venerdì 21 marzo 2014

Corriere 21.3.14
A chi non piace la svolta renziana
Conflitto sotterraneo tra due Italie
di Ernesto Galli della Loggia


Non è affatto vero che Matteo Renzi riscuota il consenso vasto e generale che spesso gli si accredita. È piuttosto vero il contrario, e cioè che la sua figura divide il Paese in due parti contrapposte, anche se lo fa in modo nuovo rispetto a divisioni analoghe avutesi in passato. Quella indotta da Renzi, infatti, a differenza per esempio di quella prodotta da Berlusconi, è una divisione non gridata né per il momento troppo esibita, dai toni anzi volutamente sommessi; inoltre, lungi dal passare lungo linee politiche tradizionali (Destra e Sinistra per intenderci) essa tende con tutta evidenza ad attraversarle e confonderle.
L’Italia renziana è l’Italia indifferenziata dell’opinione pubblica largamente intesa. Che legge poco i giornali ma assai di più vede la televisione; che non ha troppa dimestichezza con la politica e ne ragiona in termini semplici; che è incline a credere più nelle persone che nelle idee. È, per dirla in breve, l’Italia che «non ne può più» e in generale desidera comunque un cambiamento. Un Paese in molti sensi «medio», nel quale però è dato di trovare anche parti consistenti di un Paese socialmente e culturalmente ben più sofisticato.
Ma accanto a questa c’è una non trascurabile Italia antirenziana. Un’Italia nella quale spiccano soprattutto vasti settori dell’ establishment , che pure, come si sa, è ormai da molto tempo orientato verso il centrosinistra. Dunque pezzi significativi, forse maggioritari, della Confindustria, dell’alta burocrazia e dell’economia pubblica, del sottomondo politico in particolare romano, della Rai, molti importanti commentatori e giornalisti; ma insieme anche quella parte del «popolo di sinistra» più antica o più ideologicamente coinvolta, numerosi quadri medio-alti dello stesso partito di Renzi e della Cgil. È, quella ant irenziana, un’Italia la quale si guarda bene dall’esprimere un’avversione esplicita. Più che dire, lascia capire. Con i toni sommessi, le mezze parole, spesso i silenzi, lascia capire che il presidente del Consiglio non le piace per nulla: a causa del suo modo di essere e di fare, della scorciatoia alquanto brutale presa per defenestrare il suo predecessore, a causa di quello che viene giudicato l’avventurismo del suo programma e delle sue promesse.
Questo almeno è quanto essa dice. Ma in realtà l’Italia antirenziana è sconcertata e inquieta specialmente perché non capisce dove andrà a infrangersi, e soprattutto chi e che cosa sommergerà, quali equilibri, l’ondata di novità che il presidente del Consiglio ha annunciato. Proprio ciò che conquista una parte del Paese ne preoccupa l’altra, insomma.
Il fatto è che la comparsa sulla scena di Renzi minaccia di squarciare il velo di menzogna che negli ultimi trent’anni la politica ha provveduto a stendere sulla nostra realtà sociale. Per tutto questo tempo la politica ci ha detto che c’erano una Destra e una Sinistra, divise da fondamentali differenze di valori e di programmi. Forse ciò era vero per i valori; certamente assai meno per i programmi e in specie per la volontà di realizzarli. Dietro la divisione proclamata e rappresentata dalla politica, infatti, è andata crescendo e solidificandosi una realtà ben altrimenti compatta del potere sociale italiano. All’insegna della protezione degli interessi costituiti; della moltiplicazione dei «contributi» finanziari al pubblico come al privato; della creazione continua di privilegi piccoli e grandi; della disseminazione di leggine e commi ad hoc ; della nascita di enti, agenzie, authority, società di ogni tipo; all’insegna comunque e per mille canali dell’uso disinvolto e massiccio della spesa pubblica.
In tal modo favorendo non solo lo sviluppo di uno strato di decine di migliaia di occupanti — quasi sempre gli stessi, a rotazione — di tutti i gabinetti, gli uffici legislativi, gli uffici studi, di tutte le presidenze e di tutti i consigli d’amministrazione possibili e immaginabili, ma altresì il sorgere di un soffocante intreccio di relazioni, di amicizie, di legami personali. Un potere sociale solidificato, includente a pieno titolo anche il sistema bancario e l’impresa privata, che ha usato e usa disinvoltamente la politica — di cui aveva e ha un assoluto bisogno — schierandosi indifferentemente a seconda delle circostanze con la Sinistra, cercando però di non dispiacere alla Destra, e viceversa. E che sia la Destra che la Sinistra si sono sempre ben guardate dallo scalfire.
Finora tuttavia la radicale divergenza d’interessi tra questa Italia «protetta» e l’Italia «non protetta», questo reale, autentico conflitto di fondo, non è mai riuscito ad avere alcuna vera rappresentazione politica, a dar vita a un reale e vasto conflitto tra le parti politiche ufficiali. Renzi invece minaccia esattamente di rovesciare questa tendenza: di restituire realtà sociale vera alla politica, aprendo importanti terreni di scontro tra le due Italie.
Per il momento, è vero, lo ha fatto solo simbolicamente, allusivamente. Con la sua figura, grazie al suo stile personale e al suo linguaggio, identificandosi in particolare in un solo messaggio: la necessità di rompere confini e contenuti dell’universo politico finora vigente. Ma tanto è bastato perché se da un lato ricevesse immediatamente un consenso assai vasto e trasversale da parte del Paese che socialmente conta di meno, dall’altro lato, però, vedesse nascere contro di sé la diffidenza ironica, lo scetticismo, un’ostilità venata di paternalistico compatimento, da parte del Paese che conta di più e ne teme il dinamismo e i propositi, avendo capito che sarebbe esso il primo a farne le spese. «Non sarai tu, povero untorello, che spianterai le mura di Milano» sembra dirgli l’Italia antirenziana, forte della sua collaudata capacità di sopravvivenza.

Corriere 21.3.14
Il tentativo di contrastare i dubbi Ue
di Massimo Franco


Una miscela di fiducia e scetticismo continua ad accompagnare le apparizioni di Matteo Renzi in Europa. Le istituzioni dell’Ue appoggiano il suo piano ambizioso di riforme strutturali. Il presidente del Consiglio italiano incassa i complimenti. Ma quando si passa ai dettagli, i sorrisi diventano più forzati, e i «placet» meno scontati. Nessuno ha voglia di sottolineare troppo divergenze e perplessità, in un momento in cui la costruzione europea affronta elezioni che rischiano di rivelarsi forche caudine a beneficio dei partiti populisti. Tuttavia, il modo un po’ liquidatorio col quale Renzi scansa «la discussione sullo zero virgola» e afferma che sta «rivoluzionando l’Italia», lascia un alone di incertezza.
Per questo, dopo il colloquio avuto ieri col presidente della Commissione, Josè Manuel Barroso, la sensazione immediata è stata quella di una discussione positiva. Eppure, sullo sfondo rimane un dubbio residuo sulla capacità renziana di rassicurare del tutto i suoi interlocutori. Il premier ribadisce che le misure prese in considerazione hanno una copertura finanziaria certa: lo si vedrà quando sarà presentato il Documento economico-finanziario del governo. E sembra passare in secondo piano la frase con la quale Barroso lo ha accolto, questa: «Il rispetto degli impegni presi in Europa è fondamentale per la fiducia nell’Italia e nell’Ue. Tutti devono continuare ad applicare le regole che abbiamo concordato».
Il fatto che Renzi abbia risposto rivendicando il rispetto di «tutti i vincoli» da parte dell’Italia, dovrebbe tagliare la testa al toro. Il problema è che due giorni fa lo stesso capo del governo ha definito «anacronistico» il tetto del 3 per cento nel rapporto fra deficit e prodotto interno lordo; e questo ha creato qualche malumore fra quanti temono che l’Italia prenda provvedimenti «per la crescita» aumentando il deficit e non tagliando la spesa. Il sorriso quasi impercettibile che si sono scambiati Barroso e il presidente del Consiglio europeo, Herman Van Rompuy, a una domanda sui progetti di Renzi, è stato interpretato come un gesto non proprio amichevole. Ed ha freddato qualche entusiasmo.
Purtroppo, a qualcuno ha ricordato quello di tre anni fa tra il francese Nicolas Sarkozy e la tedesca Angela Merkel su Silvio Berlusconi. «Non ho ancora avuto occasione di parlare con Renzi per capire la natura delle sue dichiarazioni», ha poi glissato Van Rompuy. E il richiamo suo e di Barroso alle parole dette qualche giorno fa a Berlino dal premier italiano dopo l’incontro con la Merkel, è stato usato per ribadire l’esigenza di rispettare gli impegni finanziari presi con l’Europa. Che le cose siano andate non «molto bene», come ha commentato Renzi, ma forse solo in parte bene, sembra confermato dalle parole del sottosegretario alla Semplificazione, Angelo Rughetti: uno degli esponenti governativi più vicini al premier.
Secondo Rughetti, la Commissione Ue dovrebbe «valutare con maggiore umiltà quello che stiamo cercando di fare; e dare indicazioni e suggerimenti per migliorare eventualmente le proposte». Segno che, almeno secondo palazzo Chigi, l’Europa non lo ha ancora fatto; e dunque che esistono temi di potenziale contrasto da approfondire. Renzi può contare, comunque, sull’appoggio del presidente del Parlamento, il socialista tedesco Martin Schulz, convinto che l’Italia abbia bisogno di «un’Europa solidale». Ma i margini rimangono stretti. Basta registrare la prudenza mostrata dal premier quando Vasco Errani, a nome delle regioni, gli ha chiesto di investire nella sanità le risorse ricavate dalle revisioni di spesa: a conferma che i progetti debbono misurarsi con una realtà avara di concessioni.

La Stampa 21.3.14
Matteo può finire nella trappola come Obama
di Matt Browne


L’imminente visita a Roma di Obama e gli echi del successo del viaggio di Renzi a Berlino portano l’attenzione su come il nuovo premier italiano viene visto e giudicato dai partner internazionali. Come avviene spesso quando un nuovo leader arriva al potere, l’establishment sembra soprattutto concentrato a discutere di esperienza, capacità di governo e possibile indebolimento internazionale.
Ma nel caso dell’Italia e di Renzi tali preoccupazioni sono completamente infondate. Anzitutto la comunità internazionale e gli alleati dell’Italia conoscono assai bene i politici «di esperienza» al punto che molti ritengono da tempo che proprio questa classe dirigente sia parte integrante dei problemi dell’Italia. In secondo luogo, e forse di maggiore importanza, è il fatto che Renzi viene visto come qualcuno che è determinato a sfidarli, a scontentarli, ed a riuscire a fare ciò che serve. Le nuove riforme economiche e istituzionali che Renzi propone hanno già sollevato interesse fra i partner europei, inclusi Merkel e Hollande, così come negli Stati Uniti.
Alla vigilia dell’arrivo del presidente americano, Barack Obama, per il suo primo incontro bilaterale con il premier Renzi, i commentatori sembrano ossessionati dal tracciare paragoni fra i due. Ma è interessante notare che la maggioranza di loro ignora un punto: Renzi può apprendere dagli errori di Obama come dai suoi successi.
Renzi eredita la stessa, potenzialmente fragile, coalizione con cui Letta tentò di governare. In apparenza sembra un’operazione politica difficile, destinata a generare accordi pragmatici e compromessi. Per Renzi c’è il rischio di incorrere in quanto avvenuto a Obama, rimanendo intrappolato nelle resistenze politiche come nei problemi economici. Durante gran parte del primo mandato di Obama proprio questo è avvenuto. Nel corso dei due primi, difficili anni, la definizione di successo da parte della Casa Bianca sembrava essere l’approvazione di ogni legge che i repubblicani avessero accettato di votare con i democratici. Nel tentativo di creare il consenso attraverso la politica, il presidente Obama ha deluso molti aderenti al suo movimento e non c’è da sorprendersi se i democratici subirono una netta sconfitta nelle elezioni di Midterm del 2010, quando i livelli di entusiasmo raggiunsero i livelli più bassi di sempre. Solo a campagna per la rielezione iniziata, nel 2012, il presidente Obama ha riscoperto il senso della sua missione politica e i progressisti hanno così ritrovato l’entusiasmo.
In questo c’è una cruciale differenza fra il presidente Obama e il primo ministro, e gioca a favore di Renzi. Barack Obama costruisce il consenso per istinto, apprendendo. Ebbe successo alla Harvard Law Review perché riuscì ad unire le diverse fazioni del comitato editoriale. Ebbe successo a Chicago come community organizer, dove ebbe inizio la sua carriera politica, perché riuscì a far lavorare insieme gente che fino ad allora aveva rifiutato di farlo. E quando arrivò a Washington tentò di porre fine alle lacerazioni faziose fra repubblicani e democratici con un approccio che non sappiamo ancora se avrà successo.
Renzi invece è cresciuto come un combattente. Si è spianato la strada per andare avanti attraverso il Partito democratico fino a Palazzo Chigi. Facendo questo, ha stabilito un precedente ovvero è un leader determinato a forzare attraverso i cambiamenti, alla sua maniera se necessario. Ha anche creato l’impressione di avere un momento favorevole e questo è importante ai fini del successo politico. Impegnandosi a procedere con una riforma al mese nei primi cento giorni, Renzi ha stabilito un segnapunti. Riformando il mercato del lavoro per decreto ha dimostrato che vuole cambiare il metodo in cui le cose vengono fatte. La sfida cruciale per lui ora non è solo far approvare le riforme che ha promesso ma di riuscire a farlo come lui vuole.
Quando il presidente Obama è stato eletto molti speravano che avrebbe mobilitato i sostenitori - quelli online come i volontari - per fare pressione sul Congresso dal basso. Immaginavano un movimento permanente per il cambiamento capace di sommare tale sostegno politico con la leadership dall’alto. Purtroppo questo non è avvenuto. Renzi invece ha già dimostrato di avere la volontà di guidare il cambiamento dall’alto. Ora deve trovare il modo per coinvolgere i suoi sostenitori affinché mettano sotto pressione il Parlamento, e soprattutto il recalcitrante Senato, affinché condividano le sue riforme. Renzi può governare alle sue condizioni se riuscirà a conservare e rafforzare il movimento per il cambiamento che ha iniziato a costruire. Insomma, la sfida per Renzi è di continuare ad essere un ribelle. Se vi riesce nessuno riuscirà a fermarlo, e ciò sarà un bene per l’Italia.
Membro del «Center for American Progress» il più importante centro studi nella Washington di Barack Obama E’ stato consigliere di Tony Blair e collabora strettamente con il Pd e il team di Matteo Renzi

La Stampa 21.3.14
Tagli facili e tagli pericolosi
di Paolo Baroni


Arrivare a risparmiare 34 miliardi su un bilancio dello Stato che ne assorbe più di 700 sulla carta non dovrebbe essere un gran problema, perché alla fine stiamo parlando di un 5% scarso di spesa. Ciò non toglie che quello della spending review che il governo sta avviando si presenti come un vero e proprio percorso di guerra, fatto comunque di trabocchetti, ostacoli burocratici, prassi da scardinare, ma soprattutto volontà politiche da affermare e imporre ad ogni livello.
Partendo dal presupposto che il Paese non può più permettersi sprechi, le 70 pagine messe a punto dal «commissario straordinario per la revisione della spesa» Carlo Cottarelli forniscono al governo il menù completo dei possibili interventi, da pure e semplici azioni di «efficientamento» a veri e propri tagli, come quelli ipotizzati sulle pensioni (e già esclusi da Renzi). Sarà banale dirlo, ma mai come in questa occasione il pallino è in mano alla politica. Al governo. Al presidente del Consiglio Matteo Renzi, che già in altre occasione ha dimostrato che quando vuole sa e può procedere con l’energia di una schiacciasassi.
La lista «ideale» dei risparmi, degli interventi da mettere in campo e delle riforme da avviare, però, è molto articolata e che ben si comprende come in passato altri governi abbiano preferito la via breve (e spesso molto brutale) dei tagli lineari. Se non si procede così, l’altra strada che si può percorrere è quella che suggerisce Cottarelli: prima si fa una mappatura completa di tutte le voci «aggredibili» e poi si procede con interventi molto focalizzati, si potrebbe dire chirurgici.
Il programma messo a punto in questi mesi presenta difficoltà crescenti. Su 33,9 miliardi di risparmi che si pensa di conseguire in tre anni, ben 12,1 arrivano da interventi di efficientamento diretto. Ad esempio basterebbe concentrare in poche centrali d’acquisto, 30-40 contro le attuali 32 mila (!), il grosso delle forniture pubbliche per arrivare a risparmiare ben 7,2 miliardi. Senza tagliare sulle quantità, senza provocare danni «collaterali», ma semplicemente per effetto delle economie di scala. Per procedere basta la decisione politica, per gli acquisti come per gli affitti degli immobili, consulenze ed auto blu, i corsi di formazione e gli stipendi dei dirigenti.
Alzando il tasso di complessità degli interventi si arriva al capitolo «Riorganizzazioni», una manovra che in tre anni potrebbe portare a farci risparmiare altri 5,9 miliardi: a patto che si riformino le province (500 milioni di risparmi) e di conseguenza si adegui la rete di prefetture, vigili del fuoco e capitanerie di porto, si accelerino le sinergie tra i corpi di polizia (1,7 miliardi al 2016) e si mandi avanti il progetto della digitalizzazione della pubblica amministrazione (fattura elettronica ed altro) che vale altri 2,5 miliardi. Con i «costi della politica» (organi di rilevanza costituzionale, Comuni, Regioni e partiti) si possono recuperare altri 900 milioni. E qui, se ad esempio sparisce il Cnel non muore nessuno, ma forse abolire l’Istituto per il commercio estero non rende un buon servizio alla promozione del nostro export.
I problemi più rilevanti arrivano con gli ultimi due blocchi di misure. Per quanto «inefficienti» il taglio di una serie di altri trasferimenti impatta direttamente con l’economia reale e a volte anche con le tasche dei cittadini. Per Cottarelli questa voce «vale» altri 7,1 miliardi. Giusto colpire abusi su pensioni di invalidità e indennità d’accompagnamento (400 milioni in tutto), ma tagliare 3 miliardi di trasferimenti alle imprese non può non produrre effetti negativi sul sistema produttivo. Idem i 3,5 miliardi che si potrebbero ricavare «rifilando» gli stanziamenti destinati al trasporto pubblico locale (2 miliardi) e alle ferrovie (1,5 miliardi). Perché se è vero che anche in qui abbiamo molte spese fuori linea rispetto alle medie Ue, l’esperienza ci insegna che alla fine si finisce solo col tagliare i servizi (bus e treni) o con aumenti di tariffe.
Secondo blocco delicato, le «spese settoriali» (difesa, sanità, pensioni), valore 7,9 miliardi. Qui il rischio che si tocchi carne viva è concreto. Si può decidere di non farne nulla, come sulle pensioni (2,9 miliardi il pacchetto completo di cui 1,5 solo per effetto di una nuova indicizzazione degli assegni) o si può tirare dritto. Come sulla Difesa, F35 ma non solo, sapendo però che una parte importante dei 2,5 miliardi che si vogliono togliere da questa voce poi sono tolti essenzialmente alle nostre industrie del settore. Anche qui si può razionalizzare molto, a patto di sapere cosa si sta facendo.

il Fatto 21.3.14
La strana cura del dottor Cottarelli
risponde Furio Colombo


CARO FURIO COLOMBO, le cifre dei tagli annunciati e previsti volano via come palloncini dalle mani di Cottarelli, l’esperto di “spending review”, uno capace di dire senza imbarazzo se, in termini di tagli, conviene di più morire (con quel che costano i funerali) o vivere (sotto il peso delle pensioni). La domanda è: perché il chirurgo opera in piazza e senza anestesia? Milena
IN EFFETTI è la vera domanda, e molti la stanno ripetendo. La provocazione più clamorosa (dopo quella che stabiliva il livello delle pensioni d’oro a quota 2.000 euro lordi al mese) è il numero di impiegati statali che devono essere considerati in esubero: 18 mila persone, senza alcun riferimento al settore, all’eventuale livello di specializzazione, al coinvolgimento o meno del personale sanitario, alla distanza dall’età del diritto alla pensione. La prima cosa che viene in mente è il dubbio: se il numero di esuberi indicati non sia del tutto arbitrario, oppure si tratti di una valutazione in termini di percentuale (forse i “tagliatori di teste” hanno delle loro formule che dipendono solo dai numeri). Ma un secondo dubbio è se il numero non sia deliberatamente alto per poi dimostrare:
a) Che invece basterà mandarne via dal lavoro molte meno persone; (e far felice tutti, meno i licenziati) oppure, b) che il tecnico della “spending review” ha un cuore perché in realtà 18 mila lasciati sulla strada sono – in proporzione – pochissimi, e tutti gli altri non se ne accorgeranno neanche. Ma resta responsabilità del governo e dello spumeggiante primo ministro permettere che le cifre se ne vadano in giro da sole come le dicerie di una superstizione, creando esattamente il contrario di ciò che è necessario per “agganciare la ripresa”: la paura. Infatti è evidente che, con la formula Cottarelli, un governo che vuole apparire nuovo, giovane, smagliante e portatore di un carico di promesse e di fatti mai visti prima, lavora invece a diffondere la paura che ogni nuovo annuncio porti un nuovo carico di tagli feroci e di senza lavoro. Colpisce in Cottarelli – e dunque anche in Renzi and Co. – il perseverare di due tormenti che hanno sempre infierito sul Paese: prima indichi quanti miliardi ti servono, poi dici dove li trovi. E li trovi sempre in zona sicura: a carico di chi ha già e sempre pagato, in una visione paurosamente piccola della ricchezza e dell’evasione. Pensate all’associazione di questi annunci: da una parte la caccia agli statali, accendendo la lunga miccia della paura collettiva. Dall’altro una severa e rigorosa revisione degli accompagnatori dei disabili. Vi preannuncio che tornerà a circolare la storia del cieco che guidava la Ferrari. Serve a farci capire che, tra i disabili, si infilano, non notati, i veri imbroglioni, e che bisogna scavare lì per salvare il Paese. Ancora una volta i clienti del “Billionaire” non hanno nulla da temere.

Corriere 21.3.14
Contratti più flessibili. Ecco il decreto sul lavoro
di Lorenzo Salvia


Il primo provvedimento di peso del governo Renzi a entrare in vigore è quello che rende più flessibili i contratti a termine. Approvato la scorsa settimana dal Consiglio dei ministri, il decreto legge è stato firmato ieri da Napolitano. Dunque la durata del contratto a termine senza causale, quello usato per i lavoratori al primo impiego, passa da uno a tre anni. Per tutti i contratti a termine, anche quelli con causale e quindi successivi al primo anno, aumenta il numero delle proroghe, cioè dei rinnovi, che salgono da uno a otto nei trentasei mesi.
Fino a 8 contratti a termine in 36 mesi «Clausola Electrolux» per la solidarietà Le Regioni: un miliardo per la cassa in deroga. Allarme Inps: servizi a rischio ROMA —Il primo provvedimento di peso del governo Renzi ad entrare in vigore è quello che rende più flessibili i contratti a termine. Il decreto legge, approvato la scorsa settimana dal consiglio dei ministri, è stato firmato ieri dal Capo dello Stato e pubblicato in Gazzetta ufficiale. La durata del contratto a termine senza causale, quello usato per chi è al primo impiego, passa da uno a tre anni. Per tutti i contratti a termine, anche quelli con causale e quindi successivi al primo, aumenta il numero delle proroghe, cioè i rinnovi senza interruzione. Se fino a ieri se ne poteva fare una sola, adesso il limite sale ad otto, sempre nell’arco dei tre anni. Viene così confermata la correzione rispetto al testo uscito da Palazzo Chigi che sulle proroghe non prevedeva limiti, rendendo possibili 36 contratti da un mese nell’arco dei tre anni.
Rispetto alle bozze circolate negli ultimi giorni ci sono due novità. La prima è che vengono stanziati 15 milioni di euro per i contratti di solidarietà, quelli che riducono l’orario di lavoro per evitare licenziamenti. Un intervento mirato sulla vertenza Electrolux, che potrà toccare anche altre crisi aziendali. La seconda modifica è una semplificazione sul lavoro in somministrazione, quello delle agenzie interinali, che altrimenti avrebbero perso spazio davanti ai nuovi contratti a termine più flessibili.
Confermata la semplificazione dell’apprendistato. Soprattutto perché non c’è più l’obbligo di stabilizzare gli apprendisti che hanno finito il loro percorso formativo prima di poterne assumerne di nuovi. Ci sono poi le norme tecniche che consentono l’avvio della «Youth Guarantee», con la parità di trattamento per chi cerca lavoro in tutti i Paesi dell’Ue, e quelle per il Durc elettronico, il documento per la regolarità contributiva, che però avrà bisogno di una norma attuativa.
Adesso il decreto comincia il suo percorso per la conversione in legge alla Camera. E dopo le proteste della Cgil, che nei giorni ne aveva chiesto il ritiro, la sinistra Pd conferma la sua contrarietà con Stefano Fassina: «Se non lo modifichiamo aumenterà la precarietà e avrà effetti negativi sull’economia». Gli risponde l’ex ministro Maurizio Sacconi, Ncd: «Difendiamo questo testo al 100% e chiediamo a tutta la maggioranza di sostenerlo».
Ma oltre alle possibili modifiche in Parlamento sul decreto, per il governo sul lavoro si apre un altro fronte. Nell’incontro di ieri a Palazzo Chigi, le Regioni hanno battuto i pugni sul tavolo per la cassa integrazione in deroga, la rete di protezione per la crisi delle piccole aziende. «Manca un miliardo di euro e se i soldi non arrivano molti lavoratori saranno licenziati», dice il presidente della Lombardia Roberto Maroni. In realtà i soldi necessari potrebbero essere ancora di più, perché un pezzo di quelli stanziati con l’ultima legge di Stabilità sono stati utilizzati per chiudere i buchi dell’anno scorso mentre per il 2014 il fabbisogno finale potrebbe essere più alto di quello previsto. Il governo prende tempo ma la questione è complicata. La cassa in deroga dovrebbe essere sostituita dall’assegno universale di disoccupazione, finanziato non direttamente dallo Stato ma dai contributi di imprese e lavoratori. Ma questo pezzo della riforma non sta nel decreto sui contratti a termine che entra in vigore oggi bensì nel «Jobs act», il disegno di legge delega che avrà tempi lunghi e incerti. Fin quando la cassa in deroga c’è, dicono le Regioni, i soldi vanno trovati e questo complica i conti del governo già alle prese con la spending review . Operazione complicata, visto che contro i tagli protestano tutti. Ieri è toccato all’Inps: «Non ci sono più margini per interventi sull’Istituto — dice il commissario straordinario Vittorio Conti — senza incidere sui livelli di servizio per la cittadinanza».

Il Venerdì di Repubblica 21.3.14
Camusso
La signora in rosso
di Salvatore Tropea

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Sette del Corriere 21.3.14
Cambiamo la scuola rompendo un tabù: puniamo gli insegnanti incapaci
Dare ai meritevoli, ma sanzionare quelli che non garantiscono un livello minimo di qualità, dice il ministro dell’Istruzione
A chi spetta decidere? Chi dirige un istituto dovrebbe avere questa respoonagilità
intervista di Vittorio Zincone

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Repubblica 21.3.14
Radiografia Ance-Cresme degli edifici che hanno bisogno di essere ristrutturati e per cui il governo ha stanziato 3,7 miliardi
Vecchie e pericolose, 24 mila scuole a rischio sismico
di Luisa Grion


ROMA - Sono «vecchi» e spesso pericolosi, privi degli standard minimi di igiene, ma soprattutto scarsi anche quanto a sicurezza: eppure tutte le mattine ci mandiamo bambini e ragazzi. Gli edifici scolastici che il governo Renzi promette di voler mettere a posto - 3,7 miliardi d’investimenti chiedendo all’Europa di non conteggiarli ai fini del patto di stabilità - hanno bisogno di massicci e urgenti interventi. E per capire quanto, fino ad oggi, il problema sia stato rimosso basti dire che non esiste nemmeno un’Anagrafe ufficiale, pur prevista da una legge del 1996.
A tracciare un quadro della situazione - l’unico disponibile, tanto che è su questi dati che il governo sta lavorando - c’è però il rapporto Ance-Cresme sullo stato del territorio italiano e sugli insediamenti a rischio sismico e idrogeologico (dati 2012). Già dalle premesse s’intuisce la gravità del caso: oltre la metà delle scuole italiane è stato costruito prima della entrate in vigore della normativa antisismica del 1974 (il 59 per cento delle comunali e il 65 delle provinciali), 24.073 scuole si trovano in aree a elevato rischio sismico, 6.250 sorgono in zone a forte rischio idrogeologico. Nelle regioni del Sud il 45 per cento delle scuole si può considerare ad «alto potenziale » di pericolo (10.835 edifici), quota che scende al 22 per cento al Centro (5.185) e al 12 al Nord (2.985). Un po’ più equamente distribuito il rischio idrogeologico: coinvolge il 30 per cento delle scuole del Nord Est e del Sud, il 22 per cento di quelle del Nord Ovest, il 18 del Centro. Più sicure le isole (2 per cento).
Considerato che gli edifici scolastici pubblici censiti sono poco più di 44 mila (38.692 di competenza comunale. 5.449 che fanno capo alle province), il governo ritiene che circa un terzo del patrimonio (15 mila edifici) «presenti urgenti necessità di manutenzione straordinaria perla messa in sicurezza» (per 10 mila s’ipotizza addirittura la demolizione). Secondo una stima della Protezione Civile, per la sola messa in sicurezza servirebbero investimenti per 13 miliardi di euro, ma a tale esigenza andrebbero aggiunta la riqualificazione energetica e gli adeguamenti funzionali. Il 19 per cento delle scuole comunali e il 30,5 delle provinciali è stato costruito prima del 1940 e oltre la metà del patrimonio totale non è a norma. Nemmeno sugli incendi: il 66 per cento delle scuole comunali e il 63 delle provinciali manca perfino dei certificati di prevenzione.
Repubblica 21.3.14
Il valore prevalente dei servizi di cura
di Chiara Saraceno



Chi è gravemente invalido, perciò non in grado di provvedere da sé ai propri bisogni quotidiani (lavarsi, vestirsi, prepararsi il cibo, mangiare, andare in bagno, ecc.), ha diritto a ricevere un sostegno dalla collettività per far fronte, appunto, a questi bisogni? Nella maggioranza dei Paesi europei la risposta è affermativa. A prescindere dal reddito individuale o famigliare, a chi è gravemente invalido viene garantita una qualche forma di ausilio per poter svolgere le attività basilari della vita quotidiana. Le differenze tra Paesi riguardano da un lato il livello di generosità, dall’altro il modo in cui questo ausilio è garantito e i criteri per accedervi. In alcuni paesi - ad esempio quelli scandinavi e l’Olanda - esso è garantito tramite i servizi, residenziali o domiciliari, modulati a seconda della intensità del bisogno. In altri, come in Francia e più recentemente Spagna e Portogallo, sulla base del livello di invalidità viene definita una indennità che va spesa per acquistare servizi di cura certificati. In questa direzione si sta muovendo anche l’Olanda, in alternativa all’offerta diretta di servizi, in nome della libertà di scelta. In altri Paesi ancora, come in Germania, si può scegliere tra servizi e assegno di accompagnamento. Quest’ultimo, di valore inferiore ai servizi, può essere utilizzato come si desidera. In Italia dal 1980 c’è l’assegno di accompagnamento, la cui destinazione non è vincolata. Inoltre, a differenza che negli altri Paesi ove il sostegno è graduato, solo la non autosufficienza totale dà diritto all’assegno di accompagnamento, anche se i criteri per accertarla non sono standardizzati e possono variare di fatto da una commissione medica all’altra. Questa mancanza di standardizzazione, non solo i veri e propri imbrogli, spiegano la diversa incidenza degli assegni di invalidità a livello territoriale.
Da anni è in corso nel nostro Paese una discussione tra gli addetti ai lavori sulla opportunità di trasformare l’assegno di accompagnamento in un voucher servizi, analogamente a quanto è successo in Francia e in parte Spagna e Portogallo. Questa trasformazione avrebbe due effetti positivi: favorire un mercato regolare dei servizi di cura creando nuovi posti di lavoro e sollevare le famiglie (in particolare le donne), specie nei ceti più modesti, dalla necessità di provvedere alla cura in proprio. In assenza di decisioni politiche in questa direzione, di fatto molte famiglie hanno operato informalmente questa trasformazione, utilizzando l’indennità di accompagnamento per finanziare almeno un po’ di cura. Come è stato osservato da diverse studiose, il fenomeno è esploso in concomitanza con l’inizio dei flussi migratori nel nostro Paese, ove la regolazione della domanda e della offerta è stata affidata pressoché esclusivamente alle periodiche “regolarizzazioni” dei lavoratori migranti. Questa mancanza di regolazione, tuttavia, non ha solo lasciato tutti i soggetti coinvolti esposti al rischio di sfruttamento. Ha anche lasciato la disponibilità di accedere a cure non famigliari, o di poterne condividere una parte, alle risorse e alle priorità, non tanto della persona non autosufficiente, ma dei suoi famigliari. L’indennità di accompagnamento, infatti, nelle famiglie a basso reddito è spesso intesa come un’integrazione di una pensione o di un reddito famigliare insufficienti, più che come uno strumento per soddisfare i bisogni di cura di chi la riceve.
Con la spending review l’assegno di accompagnamento è entrato nell’elenco delle misure su cui si possono effettuare tagli sostanziosi, trasformando il sostegno nella vita quotidiana a chi non è autosufficiente in una misura legata al reddito, individuale e famigliare. Stante che, per essere finanziariamente efficace, la soglia di reddito dovrebbe essere relativamente bassa, migliaia di individui e famiglie in condizioni modeste sarebbero lasciati senza alcun sostegno a fronteggiare situazioni di grave debolezza. Mentre la standardizzazione dei criteri e il controllo degli abusi è doverosa, questa sarebbe una decisione sbagliata, non solo sul piano dell’equità, ma anche dal punto di vista dell’obiettivo di sostenere la ripresa dell’economia e del mercato del lavoro. Meglio utilizzare queste risorse per favorire la creazione di un mercato regolato dei servizi di cura. Molte famiglie perderebbero una integrazione di reddito, ma avrebbero in cambio servizi, invece di rimanere senza l’uno e gli altri.

La Stampa 21.3.14
Passo Carrai
di Massimo Gramellini


«Se vuoi un amico a Washington, prenditi un cane» diceva il presidente americano Truman, buon conoscitore di uomini. Matteo Renzi è stato più fortunato: lui un amico del cuore ce l’ha. Si chiama Marco Carrai ed è tutto ciò che Renzi non è - elegante, ricco, riservato - o è soltanto in parte: un cattolicone abbastanza di destra, capace di scrivere un libro per confutare le tesi vaticanofobe dei romanzi di Dan Brown. Sono cresciuti insieme, in tutti i sensi. Renzi ci ha messo la faccia e le parole, Carrai i contatti e i denari: suoi e di altri. Ora un’inchiesta di «Libero» ha rivelato che, per poter votare nella città di cui intendeva diventare sindaco, il Renzi da Pontassieve prese la residenza in un appartamento del centro storico fiorentino, a via degli Alfani, il cui affitto era intestato all’amico e pagato dal medesimo.
Già il nome della strada presenta evidenti controindicazioni, perché di Alfano ne basta e avanza uno solo. E poi, addestrato da troppe tangenti mascherate da regali, il nostro istinto inquisitore scatta immediato: tutti gli incarichi che Carrai ha ricoperto a Firenze e ricoprirà a Roma sono frutto di un baratto illegale: appartamento in cambio di poltrona. Ma chi non è ancora accecato dalle semplificazioni dovrà riconoscere che esiste qualche differenza tra un Formigoni che fa le vacanze a sbafo sullo yacht di un finanziere in affari con la Regione Lombardia da lui presieduta e il legame privilegiato che intercorre tra gli amici di una vita. Di tutte le forme di favoritismo, questa mi sembra, se non la migliore, per lo meno la più umana. (Certo, a me gli amici al massimo hanno offerto un gelato).

l’Unità 21.3.14
Renzi su casa in affitto: «Solo ospite di Carrai»
di Caterina Lupi


La Procura di Firenze ha aperto un fascicolo sulla vicenda dell’appartamento di Firenze, dove il premier Matteo Renzi, all’epoca sindaco della città, ha avuto la residenza, dal marzo 2011 al gennaio 2012. Al momento non ci sono indagati, né ipotesi di reato. A pagare l’affitto di quell’alloggio è stato l’imprenditore Marco Carrai, molto vicino all’allora sindaco. Il fascicolo è stato aperto in seguito a un esposto presentato da un dipendente del Comune di Firenze, Alessandro Maiorano. A voler fare chiarezza sulla vicenda, anche perché Cinque Stelle e Lega stavano montando la polemica politica con interrogazioni parlamentari, è lo stesso Matteo Renzi con una nota del suo ufficio stampa: «Nelle ultime ore il quotidiano Libero ha sollevato più polemiche su alcune vicende personali di Matteo Renzi e della sua famiglia», meglio chiarire i vari punti: «In questi anni Renzi ha vissuto a Pontassieve», mentre «la casa di via Alfani è stata per alcuni anni la casa di Marco Carrai, pagata dallo stesso Carrai. Non era, dunque, la casa di Renzi pagata da altri, ma la casa di Carrai pagata da Carrai», spiega la nota, che continua: «Renzi ha usufruito in alcune circostanze dell’ospitalità di Carrai, il cui contratto di affitto dell’appartamento è stato già reso pubblico ». (Carrai lo ha mandato a Libero, che ha sollevato il caso). La nota dello staff del premier prosegue: «Renzi ha affittato per circa un anno un appartamento a Firenze, nel 2009, in via Malenchini. Ovviamente a sue spese».
L’ufficio stampa chiarisce un altro punto: «La signora Agnese Landini Renzi - moglie del premier - non è mai stata a Roma con quattro auto blu al seguito, come denunciato dal senatore leghista Candiani su Libero», quindi è «una notizia destituita di ogni fondamento». Ultimo punto contestato: «Rispetto all’assunzione di Renzi nella società Chil», un anno prima che venisse eletto presidente della provincia di Firenze, nella nota si ricorda che «l’assunzione fu la conseguenza di un cambio al vertice della azienda che produsse l’esito di un diverso inquadramento contrattuale» in un’azienda in cui Renzi lavorava già da 9 anni, quindi «nessuna assunzione fittizia last minute».
Ieri anche Marco Carrai ha contestato le «tante falsità dette in liberta» su una vicenda «trattata in modo squallido ». L’avvocato dell’imprenditore, Alberto Bianchi, spiega che Carrai aveva preso in affitto l’appartamento per sé e poi «ha anche ospitato lo stesso Renzi il quale vi si appoggiava», per praticità, «nei momenti in cui ne aveva bisogno in relazione alla sua attività di sindaco di Firenze». Quanto alla residenza, per il legale è «tutto regolare»: ovvio che un sindaco abbia la residenza nella città che governa e come ospite può farlo.
I Cinque stelle (Grillo aveva rilanciato sul blog la polemica di Libero) hanno chiesto che Renzi chiarisca in aula in un question time. Il deputato M5s Fraccaro elenca gli incarichi di Carrai: «È presidente della società Aeroporti di Firenze », è stato ad della Florence Multimedia srl per la comunicazione del sindaco, «ha ottenuto la fornitura di servizi ai musei fiorentini con la sua C&T Cross media senza un bando».

Repubblica 21.3.14
Renzi: “Ospite a casa Carrai solo a volte”
di Massimo Vanni


FIRENZE - «Venga a riferire in aula», chiedono al premier i Cinque Stelle al Senato. «Ci spieghi a che titolo usufruiva dell’appartamento pagato dall’imprenditore Marco Carrai», insiste il capogruppo Maurizio Santangelo. E d’un colpo la storia di Matteo Renzi sindaco diventa terreno di scontro in Parlamento. Per quasi tre anni, da marzo 2011 allo scorso gennaio, il sindaco Renzi ha avuto la residenza nell’attico in via Alfani affittato e pagato dal suo amico Carrai. La procura di Firenze, come ha anticipato il Corriere della Sera,
apre un fascicolo conoscitivo in base ad un esposto di un dipendente comunale. Per il momento un fascicolo senza ipotesi di reato e senza indagati. «Renzi ha usufruito in alcune circostanze dell’ospitalità di Carrai», replica l’ufficio stampa del premier. Ma lo scontro si consuma lo stesso.
Se Lega e Cinque Stelle chiedono «al più presto una seduta question-time», gli altri partiti si mettono di traverso. «Sono senza vergogna» replicano i pentastellati. Che puntano il dito sull’imprenditore. «In questi anniRenzi ha vissuto a Pontassieve, quella casa in via Alfani è stata per alcuni anni la casa di Carrai, pagata dallo stesso Carrai. Non era dunque la casa di Renzi pagata da altri, ma la casa di Carrai pagata da Carrai», precisa l’ufficio stampa del presidente del Consiglio. Anche se il punto di fondo resta la residenza anagrafica.
Al tempo in cui era sindaco, Renzi pensa di dover lasciare l’anagrafe di Pontassieve, dove vive assieme alla famiglia, e di trasferirsi a Firenze. Prima l’ha fatto affittando e pagando in prima persona un appartamento per 12mila euro l’anno a pochi metri da Palazzo Vecchio. Poi, dal 14 marzo 2011, trasferendo la residenza nell’attico che Carrai, l’imprenditore amico fin dai tempi della Margherita, aveva affittato pochi giorni prima. Il primo marzo, all’inizio per 900 euro al mese e poi per 1.200.
A quel tempo Carrai è ad di Firenze Parcheggi, una Spa partecipata dal Comune. Anche se non è il sindaco a nominarlo nella società, ma il Monte dei Paschi. Mentre alla fine dello stesso anno, l’associazione dei musei comunali Muse affida a C&T Crossmedia il servizio di audio e videoguide per i visitatori di Palazzo Vecchio. Carrai non ha nessuna carica operativa ma indirettamente ne è il comproprietario: il 50% di crossmedia è nelle mani di D&C, la società di Carrai e Federico Dalgas. «Mi sembra che la questione sia già stata abbondantemente trattata in modo squallido e con tante falsità dette in libertà», manda a dire seccato Carrai da Tel Aviv, dove ieri si trovava per lavoro. Seccato per l’affitto, ma anche per le polemiche nate attorno alla mostra- evento su Pollock e Michelangelo che dovrebbe aprire a Firenze entro la primavera e che vede come curatrice proprio la fidanzata dell’imprenditore, Francesca Campana Comparini. La sinistra d’opposizione fiorentina, Sel compresa, chiede chiarimenti sull’affidamento.
L’ufficio stampa del premier replica pure alle polemiche sul suo inquadramento da dirigente nella società di famiglia Chil e sui contributi che prima la Provincia e poi il Comune hanno sostenuto: «L’assunzione di Renzi avvenuta l’anno precedente a quello della sua elezione a presidente della Provincia - si dice nella nota - fu conseguenza di un cambio al vertice dell’azienda in cui Renzi lavorava già da nove anni. Nessuna assunzione fittizia last-minute dunque ma un diverso inquadramento contrattuale dopo nove anni».

il Fatto 21.3.14
Carrai e Renzi nei guai
Si muove anche la Finanza
Le Fiamme gialle acquisiscono carte su società vicine al premier
mentre la Procura apre un fascicolo sulla casa del fedelissimo amico finanziere. Che poi si mise a lavorare per il Comune
di Davide Vecchi


Un anonimo imprenditore paga l’affitto a un sindaco e nei tre anni successivi riceve incarichi in società controllate del Comune, appalti dall’amministrazione e gestisce le casse di associazioni e fondazioni create ad hoc per finanziare le campagne elettorali che nel tempo portano quel primo cittadino a diventare premier. Questo, in sintesi, quanto avvenuto a Firenze, tra Marco Carrai e Matteo Renzi.
IERI la procura toscana ha aperto un fascicolo senza indagati né ipotesi di reato sulla vicenda dell’appartamento di via Alfani 8, poco distante da Palazzo Vecchio, dove Renzi ha avuto la residenza dal 2011 al 2013, pagato dall’amico Carrai. La Guardia di finanza, a quanto si apprende, sta acquisendo da alcune settimane e con molta discrezione, gli atti relativi alle società e alle associazioni che gravitano attorno al premier. Tutto è nato da un esposto presentato a gennaio da Alessandro Maiorano, un dipendente comunale che da anni segue con molta attenzione le vicende del suo primo cittadino, oggi presidente del Consiglio. Maiorano, per capire, ha presentato il primo esposto alla Guardia di finanza nell’ottobre 2012 sui rapporti tra Renzi e le società degli amici. Un accanimento, secondo l’ex sindaco, che a gennaio si decide a querelare Maiorano. Ma quando quest’ultimo ritira la denuncia nei suoi confronti, scopre che Renzi nella querela indica come residenza non Pontassieve, Comune a pochi chilometri da Firenze dove vive con la famiglia, ma via degli Alfani 8. Due portoni prima della Cooperativa sociale il Borro che la scorsa estate fu al centro dell’inchiesta sulle escort portate a Palazzo Vecchio.
Maiorano comincia così una sua indagine personale, poi approfondita da Libero e infine confermata dallo stesso Carrai che al quotidiano diretto da Maurizio Belpietro ammette: “Pagavo io”. Verità che però ieri l’entourage del premier ha tentato di ridimensionare. L’ufficio stampa di Renzi ha diffuso una nota spiegando che l’allora sindaco ha “usufruito in alcune circostanze dell’ospitalità” dell’amico. E di circostanza in circostanza ci ha preso la residenza. Ma per rafforzare la tesi è intervenuto anche l’avvocato Alberto Bianchi: “Quella casa non è stata presa in affitto da Carrai per Renzi, ma per lo stesso Carrai che poi, per amicizia, ha anche ospitato lo stesso Renzi il quale vi si appoggiava, per evidente praticità, nei momenti in cui ne aveva bisogno in relazione alla sua attività di sindaco”.
BIANCHI non è solo l’avvocato di Renzi e di Carrai, come ieri hanno riportato le agenzie di stampa. Oltre a essere amici, i tre lavorano da sempre insieme. O meglio: Bianchi si è unito alla coppia Renzi-Carrai nel 2009, dopo la vittoria in Comune. Bianchi è stato tesoriere della fondazione Big Bang prima e della Open poi, ha garantito a propria firma un mutuo acceso dalla Festina Lente, altra associazione dedita alla raccolta fondi per le campagne elettorali di Renzi, per organizzare alcune cene di fund raising. Big Bang, Open, Festina Lente e Link: dal 2007 al 2013 raccolgono quasi 4 milioni di euro per Renzi e solamente di un quarto di questo tesoretto si conosce la provenienza. Eccolo il ruolo di Carrai e Bianchi: i fund raiser. Il capitolo finanziatori è oggetto di un altro esposto oggi in mano alla Gdf. Se alla attività di “raccoglitore di fondi” Bianchi affianca quella di legale dei due amici, Carrai ha invece diversi incarichi societari. Una fama da imprenditore cresciuta negli anni in progressione con l’ascesa politica di Renzi.
Carrai oggi ha numerosi incarichi, uno su tutti: la presidenza di Adf, società che gestisce l’aeroporto di Firenze. Ma è anche nell’ente Cassa di Risparmio di Firenze ed ha guidato la Firenze Parcheggi. Quest’ultima è tra i committenti della DotMedia, società che chiude il cerchio e ci riporta all’affitto di via Alfani. Perché DotMedia ha tra i clienti, oltre a Firenze Parcheggi, anche Rototype, azienda di famiglia di Alessandro Dini, proprietario dell’attico affittato da Carrai e in cui è stato residente Renzi.
COME OGNI SALA degli Uffizi sorprende i turisti, così ogni società che s’incontra seguendo Renzi svela nuovi legami: due dei quattro soci di DotMedia sono Alessandro Conticini e Matteo Spanò. Conticini è fratello del cognato di Renzi: Andrea Conticini è il marito di Matilde, sorella del fu rottamatore. Spanò, invece, oltre a essere presidente nazionale dell’Agesci è a capo dell’Associazione Musei per i Ragazzi quella che gestisce i lavori per i musei del Comune e che ha affidato l’appalto per le guide su tablet alla C&T Crossmedia di cui è proprietario al 51%, attraverso la D&C, sempre Carrai.

Repubblica 21.3.14
La Campana Comparini respinge gli attacchi: sono una professionista
“Non ho avuto quell’incarico perché sto per sposare Marco”
di Maria Cristina Carratù


FIRENZE - Non ci sta, a passare per “la fidanzata (e prossima moglie) di”. In questo caso, di Marco Carrai, numero uno del giglio magico di Matteo Renzi. «Credo di poter essere valutata per quello che sono e faccio, non per il mio rapporto con Marco Carrai», protesta Francesca Campana Comparini, 26 anni, giovane filosofa curatrice, insieme a Sergio Risaliti, della mostra su Pollock e Michelangelo che fra poco aprirà a Firenze. Incarico su cui, secondo l’opposizione di sinistra in Comune, grava l’ombra del conflitto di interessi. Lei si inalbera: «Ho abbastanza professionalità da giustificare un incarico».
Ecco, potrebbe spiegare come nasce la mostra su Pollock e Michelangelo? Annunciata come una delle più importanti degli ultimi tempi a Firenze, e affidata, dicono i suoi detrattori, a una giovane quasi sconosciuta.
«Da ben prima di conoscere Marco Carrai sono una professionista, filosofa, giornalista, scrittrice. Organizzo dal 2010 gli incontri dello Studio teologico per laici di Santa Croce, con grandi intellettuali italiani, in aprile uscirà un mio libro sulla storia del pensiero occidentale tra ragione e follia della croce con prefazione di Giacomo Marramao, per maggio ho in agenda un Festival delle religioni. E ho 26 anni».
Tutte attività, però, che non c’entrano con l’arte. Di suo, in questo campo, si conosce solo la curatela di una mostra presso l’attività della sua famiglia in via Tornabuoni, e un saggio alla mostra di Zhang Huan a Forte Belvedere. Da qui le perplessità sulla curatela per Pollock.
«Le mostre sono spesso frutto di sinergie, e in questo caso, come già in quello del Forte Belvedere, io sono stata coinvolta come filosofa in un progetto di Risaliti, che è uno storico dell’arte. In questa occasione ho scritto un saggio in cui tratto del passaggio dalla perfezione della forma in Michelangelo alla forma informe di Pollock, ma il mio contributo di filosofa sta soprattutto nell’impronta creativa di quella parte della mostra che propone un percorso multimediale e multisensoriale attraverso i quadri di Pollock, un approccio sinestetico all’arte che è del tutto innovativo, e rivolto soprattutto ai giovani».
Il problema però, prima ancora delle sue capacità, sarebbe, secondo i suoi detrattori, che le sue amicizie possano averla favorita nell’avere l’incarico.
«Sgombriamo subito il campo da un equivoco. Risaliti ed io siamo gli ideatori di un progetto storico artistico e filosofico che, dopo attenta valutazione e previo assenso della soprintendente del Polo museale Cristina Acidini, è stato giudicato dall’assessore alla cultura Givone valido scientificamente e meritevole di realizzazione. E chi altro avrebbe dovuto occuparsene, se non noi che l’abbiamo presentato? Dunque, nessun incarico piovuto dall’alto per chissà quali amicizie, ma solo il riconoscimento della validità della nostra idea. Va poi precisato che noi siamo liberi professionisti, e che il nostro rapporto non è col Comune, ma con la società Opera Laboratori Fiorentini, del Gruppo Civita, che organizza la mostra».
Dunque, nessun passo indietro?
«Ci mancherebbe. Io sono una persona corretta, che crede in quello che fa, e vuole contribuire al bene della sua città. Dovrei rinunciare ai miei progetti solo perché sono moglie di qualcuno? Non scherziamo».

il Fatto 21.3.14
Dopo Matteo hanno fatto tutti lo scout
Dotazioni morali La gara a chi ce l’ha più scout
di Elisabetta Ambrosi


Contrordine compagni. Passata l’era dell’impalpabile Pd di Veltroni; scomparsi in un lampo sia il partito bersaniano del sudore sia il pragmatismo da salotto buono di Enrico Letta, è l’ora di ascoltare il richiamo della giungla. Dotazione morale? “Fierezza e forza”. Dotazione fisica? “Zampe che non fanno rumore, occhi che vedono nell'oscurità, orecchie che odono il vento delle tane, denti bianchi e taglienti”. Arrotolate le bandiere rosse e verdi, fedelissimi – e non – del Grillo Esuberante Matteo Renzi hanno cominciato ad arrampicarsi sui soppalchi di casa in cerca di cimeli-da-giungla. Tutti pronti a rispolverare la camicia azzurra con fazzolettone e distintivi oppure, se mestamente privi di passato col bollino Agesci, veloci nell’elogiare i valori scout del leader dal passato in calzoncini blu.
IN PRIMA FILA quanto a zelo il senatore Pd Roberto Cociancich, già presidente nazionale Agesci: “Renzi è abituato a dire in faccia ciò che pensa, e tra i valori irrinunciabili dello scoutismo c’è la lealtà”, spiegava di recente all’Adn Kronos. Ma non basta: tutta scout sarebbe anche la sua “grandissima curiosità”, visto che “gli scout vanno sempre verso nuove frontiere”; per non parlare dell’atteggiamento scanzonato – “nello scoutismo la cosa più seria è il gioco”. E infatti, ha raccontato Samuele Fabbrini, candidato sindaco a Pontassieve, “quella notte che ci siamo persi Matteo prese la chitarra e suonò per noi”. E mentre Roberta Pinotti, ministro della Difesa, nelle poche righe del suo account twitter segnala la sua appartenenza scout, ribadendola fieramente alle Invasioni Barbariche dell’altro ieri (“Non è che chiudiamo il Consiglio dei ministri facendo Bim Bum Crac”, però...), Dario Nardella, ex vicesindaco di Firenze e deputato Pd, ha dovuto ammettere a malincuore a Un giorno da pecora che lui e Renzi sono uguali in tutto “ma io ho fatto gli scout laici, lui no”. E poi c’è il finanziere Davide Serra, che si è avvicinato a Renzi saputo del suo passato scout, e il deputato Pd Federico Gelli, che sul sito ricorda di aver appreso dagli scout “spirito di servizio e amore per la natura”.
L’etica scout, portata dal vento del renzismo, come soluzione al vuoto ideologico in cui fluttuiamo, nell’epoca delle passioni tristi? Sì e no. Perché un conto è dire, come fa Enrico Brizzi, autore di La legge della giungla (Laterza), che “è mille volte meglio per i ragazzini di oggi apprendere la lealtà e la competizione scout che stare di fronte a Violetta o alla saga di Candy Crush”, un conto fare dello scoutismo il collante morale del governo. Non tutti sono stati scout, e dunque quelli della Legge della giungla sono sempre una lobby, per quanto buona e povera. E poi, soprattutto (chi li ha fatti lo sa) l’etica lupetta è fatta da slogan così generali – “il lupetto pensa agli altri come a se stesso, vive con gioia e lealtà dentro il branco”– che la vera differenza morale la fa il gruppo e i “grandi capi” che ti capitano. Insomma puoi finire nel branco-reparto super gerarchico o in quello anarchico, in quello bigotto e in quello dove maschi e femmine si intrufolano nelle rispettive tende, in quello che va sul serio a aiutare le vecchiette e in quello per cui le uscite sono giusto un pretesto per fumarsi un po’ d’erba di nascosto.
UN GIOIOSO relativismo che si riflette sia nei variopinti giudizi sugli scout – di destra o sinistra? Fascisti o antifascisti? Ortodossi o secolarizzati? Comunitaristi o individualisti? Omofobi o tolleranti? – sia nel fatto che gli scout famosi ben poco hanno in comune (per dare un’idea degli opposti ideologici: Avati e Giletti, Verdone e Severgnini, La Russa e Renzo Piano, Fioroni e Fabio De Luigi, Bertolaso e Jovanotti, Giovanna Melandri e Luttazzi). Insomma ci possiamo divertire a trovare analoghi politici ai personaggi della giungla (Mowgli il cucciolo d’uomo cresciuto dal branco del lupi, alias il Pd; Akela il maestoso e solitario capobranco, poi fatto fuori, una specie Prodi ferino; Baloo l’orso maestro di legge, un po’ Napolitano un po’ Rodotà, le scimmie Bandar-log che vivono senza legge, il popolino ammansito dalla tv, etc), ma dall’etica del branco in salsa scout difficilmente ricaveremo qualcosa di diverso da un generico solidarismo fatto di pacche sulla spalla e auguri di buona caccia. Mentre chi è fuori dalle tende della politica si chiede, con le parole maestre del saggio avvoltoio Chil: “Fratello, ma siamo davvero dello stesso sangue, tu ed io?”.

il Fatto 21.3.14
Auto blu, la gara per comprarne di nuove continua


MENTRE IL GOVERNO annuncia la dismissione delle prime 100 auto di servizio della pubblica amministrazione, e il ministro dell’Interno rilancia: “Metterò su eBay 78 auto del Viminale”, lo Stato si sta preparando a comprarne altre 210, tutte blindate, con una possibilità di spesa fino 25 milioni di euro in due anni. La gara Consip per l’acquisto è partita a dicembre e il termine per le offerte era il 27 febbraio scorso, giusto un paio di settimane prima della conferenza stampa di Renzi. Non solo. È anche in corso, pienamente operativa da tempo, un’altra convenzione per l’acquisto centralizzato di 1100 tra berline e utilitarie. Valore della convenzione, 15 milioni di euro. Le auto blu non muoiono mai.

il Fatto 21.3.14
Province cancellate? No, prorogate
È questo l’accordo sul ddl Delrio. I commissari, per tutto il 2014, saranno gli attuali presidenti
di Wanda Marra


Province abolite? No, commissariate fino alla fine del 2014. Quindi, di fatto, prorogate. Quote rosa approvate nella legge elettorale per le Europee? Sì, ma dal 2019. Contributi alla riforma del Senato annunciata dal governo? Per ora, solo riflessioni.
Palazzo Madama aspetta Renzi al varco dell’Italicum. Ma nel frattempo, più che barricate, si vede una certa confusione sotto al cielo.
MARTEDÌ arriva in Aula (voto previsto mercoledì) il ddl Delrio sul superamento delle Province (che aveva come primo effetto quello di evitare che si svolgessero nuovamente le elezioni) attualmente fermo in commissione Affari costituzionali del Senato a causa dei circa 3 mila emendamenti presentati soprattutto da Fi e Lega. Niente paura: trovato l’accordo con Forza Italia. Quale? Le Province già commissariate sono prorogate fino al 31 dicembre 2014; ma soprattutto vengono commissariati i consigli provinciali in scadenza. E chi sarà il commissario? Lo stesso presidente della Provincia. Inoltre, verrà aumentato il numero dei consiglieri dei Comuni fino a 10 mila abitanti e si dà la possibilità di un terzo mandato per i sindaci dei Comuni fino a 3 mila abitanti.
Se è per le quote rosa, la mediazione trovata dopo giorni di scontri è alquanto singolare: ieri il Senato ha approvato con 155 sì, 58 no e 15 astenuti l’intesa sul ddl sulle europee che introduce la parità di genere dal 2019. L’intesa tra Pd, Ncd e Fi prevede una norma transitoria che vale solo se si danno tre preferenze, la terza deve esser di sesso diverso dalle prime due. Insomma, la parità non c’è e quando ci sarà sarà subordinata al fatto che esistano 3 preferenze.
Infine, c’è la questione riforma del Senato. Esiste una proposta governativa, sulla quale il premier sta accogliendo modifiche. Ieri prima di partire per Bruxelles Matteo Renzi - presenti il sottosegretario alla presidenza del Consiglio Graziano Delrio, il ministro per gli Affari Regionali Maria Carmela Lanzetta e il ministro per le Riforme Maria Elena Boschi - ha incontrato i presidenti delle Regioni, guidati da Vasco Errani, subito dopo con i sindaci dell’Anci, guidati da Piero Fassino. Un clima di collaborazione, ma con una richiesta: le Regioni criticano “l’identico numero di rappresentanti di ciascuna Regione e Provincia autonoma” nel nuovo Senato delle Autonomie. Ci vuole un riequilibrio, insomma, della rappresentatività.
IL NUOVO Senato deve essere “espressione autorevole delle istituzioni territoriali”: per questo i governatori giudicano “non condivisibile” la previsione della nomina, da parte del capo dello Stato, di altri 21 componenti dell’assemblea. Renzi ha ascoltato e ha insistito sulla necessità di accelerare. Il punto centrale è come la maggioranza di governo recepirà le proposte dell’esecutivo. Per cercare di arrivare almeno a calmare gli animi nel Pd, nel lavoro preparatorio della bozza che alla fine dovrà essere predisposta dalla Commissione Affari costituzionali sono stati coinvolti insieme al ministro Maria Elena Boschi anche la presidente della Commissione Affari costituzionali, Anna Finocchiaro (acerrima nemica di Renzi) e il capogruppo dem, Luigi Zanda.

il Fatto 21.3.14
Italiche eccellenze
Il premier a Berlino, con un’imputata


creato castelli di obblighi”, spiegava mercoledì a Porta a Porta una delle imprenditrici portate da Matteo Renzi in Germania per il vertice bilaterale. Chissà di quali impedimenti Lucia Aleotti - che insieme al fratello Alberto Giovanni guida il colosso farmaceutico Menarini - avrà parlato con gli imprenditori tedeschi. Quel che è certo, però, è che i due sono a processo per evasione fiscale e riciclaggio (per Lucia anche corruzione) per una somma di 1,2 miliardi di euro. Secondo la Procura di Firenze, avrebbero concorso a riciclare i proventi dei reati commessi dal padre Albert: dal 1984 al 2010, alcuni principi attivi, non sarebbero stati acquistati direttamente dalla Menarini, bensì da società estere fittizie create da Aleotti, e poi rivendute all’azienda di famiglia a prezzi maggiorati, creando fondi neri.

il Fatto 21.3.14
Facce di bronzo
L’assordante silenzio del Pd che non affronta il caso Barracciu
La sottosegretaria è accusata di peculato e rischia il rito immdiato
Per i Pm avrebbe mentito sui rimborsi dell’Assemblea regionale della Sardegna
di Emiliano Liuzzi


Francesca Barracciu non rinuncia. Anzi, rilancia. Non importa se i magistrati le contestano di aver mentito nel giustificare le spese dei fondi regionali, non importa se mentre dichiarava di essere in viaggio per la Sardegna e con impegni istituzionali si trovava a Vienna, a Bruxelles e in tanti altri luoghi, ma non in missione per conto del Consiglio regionale. Non importa neppure se la cifra che le viene contestata si aggira attorno ai 75 mila euro: Barracciu non sembra avere nessuna intenzione di dimettersi da sottosegretario alla Cultura, una carica che ha ottenuto in cambio del ritiro dalle elezioni regionali dove avrebbe dovuto correre come presidente.
I SONDAGGI la davano in calo, il Pd non poteva permettersi di perdere laggiù, sull’isola che fece fuori a suo tempo anche Veltroni, e così le chiesero di farsi da parte. “Rinuncia e farai l’assessore”, le venne chiesto dalla segreteria. Ma in mezzo ci si mise il nuovo candidato, Francesco Pigliaru, con un no che avrebbe fatto saltare anche la sua candidatura. Così, dopo una riunione con Stefano Boinaccini, Luca Lotti e Matteo Renzi, il magico trio tirò fuori dal cilindro l’idea: sottosegretario. Incarico che oggi imbarazza non poco il nuovo corso renziano che però fa finta di niente e aspetta che la bufera giudiziaria si trasformi in una brezza di primavera.
La diretta interessata Barracciu in una nota conferma con “fermezza di non avere mai destinato i fondi in questione a inappropriate e illegali spese personali, avendoli costantemente utilizzati per far fronte a oneri assolutamente inerenti alla mia attività politica quale rappresentante del gruppo consiliare del Pd”. Barracciu spiega di voler “fornire ulteriori chiarimenti, pur nella difficoltà di dover riferire di fatti risalenti a molti anni fa. Ho una mia storia politica e istituzionale di sindaco , consigliere regionale ed europarlamentare”, una storia che è “sempre stata caratterizzata da una condotta improntata alla moralità e a una interpretazione della politica come servizio”.
Da queste poche righe si capisce che non ha nessuna intenzione di togliere da ogni imbarazzo il suo partito. È fermamente convinta di poter dimostrare la propria estraneità ai fatti, anche dopo venerdì, quando il pubblico ministero Marco Cocco le ha contestato ulteriori 40 mila euro di spesa che non sarebbe giustificati in maniera appropriata. “Abbiamo preso tempo”, ha detto l’avvocato Carlo Federico Grosso al Fatto Quotidiano. “Si tratta di contestazioni che risalgono a tre anni fa. Vedremo come ricostruirle, ma l’onorevole Barracciu è convinta di fornire ogni spiegazione”. Spiegazione che potrebbe arrivare in ritardo. I magistrati, convinti di quello che dicono, sono intenzionati a chiedere il giudizio immediato, dunque a saltare anche il giudice per le indagini preliminari e andare a un processo breve, brevissimo, e in tempi rapidi. A quel punto in caso di condanna o patteggiamento della pena, per Barracciu sarebbe la fine di ogni attività politica.
TACE Matteo Renzi, impegnato a diffondere la sua politica in Europa, tacciono le voci importanti del governo come quella di Maria Elena Boschi che, quando le venne chiesto conto della presenza di Barracciu nella squadra di governo, rispose che nessuno era spaventato da un “avviso di garanzia”. Ma tra l’iscrizione al registro degli indagati e una linea accusatoria che porta alla richiesta di giudizio immediato per peculato aggravato ce ne passa assai. Nelle stanze del Pd, nonostante i silenzi che sembrano parole, la vicenda è stata vissuta come una doccia gelida. Barracciu aveva detto di aver chiarito tutto ai magistrati. Oggi, con un governo ancora insediato e con Renzi che cerca la credibilità europea, si scopre che così non è. Per niente.

il Fatto 21.3.14
Garantismi
Su Genovese imbarazzo Pd e alla Camera
di Sara Nicoli


Non sarà una cosa rapida, né facile. La discussione in Giunta sulla richiesta di arresto arrivata dalla Procura di Messina per Francantonio Genovese, deputato Pd di rito centrista (Fioroni), ex sindaco di Messina autosospesosi dal partito in seguito alle accuse di truffa, peculato, riciclaggio e associazione a delinquere in un’inchiesta sugli enti di formazione (secondo l’accusa, si sarebbe appropriato di fondi pubblici) rischia di protrarsi a lungo nel tempo. Ieri, nell’organismo delle Autorizzazioni di Montecitorio, presieduto da Ignazio La Russa, sono arrivati i 16 faldoni di documentazione con cui il gip di Messina motiva la richiesta di arresto, ma la seduta non è stata affatto animata, anzi. Perché, intanto, pare non sarà facile trovare un relatore per il caso. Il rappresentante di Sel, Daniele Farina, si è tirato fuori, il Pd ovviamente, non intende prestare all’uopo nessuno dei suoi dieci componenti e i 5 stelle sono stati considerati “troppo politicamente distanti” da Genovese per poter svolgere un’adeguata “difesa”.
ALLA FINE, insomma, potrebbe essere proprio La Russa ad arrogare su di sé il delicato ruolo di relatore. Ma si vedrà. Perché la questione, si diceva, avrà tempi lunghi. Nel Pd, infatti, nonostante la coesione di facciata e il tentativo, più o meno evidente, di considerare la questione come “risolta” in seguito al diktat di Lorenzo Guerini (“il partito voterà compatto per l’arresto”), le sensibilità sono in realtà diverse. I renziani ostentano sicurezza: “In questo caso – sostiene David Ermini, componente della Giunta – siamo davanti ad una richiesta d’arresto, non ad una semplice indagine, insomma, c’è un gip che ha convalidato una richiesta di un pm, mi pare difficile che la Giunta dica no all’arresto con accuse così gravi”. Anche Alessia Morani, responsabile Giustizia della segreteria del Pd, è sulla stessa linea: “Se, alla luce delle carte, verranno fuori responsabilità oggettive, non potremo che dare il nostro sì all’arresto”. Poi, però, Emanuele Fiano, di area dem, usa parole diverse: “Prima di tutto, dovremo essere garantisti, dunque solo dopo un’attenta valutazione potremo prendere una decisione”. E Danilo Leva, che della Giunta è il vicepresidente Pd, precisa: “Io fino a che non ho letto tutte le pagine di quei 16 faldoni, non esprimerò alcun giudizio. Insomma, mi prendo tutto il tempo necessario per decidere; nel partito non c’è nessun diktat”. “Questa storia – chiosa il sottosegretario indagato Umberto Del Basso De Caro – si deve muovere sui binari del più rigoroso garantismo, anche se non si tratta, come nel mio caso, di una semplice iscrizione al registro degli indagati, ma di qualcosa di molto più concreto”. Insomma, un Pd compatto sul voto per l’arresto di Genovese al momento non c’è, anzi. E il lungo iter della procedura potrebbe muovere più d’uno verso una linea diversa da quella in qualche modo imposta dall’alto dal segretario Renzi. “D’altra parte – chiude il renziano Ernesto Carbone– o si e è assolutamente certi del coinvolgimento e della effettiva colpevolezza di Genovese, oppure...”.

l’Unità 21.3.14
Ok a parità nel 2019. Insulti alle donne Pd: «Codarde»
Approvata con un compromesso la legge elettorale per le Europee
di Claudia Fusani


«Ci sono dieci disegni di legge già depositati, possibile che non ne andasse bene neppure uno?». I senatori del Pd, tutti, renziani compresi, ingoiano il rospo e cominciano a discutere, tra l'offeso e l'irritato, il testo di riforma del Senato così come è uscito da palazzo Chigi. Intenzionati a presentare «entro una settimana, secondo il timing del governo» il disegno di legge di riforma costituzionale che potrebbe tenere insieme sia la riforma della camera alta che quella del Titolo V della Costituzione (anche su questo nel Pd ci sono posizioni diverse). Ma, è l'indicazione uscita dalla riunione coordinata a palazzo Madama dal capogruppo Luigi Zanda e dalla presidente degli Affari costituzionali Anna Finocchiaro, «la nuova Assemblea, seppur senza fiducia e composta da membri non eletti, conserverà molte funzioni e sarà in tutto e per tutto una camera vera».
Renzi va ripetendo, anche ieri con Vasco Errani presidente della Conferenza stato-regioni, che entro il 25 maggio, election day europeo ed amministrativo, sarà stata approvata una nuova legge elettorale e le riforme costituzionali avranno avuto il primo dei quattro sì necessari per diventare legge. Il ring della riforme adesso si sposta al Senato. Settimana prossima andrà in aula il ddl Delrio che svuota le Province e subito dopo la Commissione Affari costituzionali comincerà ad esaminare la riforma del Senato. Forza Italia è molto perplessa per l’inversione in agenda - vogliono prima la legge elettorale - e i senatori azzurri, ma anche quelli di Ncd dicono come «della bozza Renzi resterà viva solo la fine della fiducia, tutto il resto è da vedere, a cominciare dal nome. Perché mai, ad esempio, non dovrebbe chiamarsi più Senato?». Insomma, c’è qualcosa che non torna tra l’ottimismo del premier e la forte dialettica interna che si raccoglie tra i senatori di ogni colore a palazzo Madama.
Il nervosismo sulle riforme è stato evidente ieri nelle votazioni finali della legge che modifica il sistema di voto per le Europee e introduce, da subito, l’obbligo di una preferenza femminile se l’elettore ne esprime tre. Dal 2019, poi, ci sarà la parità di genere, obbligo di avere il 50 per cento di donne in lista e obbligo di alternanza tra primo e secondo in lista. I piccoli partiti della maggioranza, da Svelta civica ai Popolari, hanno ostacolato fino in fondo l’approvazione delle legge. Non certo per il capitolo quote. Ma perchè speravano di riuscire ad introdurre in questo testo, e per il voto di fine maggio, soglie di accesso più basse. Abbassare dal 4 al tre per cento può significare la sopravvivenza per molti partiti. È un fastidio per Pd e Fi. Che infatti hanno fatto muro. Il compromesso è stato aver rinviato al 2019 la vera parità di genere nelle liste per le Europee.
Così nelle dichiarazioni di voto il Pd è stata azzannato in aula dal senatore Popolare Tito Di Maggio. Il quale ha primo offeso le colleghe del Pd definendole «codarde». Da segnalare che in quel momento presiedeva l’aula la vicepresidente Linda Lanzillotta (Scelta civica) la quale ha ritenuto di sorvolare sul lessico del collega visto che «stava parlando in italiano, senza insultare nessuno». Per Lanzillotta codardo è un aggettivo senza colore, neutro. Ma il peggio doveva ancora arrivare visto che, nello stesso intervento, Di Maggio ha detto alla senatrice De Biasi (Pd) che «probabilmente è affetta da una gravidanza isterica visto che ha denunciato in Italia un grave problema culturale di discriminazione». Anche di fronte alla «gravidanza isterica», la vicepresidente Lanzillotta non è intervenuta. Monica Cirinnà (Pd) chiede provvedimenti disciplinari per entrambi.
Va detto che con questa legge si poteva, si doveva ottenere molto di più specie dopo il tradimento alla Camera quando la parità di genere è stata impallinata da sessanta deputati Pd coperti dal voto segreto. Ma tra maggioranza di governo e maggioranze allargate non è stato possibile fare di più. «Non ci vengano a dire che il Pd ha fatto una scelta al ribasso giocando sulla pelle delle donne - ha detto Giuseppina Maturani (Pd) - perché in realtà sulla rappresentanza delle donne hanno giocato quelle forze politiche che hanno anteposto la soglia di accesso alla parità di genere». Sintetizza Anna Finocchiaro: «I partiti piccoli si sono messi di traverso ma solo perchè volevano abbassare le soglie di accesso non per una battaglia di genere». Il problema è che per approvare le riforme, Renzi non può permettersi il lusso di perdere al Senato i dieci voti di Scelta civica e i dodici dei Popolari.

il Fatto 21.3.14
Nomine, la rivoluzione Renzi ruota tutta attorno all’Eni
Anche il “Corriere” scarica l’ad Paolo Scaroni che al massimo potrebbe fare il presidente. Pesa la lettera del tesoro sui requisiti di onorabilità
di Stefano Feltri e Carlo Tecce


Il terremoto è cominciato: come rivelato ieri dal Fatto , Matteo Renzi ha deciso di cambiare tutti i vertici delle aziende partecipate dallo Stato, a cominciare dall'Eni. Il diretto interessato, l'amministratore delegato Paolo Scaroni dice ai giornalisti che lo aspettano alla Camera dopo un'audizione: “Siete preoccupati per il mio futuro? Speravo foste preoccupati”. Come sopravviverà senza il Cane a sei zampe che guida da nove anni? “Benone, io sopravvivo sempre”.
La lettera del Tesoro e della Cassa depositi e prestiti che impone a tutte le partecipate di cambiare lo statuto per stabilire l'ineleggibilità o la decadenza per chi è condannato o rinviato a giudizio per reati tipo corruzione è stata il colpo finale: Scaroni è indagato per corruzione internazionale per presunte tangenti pagate dalla controllata Saipem. Una conferma con l'ipotesi di trovarsi nel giro di pochi mesi a votare in assemblea sulla sua decadenza dopo un eventuale rinvio a giudizio (che Scaroni, ripete spesso, è sicuro non arriverà mai) è ancora più improbabile.
DOPO NOVE anni al vertice del più potente gruppo italiano, Scaroni sarebbe disposto ad accettare anche un passaggio alla presidenza, libera ora che Giuseppe Recchi è candidato alla poltrona più alta di Telecom. Ma Scaroni non è più temuto e intoccabile come è stato in questi anni: ieri un segnale chiaro è arrivato dal Corriere della Sera. In prima pagina c'era un lungo articolo di Milena Gabanelli sulla gestione dell'Eni il cui senso è: Scaroni ha fallito e se ne deve andare. Cattiveria aggiuntiva: sul sito del Corriere c'è il link all'inchiesta di Report sull'Eni per la quale l’azienda ha fatto una querela da 25 milioni di euro.
Al ministero del Tesoro Pier Carlo Padoan si muove con cautela e aspetta i risultati del lavoro delle due società di cacciatori di teste che stanno vagliando i candidati. Per l'Eni la lista di nomi è lunghissima: tre ex manager Eni come Leonardo Maugeri (oggi negli Usa e giovane, non ancora cinquantenne), l’ex capo azienda di Saipem Stefano Cao, già candidato alla guida dell'Eni prima di Scaroni. Ma ci sono anche l’ex ad Franco Bernabé, ora libero dopo la fine dell'esperienza a Telecom, e Francesco Caio (mister Agenda digitale). Il nome a effetto potrebbe essere quello di Mario Greco, il celebrato amministratore delegato delle Generali che sarebbe entrato con discrezione nel totonomine forte di notevoli risultati di bilancio che gli consigliano di lasciare il colosso assicurativo ora che è all'apice. E, stando alle voci, ci sarebbe anche pronta la sostituzione: al suo posto a Trieste andrebbe Monica Mondardini, oggi amministratore delegato della Cir della famiglia De Benedetti alle prese con la crisi dell’azienda energetica Sorgenia. I renziani sono molto attivi, vogliono trasformare la stagione delle nomine in quella operazione di rinnovamento riuscita solo in parte con la scelta dei ministri. Ma c'é movimento anche sul fronte del centrodestra: per la prima volta non é piú Gianni Letta - che nel parastato ha costruito per decenni la vera base del suo potere - a trattare, ma Denis Verdini. Ancora non si capisce con quali risultati. Il berlusconiano (ma flessibile) Massimo Sarmi sembra destinato a lasciare le Poste, magari a uno tra Caio e Greco se restano fuori dall'Eni. In fondo ormai le Poste si occupano molto più di finanza e di assicurazioni che di consegnare lettere, ma hanno anche un'infrastruttura informatica imponente da sviluppare. Quindi sarebbe utile sia un manager assicurativo come Greco che un esperto di telecomunicazioni come Caio.
L'ALTRA PARTITA grossa é Enel: un report di Ubs, la banca svizzera che é tra i principali partner finanziari di Enel, commenta così l’articolo del Fatto a proposito della quasi certa uscita di Fulvio Conti dal gruppo dell’energia dopo tre mandati: “Ogni cambiamento potrebbe aggiungere incertezza sulle strategie future”. Anche per tenere conto di queste sensibilità sul mercato, al governo stanno ragionando su una scelta interna: Francesco Starace , apprezzato amministratore delegato della controllata Enel Green Power.
l’Unità 21.3.14Enrico Rossi
«Sul Senato federale il governo ci ascolti»
«Bene la Camera delle autonomie ma la bozza dell’esecutivo contiene errori
Ci sia proporzione tra rappresentanti e abitanti delle diverse Regioni»
intervista di Andrea Carugati


Ieri mattina il premier Renzi ha incontrato prima i governatori, poi i sindaci guidati da Piero Fassino per discutere della riforma del Senato e del Titolo V. Clima «positivo», i presidenti di Regione hanno presentato un documento che chiede alcune modifiche ma l’obiettivo di arrivare a un testo condiviso entro marzo è condiviso. Sulla spending review la richiesta dei governatori è che «i risparmi ottenuti nella Sanità vengano reinvestiti nello stesso settore». «Finalmente si chiude una fase, quella di un federalismo assai poco fondato e molto strumentalizzato, che ha provocato danni all’Italia e generato scandali nella classe politica», spiega Enrico Rossi, presidente della Toscana.
«Si chiude l’epoca delle Regioni intese come staterelli, una concezione dell’autonomia spinta al punto da aprire sedi estere o immaginare una storia veneta da insegnare nelle scuole. Tutto questo è stato spazzato via dalla crisi e dalla globalizzazione, così come l’idea di uno Stato minimo che non interviene nell’economia, nelle politiche industriali e nella mobilità, e che ha trasferito la crisi fiscale in periferia».
La sua è una bocciatura senza appello. Eppure nel 2001 la riforma del Titolo V la votò il centrosinistra...
«Il centrosinistra dell’epoca è stato subalterno a un’ideologia leghista che sembrava trionfante. Era una fuga in avanti, ora bisogna tornare al regionalismo immaginato dai padri costituenti».
Detto da un presidente di Regione fa un certo effetto. Non c’è il rischio di tornare indietro, al centralismo del passato?
«Il rischio di un pendolo che passa da un estremo all’altro c’è e va evitato. Sarebbe un grave errore. Ora c’è l’occasione per arrivare a un regionalismo forte, a partire dalla creazione di un Senato delle autonomi e composto da rappresentanti di Regioni e Comuni al 50%. Il compito di questa camera è portare nel cuore dello Stato i territori. Questo Senato non dovrà legiferare, fatta eccezione per le norme costituzionali, ma esprimere pareri in tempi rapidi su ciò che decide la Camera. La proposta dei presidenti di Regione, a differenza della bozza del governo, è che le Regioni abbiano un numero di rappresentanti proporzionale al numero di abitanti».
Che cosa cambierà rispetto alla situazione attuale?
«Serve innanzitutto una migliore definizione delle competenze legislative tra Stato e Regioni. Faccio due esempi. Nella bozza del governo la Sanità è esclusivamente regionale, mentre l’urbanistica torna allo Stato. Io credo che siano due errori: l’urbanistica è di competenza delle Regioni dal 1972 e dovrebbe restare tale. Mentre sulla Sanità serve un ruolo dello Stato perché il Servizio sanitario è nazionale. Bisogna trovare il giusto equilibrio tra il principio di supremazia dello Stato - uno dei punti chiave di questa riforma - e quello di sussidiarietà che va tutelata. Si è aperta una discussione con il governo, nei prossimi giorni dobbiamo chiudere in fretta e bene». Quali sono i poteri che torneranno allo Stato?
«Politiche industriali, grandi infrastrutture. Sul turismo non si può evitare una promozione nazionale del Paese. Non possiamo pensare di andare in Cina a promuovere le singole Regioni. Francia e Spagna su questo hanno politiche nazionali».
Cosa salva di questi ultimi anni di federalismo?
«Credo che, nonostante tutto, la gestione regionale della Sanità sia stata positiva. Se non avessimo governato bene il Servizio sanitario nazionale non si sarebbe salvato. E invece oggi è tra i  migliori d’Europa e con una spesa complessivamente sotto controllo. Poi è andato bene il comparto dell’agricoltura, mentre sulla mobilità purtroppo scontiamo dei problemi molto seri, a partire dalle ferrovie. Poi c’è il capitolo dei fondi comunitari, dove alcune Regioni hanno fatto molto bene e altre devono ancora imparare».
Pare incredibile che abbiate firmato un documento su questi temi insieme ai presidenti leghisti di Lombardia e Veneto.
«È una domanda da rivolgere a loro. Credo che uno dei motivi del sostegno a questa riforma è che per la prima volta nasce un Senato delle autonomie che dà un senso al regionalismo».
I “senatori” eletti dalle Regioni saranno consiglieri regionali in carica?
«Consiglieri regionali, che non smetteranno di svolgere la loro funzione. Il nuovo Senato non richiederà un impegno full time, i senatori non riceveranno alcuna indennità aggiuntiva». LostipendiodelconsigliereregionalesaràparificatoaquellodelsindacodelComunecapoluogo.
«Va benissimo. In alcune regioni come la mia gli stipendi sono già molto vicini a questo obiettivo». Con questa riforma pensate di uscire dal clima di sfiducia dovuto agli scandali dei rimborsi regionali?
«Credo che possa aiutarci a uscire dalle secche. Ci sono stati comportamenti che sono espressione di un insopportabile degrado della classe dirigente, ma anche eccessi nella gogna mediatica».
In cosa la vostra proposta sul Senato si differenzia da quella del governo?
«Noi vorremmo che, come nel Bundesrat tedesco, ci fosse un vincolo territoriale. In Germania si vota in base all’appartenenza territoriale, sìono per tutti i rappresentanti di ciascun Land. Per me è opportuno che il Capo dello Stato nomini nel Senato 21 alte personalità, ma su questo altri presidenti non sono d’accordo».
Dunque non sarete più governatori?
«A me non è mai piaciuto questo appellativo, si è perso il senso delle parole. Chiamateci presidenti»

il Fatto 21.3.14
Renzi-Berlusconi, la Costituzione più pazza del mondo
Sul sito del governo le norme della futura democrazia tra deputati a vita e 21 senatori di nomina quirinalizia
di Fabrizio d’Esposito


Una bozza di quarantuno pagine che disegna la nuova Costituzione renzian-berlusconiana. Andrà mai in porto, a partire dall’abolizione (versione hard) o riforma (versione soft) del Senato? Si parte dall’articolo 55 del Titolo I, quello sul Parlamento (Sezione I. Le Camere e Sezione II. La formazione delle leggi).
Articolo 55. Rispetto alle sette righe attuali, il nuovo testo cresce fino a trentasei. “Il Parlamento si compone della Camera dei deputati e dell’Assemblea delle autonomie”. La prima diventa “titolare del rapporto di fiducia con il governo ed esercita la funzione di indirizzo politico, la funzione legislativa e quella di controllo dell’operato del governo”. È la nascita del monocameralismo. L’ex Senato “rappresenta le istituzioni territoriali” ed “esercita la funzione di raccordo tra lo Stato e le Regioni, le Città metropolitane e i Comuni”.
Articolo 57. Indica la composizione dell’Assemblea delle autonomie: “È composta dai presidenti delle giunte regionali e delle province autonome di Trento e Bolzano, nonché, per ciascuna regione, da due membri eletti, con voto limitato, dai consigli regionali tra i propri componenti e da tre sindaci eletti da una assemblea dei sindaci della regione” . La loro permanenza “coincide con la durata degli organi ai quali appartengono”. Il capo dello Stato, infine, può nominare membri dell’Assemblea “ventuno cittadini che hanno illustrato la Patria”, che restano in carica per 7 anni.
Articolo 59. Introduce il deputato di diritto e a vita. Ma solo per gli ex presidenti della Repubblica.
Articolo 67. Conferma l’esclusione del vincolo di mandato per i parlamentari.
Articolo 68. L’autorizzazione per perquisizioni, arresti e intercettazioni riguarda solo i deputati.
Articolo 69. Solo i deputati ricevono “una indennità stabilita dalla legge”.
Articolo 70. Comincia la sezione II, dedicata alla formazione delle leggi. Il processo di revisione costituzionale è affidato “collettivamente” alle due Camere. Tutte le altre leggi sono invece approvate dalla Camera dei deputati. Anche questo articolo è abbastanza corposo rispetto al testo attuale. Ogni ddl approvato dalla Camera va all’Assemblea “che, entro dieci giorni, su richiesta di un terzo dei suoi componenti, può deliberare di esaminarlo”. Il “parere” ritorna alla Camera che delibera in via definitiva “con facoltà di approvare esclusivamente le modifiche” di Palazzo Madama. L’Assemblea delle autonomie può anche decidere di non esaminare un ddl. Articolo 71. L’Assemblea delle autonomie, a maggioranza assoluta, può chiedere alla Camera di “procedere all’esame di un disegno di legge”.
Articolo 78. La Camera dei deputati delibera lo stato di guerra.
Articolo 79. Solo la Camera può varare amnistia e indulto, a maggioranza dei due terzi. Articolo 81. Sempre e solo la Camera si occuperà di ricorso all’indebitamento, bilancio e rendiconto consuntivo.
Articolo 83. Inizia il Titolo II, sul presidente della Repubblica. Sarà sempre eletto dal Parlamento in seduta comune. Articolo 86. Altra novità di rilievo: il presidente della Camera diventa la seconda carica dello Stato.
Articolo 88. Lo scioglimento riguarda solo la Camera.
Articolo 94. È il primo articolo del Titolo III, sul governo, che deve avere “la fiducia della Camera dei deputati. La fiducia è accordata o revocata mediante mozione motivata e votata per appello nominale”.
Articolo 99. Non esisterà più: è la soppressione del Cnel, il Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro.
Articolo 114. Apre il fatidico Titolo V, che non prevederà più le Province ma le Città metropolitane.
Articolo 117. Dilata la legislazione esclusiva dello Stato. Oggi i commi vanno dalla lettera “a” alla “s”. Nella nuova Costituzione si arriva fino in fondo, alla “z” e vengono aggiunti: coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario; sistema nazionale della protezione civile; ordinamento scolastico; ordinamento della comunicazione; tutela e sicurezza del lavoro; norme generali sul governo del territorio e l’urbanistica. Articolo 122. Introduce misure anti-Casta. Gli “emolumenti” per governatori e consiglieri regionali vengono stabiliti con “legge dello Stato” e in ogni caso “non possono superare l’importo di quelli spettanti ai sindaci dei comuni capoluogo” di Regione. La nuova formulazione viene completata così: “Non possono essere corrisposti rimborsi o analoghi trasferimenti monetari recanti oneri a carico della finanza pubblica in favore dei gruppi politici presenti nei Consigli regionali”. Articolo 135. Siamo al Titolo VI, sulle garanzie costituzionali. Questo articolo modifica lievemente la nomina dei 15 giudici della Consulta: un terzo dal capo dello Stato; un terzo dalle supreme magistrature; infine, questa la novità, tre dalla Camera e due dall’Assemblea.
La bozza si chiude ricordando che sarà necessaria una disciplina transitoria “per l’elezione dei membri non di diritto dell’Assemblea delle autonomie”.

l’Unità 21.3.14
Basta silenzi su Ilaria Alpi Il governo toglie il segreto
Vent’anni fa l’assassinio della giornalista Rai e dell’operatore Miran Hrovatin in Somalia
La Procura di Roma «pronta» ad acquisire le carte
di Umberto De Giovannangeli


Venti anni. Tanti sono passati dalla morte di Ilaria e Miran. Vent’anni per ottenere uno spiraglio di verità. Vent’anni per conquistare il diritto alla trasparenza. Il governo toglierà il segreto di Stato sul caso di laria Alpi e Miran Hrovatin. Lo ha detto intervenendo in Aula alla Camera la sottosegretaria per i Rapporti con il Parlamento, Teresa Amici, rispondendo alle richieste giunte da più parti, non ultima dalla presidente della Camera Laura Boldrini. «Alla luce di una richiesta unanime da parte di tutti i gruppi - ha detto la sottosegretaria - dopo 20 anni che sono un tempo sufficiente per mantenere i livelli della sicurezza nazionale, credo che sia arrivato il momento di aprire e togliere la secretazione sul caso di Ilaria Alpi. Su questo il governo sarà fortemente impegnato». «Credo - ha aggiunto - che lo si debba, non solo alla memoria di una vittima nazionale, ma soprattutto a una idea di giustizia che deve tutelare i propri cittadini. È un dovere morale e politico». «Accolgo con grande favore l’annuncio del governo di recepire immediatamente la mia richiesta di desecretare gli atti sull`uccisione di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin trasmessi dai servizi segreti alle commissioni parlamentari di inchiesta».È quanto sottolinea la presidente della Camera, Laura Boldrini, in un post pubblicato sul suo profilo Facebook.
CONQUISTA
La desecretazione degli «atti sull’uccisione di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin trasmessi dai servizi segreti alle Commissioni parlamentari di inchiesta è un segnale molto importante, che rompe il muro di silenzio e può costituire un fondamentale passo in avanti per arrivare alla verità», scrive la presidente della Camera che proprio l’altro ieri aveva chiesto di rendere pubblici gli atti. «Un pensiero affettuoso a Luciana Alpi, ai familiari di Hrovatin e un ringraziamento al governo», aggiunge Boldrini concludendo il suo messaggio su Facebook. E la procura di Roma ha recepito subito la svolta: «Acquisiremo gli atti utili relativi agli omicidi dell’inviata Rai Ilaria Alpi e dell’operatore Miran Hrovatin oggetto della desecretazione annunciato dal Governo», è stato annunciato in una nota. A sollecitare la consegna della documentazione era stato il procuratore Giuseppe Pignatone una volta avuto notizia dell’avvio della procedura di desecretazione di una serie di dossier, tra i quali quello relativo ai fatti accaduti a Mogadiscio esattamente 20 anni fa.
Unanime è la soddisfazione delle forze politiche. «Con il governo di Matteo Renzi inizia un nuovo corso per la trasparenza, la tanto attesa desecretazione degli atti del caso Ilaria Alpi finalmente arriva a una svolta», rimarca la deputata del Partito democratico e componente della commissione di Vigilanza Rai, Lorenza Bonaccorsi. «Fare luce sulla documentazione in possesso del governo - spiega Bonaccorsi - è innanzitutto un dovere nei confronti dei familiari delle vittime, che da troppi anni attendono risposte ». «La sottosegretaria Sesa Amici, a nome del governo, ha annunciato che anche l’esecutivo muoverà i suoi passi sulla strada verso la desecretazione degli atti relativi all’assassinio di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin. Si tratta di un passo decisivo nella direzione dello sgretolamento di quei “muri di gomma” che, sino ad oggi, hanno impedito l’accertamento della verità giudiziaria. Seguiremo passo, passo, l’iter e le risposte che saranno fornite da chi aveva apposto il segreto». Così in una nota l’associazione Articolo 21 secondo cui la decisione è anche il frutto delle 70mila persone «che hanno chiesto di mettere fine al regime dei segreti e della clandestinità». Ancora non è chiaro quanti e quali documenti siano oggetto della richiesta di desecretazione. I dossier classificati sono migliaia: 1500 della commissione Alpi- Hrovatin, 750 solo dell’ultima commissione d’inchiesta sui rifiuti, cui vanno aggiunti i documenti delle commissioni ecomafia dalla XII alla XV legislatura.

l’Unità 21.3.14
Emanuele Macaluso
«La mia passione non è finita col Pci»
di Claudio Sardo


Novant’anni. Come l’Unità. «Abbiamo sempre festeggiato insieme i decennali. Ma ammetto che stavolta mi fa più impressione». Emanuele Macaluso ha un legame forte, viscerale, con il nostro giornale. «Scrissi il primo articolo in clandestinità, nel ’42, sulle condizioni dei minatori delle zolfatare. Da allora non ho mai smesso». Ha scritto sulle lotte contadine, sul partito, sui governi, sulle svolte compiute e su quelle mancate. «Pubblicai i primi corsivi firmati em.ma. nell’inserto siciliano curato da Giorgio Frasca Polara». Poi Macaluso è diventato direttore de l’Unità, dall’82 all’86. Anni difficili, segnati dalla morte di Berlinguer, dalla crisi del Pci, dai debiti del giornale. Con Sergio Staino inventò Tango, il supplemento di satira. Lui riformista gentile e severo, Staino dissacratore geniale. «Volevo che la sinistra fosse capace anche di sorridere di se stessa, senza lasciare quello spazio ad altri. Molti però nel Pci lo vissero male». Non è un caso che, conclusa l’esperienza nelle istituzioni, Macaluso sia diventato una firma del giornalismo politico, tra le più polemiche e battagliere. Ora comunque si gode il suo compleanno: 21 marzo, primo giorno di primavera. Nello studio, sommerso di libri, della sua casa a Testaccio la conversazione è continuamente interrotta da telefonate di auguri. La sua vita è un catalogo di ferite, di successi e sconfitte, di battaglie combattute in prima linea. Ha conosciuto persino il carcere per essersi innamorato nel ’44 di una donna sposata: adulterio, secondo la legge dell’epoca. Ha percorso l’intera vicenda del Pci nella storia repubblicana e ne rivendica le radici vitali anche per la sinistra di oggi. Il fallimento del comunismo segnò una cesura, ma la sinistra italiana non fu azzerata. «Siamo debitori di Togliatti. Dovrebbero riconoscerlo tutti. Non ci sarebbe stata questa Costituzione senza Togliatti. Così la fedeltà democratica è diventata una stella polare della nostra azione politica e del nostro radicamento popolare». Il popolo, appunto. Per Macaluso è anzitutto la gente più povera, più bisognosa. È questo un tratto originale del «migliorista» Macaluso, che forse gli viene dalla Sicilia contadina nella quale è cresciuto: ha combattuto il massimalismo non per una vocazione liberal, ma perché lo ritiene un inganno anzitutto per i ceti deboli. «Il riformismo serve a migliorare le condizioni concrete di chi ha più bisogno, ad affermare i diritti. Sarà questo il vero banco di prova della sinistra europea di fronte alla crisi economica».
Emanuele, quando e perché ti sei iscritto al Pci clandestino? La Sicilia rurale di allora non appare il luogo ideale dove maturare la scelta comunista.
«Invece la cellula clandestina del Pci, a Caltanissetta, riunì e formò intellettuali di grande valore: Pompeo Colajanni, Calogero Roxas, Gino Cortese, Aldo Costa. Frequentava la cellula, pur senza avere la tessera, anche Leonardo Sciascia. Ed Elio Vittorini, nel ’42, venne da Milano per incontrarci in segreto. Non sapevo nulla di Togliatti e di Gramsci quando nel ’41 mi iscrissi al Pci. Lo feci perché non sopportavo il regime autoritario. E perché vedevo attorno ame sofferenze e povertà spaventose. Ebbi la tubercolosi a 16 anni. Solo un mio compagno ebbe il coraggio di venirmi a trovare in sanatorio: si chiamava Gino Giannone, era il figlio del libraio, e mi disse che per combattere davvero il fascismo c’era una sola scelta da fare: diventare comunista».
Certo, non è stato facile al Pci tenere insieme i minatori siciliani con gli operai dell’industria del Nord, le strutture militari della Resistenza con il partito del Sud. C’era il collante ideologico, è vero…
«Ma da solo non sarebbe bastato. C’era un’idea nazionale di riscatto. E la ricerca dell’unità delle masse popolari era uno dei fulcri della nostra politica insieme all’obiettivo del superamento del capitalismo. Bisogna riconoscere i meriti di Togliatti: lo dico a chi, anche a sinistra, pensa di vivere meglio semplicemente cancellando la storia del Pci. In quella militanza mi sono formato come uomo. Fu difficile, dura, ma non settaria. Quando divenni segretario della Camera del lavoro di Caltanissetta, subito dopo la liberazione, non c’era nulla: feci i primi contratti dei barbieri, dei panettieri. Guardavo negli occhi le persone che spesso faticavano a trovare da mangiare per i loro figli. La politica non ha senso se perde contatto con la drammaticità del reale».
Fino al ’56 sei stato segretario regionale della Cgil. Poi per sei anni segretario del Pci siciliano. Hai combattuto la mafia dall’immediato dopoguerra.
«Ho conosciuto la violenza mafiosa, per la prima volta, nel settembre ’44. Accompagnavo Girolamo Li Causi, segretario del Pci siciliano, a Villalba, paese del capomafia Calogero Vizzini. Mai un comunista aveva parlato in pubblico a Villalba. Li Causi salì su un tavolo, nella piazza. Davanti al tavolo eravamo dieci persone. I contadini erano accalcati ai lati della piazza mentre Vizzini con i suoi sgherri erano schierati sul fondo. Li Causi, in dialetto siciliano, spiegò ai contadini perché erano doppiamente sfruttati, dai proprietari terrieri e degli intermediari come Vizzini. Ad un cenno del capomafia scoppiò il putiferio. Ci spararono. Lanciarono bombe a mano. Una scheggia colpì Li Causi alla gamba e lui rimase in piedi sul tavolo nonostante la grave ferita, che lo azzoppò per il resto della vita. Toccò a me tornare poi a Villalba per il primo comizio dopo l’agguato. Toccò a me il comizio a Portella della Ginestra, il primo maggio successivo alla strage del ’47. La mafia è stata nostra nemica giurata in Sicilia. Uccise 36 sindacalisti in quegli anni. La mafia era organica ai privilegi di ceto e voleva tenere la Sicilia nell’arretratezza. La Dc stipulò un patto con la mafia che durò fino agli anni dello stragismo».
Oggi la coscienza della mafia come anti-Stato è cresciuta. Ma è cresciuta anche la polemica tra chi la combatte. Tu stesso sei un polemista agguerrito.
«Ho combattuto la Dc che incluse la mafia nel suo blocco di potere. Ma si deve riconoscere che la Dc, quando la mafia degli anni 80 e 90 portò l’attacco al cuore dello Stato, ruppe quel patto. Andreotti firmò nottetempo un decreto che trattenne in carcere i capimafia, nonostante una sentenza della Cassazione a loro favorevole: Rodotà allora protestò con argomenti garantisti. Ciò che non accetto da alcune cattedre è l’idea che lo Stato stia sempre e comunque con la mafia. Questo non è vero. E non ci aiuta a capire i successi, le sconfitte, le trasformazioni delle organizzazioni criminali. Dopo Falcone e Borsellino, i capimafia sono stati quasi tutti arrestati. Questa storia della trattativa per molti aspetti non mi convince. Chiediamoci piuttosto perché e come la mafia è emigrata al Nord e ora si occupa di finanza. Chiediamoci perché la ’ndrangheta è diventata più forte della mafia».
Negli anni Cinquanta sei stato tra i protagonisti dell’operazione Milazzo. Un ribaltone al governo della Regione Sicilia, promosso da un pezzo della Dc, sostenuto dal Pci e anche dal Msi. Un episodio di trasformismo, secondo la storiografia prevalente.
«Invece fu il tentativo più importante per cambiare il corso della politica siciliana. Il progetto prese le mosse dalla legge sull’industrializzazione della Sicilia. L’idea - condivisa da personalità come Ludovico Corrao e Francesco Pignatone - era di porre l’autonomia siciliana a servizio di un programma di sviluppo. Altro che trasformismo. Fu una sfida che Togliatti sostenne in prima persona. Contro di noi si scatenò un’autentica guerra: il governo nazionale usò i servizi segreti, il cardinale Ruffini predicava contro Milazzo tutte le domeniche. Volevamo trasformare la Sicilia in una società industriale. Invece la conservazione voleva mantenere il sottosviluppo. Fummo sconfitti e i ritardi, le clientele e gli sprechi di oggi sono conseguenze del lungo immobilismo ».
Alla segreteria del Pci sei arrivato nel ’63. Togliatti ti affidò la guida dell’organizzazione.
«In realtà ero a Roma già da un anno. Condividevo una casa con Giancarlo Pajetta e avevo lavorato con Enrico Berlinguer alla preparazione del congresso del ’63. Il lavoro organizzativo è sempre stato per me di grandissima importanza. Ci vuole disciplina nella battaglia politica per ottenere risultati concreti».
Con la segreteria di Longo è Napolitano ad assumere il ruolo di numero due. È lì che si cementa la vostra amicizia?
«Conobbi Giorgio Napolitano nel 1950. Faceva il servizio militare a Palermo e un giorno venne a trovare Li Causi. Negli anni successivi lavorammo insieme nelle grandi battaglie del Mezzogiorno. Quando divenne coordinatore della segreteria del Pci, Napolitano emerse per le sue doti di grande equilibrio. Confesso però che, dopo l’ictus che colpì Longo, nella consultazione per la scelta del vicesegretario, anch’io indicai Enrico Berlinguer. Napolitano risultò il secondo nelle preferenze. La mia stima e la nostra amicizia sono da allora cresciute nel tempo».
Avendo detto che Togliatti va rivalutato ed essendo tu uno dei capi dell’area «riformista» del Pci , si potrebbe dedurre che sei un berlingueriano critico.
«Sono invece stato un sostenitore convinto di Berlinguer. E un suo grande amico. Quando ci fu il gravissimo incidente d’auto in Bulgaria, nel ’73, Enrico confidò il suo sospetto soltanto alla sua famiglia e a me: volevano ucciderlo ma non si doveva dire perché la notizia avrebbe avuto effetti destabilizzanti. Tenni il segreto fino al ’91, poi mi sentii libero di parlare. Berlinguer fu scelto segretario perché era il più togliattiano. Il compromesso storico fu l’attualizzazione della politica di Togliatti. L’attenzione ai cattolici rientrava pienamente nella politica del Pci, anche perché si guardava al pensiero religioso come una forza critica del capitalismo ».
Tu però hai sempre sostenuto la politica unitaria a sinistra. Il dialogo con i socialisti è stato per te più importante del confronto con la Dc.
«Nell’impianto originario del compromesso storico non c’era contrapposizione tra politica unitaria con i socialisti e confronto con la Dc. Per questo con Napolitano, Bufalini, Chiaromonte siamo stati tra i più leali sostenitori dell’unità nazionale. La rottura avvenne con Craxi. Berlinguer non si fidava: coglieva nella sua politica il proposito di emarginare il Pci. Eppure non ruppe i ponti, almeno fino all’83, quando alle Frattocchie fu firmato un importante documento comune tra Pci e Psi. Il governo Craxi fu però per Berlinguer una rottura che non si ricomporrà più».
In quel periodo voi «miglioristi» cominciaste ad assumere una posizione diversa.
«Nel 1980, dopo un anno di pentapartito, proposi di ritornare all’unità nazionale affidando però la guida del governo ai socialisti. Berlinguer si affrettò a dire che si trattava di una mia opinione personale. Di lì a poco compì la svolta di Salerno. Ma l’alternativa democratica era soprattutto una difesa, una sfida a Dc e Psi: non ce la farete contro il Pci. Poi arrivò il decreto sulla scala mobile: fu la risposta di Craxi, si poteva governare contro il Pci. Noi riformisti avvertivamo che una lunga stagione si stava esaurendo. Il compromesso storico aveva un contenuto anti-capitalistico che rischiava di apparire velleitario. La fine del comunismo non ci avrebbe lasciato indenni, dovevamo puntare all’approdo nel socialismo europeo».
Volevate costruire un rapporto positivo con i socialisti. Ma il craxismo non fu anche all’origine della nuova destra berlusconiana.
«Non condivido quest’analisi. Berlusconi non è figlio del craxismo. È vero che nel Psi c’era una corrente governista, di cui è erede Brunetta, che cercava il governo comunque e con chiunque. Ma Berlusconi è stato un’altra cosa: è stato l’uomo che ha riempito il vuoto creato da Tangentopoli nella rappresentanza moderata. Piuttosto, la sinistra aiutò Berlusconi opponendogli la più improbabile delle alleanze, con Bertinotti e Leoluca Orlando. Ho sostenuto con convinzione la svolta di Occhetto. Ma i Progressisti furono un grave errore, che penalizzò la cultura riformista».
Non sei entrato nel Pd perché non era socialista: ora che è avvenuto l’ingresso nel Pse, sei disposto a riconoscere che la cultura dei democratici può dare un contributo ai progressisti europei?
«L’ingresso formale nel Pse è un passo avanti importante. Sono contento di questo. Il confronto con i cattolici sarà però utile se avrà il suo baricentro in una concreta politica riformista. Dobbiamo avere la forza di riattivare l’Europa sociale. In sintesi, il Pd farà bene se allargherà la sinistra a cattolici come Delors e se caccerà cattolici come Francantonio Genovese».
il Fatto 21.3.14
Cartello choc a Roma: “Ingresso vietato ai rom”


È SEVERAMENTE vietato l’ingresso agli zingari”. Roma, 2014 come la Berlino del 1938. Sono passati più di 70 anni dal periodo più buio che l’uomo abbia conosciuto, ma la storia si ripete. Stavolta a farne le spese sono gli zingari ai quali è vietato entrare in una panetteria di Roma, nella zona popolare Tuscolana. La denuncia viene dall’Associazione 21 Luglio che, attraverso i suoi legali, ha inviato una diffida alla panetteria, paragonando ciò che è scritto nel cartello “alla discriminazione degli ebrei nella Germania nazista e a quella dei neri, in Sudafrica, durante l’Apartheid”. Dopo la segnalazione di uno degli attivisti, il cartello è stato rimosso. L’associazione ha anche inviato una lettera al presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, nella giornata mondiale contro il razzismo che si celebra oggi, per esprimere “preoccupazione sul livello di conflittualità e ostilità nei confronti delle comunità rom e sinti e per l’emergenza democratica e civile del Paese”.

La Stampa 21.3.14
Prato, i sette operai morti nel rogo lavoravano per due euro l’ora
Per l’incendio alla fabbrica arrestati due italiani e tre cinesi
Il Comune sapeva, faceva pagare i rifiuti sui loculi
Risarcimenti alle famiglie in cambio di testimonianze “ammorbiditi”
di Niiccolò Zancan

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Corriere 21.3.14
Un meticciato forse ci salverà
di Severino Salvemini


Ovunque si vada, la crisi è diffusa: di rappresentanza, di fiducia, di senso. La gente non sembra contenta e progetta di fuggire altrove. La disponibilità al viaggio e la globalizzazione hanno innalzato la propensione ad emigrare, anche nelle classi intellettuali. Si gira il mondo, nella convinzione che l’erba del vicino sia più verde di quella del proprio cortile.
E ciò non è solo il caso dell’Italia e degli Italiani. «Succede a Roma come al Cairo, a Berlino come a New York» — confessa Domenico De Masi (Mappa Mundi , Rizzoli, pp. 874, e 21). «Si vaga, si sperimenta, ma poi il grado di soddisfazione è simile al luogo da cui si è partiti». È l’epoca del disorientamento: uno stato d’animo che l’umanità ha sempre provato, ma che mai come oggi ha raggiunto una intensità così deprimente. Il percorso è sempre più erratico e insensato. C’è l’esigenza di un mondo nuovo consapevole e solidale, ma non sappiamo come orientare il progresso che è privo di regole e di scopi.
La società postindustriale, denominata a volte «liquida», a volte «a pensiero debole», è senza un modello. Agisce senza appartenenza e riferimenti di pensiero utili al suo cammino. Messa in soffitta la spuntata razionalità e sposata la prassi delle «mezze verità», essa si contorce, incapace di costruire certezze consolidate, alimentando pericolose improvvisazioni. È la prima volta che abbiamo tutto quello che ci serve, ma ci mancano il porto e la rotta. Manca una guida che diriga, un faro che illumini, saggio e credibile. Non abbiamo un modello di vita, sostiene De Masi. E la colpa di ciò è preminentemente degli intellettuali che si sono appiattiti sulla politica e sul potere e si sono estraniati dai veri contesti, dimenticando il loro ruolo e il loro dovere umano, sociale e soprattutto di pensiero.
Se questa è la diagnosi feroce, quale può essere allora la terapia? Recuperare il meglio dei modelli sociali prodotti dall’uomo nel passato e in altre latitudini (dall’umanesimo spirituale al modello indiano, da quello brasiliano a quello musulmano, passando per quelli cinese, giapponese, classico, ebraico, cattolico, protestante, illuminista, capitalista, socialista, comunista). Solo prendendo il meglio da questi schemi di vita (ogni capitolo è destinato ad una trattazione pregevole e appassionata di un modello e ogni capitolo termina con un paragrafo dal senso «...non possiamo non dirci cinesi…o giapponesi… o musulmani… e così via) potremo impostare un nuovo sistema che ci indirizzi verso il comune obiettivo della felicità umana. Uno Stato che attenui le condizioni sociali violente, ingiuste, rapaci e negative. Uno Stato che indichi la strada, che abbia il coraggio delle idee, che metta in fila azioni in grado di ribaltare la situazione ossificata.
La fine della cultura europea e il declino dell’Occidente? Qui il sociologo sorride sornione e apre all’ottimismo: come un cuoco che pizzica ingredienti da spezie di lontana provenienza, la ricetta è un sano meticciato. Non possiamo sprecare le esperienze dell’umanità. Un po’ di protestantesimo, una manciata di sensualità brasiliana, una bussola illuministica, una dose di religiosità indù, qualche grammo di estetica classica ed ecco che possiamo uscire dall’attuale nebbia e dalla voglia di vagare altrove, grazie ad un rinnovato riorientamento. Eccoci reindirizzati verso un mondo aperto alle speranze e all’avvenire.
Il saggio è dedicato ai naviganti di prua, quegli emigranti che nella nave che portava verso il nuovo mondo erano attratti dalla parte anteriore del natante, perché da lì si sarebbe scorta la terra promessa, mentre invece gli stanziali di poppa erano orientati verso la nostalgia che cresceva mano mano che l’immagine del paese di origine perdeva i suoi dettagli e i suoi confini.

l’Unità 21.3.14
Voto di maggio prova cruciale
La sinistra riformista alla prova del voto
di Massimo D’Alema


L’Europa che va al voto nel prossimo mese di maggio è, come non mai, un’Europa attraversata da un profondo e drammatico malessere sociale e da un’incertezza sul suo futuro, da una preoccupante diffidenza nelle sue classi dirigenti politiche e nelle sue istituzioni, sia nazionali che comunitarie. Mentre il mondo si è rimesso in movimento, nel tentativo di uscire dalla più grave crisi economica, finanziaria e sociale del dopoguerra, l’Europa stenta a ripartire.
Dobbiamo reagire, non possiamo lasciare i cittadini europei in balia della sfiducia o della rivolta populista, senza alcuna prospettiva. È compito dei progressisti rilanciare una visione europeista rinnovata, consapevoli della limitata efficacia delle politiche attuate su scala nazionale, della incerta legittimazione delle decisioni prese su base intergovernativa e, viceversa, della forza di un’Europa unita e rappresentativa.
La sinistra riformista ha messo in campo alcune grandi novità.
Innanzitutto, per la prima volta, noi vogliamo offrire ai cittadini europei la possibilità di scegliere il presidente della Commissione, che non dovrà più scaturire da opache trattative fra governi, ma dovrà essere indicato dal voto popolare. Quindi, per la prima volta, le elezioni saranno davvero europee. La posta in gioco sarà reale: il voto conterà.
I progressisti si presentano agli elettori esprimendo un candidato che è senza dubbio tra le personalità politiche più «europee » che siano oggi sulla scena. Martin Schulz, infatti, ha legato tutta la sua passione ed esperienza politica alle istituzioni comunitarie. La sua storia non lo qualifica come rappresentante di uno Stato nazionale, ma come uno dei più importanti fautori del processo politico e democratico europeo. Un impegno, questo, al quale si è dedicato durante tutto il suo percorso politico e istituzionale, come presidente di commissione parlamentare, come capogruppo, come presidente del Parlamento europeo.
I progressisti propongono un programma di profondo cambiamento, che, in primo luogo, investe direttamente, come già accennato, i processi democratici a livello europeo e che va nel senso di uno spostamento dalla dimensione intergovernativa a quella sovranazionale, ovvero di un riequilibrio di poteri tra Consiglio da una parte e Parlamento e Commissione dall’altra. È indubbio, infatti, che il prevalere delle politiche dettate dai paesi più forti in seno al Consiglio ha determinato una perdita di credibilità che talvolta sfocia in aperta ostilità delle opinioni pubbliche dei paesi economicamente più fragili contro l’insieme delle istituzioni europee.
Secondo pilastro del programma è il superamento del “dogma” dell’austerità. Sappiamo bene che ciò non significa negare la necessità del rigore nella gestione della spesa pubblica, ma implica una maggiore solidarietà tra gli Stati europei. Occorre un’armonizzazione delle politiche fiscali e degli standard sociali, spostando il peso della tassazione dal lavoro alla rendita finanziaria per liberare risorse a favore di crescita e sviluppo. Occorre mutualizzare il debito e prevedere piani di investimenti che puntino sull’innovazione e sostengano le piccole e medie imprese. A questo proposito, quello dei progressisti è un programma puntuale e concreto di misure che possono essere realizzate nel breve e medio periodo, con l’obiettivo di imprimere quella svolta necessaria, e dunque percepibile nella vita quotidiana dei cittadini, alle politiche economiche europee.
Terzo pilastro è il rafforzamento della proiezione europea sullo scenario internazionale, e in particolare sull’area del Mediterraneo, che, per evidenti ragioni geopolitiche, è sempre stata prioritaria nella politica estera dell’Italia e ha acquisito nuova importanza strategica in seguito alla tumultuosa stagione delle rivolte arabe. Guardando a Est, invece, l’Europa si confronta con l’assertività nazionalista di Putin. Su questo fronte va scongiurato il rischio di una nuova guerra fredda, ma deve essere ferma la condanna e determinata l’azione in tutte le sedi diplomatiche contro ogni forma di aggressione e violazione dei diritti umani, da qualsiasi parte essa provenga. L’Europa, consapevole della sua unicità, che affonda le proprie radici in principi e valori di pace, democrazia e solidarietà, non può sottrarsi alle responsabilità a cui è chiamata in un mondo fortemente globalizzato, multipolare e in continuo mutamento.
Ci presentiamo alle elezioni, infine, con una novità di fondo: il Pd parte integrante di una rinnovata sinistra europea. L’anomalia italiana è ormai alle spalle, grazie a una scelta politica che non rappresenta una conversione ideologica del nostro partito, ma la presa d’atto che una grande forza, sia pure culturalmente plurale e innovativa come il Partito Democratico, ha il suo spazio naturale, insieme a progressisti, socialisti, socialdemocratici e laburisti europei, nel Pse. D’altro canto, vogliamo partiti europei più forti, che rappresentano il migliore antidoto al ritorno dei nazionalismi e senza i quali è difficile avere un’Europa più unita e democratica.
Non siamo in campagna elettorale per riaffermare una retorica europeista di maniera, ma per segnare il profondo cambiamento di un’Europa che così com’è non solo non funziona, ma non dà risposte alle domande legittime dei suoi cittadini. Possiamo vincere. In campo c’è anche una sinistra più radicale, a cui guardiamo con interesse perché non cavalca la retorica antieuropeista, ma non c’è dubbio che la sfida per il primato sia tra socialisti e popolari, che chiedono il voto sulla base di proposte alternative.
Il voto di maggio deciderà quale sarà la guida e dunque la direzione che prenderà l’Europa del prossimo futuro. Noi vogliamo un’altra Europa. Un’Europa diversa da quella che conosciamo, più democratica e inclusiva, che metta al centro della sua azione crescita, lavoro e innovazione.

Repubblica 21.3.14
Perché l’UE rischia di tingersi di nero
di Piero Ignazi



Il Front national di Marine Le Pen in Francia e il Partito della libertà di Geert Wilders sono oggi i primi partiti dei rispettivi Paesi: entrambi sono accreditati di più del 20% dei voti alle prossime elezioni europee: il Fn sopravanza sia un partito socialista boccheggiante dopo la serie di passi falsi della presidenza e del governo, sia un partito gollista tramortito dagli scandali; e il Pvv di Wilders supera sia i liberali che i socialisti.
Sulla loro spinta arriverà una compatta falange estremista al Parlamento di Strasburgo? Per quanto queste previsioni possano inquietare, i consensi che la destra radicale potrebbe conquistare in tutta Europa inducono a considerazioni meno pessimiste.
In realtà la marea montante che tanto impressiona si limita ad alcuni Paesi. Alle ultime elezioni politiche svoltesi nei 28 Stati membri dell’Ue sono arrivati in Parlamento solo 11 partiti estremisti sui 18 che superano l’1% dei voti. Di questi 18 partiti solo la metà ha incrementato i propri consensi in rapporto alle precedenti elezioni: l’altra metà, invece, ha perso voti. E ancora, i grandi balzi in avanti - più di 5 punti percentuali - sono limitati a pochi casi, e solo l’Fpo austriaco (la formazione erede di Jorg Haider) è andato sopra il 20% dei voti.
L’allarme va quindi riconsiderato alla luce di questi dati. In fondo alcuni grandi Paesi - Spagna, Polonia, Germania e Gran Bretagna - sono privi di partiti estremisti: la Polonia ne aveva due (il Partito dell’autodifesa e la Lega della famiglie polacche) ma ora sono praticamente scomparsi; la Germania ha da tempo sradicato la possibilità di una ripresa di movimenti radicali grazie al suo impegno di prevenzione, controllo ed educazione civica; e la Gran Bretagna ha visto alle ultime elezioni locali il definitivo tracollo del British national party le cui prospettive di ascesa avevano così inquietato i britannici. Per quanto riguarda il Regno Unito, il partito euroscettico dell’United kingdom  independence party non rientra certo nella famiglia politica degli estremisti di destra. Il suo atteggiamento anti-Ue per quanto inflessibile non è nutrito degli stessi stimoli che motivano l’euroscetticismo di un Front national o di un Fpo. E lo stesso vale per il M5S, per quanto la sua confusione sull’Europa sia somma.
Ricalibrato così il rischio di un Parlamento europeo tinto di nero, rimane il fatto che queste elezioni possono innescare una dinamica pericolosa. A partire dalla Francia. Oltralpe il successo politico- mediatico di Marine Le Pen è incontestabile. Con una abilissima opera di rinnovamento della immagine e del discorso politico il Fn ha dismesso la sua espressione aggressiva e minacciosa. Per meno della metà dei francesi ormai il Front national non rappresenta più un pericolo, mentre fino al 2010 più del 65% lo considerava tale. Ora il cordone sanitario intorno al partito si è allentato. Più della metà degli elettori gollisti vedono con favore l’ipotesi di alleanze e accordi locali col Fn. Questo grazie anche ad alcune variazioni significative che Marine Le Pen, più o meno strumentalmente, ha introdotto nelle sue argomentazioni in merito alla laicità, al riconoscimento di alcuni diritti civili e al ruolo dello Stato. Tant’è che il 10-15% degli elettori del presidente François Hollande pensa di passare al Fn alle prossime elezioni europee. E altrettanto vuole fare il 20% di coloro che si collocano all’estrema sinistra. Lo sfondamento a sinistra e il recupero a destra riproducono la formula vincente dei partiti antisistema. Se al Fn riesce questa impresa e diventa veramente il primo partito di Francia, allora il suo esempio rischia di essere contagioso e di produrre un’onda nera tale da sconvolgere gli equilibri politici di molti Paesi europei.
È per questa ragione che anche in Italia, dove la Lega nord si sposta sempre più all’interno dell’estremismo populista, dovremmo adottare, come in Germania, iniziative pubbliche di contrasto nei confronti delle ideologie anti-liberali e anti-democratiche dei partiti anti-sistema. Anche noi, benché ci piaccia dimenticarlo, abbiamo avuto un regime autoritario. Ma a parte la retorica resistenziale, non è stato fatto nulla per contrastare il risorgere di quella mentalità; anzi venne tranquillamente accolto in Parlamento un partito chiaramente nostalgico ad appena tre anni dalla fine della guerra.
Le forze estremiste che entreranno nel Parlamento di Strasburgo non saranno tali da determinare la politica europea. Ma il loro clamoroso successo in un grande Paese come la Francia può avere un effetto leva su quei vasti settori di opinione pubblica attratti dal discorso anti-egualitario ma ora accasati in altri partiti o lontani dalla politica.
È per prevenire questo rischio, latente anche in Italia, che le istituzioni dovrebbero seguire la rotta indicata dalla Germania con le sue iniziative sui pericoli del radicalismo e dell’estremismo politico. La sottovalutazione in questi vent’anni delle pulsioni illiberali e anti-sistemiche (rappresentate soprattutto dalla Lega) ha prodotto un terreno ricettivo dell’estremismo e del populismo. Questa volta le pulsioni sono andate, fortunatamente, verso il Movimento 5Stelle, ma ad un altro tornante potrebbero prendere altre e ben peggiori direzioni.

Repubblica 21.3.14
Per l’Europa è tempo di cambiare
di Martin Schulz



QUELLO che sta succedendo ai confini dell’Unione ci spinge a riflettere sul significato dell’identità europea, sul nostro progetto politico e sul futuro comune che vogliamo costruire. Il caso del voto Svizzero contro l’immigrazione è sintomo di un chiaro allontanamento da una delle conquiste fondamentali per l’Unione: la libera circolazione delle persone e dei lavoratori, non certo quella dei capitali. Dall’altra parte, l’Ucraina.
Per i cittadini ucraini scesi in piazza a Maidan, l’Unione rappresenta tutto ciò che è loro negato: stato di diritto, democrazia, libertà civili, benessere, stabilità.
Per molti cittadini dell’Unione invece, la rivoluzione ucraina pro-europea e allo stesso tempo il voto svizzero sono stati un piccolo shock. Com’è possibile che gli ucraini abbiano dimostrato tanta voglia di avvicinarsi a un’Unione ancora in crisi, a bassa crescita, alta disoccupazione e che impone un fardello di regole e burocrazia ai suoi cittadini? E dall’altra parte, com’è possibile che i cittadini Svizzeri, con il loro benessere, con la loro bassissima disoccupazione, abbiano invece voluto mettere in pericolo la loro relazione con il loro più importante partner commerciale, e la partecipazione a programmi culturali e di ricerca comuni?
Svizzera e Ucraina obbligano noi cittadini dell’Unione a una riflessione sulla nostra identità, sui nostri valori, sulle fondamenta su cui si poggia la nostra Unione. Su cosa vogliamo salvare e cosa invece vogliamo riformare, su come vogliamo affrontare le sfide che abbiamo davanti, dal riscaldamento globale ai movimenti migratori, dal sistema economico ai nuovi diritti. Come vogliamo affrontare queste sfide? Uniti o divisi? Conservando o avanzando? Inseguendo o mostrando la nostra leadership come europei?
Molto è stato detto e scritto sull’origine della crisi che ha intrappolato il continente negli ultimi cinque anni. È in parte vero che, se la crisi non è stata fabbricata in Europa, in Europa ha trovato la sua espressione più grave: il peso dell’interdipendenza tra debito sovrano e banche è stato sostenuto dai cittadini, che hanno dovuto assistere a un deterioramento dei salari, dei servizi e della solidarietà europea.
Mentre gli Stati Uniti a inizio crisi davano vita a un sostanzioso pacchetto di stimolo per l’economia, noi siamo rimasti alla finestra e abbiamo aspettato che la crisi si materializzasse in tutta la sua forza prima di intervenire. È vero che la governance economica è stata rafforzata, e che siamo ora meglio equipaggiati per prevenire crisi future. Il quadro normativo è ora molto più forte e veramente europeo.
Grazie soprattutto all’azione del Parlamento europeo sono state create regole per mettere fine ai comportamenti più nocivi del settore finanziario.
Ciononostante non possiamo non ammettere che l’intervento dell’Unione in materia macroeconomica è stato - per utilizzare un lessico caro agli economisti - pro-ciclico: chiedendo agli Stati membri maggiori sforzi nel consolidamento di bilancio, tagli, austerità, senza dall’altra parte creare uno strumento per rilanciare una domanda interna depressa e investimenti al palo.
Mentre dall’altra parte dell’Atlantico si creavano strumenti e politiche innovative per il rilancio dell’economia, sia a livello di politica economica federale, sia a livello di banca centrale, l’Europa si è concentrata soprattutto a estinguere le fiamme. Vediamo ora i segnali di una debole ripresa, ma ancora troppo debole per abbassare significativamente l’alto tasso di disoccupazione, soprattutto giovanile, e per fermare l’emorragia nella chiusura di piccole e medie imprese. L’Europa ha bisogno di un cambiamento radicale. I partiti euroscettici, e anche alcune voci a sinistra, guardano all’euro come la causa di tutti i mali: una moneta troppo forte che non riflette il differenziale di competitività tra i vari paesi della zona euro. Rifiuto fermamente queste critiche alla moneta unica, una delle conquiste più importanti dell’Unione europea dalla sua creazione.
L’euro e la Banca Centrale Europea hanno garantito nei loro primi quindici anni di vita un rafforzamento del mercato unico, hanno eliminato le incertezze legate alle fluttuazioni del mercato della valuta all’interno della zona euro, hanno semplificato la vita a chi voleva fare impresa e garantito una stabilità di prezzi anche nei Paesi come l’Italia in cui, prima, l’inflazione intaccava i risparmi delle famiglie. È vero, è scomparso lo strumento della svalutazione competitiva, ma non siamo più negli anni ’80. L’euro ha funzionato come cuscinetto anti-shock (la Grecia senza l’euro sarebbe direttamente fallita, scenario che abbiamo evitato) e la Banca Centrale con la sua autorevolezza è intervenuta laddove i governi avevano esitato, garantendo l’unità della zona euro.
Il problema non è mai stato l’euro, ma la nostra politica economica. L’Unione si è focalizzata quasi totalmente sul lato dell’offerta, mentre i consumi hanno affrontato una lunga inesorabile crisi, aumentando gli squilibri. L’entrata nella coalizione di governo dei Social Democratici tedeschi, e la creazione di politiche di stimolo come la creazione di un salario minimo in Germania, rappresentano già un’importante segnale di una politica economica più equilibrata per la Germania e per l’Europa.
Anche a livello europeo dobbiamo continuare a correggere gli squilibri. Ma il bilancio dell’Unione da solo, pur essendo un formidabile strumento d’investimento per l’economia reale, per le regioni e i territori, per la ricerca, non è però lo strumento per creare una politica macroeconomica a livello europeo. La creazione di una vera politica economica a livello europeo deve essere uno dei temi centrali della prossima legislatura e di conseguenza uno dei temi centrali delle prossime elezioni europee di maggio.
L’Unione europea non può semplicemente creare una politica fatta di “target” - di cui il più noto è il famigerato 3% - certamente uno strumento utile perché gli Stati si “approprino” delle politiche europee, creando obiettivi nazionali per il raggiungimento di un risultato comune. Ma i target da soli non sono sufficienti. L’Unione ha bisogno di target anche nel campo sociale, ma ancor di più ha bisogno di politiche. La Commissione europea dev’essere un’istituzione assolutamente imparziale, ma non può essere un’istituzione neutrale.
Utilizzando un paragone calcistico, alcuni vogliono fare della Commissione europea un semplice arbitro tra squadre di calcio. La mia idea invece è che le istituzioni comunitarie, Commissione in primis, debbano avere il ruolo di allenatore, che scelga i giocatori, dia una strategia per affrontare la partita, sia responsabile dei successi, ma anche degli insuccessi della squadra. E quando i risultati sono insoddisfacenti non si cambia l’arbitro, si cambia il giocatore.
Dobbiamo essere in grado di dividere la critica all’Europa di un europeista dalla critica all’Europa di un antieuropeista. Io sono il primo critico dell’Europa, e penso che un cambiamento radicale sia indispensabile, ma nella direzione opposta a quella indicata dagli euroscettici. Credo che le soluzioni vadano cercate in un rafforzamento delle istituzioni comunitarie, sono antidoto al riemergere degli egoismi nazionali e delle pulsioni centrifughe. Credo che solo insieme possiamo trovare risposte adeguate a questa crisi, e che il male di questi anni sia stato soprattutto la troppo poca e troppo tardiva solidarietà fra Stati europei.
Nei trattati non c’è scritto come uscire dalla crisi e l’Unione non è riuscita a imprimere un forte senso di direzione. È arrivato il momento per la politica europea di tornare a osare: osare il cambiamento, osare la solidarietà, ma soprattutto “osare la democrazia”.

Com.Unità 20.3.14
La buona società di liberi uguali e diversi il progetto dei progressisti europei
su Uguali e diversi
di Carlo Patrignani

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il Fatto 21.3.14
La Cina e i figli di nessuno I baby box non bastano più
Nella metropoli di Guangzxou hanno sospeso il servizio che permette di lasciare un neonato in forma anonima
In un mese contati 262 bambini
di Cecilia Attanasio Ghezzi


Nelle periferie cinesi succede spesso. I neonati vengono abbandonati da madri che non se ne possono prendere cura. Sono troppo giovani, non hanno un compagno e non hanno gli strumenti economici e legali per combattere la maldicenza comune. Secondo il ministero degli affari civili solo nel 2012 in Cina sono stati abbandonati 570mila bambini, l’11 per cento in più rispetto all’anno precedente. E le strutture preposte all’accudimento e alle adozioni degli orfani ne avrebbero nutrito solo 100mila. Degli altri 470mila si sono perse le tracce. E se il fenomeno è diffuso in generale, è tanto più comune in quelle metropoli industriali, meta di decine di milioni di lavoratori migranti che sperano di realizzare così il loro sogno di fuga dalla campagne.
COSÌ LA REPUBBLICA popolare ha deciso di sperimentare le baby box, ruote degli esposti dei tempi moderni, che prevedono l’anonimato per chi abbandona, e le cure per il neonato. La Cina ne ha già aperte 25 in dieci regioni e il ministero degli Affari Civili ha annunciato di volere estendere il progetto a altre 18 regioni. Anche Pechino ne aprirà una entro l’anno. Ma a Guangzhou, metropoli della Cina meridionale, dopo due mesi le hanno sospese per “sovraffollamento”. Dalla loro apertura il 28 gennaio scorso, sono stati abbandonati 262 bambini. E le polemiche non sono mancate. In Europa le abbiamo avute fino all’inizio del Novecento. Poi sembravano essersi estinte, ma il fenomeno non è scomparso. Anzi. A giugno 2012 il Comitato Onu per i diritti del bambino si è detto “preoccupato” per aver verificato che negli ultimi dieci anni nel vecchio continente sono state istallate circa 200 baby box. Il dibattito è tra chi pensa che il diritto del bambino a conoscere i propri genitori vada tutelato ad ogni costo e chi invece è convinto che l’importante sia salvare una vita umana.
La Cina è evidentemente più propensa a quest’ultima ipotesi. Senza attentare alla privacy della madre, questa sorta di container - da circa 18mila euro l’uno - sono completamente equipaggiate degli strumenti medici necessari. I genitori devono solo suonare un campanello e allontanarsi. Qualcuno dalle strutture preposte si recherà sul posto a prendere in consegna il neonato. Secondo uno studio condotto dal dipartimento per la pianificazione famigliare del Guangdong almeno la metà delle lavoratrici migranti che arrivano nella regione fa sesso prima di sposarsi. Di queste quasi il 60 per cento affronta una gravidanza non voluta. In un solo distretto della megalopoli di Shenzhen, in soli cinque anni, almeno dieci madri sono state condannate per aver abbandonato o ucciso il proprio figlio appena nato.
TUTTE LORO sono lavoratrici migranti, single, tra i 16 e i 23 anni, probabilmente vittime della convinzione popolare che avere un bambino senza un marito sia un’offesa mortale per tutta la propria famiglia. Senza contare che spesso queste giovani donne sono portatrici di storie personali molto dure che non hanno gli strumenti per lasciarsi alle spalle. Un recente studio sulle condizioni delle fabbriche della metropoli meridionale di Guangzhou dimostra come il 70 per cento di queste operaie ha subito molestie sessuali dai propri colleghi.
Il 15 per cento di loro - una donna su sei - ha addirittura abbandonato il proprio posto di lavoro, rinunciando allo stipendio pur di uscire da un incubo. Ognuna di loro ha cercato di risolvere i propri problemi da sola e, forse, tra le soluzioni possibili ha anche considerato quella di abbandonare un figlio non voluto.

La Stampa 21.3.14
Wilders in testa all’Aja
“Cacciamo i marocchini”
I risultati del voto locale in Olanda: crollano i partiti di governo, avanzano gli xenofobi
di Marco Zatterin

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Sette del Corsera 21.3.14
Nel neo governo della Bachelet anche gli esponenti della protesta studentesca
di Rocco Cotroneo

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l’Unità 21.3.14
Memorie
Un secolo di lotte
Fotografie, documenti e ricordi raccontano la Cgil
«Le carte del lavoro» Dai giornali mazziniani a Salvemini, fiero avversario dei «sindacalisti rivoluzionari»:
un libro di Giuseppe Sircana prezioso e pieno di rarità
di Bruno Ugolini


È UNA SORTA DI «VETRINA CARTACEA», COME DICE L’AUTORE, LO STORICO GIUSEPPE SIRCANA. Sotto il titolo Le carte del lavoro, un secolo di lotte sociali, sindacato e politica (Ediesse), prende forma un viaggio tra fotografie, documenti, ricordi. É la carta d’identità di una Cgil che passa dai tempi di Mazzini e Garibaldi a tempi più recenti. Eccolo questo sindacato, oggi sotto accusa, come se ormai non rappresentasse più nulla, nei giorni della frantumazione produttiva e della globalizzazione. Sarebbe il caso di rispettarlo, almeno scavando nella sua memoria, se non per i suoi iscritti contemporanei, quei circa sei milioni di donne e uomini con tessera Cgil, da contare accanto agli associati con Cisl e Uil. Un soggetto sociale che mantiene la sua grande forza organizzata, malgrado ritardi e acciacchi. Il bel volume di Sircana spiega perché questo «gigante del lavoro» ha mantenuto un tale radicamento. Perché ha saputo tener conto, come annota Susanna Camusso nella prefazione, delle «straordinarie trasformazioni intervenute nel corso del tempo». Le vediamo in questo viaggio, documentato da Ilaria Romeo che cura l’archivio nazionale Cgil. Passiamo così dal «Mutuo soccorso tecnico» fondato a Napoli nel 1877, alle società dei tornitori, ai lavoratori della terra guidati da una donna, Argentina Altobelli, agli anni della clandestinità antifascista, alla poderosa industrializzazione degli anni 60.
Scaturisce, altresì, di pagina in pagina, il volto di un’organizzazione che sa anche coltivare il confronto interno spesso aspro. Un caso esemplare riguarda Rinaldo Rigola, tra i fondatori del sindacato, segretario generale dal 1906 al 1918. Un dirigente che poi, a differenza di altri, soggiace agli imperativi del corporativismo fascista. Ebbene quando il fascismo è sconfitto Di Vittorio e la segreteria confederale, pur senza dimenticare il «profondo contrasto» del passato vuole riconoscergli il «grande contributo » portato al nascere del movimento sindacale. Tanto che in una lettera lo stesso Di Vittorio annuncia un aiuto economico spiegando come del resto «in una organizzazione sindacale degna di questo nome, le divergenze d’opinioni sono perfettamente legittime».
Non trattasi, insomma, di un’organizzazione segnata da autoritarismi e dogmatismi. Lo testimonia una lettera (1957) di Louis Saillant (a capo della Federazione sindacale mondiale) polemico con il segretario Cgil socialista Fernando Santi reo di aver difeso gli operai polacchi di Poznam in rivolta contro il regime stalinista. Lo stesso Di Vittorio, del resto, aveva assunto nel 1956 una posizione autonoma, diversa da quella del Pci, contro la repressione in Ungheria. Nel volume di Sircana è a tal proposito ospitato un telegramma dello scrittore Italo Calvino: «Commosso condivido tua posizione indispensabile per salvare nostro partito et causa socialismo».
Interessante, tra le «chicche» del libro, una documentazione relativa a Gaetano Salvemini, fiero avversario dei «sindacalisti rivoluzionari », considerati, in sostanza, dei parolai inconcludenti. Sono le tappe di un percorso accidentato che giunge fino ad anni più recenti. È possibile così imbattersi in nuove drammatiche discussioni, connesse al fenomeno sanguinoso del terrorismo. C’è un confronto animato nella segreteria Cgil, (approfondito su «Rassegna sindacale» da Giovanni Rispoli), tra i sostenitori della «fermezza» e i cosiddetti «trattativisti». Con Sergio Garavini che dice: «I riflessi di una trattativa sarebbero devastanti, la massa di qualunquismo crescerebbe e inquinerebbe anche noi». Mentre Marianetti e Didò oppongono un giudizio differente. Con Elio Giovannini che osserva come rimettere al centro della discussione «il rifiuto della morte di qualcuno è una parte della battaglia contro il terrorismo». Esce il volto, da queste Carte del lavoro (scelte dagli scaffali dell’archivio di Roma «Manuela Mezzelani», dell’archivio nazionale e da quello della Flai dedicato a Donatella Turtura) il volto di un’organizzazione viva e vivace, non certo di un apparato spento. Ora è chiamata a rinascere e rinnovarsi. Queste «memorie» possono risultare una medicina potente e un monito per tanti.
Ovvero per coloro che appaiono intenti a trinciare giudizi definitivi sulla possibilità di «estinguere», tra le idee di sinistra, anche quella che diede vita oltre un secolo fa a un’organizzazione tesa ad affermare i diritti di chi lavora.


Sette del Corriere 21.3.14
Thomas Piketty
Vi spiego perché tassare i ricchi fa bene al capitalismo
di Sandro Orlando

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Il Venerdì di Repubblica 21.3.14
Bicicletta e pallottole, la leggenda noir della Volante rossa
Erano partigiani che, a guerra finita, continuarono a combattere e a uccidere i fascisti. fino a che furono scaricati dal Pci e cancellati da tutti i testi di storia
Un libro li racconta

di Matteo Tonelli
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Il Venerdi di Repubblica 21.3.14
70 anni fa, via Rasella. Ma quell’attentato non anticipava le br
di Giovanni De Luna

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Repubblica 21.3.14
Avanti popolo
La parola antica e moderna che mette in crisi la democrazia
Da quello delle primarie a quello delle piazze da quello sovrano a quello escluso Indagine su un termine politicamente ambiguo
di Roberto Esposito


Alla base delle difficoltà a definire il popolo, c’è un’antinomia che lo caratterizza da sempre. Esso contiene al proprio interno due poli non sovrapponibili, e anzi per certi versi contrastanti - da un lato la totalità degli individui di un organismo politico e dall’altro la sua parte esclusa. Questo secondo elemento - espresso soprattutto nell’aggettivo “popolare” - non soltanto non coincide col primo, col popolo titolare della sovranità, ma ne costituisce una potenziale minaccia interna. Come è stato ricordato anche da Agamben (Che cos’è un popolo, in Mezzi senza fine, Bollati), tale dialettica non riguarda solo le nostre democrazie, ma coinvolge fin dall’origine le istituzioni occidentali.
Se in Grecia il demos indica al medesimo tempo l’insieme dei cittadini dotati di diritti politici e i ceti più bassi della scala sociale, a Roma la stessa dialettica è riconoscibile nel rapporto tra populus e plebs - dove questa è contemporaneamente parte e resto escluso del primo. Machiavelli spesso non distingue tra popolo e moltitudine, mentre Hobbes li contrappone: a differenza della moltitudine, un popolo è tale solo quando è unificato da un sovrano. Con la Rivoluzione francese il popolo, identificato con la nazione, diventa esso stesso il titolare della sovranità, così da eliminare ogni differenza tra gli individui. Ma fin da allora il meccanismo della rappresentanza parlamentare, poi diffuso in tutte le democrazie, tende a riprodurre uno scarto tra coloro che esercitano il potere e coloro che lo subiscono. Non solo capita spesso che i rappresentanti rappresentino solo i propri interessi, ma un numero crescente di cittadini ha perso ogni fiducia nelle istituzioni. Benché formalmente rappresentata dagli eletti nelle elezioni, una parte della cittadinanza si sente esclusa dal patto sociale al punto da astenersi regolarmente dal voto. Il problema che abbiamo di fronte, non soltanto in Occidente, come dimostrano le recenti rivolte nei paesi arabi e orientali, è che tutte le parti in conflitto dichiarano di rappresentare, e anzi di costituire, il popolo contro le altre. Cosicché, come è stato sostenuto sia a destra che a sinistra, a definire un popolo non sono tanto coloro che ne fanno parte, quanto quelli che ne vengono tenuti fuori. Durante il nazismo il popolo tedesco si identificava attraverso l’espulsione violenta di una sua parte infetta. Ma ciò è accaduto anche in altri momenti. Durante la guerra d’Algeria, ad esempio, i termini “popolo francese” e “popolo algerino”, pur equivalenti, assumevano un ben diverso significato a seconda di chi li pronunciava. Ancora pochi mesi fa, d’altra parte, le folle di piazza Tahir dichiaravano di essere il popolo egiziano contro quello legittimamente rappresentato dal governo eletto. E che dire delle moltitudini che dovunque, anche contro i propri rappresentanti, reclamano accesso ai beni, al lavoro, alle cure mediche? Dove sta il popolo, in parlamento o nelle piazze, nelle istituzioni o nei cortei? Secondo Badiou quella di popolo è una idea dinamica: la nazione che esso incarna è sempre in qualche modo da costruire, mai del tutto realizzata dallo Stato presente.
Credo si debba prendere atto del fatto che la faglia da sempre aperta nella storia dei popoli non è del tutto eliminabile - se non in un futuro remoto i cui contorni ancora non si profilano. Ma che è possibile, e necessario, ridurla al massimo. A tale compito è ordinata la politica. Essa, come la democrazia, non può coincidere con una pura tecnica di governo. Se così fosse, la sovranità popolare sarebbe del tutto risolta nella rappresentanza degli eletti, così da escludere ogni altra forma di espressione politica - partiti, sindacati, movimenti spontanei. Ma così non è. Il potere costituito non risolve mai interamente in sé quello costituente, come il popolo presente non cancella mai completamente quello futuro.
Anche la celebre espressione “Noi, il popolo”, che inaugura la Dichiarazione di indipendenza degli Stati Uniti d’America, ha una portata performativa. Contiene assai più di una mera descrizione. È insieme il riconoscimento di quanto esiste, ma anche una promessa di quanto può darsi. Come scrive Judith Butler nel saggio più intenso della raccolta, «“Noi il popolo” non presuppone né fabbrica un’unità, ma fonda o istituisce una serie di domande sulla natura del popolo e su ciò che esso vuole essere». Il trasferimento della sovranità popolare ai rappresentanti non è mai pieno e definitivo. Rimane sempre un certo numero di donne e di uomini che preme ai margini di un popolo per prenderne parte in senso effettivo. Si pensi non solo agli immigrati cui non è ancora stata riconosciuta cittadinanza, ma anche agli emarginati, ai derelitti, ai disperati che riempiono sempre più le nostre strade.
Mai come oggi, quando si accresce in maniera insopportabile la forbice tra i più ricchi dei ricchi e più poveri dei poveri, il popolo appare separato da se stesso. L’effetto più profondo della crisi sta proprio nell’allargare la frattura tra i “due” popoli. Eppure, se c’è qualcosa che può ridare sostanza a una politica in drammatico arretramento, è proprio l’esigenza di ricucire questa ferita. Come la parte esclusa potrà farsi popolo anche nell’altro significato del termine? Perché ciò sia possibile occorre una duplice condizione. Da un lato che chi è dentro le istituzioni volga davvero lo sguardo a chi è fuori. Dall’altro che chi è fuori, abbandonando forme di proteste inefficaci, entri nelle istituzioni per cambiarle. Non è contrapponendo i due popoli che si sana la malattia della democrazia. Ma creando le condizioni di un nuovo patto sociale che rompa dovunque sia possibile le barriere che ancora li dividono.
Il popolo delle primarie, il popolo della sinistra, il popolo italiano, il popolo delle piazze in rivolta. Difficilmente un termine politico è suscettibile di connotazioni così diverse. Già Pierre Rosanvallon, del resto, in un saggio sulle forme di rappresentanza democratica, aveva dichiarato il popolo “introvabile”. Né il popolo-opinione né il popolo- nazione né il popolo-emozione riescono a fornire risposte adeguate al malessere che sale dal fondo oscuro delle nostre democrazie. Ma è un punto cieco che ci riguarda tutti. Da qualche tempo immersi in una riflessione critica sui caratteri del populismo, è come se avessimo dimenticato il concetto da cui esso proviene, portandone dentro tutte le contraddizioni. E dunque, Che cos’è un popolo?
È il titolo di un pamphlet appena tradotto da Derive Approdi, firmato da sei rinomati intellettuali come Badiou, Bourdieu, Butler, Didi-Huberman, Khiari e Rancière.

Repubblica 21.3.14
Il rapporto Nielsen sull’Italia dei libri
Crollano i lettori laureati
di Raffaella De Santis


«Siamo di fronte alla più forte crisi del mercato del libro dalla Seconda guerra mondiale». È la fotografia di un’emergenza senza pari quella denunciata ieri da Gian Arturo Ferrari, presidente del Centro per il libro e la lettura, durante la presentazione a Roma di L’Italia dei Libri 2011-2013, l’ultimo rapporto Nielsen sull’acquisto e la lettura in Italia. I dati, ricavati su un campione di 9mila famiglie e organizzati per trimestri nell’arco di tre anni, mostrano una curva di discesa costante: dal 2011 al 2013 la percentuale dei lettori è scesa dal 49 al 43% della popolazione (da 25,3 a 22,4 milioni di persone) e quella degli acquirenti dal 44 al 37% (da 22,8 a 19,5 milioni). Molto meno della metà della popolazione italiana legge e compra libri. L’Italia si presenta inoltre come un paese spaccato a metà, dove i lettori sono perlopiù concentrati tra Emilia e Nord-Est. Le donne leggono più degli uomini (il 48% contro il 38%) e i giovani tra i 14 e i 19 anni costituiscono il 60% dei lettori. Ma l’elemento più interessante di questa ricerca disaggregata per fasce d’età, livelli d’istruzione e classi sociali, è che il crollo ha riguardato soprattutto persone tra i 35 e i 44 anni, laureate e di sesso maschile, la fascia più colpita dalla crisi economica. I grafici regalano un’altra sorpresa: sono gli over 65 la vera roccaforte della lettura, gli unici ad aver speso di più in libri negli ultimi anni.
Che fare? Per Lidia Ravera, assessore alla Cultura della Regione Lazio, la crisi è però più profonda: «Il fatto è che la lettura non è più considerata come un fattore di miglioramento. L’impoverimento complessivo della società va oltre la crisi del mercato». A reggere le fondamenta di questo palazzo pericolante sono i lettori “forti”, coloro che leggono almeno un libro al mese: sono il 4% dei lettori, ma da soli comprano il 36% di tutte le copie vendute (112 milioni nel 2013). Unica nota positiva gli ebook, con un incremento degli acquirenti del 14% e dei lettori del 17%. Aspettiamo i dati del primo triennio 2014 per capire se sperare in un’inversione di tendenza.

Corriere 21.3.14
Lettori, una generazione persa
La speranza viene dagli ebook


«Ci siamo persi una generazione». Era questo lo stato d’animo, nell’austera sala della Biblioteca Angelica di Roma, che ha accompagnato la presentazione del rapporto sull’acquisto e la lettura di libri in Italia, commissionato dal Centro per il Libro e la Lettura all’agenzia di rilevamento Nielsen. Si legge sempre meno, in Italia (dal 49% al 43% della popolazione), si compra pochissimo (dal 44% al 37%). Sono dati riferiti agli ultimi tre anni, anzi per la precisione, dall’ultimo trimestre 2010 all’ultimo del 2013. Lo ha sottolineato in apertura proprio Gian Arturo Ferrari, presidente del Centro per il Libro e la Lettura: «È la prima volta che una ricerca consente di vedere le immagini in movimento del triennio 2011-2012-2013. E di cogliere così non solo le dimensioni, ma anche la dinamica della più drammatica crisi del libro dalla fine della Seconda guerra mondiale».
La ricerca Nielsen si basa sulla rilevazione mensile su un campione selezionato di 9 mila famiglie: risultati che hanno fatto parlare Rossana Rummo, direttore Generale per le Biblioteche del Mibact, di una vera e propria «emergenza». Siamo un Paese in cui solo il 37% della popolazione (19,5 milioni) ha acquistato almeno un libro nel 2013 (112 milioni le copie vendute). Dove le donne leggono molto più degli uomini (48% contro il 38%), la fascia di età più forte è quella dei ragazzi tra i 14 e i 19 anni (60%), ma sono gli over 65 a fare argine alla frana, essendo l’unica fascia in controtendenza.
«Siamo partiti tre anni fa — ha detto Gian Arturo Ferrari — con i lettori che sfioravano la metà della popolazione, adesso siamo ridotti a poco più di un terzo». Confermata la distanza che separa il Nord dal meridione, dove più forte è la sofferenza, la novità riguarda il Centro Italia dove, Emilia esclusa, si registra una flessione (dal 52% al 42%). Crolla la spesa media (€ 57,4) per un valore di 1,1 miliardi, scesa del 14%. Ma è soprattutto preoccupante la concentrazione di questo dato: il 4% dei lettori acquista il 37% dei libri. «Purtroppo — ha aggiunto Ferrari — la favola del libro come bene anticiclico che si continuava a vendere anche nei momenti di crisi, è finita». Bene il settore degli ebook, in crescita (+14% nell’ultimo anno) ma tuttora con numeri marginali in un mercato che si conferma conservatore, qualche indicazione arriva dai canali di vendita: cedono le librerie di catena, in modo più marcato rispetto alle librerie tradizionali (che mostrano una inaspettata resistenza), cresce meno del previsto la vendita via Internet, reggono le edicole.
Ma il dato che ha colpito di più è stato il crollo nel triennio dei lettori maschi tra i 35 e i 44 anni: meno 17% (dal 57 al 40), che corrisponde alla flessione dei laureati (dal 75% al 57%). Sembra quasi lo specchio di una generazione «perduta» che non trova lavoro adeguato agli studi. «Vuol dire che la cultura non è più considerata un fattore di miglioramento della propria condizione sociale — ha detto Lidia Ravera, assessore alla Cultura del Lazio — vuol dire che è crollata la fiducia nel futuro».

Repubblica 21.3.14
Io e Jane
L’ultima seduzione della signorina Eyre
Quali sono gli ingredienti che fanno del romanzo di Charlotte Brontë uno dei classici più amati?
Mentre esce una nuova traduzione, la risposta di Tracy Chevalier
di Tracy Chevalier



Per quale motivo Jane Eyre è un classico? Perché quest’opera è tanto amata e costituisce uno dei tratti distintivi del panorama letterario britannico, accanto a
Grandi speranze di Dickens e Orgoglio e pregiudizio della Austen? Di fatto, il romanzo scritto da Charlotte Brontë nel diciannovesimo secolo si mantiene costantemente ai vertici delle classifiche di vendita. Non è mai andato fuori catalogo e vanta una trentina di adattamenti cinematografici e televisivi, oltre ad aver ispirato pièce teatrali, opere, musical e balletti. Viene studiato a scuola e non vi è chi non sia in grado di citare la sua frase più celebre (l’attacco dell’ultimo capitolo, ma non andate a leggerlo, se non volete scoprire “come va a finire”). Cos’ha di tanto attraente la storia di una povera orfanella che fa innamorare il suo sventurato datore di lavoro?
Che la storia sia avvincente è innegabile. Una fanciulla umile e inerme, un uomo burbero, se non crudele, una passione inaspettata, sullo sfondo di una grande casa che nasconde un segreto scabroso: sono questi gli ingredienti che incitano il lettore a voltare pagina pungolandone la curiosità. La prosa è nitida e denota un buon equilibrio fra lo sviluppo della trama e le parti descrittive che non sommergono il lettore del Ventunesimo secolo, avvezzo a un ritmo più serrato. Anche il modo in cui Charlotte Brontë rappresenta i conflitti psicologici ci sorprende per la sua modernità: comprendiamo fino in fondo i pensieri e i sentimenti della protagonista, i suoi affanni diventano i nostri. Non ci appare una figura antiquata o estranea, bensì familiare. Tuttavia il romanzo non è privo di smagliature. La vicenda stenta ad avviarsi indugiando troppo a lungo, per gli odierni standard narrativi, sull’infanzia di Jane – dapprima a casa della zia e poi all’orfanotrofio dove è sempre affamata. Il protagonista maschile, Edward Rochester, proprietario di Thornfield Hall, la casa dove Jane viene assunta come istitutrice, appare solo a pagina 170. Il colpo di scena che avviene dopo due terzi della trama è anticipato fin troppo scopertamente per lo smaliziato lettore contemporaneo. E l’ultima parte del romanzo prende una piega un po’ bizzarra, con Jane contornata da nuovi personaggi che non abbiamo il tempo di assimilare.
Ma sono difetti veniali che scompaiono dinanzi al sontuoso ritratto della protagonista, Jane Eyre, alla maestria con cui ci viene narrata la sua storia d’amore con il signor Rochester. Ecco due figure che sembrano fatte apposta per dare speranza a chi non si sente perfetto, ovvero a tutti noi. Jane è una ragazza come tante, che ha di fronte una vita grama e faticosa. Rochester è un uomo volubile e scontroso che, in gioventù, ha compiuto un madornale errore di valutazione. Lei è povera, lui agiato. Lei non ha nessuno al mondo, lui è a capo di una famiglia numerosa. In una società rigidamente divisa in classi, non dovrebbero stare insieme, e ne sono entrambi consapevoli. Eppure, s’innamorano e vivono una storia meravigliosa. Sarebbe stato comprensibile se, durante il loro primo incontro, Jane si fosse lasciata intimidire dalla gelida arroganza del signor Rochester; in tal caso non sarebbe nato alcun legame fra loro, al di là di quello fra un padrone distaccato e una dipendente apprensiva. Ma Jane non è in soggezione, non sembra intimorita. Reagisce con calma, rimane padrona di sé. Anzi, lo stuzzica, si fa civettuola. (Per un ipotetico studio del flirt in letteratura, Orgoglio e pregiudizio mostra l’approccio faceto,
Jane Eyre quello meditato). Il corteggiamento funziona solo se i partecipanti si pongono sullo stesso piano. È la stessa Jane a spiegare che se il signor Rochester fosse giovane e bello non oserebbe mettersi a conversare con lui. Ma l’uomo dimostra almeno quindici anni più di lei e non è di certo avvenente: ha «tratti austeri e sopracciglia folte», lo sguardo torvo e un parlare aspro. Ha perfino la sfacciataggine di chiederle se lo trova bello e la risposta schietta di lei lo lascia di stucco. Conquistandolo.
È questa la vera novità di Jane Eyre, ovvero che una giovane donna senza famiglia, né patrimonio alcuno, possa, in una società classista, considerarsi allo stesso livello di un possidente. Ed è ancora più straordinario che il signor Rochester condivida la sua valutazione. Forse è per questo che i lettori amano questo romanzo: ci rammenta che non siamo poi così condizionati dall’estrazione sociale. La personalità e la forza di carattere giocano un ruolo importante nei nostri destini. Ed è sorprendente che un’idea del genere provenga da una donna con un background decisamente conservatore. Figlia di un pastore protestante, Charlotte nacque nel 1816 e crebbe con il fratello e quattro sorelle a Haworth, un villaggio nel nord dell’Inghilterra. Aveva cinque anni quando perse la madre e i bambini furono accuditi da una zia. Le due sorelle maggiori morirono di tubercolosi, la malattia che si sarebbe rivelata fatale per tutti i Brontë. I sopravvissuti, Anne, Emily, Charlotte e Branwell (l’unico maschio) giocavano insieme e si divertivano a scrivere novelle, commedie e poesie. In quanto figli di un chierico, erano istruiti ma poveri, appartenevano alla classe media dal punto di vista intellettuale, ma le ragazze non avevano i mezzi per trovare un buon partito e Branwell non poteva affermarsi nel commercio o nella libera professione. Questo sfondo è significativo, perché indica come Charlotte Brontë avesse sperimentato, in prima persona, il disagio sociale che Jane Eyre avverte così acutamente. Lavorò lei stessa come istitutrice [...].
La figura dell’istitutrice, ricca di erudizione ma non di quattrini, viveva a cavallo fra due classi sociali e aveva un che di inquietante agli occhi di molti, perché, ponendosi al di fuori della gerarchia tradizionale, pareva mettere in discussione la struttura stessa su cui si fondava la società. La gente era affezionata a regole ed etichette e non voleva che fossero rimescolate. Di conseguenza, le istitutrici erano spesso oggetto di scherno, perché in ultima analisi non appartenevano né alle famiglie, né alla servitù. In Jane Eyre, Blanche Ingram, la ricca e seducente rivale della protagonista, si beffa apertamente della categoria e arriva a dire che Jane «non sembra abbastanza sveglia» per giocare alle sciarade con il resto della compagnia. Jane Eyre, in realtà, è sveglia, eccome. Non solo: è consapevole di sé. A dieci anni, l’arcigna zia per punire la sua caparbietà, l’aveva fatta segregare nella “camera rossa”, dove qualche tempo prima era morto l’amato zio di Jane. Chiusa nella stanza, la bambina aveva avuto quello che oggi definiremmo un “attacco di panico”, mettendosi a gridare come un’ossessa e perdendo conoscenza, per lo sgomento della zia. Da adulta, Jane torna con la memoria a quel momento e ne coglie a pieno l’importanza, senza l’aiuto dell’analisi freudiana, o delle terapie psicologiche di cui disponiamo oggi: capisce che in tale occasione la sua vera natura si era manifestata in assoluta libertà. L’episodio della “camera rossa” serve così a rammentarle, che a prescindere da come la giudicano gli altri, è una donna di valore e sostanza, una donna che ha qualcosa da dire. La forte personalità della protagonista è da sempre una delle ragioni per cui il romanzo affascina i lettori. [...] Charlotte pubblicò Jane Eyre sotto lo pseudonimo, vagamente androgino, di Currer Bell, forse perché sperava così di incrementare le vendite, in un’epoca in cui le scrittrici godevano di una stima assai minore dei colleghi di sesso maschile. Tuttavia, la perspicacia con cui viene descritta la protagonista indusse più di un lettore a supporre che la mano fosse quella di una donna. Solo il favore incontrato dal romanzo convinse la Brontë a svelare la propria identità: dietro il nome d’arte Currer Bell si nascondeva la timida figlia di un parroco dello Yorkshire.
Prima che la tubercolosi ponesse termine precocemente alla sua vita, nel 1854, Charlotte scrisse altri tre romanzi – Shirley, Villette e The Professor, nessuno dei quali, peraltro, eguagliò il successo di Jane Eyre. Perché è Jane a sedurci: un personaggio potente che, grazie alle tempra morale e all’autostima, riesce a superare le avversità e restare al fianco dell’uomo che ama. I lettori non possono far altro che gioire insieme a lei.
 (Traduzione di Massimo Ortelio)

Corriere 21.3.14
Il conte sconfitto, decapitato per amore
Storia di Elisabetta I e Robert Devereux, quando la ragion di Stato batte i sentimenti
di Pietro Citati


Nel 1587 Robert Devereux, conte di Essex, non aveva ancora diciannove anni. Era vivace, intenso, furioso; e poi cadeva preda di profondi eccessi di malinconia, che lo tenevano a letto per giorni interi. Passava da un estremo all’altro: amava ed odiava; era sia un servo devoto sia un feroce ribelle, spinto qua e là dal vento mutevole delle passioni e del caso. Era bello e seducente, schietto, elegante: aveva una vivacità da ragazzo, parole e sguardi di adorazione, il corpo slanciato, capelli di un biondo ramato, un capo che si inchinava dolcemente con un sorriso. Affascinò la regina, Elisabetta d’Inghilterra, che aveva cinquantatré anni e che si innamorò di lui.
Elisabetta era una vecchia, tremenda sovrana in abiti fantastici, ancora alta ma ormai curva: aveva i capelli tinti di rosso sul pallido viso, denti lunghi che si stavano annerendo, il naso adunco e pronunciato, e occhi infossati e pronunciati nello stesso tempo – occhi feroci, nelle cui profondità di un azzurro cupo si nascondeva qualcosa di maniacale. Era un intricato groviglio di contraddizioni: ingenua e ipocrita, delicata e brutale, religiosa e lussuriosa, coltissima e rozza, lineare e sinuosa, assurda e ostinata, dubbiosa e incerta quando avrebbe dovuto essere decisa. Sapeva giocare con la vita alla pari: lottando, ridendo, ammirandola, osservando il dramma, gustando la stranezza delle circostanze, i rovesci improvvisi della fortuna, le continue sorprese. «Per molto variare la natura è bella», era uno dei suoi aforismi preferiti.
Negli anni della maturità, pretendeva che i giovani che la circondavano esprimessero i colori di una passione romantica: gli affari di stato venivano condotti in mezzo a un fandango di sospiri, estasi e proteste. Elisabetta assorbiva avidamente l’adorazione raffinata dei suoi amanti e la trasformava in un affare redditizio. Spesso litigava con Essex, che scompariva dalla corte improvvisamente imbronciato, senza una parola di preavviso. Allora, il vuoto scendeva su Elisabetta, incapace di nascondere la propria agitazione. Poi, con altrettanta rapidità, il conte tornava a corte, per essere ricoperto da rimproveri pieni di sdegno e da sonore bestemmie. Nuovi, brevi litigi e deliziose riconciliazioni. Erano ore di felicità e di pace, e fra i gioielli e i tendaggi dorati la sovrana sembrava rifulgere di una gloria quasi giovanile.
* * *
Nel 1599, incaricato di domare la ribellione dell’Irlanda, il conte di Essex svelò la sua incapacità di condottiero. Era disperato, e scrisse a Elisabetta una lettera meravigliosa. «Da una mente che trae piacere dalla sofferenza, da uno spirito devastato da pene, preoccupazioni e dispiaceri, da un cuore fatto a pezzi dalla passione, da un uomo che odia se stesso e tutte le cose che lo mantengono in vita, qual servizio può attendersi ancora Vostra Maestà?». Essex lasciò l’Irlanda. Arrivò nelle stanze di Elisabetta sporco e in disordine, vestito in modo trascurato e con gli stivali da cavallerizzo. Quando spalancò la porta, là, a un passo da lui, c’era Elisabetta tra le sue dame: in vestaglia, senza trucco, con ciocche di capelli grigi che le ricadevano sul viso, e gli occhi più che mai sporgenti. Elisabetta fu sorpresa e felice. Poi ebbe paura.
Alle undici di sera il conte di Essex ricevette un messaggio da Elisabetta: gli veniva ordinato di non lasciare le sue stanze. Fu condotto prigioniero a Yorkhouse, sotto la custodia di lord Egerton. La sua prigione durò un anno, durante il quale nessun intimo ebbe il permesso di vederlo; e poi venne confinato in casa propria, con la medesima rigidezza. Il 5 luglio 1600 fu processato. Alla fine Essex lesse ad alta voce una umiliante confessione di inadempienza. Scrisse alla regina: «Ora che ho ascoltato la voce della giustizia legale, desidero umilmente udire la vostra vera e naturale voce di grazia». Passava dal dolore e dal pentimento all’ira e alla ribellione: mentre i suoi familiari e seguaci macchinavano progetti folli; assalire la corte, sollevare Londra, fuggire nel Galles, dove alzare la bandiera della rivolta.
La regina avrebbe potuto perdonare Essex. Ma l’ira, che da tanto e tanto tempo covava dentro di lei, divampò trionfalmente. La decapitazione fu fissata per il 25 febbraio 1601, malgrado qualche impercettibile tentennamento. Il conte, che non aveva ancora compiuto trentatré anni, espresse solo un desiderio: non essere ucciso in pubblico. Alto, magnifico, a capo scoperto, con i capelli biondi sulle spalle, stette in piedi per l’ultima volta davanti al mondo. Poi si inginocchiò. Il boia alzò la scure e la tirò giù di schianto. Il corpo del condannato sussultò, ma il boia dovette alzare e abbassare la scure altre due volte, prima che la testa fosse mozzata e il sangue fuoriuscisse. Allora il boia si chinò, afferrò la testa per i capelli, gridando: «Dio salvi la regina».
Dopo la morte di Essex il sistema nervoso di Elisabetta cominciò a cedere. Si fece più rude e capricciosa che mai. Passava le giornate in assoluto silenzio, in preda alla malinconia. Non toccava quasi cibo: si nutriva soltanto di brodo di cicoria e di crostini. Teneva sempre accanto a sé una spada, che impugnava e infilzava con impeto negli arazzi, mentre camminava avanti e indietro in preda a una delle sue crisi di nervi. Talvolta si chiudeva in una camera oscura, dove si abbandonava a scoppi di pianto. Il grande regno durò ancora due anni. La mattina del 24 marzo 1603 Elisabetta si addormentò, sfuggendo per l’ultima volta e per sempre all’assedio dei suoi cortigiani.
* * *
Ho cercato di riassumere decorosamente il bellissimo libro di Lytton Strachey, Elisabetta e il conte di Essex , pubblicato nel 1928 (Castelvecchi, traduzione di Maria Teresa Calboli). Strachey aveva a disposizione un materiale vastissimo: storici, diaristi, epistolari, documenti segreti, l’alone dei versi di Shakespeare, il soccorso della sua intelligenza modernissima. Ma dissimulò la propria cultura: i personaggi principali, i bellissimi personaggi minori, tra i quali vorrei ricordare almeno Francis Bacon e Filippo II di Spagna, i grandi avvenimenti del tempo, assunsero la leggerezza di un aereo e squisito ricamo, abbandonando il terreno grave della storia per entrare nel terreno senza tempo della letteratura. Tutto ciò che era accaduto nella realtà e nei cuori alla fine del sedicesimo secolo, lo vediamo, come vediamo tutto ciò che quindici secoli prima aveva affascinato Plutarco. Lytton Strachey approfittò persino delle difficoltà del suo compito: quella materia sembrava remota e incomprensibile allo spirito di un uomo del ventesimo secolo; e questo tocco di distanza rese più avventuroso, preciso e ironico il suo racconto.
Qualsiasi cosa abbia scritto Virginia Woolf sui libri che leggeva, mi sembra straordinaria. Per una volta, devo fare un’eccezione. Virginia Woolf scrisse che Elisabetta e il conte di Essex era un «fiasco»: un libro fiacco e superficiale, dove tutto era inventato. In realtà il libro di Strachey, in ogni pagina, descriva un evento, un sentimento o un vestito, ha il sapore stesso della verità. Tutto ciò che racconta è accaduto nello specchio infallibile della letteratura. Credo che Virginia Woolf provasse un’avversione di principio verso l’arte della biografia. Ma non aveva nessuna importanza che i libri di André Maurois e di Emil Ludwig, che uscirono negli stessi anni, fossero mediocri e volgari. I libri di Lytton Strachey avevano un’origine antichissima e sublime: le vite di Plutarco, che posseggono una profondità, una ricchezza, una fantasia, un colore come le massime pagine di prosa della letteratura greca classica.

Corriere 21.3.14
«Bersaglio finale: Eisenhower»
Tra verità e finzione, la missione segreta delle SS alla fine del 1944
di Sergio Romano


Il trompe l’oeil è l’inganno ottico a cui l’artista ricorre quando inserisce la sua pittura o scultura in un contesto reale e crea nello spettatore l’illusione che esse siano parte della realtà. Il romanzo di Carlo Nordio (Operazione Grifone , Mondadori, pp. 360, e 16) è un trompe l’oeil storico-letterario. Quasi tutto il libro, anche se lo stile e i ritmi sono quelli del romanzo, racconta con grande precisione fatti realmente accaduti in Europa tra la fine d’ottobre e la fine del dicembre 1944. È vero che Hitler, dopo la straordinario successo dello sbarco alleato in Normandia e il ritiro della Wehrmacht dal territorio francese, concepì un piano ardito e brillante. Capì che nel lungo schieramento alleato, dal Nord alla Provenza, vi era una zona relativamente sguarnita in un tratto delle Ardenne fra il Belgio e il Lussemburgo, dove soltanto quattro divisioni americane presidiavano un fronte lungo 130 km. In quel punto, dopo due mesi di silenziosa preparazione, i tedeschi avrebbero attaccato con venti divisioni, fra cui sette corazzate, un migliaio di carri armati e cannoni d’assalto.
Non basta. Occorreva che l’effetto sorpresa venisse amplificato da uno stratagemma. Mentre le venti divisioni attaccavano, una compagnia di soldati tedeschi truccati da militari Usa e attrezzati con materiale americano, si sarebbero spinti oltre il fronte per seminare confusione alle spalle degli alleati distruggendo ponti, invertendo cartelli stradali, tagliando linee telefoniche. Occorreva scegliere i membri del commando fra soldati che avevano vissuto negli Stati Uniti e parlavano inglese con un credibile accento americano. E occorreva che la Unternehme Greif («Operazione Grifone»), come venne chiamata, fosse comandata da un genio dei colpi di mano, capace di agire e improvvisare nelle condizioni più difficili. La scelta di Hitler cadde su Otto Skorzeny, Sturmbannführer delle SS, l’uomo che nel settembre del 1943 aveva liberato Mussolini dalla prigionia ed era appena reduce da un’operazione altrettanto spericolata nella cittadella di Budapest.
Secondo Basil Liddell Hart, autore di una grande Storia militare della Seconda guerra mondiale , il risultato di questa infiltrazione fu persino «maggiore di quanto i tedeschi si aspettassero. Una quarantina di jeep riuscirono a passare e assolsero in modo perfetto il compito loro affidato di seminare la massima confusione; tutte, ad eccezione di otto, rientrarono poi nelle linee tedesche». Alla confusione, involontariamente, dettero una mano gli americani, quando credettero che gli infiltrati fossero molto più numerosi. I membri della polizia militare installarono centinaia di posti di blocco per verificare l’identità dei loro camerati con domande capziose come quella che fu fatta al generale Bradley, per esempio, quando gli chiesero il nome del marito di Betty Grable, un’attrice bionda e prosperosa e che era in quegli anni un idolo dei maschi americani.
L’operazione divenne una commedia degli equivoci quando uno dei tedeschi catturati dagli americani disse che uno degli obiettivi del commando era l’uccisione del comandante supremo delle forze alleate, Dwight D. Eisenhower, e di altri generali. Era soltanto una chiacchiera, nata dalle supposizioni dei membri del commando quando ancora non sapevano quale fosse il vero obiettivo della loro missione. Interrogato, dopo la fine del guerra, Skorzeny smentì in modo convincente. Ma la voce provocò il panico nelle retrovie. La sede del comando supremo divenne un fortilizio e Eisenhower fu per parecchi giorni prigioniero del suo servizio di sicurezza.
Ma Carlo Nordio preferisce credere (o fingere di credere) nella confessione del soldato tedesco e adatta alla letteratura la tecnica del trompe l’oeil, raccontando la storia di ciò che non accadde. Fra i molti personaggi veri della vicenda appaiono quelli nati dalla fantasia dell’autore. Il più importante é Kroller, il sadico capitano delle SS cresciuto a New York, che si traveste da giornalista americano, stringe amicizia con gli ufficiali del comando supremo, prepara minuziosamente un attentato contro Eisenhower sulla strada fra Saint-Germain e Versailles. Ma non meno importanti sono Molyneux, un intellettuale francese, collaborazionista e doppiogiochista; Odette, una delle giovani donne che gli inglesi avevano addestrato per operare nella Francia occupata; Madame Claire de Beaufort, tragicamente attratta dal fascino maschile di Kroller; il commissario Pinault della brigata criminale, inseparabile compagno di una pipa che strizza l’occhio a quella di Maigret; il dottore Petiot, che giunge regolarmente sulla scena del crimine per l’autopsia delle vittime di Kroller. L’effetto trompe l’oeil consiste nel collocare questi personaggi in un contesto in cui tutto è minuziosamente vero. Siamo sulla scena di un teatro, naturalmente, ma i luoghi dell’azione sono descritti con il puntiglioso realismo di uno scrittore magistrato che ama Parigi e potrebbe rivaleggiare con Jacques Hillairet, autore di un famoso Dizionario delle vie di Parigi , pubblicato dalle Editions de Minuit nel 1963.
I fatti storici sono noti. Gli alleati vinsero l’ultima battaglia di Hitler e Eisenhower visse sino diventare presidente degli Stati Uniti. Ma durante la lettura del libro vi saranno momenti in cui avrete l’impressione che il diabolico Kroller possa riuscire nella sua impresa. Il trompe l’oeil ha funzionato.

Corriere 21.3.14
Non pianti e sogni ma mete possibili
Cinque idee per rilanciare la cultura
di Gian Arturo Ferrari


Grami restano i tempi per la cultura, ma non privi di qualche spiraglio di luce. Che sarebbe sbagliato trascurare. Il presidente del Consiglio è tornato a più riprese e da varie angolazioni sul nodo educativo-formativo. Con passione e con calore, occorre dire, il che non è ancora nulla, ma è già qualcosa. Il provvedimento sull’edilizia scolastica, per ora solo un annuncio, ha certo un tonificante sottotesto cantieristico, ma l’idea che le scuole debbano essere decorose e possano anche essere belle è, per l’Italia, una rivoluzione. Anche la cultura insomma, da sotto il suo sudario di noia compunta, inizia a riscuotersi, percorsa dal vento dell’attesa.
È il momento dunque di fissare alcuni punti e tirare alcune linee, a scanso di equivoci e di future delusioni.
Primo: l’insieme e non le parti. Il vero è l’intiero, diceva il compianto Giorgio Guglielmo Federico Hegel, ossia la verità è il tutto. La cultura di un Paese, e nello specifico del nostro, è fatta certo di vari e diversi settori, ciascuno con le sue gelose peculiarità, ma quel che conta è la visione e il funzionamento dell’insieme, la fisiologia e non l’anatomia. Dunque bisogna abbracciare in un solo sguardo formazione professionale e scuola, università e ricerca, tutela del patrimonio e industria culturale, promozione ed espressione artistica. Cose lontanissime, ma unite — non dimentichiamolo — nel vissuto, specie delle nuove generazioni.
Secondo: non pianti e non sogni, mete raggiungibili. Diamo per letta la litania delle nostre disgrazie. La formazione professionale che non c’è. I test Pisa (Program for international students assessment) dove arriviamo tra gli ultimi d’Europa. Il numero dei laureati troppo basso. I muri di Pompei che crollano (ma adesso si rubano anche gli affreschi...). Gli acquirenti di libri che da circa metà che erano sono diventati il 37%, cioè poco più di un terzo, della popolazione adulta. Le nostre maggiori imprese librarie (la principale tra le industrie culturali) che nel ranking mondiale arrivano dopo il trentacinquesimo posto. Guardiamo invece i nostri vicini di banco — tedeschi, inglesi, francesi e spagnoli, cioè i Paesi a noi comparabili — e siccome copiare qui si può e in alcuni casi si deve, vediamo di allinearci alla loro media nei principali indicatori. E cerchiamo però anche di dire in quanti anni ci vogliamo arrivare.
Terzo: soldi. Come, a quel che si dice, il Milan (io sono interista), non spendiamo poco, spendiamo male. Forse, mettendo insieme tutta la nostra spesa in cultura, si può trovare il modo di distribuirla meglio. Ha ragione il presidente del Consiglio a lamentare la perdita di dignità e prestigio sociale degli insegnanti, ma per restituirli, stante che non si può imporre una nuova tassa, bisogna sottrarre risorse a qualcos’altro. Cioè a qualcun altro. A chi, di preciso?
Quarto: le belle idee. Sulle quali vorremmo chiedere una moratoria. Ringraziamo di cuore per le tre i, per gli ukase sui libri digitali nelle scuole, per i bonus e i buoni di sconto che poi non sono buoni e non sono di sconto. E non dimentichiamo i certami, o campionati, tra primi della classe per determinare il super primo della classe regionale e il super primissimo nazionale. Ringraziamo, ma stiamo contenti così.
Quinto e ultimo: politica, politica, politica. La gestione della cultura, nel senso ampio che noi intendiamo, non è materia per specialisti. È politica, una delle porzioni più pregiate della politica, dato che in ultima analisi crea, valorizza e infine mette a profitto il fattore umano, il capitale umano. C’è dunque bisogno di politica, cioè di scelte, di indirizzi, di priorità, di tenacia, ma anche di prezzi pagati. E dietro alla politica c’è bisogno di pensiero politico, in assenza del quale il discorso sulla cultura diventa vanità e vacuità. Il destino culturale dell’Italia — che è forse la parte maggiore del suo destino — va pensato, meditato e deciso, non improvvisato. Non può essere e non sarà solo il risultato di mosse agili e fortunate.

La Stampa MedicItalia
Madri che uccidono figli: la sindrome di Medea
di Mauro Bruzzese

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Corriere 21.3.14
Quei geni che ci legano ai cugini Neanderthal
di Edoardo Boncinelli


Un gruppo del Mit di Boston, in collaborazione con il Max Planck Institute di Lipsia, ha analizzato nel maggior dettaglio possibile quella parte del nostro genoma che sembra derivare dai cugini Neanderthal. Questi dati confermano innanzitutto che effettivamente decine di migliaia di anni fa hanno avuto luogo in Europa incroci fra membri della nostra specie e i Neanderthal. Ciò era ormai quasi certo, ma ha ricevuto la definitiva conferma. Il che ha del miracoloso, considerando quanto indirette sono le nostre evidenze sperimentali e quanto deteriorato sia il dna dei Neanderthal che siamo riusciti ad analizzare. E fa anche un certo effetto toccare con mano il fatto che abbiano avuto luogo degli accoppiamenti fra specie vicine ma profondamente diverse come queste. Nel nostro genoma ci sono geni dei Neanderthal che brillano per frequenza e altri invece per assenza. Tra quelli che ci sono spiccano i geni per la proteina cheratina, presente nella pelle e nei capelli. È ragionevole pensare che, quando sono arrivati in Europa dall’Africa, i nostri antenati fossero di pelle e di capelli molto scuri. L’aver «importato» geni dai Neanderthal, già residenti da tempo in Europa, ci ha aiutato evidentemente a schiarirci. Fra i geni che mancano, invece, spiccano quelli legati direttamente o indirettamente alla riproduzione, specialmente nei maschi. Il fatto che non si trovino potrebbe significare che il nostro genoma si è «difeso» da loro. E che la rapida scomparsa dei Neanderthal sia dovuta a loro problemi di sterilità maschile, piuttosto che solamente alla nostra opera di sterminio.