mercoledì 19 marzo 2014

l’Unità 19.3.14
Agli atei devoti non piace Francesco
di Bruno Gravagnuolo


NON SI RASSEGNANO I NEOCON NOSTRANI: questo Papa per loro è una bella botta: li demolisce. Vi ricordate i Ferrara e i Messori da Vespa? «Ma no, dicevano, è tutta scena. Scarponi e crocefisso di ferro sono apparenza, è un Papa tosto come il precedente». E invece «tutta scena» era la loro. Buona a dissimulare paura e delusione. Che è divenuta rabbia contro la rivoluzione di Francesco. Contro la quale Ferrara come un lucifero devoto e gentile si scaglia, firmando un pamphlet con Alessandro Gnocchi e Mario Palmaro (scomparso): Questo Papa piace troppo (Piemme). L’accusa? Papa troppo «pop», poco identitario, troppo amabile e colpevole di aver rovesciato l’impostazione dei suoi predecessori (valori non negoziabili, centralità del Logos nella fede). L’ultima speranza di Ferrara è sia tutta tattica per colonizzare gli eretici…Ma si può essere più sordi e settari? Questi hanno scambiato il cristianesimo per una galera dell’anima, per un incubo hobbesiano. Tanto più feroce in Ferrara proprio per la sua natura laica di instrumentum regni. E invece Francesco nel riprendere il Concilio Vaticano II, lancia l’unica sfida possibile, conforme al Vangelo e al secolo globale: l’accoglienza, l’incontro delle «persone» nella comune umanità oltre le fedi e gli «errori». È la caritas cristiana stessa a mettersi alla prova e a scommettere sull’eguale condivisione empatica dell’universale e infinita dignità di ciascuno. Rifiutandosi di identificarsi con il primato «petrino» dell’Occidente cristiano. Era stato questo l’errore del Papa precedente: conclamare la supremazia pratica del Logos greco-giudaico-cristiano. Offrendo così un pretesto geopolitico alla supremazia Euroamericana. Di qui la gaffe di Ratisbona con svalutazione e condanna dell’Islamismo. Di qui pure le crociate teocon e gli alibi della guerra infinita. Ma anche su tutto questo Francesco ha messo la parola fine. Con buona pace degli atei devoti.

Repubblica 19.3.14
L’Europa degli inganni
di Barbara Spinelli


È INUTILE accusare la tecnocrazia europea per le azioni mancate o sbagliate dell’Unione, come hanno fatto Renzi e Hollande a Parigi, quando sono i governi a fare e disfare l’Europa secondo le loro convenienze.
Ed è inadeguato presentarsi a Berlino come buon allievo, quando le mutazioni hanno da essere radicali. Il rischio è un inganno dei cittadini: dilaterà le loro malavoglie, i loro disorientamenti e repulsioni.
Come non sentirsi sbalestrati, se non beffati, da discorsi così contraddittori? A Parigi Renzi ha accusato gli eurocrati, poi a Berlino ha riconosciuto il primato tedesco, ricordando alla Merkel che non siamo «somari da mettere dietro la lavagna, ma un Paese fondatore che contribuisce a dare la linea». Chi detta legge, in ultima analisi: il tutore tedesco o l’eurocrazia? Chi ha l’ultima parola? Non dirlo a lettere chiare: questo è aggirare i popoli.
L’inganno è più che mai palese alla vigilia delle elezioni europee, che almeno sulla carta dovrebbero essere diverse dalle precedenti. Il trattato di Lisbona infatti è esplicito, e i deputati di Strasburgo l’hanno ribadito: il Presidente della Commissione sarà designato dal Consiglio europeo, ma «tenendo conto delle elezioni del Parlamento europeo» (art. 17). Quel che ci si accinge a fare è altra cosa. Ancora una volta, la decisione sarà presa a porte chiuse, senza dibattito pubblico preliminare, dai capi di Stato o di governo. Lo stesso Parlamento europeo è complice dell’inganno, col suo regolamento interno: la scelta delle nomine è a scrutinio segreto; non è prevista discussione pubblica.
Condotte simili non si limitano a ignorare i trattati: sono anche del tutto incompatibili con la trasparenza da essi ripetutamente evocata. Riavremo dunque lo stesso occulto mercanteggiamento tra Stati che ha ammorbato l’Unione per decenni. Il Parlamento può certo accampare diritti - può sfiduciare il presidente dell’esecutivo e l’intero collegio - ma il rifiuto avviene dopo la nomina. È più complicato. Non a caso l’assemblea non s’è mai azzardata a sfiduciare la Commissione.
Se davvero credessero in quel che professano, Renzi, Hollande e la Merkel manderebbero in questi giorni ben altro messaggio ai cittadini refrattari che apparentemente li angustiano tanto. Direbbero: «Ci atterremo alle nuove regole, vi ascolteremo sempre più. Quindi rispetteremo il verdetto delle urne». Nessuno di loro osa dirlo. Il dominio che esercitano, nella qualità di sovrani che nominano eurocrati al loro servizio, non vogliono né dismetterlo né spartirlo. Vogliono usarla, la tecnocrazia, come alibi: se le cose vanno male la colpa è sua. Gli Stati hanno potere, non responsabilità.
La mistificazione è massima perché la colpa è interamente loro, se l’Unione è oggi un campo di discordie, di ingiustizie sociali asimmetriche. Sono gli Stati e i governi che hanno fatto propria la teoria, predicata ad alunni somari e non, dell’»ordine» o dei «compiti in casa ». È la teoria tedesca dell’ordoliberalismo, nata nella Scuola di Friburgo tra le due guerre, che fissa quali debbano essere le priorità, perché i mercati operino senza ostacoli: prima va rassettata la «casa nazionale», e solo dopo verranno la cooperazione, la solidarietà, e comuni regole di uguaglianza sociale. Nelle sedi internazionali, e anche in quella sovranazionale europea, basta insomma «coordinare» le singole linee, esortarsi a vicenda. Il motivo: l’esperienza totalitaria legata a interventi eccessivi dello Stato (memorabile l’accusa rivolta dall’ordoliberista Wilhelm Röpke, negli anni ‘50, all’ideatore dello Stato sociale: «Quello che voi inglesi state preparando, con il piano Beveridge, è una forma di nazismo». Non meno antiliberale fu giudicato il New Dealdi Roosevelt).
L’illusione ordoliberista, tuttora diffusa ai vertici degli Stati, è che se ognuno lasciasse fare i mercati, mettendo magari la briglia alla democrazia e a leggi elettorali troppo rappresentative, l’ordine finirebbe col regnare nel mondo. La crisi ha mostrato che solo invertendo le priorità una soluzione è possibile. È dalla solidarietà che urge ripartire, dalla messa in comune di risorse, dopodiché ogni Stato avrà più forze per aggiustare i conti, spalleggiato da istituzioni e bilanci federali. Così gli Usa risolsero la crisi del debito dopo la guerra di indipendenza: mettendo in comune i debiti, passando dalla Confederazione alla Federazione, dandosi una Costituzione.
L’esatto contrario avviene nell’Unione. Sono ancora gli Stati che hanno deliberato, nel febbraio 2013, di congelare il comune bilancio e di impedire l’aumento delle risorse che permetterebbe piani comunitari di ripresa, e soprattutto la conversione della vecchia industrializzazione in sviluppo verde, sostenibile. Una delibera che il Parlamento s’è rifiutato di ratificare, un mese dopo. Ma alla fine la decisione è stata accettata, pur rinviando il dibattito al 2016.
Sono gli Stati che hanno inventato la trojka, organismo che comprende la Banca Centrale europea, la Commissione, e non si sa per quale complesso di inferiorità il Fondo Monetario, e che oggi controlla 4 Paesi (Grecia, Portogallo, Irlanda, Cipro). Una trojka la cui sola bussola è la «casa in ordine». Sono infine gli Stati che hanno concordato il fiscal compact, che alcuni Paesi - tra cui l’Italia di Monti - hanno inopinatamente messo nella Costituzione nonostante nessuno l’avesse imposto.
Questo significa che viviamo nella menzogna, sull’Europa esistente e su quella da rifondare. Che chi ha in mano le scelte sono in realtà i mercati: non l’eurocrazia usata come alibi e non i finti Stati sovrani. Lo spiega bene Luciano Gallino, su la Repubblica del 15 marzo: non esiste stato di eccezione che consenta un’indifferenza così totale verso le sofferenze inflitte ai cittadini (Grecia in primis, e Italia, Spagna, Portogallo). Quanto al fiscal compact, si tratta, secondo Gallino, di eliminare dalla Costituzione le norme attuative, come proposto da Rodotà: «L’Italia non è in grado di trovare 50 miliardi di euro all’anno da tagliare (per 20 anni, ndr). Accadrà quello che è già accaduto altrove: tagli sanitari, bambini affamati, povertà» (intervista alManifesto,13-3).
Sono anni che Roma cerca di ingraziarsi Parigi, e forse qui è l’inganno più grande. I governi francesi, di destra o sinistra, hanno una responsabilità speciale: sin da quando, caduto il Muro, risposero sistematicamente no - in nome del mito sovrano gollista - all’unità politica e militare che Kohl chiese con insistenza per puntellare l’euro. Si denunciano le colpe tedesche, nella crisi, ma l’immobile insipienza francese è ancora più nefasta.
L’Europa, non dimentichiamolo, fu fatta grazie ai francesi Jean Monnet, Robert Schuman. Quel che fu creato lo si deve a Parigi. Ma anche quel che non fu fatto, e non si fa. A cominciare dall’unità militare, che consentirebbe all’Europa risparmi enormi: circa il 40%. Insieme si potrebbe valutare se sia sensato dotarsi degli F-35, e che tipo di pax europea vogliamo, autonoma da quella americana.
Uscire dalle menzogne è oggi l’emergenza. I cittadini, frastornati, faticano a capire che i governi, con le loro dissennatezze, sono più viziosi degli eurocrati. Che la Francia è un ostacolo non meno grande di Berlino, anche se governata dai socialisti (Sarkozy almeno ci provò: Hollande sull’Europa è muto). Che l’Unione ha bisogno di una Costituzione vera, che inizi come negli Usa con le parole: «We, the people...»: non con l’elenco dei governi firmatari. Altrimenti non avremo solo il predominio degli Stati più forti. Avremo quella che Gallino chiama la Costituzione di Davos: una costituzione non scritta, i cui governi, vittime di una sindrome da “corteggiamento del capitale”, l’assecondano con strategie economiche incentrate sul taglio del Welfare e sui salvataggi bancari a carico dei contribuenti.

Repubblica 19.3.14
Statali, 85 mila esuberi ed è bufera
Cottarelli: cinque miliardi di risparmi in otto mesi
Cgil in trincea: “Nuovo attacco al Welfare”
Tagli a sanità e pensioni la scure sul ceto medio
di Luisa Grion


ROMA - Ottantacinquemila statali in meno nel giro di tre anni: il popolo dei travet è di nuovo nella tempesta. Il governo deve tagliare la spesa pubblica e nell’elenco delle voci su cui intervenire, fra i costi della politica e quelli sulle auto blu, sono finiti anche loro, i 3 milioni 300 mila lavoratori dello Stato. A chiamarli direttamente in campo è la bozza di proposte sulla spending review firmata dal commissario Carlo Cottarelli, che fa un calcolo dei possibili esuberi nella categoria da qui al 2016 e ne quantifica i relativi risparmi (3 miliardi di euro) per le casse pubbliche. Cifre che hanno fatto scattare polemiche e proteste che il commissario stesso e il ministro della Funzione Pubblica Marianna Madia hanno invano tentato di far rientrare, ricordando che al momento si tratta solo di ipotesi.
I tagli - «sono solo una prima stima che va affinata», ha precisato Cottarelli - vanno ad assommarsi a quelli assorbiti dalla categoria negli ultimi cinque anni. Dal2009 il settore è sottoposto ad un blocco del turnover e degli stipendi che continuerà per tutto il 2014. Il rischio, nella migliore delle ipotesi, è che lo stop alle sostituzioni del personale che va il pensione con un nuovi assunti continui nei prossimi tre anni (scuola e sicurezza ne sono esclusi, ma nelle altre categorie il rinnovo permesso arriva in media al 20 per cento). Cottarelli, nella bozza presentata al governo, parla di infatti un «capienza » del blocco del turnover per altri 90 mila dipendenti, ma i sindacati rispondono con un «abbiamo già dato»: negli ultimi cinque anni sono stati tagliati quasi 300 mila posti di lavoro e molti servizi - assicurano - funzionano ormai solo grazie alla presenza dei 230 mila precari.
Che la partita non sia così facile lo sa anche il commissario, che nella sua proposta ammette come il blocco faccia alzare di non poco la già non verde età media dei dipendenti (oltre 48 anni, dati 2012). Cottarelli precisa anche che «la stima va affinata in base alle effettive norme che dovranno essere chiarite nel corso del 2014». Una cautela rafforzata dalle parole del ministro Madia («interpretazione distorta del piano »), ma che non convince per nulla i sindacati. Le proposte messe sul tavolo del governo, per la Cgil, altro non sono che «un ennesimo attacco al sistema pubblico e del welfare». «Con il solo blocco dei contratti e delle buste paga il settore pubblico, dal 2009 ad oggi ha già dato 9 miliardi. Da dove nasce la cifra degli 85 mila?» si chiede Michele Gentile, responsabile del settore pubblico per la Cgil «Nel disegno di legge Delrio sul riordino delle autonomie locali abbiamo già definito l’esigenza di una mobilità interna: dopo due anni di cassa integrazione chi non vorrà spostarsi se ne andrà, ma nel settore non ci sono esuberi ». Dello stesso parere Cisl e Uil, che parlano di «tagli lineari e settore pubblico usato come un bancomat». Ma al di là dei tagli da esubero nel mirino del piano Cottarelli ci sono anche gli stipendi dei dirigenti pubblici, che il commissario intende ridurre dell’8-12 per cento. Il reddito dei dirigenti al vertice è dodici volte superiore a quello medio pro capite, negli altri paesi europei non va oltre le sei. Il risparmio atteso da questi tagli è di 500 milioni l’anno per il triennio 2014-2016, ma la bozza precisa che si può fare di più riducendo il numero dei dirigenti stessi. Previsto anche il divieto di cumulo fra pensione e retribuzioni offerte per cariche pubbliche: l’effetto della misura, precisa il piano, più che in termini di risparmi va letto in termini di equità.

Repubblica 19.3.14
Pensioni, assistenza, Irpef così il piano dei risparmi penalizzerà il ceto medio
Niente assegno di accompagno sopra i 30 mila euro
di Roberto Petrini


ROMA - Altro che pensioni d’oro. L’”eredità” Cottarelli rotola sulle scrivanie di Matteo Renzi e Graziano Delrio con tagli che investono pensioni modeste, vedove, donne, invalidi, reduci di guerra. Nel mirino la carne viva del ceto medio-basso del paese colpito in quelle fasi particolari della vita quando si ha più bisogno di aiuto. Certo l’intento è quello della revisione della spesa, della lotta agli sprechi e agli abusi, ma il risultato rischia di essere assai doloroso.
La cura Cottarelli, guardiano della «spending review», in procinto di trasferirsi a Palazzo Chigi, per suggerire le sue «ricette», si sintetizza così: 3,8 miliardi in tre anni da previdenza e assistenza. Un colpo per i redditi tra i 25 mila e 40 mila euro che dovranno stringere la cinghia, tra tagli delle indicizzazioni e interventi sul Welfare, e non saranno nemmeno ricompensati dal bonus- Irpef da 80 euro mensili che è destinato solo a chi guadagna meno dei fatidici 25 mila euro lordi annui.
Il primo colpo è già stato parato da Renzi che ha smentito l’ipotesi del piano Cottarelli di un prelievo temporaneo sugli assegni previdenziali medi (intorno ai 1.500-2.000 euro lordi). Ieri il ministro del Lavoro Poletti ha assicurato di nuovo che non ci sarà nessun prelievo sopra i 2.500 euro. Ma sgombrato il campo da questa misura le slide della spending review tornano alla carica.
In prima linea c’è il blocco della indicizzazione all’inflazione delle pensioni: Monti, in piena emergenza, sterilizzò gli assegni oltre i 1.400 euro, il governo Letta reintrodusse, anche se in modo parziale, lo «scudo» del potere d’acquisto, fino a 3.000 euro lordi. Ora gli oltre 2 miliardi di risparmi previsti dal piano per il biennio 2015-2016 fanno pensare ad una nuova sterilizzazione degli assegni del ceto medio. Una retromarcia che i pensionati non gradiranno.
L’altra partita di carattere sociale è quella che riguarda gli invalidi: dal morbo di Alzheimer ad altre terribili disabilità. Il piano prevede di recuperare 300 milioni in tre anni legando l’assegno di accompagnamento al reddito. La proposta è quella di cancellare l’indennità (del tutto o solo per i nuovi trattamenti) per chi ha redditi di 30 mila euro lordi oppure arriva a 45 mila sommando coniuge e figli. Un settore dove si deve camminare con i piedi di piombo: i servizi sono carenti e le badanti costano. E anche una famiglia del ceto medio può cadere nella disperazione di fronte alle spese per l’assistenza di un non-autosufficiente.
Capitolo a parte è quello dei “furbi”: chi ruba il Welfare deve essere punito. Tant’è che ieri Poletti ha confermato che il governo punta alla «lotta agli abusi». Ma, come è avvenuto in passato, l’eventuale visita di verifica (per evitare disagi al malato) deve essere fatta con grande delicatezza. Dall’operazione: 300 milioni. La giustificazione sta in un grafico che spiega che invalidi, ciechi e sordomuti sono cresciuti più della popolazione. Una correlazione che dovrebbe tenere conto anche del prevalere di una diagnostica più accurata, del diffondersi di nuove malattie sociali e dell’aumento dell’età media.
Anche vedove e orfani di guerra dovranno pagare il loro ticket al piano Cottarelli. Dalla revisione delle pensioni del Secondo conflitto mondiale, che oggi pesano sul bilancio per 1,5 miliardi, si cercherà di raccogliere 800 milioni in tre anni. Forse l’intervento arriverà troppo tardi: la vedova ventenne di un disperso in Russia oggi ha circa 90 anni. E già prende una pensione parametrata al reddito. Nel mirino anche le pensioni di reversibilità: ovvero la quota di pensione che riscuote la vedova alla morte del marito. Il risparmio qui è di 100 milioni nel 2016: gli orfani prendono il 20 per cento dell’assegno finché non diventano maggiorenni, la mamma il 60 per cento. Tutto legato al reddito. L’altra categoria «debole» è quella delle donne. L’idea è quella di elevare l’età contributiva per andare in pensione di anzianità da 41 a 42 anni: le donne che hanno storie previdenziali frammentate (alternate con lavori casalinghi) dovranno attendere di più.
Perché colpire le pensioni? La giustificazione è «macroeconomica »: una tabella illustra che coloro che vivono con l'assegno previdenziale (un ceto medio basso tra i 18 mila e i 35 mila euro) risparmiano troppo (dal 7 al 20 per cento del reddito). Non consumano, tengono i soldi per lasciarli ai nipotini. E al Pil non servono.

l’Unità 19.3.14
Ricchi e poveri più lontani
All’Italia non basta la ripresa
di Laura Matteucci


La ripresa economica «non sarà probabilmente sufficiente » in Italia per porre fine alla profonda crisi sociale e del mercato del lavoro. C’è bisogno di investimenti per «un sistema di protezione sociale più efficace che permetta di evitare che le difficoltà economiche diventino sempre più radicate nella società». Nel rapporto annuale sugli indicatori sociali dell’Ocse, il focus sull’Italia fa emergere, ancora una volta, la gravità delle nostre difficoltà rispetto a quelle degli altri Paesi in esame. Procedere ad investimenti per un welfare più sicuro, dunque, è tra le prime raccomandazioni, per «assicurare supporto ai gruppi più vulnerabili», sostiene l’Ocse, ricordando che «da lungo tempo si dibatte in Italia di un sussidio di disoccupazione universale e di reddito minimo garantito ». Il problema è legato anche al crollo del reddito medio, quantificato in circa 2.400 euro rispetto al 2007, arrivando ad un livello di 16.200 euro pro capite nel 2012. L’Italia, questo il punto, ha sofferto più di tutti la recessione. Nello stesso tempo, infatti, nell’eurozona gli stipendi sono calati di 1.100 euro. Tanto che la percentuale di italiani che dichiara di non avere abbastanza soldi per acquistare cibo è balzata al 13,2% dal 9,5% ante-crisi, contro una media europea dell’11,5%.
DISUGUAGLIANZE MARCATE
«La notevole riduzione dei redditi - spiega l’Ocse - riflette il deterioramento delle condizioni nel mercato del lavoro, in particolare per i giovani». Il tasso di disoccupazione è più che raddoppiato dal 6% al 12,3%, con un balzo per i giovani ad oltre il 40%. Con un livello del 55%, la percentuale di persone in età lavorativa occupate è la quarta più bassa tra i 34 Paesi dell’Ocse. Tra il 2007 e il 2013, la disoccupazione è aumentata ad un tasso di 5.100 lavoratori per settimana, «e più di un quinto dell’aumento totale della disoccupazione nell’eurozona è dovuto all’Italia». Tra i giovani, allarma anche il livello di Neet (né studenti né occupati): più di 1 su 5 tra i 15 e i 25 anni, un tasso di inattività «più elevato che in Messico e Spagna, e il terzo più alto tra i Paesi dell’Ocse, dopo la Grecia e la Turchia». Nonostante questo, l’Italia ha una spesa di circa un terzo inferiore alla media europea e Ocse per trasferimenti sociali ai cittadini (assegni di disoccupazione o sussidi alle famiglie). Allo stesso modo, la spesa per servizi quali corsi di formazione e assistenza nel cercare lavoro, è circa la metà della media europea e Ocse, e si è ridotta ulteriormente tra il 2007 e il 2009. E i giovani non hanno diritto ad alcun sussidio né servizio. Il loro ritardo nel guadagnare la propria indipendenza «contribuisce al notevole ritardo nella formazione dei nuclei famigliari»: il tasso di fertilità rimane a 1,4 figli per donna, ben al di sotto del numero di figli necessario a mantenere costante il livello della popolazione, pari a 2,1 per donna. Inoltre, con meno di tre persone in età lavorativa per ogni adulto over 65, l’Italia ha il secondo più basso tasso di sostegno tra i Paesi Ocse e molto al di sotto della media, 4,2 lavoratori per anziano.
Anche l’organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo, come già la Germania di Angela Merkel, appoggia i primi passi su lavoro e fisco del governo Renzi, ma avverte che il Paese ha «urgente bisogno di riforme» per un sistema previdenziale impreparato ad affrontare le conseguenze della crisi. Il problema è complesso: l’Italia è entrata nella crisi finanziaria con un sistema di previdenza scarsamente preparato ad affrontare un forte aumento della disoccupazione, soprattutto di lungo periodo, e della povertà. Meno di 4 disoccupati su 10 ricevono un sussidio di disoccupazione e l’Italia è il solo Paese Ue assieme alla Grecia privo di un comprensivo sistema nazionale di sussidi per gruppi a basso reddito. Le famiglie più abbienti hanno maggior accesso ai benefici dal sistema di protezione sociale rispetto ad ogni altro Paese in Europa. E il rischio è la radicalizzazione delle disuguaglianze. «Con una diminuzione nei redditi del 12% in totale tra il 2008 e il 2010, il 10% più svantaggiato della popolazione ha subito perdite molto superiori rispetto al 10% più ricco, per il quale la perdita è stata pari al 2%».

Repubblica 19.3.14
L’amaca
di Michele Serra


Nell’idea di Renzi di avere un “rapporto diretto con la gente” aleggia, eccome, l’antipatia berlusconiana per “il teatrino della politica”, il fastidio per le intermediazioni che impicciano e ritardano, insomma il mito populista del leader che decide e governa per diretta investitura popolare. Bisogna dire che la diffidenza per queste maniere spicce è del tutto legittima; ma è onesto anche aggiungere che, dentro moltissimi italiani, il sospetto che le burocrazie si mettano di traverso, che consorterie e funzionariati assortiti chiedano il dazio per ogni legge che transita e per ogni decisione che arranca, che la rete delle mediazioni politico-sindacali sia diventata un sistema di ricatti reciproci, e infine di sostanziale arrocco, è anch’esso del tutto legittimo. Il mito del “decisionismo”, non per caso, ha radici antiche (è vecchio tanto quanto Craxi), e se Matteo Renzi sembra godere - almeno per ora - di una popolarità piuttosto solida, è anche perché si spera nel benefico sussulto di una macchina politico-amministrativa che sa di ruggine. Buona parte della spinta di Renzi deriva, per contrasto, dalla bonaccia che lo ha preceduto. Il suo talento politico sta nell’avere capito quanto alto èstato, per tutti, il prezzo dell’inerzia.

La Stampa 19.3.14
Renzi, investitura a D’Alema
Massimo e Matteo Il lento disgelo tra realismo e cinismo
Ecco perché uno può servire all’altro
di Federico Geremicca


Matteo Renzi contento per come è andata, Massimo D’Alema contento ancor di più. E considerato che tale inattesa contentezza origina nientedimeno che da un loro pubblico «faccia a faccia», c’è da chiedersi che diavolo stia succedendo tra il «rottamatore» e il suo primo «rottamato». In fondo niente, si potrebbe rispondere: la Grande Guerra è finita, Renzi l’ha vinta, D’Alema l’ha persa e adesso, passeggiando tra le macerie di quello che fu il «vecchio» Pd, forse hanno semplicemente scoperto che c’è un tratto di strada (ed un nemico) che potrebbero affrontare assieme. 
Succede, in politica: soprattutto nel centrosinistra, a dir la verità. Scontri all’ultimo sangue e poi riappacificazioni, più o meno sincere. Successe tra Romano Prodi e Massimo D’Alema, col Professore che lo volle ministro degli Esteri nel suo secondo governo (2006-2008) pur considerandolo l’officiante del funerale del primo (1996-1998). E succede ora tra Matteo Renzi e appunto D’Alema: e a conoscere i due, la sorpresa non può essere poi così grande.
A non conoscerli a fondo, infatti, ed a vederli lì, praticamente affianco, entrambi impegnati a presentare «Non solo euro», l’ultimo saggio di D’Alema, ci si potrebbe domandare cosa unisce quei due e cos’hanno in comune. Una grande passione per il calcio, certo: e l’ex presidente del Consiglio porta infatti in dono al nuovo presidente del Consiglio, la maglia del suo idolo, Francesco Totti. Un ego smisurato, naturalmente. E poi quell’abbondante dose di cinismo (realismo?) che in politica - la nostra politica - può perfino esser considerato una qualità, piuttosto che un difetto da cancellare.
Ed è quel realismo (cinismo?) che in queste settimane ha fatto da tappeto rosso all’infittirsi di rapporti e contatti che, in verità, non si erano mai del tutto interrotti: «Ce ne siamo dette tante - ha ammesso ieri Renzi - ma D’Alema ha sempre continuato a parlarmi quando i dalemiani e i dalemini, invece, non mi parlavano più». E D’Alema - del resto - non ha mai nascosto di ammirare, nel giovane astro nascente, la decisione e il coraggio che del resto furono - in altri tempi - anche le sue carte per emergere nel Pci prima e nel Pds-Ds poi. 
Il realismo, dunque. Che porta oggi Renzi a dire che una nuova candidatura dell’ex premier al Parlamento europeo gli parrebbe contraddittoria, in nome del rinnovamento; ma che gli fa anche annunciare che «in Europa dobbiamo mandare le persone più forti che abbiamo... Il compito del governo, e qui parlo da premier, è quello di scegliere per i livelli di guida delle istituzioni europee le persone che siano in grado di dare il maggior contributo al processo di cambiamento».
Sono affermazioni che, conoscendo i due e conoscendo la situazione, i più hanno tradotto così: no a una nuova candidatura di D’Alema al Parlamento europeo; sì, se possibile, ad una sua nomina a commissario europeo. È una traduzione legittima e, in fondo, rafforzata dal buon umore («Era felice come una Pasqua») con quale Massimo D’Alema ha lasciato il tempo di Adriano una volta finito il «vis a vis» col nuovo capo del governo. Per l’Italia non sarebbe certo un cattivo affare avere l’ex premier «ministro europeo», magari agli Esteri, suo interesse e passione crescente. Ma anche per Matteo Renzi non sarebbe affatto male avere D’Alema come alleato in Italia e testa di ponte (oltre che consigliere) nella battaglia che intende condurre nei meandri per lui ancora oscuri del gotha politico europeo.
Il cinismo (realismo?), dunque. Poi l’alta considerazione di se stessi. E infine un riconoscimento al reciproco coraggio. È una chimica discutibile, certo. Un amalgama che può non piacere. Ma si è visto, si vede e si vedrà ancora - probabilmente - di molto peggio. Sia come sia, tra il «rottamatore» e il primo dei «rottamati» è cominciato un lento disgelo. Che sia un bene o un male lo si vedrà. Dipenderà da tante cose. E prima di tutto, forse, da quel che lentamente e sotto la cenere sta riprendendo ad ardere dentro il «vecchio» Pd...

Corriere 19.3.14
Renzi-D’Alema, tra battute e strategie
In ballo un posto in commissione Ue
Il premier: nelle istituzioni europee mandiamo le persone più forti
di Maria Teresa Meli


Sfida tra tifosi Massimo D’Alema, grande sostenitore della Roma, ha regalato una maglia del bomber giallorosso Totti a Matteo Renzi che, da tifoso della Fiorentina, lunedì aveva portato quella del tedesco Gomez alla cancelliera Angela Merkel (LaPresse, Epa) ROMA — Renzi lunedì aveva regalato la maglietta di Gomez alla Cancelliera tedesca, ieri Massimo D’Alema ha regalato al premier quella del «capitano» per antonomasia in quel di Roma, ossia Francesco Totti. Un omaggio «scherzoso», precisa il suo staff, preoccupato che si dia troppa importanza a quel gesto. Un omaggio a cui uno psicanalista potrebbe dare diverse e interessanti interpretazioni, dicono gli ambienti renziani. Come il Renzi-Merkel, anche il D’Alema-Renzi è quasi un rapporto tra entità sovrane, e nello stesso identico modo, c’è un premier che conta più dell’altro.
Il primo, anzi, la prima nello scacchiere internazionale, ed è la Cancelliera, con cui, comunque, il presidente del Consiglio ha dovuto fare i conti, nel tentativo di avere gli unici stanziamenti che può avere subito: i sei miliardi per gli stanziamenti che la Ue può sbloccare o no. Il secondo, ossia Renzi medesimo, nel campo da gioco italiano, che, per ristretto che sia, potrà decidere con che voce parlare in Europa. Con quella di D’Alema? Forse sì. Forse no. Il premier, ieri, ha lasciato la porta aperta al «forse sì», sebbene non lo abbia fatto con il sorriso in faccia e l’aria di chi intende ingaggiare un braccio di ferro su questo. Tant’è che alcuni renziani della prima ora hanno coniato scherzosamente questo «hashtag»: «Massimo sta tranquillo». E visto che anche Letta doveva stare nello stesso stato d’animo la cosa non è rassicurante.
Ieri, al Tempio di Adriano dove si presentava il suo libro «Non solo euro», l’ex premier Ds aveva radunato tutto il dalemismo trasversale degli ultimi 30 anni. Alcuni over settantenni. Star dell’evento: da Alfredo Reichlin a Giuseppe Vacca a Marta Dassù, dall’ex segretario generale del Quirinale Gaetano Gifuni al presidente di Acea Giancarlo Cremonesi all’ad di Sky Andrea Zappia. Poi i politici, compresi Franco Marini e Walter Veltroni.Tutti lì ad assistere al primo confronto pubblico tra i due, che trova il suo clou nella domanda del direttore del tg1 Mario Orfeo, moderatore della serata, a Renzi: «Lei candiderà D’Alema?». Replica del premier: «Dobbiamo mandare in Europa le persone più forti che abbiamo, ai livelli istituzionali. In ogni caso è sbagliata l’idea che la scrittura di un libro garantisca la candidatura».
È un via libera alla promozione di D’Alema alla commissione Ue, grida qualcuno in sala, giornalisti inclusi. Un via libera per modo di dire. Un lascia passare a doppio taglio. Anche perché lo scambio tra i due, nel dibattito, non è certamente tenero. D’Alema ha lodato, con le sue insopprimibili frecciatine, l’agenda riformista di Renzi: «Sono d’accordo: è un programma coraggioso e realistico», ha detto, rivendicando però i meriti dei governi del “suo” centrosinistra: «C’è un’Italia che ha abbassato il debito, si è presa le sue responsabilità nei Balcani e ha ottenuto la presidenza della Commissione Ue». Il premier invece è stato più diretto: «L’Italia allora fece benissimo su quei fronti. Ma se ha avuto più problemi, è perché sono mancate le riforme. Ricordo un discorso molto forte di D’Alema sulla riforma del lavoro, ma poi, mentre Blair e Schroeder la facevano, qui è mancata». E lo stesso sul fronte istituzionale, a cui «la Merkel era più interessata che ai temi economici».
Insomma, conclude Renzi, che ha infilato addirittura qualche ironico «diciamo» nel suo discorso, «la classe dirigente della sinistra su questo ha fallito». E l’Italia «ha dato l’idea di essere un Paese irriformabile». Ora «ci giochiamo la faccia alle Europee sulla capacità di superare i tabù di questi ultimi decenni: è l’ultima occasione per chiudere il ventennio». Al Pd, Renzi fa anche capire che non ha intenzione di farsi mettere i bastoni tra le ruote da chi usa «quote rosa» o altri espedienti per bloccare l’Italicum e la riforma del Senato e con l’obiettivo di mandare all’aria l’accordo con Berlusconi. Che è «un valore». E, ha aggiunto malizioso, «non ho bisogno di dirlo qui, visto che D’Alema in passato ne è stato il più convinto sostenitore».

il Fatto 19.3.14
Il premier spinge D’Alema verso la Ue
I carissimi nemici uniti nell’Europa
“Il mio governo manderà gli uomini più forti che abbiamo nelle istituzioni di Bruxelles”
di Wanda Marra


Non mi interessa l’archeologia, mi interessa il futuro. Io voglio fare politica”. Lo ammette Massimo D’Alema. Senza reticenze. Un interesse che Matteo Renzi, accanto a lui, ha il potere di soddisfare. Candiderà alle elezioni europee il Lìder Maximo? “Per le liste, deciderà il Pd”, dice. Poi non senza un giro di parole che tradisce qualche imbarazzo: “Contestualmente credo che per i livelli di guida delle istituzioni europee dovremo mandare in Europa le persone più forti che abbiamo: e qui parlo da premieri”. Tra le righe, ma lo dice: candiderà D’Alema a commissario europeo. Da un anno e mezzo i “carissimi nemici” si combattono, si riappacificano, si combattono ancora più duramente. Ma adesso è il momento del patto, quello pubblico. La location è il Tempio di Adriano a Piazza di Pietra, l’occasione la presentazione del libro dell’ex premier, “Non solo euro”. In prima fila, Alfredo Reichlin e un Walter Veltroni in questo momento decisamente ai margini, una platea piena delle varie minoranze Pd. “Chi dice più Europa perde le elezioni, chi dice meno Europa sbaglia. Ci vuole un’altra Europa”, esordisce Renzi, che scopre “preoccupanti” convergenze con D’Alema. L’altro parte con una dichiarazione forte: “Questo non è un dibattito, noi siamo d’accordo su tutto”. Poi, eccolo lì, si tocca i baffi, marca qualche differenza. Prima di tutto di linguaggio. In altri tempi sarebbe stato sprezzante , adesso è condiscendente. “Io lo dico in un altro modo, ma lui - spiegando che metterà 80 euro in più nelle tasche degli italiani - prenderà più voti”. Sull’Europa, “ dobbiamo fare “massa critica”, restare uniti anche per “poterle cambiare, non violarle, le regole”. E dunque: “Io non mi metto dalla parte di quei soloni che dicono che non si può ridurre l’Irpef perché altrimenti siamo al due virgola qualcosa di deficit anziché al due virgola qualcos’altro. Cosa ci vogliono fare in Europa? Vogliono riaprire la procedura di infrazione? Questa commissione sta per scadere, quindi ne discuteremo con la prossima”. Come dire, ci penso io. D’altra parte a inserire il nuovo premier tra i leader europei lui ci ha già pensato, guidandolo verso il Pse. L’altro ha colto l’occasione e ci ha portato il Pd senza pensarci due volte.
E ADESSO, è lo stesso: D’Alema vuole rientrare in gioco, Renzi ha bisogno di qualcuno in Europa con i rapporti giusti per coprirlo ed aiutarlo. E allora, “il suo programma è realistico”. Sul lavoro? “Non entro nei tecnicismi, ma tu, tu che sei un uomo di sinistra (...nella platea c’è un attimo di disorientamento) devi tener presenti anche la dignità e i diritti dei lavoratori”. Un monito che sa tanto di apertura. Notare che non lo chiama quasi mai per nome. Archiviati così un anno e mezzo di lotta dura? Fino a un certo punto. Renzi legge un passo del libro di D’Alema, con un passo di una lettera a lui scritta due giorni dopo le primarie. In cui questi rivendicava: “Negli ultimi 20 anni l’Italia ha fatto anche benissimo: ha ridotto la spesa pubblica, è stata autorevole nei Balcani e pur nelle divisioni ha prodotto una classe dirigente che ha guidato il Paese e l'Europa”. Insomma, D’Alema non ci sta a fare un tutt’uno del famoso ventennio. Ma Matteo non molla: “Quando eri segretario dei Ds nel ‘97 annunciasti una riforma del lavoro. Non l’hai fatta”. E in generale, “il centrosinistra sulle grandi riforme ha fallito”. Indora appena un po’ la pillola: “Va detto che D’Alema ha sempre continuato a parlarmi, anche quando lo attaccavo. Erano i dalemiani e i dalemini a non farlo”. A D’Alema tocca starci. L’Europa è vicina. E non a caso esordisce con una citazione dall’incontro tra il premier con la Merkel: gli regala la maglia di Totti.

Repubblica 19.3.14
Renzi e D’Alema, gli amici ritrovati “Ora le riforme o nell’Ue sarà tsunami”
Il premier lancia l’ex segretario come commissario europeo
di Sebastiano Messina


ROMA — La pace tra il rottamatore e il rottamato ha due colori, il giallo e il rosso. E anche un numero, il 10 di Francesco Totti, quello stampato sulla maglia della Roma che Massimo D’Alema regala al supertifoso viola Matteo Renzi («Eccolo, un campione vero ») prima di sedersi accanto a lui, avvertendo però che «questo non è un dibattito perché siamo d’accordo su tutto e facciamo parte della stessa squadra». E a sentirli parlare sembra quasi vero, quando Matteo ammette sorridendo le «preoccupanti coincidenze » tra le sue idee e quelle del-l’altro, quando Massimo annuncia «sono molto d’accordo…», quando il primo conferma, «siamo profondamente d’accordo» o quando il secondo premette in punta di piedi «vorrei dire, Matteo, ma non è una critica…». E alla fine, prima di lasciar capire che l’ex “lider Massimo” forse non sarà candidato alle europee ma magari potrebbe essere una di quelle «persone migliori» che il governo manderà «nelle istituzioni dell’Unione», per esempio con un incarico di commissario europeo, il sindaco-premier loda persino la sua lealtà: «Se c’è una cosa che ho apprezzato è che quando ho avuto qualche elemento di valutazione critica su di lui, senti che giro di parole, quando qualcuno non mi parlava perché avevo avuto l’ardire, e l’ardore, di attaccare il mostro sacro D’Alema, uno di quelli che continuava a parlarmi era proprio D’Alema, a differenza di tanti dalemiani e dalemini…».
Ascoltandoli in questo cerimonioso duetto - oltre le colonne del tempio di Adriano dove si celebra la pace attorno al libro dell’ex premier, Non solo euro - è difficile riconoscere il Renzi che metteva D’Alema in cima alla lista di una generazione di politici «da rottamare senza incentivi», quando diceva «basta con questi leader tristi del Pd», quando gli rimproverava di aver «distrutto la sinistra» o quando annunciava soddisfatto: «Lo abbiamo pensionato ». E ci vuole molta fantasia per realizzare che il D’Alema che sta dando il suo imprimatur alle riforme di Renzi è lo stesso che lo definiva, e non un secolo fa, «ignorante e superficiale, anche se spiritoso e brillante», che lo accusava di usare il Pd come trampolino per Palazzo Chigi («Ma stia attento perché la piscina è vuota») e che ironizzava sulle sue doti di comunicatore: «È come Virna Lisi nella famosa pubblicità degli anni Sessanta: con quella bocca può dire ciò che vuole».
Basta. Acqua passata. «Non mi interessa l’archeologia, mi interessa il futuro», avverte D’Alema mettendo una pietra sul dossier degli insulti reciproci. Quanto al presente, lui tifa Renzi. Gli piace la sua idea di mettere un po’ di soldi in più nelle buste paga, e addirittura lo incoraggia a infischiarsene di chi fa «una macchiettistica polemica sul vincolo del 3 per cento». A qualcuno, anche a Bruxelles, non piace? «Si arrangino. Cosa vogliono fare, aprire una nuova procedura d’infrazione? Lo facciano, la Commissione è in scadenza, la discuteremo con quella nuova…». Non solo. Ma ricorda con una punta di orgoglio che la vituperata classe politica degli anni Novanta «abbassò il debito pubblico dal 122 al 103 per cento del Pil». Insomma, caro Matteo, gli dice con tono quasi paterno, «tu sei l’erede diuna grande tradizione italiana che può essere rivendicata in Europa senza essere presi a calci nel sedere».
Renzi, camicia bianca sportivamente sbottonata, incassa il complimento a doppio taglio. Premette di condividere, del libro di D’Alema, l’idea che «c’è uno spread tra le attese dei cittadini e le risposte dell’Europa». Eanzi aggiunge: «È uno tsunami, o la Ue è una sfida politica o noi perdiamo». Ripete che l’Italia «non è l’ultima ruota del carro» ma vuole riprendersi a testa alta il posto che le compete in Europa. Poi dà un brivido all’altro parlando delle lettere che lui gli ha scritto. D’Alema mette le mani avanti: «Io sono un uomo dell’Ottocento: scrivo lettere. Che però so-no personali». Renzi lo rassicura, non tradirà il segreto: «Alla faccia del personale: l’hai scritto nero su bianco nel tuo libro, che trovavi “sciocco e autolesionistico” chi criticava la stagione del centrosinistra dall’interno del Pd…». Il punto è, dice il presidente del Consiglio, che voi non avete fatto le riforme. Ne parlavate, ma non le facevate. «La classe dirigente della sinistra ha fallito il colpo. E così l’Europa si è convinta che siamo un Paese irriformabile». Noi invece le riforme le stiamo facendo, «e su quella del Senato, da cui si partirà a Palazzo Madama, il Pd sarà pronto entro una settimana ». Abbiamo cominciato da quelle istituzionali perché è quella «la partita vera». Una prova? «La cancelliera Merkel era più interessata alla riforma elettorale che al resto. E nel faccia a faccia mi ha fatto notare che l’elemento- chiave era il ballottaggio. L’avesse avuto lei, non sarebbe stata costretta a fare la Grande Coalizione…». Alle europee di maggio, domanda alla fine il direttore del
Tg1Mario Orfeo, lei sarà in lista? «Il presidente del Consiglio non si candida». E D’Alema? «Le candidature le deciderà il Pd, rispettando un criterio di rinnovamento che è fondamentale. Ma come presidente del Consiglio dico che nelle istituzioni europee noi dovremo mandare le personalità che siano maggiormente in grado di dare un contributo». D’Alema ascolta sorridendo sotto i baffi: messaggio ricevuto.

Repubblica 19.3.14
Matteo fissa l’asticella “Il Pd alle elezioni deve superare il 30%”
Serracchiani “speaker” del partito
di Goffredo De Marchis


ROMA — Secondo i sondaggi l’obiettivo è lì, a portata di mano. «Le intenzioni di voto danno il Pd al 30, addirittura al 31 per cento», racconta Matteo Renzi. «Ma sono tarate sulle politiche», aggiunge il premier con un pizzico di cautela. Le Europee sono un’altra cosa, si vota con il proporzionale e con la preferenza. Renzi farà una campagna elettorale ridotta all’osso, anche se pensa di rinforzare la squadra democratica in vista del 25 maggio con la nomina di uno speaker del Pd, un numero due che abbia forza e visibilità. Potrebbe essere una speaker per rispondere alle polemiche sulla parità di genere. E il nome in cima alla lista di Renzi è quello di Debora Serracchiani.
A Largo del Nazareno dove i numeri e le liste sono in mano al coordinatore Lorenzo Guerini cercano di volare bassi. Si parte dal 26,1 per cento preso all’ultima tornata continentale. Segretario era Dario Franceschini dopo lo choc delle dimissioni di Walter Veltroni. Il Pd portò a Strasburgo una pattuglia di 22 eurodeputati. È cambiato il mondo da allora. Dentro il Partito democratico ma soprattutto fuori con l’emergere di forze antieuropeiste che solo in Italia hanno sfondato il muro del 20 per cento. E nel frattempo la crisi economica ha fatto scendere la fiducia degli italiani nell’Europa al 28 per cento. Bruxelles è lontana, burocratica, affezionata al rigore, molto più vicina a Berlino che a Roma, Napoli o Milano. Per questo Renzi, quando parla del 25 maggio, preferisce partire dal dato del 2009 e fissare l’asticella minima a due punti percentuali sopra il 26 per cento. Ma spera e lavora per sfondare la soglia psicologica del 30 per cento. Va in questo senso la scelta di investire il tesoretto di 10 miliardi sul taglio dell’Irpef anziché sull’Irap. Va sempre in questa direzione l’accelerazione sulla riforma elettorale e sulle riforme costituzionali, segnali che devono, nelle intenzioni, arginare l’onda dell’antipolitica.
Per raggiungere quel risultato e per avere una navigazione tranquilla fino al 25 maggio, il premier sta ricucendo i rapporti con i big del passato. Per la minoranza ha individuato in Massimo D’Alema l’unico in grado di farlo scivolare prima del voto e la sua partecipazione amichevole alla presentazione del libro dell’ex ministro degli Esteri va letta in quest’ottica. Con Pierluigi Bersani il dialogo prosegue e le aperture dell’ex segretario sulle riforme economiche sono interpretate a Palazzo Chigi come un segnale positivo. Il problema è che il Pdè attraversato oggi da tante correnti e sottocorrenti che possono complicare la compilazione delle liste.
Renzi sta valutando la forza delle candidature. Non ci sarà il suo nome in lista e nemmeno quello di molti altri big. Verranno invece confermati gli uscenti, con l’eccezione di chi si è dimesso o abbandonerà volontariamente. Il rinnovamento nella competizione per Strasburgo non è semplicissimo: l’Europarlamento non ha l’appeal di Montecitorio o di Palazzo Madama. Ma Guerini si prepara a pescare nel bacino degli amministratori locali del partito. Molto più che nel cerchio renziano dei personaggi illustri. Anche perché al Nazareno danno per scontato che almeno il 50 per cento degli uscenti avrà molti problemi a tornare in Europa. Bisogna quindi scegliere altri candidati capaci di intercettare voti e preferenze. Alcuni capolista sono già praticamente ufficiali: Michele Emiliano al Sud, David Sassoli, capogruppo del Pd a Srasburgo nella circoscrizione del Centro. Altri raccogli-preferenze possono essere Gianni Pittella nel Mezzogiorno così come Andrea Cozzolino, Roberto Gualtieri al Centro. Ma non basta, certo.
La campagna di Renzi si affida alla velocità di azione del governo. Il premier non esclude qualche uscita tradizionale da front man elettorale. Ma il punto è dimostrare che il governo fa e fa in maniera rapida. Per questo si punta ad avere un testo di riforma del Senato in tempo utile per farne strumento di propaganda elettorale. Per questo gli 85 euro di aumento per 10 milioni di italiani scatteranno il primo maggio, anche se si vedranno nella busta paga del 27. Il 30 per cento è un obiettivo possibile, serve a superare il “trauma” di un’ascesa al governo avvenuta senza passare dal voto popolare. È il trampolino che Renzi cerca per una legittimazione piena o più piena.E per guardare al 2018.

Repubblica 19.3.14
Elisa Simoni, deputata democratica e cugina del presidente del Consiglio
“La minoranza deve riorganizzarsi. C’è malcontento, servono dei nuovi capi”
“Matteo ci ruba anche la sinistra, dobbiamo cambiare”
di Concetto Vecchio


«BISOGNA cambiare spartito e interpreti. Renzi sta occupando anche il nostro spazio, quello della sinistra. Così com’è la minoranza non ha senso, siamo solo un’accozzaglia di correnti». Elisa Simoni aspira con voluttà un sigarone nel giardino di Montecitorio. «La verità è che non abbiamo svolto una funzione». Chi è? La cugina di Matteo Renzi, ma deputata cuperliana, cresciuta a latte e martello. «Sono stata suo assessore in Provincia a Firenze, ci sentiamo di continuo, ma i suoi uomini in Toscana li ho sempre battuti. Mi chiamanola zarina, eh».
Onorevole zarina, D’Alema ha pure regalato la maglia di Totti a Renzi.
«È doveroso dare una mano a Matteo, se fallisce cola a picco il Paese, non solo il Pd, però mi chiedo: noi della sinistra interna che ci stiamo a fare? Lo stiamo a guardare mentre traghetta il partito nel Pse, ambisce a diventare un leader del riformismo europeo, concede 85 euro ai ceti più deboli, dichiara guerra ai tecnocrati, riduce gli F35, parla al cuore deigiovani e degli ultimi?».
Ecco, ce lo dica lei: che si fa?
«Renzi è già oltre il renzismo, parla una lingua diversa, fa del cambiamento la prima funzione dei progressisti, combatte la conservazione. Noi così rischiamo di non farci più capire».
Perché lei non è renziana?
«Ho un’altra storia, un’altra idea di partito. Renzi ha una debolezza: è privo di classe dirigente. I suoi candidati perdono spesso sul territorio, perché non basta dirsi renziani per vincere».
Quindi il renzismo non è invincibile?
«Esiste Matteo Renzi, ma i suoi voti non sono trasferibili. Noi invece abbiamo cultura politica, mestiere, esperienza, però serve ridefinire l’identità. E urgono nuovi protagonisti, leader diversi».
Cuperlo quindi non va più bene?
«Dovevamo entrare in segreteria dopo le primarie. E dopo aver fatto cadere Letta bisognava imporre la cogestione. Avremmo potuto essere protagonisti di questa fase, incidere sui primi passaggi del governo, intestandoceli. Invece siamo andati a rimorchio».
Altri interpreti vuol dire nuovi leader?
«Facce nuove. Ci sono risorse inutilizzate. C’è malcontento».
Renzi può restare segretario?
«I segretari si eleggono ai congressi, il nostro è stato già celebrato. Noi della minoranza dobbiamo porre con forza l’apertura del fascicolo partito. Ci sono le Europee, la partita delle riforme, non possiamo restare fuori anche stavolta».
Non capisco però come lei immagina questa nuova identità.
«Questo è il problema che dobbiamo porci da subito: è cambiato tutto, occorre uno schema moderno».

Corriere 19.3.14
Bossi promuove il premier: ragazzo furbo, non è malaccio «Renzi? Non è malaccio il ragazzo...»

 Umberto Bossi assegna per ora la sufficienza piena al presidente del Consiglio: «Gli do un 6+ ma vediamo cosa farà alla prova dei fatti...». Il fondatore della Lega definisce il Renzi-premier «furbo, intelligente e spregiudicato».

il Fatto 19.3.14
Eataly, le cinque giornate di Farinetti
L’imprenditore apre lo store milanese con una cerimonia lunga quanto l’insurrezione del 1848
di Davide Vecchi


Milano. Ora vi presento un mio grande amico, è una delle due persone più intelligenti d’Italia”. Mentre Oscar Farinetti scandisce la frase, al suo fianco si materializza Vittorio Sgarbi. Che dice: “Dopo Marinetti e il Futurismo finalmente qui da noi si apre una nuova stagione culturale grazie a Farinetti: un secondo Risorgimento”. Chi sia l’altra persona più intelligente d’Italia non s’è poi saputo. Ma dopo il primo di cinque giorni d’inaugurazione di Eataly - per ricordare le Cinque Giornate di Milano (18-22 marzo 1848) - sappiamo che in quel “due”, in realtà, Farinetti annovera almeno dieci persone. Da Inghe Feltrinelli a Lella Costa. Sterminata, invece, la categoria “grandi amici”. Gino Paoli, Ricky Gianco, Carlo Petrini, Alberto Fortis, Omar Pedrini , Elio Fiorucci, Milly Moratti, Serra Yilmaz. Tra gli altri. Tutti passati nella giornata di ieri, tra le 10 alle 24, a salutare Farinetti in occasione dell’apertura di Eataly Smeraldo. Poi i politici. Da Giuliano Pisapia e Claudio Burlando ai leghisti Flavio Tosi e Roberto Maroni. Ma non era sostenitore di Matteo Renzi e del Pd? “Io amo i politici che si sbattono per il proprio territorio, gli amministratori più che quelli di Roma; le ideologie le abbiamo superate da anni”, risponde mangiando un manzobab assieme a Burlando e Maroni. “A lui devo chiedere scusa”, dice Farinetti dal piccolo palco semicircolare affacciato dal primo piano al centro del locale. “Perché dissi che se vinceva in Regione avrei aperto un kebab, ho sbagliato: ho detto una cazzata e quando un uomo fa un errore lo riconosce”. Poi invita al suo fianco anche Tosi. “Un mio grande amico che fa il sindaco a Verona e secondo me lo fa benissimo”. Nella città scaligera, per inciso, aprirà il prossimo Eataly. Tosi guarda altrove. “Sono pronto alle primarie per il candidato premier di centrodestra”, dice lasciando il palco. E si dichiara a favore del referendum per l’indipendenza del Veneto (cui hanno già preso parte 700 mila persone) che “vuole essere una sfida allo Stato centrale e al suo immobilismo”. Farinetti, che invece l’Italia unita (a tavola) la esporta nel mondo, è già distante. Fa gli onori di casa. Porta Maroni a far tagliare il nastro tricolore del ristorante al secondo piano, mentre al sindaco Pisapia alle 10 aveva riservato l’inaugurazione dell’intero supermercato. Una struttura di 5500 metri quadri in piazza XXV Aprile che fino al 2011 ospitava lo storico teatro Smeraldo. Nelle intenzioni di Farinetti l’inaugurazione sarebbe dovuta avvenire il 25 Aprile 2012, festa della Liberazione, ma poi la data è slittata. Vuoi “per il periodo di crisi”, come ha detto Pisapia, vuoi per “l’importanza del made in Italy”, come ha detto Burlando, l’inaugurazione ieri è stata accolta da tutti come un evento. “Una struttura bellissima - ha detto Maroni - in uno dei templi della musica”. Poi anche il governatore ha rivolto lo sguardo a Roma. E al primo grande amico di Farinetti, Matteo Renzi. “Deve lasciare le tasse in Lombardia”, primo messaggio. Secondo: “Se sulla sanità ci saranno i tagli lineari sarà una dichiarazione di guerra”. Ma il patron di Eataly è distante; è tornato sul palco, ad annunciare gli ospiti che arrivano alla spicciolata e arriveranno per tutto il giorno. E anche oggi e nei prossimi tre. Fino al 22 marzo, quando termineranno le cinque giornate milanesi di Farinetti.

il Fatto 19.3.14
Tecnocrazia
La Ragioneria inguaia Renzi sui conti 2012
di Marco Palombi


Matteo Renzi ieri ha avuto la dimostrazione plastica di quant’è difficile governare un Paese scontrandosi con pezzi pesanti dell’apparato dello Stato e degli stessi gruppi parlamentari. Un dato è politico: qualcuno ha fatto in modo di sbattergli in faccia due pareri della Ragioneria generale dello Stato che mostrano uno stile amministrativo altrettanto approssimativo di quello dei suoi predecessori. Il problema è che con Monti e Letta questi pareri erano assai meno pubblicizzati di quanto siano ora: l’obiettivo è proprio mettere in imbarazzo la presidenza del Consiglio.
Il secondo dato è tecnico, ma i suoi effetti sugli obiettivi di palazzo Chigi potrebbe essere notevole: in sostanza, dice la Ragioneria, grazie ad alcuni emendamenti approvati in commissione alla Camera il nostro rapporto deficit-Pil potrebbe peggiorare ancora un po’. Il problema riguarda, in particolare, “la proroga di tre anni della durata del periodo di rimborso della quota capitale dei finanziamenti bancari per il pagamento dei tributi e dei contributi nelle aree delle tre regioni colpite dal sisma del 2012”. Tasse e altre imposte in Emilia Romagna, Veneto e Lombardia sono state sospese e anticipate dagli istituti di credito: spostando troppo in là il rimborso - scrive il Ragioniere generale, l’ex Bankitalia Daniele Franco - le regole di contabilità nazionale ci costringono a mettere a bilancio le somme “non più all’anno di competenza ma in base al profilo dell’effettivo rimborso”. Questo significherebbe pure correggere (innalzandolo) il deficit del 2012 con un effetto trascinamento anche per gli anni successivi e su situazioni simili (la Sardegna).
LA FACCENDA non è indolore: il rapporto deficit-Pil nel 2012 si fermò esattamente al 3 per cento e, secondo fonti parlamentari, il maggior costo dell’operazione su quell’anno andrebbe valutato in circa 500 milioni di euro. La cosa rischia di produrre “uno sforamento dei conti ex post che avrebbe conseguenze anche sul presente mettendo in discussione la possibilità di utilizzare quest’anno i margini di manovra conseguenti al miglioramento del deficit”. Tradotto: se Renzi non trova il modo di convivere felicemente col potere dei tecnocrati i soldi per il suo taglio dell’Irpef se li dovrà sudare euro per euro.

il Fatto 19.3.14
Magnate argentino scala tre aeroporti in Toscana e Sicilia grazie ai renziani
Per capire la strana storia degli aeroporti di Firenze e di Pisa, avviati a un’anomala privatizzazione attraverso la scalata del magnate argentino Ernesto Eurnekian, bisogna risalire al 2000.
Lobby in Volo. Dall’americano Ledeen alla Class Editori, dalla Mansi a Carrai. Così il fiorentino Naldi ha tessuto le alleanze del magnate argentino di Giorgio Meletti

Per capire la strana storia degli aeroporti di Firenze e di Pisa, avviati a un’anomala privatizzazione attraverso la scalata del magnate argentino Ernesto Eurnekian, bisogna risalire al 2000. Per capire la strana storia degli aeroporti di Firenze e di Pisa, avviati verso un’anomala privatizzazione attraverso la scalata del magnate argentino Ernesto Eurnekian, bisogna risalire al 21 marzo 2000, esattamente 14 anni fa. Quel giorno parte un fax dall'American Enterprise Institute, che un anno e mezzo dopo, in seguito all'attentato alle Torri Gemelle, diventerà la punta di lancia del pensiero neocon. Lo firma Michael Ledeen, personaggio assai noto in Italia, dove si è sempre trovato in mezzo alle vicende più drammatiche, dal rapimento Moro alla crisi di Sigonella. Bettino Craxi, per dire, lo accusò di essere l'ispiratore americano di Antonio Di Pietro nell'inchiesta Mani Pulite.
Ledeen scrive via fax a Roberto Naldi, l'uomo mandato a Buenos Aires dalla Sea per districare una dura controversia con Eurnekian, che si è associato con gli aeroporti milanesi nella Aeropuertos Argentina 2000, la società che ha realizzato la privatizzazione dei principali scali di quel Paese. I due si danno del tu e si scambiano indicazioni e suggerimenti sulle mosse da fare. Ledeen è dunque della partita.
Il fiorentino di Tripoli
Naldi è nato a Tripoli, ma da decenni è residente a Firenze. Dopo aver brillantemente superato il duro scontro di allora, è diventato il rappresentante di Eurnekian in Europa. Ed è l'artefice della scalata alla Adf, la società che gestisce l'aeroporto di Firenze. Quando ha comprato dal fondo F2i di Vito Gamberale il 33 per cento di Adf, il primo a fargli le feste è stato il presidente della società, Marco Carrai, ambasciatore del premier Matteo Renzi nel mondo degli affari e anche lui grande amico di Ledeen. “Un rapporto amicale e intellettuale”, dice Carrai, mentre l’intellettuale si compiace di insegnare a Renzi l'essenziale sulla politica in Medio Oriente, Russia e Stati Uniti.
Lo sbarco in grande stile dell'ottantenne Eurnekian sulla scena degli aeroporti italiani è ardua da comprendere in termini industriali, ma dimostra limpidamente quanto contino le relazioni per fare affari lungo lo Stivale, soprattutto quando c'è in gioco la cosa pubblica.
In questo momento i due arbitri della partita sono il presidente dell'Enac (ente per l'aviazione civile), Vito Riggio, e Giuseppe Bonomi, consulente per gli aeroporti del ministro dei Trasporti Maurizio Lupi. Recentemente Riggio è corso a festeggiare l'inaugurazione del nuovo aeroporto di Ere-van, capitale dell’Armenia, realizzato da Eurnekian anche in ossequio alle sue origini. Riggio è siciliano ma ha a cuore Firenze. È a lui che telefona il fiorentino Denis Verdini (l'uomo che tutti i lunedì sussurra a Renzi, secondo B.) per raccomandargli l'amico costruttore fiorentino Riccardo Fusi, interessato ai lavori aeroportuali per la sua Baldassini Tognozzi Pontello. Ed è lui che si dichiara “a disposizione” . Del resto, quando Naldi dichiara l'interesse del gruppo argentino per l'aeroporto di Palermo (29 gennaio 2013), subito Riggio fa una dichiarazione ruggente sull'urgenza di privatizzare lo scalo di Punta Raisi (31 gennaio 2013).
Bonomi con gli affari di Eurnekian ha un’antica consuetudine. Fu lui, da presidente della Sea, a stringere lo sventurato accordo per Aeropuertos Argentina 2000. Fu lui, nella controversia che ne seguì, a beccarsi dall'irascibile argentino una denuncia penale per truffa ed estorsione, rimasta senza seguito. I due hanno fatto pace, e, quando Eurnekian è rimasto coinvolto nella bancarotta fraudolenta dell'aerolinea Volare, proprio Bono-mi si è presentato al tribunale di Busto Arsizio come suo avvocato di fiducia. Eurnekian e il fido Naldi sono tuttora sotto processo per il crac Volare. Uno degli episodi più curiosi ricostruiti dall'inchiesta vede Eurnekian comprare delle azioni di Volare dal fondatore Gino Zoccai, il quale per sdebitarsi fa comprare a Volare una compagnia uruguaiana di Eurnekian. la Bixesarri. “Peccato soltanto che ormai Bixesarri avesse soltanto un aereo e per di più sotto sequestro in America Latina perché utilizzato per il traffico della droga”, scrissero gli inquirenti. Business is business.
Il fatto che la scalata a Firenze e Pisa sia accolta senza alcun interrogativo sulla reputazione o sull'affidabilità di Eurnekian e Naldi dimostra la solida rete di relazioni che proprio l'ingegnere fiorentino ha saputo costruire in questi anni. Partito come manager del mondo Legacoop, molto attivo nell'attività internazionale, Naldi da quando cura le strategie italiane di Eurnekian ha mandato in porto una serie di alleanze veramente strategiche.
il Fatto 19.3.14
Mostre a caso e curatori scelti
È la turbocultura di Renzi
Imbarazzo a Firenze per la singolare “Pollok e Michelangelo”
La curatrice ha 26 anni non ha molta esperienza, ma sarà la moglie di Marco Carrai, il Gianni Letta del premier


Nella mozione con cui Matteo Renzi si è candidato alla guida del Pd si legge che “vanno cambiati i centri per l’impiego, in un Paese dove si continua a trovare lavoro più perché si conosce qualcuno che perché si conosce qualcosa: la raccomandazione più che il merito”. Una frase che non fa una piega. Proviamo ad applicarla al mondo – mai molto chiaro – dei rapporti tra pubbliche amministrazioni ed eventi culturali. Se una ragazza di 26 anni, laureata in Filosofia e senza alcuna esperienza curatoriale, riceve l’incarico di curare la principale mostra di un grande comune italiano è perché conosce qualcuno o perché conosce qualcosa? È questa la domanda che due consiglieri di opposizione, Ornella De Zordo (Per un’altra Città) e Tommaso Grassi (Sel), hanno formalmente rivolto alla città di Firenze, ora retta dal vicesindaco Dario Nardella. In un articolo apparso il giorno prima sul Corriere Fiorentino si era, infatti, letto che la ragazza in questione (che si chiama Francesca Campana Comparini), è in procinto di sposare Marco Carrai, uno dei membri più importanti del cerchio magico di Renzi.
CARRAI – vicino a Cl – è presidente dell'Aeroporto di Firenze e membro del cda della Fondazione Cassa di Risparmio di Firenze, e di quello del Gabinetto Viesseux, oltre a essere stato presidente della cruciale Firenze Parcheggi. Carrai è socio della Holden srl di Baricco, ed è – per dire – tra i soci della ditta che ha trasformato la Libreria Marzocco nel nuovo Eataly Firenze. Ed è, naturalmente, il direttore generale della Fondazione Big Bang, la cassaforte della macchina politica di Renzi. In questi giorni, infine, Carrai è sotto i riflettori per aver ospitato per tre anni a titolo gratuito l’amico Matteo in un suo appartamento nella centralissima via degli Alfani a Firenze.
Una serie di circostanze che spiega perché l'opposizione chieda di chiarire formalmente “se la mostra di Pollock ha superato una valutazione tecnico amministrativa ed eventualmente da chi è stata svolta prima di ricevere il sostegno del Comune di Firenze attraverso la delibera di Giunta e se si può ravvisare in questo intreccio un apparente conflitto d’interessi o almeno un inopportuno favoritismo verso la futura moglie di un personaggio assai vicino al sindaco Renzi”.
Moglie di Carrai o no, il punto è: Francesca Campana Comparini ha i titoli per curare una mostra di questa ambizione? Nella principale banca dati del settore, sono presenti 62 titoli dell’altro curatore (Sergio Risaliti), e uno solo (e su un tema del tutto diverso) della Comparini, che esattamente due anni fa veniva intervistata sempre dal Corriere Fiorentino per aver esposto alcune sculture contemporanee fuori del negozio di famiglia, in via Tornabuoni. Un’iniziativa certo lodevole, ma non esattamente un titolo scientifico. Nel frattempo, bisogna riconoscerlo, la giovane filosofa ha firmato un saggio nel catalogo della mostra sullo scultore Zhang Huan a Forte Belvedere. Ma poiché anche quella è stata una commissione dello stesso Comune di Firenze, è purtroppo assai poco utile a chiarire il dubbio instillato da De Zordo e Grassi.
AVREBBE i titoli per rispondere l’assessore alla cultura Sergio Givone, il quale ha incontrato la curatrice intervenendo a un ciclo di conferenze da lei organizzato presso lo Studio Teologico di Santa Croce: e il tema (“Il Dono: sorgente del vivere e del pensare”) potrebbe essere perfino la chiave concettuale della vicenda, assai illuminante circa il verso che prende l’Italia di Renzi. Nulla si è detto finora della mostra , della quale il Fatto si è già occupato quando fu annunciata: si tratta del tentativo di far dimenticare la fallimentare e tragicomica caccia all’inesistente Leonardo della Battaglia di Anghiari ospitando nello stesso Salone dei Cinquecento un confronto tra Michelangelo e Jackson Pollock. Sì, avete capito bene: appoggiandosi sul fatto che Pollock da giovane ha copiato qualche opera di Michelangelo (come è capitato a ogni artista da cinque secoli in qua), si è deciso di stupire i borghesi appaiando ai marmi del Buonarroti le gocciolature del pittore americano. Purissimo marketing, dal valore culturale prossimo allo zero. Un dettaglio.

La Stampa 19.3.14
E la Pinotti ora frena sul taglio degli F35
Il ministro: il mio era un ragionamento complessivo. Smentito l’accorpamento polizia-carabinieri
di Francesco Grignetti


Si fa presto a dire: tagliamo gli F35. Il ministro della Difesa, Roberta Pinotti, in Parlamento ha difeso con veemenza il «suo» bilancio: «Abbiamo un problema di spesa pubblica, è vero. Ma complessivo. Guai se passa l’idea che la Difesa sia un bancomat da cui prelevare liberamente. La Spending review bisogna farla in tutti i settori dello Stato, altrimenti sarebbe una sperequazione». E i cacciabombardieri della discordia? Renzi non ha già annunciato un taglio al programma e lei stessa non s’era sbilanciata nello stesso senso? «Io - scandisce - non ho mai parlato di un singolo programma d’arma. Io faccio sempre un ragionamento complessivo. Prima dobbiamo ripensare la Difesa, poi rivedere i programmi, quindi ridurre». Sono i media che «hanno esteso al singolo programma una valutazione complessiva».
Era prevedibile. La Difesa non ci sta a passare per l’agnello sacrificale della Spending review. Il ministro ribadisce la sua disponibilità a nuovi tagli, ma senza dimenticare che una riorganizzazione è in corso, gli effettivi scenderanno da 190 a 150 mila, si rinuncerà a 385 caserme e basi. Tutto il resto andrà discusso. Lo strumento a cui la Pinotti si affida si chiama Libro Bianco. Sarà un poderoso documento che prenderà in esame le minacce future per l’Italia e gli strumenti adatti a fronteggiarli. Dice Pinotti: «Ci impegnerà i prossimi mesi. Ritengo che sarà pronto entro dicembre. Non prima, perché sarebbe la fotografia dell’esistente. Non dopo, perché c’è l’esigenza di decidere». 
E quindi, per come la vede lei, che su questo percorso ha avuto l’appoggio delle commissioni parlamentari e oggi chiederà la condivisione del Consiglio supremo di Difesa con il Capo dello Stato, è rinviato al 2015 ogni discorso sull’F35, ma anche sull’assetto della Marina, e sui programmi dell’Esercito. 
Resterà deluso il commissario straordinario Carlo Cottarelli, insomma, che sulle spese militari ipotizzava un risparmio di 1,8 miliardi già nel 2015 e 2,5 nel 2016. Altre spine per il commissario alla Spending review vengono dall’Interno. Nonostante la sua cautela («Non si può ridurre il livello di sicurezza, è un settore delicato. Si parla infatti di sinergie tra i diversi corpi. Altri Paesi come la Francia lo hanno fatto») i sindacati della polizia sono scesi in guerra contro il taglio di 300 presidi della Ps. E non solo loro. Anche il Cocer dei carabinieri ha tuonato: «Per via di una Spending review insensata, l’Arma ha dovuto chiudere, accorpare e rimodulare diversi presidi, ai danni non solo delle comunità locali ma anche dei carabinieri che vi prestavano servizio». 
Per di più s’è sparsa la voce che il governo medita su un accorpamento tra Carabinieri e Polizia. Il governo s’è precipitato a smentire. Dice il ministro Angelino Alfano: «Quello sull’unificazione dei corpi di pubblica sicurezza è un dibattito che va avanti da decenni: dal mio punto di vista non è mai stata una mia richiesta». Gli fa eco Roberta Pinotti: «Mai discusso di accorpamento in sede di governo. Non è all’ordine del giorno. Semmai un miglior coordinamento». 
A proposito di sovrapposizioni, il commissario Cottarelli, che ha toccato con mano le ridondanze tra le polizie, ma ora si trova al centro delle polemiche, ieri si sfogava così in Parlamento: «Perché la Guardia di finanza ha un reparto antisommossa se è una polizia finanziaria? Si tratta di andare a vedere questi casi. L’esistenza di reparti specializzati vale per tutte le forze di polizia. Bisogna guardare se c’è bisogno». 
Eppure i sindacati di polizia Siap e Anfp attaccano: «Il ministro Alfano non consenta che logiche meramente ragionieristiche dettino l’agenda della sicurezza». Ricordano: la Ps costa 7,3 miliardi. Tolti gli stipendi, restano 800 milioni per le indennità di missione, l’ordine pubblico, l’armamento, la formazione, gli automezzi, la benzina, le pulizie, il riscaldamento, la manutenzione, e gli affitti. Come risparmiare 2,5 miliardi in due anni, allora? 

il Fatto 19.3.14
Portaerei e fregate, soldi a mare
La Garibaldi è in vendita, ma per la Marina c’è uno stanziamento di sei miliardi che già fa gola a Fincantieri
di Daniele Martini


Le due portaerei Garibaldi e Cavour, orgoglio e vanto della marineria italiana, in questo momento non sono operative. La prima, la Garibaldi, avendo ormai spesso bisogno di manutenzione a causa dei 33 anni di navigazione alle spalle, si trova nel cantiere di Taranto dove decine di operai le stanno rifacendo il trucco forse anche per rimetterla al meglio in vista della vendita. Si dice che la marina militare dell’Angola sia molto interessata all’affare. La seconda portaerei, la Cavour di cui ancora non sono stati ultimati gli allestimenti, in particolare le difese elettroniche, nonostante sia stata varata 5 anni fa, naviga tranquilla lontano migliaia di chilometri dalle coste italiane, nei mari dell'Africa occidentale proseguendo in quel suo contestato giro del mondo in versione supermarket galleggiante voluto dal ministro della Difesa del governo precedente, Mario Mauro. Sul ponte e nei saloni ospita una specie di fiera delle armi, dai sistemi elettronici Selex (gruppo Fin-meccanica) ai mitra e ai fucili Beretta, tanto da somigliare a un piccolo Le Bourget ambulante, facendo cioè il verso a quella gigantesca kermesse allestita ogni anno sulle piste del vecchio aeroporto nei dintorni di Parigi dove viene esposto il non plus ultra degli strumenti di morte più micidiali. In teoria, quindi, in caso di necessità, l’Italia non potrebbe fare affidamento sulle due punte di diamante del sistema difensivo marittimo.
QUESTO NON VUOL affatto significare che la Marina militare italiana tra le tre armi sia la Cenerentola, anzi. A giudicare da tutte le attenzioni che la circondano, mai come in questo momento la forza marittima gode di una posizione privilegiata, frutto di una serie di congiunzioni favorevoli che la lanciano come l’Arma per eccellenza. Prima di tutto il capo di Stato maggiore della Difesa, cioè di tutte e tre le forze armate, Luigi Binelli Mantelli, è un ammiraglio e quindi sicuramente conserva nel cuore un qualcosa in più per la sua arma di provenienza. Seconda congiunzione: il capo della Marina, l’ammiraglio Giuseppe De Giorgi, ha stabilito un ottimo rapporto con Roberta Pinotti fin da quando questa era sottosegretaria alla Difesa, un’intesa che ha mantenuto e rinforzato ora che è diventata ministra. Terza congiunzione favorevole: la Pinotti è di Genova e quindi molto sensibile alle esigenze delle industrie della sua città, a cominciare da Fincantieri, il gruppo statale con la testa a Trieste, ma la produzione di navi militari proprio nel capoluogo ligure.
QUESTO INTRECCIO di fattori ha già dato i suoi frutti. Intanto prosegue il programma di acquisto di 4 sottomarini della classe U 212 (Todaro) costruiti in collaborazione con la Germania e per i quali l’Italia ha previsto di spendere quasi 2 miliardi di euro da qui al 2020. Il colpo da maestro pro Marina risale però a circa tre mesi fa quando, in occasione dell’approvazione della legge di stabilità, proprio la forza navale è riuscita a farsi trattare in guanti bianchi. Nel testo è stato inserito un emendamento caldeggiato dall’ammiraglio De Giorgi che a forza di pianger miseria è riuscito a convincere l’allora sottosegretaria Pinotti che lo stato della flotta militare è pietoso data la sua vetustà e quindi bisognava provvedere in fretta. Con un voto bulgaro è stato concesso alla Marina uno stanziamento monstre di circa 6 miliardi di euro in un quindicennio, una cifra di tutto rispetto in un momento di crisi come questo. Soldi che serviranno per la costruzione di nuove navi. A beneficiare di questo gigantesco programma navale sarà ovviamente l’unica industria nazionale in grado di tener testa all'impegno, la genovese Fincantieri guidata da Giuseppe Bono, vecchia volpe delle partecipazioni statali di una volta. Appena approvato l’emendamento, ha ripreso a veleggiare spedita l’ipotesi di quotare Fincantieri in Borsa prima dell'estate. Sul mercato sarebbe messa una minoranza azionaria del gruppo che, è facile immaginare, andrebbe a ruba, trainata dalla certezza che nei prossimi anni non mancherà il lavoro grazie alla megacommessa della Marina. Non è ancora chiaro che tipo di navi saranno costruite. Lo deciderà il Parlamento, sempre che il presidente Napolitano non ritenga di far valere come ai vecchi tempi le prerogative del Consiglio supremo di Difesa che si riunisce oggi e di cui è il capo.

il Fatto 19.3.14
La Cavour è in Africa (con la Corna)
di Ferruccio Sansa


Più che la pista di una portaerei sembra il palco di Sanremo: Luisa Corna che canta “Fratelli d’Italia” e l’orchestra che suona. Ma intorno ecco aerei ed elicotteri da guerra.
Strano show quello organizzato lunedì sera sulla nave Cavour attraccata nel porto di Dakar, in Senegal: un po’ avanspettacolo, un po’ rassegna bellica. Con contorno di Nutella.
DI SICURO CONTRIBUIRÀ a rinfocolare le polemiche sulle spese militari italiane. E sull’utilizzo delle nostre navi da guerra: mentre la portaerei Garibaldi viene destinata alla vendita, la sua sorella maggiore Cavour viene utilizzata come una sorta di fiera galleggiante. Con una spesa di trenta milioni di euro, di cui il 35 per cento a carico dello Stato.
Ma tra gli italiani presenti a bordo qualcuno è rimasto interdetto. Non ha gradito. E ha cominciato a far circolare le notizia e a protestare. Già l’invito aveva suscitato qualche perplessità. Nell’elegante cartoncino inviato dall’Ambasciata italiana in Senegal c’era un dettaglio per lo meno curioso: “Abiti da sera o militari”. Insomma, a bordo si sono presentati signore in abito da sera tutte ingioiellate, uomini in smoking e soldati in divisa. Uno strano miscuglio.
Era soltanto l’inizio: “A bordo ci siamo trovati davanti una specie di mercato”, racconta uno degli ospiti. Aggiunge : “Ci aspettavamo di trovare soldati, ma c’erano soprattutto gli stand di un sacco di imprese italiane. Alcune pubbliche, tante private. Un miscuglio
strano, dalla Ferrero che fa la Nutella alla Beretta che produce pistole e fucili. Poi Pirelli, Ferretti e Federlegno, ma anche Finmeccanica con i suoi elicotteri”.
Così, qualcuno ha chiesto informazioni: “Abbiamo scoperto che la Cavour - racconta un invitato - è partita dall’Italia il 13 novembre per una specie di tour promozionale di prodotti italiani mischiato con un’iniziativa umanitaria. In tutto sono 146 giorni di navigazione per diciottomila miglia”. I dettagli aggiungono perplessità. La nave ha toccato sette porti del Golfo Arabo e tredici africani: Arabia Saudita, Gibuti, Emirati Arabi Uniti, Barhein, Kuwait, Qatar, Oman, Kenya, Madagascar, Mozambico, Sudafrica, Angola, Congo, Nigeria, Ghana, Senegal, Marocco e Algeria. Tutto chiaro? “Mica tanto”, storce il naso più d’uno. “Primo perché stiamo parlando di pubblicità di armi anche in paesi non proprio democratici, talvolta in condizioni di conflitto”. Non solo: “C’è l’aspetto delle spese”. Si scoprono così interrogazioni presentate da Sel e M5S che raccontano: ogni giorno di navigazione costa 200mila euro, i 1.200 membri di equipaggio all’estero arrivano a essere pagati 180 euro al giorno. Totale: la spesa prevista per la spedizione era di venti milioni, che potrebbero diventare 33. Di questi il 65% a carico delle industrie sponsor, il restante 35% (circa dieci milioni) a carico dello Stato.
Insomma, un’operazione commerciale che tra un discorso della Croce Rossa (che poi va a curare i feriti) e un concerto cerca di vendere tecnologie militari (che poi magari serviranno per le guerre) prodotte da società per azioni, anche se alcune di proprietà dello Stato.
Poco importa che l’Italia sia in “buona” compagnia: la spedizione della Cavour (che anni fa aveva fatto un’analoga crociera in Sud America) è stata organizzata in fretta e furia per precedere quella della portaerei concorrente dei cugini francesi. La missione “Sistema Paese in Movimento” contro la “Bois Belleau”.
“CERTO, C’È l’aspetto umanitario, ma a noi dava ancora più fastidio perché pareva quasi far da paravento a quello commerciale e bellico”, è la critica di diversi ospiti.
Non solo. Qualcuno si è preso la briga di chiedere che cosa ha caricato la Cavour nella stiva: 30.000 chilogrammi di pasta, 50.000 di farina, 18.000 di pomodori pelati, 27.000 litri di acqua in 54.000 bottigliette e 12.000 litri di vino. Frutta e verdura fresca, mozzarelle e panettoni (6.000 le razioni di emergenza). La tipica dotazione di una nave da guerra.

il Fatto 19.3.14
Cgil: al congresso maggioranza del 97%
l documento appoggiato anche da Landini: le differenze emergeranno al dibattito di Rimini
di Massimo Franchi


Mancano pochissimi dati relativi ad alcune Regioni, ma le proporzioni non cambieranno. Il XVII congresso della Cgil ha visto una affermazione quasi bulgara del documento «Il lavoro decide il futuro» prima firmataria Susanna Camusso, ma sostenuto dalla quasi unanimità dei dirigenti, Landini compreso ha ottenuto il 97,56%, pari a 1.616.984 voti. Il documento alternativo «Il sindacato è un’altra cosa», primo firmatario Giorgio Cremaschi solo il 2,44%, pari a 40.461 voti. I voti nulli sono stati 5.122 e gli astenuti 9.251. Emerge un quadro unitario che rispecchia la situazione dello scorso ottobre quando si decise di fare un congresso ad emendamenti ma che stride con le divisioni e le tensioni create dal
Testo unico sulla rappresentanza, sottoscritto dalla Cgil il 10 gennaio con la contrarietà della Fiom.
Per quanto riguarda la partecipazione, nelle 41.299 assemblee di base finora censite hanno votato 1.671.818 lavoratori su 5.196.991 aventi diritto, con una affluenza pari al 32,17%. Leggerissimo il calo rispetto al congresso precedente: quattro anni fa i voti validi furono 1.810.530, con la mozione Epifani che vinse con l’82,93 per cento contro il 17,07 de «La Cgil che vogliamo», guidata dai segretari di bancari, pubblici e metalmeccanici.
«Siamo molto soddisfatti del livello di partecipazione commenta il segretario confederale con delega all’organizzazione Vincenzo Scudiere Nonostante la crisi peggiore del dopoguerra l’impegno straordinario delle nostre strutture, a partire dai delegati, ha portato al voto tantissimi lavoratori che hanno dimostrato di preferire le proposte alla protesta portava avanti dall’altro documento. Più o meno abbiamo mantenuto i votanti dello scorso congresso: si tratta di un fatto straordinario. I dati parlano chiaro, i profeti di sventura che pensavano ad una partecipazione sotto il milione di persone sono stati nettamente smentiti».
Già lunedì Giorgio Cremaschi aveva anticipato alcuni dati, sostanzialmente confermati, polemizzando sulla partecipazione: «Noi eravamo presenti in una assemblea su cinque. E dove c’eravamo la partecipazione è stata del 19,3 per cento, mentre dove non eravamo presenti è stata il doppio, il 37,3 per cento. La stessa cosa vale per i nostri risultati: dove eravamo presenti abbiamo preso il 19,6
per cento, dove non c’eravamo solo lo 0,15 per cento. Come si spiega una cosa del genere?». E ieri è tornato all’attacco: «Sfidiamo la maggioranza a controllare 100 congressi in tutta Italia scelti di comune accordo. Se non c’è nulla che non va, ritiriamo tutte le accuse».
IL REFERENDUM SUL TESTO UNICO
Il cammino verso il congresso del 6-8 maggio a Rimini e alla definizione dei 509 delegati va avanti. Sono in corso i congressi regionali e a fine mese partiranno quelli di categoria.
Come accennato, l’unità che viene fuori da questi dati non rispecchia certo la situazione interna attuale. Se la riconferma di Susanna Camusso a segretario generale non è in discussione, i rapporti di forza interni si misureranno sugli emendamenti, quelli che distinguevano la maggioranza Camusso e gran parte delle categorie e dei territori dalla Fiom che ne ha presentati su pensioni, contratti, reddito minimo e precariato. I risultati su questi voti ancora non ci sono, ma da Corso Italia filtra l’opinione che difficilmente modificheranno il documento approvato.
L’oggetto vero dello scontro fra segreteria confederale e Fiom tramutato poi anche in un altro emendamento a prima firma Landini riguarda come detto il Testo unico sulla rappresentanza. In questi giorni è già partita la consultazione promossa dalla segreteria confederale fra gli iscritti attivi. Si stanno tenendo le assemblee unitarie con Cisl e Uil per dare un giudizio positivo di quell’accordo e poi i soli iscritti Cgil votano al referendum. La Fiom invece ha promosso un’altra consultazione, aperta a tutti i lavoratori metalmeccanici. Nonostante la porta aperta lasciata dalla segreteria Camusso ha chiesto a Landini di prevedere una doppia urna per poter pesare anche i voti della Fiom nella consultazione confederale i metalmeccanici non forniranno i loro dati. I risultati definitivi arriveranno il 4 aprile.


il Fatto 19.3.14
Sul web
“Tsipras, ci salverà solo l’autoironia”
Parla l’autrice del video della lista europea che prende in giro vizi e litigi della sinistra


L’unico modo per uscire dall’autolesionismo della sinistra è l’autoironia”. È questo l’approccio che ha mosso Francesca Fornario, giornalista, autrice tv, umorista quotidiana in Un giorno da pecora su Radio2, ideatrice e regista del video-spot della lista Tsipras e che sta avendo un grande successo sul web. Il breve filmato è un breviario umoristico, e godibile, dei tanti vizi della sinistra, stavolta però apertamente indicati e sbeffeggiati. Attorno al tavolo di un bar, infatti, ci sono alcuni militanti di sinistra, che leggono il manifesto e Il Fatto Quotidiano, e che commentano la formazione della lista Tsipras, l’operazione elettorale che vede impegnati nomi come Barbara Spinelli o Moni Ovadia e che proprio ieri ha raggiunto le 43 mila firma, sulle 150 mila che servono per presentarsi: “Finalmente niente partitini” dice uno, “abbiamo bei candidati, economisti in gamba”. Poi, però, comincia la proverbiale scissione dell’atomo: “Io non li voto – dice il più estremista – hai visto nel mio collegio? C’è un terzomondista”. Un altro, indignato: “Bisognava fare una lista di si-ni-stra, invece non c’è scritto!”. “Ma c’è il simbolo rosso” risponde la più fiduciosa del gruppo: “Sì, ma è un rosso vermiglio” risponde quello, sarcastico. A dividere, poi, c’è la possibile adesione al gruppo parlamentare europeo. Entrambe le ipotesi provocano dissensi. Ma nelle liste, urla un altro, manca la “minoranza slovena”, non c’è nemmeno “una coppia gay”, manca anche “una coppia curda”; e poi, i “comunisti”, i “leninisti” magari anche i “vegetariani”, compresi quelli di orientamento “vegano”. L’elenco potrebbe non finire mai anche perché lo scontro è endemico e si conclude con la solita domanda: “E chi ha fatto cadere Prodi?”. “Meno male che lo abbiamo fatto cadere” risponde il più integralista, “se aspettavamo voi vegetariani...”. L’obiettivo è lo slogan finale: “Il futuro della sinistra dipende da te, quanto vuoi aspettare ancora?”. Quindi, lo spot per la lista Tsipras. “La sinistra si è talmente abituata a non incidere più” spiega al Fatto Francesca Fornario, “che quasi non si ricorda più come si fa. E spesso ragiona come quei vecchi che raccontano cosa facevano da giovani”. Scottata dall’esperienza della lista Ingroia, Fornario è tra coloro che spera che la lista Tsipras sia un processo “biodegradabile”, primo passo per unire la sinistra. “Certo, anche io vedo i limiti” ammette la giornalista, ma “le mie perplessità me le tengo”. Altrimenti, si ricomincia da capo e, alla fine, potrebbero vincere i leninisti curdi.

Repubblica 19.3.14
Eutanasia
La prima proposta nel 1985, poi altre dieci tutte affossate. Neanche il calvario di Eluana ha smosso il palazzo
Il no dei cattolici di destra e sinistra quel muro che resiste da trent’anni
di Caterina Pasolini


ROMA - «Il solo atteggiamento ingiustificabile sarebbe il silenzio su questi temi, la sospensione, l’elusione di ogni responsabile chiarimento ». Sono passati otto anni da quando il presidente Napolitano rispose a Piergiorgio Welby. Il dirigente radicale, paralizzato dalla distrofia muscolare che gli consentiva di muovere solo gli occhi, aveva chiesto una legge sull’eutanasia, sulla libertà di decidere della propria vita. «Perché vivere è un diritto, non un dovere».
Otto anni segnati da silenzi e voci gridate nelle aule del parlamento, undici disegni di legge su testamento biologico ed eutanasia presentati tra Camera e Senato e rimasti bloccati nelle commissioni. Anni in cui i passi avanti in tema di autodeterminazione sono arrivati dalle sentenza della magistratura, chieste e ottenute dai cittadini come Beppino Englaro, che si è battuto per sedici anni prima di veder riconosciuto il diritto della figlia Eluana, in coma dal ’92, ad andarsene «da un’esistenza che lei non avrebbe voluto, contraria com’era agli accanimenti terapeutici». Anni costellati da iniziative dei Comuni che, in mancanza di una normativa, hanno creato più di cento registri per raccogliere le volontà dei loro cittadini. Perché i medici possano ascoltare le decisioni dei pazienti quando questi ultimi non avranno più voce per dirle.
Era il 1985 quando il socialista Loris Fortuna portò per la prima volta in parlamento la questione eutanasia. Al padre del referendum sul divorzio sembrava arrivato il momento di «un processo dialettico e culturale sulla questione della dignità della vita nel suo momento terminale». Quasi trent’anni dopo, ancora un nulla di fatto. Un muro di no, da cattolici di destra e sinistra ha affossato tutte le proposte.
Sono i drammi personali a farsi politica, a cercare di smuovere il Parlamento. Bisogna infatti aspettare il 2006, la lettera di Welby e le sue richieste (poi accolte) alla magistratura di staccare il respiratore perché si parli di «fine vita». E il Paese ogni volta si spacca, da un lato cattolici di destra e sinistra, che considerano l’esistenza un bene indisponibile e impossibile la rinuncia a terapie come idratazione e nutrizione. Dall’altra i laici, siano del Pd o Radicali, dai Verdi a Rifondazione, a deputati come Giancarlo Galan a Chiara Moroni del Pdl, che privilegiano la libertà di scelta. Nasce con appoggi bipartisan il disegno di legge presentato dal senatore Pd Ignazio Marino, futuro sindaco di Roma, che prevedeva il diritto di farsi curare all’infinito, ma anche il rifiuto delle cure.
È invece il 9 luglio del 2008 quando la Corte di appello di Milano, dopo dieci anni di battaglie, autorizza Beppino Englaro, in qualità di tutore, ad interrompere il trattamento di idratazione e alimentazione che mantiene in vita la figlia Eluana: «Per mancanza della benché minima possibilità di qualche recupero della coscienza ». L’Italia scende in piazza. Manifestazioni, appelli delle associazioni cattoliche e mozioni politiche si moltiplicano, mentre la clinica di Belluno dove è stata trasferita Eluana è assediata da chi recita rosari e grida «assassini». Berlusconi in tv annuncia che Eluana potrebbe «addirittura avere figli». E dopo anni di immobilismo la politica scatta: su iniziativa del ministro Sacconi, il governo cerca di far approvare un decreto che vieta alle cliniche pubbliche e alle private convenzionate di sospendere idratazione e nutrizione. Ma il provvedimento viene respinto da Napolitano per vizi di incostituzionalità. Poi il governo presenta un disegno di legge di tre righe con lo stesso concetto. Il 9 febbraio, mentre se ne discute, arriva la notizia della morte di Eluana. Tra le urla, il governo ritira la legge con l’obiettivo di un testo più articolato. Nasce il ddl Calabrò, che però prevede l’esatto contrario della liberà di scelta: non si può rinunciare a idratazione e nutrizione e si affida l’ultima parola al medico. La proposta ora è decaduta. Trent’anni da Loris Fortuna. Ancora nessun diritto di scelta.

l’Unità 19.3.14
Il senso della vita e il rispetto della dignità
di Carlo Flamigni


BACONE SCRIVEVA CHE I MEDICI AVREBBERO DOVUTO IMPARARE L’ARTE DI AIUTARE GLI AGONIZZANTI A USCIRE DA QUESTO MONDO CON MAGGIORE DOLCEZZA E SERENITÀ, e nei secoli molti filosofi hanno giudicato criticamente il giuramento di Ippocrate. Eppure, un tempo la morte arrivava rapidamente, sia perché sopraggiungevano complicazioni delle malattie che i medici non sapevano trattare, sia perché nessuno, in realtà, la contrastava. Il vitalismo medico era certamente velleitario, nella maggioranza dei casi il malato decedeva a casa sua, non sempre dolcemente e quietamente, certo, ma di solito molto rapidamente.
Oggi, nei Paesi occidentali, oltre l’80% delle morti si verifica in ospedale e le condizioni del morire sono cambiate in modo straordinario. Essendo in grado di vicariare le funzioni di organi essenziali per la sopravvivenza del corpo - per quella della persona il problema è diverso - la medicina moderna si è messa in grado di controllare tempi e circostanze del morire. Le cose sono dunque cambiate. In meglio?
Secondo molti critici, la medicina ha solo sottratto il malato alla malattia, lo nasconde alla morte, tanto da creare una vittimizzazione da tecnologia. Certamente oggi possiamo fare molto per prolungare la vita di una persona, anche se si tratta di una vita che non promette più niente e che, secondo quella persona, non vale la pena di essere vissuta. La medicina deve affrontare, però, nuovi problemi, alcuni dei quali sono persino difficili da definire. Ci si chiede soprattutto: è possibile governare l’enorme potere che la medicina certamente possiede e che si manifesta nei suoi interventi sul processo del morire al solo scopo di evitare che questo potere privi il paziente del suo diritto di morire con dignità?
Le risposte sono molte, non tutte in grado di raccogliere consensi. La maggior parte delle persone di buon senso si limita a chiedere regole per fermarla là dove cessa la possibilità di assicurare al paziente una condizione di vita decorosa e compatibile con lo stato della malattia, cioè nel momento in cui sta per trasformarsi in un inutile accanimento sul corpo e sulla persona del paziente. Ma se poniamo dei limiti è necessario stabilire regole che impediscano di superarli. Quali? Tutti concordano nel considerare invalicabile il limite dell’accanimento terapeutico, ma poi i criteri per definirlo non sono condivisi.
Su questi temi esiste un conflitto aperto e i valori che si confrontano sono sin troppo evidentemente inconciliabili: il valore della vita umana, nell’accezione nella quale essa risulta indisponibile anche al suo titolare, e il valore dell’autonomia della persona, cui sono legati la libertà di poter autonomamente disporre del proprio corpo e il diritto di governarsi da sé nella sfera delle scelte personali. Esiste anche un modo molto subdolo e disonesto per risolvere il problema senza mai affrontarlo direttamente. Non molti anni fa a un convegno organizzato a Bologna da un sacerdote una signora che allora faceva parte del Consiglio Nazionale di Bioetica e che aveva lavorato a lungo nei centri di rianimazione, ci raccontò di quanto rapidamente morivano i vecchioni che occupavano (senza alcuna speranza di recupero) i pochi letti disponibili in quei reparti quando arrivava una richiesta di ricovero per alcuni giovani che avevano avuto un grave incidente stradale e che solo su quei letti potevano essere salvati: perché l’eutanasia esiste ovunque, in questo Paese, purché non ci siano rischi per chi se ne fa carico.
Ha scritto Giovanni Boniolo che è necessario distinguere la vita dall’esistenza e l’inizio e la fine della vita dall’inizio e la fine dell’esistenza. Cambiano evidentemente i livelli di analisi: descrittivo quello che riguarda la vita, assiologico quello che concerne l’esistenza. Il quesito fondamentale, la domanda che prima o poi tutti gli uomini si pongono, è a chi appartengano la vita e l’esistenza. Se si tiene conto delle definizioni, la vita non è di nessuno; stabilire a chi appartenga l’esistenza dipende dal punto di vista da cui le si attribuisce valore. Ci sono vite cui non attribuiamo il valore di esistenza e non ci interessa il loro destino. Ci sono vite alle quali attribuiamo valore ed è a seconda della quantità di questo valore che ci preoccupiamo del loro destino.
Personalmente, da uomo laico, sono soprattutto interessato alla possibilità di essere libero di esistere, perché da questa discendono altre libertà, come quella di scegliere la mia morte, cioè la fine della mia esistenza, cioè ancora la fine della mia vita. Certamente questo non può essere casuale: il problema fondamentale nella vita di un uomo laico è comunque e sempre la libertà: in fondo la laicità rappresenta l’atteggiamento intellettuale di chi considera primaria la libertà di coscienza, intesa come libertà di credenza, conoscenza, critica e autocritica.
Dunque, il quesito fondamentale resta sempre lo stesso: a chi appartiene la nostra esistenza. Domanda certamente non oziosa, che chiama subito in causa il problema della religione, un problema destinato inevitabilmente a dividerci. Se l’esistenza è nostra, se è nostra la nostra vita, abbiamo il diritto di farne ciò che vogliamo, indipendentemente da quanto pensano gli altri e nei limiti che ci sono imposti dal fatto di vivere in una comunità e di aver potuto contrarre debiti con gli altri. Se la vita non è nostra, se ci è stata donata, se dobbiamo comunque risponderne a qualcuno, allora le regole alle quali siamo tenuti ad attenerci sono evidentemente diverse. Siamo di nuovo di fronte a definizioni differenti: la morte è la fine della vita o è invece in modo più complesso un passaggio? Da questo primo quesito ne discende immediatamente un secondo: qual è la cosa più importante della nostra esistenza, quella alla quale attribuiamo il maggior valore? È la vita in sé, perché sacra e inviolabile e dobbiamo perciò rispettarla e accettarla comunque sia, qualsiasi cosa ci faccia, senza neppure potere ritenerla responsabile delle nostre sofferenze? O possiamo apprezzarla diversamente, valutandola e giudicandola proprio in rapporto a quanto ci concede? E cosa ci aspettiamo da lei per poter assegnarle un valore? Dignità? Qualità?
È una scelta difficile, che in alcune circostanze può divenire drammatica. La vita di un bambino nato con una malattia che altro non gli concede e altro non gli concederà se non sofferenza, vale la pena di essere vissuta? Nelle stesse condizioni, la mia vita, alla quale la malattia può aver tolto tutta la dignità di cui disponeva, vale la pena di essere continuata? E questo merita una doppia precisazione: la prima, che la misura della dignità compatibile con l’esistenza è assolutamente soggettiva; la seconda, che è molto più difficile intervenire sulla perdita di dignità che su quella del benessere fisico.
Secondo me bisognerebbe rispondere no a entrambe queste domande, ma è ovvio che si tratta di un giudizio personale. So bene che le risposte possono essere del tutto diverse dalla mia: questo accade perché su questo e su molti altri temi ci comportiamo come stranieri morali.
Vorrei anche ricordare a tutti che il concetto di dignità, quello che ognuno di noi intende per dignità, è assolutamente personale, non ci può essere insegnato dagli altri. Personalmente penso alla dignità come a una sorta di «cenestesi» dello spirito, ci rendiamo conto di averne una e riusciamo finalmente a valutarne l’importanza nel momento in cui viene ferita o minacciata. Che cosa poi ciascuno di noi intenda per dignità del morire dipende grandemente da come abbiamo interpretato e realizzato la dignità della nostra esistenza. Il vero problema riguarda però la possibilità di trovare mediazioni utili su questi temi così difficili e complessi. Io credo che gli interlocutori esistano e siano le persone religiose che riescono a discutere sulla base di principi razionali e laici, rinunciando all’idea di essere assistiti da una verità che sta dietro di loro e che illumina loro la strada. E sono comunque grato alle persone che non hanno paura di richiamarci al dovere di discutere di questi temi, come il Presidente della Repubblica.

Corriere 19.3.14
Perché dobbiamo parlare di fine vita
di Luigi Ripamonti


Giorgio Napolitano ha invitato il Parlamento a non ignorare «il problema delle scelte di fine vita» e ad aprire un confronto sull’argomento. Sono 1.900 le lettere sul fine vita inviate dalle associazioni: solo tre politici hanno risposto. Tra questi il capo dello Stato, il quale più volte in passato ha richiamato l’attenzione su un tema che divide le forze politiche. Una decina di senatori pd: sono maturi i tempi per il testamento biologico.
Il richiamo del capo dello Stato a tornare ad affrontare il problema della fine della vita interpella la coscienza personale e politica di ciascuno di noi.
Nessuno può chiamarsi fuori, nemmeno dalla responsabilità politica, dove per quest’ultima si intenda la propria parte nell’influenzare le decisioni dei nostri rappresentanti su temi che sono destinati, in ogni caso, a incidere fortemente sulla vita di tutti i cittadini del Paese.
Si tratta di un tema drammatico, ma ineludibile. Lo stato di avanzamento tecnologico della medicina mette oggi di fronte a decisioni di difficoltà inedita solo fino a pochi anni fa.
Decisioni che si trovano ad affrontare in angosciosa solitudine i familiari dei malati terminali, i medici e, tutt’al più, i giudici chiamati a decidere sull’applicabilità di un testamento biologico scritto, oppure su volontà trasmesse a una persona di fiducia in momenti in cui la capacità di intendere e di volere era ancora presente.
Non serve a nessuno girare la testa da un’altra parte.
Nondimeno, però, è giusto prendere coscienza che il tema è tutto tranne che banale, e che tentativi di semplificazione eccessiva possono esporre molto facilmente al rischio di scivolare nell’errore.
Basti pensare agli argomenti che confluiscono nel cosiddetto «fine vita»: da quello dell’accanimento terapeutico a quello dell’abbandono terapeutico, da quello dell’alimentazione e dell’idratazione forzata di malati terminali alla definizione stessa di malato terminale, fino alle tematiche più strettamente attinenti all’eutanasia in senso stretto.
Non cogliere le differenze sarebbe una falsa partenza.
Per questo è auspicabile che l’espressione delle opinioni dei singoli cittadini nell’arena civile e mediatica, e quella dei relativi rappresentanti in quella parlamentare, siano informate prima di tutto da una solida cultura e siano immuni, prima ancora che da pregiudizi, da superficialità.
Perché se il pre-giudizio è in qualche misura inevitabile (se non indispensabile) alla formazione del giudizio, l’ignoranza sarebbe invece imperdonabile.
C’è quindi da sperare che i toni dela discussione siano il più possibile lontani dallo scontro ideologico vista l’importanza e la delicatezza della posta.
E sarà, a questo scopo, fondamentale il contributo di tutti, dai promotori dell’iniziativa di legge popolare depositata in parlamento, alle associazione di malati, agli operatori degli hospice e agli esperti di cure palliative.
Potrebbe sembrare manipolatorio invocare le cure palliative in questa occasione (ovviamente un loro maggiore impiego non basterebbe a eludere gli altri problemi), però non sarebbe un esito trascurabile se un primo risultato del «sasso gettato nello stagno» dal presidente della Repubblica fosse una maggiore at-tenzione a questa tematica (e magari già che ci siamo, a quella relativa all’insufficiente applicazione della legge 38 sulla terapia del dolore).

Repubblica 19.3.14
L’inerzia che offende la dignità di chi soffre
di Michela Marzano


PERCHÉ negare a chi è in fase terminale di una malattia incurabile il diritto di morire degnamente? Perché accanirsi a mantenere in vita chi, dalla vita, si è già progressivamente allontanato? Le polemiche che nascono ogniqualvolta si cerchi di affrontare in Italia il tema delle scelte di fine vita sono sempre molto ideologiche. Forse troppo. Soprattutto quando, dimenticandosi delle condizioni drammatiche in cui vivono oggi tanti malati terminali, si insiste a voler opporre tra loro i concetti di “dignità della persona” e “autonomia individuale”, riempiendosi così la bocca di parole che suonano bene – e che molto spesso ci fanno sentire in pace con la nostra coscienza – senza interrogarsi sul senso della vita, del dolore e della morte.
Nei Fratelli Karamazov, Dostoevskij scriveva: «Ama la vita più del senso, e anche il senso troverai». Ma quando si è gravemente malati e non c’è più niente da fare, che senso ha invocare astrattamente il “valore inalienabile della vita”? Quando si è detto esplicitamente che si desidera andarsene, in nome di cosa qualcun altro dovrebbe potersi arrogare il diritto di opporsi? Certo, una delle caratteristiche della persona è proprio la dignità: quel valore intrinseco che possiede ogni essere umano e che lo differenzia dalle semplici cose che, come spiegava Kant, hanno sempre e solo un “prezzo”. Ma proprio per questo, la vita dovrebbe poter essere vissuta in modo degno, anche e soprattutto quando si giunge alla fine, senza che nessun altro consideri legittimo imporci la propria concezione dell’esistenza. Ecco perché l’autonomia, nel nome della quale da anni si invoca il diritto all’autodeterminazione dei malati, non si oppone affatto al principio di dignità. Anzi. È solo un modo per rispettare la volontà di chi, nella sofferenza, chiede di essere ascoltato, e quindi anche la sua dignità. Tanto più che difendere l’autodeterminazione dei pazienti non significa che i medici debbano venir meno alla propria vocazione e abbandonare i malati alla solitudine delle proprie scelte: per potersi veramente prendere cura di un’altra persona, un medico dovrebbe essere capace di adottare il punto di vista altrui, sapendo che la “cura del corpo” non può mai prescindere dalla consapevolezza delle sofferenze psichiche e morali legate ai mali fisici.
Il dramma del fine vita ci riguarda tutti. Anche perché morire è una delle caratteristiche della condizione umana. La vita è mortale proprio “perché” è la vita, scriveva il filosofo Hans Jonas. E un giorno o l’altro ci ritroveremo tutti lì, forse impotenti di fronte alle decisioni che altri vorranno prendere al posto nostro, cercando disperatamente di essere rispettati almeno un’ultima volta. La dignità della persona consiste anche nell’avere il diritto di essere riconosciuti come soggetti della propria vita fino alla fine. Sapendo che il “valore inalienabile della vita”, spesso invocato da chi si oppone a una legge sul fine vita, lo si rispetta anche quando si prende sul serio la parola di chi soffre.

l’Unità 19.3.14
Luciana Castellina: «Ciascuno deve scegliere il proprio destino»
Fu compagna a lungo di Lucio Magri che scelse di morire in Svizzera con il suicidio assistito: «Adesso il Parlamento ci ascolti»
di J. B.


Luciana Castellina sta salendo su un aereo per Bruxelles, quando la raggiungiamo, per un incontro di «un’altra Europa è possibile», che raggruppa tante persone e formazioni diverse, da Sbilanciamoci, a cui fa riferimento Luciana, a Tsipras, a Pittella. Sale a bordo anche Stefano Fassina. Fra le testimonianze raccolte dalla associazione Coscioni in favore dell’eutanasia e di un dibattito sul fine vita, c’è quella di Luciana Castellina che accompagnò, con gli altri compagni di un’intera esistenza, gli ultimi tempi di Lucio Magri, della cui fine drammatica c’è una forte eco nelle sue parole.
Mi hanno colpito, fra le tante, le parole di Umberto Veronesi che, dopo aver spiegato che nella medicina si deve passare dal paternalismo alla responsabilità e all’autodeterminazione, ha aggiunto, “la vita è un diritto ma non è un dovere”. Lei cosa ne pensa?
«Sono dell’opinione che ciascuno deve poter fare quello che vuole della propria vita, anche se si possono criticare le scelte, soprattutto se quelle scelte provocano molto dolore agli altri, tanto più quando non si tratta di malati terminali. Ma bisogna anche capire che la depressione, spesso, fa più male del male fisico».
Giorgio Napolitano ha risposto all’appello dell’associazione Coscioni, “il Parlamento non dovrebbe ignorare - ha scritto - il problema delle scelte di fine vita”. Visisolleval’attenzionedellapoliticaalletematichechevengonodefiniteeticamentesensibili? «Il messaggio di Napolitano è davvero bello. Quello che si solleva è un drammatico velo anche sul senso delle iniziative di legge popolare, che la Costituzione prevede ma che il Parlamento ignora, non porta a buon fine, non discute mai e, quando lo fa, si risolve a discutere dopo troppo tempo, quando si è perduta l’attualità della volontà popolare. Invece il Parlamento dovrebbe avere la sensibilità di ascoltare, farebbe bene al Parlamento stesso confrontarsi su temi che vengono dalla esperienza diretta delle persone e dalle loro sofferenze. Invece, gran parte delle cose di cui discutono i parlamentari sono distanti dall’esperienza diretta, la riforma del Senato è importante ma certamente lontana dall’esperienza diretta di 60 milioni di italiani e, infatti, le opinioni che emergono sono molto semplificate, sono sempre “tagliare”, “abolire”».
Le tematiche etiche dividono fortemente l’opinione pubblica. Lei ritiene che sia un rischio da correre?
«Negli anni Settanta si discussero in Parlamento tematiche che erano fortemente sentite fra la gente, il divorzio, l’aborto. Da deputata sentivo questa partecipazione, questa consonanza con una parte considerevole delle persone. Adesso le cose sono molto più rarefatte. I partiti di massa erano una cinghia di trasmissione dei sentimenti delle persone comuni, li collegavano alle istituzioni. Ora al massimo c’è un sì o un no attraverso un computer» Effettivamente colpisce che anche le nuove rappresentanze in Parlamento si adeguano rapidamente al politichese. «Sarà peggio con la nuova legge elettorale. Penso che si debba pensare un altro modello di democrazia, una diversa rete connettiva, visto che i partiti di massa non ci sono più. Sono molto pessimista sulla crisi della democrazia».
Sul fine vita, non teme che riprendano le crociate? Oppure, comunque, alla fine di un percorso anche accidentato, si produce una crescita collettiva?
«La domanda che viene dal basso non deve essere repressa. Io penso che, in una società laica, ci dovrebbe essere il minimo, dal punto di vista delle leggi e il massimo di discrezionalità per gli individui. Purtroppo siamo un paese dove si accetta che le credenze religiose entrino nelle leggi, e questo costringe a legiferare, per limitare l’imposizione religiosa che impedisce una visione laica ».

Repubblica 19.3.14
Il sogno di vivere fino a cent’anni città per città, ecco chi può farcela
L’Istat: si allunga l’aspettativa di vita. Il Nord meglio del Sud
di Maria Novella de Luca


ROMA - Dopo averla definita “rivoluzione grigia”, ormai i demografi la chiamano “rivoluzione bianca”. Rappresentazione cromatica di una quarta età di ottanta- novantenni in discreta buona salute, che sovvertiranno radicalmente la società italiana negli anni a venire. Se si pensa che la metà dei neonati venuti alla luce nel 2007 avrà concrete possibilità di vivere fino a centoquattro anni, è evidente come il sogno (non sempre felice) della longevità secolare, sia ormai qualcosa di tangibile, di statisticamente rilevante.
Basta scorrere le nuove tabelle dell’Istat sulla mortalità della popolazione italiana per accorgersi, anno dopo anno, quanto si siano allungate le speranze di vita. In cinque anni ad esempio i maschi sono passati da una media di 78,6 anni a 79,6, e le donne da 83,9 a 84,4. Insomma quasi un anno a testa, e non poco. Ma ci si può spingere più in là: leggendo i numeri dell’Istituto italiano di statistica, possiamo addirittura calcolare quanta vita ancora avremo ancora la fortuna di vivere. E in un’epoca ossessionata da test che promettono di rivelare se ci ammaleremo, di scoprire a 30 anni se abbiamo quel gene che causa l’artrosi o peggio l’Alzheimer, questa specie risiko anagrafico può dirci ancora di più qualcosa di noi.
Attraverso una complessa equazione che per ogni classe d’età tiene conto anche dei fattori di rischio, malattie, stile di vita, si vede ad esempio che oggi un quarantenne in buona salute, può serenamente proiettarsi fino agli ottanta, con un rischio di mortalità che è dell’uno per mille. Mentre a 50 la prospettiva è di altri 31,2. Ma ancora più interessante è osservare che una donna di 90 anni, esponente appunto della “rivoluzione bianca” può contare su altri cinque anni di vita, arrivando così a sfiorare il secolo. Si tratta naturalmente di esistenze fragili (il rischio di mortalità è del 137 per mille), ma resta comunque un campione non indifferente di centenarie lucide e ben presenti all’usura del tempo. Del resto le donne sono sempre più longeve degli uomini, anche se il divario si accorcia. Se nel 2001 il “vantaggio” femminile della speranza di vita sugli uomini era di 5,8 anni, nel 2011 è sceso a 5,1anni.
«Siamo di fronte ad una rivoluzione demografica che è un traguardo dell’umanità, ma rischia di far saltare i sistemi pensionistici, la sanità, le reti di welfare», avverte Letizia Mencarini, professore di Demografia all’università di Torino. «Ci si chiede spesso se questa “rivoluzione bianca” sia un allungamento della vita o della vecchiaia. In realtà - spiega Mencarini - gli anziani hanno oggi una salute discreta. Ma tutto dipende dalle cure e da ciò che hanno intorno». Infatti i livelli di sopravvivenza non sono omogenei, a Roma si vive meno che a Milano, a Palermo la mortalità (anche infantile) è più alta che a Torino, le città più longeve sono Firenze e Bologna, con al Sud l’eccezione di Bari. «Il sistema americano da questo punto di vista è un esempio nitido e terribile: tra gli anziani sopravvive a lungo soltanto chi ha soldi. In Europa invece grazie ai servizi sanitari pubblici la terza età, e adesso la quarta, sono state tutelate “democraticamente” ». Cosa succederà però con i tagli delle pensioni, della sanità e del welfare che stanno flagellando l’Italia? «Il cambiamento demografico porta con sé delle incognite enormi, e mi stupisce quanta poca consapevolezza ne abbiano soprattutto i più giovani. Pur con tutte le fragilità della vecchiaia - conclude Letizia Mencarini - quello che si prospetta è uno scenario di anziani attivi e sani, abituati a camminare con il loro passo pur in una società che corre». Adesso entra in scena la quarta età. La rivoluzione bianca, appena iniziata.

Il Sole 19.3.14
La nuova guerra fredda di Vladimir
di Ugo Tramballi


Nel suo «Lungo Telegramma» di 5.500 parole, già nel 1946 George Kennan preannunciava i pericoli delle ambizioni sovietiche, esortando tuttavia l'amministrazione americana ad evitare il confronto militare.
Il contenimento dell'Urss, consigliava, sarebbe stato più proficuo: essendo la strategia staliniana una continuazione di quella russa, prima o poi anche il sistema sovietico sarebbe appassito come quello zarista. Forse globalizzazione e web oggi rendono superfluo un diplomatico dalle capacità straordinarie come Kennan. In ogni caso il dubbio fondamentale sulle ambizioni di Putin non è meno profondo del mistero di Stalin, allora: dove vuole arrivare? La partita di Vladimir Putin si chiude in Crimea o è stato solo il primo passo del ritorno di un'antica politica di espansione europea? Basta Sebastopoli o il piano prevede l'uso della forza militare nel resto dell'Ucraina Orientale e ovunque vivano cospicue minoranze russe? In Estonia e Lettonia, due repubbliche baltiche ora associate alla Nato, i russi sono il 27 e 25% della popolazione. Lo sguardo di Putin si può estendere anche a Est di Mosca. In Kazakhstan, pieno di gas e petrolio, i russi sono quasi il 24%. In Ucraina compresa la Crimea, erano meno del 18. Nella lunga conferenza stampa di ieri il leader russo non ha chiarito i confini delle sue ambizioni. Dal comportamento di queste ultime settimane, durante le quali la diplomazia non ha aperto brecce, e dalle parole forse orgogliose, forse arroganti di ieri, Putin ricorda Alessandro III. Era lo zar ultra-conservatore morto nel 1894, convinto che la Russia avesse due soli amici al mondo: la sua marina e il suo esercito. Studiare la Storia non risolve il problema della disoccupazione giovanile ma aiuta a capire il presente. Forse anche il futuro. Se dobbiamo restare alle parole di ieri e non ancora agli atti che verranno, Putin ha dichiarato di nuovo una Guerra fredda all'Occidente. Ha il diritto di provarci, tuttavia anche lui sa che sarà un conflitto molto diverso da quello di prima: non tanto perché nel frattempo il mondo è piuttosto cambiato. Soprattutto la Russia di oggi non è l'Urss di ieri. I Paesi satelliti europei d'un tempo oggi sono tutte democrazie compiute, membri dell'Unione Europea e dell'Alleanza atlantica: nelle due istituzioni sono tra l'altro i più anti-russi. L'influenza di Mosca sulle repubbliche asiatiche ex sovietiche è più concreta ma tolte le risorse energetiche del Kazakhstan, quei Paesi non hanno peso. Mao Zedong diceva che Stalin era come un ravanello: rosso solo di fuori e bianco dentro. È difficile che i cinesi di oggi, impegnati nella loro crescita e nelle loro riforme, possano avere con la Russia di oggi rapporti migliori che nel passato; che possano gradire il disordine internazionale provocato da Putin. I "Cinque principi della coesistenza pacifica", l'elogio maoista dello status quo internazionale, valgono oggi quanto cinquant'anni fa. Il blocco russo avrebbe due soli partner certi: la Siria di Bashar Assad e il Venezuela del dittatore senza personalità Nicolàs Maduro. Non l'Iran, se Hassan Rohani è sincero sul nucleare; sfumata sarebbe perfino l'adesione di Cuba per il cui regime il modello di sopravvivenza è ormai più cinese che sovietico. Ma se Putin avesse tendenze maniacali, c'è qualcuno nel sistema russo che potrebbe farlo desistere o a Mosca sta andando in scena una specie di one man show? Nell'uso di slogan nazionalisti e contemporaneamente comunisti, a Simferopoli, Kharkiv e alla Duma di Mosca, viene fuori una miscela che confonde pericolosamente il XIX e il XX secolo. Sfortunatamente per Putin, questo invece è il XXI.

Repubblica 19.3.14
La sindrome del pellegrino sulla via di Gerusalemme
Ogni anno almeno cento fedeli finiscono in ospedale durante la visita
Sentono voci e dicono di reincarnarsi in figure bibliche
Un libro li racconta
di Fabio Scuto


GERUSALEMME -Sono oltre cento i pellegrini che ogni anno vengono ricoverati in una clinica specializzata in malattie nervose perché afflitti dalla “sindrome di Gerusalemme”, disturbo del comportamento già noto nel mondo antico, nel Medio Evo e il Rinascimento e che prosegue ancora oggi. La Città santa per le 3 religioni colpisce la psiche più debole - dicono gli specialisti - e attira migliaia di persone da tutto il mondo che poi percorrendo le strade della Città vecchia sono “folgorate” e sostengono di essere la reincarnazione di figure mistiche e religiose, sentono voci e hanno visioni. Altri credono di essere Dio, il Messia, l’Anticristo, Re Davide, il Profeta Elia, la Vergine Maria o San Giovanni Battista. Un’idea fissa di religiosità tradita o delusa che spinge questi pellegrini a “sentire” di avere una missione da compiere, sono preoccupati per i destini del mondo e vogliono adoperarsi per la sua redenzione e salvezza. Un viaggio che spesso finisce al “Kfar Shaul Medical Centre”, l’ospedale psichiatrico alle porte della città, nel quartiere di Givat Shaul, specializzato nella “sindrome di Gerusalemme”.
La storia di questo particolare disagio psichico è raccontata in un libro appena uscito in Israele, “Gerusalemme fra santità e follia, Pellegrini, Messianici e Allucinati” scritto da due autorità sulla materia, il professor Eliezer Witztum e il dottor Moshè Kalian, che dà conto di questi strani visitatori arrivati nel corso dei secoli nella Città Santa, uomini e donne, venuti fin qui rispondendo a una “chiamata” o in cerca della loro identità. Turisti o pellegrini che una volta arrivati perdono temporaneamente - nella maggioranza dei casi - la loro sanità mentale.
Il comportamento dei pellegrini antichi - già nel Medio Evo il teologo domenicano Felix Fabri racconta episodi analoghi nei suoi dettagliati racconti dei pellegrinaggi in Terra Santa - e dei moderni turisti che arrivano oggi in aereo hanno molti tratti comuni. Le persone che soffrono della sindrome tendono ad essere più religiose della media e hanno grandi preoccupazioni teologiche, sentono voci e hanno visioni, pensano di essere Dio o il Diavolo, personaggi della Bibbia o del Nuovo Testamento. La sindrome scrivono Witztum e Kalian non rientra nell’ambito di una malattia mentale - che è fra quelle censite nel Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders (DSM) - nel senso medico del termine, ma che sia invece un fenomeno religioso-culturale con caratteristiche mistiche che ruota intorno a un’identificazione religiosa che finisce per sfocare i confini tra il reale e l’immaginario. E nei casi estremi questo offuscamento dei confini porta a una vera e propria crisi emotiva.
Gerusalemme non è la sola città al mondo a suscitare un turbamento psichico. Alcuni turisti a Firenze vengono ricoverati in ospedale per la “sindrome di Stendhal”, sopraffatti emotivamente alla vista di meraviglie dell’Arte rinascimentale, c’è chi influenzato da Thomas Mann decide di mettere fine ai suoi giorni a Venezia o quelli colpiti dalla “sindrome della Casa Bianca” che arrivano a Washington per dare consigli o fare strane richieste al Presidente degli Stati Uniti tentando di oltrepassare i cancelli di Pennsylvania Avenue e finiscono direttamente in un ospedale psichiatrico. Ma nessuna di queste sindromi raggiunge per numero di casi quella della Città Santa.
«Gerusalemme è un posto speciale, un esempio estremo di relazione fra persone e luoghi», scrivono i due psichiatri, la maggior parte di turisti e pellegrini che arrivano visitano la Città Vecchia, soprattutto il cosiddetto “miglio santo”, dove i cristiani seguono le orme di Gesù di Nazareth, percorrono a piedi la Via Dolorosa e visitano il Santo Sepolcro, gli ebrei si dirigono al Kotel, il Muro del Pianto, ciò che resta del Tempio distrutto dall’imperatore romano Tito. I luoghi, l’odore degli incensi che bruciano, la folla, i suoni e le voci salmodianti delle preghiere, producono una forte suggestione, uno shock emotivo fortissimo e in chi già dispone di un immaginario della “Gerusalemme celeste” finisce per essere devastante. L’ipotesi dei due studiosi israeliani - che hanno analizzato migliaia di casi - è che la maggior parte dei turisti che finiscono al “Kfar Shaul” aveva già avuto qualche disagio nei Paesi di origine, «ma era stato più o meno equilibrato fintanto che non è arrivato qui». La maggior parte delle persone ricoverate ha creduto di essere l’incarnazione di qualche figura religiosa delle Scritture, il 21% era convinto di essere il Messia, il 4% la sua reincarnazione, il 3% di essere il Diavolo. Ma non sempre c’è il bisogno di ricoverare tutti: le viuzze della Città vecchia sono piene di predicatori, uomini e donne, che non fanno male a nessuno e non sono pericolosi né per sé né per gli altri. Uno scrittore israeliano una volta scrisse che era difficile non essere un profeta a Gerusalemme, o per lo meno un poeta. Potrebbe aver davvero avuto ragione.

Corriere 19.3.14
Cento milioni di cinesi verso le città
Opportunità per le Economie occidentali
di Guido Santevecchi


La Cina prepara la più grande migrazione nella storia dell’umanità. Un piano per far salire gli abitanti delle città fino al 60 per cento della popolazione entro il 2020. Si tratta di un’equazione complicata e rischiosa: attualmente vive in città il 53% dei circa 1,4 miliardi di cinesi, ma in realtà ci sono 268 milioni almeno di lavoratori migranti che lasciano le loro case in villaggi e campagne, attratti dalle grandi fabbriche e dai centri urbani. A questi migranti manca lo «hukou», il certificato di residenza senza il quale in Cina non si è considerati cittadini: non si possono iscrivere i figli a scuola, non si può andare negli ospedali pubblici, non si può comperare un appartamento. Se si tolgono i migranti relegati in un limbo, fantasmi dell’economia di mercato, i cittadini riconosciuti sono solo il 37%. Entro il 2020 dunque, il partito comunista ha promesso di concedere un «hukou» di città a 100 milioni di migranti e di portare nei grandi centri urbani altri 100 milioni di contadini e loro familiari.
Il «Piano per il nuovo modello di urbanizzazione nazionale» è stato presentato dal governo dopo molte discussioni e ripensamenti. La prima bozza puntava ad avere il 70% di residenti urbani nel 2025 ed è stata ridimensionata. È comunque un progetto mai tentato prima: in Europa, dove attualmente l’80% della popolazione è urbana, queste migrazioni interne si sono svolte in secoli.
Secondo i pianificatori di Pechino, l’urbanizzazione avrà effetti virtuosi sull’economia: spingerà la domanda interna permettendo alla Cina di non dover contare solo sulle esportazioni a basso costo; permetterà di consolidare il settore agricolo riducendo il numero di contadini e dei loro piccoli appezzamenti di terra e quindi migliorando la produzione; faciliterà l’ammodernamento dell’industria; migliorerà le condizioni di vita di tutti, contadini, operai delle fabbriche, abitanti delle città.
I costi? L’Accademia delle Scienze sociali cinese prevede 15 mila euro a persona, moltiplicato per 200 milioni di anime, in sei anni: per costruire e arredare case, strade, metropolitane e ferrovie, scuole, ospedali. «Solo» un sesto sarebbe a carico del governo, il resto del mercato. Può essere un’enorme opportunità commerciale, anche per l’Italia. Se i conti sono giusti.

Repubblica 19.3.14
Ezio Raimondi
La prospettiva di un critico tra Caravaggio e Heidegger
È morto a Bologna il grande filologo Allievo di Longhi fu cultore della civiltà tedesca e impegnato nella difesa del patrimonio artistico e del paesaggio
di Francesco Erbani


Ezio Raimondi raccontava spesso che la sua carriera di filologo, di critico della letteratura, iniziò con la storia dell’arte. Giovane maestro elementare in attesa di partire per la guerra, seguiva a Bologna le lezioni di Roberto Longhi su Masaccio e Masolino. Longhi spiegava come Masaccio si fosse fatto da parte nella Cappella Brancaccio a Firenze e perché avesse lasciato il campo a Masolino. Dipendeva da un buco e da un chiodo. Erano il centro focale di un’immagine prospettica e mentre per Masaccio la prospettiva era una intuizione approssimativa - così diceva Longhi - per Masolino «assumeva il senso potente di una concezione spaziale del tutto nuova». Immense questioni: che però muovevano i loro passi da un buco e da un chiodo.
Raimondi, che ieri è morto quattro giorni prima di compiere novant’anni, era uno studioso capace come pochi di intrecciare linguaggi diversi, di transitare con scioltezza, grazie a una intelligenza fluente, da Dante ad Heidegger, da Céline a Caravaggio. Parlava come scriveva, si diceva di lui. E studiava come veleggiasse fra una sponda e l’altra, trascinato da una facoltà della comparazione e dell’associazione, un vento incessante che lui governava con naturalezza in un mare apparentemente senza confini. Non smarrendo mai, però, il senso del dettaglio, dell’accertamento puntuale: il buco e il chiodo.
Nato a Lizzano in Belvedere (il paese di Enzo Biagi), studi bolognesi, tesi di laurea sulle Familiares di Francesco Petrarca con Carlo Calcaterra, lo stesso professore di Pier Paolo Pasolini («ci avvicendavamo nella stanza del professore, però non più che uno sfiorarsi di fantasmi», raccontava), Raimondi era orgogliosamente ancorato alle proprie umilissime origini - il padre calzolaio, la madre donna delle pulizie. La carriera letteraria non era in antitesi con l’ambiente familiare: «Mi sentivo di dare continuità a quelle ragioni e a quel modo di essere. Entrando da adulto nel mondo del sapere, prolungavo il senso profondo della parola e del silenzio coltivato da quelle persone culturalmente modeste».
Ha insegnato a Bologna e a Baltimora, New York, Berkeley, Los Angeles. È stato professore e poi amico di Francesco Guccini. Ha diretto l’associazione Il Mulino. Ha pubblicato saggi su Alfieri, Machiavelli, Tasso, Manzoni, su Kafka, Gadda, D’Annunzio, Moravia... Ha analizzato le poetiche del Novecento e la retorica («l’arte di parlar bene, non solo il luogo delle falsificazioni»). È stato un intellettuale nel senso più rotondo del termine, uno specialista che andava oltre le raffinatissime competenze specifiche. Per lui la letteratura, diceva citando Hugo von Hoffmansthal, «custodisce l’eterno presente del passato e un critico letterario deve pensare che un testo non è il passato, ma il presente, incarnato in un oggetto fragile ma individuato». Grande cultore della civiltà tedesca, padroneggiava Ernst Robert Curtius e Martin Heidegger. Attraverso il primo, incrociato fin dal dopoguerra con la lettura di Francesco De Sanctis, si affezionò all’idea che la letteratura europea era un sistema trasmesso nei secoli grazie allo strumento della retorica, e che dentro quel sistema c’era anche la letteratura italiana: «Individuando il nostro posto in Europa, potevamo riacquistare la dignità perduta con la “morte della patria”». In fondo, aggiungeva, la letteratura «mi apparve come la parte migliore della nostra tradizione, un po’ come per Curtius lo spazio medievale europeo era il luogo di una fuga intellettuale dagli orrori del nazismo». Quanto ad Heidegger, confessava di aver espunto dal suo pensiero l’elemento nietzscheano e di aver dato maggior risalto «al tema dell’uomo comune: le sue parole offrivano, ai miei occhi, dignità e forza filosofica all’arrabattarsi quotidiano».
La letteratura è sempre un movimento in avanti, diceva. La tradizione va conservata, insisteva, ma continuamente messa in discussione, altrimenti diventa uno stereotipo. E ricondurre un testo ai suoi antecedenti non ne annulla l’individualità, bensì rintraccia l’individualità attraverso il rapporto con l’antecedente. «Ogni vita vera è un incontro », diceva prendendo l’espressione da Martin Buber. E se lo è per le persone non può non esserlo anche per i libri. Il suo insegnamento aveva una forza magnetica, che si sostanziava in una parola limpida, tanto scorrevole al punto che sembrava non dovesse finire mai, anche quando si era ridotta a una flebile voce. Che si riferisse a Guittone d’Arezzo o a Osip Mandel’stam.
O che si riferisse al paesaggio e al patrimonio storico-artistico, di cui aveva preso a occuparsi con costanza e competenza al punto da essere nominato presidente dell’Istituto per i Beni culturali dell’Emilia Romagna, un incarico assolto con una freschezza e una sensibilità sorprendenti in un uomo di studi apparentemente distanti. Raimondi elaborava pensieri fecondi sulla memoria trasmessa dai beni culturali e sulla loro tutela - beni culturali che ai suoi occhi comprendevano anche il vastissimo repertorio dialettale, per il quale auspicava la cura dovuta a un oggetto vivo. La sua concezione del paesaggio attingeva agli studi più accreditati, alla frequentazione di un grande geografo come Lucio Gambi, dal quale ereditava l’idea che il paesaggio, appunto, non era tanto elemento originario, vergine, «bensì entità condivisa fra natura e cultura, il risultato di un’operazione che chiedeva, anche da parte dell’analista, strumenti altrettanto adeguati». Quegli strumenti di cui Raimondi, anche in età avanzata, non smetteva di dotarsi, spinto dalla curiosità intellettuale e dal desiderio di condividere sempre le ragioni degli altri.

Corriere 19.3.14
Raimondi da Dante a Manzoni
La critica come avventura totale
Grande italianista, voleva «rendere razionale l’irrazionale»
di Paolo Di Stefano


Ezio Raimondi è morto a Bologna alla vigilia dei novant’anni. Era nato a Lizzano in Belvedere il 22 marzo 1924
Dal 1968 è stato più volte Visiting Professor nelle università di Baltimora, New York e California
Dal 1975 ha insegnato Letteratura italiana all’Università di Bologna
È stato a lungo presidente della Associazione di Politica e Cultura del «Mulino» di Bologna e Presidente del Consiglio editoriale della stessa casa editrice.
Tra le sue opere più note: «Il romanzo senza idillio», «Metafora e storia», «Le figure della retorica», «Tecniche dalla critica letteraria», «Anatomie secentesche»,  «Il concerto interrotto», «La retorica d’oggi», «Un’etica del lettore»,
«Il senso della letteratura», Ha diretto le riviste «Convivium» e «Lingua e stile»

È stata lunga la strada percorsa da Ezio Raimondi, che tra qualche giorno avrebbe compiuto novant’anni. Una strada partita da Bologna e terminata a Bologna. È stato un percorso lungo e faticoso, specialmente agli inizi. Un padre calzolaio senza negozio, che lavorava in casa: suo figlio Ezio parla della sua signorilità d’altri tempi, ma potrebbe parlare di sé. Stessa eleganza austera. Diversamente da suo padre, però, Ezio Raimondi non era chiuso in se stesso, come pago del suo lavoro. Raimondi aveva forse ereditato dalla madre, una donna di servizio venuta giù dall’Appennino, quella «energia tranquilla, ma vera», che gli ha permesso di costruire lentamente la sua straordinaria vita intellettuale fino a diventare autentico maestro di critica letteraria per tante generazioni di studenti e studiosi. Partendo, come si diceva, da un’infanzia difficile vissuta in via del Borgo, in un caseggiato povero. Papà Adolfo lo voleva artigiano, mentre mamma Dolfa impose il suo slancio costruttivo e volle mandarlo a scuola.
Il piccolo Ezio ha una vita parallela, sin dalla tenera età vive, più che in casa sua, presso una coppia di vicini senza figli. Il ragazzo ha due padri, quello che parla di più e lo stimola è l’altro, il signor Baratta, un operaio specializzato piuttosto colto che legge il «Corriere della Sera», lo porta a teatro e gli fa conoscere il canto: «Mio padre invece era una presenza segreta, vive nella mia memoria in certi gesti di signorilità taciturna, con quel toscano e quel suo vestito a festa della domenica, che contrastava con il grembiule sporco di vernice indossato gli altri giorni». Quando la casa, il 25 ottobre 1943, viene abbattuta dai bombardamenti, comincia una vita nomade. Il padre muore nel ‘45 per malattia, la madre non ha lavoro e il ragazzo fa il correttore di bozze in un giornale. «Ero alle due torri quando vidi arrivare i primi soldati polacchi. Con la Liberazione eravamo rimasti soli, ma pensavo che allora la storia si sarebbe data in modo tranquillo e ascendente». Intanto, madre e figlio trovano alloggio in una ex caserma, in via Mascarella, un solo locale che è cucina, studio e camera da letto insieme.
È lì che il giovane Raimondi, dopo aver frequentato le magistrali ed essersi iscritto a Lettere, appronta la sua tesi di laurea, una ricerca su Codro e l’umanesimo bolognese stabilita con il vecchio critico letterario ed erudito Carlo Calcaterra, lo stesso con cui si sarebbe laureato Pasolini sul finire del ‘45. È la madre partigiana che lo sostiene e lo incita. Gli regala la storia letteraria di Flora quando vede la pubblicità della Mondadori sui giornali. Ma intanto Ezio frequenta già la biblioteca dell’Archiginnasio, ha imparato il tedesco e subito dopo la guerra divora Sein und Zeit di Heidegger, ricevuto in regalo da una ragazza, legge per conto proprio Baudelaire, Kierkegaard e Stefan George, si avvicina alla letteratura americana tradotta dalla Medusa e dal Corbaccio, Faulkner soprattutto, scopre Kafka: «Per me, che non avevo fatto parte del mondo borghese liceale, ogni incontro era una sorpresa». Il suo cuore però, negli anni universitari, batte per Roberto Longhi: frequenta con passione le sue lezioni, ma quando il grande critico d’arte gli propone la tesi di laurea, Ezio rinuncia per motivi economici. Il suo ceto gli suggerisce di andare verso la letteratura e non verso una disciplina che sente troppo raffinata per garantirgli un futuro sicuro. Confesserà poi un’altra ragione: l’ironia di Longhi gli faceva paura.
Se ci siamo soffermati sui preliminari, è perché Raimondi non dimenticherà mai le sue origini, anzi sarà su quelle che fonderà la propria consapevolezza anche di studioso dalla bibliografia sterminata. Se n’è andato qualche giorno dopo la morte di Cesare Segre e con la loro scomparsa si chiude un’epoca in cui il rapporto tra etica e letteratura è stato quasi una necessità biologica, iscritta in biografie travagliate, spesso tragiche. Come Segre, anche Raimondi incontrerà nell’immediato dopoguerra il maestro di filologia Contini: ne ricaverà un insegnamento orientato più verso la critica verbale che verso la filologia-filologia. «Di Contini — diceva — mi colpì molto la capacità di tenere insieme attenzione alla parola e problemi interpretativi. Nella crisi dello scientismo ottocentesco, il problema allora era quello di accantonare il positivismo conservando le esigenze positive della ricerca. La questione specifica della letteratura, per Contini, stava nel rapporto tra razionale e irrazionale. E la sua critica verbale tentava di razionalizzare l’irrazionalità». Certo, per Raimondi, che passa dai classici alla contemporaneità internazionale, il testo letterario non è terreno di sperimentazioni scientiste (non sarà uno strutturalista), anzi per lui la critica sarà sempre «approssimativa e provvisoria, in funzione di un fenomeno individuale». Poca teoria: l’interpretazione è nel dialogo che il lettore riesce a intrattenere con l’opera. Il lettore operando nella solitudine e nel silenzio stabilisce un confronto individuale con il testo e con la tradizione in un dialogo «pluralistico e perciò antiautoritario». Da qui la forte tensione etica, si direbbe quasi spirituale, nella intima relazione con la letteratura.
Fatto sta che Raimondi, diversamente da tanti suoi coetanei, spazia sin dagli anni Quaranta, oltrepassando ogni ambito specifico. Le letture eterodosse che la biblioteca gli concedeva lo portano ben presto verso autori poco frequentati in Italia, in particolare i romantici tedeschi. Ma Raimondi riesce a giovarsi dei rapporti umani come pochi: amico di Franco Serra (lo studioso di filosofia tedesca che nel ‘48 tornando dalla Germania gli mette in mano l’opera di Curtius) e del poeta e francesista Giuseppe Guglielmi, che lo indirizza, tra l’altro, verso la lettura di Céline. Negli anni Cinquanta, dopo avere ottenuto l’insegnamento alla Facoltà di Magistero (1955), Raimondi incontra gli amici del Mulino, crocevia di liberalismo, socialismo riformista e cattolicesimo, per lui una seconda università, che lo apre al confronto con scienziati, con giuristi, con storici. «Il Mulino mi permetteva — disse — di dare senso politico al mio lavoro culturale senza farmi diventare un politico. L’ipotesi del gruppo era di procedere con una mentalità di riforme: e per me la scoperta della sociologia fu un modo per sostituire alla filosofia anche idealistica una forma di discorso più diretto alla realtà, interpretando il mutamento e dando prova di razionalità etica». Al Mulino, edizioni comprese, è rimasto legato per la vita. Divenne quella la sua casa, dopo l’esperienza di insegnamento negli Stati Uniti e il ritorno a Bologna, nel cui ateneo dal ‘75 ha insegnato Letteratura italiana. La sua passione irresistibile gli fece guadagnare l’appellativo ironico di «libridinoso», mentre gli allievi più impertinenti ne sottolineavano l’eloquio fluviale e ampio anagrammandone nome e cognome in «Inizia e dormo», ben sapendo piuttosto che quella fluvialità cordiale li avrebbe inchiodati all’ascolto.
Raimondi è stato definito uomo di prospettive, non di appartenenze. Lo dimostrano i suoi studi, che vanno da Dante a Gadda e Calvino, fino a Kafka, Faulkner e DeLillo, passando per il Rinascimento e il Barocco, sui campi di ricerca retorica prediletta. Nei suoi saggi sui Promessi sposi (Il romanzo senza idillio è del 1974) vengono messe alla prova le istanze narrative per rivelarne l’ironia come misura del «vero», la composizione multiforme che passa dal dramma al comico, la discontinuità e le contraddizioni, i giochi prospettici. Studiando l’amato Renato Serra, ha messo in rilievo quel che più gli stava a cuore: l’etica collettiva come vero motore della grande letteratura.

Repubblica 19.3.14
Caro Enrico
Veltroni ricorda il leader comunista nel docufilm “Quando c’era Berlinguer” nelle sale dal 27
Il rivoluzionario gentile che sognò un’altra politica
di Michele Serra


Diffidate di questo articolo. Fate la tara a quanto scriverò del film di Walter Veltroni Quando c’era Berlinguer, che uscirà nei cinema il 27 marzo e andrà in onda sulle reti Sky (che ha prodotto il film) a partire da giugno. Il coinvolgimento emotivo è inevitabile; e non facile da maneggiare.
La materia del film vale, per quelli come me (qualche milione di italiani, ormai tutti sopra i cinquanta), quanto La Marcia di Radetzky per il soldato Trotta nell’omonimo romanzo, risplendente e malinconico, di Joseph Roth. Il solo nome - Enrico Berlinguer - evoca al tempo stesso un’epoca e la sua fine. Una grande illusione e la sua morte. Un ordine, un’etica e un’estetica che si sfarinano - come tutto - lasciando nell’aria solamente l’eco di una remota potenza e di una fragile memoria.
Il film comincia con una sorta di anteprima insieme spietata e sorridente. Decine di giovani, intervistati su chi fosse Berlinguer, rispondono spaesati e ignari di non averne la più pallida idea. Sono studenti universitari, passanti, italiani comunque nati dopo che il Pci era morto e il suo uomo più simbolico accompagnato alla tomba da un infinito popolo in lacrime. E’ un’ignoranza portata senza arroganza, un’ignoranza gentile, come se a noi ci avessero interrogati, a scuola, su chi era Quintino Sella, e ci fossimo scusati con il professore di averlo saltato, quel capitolo del manuale.
Anche per merito del regista, che nel suo sguardo non ficca mai rimprovero, quell’ignoranza non indigna. Rammarica, ma non indigna. La storia è fatta anche di buchi. Di vuoti e di finali inesorabili. Lo storicismo nel quale generazioni di italiani di sinistra si sono formati pensava a quella trama come a un percorso tormentato, ma senza vere cesure. Un divenire capace di assorbire anche le lacerazioni più cruente. Non è così. Il film è certamente un film “storico”, per il notevole valore documentale (immagini inedite, interviste ai protagonisti) e per lo sguardo prospettico. Ma non è un film “storicista”, perché di questa particolare storia, e della Storia in generale per contagio, il racconto di Veltroni restituisce un’immagine fragile, interrotta, soggetta alle manipolazioni e all’oblio, perfino al caso: quell’attentato subito da Berlinguer in Bulgaria negli anni dello strappo dall’Urss, al quale il segretario del Pci scampò per un soffio. Cosa sarebbe accaduto, nelle sliding doors della storia, se Berlinguer, il padre dell’eurocomunismo, fosse morto per mano dei servizi dell’Est?
Sì, il caso. Anche nell’assortimento - appunto casuale - dei caratteri umani in palcoscenico; ai quali tocca recitare il complicato copione della storia. Difficile dire quanto abbia pesato, nell’inconciliabile dissidio tra Berlinguer e Craxi, il plateale contrasto tra il carattere schivo del primo, il suo tratto signorile (quasi uno snobismo difensivo) e la corpulenta sicurezza del secondo, l’uomo che per primo interpreta e incarna l’esuberanza sociale dei nuovi ceti emergenti, post borghesi e post operai, le loro legittime ambizioni e i loro allarmanti appetiti, e insomma apre la stra-da, come autorevole starter, agli ultimi trent’anni della nostra storia, quelli di Berlusconi. Sono tra le scene più intense del film - quasi quanto quelle, di altissima forza emotiva, delle ultime ore del segretario - i brevi frammenti che ritraggono i due “nemici” insieme. Brevissime sequenze nelle quali Berlinguer e Craxi sfuggono al rispettivo sguardo, incarnano una frattura che non è solo ideologica: è lo scontro mortale tra un “prima” e un “dopo”, tra due antropologie, tra l’Italia austera dei padri costituenti, dell’antifascismo come atto fondante, e l’Italia nuova che mal sopporta quei vincoli rigidi, quell’etica così condizionante.
Nella lettura della parabola di Berlinguer Veltroni è piuttosto esplicito, e intensamente politico. Anche grazie alle testimonianze raccolte da protagonisti diretti e autorevoli (Napolitano, Gorbaciov, Scalfari, Macaluso, Ingrao, Tortorella, Signorile, Forlani, Segre, monsignor Bettazzi, il brigatista Franceschini, l’ambasciatore americano Gardner, il meraviglioso caposcorta Menichelli, il meraviglioso operaio Finesso, Lorenzo Jovanotti unico giovane, la figlia Bianca unica donna), i dieci anni di Berlinguer, dalla vittoria nel referendum sul divorzio nel ‘74 alla sua morte nel giugno ‘84, vengono raccontati come “l’estate della sinistra italiana”, della massima espansione elettorale del partito comunista, della sua trasformazione più profonda (l’eurocomunismo, lo strappo con Mosca, la scelta della Nato) e al tempo stesso della sua liquidazione.
Sulle ragioni e i torti di questa liquidazione si può discutere all’infinito. Colpisce molto che Veltroni, certo non sospettabile di ortodossia ideologica e anzi spesso accusato di disinvoltura “modernista”, nel suo film dia una lettura profondamente “berlingueriana” di quegli anni. La crescita impressionante del Pci, la sua prossimità al potere per vie elettorali provocarono una reazione durissima e composita, visibile e invisibile, condotta a viso aperto (Craxi, la Dc non morotea, la destra) e a volto coperto (la P2, le Brigate Rosse, i servizi segreti, l’esecuzione di Moro).
La testimonianza di Alberto Franceschini, fondatore delle Br, è una esplicita rivendicazione del rapimento Moro come attacco diretto, e vincente, al “compromesso storico”, cioè al tentativo di Berlinguer di accedere al governo “guardandosi alle spalle”, proteggendo se stesso e la democrazia da un esito cileno. L’idea di un’alleanza strategica con la Dc (e con il Psi, che si chiamò fuori, per voce di Craxi, da subito) attirò sul segretario del Pci le critiche e spesso lo spregio dell’estremismo “rivoluzionario”. Ma con il senno di poi va detto che nessun’altra proposta politica, nell’Italia del dopoguerra, riuscì a sparigliare le carte con energia paragonabile; e la reazione - l’assassinio di Moro, la paurosa presenza della P2 in punti nevralgici delle istituzioni e dei Servizi - fu altrettanto intensa, anche se non altrettanto leale.
La cruenza di quegli anni e la successiva, relativa cessazione delle ostilità sul fronte della violenza politica (l’assassinio di strada e di Palazzo furono, nell’Italia tra i Settanta e gli Ottanta, armi ordinarie) lasciano intendere come la fine del Pci, e la riduzione della sinistra a variante non più strutturale della società italiana, rappresentarono anche la fine di una guerra politica a tutto campo, che si concluse con dei vinti (Berlinguer il loro capo) e dei vincitori. Grande merito del film di Veltroni è resistere alla tentazione di un puro omaggio sentimentale a un leader di straordinario fascino, e a quel popolo straziato che, piangendo il suo capo, piange se stesso e il proprio congedo dalla storia italiana. No, non bastano, a raccontare Berlinguer, le immagini struggenti di piazza San Giovanni prima e dopo, piena di italiani a testa china e poi svuotata di popolo, con le pagine dell’Unità che svolazzano nel nulla. Per raccontare Berlinguer serve la politica, con tutto il suo ingombro. La politica di cui è vissuto e la politica che lo ha ucciso, la politica che muove le passioni, travolge le vite, abbatte i muri, cambia i connotati del mondo.
Più ancora della figura di Enrico Berlinguer è forse questo il vero “vuoto”, il vero lutto che questo film evoca. Come, quando, in quali forme quei ragazzi intervistati potranno mai cogliere la potenza della politica, la sua nobiltà, il suo integro nucleo di speranza, il suo essere motore del mondo, e non zavorra come appare troppo spesso, oggi, a troppi? Vedere le immagini della vitae della morte di quel signore così bello - bello come un attore - e di così elegante timidezza, artefice e insieme preda di un destino travolgente e luttuoso, farà balenare in qualcuno di quei ragazzi il sospetto che la politica possa essere il sale della Terra?
Poche ore dopo avere visto il film mi è arrivata la lettera di Beatrice. A lei, di diritto, il finale. «Sono una figlia venticinquenne di un padre quasi sessantenne, che da oltre trent’anni fa il muratore. Vedo lo sguardo di un uomo profondamente di sinistra, vissuto negli anni in cui Enrico Berlinguer era una speranza e al tempo stesso la materializzazione di un’idea (bella, immensa) che oggi non esiste più. Quello sguardo, che si perde nel vuoto tutte le volte che in tv passano i frammenti del funerale di “Enrico” (rivolto a chissà quali ricordi), si posa inevitabilmente su di me: mi dice, quasi scusandosi, che ormai tutto è finito. Ovviamente lui lo sa già da tempo, ma io no. Io, che mi considero con fermezza e fierezza una persona, una donna di sinistra, non so di che morte morirò ».

Corriere 19.3.14
L’Italia di Berlinguer, 30 anni dopo
Nel film di Veltroni, quelli che credettero nel «suo» comunismo
di Aldo Cazzullo


C’è Pietro Ingrao, 99 anni, che esce forse per l’ultima volta dal suo lungo silenzio, dentro una Lacoste rossa di tre taglie più larga, per ricordare «quando arrivò il feretro da Padova, seguito da un corteo che non finiva mai». E ci sono i ragazzi del liceo Azuni di Sassari, lo stesso che frequentò lui negli anni del fascismo, i quali oggi non sanno chi fosse mai Enrico Berlinguer. C’è Gorbaciov, gonfio di cortisone, che racconta come il segretario del Pci fosse visto con sospetto a Mosca, e l’ex ambasciatore americano Gardner, che rievoca lo scetticismo con cui Washington accolse la sua apertura alla Nato. C’è Giorgio Napolitano, che si commuove pensando alla comunanza di ideali con un uomo da cui talora lo divise la visione politica, e il caposcorta Alberto Menichelli, che singhiozza raccontando i quindici anni passati « co’ n’omo eccezzzionale ». Ma nulla, neanche la voce di Toni Servillo, l’evocazione di Pasolini, la colonna sonora di Danilo Rea e la canzone inedita di Gino Paoli Un addio, vale la testimonianza di Silvio Finesso, l’operaio della Galileo di Padova che con la sua cadenza veneta ricorda — straziato dal dolore ancora trent’anni dopo — l’agonia pubblica del capo dei comunisti italiani, tra la visita alla fabbrica e l’ultimo comizio: Berlinguer si interrompe mentre rivolge l’appello finale alla vigilia delle elezioni europee, beve un po’ d’acqua, si deterge con un fazzoletto, toglie e mette gli occhiali di continuo, riprende a parlare, beve ancora, si piega su se stesso, dalla piazza salgono grida allarmate — « se sente mal! », « poareto! », « basta! » —, lui riesce a finire il discorso che chiude la sua storia politica, la sua vita e anche la parabola del Pci.
Walter Veltroni ha incrociato due passioni della sua vita — il cinema e Berlinguer — e ha girato il suo primo film. Quando c’era Berlinguer è una pellicola senza politici, a parte il presidente della Repubblica e i testimoni da molti anni lontani dalla scena. Della generazione successiva non appare nessuno. Lo stesso autore si intravede appena, ventenne, al fianco della futura moglie Flavia Prisco, mentre riprende «con una cinepresa comprata dopo un 12 al Totocalcio» un comizio di Berlinguer.
Per il resto Veltroni ha girato solo in luoghi deserti. Il liceo Azuni (dove sono conservate le pessime pagelle del giovane Enrico, turbato dalla morte della madre: 5 in italiano, 4 in greco, 3 in latino). Il carcere di Sassari, dove passò cento giorni dopo la rivolta del pane del 1944 (e da dove scrisse, in una lettera sinora inedita, la sua prima professione di fede nella possibilità di far convivere comunismo e libertà). Il Palazzo dei Congressi di Mosca, dove nel 1977 Berlinguer rivendicò il valore della democrazia, ricambiato con l’applauso più breve, appena sette secondi. La spiaggia di Stintino, con l’«Oloturia», la sua piccola barca di legno, arenata sulla sabbia. E piazza San Giovanni, un immenso catino vuoto in bianco e nero che d’un tratto, con un forte impatto emotivo, si riempie delle immagini colorate del funerale (13 giugno 1984).
Gli storici discuteranno sulle rivelazioni di alcuni testimoni. Aldo Tortorella, oltre a confermare che dopo lo scontro con Zhivkov il regime bulgaro tentò di assassinare Berlinguer, sostiene che in Polonia cercarono di uccidere Giancarlo Pajetta. Claudio Signorile racconta che Aldo Moro «si era fatto personalmente garante» con il segretario del Pci che nel novembre 1978 il monocolore democristiano sarebbe stato sostituito da un governo composto da tutti i partiti del compromesso storico. Bianca Berlinguer riferisce che, nei giorni del rapimento Moro, il padre disse in casa: «Se succederà a me, non si dovrà aprire una trattativa con i terroristi. Se anche io vi scrivessi per chiederla, voi seguirete la volontà che vi esprimo oggi da uomo libero».
Ma per gli spettatori la chiave del film è in una domanda: com’è possibile che nel 1976 oltre un italiano su tre abbia votato comunista? In parte è lo stesso Berlinguer a fornire una risposta, quando in una tribuna politica spiega di voler rispettare la proprietà e l’iniziativa privata, senza espandere la sfera dell’economia pubblica «che è già fin troppo sviluppata». Un’altra spiegazione viene dal celebre monologo di Gaber Qualcuno era comunista . Ma è imprevedibilmente Jovanotti — figlio di un gendarme vaticano — a dire che «in Italia la parola “comunista” è Berlinguer, ed è una parola che per questo non mi ha mai fatto paura».
Il film ricostruisce la genesi del compromesso storico, con il golpe del Cile e l’escalation terrorista. Addita una convergenza di interessi tra piduisti e brigatisti per eliminare Moro e con lui la politica della solidarietà nazionale. Racchiude in poche parole gli errori e l’irrigidimento degli ultimi anni del leader al tramonto. Ma restituisce diffusamente l’impatto emotivo della sua morte sui militanti e sul Paese: le immagini — davanti a cui è difficile non commuoversi — del dolore delle persone semplici, in particolare delle donne anziane; il picchetto dei registi — Antonioni, Fellini, Pontecorvo, Maselli, Scola, Rosi — e quello degli attori — Mastroianni, Giovanna Ralli, Monica Vitti — attorno al feretro; il commiato di Sandro Pertini. La citazione finale di Natalia Ginzburg aiuta a capire per quale motivo, al tempo del massimo discredito della politica, Sky produca (e porti nelle sale) un film su un leader politico scomparso trent’anni fa: con Berlinguer molti italiani «avevano un rapporto personale, fiducioso e confidenziale», anche se si erano «limitati ad ascoltarlo nella folla d’una piazza».

La Stampa 19.3.14
Senza l’assassinio di Moro erano pronti ministri comunisti nel governo
La rivelazione di Signorile, in un impianto con punte di nostalgia
di Fabio Martini


Nei primi tre minuti c’è (quasi) tutto il film. Scorrono le facce di tanti ragazzi di oggi, interpellati su chi sia stato Enrico Berlinguer e le risposte sono disarmanti. «Era un commissario!», «così di botta non saprei...», «un politico al soldo dell’...Ursus», «Berlinguer? Un politico francese!», «uno di estrema destra», ,«dovrebbe essere un senatore a vita...». Nell’incipit del film «Quando c’era Berlinguer» scritto, diretto e girato da Walter Veltroni c’è il preannuncio dell’assunto che si scoprirà nelle due ore successive: certo, viviamo in tempi di memoria cortissima, ma quasi nessuno dei ragazzi sa chi sia stato Berlinguer, anche perché con la sua morte (era il 1984), di fatto morì il Pci e col Pci entrò in crisi un’idea di politica onesta, diversa, la speranza di un comunismo buono.
Tesi opinabile, ma il film dedicato al leader più carismatico della sinistra italiana degli ultimi 50 anni è tante altre cose assieme. Con la voce narrante di Veltroni, il documentario è anzitutto una carrellata di immagini di eventi dimenticati, talvolta memorabili. In una delle prime “Tribune politiche” in bianco e nero, anni Settanta, compare un Berlinguer giovane, che oltre a ripetere più volte «diciamo» (ecco chi è stato l’iniziatore di un intercalare mutuato da D’Alema), si rivela subito portatore di un carisma comunicativo davvero originale, un mix mai più visto, fatto di sobrietà e durezza, riservatezza personale e nettezza delle posizioni. Sintesi davvero efficace, letteraria di Lorenzo Jovanotti: «Un’Italia che non ci sarà più, con quelle ossa piccole...». C’è Togliatti che parte per i funerali di Stalin e il giovane Enrico lo accompagna alla stazione. Ci sono le immagini impressionanti della macchina di Berlinguer accortocciata in Bulgaria, dopo essere stata investita da un camion, mandato quasi sicuramente con l’intento di uccidere dai compagni di Sofia. E ancora Berlinguer che parla al Pcus nel gelo dei gerontocrati sovietici. Eccolo nella campagna per il divorzio, con un generoso commento di Veltroni («serra le fila contro Fanfani»), che glissa sui tentativi del leader del Pci di evitare il referendum. Ci sono le immagini di folle enormi alle feste dell’Unità, ma anche quelle angosciosissime, quasi insopportabili dell’ultimo comizio, il 7 giugno 1984 a Padova. Berlinguer perde lucidità, salta qualche parola, si capisce che sta male, la gente applaude, ma lui vuole finire e poco dopo perde conoscenza, per sempre. Chiosa Veltroni: «Finisce il comizio perché per lui la politica era una missione».
Film simpatizzante e nostalgico ma non buonista, nel senso che il regista è controllato: non cerca a tutti i costi la lacrima. Anche se non cerca neppure la riflessione sui tanti passaggi controversi di Berlinguer (la battaglia contro gli euromissili, cara ai sovietici; l’invito ad occupare la Fiat; tutte le elezioni perse dal 1976 in poi; la diversità come valore politico fondante; il referendum sulla scala mobile), sebbene se tra i tanti contributi (Napolitano, Macaluso, Tortorella, Ingrao) ogni tanto affiori qualche indolore osservazione critica. E anche una rivelazione. La fa il socialista Claudio Signorile: se Aldo Moro non fosse stato assassinato dalle Br, esisteva un accordo per successivamente fare entrare ministri comunisti al governo. Ma l’ immagine più nuova, toccante, inedita riguarda la riunione della Direzione Pci del 5 giugno ’84: una telecamera del partito riprende i momenti che precedono l’inizio dei lavori, in quei tempi avvolti nel mistero. Si vede un Berlinguer solo, isolato, con lo sguardo nel vuoto: nessuno lo sapeva ma il “processo” interno ai suoi errori e alla politica dell’isolamento moralistico era cominciato. Due giorni dopo, il suo ultimo comizio.

Corriere 19.3.14
La strana filosofia della guerra pacifica
di Giovanni Belardelli


Una delle più straordinarie trasformazioni antropologiche avvenute nelle società democratiche è senza dubbio quella che riguarda il loro modo di considerare la guerra. Giudicata a lungo un elemento originario, e perciò ineliminabile, della natura umana, la guerra è oggi vista come una pratica obsoleta, almeno limitatamente al mondo occidentale. Questo per alcune ragioni che sono esaminate in un’interessantissima sezione su «Guerra e democrazia» della «Rivista di politica», diretta da Alessandro Campi (editore Rubbettino).
Anzitutto vi si chiarisce che, da un punto di vista fattuale, la tesi della fine o del declino della guerra può essere accolta soltanto in parte.
È vero che dopo il 1945 la capacità distruttiva delle armi nucleari ha mutato il calcolo costi-benefici di un conflitto armato, contribuendo così a garantire all’Europa una lunga pace.
È vero anche che la rivoluzione legata alla caduta del Muro e la transizione al sistema post-bipolare sono avvenute in modo pacifico.
Tuttavia, osserva nel suo saggio Valter Coralluzzo, ad essere diventata obsoleta non è tanto la guerra in sé, quanto le cosiddette major wars , i conflitti tra grandi potenze. A questo proposito è stato calcolato che dal 1989 al 2011 si sono verificati ben 137 conflitti armati, dei quali soltanto nove classificabili come conflitti tra Stati. Dalla caduta del Muro in qua, insomma, è venuta meno non tanto la guerra, quanto la sua connessione con lo Stato: ormai prevalgono nettamente i conflitti infra-statali, che vedono singoli gruppi — definiti sulla base dell’identità etnica, religiosa o di clan — combattere contro lo Stato di cui fanno parte. Una variante di questo nuovo tipo di conflitto è la guerra «asimmetrica» in atto tra le potenze occidentali e quella particolare organizzazione non statale che è il terrorismo globale.
Se dunque la guerra nel mondo contemporaneo non è affatto scomparsa, ma ha solo mutato forma, è del tutto vero invece che essa è scomparsa dal novero di ciò che è culturalmente accettato, almeno negli Stati democratici.
Perché fosse possibile impegnarsi in un conflitto armato è sempre stato indispensabile che una società si riconoscesse in alcuni ideali e valori tali da giustificare la morte dei propri soldati. Ma questo è appunto ciò che appare sempre più problematico, almeno in Occidente: da una parte lo choc di due guerre mondiali, dall’altra lo sviluppo di una cultura individualistica fondata sul benessere hanno fatto sì che non esistano più delle «buone» ragioni per rischiare la vita in guerra.
O meglio, perché ci si possa impegnare in un conflitto occorre che questo venga giustificato alla luce di princìpi di tipo altruistico: come scrive nel suo contributo sulla «Rivista di politica» Cinzia Rita Gaza, oggi «non si va in guerra per vincere, sconfiggere, conquistare, ma per salvaguardare, pacificare, ricostruire».
L’altra condizione sempre più indispensabile perché uno Stato democratico si impegni militarmente riguarda la possibilità di una guerra casualty free , nella quale cioè si dovrebbe poter limitare il numero dei nemici uccisi e addirittura evitare che muoia qualche nostro soldato nonché i civili dell’altra parte. È per tentare di realizzare la guerra «a zero morti» tra i propri soldati che si mettono in atto operazioni militari interamente condotte dal cielo, come in Serbia o in Libia; oppure che si introducono regole di ingaggio che antepongono la sicurezza del soldato all’efficienza militare; o, ancora, che si cerca il più possibile di trasferire sugli alleati locali i rischi del combattimento sul terreno.
Nella realtà, le bare dei soldati caduti riportate in patria, da un lato, le immagini televisive che mostrano i civili uccisi per errore, dall’altro, si incaricano di mostrare come la guerra senza vittime sia solo un’illusione. Ma poche cose come questa illusione testimoniano quanto sia profonda la trasformazione che caratterizza l’atteggiamento delle società democratiche rispetto alla guerra e la dissonanza cognitiva che questa trasformazione implica: è vero infatti che la guerra è diventata per noi un tabù, ma è vero anche che essa continua a far parte degli scenari possibili del mondo contemporaneo.

l’Unità 19.3.14
I Vichinghi civiltà di mare
A Londra una bella mostra illustra i loro usi e costumi
Al British Museum esposta anche una nave di 37 metri e un approfondito racconto di origini e sviluppi di un popolo in odore di saga
di Enrico Palandri


NEL VISITARE LA BELLA MOSTRA DEDICATA AI VICHINGHI AL BRITISH MUSEUM E NEL LEGGERE IL BELLISSIMO CATALOGO DEI CURATORI, Gareth Williams, Peter Pentz e Matthias Wemhoff, il primo punto fermo da cui partire è che per loro tutto, dall'architettura alla natura dei traffici e dell'amministrazione, si sviluppa sul mare. Se allarghiamo questa riflessione si potrebbe scrivere una storia dell'umanità basata sulla relazione dell'uomo e le società in cui si esprime e la navigazione. I greci si svilupparono come navigatori. Così i veneziani o i genovesi. Civiltà che hanno tutte sviluppato repubbliche o regni e oligarchie molto partecipate. Il pezzo centrale della mostra è una straordinaria nave vichinga di 37 metri che è stata trovata in Danimarca, a Roskilde. L'epoca su cui si concentra la mostra è quella espansiva delle popolazioni scandinave, tra circa l'800 e il 1050, quando con la cristianizzazione della Danimarca la vicenda delle penisole scandinave inizia ad assomigliare a quella degli altri regni europei che si formano nello stesso periodo. I vichinghi, termine purtroppo approssimativo ma che si impone perché sono approssimativi anche gli altri tentativi di mappare le etnie che sono protagoniste di quest'epoca e che sono descritte più tardi da numerose saghe Islandesi, tra cui le più celebri come Laxdæla Saga, Njáls Saga o Egils Saga Skallagrímssonar.
Uno sguardo più attento ci rivela realtà più complicate. Vichinghi sembra legato a una radice vik-, insenatura, che ritroviamo in alcuni toponimi, ad esempio Reykjavík. Dai loro elmi si vede bene che non hanno mai avuto corna, invenzione romantica che si diffonde poi attraverso Wagner. Il nome che queste popolazioni si guadagnarono a est e a sud della Scandinavia, era «rus», da cui poi deriva il nostro nome per la Russia. La mostra esibisce numerosi oggetti di influenze slava e che sono il risultato di contaminazioni reciproche che risultano dalle straordinarie imprese di navigazione attraverso i fiumi interni della Russia. Arrivano seguendo questa rotta fino a Costantinopoli. Dall'altra parte com’è noto si insediano in Groenlandia dove sono protagonisti di un fallimentare insediamento descritto in Catastrofida Jarred Diamond.
Le famose rune che si trovano scolpite in uno di leoni davanti all'Arsenale di Venezia vennero incise probabilmente nel Pireo, durante una missione che questi «Rus» compirono per l’imperatore Bizantino, dopo essersi arruolati come mercenari nel suo esercito. Più tardi, i «Rus», ormai celebri e temuti nel Mediterraneo per la loro violenza e forza fisica, vennero a formare parte della guardia del corpo personale dell’imperatore, come si legge nella saga di Harald Hardrada.
Uno degli aspetti curiosi, in una civiltà europea del nono secolo, è che non essendo stati romanizzati non hanno mai fatto uso di monete. I loro commerci sono all'inizio basati sul baratto, con la bigiotteria probabilmente usata per pareggiare piccole differenze di valore. Quando incontrano le monete e iniziano a riportarle in Scandinavia, le trasformano in medagliette o altri monili, perché evidentemente non hanno un uso corrente.
La mostra racconta una strana forma di assimilazione al resto dell'Europa che avviene attraverso lo scambio con le altre popolazioni, i franchi, i bizantini e gli arabi. Per noi è interessante soprattutto capire che cosa ci è arrivato da loro: le lunghe case che costruivano con un'architettura chiaramente derivata dalla carpenteria navale tanto che vi si riconosce immediatamente la forma di una nave rovesciata, erano grandi sale comunitarie dove venivano recitate le saghe. Mentre naturalmente la democrazia greca e romana è uno dei punti importanti della civiltà classica, si deve ricordare che non è questo che arriva nell’Europa del nord attraverso i romani. Al contrario, vi arriva un ordine imperiale, cioè militare, gerarchizzato, che ha il suo centro altrove. L’Althing islandese, la più antica forma parlamentare del mondo, come le repubbliche di agricoltori norvegesi, sono invece le forme assembleari che discendono appunto dai vichinghi e che troviamo in diverse parti dell'amministrazione esportata dagli scandinavi, fino alla Scozia, l'Isola di Man e il Nord dell’Inghilterra. Una democrazia diversa, che si regge su un solido rapporto tra leader, classi dirigenti e popolazione: come su una nave, è necessario un capitano altrimenti si affonda tutti, non si possono dare cento ordini contraddittori. Moltissimo, invece, ritroviamo nella mostra di quello che in Scandinavia arriverà dal sud, dal cristianesimo, a una varietà di tecniche soprattutto tra orafi e altri artigiani, che consolideranno nelle penisole scandinave popolazioni democratiche e fortemente capaci di sfruttare le proprie risorse.

l’Unità 19.3.14
Le onde di Linde, una roba da Nobel
Storia di una scoperta che collega due diverse teorie sull’universo
Lo scienziato ha conciliato il Big Bang con il modello dell’inflazione cosmica riuscendo a rilevare le onde gravitazionali
Dopo settant’anni di ricerca teorica abbiamo ora la prima conferma empirica
di Pietro Greco


IERI L’ALTRO, LUNEDÌ, VERSO MEZZOGIORNO IL POSTINO HA BUSSATO UNA SOLA VOLTA ALLA PORTA DI ANDREI LINDE, UN COSMOLOGO RUSSO DA ANNI IN FORZA ALL’AMERICANA STANFORD UNIVERSITY. Lo scienziato ha aperto la porta e si è visto recapitare una bottiglia di champagne. «Lo hai ordinato tu?», ha chiesto Linde a sua moglie. «No», la risposta. Il vino frizzante gli era stato regalato dai suoi colleghi, per brindare alla prima conferma empirica del modello dell’inflazione cosmica, venuta dal rilevamento indiretto di onde gravitazionali realizzato dalla collaborazione di Bicep2 (Background Imaging of Cosmic Extragalactic Polarization) e annunciata lunedì scorso.
Pare che Andrei Linde abbia brindato di gusto. Perché quella teoria che consente di conciliare la teoria del Big Bang con i fatti osservati è, almeno in parte, sua. E se davvero l’osservazione è degna del Nobel, beh a meritare il premio saranno anche i teorici che l’hanno prevista.
Ma andiamo con ordine. Per farlo, ci conviene tornare indietro nel tempo. Fino all’inizio degli anni ’20 del secolo scorso, quando un altro russo, il giovane matematico Alexander Friedmann, trova soluzioni stabili alle equazioni cosmologiche che Einstein ha elaborato applicando all’intero universo la sua giovane teoria della relatività generale. Alcuni anni dopo, l’astrofisico americano Edwin Hubble «vede» che tutte le galassie si stanno allontanando da noi a velocità proporzionale alla distanza. Più sono lontane e più sono veloci. È allora, alla fine degli anni ’20, che abbiamo scoperto di vivere in un universo in rapida espansione. È allora che abbiamo scoperto di vivere in un universo evolutivo.
Non è facile, tuttavia, spiegare il perché di questa folle corsa. Due teorie si confrontano nell’immediato dopoguerra. Quella elaborata da un altro russo emigrato in America, George Gamow: l’universo è nato, circa 14 miliardi di anni fa, dall’immane esplosione di una singolarità iniziale, un punticino piccolissimo, densissimo e caldissimo in cui era concentrato tutto il nostro universo. Che da allora si espande come un palloncino, a velocità decrescente, raffreddandosi progressivamente. L’inglese Fred Hoyle definisce questa ipotesi con sprezzante ironia: ma è un Big Bang. Da quel momento la teoria di Gamow prende, per paradosso, il nome che gli ha dato il suo avversario. Quando a Hoyle, insieme a Thomas Gold e a Hermann Bondi, di teoria ne elabora un’altra. I tre non amano l’idea di un inizio dello spazio e del tempo. Per di più a partire da una singolarità ove ogni legge della fisica, compresa la relatività di Einstein, viene meno. No, sostengono Hoyle, Gold e Bondi, non c’è stato un inizio dei tempi. L’universo è sì dinamico, ma è sempre uguale a se stesso, si trova in un eterno «stato stazionario»: si espande, certo, ma perché al suo centro c’è una continua generazione di materia. I fatti, anche in cosmologia, sono le osservazioni. E l’osservazione decisiva è quella realizzata da Arno Penzias e Robert Wilson, nel 1963, quando trovano una radiazione del corpo nero, fredda e omogenea, che ricopre l’intera volta celeste. La radiazione è il fossile della grande esplosione iniziale. È prevista dalla teoria di Gamow e non da quella di Hoyle. E segna dunque il trionfo del modello del Big Bang. Che, resta l’unico in grado di spiegare l’evoluzione dell'universo e diventa il Modello Standard della cosmologia. 
Ma, benché sia rimasto sulla scena, anche il modello del Big Bang ha i suoi problemi. Dovrebbe essere un universo curvo, molto curvo quello emerso dalla grande esplosione. Proprio come un palloncino. Invece è incredibilmente piatto. Dovrebbe essere pieno zeppo di monopoli, particelle prodotte nei primi istanti dell’universo neonato. E, invece, non se ne trova uno. La singolarità iniziale, poi, deve aver avuto dimensioni tale da non poter ospitare più poche particelle elementari: da dove è sbucata fuori tutta la materia di cui siamo fatti noi, le stelle, le galassie, gli ammassi di galassie? E via enumerando tutta una serie di problemi mica da poco.
Ecco perché genera attenzione quella strana teoria dell’inflazione che un altro russo Aleksej Starobinskij, dell’Istituto di fisica teoria Landau di Mosca, tira fuori dal cappello nel 1979. Cerca di dimostrare, quella teoria, che un istante dopo il Big Bang (10-36, ovvero un miliardesimo di miliardesimo di miliardesimo di miliardesimo, di secondo) il piccolissimo neonato subisce una crescita rapidissima, inflazionaria appunto, di volume, di materia ed energia. Due anni dopo l’americano Alan Guth, riprendendo alcune idee sulle transizioni di fase di Andrei Linde e di David Kirznits (ancora un russo), propone che la crescita inflazionaria di volume e di materia sia avvenuta a densità di energia costante. In un infinitesimo di secondo l’universo neonato, che si è venuto a trovare in una fase instabile (sottoraffreddato, dicono i fisici), ha subito uno sviluppo incredibile: passando da dimensioni micro a dimensioni macro. Da una singolarità alle dimensioni di un pallone di calcio. Dopo questo brevissimo ma decisivo istante, l’espansione dell’universo è continuata a velocità decrescente, così come prevede il Modello Standard di Gamow. Chi ha (chi avrebbe) pagato il conto di questa straordinaria crescita? Beh, a pagare le spese della fase inflattiva e creatrice, sarebbe stata l’energia potenziale cosmica. Come una pallina che rotola dalla cima del monte giù, fino alla valle, diventando una valanga, l’universo sarebbe passato da un massimo a un minimo di energia potenziale, creando valanghe di materia. La teoria dell’inflazione è elegante. Si aggiunge e non sostituisce quella, classica, del Big Bang. Tuttavia ha un piccolo difetto. Non può essere dimostrata. È a questo punto che, tra gli altri, interviene anche Andrei Linde per sostenere che sì, un modo per dimostrare la realtà dell’inflazione c’è. Basterebbe osservare le onde gravitazionali che, secondo la relatività di Einstein, la crescita inflattiva avrebbe creato. E che, come la radiazione di f ondo, dovrebbero riempire il cosmo.
UNA CONQUISTA COLLETTIVA
Nel corso degli ultimi trent’anni la teoria ha subìto numerosi ritocchi. È stata corroborata da numerose osservazioni. Specie quelle sulla incredibile (ma non assoluta) omogeneità dell’universo bambino realizzata del 1992 da George Smoot e dal satellite Cobe e riconfermata dieci anni dopo a un livello più profondo dall’italiano Paolo de Bernardis e dal pallone Boomerang.
Ma queste osservazioni erano compatibili con il modello dell’inflazione. Consentivano di eliminare ipotesi alternative. Ma non erano la pistola fumante. La prova provata che il modello di Starobinskij, Guthe Linde fosse quello vero. Che l’universo avesse vissuto una fase di inflazione.
Orala cosmologia è una scienza non sperimentale. O, almeno, con completamente. La storia dell’universo non può essere riprodotta in laboratorio. Anche se, dopo essere emigrato negli Stati Uniti in quel processo di «fuga dei cervelli» che investì la Russia e gli altri paese eredi dell’Unione Sovietica, Linde ha provato a creare, proprio con Alan Guth, un universo da laboratorio. Molte ed eleganti le ipotesi di lavoro. Ma l’impresa non è riuscita.
Non restava dunque, per validare l’ipotesi dell’inflazione e dello stesso modello del Big Bang, che attendere la scoperta delle onde gravitazionali fossili. Rilevare il relitto di quell’esperimento unico che è stata la nascita dell’universo. C’è voluta molta pazienza. Perché la gravità è una forza debole, anche se agisce a grande distanza. E difficilmente riuscirete a catturarle, le onde che produce, aveva previsto Albert Einstein. Ora il momento sembra arrivato. E Alan Guth ha potuto sollevare il suo calice con lo champagne.

Repubblica 19.3.14
Frida
La pittrice che divenne un’icona trasformado il dolore in arte
Da domani alle Scuderie del Quirinale di Roma la parabola della donna messicana più celebre del Novecento La figlia della rivoluzione è raccontata attraverso i suoi capolavori, da quelli di Diego Rivera e dalle foto dell’epoca
di Concita De Gregorio



«Il corrimano dell’autobus mi trafisse come la spada trafigge un toro. La prima cosa a cui pensai fu un giocattolo dai bei colori che avevo comprato quel giorno e portavo con me. Volevo cercarlo. Un uomo si accorse della mia tremenda emorragia, mi sollevò e mi depose su un tavolo da biliardo. Non è vero che ci si rende conto, che si piange. Io non versai una lacrima ».
Il giorno dell’incidente che le frattura la spina dorsale Frida Kahlo ha 18 anni, sta tornando a casa da scuola. Studia per diventare medico. Dal bacino alle spalle, il suo corpo si apre. Rischia di morire. La operano molte volte. Soffre dolore non dicibili.
Uno dei primi quadri che si presenta, frontale, alla vista del pubblico nella straordinaria mostra delle Scuderie del Quirinale è stato dipinto pochissimi mesi dopo quell’incidente. Frida adesso ha 19 anni, è immobilizzata a letto, due argani le tirano il collo e le gambe. Può muovere solo le mani. Può vedere solo se stessa, in uno specchio sul soffitto. Non ha mai frequentato scuole di pittura. Si dipinge per mostrarsi ad Alejandro, il suo ragazzo. Come si manda una lettera, come oggi si scriverebbe un messaggio su Facebook. Lui era insieme a lei quel giorno sull’autobus: dopo l’incidente la famiglia, spaventata forse dalla prospettiva che il giovane si sentisse in dovere di sostenere le conseguenze della tragedia, lo ha mandato a studiare in Europa. Frida vuole che torni. Gli chiede, col suo dipinto: torna. S’intitola Autoritratto con vestito di velluto. Il vestito è una veste da camera color rubino, la indossa sul corpo nudo. Si raffigura come una Venere del Botticelli, nasce dalle acque. Le acque, però, sono scure. Il cielo è nero. Una notte da cui Frida emerge, magnifica e non ferita, intatta. La pelle bianca le labbra rosse come il velluto. Il risvolto della veste ha un disegno di simboli che chiamano l’amore della carne: fiori aperti, triangoli del giardino di Venere. È l’invito erotico più esplicito che si sia mai letto nel non detto di un ritratto. Nasce da un letto di dolore, a un passo dalla morte. È il punto esatto in cui Eros e Morte si stringono nella stessa posa, fanno posto all’invitato. Lei ha, ripetiamolo, 19 anni.
In tanti si chiedono, ancora, come mai Frida Kahlo, pittrice messicana morta probabilmente suicida a 47 anni nel 1954, sessant’anni fa, sia diventata una celebrità globale amata– soprattutto dalle donne – oltre la sua stessa arte: icona pop da magliette e magneti sul frigo, chiamata senza bisogno di cognome come il Che, Frida, solo Frida, biografie e romanzi e fumetti e kolossal al cinema. La donna coi baffi, la donna con le sopracciglia come ali di corvo, la donna che sanguina, la donna che non partorisce, la donna che ama e da chiunque è amata, la donna straziata nel corpo e vestita di fiori, la donna che non muore. Perché lei, e non un’altra. Non Tina Modotti, Chavela Vargas, Dora Maar, nessun’altra delle donne pure straordinarie che hanno incrociato la sua vita e il suo tempo. Perché di Frida, si chiede anche la curatrice della mostra Helga Prignitz-Poda (autrice della “bibbia” su Frida, il catalogo ragionato della sua opera che inspiegabilmente Rizzoli ha giusto ora esaurito) perché di lei si deve sempre raccontare la vita insieme all’arte, prima dell’arte. Come mai la sua biografia è quel che tutti vogliono conoscere e in qualche modo possedere, assai più – per molto tempo almeno – delle sue opere, alcune delle quali in passato, quotatissime, sono rimaste invendute alle aste.
Perché la vita di Frida è essa stessa un’opera d’arte, si potrebbe facilmente rispondere. Perché non era affatto una pittrice surrealista: si limitava – ha molte volte detto e scritto – a dipingere ciò che vedeva. La sua realtà, non i suoi sogni. Quando affianca due orologi non intende come Dalí esprimere l’idea del tempo: vuole solo indicare materialmente, attraverso le lancette dei due orologi, il tempo che la separa dall’ultima volta con Diego. La realtà, un dipinto murale della sua vera vita. Perché aveva avuto la poliomielite a sette anni, il corpo spezzato da un incidente a 18 ed eccola, capace di trasformare in forza il dolore, di amare al di là e oltre i generi le età le convenienze e le occasioni: uomini e donne, vecchi e bambini. Ha amato, riamata, gli uomini e le donne più desiderabili – per eleganza, per fama, per coraggio, per talento – dei suoi anni. Trockij, Chavela Vargas, il fotografo Nicky Muray che l’ha ritratta sulla panchina bianca come una regina azteca, Breton probabilmente, la giovane ereditiera americana, decine di altri e di altre e poi Diego naturalmente, il secondo “incidente grave” della sua vita, come diceva: Diego Rivera.
Diego era molto più vecchio, più celebre e celebrato di lei ma l’arte di Frida era più forte, più fonda, più luminosa. Nasceva dalle divinità come Ometeotl, che è uomo e donna, nascita e morte insieme. Come Coatlique, che veste di serpenti e di cuori sanguinanti perché genera la vita e la divora. Come la Llorona, la donna che piange, Medea di Messico che uccide chi ha partorito. «Ho provato ad annegare i miei dolori, ma hanno imparato a nuotare», scriveva sul diario. Poi dipingeva se stessa che, nell’attesa dell’amore, mette radici. Come Shiva. Come gli dei che non hanno bisogno di partorire per generare. Giacché non poteva partorire, ha generato la sua arte e se stessa nell’arte.
La mostra di Roma (fino al 31 agosto alle Scuderie del Quirinale) è spettacolare per molte ragioni. I cultori di Frida troveranno due opere mai esposte prima in assoluto, una mai vista in Italia, dieci magnifiche foto inedite di Leo Matiz, conosceranno la storia sinora ignota della Signora in bianco, da pochissimo identificata in Doroty Brown Fox, una delle prime amanti di Frida. Sono quasi tutte opere di collezioni private, oltre quaranta tele. Vedranno ritratta in foto la tela scomparsa in Russia, La tavola ferita: un dipinto su legno di due metri di lunghezza che Frida regalò alla città di Mosca nel ’48, esposto a Varsavia nel ’52, rientrato a Mosca – testimoniano le carte – e mai più ricomparso. Chissà se qualche ambasciata, qualche ministero di Cultura vorrà avanzare richiesta per sapere dove si trovi. È il dipinto in cui Frida, come in un’Ultima Cena, mette in scena se stessa nel teatro del suicidio.
Chi non conosce l’opera di questa straordinaria interprete del Novecento troverà una rassegna di capolavori a partire dall’Autoritratto con collana di spine e colibrì, passando per Diego nei miei pensieri fino all’Autoritratto con scimmie. Chi colleziona aneddoti della sua vita la vedrà in foto mentre beve birra dalla bottiglia, distesa al sole su un prato, sorridente come davvero di rado è stata ritratta. Dora Maar la fotografa accanto a un piccolo uccello di terracotta, Picasso del resto le aveva dedicato un’antica canzone spagnola che parla di uccelli e poi aveva chiamato Dora “la donna che piange”, la Llorona. L’Europa, nel Novecento, è già piena di lei.
Si è chiusa a marzo, a Parigi, una mostra per bambini al Centre Pompidou intitolata Frida et moi. Un laboratorio per i piccoli di quelli in cui si disegna e si scrive. «Frida ha iniziato a dipingere a 19 anni dopo un incidente. E tu? Ti sei mai fatto male? Come passi il tempo quando sei malato?». «Frida amava Diego, insieme collezionavano piccoli oggetti d’arte popolare e si occupavano di politica. E tu? Quali sono le cose che ti stanno a cuore?». Frida è la malattia e la cura. La grande madre infertile. La terapia del suo stesso male. La vita che diventa arte, l’amore che diventa morte e al contrario, l’ombra senza la quale non c’è luce. «Aspetto felice la partenza, spero di non tornare mai più», ha scritto nella sua ultima pagina di diario prima di disegnare un angelo ferito con le ali verdi che sale in cielo. Non è tornata, in effetti. Dev’essere perché non è mai partita: gli angeli non sono verdi, i bambini lo sanno. Frida è nascosta centenaria, da qualche parte, dentro ogni essere umano che sanguina ferito e non piange.

Repubblica 19.3.14
Quando Picasso disse: “Nessuno dipinge volti come i suoi”
La rappresentazione di sé è il centro di tutta una poetica
di Lea Mattarella



ROMA. «Né tu, né Derain, né io sappiamo dipingere volti come quelli di Frida Kahlo». Così scriveva Pablo Picasso a Diego Rivera dopo aver visto una mostra parigina della pittrice messicana. Quando l’artista spagnolo parla di volti è molto probabile che ne abbia in mente soprattutto uno: quello della stessa Frida. Perché per lei dipingere è, in primo luogo, uno strumento di indagine psicologica che ha come centro propulsore la sua faccia. Frida Kahlo è l’interprete di un protagonismo maniacale capace di vivisezionare la propria vita, il suo dolore, ma anche di dimostrare al mondo una fiera resistenza a qualsiasi avversità. Mentre il Messico si copre di pittura murale destinata al popolo, lei, sempre controcorrente, si concentra su se stessa.
Frida si ritrae di tre quarti con il suo sguardo scuro rivolto verso lo spettatore. Ti inchioda, ti spia mentre guardi le gocce del sangue che fuoriesce dalla collana di spine dipinta sul suo collo in un evidente riferimento alla sofferenza di Cristo, destinata a essere redenta. E per lei l’unica possibilità di riscatto è la pittura. Che diventa un costante esercizio di sopravvivenza, un esorcismo giornaliero, capace di lenire, di curare. A maggio per Electa uscirà la ristampa del suo diario, ma anche i suoi quadri non sono altro che le pagine di un racconto per immagini intimo e sfacciato. Un diario tutt’altro che segreto. Come quando Frida ci mette di fronte al suo aborto del 1932: ci guarda dal foglio in cui disegna il suo corpo nudo che pare un involucro svuotato da un mondo in frantumi. Sembra che all’ospedale avesse chiesto un manuale di medicina, di quelli illustrati, per poter mostrare, con la solita minuzia, quello che le era accaduto, trasfigurandolo. Si ritrae con un feto nella pancia e un altro, molto più grande, quasi come il suo malessere, espulso fuori di lei. E in mano tiene una tavolozza, rivelando come la sua arte nasca da una sincera, quasi spudorata, indagine interiore. Sul volto compaiono alcune lacrime, le stesse che ritroviamo nella luna che assiste impotente alle vicissitudini di questa tragica eroina. Anche il cocco delle nature morte che dipinge negli anni Quaranta lacrima. Come se la natura non potesse fare a meno di partecipare alla sua disperazione. Tre lacrime, sempre le stesse, appaiono anche nell’Autoritratto del 1948 che la ritrae nella veste tradizionale delle spose messicane. Frida è quasi sempre vestita con gli abiti della sua terra, ornata da ricche e bizzarre acconciature. Propone di sé un’immagine regale in cui, però, si autoritrae con durezza, accentuando la peluria sulle labbra e, a volte, mostrando con baldanza il suo lato primitivo, animalesco. Nell’Autoritratto con scimmia c’è una chiara identificazione tra lei e l’animale, una vera fratellanza: il suo volto è diventato un muso, i peli della testa della bestiola sono decorati con un nastro come i suoi. Così il personaggio Kahlo dimostra non soltanto il suo rapporto con qualcosa di primordiale, ma anche la conoscenza dell’antica iconografia della storia dell’arte che riconosce nella scimmia l’immagine stessa della pittura perché entrambe compiono un processo di imitazione. E lei dice spesso di non essere surrealista, ma di dipingere quello che le capita. Le mille immagini di Frida sono anche quelle lasciate dagli altri, le foto che le hanno scattato. In mostra ce ne sono di bellissime, opera di Leo Matitz e di Nickolas Muray. Quest’ultimo la ritrae con amore, come un idolo in una foto che fu la copertina di Vogue del 1939, come una donna di Vermeer quando la fa sedere su una sedia gialla. Frida, neanche per lui, era soltanto una.