domenica 16 marzo 2014

Corriere 16.3.14
«Matteo? Silvio con 40 anni meno»

«Matteo Renzi è un Berlusconi con quarant’anni di meno. Silvio ha il marketing incorporato, e Renzi pure». A dirlo, in un’intervista al Foglio , è Fedele Confalonieri, presidente Mediaset e amico di una vita di Berlusconi: «La cifra della genialità di Berlusconi, come di Renzi, sta nella sua semplicità».

il Fatto 16.3.14
Televendite
Nuovismo renziano: il catalogo è questo
Renzi, il nuovo catalogo e il catalogo del nuovo
di Furio Colombo


Matteo Renzi, giovane leader di un partito indeterminato sostenuto da una maggioranza indeterminata (che, però, alla prova dei fatti, tiene) assomiglia a un manifesto sovietico del primo periodo, quando nel Pcus la grafica era importante. Il tratto di sfida e di guida dell’immagine suggerisce folla dietro di lui, ma è solo lui che si vede. E si ascolta. E si finisce per dire “bravo”, in un coro di ammirazione che cresce. Questo Renzi “è pulito”, come direbbero i guardaspalle, in un thriller, mentre il personaggio che forse segna pericolo e forse porta il fatto nuovo, entra nella stanza segreta. E infatti tutti abbassano le armi e si dispongono ad ascoltare. Che vuol dire accettare, come dimostrano i titoli dei giornali e telegiornali che si scavalcano in titoli e lanci enfatici e accatastano preannunci.
IL PRIMO PUNTO da notare è proprio questo, il preannuncio, che, nel paese degli annunci, appare un espediente mai sperimentato prima. Certo ha colpito e travolto un po’ di corpo giornalistico e due terzi di opinione pubblica (come ci dicono molti sondaggi attendibilissimi del tipo “senza valore scientifico”). Il preannuncio vuol dire che, come nelle Scritture, invece di un evento, vi racconto il mondo che viene. Nelle scritture si faceva secoli prima, adesso si tratta di contare i giorni. Però funziona, se pensate a Marchionne. Certo, nel privato ci sono vie di fuga (per esempio l’America) precluse al politico (salvo la vicenda del primo ministro libico appena fuggito in Germania). Ma, a somiglianza del primo ministro libico, Renzi dice e ripete con forza che se “l’Italia non cambia verso” lui se ne va, esce dalla politica. Dunque non vuole discutere dettagli. O tutto riesce, o via per sempre. Questa forte drammatizzazione (il tutto invece di una cosa, il preannuncio invece dell’annuncio) sta funzionando alla grande, anche perché, in luogo dello stato d’animo precedente, che era un impasto di noia, attesa e paura, ha fatto irruzione la novità, che non è una cosa o un fatto o un oggetto, nella società renziana, ma, appunto, uno stato d’animo. La novità non la tocchi ma è lì, davanti a te.
Ottima pensata, perché fin da bambini tutti noi abbiano sempre associato la cosa nuova alla cosa migliore, con l’ingrediente della sorpresa e l’inevitabile aspettativa di un premio.
Per capire, dedichiamo un minuto al ricordo. Dopo l’infinita e costosissima carnevalata Berlusconi-Lega, c’era stato il severo governo in loden che, come nella storia del Piccolo Lord, invece di punire Berlusconi, puniva e sgridava tutti noi cittadini che avevamo vissuto per vent’anni sotto Berlusconi. Subito dopo il processo e la punizione del Tribunale Monti, siamo stati ricoverati, per decisione e sollecitudine del Primario, nella Clinica Letta, specialista in grandi intese, dove gentili camici bianchi somministravano medicine sgradevoli, però in dosi e combinazioni, si è capito dopo, inutili.
A questo punto l’irrompere di Renzi e della sua squadra giovane (salvo l’addetto alla sala macchine dell’Economia) è sembrato un pigiama party, l’ingresso in un mondo festoso (che deve venire) in cui tutto è possibile perché Renzi, proprio lui, Renzi, ci ha messo la faccia. Certo, a mano a mano che si diradano i fumi dei fuochi artificiali di festa, dal pigiama party si staccano gruppi scontenti, a cominciare dai pensionati. Hanno appena imparato che lo slogan “Le pensioni non si toccano” è come una preghiera che non occorre essere credenti per ripetere. Ma hanno anche imparato che le famose “pensioni d’oro” non sono quelle da 90 mila al mese, che cosa avevate capito? Quelle sono poche e ben difese. Stiamo parlando di pensioni da duemila o poco più, cioè tantissime, esattamente la classe media, esattamente quelle di chi ha lavorato molto, ha guadagnato decentemente, secondo le retribuzioni del tempo, ha pagato molte tasse alla fonte (quasi sempre lavoro dipendente), ha versato molti contributi (quelli che tengono in piedi la baracca previdenziale) e contribuito a tenere a galla le famiglie che si sono salvate fino a poco fa (compresi molti giovani senza lavoro però dottorandi), e che fra poco cadranno fra i corpi morti della classe media. Ma i nuovi giovani non commettono l’errore di guardare ai dettagli e agli errori. Ce ne saranno stati anche nel piano Eisenhower per lo sbarco in Normandia. Troppi morti, dice qualcuno. Sarà, ma Eisenhower ha vinto.
VEDIAMO piuttosto il metodo operativo di questo successo che, non negatelo, si accumula. Renzi è come i Future, come i derivati. Ogni cosa si gioca sul fatto che la cosa precedente sarà certamente andata bene. Però, come per i derivati, devi tenere lo sguardo sull’ultima cosa promessa. È su di essa che si scommette e, se si vince, si vince grosso. A scommettere sulla prima sono capaci tutti, hai un tuo piccolo margine e “non cambi verso”. Per “cambiare verso” all’Italia, devi tenere lo sguardo fisso avanti e lontano, verso un mondo tutto nuovo che, ti garantisco, sta per venire. No, non quello di adesso, quello dopo. Se questo è il contesto, è chiaro che la vendita conta più del prodotto. Il Segreto di Matteo Renzi è tutto qui. Invece di rivisitare il passato o di lasciarsi inchiodare dagli irrisolvibili problemi del presente, si gioca il futuro. Ha lasciato indietro le retroguardie pericolose della spending review inventata da altri, ma tenuta in vita per raccogliere tutto ciò che si può ramazzare dalle spese inutili. Sono spese inutili tutte quelle che il Commissario dichiarerà tali. Ci sono vittime, ma nel passato. Le risorse recuperate saranno offerte in dono, dal Commissario delle spese, al giovane vincitore del futuro, che tiene lontane le vecchie vittime (chi ha bisogno dei pensionati?) e brandisce le ex spese inutili come una conquista di cui gli altri, prima di lui, erano stati incapaci.

Poletti e Farinetti, il lavoro secondo Matteo /1
il Fatto 16.3.14
C’erano una volta le Coop
Storie di ordinaria precarizzazione del lavoro, compressione dei diritti e comportamenti anti-sindacali nel sistema di imprese “di sinistra” da cui proviene il titolare del Lavoro
di Marco Palombi


Giuliano Poletti dice ai sindacati di non preoccuparsi: il decreto sul lavoro non aumenta la precarietà. Il ministro del Lavoro ci mette la sua faccia gioviale di neopolitico e di guida ultradecennale del sistema cooperativo attraverso Legacoop, la Confindustria rossa: diritti, progressismo, solidi legami con la filiera Pci-Ds-Pd e, ovviamente, con la Cgil. Come si fa a non fidarsi? Qualche motivo, a ben guardare, c’è: aziende nate attorno a mutualismo e solidarietà, oggi in larga parte funzionano come una normale impresa capitalista – guerriglia ai diritti e alle retribuzioni dei lavoratori compresa – pur continuando a conservare i benefici che la legislazione concede loro in quanto faccia “buona” dell’imprenditoria, una faccia continuamente rivendicata nelle stentoree dichiarazioni dei vertici e nelle pubblicità con cui dalla tv si rivolgono agli italiani. Ecco qualche spunto sul tema.
La commissione d’inchiesta
Che gran parte del sistema cooperativo obbedisca ormai alla logica del profitto è opinione diffusa. Lo sostiene con forza l’Unione sindacale di base (Usb), che nella distribuzione è il secondo sindacato interno, e l’unico conflittuale, e in Coop Italia, dalle ultime elezioni, il primo. IltemaèentratopureinParlamento visto che la deputata M5S Gessica Rostellato ha presentato un ddl per chiedere una commissione d’inchiesta sul sistema coop. Il punto è: chi e come controlla che un’impresa sia davvero cooperativa? Oggi siamo più o meno all’autocertificazione. Eppure quello status consente libertà mica piccole: non solo un fisco di favore, ma pure la non applicazione al socio-lavoratore dello “Statuto dei lavoratori” o la possibilità di derogare ai contratti nazionali.
La passione per la finanza
Di come le grandi cooperative usano il risparmio sociale s’è occupato sul Fatto Quotidiano Giorgio Meletti a ottobre: “Le Coop impiegano gli oltre 10 miliardi del prestito dei soci in operazioni finanziarie, dai Bot alla Borsa. Nel 2012 erano immobilizzati in partecipazioni azionarie 2,2 miliardi di euro (...) Le nove Coop hanno partecipazioni azionarie per 2,2 miliardi e un patrimonio netto di 6 miliardi”. Come Mediobanca: “Solo che quella è una banca d’affari, la Coop una catena di supermercati”. E, dunque, non soggetta alla vigilanza di Bankitalia.
Precarie per sempre
L’80 per cento dei lavoratori del commercio coop sono donne: spesso sono precarie, malpagate, costrette a organizzare la loro vita attorno alle esigenze del supermercato, ad andare in bagno a comando. Il tutto, sempre, col sorriso sulle labbra. Per contratto. Non è un’esagerazione: la Coop Estense, tempo fa, ha proposto la valutazione del sorriso delle dipendenti tra i criteri per accedere al salario integrativo. Quanto alla precarizzazione, una storia per tutte. Catia Bottoni, 40enne da Colleferro (Roma), detiene una sorta di record in questa specialità: in 12 anni di Ipercoop ha collezionato la bellezza di 27 contratti diversi, sperimentando in pratica tutte le fantasiose forme di precarietà inventate dal legislatore. Quando la Coop l’ha cacciata, nel 2009, faceva la commessa a 45 chilometri da casa. Da allora, Catia prova a far valere le sue ragioni: l’azienda le ha proposto un contratto part time a Formia, 100 km da casa. Per protesta s’è pure incatenata due volte sotto la sede di Legacoop: l’allora presidente, Giuliano Poletti, non l’ha mai ricevuta.
La Coop? Come Marchionne
La storia di Lucia Di Maio, 50enne da Solofra (Avellino), ricorda quella degli operai di Melfi che Fiat si rifiutava di reintegrare. Nonostante una sentenza della magistratura di aprile 2013, infatti, per mesi Unicoop Tirreno ha fatto finta di niente. Quando poi ha deciso di rispettare la legge, a fine gennaio, le ha ordinato di presentarsi al lavoro nel punto vendita di Orbetello, oltre 400 chilometri da casa sua. I “compagni” della grande distribuzione hanno un concetto personale del rispetto della legge. Il limite di 36 mesi ai contratti a termine prima di dover assumere non lo prendono nemmeno in considerazione. Un solo esempio: a Livorno, dopo un decennio di precariato, Unicoop a inizio 2013 si apprestava a passare“atempoindeterminato ” cinque lavoratrici. Poi, però, ci ha ripensato: licenziate. Di fronte allo sciopero indetto dai colleghi, il capolavoro: dipendenti precettati.
La Coop? Come Valletta
Nei supermercati, anche della Coop, non mancano comportamenti antisindacali (più volte certificati da sentenze) e nemmeno i “reparti confino” come nella lontana Fiat di Vittorio Valletta. I “puniti” vengono inviati o in pescheria o alla cassa, specialmente quella “veloce”, che è sempre presidiata. É successo pure a Francesco Iacovone, dipendente coop dal 1989, oggi responsabile commercio dell’Usb a cui dobbiamo alcune di queste storie: dopo il passaggio dalla Cgil al sindacalismo di base arrivarono il reparto confino, le minacce in bacheca, la macchina danneggiata e persino le botte durante un’assemblea dei soci. Storie così, magari meno drammatiche, non sono rare: sulla scheda di valutazione di un dipendente abbiamo letto che l’interessato non può essere promosso. Motivo? Fa il sindacalista. Non manca nemmeno l’ordinario marchionnismo: dal delegato Rsu trasferito o demansionato fino alla schedatura fotografica degli scioperanti.
La gaffe del calendario
Coop Lombardia anche nel 2014 ha fatto un bel calendario con le facce dei suoi dipendenti: “Non solo cassiere, capi reparto, addetti alle vendite, ma anche mamme, papà, sportivi, appassionati di musica e sognatori”. Ecco, tra di loro c’è pure una madre sola che non viene promossa proprio perché deve allevare una figlia. Da sola.
Il futuro: franchising e subappalti
Unicoop Tirreno ha annunciato per il 2014 lo sviluppo dell’e-commerce a Roma e il progetto franchising di cooperativa. Il primo viene realizzato subappaltando tanto l’informatica quanto la logistica. Tradotto: nella coop, accanto ai dipendenti dell’azienda, ci sono quelli in subappalto, che lavorano per meno soldi e diritti. Lo stesso si può dire per il franchising, l’affitto del marchio: sembrerà la Coop, si leggerà Coop, ma con quella forma di impresa tutelata dall’articolo 45 della Costituzione non avrà nulla a che fare.

Repubblica 16.3.14
“Il Jobs Act va bene così tra 10 mesi vedrete i risultati”
Poletti: preferisco misure efficaci a quelle giuste
intervista di Luisa Grion


ECCO ministro parliamo dei paletti levati: aumentare le possibili proroghe di un contratto a termine da una a 8 volte entro 36 mesi senza dovere nemmeno specificare le causali, è o no, come dice Susanna Camusso della Cgil, un inno alla precarietà?
«No, perché queste modifiche permetteranno all’azienda di assumere con maggiore tranquillità e daranno ai lavoratori maggiori possibilità di ottenere tre anni continuativi di lavoro».
Tre anni con il cuore in gola ogni quattro mesi per l’attesa del rinnovo e con l’impossibilità di ottenere un mutuo in banca?
«Chiariamo una cosa: oggi di contratti a termine che durano 36 mesi ne vedo in giro pochissimi. Le aziende, temendo vertenze proprio sulla causalità, mandano a casa i ragazzi dopo pochi mesi e ne assumono altri al loro posto. I paletti previsti dalla riforma Fornero avevano il giusto obiettivo di limitare l’uso dei contratti temporanei, ma hanno prodotto l’effetto inverso. Questa situazione merita di essere difesa? Allora io, come ministro non ho capito nulla».
Secondo lei il lavoro si crea aumentando la flessibilità?
«No, ma oggi il 67,9 per cento delle assunzioni è a termine. Devo partire da qui e dal fatto che nel quarto trimestre del 2013 ci sono stati circa 2,3 milioni di avviamenti di rapporti e oltre 3 milioni di dismissioni. Il mercato del lavoro è una porta che gira, devo cercare di stabilizzarla. Se facilito l’azienda nel rinnovare il contratto allo stesso ragazzo per tre anni di fila, è più probabile che alla fine dei tre anni - sempre che la domanda di lavoro persista - quell’imprenditore decida di assumerlo a tempo indeterminato, visto che il contratto a termine, quanto a contributi, è più caro dell’1,4 per cento. Poi so che la ripresa ha bisogno di altro e che l’impresa assume solo quando è sicura di dare lavoro. Per questo - oltre al decreto - il governo ha promosso investimenti, ha messo soldi nelle buste paga, ha sbloccato l’edilizia scolastica».
Ma essere osannato dagli industriali di Torino, che parlano di misure «perfette», e criticato dal sindacato le crea qualche imbarazzo?
«Mi assumo le responsabilità delle scelte fatte. Susanna Cammusso, lo so, è in buona fede, fa bene il suo mestiere e se ha dei dubbi è giusto che li faccia pesare. Io ci ho pensato bene, perché di certo la derugulation non è la mia mentalità. Ma avere norme giuste che non producono effetti o ne producono di contrari è peggio.
Guardo ai fatti, ai numeri e ai processi e vedo che oggi - pur di non dover rispondere a quel vincolo che lo obbliga ad assumere il 30 per cento degli apprendisti formati prima dichieder ne altri - l’azienda manda a casa i ragazzi prima del previsto, senza dar loro nemmeno la qualifica. Io sono più interessato al futuro di quei ragazzi che alla perfezione della norma».
La Cgil vi chiede di cancellare il decreto
e vi offre collaborazione sul contratto unico, accettate la proposta?
«No, il decreto va avanti così. Poi certo, non siamo infallibili e il dibattito in Parlamento farà il suo corso».
Da precarietà in precarietà, cosa farete per i co.co.co e la marea di partite Iva di cui fino ad ora non vi siete occupati?
«Ce ne occuperemo quando affronteremo la partita dei contratti e l’obiettivo che ci muove è chiaro: non permetteremo finzioni».
Parliamo di cassa integrazione in deroga. Per coprire le esigenze del 2014 manca un miliardo, lo avete trovato?
«No, ho segnalato il problema e il governo troverà la soluzione».
Ma visto che la cassa in deroga è destinata a scomparire come funzionerà il sussidio universale di disoccupazione?
«La riforma degli ammortizzatori sociali si muoverà attorno ad un criterio cardine: ognuno dovrà avere un ruolo. Nessuno starà a casa aspettando il sussidio, sarebbe troppo facile fare come nel passato: ti do quattro soldi e tu non rompi le scatole. Il principio che muove l’intera politica di questo governo - si parli di carcerati, anziani, immigrati - è che tutti dovranno avere un ruolo. Metteremo assieme - come già succede nel mio ministero - il welfare e il lavoro, due temi che sono strettamente correlati visto che due terzi dei problemi che insorgono nel primo sono causati dalla mancanza del secondo. Chi avrà diritto ad un sostegno, perché senza occupazione o in difficoltà, dovrà restituire alla collettività il favore ottenuto. Sarà un vero e proprio cambio di mentalità rispetto ai lavori socialmente utili, perché lì il comune ti pagava se facevi qualcosa, qui ti rimetti in gioco. Stiamo già lavorando con i sindaci e con il terzo settore, prenderemo spunto da esperienze già attivate in singoli municipi per costruire un modello comune. Anche questo sarà un modo per cambiare il Paese».
Oltre al Paese, dice il Premier Renzi, bisogna cambiare anche l’Europa. Ma come riusciremo a convincerla a modificare le regole se il nostro debito pubblico continua a correre?
«Legge elettorale, riforme istituzionali, lavoro, pubblica amministrazione: abbiamo un obiettivo al mese, già stiamo dimostrando che siamo cambiati, che ora crediamo che le cose si possano fare. Comunque sono convinto, come Renzi, che anche l’Europa debba cambiare: se continua così perderà il suo posto nel mondo».

Poletti e Farinetti, il lavoro secondo Matteo /2
il Fatto 16.3.14
L’impero di Oscar Farinetti
Il mega Eataly di Milano: da fame sono anche i salari
Apre il nuovo store sulle ceneri del Teatro Smeraldo:
400 dipendenti assunti con i soliti contratti atipici da 1000 euro
di Davide Vecchi


Milano “Se vince la Lega non apro a Milano”. Era il febbraio 2013. Roberto Maroni ha poi conquistato la Regione Lombardia e Oscar Farinetti martedì prossimo a Milano inaugura non un negozio ma una cattedrale di Eataly: 5500 metri quadrati immersi in pieno quadrilatero della moda, a due passi da corso Como e quattro da Brera. È il secondo punto vendita di Eataly in città. Nell’ultimo anno, mentre il Carroccio si accomodava sulle poltrone lasciate da Roberto Formigoni, Farinetti ha aperto in piazza Cinque Giornate e ora si appresta ad alzare le quinte di quello che un tempo era il teatro Smeraldo, palco storico di Mina e Adriano Celentano; nel 2010 scelto da Beppe Grillo per annunciare la nascita del Movimento 5 Stelle, chiuso nel 2011 e venduto a Farinetti dalla famiglia Longoni, da 70 anni proprietaria dell’immobile. Il patron di Eataly ha pagato un milione 290 mila euro per i soli oneri di urbanizzazione e avrebbe voluto aprire il 25 aprile 2012, festa della Liberazione. Ma il Comune guidato da Giuliano Pisapia ha bloccato i lavori: la struttura era piena di amianto, con esattezza 12,5 tonnellate. “La solita burocrazia all’italiana”, polemizzò. Dopo cinque rinvii e due anni ora è tutto pronto. In onore alla coerenza o magari alla Lega, nel megastore campeggiano quattro enormi colonne verdi e i circa 400 dipendenti, assunti con i soliti contratti creativi da mille euro al mese, indosseranno Superga dall’inconfondibile colore bossiano. Ma l’uomo, da buon commerciante, è trasversale. Sostenitore e grande amico di Matteo Renzi, che lo voleva ministro nel suo esecutivo, ha intrattenuto rapporti con tutte le amministrazioni. Per trovare uno spazio adatto a un punto vendita a Roma si incontrò più volte con l’allora sindaco Gianni Alemanno. Il cuore però, ha sempre detto, “batte a sinistra”.
Padre partigiano condannato per rapina (sentenza cancellata) e sorella assessore
Nel 1980 Oscar era segretario del Psi ad Alba, paese di origine della famiglia Farinetti. Il padre Paolo, anche lui socialista, è stato un partigiano, ricorda con notevole frequenza e orgoglio il figlio, omettendo con altrettanta frequenza che venne arrestato e condannato per rapina: svaligiò, insieme a tre complici, un’ambulanza che trasportava le paghe degli operai della Fiat Ferriere. Ma era passato da poco il 25 aprile ’45 e la condanna fu poi cancellata. Fu lui ad avviare quello che oggi è l’impero Fari-netti. Prima un forno in pieno centro, accanto all’edificio che ora ospita il museo Beppe Fenoglio, poi la catena Unieuro che nel 2003 il figlio Oscar ha ceduto per 528 milioni di euro alla Dixon di Londra. Capitale con cui ha gettato le basi di Eataly. Partendo da Alba, quartier generale dell’impero. In Comune ci sono due “uomini” di Farinetti: la sorella Paola, assessore a cultura e turismo, e Giovanni Bosticco, commercialista di Eataly e assessore a trasporti ed economia. Candidata nel 2009 Paola prese solo 42 voti e non venne eletta, così il sindaco Maurizio Marello l’ha chiamata al posto del democratico Antonio De Giacomi, nominato vicepresidente della Fondazione bancaria Cassa di Risparmio Cuneo. Paola è anche nel consiglio della fondazione Mirafiore, presieduta da Oscar, che organizza incontri pubblici con personaggi dello spettacolo e della politica, gli ultimi ospiti sono stati Massimo D’Alema e Luca Cordero di Montezemolo. La Fondazione è nata nel 2010 e si trova nel cuore della Langa del Barolo, a Serralunga d’Alba, nella riserva bionaturale diFontanafredda, storiche cantine piemontesi oggi in mano a Eataly, un tempo tenuta di re Vittorio Emanuele II e della Bella Rosin. Una prima parte dell’azienda vinicola, il 64%, era passato a Farinetti nel 2008, il restante 36% era della Fondazione Monte dei Paschi di Siena che nel 2010 ha ceduto la sua quota per 32,5 milioni di euro. Fontanafredda è ora uno dei marchi più diffusi nei 25 store Eataly. Dal negozio a New York, che nel 2013 ha registrato più visite del Moma, a Tokyo, Dubai, Istanbul. Il primo è nato a Torino nel 2007, grazie anche all’allora sindaco Sergio Chiamparino che concesse gratuitamente all’amico Oscar l’ex sede della Carpa-no. Lui li voleva per 99 anni ma Chiamparino gli rispose, in sabaudo: “Esageruma nen”, non esageriamo. Si accordarono per 60 anni: uno spazio da 2.500 metri quadri in cambio dei restauri, costati 7 milioni. Poi Roma, la Firenze dell’amico Renzi, Bologna, Bari, Genova e il mondo.
“Ma quale filosofia di slow food, ormai è solamente commercio”
Lo spazio di Torino fu il primo e, secondo molti l’unico, in cui davvero Farinetti ha rispettato la filosofia iniziale di Eataly: tutela del cibo, alimenti km zero, qualità alla portata di tutti. “Ora sono dei supermercati, in cui si tenta di vendere il made in Italy, ma i parametri di qualità dei prodotti è impossibile da rispettare se hai 25 punti vendita sparsi in ogni angolo del mondo”. Il ragionamento è di Bruno Ceretto, patron delle cantine Ceretto che da Alba ogni anno distribuisce quasi 1,5 milioni di bottiglie. Lui era amico di Paolo Farinetti. “Oscar l’ho visto crescere”. Quando diede vita a Eataly, ricorda, “venne a chiedermi se volevo entrare nella sua distribuzione e mi spiegò le condizioni: il primo anno di fornitura gratis e poi disse ‘si vedrà’, non gli risi in faccia perché lo conosco: è un commerciante”. Sono molti i produttori che lamentano questa tendenza. Sugli scaffali di Eataly c’è la pasta Barilla, la birra Moretti: alimenti propri della grande distribuzione. “Ma è normale se fai questi numeri; ripeto Oscar è un bravissimo commerciante”. E la qualità? La filosofia di Slow Food? la tutela dei piccoli produttori locali? “Lasciati ingannare, non disturbare il buon funzionamento del commercio”, diceva Wieslav Brudzinski.

il Fatto 16.3.14
Spararle grosse
L’industriale? “Bastardo”


L’Italia deve risorgere, non è certo Eataly che la può fare risorgere, ma può essere un piccolo esempio, una piccola metafora fisica di risorgimento, un successo: 300/400 posti di lavoro garantiti. Partiamo con tantissimi a tempo indeterminato e altri a tempo determinato. Ma nel giro di due anni l’80 per cento sarà a tempo indeterminato. L’imprenditore che non premia i ragazzi che s’impegnano pur avendo i conti in ordine è un bastardo: questi sono i grandi segnali di dignità, poi regolarli con la legge è difficilissmo”. Così Oscar Farinetti al microfono del Fatto Tv, prima di definire “geniali le idee di Renzi”. Lo stesso Farinetti che definiva “medievali” i sindacati e che paga 8 euro l’ora per 40 ore settimanali. Cuore a sinistra, ma molto in fondo.

il Fatto 16.3.14
Codacons: etichette ingannevoli e frodi alimentari


ETICHETTE INGANNEVOLI su 30 prodotti sono state trovate dal Copalcons (osservatorio permanente del Codacons) sugli scaffali del negozio Eataly a Roma. Prodotti, ha denunciato alle autorità l’associazione, “dei quali si vanta, attraverso l’etichettatura, l’elevata qualità collegata all’origine delle materie prime genuinamente italiane e a km 0”. In merito a questo “sono emersi profili di ingannevolezza e frode di molti prodotti monitorati, poiché attraverso le informazioni in etichetta e le immagini grafiche, si comunica al consumatore la presenza di ingredienti caratterizzanti di origine italiana, spesso in mancanza di indicazioni rispetto alla quantità effettivamente presente nel prodotto”. Il 27 febbraio il deputato Walter Rizzetto del Movimento Cinque Stelle ha presentato un’interrogazione al ministro dell’Agricoltura, al ministro della Salute e al ministro dello Sviluppo economico. “Presso lo store Eataly, il Copalcons ha rilevato che vengono messi in vendita prodotti etichettati con modalità non conformi alla normativa, che sebbene segnalati ai referenti di Eataly, con l’indicazione degli elementi di ingannevolezza, non sono stati ritirati dagli scaffali”.

il Fatto 16.3.14
Camusso contro il ministro: ”Pensi ai lavoratori”


ALLA LEADER della Cgil, Susanna Camusso, il decreto sui contratti a termine, non piace proprio. “Proveremo a cambiarlo - ha spiegato ieri - chiedo al ministro Poletti di guardare a chi lavora, non solo agli imprenditori. I precari in 3 anni devono attendere 8 volte di essere rinnovati. È in contraddizione con gli annunci dati, che parlavano di tutela del lavoro, di dare fiducia ai giovani e, invece, si determina un cumulo di situazioni precarie”. L’attacco è arrivato dopo ’intervista rilasciata da Poletti al Messaggero : “Quelle della Camusso sono preoccupazioni sbagliate - spiegava l’ex presidente di Legacoop - I vincoli sulle causali e sugli intervalli erano stati pensati per combattere gli abusi, ma nei fatti hanno aumentato la precarietà”. I malumori però, riguardano anche una parte del Pd. “Sui contratti a termine il testo deve essere cambiato”, ha spiegato l’ex ministro Cesare Damiano, che chiede al governo di modificare il testo.

Repubblica 16.3.14
Landini: “Tfr in busta paga”. E il Pd si spacca


MILANO - Difesa dai centristi al governo. Critiche e richieste di cambiamento da sinistra, anche dagli esponenti politici che appoggiano l’esecutivo Renzi. Il decreto che si sostituisce alla riforma Fornero sui contratti a termine fa discutere. Ma il coordinatore del Nuovo centrodestra, Angelino Alfano si è già detto indisponibile a modifiche: «Non si torna indietro e non accettiamo diktat dalla Cgil. Abbiamo smontato la parte più odiosa della riforma Fornero e Ncd difenderà quello che ritiene una conquista». E da parte sua, il leader della Fiom, Landini, propone a Renzi di «mettere il Tfr di ogni lavoratore in busta paga. Sarà lui poi a decidere se accantonarlo o spenderlo. D'altra parte sono soldi suoi, deve deciderlo lui, perchè potrebbe averne bisogno in un dato momento e non alla fine della sua attività lavorativa».
Emerge più di una perplessità, invece, dalle file del partito democratico. E se ne è fatto portavoce l’ex ministro del Welfare, Cesare Damiano. Che chiede - così come il segretario della Cgil, Susanna Camusso, una revisione in sede di esame parlamentare: «La durata triennale senza le causali per le assunzioni ci sembra esagerata e corre il rischio di provocare un eccesso di flessibilità». Inoltre, aggiunge «la domanda che dobbiamo farci è se un contratto a termine così liberalizzato, come quello contenuto nel decreto, non renderà inutili e poco convenienti sia il contratto di inserimento che l’apprendistato».

Corriere 16.3.14
Lavoro flessibile e apprendistato, sindacati divisi
Camusso: via il decreto, in cambio discutiamo di contratto unico
Alfano: no ai diktat Cgil
di Stefania Tamburello


ROMA — Si svolgerà in luglio il prossimo vertice tra i leader europei sulla disoccupazione giovanile. Dopo Berlino e Parigi toccherà a Roma ospitare il confronto già previsto nell’agenda del precedente governo Letta. «Noi siamo messi peggio sul fronte della disoccupazione giovanile», ha affermato ieri il presidente del Consiglio Matteo Renzi, al termine dell’incontro nella capitale francese con il presidente François Hollande. «Il pacchetto di riforme dovrà vedere un passo significativo», ha aggiunto con uno sguardo a Roma, dove il primo dei provvedimenti sul lavoro, quello che ridisegna le regole sui contratti a termine e sull’apprendistato, sta però suscitando tensioni nel sindacato e in parlamento dove si preannuncia aria di bufera.
Il decreto arriverà domani al Quirinale per la firma del presidente della Repubblica. Sul provvedimento per ora non si arretra, come aveva chiesto venerdì la leader della Cgil, Susanna Camusso, dicendosi disponibile in cambio «a discutere» di un contratto unico. «Il governo non torna indietro. Non possiamo accettare i diktat della Cgil», ha scritto su Twitter il ministro dell’Interno Angelino Alfano (Ncd). Camusso non si arrende: «Il decreto andrà in parlamento e proveremo a cambiarlo come si fa nella normale attività sindacale e nella dialettica tra le parti» ha detto, aggiungendo che i primi provvedimenti del governo Renzi sulla materia «sembrano contraddittori rispetto agli annunci che erano stati fatti, che parlavano di tutela del lavoro e di fiducia per i giovani: si sta determinando, invece, un cumulo di situazioni precarie». A Camusso ribatte, tornando a differenziare il percorso dopo mesi di cammino unitario, il leader della Cisl, Raffaele Bonanni. Meno preoccupato della collega per la prospettiva di congelamento della concertazione («Ce ne faremo una ragione» dice), Bonanni critica «il furore ideologico» della Cgil. Le misure del governo, ha insistito ieri, «assicurano ai contratti a termine gli stessi salari, le stesse tutele previdenziali, gli stessi diritti sindacali dei contratti a tempo indeterminato. Meglio un contratto a termine pagato di più e tutelato che la disoccupazione e l’inedia per migliaia di giovani». Senza contare che «moltissimi contratti a termine statisticamente si trasformano a tempo indeterminato, con gli accordi sindacali e perché le aziende non vogliono perdere le professionalità acquisite dai lavoratori». Se battaglia ci deve essere, preferiamo farla, ha aggiunto, sulle «vere forme-pirata di lavoro: le false partite Iva, i co.co.pro. e gli associati in partecipazione che non danno alcuna tutela».
Ma non c’è solo il sindacato. Sulle misure sui contratti a termine, che prevedono la possibilità di applicarli senza causale con un massimo di otto proroghe in tre anni fino al 20% del personale dipendente, ieri si sono cominciate a delineare le contrapposizioni sul fronte politico. E se l’ex ministro Maurizio Sacconi, presidente dei senatori di Ncd, ha giudicato il decreto «un elemento decisivo in sé e per la nuova prospettiva che apre» e ha avvertito che «l’esame parlamentare, al di là degli aggiustamenti al margine, dovrà confermare questa impostazione, pena la tenuta della maggioranza», Cesare Damiano,presidente della commissione Lavoro della Camera, ha invece insistito, come Camusso, sulla possibilità di modificare il decreto in parlamento: «La filosofia del prendere o lasciare non sta scritta da nessuna parte».

l’Unità 16.3.14
Raffaele Bonanni
«Non condivido le critiche al decreto. Alla Cgil dico di contrastare insieme il mondo delle false partite Iva, dei co.co.pro e dei lavoratori senza tutele»
«Contratti a termine, va bene così. Altre le precarietà da combattere»
intervista di Marco Ventimiglia


MILANO «È vero, in altri Paesi le regole che governano il mondo del lavoro durano assai più delle nostre, che cambiano in continuazione. Ma questo è frutto dell’impazzimento che ha colto la politica italiana negli ultimi anni. Man mano che ha perso autorevolezza, la politica ha pensato di recuperare terreno andando ad occuparsi di argomenti che avrebbe fatto bene a lasciare alle parti sociali. Il tutto in base ad una tesi che non sta né in cielo né in terra, ovvero che con le leggi si crea occupazione. Il lavoro arriva da un sistema economico che funziona, non certo da continui cambi delle normative. Ciò detto, per fortuna questo esecutivo ci sta evitando ulteriori “Fornerate”, e di ciò va anche merito ad una persona avveduta quale il ministro del Lavoro, Giuliano Poletti». Lo dice senza una sosta, Raffaele Bonanni, come spesso gli capita quando il tema lo coinvolge. Per il segretario della Cisl, così come per gli altri responsabili del sindacato, sono giorni particolari, alle prese con il dinamismo del governo Renzi ma senza il coinvolgimento diretto delle precedenti occasioni.
Palazzo Chigi decide e comunica, voi leggete i provvedimenti e li giudicate. Si può andare avanti così a lungo?
«Non credo che questa situazione rappresenti un mio problema, semmai a preoccuparsi deve essere il presidente del Consiglio, che poi è anche il segretario di un grande partito che si qualifica come riformatore. Renzi non vuole discutere? Ce ne facciamo una ragione, anche perché il rapporto che un sindacato, e chi lo rappresenta, deve tenere sempre aperto è quello con il mondo del lavoro e con la gente».
Insomma, addio alla concertazione?
«Di certo non mi interessa la concertazione per come dimostra di intenderla il premier, ovvero un teatrino dove si fa a gara a chi sfoggia il più bel sorriso. Se invece ci si siede intorno ad un tavolo dove ognuno si fa carico di un peso per arrivare ad un accordo, allora sì, quella è una concertazione che mi interessa e che continua ad avere un grande valore. Quando Renzi deciderà di procedere in tal senso, la Cisl e le altre grandi forze sociali saranno sempre presenti».
Intanto, il vostro giudizio sui primi provvedimenti dell’esecutivo appare comunque positivo. Anche sulle controverse misure che riguardano i contratti a termine.
«Per prima cosa è opportuno fare un passo indietro nel tempo è ricordare che all’inizio Renzi aveva parlato della volontà di introdurre un contratto unico a “tutele progressive”. Una cosa non molto chiara, con il forte rischio di un ennesimo complicarsi della materia, quel che definisco, appunto, una Fornerata. Per quanto mi riguarda, ho detto chiaro e tondo al ministro Poletti che si andava verso una direzione sbagliata, tanto più che il governo aveva già a disposizione lo strumento che gli serviva in tema di flessibilità del lavoro».
Vale a dire?
«Parlo proprio del contratto a termine. Non c’è alcun altro strumento in grado di fornire al lavoratore le stesse garanzie che derivano da un’assunzione a tempo indeterminato. Mi riferisco alla tutela previdenziale, al sistema retributivo, alla sicurezza, ed agli altri aspetti fondanti di un rapporto di lavoro».
La Cgil la pensa diversamente, con forti critiche al meccanismo, nella bozza di decreto legge dell’esecutivo, che prevede ben otto rinnovi senza causale del contratto a termine. In questo modo per Susanna Camusso si introducono ulteriori elementi di precarietà.
«Ed è una presa di posizione che non condivido. Intanto stiamo parlando di rinnovi che non potranno comunque eccedere la durata complessiva di 36 mesi, il tutto all’interno di uno strumento come il contratto a termine che, lo ripeto, fornisce il massimo delle garanzie possibili ad un lavoratore. Cosa sarebbe potuto succedere introducendo invece un meccanismo del tutto nuovo come quello che aveva in mente il premier in prima battuta? Aggiungo poi un ulteriore elemento che reputo molto significativo, ovvero il tetto del 20% di contratti a termine rispetto all’organico complessivo di un’azienda».
C’è il rischio di un nuovo inasprirsi delle relazioni intersindacali dopo un periodo abbastanza sereno e costruttivo?
Mi auguro e ritengo di no. Però per perseguire l’unità d’intenti non è che posso spegnere il mio cervello... Piuttosto invito Susanna Camusso a concentrare le nostre forze su quella che ritengo la vera emergenza in tema di occupazione precaria».
A che cosa si riferisce?
«A tutto il vasto mondo, parlo di milioni di persone, popolato da false partite Iva, co.co.pro, associati in partecipazione, nonché i co.co.co della Pubblica Amministrazione. Si tratta di lavoratori, quelli sì, distanti anni luce dalle garanzie di un rapporto a tempo indeterminato, sulle cui condizioni esiste un’incredibile omertà diffusa a tutti i livelli. È questa la principale battaglia contro il precariato che attende il sindacato».
Torniamo indietro di qualche giorno: l’annunciato taglio delle tasse sulle buste paga dei lavoratori con gli stipendi più bassi rilancerà davvero i consumi delle famiglie?
«Sì, e per una ragione drammatica: qui non stiamo parlando di spese voluttuarie, perché quei circa 80 euro in più al mese verranno utilizzati da famiglie che purtroppo non hanno ormai da tempo le sufficienti risorse per provvedere a tutti i loro consumi essenziali».

il Fatto 16.3.14
Assemblea con rissa
Botte e svenimenti fra i Dem del Lazio


Urla, spintoni e un malore, con tanto di ambulanza giunta sul posto. L’assemblea del Pd Lazio di ieri a Roma si è tramutata in psicodramma. Motivo, l’elezione del nuovo presidente dell’assemblea. I renziani sostenevano la deputata Lorenza Bonaccorsi, mentre l’area del lettiano Marco Di Stefano puntava su Liliana Mannocchi. È presto scoppiata una lite infinita sull’interpretazione dello Statuto, che secondo alcuni impediva l’elezione della Mannocchi, esterna all’assemblea. Caos, scontri anche sul piano fisico e votazioni sospese. Il segretario regionale, il renziano Fabio Melilli, si è imposto: “Andiamo avanti, altrimenti mi dimetto”. Alla fine l’ha spuntata la Mannocchi, ma i tumulti sono continuati. Un uomo si è sentito male, forse per un attacco epilettico. E l’assemblea è stata definitivamente sospesa. Tutto rinviato alla prossima settimana.

Repubblica 16.3.14
Un esponente legato al premier trasferito in ospedale con l’ambulanza
Lazio, rissa e insulti all’assemblea Pd i renziani contestano il nuovo presidente
di Mauro Favale


ROMA - Finisce con un’ambulanza del 118 chiamata in fretta e furia, un uomo a terra con un «inizio di crisi epilettica» trasferito in codice giallo al Policlinico, le mezze risate di chi dice che si tratti di una «pantomima» e le urla di chi accusa che, a provocare il tutto, sia stato invece uno spintone. È questo l’epilogo dell’assemblea regionale del Pd Lazio, convocata per ratificare il risultato delle primarie dello scorso 16 febbraio. A emergere, però, è la spaccatura di un partito che, nel Lazio, vede franceschiniani, lettiani e bersaniani in maggioranza e i renziani della prima ora in minoranza. Frattura difficilmente sanabile, tanto più dopo le scene viste ieri. Da una parte c’è ilneo segretario, Fabio Melilli, ex presidente della Provincia di Rieti, vicino al ministro Dario Franceschini. Dall’altra Lorenza Bonaccorsi, deputata, fedelissima del sindaco di Firenze, sconfitta alle primarie col 30%.
Per prassi la presidenza dell’assemblea regionale dovrebbe spettare a lei. Melilli, invece, la offre (sembra su input dell’ex senatore Goffredo Bettini) a Liliana Mannocchi, candidata di Marco Di Stefano, deputato lettiano. I renziani si appigliano alregolamento (la Mannocchi dovrebbe presiedere un’assemblea di cui non fa nemmeno parte). La tensione sale, si urla. In gioco non ci sono tanto le poltrone nel partito, quanto le candidature per le Europee.
Quando Massimiliano Dolce, renziano, chiede la verifica del numero legale, viene fronteggiato da Paolo Toppi, membro del cda di Cotral (l’agenzia regionale dei trasporti) in quota Di Stefano. C’è chi parla di una spinta, chi dice che Dolce sia caduto da solo. Assemblea sospesa, arriva il 118 che si porta via Dolce e renziani e lettiani restano a litigare. «Che tristezza - commenta l’ex viceministro Stefano Fassina - il gruppo dirigente dovrebbe chiedere scusa agli elettori delle primarie».

l’Unità 16.3.14
Cuperlo: bene Matteo, ora convenzione della sinistra
«Bene il premier contro l’austerity
Ma il Pd non sia solo gazebo e governo»
«Le prime mosse dell’esecutivo possono produrre effetti positivi ma vanno riviste le norme sui contratti a termine perché creano nuova precarietà»
di Andrea Carugati


Gianni Cuperlo dà un giudizio positivo delle riforme di Renzi, ma invita a rivedere le norme sui contratti a termine perché «non possiamo permetterci di creare altra precarietà». E lancia una «convenzione», aperta «a tutta la sinistra e a quel progressismo cattolico che il papato di Francesco sta scuotendo», per discutere del ruolo dei partiti e del Pd. «Perché non possiamo essere solo gazebo, primarie e governo, bisogna tessere una trama nella società altrimenti ricadiamo nel rischio del “riformismo senza popolo”».
Partiamo dal viaggio nel premier nelle capitali europee. Che margini vede per modificare la rotta dell’Ue sull’austerità? «Il problema non è Italia contro resto d’Europa o un braccio di ferro coi tecnocrati di Bruxelles, ma far comprendere che un piano di riforme serie, dalle istituzioni al mercato del lavoro alla giustizia sono la condizione perché l’Italia esca dalla recessione. Se noi ce la facciamo ne avrà un beneficio tutta l’Europa, compresa la Germania. Però per farlo bisogna mettere l’Ue su altri binari e le prime mosse del governo Renzi mi pare possano produrre risultati molto positivi».
Quali sono i risultati che ragionevolmente il premier può ottenere in Europa? «Innanzitutto un apprezzamento per gli sforzi fatti dal governo verso le fasce sociali più deboli, quelle che non reggono più l’urto della crisi e che hanno bisogno di tornare a respirare. Ottanta euro in busta paga non cambiano la vita di una famiglia, ma aiutano soprattutto se sono un decimo del tuo reddito mensile. In questo senso cominciare a spostare la tassazione dal lavoro alla rendita è puro buon senso. L’obiettivo ragionevole è poter discutere anche della possibilità di aumentare il deficit di alcuni decimali, non per sforare il 3%».
Del pacchetto Renzi cosa la convince meno?
«I provvedimenti sui contratti a termine e sull’apprendistato vanno migliorati. Le preoccupazioni per un incremento della precarietà devono essere ascoltate e va trovata una risposta. Sul sostegno ai redditi medio-bassi, bisogna pensare anche alle categorie finora escluse, a partire dai pensionati con assegni che hanno perduto fino al 30% del potere d’acquisto. E poi dobbiamo pensare alla crescita, a creare nuova e buona occupazione perché un salario nuovo che entra in casa vale più di tutti gli ammortizzatori sociali». Riforme elettorali e costituzionali. Renzi ha denunciato un tentativo di “sabotaggio” da parte del suo partito... «Il segretario dovrebbe ringraziare il nostro gruppo alla Camera per la responsabilità dimostrata. Io penso che il testo approvato non sia ancora una buona legge. Ma il voto che abbiamo espresso, anche respingendo a scrutinio segreto degli emendamenti identici a quelli del Pd, è la conferma che abbiamo ritenuto fondamentale aiutare la riforma a camminare. Poi certo vi sono punti da discutere e migliorare: per primo l’equilibrio di genere, una soluzione ragionevole che ci porti a superare le liste bloccate, magari con le primarie per legge. E ancora, una revisione delle soglie: l’8% per i partiti non coalizzati è troppo alto, rischia di escludere dal Parlamento forze con milioni di voti».
La minoranza Pd insiste per approvare prima la riforma del Senato e poi l’Italicum in seconda lettura...
«Il superamento del bicameralismo è la condizione senza cui la nuova legge non sta in piedi. Per questo sarebbe più logico partire al Senato dalla riforma costituzionale per poi completare l’iter della legge elettorale».
Continua a circolare il sospetto che la minoranza Pd voglia mettere i bastoni tra le ruote al segretario premier sulle riforme costituzionali.
«Ho dei dubbi, anche di costituzionalità, sulla riforma elettorale. Ma abbiamo avuto la responsabilità di garantire che l’iter procedesse. Capisco che non è stagione di ringraziamenti, ma vorrei che almeno si evitasse di parlare di complotti che non ci sono».
Come immagina il futuro del Pd con Renzi a palazzo Chigi? Lei ha parlato del rischio che diventi una dependance del governo.
«Non è un problema organizzativo, di chi dirigerà il Pd o chi entrerà in segreteria. Voglio capire quale idea si ha del partito. Al congresso ho detto che dovevamo scegliere un segretario che ricostruisse un’idea e un radicamento del Pd. Vogliamo un partito che si riduce a una somma di comitati elettorali? Un partito senza risorse che non ha ancora stampato le tessere per il 2014? Questo modello non funziona, lo abbiamo già sperimentato in passato. C’è una crisi della rappresentanza che mette in discussione i modelli della partecipazione. I partiti servono a “fare” democrazia e a questo serve anche la sinistra. Di qui il mio allarme: in alcune realtà si discute se chiudere le federazioni perché tanto bastano gli sms per convocare le riunioni nelle sale di un albergo».
Il suo sembra appunto un grido dall’allarme.
«Quando Renzi dice “io mi gioco tutto e se fallisco lascio la politica” è una cosa che non va bene, non solo per lui ma per tutti noi. Se rimane in campo solo il governo e non c’è più un partito, da dove si riparte il giorno in cui dovesse tornare all’opposizione? Chi è convinto come me che un partito non possa ridursi solo all’esercizio del potere, che sia necessaria una trama di luoghi, sedi e organizzazione che ti garantisca una tenuta politica, non può limitarsi a difendere i confini di una minoranza congressuale, ma deve affrontare un cambiamento più radicale. Anche per questo penso a una convenzione aperta a tutte le anime della sinistra, al mondo cattolico, a tante forze che vivono fuori dal Parlamento e che spesso sono più radicali e coraggiose di noi». Che significato ha questa convenzione? «Sarà un’occasione preziosa per discutere con altri su cosa significa oggi rinnovare la sinistra. È cambiato tutto, dobbiamo cambiare anche noi».

Repubblica 16.3.14
“Renzi irriverente ma sulla rotta giusta deve evitare la tentazione plebiscitaria”
Cuperlo: se fallisce è un dramma. Il Cavaliere in lista? Spero proprio di no
intervista di Alessandra Longo



ROMA -Cuperlo, lei si sente uno dei gufi evocati da Renzi, quelli che, in famiglia, remano contro?
«No, sono uno che dice quel che pensa. E oggi penso che 80 euro in busta paga siano un bene come è un bene spostare la tassazione dal lavoro alla rendita. Alcune norme andranno migliorate e dovremo guardare a quei pensionati che non sono figli di un altro dio. Ma la rotta è giusta».
In una recente intervista lei ha citato la diade lento/veloce, conservativo/ innovativo. Non le pare che dopo la performance a Palazzo Chigi, con l’illustrazione del programma, la dicotomia sia tra Prima di Renzi e Dopo Renzi?
«Oddio, faremmo un torto a lui. Invece è vero che l’energia in politica conta. In questo senso non mi hanno colpito le slide. Mi ha colpito la volontà di Renzi di chiudersi alle spalle la porta degli specialismi per collegare di nuovo politica e persone. Lo fa in uno slang irriverente? Può darsi, ma lo fa e con un impatto forte su un Paese prostrato da acrobazie burocratiche e avanzi di rendite».
Renzi dice: non c’è mai stata una manovra più di sinistra della mia…
«Ripeto, tante cose vanno nella direzione giusta. Alcune riprendono gli indirizzi di Letta. Quanto all’Europa si discuterà e Padoan è l’uomo giusto. Non si tratta di minacciare Bruxelles ma di far capire che riformare lo Stato, la giustizia civile, il mercato del lavoro è requisito per uscire dalla crisi. E se l’Italia ce la fa è un traguardo dell’Europa tutta. Però serve spezzare il filo coi filosofi del rigore che dopo il terremoto si urtano se il tavolo non è apparecchiato a puntino».
Dica la verità: le sarebbe mai venuto in mente di associare il pesciolino rosso al programma di governo?
«Effettivamente no, fosse dipeso da me avrei scelto un sarago».
Che cosa ne pensa di Berlusconi che si ricandida mentre il presidente del Bayern sceglie, per i suoi reati fiscali, la galera?
«Catalano avrebbe detto: meglio il presidente del Bayern in regola con il fisco e Berlusconi fuori dalle liste».
Il premier assicura: la minoranza interna ha assunto atteggiamenti più morbidi. Siete più morbidi?
«Né morbidi né duri, proviamo a essere seri. Renzi deve scansare un errore, credere di bastare a se stesso. L’idea di un’autosuffiplebiscitarismocienza del potere ha scavato un solco tra popoli e rappresentanza. I governi tecnici erano un modo classico di colmare quel gap. Il è l’altro modo che il vecchio secolo ha sperimentato per compensare lo stesso vuoto. Entrambi sono falliti perché il collasso del nostro modello sociale e istituzionale chiede una nuova partecipazione alle decisioni, insomma il tema è quale democrazia dopo la crisi».
C’è un deputato della sinistra Pd, dice Renzi, che ha proposto entusiasta di fare i volantini per promuovere la manovra annunciata sull’Irpef.
«E li farei anch’io. Ma sa qual è il problema? Che per farlo serve un partito e oggi rischiamo di non avere i soldi per la stampa e i militanti per diffonderli. Vede, io il congresso l’ho perso ma su una cosa avevamo ragione, l’idea che si potesse scalare il partito pensando al governo. Adesso il segretario scelto due mesi fa è a Palazzo Chigi e abbiamo un partito senza risorse, dove si discute se chiudere le federazioni e che non ha stampato le tessere. A me non interessa chi entra in segreteria. Io voglio capire che tipo di partito si ha in mente. Se pensiamo che serva non solo a gestire i comitati elettorali dei candidati ma a vincere la guerra del cambiamento».
Entro maggio si chiude con la legge elettorale al Senato come annuncia la Boschi? O c’è una vostra linea Maginot?
«Dobbiamo chiudere con una buona legge elettorale, quella uscita dalla Camera ancora non lo è, e la riforma costituzionale. Siccome credo che non si possa fallire è ragionevole partire dal superamento del bicameralismo».
Le va bene la liberalizzazione del contratto a termine?
«Ho letto le preoccupazioni sui rischi di nuova precarietà e le condivido. Quella norma andrà migliorata».
Mettiamo che Renzi ce la faccia a mantenere le promesse: vuol dire che il vostro spazio all’interno del Pd verrà riassorbito?
«Le rispondo così. Sta cambiando tutto a una velocità spiazzante. Non è solo il testimone a un’altra generazione. La rottura aggredisce la lingua e le forme del potere. Un fallimento di queste aspettative sarebbe drammatico. E chi pensa, come me, che la politica ha bisogno di una terra di mezzo tra il potere e la vita e che la sinistra esiste se ha un pensiero e una forza da organizzare, non può limitarsi a tenere in vita una minoranza congressuale. Deve affrontare una pagina della storia del Paese che non ha eguali e chiede anche a noi un mutamento di stile, contenuti, metodi. Di questo vorrei discutere in una convenzione con le altre anime della sinistra, con un mondo cattolico scosso dal pontificato di Francesco, con tutte quelle forze che non stanno in Parlamento ma agitano la società. Il nuovo non chiede meno sinistra ma una sinistra diversa».

La Stampa 16.3.14
Minoranza Pd più coinvolta nel partito“Pronti a prenderci le responsabilità”
Il capogruppo Speranza: “Se il governo fallisse, disastro per tutti”
intervista di Carlo Bertini


«Se qualcuno pensa che se affonda Renzi, si salva il Pd, commette un grande errore. E chi crede che possa saltare l’Italicum e la riforma del Senato scherza col fuoco. La tenuta delle istituzioni è a rischio e se il Parlamento fallisse questa sfida sarebbe un disastro per tutti». Roberto Speranza guida i trecento deputati del Pd, che non senza fatica hanno superato lo stress test dell’Italicum. Ma il giovane capogruppo è anche punto di riferimento di un’area della minoranza che Renzi vorrebbe coinvolgere nella gestione del partito. «Se lui vuole che il Pd resti un partito forte e autorevole, noi non abbiamo preclusioni ad assumerci le nostre responsabilità».
Prima il governo e poi il partito, onorevole Speranza. Per vincere la sua scommessa e portare a casa i risultati promessi nei tempi fissati, il premier ha bisogno del pieno sostegno del gruppo che lei presiede. Ci potrà contare?
«Sono convinto di sì: la sfida di fronte a noi non è la sfida di uno solo e sbaglia chi pensa sia così, perché è la grande occasione per il Pd e per tutti i partiti per dimostrare che la politica è in grado di cambiare le cose. Sul merito delle riforme economiche poi, registro che c’è una significativa inversione di tendenza: da tempo il Pd chiedeva che la stagione di rigore lasciasse il passo ad una politica economica più espansiva. E penso che nella proposta forte che Renzi ha costruito ci sia questo elemento: immaginare che la domanda interna sia fattore decisivo per far ripartire il paese».
Insomma c’è una svolta tangibile rispetto al governo Letta?
«Sul piano della politica economica sì, sono misure che segnano l’avvio di una fase espansiva e in questa fase credo sia la strada giusta. Mi aspetto fino in fondo che Renzi faccia il Renzi, anche con quell’elemento di rottura che ha caratterizzato la sua azione, su due versanti: la capacità di superare tante resistenze nella burocrazia europea che ha imposto la linea del cieco rigore; e che anche nel rapporto con la burocrazia italiana e la Ragioneria dello Stato mantenga il profilo forte di una politica capace di esercitare la sua funzione».
Anche lei teme che il Pd avrà una funzione ancillare rispetto al governo?
«Renzi deve chiarire quale sarà il ruolo del Pd nella stagione in cui il segretario è anche premier. Per me c’è sempre bisogno di un partito autorevole, capace di dialogare con i soggetti sociali e di radicarsi sul territorio. Una funzione che non si può esaurire nell’azione di governo. Un nodo decisivo anche per la questione della partecipazione agli organi dirigenti. Ad oggi ancora non vedo con chiarezza la missione del Pd. Bisogna fare una riflessione seria, una grande assemblea nazionale su questo punto politico. Che non si può ridurre al nodo se in segreteria entra tizio o caio per conto di un’area, al posto di chi è andato al governo. Io non ho pregiudizi, ma bisogna partire dal ruolo che avrà il partito».
E lei cosa propone? Renzi dovrebbe passare il testimone come fece D’Alema con Veltroni per superare il problema del doppio incarico?
«Quell’operazione lì non è ripetibile, ma anche se il congresso è finito il punto di fondo è se il Pd riesce ad avere la forza di un grande soggetto autonomo, per sostenere meglio Renzi nel suo sforzo di governo».
Ritiene che il Senato debba votare prima la riforma che ne prevede l’abolizione e solo poi passare all’Italicum?
«Sì, perché avendo fatto una legge elettorale valida solo per la Camera e avendo Renzi detto che si gioca la sua carriera politica sull’abolizione del Senato, a questo punto la priorità assoluta deve essere quella. Il che non significa mollare l’Italicum, perché noi abbiamo assunto un impegno solenne a fare le riforme e su questo tutto il Pd si gioca la sua credibilità. Quindi dovremo fare ogni sforzo per accelerare al massimo, lasciando ai gruppi la loro legittima autonomia propositiva».

Corriere 16.3.14
Il premier incalza i suoi: leggi chiave prima delle Europee
«Chi vuole far saltare una svolta storica questa volta dovrà metterci la faccia»
di Maria Teresa Meli


ROMA — Chi non lo conosce bene, potrebbe pensare che Matteo Renzi, impegnato in un tour europeo, e in uno sforzo di accreditamento internazionale, stia solo puntando mente, occhi e orecchie ai temi del lavoro, del fisco e dell’economia. Ma così non è.
È vero che il premier, di qui a due mesi, si gioca la sua credibilità al tavolo della Ue e se la gioca anche a casa nostra, su questi temi, però lui è convinto che questo non basti. Ritiene che per far capire in patria come fuori dei confini nazionali che la «svolta» di cui tanto parla è in atto sul serio sia necessario dimostrare che anche il farraginoso sistema elettorale e istituzionale italiano possa cambiare.
Per questa ragione non vuole indugiare oltre nemmeno su questo terreno, non accetta i temporeggiamenti e i tentativi di frenarlo, non vuole che tutto finisca nella «sabbie mobili» di palazzo Madama. «La riforma elettorale e quella del Senato (in prima lettura, ovviamente ndr ) devono passare a palazzo Madama entro il 25 maggio. Gli alleati e non solo loro hanno avuto le rassicurazioni che volevano. Non si va a votare subito. Quindi ora non ci sono più scuse, si deve andare avanti spediti», ha spiegato ai suoi il presidente del Consiglio.
Del resto, le frasi che ha detto pubblicamente non sono state pronunciate per mera propaganda o per allisciare il pelo alla parte di elettorato di centrosinistra che è più attenta a queste tematiche. «Se non passa la riforma del Senato il governo salta e io me ne torno a casa». Il suo è stato anche un segnale a chi nel Pd pensa di prendersi la «rivincita» della «sconfitta» delle primarie o dell’ «avvicendamento» a Palazzo Chigi tra lui ed Enrico Letta.
Il «tutti a casa», in genere, convince i parlamentari, anche quelli che combattono per preferenze che sanno di non avere.
Questo non significa che Renzi non sappia che la sua sarà una battaglia difficile, piena di insidie, pericoli e, soprattutto, di imboscate. Lungo la strada che lo separa dal traguardo lo aspetta il fuoco amico e l’inevitabile complicarsi del rapporto con Berlusconi, in vista delle elezioni europee, perché, come si è già capito da qualche giorno, il Cavaliere non risparmierà nessun colpo, sopra o sotto la cintola, in campagna elettorale, pur di dimostrare che tra Forza Italia e Nuovo centrodestra c’è un abisso di consensi. Ma Renzi è convinto, e lo è sul serio, al di là della propaganda di cui, in frangenti come questi, è quanto mai prodigo, che riforme elettorali e istituzionali che «diano maggiore stabilità politica all’Italia», rendano il Paese «più credibile» anche nei confronti dei partner europei.
Perciò insiste su questo punto e ha messo già in programma una direzione, allargata ai gruppi parlamentari di Camera e Senato, in cui verrà tracciata la via della riforma dell’assemblea di palazzo Madama, del titolo quinto della Costituzione e dell’iter della legge elettorale. In quella sede tutti saranno chiamati a pronunciarsi. E anche a votare, in modo che nessuno possa poi fare finta di niente, dire che non c’era, e che se c’era dormiva.
Chi deciderà di discostarsi dalla linea del partito questa volta lo dovrà fare scopertamente, perché al Senato non c’è lo scrutinio segreto, dovrà, per dirla alla Renzi, «metterci la faccia», e spiegare ai propri elettori perché vuole «far saltare una riforma che può rappresentare una svolta storica per il nostro Paese».
Già, il premier, vissuto il travagliato iter della Camera, non ha nessuna voglia di farsi nuovamente «fermare dalla palude». Il presidente del Consiglio non crede a chi gli dice che i tempi sono lunghi, che ci vogliono mesi e mesi per arrivare a chiudere su entrambe le leggi. «Se c’è la volontà — è il succo del suo ragionamento — c’è il modo di completare la prima lettura della riforma del Senato e di approvare l’Italicum anche a palazzo Madama. Siamo a un passo da una svolta: dobbiamo capire tutti che o la politica dimostra di essere in grado di fare le riforme e, di conseguenza, di riformare anche se stessa, oppure non vi saranno più argini al populismo». Riuscirà a convincere tutti nel Pd?

Repubblica 16.3.14
Se l’obiezione impedisce di rispettare la legge
risponde Corrado Augias


Gentile Corrado Augias, sono un medico e ho visitato una paziente che mi ha raccontato una storia simile a quella della signora lasciata a partorire nei bagni dell’Ospedale Pertini di Roma. Anche la mia paziente aveva abortito un feto di 5 mesi senza assistenza, mentre i ginecologi obiettori si affacciavano alla porta: «Ah, questa sta a abbortì» e se ne andavano. Sono avvampata d’indignazione e poi esplosa: «Ma avete fatto denuncia?! Questa è omissione di soccorso!». Hanno risposto rassegnati: «Ma sa quante denunce hanno... «. I medici obiettori che si affacciano alla porta e scappano hanno enormi responsabilità, ma le hanno anche l’azienda ospedaliera che rinuncia alla missione di fornire assistenza, e la politica sanitaria regionale. Le posizioni apicali di un reparto ostetrico dovrebbero essere coperte solo da chi assicura un servizio completo, forse si potrebbe pensare a una voce in busta paga di indennità, come quella del servizio a tempo pieno. L’accesso alla scuola di specializzazione di ginecologia e ostetricia dovrebbe essere precluso ai medici che non intendono praticare l’aborto. Si rispetterebbero così i sentimenti delle persone e la legge dello stato.

L’altissima percentuale di medici obiettori, quasi sempre di comodo, è una delle nostre vergogne che si trasforma in dramma per le donne che devono abortire, per una delle serie ragioni previste dalla legge, e che incontrano spesso difficoltà che s’aggiungono alla loro pena. Il signor Aldo Covre (aldo.covre@alice.it) mi scrive: «Perché una legge dello Stato deve sottostare ad una valutazione etica? Perfino il Consiglio d’Europa è intervenuto affermando che “l’obiezione di coscienza non può impedire la corretta applicazione della norma”. Ben sapendo i veri motivi per cui tanti medici sono “obiettori” non si potrebbe fare in modo che non possano praticare nelle strutture pubbliche? Sarebbero rispettate le coscienze e ci sarebbe la certezza di essere assistiti per chi ne ha bisogno». Su un versante parallelo il signor Marco Bernardi (vipasyana@tin.it) mi ricorda il lavoro prezioso svolto dall’associazione Luca Coscioni, un gruppo di «indefessi tenaci irriverenti ma istituzionalmente sempre corretti e trasparenti Radicali che si sono battuti riuscendo a far cassare tante parti dell’orribile legge 40». È la legge famigerata sulla procreazione assistita che vieta la diagnosi pre-impianto dell’embrione, uno degli scandali umanitari di un governo Berlusconi. Sono stato contento di leggere nel lucido intervento del teologo cattolico Vito Mancuso su
venerdì quanto una visione più umana di questi argomenti sarebbe importante per il rilancio della Chiesa. Privando tante false coscienze di un comodo alibi.

Corriere 16.3.14
Caso Moro, l’antologia dei misteri e le risposte non date alla vedova
Da Gradoli alla polizia «impreparata»: tutte le incongruenze
di Giovanni Bianconi


ROMA — «Posso soltanto dirle che nel 1978 lo Stato era assolutamente impreparato rispetto a emergenze di quel tipo. Non sapeva quasi niente della realtà del terrorismo». Peccato che quando sequestrarono Aldo Moro uccidendo i cinque agenti di scorta, le Brigate rosse esistessero da otto anni e avessero già messo a segno rapimenti clamorosi, assassinato magistrati, avvocati, uomini delle forze dell’ordine, sparato su politici, giornalisti, dirigenti carcerari. Eppure, disse candidamente nel 1992 l’allora capo della polizia Vincenzo Parisi, «si era in una situazione di debolezza neanche lontanamente sospettabile; perciò, vedendo in retrospettiva come fu condotta la gestione del sequestro Moro, posso dire che essa fu del tutto artigianale e non adeguata alla situazione».
Sarà. Ma rilette oggi, queste frasi pronunciate davanti alla commissione d’inchiesta sulle stragi nel gennaio ‘92 suonano come la conferma di uno degli enigmi che resistono a trentasei anni di distanza dal fatidico 16 marzo 1978, giorno della strage di via Fani e del rapimento del presidente democristiano, ammazzato dopo 55 giorni di prigionia: come mai le istituzioni erano così «impreparate» di fronte alla pericolosità delle Br che imperversavano e proclamavano ai quattro venti di voler attaccare «il cuore dello Stato»?
È solo una delle tante domande senza risposta racchiuse in una vera e propria «antologia dei misteri» del caso Moro pubblicata sul sito internet dei deputati del Pd a cura del vicepresidente Gero Grassi (pugliese come Moro), che vorrebbe una nuova indagine parlamentare. Utile non si sa quanto, a tanto tempo dai fatti. Tuttavia il riassunto, in 400 pagine, di testimonianze e relazioni raccolte dalle precedenti commissioni d’inchiesta certifica i troppi punti oscuri sul delitto politico che maggiormente ha segnato la storia della Repubblica. Custoditi negli archivi del Parlamento. Una giungla di quesiti (non tutti ugualmente importanti) in cui ciascuno può approfondire quelli che più lo inquietano. Alcuni però sembrano più macroscopici di altri, anche per come sono emersi — e rimasti irrisolti — dagli stessi atti.
Via Gradoli e il ruolo di Moretti
Ad esempio l’informazione su Gradoli, ufficialmente arrivata dalla parodia di una seduta spiritica, il famoso «gioco del piattino», a cui parteciparono Romano Prodi e altri professori che in seguito avrebbero ricoperto cariche importanti. Fu lo stesso Prodi a trasmetterla ai vertici della Dc. «Anche se ci siamo trovati in questa situazione ridicola, noi siamo esseri ragionevoli — spiegò nell’audizione del 1981 —. Se soltanto qualcuno avesse detto di conoscere Gradoli, io mi sarei guardato bene dal dirlo. È apparso un nome che nessuno conosceva, allora per ragionevolezza ho pensato di dirlo». A parte la credibilità dell’origine della notizia, il mistero ulteriore è che le ricerche si concentrarono nel paese di Gradoli dove non c’era nulla, senza andare in via Gradoli dove invece abitava Mario Moretti, il capo brigatista che in quei giorni interrogava l’ostaggio. Eleonora Moro, moglie del presidente dc, chiese perché non si cercasse una strada romana con quel nome. «La risposta che ancora oggi mi lascia senza parole è stata: “Non c’è nelle pagine gialle!”», riferì in Parlamento. Invece c’era, e c’erano pure i brigatisti. Ma il covo fu scoperto solo il 18 aprile, a causa di una strana infiltrazione d’acqua. In casa non c’era nessuno e Moretti si salvò, alimentando i dubbi manifestati nel ’95 da Corrado Guerzoni, collaboratore di Moro: «Moretti ha stabilito con qualcuno una convenienza reciproca per la gestione del sequestro, e ha potuto viaggiare tranquillo per l’Italia senza che nessuno lo fermasse. Nessuno ha avuto interesse a trovare Moro».
Le carte sparite e il Vaticano
Lo stesso giorno fu recapitato il falso comunicato numero 7 delle Br, secondo il quale l’ostaggio era stato ucciso e il cadavere gettato nelle acque (ghiacciate) del lago della Duchessa, sulle montagne tra Lazio e Abruzzo. L’ex sottosegretario all’Interno Lettieri ammise nel 1980: «È un altro di quegli episodi sconcertanti che si sono verificati. Non voglio esimermi da responsabilità, ma tutti abbiamo dato credito a quella pista». In realtà il magistrato inquirente nemmeno andò sul posto, tanto il comunicato era palesemente inattendibile, mentre il ministro dell’Interno Francesco Cossiga lo accreditò per ore. Altro mistero, insieme a quelli su chi l’ha ideato e chi l’ha confezionato.
Sulla scomparsa dei resoconti su indagini e riunioni svolte al ministero indagò la commissione stragi che nel ‘92 concluse: «La mancanza negli archivi del Viminale di tutta la documentazione non trova alcuna plausibile giustificazione... Si conferma una costante dell’“affare Moro”: prove importanti sulla gestione della crisi sono sottratte agli organi istituzionali, ma non è escluso che altri ne disponga e le utilizzi o minacci di farlo nel momento più conveniente». Anche sul ruolo del Vaticano e di don Antonello Mennini, «postino» di alcune lettere di Moro, restano quesiti aperti. Come le pressioni su Paolo VI per evitare ogni apertura nella lettera agli «uomini delle Brigate rosse», o i sospetti che quel sacerdote sia stato anche un «canale di ritorno» dalla prigione del presidente dc.
È tutto scritto nelle carte del Parlamento, dai piduisti al vertice dei servizi segreti alle tante forzature sulla «non autenticità» delle lettere di Moro, al loro ritrovamento insieme a pezzi di memoriale in via Montenevoso, 12 anni dopo la scoperta del covo milanese. Fino alle domande di Eleonora Moro, che due anni dopo la morte del marito si chiedeva, a proposito delle Br: «Certo, ci sarà stata la loro parte di lavoro. Ma chi ha armato e animato questa gente a fare queste cose? Chi ha tenuto le fila in modo tale che non si poteva comunicare durante il tempo che mio marito era sequestrato? Come mai questa linea di condotta così dura era già stata presa così nettamente, un’ora dopo la strage di via Fani?».
La signora Moro è morta nel 2010, senza avere le risposte che cercava .

il Fatto 16.3.14
Abusi dei vigili, nuove accuse a Roma
Dopo l’arresto del comandante, i commercianti denunciano il racket della concessione delle licenze
di Rita Di Giovacchino

Le mani sulla città, non parliamo del film di Rosi. La denuncia di corruzione stavolta viene dai commercianti di Roma, minacciati ed estorti non da una cricca di malfattori ma da uomini in divisa. Dal 26 febbraio è agli arresti domiciliari il generale Angelo Giuliani, ex comandante della polizia municipale, per mazzette camuffate da sponsorizzazioni, ma i guai per lui non sono finiti. Il racket delle licenze commerciali, concesse solo a chi “paga”, è l'ultimo capitolo di un’inchiesta che ha già portato all'arresto di una decina di vigili accusati di estorsione, abuso, falso in atto pubblico e infine corruzione.
Al centro c'è sempre lui, Giuliani. In attesa che il 18 marzo sia valutata la richiesta di libertà condizionale, l'ex comandante si trova a fronteggiare accuse che vanno al di là della corruzione e che lo vedrebbero indagato anche per concussione e associazione per delinquere. Il condizionale è d'obbligo perché il suo nome è stato, come altre volte, secretato. Non compare nella lista dei sette indagati anche se i legami di amicizia, lavoro e affari riconducono a lui. A partire dalla moglie Angela Cantelli, che fa parte del Corpo, fino al compaesano Emilio Gagliardi (con il quale è comproprietario di un rudere in Abruzzo) e a Luigi Ippoliti, legato a Gagliardi da affari.
Tutto è iniziato il 27 gennaio 2012 quando Silvio Bernabei, il “bibitaro”, varcò la soglia del Comando provinciale dei carabinieri di piazza in Lucina per denunciare fatti gravissimi che andavano da richieste di denaro a contravvenzioni e minacce che gli impedivano la distribuzione delle merci. L'imprenditore era stato preceduto da una telefonata di presentazione di Vincenzo Conticello, famoso a Palermo per aver rifiutato di pagare il “pizzo” e che, sbarcato a Roma per sfuggire alla mafia, era caduto dalla padella alla brace. Altre denunce nel frattempo erano state presentate da Orlando Corsetti e Ivano Giacomelli che, dopo una bustarella da 26 mila euro, si era ribellato alla richiesta di altri 50 mila. Il 23 febbraio, il capo della segreteria di Alemanno, Antonio Lucarelli, e il vicecapo di gabinetto Nardi raccontarono ai carabinieri che l'imprenditore Bernabei, nel corso di un convegno, aveva denunciato vessazioni paventando l'ipotesi che dietro ci fosse Giuliani. Alemanno aveva chiesto un incontro con i magistrati e convocato il comandante per visionare i bilanci del circolo.
Ed è qui che accade l'incredibile. Il giorno dopo in piazza in Lucina è Giuliani a presentarsi per denunciare uno strano furto, avvenuto nella notte tra il 25 e il 26 febbraio, quando negli uffici del Circolo era sparita la documentazione informatica. Furto che addossava a non precisati “servizi segreti” o “corpi di Polizia”, affermando però di essere tranquillo perché i Bernabei avevano sottoscritto un regolare contratto di sponsorizzazione. Un contratto senza data però. É l'inizio di una storia che i pm Condemi e Calò stanno rileggendo dopo aver chiuso l'inchiesta per corruzione e quella sulle irregolarità del concorso di cui Giuliani voleva a tutti i costi essere il presidente. Di sicuro l'ex comandante non si arrende, il suo legale Roberto Afeltra nel chiedere la revoca dei domiciliari annuncia: “Abbiamo depositato decine di documenti che capovolgono completamente questa storia, saranno altri a dover pagare”.

Repubblica 16.3.14
“No ai Rolling Stones al Circo Massimo” Marino: vado avanti
di Alessandra Paolini


ROMA - Ben vengano i Rolling Stones ben vengano, ma è subito allarme atti vandalici. Il mega show del gruppo rock al Circo Massimo scatena polemiche e divide la città. Il sindaco Marino esulta ma la soprintendenza ai Beni archeologici mette il veto. Un palco troppo grande, gli eccessi di decibel, una folla enorme e poco controllabile «potrebbero causare danni irreparabili». Non c’è dunque solo l’entusiasmo del primo cittadino - «facevo i trapianti di fegato ascoltando It’s only Rock ‘n roll» - per l’arrivo il 22 giugno nella Capitale di Mick, Keith, Ronnie e Charlie, ex ragazzi impossibili oggi mostri sacri dai 68 anni in su. Ci sono anche le polemiche e i dubbi di chi come Mariarosa Barbera, soprintendente dei Beni archeologici, è convinta che il Circo Massimo vada “maneggiato” con cura e che un palco di 40 metri, quattro torri alte 16, oltre 37 gazebi e 65mila spettatori, sono «un ingombro non sostenibile per un’area di particolare pregio e delicatezza e che i rischi per la conservazione del patrimonio archeologico sono elevati e anche difficilmente prevedibili». Lo ha scritto nero su bianco la Soprintendente lo scorso 5 marzo, quando interpellata dal Campidoglio ha dato parere sfavorevole al concerto. Un no che il sindaco Ignazio Marino ha incassato senza battere ciglio. Tanto, spiega «La decisione definitiva spetta alla soprintendenza per i beni ambientali e architettonici del Lazio che riassume in sé i pareri della soprintendenza archeologica e quella comunale, e il suo parere è stato positivo».
Così nell’attesa del concerto, l’amministrazione è già all’opera per portare anche tanti stranieri. Perché dicono: «Sappiamo già che molte persone, verranno dall’Inghilterra dove sorprendentemente i Rolling Stones non faranno tappa. E così, si sposteranno per un week end o più per godere anche della nostra splendida città».
Si sente dunque sicuro Ignazio Marino, che racconta come a casa indossi spesso la maglietta della band comprata a un concerto dieci anni fa a Philadelphia. Ma il fronte dell’opposizione è duro e compatto. Cementato da quelle immagini che lasciarono tutti sbigottiti quando al Circo Massimo i tifosi della Roma salirono sui monumenti, si portarono a casa pezzetti d’archeologia, ruppero i cancelli del Palatino. Anno domini 2001, scudetto giallorosso. «Il Circo Massimo va valorizzato, non può e non deve diventare un luogo di raduni di massa - dice Andrea Carandini, presidente del Fai - È diventata una marrana per manifestazioni di ogni tipo». Anche Adriano La Regina, per ben 28 anni a capo della soprintendenza dei Beni archeologici di Roma, è assolutamente contrario. Perché spiega: «È indegno sfruttare luoghi così preziosi e darli in mano a masse incontrollabili. Non vedo perché si debba fare un concerto nel cuore di Roma e non in un posto più periferico. Anche il Papa il raduno mondiale della gioventù lo organizzò a Torvergata». Chiede l’intervento del ministro Dario Franceschini, Vittorio Emiliani del Comitato per la Bellezza: «La città antica va rispettata e non banalmente consumata per ragioni commerciali». Ma è proprio il palcoscenico dell’antica Roma ad aver convinto Mick Jagger ad esibirsi nella Capitale. «Non vedo l’ora di essere lì», ha twittato ieri.

Repubblica 16.3.14
Ecco perché difendo il rock dentro la storia
di Ignazio Marino



PORTEREMO il rock dentro la storia di Roma, ecco perché difendo la mia scelta. Il prossimo 22 giugno i Rolling Stones si esibiranno al Circo Massimo. Sarà una serata fantastica per la musica, per il pubblico e per Roma. Ascoltare le note appassionate del loro rock risuonare nel cuore archeologico della città sarà l’ennesima dimostrazione di come si può valorizzare la grande bellezza romana. La nostra è una metropoli dove l’archeologia si incontra con la cultura. Perché il concerto del 22 giugno sarà un vero evento culturale.
La musica dei Rolling Stones ha accompagnato intere generazioni. Le loro esibizioni sono spettacolari e lasciano un segno indimenticabile nel pubblico. Come i Pink Floyd nella loro memorabile registrazione dentro l’arena di Pompei, anche gli Stones meritano un palcoscenico fuori dal comune, degno della loro storia musicale. Un set che solo una città al mondo è in grado di offrirgli.
Confesso di essere un vero fan dei Rolling Stones. Durante le mie esperienze di lavoro all’estero ho avuto due volte la possibilità di godere di questo grande spettacolo, a Pittsburgh e a Philadelphia. Per questo, sin dai giorni successivi al mio insediamento in Campidoglio, ho iniziato a lavorare assieme ai miei collaboratori per riportare le leggende del rock nel cuore di Roma. Non venivano qui da sette anni e hanno scelto di farlo proprio a condizione che la scenografia fosse eccezionale.
Credo che il Circo Massimo rappresenti la scelta migliore che potessimo offrire, sempre nel pieno rispetto dei vincoli archeologici che insistono sull’area e della piena agibilità degli spazi per gli spettatori.
In questi giorni abbiamo conferito la cittadinanza onoraria al premio Oscar Paolo Sorrentino. Ora la città si prepara per ospitare l’evento rock dell’estate italiana. Per Roma è un momento importante. Il nostro sforzo è aiutarla a rialzarsi, rendendola di nuovo attraente, rimettendola sulle mappe dei grandi eventi internazionali.
Lo facciamo senza dimenticare l’ordinaria gestione, con un occhio privilegiato alle periferie, dove vogliamo concentrare molti eventi dell’Estate Romana. Tutti segnali ben precisi di una città che ha grande voglia di tornare ad aprirsi al mondo, offrendo a cittadini e turisti solo il meglio.

Corriere 16.3.14
Permessi e divieti sul Circo Massimo,  non si difendono così i Beni culturali
di Paolo Fallai


Sì, no, forse. Povero Circo Massimo, addossato al colle Palatino, da quando ospitò il ratto delle Sabine è uno dei luoghi più discussi di Roma. Anche per l’evento musicale dell’anno, il concerto dei Rolling Stones, unica data italiana il 22 giugno, la scelta della spianata di 620 metri ha scatenato uno scontro di pareri.
Entusiasta il sindaco Ignazio Marino che vuole trasformarlo in «un luogo di riferimento per i grandi eventi culturali». Nettamente contraria la Soprintendenza archeologica che denuncia «rischi per la conservazione del patrimonio archeologico». Ma il «no» della massima autorità chiamata a vigilare sulla conservazione della Roma archeologica è stato superato dal «sì» del direttore regionale del ministero per i Beni culturali, Federica Galloni. Ha ragione Edoardo Sassi che ieri, sulla cronaca di Roma di questo giornale, ha rivelato per primo lo scontro: il ministero contro il ministero. Condito da altri pareri: quello favorevole della Soprintendenza ai beni architettonici, che ha competenza ma solo per la parte paesaggistica, e quello della Sovrintendenza capitolina, retta da un «interim» e che difficilmente avrebbe potuto smentire il suo sindaco.
Ma chi decide su luoghi così delicati e fragili? Non è la prima volta che la Soprintendenza perde la sua battaglia, tanto che in Campidoglio, hanno sottolineato, «non dà mai parere favorevole». E infatti l’area è stata occupata dai festeggiamenti per gli scudetti della Roma (2001) e della Lazio (2002), dai Genesis (2006) e da Lady Gaga (2011). Il sindaco Marino sembra intenzionato a usare il Circo Massimo come fosse cosa sua. Ma allora la Soprintendenza dello Stato che ci sta a fare? E in caso di danni all’area archeologica — come avvenne nel 2001 — chi ne risponde? La Soprintendenza l’ha messo nero su bianco: il Campidoglio se ne assume la responsabilità. Basta questo a giustificare la posizione un po’ farisaica di un ministero per i Beni culturali, che da una parte scatena l’allarme sui rischi e dall’altra autorizza l’evento? Roma meriterebbe un po’ più di chiarezza.

il Fatto 16.3.14
Firenze post-renziana
Nardella, il mezzo sindaco già nei guai
di Giampiero Calapà


A Firenze, dopo il boy scout di Rignano sull’Arno, Matteo Renzi, tocca al violinista di Torre del Greco, Dario Nardella. Già piazzato sulla poltrona più alta di Palazzo Vecchio, con una manovra di palazzi da far impallidire la Prima Repubblica (la vicesindaco precedente nominata assessore in Regione Toscana dall’ex nemico di Renzi Enrico Rossi per far ritornare vicesindaco, ma ora reggente, appunto il violinista), e ora lanciatissimo verso primarie farsa senza avversari veri.
Due giorni fa, però, Nardella ha avuto la prima rogna da sindaco. Roba mai successa a Renzi in quasi cinque anni. “Proprio adesso che sono arrivato io”, avrà pensato il violinista. Un gruppo di venditori ambulanti inviperiti sono entrati in municipio e sono arrivati anche alle mani, allungandole sul vicesindaco, strattonato e offeso: “Sappiamo dove trovarti”. Non possono proprio accettare, pare, di vedere i loro banchi spostati da dove sono sempre stati, là nel rione San Lorenzo, gran bazar a due passi da Santa Maria Novella. E lui ne ha pagato le conseguenze appena arrivato, o meglio tornato, ma è sicuro: “Andiamo avanti col sorriso sulle labbra”. In passato sulla sua testa si erano già abbattute critiche feroci per quegli orribili dehors di bar e locali in piazza della Repubblica. Sarà il destino.
LO STESSO destino che lo ha portato a Firenze nel 1989, da Torre del Greco, dove è nato e cresciuto. Sposato, due figli, uno in meno di Renzi, diplomato al conservatorio nel 1998, su Youtube si trova qualche traccia di esibizioni al violino, dottore di ricerca in Diritto pubblico, classico secchione, in senso buono, che primeggia in tutto e finisce nel partito. Non in quello di Renzi all’epoca, la Margherita, ma nei Ds. Nel 2006 lo nota un pezzo grosso toscano, Vannino Chiti, tanto che se lo porta al ministero dei Rapporti col Parlamento, come consigliere giuridico. Dal 2004 è già consigliere comunale. Un anno più tardi fonda Eunomia, una sorta di scuola di formazione politica, di cui è direttore, Enzo Cheli il presidente, e che giusto ieri ha ospitato un redivivo comunista, Marco Rizzo. Sì, proprio l’ex dilibertiano rimasto molto amico di Nardella dai tempi di quel governo Prodi, tanto da poter partecipare, appunto, a un convegno di Eunomia e sparare: “Renzi premier? Tanto decide tutto la troika”. Qualsiasi cosa voglia dire.
Comunque Nardella, ambulanti a parte, a Firenze è considerato un po’ l’amico di tutti. Meno divisivo di Renzi, dal quale ha beccato strigliate più volte. Nel 2011, per esempio, quando si mise alla testa di una crociata anti-Zara, che voleva aprire il grande magazzino proprio in quel giorno sacro del primo maggio. Apriti cielo. I Giovani democratici pronti a okkupare o almeno a stampare delle magliette con la scritta “Zara ripensaci”. Solo che poi tornò Renzi da una missione negli Stati Uniti e disse: “Chi vuole rimanere aperto può farlo”, con buona pace della festa dei lavoratori. O come pochi giorni fa, quando in un’intervista sul Corriere dice ad Aldo Cazzullo che il Partito democratico dovrebbe cambiare nome in Democratici. Renzi subito lo sconfessa. Insomma, Renzi non lo tratta proprio da braccio destro, gli concede il trono di Firenze, secondo i maligni, per avere un sindaco debole e continuare a governare sulla Signoria anche da Roma. Però lo “usa” a dovere, invia lui a trattare con Renato Brunetta sulla legge elettorale e lo manda sempre in tv, ad esempio. D’altra parte fu uno dei primi, dalla sponda ex diessina, a salire sul carro renziano quando pochi scommettevano in un Renzi sindaco. Vannino Chiti, si narra, andò su tutte le furie. Doveva vincere Lapo Pistelli. La storia è andata diversamente. Chiti è un pallido ricordo, Pistelli ha ottenuto un posto al ministero degli Esteri, ma serba ancora tanto rancore. Nardella è vicesindaco quasi sindaco.

Repubblica 16.3.14
Non fate qualcosa, state fermi
di Thomas L. Friedman


Con la Russia che ringhia infuriata per la caduta del suo alleato che governava l’Ucraina e che continua a proteggere l’assassino suo alleato che governa la Siria, tutti si affannano a dire che stiamo tornando ai tempi della Guerra Fredda e che Obama e la sua amministrazione sono troppo timidi nel difendere i nostri interessi o i nostri amici. Mi pregio di dissentire. Io non penso che la Guerra Fredda sia tornata: la situazione geopolitica corrente è molto più complessa di allora. E non penso nemmeno che la cautela del presidente Obama sia del tutto fuori luogo.
La Guerra Fredda fu un evento unico, in cui si fronteggiavano due ideologie globali, due superpotenze globali, e ognuna delle due aveva dietro armi nucleari che potevano colpire in tutto il mondo e un’ampia rete di alleati. Il mondo era diviso in una scacchiera rossa e nera e l’identità di chi governava le singole caselle poteva avere ripercussioni sulla sicurezza, il benessere e il potere di ognuno dei due schieramenti. Era anche un gioco a somma zero, in cui ogni guadagno per l’Unione Sovietica e i suoi alleati era una perdita per l’Occidente e la Nato, e viceversa.
Quel gioco è finito. Abbiamo vinto noi. Quello che abbiamo oggi è al tempo stesso un gioco più vecchio e un gioco più nuovo. La più importante linea divisoria nella geopolitica del mondo odierno è «fra quei Paesi che vogliono che il loro Stato potente e quei Paesi che vogliono che il loro Stato sia prospero», sostiene Michael Mandelbaum, professore di politica estera all’università Johns Hopkins.
Nella prima categoria rientrano Paesi come la Russia, l’Iran e la Corea del Nord, guidati da leader che puntano innanzitutto a costruire autorità, rispetto e influenza attraverso uno Stato potente. E avendo i primi due il petrolio e il terzo armi atomiche da barattare con rifornimenti alimentari, i loro leader possono sfidare il sistema globale e sopravvivere, se non addirittura prosperare, giocando al vecchio e tradizionale gioco della politica della forza per controllare la loro regione.
La seconda categoria, quella dei Paesi che puntano a costruire rispetto e influenza attraverso la prosperità della loro popolazione, include tutti i Paesi del Nafta in Nordamerica, dell’Unione Europea, del Mercosur in Sudamerica e dell’Asean in Asia. Queste nazioni sono consapevoli che la tendenza più importante del mondo odierno non è quella che porta verso una nuova Guerra Fredda, ma quella che porta verso una fusione tra globalizzazione e rivoluzione informatica. Questi Paesi puntano a realizzare scuole di qualità, infrastrutture, banda larga, sistemi di scambi commerciali, aperture per gli investimenti e gestione economica, per fare in modo che una percentuale maggiore dei loro cittadini possa godere di benessere in un mondo in cui ogni lavoro di classe media necessita di maggiori competenze e dove la capacità di innovare costantemente determina il tenore di vita. (La vera fonte di potere sostenibile).
Ora però c’è una terza categoria, sempre più nutrita, e sono quei Paesi che non sono in grado né di esercitare la forza né di costruire prosperità. Sono il mondo del «disordine», nazioni consumate da lotte interne su questioni fondamentali come: Chi siamo? Quali sono i nostri confini? Di chi sono questi ulivi? A questa terza categoria appartengono Siria, Libia, Iraq, Sudan, Somalia, Congo e altri punti caldi del pianeta. Mentre le nazioni che puntano sulla potenza dello Stato giocano un ruolo in alcuni di questi Paesi - per esempio la Russia e l’Iran in Siria - quelle che si preoccupano innanzitutto di costruire la prosperità cercano di non farsi coinvolgere troppo. Sono pronte a dare una mano per mitigare le tragedie umanitarie, ma sanno che «conquistare» uno di questi Paesi nel gioco geopolitico odierno significa accollarsi un onere.
In Ucraina tutte e tre queste tendenze si accavallano. La rivoluzione di piazza Maidan è avvenuta perché il Governo è stato indotto dalla Russia, che vuole mantenere l’Ucraina nella sua sfera di influenza, a non sottoscrivere un accordo commerciale con l’Unione Europea, un accordo a cui tanti ucraini interessati soprattutto ad accrescere la prosperità della popolazione guardavano con favore. Questa spaccatura ha innescato anche le spinte di secessione da parte delle regioni orientali del Paese, dove la maggioranza della gente parla russo e guarda alla Russia.
Che fare, quindi? Il mondo sta scoprendo che gli Stati Uniti ormai ci pensano dieci volte prima di intervenire all’estero. Per una serie di ragioni concomitanti: la fine della minaccia alla propria stessa esistenza rappresentata dall’Unione Sovietica, il fatto di aver investito troppe vite umane e 2.000 miliardi di dollari in Iraq e in Afghanistan ricavandone molto poco in termini di impatto duraturo, la crescente indipendenza energetica dell’America, la capacità dei nostri servizi segreti di impedire un altro 11 settembre e la presa di coscienza che risolvere i problemi dei Paesi più tormentati del mondo del disordine spesso è un’impresa che va al di là delle capacità, delle risorse e della pazienza di cui disponiamo.
Nel mondo della Guerra Fredda era semplice decidere le politiche da adottare. C’era la politica del «contenimento», che ci diceva cosa dovevamo fare e che dovevamo farlo quasi a qualsiasi prezzo. Oggi chi contesta Obama dice che dovrebbe fare «qualcosa» sulla Siria. Lo capisco. Il caos che regna laggiù potrebbe finire per far sentire i suoi effetti nefasti anche da noi. Se esiste una politica in grado di risolvere la situazione siriana, o anche semplicemente di fermare le uccisioni in modo stabile e duraturo, a un costo sopportabile e che non vada a discapito di tutte le cose che dobbiamo fare qui in patria per garantire il nostro futuro, contate pure sul mio sostegno.
Ma dovremmo aver imparato qualche lezione dalle nostre ultime esperienze in Medio Oriente. Innanzitutto che ne sappiamo molto poco delle complessità sociali e politiche dei Paesi di quell’area. In secondo luogo che siamo in grado - sostenendo costi considerevoli - di impedire che in quei Paesi succedano cose brutte, ma non siamo in grado, solo con le nostre forze, di fare in modo che succedano cose belle. E in terzo luogo che quando cerchiamo di fare in modo che succedano cose belle corriamo il rischio di assumerci noi la responsabilità di risolvere i loro problemi: una responsabilità che in realtà spetta a loro.

La Stampa 16.3.14
Niente cure in carcere, muore l’attivista Cao
di Ilaria Maria Sala


La dissidente Cao Shunli è morta venerdì sera all’ospedale militare di Pechino: per quanto fosse malata di tubercolosi e avesse problemi al fegato, le erano state rifiutate le cure in carcere, fino a che non è stato troppo tardi.
Cao, di 52 anni, era stata arrestata a settembre mentre stava per imbarcarsi su un aereo per Ginevra, dove doveva partecipare a un seminario sui diritti umani. Le autorità la accusavano di essere «una attaccabrighe che crea disturbo della quiete pubblica». Lo scorso anno aveva organizzato un sit-in di due mesi davanti al Ministero degli Affari Esteri per convincere il governo ad autorizzare le Ong nazionali a partecipare alla stesura del documento sulla condizione dei diritti umani in Cina, periodicamente sottoposto alle Nazioni Unite. Pechino, eletta lo scorso anno a far parte del Consiglio sui Diritti umani dell’Onu (insieme a Russia, Arabia Saudita e Cuba), conferisce enorme importanza all’esercizio di revisione a cui è sottoposta, e previene ogni critica con una lobby intensa presso tutti i Paesi votanti. Cao voleva che l’esercizio Onu diventasse qualcosa di significativo, e sognava che anche le voci dissonanti potessero essere ascoltate.

Repubblica 16.3.14
Cina più flessibile sui cambi lo yuan potrà oscillare del 2%
Piano di Pechino per liberalizzare la finanza
di F. Ramp.



NEW YORK - Avanza la deregulation finanziaria in Cina: sul mercato dei cambi e non solo quello. Il governo di Pechino fa un passo in più nella direzione auspicata dall’Amministrazione Obama (e anche da quelle che l’hanno preceduta), con l’annuncio che lo yuan o renminbi d’ora in avanti avrà una banda di oscillazione doppia rispetto al dollaro: dall’1% in su o in giù, si passa al 2% di fluttuazione consentita quotidianamente.
E’ una misura che rende la valuta cinese più sensibile alle forze della domanda e dell’offerta, quindi più vicina a una parità decisa dai mercati, meno manipolata dal governo. Lo yuan resta una moneta semi-convertibile, non ha la stessa libertà di circolazione del dollaro o dell’euro, e le autorità monetarie cinesi si riservano la facoltà di fissare la parità centrale con il dollaro. Tuttavia l’allargamento della fascia di oscillazione va incontro alle richieste degli Stati Uniti, nonché dell’Unione europea e del Fondo monetario internazionale. A Washington in particolare, più volte il Congresso Usa ha minacciato ritorsioni protezioniste contro quella che definiva come una manipolazione del cambio a fini competitivi. Nel lungo periodo in realtà lo yuan ha continuato ad apprezzarsi rispetto al dollaro: oggi vale il 30% in più rispetto al suo valore del 2005. E tuttavia dall’inizio di quest’anno lo yuan ha perso l’1,6% rispetto al dollaro in coincidenza con il rallentamento della crescita cinese.
Donde un’interpretazione maliziosa: Pechino accede alle richieste americane adesso, perché sa che in questa fase i mercati spingono lo yuan non al rialzo bensì al ribasso, aiutando così la competitività del made in China. Comunque la parziale liberalizzazione valutaria s’inserisce nel nuovo corso del presidente Xi Jinping e del premier Li Keqiang, che stanno operando una cauta deregulation finanziaria. Le cui conseguenze non sono sempre gradite ai mercati. Un esempio concreto, la scorsa settimana: il governo per la prima volta ha deciso di lasciar fallire alcune società ed ha ammonito che i default sui bond in certi casi saranno inevitabili. Queste azioni sono coerenti con l’annunciata volontà di fare pulizia nello “shadow-banking” (settore bancario- ombra) dove si annidano sofferenze, crediti incagliati, bolle speculative. Gli investitori internazionali non sanno se rallegrarsi perché Pechino vuole riformare la sua finanza, o temere uno shock destabilizzante se tutte le bolle vengono “bucate”. La settimana scorsa è prevalsa la preoccupazione, anche per il crollo delle quotazioni mondiali del rame, una materia prima di cui le aziende cinesi sono al tempo stesso compratrici per scopi industriali, ma sulla quale speculano anche con strumenti di finanza derivata. In parziale controtendenza rispetto alla deregulation finanziaria, invece, il governo di Pechino ha fatto un dietrofront sui pagamenti attraverso smartphone, e li ha vietati. Sulla scorta della forte diffusione che lo smartphone come mezzo di pagamento ha avuto in Giappone e Corea del Sud, i big cinesi della telefonia mobile lo avevano ampiamente sviluppato. Ora la banca centrale ne ha sospeso l’uso per fare delle verifiche sulla sua sicurezza.

Corriere 16.3.14
Cosa accade se Pechino lascia fallire le aziende
di Guido Santevecchi


PECHINO — Qualcuno lo ha definito il «tranquillo Momento Lehman di Pechino», riferendosi al 2008 quando il crollo della Lehman Brothers segnò l’inizio della grande crisi. Il 7 marzo la Chaori, piccola azienda di pannelli solari di Shanghai ha dichiarato di non poter onorare gli interessi per 14 milioni di dollari in obbligazioni. La prima bancarotta sul mercato cinese dei bond. Le dimensioni ridotte avrebbero relegato la notizia in una breve, se si fosse trattato di un’azienda europea. Ma in Cina lo Stato era sempre intervenuto con salvataggi a favore degli investitori e di quelle industrie che non sanno stare sul mercato. Chaori era piccola e decotta. Ma secondo i calcoli di Standard&Poor’s il debito industriale in Cina è arrivato a 14 mila miliardi di dollari e quest’anno maturano interessi per 1.300 miliardi. Il primo default potrebbe aprire la diga, hanno osservato diversi economisti. Non è successo. Ma questa settimana c’è stato un altro buco nel muro del debito: le acciaierie Haixin, nella provincia settentrionale dello Shanxi, non sono riuscite a restituire un prestito bancario. Anche il settore dell’acciaio in Cina è afflitto da eccesso di produzione. Il problema di Haixin è che era impegnata in una triangolazione da finanza creativa di garanzie ad altri prodotti obbligazionari che sostenevano industrie minerarie locali. Ancora un anno fa i governi locali della Cina e le banche avevano concesso prestiti ponte a 62 società nella zona per tenerle a galla. Questi tempi sono finiti, a quanto pare. Giovedì a Pechino il premier Li Keqiang ha incontrato la stampa e si è concesso alle domande. Tutte concordate in anticipo, anche quella del Financial Times che ha chiesto: «La comunità internazionale guarda con preoccupazione ai rischi per l’economa globalizzata connessi alla situazione del debito in Cina». Significativo che Li avesse accettato in anticipo la domanda. E ha risposto: «Ho letto anche io queste visioni non ottimistiche, ma ricordo che erano uguali l’anno scorso e la Cina ha centrato il suo obiettivo di crescita al 7,7%. Il debito da investimento è sicuro. Ma default di obbligazioni sono inevitabili e il governo non li impedirà». Resta da vedere se quella eccezionalità che ha permesso alla Cina di evitare un «momento Lehman» continuerà.

Corriere 16.3.14
L’America cede il controllo di Internet
La gestione dei domini web passerà a un organismo internazionale
di Massimo Gaggi


NEW YORK — Per i conservatori Usa è un altro cedimento di Barack Obama che, dopo aver ridimensionato l’impegno militare americano nel mondo, ora riduce anche il controllo degli Stati Uniti sulla gestione di Internet. Ma per gli altri governi, a cominciare dall’Unione Europea che aveva chiesto il cambiamento di rotta a gran voce, questa è una svolta positiva lungamente attesa. La decisione comunicata venerdì sera dal ministero del Commercio di Washington della rinuncia degli Usa a continuare a controllare l’Icann, l’ente che assegna i domini di Internet, apre, comunque, una fase di transizione lunga e dagli esiti ancora incerti.
Sulla decisione americana ha probabilmente pesato il clima di sospetti che si è diffuso nel mondo dopo le rivelazioni di Edward Snowden sulle attività di spionaggio della Nsa che, si è scoperto, sono praticamente planetarie e vengono realizzate in gran parte utilizzando le reti digitali. Ma il governo Usa nega che questo sia stato un fattore nelle sue scelte e, del resto, una riflessione era in corso già da anni: come ha ricordato ieri, nel dare l’annuncio, il direttore per le Telecomunicazioni del dipartimento Usa del Commercio, Lawrence Strickling, fin dalla fondazione dell’Icann, nel 1988, quello del governo Usa era stato concepito come un ruolo di supplenza in attesa che il nuovo organismo internazionale, comunque basato negli Stati Uniti, a Los Angeles, si rafforzasse e imparasse a camminare con le sue gambe.
Questo «rodaggio» è durato più del previsto, un quarto di secolo, ma è anche vero che in questi anni l’Icann (sigla che sta per Internet Corporation of Assigned Names and Numbers) ha funzionato molto bene garantendo a tutti un accesso alla rete ordinato, rapido e privo di condizionamenti. L’ente ha aumentato i domini a seconda delle necessità: dopo quelli più vecchi come .com, .org e quelli nazionali, sono arrivati .info e tanti altri mentre ora si prepara anche l’apertura a di domini personalizzati o riferiti a settori merceologici (.clothing, .shop), a servizi (.hospital), o basati su lingue con caratteri diversi da quelli latini (cirillico, cinese e arabo).
Il problema vero, adesso, è quello di dar vita a un nuovo organismo internazionale che rappresenti il mondo del web in tutte le sue componenti senza essere assoggettato a un controllo politico o burocratico da parte dei governi. Già due anni fa un primo tentativo di cambiare era fallito perché alla vigilia del vertice dell’Itu che voleva trasferire l’Icann sotto il controllo dell’Onu, il Congresso di Washington votò all’unanimità una risoluzione nella quale si chiedeva un impegno a mantenere Internet lontano da ogni possibilità di controllo da parte di governi autoritari. E, con l’Icann sotto l’ombrello delle Nazioni Unite, anche governi come quelli di Pechino e Mosca che pongono limiti all’uso di Internet, avrebbero avuto voce in capitolo. Ora comincia la ricerca di un nuovo equilibrio. Primo appuntamento, una riunione che si terrà il 24 marzo a Singapore, tra i diversi organismi e le personalità internazionali che già oggi fanno parte dell’Icann. Partirà da lì, sotto la guida del presidente dell’Istituto, Fadi Chehade lo sforzo di costruire un nuovo assetto istituzionale coinvolgendo le grandi imprese della Internet economy e anche entità non governative e le non-profit più attive sul web.
Repubblicani a parte, anche le grandi multinazionali Usa dell’economia digitale sono spaventate dal cambiamento: temono che le pressioni politiche che comunque ci saranno producano limiti, barriere o tolgano fluidità a un sistema che fin qui ha funzionato bene. Ma il governo Usa promette che si ritirerà solo quando sarà certo che ciò non avverrà: Strickling ha detto ieri che l’America farà un passo indietro solo quando sarà certa che sul ponte di comando della nuova società ci saranno azionisti che hanno interesse al buon funzionamento del web come la Internet Engineering Task Force, o le associazioni che tutelano la sicurezza, l’apertura e la stabilità dei canali di comunicazione digitale. Un lavoro complesso, ma c’è tempo: la convenzione dell’Icann col governo Usa scade il 30 settembre 2015, ma le parti sono già d’accordo di prorogare questo termine se a quella data ci saranno ancora problemi aperti.

La Stampa 16.3.14
Quando i comunisti mangiavano oloturie
A 90 anni lo storico dirigente del Pci ripercorre la sua vita politica Tra i ricordi meno piacevoli, un ricevimento da Kim il Sung
colloquio con Marcello Sorgi


I suoi novant’anni li ha festeggiati scrivendo un libro su Togliatti, rivolto a una sinistra e a un Paese che quasi non si ricordano più chi fosse il Migliore. Per Emanuele Macaluso, a lungo senatore e dirigente del Pci, il 21 marzo, giorno in cui spegnerà la sua novantesima candelina, si prepara una grande cerimonia istituzionale al Senato, a cui prenderà parte anche Giorgio Napolitano, suo storico amico.
E lei, Macaluso, come vive questa vigilia?
«Come sempre: lavoro, leggo, viaggio ancora spesso per presentare i miei libri, ho molti amici affettuosi».
Un compleanno così importante non è occasione per il bilancio di una vita?
«Per carità! I ricordi li tengo tutti a mente, la mia vita l’ho già scritta e raccontata. Solo, l’altro giorno, sfogliando i diari di Pietro Secchia, è venuto fuori un dettaglio che forse può farle capire come sono e com’ero».
Di che si tratta?
«È un appunto del Comitato centrale del Pci del 14 ottobre ’63 sul primo centrosinistra. Barca tira le conclusioni in modo “contraddittorio e funambolesco”, scrive Secchia, cioè troppo appiattito sul governo. Poi annota: “Replica di Macaluso, non ci sto. Togliatti prova a ricucire ma non ci riesce”».
Aveva messo in difficoltà il segretario, violando la liturgia comunista?
«Erano tempi difficili, nel Pci. Si preparava già lo scontro esploso all’XI congresso, tra Amendola e Ingrao. Togliatti mi rimproverò: hai sbagliato, sottovaluti le nostre Rossande, vedrai che sul centrosinistra ci sarà una lotta politica interna al partito. Veramente, gli risposi, ho parlato proprio per non dar spazio alle Rossande!».
Ma davvero poteva permettersi di replicare al Migliore?
«Togliatti lo conoscevo dal ’48, mi aveva mandato a chiamare la prima volta per informarsi su un’occupazione del Cantiere navale di Palermo organizzata da me».
Era contro l’occupazione?
«Naturalmente. Mi raccomandava di non esagerare. Nel ’56, qualche anno dopo, mi fece entrare in Comitato centrale. Nel ’60 in direzione e nel ’63 in segreteria: ero il più giovane, accanto a Longo, Amendola, Pajetta, Ingrao, Alicata, Berlinguer e Natta. Mi affidarono l’organizzazione. E anche per me, cominciarono le missioni a Mosca».
Cosa si ricorda del clima sovietico di quegli anni?
«Mi colpiva il modo in cui l’autorità di Togliatti veniva riconosciuta anche dai russi. Al XXI congresso del Pcus, nel ’59, c’era la fila delle delegazioni comuniste di tutto il mondo che volevano salutarlo. E Krusciov, come segno di attenzione, invitò noi italiani a pranzo nella sua dacia».
Era un ricevimento ufficiale o informale?
«Formale ma ristretto. Saremo stati una decina. Togliatti, Pajetta e me, da un lato, e dall’altro Breznev, Suslov, Ponomariov, Kirilenko, e una sola donna, la Furzeva, un viso da babuska e un portamento marziale. Togliatti parlava correntemente il russo, Pajetta ci provava, ma ogni tanto prendeva uno strafalcione e il segretario lo zittiva».
Tema della discussione?
«Il presente e il futuro dell’Urss e la competizione, che secondo il leader sovietico stava per essere vinta, con gli americani. Krusciov elencò una per una le riforme che avrebbero dovuto portare l’agricoltura sovietica a primeggiare nel mondo. Ci parlò della gara nello spazio e del missile Sputnik a cui già stavano lavorando. Poi si alzò in piedi e spiegò che, per vincere, i sovietici dovevano affrontare dei sacrifici, imparando per esempio a usare pantaloni più stretti per risparmiare stoffa. “Calzoni come quelli italiani, come i vostri’, esclamò, indicando i miei».
Ne fu orgoglioso o rimase intimorito?
«L’uno e l’altro. L’indomani ci portarono a un balletto al Bolshoi, che durava quattro ore. Eravamo in un palco reale con Krusciov e la moglie Nina. All’intervallo ci invitarono a bere qualcosa. Un caffè, speravamo. Invece era stato allestito un banchetto. I russi mangiavano quattro uova fritte a testa, accompagnandole con tartine al caviale e bevendo vodka come se fosse acqua».
Frequentandoli, eravate più convinti, o più scettici, sul fatto che sarebbero riusciti a battere gli Usa?
«Col tempo, sempre più scettici. Al dunque, tutte le loro promesse in fatto di democratizzazione del sistema non si realizzavano mai. Nel ’64, quando Krusciov stava per cadere, Togliatti, convocato a Yalta, non a caso aveva preparato un documento molto critico, il memoriale, che rimase come suo testamento politico».
Eppure per tutta la vita era stato acquiescente: anche nel terribile ’56 dei carrarmati a Budapest.
«Non poteva fare altro».
Macaluso, ma che vuol dire «non poteva fare altro»?
«Significa che se avesse preso le distanze si sarebbe spaccato il Pci. Lei non può ricordare com’era diviso il mondo negli anni Guerra fredda. Togliatti, l’ho anche scritto, fece il possibile, affidando ai suoi successori l’evoluzione di una linea più critica già segnata dal memoriale di Yalta. Fu così che nel ’68 Longo potè condannare l’invasione della Cecoslovacchia».
Nel frattempo il Pci era cambiato?
«Piuttosto era cambiato il sistema di relazioni tra i partiti comunisti. Con noi, sulla condanna, si schierarono i comunisti francesi e gran parte dei partiti occidentali. Eravamo stati colti di sorpresa. Quell’estate ero a Yalta in vacanza con Pajetta, Longo a Mosca, dove subito lo raggiungemmo, per rientrare in Italia. Al momento di salire sull’aereo, Pajetta si chinò a baciare la terra russa, mormorando tra le lacrime: qui non potrò mai più tornare».
Anche per lei, era l’ultima volta a Mosca?
«Niente affatto. Ci tornai l’anno dopo a dicembre, in transito per la Corea. Berlinguer era stato invitato da Kim il Sung, ma all’ultimo momento aveva delegato me. Partii con Antonello Trombadori e atterrammo in una tormenta di neve. L’ambasciatore coreano venne a prenderci e ci sistemò in albergo. Passa un giorno, due, tre e in albergo s’affaccia Zagladin, il nostro abituale interfaccia nel Pcus. Ci chiede: cosa andate a fare in Corea? E io: non so nulla, non c’è un programma prestabilito. L’indomani torna l’ambasciatore e ci comunica che Kim il Sung ci avrebbe mandato il suo aereo personale, perché altrimenti i russi non ci avrebbero mai lasciato partire».
Eravate all’oscuro degli attriti tra russi e coreani?
«Più o meno. Trombadori, che a Roma era un uomo di mondo, conosceva tutto e tutti, giudicò l’aereo di Kim il Sung più bello di quello del Papa. Un aereo con due camere da letto e una sala da pranzo non l’avevo mai visto. Così viaggiammo come papi e fummo ricevuti come capi di Stato».
In che senso?
«All’aeroporto era stata messa in scena un’accoglienza fuori dell’ordinario: fuochi d’artificio, parata militare, saggio ginnico di soldatesse incoronate con ghirlande di fiori. Kim il Sung ci portò nel suo palazzo dov’era stato allestito un gran pranzo in nostro onore. Prima però volle farci visitare gli enormi monumenti che alimentavano il culto della sua personalità, e il museo in cui era custodita, come una reliquia, un’asta da biliardo con cui amava giocare da ragazzo».
Ma alla fine, che voleva?
«Innanzitutto dimostrarci la sua amicizia e il suo senso dell’ospitalità. Ricordo che, insieme con pesci di tutte le varietà, aveva fatto servire oloturie fritte, da lui considerate una prelibatezza. In Sicilia, quel genere di molluschi non si mangiano e si chiamano spregiativamente “strunz’ i mare”. Ma per Kim il Sung, che insisteva sulla necessità dei popoli e dei partiti comunisti di tutto il mondo di essere autonomi uno dall’altro, quella era la prova dell’opulenza e autarchia della Corea. Così dovetti assaggiarle. Una volta entrati in argomento, però, gli ricordai che il partito coreano su Praga era rimasto zitto. Non mi rispose. Sei mesi dopo, il suo ambasciatore in Italia mi recapitò il documento con cui la Corea, seppure in ritardo, aveva preso le distanze da Mosca».
Macaluso, nella sua seconda vita lei è diventato giornalista, polemista e scrittore. Ha scritto contro D’Alema e Veltroni, che l’avevano rottamato nel ’92, ha criticato Sciascia per i suoi controversi rapporti con il Pci, ha difeso Andreotti dalle accuse di mafia, e oggi ha perfino rivalutato Togliatti. Si divertiva di più prima o adesso?
«Veramente ho sempre scritto, mi piaceva e mi piace. Quella per Andreotti è stata sicuramente la battaglia più difficile. I nostri mi dicevano: proprio adesso che lo abbiamo messo sotto, tu lo difendi? Ero stato avversario politico di Andreotti, come ho cercato invano di spiegare a Caselli, ma non tolleravo che fosse lui a pagare in un processo il conto dei rapporti con la mafia che tutta la Dc aveva avuto nel tempo. Si ricorda un discorso di De Gasperi, di Moro o di Fanfani contro la mafia? Neanche uno. Era stato Alessi, il padre dell’autonomia siciliana, a confessare che per battere i comunisti che occupavano le terre, il suo partito si era alleato con la mafia. Il più sorpreso di questa mia scelta fu Andreotti. Conservo ancora un suo bigliettino in cui scriveva: “Ti accorgerai, in che guai ti sei messo”».

La Stampa 16.3.14
Antica Roma, ogni luogo era buono per leggere
In mostra al Colosseo la civiltà greco-romana del libro: la lettura era un esercizio collettivo e diffuso ovunque
di Silvia Ronchey


La mostra «La biblioteca infinita. I luoghi del sapere nel mondo antico», a cura di Roberto Meneghini e Rossella Rea, è aperta a Roma, nell’Anfiteatro Flavio, fino al 5 ottobre, dalle ore 8,30 alle 16. Il biglietto (intero € 12, ridotto 7,50) consente l’accesso al Colosseo, al Foro romano e al Palatino. Catalogo Electa.

La storia è un cimitero di libri. Come a Henry James, quando visitò le rovine dell’anfiteatro di Arles, parve di risentire «la fioca voce», spenta 150 anni prima, dei martiri sacrificati nel circo, così, visitando le rovine del mondo greco, latino, bizantino, il centro di Roma o di Alessandria d’Egitto, di Efeso o di Costantinopoli, chi si mette in ascolto può sentire il lamento dei libri. Distrutti dalle persecuzioni religiose e dalle guerre, immolati in massa sull’altare del progresso, inceneriti dalla folgorante traiettoria del carro trionfale del tempo, i libri sono martiri della storia: suoi testimoni, e perciò sue vittime.
Dei loro sacrifici restano immagini indelebili. La distruzione della biblioteca del Serapeo di Alessandria da parte dei cristiani nel secolo di Ipazia. La devastazione della biblioteca imperiale di Costantinopoli a opera dei pii cavalieri della Quarta Crociata. La Holland Park Library di Londra scoperchiata dai bombardamenti nazisti, dove composti lettori, stretti in lunghi cappotti, sostano compulsando assorti gli scaffali. La biblioteca di Sarajevo bombardata e incendiata dai cetnici nella guerra di Bosnia, la biblioteca di Baghdad saccheggiata nella seconda guerra del Golfo. La memoria dell’antica o recente rovina delle biblioteche non può abbandonarci. Meno che mai in quest’epoca, in cui la biblioteca di Babele è realizzata nell’opera di archiviazione digitale del web, possiamo dimenticare che la meravigliosa disponibilità dei libri virtuali può estinguersi in un soffio: per il fanatismo di un regime o il nichilismo di un hacker, o per la crisi globale delle riserve energetiche. Non sappiamo quale sarà il prossimo capitolo, nella storia delle biblioteche.
La mostra «La biblioteca infinita» (fino al 5 ottobre al Colosseo, altra arena di stragi) si chiude teatralmente con una rassegna di foto del moderno bibliocausto e degli episodi esemplari della distruzione della memoria. Ad aprirla è una panoramica dei luoghi del sapere che gremivano il mondo antico a Nord e a Sud, a Est e a Ovest, nell’unica civiltà greco-romana del libro. Il percorso espositivo, lungo gli ambulacri dell’anfiteatro Flavio rivestiti di antichi scaffali, gli armaria, racconta il loro fato, la loro nascita e morte, lo splendore privato ma soprattutto pubblico, l’ancestrale sacralità, l’antico commercio dei libri con gli dèi.
Dei luoghi della lettura - un esercizio non solitario, allora, ma eminentemente collettivo, se non altro per le recitationes ad alta voce che vi si tenevano e per la loro dislocazione nei luoghi d’incontro sociale, non solo musei o santuari ma anche palestre, ginnasi, terme, spazi polivalenti come il templum Pacis, intorno al quale crebbe nella Roma imperiale il quartiere dei librai - espone i minuti, preziosi reperti: i dittici, i rotoli di papiro, i codici di pergamena; gli stili di bronzo, le tabulae cerate, i calamai e gli altri strumenti di catalogazione e di copia dei libri, raffigurati nei tre affreschi di Nemi; e poi l’ara degli scribi dal Museo Nazionale Romano, la stele di Timocrate «amanuense capace di scrivere correttamente» dal Museo Archeologico di Atene, i nomi degli antichi bibliotecari incisi nel marmo delle epigrafi. In più di cento reperti archeologici rivive per frammenti la naufragata consuetudine degli antichi con i libri, in cui la cultura era commento, citazione, trasmissione, copia paziente del già scritto, non ambizione collettiva alla novità libraria.
Statue, rilievi, affreschi raccontano prima le biblioteche ellenistiche, quei pensatoi di intellettuali dalla folle bulimia libresca, finanziati da autocrati gentili come gli Attalidi di Pergamo o i Tolomei di Alessandria, i cui bibliotecari erano poeti come Apollonio Rodio o Callimaco. Ma è Roma il fulcro della mostra, che agli scavi del templum Pacis di Vespasiano accosta quelli degli auditoria di Adriano, di recente scoperti durante i lavori per la metropolitana, proprio come profetizzato nella Roma di Fellini. E convoca, a completare il quadro, memorie di altre biblioteche pubbliche, dall’atrium Libertatis alla biblioteca ad Apollinis, dalla porticus Octaviae alla biblioteca Ulpia. Solo vederle stringersi sulla mappa a Est del Tevere, tra il Campidoglio e il Palatino, sopra il Circo Massimo e il Portico d’Ottavia, ci dà un’altra percezione della topografia della città. Percorrendo le antiche direttrici di quei vestiboli di pietra sentiamo, come Henry James, la voce fioca dei libri perduti, di un uso pubblico della cultura inabissato e andato in rovina.

La Stampa 16.3.14
Maurizio Pollini:
“Io e Claudio Abbado che musica l’amicizia”
Il maestro parla del legame con il direttore scomparso
intervista di Sandro Cappelletto


“Io e Claudio Abbado che musica l’amicizia” Il maestro parla del legame con il direttore scomparso C’è voluto del tempo. Poi, ora che son passati quasi due mesi dalla scomparsa del direttore, lo scorso 20 gennaio, Maurizio Pollini accetta l’idea di parlare di Claudio Abbado. Del loro sodalizio artistico e della loro amicizia, durati per 50 anni. Lo fa con anima e con esattezza, pensando soprattutto ai giovani musicisti, che dalla loro esperienza hanno molto da imparare. «Da dove cominciamo?», chiede dopo che ci siamo accomodati nel salotto della sua casa milanese.
Dalla fine. Dal concerto di Bologna del 2 dicembre 2013. Dovevate suonare l’Imperatore di Beethoven, una volta ancora. Non fu possibile, le sue condizioni si erano aggravate.
«Volevamo suonarlo con tempi diversi, più mossi, con una concezione del concerto in parte nuova, soprattutto nel primo movimento. Mi è dispiaciuto molto, lei può immaginare, che non si realizzasse questa idea».
Doveva essere il vostro congedo?
«L’estate scorsa, a Lucerna, non stava bene, ma nessuno immaginava che le cose precipitassero in questo modo. Ha affrontato quel periodo in modo ammirevole, con eccezionale forza d’animo e attaccamento a tutti i valori positivi della vita, e naturalmente alla musica. E forse ha vissuto un ulteriore, intensissimo sviluppo artistico. Continuava a pensare al concerto di Bologna, cui doveva seguire una replica a Vienna, come a qualcosa che voleva assolutamente fare. È stato molto triste».
Come vi siete conosciuti?
«Da ragazzi, a Milano. Ci incontravamo spesso per andare al Piccolo Teatro di Paolo Grassi e Strehler, o alla Scala. Abbiamo avuto qualche primo concerto assieme, a Bologna, a Firenze e le cose andavano bene, tra noi. Poi nel 1969 a Vienna, suonammo con i Wiener Philharmoniker il secondo concerto di Bartok. La sua maestria nel senso ritmico, nel padroneggiare questa partitura così difficile. Da quell’esperienza, l’idea di una collaborazione importante diventò evidente. Lui aveva nove anni più di me, era più maturo, aveva già avuto un grande successo a Salisburgo dirigendo Mahler su invito di Karajan».
Nel 1968 Abbado viene nominato direttore stabile alla Scala. E a Milano si respira un’aria nuova.
«È stato un eccezionale programmatore, prima alla Scala, poi a Vienna, dove ha creato il festival Wien Modern, poi ancora nei programmi acutissimi proposti a Berlino. A Milano volle eseguire le sinfonie di Bruckner, di Mahler, le pagine sinfoniche di Berg, ascolti totalmente nuovi per il pubblico non solo milanese, direi italiano. E le opere memorabili: Simon Boccanegra e Macbeth di Verdi con la regia di Strehler, il Boris Godunov di Musorgskij con Jurij Ljubimov. Poi, l’apertura alla contemporaneità, e l’incontro con Luigi Nono».
Nasce per voi Como una ola de fuerza y luz per pianoforte e orchestra. Lavoro dedicato da Nono alla memoria di Luciano Cruz, giovane rivoluzionario cileno. Erano gli anni successivi al golpe di Pinochet. Che accadde quando eseguiste l’opera in Usa, con l’Orchestra di Philadelphia?
«Per il pubblico fu uno shock, perché era una critica esplicita alla politica estera Usa, la guerra in Vietnam e la repressione nel Sud America».
Gli anni della Scala segnano anche i concerti per lavoratori e studenti, un’esperienza allora nuovissima.
«Erano concerti - di Abbado, del Quartetto Italiano, del Trio di Trieste, miei - fatti per favorire lo sviluppo di un nuovo pubblico e nell’idea che musica e cultura debbano essere a disposizione di chiunque. Funzionarono molto bene. Un’idea ancor più radicale si sviluppò a Reggio Emilia. Mi spiace molto che queste esperienze non abbiano lasciato traccia duratura».
Esperienze finite per sempre?
«Almeno per il momento».
Dalle fabbriche degli Anni 70 al recente viaggio in Oman, dove Abbado era riuscito ad ottenere un periodo di residenza per l’Orchestra Mozart, da lui fondata. Come scoprì quel paese?
«Durante un periodo di riposo. Era rimasto molto colpito dalla figura del sultano Qabos Bin Said. Un intellettuale, un musicista che suona l’organo, forse un eccentrico, un uomo di governo che ha dato sanità e istruzione gratuite a tutti gli abitanti, e ha fatto costruire una sala da concerto e un teatro d’opera. A fine gennaio, era stato programmato lì un concerto».
Con l’Orchestra Mozart, che ora rischia di chiudere per mancanza di fondi. Riuscirà a salvarsi?
«Ho suonato con loro, è un’orchestra di grandi qualità, sarebbe grave se non sopravvivesse. Dobbiamo ricordare che Abbado è stato anche un inventore di orchestre: pensi a una formazione come quella di Lucerna composta da solisti che hanno accettato di suonare con lui per entusiasmo e lui ha saputo amalgamare splendidamente. E poi le tante orchestre di giovani: amava moltissimo lo speciale entusiasmo dei giovani non contaminati dalla routine».
Discussioni particolari, contrasti interpretativi tra voi?
«Ci sono stati dei momenti di discussione, ma sempre superati».
Alessandro Carbonare, primo clarinetto dell’orchestra di S. Cecilia, dice: quando suonavi con Abbado, bastava che ti guardasse e la musica veniva come voleva lui. È questo il carisma?
«Facendo musica, la cosa essenziale non è la discussione sulla partitura davanti al pianoforte, quando magari si esprimono diversi punti di vista. No: è una forma di intesa istintiva molto più importante delle parole. Così è senz’altro avvenuto nel rapporto tra noi due e per questo è così difficile dire in che cosa esattamente consistesse questa intesa. Questo è il punto: si va in orchestra, si suona e si genera una specie di intesa spontanea che non è prevedibile, ma che avviene».
Abbado era istintivo o riflessivo?
«L’uno e l’altro. E seguiva i solisti in modo straordinario, ho dovuto essergli grato per avermi sostenuto con un’attenzione incredibile milioni di volte».
Per il pubblico eravate diventati quasi un binomio.
«Forse perché si percepiva che tra noi c’era un rapporto di comprensione reciproca, di simbiosi».
Sarà difficile per lei abituarsi all’idea di non fare più musica con lui?
«Lei mi tocca nel profondo. Tutti hanno perso un grande direttore, io ho perso anche un amico».
Ottomila persone si sono raccolte in Piazza della Scala per salutarlo un’ultima volta.
«Guardando quella folla mi sono ritornati alla mente i momenti di incredibile entusiasmo durante le sue esecuzioni. Il pubblico non aveva dimenticato».

Corriere 16.3.14
La mia architettura è come un film
Padova celebra Renzo Piano: «Noi progettisti dovremmo vivere 150 anni»
di Stefano Bucci


L’architettura è come il cinema e quindi impossibile, o quasi, da raccontare in una mostra. Parola di Renzo Piano, il progettista italiano oggi più famoso al mondo, nuovo simbolo della possibile Grande Bellezza d’Italia ma anche di un’altra idea di fare architettura: quella dell’estetica che non dimentica l’etica. La citazione sul cinema non arriva a sproposito, visto che proprio Piano sta progettando in contemporanea l’Academy Museum of Motion Picture di Los Angeles, di fatto il museo del Cinema e degli Oscar, e la Fondazione Pathé di Parigi, ancora una volta votata al cinema. Una citazione che ieri ha costantemente accompagnato Piano (con le memorie commosse di Claudio Abbado, Italo Calvino, Luigi Nono, al quale ha aggiunto un rimando a Paolo Conte) durante tutta la sua lunga giornata a Padova. Una giornata divisa tra l’inaugurazione della monografica a lui dedicata fino al 15 luglio nel Salone del Palazzo della Ragione e l’affollatissima lectio magistralis nell’Aula Magna Galileo Galilei dell’Università: quattrocento i presenti nella sala principale, tra cui Richard Rogers, compagno di avventura del Beaubourg («eravamo e siamo ancora due ragazzacci, quel progetto ce l’hanno fatto fare solo perché non l’avevano capito»); trecento stipati in altre due aule; oltre mille in diretta streaming; il corso principale della città bloccato dai giovani davanti ai maxischermi allestiti per l’evento.
Questa grande monografica è l’ennesima sfida dell’architetto nato a Genova nel 1937 da una famiglia di piccoli costruttori: «Mi consideravano un figlio degenere perché ho voluto fare l’architetto, ma non mi hanno mai ostacolato». La cifra del mestiere e del saper fare contrassegna da sempre il lavoro del suo Renzo Piano Building workshop, il suo studio diviso tra Genova, Parigi e New York. «Che cos’ha questa mostra di diverso dalle altre che mi hanno dedicato, a Milano o a Los Angeles? Lo spazio, uno spazio straordinario, un universo dove i miei lavori flirtano con gli affreschi, dove i tavoli con i miei progetti richiamano Padova con l’antichissima tradizione della sua università e i suoi studenti, Galileo compreso».
Nessuna voglia di celebrazione: «Gli architetti — ironizzava ieri Piano — dovrebbero vivere almeno 150 anni perché i primi 75 sono necessari solo per imparare e per mettere insieme tutte le conoscenze». Piuttosto il desiderio di «raccontare il percorso dei miei progetti, l’idea di un lavoro collettivo, fatto come di tanti ripensamenti proprio come accadeva nell’arte».
Sono trentadue i progetti presenti nel Salone, in un allestimento giocato su una serie di grandi tavoli, uno per ogni progetto, con tante sedie attorno «perché questo deve essere anche un luogo dove si studia». La mostra è inserita nell’ambito delle manifestazioni della VI Biennale internazionale d’architettura Barbara Cappochin da sempre particolarmente attenta alla realtà dei giovani architetti: in scena («ho voluto essere il più rispettoso possibile, ho scelto la leggerezza») sta un vero e proprio itinerario ideale tra poesia, tecnologia e impegno, qualcosa — museo, università, casa privata, spazio industriale — che riesce a restare felicemente sempre in bilico «tra il bullone e la folle idea che il mondo possa essere cambiato».
Dal Porto Antico di Genova all’Aeroporto di Osaka, dal California Academy of Sciences di San Francisco all’Astrup Museum of Modern Art di Oslo, dal Muse di Trento alla Scheggia di Londra («è l’edificio più alto d’Europa, ma ha pochissimi parcheggi perché è l’unico modo per incrementare il trasporto pubblico»): tutto l’universo del Rpbw, cioè lo studio di Piano in sigla, è stato ricostruito «pezzo per pezzo», come recita il titolo della mostra accompagnata da un imponente volume di Francesco Dal Co per Electaarchitettura, con oltre seicento pagine e mille illustrazioni.
Il gioco dell’architettura deve così essere «effimero e leggero», un «lavoro corale, dove non c’è nemmeno quasi più bisogno di parlare, perché ci intendiamo solo con lo sguardo», ha raccontato ieri Piano con l’orgoglio del professionista e con la sua solita gentilezza: «Ogni progetto è però anche un’avventura: nei 38 mesi del cantiere di Osaka abbiamo avuto 36 terremoti; a Berlino abbiamo trovato le bombe, sull’Oceano abbiamo dovuto combattere i tifoni». Eppure questa sua (solo presunta) voglia di leggerezza non ha mai sottomesso l’impegno, sfociato pochi mesi fa nella nomina a senatore a vita: «Sono un diversamente senatore, sto cercando di trovare il modo giusto per essere utile al mio Paese. Vorrei fare mie le parole di Norberto Bobbio: sono indipendente dalla politica ma non indifferente alla politica». Guardando sempre ai giovani: ai giovani è dedicata la Fondazione Renzo Piano e non a caso porta la sua firma il Tavolo dell’architettura realizzato in pietra di Vicenza come emblema del Premio Cappochin che propone direttamente on the road le 58 migliori opere selezionate, tutte di giovani. Come giovane è il gruppo che si sta dedicando al tema del recupero delle periferie: premiato con il Priztker nel 1988, unico italiano con Aldo Rossi a essere stato insignito del Nobel dell’architettura, Piano gli ha destinato il suo stipendio di senatore. Aggiunge: «Bisogna fare più concorsi, solo così si scopriranno nuovi talenti». E il premier Renzi, un altro giovane, che le ha chiesto una mano per riprogettare l’edilizia scolastica italiana, cominciando magari dalle periferie? «È la prima volta che succede, per ora non c’è niente di definito, ma io mi metto a disposizione. Sono contento che mi abbia interpellato perché credo che insieme si potranno fare buone cose».

Corriere 16.3.14
Severino e la verità: «La nostra Luna»
di Armando Torno


Le tematiche del pensiero di Emanuele Severino sono sempre più al centro dell’attenzione e non soltanto in Italia. Convegni, analisi, ricerche si stanno moltiplicando. Diremo tra i numerosi esempi che Davide Spanio ha da poco curato per Morcelliana i testi del convegno di Venezia del 2012 dal titolo Il destino dell’essere. Dialogo con Emanuele Severino (pp. 335, e 25). Ed è appena uscito un numero speciale della rivista semestrale di filosofia «Il pensiero» , diretta da Vincenzo Vitiello (Edizioni Scientifiche Italiane), con un Omaggio a Emanuele Severino.
Proprio quest’ultima pubblicazione, che contiene undici saggi sul filosofo, sarà presentata domani 17 marzo alle 17.30 presso l’Auditorium Santa Giulia di Brescia (via Piamarta, 4). Coordinati da Dino Santina, interverranno Massimo Cacciari, Carlo Sini e lo stesso Vincenzo Vitiello; Emanuele Severino sarà presente. Il quale, commosso e grato per l’omaggio, ci ha tra l’altro confidato una riflessione. La poniamo in margine al convegno bresciano e al numero monografico della rivista da cui questo incontro è nato: «Tutti i miei interlocutori, anche i critici veri e propri, si prendono cura della verità. Essa è la Luna, quel che dico il dito — la Luna che contiene ogni possibile altro spettacolo, per quanto “urgente”, “concreto”, “profondo”. Non è un paradosso. Infatti la verità è tale solo in quanto nega l’errore ed è tanto più concreta quanto più l’errore è concreto, fiorisce, è robusto, coerente, razionale, suggestivo. Lo spettacolo di cui parlavo mostra innanzitutto la necessità che le cose differenti differiscano. Ma anche i miei critici intendono dire qualcosa che differisce da quello spettacolo, cioè tengono in gran conto la differenza delle cose tra loro differenti».

il Fatto 16.3.14
“Ai falsi letterati preferisco gli analfabeti”
L’incontro di Enzo Biagi con Eugenio Montale
di Enzo Biagi


L’INCONTRO CON EUGENIO MONTALE, UNO DEI PIÙ GRANDI POETI DELLA STORIA ITALIANA: TRA LA SUA PRESUNTA PIGRIZIA, LA LUNGA ESPERIENZA COME SENATORE (“NON CREDEVO, MA I POLITICI LAVORANO”); LA SUA SCARSA VOGLIA DI MONDANITÀ (“SAREI CONTENTO SE ISTITUISSERO L'UNDICESIMO COMANDAMENTO: NON SECCARE IL PROSSIMO”). E IL SUO RAPPORTO CON LA VECCHIAIA (“HO 77 ANNI, MA SONO GLI ALTRI A RICORDARMELO”)

Come ti vedi? Se dovessi tracciare un rapido ritratto di Montale, che cosa diresti?
Non ho mai saputo quale faccia dovessi avere davanti al mondo. Gli eventi mi hanno modificato. Sono diventato giornalista dopo i cinquanta, quando si va quasi in pensione. Mario Borsa mi invitò a collaborare al Corriere della Sera, poi entrai in redazione. Ho tradotto anche il primo volume delle memorie di Churchill. Guglielmo Emanuel, che aveva sostituito Borsa, non voleva articoli di critica letteraria; i viaggi li ho fatti a mie spese. Non ho mai deciso nulla, cosa fare, dove andare. Nel 1929 diventai direttore, bibliotecario, del Gabinetto Vieusseux, a Firenze. Paolo Emilio Pavolini mi presentò al podestà, il conte Della Gherardesca. Nel 1939 si impose il Circolo di cultura fascista e mi licenziarono perché non avevo preso la tessera del partito; ebbi 18 mila lire di buon'uscita. Che cos'è per te il fascismo? È la sopraffazione al posto della convinzione. È nato sul ritardo dei treni, sulla lentezza del governo. Tutti dicevano: ‘Non si può andare avanti’, salta fuori quella specie di scalmanato, e promette ordine, disciplina. Anche gli stranieri ammiravano il Duce e io stavo bene attento, quando venivano in biblioteca, a far chiacchiere. Prova a definirti. Sono poco adatto alla vita, sempre sulla difensiva, ho sempre cercato di non sporcarmi le mani. Mi giudicheranno gli altri. Chi ha detto che sei “un opportunista scettico e rinunciatario”? Come si può spiegare un'affermazione così severa? Non lo so, non so se è un mio nemico. Non credo di averne molti. Forse perché ho fatto qualcosa a favore del divorzio, che al Senato è passato con pochissimi voti. Il problema è stato impostato in maniera tanto ridicola e la gente pensa che divorziare sia obbligatorio. Obbligatorio era il matrimonio, ai tempi di Mussolini.
Quali sono, per te, i peccati più gravi, e quelli che meritano più indulgenza?
Domanda un po' strana: l'invidia è terribile cosa, e anche l'avarizia. Meritano comprensione quelli che, per tenersi a galla, si arrangiano, si adattano, usano anche armi sleali.
Che cosa ti hanno portato gli anni, e che cosa ti è mancato?
Nulla di sostanziale, anche perché non avevo un programma. Se la vita è un labirinto, sono passato in mezzo a innumerevoli interstizi senza riportare gravi danni, non so se per abilità, forse per caso.
Qual è il tipo di uomo che ami di più?
I buoni, per il loro modo di pensare e di vivere, ma non so poi dove siano, naturalmente.
Qual è il tuo ricordo più drammatico? Forse la fucilazione di quel soldato che aveva rubato un orologio, e gridava al plotone di esecuzione: “Non uccidetemi. Sono figlio di un professore di geografia”?
Vidi un cervello saltare in aria. Non era uno del mio reparto. Avevo un attendente che non sapeva né leggere né scrivere, e mi portava in spalla per scendere dalle rupi. Il mio torace era così sottile che avrei potuto chiedere l'esonero, ma non ho mai fatto niente per imboscarmi. La Prima guerra mondiale ha suscitato in me una grande ammirazione per l'Austria-Ungheria; ho trovato una civiltà migliore della nostra. Anche adesso, in certe regioni, sembra di non essere in Italia. Capisco però che quell'impero non poteva durare in eterno. Morti ne ho poi visti tanti, anche durante la Seconda guerra, a Firenze, anche sulla strada, perché i tedeschi tiravano da Fiesole. Sono un po' sorpreso dalla grande velocità del tempo, non so se a te succede, passa tanto in fretta, mentre quando ero giovane no.
Questo ti rattrista?
Un po', certo, io non mi accorgo di andare verso i settantasette, ma gli altri sì, e me lo fanno capire, con accenni: “Voi anziani”. Il cuore pare che non invecchi, ma invecchia tutto il resto. Caro Enzo, pensi che avremo presto un governo comunista?
No.
Non lo credo neanch'io. Forse non lo vogliono neppure loro. Pensi che la lira vada a zero?
Proprio a zero, no. Giù, certo.
Allora aumenteranno gli stipendi.
Hai detto: “Gli intellettuali italiani intervengono sempre al momento sbagliato”.
Già. E poi chi sono gli intellettuali? I giornalisti sì e no. Non hanno peso nella politica e neppure nella vita. Si lasciano vivere. Dimmi: ma che cosa succederà dei giovani di oggi? Sono diversi da quello che eravamo noi, che eravate voi?
Hanno fatto delle esperienze.
Ma perché è stata scoperta la gioventù? Mio padre non mi ha mai detto: ‘Sei giovane, hai diritto di godertela, sei libero, sii beato’. Questa è la vera invenzione del nostro secolo, in senso morale, si capisce.
Sono una forza. Contano, votano, acquistano.
Ricordo che sotto Giolitti c'era il collegio uninominale. Mio padre votava a Levanto, duecento persone, niente donne, niente analfabeti, niente poveri, bisognava pagare le tasse. Dall'attuale elettorato, nove decimi sarebbero tagliati fuori. Ma perché i giovani vogliono la laurea, il diploma? Non capisco perché. Dovrebbero ammirare quelli che non sanno niente .
Che cosa resterà della poesia contemporanea?
Chi lo sa? Ogni generazione cercherà di distruggere i poeti di quella precedente. Per ora la civiltà delle immagini ha declassato le altre attività creative.
Che cosa ti infastidisce di più?
L'ignoranza, non quella semplice; quella di chi crede di sapere, la boria, la saccenteria, tutto quello che rende antipatico un individuo e che, d'altra parte, ne favorisce anche l'affermazione.
Qual è stato il momento più lieto della tua storia?
I due o tre anni che seguirono la Prima guerra. Mi sentivo abbastanza giovane, ma non lo ero. Non ho mai praticato nessuno sport; una felicità fisica non l'ho mai conosciuta.
Frequentando Palazzo Madama, che idea ti sei fatto dei nostri politici?
Credevo che non facessero nulla, invece sono enormemente indaffarati, hanno borse cariche di documenti, vanno e vengono. Non so se le cose le fanno bene, anzi, ne dubito, ma ne fanno moltissime.
Di te dicono che sei un pigro.
Non sono molto attivo, questo è vero, ma se pigrizia è anche tendenza alla riflessione, sì, un po’ me la posso riconoscere. Tendo sempre a ritardare le cose, poi quando mi decido, scopro che era meglio non averle fatte. Non credevo di arrivare a questa età: mi devo considerare fuori gioco; fuori tutto, un pensionato della vita?
Hai visto qualche film di Pasolini? Che ne pensi dell’esplosione del sesso?
Non ho visto nulla. Ho parlato con un urologo, mi ha detto che una grandissima percentuale dei giovani è impotente. Non so se è vero. Quando il sesso era misterioso aveva un certo fascino che ora non ha più. I nostri antenati amavano donne che portavano sei paia di mutande, e destavano passioni che oggi non suscitano più.
C’è qualche legge che vorresti proporre?
L’abolizione della caccia, o almeno dell’uccellagione. Ma non si farà: un milione e mezzo di italiani hanno la licenza e rappresentano un bel numero di voti.
Come ricordi gli scrittori, i poeti che hai conosciuto? Svevo, Joyce, Eliot, o chi ancora?
Thomas Eliot l'ho visto nel suo ufficio d'impiegato di banca, a Londra, e poi due volte a Roma, era molto avaro della sua personalità, non si spendeva tanto, dopo un quarto d'ora la segretaria faceva un cenno, e il colloquio finiva. Era molto conservatore. Ezra Pound invece era tanto gentile, e un eccellente giocatore di tennis. Italo Svevo aveva una mentalità da industriale, apprezzò poco i miei articoli, tra me e lui c'era odore di trementina. Anche mio padre commerciava in resine, acquaragia, prodotti chimici. Lui, come romanziere, in famiglia non era molto apprezzato. Con James Joyce ho avuto una lunga corrispondenza.
Come trascorri le tue giornate?
Prendo dei sonniferi e leggo. Qualche volta esco. Ogni tanto vado a Roma al Senato.
Una volta mi hai detto che leggevi spesso libri gialli.
Ora non più. Li leggevo in lingua originale, mi servivano per imparare l’inglese. Ero molto curioso di sapere chi era l’assassino, questo mi aiutava a fissare nella memoria le parole.
Fai una vita molto ritirata, nonostante i tanti inviti mondani.
Sarei contento se istituissero l'undicesimo comandamento: non seccare il prossimo. Le riunioni mondane le detesto, come le signorine che scrivono versi e pretendono giudizi, i falsi intellettuali e gli esibizionisti. Preferisco stare con gli analfabeti. Da loro c'è sempre da imparare. Possiedono alcuni concetti fondamentali, quelli che contano. Purtroppo, pare ne siano rimasti pochi.

il Fatto 16.3.14
Quel dialogo fra due colleghi che si stimavano
Il poeta e il giornalista si erano conosciuti lavorando assieme al Corriere della Sera
di Loris Mazzetti


Eugenio Montale è stato definito il poeta del “male di vivere” e l’intervista di Enzo Biagi, che il Fatto Quotidiano pubblica oggi, è l’esempio di questa sua inquietudine. Sono rare le sue interviste perché l’indole porta il poeta a stare lontano dagli altri. Montale è colui che “vorrebbe ma non sa”, dotato di una grande incapacità di partecipare alla vita che lo circonda. Per lui è la poesia il ponte tra la sua solitudine e il mondo intero. L’incapacità di comunicare non lo isola “anzi potenzia sia l’intelligenza critica sia la sensibilità emotiva”.
L’infanzia malata e le tre lauree ad honorem
Nacque a Genova in una famiglia borghese, il padre era socio in un’azienda di prodotti chimici. Era un bambino malato, i suoi studi si fermarono alla terza tecnica, le lauree arrivarono successivamente: tre ad Honorem.
La sua cultura non ne risentì, anzi, come autodidatta non subì condizionamenti nei suoi studi su Dante, Petrarca, Boccaccio, D’Annunzio. Disse: “In Italia anche per diventare poliziotto bisogna essere dottore”. L’unico titolo di cui andava orgoglioso e che usava sull’elenco del telefono era quello di “giornalista”. L’intervista fu realizzata per La Stampa, era l’elzeviro di Terza Pagina, pubblicato il 24 febbraio 1973 con il titolo: “Montale”, all’interno della rubrica di Biagi “Dicono di lei”. Nel 1971 Biagi era tornato al Resto del Carlino come direttore. Era convinto dirimanereaBolognapersempre: la direzione durò solo un anno. L’editore, il petroliere Monti, su sollecitazione del ministro del Tesoro Preti, lo licenziò. Come tutte le altre volte che fu licenziato (Epoca, il telegiornale), il quotidiano di Torino gli aprì le porte. Lì, negli anni precedenti, conobbe Giulio De Benedetti che lo riprendeva al giornale con la solita battuta: “Che bella notizia, la prossima settimana parti e fai l’inviato per noi”. Per Biagi, De Benedetti fu un grande direttore e fu l’unico che lo fece piangere. Accadde nel 1963 in occasione dell’assassinio di Kennedy. Biagi era in America per la Rai e stava facendo delle riprese lungo il Mississippi, alla notizia dell’attentato entrò nella prima cabina telefonica e dettò a braccio agli stenografi de La Stampa un pezzo di cronaca, raccontando cosa succedeva negli Stati Uniti contemporaneamente all’omicidio. De Benedetti si aspettava un pezzo carico di emozioni, di lacrime, di sentimenti.
L’articolo non venne pubblicato e Biagi se ne andò dal giornale. Poi vi ritornò l’anno dopo. Tra Montale (classe 1896) e Biagi vi erano ventiquattro anni di differenza. Nell’intervista i due si danno del tu perché erano amici e al Corriere della Sera erano stati colleghi. Montale nel dopoguerra cominciò a scrivere per il Corriere d’informazione, poi divenne un collaboratore del Corriere della Sera.
Subito dopo arriva il Nobel per la Letteratura
L’intervista fu fatta prima del Premio Nobel per la Letteratura (12 dicembre 1975): “Per la sua poetica distinta che, con grande sensibilità artistica, ha interpretato i valori umani sotto il simbolo di una visione della vita priva di illusioni”. Durante la consegna del Nobel il poeta ringraziò con una domanda: “È ancora possibile la poesia? In un mondo nel quale il benessere è assimilabile alla disperazione e all’arte, ormai diventata bene di consumo, ha perso la sua essenza primaria? Questo delle domande fu una sua caratteristica, infatti lo stesso Biagi scrisse nella presentazione del pezzo: “Montale non si intervista; è lui che, ogni tanto interroga. Vuol sapere che cosa succede, o quello che pensi. Va poco in giro ma sa tutto: è curioso, non pettegolo, e segue anche i fatti della cronaca minuta”. Dalla presentazione si intuisce che Montale era un conversatore molto piacevole e le sue battute nascondono nel paradosso la verità, con sapiente uso dell’ironia anche nei confronti di se stesso. Confidò a Biagi che da ragazzo sognava di diventare un cantante famoso: “Forse non ero abbastanza stupido, per riuscire occorre un misto di genialità e di cretineria”. L’intervista fu fatta nella casa milanese dove viveva in solitudine “affollata di notizie e di pensieri”, nella sua stanza “da cui Montale vede il mondo”. Scrisse Biagi: “Sa tutto: libri che si vendono, quello che accade nei giornali, le manovre del potere. E di tutto parla con ironia e distacco. Siamo soli. Tutto è tranquillo. Di là Gina sta stirando le camicie”. Il suo primo editore fu Piero Gobetti che nel 1925 gli pubblicò Ossi di seppia.
Secondo certi critici, Eugenio Montale, in cinquant’anni, ha scritto soltanto duecento poesie. Nel 1967 il presidente della Repubblica Saragat lo nominò senatore a vita. I riconoscimenti ricevuti non lo esaltavano: “Non attribuisco nessun particolare privilegio all’artista nella società, nessun merito speciale”.

l’Unità 16.3.14
Il corpo dell’artista
Frida Khalo, storia di una rivoluzionaria
La donna che ha tradotto il dolore in colori
La divisa della nuova militanza «Frida sceglie come abito da sposa il costume indio delle donne di Tehuantepec, le più fiere, erotiche e coraggiose
Comincia a collezionare abiti e oggetti del mondo passato: che sia il passato il futuro delle donne?»

di Flavia Matitti

«QUASI BELLA, AVEVA LIEVI DIFETTI CHE NE AUMENTAVANO IL MAGNETISMO. LE SOPRACCIGLIA FORMAVANO UNA LINEA CONTINUA CHE LE ATTRAVERSAVA LA FRONTE e la bocca sensuale era sormontata dall’ombra dei baffi. Chi l’ha conosciuta bene sostiene che l’intelligenza e lo humour di Frida le brillavano negli occhi e che erano proprio gli occhi a rivelarne lo stato d’animo: divoranti, capaci di incantare, oppure scettici e in grado di annientare. Quando rideva era con carcajadas, uno scroscio di risa profondo e contagioso che poteva nascere sia dal divertimento sia come riconoscimento fatalistico dell’assurdità del dolore». Così la critica d’arte americana Hayden Herrera, nella sua celebre biografia (1983), descrive l’aspetto e il carattere della pittrice messicana Frida Kahlo (1907-1954), diventata nel corso di questi ultimi decenni una delle figure più popolari e amate a livello mondiale.
Artista, militante comunista, anticonformista, donna indomita e vitale, a dispetto di un’esistenza segnata dal dolore, Frida non incarna solo l’anima del Messico, ma è un mito che ha catturato l’immaginario collettivo. È un’icona del movimento femminista fin dagli anni 70 e una bandiera per le lesbiche perché, bisessuale dichiarata, non faceva mistero delle sue relazioni amorose, tra l’altro con la fotografa Tina Modotti e forse con Georgia O’Keeffe. È adorata dalle star dello spettacolo, prima fra tutte Madonna, ma anche da Jennifer Lopez e Salma Hayek, quest’ultima nel 2002 ha interpretato Frida nell’omonimo film di Julie Taymor. È la musa ispiratrice di numerosi stilisti di moda, da Jean Paul Gaultier e Christian Lacroix, che le hanno reso omaggio con la collezione primavera-estate 1998 a Ricardo Tisci per Givenchy nell’autunno-inverno 2010. Esiste, insomma, una vera e propria «fridamania», fatta di libri, mostre, cataloghi, film, gadget. Del resto l’artista stessa non è del tutto estranea al fenomeno, anzi è stata proprio lei la prima a prestare attenzione alla costruzione della propria immagine con una capacità e un intuito davvero moderni.
Terza figlia di Wilhelm Kahlo, un fotografo ebreo d’origine ungaro-tedesca e Matilde Calderon, Frida era nata a Coyoacán, un sobborgo di Città del Messico, il 6 luglio 1907. Sosteneva però di essere nata nel 1910 e questo non per la solita civetteria femminile di togliersi qualche anno, ma per passione politica. Voleva, infatti, far coincidere la propria nascita con lo scoppio della rivoluzione messicana.
L’INCONTRO CON LA MALATTIA
Nella sua vita conosce molto presto la malattia e la sofferenza fisica. Ha appena sei anni quando si ammala di poliomielite, guarisce ma la gamba destra resta meno sviluppata. Poi a diciotto anni, il 17 settembre 1925, un terribile incidente la manda quasi all’altro mondo. L’autobus sul quale viaggiava viene travolto da un tram. Nello scontro un corrimano di metallo le trapassa il corpo e Frida riporta lesioni gravissime alla spina dorsale e fratture in tutto il corpo. Negli anni a venire, come conseguenza dell’incidente, sarà costretta a indossare un busto ortopedico, non riuscirà a portare a termine le gravidanze (al 1930 risale il suo primo aborto) e subirà almeno trentadue interventi chirurgici, per lo più alla colonna vertebrale e al piede destro, prima di morire, il 13 luglio 1954, all’età di quarantasette anni, nella sua casa natale, la Casa Azul, a Coyoacán, che dal 1958 è divenuta un museo (www.museofridakahlo.org).
Tuttavia nell’immediato, grazie alle energie della giovinezza e a una forza d’animo incrollabile, la disgrazia non assume l’aspetto di una tragedia e Frida reagisce. Costretta a letto per mesi, inizia a dedicarsi alla pittura e da questo momento l’arte diventerà per lei un modo di liberarsi dal dolore. Inizia dipingendo il proprio volto, che studia riflesso in uno specchio appeso sopra il letto. L’autoritratto resterà anche in seguito uno dei suoi soggetti preferiti. Anni più tardi, dopo aver esposto per la prima volta al pubblico nel 1938, a New York, nell’importante galleria Julien Levy, scrive all’amico Carlos Chavez: «Dato che i miei soggetti sono sempre stati le mie sensazioni, i miei stati d’animo e le reazioni profonde che man mano la vita suscitava in me, ho spesso oggettivato tutto questo in autoritratti, che erano quanto di più sincero e reale potessi fare per esprimere quel che sentivo dentro e fuori di me». E anche sotto questo aspetto Frida è stata una pioniera, perché ha inaugurato un filone autobiografico molto battuto dalle donne artiste, a partire da Louise Bourgeois fino a Nan Goldin e Tracey Emin, che consiste nell’attingere al proprio vissuto, raccontando ossessivamente la propria vita e i propri traumi.
Nel 1928 Frida conosce Diego Rivera (1886-1957), che ha il doppio dei suoi anni ed è un pittore già molto noto. Desidera un suo parere e gli sottopone i suoi dipinti. Nell’agosto 1929 i due celebrano il loro matrimonio, che la madre di Frida descrive come «tra un elefante e una colomba» perché Diego è un omone alto e corpulento, mentre lei è esile e minuta. Sarà un amore intenso e duraturo ma turbolento, fatto di reciproci tradimenti, separazioni e un breve divorzio. Tra i suoi amanti Frida avrà uomini assai diversi, come lo scultore Isamu Noguchi e Leon Trotsky, ospite con la moglie dei Rivera in Messico.
A unire Frida e Diego, comunque, oltre alla pittura è la passione politica. La rivoluzione aveva significato per i messicani la riscoperta orgogliosa delle proprie radici culturali, base dell’identità nazionale. Così Frida, come una divinità preispanica, porta vistosi gioielli tintinnanti e indossa abiti tradizionali delle regioni messicane. Attraverso il proprio abbigliamento «etnico» costruisce la sua personalità e suscita scalpore. Quando è a New York nell’ottobre 1937 una sua foto scattata da Toni Frissell viene pubblicata sulla prestigiosa rivista Vogue. A Parigi quando André Breton organizza la sua personale
intitolata Mexique, nel marzo del 1939, la stilista Elsa Schiaparelli crea il vestito Madame Rivera in suo onore. Nonostante il successo della mostra, visitata tra gli altri da Mirò, Kandinsky, Picasso, Duchamp e Tanguy, i rapporti con Breton, non sono facili. Lui la definisce «una bomba avvolta in nastri di seta», lei lo considera un «vecchio scarafaggio». Lui la vuole arruolare nelle fila dei surrealisti, mentre lei obietta di non dipingere i suoi sogni, come fanno i «merdoni» del Surrealismo, ma la sua realtà, rivendicando una volta di più le radici messicane della sua ispirazione. E in effetti nei suoi dipinti si ritrova l’anima profonda del Messico. In un quadro di triste attualità, ispirato a un fatto di cronaca nera, denuncia il femminicidio, riportando nel titolo Unos
cuantos piquetitos (1935), le parole dell’assassino che al processo aveva detto di aver dato alla donna morta accoltellata «solo qualche piccola punzecchiatura».
Con il passare degli anni, però, la salute peggiora. Nel 1953, sotto la minaccia di cancrena, le viene amputata la gamba destra. Eppure il suo ultimo dipinto, eseguito otto giorni prima di morire, è un estremo omaggio reso alla vita. Ritrae dei cocomeri che si stagliano, verdi e rossi, su un cielo azzurro e sulla polpa succosa e sensuale di una delle fette è scritto Viva la Vida. Un inno alla vita che nell’ultima pagina del suo diario acquista invece la forma di un addio definitivo: «Spero che l’uscita sia gioiosa e spero di non tornare mai indietro».

Repubblica 16.3.14
Nella giornata del Pi greco facciamo la festa ai numeri
di Piergiorgio Odifreddi



Venerdì scorso era il 14 marzo: una data apparentemente insignificante, che però gli anglosassoni scrivono 3.14.
Dunque, a loro ricorda la parte intera e le prime due cifre decimali del pi greco. E la festeggiano in mezzo mondo, così come noi festeggiamo durante l’anno una lunga serie di ricorrenze religiose e civili, in fondo non molto più sensate di questa.
Che il rapporto fra la circonferenza e il diametro di un cerchio sia un po’ più di tre, lo si vede anche a occhio. Ma determinarlo precisamente è un’altra storia, e Archimede ci arrivò prendendo un cerchio, inscrivendogli e circoscrivendogli due poligoni di 96 lati, misurando i rapporti fra i loro perimetri e il loro diametro, e accorgendosi che la parte intera e le prime due cifre dopo la virgola erano uguali: dunque, dovevano essere le stesse anche per il cerchio compreso fra loro.
Naturalmente, pi greco non è uguale a 3,14!
Anzi, non si può descrivere con un numero finito di cifre dopo la virgola. E nemmeno con un numero infinito, ma periodico: cioè, con un blocco che da un certo punto in poi si ripete sempre uguale. Ma questo lo si scoprì solo molto dopo, nel Settecento, e fa parte del suo fascino. Un fascino al quale non rimase insensibile la poetessa polacca Wislawa Szymborska, premio Nobel per la letteratura nel 1996, che dedicò al numero una poesia che inizia così: «L’ammirevole pi greco, tre virgola uno quattro uno».
Il prossimo anno la ricorrenza sarà ancora più significativa, perché 3.14.15 ricorderà addirittura le prime quattro cifre decimali di pi greco! È troppo sperare che, tra il 1 gennaio e il 31 dicembre, ce ne ricorderemo pure noi, senza lasciare agli anglosassoni il monopolio della celebrazione del numero più importante della matematica?

Repubblica 16.3.14
Il vecchio Leopardi si vergogna del giovane autore dell’Infinito
di Walter Siti


Studiandola a scuola spesso ci si dimentica che è la poesia di un ragazzo appena ventunenne; precoce sì, ma fino a quel momento aveva scritto (da tenere per il futuro) solo due enfatiche canzoni patriottiche e delle terzine d’amore inventate su una parente venuta in visita. Qui di colpo cambia tutto, nasce una musica. Lo chiama “Idillio primo”, pensando agli idilli di Mosco (un poeta alessandrino della Magna Grecia) che aveva tradotto; per esempio l’idillio quinto («in selva oscura/ seder m’è grato, mentre canta un pino/ al soffiar di gran vento»). Vuole scrivere una cosa breve, intima, di contatto con la natura; ha il mito degli antichi greci e della loro “ingenuità”, come aveva letto in Schiller. In un suo scartafaccio di appunti aveva notato, per lodare i classici rispetto ai romantici, che gli antichi descrivono la natura con spontaneità, semplicemente indicandone gli elementi («quell’albero, quell’edifizio, quella selva, quel monte») e grazie a una specie di stupore infantile «ci rapiscono, ci sublimano e ci immergono in un mare di dolcezza». Anche lui vuol fare come i greci, ma da inesperto esagera: a forza di indicare ci mette otto aggettivi e pronomi dimostrativi («questo», «quello») in quindici versi. Quasi senza volere crea qualcosa di inedito nella poesia italiana: invece di raccontarci un’esperienza già fatta, o abituale, ci racconta un’emozione intellettuale e psichica che lui stesso sta scoprendo in quel momento; qui, adesso, mentre sto seduto e guardo, e immagino, tanto che, e poi succede un’altra cosa, e allora io, e così… Ci porta dentro, nella lirica come istante.
La cornice è chiara, il primo e l’ultimo verso sono endecasillabi cristallini, tant’è vero che tutti li abbiamo nella memoria; ma all’interno del testo il ritmo procede per onde successive, la sintassi segue l’emozione della scoperta e travolge la metrica. Gli endecasillabi sciolti non permettono alla voce di fermarsi, si inarcano gli uni sugli altri; le inarcature più forti (interminati/ spazi; sovrumani/ silenzi; quello/infinito; questa/immensità) si trovano negli snodi-chiave del senso, dove si parla dell’infinito.
Il ventunenne è sul Monte Tabor, una collina “erma”, cioè solitaria, non lontano dal suo palazzo di Recanati; forse ciò che gli toglie la visuale non è nemmeno una siepe ma un fittume di sterpi (in una prima versione aveva scritto “questo roveto”, poi corretto nobilitandolo in “questo lauro”; “siepe” è un compromesso ragionevole). Scopre che gli ostacoli favoriscono l’immaginazione e che il troppo immaginato fa paura; in un altro appunto dell’epoca racconta che una voce lo chiama a cena mentre fantastica sull’infinito e che di colpo «mi parve un niente la vita nostra… e tutta la storia». Il ragazzo è di nervi fragili, facile agli estremismi; basta uno stormire di foglie e gli salta addosso tutta la sproporzione tra il velleitarismo dei sogni e la pochezza del quotidiano, tra il presente meschino e l’eternità. Ma invece di lottare si abbandona, forse ricorda il quaresimale di Paolo Segneri, un predicatore seicentesco che ha studiato («assorbito nel vasto oceano di una grandezza infinita, il mio spirito amerà di andare eternamente annegandosi in un giocondo naufragio di contentezza»). Solo che il mare in cui il ragazzo si perde non può essere Dio, in cui non crede più – può essere soltanto il mare filosofico dell’assenza di limiti; che è anche, segretamente, il mare dolce della bellezza ottenuta col canto. (Ma “colle” e “mare”, che inquadrano il testo, sono anche i principali elementi del paesaggio marchigiano).
L’anno dopo su queste emozioni ingenue comincerà a riflettere; non accontentandosi di annegare nell’infinito, vorrà possederlo. «Sempre adorata mia solinga sponda»: tenta di riciclare l’incipit nell’abbozzo di una poesia su Saffo, ma già la poetessa (fisicamente brutta) si lamenta che la siepe la deruba del panorama che concede ai belli. Il desiderio è il demone che porta all’infelicità. Tra i 22 e i 26 anni Leopardi, in un violento processo di razionalizzazione, mette a punto un sistema di logica spietata: gli uomini desiderano l’infinito ma nell’universo l’infinito non esiste, dunque gli uomini sono destinati a non soddisfare mai il proprio desiderio. Se non auto-imbrogliandosi, contrabbandando l’indefinito per infinito. “Dolci” e “cari” saranno ormai, nella sua poesia adulta, solo gli “inganni”. Quando, nel 1835, proverà a ordinare il suo libro di poesie come se fosse un romanzo, dovrebbe mettere cronologicamente L’infinito al primo posto tra gli idilli, subito dopo le canzoni; invece si inventa un falso d’autore – finge che il Passero solitario, un testo del 1832 o 1833, sia invece stato scritto a vent’anni. La situazione è più o meno la stessa, anche lì il ragazzo si apparta «romito e strano» verso la campagna; ma non ignora gli altri ragazzi che intanto si guardano a vicenda. L’infinito non regge alla prova, lo sguardo solitario perso all’orizzonte sarà solo fonte di rimpianto nella vecchiaia. Decidendo di farlo precedere dal Passero nella raccolta, è come se Leopardi si vergognasse un po’ della sua poesia più famosa, dello “spaurarsi” e del naufragare. È come se ci dicesse “così ingenuo lo sono rimasto per poco, il canto già funzionava ma il pensiero no”.

Repubblica 16.3.14
Berlinguer perché ti abbiamo voluto tanto bene
Il comunista timido che mi ricorda il papa
di Eugenio Scalfari



Comincio quest’articolo con un paradosso ed è questo: Enrico Berlinguer ha avuto nella politica italiana (e non soltanto) un ruolo in qualche modo simile a quello che sta avendo oggi papa Francesco nella religione cattolica (e non soltanto). Tutti e due hanno seguito un percorso di riformismo talmente radicale da produrre effetti rivoluzionari; tutti e due sono stati amati e rispettati anche dai loro avversari; tutti e due hanno avuto un carisma che coglieva la realtà e alimentava un sogno.
Oggi, anziché commentare i fatti politici della settimana appena terminata, ho deciso di ricordare Berlinguer di cui quest’anno si celebra il trentennale dalla morte e sulla cui figura in questi giorni stanno uscendo libri e documentari che ne ricordano la forza morale, il coraggio politico, gli errori commessi e il profondo rinnovamento della sinistra.
La sua somiglianza al ruolo di papa Francesco - l’ho già detto - è un paradosso, ma come tutti i paradossi contiene aspetti di verità. Se avessero vissuto nella stessa epoca si sarebbero sicuramente rispettati e forse perfino amati.
Per quanto riguarda me, ho conosciuto, rispettato ed anche avuto profonda amicizia personale per Enrico. Lo conobbi per ragioni professionali nel 1972, quando fu eletto segretario del Pci dopo Longo e Togliatti. Fu dunque il terzo segretario di quel partito dalla fine della guerra mondiale.
La prima intervista che gli facemmo sul nostro giornale è del maggio del ’77 cui ne seguirono altre quattro, rispettivamente nel ’78, nell’80, nell’81, nell’83. Morì nel giugno dell’84 e ancora ricordo che mentre era già in agonia andai a porgere le mie condoglianze a Botteghe Oscure dove erano ancora riuniti i pochi dirigenti rimasti a Roma che partirono quella sera stessa per Verona per vegliarne la morte.
Ricordo quella mia brevissima visita perché, dopo aver detto brevi parole di condoglianze conclusi dichiarando che la sua scomparsa era una grave perdita per il suo partito ma soprattutto per la democrazia italiana. Lo dissi perché lo pensavo e lo penso ancora. La visita era conclusa, salutai i presenti e Pietro Ingrao mi accompagnò all’uscita da quella sala. Ci stringemmo la mano ma io ero molto commosso, lo abbracciai piangendo e anche lui pianse consolandomi. M’è rimasto in mente perché non era mai accaduto qualcosa di simile: d’essere consolato nella sede del Pci per la morte del capo d’un partito al quale non sono mai stato iscritto né di cui ho mai condiviso l’ideologia politica. Nelle interviste ci siamo sempre dati del lei come lo stile giornalistico prevede, ma quando ci incontravamo privatamente passammo presto al tu. Alcune volte cenammo insieme a casa di Tonino Tatò che era il suo segretario e che conoscevo da molti anni; un paio di volte venne lui a casa mia.
Oltre alle interviste su Repubblica accettò anche un dibattito televisivo con Ciriaco De Mita, allora segretario della Dc. Che sosteneva da tempo nel suo partito l’idea dell’“arco costituzionale” dalla Democrazia cristiana fino al Pci che non poteva dunque essere escluso dal governo senza che la democrazia fosse zoppa. Queste cose De Mita le diceva in tempi di guerra fredda in nome della sinistra democristiana e in polemica con il resto del suo partito.
In quel dibattito, trasmesso suRete4che allora era di proprietà della famiglia Mondadori e della quale noi del gruppo Espresso avevamo una quota di minoranza, i due interlocutori parlarono come possibili alleati per modernizzare lo Stato e risolvere i problemi sociali del paese e lo storico dualismo tra il Nord e il Sud. Il dibattito si concluse con una stretta delle nostre tre mani, una sull’altra, e così fummo fotografati. Ho attaccato quella foto in casa mia e ogni tanto, quando la guardo, mi viene da pensare che quelli d’allora erano altri tempi e altre persone.
Nel corso degli anni, dal 1977 all’84, le domande più importanti che gli feci e le risposte che ne ottenni furono sette: la natura del Partito comunista italiano rispetto agli altri e in particolare a quelli che operavano in paesi occidentali; il suo rapporto con l’Urss e col Partito comunista sovietico; il suo rapporto con il leninismo; la concezione che aveva della futura Europa; la dialettica in atto con i socialisti e con la Dc; la natura del centralismo democratico e il ruolo che il Pci doveva avere con l’Italia; il problema da lui sollevato della questione morale.
Queste domande gliele feci molte volte e le risposte non furono sempre le stesse, alcune cambiarono col passare del tempo ma l’evoluzione fu comunque coerente.
Ricordo ancora una telefonata che ebbi da Ugo La Malfa il giorno in cui Enrico ruppe decisamente con Mosca rivendicando la sua autonomia rispetto all’Urss, al Pcus e al Cominform. «Quello che aspettavamo da tanto tempo è finalmente accaduto ieri. Adesso quel miserabile cercherà di non farlo uscire dal ghetto in cui per tanti anni il Pci è stato. Spetta a noi aiutarlo affinché la nostra democrazia sia finalmente compiuta».Gli risposi che aveva ragione ma che l’uscita dal ghetto non sareb-be stata facile, una parte del Pci era ancora sedotta dall’ideologia leninista stalinista. Noi avremmo certamente aiutato Berlinguer ma le difficoltà erano numerose, in parte esterne al Pci e in parte nel suo stesso interno. «Hai ragione - rispose Ugo - ma noi abbiamo una grande funzione da svolgere e per quanto mi riguarda mi impegnerò fino in fondo». Gli chiesi chi fosse il “miserabile” che avrebbe cercato di bloccare l’evoluzione democratica del Pci. «Lo sai benissimo chi è, infatti lo attacchi tutti i giorni». Era Craxi, di cui non voleva pronunciare neanche il nome.
Purtroppo La Malfa morì pochi mesi dopo e solo dopo morto gli italiani scoprirono che era stato uno dei padri della Patria, così come scoprì la grandezza politica e morale di Berlinguer al suo funerale. Il nostro è un popolo abbastanza strano: s’innamora più spesso dei clown che dei politici impegnati a mettere il bene comune al di sopra di ogni interesse personale e di partito. Abbiamo tanti pregi, ma questo è un difetto capitale che spiega la fragilità della nostra democrazia e dello Stato che dovrebbe esserne il titolare e il contenitore.
*** Sullo stalinismo Berlinguer fu sempre contrario e del resto la sua ascesa alla segreteria del partito era avvenuta molti anni dopo la morte di Stalin e il rapporto di Kruscev aveva già fatto chiarezza sulla natura criminologica di quella tirannide. Diverso invece era il suo rapporto con il leninismo, ma quella fu una posizione che col passare degli anni cambiò segnando l’evoluzione del Pci verso la democrazia compiuta. Ne cito il passo più significativo tratto dall’intervista del settembre 1980, quando la Polonia si era ribellata al giogo di Mosca. Fu anche in quell’occasione (l’avevo già fatto altre volte) che gli chiesi qual era la parte del pensiero leninista che rifiutava e quella invece che continuava ad accettare. Rispose così: «Lenin ha identificato il partito con lo Stato; noi rifiutiamo totalmente questa tesi. Lenin ha sempre sostenuto che la dittatura del proletariato è una fase necessaria del percorso rivoluzionario; noi respingiamo questa tesi che da lungo tempo non è la nostra. Lenin ha sostenuto che la rivoluzione ha due fasi nettamente separate: una fase democratico- borghese e successivamente una fase socialista. Per noi invece la democrazia è una fase di conquiste che la classe operaia difende ed estende, quindi un valore irreversibile e universale che va garantito nel costruire una società socialista». Mi pare - dissi io in quel punto - che voi rifiutate tutto di Lenin. «No. Lenin scoprì la necessità delle alleanze della classe operaia e noi siamo pienamente d’accordo su questo punto. Infine Lenin non si è affidato ad una naturale evoluzione riformista ed anche su questo noi siamo d’accordo».
Questo, gli dissi io, l’ha sostenuto anche Machiavelli molto prima di Lenin. «Anche noi comunisti abbiamo letto Machiavelli che fu un grande rivoluzionario del suo tempo il quale però si riferiva “alla virtù individuale di un Principe” mentre noi ci riferiamo ad una formazione politica che organizzi le masse per trasformare la società».
Un altro tema fu quello della questione morale, affrontato da lui nell’intervista del 1981 ma poi ripreso molte volte. La questione morale per lui non erano le ruberie perpetrate da uomini politici; quelli erano reati da denunciare alla magistratura. La questione morale era invece l’occupazione delle istituzioni da parte dei partiti. Questo, secondo lui, era necessario fare e la leva avrebbe dovuto essere il rispetto letterale della Costituzione come avevano più volte auspicato Bruno Visentini e il nostro giornale che l’aveva sostenuto. Anche Berlinguer lo sostenne fin dall’81 ma ci ritornò con la massima chiarezza sul nostro giornale nel maggio dell’83. «Noi vogliamo un governo diverso, un governo-istituzione, formato sulla base dell’articolo 92 della Costituzione, cioè che nasce su scelta del presidente del Consiglio incaricato dal capo dello Stato senza patteggiamenti con le segreterie dei partiti. Chiediamo cioè il rispetto puro e semplice della Costituzione e siamo certi che se si cominciasse a far così l’esempio si trasmetterebbe alle istituzioni minori, enti, banche, unità sanitarie, televisione e tutta l’infinita serie del sottogoverno. Questo è per noi il governo diverso. Per noi qualunque governo dev’essere costituito così indipendentemente dal colore della maggioranza che lo sorregge».
Infine le domande sulla politica economica e la risposta chiarissima (1983).
«Non si può giocare a poker puntando sui bluff. Bisogna essere ben determinati ma prudenti. Non penso certo che un governo di sinistra possa fare finanza allegra. Perciò diciamo che tutte le spese correnti debbono esser coperte da entrate fiscali mentre l’indebitamento serve solo a finanziare gli investimenti. Poi bisogna rivedere la leggi sulla sanità e sulla previdenza affinché, al di sopra d’una certa fascia di redditi inferiori, i cittadini contribuiscano al finanziamento di tasca propria. Un buon governo non si può regolare che in questo modo».
Ve l’aspettavate, cari lettori, che Berlinguer trent’anni fa, parlando d’un governo di sinistra del quale il Pci sarebbe stato uno degli assi portanti, auspicasse una sanità che i redditi medio alti finanziassero di tasca propria? Attenzione a chi parla dell’attuale tentativo del nuovo presidente del Consiglio di vagare in cerca di coperture per un governo più a sinistra degli ultimi trent’anni. Berlinguer, proprio trent’anni fa, le coperture le trovava sgravando i lavoratori a spese dei redditi medio-alti. Ma oggi una proposta del genere sarebbe tacciata di comunismo inaccettabile e infatti non viene neppure ritenuta possibile e già un aumento della tassazione sulle rendite (quali?) è ritenuto “sovversivo”.
Ho cercato di ricordare il Berlinguer che ho conosciuto. Aveva un grande carisma ma era timido, era riservato, era prudente, era moralmente intransigente. Voleva, insieme a Lama e ad Amendola, l’austerità, perfino sui salari operai, ma voleva anche che i valori della classe operaia coincidessero con l’interesse nazionale, come sempre deve avvenire quando un ceto sociale ha la responsabilità di sintonizzarsi con tutto il paese.
Sandro Pertini piangeva quando il feretro con le sue spoglie che era andato a prendere a Verona sbarcò all’aeroporto di Ciampino. Ero andato lì per incontrarlo e ricordo quel che mi disse: «Se n’è andato l’ultimo grande della sinistra italiana. Senza di lui questo paese riscoprirà i suoi vizi e le sue debolezze e non sarà certo la sinistra a fare da argine al fiume limaccioso che esonderà».
Vedeva giusto purtroppo il vecchio Pertini che aveva passato tanti anni della sua vita in galera, al confino o nelle brigate Matteotti della guerra partigiana.
C’era più gente a quel funerale di quanta ce ne fosse a quello di Togliatti che pure aveva mobilitato milioni di persone. Quella fu l’ultima fiammata, il ploro di tutta la nazione. Adesso siamo scivolati piuttosto in basso; si ride, si motteggia o s’impreca e si pugnala alla schiena. E vi assicuro che per un vecchio testimone del tempo non è affattoun bel vedere.

Repubblica 16.3.14
Jesus Christ Superstar
“Son of God” scala la classifica dei film più visti negli Stati Uniti Il Nobel Coetzee e Colm Tóibín nei nuovi libri riscrivono i Vangeli a modo loro
Escono biografie, dvd e in Italia va in scena il grande musical con l’attore storico Così Gesù ritorna un’icona pop
di Massimo Vincenzi



Quando non ci sono più idee, serve un miracolo e chi meglio di Cristo? Un famoso manager di Hollywood commenta così il ritorno sulla scena americana di produzioni a sfondo religioso. E il miracolo arriva anche questa volta, l’ultimo della serie, Son of God, fa il pieno ai botteghini Usa con oltre 26 milioni di dollari nel primo week-end e un passo costante che lo porta a sfiorare i 50 milioni. Il film viene da un marchio di origine controllata, la serie tv The Bible diventata un culto l’anno scorso su History Channel con punte di oltre 11 milioni di spettatori, impensabili sino ad allora per quel canale. Un successo così eclatante da convincere i produttori a portarla sul grande schermo e, nonostante ci sia poco o niente di nuovo da vedere, il pubblico corre comunque ad affollare i cinema. Giornali e televisioni coprono l’evento dedicando prime pagine e ore di approfondimenti in prima serata. Gesù offre, tra le altre cose, la garanzia di non passare inosservati: negli ultimi mesi c’è la conferma di una novità assoluta, arrivano film, serie tv e libri dedicati al Figlio di Dio. Diversi tra loro, dalle grandi produzioni alle avventure simil amatoriali, da scrittori affermati come il Nobel Coetze e ad autori in cerca di fama, ognuno con il suo stile, ognuno con la sua idea, ma tenuti insieme dalla voglia di raccontare “la storia più affascinante del mondo”.
Hollywood lo aveva capito in anticipo, negli anni gloriosi tra il Cinquanta e il Sessanta, con i “polpettoni” biblici, poi è scattato il tempo della trasgressione con il musical Jesus Christ Superstar e ora arriva la consacrazione popolare. «C’è voglia di religione», giurano nei dibattiti gli esperti di fede dichiarata, in realtà c’è voglia di «un Messia che cammini in mezzo a noi», come canta in apertura dei suoi concerti il rapper Kanye West, strappando urla di gioia dal pubblico. «È ovvio che accada: Cristo è la figura più importante degli ultimi duemila anni, è alla base della civiltà occidentale: interessa tutti», spiega Reza Aslan docente di storia delle religioni e autore a sua volta di un bestseller, Gesù il ribelle, che ha acceso più di un dibattito: «Penso che siano discussioni inutili, quello che ci vuole è il rispetto delle opinioni altrui, ma non si può immaginare che nessuno ne parli. Come studioso, ho cercato di dividere il mito dalla realtà. I registi e gli scrittori di romanzi invece declinano la storia secondo le loro sensibilità».
Ma le polemiche arrivano puntuali. Dieci anni fa toccò a Mel Gibson e alla sua La passione di Cristo che detiene tuttora il record di dollari guadagnati da una pellicola con i sottotitoli: 600 milioni. Incassi cresciuti proporzionalmente con i veleni: «È un horror», «No, finalmente mette in scena la vera sofferenza di Nostro Signore», impossibile accontentare tutti. Adesso il copione si replica con Son of God. I produttori, marito e moglie, Mark Burnett e Roma Downey sono credenti e il loro è un messaggio di evangelizzazione: «Siamo cristiani e siamo felici di diffondere la nostra fede a Hollywood. Il nostro film è una storia di sentimenti, e vogliamo condividere con il resto del mondo l’amore di Gesù verso gli altri». Ad appoggiarli alcuni importanti leader religiosi, come il pastore Rick Warren, che ha comprato migliaia di biglietti e organizzato visioni per i suoi fedeli.
Ma non tutti la pensano così. Nel mirino finisce il protagonista, il portoghese Diogo Morgado, che, secondo l’accusa, «sta a metà tra Brad Pitt e Bradley Cooper, sembra un modello e si muove in maniera troppo sexy». E la scrittrice ultra cattolica Jennifer Roback Morse aggiunge un altro tema: «Il film non è inerente alle Scritture. Avviene tutte le volte: i registi, che pure hanno tra le mani la più bella sceneggiatura di tutti i tempi, si divertono a cambiarla. Pensano di poterlo fare perché considerano Gesù un personaggio di fantasia, una figura pop da reinventare a seconda delle esigenze di scena». Questa volta la variazione sul tema è meno evidente che in altri casi: «È una versione de La passione di Cristori pulita, meno cupa e meno violenta», scrive il New York Times per sottolineare la vicinanza ai testi biblici. Questo Figlio di Dio è meno hippy, meno rockettaro di quello visto in altre produzioni: a dispetto del fisico possente, sfoggia sguardi dolenti, pieni di spiritualità.
Le polemiche producono cloni. C’è un regista e produttore, John David Ware, che usa una scuderia di dilettanti e di giovani apprendisti per sfornare a ripetizione corti sulla vita del Messia, che poi lui distribuisce a chiese e circoli religiosi americani: è un’invasione che riscuote scene di entusiasmo. Adesso arriva anche Russell Crowe con il suo Noè e su Twitter l’attore non resiste alla tentazione: «Santo Padre, venga a vedere il mio film, ha un messaggio forte».
Anche la produzione letteraria subisce una nuova accelerazione. Meno di un anno fa, scala le classifiche di tutto il mondo John Niven, promettente star della scrittura anglosassone, con il suo A volte ritorno, che sciocca i credenti più ortodossi, immaginando uno strano Messia che, pur di salvare un’umanità ormai perduta, arriva a partecipare a un talent show tipo X Factor.
Un libro divertente, che ricorda in alcuni passi le Lettere dalla Terradi Mark Twain, uno dei primi esempi di umorismo applicato a Cristo. Il record dell’irriverenza spetta a Andrew Masterson, che in due romanzi noir immagina che ai tempi nostri Gesù sia un malandato detective privato e spacciatore che si mischia ai derelitti della società per provare, se non a redimerli, almeno a mandarli nel regno dei cieli con il sorriso sulle labbra. In entrambi i casi i lettori apprezzano e in Australia la serie è diventata una fiction televisiva.
Meno pop e più visionario è il racconto di J. M. Coetzee che, benché alla sua maniera, non resiste alla tentazione di esercitarsi sul tema e così nel suo L’infanzia di Gesù lo immagina bambino in un mondo post apocalittico: «Perché solo i più piccoli hanno ancora la forza di essere visionari». Resta in famiglia Colm Tóibín, che con Il Vangelo secondo Maria si immagina un monologo della Vergine ormai invecchiata e intristita. Il breve testo finisce anche a Broadway, a dire il vero con poco successo, epoi diventa, con maggior riscontro di vendite, un dvd letto da Meryl Streep.
In Italia si preannuncia un trionfo l’arrivo di una nuova edizione di Jesus Christ Superstar: sul palco, oltre a Pau, frontman dei Negrita, e Shel Shapiro, ci sarà l’originale Gesù del primo musical: Ted Neeley, che in un’intervista conferma: «Certo questo ruolo ha condizionato la mia carriera. Ma è il ruolo più bello che possa capitare nella vita di un attore e di un uomo». Perché quando non ci sono idee e soldi a sufficienza ci vuole un miracolo e nessuno è più competente del Figlio di Dio e soprattutto, come quasi urla alla fine di un dibattito tv alla Cnn il pastore Rick Warren, «il messaggio dei Vangeli è eterno e merita di essere ascoltato dal maggior numero di persone possibili: solo questo conta, il resto sono sciocchezze».

Repubblica 16.3.14
Perché sarà sempre la più bella storia mai raccontata
di Enzo Bianchi


La biografia di Cristo è uno specchio dell’umanità al di là della fede e dei tradimenti sul piano teologico
Perché da duemila anni cristiani e non cristiani sentono il bisogno di raccontare o di riascoltare la storia di Gesù di Nazareth? Perché questa singolarità di Gesù tra i grandi maestri iniziatori delle vie religiose? La risposta potrebbe essere semplice: la sua singolarità di uomo-Dio attira certamente i credenti che diventano suoi discepoli, e la sua umanità così autentica ed esemplare intriga anche uomini e donne che non sono attratti da vie religiose. Mi sento di poter dire che quanti sono impegnati a cercare Dio (quaerere Deum) e quanti cercano l’uomo (quaerere hominem) si sentono attirati da Gesù Cristo.
Gesù non ha scritto nulla, ma altri hanno scritto di lui, hanno tentato dei ritratti, lo hanno narrato, e così ne hanno tramandato la storia: una narrazione plurale, che ha colto aspetti e accenti diversi nelle sue parole, che ha dato diverse interpretazioni delle sue azioni. Si pensi ai quattro Vangeli, agli scritti del Nuovo Testamento, ma poi a tanti altri tentativi, non ritenuti autentici dalla chiesa, ma che rappresentano comunque narrazioni “altre” di Gesù. Anche perché Gesù di fatto ha chiesto a chi voleva seguirlo di diventare lui stesso, con la propria vita, un suo narratore, capace di portare la buona notizia del Vangelo tra gli uomini: con la sua parola e la sua vita Gesù ha voluto narrare Dio agli uomini (exeghésato: Gv 1,18), e ogni suo discepolo cerca lui pure di narrare agli altri la vita di Gesù. Narrazioni senza fine!
Ma la figura di Gesù e i testi dei Vangeli hanno sollecitato e sollecitano, ieri e oggi, letterati, artisti, registi anche dichiaratamente non cristiani. Perché? Se vi può essere un elemento di interesse a motivo di un mercato “religioso” che vende, vi sono però anche riletture e riscritture della figura di Gesù di alto spessore letterario e artistico (come dimenticare Il Vangelo secondo Matteo di Pasolini?), che richiedono ben altra spiegazione. Mi pare che spesso esse si insinuano nella distanza, a volte sentita come abissale, esistente tra il Gesù dei Vangeli e la presentazione che per secoli ne è stata fatta in ambito ecclesiastico, per interessi dottrinali, teologici, morali, pedagogici. Spesso si coglie in queste riscritture una simpatia per Gesù e una denuncia dell’“addomesticamento” che di lui è stato fatto. Queste riletture non a caso oggi valorizzano la dimensione umana che per secoli a Gesù è stata negata a favore della sua qualità divina. Si rilegge e si racconta di nuovo la vicenda di Gesù perché in essa si percepisce la presenza di un’umanità vera, profonda, semplice, praticabile: abbiamo bisogno di una nuova grammatica dell’umano, di riscoprire l’umano, di reimparare l’abc delle relazioni umane e delle pratiche di umanità. E la figura di Gesù, anche quando è rinarrata in maniera molto distante dal testo evangelico, appare come simbolo di umanità e di senso, appare indicatrice di una via che coglie l’essenziale dell’esistenza e aiuta a orientarsi nella vita.
In quest’opera di riattualizzazione della figura di Gesù viene paradossalmente e forse inconsapevolmente rimessa in valore l’originale dimensione della Bibbia, del Vangelo come specchio: specchio dell’umano che consente a chi vi si riflette di passare dal riflesso alla riflessione. In ogni secolo si è dipinto Gesù con i vestiti dell’epoca, attuando un’appropriazione del personaggio, una sorta di sua annessione alla contemporaneità. È probabile che il recentissimo film Son of God presenti tratti molto discutibili sul piano storico o teologico; può darsi che in esso abbondino elementi banalizzanti; può darsi che l’industria editoriale e quella cinematografica vedano in Gesù un marchio che rende e poco più. Ma il fatto che si continui a ritornare a questa figura è indicativo di una sete che l’uomo, nonostante tutto, non riesce a placare ad altre fonti. È il segno di un bisogno di verità, di umanità, di servizio agli altri, di amore, tratti che caratterizzano il fascino e la simpatia suscitati universalmente e trasversalmente, tra cristiani e non cristiani, dalla figura di papa Francesco. È anche vero che su Gesù si sono fatte e si fanno molte proiezioni, a seconda delle stagioni culturali, e così viene ideologizzato di volta in volta come un Gesù hippy, un Gesù rivoluzionario, un Gesù guru, e significativamente oggi addirittura come un Gesù culinarius, esperto di cucina. Ma questi sono dei Gesù manufatti per il nostro consumo, non è il Gesù dei Vangeli!
Secondo i Vangeli Gesù un giorno ha chiesto ai suoi discepoli: «Chi dite che io sia?». A quella domanda gli uomini e le donne di oggi tentano e ritentano di rispondere con passione, mai con indifferenza. Oggi Dio interessa poco le nuove generazioni, la Chiesa può anche sembrare un ostacolo alla fede: ma Gesù Cristo continua a intrigare e ad affascinare.

Corriere La Lettura 16.3.14
Il Freud (critico) prima di Freud si chiama Janet
di Sandro Modeo

qui

Corriere La Lettura 16.3.14
Il voto fa male alla democrazia. Sorteggiamo
Da molla del progresso a perpetuazione di élite?
In un saggio e in questa intervista lo storico belga David Van Reybrouck esprime delusione per il voto
«I rappresentanti vanno scelti in altro modo»
di Stefano Montefiori


La sfida delle donne tra la socialista Anne Hidalgo e Nathalie Kosciusko-Morizet (centrodestra) per diventare sindaco di Parigi è il momento mediaticamente più appassionante; poi c’è il valore di test nazionale, per vedere se la sinistra del presidente François Hollande riesce a risalire in popolarità. L’opposizione dell’Ump, dilaniata dalle lotte interne, potrà finalmente contarsi, e tutti attendono al varco il Front national: quanti comuni alla fine saranno governati dagli uomini e dalle donne di Marine Le Pen?
Domenica prossima, 23 marzo, in Francia si tiene il primo turno delle elezioni municipali (il ballottaggio sette giorni dopo), e già ci si prepara alle Europee di maggio. I francesi sono chiamati alle urne e di questo trattano talk show, comizi, dibattiti e appelli. Ma i sempre più evocati e corteggiati elettori, alla fine, a votare non vanno. Due anni fa, al secondo turno delle legislative francesi, i non votanti furono il 43,71% , un record (e pure in Italia, alle ultime politiche, l’astensione ha raggiunto il 24,8% alla Camera e il 24,9% al Senato, ossia il massimo storico dalla nascita della Repubblica).
In questi giorni pre-consultazione le pubblicità-progresso a Parigi mettono le mani avanti: accanto alla foto di una scheda elettorale si legge la gigantesca frase «arma di democrazia di massa». Sarà vero? E se lo è, perché è diventato necessario ricordarlo a cittadini sempre più riluttanti?
«Che cosa è andato storto con la democrazia», si chiede l’«Economist» in copertina, e lo storico belga David Van Reybrouck offre la sua risposta: le elezioni. O meglio la loro sopravvalutazione, il considerarle una sorta di sinonimo della democrazia. Sostanzialmente l’unico modo attraverso il quale la democrazia può essere esercitata.
«Contro le elezioni» è il suo nuovo saggio. Il titolo ha il merito di attirare l’attenzione, ma forse le conviene chiarire se lei è per caso un sostenitore delle dittature.
«No non lo sono affatto, ovviamente, anzi mi considero un fervente democratico. Ma siamo tutti diventati dei fondamentalisti delle elezioni e abbiamo perso di vista la democrazia. L’abbiamo visto anche con le primavere arabe: la rivolta dell’Egitto ha portato con sé elezioni, ma non una democrazia accettabile».
Sono in crisi anche le democrazie più antiche, quelle occidentali.
«Siamo alle prese con la democrazia da circa 3 mila anni, ma lo strumento delle elezioni lo usiamo da soli 250. Le elezioni sono state inventate, dopo le rivoluzioni americana e francese, non certo per fare avanzare la democrazia, ma semmai per arrestare e controllare i suoi progressi. Il voto ha permesso di sostituire a un’aristocrazia ereditaria una nuova aristocrazia elettiva».
Non starà mica rievocando le critiche sovietiche alla «falsa democrazia borghese» in favore della vera democrazia, quella proletaria?
«No, per niente, anche se da qualche anno mi arrivano ogni genere di accuse, da destra e da sinistra. Questo libro nasce dopo l’esperienza del movimento G1000 che ho contribuito a fondare in Belgio nel 2011-2012, unendo fiamminghi e valloni alla ricerca di una migliore organizzazione della democrazia nel nostro Paese. Non sono un bolscevico. Semplicemente prendo atto che le elezioni hanno portato a vere iniezioni di democrazia fintanto che si allargava il suffragio, esteso a tutti gli uomini e poi a tutte le donne. Da decenni ormai il percorso si è di fatto invertito e, soprattutto in Occidente, i cittadini sono stanchi di una partecipazione fondata quasi solo sul voto. Nel mio libro precedente Congo (in Italia lo pubblicherà Feltrinelli, ndr ) racconto la colonizzazione belga in Africa e poi i sacrifici immensi di tanti che hanno perso la vita per ottenere libere elezioni. Vedere come questo strumento venga sempre di più snobbato in Occidente deve far riflettere e ha poco senso gettare tutta la responsabilità su milioni di cittadini che legittimamente non credono più a quest’organizzazione della società e della politica».
Lei nel suo libro parla di «sindrome di stanchezza democratica», individuando quattro diagnosi possibili: colpa dei politici, della democrazia, della democrazia rappresentativa o della democrazia rappresentativa elettiva.
«A dare la colpa ai politici sono i populisti. Da Silvio Berlusconi a Geert Wilders e Marine Le Pen ai nuovi arrivati Nigel Farage o Beppe Grillo. Chi critica la democrazia invece vanta i successi della tecnocrazia, evidenti in Cina per esempio, secondo uno schema opposto rispetto ai populisti: invece di privilegiare la legittimità, i tecnocrati puntano all’efficenza. Oppure, ci sono quelli che incolpano la democrazia rappresentativa, come fanno i movimenti come We are the 99% e gli Occupiers americani o gli Indignados. Io invece me la prendo con le elezioni, o meglio con la pigrizia di ridurre tutto al voto. Le elezioni sono il combustibile fossile della politica: un tempo erano in grado di stimolare la democrazia, ma ora provocano problemi giganteschi. Questo non significa che abbia visto con favore la nomina in Italia, da Mario Monti in poi, di presidenti del Consiglio non eletti».
In Italia il Movimento Cinque Stelle parla molto di nuove forme di democrazia grazie alla rete, lei che cosa ne pensa?
«Sono d’accordo sul fatto che la nostra democrazia ottocentesca non sia più adatta ai tempi, ma non condivido le soluzioni che loro propongono».
Qual è allora il suo rimedio?
«Seguo con interesse alcuni esperimenti di estrazione a sorte, che negli ultimi anni sono stati condotti un po’ ovunque nel mondo, dalla provincia canadese della British Columbia all’Islanda al Texas a, più recentemente, l’Irlanda. Qui si è appena conclusa la Convenzione costituzionale, che ha visto collaborare per un anno 66 cittadini tirati a sorte con 33 eletti. Quest’assemblea inedita è riuscita ad avviare senza scossoni la riforma di 8 articoli della Costituzione irlandese, affrontando anche la questione del matrimonio omosessuale che in Francia ha provocato forti tensioni».
Pensa che introdurre il criterio dell’estrazione a sorte potrebbe funzionare non solo in piccoli Paesi, ma anche in grandi nazioni come Francia o Italia?
«Sarebbe importante almeno accettare il principio, e poi introdurlo gradualmente nelle assemblee locali, affiancandolo agli strumenti classici di democrazia elettiva».
Quale competenza potrebbero avere persone chiamate a deliberare per estrazione a sorte?
«E perché, quale competenza hanno oggi la maggior parte dei deputati nei nostri Parlamenti? I migliori di loro usano la legittimità offerta dallo status di eletti per chiedere informazioni e consigli agli esperti, e infine decidere a ragion veduta. Niente che non potrebbe fare una persona tirata a sorte. Con il vantaggio fondamentale che i cittadini tirati a sorte sarebbero forse più inclini a dare priorità al bene comune, e non alla propria rielezione».
Quali altri studiosi si interessano a questi temi?
«Oltre a Habermas, vorrei citare l’americano James Fishkin e i francesi Bernard Manin e Yves Sintomer. È il momento di pensare a una democrazia deliberativa e non più solo elettiva. Quando John Stuart Mill proponeva il voto alle donne, a metà dell’Ottocento, lo prendevano per pazzo. Le novità non ci devono spaventare».

Corriere La Lettura 16.3.14
I fantasmi di Ugolina (e degli altri)
Le opere dei malati psichiatrici oltre la lettura clinica
Angosce, valori estetici e quotazioni di artisti fuori campo
di Francesca Ronchin


Di lei non si sa nulla. Dove sia nata o a che età siano comparsi i primi segni della psicosi che l’avrebbe portata al ricovero nell’ex ospedale psichiatrico Paolo Pini di Milano. Si sa solo che era una donna giovane e che della sua vita, sopravvissuti alla chiusura dell’allora manicomio, ora Policlinico di Affori, restano il nome, Ugolina Valeri detta Ugolina, e 81 fogli di carta Raffaello 240 x 330 mm. Oggi, i suoi disegni, tutti realizzati in clinica tra il 1964 e il 1967, escono per la prima volta allo scoperto con Fuori Campo, artisti outsider a Milano , insieme a quelli di molti altri alienati. Eppure, la domanda senza risposta — «chi era Ugolina?» — sembra destinata ad attraversare la mostra quasi a emblema di un’arte intenzionata ad affrancarsi sempre più da una lettura medica dei disegni.
«Non siamo di fronte a cartelle cliniche — spiega Francesco Porzio, critico d’arte e curatore della mostra — ma a opere che innanzitutto hanno una valenza estetica. Non è un caso che con i loro stilemi nuovi e visionari siano state spesso “prese in prestito” dall’arte contemporanea, basti pensare a Max Ernst e Paul Klee». Per quanto nel 1945, già Jean Dubuffet parlasse di Art Brut dando così una dignità al territorio degli autori autodidatti o ai cosiddetti margini della società, per quanto le opere di soggetti con problemi di salute mentale abbiano trovato una loro collocazione come outsider artist , il mercato per loro è solo agli inizi. Complice quella convenzione critica per cui non esisterebbe l’arte senza un progetto o un’intenzionalità, per il momento, più che nei circuiti ufficiali, questi artisti viaggiano principalmente in musei o percorsi a loro dedicati. Del resto, il fenomeno è relativamente recente. Se nel 1800 l’arteterapia entra negli istituti psichiatrici mossa da un intento clinico e con Lombroso i medici imparano a guardare alle opere degli alienati come a panoramiche di sintomi da classificare, è solo verso gli anni Cinquanta, con lo sviluppo delle teorie psichiatriche in direzione psicoanalitica e fenomenologica, che i disegni iniziano a essere osservati anche nella loro portata artistica.
Mentre sul mercato arrivano i farmaci antipsicotici per meglio contenere, talvolta reprimendo, talvolta permettendo l’estro artistico, negli ospedali psichiatrici nascono gli atelier fino a diffondersi come ausilio psicoterapico nelle comunità di recupero e nei centri di salute mentale. Proprio qui, attualmente operano alcuni degli artisti in mostra a Milano come Gianluca Pirrotta, attivo presso l’atelier Manolibera della Cooperativa Nazareno di Modena, e Marco Raugei, del centro di attività espressive La Tinaia dell’ospedale Neuropsichiatrico di Firenze.
Quanto spesso capiti di trovarsi di fronte a lavori di grande valore artistico non è facilmente quantificabile. Lontano da tentazioni romantiche per cui la follia è sempre un po’ geniale, «gli autori che si staccano nettamente dalla media — azzarda Porzio — saranno un caso ogni cento a dir tanto. Ugolina è tra questi» . Il debutto nel mercato arriva senza che al momento vi siano molte quotazioni di riferimento a parte i lavori di Carlo Zinelli, principale outsider artist italiano scoperto da Vittorino Andreoli negli anni Sessanta. Se i suoi lavori sono valutati attorno agli 11 mila euro, con Ugolina, per ora, si parte dai 700 euro, «ma è chiaro che potrebbe valere molto di più — precisa Porzio — dato che la portata artistica è equiparabile a quella di riferimenti dell’Art Brut come Eloisa o Adolf Wölfli».
Volti ibridi, figure a metà tra l’umano e l’animale in un continuo movimento metamorfico, quella di Ugolina è una produzione consistente che si svolge lungo un percorso di tre anni e che, come ricorda la psichiatra che l’ha seguita, inizia piuttosto tardi, all’improvviso. «I disegni procedono dal micro al macro — spiega Giorgio Bedoni, psichiatra, tra gli organizzatori della mostra — in una sorta di lenta ma continua messa a fuoco dei propri fantasmi». Sagome indefinite si agglutinano sulla carta come organismi cellulari dove l’uno è origine e continuazione dell’altro. «Un lavoro contrassegnato da quell’automatismo psichico che tanto piaceva ai surrealisti — continua Bedoni — convinti che l’arte dei matti, insieme a quella dei bambini e dei primitivi, avesse un contatto privilegiato con le dimensioni inconsce e quindi con la verità delle cose».
Ma se è vero che la valenza formale delle opere nate in contesti psichiatrici ha un’autonomia oltre quella clinica, l’impulso da cui nascono non è mai di ricerca formale bensì di un’urgenza quasi fisiologica, la risposta a un bisogno dato dalla malattia: stare meglio. «Il foglio bianco permette al paziente psicotico di colmare i propri vuoti, che spesso sono vuoti di memoria — spiega Bedoni a “la Lettura” —. Non è un caso che venga riempito quasi del tutto, fino ai bordi, nel difficile tentativo di ricomporre sulla carta una realtà che nella propria mente è frammentata dalla malattia». Se l’efficacia artistica di questi disegni derivi in qualche modo dalla malattia è difficile dirlo. «Non è semplice trovarvi una vera specificità — ammette Bedoni — simili modalità espressive si riscontrano ad esempio anche in certi territori dell’espressionismo. Di certo è chiaro che le forme creative che emergono da contesti psichiatrici sono frutto di un modo ben preciso di essere nel mondo, un mondo dove sano e malato sono sfumature di un continuum».
Difficilmente però, sfuggirà anche all’occhio più inesperto la presenza di alcune costanti come la serialità, la ripetizione, il grottesco, la frammentazione e la presenza di un repertorio di oggetti piuttosto limitato ma specifico di ogni autore. Marco Raugei, una frequentazione di istituti psichiatrici ininterrotta fino ai 19 anni, riempie il foglio delle ripetizioni ad esaurimento di uno stesso soggetto. Macchine fotografiche, trenini e automobili, soggetti quasi infantili ma una fascinazione consapevole del ritmo e delle ripetizioni. «Quando i suoi disegni — spiega Porzio — sono entrati in collezioni come quella de l’Art Brut di Losanna e la Collection abcd di Parigi, nell’apprendere l’apprezzamento del pubblico, la reazione di Raugei è stata di gioia immensa». Un episodio che quasi lascia intravedere sprazzi di autocoscienza artistica riscontrabili anche nella volontà di andare oltre i propri limiti ortografici e dare un titolo a ogni singolo disegno. Ad ogni modo, assicura, siamo di fronte a un aspetto marginale, perché qui non ci sono velleità artistiche ma urgenze patologiche. Come nel caso di Jill Gallieni, che trova nelle preghiere a Santa Rita un modo per uscire dai tormenti mentali. Di qui, la creazione senza tregua di disegni dove quelle che a prima vista sembrano ghirlande colorate, sono in realtà litanie così fitte da essere illeggibili.
Una netta riproposizione seriale di elementi si ritrova in Curzio Di Giovanni, 57 anni, ospite da trent’anni del centro di riabilitazione psichiatrica Fatebenefratelli di San Colombano, Lodi, per via di una sindrome autistica sviluppata nell’infanzia. I suoi soggetti sono volti incontrati su cataloghi e riviste. Da un ritaglio di giornale, la foto di una modella bionda, diventa Una Ragazza con la Pelliccia Griggia disegnata con matite colorate su un foglio 34 x 24 in mostra a Losanna. I dettagli vengono ripresi fedelmente per poi essere tradotti in segmenti geometrici che si compongono come le tessere di un mosaico perché, se la malattia mentale non dà tregua, la realtà, una volta analizzata, deve sempre essere ricostruita. L’aveva capito già negli anni Venti lo psichiatra Hans Prinzhorn, quando provando a definire il quid dell’arte dei matti scriveva: «Ogni tentativo di definirne la qualità distintiva è destinato a sfuggire... Ci basti dire che quel quid giace, da qualche parte, in un’inquietante sensazione di stranezza».

Corriere La Lettura 16.3.14
Le Furie che si presero l’Europa
I supplizi di Tizio e Sisifo, Tantalo e Issione trasformarono un’epoca: tutto partì da Tiziano
Dolore e bellezza Il Prado esplora le interpretazioni delle figure dei giganti: un mito anche pittorico
di Giovanna Poletti


Ci vuole coraggio. Solo un museo come il Prado poteva pensare di dedicare un’intera mostra a Tizio, Sisifo, Tantalo e Issione, giganti tormentati nell’Ade con i supplizi più atroci. Nelle sale della nuova ala, attorno all’immane gruppo del Laocoonte giunto in copia dal Museo Nazionale di Scultura di Valladolid, alcune colossali tele del Prado trovano una nuova ragione d’essere e aiutano a riconoscere la rivoluzionaria importanza della pittura di Tiziano in Europa.
Miguel Falomir, curatore della mostra e a capo del dipartimento di pittura italiana del Museo, è riuscito a dimostrare come queste imponenti figure dalle posture inverosimili e dallo straordinario impatto visivo rimandino a una sola data e soprattutto a una donna. Fu infatti nel 1548 che Maria d’Ungheria, sorella di Carlo V e governatrice dei Paesi Bassi, incaricò Tiziano di dipingere per il suo castello di Binche, alle porte di Bruxelles, quattro grandi tele che immortalassero le pene infernali cui i Giganti erano stati condannati dagli dèi per avere osato ribellarsi ai loro voleri.
Le pitture, che facevano parte di un ampio progetto iconografico, arrivato a noi grazie a un disegno coevo, dovevano celare con un’allegoria un precipuo fine politico. La commissione a Tiziano arrivò infatti pochi mesi dopo la vittoria di Carlo V sulla Lega di Smalcalda, rappresentata dai principi protestanti tedeschi che cercavano di opporsi allo strapotere asburgico. Dei quattro capolavori di Tiziano, è giunto a noi solo il Sisifo, colto nell’inane sforzo di trasportare sulle spalle un masso enorme, mentre il magnifico Tizio esposto in mostra è una copia realizzata più tardi dallo stesso Tiziano per accontentare i desideri di un duca della famiglia reale spagnola.
Sebbene la corale rappresentazione della Gigantomachia avesse avuto in Giulio Romano e Perin del Vaga eccellenti e precedenti esempi, è con il disegno che Michelangelo regalò a Tommaso de’ Cavalieri nel 1532 che la singola figura del gigante Tizio conquistò una sua autonomia e una precisa identità. Il disegno, che ebbe vastissima fortuna grazie alle incisioni che lo riproducevano, ritraeva il Gigante assalito ma non ancora ferito dall’aquila castigatrice. Fu Tiziano, con ogni probabilità influenzato dall’exemplum doloris del Laocoonte venuto alla luce nel 1506 in una vigna accanto alla Domus Aurea, a immortalare con superbo realismo lo strazio del condannato durante il fiero pasto dell’incombente rapace. Il gruppo marmoreo del Laocoonte, che giustamente Falomir ha voluto al centro delle sale per creare il fulcro emotivo della mostra, rappresentò la suprema immagine dell’equazione dolore/bellezza nell’arte.
Nei decenni successivi, scomparsa l’originaria valenza politica, le Furias costituirono una singolare sfida artistica per i pittori di tutta Europa. Nessun soggetto profano riscontrò ugual successo in diversi Paesi, dalle Fiandre all’Italia, passando per la Germania e la Spagna, a dispetto della geografia, della religione o della committenza. Per oltre un secolo dopo Tiziano, molti pittori si cimentarono nel ritrarre questi sfortunati giganti, talvolta come sospesi e privi di gravità, colti nelle loro nudità, nelle posizioni più ardite e contratti nei muscoli e nei volti tra gli spasmi delle sofferenze infinite. La loro fedele rappresentazione, in grado di spaventare ma anche commuovere, divenne la sfida da vincere.
Oltre ai magistrali esempi di Tiziano, Rubens e Ribera, Falomir ha setacciato le raccolte di tutto il mondo per trovare alcuni indimenticabili esempi, come quelli dipinti da Hendrick Goltzius, Cornelis van Haarlem e Theodoor Rombouts nelle Fiandre e di alcuni artisti italiani. A partire dal 1630, a Napoli fece difatti fortuna la cosiddetta «estetica dell’orrore», stimolata dalle Furias dipinte da Ribera. Tele talmente forti che si narra fecero nascere malformato il figlio del suo committente. È comunque certo che Ribera ispirò le opere estreme di Luca Giordano e Salvator Rosa, che, a loro volta, diffusero questi soggetti anche a Venezia e Genova, dove lavoravano Giovanni Battista Langetti, Antonio Zanchi e Gioacchino Assereto. Quest’ultimo, intorno agli anni Quaranta, propose tele in formato più piccolo, come gli splendidi supplizi di Prometeo (una versione di Tizio scevra di connotati morali) e di Tantalo. Quest’aspetto rivela la democratizzazione di questa tematica che fece la sua fortuna grazie alla violenta, quasi assordante, spettacolarità del dolore.

Corriere La Lettura 16.3.14
Il re delle tessere è normanno
Il duomo e i mosaici di Cefalù celebrano un potere che si sottometteva solo a Dio
La cattedrale esprime l’intreccio di culture tipico della Sicilia,
ma anche la volontà del monarca di affermare il primato sul Paa e sulla Chiesa
di Carlo Vulpio


C’è un dettaglio, nella meravigliosa cattedrale di Cefalù, che, come tutti i veri dettagli, non solo conta ma fa la differenza. Per l’arte, per la storia, per la politica. Questo dettaglio è il trono del re. Trono che il primo re di Sicilia, Ruggero II, cambiando le regole fino a quel momento condivise, volle spostare dal lato sud al lato nord della basilica. Le consuetudini, anche quelle dei molto pragmatici normanni dei quali Ruggero II era uno dei rampolli più riusciti, volevano che sul lato nord all’ingresso del coro, il lato più prestigioso, stesse il trono del vescovo. Ma Ruggero II, che aveva fatto costruire la cattedrale, decise che su quel lato doveva starci lui, non solo perché era il re, ma perché a lui spettava la giurisdizione sulla Chiesa per la nomina dei vescovi.
Non è che tutt’a un tratto Ruggero II si fosse montato la testa. È che non aveva mai dimenticato chi era. Lui era figlio di Ruggero I, suo zio il temuto Roberto il Guiscardo (l’Astuto) e suo nonno Tancredi d’Altavilla, cioè i più efficaci costruttori di quella monarchia normanna che era nata non da bolle, decreti e papiri nascosti, ma dalle imprese militari, per lo più mercenarie, di una élite di spavaldi soldati di ventura di origine norvegese che avrebbero cambiato la storia della Sicilia e dell’Italia meridionale. Ruggero I e suo fratello Roberto il Guiscardo aprirono la strada, sgombrandola dai bizantini (l’ultima roccaforte in Italia, Bari, capitolò nel 1071) e dagli arabi (Palermo, capitale dell’emirato più solido, si consegnò nel 1072). Ma furono duchi di Puglia, Calabria e Sicilia. Mai re. Ruggero II invece venne incoronato re il 25 dicembre 1130, a Palermo, dall’antipapa Anacleto II, che il normanno appoggiava contro il Papa legittimo Innocenzo II.
Nemmeno la corona reale però sarebbe stata sufficiente a far scegliere a Ruggero II quel benedetto lato nord per incardinare il proprio trono, se una trentina di anni prima, nel 1098, Papa Urbano II, in occasione della prima crociata, non avesse concesso a suo padre Ruggero I il «legato apostolico». Il che significava attribuire a Ruggero I una funzione di quasi-papa, dal momento che poteva raccogliere le entrate della Chiesa, giudicare le questioni ecclesiastiche in Sicilia e soprattutto scegliere liberamente i vescovi. Al papato questo stava bene, poiché i normanni erano l’unico braccio armato sul quale potesse contare in funzione antimusulmana (arabi) e antiortodossa (bizantini), ma non andò più bene nel momento in cui Ruggero II reclamò per sé, come ereditata, la funzione di legato apostolico del padre. Su questo punto, la Chiesa prontamente eccepì che quella funzione era da intendersi come concessa alla persona di Ruggero I, non al suo ruolo di signore della Sicilia, e quindi non poteva trasmettersi per via ereditaria. «La controversia si trascinò a lungo e, a distanza di un secolo, sotto Federico II di Svevia (nipote di Ruggero II, ndr ), avrebbe avuto conseguenze drammatiche, sfociando nel più violento di tutti i conflitti tra potere secolare e spirituale», scrive David Abulafia in Federico II. Un imperatore medievale (Einaudi).
Intanto, Ruggero II non perse un minuto nel far tradurre in arte la condizione di re che rivestiva e la convinzione di quasi-papa a cui riteneva, non senza fondamento, di aver diritto. E spinto anche da «quell’amalgama di invidia e ammirazione che Bisanzio suscitava nei normanni dell’Italia meridionale» (ancora Abulafia), non esitò a sfoggiare mitra, tunica, dalmatica e sandali rossi, cioè i segni del potere bizantino, ma anche di quello papale. Di più. Nella chiesa di Santa Maria dell’Ammiraglio, più nota come la Martorana, a Palermo, un prezioso mosaico ritrae Ruggero II incoronato direttamente da Cristo. Mentre a Cefalù, oltre alla posizione del trono in duomo, di cui abbiamo detto, Ruggero II recluta le migliori maestranze in circolazione — greci, ebrei, arabi — per la realizzazione dei mosaici della cattedrale e ingaggia artisti della rinomata scuola romanica pugliese per le finissime decorazioni antropomorfe dei capitelli del chiostro del monastero agostiniano, a cui si accede da una porta della navata sinistra del duomo.
L’ideale di assolutismo monarchico di Ruggero II, che vedeva il re come rappresentante di Dio in terra, tocca i suoi vertici. Solo suo nipote Federico II di Svevia lo eguaglierà in questo. Ma adesso è Ruggero II il sovrano che porta il Regno di Sicilia degli Altavilla alla sua massima espansione: l’intera Italia meridionale, più l’isola di Corfù e un «Regno normanno d’Africa» che comprende la Tunisia e Tripoli. È lui che il mondo deve celebrare. Sceglie Cefalù, la Kephaloidion greca (un promontorio «a forma di testa»), poi Cephaloedium romana e infine Gaflud araba, e da qui decide di dare avvio alla «rifondazione ruggeriana», come felicemente la definisce Antonio Franco nel suo Le radici e le pietre. Studi su Cefalù antica (Misuraca editore). Ecco quindi il duomo. Il trono del re sul lato nord. L’idea di collocare due sarcofaghi di porfido per conservare le proprie spoglie (che però sono nel duomo di Palermo, accanto a quelle del nipote Federico II), facendo così del tempio il proprio mausoleo personale. E infine i mosaici. Seicentocinquanta metri quadrati di stupendi mosaici.
Non entreremo nella insensata disputa tra i mosaici di Cefalù e quelli di Monreale. Tra chi considera i primi l’espressione «più classica» e «più alta» dell’arte bizantina e chi invece giudica i secondi più belli e più significativi. Diremo però che c’è un «potere assorbente» di Monreale rispetto a Cefalù — forse dovuto a una migliore pubblicità o all’assenza di ostacoli burocratici superabili con «offerte spontanee» — che non è giustificato da nulla. Al contrario, i mosaici di Cefalù, terminati nel 1148, com’è scritto nell’epigrafe sottostante, sono il primo esempio di immagine monumentale in una Sicilia che fino a quel momento, in virtù della dominazione araba, aveva vietato qualunque rappresentazione antropomorfa. Non solo. Il Cristo Pantocratore , la Vergine , gli Arcangeli Uriele, Raffaele, Gabriele e Michele, i Dodici apostoli , i Santi e i Profeti , gli Angeli e i Serafini ritratti nella curva dell’abside, sulle pareti del presbiterio e sulla volta, sono mosaici particolari, unici, poiché si tratta di «mosaici dipinti», realizzati fondendo tessere e pittura. Lo scoprì nel 2001, durante i lavori di restauro della cattedrale, Maria Andaloro, docente di Storia dell’arte medievale all’università di Viterbo. «Mi sono accorta — dichiarò Andaloro — che le figure rappresentate sia nell’abside che nelle pareti erano ricoperte di pittura. Ero di fronte al primo esempio di comunione tra due tecniche ideologicamente distanti. L’uso della pittura, in questo tipo di opere, da un lato soddisfa un’esigenza puramente cromatica, per cui si cercano di ottenere dei colori che in natura non potremmo trovare, e dall’altro permette di intervenire all’interno del disegno strutturale. I mosaici di Cefalù da questo punto di vista sono un caso esemplare, non riscontrabile in nessun’altra opera».
I mosaici sono maestosi, impressionanti, luminosi. E pieni di fiori. «Vi è un trionfo e una pioggia di fiori. Festoni, fasce, ghirlande, profili. Oltre a ori e argenti, smalti, paste vitree, ossidiane, agate, diaspri, madreperle, porfidi rossi e serpentini verdi», scrive, entusiasta, monsignor Crispino Valenziano nella sua Introduzione alla basilica cattedrale di Cefalù (Opera del Duomo edizioni).
La conca dell’abside è riempita dall’enorme e bellissima figura del Cristo Pantocratore , che «parla» con le mani. Due dita della mano destra (indice e medio uniti) indicano la natura umana e divina di Cristo, le altre tre (anch’esse unite) il mistero della Trinità. La mano sinistra invece regge un Evangelario aperto, nel quale, in greco e in latino, si legge: «Io sono la luce del cosmo, chi segue me non camminerà nelle tenebre, ma avrà la luce della vita». Sotto il Cristo, la Vergine orante , la Madre di Dio, l’unica donna ritratta in tutta la decorazione musiva, che veste come una principessa e poggia su un cuscino di porpora gemmata che sembra una nuvola, mentre gli Arcangeli che sono accanto a lei le si rivolgono con atteggiamento devoto.
Nel 2015 finalmente la cattedrale di Cefalù e i suoi mosaici entreranno a far parte del patrimonio mondiale dell’umanità e ogni altra questione di primazia passerà in secondo piano, visto che nell’albo d’oro dell’Unesco, insieme con Cefalù, ci saranno anche Monreale e Palermo, e le tre città avranno tutto l’interesse a promuovere un «itinerario arabo-normanno» comune. Il cui vero nemico è nella secolare inadeguatezza delle infrastrutture (la ferrovia, i collegamenti con mezzi pubblici) proprio lungo il tragitto tra Palermo e Messina, quella prospera Via Valeria dei Romani al centro della quale si trova Cefalù, che grazie ai transiti commerciali non ha mai vissuto momenti di vera e propria depressione economica.
Lo sa bene anche il neosindaco, Rosario Lapunzina, che dopo il protocollo Unesco ha firmato altri due documenti. Il primo è l’adesione di Cefalù — attraverso la fondazione russa Metropoli, nata per recuperare la cultura del millenario impero euroasiatico bizantino — all’associazione delle città russe e italiane «Eredi di Bisanzio». Il secondo riguarda il rischio di chiusura del museo «Mandralisca», che, insieme con la Rocca e il cosiddetto Tempio di Diana che lassù resiste, è una delle principali ricchezze di Cefalù. Il «Mandralisca», frutto della lungimiranza del barone Enrico Piraino di Mandralisca, meriterebbe un capitolo a parte. Qui ricorderemo soltanto il Ritratto d’uomo , uno dei capolavori di Antonello da Messina, «che ha un sorriso malefico, beffardo — ha scritto Vittorio Sgarbi — e sembra proprio la fototessera di un mafioso capace di ogni nequizia», e il Venditore di tonno , vaso greco della prima metà del IV secolo avanti Cristo, proveniente da Lipari. Il vaso raffigura una scena di compravendita di tonno tra due persone che sembrano due caricature e fece scrivere a Guido Piovene: «Vi è qualche cosa nella vita spicciola siciliana che è rimasta immutata per oltre due millenni».

Corriere La Lettura 16.3.14
L’epopea leggendaria dei guerrieri biondi


Poco dopo l’anno Mille cominciarono ad affluire nell’Italia meridionale gruppi di normanni, popolazione di origine scandinava che si era insediata stabilmente in Francia, nella regione tuttora denominata Normandia, durante il X secolo. All’inizio furono ingaggiati come mercenari, ma poi presero ad operare in proprio e fondarono in Campania la città di Aversa. Più avanti la famiglia normanna degli Altavilla estese man mano il proprio dominio in tutto il Sud, sconfiggendo i longobardi, i bizantini e il papa Leone IX. Nel 1061 Ruggero I d’Altavilla sbarcò in Sicilia, allora dominata dagli arabi, e dopo un decennio di dure lotte conquistò Palermo nel 1072. Suo figlio Ruggero II fu incoronato re di Sicilia nel 1130: la sua vita e le sue imprese sono state ricostruite dallo storico Hubert Houben nel libro Ruggero II di Sicilia. Un sovrano tra Oriente e Occidente (Laterza, 1999). Lo stesso Houben ha appena pubblicato l’opera di sintesi I normanni (Il Mulino, pp. 144, € 12).

Il Sole 24Ore Domenica 16.3.14
L'età della smemoratezza
Gli italiani non amano le ricapitolazioni meticolose dei fatti
Panico invita a evitare semplificazioni e scorciatoie ideologiche
di Luigi Mascilli Migliorini



Si possono leggere come una storia della storiografia italiana all'indomani della «morte della patria»; si possono leggere come una storia della sinistra italiana alla prova dello sviluppo della democrazia, si possono, più semplicemente, leggere come una storia del dopoguerra italiano: in ogni caso le pagine di questo breve, intenso libro rappresentano uno dei contributi più sinceri e utili per comprendere la natura e la vastità della crisi politica, intesa esattamente come crisi della polis, della cittadinanza, che ha investito il nostro paese. Un paese «smemorato», si sente osservare sempre più spesso, di fronte alla facilità con la quale gli italiani dimenticano le filiere del rapporto causa-effetto che nel suo scorrere temporale serve, ovunque, a ricapitolare origini e quindi responsabilità dei problemi che il presente ti obbliga ad affrontare. Ingenui (almeno all'apparenza) costruttori di rinascenze, riscatti, risorgimenti, insomma di qualsiasi palingenesi che abbia a propria premessa una frettolosa dimenticanza del passato, dei suoi fardelli, delle sue colpe individuali e collettive, gli Italiani non amano ricapitolazioni troppo meticolose dell'accaduto.
Ai fastidiosi riepiloghi dall'aria un po' da vecchio contabile, dove si distribuiscono torti e ragioni e si tenta di capire quali eredità degli uni come delle altre pesino sull'oggi, essi preferiscono la tabula rasa della memoria, certi di poter costruire su questa assoluzione collettiva un sentimento di appartenenza comune che si disfa quando, puntualmente, la mancata chiarezza su ciò che è stato porta il conto a un presente smarrito e disunito. È accaduto, perfino con il momento fondatore della polis. Lo ricordiamo il 2011: il tentativo di una frettolosa, imbarazzata liquidazione dell'anniversario della nascita dello Stato nazionale, che avveniva tra gli schiamazzi dei suoi avversari e il silenzio vile dei suoi presunti sostenitori e in mezzo un popolo frastornato, a cui gli storici di professione, «custodi della memoria» per vocazione e mestiere, non riuscivano a offrire né una equilibrata ricostruzione delle questioni in campo, né (all'opposto, ma ugualmente salutare) una vigorosa contesa di grandi partigianerie ideali, e si limitavano a riprodurre ciò che il senso comune di una cattiva politica offriva a ogni angolo di strada.
Sono gli stessi storici (cioè la stessa categoria) che Guido Panico chiama con forza in causa in questo libro a proposito di un altro, e forse perfino più forte, riferimento fondativo dell'Italia democratica: l'antifascismo e la Resistenza. Il necessario superamento delle interpretazioni appartenute a decenni, gli anni Cinquanta e Sessanta, che inevitabilmente, giustamente perfino, dovevano mescolare storia e memorie personali, ricerche documentarie e battaglie ideali, si è trasformato, nel tritacarne dell'Italia post-comunista e post-democristiana, in uno sventolio di parole d'ordine – guerra civile, pacificazione, storie di vinti – a cui era estranea ogni capacità, o meglio ogni volontà, di autentica storicizzazione, di autentica restituzione del grande dramma vissuto da un popolo, delle colpe maggiori, minori che ciascuno aveva avuto in quel dramma, dei ruoli di carnefici e dei ruoli di vittime che esso aveva – fissandoli per sempre nel tempo – distribuito.
Certo il compito di questa dissoluzione memoriale – lo dice Guido Panico – è stato reso più semplice dalla facilità con la quale in Italia (ben diversamente dalla Germania e in un modo, per dir così, più esteriorizzato, e dunque superficiale dalla rimozione che hanno fatto i francesi degli anni di Vichy) si è chiuso il capitolo del fascismo. In questo senso l'opera storiografica di Renzo De Felice, letta alla luce del poi, sembra aver fatto da ouverture ad un festival collettivo della smemoratezza piuttosto che (come era nelle sue intenzioni) alla riflessione sulle responsabilità di una intera società dei cui tragici esiti essa non poteva far colpa a un unico, seppur colpevolissimo, «capro espiatorio».
Quello che si può constatare più in generale, seguendo il percorso interpretativo proposto da Guido Panico, è che nel momento in cui il revisionismo che ha caratterizzato in larga misura la storiografia europea a partire dagli anni Ottanta, con il suo carico di legittime domande, di innovativi punti di osservazione, ma anche con il suo fardello di fraintendimenti ideologici e di astuzie comunicative, impatta il tessuto della società italiana, si producono effetti derivati, e – immagino – almeno in parte indesiderati, di cui questo libro ci avverte con molta chiarezza. A contatto con la tradizione italiana, cioè con la tradizione del suo senso comune, il revisionismo ha amplificato uno dei suoi rischi più evidenti: la trasformazione della decostruzione delle verità pubbliche costituite in nichilismo valoriale. Posto di fronte (grazie anche a un singolare ircocervo di storici-giornalisti e viceversa) alla continua rivelazione dei fallimenti e degli inganni della storia – oggi la Resistenza, domani il Risorgimento, poi la Rivoluzione francese – soprattutto di quella storia che, spesso con generosa, illusoria e tragica volontà, ha provato a cambiare il mondo, l'italiano rafforza la certezza nel proprio, individualissimo «eterno presente», e, convinto che nulla in questa storia cambi mai veramente, si appresta, con rinnovata tranquillità, a conservare il piccolo mondo del suo «particulare».
Guido Panico, Nobiltà e miserie di Clio. Gli abusi della storia contemporanea, Franco Angeli, Milano, pagg. 142, € 18,00

Il Sole 24Ore Domenica 16.3.14
Il Senato che vorremmo
Deve essere un organo con chiari compiti di garanzia: ambiti e funzioni devono essere protetti dalle maggioranze politiche
di Carlo Melzi d'Eril e Giulio Vigevani



La scelta del Parlamento di modificare la legge elettorale della sola Camera dà per scontato che si realizzi poi, quasi in automatico, la riforma del Senato, ignorando che questa è un'impresa a dir poco titanica, quale che ne sia il contenuto.
Già la scelta della Costituente di avere due assemblee elette direttamente e con le medesime funzioni fu l'esito dell'incapacità di individuare una soluzione condivisa sulla composizione e il ruolo della seconda Camera.
Allo stesso modo, nei molti decenni in cui si è discusso in Italia di riforma del bicameralismo, le innumerevoli ricette avanzate da politici e studiosi si sono dimostrate nel complesso poco convincenti, oltre che nei fatti irrealizzabili. E ciò non accade solo in Italia: si sono arenati, ad esempio, anche tutti i tentativi del legislatore inglese dell'ultimo quindicennio di riformare la House of Lords.
Oggi, però, avviata ormai questa "riforma a metà" della legge elettorale, qualcosa si deve necessariamente fare, se non si vuole la paralisi dell'intero sistema istituzionale.
E dunque, per evitare i fallimenti del lontano e recente passato, bisogna prima di tutto definire quale funzione e quale ruolo affidare a una eventuale seconda Camera e solo dopo ragionare sulle modalità di selezione.
Quindi, per quanto concerne i compiti, forse occorre cambiare schema in modo radicale rispetto a tutte le opzioni che ancora oggi lasciano una porzione importante del potere legislativo in mano anche al Senato. La via più innovativa e insieme più percorribile ci pare quella di un sostanziale monocameralismo con una ulteriore assemblea che non partecipi al procedimento legislativo – salvo forse per le leggi di revisione costituzionale – né dia la fiducia al Governo. Immaginiamo, cioè, un organo con funzioni principalmente di garanzia che si riunisca e intervenga in ambiti che debbono essere in qualche modo protetti dalla invadenza della politica. A esso si potrebbe affidare, ad esempio, l'elezione di parte dei giudici costituzionali e dei membri del Csm, le nomine dei componenti delle authorities e del cda della Rai. Ma si può essere più arditi e attribuirgli il potere, ora del Capo dello Stato, di rinviare le leggi approvate dalla Camera politica e quello di sottoporre preventivamente le stesse alla Corte costituzionale.
In questa prospettiva, il reclutamento può prescindere dalla logica della rappresentanza politica. Questo nuovo organo, infatti, non deve contribuire alla definizione dell'indirizzo politico della Nazione, ma è concepito come una sorta di "contropotere", che ha la funzione di contenere il potere politico all'interno degli argini previsti dalla Costituzione e di garantire l'autonomia e il pluralismo degli organi che contribuisce a nominare.
Dunque, in concreto, come scegliere i "nuovi" senatori? Sicuramente ha senso che siano presenti le città e le regioni, per dare voce alle molte realtà di un territorio tanto vario e per rispettare anche la tradizione di un Paese che da secoli trova la propria identità soprattutto nel comune.
Ma forse ancora più senso sembra avere una non simbolica rappresentanza delle competenze, della cultura e (soprattutto) della scienza del nostro Paese. Ciò in quanto proprio da questo ambito pare poter più facilmente provenire un gruppo di persone che vigili sul buon andamento delle istituzioni e freni la fisiologica tendenza del potere allo straripamento.
Ben sappiamo che tale proposta presta il fianco a importanti obiezioni, soprattutto tenuto conto di peculiarità (vogliamo dir difetti?) tutte italiane. 
La prima: chi sono nella nostra società i "sapienti"? Rispondere è difficile, specie per il processo di ormai avanzata demolizione di autorevolezza delle istituzioni della nostra società civile: scuola e università; partiti; sindacati; giornali; Rai; ordini professionali e associazioni imprenditoriali. Ciò si accompagna a una drammatica carenza di istituzioni culturali che rappresentino il meglio di scienza, arte e sapere in genere. Così non è in Francia, ove ad esempio vi è una pubblica amministrazione la cui autorevolezza è unanimemente riconosciuta. Così non è nemmeno nei Paesi anglosassoni, che hanno corpi sociali storicamente forti e ben organizzati.
La seconda: chi li seleziona? Quale meccanismo può portare alla scelta dei "migliori" e insieme limitare le interferenze della politica? Il rischio della lottizzazione, la tentazione di usare il sempreverde manuale Cencelli, la tendenza a spartirsi ogni sgabello con logiche di mero potere sono tutte caratteristiche da un lato quasi endemiche di ogni "luogo" ove domina la politica, dall'altro nemiche di ogni riforma in senso meritocratico dell'istituzione. D'altra parte non si può certo pensare di affidare al Presidente della Repubblica la nomina di un numero di "cittadini illustri" ben superiore ai cinque senatori a vita. Un'ipotesi potrebbe essere quella di affidare a una commissione il compito di individuare alcune personalità indipendenti, ritenute meritevoli della nomina. Così avviene – per citarla ancora una volta – per la House of Lords, anche se ben sappiamo che le importazioni sono sempre a rischio di rigetto.
Altri potrebbero essere gli interrogativi su un "Senato delle autonomie e delle competenze", ma fatichiamo a trovare idea migliore del coinvolgimento dei molti saperi presenti nella società italiana in un'assemblea che voglia essere realmente garante del corretto funzionamento delle istituzioni repubblicane. E questo non per risparmiare qualche lira sugli stipendi dei senatori, ma per dare alla classe dirigente della società italiana, in cui vi sono molti talenti, la responsabilità di contribuire a formare istituzioni autorevoli.

Il Sole 24Ore Domenica 16.3.14
L'urgenza della tragedia siriana
La giuria del Festival del film sui diritti umani incorona all'unanimità un documentario sull'assedio di Homs. Intanto i colloqui di pace sono rimandati a data da destinarsi
di Lara Ricci



Ai muri di quel che resta di Homs stanno appesi brandelli di pavimento, un divano pieno di macerie, un quadro. Affacciandosi a una di queste stanze sospese nel vuoto, neppure Abdul Basset Al-Sarout riesce a capire dove si trova nella sua città, il suo orgoglio, la capitale della rivoluzione. I palazzi hanno perso dei piani, gli appartamenti sono esposti alla vista di tutti, come un alveare sciolto dalle bombe. Nelle strade non c'è più nessuno, solo i tank di Bashar al-Assad. Ma sotto al groviglio delle macerie si muoverebbero almeno 1.500 persone, i più poveri, i più deboli e i ribelli. Hanno aperto varchi nelle pareti degli appartamenti vuoti e passano di casa in casa, senza esporsi ai cecchini; hanno scavato cunicoli sotto alle vie, scivolano nelle fogne.
Basset è diventato uno di loro. La telecamera di Talal Derki lo segue dal marzo di tre anni fa, quando le piazze della Siria si sono riempite di gente. Anche lui, che aveva 19 anni ed era uno dei calciatori più promettenti del Vicino Oriente, è sceso tra la folla. Il suo carisma, la sua popolarità (non certo le sue doti oratorie) lo hanno portato a salire sui palchi improvvisati, urlare slogan e comporre canzoni. «Perché ci uccidono? Il popolo e i soldati dovrebbero essere fratelli», intona quando gli uomini di Bashar al-Assad aprono il fuoco sui manifestanti. Diventa un'icona della rivoluzione, poi un leader dei ribelli. I capelli si allungano, il corpo smagrisce, è un fascio di nervi. «Dobbiamo gratificare dio col sangue», dice ora. Ha perso tre fratelli, due zii e decine e decine di amici.
Basset è ancora a Homs, con un pugno di ragazzi affamati difende un mucchio di macerie. «Non la lascerà più», spiega Talal Derki, che voleva mostrare in presa diretta quel che la guerra fa a un ragazzo di 19 anni e che lo ha seguito fino alla prima linea del fuoco. Basset non ha più sogni se non quello di diventare un martire della rivoluzione. E non ha più dubbi, valeva la pena fare quello che ha fatto. Derki invece è a Ginevra, è suo il documentario, Return to Homs, che ha aperto il Festival du film et forum international sur les droits humains e che ieri lo ha vinto («per l'urgenza dentro alla quale immerge lo spettatore, urgenza che contribuisce a combattere l'indifferenza, trovando un'equazione perfetta tra contenuto e forma cinematografica»).
Alla serata inaugurale doveva esserci anche il regista siriano Mohamed Malas - per presentare l'emozionante Ladder to Damascus, girato in gran segreto in una casa della capitale mentre nel paese la rivoluzione è sul punto di trasformarsi in guerra civile - ma è stato arrestato, poi liberato, ma col divieto di espatriare. La scala a pioli del titolo si riferisce a una statua scolpita da una delle protagoniste: un uomo vi è salito sopra e poi si è staccato la testa per poterla sollevare con le mani fino alla finestra e guardare oltre le sbarre della prigione.
Era stato invitato pure l'attivista Raed Farès. Viene dal paese ribelle di Kafranbel che combatte a colpi di slogan pieni di sarcasmo contro Bashar al-Assad ma anche contro il resto del mondo «che lascia morire lentamente un paese, e che ci fa porre interrogativi sulla razza umana», afferma Derki. Ma Farès ha subìto un attentato. È sopravvissuto ma non ha fatto a tempo a fare il visto. Dopo tre anni di guerra la Siria è un paese fantasma. «Nelle dieci città sotto assedio non riusciamo a far arrivare alcun aiuto umanitario e in tutto il paese non c'è più nulla, né farmaci né ospedali», ammette Yves Daccord, direttore generale del Comitato internazionale della Croce Rossa che si chiede se questa immane tragedia nel futuro porterà finalmente a cambiare la politica del diritto di veto nel Consiglio di sicurezza dell'Onu.
«Eravamo d'accordo che, se fossi morto, qualcun altro avrebbe continuato il film – dice Derki –. Queste immagini non appartengono a me, ma alla storia. Non volevo che, come spesso accade, fossero i vincitori della guerra a decidere cosa è avvenuto». Nella sua pellicola, e non solo – basta vedere quel che gira su youtube – i ribelli si filmano durante gli attacchi, riprendono i massacri della gente inerme, convinti che questa volta sì, vedendo tali immagini, il resto del mondo non potrà non intervenire. Return to Homs ci lascia addosso il peso di una doppia responsabilità, non solo quella di stare a guardare mentre un dittatore scarica le sue bombe su città piene di innocenti, ma anche la sensazione che se la nostra politica non avesse fatto credere che esistesse un imperativo morale che muoveva gli stati a fermare i crimini di massa, forse molti di questi giovani non sarebbero entrati in guerra.
Proprio qui, a Ginevra, nel palazzo dell'Onu, dopo tre settimane di stallo, i colloqui sulla Siria sono stati interrotti e rimandati a data da destinarsi. Derki non rinuncia a lanciare ancora un appello perché le nazioni fermino il massacro. Si unisce a lui Hani Abbas, l'autore delle vignette satiriche che vedete in questa pagina e a cui è stata dedicata un'esposizione. «Non si può fermare una guerra con un'altra guerra – dice –. Ma tutti in Siria erano e sono convinti che si possa fermare Bashar al-Assad». Maestro di scuola nato in un campo profughi palestinese in Siria, Abbas ha visto i suoi allievi ridursi di giorno in giorno, o perché morivano o perché scappavano, ma l'ordine era continuare ad andare a scuola. Fino a quando una bomba l'ha distrutta. Da allora si è dedicato a tempo pieno alle vignette, che sempre più gente ha condiviso via Internet e che sono state pubblicate da Al Jazeera. Uno a uno tutti i suoi amici giornalisti sono stati uccisi e quando, dopo aver pubblicato il disegno di un soldato che si china ad annusare il profumo del fiore della rivoluzione, i servizi segreti lo hanno chiamato e la banca gli ha fatto sapere che il suo conto in banca era congelato, ha deciso di fuggire dalla Siria.
Marzo è il mese in cui a Ginevra sfilano le tragedie di interi popoli perpetrate per mano di altri uomini. È il mese in cui si apre il Consiglio dei diritti umani e la piazza antistante il Palais des Nations si riempie di migliaia di manifestanti imperterriti, come le Tigri Tamil dello Sri Lanka, che da anni chiedono a gran voce l'apertura di un'inchiesta internazionale per crimini di guerra e che più volte in passato si sono immolati su questo spiazzo. Ma il palazzo dell'Onu è lontano, oltre una strada, una recinzione, una lunga fila di bandiere e un ampio giardino.
Da dodici anni, in concomitanza con la sessione dell'Onu, si svolge il festival del cinema sui diritti umani che, con il potere dell'arte e delle immagini di cronaca, dà corpo agli asettici rapporti che vengono letti nelle riunioni del Consiglio per i diritti umani (anche se pure qui si usano sempre di più documentari – sconvolgente quello che l'anno scorso ha mostrato le vittime degli stupri usati come arma di pulizia etnica nella Repubblica democratica del Congo).
È proprio nel marzo del 2012 che il segretario generale dell'Onu, Ban Ki-moon, ha fatto notizia dicendo: «lesbiche, omosessuali, bisessuali e transessuali, non siete soli». E ancora: «Ogni attacco a voi è un attacco ai valori universali delle Nazioni Unite». Da allora la lotta contro la discriminazione dei gay è ben presente nell'agenda Onu sui diritti umani. E quest'anno è il documentario Global gay, di Frédéric Martel e Rémi Lainé, che mostra il difficile cammino verso la depenalizzazione dell'omosessualità e il percorso intrapreso dall'Onu per il "diritto di amare", a essersi aggiudicato il Gran premio dell'Organizzazione mondiale contro la tortura. Oggi l'omosessualità è penalizzata in 76 paesi. In 38 si paga con la prigione, in sette con la morte.
Al dibattito che ha seguito il film ha partecipato Robert Badinter, ex presidente del Consiglio costituzionale francese ed ex ministro della giustizia noto per essere stato il promotore della legge che portò all'abolizione della pena di morte in Francia, nel 1981, e meno noto per la sua battaglia, l'anno successivo, per la depenalizzazione dell'omosessualità. Sono due battaglie molto legate, spiega: «La pena di morte dimora nell'arsenale di legge penale più insopportabile: dà il potere di uccidere un uomo in nome della giustizia, quando il primo diritto dell'essere umano è quello di vivere. Anche il diritto a disporre liberamente del proprio corpo, il diritto al piacere, è un diritto primario. Nessuno deve avere potere di polizia su quel che facciamo del nostro corpo da adulti. L'essere umano è innanzitutto corpo, ed è libero di fare di questo ciò che vuole».
«Quando abbiamo abolito la pena di morte in Francia – continua – eravamo il 34° paese a farlo. Ora, dopo 30 anni, siamo 150 paesi. Arriveremo anche a una depenalizzazione universale dell'omosessualità. Credetemi, ce la faremo!».
Ma il diritto a disporre del proprio corpo fa fatica ad affermarsi anche negli Stati più avanzati. Lo dimostra un altro dibattito molto interessante che si è tenuto al festival dopo la proiezione del bel documentario War babies. Un dibattito dedicato agli stupri di guerra e al fatto che molti donatori internazionali, tra cui il principale – gli Stati Uniti – continuano a legare il loro aiuto al fatto che l'aborto sia vietato. «È una violazione della legge internazionale – ha affermato l'avvocato Louise Doswald-Beck –: questa prevede, in caso di guerra, il dovere di curare feriti e malati, le persone che hanno subito un trauma fisico o psicologico. E chi più di una donna violentata dalle milizie ha subìto un trauma fisico e psicologico? Il fatto che il singolo stato magari non permetta l'aborto non ha alcuna importanza: il diritto internazionale ha più forza delle leggi nazionali. E poiché tutti gli Stati hanno il dovere di assicurare il rispetto delle leggi internazionali, quelli che vincolano i loro aiuti al divieto di aborto le stanno violando».
«È difficile per le organizzazioni non governative parlare liberamente di interruzione di gravidanza perché rischiano di perdere donatori, e per questo molte non aiutano le donne in tale frangente» spiega Nelly Staderini, di Médecins Sans Frontières. Non solo, una volta fatti nascere, nessuno si occupa dei bambini, tutta la responsabilità è lasciata alle madri, ammette Staderini che spiega che loro praticano l'aborto, ma non assistono i ragazzi, gestendo solo le situazioni di emergenza, e rende omaggio alla Libia che ha riconosciuto le donne violentate come vittime di guerra. «La chiesa blocca l'aborto, ma poi non si fa carico di questi bébé. Nessuno lo fa, neanche l'Onu pensa a loro» urla, quasi, Julienne Lusenge, della Ong congolese Sofepadi. Nel suo paese un conflitto senza confini ha già fatto il maggior numero di morti dopo la Seconda guerra mondiale. Non si contano le donne stuprate, sventrate con dei bastoni perché non possano più generare figli, non si contano i bambini nati da queste violenze, nonostante tutto. «Questi piccoli vanno nutriti, curati, mandati a scuola – continua –. Le madri, spesso delle bambine, non hanno i soldi, e poi non li vogliono mandare a lezione perché qui vengono discriminati, sono considerati i figli del nemico. Li chiamano i "bambini serpente"».

Il Sole 24Ore Domenica 16.3.14
Il trattato settecentesco
Crimea russa, in italiano
di Federica Rossi

 

Le guerre russo-turche (1768-74, 1787-91) e le vicende del mar Nero sono legate all'Italia e al ruolo della cultura italiana nel Mediterraneo. Il porto di Livorno fu una base logistica della flotta russa che combatté per l'espansione meridionale dell'impero e la futura annessione della Crimea. Anche la lingua italiana fu importante. Per il trattato di pace di Küçük Kaynarca, che pose fine al conflitto russo-turco nel 1774, il testo ufficiale fu redatto in italiano e poi tradotto in russo e in turco ottomano. L'italiano aveva quindi la funzione di lingua intermediaria. Già nel 1711 per la pace del Prut stilata con l'imperatore Pietro il Grande, la Sublime Porta si era affidata all'italiano. Fin dal Cinquecento la Cancelleria ottomana ricorse volentieri all'italiano come lingua veicolare: i turchi furono a lungo indifferenti alle lingue straniere e alla necessità dei rapporti internazionali supplivano alcune minoranze; dapprima ebrei e armeni, poi prevalsero i greci. Dal 1661 al 1821 la carica di gran dragomanno (interprete) fu ricoperta da membri di famiglie greche cristiane. Molti diplomatici-interpreti avevano studiato nelle università italiane; soprattutto Padova assorbiva una quota importante di giovani greci, i quali, al ritorno, erano in grado di produrre testi di natura commerciale o diplomatica. Oltre ai servizi nelle ambasciate e nella cancelleria, i dragomanni erano impiegati nelle imprese commerciali straniere. Ed è grazie alla tradizione dei commerci e all'abbondanza delle colonie italiane che dal tardo medioevo fino all'inizio del XIX secolo l'italiano svolse nel Mediterraneo il ruolo di lingua intermediaria o veicolare, un ruolo per certi versi simile all'inglese di oggi. L'italiano fu usato anche nel mar Nero come dimostra un manifesto pubblicato nella prima metà dell'Ottocento indirizzato «a tutti quelli che portassero nel Porto di Odessa delle pietre dure atte al selciato». Il ruolo della cultura italiana spaziava dalla lingua all'architettura: questo decreto era rivolto ai mercanti e navigatori che padroneggiavano l'italiano, mentre le pietre dovevano servire a creare l'immagine urbana di Odessa, una città costruita in buona parte da architetti e ingegneri italiani.

Il Sole 24Ore Domenica 16.3.14
La cultura divide l'Ucraina
di Antonella Scott 



Il primo muro che divide l'Ucraina è la cultura. Ne è convinto Andriy Kurkov, pur avendo fatto in briciole quel muro nella sua stessa storia di scrittore ucraino nato a Leningrado nel 1961, abitante a Kiev a due passi dal Maidan, determinato a scrivere «in questo Paese nella mia lingua nativa». A scrivere in russo dunque, «parlato peraltro almeno dal 40% della popolazione». Ma il confine tra le due Ucraine non corre qui. «Io non guardo all'Ucraina come percentuale della popolazione - dice Kurkov alla vigilia del referendum che sembra destinato a distaccare la Crimea dal resto del Paese - io la prendo in blocco. E se perderà un occhio o una gamba dovrò accettarlo, ma non ne sarò certo felice».
Lo scrittore - tradotto in 36 lingue tra cui l'italiano per Garzanti - è preoccupato. «L'Ucraina non ha alcuna garanzia che, persa la Crimea, non perderà altre regioni del Paese. Se perdiamo la Crimea, sarà il primo passo verso la disintegrazione del Paese».
A Kiev come nella penisola separatista, l'attesa del referendum voluto dal governo arrivato d'improvviso al potere a Simferopol è sembrata una corsa verso l'inevitabile, senza alcuna possibilità di tentare un punto di incontro. «Non c'è dialogo, non c'è modo di rivolgersi a loro - spiega Kurkov -. In Crimea non conoscono l'Ucraina, nessuno gliela ha mai presentata. Ci sono gli attivisti pro-russi, la minoranza tartara e poi la comunità dei russofoni, totalmente passivi nel senso post-sovietico della parola. Loro non ascoltano il governo o i diplomatici ucraini, non guardano i canali tv locali ma solo quelli russi, ascoltano la radio russa, leggono giornali russi. Ai militanti invece del dialogo non importa nulla, e nessuno chiede un parere ai tartari di Crimea, tanto sono una minoranza».
La situazione è simile nelle regioni dell'Est dell'Ucraina, anche se con sfumature diverse. E se all'Ucraina oggi manca uno spazio culturale unico, questa è un'eredità del tempo sovietico, naturalmente: libri russi e ucraini non hanno mai convissuto insieme equamente sugli scaffali delle librerie. Negli anni 90 la percentuale dei libri in lingua russa occupava l'85-95% dello spazio, ora la proporzione è scesa ma non tantissimo, 70% libri in russo e 30% in ucraino. «C'è sempre uno squilibrio - spiega Kurkov - dovuto anche al fatto che la letteratura ucraina sovietica era esclusivamente impregnata di ideologia comunista. Così, dopo l'indipendenza dell'Ucraina, un'intera generazione di scrittori qui è scomparsa. Per 7/8 anni la scena letteraria è rimasta praticamente vuota, senza libri scritti in ucraino che fossero letti in ucraino e popolari nell'intera Ucraina». Sull'altro fronte, a Donetsk e nelle altre città dell'Ucraina orientale tutti i libri venivano importati dalla Russia: «Un'operazione oscura - dice Kurkov -. Li portavano con i camion, non so chi dirigesse il business». In sostanza il mercato dei libri in Ucraina era in mani russe, solo ora la letteratura ucraina ha iniziato a conquistarsi spazio, ma - di nuovo la barriera - solo nelle regioni occidentali e centrali.
Un secondo muro è tra l'Ucraina e la Russia. Lo sa bene Kurkov, popolare nel suo Paese d'origine fino al 2004. Poi, dopo la pubblicazione del suo Poslednjaja ljubov presidenta (L'ultimo amore del presidente, una vivace satira sui politici spuntati dalle rovine dell'impero sovietico), la Rivoluzione arancione di Kiev mise fine alle fortune di Kurkov in Russia. I suoi libri scomparvero dagli scaffali, il 99% degli articoli che parlano di lui sono molto negativi: «Sono diventato uno scrittore di terzo grado - racconta - quello che scrivo, secondo la versione russa di Newsweek, è spazzatura letteraria». Ora però, quanto sta facendo la Russia all'Ucraina ha un merito, secondo Kurkov, quello di aver creato uno spirito nazionale ucraino, anche se a un prezzo molto alto. «A cominciare il processo di consolidamento - osserva lo scrittore - è stato Yanukovich (il presidente ucraino deposto, ndr), diventando il nostro comune nemico. Ora Putin sta completando l'opera». L'aggressione alla Crimea secondo Kurkov sta mettendo contro Mosca anche le regioni meno ostili, come quelle centrali: «Per la Russia avere un nemico è una cosa positiva, i suoi leader ne hanno sempre avuto bisogno per consolidare il proprio potere. All'Ucraina non era mai successo. Ma ora abbiamo il nemico».

Il Sole 24Ore Domenica 16.3.14
L'amore ai tempi del dopo Lacan

Non è più come prima. Proprio così. Prima era Lacan, la rivoluzione dell'incomprensibile. Ma, adesso che l'obiettivo sono le vendite, meglio farsi capire. Soprattutto da chi ama la posta del cuore. Da chi si emoziona per il libro di Massimo Recalcati (Cortina editore) con la rosa secca in copertina. Il libro del guru rigorosamente in nero, stile fonzie-esistenzialista, racconta la forza dell'amore ai tempi del consumismo. Quando sentite uno psicoanalista che rispolvera l'evergreen o tempora, o mores!, che generalizza sui modi di amare – gli uomini così e le donne cosà, oppure: è meglio una lunga storia d'amore piuttosto che amori veloci ed egoisti, e che insomma l'amore, perdono incluso, è la forza più grande del mondo – quando insomma vedete che la banalità ha fatto scuola anche nella cura della psiche, iniziate a farvi qualche domanda. Per esempio se l'epoca del consumo e del narcisismo, oltre che vituperabile non sia anche contagiosa. L'amore è sempre un business, che talvolta spinge a riscrivere lo stesso libro.

Il Sole 24Ore Domenica 16.3.14
Narcisismo virus dell'Occidente
Il greco-francese Castoriadis e l'americano Lasch collegano la crisi dello spirito pubblico al tramonto delle grandi narrative come il marxismo
di Sebastiano Maffettone



Contrariamente alle nostre abitudini, in questa rubrica non recensiamo un saggio ponderoso di filosofia politica ma due brevi operette di occasione il cui contributo alla filosofia politica appare comunque significativo. Il primo dei due libricini in questione pubblica – per i tipi di Eleuthera – un'intervista televisiva congiunta (27 maggio 1986) di Michael Ignatieff a due pensatori di tutto rispetto internazionale, il greco-francese Cornelius Castoriadis e l'americano Christopher Lasch. Il tema dibattuto coincide sostanzialmente con la crisi dello spirito pubblico nel mondo occidentale. Per entrambi i pensatori, questa crisi dipende dal tramonto delle grandi narrative come il marxismo. 
Per Lasch, la conseguenza consiste in una diffusa perdita del noi in favore dell'io. Per Castoriadis, però, anche l'individuo è una costruzione sociale e quindi la perdita del pubblico implica anche la presenza di un sé disturbato. Lasch chiama questo sé "io minimo", e lo ritiene affetto da pervasivo narcisismo. Per entrambi gli autori poi l'effetto duraturo della perdita del pubblico ha a che fare con un montante egoismo generalizzato, nel cui ambito la vita trascorre in orizzonti angusti e senza speranza. Un interessante corollario di questa tesi lo si può ritrovare nel fatto che i movimenti più recenti di emancipazione - per i neri, le donne e così via – sono per così dire tutti settoriali e non richiedono mobilitazione in nome di valori universali: solo se sei donna o nero puoi partecipare a pieno titolo e condividere gli ideali.
Quest'ultimo punto costituisce un ideale trait-d'union con le tesi di Juergen Habermas così come riportate nelle interviste-colloquio di Enrico Filippini, pubblicate ora da Castelvecchi, riprendendo quelle di Repubblica nel 1986 e Espresso nel 1976 (a cura di Alessandro Bosco, con un saggio di Giacomo Marramao). La perdita del pubblico, di cui si diceva, viene reinterpretata da Habermas in termini di «colonizzazione del mondo della vita» da parte di sistemi economico-sociali aggressivi e spersonalizzanti. 
I meccanismi di controllo impliciti in questi sistemi conducono a una distruzione sistematica della comunicazione. Contro tutto ciò deve operare la ragione critica orientata all'emancipazione. La rinascita della comunicazione non-distorta sarà poi il segno della liberazione progressiva in atto del mondo della vita. Come si vede, Habermas non esita qui a riprendere temi classici di filosofi radicali come Nietzsche e Heidegger. Sua intenzione è però spostare l'enfasi di questi pensatori dal dominio estetico al dominio etico-politico. Heidegger e Nietzsche, agli occhi di Habermas, non si sono mai occupati delle forme istituzionali della ragione perdendo così l'opportunità di trasformare il loro approccio in una critica sostanziale della società.

Il Sole 24Ore Domenica 16.3.14
Quell'autore è ancora italiano?
di Alfonso Berardinelli



Di che cosa è fatta l'identità italiana? E come inventiamo o costruiamo la nostra idea di realtà? Sono appena usciti i libri di due giovani studiosi, Matteo Di Gesù (collaboratore di questo supplemento) e Raffaello Palumbo Mosca, che propongono un bilancio aggiornato e ragionato di questi due inesauribili problemi: in un paese come il nostro in cui, tanto per complicare le cose, risulta che da un lato siamo sempre stati istintivamente, cinicamente realisti, dall'altro siamo creativamente capaci di ignorare i dati e i fatti e di vivere di consolanti illusioni. 
Ho passato parecchi anni a riflettere su queste cose, ne sono stato quasi ossessionato soprattutto dall'inizio degli anni Ottanta in poi e ogni tanto (sempre meno) ci ripenso. Pur non essendo venuto a capo delle due questioni e della loro fratellanza, confesso una certa sazietà. Quello che avevo da dire l'ho detto e ripetuto parlando sia di società e politica che di letteratura, in particolare in una antologia (Autoritratto italiano, Donzelli 1998) e in uno scambio di lettere con Geno Pampaloni, Sandro Veronesi e Andrea Zanzotto (Nel caldo cuore del mondo, Liberal Libri 1999). Dovendo semplificare, direi così. La nostra identità è troppo complicata e molto semplice: come nazione siamo giovani, nati tardi e male, tuttora goffi apprendisti della liberaldemocrazia; come abitudini, mentalità e cultura siamo vecchi e incapaci di gestire consapevolmente noi stessi e le nostre impegnative, vaste e schiaccianti eredità storiche. Quanto al realismo e alla realtà, il primo è una poetica fra le altre, che però nel romanzo occidentale è dominante e fisiologica; la seconda, la realtà in sé, è un'ovvia evidenza e un eterno mistero, possiamo vederne solo una piccola parte: perché, come ha scritto Eliot: «human kind cannot bear very much reality».
Tutto qui? Se qualcuno si è arreso ed è sazio, Matteo Di Gesù con il suo Una nazione di carta (Carocci) e Raffaello Palumbo Mosca con L'invenzione del vero (Gaffi), combattono in prima linea, disegnano mappe e ipotizzano strategie. Sono libri che possono completarsi a vicenda, scambiarsi autori e idee. Di Gesù dedica più spazio al passato e alla nostra tradizione letteraria, Palumbo Mosca prende in esame le origini, le ragioni e le forme della nostra narrativa recente e della sua «fame di realtà». In entrambi i libri la bibliografia messa in campo è così ampia da scoraggiare un esame dettagliato. Di Gesù parte da Virgilio e Dante e arriva a Pasolini, Manganelli e Arbasino (mi dispiace che non resti spazio per Giudici, Parise e qualche altro). Palumbo Mosca parte da Manzoni e Tolstoj, da Truman Capote e dal New Journalism di Tom Wolfe, da Sciascia e Arbasino, arriva a Cerami, Veronesi, Franchini, Saviano, Siti, Javier Cercas, Littel e conclude con una serie di critici e saggisti, soprattutto Massimo Onofri (che fra Borgese e Sciascia «fa critica come si gioca a rugby: in modo maschio ma corretto») e Giorgio Ficara, autore di un abbagliante libro «fuori genere», il saggio narrativo Riviera (Einaudi).
L'attacco di Palumbo Mosca è un po' equivoco: definisce «becchini» o «officianti il funerale della forma-romanzo» tutti coloro che esprimono qualunque dubbio sulla consistenza della sovrapproduzione narrativa attuale. C'è in questo un fraintendimento che poi stranamente il libro contraddice. Il romanzo è un genere problematico per nascita e definizione, e come l'intera letteratura è naturale che lo si consideri un prodotto artistico la cui qualità e continuità non sono garantite (neppure la vita umana sul pianeta Terra è garantita…). Per fortuna l'autore non si ferma a queste intemperanze iniziali e mostra subito di accedere a una considerazione meno pregiudizialmente positiva. Afferma: «mi sono proposto di ragionare sul perché la forma del romanzo ibrido mi sembri oggi quella più auspicabile». Ma questa è quasi sempre anche l'idea di vari critici della narrativa attuale. Va aggiunto che quella per il romanzo ibrido è un'opzione, un'ipotesi. Può succedere che i romanzi ibridi (autobiografici, saggistici eccetera) siano i migliori. Ma può succedere anche altro. L'esistenza di narratori puri o non ibridi ma di valore, non può essere esclusa. A Vittorini, caratterialmente sperimentale, Il Gattopardo non poteva piacere né ai neoavanguardisti poteva piacere La Storia. Oggi che l'editoria tende a privilegiare il cosiddetto romanzo «ben fatto» e la narrativa «di genere», gli sperimentalismi formali sembrano inconcepibili o vietati. Il fatto che Riviera di Ficara, a cui è dedicato l'ultimo capitolo del libro, non sia un romanzo neppure ibrido, ma un esperimento riuscito con le forme più classiche della saggistica, dovrebbe far pensare. I migliori libri, più che essere romanzi ibridi, possono anche non essere romanzi. 
Di Gesù sceglie di offrire al lettore un libro utile, che permetta di rileggere la tradizione letteraria orientata sul tema Italia e di rifletterci con attenzione. Il maggiore precedente critico è L'italiano. Il carattere nazionale come storia e come invenzione di Giulio Bollati, dedicato in particolare all'Ottocento, ma Di Gesù va oltre e arriva al saggio di Piergiorgio Bellocchio su Pasolini saggista, intitolato Disperatamente italiano.
Non disperato ma piuttosto sconsolato è comunque l'epilogo, in cui ci si chiede se il marchio «Letteratura italiana» sia ancora un marchio garantito. È qui che arriva l'a fondo critico. Se, come disse Genette, la domanda «che cos'è la letteratura?» è sciocca, non è sciocco, anzi è un dovere non smettere di chiedersi che cos'è, come funziona, in che modo e quando esiste la letteratura italiana. Come ogni critico giovane, anche Di Gesù vuole fiducia e guarda male, deplora e stigmatizza i critici più anziani, pessimisti, ansiosi o dubbiosi come Ferroni, William Marx, Todorov e Cesare De Michelis.
Scherza su Piero Boitani che identifica la letteratura con una «bellissima ragazza», contesta sia Ferroni che Asor Rosa per il rapporto che stabiliscono fra l'esistenza dell'Italia e quella della sua letteratura, e conclude così: «è più probabile che scompaiano prima gli italiani che la loro letteratura».

Il Sole 24Ore Domenica 16.3.14
Terrorismo senza romanzo
di Franco Matticchio e Bruno Pischedda



È un giovane studioso proveniente dall'università di Trento, Gabriele Vitello; e non si può dire che il suo Album di famiglia: gli anni di piombo nella narrativa italiana scansi taluni fraseggi acerbi e riduzionismi parapolitici. Tuttavia l'indagine che egli conduce ha un sicuro valore storiografico; si esercita su un corpo di testi singolarmente vasto, compone riflessioni psicosociali con una serrata analisi tematica e figurale. Soprattutto dispone la materia su un doppio versante cronologico: da un lato i precursori del romanzo a sfondo terroristico (la Ginzburg di Caro Michele, Sciascia del Contesto, Moravia con La vita interiore, Parise per L'odore del sangue). Dall'altro, facendo data agli anni Novanta, una profluvie di opere che rendono la violenza settaria un pimento quasi obbligato nel quadro delle patrie lettere: Consolo, Tabucchi, Ortese, Carlotto, Genna, e ancora Givone, Sartori, fino a Culicchia, Lidia Ravera, Walter Veltroni e altri molti. 
Validamente introdotto da Raffaele Donnarumma, il volume insiste invero su un particolare e frequentatissimo sottotipo, il romanzo terroristico di angolatura familiare. Nonostante l'argomento trascelto, esso sarebbe caratterizzato da un moto a ritroso, che procede dagli istituti di convivenza collettiva verso un'angusta intimità borghese e piccolo borghese. Un rinculo valido senz'altro a occultare le inquietudini seminate dai gruppi combattenti tra il popolo e settori non infimi di classe operaia. Ma che in ogni caso favorisce alcune costanti compositive: il primato drammaturgico accordato ai terroristi anziché alle vittime; l'ellissi o la trasfigurazione nel ricordo delle loro gesta cruente, ovviando agli estremi di un "realismo traumatico" più consono al noir; l'aggirarsi in queste storie di tanti intellettuali-scrittori, costantemente alle prese con difficoltà cognitive e crisi di ruolo; la sovrabbondanza delle figure femminili, infine, latrici di un perturbante che ha nel sesso la sua metafora maggiore (un sesso concepito dapprima come liberazione, Marcuse, Reich, e ora veicolo di fantasie mortuarie, autodistruttive, in sintonia con il rapido declinare dei movimenti di protesta).
Sono molte le questioni sollevate da Vitello, inteso a vagliare il ricco immaginario che in questi romanzi si esprime. Tra di esse, una ha però valore strategico, e riguarda l'obsolescenza dello schema edipico che per lungo tempo ha sovrinteso alla chiarificazione di simili fenomeni. Le scelte dei terroristi, se esaminate in prospettiva parentale, non valgono più come rivolta contro un padre autoritario e castratore; si presentano anzi come reagente alla sua "evaporazione", alla sua assenza o fondamentale inettitudine. È insomma su una pista lacaniana, ravvivata dalle ricerche di Luigi Zoja e Massimo Recalcati, che il giovane autore s'incammina con maggior convinzione. Edipo – spiega – poteva ben fungere da grimaldello per autori modernisti come Kafka, Pirandello, Tozzi o Svevo; la cui aggressione nei confronti dell'imago paterna consentiva un'efficace sintesi di "contenuto" e "forma del contenuto". 
Ora una simile opportunità espressiva sembra perduta, e ci restano dozzine di testi impegnati a ricucire con una buona dose di nostalgia i legami infranti. Eccettuando i lavori di Parise o di Sartori, per i quali è spesa qui qualche parola di apprezzamento, ne viene una visione di tipo consolatorio, quando non decisamente regressivo. 
D'accordo, nessuno dei romanzi in esame, familista o noir, si è poi affermato come il romanzo del terrorismo. E mancando un capostipite prestigioso, la galassia dei testi affini non ha poi dato luogo a un vero e riconosciuto genere. Andrebbe tuttavia segnalato un più ricco plesso di problemi: affinché si stabilisca un genere, non basta la presenza di un tema potentemente sentito, di grande importo simbolico; e neppure è prefigurabile in alcun modo l'insorgere di un capolavoro che funga da elemento catalizzatore. Necessita allo scopo un talento d'eccezione, quindi l'apporto non secondario del pubblico leggente, della critica; occorre che sia fausto il contesto in cui esso si inscrive. Nel secondo Ottocento mancò a questo obiettivo il romanzo cosiddetto parlamentare; lo stesso si può osservare negli anni Settanta del Novecento per il romanzo apocalittico, pure di lì in poi prediletto dai nostri scrittori. Vitello porta ad esempio positivo il tema della lotta antifascista, che certamente parve suscitare la costituzione di un genere, perché implicava collettività, epos. Tuttavia i manuali preposti prendono in considerazione la letteratura resistenziale, non il romanzo resistenziale.
I moti che nell'universo del romanzo conducono a sottospecie ben identificabili e dotate di prestigio restano in realtà per buona parte oscuri: conosciamo le leggi generali della gravitazione letteraria, non le dinamiche minute da cui emergono o non emergono singoli agglomerati planetari. Ci manca, per così dire, una teoria unificata, e nemmeno sembra che oggi siano in molti a cercarla.
D'altronde – ultima questione degna di nota –, Vitello chiede molto al romanzo terrorista. Vuole che abbia un significato analitico, conoscitivo, così da «influire sulla nostra percezione del passato». A indisporlo non è soltanto il tragicismo degradato, o la «figuralità nebulosa e narcisisticamente autoreferenziale» a cui tanto spesso si concede. Il punto è il travisamento sistematico di ciò che il terrorismo è stato in termini storici. Vuole insomma il romanzo realista, nella fattispecie del romanzo sociale: ahimè, uno tra i sottotipi più misconosciuti della nostra tradizione recente; ma unico, a suo avviso, in grado di preservare il retaggio letterario dall'invadenza mediatica, filmica, televisiva. È un'ipotesi diffusa, e gravata di alquanto massimalismo deprecatorio. Occorreva in ogni caso articolarla più nitidamente, per discuterne meglio, se non altro.

Il Sole 24Ore Domenica 16.3.14
Quante storie fa la vittima
C'è una fittissima rete di micropoteri che condiziona la vita delle persone eppure nessuno trama contro di noi per impedirci di essere felici
Di Filippo La Porta



Chi oggi non ama percepirsi un poco vittima – delle circostanze, degli altri, del proprio ambiente lavorativo, della famiglia, del capitalismo, del proprio carattere –? «La vittima è l'eroe del nostro tempo»: dalle prime righe della Critica della vittima (Nottetempo) sentiamo che Daniele Giglioli affronta – temerariamente – un demone dell'immaginario contemporaneo. La mitologia della vittima innerva la nostra esistenza quotidiana, ci dà una storia riconoscibile e una identità stabile, assicura prestigio, garantisce un ascolto, e viene assunta – con qualche spudoratezza – perfino dai potenti. Figura tipica del nostro tempo è quella della vittima aggressiva, che si considera aprioristicamente innocente, e che dunque può avere perfino licenza di uccidere. Ancora più osceno è il vittimismo delegato, di cui si appropriano eredi e portavoce: «tragedie per procura, risentimento in appalto» (i concerti live aid contro la fame nel mondo eccetera). Lo stile dell'autore è come scandito, vibrante (benché problematico), ispirato da una passione "politica" appena dissimulata. La sua ricognizione sul tema è capillare: dal martirologio delle rockstar morte per droga (capri espiatori che hanno sofferto per i nostri peccati e non «miliardari di successo» tossicodipendenti) alla suggestione cristologica di Pasolini (il suo uso iperbolico del linguaggio: «genocidio culturale» per l'industrializzazione del paese), e al culto ossessivo dei propri caduti da parte di ex militanti degli anni Settanta. Quasi liberatorio l'affondo di Giglioli contro quella filosofia segretamente necrofila (e heideggeriana) che fonda la propria ontologia sul nostro essere vittime («siamo perché subiamo»), contro la retorica dolciastra dei Derrida e Levinas, per i quali si impara a vivere solo attraverso la morte, e si riconosce appieno l'altro in quanto futuro morente che annuncia la mia morte attraverso la sua... Anche il linguaggio dei film di guerra è mutato: dal Vietnam in poi la convinzione vittimistica – da parte di chi fa la guerra – che «noi non c'entriamo» si esprime attraverso l'uso della ripresa soggettiva e verbosi monologhi sul perché della guerra stessa. Inoltre, «gli scrittori hanno sempre fatto le vittime», da Arbasino che lamentava il provincialismo dei colleghi (ritenendosene al riparo) al "carisma autoriale" di Moresco, fondato sulla sua presunta esclusione dall'editoria, e fino all'ossessione contemporanea per il plagio letterario. Infine: fa benissimo l'autore a dissociarsi dai molti pamphlet conservatori contro la cosiddetta cultura del piagnisteo, perché la loro è «una critica che non conosce empatia». Un conto denunciare l'ideologia vittimistica (paralizzante) e un altro conto mostrare indifferenza per le (molte) vittime reali del nostro presente. 
Ma proviamo a individuare qual è la radice ultima del vittimismo contemporaneo. Forse mitologia della vittima e paranoia del complotto sono speculari (come qui viene solo adombrato). Entrambe soddisfano infatti una domanda di senso e rifiutano l'idea che sia il caso a governare una larga parte dell'esistenza. Una fittissima rete di micropoteri condiziona la vita delle persone, ma nessuno trama contro di noi per impedirci di essere felici. È l'esistenza stessa ad avere un nucleo tragico, perché implica uno scarto ineliminabile tra desideri e mondo reale. In prima istanza siamo tutti "vittime", per la semplice ragione che tutti subiamo la realtà. Un riconoscimento che non porta affatto all'inerzia o al relativismo morale. E anzi significa non sentirsi appagati da questa gratificante prosopopea vittimaria, né invocare oppressioni secolari, ma individuare «le vere linee di frattura, ingiustizia e ineguaglianza». Un invito illuministico a distinguere, a capire in quali casi contingenti, limitati, possiamo verosimilmente considerarci vittime e soprattutto quali sono le nostre vittime. E quindi «ricominciare a sentirsi parte in causa», accettare il peso della fortuna (dell'imponderabile) nelle vicende umane e insieme fare tutto ciò che è in nostro potere per ridurne gli effetti. Per Martin Luther King i neri non potevano appellarsi alla condizione di vittime per pretendere una superiorità morale, e anzi dovevano conquistare il rispetto degli altri mobilitandosi, modificando se stessi nella lotta, responsabilizzandosi, affermando la propria autonomia. Una cosa assai più importante di qualsiasi risultato tangibile, e che però non ha nulla a che fare con il mito della Rivoluzione, come invece crede l'autore (la rivoluzione non è «l'altro nome della modernità» ma il surrogato fallimentare di un'idea religiosa). Dunque, divenire responsabili non tanto della ventura e sventura (che quasi sempre ci vengono date), quanto della nostra capacità individuale di rispondere a esse. Poiché, come scrisse Benjamin in una lettera, occorre strappare alla sventura le possibilità che sempre essa implica. Mentre chi si compiace del proprio essere vittima non lo farà mai.

Il Sole 24Ore Domenica 16.3.14
Erasmo e il Giulio Cesare dei papi
Definitivamente attribuito al grande umanista il dialogo che nel 1517 metteva alla berlina il pontefice Giulio II
di Massimo Firpo



Il Giulio che compare nel titolo di questo celebre libretto è Sua Santità papa Giulio II Della Rovere, il pontefice che affidò a Bramante la ricostruzione di San Pietro, a Raffaello gli affreschi delle sue stanze in Vaticano e a Michelangelo quelli della volta della Sistina, che prendeva il nome da suo zio, papa Sisto IV, nonché il ciclopico monumento sepolcrale che avrebbe dovuto ospitare le sue spoglie terrene, con oltre 40 statue. Progetti grandiosi, in cui si rifletteva l'incontenibile energia e la smisurata ambizione di un uomo «di natura molto difficile e formidabile a ciascuno, inquietissimo in ogni tempo», pronto a scagliarsi prima contro Venezia e poi contro la Francia, al grido di "fuori i barbari", per imporre all'Italia tutta l'egemonia della Chiesa, convinto secondo il Guicciardini di poter «percuotere in un tempo medesimo tutto il mondo», e secondo l'ambasciatore veneziano di esserne «il signore e il maestro del giuoco». Un papa guerriero, che non esitava a paragonarsi all'omonimo Giulio Cesare conquistatore delle Gallie, a sostituire le vesti pontificie con l'armatura di guerra, a dir messa con le mani ancor lorde della battaglia. «Vederò, si averò sì grossi li coglioni come ha il re di Franza!», disse nel lasciare Bologna per l'assedio della Mirandola, nonostante la neve e i brividi della febbre. Arcinemico e successore di Alessandro VI, ne mutò la linea politica, non l'indifferenza nei confronti dello stato deplorevole in cui versava la realtà spirituale e pastorale della Chiesa, di cui pensò solo a innalzare la grandezza terrena. Anzi, non ebbe scrupolo a finanziare le continue guerre in cui si impegnò con le risorse che scaturivano da un mercimonio sempre più scandaloso di uffici curiali e benefici ecclesiastici, un «modo dello accumulare danari non mai più usitato» che, secondo Machiavelli, egli aveva imparato proprio da papa Borgia.
Non stupisce quindi il grande clamore suscitato da quel Giulio, un libretto apparso anonimo nel 1517, in cui il bellicoso pontefice veniva messo alla berlina con inaudita violenza. Vi figurava infatti un paradossale dialogo tra san Pietro e Giulio II, morto nel 1513 e subito presentatosi in sfarzose vesti papali con un nutrito esercito di soldatacci alle porte del Paradiso per esservi accolto dal primo pontefice della Chiesa. Ma le somme chiavi in suo possesso non funzionavano né, san Pietro aveva la minima intenzione di accogliere lui e le sue truppe nel regno dei cieli, dove – gli spiegava – non si entra con «la chiave della cassaforte» né con quella della «potenza», entrambe molto diverse da quelle affidategli a suo tempo dal «pastore della Chiesa, quello vero, Cristo». Anziché un pontefice, Pietro dichiarava di vedere in lui «un tiranno interamente votato al mondo un nemico di Cristo una peste della Chiesa», spiegando che l'abbreviazione P.M. non stava per Pontefice Massimo ma per Peste Massima, insediatasi sul trono papale in una Roma diventata cloaca di ogni vizio e abominio. Questo era il tono di quel micidiale scritto satirico, di cui in soli tre anni, fra il 1517 e il 1520, apparvero ben 14 edizioni, tutte anonime, anche se il nome di Erasmo non tardò a essere sulla bocca dei lettori, pronti a nutrire di quelle pagine sulfuree la rabbia antiromana che ovunque montava in Europa, e particolarmente in Germania, che l'assenza di un forte potere centrale abbandonava alla cosiddetta fiscalità della Chiesa. Di qui l'irrisione romana e l'indignazione tedesca per la definizione dell'immenso e invertebrato Sacro romano impero come «mucca personale del papa», autorizzato a mungerlo a suo piacimento.
In una densa introduzione, in cui si riversano i frutti di una lunga ricerca per la preparazione dell'edizione critica del testo nei sontuosi Opera omnia del grande umanista fiammingo promossi dall'Accademia olandese delle scienze, Silvana Seidel Menchi ricostruisce con esemplare chiarezza le vicende della composizione, della circolazione manoscritta e delle stampe dello Iulius, di cui offre una brillante traduzione italiana con testo latino a fronte. L'impeccabile acribia filologica di queste pagine è tanto più preziosa in quanto, lungi dal limitarsi a qualche precisazione erudita, offre strumenti preziosi per una lettura fresca e innovativa di un libro la cui storia conduce nel cuore più vivo e vitale dell'esperienza umana e religiosa di Erasmo, laddove anche nelle contraddizioni, nei timori e nelle ambiguità si cela sempre e comunque la cifra della sua grandezza intellettuale e morale.
Scritto a Cambridge nel 1514, in un'Inghilterra che Erasmo si apprestava a lasciare anche per la guerra antifrancese voluta da Enrico VIII, che lo aveva portato ad allearsi con Giulio II, e nato dalle amichevoli conversazioni conviviali in cui le critiche contro la curia romana si facevano sempre più feroci, il manoscritto circolò dapprima come un "pamphlet semiclandestino" fra gli amici intimi di Erasmo, a cominciare da Thomas More, fino alla stampa a Magonza verso la fine dell'estate del 1517 per iniziativa di Hulrich von Hutten. Poche settimane dopo però, la vigilia di Ognissanti, un oscuro monaco sassone di nome Martin Lutero, affiggeva a Wittenberg le sue 99 tesi: il mondo intero cambiava d'improvviso, e con esso il modo di pensare la Chiesa, il papato e la stessa fede cristiana. Le sempre più pressanti e sempre disattese istanze di una riforma della Chiesa si concretavano infine in una Riforma protestante che con quella Chiesa avrebbe reciso ogni legame nell'arco di pochi anni, per dar vita a nuove confessioni cristiane, spesso in aspro conflitto tra loro. «La svolta epocale cambiò il timbro e la sostanza dell'operetta appena immessa sul mercato librario», scrive Seidel Menchi, sottolineando come ciò imponesse a Erasmo di raffrenare quella che egli stesso definì come «la smodata libertà di una lingua che non sa tacere il vero». «L'esercizio della parola», lo strumento di cui egli era padrone, che sapeva maneggiare con ineguagliabile virtuosismo, diventava ora pericoloso: i testi cambiavano significato, le ironie del passato diventavano minacce, le punte di fioretto si trasformavano in spade affilate.
Erasmo, che fino ad allora era stata la voce più autorevole nel rivendicare la riforma della Chiesa, si trovò in un vicolo cieco, costretto a muoversi su una lama di rasoio tra Roma e Wittenberg, consapevole che schierarsi con Roma significava la fine di ogni speranza di rinnovamento e che schierarsi con Lutero significava accettare un'insanabile divisione della cristianità. Se i controversisti cattolici non avrebbero tardato a mettere il dito sulla piaga affermando che Lutero aveva solo covato le uova deposte da Erasmo, lo stesso umanista di Rotterdam non poteva negare che era stato lui il primo a scagliare contro Giulio II e il papato romano ogni genere di sanguinosa accusa di corruzione, simonia, violenza, menzogna, anche se adesso quelle accuse si coloravano di ben altri connotati teologici e profetici nella denuncia dell'Anticristo romano fatta da Lutero dopo il 1520. Di qui la rapida «assunzione del dialogo nel patrimonio di idee della Riforma», parallelamente alla condanna cattolica di Erasmo, la cui opera sarà integralmente inserita nel primo Indice romano del 1559.
Non è possibile in questa sede rendere conto adeguatamente della grande finezza con cui, forte delle sue acquisizioni filologiche, il discorso investe questioni cruciali dell'ermeneutica erasmiana. Come per esempio nelle acute pagine dedicate al conflitto interiore di Erasmo tra lo sdegno che lo induceva a denunciare la corruzione romana e gridare al mondo la verità e, per converso, la prudenza che lo esortava a tacere, a privilegiare le pur buone ragioni della concordia e dell'opportunità. Un conflitto che si esprimeva anche nella duplice circolazione del suo messaggio religioso nella cerchia privata degli amici, tra chi sapeva e capiva e poteva leggere in greco i brani più scottanti delle sue lettere, e la cerchia pubblica delle sue prefazioni, delle sue dediche encomiastiche, delle sue calibrate esortazioni: una duplicità di piani del discorso sulla quale Erasmo era capace di giocare da maestro e che invece Lutero scardinava non solo con la violenza delle sue invettive e ancor più delle sue certezze di fede, ma con l'uso della lingua volgare che «non conosceva sfere riservate» e a tutti rivolgeva il suo messaggio eversivo. Di qui il fallimento di Erasmo e «il naufragio del suo programma di conquista dello spazio pubblico: nelle cancellerie delle città, nelle facoltà di Teologia, sui pulpiti, risuonavano i "paradossi" di Lutero, si commentavano i suoi scritti, si discutevano i suoi atti. Quella che era stata pensata da Erasmo come una raffinata strategia della comunicazione appariva ora un groviglio di ambiguità». Ormai, «il potere della parola gli sfuggiva di mano», e il futuro che si apriva sull'Europa non era quello delle humanae litterae di cui era stato l'indiscusso maestro per una generazione intera, ma il «secolo di ferro» delle guerre di religione.

Il Sole 24Ore Domenica 16.3.14
René Descartes l'olandese
Gli anni in cui s'impegnò a «dimostrare le verità metafisiche con evidenza maggiore di quelle geometriche» sono quelli di Franeker, Amsterdam, Leida, Deventer, Utrecht, Alkm
di Franco Giudice



Pochi filosofi sono rimasti inchiodati a una massima come Descartes. Cogito ergo sum è una delle frasi più celebri della filosofia, se non addirittura di tutti i tempi. Ed è proprio questa sua notorietà ad averla trasformata in un banale slogan, che stimola di continuo le parodie più fantasiose. Un destino al quale non è sfuggita nemmeno l'immagine ormai familiare che abbiamo di Descartes, grazie soprattutto a un ritratto che si trova esposto al Louvre: un uomo in età matura, con un colletto bianco inamidato e una cappa nera, una parrucca che gli lambisce le spalle, i baffi e la mosca brizzolati, il naso aquilino, le palpebre appesantite, e un'espressione interrogativa che sembra voler incrociare lo sguardo dell'osservatore. Anche questa immagine, riprodotta su innumerevoli copertine di libri, e oggetto perfino di alcune caricature pubblicitarie, è stata svilita a tal punto da risultare quasi impersonale.
Nonostante l'abusato cliché cui il tempo l'ha condannato, quel ritratto cela tuttavia una storia che meritava senz'altro di essere raccontata. A partire dalla sua autenticità, visto che il dipinto del Louvre, per lungo tempo attribuito al pittore olandese Frans Hals, è in realtà di un artista sconosciuto: una copia dell'originale, questo sì di Hals, conservato allo Statens Museum di Copenaghen. E forse nessuno poteva raccontarla meglio di Steven Nadler, apprezzato studioso di Spinoza, profondo conoscitore della cultura olandese del Seicento e già autore nel 2003 di un bellissimo libro sugli ebrei di Rembrandt, con cui è arrivato finalista al Premio Pulitzer.
In un certo senso, quella di Nadler è la biografia di un ritratto. Ma a prendere forma dietro il ritratto è anche la biografia di Descartes, che s'intreccia con quelle di un prete cattolico e di un artista audace, sullo sfondo del mondo culturale, politico e religioso dell'epoca d'oro olandese. Un angolo visuale quanto mai appropriato, se consideriamo che il filosofo francese mise a punto e pubblicò le sue opere più importanti in Olanda. Così, Nadler ci offre un'inconsueta e avvincente presentazione di Descartes "privato". E lo fa con il suo stile narrativo fresco e cristallino, che privilegia sempre la leggibilità e l'accessibilità, due virtù spesso trascurate dagli accademici. 
Descartes si era trasferito in Olanda nella primavera del 1629 e vi rimase per i vent'anni successivi. Si era lasciato alle spalle il fervente clima culturale che si respirava a Parigi, dove aveva soggiornato tra il 1625 e il 1628, incontrando tutti quelli che avevano una reputazione nel mondo intellettuale, soprattutto presso il circolo del padre Marin Mersenne, il segretario della République des Lettres. E la risposta più semplice e probabile, come osserva Nadler, si trova nel desiderio di riservatezza e anonimato. Troppe le distrazioni, troppe le interruzioni da parte di amici e colleghi, cui lo sottoponeva la capitale francese. Descartes amava vivere isolato, e pensava che l'Olanda gli potesse offrire la pace necessaria per attendere al proprio lavoro. Per un lungo periodo il suo unico contatto con il mondo sarà Mersenne. 
Fin dal suo arrivo, Descartes è completamente assorbito dallo studio. Riprende le ricerche e gli esperimenti di ottica e di fisica avviati in Francia, esegue dissezioni anatomiche, ed è tutto impegnato a trovare come «dimostrare le verità metafisiche con evidenza maggiore di quella raggiunta nelle dimostrazioni geometriche». Ma è anche tutto un susseguirsi di spostamenti di città in città: Franeker, Amsterdam, Leida, Deventer, Utrecht, Alkmaar. Ed è rincorrendolo in questi frenetici cambi di residenza – un modo quasi ossessivo per proteggere la sua privacy, tanto da raccomandare a Mersenne di non rivelare a nessuno dove si trova – che Nadler espone il progetto filosofico di Descartes. Un progetto ambizioso che si proponeva «nientemeno che ricostruire l'intera struttura della conoscenza, sostituire il vecchio paradigma intellettuale e mettere tutta la scienza su nuovi e assolutamente solidi fondamenti metafisici». E che trova ampia espressione già nel Mondo, il trattato che decise di abbandonare nel 1633 quando seppe della condanna di Galileo, e poi nel Discorso sul metodo (1637) con i tre saggi scientifici che lo accompagnavano, nelle Meditazioni metafisiche (1641) e nei Principi della filosofia (1644). 
Ma nella storia raccontata da Nadler, Descartes non è tanto l'ambizioso pensatore che persegue i suoi progetti filosofici e scientifici in assoluta solitudine, come lui stesso amava rappresentarsi. A emergere è un Descartes che intrattiene relazioni personali e professionali con filosofi, matematici, scienziati, diplomatici e teologi. Ed è questa la parte più originale del libro: un Descartes meno ombroso, che stringe una profonda amicizia con due preti cattolici di Haarlem, Augustijn Bloemaert e Johan Albert Ban, cui rimarrà legato per tutti gli anni quaranta. Fu «la calda e amabile compagnia di questi due preti cattolici ad aiutarlo a sopportare i lunghi e rigidi inverni olandesi» trascorsi nel piccolo villaggio di Egmond che si affaccia sul Mare del Nord, dove si era nel frattempo trasferito. Gli eventi musicali che i due amici organizzavano a Haarlem diedero inoltre qualche sollievo ai duri e spesso personali attacchi che Descartes riceveva, e costituirono per lui una temporanea distrazione dalle interminabili controversie che la sua filosofia aveva scatenato nelle università olandesi.
Avevano in comune la passione per la teoria musicale, ed è quasi certo, come sottolinea Nadler, che Descartes raccontasse ai due amici anche delle sue dottrine filosofiche e scientifiche. Di come tali dottrine si opponessero al sistema aristotelico-scolastico che dominava quasi incontrastato nelle università. E di come avessero la loro giustificazione metafisica nell'idea che l'intelletto umano, con le sue facoltà razionali garantite da Dio, «fosse in grado di scoprire i più profondi segreti della natura, e di derivare, a priori e semplicemente da una considerazione dell'essenza di Dio, le leggi stesse della natura». Una nuova filosofia insomma, che implicava una trasformazione radicale della concezione e dell'immagine del mondo, e che sarebbe diventata il paradigma scientifico del secolo, almeno fino a Leibniz e Newton. Descartes coltivò addirittura l'irrealistica speranza che la sua nuova filosofia potesse essere adottata dalle scuole e dalle università, al posto di quella di Aristotele.
È nel contesto di questa amicizia che, nella convincente ricostruzione di Nadler, nasce il ritratto di Descartes, l'immagine con cui riconosciamo ora il suo volto. A commissionarlo a Hals nel 1649 era stato soltanto Bloemaert, Ban era morto cinque anni prima. Hals, un pittore anche lui di Haarlem, era diventato famoso per la libertà espressiva e per la vivacità cromatica con cui eseguiva i suoi ritratti. Un artista all'epoca ben affermato e costoso, che con la rapidità di tratto e la luminosità di toni che caratterizzavano i suoi dipinti riusciva a infondere vitalità anche al modello più esangue. E fu per un evento piuttosto speciale, la decisione di Descartes di lasciare l'Olanda, che Bloemaert si rivolse proprio ad Hals: voleva mantenere viva la memoria del suo amico con un ritratto intimo e intenso, come quelli che sapeva fare il maestro di Haarlem. Non poteva immaginare, ovviamente, che a quel ritratto sarebbe stata consegnata la fine della lunghissima esperienza olandese di Descartes: l'ultimo fotogramma, per così dire, del filosofo alla vigilia della sua partenza per la corte della regina Cristina di Svezia, dove pochi mesi dopo morirà.

Il Sole 24Ore Domenica 16.3.14
Socrate? C'è, ma non si vede
di Dorella Cianci



«I libri di filosofia iniziano tutti lo stesso giorno: quello dopo la morte di Socrate», così dice il filosofo Pardo, citazione riportata nel volume di Kohan, appena tradotto in Italia. L'autore si sofferma sull'insegnamento della filosofia, sulle sue potenzialità educatrici e sul rapporto politica e filosofia. In primis, nel l'insegnamento filosofico si realizza l'incontro fra due personaggi, l'insegnante e l'allievo. Un incontro paradossale, perché la filosofia può essere insegnata? Chi insegna filosofia intesse un rapporto erotico (in senso etimologico) con l'altro e scava pian piano un solco nel pensiero di un altro, come l'amato nell'amante. Si arriverà a chiedersi se in questo rapporto a due c'è sempre un bilanciamento o se i due ruoli mantengono un'alternanza di attivo/passivo. Come emerge già nell'ultimo libro di Lyotard, l'incontro amoroso, nella filosofia, fa sì che nell'insegnarla esistano delle tensioni epistemologiche fra chi insegna e chi apprende e queste non vanno eliminate in nome di una «democrazia filosofica» irraggiungibile. Ogni insegnamento filosofico prevede un po' di vita e un po' di morte, un concetto nasce e un concetto subito si pone in attesa di essere "ucciso", in una palestra di idee interminabile, che si spinge ben più al di là di ogni singola vita limitata. Kohan, docente presso l'Università di Rio, rivolge il suo volume soprattutto alle popolazioni ai confini della terra, nelle cosiddette zone periferiche, come le chiama Papa Francesco, le quali vivono una costante situazione di emergenza educativa e dove spesso si tende a soffocare il pensiero critico. La traduzione italiana arriva tuttavia in un momento, in Italia, di dibattito intenso sulla contrazione delle discipline filosofiche nelle facoltà pedagogiche. Un altro paradosso. Kohan, ricordando i suoi studi a Parigi, cita un libretto di Derrida, La carte postale (1980), con in copertina una cartolina nella quale si raffigura Socrate che scrive. Questa immagine realizza il sogno di Derrida di vedere un Socrate scrivano e disse ironicamente: «il compagno Socrate fu il primo segretario del partito platonico». Kohan con questa citazione vuol arrivare a parlare di due figure enigmatico-paradossali: Socrate e Platone. L'enigma consiste nell'individuare ciò che è libero e ciò che è determinato fra le parole del maestro e la scrittura dell'allievo. Il paradosso di Socrate è il paradosso di ogni insegnante di filosofia: aiutare a vedere senza mostrarsi e ogni allievo incontra Socrate proprio dove non c'è o dove dichiara di non esserci, nell'insegnamento. Nel l'Apologia (33a) si difende dall'accusa pedagogica dichiarando di non essere un maestro pur "generando" allievi. Socrate vuole svegliare la città (rimaneggiando una vecchia metafora di Eraclito, nella quale anche lui vedeva l'insegnamento filosofico come il metodo per svegliare). Egli non insegna esplicitamente, un po' come fa ogni professore di filosofia: esamina gli altri per esaminare sempre se stesso e le sue posizioni, il paradosso del filosofo e dell'io. Foucault ha affermato che Socrate rifiuta il ruolo di insegnante per rifondarlo: è il cittadino più sapiente, perché è l'unico capace di vedere la sua ignoranza. È attuale soffermarsi nel rapporto fra insegnamento della filosofia e politici: «La politica è la possibilità di vedere nell'insegnamento della filosofia una proiezione sociale concreta e realizzata, una produttività compromessa nella trasformazione dello stato delle cose; è l'estensione di un senso, utilità o prodotto tangibile in società flagellate dalle ingiustizie come le nostre; la politica è il doppio della filosofia nella pólis». Il problema non è di certo l'ignoranza filosofica in politica, ma l'ignoranza di un'ignoranza che spoglia la filosofia da quel principio di generatività che le è proprio. Nell'ultima parte del libro, Kohan torna su posizioni più nette, affrontate già in passato: Socrate ascolta i suoi interlocutori? Egli esamina il caso dell'Eutifrone. Socrate non accetta le risposte di Eutifrone, le reputa sbagliate, non ascolta le sue argomentazioni, vuole soltanto sentire la risposta che egli ha in mente. L'interlocutore, alla fine del dialogo (in questo caso molto apparente) è stremato e scappa. Il "sistema Socrate", emblema di ogni insegnamento filosofico, presenta qualche crepa, ma possiamo arrivare ad affermare che il filosofo tenti «una depersonalizzazione del pensiero e una disconnessione dell'interlocutore dai suoi affetti»? Qui emergono le posizioni di Ranciére, molto dure nei confronti di Socrate, secondo cui, con il suo «non insegnamento orientativo», procede a un abbrutimento dell'interlocutore. La questione, molto discutibile, rimane aperta.

Il Sole 24Ore Domenica 16.3.14
Privacy uccisa dal gossip
di Stefano Brusadelli



Nel biennio di Mani pulite non soltanto sono stati triturati antichi partiti e gran parte di una classe dirigente; è stato anche lacerato quel velo che proteggeva la vita privata dei potenti – e segnatamente la loro vita sessuale – dall'invadenza dei media. E il motivo, sostiene Vittorio Roidi (negli anni 90 presidente della Federazione nazionale della stampa), fu una sorta di resipiscenza dei giornalisti, che dinanzi alle malefatte dei politici rivelate dalle inchieste giudiziarie, ma fino a quel punto taciute dalla stampa, avvertirono il bisogno di rifarsi una reputazione e aumentarono il raggio della loro intrusività per non apparire inetti o conniventi.
«La Seconda Repubblica – scrive Roidi – aveva bisogno di giornali meno ossequiosi e più impertinenti; tantopiù che gli stessi quotidiani, dopo avere raggiunto i 7 milioni di copie, avevano cominciato a perdere lettori». E qui – secondo l'autore – sta un'altra causa della liquefazione della privacy: la prima grande crisi di vendite che spinse anche i quotidiani italiani (in primis il Corriere della Sera diretto da Paolo Mieli) a dare sempre più spazio al gossip e in generale a un'informazione più vivace e disinvolta. Un cambio di rotta peraltro già preparato dalla stagione del craxismo, durante la quale l'esibizione dell'eros era stata utilizzata dal nuovo gruppo dirigente socialista come un messaggio di rottura rispetto al moralismo della Dc e del Pci.
La fidanzata del Presidente (che l'autore avrebbe voluto in un primo momento battezzare "L'amante di Andreotti", a significare che nella Prima Repubblica l'ipotetica fidanzata di uno statista mai sarebbe stata lambita dal pettegolezzo) è anche una breve storia delle incursioni nella privacy dei potenti dal '45 in poi. Ed è effettivamente significativo confrontare la violenza riservata ai vari Berlusconi, Marrazzo, Sircana con l'imbarazzo e l'ipocrisia che tutelava l'amore extraconiugale tra Togliatti e la Jotti. 
Roidi non nasconde la sua convinzione che per chi eserciti una qualsiasi forma di potere la tutela della privacy debba attenuarsi, fin quasi a scomparire. Anche per consentire ai cittadini-elettori di esercitare al meglio il loro diritto di voto. Impostazione condivisibile, ma da condire con la constatazione che forse una dose così massiccia di rivelazioni più o meno pruriginose rischia di saturare, se non addirittura di produrre effetti contrari a quelli che si volevano conseguire. A parte le vicende di Berlusconi, ammaccato dalla scissione di Alfano e da una condanna per frode fiscale più che dal fuoco di fila degli scandali sessuali, è emblematico il caso del deputato Udc Cosimo Mele. Nel 2007 finì sui giornali dopo una notte brava trascorsa in un hotel di via Veneto insieme a due escort, una delle quali ebbe un malore. Mele venne espulso dal partito, ma lo scandalo non ha impedito ai suoi concittadini di Carovigno (Brindisi) di eleggerlo sindaco nel 2013.

Il Sole 24Ore Domenica 16.3.14
Bolívar, eroe tradito dal popolo
di Ermanno Bencivenga



Simón Bolívar era un uomo minuto e malaticcio, che si spense stroncato dalla tubercolosi (come entrambi i suoi genitori) a 47 anni. Enormemente ricco di famiglia ma presto orfano, aveva ricevuto un'educazione caotica e nessuna formazione militare; da giovane, era più a suo agio in una sala da ballo che su un campo di battaglia. Eppure, una volta concepito il piano di liberare il Sud America dal dominio spagnolo e unificarlo in una nuova grande potenza, nulla sembrò in grado di fermarlo. Ripetutamente sconfitto e costretto all'esilio, ritornò ogni volta più determinato e reso più avveduto dai suoi errori. Per quasi vent'anni marciò con i suoi eserciti per decine di migliaia di chilometri, tra foreste e paludi, su e giù per le Ande, fino a vedere gli ultimi eredi dei conquistatori di Pizarro lasciare per sempre il suo continente. Nella sintesi offerta da Marie Arana in Bolívar, «né Alessandro né Annibale né Giulio Cesare avevano lottato su un territorio così vasto e inospitale. Carlomagno avrebbe dovuto raddoppiare le sue vittorie per raggiungere quelle di Bolívar. Napoleone, costruendo un impero, aveva percorso meno spazio di Bolívar nella sua difesa della libertà». Sei nazioni contemporanee (Panama, Venezuela, Colombia, Ecuador, Perù e Bolivia) esistono come conseguenza delle sue leggendarie imprese, anche se la loro stessa autonomia ne testimonia il fallimento di statista dopo i trionfi di soldato: la grande entità politica unitaria da lui sognata, infatti, non si realizzò e il Sud America divenne invece un mosaico di stati rissosi e retrogradi.
La divisione che, in varie forme, tormentò per tutta la vita «il Liberatore» gli insegnò due fondamentali lezioni politiche. Da una seppe trarre straordinario profitto; l'altra la promulgò fino allo stremo delle forze, con l'unico risultato di attirarsi sospetti e accuse.
Prima lezione. Per tre secoli, gli spagnoli avevano mantenuto il potere e sfruttato le risorse locali istituendo una rigida gerarchia etnica. Al vertice c'erano i pochi nati nella madrepatria; seguivano nell'ordine i creoli, i sanguemisto, gli indiani e gli schiavi neri. Inizialmente, la rivoluzione fu condotta dai creoli e gli spagnoli ebbero facile gioco ad aizzare contro di loro masse di schiavi incitandoli al massacro e alla rapina. Bolívar concepì allora l'idea di eliminare il sistema di caste e abolire la schiavitù, mobilitando per la prima volta un popolo genuinamente americano. Gli Stati Uniti erano nati per opera di coloni bianchi (padroni di schiavi) e nemmeno una feroce guerra civile avrebbe mai sanato questo peccato originale; il Sud America ottenne l'indipendenza solo quando bianchi, indiani e neri lottarono fianco a fianco. Quando seppe accettare il suo intrinseco meticciato.
La seconda lezione aveva a che fare con le istituzioni politiche che ne avrebbero dovuto reggere le sorti. Radicalmente avverso alla monarchia, Bolívar era anche convinto che la democrazia statunitense (peraltro limitata, nel modello di riferimento, alla minoranza che aveva combattuto gli inglesi) non potesse essere esportata senza rispetto per le condizioni locali e senza opportune mediazioni. La Spagna aveva crudelmente asservito le popolazioni sudamericane, con gli strumenti e con gli esiti dei tiranni di sempre: fiaccandone lo spirito, coltivandone l'ignoranza e incitandole ad assurde rivalità. Abbandonare d'un tratto ogni potere nelle loro mani avrebbe creato non libertà ma nuove forme di dittatura e di abuso. Allo stesso modo oggi, chi crede di salvare un paese facendo la conta dei pareri spontanei di tutti (espressi magari schiacciando un tasto del pc) dovrebbe riflettere sul fatto che fu un'assemblea democratica (indisciplinata e urlante) a condannare a morte Socrate.
Bolívar considerava pratiche del genere come un incubo, auspicava la creazione di un forte sistema educativo che instillasse responsabilità etiche e civiche e si adoperava, scrivendo varie costituzioni, per trovare forme di gestione della cosa pubblica che equilibrassero il puro consenso assembleare. Le soluzioni da lui proposte comprendevano un presidente eletto a vita e un senato ereditario analogo alla Camera dei Lord britannica; ma, furono viste da una comunità volubile, rapidamente passata dall'adorazione all'avversione, come mosse per acquisire autorità personale. Così, mentre Bolívar moriva preparandosi a un nuovo esilio, i suoi generali, imitando i diadochi di Alessandro, si spartivano l'immenso territorio da lui liberato, creando stati che gli avrebbero periodicamente conferito onori ma la cui stessa esistenza autonoma, come ho detto, tradisce la sua memoria.
Marie Arana, Bolívar: American Liberator, Simon & Schuster, 
New York, pagg. 604, $ 35,00

Il Sole 24Ore Domenica 16.3.14
La rottura di Francesco
Il progetto del nuovo Pontefice nel mondo globalizzato porterà la Chiesa cattolica romana a non essere mai più la stessa
di Leonardo Boff


Un papa che, venuto dalla periferia del mondo, dall'esterno della vecchia cristianità europea, tra la sorpresa generale sceglie il nome di Francesco, vuol dare anche solo con il nome un messaggio a tutti. Il messaggio è: d'ora in avanti si sperimenterà un modo nuovo di esercitare il papato, spogliato dei titoli e dei simboli di potere, e si darà rilievo a una chiesa ispirata alla vita e all'esempio di san Francesco d'Assisi: nella povertà, nella semplicità, nell'umiltà, nella fraternità fra tutti, incluse le creature della natura e la stessa «sora matre Terra». 
È un progetto coraggioso ma necessario, dal momento che corrisponde meglio alla Tradizione di Gesù e alle esigenze evangeliche, e risponde alle domande di un mondo globalizzato all'interno del quale la chiesa dovrà trovare, umilmente e senza privilegi, il proprio posto a fianco e insieme ad altre chiese, religioni e cammini spirituali. 
Le riflessioni che seguono, in questo libro, cercano di avvicinare due figure che si rivelano straordinarie: Francesco d'Assisi e Francesco di Roma. Sicuramente la Chiesa cattolica romana non sarà mai più la stessa. È molto probabile che papa Francesco stia inaugurando una nuova serie di papi provenienti dalle nuove chiese di Africa, Asia e America Latina. Fino ad oggi queste ultime sono state chiese-specchio di quelle europee. Con il tempo si trasformeranno in chiese-fonti con un proprio modo di vivere la fede, frutto del dialogo e dell'incarnazione nelle culture locali. In fin dei conti, appena il 24 per cento dei cattolici vive in Europa; gli altri, la grande maggioranza, vivono nel cosiddetto Terzo o Quarto Mondo. Oggi il cristianesimo è una religione del Terzo Mondo, benché nel passato sia nata nel Primo. (...) 
La parola rottura è la più adeguata per capire la novità che papa Francesco rappresenta. Tale parola non è stata bene accolta dai papi precedenti, che al contrario l'hanno evitata e perfino combattuta, sottolineando piuttosto la continuità del magistero pontificio tra il Concilio Vaticano I (1869-1870) e il Concilio Vaticano II (1962-1965). Occorre riconoscere, però, che tale insistenza non si giustifica di fronte a fatti che tutti possono verificare. 
È chiaro che l'immagine della chiesa di Giovanni XXIII (1881-1963), chiamato «il papa buono», aperta al dialogo senza restrizioni di tipo religioso o ideologico, era molto diversa da quella di Pio IX (1792-1878) con le sue condanne nei confronti della democrazia (chiamata «delirio della mente») e delle libertà moderne (vedi il Syllabus e Quanta cura) e l'assenza di qualsiasi apertura verso la modernità. All'improvviso, quasi d'incanto, sulla scena della storia irrompe papa Francesco, che viene dall'Argentina, un paese alla periferia del mondo, lontano dalle tensioni della chiesa romana ed eurocentrica. Egli non assume gli abiti convenzionali del papato, al contrario intenzionalmente li allontana. Inaugura l'«inedito viabile» di cui ha spesso parlato Paulo Freire, e instaura una rottura portatrice di novità. La chiesa non si sente una fortezza accerchiata da nemici da tutte le parti, ma una casa con finestre e porte aperte per accogliere tutti. Francesco afferma con grande coraggio: «Quanti si avvicinano alla chiesa trovino le porte aperte e non dei controllori della fede»; «Preferisco una chiesa incidentata a una chiesa malata per la sua chiusura». Vuole una chiesa di tutti e per tutti, in modo particolare per coloro che vivono nelle «periferie esistenziali», cioè i vulnerabili e i crocifissi della storia.
Per valutare questo sorprendente, necessario e provvidenziale cambiamento di direzione, non c'è niente di meglio che tracciare brevemente i limiti del modello precedente di chiesa, in gran parte ancora in vigore. L'esempio di papa Francesco, di umiltà, semplicità, spogliamento, apertura, significherà per molti una vera crisi. Quest'ultima, come un crogiolo, servirà a purificare le persone, a cominciare da cardinali, vescovi, preti, religiosi e religiose, movimenti ecclesiali e laici, uomini e donne che si sentono attratti dal carisma del nuovo papa e sfidati a seguire il suo esempio.
Una crisi in cui parla chiaro la Tradizione di Gesù, più originaria di quelle minori che sono salite sulla barca di Pietro e le hanno impedito di muoversi nel mare agitato del mondo. La libertà di spirito che Francesco dimostra soffierà sulle vele spiegate della barca del pescatore di Galilea per affrontare le tempeste che minacciano di abbattersi sull'umanità e favorire, invece, una navigazione sicura e felice. Si applicano bene alla chiesa attuale i versi di Camões nei Lusiadi: Dopo procellosa tempesta, / oscura notte e sibilante vento, / porta il mattino serena luce, / speranza di porto e di salvezza.

Il Sole 24Ore Domenica 16.3.14
L'oggettività di Gesù
Come diceva don Lorenzo Milani, «non dobbiamo aver paura di sporcarci le mani. A che servirà averle pulite, se le avremo tenute in tasca?»
di Gianfranco Ravasi S. J.



«La mano è il cervello esterno dell'uomo», tant'è vero che un animale non possiede un organo paragonabile a una mano: era nientemeno che Kant in un suo scritto minore del 1798 a celebrare questa straordinaria componente del nostro organismo, talmente preziosa e complessa da aver dato nome a una delle branche capitali della medicina, la chirurgia, in greco "opera delle mani". Nella Bibbia la manualità divina è uno degli antropomorfismi più comuni e incisivi, tant'è vero che nelle ricorrenze lessicali il vocabolo jad, "mano", è il trentesimo nella lista dei 5750 termini dell'ebraico biblico con le sue 1618 presenze, alle quali, però, si dovrebbero allegare altre parole affini, come la "destra" (jamîn) evocata 139 volte, o kaf, la "palma" della mano (192 volte). Similmente cheir, la "mano" in greco, si affaccia 178 volte nel Nuovo Testamento, accompagnata da uno sciame di vocaboli derivati.
Impressiona, ad esempio, la provocazione di Cristo che – violando le norme ebraiche di purità – «stende la mano e tocca» la carne corrotta del lebbroso (Marco 1,40-41) e il verbo "toccare" (áptein: 32 volte) è un altro segno dell'azione di quest'organo, tant'è che in tedesco lo stesso "agire", handeln, è un maneggiare (da Hand, "mano"). Si potrebbe continuare citando tutte le volte in cui Gesù usa le dita o tocca le parti malate dei sofferenti, orecchi, occhi, lingua, la stessa loro mano, come nel caso della suocera febbricitante di Pietro: stando alla relazione di Matteo, Cristo «le toccò la mano» quasi a tastarle il polso per misurarle le pulsazioni accelerate dalla febbre. Anzi, si giunge al punto di porre l'ingresso del Regno di Dio nella storia proprio sulla punta delle dita di Gesù: «Se io scaccio i demoni con il dito di Dio, allora è giunto a voi il Regno di Dio» (Luca 11,20).
È, dunque, possibile leggere l'Incarnazione del Figlio di Dio nella nostra fisicità («Il Verbo si fece carne», secondo il celebre asserto giovanneo) proprio attraverso questo strumento fondamentale «u-mano», per usare il liberissimo gioco di parole scelto da Derrida nei confronti di un filosofo che alla mano e alla corporeità aveva assegnato un rilievo particolare, ossia Main de Biran, vissuto a cavallo tra il Sette e l'Ottocento. È ciò che fa con grande originalità un teologo lombardo, Giovanni Cesare Pagazzi, in un testo colmo di sorprese a causa dell'inattesa prospettiva adottata, quella appunto dell'«affetto di Cristo per le cose», un affetto che lo vede ininterrottamente in azione attraverso le mani. Dopo tutto il 45% del ministero pubblico di Gesù secondo il Vangelo di Marco è occupato da guarigioni che esigono l'intervento non solo delle parole ma anche delle mani.
C'è, dunque, un costante contatto con le "cose" che sono pur sempre "cause", così come la res latina, la nostra "realtà", ha alla base l'indoeuropeo rah che evoca il "bene", sia materiale sia morale. L'azione della mano ha nella prensilità il suo vertice dinamico ed è così che si genera un grappolo semantico curioso fatto di «prendere, ap-prendere, ri-prendere, com-prendere, intra-prendere, impresa, sorpresa...». In questa luce il Dio biblico e il suo Cristo – il primo per analogia, il secondo in "presa" diretta – sono fisicamente immersi nel mondo creato, esaltando e trasfigurando le cose perché, come suggeriva l'autore giudeo ellenistico del libro biblico della Sapienza, «tu, o Dio, ami tutte le cose che esistono e non provi disgusto per nessuna delle cose che hai creato; se avessi odiato qualcosa, non l'avresti neppure formata» (11,24). E il Credo, che i fedeli ogni domenica professano nella liturgia, proclama che «un solo Dio Padre onnipotente, è creatore del cielo e della terra e di tutte le cose visibili e invisibili» e che «per mezzo di Gesù Cristo tutte le cose sono state create».
Di scena sono, dunque, sia le mani del Dio creatore, sia quelle di Cristo: bellissimo è il capitolo che Pagazzi dedica alla manualità di Gesù. A partire proprio da quel verbo fondante che è il "prendere". L'istante emozionante dell'ultima cena è scandito dal duplice "prendere" del pane e del calice di vino da parte di Cristo e degli stessi discepoli. Altrettanto potente è l'evento pasquale ove, pur nella gloria della risurrezione, non si ha la dismissione dell'identità corporale. Infatti, davanti agli stupefatti discepoli, inclini a relegare quell'incontro nella categoria visionaria dei fantasmi, il Risorto, quasi alzando davanti ai loro occhi le palme, li interpella così: «Perché siete turbati e sorgono dubbi nel vostro cuore? Guardate le mie mani e i miei piedi: sono proprio io! Toccatemi e guardatemi: un fantasma non ha carne e ossa, come vedete che io ho» (Luca 24,37-39). 
E il pensiero corre all'episodio narrato invece da Giovanni, allorché è Tommaso, l'incredulo, ad essere invitato a una verifica sperimentale: «Metti qui il tuo dito e guarda le mie mani, stendi la tua mano e mettila nel mio fianco!» (20,27). Nessun artista più del Caravaggio, nella tela ospitata alla Bildergalerie di Potsdam, ha saputo rendere in modo plastico e carnale questa verifica manuale. E rimane sempre sorprendente il reiterato "prendere" del Risorto con le sue mani il pesce arrostito per cibarsene (Luca 24,42-43) o per deporlo sulla brace lungo il litorale del lago di Tiberiade (Giovanni 21,9-10).
Anche i discepoli di Gesù saranno partecipi attivi di questa religione dei corpi e delle cose, ben lontana da ogni tentazione gnostica di decollare dalla realtà concreta verso cieli mitici o misticheggianti. Il programma a loro assegnato dal Maestro vede come protagonisti malati da curare, morti da risuscitare, lebbrosi da purificare, indemoniati da liberare. Un ininterrotto contatto o, se si vuole, un impatto che si trasforma in un patto di solidarietà, anche quando in azione c'è la modesta debolezza organica, come nel caso dell'anziano genitore del governatore romano di Malta Publio, colpito da dissenteria e da febbri: «Paolo andò a visitarlo, gli impose le mani e lo guarì» (Atti degli apostoli 28,8). Pagazzi parafrasa in modo estroso il motto dell'apostolo Giacomo sulla fede e sulle opere: «La fede senza le cose è morta».
Effettivamente il percorrere le sue pagine, colme anche di rimandi filosofici, culturali, testuali e persino pittorici, si trasforma in un invito al cristiano a sporcarsi le mani con le cose e la carne: lo ha fatto il Creatore nell'atto iniziale dell'essere e dell'esistere e lo ha ripetuto Cristo che non ha esitato persino a impastare fango con la sua saliva per guarire il cieco nato. Come diceva don Lorenzo Milani, «non dobbiamo aver paura di sporcarci le mani. A che servirà averle pulite, se le avremo tenute in tasca?».

Il Sole 24Ore Domenica 16.3.14
Italia-Svizzera, una frontiera dell'arte


«Le frontiere dell'arte. Esportazione dei beni culturali tra Italia e Svizzera» è il tema del convegno organizzato il 19 marzo dalla Camera di Commercio Svizzera in Italia presso il Centro Svizzero di Milano (via Palestro 2, ore 17,30, ingresso libero).
Dopo l'intervento di apertura di Giorgio Berner, presidente CCSI, seguirà la relazione dell'avvocato Dario Jucker dedicata al quadro normativo dell'Italia e della Svizzera in materia di circolazione e commercio dei beni artistici nei due Paesi. Le due nazioni confinanti presentano due legislazioni molto diverse: la Svizzera garantisce condizioni fiscali più favorevoli su acquisto e importazione delle opere d'arte, e in più la Confederazione Elvetica non ha il «Diritto di seguito» (che invece esiste in tutta la Comunità Europea).
L'Italia ha norme molto severe, le più restrittive del mondo, tra cui la celebre e controversa Notifica. Nel 1970 l'Unesco ha stipulato una convenzione per combattere il traffico illecito delle opere d'arte. Nel 2003 la Svizzera ha sottoscritto la convenzione e nel 2005 ha introdotto un legge sul trasferimento beni culturali.
La tavola rotonda che farà seguito all'intervento di Dario Jucker (partecipano Sandrina Bandera, Mariolina Bassetti, Massimo Di Carlo e Marco Franciolli, modera Marco Carminati) porterà in evidenza altri punti critici, come l'imposizione fiscale delle opere d'arte, il diritto di seguito, la tendenza di mercanti e collezionisti italiani a comperare e tenere le opere all'estero, anche a causa dell'instabilità politica e legislativa dell'Italia.

Corriere 16.3.14
La miniatura 3D di se stessi
Il sogno di Narciso è realtà
di Emanuele Trevi


Creare e contemplare la propria riproduzione L a Twinkind di Berlino è una piccola azienda che utilizza la più sofisticata tecnologia digitale per produrre oggetti che hanno l’inconfondibile sapore della magia e della follia. Basta entrare negli studi di questa geniale start up, farsi fotografare simultaneamente da un centinaio di obiettivi, e dopo qualche giorno riceverete a casa una perfetta copia in miniatura di voi stessi. I prezzi variano a seconda della grandezza della copia che si desidera, ma sono tutto sommato accessibili: una statuetta di quindici centimetri costa poco più di duecento euro, quelle più grandi sono più care ma più ricche di particolari.
Come i vecchi alchimisti che tentavano di far crescere gli «homunculi» nelle loro ampolle di vetro, anche i loro eredi berlinesi tengono segrete alcune fasi del processo di lavorazione. Ma a noi interessa di più il prodotto finito, e le sue implicazioni filosofiche e psicologiche. Cosa accade quando, aperto il pacco, possiamo finalmente tenere in mano queste miniature di noi stessi? Ancora una volta, dobbiamo riconoscere che nulla come il narcisismo aguzza l’ingegno della nostra epoca. In tempi più romantici, era la miniatura dell’amato o dell’amata che ci si portava appesa al collo, o nel taschino del panciotto. E se ci si faceva confezionare la propria immagine, era per regalarla a qualcuno che ci ricordasse, aspettando il nostro ritorno. Al contrario, sospetto che queste bamboline, con la loro straordinaria verosimiglianza, rimangano per la maggior parte nelle mani dei loro proprietari. Come un materiale pornografico, sono destinate al desiderio, con tutti i suoi riti e i suoi fantasmi. Ma anche le più raffinate fantasie sessuali impallidiscono di fronte a questo, che forse è il più inconfessabile di tutti i desideri: il desiderio di essere se stessi.
È su questa potente e sottile leva psicologica che la Twinkind e le ditte che la imiteranno potranno basare le loro fortune. Perché quando si parla di narcisismo, si pensa sempre, troppo superficialmente, a qualcuno che si piace, che è appagato dal contemplarsi. Ma il mito racconta una storia ben diversa: Narciso è un uomo angosciato, perché non può afferrarsi, non può possedersi. Esistono molte forme di amore impossibile, ma non ce n’è una più impossibile dell’amore per noi stessi. Ovidio ci racconta un particolare tremendo: anche dopo la morte, il povero Narciso non riesce a rinsavire, e ancora cerca la sua immagine nelle scure acque dei fiumi infernali, condannato in eterno a una forma di demenza capace di perpetuarsi oltre i confini della vita.
E dunque, possiamo anche definire i prodotti della Twinkind dei semplici giocattoli tecnologici, ma solo a patto di ricordare che i giocattoli, da che mondo è mondo, possono trasformarsi negli oggetti più pericolosi che si possano maneggiare. La loro finta innocenza e la loro gratuità sono il calco perfetto delle mancanze che ci corrodono, scavando in noi gli abissi più incolmabili. Queste bamboline sono un diversivo, un sedativo. Ci permettono di tenerci in mano, come se fossimo dei giganti buoni che ci proteggeranno da tutti i pericoli. Ma questa è solo l’illusione che producono. La realtà è che le nostre immagini sono sempre più potenti di noi stessi, perché non ci ricambiano affatto dello stesso desiderio che riversiamo su di loro. E in amore, come si sa, vince sempre chi fugge. E a noi, Narcisi sconfitti, non resta che ripeterci l’amara verità: non siamo che le immagini delle nostre immagini, i riflessi dei nostri indifferenti riflessi. E non esiste, né mai esisterà, una tecnologia così raffinata da riscattarci .

La Stampa 16.3.14
A 2 mesi il primo sorriso
E i maschi ne fanno di più


La felicità si impara da piccoli. Anzi. Da neonati. Il momento tanto atteso dai genitori, quello in cui le labbra del loro bambino si schiudono per la prima volta in un gesto di felicità che si legge anche negli occhi, avviene prima di quanto si possa pensare: la quasi totalità dei piccoli, il 90 per cento, sorride già nei primi due mesi di vita, con i maschietti che sembrano avere più «senso dello humour» delle femminucce perché sorridono in media 50 volte a giorno rispetto a 37.
È quanto emerge da una ricerca della London Birkbeck University, all’interno della quale, nel laboratorio dedicato al cervello e allo sviluppo cognitivo, è nato un «Babylab» per lo studio del «mistero» del sorriso dei neonati. A dirigerlo il dottor Caspar Addyman, che ha raccolto negli ultimi due anni i questionari di 1400 genitori provenienti da 25 diversi Paesi nei quali venivano descritte le abitudini dei neonati e le canzoni, i gesti e le parole che più li facevano sorridere. «Una delle cose più importanti che abbiamo riscontrato è che la maggior parte dei genitori “giocano” istintivamente con i loro piccoli, facendoli divertire con facce o toni di voce buffi: solo i bambini hanno il potere di far fare agli adulti cose apparentemente sciocche che però sono importanti per un armonico clima familiare» spiega Addyman, che svela anche come esista un metodo infallibile per far sorridere i piccoli: far loro il solletico.
[c.i.]