domenica 23 marzo 2014

l’Unità 23.3.14
Camusso: bene Renzi sui redditi malissimo sulle regole del lavoro
La leader Cgil chiede un’azione decisa di contrasto alla precarietà
Bonanni dice no ai tagli sulla povera gente
di Massimo Franchi


«Bene sui redditi, malissimo sul lavoro ». Dal Forum Confcommericio di Cernobbio, Susanna Camusso ribadisce la differenza di giudizi sulle prime misure prese dal governo Renzi. Guardando al merito delle decisioni, le due principali - taglio dell’Irpef sui redditi da lavoro fino a 25mila euro e decreto lavoro su contratti a termine e apprendistato - hanno un segno completamente opposto. Promosso dunque il taglio dell’Irpef, anche se con una specifica fondamentale: «Il governo ha fatto una scelta molto importante, dicendo che abbasserà la pressione fiscale per i lavoratori, è una scelta da lungo tempo invocata » aggiunge la Camusso, suggerendo che «si dovrebbe fare un’operazione analoga per i pensionati con le pensioni più basse». Ma sul decreto lavoro il governo ha usato una logica «sbagliata»: «Andava contrastata la lunga stagione del precariato. Il problema vero è che in Italia - ha spiegato Camusso - il lavoro è poco. Lo scivolamento verso la povertà non è solo un aspetto di diseguaglianza generale ma è frutto di una presenza di lavoro povero e dell'assenza di lavoro». Ed è per questo che secondo il segretario generale della Cgil «tutte le risorse disponibili vanno messe per creare lavoro». Ecco perché il decreto va in tutt’altra direzione: «Non condividiamo, e lo diciamo con grande serenità, un decreto che viene fatto sui contratti a termine e sull’apprendistato. Non si investe in formazione ma nuovamente sulla precarietà, che non è utile». Positivo invece il giudizio sui 15 milioni stanziati per i contratti di solidarietà: «È invece un intervento utile la misura sui contratti di solidarietà », aggiunge Camusso, anticipando che «ci confronteremo con i parlamentari per cercare di modificare il decreto ».
La giornata di ieri ha portato a Cernobbio anche Raffaele Bonanni. Se la Cisl dà un giudizio meno negativo del decreto Lavoro, il suo leader ieri non ha però risparmiato di criticare il governo Renzi, specie sulla Spending review. Da Bonanni è arrivato un forte no ai «tagli iperbolici sempre sulla povera gente». La Spending review «non può essere l’occasione per tornare sempre lì nel pozzo delle pensioni», mentre i dipendenti pubblici «devono sapere come lavorare e dove lavorare», ha proseguito, «Renzi deve dire qual è l’assetto non solo del Senato, anche di Regioni e Comuni. Il premier deve usare il suo furore per le realtà che lui conosce bene da sindaco», ha concluso.
Camusso e Bonanni poi sono voluti intervenire sulle parole di venerdì di Giorgio Squinzi, quando il patron di Confindustria ha svelato di essere tentato dallo spostamento del quartier generale della sua Mapei nel Canton Ticino, dove «non ci sono lungaggini burocratiche ». I segretari generali di Cgil e Cisl non hanno mancato di stigmatizzare le parole di Squinzi. «Chi si considera classe dirigente di un Paese deve innanzi tutto sostenere il Paese: una cosa è esprimere critiche, un’altra è minacciare di andarsene», ha osservato Camusso.
Molto più duro Bonanni, che ha parlato esplicitamente di «populismo». «Basta con il populismo, ora bisogna riprendere l'alleanza fra lavoratori e imprese. Dobbiamo stare qui e dissodare il terreno italiano, credere di avere la forza di farcela. Basta con le lamentele e basta a scaricare i problemi addosso alla Germania e all'Europa». «Squinzi - ha aggiunto Bonanni - lo sa, deve credere nell'unità di lavoratori e imprese. Troppi populismi stanno scavando la fossa alle imprese», ha concluso.
«LAVORI EXPO NON SI FERMINO»
L’ultimo argomento affrontato dai due leader è stato quello dell’Expo e degli arresti. Per Camusso la magistratura «deve fare le sue indagini» sui cantieri dell’Expo, mai lavori «non devono essere fermati. «In tempi non sospetti - ricorda - avevamo esposto le nostre preoccupazioni su Infrastrutture Lombarde e sulle modalità con cui si erano accentrate determinati investimenti della Regione. Pensiamo che si debba rendere trasparenti le modalità d'appalto, ma questo non deve fermare i lavori, anche perché i tempi sono sempre più vicini». Sulla stessa linea è Bonanni: i lavori «devono continuare» e se «ci sono cose da sostituire, si cambino le ruote mentre il carro è in movimento. Sono preoccupato perché i lavori erano già in ritardo».

Repubblica 23.3.14
Decreto lavoro, il testo integrale

qui

il Fatto 23.3.14
Le spine di Renzi, da Squinzi alla Camusso
Ieri il ministro del Tesoro Padoan ha avvertito:
“Prima i conti. Non si cambiano le regole europee”
di Wanda Marra


Non sarò il signor no, ma è necessario assicurare la stabilità economica al Paese mettendo i conti a posto”. Il ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan, parlando al Forum della Confcommercio a Cernobbio indica la precondizione fondamentale che va insieme alla necessità di “crescere, recuperare competitività, creare buona occupazione”. E insieme i confini entro cui il governo si può muovere. Di più: “Bisogna mantenere la politica di bilancio nel quadro normativo comunitario, per altro recepito dall’ordinamento nazionale”. Dunque, “non porsi l’obiettivo di cambiare le regole Ue”.
UN’AFFERMAZIONE precisa che arriva dopo una settimana di vertici europei in cui Matteo Renzi ha ribadito che sì i vincoli devono essere rispettati, ma che le regole vanno modificate in vista di quella “rivoluzione pacifica” che ha evocato in tutte le sedi ufficiali e ufficiose. Dallo staff del premier assicurano che tra il premier e il ministro del Tesoro (che ieri ha anche annunciato un piano di privatizzazioni) non c’è nessuno scontro in atto, anzi, i due hanno anche cenato insieme venerdì sera. Padoan però è di certo un pungolo, una spina nel fianco. Un problema. Come si svilupperà  la dialettica tra i due si potrà vedere già dal Def, che l’esecutivo vorrebbe anticipare, presentandolo al Cdm del 28 marzo. Ieri Renzi ha passato la giornata a Pontassieve sui documenti. I lDef sarà la prima prova dei fatti e subito dopo ci saranno i decreti sul taglio dell’Irpef e le coperture derivanti dal taglio della spesa. Da qui ad allora, oppositori, nemici, problemi non si conteranno. Giorgio Squinzi, il Presidente di Confindustria, ha già minacciato di andarsene in Svizzera se le lungaggini burocratiche non saranno risolte. Una critica che ha colto abbastanza di sorpresa Renzi, visto che i due erano stati insieme a Berlino, tanto che Lorenzo Guerini, portavoce della segreteria, ha cercato di buttare acqua sul fuoco: “Penso e mi auguro che non ci sia una spaccatura con Confindustria”. Perché sulle sue priorità (pagamento dei debiti Pa, semplificazione e misure sul lavoro) Squinzi non molla. Sul lavoro, Renzi si trova tra due fuochi. Ancora ieri Susanna Camusso, leader della Cgil, ha ribadito: “Sul lavoro abbiamo cominciato malissimo. Il decreto alimenta precarietà, il governo deve cambiarlo”. Il riferimento è ai contratti flessibili prorogabili per 36 mesi. Se è per i manager pubblici Mauro Moretti ha aperto la battaglia dicendo no al taglio di stipendi. Renzi però ha tutte le intenzioni di andare avanti: per i boiardi di stato ha già fissato il tetto a 240mila euro annui (che dovrebbe essere onnicomprensiva di tutti gli eventuali incarichi). E non intende tornare indietro. Tanto più che già il governo Letta decise per una riduzione secca del 25% degli stipendi sia dei manager delle società statali che degli altri. Una norma che non è ancora stata applicata. A proposito di spending review la coabitazione col commissario Cottarelli non è facile: le sue anticipazioni dei possibili tagli hanno creato non pochi problemi al premier che ha dovuto ribadire che si tratta solo di “elenco”. Fuori le pensioni dalle possibili misure, ribadiscono i renziani. Mentre i ministeri sono al lavoro per raggiungere gli obiettivi richiesti.
RENZI poi sta lavorando alla riorganizzazione di Palazzo Chigi. Lo staff del premier non è completo, non sono stati nominati i capi di gabinetto. Non sono ancora state date le deleghe. E dovrebbero arrivare dei consiglieri economici. Stessa situazione di sospensione al Pd: venerdì ci sarà la direzione per la nuova segreteria. Guerini sarà affiancato da uno speaker ufficiale, Deborah Serracchiani. Per il resto dei posti (quelli lasciati liberi dai membri andati al governo), è tutto ancora da definire: Renzi vuole coinvolgere le minoranze, ma senza cedere ruoli di peso. Entreranno sicuramente giovani Turchi e dalemiani. I bersaniani sono i più perplessi. Ma più che a figure di spicco si pensa a terze o quarte linee. Un modo per esserci, ma continuare a giocare il ruolo di oppositori. A proposito di nemici.

il Fatto 23.3.14
Il premier e l’Ue
“Bene, benissimo” il Tg3 ci consola

Le riforme? “Bene, benissimo”. E quelle sul lavoro? “Bene, benissimo”. L’entusiasmo della corrispondente da Bruxelles del Tg3 non si contiene, e ignora il muso duro dell’Europa alle timide richieste di Matteo Renzi sui vincoli di bilancio. Il “bene, benissimo”, che diventa parodia su Youtube, secondo la giornalista Rai, sarà la risposta che il premier ha ricevuto sui pacchetti di provvedimento che ha promesso di fare e, in pratica, ancora non ha fatto. Ma ormai il renzismo è così dilagante che “bene, benissimo” andrebbe inserito o nella Costituzione o nello Statuto del Pd. O nel simbolo, perché no?

La Stampa 23.3.14
Renzi studia da Obama
Come trasformare il Pd in macchina del consenso
Giovedì l’incontro: si discuterà dei modi per sostenere il governo
di Paolo Mastrolilli


Come si produce il cambiamento, e come si crea il consenso costante per sostenerlo. Dopo gli affari correnti di stato, che non vedono grandi differenze tra Usa e Italia, questo sarà uno dei temi principali nel colloquio di giovedì tra il presidente Obama e il premier Renzi, secondo fonti che hanno contribuito a prepararlo. L’inizio di un dialogo politico che dovrebbe durare, almeno per il tempo necessario a fare le riforme indispensabili per rilanciare l’economia italiana, e spostare l’Europa dalla fase dell’austerity a quella della crescita e dell’occupazione.
I temi ufficiali sul tavolo del vertice sono quelli che la portavoce della Casa Bianca Caitlin Hayden ha spiegato a La Stampa, e vanno nella direzione della continuità: collaborazione nella difesa e nella sicurezza, Afghanistan, Africa del Nord dove siamo decisivi soprattutto in Libia, riforme strutturali per garantire la stabilità dell’Italia e il rilancio della sua economia. Naturalmente ci sarà l’Ucraina, su cui Obama vuole creare un fronte unito con l’Europa, per convincere quanto meno Putin a non tentare altre avventure militari. Oltre a questo, secondo le parole della stessa Hayden, in cima all’agenda c’è soprattutto la volontà di «discutere gli sforzi del premier Renzi per rinnovare l’economia italiana, creando crescita e lavoro, in particolare per i giovani». Una specie di patto fra i due leader, volto a spingere l’intera Europa dalla fase dell’austerity, sostenuta dalla cancelliera tedesca Merkel, a quella delle iniziative per riavviare la macchina economica.
Per raggiungere questo obiettivo, però, l’Italia ha bisogno di un cambiamento epocale, che accomuna Renzi ad Obama anche sul piano biografico. Il capo della Casa Bianca vinse le elezioni con il motto «Yes, we can»». Lui era un outsider che veniva da Chicago, come Renzi da Firenze, e si è scontrato con Washington, dove l’ostruzionismo repubblicano ha paralizzato quasi tutte le sue iniziative, tranne la riforma sanitaria. Obama dunque ha capito che andare al potere non basta, e dopo la conferma del 2012 ha trasformato la macchina della sua campagna elettorale in una struttura permanente, chiamata Organizing For Action e guidata dal suo ex manager Jim Messina. In sostanza ha preso tutte le forze, le risorse e i 13 milioni di contatti che gli avevano fatto riconquistare la Casa Bianca, e invece di disperderle fino al prossimo voto, le ha messe al lavoro per sostenere la sua agenda legislativa. Come? Cercando di costruire nella società il consenso per le sue iniziative, che anche dopo le elezioni resta indispensabile.
Se Obama ha avuto grosse difficoltà, il caso di Renzi è ancora più complicato. Trasformare il Pd in una macchina per la promozione costante del consenso che produce il cambiamento richiederebbe innanzitutto di superare le storiche divisioni interne. Poi Renzi la prova del voto non l’ha ancora passata, almeno per Palazzo Chigi, e a Washington si capisce che dopo aver ottenuto alcuni risultati concreti, nel giro di qualche tempo potrebbe sentire la necessità e la convenienza di cercare una legittimazione elettorale diretta. L’incontro con Obama contribuirà a consolidarlo, ma per fare le riforme strutturali del lavoro, la giustizia civile che garantisca gli investitori stranieri, il sistema politico che non esponga il Paese al rischio costante dell’instabilità, serve un orizzonte di tempo superiore a quello concesso a Monti e Letta. Anche per questo Renzi potrebbe avere l’interesse a stabilire un dialogo non solo con Obama, ma anche con l’apparato politico per la promozione del consenso e la produzione del cambiamento che lo sostiene.

Repubblica 23.3.14
Se Renzi vincerà vent'anni durerà
di Eugeni Scalfari

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il Fatto 23.3.14
Parlamento in Vaticano
Papa, messa all’alba per l’insonne Matteo?


Giovedì prossimo, il Parlamento si trasferirà in Vaticano. Tranquillo, non hanno rivisto i Patti Lateranensi. Ma i deputati e i senatori non vogliono mancare all’appuntamento con Papa Bergoglio, che ha convocato le Camere italiane per una messa all’alba, giovedì 27 marzo, alle 7.00 in punto nella basilica di San Pietro: all’inizio s’era scelta una sede più piccola – le Grotte vaticane – ma l’adesione degli onorevoli è stata immediata e abbondante. Quel che colpisce di più, e non scoraggia la presidente di Montecitorio, Laura Boldrini, è la levataccia obbligata. I cantori del renzismo potranno dire che Jorge Bergoglio, senza considerare le sere politicamente attive dei parlamentari, s’è adeguato agli orari di Renzi, che di solito a quell’ora radunava la segreteria democratica al Nazareno e, adesso, posta su Twitter fotografie da palazzo Chigi. Ma non è finita. Perché quel giorno, Renzi incontrerà anche Obama. Ovazioni. O meglio: santificazioni.

l’Unità 23.3.14
Il Papa affida a una vittima la guerra alla pedofilia
Nominati i membri della Pontificia commissione per la tutela dei minori
Accanto al cardinale O’Malley c’è anche l’irlandese Collins che subì abusi
di Roberto Monteforte


La lotta alla pedofilia nella Chiesa è una priorità anche per Papa Francesco. Ieri è arrivata la conferma, con la costituzione della Pontificia commissione per la tutela dei minori. Era stata annunciata lo scorso 5 dicembre dall’arcivescovo di Boston, il cardinale francescano Sean O’Malley, molto impegnato nell’azione di contrasto degli abusi, che il Papa argentino ha voluto nella commissione degli 8 cardinali che lo consigliano nel governo della Chiesa universale. Proprio dal gruppo degli otto «saggi» che esprimono le esigenze degli episcopati di tutti i continenti era arrivata la richiesta che fosse costituita una Commissione di «esperti» che vigilasse, proponesse strategie per evitare che i bambini continuino ad essere vittime dei preti pedofili e per definire, d’intesa con le conferenze episcopali, azioni di contrasto efficaci degli abusi.
Ieri è arrivato l’annuncio: Bergoglio l’ha costituita e oltre al porporato francescano ha voluto che nel suo nucleo iniziale vi fossero anche l’irlandese Marie Collins, una delle vittime degli abusi, la psichiatra inglese Sheila Hollins che si è specializzata nell’azione a sostegno delle vittime, quindi la dottoressa Catherine Bonnet (Francia), il giurista italiano Claudio Papale, l’ex premier polacco Hanna Suchocka, il gesuita argentino padre Humberto Miguel Yáñez e il tedesco padre Hans Zollner. Sono espressione dei Paesi dove più grave è stato il fenomeno della pedofilia nella Chiesa. Vi è anche la voce delle vittime. «Nella composizione di questo gruppo - ha commentato il direttore della Sala Stampa vaticana, padre Federico Lombardi - si può notare che metà sono donne e metà sono uomini». Lombardi osserva come le competenze presenti siano varie, «perché ci sono persone competenti nell’educazione, nella psicologia, nelle scienze sociali, nel diritto, nella morale». Ricorda come il cardinale O’Malley sia «ben noto anche per il suo impegno in questo campo» e come uno dei membri, la signora Marie Collins, «sia una persona che ha subìto personalmente violenza, nella sua giovinezza». «Noi la ricordiamo con grande stima e apprezzamento - ha aggiunto - per una relazione particolarmente importante tenuta al convegno svoltosi alla Gregoriana due anni fa, su questo tema della tutela dei minori e degli abusi sessuali».
CONTINUITÀ
Lombardi spiega come la decisione maturata dal pontefice non solo marchi la continuità dell’impegno su questo punto con i suoi predecessori, ma sia stata assunta dopo «aver sentito il parere di diversi cardinali, altri membri dell’episcopato, ed esperti nella materia». Segno che vi è attesa per quanto la Commissione potrà fare per contribuire ad estirpare il fenomeno, compresa la definizione di linee guida per la protezione dei bambini o supervisionare la formazione dei seminaristi.
«Il suo compito principale - ha aggiunto il direttore della Sala Stampa intervistato da Radio vaticana - sarà quello di preparare gli statuti della Commissione, i quali ne definiranno le competenze e le funzioni. La medesima Commissione verrà successivamente integrata da altri membri, scelti nelle varie aree geografiche del mondo». La linea del Papa argentino - ha sottolineato - «è quella della continuità con l’impegno dei suoi predecessori Giovanni Paolo II e Benedetto XVI».
Non vi sarà spazio per ambiguità o sottovalutazioni. Il messaggio dato da Francesco è chiaro: «La Chiesa deve tenere la protezione dei minori fra le sue priorità più alte». È per promuovere l’iniziativa in questo campo che oggi - spiega Lombardi - il Papa ha indicato i nomi di diverse personalità altamente qualificate e note per il loro impegno su questo tema». Sarà loro compito «lavorare speditamente» per «elaborare la struttura finale della Commissione, precisandone scopo e responsabilità, proponendo i nomi di ulteriori candidati, in particolare da altri continenti e Paesi, che possono essere chiamati al servizio della Commissione».
Padre Lombardi assicura che la Commissione, avendo ben presente il passato, «adotterà un approccio molteplice per promuovere la protezione dei minori, che comprenderà l’educazione per prevenire lo sfruttamento dei bambini, le procedure penali contro le offese ai minori, doveri e responsabilità civili e canoniche, lo sviluppo delle “migliori pratiche” che si sono individuate e sviluppate nella società nel suo insieme». È così che potrà contribuire alla missione del Santo Padre «di rispondere alla sacra responsabilità di assicurare la sicurezza della gioventù».

l’Unità 23.3.14
I tempi del Presidente
di Claudio Sardo


Giorgio Napolitano ha sempre detto che il suo secondo mandato durerà per «un tempo non lungo». Nulla è più personale della scelta dei tempi: se così non fosse, verrebbe scalfita l’autonomia e l’integrità stessa dei poteri costituzionali del presidente.
Tuttavia, è evidente come la nascita del governo Renzi abbia mutato radicalmente la scena, aprendo prospettive di riforme che sembravano precluse e superando quella condizione di eccezionalità che portò alla rielezione di Napolitano. La decisione del presidente avrà comunque un forte impatto istituzionale e politico: una seconda elezione presidenziale può stabilizzare o terremotare la legislatura. Non sarebbe stato così se le elezioni anticipate nel 2015 fossero state inevitabili. Si discute con poco impegno di questo passaggio, e così sta al gioco di chi, con insulti, minacce e volgarità, spara sul Quirinale per scopi di mera destabilizzazione.
Il presidente della Repubblica non voleva essere rieletto. Il mandato settennale mal si concilia con il rinnovo. Al nono anno di Quirinale un presidente potrebbe trovarsi nella condizione di nominare un giudice della Consulta in sostituzione di un altro giudice da lui nominato nove anni prima. Gli equilibri dei poteri e l’autonomia della Corte costituzionale si fondano anche sulla diversa durata dei mandati, checché ne dica Silvio Berlusconi, raffinato giurista e degno compare di Beppe Grillo (agghiacciante la sua invocazione del «mandato imperativo » per i parlamentari) nel disprezzo dei principi democratici.
È stato il rischio di una paralisi istituzionale a far accettare a Napolitano l’eccezionalità della rielezione. Paralisi istituzionale, non solo politica: va ricordato che tutti i governatori regionali chiesero al presidente di restare. La doppia sconfitta di Marini e Prodi aveva fatto implodere il Pd, qualunque governo era diventato impossibile e le elezioni immediate sarebbero finite ancora nel nulla. Napolitano ha posto pubblicamente come condizione della sua presidenza la riapertura immediata del cantiere delle riforme. E ha mandato il governo Letta in Parlamento.
Ma, a questo punto, la battaglia politica si è rivolta anche contro di lui. Con un’asprezza inedita. Si è detto che il presidente era diventato un monarca assoluto ma poi, quando Renzi ha preso il posto di Letta nonostante l’opinione contraria di Napolitano, nessuno ha chiesto scusa per le idiozie pronunciate. Nel nostro sistema il presidente della Repubblica è un motore di riserva: entra in azione quando il Parlamento è incapace di una soluzione stabile. Quando invece i partiti hanno una soluzione per il governo, questa si impone, qualunque sia l’opinione personale del Capo dello Stato.
Renzi ha restituito il primato al Parlamento. Il suo è un governo politico di coalizione, guidato come in tutta Europa dal capo del primo partito, e con l’ambizione di durare per l’intera legislatura. L’eccezionalità, insomma, è finita. La riforma elettorale - non sappiamo se apprezzata nel merito dal Capo dello Stato - è avviata. Anche la riforma costituzionale del Senato e del Titolo V sta per iniziare l’esame parlamentare.
La scelta di Napolitano è, a questo punto, una scelta di tempi. Pensiamo che la preoccupazione del presidente sia quella di evitare contraccolpi politici, che blocchino il percorso riformatore oppure riportino all’instabilità precedente. Tre sono le questioni dirimenti per decidere la data. La prima, la più importante, riguarda appunto la stabilità. Se l’elezione del presidente dovesse rompere l’equilibrio che Renzi ha costruito (maggioranza di governo e maggioranza per le riforme), potrebbe cadere l’intero castello, legislatura compresa. I rischi ci sono. Perché i nomi graditi a Berlusconi fanno venire il mal di pancia a molti grandi elettori Pd. E perché è interesse di Renzi e del Pd non chiudere la porta a quella sinistra che si raccoglie attorno a Sel e che potrebbe coinvolgere i dissidenti grillini. L’equazione è difficile, anche se l’elezione di un presidente con profilo di garanzia è comunque utile a tutti. Bersani non ci riuscì, ma chi nel suo partito bocciò Marini e Prodi aveva come obiettivo proprio impedire il governo Bersani. Non sarà facile la partita di Renzi: lui comunque al governo è già arrivato.
La seconda questione davanti al presidente è il semestre europeo. Renzi ha bisogno di un sostegno attivo al Quirinale. Ha bisogno di una personalità che pesi in Europa, perché lui è ancora debole fuori dall’Italia. Napolitano ovviamente dà le migliori garanzie, anche per costruire le alleanze necessarie al cambio di rotta dell’Unione. Ma non è il solo: Renzi può puntare su personalità come Prodi o Amato, e può anche allargare la rosa. La vera incognita, in fondo, è il risultato delle elezioni europee. Resisteranno la maggioranza e il quadro politico? Lo scenario che oggi appare stabile può cambiare rapidamente. Qui sta la scelta più delicata per Napolitano: si dà troppo per scontato che le dimissioni debbano necessariamente attendere la fine del semestre. Il presidente potrebbe anche fare una valutazione diversa, se avesse garanzie di tenuta della maggioranza dopo il voto di maggio.
Infine c’è il nodo delle riforme. L’impegno solenne, per Napolitano, è che il processo si instradi verso la conclusione. I prossimi giorni in Senato diranno molto. Ma c’è un problema anche sul merito. Nel primo testo di Renzi non si prevedono cambiamenti che riguardano le funzioni e la platea elettorale del presidente della Repubblica. La composizione dei grandi elettori però è destinata a cambiare: se non verrà ampliata la rappresentanza regionale, l’elezione dipenderà esclusivamente dal premio di maggioranza della Camera. E non mancherà chi, a destra, proporrà l’elezione popolare diretta come bilanciamento dell’elezione quasi diretta del premier. Minori saranno i cambiamenti alla figura del Capo dello Stato, più libero sarà Napolitano nella scelta dei tempi. Perché sarebbe strano eleggere un nuovo presidente e delegittimarlo con un’innovazione che ne cambia funzioni.
Il Sole 23.3.14
La spesa va tagliata iniziando dall'alto
Roberto Perotti


Tra le tante diatribe sulla politica economica del nuovo governo, credo vi sia quasi unanimità su almeno due punti: è necessario tagliare le tasse, ma senza aumentare in modo permanente il debito pubblico, sia per rispetto alle generazioni future sia per evitare il ripetersi di problemi con i mercati.
Questo significa che per tagliare le tasse bisogna tagliare anche la spesa pubblica. Ma come e quando? Senza entrare nei dettagli, c'è un criterio generale da seguire che è a mio avviso di fondamentale importanza: è necessario cominciare dall'alto.
Come ho mostrato in alcuni studi con Filippo Teoldi su lavoce.info, i dirigenti pubblici italiani guadagnano più dei loro colleghi stranieri. In alcuni casi si tratta di cifre semplicemente scandalose, inaccettabili: un ambasciatore tipicamente guadagna tra i 20mila e i 27mila euro al mese, in media due volte e mezzo l'omologo tedesco; un giudice costituzionale quasi 40mila euro lordi al mese (più numerosi benefit), due volte e mezzo l'omologo statunitense.
Ma anche gli altri dirigenti sono solitamente ben trattati. In media, i dirigenti ministeriali di alto livello guadagnano tra una volta e mezza e due volte i loro colleghi britannici.
I ministeri della Salute e dello Sviluppo economico hanno rispettivamente 125 e 165 dirigenti di seconda fascia, che guadagnano in media 110mila, quanto i 17 dirigenti di prima fascia del ministero dell'Economia britannico.
I 300 dirigenti apicali di regioni e province guadagnano 150mila euro, quanto il capo di gabinetto del ministero degli Esteri britannici. I 2mila altri dirigenti delle province guadagnano 105mila euro. I 7mila altri dirigenti dei Comuni guadagnano poco meno.
Non si può chiedere sacrifici se non si parte da questi dati. Molto semplicemente, è una questione di civiltà. Questo è stato l'errore di tutti i tentativi fatti in passato. E che non si venga a raccontare la solita favola dei diritti acquisiti.
Non c'è scritto da nessuna parte nella nostra Costituzione che gli stipendi dei dirigenti pubblici non possono scendere. Gli ambasciatori protesteranno? Si accomodino: per ogni feluca che decide di andare in pensione anticipatamente, ci sono almeno cento giovani dinamici e preparati che parlano tre lingue e sarebbero felicissimi di rappresentare l'Italia per 5 mila euro al mese.
Il problema potrebbe sembrare diverso per i manager (anziché i dirigenti) pubblici. È senz'altro vero, come dice Mauro Moretti, amministratore delegato delle Ferrovie dello Stato, che alcuni manager di aziende pubbliche avrebbero un mercato alternativo nel settore privato. Ma se si guarda al campione di 29 aziende controllate dal Tesoro, moltissimi manager hanno poca oppure nessuna esperienza nel settore privato, e poca oppure nessuna esperienza nel settore delle aziende che dirigono.
L'amministratore delegato della Consap (società di assicurazione pubblica), Mauro Masi, guadagna quasi mezzo milione; recentemente è stato prima segretario generale alla presidenza del Consiglio di Silvio Berlusconi, poi direttore generale della Rai, ma non ha alcuna esperienza in campo assicurativo. L'amministratore delegato e presidente della Zecca di Stato, Maurizio Prato, ha percepito nel 2012 uno stipendio annualizzato di 750 mila euro, quasi il triplo del suo omologo britannico. È stato presidente di Grandi Stazioni, Fintecna e Alitalia, tutte aziende pubbliche all'epoca della sua carica. Non sono sicuro che ci sarebbe la fila per assumerli, nel settore privato e tantomeno all'estero. Ed è vero, come ha ricordato Mauro Moretti, che il presidente ed amministratore delegato delle ferrovie tedesche prende tre volte il suo stipendio di 850 mila euro. Ma il presidente e direttore generale delle ferrovie francesi guadagna 250 mila euro; e nessun membro del consiglio (alcuni dei quali provengono dal settore privato) può guadagnare più di 450 mila euro. Non risulta che ci sia stata un'emorragia di manager dalle ferrovie francesi, né che queste abbiano una reputazione peggiore di quelle italiane.
Il costo di imporre un tetto agli stipendi dei manager è (forse) di perderne alcuni. Ma il vantaggio è di evitare gli infiniti abusi del sistema da parte dei tantissimi che non hanno né competenze né mercato.
In molti casi, la soluzione dovrebbe essere ancora più radicale: liquidare una volta per tutte i tanti enti pubblici, statali e regionali, che non hanno alcuna funzione, e che alimentano soltanto il sottobosco politico. I risparmi iniziali sarebbero modesti, perché bisogna evitare di licenziare i dipendenti. Ma tra qualche anno i vantaggi, per l'economia e per la società, sarebbero immensi.

l’Unità 23.3.14
Il partito, la sinistra: vediamoci a Roma sabato 12 aprile
di Gianni Cuperlo


DOMENICA SCORSA SU QUESTO GIORNALE avevo segnalato l’idea di una convenzione dove riflettere sullo spartiacque di questi mesi. Io propongo di vederci a Roma, sabato 12 aprile. Non la immagino come una ripartenza (siamo ripartiti troppe volte). La penso come una giornata dove si discute sul futuro dell’Italia e su come la nostra storia si ricolloca nella nuova storia d’Europa. Dove si ragiona, allungando lo sguardo, oltre i confini di gruppi e correnti e si immagina un riformismo radicale dentro un nuovo inizio decidendo a quel punto anche come organizzarsi. Per me il congresso è finito. Ha vinto Renzi, largamente. La voglia di cesura col ventennio è stata intrattenibile. A dire il vero non immaginavo che tutto potesse consumarsi in un paio di mesi, e mi sbagliavo. Dicembre è l’altro ieri, eppure siamo a marzo e dopo un passaggio traumatico il segretario già guida un Esecutivo nuovo. Credo vada sostenuto con lealtà e con l’autonomia necessaria a correggere le cose che non vanno come per il primo decreto sul lavoro. Questo è il governo del Pd e la scommessa è notevole: fare le riforme che servono, quelle politiche (la legge elettorale), costituzionali, economiche e sociali.
Ma appunto perché la sfida è cambiare, sento più forte il bisogno di una sinistra ripensata, rinnovata, rifondata. Di un riformismo finalmente libero da subalternità, che non vive solo dentro le istituzioni ma tra la gente, dentro i circoli, nei movimenti che non arrivano in prima pagina, nei tanti che presidiano la legalità e una battaglia quotidiana per i diritti umani e civili. Poco mi importa che al congresso quelle persone abbiano votato per noi oppure no. Mi interessa ascoltarle, discutere su cosa ci porta la nuova stagione e cosa ci chiede. Perché i governi durano e passano, e lo stesso i segretari e ciascuno di noi, ma il partito (un partito) è qualcosa di più. È una comunità di cui c’è bisogno ora e ci sarà bisogno dopo. E allora la prima cosa da dire è che non si cammina con la testa rivolta a ieri. Non è tempo e non si capirebbe un’area della minoranza per fotografare quel che è avvenuto. In un pugno di settimane è cambiato tanto, per questo è bene alzare lo sguardo e parlare a tutti senza smarrire il senso di quel che abbiamo seminato. Se le cose stanno così chi pensa che la democrazia ha bisogno di una terra di mezzo tra il potere e la vita, chi, come noi, crede che il Pd ha un futuro se riscopre la leva dell’uguaglianza, chi non rinuncia a questa profondità deve rispondere a un’altra domanda: ma noi - noi - dopo questo tornado possiamo pensare che la via sia ricostruire quel che c’era prima o non sarà il caso di affrontare la stagione entrante con nuove mappe culturali, forme organizzative, sperimentali e creative? Ecco un’altra ragione per cui non si tratta di mettere a regime la minoranza del congresso trasformando il suo pluralismo in piccole rendite o coltivando rimpianti sul «come stavamo meglio prima», perché non è neanche vero. Serve altro perché la domanda vera è: «esiste ancora un partito? » e «di quale partito stiamo parlando? Che modello abbiamo in testa? Vogliamo una comunità o una porta girevole in cui si entra e si esce a seconda del proprio destino?».
Interrogativi che inchiodano alla concretezza: tolti i finanziamenti, ridotte molte sedi a numeri di telefono dove a volte nessuno risponde, eppure con circoli che alzano la saracinesca per continuare a riunirsi, la sola strada è un partito disegnato sul leader (a proposito, bravo Renzi a stroncare il dejà vu del nome sul simbolo!) Un partito ridotto a comitati elettorali, finanziato quando serve ma privo di certezze. Non mi arrendo all’idea che questo sia il destino dei democratici. E delle democratiche, perché nel voto alla Camera sulla rappresentanza di genere leggo una capriola all’indietro della nostra cultura politica. Insomma per una quantità di motivi penso sia tempo di andare controcorrente. Fosse solo per una ragione: se identifichi il Pd conle istituzioni e col premier, il giorno (malaugurato) che dovessimo tornare all’opposizione che fai? Senza comunità e un senso che non sia quello del governo, come riparti? Come non capire che costruire una forza organizzata e indipendente è il modo migliore per sostenere il governo (quando ce l’hai) e prepararti a conquistarlo (quando ce l’hanno gli altri)? Per ripensare un nuovo, largo, centrosinistra della politica, del civismo, della partecipazione. Abbiamo passato vent’anni a capire che la leva del «potere» da sola non basta. Che un riformismo senza popolo espone ai venti del consenso e finisce con l’indebolire la trama di decisioni che si vorrebbe sempre limpida. Ciò vuol dire guardare a cosa si muove oltre noi, a sinistra, sul fronte più moderato e in un mondo cattolico stupito dall’avvento di uno straordinario pontificato. Allora è davvero assurdo ridurre tutto alle caselle di prima. Non di una somma di correnti abbiamo bisogno noi e il Pd. Ma di una sinistra ambiziosa almeno quanto ambiziosa è la stagione aperta. Abbiamo rivalutato il termine sobrietà. È giusto perché la parola è bella. Ma se dovessi dirvi a quale sentimento ispirarci, sceglierei l’umiltà. Più umili dovremo essere per tornare credibili. Io dico, proviamoci.

l’Unità 23.3.14
Europee, la sinistra punti sul nodo disuguaglianze
I dati sono drammatici: aumentano i super ricchi e cresce la povertà
di Antonio Panzeri


AL WORLD ECONOMIC FORUM DI DAVOS IN SVIZZERA GRAN PARTE DEL MEETING SI È FOCALIZZATO SUL TEMA DELLE DISUGUAGLIANZE. Anche Obama, nel discorso sullo stato dell'Unione, si è concentrato sullo stesso tema, e Papa Francesco organizzerà a breve un incontro internazionale ad alto livello. Vari sondaggi a livello europeo e statunitense, dimostrano come l'opinione pubblica sia sempre più preoccupata e chieda di sapere al più presto cosa i governi intendono fare. A Davos si è presentato uno studio che evidenzia come gli 85 individui più ricchi del mondo possiedano tanto quanto 3.5 miliardi di persone «classificate» come povere. Sono numeri impressionanti, che evidenziano come la disuguaglianza racchiuda la sintesi di tre fattori: l'aumento dei super ricchi, l'aumento della povertà, la stagnazione del potere d'acquisto della classe media. In alcuni Paesi, e l'Italia non è ancora tra questi, la discussione è iniziata, in particolare sull'aumento della povertà.
Siamo tutti consci che politiche di governo intelligenti potrebbero ridurre efficacemente la povertà in molti Paesi. Viceversa, il grande problema della stagnazione della classe media, che vede coinvolto anche da noi un numero rilevante di persone, non trova al momento il giusto spazio di discussione e dunque di azione.
Il potere d'acquisto si riduce, i redditi ristagnano e i trend generati dall'avvento delle nuove tecnologie da una parte, e alcuni effetti della globalizzazione dall'altra, come ad esempio l'out sourcing di attività verso Paesi con basso costo del lavoro e nessuna regola, hanno già creato e ancora creeranno seri problemi per l'occupazione. In un recentissimo libro, «The second machine age», si sostiene che sia con la rivoluzione industriale che con la prima rivoluzione informatica, la tecnologia è stata utilizzata per creare sistemi che miglioravano la forza muscolare umana e la capacità di controllo dei processi produttivi. Il controllo umano è un fattore cruciale per ogni fase del cammino fatto fino ad ora nell' ambito dell'innovazione. Pensate a una fabbrica dove migliaia di lavoratori, capisquadra, manager, tutti insieme hanno contribuito alla produzione di un prodotto.
Nella seconda età della macchina, sostengono gli autori, si sta iniziando ad automatizzare le attività definite cognitive, vale a dire il controllo di un processo produttivo. Le macchine stanno sostituendo il controllo umano e la relativa capacità cognitiva, per prendere anche decisioni in forma indipendente. E l'effetto sarà drammaticamente aggravato a causa della disponibilità di nuove tecnologie. Il risultato è che si avrà bisogno di sempre meno persone impiegate nella forza lavoro. Lo si può vedere già oggi con alcuni numeri: General Motors, quando era una delle più grandi aziende del mondo, impiegava circa 600.000 dipendenti. Apple, che è oggi una delle più grandi aziende del mondo, ne impiega circa 50.000. Se si guarda il bicchiere mezzo pieno è fuori di dubbio che l'abbondanza di progresso tecnologico e di dinamismo economico potranno portare grandi vantaggi ad esempio per la riduzione della povertà e per il miglioramento dell'assistenza sanitaria. Ma se si guarda il bicchiere mezzo vuoto, va detto invece che parecchi posti di lavoro in Occidente presto saranno a rischio. Su questo punto, per noi cruciale, al momento purtroppo non ci sono nuove idee. Siamo però convinti che argomenti di questa portata possano essere affrontati solo a livello continentale. Per questo è forte l'auspicio che con la campagna elettorale per le europee i temi della disuguaglianza e dell'occupazione vengano posti al centro della discussione dei progressisti, ovviamente allo scopo di proporre soluzioni sostenibili e convincenti.

il Fatto 23.3.14
Il giornalista Curzio Maltese, lista Tsipras
“Quanto è difficile criticare Renzi”
di Salvatore Cannavò


Perché mi candido? Perché in questo paese c’è un’emergenza, politica e di informazione. Basti pensare a quanto sia difficile leggere cose obiettive su Matteo Renzi”. Curzio Maltese è una firma storica di Repubblica e la sua candidatura con la Lista Tsipras alle prossime europee (capolista nel Nordovest) suscita curiosità. Impegni politici non ne ha mai avuti, “tranne il movimento studentesco negli anni ‘70” e, tranne un voto ai Radicali, ha sempre votato Pci e poi di seguito fino al Pd. “Alle ultime elezioni per il Pd ma anche per Sel, per fermare le larghe intese. Ma se ne sono fregati”.
Giornalismo e politica non dovrebbero restare separati?
Non lo sono dai tempi della Rivoluzione francese. In realtà non avrei mai pensato di candidarmi
E perché è successo?
Perché esiste un’emergenza grave sia per la politica che per l’informazione.
Quale?
Un modello di Europa che impoverisce i poveri e arricchisce i ricchi. E che rappresenta il tradimento dell’ideale europeo di Altiero Spinelli. Le larghe intese in Europa sono dappertutto e costituiscono l’assassinio della politica, la vera antipolitica.
Renzi quindi è bocciato?
Direi che il suo viaggio europeo ha confermato l’emergenza dell’informazione italiana che fa campagna per lui.
Perché?
Si è parlato di patto italo-francese dopo l’incontro con Hollande ma sui giornali francesi non se n’è trovata traccia (in Italia lo ha ben scritto Andrea Bonanni su Repubblica ). Hanno scritto che il premier ha ‘fatto innamorare’ Merkel ma Squinzi lo ha smentito. A Bruxelles, i telegiornali hanno dato la notizia del trionfo ma dai sorrisini si è capito che non c’era nulla.
Un disastro.
Non succede facilmente nel nostro paese di leggere cose obiettive su Renzi.
Di lui non salva nulla?
Le promesse sono ottime. Ma da giornalista valuto i fatti. Ha fatto la campagna delle primarie sul rifiuto delle larghe intese, sulla necessità del voto per andare a palazzo Chigi e su una forte spinta antidalemiana. Poi ha fatto un patto di ferro con Berlusconi, grazie a questo patto ha fatto fuori Letta e ha riabilitato D'Alema. Difficile fidarsi.
E Grillo?
Dice cose giuste e dà soluzioni sbagliate. Propone di uscire dall’euro per entrare nello zecchino o nel baiocco. Non mi sembra si faccia molta strada. E poi ha fondato un partito padronale.
La Lista Tsipras è la strada giusta? Ha cominciato con gli scontri interni.
Chi ha rotto lo ha fatto non sul programma ma sui nomi dei candidati. A rompere è stato solo uno, un intellettuale geniale come Flores D’Arcais, che voleva la candidatura di Sonia Alfano. Andrea Camilleri lo ha appoggiato e mi spiace molto della sua assenza. Ma non ho mai visto un gruppo così unito. Nel Pd sarebbe finita a coltellate.

l’Unità 23.3.14
Il sindaco Marino e il governatore Zingaretti
per la sepoltura a Roma di Capponi e Bentivegna


«Finalmente, erano anni che aspettavo questa notizia». Elena Bentivegna è più che contenta: il sindaco di Roma Ignazio Marino e il presidente della Regione Lazio Nicola Zingaretti hanno scritto una lettera al presidente del cimitero acattolico per stranieri di Testaccio, l'ambasciatore del Sudafrica, signora Nomatemba Tambo, per chiedere ufficialmente e congiuntamente che lì siano sepolti Carla Capponi e Rosario Bentivegna, «eroi della Resistenza romana e della Guerra di Liberazione dal nazifascismo», «protagonisti fondamentali della storia e della affermazione dei valori democratici nella città di Roma», in deroga all'articolo 16 dello statuto del cimitero. Cioè anche se battezzati. Rosario “Sasà” Bentivegna e Carla Capponi, medaglia d’argento e medaglia d’oro al valor militare, avevano espresso alla figlia Elena il desiderio di essere sepolti nel piccolo cimitero-giardino non lontano dai luoghi dove la coppia di partigiani aveva iniziato la loro attività durante l’occupazione della Capitale. L’interessamento degli enti locali arriva alla vigilia del settantesimo anniversario dell’attentato di via Rasella, al quale Capponi e Bentivegna parteciparono, scampando il giorno dopo al massacro delle Fosse Ardeatine perpetrato per rappresaglia dagli uomini agli ordini del colonnello Kappler. Le ceneri di Bentivegna e Capponi, morti nel 2012 e nel 2000, sono al momento conservate in una stanza blindata a Zagarolo, comune dove risiede la figlia della coppia. Elena Bentivegna, che finora aveva custodite le urne in casa, le ha recentemente trasferite perché teme vandalismi da parte di gruppi neonazisti. Orala Regione e il Campidoglio - si dice nella lettera - si faranno carico di tutti i costi relativi al trasferimento dei resti e alla loro sepoltura. «Seguiremo la vicenda fino a conclusione», si è impegnato Massimiliano Smeriglio, vice di Zingaretti, di Sel.

il Fatto 23.3.14
A ciascuno il suo Berlinguer
Pd, in fila per santificare Berlinguer (e dimenticare la questione morale)
Complice il film veltroniano, il mito del segretario santino supera il peso della sua eredità
Maria Elena Boschi ne è la perfetta rappresentazione: prima celebra la questione morale, poi di fronte alle domande sui quattro impresentabili del Pd al governo (Barracciu, Bubbico, Del Basso De Caro, De Filippo, più la richiesta d’arresto per Francantonio Genovese) scappa silente
Eppure fu proprio il Pci di Berlinguer a coniare l’espressione “mani pulite”, nel 1975
Da allora sono passati 40 anni  
di Fabrizio d'Esposito

qui

il Fatto 23.3.14
Berlinguer, impronte di un’altra epoca
di Furio Colombo

Nel groviglio di traffico politico della vita italiana c’è stato un evento rivelatore. È il film di Veltroni su Berlinguer (sarebbe più giusto dire “con Berlinguer”) narrazione inaspettata e improvvisa dell’altra epoca. Ha fermato il traffico ministeriale inseguito con affanno dal Parlamento per un paio d’ore, in uno stato d’animo che veniva definito commozione ma era stupore. E anche disagio. Sospetto che avrà conseguenze che dureranno più a lungo della durata di un film. Cerco di spiegare. Molte cose sono accadute e molte le abbiamo dimenticate, o per necessità o per pudore. L’imbarazzo è grande, perché siamo le stesse persone e ci siamo adattati a vivere in un mondo che non ci riguarda per l’euforia insensata e la prepotenza violenta con cui si esprime.
Siamo spalla a spalla (e anche sottosegretario con sottosegretario) tra gente che aveva fretta di arraffare e andarsene col furto, a volte piccolo in modo imbarazzante, a volte di dimensioni sconosciute, una voglia di fuggire non si sa dove. Lontano, certamente. Tanto che alcuni hanno spedito ricordi e ricatti da isole sconosciute. Poi, per una ragione o per l’altra (di solito giudiziaria) sono tornati. Al momento siamo tutti stipati in un ascensore fermo e non sappiamo che cosa dirci. Anche perché, non so se vi siete accorti, siamo tutti senza lavoro, anche se non tutti altrettanto poveri. Nel senso che nessuno di noi può fare qualcosa di utile o contribuire alla soluzione di una lunga e indefinibile “crisi”.
Il vento forte di una politica che vuole essere notata per il suo fantasioso attivismo, soffia raso al suolo e abbatte solo (ne abbatte molte) le palafitte. Dai piani alti guardano giù, chi con pena, chi con distacco, uniti dalla silenziosa soddisfazione di veder confermato quel che credevi: tu, non io, devi assumerti il peso di risolvere il problema.
IL PROBLEMA non è mai precisato. Pare che si tratti di un debito immenso, di cui senti parlare da quando eri giovane. Adesso sarebbe venuto il momento (non per tutti, solo per alcuni, in particolare chi ha un piccolo lavoro, nessun lavoro, una pensione d’oro da duemila lordi, e i disabili) di saldare. L’incubo bussa alla porta di milioni di famiglie che, dato il modo in cui sono vissuti e la solitudine che hanno patito, non credevano, non sapevano che toccava a loro saldare quel debito immenso. Vorrebbero un po’ di attenzione, ma il governo, giovane e “good looking”, in questo momento ha da fare a lodare se stesso e ad annunciare nuove cose miracolose, perciò per te non ha tempo. E ti lascia solo a rispondere alla domanda: se il debito continua a crescere, è di nuovo colpa mia? Nell’altra epoca le parole erano chiare e le frasi avevano senso. Il fascismo era fascismo, il lavoro lavoro, il dolore dolore. Veltroni è stato geniale nel trovare la strada per il ritorno. Una illusione, naturalmente, ma, per forza, uno shock. Ha aperto la scatola che tenevamo chiusa, venerandola sbadatamente e in fretta, come chi si tiene cara l’urna delle ceneri. Il suo Quando c’era Berlinguer non è un film rivisitazione, come, per esempio, la mostra sui 90 anni della Rai, in cui persino le immagini dei vivi a grandezza naturale (un soprassalto) compaiono nel ruolo di cari estinti. No, qui, in questo film, nessuno è rimasto uguale ed è rimasto fermo, neppure i sopravvissuti, neppure i ricordi. Le immagini iniziali dei ragazzi che non sanno (“Berlinguer? Mai sentito”) e quella dei giornali spazzati dal vento, sotto le nuvole basse di una Roma che non promette nulla di buono, ci dicono che il nostro stupore è legittimo. Ma anche che questo non è un indovinello con battuta finale o un labirinto di cui devi intelligentemente trovare l’uscita. Noi, in sala, siamo una giuria estranea che sente di non stare né di qua né di là, sia perché adesso stanno tutti insieme, in una aggregazione pietrificata che non si può spiegare. Sia perché hanno detto e ripetuto e confermato che non ci sono più destra o sinistra. Vuol dire che non ci sono più idee da sostenere o da respingere, ci sono solo accordi. La giuria prova disagio (la parola è suggerita da Scola) nell’essere messa all’improvviso faccia a faccia con l’altra epoca. Dovrebbe giudicare ma capisce subito che non può. Il gioco di Veltroni è accorto (al punto da apparire delicato) e spietato.
ERANO PIÙ ALTI, nell’altra epoca, lasciavano impronte. Avevano una lingua, dei sentimenti, delle idee. Persino Almirante appare una faccia rispettabile. Dice di essere Almirante e divenire dal fascismo. Ed è Almirante e viene dal fascismo. Nell’altra epoca i disonesti lo sapevano, era un azzardo già molto diffuso, non era un vanto, non era una ragione per intestardirsi ad andare o restare al governo, come se l’avviso di garanzia attribuisse un diritto inalienabile di fare politica bene in vista. Ci sono dei vuoti, nel faccia a faccia a cui Veltroni ci conduce nell’altra epoca. Per esempio i Radicali (Pannella, Bonino). La loro testarda ostinazione su aborto e divorzio è stata seguita, non iniziata, da leader e schieramenti politici che però sapevano e capivano di che cosa si stava parlando. Mancano, al grande murale, la socialista Merlin e il socialista Loris Fortuna che hanno frantumato, da soli, interi muraglioni di luoghi comuni dell’Italia finta cattolica e sempre immersa “nei valori della famiglia” per tenere ben fermi e sotto controllo il valore detto interesse.
Però, vi rendete conto? Questa era la politica, nell’altra epoca: affrontare argomenti veri e urgenti che sarebbero stati, altrimenti esclusi per sempre dal dibattito, dalla partecipazione, dal voto. C’era speranza, c’erano (e avevano voce) cittadini, a milioni nell’altra epoca, perché il leader era con la sua gente. Con la sua gente condivideva idee. Ma le idee distinguevano, in modo intransigente, gli uni dagli altri. Al punto che alcuni - come Moro - bisognava ucciderli. Nell’altra epoca c’era una sola possibile grande intesa, la Costituzione. Per questo l’altra epoca, anche se la racconti con bravura, come ha fatto Veltroni, resta incomprensibile.

Corriere 23.3.14
Il film su Berlinguer, quei conti che non tornano agli ex miglioristi Pci
di Tommaso Labate


ROMA — «Io sono molto contento che Veltroni abbia fatto questo film. Perché è anche grazie all’opera di Walter che Enrico Berlinguer torna a essere considerato un protagonista. E non solo della storia della sinistra, attenzione. Ma della storia d’Italia. Però…».
A questo punto Emanuele Macaluso fa una pausa. Come se cercasse le parole giuste. L’ex dirigente comunista ha appena festeggiato i novant’anni. Ed è anche uno dei protagonisti di Quando c’era Berlinguer , il film in cui Walter Veltroni ricostruisce la vicenda umana e politica del segretario del Pci morto trent’anni fa. La pausa finisce. Le parole giuste arrivano. «La verità è che nel film di Veltroni non viene fuori tutta la figura di Berlinguer. Capisco che Walter abbia scelto di puntare sull’ultimo Berlinguer, magari ha fatto anche bene… Però ci sono delle cose che non tornano».
Ce n’è una in particolare di «cose che non tornano» oggi ai miglioristi, l’ala riformista del Pci di cui facevano parte sia Macaluso che Giorgio Napolitano. E sta nella «rivelazione» che Aldo Tortorella, intervistato da Veltroni, fa sulle ultime settimane di vita di Berlinguer. Un segretario che, nel ricordo dell’allora responsabile cultura del Pci, era stato praticamente messo in minoranza dalla direzione del partito. Quasi isolato. Forse addirittura pronto a lasciare dopo quelle elezioni europee alle quali, però, non sarebbe arrivato vivo.
«Io ricordo bene come andarono le cose», chiarisce Macaluso. «Forse Tortorella fa confusione, forse ricorda male. Ma non è assolutamente vero che la direzione del partito aveva messo in minoranza Berlinguer. Aveva una maggioranza bulgara, il segretario, nella direzione. Infatti fu proprio quella stessa direzione, col solo voto contrario di dodici membri su una quarantina, che approvò in seguito la nomina di Occhetto a vice di Natta».
Macaluso non aveva visto il film prima della proiezione all’Auditorium di Roma. E quel fatto contestato nella ricostruzione che Tortorella consegna a Veltroni, evidentemente, ha sorpreso un po’ tutti gli ex miglioristi. Perché effettivamente nel Pci c’era, in quella tormentata primavera del 1984, un uomo con una lettera di dimissioni in tasca. Ma non era Berlinguer. Era Giorgio Napolitano. Macaluso ha tutto in testa, come se fosse ieri. «Nella fase più tormentata dello scontro tra Craxi e Berlinguer, Napolitano, capogruppo del Pci alla Camera, aveva trovato con Rino Formica l’accordo su una modifica al decreto sulla scala mobile. Era un accordo politico vero, basti pensare che tra i socialisti il ministro Gianni de Michelis era contrario. A Berlinguer – prosegue il racconto – però quel compromesso non andava bene. Infatti Napolitano aveva già la lettera di dimissioni in tasca».
Erano le dimissioni di Napolitano da capogruppo, e non quelle di Berlinguer da segretario, il tema che forse la segreteria di Botteghe Oscure avrebbe discusso dopo le elezioni. Il comizio di Padova, il cuore di Berlinguer che smette di battere l’11 giugno, il corteo funebre che parte dal Bottegone, i «tutti» di Piazza San Giovanni. La storia avrebbe travolto il Pci senza che questo scontro si consumasse al suo interno. «Lontani lo erano, Berlinguer e Craxi», conclude Macaluso. «E Craxi commise l’errore di avallare i fischi che avevano accolto Berlinguer a Verona. Ma un anno prima c’era stato l’incontro alle Frattocchie. E i due, a pochi mesi dalle elezioni del 1983, avevano scritto un comunicato in cui si parlava di una prospettiva comune per Pci e Psi. Nel film io l’avrei ricordato, questo episodio…».

l’Unità 23.3.14
La paga di Moretti e la rabbia populista
Il taglio lineare delle retribuzioni dei capi delle aziende pubbliche non ha senso
Accontenta chi cerca rivincite. Ma Renzi ha una strada da seguire
di Massimo Mucchetti


Sulla partita delle nomine, che ha l'unico momento pubblico nelle audizioni al Senato dei capi di Eni, Enel, Finmeccanica e Terna , si è abbattuto il ciclone del taglio delle remunerazioni dei manager di Stato, sostenuto dal premier in persona. Un taglio al quale si è opposto Mauro Moretti, amministratore delegato delle FS, il cui mandato è già stato rinnovato mesi fa, con argomentazioni condivisibili quanto minoritarie. Ora, siccome Moretti ha risanato i conti delle FS costando meno della metà del suo predecessore che aveva proseguito nel disastro di sempre, vale la pena di capire prima perché Renzi è maggioritario e Moretti no e poi se questo sia l'unico modo di trattare la questione dei soldi.
L'iniziativa di Matteo Renzi, diciamolo subito, dà soddisfazione a un sentimento diffuso nell'opinione pubblica. Aveva già battuto la stessa strada nel 2007 il governo Prodi su pressione di Rifondazione e comunista, che l'anno prima prometteva di "far piangere i ricchi" non sapendo come far sorridere i poveri. Anche il governo Letta aveva sforbiciato qua e la', ma salvando i capi delle aziende presenti sul mercato finanziario con azioni e/o obbligazioni quotate. Con il risultato di colpire la busta paga di pochissimi, l'ad di Invitalia e non ricordo più chi altri.
IL TAGLIO GENERALIZZATO
Oggi, nella primavera del 2014, al sesto anno di crisi, Renzi vorrebbe superare le eccezioni del suo predecessore e colpire a tappeto, anche se non è chiaro se è come vorrà incidere sulle total compensation delle società quotate delle quali il Tesoro detiene il controllo di fatto. Il taglio generalizzato sembra non tenere in alcun conto nè la qualità professionale delle persone nè la consistenza dei risultati. Un taglio lineare, insomma, che si giustifica con il pregiudizio secondo il quale tutti i servizi pubblici sono pessimi e dunque incapaci vanno considerati i loro gerenti. Togliere denari a queste persone avrebbe il significato di un risarcimento. Sono sicuro che il premier ha un'opinione ben più articolata e sofisticata, ma la gente che si forma l'opinione ascoltando i talk show, leggendo i tweet sullo smartphone o smanetta di sul web non fa troppe distinzioni. Un numero crescente di persone, che ancora nel 2007 non aveva niente da ridire sulle banche, faceva mutui pari al 100% del valore della casa e comprava a debito un po' tutto trovando chi gli dava credito, oggi sta scivolando verso un neopauperismo radicale pieno di rancore sociale e povero di speranza. Sì, povero di speranza nella possibilità di farcela. Quando l'ascensore sociale si ferma, cambia il modo di pensare. E da chiunque sia considerato parte della classe dirigente si pretende il pagamento di un prezzo.
Moretti avverte che, sotto certe soglie retributive, le aziende pubbliche perderanno i cervelli migliori perché questi potranno trovare alternative nel settore privato italiano o addirittura all'estero. Porre come punto di riferimento il compenso del capo dello Stato ha senso per chi fa politica nelle istituzioni e forse anche per l'alta burocrazia che, per la posizione che occupa, non può andare sul mercato. Maun capo del personale è un capo del personale e non ha senso pagare chi ha la responsabilità di 80mila persone meno di chi ne deve seguire 8 mila o fors'anche 800. Alla fine le aziende, pubbliche o private che siano, sono aziende. In Germania, che ha una pubblica amministrazione e un sistema di grandi imprese pubbliche e private più serie dell'Italia, il capo di Deutsche Bahn prende il triplo del capo di FS e non so quanto di più del cancelliere Angela Merkel e del presidente della Repubblica Federale di Germania. Dunque, di che parliamo? Già, di che parliamo quando diciamo che Moretti deve prendere non più di quanto non prenda il presidente Napolitano? Parliamo del fatto che il Paese in sofferenza merita solidarietà. E qui l'iniziativa del premier può prendere quota seriamente. Purché si abbandoni l'idea del taglio lineare riservato alle sole aziende pubbliche e ai pubblici dipendenti e si passi a un piano di solidarietà generalizzato. Il Paese che soffre, infatti, non è tutto il Paese ed è giusto - oltre che utile ai fini della convivenza civile - che chi più ha più dia, magari per un periodo temporaneo. Ma ancor più sarebbe proficuo riattivare l'ascensore sociale che solo può restituire, con la speranza, il buon umore che aiuta a superare momenti difficili. I salari di chi ha responsabilità elevate, sia nel settore pubblico sia i quello privato, possono e devono essere un multiplo di quelli medi o, meglio, del salario mediano di ciascuna impresa dove abbia senso istituire tali relazioni. Ma nulla vieta al governo di chiedere - o pretendere - un contributo speciale a un fondo di solidarietà da dedicare a nobili scopi. Un contributo a fondo perduto ovvero la sottoscrizione di un Btp a tasso stracciato. Si vedrà.
Adesso il governo deve affrontare la partita delle nomine. Nelle società a partecipazione statale si è formata una giungla retributiva. Tra Finmeccanica e l'Eni c'è un abisso. I beneficiari delle remunerazioni veramente d'oro assicurate dal paracaduti di platino hanno sempre giustificato le loro pretese sostenendo che questa è la legge del mercato. Molti giornali, inondati di pubblicità istituzionale che salva i budget tremolanti delle loro concessionarie, hanno fatto da grancassa.
SACRIFICI PER MONTEZEMOLO Ma non è vero che nel mondo non esistano grandi manager disposti a pestare la loro opera, per cifre nettamente inferiori a quelle i uso da 10-15 anni da noi. Il capo della francese Total guadagna la metà del capo dell'Eni e la Total va pure meglio. Idem per il capo di Edf rispetto all'Enel. Enrico Mattei, il fondatore dell'Eni, viveva in modo francescano. Ora nessuno pretende che rinasca un Mattei. Beato quel Paese che non ha bisogno di eroi, diceva Brecht e aveva ragione. E infatti i top manager francesi che ho citato, guadagnano molto bene, ma molto meno dei colleghi italiani. Ora, la campagna del governo sulle paghe potrà evitare le secche del populismo, che paga alle urne oggi ma non costruisce nulla per il domani, se chiamerà tutti a un contributo solidale: non solo Moretti, ma anche Montezemolo, per capirci al volo. E poi se farà in modo che anche nelle società quotate a controllo pubblico ci siano retribuzioni più contenute e legate ai risultati più seriamente di quanto non sia accaduto finora. Ma come si fa con le società quotate, diranno gli amici del giaguaro? Semplice, il Tesoro metterà in lista non solo i migliori ma anche i migliori non così avidi da non capire che, di questi tempi, chi guida una grande azienda pubblica può ben guadagnare di più di Napolitano, che fa un altro mestiere, e di meno della maggior parte degli uscenti. I comitati per le remunerazioni, formati da consiglieri indipendenti non all'orecchio del Tesoro, potranno dire quello che vogliono, ma se gli interessati si auto limitano non potranno far altro che prenderne atto, com'è accaduto in Finmeccanica. Da questi manager, che si dovranno sentire onorati di servire l'interesse generale nelle imprese a controllo pubblico e l'interesse generale mediato con quello degli altri soci nelle società quotate a controllo pubblico, sarebbe lecito attendersi forme di coinvolgimento dei lavoratori nel reddito d'impresa legando l'evoluzione delle retribuzioni del vertice a quelle della base.
C'è stato un tempo in cui le aziende pubbliche facevano miracoli, e Renzi a Firenze avrà sentito parlare di La Pira e del Nuovo Pignone. Non è necessario che si ripetano, anche perché al Pignone ha poi fatto bene anche la General Electric. Ma c'è stato un tempo in cui le Partecipazioni statali aprivano le porte a contratti migliori per i dipendenti. Poi hanno deviato verso consociazioni con i sindacati non certo ripetibili. Ma se lo Stato fa l'azionista come Agnelli, che Stato è?

il Fatto 23.3.14
Moretti al capolinea: tutti i manager rischiano il taglio
Il ministro Lupi scarica il capo di Ferrovie: “se vuole andare via, è libero” e il governo pensa di ridurre anche i milioni dei vertici di Enel, Eni & c.
di Carlo Tecce


Mauro Moretti non è un privilegiato. Calmi, questa è una provocazione. E forse un pensiero neanche tanto recondito di Moretti medesimo. Il Capo di Ferrovie, ex sindacalista Cgil, è penalizzato perché l’azienda di rotaie e treni non è quotata in Borsa. E Matteo Renzi vuole far dimagrire proprio le buste paga dei manager pubblici che non frequentano piazza Affari di Milano. Moretti non vuole rinunciare agli 873.000 euro, ma sarà complicato per il governo toccare (o anche giustificare) gli oltre 6,5 milioni di Paolo Scaroni (Eni), simil trattamento avrà il successore. Oppure i 3,9 milioni di Fulvio Conti (Enel), i 2,3 di Flavio Cattaneo (Terna) e, per battere qualsiasi contabilità, i 6,9 con buonuscita di Franco Tali (Saipem). Il governo vuole ricavare mezzo miliardo di euro da quel gruppo di manager, e sono tanti, che superano i 239.000 euro l’anno, cifra che corrisponde all’indennità del presidente della Repubblica. Mario Monti s’era fermato ai 300.000 circa.
MA PER EVITARE distorsioni e per dare esempi in un’epoca che cerca di sopravvivere con gli esempi, al Tesoro non escludono che ci possano essere interventi anche su quei vertici che godono di una particolare immunità perché guidano una multinazionale presente in Borsa. Il blocco, più che psicologico, è giuridico. Perché il Tesoro detiene un controllo azionario, indica gli amministratori, i consiglieri, ma deve lasciare un margine di autonomia: in sintesi, via XX Settembre non può condizionare le logiche di mercato. Al governo, però, ricordano che una prova (poi fallita) fu sperimentata in commissione al Bilancio di palazzo Madama, fragile esecutivo di Romano Prodi, poi venne Silvio Berlusconi e sbaraccò il piano. I senatori avevano elaborato un tetto onnicomprensivo per i dirigenti pubblici, anche di quelli quotati in Borsa, con una decina di deroghe proprio per rispettare le regole (cioè la legge). Il relatore era Giovanni Legnini, oggi sottosegretario all’Economia. Da sfruttare ci sarebbe una norma in un decreto di Enrico Letta che potrebbe scorticare i milioni di (almeno) il 25 per cento. Chi erediterà il testimone da Scaroni, da Cattaneo o da Conti, potrebbe subire una consistente limatura: potrebbe, ma le intenzioni ci sono; e andranno decriptate nelle prossime settimane. Le scadenze coincidono con le nomine per il rinnovo dei Cda: il governo deve pubblicare la lista dei candidati entro il 13 aprile. Il rischio, marginale, che corrono in Enel o Eni, è un rischio totale per Cassa depositi e prestiti, Poste Italiane, Zecca dello Stato: l’elenco è sterminato, e soltanto la minoranza non subirà riduzioni. Che i manager italiani siano ben remunerati, nonostante le statistiche di Moretti, lo dice uno studio Ocse: la media è di 467.000 euro contro i 250.000 in Gran Bretagna, i 187.000 in Francia e i 166.000 in Germania. L’analisi non considera le controllate pubbliche, ma lo schema ha un valore incontestabile. Un paragone emblematico l’ha documentato Lavo-ce.info: l’ad di Poste Italiane Massimo Sarmi guadagna 2,2 milioni di euro, l’omologo britannico di Royal Mail non va oltre 1,7 milioni. Ma sono più interessanti i presidenti: l’italiano Giovanni Ialongo è stabile a 600.000, il collega di sua Maestà s’accontenta di un terzo. Il governo cercherà di rimediare a queste storture e Moretti, che sembra quasi scaricato da palazzo Chigi, deve subire pure la lezione del ministro dei Trasporti, Maurizio Lupi: “Se un manager se ne vuole andare, è libero”. Come dire: facile essere Lupi così, adesso.

Repubblica 23.3.14
Europee, caos liste Pd fuori Cofferati-D’Alema
di Giovanna Casadio


LA “rottamazione” arriva anche in Europa. O meglio, nelle liste Pd per Strasburgo. Confermato il no a Massimo D’Alema, si fanno da parte Vittorio Prodi, Luigi Berlinguer e Rita Borsellino. E rischia anche Sergio Cofferati.
RENZI cerca nomi nuovi che possano fare da traino politico. Non pone aut aut agli uscenti ma semmai si limita ad una sorta di moral suasion, dal momento che nel voto per l’europarlamento sono le preferenze ottenute a decretare vittoria e sconfitte. E’ iniziato comunque il conto alla rovescia per le liste democratiche che saranno approvate dalla direzione del 3 aprile, mentre venerdì prossimo il partito disegna la nuova squadra della segreteria. A Lorenzo Guerini andrà il coordinamento, ma Debora Serracchiani potrebbe essere vice segretario, non semplice “speaker”.
Sempre a Guerini intanto è stato affidato il difficile compito di abbassare le tensioni nel partito sulle candidature per Strasburgo. Su Sergio Cofferati, l’ex segretario Cgil campione di preferenze alle europee del 2009, è in corso un braccio di ferro tra il Pd lombardo e quello ligure. I dem della Lombardia non lo vogliono capolista del Nord ovest. La battaglia per i capilista è incorso, come non del tutto chiusa è la partita per mettere il nome di Renzi nel simbolo. Il premier-segretario l’ha escluso, anche se i sondaggisti segnalano che farebbe conquistare dall’1 al 3% in più al partito. Però gli stessi renziani sono convinti che sarebbe un errore trasformare le europee in un referendum sul governo. C’è ancora tempo per decidere.
«L’importante è evidenziare il legame tra le riforme in Italia e l’alternativa di governo in Europa e far comprendere che non si possono disperdere voti votando Tsipras, perché si rischia la vittoria del Ppe», sottolinea Roberto Gualtieri, europarlamentare uscente e ricandidato nella circoscrizione Centro. Qui capolista dovrebbe essere David Sassoli, anche lui riconfermato; poi Silvia Costa. Ma il Pd delle Marche pensa alla candidatura di Lucia Annibali, l’avvocato sfregiata dall’acido dall’ex fidanzato e che Napolitano ha insignito con l’Ordine al merito. In ballo anche Gian Mario Spacca, il “governatore” marchigiano. Certa la corsa per le europee di Goffredo Bettini. Leonardo Domenici, l’ex sindaco di Firenze, vorrebbe essere riconfermato ma non sarà in pole position. Nelle Isole Antonello Cracolici, Giuseppe Lupo, Marco Zambuto e forse Giusi Nicolini, sindaco di Lampedusa. Il regista Giuseppe Tornatore è uno dei nomi che sono circolati, non sembra però interessato. Renato Soru, l’ex governatore della Sardegna, potrebbe candidarsi .
Nel Nord Ovest in testa di lista Mercedes Bresso e Stefano Boeri. Nel Nord Est Paolo De Castro, ex ministro di Prodi, e Cecile Kyenge che è stata ministro del governo Letta, la lettiana Alessia Mosca. I dem del Friuli Venezia Giulia indicano all’unanimità Isabella De Monte, renziana doc. Però si fanno anche i nomi di Alessandra Moretti, ora deputata ed ex vice sindaco di Vicenza; di Flavio Zanonato. Al Sud capolista sarà Michele Emiliano, il sindaco uscente di Bari. E c’è il “caso” Pittella. Gianni Pittella ha bisogna di una deroga per ricandidarsi, è stato uno dei vice presidenti dell’europarlamento e nell’incontro con Renzi a Palazzo Chigi ha avuto garanzie di riconferma.
Infine il rebus-Psi: non si sa se entrerà o meno nelle liste Pd. Nella prossima settimana il premier incontrerà Riccardo Nencini, il leader dei socialisti. Il Psi per ora sarebbe pronto a una propria lista per Schulz. «Un patto di Schulz con gli italiani fondato sugli eurobond e un nuovo patto istituzionale che leghi in modo differente i 28 paesi dell’Unione », propone Nencini che annuncia il manifesto per un’Altra Europa.
Per il Pd di Renzi e per il governo le europee e le amministrative sono il primo test politico. Obiettivo alle europee? «Avere un punto in più rispetto al 2009», fa sapere la segreteria dem. Ovvero superare quel 26,1%di cinque anni fa e pesare di più nel Pse con una delegazione di 23-26 europarlamentari, attualmente sono 21. Una bozza di liste per Strasburgo ci sarà già giovedì dopo il nuovo incontro tra Guerini e i segretari regionali, tenuto conto che i candidati democratici in tutto saranno una settantina . Il puzzle-amministrative è invece affidato a Stefano Bonaccini, il responsabile enti locali: una composizione non semplice tenuto conto che sono 4 mila i comuni al voto, di cui 27 capoluoghi (14 guidati dal centrosinistra e 12 dal centrodestra), e due regioni.

l’Unità 23.3.14
Droga, gli 8mila in carcere senza più il reato
Sono finiti in cella per la Fini-Giovanardi adesso riformulata dalla Consulta
Il giudice dell’esecuzione può rideterminare la pena: è un principio di giustizia
di Luigi Manconi e Stefano Anastasia


La sentenza della Corte costituzionale con cui è stata abrogata la legge Fini-Giovanardi ha rimosso un macigno che fin qui ha impedito al nostro Paese di promuovere politiche efficaci di contrasto al traffico internazionale di droghe e di tutela della salute dei consumatori di sostanze stupefacenti. Sotto l’ombrello della «guerra alla droga» è stato impossibile sperimentare politiche innovative e le carceri si sono riempite di consumatori e piccoli spacciatori di sostanze stupefacenti. Occorrerà, quindi, percorrere il sentiero che si è aperto, per consentire all’Italia di raggiungere gli Stati che, in molte parti del mondo, stanno sperimentando politiche post-proibizioniste. Intanto, però, è importante che la sentenza della Corte costituzionale dispieghi tutti i suoi effetti senza che nella pratica ne vengano applicazioni irragionevoli.
Qualche giorno fa il Capo del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria ha confermato che il numero di detenuti ristretti per il reato riformulato dalla Corte ammonta a 8.589 definitivi e 4.345 in attesa di giudizio: una parte considerevole di questi è rappresentato «da detenuti che scontano la pena per aver ceduto quantitativi di hashish e marijuana ». L’applicazione della sentenza della Corte ai detenuti in attesa di giudizio è relativamente semplice: sulla base dei nuovi parametri, il giudice delle indagini preliminari potrà rivalutare la sussistenza dei presupposti per la custodia cautelare in carcere, mentre il giudice di merito condannerà (se condannerà) sulla base delle nuove pene che distinguono tra “droghe leggere” e “droghe pesanti”. Problema più complicato è quello di chi è già stato condannato definitivamente: è mai possibile che continuino a scontare una pena giudicata incostituzionale? E come rimediare? Il codice di procedura penale prevede la possibilità di rivolgersi al «giudice dell’esecuzione» per tutto ciò che riguarda la pena in corso. Si può chiedere al giudice anche di rideterminare la pena giudicata illegittima dalla Consulta? Certamente sì, in base a un elementare principio di giustizia, ma non è detto che così la pensino tutti i giudici dell’esecuzione. Né è detto che tutti i detenuti abbiano le informazioni e l’assistenza legale necessarie per far valere le proprie ragioni. E poi, non si può escludere un diverso metro di giudizio nei singoli casi.
Ecco, dunque, il primo fondato motivo per cui sarebbe stato necessario un intervento legislativo urgente del Governo. Cui se ne aggiunge un altro. Prima ancora della decisione della Corte costituzionale, il Governo Letta ha giustamente trasformato l’attenuante della «lieve entità» nel possesso di sostanze stupefacenti in un reato autonomo con propri limiti di pena e, soprattutto, di durata massima della custodia cautelare. Ma, delineato nel quadro precedente alla decisione della Corte, il nuovo reato di «lieve entità» non distingue tra «droghe leggere» e «droghe pesanti», producendo in questo modo due vizi di irragionevolezza: è mai possibile trattare allo stesso modo – nel caso della lieve entità – la detenzione di sostanze che negli altri casi sono puniti con pene molto diverse tra di loro (da 8 a 20 anni di carcere nel caso delle droghe pesanti, da due a sei anni nel caso delle droghe leggere)? Ed è mai possibile punire quasi allo stesso modo la detenzione di piccoli o di ingenti quantitativi di droghe leggere (da uno a cinque anni o da due a sei anni)?
Il rischio è che la legge torni alla Corte costituzionale, e questa volta non per un vizio procedurale, ma per una questione di merito, di violazione del principio di uguaglianza sostanziale, e dunque di giusta distinzione tra situazioni diverse. Di queste cose avrebbe dovuto decidere, con urgenza, il Governo. Invece, dopo un tentativo revanchista di ritorno alla normativa abrogata dalla Consulta, è stato varato un decreto-legge che contiene modifiche alle tabelle di classificazione delle droghe che avrebbero potuto essere fatte in via amministrativa. Da qui la decisione di presentare un disegno di legge - firmato da Manconi, Lo Giudice, De Cristofaro - finalizzato a rimediare a quegli inconvenienti e a dare la più ampia ed equanime attuazione alla sentenza della Corte costituzionale. Su suggerimento di Luigi Saraceni (insigne giurista, che ha per primo proposto i motivi di illegittimità della Fini-Giovanardi) si propone che il giudice dell’esecuzione ridetermini le pene sulla base dei nuovi limiti previsti dalla legge e che anche il reato di «lieve entità» distingua tra droghe leggere e droghe pesanti, punendo la detenzione di derivati della cannabis con non più di due anni di carcere.
Se questo disegno di legge veramente necessario e urgente riuscirà a essere discusso nelle prossime settimane in Senato, l’occasione sarà propizia anche per affrontare la questione della depenalizzazione della coltivazione a uso personale e la cessione di piccoli quantitativi di cannabis destinati al consumo immediato. Ancora all'insegna della ragionevolezza.

il Fatto 23.3.14
Scolari stranieri sempre più da 10 e lode
In Campania i ragazzi immigrati di seconda generazione superano i compagni italiani per impegno e rendimento
di Alex Corlazzoli


Sono sempre più bravi, iniziano la scuola primaria in anticipo e alla maturità raggiungono risultati non molto differenti dai ragazzi italiani. Sono gli alunni con cittadinanza straniera: 786.630 ragazzi ovvero l’8,8% sul totale degli iscritti nelle scuole italiane. La fotografia arriva dal Ministero dell’Istruzione che ha presentato l’indagine condotta in collaborazione con la Fondazione Ismu, Istituto per lo studio della multietnicità.
Se da una parte va evidenziato che le rivelazioni sugli apprendimenti nello scorso anno scolastico mostrano complessivamente uno svantaggio degli alunni con cittadinanza non italiana, sia in lingua italiana che in matematica, non si può tralasciare il dato relativo agli stranieri di seconda generazione che nelle prove Invalsi, riportano punteggi più vicini alle medie degli italiani.
Perfomance positive soprattutto nelle prove di lingua straniera, dove i ragazzi figli di migranti cresciuti in Italia sono generalmente avantaggiati grazie al bilinguismo.
Le differenze tra gli italiani e gli stranieri di seconda generazione tendono ad assottigliarsi o addirittura a invertirsi, in alcune regioni del Sud. Per la prima volta, in Campania, a conquistare il podio più alto, per quanto riguarda gli esiti scolastici, sono gli stranieri nati in Italia: +24 punti nei test di italiano e +8 in quelli di matematica. Così alla maturità dove supera l’esame lo 0,1% in meno di stranieri rispetto ai ragazzi con mamma e papà italiani.
I PROBLEMI RESTANO alla primaria e alla secondaria di primo grado dove agli esami di terza media oltre a essere ammessi alle prove finali in percentuali inferiori, gli studenti con cittadinanza non italiana riportano votazioni più basse anche se anche in questo caso a cavarsela meglio sono coloro che hanno un curriculum scolastico tutto made in Italy. Numeri sui quali da tempo lanciano un allarme, gli esperti, a partire dalla Fondazione “Giovanni Agnelli”, rispetto alla crisi della scuola media.
L’indagine sfata un altro stereotipo: gli scolari con cittadinanza non italiana sono in crescita (+4,1% rispetto all’anno precedente) ma il grande boom delle presenze si è arrestato. Tra i banchi vi sono sempre più (+47,2%) ragazzi che hanno conosciuto il Paese d’origine dei loro genitori, solo perché vi sono andati in vacanza.
Rispetto alle provenienze degli alunni stranieri la maggior parte di loro sono rumeni (148.602), albanesi e marocchini: studenti che risiedono soprattutto nel Centro Nord, nelle piccole province. Il primato va all’Emilia Romagna mentre la regione dove più della metà degli alunni stranieri è nata nello “stivale” è il Veneto.
Segno più anche davanti al numero di scuole con 50% e oltre di alunni iscritti: nell’anno scolastico 2012/2013 si è arrivati a quota 453 (+37). Tuttavia va detto che rappresentano solo lo 0,8% del totale degli istituti.
NESSUN CAMBIAMENTO, invece, rispetto alla scelta della scuola secondaria di secondo grado: i ragazzi stranieri continuano a preferire gli istituti professionali. Il liceo resta per l’élite.
Una questione dettata, secondo i ricercatori che hanno elaborato il dossier, “prevalentemente a questioni economiche ma anche alla difficile progettazione famigliare, ai risultati di apprendimento nei primi livelli di scuola e, non ultimo, ai giudizi di orientamento dei docenti e alla difficoltà dei licei ad attrezzarsi per una popolazione diversificata”.

La Stampa 23.3.14
L’intelligence teme migliaia di sbarchi nei prossimi mesi
L’allarme: la Libia è nel caos e si sta disgregando
In soli due giorni registrati oltre 2300 arrivi
di Guido Ruotolo


Nelle ultime ventiquattr’ore è stato un arrembaggio. È vero che gli arrivi, con le imbarcazioni cullate dal mare e protette dai nostri mezzi di salvataggio mentre si avvicinavano al «Miraggio Lampedusa», sono avvenuti in regime «controllato», ma fa sempre una certa impressione leggere e scandire il numero degli sbarchi avvenuti tra giovedì e venerdì: duemilatrecentotrentatré (2.333). E a nulla serviranno la cabala o i riti esorcistici per evitare che si arrestino nelle prossime settimane. Solo burrasche di mare potranno impedire partenze dalla Libia. Con la primavera e l’estate si annunciano nuovi flussi di immigrati, provenienti soprattutto dalla rotta Corno d’Africa- Libia, e da Siria ed Egitto.
I numeri di irregolari arrivati solo nei primi tre mesi dell’anno, fino al 21 marzo, rispetto al 2013 parlano da soli: 10.548 contro 735. E l’anno scorso gli sbarchi furono complessivamente 42.925 contro i 13.267 dell’anno precedente. È vero che superarono i 60.000 gli sbarchi del 2011, quando esplose la «Primavera araba», ma quella fu una emergenza umanitaria.
I numeri certe volte confondono. Bisogna dire che le favorevoli condizioni meteo-marine alimentano in queste ore il flusso di imbarcazioni in partenza dalla Libia e dirette sulle coste siciliane, che hanno dovuto rinunciare a salpare con il cattivo tempo. Ma non può non allarmare lo scenario dei prossimi mesi della nostra intelligence: «Gli oltre duemila irregolari sbarcati nelle ultime ore e i diecimila arrivati dal primo gennaio non rappresentano un picco anomalo. Possiamo ipotizzare, purtroppo, che gli sbarchi aumenteranno. Insomma ci dobbiamo aspettare arrivi molto più numerosi».
L’analisi naturalmente tiene conto anche della situazione politica instabile del Paese principale, da cui salpano le imbarcazioni cariche di clandestini, la Libia. E dai focolai di conflitti dei Paesi da dove traggono origine i flussi di migliaia di persone che scappano da conflitti etnici e religiosi, dalle guerre e dalla fame. Da Paesi come la Siria e e la Somalia, innanzitutto.
La Libia, dunque. Preoccupante il quadro: collasso economico, spinte separatiste tra Cirenaica e Tripolitania, disfacimento delle istituzioni nazionali, sia politiche che operative.
Gli analisti internazionali sperano nella riuscita del tentativo di riconciliazione nazionale portato avanti dal premier ad interim, il ministro della difesa. È una partita che si gioca entro la fine di questo mese.
L’instabilità politica della Libia produce un vuoto, una assenza di controllo del territorio, con il proliferare di microbande. Sembra uno scenario «somalo» con un territorio diviso tra etnie e clan che dispongono di propri eserciti.
Nel sud, nella regione del Fezzan che arriva alla fascia subsahariana, nell’immenso deserto che va dalla capitale Sebha all’oasi di Khufra c’è una effervescenza di problematiche etniche con il risultato che si è creato un tappo nel flusso verso il mare di immigrati che arrivano dal Corno d’Africa o dagli altri paesi subsahariani.
In questi mesi, poi, è nata una metropoli di immigrati a Ubari, sull’asse che da Sebha va verso la città di Ghat. Carovane ferme all’ingresso della cittadina. Camion e Pick-up pronti a trasferire i «viaggiatori» verso Tripoli e il mare.
Migliaia di clandestini premono sulle coste. Di fronte alla grande crisi, alla riduzione di estrazione del petrolio, alle spinte secessionistiche della Cirenaica, il traffico di «merce umana» garantisce profitti e ricchezze alle milizie armate. Ieri, erano fonte di corruzione per gli uomini del regime di Gheddafi. Oggi è quasi diventata, dopo il petrolio, una preziosa fonte di reddito. E non è un buon segnale.

La Stampa 23.3.14
“Solo la fortuna può evitare di farti finire in un inferno”
I migranti appena arrivati: “Alcuni centri sono militarizzati, in altri se vuoi scappi”
di Niccolò Zancan


Non ci sono regole, nella grande lotteria degli sbarchi. Se sei Kasha Omade, per esempio, puoi pensare che un dio cattivo ce l’abbia con te. Ma proprio perfido. Un dio che prima ti salva in mezzo al mare, e poi ti rinchiude qui dentro, nel centro di accoglienza di Pozzallo, a 63 chilometri da Siracusa, in Europa, separato da tuo fratello e dai tuoi amici, con i polpastrelli sporchi di inchiostro.
«Cinque poliziotti mi hanno piegato il braccio dietro la schiena. Io non volevo. Ho lottato, ma loro mi hanno costretto con la forza. I primi novanta hanno dato le impronte, gli altri centocinquanta sono riusciti ad andarsene». C’è stata una rivolta? «No, no... A un certo punto, i poliziotti li hanno lasciati andare», dice Kasha. E già gli urlano che deve staccarsi da questo cancello arrugginito. Non può parlare con nessuno. Sul braccialetto da neonato ha il numero 85A: «Per favore, mi presti il telefono? Voglio dire a mia madre che sono vivo». Ma arriva un funzionario della prefettura con la giacca a vento rossa, molto infastidito: «Qui i giornalisti non sono ammessi. Per entrare serve l’accredito. Questo posto non è aperto al pubblico». Capienza ufficiale: 180 posti. Oggi ci sono più di 600 persone accampate, stravolte dal viaggio, buttate sul pavimento.
Fra martedì e giovedì, in Sicilia sono sbarcati 5200 migranti. Un’ondata mai vista, favorita da giorni di tempo sereno e mare calmo. Il centro di prima accoglienza di Lampedusa è in ristrutturazione, i lavori dovrebbero essere ultimati a maggio. Tutta la Sicilia è diventata una specie di Lampedusa diffusa. Le navi della Marina Militare pattugliano il Mediterraneo giorno e notte, salvano vite nell’indifferenza generale. Quando sono cariche di profughi - madri, padri, moltissimi bambini - puntano direttamente le coste siciliane. Pozzallo è solo uno degli attracchi possibili. Se sei Kasha Omade, hai perso. Se sei Abraham Afewerki, la vita ti sorride.
Lui è arrivato mercoledì sera alle 23 a Porto Empedocle. Sulla banchina ci sarebbe un centro di accoglienza, ma la tensostruttura è abbandonata. I vigili del fuoco l’hanno dichiarata inagibile con ottime ragioni, essendo costruita con materiale «altamente infiammabile». Dentro restano: porte sfondate, preghiere scritte sui muri, giocattoli, guanti di lattice, medicinali, pannolini, rosari, materassi accatastati, la copia di un Corano. Nessuno se la sente di dare l’autorizzazione, anche di fronte all’emergenza. Così giovedì notte, volontari, medici, poliziotti e Croce rossa, organizzano l’accoglienza vicino ai silos del sale, al fondo della banchina. I migranti arrivano trasbordati su piccole lance, avanti e indietro. Sono più di cinquecento. Vengono visitati in piedi, ancora intirizziti. Rifocillati in qualche modo. C’è chi si accascia per sfinimento, con la faccia nel sale. Non Abraham Afewerki. Lui, con altri 270 eritrei, resta sveglio. Alle 5 del mattino, approfittando di un momento di stanchezza generale, dice semplicemente così: «Andiamo». Si mettono a camminare in fila indiana, verso la provinciale che sale in direzione Agrigento. Ancora li stanno cercando. Il sindaco Lillo Fioretto: «Faccio un appello al ministro Alfano. Servono misure straordinarie. Noi non ce la facciamo». I 270 eritrei non hanno dato le impronte digitali, non sono stati neppure foto-segnalati. Possono sperare di continuare il viaggio verso il Nord Europa, il loro grande sogno: scappare anche dall’Italia.
Nessuna giustizia governa gli sbarchi. La tua vita è decisa dal buon cuore di un poliziotto o di un volontario. Al porto di Augusta ti prendono le impronte appena sceso, in zona militare. Se ti rifiuti, resti lì e guardi gli altri salire sui pullman con destinazioni lontane. Il Palajonio di Augusta non è più utilizzabile. All’ingresso c’è un gigantesco cartellone scritto in rosso: «Chiuso per disinfestazione». Molti casi di scabbia fra i migranti accampati qui, hanno scatenato una psicosi generale. Sono stati tutti trasferiti altrove. In Sicilia nascono nuove strutture come funghi. Puoi finire al Palasport di Racalmuto, vicino alla casa di Leonardo Sciascia, dove otto blindati della polizia presidiano gli ingressi. Dove per la distribuzione del cibo fai un’ora di coda. Dove puoi riposare su un materasso, piazzato in mezzo al campo da basket. Nessuna speranza di uscire, fino al prossimo trasferimento. Oppure puoi finire nell’ultimo centro nato a Comiso, fra le campagne e la vecchia base militare. «Vista l’emergenza, abbiamo allestito un tendopoli in fretta e furia» dice Nello Lo Monaco, il capo della protezione civile di Ragusa. È a tre chilometri dal centro abitato. Ci sono solo cani randagi, ulivi e mandorli in fiore. Doveva essere un centro regionale di ricerca zootecnica, è diventato probabilmente il più bel centro d’accoglienza per immigrati d’Italia. Certo, mancano ancora i letti. Manca il collegamento con l’acqua potabile. Manca anche la cucina, quindi i pasti arrivano da lontano. Ma sembra un agriturismo. Giovedì sera c’erano 500 persone accampate, oggi ne restano 240. Chi manca all’appello, è semplicemente andato a farsi un giro. E non è più tornato. «Non siamo un carcere - dice Lo Monaco - non possiamo trattenere nessuno». Siriani, eritrei, somali, maliani, gabonesi, tunisini: storie diversissime si mischiano e si perdono nella grande confusione italiana. Qui a Comiso incontriamo un poliziotto pacioso, con una sigaretta elettronica fra i denti: «Non ci stiamo capendo più nulla - dice - non sappiamo quanti sono. Non sappiamo da dove arrivano. Non sappiamo se hanno già dato le impronte o meno. Facciamo quello che si può. Ecco...». Se lo sapesse Kasha Omade, come funziona qui, impazzirebbe di rabbia.

La Stampa 23.3.14
Da Lampedusa a Berlino
“L’Italia ci ha cacciati via senza darci i documenti”
La rabbia dei tanti rifugiati sbarcati sull’isola e finiti in Germania senza permessi per restarci
di Tonia Mastrobuoni

«Siete voi ad aver creato tutto questo casino». Mohammad mi punta il dito contro – non vuol dirmi neanche il suo vero nome, «chiamami Mohammad, tanto per voi razzisti italiani siamo tutti uguali» - ha 47 anni ma forse per i ricci rasta che gli incorniciano il volto e la felpa da ragazzino ne dimostra meno. Un uomo che gli sta alle spalle, alla parola «italiani» si avvicina solo per sputare a qualche centimetro dal mio piede destro. Poi mi grida qualche parola in arabo e se ne va. Nel frattempo si è formato un capannello di persone dall’aria non proprio pacifica. Anche un ragazzo alto, magrissimo che sembra una statua di Giacometti, non vuole dirmi il suo nome ma giura che «odio l’Italia. Ci avete dato 500 euro e ci avete cacciati tutti. Ma con quel maledetto documento che non ci fa lavorare qui».
Siamo a Kreuzberg. Una volta, quando si diceva che Berlino fosse la terza città turca, questo quartiere ne era il cuore, prima della gentrificazione degli ultimi anni. Una delle principali piazze di questo stupendo quartiere innervato dai canali della Sprea, Oranienplatz, è stata occupata da un anno e mezzo da centinaia di immigrati. Che hanno costruito baracche, una cucina all’aperto, spazi comuni con divani e sedie raccattati nell’immondizia o offerti dal quartiere. E un foltissimo gruppo è arrivato qui passando per l’inferno del viaggio in mare per Lampedusa. Come Mohammad, come l’anonimo Giacometti, come Ali. Aggancio il suo sguardo un po’ meno ostile, mentre altri continuano a inveire contro l’Italia. Mi fa cenno con la testa di seguirlo. «Sono libico. Quando ci avete bombardati, sono scappato. E ora sono qui». Mi porta alla sua baracca, quattro mura di latta verso il fondo di Oranienplatz, dentro c’è appena il posto per un letto e un tavolo e una piccola stufa. Fuori fa ancora freddo, dieci gradi, ma dentro ne faranno quaranta.
Ali mi spiega l’ovvio, siccome il gruppo dei lampedusiani è stato accolto dall’Italia, per le astruse regole europee, gli altri Paesi possono lavarsene tranquillamente le mani. «Non chiedo mica tanto, un lavoro, una casa normale». Per andare al bagno, per farsi una doccia, deve andare alla sede della Caritas, dietro la piazza. Da poco può anche cucinare lì, prima si preparava da mangiare in piazza. La scorsa settimana tra i politici locali e alcuni rappresentanti di Oranienplatz, dopo mesi e mesi di estenuanti trattative, è stato trovato un accordo: Berlino promette di occuparsi di ognuno di loro, in cambio dello sgombero della piazza. Ma Ali, come tutti i lampedusiani, rifiuta l’intesa, «non risolve i nostri problemi», spiega. Che infatti andrebbero risolti forse al livello federale o europeo. Paola Riester, rappresentante dei Verdi a Kreuzberg sostiene tuttavia che la Germania «potrebbe concedere a questi rifugiati una cosiddetta “Duldung”, un permesso per restare», facendo uno strappo alle regole europee.
Nella baracca di un altro nordafricano, Ibrahim, orgoglioso di essere «libico e gheddafiano», il tavolo accanto al letto è dominato da uno stereo sempre acceso e un orsacchiotto bianco di pelouche. «Prima di venire qui in Europa – racconta - facevo il falegname. Voi italiani mi avete trattato male, mi avete cacciato e adesso sono qui a pregare i tedeschi per poter lavorare. Come potete venire in Africa e cacciare Gheddafi e predicare i diritti umani e poi trattarci così?».


il Fatto 23.3.14
Squillo e dintorni
L’adulterio salva il matrimonio da destra a sinistra
La vicenda di Alessandra Mussolini ricalca il cliché femminile della donna che perdona il marito fragile per natura
di Elisabetta Ambrosi


Il punto di arrivo sono le foto pubblicate da Chi. Che siano di prima o dopo la bufera poco importa, purché offrano l’ostensione di una coppia che “cammina insieme per strada, lui sorridente, quasi gioviale, lei tirata dietro agli occhiali da sole”. Una coppia che tenta di “ricucire lo strappo grazie al collante più forte: Caterina, Clarissa e “il piccolo Romano, che non ha saltato un allenamento alla Spes Artiglio grazie a papà Mauro che lo accompagnava in motorino” ( Corriere.it  ). E chissà se “arriveranno a festeggiare le nozze d’argento o no”, si è chiesta la giornalista di Chi Giulia Cerasoli, incaricata di offrire al grande pubblico la scena finale dell’ultimo atto della vicenda Floriani-Mussolini. Il dubbio fuga i dubbi e così arriva l’abile frase che nulla dice ma tutti rassicura. “Quando sarà il momento penserà a se stessa e a cosa sarà meglio decidere per lei e la sua coscienza”.
C’È UN DÉJÀ VU spaventoso, un copione che si ripete identico, nella fenomenologia del tradimento messa in scena in queste settimane dai media e, per risposta, dagli stessi protagonisti. Quello della sacra famiglia borghese, dove l’adulterio ha un ruolo codificato. Lungi dall’essere qualcosa di estraneo al corpo familiare, ne fa parte a pieno titolo – “le tempeste della vita”, lo ha definito la madre Maria Scicolone - sebbene quando arrivi provochi forzatamente “lo psicodramma”, con tutta la catena di reazioni codificate: il turbamento della Madre - “triste e distrutta” – il colpo di reni che la fa diventare “dignitosa e forte”, per il bene dei figli; infine il perdono del figliol prodigo, con tanto di benedizione ecclesiale nella Chiesa di Sant’Ippolito.
E DIRE CHE IN QUESTO CASO i fatti potevano far presagire qualcosa di diverso: per i quindici anni delle ragazzine, per i dettagli che raccontano uno scenario aberrante e insieme banale – il cinismo degli sfruttatori che procacciavano ragazzine, filmavano video per ricattare, procuravano cocaina; il clienti, a oggi quasi cinquanta - avvocati, manager e dipendenti di aziende pubbliche e private, un figlio di un deputato - di cui la metà indagati. E poi l’ambientazione, una Roma Nord decadente scenario di una famiglia borghese ormai in concreta decomposizione, eppure ancora forte ideologicamente. E infatti questa vicenda proprio questo mostra: che non esistono eventi talmente “orribili” da creare un’evidenza se la percezione degli stessi dipende da uno schema sottostante che non si ha la forza di rompere e che per questo viene coperto da una retorica, che in questo caso ha assunto, per ora, la sua forma più classica - “non posso cacciare di casa il padre dei miei figli” (mentre è probabile che la strategia difensiva legale punterà sulla presunzione di non consapevolezza dell’età perché tutto rientri nel gestibile paradigma del classico adulterio). Il “modello Rachele” - “la donna che occupa saldamente il fortilizio casalingo, dove il maschio italiano, che ha l’adulterio facile ma resta fondamentalmente monogamo, corre a rifugiarsi dopo i pompeggi extra”, scriveva Gian Carlo Fusco in Mussolini e le donne -. La donna che mai ha ripudiato il marito traditore, ieri nella Sala del Mappamondo (dove il Duce consumava i suoi adulteri), oggi su Bakekaincontri.
E SE IPOCRITA È APPARSA la solidarietà della destra e della sua stampa, dagli improvvisi toni soft pieni di solidarietà mai riservati a chi in passato si è voluto colpire, incomprensibile è stato anche lo schierarsi di donne progressiste a difesa di una privacy che, se formalmente giusta, dimentica quanto l’anomala destra italiana abbia reso essa stessa impossibile quella distinzione tra pubblico e privato che ora si invoca. Una cultura che ha sempre legato il potere a uno schema sessuale che nessuna delle donne della libertà (tranne quella Veronica Lario che parlò di “ciarpame senza pudore in nome del potere”) ha avuto il coraggio di contestare persino quando, in una sorta di sindrome di Stoccolma degli istinti, aveva il potere in mano. Né tantomeno lo ha fatto la Mussolini, fervente berlusconiana. Anzi, quando Carfagna tentò in un’intervista di alzare la testa, le fece una foto col cellulare con Bocchino chiamandola “vajassa”.
LA DESTRA DI CUI MUSSOLINI fa parte ha lasciato alle donne silenti le presidenze delle Pari Opportunità e delle Commissioni Infanzia: battaglie considerate di nicchia, che facevano gioco mentre il Gioco, culturale e (im)morale, lo teneva saldamente in mano lui: con leggi ad personam, candidature pubbliche di beniamine private, rivendicazione della massima libertà per il proprio corpo e della prigione per i corpi degli altri (mai dimenticare Eluana Englaro). Ma il modello Rachele resiste anche a sinistra. Non è stato rovesciato né dal Pci né dal Pd che, senza bisogno di ricordare il caso Marrazzo col suo strascico di morti, non ha espresso uomini e donne capaci di fare delle libere scelte sul proprio corpo una battaglia identitaria, mettendo in scena un copione diverso e finalmente liberatorio.
E ALLORA ALTRO CHE indignazione o scandalo: la vera notizia in questa vicenda è un’altra: non possiamo fare a meno dell’ideologia dell’adulterio clandestino, anzi ci aggrappiamo a esso con ogni forza. Tanto che tutte le proposte di leggi sulla prostituzione, dal ddl Carfagna affossato come un testimone incappato per sbaglio sul luogo di un omicidio, il caso Ruby, per arrivare all’ultima proposta di legalizzazione delle sex workers della Pd Spilabotte, si sono infranti sulla segreta volontà di lasciare le cose come stanno. L’adulterio che tiene insieme la famiglia sembra essere quasi l’unica certezza rimasta, forse proprio contro la paura di un relativismo etico davvero dilagante per il quale ci vorrebbero nuovi modelli e nuovi linguaggi.
Così l’Italia resta un paese in cui, mentre nella gestione della cosa pubblica vige saccheggio libertino, non si può scegliere liberamente di morire, di abortire o di avere figli, né di fare scelte affettive e sessuali che esulino da schemi agonizzanti. Un paese dal gigantesco debito, soprattutto (im)morale, non solo economico.

il Fatto 23.3.14
Spari israeliani su calciatori della nazionale palestinese: per loro carriera finita
Dopo l'allenamento, Jawhar Nasser (19 anni) e Adam Abd al-Raouf Halabiya (17) sono stati colpiti ai piedi ad un checkpoint in Cisgiordania:
rischiano di non poter più camminare
di Luca Pisapia

qui

Corriere 23.3.14
Lo schiaffo di Twitter a Erdogan
di Monica Ricci Sargentini


In Turchia ieri impazzava un video che riproduce una scena tratta dal film di Costa Gavras Stato d’assedio (1972) dove in una piazza di un Paese dell’America Latina decine di poliziotti corrono come mosche impazzite nel tentativo di spegnere gli altoparlanti che diffondono la canzone rivoluzionaria Hasta Siempre . Ma ogni volta che ne distruggono uno la musica ricomincia da un’altra parte. È quello che è successo al premier turco Recep Tayyip Erdogan che giovedì scorso ha fatto chiudere Twitter per dimostrare al mondo la sua potenza: «Non mi importa di quello che penserà la comunità internazionale — aveva detto — tutti saranno testimoni del potere della Repubblica turca». Quello che il sultano di Ankara non aveva previsto è che mettere il bavaglio alla tecnologia oggigiorno è praticamente impossibile. Non solo dopo il blocco la gente ha continuato imperterrita a cinguettare ma lo ha fatto ancora più di prima. Secondo l’agenzia di rating dei social media Somera sono stati 6 milioni i turchi che hanno twittato tra le 23 del 20 marzo e le 12 del 21 marzo contro i 4,5 milioni del giorno prima. Quel 33% in più di tweet dà la misura della sconfitta di Erdogan. Se lo scopo era quello di impedire «la sistematica diffamazione del governo, tramite la circolazione di intercettazioni telefoniche acquisite illegalmente e falsificate», come scriveva ieri l’ufficio del premier, è chiaro che l’obiettivo è stato mancato. Continuare su questa linea, chiudendo anche Youtube , Facebook e Google , potrebbe esporre Erdogan al ridicolo.

l’Unità 23.3.14
Fosse Ardeatine
Dopo 70 anni ecco il volantino fascista che mentì sull’appello a consegnarsi
Su tutti i muri di Roma . Nel 1944 fu fabbricata la falsa notizia che i partigiani avrebbero potuto impedire la strage:
il documento che comprova il falso è stato ritrovato a Roma nell’archivio dell’Irsifar
di Luca Baiada


PEZZO DI PANE DA 100 GRAMMI. SCARSINO, EH? Dal 25 marzo 1944, è la razione giornaliera stabilita per i romani. Ogni altro cibo è introvabile o molto costoso. Proprio settant’anni fa, a Roma, dopo l’attacco partigiano in via Rasella (23 marzo 1944) e prima delle Fosse Ardeatine (24 marzo), un comunicato invitò i partigiani a consegnarsi ai tedeschi, per evitare il massacro. Questa odiosa bugia, che offende i 335 morti, la Resistenza e gli italiani, è smentita da libri e sentenze, ma qualcuno ancora la ripete. Si sa, «il più solido piacere di questa vita è il piacer vano delle illusioni », come scrive Heidegger. Adesso, un archivio restituisce un documento. Ne era nota l’esistenza, ma per tracce confuse. Vediamo meglio. Dopo il massacro, a fine marzo 1944, forse il 29, c’è una riunione dei fascisti romani seguita da un volantino. Le carte del Pfr romano sono perdute. Però all’Irsifar (l’Isituto romano per la storia d'Italia dal fascismo alla Resistenza), a Roma, ho trovato un foglio dove sta scritto: «Partigiani vigliacchi e assassini! Romani! In seguito al vile attentato costato la vita a 32 camerati germanici nel pomeriggio del 24 marzo scorso, la giusta e doverosa rappresaglia del Comando di Piazza dell’Esercito Tedesco ha visto la fucilazione di 320 comunisti badogliani detenuti nelle carceri perché condannati a morte per atti di terrorismo e sabotaggio. Ma i banditi comunisti dei gap avrebbero potuto evitare questa rappresaglia, pur prevista dalle leggi di guerra, se si fossero presentati alle autorità germaniche che avevano proclamato, via radio e con manifesti su tutti i muri di Roma, che la fucilazione degli ostaggi non sarebbe avvenuta se i colpevoli si fossero presentati per la giusta punizione. Questa è l’ennesima riprova della vigliaccheria di chi trama contro la Patria Italia al soldo dello straniero e del bolscevismo. Romani, sappiate giudicare! I Fascisti Repubblicani dell’Urbe».
LA DATA È SBAGLIATA
Il riferimento al 24 marzo è sbagliato, oppure la punteggiatura è infelice: via Rasella è il 23 marzo. Ma proviamo ad approfondire. Nel testo c’è la parola «partigiani», ingombrante nel linguaggio fascista, e assente nel comunicato dell’Agenzia Stefani - su cui ragiona bene Sandro Portelli in L’ordine è già stato eseguito (Donzelli, 2005) - pubblicato sui giornali del 25 e 26 marzo. La parola «partigiani» è usata apposta: «vigliacchi e assassini» deve riversarsi sul sostantivo. C’è «rappresaglia», parola estranea al comunicato Stefani. La sua comparsa è collaterale al mito che i partigiani avrebbero potuto impedire le Ardeatine. Nel percorso giuridico e storiografico, la presa di coscienza della politica del massacro fatta dalla Germania è proporzionale al disconoscimento del diritto di rappresaglia, mentre la fabbricazione di quel falso diritto offre già nel processo Kappler, nel 1948, uno strumento antiresistenziale. L’ombra di un’inesistente legalità delle stragi peserà sui processi, e la negazione del diritto di rappresaglia, invece che ovvia, sarà faticosa. Solo nel secolo successivo ci si renderà conto che la rappresaglia è un abito immaginario dell’omicidio. Cioè, la violenza fu ripetuta inoculando negli italiani sensi di colpa. Bisognava, bisogna liberarsene. C’è in gioco anche un’operazione di propaganda. Dopo le Ardeatine, ad aprile e probabilmente il giorno 8, i giornalisti sono convocati dal generale Kurt Mälzer, comandante militare di Roma, e istruiti dall’SS Herbert Kappler. Attenzione al clima psicologico. La strage è già nota, a Roma alcune famiglie hanno ricevuto un biglietto che annuncia la morte del loro congiunto, e molte altre fremono. La denutrizione debilita: c’è solo un pezzo di pane. Il massacro avviene in Quaresima, il 9 aprile 1944 è Pasqua. Per il cattolicesimo, allora più sentito, la settimana che termina con quel 9 aprile ha un senso di contrizione che si scioglie nella pace domenicale. E infatti quella domenica, sul Messaggero, scrive il direttore Spampanato, presente alla riunione tedesca: «Noi ci rifiutiamo ancora di credere che idee e programmi, siano pure antifascisti, possano degenerare. (…) La legge stessa della guerra può rispondere con dura reazione a qualsiasi tentativo di incrinare un fronte interno. (…) Tornerà anche per Roma, come per tutta l’Italia, quella che si chiama la normalità costituzionale».
«LEGGI DIGUERRA»
In accordo con questo quadro, il volantino dice cose che solo il terrore può far credere: c’è stata una rappresaglia legale, ma gli uccisi erano condannati a morte, però anche ostaggi. Concentriamoci su «leggi di guerra». Subito dopo la strage il comunicato Stefani dice che è stato eseguito un ordine tedesco. Cioè, si tratta di un caso singolo. Dopo si fa strada nella stampa fascista la tesi dell’applicazione di una legge. Il volantino è nella fase grigia in cui il sangue crea col monito esemplare la convinzione di una regola. Perciò si insiste con parole giuridiche: il giusto, la condanna, le leggi, i colpevoli. In chiusura - terrificante - l’invito a giudicare, con cui si spingono gli italiani a elaborare dal massacro la norma, e a condividere il verdetto. Insieme, si inventa l’invito ai partigiani a presentarsi, con un comunicato. In seguito, persino Kappler al suo processo negò l’esistenza dell’invito. Eppure è stato a lungo cercato. A vecchie manovre furbesche si è intrecciata una memoria autofabbricata. Ancor oggi qualcuno ricorda i manifesti, dice di averli sillabati, li vede come se fosse adesso. Certo, li vede, ma appunto adesso. L’illusione che porge un ordine, una spiegazione, dà un senso all’inaccettabile. È «il piacer vano delle illusioni», di Heidegger. Se nel ricordo infedele sulle Ardeatine ha avuto un ruolo questo volantino, siamo di fronte a un’arma di guerra psicologica. È reale, è un documento. È stato visto e toccato nel tempo del dolore. Il contenuto è falso: l’invito a presentarsi non ci fu. Ma la realtà può trasferirsi dall’oggettività fisica al discorso. Il documento narra un documento. Maneggiando il testo vero (il volantino), il ricordo può scivolare sull’immagine mentale del testo inesistente raccontato. Forse non è un caso se i più, l’invito a presentarsi prima del massacro, lo ricordano per manifesto e non per radio: è un mezzo simile al testo vero, al volantino dopo. Un testo che ne cita un altro sembra sempre un po’ credibile, specie se non si può fare un controllo, nell’angoscia, nella fame. A proposito, oggi che si mangia? Un etto di pane, e basta. I furti di attendibilità agevolati dalle citazioni possono ingannare anche chi sta meglio e non digiuna. «Il più solido piacere di questa vita è il piacer vano delle illusioni», Heidegger non l’ha mai scritto. Sono parole di Leopardi. Gigante di Recanati, scusami.

Repubblica 23.3.14
Carlo Rubbia “Vado a vivere su Marte
“Una vita sotto il segno della curiosità”
Trent’anni fa vinceva il Nobel e ora che si appresta a compiere gli ottanta ci racconta
di Dario Cresto-Dina


Ginevra. Nella sua bella faccia giuliana dalla non lontanissima somiglianza con quella dell’attore americano John Wayne, ciò che più colpisce sono gli occhi di bambino messi su un uomo antico alto quasi un metro e novanta e spalancati sulla meraviglia. «Sa, mi sembra impossibile che io abbia ottant’anni. Ho vissuto a cavallo di due secoli, conosciuto una quantità innumerevole di persone e tra queste menti geniali come Enrico Fermi, Niels Bohr, Richard Feynman, Wolfgang Pauli. Ho imparato che la vita è un recipiente, devi considerarlo sempre mezzo pieno. Sono nato in un tempo di tragedia in cui non potevi non essere ottimista. I miei mi raccomandavano: credi in te, guarda sempre avanti. Penso di averli ascoltati, guardo molto avanti ancora oggi, fino al limite del possibile. Sono sempre curioso. Cerco ancora dentro di me lo stupore ingenuo dell’infanzia. È nel bambino che vediamo la scintilla della curiosità, nel bambino che rompe il giocattolo perché vuole sapere com’è fatto. La curiosità, non la saggezza, ha trasformato l’uomo. Se da vecchi si ha la fortuna di possedere una mente che funziona ancora, bene, una parte di essa occupatela nel tentativo di accudire il vostro spirito infantile. Mi crede se le dico che Einstein non ha fatto più nulla di veramente significativo dopo i trent’anni?».
Carlo Rubbia festeggerà i suoi ottant’anni tra una settimana. «Sono cresciuto a Gorizia in un mondo molto diverso da quello di oggi. Mi ricordo di un’umanità che si reggeva su un sistema lineare: si poteva soltanto andare avanti o indietro, una sopravvivenza quasi primordiale. Ma allora, forse, era più facile trovare se stessi». È in giacca e cravatta, camicia azzurra, scarpe da ginnastica o, meglio, mi sembra di capire da mezza montagna e calzini scozzesi, le mani grandi cercano un paio di volte in una tasca un fazzoletto di stoffa di quelli che le madri di una certa generazione allungavano ogni mattina ai figli, come un’ultima carezza sulla porta di casa: «Mia madre, Beatrice, era maestra elementare, di discendenza e cultura austroungarica. Il suo cognome, Lietzen, venne italianizzato in Liceni».

Sì, cerco ancora lo stupore
«Mio padre, Silvio, era ingegnere elettronico, si occupava di telefoni a Trieste. Gorizia era una frontiera, un luogo bellissimo pieno di colori e lingue e dialetti, un luogo complicato e aperto. Il mondo entrava in casa da una radio che mio padre aveva attaccato a un palo della luce. Inseguendo le voci che uscivano da questa grande radio ricevente costruita con vecchie valvole a vuoto ho cominciato a prendere le misure di un altro mondo e dei miei desideri. Il primo viaggio è stato una fuga. Da Gorizia a Venezia durante la guerra, la sola città in cui ancora oggi mi sento pienamente felice, anche se sta evaporando come la nebbia perché purtroppo è una città offesa dalla modernità per la sua stessa natura».
Il Nobel per la Fisica segna un altro anniversario tondo: trent’anni, era il 1984. Gli viene assegnato, assieme all’olandese Simon van der Meer, per aver scoperto le particelle responsabili dell’interazione debole, cioè i bosoni denominati W+, W- e Z, con un esperimento che doveva verificare la teoria elettrodebole di Abdus Salam e Steven Weinberg. Non approfondiamo l’argomento, il professore intuisce che comprenderei nulla o poco. La notizia del premio lo colse su un taxi da Milano a Malpensa, doveva prendere un aereo per Trieste e a mezzogiorno la radio dell’auto -ancora una volta la radio -diede con un flash la notizia che un italiano aveva vinto il Nobel per la fisica.
Ma chi è questo Rubbia, domandò il tassista. E lui disse: sono io. Con un tono allegro, privo di sorpresa perché sapeva di essere nel novero dei candidati e perché, come confessò con umiltà qualche tempo dopo in un’intervista, «era semplicemente uno dei tanti eventi della vita che agli occhi degli altri ti trasforma in James Bond, mentre tu rimani lo stesso perché non ti dà l’immortalità». Gli domando se continua a pensarla nello stesso modo anche ora, dopo aver attraversato un così lungo tratto di vita. Mi dice con un sorriso serafico e disarmante: «Una cosa conosciuta non mi interessa più».
Professore, come si diventa scienziati?
«Da piccolo il regime fascista mi fece vestire da balilla, mio padre era partigiano, mia madre profondamente antifascista. Mi hanno educato alla libertà e alla conoscenza. Ho sempre prediletto il domani rispetto all’oggi e mi è sempre piaciuta l’invenzione. Per un’invenzione ancora non diffusa avrei potuto morire. La penicillina, scoperta nel 1929, non fu disponibile se non dopo la guerra. Fortunatamente riuscii ugualmente a guarire dalla broncopolmonite. Nell’immediato dopoguerra la voglia di progredire era una spinta fortissima, una carica di energia che non si è mai più rinnovata con la stessa forza. La conoscenza è basata sull’incertezza, sui traguardi che appaiono impossibili, sulle piccole cose che scorgiamo lontanissime, indefinite e spaventose ma che ci attraggono come un magnete. Solo gli intrepidi e gli avventurieri le vedranno da vicino. Il mondo è stato cambiato dall’eccezione, non dalla media».
Sta dicendo che siamo troppi in copia conforme e così tremebondi o prudenti da non riuscire a pensare che il progresso di domani non sia altro che l’assurdo di oggi?
«Dal giorno in cui siamo scesi dall’albero sono vissuti sulla Terra appena settanta miliardi di uomini e nel corso della mia breve esistenza la popolazione si è moltiplicata per tre. Oggi siamo sette miliardi, in un solo spaziotempo rappresentiamo il dieci per cento dell’intera umanità transitata sul nostro pianeta. Sette miliardi di persone connesse ventiquattro ore su ventiquattro, un affollamento che contribuisce al conformismo e che limita l’affermarsi della differenza, dove il genio rischia di passare per un pazzo e consumarsi inutilmente come tale. Ma non era una pazzia l’uomo che vola di Leonardo o la conquista della Luna preconizzata da Von Braun?».
Ci facciamo poche domande?
«Non ce ne facciamo abbastanza. Avremmo bisogno di rincorrere le idee impossibili, come dicono gli americani. La scienza è un’avventura piena di dubbi, di fallimenti e di momenti di emozioni straordinarie. Molte volte ciò che propone non funziona, dovremmo continuare a chiederci: perché non così? perché non così? Romperci la testa in laboratorio. E, invece, il fallimento non è ammesso. Siamo conservativi, ostinati nel pensare che quello che ha funzionato nel passato continuerà a funzionare nel futuro. Ma il più delle volte è un errore. Ci resta quasi tutto da capire, è la cosa che ci differenzia dalle altre specie. A me piace guardare. Un quadro, un libro, un film, un ingranaggio, non c’è separazione tra il lavoro e il divertimento. Si concentri per qualche minuto sulla cosa più semplice che conosce, scoprirà quanto poco sa di essa».
Rita Levi Montalcini confessò di avere deliberatamente rinunciato agli affetti. La mia sola missione, diceva, è stata la ricerca. La scienza è un mestiere solitario?
«Ho una famiglia, figli e nipoti, un’esistenza normale. Posso dire che la scienza ha illuminato la mia vita. È solitaria l’idea, ma spesso ad essa ci si arriva collegando la propria intuizione al contributo dimolti di coloro che ci hanno preceduti su quel cammino. Fu così anche per Galileo Galilei. Alla sua realizzazione poi concorrono molte persone, al Cern ho guidato esperimenti con oltre cento ricercatori. La ricerca è sempre un lavoro di squadra».
Come fisico si è mai sentito straniero in Italia?
«Sono sempre vissuto da italiano all’estero, non ho mai avvertito il bisogno di crearmi un’altra esistenza. Nella cerimonia del Nobel il mio inno è stato quello di Mameli come per Marconi e Fermi. Tutti gli altri fisici italiani premiati a Stoccolma avevano dovuto rinunciare alla loro cittadinanza naturale. Incontro scienziati italiani di primo livello come ruolo e funzioni ovunque vado: negli Stati Uniti, in Cina e in Giappone, in Australia e in Cile. In Italia è difficile fare ricerca applicata. Mancano strutture e un sistema di carriera semplificato. Quando sono sbarcato all’Università di Pavia i diciassette anni di insegnamento ad Harvard non sono stati presi in considerazione. E mancano soldi, i finanziamenti pubblici sono inferiori all’uno per cento del Pil mentre negli altri grandi paesi europei si sono da tempo attestati al tre come concordato dalle intese comunitarie. È questo, dopo quello del deficit, l’altro nostro grande Problema 3%, quello nascosto».
Sulla soglia degli ottant’anni che cosa va ancora cercando?
«Ciò che ha cercato ogni civiltà, l’inizio della vita. Ha visto, vero? Riceviamo segnali dal Big Bang, ma il novantacinque per cento della massa dell’universo originata nei primi tre minuti della creazione ci è completamente sconosciuto. La grande avventura è arrivare a qualche milionesimo di secondo dall’origine del cosmo. Le immagini più antiche dell’universo che risalgono a trecentomila anni dopo il Big Bang ci hanno rivelato una sua struttura molto uniforme. In laboratorio creiamo delle goccioline di quell’universo per replicare il Little Bang con l’obiettivo di produrre dei protoni uguali a quelli di tredici milioni di anni fa. Ci sono leggi fisiche che pre-esistono alla materia e alla sua evoluzione, un sistema straordinariamente ordinato e privo di qualsiasi forma di caos».
Quanto c’è di divino nella vita, Dio ha davvero detto all’uomo: governa la Terra?
«È una riflessione molto vasta che affronto con una certa umiltà. Esiste la fede e esiste la religione. Io ho una grandissima fede ma non sono tecnicamente un credente. C’è qualcosa che sta sopra di noi, è un ordine delle cose. Chi vuole è libero di pensare che si tratti di Dio. Non c’è molto altro da dire».
Crede esistano altre forme di vita simili alla nostra nelle galassie dell’universo, insomma gli extraterrestri?
«La risposta è forse sì, ma saranno certamente differenti. Anche l’umanità oggi sarebbe diversa se sessantacinque milioni di anni fa un asteroide dal diametro di dieci chilometri non fosse precipitato sulla penisola dello Yucatán che separa il Mar dei Caraibi dal Golfo del Messico provocando una glaciazione che ha eliminato dalla faccia della Terra ogni essere vivente dalle dimensioni superiori ai tre centimetri. La storia è sempre stata cruenta, immagino lo sia stata anche su altri pianeti».
Dopo la morte torneremo a essere nulla, esattamente ciò che eravamo prima di nascere?
«Non so rispondere ma il difetto non mi preoccupa. Né mi preoccupa la mia, di morte. Le cose sono e continueranno a essere, resterà ciò che abbiamo costruito, l’amore che abbiamo saputo offrire, l’amore che abbiamo meritato. Vado avanti come se niente fosse, imparerò quello che ancora riuscirò ad imparare. Come si dice? The show must go on, ballerò fino al giorno prima di sparire».
Coltiva ancora una follia intellettuale?
«Un rimpianto preventivo. È un enorme peccato che non si vada su Marte con i piedi e la bandiera. La Luna è un sasso, nulla. Marte invece ha tutto: il Nord, il Sud, l’equatore... Senza un motore a propulsione nucleare però non ce la possiamo fare. Il problema non è andare, ma tornare da Marte sulla Terra. E centrarla la Terra... È una lunga storia: bisognerebbe aspettare lassù un anno e mezzo prima di trovare la finestra giusta per la traiettoria Homan di rientro. Eppoi, dimenticavo, ci sarebbe Europa, il quarto satellite di Giove, uno dei pianeti galileiani. Dove ci sono acqua, ghiaccio e ancora acqua sotto i ghiacci, un’altra Antartide. Ah, mi creda, sarebbe un posto fantastico da visitare... se solo ne avessimo il tempo».
Carlo Rubbia è stato nominato senatore a vita il 30 agosto 2013. Dice che l’esperienza nei palazzi politici romani è interessante, anche se la vive come «un alieno che viene dal passato più che dal futuro». Qualche giorno dopo il laticlavio è morta a Ginevra sua moglie, Marisa Romè, madre di Laura, medico, e André, ingegnere. Aveva settantotto anni. Non sempre si può rendere grazie anche ai giorni bui. Mentre mi racconta fugacemente e timidamente di lei -di loro due -i suoi occhi di bambino si smarriscono per il tempo che occorre a pronunciarne il nome.

Repubblica 23.3.14
C’era una volta l’infanzia
Padri Peter Pan e madri alla ricerca del Principe azzurro. Genitori troppo presi a far crescere “il figlio perfetto”
Bassa natalità che li rende “beni preziosi su cui investire”
Mentre apre la fiera di Bologna dedicata a loro, ecco perché i bambini ormai sembrano adulti
di Simonetta Fiori



I bambini? Non ci sono più. Li abbiamo fatti crescere in fretta. Non più figli ma quasi coetanei. Complici nei pasticci sentimentali e negli imprevisti della vita che gli adulti infantili non sanno più reggere da soli. Abbiamo ucciso i bambini perché ci siamo sostituiti a loro, barattando la loro irresponsabilità con la nostra. Ci siamo persi i bambini perché i bambini siamo noi.
Dalla pubblicità alla tv, non è difficile trovarne riscontri nell’immaginario contemporaneo. Erotizzati e ritratti in pose ammiccanti nelle foto di moda. Mostruosi melodici miniaturizzati nei festival canori del sabato sera. Molto più maturi dei genitori immaturi nelle fiction televisive e al cinema, spesso costretti al ruolo di consolatori di madri o padri abbandonati. Ma dov’è finita l’età dell’incoscienza? Se lo domanda Marina D’Amato, titolare all’università di Roma Tre dell’unica cattedra al mondo di Sociologia dell’infanzia, professoressa della Sorbonne e ora autrice di un appassionato saggio dall’efficace titolo Ci siamo persi i bambini(Laterza, pagg. 160, euro 12). Dove per bambini si intende certo la prima stagione della vita ma anche la condizione di figli costretti presto a diventare adulti. «Perché prima crescono, meno graveranno su genitori che non sono stati capaci di conoscerli e capirli. E più imparano, prima raggiungeranno l’agognato traguardo dell’affermazione sociale».
Un furioso j’accuse è quello scritto dalla studiosa, che non disdegna il registro della provocazione. Un processo ai nuovi genitori che, nella sua inevitabile sommarietà, mette in fila non pochi capi di imputazione. A cominciare da quello più diffuso che consiste nel trasformare le giornate dei bambini in agende degne d’un capo di Stato. «Alla pedagogia dell’attenzione i nuovi papà e le nuove mamme tendono a sostituire quella dell’organizzazione. Con la conseguenza che oggi educare significa soprattutto gestire. Il genitore perfetto è quello che riesce a riempire di impegni il tempo del figlio, con lo scopo inconscio: diventerà più di me. Ma amare è saper cogliere i desideri, non formare il capolavoro da esibire come carta da visita». Spesso si dimentica che il bambino è una creatura in fieri. E la crescita cognitiva non va di pari passo con quella emotiva. «Stimolati dai nuovi media», dice D’Amato, «i ragazzini mostrano un grado avanzato di conoscenze. Ma sapere non significa necessariamente essere attrezzati interiormente. E dunque potersi difendere dai problemi di famiglia».
La primissima infanzia e la vecchiaia: le età della vita sembrano essersi ridotte sostanzialmente a due. Per il resto un magma indistinto, tenuto insieme dal mito dell’eterna giovinezza, dove genitori e figli vestono allo stesso modo, si divertono allo stesso modo e talvolta parlano la stessa raccapricciante lingua. Al tradizionale conflitto generazionale, fecondo di nuove conquiste, rischia di sostituirsi una meno feconda competizione generazionale. Con una pericolosa confusione di ruoli. «Se un tempo Biancaneve doveva guardarsi dalla matrigna, invidiosa della sua beltà, ora deve scappare dalla madre naturale, in cerca del principe azzurro a cinquant’anni ». Ancora peggio se Biancaneve viene issata sui tacchi alti o indotta a pose maliziose. La moda infantile è l’unico business che non conosce crisi, anzi in costante crescita, con un corredo di gadget sideralmente lontani dai corpi acerbi delle bambine. E se gli antichi romani avevano inventato l’infanzia per pudore -allontanandola dalla camera da letto -noi rischiamo di distruggerla impastandola di seduzioni erotiche che non le appartengono. «Oggi ci sono case di moda che fabbricano reggiseni imbottiti per bambine di quattro anni. E mamme che li acquistano. Ma così costringi creature inconsapevoli ad assumere sembianze che non solo loro. Possiamo poi sorprenderci che, divenute adolescenti, ritengano normale vendere il proprio corpo?». Sono casi limite, però sempre più presenti nelle cronache.
Postmodernità e genitorialità appaiono agli antipodi. Se la prima invoca la perdita di certezze, la funzione genitoriale consiste nel trasmetterle. «Il padre postmoderno », sostiene D’Amato, «è un Peter Pan allergico a tutto, che non sa ancora cosa farà da grande anche se l’essere genitore glielo imporrebbe ». Al padre padrone s’è sostituito il padre latitante o il padre che ha rinunciato da un pezzo all’autorità: dunque non vale la pena neppure di ucciderlo. Ma quando è cominciata la catastrofe famigliare? Sicuramente influisce il calo demografico. Si fanno meno figli, e quei pochi diventano preziosi: prolungamento narcisistico di sé e oggetto d’uno smisurato investimento sociale oltre che emotivo. Ma secondo la sociologa interviene anche il nuovo clima culturale in cui sono stati allevati i figli degli anni Settanta, tra il permissivismo del Dottor Spock e le parole d’ordine di Bettelheim. «Molti tra i nuovi papà e le nuove mamme sono stati educati da genitori che avevano fatto del “vietato vietare” un principio irrinunciabile. E questa nuova libertà è stata potenziata da un immaginario televisivo che per la prima volta diventa universale, tra lo scintoismo dei cartoni giapponesi e la cultura narcisistica dei serial americani. Materiali eterogenei in cui vince sempre il più forte, non il più bravo».
Tutti eguali, dentro una stessa generazione? Il dubbio resta. Ma certo oggi s’insegna a vincere, piuttosto che a saper perdere. Accade a scuola dove l’adulto bambinizzato, organizzato in temibili associazioni genitoriali, è pronto ad azzannare il professore che non riconosce il talento del figlio. «Un brutto voto significa la frustrazione del ragazzo, e questa non è ammessa dall’organizzazione famigliare perfetta. Senza capire che la frustrazione è un passaggio fondamentale nella crescita». E s’insegna a vincere in palestra o in un campo sportivo, dove il gioco è stato sostituito dalla competizione agonistica. Dal tradizionale ambito calcistico, squadre di campioncini germogliano nel ciclismo e nel nuoto, nel tennis e nel canottaggio. Dove non è più contemplato il gioco, ma solo l’allenamento quotidiano.
Ci siamo persi i bambini anche tra i blog materni, una miriade esplosa in questi ultimi anni in un tripudio di condivisioni. Si condividono le prime cacche, i rigurgiti, i bagnetti. «Le nuove madri italiane non chiedono più consiglio alle nonne, ma cercano la solidarietà in rete. E lo fanno mettendo in mostra un’intimità famigliare che prima veniva consegnata a diari privati. Ma così viene meno il rispetto per la persona che forse un domani potrebbe non gradire la fotografia spudorata della propria nuda fragilità». I figli possono diventare esercizi di stile, anche nei libri e nelle rubriche sui giornali. I lettori si divertono, forse un po’ meno i giovani biografati. Di solito sono gli adulti a uscirne meglio. E a questo punto è inutile domandarsi il perché.

Repubblica 23.3.14
Coraggioso e antifascista. L’avventura di Pertini spiegata a un ragazzino
di Michele Serra


C’era la dittatura. Oggi c’è la democrazia ». Così, quando gli altri argomenti mostrano la corda, un padre spiega e giustifica al figlio tredicenne le pagine più dure della lotta antifascista e della Resistenza, dagli attentati dinamitardi contro Mussolini all’attacco partigiano di via Rasella che diede l’innesco all’atroce rappresaglia delle Fosse Ardeatine. La violenza politica accende il dubbio nella mente del ragazzo: il sangue è un prezzo equo? E chi lo stabilisce? Ma «c’era la dittatura, oggi c’è la democrazia»: la libertà è il solo fine che veramente giustifica i mezzi.
Di questa nettezza di giudizio, inconsueta e oserei dire anticonformista in un’epoca di grandi revisioni storiche, con l’ombra (spesso pretestuosa) della “complessità” che finisce per offuscare ogni luce, bisogna rendere merito, in pari misura, a Sandro Pertini e al suo ultimo biografo, lo scrittore e magistrato Giancarlo De Cataldo. È lui il padre che sta scrivendo -o immagina di scrivere - uno sceneggiato televisivo sulla vita di Pertini. Ne rende conto al suo ragazzo. Affronta insieme a lui le pagine salienti -tante -della vita di un italiano di micidiale coerenza, socialista per quasi un secolo di vita, antifascista indomabile, esiliato, pluricarcerato, confinato, infine partigiano, dirigente politico, protagonista della nuova Repubblica fino a diventarne il settimo presidente, dal 1978 al 1985. L’autore si domanda, e domanda al figlio, quale delle formidabili scene della vita di Pertini meriterebbe di dare l’abbrivio al racconto. Se le trincee della Prima Guerra dove il giovane avvocato Sandro, nonostante sia già socialista e antinterventista, combatte per onorare la divisa; se una delle sue tante traduzioni in catene in giro per l’Italia da de-tenuto antifascista; se l’amicizia con Gramsci nel carcere di Turi; se uno dei falliti attentati al dittatore dei quali Pertini fu tra gli ideatori; se l’avventurosa fuga in motoscafo con Turati per scortare in Corsica, nel mare in tempesta, il vecchio capo del socialismo italiano; se l’evasione romanzesca da Regina Coeli; se il colloquio “segreto” nel quale, nella lavanderia della Camera dei deputati, Pertini incita alcuni giovani magistrati inquirenti a tenere duro e a non cedere alle pressioni del potere, e siamo già in pieno evo democratico; se infine nella ricca oleografia del vecchio Presidente con la pipa, amatissimo, rispettato come è capitato a ben pochi politici, icona paterna della nostra fragile, tormentata democrazia, lume rassicurante per almeno un paio di generazioni di cittadini.
Si intende che i quadri abbozzati da De Cataldo gli servono soprattutto per ripercorrere la biografia del Presidente, strumentandola come una successione decisamente cinematografica di azioni, di movimento e rischio, di sfida e di combattimento. Il Novecento, vissuto come l’ha vissuto l’italiano Sandro Pertini, nato a Stella (Savona) nel 1896, è un secolo lunghissimo, che tende la sua trama di fuoco dall’assestarsi post-ottocentesco degli Stati nazionali, dunque dalla Prima Guerra, fino al nazifascismo, alla morte della democrazia, alla Seconda Guerra, alla liberazione, alla Repubblica, alle trame nere e al mai risolto conflitto tra l’antifascismo e la reazione, infine alla corruzione come ulteriore e subdolo nemico della giovane democrazia nazionale. Ma di ogni episodio De Cataldo soppesa, come dire, il calibro etico; e lo fa di fronte al meno facile dei tribunali, un figlio tredicenne che non si accontenta di “una storia” o di “un eroe”, né è disposto -come è tipico degli adolescenti -a concedere al padre ragioni indiscusse. Ne sortisce una sorta di romanzo pedagogico, che evita il rischio agiografico grazie allo sforzo di discutere e ridiscutere anche ciò che rischia di essere scontato; oppure è sbiadito nella retorica commemorativa; oppure ancora è archiviato come “fatto storico” a scapito della sua potente sostanza umana.
Il libro ha il merito di essere forte e semplice -anche nella scrittura -proprio quando la materia rischia di invischiarlo. Fornisce, dell’etica, un’interpretazione vigorosa e schietta, verrebbe da dire “virile”, come si addice all’intenzione di spiegare a un ragazzino «come si diventa Pertini» (sottotitolo del libro; il titolo èIl combattente), e cioè come ci si porta con valore e con dignità in mezzo ai rovesci della storia.
In più il lavoro di De Cataldo (ogni inquirente è a suo modo anche uno “storico”...) aprendo fascicoli e volumi e cassetti permette anche a noi adulti, apparentemente informati dei fatti, di imparare cose ignote, o ricordarne di dimenticate. Per esempio che il Guida che dirigeva la colonia di Ventotene, nella quale Sandro Pertini scontò gran parte del suo confino, era lo stesso Guida che faceva il questore a Milano nel tremendo ‘69 di Piazza Fontana e della morte di Pinelli. A testimonianza di quanto sia stata faticosa e incompiuta la transizione dal fascismo alla democrazia. Pertini, comunque, pur essendo passati più di vent’anni da Ventotene, non concesse il saluto al suo ex carceriere. Antifascista vuol dire antifascista.

Repubblica 23.3.14
Elogio filosofico dell’imperfezione
di Pier Aldo Rovatti


Ecco un altro libro, a lungo dimenticato, che viene finalmente tradotto in italiano (Vladimir Jankélévitch, Il puro e l’impuro, a cura di Enrica Lisciani-Petrini, edizioni Einaudi). È subito evidente quanto esso entri e possa incidere – nonostante tutto – nelle difficoltà culturali che stiamo attualmente attraversando.
È un elogio dell’impurità e la denuncia radicale di ogni rigurgito purista, di ogni rinascente ideologia della purificazione. Al tempo stesso questo libro, tutto filosofico, è anche una denuncia formidabile di qualunque “confusionismo” relativistico, poiché quello che Jankélévitch chiama “l’impuro” è per lui una condizione di fatto, un dato di realtà, un “evento”, al quale possiamo corrispondere in vari modi e con differenti pratiche. Possiamo rifiutarlo e rispolverare la vecchia contrapposizione tra Bene e Male inneggiando al purismo e alla purificazione come se ancora pensassimo di aver perduto il nostro “paradiso” e dovessimo, magari fanaticamente, continuare a nutrire l’illusione di riconquistarlo. Oppure possiamo accettare l’idea che stiamo vivendo in un miscuglio tra puro e impuro, innalzare la bandiera dell’opportunismo, della furbizia calcolatrice e del compromesso relativistico dove niente ha più valore e tutto si computa in interessi egoistici. Ma, secondo Jankélévitch nessuna di queste due vie ci porta positivamente da qualche parte. La prima – quella della nostalgia di una metafisica purista – è una caricatura piena di conseguenze nefaste: ci conduce dritto ai fondamentalismi grandi e piccoli, per esempio si concretizza nell’attuale persistenza assurda dei razzismi. La seconda – quella moderna e postmoderna del tramonto di ogni valore e della omologazione pluralista delle verità – viene usata per giustificare ogni comportamento nel nome di un effettivo trionfo dell’impurità.
Allora, siamo bloccati? No – sostiene Jankélévitch – perché se non possiamo chiudere gli occhi davanti alla condizione impura e mescolata che stiamo vivendo, possiamo però “gestire” l’impurità, trovarvi elementi di trasformazione e di libertà, qualcosa come una paradossale “purezza dell’impuro”. Per cercare di capire quest’affermazione alquanto scabrosa, pensiamo solo a una questione filosofica, sociale e politica, che assilla la nostra attuale cultura: il problema dell’“identità”. Nella versione purista c’è un’identità essenziale da recuperare e da difendere. Nella versione moderna e confusivamente impura, le identità si moltiplicano e ciascuno può far valere la propria, impura ma per lui valida. Jankélévitch (che ha alle spalle il pensiero di Bergson) pensa invece che l’identità non sia qualcosa di fermo, bensì il movimento di un’incessante “alterazione” di se stessi: non ha niente di fondamentalmente puro, agisce nell’impurità reale, tuttavia tiene costante la barra di una simile pratica e la sua “purezza” consiste proprio nella capacità di mantenere un equilibrio morale senza arrestarsi o cadere. Potremmo anche chiamarla “libertà”.
Ho scritto all’inizio “nonostante tutto”. Il libro nasce da un corso di filosofia morale tenuto alla Sorbona di Parigi alla fine degli anni Cinquanta. Avrei voluto essere lì perché tutti raccontano che quelle lezioni erano straordinariamente cariche di fascino: oggi però facciamo un po’ fatica a immaginarle. Ancorché dotato di humour (qualità non così comune per un filosofo), Jankélévitch lavora dentro il discorso filosofico della tradizione con grande severità e con uno speciale rigore fatto di continui rimandi e intrecci. Una prosa avvolgente e tortuosa, come giustamente osserva anche la curatrice Enrica Lisciani-Petrini rimandando, per capirne meglio i tratti, al libro-intervista del 1978 Da qualche parte nell’incompiuto (Einaudi, 2011). Il lettore è dunque chiamato a un esercizio di pazienza e di attenzione al quale al giorno d’oggi siamo decisamente poco avvezzi. E queste stesse righe che state leggendo scontano la difficoltà di riassumere senza falsificarlo un modo di ragionare che attribuisce alle sfumature il compito di un paradossale rigore concettuale.
Una particolare menzione merita, in proposito, l’introduzione al volume della curatrice, che è di certo la più accreditata studiosa italiana di Jankélévitch. Consiglierei il lettore di non rivolgervi uno sguardo en passant, perché qui troverà il risultato di una lettura molto chiara, intelligente e rispettosa del testo, istruzioni per l’uso utilissime per immettersi in quell’“Elogio dell’equivoco” (è appunto il titolo del saggio introduttivo di Lisciani-Petrini) che innerva tutte le pagine di Jankélévitch.

Repubblica 23.3.14
El Lissitzky
Pittore, scultore, architetto, grafico l’artista totale che sognava il “ Proun”
di Achille Bonito Oliva


NROVERETO. ella mia vita – scriveva El Lissitzky – non sono stato parco con la mia energia. Adesso sono arrivato al limite, in cui so come bisogna creare quadri belli, forti, dinamici. In me deve sorgere di nuovo un enigma. Non appartengo agli uccelli che cantano per cantare».
Questa struggente affermazione può essere l’epigrafe della mostra El Lissitzky. L’esperienza della totalità a cura di Oliva Maria Rubio, al Mart di Rovereto fino all’8 giugno. L’esposizione presenta l’avventura creativa di un pittore, designer, architetto, grafico, fotografo, un rivoluzionario nell’arte e nella vita tutta dedicata al superamento di ogni barriera sociale e disciplinare per approdare all’esperienza della totalità. Un lavoro che fonde in ogni opera matrici culturali provenienti da diversi paesi e contesti lontani, tra oriente e occidente, arte e design.
Il percorso della mostra si dipana attraverso circa cento opere che descrivono la ricerca di intrecci e slittamenti anche verso l’architettura e l’edilizia. Scorrono davanti a noi dipinti, progetti tipografici e architettonici, illustrazioni di libri e riviste, fotografie, fotomontaggi e fotogrammi. Esemplari nella loro intensa precisione, l’autoritratto Il costruttore (1924) e Corridore nella città(1926).
El Lissitzky (Pochinok 1890-Mosca 1941) incarna per speranza e ricerca l’artista totale che crede nella rigorosa indisciplina delle arti, necessaria per approdare in una forma nuova e complessa: il Proun che egli definisce come «stazione di transito dalla pittura all’architettura». El Lissitzky definisce linguisticamente il processo di fondazione di queste immagini particolari, realizzate quasi tutte durante il suo soggiorno a Vitebsk tra il 1919 e 1920.
Anche sul piano teorico El Lissitzky è riuscito a puntualizzare l’identità del Proun «che inizia come una superficie piana, si trasforma in un modellodello spazio tridimensionale e prosegue con la costruzione di tutti gli oggetti del vivere quotidiano ». L’arte dunque si trasforma in esperienza del fare e del vivere, capace di influenzare il comportamento collettivo e individuale, un’estetica che modifica e accresce anche l’etica. Infatti è impossibile schematizzare e proporlo come partecipe di uno specifico movimento delle avanguardie russe. Perché è stato capace di fondere i dettami del Costruttivismo con elementi del Suprematismo, slittando anche attraverso le tecniche del fotolamontaggio e del collage e realizzando straordinari poster propagandistici, che promuovono comunicazione e parole d’ordine.
D’altronde El Lissitzky ha attraversato gli studi di diverse discipline. Dopo ingegneria a Darmstadt (1908 - 1914), passa nel 1917 ad illustrare con Chagall libri soprattutto per ragazzi. Poi ad insegnare a Vitebsk architettura e arti grafiche insieme a Chagall e Malevic. Forte il desiderio di confronti e scambi con artisti internazionali, per esempio l’influenza esercitata sull’ungherese Moholy Nagy.
Collaborò con Erenburg anche alla prima rivista internazionale costruttivista pubblicata in russo, tedesco e francese, per fondare poi nel 1932 con Richter la rivista Ga Berlino e in Svizzera la rivista ABC (1923 -1925). Dopo aver pubblicato anche con Hans Arp torna in Unione Sovietica e continua la sua operosa attività di grafico, collaborando nel 1932 a diverse riviste di architettura. Nella mostra al Mart trova conferma capacità di sintesi del grande artista russo di coniugare Suprematismo e Costruttivismo, l’uso dell’asse dinamico e asimmetrico insieme alla regolarità del ritmo meccanico.
Prevale sempre un principio dialettico, il confronto di forze in lotta tra loro ma produttive di un nuovo ordine ed energia. Nel 1920 disegna la Storia di due quadrati, pubblicata nel 1922 da Van Doesburg: un racconto per figure geometriche. Commovente per la sua nozione d’impegno, l’accettare incarichi professionali che hanno anche attinenza con l’architettura e l’ingegneria che esaltano la nuova realtà russa, l’Unione Sovietica. Si susseguono così il progetto della sala d’arte moderna dell’Esposizione internazionale di Dresda (1926), la sala del Padiglione sovietico a Colonia (1928), la sezione sovietica Film e Foto dell’esposizione di Stoccarda (1929), il ristorante della sezione sovietica della Fiera internazionale di New York (1939), il padiglione sovietico dell’Esposizione internazionale di Belgrado (1941), non realizzato a causa della guerra.
L’immagine esemplare, per la vita e l’opera di El Lissitzky, è senza dubbio il bacio sulla bocca tra il soldato e il contadino – scelta dal Mart come manifesto della mostra – sintesi tra arte e politica, libertà e solidarietà, laboriosità del quotidiano e la forza del patriottismo. La sua oscillazione tra Malevic e Rodcenko è la dimostrazione di una vita trascorsa sotto il segno dell’impegno e della ricerca, della sperimentazione di nuove forme e dell’uso pubblicitario dell’immagine anche per propaganda politica.

Corriere 23.3.14
El Greco, il volto svelato
La Spagna celebra i 400 anni dalla sua morte
E scopre un pittore tutt’altro che mistico
di Andrea Nicastro


È la più grande mostra su El Greco mai realizzata. Ed è anche la riscoperta (ma è meglio dire «l’ammissione» da parte spagnola) che Dominikos Theotokopoulos non fu il campione della Spagna nera della Controriforma, il pennello mistico uscito dalla Santa Inquisizione descritto dalla frustrazione iberica di fine impero.
I numeri dell’esposizione aperta fino al 14 giugno a Toledo, un’ora di auto da Madrid, fanno impressione. Settantasei opere nel Museo di Santa Cruz, altre 33 sparse tra due chiese, un convento, un ex ospedale e la Cappella di San José aperta al pubblico per l’occasione dai proprietari, i marchesi di Eslava, più altre 17 al Museo El Greco vero e proprio. Prestiti da tutto il mondo. Nel complesso 125 tra tele e pale d’altare. Secondo alcuni inventari sarebbe quindi visibile poco meno della metà della produzione dell’artista.
Il tutto in un’unica cittadina che fu casa del pittore per metà della vita e che dal 1614 non è cambiata moltissimo. Lo testimonia la veduta che apre la mostra e che offre uno skyline quasi sovrapponibile a ciò che si osserva oggi dal finestrino dell’auto sulla circonvallazione. Una cittadina che si attraversa in 30 minuti a piedi e che fino all’estate sarà un unico grande museo dedicato a El Greco.
L’occasione viene dai 400 anni dalla morte di un pittore che i libri spagnoli del 900 raccontavano come l’emblema di una certa identità del Paese: il cattolicesimo militante, la religiosità che trasfigura tanto i corpi come la visione del mondo, il misticismo votato al martirio, il cupo svaporarsi del Secolo d’oro. La mostra di Toledo, a cui a giugno darà il cambio una al Prado di Madrid dedicata alla sua influenza sugli artisti successivi, ha invece il merito di guardare le contraddizioni di un artista piuttosto che all’icona politica di un secolo fa. E lo fa con una serie di saggi critici che hanno avuto accesso come mai prima agli scritti autografi del greco, ma anche proponendo un’esposizione di opere del periodo cretese, veneziano e romano di Theotokopoulos. La tele restaurate esaltano quei colori acidi, troppo moderni, quasi espressionisti, che spaventarono Filippo II e che furono oscurati da restauri volti ad adattare l’opera al gusto del momento. I libri, in particolare quello del curatore della mostra Fernando Marias, Biografia de un pintor extravagante , restituiscono un artista molto più bizantino, italiano e rivoluzionario che emblematico dei tormenti di Castilla-La Mancha.
Cadono gli stereotipi. El Greco religioso? Forse neppure cattolico e probabilmente adultero, con moglie e figlio abbandonati a Creta. Nato ortodosso e morto senza neppure ordinare una messa per la sua anima. Approdato all’arte sacra controvoglia e sempre pronto a stravolgerne i canoni perché così sicuro della propria superiorità da proporre al Papa di andare oltre gli interventi coprenti del Braghettone e cancellare il Giudizio Universale di «quel Michelangelo che non sa dipingere». El Greco spagnolissimo? Il perfetto ritrattista dei cavalieri ieratici della Mancha (il Cavaliere della mano al petto del Prado ne è il prototipo) firmava però in caratteri greci. Dopo trent’anni vissuti a Toledo parlava ancora un orrendo «itagnolo» e lo stesso suo soprannome, «greco», lascia capire la distanza mantenuta tra l’immigrato e la sua committenza.
Mistico? Theotokopoulos era spendaccione, presuntuoso e provocatore quanto incompreso. Tenta di entrare alla Corte claustrofobica di Filippo II proprio mentre i denari dell’impero vengono sperperati nel tetro Escorial, ma viene respinto come lo era stato dalla corte dei Farnese. Ripiega sulla provincia. Toledo è la città della Santa Inquisizione e dei roghi degli eretici, ma neppure lì si adegua. Approfitta del crollo immobiliare dovuto alla cacciata degli ebrei e va a vivere in una casa enorme, dipinge e cena con l’accompagnamento di un’orchestra. La sua fame di denaro cresce. Esordisce con la Spoliazione di Cristo per la sacrestia della Cattedrale, ma va a processo per farsela pagare. Non piace, troppo bizantina, troppo originale. A volte scende a patti con i committenti, ma più di frequente prevale l’orgoglio. La sua superiorità intellettuale incontra poche opposizioni in provincia e El Greco estremizza se stesso. Dimentica persino le polemiche sui nudi michelangioleschi: Il martirio di San Sebastiano di Palencia o il seno appena velato di Maria Maddalena non andavano d’accordo con i canoni della Controriforma.
Ancora stereotipi: El Greco dipingeva quelle teste così piccole, quei corpi così allungati, deformi, per problemi di vista. La mostra richiama nelle cappelle di Toledo tele enormi, di solito poste alle pareti dei musei ad altezza occhio e le posiziona nei luoghi per i quali erano state pensate, a decine di metri da terra. L’effetto prospettiva, la stessa usata dal disprezzato Michelangelo, aggiusta le proporzioni.
Il 7 aprile, giorno della morte, le campane di Toledo suoneranno assieme un requiem. Omaggio, non più violenza, per lo straniero che non volle la messa funebre.

Corriere 23.3.14
Tra passato e futuro, un vero europeo
Ispiratore di espressionismo e astrattismo, ritrovò le radici bizantine
di Francesca Bonazzoli


Fu solo nella seconda metà dell’Ottocento, grazie alla riscoperta che ne fecero inglesi e francesi, che la Spagna si accorse della grandezza di Dominikos Theotokopoulos. Allora girò anche il vento della bandiera nazionalista e da pittore strano perché straniero, come era stato nella percezione degli spagnoli per due secoli, El Greco divenne prova del «trionfo pittorico della Spagna, persino su quegli artisti che, senza essere nati nella nostra Patria, vibrano con uno stile spagnolo», come scrisse nel 1949 Pedro Rocamora.
La letteratura critica di El Greco (soprannome che mette insieme articolo spagnolo e aggettivo italiano) è particolare perché davanti alle questioni stilistiche ha spesso posto considerazioni nazionalistiche (non nazionali, come è normale nella critica d’arte) come se l’interpretazione, e soprattutto l’accettazione, di questo originale pittore non potesse che passare in primis dalla sua appropriazione patriottica.
Una quindicina di anni fa Nicos Hadjinicolaou si è preso la briga di studiare il fenomeno nei tre Paesi in cui si è svolta la vita dell’artista e ne sono scaturiti dati curiosi. Innanzitutto in Spagna, dove la percezione negativa dell’opera legata alla personalità «stravagante» dello straniero cominciò a prendere piede poco dopo la morte del pittore e cambiò solo nella seconda metà del XIX secolo quando francesi e inglesi scoprirono la grande arte spagnola includendo El Greco fra i caposcuola e facendone addirittura un precursore delle novità più radicali della pittura moderna, paragonandolo via via a Delacroix, Füssli, Turner, Manet. I tedeschi, dal canto loro, lo elessero a ispiratore dell’espressionismo e Kandinsky lo pose accanto a Cézanne come l’iniziatore della nuova era astratta dello «spirituale nell’arte». Balsamo per le orecchie di una Spagna che, afflitta dalla propria decadenza, decise di «ispanizzare» lo straniero che a quel punto non venne più definito come greco, ma come cretese. Non solo: il suo stile, ascritto fino ad allora alla «scuola veneziana», venne aggiornato anche nel catalogo ufficiale del Prado del 1910 passando a «scuola spagnola» e la «riappropriazione» si spinse fino a far assurgere El Greco a portabandiera del misticismo spagnolo, fondatore di una scuola nazionale.
In Catalogna, al contrario, proprio in reazione all’esasperazione nazionalista castigliana, si preferì invece insistere sulla formazione bizantina e in particolare, durante la fioritura del movimento modernista catalano, si pose l’accento sulla modernità della sua pittura invece che sulla «hispanidad».
Anche in Italia l’interesse sul Greco fu portato dagli studi esteri, precisamente da Carl Justi, autore di un catalogo delle opere del periodo italiano che rimase tema principale di studio nel nostro Paese. Lo stesso avvenne in Grecia dove il riconoscimento di El Greco all’estero servì a riverberare gloria su una Patria demoralizzata dalle sconfitte militari. Nel 1938 Fotis Kontoglou, scrisse addirittura che «El Greco discese tra quelle nazioni [Italia e Spagna] allo stesso modo in cui Prometeo portò il fuoco a coloro che vivevano nell’oscurità».
Gli eccessi nazionalistici, dunque, non sono mancati, ma la verità è che è stato proprio quel suo stile meticcio a fare di El Greco il primo grande pittore europeo. Nella traversata del Mediterraneo da Est a Ovest, il pittore migrante si è trasformato nell’ultimo campione della Maniera italiana, il frutto più estenuato delle ricercatezze formali e intellettuali sperimentate dal Parmigianino; la radicale conseguenza dell’estremismo del Tintoretto. Come i manieristi, infatti, El Greco pensava che nella mente dell’artista ci fosse una forma perfetta, un’Idea impossibile da tradurre nella pittura, se non a costo della sua corruzione. Ma ecco che la progressiva fuga dal reale per avvicinarsi a quell’Idea, coincide con la concezione bizantina dell’arte: immutabile immagine del divino, canone che si ripete incorrotto nei secoli perché non aderisce agli stili del mondo, ma solo alla vera icona (immagine) di Dio.
Così El Greco in tarda età, ignorando le modernità caravaggesche che pure arrivavano in Spagna, riporta la lezione manierista a quella bizantina. E in questo percorso a ritroso verso la naïveté della sua infanzia, scavalca il tempo così da essere salutato, trecento anni dopo, come il pittore ispiratore della modernità dell’Europa del Nord: dell’Espressionismo e dell’astrattismo. La sua grecità contaminata ed eccentrica, il suo multilinguismo culturale, il suo viaggio lungo il Mediterraneo, è dunque un capolavoro della civiltà europea. Anzi, è la bandiera dell’Europa autentica.

Corriere 23.3.14
«Nell’Albania comunista era un modello di libertà»
Adrian Paci: invidiavo il suo anticonformismo
di Roberta Scorranese


Nella seconda metà degli anni Ottanta Adrian Paci, uno dei più interessanti artisti contemporanei, studiava storia dell’arte nel suo Paese natale, l’Albania. Il regime comunista però poneva delle restrizioni. Quali, Paci?
«Potevamo studiare grossomodo fino a Monet, senza approfondire troppo le tematiche del sacro. Tutto quello che veniva dopo gli Impressionisti era considerato alla stregua di arte degenerata. Il contemporaneo ci era quasi del tutto sconosciuto. Diciamo che potevamo apprendere le basi necessarie per una preparazione accademica, senza libertà espressiva».
È per questo che artisti come El Greco — ma anche Goya o Zurbarán — caratterizzati da una certa eccentricità figurativa, hanno attratto da subito la sua attenzione?
«Sì, perché in loro, ma soprattutto in El Greco, vedevo sprazzi di anticonformismo pittorico; intuivo che oltre i canoni dell’arte occidentale che ci venivano trasmessi in Accademia c’era qualcosa d’altro, un mondo che usciva dalla gabbia stretta del consueto e sceglieva un mezzo diverso per raccontarsi. Finivo quasi con l’invidiare quell’autonomia dell’espressione che lui si era preso ai suoi tempi e che io ancora non riuscivo a raggiungere».
Ricorda qualche tela di El Greco che l’ha colpita più delle altre?
«Ricordo bene la prima volta che vidi la Trinità. Pensai subito: sembra una Pietà ma con il Padre al posto della Madre, una specie di rivoluzione di senso, una innovazione tematica notevole. Lo trovai straordinario, coraggioso. Ma mi segnò moltissimo anche la Spoliazione di Cristo (in mostra, ndr ): queste figure enormi, quasi monumentali, riescono a mantenere un’asciuttezza che diventa in alcuni casi addirittura ascetismo. Il Barocco, per dire, mi sembra molto più pesante. Cercavo di capire la chiave di questo risultato duplice: da una parte la grandezza e dall’altra la levità. Così trascorrevo molte ore su quelle figure. Figure che spesso avevamo a disposizione su libri solo in bianco e nero».
Si può dunque dire che da El Greco lei abbia rubato dei lampi di modernità?
«Penso di sì, almeno mi ha aiutato a concepire un linguaggio diverso, che ho poi cercato di infondere nelle mie opere. Quando l’Albania ha cambiato rotta politica, io ho scelto di recuperare parte di certe tradizioni del mio Paese. Non ho voluto vestire lo stereotipo dell’artista ormai lontano dalle proprie radici. Così dal video sono tornato alla pittura, riabbracciando una sorta di idioma originario».
Il tema del viaggio e dell’alterità attraversa molte delle sue opere; come si è visto nella retrospettiva «Vite in transito» al Pac. Si potrebbe rintracciare una vaga assonanza con l’indiscutibile carattere cosmopolita che ha vestito El Greco ai suoi tempi?
«La facilità nell’unire mondi diversi (e non solo luoghi) è stata una delle caratteristiche di questo grande artista. Mi piace pensare di aver assorbito ciò da lui. Il tema del viaggio e dell’allontanamento non è che uno dei tanti che affronto, peraltro cercando di non insistere troppo sull’esperienza privata».
Lei dipinge, scolpisce, filma, assembla. Questa varietà di idiomi è forse anche una sorta di rivincita su un’educazione artistica rigida e imperniata più su un messaggio (politico) che non sulla forma, come quella che le hanno impartito nel suo Paese natale?
«Quando finalmente ho potuto esprimermi in diversi modi, in me — e in altri artisti come me — è stato come se si fosse rotto un argine, come se potesse finalmente fluire una scioltezza compositiva nuova, ricca, linfatica. Poi, inevitabilmente, mi sono calmato, ho provato a recuperare il passato, a mescolare radici e nuove identità. Certamente però gli artisti come El Greco saranno sempre dei punti di riferimento. E di certo, per me resterà sempre quel bagliore di progresso che ho intravisto sui banchi mentre davo forma alla mia arte».

Corriere 23.3.14
su RaiStoria
La Costituzione in sei lezioni spiegata in tv da Valerio Onida


Cos’è la Costituzione? Domanda apparentemente facilissima, ma a cui la maggior parte di noi saprebbe rispondere solo in termini piuttosto vaghi. L’occasione per approfondire arriva con la nuova serie di «Testimoni del tempo», che da oggi (ogni domenica su RaiStoria, alle 19.30) proporrà sei «Lezioni sulla Costituzione italiana» a cura del presidente emerito della Corte costituzionale Valerio Onida (foto) . «Il costituzionalismo è qualcosa che si proietta sul futuro. Sono principi la cui realizzazione richiede ancora sforzi, lunghi cammini, ma non è un’utopia», spiegherà Onida nella prima puntata intitolata proprio «Cos’è la Costituzione». Nelle lezioni successive il presidente emerito affronterà il percorso storico che ha portato alla nascita della Costituzione, il rapporto con la legislazione nazionale e i contesti sovranazionali, i contenuti: dai diritti e doveri dei cittadini all’equilibrio tra poteri previsti dal nostro ordinamento. Nell’ultimo appuntamento si penserà al futuro e alle nuove sfide che dovrà affrontare la Costituzione. Con questo ciclo di approfondimenti continua la missione di «Testimoni del tempo», che ha già proposto lezioni (tra gli altri) di Stefano Rodotà (sui diritti), di Luca Serianni (sulla Divina Commedia) e di Giuseppe De Rita (sugli ultimi 50 anni di storia socioeconomica d’Italia).

Corriere La Lettura 23.3.14
Tunisia Le due primavere
Il presidente Moncef Marzouki: islamici e laici, opposti estremisti
La trasformazione durerà decenni
Parla il presidente del Paese dove le rivolte arabe ebbero inizio
di Marco Ventura


Tre anni dopo la rivoluzione, la Tunisia ha una nuova Costituzione e s’incammina verso le elezioni. Dallo scorso gennaio, i vincitori del voto del 2011 — gli islamisti di Ennahda — non sono più al governo. La caduta del regime dei Fratelli musulmani in Egitto ha incoraggiato la protesta. I tunisini sono scesi in piazza contro la corruzione di Ennahda, contro le squadracce delle leghe per la protezione della rivoluzione, contro il revolver jihadista che ha ucciso Chokri Belaïd e Mohamed Brahmi, martiri della politica democratica. La società ha respinto, per ora, l’offensiva islamista. Molte donne hanno custodito un islam aperto, mentre tanti, nelle moschee, sfidavano i predicatori d’odio. Studiosi come Hamadi Redissi si sono presi i pugni islamisti, hanno denunciato le complicità occidentali, e affermano ora che «moralmente l’islamismo ha perso la battaglia». Simboleggiano la resistenza Khaoula Rachidi, la studentessa percossa per aver tentato di strappare la bandiera nera salafita issata al posto di quella tunisina sul campus della Manouba, e il suo preside Habib Kazdaghli, processato per essersi difeso da chi gli saccheggiava l’ufficio. Assolto, Kazdaghli vive ora sotto scorta, e continua a vietare gli esami alle studentesse in niqab , il velo integrale.
Il giudizio degli intellettuali sul presidente tunisino Moncef Marzouki è severo. Invece di sostenere la resistenza, ha ricevuto i salafiti e le leghe. Ha giocato con gli islamisti sulla pelle della gente. Ha graziato il vignettista blasfemo Jabeur Mejri soltanto tre settimane fa, dopo averlo lasciato due anni in galera. Preso dai giochi di potere, Marzouki conserverebbe la poltrona nonostante un mandato scaduto. Sarebbe ormai screditato agli occhi del Paese.
«La Lettura» incontra il presidente nella sua residenza ufficiale. Il Palazzo di Cartagine è stato per anni l’impenetrabile fortezza del dittatore Ben Ali. Pioviggina. La risacca porta il Mediterraneo a pochi passi.
Signor presidente, coloro che in questi tre anni hanno resistito contro i salafiti non la riconoscono come uno di loro. Questo è il giudizio degli intellettuali con cui ho parlato. Ad esempio del preside Kazdaghli e di Hamadi Redissi. Come si sente di fronte a questo sentimento dell’opinione pubblica tunisina?
«Quello di cui lei parla non è il sentimento dell’opinione pubblica tunisina. È il sentimento di una frangia minoritaria, che confonde opposizione politica e posizioni di principio. Le spiego. Per me ci sono sempre state due cose fondamentali. Anzitutto, restare fedele ai miei princìpi. Ad esempio sono stato sempre contro la pena capitale, anche se la maggioranza della popolazione è favorevole. Appena insediato, ho commutato la pena di 240 condannati a morte. Ho dato istruzioni severe contro la tortura e le violenze della polizia. Ho sempre affermato che la libertà di espressione, con i suoi peggiori effetti perversi, è sempre meglio della non libertà. Ho anche sempre detto che lo Stato non deve obbligare le donne a mettere il velo, ma neppure a toglierlo. Per questo non sono stato dalla parte del preside Kazdaghli. Posso anche dirle che solo grazie al mio lungo negoziato con gli islamisti la parola sharia (diritto islamico, ndr ) è fuori dalla Costituzione. Qui arrivo al secondo punto: la responsabilità. Quando sei presidente, hai di fronte un larghissimo ventaglio di opinioni. Allora: o sto con gli estremisti laici contro gli estremisti religiosi; o con i religiosi contro i laici. Ma così non faccio più il mio lavoro di presidente di tutti.
«Il mio lavoro consiste nel portare la gente verso atteggiamenti di conciliazione. Gli uni mi dicono non siete con noi, gli altri… Per esempio, ho ricevuto i..., come li chiama?, i salafiti, sì, ma ho ricevuto anche i laici. Ho ricevuto tutti qui, tranne coloro che portano le armi. Ho ricevuto i laici per dire: sentite, siamo una società plurale, dovete accettare la parte conservatrice del Paese, l’islam fa parte della cultura e non soltanto della religione e dobbiamo cercare un compromesso con gli islamisti moderati. E ho ricevuto i salafiti dicendo: potete entrare nella Repubblica purché riconosciate il diritto degli altri di esistere, il diritto delle donne di vestirsi come vogliono. Io vi riconosco il diritto di mettere il niqab , ma voi dovete riconoscere alle donne tunisine il diritto di portare i jeans senza che… È questa la responsabilità. Essere nel mezzo e far sì che la gente s’incontri nel mezzo».
Il movimento politico islamista è sempre meno credibile perché la società ne vede la corruzione, l’incompetenza e la contiguità con la violenza jihadista, almeno in alcuni settori. Emerge un rifiuto della manipolazione politica del religioso. Perché, malgrado tutto ciò, lei mette gli intellettuali che si sono opposti alla violenza sullo stesso piano degli estremisti religiosi?
«Lei parla della società tunisina come se fosse un tutto. Essa è invece molteplice e complessa. Io lavoro praticamente con due Tunisie. Per una Tunisia il problema fondamentale è il livello di vita. È la Tunisia che vive nella povertà, nella miseria e nell’esclusione. Questa Tunisia, i suoi estremisti laici non la vedono. Non esiste per loro. Ma esiste per me. È l’80 per cento dei tunisini. Queste problematiche che lei solleva non hanno alcun senso per loro. Perché essenzialmente sono musulmani e sono poveri e per loro la questione fondamentale è la povertà.
«Poi c’è un’altra Tunisia il cui problema, la cui ossessione, è il modo di vita. Questa Tunisia è modernista, occidentalizzata, è laica e ha paura che, dopo la rivoluzione, l’arrivo di Ennahda minacci il suo modo di vita. Ora, questa minaccia non ha nulla a che vedere con Ennahda. Ennahda è un partito islamico moderato, democratico, e per questo abbiamo lavorato con loro. Fin dall’inizio era chiaro che la religione non sarebbe stata manipolata politicamente. È questa la base del nostro accordo. La minaccia al modo di vita dei tunisini sono gli estremisti religiosi, i salafiti. Ora, paradossalmente, questi estremisti religiosi si nutrono dell’estremismo laico, il quale si nutre dell’estremismo religioso. È questo il pericolo per un modo di vita democratico. Contro di esso dobbiamo difendere i diritti dell’uomo. Ivi compreso il diritto di indossare ciò che si vuole! D’accordo? Contro il signor preside che rifiuta che una donna porti il niqab ! Ivi compreso il diritto di parlare a tutti gli islamisti.
«Abbiamo fatto un lavoro pedagogico straordinario negli ultimi vent’anni per portare questa frangia centrale dell’islamismo alla democrazia e al modo di vivere moderno. I più pericolosi invece sono gli estremisti, laici e salafiti. Ad esempio, cos’è questa storia di fare caricature del Profeta? Forse che la libertà d’espressione necessita che si provochi l’altro? Sono forse libero solo se umilio o insulto la fede altrui? Lei parla della Tunisia come se vi fosse uno Stato in cancrena per colpa degli islamisti e una società civile dominata dagli estremisti laici che si batte contro lo Stato. Questa visione è completamente falsa. Nello Stato vi sono grandi forze politiche che intendono proteggere il modo di vita dei tunisini, rendere l’islam compatibile con la democrazia, isolare gli estremisti laici e religiosi che mirano allo scontro».
Secondo lei io immagino una società tunisina uniforme che non esiste nella realtà, ma a me sembra che lei faccia lo stesso con la categoria degli estremisti laici. Ho difficoltà a riconoscere nei colleghi che ho incontrato il ritratto che lei ne fa. A me sembra che i loro princìpi siano simili ai suoi, forse è un gioco di posizioni politiche… o forse…
«Aspetti, vuole che spieghi questo?».
Sì, grazie.
«Non è una differenza di principio, è una differenza politica. Negli anni Novanta ho avuto una scissione con questa gente. Siamo partiti tutti dallo stesso tronco. Sa, io sono francofono, ho una moglie francese, ho vissuto la metà della mia vita in Francia, le mie figlie vivono in Francia. Sono impastato di cultura francese, sono diventato presto presidente della lega dei diritti dell’uomo. Arrivano gli anni Novanta, quando vi è stata la repressione degli islamisti. Allora il movimento democratico si è scisso. Io all’epoca ho detto: il nemico è la dittatura, l’avversario è l’islamismo politico. Loro invece hanno detto il nemico è l’islamismo politico, l’avversario è la dittatura. E si sono compromessi con il regime, per odio ideologico verso l’islamismo. Hanno condonato i peggiori misfatti. Altro che diritti dell’uomo… hanno accettato la tortura. Ho detto: per principio tutti i partiti che accettano la regola della Repubblica devono essere tollerati. E loro hanno risposto: no, i partiti islamisti no, è un’alleanza contro natura che islamizzerà il Paese. Invece non vi è stata alcuna islamizzazione in questi tre anni. I diritti dell’uomo sono stati protetti, anche dagli islamisti. Ennahda non ha rimesso la tortura, ha accettato di lasciare il potere. Dell’islamismo bisogna rigettare la parte violenta. L’altra parte va democratizzata. Questa era la scelta della saggezza. Sono contento di aver fatto questa scelta. Spero che lei ora abbia capito da dove viene il malinteso.
«Parliamo della nuova Costituzione. Per la prima volta in un Paese arabo si riconosce la libertà di coscienza, ma lo Stato è “custode della religione” e l’istruzione pubblica deve avere l’obiettivo di “radicare l’identità arabo-musulmana”. In che modo le divisioni politiche peseranno sulla gestione di questo islam di Stato? Quando lei mi pone queste domande, vedo subito lo spirito che c’è dietro. La religione… meglio non fidarsi. Questa è la tradizione culturale francese. La conosco bene. Già il modo in cui lei mi pone la domanda… lei traduce ancora una volta l’inquietudine di questa frangia che io chiamo degli estremisti laici. È un pensiero, una storia che non è la nostra. Questa è la storia francese. Ho la fortuna di essere francofono. Ma al contempo vengo da un villaggio del sud, da una famiglia conservatrice, sono intriso di cultura arabo-musulmana. Ora, come si pone la questione nella mia cultura? Non in quella acquisita: nella mia.
«Nella mia cultura, l’islam è sempre stato il vessillo di tutte le rivolte e la scusa di tutte le tirannie. È stato così per quindici secoli di storia. Oggi questi pazzi di salafiti sono nella tradizione dell’islam vessillo dei ribelli, dei poveri e degli esclusi. È questo che i suoi estremisti laici non capiscono. Vedono solo i barbuti... sfugge loro l’essenza del movimento salafita, che è rivolta del proletariato. Quando studio i dati sociologici, vedo povera gente, criminali, trafficanti di droga, per i quali questo islam salafita è una specie di vessillo… Vi è la questione sociale dietro tutto. Chiarito questo, si può venire al rapporto tra l’islam e lo Stato.
«È un vecchio problema. In questo Paese, da 15 secoli, la politica cerca di sottomettere la religione e viceversa. Io qui, da intellettuale che cerca di capire, dico che dobbiamo arrivare a uno Stato indipendente dalla religione e a una religione indipendente dallo Stato. Che ciascuno abbia la sua sfera d’azione. Solo che, contrariamente a ciò che avviene nel cristianesimo e in Europa, l’islam è insieme religione, cultura, modo di governo. Sicché la separazione è molto difficile. Ma ora in Tunisia stiamo sperimentando un nuovo approccio. Diciamo: sentite, d’accordo, lo Stato non si può disimpegnare totalmente dalla religione. D’altra parte, dove ciò sarebbe avvenuto? In Norvegia e in Gran Bretagna il cristianesimo protestante è religione di Stato. Solo nella tradizione francese c’è quest’ossessione che la religione sia una cosa e lo Stato un’altra. Dappertutto nel mondo c’è un legame culturale. Io non strapperò quel legame.
«Ciò che vogliamo qui in Tunisia è che lo Stato non controlli più la religione. Vogliamo che le moschee diventino autonome. Ho addirittura proposto che si elegga il muftì (massima autorità islamica ufficiale, ndr ). Lei sa che spetta a me nominare il muftì. Invece ho detto: eleggete il muftì tra voi. Voglio che le moschee siano completamente autonome e indipendenti dallo Stato. In cambio, però, non v’immischiate nella politica. Se volete fare politica, create dei partiti politici. Sperimentiamo una novità storica per il mondo arabo. Se riusciremo, sarà il modello perfetto. Lo Stato non potrà più controllare la religione e la religione non potrà più buttarsi in politica».
Capisco la sua preoccupazione per la francesizzazione, d’altra parte ci stiamo parlando in francese e usiamo categorie francesi. Il punto è che non possiamo ignorare la dinamica globale. Ciò che accade in Tunisia influenza il dibattito negli altri Paesi…
«L’esempio del muftì è molto chiaro… Voglio che il muftì sia eletto dai suoi pari e che lo Stato allenti la presa. Ma la scomparsa dei legami è praticamente impossibile. Abbiamo 5 mila moschee e un ministero che le gestisce. Un’amministrazione così non la si scioglie dall’oggi al domani».
Non crede che in questi ultimi mesi di presidenza, prima delle elezioni, la sfida per lei sia quella di rompere gli schemi, sull’esempio di padre Dall’Oglio, cristiano rapito in Siria mentre lottava per la pace accanto ai suoi fratelli musulmani?
«Il mio ruolo di capo di Stato consiste nel riconciliare i tunisini tra loro. Questa casa era il più grande commissariato di polizia del Paese, con la gente che tratteneva il fiato quando ci passava davanti. Qui ho ricevuto migliaia di persone di tutti i fronti. Anche gli estremisti laici. Ho ricevuto qui il preside Kazdaghli. Forse lei non sa che ho chiamato qui la ragazza che ha difeso la bandiera tunisina, l’ho ringraziata. Accompagno queste lotte per la libertà. Ma devo restare neutrale nelle battaglie ideologiche e politiche. E devo portare la gente a discutere insieme. Per questo sono molto fiero di questa Costituzione, frutto del consenso. Tutti devono accettarla e applicarla. Il mio lavoro consisterà nel fare in modo che la gente dialoghi e che la Tunisia sia governata al centro da quelli che chiamo i moderati dei due campi. È questo il mio ruolo, fino alla fine».
E il ruolo della Tunisia nel mondo arabo?
«Siamo un laboratorio. Il mondo arabo attraversa una fase di trasformazione come non se ne sono viste da secoli. Oggi è l’intero sistema politico e sociale che è rimesso in discussione, la gente non vuole più continuare a vivere come prima. Mi diverte sentir dire che la primavera araba sia fallita. Piano, un momento. La primavera araba è un processo che durerà decenni. La rivoluzione francese ci ha messo ottant’anni per arrivare alla Terza Repubblica. Siamo all’inizio della primavera araba. Quattrocento milioni di persone, a sud del Mediterraneo, vivono una trasformazione difficile, brutale, violenta. Nessuno potrà fermare tutto ciò. Nessuno. La Tunisia è un laboratorio perché sperimenta il consenso, il rifiuto di tutti gli estremismi, laico e religioso, la pacificazione di Stato e religione. Siamo aperti al mondo, abbiamo adottato la democrazia e i diritti dell’uomo che sono valori universali e non occidentali, ma restiamo noi stessi. La Tunisia è un laboratorio. Se questo laboratorio avrà successo, potrà essere d’esempio».

Corriere La Lettura 23.3.14
Una biopolitica diversa, senza Foucault
La demografia e le migrazioni come vincoli naturali cui l’uomo non può sottrarsi
Porte aperte ai lavoratori stranieri, diritti alle coppie gay, no al mito della decrescita
di Antonio Carioti


Quando si parla di biopolitica, soprattutto in Italia, il richiamo obbligato è al filosofo francese Michel Foucault, che introdusse questo concetto per definire i conflitti causati dalla tendenza del potere, in epoca moderna, a controllare e regolare l’esistenza delle persone in quanto esseri viventi, attraverso misure profilattiche, sanitarie, demografiche, fino agli orrori dell’eugenetica nazista. Diversi autori di spicco, da Giorgio Agamben a Roberto Esposito, da Toni Negri a Felice Cimatti, s’ispirano oggi a questo lascito foucaultiano.
Esiste però una visione alternativa della biopolitica, proposta dal filosofo del linguaggio Antonino Pennisi, sulla scorta di una vasta letteratura anglosassone, nel saggio L’errore di Platone (il Mulino). Malgrado il titolo, il grande pensatore greco non è al centro della trattazione: il suo sbaglio sarebbe consistito nell’affidare alla volontà umana la missione impossibile di plasmare la convivenza politica sulla base di progetti intellettualistici. Invece Pennisi dice alla «Lettura» di ritenere «che per difendere l’umanità occorra guardare più ai limiti che alle possibilità della nostra specie». Il contrario di quanto è successo nel Novecento, «un secolo presuntuoso, antropocentrico, che non ha voluto riconoscere i vincoli biologici dell’uomo e lo ha giudicato onnipotente, solo perché dotato di linguaggio e coscienza», fino a produrre «i più efferati delitti contro l’umanità».
Insomma, mentre la scuola foucaultiana rivendica il diritto soggettivo alla pienezza della vita, denunciando le costrizioni imposte dal potere, oggi in particolare attraverso le scelte economiche dettate dalla finanza globale, la biopolitica nella versione di Pennisi «parte dalla consapevolezza dei vincoli naturali entro cui può muoversi la progettazione politica». A suo avviso, ogni disegno riformatore deve fondarsi «su quelle che sin dalle origini sono state le due principali molle dell’evoluzione sociale: i processi riproduttivi e quelli migratori. L’Homo sapiens è comparso 200 mila anni fa in una piccola regione dell’Africa centro-meridionale e si è espanso riproducendosi ed emigrando dappertutto. Tale attività non è mai cessata e ha modellato il mondo. Anche oggi i successi delle politiche nazionali derivano soprattutto dalla capacità di dare risposte concrete per gestire i diritti civili relativi alla riproduzione, quindi alle nuove forme di famiglia e alle migrazioni internazionali, con leggi che garantiscano lo spostamento e l’insediamento civile di coloro che lasciano le proprie terre d’origine».
Non c’è da stupirsi che la ricetta di Pennisi per combattere la crisi parta dal «nesso tra crescita economica e aumento della popolazione», nel quale individua, forse con un eccesso di determinismo, «l’unica bussola reale della navigazione biopolitica». Gli appare ozioso che ci si accapigli su «come redistribuire le ricchezze con piccoli provvedimenti che spostano una coperta stretta da un lato o dall’altro delle classi sociali». E liquida come «un piccolo fattarello di cronaca che la Germania abbia ancora una buona tenuta economica e l’Italia no», poiché i due Paesi sono affetti da fenomeni analoghi di denatalità e invecchiamento della popolazione. La vera urgenza, afferma Pennisi, è «mantenere in equilibrio le diverse generazioni produttive rispetto a tutte le altre». Perciò è indispensabile «investire in popolazione giovane e in immigrazione», per «immettere energie fresche nel sistema sociale» e innescare così uno sviluppo durevole.
Porte aperte ai lavoratori stranieri, dunque. E anche ai diritti dei gay. Pennisi non reputa affatto casuale la concomitanza tra la crisi economica e l’approvazione di numerose leggi, in molti Paesi del mondo, per il riconoscimento delle coppie omosessuali. Collega tale fenomeno all’emancipazione civile e lavorativa delle giovani donne «che non fanno più, o fanno pochissimi, figli». Il combinato disposto, osserva, «è destinato a creare una depressione demografica ancor più grave». Un meccanismo che «non è arrestabile perché è il naturale risultato di quelle che gli specialisti chiamano transizioni demografiche, uguali nell’evoluzione di tutti i tempi e di tutte le nazioni». Una volta legittimata appieno la «sessualità non riproduttiva», conclude Pennisi, bisognerà prendere atto che al declino della natalità «c’è un solo rimedio naturale: lo spostamento di grandi masse di migranti che potranno redistribuire le giovinezze mancanti».
Detto così sembra un po’ troppo semplice. Date le tensioni socio-culturali provocate dall’immigrazione, viene da obiettare che converrebbe comunque fare qualcosa per aiutare gli autoctoni a mettere al mondo una prole più numerosa. Ma secondo Pennisi «l’ingegneria della fecondazione artificiale o quella del sostegno sociale alle madri che lavorano» sono soltanto «piccoli palliativi». A suo parere la retorica antimmigrati, assurda sotto il profilo biopolitico, è un frutto avvelenato della dote che distingue maggiormente la nostra specie, il linguaggio.
Anche altri animali (api, cervi, babbuini, uccelli migratori), nota Pennisi, «prendono decisioni che passano per l’elaborazione di un consenso collettivo», ma lo fanno «con segnali univoci», mirando sempre «a trovare la soluzione ecologicamente conveniente all’intera comunità e non al bene di un suo membro o di una sua parte». Noi uomini comunichiamo in modo assai più complesso e abbiamo un’acuta coscienza dell’individualità. Qualità eccezionali, che si rivelano tuttavia armi a doppio taglio, perché ci portano a creare «universi di discorso, dispositivi riccamente articolati per la produzione di teorie, sistemi, credenze», spesso finalizzati a «favorire logge, corporazioni, partiti, se non singoli individui». Il risultato è che i parlamenti si perdono in chiacchiere e «non servono ad assumere decisioni utili per tutti».
Tra le ideologie prese di mira da Pennisi non c’è però soltanto il populismo xenofobo antimmigrati. Ammiratore del liberalismo settecentesco, che «inaugurò la grande stagione della circolazione sociale dei beni e delle idee», boccia senza appello i fautori della decrescita. La retromarcia dell’economia non gli appare affatto auspicabile: «In Italia — s’indigna — stiamo già morendo di decrescita, eppure c’è chi vuole propinarla persino all’esercito dei disoccupati, guadagnandoci pure sulle disgrazie altrui. Ma la diminuzione dei consumi è sempre fonte di enormi tragedie collettive».

Corriere La Lettura 23.3.14
L’area 12 divide uomo e macaco
Elaborazione del pensiero e del futuro: cosa manca nel cervello delle scimmie
di Giuseppe Remuzzi


Saper decidere, progettare, pensare al futuro, imparare dagli altri: è soprattutto questo che ci distingue dagli animali. Anche da quelli che ci sono più vicino nella scala dell’evoluzione, come le scimmie e in generale i primati non umani. Ma com’è che il nostro cervello sa orchestrare tutto questo e perché le scimmie queste capacità non le hanno? Se lo chiedevano in tanti da anni. Anche perché c’è una forte omologia fra le aree del cervello che regolano le funzioni cognitive dell’uomo e della scimmia — comprese le aree che sono coinvolte nei processi uditivi, nel controllo della mimica facciale, nel riconoscimento dei gesti.
A questi studi la ricerca italiana ha dato un contributo fondamentale a cominciare da quando Giacomo Rizzolatti ha scoperto l’esistenza dei «neuroni specchio», prima nelle scimmie — nelle regioni parietali frontali anteriori del cervello — e poi nell’uomo. È stata una delle scoperte più entusiasmanti nel campo delle neuroscienze. Sono i «neuroni specchio» che mettono insieme la percezione dell’azione col momento dell’eseguirla e consentono di comprendere le azioni degli altri. E sono sempre loro che governano i processi motori (la produzione dei suoni per esempio, nelle scimmie ma anche negli uccelli) e l’espressione delle emozioni.
Dopo aver dimostrato tutto questo nei macachi, gli scienziati si sono accorti che era così anche nell’uomo: è proprio grazie ai «neuroni specchio» se oggi conosciamo meglio i disturbi del comportamento, per esempio l’autismo. Questo e tanti altri studi mostrano analogie impressionanti di struttura e funzione tra il cervello dell’uomo e quello delle scimmie. E allora, di nuovo, la domanda: perché i processi cognitivi delle scimmie sono molto più primitivi dei nostri? E poi: perché le scimmie non parlano? (Non sono domande da poco. L’uomo moderno ha occupato tutto quello che poteva occupare del pianeta, le scimmie no; l’arma vincente a nostro favore in chiave evolutiva è quasi certamente il linguaggio, oltre al saper collaborare con gli altri — che in fondo è ancora una questione di linguaggio). Cose da neuroscienziati che sfiorano antropologia, filosofia e morale. Insomma, cos’è che ci rende uomini? È vero che il cervello dell’uomo non è poi così diverso da quello delle scimmie, ma potrebbe essere tutta una questione di integrazione fra le diverse aree; forse è questo che ci consente di progettare e mettere in fila i problemi per ordine di importanza e prendere decisioni. Probabilmente questa integrazione è più debole nelle scimmie di quanto non lo sia nell’uomo.
Tutte cose estremamente complesse da dimostrare, ma gli scienziati ci stanno provando. C’è anche un’altra possibilità: che l’uomo abbia una o più aree del cervello, fra quelle deputate ai processi cognitivi, che mancano nelle scimmie; ma questo finora non era mai stato dimostrato da nessuno. Così Matthew Rushworth, un professore di Oxford, ha fatto un esperimento molto particolare (il lavoro è stato pubblicato su «Neuron» proprio in questi giorni). Ha studiato il cervello di 25 volontari con sistemi di risonanza magnetica di ultima generazione capaci di indagare la funzione oltre che la struttura del cervello. Poi lui e i suoi colleghi hanno ripetuto le stesse indagini di risonanza su 25 macachi confrontando i dati dell’uomo con quelli delle scimmie.
C’è nel cervello una regione particolare che i medici chiamano corteccia frontale ventrolaterale: è la sede dei processi cognitivi più sofisticati e del linguaggio. Come lo sappiamo? Un po’ anche perché un ictus del cervello o una malattia degenerativa che colpisca quella parte della corteccia si manifestano invariabilmente con disturbi del linguaggio. E non basta: da studi precedenti si sa anche che certi disturbi psichiatrici come deficit di attenzione, comportamenti compulsivi e tossicodipendenze dipendono soprattutto da alterazioni della corteccia frontale ventrolaterale. Il cervello è un mosaico di aree collegate una all’altra e che si influenzano reciprocamente attraverso connessioni a volte intricatissime; venirne a capo non è certo impresa facile. Ma gli scienziati di Oxford hanno trovato il modo di studiare non solo la corteccia ventrolaterale; hanno anche saputo indagare le connessioni fra questa regione e le altre che ne condizionano la funzione.
L’analisi di una grande quantità di immagini di risonanza magnetica e un numero impressionante di dati funzionali hanno consentito a Rushworth di dividere la corteccia frontale ventrolaterale dei volontari sani in 12 aree ben identificate in tutti e 25 gli uomini che avevano studiato. Ciascuna delle 12 aree aveva però un suo modo speciale di connettersi con il resto del cervello e questo è unico di ciascuno di noi; in un certo senso le impronte digitali del nostro cervello.
Fatto questo gli studiosi di Oxford hanno paragonato le 12 aree della corteccia prefrontale dell’uomo con quella delle scimmie. Non si può dire che non siano rimasti a bocca aperta nel constatare che nell’insieme la corteccia frontale ventrolaterale delle scimmie non era poi tanto diversa da quella dell’uomo. Al punto che 11 delle 12 aree in cui avevano diviso questa regione c’erano sia nell’uomo che nel macaco e le connessioni di ciascuna di queste aree con il resto del cervello erano molto simili nelle due specie.
Restava però l’area 12 (complicata anche da definire: polo frontale-laterale della corteccia prefrontale); quest’area non ha un equivalente nella scimmia. Cosa da poco? Niente affatto; l’area 12 presiede al saper progettare il futuro, al mettere in fila i problemi in una gerarchia di importanza, al prendere decisioni anche eventualmente a proprio svantaggio, al saper fare tante cose diverse e persino alla capacità di concentrarsi contemporaneamente su diversi problemi, quando capita di doverlo fare.
Se l’uomo sa fare tutto questo e tanto d’altro e i macachi no lo dobbiamo forse proprio a questa piccola area, l’area numero 12 della corteccia prefrontale. Quest’area è connessa in special modo con le regioni uditive del cervello; è logico pensare che siano proprio queste connessioni che nel corso dell’evoluzione ci hanno consentito di capire le reazioni dei nostri stimoli, di intuirne il significato, di desiderare qualche forma di interazione. Questi stimoli sfociavano inevitabilmente nella necessità di generare qualcosa che servisse per comunicare, che poi è diventato per l’uomo vero e proprio linguaggio. Allora vuol dire che nei macachi non c’è proprio l’area del cervello che governa il linguaggio? No, gli scienziati hanno visto che c’è anche nei macachi ma le connessioni di quest’area con le regioni uditive sono poche e deboli. Forse è proprio per questo che le scimmie non parlano.

Corriere La Lettura 23.3.14
Negare il passato, da Mosca a Tokyo
di Dino Messina


C’è una differenza sostanziale tra una discutibile interpretazione politica del passato e la negazione dei fatti; fra la storia usata come arma dialettica per combattere l’avversario e la verità imposta per legge. Per esempio attraverso i libri di testo. Induce a questa riflessione una brillante analisi di Gideon Rachman sul «Financial Times» del 18 marzo: «In che modo le guerre possono cominciare da un testo scolastico».
Ben prima delle recenti accuse di fascismo ai ribelli ucraini che si sono rivoltati contro lo strapotere di Mosca, Vladimir Putin in gennaio aveva esortato a scrivere libri di testo per le scuole che la smettessero con la denigrazione dell’Unione Sovietica, che non avrebbe mai oppresso i popoli vicini, ma li avrebbe solo liberati dal fascismo. Vedi l’Ucraina, ma anche l’Ungheria, dove paradossalmente è oggi al potere Viktor Orbán, che vuol riscrivere la storia anche in chiave antisemita ripristinando la grandezza dell’impero perduta con la Grande guerra.Il primo conflitto mondiale è oggetto anche della polemica avviata dal ministro per l’Educazione britannico, Michael Gove, che ha invitato gli insegnanti a smetterla con la lamentela del bagno di sangue e a dare una interpretazione più patriottica. Gove non si sogna tuttavia di negare le cose avvenute, come per esempio fa il governo turco riguardo all’olocausto del popolo armeno o come fanno i cinesi quando si tratta di ammettere le decine di milioni di morti provocati dal «grande balzo in avanti» o dalla «rivoluzione culturale» di Mao Zedong. Il nuovo presidente Xi Jinping ha di recente denunciato i disastri provocati dal colonialismo, ma si è ben guardato dal ricordare i nefasti del comunismo realizzato.
Il pericoloso vezzo di negare i fatti, nella nuova ondata nazionalista che va da Occidente a Oriente, si è rivelato anche nel nuovo Giappone di Shinzo Abe, anche lui contrario a una visione troppo «masochistica» della storia patria. La tensione con la Cina per le isole Senkaku e con la Corea del Sud non è il terreno migliore per ammettere le colpe del massacro di Nanchino nel 1937 o delle schiave sessuali sfruttate dall’esercito del Sol Levante.

Il Sole Domenica 23.3.14
Pierre Janet (1859-1947)
Un fantasma in casa Freud
di Vittorio Lingiardi


L'opera di Pierre Janet può essere paragonata a una «grande città sepolta sotto le ceneri, come Pompei. Il destino di una città sepolta è incerto: può restare sepolta per sempre; può rimanere nascosta per essere saccheggiata dai predoni. Ma è anche possibile che un giorno sia dissotterrata e riportata in vita». La profezia di Ellenberger (La scoperta dell'inconscio, Boringheri) si è avverata: negli ultimi vent'anni i testi dello psicologo francese sono stati riportati in vita e molte delle sue idee alimentano le riflessioni di importanti clinici contemporanei. Uno di questi, Philip Bromberg (Clinica del trauma e della dissociazione, Cortina), arriva ad affermare che la posizione anti-Janet assunta da Freud «ci ha portato indietro di quasi cento anni», e paragona la «Janet renaissance» a un romanzo gotico a puntate dove il fantasma senza pace di Janet, scacciato dal castello da Freud cent'anni fa, oggi ritorna per tormentare i suoi discendenti. Per quelli italiani, l'ultimo tormento, a pochi mesi dalla pubblicazione di L'automatismo psicologico del 1889 (Cortina, a cura di Francesca Ortu, postfazione di Giuseppe Craparo, recensito su queste pagine il 24 febbraio 2013 da Chiara Pasetti) è la traduzione della conferenza londinese dell'agosto del 1913 (pubblicata l'anno successivo sul Journal de Psychologie Normale et Pathologique). Si tratta di La psychoanalyse de Freud, in italiano semplicemente La psicoanalisi, che Bollati Boringhieri affida alla cura di Maurilio Orbecchi, che la introduce con un argomentato e combattivo j'accuse antifreudiano. Se nei suoi primi scritti Freud fa riferimento ai lavori di Janet, riconoscendo l'importanza di alcune sue concettualizzazioni, successivamente gli muove critiche sempre più serrate, sottolineando le divergenze tra la sua «psicoanalisi» e l'«analisi psicologica» janetiana, fino a disconoscere ogni somiglianza tra i due approcci. E così, continua Ellenberger, «mentre su Janet cadeva il velo di Lesmosine, sul suo grande rivale, Sigmund Freud, si alzava il velo di Mnemosine».
Le belle pagine della conferenza di Janet ci restituiscono non solo le sue idee, ma anche le emozioni del suo conflitto col collega viennese. Parole a prima vista rispettose e cordiali si fanno ironiche e graffianti. Per tradire infine il dolente stupore di chi si è sentito privato non tanto, o non solo, del riconoscimento del proprio lavoro, ma di quel confronto che è al cuore di ogni percorso scientifico e intellettuale. «Con mia grande vergogna», afferma nel commentare la natura apparentemente rivoluzionaria delle scoperte freudiane, «devo confessare che all'inizio non ho per nulla compreso l'importanza di questo sconvolgimento e, ingenuamente, ho pensato che i primi studi di Breuer e Freud altro non fossero che una conferma dei miei lavori più interessanti». E aggiunge: «Freud e i suoi allievi sono partiti dai miei primi studi sull'esistenza dei fenomeni subconsci nelle isteriche e sulle loro caratteristiche, senza criticarli: mi dispiace un po', perché queste ricerche avrebbero bisogno di conferme e di critiche».
L'obiettivo della conferenza di Janet è mettere in luce le differenze tra la sua proposta e quella di Freud. Lo fa attraverso tre argomenti principali: i ricordi di avvenimenti traumatici (reali, non fantasmatici) e il loro ruolo nel determinare i sintomi; i meccanismi sottesi alla loro azione sul funzionamento mentale; la discussione sulla natura sessuale di queste memorie. La sua lettura apre una finestra su un ambito di studio in costante evoluzione.
Le considerazioni di Janet sulla psicoanalisi vertono su tre punti fondamentali, a mio avviso ancora in grado di sfidare alcune posizioni e atteggiamenti contemporanei. Primo, mette in dubbio l'originalità di Freud, il quale, più che aver «scoperto» l'inconscio, avrebbe rielaborato il sapere del tempo, attingendo in gran parte al collega francese: «Potei constatare con piacere che le loro osservazioni erano simili alle mie. (…) Questi autori si limitavano a cambiare qualche termine nella loro descrizione psicologica», ma allo stesso tempo accettando «tutti i concetti fondamentali, per quanto ancora al vaglio della discussione». Secondo, mette in guardia dalla generalizzazione, dall'arbitrarietà e dalla semplificazione eccessiva dei metodi e dei principi tecnici analitici. Per non parlare dei limiti del linguaggio: «vago e metaforico». Molta psicoanalisi, afferma Janet, usa i pazienti per dimostrare le sue teorie: un caso eclatante è quello dell'interpretazione dei sogni, che l'analista metterebbe al servizio della dimostrazione delle sue teorie/dogmi. Terzo, insinua che la psicoanalisi tende a vestirsi di misticismo e religiosità, tanto da praticare pratiche di scomunica o espulsione degli «eretici».
Le ultime battute di questo scritto ci colgono di sorpresa. Con un colpo di teatro Janet capovolge la prospettiva affermando che «saranno dimenticate le spavalde esagerazioni e i simbolismi rocamboleschi» della psicoanalisi e «soltanto una cosa sarà ricordata: la psicoanalisi ha reso enormi servizi all'analisi psicologica», giacché ha portato l'attenzione su temi ingiustamente trascurati dalla ricerca. La storia non gli ha dato ragione. Dopo questo intervento, Janet sarà tacciato di eresia, emarginato e lentamente dimenticato. Alla sua morte, nota Orbecchi, dieci anni dopo quella di Freud, poteva essere considerato un sopravvissuto. Oggi, però, i più grandi esperti di trauma e dissociazione, da van der Kolk a van der Hart, da Nijenhuis a Liotti, non perdono occasione per ringraziarlo del suo lavoro e tributargli onori teorici e clinici. Janet, dicono, è il padre del disturbo da stress post-tramatico, il primo a studiare la dissociazione come processo psicologico fondamentale con cui l'organismo reagisce a esperienze soverchianti. Il primo a mostrare che le memorie traumatiche possono essere espresse come percezioni sensoriali, stati affettivi e ripetizioni di comportamenti. Il fantasma scacciato dal castello della psicoanalisi è tornato in circolazione e si sta togliendo qualche soddisfazione.

Pierre Janet, La psicoanalisi, a cura di Maurilio Orbecchi, traduzione Cristina Spingoglio, Bollati Boringhieri, Torino, pagg.168, € 13,00

Il Sole Domenica 23.3.14
A colloquio con Camille Paglia
L'arte è spiritualità. Parola di atea
«Con il Romanticismo l'arte passò all'opposizione, ma Warhol mise fine a quella stagione. Oggi il luogo del dissenso politico è la rete. Gli artisti recuperino l'entusiamo»
di Camilla Tagliabue


Nonostante non sia una fan del film di Paolo Sorrentino, non le è difficile riconoscere che l'Italia è la patria della "Grande Bellezza": «La mia visione del mondo è totalmente frutto della cultura italiana. Dopotutto, i miei quattro nonni e mia madre erano nati lì: la mia famiglia emigrò dalla Ciociaria per lavorare in un calzaturificio a Endicott (New York). Benché provenissero da una terra povera e contadina, tutti i miei famigliari rispettavano l'arte: nella cultura italiana l'arte non è elitaria, ma superbo artigianato, onorato e apprezzato da chiunque».
Così parla Camille Paglia, blasonata intellettuale americana, antropologa e sociologa, allergica al conformismo e alle etichette, in primis quella di "femminista" con cui si è fatta conoscere al mondo dacché, nel 1990, pubblicò Sexual Personae. Da poco l'autrice è tornata in libreria con un altro accattivante e provocatorio saggio, Seducenti immagini. Un viaggio nell'arte dall'Egitto a Star Wars, edito dal Mulino (pagg. 328, € 35,00) e presentato settimana scorsa a Roma, durante il festival «Libri Come»: quest'opulenta pubblicazione è un personalissimo e caleidoscopico «canone occidentale» che rilegge la storia attraverso 29 opere d'arte, numinose, icastiche e paradigmatiche, «rappresentative della magnifica successione di stili dall'antichità attraverso il Rinascimento fino alla contemporanea arte digitale... Oggi il mercato dell'arte è mercenario fino alla nausea. L'arte è trattata semplicemente come un investimento finanziario per acquirenti multimilionari, che pensano alle opere come a prodotti morti da comprare e accumulare». Il verdetto è impietoso: «L'avanguardia è morta», insieme «al cinico e beffardo gioco postmoderno o poststrutturalista... Il mio metodo di analisi è completamente all'opposto. Io credo ancora nell'entusiasmo, nella spiritualità, nella visione, nell'estasi!».
Paglia riesce a essere eretica anche quando si dichiara esplicitamente atea, prendendosela intanto con «il mondo dell'arte contemporanea, diventato angusto e parrocchiale. Benché io sia atea, non posso non notare che l'umanesimo laico si sia infilato in un vicolo cieco: finché gli artisti non recupereranno la propria spiritualità, l'arte non rivivrà. Per me l'arte è una religione, una filosofia che ho appreso da Baudelaire e Oscar Wilde. Ma nel mondo artistico "religione" suona come una parola blasfema: questo è il motivo per cui gran parte dell'arte contemporanea è vuota e insensata». Anche da qui la necessità di scrivere un articolato studio d'estetica.
Lei dice che «dobbiamo reimparare a guardare»: cosa significa? A chi spetta il compito di educare lo sguardo? «Tutto il mondo oggi è aggressivamente preso d'assalto da immagini intermittenti e messaggi intrusivi sul web o sul proprio smartphone. Io adoro internet, ma siamo di fronte a una grave crisi culturale: le giovani generazioni sono invase e imprigionate da questo eccesso, da questa proliferazione di immagini, e stanno perdendo la capacità di pensare, ragionare e giudicare. Il mio libro è nato proprio per rallentare, focalizzare e disciplinare lo sguardo, rieducare l'occhio attraverso la contemplazione dell'arte: bella, equilibrata e complessa».
Perché allora attribuisce così tanta importanza al Pop? «Il Pop è meraviglioso: la malinconica Rihanna strizzata nel suo vestito all'ultima moda; la generosa Adele con la sua voce potente e lirica; Eminem l'eremita, con il suo rap feroce e violento... Ma non Lady Gaga, finta e ladra, capace solo di esibire pretenziose pose per i paparazzi. È soltanto una spudorata imitazione di Madonna: che vergogna!», commenta in italiano.
Fili rossi del saggio, ma pure dell'intera carriera accademica di Paglia, sono le donne e l'eros, dalla Venere allo specchio di Tiziano all'"asessuato" Mondrian, dall'omoerotismo greco al bordello più famoso di sempre, dove le Demoiselles d'Avignon posano senza «humour né piacere. Al contrario, sembra di essere finiti in una stanza della tortura».
Come vede le donne oggi? Cosa pensa del femminismo contemporaneo e di movimenti come le Femen o le Pussy Riot? «Sono una femminista delle "pari opportunità", cioè chiedo che vengano rimosse tutte le barriere che impediscono alle donne di avanzare nel mondo del lavoro e della politica. Tuttavia, sono contraria a protezioni speciali o alle "quote rosa": le donne devono imparare a competere sullo stesso terreno degli uomini. Attualmente il movimento femminista è caotico e confuso, soprattutto in materia di sesso. Io sono stata una delle più accanite sostenitrici del femminismo "pro sesso": ho difeso la pornografia, gli strip club, l'erotismo hollywoodiano e l'industria della moda. Però trovo che le proteste a seno nudo delle Femen siano incoerenti e ridicole, e penso che l'incursione delle Pussy Riot in una chiesa sia stata infantile e deleteria per il femminismo. La fede e i luoghi sacri degli altri devono essere rispettati. Il femminismo dovrebbe avere come obiettivo l'espansione dei diritti civili delle donne, non essere un atto di vandalismo o una provocazione puerile».
Arte e potere, politico o religioso che sia, sono da sempre indissolubilmente intrecciati: in che modo? Come è cambiato il rapporto tra arte e politica? «Oggi solo le grandi multinazionali, più che la Chiesa o lo Stato, finanziano i progetti architettonici, e secondo me i fondi pubblici non dovrebbero essere destinati ai singoli artisti, perché sarebbe come corromperli, ma agli spazi d'arte della comunità, alle scuole, ai musei».
Ma c'è ancora spazio per la contestazione? L'artista può ancora considerarsi un rivoluzionario, un idealista, un fomentatore di visioni e spacciatore di utopie? «Il Romanticismo, più di due secoli fa, inventò l'avanguardia, e l'arte "passò all'opposizione", contro la politica, la religione o l'establishment culturale. Tuttavia, come ho già detto, quella stagione è finita: l'avanguardia è stata uccisa dal mio eroe Andy Warhol. Oggi il vero luogo del dissenso politico è la rete con i suoi blog, molto più importanti e incisivi di ogni qualsivoglia forma d'arte».

Il Sole Domenica 23.3.14
Sotto il cielo di Galileo
A 45o anni dalla nascita tornano le splendide lettere copernicane: assai utili oggi per rimarginare vecchie, inutili, ferite
di Gianfranco Ravasi s. j.


«È l'intenzione dello Spirito Santo d'insegnarci come si vadia al cielo e non come vadia il cielo». Chissà quante volte i nostri lettori hanno sentito questa battuta attribuita a Galileo. In realtà, come lo stesso scienziato confessa, si tratta di una citazione: «Io direi quello che intesi da persona ecclesiastica costituita in eminentissimo grado». L'«eminentissimo» in questione era il cardinale Cesare Baronio, nato a Sora nel 1538, legato a s. Filippo Neri, famoso storico della Chiesa, cardinale «bibliotecario di Santa Romana Chiesa», che corse il rischio di essere eletto papa nei due conclavi del 1605, quasi alla soglia della sua morte avvenuta nel 1607 a Roma (per la cronaca divennero, invece, pontefici Leone XI, Alessandro de' Medici, per un paio di settimane, e poi Paolo V, Camillo Borghese, che regnò fino al 1621).
Ora, questa citazione è presente nella celebre lettera che Galileo indirizzò a Cristina, figlia del duca di Lorena Carlo III e moglie del granduca di Toscana Ferdinando I de' Medici, appassionata di studi astrofisici. La scadenza dei 450 anni dalla nascita di colui che, con Newton, è considerato il padre della scienza moderna, ha suggerito la necessità (15 febbraio 1564) di una nuova proposta di questo scritto particolarmente significativo dal punto di vista epistemologico per il rapporto tra fede e scienza. La lettera, molto ampia quasi da renderla simile a un trattatello, datata 1615, fu preceduta da un analogo testo, più breve, che Galileo nel 1613 destinò all'abate del monastero benedettino di Pisa Benedetto Castelli, e fu accompagnata nello stesso anno 1615 da due missive più succinte rivolte a un prelato romano, mons. Piero Dini, di taglio più auto-difensivo.
La nuova edizione delle quattro lettere "copernicane" (dato che il fisico pisano propugna la concezione eliocentrica formulata dal canonico e astronomo polacco Nikolaj Kopernik, morto nel 1543) è accompagnata dalla nota che il filosofo Giovanni Gentile elaborò per tracciare un profilo generale galileiano. L'atto che una ventina d'anni dopo, il mercoledì 22 giugno 1633, si consumò con l'abiura dello scienziato di fronte al tribunale dell'Inquisizione, si trasformerà in una vera e propria icona di un conflitto ritenuto insanabile e di una presunta incompatibilità tra scienza e religione. Lo stesso Giovanni Paolo II in un discorso alla Pontificia Accademia delle Scienze del 31 ottobre 1992 riconoscerà che «il caso Galileo divenne il simbolo del preteso rifiuto, da parte della Chiesa, del progresso scientifico, oppure dell'oscurantismo "dogmatico" opposto alla libera ricerca della verità».
Togliere questa spina dal fianco della Chiesa è ancor oggi arduo, anche perché essa si è ingrossata con la sua forza infettiva attraverso la dimensione simbolica e fin mitica che il caso assunse nei secoli successivi. Basti solo pensare al dramma Vita di Galileo in 15 scene che Brecht ripetutamente rielaborò mutando di volta in volta il ritratto del protagonista: da combattente indomito della libertà intellettuale (versione del 1938-39) a difensore del proprio quieto vivere (resa del 1945-46), fino alla dura accusa di essere il capostipite degli scienziati atomici servi del potere politico (testo del 1953-55). Ci sono voluti quasi quattro secoli (e un numero notevole di grandi scienziati ecclesiastici) a riportare la questione del rapporto tra scienza e fede nei suoi termini reali e a riproporre il riconoscimento della legittimità di "magisteri non sovrapponibili". È questa la formula usata dallo scienziato ebreo agnostico americano Stephen Gould (non overlapping magisteria), per designare la necessaria molteplicità degli approcci conoscitivi alla realtà: da quello dedicato alla "scena", al "fenomeno" fisico, appannaggio del metodo scientifico, a quello teso a scoprire il "fondamento" metafisico, compito della filosofia, della teologia, dell'arte.
Ebbene, questo era proprio il succo ermeneutico delle Lettere galileiane. Egli, in verità, non era allora in grado di offrire una prova inconfutabile del movimento della Terra, prova che arrivò solo nel 1740 con la scoperta dell'aberrazione della luce stellare da parte dell'astronomo inglese James Bradley. In questo senso si può anche comprendere l'atteggiamento critico dei suoi giudici di fronte a quella che allora era una mera ipotesi. L'elemento decisivo offerto da Galileo era, invece, di ordine metodologico: nella scienza e nella teologia due sono gli statuti epistemologici in campo. Essi non possono essere confusi, né l'uno può prevaricare sull'altro, dato che attengono a prospettive diverse, anche se considerano lo stesso oggetto. È ciò che appare in modo nitido in questi scritti per cui egli in realtà sbaragliò i suoi contestatori teologi proprio sul loro terreno più che su quello scientifico.
Tanto per citare un asserto sintetico rispetto a quelli più articolati presenti in questi scritti galileiani, bastino queste righe della lettera all'abate Castelli: «Io crederei che l'autorità delle Sacre Lettere avesse avuto solamente la mira a persuader a gli uomini quegli articoli e proposizioni, che, sendo necessarie per la salute loro e superando ogni umano discorso, non potevano per altra scienza né per altro mezzo farcisi credibili, che per bocca dell'istesso Spirito Santo». Questo per quanto riguardava lo statuto epistemologico della teologia. L'astronomo pisano continuava, poi, delineando in parallelo il metodo sperimentale proprio delle scienze fisiche.
Ora, quando il Concilio Vaticano II vorrà formulare – nel testo dedicato alla S. Scrittura, la Dei Verbum – la verità propria che la Bibbia vuole offrire, sia pure esprimendola in categorie legate al loro mondo storico-scientifico, affermerà, proprio nella linea dell'asserto galileiano, che «i libri della S. Scrittura insegnano con certezza, fedelmente e senza errore la verità che Dio, a causa della nostra salvezza, volle che fosse consegnata nelle Sacre Lettere» (n. 11). Perciò, non è possibile condannare come contraria alla fede una questione di ordine fisico, pena il travalicamento di campo. Allargando il discorso, Galileo sosteneva, comunque, che non era affatto legittimo condannare teologicamente una proposizione, se prima non fosse confutata razionalmente (diremmo "falsificata" per usare un termine popperiano).
In questo senso è curiosa la postilla manoscritta, venata di ironia e consapevole però dei limiti della stessa scienza, che Galileo aggiungerà all'esemplare del Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo (1632) ora custodito nella biblioteca del Seminario di Padova: «Avvertite, teologi, che volendo fare materia di fede le proposizioni attenenti al moto ed alla quiete del Sole e della Terra, vi esponete a pericolo di dover forse col tempo condennar d'eresia quelli che asserissero la Terra star ferma e muoversi di luogo il Sole: col tempo, dico, quando sensatamente o necessariamente si fusse dimostrato la Terra muoversi e 'l Sole star fermo».

Galileo Galilei, Lettera a Cristina  di Lorena sui rapporti tra l'autorità della Scrittura e la libertà della Scienza; in appendice le Lettere a padre Castelli e a monsignor Dini con una nota di Giovanni Gentile, La Vita Felice, Milano, pagg. 108, € 10,50

Il Sole Domenica 23.3.14
Meraviglie della fisica
La felice fatica di capire il mondo
Le tracce di onde gravitazionali captate oggi, intuite da Einstein 98 anni fa, confermano che la scienza è un'attività visionaria. Carlo Rovelli lo dimostra in maniera esemplare
di Franco Lorenzoni


Questa settimana la fisica ci ha regalato due grandi emozioni. La prima riguarda la profondità dello spaziotempo, in fondo a cui sono state scoperte tracce di segnali più antichi di qualunque cosa ascoltata fin'ora, la seconda la profondità della mente umana. È nella mente di Albert Einstein, infatti, che quasi un secolo fa sorse la "visione" di quelle onde gravitazionali che ci raccontano qualcosa sull'origine dell'Universo. Ci sono poi voluti 98 anni di calcoli ed esperimenti, condotti da centinaia di scienziati di tutto il mondo, per potere verificare la verdicità di quella visione, che peraltro non è ancora certa.
A chi desiderasse entrare dentro la metafora di quei primi vagiti dell'Universo, captati da un gruppo di scienziati nel cielo del Polo Sud, consiglio di leggere l'ultimo libro di Carlo Rovelli, fisico teorico che i lettori di queste pagine conoscono bene. La realtà non è come ci appare delinea infatti un'ambiziosa sintesi dell'evoluzione della fisica. E ciò che rende appassionante la lettura è la fatica, richiesta al lettore non esperto, di entrare in un mondo che si presenta diverso da come lo pensiamo abitualmente.
È un libro da regalare subito a un diciottenne che si domandi cosa studiare e da consigliare vivamente a chi insegna, non solo materie scientifiche. Tratta infatti di un tema cruciale: lo sforzo necessario per tentare di capire il mondo e la bellezza di questo sforzo.
Non è facile, infatti, immaginare il Cosmo come un mollusco che si curva di continuo visto da dentro (la metafora è di Einstein). Non è facile intendere e accettare che l'Universo sia finito pur non avendo confini e scoprire che, se osiamo viaggiare attorno a un buco nero e riusciamo a non caderci dentro, al ritorno ci troveremo in un futuro lontano. Ancora più difficile è arrivare alla conclusione a cui più tiene Rovelli, che sostiene che il tempo non esista, o meglio esista solo nel nostro attraversare il mondo, non nel minimo tessuto granulare che compone l'Universo, né nell'insieme dei cento miliardi di galassie che oggi riusciamo a vedere e a contare.
L'invito è a «ripensare la grammatica della nostra comprensione del mondo, rivederla a fondo. Come era successo con Anassimandro, che aveva compreso come la Terra voli nello spazio … o con Einstein, che aveva capito come lo spaziotempo si curvi e si schiacci e che il tempo passi diversamente in luoghi diversi». Per introdurci a questo ripensamento radicale Rovelli parte da lontano, dal viaggio che Leucippo fece dalla libera Mileto di Talete e Anassimandro fino a Abdera, dove eresse, con il suo allievo Democrito, «la vasta catterdale dell'atomismo antico».
Parte da lì perché è su quelle coste che nacque un modo di cercare risposte «nella natura stessa delle cose», accantonando miti, spiriti e dei, che Rovelli aveva già narrato in un altro bel libro dedicato alla rivoluzione di Anassimandro: Che cos'è la Scienza (Mondadori Università, 2012, pagg. 224, €. 18). Ed è in quell'aurora della scienza che che si scopre «uno stile di pensiero nuovo, dove l'allievo non è più vincolato a rispettare e a condividere le idee del Maestro».
Attraversando i secoli da Archimede a Galileo, da Copernico a Newton, a Faraday a Dirac, Rovelli cerca di avvicinare il lettore all'idea che si è fatto del suo lavoro. «Alcuni filosofi della scienza riducono la scienza alle sue previsioni numeriche. Secondo me non hanno capito nulla perché confondono gli strumenti con l'obbiettivo. … L'obiettivo della ricerca scientifica non è fare previsioni: è comprendere come funziona il mondo. Prima di essere tecnica, la scienza è visionaria. Le predizioni verificabili sono l'arma affilata che ci permette di dire quando abbiamo capito male». «Teorie come la relatività generale e la mecanica quantistica, che inizialmente lasciavano molti perplessi, si sono conquistate credibilità via via che tutte le loro previsioni, anche le più inaspettate, e apparentemente strampalate, venivano confermate da esperimenti e osservazioni».
Presentare la scienza come attività visionaria è cosa a cui Rovelli tiene molto e le pagine più intriganti sono forse quelle in cui affiora il complesso legame tra le visioni della fisica e le architetture cristalline della matematica. Esemplare a questo proposito il racconto dell'incontro tra Faraday e Maxwell. Il primo «la fisica la vede con gli occhi della mente, e con gli occhi della mente crea mondi». Ma il giovane «poveraccio londinese senza educazione formale, che diventa il più grande sperimentatore e il più grande visionario della fisica dell'Ottocento», ha bisogno delle equazioni del ricco aristocratico scozzese Maxwell, uno dei più grandi matematici del secolo. «Pur separati da un'abissale distanza di stile intellettuale, oltre che di origine sociale, riusciranno a intendersi e, insieme, unendo due forme di genio, apriranno la strada alla fisica moderna».
Leggendo queste pagine, che ci portano così vicino al senso più profondo di due discipline che si studiano a scuola, mi domando a quanti ragazzi sia data la possibilità di cogliere la bellezza di questi linguaggi, creati dall'ingegno umano per intendere la natura. Se gli iscritti alle facoltà scientifiche si sono drasticamente ridotti negli ultimi decenni non sarà anche perché troppo raramente la scuola riesce a fare assaporare il gusto dello scoprire, intrecciando l'insegnamento della fisica e della matematica con la loro appassionante evoluzione nella storia? Solo se si sente la scienza come cosa viva, come ricerca aperta che continua, si può trovare il senso che giustifichi lo sforzo a cimentarsi con linguaggi e procedimenti tanto difficili.
Carlo Rovelli ha passato la vita cercando di comprendere i segreti dello spazio quantistico e ci confida quanto segua «con attenzione, inquietudine e speranza l'affinarsi continuo delle nostre capacità di osservazione, misura e calcolo», e aspetti «il momento in cui la Natura ci dirà se avevamo ragione, o no».
Ma mentre attende e continua a ricercare, si interroga sulle tante connessioni di cui hanno bisogno gli scienziati per immaginare altri modi di vedere il mondo. «Non so se il giovane Einstein avesse incontrato il Paradiso durante i suoi bighellonaggi intellettuali italiani, e se la fantasia sfrenata del nostro sommo poeta abbia avuto una influenza diretta sulla sua intuizione che l'universo possa essere finito e senza bordo. Ma che ci sia stata o no influenza diretta credo che questo esempio mostri come la grande Scienza e la grande Poesia siano entrambe similmente visionarie, e talvolta possano arrivare alle stesse intuizioni. La nostra cultura, che tiene Scienza e Poesia separate, è sciocca, perché si rende miope alla complessità e bellezza del mondo, rivelate da entrambe».
«Certo, la tre-sfera di Dante è solo una vaga intuizione dentro a un sogno. La tre-sfera di Einstein prende forma matematica e Einstein la inserisce nelle sue equazioni. L'effetto è molto diverso. Dante arriva a commuoverci profondamente, toccando la sorgente delle nostre emozioni. Einstein apre una strada che ci porta alla sorgente del nostro Universo. Ma sono l'uno e l'altro tra i voli più belli e significativi che sa fare il pensiero».
«Ci vuole un percorso di apprendistato per comprendere la matematica di Riemann e impadronirsi della tecnica con la quale leggere completamente l'equazione di Einstein. Ci vogliono impegno e fatica, ma meno di quelli necessari per arrivare a percepire tutta la rarefatta bellezza di uno degli ultimi quartetti di Beethoven. In un caso e nell'altro, lo sforzo, una volta fatto, vale la pena: scienza e arte ci insegnano qualcosa di nuovo sul mondo dandoci occhi nuovi per guardarlo, per capirne lo spessore, la profondità, la bellezza. La grande fisica, come la grande musica: parla direttamnente al cuore e apre gli occhi alla bellezza, alla profondità, alla semplicità della natura delle cose».
In piccole note al margine Rovelli ci informa che i numerosi apporti di scienziati italiani alle scoperte della fisica più avanzata provengono da ricerche svolte in università straniere. È una constatazione triste, che ci dice quanto sia necessario e urgente investire in Italia, per riconnettere e dare respiro alla relazione tra educazione, cultura e ricerca.
Il libro di Carlo Rovelli è tante cose. Si può leggere come romanzo di formazione di uno scienziato, come lettera a un giovane che voglia entrare nel mondo della scienza, come storia della litigiosa ed efficace convivenza di matematica e fisica, come cronaca colta della singolar tenzone tra looppisti e stringhisti, giocata rincorrendo l'ultima particella, o come un inno alla capacità visionaria di alcuni uomini che hanno cambiato alla radice il modo di vedere il mondo, allargando sempre più i nostri orizzonti.
Nella prima pagina l'autore confessa di amare la fisica perché apre finestre e si allontana dai tanti saperi che girano e rigirano sempre e solo intorno all'uomo. Forse è anche per questo che elude, nella sua narrazione, le interrogazioni che le applicazioni della fisica hanno posto e pongono agli scienziati. Cioè il rapporto tra scienza e potere e, più in particolare, tra ricerca fisica, armamenti e controllo dell'energia e del territorio. Ma per questo ci vorrebbe un altro libro, cha aspettiamo.

Carlo Rovelli, La realtà non è come ci appare, Raffaello Cortina, Milano, pagg. 242, € 22,00

Il Sole 16.3.14
Big bang o forza gravitazionale?
Atteso ad Harvard l'annuncio di una scoperta che potrebbe rivoluzionare la fisica
di Leopoldo Benacchio

qui

Il Sole Domenica 23.3.14
L'eccidio di Cefalonia
Hermann Meyer ricostruisce la strage della Divisione Acqui:
gli italiani combatterono contro la Wehrmacht ad armi impari e furono sterminati
di Roberto Coaloa


La tragedia a Cefalonia della Divisione Acqui (abbandonata – da uno Stato e da un re latitanti – in un'isola del Mediterraneo, dopo l'armistizio nel settembre 1943), che ha ispirato romanzi e opere cinematografiche, è stata studiata con metodo solo in tempi recenti. Tuttavia, i particolari di quella carneficina erano rimasti oscuri, e solo oggi, grazie al volume di Hermann Frank Meyer (1940-2009), Il massacro di Cefalonia, l'intera vicenda è finalmente svelata in una grande e completa ricostruzione, arricchita da un inedito apparato iconografico. Migliaia di soldati e ufficiali italiani combatterono contro la Wehrmacht ad armi impari, e furono sterminati, in maniera bestiale. Per Meyer, nel settembre 1943, erano 10.700 i soldati del regio esercito. Un dato sicuro: «Il numero degli uomini che vennero effettivamente trasportati sul continente greco da Cefalonia fu di 6.227»; più altri 300 trasportati con battelli minori. Restavano a Cefalonia 1.286 prigionieri, tra cui un cappellano militare, don Luigi Ghilardini, come lavoratori coatti, 300 nelle compagnie lavoratori, e 200 passati con la resistenza greca. Risultato: «Gli uomini della Acqui che morirono a Cefalonia furono all'incirca 2.500».
Il volume di Meyer, inoltre, cerca di comprendere quelle stragi efferate della Seconda guerra mondiale, indicando le corrispondenze di quella violenza con la Grande Guerra. Il 1914, infatti, non solo segnò, come si dice spesso, la fine di un'epoca. Il mondo non fu più lo stesso: un senso di crisi morale e civile sostituì l'ottocentesca fiducia di progresso e incivilimento. Il conflitto del 1914-1918 innescò un lungo periodo di violenze in Europa. Questa crisi ebbe il suo apice nella Seconda guerra mondiale.
Gli uomini della Wehrmacht, protagonisti dei crimini di Cefalonia, appartenevano alla Prima divisione tedesca da montagna, che era legata all'esperienza della Grande Guerra. Il corpo alpino combatté sulle Dolomiti, in Serbia, in Romania, in Macedonia e, nel 1917, sul fronte dell'Isonzo, operando agli ordini del generale Konrad Krafft von Dellmensingen. Il generale tedesco, considerato il "padre fondatore" delle truppe bavaresi da montagna, era un razzista, un antisemita, tanto da influenzare le successive generazioni di soldati della sua divisione, che nella Seconda guerra mondiale era formata da bavaresi e austriaci. Gli uomini della Prima divisione tedesca da montagna, provavano, quindi, un odio atavico e profondo per quella che loro consideravano "la infida razza italiana". Nel 1915 il Regno d'Italia aveva tradito gli alleati della Triplice. Caporetto era stata una giusta punizione, nella quale il generale Dellmensingen ebbe un ruolo di primo piano nell'offensiva tedesca e austro-ungarica, quando si fece uso di proiettili caricati con nuovi aggressivi chimici. Dopo il fatale 8 settembre 1943, il nuovamente traditore soldato italiano doveva essere annientato.
Meyer, infine, fa un'accusa alla memoria storica "di parte": oggi in Germania ci sono associazioni di reduci, che ricordano la gloria della Prima divisione da montagna, ma dimenticano tutto il resto: la disumanità e i crimini commessi, oltre ogni esigenza o regole di guerra. Non sono soltanto problemi della storia tedesca, anche i delitti commessi dalle truppe italiane sono stati rimossi (come quelli della divisione Modena). Meyer ce li ricorda tutti, in un volume che rimane esemplare per metodo, scrittura e onestà intellettuale.

Hermann Frank Meyer, Il massacro di Cefalonia e gli altri crimini di guerra della Prima divisione da montagna tedesca, Prefazione di Giorgio Rochat (traduzione di Enzo Morandi, a cura di Manfred H. Teupen), Gaspari, Udine, pagg. 496, € 29,00

Il Sole Domenica 23.3.14
Guerre asimmetriche
L'era delle armi senza corpi
Chamayou denuncia l'uso dei droni, che cancella la base del diritto internazionale: la distinzione tra militari e civili
di Sergio Luzzatto


I droni entrano sulla scena pubblica americana in esatta coincidenza con l'uscita degli Stati Uniti dal disastro militare del Vietnam. Il 26 febbraio 1973, quando l'amministrazione Nixon ha firmato da un mese gli accordi di pace e va completando il ritiro delle forze armate dalla penisola indocinese, in un'audizione parlamentare i vertici dell'Air Force riconoscono di avere segretamente impiegato, nel corso della guerra, i cosiddetti Uav: gli Unmanned Aerial Vehicles che finiranno per essere designati come droni. Non erano ancora mezzi da combattimento. Erano aerei senza pilota non armati, mezzi di sorveglianza. Ma proprio la lezione dolorosamente imparata attraverso la guerra del Vietnam – la crescente intolleranza dell'opinione pubblica verso l'idea che in una guerra muoiano anche i "nostri" – faceva dei droni, nei programmi statunitensi di sviluppo militare, l'arma letale del futuro.
Senza attendere le dichiarazioni ufficiali dell'Air Force, fin dal gennaio di quel 1973 un bimestrale dell'intellighenzia americana di estrema sinistra, «Science for the People», elegge i droni a protagonisti della guerra a distanza prossima avvenire in un articolo intitolato Toys against the People, or Remote Warfare. Articolo di informazione e insieme articolo di denuncia, che la rivista presenta allora come una variazione orwelliana («ci stiamo forse avvicinando al 1984?»), ma che noi siamo costretti oggi a rileggere come un'anticipazione precisa del nostro presente oltreché del nostro passato prossimo: come un quadro fedele dell'evoluzione cui l'arte della guerra è andata incontro durante l'ultimo quarantennio, e in particolare dopo lo spartiacque rappresentato dall'11 settembre 2001.
La guerra del futuro – spiegavano gli anonimi autori militanti di Giocattoli contro il popolo – sarebbe stata una guerra aerea pilotata a distanza. Rispetto alla guerra tradizionale avrebbe consentito notevoli risparmi economici, ma soprattutto avrebbe garantito un decisivo vantaggio politico. Avrebbe zittito qualunque opposizione interna, perché con le imprese dei droni, quand'anche fallite, non ci sarebbe stato più neppure un soldato americano ucciso in combattimento o fatto prigioniero di guerra: «I giocattoli non hanno madri o mogli per protestare contro la loro perdita».
Il problema della guerra aerea pilotata a distanza sarebbe stato, piuttosto, il venir meno del concetto stesso di zona di guerra: perché «il mondo intero costituisce un nemico potenziale delle forze armate americane». Cioè il problema sarebbe stato, in fondo, il venir meno della differenza tra ricognizione e combattimento. Dunque, in ultima istanza, il venir meno della differenza tra pace e guerra. Al limite, il venir meno della differenza tra illusione e realtà. «Ogni mattina, dopo avere abbracciato la moglie e avere penato nel traffico delle ore di punta, i guerrieri da telecomando si siederanno davanti ai loro schermi al ministero della Pace», pronti a schiacciare un bottone per colpire il nemico dovunque si trovi.
Non era fantascienza quella immaginata dal collettivo editoriale di «Science for the People»: era l'annuncio delle modalità secondo cui la cosiddetta guerra al terrorismo sarebbe stata combattuta nell'età di George W. Bush e soprattutto di Barack Obama, mediante funzionari militari o civili capaci di colpire in Pakistan o in Somalia da un ufficio climatizzato dell'Arizona o del Nevada. E anche per questo – per l'inquietante sua portata profetica – quell'articolo americano del 1973 ha funzione di epilogo nell'ultimo libro di un autore tra i più originali e controversi della scena intellettuale francese, lo storico-filosofo Grégoire Chamayou. Pubblicato oltralpe lo scorso mese di settembre, Teoria del drone è stato prontamente tradotto in Italia per i tipi di DeriveApprodi.
Intellettuale militante di sinistra, già in un suo libro del 2010 Chamayou si era fatto studioso delle Cacce all'uomo, dalla Grecia di Aristotele alla Francia di Sarkozy, attraverso la Spagna di Sepúlveda e l'America del Ku Klux Klan. Ora, Chamayou si concentra sui droni come sulla forma storica di un diritto di conquista trasformato in «diritto di inseguimento». Dietro la riduzione del nemico a preda, individua un «terrorismo di Stato» che trasforma la guerra tradizionale in campagna senza confini di esecuzioni extragiudiziarie. Ragiona della nuova forma di sovranità esercitata con i droni, una sovranità non più orizzontale ma verticale, non più territoriale ma aerospaziale. Denuncia il rischio che la nuova guerra combattuta a distanza, e a prescindere dalle frontiere statuali, finisca per distruggere le basi stesse del diritto internazionale.
Chamayou spinge la sua Teoria del drone fino a impostare un confronto fra i droni e i kamikaze: «Armi senza corpo» gli uni, «corpi senza armi» gli altri. E Chamayou suggerisce che i droni rappresentino qualcosa come il capitale dei ricchi del Nord del mondo, scatenato – una volta di più nella storia – contro il corpo dei poveri del Sud. La guerra totalmente asimmetrica dei droni come la forma contemporanea e suprema delle vecchie guerre coloniali, ma una forma tanto più aberrante in quanto, avendo cancellato ogni differenza tra ricognizione e combattimento, cancella il fondamento sul quale ha provato a reggersi, dal Dopoguerra in qua, il diritto internazionale umanitario: la distinzione tra civili e militari. I droni come lo strumento maligno di una «necroetica» imperialista, quella degli americani (e degli israeliani), che rimpiazza i più sacrosanti princìpi del diritto internazionale con uno squallido «nazionalismo dell'autopreservazione vitale».
Culturalmente solido e stilisticamente brillante, Chamayou ha il difetto – se così si può dire – di scrivere (e di ragionare) da militante. Il suo è dichiaratamente un libro politico, redatto per offrire «strumenti discorsivi» a quanti si oppongono all'imperialismo capitalista degli Stati Uniti d'America, di cui i droni rappresenterebbero la più compiuta (e la più infame) espressione militare. Su queste basi, Teoria del drone va letto nei suoi limiti oltreché nei suoi meriti. È un libro informativo e stimolante, ma anche capzioso e deludente.
È un libro capzioso quando riduce l'impiego dei droni alle sole forze armate degli Stati Uniti e di Israele, laddove sono oggi una cinquantina i Paesi del mondo, al Sud come al Nord, che ne fanno correntemente un utilizzo militare. È capzioso quando riduce il drone alla sua sola versione da combattimento, laddove la grande maggioranza degli aerei senza pilota sono droni di sorveglianza. È capzioso quando riduce la logica del drone alla sola etica del salvare le "nostre" vite sacrificando le "loro": laddove risulta dimostrato come in una varietà di contesti, dall'Afghanistan all'Iraq e dalla Libia al Mali, le ricognizioni dei droni di sorveglianza abbiano contribuito e contribuiscano a ridurre gli effetti collaterali dell'impiego dei droni da combattimento, a ridurre cioè (fuor d'eufemismo) i casi di morte di vittime civili per effetto di attacchi contro bersagli militari.
Teoria del drone diventa un libro deludente quando il suo proposito militante spinge l'autore oltre la soglia della disinformazione. Fino a sottacere il fatto che i droni da combattimento, se impiegati come alternative a un'invasione militare, diminuiscono significativamente sia il tasso generale di violenza sia il numero di civili uccisi. E fino a ignorare totalmente la natura dei bersagli umani ai quali i droni americani danno la caccia: non sfortunati corpi senza armi, ma terroristi talebani o qaedisti armati fino ai denti.

Grégoire Chamayou, Teoria del drone. Princìpi filosofici del diritto di uccidere, traduzione di Marcello Tarì, DeriveApprodi, Roma, pagg. 224, € 17,00