giovedì 20 marzo 2014

l’Unità 20.3.14
la lista «L’Altra Europa con Tsipras» deve raccogliere in un mese 150.000 firme, di cui almeno 3000 in ogni regione
La sfida dell’Altra Europa: una firma per la democrazia
di Chiara Ingrao


POVERA AUSTERITÀ. FINO A QUALCHE TEMPO FA ERA SOVRANA INCONTRASTATA D’EUROPA, E IGOVERNANTI FACEVANO A GARA a inchinarsi ai suoi piedi, nascondendo accuratamente sotto il tappeto i costi sociali dei loro inchini: povertà, disoccupazione, disastro sociale. Oggi la polvere è troppa, non c’è tappeto che tenga; si mischia al polverone di chi vuole sfasciare tutto, per riconsegnare il continente ai nazionalismi. Madame Austerity ha perso lo smalto, la sua compagnia non è più gradita a nessuno: neppure a chi l’ha votata e osannata, come il Pd italiano e la Spd tedesca, il cui leader Martin Schulz è candidato del Pse alla presidenza della Commissione europea. Significa forse che il vincolo del 3% non verrà rispettato, che questi partiti si batteranno per la fine del Fiscal Compact, che in Italia verrà cancellato dalla Costituzione l’obbligo capestro del pareggio di bilancio? Niente di tutto questo: «L’Italia non vuole cambiare le regole», ha dichiarato Renzi alla Merkel. Neppure, dunque, quella che dal 2015 aggiungerà ai quasi cento miliardi annui che già paghiamo per gli interessi sul debito, altri 45 miliardi l’anno da versare alle banche per cominciare a ridurlo. E dove li prenderemo?
Una Conferenza europea sul debito pubblico, come quella che nel 1953 ne condonò gran parte alla Germania, per consentire la ricostruzione dopo la guerra: questo propone un altro candidato alla presidenza della Commissione, Alexis Tsipras. In Grecia, Tsipras ha costruito il suo consenso proprio sul rifiuto dei vincoli che hanno sprofondato il paese nella povertà, aumentando il debito invece di diminuirlo; in Europa, propone fondi europei per la creazione di posti di lavoro e la riconversione ecologica, la sospensione del Fiscal Compact, una riforma della banca europea e delle politiche sull’immigrazione, e molto altro. Sarebbe interessante, se si aprisse in Italia un dibattito vero, sulle differenze fra le scelte del Pse e queste proposte, sostenute in Italia dalla lista «L’Altra Europa con Tsipras». «Europeisti insubordinati», li ha definiti la loro capolista Barbara Spinelli. Nei sondaggi, il sostegno a questa insubordinazione è dato attorno al 6 per cento: è o non è il segno di una domanda politica? Una domanda di piattaforme concrete, per dare finalmente una voce unitaria a ciò che si muove a sinistra delle larghe intese, siano esse italiane o tedesche. E la domanda di un’Altra Politica, alternativa a quella dominante ma anche all’anti-politica dell’Uomo Qualunque, totalmente ignorante di cosa pubblica e fiero di esserlo.
I candidati e candidate dell’Altra Europa sono persone che fanno politica da anni: perfino i più giovani, passati dalle lotte nelle scuole e nell’Università al movimento contro la precarietà e per il reddito minimo. Sono delegate e delegati metalmeccanici, compagne di strada di don Gallo e di Zanotelli, giornalisti, intellettuali, voci autorevoli del pacifismo e del femminismo, dell’Arci e dei Forum sociali. Il cemento che li tiene insieme è molto più forte, di un cartello elettorale. È una pratica unitaria difficile, ma consolidata nei movimenti, fra soggetti diversi che condividono uno stesso obiettivo: dall’acqua pubblica ai beni comuni, dall’antimafia alla difesa della Costituzione e dei diritti di tutti e tutte. Sarebbe davvero interessante, se nei prossimi mesi crescesse a sinistra un confronto paritario e sereno anche su questo: su cosa accomuna e differenzia queste pratiche di «partecipazione nella lotta» e una partecipazione centrata tutta sulle primarie per la scelta del leader. Sarebbe, ma il confronto paritario non è. A differenza dei partiti già presenti in Parlamento, per partecipare alle elezioni la lista «L’Altra Europa con Tsipras» deve raccogliere in un mese 150.000 firme, di cui almeno 3000 in ogni regione, anche le più piccole. Se l’obiettivo dovesse essere mancato, chi oggi ha riposto nell’Altra Europa le proprie speranze si ritroverebbe escluso, consegnato all’astensionismo e alla rabbia. È un esito auspicabile, per la nostra democrazia?
Pensateci su, care compagne e compagni del Pd - e scusatemi se uso questa vecchia parola a me cara. Diceva il filosofo: «non sono d’accordo con quello che dici, ma darei la vita perché tu possa dirlo». Noi, più modestamente, non vi chiediamo di dare la vita: solo una firma. Un gesto d’amore per la democrazia, e di fiducia in voi stessi: per il gusto di provare a sconfiggerci dopo, in campagna elettorale, con gli argomenti e non con gli sbarramenti.

l’Unità 20.3.14
I sindacati respingono i tagli: «Così è un massacro»
Dura reazione di Bonanni: Abbiamo già perso 350mila posti nella Pa, il governo ci ascolti
Camusso vede in questi «tagli lineari» una vecchia ricetta che porta altra recessione
di Massimo Franchi


No agli 85mila esuberi, no a tagli che sarebbero ancora una volta lineari. Cgil, Cisl e Uil bocciano il piano Cottarelli sulla spending review, dicendosi comunque pronti a una riforma della pubblica amministrazione.
Se martedì l’attenzione mediatica era spostata sulle pensioni - settore nel quale i risparmi prospettati da Cottarelli non sono specificati e lasciati «a decisione della politica» - ieri i commenti riguardavano il comparto pubblico, a cui è dedicata la maggior parte delle 72 pagine della bozza Cottarelli, compresa la famigerata pagina 64, quella dove vengono citate le 85mila unità che se «tagliate» al 2016 darebbero 3 miliardi di risparmi.
Da Bruxelles dove partecipava alla riunione della Confederazione europea dei sindacati - la Ces terrà lì il 4 aprile una manifestazione continentale contro l’austerità - Susanna Camusso ha spiegato la posizione della Cgil. «Non c’è dubbio che ci sia bisogno di una riforma della pubblica amministrazione con un intervento su quantità e qualità della spesa, ma mi sembra - ha detto - che le cose annunciate stanno nella vecchia logica dei tagli lineari e della compressione dell’occupazione, con effetti, che sarebbero immediati, di ritorno in una logica recessiva» che vanificherebbe i provvedimenti «nella giusta direzione », di restituire una quota della tassazione sui redditi da lavoro» e «si rischia di riprodurre una grande preoccupazione dei lavoratori e delle famiglie, e quindi di nuovo un blocco dell’economia del Paese».
Preoccupato per il metodo usato da Cottarelli è il leader della Cisl Raffaele Bonanni. «Il nostro è un giudizio assolutamente sconcertato perché non si possono buttare i dati in pasto all’opinione pubblica in questo modo, senza aver avviato prima una riflessione su come vogliamo ristrutturare la Pa, gli enti pubblici e le istituzioni. Basta con questa confusione. Abbiamo già perso 350 mila dipendenti pubblici; ora il governo si sieda con noi e discuta: basta con questo gioco al massacro, il governo esca allo scoperto e dica cosa ha intenzione davvero di fare: poi diremo allora cosa avremo intenzione di fare noi».
Per il segretario generale della Uil, Luigi Angeletti, «non esiste un problema di eccesso» di dipendenti pubblici in Italia. «Abbiamo meno dipendenti pubblici di qualsiasi altro Paese europeo e li paghiamo anche meno», ha sottolineato il leader della Uil. Il vero problema per Angeletti è il numero elevato di società pubbliche e para-pubbliche che generano «doppioni e duplicazioni » e la cui efficacia è «dubbia. Questo è il luogo dove intervenire. Solo così si può intervenire». Il numero delle società pubbliche e para pubbliche è un «record» negativo «assoluto in Europa ». «Rinunciare a un po’ di welfare - ha affermato Angeletti.- non può essere l’obiettivo di nessun governo decente » e inoltre «non ce ne sarebbe alcun motivo. La salute deve essere assicurata a tutti». L’intervento, secondo il leader della Uil, deve essere fatto invece sui costi standard: «son anni che si parla dei costi standard perché dietro questa differenza di costi per prodotti e merci simili si nascondono sprechi e qualcosa che rasenta il codice penale», ha sottolineato Angeletti.
MADIA RASSICURA LA CGIL
Ieri però sono arrivate anche parole rassicuranti da parte del governo. Il neo ministro alla Pubblica amministrazione, Marianna Madia ieri ha incontrato i sindacati. La Cgil ha trovato la conferma che il piano Cottarelli «non è la Bibbia». Se, infatti, la seconda misura prevista sui dipendenti pubblici - dopo gli 85 mila esuberi - era «il blocco completo del turn over», il neo inquilino di palazzo Vidoni ha invece lasciato intendere che le sue idee sono ben diverse. «Ci ha parlato della necessità del turn over nel settore pubblico - racconta Rossana Dettore, segretario generale della Fp Cgil - una posizione dunque completamente diversa da quella di Cottarelli», il cui piano poi prevede strumenti molto fumosi: «I prepensionamenti e gli incentivi all’uscita non si sono mai visti nel settore pubblico», insiste Dettori. La Cgil dal canto suo ha ribadito la contrarietà per gli 85mila esuberi: «Abbiamo 240mila posti di lavoro persi nell’arco degli ultimi 5 anni e di 246mila precari, compresa quelli della scuola: non possiamo accettare che si parli della Pubblica amministrazione in termini di propaganda politica », ha spiegato il segretario confederale, Nicola Nicolosi.

Corriere 20.3.14
Posti tagliati e pensioni rinviate
L’Italia dei professori maltrattati
di Gianna Fregonara e Orsola Riva


Sono in tanti ma hanno gradualmente perso peso nella società Sono malpagati: lo ha certificato l’Ocse, gli stipendi degli insegnanti italiani sono sotto la media dei Paesi sviluppati e dell’Unione Europea. Ogni anno «perdono» cinquemila euro rispetto ai loro colleghi. Sono spesso maltrattati, dalla politica che ad ogni cambio di ministro cambia le regole per questa «categoria» di quasi 800 mila persone alle quali affidiamo per sei/otto ore al giorno i nostri figli; e da noi genitori, che non siamo più così sicuri dell’istituzione e dei metodi di insegnamento e tra l’insegnante e nostro figlio siamo propensi a credere quasi sempre al secondo. Lavorano in condizioni di grave penuria quando non di emergenza, anche se le classi italiane non sono quei pollai di cui parlano i rappresentanti di categoria (il rapporto tra docenti e studenti è di uno a 12, poco migliore della media europea). Al momento sono esclusi dalla spending review , anche se per 4 mila di loro la pensione (già sospesa dalla riforma Fornero) è di nuovo rinviata. Ma va detto che negli ultimi cinque anni la scuola ha già «perso» un insegnante su dieci (erano 843 mila nel 2007, sono diventati 766 mila nel 2012): un taglio mai visto per la pubblica amministrazione. E infine sono «vecchi» come ci dicono le indagini internazionali: la lunga e impervia strada del precariato e delle supplenze fa dei nostri insegnanti una categoria per il 62 per cento di ultracinquantenni. Un record in tutta Europa.
Ecco perché alla domanda «le piacerebbe che suo figlio diventasse insegnante?», soltanto un italiano su cinque risponde di sì. Una volta maestri e professori erano come il medico condotto, ma da decenni ormai il crisma sociale del professore si è molto appannato. Così come l’autopercezione dei docenti. Lo si vede bene da una recente indagine della Fondazione Agnelli su come si considerano i docenti entrati in ruolo nel triennio 2008-2010: forti nelle competenze disciplinari (per 9 su dieci la formazione è stata assolutamente adeguata); ma 7 su dieci dichiarano di sentirsi in difficoltà nel gestire classi sempre meno disciplinate (come dimostra la rilevazione Ocse-Pisa 2012: i quindicenni italiani sono scarsi in tutto salvo che nell’arrivare tardi o marinare la scuola) e quando viene il momento di confrontarsi con le famiglie. Strano? Per niente. Il problema sta nella formazione iniziale: anche dopo riforme e controriforme i professori entrano in classe spesso senza una adeguata preparazione specifica sul fronte pedagogico, oltre che stremati dal precariato più lungo e confuso d’Europa: il 27 marzo se ne occuperà la Corte di Giustizia, perché il periodo massimo di contratti a tempo determinato permesso nell’Unione europea è di 36 mesi. Mentre per entrare in ruolo in Italia ci possono volere anche dieci-quindici anni.
Vecchi, stanchi, poco motivati e che puntano solo al posto fisso? Alcuni forse, ma c’è anche un esercito che resiste in trincea e si rimbocca le maniche quotidianamente per fare al meglio il proprio lavoro. Come far funzionare un sistema centralizzato e così complesso? Lo spiega bene Pasi Sahlberg, 54 anni, consulente del ministero dell’Educazione di Helsinki e ambasciatore nel mondo del modello educativo finlandese, un «brand» famoso ormai quanto la Nokia. «Vent’anni fa — dice al Corriere questo ex professore di matematica — abbiamo deciso di investire nella costruzione di un rapporto di fiducia fra gli insegnanti e il resto della società. Abbiamo dato ai docenti più libertà, più indipendenza e più autonomia e presto ci siamo resi conto che così le scuole funzionavano meglio. Maestri e professori devono essere supportati, bisogna avere fiducia in loro, non controllarli o punirli». E i risultati dei test Ocse-Pisa in cui i ragazzi finlandesi rivaleggiano con le tigri asiatiche gli hanno dato ragione. Certo, il sistema di formazione dei docenti è estremamente esigente e selettivo: punta a far entrare nella scuola i «cervelli» migliori, solo uno su dieci aspiranti prof arriva in fondo alla formazione. Ma una volta che diventi docente ti basta insegnare 4 ore al giorno. Gli stipendi non sono stratosferici ma più adeguati e la reputazione sociale ti ricompensa ampiamente della tua fatica.

Corriere 20.3.14
«Noi meno importanti delle tecnologie»
di Valentina Santarpia


Tra ricorsi in tribunale, minacce, complicati rapporti con gli Enti locali, gestione del personale e discussioni coi ragazzi, anche quella da preside è una vita in trincea. Parola di Ciro Raia, dirigente scolastico al liceo Sbordone di Napoli e autore di Diario di un preside, edizioni Polidoro.
Dopo quarant’anni nelle scuole, come si sente?
«Ancora innamorato di questo mondo. Anche se un po’ deluso per l’evoluzione che sta subendo: sembra sia più importante avere una lavagna multimediale che una scuola che funziona».
Difficile dialogare con i prof?
«I docenti sono splendidi, è su di loro che si regge la scuola. Ma sta scendendo il livello culturale, si dà più importanza alla valutazione con “gli Invalsi”, come li chiamano, che ad approfondimenti e relazioni. Invece bisogna parlare con professori, famiglie e ragazzi».
Lei cerca sempre il dialogo?
«Sì. Quest’anno agli studenti che volevano occupare ho detto: vi dò le chiavi dell’istituto basta che non lo danneggiate. Erano stupiti e hanno accettato di trattare: abbiamo organizzato insieme dieci giorni senza lezioni, dedicati agli studenti».
Ha mai perso le staffe?
«Certo, a volte ci vuole polso. Come quando mi hanno citato in tribunale perché avevo tenuto la scuola aperta, anche se me lo aveva chiesto il sindaco. O quando ho sequestrato il cellulare a un ragazzo e i genitori volevano denunciarmi. O quando ho ammonito l’insegnante sempre in ritardo: il sindacato ha contestato che il suo orologio non era sincronizzato col mio!».
Come mantiene la calma?
«Seguo l’insegnamento di don Milani: la scuola non deve essere un ospedale che cura i sani e allontana gli ammalati».

Una telefonata oggi a Prima Pagina
“Come mai non si sente più parlare della annunciata asta per le frequenze televisive che avrebbe dovuto portare miliardi alle casse dello Stato? L’argomento è scomparso...”
Il giornalista di QN non risponde...

Repubblica 20.3.14
La Camera non rinuncia agli affitti d’oro
Niente disdetta per contratti da 32 milioni
Ignorata la nuova legge, locazioni salve per l’imprenditore Scarpellini
di Alberto Custodero

ROMA - La Camera non rinuncia agli “affitti d’oro”, continuerà a pagare 32,5 milioni l’anno per gli uffici di 400 deputati ospitati negli immobili di Sergio Scarpellini. A dicembre 2013 la Camera aveva deciso con una legge di interrompere le costosissime locazioni. Ma a oggi nulla s’è fatto. E ora è uno scaricabarile tra l’ufficio dei Questori, l’ufficio di Presidenza. E i partiti. Tutti vogliono interrompere i contratti, nessuno lo fa.
Gli edifici in questione sono chiamati Palazzo Marini due, tre e quattro, tutti nel centro di Roma attorno a Montecitorio, sono di proprietà della Milano 90 dell’imprenditore Sergio Scarpellini. E sono al centro di un doppio scandalo. Primo, i loro esorbitanti costi fuori mercato: 650 milioni di euro di affitto dal 1997 per vent’anni (a fronte di un valore commerciale di 330 milioni stimato dal Demanio). Secondo, una clausola capestro, raramente adottata nel diritto amministrativo, che impedisce in modo esplicito il recesso anticipato dei contratti.
Sull’onda della spending review, alla fine dell’anno la Camera s’era dotata di una norma, voluta dal grillino Riccardo Fraccaro, per poter recedere dalle locazioni. Ma non fu mai applicata. «Quella norma -spiega il questore Paolo Fontanelli, Pd -era stata valutata “a rischio” dall’Avvocatura dello Stato in quanto aveva tempi di preavviso troppo stretti, appena 30 giorni. Scarpellini avrebbe potuto impugnare il provvedimento e si rischiava la beffa di doverlo pagare due volte, con un danno, e non un vantaggio per le casse della Camera». Per questo s’era deciso di migliorare la norma-Fraccaro, inserendo una modifica nel “salva-Roma”. Per due volte, però, quel decreto è stato ritirato. Col risultato che ora la Camera (vigente solo la norma Fraccaro), si trova di fronte ad un dilemma.
È possibile recedere dai contratti col rischio di perdere una eventuale causa civile? Questa ipotesi avrebbe il costo sociale di licenziare i 300 dipendenti della Milano 90. E quello politico di sfrattare 400 deputati, e relativi collaboratori, nel giro di un mese, lasciandoli senza uffici. Insomma, un grattacapo per Questori e Presidenza. L’impasse politica ha generato uno scambio di accuse tra grillini, Pd e Presidenza.
Il primo ad attaccare è Fraccaro. «Gli immobili di Scarpellini costano trentadue milioni di euro all’anno -tuona il deputato 5Stelle Riccardo Fraccaro -7 mila euro al mese per deputato. Una cifra assurda. La norma consente il recesso: perché i democratici fanno resistenza e la presidente Boldrini non mette al voto il recesso dei contratti in ufficio di Presidenza? ». I contratti, spiega Fraccaro, avranno una scadenza naturale nel 2016, 2017 e 2018. «Interromperli prima -ha aggiunto -farà risparmiare per questo periodo 32,5 milioni all’anno».
La Presidenza ha replicato facendo sapere che la votazione può essere messa all’ordine del giorno solo se arriva la richiesta dall’ufficio dei Questori. Che non è arrivata. Fontanelli ha precisato che «sono stati gli stessi grillini, facendo ostruzionismo al “salva Roma”, a ostacolare la legge che avrebbe consentito il recesso senza difficoltà».
Ma tra i questori prevale prudenza e cautela. «In tempi di spending review - spiega il questore Gregorio Fontana, Fi -siamo tutti d’accordo a interrompere i costosissimi affitti. Ma chi si prende la responsabilità di lasciare senza ufficio 400 deputati e relativi collaboratori? E di mettere trecento dipendenti sulla strada? Vogliamo che tutti i 630 deputati si assumano pubblicamente in Aula, con una votazione, la responsabilità ».
E mentre la Camera sta cercando di interrompere gli “affitti d’oro” con Scarpellini, quest’ultimo sta tentando di rinnovarli con la Camera. Nei mesi scorsi ha chiesto il rinnovo dei contratti per altri diciotto anni. Ma, almeno su questo, i deputati sono stati unanimi. Negandoglielo.
AFFITTI D’ORO
La Camera pagherà alla “Milano 90” 650 milioni. I contratti di affitto furono stipulati nel 1997 per gli uffici di 400 deputati
IL VALORE
Il Demanio nel 2002 fece una stima commerciale degli immobili della Milano 90: il loro valore fu stimato in 330 milioni
I DIPENDENTI
Disdettare i contratti significa lasciare senza lavoro circa 300 persone, i dipendenti della Milano 90
IL RINNOVO NEGATO
Scarpellini ha chiesto alla Camera il rinnovo, negatogli, dei contratti per altri 18 anni, per un costo di 600 milioni

Corriere 20.3.14
Società di Stato a peso d’oro
Dove gli amministratori sono più dei loro dipendenti
di Sergio Rizzo


Il buonsenso ci fa domandare se per gestire una società pubblica al 100% sia sempre necessario un consiglio di amministrazione con indennità multiple, gettoni e rimborsi spese, o invece non basti un più sobrio amministratore unico. Sempre che poi l’esistenza della medesima società abbia una reale giustificazione. Interrogativi ineludibili, di fronte a casi come quello della Ram: Rete autostrade mediterranee. Trattasi di una società interamente posseduta dal Tesoro creata pomposamente nel 2004 dal secondo governo di Silvio Berlusconi per il grandioso progetto delle autostrade del mare. Dieci anni dopo ha il compito di gestire le istruttorie per i contributi agli autotrasportatori che caricano i tir sui traghetti. Con cinque consiglieri di amministrazione e due impiegati, secondo i dati comunicati alla Camera di commercio. Nel 2012 i dipendenti erano ben quattro, di cui tre a tempo determinato. Vero è che li aiutavano una dozzina di co.co.co. Ma è pur vero che i compensi degli amministratori, pari a 312.500 euro, superavano di gran lunga gli stipendi di tutto il personale: 258.560 euro. Somma, quest’ultima, di poco superiore alla sola retribuzione di 246 mila euro percepita nel 2012 dall’amministratore delegato Tommaso Affinita. Un peso massimo di quella burocrazia che va volentieri a braccetto con la politica: dirigente del Senato, capo di gabinetto dei ministri delle Poste Antonio Gambino e Pinuccio Tatarella, presidente dell’Autorità portuale di Bari…
E nonostante rimanga inarrivabile la vetta raggiunta una volta in Campania da un consorzio parapubblico (Imast) con 25 consiglieri di amministrazione e un solo dipendente, che per uno scatto di decenza venne poi fuso con un altro ente parapubblico (Campec) che di consiglieri ne aveva solo 11 e di impiegati ben 8, le ragioni che tengono la Ram ancora in vita sono imperscrutabili. Difficile allora dare torto a chi, come quei 38 deputati grillini che hanno presentato una interpellanza ustionante sulle prossime nomine pubbliche in discussione alla camera venerdì, chiede di «sospendere le nomine nelle società inutili le cui funzioni potrebbero essere attribuite a esistenti strutture ministeriali».
Scorrendo la lista delle controllate non quotate del Tesoro il sospetto che la spending review dovesse partire da qui viene eccome. Prendete Studiare sviluppo: è una società di consulenza del Tesoro che si prodiga anche in consulenze per gli altri ministeri. Recentemente, quello dell’Ambiente in vista dell’Expo 2015. Manifestazione, per inciso, affidata a un’omonima società pubblica il cui amministratore Giuseppe Sala ha avuto nel 2012 un compenso di 428 mila euro.
Incerto il perché una consulenza del genere debba passare attraverso una srl statale. Certissimo, invece, che nel 2012 l’amministratore delegato di Studiare Sviluppo, Carlo Nizzo, ha incassato 261.771 euro. Cifra perfino inferiore a quella toccata nello stesso anno a Riccardo Mancini (287.188 euro), l’uomo che l’ex sindaco di Roma Gianni Alemanno aveva collocato a capo dell’Eur spa e che ora se la deve vedere con un processo per tangenti. Chi ricorda poi la Sogesid? L’avevano fatta vent’anni fa per gestire la legge Galli sui bacini idrici. Poi la cosa ha preso un’altra piega, ma la Sogesid è sopravvissuta. Con cinque consiglieri, guidati da Vincenzo Assenza, già vicepresidente della Provincia di Siracusa. Retribuzione 2012, 326 mila euro. Un soffio al di sopra dell’indennità (300 mila) del presidente delle Fs Lamberto Cardia, riconfermato nel 2013 a 79 anni d’età. Come è pure sopravvissuta alle privatizzazioni una scheggia delle assicurazioni pubbliche. Si chiama Consap e ha 5 consiglieri, per un costo in stipendi e gettoni di 760 mila euro. Di questi, 473,7 per l’amministratore delegato Mauro Masi, ex direttore generale della Rai, e 225,8 per il presidente Andrea Monorchio, fino a 13 anni fa Ragioniere generale dello Stato.
Cifre che possono apparire modeste, se rapportate ad altre buste paga. Per esempio i 570.500 euro di Giuseppe Nucci, capo della Sogin, la società che deve smaltire le scorie delle centrali nucleari chiuse 26 anni fa. Ma pure i 601 mila dell’amministratore del Poligrafico Maurizio Prato. Anche se va ricordato come i vertici delle società statali dovranno rispettare il tetto dei 302 mila euro imposto ai superburocrati. Se non addirittura quello ancora più restrittivo di cui si sta discutendo: i 248 mila euro dello stipendio del presidente della Repubblica.
Limite cui saranno invece sottratte società legate al mercato o che emettono obbligazioni. Tipo le Ferrovie, il cui amministratore delegato Mauro Moretti ha portato nel 2012 a casa 873 mila euro. O la Cassa Depositi e prestiti di Giovanni Gorno Tempini: un milione 35 mila euro. Oppure le Poste di Massimo Sarmi, in scadenza dopo 12 anni, che ha il record assoluto della retribuzione 2012 per le società pubbliche non quotate: 2 milioni 201 mila euro. Tutta colpa di quei 638 mila euro di arretrati dell’anno prima...

Corriere 20.3.14
Dalla Vittorio Veneto alla Garibaldi: quei simboli di una grandezza mai avuta
di Paolo Rastelli


I bilanci pubblici sono in profondo rosso, non abbiamo abbastanza soldi per attuare riforme indispensabili, è necessario fare cassa. Sono cose che sappiamo tutti. Ma certo l’idea che per ricavare e risparmiare alcune centinaia di milioni stiamo pensando di vendere la portaerei Garibaldi, una delle due navi ammiraglie della nostra flotta militare (l’altra è la Cavour, varata nel 2009), un po’ di effetto lo fa. Ma come, viene spontaneo domandarsi, meno di un secolo fa, più o meno negli anni 30 del Novecento, avevamo una delle marine più grandi del mondo e ora ci vendiamo le navi?
Intendiamoci, è una cosa che fanno tutti, quello di cedere i sistemi d’arma usati prima che siano irrimediabilmente sorpassati: se verranno confermate le indiscrezioni diffuse da RID, Rivista italiana difesa, l’Angola, l’acquirente dato in pole position, farà sicuramente un buon affare comprando la Garibaldi che ha almeno altri 5 anni di vita operativa utile. Ma comunque la risposta alla domanda sta proprio nelle quattro parole «meno di un secolo fa». In termini tecnici e geopolitici, è passata un’era. E l’Italia da molti anni non è più una grande potenza (come non lo è più, tanto per fare un esempio, la Gran Bretagna). E poi, diciamoci la verità, non è che le nostre navi ammiraglie abbiano mai brillato. Non per colpa delle navi, naturalmente, spesso di buona costruzione e progettazione, né per mancanza di coraggio e dedizione dei marinai. Diciamo che non sempre la nostra politica navale e le nostre scelte tattico-strategiche sono state all’altezza.
L’ammiraglia in una squadra navale è quella in cui è imbarcato l’ammiraglio, ossia il comandante in mare di un gruppo di navi. Di solito è anche una «capital ship», ossia il tipo di nave senza la quale una flotta di una grande potenza non può dirsi tale. Al giorno d’oggi le capital ship sono i sottomarini nucleari dotati di missili strategici, durante la Seconda guerra mondiale e fino a tutti gli anni 70 del Novecento erano le portaerei, prima ancora il ruolo era ricoperto dalle navi da battaglia, corazzate e armate di grandi cannoni.
Nella seconda metà dell’800 le navi principali delle flotte erano le pirofregate, vascelli a propulsione mista vela/vapore costruite in legno. E fu su una pirofregata, la Re d’Italia , che si imbarcò l’ammiraglio Carlo Pellion di Persano diretto a Lissa insieme al resto della flotta italiana nel 1866, dopo lo scoppio della terza Guerra di indipendenza. Persano condusse le sue navi così male che alla sera del 20 luglio la sua ammiraglia era in fondo al mare e la marina del neonato Regno d’Italia aveva incassato la sua prima bruciante sconfitta. L’ombra di Lissa pesò a lungo sul morale e sull’immagine della Regia Marina italiana, tanto che ebbe larga circolazione la battuta attribuita a Giovanni Giolitti, primo ministro agli albori del secolo scorso. Rispondendo al re che si lamentava dei generali, sembra abbia detto: «Vostra maestà dice così perché non conosce gli ammiragli».
Tuttavia nella Grande Guerra e ancora di più nel periodo tra le due guerre la Marina recuperò spirito e mezzi: d’altronde la politica di potenza del fascismo richiedeva una grande flotta. Tra il 1911 e il 1916 entrarono in servizio quattro navi da battaglia, Cavour , Cesare , Doria e Duilio , poi estesamente rimodernate negli anni 30. Nella seconda metà dello stesso decennio vennero poi impostate, varate e allestite altre tre navi da battaglia da 35 mila tonnellate, la Littorio , la Vittorio Veneto e la Roma , potenti e ben costruite. Furono tutti vascelli che si possono a buon diritto definire «ammiraglie» e che diedero alla Regia Marina la fama di arma potente e temibile.
Eppure, alla prova del fuoco del secondo conflitto mondiale, furono deludenti: per esempio, per quanto è possibile sapere e per quanto possa sembrare incredibile, non uno dei colpi sparati in battaglia dai cannoni delle tre «35mila» andò mai a segno. Troppa prudenza nell’impiego, scarsa attitudine al combattimento notturno e con tempo cattivo, dottrine di impiego antiquate, scarsità di nafta, difetti di leadership. Molte furono le cause delle prove opache, troppe perché si possano elencare e spiegare qui. Ma si può affermare con tranquillità che i veri grandi successi della nostra Marina non sono mai stati ottenuti dalle ammiraglie. Il 10 giugno del 1918 furono due MAS, motoscafi armati di siluri, ad affondare la corazzata austriaca Santo Stefano al largo di Premuda, nell’Adriatico. E il 19 dicembre del 1941 sei assaltatori colarono a picco nella rada di Alessandria d’Egitto due navi da battaglia britanniche, la Queen Elizabeth e la Valiant , la perdita più grave inflitta alla Royal Navy dalla Regia Marina. Forse davvero per noi italiani, in pace e in guerra, sono l’iniziativa e l’individualismo che fanno quasi sempre premio sulle dimensioni.

Corriere 20.3.14
Landini «sponsor» dei caccia Eurofighter


La Fiom-Cgil guidata da Maurizio Landini (a sinistra) si è schierata con il movimento contrario all’acquisto degli aerei da combattimento F35. Il fatto che il governo stia pensando a un ridimensionamento della spesa per i caccia prodotti dalla statunitense Lockheed Martin è stato quindi apprezzato dal leader sindacale. La soddisfazione non ha però particolari motivazioni pacifiste: «Crediamo — ha scritto Landini — che investire su sistemi d’arma la cui proprietà intellettuale è ad appannaggio esclusivo di Paesi stranieri non sia utile». E infatti il segretario Fiom, nella stessa dichiarazione, ha chiesto chiarimenti al presidente del Consiglio sul mancato rafforzamento del progetto Eurofighter (sempre aerei da combattimento, ma di produzione europea) in cui è «direttamente coinvolta l’industria nazionale attraverso Finmeccanica».

l’Unità 20.3.14
Corsi d’oro, per Genovese i pm chiedono l’arresto
Per i magistrati il deputato del Pd avrebbe creato un sistema familiare con i corsi di formazione
di Manuela Modica

Associazione per delinquere finalizzata alla frode, riciclaggio, peculato e frode fiscale: sono i reati contestati al deputato pd Francantonio Genovese.
MESSINA. In Calabria non si applicano due articoli della Costituzione: il 41 in base al quale la libertà d’impresa economica è garantita dalla Repubblica, e il 47 che garantisce che il nostro Stato diriga coordini e regolamenti il pubblico accesso al credito. Io chiedo che le banche diano a tutti uguale accesso al credito e chiedo che Banca d’Italia, Regione e i ministeri economici tutelino i cittadini, perché avere accesso al mercato del credito a condizioni eque è un bene comune». Il grido di dolore viene da un geniale imprenditore calabrese che fino all’inizio del 2000 era leader mondiale nella meccanica, ossia nelle automazioni, per la raccolta delle ulive, Nino de Masi azienda vicino il porto di Gioia Tauro. Con l’azienda «costruzioni De Masi» si rischia di fare il pieno di record nazionali: sono infatti gli unici in tutto il territorio della Repubblica, ad essere piantonati, fuori dall’azienda, da una camionetta dell’Esercito italiano, a difesa dalle minacce della scorsa estate da parte delle cosche che vogliono controllare il Porto, e il cui pizzo De Masi non è disposto a pagare.
Si tratta poi, ed è il caso che ispira questa cronaca, del primo imprenditore riuscito tre anni or sono nel 2011, a fare condannare due primari istituti bancari italiani per tassi usurari, applicati contro degli imprenditori, clienti fidati da decenni. Nello stesso Paese in cui solo un anno fa un imprenditore caseario nel padovano (a Campodarsego) sparò a un direttore di banca, questa forma civile di protesta è una notizia. Soprattutto visti i risultati, che dopo il giudizio arrivato al terzo grado di Cassazione, vede ora davanti al Tribunale civile un procedimento per risarcimento danni nei confronti degli stessi istituti di credito per centinaia di milioni euro. Appuntamento al 3 aprile, Reggio Calabria, e De Masi ha inviato a partiti e quotidiani una lettera aperta per chiedere che si costituiscano i giudizio la Regione, le 5 province calabre, la Presidenza della Repubblica e i ministeri di Economia, Lavoro, sviluppo economico e Giustizia, perché «l’accesso al credito uguale per tutti è un bene comune». Enon è finita: il detentore di decine di brevetti industriali, partito 60 anni fa da un paesone qui vicino (Rizziconi) ha aperto altri tre fronti penali contro altrettante banche che non gli concedono credito, soprattutto dopo che si è fatto la fama di «rompiscatole» che non accetta passivamente regole non uguali per tutti i cittadini per l’accesso al credito bancario. Ha persino aperto un procedimento presso la Procura di Trani contro la filiale sud di una grande banca veneta, che aveva sede a Molfetta, in provincia di Bari. «Io voglio che i funzionari di banca vengano in giudizio a dirmi perché non possono concedermi le stesse condizioni che qui in Calabria vengono concesse ai mafiosi, perché non a chi come me fa una battaglia per la legalità sul posto di lavoro, a un imprenditore con 160 dipendenti e diverse ditte, con clienti in decine di paesi del mondo, un “padrone” che vuole difendere la legalità in una regione dove quasi tutti i miei concorrenti trattengono il 30% della busta paga ai propri dipendenti, per avere un vantaggio commerciale». Adesso invece i 160 operai della de Masi sono in cassa integrazione, e al 30 aprile la Regione finirà i soldi per derogarla: l’azienda rischia la liquidazione. «Amefino alla Cassazione hanno riconosciuto che ho ricevuto denaro in prestito al tasso usurario del 28% e passa - spiega de Masi - mentre la legge 108 del ’97 sull’usura ha stabilito al 17% il tasso massimo legale». I giudici riconobbero a De Masi che applicare un tasso vicino al 18% insieme con commissioni di massimo scoperto più che raddoppiate, se sommate portavano somme che per 10mila euro prestati, a due anni chiedevano una restituzione di 14mila e 500 euro, con un tasso annuo di interessi del 24% cioè usurario. Da quel momento De Masi per le banche calabresi è diventato un appestato; mentre, come ha dimostrato l’inchiesta All Inside a pochi km di distanza dal Porto diGioia, al boss Salvatore Pesce si aprivano fidi per centinaia di migliaia di euro. Una rete magistrale di Enti che succhiavano denaro pubblico attraverso i finanziamenti regionali destinati alla «formazione». Attraverso consulenze o affitti di immobili per un ente e poi per un altro fino ad arrivare alla Caleservice, l’ente «perno» di tutta l’operazione, di cui il deputato del Pd Francantonio Genovese detiene il 99 per cento. Un ente che aveva sede, almeno fino al 2012, nella sua grande villa di Messina e per il quale Genovese ha perfino prestato tre consulenze che gli hanno fruttato una somma di 250mila euro circa. Poca roba per il Ras di Messina, l’uomo più potente dello Stretto, che detiene il 60 per cento delle quote della Caronte, la ditta privata di traghetti per l’attraversamento dello Stretto, quello in assoluto più trafficato. E che alle primarie del 2013 incassò 19.590 preferenze su poco più di 24mila votanti nella sua provincia.
Ma da ieri le sorti dell’onorevole, al suo secondo mandato, ex segretario regionale del Pd potrebbero «impoverirsi ». È stata depositata, infatti, alla Camera una richiesta di arresto per il deputato del Pd firmata dal Gip di Messina Gianni De Marco, nell’ambito dell’inchiesta «Corsi d’oro» sulla formazione professionale. Mentre per il parlamentare si attende l’autorizzazione a procedere, tre suoi collaboratori, Salvatore La Macchia (capo della segreteria tecnica dell’assessore alla Formazione Centorrino), Domenico Fazio e Roberto Giunta, e il commercialista Stefano Galletti, sono stati arrestati stamattina da agenti della Squadra mobile di Messina. Assieme a Genovese sono accusati di una serie di reati che comprende l’associazione per delinquere finalizzata alla frode sui corsi di formazione professionale, il riciclaggio, il peculato e la frode fiscale. Si tratta della prima richiesta di arresto per un deputato in questa legislatura. Un deputato che aveva secondo quanto contestato dalla Procura di Messina creato un sistema di interessi familiare. La sintesi la fornisce una delle intercettazioni venute fuori da un grande lavoro di indagine iniziato a settembre del 2012. Una chiacchierata tra il gestore di un ente, Michele Cappadona e il sindaco di Mazzarrà Sant’Andrea Carmelo Navarra, nell’ottobre del 2011. Cappadona racconta al sindaco: «No ... ero in graduatoria emi hanno levato, poi cosa è successo, ho parlato con Francantonio Genovese e gli ho detto: minchia, ma qua vi siete finanziati tutti i progetti. Io con Agc sono rimasto fuori, vi sembra giusto … e me ne hanno fatto passare due… Poi qual è il discorso? Centorrino (Mario Centorrino, ex assessore alla Formazione durante la presidenza di Raffaele Lombardo, ndr) è una pedina».
E continua Cappadona: «Si è comprato cinque sei enti… avvocati a Patti (…). In tutti i posti compra enti, (…). Sono i vecchi democristiani quelli vecchi proprio vecchi… Perché “passano i progetti che vogliono loro”». Mentre in un’altra conversazione spiega alla sua collaboratrice Tindara Danzi: «Ha tutti i parenti, tutti dentro: li ha là come gli scacchi. Sua moglie ha 5-6 sorelle, tranne una che li ha mandati a fare in culo, che era Consigliere Provinciale, gli altri li ha tutti piazzati«. Per la moglie di Genovese, Chiara Schirò, era stato chiesto e ottenuto l’arresto ai domiciliari lo scorso 17 luglio. Già da allora lo scandalo aveva travolto il Pd messinese e in particolare il deputato, all’epoca soltanto indagato. Agli arresti era finita anche la tesoriera del partito, Concetta Cannavò. Per quest’ultima e per le due cognate di Genovese, Elena e Giovanna Schirò era stata fatta richiesta d’arresto dai Pm di Messina guidati dal procuratore aggiunto Sebastiano Ardita. Richiesta non confermata tuttavia dal gip Giovanni DeMarco.
Intanto Genovese ha comunicato «Per comprensibili ragioni di opportunità, non disgiunte dall’alto senso di rispetto che ho sempre avuto nei confronti delle Istituzioni, dei Colleghi di Partito e dei Parlamentari tutti, anticipo la mia determinazione ad autosospendermi dal Partito Democratico e dal Gruppo Parlamentare». Mentre il siciliano Davide Faraone membro della direzione nazionale del Pd, ha commentato «il Pd credo debba avere un atteggiamento assolutamente laico: cioè se si verificherà dalle carte che la richiesta è legittima e concreta si voterà a favore senza alcuna titubanza, altrimenti si voterà contro».

Corriere 20.3.14

La mansarda e il cambio di casa
Matteo Renzi nel 2011 decide di lasciare la mansarda dove risiede a Firenze. Il 14 marzo 2011 si trasferisce in via degli Alfani in un appartamento di proprietà di Alessandro Dini: qui rimane per 34 mesi, fino a gennaio 2014. A pagare l’affitto della casa è l’imprenditore Marco Carrai
L’opposizione e la mostra di Pollock
Polemiche anche per la fidanzata e futura moglie di Carrai, Francesca Campana Comparini, 26 anni, che ha ricevuto l’incarico di curare la mostra su Pollock e Michelangelo a Palazzo Vecchio. Sul ruolo di Campana, laureata in filosofia, ha sollevato un caso l’opposizione di sinistra in Comune.
La segnalazione e l’atto della Procura
La Procura di Firenze, in seguito ad un esposto ricevuto nei giorni scorsi,  ha aperto un fascicolo per fare chiarezza sui rapporti tra l’ex sindaco e l’imprenditore.

Corriere 20.3.14
Carrai e la casa per Renzi
Arriva un esposto, i pm aprono un fascicolo
di Claudio Bozza e Valentina Marotta


Per trentaquattro mesi, l’ex sindaco Matteo Renzi ha vissuto in un appartamento al quinto piano di via degli Alfani 8, a due passi da Palazzo Vecchio. A pagare l’affitto, dal 14 marzo 2011 al 22 gennaio scorso, è stato l’imprenditore Marco Carrai (38 anni), fidato consigliere e migliore amico del premier. E adesso la Procura di Firenze, in seguito ad un esposto ricevuto nei giorni scorsi, ha aperto un fascicolo per fare chiarezza sui rapporti tra l’ex sindaco (oggi premier) e l’imprenditore fiorentino e per verificare se quest’ultimo abbia ottenuto favori in cambio. Si tratta di un fascicolo esplorativo: al momento non ci sono né indagati, né sono formulate ipotesi di reato. Il procuratore aggiunto Giuliano Giambartolomei, che dal 27 ottobre regge la Procura dopo il pensionamento di Giuseppe Quattrocchi, affiderà le indagini a un pm per accertare che non sia stato danneggiato l’interesse pubblico.
In quell’appartamento l’ex sindaco aveva trasferito la sua residenza da Pontassieve (paese a 20 chilometri da piazza Signoria, dove abitano la moglie Agnese e i tre figli) per seguire da vicino il governo di Palazzo Vecchio e, soprattutto, per votare nella città che amministrava. In quell’abitazione di cinque vani, con vista sulla città, il sindaco si riposava tra un impegno e l’altro. A pagare l’affitto, come rivelato da Libero nei giorni scorsi, (prima 900 e poi 1.200 euro al mese) non era però l’ex Rottamatore, bensì Carrai, che ha guidato in passato un’importante partecipata di Palazzo Vecchio come la Firenze Parcheggi e adesso è presidente di Adf, la società che gestisce l’aeroporto di Firenze (di cui sempre il Comune detiene una quota). Carrai è anche un imprenditore che investe su diversi fronti. Tra questi anche quello della tecnologia applicata alla fruizione dei beni culturali. Carrai, con una delle aziende di cui è socio, la C&T Crossmedia, si è aggiudicato l’anno scorso dal Comune l’organizzazione di un servizio per visitare Palazzo Vecchio con la guida di un tablet interattivo. Per ogni dispositivo noleggiato dai turisti, la C&T riceve una percentuale.
Dopo aver duellato per giorni con il direttore Maurizio Belpietro, minacciando anche querele, alla fine Carrai ha inviato a Libero la copia del contratto di affitto dell’appartamento di via degli Alfani 8, che il quotidiano ha pubblicato ieri. Il proprietario dell’immobile è Alessandro Dini, consigliere d’amministrazione della Rototype, il cui sito internet è stato curato dalla Dotmedia, l’agenzia di comunicazione di cui è socio anche il cognato di Renzi. Fino al gennaio 2011, prima di trasferirsi nella casa pagata dall’imprenditore, l’allora sindaco aveva affittato (a proprie spese) una mansarda dietro Palazzo Vecchio, salvo poi recedere dal contratto perché con lo stipendio da sindaco non riusciva a sostenere i circa mille euro mensili di locazione.
A tenere puntati i riflettori su Carrai è da qualche giorno la polemica della sinistra fiorentina sulla mostra che nelle prossime settimane vedrà protagoniste a Palazzo Vecchio le opere di Jackson Pollock e Michelangelo. Per l’esposizione, una delle più attese degli ultimi tempi a Firenze, l’amministrazione pagherà agli organizzatori 375 mila euro. Una dei due curatori è Francesca Campana Comparini, 26 anni, laureata in filosofia, che a settembre sposerà Carrai nella basilica di San Miniato al Monte.

il Fatto 20.3.14
Affari, regali e fondi alla politica Carrai, “l’amico vero” di Renzi
di Davide Vecchi


Siamo amici dal 1996, amici veri”. Marco Carrai lo spiega così il rapporto che ha con Matteo Renzi, registrando alla voce “amicizia” quello che in un qualsiasi bilancio andrebbe invece indicato separatamente nelle colonne dare e avere. Lui è della famiglia. Paga a Matteo l’affitto della casa fiorentina e accompagna Agnese, la moglie di Renzi, in Senato ad assistere all’esordio del marito al governo. “Siamo amici”.
SEGUENDO l’ascesa politica di Renzi, Carrai ha sviluppato una fitta tela di incarichi e relazioni economiche. E più il sole illuminava il politico Renzi più si estendeva l’ombra di Carrai e la sua fama di imprenditore. Insieme hanno ideato, progettato e realizzato l’intero percorso che ha portato l’amico Matteo dalla Provincia di Firenze a Palazzo Chigi.
Nel 2005, anno in cui Renzi è eletto presidente della Provincia, Carrai ottiene il primo e all’epoca suo unico incarico: amministratore delegato della Florence Multimedia. La società creata ad hoc da Renzi per gestire la comunicazione e su cui poi la Corte dei conti aprirà un’inchiesta.
Nel 2007 Carrai avvia quella che diventerà la sua attività principale, fondamentale per la carriera politica di Renzi, dedicandosi alla raccolta fondi a favore dell’amico che vuole diventare sindaco. Crea le prime due associazioni: la Noi Link e Festina Lente. Nel 2009 Renzi conquista Palazzo Vecchio, Carrai comincia a pagare l’affitto di un attico in via degli Alfani (come rivelato da Giacomo Amadori su Libero nei giorni scorsi) e i suoi impegni si moltiplicano rapidamente. Lascia Florence Multimedia e il 18 dicembre 2009 entra in Firenze Parcheggi Spa, società detenuta dal Comune, come amministratore delegato. Formalmente Carrai è inserito dal secondo azionista, il Monte dei Paschi di Siena, all’epoca guidato da Giuseppe Mussari.
Dopo appena tre mesi diventa anche presidente della Imedia Srl, una società fondata insieme a Stefano Passigli, l’editore, già sottosegretario nel governo guidato da Massimo D’Alema e poi nell’esecutivo di Giuliano Amato.
LA IMEDIA SRL chiude le attività in perdita per 51 mila euro. Il liquidatore è Federico Dalgas. Lo stesso Dalgas che nel frattempo è diventato socio di Carrai in un’altra srl: la D&C, una piccola holding. I due hanno ciascuno il 50% ma Carrai è il presidente. Anche questa società chiude in perdita il bilancio 2012: 90 mila euro. A fronte di un capitale sociale di 30 mila euro, detiene il 9% della Kontact di Giorgio Moretti (amministratore delegato di Dedalus Spa) e il 51% della C&T Crossmedia che ha tra i soci anche Chicco Testa e di cui Carrai diventa presidente. La C&T nel 2012 si aggiudica l’appalto del Comune di Firenze per la gestione delle guide su tablet per il museo di Palazzo Vecchio. Nello stesso anno Renzi contende a Pier Luigi Bersani la candidatura a premier. Il sole sale ma l’ombra si allunga. Carrai crea la fondazione Big Bang, oggi Open, in cui siede, fra l’altro, anche l’attuale ministro Maria Elena Boschi, e diventa consigliere della scuola Holden di Alessandro Baricco. Le primarie del 2012 le vince Bersani. Carrai intanto dà vita ad altre società. La Cambridge Management Consuling e la Yourfuture Srl, entrambe con una quota della Fb Group di Franco Bernabé. Nell’aprile 2013 viene nominato presidente di Adf, la società che gestisce l’aeroporto di Firenze. A novembre Carrai lascia Firenze Parcheggi e fa il suo ingresso nel cda dell’ente Cassa Risparmio di Firenze. Una fondazione che distribuisce ogni anno 23 milioni di euro sul territorio e ha interessi plurimi. Dei 45,5 milioni investiti in fondi comuni nel 2012, dieci sono stati investiti nel fondo Algebris di David Serra, amico di Renzi e finanziatore del Big Bang. Altri 50 milioni sono investiti nel fondo chiuso F2i di Vito Gamberale. L’Ente ha, inoltre, una partecipazione del 3,3% di Intesa Sanpaolo, l’1% della Cassa Depositi e Prestiti, il 10,25% della Cassa di Risparmio di Firenze e il 17% dell’Adf. Quando Carrai fa il suo ingresso nel cda, l’ente è presieduto da Jacopo Mazzei, poi costretto a lasciare l’incarico a Giampiero Maracchi. Quando nell’aprile 2013 la Fondazione Big Bang rende noto l’elenco dei finanziatori che hanno versato 600 mila euro per sostenere la campagna elettorale di Renzi, oltre a Carrai e ai 100 mila euro di Serra, figura anche Mazzei con 10 mila euro, seguito da Filippo Landi, Carlo Micheli, Giorgio Colli e Guido Roberto Vitale.
LA CASSAFORTE costruita da Carrai, intanto, accompagna Renzi nel tentativo riuscito di conquistare il Pd. Per la campagna elettorale nel 2013, secondo i resoconti che Il Fatto ha verificato, la fondazione ha raccolto 980 mila euro, 300 mila euro in più rispetto all’anno precedente. Ma i finanziatori non sono ancora stati resi noti, probabilmente l’elenco sarà pubblicato il prossimo mese. Ma intanto il nome è cambiato, ora si chiama Open, e nel suo cda sono stati inseriti i nuovi fedelissimi di Renzi: Boschi, Luca Lotti, Alberto Bianchi. E Carrai. L’amico vero.

Corriere 20.3.14
La fidanzata, l’incarico, la polemica in Comune: valutatemi per i fatti
di Marco Gasperetti


FIRENZE — «A queste accuse così strumentali replico con una frase di Dante: “non ti curar di loro ma guarda e passa”». Francesca Campana Comparini, 26 anni, laurea in Filosofia, si dice esterrefatta dalle polemiche che l’hanno investita dopo la nomina a co-curatrice di una delle mostre più importanti della città patrocinate dal Comune di Firenze, quella su Pollock e Michelangelo, e che inizierà nelle prossime settimane a Palazzo Vecchio. Tutto era filato liscio sino a domenica scorsa quando il Corriere Fiorentino ha pubblicato la notizia che a settembre Francesca convolerà a nozze con Marco Carrai, 38 anni, imprenditore e soprattutto tra i più fidati consiglieri di Matteo Renzi. Carrai, già nominato dal Comune consigliere d’amministrazione del Gabinetto Vieusseux (dal quale però ha presentato le dimissioni), è presidente dell’Aeroporto di Firenze, membro del cda dell’ente Cassa di Risparmio e direttore generale della Fondazione Big Bang, braccio operativo e cassaforte della macchina politica renziana. Così, dopo aver letto del matrimonio, due consiglieri comunali di opposizione di sinistra hanno sollevato il caso in consiglio comunale, ipotizzando un «intreccio inopportuno», con una «connessione tra la curatrice e l’entourage del sindaco». «Niente di illegale — hanno scritto — ma avendo il Comune scelto senza bando proprio la proposta presentata dalla futura moglie di Carrai qualche perplessità può nascere». Carrai ha risposto annunciando querele e ieri il suo avvocato, Alberto Bianchi, ha confermato che la denuncia è pronta ed è in stand-by. «Stiamo valutando», si limita a dire il legale. Intanto la co-curatrice (primo curatore è lo storico dell’arte Sergio Risaliti) sfida i maligni. «Risponderò alle chiacchiere con i fatti — dice — si visiti la mostra, poi si potrà criticare tutto, anche la mia professionalità». L’assessore alla Cultura del Comune e professore di Estetica, il filosofo Sergio Givone, difende Francesca. Che è stata anche sua allieva (e per l’opposizione questa sarebbe una doppia inopportunità), giudicata bravissima e meritevole. «Se mi fossi opposto all’incarico — spiega — solo perché Francesca ha studiato con me e perché è la fidanzata di Marco Carrai mi sarei vergognato di me stesso». Ribatte Tommaso Grassi (Sel): «Una giovane laureata in filosofia, futura moglie di uno degli uomini più potenti di Firenze, passa dall’organizzazione di piccole mostre private nella gioielleria di famiglia all’allestimento della più importante rassegna di Firenze. Qualcuno ci può spiegare perché?».

Corriere 20.3.14
«La sorella del premier assessore»

Un assessorato alla scuola per Benedetta Renzi: è quello che ha intenzione di offrire alla sorella del presidente del Consiglio Stefano Sermenghi, sindaco di Castenaso. «Ci conto moltissimo — ha raccontato il primo cittadino al Corriere di Bologna — ho pensato a Benedetta Renzi non per il suo cognome, ma per il suo nome. È una persona molto in gamba e sono certo che potrebbe fare molto bene l’assessore». La sorella del premier vive ormai da anni con la famiglia nel Bolognese: è sempre rimasta defilata rispetto all’attività politica del fratello, ma questo non le ha impedito di impegnarsi politicamente, a cominciare dalla fondazione del comitato «Adesso Bologna».

il Fatto 20.3.14
Nomine: Renzi rottama tutti
Il governo ha deciso di sostituire i manager di Stato che hanno fatto più di tre mandati
di Stefano Feltri e Carlo Tecce


Il governo di Matteo Renzi ha deciso: per le nomine pubbliche è arrivato il momento della rottamazione, tutti a casa. La posizione ufficiale dell’esecutivo è “non parliamo di poltrone, parliamo di aziende”. Ma uno dei collaboratori più stretti di Renzi, il sottosegretario Angelo Rughetti che da mesi studia il dossier nomine, spiega: “I sindaci non possono candidarsi più di due volte, i parlamentari del Pd non superano i tre mandati, perché i manager dovrebbero fare più di tre giri nella stessa azienda? Se proprio sono così bravi possiamo farli ruotare”.
LA STRATEGIA RENZIANA è ormai definita in tre stadi. Primo: chi ha fatto più di tre mandati se ne va. Quindi saranno congedati Paolo Scaroni (Eni), Flavio Cattaneo (Terna), Fulvio Conti (Enel) e Massimo Sarmi (Poste). A cascata cadranno i vertici di Finmeccanica, anche se di fresca nomina: Gianni De Gennaro e Alessandro Pansa. Secondo punto: lo Stato deve usare le aziende partecipate per fare politica industriale, non limitarsi a incassare dividendi (i manager in scadenza hanno invece usato molto la tattica di staccare lauti assegni per i soci alla vigilia della possibile riconferma). I renziani hanno una lista di esempi precisi: Finmeccanica deve usare il settore militare per elaborare tecnologie utilizzabili nel civile, non limitarsi a vendere missili ed elicotteri da guerra. L’Eni deve essere uno strumento di politica estera, oltre che di produzione di utili. L’Enel non dovrebbe trasferire troppe funzioni, come il settore legale ai suoi rami spagnoli, ma tenere il più possibile in Italia servizi e posti di lavoro. Le Poste devono impiegare meglio il risparmio che raccolgono (oggi in gran parte investito nella Cassa depositi e prestiti) e usarlo per sostenere la ripresa italiana. I manager saranno scelti da Renzi e dal ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan, l’azionista di controllo, tenendo conto di queste priorità. Gli sherpa per le trattative sono il sottosegretario Luca Lotti e il capo di gabinetto del Tesoro Roberto Garofoli.
Terzo stadio dello stile renziano per le nomine: scegliere nomi noti, fidati e con una reputazione non contestabile. É quasi impossibile che Andrea Guerra e Vittorio Colao lascino le loro aziende (Luxottica e Vodafone) per l’Eni o l’Enel, sono vincolati da troppe stock option. Ma ci sono Francesco Caio, oggi ad Avio, pronto per le Poste, Giovanni Castellucci di Autostrade per l’Italia per l’Enel (o anche Francesco Starace di Enel Green Power se prevale la scelta interna). Per l’Eni ci sono l’interno Claudio Descalzi oppure l’ex capo di Saipem Stefano Cao. Oppure, con un ritorno a vent’anni fa, Franco Bernabé, papabile anche per Finmeccanica. Nel giro del totonomine c’è anche Luigi Gubitosi, pronto a lasciare la Rai un anno prima della scadenza per Poste o Enel.
Dopo mesi di voci, ammiccamenti e negoziati sotterranei, il risiko è già cominciato. Un indizio è il caso di Giuseppe Recchi: il presidente dell’Eni è il candidato per la presidenza di Telecom indicato da Telco, l’azionista di controllo. Sarà battaglia in assemblea con Vito Gamberale, sostenuto dalla minoranza, ma il nome di Recchi è emerso pochi giorni fa dopo che Telco ha rinunciato a candidare il prodiano Massimo Tononi. Se non viene confermato neppure Recchi, il più nuovo dei vecchi, relativamente giovane e al primo mandato, allora nessuno può stare tranquillo. Anche Flavio Cattaneo è candidato di Telco al cda di Telecom, come consigliere indipendente senza deleghe. Una carica compatibile con la guida di Terna, ma anche un utile gancio con una nuova carriere dopo la quasi certa fine dell’esperienza alla società della rete elettrica.
C’è poi un atto formale che certifica la bellicosità delle intenzioni renziane. Il ministero del Tesoro e la Cassa depositi e prestiti hanno mandato una lettera alle società di cui sono azionisti: chiedono che l’assemblea convocata per approvare il bilancio, in primavera, modifichi anche lo statuto per recepire la direttiva ministeriale sulle nomine, che tutti consideravano dimenticata sui fondi dei cassetti.
LE AZIENDE devono cambiare i requisiti di onorabilità: gli amministratori decadono o diventano ineleggibili se subiscono una condanna, anche in primo grado, ma anche se vengono semplicemente rinviati a giudizio per reati contro la Pubblica amministrazione, tributari o contro il patrimonio. Se proprio il cda vuole salvare il manager, deve convocare un’assemblea dei soci e chiedere loro di votare per confermare l’imputato o il condannato. Curiosamente un manager può essere accusato di strage o di reati ambientali e salvarsi, ma se è imputato per corruzione è fuori. E Paolo Scaroni, l’ad di Eni, è indagato per corruzione internazionale in un’inchiesta su presunte tangenti pagate da Saipem, una controllata. Come si fa a confermare un manager che potrebbe decadere tra pochi mesi se arrivasse il rinvio a giudizio? La norma non è ad personam, ma di certo ha ridotto ulteriormente le possibilità di Scaroni di ottenere il quarto mandato cui aspirava. Sui mercati gli osservatori notano che la mossa del Tesoro è inusuale: un cda di solito ha sempre la possibilità di cacciare l’amministratore delegato, anche senza che la politica imponga un cambio di statuto che sfavorisce l’Eni rispetto ai concorrenti. Ma Renzi ha deciso: via tutti. Ogni strumento è lecito per vincere le resistenze dei boiardi delle partecipazioni.

il Fatto 20.3.14
Formazione fantasma “Genovese va arrtestato”
Il deputato pd, renziano dell’ultim’ora, fu salvato dai garanti del partito
I magistrati di Messina gli imputano una fregatura da sei milioni di euro
di Silvia D’Onghia ed Enrico Fierro


Francantonio Genovese è da arrestare. Il Parlamento decida e faccia presto. È questa la richiesta arrivata ieri a Montecitorio dai magistrati di Messina. Il sempre sorridente onorevole, salvato dai garanti del Pd che scandagliarono le liste prima delle elezioni (e fecero fuori Mirello Crisafulli), non è solo l’azionista di maggioranza della corrente renziana siciliana. Per i pm è anche “al vertice di un sodalizio criminale” che negli ultimi anni ha divorato i fondi europei e regionali della formazione professionale. Un bottino di 6 milioni di euro accumulato grazie alla gestione, diretta o occulta, di almeno dieci enti. Strutture totalmente inutili per dare uno straccio di lavoro ai giovani disoccupati siculi, ma preziosi per arricchire la famiglia Genovese. Moglie, cognate, parenti, affini e portaborse vari, avevano le mani nella pasta grassa della formazione. Una piramide della amoralità familistica e del malaffare con Genovese “chiaramente al vertice” di quello che il pool di magistrati coordinato dal pm Sebastiano Ardita, definisce “un sodalizio criminale”.
FRANCANTONIO Genovese, il papà sei volte senatore Dc, lo zio Nino Gullotti più volte ministro nei governi della Prima Repubblica, è stato anche sindaco di Messina. Imprenditore e re dei traghetti con l’armatore Franza, ultimamente si era collocato nell’area renziana del Pd.
Va arrestato Francantonio, scrive il gip di Messina, perché “il sodalizio criminale” che lo vede al vertice, è “diffuso, ben avviato e adeguatamente potente: ha delinquito (sic) e ragionevolmente continuerà a delinquere”. L’esigenza cautelare “in carcere”, deriva dalla potenza dell’organizzazione, dall’esistenza degli enti che ancora agiscono nel business della formazione professionale in Sicilia: più di 400 milioni di euro l’anno.
Peculato, truffa aggravata, riciclaggio e falso in bilancio, questi i reati contestati al parlamentare. Una decina di sigle, si diceva, direttamente riconducibili alla Genovese-family, più società, sempre riferibili agli stessi soggetti, che fornivano servizi, locali da adibire a scuole, attrezzature, ma “sempre a prezzi platealmente esagerati”. Sei milioni di euro incassati dal 2007 al 2013, in una regione che conta 1600 enti di formazione professionale, cinque volte più del Veneto e dove il costo per corsista è esorbitante: 135 l’euro ogni ora per formare estetiste, parrucchieri , cuochi. Genovese, forte dei suoi legami politici, rastrella enti di formazione professionale, li compra dai sindacati che decidono di abbandonare il settore, “con l’evidente consapevolezza di cospicui guadagni illeciti e dei potenziali vantaggi elettorali”. Crea una catena familiare: al vertice delle strutture ci sono la moglie Chiara Schirò, la sorella di lei, Elena, moglie del deputato regionale Franco Rinaldi (Pd), il capo dei suoi comitati elettorali, Salvatore La-macchia, viene piazzato nella segreteria dell’assessore al ramo ai tempi del governo Lombardo, Mario Centorrino. “Genovese – si legge in una intercettazione – sta facendo le stesse operazioni che faceva Totò Cuffaro con la sanità... Minchia se la magistratura ci mette mano”. Ma il povero Totò vasa vasa al confronto rischia di fare la figura del dilettante. Il “sistema Genovese” viveva sui “corsi fasulli e con allievi fantasma”, i corsisti che percepivano un gettone per partecipare alla fiction della formazione. Se li vendevano a pacchetti, perché più ne avevi e più denari intascavi. Aram, in cinque anni incassa oltre 23 milioni; Lumen, ne rastrella più di tre: sono due delle sigle dell’impero Genovese. Ma sono solo una parte della galassia sulla quale i funzionari regionali erano disposti a chiudere gli occhi.
“SONO DISPONIBILE a fare campagna elettorale, ma anche desideroso di avere un incarico nell’ufficio di gabinetto della nuova giunta”. Si offre così, un dirigente della Regione parlando con la cognata dell’onorevole Francantonio. E quando i giornali scrivono e fanno reportage sullo scandalo, un altro funzionario regionale si preoccupa di tranquillizzare la moglie dell’onorevole Rinaldi: “Elena, passerà tutto, il tempo sistema le cose e porta a dimenticare”. Gli unici a non avere memoria labile a Messina, sono stati i magistrati della procura che hanno affondato le mani nel fango della formazione professionale. Il metodo per distrarre fondi pubblici era semplice, si mettevano in piedi società finte (una era costituita esclusivamente da domestici di casa Genovese) per fare “fatturazioni fraudolente”. Erano società “schermo”, delle “cartiere”, come la Colaservice o la Centro servizi 2000, che servivano al deputato per fatturare prestazioni professionali finte, “funzionali unicamente a consentire una massiccia evasione fiscale all’onorevole”, o a riciclare centinaia di migliaia di euro. Francantonio è l’uomo dei primati, 20 mila preferenze alle primarie del Pd, il cognato deputato regionale più votato, e ora è il primo parlamentare di questa legislatura per il quale si chiede l’arresto. Crolla un sistema a Messina, ma l’elenco degli orbi è lungo. Anche l’attuale premier, il rottamatore, attraversò lo Stretto, mangiò ottimi cannoli e strinse la mano del ras. Adesso Davide Faraone, dalla segreteria Pd, dice: “Se la richiesta d’arresto è legittima e concreta si voterà a favore”.

il Fatto 20.3.14
Barracciu ha mentito I pm: “Non solo benzina”
La procura contesta al sottosegretario altri 40 mila euro
La difesa delle “missioni” vacilla: “spendeva a Cagliari con la carta”
di Emiliano Liuzzi e Giorgio Meletti


Nei corridoi del Partito democratico parlano di doccia fredda. Francesca Barracciu, sottosegretario alla Cultura, aveva garantito di essere pronta a entrare nella squadra di governo “perché con i magistrati era tutto chiarito”. In suo favore si erano esposti il ministro Maria Elena Boschi e lo stesso premier Matteo Renzi. Ma venerdì scorso è arrivato il colpo di scena. Il pm di Cagliari Marco Cocco ha interrogato in gran segreto l’ex consigliere regionale, indagata per peculato aggravato nell’ambito dell’inchiesta sui fondi sui gruppi consiliari della Regione Sardegna, proponendo a Barracciu due sorprese.
IN PRIMO LUOGO la procura le contesta di aver speso senza giustificazione altri 40 mila euro, oltre ai 33 mila per i quali è già indagata da sei mesi. “Lo abbiamo scoperto solo venerdì – spiega il suo difensore, Carlo Federico Grosso – ma abbiamo preso tre settimane di tempo per rispondere, l’onorevole deve riordinare le idee, contestano episodi che sono di tre anni fa”.
Ma soprattutto i magistrati la accusano di aver mentito. Barracciu aveva sostenuto il 6 dicembre scorso di aver speso 33 mila euro, tra il 2006 e il 2009, in viaggi politici e istituzionali. “Abbiamo anche indicato uno per uno gli appuntamenti politici cui la signora ha partecipato, con la propria automobile”, aveva spiegato Grosso. Alla media di 62 chilometri al giorno, 942 chilometri al mese, 24 mila all’anno su e giù per la Sardegna. Gli inquirenti hanno in seguito messo a confronto il resoconto sui viaggi dell’indagata con i movimenti della sua carta di credito, scoprendo che in più di un’occasione il sottosegretario si trovava in posti diversi da quelli dichiarati, spesso a Cagliari dove ha sede il consiglio regionale, in almeno un caso all’estero. La conclusione dei pm: lei era a Cagliari, dunque non c’era nessuna benzina da rimborsare. Lei si è difesa sostenendo che fossero spese fatte prima di partire per la missione o dopo il rientro. Una linea difensiva giudicata debole dal pm Cocco, che sembra orientato a procedere con la richiesta di rito immediato, che presuppone l’evidenza della prova. L’avvocato Grosso allarga le braccia e dice: “Valuteremo l'ipotesi se è meglio difendersi da sottosegretario o meno. Questa è una valutazione politica, spetta alla mia cliente. Ma ne parleremo”.
La donna che doveva guidare il nuovo corso renziano in Sardegna diventa così un imbarazzo crescente per il Pd. E per Renzi stesso, che in difesa di Barracciu si è speso senza riserve. Molto popolare in Sardegna, renziana della prima ora, dopo l’esperienza da consigliere regionale si è candidata alle Europee nel 2009, ma è entrata a Strasburgo solo un anno e mezzo fa come la prima dei non eletti al posto di Rosario Crocetta eletto governatore in Sicilia. Sei mesi fa ha conquistato alle primarie del centrosinistra il ruolo di sfidante del governatore uscente berlusconiano Ugo Cappellacci. Poche ore dopo il trionfo, mentre parla del suo futuro a Ballarò, la informano che a suo carico c’è un avviso di garanzia. È accusata di peculato e di 33 mila euro non giustificati. Lei non salta neanche sulla sedia, mezzo partito è nelle sue stesse condizioni. Ma col tempo, a ogni accertamento i magistrati ne scoprono una nuova.
RENZI SPEDISCE in Sardegna il suo emissario, Stefano Bonaccini, e lo incarica di risolvere il problema: eliminare un candidato indagato e in calo di popolarità. Il 30 dicembre, in una drammatica resa dei conti a Oristano, la fanno fuori. Mentre il Pd mette in pista Francesco Pigliaru, che batterà Cappellacci, Barracciu, che è tipa tosta, proclama la sua innocenza e punta i piedi. Il 4 gennaio va a Firenze e strappa a Luca Lotti, altro fedelissimo di Renzi, una promessa: lei fa la brava e avrà un assessorato di rilievo, magari il più ambito, la Sanità. Ma Pigliaru, appena eletto, le sbarra la strada: “Niente indagati nella mia giunta”. A quel punto nasce il governo Renzi e le viene concesso il risarcimento estremo: sottosegretario alla Cultura.
La linea del Pd resta garantista, ma fino a un certo punto. Anche perché il rumore intorno al caso Barracciu imbarazza la pattuglia di parlamentari Pd sardi indagati con lei per lo stesso reato: Silvio Lai, Siro Marrocu, Marco Meloni e Francesco Sanna, tutti chiamati a rispondere di cifre dai 30 ai 90 mila euro. L’avvocato Grosso, uno dei migliori penalisti in Italia chiamato da Torino per la gravità del caso, si dice sicuro di poter chiarire tutto nel prossimo interrogatorio. Che potrebbe però arrivare troppo tardi.

il Fatto 20.3.14
Reggio Emilia
Le epurazioni di Delrio Destituito un assessore
di Silvia Bia


Mentre il sottosegretario Graziano Delrio è a Roma al fianco di Matteo Renzi, nella Reggio Emilia che fino a un anno fa amministrava, il Pd fa piazza pulita di antirenziani. A farne le spese per primo è stato Franco Corradini, assessore alla Sicurezza destituito dal suo ruolo nei giorni scorsi per avere messo in discussione le scelte dell’ex primo cittadino. Storico capogruppo Ds nel primo mandato di Delrio alla guida della città emiliana e poi suo assessore dal 2007, Corradini è finito nel mirino durante le primarie del centrosinistra , che poi hanno decretato la vittoria del delfino del sottosegretario Luca Vecchi. L’assessore alla Sicurezza è arrivato secondo, ma il partito non gli ha perdonato alcune dichiarazioni prima delle consultazioni, tra cui la critica a Delrio sulla nomina a dirigente del Comune di un suo lontano parente, avvenuta molti anni fa. “Se diventassi sindaco, io non lo farei” aveva detto Corradini in un’intervista, proprio negli stessi giorni in cui Il Fatto Quotidiano pubblicava l’inchiesta sugli appalti affidati dall’ex sindaco alla ditta di un cugino. L’ex delegato ha pagato con la revoca del suo incarico. Per il sindaco vicario di Reggio Ugo Ferrari è venuto meno il rapporto di fiducia, ma per Corradini, che ha già presentato ricorso al Tar contro il provvedimento, “L’ordine sicuramente arriva da Roma: mi ritengono responsabile di tutte le accuse indirizzate al sottosegretario”.
A pesare sull’ex delegato sono state anche le sue posizioni contrarie a progetti nati nell’era Delrio, come il parcheggio di piazza della Vittoria, e le polemiche sul voto degli stranieri, che lo hanno visto accusato (e poi scagionato) di avere comprato le preferenze delle comunità degli immigrati.
Anche questa è una delle motivazioni annoverate nell’atto di espulsione dalla giunta, ma per Corradini il Pd a Reggio aveva già deciso da tempo: “Nessuno ha preso le mie parti dopo la revoca. Dicono che non ci sono più correnti, ma per loro faccio parte della vecchia politica da rottamare”.

il Fatto 20.3.14
Il Rottamatore diventa Riciclatore
Lancia massimo D’Alema alle UE e pensa a molti veterani per le liste delle elezioni europee
di Sandra Amurri


Rottamare ma anche no visto che molti sono ancora ben saldi sulle loro poltrone e altri in corsa per occupare il 25 maggio prossimo quelle del Parlamento europeo. Del leit motiv dell'ascesa di Matteo Renzi non vi è più traccia. I funerali si sono tenuti nel tempio di Adriano in occasione della presentazione del libro di Massimo D'Alema Non solo euro. I sorrisi, le strette di mano e le fotografie hanno come d'incanto spazzato via i giudizi al vetriolo che l'ex capo del Copasir e il premier si sono scambiati. Era l'8 novembre 2013 quando D'Alema lo definì “uno che mente, ignorante, spiritoso ma superficiale” E Renzi rispose: ”La sinistra l'hanno distrutta loro”. Nel frattempo Renzi ha conquistato il timone del Pd che continua a navigare in acque agitate e quello del governo che per sopravvivere ha bisogno anche di chi “ha distrutto la sinistra”. D'Alema da parte sua aspira a essere il candidato italiano alla presidenza della Commissione europea obiettivo che necessita del benestare di Renzi. Quanto basta per trasformare l'asprezza dei toni e delle parole nella rassicurante puntualizzazione di D'Alema: “Per chi pensa al pregresso vorrei dire che questo non è un dibattito, siamo d’accordo pressoché su tutto. Facciamo parte della stessa squadra, non del Pse ma di una visione fortemente condivisa che parte da un grande amore verso l’Europa”. Se fosse musica sarebbe una tarantella napoletana: “scurdámmoce 'o passato, simmo 'e Napule paisà!”
IL RESTO è l'usato venduto per nuovo. Come il neo segretario regionale del Pd siciliano, Fausto Raciti, nonostante i suoi 30 anni. Deputato candidato da Bersani nel listino bloccato, per otto anni segretario nazionale dei giovani del Pd. Sostenuto alle primarie per la segretaria dal renziano David Faraone, ex deputato dell'Ars, responsabile Welfare del Pd, indagato per peculato nell'inchiesta sui rimborsi. E se non bastasse per capire che la rottamazione è uno degli effetti speciali di Renzi basta scorrere le liste, che verranno ufficializzate a fine mese, delle candidature per le Europee. Si va dai veterani come Giuseppe Lumia, Sergio Cofferati, Paolo De Castro, Giuseppe Lupo, Gianni Pittella, l'ex sindaco di Firenze Leonardo Domenici, al veltroniano poi mariniano Goffredo Bettini all'ex presidente della Regione Piemonte, Mercedes Bresso, a Salvatore Caronna, agli uscenti David Sassoli, Andrea Cozzolino, Marco Zambuto, Antonello Cracolici fino agli ex ministri del governo Letta Flavio Zanonato e Cécile Kyenge e alla deputata bersaniana e sua ex portavoce illuminata sulla via di Damasco da Renzi, Alessandra Moretti. Sarà perché, come spiega il responsabile Comunicazione del Pd, Francesco Nicodemo: “Vogliamo rottamare ciò che è dannoso ma dialogando con tutti” (tradotto: mantenendo le poltrone di tutti). O perché i renziani doc sono tutti al governo, per dirla con Maria Elena Boschi la ministra che aspira a passare alla storia “per le riforme e non per le sue forme” per cambiare il Paese, felici di sacrificare la loro vita privata. Fatto sta che l'esercito dei rottamati è vivo e vegeto. Un posto a sé lo occupa il presidente della Regione Sicilia Rosario Crocetta al quale il 30 ottobre del 2012 ospite di Ballarò Renzi disse: “Caro Crocetta io voglio rottamare questa classe dirigente non per un atto anagrafico, ma perché ha fallito”.
Lui rispose: “La politica è una cosa seria bisogna favorire l'ingresso dei giovani e delle donne, ma non puoi parlare questo linguaggio di persone che hanno una storia sicuramente migliore di te...”. Commento di Renzi: “A naso ti vedo esaltato”. Crocetta: “Esaltato sei te che hai detto a me cose che non dovevi dire”.
Crocetta, che ieri ha incassato le dimissioni dell'assessore all'economia Luca Bianchi, che hanno tutta l'aria del capitano che abbandona la nave prima che affondi, a Un giorno da pecora ha detto: “Raciti è un bravo giovane. Sarebbe folle non appoggiare Renzi, lui è passato attraverso le primarie perchè voleva fare il premier ed è il nostro segretario...
Anche Enrico Letta non era stato eletto... e poi un governo era necessario”. È il Pd che di necessità fa virtù.

l’Unità 20.3.14
Mendicanti, linea dura dei sindaci Pd del Veneto
Vertice tra le amministrazioni di Padova, Venezia e Treviso
Foglio di via per chi molesta
di Salvatore Maria Righi


Sembra ieri, ma sono ormai dodici anni, da quando il sindaco sceriffo mandava le ruspe contro i marocchini che chiedevano una moschea e già allora a Treviso non tirava una grande aria ecumenica: «Cheivadavia! Iconsumael nostro gas, la nostra acqua, i porta malattie!». Noatri e i povareti, e chissà se poi le gerarchie sono ancora queste. Il punto è sempre quello, l’immigrazione. Il noi e loro, e il «fòra lori», come sintetizzava Gianfranco Gentilini, e obiettivamente è difficile dire di più con quattro lettere, «f-ò-r-a», lui che tuttora viene celebrato con profili su Facebook imperlati da parabole tipo «il giovane cammina più veloce del vecchio, ma il vecchio sa la strada». Il Veneto è ancora il motore del grande laboratorio a nord-est e in questi giorni c’è un gran fermento per il referendum online indetto fino al 21 marzo: «Vuoi tu che il Veneto diventi una Repubblica Federale indipendente e sovrana?». Un boom da 700mila click che poi sono saliti ad un milione e 300mila adesioni. Magari non finirà come azzarda qualcuno, «il Veneto come la Crimea?», ma certo l’inno di Mameli da quelle parti ha avuto momenti migliori. Anche per questo, chi lo sa, o forse per farsi un po’ locomotiva verso il futuro, i sindaci del Pd di Venezia, Treviso e Padova lanciano un’idea che covano da un po’ di tempo e che porgono al governo Renzi perché il tema è italiano, non veneto. Un progetto semplice semplice: linea dura, durissima contro gli accattoni «molesti». Controlli della polizia municipale (non osando, fogli di via ed espulsioni contro chi chiede l’elemosina con insistenza e infastidisce la gente, oltre ad ingrassare le budella di qualche boss del racket balcanico. Dietro a tutto, prima di tutto, c’è il pensiero per nulla liquido, ma anzi piuttosto solido, di dare un unico volto e un’unica identità alla Laguna, alla Marca e alla città del Santo. C’è anche il nome, “PaTreVe”, non proprio indimenticabile, per immaginare una sorta di area metropolitana gestita in modo unitario, con un’unica visione da Giorgio Orsoni, Ivo Rossi e Giovanni Manildo. Proprio quest’ultimo, primo cittadino di Treviso dove ha affossato proprio il tentativo dello sceriffo Gentilini di riprendersi il suo saloon, fa sapere che «è necessario iniziare a dialogare col ministro dell’Interno e ragionare su una forma di reato che distingua chi sfrutta l’accattonaggio da chi ne sia la vittima». Hanno creato perfino un «tavolo» per la lotta all’accattonaggio e anche Vicenza, fanno sapere, è entrata nel Coordinamento di sicurezza metropolitana. Ieri ne hanno parlato gli assessori alla Sicurezza delle tre città: Roberto Grigoletto, Sandro Simionato e Giovanbattista Di Masi, e il progetto sperimentale prevede appunto anche un coordinamento tra i capoluoghi e «iniziativa di sensibilizzazione» sul Parlamento perché se ne ispiri per una legge nazionale. Come in tutte le cose, forse, è questione di distinguere il grano dal loglio, come prova a fare Gianfranco Bettin, assessore comunale nella Serenissima: «La lotta non è contro chi ha bisogno, rispetto ai quali Venezia è città all’avanguardia sul fronte dell’accoglienza e della solidarietà, ma contro il racket che dirige un certo sistema di accattonaggio, per il quale non basta il foglio di via, che deve essere nazionale, ma la contestazione specifica dell’associazione per delinquere». Il progetto prevede l’allontamento dall’Italia, tramite la questura, e l’espulsione per 3 anni: se ritornassero in Italia prima, scatterebbe un decreto penale. I tre sindaci ripetono in coro e all’unisono che il problema appunto sono i falsi invalidi e i falsi poveracci che infestano le città sono pedine della malavita organizzata. Poi snocciolano i numeri: a Padova nel 2013 sono state fatte 619 multe per «accattonaggio molesto». Una cinquantina a carico della stessa persona, ma un dilettante, al confronto coi due cittadini romeni di etnia Rom citati dal sindaco Flavio Tosi per ricordare ai colleghi di PaTreVe che «scoprono oggi l’acqua calda». In un anno e mezzo, la municipale di Verona ha fermato e sanzionato quei due «povareti » rispettivamente 119 e 128 volte. Praticamente a giorni alterni, come le targhe.
Corriere 20.3.14
Il cambiamento dietro le parole
Non inganni la leggerezza delle parole
di Paolo Franchi


Le parole di Renzi, come quelle di gran parte della sua generazione, mancano di profondità storica. Suonano insostenibilmente leggere, schiacciate sul presente. Ma per paradosso sono assai impegnative, specie quando evocano un’idea di radicale cambiamento dello Stato.
Per Giorgio Mastrota, il re delle televendite di materassi, Matteo Renzi è un «grande venditore», figlio, come lui e come tanti altri quarantenni, «delle tv di Berlusconi degli anni Ottanta». Per Mastrota si tratta, ovviamente, di una virtù. Per Eugenio Scalfari, si capisce, no. Quella di Renzi, ha detto sin dall’inizio, è un’eloquenza sin troppo casual . Così casual da far annotare a Daniel Cohn-Bendit che quella da lui propugnata è di sicuro una rivoluzione. Di cui però non è dato sapere la natura. Di sinistra? Di destra? Chissà.
Per provarsi a capire, è meglio fare un passo indietro. Se è vero che ogni tempo della politica ha una sua retorica e un suo lessico, c’è da chiedersi quale tempo sia mai stato quello afasico da cui stiamo uscendo. Così gramo da non trovare nemmeno (con la sola eccezione, piaccia o no, di Silvio Berlusconi) le parole per raccontarsi. E da vedersi costretto a prenderle in prestito dal passato prossimo e meno prossimo. Come tutte le formule magiche, anche quelle della democrazia di massa più che per pregnanza programmatica si sono distinte, quando hanno funzionato, per forza evocativa e capacità di intercettare speranze e passioni tanto diffuse quanto vaghe. Nemmeno ai suoi albori la cosiddetta Seconda Repubblica ne escogitò di particolarmente seducenti. Ma la «rivoluzione dei sindaci» o la «religione del maggioritario», nel cui nome Silvio Berlusconi si reputava addirittura «unto» dal popolo sovrano, furono segnate dallo spirito pubblico di una stagione, e lo segnarono. Ressero un paio d’anni. Poi, più nulla: la guerra civile a bassa intensità tra berlusconismo e antiberlusconismo si è nutrita, come tutte le guerre, comprese quelle pacioccone, di un linguaggio almeno virtualmente bellico. Quando è sfumata, protagonisti e cronisti, per non trovarsi muti, hanno ripreso a nutrirsi voracemente del vocabolario antico della Prima Repubblica, come se le contese terminali della Seconda ne fossero solo una sfumata fotocopia. Così, per restare agli ultimi mesi, è stata riesumata, con tutto il suo carico di misunderstanding e di inganni, la «staffetta» a Palazzo Chigi: stavolta non tra Bettino Craxi e un democristiano, come nel 1987, ma tra Enrico Letta e Matteo Renzi. E già da un pezzo erano tornate in auge le «larghe intese», croce e delizia della politica italiana nella seconda metà dei Settanta. Persino quando Renzi ha abbandonato la prospettiva di farsi incoronare dal popolo sovrano per puntare dritto su Palazzo Chigi, il saccheggio del vocabolario politico d’antan è continuato. Ha fatto la sua ricomparsa persino l’annosa questione del «doppio incarico» di presidente del Consiglio e segretario del partito di maggioranza: sul finire degli anni Ottanta ci si era impiccato Ciriaco De Mita che, per averli voluti entrambi dal suo partito (il meno presidenzialista del creato) alla fine non ne ebbe nessuno, adesso il problema, almeno a giudizio della minoranza del Pd, si sarebbe dovuto ripresentare per Renzi. Ed è stata riproposta, quarant’anni dopo, anche la famosa teoria andreottiana dei «due forni», secondo la quale la Dc, per definizione centrale, avrebbe dovuto acquistare il suo pane ora a destra, dai liberali, ora a sinistra, dai socialisti: il Renzi alleato di Angelino Alfano al governo e di Silvio Berlusconi per le riforme non avrebbe fatto che rieditarla.
Con buona pace di noi cronisti attempati, è durata poco. Anzi, pochissimo: «La ricreazione è finita», ha esordito Renzi aprendo il suo primo Consiglio dei ministri. Forse era una citazione di Charles De Gaulle 1968 («La chienlit c’est fini ») o di Carlo De Benedetti o di Giulio Tremonti. O magari, più semplicemente, un ricordo dei tempi della scuola, come si conviene a un eterno ragazzo. In ogni caso, a giudicare da quanto è capitato nelle settimane successive, quel motto era un epitaffio per una lunga, estenuante stagione di post comunisti, post fascisti e post democristiani in cerca d’autore. E il segno dell’inizio forse di una stagione, sicuramente di una retorica politica nuove. Non è questione di tweet , di cappotti abbottonati alla bell’e meglio, di metafore calcistiche, di citazioni cinematografiche o musicali. Le parole di Renzi, come del resto quelle di gran parte della sua generazione, mancano di ogni profondità storica, così che suonano spesso insostenibilmente leggere, tutte schiacciate sul presente. Ma, per paradosso, sono estremamente impegnative, specie quando volutamente evocano un’idea di radicale cambiamento dello Stato, dei rapporti tra le classi, come si sarebbe detto una volta, e prima ancora tra le generazioni, che dovrebbe tornare a essere, nelle ambizioni, un compito, anzi, il compito della politica. Una contraddizione insanabile? Può darsi. Fin qui, venditori progettuali e post politici iper politici non se n’erano mai visti. Però c’è una prima volta per tutto.

Corriere 20.3.14
Walter Tocci
«No a minacce di crisi. Palazzo Madama deve essere eleggibile»
di Daria Gorodisky


ROMA — «Se va fatta prima la legge elettorale o la riforma del Senato? Direi che, più importante del calendario, è il clima politico: Matteo Renzi non può dire che se non si cancella il Senato lui se ne va. Un presidente del Consiglio non può minacciare la crisi di governo su un tema costituzionale; se lo avesse fatto Berlusconi avrebbe suscitato allarme». Walter Tocci, senatore del Pd e vicesindaco di Roma dal 1993 al 2001, sottolinea più volte che «in un clima come questo non si riescono a compiere riforme istituzionali». Poi aggiunge che, comunque, la connessione fra sistema di voto e modifica del bicameralismo perfetto «è più corposa di quanto non si dica».
In che senso?
«In un Senato composto da amministratori locali, e che quindi non godrebbero della libertà di mandato prevista per gli eletti dall’articolo 67 dalla Costituzione, un futuro demagogo potrebbe ottenere consenso politico in cambio di concessioni territoriali. E questo, abbinato all’Italicum che consegnerebbe il governo a chi ottiene meno del 20% dell’elettorato effettivo, con deputati nominati ancora dal leader, produrrebbe un presidenzialismo selvaggio e senza contrappesi».
Allora niente riforma?
«La legge elettorale va migliorata, a partire dai temi di parità di genere, preferenze e soglie. Il Senato, invece, dovrebbe sì trasformarsi, ma per costituire un contrappeso come Camera alta di garanzia: con la funzione di innalzare la qualità della legislazione e varare grandi leggi cornice, e con poteri di inchiesta. I suoi membri dovrebbero essere eletti, ma non con un sistema maggioritario: tanto non ci sarebbe voto di fiducia, mentre sui grandi temi il confronto deve essere il più ampio possibile».
Una proposta che si tradurrà in articolato di legge?
«Sì, è già pronto e appena depositato».
Crede che a Palazzo Madama raccoglierà consensi?
«Ci sono pareri diversi, a me non convince il Senato federale perché potrebbe dividersi tra regioni forti e deboli, mettendo a rischio l’unità nazionale. Però c’è disponibilità al confronto, al di là delle divisioni congressuali».
Già, si dice che proprio al Senato si consumerà la rivincita.
«No, nessuna rivincita. Qui si parla di Costituzione e i senatori sentono una grande responsabilità. Non ci possono essere vincoli politici o di maggioranza; e neppure di governo. Quindi Renzi lasci che il Parlamento migliori il bicameralismo e la legge elettorale e si concentri su Europa, lavoro e legalità. Su questi temi ha suscitato grandi aspettative» .

La Stampa 20.3.14
Anche Londra condanna le nostre carceri
di Vladimiro Zagrebelsky


Anni orsono la Corte europea dei diritti umani, la Corte di Strasburgo, condannò l’Italia perché il sistema delle condanne pronunciate nei processi in contumacia era incompatibile con l’equità del processo. Il codice di procedura penale italiano, in effetti, consentiva di svolgere processi senza che l’accusato fosse efficacemente avvertito del processo stesso e della data dell’udienza.
Cosicché egli non vi poteva partecipare o validamente rinunciare. Con sorprendente rapidità il governo di allora introdusse una modifica al codice con un decreto legge, nella cui premessa si leggeva che era necessario e urgente adeguare il sistema alla sentenza della Corte europea. Era una piccola modifica, sufficiente però a correggere il più vistoso difetto. La sorpresa per l’intervento del governo dipendeva dalla frequente indifferenza italiana rispetto agli obblighi assunti nei confronti delle regole europee. Mai prima di allora un decreto legge era stato emanato in circostanze simili. Perché allora il governo si determinò a farlo? Dopo la sentenza della Corte europea, Germania e Spagna avevano preso a rifiutare di estradare in Italia i condannati in contumacia di cui l’Italia chiedeva la consegna. Rifiutavano, quei paesi e gli altri che certo li avrebbero imitati, per non rendersi complici di violazioni dell’equo processo. Con la Convenzione europea dei diritti umani, tutti gli Stati europei sono tra loro vincolati a garantire i diritti fondamentali. Non si trattava allora del semplice, anche se dovuto, ossequio a una decisione giudiziaria, ma piuttosto della necessità di bloccarne le conseguenze, che iniziavano a manifestarsi nell’intero sistema europeo. Perché, pur con qualche difetto, un sistema europeo di protezione dei diritti fondamentali esiste e opera efficacemente.
Lo schema si riproduce ora per la situazione delle carceri italiane. La Corte europea ha rilevato che in Italia il sovraffollamento sottopone un gran numero di detenuti a un trattamento inumano e degradante e ha imposto all’Italia di adeguare agli standard europei il numero dei detenuti rispetto alla capienza delle carceri; i giudici degli altri Stati europei constatano che estradando condannati in Italia questi rischiano un regime di detenzione incompatibile con il divieto di trattamenti inumani e, per non rendersi compartecipi della violazione, respingono la richiesta italiana. E’ ciò che è avvenuto ora da parte di giudici inglesi, che hanno rifiutato di trasferire in Italia un condannato alla reclusione per reati di mafia. L’eventualità che ciò diventi prassi diffusa da parte di tutti i giudici europei e che quindi l’Italia non riesca più ad ottenere l’estradizione di condannati è ora più che prevedibile. Non solo, ma si è in attesa di una sentenza della Corte europea che dovrà dire se le condizioni in cui l’Italia tiene gli stranieri destinati all’espulsione siano compatibili con il divieto di trattamenti inumani. Se la sentenza fosse negativa per l’Italia, come la Corte ha già deciso per la Grecia, gli stranieri in attesa della decisione sulla loro domanda di asilo non sarebbero più trasferiti in Italia e il quadro si completerebbe. Non per il debito pubblico o per lo spread, ma per l’inumanità dei suoi luoghi di detenzione l’Italia verrebbe cacciata dalla classe. Altro che dietro la lavagna, per richiamare una figura usata dal nostro presidente del Consiglio!
Tra due mesi e mezzo scade il termine indicato dalla Corte europea perché l’Italia adegui lo stato delle sue carceri. Qualche riforma legislativa e diversi aggiustamenti nella gestione carceraria hanno ridotto il numero dei detenuti e attenuato il problema, che però resta irrisolto. Il Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa, che sorveglia l’esecuzione delle sentenze della Corte europea, ha recentemente dichiarato che le misure prese sono insufficienti. Ulteriori condanne, pesanti anche sul piano economico oltre che morale, sono dietro l’angolo. Ma governo e Parlamento sembrano pensare di aver fatto quello che era necessario. Non sarebbero necessari provvedimenti eccezionali, come l’indulto che anticiperebbe la liberazione dei detenuti che hanno scontato quasi interamente la loro pena o che sono stati condannati a pene brevi. Il messaggio che in tale senso il presidente della Repubblica ha inviato al Parlamento, ha trovato tardiva e distratta attenzione. Sono in vista le elezioni europee e prima o poi anche quelle politiche nazionali. Tanto basta per non voler irritare quell’elettorato di cui si cerca il voto. E’ un peccato. L’Italia non è solo uno dei paesi fondatori dell’Europa unita. L’Italia è anche stata il paese di Beccaria e dell’umanità delle pene.

Corriere 20.3.14
Iran, libertà per Sakineh l’adultera sfuggita al boia
di Cecilia Zecchinelli


Vi ricordate di Sakineh? Per mesi, nel 2010, era stata l’iraniana più celebre al mondo, la madre di famiglia condannata alla lapidazione per adulterio e comunque destinata alla morte per concorso nell’omicidio del marito. Ora, otto anni dopo l’arresto e quattro dall’enorme mobilitazione internazionale che aveva coinvolto società civili e governi, Sakineh Mohammadi Ashtiani è tornata libera. Lo ha annunciato martedì a Teheran il Segretario generale del Consiglio Superiore iraniano per i diritti dell’uomo, Mohammad Javad Larijani: «È stata scarcerata per la sua buona condotta e perché la nostra religione ha misericordia nei confronti delle donne», ha spiegato Larijani, consigliere della Guida Suprema e fratello del più celebre Ali, capo del Parlamento. Non è chiaro se il rilascio sia definitivo anche se è probabile. L’intricata vicenda giudiziaria della donna di Tabriz oggi 47enne, arrestata nel 2006 e più volte vicina alla lapidazione o alla forca (comprese finte esecuzioni e con vari annunci, poi smentiti, di condanna eseguita), pare terminata. Il suo nome tornerà a circolare per qualche giorno e poi sarà dimenticato.
Eppure per lei si era mobilitato davvero mezzo mondo: manifestazioni si erano tenute in decine di città, la sua gigantografia era stata appesa nelle capitali (a Roma sul Campidoglio), l’Unione europea, gli Stati Uniti, la Francia e altri governi avevano lanciato condanne e appelli a Teheran accanto a tutte le Ong umanitarie, a stuoli di intellettuali (in prima fila Bernard-Henri Lévy). Il brasiliano Lula le aveva offerto asilo politico (rifiutato da Teheran). E l’impresa non era stata solo quella di «salvare Sakineh», ormai icona indiscussa della feroce follia della Repubblica islamica, ma di capire qualcosa nell’opaco iter giudiziario della donna, tra avvocati arrestati o costretti a fuggire, il figlio-portavoce anche lui in cella, il silenzio dei media locali, le affermazioni contradittorie delle autorità. Ancora oggi non è davvero certo cosa sia successo: recentemente era circolata la voce del suicidio di Sakineh, prima ancora erano uscite «notizie» che confermavano la pena di morte. Poi l’annuncio di Larijani, seppure carente di dettagli. «Sakineh è libera».
Resta il fatto che se il mondo era insorto nel nome di una detenuta comune, sulla cui innocenza i dubbi sono più che leciti anche se certo la pena di morte non sarebbe stata accettabile, in Iran ci sono centinaia di prigionieri condannati o in attesa di giudizio, torturati o uccisi, spesso solo per reati politici, ignorati quasi del tutto da noi. Tra i tanti nomi, quello di Bahareh Hadayat, l’attivista e femminista 33enne condannata nel 2010 a dieci anni per il suo impegno, malata e non curata nel famigerato carcere di Evin. Una campagna per liberarla è stata lanciata dagli esuli politici iraniani, prima tra tutti dalla Nobel Shirin Ebadi. Nel convegno del Sant’Anna di Pisa, l’8 marzo, Ebadi e molte attiviste e studiose iraniane hanno chiesto a tutti di non dimenticarla, di aiutare Bahareh e le tante altre donne (e uomini) sepolte vive nel silenzio del mondo.


Corriere 20.3.14
Papa Francesco e quel messaggio da Pechino
Dura nota: «Il Vaticano non interferisca»
Poi l’invito a migliorare la «comprensione»
di Guido Santevecchi


PECHINO — La Cina ha il suo modo di comunicare e i suoi tempi di reazione. L’intervista del Papa al Corriere della Sera non è passata inosservata a Pechino. Pubblicata in Italia il 5 marzo, arriva ora sui quotidiani di Pechino. Ieri il Global Times , giornale in inglese associato al Quotidiano del Popolo , organo del Partito comunista, l’ha messa tra le notizie principali. Il titolo è duro: «L’Associazione cinese cattolica patriottica ammonisce il Vaticano a non interferire». La nota comincia citando Liu Yuanlong, vicepresidente dei cattolici patriottici, che dice: «La Cina preserverà sempre la sua sovranità e integrità territoriale e non permetterà mai a forze straniere di interferire con la religione. Il Vaticano dovrebbe rispettare la Cina riguardo al personale diocesano». Un chiaro riferimento alle nomine dei vescovi che hanno spesso causato scontri.
Ma subito dopo, la nota si fa molto più equilibrata: riporta la risposta del Papa al direttore Ferruccio de Bortoli che aveva chiesto: «Fra qualche anno la più grande potenza mondiale sarà la Cina con la quale il Vaticano non ha rapporti. Matteo Ricci era gesuita come lei». E Francesco: «Siamo vicini alla Cina. Io (nel marzo 2013, ndr ) ho mandato una lettera al presidente Xi Jinping quando è stato eletto, tre giorni dopo di me. E lui mi ha risposto. Dei rapporti ci sono. È un popolo grande al quale voglio bene». Francesco è il primo Papa a rivelare di aver ricevuto un messaggio da un leader cinese al quale aveva inviato una lettera, osserva il Global Times . Il giornale si è spinto fino a chiedere un commento al cardinale di Hong Kong, John Tong Hon, secondo il quale è la mancanza di comunicazione e comprensione tra le due parti che ostacola lo sviluppo delle relazioni tra Santa Sede e Pechino. Poi ha ricordato che Francesco è gesuita come Matteo Ricci, ancora venerato in Cina quattro secoli dopo la sua missione.
Abbiamo chiesto a Ren Yanli, studioso di cattolicesimo in Cina all’Accademia delle scienze sociali (think tank governativo), un giudizio su questi segnali a distanza. Lo scambio di lettere tra il Papa e Xi? «Sono dell’anno scorso e finora non si sono visti segni di continuità. La lettera del Papa era di saluto e congratulazioni per l’elezione del presidente cinese. Xi ha ricambiato, soprattutto in un segno di educazione. Ma da anni Cina e Vaticano non hanno avuto contatti di alto livello». Però è un fatto che Xi è stato il primo leader cinese a ricambiare una lettera di un Papa. «Sì, questa è una vera novità, ma ancora non possiamo dire che ci siano stati sviluppi concreti. Forse Xi è stato solo più educato, ha avuto una formazione più comprensiva, sottile e formale». Francesco è gesuita, può essere una chiave per aprire il dialogo? «Bergoglio è un gesuita come Matteo Ricci, rispetta le culture locali. Ma non tutti i gesuiti sono così. Francesco e Matteo sono diversi: Ricci era un missionario che venne in Cina, il Papa mi sembra un gesuita in origine poi trasformato in francescano e questo secondo lato è più importante in lui. Dobbiamo osservarlo».
Nella diocesi di Shanghai il 16 marzo è morto l’anziano vescovo Giuseppe Fan Zhongliang, non riconosciuto da Pechino. «Se fosse consentito di officiare la messa funebre a Taddeo Ma Daqin (costretto agli arresti domiciliari, ndr ), allora sarebbe un’apertura davvero positiva», conclude il professor Ren Yanli.

l’Unità 20.3.14
Innamorarsi è il segreto
San Francesco raccontato da Aldo Nove
In un Medioevo «pieno di stupore» lo scrittore ricostruisce la storia del poverello dal punto di vista di un ragazzino,
il nipote Piccardo. Sullo sfondo un’epoca niente affatto buia
di Aldo Nove


«INNAMORARSI È IL SEGRETO», CONTINUÒ FRANCESCO, «E QUANDO SUCCEDE NON PUOI PIÙ TORNARE INDIETRO. Se ti innamori, inizi a dimenticare».
«A dimenticare cosa?» gli chiese Piccardo.
«Bella domanda», gli rispose sorridendo Francesco. Piccardo aveva quasi l’impressione che lo zio lo stesse prendendo in giro, per il tono lieve del suo discorso. Eppure era bellissima la sua voce, e il suo incalzare dolce. Dolce e tumultuoso dentro. Dentro rimbombava. Lo facevano sentire nudo.
Ma non ne provava vergogna.
«Mi hai chiesto che cosa si dimentichi», continuò allora Francesco, «quando ci si innamora. Ti ho detto che è una bella domanda. È bella perché è sincera. Perché tutti sinceramente ce lo chiediamo. Ma ce lo dimentichiamo. Ci dimentichiamo di cosa ci dimentichiamo. Ci chiediamo un’infinità di cose. Ci costruiamo problemi, in ogni momento. Perché vogliamo sapere. Tutto. Cosa perdiamo. Cosa guadagniamo. C’è sempre una cosa che ci turba. Ma quando ti innamori, capisci che quella cosa è un’altra. L’amore che provi per lei ti trasforma. E tu la trasformi. Allora incominci a dimenticare. È questo che intendo. Inizi a dimenticare cosa fosse quella cosa prima. E cosa fossi tu, prima. Se hai paura, inizi a chiederti cosa stai dimenticando, cosa stai perdendo. Quando t’innamori, e non ne hai paura, inizi a sentire che il tuo desiderio di prima era l’ostacolo che ti separava da quello che amavi. Perché lo sentivi diverso. Diverso e lontano da te e lontano da lui. O da lei... Ma l’amore annulla le distanze, e rende irrisorie le differenze che pure restano...» Piccardo non capiva.
Francesco continuò: «Cose irrisorie e meravigliose, quelle della vita. Quando ti innamori, vuol dire che hai raggiunto il cuore di una cosa. Quel cuore è in ogni cosa lo stesso. Quel cuore è la tua casa, e la casa di tutti. Allora cadono a terra rapite, le cose, cadono e si rialzano diverse, e ne vedi il movimento, come fosse una danza, e inizi tu stesso a danzare, e quella danza siamo noi...»
«Noi...» ripeté Piccardo.
«Noi tutti», continuò Francesco, «segno di Dio, noi. Tu e questa roccia e le città, e i draghi e il signor papa, e il cielo e l’Abissinia, e il sole e Assisi e il mare quando è notte, e l’acqua di sorgente e il batticuore, e le battaglie e l’aria, le nuvole che passano e le mani, le mura delle chiese e la fenice, e gli infedeli e l’uva appena colta, e come piange un bimbo appena nato, e come muore un vecchio abbandonato, e il prete che cammina sul sagrato, e l’ora nona e la taverna chiusa, le navi che attraversano gli oceani, i Serafini e il fuoco del camino, e le parole sacre e l’ostia e il pesce, e tutto quello che arretrando cresce, e il pianto disperato del creato, e la paura di chi non è nato, e la bellezza della primavera, e l’alternarsi di mattina e sera, e il seno prosperoso di una dama, e tutto quello che uno ci ricama sopra e ci sogna e i sogni e le illusioni, queste parole, tutte a anche nessuna, come ciascuna si tramuti in altre parole e in altre cose e tutto resta, e insieme e altrove e altrove siamo noi, così impari a pregare, a diventare più forte e arrendendoti hai già vinto, perché nessuna cosa ha fine e tutto si trasforma, e tutto ha gentilezza nel suo cuore, e tutto è spaventato perché crede che debba avere fine e non ce l’ha, perché la fine è solo un’illusione, ogni fine è una cosa, è finitudine, è solamente cosa, e il tempo è un velo che si squarcia come venendo sulla terra abbandoniamo tutto il silenzio che ci precedeva, e in quel silenzio ci svegliamo sempre, e in quel silenzio noi ci addormentiamo, noi che riempiamo di castelli e sangue il vuoto che ci abbracciò e non sappiamo che quell’abbraccio è tutto ciò che abbiamo, lo vedi come un prato ha in sé già il ritmo di chi correndo l’attraverserà e come il vino e il contadino hanno un’intesa antica, che la mamma e il suo bambino conoscono da sempre, non devono capire, perché non c’è mai nulla da capire, ma solamente agire questo andare continuo che è la vita, il suo tornare dov’eravamo stati tutti, quando è incominciato il cielo e il creato si è fatto in mille per esuberanza, e mille non è stato sufficiente, e tutto si moltiplica ed è il mondo, non smette di ripetersi cambiando appena posizione e il canto del gallo, il grano e la tempesta e lo scivolare maldestro sul fango, il sapore dei dolci appena usciti dal forno e i faggi, gli altissimi faggi e i fulmini che scuotono la terra, l’inferno che evochiamo e ci spaventa, così quando si alza la tormenta, e i numeri, i più grandi e i più piccini, i numeri che ci fanno impazzire, l’accumulo che ci rende formiche, le sorelle formiche che ci guardano dall’alto, noi per loro spaventosi, e noi che guardiamo dal basso i giganti spaventati dalla loro mole, e quanto tutti siamo piccoli rispetto al sole, e quanto il sole sia piccolo rispetto a Dio, e come ogni piccolezza è solo una giravolta, che sembra essere piccola ma è molta, è esagerata e bellissima come lo è ogni vita che sul calare della sera teme perché ha paura che non lei, non lei il giorno dopo sia, come se tutti i giorni della terra valessero più di un istante solo che ha paura di morire, come se in un istante non ci fosse già scritto tutto e già raccontato bene, come se il bene a sera avesse fine, come esistesse davvero un confine e non fosse soltanto un paragone col quale misurare le distanze, l’aprirsi dei tramonti come stanze che abitano i pensieri di tutti, quando vi si ritirano a dormire, e il sonno non è altro che una veglia dimessamente docile all’inizio di un altro incominciare, un prepararsi a nuove fiamme, a nuovo vento e nuvole, che vanno e si sfilacciano e hanno forma di draghi e di elefanti e di murene e mura di conventi, e ovunque si sospingono e nessuno le interroga su come l’indomani andranno, vanno solamente tutte, e tutte o una sola non diverge dal loro movimento, che è una festa gentile, sono chiome di mille colori, sono il rosso e il viola, il bianco del latte e dei gigli, sono i figli che corrono ovunque, coprono traiettorie come le aquile e le pietre scagliate dai vulcani, cadono a terra dopo avere saggiato l’aria, dopo aver attraversato l’acqua e il fuoco, il fuoco che ci spaventa e ci dà la vita, l’acqua che ci travolge e che ci ha dato la vita, l’aria così preziosa e che ci mantiene in vita, la terra che ci accoglie quando la nostra vita è finita, quando a noi sembra finita perché non la conosciamo, ce ne raccontiamo una leggenda paurosa, una leggenda di prove antiche e dure, insopportabili per chi non ha accettato di affrontarle, soltanto per amore, perché non c’è conoscenza senza amore, e tutti i libri del mondo non valgono un unico gesto, quel libro di carne che continua a chiedere amore, come un affronto che non c’è mai stato ma urla di essere riparato e quell’urlo diventa la nostra verità apparente, è insieme il nostro tutto e il nostro niente, è un cucciolo che vuole svezzamento, è proprio un cucciolo che urla il suo sentirsi solo e ogni cosa gli è madre ma gli fa spavento, non lo sa ogni cosa di essergli madre ma lo sente, oppure è niente, niente che ci sommerge. Ma se lo guardi è niente, ma se lo ami è tutto.”

Repubblica 20.3.14
La rivista
Foucault inedito nel numero di Micromega


ROMA -«Odio il potere, odio la nozione di potere, ma questo le persone non lo capiscono ». È un Michel Foucault inedito quello presente sulle pagine del nuovo numero di MicroMega, in edicola e su iPad da oggi. Era il 1978 e il filosofo francese rilasciava un’intervista a Colin Gordon e Paul Patton -poi archiviata senza pubblicazione perché Foucault riteneva che la revisione avrebbe richiesto troppo tempo -in cui spiegava i suoi rapporti con il marxismo («Nessuna relazione, ma ritengo che le mie ricerche derivino in qualche modo dal secondo libro del Capitale») e con la fenomenologia. All’interno della rivista anche un dialogo tra Massimo Cacciari e Roberto Esposito sulla teologia politica, considerazioni di Alessandro Robecchi e Tomaso Montanari su “Renzonia”, l’Italia di Matteo Renzi, e una sezione scientifica dedicata alla connessione tra cervello umano e esperienza artistica.

Si tratta di “Considerazioni sul marxismo la fenomenologia e il potere”un'intervista di Colin Gordon e Paul Patton a Michel Foucault, risalente all'aprile del 1978, sul rapporto del filosofo francese con il marxismo, la ricezione della fenomenologia in Francia e il reale significato della critica foucaultiana dei meccanismi di potere.
Il numero contiene anche “Dialogo sulla teologia politica” di Massimo Cacciari, e altre analoghe piacevolezze...

Repubblica 20.3.14
Impero
Quell’intramontabile sogno della Grande Madre Russia
di Paolo Garimerti

Secondo il Levada Center, unanimamente considerato il più indipendente centro di sondaggi della Russia, oltre il 70 per cento dei russi approva la politica di Putin verso l’Ucraina e di conseguenza l’annessione della Crimea. Il 67 per cento è convinto che le forze «nazionaliste» o addirittura «fasciste» dell’Ucraina abbiano provocato la crisi e soltanto il 2 per cento è critico verso il presidente. La cerimonia imperiale durante la quale Vladimir Putin, seduto a un tavolo con arabeschi dorati e circondato da tre soldati in alta uniforme, ha firmato il trattato di annessione della Crimea ha toccato i cuori e le menti dei russi. «I nostri cuori non possono restare freddi. La nostra storia comune, le radici della nostra cultura e le sue origini spirituali, i nostri fondamentali valori e la stessa lingua ci uniscono per sempre », si legge in un appello di cento grandi nomi dell’arte e della cultura, tra i quali Valerij Gergiev, direttore stabile della London Symphony Orchestra. Anche i tradizionali avversari o critici di Putin, compreso Mikhail Gorbaciov, si sono uniti al coro. Dmitrij Agranovskij, un avvocato che ha difeso in tribunale decine di attivisti dei diritti umani, ha accompagnato un tweet con la foto di un blindato russo in Crimea con questo inno alla gloria: «Alzati, Grande Paese! Levati per la lotta mortale contro le forze oscure del fascismo!». Perfino Aleksej Navalnyj, il blogger oggetto di persecuzioni giudiziarie, tacitato per due mesi prima e durante le Olimpiadi con arresti domiciliari senza telefono e internet, ha finito per allinearsi ricordando in un lungo e articolato post che l’Ucraina non è un paese straniero per i russi: «Datemi pure dello sciovinista slavofilo, ma la cosa più importante per la Russia è di avere rapporti fraterni con l’Ucraina e la Bielorussia».
Nel Dna secolare dei russi c’è sempre stata la vocazione imperiale. E Vladimir Putin, che è la quintessenza di quello che là chiamano orgogliosamente «un vero uomo» (secondo un’espressione molto machista della lingua di tutti i giorni, che si attaglia perfettamente all’ex colonnello del Kgb), l’ha risvegliata e solleticata, questa voglia di Impero, che la fine dell’Urss pareva aver sopito.
La grande differenza tra l’imperialismo sovietico, che Stalin agitò con i discorsi alla radio in tempo di guerra, e che i suoi successori esercitarono in modo brutale con gli interventi «fraterni» in Ungheria e Cecoslovacchia, e l’imperialismo russo di oggi è che questo non è sostenuto da (o giustificato con) un’ideologia. Putin è un realista pragmatico, qualcuno dei cantori che fioriscono attorno al Cremlino, come in tutte le corti imperiali, lo accosta addirittura a Henry Kissinger. Putin non invoca la vittoria del comunismo, o del «socialismo realizzato» come diceva Suslov, l’ideologo di Breznev. Bensì fa appello alle «radici », ai «valori comuni della nostra storia», alla «Grande Madre Russia», piroettando tra il comunismo ateo (che aveva appreso alla scuola del Kgb) e il patriottismo religioso.
Se c’è un modello imperiale al quale ispirarsi per Putin questo è impersonato da Caterina II, che i russi ricordano come Ekaterina Velikaja (Caterina la Grande), la prima ad annettere la Crimea nel1784 sottraendola all’Impero ottomano. E forse proprio a lei pensava Putin quando ispezionava gli impianti olimpici di Sochi, belli fuori e malconci dentro. Come erano i «villaggi Potemkin», che l’astuto consigliere della zarina preparava per le sue visite con facciate di cartone che nascondevano le brutture della realtà.
La Crimea, d’altronde, è un paradigma della vocazione imperiale della Russia. È stata la causa di due guerre (quella russo-ottomana dal 1787 al 1792, dopo l’annessione russa di tre anni prima e quella del 1854-55 con la quale inglesi, francesi e Regno di Sardegna, alleati con i turchi, cercarono di fermare l’espansionismo russo verso Costantinopoli). È stata l’ultima roccaforte dell’Armata bianca anti-bolscevica. È stata conquistata dai tedeschi, dopo l’eroica resistenza di Sebastopoli. Liberata dai russi nel 1944, declassata da Stalin, che l’aveva ripulita etnicamente dei tatari, da regione autonoma a semplice Oblast (provincia). E poi regalata dall’ucraino Krusciov con motivazioni piuttosto pretestuose (secondo alcuni perché era semplicemente ubriaco) all’Ucraina, quando però tutti si dicevano «fratelli» sotto l’unica bandiera rossa dell’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche. Infine lasciata all’Ucraina da Boris Eltsin quando morì l’Urss e la Russia era economicamente troppo affranta e politicamente troppo debole per avanzare rivendicazioni territoriali.
Ed è proprio da lì, dalla rivendicazioni di tutto ciò che è russo (o comunque slavo) per storia, lingua e tradizioni, che è partito Putin per soddisfare le brame imperiali del «vero uomo russo»: che siano l’Abkhazia e l’Ossezia (per le quali ha fatto una guerra alla Georgia), la Crimea o perfino la piccola repubblica di Trans Dnestr per finire, come scrive lo stesso Navalnyj, con l’Ucraina e la Bielorussia. Quando Putin disse che la fine dell’Unione Sovietica era «la più grande tragedia della Storia» non pensava al colosso comunista, ma a un «impero euroasiatico costruito sui fondamentali principi del nemico comune» (l’atlantismo, i valori liberali e democratici, il dominio geopolitico degli Stati Uniti), come scrisse in un libro del 1997 Aleksandr Dugin, oggi assai influente, insieme a un altro super-falco, Aleksandr Prokhanov, nel cerchio sempre più ristretto dei consiglieri di Putin.
Nessuno aveva capito il disegno di Putin in Occidente e ancor meno negli Stati Uniti, dove la sovietologia è stata dismessa dalla Casa Bianca, dal Dipartimento di Stato e perfino dalle università come una scienza obsoleta e inutile e tutti gli studi e le analisi dell’intelligence si sono concentrati sul Medio Oriente, la Cina e Al Qaeda. L’unico che aveva avuto l’intuizione che la vocazione imperiale russa potesse prima o poi risorgere dalle ceneri dell’Urss era stato Bill Clinton quando aveva detto al suo sovietologo Strobe Talbott, che si lamentava dell’erraticità del comportamento di Eltsin, bevitore, fumatore, donnaiolo: «Meglio avere a che fare con un Eltsin ubriaco che con un suo successore sobrio». Cinque anni dopo al Cremlino arrivò Putin. Sobrio, glaciale, marziale. E imperiale.

Repubblica 20.3.14
Che cosa possono fare l’Occidente e l’Europa di fronte al revanscismo del Cremlino
È incominciata con la Crimea ma l’obbiettivo finale è Kiev
di Timothy Garton Ash (Traduzione di Emilia Benghi)


 
Badate, qui è in ballo l’Ucraina intera, non solo la Crimea. Vladimir Putin lo sa bene. Gli ucraini lo sanno bene. E noi non dobbiamo dimenticarlo. Non c’è nulla che noi o il governo locale possiamo fare per ristabilire il controllo ucraino sulla Crimea. La battaglia decisiva ora è per l’Ucraina orientale. Se l’Ucraina intera parteciperà il 25 maggio ad elezioni pacifiche, libere e regolari, potrà sopravvivere come un unico paese indipendente (meno la Crimea). Tornerà anche su un chiaro sentiero democratico e costituzionale. Dovrebbe essere questa la priorità che l’Ue e l’Occidente dovrebbero porsi nei prossimi due mesi, in ogni loro azione.
Solo un ingenuo ai limiti del criminale o un simpatizzante comunista incallito potrebbe sostenere che i gruppi filorussi oggi all’opera per creare caos, disorientamento e violenza in città come Donetsk e Kharkiv non siano attivamente sostenuti da Mosca. Martedì ilNew York Timesha pubblicato una testimonianza diretta di una di queste manifestazioni pilotate a Kharkiv. Sul piedistallo di una gigantesca statua di Lenin un enorme striscione recitava «La nostra patria: Urss!». Come sottolineavano i giornalisti era tutto organizzato a beneficio della televisione russa. Qualunque cosa decida poi di fare Putin, la narrazione per i media è già bella e pronta, sia nel caso di un intervento e inasprimento delle ostilità sia nel caso in cui il presidente russo, come senza dubbio preferirebbe, ricatti l’intero paese costringendolo a ritornare nella sfera d’influenza russa.
Sarebbe altrettanto ingenuo però fingere che molti in Ucraina orientale non nutrano reali timori. Cominciamo con l’abbandonare le etichette “di etnia ucraina” e “di etnia russa”. Non significano quasi nulla. La realtà è un miscuglio fluido e complicato di identità nazionali, linguistiche, civiche e politiche. Ci sono individui che si identificano come russi.
Altri vivono prevalentemente in russo ma si sentono ucraini. Ci sono innumerevoli famiglie di origine mista, con genitori e nonni che hanno vagato per l’Unione Sovietica. La maggior parte di loro preferirebbe non dover scegliere. In un sondaggio condotto nella prima metà di febbraio solo il 15 per cento degli intervistati nella regione di Kharkiv e il 33 di quelli dei dintorni di Donetsk auspicavano che l’Ucraina si unisse alla Russia.
Nello stesso sondaggio il dato riferito alla Crimea era il 41. Mettiamoci poi un mese di radicalizzazione in ambito politico e la presa di controllo da parte russa con l’eliminazione dei programmi in lingua ucraina dai canali tv. Aggiungiamo i continui servizi sui media di lingua russa sul «colpo di stato fascista» a Kiev, esacerbati da certe frasi e gesti folli dei rivoluzionari vittoriosi nella capitale. Togliamo i tatari di Crimea e gli ucraini residenti in Crimea, che in massima parte boicottano il referendum. Condiamo con una manciata abbondante di brogli elettorali. In men che non si dica il 41 per cento diventa 97.
Non è solo la “tecnologia politica” russa che cambia le cifre e le alleanze. In momenti così traumatici sono le identità che cambiano e si cristallizzano immediatamente come un composto chimico instabile a cui si aggiunge una goccia di catalizzatore. Ieri eri uno jugoslavo, oggi un serbo o un croato imbestialito.
Quindi qualunque azione in Ucraina e per l’Ucraina venga compiuta nelle prossime settimane e mesi deve necessariamente essere calcolata per evitare che il composto di identità cambi stato. Poco prima della straordinaria invettiva imperiale del presidente Putin al Cremlino un canale televisivo ucraino ha trasmesso un altro discorso. Parlando in russo, il primo ministro del governo ucraino ad interim, Arseniy Yatseniuk, ha detto che «al fine di preservare l’unità e la sovranità dell’Ucraina» il governo di Kiev è pronto a concedere «la più vasta gamma di poteri» alle regioni prevalentemente russofone dell’est. Le municipalità avrebbero il diritto di gestire proprie forze di polizia e facoltà decisionale nell’ambito della scuola e della cultura.
Era proprio la cosa da fare. Ora il premier e i suoi colleghi dovrebbero recarsi in quei luoghi e ripeterlo senza posa – in russo. Dovrebbero sostenere l’uso del russo come seconda lingua ufficiale in queste zone. Dovrebbero attivamente auspicare la presenza di un candidato filo-russo alle elezioni presidenziali. E dovrebbero fare il possibile per garantire elezioni libere e regolari, cui dare copertura mediatica diversificata in lingua russa e in lingua ucraina, come non è stato per il voto in Crimea.
L’Occidente in generale e l’Europa in particolare possono sostenere questa evoluzione in molti modi. L’Ocse, la Ue ed altre organizzazioni internazionali dovrebbero subissare l’Ucraina di osservatori elettorali. I governi occidentali devono far sì che le autorità ucraine abbiano immediatamente il denaro per pagare iconti. I partiti politici e le Ong possono inviare consulenti. L’Occidente può anche alzare la posta in gioco, rendendo più accattivante sotto il profilo economico a medio e lungo termine l’offerta di rapporti con la Ue. Può minacciare Mosca di sanzioni ben più aspre di quelle attualmente imposte, non solo se Putin fa entrare in Ucraina orientale le sue forze con o senza etichetta, ma se continua a tentare di destabilizzare la zona per procura.
È arrivato il momento di parlare fuori dai denti agli oligarchi russi come Rinat Akhmetov, che in Ucraina orientale conta quanto un’istituzione statale. Senza clamore ma con decisione bisogna mostrar loro carota e bastone: un futuro roseo per i vostri affari nell’economia mondiale se contribuite alla sopravvivenza dell’Ucraina come stato indipendente con un governo autonomo; in caso contrario sarete strangolati finanziariamente e andrete incontro ad una serie infinita di processi. (Uno degli oligarchi dell’est, Dmitro Firtash, è già stato arrestato in Austria sulla base di una richiesta di estradizione da parte dell’Fbi. Roba che riguarda un progetto di investimento datato 2006, dicono; niente a che fare con la politica di oggi, si capisce). Se lo sport olimpico di Putin è la lotta estrema noi non possiamo di certo limitarci allo sport del badminton.
Non voglio dire che quanto avvenuto in Crimea non conti. Nel suo discorso al Cremlino, Putin ha messo a segno qualche punto accusando l’America di unilateralismo e l’Occidente di far figli e figliastri, ma ciò che ha fatto mette a rischio le fondamenta dell’ordine internazionale. Ha ringraziato la Cina di averlo appoggiato ma Pechino vuole la secessione dei tibetani attraverso un referendum? Ha ricordato come l’Unione Sovietica avesse accettato l’unificazione tedesca e ha chiesto ai tedeschi di sostenere l’unificazione del “mondo russo” che, a quanto pare, comprende tutti i russofoni. Con una retorica che riecheggia più il 1914 che il 2014 la Russia di Putin ormai è una potenza revanscista a tutti gli effetti.
In assenza del consenso di tutte le parti dello stato esistente (non vale il paragone con la Scozia), senza il dovuto processo costituzionale e senza un voto libero, l’integrità dell’Ucraina, garantita vent’anni fa dalla Russia dagli Usa e dalla Gran Bretagna è stata distrutta. In pratica, sul territorio, non vi si può porre rimedio. Resta da salvare, però, ed è possibile farlo, l’integrità politica del resto dell’Ucraina.


La Stampa 20.3.14
Civiltà al collasso così fan tutte
Dai Maya a noi. Così crollano le civiltà
Uno studio della Nasa: l’Occidente è destinato a crollare come Roma antica e gli altri grandi imperi del passato per lo squilibrio nella distribuzione delle ricchezze
di Vittorio Sabadin


Tutte le grandi civiltà del passato credevano di durare in eterno e hanno invece subito prima o poi un collasso che le ha distrutte. Gli studiosi della materia cominciano a pensare che il susseguirsi delle civiltà sia ciclico e abbia caratteristiche comuni che si ripetono nella storia: al massimo fulgore, segue inevitabilmente un declino che non viene subito compreso ed è affrontato quando è ormai troppo tardi, spesso con mezzi sbagliati.
Uno studio finanziato dal Goddard Space Flight Center della Nasa è ora arrivato alla conclusione che anche la nostra civiltà industriale presenta sintomi di degrado molto gravi ed è prossima a una fine che, senza interventi adeguati, arriverà molto presto, nel giro di qualche decade. È strano che un centro di volo spaziale si occupi delle banali cose che accadono sulla Terra, ma lo studio è stato condotto da un insigne matematico, Safa Motesharrei, e da ricercatori di scienze naturali nell’ambito di una nuova disciplina chiamata Handy (Human and Nature Dynamics), che mescola eventi sociali e naturali per trarne presagi sul futuro.
Motesharrei e i suoi collaboratori hanno messo in relazione la situazione attuale del pianeta con quelle dell’impero romano, della civiltà maya, dei regni della Mesopotamia, delle dinastie Han in Cina, dei Maurya e dei Gupta in India. Per secoli, i loro sovrani hanno creduto di poter dominare il mondo che conoscevano, ma poi è accaduto qualcosa del quale non si sono accorti o che hanno sottovalutato, un lento cambiamento degli equilibri che sembrava ininfluente o sopportabile, e che invece ha portato al disastro.
I fattori comuni tra le passate civiltà e la nostra, secondo la Nasa, sono in tutto cinque e bisogna prestare molta attenzione alle loro dinamiche. Sono la popolazione, il clima, l’acqua, l’agricoltura e l’energia. Fino a che stanno in equilibrio, la civiltà prospera. Quando l’equilibrio si spezza senza essere rapidamente ripristinato, comincia il decadimento. Il collasso avviene se si verificano due condizioni sociali precise, purtroppo già fortemente presenti nella nostra civiltà: l’impoverimento delle risorse disponibili e la stratificazione della società tra un gruppo formato dalle élite e un altro dalla massa di gente comune.
Quando si verifica un impoverimento delle risorse disponibili, la tendenza nelle civiltà degli ultimi 5000 anni è stata quella di interrompere la ridistribuzione del surplus alla società. Con una analisi molto vicina al pensiero marxista, il Goddard Space Center sostiene che, al tempo dei Maya come oggi, il controllo esercitato dalle élite fa in modo che la massa che produce la ricchezza ne riceva indietro solo una piccola parte, a livello di sussistenza o poco sopra. Questo porta al collasso dello strato sociale più debole, al quale però segue inevitabilmente anche il decadimento di quello più forte.
Di fronte a questi eventi, le caste hanno in passato sempre reagito continuando a fare «business as usual», ignorando gli allarmi e procedendo verso la fine senza agire in modo adeguato. Una situazione molto simile a quella attuale della nostra civiltà occidentale, anche se molti scienziati sono convinti che lo sviluppo della tecnologia ci salverà dalla preannunciata carenza di risorse energetiche, di acqua e di cibo per tutti. Lo studio della Nasa non è però ottimista al riguardo: la tecnologia, afferma, migliora la capacità dell’uomo di trovare risorse, ma ne aumenta anche il consumo pro capite. Gli aumenti di produttività nell’agricoltura e nell’industria hanno generato contemporaneamente un incremento dell’utilizzo di materie prime, invece di diminuirlo.
Secondo Safa Motesharrei e il suo gruppo di studiosi la nostra civiltà ha ancora la possibilità di salvarsi, ma deve agire in fretta in tre direzioni: deve ridurre le diseguaglianze economiche, distribuire meglio le risorse usandone meno e contenere il numero di abitanti del pianeta, se possibile riducendolo. Ma nessuno si fa illusioni che un simile progetto possa davvero essere attuato su scala mondiale.
Di ridurre gli abitanti della Terra proprio non se ne parla, al massimo si può cercare di contenere le nascite in India e in Africa, visto che l’Europa già lo fa. Per risparmiare risorse, bisognerebbe cominciare a modificare in peggio il tenore di vita nel mondo occidentale, cosa che sta in parte avvenendo. Poi sarebbe necessario convincere i cinesi e gli indiani che, ora che è arrivato il loro momento di acquistare automobile, lavatrice e frigorifero, devono rinunciarvi per salvare la civiltà industriale alla quale sono finalmente approdati. Per eliminare le disuguaglianze, bisognerebbe infine convincere la minoranza che detiene la ricchezza a distribuirla maggiormente alla maggioranza di chi ha sempre meno denaro. Con le buone maniere, non ci è mai riuscito nessuno.
Tutte le grandi civiltà del passato credevano di durare in eterno e hanno invece subito prima o poi un collasso che le ha distrutte. Gli studiosi della materia cominciano a pensare che il susseguirsi delle civiltà sia ciclico e abbia caratteristiche comuni che si ripetono nella storia: al massimo fulgore, segue inevitabilmente un declino che non viene subito compreso ed è affrontato quando è ormai troppo tardi, spesso con mezzi sbagliati.
Uno studio finanziato dal Goddard Space Flight Center della Nasa è ora arrivato alla conclusione che anche la nostra civiltà industriale presenta sintomi di degrado molto gravi ed è prossima a una fine che, senza interventi adeguati, arriverà molto presto, nel giro di qualche decade. È strano che un centro di volo spaziale si occupi delle banali cose che accadono sulla Terra, ma lo studio è stato condotto da un insigne matematico, Safa Motesharrei, e da ricercatori di scienze naturali nell’ambito di una nuova disciplina chiamata Handy (Human and Nature Dynamics), che mescola eventi sociali e naturali per trarne presagi sul futuro.
Motesharrei e i suoi collaboratori hanno messo in relazione la situazione attuale del pianeta con quelle dell’impero romano, della civiltà maya, dei regni della Mesopotamia, delle dinastie Han in Cina, dei Maurya e dei Gupta in India. Per secoli, i loro sovrani hanno creduto di poter dominare il mondo che conoscevano, ma poi è accaduto qualcosa del quale non si sono accorti o che hanno sottovalutato, un lento cambiamento degli equilibri che sembrava ininfluente o sopportabile, e che invece ha portato al disastro.
I fattori comuni tra le passate civiltà e la nostra, secondo la Nasa, sono in tutto cinque e bisogna prestare molta attenzione alle loro dinamiche. Sono la popolazione, il clima, l’acqua, l’agricoltura e l’energia. Fino a che stanno in equilibrio, la civiltà prospera. Quando l’equilibrio si spezza senza essere rapidamente ripristinato, comincia il decadimento. Il collasso avviene se si verificano due condizioni sociali precise, purtroppo già fortemente presenti nella nostra civiltà: l’impoverimento delle risorse disponibili e la stratificazione della società tra un gruppo formato dalle élite e un altro dalla massa di gente comune.
Quando si verifica un impoverimento delle risorse disponibili, la tendenza nelle civiltà degli ultimi 5000 anni è stata quella di interrompere la ridistribuzione del surplus alla società. Con una analisi molto vicina al pensiero marxista, il Goddard Space Center sostiene che, al tempo dei Maya come oggi, il controllo esercitato dalle élite fa in modo che la massa che produce la ricchezza ne riceva indietro solo una piccola parte, a livello di sussistenza o poco sopra. Questo porta al collasso dello strato sociale più debole, al quale però segue inevitabilmente anche il decadimento di quello più forte.
Di fronte a questi eventi, le caste hanno in passato sempre reagito continuando a fare «business as usual», ignorando gli allarmi e procedendo verso la fine senza agire in modo adeguato. Una situazione molto simile a quella attuale della nostra civiltà occidentale, anche se molti scienziati sono convinti che lo sviluppo della tecnologia ci salverà dalla preannunciata carenza di risorse energetiche, di acqua e di cibo per tutti. Lo studio della Nasa non è però ottimista al riguardo: la tecnologia, afferma, migliora la capacità dell’uomo di trovare risorse, ma ne aumenta anche il consumo pro capite. Gli aumenti di produttività nell’agricoltura e nell’industria hanno generato contemporaneamente un incremento dell’utilizzo di materie prime, invece di diminuirlo.
Secondo Safa Motesharrei e il suo gruppo di studiosi la nostra civiltà ha ancora la possibilità di salvarsi, ma deve agire in fretta in tre direzioni: deve ridurre le diseguaglianze economiche, distribuire meglio le risorse usandone meno e contenere il numero di abitanti del pianeta, se possibile riducendolo. Ma nessuno si fa illusioni che un simile progetto possa davvero essere attuato su scala mondiale.
Di ridurre gli abitanti della Terra proprio non se ne parla, al massimo si può cercare di contenere le nascite in India e in Africa, visto che l’Europa già lo fa. Per risparmiare risorse, bisognerebbe cominciare a modificare in peggio il tenore di vita nel mondo occidentale, cosa che sta in parte avvenendo. Poi sarebbe necessario convincere i cinesi e gli indiani che, ora che è arrivato il loro momento di acquistare automobile, lavatrice e frigorifero, devono rinunciarvi per salvare la civiltà industriale alla quale sono finalmente approdati. Per eliminare le disuguaglianze, bisognerebbe infine convincere la minoranza che detiene la ricchezza a distribuirla maggiormente alla maggioranza di chi ha sempre meno denaro. Con le buone maniere, non ci è mai riuscito nessuno.

La Stampa 20.3.14
“Ma la via d’uscita c’è: puntare sul capitale umano”
di Paolo Mastrolilli


«È sempre la stessa storia: la redistribuzione è la panacea di tutti i mali. Non è così, però, e l’esperienza lo dimostra. L’impero romano, come quello dei Gupta, si sarebbe salvato se avesse puntato sul capitale umano dei propri emarginati, istruendoli e consentendo loro di salire sulla scala sociale».
Il professore della Columbia University Jagdish Bhagwati è al crocevia dei temi toccati dallo studio Nasa sul declino della civiltà moderna. Nato in India, educato in Gran Bretagna e negli Usa, è membro del Council on Foreign Relations e si è sempre occupato dell’intreccio tra sviluppo, commerci e questioni sociali.
Perché lo studio della Nasa non la convince?
«Parla di ambiente, popolazione, clima, risorse, ma quello che intende dire è soprattutto una cosa: lo squilibrio tra ricchi e poveri sta condannando la nostra società al crollo. La diagnosi può anche essere accurata, ma la terapia è come al solito sbagliata. Non è che se mettiamo tutti i ricchi su una nave e l’affondiamo, il giorno dopo i poveri stanno meglio. E il problema non si risolve neppure togliendo tutti i soldi ai ricchi, per ridistribuirli ai poveri, perché comunque non basterebbero».
Lei quale soluzione suggerisce?
«Andiamo alle radici storiche della questione. Tutti i grandi imperi, a partire da quello romano, hanno commesso l’errore di escludere le classi più basse, pensando che le cose sarebbero sempre rimaste uguali. Anche noi lo stiamo ripetendo ora, però la soluzione non è ridistribuire, ma includere. Come? Puntare sul capitale umano. Dobbiamo investire nell’istruzione dei poveri, cosa che non fece nessuno dei grandi imperi falliti, per due ragioni: primo, per consentire a loro di trovare lavori più soddisfacenti, salire nella scala sociale e superare il risentimento; secondo, perché il miglioramento e l’allargamento dell’educazione consentirà a tutta l’umanità di trovare soluzioni più efficaci e sostenibili per la crescita, che resta l’unica strada percorribile per far sopravvivere e prosperare la nostra civiltà».
È solo una questione economica?
«No. È sociale, e prima di tutto viene il capitale umano. Se lo metteremo a frutto, potenziando istruzione e tecnologia, troveremo la soluzione non solo per continuare a crescere, ma anche per farlo rispettando l’ambiente e le risorse naturali di cui abbiamo bisogno».

La Stampa 20.3.14
Donald Sassoon
Questo Marx si leva macigni dalle scarpe
di Massimiliano Panarari


Gli piace, tutto sommato, Clinton, mentre liquida Blair sprezzantemente. E il primo gli garba abbastanza per il celebre motto (che valeva un manifesto): «È l’economia, bellezza!». Come dire, la struttura predomina, e tutto il resto è sovrastruttura (e segue, al pari dell’intendenza).
Un’idea molto familiare, visto che stiamo parlando del grande vecchio del comunismo redivivo. Fatto risorgere per l’occasione dallo storico Donald Sassoon (che fu allievo di Eric Hobsbawm) nella sua Intervista immaginaria con Karl Marx, uscita nel 2003 sulla rivista progressista britannica Prospect, e ora tradotta per Castelvecchi. Un divertissement brillante e godibile, nonché, letteralmente, un’intervista «impossibile», dal momento che questo genere giornalistico venne codificato negli Usa negli Anni Sessanta del XIX secolo, e l’autore del Capitale non ebbe mai la ventura di incocciarvi. Un risarcimento, in un certo senso, nel quale assume (anche) le sembianze di un anziano brontolone che si leva parecchi macigni da quelle scarpe che diversi suoi sedicenti apostoli gli hanno reso poco confortevoli.
Intervista immaginaria sì, ma, per quanto concerne i giudizi sui protagonisti della cultura precedenti e coevi, basata sulle opinioni reali che espresse nei suoi scritti. E, dunque, durissimo contro i vittoriani come l’evoluzionista Herbert Spencer e lo stesso John Stuart Mill (sebbene con un moto di simpatia in più), come pure con il padre dell’utilitarismo Jeremy Bentham. E, invece, fan dichiarato dei «borghesi» Adam Smith e David Ricardo, come della capacità trasformativa e del carattere rivoluzionario della loro classe sociale. È l’economista-filosofo che ha solcato i tempi per ritrovarsi tra le pochissime voci critiche riscoperte in epoca di neoliberismo e globalizzazione (e non soltanto dagli indignati, ma anche dalla Chiesa cattolica e persino dai giornali delle élite finanziarie). Un Marx che parla quasi per sound bite e si compiace dei quattro milioni di risultati che appaiono «googlando» il suo nome e cognome. Ma che rimane, graniticamente, un campione del Moderno sbalzato in questa nostra età postmoderna.

Corriere 20.3.14
Il leader prima di tutto, nuova democrazia
Da Berlusconi a Obama fino a Renzi: l’immagine personale ormai oscura il partito
di Danilo Taino


Una confessione: nel 2014 si può ancora provare gioia a leggere un libro di oltre 300 impegnative pagine sulla democrazia e sui suoi problemi, che sono molti. E a parlarne poi con chi l’ha scritto. Si può essere felici — oggi, epoca di velocità digitale e di insofferenza per il profondo — a scoprire che da qualche parte la fiamma della ricerca delle cose di base rimane accesa. Soprattutto, accesa non in un angolo marginale e riparato dai venti, ma al cuore di una delle questioni del momento, scossa dalle vicende del mondo, sotto la pressione di grandi cambiamenti. Il libro, in uscita il 27 marzo, è Democrazia sfigurata. Il popolo fra opinione e verità ; l’ha scritto Nadia Urbinati, docente di Teoria politica alla Columbia University di New York, e lo pubblica Egea - Università Bocconi Editore: negli Stati Uniti è in libreria con il titolo Democracy Disfigured (Harvard University Press).
La professoressa Urbinati dice di essere stata motivata a scriverlo «da una ragione empirica reale»: lo stile e il contenuto della politica italiana nell’epoca di Berlusconi. Questione che in America non è solo curiosità per la persona, ma interesse per l’evoluzione dell’idea e della pratica della democrazia. Da lì, ha costruito un lavoro che per molti versi si può definire globale: facendo perno sull’idea di democrazia come diarchia dei poteri (delle regole e dell’opinione), analizza lo stato della democrazia ovunque essa si declini.
Prendiamo Barack Obama. Urbinati sostiene che il presidente americano sia l’esempio meglio riuscito della tendenza plebiscitaria che sta dando forma ai sistemi democratici. «Plebiscito dell’audience», lo chiama: il leader carismatico che parla direttamente al popolo bypassando il rapporto con le istituzioni e con l’elezione rappresentativa, gestita non dai partiti, ma dai «tecnici dell’audience», coloro che sanno smontare la complessità dell’elettorato e con i numeri e i sondaggi capiscono che cosa vuole il popolo o come istigarlo a volere.
«Obama è straordinario in questo, più innovativo di Berlusconi — dice Urbinati —, il quale aveva i mezzi e li ha usati. Obama ha invece inventato un metodo. Soprattutto nella prima campagna elettorale, ha messo da parte il partito democratico e ha formato un partito suo, obamiano». In rapporto diretto con il popolo, o con quella parte di popolo che i tecnici dell’audience hanno individuato e messo assieme sulla base di contenuti appunto obamiani. «Più che populismo, questa è una forma plebiscitaria di democrazia — dice la professoressa —. Forse Renzi potrebbe fare, o sta facendo, qualcosa del genere: un partito suo, che va al di là del Pd e attinge al pubblico largo». Le primarie, in fondo, conducono a questo, al leader che viene prima di tutto, quasi indipendente dal programma politico, impegnato piuttosto su questioni generali capaci di mettere assieme molti pezzi di elettorato, dovunque siano. «A differenza delle fasi più populistiche che abbiamo avuto in passato, dove c’era una presenza mobilitata di ideologia e di popolo, nella fase plebiscitaria il popolo non partecipa, guarda: è occhio, assiste allo spettacolo».
È questo plebiscito dell’audience la forma di democrazia che ha più strada davanti, che probabilmente ha più futuro, secondo la professoressa. La quale, nel libro, analizza a fondo anche altre due caratteristiche che si riscontrano oggi nei Paesi democratici. Una è la tendenza «epistemica», in sostanza la depoliticizzazione della democrazia in nome di una conoscenza più o meno scientifica che dovrebbe portare alla scelta giusta: il governo dei tecnici, insomma, fenomeno provato non solo dall’Italia. Anche questo uno «sfigurare» la democrazia delle procedure. La richiesta di speditezza nelle decisioni, di velocità, anche sotto la pressione dei mercati, fa apparire come «lacci e lacciuoli» alcune delle forme caratteristiche della deliberazione collettiva, dice Urbinati, per cui la procedura, che dovrebbe servire per gestire il conflitto, viene invece vista come un intralcio: in nome del poco tempo o del sapere al potere, importa meno come si prende una decisione e più il risultato. «È il passaggio dal metodo proceduralista puro a quello conseguenzalista — dice Urbinati —. Problema non nuovo, quello della velocità che non deve andare a violare la deliberazione collettiva, se lo poneva già Condorcet nel 1792. Il fatto è che la democrazia è gestione della temporalità, è “come si fanno le cose insieme”, dove la procedura è più determinante del fatto: permette di stare insieme, pur con obiettivi diversi, e prendere decisioni che sempre si possono cambiare; un valore al quale non possiamo rinunciare».
In questa cornice, la professoressa Urbinati mette anche in dubbio l’idea di abolire il bicameralismo, cioè di cancellare il Senato italiano, sia che lo si faccia per accorciare i tempi delle decisioni, ancora di più se lo si fa per risparmiare denaro. «Dobbiamo sapere che il potere, soprattutto se accumulato, è pericoloso», dice. E il bicameralismo ha proprio il senso di mettere un limite al potere attraverso la lentezza, opposta all’emergenza frettolosa, di fare prevalere l’opinione rispetto a un presunto fine razionale. È grazie a passaggi del genere che viene da essere felici, con in mano questo libro. «La democrazia è opera d’arte, ha una sua estetica», dice la professoressa.
L’altra tendenza è quella populista. La quale «fa coincidere l’opinione di una parte del popolo con la volontà dello Stato», scrive Urbinati. Mentre il potere «epistemico» tende ad annullare l’«opinione» nella verità, quello populista identifica la «volontà» di molti con quella del tutto: ma «volontà» e «opinione» sono i due poli della struttura diarchica che la democrazia rappresentativa tiene distinti, benché in comunicazione permanente. Annullare la distinzione equivale a sfigurare la regola democratica. La tendenza plebiscitaria (obamiano-renziana, la terza delle tre deformazioni esaminate) accetta invece la struttura diarchica, ma separa i pochi (che «fanno» la politica) dai molti (che la «guardano») e inoltre esalta una delle tre funzioni dell’«opinione», quella estetica (la visibilità del leader e la passività di chi guarda lo spettacolo) a scapito di quelle cognitiva e politica. Anch’essa, dunque, è sfigurante.
Una democrazia percorsa da queste trasformazioni deve poi confrontarsi con la fase internazionale. Alla sua «solitudine planetaria» — come la chiama Urbinati — determinata dalla caduta del comunismo è succeduto il confronto con Paesi autoritari, «con sistemi meno cacofonici», che ne contestano legittimità e superiorità: la Russia e la Cina, per fare i due casi del momento. «È di nuovo Sparta contro Atene». Il che rende le sfide che la democrazia ha di fronte ancora più interessanti. A patto che riusciamo a vedere quello che succede davvero, che non ci fermiamo a ciò che tutti danno per scontato. A patto che, come dice la professoressa della Columbia, riusciamo ad «andare sotto la pelle».

Repubblica 20.3.14
Roma. Un convegno su città e archeologia


ROMA - «Archeologia e città. Dal Progetto Fori all’Appia Antica» è il titolo del convegno organizzato dall’Associazione Bianchi Bandinelli domani alle 14,30 al Teatro dei Dioscuri (via Piacenza 1). Si discute di come riproporre l’idea, maturata negli anni Settanta, di smantellare la via dei Fori imperiali e di realizzare un grande parco archeologico da piazza Venezia fino all’Appia Antica. Introduce Adriano La Regina, a lungo soprintendente a Roma e fra i promotori di quel progetto. Intervengono Rita Paris, Anna Maria Bianchi e Francesco Erbani. L’assessore Giovanni Caudo illustra i programmi dell’amministrazione Marino. Conclude Vezio De Lucia, presidente della Bianchi Bandinelli.