non lo siamo e perciò attribuiamo a Dio ciò che vorremmo per noi. Gli attribuiamo sentimenti tipicamente nostri: amori, giustizia, ira, perdono, misericordia. Il male no, Dio è soltanto bene. Il male tuttavia esiste. Chi l’ha creato? La risposta a questa domanda è assai incerta da parte dei tre monoteismi, ma se Dio ha creato tutto l’esistente e se il male esiste, la logica vorrebbe che Dio abbia creato anche il male. Oppure chi?
Da questo brevissimo riassunto per me risulta evidente che il Dio monoteista è profondamente antropomorfo, cioè creato dalla fantasia degli uomini. Ma questa è appunto una delle cause della non credenza.
Infine: i cattolici hanno riconosciuto in tempo recente che gli ebrei non sono stati deicidi, non sono loro ad aver condannato Gesù Cristo. La Chiesa si è pentita di averlo affermato ed anche di avere perseguitato gli ebrei. Questo è certamente un progresso: i papi più recenti e soprattutto Giovanni XXIII, Paolo VI, Wojtyla, Ratzinger e Bergoglio, hanno dichiarato che gli ebrei sono i nostri “fratelli maggiori” e il loro Dio è anche il nostro. Papa Bergoglio ha addirittura detto nel nostro dialogo sopra richiamato che «Dio non è cattolico perché è universale». Questa presa di coscienza è certamente encomiabile ma la religione ebraica non contempla il Dio trinitario e tantomeno quella islamica. Quello cristiano è un Dio uno e trino e Gesù di Nazareth è un’articolazione chiamata Figlio. Ma ebrei e musulmani non contemplano alcun Figlio, tantomeno un Figlio incarnato. Gli ebrei credono che verrà un Messia, messaggero del Dio unico, che annuncerà l’arrivo imminente del Regno dei giusti. Anche i cristiani in una prima fase della predicazione di Gesù, pensarono che il loro maestro fosse il Messia ma gli ebrei il Messia lo aspettano ancora e quanto a Gesù di Nazareth non sono neppure certi che sia mai esistito. Non ne hanno la prova né l’hanno mai cercata. In effetti quella prova non c’è se non nei Vangeli.
Da non credente tutto ciò non mi riguarda, ma mi riguardano invece i valori che le religioni contengono, mi riguarda la funzione sociale delle religioni, la loro influenza sui comportamenti e sui sentimenti delle persone. Perciò vedo in modo molto positivo l’azione innovatrice di papa Francesco e il riavvicinamento tra le religioni quando rinunciano all’immagine di un Dio che sia bandiera di superiorità, di fondamentalismo e perfino di guerra come in passato è spesso avvenuto e come tuttora avviene nei fanatici che praticano il terrorismo in nome di un Dio crudele. I terroristi lo hanno trasformato in un demonio che porta stragi e rovine.

Repubblica 7.3.14
Stasera su La7 Crozza torna nel Paese delle meraviglie


Torna stasera Crozza nel Paese delle Meraviglie, in prima serata alle 21.10 su La7. Vizi e tic italiani nel one man show che nella scorsa stagione è stato consacrato tra i programmi più seguiti della prima serata tv. Una stagione che, con l’8,74% di share e una media di circa 2,4 milioni di spettatori a puntata, lo ha consacrato come il terzo programma più visto del venerdì. La serata su La7 non sarà però soltanto appannaggio del comico genovese: al programma di Crozza farà infatti seguito alle 22.40 Bersaglio Mobile, il talk show condotto dal direttore del Tg di La7, Enrico Mentana, per un approfondimento sull’attualità e sulla cronaca politica ed economica italiane.