lunedì 17 marzo 2014

Corriere 17.3.14
Calci, sputi e denunce. La rissa democratica nel Pd
di Fabrizio Roncone


Nel territorio le battaglie sulle primarie: sospetti e file anomale di extracomunitari E sabato il caos all’assemblea del Lazio «E poi... Poi, Matteo, ci sarebbe... beh, sì, insomma: a Roma si sono menati», raccontavano ieri mattina a Matteo Renzi, che vuol essere sempre informato su tutto quando accade all’interno del suo partito, il Pd.
«Menati, scusa, come? E dove? Ma che dici?» (Renzi, tra stupore e fastidio).
«È successo all’assemblea regionale. Stavano ratificando la nomina del segretario, dopo le primarie. Poi hanno iniziato a litigare. Sembra che uno, poveretto, sia perfino finito all’ospedale».
Renzi, a quel punto, si è fatto spiegare meglio (come vedremo, le primarie del Partito democratico stanno seminando ovunque, in Italia, liti furiose e denunce alla magistratura).
A Roma la scena è particolarmente tragica. I protagonisti sono tutti personaggi minori, locali: ma se provate a non farvi condizionare dai loro cognomi sconosciuti, ciò che è accaduto vi apparirà assai grave, ed emblematico.
Sabato pomeriggio, centro congressi della Cgil, molti invitati eccellenti (il governatore del Lazio Nicola Zingaretti, il sindaco di Roma Ignazio Marino, più altri parlamentari di rango: Stefano Fassina, Enrico Gasbarra, David Sassoli). La rissa esplode quando — proclamato segretario Fabio Melilli — la maggioranza del partito decide di eleggere presidente non Lorenza Bonaccorsi, renziana sconfitta da Melilli alle primarie, ma Liliana Mannocchi, nemmeno delegata però fedelissima di Marco Di Stefano, un deputato che nel Lazio controlla un mucchio di voti.
Calci e sputi (letteralmente). Due tessere centrano Melilli sul viso. Pernacchie, fischi, urla. Massimiliano Dolce, un delegato arrivato da Palestrina, crolla a terra, colpito da un principio di crisi epilettica.
Sirene di ambulanze, fotografi scatenati. E piccolo, gustoso retroscena politico: la cortesia a Marco Di Stefano sarebbe stato un gentile omaggio organizzato dal potente Goffredo Bettini che, in vista di una sua candidatura alla elezioni europee, già tesse alleanze.
«È una ignobile falsità!».
Sarà.
«Io non conosco neppure fisicamente certe persone! La verità è che se si affermassero certe mie idee, finirebbe la giostra dei patti tra cordate che purtroppo...».
Proprio lei, il potente Bettini che parla di cordate?
«Basta! Mi creda: questa storia del “potente” Bettini sta diventando un alibi per chi non vuole o non sa dirigere. Da anni, ormai, chi gestisce il partito mi tiene ai margini».
Comunque la sua candidatura alle Europee ha bisogno di voti. E quel Di Stefano ne porta in dote parecchi.
«Una mia candidatura è spinta da amplissimi settori del partito e della società civile. E se Di Stefano pure mi voterà, beh, lo vedremo solo nei prossimi mesi...».
Nei prossimi mesi sarà interessante anche verificare lo stato di salute dell’intero partito. A Modena, le consultazioni per scegliere il candidato sindaco sono degenerate nel volgere di due giorni. La seconda classificata, Francesca Maletti, ha presentato un esposto per denunciare l’irregolarità del voto degli stranieri nei seggi: qualcuno avrebbe fornito agli extracomunitari i due euro necessari per votare e ad un gruppo di filippini sarebbe addirittura stato offerto il pranzo. Commento di Matteo Richetti (comandante delle truppe renziane in Emilia-Romagna, gran frequentatore di talk show): «Irresponsabili».
È andata quasi peggio — «Siete inefficienti e inaffidabili» — ai capetti e caporali del Pd lucano in trasferta a Roma per chiedere a Lorenzo Guerini, il portavoce del partito, uno slittamento del congresso che, nei loro progetti, sarebbe stato utile a «ricompattare il partito». Un partito, sul territorio, non si ricompatta in poche settimane. In Campania, per fare un esempio, divisi erano e divisi sono rimasti. Sfiorando il 60% dei consensi, il nuovo segretario regionale è l’avvocato Assunta Tartaglione di anni 43, vicina a Matteo Renzi e, quindi, anche a Vincenzo De Luca, il sindaco di Salerno noto per avere un controllo delle tessere quasi militare: e stavano ancora lì, a votare, i militanti, quando Guglielmo Vaccaro, 47 anni, deputato di tempio lettiano, che sarà poi il primo degli sconfitti (al 27%), decise di barricarsi nella sede del partito, in via Giovanni Manzo. «Un voto ogni 26 secondi mi sembra un po’ troppo, no?».
Accadono cose strepitose nelle varie primarie del Pd, che poi — spesso — si perdono nelle pagine delle cronache locali.
Per dire: sapete cos’è accaduto in Sicilia? È accaduto che a capo della segreteria regionale hanno eletto Fausto Raciti, 30 anni, un ragusano determinato, cortese, battezzato in politica da D’Alema, fatto eleggere alla Camera da Bersani, appoggiato dai renziani di Faraone e sostenuto infine da chi? Da Mirello Crisafulli, l’ex senatore di Enna cacciato dalle liste del Pd perché ritenuto impresentabile e, addirittura — fare piccolo esercizio di memoria, prego — insultato dal palco della Leopolda, quando vennero ricordati i suoi presunti rapporti con un boss mafioso.
Dice Raciti, senza scomporsi: «Noi, temo, facciamo troppe primarie».
A Firenze, in effetti, per un po’ hanno pure pensato di non farle: per sostituire a Palazzo Vecchio il sindaco diventato premier poteva correre direttamente Dario Nardella. Poi hanno cambiato, saggiamente, idea. Le primarie si fanno, ma senza che a Nardella sia opposto il più temibile degli avversari: Eugenio Giani.
Giani ha rinunciato? No: Giani è stato chiamato a Roma, a Palazzo Chigi. Inventato, per lui, un incarico ad personam: consigliere per le Politiche dello sport.
Perché non è che poi le primarie debbano sempre finire in rissa.

l’Unità 17.3.14
Camusso: tasse sì, precarietà no È ancora lecito criticare?
«Da noi critiche, non diktat Il governo si confronti»
intervista di Laura Matteucci


«È legittimo avere opinioni differenti su proposte differenti, non c’è offesa per nessuno. C’è troppo nervosismo in giro, come se lo schema fosse quello del solo schierarsi e non della normale dialettica democratica». Susanna Camusso ribadisce i sì e i no della Cgil al governo: bene sull’Irpef, no sui contratti che aumentano la precarietà.
«Sono stati messi in campo proposte e provvedimenti che abbiamo condiviso fin da subito, che consideriamo scelte importanti e necessarie, e altre che invece ci vedono stupiti e contrari». Susanna Camusso, leader della Cgil, fa il punto sulle prime mosse del governo Renzi. E i suoi sono i giudizi articolati di chi non ci sta a giocare la parte dell’oppositore per principio, come qualcuno vorrebbe facesse - il ministro Lupi che ha parlato di «diktat della Cgil», ma non solo.
«È legittimo avere opinioni differenti su proposte differenti, non c’è offesa per nessuno. C’è troppo nervosismo in giro, come se lo schema fosse quello del solo schierarsi, e non della normale dialettica democratica».
Partiamo dalle scelte che la Cgil giudica positive, innanzitutto la riduzione del cuneo fiscale quantificato in 10 miliardi: un atto di equità sociale che sarà anche funzionale alla ripresa economica?
«Quella della restituzione fiscale è una scelta importante, e sì, anche necessaria a rilanciare l’economia. Soprattutto se verranno mantenute le modalità di cui si è parlato finora: se sarà strutturale avrà effetti positivi sui consumi. E non è l’unica. Da apprezzare anche l’attenzione ai cosiddetti incapienti (chi guadagna fino a 8mila euro). Così come l’idea di alzare la tassazione sulle rendite finanziarie per ridurre l’Irap è una risposta con un segno politico inequivoco. Bene l’idea di creare due fondi di investimenti pubblici con obiettivi di qualità, quali la risistemazione dell’edilizia scolastica e dell’assetto idrogeologico. Sono punti di programma che troviamo anche nel nostro piano del lavoro, soprattutto per il concetto che l’intervento pubblico possa essere un volano di occupazione. Sono tutte scelte positive, che segnano una netta inversione di rotta rispetto alle modalità adottate finora e danno l’idea di un grande abbraccio al mondo del lavoro. Anche se è pur vero che ne manca un pezzo, quello dei pensionati: sono milioni solo quelli che non arrivano a mille euro al mese. A loro, credo sia doveroso dare delle risposte».
Il decreto lavoro invece proprio non vi piace.
«Nutriamo perplessità sulla legge delega, perché non ci è chiara la proposta sull’estensione degli ammortizzatori sociali, e siamo contrari al decreto che regola apprendistato e contratti a termine perché non costruisce un percorso di maggiori tutele. Sull’apprendistato, si riduce la fase formativa e si mina il principio della riconferma del lavoratore. Per i contratti a termine, poi, lo schema è quello della frammentazione, che può portare ad un aumento della precarietà e non induce ad investire sul singolo lavoratore, né nel lavoro nel suo complesso. Dove lo vogliamo portare il lavoro? Verso un’idea di stabilità, formazione, maggiori tutele, o verso la moltiplicazione di contratti ed incertezze?».
Il segretario della Cisl, Bonanni, non è contrario allo schema sui contratti a termine, e chiede alla Cgil di contrastare insieme altre forme di precarietà, false partite Iva, co.co.pro., lavoratori senza alcuna tutela.
«Lui sostiene che il contratto a termine sia meglio di altre forme di lavoro, e su questo siamo d’accordo. Ma alla fine giunge allo stesso punto, al fatto che abbiamo un’infinità di forme precarie, che ovviamente non andrebbero aumentate, ma anzi diminuite. Questo è un grande tema che riguarda i giovani, ma non solo: la difficoltà a rientrare nel mondo del lavoro con qualche effettiva certezza. Discutiamo, ma diamoci l’obiettivo di ridurre drasticamente la precarietà con la legge delega».
Per il ministro Poletti le misure saranno efficaci, e non aumenteranno la precarietà.
«Insistere sull’eliminazione di vincoli è contraddittorio rispetto all’idea di investire sulle persone. Di questo testo non si capiscono le ragioni profonde e la logica, se non quelle di tendere ad una flessibilità infinita. Peraltro, per un governo nato all’insegna della velocità, tre anni sono un tempo lunghissimo. Anche togliere l’elemento della causalità dà davvero l’idea che il lavoratore sia un oggetto e non una persona».
Ma nel frattempo il contratto unico a tutele crescenti, di cui la Cgil si è detta disposta a discutere, che fine ha fatto?
«Questo infatti ci lascia stupiti. Se n’è parlato a lungo, ma è chiaro che avrebbe senso se fosse sostituivo di tutte le forme di precarietà, e non aggiuntivo».
Quanto è stato detto sulle coperture la convince? Si è tornati anche a parlare di un prelievo sulle pensioni (davvero) d’oro: sarebbe d’accordo?
«Se il governo sostiene che è possibile trovare le coperture, la prendiamo come una sfida positiva. Quanto alle pensioni d’oro, abbiamo sempre detto che contributi di solidarietà sono possibili. Di sicuro, non si può tagliare la spesa sociale. Una parte del Paese ha pagato un prezzo altissimo alla crisi, chiedere a chi ha dato meno o nulla è un’impostazione corretta. Noi pensiamo che una patrimoniale sia una misura utile, ma se il governo trova altre forme, siamo disponibili a valutare».
Sulla riforma degli ammortizzatori quali sono i paletti della Cgil?
«Pensiamo ad un sistema basato sulla cassa integrazione estesa a tutti e su un sussidio di disoccupazione universale, oltre ai contratti di solidarietà, utili anche perché redistribuiscono il lavoro. Il governo sembra aver avuto un ripensamento sull’abolizione della cig, e questo è un bene, così com’è condivisibile l’attenzione alle politiche attive finalizzate alla ricerca di nuovo lavoro. Di sicuro un sistema universale che non può essere senza oneri».
Il tema dei temi resta quello della creazione di lavoro.
«Nell’attesa messianica che il mondo delle imprese torni ad investire, è utile impostare una politica di intervento pubblico per l’occupazione di qualità. Lavorare sull’edilizia scolastica potrebbe significare anche ragionare sulla qualità di un costruire diverso. Uno straordinario investimento sarebbe quello sul riordino e la trasformazione dei rifiuti, che genera innovazione tecnologica, lavoro qualificato, e contrasta la criminalità organizzata. Il messaggio per i giovani dev’essere chiaro: noi investiamo su di loro».
Renzi ha già visto Hollande, domani (oggi, ndr) sarà a Berlino con la Merkel: come è possibile conciliare l’idea di allentare l’austerità in favore di investimenti e crescita con i vincoli dei patti di bilancio?
«Il problema non è solo il vincolo del 3% del rapporto deficit/Pil, ma anche il fiscal compact. Che, già dal 2015, significherà trovare circa 50 miliardi l’anno. Noi abbiamo sempre pensato che per l’Europa mutualizzare una parte del debito di tutti i Paesi sia più efficace. Comunque sia, se si vuole mettere in campo una strategia di crescita, il fiscal compact va cambiato».

Corriere 17.3.14
Cambiano le alleanze sul lavoro
Landini con Poletti, Camusso con Boeri
di Dario Di Vico


L’antipasto del Jobs act , le norme contenute nel decreto di semplificazione dei contratti a termine e dell’apprendistato, stanno rimodellando le alleanze politiche e sindacali. Le grandi confederazioni dopo un periodo caratterizzato da posizioni unitarie si sono ridivise, il segretario della Cgil Susanna Camusso si è contrapposto al ministro «sociale» del gabinetto Renzi (Giuliano Poletti) ed è rientrato in gioco Maurizio Sacconi, ex responsabile del dicastero del Welfare nel governo Berlusconi passato poi nelle file di Ncd.
Per dirla in breve si è andato formando un inedito asse Poletti-Bonanni-Sacconi che, già forte di suo, può godere di un «appoggio esterno» da parte di Maurizio Landini. Il segretario della Fiom in realtà vanta un’interlocuzione con il piano di sopra, direttamente con il premier Matteo Renzi e invece continua a essere visto con sospetto da Bonanni e Sacconi. E del resto non potrebbe essere altrimenti, considerate le tante occasioni nelle quali il numero uno della Cisl e l’ex ministro si sono trovati come primo avversario proprio Landini. Nonostante ciò il leader metalmeccanico ricopre — specie agli occhi del premier — un ruolo tatticamente importante perché stana con la sua azione i vertici della Cgil e ne mette di continuo in evidenza «le posizioni ondivaghe».
L’impressione è che Camusso abbia cambiato più volte posizione proprio per evitare di restare isolata e questo timore l’abbia portata infine a decidere, con una mossa inattesa, di aprire al «contratto unico a tutele crescenti». Un’ipotesi elaborata dai professori Tito Boeri e Pietro Garibaldi che la Cgil aveva sempre avversato e che invece compariva nella bozza del Jobs act , scritta però prima che Renzi andasse a Palazzo Chigi. Adesso Camusso è, dunque, in buona compagnia: può sostenere di essere in linea non solo con la minoranza Pd ma anche con Boeri e il primo Renzi. Per rendere però pienamente credibile il riposizionamento la attende la prova del nove: esplicitare il via libera al superamento dell’articolo 18 previsto nel contratto unico.

Repubblica 17.3.14
“I contratti a termine di Poletti aumenteranno la precarietà”
Fassina: nel Pd molta sensibilità su questa riforma
intervista di Luisa Grion


ROMA - Questa volta il governo «è andato oltre». Correggere la legge Fornero è giusto, perché quelle regole sono «astratte, giacobine e controproducenti», ma anche i contratti a termine modello Poletti produrranno effetti contrari alle buone intenzioni del ministro: la precarietà aumenterà e i contratti a tempo indeterminato crolleranno. Per Stefano Fassina, ex viceministro Pd all’Economia, il Jobs act «va cambiato a fondo». Annuncia battaglia in Parlamento e assicura che nel suo partito c’è «molta sensibilità sul tema».
Quali sono, secondo lei, i punti da modificare?
«Prima di ragionare sui singoli punti va detto che è sbagliata l’impostazione. Oramai ce lo dicono i numeri: il lavoro non si crea agendo sull’offerta, ma favorendo la domanda aggregata, l’attività produttiva, i consumi e gli investimenti. Qui continuiamo a pensare che per far ripartire una macchina con il serbatoio vuoto basti cambiare l’olio: ma serve la benzina, e la benzina del lavoro è la domanda».
Intanto siamo davanti ad un decreto che liberalizza il contratto a tempo e l’apprendistato. Il governo non lo ritira, cosa può fare il Parlamento?
«Può riscriverlo, partendo dal numero delle proroghe previste per i contratti a termine: permetterne otto in trentasei mesi vuol dire peggiorare drasticamente la qualità della vita dei lavoratori. Devono essere non più di tre».
Il testo abolisce anche l’obbligo di indicare la causale del contratto a termine e d’introdurre pause di 10 o 20 giorni fra un rinnovo e l’altro. Interverrete?
«Va bene eliminare le pause, ma appunto perché non c’è più la causalità, la drastica riduzione delle possibili prorogheè irrinunciabile. Come è necessario ragionare sulle quote: il decreto prevede che, dove non intervengono gli accordi collettivi, ci sia un tetto all’utilizzo dei contratti a termine del 20 per cento sull’organico. Discutiamone, dobbiamo evitare gli abusi».
Come?
«Chiederemo l’istituzione di un’anagrafe pubblica dei rapporti di lavoro e chiederemo anche di introdurre una norma per verificare, ad un anno dall’entrata in vigore, gli effetti prodotti. Temo che il modello-Poletti porti ad un crollo dei contratti a tempo indeterminato: un risultato tragico perché avremmo più precarietà, meno potere contrattuale per i lavoratori, quindi retribuzioni più basse, minori consumi, ripresa zero».
E le modifiche sull’apprendistato vi stanno bene?
«Per niente: capisco che - per come funziona oggi - la formazione è inefficace e permette sprechi e reati, ma abolire la formazione teorica degli apprendisti vuol dire condannarli ad un impoverimento professionale, proprio in un momento in cui, mai come prima, il mercato cambia continuamente. Né è accettabile l’eliminazione dell’obbligo di stabilizzare almeno il 30 per cento almeno degli apprendisti prima di assumerne altri. Il contratto di apprendistato permette sgravi contributivi fortissimi: perché dovremmo consentire agevolazioni così alte se poi nemmeno 3 apprendisti su 10 saranno assunti? Quel tetto non va toccato, altrimenti non ci sarà nessuna stabilizzazione».
In quanti, nel Pd, la pensano come lei? Quanti sarete a firmare questi emendamenti?
«In tanti. Prima di discuterne nel gruppo e in Commissione lavoro aspettiamo di vedere il testo definitivo, ma nel Pd c’è molta sensibilità sul tema».

il Fatto 17.3.14
Lista Tzipras
Spinelli: “Dal premier solo enunciazioni”

“Cambiare profondamente l’Unione Europea per evitare che fallisca politicamente con la linea del rigore irragionevole". Lo ha detto Barbara Spinelli partecipando a Roma a un incontro della listra Tsipras. Per partecipare alle elezioni la lista dovrà raccogliere 150.000 firme entro il 18 aprile. Finora le adesioni sono state 20.000, ma Spinelli si è detta fiduciosa, anche perché la macchina delle sottoscrizioni non è ancora partita a pieno regime. Richiesta di un parere su Renzi ha detto: “Finora ha solo fatto delle enunciazioni, esattamente come Monti e Letta. Aspetteremo per capire meglio come si muove, ma mi sembra che qualcosa non funzioni nel metodo".  

l’Unità 17.3.14
Bersani torna in tv: «Sosterrò Matteo con le mie idee»
di M. Ze


Inizia con un’ovazione il suo ritorno da Fabio Fazio a Che tempo che fa. «Son contento anche io di rivedervi», dice Pier Luigi Bersani, subito aggiungendo che a preoccuparlo di più, dopo la malattia, è stata la lettura della rassegna stampa, «ero più di là che di qua. Ringrazio tutti i giornali, di destra e di sinistra. Mi spiace però che dovrete rifarlo».
Oltre la politica c’è l’umanità, riflette, quella che ha toccato con mano anche da parte dei suoi avversari di sempre. Certo, la rete, il web, non sono stati teneri, «pieni di robacce», ma questo è un male che si cura da solo. Spetta alla politica, allora, «fare uno sforzo in più per trovare un modo combattivo ma rispettoso, ci sono avversari non nemici» dice pensando allo scontro frontale che per anni c’è stato tra il centrosinistra e il centrodestra di Silvio Berlusconi. Eppure non ci sta alla lettura di quel che gli è accaduto come una conseguenza delle fatiche e delle amarezze che proprio la politica gli ha riservato. «Posso smentirlo ». Perché alla fine, ragiona, il Pd, il suo Pd, è diventato un partito centrale, che non ha vinto le elezioni, ma «che su quelle basi adesso sta dando un governo di svolta e per come sono io questo è una soddisfazione» e se nessuno gli riconosce un po’ di merito, «non fa niente». Tutto bene? Per niente. «Vedo un rischio», aggiunge, delle «fragilità», anche per la «forma per cui si è passati da Letta a Renzi».Un passaggio quello che Bersani non ha condiviso - e torna a difender e il governo Letta per alcune delle misure decise e che oggi diventano operative con il governo Renzi - pur avendo detto ai suoi di non ostacolare Renzi nella famosa direzione in cui si decise il cambio di guardia. Quello che lo preoccupa ora è il rischio di personalizzazione del partito. La nuova generazione che sta irrompendo nel Pd, dice, «deve percepire che si immette in un’impresa collettiva», non può vivere il partito come un nastro trasportatore dove scorre tutto ciò che la società chiede. Deve esserci, per l’ex segretario una intenzione dietro un partito.
Sulla velocità e diversità di questo nuovo governo, di questo feeling tra Renzi e il Paese, Bersani ha valutazione positiva, «ci sta mettendo un atteggiamento sfidante», l’effetto «movida va bene », ma «significa anche alzare le aspettative ed è per questo che c’è bisogno dell’aiuto di tutti e io per quanto mi riguarda ce la metterò tutta». Se appoggerà Renzi? «Da me c’è da aspettarsi lealtà ma anche qualche opinione e consiglio», perché lo ripete qui dopo averlo già detto nei giorni scorsi a Montecitorio, «ho salvato il cervello per un pelo non posso consegnarlo così. Adesso bisogna che me lo tenga. Bisogna aspettarsi da me lealtà e fedeltà alla ditta ma anche qualche opinione e buon consiglio».
Nella maggioranza c’è chi sospetta proprio i bersaniani, in asse con i lettiani, di voler rallentare l’iter della riforma elettorale per cercare di incrinare il rapporto di Renzi con Berlusconi. Sospetti che Bersani respinge perché dal suo punto di vista l’Italicum ha diversi punti di criticità, a partire dalla mancata democrazia paritaria, «che ci vuole» perché non arriverà mai per gentile concessione dei segretari dei partiti. Critica anche il premio di maggioranza che un partito potrebbe assicurarsi grazie a partiti che però date le attuali soglie di sbarramento potrebbero restare fuori dal Parlamento. «Chi concorre al premio di maggioranza deve avere posto in Parlamento », dice. Altro punto da riguardare: la soglia dell’8% per un partito che si presenta da solo e «che non ha eguali in Europa ». Ribadisce il rispetto dei patti, ma «non è che Berlusconi può avere l’ultima parola».
Quanto al M5S, con cui aveva inutilmente cercato un punto di contatto durante le consultazioni post-elezioni, Bersani è convinto che «farà tutto da sé» nel perdere quei consensi clamorosi che lo hanno fatto balzare al 25% giusto un anno fa. «Hanno deciso di avere un atteggiamento autoreferenziale, fanno la loro battaglia, ma credo che ci sia un appannamento ».

il Fatto 17.3.14
Bersani pronto a dar guerra sull’Italicum

Il ritorno televisivo di Pier Luigi Bersani è da Fabio Fazio. L’ex segretario del Pd annuncia l’intenzione di dar battaglia sull’Italicum in più direzioni. La prima è quella della parità di genere. La seconda quelle delle liste bloccate, da evitare ad ogni costo. La terza sui partiti minori che pur contribuendo all’attribuizione di un premio di maggioranza di coalzione, se restano sotto la soglia del 4,5% non eleggono deputati. Infine lamenta la soglia dell’8% per il singolo partito candidato: “Esiste solo in Turchia una soglia così alta”,articola.Conclude:“Facciamola bene, prima di doverci pentire al primo giro elettorale”. Il signore sì che se ne intende.

Corriere 17.3.14
Bersani: ho le mie idee ma sono fedele alla ditta

Pier Luigi Bersani, intervistato a Che tempo che fa (foto Ansa) , ha ribadito il suo sostegno a Matteo Renzi, con qualche riserva. «Ho salvato il cervello per un pelo — ha commentato — non posso consegnarlo così. Bisogna aspettarsi da me lealtà e fedeltà alla ditta ma anche qualche opinione e buon consiglio». E ha aggiunto: «La partenza di Renzi è positiva, ci sta mettendo un atteggiamento sfidante e molto combattivo che ci vuole». L’ex segretario, accolto da una standing ovation del pubblico, resta invece critico sulla legge elettorale: «Non sono convinto: deve essere migliorata».

l’Unità 17.3.14
Mancata parità di genere Rimediamo alla sconfitta
di Valeria Fedeli


LA MANCATA MODIFICA ALL’ITALICUM IN MERITO ALLA PARITÀ DI GENERE È UNA SCONFITTA PER L’ITALIA. UNA SCONFITTA CHE MOSTRA PROVINCIALISMO E VISIONE MIOPE, assenza di coraggio e attitudine invece a un conservatorismo difensivo e lontano dagli interessi del Paese. Una sconfitta cui è necessario rimediare nel passaggio al Senato. Si può giudicare come si vuole il testo uscito dalla Camera. Ognuno ha legittimamente la propria opinione. Il punto politico oggi è quello di evitare di riaprire la discussione in generale. Sbaglia chi pensa che su soglie o preferenze ci siano margini di modifica. Chi ipotizza questo mostra eccessiva ingenuità o malafede, perché significherebbe far saltare l’accordo e affossare la riforma. Una riforma che invece è urgente per restituire efficacia e credibilità alle istituzioni, alla politica, al sistema Paese tutto. Non si faccia allora confusione, con l’obiettivo di ritornare a quella prassi di dibattito in cui tutto si mescola, tutto si ipotizza, tutto si somma, ma poi nulla si realizza. Inserire correzioni per garantire che la nuova legge elettorale sia effettivamente paritaria è il punto di modifica possibile nel passaggio della legge al Senato. E su questo si deve concentrare l’impegno del Pd nel costruire le condizioni politiche che rendano possibile l’intesa sulla parità di genere.
Si parte già dall’esistenza di un largo fronte di battaglia, che si è manifestato nel Paese e alla Camera, e che è stato sconfitto dal voto segreto, dalla pavidità di qualche deputato e dal maschilismo di molti. È un fronte trasversale, che unisce donne e uomini di tutte le forze politiche che hanno sostenuto l’accordo e approvato la legge. Un fronte che pur rispettando l’accordo, vuole migliorarlo in un elemento significativo che incide sulla qualità intrinseca della democrazia che vogliamo realizzare anche attraverso la legge elettorale. Vogliamo una democrazia paritaria non per un capriccio, ma perché è l’unico modo per cui davvero la nostra democrazia può accettare la sfida del cambiamento, governare le trasformazioni in atto nel Paese e nel mondo mettendo insieme le energie, le competenze e la forza di tutte e tutti.
La parità di genere non è una questione tecnica, di procedura normativa, ma una questione politica, culturale e strategica decisiva: di qualità della rappresentanza, della democrazia, della competitività e delle possibilità di rilancio dell’Italia. È una questione di valori, una questione che precede ogni riforma, e che deve essere prevista da ogni processo riformatore. Fin dal primo momento in cui si è iniziato concretamente a parlare della nuova legge elettorale, alla fine dello scorso anno, abbiamo detto - e iniziato a costruire un’alleanza larga - che, quale fosse il sistema alla fine scelto, avrebbe dovuto rispettare parità di candidature femminili e maschili e parità tra elette ed eletti. Non si tratta di quote, di un riequilibrio statistico, di un tema di parte, di una battaglia femminile. Una legge elettorale, effettivamente paritaria dal punto di vista di genere è un modo per rendere viva e attuata la nostra Costituzione (lavorando per la rimozione degli ostacoli all’uguaglianza - art.3 - e la promozione delle pari opportunità - art.51 -), un modo per scegliere l’innovazione culturale e di sistema, per dare forza e concretezza alle speranze di cambiamento. Le forze politiche che hanno sostenuto la riforma si comportino in modo responsabile e si assumano l’onore - perché di onore si tratta, non di un onere - di una scelta storica. Il Senato, che non è interessato dalla riforma, che vedrà cambiare la propria natura e funzioni, e che per l’ultima volta si esprimerà in materia di legge elettorale, ha la possibilità di intestarsi questa innovazione, un’innovazione che fa bene all’Italia. Un’innovazione che riguarda non solo la legge elettorale nazionale, ma anche quella per il rinnovo del Parlamento europeo, con il voto della settimana prossima sul ddl di cui sono prima firmataria per introdurre la doppia preferenza di genere. Una norma che va approvata, senza scaricare strumentalmente su di essa i malcontenti legati all’Italicum e invece facendo in modo che la legge sia attuata già dalle Europee di maggio.
Lo dico chiaramente, allora, a tutte e tutti, leader politici, senatori e senatrici, uomini e donne: sulla parità di genere ci giochiamo la credibilità nostra e delle istituzioni, la qualità del processo democratico e del rilancio del Paese, il futuro di tutte e tutti, a partire dalle ragazze e dai ragazzi che saranno cittadine e cittadine dell’Italia di domani. Pensiamo a loro quando dovremo votare, e non agli interessi di una parte politica o della parte sola maschile del Paese.

l’Unità 17.3.14
La sinistra post-ideologica di Renzi
di Michele Ciliberto


Gli uomini vanno giudicati per quello che fanno e non per quello che dicono, specie quando si parla di politici. È dunque possibile cominciare ad esprimere qualche giudizio sulla figura dell’attuale presidente del Consiglio Matteo Renzi, su che cosa vuole e può fare per il nostro paese, cercando di andare alla «cosa» e non alla sua rappresentazione.
Come è facile vedere dalle misure che ha cominciato a far approvare, si tratta di politiche che potrebbero essere definite, a seconda dei casi, di destra o di sinistra. Ma questo getta luce su un primo, essenziale tratto di fondo di Renzi: si muove in una prospettiva nettamente post-ideologica. In questo senso appartiene al mondo che si è determinato nel ventennio berlusconiano, senza con questo voler dire che è un erede di Berlusconi, o che somiglia al capo di Forza Italia. Sostenere questo sarebbe una autentica sciocchezza. Post-ideologico dunque. E perciò estraneo alle tradizionali categorie di destra e di sinistra imperniante sul concetto di eguaglianza e diseguaglianza, come ha del resto dichiarato il premier in modo esplicito. Allo stesso modo gli sono totalmente estranee categorie centrali del movimento operaio di matrice marxista: lotta di classe, capitale, lavoro, sfruttamento. Il che non vuol dire che sia estraneo a tematiche e sensibilità di carattere sociale, ma esse hanno una diversa origine e differenti svolgimenti. Questa dimensione post-ideologica si intreccia a una forte rivendicazione della politica e del suo primato e a una drastica liquidazione della «tecnica». Una politica fortemente programmata, concepita quale rapporto di potere e di forza, come è apparso dalla trattativa con Berlusconi sulla legge elettorale e che coincide con la figura del leader e con il rapporto che egli stabilisce con il suo «popolo». Esso travalica i tradizionali schieramenti politici.
Da qui discende una sostanziale estraneità ai «corpi intermedi», a cominciare dal sindacato e dallo stesso partito. Sono, in entrambi i casi, utili se servono al capo e alla sua politica, altrimenti se ne può fare a meno. C’è qui una forte differenza non solo rispetto alla tradizione socialista, ma anche verso le correnti del cattolicesimo democratico e liberale che hanno contribuito a formare il gruppo dirigente democristiano al potere nella prima Repubblica. Anche su questo punto, Renzi si muove secondo una linea nuova, che non gli impedisce però di recuperare alcuni elementi di quella tradizione. A questi primi due punti - post-ideologia, primato della politica - ne va aggiunto subito un altro: la centralità della questione dello «sviluppo» del paese, tagliando il prima possibile tutti i lacci e lacciuoli che ne intralciano la crescita. In questo senso, la lotta alla burocrazia e all’amministrazione - e la loro subordinazione alla politica e alle direttive del governo e del suo capo - è una battaglia di ordine strategico. Se non sfonda su questo terreno, è tutta la sua missione che viene meno e perde colpi. Per favorire lo sviluppo sono utili tutti gli strumenti a disposizione, siano essi di destra o di sinistra - dalla ripresa di elementi keynesiani alla flessibilità dei contratti. Così come è essenziale la riformulazione dei rapporti con l’Europa su nuove basi. Sono queste le altre priorità strategiche di Renzi. Priorità dello sviluppo e uso di tutti gli strumenti necessari in questa direzione, prescindendo da qualunque motivo di carattere ideologico. Ma se ci si limitasse a questo non si capirebbero i caratteri e gli obiettivi del presidente del Consiglio. Mi esprimo con una battuta: non è Marchionne, l’amministratore della Fiat, e non considera la Nazione italiana come un’azienda. È anche, in modi nuovi, un politico di sinistra. Ci deve essere «sviluppo», ma deve diventare «progresso». Occorre perciò avere attenzione verso gli strati o più deboli o più esposti alla crisi, o più sofferenti. È necessario perciò che il governo abbia una forte sensibilità di carattere sociale, ma secondo prospettive assai diverse da quelle proprie della tradizione sociale di tipo marxista. Renzi viene da un altro mondo.
Le categorie che egli utilizza non sono gli «sfruttati» o il conflitto tra «capitale» e «lavoro»; sono quelle degli «ultimi», dei «poveri», di coloro che restano ai margini. Su questi ceti occorre agire con politiche di ampia apertura sociale, e su tutti i piani: costruendo scuole per i bambini e garantendo loro sicurezza; mettendo più soldi nella busta paga di chi guadagna meno. E bisogna farlo con interventi che scendano «dall’alto », dal governo che si fa carico direttamente delle situazioni di crisi e interviene in esse per rovesciarle. Qui, quelli che svolgono una funzione essenziale sono, in primo luogo, i «doveri» dei «governanti » piuttosto che i «diritti» acquisiti attraverso le lotte e i conflitti sociali dai «governati». È infatti l’interesse del «tutto» che deve prevalere su quello delle «parti» le quali, qualunque sia la loro matrice, vanno ricondotte, attraverso la politica, al bene comune. È a questo livello che il presidente del Consiglio recupera elementi del cattolicesimo sociale e, in modo specifico, della esperienza di un uomo di governo come La Pira, il sindaco che a Firenze costruirà le «case minime » e che intervenne con durezza nella questione del Nuovo Pignone.
Su questo terreno è possibile che Renzi ci riservi delle sorprese e che lo Stato, col suo governo, possa assumere un ruolo significativo come punto di potenziamento, e di equilibrio, dello sviluppo sociale ed economico. Spesso il presidente ha usato il termine visione: credo che ambisca ad avere una visione dell’Italia, ed è possibile che in questo quadro lo Stato, riformato e riorganizzato, possa progressivamente svolgere una funzione di rilievo, secondo la cultura dei Vanoni e dei Saraceno. Come si vede, è una ideologia composita. Maè proprio questo carattere che gli garantisce un vasto consenso a sinistra e a destra. Viene incontro all’ansia profonda di cambiamento che, nonostante la crisi, attraversa il paese, alla ricerca, nonostante la disillusione e anche la disperazione, di una visione e di una speranza. In questo senso, Renzi, con la sua obiettiva capacità di muoversi con velocità su piani diversi, riesce a Gli uomini vanno giudicati per quello che fanno e non per quello che dicono, specie quando si parla di politici. È dunque possibile cominciare ad esprimere qualche giudizio sulla figura dell’attuale presidente del Consiglio Matteo Renzi, su che cosa vuole e può fare per il nostro paese, cercando di andare alla «cosa» e non alla sua rappresentazione.
Come è facile vedere dalle misure che ha cominciato a far approvare, si tratta di politiche che potrebbero essere definite, a seconda dei casi, di destra o di sinistra. Ma questo getta luce su un primo, essenziale tratto di fondo di Renzi: si muove in una prospettiva nettamente post-ideologica. In questo senso appartiene al mondo che si è determinato nel ventennio berlusconiano, senza con questo voler dire che è un erede di Berlusconi, o che somiglia al capo di Forza Italia. Sostenere questo sarebbe una autentica sciocchezza. Post-ideologico dunque. E perciò estraneo alle tradizionali categorie di destra e di sinistra imperniante sul concetto di eguaglianza e diseguaglianza, come ha del resto dichiarato il premier in modo esplicito. Allo stesso modo gli sono totalmente estranee categorie centrali del movimento operaio di matrice marxista: lotta di classe, capitale, lavoro, sfruttamento. Il che non vuol dire che sia estraneo a tematiche e sensibilità di carattere sociale, ma esse hanno una diversa origine e differenti svolgimenti. Questa dimensione post-ideologica si intreccia a una forte rivendicazione della politica e del suo primato e a una drastica liquidazione della «tecnica». Una politica fortemente programmata, concepita quale rapporto di potere e di forza, come è apparso dalla trattativa con Berlusconi sulla legge elettorale e che coincide con la figura del leader e con il rapporto che egli stabilisce con il suo «popolo». Esso travalica i tradizionali schieramenti politici.
Da qui discende una sostanziale estraneità ai «corpi intermedi», a cominciare dal sindacato e dallo stesso partito. Sono, in entrambi i casi, utili se servono al capo e alla sua politica, altrimenti se ne può fare a meno. C’è qui una forte differenza non solo rispetto alla tradizione socialista, ma anche verso le correnti del cattolicesimo democratico e liberale che hanno contribuito a formare il gruppo dirigente democristiano al potere nella prima Repubblica. Anche su questo punto, Renzi si muove secondo una linea nuova, che non gli impedisce però di recuperare alcuni elementi di quella tradizione. A questi primi due punti - post-ideologia, primato della politica - ne va aggiunto subito un altro: la centralità della questione dello «sviluppo» del paese, tagliando il prima possibile tutti i lacci e lacciuoli che ne intralciano la crescita. In questo senso, la lotta alla burocrazia e all’amministrazione - e la loro subordinazione alla politica e alle direttive del governo e del suo capo - è una battaglia di ordine strategico. Se non sfonda su questo terreno, è tutta la sua missione che viene menoe perde colpi.
Per favorire lo sviluppo sono utili tutti gli strumenti a disposizione, siano essi di destra o di sinistra - dalla ripresa di elementi keynesiani alla flessibilità dei contratti. Così come è essenziale la riformulazione dei rapporti con l’Europa su nuove basi. Sono queste le altre priorità strategiche di Renzi. Priorità dello sviluppo e uso di tutti gli strumenti necessari in questa direzione, prescindendo da qualunque motivo di carattere ideologico. Ma se ci si limitasse a questo non si capirebbero i caratteri e gli obiettivi del presidente del Consiglio. Mi esprimo con una battuta: non è Marchionne, l’amministratore della Fiat, e non considera la Nazione italiana come un’azienda. È anche, in modi nuovi, un politico di sinistra. Ci deve essere «sviluppo», ma deve diventare «progresso». Occorre perciò avere attenzione verso gli strati o più deboli o più esposti alla crisi, o più sofferenti. È necessario perciò che il governo abbia una forte sensibilità di carattere sociale, ma secondo prospettive assai diverse da quelle proprie della tradizione sociale di tipo marxista. Renzi viene da un altro mondo.
Le categorie che egli utilizza non sono gli «sfruttati» o il conflitto tra «capitale» e «lavoro»; sono quelle degli «ultimi», dei «poveri», di coloro che restano ai margini. Su questi ceti occorre agire con politiche di ampia apertura sociale, e su tutti i piani: costruendo scuole per i bambini e garantendo loro sicurezza; mettendo più soldi nella busta paga di chi guadagna meno. E bisogna farlo con interventi che scendano «dall’alto », dal governo che si fa carico direttamente delle situazioni di crisi e interviene in esse per rovesciarle. Qui, quelli che svolgono una funzione essenziale sono, in primo luogo, i «doveri» dei «governanti » piuttosto che i «diritti» acquisiti attraverso le lotte e i conflitti sociali dai «governati». È infatti l’interesse del «tutto» che deve prevalere su quello delle «parti» le quali, qualunque sia la loro matrice, vanno ricondotte, attraverso la politica, al bene comune. È a questo livello che il presidente del Consiglio recupera elementi del cattolicesimo sociale e, in modo specifico, della esperienza di un uomo di governo come La Pira, il sindaco che a Firenze costruirà le «case minime » e che intervenne con durezza nella questione del Nuovo Pignone.
Su questo terreno è possibile che Renzi ci riservi delle sorprese e che lo Stato, col suo governo, possa assumere un ruolo significativo come punto di potenziamento, e di equilibrio, dello sviluppo sociale ed economico. Spesso il presidente ha usato il termine visione: credo che ambisca ad avere una visione dell’Italia, ed è possibile che in questo quadro lo Stato, riformato e riorganizzato, possa progressivamente svolgere una funzione di rilievo, secondo la cultura dei Vanoni e dei Saraceno. Come si vede, è una ideologia composita. Maè proprio questo carattere che gli garantisce un vasto consenso a sinistra e a destra. Viene incontro all’ansia profonda di cambiamento che, nonostante la crisi, attraversa il paese, alla ricerca, nonostante la disillusione e anche la disperazione, di una visione e di una speranza. In questo senso, Renzi, con la sua obiettiva capacità di muoversi con velocità su piani diversi, riesce a coinvolgere ceti e strati diversi, senza punti di riferimenti certi. Ma non sorprende: noi viviamo il tempo della fluidità dei blocchi sociali e anche della precarietà delle posizioni ideologiche. Come mai prima, tutto è in movimento, e la politica del presidente del Consiglio ne è al tempo stesso un effetto e una causa. Bisogna vedere che cosa verrà fuori da questo patchwork, e cosa si affermerà. Ma questo ce lo potrà dire solo il tempo, e non ce ne vorrà molto.

La Stampa 17.3.14
La fenomenologia del renzismo
di Giovanni Orsina


Renzi ha introdotto una cesura importante nella vicenda politica italiana. Quanto profonda e duratura sia questa cesura è davvero troppo presto per dirlo.
La «futurologia renziana» è una scienza (o una credenza?) assai praticata: in molti si sono (ci siamo) messi a far profezie sulla culla del neonato. Il che è senz’altro comprensibile, perché tutti vorremmo sapere come va a finire il giallo, o magari perfino influenzarne lo sviluppo. Ma è pure irrazionale, perché in realtà ci vorranno mesi, o più probabilmente anni, per capire se siamo di fronte a una semplice smagliatura della storia o a un autentico momento di svolta. Che una cesura ci sia stata, tuttavia, è innegabile. La «scalata» al Partito democratico, l’ascesa a Palazzo Chigi, l’accentramento di poteri e responsabilità, l’innovazione nella comunicazione: tutto questo «pesa» eccome. E proprio perché pesa, possiamo tentare di utilizzarlo per rileggere almeno il presente e il passato della nostra vita politica e istituzionale – fermo restando che il futuro, per il momento, sta ancora giocando sulle ginocchia di Giove.
Paragonare Renzi a Berlusconi è un altro esercizio al quale si sono applicati in molti. Non è certo un’operazione ingiustificata, visto che i due si somigliano senz’altro. Ma è anche, se la si conduce costruendo un parallelismo puro e semplice, un’operazione incompleta. Per comprendere che cosa l’avvento di Renzi ci dica sul berlusconismo, e più in generale sugli ultimi vent’anni, la questione va impostata in maniera diversa. Ossia, dobbiamo riportare sia Berlusconi sia Renzi a un terzo elemento che si trova a monte dell’uno e dell’altro: le esigenze storiche reali alle quali entrambi hanno cercato o cercano di dar soddisfazione. Impostando così il ragionamento potremmo scoprire allora che i due si assomigliano soprattutto perché danno o hanno dato risposte alle medesime domande. E che soltanto chi risponde a quelle domande può vincere perché la grande maggioranza degli italiani si è ormai convinta che quelle siano le domande fondamentali.
Il primo gruppo di domande ha a che fare con le forme della politica. Ossia per un verso con la posizione di assoluta centralità che ha assunto la personalità debordante del leader, per un altro col modo in cui quel leader comunica: semplicistico, demagogico e per slogan, in primo luogo; e in secondo luogo diretto al «popolo» e non alle istituzioni. Quando Berlusconi introdusse queste innovazioni, vent’anni fa, non pochi ne spiegarono il successo sulla base di un presunto amore degli italiani per l’«uomo forte» e/o di una loro altrettanto presunta superficialità, che li avrebbe resi più sensibili alle immagini e alle sensazioni che ai contenuti. A essere superficiali, però, erano soprattutto quelle spiegazioni.
In realtà tanto il leaderismo quanto i modi e gli obiettivi della comunicazione – terreni sui quali già da ora Renzi pare aver sopravanzato il Cavaliere – sono in larga misura una conseguenza e una risposta alla crisi sempre più drammatica delle istituzioni politiche: partiti, parlamento, potere esecutivo. Se quelle istituzioni, paralizzate dai veti contrapposti, dalle fratture interne e dall’ansia infinita di mediazione, si rivelano incapaci di produrre decisioni, allora la domanda di governo che sale dal Paese non potrà che cercare soddisfazione altrove. E dove altro potrà cercarla, quella soddisfazione, se non in un individuo determinato e sicuro di sé fino all’arroganza che con parole semplici e dirette gli promette soluzioni rapide ed efficaci, superando di slancio veti, mediazioni e bizantinismi istituzionali?
Il secondo gruppo di domande alle quali sia Berlusconi sia Renzi hanno cercato o cercano di dare risposta riguarda invece la sostanza della politica: una riforma del rapporto fra Stato e società civile che riduca il peso di quello e allarghi gli spazi di movimento di questa. Berlusconi dice da vent’anni che le tasse sono troppo alte, la burocrazia vessatoria e inefficiente, le leggi e i regolamenti irragionevoli e labirintici? Bene: dicendo esattamente le stesse cose, Renzi gli dà nella sostanza piena ragione. Ma, di nuovo, gli dà ragione perché è berlusconiano, oppure perché cerca di rispondere alle stesse richieste che, oggi come nel 1994, continuano a salire da larghissima parte del Paese?
Le domande essendo le stesse, le sue risposte Berlusconi ha cercato di darle da destra, Renzi da sinistra. Si tratta ovviamente di una differenza tutt’altro che irrilevante, sia rispetto alla sostanza delle decisioni – basti pensare a quanto poco «berlusconiano» sia stato il modo in cui Renzi ha indirizzato il «berlusconiano» taglio alle tasse –, sia rispetto al modo in cui i due sono stati accolti nei quartieri più qualificati e influenti dell’opinione pubblica nazionale. Quartieri che, seppure con qualche ironia o distinguo, stanno sopportando dall’attuale presidente del Consiglio comportamenti, parole e silenzi non diversi – anzi: per tanti versi ben più macroscopici – di quelli per i quali in passato non hanno mancato di condannare il Cavaliere. Suscitando il sospetto che per tanti intellettuali e opinionisti il vero peccato di Berlusconi fosse non quello di essere bugiardo, demagogico e populista – ma di stare a destra.
L’asimmetria fra Renzi e Berlusconi non si ferma qui, a ogni modo, e non va tutta a vantaggio dell’attuale presidente del consiglio. Proprio perché stava a destra il Cavaliere si muoveva in un mondo povero di strutture e personale politico, e suppliva a questa povertà non solo con la sua personalità, ma anche con i soldi e le televisioni. L’impossibilità per la destra di fare a meno di quest’opera di supplenza ha consentito a Berlusconi di sopravvivere ai suoi molti fallimenti: 1994, 1996, 2006, 2011. Renzi ha invece scalato un mondo ricco di strutture e personale politico, che si è rassegnato alla sua leadership perché non riusciva a vincere. Chi desideri sapere se sopravviverà a un eventuale fallimento non tragga esempio da Berlusconi.

Corriere 17.3.14
Ragioni e rischi della rottura renziana
Non si vive di belle parole
di Angelo Panebianco


L’affermazione del presidente del Consiglio secondo cui se a maggio non ci saranno i soldi in più promessi nelle buste paga per effetto della manovra Irpef, allora egli sarà da considerare un buffone, è sembrata a molti la conferma di quanto azzardato sia il suo gioco politico. Ma è forse possibile una diversa interpretazione: quella frase irrituale svela quale sia il vero punto di forza di Renzi. Egli ha intercettato e correttamente interpretato un grande cambiamento (positivo) che si è verificato negli atteggiamenti dell’opinione pubblica. Il fatto è che ormai non è più possibile abbindolare nessuno: nessuno si fida più, non solo degli annunci, ma nemmeno — finalmente! — delle decisioni formalmente e ufficialmente prese da governi e Parlamenti. «Pagare moneta, vedere cammello» è ora l’atteggiamento dominante nell’opinione pubblica.
Fino a poco tempo fa il sistema funzionava così: ve-niva annunciato un nuovo, meraviglioso, provvedimento. I media, per lo più, lo presentavano come cosa già fatta. Dopo qualche tempo arrivava, se arrivava, la decisione, con i crismi del decreto legge o magari (ma doveva passare molto più tempo) con quelli della legge votata dal Parlamento in pompa magna. Già lì c’era la prima doccia fredda: gli addetti ai lavori scoprivano che fra il provvedimento annunciato e quello varato c’era un grande scarto. Ma questa informazione arrivava attutita all’opinione pubblica. E la cosa non finiva lì. Dopo, scattava il complicatissimo iter burocratico dell’attuazione durante il quale il provvedimento veniva ulteriormente triturato e, spesso, pervertito. Gli scopi iniziali venivano sovente abbandonati e sostituiti tacitamente da altri. Alla fine della fiera, e dopo parecchi mesi, i soliti addetti ai lavori scoprivano che il provvedimento non aveva sortito alcun effetto oppure solo effetti negativi: niente che assomigliasse, neppure alla lontana, alle meravigliose novità a suo tempo annunciate. L’opinione pubblica, ormai distratta da altro, neppure veniva a saperlo.
Adesso, anche i sassi sanno che non bisogna fidarsi: che non bisogna guardare solo alle decisioni che vengono prese ma aspettare di vedere quale ne sarà la attuazione, ciò che conta davvero.
Perché questo cambiamento dell’atteggiamento dell’opinione pubblica è positivo? Perché apre la possibilità di imporre anche in Italia ciò che gli anglosassoni chiamano accountability : sei responsabile di ciò che mi prometti e ti giudicherò non per le promesse ma per i fatti che seguiranno, o non seguiranno, alle promesse. E ciò, oltre alla politica, potrebbe finalmente mettere sotto scopa anche «l’infrastruttura amministrativa» (burocrazia e giustizia amministrativa), il cui malfunzionamento è il male più grave da cui è afflitto il Paese. Accountability significa che l’epoca delle furbizie volge forse al tramonto.
Certo, gli umori del Pae-se potrebbero cambiare di nuovo. L’opinione pubblica potrebbe tornare ad essere ciò che è sempre stata: un impasto di apatia, credulità e voglia di ribellione, unite a ignoranza e disinteresse per i veri meccanismi che condizionano le scelte pubbliche. Ma è già tanto che la «politica degli annunci» non incanti più nessuno e che, inoltre, si sia diffusa la consapevolezza che ciò che blocca il Paese sta nell’intreccio fra una politica impotente e una infrastruttura amministrativa che opera al servizio di se stessa.
È questo il vero punto di forza di Renzi. È la più potente arma di ricatto di cui dispone per mettere in riga le lobby parlamentari e la burocrazia a tutti i livelli: tutti quelli che, se si profila all’orizzonte una innovazione, si mettono subito al lavoro per neutralizzarla, distorcerla, edulcorarla. E che fino ad oggi, sfruttando cavilli e procedure complicate, sono sempre, o quasi sempre, riusciti a spuntarla. Basti vedere che cosa è successo a tanti provvedimenti varati dai governi Monti e Letta.
Sbloccherà davvero Renzi il pagamento dei debiti alle imprese? Il provvedimento sui contratti a termine, quando verrà varato, partirà già annacquato grazie al lavoro sottotraccia delle lobby contrarie oppure verrà neutralizzato in sede di attuazione? La riforma del lavoro di Renzi farà la fine di quella della Fornero? Il taglio dell’Irpef risulterà solo un regalo elettorale (in vista delle Europee di maggio) incapace di stimolare la ripresa della domanda interna oppure, sommandosi ad altri provvedimenti pro-crescita, contribuirà a mutare il clima del Paese, a dare il colpo di frusta di cui l’economia italiana ha bisogno? Cosa verrà fatto, a breve, contro quella palla al piede dell’economia che è il malfunzionamento della giustizia civile? Cosa verrà fatto per rendere i ricorsi ai Tar l’eccezione anziché la regola? A seconda delle risposte che potremo dare fra qualche mese a queste e ad altre domande, capiremo — lo capiremo solo allora — se Renzi si rivelerà un autentico vincente oppure un’altra (l’ennesima) promessa mancata.
I vincoli che il premier deve aggirare o allentare sono potenti. Egli ha in mano due sole carte: il rapporto carismatico che ha stabilito con l’opinione pubblica e la paura dei parlamentari che un suo fallimento li porti dritti alle elezioni. Ma sono carte a rischio di deterioramento rapido. Il carisma, per sua natura, è fragile, transitorio, effimero. Renzi ha ragione nel voler fare tutto o quasi tutto in fretta, nel tempo più breve possibile. Deve cambiare le regole del gioco, ivi comprese quelle istituzionali e amministrative, prima che il suo carisma subisca l’inevitabile logoramento.
Altrimenti, tutto finirà con il solito «vorrei ma non posso», la vera epigrafe di altre avventure carismatiche che l’Italia repubblicana ha conosciuto.

La Stampa 17.3.14
Vendola: “Renzi è la novità Mi fa sentire inattuale”
intervista di Riccardo Barenghi


Il leader di Sel: malissimo sul lavoro, bene l’addio alla realpolitik degli F35

Presidente Vendola, la sua prima reazione alle riforme annunciate da Matteo Renzi è stata positiva. Anche lei è diventato renziano? 
«No no, questa attitudine in voga sulla scena pubblica alla semplificazione referendaria non mi appartiene. Le confesso anzi che dal siluramento di Enrico Letta al discorso di insediamento in Parlamento, fino alla pirotecnica conferenza stampa di mercoledì scorso, Renzi si è dimostrato padrone di questo tempo. E io ho pensato di essere ormai inattuale».

Però lei ha subito apprezzato l’annuncio sugli 85 euro... 
«Noi non siamo iscritti al partito del tanto peggio, tanto meglio. Conosciamo le pene e i dolori del Paese, siamo in grado di valutare nel merito i provvedimenti del governo. E anche di cogliere il senso generale dell’operazione che è stata proposta. E dunque dico che la notizia degli 85 euro è un dato positivo, si comincia finalmente a capire che non si può uscire dal pantano della crisi se non si ridà ossigeno a quei soggetti sociali che l’austerity ha messo in una condizione di apnea. Detassare il lavoro va bene o va male? Io rispondo che va bene. Così come va bene l’aumento della tassazione sulle rendite finanziarie».

E l’annuncio sulla revisione del programma F35? 
«Sarebbe un’altra crepa che si apre nel muro di gomma della falsa realpolitik».

E invece cos’è che va male? 
«Va male, anzi malissimo la riforma del mercato del lavoro. Così si introduce una generalizzazione del precariato, la definirei un colpo alla nuca della civiltà del lavoro».

Addirittura? 
«Sì, addirittura. Perché contratti di tre anni svincolati da qualunque causale rappresentano soltanto l’universalizzazione del precariato, così come l’apprendistato che invece di essere un tirocinio formativo diventa semplicemente lavoro precario mutilato da rilevanti percentuali di retribuzione. Continua insomma a vivere l’illusione frutto di una vera superstizione ideologica, ossia l’idea che tanto più il lavoro è privo di tutele e diritti, tanto più può dilagare negli sconfinati territori della domanda di lavoro. Non è affatto così, mutare le regole non produce lavoro».

Che animale politico è Matteo Renzi? 
«Lui rappresenta una straordinaria novità, senza dare alla parola novità alcuna accezione di valore. Non è un aggiornamento di Monti o di Letta, ma propone una rivoluzione radicale nelle forme e nello stile, che poi sono il primo contenuto della politica. Fa della velocità un valore capace di scardinare l’universo di lentezze parassitarie e pigrizie corporative che abbiamo conosciuto finora. Pone il tema del cambiamento con una forza narrativa che, in quanto esperta di tutti i generi di seduzione dell’opinione pubblica, precipita nella vita di una Paese stremato come un discorso forte. Da un lato compie un’operazione propagandistica che se venisse trasferita in atti concreti andrebbe a scontrarsi contro alcuni architravi della politica europea dell’austerity. Dall’altro però recupera una connotazione sociale che vede l’impresa come la vera forza motrice del Paese, con il lavoro collocato dentro una dimensione individuale sconnessa da qualsiasi comunità o classe. E viene proiettato in una sorta di gara in cui si salva solo chi è più bravo. Questo è il messaggio della retorica renziana».

Una retorica che a lei non piace, par di capire. 
«Guardi, io penso che Renzi vada preso molto sul serio, senza pregiudizi. Non lo dobbiamo considerare né l’ultima incarnazione di Lucifero né l’angelo vendicatore che torna sulla terra».

Ma Renzi è di destra o di sinistra? 
«Non è questa la sua alternativa. Lui ne ha scelte altre: vecchio o nuovo, lento o veloce».

Trova qualche affinità con Berlusconi? 
«Be’, premesso che il berlusconismo è penetrato a fondo nella società, direi che Renzi ne eredita l’idea di una specie di super-eroe che ha una relazione epidermica con il popolo».

E voi di Sel pensate a una futura alleanza con questo super-eroe? 
«Noi insieme con il Pd abbiamo vinto e governiamo molti comuni e molte regioni. Oggi però il Pd è al governo con Alfano e il suo partito, una miscela di trasformismo e di anacronistico clericalismo. Questo è il peccato originale del Partito democratico, dal quale deve emendarsi. Noi, dall’opposizione, lo sfidiamo a costruire insieme a noi un nuovo centrosinistra».

La Stampa 17.3.14
Sulle pensioni degli insegnanti primo esame per il governo
di Carlo Bertini


Teatro, la commissione Bilancio, crocevia di tutte le leggi in materia economica che impegneranno il governo di qui ai prossimi mesi. Atto primo: domani mattina andrà in scena la prima prova del nove sui cosiddetti “quota 96” della scuola, con il voto sulla proposta di legge Ghizzoni-Damiano che ha come relatrice Barbara Saltamartini, vicepresidente della commissione e portavoce di Ncd. Nell’ultima seduta tutta la commissione si è espressa all’unanimità a favore, per coprire un errore materiale della legge Fornero, che aveva calcolato l’andata in pensione degli insegnanti nati nel ’52, anziché a settembre, a gennaio: questo meccanismo, anche correlato agli anni successivi, aveva costretto un certo numero di persone, (all’inizio una platea stimata di novemila, poi ridotta a quattromila) a non poter andare in pensione, pur avendone il diritto anche con la legge Fornero. Tutti costoro, uscendo prima, avrebbero fatto posto ai giovani insegnanti in graduatoria da anni.
Una vicenda che va avanti da un anno e mezzo e che ha provocato la nascita di comitati, dibattiti e sit-in. Non solo la prima, ma anche la seconda proposta di legge indica coperture che il Ministero dell’Economia non sostiene, ma la relatrice non è disposta ad arretrare ed ha preannunciato che si pronuncerà a favore del provvedimento, caldeggiato da tutte le forze politiche, dai 5 Stelle a Sel passando per il Pd. Quindi è probabile che martedì, quando ci sarà il redde rationem, la vicenda diventerà una piccola grana per il governo: che dovrà decidere se dire no, provocando una prima tensione nel rapporto con la commissione e la sua maggioranza. A quanto ammonta l’onere? Inizialmente in 400 milioni di euro, ma poi dopo un esame della commissione, si sono limitate le coperture solo all’andata in pensione, slittando il pagamento del tfr negli anni a seguire. Quindi si tratta di circa 150 milioni di euro. E il presidente della Commissione, Francesco Boccia, grande amico di Letta, è pronto a dare il suo parere positivo. «Dobbiamo essere veloci e risolvere i problemi della gente. Diremo che questa copertura va trovata, chiederemo al governo di dare il via libera e in quel caso la commissione indicherà altre poste».

Repubblica 17.3.14
Berlusconi, il mondo capovolto
di Nadia Urbinati


Quale che sia il governo, la funabolica girandola della politica italiana ruota sempre intorno a Silvio Berlusconi. Come prima, più di prima. Perché nel carniere del cacciatore vi è ora anche l’accordo che ha siglato la veloce approvazione alla Camera della riforma elettorale, il miracolo che ha rimesso in circolo il reo e leader di Forza Italia. Forte del titolo di padre della patria, Berlusconi si lancia ora nell’affondo finale: la richiesta vox populi della grazia e infine la candidatura alle elezioni per il rinnovo del Parlamento europeo. Invece dei servizi sociali l’aula di Strasburgo. L’Italia rappresentata da un reo fatto eroe dalla politica nazionale. Una saga dai contorni surreali eppure recitata con la pomposità e la retorica della grandi manovre.
Da quando la Corte di Cassazione ha confermato la condanna per frode fiscale ai danni dello Stato italiano (la vittima), il reo Berlusconi, cacciato dal Senato in accordo ad una legge votata qualche mese prima anche dal suo partito e applicata dalla maggioranza che sosteneva il governo di Enrico Letta, ha manovrato abilmente per realizzare uno scopo e uno solo: salvare se stesso e i suoi interessi dal prevedibile danno che l’esclusione dalla politica istituzionale comporterebbe. È chiaro che Berlusconi potrebbe continuare a fare politica stando fuori dalle istituzioni: non è forse Beppe Grillo un grande trascinatore senza essere un eletto? Ma evidentemente a Berlusconi non interessa tanto trascinare le masse, quanto trascinarle con lo scopo di meglio soddisfare i suoi interessi ovvero a proprio vantaggio, un obiettivo che può essere raggiunto stando dentro le istituzioni, non fuori. Non si spiega diversamente il suo amore per l’investitura istituzionale, per quell’immunità che gli è stata utilissima per tanti anni e che ha perso lo scorso novembre. È questa la politica che interessa a Berlusconi. Il resto sono solo chiacchiere ben cucinate per imbonire l’audience.
La mobilitazione dei Berluscones si è intensificata quando pochi giorni fa al loro capo fu impedito di recarsi al congresso del Ppe in programma a Dublino. Berlusconi, che ha dovuto riconsegnare il passaporto dopo la condanna definitiva per la frode fiscale sui diritti tv del gruppo Mediaset, non ha avuto il permesso chiesto al tribunale di Milano per poter partecipare alla riunione in vista delle elezioni europee. La mobilitazione si fa ancora più accesa in prossimità della decisione del 10aprile prossimo, quando i giudici di Milano dovranno decidere, come Berlusconi stesso ha detto «se dovrò andare in carcere, ai domiciliari o ai servizi sociali». A lui l’ipotesi dei servizi sociali suona come la soluzione «più ridicola »: lui, una persona «della sua età», che oltretutto ha il merito di essere anche «una persona di stato, di sport e di impresa»! «Ridicolo », dice l’uomo più ricco e più potente d’Italia (ancora Cavaliere del Lavoro), che debba pagare per aver violato la legge come capita a un qualunque normale cittadino. La soluzione che egli vuole è ben altra, è fare un altro tipo di servizio, quello al Parlamento europeo.
Quello che si prospetta davanti ai nostri occhi è un mondo rovesciato, nel quale il condannato diventa un perseguitato e la legge una «grave lesione al diritto» perché mette un fermo al suo «diritto di rappresentare i moderati italiani». In questa condizione surreale, Berlusconi e i suoi lanciano una nemmeno poco velata minaccia: chi si provasse a impedirlo si «assumerebbe una grave responsabilità davanti a milioni di italiani». La politica italiana sembra non riuscire a fare a meno di Berlusconi, a liberarsi dai suoi ricatti, se è vero che perfino per attuare la politica della rottamazione c’è stato bisogno di lui. Il Pd di Matteo Renzi ha una responsabilità non piccola, e ora dovrà mostrare se quell’accordo sulla legge elettorale è venuto senza costi aggiuntivi.
Le parole di Maurizio Gasparri sono sibilline: perorando la causa del suo capo come una causa «di democrazia e di libertà» (sperando magari in una legge che consenta a Berlusconi di candidarsi alle prossime elezioni europee) il senatore di Forza Italia mette sul piatto il regalo fatto, ovvero l’argine che grazie alla nuova legge elettorale è stato messo ai “partitini”, ostacoli a sinistra e a destra nel progetto comune a Berlusconi e a Renzi di controllare i voti dei rispettivi campi per muovere verso una soluzione compiutamente bipolare, con poco pluralismo e molto consenso. Non è un caso se proprio dal Ncd di Angelino Alfano vengano le bordate più forti al progetto di Forza Italia. «Quando Berlusconi parla dei piccoli partiti - ha detto Alfano - si trova in una condizione paradossale, il suo è un partito più grande ma non sa dove andare, il nostro è più piccolo ma sa benissimo dove andare». Parole che fanno intuire quanto questa legge elettorale e il destino politico di Berlusconi siano intrecciati. Il surreale di una rottamazione che si vorrebbe attuare a condizione di non rottamare mai l’icona della politica del privilegio.

l’Unità 17.3.14
Giovanni Pellegrino: «Per la verità su Moro si riparta dalle sue carte»
di Salvatore Maria Righi



Trentasei anni dopo è ancora una delle vicende più oscure e complicate della recente storia italiana. Sono tuttora molti i misteri e le domande legate all’affaire Aldo Moro e per questo, proprio oggi, prende il via l’iter legislativo per la costituzione di una nuova Commissione parlamentare d’inchiesta per far finalmente luce sul rapimento e l’uccisione dello statista Dc, su iniziativa degli onorevoli Pd Gero Grassi, Giuseppe Fioroni e Roberto Speranza. Un impegno per la trasparenza che è stato i connotati più importanti nell’opera della prima Commissione Stragi, presieduta dal senatore Giovanni Pellegrino fino alla conclusione dei suoi lavori nel 2001.
«Ho parlato con Gero Grassi, al quale ho detto con sincerità che non mi faccio molte illusioni. Avendone fatto parte a lungo, confesso che non credo più molto nello strumento della Commissione, vista l’esperienza di quella che ho guidato. Il cui ottimo lavoro, lo ricordo, è stato poi vanificato e frenato da apriorismi e pregiudizi politici. In questo Paese dove il passato non passa mai, mi auguro e auspico più serenità e un atteggiamento più da storici, per evitare che le divisioni impediscano di mettersi d’accordo sul lavoro fatto. O che addirittura, come nel caso Mitrokhin o Telekom Serbia, la Commissione nasca con per una finalità ed un uso politico, nel caso specifico quello di screditare il più possibile il Partito comunista ».
Come si dice in questi casi, dottor Pellegrino, dove eravamo rimasti col caso Moro?
«Un ottimo punto di partenza sono le carte di Moro, tra lettere e materiali: il lavoro fatto potrebbe permettere di fare importanti passi avanti nella ricostruzione della dinamica del sequestro e dei giorni di prigionia, anche sotto al profilo del rapporto tra l’ostaggio e i suoi carcerieri. Ma la svolta nell’inchiesta sarebbe un’altra».
Quale?
«Una revisione critica dell’impianto giudiziario dell’intera vicenda Moro, caratterizzata dalla segmentazione e dalla parzialità di indagine. È sempre mancata una visione unitaria. Questo, naturalmente, non per la cattiva volontà degli uomini, ma per la logica delle competenze territoriali. Quelle, per esempio, che hanno impedito alle procure di Milano, Firenze e Roma, ognuna per propri motivi, di sviluppare un unico disegno investigativo con un unico filo conduttore. Anzi, a questo proposito sottolineo che proprio quando la nostra Commissione aveva trovato questo bandolo della matassa, dando una prospettiva unitaria al caso, i magistrati di Roma hanno chiuso le indagini, interrompendo il discorso».
Tra gli aspetti mai chiariti c’è sicuramente la figura del «grande vecchio» nell’orbita delle Br.
«Ricordo le parole di Scalfaro, “abbiamo messo in carcere i colonnelli, ma forse i generali sono ancora liberi”.
Ci chiedevamo se davvero personaggi come Morucci e Faranda potessero tenere in scacco lo Stato, ma tra le Br non mancavano personaggi di levatura intellettuale adeguata, mi riferisco per esempio ad Enrico Fenzi, nel vertice dell’organizzazione, uno dei maggiori studiosi di Dante in Italia. Casomai, più che un grande vecchio, bisognerebbe cercare di capire il vero ruolo di questi personaggi non di primo piano».  Poi c’è il tema delle contiguità, vere e presunte.
«Credo che le impunità e l’opacità che hanno accompagnato questa vicenda possa rientrare in una logica di contrasto al fenomeno Br e alla sua neutralizzazione. Il metodo contrario è molto nobile, ma scarsamente realizzabile in una situazione del genere. Restano molto illuminanti le parole del generale Dalla Chiesa a Rognoni: abbiamo fatto pochi filtraggi, avvalendoci soprattutto di attività di penetrazione negli ambienti contigui alle Br, la grande impresa, l’università e il sindacato».
Cosa pensa ad oggi della “doppia trattativa”, per la liberazione di Moro e per il salvataggio delle sue carte?
«Credo ancora che il successo della seconda abbia potuto causare il fallimento della prima. È certo che le Br hanno mentito e dato una versione non verosimile sugli ultimi giorni di Moro, non è vero per esempio che gli avevano comunicato l’intenzione di ucciderlo. Nel suo memoriale lui aveva sancito la sua morte politica, con l’uscita di scena e lo screditamento del sistema, in primis di Andreotti e Berlinguer, che era funzionale alle Br ma non certo al sistema stesso. È talmente vero che è noto come Moro libero sarebbe stato un problema nell’immediato, tant’è che Cossiga aveva pronto il piano Viktor per farlo passare dalla prigionia ad una clinica, senza farlo nemmeno parlare coi magistrati, finché non ci fossero le condizioni politiche per il suo ritorno sulla scena. Malo stesso Cossiga ha detto più volte “lo abbiamo ucciso noi”, nel senso che la sua liberazione sarebbe stata più costosa della sua morte».
Che domande si dovrebbe porre la nuova Commissione? «Per esempio, le condizioni della sua prigionia che non sono state certo anguste come poteva sembrare. Lo stato del suo corpo parla: l’autopsia ha escluso che Moro possa essere stato tenuto in Via Montenevoso così come si voleva far credere. Oppure i segreti di cui era a conoscenza».
Cioè?
«Si è cercato di far credere che Moro non fosse a conoscenza di nessuna informazione chiave, ma era solo controinformazione. In realtà, di certo era al corrente di informazioni importanti sulla sicurezza dell’Occidente e tutte le centrali di potere, a Ovest come ad Est del mondo, avevano interessate a carpire notizie. Ricordo quello che mi disse in via confidenziale l’ammiraglio Martini, cioè che durante la prigionia di Moro era sparita dalla cassaforte del ministero della Difesa una delle due copie del piano “Stay Behind”, l’altra era nell’ambasciata italiana a Londra. Il documento è ricomparso altrettanto misteriosamente qualche giorno dopo. Non è certo da escludere che possa essere stato offerto alle Br come prezzo per liberare Moro».

l’Unità 17.3.14
Le ceneri di Capponi e Bentivegna senza un cimitero
di Rachele Gonnelli


Quando la memoria brucia troppo, non dà pace o si vuol solo rimuovere, allora acqua a lenire e quindi fiume, mare. Le ceneri di Rosario “Sasà” Bentivegna e di Carla Capponi - personaggi chiave della Resistenza romana - potrebbero finire così, sparse nelle acque del Tevere. È la figlia dei due gappisti, marito e moglie, Elena Bentivegna, a dare per più che concreta questa possibilità, visto che finora non è riuscita a rispettare le loro volontà per la dimora finale da dare alle loro spoglie. Loro volevano andare a riposare nel cimitero acattolico di Porta San Paolo, laddove erano iniziate le loro azioni, non lontano dalla tomba di Antonio Gramsci. Un cimitero curato come un giardino di cipressi e mirti, dove sono sepolti poeti come Keats e Shelley, ma anche Emilio Lussu, Luce d’Eramo e più di recente Luigi Pintor e Miriam Mafai. «Se tu non dovessi riuscire a metterci là - raccomandavano i due all’unica figlia - allora butta le nostre ceneri nel Tevere, per attraversare Roma un’ultima volta e finire insieme al mare». Elena racconta di averglielo sentito dire più volte. Perciò a pochi giorni dal settantesimo anniversario di via Rasella (23 marzo) e della rappresaglia tedesca alla Fosse Ardeatine (24 marzo), Elena si consola immaginando più che un corteo un accompagnamento di tutti quelli che hanno ancora a cuore la memoria di suo padre e sua madre a questo suo gesto di gettare il contenuto delle due urne nelle acque della storia dall’ argine dell’Isola Tiberina o dalla spalletta di ponte Milvio. Per la verità è un’ipotesi estrema - questa del «gettarli al fiume» - e anche triste se si pensa che Carla Capponi, morta il 23novembre del 2000,ha avuto un funerale di Stato, è medaglia d’oro al valor militare, è stata due volte parlamentare della Repubblica - seconda più votata del Pci dopo Enrico Berlinguer - tre volte eletta in Campidoglio. O ricordando che “Sasà”, il gappista che portò l’esplosivo destinato al battaglione Bozen, ha poi supportato gli alleati nella battaglia di Cassino e in seguito ha partecipato alla guerra in Jugoslavia e perfino ad un tentativo di insurrezione contro il regime dei colonelli in Grecia con la figlia. Nel 2007 si era iscritto al Pd, è morto pochi anni dopo, il 2 aprile del 2012, con molti timori - racconta Elena - per i germi di un fascismo che vedeva riemergere. La famiglia, del resto, è sempre stata bersagliata da attacchi vandalici, lettere minatorie, scritte di insulti. Tanto che ora Elena ha paura di tenere in casa le urne con le ceneri dei genitori. «Qualcuno mi è entrato in casa pochi giorni fa - denuncia - e mi ha rubato un bauletto di caramelle che poteva sembrare un’urna. O forse sono io che sto andando in tilt dopo tutta una vita che mi minacciano e mi lanciano le solite offese». Anche il quotidiano Il Tempo aveva chiamato i genitori «assassini, massacratori». La causa per diffamazione che Elena ha ereditato, vinta in Cassazione, le è costata il quinto dello stipendio, 50mila euro mai risarciti. «Ormai non mi aspetto più niente di buono, le istituzioni si sono dimenticate di noi», dice con amarezza.
Esiste nella parte storica del cimitero del Verano una tomba che potrebbe ospitare Carla e Sasà ma appartiene a tutta la famiglia Bentivegna. E il nome di Carla Capponi potrebbe risultare oscurato o addirittura ingombrante per gli altri eredi. Poi c’è il sindaco di Monterotondo che si è reso disponibile a cercare una soluzione in loco, lontano però dalla memoria viva di Roma. Il problema è complicato dal fatto che Elena Bentivegna, psicoterapeuta in pensione, è malata da tempo di sclerosi multipla, cardiopatica grave, si sposta solo in sedia a rotelle. Vorrebbe riunificare i suoi genitori e dare loro il posto che meritano e volevano, ma non può farlo da sola. In più, c’è che il cimitero acattolico - il luogo desiderato - ha una gestione particolare, legata soprattutto all’ambasciata inglese. Gli enti locali - Comune di Roma e Regione Lazio, amministrati da giunte di centrosinistra - potrebbero far pressione, anche se al momento non risulta un loro interessamento concreto. E quand’anche fosse non è detto sarebbe risolutivo. Anche se l’Anpi provinciale è intervenuto in questi giorni auspicando che il Campidoglio trovi il modo perché le salme dei due partigiani siano tumulate nella capitale, dove hanno combattuto «dando il loro prezioso contributo alla sua liberazione».
Chi si è interessato di più al caso è la Comunità ebraica romana, per tramite dell’artista Georges De Canino, amico della coppia e della figlia. «Noi ebrei siamo gli unici a non aver paura della memoria - sostiene De Canino ricordando i 75 martiri ebrei delle Fosse Ardeatine - mentre sui combattenti, carabinieri o gappisti, c’è una rimozione generale. È più facile pensare alle vittime, come ha sempre fatto la Dc». Imbarazzi, rimozione, persino due processi per «atto di guerra illegittimo», alla fine vinti. Di certo la memoria di Carla e Sasà non è per chi della Resistenza vuole una cartolina stereotipata e confettosa.

Corriere 17.3.14
Via agli interrogatori dei clienti. Le minori: così si entrava al motel
Floriani e Mussolini a messa Il parroco: «Fra loro c’è unione»
di Fabrizio Caccia


ROMA — «Tra i due non c’è conflitto, ma ancora unione», confidano sommessamente i preti della parrocchia di Sant’Ippolito, vicino a piazza Bologna, dove ieri mattina alle 10.30, a sorpresa, sono arrivati insieme per assistere alla messa Alessandra Mussolini e Mauro Floriani, la coppia che era data ormai in frantumi dopo la vicenda delle baby squillo dei Parioli e che invece resiste, malgrado tutto, a testa alta.
Mussolini e Floriani sono sposati dal 28 ottobre del 1989 e, a pochi mesi dalle nozze d’argento, ieri dopo la fine della cerimonia, sono andati a salutare il celebrante, don Mauro Cianci, 50 anni, il parroco di Sant’Ippolito che è anche un loro caro amico di famiglia. Quindi, sempre insieme, hanno partecipato alla piccola festa organizzata dalla comunità per salutare don Jeremia Niaga Mugo, che tornerà presto a casa sua, in Kenya. Un brindisi augurale che è servito a riportare un po’ il sorriso sui loro volti segnati dalla grande tensione di questi giorni, anche grazie alla presenza dell’allegro e nutrito gruppo degli scout, di cui fa parte la figlia primogenita, Caterina Floriani Mussolini, 18 anni, pronipote del Duce, studentessa di Scienze Politiche alla Luiss.
La chiesa di Sant’Ippolito era piena, quasi duecento persone, ma in pochi si sono accorti della coppia, piuttosto defilata vicino al coro. Mussolini e Floriani hanno ascoltato in silenzio le parole della Genesi, i Salmi, la seconda lettera di San Paolo apostolo a Timoteo, quindi il Vangelo secondo Matteo. Nessuno alla fine li ha visti andar via, sfuggiti pure ai numerosi paparazzi appostati da una settimana nelle vie del quartiere Nomentano-Italia, intorno alla casa della coppia illustre: «Le vie della Parrocchia, come quelle del Signore, sono infinite...», scherzava don Mauro, il parroco, a fine giornata .
Oggi in tribunale, a piazzale Clodio, cominceranno gli interrogatori dei clienti delle prostitute-bambine dei Parioli. Al momento gli indagati sono 22 (compreso Mauro Floriani, per cui si profila il giudizio immediato) ma al termine degli accertamenti della Procura sul registro finiranno iscritti almeno 50 nomi, alcuni dei quali ancora in corso di identificazione. E dalle pagine del verbale dell’incidente probatorio emergono nuovi racconti shock da parte di Angela e Aurora, le due ragazzine sfruttate: «Quando andavamo in motel i clienti prendevano le stanze che davano sull’esterno, noi aspettavamo fuori che ci aprivano la porta e poi entravamo. Così non dovevamo passare per la hall e non dovevamo dare i documenti, avrebbero visto che eravamo minorenni». Ovvio il sospetto: dunque, i clienti sapevano ?

Corriere 17.3.14
Troppi divieti al diritto di cronaca
di Caterina Malavenda

Avvocato, specialista in Diritto dell’informazione

Caro direttore, il Garante della privacy ha deciso di modificare il codice deontologico dei giornalisti, allegato alla legge sul trattamento dei dati personali. A regole condivisibili e rodate, ne aggiunge altre, alcune delle quali rischiano di complicare ulteriormente la vostra vita e meritano, perciò, qualche riflessione.
Chi fa informazione può trattare quei dati, anche i più sensibili, senza il consenso del titolare, ma con le modalità stabilite appunto dal vigente codice deontologico, la cui violazione può generare già oggi gravi conseguenze e sul quale il Garante ha deciso di intervenire, per adeguarlo «alle mutate sensibilità», anche tenuto conto «delle implicazioni che l’evoluzione tecnologica ha sul modo di fare informazione.
Una spiegazione che non giustifica, però, l’introduzione di ulteriori e serie limitazioni al diritto di cronaca. Il presupposto perché il giornalista possa utilizzare i dati altrui è e rimane l’essenzialità dell’informazione che essi debbono corroborare. Si tratta evidentemente di un limite assai vago per chi deve osservarlo e, soprattutto, suscettibile di valutazioni opinabili, da parte di chi — Garante o Tribunale — deve giudicarne il rispetto, sulla scorta di divieti generali e deroghe eccezionali, su cui il nuovo codice deontologico interviene ancor più incisivamente, rischiando di limitare troppo la circolazione delle notizie e di generare, a titolo precauzionale, una prudenziale autocensura, a scapito della completezza dell’informazione, importante tanto quanto la sua essenzialità. Il Garante codifica, così, per la prima volta, il diritto all’oblio, aggiungendo agli inediti e condivisibili obblighi, su richiesta dell’interessato, di aggiornare i dati, conservati negli archivi e di deindicizzare articoli assai datati, anche quello, assai meno condivisibile, di evitare ogni riferimento a particolari, relativi al passato «quando ciò non alteri il contenuto della notizia»; o persino, a distanza di tempo, l’obbligo di non citare il condannato, se ciò può incidere sul suo percorso di reinserimento sociale, senza alcuna eccezione.
Una coltre di silenzio potrebbe calare così sul passato di personaggi pubblici, ancora sulla scena e certo pronti a sostenere che una certa vicenda o una antica condanna siano oramai acqua passata ed a chiedere pesanti sanzioni per chi abbia osato rivangarle.
Davvero sorprendenti sono poi i limiti introdotti, per via amministrativa, alla cronaca giudiziaria, là dove persino la politica si era fermata. Così il giornalista dovrà tacere l’identità di chi è stato sentito in un procedimento giudiziario, a meno che sapere chi è non sia necessario per comprendere la notizia; ma soprattutto e questa volta senza nessuna eccezione, non dovrà consentire l’identificazione delle persone, a qualunque titolo citate negli atti del procedimento, ma non coinvolte, mentre nel citare gli indagati, «valuta comunque i rischi». Non è peregrino immaginare la schiera di coloro che sosterranno, a pieno titolo, l’inutilità e, quindi, la illegittimità della diffusione della loro identità.
Attenzione anche alla divulgazione degli atti di un procedimento, in particolare le intercettazioni: necessario evitare ogni riferimento ai soggetti «non interessati», salvo che sussista, concetto del tutto inedito, «un eccezionale interesse pubblico»; e privilegiare la pubblicazione del contenuto degli atti, in luogo del loro tenore letterale, quando «non sia compromesso il diritto di cronaca».
La struttura del nuovo codice è, dunque, omogenea, una somma di divieti chiari e di facoltà di deroga, dai contorni assai sfuggenti e dalla cui corretta interpretazione dipenderà la sorte del giornalista. Il trattamento dei dati, in violazione del codice deontologico, infatti, sotto il profilo delle conseguenze, equivale al trattamento senza il necessario consenso, un reato procedibile d’ufficio, punito con la reclusione — senza che nessuno si sia finora stracciato le vesti — se il giornalista lo ha commesso per ottenere un profitto per sé, quale può essere una promozione; o per altri, ad esempio per l’editore che, da uno scoop , trae un utile proporzionale al maggior numero di copie vendute.
È poi condotta pericolosa che causa sempre danni, salvo che si provi il contrario, che il giornalista e l’editore dovranno risarcire; ed è illecito disciplinare sanzionabile, nei casi più gravi, con la sospensione o la radiazione dalla professione.
Serve altro, per dissuadere anche i giornalisti più coraggiosi?

Corriere 17.3.14
Il teatro-gioiello di Eraclea si sbriciola prigioniero di acciaio e vetroresina
Sotto le coperture sui gradini erano cresciute le piante. Ora è una giungla di tubi
di Gian Antonio Stella


C’è da avvampare di vergogna, a vedere com’è ridotto lo stupendo teatro greco di Eraclea Minoa. La «pensata» di chi mezzo secolo fa suppose di difenderlo facendogli una mantella di plexiglass si è rivelata un disastro. E lo scheletro dell’osceno «parapioggia» successivo, semidistrutto e sgangherato, resta lì, spettrale. A inorridire i turisti. Scossi dallo spreco di tanta bellezza.
Hanno qualcosa del fascino di capo Sounion, queste rovine alte sul mare a metà strada tra Agrigento e Sciacca. Se in punta all’Attica svettano solenni sull’Egeo le colonne dell’antico tempio a Poseidone, qui domina la magia del teatro. Un teatro che, a dispetto dei precetti di Vitruvio, fu costruito tra il quarto e il terzo secolo avanti Cristo come ad Atene e Siracusa, cioè con la cavea aperta a Sud. Spalancata sul fantastico mare blu nel quale, lontano lontano, in certi giorni limpidissimi, si vede perfino il profilo di Pantelleria. Un sogno.
La costruirono proprio in un gran posto, l’antica Eraclea Minoa, fondata probabilmente nel VI secolo a.C. da coloni della vicina Selinunte e difesa un tempo da una imponente cinta muraria lunga almeno sei chilometri. Ritta e solenne sul promontorio che oggi si chiama Capo Bianco e che si staglia con le sue pareti bianche verticali, guardando il mare, a sinistra della foce del fiume Platani. Sopra una spiaggia lunga lunga protetta alle spalle da una pineta così bella da nascondere in parte perfino gli insediamenti edilizi.
Il teatro, però, è fragilissimo almeno quanto è bello. Individuato nel Settecento ma portato alla luce solo nel 1953, mostrò subito d’aver bisogno di cure. Non è di marmo, infatti. Né di pietra dura. I gradoni dei nove settori arrivati fino a noi sono infatti in conci di «marna arenacea». E la marna, spiega la Treccani, è una roccia argillosa che può essere tenera (come qui) e viene usata per la fabbricazione del cemento e della calce idraulica: «Un problema grosso», spiega Caterina Greco, sovrintendente di Agrigento dopo essere stata a Selinunte dove riuscì a vincere la battaglia per togliere le impalcature che da 11 anni ingabbiavano il tempio C, «sotto il vento si sfarina e quando piove si “impacca” come se fosse gesso».
Appena se ne accorsero, a metà degli Anni 50, si chiesero: cosa fare? La prima soluzione, proposta dall’Istituto centrale del restauro, fu una spennellata di resina speciale per rendere i gradoni impermeabili in eterno. Macché: un fallimento. La seconda soluzione fu avanzata dall’architetto viterbese Franco Minissi. Il quale scelse di coprire «integralmente la cavea con una sorta di vetrina incolore e trasparente in loco».
Lo racconta, riprendendo le sue parole, l’archivio degli architetti (architetti.san.beniculturali.it) dove Minissi si loda e s’imbroda spiegando che «aveva già sperimentato l’uso del plexiglass su monumenti archeologici» e che è «a Eraclea che il suo obiettivo di rappresentazione del modello originario si espletò nella maniera più compiuta» e «il disegno delle sagome raggiunse qui la massima precisione» e la ricostruzione riuscì «perfettamente incolore e trasparente». E giù elogi alla «perfetta tenuta delle saldature delle lastre» e «all’isolamento termico e alla areazione della camera d’aria risultante tra le superfici del monumento e la copertura in perspex» e «ai sistemi per evitare ogni infiltrazione di acqua e di vento»...
I risultati sono quelli che vedete in una delle foto. Un paio di decenni e i gradini «perfettamente incolori e trasparenti» erano già giallastri. Ma soprattutto, nella intercapedine tra quei gradini di plexiglass (sorretti da 700 pali conficcati nella carne stessa del teatro con trapani dalla punta spropositata!) e i sottostanti gradini di marna, erano cresciute piante abnormi esasperate d’estate dal caldo torrido e nei mesi piovosi da una condensa di umidità pazzesca. Conclusione: i gradini si erano decomposti.
Fu così che, pensa e ripensa, nel ‘95 rimossero una parte di quella copertura insana, disboscarono la giungla cresciuta sotto, ripulirono quanto restava della gradinata. Finché si decisero a togliere tutto. E ora? Pensa e ripensa nuovamente, nel ‘99 scelsero di coprire tutto il teatro con una specie di parapioggia che seguiva le forme della cavea. Un ammasso orrendo di tubi Innocenti e pannelli che, spiega l’ex sindaco Cosimo Piro, il quale proprio sul teatro si è laureato (sia pure tardivamente) in architettura, «doveva servire solo il tempo necessario agli operai per fare tutti i lavori di riparazione e protezione con un nuovo tipo di “silicato di etile”. Solo che, come tante cose in Italia e soprattutto in Sicilia, il provvisorio è ancora là...».
Peggio: quella specie di osceno parapioggia sorretto da un inestricabile groviglio di tubi e di snodi perde i pezzi da anni e oggi perfino la sua unica funzione, quella di proteggere il teatro dall’acqua è venuta meno. «È una vergogna da rimuovere prima possibile», ha chiesto il sindaco di Cattolica Eraclea, Nicolò Termine, in un’intervista a Calogero Giuffrida, del Giornale di Sicilia. «Per valorizzare al meglio il nostro bene culturale più prezioso ma soprattutto per proteggerlo, perché l’attuale impalcatura anziché tutelarlo lo sta ulteriormente rovinando».
L’assessore regionale ai beni culturali, Mariarita Sgarlata, è d’accordo. E insomma non ce n’è uno che ancora difenda quel mostro di acciaio e vetroresina. Va tolto. Ma poi? Questo il problema: poi? Stringi stringi, dopo i danni inferti a quell’opera meravigliosa da decenni di interventi improvvidi, le ipotesi sono tre. La prima: togliere l’atroce parapioggia di oggi e lanciare un grande concorso internazionale per proteggere con un nuovo contenitore (una mezza cupola spalancata verso il mare?) ciò che resta del teatro. La seconda: rifare la cavea del teatro, con amore e con garbo, in marmo scegliendo (con orrore dei puristi più ortodossi) di dare la precedenza non alla sacralità intangibile della marna originale ridotta a poltiglia solidificata ma all’idea antica di «quel» teatro, costruito in «quel» luogo, davanti a «quel» panorama. È irragionevole? La terza: seppellire tutto e lasciarlo lì, accontentandoci del ricordo di un francobollo celebrativo, finché i nostri figli o i nostri nipoti non avranno studiato bene cosa fare.
E proprio questo, spiega il professor Bruno Zanardi, intervenuto tra l’altro su due gioielli quali la Colonna Traiana e l’Ara Pacis, è il nodo: «I dubbi sul teatro di Eraclea Minoa racchiudono uno dei grandi problemi italiani. Cioè che da troppo tempo, da noi, non si studiano questi temi con la necessaria scientificità. C’è fretta di decidere, di colpo, su quel teatro. Ma la cultura scientifica su queste cose è in drammatico ritardo».

l’Unità 17.3.14
Nell’ultimo decennio i diplomati sono calari del 6% e il Pil è fermo sotto il 3%. Un caso?
Meno istruzione meno Pil: è crisi capitale umano
di Carlo Buttaroni

presidente Tekné

In Italia, negli ultimi cinquant’anni, la crescita dei livelli di scolarizzazione e l’andamento del Pil sono andati di pari passo. Negli anni Sessanta, i diplomati nelle scuole secondarie superiori sono cresciuti del 105% rispetto al decennio precedente, con una crescita del Pil del 56%. Negli anni Settanta, il numero di diplomati è cresciuto del 91% e il Pil del 45%. Tendenza positiva proseguita fino al 2000, anno in cui è iniziata un’inversione di tendenza che ha visto, nella decade 2000-2010, un calo del numero dei diplomati del6%rispetto al decennio precedente e il Pil fermo sotto il 3%. Un caso? Non proprio. L’istruzione, nelle economie avanzate, è il più importante fattore di crescita. Proprio come per gli investimenti in «capitale fisico», un Paese investe in istruzione e formazione per migliorare il proprio «capitale umano» sostenendo dei costi che in futuro si trasformano in maggiori guadagni.
Se si analizza la capacità di creare valore aggiunto, cioè l'incremento di valore che si verifica nell' ambito dei processi produttivi a partire dalle risorse iniziali, ci si rende conto che l’elemento della «competenza» è fondamentale, perché si traduce in migliore qualità dei beni e servizi, insieme da performance produttive più alte.
I differenziali di conoscenza incidono sulla competitività più dei costi di produzione che, seppur rilevanti, hanno una valenza che si misura soprattutto nel breve termine, mentre il miglioramento degli standard produttivi, ottenuti attraverso l’aumento delle conoscenze e delle competenze, migliora la competitività nel lungo periodo. Il livello di capitale umano, dunque, è un fattore decisivo per la crescita economica di qualunque Paese. Ed è anche un fattore attrattivo degli investimenti esteri, diventati, in questi ultimi anni, la principale leva di finanziamento dello sviluppo.
Agli inizi degli anni ’70, i paradigmi della finanza sono cambiati radicalmente con la scelta del governo USA di sospendere la convertibilità in oro del dollaro. Una decisione che ha azzerato gli accordi di Bretton Woods del 1944 che limitavano la circolazione dei capitali. Da quel momento, enormi quantità di ricchezza sono uscite dai radar dei governi nazionali e hanno iniziato a muoversi a livello globale. Oggi, per esempio, le grandi centrali finanziarie mondiali possono scegliere se sostenere il debito pubblico di un Paese e questa decisione, al netto delle speculazioni, dipende dalla capacità di trasformare il debito in crescita. Una scelta che avviene tenendo in considerazione, come variabile fondamentale, il potenziale produttivo di un Paese e la sua capacità di generare valore aggiunto. I grandi fondi di private equity mondiali, che raccolgono risorse in tutto il mondo e hanno portafogli d’investimento di centinaia di miliardi di dollari, finanziano imprese che operano nel campo della meccanica di precisione, del chimico, del farmaceutico, dell’high-tech, in base a parametri dove il «capitale umano» non conta meno del costo del lavoro.
Un elevato livello di capitale umano, alimentato da una costante crescita delle conoscenze e delle competenze, rappresenta, infatti, il presupposto di miglioramenti continui degli standard produttivi e nella capacità di creare valore. Oltretutto, attraverso il movimento internazionale dei capitali, è possibile incrementare il trasferimento di nuove conoscenze e tecnologie ottenendo un progressivo avanzamento della frontiera della produzione. Investire in conoscenza, quindi, conviene all’intera economia di una nazione. A livello globale, gli investimenti in conoscenza vedono in prima fila le economie emergenti, che stanno scalando le classifiche mondiali non solo in termini di Pil ma anche di livelli d’istruzione e qualità delle università.
L’Italia, invece, sta perdendo questa sfida sul futuro, non solo a livello mondiale ma anche all’interno dell’Europa. I dati sul livello del capitale umano delle persone occupate nel nostro Paese misurato ad esempio attraverso il livello d’istruzione degli occupati non sono confortanti, soprattutto se confrontati con quelli della media europea. E ancor più sconfortanti sono quegli indicatori che la Ue utilizza come obiettivo strategico per il 2020.
Nell'Europa dei 27 l'Italia è terza per quanto riguarda la quota dei NEET, i giovani che non lavorano, non studiano e non sono impegnati in percorsi formativi. Un primato negativo che ci vede preceduti solo da Grecia e Bulgaria. Un paese, il nostro, a fondo scala per quanto riguarda la classifica sull' istruzione universitaria, nel gruppo di testa per l'abbandono scolastico e al 16° posto in merito alle competenze matematiche dei nostri studenti. La Strategia di Lisbona aveva posto, tra i cinque obiettivi da raggiungere entro il 2010, la riduzione al 10 per cento della quota di giovani che lasciano la scuola senza un adeguato titolo di studio, e il piano «Europa 2020» ha posto il tetto di almeno il40 per cento di giovani che ottiene un titolo di studio universitario. L’Italia ha fallito il primo obiettivo ed è assai lontana dal raggiungere il secondo. Una condizione che non stupisce, perché l'Italia è nella parte bassa della classifica anche per quanto riguarda la spesa pubblica per l'istruzione e la formazione, ben al di sotto la media europea. E gli esempi non mancano: la Danimarca, per citarne uno, investe una quota pari al 7,8% del PIL, contro il 4,2% dell’Italia. Un’impostazione, la nostra, che nel medio/lungo periodo porterà a un minore tasso di sviluppo dell’Italia anche rispetto ai propri partner europei, con un conseguente deterioramento dei processi produttivi.
L’Italia, quindi, se non cambia strada, si andrà ad attestare su livelli di competitività più arretrati rispetto agli altri Paesi dell’Unione Europea, con conseguenze inevitabilmente negative sui tassi di crescita economici. Nelson Mandela ricordava spesso che «L’istruzione e la formazione sono le armi più potenti che si possono utilizzare per cambiare il mondo» e, sicuramente, sono l’unico strumento per non scivolare verso un futuro assai meno glorioso del nostro passato. Senza istruzione manca la conoscenza di base necessaria per il progresso tecnico e scientifico, ma anche per quello umano, senza il quale ogni forma di progresso rischia di rimanere sterile e priva di frutti.

l’Unità 17.3.14
Sergio Cofferati: «Ora tutti hanno capito i danni prodotti dalla Troika»
di Carla Attianese


STRASBURGO. Con un voto schiacciante e trasversale, nell’ultima plenaria di Strasburgo, il Parlamento europeo ha approvato due rapporti di indagine sul ruolo e sulle operazioni svolti dalla cosiddetta Troika (Bce, Commissione europea e Fondo monetario internazionale) nei Paesi Ue sotto assistenza finanziaria (Grecia, Irlanda, Portogallo e Cipro).
Cofferati, nei due rapporti la Troika è indicata da tutto l’Europarlamento come la responsabile di uno “tsunami sociale”.
«Sì, le due direttive contengono elementi di critica molto forte all’operato della Troika ed è una novità positiva e importante che si sia creato uno schieramento così ampio. Non era scontato: qualche mese fa non ci sarebbe stata una maggioranza di tali dimensioni». Cos’è cambiato? «Sono diventati evidenti anche agli occhi dei più cauti i pesanti e distorsivi effetti che gli interventi della Troika hanno innescato. È stato avviato un processo di risanamento ma con danni sociali rilevantissimi, con la perdita del lavoro per milioni di persone e quindi il peggioramento delle condizioni di vita».
Nei Paesi in cui la Troika ha imposto la sua cura la disoccupazione è quasi triplicata. Il paradigma è rovesciato: persone al servizio dell’economia e non viceversa.
«La Troika ha esalta to la linea del rigore senza accompagnarla con azioni in grado di contenerne gli effetti negativi. Il risanamento dei conti, che pure c’è stato, ha prodotto un vero e proprio sgretolamento, con un aumento esponenziale delle difficoltà e un cambiamento della vita in peggio».
Quali effetti avranno le due direttive?
«Per il futuro, anche alla luce dei giudizi netti contenuti nelle direttive, questi interventi dovranno essere fatti innanzitutto cambiando i soggetti, con una istituzione europea appropriata - il Fondo monetario europeo - ma soprattutto cambiando la mentalità e attuando politiche equilibrate. Più che un problema di maggiore o minore coinvolgimento delle istituzioni europee, è un problema di cambiamento di linea politica. Stop al rigore, sì a sviluppo e investimenti».
Per un cambio di clima sarà fondamentale il risultato delle elezioni europee di maggio, in cui i cittadini potranno scegliere anche la guida della Commissione.
«Quei risultati saranno molto importanti. È necessario sconfiggere i vari nazionalismi ostili alla Ue e lavorare affinché nell’altra parte, tra chi è fautore dell’Europa, prevalgano orientamenti progressisti. Prima deve vincere chi è per l’Europa, poi devono vincere i progressisti». Detta così sembra complicata... «È una partita molto difficile, ma credo che bisogna affrontarla con determinazione, senza farsi impressionare dai nazionalismi. Ci sono sia gli argomenti che le politiche da mettere in campo».
L’Italia è ormai fuori dal “rischio Troika”?
«Il rischio potenzialmente è sempre in campo, se però proseguiamo sulla riduzione della spesa siamo sulla giusta via. Il tema della crescita vale per tutti e l’Italia non fa eccezione. È necessario stimolare la crescita con investimenti pubblici per nuovo lavoro e con la riduzione fiscale delle persone

La Stampa 17.3.14
Cancellare il 1989 Il sogno segreto dello Zar Vladimir
Vuole ridiscutere l’assetto post-Urss e allargare lo spazio russo Ma dietro l’azzardo c’è un’economia in crisi e non riformabile
di Anna Zafesova


La frontiera tra la Russia e l’Ucraina è praticamente chiusa, carri armati di Kiev si muovono verso Est, dove vengono in tutta fretta scavate trincee. Il premier Arseny Yatseniuk dice che «il rischio di un’invasione è reale». Il pretesto ieri è stato fornito da un migliaio di manifestanti a Kharkiv che hanno consegnato al consolato russo una richiesta di intervento «delle truppe di pace» di Mosca. Poi hanno assaltato il consolato polacco gridando «Kharkiv è russa» e «Il fascismo non passerà». Stessa scena a Donezk, dove i filorussi hanno fatto irruzione nella magistratura e negli uffici privati del governatore, chiedendo un referendum sulla secessione. La polizia è rimasta a osservare, nonostante il ministro dell’Interno Avakov a Kiev denunci gruppi di «organizzatori» dall’altra parte del confine che cercano di fomentare una rivolta dei russi. Anche a Nikolaev e Odessa ieri in piazza si sono tenuti «referendum» per una maggiore autonomia, ma senza spingersi a chiedere il divorzio. 
Queste poche centinaia di contestatori ricevono grande attenzione dal ministero degli Esteri russo, che ogni volta rivendica il diritto di «intervenire in difesa dei compatrioti». A Mosca politologi del regime parlano apertamente dei piani di creare due o anche tre Ucraine. E Dmitry Kiseliov, il capo della propaganda del Cremlino, nel suo talk show domenicale ieri ha minacciato: «Siamo l’unico Paese in grado di trasformare gli Usa in cenere radioattiva». Una minaccia, della guerra nucleare, che non si era sentita dai tempi di Krusciov.
Per capire se si tratta di singoli esagitati, come al solito, bisogna ascoltare una sola persona: Vladimir Putin. Che parla poco, e non si fa interrogare. Ma un’indiscrezione preziosa viene da Mustafa Dzhemilev, leader dei tartari della Crimea, al quale il presidente russo ha concesso l’onore di una telefonata per convincerlo se non a sostenerlo almeno a restare neutrale. Dzhemilev non si è fatto impressionare: esiliato da bambino insieme a tutto il suo popolo nel 1944, è cresciuto al confino e ha alle spalle 15 anni di carceri e scioperi della fame come dissidente. Ha costretto il suo interlocutore ad ammettere di fatto la presenza dei militari russi in Crimea e gli ha fatto obiezioni sull’illegalità del referendum. Putin ha risposto che «certe volte la procedura si salta». E che anche la secessione dell’Ucraina dall’Urss «non è del tutto legale». 
Finora la Russia, pur sentendosi dolorosamente ridimensionata dalla fine dell’Urss - che Putin ritiene «la maggiore catastrofe geopolitica del ’900» - appariva rassegnata all’assetto post-comunista. Oggi si sente abbastanza forte da rimetterlo in discussione, insieme agli ultimi 25 anni di storia. E questo spiega le truppe vicino alla Trasnistria, le inquietudini dei Baltici con le loro minoranze russofone, e la reticenza perfino di alleati come il Kazakistan e la Bielorussia a seguire Putin su una strada che domani potrebbe portarlo a casa loro. La diplomazia russa mette da parte i pretesti che l’ambasciatore francese all’Onu ha definito «imbarazzanti»: dalla difesa dei russi dai «nazisti» alla lettera di Yanukovich poi sparita, fino alle secessioni del Kosovo e delle isole Comore (in entrambi i casi, peraltro, Mosca era contraria). Lavrov ormai è esplicito: «La Crimea per noi è più importante delle Falkland per gli inglesi». Ammettendo che i russi non hanno mai smesso di considerarla loro, e che non si tratta di una disputa locale o di un dispetto, ma di un cambio di rotta, a costo di rinunciare al salotto bene internazionale. 
I «falchi» nazionalisti invocano il ritorno della cortina di ferro, e i media persuadono i consumatori che con le sanzioni l’industria nazionale non farà che fiorire. Ma il tasso di crescita del Pil oscilla intorno allo zero e il petrolio non basta più. Gli stessi ministri di Putin chiedono una modernizzazione che passa per le liberalizzazioni e la trasparenza, e implica di non spartire ricchezza e potere solo in un gruppo ristretto della nomenclatura. Una scelta che il Cremlino non è mai stato capace di fare. Una guerra con i «traditori» ucraini seguita dall’«accerchiamento ostile» dell’Occidente può essere utile per giustificare ai russi la fine di una ricchezza appena assaporata.

La Stampa 17.3.14
Il verdetto dello psichiatra Usa
“Narcisista e freddo, ma insicuro”
di Paolo Mastrolilli


«È un narcisista con un ego enorme, ma anche una profonda insicurezza. L’unica speranza è che la sua ambizione di essere percepito come leader globale legittimo, prevalga su quella di ricostituire l’impero russo». Jerrold Post, lo psichiatra che aveva fondato e diretto il Center for the Analysis of Personality and Political Behavior della Cia, ha fatto un profilo di Vladimir Putin, che aiuta a capire le sue motivazioni e le possibile mosse. La percezione degli americani, infatti, è passata da quella di Bush figlio, che sosteneva di aver «visto l’anima» del leader russo e di aver capito che si poteva lavorare con lui, a quella di Obama, che gli ha voltato le spalle. «Sbagliare è facile. Non bisogna scordare che Putin nasce come agente del Kgb, addestrato a mentire professionalmente. È una persona fredda, abile a nascondere i suoi sentimenti, e soprattutto le sue intenzioni».
Molto si può leggere nelle origini della persona: «Dal punto di vista fisico non è certo imponente, e questo forse ha contribuito alla sua insicurezza. Per compensare, per esempio, si è dedicato ad attività fisiche come il judo, mentre dal punto di vista emotivo è abituato a rispondere con grande aggressività alle minacce». Si è formato nel Kgb quando l’Urss era ancora una superpotenza, e qui c’è un elemento fondamentale da non trascurare mai: «Lui ha detto che aveva deciso di fare la spia, perché vedeva questo mestiere come un’opportunità per influenzare la storia. Dunque la visione del proprio lavoro, e di se stesso, è stata sempre grandiosa. Quando l’Urss è crollata, per lui si è trattato di un disastro personale, e infatti ha detto che la considera la più grave catastrofe del secolo scorso. Nella sua mente c’è la necessità di riparare questo disastro. Come uno zar dell’Ottocento, sente di avere la responsabilità del futuro di tutti i russi, e quindi l’obbligo di ricostruire la loro potenza».
Partendo da qui, secondo Post, si capisce anche il suo comportamento in Crimea: «L’Ucraina per Putin è uno snodo fondamentale: perderla vuol dire mettere l’ultimo chiodo sulla bara dell’Urss, e dimenticare ogni ambizione di rilanciare la Russia». Se ora si fermerà, o deciderà altre avventure militari, dipenderà dal complesso equilibrio fra due fattori fondamentali: «Putin vuole ricostruire l’impero russo, o quanto meno la sua influenza, ma nello stesso tempo vuole essere accettato come un grande leader mondiale legittimo. Perciò nega la realtà per giustificare le sue azioni. Se stabilirà che altre iniziative aggressive rischiano di compromettere il suo ruolo e quello della Russia, potrebbe fermarsi. Molto, perciò, dipenderà dai segnali che riceverà dalla comunità internazionale».

Corriere 17.3.14
Il trionfo in Serbia per i conservatori: avanti verso l’Europa
Ma c’è chi teme un’involuzione nazionalista
di Elisabetta Rosaspina


BELGRADO — Con quasi il 50% dei voti, vincono i conservatori, in Serbia, e il 44enne Aleksander Vucic, leader del Partito Progressista, ex nazionalista ora filo-europeista, potrà governare praticamente senza alleati con 157 deputati su 250: «Non dovrò più lottare per i voti, ma per le generazioni future», ha commentato a caldo, citando l’ex leader italiano Alcide de Gasperi. Una percentuale così alta non si vedeva dai tempi del regime di Slobodan Milosevic, nel 1990, come ha ricordato il numero due del partito, Nebojs Stefanovic, capo del parlamento a soli 37 anni. «Il miglior risultato dall’inizio della democrazia parlamentare», si è inorgoglito Vucic, dichiarandosi pronto al dialogo con gli sconfitti.
A grande distanza, con il 14% delle preferenze, si sono classificati i socialisti dell’ex premier Ivica Dacic. E superano di misura lo sbarramento del 5% Boris Tadic, ex presidente e leader del Nuovo partito democratico, l’ex sindaco di Belgrado, Dragan Djilas, dei Democratici. Fuori Vojislav Koštunica, presidente serbo tra il 2000 e il 2003. «O Vucic o i tycoon» è stato uno degli slogan del trionfatore, che ha promosso una vasta campagna contro la corruzione e la criminalità organizzata. Campagna di cui hanno fatto le spese, tra gli altri, due ex ministri del DS, il partito democratico, al potere fino a due anni fa, e l’uomo più ricco della Serbia, Miroslav Miskovic, arrestato alla fine dello scorso anno. «La Serbia continuerà il percorso europeo, collaborando con tutti gli altri Paesi amici, come la Russia, gli Stati Uniti, la Cina e i Paesi arabi», ha annunciato Vucic.
Sotto gli occhi di 556 osservatori serbi e 179 internazionali ha votato il 53% dei 6 milioni e 700 mila elettori.
Non è per niente tranquillo Nikola Barovic, avvocato e difensore dei diritti umani, molto popolare in Serbia da quando, il 16 luglio 1997, fu pestato negli studi di Bk Television , a Belgrado, dalla guardia del corpo di Vojislav Šešelj, leader ultranazionalista del partito radicale serbo, dal febbraio 2003 detenuto all’Aja in attesa del giudizio del Tribunale penale internazionale per crimini di guerra, e tuttavia capolista anche a queste elezioni: «Questo risultato è una catastrofe. Sono preoccupatissimo — dice Barovic — perché la situazione economica è disastrosa e ora è a rischio anche la cultura, oppressa dal neonazionalismo».
Le urgenze della vita quotidiana, con oltre il 22% di disoccupazione, un debito pubblico al 60% del Pil, una burocrazia che grava per 8 miliardi di euro l’anno sul bilancio statale, precedono in Serbia temi cruciali come i rapporti con il Kosovo e la marcia di avvicinamento all’Europa, avviata a gennaio con l’inizio dei negoziati ufficiali. Il Kosovo può ancora procurare grattacapi a Belgrado: «Sul tavolo ci sono la questione delle forze armate e l’arresto di politici serbi», ricorda il politologo Dušan Janjic, riferendosi alla decisione di Pristina di dotarsi di un suo esercito e alla detenzione di Oliver Ivanovic, capo della lista civica filoserba «Serbia, democrazia, giustizia», alle elezioni municipali di Mitrovica, detenuto con l’accusa di essere coinvolto nell’omicidio di dieci albanesi, 14 anni fa sempre a Mitrovica, nel nord del Kosovo. Dove ieri, comunque, circa 30 mila serbi, il 30% degli elettori, sono affluiti regolarmente ai seggi aperti per loro.

Corriere 17.3.14
La prima rivista di autori cinesi in italiano
Traduttori cercansi
di Marco Del Corona


Pechino pubblicherà una rivista in lingua italiana interamente dedicata alla letteratura cinese: la prima, esultano i curatori. Uscirà a luglio, il progetto ricalca quello di «Pathlight», trimestrale in inglese. La versione italiana, cadenza annuale, fa capo alla casa editrice Letteratura del Popolo (Renmin Wenxue). Se cinesi sono il responsabile, Shi Zhanjun, e uno dei due direttori editoriali, italiane sono l’altro direttore editoriale, Patrizia Liberati (tra le nostre più apprezzate traduttrici dal cinese, sue le versioni recenti del Nobel Mo Yan), e la vice, Silvia Pozzi (Università di Milano Bicocca). Spiegano Liberati e Pozzi: «Abbiamo deciso di dedicare il numero inaugurale alle “nuove voci”, con poesie e prose di autori mai prima editi in italiano». Alla rivista, che sarà acquistabile online e distribuita nelle università e negli 11 istituti Confucio d’Italia, aderiscono traduttori noti ma la partecipazione è aperta a chi sta fuori dai circuiti editoriali. Due racconti di Di An (nella foto) e Lu Min e sei poesie di Sun Lei sono a disposizione di chi volesse cimentarsi e verranno scelte le versioni migliori. «Inseriremo — conclude Liberati — i dettagli delle case editrici cinesi detentrici dei diritti, per facilitare i contatti con quelle italiane interessate».

Corriere 17.3.14
«Berlinguer divenne segretario perché era il più togliattiano di tutti»
Macaluso: Napolitano? Penso lascerà fra sei mesi, dopo la riforma elettorale
Mi legai a Erminia Peggio, sorella di un dirigente pci, una storia difficile
Lei si suicidò e Amendola volle che fossi accusato di scorrettezza morale
intervista di Aldo Cazzullo


Emanuele Macaluso — capo della Cgil siciliana con Di Vittorio, nel comitato centrale del Pci con Togliatti, capo dell’organizzazione con Longo, direttore dell’Unità con Berlinguer, amico di una vita di Napolitano — venerdì prossimo compie 90 anni.
Qual è il suo primo ricordo?
«Matteotti. Fu ucciso che avevo un anno, ma mio padre me ne parlava sempre».
Suo padre era antifascista?
«Fu costretto a prendere la tessera del fascio per riavere il posto in ferrovia: era stato licenziato per aver preso parte agli scioperi del ’22. Per tutto il ventennio fu inchiodato alla qualifica di manovale, anche se faceva il fuochista. Mangiava mezzo chilo di pasta e beveva un litro di vino nero di Vittoria, ma era magro come un chiodo: impalava tonnellate di carbone al giorno. Aveva fatto la Grande Guerra e iniziato a lavorare come muratore a otto anni. Sempre meglio che scendere in miniera, però».
Cosa ricorda delle zolfare?
«Entrambi i miei nonni erano minatori. Rivedo la corsa delle donne scarmigliate, dopo che si era saputo dell’esplosione di grisù, per vedere se tra i morti c’era il marito o un figlio. Io stesso sono perito industriale minerario. I figli degli operai non potevano fare il liceo».
Come divenne comunista?
«Una notte cominciai a vomitare sangue. Mi portarono in sanatorio. Tubercolosi. Mi facevano dolorose punture di aria per immobilizzare i polmoni, nella speranza che la ferita guarisse. Quasi tutti i ragazzi che erano con me morirono. Io sognavo di arrivare a trent’anni. Il sanatorio era in fondo al paese, da lontano si vedevano i passanti con il fazzoletto premuto sulla bocca. L’unico amico che mi veniva a trovare, Gino Giandone, era comunista».
Lei prese la tessera del Pci clandestino nel ’41.
«Fu un gesto di ribellione contro un mondo di una miseria e di un’ingiustizia medievali. Un giorno in miniera morirono quattro “carusi”. Nella cattedrale di Caltanissetta c’erano tre bare. La quarta rimase sul sagrato. Era morto “in peccato” perché non era sposato in chiesa. Lo rifiutarono anche cadavere!». (Macaluso picchia il pugno sul tavolo della trattoria del Testaccio, il quartiere romano dove vive. Sul tavolo fave, pecorino, sarde, e un solo bicchiere, per il vino. «Non bevo mai acqua, rovina i sapori» ).
Il primo maggio ’47 era a Portella della Gi nestra?
«No, parlai per commemorare la strage, un anno dopo. Ma ero a Villalba quando Calogero Vizzini, il capo della mafia, fece sparare sul nostro comizio. Io mi gettai a terra. Girolamo Li Causi rimase in piedi e fu ferito a una gamba. Zoppicò per tutta la vita. Un personaggio leggendario. Per i suoi comizi in siciliano arrivavano da tutta l’isola. L’ho amato molto. Come Di Vittorio, un uomo dolcissimo, e Pompeo Colajanni, “Barbato”, il comandante partigiano che liberò Torino. Lina, la mia donna, era incinta. Lui previde che avrebbe avuto due gemelli. Li ho chiamati Antonio, come mio padre, e Pompeo, come lui».
Lei e Lina foste arrestati per adulterio.
«A vent’anni Lina aveva già due figli, da un marito anziano. Andammo a vivere insieme. Ci portarono in carcere e ci diedero sei mesi, in parte condonati. Ma nel Pci non tutti furono dalla mia parte. Per un anno Paolo Robotti visse in Sicilia. Portava un busto di ferro, a Mosca l’avevano torturato per indurlo ad accusare Togliatti, che era suo cognato, ma lui aveva taciuto. Diceva: “Se lo si vuole davvero, si resiste”. Vero uomo sovietico. Robotti mangiava ogni giorno a casa nostra, e nei suoi rapporti, come lessi nel dossier Mitrokhin, mi descriveva come moralmente degenerato».
Negli Anni 60 lei ebbe un altro amore doloroso, vero?
«La relazione con Lina era esaurita. Mi legai a Erminia Peggio, sorella di un dirigente del partito, Eugenio. Ma io non ero pronto a troncare con la mia famiglia. Erminia soffrì molto. Dopo alcuni mesi si suicidò. Fu un dolore terribile».
Che ebbe conseguenze politiche.
«Giorgio Amendola chiese a Eugenio Peggio di formalizzare un’accusa di “scorrettezza morale” nei miei confronti».
Perché lo fece?
«Un po’ perché Amendola era un puritano, legatissimo alla moglie, non a caso sono morti insieme. Un po’ perché avevamo contrasti politici. Con Longo segretario, il partito era in mano a Berlinguer, capo della segreteria, a Natta e a me, capo dell’organizzazione. Ci chiamavano il “trio”. Amendola voleva spedire Berlinguer in Lombardia e me in Veneto. Longo si oppose».
Che ricordo ha di lui?
«Un grande segretario. Il più aperto a laici e socialisti, mentre Berlinguer vedeva solo la Dc. Fu Longo a portare Parri in Parlamento come indipendente di sinistra».
Giuseppe Boffa lo definì per certi aspetti il miglior segretario che il Pci abbia mai avuto.
«Ora non esageriamo. Il miglior segretario è stato Palmiro Togliatti. Un intellettuale di statura europea, uno che teneva testa a Stalin…».
Non sempre gli tenne testa.
«All’hotel Lux viveva come un prigioniero. A chi gli chiedeva di intercedere presso Stalin contro le purghe, rispondeva: “Non posso. Ma quando saremo in Europa la nostra bussola sarà la democrazia”. Nel ’49 Stalin gli chiese di andare a dirigere il Cominform. Tutti i capi del Pci, tranne Terracini e Di Vittorio, erano d’accordo. Lui rifiutò, con una lettera durissima: “Il Cominform non serve a nulla”. Sei mesi dopo Stalin lo sciolse».
Togliatti era antipatico?
«Niente affatto. Dopo l’esilio era affamato di Italia. Lo portai a Monreale e ne fu felice. Gli piacevano le trattorie romane, le passeggiate in Valle d’Aosta. Prima di partire per l’ultimo viaggio in Urss, mi chiamò da parte a Montecitorio e mi disse: “Se tardo, mandatemi un telegramma per richiamarmi con urgenza. Voglio andare a Cogne a respirare”».
Invece morì. E, dopo Longo, venne Berlinguer. Che viene considerato molto diverso da Togliatti. Non a caso ruppe con Mosca.
«Ma Berlinguer fu scelto proprio perché era il più togliattiano di tutti noi! Il suo prestigio veniva anche dal fatto che era stato Togliatti a indicarlo per il futuro del partito. Certo, non ne fu l’esecutore testamentario, seppe adattarsi alle circostanze. Ma la sua politica è tutta dentro il togliattismo: l’incontro con i cattolici, il compromesso storico, la solidarietà nazionale. Quando Veltroni disse che lui non era mai stato comunista, gli scrissi un biglietto: “Se sei andato a Palazzo Chigi con Prodi, lo devi a Palmiro Togliatti”».
D’Alema è meglio di Veltroni?
«D’Alema si è illuso di tenere tutto insieme, ma la sua politica e i suoi comportamenti hanno segnato una cesura. La loro generazione si è comportata male nei confronti di Natta, e non solo. Chi non era d’accordo era fuori. Con Berlinguer eravamo in dissenso sul rapporto con i socialisti, ma lui mantenne Napolitano capogruppo alla Camera, Chiaromonte al Senato e fece me direttore dell’Unità . Tre suoi critici».
Napolitano è stato eletto al Quirinale.
«Ma mica grazie a loro! Il candidato di Fassino era D’Alema. Diede anche un’intervista al Foglio per indicarne il programma…».
Su Craxi non aveva ragione Berlinguer?
«Craxi commise un errore capitale dopo l’89: anziché allearsi con noi, fece il Caf con Andreotti e Forlani. Ma il suo governo è stato tra i migliori della storia repubblicana. All’Unità gli sparavo contro tutti i giorni; ma aveva Visentini alle Finanze, Spadolini alla Difesa, Martinazzoli alla Giustizia, Andreotti agli Esteri. E Scalfaro, che è stato un coraggioso ministro dell’Interno».
Lei sparava anche contro Repubblica .
«Per forza. Secondo Scalfari tutto si giocava tra Craxi e De Mita. E fu proprio De Mita, dopo il crollo della Dc nell’83, a fare il nome di Craxi per Palazzo Chigi. Ricordo che Berlinguer si infuriò. Non l’avevo mai visto così arrabbiato».
Quando vide per la prima volta Napolitano?
«Nel 1950, in Sicilia. Faceva il militare. Aveva ancora i capelli. Non moltissimi però».
Quanto durerà il suo secondo settennato?
«Non ci sarà un secondo settennato. Lui stesso si è dato un tempo di 18 mesi. Ne restano poco più di sei. Credo proprio che, quando il Senato avrà approvato la riforma elettorale, si dimetterà. Non voleva assolutamente accettare la rielezione. Gli chiesero di sacrificarsi perché non c’era via d’uscita. Ora se ne sono già dimenticati».
Perché è così scettico su Renzi?
«Renzi è figlio di un’epoca che non capisco. La cultura politica non è più nulla. Tutto è comunicazione».
Chi andrà al Quirinale dopo Napolitano?
«Si aprirà un problema enorme, che tutti sottovalutano. Draghi sta bene dove sta. Monti ha fatto la sciocchezza di farsi un partitino…».
Chi resta?
«In Italia abbiamo solo due uomini in grado di rappresentarci nel mondo: Romano Prodi e Giuliano Amato. Ma Prodi non lo vuole la destra. E Amato ha nel Pd resistenze che lei non può neanche immaginare».

il Fatto 17.3.14
Intervista con Renzo Piano
“Così salveremo le nostre periferie”
 Dal suo studio di senatore diventato laboratorio per giovani architetti lancia una proposta alla politica:
“Dobbiamo dedicare i prossimi trent’anni a recuperare le aree delle città dove vive l’80 per cento degli italiani”
Ecco i punti del suo progetto. Cosa gli risponderà il Governo?
di Alberto Garlini


Le periferie. Questa è la nostra grande sfida, dobbiamo recuperarle, renderle davvero parte delle città. Negli anni ‘70 e ‘80 ci siamo battuti per salvare i centri storici, ricordo l’impegno con amici come Mario Fazio. Il cuore delle nostre città era minacciato dalle follie del Dopoguerra che radevano al suolo i quartieri storici, come via Madre di Dio a Genova. È stato un successo, perfino troppo, ora i centri storici corrono il rischio di trasformarsi in shopping center, in oasi per ricchi. Adesso dobbiamo dedicare i prossimi trent’anni al recupero delle periferie, che non devono più essere solo qualcosa che sta intorno a un centro. Questo sarà il filo conduttore del mio lavoro di senatore a vita per i prossimi dieci, vent’anni, finché non mi revocheranno il mandato”, sorride con un misto di ironia e di dolcezza Renzo Piano.
È una delle prime volte che parla del nuovo impegno, proprio dall’ufficio del Senato. Stanza G124, così si chiama anche il gruppo di giovani architetti che Piano ha messo su appena nominato. Lavorano ogni giorno. Anche quando il “capo” è in giro per il mondo.
È difficile rintracciare la stanza dell’architetto-senatore, persa nei corridoi decorati di Palazzo Giustiniani, tra uffici di ex presidenti e di altri senatori a vita. Devi seguire il profumo, quello del legno tagliato di fresco. All’improvviso ti ritrovi in una stanza diversa da tutte le altre. Le pareti sono state coperte da enormi pannelli di compensato chiaro tappezzati di progetti, di fotografie: le periferie, appunto. Torino, Roma e Catania. Nord, Centro e Sud. Poi un grande tavolo circolare con decine di sedie pieghevoli di tela. Come in un laboratorio. I paramenti del palazzo storico sono invisibili. “Le sedie degli antichi senatori erano così, degli strapuntini”, esordisce Piano con un minimalismo che ricorda le origini genovesi. Intanto la sua mano comincia a tracciare sul foglio un centro, la città, e frecce che puntano verso l’esterno. La periferia. Appunto.
Il senatore delle periferie. É questo lo spirito del suo mandato?
“All’inizio non ci avevo nemmeno pensato. Mi ricordo la telefonata del presidente Napolitano, nell’agosto scorso. Ero in taxi a New York, stavo correndo in cantiere. Mi ha fatto piacere sentire la sua voce, è una persona che ammiro. Ha cominciato a spiegarmi che cosa sono i senatori a vita, pensavo volesse chiedermi… chissà… un consiglio sui nomi ...Poi mi ha domandato se ero disponibile e sono rimasto interdetto… sono troppo giovane, ho scherzato. Prendevo tempo. Non sapevo se avrei potuto essere utile”.
Un riconoscimento dal suo Paese…
“Sì, per me è un grande onore. L’Italia è il mio Paese. Ma voglio fare qualcosa di concreto”, spiega Piano e guarda lo studio che ha messo su. Però prima di arrivare alle periferie gli sta a cuore dire cosa significhi questa carica per lui che vive gran parte dell’anno all’estero, che progetta più in America che in Italia.
Architetto, anzi, senatore, ma lei si sente ancora italiano?
“Ho 76 anni, un’età in cui si pensa alla propria terra senza retorica. Sento emergere in me il legame con la mia città, Genova. Sento dentro di me l’acqua, i colori, gli odori. I genovesi hanno una istintiva diffidenza verso la retorica, però oggi sento questo legame molto profondo e se c’è qualcosa di autentico nel tuo linguaggio, nel tuo modo di comportarti e di esprimerti, deriva dalle esperienze intense dell’infanzia e dell’adolescenza”.
Quali immagini si porta dentro della sua Genova?
“I cantieri di mio padre, che era un piccolo imprenditore edile. Poi le gite domenicali in porto, un mondo enorme, silenzioso, in perenne movimento. Il porto è un miracolo antigravitazionale: gli immensi carichi sollevati a mezz’aria dalle gru, le navi lunghe centinaia di metri, ma sospese sull’acqua. Quella lotta contro il peso per conservare la leggerezza è la stessa che dobbiamo affrontare noi architetti”.
Genova, l’Italia, eppure lei si definisce “cosmopolita”…
“Sì, ma se c’è qualcosa di universale, una miniera comune cui attingiamo tutti sono le esperienze dell’infanzia. Nel mio studio lavorano architetti di venti paesi, ma abbiamo in comune l’autenticità che nasce dalle radici”.
In Italia viene bollata come “provincialismo”.
“Lo è se diventa chiusura. Ma io mi sento profondamente local. Come diceva Calvino, ci sono due tipi di liguri, quelli attaccati al loro scoglio e quelli che traggono forza dal legame con la loro terra per scoprire il mondo”.
Non c’è il rischio di abbandonarla?
“No, è la spinta che ti dà forza. L’orizzonte ristretto ti fa nascere dentro il desiderio di scoprire. Ti fa provare una rabbia essenziale. Ma il legame resta, e ti dà solidità. Dopo Roma andrò a Los Angeles, dove abbiamo progettato la nuova sede dell’Accademia degli Oscar, lavoriamo con persone come Steven Spielberg e Tom Hanks. Ecco, anche loro sono local, hanno un legame forte con le origini. Io lo sento soprattutto nei silenzi… la sera, la mattina appena sveglio… nei momenti in cui cerchi te stesso”. E Piano tira fuori di tasca un foglietto, lo passa a Giovanna, l’assistente che lo segue sempre in Italia.
Co s ’è, architetto, il progetto di un grattacielo?
“É Oscar, chiamiamo così affettuosamente il palazzo di Los Angeles. Mi è venuto in mente un dettaglio e l’ho subito disegnato. Mi sveglio sempre su un particolare, non su un pensiero totale. E lo annoto”.
Ma che cosa c’è delle sue origini, di local, nei progetti realizzati in mezzo mondo?
“Prenda il Beaubourg… c’è qualcosa di navale nelle sue forme...come in altri progetti
L’eco delle gite in porto?
“Sì. E lo Shard, il grattacielo di Londra… è alto più di trecento metri, ma all’improvviso si ferma, come, però, se volesse continuare a crescere. Ecco quel desiderio di superare gli orizzonti imposti che ho conosciuto nella mia adolescenza. E poi la lotta per la leggerezza”.
Già, la leggerezza, ma cosa c’entra con la politica, con quella italiana? Cosa ci fa un architetto al Senato?
“Questa mattina sono passato in aula, ma mi dedico soprattutto a questo”, e indica il grande tavolo rotondo dove il giorno prima c’è stata una riunione con i giovani architetti.
Qualcuno storce il naso, sostiene che non ha senso fare senatore, pagare una persona che, per quanto prestigiosa, non può essere presente…
“Quando mi hanno affidato questa stanza e mi hanno detto “sarà sua per tutta la vita” ero perplesso. Poi mi hanno concesso di mettere i pannelli, i progetti, e mi si è sollevato il morale. Ho capito che potevo fare quello che desideravo: mettere a disposizione la mia esperienza, mi pare un modo onesto di svolgere la mia funzione. Assente? No, sono diversamente presente. Vengo periodicamente, ho tanti appuntamenti. Lavoro, più spesso fuori dell’aula. È vero, ci danno soldi, anche un po’ troppi, ma li metto tutti a disposizione del gruppo G124, i sei giovani architetti, selezionati tra 600, che studiano le periferie”.
Alla fine ci perde?
Piano sorride.
Architetto anche in Senato. Ha rinunciato a un ruolo politico?
“Mi sento diversamente politico. Sono indipendente, non indifferente alla politica”.
E il suo amico Beppe Grillo?
Piano appoggia la penna, non ha piacere ad affrontare il discorso, ma non sfugge: “L’affetto per Beppe è grande, come non voler bene a una persona come lui. Ma gliel’ho detto: devi tornare a fare il comico”.
Parliamo delle periferie?
“Sì. Quando Napolitano mi ha chiamato ho pensato: come senatore potrei impegnarmi a difendere la bellezza del Paese. Poi è nato il nostro gruppo e ho deciso di concentrarmi sulle periferie”.
Qualcuno vorrebbe raderle al suolo…
“Sarebbe un atto di violenza, di arroganza, simile a quello di chi le ha costruite”.
Come cancellare danni tanto profondi?
“Le periferie sono state costruite senza amore, senza cura per chi doveva viverci. Ma non sono tristi. Come diceva Calvino nelle Città invisibili in ogni luogo c’è un bagliore, un angolo di bellezza”.
Chissà se chi ci vive è d’accordo…
“È una bellezza che nasce dall’energia. Dalla vita. Le periferie sono la città che non sa di esserlo. Se il centro storico è il passato, i nuovi quartieri rappresentano la conquista, la speranza. Il futuro. Qui vive l’80-90% della popolazione. Dobbiamo impegnare tutte le nostre energie per recuperarle”.
Non teme che restino discorsi teorici?
“No, l’architettura può nutrirsi di filosofia, ma poi diventa assolutamente concreta. Trae spunto dai propri limiti per dare slancio alle idee”.
In tanti hanno lanciato grandi iniziative, cosa ne è rimasto? E dove trovare le risorse?
“Ecco il punto, dobbiamo puntare a un lavoro di rammendo”.
Rammendare lo Zen di Palermo, Scampia a Napoli, Tor Bella Monaca a Roma. Difficile, ci vivono milioni di persone. Bisogna recuperare il tessuto sociale, non solo quello architettonico…
“É così, e l’architettura gioca un ruolo importante. L’architettura è concretezza. Il primo, essenziale passo è portare qui le attività civiche. A New York abbiamo progettato un campus universitario ad Harlem. Nella banlieue di Parigi nascerà il nuovo tribunale. Bisogna portare nelle periferie le funzioni della città. Prima di tutto le scuole… pensate a quanto lavoro crea una scuola. E poi biblioteche, teatri, musei, ospedali, tribunali”.
Il secondo passo?
“Occorre, per cominciare, un consolidamento strutturale. Non penso a interventi faraonici, ma a quelli realizzati da imprese piccole, spesso guidate dai giovani. Immaginate che impatto avrebbe sul lavoro. Certo, oggi non è facile. Per interventi come questi si paga l’Iva fino al 22%. Bisogna riorganizzare i cantieri. Puntare a piccoli interventi anche con micro-finanziamenti”.
E gli abitanti?
“Facciamo cantieri tolleranti, come li chiamiamo noi, leggeri che non mandino via la gente durante i lavori”. Si rivolge a Giovanna: “Ti ricordi Gesuina?”.
Gesuina?
“Sì. A Otranto c’era una donna che abitava in un edificio che stavamo recuperando. Gesuina. Siamo riusciti a terminare i lavori senza allontanarla.
Terzo?
“L’adeguamento energetico. Che consentirebbe enormi risparmi, minore inquinamento e garantirebbe lavoro a industrie e piccole imprese”.
Nelle fotografie che tappezzano la sua stanza c’è un colore prevalente, il grigio…
“Quarto punto: il verde. Non è solo un fatto estetico o poetico, non è solo bellezza, per quanto importante. È assolutamente pratico: significa ridurre la temperatura d’estate di due, tre gradi. Così si abbattono anche i livelli di anidride carbonica. E si contribuisce al consolidamento del suolo, soprattutto dove, come a Genova, esiste un elevato rischio idrogeologico. In periferia c’è almeno un vantaggio, c’è più spazio, può essere occupato dal verde”.
Ma alla fine le periferie restano tali, lontane dalla città, quella vera…
“No, devono diventare parte della città. Ecco un altro punto essenziale, le piazze. Oggi o non esistono o sono piuttosto dei vuoti. Bisogna realizzarle e portarci le attività del quartiere, devono essere un luogo dove la gente si incontra e confronta. Torniamo a scuole, centri civici, teatri”.
Se solo ci si potesse arrivare…
“I trasporti. Le metropolitane, certo, ma non soltanto. Ci sono gli autobus, il car sharing, le piste ciclabili. Bisogna intervenire sulle distanze”.
Le periferie sono state costruite sulla pelle degli abitanti. Come farli partecipare alla rinascita?
“Servono processi partecipativi. Bisogna ascoltare la gente, ma non per persuaderla, per imporre progetti già decisi. Occorre ascoltare e accogliere il loro contributo”.
Rammendare le periferie. Ma come costruire quelle nuove?
“No, il presupposto del recupero delle periferie è non costruirne ancora. Bisogna crescere, ma per implosione. Completando, recuperando. Quanti edifici non utilizzati nelle nostre città”...
Stop alle costruzioni, al cemento: il ruolo della politica…
“Bisogna mantenere il primato del pubblico. Fare concorsi per i progetti, gli appalti e la diagnostica. Per rendere sicuri gli edifici sul nostro territorio”.
Bè, adesso che è senatore, può contribuire alle decisioni…
“Come senatore a vita potrei presentare disegni di legge, ma il mio ruolo è mettere a disposizione la mia esperienza. In vent’anni ospiteremo 120 architetti, poi vedremo, finché non mi cacciano io qui ci sto… siamo ironici”.
Renzi vuole abolire il Senato…
“Credo che sarà trasformato, è giusto. Spero che continui a chiamarsi Senato. Una bella cosa, come Camera Alta. L’abbiamo inventata noi, poi è stata sviluppata nell mondo, dagli Stati Uniti alla Francia”.
Renzi ascolterà le sue proposte?
“Il compito di un senatore a vita è seminare. Questo è stato un Paese disattento, ma spero che le nostre idee diventino leggi, abbiano effetti pratici. Altrimenti il lavoro andrebbe perso. E perderemmo la battaglia per le periferie”.

il Fatto 17.3.14
Quegli esperimenti riusciti
Periferie vivibili


La parola ha assunto una connotazione negativa: periferia, che deriva dal greco e poi dal latino e significa la circonferenza, quello che gira intorno a un centro. Che, insomma, circonda la città ma non lo è. Eppure gli esperimenti riusciti non mancano. C’è chi ricorda le prime periferie dell’Inghilterra industriale, con le loro casette mono o bifamiliari a schiera e il mini giardinetto. Ma anche in Italia gli esempi ci sono: nella Roma di epoca fascista fiorirono quartieri poi divenuti di pregio (Garbatella). Gli urbanisti citano esempi riusciti all’estero: i quartieri popolari Siedlung intorno a Francoforte che risalgono agli anni Venti del secolo scorso. C’è chi apprezza l’edilizia socialista delle periferie di Belgrado (Neo Beograd) e Zagabria. Più recenti il quartiere Amara Nueva, sviluppato negli anni Duemila a San Sebastian, Spagna.

il Fatto 17.3.14
Ai margini della città
Vivere ostaggi dell’esperimento di un architetto
Da Palermo a Napoli, da Roma a Firenze si vedono le ferite dei mega-complessi griffati costruiti negli anni ’60 e ’70
di Tomaso Montanari


Uno dei tanti motivi per cui è istruttivo mettere a confronto la Grande bellezza (2013) con la Dolce vita (1960) è che si può così toccare con mano quanto sia avanzata la rimozione delle periferie dall'immaginario collettivo dell'Italia di oggi. In Fellini, Roma è presente in tutta la sua scala-tura urbanistica e sociale, in Sorrentino la città si identifica con il suo centro, e con un centro liftatissimo, senza nemmeno un segno di degrado (a parte quello morale di chi lo abita). Il discorso sulle periferie sembra riservato ai tecnici, ai sociologi o agli urbanisti: e quando approda al grande pubblico lo fa semmai con un documentario (vedi il caso di Sacro Gra).
CI SONO, ovviamente, molte eccezioni, e proprio una di esse (l'indimenticabile Gomorra di Matteo Garrone, 2008), ha permesso agli italiani di ricordarsi che c'è un nesso strettissimo tra la malattia delle nostre città (le periferie) e la malattia della nostra comunità (in questo caso, la bestialità della camorra).
Ma se oggi fatichiamo a parlare di periferie, è perché gli schemi di lettura elaborati nella seconda metà del Novecento sembrano inadeguati a rendere conto della loro estrema evoluzione (o piuttosto involuzione). L'immagine classica della periferia è legata al tragico fallimento di progetti nati con intenzioni opposte ai risultati che poi si verificarono. Il Corviale di Roma (progettato nel 1972, ultimato nel 1982) nasce come una reazione 'ordinata' e pianificata al disastro dei palazzinari; lo Zen (Zona Espansione Nord) di Palermo è un'opera pensatissima di Vittorio Gregotti; le Vele di Scampia, progettate negli anni Sessanta, da Franz Di Salvo avevano l'ambizione di fare Le Corbusier a Napoli; le Piagge di Firenze, nacquero, negli stessi anni, come un quartiere modello. Eppure tutti questi quartieri sono stati clamorosi fallimenti, diventati simbolo di una convivenza ridotta a macelleria reciproca, anti-città per eccellenza: e questo è avvenuto un po' per problemi intrinseci alla progettazione, ma moltissimo per l'incapacità della politica di governare e assistere il cambiamento sociale che questi quartieri imponevano. Periferia è, letteralmente, ciò che sta intorno: e tutti questi luoghi sono stati pensati, ma non sono mai diventati, parti di un tutto orbitante intorno ad un centro.
MA OGGI è quasi impossibile parlare di periferie in questo senso classico. Oggi non siamo di fronte a progetti falliti, ma all'assenza di un qualsiasi progetto, cioè alla proliferazione cancerosa di quello che gli urbanisti chiamano «sprawl» (letteralmente: disordine): un'urbanizzazione selvaggia che consuma il suolo intorno alle città senza alcuna pianificazione. Un italiano su quattro vive o lavora in queste aree: come ha scritto l'architetto e antropologo Franco La Cecla, «la forma urbis è scoppiata. La sua espansione indefinita ne vanifica non solo i confini, ma anche il centro. Nel nuovo paesaggio di suburbi, lo spazio restante tra gli agglomerati perde il carattere di filtro e assume quello di terra di nessuno». È quello che è accaduto al Veneto (esemplare il caso di Negrar, a Verona), ma anche in Emilia o vicino a Pescara, tra Firenze e Pistoia o tra Roma e Napoli, due metropoli che si avviano ad essere «una sola disordinata conurbazione che cresce per una sorta di propagazione spontanea» (Salvatore Settis). E questo è lo scenario di un nuovo scontro: non il conflitto di classi delle vecchie periferie, ma la «guerra civile molecolare», cioè la guerriglia degli individui isolati, di cui parla lo scrittore tedesco Hans Magnus Enzensberger.
CONTEMPORANEAMENTE, anche i centri storici si trasformano in scenari dello stesso conflitto. Lo storico e sociologo americano Cristopher Lasch ha notato che fra le ragioni del deterioramento della democrazia va annoverata la «decadenza delle istituzioni civiche, dai partiti politici ai parchi pubblici, ai luoghi d’incontro informali … su di loro, oggi, incombe la minaccia dell’estinzione, man mano che i ritrovi di quartiere cedono il passo agli shopping malls, alle catene di fast food, ai take away. … Gli shopping malls sono abitati da corporazioni di transeunti, non da una comunità ... Quando il mercato esercita il diritto di prelazione su qualsiasi spazio pubblico e la socializzazione deve ‘ritirarsi’ nei club privati, la gente corre il rischio di perdere la capacità di autogovernarsi».
Tuttavia, i sindaci delle nostre città preferiscono commissionare un logo, costruire un brand, commissionare l'ennesimo lifting ai monumenti-simbolo piuttosto che porsi il problema di questi imbarazzanti cimiteri verticali per vivi che ci ostiniamo a chiamare periferie, anche se crescono ormai intorno al nulla.
Come sempre in Italia, l'unica reazione è la rimozione.

il Fatto 17.3.14
La grande bellezza dei miei novant’anni
Tra la visione di Roma e il ricordo di Napoli; i caffé a via Veneto e le giornate in Rai insieme a Gadda. La vita di uno dei maggiori scrittori italiani, Raffaele La Capria, in arte (e non solo) “Dudù”
di Fabrizio Corallo e Malcom Pagani


Superati i novant’anni e l’implicito funerale che ogni celebrazione collettiva maschera con un applauso, Raffaele La Capria aggira le trappole del quotidiano come ha sempre fatto. Placa le ansie letterarie della portiera del palazzo in cui abita da mezzo secolo rimandando a un indefinito domani dubbi, domande e soluzioni: “Dottore, mi hanno portato questo libro scritto a mano, di cosa si tratta?”, “Poi lo vediamo con calma, signora”. Agita un tesserino verde, ma nell’urgenza non dimentica i doveri dell’ospite: “Devo andare a prelevare denaro al Bancomat di Piazza Venezia, mentre aspettate posso offrirvi ristoro al bar?”. Osserva Piazza Grazioli, gli studenti che fumano all’esterno della biblioteca che confina con il palazzo in cui abita, carabinieri che assopiscono di fronte al sacrario romano di Silvio Berlusconi con la consapevolezza che non tutti i Dudù vengono per nuocere: “A Napoli chiunque ha un soprannome e io non faccio eccezione. Con la sua fantasia, mia madre passò da Raffaele a Dudù, una personcina francese che lei adorava, per puro vezzo. E siccome mia madre, invece di assolvere al ruolo, considerava i suoi bambini giocattoli, io per lei ero specie di balocco e Dudù il nome che aveva scelto in sorte per dilettarcisi”. Raffaele La Capria è un uomo minuto che ha inseguito la vetta della parola senza mai precipitare nel crepaccio di chi inciampa prendendosi sul serio. L’ironia è uno stato dell’essere e sofferenza, ricerca, disperazione o dolore – dice – se sventolati trasmutano immediatamente in parodia wertheriana: “Lo chiamo lo stile dell’anatra. Quando la osservi a pelo d’acqua, nel suo armonico nuotare, dell’incessante lavorìo sottotraccia che le permette di stare a galla non intuisci nulla. Il dovere dello scrittore è lo stesso. Giungere alla semplicità senza mostrare nulla della fatica necessaria per sfiorarla. La zampetta non si deve vedere”. Il resto del segreto, fa capire La Capria mentre il sole filtra dalle finestre accarezzando due pingui gatti indisposti a spostarsi e pronti a graffiare al primo avviso di pericolo, è nella pagina. L’unica deputata a parlare, in più di venti libri ora nuovamente raccolti e in imminente uscita primaverile, in un Meridiano. Il secondo dedicato a La Capria, curato come il precedente da Silvio Perrella. Evento raro e ripetizione anomala di un omaggio già concesso in occasione dei suoi ottant’anni. All’epoca La Capria aveva tirato fuori dal cilindro la formula esatta e la giusta distanza per commentare: “Mi vogliono ammazzare”. Un decennio dopo, mentre una parete di coste blu e dorate Mondadori incombe sulla sinistra: “Li vede questi libri? Sono stati scritti da gente che non c’è più. Sono tutti morti. Quando mi hanno detto che avrebbero fatto un Meridiano anche per me ho pensato che senza saperlo, magari, fossi morto anch’io”, La Capria rifiuta i bilanci perché ogni tempo ha la sua melodia. Anche se gli amici sono andati via, la musica non è finita: “Dopo aver compiuto 80 anni ho messo in piedi un’attività frenetica. Più avanzavo nell’età, più volevo che qualcuno si ricordasse che ero esistito”. Così ha animato cinque libri: “In cui si racconta un’esperienza letteraria, intellettuale, critica e avventurosa” e anteposto come sempre il cuore alla cerebralità: “In un’epoca in cui si preferiscono le ideologie ai sentimenti, ho sempre saputo da che parte stare”.
Scelse subito?
Secondo me la letteratura è trasmettere con le parole un’emozione. A quindici anni, mentre camminavo nella villa comunale di Napoli, con mia grande sorpresa, mi si posò sulla spalle un canarino. Tornai a casa e nel provare a raccontarlo a mia madre, mi resi conto che i termini che avevo scelto non bastavano a descrivere il batticuore e il turbamento di quell’istante. Il rimuginìo di ogni scrittore. Come faccio a commuovere chi mi legge? Come comunico davvero ciò che sento?
È stata questione di mero esercizio?
Di ricerca, attesa, riflessione. Le parole sono importanti, tutto sta a come vengono trattate, usate, collocate nella mente di chi si affida a te per trovare una chiave o la salvezza. L’esteriorità fine a se stessa, l’ho sempre avversata e criticata. Quando nel mio romanzo Ferito a morte parlo della “bella giornata”, non parlo di ’O sole mio. Dietro la cartolina c’è altro. Quando parlo di me stesso, parlo di me stesso parlando d’altro e parlo d’altro per parlare anche di me stesso.
Cosa c’è dietro la cartolina?
L’attesa di una felicità che Napoli promette e che poi non mantiene quasi mai perché nella vita dei napoletani accade esattamente quel che accade in tutte le esistenze. Aspettiamo una felicità che è sempre attraversata dalle ombre, dall’ambiguità che la bellezza trascina sempre con sé. Napoli, il luogo in cui sono nato, è una città bifronte. Come Giano ha un volto limpido e un’altra faccia che turba. Da un lato, brillano la grande simpatia degli abitanti e l’accoglienza disinteressata. Dall’altro c’è chi ti vuole fregare, c’è la camorra, ci sono le nefandezze. Mali che ammorbano tutte le grandi città, ma che a Napoli, dove le differenze di genere sono molto nette, fanno più impressione. La faccia buona è molto buona e quella cattiva, molto cattiva.
Quando Napoli va in cronaca, il suo telefono inizia a squillare.
Qualunque scusa è buona. La terra dei fuochi, lo scippo, la mozzarella alterata. È tutta una vita che mi giustifico di essere napoletano. È vero che la distanza dall’oggetto, come accade ai pittori, mi permette di leggere senza emotività le dinamiche del luogo d’origine, ma mi chiedo come mai nessuno rinfacci ad Arbasino la sua provenienza lombarda.
Le casalinghe di Voghera difettano di strumenti per leggere il presente?
Credo sia solo questione di pigrizia. Simile all’inerzia che mi voleva per forza identificare con il Jep Gambardella di Sorrentino e Servillo. Ma a parte l’insuperabile gap dell’altezza, sono molte altre cose a distanziarci. Tra me e quel personaggio non esistono affinità elettive. Se l’avessi incontrato non l’avrei riconosciuto come mio simile. Con Jep avremmo fatto una chiacchierata e nulla più.
Nel suo libro appena uscito su Roma, il cappello bianco di Jep Gambardella, lo sfondo rosso e la parola bellezza però brillano
in copertina.
Ho scritto un libro sugli anni ’60 e sulla città in cui vivo da decenni intitolandolo “Roma” senza mai pensare a “La grande bellezza” Nel periodo in cui le bozze sono in mano all’editore accade l’imponderabile. Il film ottiene il successo che conosciamo e una bella mattina mi vedo consegnare il libro con un cappellino e la parola bellezza stampati a caratteri cubitali. Mi sono opposto con tutte le mie forze in nome della letteratura. Non volevo che il libro venisse considerato la ruota di scorta di un'altra opera. Ho detto: “Ma scusate, non basta Raffaele La Capria?” e in risposta ho visto facce tristi: “Fai come vuoi, ma così perdi un’occasione”.
Alla fine ha vinto l’editore. Il libro in classifica vola.
Di fronte a certi obblighi mi sono sempre ritratto. Con il mio secondo libro, Ferito a morte, vinsi il Premio Strega ed ebbi una certa notorietà, ma rifiutai di sfruttarla. Mi dissi “aspetto” e persuaso che il percorso di uno scrittore non possa coincidere con la fortuna stagionale, mi fermai per dieci anni. Ma il tempo corre, non è più il 1961 e questa volta mi sono fatto convincere. Gli editori hanno avuto ragione e alla fine mi sono arreso infilandomi nella scia del trionfo dei miei amici. Perché poi, Sorrentino e Servillo sono amici. Paolo ha un particolare genio, dà una chiara impronta alle sue creazioni, un film di Sorrentino lo riconosci subito. Non c’è bisogno di trama, di struttura, di un dialogo che spieghi. Ci sono le immagini. Il punto di vista. Le atmosfere. L’aria che tira in una città, la palude di una società immobile.
È vero che Sorrentino avrebbe voluto portare al cinema “Fe r i to a morte”?
Per ragioni di impalcatura letteraria e di sistema narrativo, era l’unico che avrebbe potuto farlo riuscendo a essere credibile. Non c’è una trama nel mio libro, così come non c’è una vera trama nel suo ultimo film. Ci incontrammo, osservammo una sceneggiatura deludente e rinunciammo con dispiacere assoluto perché entrambi eravamo convinti che nel copione i personaggi fossero troppo caratterizzati. Diventavano macchiette. La cosa interessante di Ferito a morte è che nell’incessante parlare e incontrarsi dei miei protagonisti si sente una ferita. Se a Ferito a morte togli il dolore, non rimane che un libretto.
Nel ciondolare di “Ferito a morte” e nei suoi salti temporali lei raccontava l’immaturità di una generazione che si era messa volontariamente fuori dalla storia. Non accade lo stesso anche alle figure di Sorrentino?
Certamente, ma non si può non tener conto che Ferito a morte è stato scritto più di cinquanta anni fa e la distanza tra passato e presente a volte mostra incolmabili burroni. La mia Roma di quegli anni ad esempio non ha niente a che vedere con l’enclave depressa che descrive Sorrentino e che io osservo tutti i giorni. C’erano i divi hollywodiani, i registi famosi ai tavolini del bar, gli intellettuali. Oggi cosa c’è? Ma siete andati a Via Veneto? Ai miei tempi scorreva un fiume scintillante di gente che conversava, oggi è più tranquilla di un cimitero. È molto strano come anche una strada possa decadere perché anche le strade, non so se siete d’accordo, hanno la loro storia.
Hanno stinto progressivamente anche gli epìgoni della Dolce Vita.
Anche se nel raccontarla c’è stata un po’ di mitologia, tra passato e presente c’è un abisso. Flaiano se n’era accorto già alla fine degli anni ’60 al bar Rosati. Si rivolse a un amico mentre guardava non senza commiserazione un gruppo di persone intente a darsi un tono: “Li vedi quelli? Credono di essere noi”.
Le mancano i suoi amici?
Con certe persone, Peppino Patroni Griffi, Francesco Rosi, Giorgio Napolitano o Antonio Ghirelli, l’amicizia è durata o dura da settant’anni. È un tempo infinito. Raro. Dilatato. Alcuni mi mancano, di altri ho ricordi nitidissimi che mi aiutano nell’assenza .
La chiamavano Dudù anche loro.
A me Dudù piace. Se gli altri nicchiano, io lo impongo. Ho ancora questa autorità. Poi bisogna saper distinguere. Certe volte gli amici ti chiamano Dudù per affetto, altre volte, ma più raramente, per sfottere. I lazzi raggiunsero l’acme all’epoca dello Strega. Flaiano diceva “Dudù non sei più dù” e Gadda raccontava a tutti che era stato in un albergo dalle pareti molto sottili e mentre dormiva era stato svegliato da due amanti scatenati. Facevano l’amore e lei incitava in inglese “do, do, do”. Dù-dù-dù.
Gadda era davvero pieno di contraddizioni?
Era come un potente elefante in grado di imbizzirsi per una pulce e di farsi magari passare un treno addosso. Era un sornione tremendo, capace di classificarti con uno sguardo e acerrimo nemico di tutto quanto gli appariva troppo moderno. Persino l’automobile non lo convinceva poi tanto. Era all’antica e custodiva sacralmente il rispetto di certi comportamenti da cittadino modello. Negli anni che passammo insieme come impiegati in Rai – lui era già il celebrato autore del Pasticciaccio – erano sufficienti pochi minuti di ritardo nel timbrare il cartellino per provocargli panico e tremori. Goffredo Parise che amava gli scherzi e conosceva le sue debolezze, lo tormentava.
Racconti.
Gadda era molto sospettoso, ai limiti della paranoia e Parise che sapeva a memoria il tragitto che faceva per andare a casa, iniziò a disegnare con il gesso frecce bianche in perfetta coincidenza con il percorso dell’ingegnere. Gadda osservò le frecce sul marciapiede e preoccupatissimo andò da Parise: “Ci sarà mica qualcuno che mi segue? Secondo te devo avvertire la Polizia?”.
Lei ha scritto molto per il cinema.
Incontrando persone meravigliose. Lina Wertmuller, pur recitando il ruolo da invasata su qualunque suo set, è un gran donna di straordinario talento. L’unica a ridicolizzare con equilibrio in Pasqualino Settebellezze la tragedia nazista. Luigi Comencini, un uomo buono, un poeta. Francesco Rosi, con cui condividendo la stessa educazione e le stesse letture inventammo da zero Le mani sulla città perché avevamo voglia di dare la nostra lettura sulla spaventosa speculazione edilizia della Napoli di inizio anni ’60. La sceneggiatura è un affare complicato, molto diverso dalla letteratura. Devi trovare la tua armonia con gli altri, limare l’egoismo, accettare qualche compromesso.
Pasolini non la amava. Cosa le rimproverava esattamente?
Poverino, non aveva nessuna colpa. Era borghese, non voleva esserlo e vedeva in me, nelle mie giacchette e nei miei spacchetti, un borghese ben riuscito. Non gli piacevo e nutriva un’indomabile diffidenza nei miei confronti nonostante i suoi amici, da Moravia in giù, erano borghesi a tutti gli effetti.
Per lei e Ilaria Occhini, insieme da decenni, l’amore ha significato monogamìa.
Incontrai Ilaria quando da regina degli sceneggiati televisivi e del teatro, era la diva italiana più amata, bella e desiderata. Ho avuto l’avventura di essere accolto da questa piccola divinità, mi sono sforzato di non crederci per non dovermi svegliare e ho camminato con lei fino ai novantun’anni. Mi ricordo che quando eravamo sulla Spider fianco a fianco la mia domanda era sempre la stessa: “Ma perché questa ha scelto proprio me?”. L’amore è una questione complessa. Ha i suoi lati belli, il suo umorismo, le sue tragedie, le sue gelosie.
Non esiste senza sofferenza?
Niente esiste senza sofferenza.
Con Ilaria andavate a Capri.
Poi un giorno, le scale necessarie a raggiungere il nostro paradiso sono diventate troppe. Così ora quando ci passo e osservo la casa che abbiamo lasciato, osservo un mondo lontano e mi rianimo con la memoria di quella meraviglia.
Ha mai paura?
È un sentimento ancestrale, fa parte di tutti noi, non diversamente dalla fatica di vivere.
Lei paura non l’ha avuta.
L’ho avuta anch’io, ma per timore, non ci ho mai riflettuto troppo. Quando mi hanno operato aprendomi a metà e mi hanno messo tre by-pass ho attraversato il calvario con una naturalezza sconvolgente. Ho avuto rapporti bellissimi con infermiere e medici, un mondo di gente umile che lavora al ritmo di Stakanov pulendo la merda senza immalinconirsi mai. Guardandomi indietro, in un mio libro ne ho parlato direttamente con il cuore. Eravamo stupiti. Insieme abbiamo ritmato più di un miliardo di battiti. Siamo durati più di novant’anni. Qualsiasi manufatto umano, dopo sessant’anni è un catorcio da buttare. C’è da essere contenti. Sta ancora battendo, il cuore mio.
E alla morte pensa mai?
Come no? Siamo diventati amici e ci penso senza nessun orrore. Devo dire proprio quello che penso?
Certo.
È una liberazione dal dolore della vita. Io non ho paura della fine di tutto. Ho paura dell’eternità. Guai se ci fosse un’altra vita. Somiglierebbe al fine pena mai, una cosa d a spararsi. Muori, saluti e finalmente è finita. Io questa la chiamo perfezione.

il Fatto 17.3.14
L’ineluttabile supremazia dell’uomo
di Najat Vallaud Belkacem
Ministro francese dei diritti delle donne (partito socialista), discorso all’Assemblea nazionale del 29 novembre 2013

L’ULTIMO ANELLO Prima che un cliente possa acquistare una prestazione sessuale, nelle nostre strade o nei parchi delle nostre città, ci sono donne e qualche volta uomini che sono stati comprati e venduti, scambiati, sequestrati, violentati e torturati, ingannati, denudati e sottomessi, mentre le loro famiglie e i loro figli sono stati esportati o importati come una merce qualunque. Come animali. Dopo, soltanto dopo, la loro vita di prostitute può cominciare. E se voi non avete la forza di immaginare queste cose, pensate alle giovani donne africane che sono state torturate da un giro di prostituzione nigeriana smantellato recentemente in Spagna. Giovani donne i cui figli di tre anni erano stati legati ai piedi di un letto per due anni, per obbligare le loro madri a prostituirsi. Prima di essere vendute prima in Marocco , poi in Europa. In Francia.
Perché tanta violenza? Proprio perché se la prostituzione potesse essere esercitata senza ripugnanza e senza sofferenza non sarebbe necessario costringere le donne con mezzi così atroci.
Che i visi, i corpi, i destini di queste vittime non vi lascino mai: essi sono l’essenza della prostituzione di oggi, del sistema della prostituzione. Un mercato che brucia quaranta miliardi di dollari ogni anno, che arricchisce prima di tutto quelli che vivono della tratta, del crimine, della droga. Un mercato che non esisterebbe se all’altro estremo della catena non ci fosse qualcuno che accetta, che paga.
Perché pagare il corpo di una donna? Perché è sempre stato così, dicono alcuni. Le donne si comprano, è una legge nascosta del mondo. C’è nel nostro pianeta una legge di gravità che mette sempre le donne sotto gli uomini ... ma non è la fatalità che scrive le leggi. Siete voi parlamentari.
*Ministro francese dei diritti delle donne (partito socialista), discorso all’Assemblea nazionale del 29 novembre 2013

il Fatto 17.3.14
Paloma, la pace amata come una figlia
Paloma di Pablo Picasso, litografia per il primo congresso mondiale per la Pace, Parigi 1949
di Tomaso Montanari


La colomba è il più universale simbolo della pace: da quando Noé ne fece uscire una dall'Arca per capire se le acque del Diluvio si fossero ritirate dalla terra. Al secondo tentativo, la colomba tornò a lui, con un ramoscello d'ulivo in bocca: era finita. Dio aveva fatto pace col mondo, e stese il suo arco da guerra tra la terra e il cielo: era l'arcobaleno, segno dell'alleanza con ogni «essere che vive in ogni carne che è sulla terra».
Ma, dice ancora la Bibbia, dopo l'ultimo volo, la colomba non tornò più da Noé. Dio aveva fatto pace col mondo, ma gli uomini non conobbero la pace tra loro.
Da allora, la pace è un'utopia, e cioè qualcosa che non c'è, ma la cui ricerca continua dà senso a tutto quello che c'è.
In un tempo più vicino a noi, negli anni in cui nascevano i vostri nonni, abbiamo capito che la pace non c'è dove non ci sono giustizia e uguaglianza. Così, nell'aprile del 1949 si riunì a Parigi il primo Congresso mondiale per la Pace. Pablo Picasso – in quel momento il più importante artista del mondo, e membro del Partito comunista francese – ne disegnò il manifesto: scelse quell'antichissimo simbolo, la colomba.
Era una bellissima, naturalistica colomba bianca: come quelle che suo padre dipingeva quando lui era bambino. Il babbo si portava a casa alcuni piccioni impagliati, per usarli come modelli, e il piccolo Pablo ne aveva paura. Per tutta la vita rimase ossessionato da questi animali che noi consideriamo pacifici, ma che in realtà non lo sono poi tanto.
In ogni caso, Picasso rappresentò questa colomba bianca in una delle sue più belle litografie, tutta giocata sul rapporto tra la scala del bianco e quella del nero. Un'immagine che nasce dal contrasto: po' come la pace, insomma.
Da allora, Picasso disegnò moltissime altre colombe della pace, sempre più stilizzate e sempre più famose. In molte interviste egli si disse stupito del fatto che un uccello che in natura è aggressivo e perfino crudele sia diventato un simbolo di pace. Ma forse è proprio per questo che è il simbolo giusto: la pace è un progetto di cambiamento, non un sogno ad occhi aperti. È la sfida di cambiare il mondo, non l'inganno di vedere il mondo diverso.
Bisogna crederci, contro ogni speranza. Come quando nasce un bambino: non sappiamo cosa sarà della sua vita, ma sappiamo che la sua nascita è già l'inizio di un mondo diverso.
Pochi mesi dopo aver disegnato questo manifesto, a Pablo Picasso nacque una bambina.

Corriere 17.3.14
Come il presidente Roosevelt preparò il suo Paese alla guerra
risponde Sergio Romano


A me sembra di ricordare che quando nell’agosto del 1940 l’Inghilterra era minacciata di invasione da parte dei tedeschi, gli Stati Uniti inviarono 50 cacciatorpediniere della prima guerra mondiale e conservati per così dire in naftalina che furono a mio avviso determinanti per impedire lo sbarco da parte dei tedeschi. Gradirei sapere se il mio ragionamento è corretto .
Giuliano Ricci

Caro Ricci,
L’operazione «Leone marino» (il nome di codice del piano con cui i tedeschi progettarono l’invasione della Gran Bretagna dopo la rotta anglo-francese di Dunkerque) fallì per ragioni prevalentemente logistiche. Ma la fornitura delle navi, anche se pagata con la cessione agli Stati Uniti di basi britanniche nei Caraibi, dimostrò che il presidente Roosevelt era già allora, molto prima dell’attacco giapponese a Pearl Harbor, deciso a impegnare l’America nella guerra contro le potenze dell’Asse e il Giappone. Le navi furono importanti, ma molto più decisivo fu il «Lend-lease Act», la legge affitti e prestiti, approvata dal Congresso agli inizi del 1941, con cui gli Stati Uniti, nonostante la loro condizione di Paese neutrale, poterono fornire materiale bellico alla Gran Bretagna, alla Cina e, dopo il giugno 1941, all’Unione Sovietica.
Roosevelt dovette muoversi con gradualità e prudenza perché la maggioranza dell’opinione pubblica americana era contraria all’intervento e gli isolazionisti, quando non erano addirittura filo-tedeschi, rappresentavano una parte considerevole del Congresso. Ma nei due anni che precedettero l’attacco contro la flotta americana nel Pacifico, il presidente degli Stati Uniti non smise mai di preparare il suo Paese al conflitto.
Aumentò le spese militari, decretò un embargo sulle forniture americane di petrolio al Giappone, chiuse i consolati tedeschi negli Stati Uniti e firmò con Churchill, nell’agosto del 1941, una dichiarazione (la Carta Atlantica) che era di fatto un’Alleanza morale dei due maggiori popoli di lingua inglese. Era convinto che la sicurezza dell’America dipendesse dal ruolo politico e militare della Gran Bretagna nell’Atlantico e che l’America, se la Germania avesse vinto, avrebbe avuto un nemico sulla porta di casa.
Questa politica, perseguita coerentemente sino al dicembre 1941, spiega perché i suoi nemici e i loro eredi non smettano di considerare Roosevelt responsabile dell’impreparazione dimostrata dalla flotta americana quando gli aerei giapponesi apparvero nel cielo di Pearl Harbor alle 7 e 49 del 7 dicembre 1941. Gli argomenti sono dietrologici, ma i sospetti sono duri a morire.

Repubblica 17.3.14
Cesare Segre
Il critico a caccia di verità nel bosco della letteratura
Il grande filologo è morto ieri a Milano. Curò l’edizione critica dell’“Orlando furioso” e della “Chanson de Roland” Era stato appena pubblicato il Meridiano con i suoi scritti
di Paolo Mauri


È particolarmente doloroso dare l’addio a Cesare Segre, scomparso ieri a Milano. Avrebbe compiuto 86 anni il 4 aprile. La sua uscita di scena suggella un’epoca gloriosa della nostra cultura letteraria fatta di concrete imprese rinnovate dalle fondamenta, edizioni critiche di grandi classici, profonde meditazioni teoriche e raffinati “esercizi” di lettura, per usare un termine usuale in Contini e che certo a Segre non dispiacerebbe. E un riconoscimento del suo ruolo fondamentale è rappresentato dal recente Meridiano a lui dedicato, in cui compare una sorta di “istruzioni per l’uso” (Ragioni di una scelta) dello stesso Segre, contributo alla critica del proprio lavoro che ha un precedente illustre nell’interlocutore- avversario Benedetto Croce.
Costretto da ragazzo a subire le traversie che le leggi razziali imposero agli ebrei, Cesare, che era nato a Verzuolo, presso Saluzzo nel ‘28, si trovò giovanissimo a fare da aiutante-segretario di Santorre Debenedetti, suo zio, filologo di chiara fama sospeso dall’insegnamento perché ebreo. Fu la sua vera scuola, sicché si ritrovò poi all’università con una preparazione invidiabile: era come se fosse nato filologo e tale si fosse poi confermato discutendo la tesi di laurea con Benvenuto Terracini. A ventisei anni era già in cattedra a Trieste, quasi coetaneo dei suoi allievi e professore sarebbe rimasto tutta la vita, soprattutto a Pavia, ma anche in molte eccellenti università straniere. L’interesse per la prosa italiana delle origini e per il plurilinguismo che è caratteristica dei «macaronici» sfociò nel volume Lingua, stile e società (Feltrinelli,1963), titolo che mi è sempre parso un po’ l’emblema di tutta la sua ricerca.
Una volta, nel volumetto autobiografico intitolato Per curiosità(Einaudi, 1999), Segre raccontò che gli era capitato di partecipare ai convegni dei filologi romanzi - questa era allora la sua qualifica - tutti un po’ paludati e iperaccademici persino nel modo di vestire e di salutarsi, ma presto i suoi interessi si sarebbero diretti verso la semiologia, una disciplina che aveva radici anche antiche, ma di per sé nuovissima e - diremmo oggi - un po’ “casual” nel presentarsi al mondo. Curiosamente fu un altro celebre Debenedetti, Giacomo, che negli anni Sessanta lavorava al Saggiatore, a chiedere a Segre di organizzare una specie di inchiesta sullo strutturalismo che allora stava diventando molto di moda specie in Francia. Debenedetti non era uno strutturalista, né sarebbe diventato un semiologo, ma era molto attento a quanto di nuovo andava accadendo. L’inchiesta uscì nel ‘65 a corredo del catalogo della casa editrice, coinvolgendo personaggi del calibro di Starobinski, Jakobson, Friedrich e Barthes.
Nello stesso periodo Segre, insieme a Maria Corti, D’Arco Silvio Avalle e Dante Isella dava vita alla rivista Strumenti critici pubblicata da Einaudi: il titolo si ispirava alla raccolta di Vittorio Sereni, Gli strumenti umani, e fu un punto di incontro molto fecondo per dare alla critica letteraria un nuovo statuto e all’edizione dei testi una disciplina molto più articolata. A Segre toccò occuparsi, tra l’altro, dell’edizione di Ariosto, un autore che aveva in qualche modo ereditato dallo zio Santorre. Non posso qui raccontare né la genesi delle nuove edizioni critiche, in gran parte di discendenza continiana, né il gran mare di lavori messi a punto da Segre e dai suoi colleghi e amici, perché bisogna dire che tra di loro ci fu un’intesa forte e spesso fortissima e un muoversi spesso parallelo. Con Maria Corti, Segre firmò anche un volume dedicato aiMetodi attuali della critica in Italia(Eri, 1970), che nasceva da una serie di lezioni radiofoniche e testimoniava la grande ricchezza, la pluralità delle letture critiche applicate in quegli anni. Chi può dimenticare l’esame de
Gli orecchini di Montale allestito da D’Arco Silvio Avalle?
Anche Segre si sarebbe occupato di Montale: lontanissimo dalla letteratura contemporanea, avrebbe conosciuto Montale grazie a Contini e presto ne sarebbe diventato amico, come amici di Montale furono anche Isella e la Corti, a parte le divergenze sulle poesie postume.
Ma l’incendio della discussione teorica e dell’applicazione dei nuovi metodi era destinato a spegnersi abbastanza presto e Segre lo avrebbe registrato nel volume einaudiano (1993) intitolato Notizie dalla crisi che si poneva fin dal sottotitolo la domanda: dove va la critica letteraria? «La critica», scriveva Segre, «che fu egemone dagli anni Sessanta agli Ottanta aveva, tra le altre ambizioni, quella della totalità. Ogni nuovo procedimento o punto di vista trovava il suo posto in un sistema. Oggi la seduzione della totalità è appassita e ci si può inoltrare nella foresta letteraria seguendo sia la segnaletica ufficiale, sia richiami d’altro genere: l’importante è raggiungere in qualunque modo una qualche gratificante, o esaltante, comprensione ». La «foresta letteraria» fa pendant con il «bosco narrativo» delle lezioni americane di Umberto Eco.
La verità, a me pare, è che l’aspirazione alla totalità franasse un po’ dappertutto perché «lingua, stile e società» - per usare ancora il titolo di Segre - vanno fatalmente insieme e dunque interagiscono. Quella che doveva essere una rivoluzione copernicana si rivelò dunque una avventura dai percorsi molto frantumati quandonon addirittura opposti. Si faceva intanto strada la lezione di Lotman e della scuola di Tartu, che subito interessò Maria Corti e Segre: orizzonti nuovi si aprivano. Otto anni dopo leNotizie dalla crisi,  Segre pubblicò un nuovo volume intitolato Ritorno alla critica(Einaudi, 2001) che non smentiva certo l’assunto del precedente, ma ne temperava le asprezze e dava corso a letture importanti, su Primo Levi, Gadda, Sereni, Lalla Romano.
Il medievista Segre da tempo non trascurava più i suoi contemporanei: aveva anche collaborato alla Letteratura italiana diretta da Alberto Asor Rosa e da tempo scriveva sui quotidiani: prima la Stampa, poi il Giornoe infine - e per moltissimi anni – il Corriere della Sera. Né il suo campo d’azione si limitava alla letteratura italiana, ma spaziava dalla Francia alla penisola iberica e alle Americhe. Viaggiava volentieri Cesare, ma, come ha ricordato, sempre in luoghi dove ci fosse un buon centro di cardiologia, da quando aveva avuto un infarto.
Nel già citato libro autobiografico Per curiosità, chi ne ha voglia potrà trovare i dettagli di un lungo percorso affrontati con grande verve narrativa. La stessa che anima leDieci prove di fantasia (Einaudi, 2010) in cui un grande studioso manomette per parodia testi e personaggi celebri di epoche diverse, da Gano di Maganza a Charles Bovary, che prende carta e penna e rivela a Flaubert di non essere affatto quello scioccone che lui pensava. Lettore sottile, Segre gioca qui la carta dell’ironia, che era poi un tratto distintivo della sua conversazione, sommessa ed elegante.
Il libro. Opera critica di Cesare Segre (Mondadori I Meridiani a cura di Alberto Conte e Andrea Mirabile prefazione di Gianluigi Beccaria)

Corriere 17.3.14
Sperimentò le persecuzioni e non scelse la torre d’avorio
di Corrado Stajano


Non ha fatto in tempo, Cesare, a goder la festa cui diceva di tener tanto, la festa per la sua Opera critica , il Meridiano uscito in febbraio. Chissà se poi ci credeva veramente o fingeva anche con gli amici, dopo che il male dal primo di agosto dell’anno scorso l’aveva assalito. Si era rotto una vertebra a Cortina, ma il vero tormento era nascosto nel corpo sofferente. Diceva di non sapere, lui abituato a scovare le varianti di un frammento nelle pieghe delle pagine degli amati scrittori di secoli lontani e anche di oggi. Il suo corpo doveva essere per lui come quelle righe impresse sulla carta antica e nuova su cui fin da ragazzo aveva curvato gli occhi e l’anima.
Era stato adulto fin da piccolo, Cesare Segre, nato a Verzuolo, in Piemonte, nel 1928, passato attraverso le tragedie del Novecento che gli avevano plasmato la vita e che non aveva mai dimenticato, tra passato e presente. Quel sorrisino che si captava sempre nei suoi occhi acuti era il suo segno. E spesso non si capiva se era ironico, deridente nei confronti delle sciagure e delle bassezze umane o soltanto triste per un Paese che con le opere e gli scritti aveva sempre cercato di render migliore, più civile, rispettoso della cultura e della sua Storia.
Philologus in aeternum scrisse nel 1984 in un’intervista immaginaria pubblicata su «Belfagor». Ma non fu certo un filologo della normalità. Un filologo della complessità, piuttosto, sempre aperto al nuovo, cancellatore degli schemi. Usò gli strumenti della stilistica, poi dello strutturalismo, poi della semiotica cercando sempre di mantenere un equilibrio nell’interpretazione dei testi letterari, un punto d’incontro tra la volontà dell’autore, del critico, del lettore. Si considerava simile a un restauratore, felice quando riapparivano, come per miracolo su un muro, i colori originari di una pittura malamente guastati.
 Era sempre alla ricerca del nuovo, non lo disdegnava mai, lo mescolava, invece. Chi lo ascoltava parlare con quella sua voce appena sussurrata non immaginava il suo fervore di giocatore della letteratura e della storia, la sua passione, l’amore per la sfida.
Le persecuzioni della prima giovinezza, gli anni trascorsi nascosto nel collegio della Madonna dei Laghi, ad Avigliana, furono nodali per lui, sempre dalla parte delle vittime, dei perseguitati. Fu un cittadino fedele di libertà e giustizia, maestro di se stesso, allora, lettore onnivoro.
E dopo fu fedele sempre ai suoi maestri, erede e rinnovatore della loro lezione: Santorre Debenedetti, fratello della nonna paterna, personaggio mitologico ed eccentrico, storico erudito; Benvenuto Terracini, il secondo grande maestro, professore di Storia della lingua e di Glottologia, con cui si laureò; e Gianfranco Contini, il terzo maestro, critico ed editore di testi, del quale fu il più giovane degli allievi.
Per la loro influenza, era solito dire, aveva assorbito le tre diverse tendenze della filologia, arricchendo così il suo repertorio di idee e le sue possibilità di uomo e di studioso.
Era un uomo curioso che odiava la mediocrità. Sempre in guardia, il più delle volte deluso. La gioia della liberazione fu breve, i fascisti erano rimasti, ai loro posti. Provò la stessa delusione dopo il fallimento del centrosinistra; il ‘68 non lo scandalizzò; nel 1994 dopo la vittoria elettorale del Polo della Libertà sentì il pericolo e promosse con persone di grande e di piccolo nome della cultura italiana il Manifesto democratico , un’azione ribelle.
Non restò mai chiuso nelle torri d’avorio. L’impegno morale e civile gli fecero da bussola. Sostava certe volte malinconico davanti alle piccole lapidi dei ragazzi partigiani con le loro coroncine appassite. Per quale Italia?, diceva come a se stesso ma non rinunciava a fare.

Repubblica 17.3.14
Conversazione su Francesco
Il libro-intervista di Rodari al teologo Fernández sul Papa
di Lucio Caracciolo


Quale Chiesa vuole papa Francesco? Nella già sterminata letteratura che riguarda il pontefice venuto “dalla fine del mondo” si trova di tutto, eppure spesso questa domanda fondamentale viene aggirata. Lo stesso Bergoglio ama far sapere di non avere un progetto, di coltivare “un pensiero incompleto”. Ciò corrisponde sia alla sua indole sia alla formazione gesuitica che ne segna pensiero e azione. Eppure la direzione di marcia di questo papato è visibile. Ed era stata preannunciata ai cardinali elettori poco prima che entrassero in conclave dallo stesso futuro papa, nel suo ispirato discorso sul “mistero della Luna”: co-me il nostro satellite non brilla di luce propria ma solare, così la Chiesa non è autocentrata ma deve riflettere il Vangelo.
Questo filo rosso, chiave di lettura della pastorale secondo Francesco, è reso palese dall’esortazione apostolica Evangelii Gaudium, il “manifesto” del papa argentino. A rintracciarlo, interpretarlo e illustrarlo con felice originalità e cognizione di causa contribuisce Il progetto di Francesco(Emi) il libro-intervista curato dal vaticanista Paolo Rodari, a colloquio con Víctor Manuel Fernández, il rettore della Pontificia Università Cattolica Argentina elevato nel maggio scorso ad arcivescovo da papa Francesco. Con il quale Fernández coltiva un’antica consuetudine. Fu lui stesso, fra l’altro, ad aiutare Bergoglio nella stesura del documento finale di Aparecida (2007), il testo fondativo della Chiesa latinoamericana, che sei anni dopo, nella sorpresa quasi generale, porterà il suo figlio più illustre alla massima responsabilità ecclesiastica.
Come scrive Rodari nell’introduzione citando un amico vescovo, «per Bergoglio prima dei princìpi e della loro difesa viene il kerygma, ovvero l’annuncio della buona notizia che è il Vangelo». Insomma, «insistere troppo sui princìpi non serve e può essere controproducente » . Nell’intervista, Fernández ricorda il criterio della “gerarchia delle verità” - proposto dal Concilio Vaticano II, ma spesso trascurato da Giovanni Paolo II e da Benedetto XVI - per cui non è opportuno né utile insistere sui precetti morali, in modo ossessivo e con approccio dottrinario, perdendo di vista “il cuore del messaggio di Gesù Cristo”: il Vangelo. Questo vale in particolare per l’enfasi che i recenti predecessori di Francesco hanno posto su ciò che attiene al sesso e alla famiglia, dove l’insegnamento della Chiesa e la prassi dei credenti sono massimamente divergenti. Insomma, una cosa èil dogma della Santissima Trinità, altra la questione della comunione ai divorziati.
Al fondo, è il peccato del clericalismo che ha maggiormente estraniato la Chiesa dal mondo, i pastori dalle pecore. Il Vangelo è messo in secondo piano, ricorda Fernández citando il papa, «quando si parla più della legge che della grazia, più della Chiesa che di Gesù Cristo, più del papa che della parola di Dio» (Evangeliigaudium, 38). L’arcivescovo è esplicito contro chi vuole considerare le istituzioni ecclesiastiche quasi come una “dogana” presso la quale si controlla il deposito immutabile della dottrina. Al contrario, la Chiesa “in uscita”, in “missione permanente” sa che «la dottrina non può essere la prospettiva unica ed esclusiva dalla quale deve partire la nostra riflessione iniziale, perché ci sono delle altre visioni complementari che possono accompagnare ed arricchire lo sguardo della fede», a partire dalla “situazione dei poveri”.
A papa Francesco spetta nientemeno che il compito di “convertire la Chiesa” prima che perda del tutto contatto con la realtà della condizione umana, congedandosi dal suo gregge per ridursi al carrierismo e al mondanismo. Solo un uomo come Bergoglio, “risolto” e felice del mestiere che fa, poteva oggi tentare questa impresa. Rodari e Fernández hanno il merito di raccontarci, con profondità e passione, l’avvio di un percorso che in ogni caso non lascerà il cattolicesimo come l’ha trovato.
Il libro. Il progetto di Francesco di Víctor Manuel Fernández con Paolo Rodari (Emi, pagg. 144 euro 10,90)

La Stampa 17.3.14
Sardegna, il ritorno dei Giganti di pietra
Scoperti 40 anni fa, sono stati riassemblati e da sabato si mostreranno al mondo
Ma divisi in due musei


Hanno un nome e una storia incredibile da raccontare. Dovrebbero spiegare, prima di tutto, come abbiano trascorso tremila anni sotto terra, nascosti tra le palme nane del Sinis. Come siano arrivati o se siano nati proprio qui, dalla mano di uno scalpellino locale, tra l’antica città di Tharros e la spiaggia bianca di Is Arutas. Se avessero voce, i Giganti di Mont’e Prama, consentirebbero agli storici di riempire le tante pagine bianche sulla storia dell’antico popolo dei nuraghi.
Mute come sono, queste grandi statue in arenaria scolpite tra l’XI e l’VIII secolo a.C., aggiungono molti altri dubbi agli archeologi che le studiano da quattro decenni. Le teorie sono tante e talvolta contraddittorie, ma ora finalmente i giganti di pietra potranno essere ammirati da tutti. Per rimettere insieme i 5.178 frammenti spuntati all’improvviso da un campo di grano, e dimenticati per trent’anni nei magazzini del museo di Cagliari, c’è voluto un lavoro lungo un lustro. Nel centro di recupero di Li Punti, alla periferia di Sassari, i restauratori hanno eseguito un’operazione chirurgica: hanno assemblato braccia, teste e gambe e così i 15 eroi sono tornati in piedi. Arcieri, pugilatori e guerrieri: fieri e aggressivi, alti più di due metri.
Nel cimitero dei giganti, nella zona di Sa Marigosa, a due chilometri dal mare, ci era finito per caso un contadino di Cabras. Era il marzo del 1974: stava arando un terreno di proprietà della Confraternita del Rosario e all’improvviso il suo trattore ha agganciato un blocco di arenaria più grande e diverso dagli altri massi. I segni dello scalpello si notavano da lontano: «Avevo capito che era una statua, mi sono fermato e ho fatto chiamare Peppetto Pau, uno studioso di Oristano. Lui», racconta Sisinnio Poddi, «non ci aveva messo molto a immaginare che questo campo nascondesse un tesoro archeologico».
Per scoprire quanto fosse esteso e prezioso ci sono volute lunghe campagne di scavo. E forse il bello non è ancora venuto fuori: «Là sotto è sicuramente custodito un monumento grande e spettacolare» riflette Antonietta Boninu, la responsabile del restauro che ha donato ai giganti una seconda vita, «Queste statue erano all’interno di un luogo sacro che apparteneva a una federazione di villaggi, speriamo che i nuovi scavi lo riportino alla luce».
Nel frattempo, la Sardegna si riappropria della parte forse più importante del suo patrimonio storico. «Ricostruire le 15 statue e anche i 13 modelli di nuraghi ritrovati nello stesso scavo è stato un lavoro emozionante», racconta la restauratrice, «Qualche archeologo all’inizio mi diceva che era tempo perso. E invece il miracolo è riuscito: appena abbiamo trovato i primi attacchi è stato tutto più facile. Quando abbiamo messo in piedi il primo guerriero è stato uno choc».
A tutti è stato dato un nome: Sisinnio, come il contadino che ha fatto la scoperta, Crabarissu il pugilatore con i piedi scalzi, Cabillu l’arciere con i gambali e poi il pugilatore Larentu, l’arciere Componidori, ma anche Efisio, Antine, Pregiau, Lussurgiu, Balente. Infine Fastigiau, il più bello di tutti. «In realtà sono tutti bellissimi», sorride Antonietta Boninu, «Gli scultori nuragici sono riusciti a rappresentare questi giovani curando i particolari: occhi, muscoli, abbigliamento, scudi».
Valorizzato l’aspetto storico, l’isola punta sull’opportunità turistica. E su questo scommette Cabras, la cittadina della provincia di Oristano patria dei giganti. Sei delle 12 statue in mostra da sabato 22 verranno ospitate nel museo archeologico del paese, lo stesso che vanta la città fenicio-punica di Tharros, le spiagge al quarzo, un’area marina protetta e gli stagni dove si produce la bottarga. Altre sei saranno trasferite a Cagliari e su questo punto (oltre che sulla scarsità di risorse per la promozione) si anima la polemica. «Noi abbiamo una convinzione», ribatte l’assessore alla Cultura, Fenisia Erdas: «Per vedere questo tesoro arriveranno da tutto il mondo».

La Stampa 17.3.14
“Ma i complessi archeologici non vanno mai separati
Spero tornino presto insieme”
di N. Pin.


Attilio Mastino è rettore dell’Università di Sassari e storico di fama internazionale.
I nuragici erano scultori esperti, e i giganti di Mont’e Prama colpiscono per dimensioni e particolari: gli occhi, i muscoli, l’armatura, gli scudi. Ma per voi studiosi c’è molto altro da raccontare?
«Siamo di fronte a statue tra le più antiche che siano mai state ritrovate in Occidente. Nell’Ottocento avanti Cristo, quando sono state realizzate, Roma non era stata ancora fondata».
Insomma i guerrieri e i pugilatori del Sinis ribaltano le certezze sulla civiltà nuragica?
«Certo, si tratta di uno straordinario ritrovamento che cambia il quadro della storia: dimostra che in Sardegna, mentre i greci e i fenici costruivano nuove città nel bacino del Mediterraneo, c’era una civiltà autonoma e già avanzata. La rappresentazione dei guerrieri ci racconta che i nuragici erano impegnati in una lotta per difendere l’autonomia, che l’aristocrazia esaltava i suoi giovani e che nell’isola era diffuso il culto degli eroi. Lo ha scritto anche Aristotele».
Voi li studiate ormai da molti anni, quali dubbi non sono stati ancora chiariti?
«Il primo: perché il luogo di culto in cui erano esposte le statue è stato distrutto? Da chi? Noi pensiamo che il monumento sia stato raso al suolo intorno al 400 a.C., quando in Sardegna sono arrivati i Cartaginesi. Altro aspetto da capire: possibile che in qualche altro angolo dell’isola siano ancora nascosti luoghi sacri di epoca nuragica e di questa importanza?».
Dopo 40 anni dal ritrovamento i giganti saranno esposti, ma divisi: cosa ne pensa?
«I nostri maestri ci hanno insegnato che i complessi archeologici non si separano per nessuna ragione. I giganti non devono essere smembrati, spero che presto tornino insieme».

La Stampa 17.3.14
Van Gogh-Artaud, dialogo tra grandi “folli”
A Parigi i capolavori del pittore in mostra seguendo un testo del drammaturgo
di Francesco Poli


«Van Gogh era uno squilibrato con eccitazioni violente di tipo maniacale, con scatenamenti brutali come manie rabbiose (…) La sua mancanza di ponderazione mentale si rivelava nell’eccentricità: ingoia colori, minaccia Gauguin e il dottor Gachet, esce di notte per dipingere alla luce di una corona di candele fissata sul cappello. Ossessionato da idee di autocastrazione, si mozza il lobo di un orecchio…» Queste sono alcune righe di un testo su Van Gogh dello psichiatra François-Joachim Beer pubblicato su una rivista nel gennaio 1947, quando al museo dell’Orangerie è in corso una mostra retrospettiva dell’artista.
Bisogna ringraziare Beer perché è proprio questo suo commento (uno dei tanti incentrato sulla follia dell’olandese) a scatenare l’indignazione di Antonin Artaud e a spingerlo a scrivere il memorabile saggio Van Gogh, le suicidé de la société. Il saggio è un lucido atto di accusa contro la società (e la sua «coscienza malata») che secondo lui aveva spinto Van Gogh al suicidio per impedirgli di manifestare verità insopportabili. Ed è in particolare una denuncia della violenza del sistema psichiatrico e delle pratiche «terapeutiche» dell’internamento, di cui lui stesso era ancora vittima. A consigliargli di scrivere un testo su Van Gogh, in occasione dell’esposizione, era stato l’amico gallerista Pierre Loeb. Inizialmente Artaud rifiuta, perché sta lavorando alla sua raccolta di scritti che deve uscire da Gallimard, ma poi accetta per reagire a Beer. Visita la mostra e studia delle monografie, entrando in sintonia profonda con lo spirito dell’artista (con cui in parte si identifica). In circa un mese scrive e in parte detta (a Pauline Thévenin) il testo, che viene pubblicato alla fine del 1947. La decisione del Musée d’Orsay di organizzare un’esposizione incentrata sul rapporto e il dialogo a distanza fra i due grandi «folli» Van Gogh e Artaud, è legata a queste significative vicende. Non si tratta certo di una trovata ad effetto, ma di un’intelligente maniera di riproporre da un lato una inedita rilettura di quarantacinque quadri del pittore, in gran parte celebri (che provengono da musei come lo stesso d’Orsay, il Metropolitan, la National Gallery di Washington, e soprattutto dal Van Gogh Museum di Amsterdam) e dall’altro lato uno straordinario gruppo di grandi disegni di Artaud, in particolare i suoi esplosivi e allucinati autoritratti (realizzati negli Anni 40).
Il percorso espositivo delle opere di Van Gogh è articolato in una serie di sezioni che fanno diretto riferimento alle considerazioni e analisi dello scrittore, tanto che si potrebbe dire che Artaud, non è solo uno dei protagonisti della mostra, ma anche, in un certo senso, il curatore. Ed è con il suo occhio, con la sua mente e con le sue appassionate interpretazioni, che il pubblico è sollecitato a riesaminare e riscoprire i dipinti di Van Gogh: gli autoritratti; la spoglia stanzetta di Arles; la sedia di Gauguin; il pacifico ritratto di Père Tanguy e quello melanconico del dottor Gachet; le vecchie e bituminose vecchie scarpe o le due struggenti aringhe su un piatto (donate a Signac); i contorti paesaggi con cipressi e i cieli stellati; i suoi fiori; e infine gli ultimi desolati campi di grano dipinti a Auvers-sur-Oise appena prima di morire il 29 luglio 1890.
Le analisi di Artaud sono di folgorante acutezza. Ecco qualche esempio. Sulla «terribile sensibilità» degli autoritratti: «Un matto Van Gogh? (…) Io non conosco un solo psichiatra capace di scrutare un volto di uomo con una forza così schiacciante, e dissecarne come con un bisturi l’essenza psicologica». E sicuramente Artaud pensava anche ai suoi autoritratti (esposti in una saletta accanto) da cui emergono con tragica verità le tracce devastanti degli elettroshock. Il commento su Le fauteuil de Gauguin è una vera e propria poesia: «Un portacandela su una sedia, una poltroncina di paglia intrecciata/un libro sulla poltroncina,/ecco il dramma chiarito./Chi entrerà?/Sarà Gauguin o un altro fantasma?». A proposito dei girasoli, considerati come la quintessenza dell’arte del pittore, il giudizio è di solare verità tautologica: «… Sono dipinti come dei girasoli, e niente di più, ma per comprendere un girasole nella natura bisogna ormai ritornare a Van Gogh». Quello che più colpisce Artaud nell’arte di Van Gogh, «il più pittore di tutti i pittori», è il fatto che «senza andare più in là di ciò che definiamo pittura e che è la pittura, senza andare al di là del tubetto di colori, del pennello, del motivo e dei limiti della tela, per rincorrere l’aneddoto, il racconto, il dramma, l’azione immaginata, alla bellezza intrinseca del soggetto o dell’oggetto, è arrivata a impregnare di passione la natura e gli oggetti» con un’intensità che non ha nulla di meno, sul piano psicologico e drammatico, rispetto ai racconti di scrittori come Poe, Melville, de Nerval o Hoffmann. Da parte di uno scrittore, attore, drammaturgo come il teorico del Teatro e il suo doppio, questo elogio della sublime semplicità della dimensione espressiva di un artista che ha sempre dipinto «per uscire dall’inferno», è un insegnamento su cui meditare per cercare di comprendere almeno in parte qualche frammento dell’essenza del processo creativo.

La Stampa TuttoLibri 15.3.14
Edith Bruck
“Come amavo Petöfi prima di Auschwitz”
Tra la memoria della deportazione nazista e il sogno di una solida pace fra ebrei e palestinesi in Medio Oriente
di Mirella Serri


«In casa nostra vi era un solo libro, la Bibbia». Non c’era da stupirsi: a Tiszakarád, piccolo villaggio ai confini dell’Ucraina, le 15 famiglie di religione ebraica erano le più povere del paese. A casa Bruck, la piccola Edith, destinata a diventare narratrice in lingua italiana (che adotterà fin dall’inizio degli Anni Cinquanta), bramava un pezzo di pane. La riserva durava fino al giovedì e poi ci si arrangiava. Di scarpe ne aveva un solo paio e i sei figli e i genitori dormivano, cucinavano e recitavano le preghiere in un’unica stanza. La sera, però, prima di addormentarsi, Edith sostituiva le poesie ai salmi. «I versi di Endre Ady, lirico considerato quasi scandaloso per la sua sensualità, e quelli del romantico Sándor Petöfi mi riscaldavano interiormente, mi consolavano della durezza dei rapporti in cui si viveva. Li leggevo nel bosco con un ragazzino di cui ero innamorata. Anche in casa c’era poca tenerezza. Mia madre, però, aveva una sua saggezza, sognava Israele-terra promessa e ci esortava a comportarci bene a scuola: “Siete ebrei e vi disprezzano”».
La bellissima ex ragazza dagli occhi verdi e splendenti che fuma sigarette sottili e tormenta con dita nervose la collana di ambra ha pubblicato un nuovo appassionante racconto, Il sogno rapito. Ed è uscito da non molto il film di Roberto Faenza, Anita B., tratto dal bel romanzo Quanta stella c’è nel cielo (Garzanti).
NelSogno rapito,accantona la memoria della deportazione e mette in scena un triangolo amoroso tra un ginecologo cattolico, la moglie ebrea e una fascinosa palestinese di religione musulmana. Un intreccio da cui nascerà un bambino: emblema di una possibile pace e armonia?
«E’ un’aspirazione che coltivo da sempre quella che vengano deposte le armi nel conflitto israelo-palestinese. Non sono capace di rancore. Nemmeno nei confronti dei miei aguzzini. Dopo che ero scampata agli orrori di Bergen Belsen ed ero in un campo di transito organizzato dagli alleati vicino a Monaco, erano proprio i soldati tedeschi che ci avevano tenuti nei lager a supplicare il nostro cibo. Ero l’unica che, tra la disapprovazione generale, se ne privava per loro».
Il filo rosso che segna tutta la sua opera è sempre stato questo, ovvero la narrazione come rito o magia non solo per ricordare ma per esorcizzare l’odio o i sentimenti di rivalsa.
«Nel paese dove sono nata noi ebrei eravamo posizionati al gradino più basso della scala sociale. Le vessazioni erano infinite. Quando andavo a prendere l’acqua che si gelava nel secchio mi ci sputavano dentro e dovevo ricominciare da capo, oppure mi prendevano a spintoni, mi buttavano tra le ortiche, mi facevano rotolare nel fango. A mio fratello una volta hanno spaccato la testa. I cattolici erano i più accaniti, i protestanti, soprattutto gli uomini di chiesa, erano più benevoli e non ci trattavano come esseri infetti. Quando sono venuti i gendarmi a prenderci il 10 aprile del 1944 - avrei compiuto 13 anni a maggio - vidi tra la folla, ai lati del carro a cavalli su cui ci avevano caricato, le donne che si asciugavano gli occhi con il grembiule».
Cosa portò via con sé?
«Un piccolo quaderno di poesie che finirà chissà dove. Prima ci chiudono in un ghetto dove ci tengono alcune settimane: cinque famiglie in un solo appartamento, tra liti e urla. Eppure nel ghetto arriva l’uguaglianza, i ricchi ebrei si mescolano con i meno abbienti, mio padre che aveva una bellissima voce viene invitato a cantare. Mia madre piange di gioia. Ma capisco che sta succedendo qualcosa di terribile quando mi pettina e mi mette un fiocco rosso tra i capelli. Oberata di lavoro, si era occupata assai poco di me. E adesso ci stavano per caricare su un vagone piombato».
Cosa l’ha aiutata a sopravvivere?
«Non lo so. Quando arriviamo ad Auschwitz ci dividono in due file, mio padre viene trascinato tra quelli che avranno salva la vita e mia madre è spintonata tra coloro che sono destinati alle camere a gas, con me aggrappata alla sua gonna. Un soldato mi guarda e mi allontana dalla mamma che grida disperata “obbedisci”. Lui per separarmi da lei, la colpisce con il calcio del fucile. Non l’ho mai più vista e l’orrore messo in atto da quel militare mi ha salvato la vita».
Quell’immagine di sua madre la segue da circa settant’anni e l’ha ancora negli occhi che si riempiono di lacrime. Da quel fatidico momento Edith diventa l’inquilina del lager C blocco 11.
«Appena arrivata non facevo altro che piangere. Il capo baracca, un’ebrea slovacca, mi dice: “vuoi la tua mamma”? Te la faccio vedere io. Mi indica una colonna di fumo nero che si levava in lontananza. “Eccola, ne hanno fatto sapone come con la mia”. Non c’era più un briciolo di umanità. Quelli che distribuivano il rancio si appropriavano per primi del fondo di rape e di patate, per gli altri c’era solo la nera brodaglia. Ho visto madri strappare una crosta di pane dalla bocca dei figli e viceversa. Però ho trovato anche qualcuno che mi ha dato coraggio. E questo mi ha aiutato».
Per esempio?
«Un guardiano del campo che, mentre ci facevano trasportare pesantissime traversine delle rotaie, mi permette di raschiare il fondo della sua gavetta con un po’ di marmellata. Un cuoco che invece di chiamarmi per numero mi chiede qual è il mio nome».
Saranno poi i soldati della Wehrmacht che la porteranno via da Auschwitz?
«Chilometri e chilometri con gli zoccoli, nella neve. Partiamo in mille e arriviamo in meno di cento. Mi costringono a pulire un campo di cadaveri e un uomo morente mi stringe la mano e sussurra, “racconta quello che hai visto altrimenti nessuno potrà credere che è veramente accaduto tutto questo”. Non lo dimenticherò. Una mattina ci schieriamo tutti per l’appello e non si presenta nessun ufficiale. Erano scappati. Furono gli americani a liberarci, per fortuna: loro portavano i prigionieri in ospedale, i russi, invece, aprivano le cucine e la gente si buttava sul cibo morendo per l’abbuffata».
E il dopoguerra?
«Comincio a scrivere fin dal 1946. A casa di mio fratello trovo l’opera omnia di Jack London e proseguo con Hemingway. Ma non posso vivere in Ungheria, c’è troppa incomprensione. Una mia sorella, sposata con un uomo molto ricco, quando mi vede arrivare per avere aiuto e ospitalità mi chiede di non entrare in casa e di lavarmi al gelo».
Le rimane l’approdo in Israele.
«Ad Haifa non mi trovo bene, i profughi dall’Europa sono tantissimi, chiusi in baracche con il tetto in metallo sotto il sole cocente, non c’è lavoro».
E l’Italia?
«Trovo un impiego presso un grande parrucchiere romano. Il mio capo è una donna. Terribile e autoritaria. Ho occasione però di incontrare tutto il mondo dello spettacolo. Successivamente conosco Montale, Ungaretti, Luzi e Nelo Risi, lo scrittore destinato a diventare mio marito. Inizio una nuova vita e finalmente posso cercare, scrivendo, di neutralizzare la terribile potenza negativa di tutto quello che ho vissuto».

La Stampa 17.3.14
Cavalieri e prostitute, i graffiti dei matti diventano quadri
Palermo, in mostra le foto scattate nell’ex manicomio
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di Laura Anello

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