giovedì 13 marzo 2014

L’Unità 13.3.14
La lettera
«Il vero caso è la legge 40»

 
MI CHIAMO VALENTINA, LA RAGAZZA DI CUI TANTO SI PARLA IN QUESTI GIORNI. HO DECISO, INSIEME A MIO MARITO, di non rilasciare alcuna intervista, ne video né scritta, a nessuna testata giornalistica e nessun programma tv, per due ragioni.
La prima è che quello che dovevo dire l'ho già detto, e perché ripercorrere quel dolore fa ancora molto male. Quello che ho raccontato durante la conferenza stampa di lunedì 10 marzo indetta dall’Associazione Luca Coscioni spero possa servire affinché tutti sappiano che se non ci fosse stata la legge 40 con i suoi assurdi divieti tutto quello che ha riguardato me e la mia famiglia in questi anni non sarebbe mai successo.
Prima della conferenza stampa ero stata ospite, insieme a mio marito Fabrizio, di altre due trasmissioni televisive: una l’anno scorso, un’altra registrata a febbraio di quest’anno, prima dunque che si verificasse tutto l’interesse mediatico per quanto successo quattro anni fa al Pertini.
Ora, dunque, preferisco rimanere in silenzio, con l’eccezione di queste poche righe. Per quanto riguarda l’obiezione di coscienza: i dati provenienti dalle regioni italiane e la decisione del Consiglio d'Europa parlano chiaro, non sono certo io e non voglio essere io il pretesto per sollevare agli occhi di stampa e politica la questione, che dovrebbe essere affrontata a prescindere dai casi come quello mio.
La seconda ragione è che tutta l'attenzione si è concentrata sulla vicenda dell'aborto, mentre per me è importante che ci si occupi seriamente del vero problema alla base della mia storia, che è la legge 40, e anche delle conquiste che sono state annunciate in conferenza stampa. Ora spetterà alla Corte Costituzionale decidere se abbiamo ragione oppure no.
Vorrei, da cittadina italiana, che si parlasse di questo. Il mio dolore svanirà quando tutti i cittadini avranno gli stessi diritti.
Il mio dolore svanirà quando tutti i cittadini avranno gli stessi diritti.

L’Unità 13.3.14
Togliatti e il suo Papa
Un libro Ediesse narra il filo segreto con Giovanni XXIII lato il discorso ai cattolici del 1963 e venti giorni dopo la Pacem in Terris
Il segretario del Pci la lesse in anticipo?
di Bruno Gravognuolo


SI APPROSSIMANO VARI ANNIVERSARI. QUELLO DELLA SVOLTA DI SALERNO E QUELLO DELLA MORTE DI TOGLIATTI. Ma anche quello della scomparsa di Giovanni XXIII. Tutti a far data dal 1964. E c’è da giurare che almeno su Togliatti demonismo e sciatteria revisionista si eserciteranno a dovere, nel negare originalità al segretario del Partito Nuovo, per sancirne la dipendenza da Mosca e il ruolo nefasto, nell’aver radicato il Pci nella storia d’Italia, come un male.
Adesso però esce un libro prezioso che contiene due gioielli da conservare e che ribaltano certe campagne strumentali. Il primo è il discorso pronunciato da Togliatti il 20 marzo 1963, sul Destino dell’uomo, alla vigilia di importanti elezioni ma inattesamente antropologico. Il secondo è senza dubbio straordinario e ben più famoso. È l’Enciclica giovannea Pacem in terris, uscita l’11 aprile di quello stesso anno, un documento destinato a capovolgere il senso della fede nel mondo e il ruolo stesso della cattolicità: il diamante del Concilio Vaticano II, avversato da conservatori e atei devoti e che oggi conosce rinnovato splendore nella riattualizzazione del magistero di Francesco. La cornice è appunto il volume di cui vogliamo parlarvi, Palmiro Togliatti e Papa Giovanni, a cura di Francesco Mores e Riccardo Terzi (Ediesse, pp. 149, euro 12). Che raccoglie gli atti di un seminario organizzato a Bergamo il 5 aprile 2013 da Riccardo Terzi ed Eugenia Valtulina, grazie alla Cgil di Bergamo, dello Spi nazionale, della Fondazione Giovanni XXIII e della Fondazione Di Vittorio. Tra i relatori c’erano Savino Pezzotta, Giuseppe Vacca, Alfredo Reichlin, e non manca un bel testo intervista di Mons. Loris Francesco Capovilla. Altro contributo decisivo è quello di Francesco Mores della Fondazione Giovanni XXIII e della Normale di Pisa. Che ricostruisce contesto, rimandi e storia parallela del testo togliattiano e dell’Enciclica, davvero straordinariamente consonanti. Al punto da fare pensare che Togliatti fosse addirittura informato in anticipo dei contenuti dell’Enciclica, magari attraverso i «ganci» di Franco Rodano e di Don Giuseppe De Luca, figura chiave e mediana tra vaticano e Pci, a partire dalla questione dell’art. 7 in Costituzione. Scritti rivoluzionari e consonanti. Ma in che senso? Cominciamo da Giovanni XXIII e isoliamo tre punti: genere umano, distinzione errante/ errore e valore dei movimenti di emancipazione. La rivoluzione «kantiana» di Papa Giovanni sta in questo: la predominanza del destino del genere umano sul contrasto di fede e ideologico. Sta in questo il divino e la sua trascendenza per il Papa: nella sua immanenza fraternitaria nella storia. E ben per questo la Chiesa deve accogliere i valori emancipativi di masse e popoli in cammino, di là dell’errore e degli errori teologici. Perché c’è un «senso» trasformativo nella storia e va colto nell’incontro, nel dialogo e nell’amore, che poi sono il banco di prova della verità teologica cristiana.
Un capovolgimento immenso, che fece a pezzi dogmatismo e scomuniche - archiviando il pontificato di Pio XII - e che rese la Chiesa attore planetario, al tempo della crisi dei missili a Cuba, della decolonizzazione, dei non allineati, della sfida kennediana, e della coestistenza pacifica kruscioviana.
Ma nel suo «piccolo» l’inatteso discorso di Togliatti - rivolto guarda caso ai cattolici e alla Bergamo giovannea alla vigilia dell’Enciclica - non è meno dirompente. Vi si afferma innanzitutto il primato della pace sulla lotta di classe e su quella di campo, nell’era della corsa nucleare. L’unità del genere umano, come bene supremo da preservare e orizzonte di ogni emancipazione (dunque terreno e fine). E poi il primato della persona e della sua dignità, come punto di partenza e meta ideale della liberazione propugnata dal movimento operaio. Non sono povere cose, se si considera quel tempo, perché Togliatti mette in campo la libertà di tutti e di ciascuno e al contempo rivaluta e preserva la crucialità del fatto religioso: come costante che è illusorio pensare di poter svellere con il progresso e la riforma delle basi sociali. Addirittura, oltrepassando Gramsci, la religione diviene un dato antropologico inscindibile dalla condizione umana e persino vettore di rivoluzione. Certo Togliatti difendeva l’Urss e si illudeva sulla sua riformabilità, restava un figlio autonomo e originale di quella geopolitica novecentesca. Ma sul religioso era oltre Gramsci e Marx, e tracciava uno spartiacque: dalla persona e dalla libertà non si torna indietro. E fu così che in qualche modo un grande Papa e un grande comunista posarono una pietra miliare: fecero dialogare grandi masse tra loro e riscrissero con audacia la loro stessa fede.

il Fatto 13.3.14
La novità di Renzi: le mani sulla città
Beni culturali, il premier contro i “no” delle soprintendenze. “Repubblica”, con buona pace dell’art, 9 della costituzione, lo sostiene 
di Tomaso Montanari


Non c’è davvero nulla di nuovo in Matteo Renzi, a parte la grinta: c’è solo un intenso bricolage che ritaglia da destra, e incolla malamente a sinistra, spezzoni di pensiero, parole d’ordine, slogan. Uno dei più impresentabili che Renzi ha preso di peso dal repertorio populista e selvaggiamente liberista di Silvio Berlusconi è il “padroni in casa propria”. Un’idea texana della convivenza civile che significa che ciascuno dev’essere libero di cementificare, sfigurare, distruggere pezzi di ambiente, di paesaggio, di patrimonio storico artistico.
FIN DA QUANDO era sindaco, Renzi ha polemizzato aspramente contro quelle che chiama “le catene” imposte dalle soprintendenze, istituzioni “ottocentesche” che impedirebbero la “modernizzazione del Paese”. “Sovrintendente – ha scritto nel suo tragicomico libro Stil novo – è una delle parole più brutte di tutto il vocabolario della burocrazia. È una di quelle parole che suonano grigie. Stritola entusiasmo e fantasia fin dalla terza sillaba. Sovrintendente de che?”. Renzi sembra non accorgersi di vivere in un paese massacrato da uno “sviluppo” pensato solo in termini di cementificazione: un paese compromesso non dai troppi no, ma semmai dai troppi sì, delle soprintendenze. E non sono solo le opinioni di Renzi, a preoccupare: è il suo governo di Firenze a far capire come la pensi in fatto di cemento. Vezio De Lucia ha notato come nel piano strutturale del 2010 “le previsioni relative alla proprietà Fondiaria (un milione e 200 mila metri cubi) sono riportate come fossero già attuate: per non smentire la propaganda del sindaco Renzi a favore del piano a sviluppo zero”. Sapendo che il cemento non è telegenico, Renzi cerca di non parlarne troppo. Tanto più stupisce che sia un giornale come Repubblica – subito improbabilmente seguito da Italia Oggi – ad abbracciare, in scala uno a uno, un simile programma. Archiviato il pensiero di Antonio Cederna, sconfessato quello di Salvatore Settis, ora è Giovanni Valentini a scrivere sul giornale di De Benedetti che “troppo spesso le soprintendenze diventano fattori di conservazione e di protezionismo in senso stretto, cioè di freno e ostacolo allo sviluppo, alla crescita del turismo, e dell’economia”.
L’articolo, in prima pagina domenica scorsa, ha lasciato basiti migliaia di lettori che vedevano da sempre in Repubblica un presidio sicuro per la difesa dell’articolo 9 della Costituzione: e da allora si susseguono sul web risposte incredule e indignate di associazioni, funzionari di soprintendenza, singoli cittadini.
È in questa prospettiva che Renzi diventa il campione delle “mani libere” contro le soprintendenze, che l’avrebbero ostacolato nell’allestimento della cena della Ferrari su Ponte Vecchio e fermato nei “sondaggi tecnici” sulla Battaglia di Anghiari di Leonardo in Palazzo Vecchio. Peccato sia tutto falso: sull’osceno noleggio del ponte l’asservita soprintendenza fiorentina non ha aperto bocca, ed è stata una partita tutta giocata dal Comune, con tanto di permesso ufficiale concesso il giorno dopo la manifestazione, e con un incasso pari alla metà di quello sbandierato da Renzi. Quanto a Palazzo Vecchio, giova ricordare che la Battaglia di Anghiari semplicemente non esiste, e che Renzi è stato fermato non dalla soprintendenza (anche in quel caso succube), ma dalla comunità scientifica internazionale, compattamente insorta contro una farsa pseudoscientifica che fa ancora ridere i direttori dei più grandi musei del mondo. Ma i banali dati di fatto non devono oscurare la retorica del Presidente del Fare che spezza trionfalmente i lacci e i lacciuoli frapposti da questa oscura genìa di burocrati. A quando un suo ritratto a torso nudo, mentre aziona una betoniera calpestando l’articolo 9?
L’altra faccia di questa usurata medaglia è l’incondizionato inno ai salvifici privati. Chiedendo la fiducia al Senato, l’unica cosa che Renzi ha saputo dire sulla cultura è che “se è vero che con la cultura si mangia, allora bisogna fare entrare i privati nel patrimonio culturale”. Peccato che i privati ci siano da vent’anni, nel patrimonio, e che a mangiarci da allora non sia lo Stato, ma solo un oligopolio di concessionari fortemente connessi con la politica. E la ricetta è tanto originale che il punto 41 di Impegno Italia (il documento cui ha inutilmente provato ad aggrapparsi Enrico Letta) prevedeva un’unica ideona: “Incentivare lo sviluppo dei servizi aggiuntivi da dare in concessione ai privati”.
DI FRONTE AI CROLLI di Pompei, Renzi ha gridato: “L’Italia è il paese della cultura, e allora sfido gli imprenditori: che state aspettando?”. Quando era sindaco di Firenze, Renzi sfidava sistematicamente lo Stato a fare il proprio dovere in fatto di tutela del patrimonio. Ora che lo Stato è lui, sfida gli imprenditori. Fosse il presidente di Confindustria, ce l’avrebbe con gli enti locali. Non c'è davvero nulla di nuovo, se non che il repertorio da palazzinaro anni Sessanta è passato tale e quale dal fondatore di Forza Italia al segretario del Partito democratico. È il manifesto di una nuova stagione di Mani sulla città, un ritorno alla bandiera inverosimile del “più cemento = più turismo”. E siamo solo all’inizio.

l’Unità 13.3.14
Parità mancata, resiste l’asse trasversale tra donne
Le parlamentari del Pd chiedono il sostegno delle associazioni
Le azzurre furiose con Verdini, Santanchè e il Mattinale di Brunetta
Di Federica Fantozzi e Natalia Lombardo


Il vuoto della parità di genere nella legge elettorale è un «vulnus per le nostre istituzioni democratiche, per la rappresentanza è un brutto messaggio che lanciamo al Paese e non solo alle donne», ha detto ieri in aula Roberta Agostini, prima firmataria degli emendamenti bocciati, amareggiata dopo la settimana di battaglia. Che adesso si sposta al Senato, ma ha lasciato segni. Dentro Forza Italia, le onorevoli sono furiose non solo con il gruppo dirigente - Verdini, Brunetta e Sisto, ma anche verso Daniela Santanchè, che ha fatto muro anche quando Berlusconi avrebbe potuto cedere, fiutando la perdita dei consensi nel suo elettorato femminile.
Le parlamentari del Pd, intanto, studiano le mosse migliori perché a Palazzo Madama la parità non sia stracciata nel nome di un accordo politico. Purché non si chiamino «quote rosa», lo spazietto di tutela per le minoranze, ma «democrazia paritaria» tra soggetti politici. E purché non si perda la forza della «trasversalità », anche se le senatrici di Fi sono meno delle deputate. Ieri a Montecitorio si è tenuta una conferenza stampa con l’«Accordo di azione comune di democrazia paritaria », 50 associazioni di donne, dall’Udi a «Se non ora quando» che ora sosterranno dall’esterno la battaglia delle senatrici. Qui la relatrice sarà Anna Finocchiaro, presidente della commissione Affari Costituzionali, il voto palese non darà alibi ai franchi tiratori, ma l’astensione vale come voto contrario. Le democratiche Roberta Agostini, Sesa Amici, Fabrizia Giuliani, Titti Di Salvo di Sel organizzeranno a breve un’assemblea con le senatrici per decidere come muoversi. Probabilmente si sceglierà di riproporre la parità in lista con «un solo emendamento », per arrivare almeno alla norma del sessanta per cento di uomini e il quaranta di donne come capoliste, per avere la certezza di essere presenti. A Montecitorio «si è prodotta una cesura, la negazione di riconoscere alle donne italiane di essere soggetto politico e averlo voluto ridurre a una questione di quote nelle trattative, fa fare un passo indietro drammatico» rimanendo per altro con le liste bloccate, ha detto ieri Sesa Amici, del Pd, sottosegretaria alle Riforme e ai Rapporti col Parlamento. Perché «le donne sono un soggetto politico», rivendica, quindi «arrivare al 40-60 sulle capolista era un riequilibrio del potere», prosegue Amici, che sollecita a «non perdere quella straordinaria trasversalità» tra gruppi, Pd, Fi soprattutto. Al Senato la situazione è diversa, ma nell’asse comune potrebbero entrare le grilline, oltre alle sei donne uscite (o espulse) dai 5 stelle.
GUERRA ROSA IN CASA AZZURRI
«Mamma cos’è la meritocrazia?» «Un’invenzione sessista contro le quote rosa». Ma anche: «Vai a dormire» «Papà il tuo è un comportamento sessista». Raccontano siano state queste vignette, sul Mattinale di martedì a far deflagrare l’ira di Stefania Prestigiacomo contro Renato Brunetta. Protagonisti di uno scontro in aula, con l’ex ministra siciliana che si diceva amareggiata per l’assenza di dibattito e libertà di coscienza in un sedicente partito liberale, quando nel 2005 con Bondi coordinatore le scelte sul Porcellum erano state opposte. E ieri la Prestigiacomo ha scritto all’HuffPost contro la rappresentazione «offensiva, sprezzante per demolire e indurre al ludibrio dei militanti Fi» la loro posizione, trattandole come «arpie fameliche di posti» fino a una «character assassination con disprezzo e sarcasmo arrogante che lascia basite».
Uno scontro senza precedenti, che covava sotto la cenere. Le onorevoli furibonde con Brunetta e Verdini, rei di aver stroncato la battaglia sulla parità di genere e di aver portato dalla loro parte Berlusconi. «Non ci hanno fatto parlare con lui» è il lamento corale. Ma anche con Daniela Santanchè, colpevole di essersi fatta pubblicità a spese loro (oltre a infilarsi con destrezza nei conciliabili tra Verdini e la ministra Boschi). «Mi ha detto che con le quote rosa alla Camera saltava l’accordo - si sfoga Laura Ravetto - le ho risposto che al contrario, il problema andava risolto qui. Temo che quando la legge, dopo il Senato, tornerà a Montecitorio, qualcuno ne approfitterà per riproporre le preferenze». Insomma, mentre il Mattinale al vetriolo non dubita della buona fede di «alcune» deputate, il malumore rosa verso il gruppo dirigente azzurro ha raggiunto livelli di guardia. Con l’auspicio che Berlusconi, a tempo debito, non si lavi le mani
anche della composizione delle liste.

il Fatto 13.3.14
Risponde Furio Colombo
Il giorno prima delle quote rosa


CARO COLOMBO, ci siamo tutti riuniti intorno al falò dell'allarme Parlamento: non ha il coraggio di fare spazio alle donne. Ma tutto intorno si vedono, nella notte italiana che non finisce, i fuochi di altri accampamenti in cui alle donne è vietato tutto, persino le cure mediche in emergenza. Rita
LA LETTERA si riferisce al caso, grave e barbaro, di Valentina Magnanti, e allo sbarramento di medici “obiettori di coscienza” (si chiama assicurazione sulla carriera) e di predicatori armati di Vangelo (“armati” è la parola giusta) ammessi al capezzale della giovane donna senza suo desiderio o permesso, che hanno tentato di impedirle un aborto che non si poteva né impedire né rinviare, nel labirinto di leggi violate, di leggi pensate apposta, con crudele meticolosità, in modo da mantenere il controllo completo sul corpo delle donne, presumibilmente in nome di Dio. Come vedete in un'Italia come questa, condannata per ragioni come questa, dall'Europa e dall'Onu, lo spettacolo della sconfitta di un emendamento salva donne nella legge elettorale, è cosa futile oltre che impossibile. Futile, perché tutti gli altri diritti che vengono prima del diritto di essere elette, sono impediti alle donne, nonostante continue ipocrite dichiarazioni. Impossibile perché quello del deputato è un buon lavoro e gli interessati non vedono perché dovrebbero moltiplicare la concorrenza. Ma se c'è un punto su cui ciò che resta di un’Italia normale, morale e civile su cui dovrebbe concentrare attivismo ed energie, è la salvaguardia dei diritti della donna su se stessa. Lo hanno fatto i Radicali, lo fa l'associazione Luca Coscioni di cui mi vanto di far parte. Nessun altro. La storia è questa. Valentina Magnanti, 28 anni, ha dovuto abortire al quinto mese perché la sua bambina è stata scoperta portatrice di gravissima e irreversibile malattia genetica. Valentina, sapendo di essere portatrice di questo trasmissibile e incurabile danno, avrebbe potuto – in ogni altro Paese – ricorrere alla procedura e ai controlli della procreazione assistita. In Italia no. La legge 40 glielo vieta perché può avere figli in modo naturale (e non importa quanto pericoloso) e perché è vietato, nel protocollo della legge 40, l'esame degli embrioni. È una legge barbara di stampo fondamentalista in cui Stato e religione si associano nel divieto come in una Sharìa cattolica. L'ospedale è il Pertini di Roma. E accade che, a protezione della loro carriera, tutti i medici di ginecologia di quell'Ospedale, in preda a una vampata di fede, si dichiarino “obiettori di coscienza”, e cristianamente abbandonino la giovane donna, che non può non partorire, al suo destino. Hanno però libero accesso, come in un film esageratamente anti-religioso e crudele, predicatori e predicatrici muniti di Vangeli che non capiscono neppure il loro comportamento stupido e crudele. La donna partorisce il feto morto nel bagno, senza che nessuno, tranne il marito, le dia un aiuto. La religione è stata spesso delittuosa nei secoli. Il caso di Valentina – isolata da finti credenti mentre ha un bisogno disperato di aiuto – merita di essere ricordato come una infamia italiana che nessuno, tranne i Radicali, cerca di cancellare. La sua storia diminuisce di molto la portata, pur squallida, della vicenda in Parlamento.

Corriere 13.3.14
Donne e quote, nella storia le ragioni del sì
di Gian Antonio Stella


Meglio un ortopedico italiano o un ortopedico tedesco? Chissenefrega: conta solo che sia bravo, direte voi. E scommettiamo che anche Silvius Magnago, quando lanciò la battaglia sulla proporzionale etnica, la pensava così. Ovvio. Ma in tutti i posti pubblici c’erano troppi italiani e troppo pochi tedeschi: andava ripristinato un equilibrio. Oggi quelle quote non avrebbero senso? Certo. Ma allora sì. E lo stesso dovrebbe essere, in politica, per le donne: va ripristinato l’equilibrio. Dopo di che, addio quote.
È il contesto che conta: il contesto. Lo schemino delle quote etniche in Alto Adige si è rivelato via via, una volta riequilibrati i rapporti, una ingessatura assurda, insopportabile, ridicola. Ma cosa avreste fatto, voi, al posto del leader dei sudtirolesi? Dopo decenni di italianizzazione spinta della provincia, il gruppo tedesco aveva nel 1972, pur rappresentando i due terzi della popolazione, solo una fetta del 9% degli impieghi pubblici o para-pubblici nelle ferrovie o in comune o all’Enel e del 5% delle case popolari edificate dopo il 1935. Una sproporzione prepotente. Inaccettabile. E in quel contesto, come ogni italiano in buona fede deve ammettere, la pretesa di riequilibrare gradualmente le cose fu giusta. Giustissima.
E le donne? Imporre oggi quote fisse in Finlandia, il primo Paese al mondo dove un governo è arrivato ad avere più donne che uomini, non avrebbe senso. Ma in Italia? Che senso ha, al di là delle furbizie partitiche, machiste e correntizie così determinanti nel voto alla Camera, invocare «una crescita culturale di tutta la società» o sospirare sul fatto che, ahinoi, «non siamo in Norvegia, in Germania o in Danimarca» e che introdurre le quote sarebbe «ammettere la nostra arretratezza»? Perché: non siamo forse in ritardo?
È la storia a dirci quanto pesino le regole. Per fare pochi esempi la Norvegia, la Svezia e la Danimarca ebbero la loro prima regina (Margherita I) alla fine del Trecento, l’Inghilterra (in realtà furono tre di fila per successiva eliminazione: Jane Grey , Maria Stuarda ed Elisabetta I) nel 1553 e Guglielmina d’Olanda salì al trono nel 1890. Evento mai successo in casa Savoia, perché escluso esplicitamente nei secoli dei secoli fin dai tempi del contado. A costo di cambiare, in mancanza di un primogenito maschio, la linea di successione.
Occorre rileggere la nostra storia per capire quanto possa essere importante forzare le norme e più ancora le prassi: l’Italia fu costretta ad attendere 115 anni dopo l’Unità (32 anni, 36 governi e 836 ministri maschi nel solo Dopoguerra) prima che un dicastero fosse dato a una donna, Tina Anselmi. Era il 1976 ed erano già passati 16 anni dall’insediamento della prima donna premier al mondo (Sirimavo Bandaranaike, nello Sri Lanka nel 1960), 48 dalla prima donna ministro (la danese Nina Bang nel 1924), 58 dalla prima donna chiamata al governo (Irena Kosmowska, sottosegretario in Polonia), 69 dall’ingresso delle prime donne in un Parlamento, avvenuto in Finlandia nel lontano 1907. Per non dire della prima donna eletta a un’alta carica istituzionale, Nilde Iotti, presidente della Camera nel 1979 dopo 118 anni e 55 (contando tutti dall’Unità in avanti, comprese la Camera dei fasci o la Consulta Nazionale) predecessori maschi. Di premier donne neanche a parlarne: ce ne sono state in tutto il pianeta a decine. Quattordici negli anni Novanta, trentacinque nel primo decennio del secolo. A volte potentissime, come Margaret Thatcher o Angela Merkel. Da noi no: zero. Su un totale di 125 governi, dei quali 63 nel Dopoguerra. Men che meno alla presidenza della Repubblica: «Quando proposi di mandarne una al Quirinale mi dissero “bravo, una intelligente provocazione”», ricorda Giuliano Amato, «manco se avessi proposto un coleottero!» Quanto al suffragio universale, basti ricordare che le italiane, che pure avevano avuto un ruolo straordinario fin dal Risorgimento (da Cristina Trivulzio di Belgiojoso, in prima linea nelle 5 giornate di Milano alla moglie di Crispi Rosalia Montmasson, unica donna dei Mille) arrivarono a votare solo nel 1946. E cioè 29 anni dopo le russe, 31 dopo le danesi, 33 dopo le norvegesi, 35 dopo le californiane, 40 dopo le finlandesi, 44 dopo le australiane, 53 dopo le neozelandesi, 77 dopo le cittadine del Wyoming, 94 dopo la prima petizione per il voto alle donne alla Camera dei Lord del 1850. Non sono curiosità storiche. Sono numeri che aiutano a capire perché poi la politica italiana, al di là delle pappardelle retoriche eredi delle idee del Duce («La donna deve ubbidire. Essa è analitica, non sintetica... Naturalmente essa non deve essere una schiava, ma... nel nostro Stato essa non deve contare») è da sempre distratta nei confronti dei problemi delle donne.
Esempi? Uno per tutti: governi e Parlamento sembrano non essersi quasi accorti che nella tabella della occupazione femminile in Europa, dove la media è del 64% (e sarebbe più alta senza noi) 7 delle ultime 10 delle 271 regioni continentali sono italiane. E italiane sono tutte e cinque quelle in coda alla lista nera. Le donne «ufficialmente» al lavoro in Basilicata sono il 41,8%, in Puglia il 35,3, in Calabria il 35,1, in Sicilia il 34,7 e in Campania, ultimissima tra le ultime, il 31,1. Con sette donne su dieci tagliate fuori dal mondo del lavoro: una quota economicamente suicida e socialmente umiliante.
Questo è il contesto. E in questo contesto aver bocciato alla Camera la virtuosa forzatura sulle quote rosa è stata un’occasione persa non solo per le donne, ma per il Paese. Un’occasione da recuperare al Senato. Potremmo ritrovarci, come ammicca qualche spiritosone, con un po’ di oche in Parlamento? Ammesso fosse vero (uffa!) ce ne faremo una ragione. Dopo tanti falchi, galli, galletti, tacchini e capponi…

la Repubblica 13.3.14
La ricerca
Agli stranieri l’11% dei presti primi i rumeni, i cinesi fanno da sé
I tedeschi chiedono soldi per comprare case di vacanza
di Luisa Grion


ROMA - Sono stranieri, ma vivono e lavorano in Italia e in Italia chiedono mutui o prestiti per comperare l’automobile, metter su casa o superare un momento di difficoltà finanziaria. Nella maggior pare dei casi sono cittadini di nazionalità rumena, albanese, marocchina, ma vanno in banca anche gli svizzeri e i tedeschi che puntano ad acquistare qui la loro villetta delle vacanze: nel 2013 la domanda di credito da parte di cittadini stranieri stabilmente residenti in Italia è stata pari all’11 per cento del totale (11,9 nel 2012).
A fornire la mappa dei prestiti concessi è il Crif con «Il Rapporto sulla domanda di credito da parte di cittadini non italiani». Stranieri provenienti da bel 219 paesi, ma concentrati in una decina di nazionalità: quella rumena prima di tutte. Sono loro la comunità meglio rappresentata nel nostro Paese e di fatto coprono il 21,1 per cento delle richieste di finanziamento, oltre un quinto del totale. Li seguono, ad una certa distanza, gli albanesi (5,9 per cento) e i marocchini (5,4). Un po’ più sotto, tutti attorno al 4 per cento, i cittadini provenienti da Germania, Filippine e Svizzera. Posizioni e quote compatibili con la numerosità delle comunità - fa notare il Crif - se non fosse che i 200 mila lavoratori provenienti dalla Cina coprono lo 0,9 per cento appena delle domande di prestiti. Non perché i cinesi non abbiano bisogno di liquidità, ma perché preferiscono cavarsela fra parenti, amici, concittadini. Vanno in banca solo per questioni «serie»: nel 10,4 per cento dei casi chiedono infatti un mutuo immobiliari (fra gli italiani la quota è ormai ferma al 5).
Ed è proprio ragionando suimutui che vengono a galla le particolarità del rapporto Crif: cittadini della Romania e Albania a parte, la domanda di questa tipologia di finanziamento si concentra soprattutto su tedeschi e svizzera, legata probabilmente all’acquisto della casa delle vacanze. L’estesa comunità filippina ne fa ricorso, al contrario, molto raramente (solo lo 0,8 per cento delle richieste è finalizzata a tale scopo): chi arriva in Italia da Manila per trovare un lavoro, quasi sempre conta di ritornare in patria dopo qualche anno. Per nulla interessati ai mutui e alla possibilità di fermarsi qui anche i cittadini provenienti dall’Africa sub sahariana - ben rappresentati da Senegal ed Etiopia - che vedono nell’Italia più una tappa di passaggio verso altre destinazioni che un luogo dove comperare casa.
In generale, però, la grande maggioranza di richieste di finanziamenti da parte di stranieri si concentra sui prestiti finalizzati e su quelli personali (34 e 40,3 per cento sul totale). Comunque sia, «la domanda di credito rappresenta una delle vie principali per l’integrazione - sottolinea Simone Capecchi, direttore Sales&marketing del Crif - pur con tutte le incertezze economiche che, negli ultimi anni, hanno indotto molti emigranti a rientrare nei Paesi d’origine».

il Fatto 13.3.14
Il futuro miliardario è un “senza casa”
Londra, Amir Taaki vive da abusivo in un edificio ma per Forbes ha un roseo avvenire: è l’inventore del Bitcoin
di Caterina Soffici


Londra. La rivista Forbes l’ha inserito nella lista dei personaggi più influenti nel campo della tecnologia e quindi magnifici futuribili Paperoni. “Finalmente mia mamma è stata contenta” ha commentato lui “Continuava a dirmi: perché hai lasciato l’università? Perché non ti trovi un lavoro? Smettila di ciondolare in giro. Smettila con questi computer”. Bene, ora l’ha capito anche la mamma e si è messa tranquilla. Ora può dire: “Mio figlio è su Forbes”.
IL FIGLIOLO IN QUESTIONE si chiama Amir Taaki, 25 anni. È un esperto di programmazione e uno degli “angeli” del Bitcoin, la moneta virtuale che permette agli utenti di Internet di scambiarsi servizi e di comprare merci sul web. È considerato uno degli hacker più talentuosi d’Europa. E quando nell’ambiente dicono “hacker” non intendono niente di illegale: il termine si usa per indicare quei nerd molto creativi capaci di decodificare un software e riscriverlo. Taaki compare nella lista di Forbes insieme a nomi come Pete Cashmore (27 anni, fondatore di Mashable), valutato 50 milioni di dollari e con i fondatori di Snapchat Evan Spiegel (23 anni) e Bobby Murphy (25), che hanno rifiutato un’offerta da Facebook per 3 miliardi. Questi vivono nel jet set dei ragazzini ad alta tecnologia, tra San Francisco, Londra e New York in appartamenti da sogno. Taki è all’apposto: vive ad Hackney, quartiere etnico di East London, in una comune. Tecnicamente è uno squatter: lui e altri hanno occupato un edificio. Padre iraniano e madre inglese, ha abbandonato l’università tre volte, prima di imporsi come stella autodidatta nel mondo del cosiddetto “dark web”, il web sotterraneo, dove si scambia di tutto, soprattutto le cose illegali (armi, droga, informazioni riservate).
NEGLI AMBIENTI degli hacker si sussurra che potrebbe essere uno dei fondatori di Bitcoin. Forse addirittura il misterioso Satoshi Nakamoto, lo pseudonimo dietro cui si cela il creatore della moneta. Lui nega, come nega di avere relazioni con quelli di Wikileaks. Ma di sicuro ha avuto un ruolo di primo piano nello sviluppo del Bitcoin, perché dicono che le sue impronte digitali sono ovunque: ha codificato gran parte delle infrastrutture che gestiscono gli scambi di moneta virtuale in rete e ha fondato due dei siti utilizzati per commerciarli. Nel 2010 Taaki aveva comprato 600 dollari di Bitcoin (valevano 10 centesimi l’uno, quindi 6.000 Bitcoin). Li ha venduti poco dopo a 100 dollari, ma - per dare l’idea del fenomeno - ora varrebbero 6 milioni di dollari. Ci sono circa 12 milioni di Bitcoin in circolazione e non è ancora chiaro se sia una bolla speculativa o se è una moneta vera. Vero è invece che ci sono a Londra alcuni pub trendy dell’East End dove puoi pagare in Bitcoin. Amir Taaki però non è interessato ai soldi veri e infatti ha rifiutato fior di offerte dalle migliori aziende della Silicon Valley. Lui lo fa per una questione ideologica, e sta lavorando a un progetto che ha chiamato “Dark Wallett”. Potremmo tradurlo “portafoglio segreto” e consiste nel rendere anonime le transazioni di moneta virtuale. A metà tra un anarchico e un liberista assoluto, la missione di Taaki è rendere gli scambi tra utenti liberi da ogni gabella e da ogni intermediario, “lontano dagli occhi indiscreti della società e dello Stato”, dice.

l’Unità 13.3.14
Sui Cie non si deve abbassare la guardia
di Luigi Manconi, Valentina Brinis e Valentina Calderoni

È stata approvata un paio di settimane fa, dal consiglio comunale di Roma, la mozione che propone la chiusura del Centro di identificazione e di espulsione di Ponte Galeria. Si tratta di un'azione che riprende quella del Consiglio comunale di Torino che aveva approvato una mozione simile con la quale impegnava «il sindaco e la giunta comunale a chiedere ufficialmente al Governo di chiudere nel più breve tempo possibile il Cie di Corso Brunelleschi». La stessa proposta è stata presentata da Marta Bonafoni, consigliera regionale del Lazio, che auspica che la discussione avvenga il prima possibile.
Non si sa che esito avranno tali mozioni ma sicuramente rappresentano un altro tentativo, l’ennesimo, di far passare il messaggio che i Cie ormai hanno dimostrato la loro inefficienza. A dimostrazione di ciò, basta citare un dato, reso noto di recente dal Rapporto di Medici per i Diritti Umani: ovvero che appena il 47% delle persone trattenute nei Cie nel 2013 sono state rimpatriate. Ciò equivale allo 0,9% del totale delle persone straniere irregolari presenti in Italia. Attualmente i trattenuti sono circa 450 a fronte di costi davvero ingenti. E a rendere tutto ciò ancora più grave è la condizione di precarietà in cui vivono le persone lì dentro. Il Cie è un carcere che non è un carcere, un orribile non luogo, immerso nel non tempo: una sorta di oscena e feroce matrioska, dove una gabbia contiene un' altra gabbia al cui interno si trova una successione di gabbie, cancelli, serrature. Il risultato è uno solo: si tratta di «strutture sempre più inutili e afflittive».
Da una settimana, inoltre, è online la petizione promossa da change.org in cui vengono proposti quattro motivi per il superamento del sistema dei Cie. La chiusura di questi posti è, tutt'oggi, lontana e pare sia molto difficile che ci si possa arrivare con un atto normativo. Intanto, però, otto di essi sono già stati chiusi a causa delle precarie condizioni in cui versavano, e non tutti verranno riaperti.
È importante, quindi, che azioni come quella dei consigli comunali di Torino e di Roma continuino ad essere portate avanti, anche se la loro valenza rimarrà solo simbolica.
Lo stesso vale per le iniziative di concessione della cittadinanza a chi è nato e cresciuto in Italia portate avanti da molte amministrazioni comunali.
Si tratta di cittadinanza onoraria che ha un doppio significato: riconoscere che la cittadinanza non è solo una procedura burocratica in cui l unico criterio valido è quello della permanenza regolare ininterrotta dalla nascita alla richiesta; dimostrare che l attuale normativa che regola la materia, la 91 del 1992 è da riformare. Essa, infatti, esclude dal riconoscimento della cittadinanza numerose persone che in Italia sono nate e cresciute e che si sentono più vicine alla cultura italiana che a quella di origine.

l’Unità 13.3.14
Napoli, rom in fuga dopo assalto alle baracche
di Felice Diotallevi


Un tentativo di violenza sessuale ad una sedicenne, avvicinata ieri sera da due nomadi rom nel quartiere di Poggioreale a Napoli, ha innescato la dura protesta dei parenti della ragazza e di residenti, che hanno attaccato con pietre e petardi l'insediamento di nomadi Rom di via del Riposo. L’altro ieri, poco prima delle 21, la ragazzina è stata bloccata e palpeggiata dai due Rom prima di riuscire a divincolarsi e fuggire a casa, dove ha raccontato tutto ai familiari. Questi ultimi hanno sporto denuncia, ma due cugini ventenni della ragazza si sono andati al campo Rom per regolare i conti. Qui, però, hanno avuto la peggio, riportando lievi ferite (5 e 7 giorni di prognosi), medicate in ospedale.
Ma subito dopo ai parenti della ragazza si sono uniti alcune decine di residenti, almeno una cinquantina, che hanno avviato una sassaiola contro l'insediamento Rom. Polizia e carabinieri, giunti di rinforzo, hanno evitato il peggio. Ma ieri mattina l’assedio al campo Rom è ripreso, come il lancio di petardi, ed un blocco stradale di protesta contro la presenza dei nomadi di origine rumena, che da oltre quattro anni, si sono stabiliti a Poggioreale. Nella notte un nomade Rom sarebbe stato aggredito per rappresaglia, riferiscono alcuni di loro. Poi, impauriti dai petardi che continuano ad esplodere, hanno cominciato a riempire auto e furgoni di masserizie e a lasciare l'insediamento. Sul posto, per cercare di calmare gli animi il presidente della IV Municipalità, Armando Coppola. «Finora i residenti hanno subito furti e gesti osceni dei nomadi, che hanno l'abitudine di urinare per strada, ma il tentativo di violenza ha fatto scattare la reazione violenta», dice ai giornalisti. Arriva anche l' ex missionario comboniano Alex Zanotelli, animatore della protesta sociale, che parla di "Pogrom" contro i Rom ed accusa il Comune di Napoli di fare vincere «la legge del più forte». «Nessuno di loro è qui per difenderli ed ho cercato inutilmente di contattarli da questa mattina». «Rispetto la storia di Zanotelli e le associazioni - replica l' assessore alle politiche sociali, Roberta Gaeta -ma ci vuole moderazione e collaborazione e dobbiamo poter parlare con i Rom anche direttamente, senza l' intermediazione delle associazioni, per le soluzioni alle quali lavoriamo, insieme ad altre istituzioni». Sono circa quattromila - secondo stime - i nomadi Rom a Napoli, accampati nei quartieri di Secondigliano, Soccavo e Poggioreale. Il Comune ha emesso il 29 gennaio un'ordinanza sindacale che prevede lo sgombero dell' area di S. Maria del Riposo, non ancora attuata.
L’episodio riporta alla mente i fatti della primavera 2008, quando a Ponticelli scoppiò una rivolta popolare per un presunto rapimento di una bambina da parte di una donna del campo Rom. Accadde il 12 maggio e fu Flora Martinelli, 27 anni, a denunciare il tentativo di rapimento della sua piccola di appena sei mesi da parte di una nomade che si era introdotta in casa sua, nel rione controllato all’epoca dal clan della famiglia Sarno. Qualche quotidiano riportò anche la notizia del pizzo che i Rom avrebbero pagato alla camorra per poter stare in quella zona. Dopo le accuse della signora Martinelli nel quartiere si scatenò una specie di caccia al Rom, con assalti alle roulotte a colpi di molotov e spranghe.
Il campo fu messo a ferro e fuoco e i nomadi furono costretti ad abbandonare le loro cose. Solo qualche tempo dopo venne fuori che il tentativo di rapimento era stata una bufala e che quindi i Rom avevano subito una caccia alle streghe ingiustificata, con momenti di alta tensione tra gli abitanti del quartiere e l’insediamento che constrinsero la polizia ad intervenire. Il clima fu surriscaldato ancora di più da alcuni esponenti politici che soffiavano sul fuoco dell’intolleranza. «Il sindaco deve ordinare lo sgombero di tutti i campi nomadi», disse Raffaele Ambrosino, capogruppo di Forza Italia in consiglio comunale, seguito da Fabio Chiosi, coordinatore cittadino di An che ha annunciato: «Il tempo delle mezze misure deve terminare».

la Repubblica 13.3.14
“Basta fondamentalismi e pensiero unico la verità non esiste senza dialogo”

di Francesco (sic!)

SALTA all’occhio il fatto che nel corso della storia si siano moltiplicati - e continuino a moltiplicarsi anche oggi - i fondamentalismi. In sostanza si tratta di sistemi di pensiero e di condotta assolutamente imbalsamati, che servono da rifugio. Il fondamentalismo si organizza a partire dalla rigidità di un pensiero unico, all’interno del quale la persona si protegge dalle istanze destabilizzanti (e dalle crisi) in cambio di un certo quietismo esistenziale. Il fondamentalismo non ammette sfumature o ripensamenti, semplicemente perché ha paura e - in concreto - ha paura della verità. Chi si rifugia nel fondamentalismo è una persona che ha paura di mettersi in cammino per cercare la verità. Già «possiede» la verità, già l’ha acquisita e strumentalizzata come mezzo di difesa; perciò vive ogni discussione come un’aggressione personale.
La nostra relazione con la verità non è statica, poiché la Somma Verità è infinita e può sempre essere conosciuta maggiormente; è sempre possibile immergersi di più nelle sue profondità. Ai cristiani, l’apostolo Pietro chiede di essere pronti a «rendere ragione» della loro speranza; vuol dire che la verità su cui fondiamo l’esistenza deve aprirsi al dialogo, alle difficoltà che altri ci mostrano o che le circostanze ci pongono. La verità è sempre «ragionevole», anche qualora io non lo sia, e la sfida consiste nel mantenersi aperti al punto di vista dell’altro, senza fare delle nostre convinzioni una totalità immobile. Dialogo non significa relativismo, ma «logos» che si condivide, ragione che si offre nell’amore, per costruire insieme una realtà ogni volta più liberatrice. In questo circolo virtuoso, il dialogo svela la verità e la verità si nutre di dialogo. L’ascolto attento, il silenzio rispettoso, l’empatia sincera, l’autentico metterci a disposizione dello straniero e dell’altro, sono virtù essenziali da coltivare e trasmettere nel mondo di oggi. Dio stesso ci invita al dialogo, ci chiama e ci convoca attraverso la sua Parola, quella Parola che ha abbandonato ogni nido e riparo per farsi uomo.
Così appaiono tre dimensioni dialogiche, intimamente connesse: una tra la persona e Dio - quella che i cristiani chiamano preghiera - , una degli esseri umani tra loro, e una terza, di dialogo con noi stessi. Attraverso queste tre dimensioni la verità cresce, si consolida, si dilata nel tempo. […] A questo punto dobbiamo chiederci: che cosa intendiamo per verità? Cercare la verità è diverso dal trovare formule per possederla e manipolarla a proprio piacimento. Il cammino della ricerca impegna la totalità della persona e dell’esistenza. È un cammino che fondamentalmente implica umiltà. Con la piena convinzione che nessuno basta a sé stesso e che è disumanizzante usare gli altri come mezzi per bastare a sé stessi, la ricerca della verità intraprende questo laborioso cammino, spesso artigianale, di un cuore umile che non accetta di saziare la sua sete con acque stagnanti.
Il «possesso» della verità di tipo fondamentalista manca di umiltà: pretende di imporsi sugli altri con un gesto che, in sé e per sé, risulta autodifensivo. La ricerca della verità non placa la sete che suscita. La coscienza della «saggia ignoranza» ci fa ricominciare continuamente il cammino. Una «saggia ignoranza» che, con l’esperienza della vita, diventerà «dotta». Possiamo affermare senza timore che la verità non la si ha, non la si possiede: la si incontra. Per poter essere desiderata, deve cessare di essere quella che si può possedere. La verità si apre, si svela a chi - a sua volta - si apre a lei. La parola verità, precisamente nella sua accezione greca di aletheia, indica ciò che si manifesta, ciò che si svela, ciò che si palesa attraverso un’apparizione miracolosa e gratuita. L’accezione ebraica, al contrario, con il termine emet, unisce il senso del vero a quello di certo, saldo, che non mente né inganna. La verità, quindi, ha una duplice connotazione: è la manifestazione dell’essenza delle cose e delle persone, che nell’aprire la loro intimità ci regalano la certezza della loro autenticità, la prova affidabile che ci invita a credere in loro.
Tale certezza è umile, poiché semplicemente «lascia essere» l’altro nella sua manifestazione, e non lo sottomette allenostre esigenze o imposizioni. Questa è la prima giustizia che dobbiamo agli altri e a noi stessi: accettare la verità di quel che siamo, dire la verità di ciò che pensiamo. Inoltre, è un atto d’amore. Non si costruisce niente mettendo a tacere o negando la verità. La nostra dolorosa storia politica ha preteso molte volte di imbavagliarla. Molto spesso l’uso di eufemismi verbali ci ha anestetizzati o addormentati di fronte a lei. È, però, giunto il momento di ricongiungere, di gemellare la verità che deve essere proclamata profeticamente con una giustizia autenticamente ristabilita. La giustizia sorge solo quando si chiamano con il loro nome le circostanze in cui ci siamo ingannati e traditi nel nostro destino storico. E facendo questo, compiamo uno dei principali servizi di responsabilità per le prossime generazioni.
La verità non s’incontra mai da sola. Insieme a lei ci sono la bontà e la bellezza. O, per meglio dire, la Verità è buona e bella. «Una verità non del tutto buona nasconde sempre una bontà non vera», diceva un pensatore argentino. Insisto: le tre cose vanno insieme e non è possibile cercare né trovare l’una senza le altre. Una realtà ben diversa dal semplice «possesso della verità» rivendicato dai fondamentalismi: questi ultimi prendono per valide le formule in sé e per sé, svuotate di bontà e bellezza, e cercano di imporsi agli altri con aggressività e violenza, facendo il male e cospirando contro la vita stessa.

Corriere 13.3.14
Francesco, il Papa che costruisce ponti tra la Chiesa e il popolo dei fedeli
di Andrea Riccardi


Com’è possibile che il cattolicesimo, dato per agonizzante un anno fa, sia oggi in piena primavera? I media parlano con favore del Papa argentino. La gente sembra avere un nuovo interesse per la Chiesa. Com’è avvenuta questa rapida inversione di tendenza? Gli scettici (dentro e fuori dalla Chiesa) parlano di un fenomeno effimero e mediatico, quai un bluff . La crisi non può essere stata risolta in pochi mesi. In realtà il papato sembrava contagiato da una «malattia italiana»: l’incapacità di una classe dirigente a governare. Non è un caso che molti cardinali, al conclave, escludessero un candidato italiano e sottolineassero la responsabilità degli italiani nel cattivo governo vaticano. Inoltre la Chiesa è apparsa segnata da una «malattia europea»: la decadenza che attanaglia il continente. Sono alcuni ingredienti decisivi della crisi.
Infatti i cardinali hanno scelto che il cattolicesimo latino-americano esprimesse la leadership della Chiesa. Forse non conoscevano a fondo il pensiero di Bergoglio (non accademico, ma profondo), però sono stati colpiti dalla sua trasparenza. È un vescovo di una Chiesa dalla vitalità popolare. Da Papa, ha stabilito fin dall’inizio una forte «alleanza» con il popolo, sempre folto in ogni sua comparsa. Sono sei milioni e seicentomila i partecipanti agli incontri vaticani con Francesco da marzo (è stato eletto il 13, ndr) a dicembre 2013, mentre per un periodo quasi uguale all’inizio del pontificato di Giovanni Paolo II e di Benedetto XVI se ne contavano meno della metà. Le parole e i gesti di Francesco suscitano simpatia. Non sono tanto simbolici (come per Paolo VI o Wojtyla), ma umani, come toccare un giovane gravemente malato e soprattutto incontrare la gente. Il Papa, nel primo anno, ha fatto solo un viaggio internazionale in Brasile, mentre Giovanni Paolo II era stato in Messico, Repubblica Domenicana, Polonia, Irlanda e Stati Uniti.
Nel suo parlare alla gente, Francesco ha messo al centro il Vangelo con l’accentuazione della misericordia. I temi etici sono entrati in un cono d’ombra, non perché il Papa li ripudi, ma è convinto che l’eccessiva insistenza su questi aspetti non sia necessaria, anzi riduca la capacità di parlare al cuore. Ha poi dichiarato nell’intervista a Ferruccio de Bortoli (Corriere della sera del 5 marzo scorso) che non ci sono valori negoziabili e altri non negoziabili. Per Francesco c’è un popolo largo da incontrare: bisogna creare ponti. È quel popolo misto che ha conosciuto a Buenos Aires, santo e peccatore, ma attraversato da una domanda di fede, non una minoranza di puri.
Nel volgere di qualche mese, il clima di declino della Chiesa è svanito: è rinata la fiducia nella Chiesa, come un’istituzione che ridà speranza. Addirittura il Papa rivendica la pulizia fatta riguardo agli scandali della pedofilia nella Chiesa più di ogni altra istituzione. La simpatia attorno al Papa non è un gioco dei media, anche se quelli anglosassoni (ieri critici) hanno un’attenzione particolare per lui. Un importante giornalista americano ha detto: «È un nuovo Mandela». Per Time , che gli dedica la copertina, è l’uomo dell’anno: «una nuova voce della coscienza». C’è poi un successo di Bergoglio tra la gente semplice, che torna a rivolgersi alla Chiesa. Per il Censis, il Papa incarna la voglia di aiutare gli altri, tanto parlare di «papafrancescanesimo» come una corrente della società italiana. Il Papa ha reso orizzontale il contatto con la Chiesa, rivolgendosi al popolo. Non appare indulgente verso il clericalismo e le mancanze del ceto ecclesiastico. Qualche episcopato ha espresso preoccupazione per questo modo di fare. Qualcuno ha parlato di «vezzo populista». In realtà, come si legge nell’Evangelii Gaudium , il suo documento programmatico, Francesco vuole una Chiesa missionaria: da giovane, voleva essere missionario in Giappone, ora guida il cattolicesimo in un movimento d’estroversione.


Corriere 13.3.14
Nel 1910 lo sguardo che cambiò il mondo
Già prima della Grande guerra gli artisti scoprirono modernità e «dissonanza»
di Claudio Magris


«1910 — scriveva Gottfried Benn — l’anno appunto in cui tutte le impalcature del secolo cominciarono a crollare». E Virginia Woolf, forse ancor più radicalmente: «Nel o intorno al dicembre 1910, il carattere dell’umanità cambiò». Qualcosa, tutto o quasi tutto sta per disfarsi nel volto dello «Sguardo rosso» di Schönberg, quadro dello stesso anno. Gli esempi potrebbero continuare senza fine; la letteratura — specialmente la poesia — le arti figurative, la filosofia, la musica, la scienza e prima ancora la vita stessa dell’Occidente esplodono, sconvolte, annientate, liberate, resuscitate dalla rottura di ogni ordine armonico e di ogni armoniosa consonanza, distrutte nella loro secolare organizzazione e costrette, forse più con disperazione che con gioia, ad aprirsi a una creatività che non ha eguali.
Quel simbolico — e non solo simbolico — anno è la nascita, violenta e dolorosa, non solo di una nuova arte in tutti i campi, ma anche e soprattutto di un nuovo Io, di un nuovo modo di vivere il proprio impossibile rapporto con se stessi, l’insufficienza della vita e l’impossibilità ma anche necessità di vivere un’esistenza autentica. Quest’anno è come la ferita di un parto tragico e redentore; ferita sanguinante che gli anni e i decenni successivi avrebbero fintamente ricucito come una falsa verginità rifatta. L’urlo di Munch, certamente intollerabile per ogni tradizione compositiva e per l’ordine ottocentesco, sarà neutralizzato da troppi falsi estremisti perfettamente integrati in un sistema diversamente ma altrettanto ferreamente organizzato quanto quello ottocentesco, come sarà ed è sempre più il nuovo mondo sorto dalle guerre mondiali.
I grandi artisti, poeti, filosofi, musicisti di quel drammatico e straordinario Natale della dissonanza che è stato il 1910 (e dintorni) — Schönberg, Kokoschka, Nietzsche, Michelstaedter, Kandinsky, Boine, Trakl, il giovane Lukács, Kafka, Rilke, Schiele, Marc e tanti altri — hanno amato con profondo e tragico amore l’autentica armonia, ed è in nome di essa, per liberare la sua autenticità dalla falsa armonia retorica che la adultera, che hanno intrepidamente emancipato la dissonanza, in ogni campo; dissonanza che a loro volta li ha emancipati, li ha liberati interiormente o meglio volti alla ricerca di una liberazione che non poteva non essere, in nome dell’autenticità, anche e soprattutto naufragio. Così scrive Thomas Harrison in un libro, ora uscito nella bella e incisiva traduzione di Federico Lopiparo, 1910. L’emancipazione della dissonanza .
Un saggio che è un vero capolavoro, degno di quei saggi nei quali i grandi del primo Novecento, come il giovane Lukács, cercavano la vita vera e il suo rapporto con le forme, che la negano o almeno la irrigidiscono ma senza le quali essa non esisterebbe. Un grande libro, che spazia dalla letteratura alla musica alla pittura alla filosofia; un libro godibile perché insieme profondo e lieve, qualità che ha caratterizzato pure gli studi dell’autore sulla poesia italiana, su Nietzsche, Conrad, Musil o Pirandello.
Magris — «Cosa ti ha spinto — gli chiedo incontrandolo a Roma durante una sua puntata da Los Angeles — dove insegna alla celebre UCLA, a scrivere questo libro, che non risponde solo a interessi storico-culturali, ma anche e forse soprattutto a questioni esistenziali, a domande pure tue sulle cose ultime?».
Harrison — L’anima ha le sue ragioni che la ragione ignora! La mia ha sempre sentito una grande affinità per la cultura europea fra il 1880 e il 1920. Ho scritto 1910 quando ho pensato a quell’Europa centrale d’inizio secolo come ricettacolo delle ultime risposte ad alcune fra le più importanti domande della storia occidentale. Cosa vuole la volontà umana? Come ci giustifichiamo la vita? Quanto ne capiamo di questa vita e del profondo di noi stessi? E soprattutto, cosa dobbiamo fare quando non abbiamo le risposte? In questo senso, la «storia delle idee» che offre questo libro mi sembra un esteso panorama della mia. Ma tu, che hai scritto il grande Mito absburgico e Lontano da dove , per non parlare di Danubio , pensi che si possa scrivere una storia culturale che non sia già prima storia personale?
Magris — No, ogni vero libro, anche se rigorosamente oggettivo, è un’autobiografia, indiretta e forse perciò più vera. Un posto rilevante, nel tuo libro, lo occupa pure la letteratura triestina, l’atmosfera culturale di Trieste e Gorizia. E un ruolo centrale lo ha Michelstaedter che anch’io credo abbia preso alla gola, col suo capolavoro La persuasione e la rettorica , un aspetto essenziale della vita in sé e della modernità in particolare, l’incapacità di vivere veramente il presente, la vita, senza distruggerli nell’attesa di un futuro che non c’è veramente mai, ossia precipitandosi nel domani, non vivendo ma volendo aver già vissuto, essere più vicini alla morte. Ma tu scrivi, con grande originalità, che l’errore di Michelstaedter è stato l’incapacità di accettare l’insufficienza della vita, l’inevitabile inautenticità della condizione umana…
Harrison — Per me Michelstaedter rappresenta il momento in cui, direbbe Cacciari, il pensiero diventa «negativo», naufragando nell’indicibilità e nel non-saper-agire. Ritengo che Michelstaedter si sarebbe potuto salvare dal nichilismo e dalla morte spirituale se fosse riuscito (come Nietzsche e Wittgenstein per esempio) a trovare il bene del «tesoro» della lingua, a trasformare parole vuote in creazione artistica. Parlando di Trieste, mi sembra che la collocazione geoculturale del giovane goriziano — ebreo e italiano, ma suddito austriaco, “irredento” quindi in molti sensi — rispecchia una più diffusa crisi d’identità europea. Se fosse vissuto oltre il 1910, quell’«intellettuale di frontiera» si sarebbe forse rivolto alla mistica, a quello che il tuo romanzo sul suo amico Mreule chiama Un altro mare .
Magris — Non sono d’accordo con te quando riconduci il suicidio di Michelstaedter alla sua filosofia, alla sua incapacità sia di vivere la vita vera sia di convivere con l’insufficienza della vita, con la retorica. Del suicidio in genere, in cui la metafisica s’incrocia con le pieghe più sfuggenti dell’accidentale fragilità psicologica, credo non si possa dire nulla.
Harrison — In famiglia Magris siete già due grandi studiosi di Michelstaedter (tu insieme a Paolo), e forse avete ragione di scindere il suo pensiero dal suo agire. Io invece ho voluto vedere che effetto abbia potuto avere l’uno sull’altro, e chiedere dove il pensiero potesse essere sbagliato, soprattutto nel suo rifiuto della volatilità che caratterizza la vita come la si vive (invece che come la si dovrebbe vivere). Ritengo Michelstaedter per certi versi ancora giovane e inesperto, e irrimediabilmente «nichilista». In ciò nuoto forse controcorrente, ma contro una corrente che rischia di finire in agiografia. La grandezza di Michelstaedter non sta per me nella sua visione «persuasa», ma nell’impegno morale, nella sua severità concettuale, nel temperamento satirico, ironico ed «espressionista». Non mi sembra che lo si debba prendere troppo alla lettera, il goriziano, come se ci additasse con la mano l’invisibile nostra «patria vera».
Magris — La grande cultura di quegli anni si chiede quale rapporto ci sia tra la vita, così com’è, e la vita, la sua essenza. Domanda tragica e tragicamente vissuta. Il secolo scorso inizia con molte donne suicide, vittime sacrificali che scendono nel buio per consentire all’uomo di restare nella luce e magari trarre creatività dalla loro morte. Irma si suicida per il giovane Lukács che scrive per lei L’anima e le forme , Anna-Gioietta per Slataper che scrive Il mio Carso , Nadia per Michelstaedter e altre ancora. Si tratta di altissime avventure umane, ma che si inquadrano in una visione questa sì molto datata della donna e del suo rapporto con l’uomo.
Harrison — Era l’enorme senso di colpa di Lukács nei confronti di Irma, secondo il grande commento di Cacciari, che mi ha fatto riflettere sulla sindrome delle donne che si sacrificano per il lavoro dell’uomo. Queste «compagne femminili» aprono il secondo capitolo del mio studio sulla pulsione della morte di quegli anni prebellici, pulsione rafforzata dal rifiuto della tensione dissonante con cui il libro inizia — fra il bene e il male, il vero e il falso, l’autentico e il conforme, l’amore e l’odio, tensione appunto «emancipata» nel 1910. Chi non trova la forza di abbracciare l’unità tragica di questi opposti rimuove l’elemento «negativo» e lo respinge sulla donna (o sull’ebreo, nel caso di Weininger). Così facendo, però, dà pure la parte eroica alla donna. Mi sembra che siano temi che hai trattato anche tu con grande chiarezza nella figura di Alcesti nella tua Mostra e nell’Euridice di Lei dunque capirà.
Magris — Nel ricchissimo paesaggio del libro, forse Ibsen non ha il posto eminente che gli spetta. È da lui che discende originariamente questa emancipazione della dissonanza, tanto più sconvolgente perché apparentemente contenuta in composte forme classiche…
Harrison — Da giovane leggevo molto Ibsen insieme a Nietzsche, con cui condivide molte idee. Ma mi è rimasto più vicino il filosofo che non il drammaturgo, forse per le stesse ragioni per cui prendo le distanze da un certo Slataper e da altri idealisti d’inizio secolo: perché Ibsen rimane alle prese con il sogno della vita autentica, mentre Nietzsche esige che la si sogni solo nell’humus del mondo tragico delle apparenze. Al varco dell’anno 1910, mi sembra che il norvegese segni il punto prima della svolta decisiva, come certi esistenzialisti che parlano di autenticità senza affondarla nell’assurdo.
Magris — Tu concludi illustrando come la Grande guerra e quello che le è seguito abbia distrutto o snaturato i fermenti di quella grande dissonanza. La tragedia diventa retorica, la creatrice rottura delle forme diviene la scolastica, comoda e innocua trasgressione pianificata dell’avanguardia, il confronto bruciante con la colpa diviene nei migliori dei casi nobile ma sfuocato umanesimo. A tutto questo ha forse reagito solo il grande antiromanzo totale degli anni Venti-Trenta, l’opera di Kafka o di Musil — cui hai dedicato un saggio — di Svevo, di Broch, di Faulkner; quei grandi «capolavori falliti» — come li chiama La Capria — che hanno assunto su di sé, nella dissonanza delle forme narrative, la verità stravolta dell’epoca, che può essere narrata veramente solo in modo stravolto. Una precursore è stato Conrad, altro autore su cui hai scritto un saggio fondamentale. Credi anche tu che, rispetto all’attuale orrida restaurazione del romanzo ben fatto, mero prodotto di passivo e gregario consumo, quei capolavori grandi proprio perché consapevolmente «falliti» siano — almeno in Europa e in Occidente — l’ultima vera, grande dissonanza portatrice di verità e di libertà?
Harrison — Hai ragione; il mio studio è segnato da una polemica fondamentale contro il concetto di avanguardia, che finisce per normalizzare la lotta contro la retorica senza necessariamente incidere decisivamente sulla lingua vissuta o sull’agire etico. È solo dopo una riflessione sulla storia catastrofica — penso per esempio a Musil e Gadda, ma anche al tuo romanzo labirintico Alla cieca — che la narrativa scopre il dovere e i mezzi di raccontare «la verità stravolta dell’epoca in modo stravolto». Se i futurismi, dadaismi e surrealismi rischiano di affidarsi all’arbitrarietà del segno, il punto d’arrivo del 1910 è invece il bisogno di fondare l’arte e l’agire sul «fraintendimento umano», sul fatto che gli individui, i gruppi e le culture — insomma tutti coloro che si esprimono in lingua — si fraintendono di continuo.
 Questa è l’ultima tesi del mio libro, e mi sembra la saggezza dei giovani Rilke, Lukács e Michelstaedter. Cent’anni dopo quella Guerra che doveva finire tutte le guerre, siamo arrivati a pensare che forse solo il romanzo può fare i conti con le forme tortuose dell’anima umana.


Corriere 13.3.14
Italia e Austria verso il 2015 Quattro mani per una storia
Risponde Sergio Romano


Attendo con angoscia la colata di retorica che ci verrà addosso nel 2015, già se ne intravedono i bagliori. Negli anni 80 furono incaricati degli storici, austriaci ed italiani, di scrivere la storia della Prima guerra mondiale, soprattutto circa i due Paesi, sulla base di dati inconfutabili e senza retorica. Non so chi fosse lo storico italiano, ma ricordo che da parte austriaca fu incaricato il Prof. Wandruszka. Non ne ho saputo più niente. Spero che i miei nipoti possano studiare una storia attendibile perché «non tutti i bastardi sono di Vienna» come dice bene un romanzo di qualche anno fa, che anzi ne avevamo tanti qui anche da esportare. Mariangela Vlacich 
Cara signora,
I l libro di cui lei scrive apparve dapprima a Vienna e a Monaco nel 1973 presso l’editore Jugend und Volk sotto il titolo «Österreich und Italien. Ein bilaterales Geschichtsbuch» (Austria e Italia, un libro di storia bilaterale); e successivamente a Bologna nel 1974 presso l’editore Cappelli con il titolo «Storia a due voci». L’autore italiano era Silvio Furlani, bibliotecario della Camera dei deputati, molto attivo sino alla sua morte, nel 2001, con una straordinaria varietà d’interessi, dai trattati sul diritto elettorale alla storia dell’Europa centrale e settentrionale. L’autore austriaco, come lei ricorda nella sua lettera, era Adam Wandruszka, storico di origine polacca (era nato a Leopoli nel 1914), molto noto negli ambienti culturali italiani, tra l’altro, per una bella biografia di Pietro Leopoldo d’Asburgo Lorena, figlio di Maria Teresa d’Austria, riformatore del Granducato di Toscana dal 1765 al 1790 e imperatore dal 1790, con il nome di Leopoldo II, dopo la morte del fratello Giuseppe II. Ma fra le opere di Wandruszka vi erano anche una grande biografia di Maria Teresa, un lungo studio sulla dinastia degli Asburgo e un saggio sul 1866, l’«anno fatale» in cui l’Austria aveva perduto il Veneto e il suo ruolo di principale potenza germanica. L’idea del libro nacque dagli incontri, prima a Innsbruck poi a Venezia, fra istituzioni universitarie dei due Paesi, ma divenne una iniziativa dell’Unesco. Erano gli anni in cui molte commissioni accademiche stavano cercando di scrivere nuovi manuali di storia per le scuole medie europee, privi di quegli eccessi di retorica nazionalista a cui lei, cara signora, fa riferimento nella sua lettera. Furlani e Wandruszka procedettero diversamente. Anziché firmare uno stesso testo si divisero la storia dei rapporti italo-austriaci. Furlani si dedicò all’epoca napoleonica, a quella della Restaurazione, al Risorgimento e alla storia dei due Paesi dopo la fine della Seconda guerra mondiale. Wandruszka invece scelse per sé la storia antica e quella moderna sino al principe Eugenio, l’epoca delle riforme, l’illuminismo italiano e austriaco soprattutto a Milano, il periodo fra le due guerre mondiali. Nessuno dei due rinunciò alle proprie idee e alle proprie convinzioni, ma entrambi dimostrarono che l’amor di patria può felicemente convivere con sentimenti di ammirazione e stima per un Paese con cui i rapporti sono stati talora tesi e difficili. Aggiungo che i due autori erano entrambi bilingui. Non ho dimenticato una lunga conversazione con Wandruszka all’Hotel Sacher in una sera viennese dei primi anni Ottanta. Come il suo amato Pietro Leopoldo, parlava un eccellente toscano

la Repubblica 13.3.14
Matematica
Sono i più bravi del mondo con i numeri mentre i liceali britannici, e in genere europei, arrancano 

“Insegnate il metodo Shanghai ai nostri figli” “niente calcoli, siamo inglesi” 
E Londra importa i prof dalla Cina
di Enrico Franceschini

LONDRA. Finora dalla Cina importavamo telefonini, televisori, scarpe, borsette, magliette. Adesso si apre una nuova frontiera: l’importazione di insegnanti di matematica. Comincia la Gran Bretagna, che ne ha ordinati sessanta in un colpo solo, umiliata da una recente statistica secondo cui i figli dei poveri di Shanghai sono da uno a tre anni avanti, in materia di tabelline ed equazioni, rispetto ai figli dei ricchi di Londra. Potrebbe essere l’inizio di un’invasione in mezza Europa, perché non è che gli altri Paesi del continente brillino molto più degli inglesi in questo campo. L’iniziativa parte dal ministero dell’Istruzione britannico, dopo che i dati dell’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo hanno catalogato gli studenti del Regno Unito al 26esimo posto nel mondo in aritmetica. Peggio ancora, la stessa ricerca rivela che i figli di netturbini e camerieri a Shanghai conoscono la matematica molto meglio dei figli di medici e avvocati a Londra: a livello di scuole elementari, i cinesi hanno un anno scolastico di vantaggio nei confronti degli inglesi; a livello di medie superiori il vantaggio è diventato di tre anni. Il vantaggio nel resto della vita è sotto gli occhi di tutti: la Cina nuova superpotenza della terra, l’Europa (anzi l’Occidente, visto che il fenomeno è analogo negli Stati Uniti) in posizione subalterna.
Consapevoli che la forza non solo economica di una nazione passa sempre di più dallo studio delle materie scientifiche, le autorità britanniche cercano dunque di risalire la china rivolgendosi a chi appare più bravo di loro. Un primo gruppo di sessanta insegnanti cinesi di matematica, tutti “English speaking” quindi in grado di farsi capire, afferma il ministro dell’Istruzione Liz Truss, arriverà in Inghilterra all’inizio del prossimo anno scolastico. Verranno distribuiti uno per scuola; e poi gli insegnanti di matematica inglesi delle scuole prescelte passeranno un mese in Cina per un training intensivo. L’obiettivo è impadronirsi di un metodo più efficace, ammesso che imparare la matematica sia questione di metodo e non solo di studiarla tanto.
In cosa consista il metodo cinese lo anticipa il Daily Mail. Uno: insegnare al livello dei più bravi della classe, non dei più somari e nemmeno della media. Due: offrire mini-ripetizioni “one-on-one”, faccia a faccia, per far recuperare e motivare chi resta indietro. Tre: farne tanta, di matematica, una montagna di compiti in classe e compiti a casa. Infine un’attitudine “obamia-na”, se così si può chiamarla: yes we can, ovvero convincersi di poter imparare anche le operazioni che sembrano più astruse. A ripetizione dai cinesi, se potesse, lo Stato britannico manderebbe anche i genitori, visto che un altro rapporto, pubblicato ieri dal Daily Telegraph, li boccia ancora più inesorabilmente dei loro figli. Risulta che metà della popolazione adulta ha una capacità matematica inferiore a quella di un bambino di 11 anni; e che un terzo degli adulti ammettono di non saper fare nemmeno i conti più elementari, tipo calcolare il resto quando fanno la spesa. In teoria ciò fornisce una giustificazione agli scolari di oggi: voi - potrebbero dire a papà e mamme - non andavate certo meglio di noi in matematica. Per rimediare almeno un po’, il ministero dell’Istruzione offrirà corsi e test gratuiti online per adulti, con la speranza di indurre i più grandi, non soltanto i più piccoli, a migliorare nella scienza di Archimede e di Pitagora.
Certo, con il calcolatore del telefonino, del tablet e del computer che possono fare i conti per noi, molto meglio e più in fretta di noi, è dura rimettersi a studiare matematica. Vale per i ragazzi come per i genitori: è come avere come compagno di banco un primo della classe che ci esorta a copiare. Prima di importare insegnanti cinesi, dunque, almeno quando facciamo i conti bisognerebbe spegnere telefonini e pc. Tanto vengono dalla Cina pure quelli.


la Repubblica 13.3.14
Anche i geni sgobbano Studiare costa fatica
di Piergiorgio Odifreddi


L’Inghilterra è disperata per gli scarsi risultati dei suoi studenti in matematica: che comunque sono meglio dei nostri, anche se noi non ci disperiamo. Ha dunque deciso di rivolgersi, se non direttamente al Cielo, almeno al paese del Mandato del Cielo, invitando professori cinesi in Inghilterra, e inviando professori inglesi in Cina. Così facendo conferma di non eccellere non solo in matematica, ma neppure nella sua storia. In particolare, non sembra conoscere l’episodio secondo cui Tolomeo chiese a Euclide qualche scorciatoia per imparare la materia, e si sentì rispondere: “Sire, non ci sono vie regie in matematica”.
Dunque, la Cina non potrà insegnare molto all’Inghilterra, a parte le cose più ovvie, che qualunque matematico potrebbe dirle. Compreso me, che comunque in Cina ci ho passato un anno, in quattro trimestri, osservando da vicino il motivo del successo degli studenti cinesi a casa loro e all’estero: ad esempio, nelle università americane, dove nelle facoltà scientifiche con gli indiani costituiscono la maggioranza degli studenti.

il Fatto 13.3.14
Erasmus
Europa lontana, studenti e lavoratori senza urna
di sn


LE OCCASIONI PERSE con l'Italicum. Una si chiama Erasmus, quella cioè che avrebbe dato a centinaia di migliaia di studenti e lavoratori il diritto di voto. Tramite i 5 stelle, era stato presentato un emendamento, redatto dal Comitato “Io voto fuorisede” e poi sottoscritto da svariate forze politiche che introduceva il sistema dell’ ”early vote”, ossia la possibilità di esercitare il voto per corrispondenza ad esempio per gli studenti che a nel mese maggio staranno trascorrendo un periodo all’estero nell’ambito del progetto Erasmus. “Larga parte dei Paesi Ue – ha ricordato Alberto Campailla, Portavoce nazionale di Link-Coordinamento Universitario - adoperano da anni sistemi per far votare democratica di chi non può recarsi alle urne”. Noi no, nell’Italicum non ce n’è traccia ma la Rete non si arrende e lancia una mobilitazione, nel nome di “286.353 gli studenti iscritti in Università e dei 25 mila studenti Erasmus”. Li rivedremo al Senato.

il Fatto 13.3.14
Lecca lecca
Cazzullo il recensore che ama i colleghi


FORSE L’IMMAGINE non è graziosa, ma la sostanza resta: in Italia, giorno dopo giorno, una lingua lava l’altra nella grande comunità di chi conta almeno un po’. Perché ormai stringere la mano non basta, fare l’occhiolino nemmeno, occorre impegnarsi davvero per dimostrare appoggio fisico e morale al proprio simile. Succede allora che Aldo Cazzullo, penna prestigiosa del Corriere , si metta a recensire il primo romanzo di un giovane e promettente autore, tale Floris Giovanni, anche conduttore di Ballarò su Rai3, e quindi gestore di poltrone tivù molto ambite. Naturalmente Cazzullo poggia spesso le terga su quelle poltrone, magari pure lui col suo nuovo libro in mano, ma ciò non gli ha impedito di vergare ieri una lunga e sofferta disamina de “Il confine di Bonetti”, vicenda di amici nell'Italia del disimpegno anni 80 che Floris ha sentito l'esigenza di scrivere dopo tanta impegnata attualità. Agli ammiratori di Cazzullo resta solo un dubbio: meglio il lancio del Floris romanziere o quello per Formigli Corrado, elogiato a tutta pagina giusto un mese fa col suo volume “Impresa impossibile”, sempre sul Corrierone?

il Fatto 13.3.14
Strega, un premio piccolo Piccolo?
L’autore Einaudi è il vincitore predestinato. Ecco perché
di Silvia Truzzi


Ritenendo definitivamente chiusa epoca premi letterari rinuncio al premio perché non mi sento di continuare ad avallare con il mio consenso istituzioni ormai svuotate di significato”. Mittente: Italo Calvino (cui è stato intitolato, post mortem un premio letterario, seppur per esordienti). Destinatario: il Premio Viareggio. Siamo alla fine degli Anni 60, premiopoli è al suo apice. Un telegramma – racconta Andrea Kerbaker nel suo nuovo Breve storia del libro (a modo mio), appena uscito per Ponte alle Grazie – arriva anche nel 1975 al Premio Bagutta. “Lo firma il vincitore di quell’edizione, Tommaso Landolfi, autore di proverbiale riservatezza, che usa soltanto tre parole: ‘Deploro mia assenza’. Se neppure letterati della loro autorevolezza sono riusciti a sconfiggere premiopoli, non credo che lo farà mai nessuno. Con grande soddisfazione dei reparti commerciali e di marketing”. Infatti, siamo sempre qui e sì, state leggendo un articolo sul premio Strega: del resto è marzo e insieme alla natura si risvegliano anche gli appetiti degli editori. Di seguito breve riassunto delle strategie 2014. Einaudi candida Francesco Piccolo, con Il desiderio di essere come tutti (anzi TUTTI, in maiuscolo). Il libro di Piccolo, autore casertano stimato quanto poliedrieco (scrive anche per la tivù e il cinema) è da mesi il vincitore annunciato. Le ragioni sono molte: editore giusto, il potente Struzzo, libro politico, autore autorevole.
DUNQUE, direte voi, Mondadori salterà un giro, per non ostacolare la sorellina sabauda. Invece no: Segrate ci sarà, precisamente con Lisario o il piacere infinito delle donne di Antonella Cilento, libro di cui si può dire poco perché non è ancora uscito. Si sa che è la storia di una giovinetta bella e muta, nella Napoli seicentesca. Naturalmente questo non significa affatto che i voti di Mondadori saranno negati a Piccolo. E i “nemici” di Rcs? L’affare qui si complica. L’anno scorso ha vinto un autore Rizzoli – Walter Siti – dunque quest’anno sarà difficile fare il bis. Pare che Elisabetta Sgarbi – direttore editoriale di Bompiani – avesse intenzione di far correre Il dolore pazzo dell’amore di Pietrangelo Buttafuoco. Tra i cui pregi c’era, anche, di avere uno stile e un linguaggio completamente diversi dal romanzo di Piccolo. Pare che il veto su Buttafuoco l’abbia messo direttamente Casa Bellonci, che non voleva né Buttafuoco né Aurelio Picca (che si era comunque sottratto, rifiutandosi di fare la vittima sacrificale). Risultato? Candidato ufficiale Bompiani è Il padre infedele di Antonio Scurati, storia di ordinaria conflittualità post partum: “Avevamo cominciato a non essere più una coppia un attimo dopo essere divenuti una famiglia”. Scelta singolare per molte ragioni. L’autore ha gareggiato nel 2009, perdendo in finale con Tiziano Scarpa per un solo voto: sconfitta che brucia ancora e che rischia di ripetersi. Il libro, non sfugge, è pericolosamente simile per il tema trattato a La separazione del maschio (2008), fortunatissimo titolo einaudiano. Chi era l’autore? Francesco Piccolo. Non trattasi di omonimia: il destino è in agguato, Scurati lo sa. Citando Il padre infedele (pagina 24): “All’epoca gli scrittori casertani ‘molto sofisticati’ cominciavano a essere di moda”. Al giochino del vincitore annunciato non vuol starci – naturalmente – Elisabetta Sgarbi, direttore editoriale di Bompiani: “Non c’è niente di scontato, anche se Piccolo è un autore importante che ha scritto un libro importante”. Per non lasciare nulla al caso, la casa editrice del gruppo Rcs ha stampato Il padre infedele con una fascetta firmata da Walter Siti: chissà che non porti bene. Poi ci sono anche gli altri, e non sono pochi.
L’informato Affaritaliani.it   sta monitorando i potenziali sfidanti: Giuseppe Lupo, autore di Viaggiatori di nuvole (Marsilio), Giuseppe Catozzella con Non dirmi che hai paura (Feltrinelli), Marco Magini autore di Come fossi solo (Giunti), Alice Di Stefano con Publisher (Fazi), Paolo Piccirillo con La terra del sacerdote (Neri Pozza), Francesco Pecoraro che presenta La vita in tempo di pace (Ponte alle Grazie). Ma se Piccolo ha già vinto, perché gli altri partecipano? “È vero che da mesi Piccolo è il vincitore annunciato – spiega Luigi Spagnol, direttore editoriale di Ponte alle Grazie e amministratore delegato del gruppo Gems – ma è giusto partecipare allo Strega, che resta la vetrina più importante. La speranza, si sa, è l’ultima a morire e noi ci presentiamo con un titolo di cui siamo molto convinti”. Già, lo Strega vale – o forse valeva – almeno 40 mila copie per il vincitore. E a volte anche per gli altri della cinquina: altro che maturità, la fascetta è tutto. Specie in questi anni bui di crisi economica in cui le vendite in libreria sono crollate e quelle digitali non sono ancora decollate. E poi lo Strega è anche uno degli ultimi luoghi in cui gli intellettuali italiani hanno una qualche voce in capitolo, dunque tutti gli anni c’è qualcosa di triste e insieme divertente nel vedere gli editori contendersi i voti come farebbero le aspiranti Miss Italia. Pare siano già partiti i pranzi, le telefonate, le campagne di conquista. Bisogna dire che la Fondazione Bellonci sta provando a rendere il più possibile trasparente il voto, ma siamo comunque tra amici degli Amici. È sempre lo stesso film, che finisce ai primi di luglio con un assalto al buffet romano allestito al Ninfeo di Villa Giulia che fa impallidire La grande bellezza. In un’intervista a questo giornale, Manlio Cancogni (che vinse lo Strega nel 1973) ha detto: “Il premio era nato tra il ‘43 e il ‘45 come tentativo di resistenza culturale”. Che cosa rimane di quel tentativo? L’anno scorso ha vinto Resistere non serve a niente

Eataly
Corriere 13.3.14
Dove la buga ha la meglio sul branzino
di Angela Franda


E così anche Milano avrà il suo Eataly . Sono trascorsi dieci anni precisi (era il 2004) quando Oscar Farinetti, 59 anni piemontese di Alba, già proprietario di Unieuro, iniziò a studiare il modo di promuovere il made in Italy del gusto. Con il cibo il piccolo Oscar aveva una certa frequentazione. Non fosse altro che per il papà che faceva la pasta a mano e per il nonno mugnaio. Tre anni più tardi, nel 2007, aprì Eataly Torino. Da allora, è stato un successo mondiale: da New York a Tokyo, da Roma a Milano. Ma quello forse che fa di Eataly qualcosa di unico è l’aver capito (prima di altri) il desiderio di tanti appassionati gourmet o aspiranti tali di avere la loro Dinseyland del gusto. Un posto dove perdersi con la sensazione di comprare un piccolo pezzo (da mangiare) di esclusività. Ma senza rinunciare al concetto, molto caro a Farinetti, di democrazia gastronomica. Quella sulla quale in America, in questi mesi, sta montando un movimento trasversale che si propone una rivoluzione di miglioramento alimentare. Lo racconta bene ogni giorno, ad esempio, il blog Civil Eats. Ma Farinetti questo sentimento lo ha intercettato per primo. Da lui, si è sempre vantato, si partecipa a un momento di «godimento alimentare» nel quale sono coinvolti tutti, dai bambini e pensionati. Senza tanti snobismi. Perché è meglio «imparare a cucinare bene una buga da 3 euro al chilo contro i 30 euro al chilo del branzino». E la filosofia di Eataly? Resta sempre la stessa. Quella spesso enunciata dal suo fondatore: «Capire cosa si mangia. Perché il meccanismo è come nell’amore, dove se conosci il o la partner provi più piacere. Così nel cibo». Non resta che fidarsi.



mercoledì 12 marzo 2014

l'Unità 12.3.14
Abortisce in bagno, la regione Lazio apre un’indagine
L’odissea della 28enne Valentina al Pertini di Roma sarà oggetto di inchiesta interna
di Mariagrazia Gerina


«Vergogna». «Scandaloso in un paese civile ». «Sanità pubblica fuori legge». Non importa se sono passati quattro anni, la storia di Valentina, 28 anni, affetta da una anomalia genetica e lasciata da sola ad abortire nel bagno di un ospedale, fa rabbia come se fosse accaduta ieri. Valentina, sostenuta dalla Associazione Luca Coscioni e da Filomena Gallo, ora combatte la sua battaglia legale per accedere alla fecondazione assistita, nonostante la legge40che ancora rappresenta un ostacolo per le coppie affette da malattie genetiche ma non sterili. E però la storia di quell’aborto, al quinto mese, deciso perché il feto per via di quell’anomalia genetica «non aveva aspettative di vita», ha voluto raccontarla lo stesso. In poche ore la sua storia ha fatto il giro della rete. E forse stavolta non ci si fermerà all’indignazione. «È una vicenda gravissima e anche se risale a quattro anni fa, ritengo che debba avere un seguito giudiziario o quanto meno essere oggetto di una indagine interna da parte della Regione Lazio», approfondisce le accuse Riccardo Agostini, consigliere del Pd e membro della commissione sanità del Lazio. «Se i fatti che Valentina e suo marito hanno raccontato fossero confermati, si configurerebbe per i medici, quanto meno, il reato di omissione di soccorso», osserva Agostini, convinto che «anche a distanza di tempo occorra fare chiarezza», perché «è inconcepibile che una legge dello Stato come la 194 non trovi applicazione in una struttura pubblica».
La Regione Lazio, dunque, aprirà una indagine interna. E lo stesso ministero della Sanità fa sapere che chiederà alla Regione «quali azioni abbia preso volte ad accertare che nelle strutture sanitarie preposte sia assicurato l'espletamento delle procedure previste dalla legge 194». Mentre il presidente del Lazio Zingaretti rivendica: «Noi non ci siamo fatti cogliere impreparati sulla difesa e il rilancio della legge 194».
Inconcepibile, ma quello che Valentina ha raccontato è ancora cronaca e rabbia di tutti i giorni. I medici, quasi tutti obiettori, l’attesa dell’unico disponibile per l’interruzione di gravidanza, l’assenza di sostegno psicologico. «Non abbiamo denunciato l’ospedale semplicemente perché non avevamo la forza di intraprendere un percorso difficile e doloroso. Ma invece delle infermiere che continuavamo a chiamare, a un certo punto si sono presentati due personaggi con il Vangelo a dirci che stavamo commettendo un reato», hanno raccontato lei e suo marito. Assurdo. Tanto più che «l’obiezione di coscienza esonera il personale sanitario dal compimento delle procedure dirette all'interruzione della gravidanza e non dall'assistenza antecedente e conseguente all’intervento», osservano Filomena Gallo dell’Associazione Luca Coscioni, Mario Puiatti, presidente dell’Aied, e Mirella Paracchini, vicepresidente della Federazione internazionale per l’aborto e la contraccezione: «Non escludiamo le azioni che il caso consiglia anche oggi dopo 4 anni, ma chiediamo immediatamente una assunzione di responsabilità da parte della politica ». Quello che è accaduto a Valentina all’ospedale Pertini - avvertono -«non è un caso isolato» ma «fa emergere quanto accade in molti ospedali nel momento in cui si ricorre ad una interruzione volontaria di gravidanza».
Proprio basandosi su dati e osservazioni forniti dalle Coscioni, dall’Aied e dalla Fiapac, il Comitato Europeo dei Diritti Sociali del Consiglio d'Europa ha da pochi giorni ufficialmente riconosciuto che l'Italia viola costantemente i diritti delle donne che intendono interrompere la gravidanza.

l'Unità 12.3.14
Ma Bobbio spiega benissimo anche Grillo
di Bruno Gravagnuolo


I GRILLO È DI DESTRA ANZI DI ESTREMA DESTRA. E NON È UNO SLOGAN ma è un’evidenza concettuale lampante. Lasciamo da parte le giustificazioni sociologiche trasversali, le stesse che celarono la natura della Lega a gente come Bocca, Travaglio, Santoro. Tipo: movimento civico di protesta, né di qua né di là, ha a cuore il cittadino e l’ambiente, etc. No, Grillo è di destra per le stesse «ragioni» che Bobbio assegnava alla destra: apologia e pratica della diseguaglianza. Asimmetria del comando. Opacità dell’autorità indiscussa. Violenza simbolica della leadership senza controllo né garanzie. Grillo è contro l’indulto, contro l’abolizione del reato di clandestinità, contro il riequilibrio di genere. E pur essendo per la democrazia diretta ne interpreta a modo suo il mandato, pur teorizzando il vincolo di mandato! Come quando richiesto dalla «sua» rete di parlare con il Presidente incaricato, lo ha mandato all’inferno, in spregio alle richieste dei seguaci. È proprio il capo della Fattoria degli animali di Orwell.
L’ultimo exploit? L’apologia degli staterelli preunitari, con cartina sul blog dell’Italia del 1494. Indecenza poi corretta con l’idea leghista delle macroregioni (boiata che moltiplica gli sprechi del titolo V). Grillo disprezza l’Italia, la ritiene un miscuglio di etnie, un’espressione geografica arbitraria. Come Metternich, i reazionari della Restaurazione, gli Insorgenti, i Lazzari e i briganti legittimisti. E la destra ancora una volta è nel concetto, oltre che nell’anima e nella mascherata vetero-qualunquista. Grillo infatti ripercorre pari pari le tracce di un altro reazionario a noi più vicino: Gianfranco Miglio, caro alla Lega. Teorico della forza e dell’Ethnos. Dunque della diseguaglianza e della gerarchia tra i popoli (Etruschi, Celti, Magna Grecia). Ma a Grillo non occorre studiarle certe cose: le vomita d’istinto. Ecco perché Bobbio spiega bene anche Grillo, oltre che la sinistra. Con buona pace di chi vorrebbe farne un bignamino da «terza via».

l'Unità 12.3.14
L’Italicum va, il Pd si spacca
Donne furiose nel Pd
Minoranze in rivolta contro l’asse col Cav
Bersani: troppo potere a Berlusconi
Scontro tra il segretario e Rosy Bindi. Lei lo interrompe: «Basta con l’uomo solo al comando»
Civati: «Legge nordcoreana»
di Andrea Carugati


L’Italicum divide il Pd. Forse più di quanto si potesse immaginare. Il partito che meno di un mese fa aveva votato a larghissima maggioranza la staffetta tra Matteo Renzi e Enrico Letta a palazzo Chigi, ieri si è ritrovato a Montecitorio a un passo dal baratro. Per venti voti l’emendamento del popolare Gitti sulla doppia preferenza di genere viene bocciato, salvando l’accordo Renzi-Berlusconi. C’è voluta la presenza in Aula di oltre venti membri del governo (richiamati in tutta fretta alle 15 dalla collega Boschi) per scongiurare la clamorosa caduta. Segno che tanti democratici, e soprattutto democratiche, quell’emendamento che in un colpo solo ripristinava le preferenze e la parità tra i sessi l’hanno votato. L’incontro di Renzi con il gruppo dei deputati, ieri mattina al Nazareno, è stato molto brusco. Lui ha avvertito: «Chi non vota oggi dovrà spiegarlo fuori». E ha fatto riferimento a scenari drastici in caso di affondamento dell’Italicum.
Con Rosy Bindi il premier ha avuto un frontale. Lui le ha rimproverato l’intervista in cui lei spiegava che «il Pd ha sacrificato valori della Costituzione all’accordo con Berlusconi». Lei lo ha interrotto, parlando di una «ferita profonda » nel voto di lunedì sulla parità di genere: «Noi abbiamo un’idea diversa della democrazia di un uomo solo che fa le cose buone». La presidente dell’Antimafia resta molto critica sulla legge: «Le liste bloccate sono inaccettabili. Per le persone normali sono il cuore del Porcellum che toglie potere agli elettori». E annuncia il suo sì al “Gitti”. Nelle stesso ore anche Bersani, ad Agorà, tuonava sul quartier generale: «Un errore dare al Cavaliere l’ultima parola. Se l’avessi fatto io...». I due big della vecchia guardia rappresentano la punta dell’iceberg di un malessere assai diffuso, che riguarda innanzitutto il merito della legge elettorale. Nella stessa riunione del mattino Maino Marchi, deputato emiliano, si dimette da capogruppo in commissione Bilancio per protesta contro l’intervista di Renzi a Fazio, in cui il premier aveva parlato di poltrone in riferimento alle quote rosa: «C’è un problema di cultura politica nel voto di ieri e nelle parole di Renzi. La legge la voto, ma non posso più guidare i deputati in commissione».
Francesco Boccia si alza in Aula per annunciare il suo sì agli emendamenti sulle preferenze, e annuncia le sue dimissioni da renziano: «Io ho votato Renzi al congresso e sono andato in giro a dire che cambieremo l’Italia e tutto questo non sta accadendo. Questa legge trasforma l’Italia in un pantano, io non faccio più parte della maggioranza. Non vorrei che, nel giro di due mesi, si sia completamente stravolta la cultura del Pd». Anche Alessandra Moretti attacca: «Nel segreto 60 vigliacchi fanno il lavoro sporco contro la parità di genere».
Prima del voto sull’emendamento Gitti, il capogruppo Roberto Speranza prende la parola in Aula per cercare di ricompattare la truppa: «Non possiamo bloccare all’inizio il treno che sta partendo. Gli errori lunedì ci sono stati e sono stati gravi, ma non posiamo cancellarli con altri errori». Un appello che sembra convincere il grosso dell’area Cuperlo, con Fassina e D’Attorre che annunciano il loro sì sofferto alla legge. Spiega D’Attorre all’Unità: «Il mio voto favorevole è tale solo per non bloccare il percorso delle riforme. Ma restano tanti, troppi punti critici, che dovranno cambiare al Senato. Altrimenti non ci potrà essere un altro voto favorevole».
Sulla stessa linea anche l’ex viceministro Fassina che parla di «una sofferenza molto profonda» nel gruppo. «Siamo stati vicini al punto di rottura, alla fine è prevalso il senso di responsabilità ma ci aspettiamo dal Senato il superamento delle liste bloccate». Parità di genere, e il meccanismo delle soglie (37% per il primo turno e l’8% di sbarramento per i partiti non coalizzati) sono gli altri due temi caldi per l’area Cuperlo. Pippo Civati, che arriva a paragonare l’Italicum alla legge Nord coreana, ironizza sull’atteggiamento dei colleghi di minoranza: «Ci stanno dicendo che il testo della Camera è brutto forte ma che al Senato migliorerà. Mi chiedo perché dovrebbe cambiare qualcosa se in due mesi le cose sono solo peggiorate. E Al Senato il Pd ha meno voti...».
Marco Meloni, lettiano, in Aula propone le primarie per legge, con l’appoggio di Fassina, Bindi e altri deputati. Anche questo viene bocciato, alla fine Meloni annuncia che non voterà la legge: «Non ha i requisiti minimi, rischia di essere incostituzionale. E ho forti dubbi sulla volontà politica di cambiarla in Senato ». Di fatto la fragile tregua serale nel Pd poggia proprio sulla possibilità di correzioni a palazzo Madama. «Per noi sarà un impegno prioritario riprendere il tema della parità di genere», assicura Lorenzo Guerini, portavoce della segreteria Pd. Ma avverte: «Nell’ambito di un confronto con gli altri soggetti dell’accordo». Come dire, senza il sì di Berlusconi difficile che si possa fare. Alla minoranza per ora basta. Non alla Bindi che non partecipa al voto finale. E il senatore civatiano Corradino Mineo avverte: «Credo che la legge elettorale non abbia più i numeri per passare così com’è al Senato. Se fossi in Renzi aprirei a delle modifiche...».

il Fatto 12.3.14
Renzi nel panico salvo per 20 voti
Renzi sbatte i pugni, ma il Pd (a voto segreto) gli mette paura
Guppo infuocato in mattinata. Poi ministri barricati in aula per salvare la legge elettorale di Wanda Marra


Oggi la Camera vota l’Italicum nella versione del premier e del Caimano. Il Pd paga un prezzo altissimo: un rosario di emendamenti (poi bocciati per un pelo) e di franchi tiratori costringe il governo a precettare ministri e vice. Anche la Bindi si dissocia. Ora la guerra passa al Senato.
Emanuele Fiano e Ettore Rosato (Area Dem, ora con Renzi) si affannano col pollice alzato. Andrea De Maria (Giovani Turchi) fa lo stesso. Roberto Speranza, il capogruppo, voluto da Pier Luigi Bersani, sta seduto e non muove un muscolo del viso. I renziani si accalcano intorno a Matteo Richetti, che qualche minuto prima ci ha messo la faccia per ricomporre la bocciatura delle quote rosa. Sui banchi del governo Maria Elena Boschi e Marianna Madia si stringono. Si vota l’emendamento Gitti, quello che chiede la doppia preferenza di genere. E tutti nel Pd, chi tifa per Renzi e chi rema contro, sono consapevoli del fatto che il futuro della legge elettorale, e pure dell’esecutivo, sono legati al no a questa modifica. Se passa è l’accordo con Forza Italia che rischia di saltare. Stavolta Cinque Stelle ha annunciato il voto a favore: un modo per mettere il Pd nei guai. Ma “la Camera respinge”. Con pochissimi voti di scarto: 297 no e 277 sì (maggioranza fissata a 288). Solo Pd più Ncd più Forza Italia più Sc ne farebbero 416. In Aula sono presenti 23 tra ministri e Sottosegretari. Il governo rischia, si salva per il rotto della cuffia. Quando la Boschi ha capito l’andazzo, nel primo pomeriggio, ha convocato tutti i membri del governo. Persino, nell’agitazione del momento, i non eletti e i senatori. “Dobbiamo chiudere qualche fronte, perché così non si tiene”, commenta un autorevole esponente dem.
LA GIORNATA si preannunciava difficile. Renzi aveva convoca alle 8,30 di mattina l’assemblea del gruppo al Nazareno. Doveva servire a ricomporre dopo la bocciatura della parità di genere, ma evidentemente ottiene l’effetto opposto. Il segretario-premier è teso e all’attacco. “In questi 20 anni abbiamo capito che siglare accordi decenti con Berlusconi non è facile. Io ne ho portato in fondo uno non perfetto ma più che decente e vorrei mi venisse riconosciuto. Sono riuscito a strappare il doppio turno e l’innalzamento delle quote di premio da 33 a 37. Mi avete chiesto di far valere l’Italicum solo per la Camera e io vi sono venuto incontro. Non sono riuscito a introdurre la parità di genere. Ma non posso accettare che i problemi mi arrivino dal Pd”. Se la prende con la Bindi, che ha rilasciato a Repubblica un’intervista per dire che la legge è incostituzionale. “Non sono d’accordo”. Poi, va sul personale: “Tu Rosy, in passato non ti sei preoccupata nello stesso modo di questa questione”. I due non si sopportano da sempre. Ma il livello dello scontro si alza. Lei lo interrompe: “Noi abbiamo un’idea diversa della democrazia di un uomo solo che fa le cose buone. Il Pd è stato ferito dai 100 voti che sono mancati per far passare la norma antidiscriminatoria”. Interviene il lettiano Meloni. Contro. Il malumore è tantissimo. Prende la parola il deputato Maino Marchi, capogruppo Pd in Commissione Bilancio: “La matrice culturale del voto contro le quote rosa è nelle parole pronunciate da Renzi domenica in tv”. Il quale aveva detto: “Le deputate fanno una battaglia per la parità di genere per garantirsi la poltrona”. Dimissioni sono “irrevocabili”. Spiega: “Ho votato la fiducia solo per responsabilità”. In assemblea gli interventi sono 5. Poi Renzi deve andar via. Ne erano stati richiesti 14. Tra cui quello del renziano Dario Parrini. Che avrebbe voluto dire che la legge è una buona legge. E soprattutto che non accetta strumentalizzazioni. “Si è cercata un’operazione politica per dire che io non controllavo il Pd - si sfoga con i suoi Renzi in serata - Usando il voto segreto qualcuno ha tentato la rivincita sulle primarie”. Alle donne in Assemblea aveva assicurato: “Se ci saranno le condizioni per discutere al Senato di parità di genere, riapriremo la discussione”. Non basta.
IN AULA diventa chiaro. Bocciato per soli 35 voti l’emendamento La Russa sulle preferenze. Torna il fantasma dei 101. Allarme rosso. Il Pd diviso in correnti e correntine fa riunioni per capire fino a che punto spingersi. Enrico Letta in Aula non c’è. E neanche Bersani che va ad Agorà ma non a dare il suo voto a Montecitorio. Cuperlo prova a riunire la minoranza, ma non ci riesce. Renzi manda sms a tutti per dettare la linea e commentare in diretta quel che succede. Uno spettacolo che non è esattamente di suo gradimento. Marco Meloni presenta un emendamento per fare le primarie. Commissione e governo danno parere contrario (è contro l’accordo). Si vota a scrutinio palese. A favore, tra gli altri, Bindi, Boccia, Damiano, Fassina, Mosca, Zampa. Astenuti, Civati, Cuperlo, Bray. Lettiani, bersaniani, dalemiani. “Votare contro le primarie per legge - attacca Boccia - è stato come rinnegare l’atto costitutivo del Pd”. Lo stesso Boccia dichiara il suo voto contrario alla legge: “È invotabile come il porcellum”. Boccia è il presidente della Commissione Bilancio. Guai in vista per il futuro. La Bindi in Aula dichiara il suo voto a favore dell’emendamento Gitti. E la battaglia non finisce. “È una ferita che resta, che si approfondisce”, dice Paola De Micheli (lettiana). Le donne si riconvocano in serata, prima del voto finale poi slitattato a stamani, per discutere di come muoversi in Senato. Lì i numeri promettono malissimo, con una maggioranza ben più risicata che a Montecitorio. Però non c’è il voto segreto. Anna Finocchiaro, presidente della Commissione Affari costituzionali, anti renziana doc, ha già annunciato l’intenzione di cambiare la legge. Molte senatrici sono sul piede di guerra. Renzi promette: “La legge elettorale va. La miglioreremo da posizioni di forza”.

La Stampa 12.3.14
Berlusconi prepara il “soccorso azzurro” per aiutare Renzi
Gelmini: il vero asse è tra noi e il Rottamatore

di Amedeo La Mattina

Silvio Berlusconi osserva con stupore quello che sta accadendo alla Camera sulla legge elettorale. Segue con sottile soddisfazione le convulsioni del Pd e la tenuta dell’accordo che aveva stretto con Matteo Renzi nella sede del Pd a Largo del Nazareno. Una tenuta che sta però correndo sul filo del rasoio, che ha ballato su maggioranze risicate e tra le dita dei franchi tiratori nel segreto dell’urna. Ieri l’accordo Matteo-Silvio sull’Italicum ha rischiato seriamente di sfracellarsi su un emendamento che prevedeva la doppia preferenza di genere (un uomo e una donna): non è passato per 20 voti e grazie alla presenza dei ministri convocati d’urgenza dal sottosegretario Graziano Delrio. 
Ecco, la sensazione del Cavaliere è che nel Pd la grande caccia a Renzi sia già cominciata e che il passaggio al Senato della legge elettorale sarà un Vietnam. «Figuriamoci cosa accadrà quando in Parlamento arriveranno i provvedimenti economici e sul lavoro - ha osservato Berlusconi - quando esploderà lo scontro con la Cgil, quando Renzi dovrà contare soltanto sulla sua maggioranza». 

Insomma, per dirla con le parole della responsabile comunicazione di Forza Italia Bergamini, «in che condizioni si ritroverà il Pd dopo la legge elettorale?». Forza Italia è quasi meravigliata della velocità con cui si è messo in moto l’istinto cannibalesco nel partito che regge la maggioranza di governo. Sta scoprendo in questi giorni alla Camera che la crisi interna al Pd è più ampia di quanto si potesse immaginare. Come questo si ripercuoterà sulla tenuta di Renzi sarà il tema delle prossime settimane. E questo chiama in causa l’atteggiamento che dovrà tenere il partito del Cavaliere, che non esclude il «soccorso azzurro». Quel soccorso che il Cavaliere avrebbe promesso a Renzi nel colloquio a quattr’occhi durante le consultazioni per la formazione del governo. 

«È presto per dire che Forza Italia sarà la stampella di Renzi - spiega un dirigente azzurro - perché dipende da come finisce la partita della legge elettorale al Senato e che proposte porterà Renzi in Parlamento su fisco, mercato del lavoro, contro la burocrazia. Bisognerà vedere dove trova i soldi per fare tutto quello che ha promesso». Già oggi il Consiglio dei ministri sarà un banco di prova di primissimo piano. «Renzi - sostiene Giovanni Toti - deve tirare fuori il famoso coniglio dal cilindro. Vediamo come sarà fatto questo coniglio e quanti miliardi di euro porterà nella pelliccia». Il punto focale è il taglio al cuneo fiscale annunciato dal governo. «Vediamo se ci saranno i fondi per fare queste misure, se l’Europa ce le farà fare. Noi - precisa il consigliere politico di Berlusconi - ci auguriamo che Renzi ce la faccia. I conti sono quelli che sono, come ci ha ricordato l’Europa, e la maggioranza è la stessa che sosteneva Letta». 

Una maggioranza che potrebbe non bastare. Renzi potrebbe avere bisogno di voti del Cavaliere, di quel «soccorso azzurro» che rimane sullo sfondo. «Non è da escludere niente - ammette Maria Stella Gelmini. Quello che noto stando in aula tutto il giorno e seguendo da vicino le dinamiche del Pd, posso dire che sulla legge elettorale sta tenendo l’asse tra Renzi e Berlusconi. Questo è l’asse vero, anche dal punto di vista culturale. Renzi non è un comunista: su molte questioni è più vicino a noi. Vedremo cosa farà e cosa il Pd gli consentirà di fare su fisco e lavoro».

È ancora presto per scenari di ribaltamento dell’attuale maggioranza e alla fine nel Pd potrebbe prevalere l’istinto di autoconservazione, evitando che il Cavaliere diventi il king maker di nuovi equilibri politici. «Ma se il Pd si spacca - ipotizza Osvaldo Napoli - e si porrà il problema di sostenere la linea moderata di Renzi contro la sinistra massimalista, non c’è dubbio che Berlusconi dirà “siamo tutti renziani”. Si potrebbe addirittura formare una nuova maggioranza e un nuovo governo. A quel punto ad Alfano verrebbe un coccolone». 

il Fatto 12.3.14
Allacciate le cinture
di Antonio Padellaro


Ora la domanda è: farà prima Renzi a eliminare il Senato o farà prima il Senato a eliminare Renzi? Soltanto l’altro ieri sembrava che niente e nessuno potesse impedire al turbo-premier di “cambiare verso” all’Italia, in cinque mesi o giù di lì. E però già al primo ostacolo, il famoso Italicum, il nostro eroe destatosi dai sogni d’oro ha dovuto affrontare la dura realtà quotidiana. Ieri pomeriggio alla Camera l’hanno visto per la prima volta spaventato sul serio, quando ha rischiato di finire sotto sul nuovo tentativo di introdurre la rappresentanza di genere nelle liste (metà uomini e metà donne). Emendamento sostenuto dal M5S, che a far ballare il governo comincia a divertirsi un mondo. Ha salvato la pelle per 20 miseri voti grazie alla precettazione di ministri e sottosegretari rastrellati qua e là. Ma per quanto ancora potrà resistere, quando a giorni il nuovo sistema elettorale approderà a Palazzo Madama, dove la maggioranza è risicata assai e dove - stante l’annunciata abolizione della seconda camera - ai senatori non garberà molto fare la figura dei tacchini invitati al pranzo di Natale. Il fatto è che Renzi subisce una sorta di legge del contrappasso. Ha stretto un patto con Berlusconi che adesso gli viene rinfacciato come un tradimento. Ha voluto un governo al femminile e sono le femmine a fargliela pagare cara. Ha teorizzato la rottamazione della vecchia guardia pd e (mentre riciccia Bersani) è una energica signora dai capelli argentati, Rosy Bindi, a guidare la rivolta di genere contro il giovanotto del “qui si fa come dico io”: con l’appoggio convinto dei tanti che dentro e fuori via del Nazareno ce l’hanno cordialmente sulle scatole. Perciò nei retroscena di palazzo si torna a parlare di voto a ottobre e in questa chiave i 10 miliardi per le famiglie oggi all’esame del Consiglio dei ministri possono apparire un cadeau elettorale anticipato. Si vedrà. Del resto è stato il fedele sottosegretario Reggi a dire che Matteo “spara razzi nel cielo”. E non sembra più un complimento.

l'Unità 12.3.14
Bersani: «Se avessi invitato io Berlusconi... Apriti cielo»
L’ex segretario Pd: «Matteo fa un po’
di movida, è rischioso... E non dia tanto potere di veto al Cavaliere»
di Natalia Lombardo


A due settimane dal suo ritorno alla Camera dei deputati, accolto da una standing ovation, Pier Luigi Bersani è rientrato pienamente nel dibattito politico dopo il periodo di convalescenza. Così ieri ha rilasciato un’intervista ad Agorà su RaiTre, dicendo la sua sulle prime settimane di governo. «Renzi è lì da qualche settimana. Ora vediamo dove si va a parare. Renzi alza le aspettative per un risveglio di fiducia e fa anche un po’ di movida nel Paese. È una cosa che comporta dei rischi».
C’è una cosa che l’ex segretario del Pd non perdona però a Matteo Renzi, ed è in generale l’aver restituito spazio e concesso potere di veto a Silvio Berlusconi. Nel primo caso, a proposito del faccia a faccia tra Renzi e il Cavaliere nella sede del Pd al Nazareno, Bersani è convinto che «se l'avessi fatto io, sarebbero venute giù le cataratte. Avrei avuto furibondi titoli di giornale. Era un altro clima, un’altra stagione». Ma alla domanda se lui avrebbe incontrato il leader di Forza Italia per trovare un accordo sulla legge elettorale, l’ex segretario risponde: «Io no. Forse c’è stato un di più. Dopo di che devi parlare con tutti, va da sé. Ma questo non significa dare l'ultima parola a Berlusconi».
Tantomeno concedergli quel potere di veto, come è successo sulla parità di genere. E di dare l’ultima parola al Cavaliere, spiega, «non c’è nessuno bisogno, nemmeno dal punto di vista numerico. Bisogna metterci misura. Io quando sento che le quote rosa non si fanno perché Berlusconi non è d'accordo, osservo che non stiam parlando di una soglia d’accesso o di una tecnicalità che riguarda i collegi. Stiamo parlando di qualcosa di fondo». E dell’Italicum Bersani critica alcuni punti, come è emerso anche dal dibattito: «Capisco che possono esserci stati degli accordi, che su alcuni di quei punti Berlusconi è molto affezionato però dovrà farsene una ragione anche lui».
Insomma, l’approccio è completamente diverso tra i due, e, secondo l’ex segretario, «c’è il rischio che nel Pd non si discuta più abbastanza», o che troppo facilmente «si pensa che destrutturare significhi avanzare, innovare ». Bersani la chiama «distruzione creativa», ma con la sua concretezza emiliana ricorda che «quando si toglie qualcosa da sotto i piedi bisogna essere sicuri di metterci qualcos’altro» e discutere nel partito o nei gruppi.
Riguardo alle misure economiche i 10 miliardi di euro che Palazzo Chigi oggi dovrebbe destinare al taglio dell’Irpef ai redditi bassi, Bersani promuove a metà il governo: «Non riusciremo mai ad avere un’operazione sostanziale sulle tasse se non aumentiamo la fedeltà fiscale». La riduzione dell’Irpef «si può fare, ed è anche giusto farla, ma accertandosi che, con l’altra mano, non si vada a colpire la sanità o i servizi locali». Bersani osserva che «un’altra ipotesi prevede di dare una mano agli investimenti in campo industriale. Abbassare il cuneo fiscale non portò a investimenti. L’operazione che fece Prodi fu una delusione per me e anche per lui», ricorda a proposito della sua esperienza nel secondo esecutivo Prodi.
L’ex segretario Pd osserva che «per misurare gli obiettivi è molto importante capire dove li si prende ‘sti soldi. Per fare le riforme serve anche un po’ la capacità di stupire: deve esserci anche un effetto d’urto» ma è anche meglio «fare un po’ più di quello che si dice e non il contrario. Perché il risultato altrimenti è la sfiducia».

il Fatto 12.3.14
Bersani e la “ditta” pronti all’opposizione
di A. Cap.

Più che una maledizione sembra una persecuzione. È questo numero, il solito numero. Anche ieri sono stati 101 i voti di cui la larghissima maggioranza è stata privata alla Camera, la crepa che d’improvviso s’è aperta sotto il ponte di comando di Matteo Renzi. E ieri, proprio ieri, è riapparso Pier Luigi Bersani . Le sue parole sembrano una chiamata alle armi, l’invito a schierarsi e a opporsi allo strapotere di Renzi. Autore di una “movida”, realizzatore di effetti speciali, un bim bum bam quotidiano. Renzi è un “distruttore creativo”, un falco vorace che non ha lesinato a fare entrare nel Pd il corpo di Silvio Berlusconi: “L’avessi fatto io...”. Bersani annuncia che il Cavaliere dovrà lacrimare un po’. “Se ne dovrà fare una ragione”, dice l’ex segretario prospettando scenari di nuova belligeranza interna. È un modo per lanciare la sfida a Renzi. Ogni colpo inferto al Cavaliere è uno sgambetto prodotto contro il giovane signore del Pd, oggi padrone assoluto del partito ma regista inesperto, protagonista eccessivo di un cambiamento che muta nel profondo le caratteristiche del partito. Renzi come ha sferzato la Cgil e l’annunciata opposizione della Camusso al suo job act? “Ce ne faremo una ragione”.
Ecco, è la stessa ragione con cui Bersani chiama alle armi il Senato, dove i numeri ballano, la coalizione arranca, il nervosismo tiene banco. Quando l’Italicum approderà a palazzo Madama, gli ospiti lo prenderanno a legnate da ogni parte. Se Gianni Cuperlo, il capo della minoranza interna, annuncia battaglia sulle quote rosa, molto altro fuoco cova sotto la cenere. I senatori, chiamati alla mossa suicida (approvare il testo e poi spegnere le luci del Senato) inaugureranno il nuovo ostruzionismo che condurrà Renzi nel moto ondoso della precarietà. Segnali vistosi di scontento e di riorganizzazione di una opposizione interna sono visibili, netti, certi. Prima la Bindi, poi Arturo Parisi, infine Anna Finocchiaro.
L’ANIMA ANTICA DEL PARTITO emerge e si coalizza con quella giovane (da Cuperlo a Ci-vati) nemica di Renzi. Si aggiungano i nomi di Enrico Letta e di Bersani e si avrà il conto esatto di quanto sia ondoso il moto nel mare del Pd, e in quali flutti la barca del segretario sarà costretta a navigare. Al Senato i numeri non sono quelli della Camera, l’intesa con Berlusconi regge per un pugno di interessati sostegni che hanno concesso fiducia condizionata. E la crescente ed emergente antipatia verso il presidente del Consiglio, il timore di venir mangiati dal suo dinamismo trasversale, e colpiti dal cinismo di cui ha dato prova, produrranno ostruzioni impreviste. Un accenno, solo uno, già ieri. La legge costituzionale che abolisce le Province si è incagliata, questa volta ad essersi messo di traverso è il partito di Alfano, alleato anch’esso timoroso di venire fagocitato, stritolato dall’intesa a due che si è manifestata con durezza nello scontro appena concluso a Montecitorio. Pronostico infausto lo affida ai cronisti Daniela Santanchè: “Il Pd non regge, così Renzi non andrà avanti”. Ma l’intesa esclusiva, il ticket Renzi-Berlusconi, produce segnali di insofferenza persino dentro Forza Italia con Rotondi che dice “facciamo una cosa, mettiamo Renzi come nostro leader tanto è in grado di fare tutto ciò che gradisce Berlusconi compreso il fatto che cerca e trova sempre un accordo con Verdini”.
“Distruttore creativo”, l’ha bollato Bersani. D’un tratto è comparsa la paura che Renzi remi contro il Pd, le sue quote di potere, i suoi assetti costituiti, le sue alleanze, le sue certezze, le proprie tradizioni. Renzi ama il potere e ne ha dato prova. Suoi fedelissimi già installati nei posti di comando, e ora nelle sue mani c’è la cifra, davvero smisurata, delle poltrone dei boiardi di Stato da nominare. Duecentocinquanta nomine, naturalmente non tutte di prima fila, che colorerebbero con il viola fiorentino la prospettiva dell’egemonia del partito nello Stato. Fermarlo dunque, prima che sia troppo tardi. Perciò l’appello di Bersani: “La legge elettorale bisognerà modificarla al Senato. E Berlusconi dovrà farsene una ragione”. E pure Renzi.

Corriere 12.3.14
Bersani lancia l’attacco: cambieremo il testo
di Alessandro Trocino


ROMA - «Non mi piglio la responsabilità di dire ai miei figli che ho votato questo schifo di legge». La deputata Enza Bruno Bossio non esprime un giudizio sfumato sulla riforma ideata e voluta dal suo segretario, Matteo Renzi. E non è l’unica. I franchi tiratori nel Pd crescono ogni giorno, ogni ora. E nel pomeriggio diventano un centinaio, numero che ricorda sinistramente i 101 che affossarono Romano Prodi nel segreto dell’urna. Al primo banco di prova, dunque, non solo scricchiola pesantemente il «patto di ferro» stipulato da Renzi e la «doppia maggioranza» con Nuovo centrodestra e Forza Italia. È lo stesso Partito democratico a essere scosso dalle fondamenta. Con un pericoloso intrecciarsi di dissensi sui contenuti e di risentimenti politici. Un grumo di ostilità a Renzi, che rimanda alla fine brusca del governo Letta e che sembra ricostituire un’opposizione da tempo silente nel partito.
La giornata comincia con lo strappo dell’ex segretario Pier Luigi Bersani: «L’Italicum andrà cambiato al Senato e Berlusconi se ne dovrà fare una ragione». Il messaggio è solo apparentemente indirizzato al Cavaliere. Il destinatario è chiaramente Renzi, criticato anche per aver ospitato Berlusconi al Nazareno: «Se lo avessi fatto io - dice Bersani - sarebbero venute giù le cateratte: avrei avuto titoli di giornali furibondi». 
Alle nove del mattino, dopo avere ascoltato le parole pronunciate da Bersani ad Agorà , Renzi riunisce il partito al Nazareno. Usa un po’ il bastone e un po’ la carota. L’intervento è duro. Striglia i suoi, chiede di votare la legge elettorale alla Camera. Mette sul tavolo tutto il suo impegno e non solo. «Non l’ha detto, ma implicitamente - spiega Ermete Realacci - ha fatto capire che era pronto ad andarsene in caso di voto contrario». Poi, in conclusione, fa una virata e apre uno spiraglio, convocando una Direzione per il 19 marzo: «Ci sarà un approfondimento con tutti sulle questioni in discussione sulla legge elettorale al Senato». Come a dire, qualche modifica è possibile. Roberta Agostini, la più convinta sostenitrice delle quote, urla dal fondo: «Sì, ma dacci un impegno vero». L’impegno arriverà più tardi, con una nota di Lorenzo Guerini, che sottolinea come «riprendere» il tema della parità di genere sarà «un impegno prioritario» del Pd al Senato. 
Durante la segreteria c’è il tempo di uno scontro con Rosy Bindi. Che prima interrompe il segretario, poi interviene criticando il voto sulla parità: «Il Pd è un partito ferito dai 100 voti mancati». In Transatlantico promette di non partecipare al voto finale. E più tardi interviene apertamente alla Camera votando sì all’emendamento sulla doppia preferenza. 
In segreteria parlano in dissenso anche Valentina Paris e Maino Marchi, che si dimette dalla Commissione Bilancio: «Sono a disagio. Voterò la legge elettorale ma da soldato semplice». Gianni Cuperlo parla di «una ferita», alludendo ai franchi tiratori. Il lettiano Francesco Boccia è furibondo: «Questa legge è una porcata. Nel Pd c’è un’ipocrisia gigantesca». Sono pochi, in effetti, a «metterci la faccia», come spiega la prodiana Sandra Zampa, che parla di «trappole». 
Stefano Fassina, a domanda su cosa farà alla fine, fa una lunga pausa. Lo sguardo mesto: «Voterò a favore». Per lui, i franchi tiratori sulla parità di genere «sono renziani. Altra cosa quelli di ieri». Tra chi la faccia ce la mette tutta c’è Marco Meloni, che fu nella segreteria Bersani: «Non solo non voto questa legge. Ma ho già parlato con alcuni costituzionalisti. Se rimanesse così anche al Senato, sono pronto a lanciare un referendum per il ripristino delle preferenze».

Corriere 12.3.14
Il segretario e il partito spaccato: ma io ho mantenuto il controllo
Renzi: era un’operazione politica per cercare di danneggiarmi
di Maria Teresa Meli


ROMA - Quale fosse il «giochino» dietro le manovre sulla riforma elettorale Renzi lo aveva capito subito. Lo scopo, secondo il presidente del Consiglio, era quello di «indebolire» la sua immagine all’interno del partito, ma anche all’esterno, presso gli alleati, con Berlusconi e nell’opinione pubblica. Per questa ragione il premier ieri mattina non ha perso tempo e ha convocato i deputati al Nazareno, per richiamarli al rispetto degli «impegni presi» in Direzione. 
Per motivare il perché del suo blitz mattutino Renzi ha spiegato ai suoi: «Si è cercato di fare un’operazione politica per dire che io non controllavo il Pd. Usando il voto segreto qualcuno ha tentato di prendersi la rivincita sulle primarie». E chi fosse quel qualcuno è chiaro. Il riferimento è all’area bersaniana. «Ma purtroppo per loro - è stato l’ironico commento di Renzi con i fedelissimi - non sono riusciti nel loro intento, non sono riusciti nella loro strumentalizzazione, anche se è chiaro che c’era chi agiva in buona fede: tante donne che hanno fatto una battaglia seria. L’obiettivo di chi invece era in mala fede era anche quello di mettere in difficoltà il governo in un momento importante, nel momento in cui decide di dare agli italiani una significativa quantità di danaro». 
Non era arrabbiato solo con i bersaniani, a dire il vero, il premier-segretario, ma pure con Rosy Bindi: «Non l’ho mai vista appassionarsi così tanto su altri temi importanti quanto questo, chissà come mai…». La risposta l’ha fornita qualche renziano malizioso: «Forse si sta preparando alla battaglia per ottenere la candidatura per l’ennesima legislatura». 
Ma malignità a parte, Renzi ci teneva a dimostrare di «avere il controllo del partito» e ci è riuscito, nonostante i franchi tiratori siano stati diversi e il Pd abbia mandato in scena il solito copione delle divisioni, lacerazioni e polemiche a cui il centrosinistra ha ormai abituato i suoi elettori. «L’importante - ha ribadito il presidente del Consiglio con alcuni compagni di partito - è che la riforma della legge elettorale vada, che approdi al Senato. Una volta lì potremo anche migliorarla, se vi sarà accordo, ma potremo farlo da posizioni di forza perché abbiamo dimostrato che nonostante la dialettica interna, siamo in grado di presentarci compatti agli appuntamenti importanti. Invece c’è chi non capisce ancora che per prendersi le sue vendette per la sconfitta delle primarie, indebolendo me indebolisce tutto il Pd e questo non mi sembra proprio un bel risultato per chi sostiene di avere a cuore le sorti del centrosinistra». Insomma, il segretario ha controllato il «suo» Pd, anche se nei conciliaboli che ci sono stati tra i renziani è stato posto in modo riservato il problema della gestione del gruppo parlamentare, che effettivamente non ha tenuto come ci si sarebbe aspettato. Però, tutto sommato, il premier preferisce mettersi alle spalle le polemiche e dimostrare di «aver segnato un punto, portando a casa una riforma elettorale dopo anni di tentativi di cambiare il Porcellum» e di averlo fatto in «tempi brevi». 
Che Renzi voglia legare il suo nome alle riforme è un fatto noto. E non solo a quelle elettorali e istituzionali. Ora è giunto il momento di prendere di petto i «problemi che interessano più da vicino la gente». «Domani - ha spiegato ieri ai suoi il presidente del Consiglio - faremo la più impressionante operazione politica mai fatta a sinistra di recupero di potere d’acquisto per chi non ce la fa. Su questo tema ci giochiamo tutto, non sulle alchimie interne al Partito democratico che interessano solo quattro gatti e quelli che non hanno ancora metabolizzato la sconfitta delle primarie. La sinistra è lì dove si combatte la povertà». 
Eppure dicono che le coperture non ci sono, che il Quirinale vigila con attenzione, che l’Europa ci ha nel mirino... Ma Matteo Renzi è sicuro di farcela. E ai suoi ha detto: «Il ministro Padoan è una persona brava e seria e questo governo dimostrerà di essere stato in grado di trovare dieci miliardi in quindici giorni, quando il precedente non ci era riuscito. La gente avrà dei soldi in tasca. Il resto sono chiacchiere che lascio ad altri». 

 
Corriere 12.3.14
Il premier evoca il voto per piegare il Pd e blindare la riforma
di Massimo Franco


Il fatto che Matteo Renzi sia costretto di nuovo a minacciare elezioni anticipate se la riforma elettorale non passa, conferma implicitamente la profondità dei contrasti all’interno del Pd. Anche ieri, le votazioni alla Camera hanno mostrato quanto il partito del premier soffra il cosiddetto Italicum e l’asse con Silvio Berlusconi; e quanto la soluzione approvata rischi di essere sfidata dall’interno della maggioranza nel passaggio al Senato. Il presidente del Consiglio ha visto nelle resistenze delle ultime ore un doppio messaggio: il tentativo di frenare la sua strategia del «fare presto», costringendolo a tempi più lunghi; e la volontà di oscurare i provvedimenti economici che sono il biglietto da visita con l’opinione pubblica. 
Per questo, l’asse Pd-FI ieri ha cercato di forzare i tempi, smaltendo gli emendamenti per arrivare al «sì» entro la notte. E la minoranza del Pd ha invece insistito su una serie di modifiche, arrivando a proporne due sulle preferenze. Sono state bocciate per appena 35 e 20 voti: segno dell’ostilità (a scrutinio segreto) contro Renzi, e avvertimento per il Senato. D’altronde, lo stesso ex segretario Pd, Bersani, dichiara che bisogna cambiare e che Berlusconi «dovrà farsene una ragione». Il premier, però, sa che non sarebbe facile fare ingoiare al Cavaliere altri cambiamenti. 
E vuole blindare la riforma. È probabile che ci riesca, anche sfruttando la leva delle misure che il Consiglio dei ministri offrirà stasera. Sarà difficile per il Pd boicottare una riforma controversa perché conferma liste di «nominati» dai capi-partito; ma avallata appena poche settimane fa. E per di più mentre Palazzo Chigi propone al Paese una ricetta contro la crisi economica: un modo per «mettere un po’ di soldi nelle tasche degli italiani», dice il premier; e in un paio di anni, un antidoto contro disoccupazione e tasse. 
Un «coniglio dal cilindro», ironizza FI. Ma l’obiettivo renziano è di far capire ai dissidenti del Pd che, o passa la riforma elettorale, o si va alle urne. Si tratta di un aut aut al quale i parlamentari sono sensibili; e che Renzi può rafforzare contrapponendo il boicottaggio di un Parlamento conservatore alla voglia di cambiamento del suo governo. Tuttavia, la sua presa sul partito rimane incompiuta. E il gioco di sponda vistoso con Berlusconi non sembra destinato ad accrescere la sua popolarità nel gruppo dirigente del Pd, se non nell’elettorato di sinistra. 
Per lui, tuttavia, l’unica vera incognita sono i riflessi che i provvedimenti economici possono avere sul piano europeo. Il colloquio di ieri tra Giorgio Napolitano e l’ex ministro per l’Ue, Enzo Moavero, non va sottovalutato. Moavero è l’uomo che negli ultimi due anni ha tenuto i contatti tra Palazzo Chigi e l’alta burocrazia di Bruxelles. L’impressione è che il capo dello Stato voglia capire bene se le misure economiche in incubazione avranno un’adeguata copertura finanziaria; e se il governo Renzi sarà in grado di mantenere il rapporto fra deficit e Pil non oltre il «tetto» del 3 per cento. E se esiste l’eventualità che l’Ue reagisca male: anche se negli ultimi giorni il premier ha mostrato più prudenza anche verbale.

Corriere 12.3.14
«Il guaio dei renziani? Inesperti del potere»
Annunziata: io supporter del premier, ma D’Alema non fece sottosegretari i membri del suo staff
intervista di Monica Guerzoni


ROMA - «La Boschi non è la zarina di tutte le Russie, è una ragazza gentile, perbenissimo e non spocchiosa. Quasi umile...». 
Scusi Lucia Annunziata, ma lei e il ministro non vi eravate lasciate con un «ci rivedremo in tribunale» per colpa dell’ormai celebre pizzino? 
«L’Huffington Post ha pubblicato un articolo che raccontava le pressioni della Boschi su Dorina Bianchi, bigliettino o non bigliettino, per il voto sulla parità di genere. Lei mi ha chiamato, voleva che togliessimo il pezzo dal sito e io le ho spiegato che non funziona così». 
Cosa le ha detto, direttrice? 
«Che avremmo pubblicato la smentita. Ma il ministro, sempre molto cortese nei toni, insisteva nel dire che dovevamo togliere l’articolo. Io le ho risposto che avevamo agito secondo le regole e che non l’avremmo tolto». 
E Boschi? 
«Ha detto che si riserva di denunciarmi. E io ho chiuso con un “bene, sarò felice di vederti in tribunale”... Questo episodio è il primo grande inciampo, rivela che non sanno le regole del gioco nel senso più alto. Hanno in mano un potere che non conoscono e le pressioni della Boschi sono una prova di debolezza. A Palazzo Chigi c’è un gruppo dirigente che non ha preso le misure al potere». 
Governano da un mese. 
«Sono saliti su un treno in corsa senza sapere dove andare e si sono ritrovati a Palazzo Chigi. Non hanno esperienza del potere, della stampa, della satira...». 
Non è un bene? 
«No, pensano che il loro potere sia più grande di quanto non è. Il loro rapporto col potere è sbagliato e la telefonata del ministro lo conferma. Quel che mi preoccupa del governo Renzi è che sembra che sappiano come si fa, ma non lo sanno». 
Non sanno governare, intende? 
«Non lo sanno, perché non sono mai passati dalle forche caudine del voto. Una campagna elettorale è un fuoco che ti forma, ti insegna a rapportarti con tutti». 
Renzi ha vinto le primarie. 
«Lui le ha fatte, molti dei suoi no. In tre sono passati da aiutanti del sindaco a sottosegretari, mentre D’Alema quando si portò lo staff a Palazzo Chigi lo chiamò staff, non diede ai “lothar” il titolo di sottosegretari». 
Rimpiange D’Alema? 
«Questo gruppo dirigente è totalmente nuovo ed è la debolezza di fondo che Renzi paga. Ci sono ministri, come la Boschi, che non hanno mai lavorato. Il problema non è l’età, la competenza, o il fatto che sia donna, è che questo gruppo politico è arrivato lì senza essere stato votato. Berlusconi diceva “a sinistra non hanno mai lavorato” e nel caso di Renzi è vero, il nostro premier non ha mai fatto un minuto di lavoro». 
Ha fatto il sindaco. Non era renziana, lei? 
«Io sono una supporter di Renzi della primissima ora. Lo appoggiavo perché diceva “cambio l’establishment, cambio le regole”... Poi però ha deciso di andare a Palazzo Chigi senza passare per il voto e ha ricompensato tutti, compreso Civati. Ha tradito la promessa di cambiamento e la pagherà. Sono addolorata. Renzi si sente un leone rampante, ma ha i piedi d’argilla». 
Le è piaciuta l’imitazione della Boschi? 
«La satira tutti dobbiamo subirla. Io ne ho avuta a pacchi, non ci può essere un doppio standard. A me mi fanno sempre brutta, meridionale, con un occhio storto. A lei la fanno pure bella! Ci sta». 
Chi ha vinto sulla parità di genere? 
«Dividere il cinismo di Renzi dal cinismo del Pd è difficile, si meritano l’un l’altro. Il segretario, che ha un ammontare di potere mai visto, non doveva lavarsene le mani. Ma dentro c’era anche il risentimento della minoranza. Un disprezzo reciproco di cui sono entrambi colpevoli. Renzi ha portato all’esplosione nucleare della sinistra».

Corriere 12.3.14
Imbarazzi, sospetti e rancori In Aula lo psicodramma dem
Il voto segreto e le tante anime in ordine sparso
di Fabrizio Roncone


ROMA - «Scherzi?», si era scandalizzata una deputata renziana: «Lotti non ti dirà mai niente, perdi tempo. Anzi, se lo conosco un po’, con l’aria che tira nel partito, non si farà neppure vedere...». 
E invece, alle cinque del pomeriggio, mentre in Aula continuano serrati e nervosi i lavori per approvare la nuova legge elettorale, l’Italicum, Luca Lotti irrompe in Transatlantico per andare a parlare di qualcosa con Franco Marini (si sente Marini che, un po’ brusco ma sorridente, alza la voce: «Ma me lo devi promettere! Anzi, no: devi giurarmelo che verrai!»). 
Il Lotti - anni 31, da Empoli, un ex catechista con Matteo Renzi da sempre, prima alla Provincia di Firenze, poi a Palazzo Vecchio e adesso potente sottosegretario, una figura che Il Fatto ha recentemente collocato, si suppone in forma di omaggio, tra Richelieu e Gianni Letta - sa effettivamente essere riservato ai limiti del mutismo e però anche veloce, spregiudicato nel pensare, nel decidere di commentare. 
Così si volta, sta per rientrare nell’emiciclo, ma si ferma. 
(Ha modi spicci, empatici, confidenziali; stretta di mano e, senza giri, subito dentro la questione politica). 
«Sì... Purtroppo, temo che qui, alla Camera, ci sia davvero un problema nel nostro gruppo». 
Troppe anime nere disposte a tradire gli ordini del partito. 
«Posso dirlo?». 
Cosa? 
«Beh, insomma: questo è un problema di Speranza, è il capogruppo che deve saper gestire certe situazioni». 
Con il voto segreto dell’altra sera sulla parità di genere, magari era più complicato: il punto è che ci sono difficoltà anche oggi... 
«Oggi, in verità, mi sembra che la situazione sia migliorata. Ma oggi, come sappiamo, è dovuto intervenire Matteo, personalmente...». 
Adesso il Lotti - probabilmente per imitare Renzi, qui tutti lo chiamano così, con licenza dialettale toscana - saluta e va via, perché sul serio, lì dentro, in Aula, è prezioso anche il voto dei sottosegretari (vedremo che sarà addirittura decisivo tra un po’, per respingere l’emendamento di Gregorio Gitti, che proponeva di introdurre la doppia preferenza con il vincolo dell’alternanza uomo-donna). 
La giornata è faticosa. I parlamentari del Pd hanno preso posto tra i banchi storditi dai toni usati da Matteo Renzi al Nazareno (di rimprovero, per restare nell’eufemismo) e da cospicue dosi di imbarazzo (per i deputati) e di rancore (per le deputate). Prima Alessandra Moretti si è messa la telefono con quelli di «Un Giorno da Pecora», su Radio2, e l’ha raccontata piuttosto duramente. 
Stralci. 
«Nel segreto, i vigliacchi fanno il lavoro sporco». «No, non credo siano un centinaio, ma una sessantina sì, sono una sessantina dei nostri che, protetti dallo scrutino segreto, hanno votato contro la parità di genere». «Sospetti? Nomi? No, non ne ho. Anche perché mi sembrava che tutto il partito fosse convinto di votare in modo compatto». 
L’idea di Renato Brunetta, il capogruppo di Forza Italia, è che gli emendamenti siano stati presentati «dalla minoranza interna del Pd, per sabotare l’accordo tra Renzi e Berlusconi e mettere in grave difficoltà, quindi, proprio Renzi». Può essere. Non sarebbe la prima volta che nel Partito democratico si gioca duro a tradimento (ricordare, prego, i 101 voti con cui fu pugnalato politicamente Romano Prodi, candidato al Quirinale). Certo sorprende che ancora oggi, anche adesso, e siamo ormai alle sei del pomeriggio, la scarsa compattezza del Pd faccia viaggiare ciascuna votazione nella più assoluta incertezza. 
Per capirci: poco fa l’Aula ha bocciato l’emendamento al testo dell’Italicum che mirava a introdurre le preferenze. La maggioranza politica che sostiene il patto Renzi-Berlusconi (patto che non prevede preferenze ma liste bloccate con collegi plurinominali) ha evitato il tonfo per soli 35 voti: i sì favorevoli alla norma sulle preferenze sono infatti stati 264 contro 299 no. Francesco Boccia del Pd (e, si sospetta, altri con lui) ha votato contro l’indicazione del partito. 
Spiegazione di Boccia: «Io ho votato Renzi al congresso e sono andato in giro a dire che avrebbe cambiato l’Italia. Ma tutto questo, purtroppo, non sta accadendo». 
Pure Rosy Bindi fa i capricci. «Per chi voto? Non ve lo dico...». Cronisti perplessi, ma subito attratti dalle grida che giungono dall’emiciclo (c’è il solito Alessandro Di Battista del M5s che, per attirare l’attenzione - adora fotografi e telecamere - ha detto che «Berlusconi è un delinquente», scatenando le rumorose proteste di Brunetta). 
Esce Deborah Bergamini (responsabile comunicazione di Forza Italia, vera portavoce del Cavaliere). Sugli insulti, sorvola (con sospiro ironico). 
Non sorvola sul resto. 
«Mi spiace dirlo, ma l’accordo su questo Italicum tiene perché noi, come partito, stiamo bene nei ranghi. Il Pd... beh, sì, insomma: il Pd è un partito con logiche piuttosto particolari». 
Passa il leghista Gianluca Buonanno (quello che ieri è venuto vestito da domatore di leoni). «Campanella... Rientrare!... Si vota!... Eh eh eh...».

l'Unità 12.3.14
Per il Senato spunta la carta del ddl Zanda-Finocchiaro
di Claudia Fusani


Oggi comincerà a prendere forma anche il fantasma della riforma del Senato. «Riforma», attenzione ai vocaboli che non sono un dettaglio, e non più «cancellazione» della camera alta. Fonti della maggioranza spiegano che «stamani il Consiglio dei ministri licenzierà un documento di principi e una bozza di massima non chiusa». Aperta cioè a suggerimenti e indicazioni, ma anche qualcosa di più, che verranno dal Parlamento. Molto probabilmente a firma Zanda-Finocchiaro, capogruppo e presidente della commissione Affari costituzionali del Pd.
È una mossa che va letta in due modi. Rispetto ai piani del premier Renzi, i cui uffici avevano già fatto circolare un mese fa un testo che sembrava categorico, si tratta di un passo indietro tattico, possibilista e diplomatico. Includente e non più escludente. La decisione di portare stamani anche la bozza sul Senato è anche, però, un’accelerazione. «Entro quindici giorni sarà pronta l’ipotesi di riforma del Senato e del Titolo V della Costituzione» aveva detto il premier domenica sera ospite da Fabio Fazio. Già stamani, invece, si potrà cominciare a capire qualcosa di concreto di quello che è la vera riforma legata mani e piedi, soprattutto dal punto di vista della durata della legislatura, con la legge elettorale.
L’aria che tira, il malcontento alla Camera, i franchi tiratori all’opera (le preferenze nell’Italicum ieri sono state respinte per soli dieci voti) ha suggerito prudenza e ha invitato il governo ad evitare un ulteriore braccio di ferro con il Parlamento che anzi sarà coinvolto direttamente e in prima battuta. «Sta prevalendo l’intenzione di cambiare la modalità» si spiega in ambienti della maggioranza e «di far fare la prima mossa proprio ai senatori che dovranno decidere del loro destino ma soprattutto di quello della Repubblica».
Circa «il cambio di modalità» al momento ancora non è stato deciso a chi far presentare un disegno di legge per trasformare la Camera Alta. Il testo potrebbe essere depositato, da un solo capogruppo, da più capigruppo o dalla stessa Anna Finocchiaro, presidente della Commissione Affari Costituzionali del Senato che dovrebbe per prima incardinare il testo di riforma. La scommessa, questa sì ardita, è «avviare la discussione sul testo in Prima Commissione entro la fine di marzo». Il governo ci mette il suo fissando i criteri del disegno di legge costituzionale che sono tre: il Senato non potrà più dare la fiducia, basta con la navicella delle leggi, non dovrà avere membri eletti. Conseguenza di tutto questo saranno i tempi dimezzati nell’iter di approvazione delle leggi, nella formazione del governo e un radicale risparmio alla voce “costi della politica”.
Come si arriverà a questi obiettivi diventa, appunto, affare del Parlamento. Al Senato sono tredici i disegni di legge di riforma. L’ipotesi che sta prendendo piede in queste ore a palazzo Madama dà per scontato il taglio della fiducia (in linea con i desiderata del premier). Ma mette in primo piano «le funzioni» della Camera alta. Sicuramente dovrà essere il «luogo del raccordo tra i poteri dello Stato e quelli delle Regioni», funzione in questi anni delegata in modo improprio alla Consulta essendo venuta meno la sede politica per trovare la sintesi ai conflitti.
Al nuovo Senato dovrebbero competere anche «funzioni di controllo e bilanciamento rispetto all’operato della camera ma solo su specifici questioni come le modifiche costituzionali». Lasciare ad una sola camera i destini dell’architettura della democrazia potrebbe essere rischioso.
Fin qui «i paletti» del governo potrebbero coincidere con quelli del Parlamento. Le strade però si dividono sulla scelta dei membri del Senato. La prima ipotesi Renzi (108 sindaci, 21 governatori e una ventina di alte personalità) sembra definitivamente sepolta. Rivive, invece, un’ipotesi rivisitata ma simile a quella già emersa la scorsa estate al tavolo dei saggi. «Sicuramente persone che fanno questo mestiere a tempo pieno perchè le funzioni attribuite ai nuovi senatori saranno tanto delicate quanto decisive». La mediazione possibile parla di un centinaio di persone. Alcune nominate dal Presidente della Repubblica. Le altre elette con il voto amministrativo delle regionali: consiglieri regionali sottratti alla rispettive assemblee (quindi senza un costo aggiuntivo) e affidati alla camera alta. Potrebbe, questo, essere un modo per portare a casa la riforma. Senza chiedere, cioè, al tacchino di finire imbottito e arrosto.

l'Unità 12.3.14
L’ira di Renzi contro la minoranza «Volevano la rivincita sulle primarie»
Il premier: «Hanno tentato col voto segreto di mostrare che non controllo il partito». Oggi in Cdm «una grande azione contro la povertà»
di Vladimiro Frulletti


Facciano come vogliono. Io domani (oggi ndr) metto 100 euro al mese in più in tasca alle famiglie. Vogliono far cadere tutto? Facciano pure, ma poi dovranno andarlo a spiegare agli elettori ». Forse l’avvertimento era solo di facciata, forse fino in fondo non ci sarebbe mai andato o forse non ce l’avrebbero fatto mai andare. Resta il fatto che ieri Renzi ha portato a casa il primo risultato che si era posto. È riuscito, nonostante il clima non particolarmente pacifico (è un eufemismo) che si respirava a Montecitorio soprattutto fra i parlamentari Pd, a mettere il primo punto sulla nuova legge elettorale. Un’iniezione di fiducia per la giornata di oggi in cui il Consiglio dei ministri varerà quella che Renzi definisce «la più impressionate operazione politica mai fatta a sinistra per restituire potere d’acquisto a chi non ce la fa». Dubbi che sarà così Renzi non ne nutre («su questo ci giochiamo tutto, non sulle alchimie politiche » spiega ai suoi) tanto da annunciare la conferenza stampa (per le 17) attraverso un tweet con la parola d’ordine la Svoltabuona.
Un epilogo che fino a ieri pomeriggio non era scontato visto come s’era chiusa la seduta di lunedì con lo psicodramma della bocciatura totale di qualsiasi emendamento in grado di garantire un po’ di pari opportunità elettorale fra uomini e donne. Strappo doloroso e non perfettamente ricucito come s'è visto poi ieri sera quando sono rispuntate dalla finestra le due questioni più urticanti già fatte uscire dalla porta: preferenze e garanzie per le donne. Anche questa volta però l'impianto dell’Italicum ha retto e, seppure per una incollatura, 20 voti, la proposta Gitti della doppia preferenza di genere è stata bocciata. Ma quanta fatica. E quanta paura anche a Palazzo Chigi che proprio per usare tutti i numeri disponibili ha richiamato all’ordine anche ministri e sottosegretari. Convocazione evidentemente troppo zelante visto che sono arrivati a Montecitorio anche i membri del governo che non sono deputati. E tuttavia decisiva per non far saltare tutto. «Approvarlo avrebbe voluto dire stravolgere l’intero testo. Sarebbe stato un colpo grave all’intero percorso » tira un sospiro di sollievo il portavoce della segreteria Lorenzo Guerini che assieme al sottosegretario Luca Lotti e alla ministro Maria Elena Boschi ha fatto da ufficiale di collegamento fra Aula e Palazzo Chigi.
È evidente, come aveva spiegato la mattina ai deputati lo stesso Renzi, qualsiasi modifica al pacchetto riforme concordato senza il sì degli altri contraenti avrebbe prodotto il disastro. Invece «l’accordo ha tenuto» come annota Guerini a pericolo scampato. E quindi è stato fatto «un passo avanti per portare al Senato il testo».
Dunque è al Senato che si dovrà decidere se la nuova legge elettorale avrà la precedenza o se invece si cederà il passo alla riforma costituzionale di Palazzo Madama. Possibile che cercheranno di farle viaggiare in parallelo. Tanto l’Italicum sarà perfettamente funzionante solo quando l’attuale Senato non esisterà più.
L'impressione è che comunque non verrà tenuta la stessa velocità («frenetica » come l’appella un esponente della minoranza Pd) vista a Montecitorio. Il ritmo fast and furious della Camera sarà rivisto. Lo lascia intendere lo stesso Renzi che ai deputati annuncia la convocazione della direzione insieme ai gruppi parlamentari per la prossima settimana o per quella successiva. Sarà l’occasione, secondo il premier, per fare il punto sul pacchetto riforme e concordare i possibili cambiamenti all’Italicum da portare sul tavolo con gli altri contraenti, a cominciare, ovviamente da Forza Italia. «Il fatto è che la legge elettorale va e che ora la possiamo migliorare, ma da una posizione di forza» spiega Renzi. Una forza che sarebbe evaporata se l’Italicum fosse caduto in qualche imboscata a voto segreto. È dunque al Senato che verranno ri-proposte le quote rosa, o meglio, che il Pd tenterà di nuovo di concordare il 60-40 nel rapporto fra sessi sui capilista. Una posizione di compromesso probabilmente già considerata acquisita alla Camera (anche le deputate renziane erano pronte a scommettere che sarebbe passata) ma poi saltata perché avrebbe potuto aprire una falla irreparabile nell’Italicum. Un buco in cui si sarebbero potute infilare altre norme, come le preferenze in grado di far affondare tutto. Come dimostra la tensione di ieri sull’emendamento Gitti.
Renzi insomma doveva dimostrare, anche al di là del merito della questione, che il Pd lo guida lui e non altri, parlamentari compresi. «Col voto segreto - ragiona Renzi coi suoi a risultato raggiunto - hanno cercato di dimostrare che non controllo il Pd. Un’operazione politica per tentare una rivincita sulle primarie». Certo anche al premier brucia l’immagine di un Pd nemico delle donne, ma questo lo considera l’ennesimo esempio di autolesionismo. «Se avessero fatto tutti come il Pd di leggi non ci sarebbe stato bisogno. Invece ci siamo fatti fare la lezione da Sel e dagli altri che in Parlamento hanno portato pochissime donne. Avrei voluto sentire qualcuno dei nostri parlamentari ricordarle queste cose invece...» il suo sfogo.
Comunque ora ci sarà da recuperare. Il come potrebbe essere uno scambio col Salva-lega. Ipotesi che da Palazzo Chigi viene esclusa con decisione. La stessa decisione che fa dire a Forza Italia che quella norma non può essere oggetto di trattativa perché già faceva parte dell’accordo originale. Posizioni tattiche in attesa della trattativa. Di certo c’è che Renzi non considera sbagliato che una forza territorialmente rilevante abbia una propria rappresentanza parlamentare. Il guaio però è che la Lega sta dicendo continuamente dei no frontali alla riforma e quindi appare oggettivamente difficile fare “regali” a chi continua a darti calci negli stinchi. Intanto però oggi dovrebbero arrivare gli annunciati soldi in più ai redditi bassi, il che potrebbe avere anche ripercussioni positive dentro il Pd e far smorzare le polemiche sulla nuova legge elettorale.

La Stampa 12.3.14
Tutte le tribù del Pd si schierano
Fuoco incrociato contro il premier
Gli attacchi non arrivano più soltanto da qualche nemico isolato
di Federico Geremicca


I tamburi di guerra hanno ricominciato a rullare, i segnali di fumo si moltiplicano, così come i soliti riti propiziatori: da ieri, dunque, la caccia a Matteo Renzi è ufficialmente aperta, e le tribù del Pd si sono armate e messe in marcia.
Fino a qualche giorno fa, nascosto tra i cespugli, c’era solo qualche bracconiere, partito anzitempo: D’Attorre, Fassina, un po’ di lettiani... Da ieri non è più così. E se ancora non si capisce chi e perché abbia dato l’ordine, l’ascia di guerra è ormai dissotterrata: i democratici sono partiti a caccia dello scalpo del loro sesto presidente del Consiglio in tempo di Seconda Repubblica e di maggioritario. Quel che può sorprendere, forse, sono i tempi: Matteo Renzi – l’enfant prodige, il premier più giovane della storia repubblicana – ha infatti ottenuto la fiducia alla Camera il 25 febbraio, appena un paio di settimane fa. Quel che non può meravigliare, invece, è che la caccia sia ricominciata: che si chiamasse Prodi o D’Alema, Letta o Renzi, appunto, nessuno dei premier eletti dal centrosinistra è infatti mai sfuggito al cannibalismo praticato dalle tribù democratiche (e, prima, da quelle diessine o popolari).
Gli italiani – che per certe cose hanno buona memoria – sanno (ricordano) che da una parte c’era e c’è lui, Silvio Berlusconi, tre volte premier e Capo intoccabile del centrodestra fin dal 1994; dall’altra, un elenco di presidenti del Consiglio (Prodi, D’Alema, Amato, di nuovo Prodi, poi Letta e adesso Renzi) e di leader di partito (Veltroni, Franceschini, Bersani, Epifani e ora Renzi) da far girar la testa. Di là un «padrone» – secondo la vulgata di centrosinistra – e non è certo una gran cosa; ma di qua nessun «padrone», mai: e a conti fatti, potrebbe esser perfino peggio.
Lo spettacolo non è esaltante, il pomo della discordia non sono certo le «quote rosa» e i meno addetti ai lavori – i cittadini-elettori, insomma – faranno forse fatica a capire com’è possibile che il giovane leader incoronato segretario del Pd appena tre mesi fa col voto di due milioni di simpatizzanti, sia ora accusato di essersi fatto ostaggio di Berlusconi e di aver addirittura snaturato il partito che lo ha scelto come leader. E invece, purtroppo, non c’è nulla di incomprensibile nella logica interna a questa sorta di federazione di tribù che è ormai il Partito democratico, e che è allergica – da sempre – non solo al «padrone» ma perfino all’«uomo solo al comando»...
Sorprendono i tempi, dunque, non il fatto che la caccia sia partita. E anche sui tempi, forse, una spiegazione diventa possibile: impedire che Renzi si rafforzi ulteriormente, e che – magari – riesca davvero a far approvare una nuova legge elettorale nel giorno in cui, per di più, potrebbe davvero varare l’annunciata rivoluzione fiscale, mettendo «soldi nelle tasche degli italiani». C’è una logica, insomma, nella scelta delle anime pd di riprendere le armi: una logica distruttiva, se si vuole, che guarda più all’oggi che al domani, che ignora l’incombere di una importante tornata elettorale, che fa a pugni perfino con un primordiale istinto di conservazione ma che – pure – ha una sua lucida, antica ed autodistruttiva coerenza.
Del resto, Matteo Renzi – che ha compiuto non pochi errori nella gestazione dell’Italicum – non poteva davvero attendersi nulla di diverso dalla riapertura della Grande Caccia. Un vecchio detto popolare ricorda che chi semina vento raccoglie tempesta: e nella sua scalata al Pd prima ed a Palazzo Chigi poi, l’ex sindaco di Firenze si è fatto spingere da raffiche impetuose... Ha percorso una strada che dopo il suo passaggio risultava ingombra di feriti e rottamati, ha liquidato un viceministro (Fassina) con un chi?, un presidente del partito (Cuperlo) con un inciso e un capo di governo (Letta) con una relazione-lampo, venti minuti non di più. Altri, prima di lui, ci avevano rimesso le penne per molto meno: e che la caccia sia ricominciata, insomma, può sorprendere solo chi conosce poco o nulla delle tradizioni delle tribù democratiche.
Resterebbero, certo, il merito delle questioni, i problemi del Paese e il necessario appello a una qualche razionalità. Ma tutto ciò è in secondo piano, a fronte della guerriglia così improvvisamente ripartita. Le acque intorno al neo-premier, dunque, si fanno agitate: e se questo supermercoledì di mezzo marzo dovesse rivelarsi un bluff o poco più, potrebbero trasformarsi rapidamente in tempestose. Si vedrà. Per intanto, Berlusconi e i suoi osservano l’avvio della Grande Caccia con un sorriso soddisfatto. «In che condizioni si ritroverà il Pd dopo la legge elettorale?», chiedeva ieri Deborah Bergamini. Non meglio di prima, forse. Ma niente di grave: in fondo, ci è abituato...

l'Unità 12.3.14
Giuditta Pini

«Grave dare libertà di voto Non si tratta di eutanasia»
di Fed. Fant.


Giuditta Pini, trent’anni da compiere, emiliana di Carpi, ex segretaria dei Giovani democratici modenesi, è la deputata piddina che ha fulminato i colleghi maschi di Montecitorio: «Che lo spirito di Lorena Bobbit accompagni chi vota no alle quote rosa». Alla fine sono stati in tanti. Se lo aspettava?
«Per come è stata gestita la vicenda, sì. Anche se speravo, ovviamente, che finisse in un altro modo. Dal M5S non mi aspettavo aiuto, so che sono contrari da tempo su questi temi. Uno dei problemi è stato l’approccio da parte delle stesse donne: se presentano tutti e tre gli ordini del giorno (sull’alternanza di genere, l’alternanza dei capilista e la mediazione del 40-60%, ndr), diventa più difficile trovare una mediazione».
È come ha detto La Russa in aula: chi troppo vuole nulla stringe?
«Bisognava chiedere con forza un’assemblea del gruppo, dato che il punto di ricaduta era chiaro da giorni, e lì si doveva votare. Invece il governo si è rimesso all’aula e il gruppo del Pd, come Forza Italia e Scelta Civica, ha dato libertà di coscienza. Ma non si discuteva di eutanasia: era una questione politica a tutto tondo».
È mancata, insomma, una gestione politica della vicenda?
«Esatto. È stato fatto in modo che sembrasse una battaglia minoritaria, anche da parte di chi poi protesta e minaccia di non votare più la legge elettorale. Un atteggiamento sbagliato: se pur essendo maggioranza nel Paese ci si comporta da minoranza, si ottengono di conseguenza risultati minoritari». Ce l’ha con Rosy Bindi che non voterà l’Italicum?
«Lei è coerente, queste cose le diceva anche prima. Ma se ad altre colleghe la legge prima piaceva, passa il messaggio che la parità di genere sia una lotta per interessi personali. Mentre non lo è affatto».
Ha sbagliato il governo a rimettersi all’aula?
«In realtà, quella è stata un’apertura. Trovo più sconcertante che il Pd non abbia indicato una posizione, magari anche avendo il coraggio di esprimere indicazione di voto contrario».
Forza Italia aveva chiesto proprio questo. Ma non sarebbe stato davvero indigeribile per i vostri elettori?
«Il problema vero del Pd è sempre quello di prendere posizione. Ma in alcuni casi bisogna prendersi le proprie responsabilità. Non è stata colpa di Renzi. Nella solitudine del voto segreto, ogni deputato ha fatto la sua scelta».
Al Senato potrà riaprirsi la partita della parità di genere?
«È quanto ha detto Renzi nell’assemblea del gruppo. Io mi auguro che la battaglia riparta da Palazzo Madama. Speriamo che, grazie all’età, i senatori si rivelino più saggi dei deputati».
Spianato l’ostacolo quote rosa, l’Italicum ha rispettato la tabella di marcia. Soglie di sbarramento al 4,5%, premio di maggioranza al 37%, candidature plurime, un massimo di 120 collegi. Le piace?
«Ho molte perplessità. Ma se il mio partito decide una linea, la rispetto. Certo, avrei apprezzato che si potesse discutere di più nei gruppi».
Forza Italia sospetta che la battaglia sulla parità di genere sia stata una forzatura della minoranza Pd che voleva usarla come grimaldello per stravolgere l’accordo e mettere in difficoltà il premier. C’è un fondo di verità?
«Non credo che Renzi si faccia mettere in difficoltà dalle quote rosa. Ha le spalle abbastanza larghe. Quello che abbiamo visto lunedì è stato un mero calcolo: poche dietrologie, molto opportunismo. Ogni maschietto ha votato per sé».
Per fortuna, al di là degli anatemi, voi deputate siete meno violente di Lorena Bobbit...
«Guardi, hanno dormito quasi tutti serenamente. Qualcuno mi è venuto a raccontare che ha avuto gli incubi. Ma una piccola soddisfazione, almeno verbale, ce la dovevamo togliere».
Ieri l’ultimo momento di suspence è stato l’emendamento Gitti che mirava a introdurre la doppia preferenza di genere. Bocciato per appena 20 voti dopo che il capogruppo Speranza e il renziano Richetti avevano richiamato il Pd al rispetto dell’intesa. I Giovani Turchi, la sua corrente, hanno annunciato un conseguente voto contrario. Non le dispiace nemmeno un po’?
«No, io ho votato convintamente gli emendamenti sulla parità, dove non c’era indicazione di voto, mentre ho seguito l’indicazione del mio partito che c’era. Quando si appartiene a un gruppo, si lavora insieme. Se mi trovo in pieno disaccordo, come è successo sul finanziamento pubblico, dove non ho partecipato al voto finale, cerco comunque di non mettere in difficoltà il mio partito. Ma la battaglia vera era sulle quote rosa. Quello di ieri era uno specchietto per le allodole».

il Fatto 12.3.14
Liberi tutti, e l’aula diventa un bordello
Torna il fantasma dei “101”, M5S aiuta gli oppositori dem, Sel e La Russa Marciano insieme

Eroico Gitti. Oggi si chiude
di Fabrizio d’Esposito


Il culo e l’algoritmo. Il leghista Gianluca Buonanno, che l’altro giorno indossava un’immacolata divisa da cameriere, vola altissimo e riassume così l’Italicum di Verdini e Boschi, Berlusconi e Renzi: “Al di là del fatto che non vedo più donne vestite di bianco, come se fosse scomparsa tutta la battaglia fatta ieri, forse si sono vestite di nero, a lutto, chiedo: con il Porcellum la gente che è qui, scusi il termine poetico, è stata un po’ paracula, con questo sistema quelli che arriveranno avranno solo culo, cioè fortuna?”. Colpa, appunto, di questo benedetto algoritmo che fa diventare le elezioni “una tombolata”.  
Pericolo: c’è il genero del banchiere
Italicum, secondo giorno di battaglia alla Camera. L’eroe della lunghissima maratona ha il nome di Gregorio Gitti, scissionista montiano nonché genero del grande banchiere Bazoli. Impettito e un po’ borioso anche, secondo i suoi colleghi invidiosi, dopo ogni intervento piega con violenza il povero microfono, gettando sguardi di fuoco ai suoi nemici del comitato dei nove, il multiplo Caronte incaricato di traghettare l’Italicum nell’aula di Montecitorio. Cioè Sisto & Fiano, il primo azzurro, il secondo democrat. Una coppia di fatto del patto BR, Berlusconi più Renzi, come lo chiama Rino Formica. Nel tardo pomeriggio è l’emendamento Gitti che fa traballare governo e maggioranza, nonostante la massiccia presenza di ministri e sottosegretari, manco fosse una legge ad personam del Condannato. Gitti vuole introdurre preferenze e parità di genere insieme. Il suo emendamento è l’uno punto centouno, che si trova a pagina centouno dell’allegato. La maledizione dei numeri fa tornare lo spettro mai rimosso dei centouno che affondarono Prodi. E a Pd e Forza Italia mancano proprio cento voti quando si tratta di votare il bis delle quote rose abbinate alle preferenze: 297 a 277. Appena venti di scarto per respingerlo.  
L’assalto all’algoritmo
Un altro intervento di Gitti, in mattinata, dà l’idea dell’incredibile alleanza che si è realizzata ieri dopo il lunedì nero e trasversale delle donne. Stavolta in ballo c’è un altro emendamento tremendo per BR: quello di Ignazio La Russa di Fratelli d’Italia, che punta all’introduzione delle preferenze. Gitti proclama, secco: “Meglio il Porcellum di questa legge”. Ovazione modello “la corazzata Potemkin è una cagata pazzesca”. Applaudono tutti, tranne Pd e FI. Uno storico verbale di seduta. Nell’ordine: Per l’Italia (il gruppo di Gitti), Movimento 5 Stelle, Scelta Civica, Sel e Fratelli d’Italia. Gitti raduna grillini, postmissini, postcomunisti e centristi vari. Continua: “Abbiamo modificato per la prima volta l’algoritmo Togliatti-Dossetti, che perfino il Porcellum aveva rispettato”. Le quasi due ore di dibattito sull’emendamento La Russa, che non passa per 35 voti (299 a 264), sono spettacolari. Arcangelo Sannicandro di Sel: “Io voto con convinzione l’emendamento, ma voto anche per legittima difesa, perché non vorrei che i forconi mi inseguissero al di fuori di quest’aula”. Gianni Melilla, sempre di Sel, rivolge al Pd uno dei peggiori anatemi: “Farete la fine del Pasok”, i socialisti greci.  
Dagli al delinquente Intermezzo Brunetta/1  
Nel caos della santa alleanza a un certo punto si alza una mano ferma, decisa. Renato Brunetta è già in piedi. I deputati vogliono correre alla buvette o al ristorante. C’è un’ora scarsa di pausa. Brunetta è inflessibile: “Sarei molto felice che il ministro per i Rapporti con il Parlamento rimanesse in aula”. La Boldrini, gentile: “Ministra Boschi, può trattenersi”. Brunetta va in automatico: “Richiamo al regolamento, signora presidente, sulla base dell’articolo 59, comma 1: parole sconvenienti”. Un’ora prima, il grillino Di Battista ha chiamato “delinquente” il Condannato”. Il capogruppo azzurro infervorato: “Perché non ha richiamato Di Battista? Lei presiede in maniera inadeguata dal punto di vista morale”. La Boldrini ringrazia, incassa e sospende. Si va a mangiare.   Stampella   Cinque Stelle
È il pomeriggio del già citato emendamento Gitti. La grillina Dadone esordisce: “Mi domandavo se l’Italia è ancora una repubblica parlamentare”. Altra scena marziana. Il lettiano Meloni deve illustrare un emendamento sulle primarie obbligatorie. Rosato, collega di partito, gli scippa il tempo. Il Movimento 5 Stelle offre quattro minuti a Meloni. Il presidente di turno, Baldelli di Forza Italia, dice: “I tempi dei gruppi non sono cedibili né oggetto di regalo”. Persino Buttiglione si rivolge con tatto “agli amici grillini”. È un’aula impazzita. Migliore di Sel elogia La Russa e viceversa. Si torna alla tradizione con il solito Buonanno, leghista, che sulla contrattazione del tempo a disposizione sbotta: “Facciamo come i marocchini, non so”. Sel sbraita. “Razzista”. Finalmente una scena normale. Alla Lega di soli uomini, Sel regala un’altra perla: “Siete un gruppo omosessuato”.  
Il coraggio di Rosy stoppato dalle “turche”  
L’emendamento Gitti promette scintille e sorprese. I grillini sono a favore. Poi si alza Rosy Bindi e il silenzio si allarga per l’emiciclo: “Non intendo nascondermi dietro il voto segreto. Voterò questo emendamento perché noi donne del Pd non siamo qui per la generosità di nessuno”. Ma il suo intervento è bilanciato dai no esibiti da Pini e Piras, due giovani turche.  
Ridagli al delinquente Intermezzo Brunetta/2
Un altro grillino, Fraccaro, dice che il delinquente Berlusconi è l’azionista di maggioranza del Pd. Brunetta scatta come un automa. Articolo 59, comma 1. Ne fa le spese Baldelli, suo compagno di partito. “Anche lei è immorale”. “Onorevole non ho sentito, mi dispiace, stavo verificando le iscrizioni a parlare”.

l'Unità 12.3.14
Alla Camera lo scempio di quel voto segreto
di Fabiana Pierbattista


C'È DAVVERO POCO DI NUOVO, NEL VOTO DI IERI ALLA CAMERA. C'È MOLTO DI ANTICO, DI PIÙ, DI SORDO ai reali cambiamenti che da tempo questo Paese registra e nei quali riscontriamo un autentico protagonismo delle donne. Si sono scritti fiumi d'inchiostro per dire che nelle cause della perdurante crisi di sistema in cui siamo impantanati, molto lo si doveva all'assenza delle donne dalla sfera pubblica: più donne nei posti di lavoro equivalgono a una crescita di Pil e a reali possibilità di mettere al mondo figli, che altro non sono che la nuova leva dei cittadini dell'Italia del terzo millennio. Più donne nelle istituzioni significano anche una risposta alla crisi di rappresentanza, cui non è estranea neanche un po' la massiccia presenza maschile. E invece no, ancora una volta si dice alle donne che non è il loro tempo, che hanno capito male, di piena cittadinanza politica non se ne parla neppure. Tutti fermi, si riparte dal via. Poteva e doveva andare diversamente? Sì, il premier e il suo governo dovevano, nel momento in cui scelgono di intestarsi una battaglia di rinnovamento del Paese, non limitarla alla sola presenza di otto ministre, per scendere al ribasso nei sottosegretari e nel sottoscala con le votazioni di lunedì sulla presenza paritaria nelle liste.
Poteva e doveva essere la battaglia di tutte e di tutti e non sbandierata come quella di una minoranza, relegandola alle faide interne di un partito che, ancora una volta nel voto segreto, ha pensato bene di regolare conti interni. Andava ricordato all'onorevole Sisto, che tra l'altro incidentalmente sarebbe pure il Presidente della Commissione Affari Costituzionali, che la sentenza della Corte costituzionale la 422 del ‘95, di cui si è riempito la bocca per tutta la giornata di lunedì, è stata superata dalla nuova formulazione dell' articolo 51, il quale oggi aggiunge semmai un ulteriore elemento di sospetta incostituzionalità a una proposta di legge che poco ha recepito delle indicazioni della Consulta. Ma una cosa deve essere chiara all'indomani di questo scempio: hanno perso tutti, ma non le parlamentari dei diversi schieramenti che hanno saputo scegliere coerentemente la loro appartenenza di genere in questa battaglia. Loro no, non hanno perso, hanno testimoniato la loro maturità politica di fronte ad un Parlamento che registra la più alta partecipazione femminile della storia repubblicana e che si vuole relegare ad una tantum. Se questo è il battesimo della Terza Repubblica, certamente questa nasce già monca e con l'aggravante di un voto al riparo di una assunzione chiara di responsabilità di fronte all'elettorato, quello sì composto per metà e anche più da donne. «Troppo spesso si sente dire che il tema delle pari opportunità è superato perché viviamo in una condizione di uguaglianza giuridica e materiale tra i sessi. Ovviamente non è vero. In particolare non lo è in Italia», sono le parole del presidente della Repubblica pronunciate non più tardi di quattro giorni fa, in occasione dell'otto marzo. Lo stesso chiamato a ricoprire nuovamente il suo incarico dopo la manifesta scelleratezza di un voto con la quale la classe dirigente di questo Paese ha certificato la sua impotenza. Voto segreto anche quello, appunto.

il Fatto 12.3.14
“Quote rosa?” E le ministre renziane scappano di corsa
di Tommaso Rodano


NON NOMINATE le “quote rosa” o le ministre renziane scappano via. All’indomani del voto che ha affossato l’emendamento sulla parità di genere nell’Italicum (e spaccato di nuovo il Partito democratico), tra le donne del governo non si muove una foglia. Nessuna polemica. Anzi, nemmeno una parola. Il ministro per la Semplificazione Marianna Madia attraversa il Transatlantico su due ballerine scure, con passo rapido e leggero, malgrado il pancione. Intercettata di fronte alla Buvette, accelera ulteriormente. “Co s ’è un’intervista?”. No, ministro, solo una domanda: possibile che nessuna di voi, nel governo, si sia sentita offesa dalla rinuncia alle “quote rosa”? “Non rispondo al bar, su temi del genere”. E fuori dal bar? Silenzio. Il Transatlantico è teatro di pettegolezzi e retroscena politici, non si può mica parlare di cose serie.
Maria Elena Boschi, ministro delle Riforme, è una delle registe dell’accordo sull’Italicum. Quando sente le parole “quote rosa” risponde con un sorriso, allargando le braccia: “Ha deciso il Parlamento”. Poi si allontana di gran carriera lungo lo stretto corridoio che porta alle stanza del Comitato dei nove. L’inseguimento non è apprezzato . Né la domanda: valeva la pena sacrificare la parità di rappresentanza in nome del patto Renzi-Berlusconi? “Ma lo ha capito o no, che non le voglio rispondere?”. Appunto. Stesso passo lungo, ma risposta più sobria e concisa dal ministro degli Esteri, Federica Mogherini. Dopo una lunga chiacchierata con il collega Andrea Olivero di Scelta Civica, non ha tempo per il cronista. “Le quote rosa? Ora devo andare via. E poi io mi occupo di tutt’altro”.

il Fatto 12.3.14
L’algoritmo di Fitto e il flipper degli eletti
di Sara Nicoli



ALTRO CHE PORCELLUM: LA NUOVA LEGGE FA GIÀ VENIRE IL MALDITESTA TRA RESTI, SOGLIE DI SBARRAMENTO MISTE E BALLOTTAGGIO EVENTUALE

Il cuore della nuova legge elettorale, che ora sbarca al Senato dove si affilano i coltelli per modificarla, è passato con 315 sì e 237 no. Il cuore dell’Italicum, però, pulsa con un “algoritmo” sbagliato, ovvero quella formula matematica che trasforma i voti in seggi e “stabilisce” i criteri per la divisione dei cosiddetti “resti” . Roba da malditesta firmata dal deputato Raffaele Fitto, Forza Italia. Lo hanno soprannominato “flipper”. Nel senso che forze politiche anche di un certo spessore, ossia con numeri pari al 15%, non sapranno in quale “collegio” eleggeranno i loro parlamentari perché il meccanismo dei resti farà muovere i dati, appunto, come una pallina del flipper. Chi, insomma, ha avuto un certo numero di voti in un collegio potrebbe anche vedersi superare da chi, del suo stesso partito, ha avuto meno voti in un altro collegio dall’altra parte dell’Italia. “Quel meccanismo – spiegava ancora ieri il capogruppo del Misto, Pino Pisicchio – rende random, del tutto casuale, l’assegnazione dei seggi per i piccoli partiti. Ma crea una distorsione del 20/25%”.
SBARRAMENTI. Mentre sono filate lisce le soglie di sbarramento sancite dal patto Renzi-Berlusconi che, quindi, ha retto nel suo punto chiave: i partiti otterranno dei seggi solo se raggiungeranno la soglia del 4,5%, chi non sarà in coalizione dovrà superare lo sbarramento dell’8%, mentre le coalizioni dovranno raggiungere il 12% dei voti validi espressi.
Le coalizioni di partiti per ottenere il premio di maggioranza del 15% dovranno ottenere il 37% di voti, altrimenti ballottaggio. Sono previsti meccanismi per garantire la presenza delle minoranze linguistiche: le liste territoriali come Forza Sud e il partito sardo purché superino il 4% dei consensi.
IL SENATO. La nuova legge consta di brevi liste bloccate in piccole circoscrizioni in cui vengono eletti 5-6 deputati. Nessuna norma per il Senato perché, s’immagina, dovrà subire una profonda modifica di indirizzo e, dunque, fino a quando non verrà abolito per Palazzo Madama, in caso di elezioni, resterà il sistema del Consultellum, ovvero quella legge elettorale puramente proporzionale (con preferenze) che è uscita dalla Corte costituzionale dopo la bocciatura del Porcellum. Il vincitore delle elezioni, con il premio del 15%, potrà raggiungere i 340 seggi alla Camera , pari al 55% del totale.
DOPPIO TURNO. Se nessuno supera la soglia del 37 per cento, i primi due partiti o coalizioni si sfidano nel ballottaggio per l’assegnazione del premio. Il vincitore ottiene 327 seggi, i restanti 290 vanno agli altri partiti (restano fuori dal conteggio i deputati eletti nelle circoscrizioni dell’estero).
NO PREFERENZE. L’Italia sarà divisa in un massimo di 120 collegi plurinominali (coincidenti all’incirca con le province), in ciascuno dei quali vengono eletti da 3 a 6 deputati. Ciascun partito presenta brevi liste bloccate, senza possibilità per gli elettori di esprimere preferenze. Grazie agli emendamenti approvati, 15 candidati di un partito potrebbero essere i capilista in tutti i collegi. Questo meccanismo, ha evidenziato versi collegi per poi optare solo alla fine in quale dichiararsi eletto, rendendo così ancora più irriconoscibili gli eletti da parte degli elettori.
COLLEGI. L’esecutivo Renzi, quindi il ministero dell’Interno guidato da Angelino Alfano, sarà delegato a ridisegnare i collegi elettorali, entro 45 giorni dall’approvazione definitiva della legge, sulla base dei criteri indicati dalla stessa legge.
NO PRIMARIE PER LEGGE. Nonostante i voti segreti, non è passata la parità di genere né le preferenze. Ieri un emendamento particolarmente insidioso, presentato da Gregorio Gitti (Pi), che proponeva di introdurre entrambi i principi, è stato bocciato con soli 20 voti di scarto. Ritirato da Forza Italia l’emendamento salva-Lega e niente preferenze. Sarà vietato anche il voto disgiunto, ossia se si traccia un segno su una lista e su un candidato che appartiene a un’altra lista il voto è annullato. Vietate infine le liste civetta. Fedele al patto con Fi, il Pd ha votato contro anche alle primarie per legge; un vero contrappasso.

il Fatto 12.3.14
Sacrificate sull’altare del patto Renzi-B.
Questione di uguaglianza
di Elisabetta Ambrosi


Non c’è bisogno di aderire alla retorica del vittimismo per constatare che le prime a essere offerte sull’altare del patto tra Berlusconi e Renzi sono state, con un primato simbolico che ben rispecchia uno dei Paesi più maschilisti del mondo, proprio le donne. E insieme a loro, un principio democratico fondamentale, quello della parità di genere, cioè dell’uguaglianza, che nulla ha a che fare con “quote”, “ghetti” e altre definizioni del genere.
Peggio della bocciatura dell’altro ieri degli emendamenti all’Italicum sull’alternanza di genere, con vigliacco voto segreto, c’è solo il grottesco dibattito che l’ha preceduta, fatto di argomentazioni volte a coprire un secolare abuso di potere maschile, specie in vista di una possibile abolizione del Senato.
SAREBBE STATO persino più onesto avanzare un ragionamento del tipo “fa più male perdere una poltrona che non conquistarla mai” che dire ciò che in questi giorni ci è toccato ascoltare. Ad esempio, come hanno fatto in tanti, da Brunetta a Gelmini (arrivata a dire che “avere l’alternanza sarebbe stato segno della nostra arretratezza”), che le “quote” gridano contro il merito, come se l’ostacolo al merito fosse la parità di genere e non piuttosto le liste bloccate. O, come ha sostenuto Gasparri, che in alcune città ci potrebbe essere difficoltà a trovare donne competenti, una frase tanto ridicola quanto quella “non ci sono ragazzi intelligenti in questa città”.
Ma incomprensibili sono stati anche ragionamenti a favore per i quali l’alternanza in lista avrebbe portato “igiene e pulizia in politica” (Michaela Biancofiore), o la possibilità alle donne di riconoscersi “in una comunità” (Michela Marzano). Come ha spiegato la costituzionalista Lorenza Carlassare in un’intervista a Repubblica , ricordando anche una sentenza della Consulta in Val D’Aosta, le misure a sostegno della parità di genere, lungi dall’essere anticostituzionali, sono previste dall’art. 51 della Costituzione: “La Repubblica promuove con appositi provvedimenti le pari opportunità tra donne e uomini”.
E se non c’è dubbio, come ha scritto su Europa la studiosa Giorgia Serughetti, che l’obbligo di preferenze alternate rappresenta un buon punto di incontro tra parità e merito, in assenza delle preferenze, bocciate ieri, sarebbe stata di gran lungo migliore (e certamente più costituzionale) un’alternanza prevista per legge fin dai capolista, piuttosto che un vuoto legislativo. In assenza del quale, com’è successo alle ultime elezioni regionali in Sardegna, può accadere che in Consiglio arrivino vergognosamente solo quattro donne su sessanta. E proprio questo è il punto: l’assenza di donne è soprattutto una questione “culturale”? Certo che lo è, ma chiedersi se viene prima la cultura o la legge è insensato perché le leggi producono cultura e la cultura produce leggi, mentre purtroppo nella votazione del Parlamento sono mancate entrambe.
Infine un consiglio alle parlamentari vestite di bianco: la prossima volta, per favore, non scegliete il colore della sconfitta. E ora assumetevi le conseguenze di stare rispettivamente dentro un partito biecamente maschilista, oppure in uno in cui una parte dei parlamentari vota in segreto contro un principio stabilito per statuto dal proprio stesso partito. E vi prego non dite che contano altre misure, come “gli aiuti alle famiglie, o gli asili” (tra l’altro per tutti, non solo per le donne). Sarebbe come a dire a un detenuto che i suoi diritti sono stati negati, ma non importa, perché intorno al carcere la città sarà, forse, presto migliore.

l'Unità 12.3.14
Ma la legge va cambiata
di Claudio Sardo


Matteo Renzi ha vinto la sua prima prova di forza in Parlamento. Ha dovuto sudare qualche camicia, ma alla fine l’aula di Montecitorio ha approvato la legge elettorale nel testo che il leader Pd aveva concordato con Silvio Berlusconi. Una sola modifica significativa a quell’accordo: la nuova legge varrà soltanto per l’elezione dei deputati. Si tratta di un dimezzamento, è vero.
Ma non di uno sfregio: la riforma del Senato è comunque indispensabile per il progetto. Se l’obiettivo di Renzi è produrre con le elezioni una «maggioranza certa», questo rende necessario che la fiducia al governo venga votata da una sola Camera.
Il problema è che la legge elettorale è molto brutta. Troppo simile al Porcellum nell’impianto, orientato a riprodurre quel «bipolarismo coatto» che è stato il cancro della seconda Repubblica. E tuttora pienamente iscritta nella logica del «Parlamento dei nominati»: il diritto dei cittadini di eleggere i propri rappresentanti continua a essere negato e non costituiscono certo un palliativo i collegi di 5-6 seggi, visto che la scelta tra i candidati resta impossibile. A ciò si aggiungono le ferite di queste ultimi due giorni sulla parità di genere: gli emendamenti bocciati sono stati un’umiliazione delle istituzioni, anche perché si sono mescolati principi democratici con opportunismi politici e, purtroppo, il Pd si è reso corresponsabile di questa pessima pagina. Bisognerà porre rimedio agli errori e alle storture. Nel passaggio in Senato non potrà valere la realpolitik imposta in questa prima lettura alla Camera. Renzi doveva tenere, almeno in questa fase, Berlusconi legato al tavolo delle riforme istituzionali, perché altrimenti sarebbe diventata irrealistica la prospettiva della riforma del Senato e della revisione del Titolo V. Ma Renzi e il Pd non hanno interesse a fare di Berlusconi l’arbitro, né a regalargli un potere di veto. Sarà una battaglia difficile. Perché la riforma elettorale è necessaria. Va detto con chiarezza a chi rimarca le brutture della legge allo scopo non di migliorarla, ma per far naufragare anche questo tentativo. La democrazia italiana non può permettersi un altro fallimento. Ma non può permettersi neppure di replicare il Porcellum cambiando solo la confezione esterna. Questo è il passaggio stretto dei senatori. A partire da quelli del Pd. Non sono più accettabili le liste bloccate. Se la strada dei collegi uninominali resta sbarrata, non c’è alternativa ragionevole alle preferenze. La doppia preferenza di genere (un uomo, una donna), bocciata ieri alla Camera, è la soluzione migliore anche per affermare il principio costituzionale della parità nella rappresentanza. Non può bastare invece il criterio della «vicinanza» del candidato al territorio: l’elettore deve poter scogliere. Non può bastare neppure che un partito scelga le primarie: il diritto di scegliere vale per gli elettori di sinistra, come per quelli di destra e di centro.
Vanno cambiate anche le soglie di sbarramento. Non possono essere molteplici, non possono variare tra liste coalizzate e non coalizzate: ogni discriminazione è irrazionale oltre che ingiusta. Berlusconi le vuole così per comporre coalizioni lunghe e utilizzare i partiti intermedi, le liste minori, le liste civetta allo scopo di evitare il ballottaggio. In tutto il mondo, dove c’è una soglia d’accesso per il Parlamento, questa è uguale per tutti. E dove vale lo soglia, non è possibile trasferire al partito maggiore i voti delle liste che non raggiungono lo sbarramento (come invece prevede l’Italicum e come accadeva nel Porcellum). Occorre liberare i partiti dall’obbligo delle coalizioni lunghe e infedeli, che magari vincono le elezioni ma poi sono incapaci di governare. Un doppio turno serio poggia su un primo turno in cui ogni partito si presenta davanti agli elettori con il proprio programma, il proprio simbolo e il proprio leader. Chi supera la soglia di sbarramento compone poi la coalizione di governo davanti agli elettori, in trasparenza. Se non si vuole imboccare questa strada - che cambierebbe la struttura dell’Italicum rispetto al Porcellum - si impedisca almeno il furto di voti ai danni delle liste che restano al di sotto dello sbarramento.
La soglia del 37% per accedere al premio di maggioranza già al primo turno è molto bassa. Sarebbe opportuno alzarla almeno al 40%. Non è detto che il negoziato lo consenta. Ma, certo, il 37% diventa assolutamente inaccettabile se restano le discriminazioni sulle soglie di sbarramento e i furti legalizzati di voti attraverso le liste civetta. La legge approvata ieri in prima lettura presenta anche problemi tecnici. Alcuni molto gravi. La ripartizione dei seggi nel collegio unico nazionale non è compatibile con 100 e più collegi di 5-6 seggi ciascuno. È un problema matematico: una simulazione dell’ufficio studi della Camera sui dati del 2013 offre un risultato ridicolo ed emblematico: a Scelta civica (se fosse stato in vigore l’Italicum) sarebbero stati assegnati tre seggi sia in Piemonte che nel Lazio e gli eletti sarebbero stati i capilista dei collegi in cui Scelta civica ha ottenuto il minor numero di voti. Proprio gli ultimi tre in classifica. Tutto questo è assurdo e probabilmente incostituzionale. Cambiare la legge è un dovere anzitutto per chi vuole che la riforma giunga in porto. I sabotatori non sono solo quelli che giocano allo sfascio. Sono anche i fautori dell’asse di ferro Renzi-Berlusconi. Il passo compiuto ieri rende Renzi più forte nel presentare in consiglio dei ministri il suo piano di riduzione delle tasse (che preme ai cittadini assai più della legge elettorale). Ma alla fine anche la riforma chiederà una coerenza. E un cambiamento non solo di facciata.

l'Unità 12.3.14
Democrazia paritaria, sale delle riforme
di Livia Turco


QUELLA DELLA DEMOCRAZIA PARITARIA E'UNA QUESTIONE DI QUALITA’ E FORZA DELLA DEMOCRAZIA. Infatti, la presenza paritaria di donne e uomini misura la democrazia nella sua capacità di essere inclusiva, di costruire un legame autentico con la vita delle persone e dunque di essere efficace nel governo del Paese. Altroché poltrone delle deputate......Alle quali va la gratitudine di essersi impegnate con generosità ed intelligenza in una riforma vitale per il Paese, rispettando così il patto con tante donne che si sono mobilitate attivamente in una battaglia che ha una storia ormai ventennale.
Una battaglia per fortuna condivisa da tanti uomini. Per questo il voto di giovedì costituisce un pesante arretramento, tanto più grave ed incomprensibile perché avviene in una congiuntura politica che ha l'ambizione di riformare il sistema politico. Quella della democrazia paritaria è infatti una fondamentale riforma del sistema politico, è un aspetto qualificante dell'assetto democratico nel suo insieme.
Ciò che oltre vent'anni di battaglie, mobilitazioni, riflessioni, evoluzione del pensiero giuridico, esperienze concrete hanno confermato è proprio questo: la democrazia paritaria o diventa di tutte le forze politiche, diventa il tratto distintivo del sistema politico o resta inefficace. Non può essere la bandiera di un solo partito. Che deve fare la sua parte, essere di traino ed esempio, come è stato e ha fatto il Pd! Che, proprio per questo non doveva rinunciare a porre tale riforma al centro del negoziato con le altre forze politiche nel momento in cui si affrontano le riforme complessive del sistema, per fare di essa un tratto distintivo della modernizzazione da realizzare finalmente in modo compiuto.
L'affermazione del premier e segretario del Pd Matteo Renzi, secondo cui il suo partito continuerà a farsi carico della rappresentanza di genere contiene in realtà un equivoco ed offusca il salto di qualità che l'intero sistema politico deve realizzare.
L'equivoco è che nel Pd la democrazia paritaria sia garantita dalla coerenza del Laender quando invece essa, per merito prima di tutto delle donne, è diventata parte integrante del suo Statuto, delle sue regole e della cultura politica del partito.
Come ho prima accennato quella della democrazia paritaria è una battaglia che ha una lunga storia di iniziative parlamentari, di battaglie sociali, di evoluzione del pensiero giuridico. Essa ebbe un inizio importante nel 1987 quando le donne del Pci sulla base di un progetto politico che aveva come parola d'ordine «dalle donne la forza delle donne» convinsero il loro partito e l'elettorato femminile e portarono in Parlamento alla Camera un numero di donne che costituivano il 30%del loro gruppo politico.
Si resero subito consapevoli che quella loro forza da sola non avrebbe potuto realizzare il cambiamento sperato e necessario alla società italiana. Abbandonarono il legittimo orgoglio e costruirono un’alleanza con le donne degli altri partiti affinché il riequilibrio della rappresentanza diventasse un progetto di tutte le donne e di tutte le forze politiche. Da questa scelta scaturirono nel 1993 le riforme legislative contenenti le prime norme antidiscriminatorie. Cui seguirono le sentenze della Corte Costituzionale che ne annullò i dispositivi innovativi.
La reazione fu una mobilitazione sociale e culturale ancora più intensa all'insegna del patto tra donne. Fino ad arrivare nel 2003 alla riforma costituzionale relativa all'articolo 51 che afferma «la Repubblica promuove con appositi provvedimenti le pari opportunità tra donne e uomini».
Tale riforma ha consentito gli interventi legislativi successivi tra cui il più significativo è la legge n.215 /2012 che consente nei consigli comunali l'espressione della doppia preferenza con l'indicazione di un uomo e di una donna. Legge che sta dando buoni risultati.
Le regole da sole non bastano. C'è bisogno di progetti politici, di pratica politica. Le regole tuttavia sono essenziali e devono essere capaci di costruire per tutti e tutte una casa solida ed accogliente.

il Fatto 12.3.14
La scelta è fatta: solo IRPEF ma coperture ancora dubbie
Il Governo ignora l’appello di Squinzi sull’Irap. Vigilia tormentata per il Consiglio dei Ministri sulle misure econoomiche, sicure solo gli annunci
di Stefano Feltri


Tutto pronto anzi no, il mercoledì del decisionismo di Matteo Renzi rischia di diventare solo un’anteprima: pasticci di agenda, ritardi e un’unica certezza, una conferenza stampa del premier nel pomeriggio. Se ci saranno provvedimenti concreti o solo annunci dipenderà un po’ dall’evolversi della giornata, ancora una volta Renzi ha sottovalutato i ritmi delle liturgie istituzionali. Il menu è ormai chiaro: taglio del cuneo fiscale, debiti della pubblica amministrazione e mercato del lavoro.
LA SCELTA di Matteo Renzi, uomo però capace di improvvise giravolte, è netta: il costo del lavoro si taglia dal lato dell’Irpef, l’ultima ipotesi che circolava ieri prevede che i benefici si concentrino sui dipendenti che hanno un lordo annuo inferiore ai 15mila euro. A loro andranno 80-100 euro in più al mese, possibilmente in tempi rapidi in modo che abbiano il ricordo del benefit fiscale ben chiaro quando dovranno decidere se votare Pd alle elezioni europee del 25 maggio. Il presidente della Confindustria Giorgio Squinzi ha scritto ieri una lettera sul Corriere della Sera nel tentativo di perorare le ragioni delle imprese . Tagliando l’Irap, cioè il lato aziendale del cuneo fiscale, così il Pil salirebbe dello 0,5-1 per cento, riducendo l’Irpef solo dello 0,3, stima uno studio di Prometeia pubblicato dal confindustriale Sole 24 Ore. Niente da fare: Renzi vuole l’Irpef, “le imprese non votano, i dipendenti sì”, riassumono dai corridoi confindustriali dove nessuna reazione è arrivata all’appello di Squinzi. E dire che Renzi , sempre pronto alla guerra con la Cgil di Susanna Camus-so, con gli imprenditori vuole avere buoni rapporti, aveva anche chiesto alla numero due di Squinzi, Marcella Panucci, di entrare nell’esecutivo.
Da dove arrivano i 10 miliardi di intervento sul cuneo fiscale cioè, a questo punto, sull’Irpef? Chissà. In questi giorni sono circolate varie ipotesi. Le più fresche sono queste: blocco dell’arruolamento di nuovi soldati e tagli agli acquisti alla Difesa per trovare circa 500 milioni, un aumento dell’aliquota sulle rendite finanziarie (dal 20 al 23, vale 370 milioni annui senza i titoli di Stato, colpendo anche Bot e Btp si arriva a 1,2-1,3 miliardi), 3 miliardi per il cuneo fiscale sono un’eredità di Letta e c’è sempre la possibilità di fare un po’ di spesa in deficit per 4-5 miliardi, arrivando a filo del tetto del 3 per cento tra deficit e Pil (ma c’è il problema che la crescita nei documenti del governo è indicata come il doppio di quella reale, 1,1 contro 0,6). Ieri sera circolava anche l’ipotesi di dividere in due parti l’operazione cuneo: subito le linee generali e le dichiarazioni di principio, quelle che servono ad avere i titoli sui giornali, e solo in seguito i dettagli sulle coperture, quando la consueta guerra di trincea con la Ragioneria generale dello Stato avrà prodotto i suoi morti e feriti.
IL PREMIER è ambizioso. Ha dovuto aspettare il ritorno da Bruxelles del ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan per discutere i dettagli, ma il menù è sempre più ricco. Nel Consiglio dei ministri di oggi o domani ci sarà anche un pacchetto di misure per il pagamento degli arretrati della pubblica amministrazione: ci sono ancora oltre 20 miliardi già stanziati e da erogare, eredità di Enrico Letta e Mario Monti, che Renzi ha fretta di usare. E poi ci sono i 60-70 miliardi di crediti fuori bilancio, mai certificati o contabilizzati, che il governo vuole iniziare a saldare: il primo passaggio è concedere la garanzia di Stato a questi debiti, così le imprese li possono cedere alle banche e ottenere subito la liquidità, poi spetta alla Cassa depositi e prestiti vedersela con calma con le banche (e poi cercare di recuperare i soldi dalle amministrazioni in capo alle quali è il debito originario).
Poi c’è il lavoro. Qui le indiscrezioni sono un po’ più vaghe, ma lo schema dovrebbe essere questo: modifiche immediate, con un decreto legge, di alcuni contratti, un apprendistato più efficace e un contratto a termine più flessibile. Poi una legge delega, che quindi dovrà passare dal Parlamento prima di tornare al governo, sulla riforma degli ammortizzatori sociali (la partita più delicata perché comporta pesanti interventi economici). Da un paio di giorni il ministro delle Infrastrutture Maruzio Lupi annuncia il piano casa, altro ingrediente del Consiglio dei ministri: interventi per 1,6 miliardi, tra aiuti agli inquilini morosi causa crisi e detrazioni per gli alloggi sociali più incentivi per l’acquisto agli inquilini di case popolari.

Corriere 12.3.14
Camusso: il rischio è far pagare meno anche gli evasori
di Enrico Marro


ROMA - Susanna Camusso, diciamolo in premessa: che cosa non le piace di Renzi? 
«Diciamolo in premessa: non è questione di antipatia o simpatia. Il giudizio è sul merito». 
Certamente non vi siete presi. 
«Quando leggo di feeling o no tra me e Renzi, non capisco. Voglio dire: se parla di scuola sono felice, se disprezza le parti sociali no. Dipende dai contenuti, non da tendenze caratteriali: non dobbiamo mica fidanzarci!». E il segretario della Cgil scoppia a ridere. 
Va bene, ma perché, se il premier annuncia un taglio delle tasse di 10 miliardi lei minaccia la mobilitazione e lo sciopero. 
«No guardi se il governo taglia le tasse noi festeggiamo. Quello che chiediamo è che il taglio vada tutto a beneficio dei lavoratori dipendenti e dei pensionati, con le detrazioni. E non venga annullato con interventi sulla spesa sociale. Sotto il governo Letta proclamammo uno sciopero proprio per questo. La mobilitazione è per chiedere lavoro, fine della precarietà, politiche per i giovani e il Paese». 
Perché è contraria ad un taglio anche a beneficio delle imprese, cioè sull’Irap? 
«Perché pensionati e lavoratori sono coloro che hanno dovuto ridurre i consumi. Quindi se vuoi far ripartire la domanda devi cominciare da qui. Inoltre, fin dal governo Prodi, è dimostrato che tagli indiscriminati a favore delle imprese non producono un posto di lavoro in più». 
Il sociologo Luca Ricolfi obietta che la vostra proposta privilegia i lavoratori già protetti, a svantaggio degli autonomi e dei precari. 
«No, noi proponiamo che per chi ha un reddito così basso da non poter beneficiare di detrazioni, si trovi una forma adatta ad aumentarlo. Penso si debba stare attenti a non favorire gli evasori che spesso si nascondono proprio tra i redditi bassi». 
Ma è meglio dare qualche decina di euro in busta paga o tassare meno le aziende a beneficio anche dei posti di lavoro? 
«Non abbiamo visto in questi anni una corrispondenza tra profitti e lavoro, anzi c’è stato uno spostamento progressivo degli investimenti verso la rendita. E’ giusto sostenere le imprese che innovano e assumono, ma per questo non serve un taglio generalizzato dell’Irap». 
Il presidente della Confindustria Squinzi dice: chiediamolo agli italiani se preferiscono qualche euro in più oppure il lavoro. 
«Girando l’Italia per il congresso, incontro persone che chiedono lavoro per i loro figli e nipoti. A Squinzi dico che ciò non si ottiene finanziando a pioggia le imprese, che assumono solo quando aumenta la domanda.» 
A proposito di “chiedere agli italiani” anche Renzi si rivolge ai cittadini, quasi contrapponendoli a voi sindacati e alle imprese. 
«Lo diceva anche Monti, lo fa Grillo. C’è un’idea sbagliata che così facendo si riduca lo scarto tra la politica e il Paese». 
Ma forse qualcosa ha sbagliato anche il sindacato, se è diventato così impopolare . 
«Nonostante sei anni di crisi economica abbiamo molti nuovi iscritti. Detto questo è da molto che abbiamo aperto una riflessione sui giovani e i precari che sono stati trascurati e su una contrattazione più inclusiva». 
C’è però anche un problema di immagine: il sindacato burocratico, fonte di privilegi. 
«Incontro di continuo gente che mi dice “meno male che c’era quel delegato che mi ha risolto questa vertenza o quel problema”. È vero poi che c’è una parte dell’opinione pubblica che ci ha associato alla politica, ma noi siamo un’altra cosa». 
Perché? 
«Perché stiamo tra la gente, sui luoghi di lavoro, facciamo contrattazione, guadagniamo molto meno, non viviamo di soldi pubblici». 
E il miliardo che ogni anno va a patronati e caf? E i distacchi sindacali nel pubblico? 
«Si tratta di una campagna che segue la moda. I caf e i patronati sono non solo dei sindacati, ma anche delle associazioni imprenditoriali, dei liberi professionisti e di altri soggetti. Chi vuole sopprimerli forse vuole che i cittadini paghino commercialisti e tributaristi, perché caf e patronati erogano servizi. Se poi uno mi dice che il governo manderà la dichiarazione dei redditi compilata a casa, lo scenario cambierebbe e noi di nuovo applaudiremmo. Inoltre, i caf sono società con bilanci autonomi e certificati, i patronati sono ispezionati dal ministero. Sui distacchi, rappresentare i lavoratori mi pare un esercizio di democrazia». 
Non crede che anche il vostro modo di selezionare i dirigenti sia da rivedere? Non sarebbero meglio le primarie della cooptazione? 
«Sarebbe un’operazione di trasferimento al sindacato delle modalità della politica e già per questo non positiva. Non c’è cooptazione, i dirigenti del sindacato si selezionano nei luoghi di lavoro». 
Le primarie no. Ma forse il sindacato ha qualcosa da imparare da Renzi. Un esempio: il premier ha detto che i sindacati dovrebbero mettere online tutte le spese e la Fiom, che non aveva mai pubblicato i bilanci, li ha messi sul sito. 
«Ha rispettato, in ritardo, le nostre delibere. Se Renzi ha contribuito, meglio». 
Come finirà lo scontro con Landini? 
«E’ in corso una consultazione democratica nella Cgil sull’accordo sulla rappresentatività che determinerà le nostre decisioni». 
Il Consiglio dei ministri dovrebbe approvare anche una riforma del mercato del lavoro. 
«Se si tratta di nuove flessibilità contrattuali non siamo d’accordo. Se invece le si vogliono sostituire con un contratto unico siamo disponibili. Ma è necessario anche riformare gli ammortizzatori sociali, che devono poggiare su due strumenti: la cassa integrazione e l’indennità di disoccupazione, entrambe estese ai lavoratori che ne sono privi, la prima finanziata anche dalle imprese che oggi non versano questi contributi e la seconda anche dalla fiscalità generale». 
In questo schema accetterebbe il contratto di inserimento con i primi tre anni non coperti dall’articolo 18 sui licenziamenti? 
«Se è un contratto unico, siamo pronti a discuterne». 


l'Unità 12.3.14
Da lunedì l’Unità torna in Toscana con il Settimanale del lunedì
Politica, lavoro, società, cultura: dal 17 si ricomincia


Il lungo addio si è finalmente trasformato in un bentornato. A nove mesi dalla chiusura delle pagine delle cronaca toscana e emiliano romagnola dell’Unità, presidi giornalistici aperti, con alterne vicende, fin dal dopoguerra e quindi legati in maniera quasi viscerale alla storia del giornale, il nostro quotidiano torna ad occuparsi della Toscana a partire dal prossimo lunedì 17 marzo. Lo fa con un settimanale, un’iniziativa nuova per l’Unità, che i lettori troveranno al centro dello sfoglio nazionale e che potrà essere estratto per essere letto e conservato durante il corso della settimana. Contemporaneamente, anche il sito on line dell’Unità avrà una finestra dedicata ai temi e gli spunti del settimanale toscano.
“U:Toscana Settimanale del lunedì” è una scommessa che è stata raccolta dalla redazione per tornare ad occuparsi attivamente di una delle regioni storicamente più legate all’Unità che ha contribuito attivamente alla sua crescita e al suo sviluppo nel corso della sua novantennale avventura giornalistica. È un formato nuovo che permetterà di esplorare forme diverse di giornalismo che consentano di approfondire tutti quei temi che la velocità della formula quotidiana non concede di affrontare, se non in minima parte. Lo spazio più grande sarà dedicato dunque al racconto di storie, ai reportage, all’approfondimento su temi che spesso non ottengono gli onori della cronaca e che però fanno parlare la gente e intrigano i lettori.
Saranno articoli di lettura, da poter gustare non solo il lunedì ma nell’arco di tutta la settimana. Pezzi in cui si possa ritrovare, perlomeno questo è ciò che speriamo, il gusto per il racconto e l’approfondimento uniti ad un pizzico di leggerezza e all’attenzione per tutto ciò che può sembrare curioso o marginale. Convinti che dai dettagli spesso nascano le storie migliori, cercheremo di scandagliare la regione alla ricerca di argomenti poco noti, che la cronaca non ha ancora consumato e che sono lì, pronti per essere raccontati. Un lavoro nuovo, per chi è abituato al ritmo ipercinetico del quotidiano, ma non per questo meno intrigante.
Ci sarà, ovviamente, spazio per i temi più vicini alla sensibilità del nostro giornale, ovvero la politica, il lavoro, la società, la cultura. Ma ci sarà anche altro con rubriche pensate per noi da esperti di vari settori, dalla medicina alla lotta alla mafia, e poi interviste personali ai personaggi più disparati, attenzione alla ricerca scientifica e alle eccellenze del territorio, un occhio di riguardo alle imprese che funzionano e creano nuovo lavoro e a quello che di più innovativo e originale offre la Toscana.
La curiosità, uno dei motori più potenti per chi fa giornalismo, sarà il faro di questo nuovo progetto. Senza pregiudizi o idee preconcette. Con il gusto di scoprire e indagare. Sarà uno spazio di riflessione e dibattito che speriamo riallacci il filo di un discorso lungo e appassionante che si è interrotto solo pochi mesi fa ma che è pronto a rinascere più forte di prima.

l'Unità 12.3.14
Lista Tsipras, lasciano i garanti Camilleri e Flores
La decisione dopo lo scontro sulle candidature di Taranto
L’annuncio: «Noi estromessi dalla gestione delle liste»
Il leader greco: «Non si alimentino tensioni continue e ormai superate»
di Alessandra Rubenni


Non sono riusciti a far passare una settimana dalla presentazione delle candidature che la lista Tsipras è già in mille pezzi. Tra candidati che se ne vanno sbattendo la porta, scontri dietro le quinte, sgambetti e liti urlate, la velocità con cui lo stereotipo della sinistra votata all’autodistruzione prende corpo e arriva alla meta stavolta è da record. Ultimo atto, un comunicato di cinque righe pubblicato su Micromega con cui Andrea Camilleri e Paolo Flores D’Arcais fanno sapere di aver scritto una lettera a Alexis Tsipras nella quale «prendono atto di non fare più parte dei garanti della lista “l’Altra Europa”» e che resteranno come «due tra i 30mila cittadini » che sostengono il movimento. Fine, uscita di scena, dopo la battaglia consumata intorno alle candidature di Taranto, sotto il titolo «anti-Ilva» contro Sel. Da questa partita accusano di essere stati estromessi, Camilleri e Flores D’Arcais, ai quali Tsipras indirizza a sua volta una lettera nella quale sottolinea di sostenere «tutti i garanti che aiutino il successo della lista, senza alimentare continue e superate tensioni», ma riconoscendo loro l’impegno speso, finora, proprio per evitare fibrillazioni.
Sembra però impossibile ormai che possa rientrare il caso, scoppiato in seguito al ritiro della candidatura dell’attivista di PeaceLink Antonia Battaglia, che non tollerava di stare in lista, nella circoscrizione Sud, accanto a due esponenti di Sel, Gano Cataldo e Dino Di Palma. Scriveva infatti la Battaglia: «I miei principi morali ed etici e la netta consapevolezza di non voler portare avanti una campagna per Taranto e per il Sud accanto a esponenti di un partito che ancora ieri ha continuato a disconoscere le proprie gravi responsabilità sulla questione Ilva, mi inducono a ritirare la candidatura». Decisione preannunciata dalla lettera che la stessa attivista aveva inviato lo scorso 5 marzo ai garanti della lista Tsipras e alla quale i “saggi” Guido Viale, la giornalista Barbara Spinelli e lo storico Marco Revelli avevano risposto chiedendole di ripensarci. Sarebbe stata proprio questa corrispondenza a far traboccare il vaso per Paolo Flores D’Arcais, che da Micromega accusa gli altri garanti di aver «occultato» la lettera della Battaglia.
Guido Viale, dal sito web de “L’Altra Europa” ammette: il caso Battaglia «è una nostra sconfitta. Eravamo felici per una candidatura che abbiamo sollecitato, non siamo riusciti a trovare un accordo», ma «le accuse a Vendola non sono state oggetto della nostra discussione. Ognuno è libero di pensarla come vuole». E se ognuno la pensa come vuole, così è stato sin dalle prime battute, ancora prima del debutto di lista e simbolo.
Dall’inizio il gruppo dei professori si è spaccato in due, tra un’anima movimentista e una col debole per la giustizia, che hanno fatto scintille quando si è trattato di scegliere fra le candidature di Luca Casarini, nome e volto dell’area antagonista - visto di buon occhio da Spinelli, Viale, Revelli e appoggiato da Tsipras in persona - e Sonia Alfano, arrivata a Bruxelles nel 2009 con l’Idv, che piaceva invece ai più severi Camilleri, Flores D'Arcais e Luciano Gallino, che avrebbero voluto arruolare pure giornalisti come Travaglio e Scanzi, di dichiarate simpatie grilline. Scontro, quello su Casarini, finito con il benvenuto all’ex no global e i resti fumanti della candidatura di Camilleri, ritiratosi per protesta. Così si è frantumata la testa di lista della Syriza italiana, che aveva deciso di scommettere sul nome dello scrittore, insieme a quelli della Spinelli, Moni Ovadia e dello storico Adriano Prosperi come testimonial da mettere in lista ma dichiaratamente pronti, se eletti, a lasciare il posto ad altri, con più «energie e competenze » per andare a Bruxelles.
Altro caso, l’esclusione dalle liste dell’imprenditrice palermitana Valeria Grasso, pizzicata a un’iniziativa di Fratelli d’Italia. E chissà che, tra divorzi precoci e malumori, qualche altra sorpresa non arrivi fra domani e domenica a Bologna, dove Tsipras parteciperà al congresso nazionale dell’Arci, presente anche Vendola.

La Stampa 12.3.14
La lista Tsipras va in pezzi
Camilleri e Flores lasciano: “Estromessi nella gestione”
Scontro aperto nel comitato dei garanti della formazione per le Europee

qui

il Fatto 12.3.14
Lista Tsipras, Flores e Camilleri lasciano
In polemica con gli altri garanti, danno l’addio al comitato. Dietro la frattura anche lo scontro con Sel
di Carlo Di Foggia


La sindrome da “divisionismo” cara alla sinistra sembra mietere un’altra vittima. La lista Tsipras perde altri due pezzi. Prima le (auto) esclusioni di alcuni candidati, adesso la spaccatura arriva in seno al comitato dei garanti. Polemiche e discussioni animano il movimento, con tanto di lettere aperte, dissidi e malintesi. Alla fine è dovuto intervenire lui, Alexis Tsipras, per provare a chiudere le polemiche. A chiamarlo in causa con una lettera sono stati Andrea Camilleri e Paolo Flores d’Arcais, che ieri in uno stringato comunicato hanno fatto sapere di “aver preso atto di non fare più parte (dal 3 marzo) dei garanti della lista, ossia dell’iniziativa che hanno contribuito a far nascere”. Di fatto, sostengono di essere stati messi al margine. I contrasti nel comitato erano emersi già nella scelta delle candidature, presentate il 5 marzo. L’esclusione di Sonia Alfano, europarlamentare eletta nella lista Di Pietro nel 2009, e la conferma in lista dell’ex leader no global Luca Casarini avevano visti contrari Camilleri e d’Arcais. A questo si è aggiunto quello che appare come un gigantesco malinteso, che però li ha fatti infuriare. Prima che sciogliesse la riserva, infatti, la candidatura di Camilleri è stata annunciata ufficialmente insieme a quella di Barbara Spinelli, Adriano Prosperi e Moni Ovadia. Ieri, il leader di Syriza ha espresso il suo dispiacere, ma è sembrato quasi sgridare i due: “Barbara Spinelli ha riconosciuto l’errore fatto e ha chiesto ripetutamente scusa. Fatto che non si riconosce nella vostra lettera, con il risultato di alimentare solo inutili polemiche, lontane dall’entusiasmo e dal clima unitario che si è creato in Italia”. Tsipras ha poi chiarito il malinteso: “Anch’io avevo espresso inizialmente la mia soddisfazione per la candidatura di Andrea. Il mio rappresentante in Italia ha tentato inutilmente di parlare con l’assistente di Camilleri. Ha scritto due lettere per conto mio il 3 e 4 marzo, ma non ha ricevuto nessuna risposta. Si è creata una situazione abbastanza triste”.
NEI GIORNI SCORSI due candidati si sono ritirati: la siciliana Valeria Grasso, imprenditrice anti-racket, e Antonia Battaglia, attivista ed esponente di primo piano dell’associazione PeaceLink di Taranto. La colpa della Grasso, scelta come simbolo della lotta al pizzo e all’estorsione mafiosa, è di aver partecipato a una manifestazione promossa da Fratelli d’Italia. Il 25 novembre, sul palco di “Rifare l’Italia”, disse di “essere orgogliosa della nascita di un’antimafia di destra”. Tanto è bastato a infastidire alcuni colleghi di lista e molti sostenitori. “La situazione era diventata pericolante ed esplosiva, l’intera lista rischiava di saltare”, ha spiegato la Spinelli. Grasso ribatte in una lettera di essere venuta a conoscenza della sua esclusione “senza aver ricevuto una chiamata”. “Non è vero che non è stata informata - controreplica la Spinelli - Ero assolutamente favorevole alla sua candidatura”. In un’altra lettera invece Flores d’Arcais si è lamentato con gli altri garanti di non essere stato informato delle decisioni prese sulla Battaglia. L’attivista aveva lanciato un aut aut prima delle candidature: o lei o i candidati di Sel, ritenuti inconciliabili con le sue lotte contro l’Ilva di Taranto. Nel suo collegio invece ce ne sono due: Dino Di Palma e Gaetano Cataldo, coordinatore regionale dei vendoliani in Puglia. La Battaglia s’è sfilata, ma secondo Flores la linea del comitato era invece di non candidare gli esponenti di Sel.

il Fatto 12.3.14
Svolta nel caso Uva: “Processate i carabinieri”
Il gip ordina l’imputazione coatta per arresto illegale, omicidio preterintenzionale e abbandono d’incapace. Sconfessate le indagini del pm
di Silvia D’Onghia


Imputazione coatta. La svolta nell’inchiesta sulla morte di Giuseppe Uva sta tutta in queste due parole. A sei anni di distanza e dopo un processo finito nel nulla, il Gip di Varese ha stabilito che le indagini portate avanti finora dal pm Agostino Abate, nonostante nell’ottobre scorso lo stesso ufficio del Gip ne avesse richieste di nuove, sono state condotte in modo “da far mancare i legittimi presupposti per la scelta di non celebrare un processo”. E invece, scrive il giudice nell’ordinanza, carabinieri e polizia potrebbero essere colpevoli di arresto illegale, omicidio preterintenzionale e abbandono di incapace.
E ABATE non avrebbe dovuto, per la seconda volta, chiederne l’assoluzione. Giuseppe Uva fu arrestato a Varese la notte tra il 13 e il 14 giugno 2008. Era insieme col suo amico Alberto Biggioggero, per gioco stavano spostando alcune transenne dalla strada quando arrivò la Gazzella dei Carabinieri. Entrambi furono portati in caserma e lì divisi. Biggioggero sentì le urla del suo amico provenire da un’altra stanza e provò a chiamare un’ambulanza. Ma furono gli stessi militari, in un primo momento, a impedire l’arrivo dei sanitari. Uva morì poche ore dopo il suo trasporto in ospedale, resosi necessario per l’aggravarsi della sue condizioni. “Evento aritmico terminale innestatosi su un soggetto portatore di patologia della valvola mitralica, scatenato dall’estremo stress emotivo derivante dal contenimento fisico , da traumi auto o etero prodotti, da intossicazione alcolica”, ricorda il Gip Giuseppe Battarino.
“Oggi parte il vero processo – ha commentato ieri la sorella di Giuseppe, Lucia, che dal primo momento porta avanti la sua battaglia per la verità –. È stata durissuma, mi sento stremata. È un nuovo inizio, ma almeno si parte coi requisiti giusti”. Quali siano questi requisiti, il Gip lo dice con chiarezza. “Il cittadino Giuseppe Uva è stato privato della libertà, illecitamente, da parte degli appartenenti all’Arma dei Carabinieri, Paolo Righetto e Stefano Dal Bosco” scrive il magistrato nell’ordinanza per cui risultano indagati anche sei poliziotti (Gioacchino Rubino, Luigi Empirio, Pierfrancesco Colucci, Francesco Focarelli Barone, Bruno Belisario, Vito Capua-no), che avrebbero potuto intervenire per “interrompere la condotta di arresto illegale” e non lo fecero. Non solo. Uva fu consegnato al 118 con grave ritardo, spiega ancora il giudice, per il timore che “medici esterni avrebbero potuto constatarne le condizioni e raccoglierne le dichiarazioni”. Ancora: Uva fu “percosso da uno o più dei presenti in quella stanza (della caserma, ndr)”. Dunque, “si può ritenere la morte di Giuseppe Uva causalmente connessa con i delitti di cui sopra”.
UNA PARTE consistente dell’ordinanza è dedicata all’interrogatorio – avvenuto “solo” cinque anni dopo la morte dell’amico – condotto dal pm Abate su Biggioggero, “che è palesemente un soggetto vulnerabile, sottoposto a un trattamento il cui elemento qualificante è la ricorrente modalità di vittimizzazione secondaria di un cittadino che ha ritenuto di denunciare dei comportamenti che riteneva illegali”. Il Gip riporta la condotta del pubblico ministero, le sue domande pressanti e alcune sue affermazioni: “Non è morto per quello, non le consento di dirlo... io non consentirò a nessuno di infangare l’onorabilità dei Carabinieri”. “Ora speriamo che l’accusa venga affidata a un altro pm”, ha detto ancora ieri Lucia Uva. “Anni di menzogne – ha dichiarato il senatore Pd, Luigi Manconi – vengono finalmente ribaltate e ciò si deve all’intelligenza e alla tenacia di Lucia e degli altri familiari di Uva e alla loro fiducia nella giustizia”. La speranza è che, finalmente, a differenza di quella di Stefano Cucchi, almeno la morte di Uva non debba essere classificata come malasanità.

il Fatto 12.3.14
Trattativa? “Ai piani alti del governo”
di Giuseppe Lo Bianco



STATO-MAFIA, A ROMA LA TESTIMONIANZA DI BELLINI, INFILTRATO DAI CARABINIERI IN COSA NOSTRA

Aquila Selvaggia? Apri, sono dei Ros. È meglio che non vai in Sicilia perché c’è un’operazione in corso. E quella sigla la conoscevano solo Tempesta e il colonnello Mori”. La rivelazione arriva a metà pomeriggio nell’aula bunker di Re-bibbia, a Roma, dove la corte di assise di Palermo del processo sulla trattativa Stato-mafia si trasferisce per interrogare Paolo Bellini, il protagonista della prima trattativa che il boss Nino Gioè, vittima di uno “strano” suicidio proprio in questo carcere, definì “un infiltrato dello Stato”. “Avevo lo Stato – dice in aula Bellini - ero sicuro che dietro di me c’era il colonnello Mori (che ha sempre smentito ogni contatto), non facevo parte dell’esercito di Franceschiello”. Protetto da un paravento sanitario, Bellini, una vita tra Avanguardia nazionale, ‘ndrangheta (per cui ha commesso alcuni omicidi) e rapporti con apparati dello Stato, ammette più volte di non avere detto tutto quello che sa durante i due periodi di collaborazione con la giustizia (“se permette qualcosa me la tengo”) e poi sbotta: “Ho giurato di dire la verità e la devo dire: ‘quel carabiniere venne a casa mia a dirmi di stare in stand by, poi lo rincontrai in Sicilia, al motel Agip, dove avevo un appuntamento con Nino Gioè. Mi allontanai e feci saltare l’incontro”. Sa il suo nome? “No”. E in grado di riconoscerlo? “L’ho visto 20 minuti, avrà avuto 40-50 anni”. È la fine di dicembre del 1992 e pochi giorni dopo Totò Riina sarebbe stato arrestato proprio a pochi metri dal luogo di quell’incontro saltato, come ricorda lo stesso Bellini, che offre sul piatto dell’accusa un’altra rivelazione, già anticipata nel corso dell’udienza preliminare: “Gioè mi disse che era in corso una trattativa con i piani alti del governo italiano”. I nomi? “Non li ricordo”. È la seconda trattativa, quella accennata dallo stesso Bellini anni prima, in un colloquio con un giornalista emiliano, quando Brusca lo chiamò in causa come un personaggio ambiguo, che sapeva molte cose. Sono queste le due novità di un’udienza vissuta nel racconto di Bellini, personaggio chiave della stagione delle stragi, interfaccia di carabinieri e di boss del calibro di Nino Gioè, con il quale racconta di avere trattato il recupero di alcune opere d’arte a fronte della concessione di arresti domiciliari o ospedalieri per cinque boss mafiosi. “Poi mi fermarono, non ero io il mazziere che dà le carte”.
BELLINI SCENDE IN SICILIA nella primavera del ’92, ma i pm sono più incuriositi del suo soggiorno di Enna del dicembre 1991, quando il suo nome venne registrato all’albergo Sicilia la notte del 6 dicembre, nello stesso periodo in cui in quella provincia i boss della commissione regionale e personaggi esterni a Cosa Nostra pianificavano la stagione eversiva delle stragi. Ma Bellini sostiene di essere venuto in Sicilia per conto della sua società di recupero crediti, per riprendere oltre un miliardo di lire vantati da due società di Palermo e Catania e da lì, da quell’albergo, dove si è casualmente fermato solo per riposarsi, telefona a Gioè per chiedergli una mano. Al pm nega di conoscere uno degli ospiti di quella notte, tale Vincenzo Giammanco, e quando il pm gli fa rilevare la stranezza del viaggio in Sicilia, affrontato senza contattare prima Gioè, ne dopo le aziende debitrici, Bellini risponde di avere agito “d’istinto”, come fa sempre. Ma quel soggiorno di Enna è nei suoi pensieri per l’intera udienza, se alla fine si lascia sfuggire un lapsus, subito corretto: “A Enna dissi a Gioè…’’. E il pm Roberto Tartaglia: “C’era anche Gioe’ a Enna?”. “No - risponde Bellini – mi sono espresso male. Quella sera quando uscii per andare a cena a Enna, vidi una scritta su una saracinesca: ‘crepa Andreotti’. Lo dissi dopo a Gioè, e ci mettemmo a ridere”. Si riprende stamane con il controinterrogatorio della difesa e, a seguire, l’audizione del pentito Fabio Tranchina.

Repubblica 12.3.14
La carta vincente della Chiesa
di Lucio Caracciolo



Francesco è stato chiamato al timone della barca di Pietro quand’era ridotta a sterile arca di Noè. Retta da una gerarchia introvertita, refrattaria ai segni dei tempi, trincerata a difesa di un fortino assediato, povera di spirito quanto ricca di mondanissimi rancori. Una Chiesa chiusa, molto romano-curiale e poco universale, che si pretendeva centro del globo pur se da tempo non lo era più. In un estremo riflesso di autoconservazione, i suoi principi hanno pescato in famiglia - per ispirazione divina, umana sapienza o puro caso, qui non importa - un anziano ma battagliero figlio della “fine del mondo”, destinato a rinnovarne la missione.
Jorge Mario Bergoglio era la carta della disperazione di una Chiesa spenta. Un anno dopo, Francesco è il papa della speranza. Una guida spirituale che parla a tutti, oltre il recinto dei fedeli. E proprio perché capo religioso, non politico, è di fatto leader politico. Attore geopolitico. Perché diffondere il Vangelo significa scandagliare le terre di missione, “sentirle” immergendosi nei conflitti che le agitano nel passaggio d’epoca.
Papa Bergoglio coltiva la “gerarchia delle verità”, fedele allo spirito conciliare (Unitatis redintegratio, 11). Fatto salvo il nucleo del Vangelo (kérigma),il pastore deve calibrare gli accenti, accordare la diffusione della dottrina alle culture e alle sensibilità specifiche. Ciò vale particolarmente per gli insegnamenti etici della Chiesa, a cominciare dalla morale sessuale e familiare. (…) Su questa frontiera si gioca in buona parte la scommessa di papa Bergoglio. La geopolitica del cattolicesimo si svela qui paradossale. Le periferie terzomondiali, nuovo baricentro della Chiesa, sono le più tradizionaliste, mentre le terre di antica cristianità appaiono assai meno disponibili alla precettistica ecclesiastica corrente. Questo limes intracattolico separa Africa e Asia, sensibili ai codici vigenti, da Europa e Americhe(Latina sotto molti aspetti inclusa), dove trasgredirli è norma. La frattura è evidenziata dalla recente inchiesta del network Univisión fra dodicimila cattolici in dodici paesi dei cinque continenti, patrie di quasi due terzi dei fedeli di Roma su scala globale. Perché la Chiesa continui a negare la comunione ai divorziati risposati — tema su cui i conservatori hanno dato battaglia nel concistoro di febbraio, contestando il rapporto innovativo del cardinale Walter Kasper, affine all’approccio di Francesco — troviamo ad esempio una schiacciante maggioranza in Uganda (78%) e in Congo (72%), oltre a una robusta minoranza (46%) nelle Filippine; sul versante opposto scopriamo l’ultraliberale Spagna (appena il 12% approva la dottrina vigente), ma anche Francia (17%), Italia (16%), Argentina (23%), Brasile (27%) e Stati Uniti (32%). Inoltre, l’80% degli intervistati africani e il 76% dei filippini rifiuta il sacerdozio femminile, mentre solo una minoranza vi si oppone fra brasiliani (44%), statunitensi (36%), argentini (34%) ed europei (30%). Ancora, in Africa il 99% esclude i matrimoni gay, in Italia i “no” scendono al 66%, in gran parte delle Americhe è solo una minoranza a respingerli (48% in Argentina, 47% in Brasile, 40% negli Stati Uniti).
Viene da chiedersi se il gregge cui Francesco si offre primo pastore è ancora tale o non è già disperso in compartimenti incomunicanti. (…) Nella storia del cristianesimo riforma e unità non hanno sempre marciato allo stesso passo. La conversione missionaria della Chiesa universale si compie o fallisce nella consonanza con le Chiese particolari. Ciascuna, rimarca Francesco, “incarnata in uno spazio determinato”, dotata di “un volto locale” (Evangelii gaudium, 30). Mentre si avvicina il cinquecentenario delle tesi di Lutero, prologo allo scisma protestante, il popolo cattolico - non solo il clero - è chiamato a decidere fin dove il primerear di papa Bergoglio potrà spingersi senza scardinarne l’unità. O se invece, come teme il papa, sarà il balconeardi gerarchie vetuste a sancirne la diaspora. La fine.

Repubblica 12.3.14
L’Occidente e l’idea di Nemico
di Barbara Spinelli



MAN mano che viene disseppellito il linguaggio della guerra fredda, per giudicare l’Ucraina minacciata da Mosca e la possibile secessione della Crimea, anche la contrapposizione Est Ovest torna invita.
Sembrava sotterrata, quando l’Urss si sfaldò. Per qualche anno si parlò addirittura di un nuovo ordine mondiale, comprendente la Russia. Questa parentesi si chiude e la vecchia domanda si ripropone: cos’è l’Occidente e dov’è il suo confine? È costituito, come ieri, da un compatto blocco atlantico, incarnazione di una preminente moralità internazionale?
Per tentare qualche risposta è utile ricordare che l’Occidente ha una storia lunga ma nella guerra fredda fu essenzialmente definito dal nemico: l’Urss. Alla formula di Descartes (penso, dunque sono) si sostituì un motto meno cogitante, e soprattutto meno universalista:Ho un nemico, dunque sono. Fu forse necessario, ma resta un motto insidioso. Oggi è solo insidioso, perché la Russia è governata da un autocrate con nostalgie imperiali (per Putin «la fine dell’Urss fu una catastrofe») ma non dispone di un’ideologia che seduca tanti popoli. Perso il credo comunista, in un mondo dove ambedue le parti lanciano guerre di aggressione, il nemico è capace di nuocere, non più di definirci.
Mosca ha oggi mire conquistatrici come la Russia che precedette la rivoluzione, e come tale andrebbe trattata: calibrando gli interessi, mettendola in guardia contro annessioni. Non a caso queste cose le dice Kissinger, paladino dell’ottocentesco equilibrio di potenze (balance of power): la Russia non deve tramutare Kiev in satellite; l’Ucraina «non deve diventare l’avamposto d’una parte contro l’altra, bensì fare da ponte tra le due»; e l’Occidente deve capire che «per la Russia, l’Ucraina non potrà mai essere un paese straniero. Il criterio non è l’assoluta soddisfazione (di tutti, ndr) ma un’insoddisfazione bilanciata» (Repubblica, 7 marzo). Così avrebbe potuto parlare Metternich, artefice della Santa Alleanza fra il 1815 e il 1848. E di Metternich Kissinger è grande stimatore. Naturalmente possiamo rifabbricare il nemico esistenziale, resuscitarlo quale era. Putin è consigliato da ideologi fautori di un’Eurasia ostile alle decadenze occidentali. Ma chi lo seguirà, se non costretto?
Farsi definire dal nemico ha avuto lati positivi non negabili. L’esistenza di un avversario dotato di messianiche promesse sociali ha spinto l’Europa, in primis, a competere proprio sulla promessa, e a dire: saremo noi i difensori di quell’uguaglianza e giustizia sociale che voi fingete; saremo noi la democrazia, la tolleranza, il diritto. Siamo noi a non lasciar soli i poveri e i derelitti.
Così fu, nei decenni del Welfare europeo: decenni in cui la disuguaglianza dei redditi diminuì sensibilmente. Esaurita la guerra fredda, si ebbe però il cambio di guardia: i neo-liberisti si sentirono vincitori planetari, e Tienanmen non li turbò ma anzi li convinse che il capitalismo cinese, grazie ai massacri, si radicava senza scosse.
L’antagonismo Est Ovest - se unito all’affermazione di primati morali - comporta per forza la ricomparsa dell’ideologia. È una ricomparsa artificiosa, ma ci sono artifici che hanno eccezionale potenza e offrono allettanti comodità: errori e colpe sbiadiscono; solo la Causa conta. Precorritrici furono le «guerre di civiltà » contro Al Qaeda, che hanno trasformato i terroristi in politici, con statuto di belligeranti. Così il Molosso russo rialzatosi. La sua pericolosità fa dimenticare la presenza nel governo ucraino di ministri neonazisti, e la legge che cancella il russo come seconda lingua in zone infuocate come l’Est e la Crimea.
Dalle insidie si esce con l’arte del distinguo: non è uniforme l’occidente, anche se l’Europa latita. Nel dopoguerra «far blocco » fu imperativo, visto che c’era accordo sull’essenza: l’imperio della legge, la democrazia, i diritti della persona. Nel frattempo le cose sono cambiate. L’Unione si sta disunendo, e anch’essa cade nell’equilibrio di potenze. Ma la sua storia resta diversa, con effetti sull’idea stessa di occidente.
Da quando decise di unirsi, l’Europa diede a quest’idea connotati aggiuntivi e cruciali, che nella cultura Usa mancano. Lo Stato nazione cessava di essere un idolo, dopo i disastri che aveva provocato. Seguì un’autentica conversione politica, nata dalla conoscenza di sé: in particolare dell’hybris, della dismisura, che aveva marchiato gli idiotismi nazionalisti, questi succedanei delle guerre di religione. La presa di coscienza indusse i governi europei a riconoscere sopra di sé un’autorità superiore: una legge preminente, che ponesse limiti allo strapotere sovrano degli Stati. Non solo; nella mente dei fondatori, l’autorità europea aspira a essere tappa di una pacificazione mondiale, e riconosce la preminenza, sull’Europa stessa, di un diritto internazionale e di istituzioni che lo applichino. L’identificazione della filosofia europea con quella di Kant (federalismo di liberi Stati, costituzione civile mondiale) non è casuale ed è appropriata. A differenza dell’America, l’Europa unificata (anche se incompiuta) non si è data mai come compito quello coltivato più volte dagli Usa: un «destino manifesto ». Il concetto nacque nella prima parte dell‘800: fu all’origine del soffocamento dei nativi americani e dell’annessione di gran parte delle terre occidentali. Alla fine dell‘800 giustificò l’espansione oltre il Nord America. Anche la recente esportazione della democrazia nel mondo è brutale Destino Manifesto.
Niente di questo nell’Europa uscita da tante guerre fratricide, ma piuttosto il bisogno di barriere che dominino l’innata protervia dell’uomo. L’Unione è un modello d’integrazione, ma non l’esporta con le armi né si erge a superpotenza. Nasce come Comunità che rompe con le dittature e gli imperialismi: grazie a essa Londra e Parigi hanno abbandonato le colonie (indipendenza dell’India nel ’47, del Marocco e della Tunisia nel ’56, dell’Algeria nel ’62). Pur sapendo che certi confini sono ingiusti, giura di non rimetterli in questione.
Non a caso l’Unione si è rifiutata di menzionare nei trattati le radici cristiane. Perché le radici sono molteplici, e perché l’Europa è un cammino più che un tempio. Disse una volta Enzo Bianchi, priore del monastero di Bose: «La differenza tra gli uomini e i vegetali è che gli uomini non hanno radici. Hanno piedi».
Nei propositi iniziali, l’Europa è anche estranea al fascino delle ottocentesche Sante Alleanze. La Società delle Nazioni, creata nel 1919 e ossequiosa verso la completa sovranità degli Stati, sfociò in cataclisma. Sia Churchill che Luigi Einaudi la condannarono.
Per salvare l’Ucraina, e schivare al contempo il ritorno dei blocchi (uno monolitico a ovest, uno dispoticamente monolitico a est) non rimane che il modello federale europeo. Le frontiere non si toccano, e le etnie sono tutelate ma non gli irredentismi. Puntare su un’Ucraina occidentalizzata o avamposto Nato (o forzatamente orientalizzata) significa spaccarla, spartirsela. Sia Russia che America tendono alla spartizione, fedeli ai loro «destini manifesti ». L’Europa no, e altra dovrebbe essere la sua via: la difesa dello stato di diritto e delle minoranze, ma in un’ottica cosmopolita, che rassicuri gli autoctoni e i tatari di Crimea e i russi che vivono in Ucraina.
Che l’Ovest sia fatto di dissidi, lo abbiamo riappreso il 6 febbraio: il Fuck Europe-Fottiti Europa, pronunciato dal viceministro Nuland, è stato un momento di verità. Se l’Europa non vuol più farsi umiliare, che alzi la voce, che auspichi un occidente diversificato, sottolineando quel che appartiene alla nostra storia: che risale a tempi antichi (all’idea dantesca di impero) e che sta prendendo forma da oltre sessant’anni.
il Fatto 12.3.14
Abu Omar, 7 anni in Cassazione all’ex agente Cia
CONFERMATA dalla Cassazione la condanna a sette anni di reclusione per l’ex capo della Cia in Italia, Jeff Castelli, e a sei anni di reclusione ciascuno per gli agenti Betnie Medero e Ralph Russomando, per il rapimento dell’imam egiziano Abu Omar, avvenuto a Milano il 17 settembre 2003. La V sezione penale della Suprema Corte ha così convalidato la sentenza emessa dalla Corte d’Appello il primo febbraio 2013. La Procura della Cassazione aveva chiesto il rigetto dei ricorsi degli imputati. I giudici d’appello, ribaltando il proscioglimento arrivato in primo grado, avevano ritenuto Castelli, nella sua qualità di “responsabile della struttura Cia in Italia”, “la mente dell’operazione”. Per lui, secondo i magistrati, come per gli altri due 007 statunitensi condannati, non può valere la “copertura” dell’immunità diplomatica , perché quel sequestro di ormai undici anni fa, a cui seguirono le torture in Egitto, fu un atto contrario “al diritto umanitario”. Gli ex agenti Cia in Italia erano stati invece prosciolti in primo grado perché - aveva stabilito il giudice Magi - “l’azione penale non poteva essere iniziata a motivo della immunità diplomatica dagli stessi goduta”. Tutti e tre, infatti, erano accreditati all’ambasciata degli Usa a Roma.

il Fatto 12.3.14
Così l’Aifa soffiò contro il farmaco low cost
L’agenzia italiana mise in allerto dottori, malati e stampa
Sull’Avastin solo note tecniche per quello “concorrente” da 700 euro a dose
di Chiara Paolin


La Procura di Roma indaga su Big Pharma per corruzione. Secondo i magistrati, l’affare da 400 milioni di euro l’anno che Novartis e Roche hanno orchestrato ai danni del Servizio Sanitario Nazionale aveva bisogno di appoggi in alto loco: qualcuno nelle istituzioni, negli organismi di controllo, può aver dato una mano alle aziende che preferivano spingere il Lucentis (700 euro a dose) invece che l’Avastin (80 euro)?
GLI OCCHI SONO PUNTATI
sul ministero della Salute e sull’Agenzia del farmaco. Il ministro Beatrice Lorenzin ha già detto la sua: bisogna riformare l’Agenzia, rendere più efficaci le commissioni, evitare il ripetersi di certe situazioni. Peccato che lo stesso ministro e il suo vice avessero difeso l’operato Aifa sulla vicenda Avastin nelle aule parlamentari solo poche settimane fa, spiegando come la pericolosità del farmaco low cost fosse plausibile per colpa delle Regioni che non avevano risposto all’apposito questionario. E, soprattutto, specificando che Aifa fu costretta a eliminare Avastin dal prontuario perché nel 2012 Ema, l’Agenzia europea del farmaco, segnalò rischi nuovi e straordinari. Da quel momento in poi, i medici che decidevano di usare Avastin lo facevano a loro rischio (anche penale).
Dopo l’annuncio della Lorenzin di voler cambiare metodi e facce all’Aifa, il direttore generale dell’ente, Luca Pani, ha risposto tramite intervista a Repubblica: “Sono anch’io vittima della truffa, e non perderò il posto per questo scandalo” ha detto Pani confermando in sintesi la linea di difesa già indicata dal ministro. Cioè: fu Ema a lanciare l’allarme su Avastin, solo per questo in Italia gli venne preferito il costosissimo Lucentis. E poi, non fu possibile riammettere in lista l’Avastin perché le Regioni non collaboravano nel testare sul campo il prodotto.
La sentenza dell’Antitrust che ha condannato le multinazionali (d’accordo nello smontare Avastin per guadagnare entrambe con Lucentis) racconta un’altra storia. Il 20 giugno 2011 Roche chiede a Ema di modificare le indicazioni che accompagnano il farmaco, in particolare al punto 4.8 del bugiardino, dove si parla degli “effetti indesiderati” connessi automaticamente all’Avastin. Roche dunque chiede di alzare la soglia di rischio del farmaco nei suoi effetti collaterali. Perché? Per fornire a medici e pazienti il massimo dell’informazione e della cautela, è la versione ufficiale. L’ipotesi bis è che Roche volesse rendere meno appetibile il prodotto rispetto al - finto - concorrente Lucentis.
STA DI FATTO che Ema non accoglie la richiesta. E, anziché toccare il punto 4.8, il 30 agosto 2012 modifica il punto 4.4 sulle “avvertenze per l’uso” segnalando come la particolare somministrazione delle fiale (punture intraoculari) possa essere fonte di complicazioni anche gravissime. Nel senso che, come per ogni medicinale da iniettare nel corpo umano, la somministrazione di Avastin può determinare l’insorgenza di infezioni e reazioni. Per completare il quadro, le autorità europee segnalano che secondo studi affidabili e indipendenti (Catt e Ivan), le molecole alla base dei due prodotti omologhi (bevizumab e ranibizumab) garantiscono lo stesso livello di sicurezza, tanto che anche il bugiardino del Lucentis viene successivamente aggiornato con le identiche cautele di Avastin al punto 4.8 e 4.4.
Il problema è che il 3 ottobre 2012, prima che la decisione del comitato scientifico Ema sia nota, Aifa emette una nota da far rizzare i capelli a tutti i chirurghi oculisti d’Italia. Con procedura del tutto anomala, prima ancora di prendere una decisione in merito, Pani dirama un comunicato stampa con cui spiega che Ema ha modificato il bugiardino di Avastin avendo riscontrato “gravi reazioni avverse oculari”: ma sono problemi legati alla somministrazione , comuni a tutti i farmaci della categoria. Due settimane dopo arriva la determina Aifa per cancellare Avastin dai prodotti approvati: a quel punto il medicinale può essere usato “secondo scienza e coscienza del medico curante”, come ha spiegato Pani a Repubblica .
OVVERO, AIFA NON HA mai vietato il medicinale low cost, scaricando sulle spalle degli oculisti la scelta tra un farmaco carissimo (e perciò spesso non rimborsato ai pazienti) e uno alla portata di tutti ma additato come insicuro, mentre le autorità europee - in un altro aggiornamento dei bugiardini dettato da nuovi studi clinici - certificavano la sostanziale equivalenza dei due prodotti. In questo caso però Aifa produce solo una nota tecnica in data 5 marzo 2013: per spiegare che il Lucentis è entrato nella stessa identica class warning di Avastin stavolta bastano tre righe, niente comunicato stampa, niente effetti speciali.

il Fatto 12.3.14
Eni, Scaroni e quei 5 milioni all’amico degli 007 d’Israele
Il contratto Un audit sottolinea che quasi tutto il fatturato della società svizzera di Patrick Landau viene dal gruppo. Attivate le norme interne anticorruzione
di Marco Lillo


Si chiama Patrick Landau, cittadino francese di famiglia ebraica. Ed è l’uomo che rappresenta le esigenze dell’Eni in Medio Oriente, Africa e Stati Uniti, anche se è inutile chiedere in giro o a Google: Landau, al di fuori della cerchia dei veri potenti, non lo conosce nessuno. Forse proprio per questo l’amministratore delegato di Eni, Paolo Scaroni, ha deciso di offrirgli una consulenza da 1,2 milioni all’anno (compresa Iva), circa 5 milioni in quattro anni, con un contratto che il Fatto Quotidiano ha letto e che ha lasciato inizialmente perplessi persino i fedelissimi del numero uno dell’Eni.
Patrick Landau è uno che passa inosservato: media statura, faccia paciosa, stempiato con gli occhiali potrebbe essere un professore di liceo o un archivista. E invece è l’uomo al quale l’Eni di Scaroni si affida per questioni delicate come l’individuazione dello stretto sentiero che permette di mantenere i rapporti con l’Iran senza fare infuriare americani e israeliani. Landau è azionista al 100 per cento di Maydex AG, società con capitale di un milione di franchi svizzeri che ha il suo indirizzo a Bahnhofstrasse 3, Pfäffikon SZ, nel cuore del paradiso fiscale più ambito d’Europa. Sul lago di Zurigo si paga un’aliquota massima sulle imprese del 11,8 per cento.
NEL 2012 QUANDO si vede arrivare sul tavolo il rinnovo biennale del contratto di consulenza con la società di Landau, la responsabile dell’audit e controllo interno, Rita Marino, storce la bocca. La Maydex è una società controllata da una persona fisica e con sede in un paradiso fiscale. Landau si mette in tasca un compenso annuale (quasi detassato) che nemmeno un top manager si sogna. A concedere senza alcuna gara questo incarico riservatissimo non è una divisione qualsiasi dell’Eni ma proprio quella corporate che risponde personalmente a Scaroni. La questione è delicata. Il contratto biennale era stato siglato nel 2008 e rinnovato senza gara. Il rinnovo del 2012 è l’occasione per una due diligence. Due le criticità segnalate dal servizio audit: su un fatturato di 1,5 milioni di euro, la Maydex AG ne ricava ben 1,2 milioni di euro da Eni. Non basta: Rita Marino partendo da questo dato mette nero su bianco a futura memoria che, vista la delicatezza del contratto e visto che la società ha sede in una zona a regime fiscale privilegiato, si potrebbe delineare il rischio di vedere nella Maydex una “covered business partner ai fini delle Management System Guideline “Anticorruzione”, cioé un soggetto che, secondo le norme interne, “agisce per conto di Eni con riguardo ad attività di lobby, all’ottenimento di approvazioni previste dalla legge o a trattative con un Pubblico Ufficiale”. L’inclusione di Maydex in questa categoria fa scattare le MSG, cioé le norme anticorruzione interne le quali prevedono una serie di obblighi per il partner di Eni.
Alla fine anche l’audit concede il via libera. E così Leonardo Bellodi, responsabile delle relazioni istituzionali di Eni corporate, può firmare il contratto con Maydex AG. È interessante notare chi è il direttore della società svizzera di Landau. Si chiama Meir Gershuni, da Tel Aviv, fa parte del team che guida società di sicurezza Axiom Security and Management. Sul sito è presentato così: “recentemente ritiratosi dalla ISA, Agenzia di Sicurezza Israeliana, Gershuni è l’ex direttore del Ufficio sicurezza del Servizio Estero di Israele. Le sue responsabilità includevano la direzione della sicurezza del ministero degli esteri e l’implementazione della protezione delle missioni diplomatiche, del corpo diplomatico e delle informazioni classificate”.
Per le sue conoscenze anche nel mondo dei servizi di sicurezza israeliani Patrick Landau era pagato profumatamente anche da PierFrancesco Guarguaglini quando era presidente di Finmeccanica. Nelle intercettazioni agli atti dell’indagine della Procura di Napoli dei pm Vincenzo Piscitelli, Henry John Woodcock e Francesco Curcio si sente parlare di “Patrick” e dei suoi rapporti con gli israeliani a metà dicembre del 2011 quando l’amministratore delegato di Alenia Aremacchi Giuseppe Giordo vola con Landau in Israele e pochi mesi dopo, a luglio del 2012, Italia e Israele firmano un accordo di notevole entità: la Alenia (gruppo Finmeccanica) vende 30 addestratori M346 agli israeliani e questi invece vendono agli italiani di Telespazio un satellite spia e due aerei radar Eitam. Quando i pm napoletani chiedono all’ex direttore commerciale di Fin-meccanica, Paolo Pozzessere, delle consulenze, lui racconta che Landau guadagnava circa un milione di euro all’anno anche se non si capiva per fare cosa.
I RAPPORTI tra Scaroni e Landau risalgono a più di dieci anni fa quando l’ad di Eni era consigliere di BAE Systems, e la società elettronica e della difesa britannica si serviva di Landau, amico di Sir Richard Evans, numero uno di BAE. Il nome di Landau compare anche nell’indagine della Procura di Monza sulla sospetta corruzione per la gara del ponte sullo stretto di Messina vinta da Impregilo nel 2004. Paolo Savona, Piergiorgio Romiti e Carlo Pelanda (non Landau) vengono indagati e poi archiviati con l’ipotesi di corruzione dal pm di Monza Walter Mapelli “in relazione all’aggiudicazione della gara di appalto per la costruzione del ponte sullo stretto di Messina e per l’esecuzione dei lavori di ristrutturazione di una tratta della metropolitana di San Pietroburgo”. Nella richiesta di archiviazione che chiude l’indagine si legge che “Savona Romiti e Pelanda, unitamente a Patrick Landau, presidente della banca di affari Colbert e uomo di fiducia di Vinci (colosso delle costruzioni franco-canadese Ndr) in Italia, stavano lavorando per una alleanza strategica ed azionaria tra Impregilo ed i francesi”. Il pm ricorda poi una conversazione tra Savona e Pelanda del 3 aprile nella quale Savona racconta di un incontro con i francesi di Vinci. Secondo il pm “dall'ascolto delle conversazioni sembra evidente che i francesi chiedano all’azienda italiana di contribuire al pagamento di una tangente a pubblici ufficiali russi”.
STORIE VECCHIE che non hanno mai portato nemmeno a sollevare un’accusa. Secondo Eni: “ll rapporto con Maydex nasce nel 2008, nell’ambito della necessità di ottenere dall’amministrazione americana un’esenzione sulle attività Eni in Iran. Se sanzionata, Eni avrebbe dovuto rinunciare a un credito certo di 3,3 miliardi di dollari e a un claim di circa 800 milioni di dollari, per recupero di investimenti fatti, che vantava nei confronti della National Oil Company iraniana. La decisione di concedere l’esenzione era osteggiata dall’AIPAC [American Israel Public Affairs Committee]. Si individuò nella Maydex di Patrick Landau, esponente della società israeliana, un soggetto idoneo a rappresentare la posizione Eni nei confronti dell’AIPAC e delle istituzioni israeliane. Alla fine del 2010, il lavoro svolto con Maydex ha portato all’ottenimento da parte di Eni dell’esenzione dalle sanzioni rilasciata dal Dipartimento di Stato. Questa esenzione è condizionata al monitoraggio delle attività Eni in Iran da parte delle autorità Usa, lavoro al quale ha fornito supporto Maydex rappresentando le nostre attività alle istituzioni USA e israeliane. Il contratto con Maydex AG, per il valore di un milione di euro all’anno, è stato stipulato in accordo con le procedure in essere in Eni, che per contratti intuitu Persona e non richiedono procedure di gara ma un’analisi sull’idoneità del consulente ai fini
dei servizi richiesti”. Quanto allo status di “covered partner”, Eni ha effettuato “verifiche sull’insussistenza di precedenti penali”.

l'Unità 12.3.14
L’altra faccia dei cattolici
Così il terrorismo politico dilagò nella società italiana
Il libro di Guido Panvini ricostruisce il clima nel Paese durante gli anni di piombo quando anche insospettabili scelsero la lotta armata
di Marco Almagisti


DURANTE I CINQUANTACINQUE GIORNI DEL SEQUESTRO DI ALDO MORO, ROSSANA ROSSANDA INDICÒ UNA CONTINUITÀ NELLE MATRICI CULTURALI DEI BRIGATISTI RISPETTO ALLE PAROLE D’ORDINE DELLO STALINISMO, parlando di un «album di famiglia» (Il Manifesto, 2 aprile 1978). In quelle settimane, un altro punto di riferimento della cultura di sinistra, quale Giorgio Bocca, allargò l’ambito d’origine del terrorismo italiano anche ad alcuni spezzoni del mondo cattolico, parlando di «cattocomunismo». (Il terrorismo italiano, 1970/78, Garzanti, 1978). L’incandescente polemica politica scatenata soprattutto dalle riflessioni di Rossanda – in realtà molto più complesse di quanto fossero disposti ad intendere molti suoi interlocutori – tradusse in termini di conflitto strumentale una questione cruciale per la storia italiana, ossia la ricostruzione delle matrici culturali della violenza politica.
Bene ha fatto Guido Panvini ad iniziare il suo ottimo libro Cattolici e violenza politica. L’altro album di famiglia del terrorismo italiano (Marsilio, 2014) richiamando proprio le analisi a caldo di Rossanda e Bocca, con cui condivide la volontà di non limitarsi ad interpretare la violenza politica quale semplice rigurgito irrazionale. Come già nel precedente Ordine nero, guerriglia rossa (Einaudi, 2009), Panvini analizza l’insorgenza della violenza politica in Italia collocandola in un contesto entro il quale risultano determinanti le reazioni delle diverse culture politiche nei confronti dei processi di modernizzazione in corso nel Paese. Nella fattispecie, con riguardo agli ambienti cattolici significa analizzare le trasformazioni dell’Italia contemporanea in costante rimando al Concilio Vaticano II. Chiunque coltivi una visione monistica della Chiesa cattolica dovrebbe leggere la ricostruzione di cosa il Concilio provocò nel mondo cristiano, con il venir meno dell’identificazione acritica fra Cristianesimo e Occidente. In quel contesto, molti giovani cattolici si socializzarono all’impegno simpatizzando con i movimenti di liberazione nazionale in Africa, Asia ed America Latina. Opportunamente, il secondo capitolo del libro (Alla destra del Padre) mostra l’altra faccia della luna, analizzando le posizioni dei cattolici tradizionalisti vicini alla destra radicale. Qui a flirtare ambiguamente con la violenza vi erano quanti ritenevano la democrazia liberale un argine troppo friabile contro il comunismo e vivevano la modernità quale «cospirazione». Ambiguità verso la violenza v’erano anche fra i cattolici di sinistra, come emerge dal quarto capitolo («Il nodo della violenza tra post-concilio e contestazione»), nel quale si ricostruisce come la critica dello sfruttamento e della mercatizzazione della società divenga per alcuni avversione per la democrazia e ricerca di vie insurrezionali.
Il valore aggiunto del libro è costituito dalla capacità di intrecciare piani diversi: Panvini ci guida sapientemente lungo processi che vedono mescolarsi le grandi questioni di un mondo in trasformazione con storie di vita di persone che scelgono esperienze di militanza radicale, fino, in alcuni casi, ad entrare nel gorgo della lotta armata.
Due sono le questioni in merito alle quali il libro di Panvini mi ha indotto a riflettere, una volta terminata la lettura. La prima concerne la profondità della frattura che in Italia separa la società dalle istituzioni. L’epilogo del libro lo sottolinea attraverso il resoconto di un accadimento dotato di elevato impatto simbolico: il 13 giugno 1984 i Comitati comunisti rivoluzionari (Cocori) consegnano il proprio arsenale al Cardinale di Milano, Martini, ossia alla Chiesa. Frutto della «silenziosa attività che la Chiesa aveva svolto nell’azione sociale e nella riconciliazione» (p. 384) quell’atto ci interpella per le sue implicazioni politiche. A tal punto giunge la sfiducia nello Stato, che la Chiesa in Italia finisce per supplire anche alla funzione cardine della moderna statualità: garantire il monopolio dell’uso legittimo della forza. Il secondo spunto che induce questa lettura richiama l’ambiente complessivo entro il quale Panvini ha condotto la sua analisi. Il «focus» concerne le sorgenti di alcuni percorsi che, dalla militanza in corpi intermedi cattolici, scaturiscono nella violenza politica. Eppure, per delineare tali esperienze l’autore ricostruisce magistralmente l’intero contesto del mondo cattolico negli anni Sessanta e Settanta. Il Concilio Vaticano II costituisce l’immenso punto di svolta di una stagione problematica, innovativa e fertile, come emerge appieno anche dal bel libro di Giuseppe Battelli (Società, Stato e Chiesa in Italia), edito da Carocci nelle scorse settimane. Il confronto serrato con la «multiforme modernità » produce nel mondo cattolico risposte articolate. È da rimarcare quanto questo pluralismo interno al cattolicesimo italiano sia sopravvissuto alle scelte eversive di alcune minoranze e al susseguente richiamo all’ordine delle gerarchie, rimanendo a volte latente durante le stagioni in cui più forte è risultato l’allineamento unitario e antemurale guidato dalla Cei. Ma senza mai disperdersi del tutto. In questi anni, a molti è capitato di incontrare esponenti politici che parlano «a nome dei cattolici» (con il sottinteso che solo loro – non certo altri – possono farlo e quindi possono rappresentare politicamente i cattolici). Salvo poi verificare empiricamente quale varietà di posizioni politiche possano germogliare all’interno dello stesso mondo cattolico. Papa Francesco pare volgersi coraggiosamente a tale pluralità considerandola quale ricchezza e lievito potenziale della sua azione riformatrice. Sono da attendere anche da questa variegata filigrana i contributi di un pensiero che sappia essere critico di come oggi vanno le cose nel mondo.

l'Unità 12.3.14
La memoria della strage
Un film rievoca l’eccidio di Monchio Cervarolo
«Sopra le nuvole» di Guigli e Stefani rievoca l’eccidio nazifascista del ‘44 in cui furono trucidati 155 civili Presentato a Roma in occasione del 70esimo anniversario
di Gabriella Gallozzi


UN PICCOLO FILM CONUNA GRANDE PROSPETTIVA: TENERE VIVA LA MEMORIA DI UNA DELLE TANTE STRAGI NAZIFASCISTE DIMENTICATE. Stiamo parlando, infatti, di Sopra le nuvole, opera autarchica e autoprodotta di Sabrina Guigli e Riccardo Stefani che ricostruisce l’orrore dell’eccidio di Monchio e Cervarolo sull'Appennino tosco-emiliano, quando tra il 18 e il 20 marzo del ‘44, la brigata di Hermann Goering trucidò 155 civili (tra Monchio, Susano, Costrignano, Savoniero e Cervarolo) nelle province di Modena e Reggio Emilia.
Uscito nel 2009 dopo oltre due anni di lavoro, fatto di ricerche storiche e di testimonianze dei sopravvissuti, il film è stato presentato l’altra sera alla Casa del cinema di Roma in occasione del 70esimo anniversario della strage. Un’occasione per tornare sulla nostra storia, anche quella più oscura, in memoria tutti i civili vittime inermi e bersaglio di tutte le guerre.
Lo sforzo di Sopra le nuvole, infatti, è narrare l’irruzione della violenza e dell’orrore nella vita quotidiana di una comunità di contadini, povera, certamente, provata dalla guerra, ma comunque in grado di mantenere viva solidarietà, tradizioni e dignità, soprattutto. Storie di esistenze minute, di matrimoni che si fanno festa per tutto il paese, di nascite, di lavoro nei campi. Di uomini che tornano al paese, come Adriano, scampato ai bombardamenti di Genova, per esempio, che qui sull’Appennino ritrova la sua famiglia.
Ma la guerra, seppure sembra lontana in questa sorta di mondo agreste ed idilliaco, non tarda ad arrivare. Siamo nel ‘44 e l’Italia vive la sua guerra nella guerra. La guerra di Liberazione, la resistenza, i partigiani sui monti e le truppe nazifasciste che massacrano e distruggono in ritirata. Fino a quel 18 marzo quando le mitragliatrici di Goering si accaniscono su donne, bambini, vecchi, lasciando a terra, massacrati, 131 civili. Due giorni dopo, il 20 marzo a Cervarolo, la stessa sorte per mano della stessa compagnia, tocca a 24 uomini, compreso il parroco. Apprezzato a suo tempo da Mario Monicelli, Sopra le nuvole ha ricevuto anche «l’apprezzamento » del presidente Napolitano («una preziosa occasione di riflessione ed impegno affinché ciò che è stato non abbia più a ripetersi»). Nel frattempo il Comune di Palagano (Mo) ha avviato la procedura per il riconoscimento della medaglia d'oro al valor civile.
Da venerdì a martedì 18 marzo, poi, si svolgeranno nei comuni dell’Appennino una lunga serie di iniziative commemorative: documentari, dibattiti, spettacoli teatrali aperti anche alle scuole. Perché la memoria parte anche da qui.

Repubblica 12.3.14
L’inferno in corpo
Walter Siti: diario della liberazione dal desiderio senza piacere
“Exit strategy” il nuovo romanzo dello scrittore
La storia di un’ossessione sessuale, di un’agonia e di una redenzione
di Massimo Recalcati



In Resistere non serve a niente Walter Siti ci aveva offerto un ritratto pulsionale del capitalismo finanziario e della sua grande crisi che come tratto preminente esibiva una spinta bulimica alla divorazione avida e illimitata di ogni cosa e di ogni esperienza. Il suo esito non poteva che essere nichilistico. Si trattava di un romanzo che ancora una volta - ed è questo uno degli aspetti più rilevanti dell’eredità pasoliniana di Siti - ruotava attorno al dramma del corpo (individuale e collettivo) che vuole godere al di là di ogni limite, al di là di ogni senso possibile della Legge. È l’anomia radicale che muove l’insaziabilità orale del discorso del capitalista: consumare tutto, ridurre ogni cosa a merce, devastare ogni forma umana del legame sociale, imporre a senso unico il comandamento di un godimento immediato e mortale che non produce alcuna soddisfazione e che annienta la vita.
In questo nuovo romanzo
Exit strategy (Rizzoli) dal forte sapore autobiografico, seppur smentito in una nota finale dall’autore, e dal tessuto diaristico, il vincitore dell’ultimo premio Strega aggiunge un supplemento essenziale al suo percorso intorno al continente “nero” del godimento ipermoderno. In gioco è una nuova mutazione antropologica che Pasolini aveva potuto scorgere solo di sbieco. Si tratta di quella mutazione che ha trasformato la realtà umana in una macchina acefala di godimento. Se Pasolini aveva potuto teorizzare come la “religione del nostro tempo” avesse sostituito al monoteismo delle vecchie società religiose il politeismo degli oggetti di consumo elevati alla dignità di veri e propri idoli, Walter Siti ci mostra in modo graffiante e disincantato attraverso una scrittura-bisturi quanto e come questo inedito politeismo materialistico abbia invaso e condizionato la nostra stessa esperienza, erotica e vitale, del corpo individuale e di quello sociale. Il paradosso del nostro tempo procede incrociando il culto igienista del corpo in forma, in salute, che relega nel regno dell’osceno e dell’innominabile il suo carattere mortale e destinato al disfacimento, con l’esaltazione di un godimento che vuole potenziare se stesso sino alla propria distruzione. Questo significa fare del corpo un assoluto tirannico che ci rende schiavi. Non è forse questo il vero punctum pruriens del suo ritratto disperato che Siti ci propone in questo suo nuovo libro? Come si può uscire dalla schiavitù del corpo reso idolo e della sua conseguente tendenza alla distruzione dissipatoria?
Senza concedere nulla al moralismo o a un vittimismo compiaciuto, il protagonista descrive spietatamente la sua vita prigioniera della schiavitù non tanto del sesso (a pagamento) ma di una idea di bellezza del corpo che anziché ospitare il senso della caducità e dell’imperfezione vorrebbe realizzare un suo esorcismo mirato. Mentre Pasolini ricercava roussoianamente i corpi non intaccati dal progresso, i corpi-naturali, prelinguisitici, incorrotti (quelli dei contadini friulani e dei giovani delle borgate romane), il protagonista di Exit strategy non coltiva alcuna nostalgia della natura, ma resta come ipnotizzato dalla passione per il corpo atletico, perfetto, scolpito, per il corpo- marca, il corpo-idolo, il corpo- porno-attore, prodotto di quella cultura che egli stesso critica amaramente. Egli non cerca più il selvaggio che non è stato ancora corrotto dalla cultura, ma un prodotto ipermoderno della Civiltà: il corpo scolpito, modellato dal fitness, il corpo capace di prestazioni sessuali estatiche. Sappiamo che in psicoanalisi il culto della bellezza scultorea del corpo è un velo che protegge l’essere umano dall’orrore della castrazione, cioè dall’incontro con lo statuto irrimediabilmente finito e leso dell’esistenza. La malattia, la vecchiaia, la morte - che trovano una realizzazione patetica e tristissima nella fine della madre del protagonista - mostrano che sotto la bella forma c’è sempre il reale informe e senza senso dell’irreversibilità del tempo che mangia la vita. Come uscirne? La disperazione del godimento mortale reagisce a questa irreversibilità tuffandosi a corpo morto nell’abisso della perversione. Nessuna speranza se non quella di poter godere sino alla morte, se non quella di fare del godimento la sola legge che conta. È l’imperativo che domina il nostro tempo di cui Berlusconi («il grande illusionista» lo definisce Siti) è stato nel nostro paese l’incarnazione più farsesca e drammatica.
Il problema è che la nostra cultura ha trasfigurato la forza generativa del desiderio nella figura cinica del godimento mortale, ovvero di un godimento che annulla la trascendenza del desiderio puntando solo a realizzare se stesso. Ma si tratta, co-me scrive Siti, di una «libertà malata che torna costantemente al proprio nulla». Exit strategy racconta un viaggio nell’inferno della vita morta, della vita annnientata dal godimento mortale, ma anche della sua possibile redenzione. In questo è davvero «la storia di una conversione». Esiste una alternativa alla «bulimia della performance e alla sopraffazione »? È quella che si dischiude con intensissima poesia verso la fine del romanzo, dove, pur senza concedere nulla alla predica edificante, il protagonista ritrova l’amore come esposizione verso l’Altro. Ma perché questo accada, perché vi sia accesso al discorso dell’amore - che è il solo discorso autenticamente sovversivo (cristianesimo eretico di Pasolini che ritorna in Siti?) - è necessario riconoscere la propria insufficienza, è necessario erodere la propria falsa autonomia. Perché «è essere in Due che ci rende più vulnerabili». In gioco è un altro volto dell’infinito rispetto a quello incarnato dai culturisti di cartapesta e dal volontarismo della morale. Non se ne esce così dall’inferno. La domanda di Siti vibra forte: «Dove trovarlo un infinito meno illusorio, un infinito umano? Nelle foschie della Lomellina, grano e risaie, tra i pioppi a scacchiera? Nella docilità dei motorini parcheggiati a schiera davanti alle fabbriche? ». Il gesto finale della preghiera a cui si concede il protagonista è il tentativo di reintrodurre nella carneficina del godimento mortale lo spiraglio del desiderio e dell’amore risorti. Non importa se il cielo sopra le nostre teste, come ci ricordava Sartre, è vuoto. «Cado in ginocchio e prego senza sapere a Chi». Far esistere un amore è rivolgersi all’Altro, come accade nella preghiera, è scommettere sulla possibilità di un’altra vita rispetto a quell’inferno del godimento mortale che il discorso del capitalista promette essere l’unica forma possibile della vita. È una conversione. E in questo la preghiera di Siti rivela la verità della sua scrittura come possibile forma di redenzione. Per questo egli non abbandona mai lo sforzo sublime della letteratura. E per questo la scrittura lo salva.

Corriere 12.3.14
Il cervello delle donne è diverso da quello degli uomini?
Neurobiologia, fotografia e filosofia per entrare (e uscire) dai miti della psiche femminile
Senza stereotipi
di Sara Gandolfi


Le donne ragionano in modo diverso dagli uomini. Le donne sono migliori nelle materie umanistiche. Le donne sono passionali, impulsive, infedeli, insicure. Le donne sono bravissime nel multitasking! Quante volte abbiamo sentito queste frasi? Dopo tanto parlare di corpo delle donne, è tempo di cambiare prospettiva e affrontare il tema, e i miti, della psiche e del cervello al femminile, strumenti di successo ma spesso anche prigioni delle ambizioni. E’ lì che nascono le paure - su cibo, sesso, lavoro -, le speranze di empowerment delle donne; così come tanti, troppi stereotipi. A partire dal più antico di sempre. Il cervello delle donne è diverso (meno intelligente?) da quello degli uomini. 
Di questo e molto altro si parlerà (e riderà), giovedì 13 marzo, al Teatro Franco Parenti (ingresso libero con prenotazione obbligatoria allo 02-20400334) durante «La mente delle donne: così fan tutte? Siamo cervello oltre lo stereotipo del corpo». E’ il quarto appuntamento di «Il tempo delle Donne» di primavera. Prove generali del laboratorio di idee, sperimentazione e innovazione di La27ora-Corriere della Sera, «IoDonna», Valore D e WE-Women for Expo che a fine settembre (il 26, 27 e 28) dalla Triennale di Milano si allargherà ad altri spazi milanesi coinvolgendo università, associazioni, aziende, per tre giorni di confronti, spettacoli sui temi delle donne contemporanee. Il tema dell’«intelligenza» al femminile è il nucleo dell’incontro-spettacolo di giovedì. Raccontato attraverso piani diversi, in una contaminazione fra neurobiologia, fotografia, letteratura e filosofia. Ad alternarsi sul palco la neuroscienziata Raffaella Rumiati, la fotografa e divulgatrice scientifica Lucia Simion, il filosofo Diamante Ordine. Con i raid comici delle «Scemette», perché le donne non amano mai prendersi troppo sul serio, neppure quando parlano del pezzo più importante del corpo, il cervello appunto. 
E’ giusto partire con un’ammissione. Sì, le donne hanno il cervello più piccolo e leggero. Non è un mistero. Gli scienziati lo hanno misurato: il cervello medio di una donna pesa 1,200 chilogrammi contro 1,350 kg di quello maschile. Eppure anche Albert Einstein aveva un cervello-piuma, e nessuno direbbe che funzionava meno bene perché aveva un volume minore. «La grandezza non è tutto», avverte Raffaella Rumiati, professoressa di Neuroscienze Cognitive alla Scuola Internazionale Superiore di Studi Avanzati di Trieste e autrice del saggio «Donne e uomini». Dal palco del Parenti, con dovizia di dati ed esempi, svilupperà il concetto delle «menti differenti», fra mito e realtà, cercando di rispondere al dubbio di sempre: il cervello degli uomini è così diverso da quello delle donne? 
Ben aldilà di massa e volume, quello che conta sono le connessioni, o sinapsi, fra i neuroni. Solo da alcuni anni, grazie alle nuove tecniche di imaging (come la risonanza magnetica) gli scienziati sono riusciti ad entrare in un cervello vivo, vitale, e hanno iniziato a capire come funziona questa straordinaria macchina. «Gli stereotipi possono esercitare un’influenza devastante sulle prestazioni delle donne, specie negli ambiti in cui ci sentiamo vulnerabili», spiega Rumiati. «Ecco perché i comportamenti denigratori nei nostri confronti vanno eliminati». A lungo, ad esempio, si è sostenuto che le donne non siano portate per le materie scientifiche. Il gap è evidente, se ci si limita alle statistiche. Nell’Unione Europea ci sono più donne laureate rispetto agli uomini - in media il rapporto è di 124 a 100 - ma in effetti c’è ancora una «segregazione» accademica verso le materie umanistiche o legate al benessere e alla cura (dati Eurostat). In Italia la situazione è particolarmente grave nel campo della fisica, della matematica e della chimica. 
Gli esempi di scienziate eccellenti in realtà non mancano. La fotografa Lucia Simion racconterà i reportage effettuati durante le sue numerose spedizioni in Antartide, la «quotidianità estrema» e le conquiste delle scienziate in quello che viene considerato «il più grande laboratorio a cielo aperto della Terra». Soltanto da una ventina di anni le donne sono ammesse a queste spedizioni. E senza di loro, oggi, le basi non funzionerebbero. 
A seguire il filosofo Nuccio Ordine, professore di letteratura italiana presso l’Università della Calabria e autore del bestseller «L’utilità dell’inutile. Manifesto», da mesi in cima alle classifiche di vendita in Italia e Spagna, farà una lettura scenica commentata di testi di Ariosto, Cervantes e Mozart per ribaltare il topos dell’infedeltà della mente femminile. 
Infine le comiche «Le Scemette» (già in onda sul Web Cabaret della 27 Ora) ci racconteranno in brevi sketch il lato comico della mente al femminile. «Donne tradite e traditrici, lasciate e che lasciano. Donne affermate, arrapate, disgraziate e, spesso, disorientate. Donne, soprattutto, intelligenti», racconta la regista Giovanna Donini. Perché, per essere donne, ci vuole intelligenza. Molta intelligenza.

Corriere 12.3.14
Gustav Klimt
Le fonti del desiderio I misteri dell’universo femminile messi a nudo sulla tela attraverso il candido stupore di un artista rapito dai sensi
di Roberta Scorranese


Com’era nuda quella fin de siècle viennese! Nude sotto i veli dell’Art Nouveau erano le donne di Alfons Mucha; nuda era Alma Mahler, che - sebbene ancora giovane e lontana da quel rosario di amori maschili che srotolò con perizia - si diceva votata al bello. Nudi saranno, di lì a poco, i corpi perturbanti di Egon Schiele. E nude erano le donne di Gustav Klimt. Di certo, nei suoi occhi. «Per lui, il corpo, era prima di tutto al naturale. Dipingeva sempre i soggetti senza veli e, solo in un secondo momento li vestiva», dice Alfred Weidinger, vicedirettore del museo Belvedere di Vienna e curatore della mostra «Klimt – Alle origini di un mito». 
E il Klimt che qui si racconta è (anche) quello degli inizi, prima della rivoluzionaria Secessione, che prese avvio nel 1899. È il Klimt della donna rugiadosa; di quella flessa su se stessa, divorata dalla sua bellezza. È il Klimt di Ritratto femminile (1894), quasi un manifesto dell’iconografia materna: capelli raccolti, espressione seria, abito finemente decorato. «Non è la madre, però. Forse è Emilie Flöge, una delle donne che gli furono accanto», chiosa Weidinger. 
Una delle , perché le donne di Klimt furono tante e importanti. Amava innamorarsi. Per poi sparire, con la naturalezza di un bambino. «Non sono interessato a me, ma alle donne», scrisse in una lettera, anzi, in una cartolina - furono inventate a Vienna e in mostra se ne trova una selezione ben studiata. 
Qui c’è il Gustav che, da bambino, spalancò gli occhi davanti alle decorazioni d’oro nella bottega del padre, orafo. L’oro che poi volle riprodurre, ossessivamente, nella sua arte: il Fregio di Beethoven, l’opera monumentale che Klimt eseguì nel 1902 e che qui si presenta in una colta riproduzione, è un «inno all’amore per le cose che luccicano», come dice il curatore. 
Eccolo il cuore segreto di questo artista così amato (Il bacio è una delle opere moderne più riprodotte) ma anche così frainteso: la sua non era ricerca intellettuale, era sincero stupore; non era speculazione onirica quale retaggio freudiano applicato all’arte: più semplicemente, era che lui le ragazze se le immaginava così nelle fantasie: fluttuanti, acquatiche, costantemente svestite. Era semplicità maschia davanti a un seno femminile. Si guardi, in mostra, la bellezza di Adamo ed Eva , con la nudità della donna che copre con grazia quella maschile, un po’ imbarazzata. 
Era il dominio dei sensi che, in quella fine secolo, imbastiva un nuovo linguaggio culturale nella «città più erotica del mondo», come Lou Andreas-Salomé definì Vienna. Ecco perché non riusciamo a vedere nei ritratti klimtiani di giovani ragazze (si osservi Ritratto di bambina del 1880) la profondità spirituale che c’era, per dire, nel quasi contemporaneo Felice Casorati. C’era invece quella sensualità spontanea del figlio dell’artigiano, cresciuto con madre e due sorelle e, dunque, avvezzo a vedere carni femminee imperfette nell’intimità domestica. 
C’era, chissà, la suggestione dei primi esperimenti naturistici che prendevano vita in Svizzera, nei pressi di Ascona, sul Monte Verità. C’era quel sottilissimo senso di spaesamento maschile di fronte a nuove donne, più emancipate e forti. Pochi anni dopo, mentre si struggeva per Felice Bauer, Franz Kafka giunse a implorarla: «Via, Felice, trasformami in un uomo che sia capace di ciò che è ovvio!». 
È stato proprio il cerebrale inventore della psicoanalisi a cogliere questa temperie. Un giorno Freud disse ad Arthur Schnitzler: «Con la sua arte lei ha capito molto di più sull’animo umano di quanto abbia fatto io in lunghi anni di ricerche». Ecco perché la mostra va visitata più con l’istinto che con la ragione, lasciandosi sedurre dai fregi, dalle musiche (Gustav Mahler fu una presenza-chiave nella vita di Klimt) e dalla vividezza dei ritratti, senza farsi domande. 
«Klimt stesso non se ne poneva - spiega Weidinger - : chiamato a realizzare un’opera su Beethoven ha pensato bene di concluderla con quello che per lui era la summa dell’arte: un abbraccio. L’amore». Si attraversino le sale dedicate ai ritratti familiari (la società di decorazioni che fondò con il fratello è alla base della sua formazione pittorica); si passi accanto ai paesaggi, alle sirene e ci si fermi davanti al Girasole . 
Un monumento vegetale al fiore, punteggiato d’oro, che culmina con una testa-corolla. Ecco, per Klimt era il vero simbolo femmineo: il potere vivificatore, autarchico, prono solo di fronte alla natura.

Corriere 12.3.14
L’arte della linea che domina su tutto. Così la grafica eliminò ogni ombra
La reazione alle sfocature impressioniste: «Siamo stanchi dell’eterna nebbia»
di Francesca Bonazzoli


L’attenzione che oggi rivolgiamo alla grafica sembra, spesso, addirittura preminente su quella dedicata ai contenuti, tanto che al progetto grafico di un libro, di un giornale, di una scatola di pasta o della presentazione di una qualsiasi merce si applicano squadre di professionisti dell’immagine, nelle cui mani è affidata la consacrazione finale, il successo o il fallimento, del prodotto. Ma in realtà, ciò che oggi ci appare un aspetto scontato della comunicazione, ha alle spalle una storia breve, di un solo centinaio di anni: ce ne possiamo rendere conto guardando le scritte ottocentesche ancora rimaste negli edifici pubblici (scuole, teatri, insegne dei negozi commerciali), per lo più in provincia. Scritte sgangherate, senza alcuna attenzione estetica, ma al solo servizio pratico dell’informazione. 
Per trovare i pionieri della grafica pubblicitaria bisogna andare in Francia dove Jules Chéret, direttore dell’Impremerie Chaix perfezionò per primo la tecnica della litografia a colori, adattandola alle esigenze del cartellone. E forse proprio perché i giovani della Secessione viennese si sentivano arretrati rispetto a Francia e Germania, impigliati com’erano nei lacci della pittura accademica borghese, svilupparono un culto del tutto originale per la grafica, in gara con gli stessi francesi. 
Nel 1902, alla vigilia della fondazione della Wiener Werkstätte, Franz Servaes pubblicò lo scritto Linienkunst (arte della linea) dove si diceva, con allusione alle sfocature impressioniste: «E ora finalmente abbiamo un’arte lineare ed essa è come un comandamento del nostro tempo. Siamo pure stanchi dell’eterna nebbia». Con l’obiettivo dichiarato di proporre «un’arte per tutti» che coinvolgesse decorazione, architettura, pittura, scultura, senza confini secondo il concetto ancora oggi espresso in lingua tedesca di Gesamtkunstwerk, i ribelli della Secessione capirono immediatamente la forza che poteva avere la grafica per la diffusione di idee e messaggi. Nacque così quella splendida serie di cataloghi, manifesti e riviste illustrate, che accompagnarono le mostre della Secessione. Nelle annate della rivista Ver Sacrum, organo ufficiale della Secessione dal 1898 fino al 1903, la grafica è parte stessa, addirittura preponderante, rispetto agli scritti teorici. 
Il giornalista Ludwig Havesi scriveva che da quelle pubblicazioni si poteva imparare «come si presenti una pagina di testo artisticamente illustrata, come essa, a partire dalle immagini e dalla scrittura, divenga un organismo vivo, sebbene rigorosamente bidimensionale». 
A tali lavori va il merito di aver riportato in primo piano e rifondato l’arte tipografica, non solo austriaca. Innanzi tutto con un uso del lettering integrato nella composizione stessa dell’immagine: colonne di testo usate, per esempio, come una base, uno zoccolo istoriato dove le lettere sembrano un fregio, in perfetto equilibrio visivo con l’immagine e la pagina bianca. E poi, grazie anche all’ammirazione per le stampe giapponesi, inaugurando un percorso verso l’astrazione e la riduzione: l’essenzialità rigorosa delle linee geometriche, la bidimensionalità, l’uso dei colori a campiture piatte, l’assenza delle ombre e della prospettiva. 
Alfred Roller, fra i migliori artefici di copertine di Ver Sacrum, elogiò il numero realizzato da Klimt nel 1898, dicendo che si trattava di: «qualcosa di completamente diverso da un articolo illustrato; è tutto in sé compiuto, nel senso dell’artista in questione, è esso stesso un’opera d’arte». E quanto tale osservazione fosse vera, basti pensare che fra gli altri grafici di Ver Sacrum c’erano Josef Hoffmann, Josef Maria Olbrich e Koloman Moser. Ma questa eccellenza fu insieme il suo punto di debolezza. La contrarietà teorica di molti aderenti alla Secessione all’aspetto commerciale dell’attività artistica, fece sì che l’abilità grafica non venisse impiegata anche per i manifesti commerciali, al di fuori delle mostre del gruppo, a differenza di quanto aveva fatto per esempio Toulouse Lautrec in Francia. 
Il campo, così, rimaneva libero per artisti più intraprendenti, inglesi, francesi, belgi e anche italiani. E fra i nostri, sarà in special modo Depero a farsi onore, studiando l’immagine coordinata per la Campari, dal marchio alle affissioni pubblicitarie fino al disegno della bottiglietta trapezoidale usata ancora oggi. Del resto l’idea della Gesamtkunstwerk, l’opera d’arte totale, veniva da noi ed era già stata praticata da artisti come Bernini o Leonardo.

Repubblica 12.3.14
Klimt
Erotismo e ornamento Il mondo del pittore che fece la secessione
Da oggi al Palazzo Reale di Milano l’esposizione che racconta i primi anni e l’inizio della fortuna del grande artista viennese
di Achille Bonito Oliva



Se per Hegel l’ornamento è il sintomo di uno smarrimento e per Loos è propriamente un “delitto”, per Gustav Klimt (Vienna, 14 luglio 1862 - Neubau, 6 febbraio 1918) è invece un procedimento che produce una frantumazione dell’idea unitaria dell’opera, proiezione di quella unitaria del mondo. La finis Austriae non è soltanto la constatazione di una fine politica, quanto piuttosto la coscienza melanconica del crollo di alcuni miti che attraversa l’universo creativo dell’artista dirottandolo verso una decorosa collisione delle forme secondo i principi della secessione viennese. Da oggi al 13 luglio, saranno in mostra, al Palazzo Reale di Milano, un centinaio di opere di Klimt e di autori a lui vicini. In particolare, la ricostruzione del Fregio di Beethoven dell’artista viennese, il cui originale fu realizzato nel 1902 per il Palazzo della Secessione di Vienna, dando vita ad un ambiente immersivo, espressione di quell’“opera d’arte totale” a cui tendevano tutti gli artisti più innovativi del tempo. Il frammento e l’ornamento sono il sintomo di un’estasi della dissociazione e di un desiderio di continua mutazione. L’opera diventa il punto di confluenza degli spostamenti della sensibilità. Ma la sensibilità non esclude l’emozione della mente, non taglia fuori la tensione dell’intelligenza e della cultura. Infatti l’opera di Klimt coagula dentro di sé la memoria culturale e visiva di modelli linguistici anche lontani nello spazio e nel tempo: giapponesi o bizantini.
La discontinuità della sensibilità comporta anche la produzione di una immagine che assume i travestimenti della figurazione, dell’astrazione, l’opulenza del colore e la sinuosità del disegno, senza mai arrivare ad una cifra standardizzata. L’opera risponde sempre all’esicentramentogenza dell’occasione irripetibile, perché irripetibile è la relazione mobile dell’artista con i propri strumenti espressivi. Tale carattere fonda un’ulteriore inattualità dell’opera che non conosce uno stile tutto legato al presente dell’artista, il quale orchestra con grande decoro un linguaggio in cui, come dice Hermann Broch, si dà a vedere «il mostro di un’agonia nella quale il tempo va in rovina». L’opera di Klimt gioca tra località e contrada, tra concentrazione figurativa e deconastratto. Gombrich stigmatizza l’affermarsi dell’ornamentazione tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento come tentativo di spostare l’attenzione verso i margini dell’opera. Infatti l’artista viennese tende a centralizzare ciò che prima era oggetto di un’attenzione laterale: la decorazione. Se il mondo non ha più centro, se non esiste una gerarchia capace di segnare i confini tra centro e periferia, allora Klimt concepisce l’opera come luogo dell’omologazione tra le due dimensioni. La figura perde i suoi contorni netti e si apre verso la periferia fuori dal proprio nucleo, mediante lo
sfondamento, la collocazione della figura in un ambito bidimensionale in cui primo piano e sfondo giacciono sulla stessa linea.
In Klimt la durata stilistica dell’opera è direttamente collegata con la sua idea del tempo e della storia, in cui non esiste svolgimento lineare, semmai circolare e ripetitivo. Così l’immagine sconfina nella decorazione e nell’ornamento che, per definizione, è il prodotto di una ripetizione. La figura, in prevalenza femminile, parte da un punto fermo, la testa, e poi subisce una sorta di corruzione stilistica capace di integrarla con lo spazio circostante. L’opera si presenta con un risultato volutamente disomogeneo, aperto al colore ed al segno figurativo ed astratto. Il principio di piacere man mano sostituisce il principio di realtà nel farsi dell’opera, luogo di una rappresentazione opulenta che non gioca al risparmio ma allo spreco stilistico. L’opera è un microevento che parte sempre più dall’interno dell’immagine, centro di irradiazione della sensibilità dello stile che dipana e coniuga le proprie modificazioni dentro la cornice articolata dell’immagine. Perché l’opera, anche quando sembra accennare ad un gusto bizantino, non è mai un mosaico di forme ma resta un’immagine, in quanto risultato di una metamorfosi interna dello stile che considera lo spazio pittorico come un potenziale luogo di estensione e di alterazione, che funziona nel senso di una attenuazione del significato nello spostamento della carica metaforica verso l’inerzia metonimica.
L’opera finalmente perde la sua compostezza tradizionale, la rigidità di un’arte come unità ideale garantita dallo stile. L’immagine è il risultato di una tensione tutta giocata su di una peripezia di piacere che arriva ad un punto di estenuazione tale da assottigliare la consistenza figurativa ribaltandola in una trama astratta. L’uso della metonimia permette all’immagine di assumere un senso mobile che sorge progressivamente dall’economia interna del linguaggio, mediante assonanze visive e passaggi di segni che connotano lo spazio come campo, luogo potenziale di relazioni mobili. Il significato dell’opera viene stordito, attenuato e reso relativo, attraversato da turbolenze ornamentali. Da qui in fondo l’estenuato carattere dell’opera che non parla più perentoriamente e non erge le proprie spoglie sulla fissità ideologica di una visione mono-litica, ma si scioglie nella disseminazione di molte direzioni. Tutta la Secessione viennese ha posto il proprio lavoro sotto il segno di una ineluttabile astrazione, come perdita progressiva del senso, come assenza di una motivazione centrale della vita. Da qui il capriccio della decorazione, l’opulenza dell’ornamento, la gratuità di un linguaggio che mima la gratuità dell’esistenza, l’improbabilità di ogni progetto. L’animalità della vita è ormai un sogno perduto e dunque è possibile viverla soltanto attraverso le mentite spoglie della forma. L’opera di Klimt è la rappresentazione di spoglie stilistiche, in cui non esistono passato e presente ed ogni tempo è pareggiato nella visione superficialista di un linguaggio scarnificato, divenuto esso stesso ombra. Come dice Gianni Carchia, l’opera non ha più cornice, perché è interamente e solo cornice. L’immagine ha prodotto uno sfondamento verso la periferia, una crescita che la porta fuori dalla staticità del centro e dunque verso l’impossibile architettura della vita.

La Stampa TuttoScienze 12.3.14
X, il cromosoma degli enigmi
Nella lotteria di X e Y la perfezione non è prevista
Cosa si cela dietro il processo dell’inattivazione
di Gianna Milano


Difficile trovare chi non sappia qual è il ruolo dei cromosomi X e Y nel determinare il sesso del nascituro: due X è femmina, XY è maschio.
Nel 1891 il biologo tedesco Hermann Henking, esaminando le cellule con un microscopio, vide un elemento estraneo e decise di chiamarlo X, come un’incognita in un’equazione. In realtà stava osservando un cromosoma, ma non compariva in coppia come di solito avviene in ogni cellula. Poi, nei decenni successivi, altri studiosi, da Murray Barr a Mary Lyon, hanno chiarito quella che appare come una stranezza: nelle cellule delle femmine di mammifero che ricevono un cromosoma X da entrambi i genitori uno dei due cromosomi - che sia di provenienza materna o paterna - è casuale e viene inattivato: vale a dire che non è funzionale e la trascrizione di più di un migliaio di geni non ha luogo.
In alcune cellule è il cromosoma X di origine paterna che resta quiescente, in altre quello della madre. Secondo quali regole ciò avvenga e come l’inattivazione si sia evoluta resta un mistero. Anche se i ricercatori hanno chiarito il meccanismo molecolare e grandi passi avanti sono stati fatti nel determinare il momento dello sviluppo di un individuo in cui ciò succede (quando lo spermatozoo feconda l’uovo e l’embrione ha solo una cellula, lo zigote, sia il cromosoma X materno sia quello X paterno sono attivi), molti quesiti conservano il sapore di una sfida.
In un articolo su «Neuron» sono state mostrate con immagini inedite le cellule nella fase in cui l’uno o l’altro cromosoma X viene inattivato. «Che ciò avvenisse si sapeva: l’aveva già capito Mary Lyon che nelle femmine un cromosoma X, più che essere tolto di mezzo, non è funzionale. Non si era però mai riusciti a fotografarlo. E ora le immagini sono suggestive. Certo, non rendono ancora la complessità del processo: perché è una lotteria a presiedere la determinazione delle nostre caratteristiche genetiche», sottolinea Guido Barbujani, professore al Dipartimento di genetica all’Università di Ferrara.
Per visualizzare l’inattivazione del cromosoma X - materno o paterno - un team della Johns Hopkins University ha manipolato dei topi, inserendo geni che producono una proteina fluorescente, verde o rossa, a seconda che a essere «funzionante» sia il cromosoma X di uno o dell’altro genitore. «Le immagini svelano come in certe aree della retina sia espresso un cromosoma invece dell’altro o come nel cervello il cromosoma X della madre domini il lato sinistro, mentre quello paterno il destro».
«Qual è, tuttavia, il meccanismo che determina il fenomeno i ricercatori non l’hanno ancora capito - aggiunge Barbujani - ed è probabile che il caso giochi un ruolo importante».
Già negli Anni 90 gli scienziati avevano individuato alcune delle molecole che presiedono il processo di inattivazione del cromosoma X, prima fra tutte una, prodotta dal gene «Xist». Ora, nuovi studi, condotti da Jeannie T. Lee dell’Howard Hughes Medical Institute, hanno rivelato che le molecole di Xist avvolgono il cromosoma X come uno sciame di api, coinvolgendo i suoi geni, e fanno sì che, quando una cellula si divide, venga «silenziato» lo stesso cromosoma anche nelle cellule successive.
Ma qual è il vantaggio in termini evolutivi di avere due cromosomi X e di metterne uno a riposo? C’è chi sostiene che la possibilità di ricevere a caso due cromosomi X dai genitori abbia conferito alle femmine una maggiore versatilità genetica. Se un gene di uno dei due cromosomi è difettoso, le cellule possono fare ricorso alla copia sana dell’altro e compensare. I maschi, infatti, sono più esposti a problemi genetici legati al cromosoma X, come il daltonismo: avendone uno solo, non posseggono un «backup». Secondo Jeremy Nathans dell’Howard Hughes Medical Institute, autore dello studio su «Neuron», far ricorso ai cromosomi X di entrambi i genitori può offrire un vantaggio anche per il sistema nervoso: si aumenta la capacità del cervello di elaborare informazioni.
Speculazioni suggestive che, però, vanno verificate. «Da un punto di vista funzionale il fatto di ricevere due cromosomi X non ha grandi conseguenze. Se non nella colorazione del pelo dei gatti. Un esempio che faccio agli studenti è quello dei gatti calico - dice Barbujani -: bianchi con chiazze sia grigie sia arancioni le femmine, con chiazze grigie o arancioni i maschi. Perché, mentre una femmina può ricevere un cromosoma X per la pigmentazione arancione da un genitore e un cromosoma X per la pigmentazione grigia dall’altro genitore, e a seconda di quale cromosoma X sarà inattivato il colore potrà essere o grigio o arancione, il gatto maschio ha un unico cromosoma X e, quindi, ha chiazze o arancioni o grigie, ma non entrambe. Il termine per definire il fenomeno è che le femmine sono dei “mosaici genetici”».
Si parla di cromosomi X e Y e quindi di determinazione del sesso, ma allora viene da chiedersi qual è il vantaggio di una riproduzione sessuata. «In ogni individuo vengono messi assieme i genomi di origine materna e paterna ed è la mescolanza a garantire un adattamento all’ambiente. In termini evolutivi conviene esplorare la diversità piuttosto che puntare alla perfezione - aggiunge Barbujani -. Se si volessero dei super-individui, il culmine dell’evoluzione dovrebbe essere un organismo che, una volta raggiunto il top, si autoriproduce come i batteri, dando luogo a cloni. Ma la selezione non porta tanto a raggiungere la perfezione quanto a garantire attraverso la mescolanza di caratteri, perfetti e imperfetti, una maggiore capacità di adattarsi all’ambiente. L’elemento casuale è misterioso e tuttavia esiste».
Il caso e la necessità - citando il titolo del famoso saggio del biologo Jacques Monod - hanno in biologia un ruolo importante. Come si spiega, per esempio, che i cromosomi si scambiano di tanto in tanto pezzetti di Dna che possono contenere geni che determinano il sesso maschile? «Può succedere che ci sia un cromosoma X che determina il sesso maschile e uno Y che non lo determina più, perché si sono scambiati il tratto necessario di Dna. Dietro questi processi c’è sempre una lotteria. A parte i gemelli identici è pressoché impossibile che lo stesso padre e la stessa madre generino figli identici, anche se ne facessero 20. Le combinazioni che avvengono in una cellula uovo fecondata sono quasi infinite - conclude Barbujani -. È un numero esorbitante, superiore a quello di tutte le molecole sulla Terra».
«Qual è, tuttavia, il meccanismo che determina il fenomeno i ricercatori non l’hanno ancora capito - aggiunge Barbujani - ed è probabile che il caso giochi un ruolo importante».
Già negli Anni 90 gli scienziati avevano individuato alcune delle molecole che presiedono il processo di inattivazione del cromosoma X, prima fra tutte una, prodotta dal gene «Xist». Ora, nuovi studi, condotti da Jeannie T. Lee dell’Howard Hughes Medical Institute, hanno rivelato che le molecole di Xist avvolgono il cromosoma X come uno sciame di api, coinvolgendo i suoi geni, e fanno sì che, quando una cellula si divide, venga «silenziato» lo stesso cromosoma anche nelle cellule successive.
Ma qual è il vantaggio in termini evolutivi di avere due cromosomi X e di metterne uno a riposo? C’è chi sostiene che la possibilità di ricevere a caso due cromosomi X dai genitori abbia conferito alle femmine una maggiore versatilità genetica. Se un gene di uno dei due cromosomi è difettoso, le cellule possono fare ricorso alla copia sana dell’altro e compensare. I maschi, infatti, sono più esposti a problemi genetici legati al cromosoma X, come il daltonismo: avendone uno solo, non posseggono un «backup». Secondo Jeremy Nathans dell’Howard Hughes Medical Institute, autore dello studio su «Neuron», far ricorso ai cromosomi X di entrambi i genitori può offrire un vantaggio anche per il sistema nervoso: si aumenta la capacità del cervello di elaborare informazioni.
Speculazioni suggestive che, però, vanno verificate. «Da un punto di vista funzionale il fatto di ricevere due cromosomi X non ha grandi conseguenze. Se non nella colorazione del pelo dei gatti. Un esempio che faccio agli studenti è quello dei gatti calico - dice Barbujani -: bianchi con chiazze sia grigie sia arancioni le femmine, con chiazze grigie o arancioni i maschi. Perché, mentre una femmina può ricevere un cromosoma X per la pigmentazione arancione da un genitore e un cromosoma X per la pigmentazione grigia dall’altro genitore, e a seconda di quale cromosoma X sarà inattivato il colore potrà essere o grigio o arancione, il gatto maschio ha un unico cromosoma X e, quindi, ha chiazze o arancioni o grigie, ma non entrambe. Il termine per definire il fenomeno è che le femmine sono dei “mosaici genetici”».
Si parla di cromosomi X e Y e quindi di determinazione del sesso, ma allora viene da chiedersi qual è il vantaggio di una riproduzione sessuata. «In ogni individuo vengono messi assieme i genomi di origine materna e paterna ed è la mescolanza a garantire un adattamento all’ambiente. In termini evolutivi conviene esplorare la diversità piuttosto che puntare alla perfezione - aggiunge Barbujani -. Se si volessero dei super-individui, il culmine dell’evoluzione dovrebbe essere un organismo che, una volta raggiunto il top, si autoriproduce come i batteri, dando luogo a cloni. Ma la selezione non porta tanto a raggiungere la perfezione quanto a garantire attraverso la mescolanza di caratteri, perfetti e imperfetti, una maggiore capacità di adattarsi all’ambiente. L’elemento casuale è misterioso e tuttavia esiste».
Il caso e la necessità - citando il titolo del famoso saggio del biologo Jacques Monod - hanno in biologia un ruolo importante. Come si spiega, per esempio, che i cromosomi si scambiano di tanto in tanto pezzetti di Dna che possono contenere geni che determinano il sesso maschile? «Può succedere che ci sia un cromosoma X che determina il sesso maschile e uno Y che non lo determina più, perché si sono scambiati il tratto necessario di Dna. Dietro questi processi c’è sempre una lotteria. A parte i gemelli identici è pressoché impossibile che lo stesso padre e la stessa madre generino figli identici, anche se ne facessero 20. Le combinazioni che avvengono in una cellula uovo fecondata sono quasi infinite - conclude Barbujani -. È un numero esorbitante, superiore a quello di tutte le molecole sulla Terra».