martedì 18 marzo 2014

Questa mattina a “Qui comincia”, la trasmissione quotidiana che apre la giornata di Radio 3 Rai, è stato presentato - e ne sono stati letti ampli brani - l’Atlante dell’Italia rivoluzionaria e napoleonica a cura di Maria Pia Donato, David Armando, Massimo Cattaneo, Jean-François Chauvard (École française de Rome, Roma, 2013)
La registrazione della trasmissione è disponibile qui

l’Unità 18.2.14
L’eco del Big Bang «catturato» al Polo Sud
Ascoltate in Antartico le onde gravitazionali emesse nei primi istanti di vita dell’Universo
L’annuncio degli scienziati Usa che lavorano al progetto di ricerca Bicep 2
Finora era stata rilevata la radiazione di fondo risalente a 380mila anni dopo l’esplosione iniziale
Trovata la traccia lasciata qualche frazione di secondo dopo la nascita del cosmo: odore di Nobel
di Cristiana Pulcinelli


La notizia è di quelle importanti. Di quelle, per capirci, che fanno già sognare un Nobel. Alcuni scienziati avrebbero trovato il segnale residuo della rapidissima espansione che il nostro universo ha sperimentato qualche frazione di secondo dopo il Big Bang, l’evento da cui tutto l’universo ha preso origine circa 14 miliardi di anni fa.
Gli scienziati, che hanno annunciato la loro scoperta ieri pomeriggio, fanno parte di un progetto di ricerca chiamato Bicep 2 il cui scopo è osservare una parte del cielo da un telescopio situato al Polo Sud. Al progetto lavorano scienziati provenienti dai più importanti centri di ricerca americani: Harvard University, California Institute of Technology, Stanford University, University of California, San Diego Jet Propulsion Laboratory. Ma cosa hanno visto questi scienziati? Hanno identificato un disturbo nella luce proveniente dal Big Bang. Un disturbo che potrebbe essere stato provocato dalle onde gravitazionali. Queste onde, previste dalla teoria della relatività di Einstein nel 1916, non sono state finora mai osservate. La scoperta del gruppo americano sarebbe quindi una prova, sia pure attraverso la radiazione elettromagnetica di fondo, della loro esistenza, oltre ad essere una conferma dei modelli inflazionari dell’universo.
OSCILLAZIONI SPAZIO-TEMPORALI
Questi modelli furono proposti nei primi anni Ottanta del secolo scorso per spiegare alcuni aspetti poco chiari del Big Bang. «Secondo questi modelli spiega il cosmologo Carlo Baccigalupi l’energia associata a forze fondamentali ancora sconosciute avrebbe fatto espandere l’universo in maniera esponenziale nelle frazioni di secondo successive al Big Bang. Ma questa espansione così violenta avrebbe generato delle oscillazioni nello spazio-tempo». In sostanza, i modelli inflazionari prevedono che questa rapida espansione dell’universo sia associata a onde di energia gravitazionale che, però, avrebbero dovuto lasciare un segno indelebile nella luce che proviene dal Big Bang, la radiazione cosmica di fondo. Ebbene proprio queste oscillazioni sarebbero state viste dal Polo Sud.
RAGGI COSMICI
La teoria del Big Bang aveva già la sua conferma proprio nella scoperta della radiazione cosmica di fondo, il residuo della radiazione prodotta da quell’evento violento e che permea tutto l’universo. La scoperta avvenne nel 1964 e da allora la radiazione di fondo viene studiata da scienziati in tutto il mondo. Il satellite europeo Planck recentemente ci ha fornito, proprio studiando questa radiazione, un’immagine molto dettagliata dell’universo primordiale. Ma questa foto risale a 380mila anni dopo il Big Bang, prima di quel momento materia e radiazione non si potevano separare. «Solo allora quindi dice Baccigalupi che collabora al progetto Planck la luce è stata libera di muoversi liberamente. Ma le onde gravitazionali sono state emesse molto prima, per la precisione i modelli ipotizzano 10 alla meno 35 secondi dopo il Big Bang». I ricercatori di Bicep avrebbero visto, per dir così, il segno lasciato da queste onde sulla radiazione di fondo, ovvero un cambiamento delle proprietà direzionali della radiazione stessa, chiamato polarizzazione. Questo segnale ci permette di risalire indietro nel tempo fino a sapere qualcosa di quello che accadde una piccolissima frazione di secondo dopo l’origine dell’universo. Un momento finora assolutamente sconosciuto.
Una scoperta dunque importantissima per la cosmologia, ma in generale per la fisica, perché, se confermata, la scoperta ci direbbe anche molto sulla gravità: ci direbbe infatti che è una forza come le altre tre che esistono in natura quella elettromagnetica, l’interazione debole e l’interazione forte dotata di particelle quantistiche che si comportano come un’onda.
«Se confermata, la scoperta di Bicep sarebbe nello stesso tempo una fortissima indicazione dell’esistenza di queste oscillazioni spazio-temporali e un nuovo segnale proveniente dal Big Bang che influenza tutta la fisica», commenta Baccigalupi. «Ora però occorre una attenta analisi dei dati e della metodologia usata dal gruppo di Bicep, e serve la conferma da un esperimento indipendente: Planck ha tutte le caratteristiche per confermare o smentire questa scoperta».

l’Unità 18.2.14
Einstein aveva ragione
Una scoperta importante per la fisica e la cosmologia
Se confermata proverebbe che la gravità è una forza come le altre e che la teoria della folle espansione dell’universo è fondata
di Pietro Greco


«Abbiamo rilevato le onde gravitazionali prodotte dall’universo bambino durante l’inflazione cosmica».
Quella che John M. Kovac, scienziato in forze allo Harvard-Smithsonian Center for Astrophysics, ha annunciato ieri a mezzogiorno, è una notizia scientifica davvero importante.
Di quelle, per intenderci, che capitano una volta ogni dieci anni. E per ben due motivi, abbastanza indipendenti tra loro. Una riguarda la fisica delle alte energie. L’altra riguarda la cosmologia.

Se la scoperta verrà confermata, Kovac e i suoi hanno infatti dimostrato che la gravità è una forza fondamentale come le altre. La fisica delle alte energie, infatti, ci dice che in natura esistono quattro interazioni fondamentali: quella elettromagnetica (la luce ne è una manifestazione), l’interazione debole (responsabile del decadimento radioattivo dei nuclei atomici), l’interazione forte (la colla che tiene uniti i quark nei nuclei atomici) e la gravità. Ebbene, il quadro teorico prevede che ciascuna forza si trasmetta mediante particelle messaggero. L’interazione elettromagnetica mediante i fotoni; l’interazione debole mediante i bosoni intermedi (quelli scoperti da Carlo Rubbia); l’interazione forte mediante i gluoni. Le onde gravitazionali sono previste dalla teoria della relatività di Albert Einstein. Ma la teoria delle alte energie prevede che anche la gravità abbia le sue particelle messaggero, i gravitoni. Che, come tutte le particelle quantistiche, si comportano anche come un’onda.
Da molti anni molte persone nel mondo sono a caccia di queste onde (in Italia il pioniere è stato Edoardo Amaldi). Ma nessuno le aveva finora rilevate. Tanto che molti fisici teorici avevano iniziato a mettere in dubbio che la gravità fosse, appunto, una forza fondamentale come le altre. Che la sua natura fosse diversa ed esotica. Ebbene, ora Kovac e i suoi hanno riportato la gravità nell’alveo della normalità. Hanno dimostrato che la forza che spinge i corpi ad attrarsi reciprocamente è una forza come le altre.
E poiché i fisici credono fermamente che tutte le quattro forze fondamentali di cui oggi abbiamo esperienza siano in realtà espressione di un’unica forza originaria, il fatto che la gravità sia una forza come le altre corrobora la ricerca dell’unificazione. Così come Rubbia ha dimostrato empiricamente che l’interazione elettromagnetica e l’interazione debole sono espressioni di una forza unica, l’interazione elettrodebole, ora diventa più plausibile l’idea che prima o poi sarà possibile unificare la gravità con le altre interazioni fondamentali e scoprire la forza unica originaria.
Ma la scoperta di Kovac e del suo gruppo ha un’importanza almeno analoga per la cosmologia. Le onde gravitazionali rilevate, infatti, sarebbero ciò che resta dell’inflazione cosmica teorizzato dall’americano Alan Guth e dal russo Andrei Linde. Ovvero quel processo di crescita che in un solo istante avrebbe portato l’universo neonato a crescere di cinquanta ordini di grandezza (ovvero di migliaia di miliardi di miliardi di miliardi di miliardi di volte). È grazie a questo processo che il nostro universo è caratterizzato fin dall’inizio da una sostanziale uniformità. La teoria dell’inflazione è stata considerata per molto tempo una teoria ad hoc. Se Kovac e i suoi collaboratori hanno ragione, ora abbiamo una prova empirica che quell’evento difficile da immaginare è realmente avvenuto.
Insomma, la notizia è che sia i fisici teorici sia i cosmologi teorici, con le loro astruse matematiche, hanno avuto ragione. Come era successo a Peter Higgs con il suo bosone. E questo, per parafrasare il fisico Eugene Wigner, dimostra ancora una volta l’irragionevole efficacia della teoria (e della matematica).

La Stampa 18.3.14
“Disgustose e terribili quelle frasi del mio Heidegger”
Dopo le rivelazioni sull’antisemitismo deiQuaderni neri parla Günter Figal, presidente della Società heideggeriana “Ma la filosofia del XX secolo non è pensabile senza di lui”
intervista di Tonia Mastrobuoni


L’idea che l’infatuazione di Martin Heidegger per il nazionalsocialismo sia stata breve e circoscritta va sepolta per sempre. I Quaderni neri del filosofo tedesco stanno facendo discutere furiosamente gli studiosi perché ormai è chiaro, spiega Günter Figal, presidente della Società heideggeriana, che alla fine degli Anni 20 nel suo pensiero avviene un «cambiamento significativo» che trasforma il tentativo di rifondare la filosofia, in Essere e tempo, nel vagheggiamento di una rifondazione nazionale, incentrata sul Volk. E anche quando prende le distanze dal nazismo, alla fine degli Anni 30, lo fa solo dal punto di vista filosofico, non morale o politico. Non ammette mai, sottolinea Figal, che i nazisti sono dei criminali, li ritiene soltanto una delle tante, odiate declinazioni della modernità. E poi c’è il suo antisemitismo, forte e radicato: ci sono frasi «disgustose e terribili» che Figal non avrebbe mai pensato di trovare in Heidegger, che lo hanno «rattristato».
Professor Figal, dopo la pubblicazione deiQuaderni nerisi può parlare di un’«eredità avvelenata», come fa laZeit?
«Di quale eredità parliamo? Dell’immensa opera di Heidegger, dagli inizi degli Anni 20 agli Anni 70? Non si tratta di un sistema di pensiero chiuso. È molto chiaro che dalla fine degli Anni 20 assistiamo a un cambiamento significativo nel suo pensiero: Heidegger rinuncia al fondamentale orientamento individuale dell’Esserci che si trova in Essere e tempo e adotta il concetto del Volk, della collettività. I Quaderni neri riguardano soltanto quest’ultimo orientamento. Sono convinto che testi come Essere e tempo non debbano essere interpretati diversamente rispetto a come sono stati interpretati sino a oggi. Anche i testi del dopoguerra sono molto diversi rispetto a quanto Heidegger ha scritto negli Anni 30. Trovo ad esempio interessante che, immediatamente dopo la guerra, riprenda nuovamente i temi fenomenologici degli Anni 20. Accanto a Husserl, Heidegger è il più importante filosofo della fenomenologia. Ma negli Anni 30 l’aveva dimenticata».
Si può anche affermare che iQuaderni nerirappresentino per Heidegger uno sviluppo del pensiero della storia dell’essere?
«Sì, i Quaderni neri riguardano solo il pensiero della storia dell’essere. Mi spiego. Con Essere e tempo Heidegger ha scritto uno dei più importanti testi della filosofia moderna, in cui propone che la filosofia ricominci nuovamente da capo; per lui si trattava di concedere una possibilità alla filosofia del vivente, di rifondarla. Negli Anni 30 tuttavia ha reinterpretato politicamente questo pensiero, “dobbiamo ricominciare”, e lo ha legato a un programma di rifondazione nazionale. Il concetto di Essere e tempo resta a tutt’oggi una sfida filosofica produttiva. Rispetto a ciò, trovo i sogni di rifondazione nazionale degli Anni 30, che rientrano nel concetto della cosiddetta storia dell’essere, ideologici e problematici. Sono sogni che probabilmente hanno anche a che fare col fatto che, dopo aver perso i suoi migliori allievi, si sia isolato sempre di più. Isolamento e sogni di collettività non di rado coincidono».
Ma l’idea che Heidegger abbia avuto simpatie per il nazionalsocialismo solo per un breve periodo dovrà essere sepolta per sempre.
«Lei ha perfettamente ragione. Sinora, l’opinione comune era che, per meno di un anno, Heidegger si fosse entusiasmato per il nazismo e che poi avesse preso le distanze in modo molto netto. Ora sappiamo che non è stato così semplice. Sappiamo che prima tentò di aderire filosoficamente al nazionalsocialismo, per poi distaccarsene nella seconda metà degli Anni 30, giacché era espressione di quella modernità che riteneva fatale. Il punto è, dunque, che la sua presa di distanza dal nazismo non è stata morale o politica. Per Heidegger non contava il fatto che il nazionalsocialismo fosse un regime criminale, ma che appartenesse alla fase nichilista della “metafisica”, come il bolscevismo, la Chiesa cattolica o il mondo occidentale, la Gran Bretagna e gli Stati Uniti. Per lui, fondamentalmente, era tutto la stessa cosa, tutto era espressione del male. L’unica cosa che Heidegger continua a evocare per esorcizzare quel male è l’esperienza dell’Essere, attraverso cui tutto deve cambiare. Esperienza che lui da solo pensa e prepara. In un certo senso Heidegger ha tentato, come Nietzsche, di rappresentare “un destino”. Ma nessun individuo dovrebbe mai desiderare di essere un destino. È una sopravvalutazione di se stessi, uno sforzo che va al di là delle forze del singolo».
Quindi anche il nazismo alla fine non è una soluzione, per Heidegger?
«Esatto. È necessario osservare il rapporto di Heidegger con il nazionalsocialismo nel contesto della sua critica alla razionalità tecnico-scientifica della modernità. All’inizio pensa che il nazionalsocialismo rappresenti un’alternativa possibile a questa razionalità, poi si convince che anche il nazismo sia una sua declinazione. Il problema fondamentale del pensiero di Heidegger negli Anni 30 è questa visione storica totalizzante che condanna indifferentemente qualsiasi cosa abbia a che fare con la scienza e con la tecnica e lo paragona alla sciagura, all’infelicità, all’infondatezza, allo sradicamento. Un quadro che non lascia spazio per distinguo politici e morali».
Uno sviluppo che è quindi espressione del suo antimodernismo?
«Non solo. Per Heidegger la modernità coincide con la “metafisica” degli ultimi 2500 anni, va da Platone e Aristotele al mondo dominato dalla scienza e dalla tecnica».
In questa visione storica degli Anni 30 anche l’ebraismo svolge un ruolo maggiore? Il suo antisemitismo sembra più forte rispetto a quanto noto sinora, sembra addirittura un elemento fondante della sua filosofia.
La voce di Figal per un attimo si incrina: «Le frasi antisemite dei Quaderni neri sono disgustose e terribili. Mi hanno rattristato. Non avrei mai pensato di trovare cose del genere in Heidegger. Di fronte a queste frasi non bisogna nascondersi, bisogna interrogarsi, chiedersi in che contesto sono state pensate. È un compito che abbiamo davanti. Per me è una questione aperta come vadano interpretate esattamente le frasi antisemite di Heidegger, anche rispetto alla sua critica alla modernità».
Molti dei suoi allievi più famosi erano ebrei, Hannah Arendt ad esempio. Come ha fatto a conciliare questo antisemitismo con il suo insegnamento, con i suoi sentimenti?
«Non sappiamo molto dei pensieri privati di Heidegger negli Anni 20. Le affermazioni che sono state pubblicate in questi giorni, appartengono alla fine degli Anni 30. Sappiamo però che quell’Heidegger che insegnava negli Anni 20 a Marburg, e che aveva allievi meravigliosi attorno a sé, ha vissuto nel dialogo con questi allievi. Era un’altra fase della sua vita».
Alla luce dei Quaderni neri, Heidegger rimase fedele a se stesso quando dopo la guerra menzionò a malapena lo sterminio degli ebrei?
«Chi lo sa? In ogni caso è un silenzio opprimente. E non solo il silenzio di Heidegger, ma quello che ha in generale caratterizzato per un bel po’ la Germania repubblicana».
Come si sente ora come presidente della Martin-Heidegger-Gesellschaft? Ha mai pensato di dare le dimissioni?
«Le frasi antisemite di Heidegger sono un grande peso per me, lo voglio dire apertamente. E, in generale, non posso che avere un atteggiamento critico e storico verso la storia del pensiero di Heidegger negli Anni 30 e nei primi Anni 40. Non riesco a considerare questo pensiero filosoficamente produttivo. Ma un tale confronto critico e storico è uno dei compiti importanti che la Heidegger-Gesellschaft dovrà affrontare d’ora in poi. Un’istituzione filosofica come la nostra non deve essere una società di adoratori di eroi».
Secondo lei Essere e tempo resta un pilastro della filosofia contemporanea?
«Sì. La filosofia del XX secolo non è pensabile senza Essere e tempo. Come dovremmo interpretare l’opera di Sartre, Merleau-Ponty, Derrida, Levinas, Arendt, Gadamer, Foucault, e le domande di cui si occupano, senza comprendere questo testo? Penso che dovremo abituarci ad adottare due prospettive diverse per Heidegger. Come filosofi lo interrogheremo e lo discuteremo criticamente; nessun altro ci ha insegnato a leggere testi filosofici come Heidegger. Ma d’ora in poi dovremo anche considerarlo una delle figure chiave per capire le patologie del XX secolo».
Come si può abdicare così radicalmente alla ragione?
«Forse dipende dal radicalismo di Heidegger. Era un pensatore rivoluzionario, non un pensatore liberale. Voleva rifondare la filosofia. Questo radicalismo lo ha reso molto produttivo negli Anni 20, perché era legato al lavoro accademico. Non appena è diventato politico, è diventato fatale. Penso che questo tipo di radicalismo sia uno dei problemi fondamentali del Novecento. Non molti intellettuali importanti di quel secolo hanno capito che la dignità umana e la libertà borghese sono valori sacri, da difendere. Thomas Mann lo ha capito. Negli anni della maturità è stato un autore borghese e democratico nel senso migliore del termine».

La Stampa 18.3.14
Angela in love
di Massimo Gramellini

Le matrone tedesche hanno un debole per gli italiani impuniti. Secoli di storia e chilometri di lungomare romagnolo sono lì a testimoniarlo. Angela aveva scartato tutti gli altri pretendenti. Quel Silvio greve, liscio come un tapis roulant e troppo anziano. Il professor Mario: algido, secchione, più noioso di un tedesco. E il composto Enrico, un bravo ragazzo, come lo definì lei con un’espressione che sulle labbra di una donna non è mai sintomo di passione. Ma alla fine è arrivato Matt. Il principe azzurro e simpaticamente un po’ buzzurro, con l’energia della giovinezza e il bottone del cappotto abbottonato zoppo che stimola tenerezze materne. Ad Angela sono crollate le difese. Si è tolta lo spread dagli occhi e lo ha guardato come la figlia di un pastore tedesco può guardare una giovane marmotta italiana. Ha congiunto in una mossa leziosa le mani ad artiglio che solitamente maneggiano forbici e ha sorriso a Matt, che dardeggiava sguardi tra l’impacciato e l’inceneritore. Lì per lì Angela ha pensato di alzarci il differenziale deficit-Pil dal 3 al 30 per cento, ma è stato solo un attimo. Poi la sua moralità calvinista ha prevalso. Fino a quando?

Corriere 18.3.14
Angelo Bolaffi: «Berlino resterà per il rigore. Non vuole guai»
intervista di Danilo Taino


«Mi sarei stupito del contrario» diceva ieri sera Angelo Bolaffi dopo avere letto che Angela Merkel e il ministro delle Finanze tedesco Wolfgang Schäuble hanno ribadito a Matteo Renzi la necessità di andare avanti con la politica del rigore. «Non basta la maglietta di Mario Gomez per fare cambiare idea al governo tedesco — dice il professore, germanista, uno dei massimi esperti del rapporto tra Roma e Berlino — .I tedeschi sono convinti che il grande spazio europeo si costruisca omogeneizzando i criteri con i quali mantenere la stabilità del Continente. La loro diagnosi è diversa dalla nostra, non pensano che alla base delle difficoltà ci sia il rigore, anzi».
Ma a Berlino interessa che Renzi faccia le riforme oppure basta che l’Italia sia stabile, che non crei guai sui mercati?
«In prima istanza non vogliono guai. Ma sanno anche che se il governo italiano non farà riforme serie prima o poi i guai arriveranno. Dato il livello di integrazione delle economie italiana e tedesca, per loro è essenziale che noi cambiamo. Il rapporto è così stretto che un problema da noi è un problema per loro. E ne hanno piena coscienza».
Crede in un asse antiausterità tra Roma e Parigi?
«No. L’intellettuale francese Alain Minc dice che un’alleanza dei Paesi mediterranei in senso antitedesco fa ridere: firmato il patto, ognuno correrebbe a telefonare a Berlino. La realtà è che ancora oggi Parigi tiene al rapporto con la Germania in modo ossessivo, non ci può rinunciare e non lo farà. Piuttosto, penso che possa esserci un rapporto particolare tra Italia e Germania, non sostitutivo dell’asse franco-tedesco ma comunque positivo, come lo è stato in passato. Spero che Renzi colga l’importanza del rapporto con la Germania, per noi di grande utilità».
Il partito antieuro Allianz für Deutschland, dato in crescita nei sondaggi delle elezioni europee, potrebbe fare cambiare posizioni a Frau Merkel sull’austerità?
«Ammesso che qualche effetto lo possa avere, semmai spingerà la signora Merkel a essere ancora più rigorosa, dal momento che è un partito che chiede più rigore. Ma penso che la cancelliera non si preoccupi di Allianz für Deutschland».
Corre una teoria secondo la quale Renzi farebbe bene ad abbandonare i vincoli europei perché tanto si tratta di politiche che salteranno dopo le lezioni europee di maggio, dove avranno un successo le forze anti Europa.
«Non sono convinto che l’antieuropeismo mobiliti più di tanto. Ma, al di là dei risultati, non è pensabile che la Germania cambi strada sul tema della stabilità economica e finanziaria. Nel 2011 aveva la possibilità di uscire dall’euro e non l’ha fatto: da allora ha deciso che l’Europa si sarebbe salvata seguendo il modello tedesco, che poi vuole dire i trattati di Maastricht e di Lisbona. Per Berlino, è l’unico modo di salvare l’Europa e su questo andrà avanti: gli elettori tedeschi hanno appena confermato questa linea. Renzi sbaglierebbe a pensare che possano cambiare idea».
Merkel e Renzi hanno parlato anche di Ucraina. Pure nel rapporto con la Russia, sembra che la Germania debba prendere la leadership dell’Europa, suo malgrado.
«Negli ultimi tempi, la cancelliera ha cambiato posizione in maniera decisa sulla Russia, è molto più dura. Questa è una novità che rivoluziona tutto. Cent’anni dopo la prima guerra mondiale, pare che in Europa torni il dilemma tra pace e guerra. E tanto la crisi economica che quella geopolitica pongono la questione dell’inevitabile egemonia tedesca. La Germania deve decidere cosa fare da grande e a me pare che Frau Merkel lo abbia deciso. Ha capito che il pericolo posto dalla politica di Putin, mossa dalla sindrome della Guerra Fredda, è considerevole: la cancelliera ha un’origine nella Germania Est e di fronte a ciò è estremamente sensibile».
Renzi dovrebbe seguire Berlino anche in questo?
«Una vecchia tradizione della diplomazia italiana è quella di stare, nei momenti di crisi, dietro alla Germania. Non mi pare una cattiva idea, nemmeno in questo caso».

Repubblica 18.3.14
Una risposta a Matteo Renzi e a Cohn-Bendit
Destra e sinistra. Perché Bobbio non è superato
di Massimo L. Salvadori


Per secoli e secoli la diseguaglianza nelle forme più estreme è stata considerata figlia della natura e di Dio. La situazione conobbe un cambiamento qualitativo con l’irruzione delle masse sulla scena delle lotte politiche e sociali e la rivoluzione industriale che rese possibile una produzione dei beni materiali prima impensabile. Entrò in campo la speranza in un progresso avente i suoi presupposti nel diritto di ogni uomo alla partecipazione politica e degli appartenenti agli strati sociali inferiori a godere finalmente delle risorse necessarie a renderli “persone” e non mero materiale umano ad uso dei padroni. La speranza divenne potente quando si formarono i partiti dei lavoratori e i sindacati. E così iniziò la concezione moderna della “destra”, che il moto per una maggiore eguaglianza contrastava, e della “sinistra”, che trovò la sua principale espressione nel socialismo e nel comunismo. Il primo si è gradualmente aperto al pluralismo politico e istituzionale e al riformismo culminato nello “Stato del benessere” raggiungendo storici successi fino all’offensiva neoliberista degli ultimi decenni; il secondo è andato incontro al fallimento, gettando discredito sull’intera sinistra. La parola d’ordine dei “vincitori della storia” suonò “libertà”: secondo la logica del ciascun per sé e Dio per tutti.
Quando nel 1994 Bobbio pubblicò Destra e sinistra,la rivoluzione neoliberista aveva appieno svelato il suo carattere di controrivoluzione diretta a smantellare diritti sociali e
Welfare.La forbice delle diseguaglianze da allora si è sempre più allargata. Ed egli ad una sinistra che, mentre continuava a fare un uso verbale di se stessa, si piegava nei fatti ai vincitori, disse che la sua distinzione con la destra restava più che mai attuale di fronte alle nuove povertà; e che suo compito era reagire rialzando la bandiera dell’eguaglianza, il fondamento della sua ragion d’essere. Ho trovato i commenti di Daniel Cohn-Bendit e Matteo Renzi alla nuova edizione del saggio di Bobbio in parte poco pertinenti e in parte devianti. Entrambi esprimono omaggio all’illustre autore, ma convergono, ciascuno a modo suo, nel considerarne l’analisi invecchiata in quanto legata ad un quadro superato, da innovare in relazione ai cambiamenti della società. Cohn Bendit dice che sì, certo, «possiamo attribuire alla sinistra la promozione dell’idea dell’eguaglianza», ma che «ciò non vuol dire però che essa le appartenga indefinitamente » (??); che la diade destra-sinistra è pertinente, ma che per definire l’identità dei due termini sarebbe meglio «cercarla nei metodi» (??); che non basta voler come Bobbio «ridare semplicemente credito alla sinistra», ma bisogna «difendere la frontiera della democrazia» (??); che il «postulato teorico» di Bobbio «trascura in particolare l’idea di una evoluzione delle nostre “sensibilità democratiche”. Quindi Cohn-Bendit si lancia in una tirata generalizzante secondo cui i «partiti tradizionali» di destra e sinistra si confondono nell’unica notte in cui tutte le vacche sono nere. Essi «sono incapaci di riformarsi per rendersi permeabili alle società», pari sono nel «compiacersi della demonizzazione degli estremisti e dei populisti» e nel cadere essi stessi nella demagogia, nella loro impotenza di fronte alla globalizzazione, nel dare sostegno ai regimi autoritari, nella loro ideologia produttivistica, nella sordità verso l’ecologia politica, nel sostenere il centralismo dell’Unione Europea. Il critico fa affermazioni alcune delle quali, anche quando vorrebbero, non contraddicono affatto le posizioni di Bobbio e in parte fuoriescono senza costrutto dalla sua problematica. Si aggiunga che l’impianto teorico di Bobbio fornisce criteri per valutare anche, quando e dove vi siano, le “ignobili” commistioni in via di fatto tra destra e sinistra che suscitano la protesta di Cohn-Bendit.
Renzi la parola “sinistra” la tiene buona. Ma pensa che la coppia bobbiana «eguaglianza/diseguaglianza» sia troppo rigida per «riassorbire integralmente la distinzione destra/ sinistra». La vede troppo figlia di «blocchi sociali» che «non esistono più». Oggi bisogna misurarsi con l’insorgere dei populismi, dei movimenti xenofobi, con una società «sempre più individualizzata», con le nuove tecnologie, con un processo ambiguo che insieme crea e distrugge comunità e identità. Certo: l’eguaglianza – non l’egualitarismo – resta una frontiera per i democratici in un mondo «dilaniato da disparità di diritti, reddito, cittadinanza». Renzi vedrebbe meglio declinata la diade sinistra-destra nella chiave di «innovazione/conservazione», «aperto/chiuso», «avanti/indietro». Ma dovrebbe tenere presente che, se oggi non esistono più i vecchi blocchi sociali, se ne danno di nuovi, i quali anche più di ieri oppongono i sempre più ricchi ai sempre più poveri che a differenza dei lavoratori organizzati di un tempo sono disarticolati, frammentati e perciò ancora più bisognosi di essere protetti. Innovazione/conservazione sono slogan che hanno senso, ma a condizione di svelare i loro contenuti in termini, appunto, di destra o sinistra: tertium non datur. A fare appello all’innovazione contro la conservazione, all’aperto/chiuso sono stati negli ultimi decenni proprio i cantori del neoliberismo. E quindi attenzione alle parole senza aggettivi.

Repubblica 18.3.14
Una nuova politica costituzionale
di Stefano Rodotà


È ancora possibile una politica costituzionale? La questione non riguarda soltanto l’Italia, né si esaurisce nel controllo di conformità delle leggi a singole norme della Costituzione. Ma, quando si segnala questo tema, accade spesso di ricevere risposte infastidite, quasi che si volesse mettere la politica sotto una incombente e inammissibile tutela del diritto.
La realtà è del tutto diversa. Oggi la politica appare come l’ancella dell’economia, è declassata ad amministrazione, è affidata alla tecnica. Il recupero della sua autonomia, non dirò del suo primato, non può che essere affidato alla sua capacità di tornare ad essere espressione visibile di principi democraticamente definiti, appunto quelli che si rinvengono nei documenti costituzionali, dunque espressione di un progetto che ingloba il futuro, né volubile, né arbitrario. È una questione che ha un rilevante significato generale. E che, nell’attuale situazione italiana, va seriamente discussa, perché è destinata ad incidere fortemente sul modo in cui vengono affrontate la riforma elettorale e quella costituzionale.
Nell’ultima fase storica si è determinato un passaggio dallo Stato di diritto allo Stato costituzionale di diritto, connotato dal controllo di costituzionalità sulle leggi e dalla istituzione di uno spazio dei diritti fondamentali. Proprio questo modello appare oggi in discussione, scosso dalla globalizzazione del mondo e dalla sua riduzione alla dimensione finanziaria. Costituzioni e diritti appaiono un impaccio, lo si proclama talvolta apertamente, sempre più spesso si agisce come se non esistessero. Lo vediamo in Italia, ne abbiamo conferma in Europa, dove la Carta dei diritti fondamentali è stata cancellata, malgrado abbia lo steso valore giuridico dei trattati. Lo Stato costituzionale di diritto sarebbe dunque alla fine, viviamo in una fase in cui la mancanza di un quadro istituzionale riconosciuto favorisce l’espandersi di poteri incontrollati?
Rivolgendo lo sguardo alle cose di casa nostra, vi è un grave rischio di cui è bene avere piena consapevolezza. La corsa ormai senza freni verso soluzioni maggioritarie, con seri rischi di incostituzionalità, può determinare un appannarsi di importanti garanzie costituzionali. Se vi è ancora memoria della nostra storia, si dovrebbe sapere che quelle garanzie erano state affidate dai costituenti a maggioranze calcolate con riferimento ad un sistema elettorale proporzionale, che consentiva un ampio pluralismo delle forze presenti in Parlamento. Diconseguenza, non v’era una concentrazione di potere in un partito o in una coalizione tale da consentire interventi in materia costituzionale affidati ad un solo soggetto, magari costruito artificialmente grazie a premi di maggioranza. Nel 1953, contro la “legge truffa” si adoperò proprio l’argomento di una concentrazione di potere nelle mani dei vincitori che poteva alterare gli equilibri costituzionali. E si deve aggiungere che il rischio oggi è maggiore, visto che quella legge tanto esecrata prevedeva che il premio di maggioranza scattasse solo se la coalizione superava il 50% dei voti.
È indispensabile, allora, una politica costituzionale che ridisegni il quadro delle garanzie, prevedendo maggioranze più larghe per la revisione costituzionale, l’elezione del Presidente della Repubblica e dei giudici costituzionali, mettendo in sicurezza proprio le istituzioni di garanzia e i diritti fondamentali. Non è un compito da affidare al futuro, ma un processo da avviare in parallelo con l’incombente forzatura maggioritaria. Altrimenti, eletta la “governabilità” a feticcio indiscutibile, sarebbe travolto il sistema delle tutele, alterando in un punto nevralgico gli equilibri democratici. Serve una “ricostituzionalizza-zione”, analoga a quella necessaria in Europa ridando il suo ruolo alla Carta dei diritti fondamentali. Bisogna ricostruire il nesso tra le varie parti della Costituzione, cancellato da una sottocultura che vede la “macchina” dello Stato come dotata di una logicache può essere manipolata secondo gli interessi di una maggioranza transitoria, e non come lo strumento per realizzare i principi e i diritti sui quali la Costituzione si fonda.
Ma la politica costituzionale è indispensabile anche per uscire da una schizofrenia che da anni affligge il nostro sistema. I diritti fondamentali sono scomparsi dall’orizzonte parlamentare, dove le poche leggi approvate sono state ideologiche e repressive. La loro tutela è stata tutta affidata alla giurisdizione, Corte costituzionale e Corte di Cassazione, dove per fortuna è rimasta vigile una cultura delle garanzie. Ora il Parlamento deve riassumere le proprie responsabilità, affrontando grandi questioni individuali e sociali, di cui non v’è traccia nell’agenda del Governo. O la necessità di salvaguardare i precari equilibri di maggioranza ci condannano ad una minorità civile? Qualche esempio. Il riconoscimento effettivo delle unioni anche tra persone dello stesso sesso, non come una mancia data a malincuore e al ribasso, ma come tutela di diritti fondamentali, secondo la linea tracciata dai giudici costituzionali e della Cassazione. Una normativa coerente al posto delle macerie lasciate dalla superideologica e incostituzionalelegge sulla procreazione assistita. Una nuova disciplina sugli stupefacenti senza concessioni a furbizie e colpi di mano come quello tentato dalla ministra per la Salute. Regole minime per eliminare ognidubbio sul diritto di morire con dignità. Altrettanto urgente, dopo il monito del Consiglio d’Europa, è un intervento che cancelli lo scandalo del dilagare delle obiezioni di coscienza dei medici all’aborto, che negano un diritto delle donne che la legge vuole pienamente garantito dalle istituzioni pubbliche. Tutte questioni che toccano “valori non negoziabili” e che mettono a rischio la tenuta dell’attuale maggioranza? Ma qui non v’è nulla da negoziare. Vi è soltanto il dovere di dare attuazione a diritti costituzionalmente garantiti, che non possono essere assoggettati a ricatti e convenienze. Ineludibili politiche costituzionali, appunto.
Nello spazio tra i silenzi parlamentari e i provvidi, ma insufficienti, interventi dei giudici si è manifestata negli ultimi tempi una importante attenzione delle istituzioni locali. Una legge della Regione Abruzzo ha aperto la strada all’uso terapeutico della cannabis. Molte delibere comunali saffrontano temi importanti, dai testamenti biologici alle unioni civili, dalla cittadinanza “civica” dei figli degli immigrati alle garanzie per i detenuti (segnalo per la sua ampiezza il “pacchetto” del comune di Parma). A Bologna è stato approvato un regolamento per la collaborazione tra cittadini e amministrazione per la cura dei beni comuni. Iniziative simboliche in alcuni casi, ma sempre politicamente significative, perché volte a ricostruire, attraverso l’attenzione per i diritti e la partecipazione. i rapporti tra istituzioni e cittadini. La politica costituzionale si sta insediando nei luoghi della democrazia di prossimità?
Questa lezione può essere messa a frutto dal Parlamento in molti modi. Rafforzando il suo rapporto con i cittadini con semplici modifiche regolamentari che diano forza alle iniziative legislative popolari (e invece arrivano segnali timidi e inadeguati). Cogliendo tutte le occasioni per mettere in evidenza l’irriducibilità dei diritti fondamentali alla pura logica di mercato (un segnale eloquente è venuto dallo scandalo dei prezzi di farmaci prodotti da Roche e Novartis). Ricostituzionalizzando il diritto del lavoro con la cancellazione dell’articolo che consente negoziati in azienda anche in deroga alla legge, che azzera storiche garanzie, e approvando una legge sulla rappresentanza sulla linea indicata dalla Corte costituzionale. Solo così il Parlamento potrà recuperare un po’ della legittimazione perduta per il fatto d’essere stato eletto con una legge incostituzionale e per l’ormai radicata sfiducia dei cittadini.

Repubblica 18.3.14
Il cambio di passo dell’Europa
di Giorgio Ruffolo e Stefano Sylos Labini


Dopo circa 15 anni dall’ultima grande manovra di riduzione delle tasse, quella attuata nel 2000 dall’allora ministro dell’Economia Vincenzo Visco nel governo Amato, il nuovo governo Renzi ha deciso di tagliare le tasse ai lavoratori con basso reddito. Si tratta di un intervento da 10 miliardi di euro che interesserà circa 10 milioni di lavoratori i quali avranno un incremento del potere di acquisto di 80 euro mensili. È una scelta giusta attesa da tempo immemorabile che può rilanciare i consumi, passo fondamentale per sostenere la produzione, l’occupazione e gli investimenti delle imprese.
Immediatamente sono divampate le polemiche: la Banca Centrale Europea ha redarguito il governo italiano perché non sta attuando quelle misure necessarie per ridurre l’enorme debito pubblico. La critica della Bce è inaccettabile per due motivi fondamentali.
Primo, perché la Bce dovrebbe preoccuparsi di intervenire per ridurre il valore dell’euro che ormai è arrivato ad 1,4 rispetto al dollaro: l’euro forte sta distruggendo le economie meno competitive dell’Unione Monetaria rendendo vane tutte le politiche di riduzione del debito pubblico.
Secondo, perché il risanamento dei conti pubblici potrà essere ottenuto solo se ci sarà una ripresa dell’economia e la crescita dell’occupazione. Pertanto, se veramente si vuole ridurre il peso del debito pubblico, bisogna lanciare un grande piano di investimenti per avviare un nuovo ciclo di crescita. L’affermazione che politiche per la crescita e misure di risanamento possano coesistere è solo una grande menzogna. Senza maggiore occupazione non ci può essere la riduzione del debito.
Ricordiamo che Joschka Fischer, exbraccio destro del Cancelliere socialdemocratico Gerhard Schröder nei primi anni duemila, in un’intervista rilasciata un paio di anni fa aveva affermato che “L’attuale strategia chiaramente non funziona. Va contro la democrazia e va contro la realtà: lo sappiamo sin dalla crisi del 1929, dalle politiche deflattive di Herbert Hoover in America e del cancelliere Heinrich Brüning nella Germania di Weimar, che l’austerità in una fase di crisi finanziaria porta solo a una depressione. Sfortunatamente, sembra che i primi a dimenticarlo siamo proprio noi tedeschi”.
È necessaria, dunque, una svolta radicale nella politica economica europea. La Banca Centrale Europea deve attuare una consistente espansione monetaria per portare il tasso di cambio dell’euro in rapporto al dollaro ad un valore non più alto di 1,2. E considerando che in questa fase la pressione sui tassi di interesse si è allentata e che non c’è nessuna garanzia che le banche facciano affluire le maggiori risorse finanziarie nell’economia reale se questa non riprende a crescere, la Bce dovrebbe garantire l’emissione di Eurobonds per finanziare un grande piano di investimenti a livello continentale assicurando il pagamento delle spese per interessi sulle nuove obbligazioni.
Se tale linea di azione non sarà fatta propria dai principali paesi europei come la Germania e la Francia, la situazione potrebbe aggravarsi per il crescente sentimento antieuropeista che sta montando non solo in Italia ma nella maggior parte dei paesi in difficoltà. In Italia, da tempo, stanno circolando proposte molto drastiche tra cui il ritiro delle risorse che sono state versate nel Fondo Salvastati, superiori a 40 miliardi di euro, la costituzione di un Euro del Sud Europa e addirittura l’uscita dell’Italia dall’Unione Monetaria Europea.
La nostra speranza è che l’euro possa sopravvivere, ma perché ciò avvenga occorre che vi sia un netto cambiamento della politica economica e che si passi dalle invocazioni alla crescita e alla lotta alla disoccupazione ad azioni concrete che siano in grado di rilanciare il progetto di integrazione europea.

Corriere 18.3.14
Scorciatoie ingannevoli
di Alberto Alesina e Francesco Giavazzi


Se Matteo Renzi fosse un ciclista giudicheremmo il suo inizio in questo modo. È partito, si impegna, pedala con entusiasmo, ma per ora è in pianura. Le salite devono ancora arrivare. Non è chiaro che cosa riuscirà a fare, perché con le montagne il ciclista Renzi non si è ancora cimentato. E in questa corsa ci saranno tante salite e avversari difficili.
La prima è la riforma del mercato del lavoro. Renzi ha proposto varie semplificazioni dei contratti a tempo determinato e dell’apprendistato: bene, ma era relativamente facile. La salita arriverà quando si dovrà decidere se abolire l’articolo 18 per i nuovi assunti. Ovvero, se si vorrà adottare il modello proposto da Pietro Ichino: un contratto uguale per tutti, senza differenziazione fra lavoratori a tempo determinato e indeterminato, e che consenta alle aziende di licenziare con costi crescenti, ad esempio facendo pagare loro una quota del sussidio di disoccupazione tanto più elevata quanto maggiore era l’anzianità del lavoratore licenziato. Come osservava Maurizio Ferrera (Corriere , 14 marzo), il sussidio dovrà essere esteso a tutti, sostituire la cassa integrazione e prevedere regole chiare che costringano i disoccupati a cercare ed accettare nuovi lavori. Con più del 40 per cento di disoccupazione giovanile, e imprese che non assumono perché attanagliate dall’incertezza, questa maggior flessibilità non può che far bene all’occupazione. Limitarsi a spostare l’applicazione dell’articolo 18 al terzo anno successivo all’assunzione significa solo rinviare il problema, come notava Franco Debenedetti (Corriere , 15 marzo).
La Cgil si opporrà a una vera riforma del mercato del lavoro, che pure consentirebbe a tanti giovani di uscire dall’incubo dei contratti a tempo determinato. Evidentemente i giovani interessano poco alla Cgil, i cui iscritti sono per circa una metà pensionati. Ma riuscirà Renzi a superare in questa salita la Cgil, o rimarrà indietro?
Seconda salita: come finanziare la riduzione delle imposte sul lavoro e sui redditi più bassi e il sussidio di disoccupazione universale. Riuscirà Renzi a imporre tagli di spesa adeguati? Per ora non è chiaro. Il suo silenzio può voler dire due cose. Che ha ben chiaro che fare, ma non lo vuole rivelare troppo presto per non dare un vantaggio a chi si opporrebbe a qualunque taglio, in primis gli alti funzionari pubblici e i membri del suo stesso partito. Lo farà, ma senza dirlo prima, e quindi senza compromessi. L’altra ipotesi e che non sappia da che parte cominciare. Insomma, o il ciclista Renzi ha una strategia per la salita della montagna «spesa pubblica», ma strategicamente la tiene nascosta ai suoi avversari, oppure sta arrancando ed è già senza fiato.
Terza salita: la tassazione delle rendite finanziarie. Renzi ha preso una scorciatoia: l’aumento dell’imposta su alcuni titoli, continuando a privilegiare i debiti dello Stato rispetto a quelli di famiglie e imprese. Ma le scorciatoie sono spesso poco lungimiranti. Come suggerivamo in un editoriale del 21 febbraio, la delega fiscale che il Parlamento ha appena approvato offre un’occasione unica per rivedere in modo complessivo il nostro sistema impositivo. Prendendo spunto dai migliori esempi esteri come Gran Bretagna e Stati Uniti. Tassare il reddito da lavoro in modo progressivo e quello da capitale in modo proporzionale (indipendentemente dall’aliquota) è ingiusto. Le montagne si scalano con metodo e determinazione. Scorciatoie e accelerate improvvise mettono solo a rischio il risultato finale.

La Stampa 18.3.14
Camusso contro Landini:
“Le sue opinioni?  Non sono quelle della Cgil”
Il leader Fiom parla di atteggiamento «ondivago e subalterno» nei confronti
del governo. Secca la replica della segretaria del sindacato di Corso d’Italia

qui

il Fatto 18.3.14
Divisioni a sinistra, congresso Arci senza presidente
La storica associazione delle Case del popolo si spacca e si affida ai reggenti
di Salvatore Cannavò


Per la prima volta nella sua storia ultracinquantennale, l’Arci, storica “associazione ricreativa e culturale”, ha concluso il suo XVI° congresso senza eleggere un presidente né una direzione. Lo scontro tra le due anime interne, una guidata da Filippo Miraglia e l’altra da Francesca Chiavacci, ha prodotto la decisione di riconvocare entro il 30 giugno l’assemblea congressuale per trovare una mediazione.
   Il peso dell'Arci, nella storia della sinistra democratica, è rilevante. Si tratta di una struttura da oltre un milione di soci e 4867 circoli diffusi su tutto il territorio nazionale che si occupa praticamente di tutto: di ambiente e immigrazione, di diritti sociali e civili, di pace e welfare. Fa parte della Banca Etica e del Terzo Settore, è stata parte attiva del movimento “no-global”, ha costituito un potente motore delle ambizioni elettorali del centrosinistra. Come recita l’autodefinizione pubblicata sul sito internet, “l’Arci è una delle pochissime organizzazioni di massa nate nel ‘900 che ha superato senza traumi il passaggio di secolo”. L’esito del congresso, però, sembra smentire questa affermazione.
LO SCONTRO CONGRESSUALE ha visto da una parte la componente più tradizionale, convinta della centralità dei circoli territoriali e della necessità di una direzione nazionale “più leggera”. Un’area rappresentata dalla base storica delle “regioni rosse” di Toscana e Emilia Romagna che ha candidato alla presidenza Francesca Chiavacci, deputata Ds tra il 1994 e il 2001 e attualmente consigliera comunale a Firenze ma non renziana. L’altra componente, invece, guidata da Miraglia, responsabile Immigrazione, ha dato voce ai circoli con meno iscritti ma comunque fortemente impegnati nel sociale. Un’Arci più “movimentista ” ma comunque forte in regioni importanti come la Lombardia, e con l’obiettivo di un maggiore equilibrio tra i circoli delle tessere – in gran parte legate alle attività ricreative (ballo, ristoro, etc.) – e i circoli a vocazione sociale “militante”. Il congresso è esploso quando quest’ultimo ha chiesto di modificare la composizione del Consiglio nazionale, con un voto a scrutinio segreto con l’obiettivo di spostare gli indecisi. L’area più tradizionale a quel punto è insorta minacciando di abbandonare il congresso. Da qui, la scelta di chiedere all’ex presidente, Beni, di continuare a reggere il timone fino a giugno, nonostante l’incompatibilità da parlamentare (è deputato del Pd), affiancandolo da un comitato di reggenti formato dai presidenti dei 17 circoli regionali.
A quel punto se non ci sarà il ritiro da parte di uno dei due candidati alla presidenza si potrebbe andare a una soluzione di mediazione – un nome possibile è il presidente dell’Emilia, Federico Amico – ma in ogni caso bisognerà risolvere il problema degli equilibri interni e della composizione del Consiglio nazionale. Resta, comunque, l’evidenza di una crisi, analoga a quella che sta attraversando un’altra organizzazione già legata alla sinistra italiana, la Cgil. Anche se i nomi che impersonificano lo scontro non hanno la popolarità di Camusso e Landini, le ragioni che li vedono l’uno contro l'altra, sembrano analoghe.

Corriere 18.3.14
Lista Tsipras, un video per ridere sulle divisioni nella sinistra radicale Un gruppo di amici, di sinistra, discute della lista Tsipras al bar e alla fine litigano tutti. Il tema — la sinistra che si divide sempre — è al centro di un video ironico a sostegno della campagna per le Europee. Nel filmato (foto ) una coppia di militanti viene accolta dallo scetticismo degli amici: «Non c’è la parola sinistra nel simbolo» attacca uno. «Non ci sono partigiani candidati» aggiunge un altro. Segue un’escalation di recriminazioni: «Mancano i vegetariani, i leninisti curdi e la minoranza slovena». La voce fuori campo conclude: «Il futuro della sinistra dipende da te, quanto tempo vuoi aspettare ancora?».

l’Unità 18.3.14
Altro che quote rosa, è democrazia paritaria
di Francesca Izzo


È ACCADUTO CON LA PAROLA «FEMMINICIDIO»: AL PRINCIPIO C’ERA UNA RESISTENZAFORTISSIMAADUSARLAperché brutta e urticante, ma poi l’ha spuntata perché è l’unico termine appropriato per denotare l’uccisione di una donna solo perché è donna. Quando con una grande campagna di informazione si è chiarito che mariti, fidanzati, conoscenti le uccidono perché, aspettandosi acquiescenza e subordinazione, non riescono invece a tollerare la loro libertà e il loro rifiuto, allora il termine è diventato di uso corrente.
Ecco ora siamo alle prese con un’analoga situazione, forse ancora più difficile. L’espressione che deve entrare nell’uso comune è «democrazia paritaria» ma deve combattere per affermarsi contro quella semplice e diffusa di «quote rosa». In questi giorni di quote rose se ne è scritto e detto a destra e manca per raccontare dell’iniziativa di un consistente numero di deputate di inserire nella nuova legge elettorale il principio della parità. Chi si è dichiarato a favore chi contro, ma tranne pochissime eccezioni, tutti a parlare di quote rosa.
Appena qualche giorno fa, ad esempio, Gian Antonio Stella ne ha sostenuto la necessaria e temporanea introduzione per vincere uno storico gap. Invece una platea vasta, arringata a sorpresa ieri sera a Che tempo che fa da una Luciana Littizzetto antiquote, è duramente contraria perché respinge le tutele, vuole il merito e non i recinti protetti. Soprattutto le giovani donne si mostrano ostili: hanno misurato a scuola, negli studi, nei concorsi il loro valore e sanno di poter competere alla pari con i loro coetanei e quindi non vogliono essere ricacciate nel ghetto degli svantaggiati, di quote infatti si parla per chi ha degli handicap, per le minoranze ...
Hanno pienamente ragione: le donne non sono una minoranza e per giunta oggi le giovani donne sono forti, preparate e competitive, altro che svantaggiate. E allora? Il fatto è che le parole sono le cose e usare la parola quota per indicare qualcosa di diverso produce terribili fraintendimenti.
Democrazia paritaria è l’espressione adeguata. Adeguata ad indicare che la rappresentanza del popolo (quella che con il voto eleggiamo in Parlamento), per essere democratica e non «oligarchica», deve dare «rappresentazione» del dato basilare che il popolo è fatto per metà da uomini e per metà da donne e che quindi la composizione parlamentare deve essere paritaria. I criteri con i quali vengono scelti i rappresentanti, cioè i famosi merito, qualità e competenza dei candidati riguardano in egual misura sia gli uomini che le donne e prescindono dalla regola paritaria, a meno che non si pensi che merito, qualità e competenza abbondino tra gli uomini e scarseggino tanto drammaticamente tra le donne da dover ricorrere a sciocche incompetenti per rispettarla.
La democrazia paritaria non configura alcuna concessione, alcun regalo o tutela, è la semplice presa d’atto (frutto però di un’epocale rivoluzione culturale e politica) che il popolo sovrano è fatto di uomini e donne e non è una nozione neutra, indistinta. È stata quella nozione neutra a consentire, anche nella storia repubblicana, di considerare «normale» che la rappresentanza fosse monopolizzata dagli uomini e che la presenza delle donne fosse un’anomalia, un’eccezione da giustificare con meriti altrettanto eccezionali. Questa visione, diffusa ancora oggi, è l’eredità di un lungo passato che non vuole passare, nel quale la politica era per definizione cosa esclusivamente di uomini e alle donne era vietato, proibito di occuparsene e qualcuna, per sfidare il divieto, ci ha rimesso pure la testa.
La democrazia paritaria è il compimento della democrazia, perché porta a compimento l’inclusione delle donne nella polis. E fa anche un’altra cosa non meno rilevante: sottrae all’arbitrio o alla «generosità» degli uomini che ne detengono le chiavi una parte del potere di decidere, rendendo più libere le donne.
Non si chiedono meriti o medaglie speciali alle donne per entrare nella cittadella della rappresentanza, né ci aspettiamo azioni miracolistiche dalla loro presenza. Ma credo sia chiaro a tutti che una rappresentanza popolare composta per metà da donne, cambiamenti nella concezione e nella concreta azione politica li produce e sicuramente in meglio, vista la crisi drammatica di credibilità e di fiducia delle istituzioni rappresentative.

Corriere 18.3.14
Quei 1.500 bimbi orfani due volte
La madre uccisa e il padre in cella
di Elvira Serra


Gli esperti: prima delle visite in prigione vanno preparati Non hanno sbagliato, i colleghi di Eraldo Marchetti, a fare subito una colletta per garantire l’aiuto psicologico ai suoi figli, i due gemelli di nove anni che l’altro ieri a Segni hanno dovuto vedere la loro madre agonizzante, con la testa fracassata da un martello. Non hanno sbagliato perché quei bambini, domenica, sono rimasti orfani due volte: della madre, uccisa dal marito, e del papà, che per un po’, almeno, non farà più parte della loro vita. Ed è proprio il modo in cui saranno seguiti da adesso in avanti a fare la differenza nella loro crescita, nell’elaborazione di un lutto impronunciabile, provocato dall’uomo che, insieme con la mamma, rappresentava tutte le certezze dei piccoli.
Sono millecinquecento i minorenni rimasti soli dopo un femminicidio, dal 2000 al 2013. A stimarli per l’Italia è stato il Dipartimento di psicologia della Seconda Università degli Studi di Napoli, all’interno del progetto europeo «www.switch-off.eu» (Who, where, what. Supporting children orphans from feminicide in Europe). Una task force microscopica — soltanto otto persone, compresa la coordinatrice Anna Costanza Baldry — eppure preziosissima, che si appoggia all’Associazione nazionale donne in Rete, Dire, con 65 centri antiviolenza in tutto il Paese.
Potremmo dedurre che la maggior parte di questi ragazzini sono al Nord, ma sarebbe una semplificazione: è vero che il 50 per cento delle donne uccise nei tredici anni presi in esame vivevano tra la Lombardia, il Veneto, il Piemonte; ma, sempre stando alle statistiche, al Nord erano più giovani, dunque forse non tutte avevano figli. C’è poi da aggiungere che spesso i giovanissimi vengono affidati a parenti o a comunità in altre regioni: non è semplice fare una mappatura esatta.
Lo spiega la dottoressa Baldry: «Il nostro punto di partenza sono i nomi delle vittime e non è detto che i cognomi dei figli siano gli stessi. Allora contattiamo gli avvocati, ci rivolgiamo all’anagrafe, ai nonni, ai parenti, alle parrocchie, a chiunque sia direttamente o indirettamente coinvolto con la vita di quei ragazzi».
Le istituzioni molte volte non sono di aiuto. «Fanno resistenze secondo me ingiustificate. Noi comunque non piombiamo all’improvviso nella vita delle vittime. Se chiediamo un colloquio con un maggiorenne è per capire come ha vissuto la fase successiva al lutto, se è stato aiutato e da chi, cosa lo avrebbe potuto far stare meglio. I bambini non li incontriamo: per loro ci bastano i racconti degli affidatari. E per i più grandi, ancora minorenni, c’è sempre bisogno del permesso da parte dell’affidatario».
Questi figli sono orfani due volte, della loro mamma, ma anche del padre che quella madre l’ha uccisa e che dopo, una volta su tre si suicida, negli altri casi va in carcere. «Non vorrei sembrare troppo dura, ma viene da pensare che questi ragazzi siano orfani tre volte, perché pure lo Stato li ha abbandonati nel momento in cui ha ignorato le denunce di violenza presentate dalle vittime» prosegue Baldry.
Ai ragazzi, poi, pensano i parenti o le comunità. Anche qui, l’esperienza dimostra che non esiste una soluzione buona per tutti. C’è l’adolescente affidata ai nonni anziani che non capiscono il suo bisogno di uscire e frequentare coetanei; c’è quello che va a vivere con i parenti del padre, omicida e suicida, per non chiudere completamente i ponti con quel ramo della famiglia, ma l’altro ramo non capisce. E Baldry non nasconde che «c’è bisogno di una grandissima consapevolezza, in queste situazioni, e di risorse: chi è più benestante può rivolgersi agli specialisti migliori per far seguire un orfano. Ma chi non lo è come può essere aiutato?».
I colloqui di questi anni stanno portando ad acquisire informazioni importanti per il «dopo». È utile o no far partecipare un bambino al funerale del genitore? Bisogna portarlo in carcere a visitare il padre? Ogni caso va affrontato singolarmente, però gli esperti ammettono che sia necessario rendere i figli partecipi del dramma familiare facendogli salutare la madre per l’ultima volta alle esequie. Quanto alla visita in prigione, non può avvenire senza una adeguata preparazione psicologica.
In Portogallo il corrispettivo dell’associazione Dire sta lavorando con l’Ordine dei giornalisti per fissare un mini prontuario da adottare sul campo, durante un servizio di cronaca: le informazioni raccolte dal reporter saranno di aiuto a inquadrare l’omicidio nelle giuste categorie.
«Abbiamo bisogno della collaborazione di tutti» conclude Anna Costanza Baldry. «Chiediamo a chi può aiutarci di farlo, sul sito www.switch-off.eu o mandando un’email a info@switch-off.eu. Finita l’emergenza, non dobbiamo dimenticarci di questi orfani».

l’Unità 18.3.14
Le critiche reazionarie a Papa Francesco
di Claudio Sardo


TANTO È STATO SCRITTO SUL PRIMO ANNO DI PONTIFICATO DI FRANCESCO. E NON CERTO PERCHÉ LA CHIESA, ASSEDIATA DAL MONDO SECOLARIZZATO, ABBIA RIMONTATO UN SOLO CENTIMETRO DEL TEMPORALISMO PERDUTO. Al contrario la percezione diffusa, tra i cattolici e non, è che la rivoluzione del Papa argentino muova da una ricerca di autenticità evangelica e parli alla crisi del nostro tempo con una profondità e un’intensità che sono oggi irraggiungibili dal «potere». Piuttosto hanno a che fare con il «contropotere», con un possibile riscatto dell’uomo dall’«economia che uccide» (espressione dell’Evangelii gaudium) o dall’egoismo che
riduce la persona ad individuo.
Non tutti i commenti, però, sono stati positivi. Critiche si sono levate anche dall’interno della Chiesa. Ma la stessa manifestazione, così precoce e agguerrita, di un’opposizione tradizionalista rafforza l’idea che ci troviamo in un tornante storico. La contestazione reazionaria di matrice cattolica ha preso di mira in particolare l’impianto del Sinodo sulla famiglia. L’apertura, pur condizionata, del cardinale Kasper alla riammissione dei divorziati risposati ai sacramenti della penitenza e della comunione ha scatenato la più feroce ed emblematica delle polemiche. La purezza della dottrina è stata contrapposta all’impurità del perdono e della misericordia. La fede è stata separata dalla carità. La missione della Chiesa è stata recintata nella legge canonica e nella teologia, come se ad esse competesse il giudizio ultimo, il principio di verità. Il Sinodo sulla famiglia sarà un passaggio importante nel rapporto tra Chiesa e mondo. Non è un Concilio, non c’è un dogma in discussione. Ma per i tradizionalisti includere il vangelo della famiglia in un cammino di conversione che attraversa il nostro tempo e le sofferenze concrete delle persone è un rischio insopportabile. Vedono comunque il dogma incrinato. Non hanno fiducia nella presenza di Dio nella storia. E senza dogma non riconoscono la verità.
Non sono a confronto soltanto due idee di Chiesa. Dentro questa disputa ci sono diverse idee dell’uomo e della sua vocazione. «La dottrina è soggetta anche a uno sviluppo», ha detto Kasper suscitando scandalo. Prima del Vaticano II i divorziati erano scomunicati. Ora sono ammessi alla comunione spirituale. E una maggiore accoglienza domani potrebbe riavvicinare alla Chiesa tanti giovani, figli di coppie che si sono ricostruiti una famiglia, dopo il dolore e a volte senza colpa. Cosa fa muovere la dottrina? Non la resa allo spirito del tempo, che per i tradizionalisti è propaggine del demonio. L’epistola di Giacomo dice del demonio che anche lui crede e teme Dio, ma la differenza è che non sa amare. Il comandamento evangelico dell’amore, quello che riassume l’intera legge giudaica, può far muovere la dottrina. È concepibile una comunità senza perdono, un’amicizia senza gratuità, una fede senza carità? Il dialogo con il mondo contemporaneo, così problematico per la Chiesa in Occidente, passa da qui. Se c’è una rivoluzione di Papa Francesco, questa consiste anzitutto in una lettura del vangelo senza mediazioni (senza glosse, come invocava il santo di Assisi). La storicità di questo papato sta nel richiamare i cristiani divenuti ormai minoranza alla loro vera origine. Essere sale e lievito. Non giudice al posto di Dio. L’accusa di relativismo o di modernismo, rivolta al Papa, si ammanta di austerità ma è particolarmente banale.
Semmai c’è un relativismo cristiano con cui fare i conti. Un relativismo che ammette il limite umano. Non c’è legge che possa comprimere la libertà e la misericordia di Dio. La Chiesa e il Papa, per chi crede, sono posseduti dalla verità, ma non la possiedono per intero. La conoscenza della verità cresce nella relazione. Sono le sofferenze delle donne e degli uomini, le loro speranze, le loro cadute, il loro desiderio di giustizia a consentire ai credenti di progredire. In questo senso, è vero che l’azione pastorale di Francesco, alla fine, toccherà la teologia e la dottrina. Ma la conversione compresa la riforma della Chiesa sarà valida se coinvolgerà il popolo, se non riguarderà solo i chierici, se sarà capace di portare l’annuncio al mondo. Il kerygma cristiano (la notizia della Resurrezione) viene prima della morale cristiana. E di ogni clericalismo.
La teologia del popolo di Bergoglio non è una teologia politica. Una teologia politica, o forse solo un’ideologia, è quella dei conservatori che cercano nella dottrina cristiana un collante per la società capitalistica in crisi o una giustificazione estrema per il liberismo che ha aperto la strada al dominio del denaro. Ma tutto ciò sfugge definitivamente con Papa Francesco, che chiede ai cristiani di condividere le povertà. Certe critiche reazionarie al documento Kasper hanno più a che fare con la disperazione dei teocon che con la teologia morale. I tradizionalisti provano a contrapporre Ratzinger a Bergoglio. Ma non sanno spiegare le dimissioni di Benedetto XVI e la sua fiducia nella Chiesa.
Tutto ciò non lascia indifferente neppure il discorso laico, civile. Un cristianesimo che rivitalizza la radice evangelica è una risorsa di liberazione in questa società sempre più omologata. Non la sola risorsa. Ma una risorsa tanto più importante se affidata, nell’azione pubblica, alla piena responsabilità dei laici cristiani. Un’altra novità di Papa Francesco sta proprio nella rottura di molte mediazioni del passato. Nessuno può pretendere di parlare a nome della fede: chi vuole la può servire.

il Fatto 18.3.14
Carriere
La svolta buona è farsi prete
di Daniela Ranieri


Quei 600 mila giovani italiani che cercano un lavoro e non lo trovano (un milione se aggiungiamo quelli che ormai non lo cercano più), hanno forse una speranza. Non la politica, mestiere faticoso, accidentato benché remunerativo, per cui serve non diremmo una laurea (D’Alema non è laureato) ma almeno una buona dose di cinismo. L’unico porto franco, libero da frustranti tentativi e umiliazioni contrattuali, è la carriera ecclesiastica. Sì, farsi preti. Perché non ci avete ancora pensato? Un breve elenco dei vantaggi a ciò connessi: vitto e alloggio gratis, stipendio dignitoso che si aggira, per i più bassi gradi, intorno ai 1.000 euro (la remunerazione di un ricercatore in Fisica delle nanoparticelle) con indennità supplementare se si insegna religione nelle scuole, senza scordare le prebende rimesse al buon cuore dei fedeli; esenzione da tasse sulla casa e sui servizi, orpelli burocratici, dichiarazione dei redditi, oneri fiscali di ogni tipo, capestri di trattenute, Iva, iscrizioni ad albi, assicurazioni sanitarie; possibilità di carriera ascetica, non solo in senso spirituale ma proprio verticale, lungo l’unica scala mobile ancora funzionante e oliata; un guardaroba di abiti a loro modo eleganti, a volte persino preziosi o, a seconda dei gusti, addirittura pomposi, via via che si sale di grado. Ad aver fortuna, il vostro domicilio sarà ubicato in posti stupendi, un convento in stile gotico sulla via dei Laghi, un bilocale in Prati, una cella ad Assisi, una casupola nella diocesi di Favignana. In cambio, nessun presidente del Consiglio italiano verrà mai a dirvi che dovete pagare l’Imu o la Tasi o qualsiasi altro acronimo che la fantasia del legislatore partorirà. Dite: date a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio; ma voi non darete niente a nessuno dei due.
LA VITA DEL PRETE, poi, non è affatto male. Se si è schivi, ci si può dedicare alla lettura nella penombra dei chiostri; se si è spiritosi ci si può far invitare da Giletti o D’Urso a discettare di come va il mondo, e persino di politica, del sesso che si è giurato di non fare, del modo di partorire ed educare i figli che non si avrà, di gestire le ovulazioni di donne di cui non si condivide la vita. Certo, come in tutte le professioni ci sono dei contro, dei sacrifici da fare: alzarsi all’alba per le preghiere, mancare gli anticipi di campionato per il rosario e i vespri, avere a che fare con estreme unzioni e feretri (ma quando volevate fare il chirurgo d’urgenza non sapevate di dover trattare cadaveri?). Il problema, direte voi, è fare tutto questo in assenza di fede: come si fa a portare tutto il giorno una maschera, sorridere quando si vorrebbe azzannare, vendere un prodotto in cui non si crede, fingere amore e dedizione alla causa quando si vorrebbe scappare, disertare, imprecare? Ma, ragazzi, pensateci bene: è esattamente come in qualsiasi altro lavoro. Forse che un promoter di call center “crede” a quello che è costretto a dire per 8 ore al giorno, incessantemente registrato da un orecchio forse ancora più infallibile di quello di Dio? Forse un venditore di aspirapolvere la sera, prima di dormire, si mette a magnificare le qualità ineffabili del filtro o di un sacchetto? Forse un impiegato del catasto non obbedisce al proprio superiore anche se lo ritiene un cretino, e una web manager non deve fare finta di amare il proprio lavoro sopra ogni altra cosa, di essere sposata col suo BlackBerry, ed essere raggiungibile “h24”?
MA VOI NON siete così cinici; vorreste solo riposare un po’ al fresco di un’ombrosa sagrestia. Magari, ecco, scrivere il romanzo della vostra vita. E non è che sia facile, se ogni due per tre dovete recitare un salmo o un Egote absolvo (le confessioni! Quanti spunti di biografie nelle confessioni). Ma qui il discorso cambia: se avete velleità letterarie, la scelta migliore è farvi arrestare. Sì, con un piccolo reato come la detenzione di droghe potete restare in gattabuia qualche mese, spesso sufficienti per scrivere qualsiasi opera che un editore decida di pubblicare. Se volete scrivere Il Conte di Montecristo, vi conviene spacciare (occhio, però: si ristabilirà, pare, la distinzione tra droghe pesanti e leggere): se vi dice bene, vi danno dagli 8 ai 20 anni. Non paga invece il crimine organizzato, la frode fiscale, il concorso esterno in associazione mafiosa. Con le leggi che abbiamo, rischiate di trovarvi a piede libero (e disoccupati) dopo due settimane. O candidati alle elezioni. E stiamo da capo a dodici. Solo a titolo informativo: pare che il vitto e le condizioni igieniche delle carceri non siano proprio il massimo, e comunque niente a che vedere con la sobria eleganza di un convento. Fatevi preti e suore, giovani, è questa ormai la rivoluzione.

Corriere 18.3.14
Se 5 miliardari valgono come 13 milioni di Inglesi
di Fabio Cavalera


Possiamo considerarli i paradossi del darwinismo ultraliberista: chi è ricco è sempre più ricco e chi è povero è sempre più povero. Ma adesso siamo un passo oltre, la selezione colpisce anche i miliardari, così chi è più miliardario di altri miliardari è destinato a consolidare il privilegio e il patrimonio. Quasi ovvio. Ma i calcoli dell’Oxfam, una confederazione di 17 organizzazioni non governative impegnate nella lotta alle ingiustizie sociali, indicano in una curiosa fotografia del Regno Unito, che ci vuole la bellezza di 12,6 milioni di britannici, il 20% più povero dell’intera popolazione, per mettere assieme i redditi, le rendite e i tesori che si concentrano nel portafoglio di cinque famiglie: i Grosvenor,  i fratelli Reuben, i fratelli Hinduja, i Cadogan e Mike Ashley.
Non c’è che dire. Cinque famiglie se la spassano davvero bene in quel di Londra e non solo. La crisi finanziaria è arrivata e da sei anni sta massacrando l’economia ma per questi signori e signore la pacchia è magicamente aumentata. Paradossi del darwinismo ultraliberista: chi è ricco è sempre più ricco e chi è povero è sempre più povero, è l’adagio ricorrente e reale. Ma adesso siamo un passo oltre, la selezione colpisce anche i miliardari, così chi è più miliardario di altri miliardari è destinato a consolidare il privilegio e il patrimonio.
Quasi ovvio. Se non che alcuni calcoli dell’Oxfam, che è una confederazione di 17 organizzazioni non governative impegnate nella lotta alle ingiustizie sociali, trasformano un concetto condiviso ma astratto in una fotografia in bianco e nero (o a colori dipende dai punti di vista) del Regno Unito, terzo millennio post trauma recessione. Operazione tutto sommato semplice che ha un risultato altrettanto semplice: ci vuole la bellezza di 12,6 milioni di britannici, il 20% più povero dell’intera popolazione, per mettere assieme i redditi, le rendite e i tesori che si concentrano nel portafoglio dei Grosvenor, dei fratelli Reuben, dei fratelli Hinduja, dei Cadogan e di Mike Ashley.
Il rapporto dell’Oxfam ha un titolo che non ha bisogno di spiegazioni: «Un racconto di due Gran Bretagne». La prima è il Paese dei meno garantiti (i 12,6 milioni) che hanno una «fortuna» calcolata mediamente in 2.230 sterline, fra retribuzioni, sussidi e proprietà, e che sommati valgono 28,1 miliardi di sterline (quasi 33,6 miliardi di euro). Il secondo è il Paese dei magnifici cinque, i quali vanno appena oltre la soglia e tagliano il nastro dei 28,2 miliardi (33,7 miliardi di euro). Ben Phillips, che dirige l’Oxfam, sintetizza lo stato dell’arte: «Siamo una nazione profondamente divisa, l’élite benestante vede schizzare verso l’alto i suoi guadagni mentre milioni di persone cercano di sbarcare il lunario».
I magnifici cinque hanno mietuto successi in tempi di rigore estremo. I Grosvenor, e il loro numero uno Gerald, il Duca di Westminster, sono i signori delle terre: 39 mila ettari in Scozia, 13 mila in Spagna e 77 nel cuore londinese, ovvero Mayfair e Belgravia, il che significa tutto ciò che sta attorno a Buckingham Palace. Ricchezza di 7,9 miliardi. I fratelli Reuben, un po’ più miseri (6,9 miliardi), hanno avuto la lungimiranza di buttarsi sull’alluminio dell’Unione Sovietica in disfacimento, hanno fatto scorpacciata di fabbriche e sono diventati generosi finanziatori dei Tory, pur avendo simpatia per Lord Mandelson, uno dei fondatori del New Labour. I laburisti possono comunque consolarsi con i fratelli Hinduja, affari in 37 Paesi (dall’India all’Iran, dalle banche ai lubrificanti), che li foraggiano a dovere grazie al patrimonio di cui dispongono (6 miliardi). Poi i Cadogan, nobiltà, terreni e case a Chelsea e Knightsbridge, e Mike Ashley che ha tirato su la catena di abbigliamento sportivo di marca ma all’ingrosso, la «Sports Direct», impero con migliaia di dipendenti.
Bravi, oculati, fortunati. Il vertice della piramide economica e sociale. Sotto, il dramma o quasi di milioni di britannici, quei 12,6 milioni che faticano a tirare avanti. E se si sospetta che i dati suggestivi diffusi dall’Oxfam siano eccessivi basta guardare un documento dell’amministrazione londinese che ammette: «C’è un significativo divario fra i ricchi e i poveri e sta crescendo». Il numero ufficiale del censimento parla chiaro: il 10% facoltoso della popolazione controlla il 45% dei beni immobiliari e finanziari. Se poi dalle statistiche si tolgono il Sud-Est inglese e Londra, le aree della borghesia, l’immagine del Regno Unito, meraviglioso Paese di Bengodi, ne risulta assai ridimensionata. Le diseguaglianze si ampliano e il reddito medio diminuisce (era di 24 mila sterline nel 2007, di poco sopra le 23 mila oggi).
Il governo Cameron sta per sfornare (domani) il suo documento, il budget, sulla salute economica dell’Isola. Il Pil marcia (grazie ai motori londinese e del Sud-Est), la disoccupazione inverte il cammino negativo, le retribuzioni sembrano rivalutarsi oltre il tasso di inflazione. Eppure davanti c’è ancora austerità perché deficit e debito non sono sotto controllo. La selezione del darwinismo ultraliberista non è terminata. I magnifici cinque possono dormire sonni tranquilli.

La Stampa 18.3.14
Londra: “Carceri italiane inumane”
Bloccata l’estradizione del mafioso
di Riccardo Arena


È il principio a lasciare di stucco: un tribunale londinese dice di no all’estradizione di un mafioso di Trabia, piccolo comune a due passi da Palermo, perché le carceri italiane non garantiscono ai detenuti un trattamento adeguato dal punto di vista umanitario. Domenico Rancadore, 65 anni, ex insegnante di educazione fisica, condannato con sentenza definitiva a sette anni di carcere nel capoluogo siciliano, non torna dunque in Italia. È stato anzi rilasciato su cauzione (ha pagato 20 mila sterline), anche se dovrà indossare il braccialetto elettronico, uscire a orari determinati e comunicare i propri spostamenti dall’abitazione di Uxbridge.
Inutili dunque le indagini della Procura di Palermo, che l’estate scorsa avevano interrotto una latitanza ventennale. Presentatosi col volto coperto, assieme alla moglie inglese, Anne Skinner, davanti al giudice Howard Riddle, «chief magistrate» della Westminster Court di Londra, Rancadore ha fatto valere i guai cardiaci di cui soffre e la situazione carceraria italiana di sovraffollamento («overcrowding»).
Il giudice Riddle ha preso infatti atto dell’esistenza di una sentenza dell’Alta Corte britannica, relativa a un somalo di cui aveva chiesto l’estradizione il tribunale di Firenze: anche in quel caso era arrivato un no, per il rischio che Hayle Abdi Badre subisse trattamenti degradanti e inumani. «Non posso distinguere il caso di Rancadore da quello del somalo», scrive il magistrato che si è avvalso della consulenza di Patrizio Gonnella, dell’associazione Antigone. E il radicale Marco Perduca sul suo blog chiede al guardasigilli Andrea Orlando cosa ne pensi.

l’Unità 18.3.14
Zoya, la pasionaria birmana stasera in un doc a Roma
di Gabriella Gallozzi


SAN SUU KYI, CERTAMENTE, È DIVENTATA L’ICONA DELLA LOTTA DI LIBERAZIONE DEL POPOLO BIRMANO. MA NON È LA SOLA. PERCHÉ QUESTA «GUERRA» INFINITA CONTRO I MILITARI CHE MASSACRANO, deportano, costringono i bambini alle armi e violentano, è combattuta anche e soprattutto dalle donne. Le donne Karen, una delle più importanti minoranze etniche della Birmania, oppresse da settant’anni, prima dai giapponesi, poi dal regime militare. Zoya Phan è una di loro. Una partigiana della resistenza birmana, come la partigiana sovietica che combattè contro i nazisti di cui porta il nome.
È lei La piccola guerrigliera che ci racconta Giancarlo Bocchi nel suo doc che questa sera sarà proiettato in anteprima italiana a Roma (ore 22.00, cinema Nuovo Aquila) nell’ambito del Riff, il festival del cinema indipendente in corso fino al 23 marzo. Dopo l’anteprima mondiale a Praga al One World International Film Festival of Human Rights e selezionato tra i 15 migliori documentari
sui diritti umani (il 26 marzo sarà presentato a Bruxelles insieme agli altri 14 doc) il film ci offre uno spaccato umano, storico e politico di una delle lotte di liberazione più sanguinose e dimenticate del nostro presente. Attraverso, ovviamente, il racconto in prima persona di questa ragazza che, ad appena trent’anni, ha già conosciuto violenza, guerra, persecuzioni, fino all’esilio in Gran Bretagna da dove, ogni tanto, a rischio della vita, si allontana per tornare nella sua terra clandestinamente per organizzare la resistenza. Minuta, bellissima, Zoya ha vissuto fino a 14 anni nella giungla tra i guerriglieri del Karen National Liberation Army. Sua madre comandava un reparto femminile. Suo padre, a capo del movimento, è stato ucciso nel 2008 dai sicari dei generali.
«I miei genitori sono animisti racconta Zoya dai grandi occhi scuri così mio padre portò il mio cordone ombelicale sulla vetta di una montagna, lo seppellì sotto l’albero più grande e pregò che la sua piccola potesse un giorno aiutare la sua gente a lottare per la libertà della Birmania...». E così è stato. Vissuta a lungo in un campo profughi dopo
l’ennesimo bombardamento e il rogo del suo villaggio, Zoya è diventata negli anni una delle più coraggiose oppositrici del regime. La sua autobiografia, Little daughter, pubblicata in Gran Bretagna, è un durissimo atto d’accusa contro le violazioni dei diritti umani che i militari continuano a perpetrare nella sua terra, nonostante l’apparente processo di pacificazione in atto. Abituato ai fronti di guerra (l’ex Jugoslavia l’ha «indagata» anche col cinema di finzione, Nema problema) Giancarlo Bocchi ha cominciato ad interessarsi alla questione Karen dal 2009. Entrato clandestinamente in Birmania è riuscito a «rubare» immagini fin qui inedite, come la scuola di guerriglia karen, sorta di accademia militare sperduta in mezzo alla giungla. Il racconto, tra repertorio e presente, intreccia la storia birmana a quella personale di Zoya. Che poi è la stessa cosa. «Mezzo milione di persone conclude vivono da sfollati nella giungla e più di 150 mila sono rifugiati in Thailandia. Sono civili che non hanno commesso alcun crimine, ma anche contro di loro il regime pratica la pulizia etnica... Non vogliono che si sappia cosa sta succedendo qui. Mandano le loro truppe nello stato di Karen e dalle altre minoranze per uccidere, bruciare, mutilare, torturare e violentare le donne. Noi giovani dobbiamo fare di tutto per conquistare l’indipendenza e abbattere la dittatura militare birmana!...Siamo tanti e non possono annientarci tutti». La piccola guerrigliera dà voce proprio a loro.

il Fatto 18.3.14
Neologismi
Storie di vita e di migranti
On line il “Migrador Museum”, il primo museo dedicato agli stranieri e ai loro racconti di riscatto in Italia
di Chiara Daina


Malindu Perrera, 32 anni, di famiglia benestante, ha una malattia agli occhi ma nello Sri Lanka non esiste un centro di cura specializzato. Fa una ricerca e scopre che all’ospedale San Raffaele di Milano possono operarlo. Dopo l’intervento deve fare dei controlli periodici per tre anni. Impossibile fare avanti indietro dal suo Paese di origine. Così il padre, manager per una catena di alberghi di lusso, e la madre lo seguono. Alla fine decidono di trasferirsi in Italia per sempre. È una storia di migranti per caso. Una di quelle che in pochi riescono a immaginarsi, essendo ormai assuefatti dalle tragedie dei naufraghi stranieri. E che fra poco farà parte del Migrador museum, il primo museo online dedicato agli immigrati: un’idea di Martino Pillitteri, responsabile di Yalla Italia, il blog delle seconde generazioni, per fare uscire dall’anonimato le storie di riscatto e di impegno di chi ha lasciato la propria terra per rinascere una seconda volta nello Stivale.
Scordatevi il classico modello della galleria, statica, confezionata, che conserva statue e cimeli del passato. Il Migrador museum mantiene la vivacità di un sito web: raccoglie fotografie, interviste video e le sfide non ancora finite degli immigrati. È uno spazio virtuale in costante evoluzione, ogni giorno da aggiornare con nuovi racconti, link, iniziative. “Pubblichiamo due storie alla settimana e una volta al mese ne inserisco una completamente inventata”.
COME QUELLA di Rania Hun, un’italiana di quarta generazione, che si occupa di turismo spaziale ed è nata nel 2050. I suoi nonni sono arrivati in Italia nel 2014 dalla Cina e dalla Giordania: Pizza Hut viene comprata da una società cinese che l’ha ribattezzata Pizza Chu e il panino americano Big Mac viene sostituito dal Big Kebab, per tutti Big Keb. Perché infilare delle storie di fantasia tra migliaia di biografie vere? “È un modo simpatico per dimostrare all’utente che non tutti gli stranieri fuggono dalla disperazione, per evitare una visione vittimistica e gli stereotipi denigratori dei partiti di destra”.Il nome “Migrador” è un neologismo: “Sta per migranti d’oro, i migranti cioè sono delle risorse preziose per la società, questo è il messaggio del museo” spiega Pillitteri. Al momento si possono leggere sei storie. Marian Ismail, 54 anni, scappa da Mogadiscio quando ne ha venti e arriva come rifugiata politica. Suo padre, che lavora all’ambasciata somala del Cairo, è un dissidente politico. “Siamo partiti alle 4 del mattino con una sola valigia, portando pochissimi effetti personali. In poche ore abbiamo ricevuto il visto per l’Italia grazie all’ambasciatore italiano Milesi Ferretti, che era amico di mio padre. Io ero stata compagna di scuola dei suoi figli al Liceo italiano delle Suore Salesiane al Cairo, dove mi sono diplomata”.
Marian prima vive a Bologna, poi si sposta a Milano per amore. Si sposa con un italiano, ha due figli e oggi fa la mediatrice culturale. “Sono nata in una società matriarcale, a scuola avevamo classi miste, persino nelle scuole coraniche. ?Ho sempre vissuto la parità tra i sessi come normale, il mio essere donna non l’ho mai sentito come un difetto o una debolezza. Quando sono arrivata in Europa mi è sembrato di tornare indietro, perché ho trovato una realtà che non considera ancora la donna paritaria all’uomo nei diversi ambiti del lavoro e della vita privata”.
   MA GIURA: “In Italia c’è molta umanità: se uno dimostra di essere onesto, di avere voglia di lavorare, viene accolto a braccia aperte. Di frontiere non ce ne sono. La realtà è molto più avanti di quanto si creda: i ragazzi si fidanzano con gli stranieri e con internet sono connessi in tutto il mondo”. Liliam Altunas, 36 anni, dal Brasile a Torino dove ha aperto una pasticceria, la Liliam Buffet, e a giugno è stata premiata come miglior imprenditrice immigrata. Roland Ruff, ungherese, ha una società di bike messenger a Roma e non tornerebbe più indietro. Rudra Chakraborty, nato a Calcutta, è headhunter in una società di risorse umane multiculturali. Mohamed Said, di Casablanca, studia Lingue orientali all'università di Urbino. Si parte per sbarcare il lunario, ma anche per amore e per caso.

Corriere 18.3.14
La Crimea donata all’Ucraina. Le ragioni della generosità
risponde Sergio Romano


LA CRIMEA DONATA ALL’UCRAINA LE RAGIONI DELLA GENEROSITÀ Tra i tanti articoli e servizi giornalistici usciti in questi giorni su Crimea e Ucraina, ho letto che nel 1954 il presidente sovietico Nikita Krusciov, di origine ucraina, decise di «regalare» la penisola della Crimea alla Repubblica Socialista Sovietica Ucraina per commemorare il 300º anniversario dei Trattato di Pereyaslav tra i cosacchi ucraini e la Russia.Quali erano le intenzioni e gli obiettivi di questa decisione piuttosto insolita? La scelta di Krusciov fu un’azione solitaria o concordata con gli altri membri del Pcus? Come andarono veramente le cose?
Davide Chicco

Caro Chicco,
La decisione fu certamente collettiva perché nessun membro del Comitato centrale avrebbe osato dissentire pubblicamente dall’uomo (Nikita Krusciov) che aveva conquistato da pochi mesi la segreteria del partito. A Kiev il dono fu accolto entusiasticamente. Nikolaj Podgorny, secondo segretario del partito comunista ucraino, disse che era un’altra manifestazione del «grande amore fraterno del popolo russo» per la sua terra. Ma Krusciov e Podgorny erano d’origine ucraina e, il secondo, in particolare era l’uomo a cui era stato dato l’incarico di «rimettere ordine» nella sua terra dopo la fine della Seconda guerra mondiale. Entrambi sapevano che gli invasori tedeschi erano stati accolti entusiasticamente nelle zone del Paese in cui nessuno aveva dimenticato la brutale collettivizzazione della terra negli anni Trenta, la spietata lotta ai kulaki, la lunga carestia, il trasferimento forzato dei contadini renitenti al di là degli Urali. Vi era stato un collaborazionismo indigeno che si era manifestato, tra l’altro, con il reclutamento di 80.000 ucraini per la Divisione SS Galizien. E la «restaurazione dell’ordine» ad opera di Podgorny, dopo la fine del conflitto, era passata attraverso la eliminazione di gruppi armati indipendentisti che continuarono a combattere per parecchi mesi.
Situazioni analoghe si erano verificate in altre zone occupate dalla Wehrmacht fra il Baltico e il Caucaso. La resistenza dei russi contro Hitler fu certamente una grande guerra patriottica, ma esistevano popoli, evidentemente, per cui l’Urss non era una patria. Per reprimere e punire, Stalin non esitò a usare in alcuni casi il metodo della pulizia etnica. Se ne servì con i ceceni, con i tatari della Crimea e anche con la piccola comunità italiana di Kerch sulla costa sud-orientale della penisola: tutti deportati verso il Kazakistan e altre regioni dell’Asia Centrale.
La donazione della Crimea all’Ucraina rientra in questo quadro. Le parole di Podgorny sono retoriche, ma il dono era un gesto di conciliazione e dimostrava l’importanza che lo Stato centrale attribuiva all’Ucraina per propria sicurezza e integrità. Vi erano del resto autorevoli precedenti. All’inizio degli anni Venti, per compiacere la Turchia, Stalin aveva regalato all’Azerbaigian l’enclave armena del Nagorno-Karabach.
P.S. La guerra tra l’Armenia e l’Azerbaigian per il possesso del Nagorno-Karabach fu il primo conflitto interetnico dopo la disintegrazione dell’Urss nel dicembre 1991 .

La Stampa 18.3.14
Perché l’uomo sulla Terra è così uguale, così diverso
Nella riedizione di Chi Siamo il genetista Luca Cavalli-Sforza racconta la sua vita insieme con l’epopea delle origini umane
di Piero Bianucci


Fino a pochi anni fa tutto ciò che sapevamo sull’origine dell’uomo stava in una valigia: un mucchietto di ossa fossili scompagnate, provenienti dall’Africa, dall’Asia, dall’Europa. Un mosaico incompleto di pezzi di cranio, bacino, femori, vertebre e altri resti attribuibili a epoche diverse ma sempre vaghe.
Poi i fisici ci hanno insegnato a datare i fossili con il metodo del radiocarbonio. I biochimici hanno decifrato il messaggio del Dna. I genetisti hanno incominciato a usare le mutazioni genetiche come un calendario e una mappa delle migrazioni. I glottologi hanno capito che i nomi e le lingue sono cromosomi culturali. E gli antropologi hanno fatto tesoro di tutti questi progressi inquadrandoli nella visione evoluzionistica fondata da Darwin. Così la storia dell’uomo si è disegnata davanti ai nostri occhi come una immagine dapprima sfocata e poi, a poco a poco, sempre più nitida.
In cinquant’anni l’uomo ha scoperto la propria storia degli ultimi duecentomila. Oggi sappiamo abbastanza bene quando siamo comparsi sulla Terra, da dove veniamo, chi siamo. Chi siamo è anche il titolo dell’ultimo libro di Luca Cavalli-Sforza, scritto in collaborazione con il figlio Francesco (Codice, pp 426, 27 euro), edizione aggiornata di un testo pubblicato per la prima volta nel 1993, più volte ristampato e tradotto in diverse lingue. In queste pagine troviamo risposta alle domande appena formulate: l’uomo moderno ha poco più di centomila anni, viene nell’Africa orientale, appartiene a un’unica specie. Ma Chi siamo è anche la sintesi divulgativa di una vita di ricerca, e dunque, indirettamente, l’autobiografia di uno scienziato.
Genovese, 92 anni, studente al liceo d’Azeglio di Torino (dove ebbe come compagno di classe Giovanni Agnelli, allievo dell’istologo Giuseppe Levi e del pioniere della genetica Adriano Buzzati-Traverso, Luca Cavalli-Sforza si laureò in Medicina ma fu medico solo per pochi mesi. Lo attirava la ricerca, e la coltivò in precoci esperienze all’estero con grandi scienziati come Ronald Fisher, fondatore a Cambridge della statistica genetica, e il microbiologo Joshua Lederberg, che il ricevette il Nobel per la Medicina nel 1958. Fu Lederberg a invitarlo all’Università di Stanford, in California, nel 1960 e a indirizzarlo verso la genetica delle popolazioni umane. A Stanford mise radici. Lì lo incontrai per la prima volta nel 1979. Era notte, l’Università deserta, l’unica stanza abitata la sua. Stava lavorando.
Il sottotitolo di Chi siamo è «La storia della diversità umana». Nel binomio diversità/uguaglianza sta la chiave di lettura più importante. Nel 2001 la decifrazione del genoma umano ci ha insegnato che siamo tutti uguali e tutti diversi. In media il Dna di due esseri umani differisce del 2 per mille. Possono esserci più affinità genetiche tra popoli vicini, ma può anche succedere che le differenze genetiche tra un bianco e un nero siano minori di quelle tra due bianchi. Non esistono razze umane, non esiste neppure la «razza» umana. Esiste «la specie» umana. Questo dato è tra i più socialmente e politicamente importanti della scienza moderna, ma è ancora lontano dall’essere metabolizzato persino in un Paese come l’Italia. La genetica ha dimostrato che non esistono le razze, ma purtroppo la cronaca quotidiana, inclusa quella politica e sportiva, dimostra che esiste il razzismo.
Mentre le differenze genetiche hanno dimensioni limitate, quelle legate all’ambiente in cui si vive acquisiscono sempre più rilievo. In parte per ovvi motivi culturali ed economici e in parte perché negli ultimi tempi si sta scoprendo l’importanza dell’epigenetica, cioè il potere dell’ambiente nell’«accendere» questo o quel gene e nel portarlo a esprimersi in modo più o meno netto. Certo, eredità e ambiente sono un intreccio difficilmente districabile, ma illuminanti sono le riserve che Cavalli-Sforza esprime, per esempio, sulla presunta oggettività della misura del quoziente di intelligenza (IQ): «Non è affatto chiaro che cosa misuri esattamente il test… abbiamo la certezza che non è indipendente dalla cultura del Paese e dalla lingua in cui è stato elaborato».
Gruppi sanguigni, mutazioni come quella che produce l’anemia falciforme, cognomi e toponimi hanno guidato gli antropologi sulle tracce delle migrazioni che hanno portato l’uomo da pochi individui ai 7,2 miliardi che ora abitano il pianeta. Una mutazione nel Dna dei mitocondri (che si trasmette solo per via materna) avvenuta 190 mila anni fa in Africa ha permesso di risalire all’antenato comune a tutti i viventi di oggi. L’invenzione dell’agricoltura è stata la prima grande mutazione culturale, e i lavori di Cavalli-Sforza hanno stabilito che la coltivazione dei campi è arrivata nell’Europa mediterranea da Oriente avanzando alla velocità di circa un chilometro l’anno. Ma i punti da chiarire sono ancora tanti. Tra gli sviluppi più recenti c’è il confronto tra il nostro Dna e quello dell’Uomo di Neandertal, estinto da quarantamila anni. Si è scoperto che ne abbiamo conservato una piccola percentuale. Non si trattava dunque di due specie distinte, o almeno non tanto da non essere interfeconde. Già allora il mondo era bello perché era multietnico.

Corriere 18.3.14
La democrazia sotto assedio
Mazzini a Roma nel 1849
Nella Costituzione l’eredità della Repubblica sconfitta
di Paolo Mieli


A mezzanotte del 25 novembre del 1848, Ferdinando II, re delle Due Sicilie, in preda a grande eccitazione convocò i numerosi suoi familiari (alcuni dovette farli svegliare) per annunciar loro che la mattina successiva sarebbero partiti, tutti assieme, alla volta di Gaeta. Aveva appena appreso che proprio alla fortezza di Gaeta si stava dirigendo papa Pio IX, in fuga da Roma. Fuggiva, il Papa, dopo l’uccisione, il 15 novembre, di Pellegrino Rossi, l’unica personalità che, forse, avrebbe saputo trovare una via d’uscita alla complicata situazione che si era venuta a creare dopo che il Pontefice aveva rinunciato alla guerra contro l’Austria. Francia e Spagna si erano contese nei giorni precedenti l’opportunità di offrire rifugio e protezione a Papa Mastai. E lui aveva preso in considerazione l’ipotesi di fuggire in Francia. Ma il conte Spaur, rappresentante del regno di Baviera nonché marito di Teresa Giraud (nipote del famoso commediografo Giovanni Giraud, già vedova di un archeologo, devota al Pontefice, «data nei suoi primi anni ai piaceri dei sensi, poi di lasciva divenuta bigotta al cadere dell’età», l’avrebbe sbeffeggiata il triumviro della Repubblica romana Aurelio Saffi ) lo aveva convinto a desistere. Ancor più il cardinale Giacomo Antonelli — da quel momento eminenza grigia del regime pontificio — gli avrebbe sconsigliato di andare nel Paese dove, ai tempi di Napoleone, nel 1799 aveva trovato la morte, all’età di 82 anni, il suo predecessore Pio VI, esule e imprigionato nella fortezza di Valence. Così Pio IX aveva scelto la via del Sud e si era aperta la stagione di Roma senza il Papa. La Repubblica romana del 1849, come dal titolo del pregevole libro di Giuseppe Monsagrati che sta per essere dato alle stampe dagli editori Laterza. L’8 febbraio del 1849 a Gaeta si sarebbe rifugiato anche Leopoldo II, granduca di Toscana e parente dell’imperatore austriaco, che si era rifiutato di piegarsi alla Costituente. E la fortezza sarebbe diventata così un centro politico di primaria importanza.
Papa Mastai era asceso al soglio due anni prima, nel 1846, dopo la cupa stagione di Gregorio XVI. Era, il nuovo Pontefice, un uomo a cui «piaceva piacere» a tutti, come avrebbe testimoniato il gesuita Carlo M. Curci. Ciò che, all’inizio, gli era pienamente riuscito: «Je daressi un bacio a pizzichetti», si entusiasmò Giuseppe Gioacchino Belli. Anche Giuseppe Garibaldi e Giuseppe Mazzini non avevano nascosto la loro iniziale simpatia nei confronti dell’uomo. Quando, il 15 marzo del 1847, il Santo Padre concesse la libertà di stampa, il cancelliere austriaco Metternich si allarmò: «Un Papa liberale è la cosa più inaudita che si possa pensare». Il 17 aprile il Pontefice aveva poi decretato l’abbattimento delle porte del ghetto, conquistando a sé la simpatia degli ebrei. Il cardinale Tommaso Pasquale Gizzi, dimettendosi nel luglio 1847 da segretario di Stato, aveva previsto che con un Papa come quello, chiunque avesse guidato la segreteria di Stato avrebbe avuto enormi problemi a governare. Qualche tempo dopo lo stesso Metternich aveva vaticinato: «Se le cose seguono il loro corso naturale Pio IX si farà cacciare da Roma». Ciò che sarebbe puntualmente accaduto dopo che nel 1848 il Papa aveva dapprima (il 10 febbraio) lasciato intendere che avrebbe dato il suo avallo alla guerra contro l’Austria, salvo poi tirarsi indietro (il 29 aprile) e precipitare nel caos una Roma ormai inebriata dal mito patriottico. Generando confusione tra gli uomini di Chiesa e anche tra i patrioti. Un disordine di cui sono prova due fatti: nella sessione legislativa che si tenne il giorno dell’attentato a Pellegrino Rossi, da parte del presidente non fu fatto neanche un cenno all’assassinio dello statista; la sera «si ebbero persino — organizzati confusamente in un’area liberal-democratica — cortei di manifestanti che scorrazzarono per il Corso inneggiando al tirannicidio». Tant’è che si ipotizzò che l’attentato potesse avere una matrice mazziniana. Ipotesi priva di fondamento, scrive Monsagrati, dal momento che «Mazzini in quel momento era tutto preso dallo sforzo di rivitalizzare la lotta armata nel Nord Italia e Roma gli cascò addosso a sorpresa, senza che vi avesse inviato nessuno dei suoi maggiori collaboratori, nessuno che potesse prendere la direzione di un moto che per riuscire avrebbe avuto comunque bisogno della partecipazione dei cospiratori romani». Secondo Carlo Cattaneo, «Pio IX fu fatto da altri e si disfece da sé. Pio IX era una favola immaginata per insegnare al popolo una verità. Pio IX era una poesia». E però, scrive Monsagrati, «al contatto con la dura realtà del ’48 la favola e la poesia si erano come dissolte ed era rimasto un vuoto che attendeva solo di essere colmato».
Quando poi il Papa lasciò Roma, si fece avanti per gradi la cosiddetta stagione repubblicana. In vista delle elezioni per l’Assemblea Costituente, in gennaio si fecero anche quelle che Monsagrati definisce una sorta di «primarie», nel senso che «si creò un comitato incaricato di sondare gli umori del popolo in merito alle preferenze e si indicarono i nomi dei candidati per l’Assemblea». Su 750 mila aventi diritto, andarono a votare in 250 mila, non pochi per l’Europa dell’epoca, che aveva pochissimi precedenti in fatto di suffragio universale. Garibaldi fu il tredicesimo su 16 eletti nel collegio di Macerata, non un grande successo. Terenzio Mamiani si oppose alla proposta di dichiarare decaduto il dominio temporale del Papa. In dieci votarono contro la proclamazione della Repubblica: nove lasciarono da quel momento i lavori dell’Assemblea; uno, il bolognese Rodolfo Audinot, rimase. Quel giorno Mazzini non era presente, si trovava ancora in Toscana. Roma, fa osservare lo storico, «senza tradizioni di monarchia (quella papale era del tutto atipica) era la sola città in cui, caduto il papato, la repubblica potesse nascere come se fosse la cosa più naturale del mondo». Ed è in modo fluido che si giunse alla nascita della Repubblica. Il 21 febbraio fu votato l’incameramento dei beni ecclesiastici, con l’intesa che sarebbe stato il governo a provvedere alle spese per il culto. Il 27 febbraio fu la volta della legge sul prestito forzoso per rimpinguare le casse dello Stato. Per il giornalismo furono mesi di grande libertà, simboleggiati dal successo del settimanale satirico «Don Pirlone», una sorta di «Punch» romano. Due volte il popolo si ribellò, costringendo il governo a fare marcia indietro: la prima quando fu deciso il sequestro di tutte le campane (anche se erano escluse quelle delle basiliche); la seconda quando si procedette ad analoga iniziativa con i confessionali e gli arredi sacri. Fu «una questione di devozione popolare», afferma Monsagrati, «ma c’entrava qualcosa anche l’innato gusto estetico di una popolazione orgogliosa dei propri monumenti e istintivamente consapevole di cosa significassero per l’identità collettiva».
Il 29 marzo fu costituito il triumvirato. Primo triumviro fu Giuseppe Mazzini. Secondo il già citato Saffi. Terzo l’avvocato concistoriale Carlo Armellini (tra i più votati alle elezioni), forse il più inviso a Pio IX, che lo definì «miserabile», sottolineando che era «padre e fratello di due gesuiti». L’uomo costituiva uno dei pochi anelli di collegamento con la precedente esperienza repubblicana della città, quella napoleonica del 1798-99. Tra i primi atti del nuovo esecutivo, quello di dimezzarsi («per riguardo alle tristi fortune del Paese») l’assegno mensile. Non si trattò, però, di un atto demagogico, dal momento che nessuno di loro fece parola di questa decisione e la si conobbe solo molti mesi dopo la caduta della Repubblica, quando ne dette notizia, a posteriori, uno dei tre triumviri, Saffi. Ma Pio IX restava forte e continuava a godere di un vasto consenso internazionale. Una lettera (22 febbraio 1849) di Nathan Niles, incaricato d’affari degli Stati Uniti presso il Regno sardo, a James Buchanan, segretario di Stato del suo Paese, si schiera decisamente a favore di Pio IX, attribuendo l’origine della crisi romana all’«attività irresponsabile» dei cospiratori (i quali — a detta di Niles — facevano leva su «una più che spregevole marmaglia di canaglie e banditi che riempiono le strade di Roma») e sconsigliava il riconoscimento della Repubblica romana.
A quel punto cambia tutto. Con un motu proprio il Pontefice scomunica «chiunque ardisce rendersi colpevole di qualsivoglia attentato contro la temporale Sovranità dei Sommi Romani Pontefici». Il cardinale Antonelli organizza la risposta armata contro gli usurpatori, alla quale è disposto ad associare chiunque, persino i turchi. Ma sono quattro le potenze da lui espressamente chiamate in causa il 18 febbraio del 1849: «Poiché l’Austria, la Francia, la Spagna e il Regno delle Due Sicilie si trovano per la loro posizione geografica in posizione di potere sollecitamente accorrere colle loro armi a ristabilire nei dominj della Santa Sede l’ordine manomesso da un’orda di settarj … il Santo Padre dimanda con piena fiducia il loro intervento armato per liberare principalmente lo Stato della Chiesa da quella fazione di tristi che con ogni sorta di scelleraggini vi esercita il più atroce dispotismo».
Il rischio avvertito a Parigi dal presidente Luigi Napoleone Bonaparte (il futuro Napoleone III) era che l’Austria cogliesse l’occasione per allargare ancor più la sua sfera d’influenza sulla penisola e fu in questa chiave che venne concepito l’intervento francese. Lo dissero apertamente nel dibattito all’Assemblea di Parigi sia il generale Christophe Léon de Lamoriciére che il presidente del Consiglio Odilon Barrot. Il 24 aprile le truppe francesi, agli ordini di Nicholas-Charles-Victor Oudinot, sbarcarono a Civitavecchia senza che la presenza di quei militari sul suolo laziale — che pur suscitò sconcerto — a Roma fosse vista come una reale minaccia. Tanto più che i soldati, appena sbarcati, alzarono un albero della libertà, «evocatore di antichi ricordi giacobini» e vi intrecciarono i due tricolori. Ma soprattutto, per il fatto che, quando approdò allo stesso lido il battaglione dei bersaglieri lombardi comandato da Luciano Manara, Oudinot li lasciò scendere a terra, li fece prigionieri salvo poi liberarli subito, dopo aver ottenuto da loro l’impegno formale che non sarebbero entrati in azione fino al 5 maggio, data per la quale evidentemente calcolava che tutto sarebbe stato risolto. E ancor più per il fatto che il 30 aprile i repubblicani romani avevano fermato i francesi con relativa facilità. Tutto sommato gli uomini di Oudinot non facevano paura.
Semmai Roma avvertiva come avvisaglie di una futura minaccia comportamenti tipo quello della «banda Zambianchi». Il forlivese Callimaco Zambianchi, già buon amico di Garibaldi e successivamente di Mazzini (anche se Monsagrati esclude che agisse a suo ordine), approfittando del trambusto provocato dallo sbarco dei francesi, si diede a operazioni terroristiche dapprima a Terracina, poi nella stessa Roma. Sequestrò e uccise il domenicano Vincenzo Sghirla e successivamente, tra il 30 aprile e il 4 maggio, fece fuori una decina di altri ecclesiastici, tutti condotti nei sotterranei del convento di S. Calisto, torturati e infine trucidati. Quando si seppe di quei delitti, l’impressione fu notevole e quegli episodi non giovarono alla reputazione della Repubblica. Mazzini entrò quindi in contrasto con Garibaldi, allorché questi arruolò alcuni delinquenti di Ancona, fatti precedentemente arrestare da Felice Orsini: «Voi non sapete il male che fate a noi e alla Repubblica, volendo ritenere quei d’Ancona con voi; è il colpo più forte che possa in questo momento darsi al governo», gli disse. E in effetti la propaganda del cardinale Antonelli dette risonanza agli episodi di violenza dei repubblicani. Ciò che consente adesso a Monsagrati di definire «innegabile» che nella Roma del 1849 ci fosse «un sostrato in cui la violenza sociale incrociò questo principio di rivoluzione nazionale». Chi si accorse per tempo che qualcosa non andava per il verso giusto fu Carlo Pisacane, il quale entrò in polemica sia con Garibaldi, a cui pure lo legava un sentimento di devozione («prode, prodissimo, ma non capisce niente di milizie», disse Cattaneo stesso dell’eroe dei due mondi), sia con Mazzini, al quale rimproverava la linea eccessivamente condiscendente nei confronti della Francia, definita dal leader repubblicano «Repubblica sorella». Mazzini aveva ordinato che i feriti francesi fossero curati negli ospedali romani e che i prigionieri fossero restituiti senza contropartita: riteneva che, una volta rientrati nei loro ranghi, si sarebbero trasformati in «ambasciatori di solidarietà repubblicana». La Francia stette al gioco e, il 15 maggio, inviò a Roma Ferdinand de Lesseps, perché intavolasse una trattativa. Questi convinse Oudinot a concedere una tregua fino ai primi di giugno. E trovò persino un accordo che però fu mandato all’aria da Luigi Napoleone e da Oudinot: Lesseps, tornato in Francia, fu accusato di arrendevolezza e ne ebbe stroncata la carriera diplomatica.
Il 3 giugno, la parola, tra romani e francesi, passò alle armi. E per Roma repubblicana fu l’inizio della fine. La prima a farne le spese, come accade sempre in casi come questo, fu la libertà di stampa, nella persona di Francesco Dall’Ongaro, direttore del «Monitore Romano» (rimasto l’unico giornale aperto dopo che erano stati chiusi «la Pallade», la «Speranza dell’Epoca», il «Contemporaneo», il «Don Pirlone»). Fu il momento del massimo, ancorché comprensibile, disordine: Dall’Ongaro fu rimosso dall’incarico dopo che il deputato Cesare Agostini lo aveva accusato di disfattismo. Il ministro della Guerra Giuseppe Avezzana si fece assegnare 150 condannati ai lavori forzati rinchiusi in Castel S. Angelo da mettere agli ordini di Garibaldi. La sera stessa il comandante in capo Pietro Roselli lamentò che solo 38 avevano fatto ritorno al luogo di pena. Garibaldi fece poi arrestare per insubordinazione il colonnello Luigi Amadei, ufficiale del Genio. Alla data 5 giugno 1849 del diario del repubblicano Luigi Filippo Polidori si può leggere: «Moltissimi cominciano a desiderare che i francesi entrino presto, anche ostilmente». Per «dare un’idea più aperta del regime», la Repubblica contraddicendosi dopo il «caso Dall’Ongaro», fece riaprire «Pallade», «Speranza», «Contemporaneo» e «Don Pirlone». Garibaldi nel frattempo faceva incetta di vino da dare ai suoi uomini per infondere coraggio. Poi li guidava in una sortita notturna con camicie bianche (la «notte dell’incamiciata») perché evitassero di colpirsi l’un l’altro. Ma a quel punto la partita era già persa.
In realtà, di partita, a Gaeta se ne stava giocando un’altra. Il cardinale Antonelli induceva Pio IX a mettere all’indice le opere di Antonio Rosmini, Vincenzo Gioberti e Gioacchino Ventura. Il Pontefice aveva appena ricevuto, a fine maggio, Rosmini, dandogli dimostrazione di una qualche cordialità. Ed ecco che su Rosmini si abbattevano i fulmini della curia e addirittura un provvedimento (poi rientrato) di espulsione dal Regno delle Due Sicilie. Un autentico complotto, al termine del quale Papa Mastai era costretto a tornare sui suoi passi. Secondo il principale biografo del Pontefice, Giacomo Martina (nel libro Pio IX , editore Pontificia Università Gregoriana) Antonelli era «ansioso di eliminare un avversario intellettualmente superiore», Rosmini appunto. E, prosegue Monsagrati, «assieme ad Antonelli lavorava dietro le quinte tutta una camarilla di corte che da tempo intercettava le lettere di Rosmini al Papa e lo metteva in cattiva luce». Ma il vero obiettivo di Antonelli era probabilmente più ambizioso: costringere Pio IX a rinnegare pubblicamente l’iniziale biennio del suo pontificato, quello liberale e riformatore. Il primo ministro sardo, Massimo d’Azeglio, inviava a Gaeta Cesare Balbo per indurre Pio IX a tornare allo spirito del 1846-48. Ma senza successo. Ci provava addirittura Tocqueville. Ma anche lui urtava contro il muro eretto da Antonelli. E il Papa da quel momento si conquistò la fama dell’uomo che faceva marcia indietro. «Niente sta a cuore del buon Pio IX in questo losco mondo, quanto il purgarsi della taccia di principe riformatore», scrisse Marco Minghetti futuro presidente del Consiglio nell’Italia unita.
Il 12 giugno Oudinot indirizzava alla Costituente romana un ultimatum. Il 19 giugno Ancona si arrendeva agli austriaci. Gli uomini di Oudinot adesso avevano fretta. Si spargeva la voce che Mazzini volesse far saltare in aria la «madre» di tutte le basiliche romane. Ed era lui stesso a dover smentire all’amica Margaret Fuller che aveva dato credito alla diceria: «Potete credere per un solo momento a una tale assurdità che S. Pietro sia minato, mentre io sono qui? Mi sono forse dimostrato un vandalo o un uomo del ’93?», le domandava. Laddove, per inciso, è interessante notare quale bassa considerazione il leader repubblicano abbia sempre avuto di Robespierre e della fase giacobina della Rivoluzione francese. Il 30 giugno fu il giorno della battaglia decisiva a porta San Pancrazio, sotto un temporale scrosciante. Il 1° luglio — fuori tempo massimo — l’Assemblea Costituente approvò una Costituzione molto moderna, che non sarebbe mai stata applicata a un Repubblica ormai defunta. Tale Costituzione, però, avrebbe fatto da modello a tutte le esperienze rivoluzionarie del secolo e anche di quello successivo: « A leggerla oggi», scrive Monsagrati, «si resta colpiti da due caratteri, l’originalità e l’essenzialità, come se fosse uscita da una sola testa e come se quella testa avesse avuto per unico scopo quello di dare voce alle aspirazioni e ai bisogni di una collettività molto coesa». Da modello fece anche l’«orazion picciola» con la quale Garibaldi invitò i suoi a seguirlo verso nuove avventure: «Io esco da Roma; chi vuol continuare la guerra contro lo straniero, venga con me; io non offro né paga, né quartieri, né provvigioni; io offro fame, sete, marce forzate, battaglie e morte. Chi ha il nome d’Italia non sulle labbra soltanto, ma nel cuore, mi segua». Parole non immuni dal vizio dell’enfasi, destinate a diventare le più celebri tra quelle pronunciate da Garibaldi nel corso dell’intera vita.
A differenza di Garibaldi, Mazzini volle restare per giorni e giorni nella Roma «liberata» dai francesi «offrendomi vittima facile a ogni offeso che volesse vendicarsi», come scriverà qualche anno dopo in polemica con chi lo aveva accusato di «aver governato con il terrore». Per offenderlo ancora una volta, andando a ripescare la vecchia immagine del «terrorista che manda a morire gli altri standosene al sicuro», si disse che un salvacondotto inglese gli avesse evitato l’arresto. Ma non era vero. Lui restò a Roma «per osservare le reazioni del popolo romano» e per contare di capire in quale misura su quelle genti avrebbe potuto contare in futuro. Girò per la città, interrogò amici, sentì le pressioni e gli argomenti di chi insisteva perché lui fuggisse. Furono «giorni di grande travaglio interiore, spesi con l’illusione di essere ancora in grado di organizzare una lotta di popolo contro l’occupante o di poter raccogliere fuori città ciò che restava dell’esercito repubblicano per tentare un ultimo, disperato, colpo di mano». Il 16 luglio si imbarcò, clandestino, da Civitavecchia alla volta di Marsiglia. Charles Dickens si augurava un suo ritorno in Inghilterra, dicendo che «il mondo non può permettersi di perdere uomini come lui». E Thomas Carlyle, pur mostrandosi scettico nei confronti del suo operato, «ne esaltava senza mezzi termini le qualità morali».
A Roma, l’incaricato d’affari statunitense Lewis Cass junior, che pure si era entusiasmato per la Repubblica, descriveva adesso «la meravigliosa versatilità tipica degli italiani che stavano rapidamente riconciliandosi con il nuovo ordine di cose e si mescolavano alle truppe straniere, alcuni per fare amicizia, altri per osservare da vicino le loro divise». Il prefetto di polizia François Chapuis il 14 luglio festeggiava l’anniversario della presa della Bastiglia sopprimendo tutti i giornali, compresi quelli filopapali. E Pio IX mostrò di non aver nessuna fretta di tornare nella «sua» città. Anzi, da Gaeta si trasferì ancora più a sud, a Portici, dove Ferdinando II aveva la sua residenza estiva, «servita» da una ferrovia che esibiva come prova della modernità del suo regno. Il Papa sarebbe tornato a Roma solo il 12 aprile del 1850, dopo essere stato accompagnato da Ferdinando fino al confine, nei pressi di Terracina. Da Terracina, distante un’ottantina di chilometri, il corteo papale avrebbe impiegato altri sei giorni di viaggio. La città fu ripulita di ogni traccia repubblicana, non fu fatto niente per ricordare i «ribelli» caduti (tra i quali Goffredo Mameli, Luciano Manara, Enrico Dandolo, Francesco Daverio, Emilio Morosini) ma qualcosa sì per commemorare l’esercito vincitore: in particolare la lapide onoraria fatta apporre nella chiesa di S. Luigi dei Francesi, la Porta S. Pancrazio e l’arco trionfale disegnato da Andrea Busiri Vici, eretto tra il 1857 e il 1859 sulle rovine di villa Corsini. I francesi rimasero a Roma fino al 1866 per quella che, non senza malizia, Monsagrati definisce la «penultima occupazione straniera della Capitale».