giovedì 27 marzo 2014

l’Unità 27.3.14
I dipendenti sono più ricchi dei padroni
I dati 2012 del Tesoro: i padroni guadagnano per il fisco in media 17 mila euro, i dipendenti 20 mila
Il 5% dei contribuenti vale quasi un terzo del totale
Il 50% si ferma sotto i 15.654 euro l’anno: poco più di mille euro al mese
di Bianca Di Giovanni


Siamo alle solite: gli imprenditori sono più poveri dei dipendenti. Dai dati del dipartimento delle Finanze del ministero dell’Economia del 2012 Il reddito medio dei primi è pari a 17.470 euro, quello dei secondi a 20.280. Il reddito complessivo dichiarato è stato di 800 miliardi, quanto la spesa annua dello Stato. Ma le fette di questa torta non sono affatto tutte uguali. La metà dei 41,4 milioni di contribuenti italiani, si ritrova sotto i 15mila e 600 euro annui. Vuol dire che 20 milioni di persone vivono con poco più di mille euro al mese.
Èuna torta gigantesca, quella dei redditi delle famiglie italiane. Nel 2012 il reddito complessivo dichiarato è stato di 800 miliardi, quanto la spesa annua dello Stato. Ma le fette di questa torta non sono affatto tutte uguali. La metà dei 41,4 milioni di contribuenti italiani, si ritrova sotto i 15mila e 600 euro annui. Vuol dire che 20 milioni di persone vivono con poco più di mille euro al mese.
Così il dipartimento delle Finanze del ministero dell’Economia «fotografa » la povertà delle famiglie in tempo di crisi: con poche cifre. La pubblicazione delle statistiche sulle dichiarazioni dei redditi delle persone fisiche (Irpef) si trasforma subito in un manifesto delle diseguaglianze. Un modello che non cambia mai, se non in peggio. Quello relativo al 2012 divulgato ieri ha il valore della testimonianza sul peso della doppia recessione in una società diseguale: redditi polarizzati e meno occupati. Rispetto al 2008, ultimo anno prima della crisi, ci sono 350mila lavoratori dipendenti in meno, 190mila pensionati in meno (anche per effetto delle diverse riforme degli ultimi anni), 32mila imprenditori in meno e 138mila soggetti in meno che dichiarano reddito da partecipazione. L’unico segno più è per i lavoratori autonomi (+128mila), spesso nuovi disoccupati che tentano la strada del «fai da te».
Ai 20 milioni di «nuovi poveri» con poco più di mille euro al mese, fanno da contraltare i due milioni (il 5% della platea) che detengono circa il 30% del totale dichiarato, per l’esattezza il 22,7%. In termini assoluti significa che questi contribuenti possono disporre di circa 250 miliardi di reddito annuo. Gli altri 550 miliardi se li dividono (non in parti uguali) 39 milioni di persone. Come si è detto, la metà dei 41 milioni è sotto i 15.600 euro. Il 90% invece non supera i 35.800 euro. Anche nel 2012 si conferma un dato più volte emerso nelle statistiche fiscali: gli imprenditori sono più poveri dei dipendenti. Il reddito medio dei primi è pari a 17.470 euro, quello dei secondi a 20.280. Il comunicato specifica che «è opportuno ribadire che per “imprenditori” nelle dichiarazioni Irpef si intendono i titolari di ditte individuali, escludendo quindi chi esercita attività economica in forma societaria». Inoltre il dipartimento informa che «la definizione di imprenditore non può essere assunta come sinonimo di datore di lavoro, in quanto tra gli imprenditori sono compresi coloro che non hanno personale alle loro dipendenze». Insomma, molti distinguo per descrivere un dato che indica una realtà di fondo: chi non ha il prelievo alla fonte dichiara meno. Gli effetti sul reddito dichiarato si vedono. Dal 2008 al 2012 il reddito medio degli autonomi risulta calato del 14,3%, quello degli imprenditori dell’11, mentre per i dipendenti la diminuzione si ferma al 4,6%, e per i pensionati si registra un aumento medio del 4,6%.
LA CASA
Il rapporto presenta anche parecchi dati sulle rendite immobiliari, una voce molto importante per le famiglie italiane. Nel 2012 sono 113mila i soggetti che hanno dichiarato immobili situati all’estero, per un valore complessivo di 23 miliardi. Salgono a 130mila quelli che hanno attività finanziarie oltre confine, per un ammontare di 28 miliardi di euro. I redditi da fabbricati hanno subito un prelievo pari a 21,2 miliardi. Sono 765mila i soggetti che hanno pagato la cosiddetta cedolare secca sugli affitti.
L’imposta media netta pagata dagli italiani è pari a 4.880 euro, ma è dichiarata da circa 31 milioni di contribuenti. Dieci milioni, infatti, sono esenti dall’Irpef perché rientrano nelle soglie di esenzione o perché la loro imposta si azzera con le detrazioni.
Le distanze tra i redditi ricalcano quelle geografiche. La regione con reddito medio complessivo più elevato è la Lombardia (23.320 euro), seguita dal Lazio (22.100), mentre agli ultimi posti della classifica compare la Calabria con 14.170 euro. A pesare sui bilanci delle famiglie non c’è solo l’erario statale. Nel 2012 l’addizionale regionale ha prodotto un gettito di 11 miliardi, con un lieve aumento rispetto all’anno prima. La metà dell’addizionale regionale totale arriva da 4 Regioni: Lombardia (20%), Lazio (12%), Emilia Romagna (10%) e Campania (8%). L’addizionale comunale totale ammonta invece a 4 miliardi di euro, con un aumento del 20% rispetto all’anno precedente.

il Fatto 27.3.14
I silenzi di Renzi
Vincenzo Visco: “La lotta all’evasione non si fa perché costa 10 milioni di voti”
L’ex ministro Visco spiega con il tornaconto elettorale l’indifferenza del premier su un tema decisivo per lo Stato
“B. e il pd smontarono le mie leggi anti-furbi
Alcuni fanno affidamento su quegli elettori, altri hanno solo paura di perdere l'appoggio di certe fasce sociali, e la democrazia vive di consenso
di Carlo Di Foggia


Dobbiamo ficcarci in testa che l’evasione fiscale è un fenomeno di massa, un partito che vale dieci milioni di voti”. Nel giorno in cui il fisco svela i numeri dei contribuenti italiani, Vincenzo Visco spiega: non c’è solo il divario fortissimo tra ricchi e poveri in quei dati – il 5 per cento ha il 22,7 per cento del reddito complessivo –, ma anche quello tra chi paga le tasse e chi no. Un tema che oggi non è più sull'agenda politica. “C’è grande prudenza. Alcuni fanno affidamento su quei voti, altri hanno solo paura di perdere l'appoggio di certe fasce sociali, e la democrazia vive di consenso”, spiega l'ex ministro delle Finanze nei governi D’Alema e Prodi, che Giulio Tremonti definì “un Dracula succhia sangue”.
IERI L'AGENZIA delle entrate ha diffuso i dati dell'Irpef 2012. La media di quanto dichiarato dagli italiani è 19.750 euro, ma la metà dei contribuenti denuncia meno di 15 mila e solo lo 0,07 più di 300 mila. Vicino alla soglia dei 311 mila euro che il governo vuole imporre come tetto alla retribuzione dei dirigenti pubblici, si collocano poco più di 30 mila persone in tutta Italia. “É un paese povero, con grandi disuguaglianze”, ammette Visco. I lavoratori dipendenti denunciano più degli imprenditori, in media 20 mila euro contro 17 mila, anche se tra questi ultimi - spiegano dal ministero dell’Economia - si contano solo i titolari di ditte individuali, compresi quelli che non hanno personale alle loro dipendenze.
Per Visco, in questa fase è prevalsa l'attenzione per altri temi, “le imprese e i lavoratori colpiti dalla crisi”, ma “per ridurre le tasse ed evitare che a pagarle siano sempre i lavoratori dipendenti, c'è solo una via: redistribuire il carico. Ma per farlo bisogna partire dalla lotta all'evasione”. Un fenomeno che non ha eguali nel resto d'Europa e in Italia vale un buco nei conti dello Stato da 180 miliardi, che nessuno riesce ad intaccare. “I governi di centrosinistra ci hanno provato. Nel 1996 mettemmo in piedi una serie di provvedimenti che portarono nelle casse quattro punti e mezzo di Pil. E Berlusconi scese in piazza con un milione di persone, indicandomi come un dittatore fiscale”. La lotta all’evasione negli ultimi 15 anni, diventa così una tela di Penelope, con Visco a costruire e Tremonti a distruggere . “Ma non c’era solo l’aggressività di Berlusconi, mi scontrai anche con l'incomprensione dei miei. Dicevano: ‘Ma questo che fa? Esagera, così perdiamo i voti’. L’evasione è una questione politica. E se ci riesci ti dicono che sei un vampiro e che hai aumentato le tasse. Poi i condoni fiscali hanno fatto danni enormi”.
ORA, CHE IL GOVERNO annuncia di essere a un passo dalla chiusura dell'accordo con la Svizzera, il tema è il rientro volontario dei capitali detenuti all'estero. “Lo stanno trasformando in un condono, discutono se mettere un’aliquota fissa unica. Fanno audizioni in parlamento, con esperti che spiegano quanto sia complicato da fare, e così i parlamentari, ingenuamente, scelgono di semplificare tutto mettendoci un'aliquota fissa. Ma, come i suoi predecessori, non credo avrà successo”. Renzi, continua l'ex ministro, “ al contrario di alcuni suoi predecessori, non liscia il pelo agli evasori, ma il tema non lo ha ancora trattato. Come non l'hanno fatto Letta e Monti prima di lui. Ci siamo accontentati di spot e operazioni ad effetto, come i blitz a Cortina, o la caccia agli scontrini non stampati”. Una finta lotta? “Era lo spartito che bisognava suonare. Servivano messaggi politici in quel senso, ma nulla più. Bisognerebbe tornare a Cortina a vedere cosa è cambiato”.
Il governo non ha intenzione di intervenire ancora. “Gli strumenti ci sono già tutti - spiega il sottosegretario all’Economia, Enrico Zanetti (Sc)- bisogna solo renderli completamente operativi. Più di anagrafe dei conti correnti e redditometro, che altro si vuole fare?”. Misure che per Visco, non risolvono il problema: “Sono tutte sciocchezze, si tratta di vie lunghe e dispendiose che non portano risultati. Perché non si parla di Equitalia e di come è stata depotenziata? Se uno non paga il mutuo l’Agenzia si può rivalere su tutto il patrimonio, ma se uno evade le tasse, gli strumenti sono molto meno efficaci. E si arriva a situazioni paradossali, come quello che è successo a Milano”. Il riferimento è alla richiesta di assoluzione per gli stilisti Domenico Dolce e Stefano Gabbana. “Per me è incomprensibile, è stata presa una cantonata. La cosa mi sembrava chiarissima. Poi ci sono i tantissimi casi di elusione fiscale”.

“tipi renziani” /1
il Fatto 27.3.14
Farinetti e la falsa mitologia del mangiare “povero” e “slow”
di Enrico Fierro


Su questo giornale Adriano Celentano ha criticato ferocemente Oscar Farinetti, “che appena può rincorre la luce dei riflettori per sprecarsi in parole ipocrite come: cose semplici che vengono dalla campagna e di mangiare sano”. Vito Teti – ordinario di Etnologia all’Università della Calabria – che il cibo, quello che la gente del Mediterraneo ha mangiato per secoli, e che è storia di sofferenze, di vittorie e di sconfitte, di feste e lutti, lo ha studiato e analizzato, la pensa più o meno allo stesso modo. Odia le moderne banalizzazioni delle tradizioni alimentari passate e, ancora di più, la loro strumentalizzazione a fini brutalmente commerciali.
“Il cibo nel passato era sacro e necessario – scrive in Pietre di Pane – Oggi è avvelenato, sprecato, buttato e quindi non è sacro. Ma non si rimpiange un improbabile e improponibile ritorno al passato, se mai la conoscenza della fatica e delle risorse degli uomini del passato, il loro uso parsimonioso e sobrio di cibo e acqua, che oggi vengono strumentalizzati e inseriti in logiche consumistiche e omologanti che nulla hanno a che fare con quello che accadeva... Pasolinianamente, la nostalgia è nostalgia del pane, di una civiltà dove tutto era necessario e nulla era superfluo, mentre oggi, tutto appare eccessivo e tutto diventa superfluo: la vita stessa”.
Teti, in una monumentale Storia del peperoncino (Donzelli) ricorda lo sfogo del muratore calabrese Mastro Minico: “C’era la fame una volta e adesso i ricchi vogliono mangiare alla maniera tradizionale... quando i ricchi si sono innamorati del mangiare dei poveri, i prezzi sono aumentati”. Il cibo diventato show, “contest”, talent televisivo, grande supermarket dei sapori perduti. Teti scarnifica alcuni falsi miti: la lentezza e la dieta mediterranea. Scrive in Maledetto Sud (Einaudi) a proposito dell’elogio dello slow: “La lentezza delle persone in cucina e a tavola era un tutt’uno con un mondo di privazioni, di penuria e di fretta... I contadini mangiavano spesso soltanto pane e coltello, pane asciutto, un cibo insufficiente e consumato spesso velocemente o in grande solitudine sul posto di lavoro... L’elogio del locale non può far dimenticare di quante privazioni esso sia stato segnato e come la sua valorizzazione oggi sia possibile perché sono mutate completamente le condizioni”.
LA DIETA Mediterranea è un’invenzione, una torsione della realtà storica. “La trinità mediterranea (olio, grano e vino) – scrive Teti – resta un’eredità pesante, che caratterizza, però, la cucina dei ricchi e soltanto i sogni dei ceti popolari.
In molte zone interne e montane del Sud i contadini poveri consumano grasso di maiale e erbe mal condite ancora dopo la Seconda guerra mondiale... La pasta, a eccezione di quella fatta in casa nelle feste, ancora a inizio anni 50 rappresenta un genere di lusso. La prima grande contrapposizione alimentare è quella tra ceti poveri ‘mangiatori di pane nero’ e i ricchi ‘mangiatori di pane bianco’. Il Mediterraneo non è mai stato un paradiso offerto gratuitamente al diletto dell’umanità. Qui tutto ha dovuto essere costruito, spesso più faticosamente che altrove. Nelle cattive annate i campagnoli sono scheletrici per la fame. Lo scarso consumo di carne, latte, uova, formaggio, pane di grano e vino era vissuto come dato di inferiorità ed emarginazione”. “Mangiare sano, ci dice il centro commerciale del suo cervello – scrive Celentano riferendosi a Farinetti – è alla base della cultura”. Oggi, scrive il professor Teti, “un’alimentazione legata a particolari disponibilità viene idealizzata quando non esiste più, si è trasformata radicalmente, è diventata altro da quello che era. Come il folklore in genere, l’“autentico folklore alimentare”, una volta estinto, non ha alcuna possibilità di rinascere”.

“tipi renziani” /2
il Fatto 27.3.14
Firenze, indagine della Corte dei Conti su parcheggi e Carrai


UN DANNO ERARIALE da 520 mila euro: è quanto la Corte dei Conti contesta alla società Firenze Parcheggi, controllata dal Comune, per l’anno 2011 quando amministratore era Marco Carrai, nominato direttamente dall’amico sindaco Matteo Renzi. Anno in cui Carrai paga l’affitto dell’appartamento in via degli Alfani 8 dove l’attuale premier ha vissuto per tre anni, prendendo la residenza, fino allo scorso gennaio. I giudici della Corte dei Conti contestano 520 mila euro (oltre il 5 % del fatturato totale dell'azienda nel 2011) elargiti “senza criteri oggettivi ” a fondazioni e iniziative del Comune. Con Carrai potrebbero essere chiamati a risarcire la cifra anche il presidente Carlo Bevilacqua e altri 6 componenti del Cda.
L’inchiesta è partita a seguito di un esposto presentato da Giovanni Galli, oggi consigliere comunale e nel 2009 candidato sindaco contro Renzi. Tra le elargizioni contestate in particolare quelle alla Fondazione Maggio Musicale e alla Fondazione Palazzo Strozzi presieduta da Lorenzo Bini Smaghi. Firenze Parcheggi chiuse il 2011 con una perdita di quasi 1,5 milioni di euro. d. v.

“tipi renziani” /3
il Fatto 27.3.14
Mantova, chiusi due circoli Pd infiltrati dalla mafia


DUE CIRCOLI del Pd in provincia di Mantova sono stati commissariati per pericolo di infiltrazioni della ’ndrangheta. Si tratta di quelli di Viadana centro e di Cogozzo-Cicognara, complessivamente 300 iscritti. È l’epilogo di una vicenda nata mesi fa dopo intercettazioni della Direzione investigativa antimafia del 2006, in cui alcuni indagati per ‘ndrangheta tiravano in ballo l’assessore del Comune di Viadana Carmine Tipaldi di origine calabrese, dimessosi dalla carica e autosospesosi dal partito nei giorni scorsi. Tipaldi non risultato indagato. Nei giorni scorsi la procura di Mantova ha riaperto un’inchiesta su una sparatoria, avvenuta nel 2011, in cui era rimasto coinvolto lo stesso Tipaldi come colui che aveva soccorso la vittima rimasta ferita. Si è poi scoperto che al circolo Viadana centro erano iscritti alcuni personaggi di origine calabrese con un passato poco rassicurante. Nei due circoli del Pd (Tipaldi era iscritto a quello di Viadana centro) è scoppiata una polemica tra coloro che ritengono il partito infiltrato dalla criminalità e altri che lamentano di essere vittime di sospetti mal riposti.

“tipi renziani” /4
l’Espresso 27.3.14
Voli di Stato, il Pd salva la Brambilla per un 'passaggio' da 14mila euro

La Camera nega l’autorizzazione a procedere nei confronti dell’ex ministro del Turismo, accusata di abuso d’ufficio e peculato
di Paolo Fantauzzi
qui

“tipi renziani” /5
Repubblica 27.3.14
Una lettera al giornale
Il paradiso della Chiesa e l’inferno di chi soffre

Ho 40 anni. Due anni fa ho subito l’asportazione dell’utero. In quel periodo frequentavo un corso di preparazione alla cresima e mi ero recata dal parroco per dirglielo. Senza che avessi chiesto nulla, il parroco mi dice: «Eh, adesso non potrai più crearti una famiglia, né sposarti». Ho risposto: «Bè, potrei comunque trovare un compagno, per condividere la vita». Lui mi risponde che un affetto «non ha alcun valore»; che, non potendo procreare, non avrei potuto più avere nemmeno un compagno. La rabbia, il desiderio di gridare il mio disgusto per la Chiesa è diventato un’urgenza! Chi avrebbe dovuto darmi una parola di conforto (magari dicendomi che ci sono tanti bambini da adottare), dirmi che non era finita, mi ha ucciso una volta per tutte! Poco fa ho letto su Internet il post di un professore di religione che diceva: «Una donna che non ha figli è come un seme che non produce frutto. Muore prima del tempo». Se penso a tutta la gente che commette peccati gravissimi e viene accolta a braccia aperte in chiesa, non posso che rinunciare a dirmi cattolica.
Lettera firmata

“tipi renziani” /6
il Fatto 27.3.14
Sull’omofobia il ministero sceglie la linea di Bagnasco
Il dicastero dell’istruzione: l’ufficio anti discriminazione non può distribuire nelle scuole libretti sulle diversità. L’uomo in più della chiesa è il ciellino Toccafondi
di Valerio Cattano


Cosa ne è degli impegni assunti a livello comunitario? Si vuole o no mandare avanti la strategia LGBT e i suoi obiettivi?”. Sergio Lo Giudice , senatore del Pd e Componente della Commissione Diritti Umani, rilancia la questione riguardante la diffusione dei libretti “Educare alla diversità a scuola”. Interrogazione che sollecita una presa di posizione da parte del Ministero dell’Istruzione (Miur) e della responsabile, Stefania Giannini. Dal Ministero fanno sapere che una distribuzione nelle scuole non ci sarà e il motivo sta nel mancato confronto fra l’Unar (Ufficio nazionale anti discriminazione razziale) sulle tematiche inserite. Quei libretti sono stati interpretati dall’arcivescovo Angelo Bagnasco, presidente della Cei (Conferenza episcopale italiana), come portatori di una “dittatura di genere”.
POSIZIONE sostenuta dal sottosegretario Gabriele Toccafondi (Ncd) che pure ieri al microfono di Radio24 ha ribadito: “C’è questa cultura ‘gender’ fatta da molte associazioni Lgbt, che porta non solo la lotta alla discriminazione, ma - spiega - concetti riguardo alla famiglia composta da persone dello stesso sesso o possibilità per questa tipologia di famiglia di adottare figli. Non si può portare nelle scuole qualcosa che non sia conosciuto dal ministero”. Il motto di Tocca-fondi è: “Al servizio di tutti, servo di nessuno”.
NEI GIORNI SCORSI però è stato soprattutto al fianco della Cei per criticare i libretti che servivano come linee guida per insegnanti e studenti contro il bullismo (dato che questa forma di sopraffazione riguarda pure i giovani omosessuali, alcuni capitoli sono dedicati proprio a loro). Toccafondi nelle scorse settimane ha attaccato l'Unar (Ufficio nazionale anti discriminazioni razziali) che ha curato le pubblicazioni: “Il Ministero dell’Istruzione non sa niente di quanto viene deciso da questo ufficio, che invece produce materiale per le scuole, gli studenti e gli insegnanti, con un’impronta culturale a senso unico, tra l’altro destando preoccupazione e confusione su tutto il sistema educativo”. La Chiesa ringrazia e non si stupisce perchè Toccafondi fa parte della pattuglia di Comunione e Liberazione dentro il governo Renzi con cui ha comuni radici fiorentine. La carriera politica di Toccafondi si sviluppa proprio a Firenze: al Comune nel 2004 eletto con Forza Italia, già deputato dal 2008 con il Pdl. Oggi Toccafondi è sottosegretario del governo Renzi ma nel 2013 quando era coordinatore fiorentino del Pdl ne parlava così: “Matteo Renzi più che un sindaco sembra un mago televisivo come Otelma. Intanto a Firenze degrado, sicurezza, infrastrutture e mobilità rimangono ad aspettare. Renzi lancia qualche slogan, effetti speciali, aggettivi roboanti, frasi ad effetto e poi non resta niente”. Alla fine il mago Otelma ha impressionato Toccafondi tanto da convincerlo a mantenere il suo posto di sottosegretario all'Istruzione che si è distinto per una proposta di legge che prevede la concessione di un contributo a sostegno delle scuole paritarie in aggiunta ai fondi ordinari del Ministero. Del resto nel suo programma scrive: “Da sempre ripeto, anche alzando la voce, che il contributo alle scuole paritarie erroneamente definite private, non è un regalo come invece qualcuno continua a dipingerlo in manifestazioni di piazza, ma un aiuto per garantire la libertà di educazione”.
Per sfuggire al caos romano il segretario si dedica al calcio. All’inizio di marzo ha partecipato a una partita, a Firenze: parlamentari contro una selezione del Comune. Toccafondi gioca da portiere: 3 a 0 secco per gli impiegati con l’ultimo gol, riportano le cronache, da attribuire a una “papera” dell’estremo difensore. L’allenatore dei parlamentari Picchio De Sisti, minimizza: “È entrato a freddo, Toccafondi è uno dei giocatori sicuri di questa squadra”. Lo pensa anche la Cei.

“tipi renziani” /6
il Fatto 27.3.14
Alla faccia di Bergoglio
Una commedia all’italiana: la dittatura gender
di Elisabetta Ambrosi


Scenario mondiale: Papa Bergoglio comunica urbi et orbi che “le unioni gay pongono nuove sfide”. Scenario europeo: il Parlamento Europeo approva la relazione Lunacek per chiedere alla Commissione di accelerare sulle sanzioni a xenofobia e razzismo verso gay e lesbiche. Ultima raccomandazione del profluvio di direttive e risoluzioni rivolte all’Italia per i suoi ritardi sui riconoscimenti dei diritti Lgbt.
PROPRIO SULLA BASE di questi ammonimenti nascono, nel dicembre del 2012, con Elsa Fornero ministro delle Pari opportunità, i tre libricini Educare alla diversità, legittimamente dotati di logo istituzionale perché commissionati dall’Unar, Ufficio nazionale antidiscriminazioni razziali (che opera nell’ambito del Diparti-mento per le Pari Opportunità) all’Istituto A. T. Beck, riconosciuto dallo stesso Miur. I contenuti? Spiegazioni-base su stereotipi di genere, bullismo e omofobia, destinate solo a quegli insegnanti interessati a capire come contrastare le discriminazioni contro ragazzine gay e lesbiche (quelli che ogni tanto , tra l’altro, si uccidono). Fine dello scenario internazionale. Inizio della commedia all’italiana. I libretti, che non sono mai stati diffusi ufficialmente nelle scuole perché, spiega Flavio Romani, presidente dell’Arcigay, “è mancato un tavolo di concertazione con lo stesso Miur”, cominciano a circolare sul web. I siti cattolici si scatenano contro “i libelli omofili” e la fantomatica “dittatura del Gender”. L’ Avvenire parla di “un relativismo che non lascia scampo a nessun valore”, petizioni chiedono le dimissioni del direttore dell’Unar, mentre i lettori si spaventano (“Tra un po’ ci imporranno di farci piacere prostitute e viados, film dell’orrore e satanismo, occultismo e vampiri”, scrive Sergio su Tempi.it  ). Non basta: Il direttore della Nuova Bussola Quotidiana Riccardo Cascioli impugna presso il Tar del Lazio, per violazione degli articoli 13 e 21 della Costituzione, il decalogo dell’Unar “per una rispettosa informazione delle persone LGBT”, avvalendosi dell’assistenza dei Giuristi della vita, i quali a loro volta presentano un esposto alla Procura Regionale della Corte dei Conti del Lazio contro gli opuscoli (costati 24.000 euro, più o meno quanto un paio di mutande, un vibratore e una cena a base di aragosta dei nostri consiglieri).
ULTIMI ATTI della commedia, parte politica: il viceministro per le pari opportunità del governo Letta, Maria Cecilia Guerra, sempre a favore dei diritti Lgbt, sanziona, qualcuno vocifera per l’imminente cambio di governo, il presidente dell’Unar De Giorgi; “Non ne sapevo nulla”, anche se il Tempo riporta una lettera del suo dipartimento alla direttrice del Beck in cui parla di “eccellente supporto didattico”. La solita combriccola di senatori – tra cui Giovanardi, Sacconi, Formigoni – presenta un’interpellanza per bloccare la distribuzione. Seguono le dichiarazioni del sottosegretario Toccafondi (Ncd) che critica la pubblicazione dei volumi. Conclude il tutto l’intervento preventivo di Bagnasco. Vittima collaterale di questa farsa tutta nostrana Luxuria, richiesto da un’assemblea di studenti a Modena e fermato da qualche infervorato genitore. D’altronde, come scrive Riscossa cristiana, il “travestito Vladimirio Guadagno propaganda perversioni omosessuali: sarebbe come se una scuola organizzasse una conferenza con un assassino per insegnare la bellezza dell’omicidio”. Viva l’Italia.

“tipi renziani” /7
La Stampa 27.3.14
“No all’aumento di frutta nei succhi”
Bocciato i l’emendamento dei democratici dopo il veto dell’esecutivo.
Copagri, Coldiretti e Cia: siamo dispiaciuti, ma alla fine decide l’Ue

qui

l’Unità 27.3.14
Pietro Grasso: «È ora di cambiare la legge sulla cittadinanza»


La nostra legge sulla cittadinanza è tra le più severe, è ora di cambiarla. A parlarne è il presidente del Senato, Pietro Grasso: «È giunto il momento di pensare a un nuovo percorso di cittadinanza per gli stranieri che qui si sono integrati e per le seconde generazioni. Le nostre norme sulla cittadinanza sono fra le più severe in Europa» e «rischiano di escludere dai diritti migliaia di persone che con il loro lavoro onesto contribuiscono al benessere e al progresso della nostra società, che è anche la loro società». Lo ha affermato ieri il presidente del Senato nel suo intervento alla presentazione del «Rapporto Famiglia Cisf 2014». «Penso - ha evidenziato - ai giovani nati nel nostro paese, che qui studiano, parlando la nostra lingua e i nostri dialetti; che tifano o giocano nelle nostre squadre di calcio. Spesso mi ritrovo fra molti di loro nelle iniziative a favore della legalità emi sono sempre chiesto amaramente perché questi giovani combattono per la giustizia e per il futuro di un paese di cui non sono e non saranno mai cittadini, almeno finché la legge non sarà cambiata». Secondo il presidente del Senato il futuro del nostro Paese dipende «dalla capacità che avremo di ricostruire la famiglia», tenendo conto «dei valori della solidarietà, del dialogo, e del rispetto delle identità etniche, sociali e culturali di ciascuno». Mail punto di partenza deve essere la scuola, secondo Grasso: «Sono convinto che la sfida della costruzione di una nuova società multietnica e multiculturale debba muovere dalla scuola» che già oggi, ha concluso il presidente del Senato, «pur nelle tante difficoltà, dimostra ogni giorno di saper essere, ancora prima che luogo di istruzione edi informazione culturale, uno spazio dove si compiono i processi di socializzazione e di integrazione che anticipano la piena maturazione del Paese».

Corriere 27.3.14
La truffa sugli immigrati «Derubati anche di acqua e pacchetti di sigarette»
I pm: presenze gonfiate nel centro di Gradisca
di Andrea Pasqualetto


GORIZIA — La truffa nasce da un’idea elementare, almeno secondo la procura di Gorizia: considerato che lo Stato versa una somma fissa per ogni ospite straniero (42 euro) la società che gestisce i Centri migranti ha fatto lievitare i numeri incassando corrispettivi molto più alti del dovuto. Agile, fraudolento, profittevole. E così, dal 2008, i responsabili del Centro di identificazione ed espulsione (Cie) e del Centro di accoglienza dei richiedenti asilo (Cara) di Gradisca d’Isonzo (Gorizia) avrebbero truccato regolarmente le fatture riguardanti la struttura che sorge a un tiro di schioppo dal confine sloveno. Per esempio, i pm scrivono di 3458 ospiti dichiarati contro i 1754 effettivi ad aprile, 4050 invece di 1403 a maggio, 6792 e non 4003 a giugno, 8.094 (4370) a luglio, 8309 (3166) ad agosto, e avanti così per quasi quattro anni, con un picco di 11342 registrati nel settembre 2008, quasi il triplo di quelli reali. Il che si è tradotto in un centinaio di ricevute contestate per circa tre milioni di euro di «sovrafatturazione» (uno attribuito al Cie e due al Cara), incassati indebitamente dal Consorzio Connecting People di Trapani che amministra la struttura, una delle 19 gestite in Italia: dal Friuli alla Puglia, dal Piemonte alla Sicilia. Tutte somme versate dal ministero dell’Interno attraverso la Prefettura.
«Sistema stabile e organizzato»
Emerge dalle carte depositate dai pm al giudice di Gorizia che martedì scorso ha deciso il rinvio a giudizio di tredici persone, fra cui vari amministratori, attuali ed ex, della Connecting e il viceprefetto di Gorizia, Gloria Sandra Allegretto. I primi, accusati di associazione per delinquere finalizzata alla truffa aggravata e alla frode in pubbliche forniture, la seconda per falso ideologico. «Erano capi, promotori e organizzatori del consorzio criminale — non fanno sconti i magistrati agli undici che dovranno rispondere dei reati più gravi — Realizzavano un sistema stabile, organico e organizzato per ottenere la liquidazioni sempre maggiori rispetto agli importi dovuti».
Acqua e chiavette
Ad abundantiam , la frode avrebbe riguardato anche le forniture dei beni destinati agli immigrati del Centro di Gradisca, teatro qualche anno fa di accese proteste per le condizioni di vita . Cioè, il giudice contesta pure il furto di beni a loro destinati: sottratte 89.020 bottiglie d’acqua, 311 schede telefoniche, 3.366 pacchetti di sigarette. «Omettevano di consegnarle agli ospiti - scrivono i pm - Oltre a non ricaricare le chiavette in uso agli stessi per un importo complessivo di 140613 euro». Briciole, in termini economici, rispetto alla truffa milionaria contestata al Consorzio. Fin qui, dunque, l’accusa. «Ma si tratta di conti fatti sulla base di documenti parziali raccolti dalla Finanza — è insorto l’avvocato Calogero Licata, difensore del Consorzio —. Ne mancano molti altri che dimostrano la perfetta aderenza delle cifre dichiarate a quelle effettive». Il legale ha poi messo le mani avanti sul sospetto che lo stesso sistema possa riguardare anche altri centri per migranti affidati alla Connecting, fra le più importanti società che si occupano in Italia di Cie, Cara e centri di assistenza: «Per quanto è a mia conoscenza non ci sono altre contestazioni in giro per il Paese».
Il dirigente e l’alto ufficiale
A processo, che partirà il prossimo 12 giugno, è finito, dunque, il viceprefetto di Gorizia, Allegretto. «Che non intende dimettersi — ha anticipato il suo avvocato, Giuseppe Campeis — E la ragione è semplice: c’è una relazione redatta dal ministero dell’Interno, che incrocia i dati della Prefettura, della Questura e del Centro, dalla quale si evince la correttezza dei comportamenti e delle fatture». Fra gli imputati anche l’ex generale dell’esercito Vittorio Isoldi, già vice comandante della missione italiana in Libano, poi passato a dirigere il Centro di Gradisca. «Sono amareggiato, quei numeri non sono falsi», ha dichiarato il suo legale, Enrico Agostinis, arrivando addirittura a sostenere che «semmai, sono sbagliati per difetto». Quanto a bottiglie d’acqua, sigarette e schede telefoniche ricorda invece che le forniture erano gestite da ditte subappaltanti. E dello stesso tenore la reazione dell’ex direttore del Cie, Giovanni Scardina, pure lui rinviato a giudizio, che parla per bocca del suo legale Alberto Tarlao: «Siamo perplessi, avevamo chiesto un incidente probatorio che ci è stato negato, nonostante il ministero dichiari di non aver subito alcun danno».
Ma per gli inquirenti che hanno lavorato sottotraccia per un paio d’anni non ci sono dubbi: «Tutto è stato ampiamente passato al setaccio, si è trattato di una grande truffa allo Stato italiano».

Il titolo è ingannevole: in realtà il decreto approvato ieri con il voto di fiducia non abolisce affatto le Province
l’Unità 27.3.14
Province addio, 160 sì
Ma è guerra di cifre sul reale risparmio per lo Stato
Secondo i calcoli del governo il taglio alla spesa sarebbe di 600 milioni di euro
L’opposizione: è falso ci saranno altre uscite
di C. Fus.


La campagna delle riforme parte. Ma le serve una bella spinta per non restare inchiodata ai blocchi di partenza. La legge che svuota le Province, in attesa che la riforma costituzionale le abolisca, strappa la fiducia al Senato e torna alla Camera per la terza e definitiva lettura. Ma i numeri pronunciati ieri sera alle sette dal presidente Grasso non sono una festa per il premier. Su 296 presenti, votano 193 senatori e il ddl Delrio passa con appena 160 sì. I no sono 133. Sono ventidue voti di differenza. Per chi ha in mente gli equilibri numerici del Senato, è subito chiaro che senza i venti voti di Popolari e Scelta civica la prima delle tante invocate riforme sarebbe stata bocciata. Ed è inevitabile chiedersi cosa sarebbe successo se Forza Italia fosse stata presente al gran completo. Il leghista Roberto Calderoli si frega le mani, a modo suo: «Questo governo è fermo a 160, non ha la maggioranza che è 161. In queste condizioni non potrebbe neppure eleggere il Presidente del Senato ». Calderoli è abile nel tirare i numeri dalla sua parte. Ma non c'è dubbio che il 25 febbraio, giorno della di fiducia al governo, Renzi strappò 169 voti. Che ieri, secondo test a palazzo Madama, non ci sono stati.
Quando Grasso legge i numeri al banco del governo ci sono Graziano Delrio, Maria Elena Boschi, il ministro della Difesa Roberta Pinotti e il ministro dell’Istruzione Stefania Giannini. I sottosegretari Gianclaudio Bressa e Pizzetti presidiano l’aula dalla mattina. Nessuno di loro esulta. «È stato importante cominciare, non potevamo uscire di qua con l'ennesimo rinvio, la gente non avrebbe capito. Questo è un segnale, un primo passo», ripete Claudio Martini (Pd), ex governatore della Toscana a cui sono toccate le dichiarazioni di voto. E nessuno s’azzarda a fare un tweet. Anche perché in serata i gruppi del Pd si riuniscono per discutere la campagna delle riforme, per decidere quale testo per riformare Senato e Titolo V. E sarà quello il momento di regolare i conti in casa.
Dopo le docce fredde e le montagne russe di martedì - quando la maggioranza è andata due volte sotto in commissione e il ddl Delrio si è salvato per quattro voti in aula sulle pregiudiziali - ieri mattina il governo decide di mettere la fiducia. Riunione veloce, alle otto, mentre il premier sta per volare in Calabria, a Scalea, in visita a una scuola. Alle undici il ministro Boschi arriva in aula a palazzo Madama per porre la questione di fiducia su un testo, un maxi emendamento, che però ancora non c’è. Manca anche la relazione tecnica. Boschi ammette che il testo è in commissione Bilancio. Il solito Calderoli infierisce: «Ministro, questo vuol dire che il testo non è ancora licenziato, non è disponibile...». Selva di fischi. Il presidente Grasso interviene a tutela del giovane e inesperto ministro.
Non un bell’inizio. E il resto del giorno non sembra volgere al meglio visto che i centristi sono sul piede di guerra. Senza i loro voti non c’è certezza di farcela. Anzi, possono essere i cecchini. Linda Lanzillotta (Sc), vicepresidente del Senato, decide di mettere ai voti la richiesta di sospensiva (voluta da Calderoli) che passa ancora una volta per i soliti quattro voti. Un rischio, un’ulteriore umiliazione, che Lanzillotta poteva forse evitare.
All’ora di pranzo Popolari e Scelta civica si riuniscono. Decidono, separatamente, di riporre le armi. Voteranno la fiducia. In cambio di cosa? «Senso di responsabilità», dice l’ex ministro Mario Mauro. Che si sfoga nel primo pomeriggio davanti alla buvette del Senato: «Abbiamo votato una legge sulla parità di genere che non dà parità di genere; votiamo una legge per l’abolizione delle province che però non abolisce le province e il risparmio sarà zero (lo dice e lo ripete facendo il tondo con le dita, davanti a molti testimoni, ndr). Io sono strutturalmente filo governativo ma sia chiaro che questo è un governo che dà i titoli e non scrive i capitoli... ».
Il disegno di legge Delrio svuota nei fatti le province, sottrae e ridistribuisce le funzioni, impedisce che il 25 maggio si vada a votare per 52 consigli provinciali, su un totale di 110, in scadenza. Non è la migliore legge. Non c’è dubbio. Resta zoppa finché non sarà riformato il Titolo V della Costituzione che le abolisce del tutto. Ma crea un risparmio immediato (circa 600 milioni). Avvia un processo di semplificazione nell’organizzazione dello Stato. Ed è il primo vero segnale che qualcosa si muove. Che finalmente la politica, abilissima nel conservare ed alimentare se stessa, sa dire stop. Ed inizia a riformarsi.
Forza Italia ha voltato le spalle all’accordo di maggioranza sulle riforme. Il partito di Berlusconi, a un passo dall’implosione e con il terrore di diventare il terzo polo dopo Pd e M5S con il voto per le Europee, ha il problema di dover dire a 45 presidenti di provincia azzurri che non hanno più la poltrona. Una brutta botta in termini di consenso in campagna elettorale. Ieri però qualche assenza azzurra è stata preziosa ai fini della contabilità di governo.  E forse non è stata casuale. Hanno tenuto il punto altri piccoli, SVP, socialisti, autonomie. E Nuovo centro destra. «Ancora una volta la stagione riformista va avanti per merito nostro», dice in serata Gaetano Quagliariello che denuncia come «ad ogni passaggio riformista saltino fuori problemi politici estranei al merito su cui si vota».
In serata al Senato girano documenti che spiegano come «in ogni caso, il comma 325 della legge di Stabilità del 2013 già prevede il commissariamento di tutte le province». Disegno di legge a parte, la loro fine sarebbe stata già segnata.

Corriere 27.3.14
«Burocrati e prefetti brindano: nulla cambia»
di Marco Imarisio


MILANO — «Burocrazia batte Renzi 2-0». Nonostante la congenita mitezza da ex democristiano, Antonino Saitta, presidente pd della Provincia di Torino e dell’Unione delle Provincie italiane, si è sempre immedesimato con un certo vigore nel ruolo di pasdaran di una istituzione con problemi di immagine. Nell’inverno del 2012 giunse anche a ipotizzare la trasformazione delle scuole in frigoriferi mediante chiusura del riscaldamento, in segno di protesta contro i tagli per 500 milioni apportati dall’allora governo Monti. L’apparente sconfitta di ieri non ne abbatte il piglio combattivo e una certa coerenza. «Resto orgoglioso di aver combattuto una battaglia razionale nel momento in cui la razionalità è un bene che anche il mio partito mette da parte a favore di proclami che celano il vuoto. Fingere di cambiare tutto per non cambiare nulla».
Abolizione gattopardesca?
«Ma quale abolizione, è solo un bel titolo per i giornali. Ma dietro non c’è niente. Il governo ha scelto di farsi prigioniero di un annuncio».
Non è comunque un inizio?
«Di cosa? Questa riforma non tocca nulla dell’apparato statale. Una riforma inconcludente, confusa, che non abolisce nulla. I grandi burocrati e i prefetti ieri sera hanno brindato felici».
Aveva idee migliori?
«Il governo Monti aveva agito in modo più serio accogliendo in buona sostanza la proposta del dimezzamento delle Province, unito all’accorpamento degli uffici periferici dello Stato. Prefetture, questure, provveditorati, motorizzazioni. Quella era la strada giusta».
Perché non se ne fece nulla?
«L’ostilità della burocrazia di Stato, unita a qualche localismo assortito».
Cosa rimprovera a Renzi?
«Ha aggirato un problema invece di risolverlo. Quindi ne ha creati altri. Fosse andato alla radice, come intendeva fare Monti, accorpando Provincie, uffici statali e funzioni di oltre 7.000 società pubbliche, avrebbe risparmiato 5 miliardi. Adesso, se va bene, i tagli si fermano a 32 milioni di euro. Briciole spacciate per un lauto pasto».
Lei è un bieco conservatore?
«Tutt’altro. Ero e sono consapevole del fatto che fosse necessario cambiare. Ma per me la politica è governare i processi, realizzarli per davvero, senza fermarsi alla propaganda e all’immagine».
Proprio nulla da salvare?
«Ma anche nulla da gettare. A parte l’addio all’elezione diretta dei presidenti, la presunta riforma mantiene tutto così com’è. L’unico risultato concreto di tanto furore abolizionista è l’abbandono dell’altra Italia, quella dei piccoli e medi Comuni, a favore delle grandi città. Ma il capoluogo non è tutto. E comunque, sai che gran rivoluzione».
Niente di personale?
«Io sono alla fine del mio mandato e non avrei potuto ricandidarmi. Continuerò comunque a combattere questa battaglia complicata ma giusta. Anche a costo di sembrare l’ultimo giapponese nella giungla delle province».

Corriere 27.3.14
Una vittoria simbolica che mette nell’angolo un malessere diffuso
di Massimo Franco


Matteo Renzi voleva «dare un segnale». E il segnale è arrivato. La fiducia del Senato alla legge che riduce ruolo e potere delle Province rappresenta una vittoria per il premier e il governo. Il fatto che il disegno di legge sia passato con 160 «sì» e 133 «no», e qualche ironia delle opposizioni, non cancella il valore simbolico dell’approvazione. Né lo riduce la consapevolezza che si tratta di un primo passo. Il premier aveva ammesso che si risparmieranno circa 800 milioni di euro, e dunque non molto. Ma l’esigenza principale era quella di «recuperare un rapporto tra cittadini e pubblica amministrazione. Tremila persona proveranno l’ebbrezza di tornare a lavorare», aveva detto in mattinata dalla Calabria con parole ruvide e irrituali, per un segretario di partito e capo del governo; ma probabilmente popolari.
Gran parte dell’opinione pubblica invoca un taglio comunque alle spese della politica. E il provvedimento che porta il nome del sottosegretario Graziano Delrio va in quella direzione. Permette al premier di non perdere la spinta con la quale annuncia di volere andare «fino in fondo» sulla riduzione degli stipendi dei manager pubblici più pagati; e di ribadire per l’ennesima volta che se il Senato «non sarà superato, smetto di fare politica». Di rilancio in rilancio, Renzi conta di ottenere almeno alcuni risultati prima delle elezioni europee di maggio: un appuntamento sul quale si giocherà non solo la sua credibilità ma il futuro del governo. Sarà quella la prima verifica di una coalizione che non ha legittimazione elettorale e tenta l’esperimento di una leadership giovane e digiuna di Parlamento. Renzi percepisce la voglia di cambiamento e l’ostilità alla classe politica che serpeggiano nel Paese. Ed è sempre più deciso a intercettarle scavalcando il più possibile le mediazioni sia con i partiti anche alleati, sia con sindacati e imprenditori; e puntando su una polemica diretta contro chiunque sollevi obiezioni e critiche, bollato subito come «palude». È un gioco arrischiato, ma che per ora funziona. D’altronde, perfino l’ex presidente della Commissione europea, Romano Prodi, gli dà atto implicitamente di avere ragione sulla concertazione. «Il pluralismo sindacale», osserva infatti Prodi, «è una palla al piede».
Ma la sfida non sarà indolore: né sul fronte economico né su quello parlamentare. Maliziosamente, qualcuno nota che i 160 voti ottenuti ieri a Palazzo Madama sono uno di meno della maggioranza assoluta: quella richiesta per le riforme costituzionali. Si parla di tensioni tra alcuni ministri renziani e i vertici delle commissioni. E dalle province arrivano bordate contro il metodo usato dal governo: Renzi è accusato di essersi mosso senza consultare nessuno, e con parole offensive verso il ruolo delle Province. Lo slittamento della discussione sul voto di scambio, osteggiato da Forza Italia, è visto come una specie di preallarme. Eppure, nonostante le convulsioni il patto con Silvio Berlusconi regge. Semmai, il timore è che l’ondata antieuropea che gonfia i partiti populisti possa spingere il Cavaliere ad attaccare Ue e moneta unica.
L’incubo duplice di FI è un aumento dell’astensionismo e un’emorragia di consensi verso Beppe Grillo. Non solo. I tagli alla spesa pubblica che Renzi si prepara a fare promettono di accentuare il malessere sociale e di «scoprire» alcuni settori strategici come la sicurezza; o particolarmente sensibili come le pensioni. Ieri il capo dello Stato, Giorgio Napolitano, in visita all’agenzia Ansa , ha criticato alcuni tagli del passato alla spesa pubblica, a suo avviso «assolutamente immotivati». Ed ha chiesto che si passi a risparmi basati su «un nuovo ordine di priorità». Renzi si è affrettato a dire di essere «totalmente d’accordo con il presidente della Repubblica». Ma l’esigenza di macinare risultati presto e di corsa, e le resistenze che continuano a spuntare, rappresentano ostacoli oggettivi.

l’Unità 27.3.14
Sul decreto lavoro è già tensione
Critiche nel Pd al testo messo a punto da Poletti: «Produce altri precari»

Quello che agita la minoranza del suo partito è il decreto del ministro Poletti sul lavoro che oggi arriva in commissione a Montecitorio e che come nota Matteo Orfini, il Giovane turco che finora nella minoranza è tra coloro che ha dato più ampio credito al governo, «è l’unico provvedimento varato dal governo: già in vigore e in grado di produrre altri precari. Io farò quello che Renzi ha detto per se stesso: sarò un torrente impetuoso, farò proposte e mi batterò per cambiarlo perché quel decreto così come è non va».
dall’articolo di Maria Zegarelli

il Fatto 27.3.14
Per Renzi il lavoro è tutto in salita
Il senato approva il tagliaprovince solo grazie alla fiducia, ma oggi inizia la battaglia sul decreto Poletti
di Wanda Marra


Renzi deve decidere come vuole governare. Se vuole andare avanti a strappi, faccia pure. Vorrà dire che approverà il decreto Poletti insieme con Forza Italia e al Nuovo Centrodestra, spaccando il Pd”. Matteo Orfini, la parte più dialogante della minoranza dem, sul decreto lavoro, che arriva oggi in Commissione alla Camera, è pronto a dare battaglia. “Questo decreto così, con contratti rinnovabili senza causali per 36 mesi, è invotabile . Aumenta il precariato. Il governo ci dia un segnale e inserisca anche il contratto di inserimento”. La linea è la stessa di quella enunciata da Guglielmo Epifani in un’intervista all’Unità di ieri: “Se si parte solo dal contratto a tempo determinato, il risultato è creare condizioni vantaggiose per le imprese e negative per i lavoratori”. Sono le 14, quando Or-fini annuncia belligeranza. La Camera ha appena rinviato il provvedimento sul voto di scambio. Ufficialmente per bypassare l’ostruzionismo di FI e Ncd e arrivare in Aula tra una settimana con meno emendamenti. Evitando peraltro di impattare con il voto sulle Province che devono ripassare da Montecitorio.
Ma un’affermazione di Renzi durante la visita a Scalea non passa sotto silenzio: “Sul voto di scambio il Parlamento sta lavorando per trovare una formula migliore. Garantisco che l’impegno della maggioranza è che sarà approvata una legge il più velocemente possibile”. Il timore di molti Democratici è che Forza Italia usi i prossimi giorni per annacquare ulteriormente il provvedimento. Brunetta lo dice in chiaro: “Il rinvio è la prima vittoria di FI”. E Renzi non sembra in condizione di poter evitare le trattative con i berluscones.
SE LA CAMERA rinvia, il Senato approva il disegno di legge sulle province con 160 sì e 133 no. Nove voti in meno rispetto al sì al governo, dopo che l’esecutivo è stato costretto a mettere la fiducia. E dopo che l’altroieri è stato salvato dalle assenze in Forza Italia. Un partito però che rischia di diventare sempre meno affidabile, viste le difficoltà quotidiane e continue. Dice il relatore Francesco Russo (peraltro un lettiano doc): “Abbiamo scampato il pericolo e abbiamo visto che forzando un po’ la volontà di fare le riforme c’è. Però, il voto sulle province ci dice anche che nei gruppi, a cominciare da Scelta Civica e Ncd, ci sono dei problemi. E che anche la stessa Forza Italia non è compatta”: Insomma, “Renzi deve rendersi conto che i numeri in
Senato sono quelli che sono e deve cominciare a fare un lavoro parlamentare più operativo che per ora non c’è stato”. Per esempio, Maria Elena Boschi non si è mai vista in Commissione mentre si discuteva del provvedimento e neanche in Aula fino a ieri. Lo stesso Graziano Del Rio si è fatto vedere solo ieri, anche se ha lavorato dietro le quinte.
A PROPOSITO di riforme grande aspettativa per il testo sul Senato. "Vado fino in fondo, se no mi ritiro dalla vita politica", ha ribadito Renzi.
L'idea è quella di introdurre norme che rafforzano i poteri del premier. Un tema presente anche nella bozza Violante e nella riforma a cui mirava il governo Letta. Ma è anche un antico cavallo di battaglia di Berlusconi e le norme servirebbero a rinsaldare proprio l’asse con lui. Ieri sera il premier ha riunito i gruppi per presentare le linee guida. Ancora molta genericità sui contenuti. E ancora nessuna chiarezza se il governo depositerà un testo di sua iniziativa o lo lascerà fare al Parlamento. La Boschi ha spiegato che ci sono ancora una serie di punti aperti (evidentemente la trattativa è in corso) e che anche sull’idea dei 21 membri della futura Camera alta nominati dal Presidente, il punto che ha provocato maggiore perplessità, il governo non ha deciso di fare marcia indietro.
NEL FRATTEMPO, una parte della minoranza dem (tra cui Stefano Fassina, Alfredo D’Attorre e Danilo Leva) hanno presentato una proposta per intervenire sull'art. 81 della Costituzione, quello che introduce il pareggio di bilancio nella Carta. Una partita che dovrebbe entrare in quella delle riforme. A tutto questo si aggiungono le tensioni sulla segreteria. L’idea di fare un ticket Guerini - Serracchiani nei ruoli di rilievo non è piaciuta ai Giovani Turchi. E dunque, probabilmente non entreranno. Dovrebbero entrare componenti delle altre tranche della minoranza, ma è vero che così Renzi rischia di perdere l’ala più dialogante dell’opposizione interna. Non a caso ieri sera ha ironizzato alla riunione: “Ringrazio tutti a parte Orfini che ironizza su Milan-Fiorentina, dimostrando che ogni collaborazione con i Giovani turchi è impossibile”.

La Stampa 27.3.14
Nuovi guai per Renzi, i giovani turchi del Pd contro il decreto lavoro
Dopo Damiano, un altro pezzo di partito minaccia di sfilarsi
di Francesca Schianchi

qui

La Stampa 27.3.14
L’iperattivismo del segretario agita i democratici
di Marcello Sorgi


Prima ancora che il Senato, con il voto di fiducia chiesto dal governo, approvasse la riforma delle province, Renzi, già in mattinata, ne incassava il risultato politico, sottolineando che in questo modo si sono tagliati tremila posti che in mancanza della nuova legge avrebbero continuato a incidere sui costi della politica. Subito dopo, il premier è passato all’incontro con i gruppi parlamentari del Pd, per illustrare i progetti di riforma che stanno per essere presentati sulla trasformazione del Senato, sui rapporti tra Stato e Regione e sul ruolo del presidente del consiglio, che avrà tra l’altro il potere di licenziare e sostituire i propri ministri.
Anche se fino all’ultimo i testi potranno essere oggetto di aggiustamenti, l’insofferenza che anche ieri sera s’è manifestata da parte della minoranza Pd non riguarda solo i contenuti, ma anche la tabella dei tempi imposta da Renzi, che come si sa vuole arrivare al voto del 25 maggio avendo ottenuto almeno la prima votazione del Senato sulle riforme e possibilmente anche l’approvazione definitiva della legge elettorale. Ciò gli consentirebbe di dire che il piano ambizioso di «una riforma al mese», illustrato al Quirinale all’atto della presentazione del governo, è stato sostanzialmente rispettato, a dispetto di tutti quelli che lo avevano accolto con scetticismo. Ieri anche il presidente Napolitano, con la prudenza che gli è congeniale, ha detto che segue con attenzione l’evoluzione del percorso riformatore, e ha esortato il Parlamento a proseguire.
Ma al di là delle singole questioni emerse dal dibattito interno del partito del premier, la questione che si percepisce riguarda Renzi e il suo modo di interpretare il ruolo di presidente del consiglio e di leader. C’è, non sopita, la richiesta di por fine al doppio ruolo, se non proprio rinunciando alla segreteria (cosa a cui Renzi non pensa proprio), almeno riorganizzando il vertice, in modo da consentire al Pd una sua autonoma elaborazione e un rapporto più dialettico con il governo. Un altro terreno su cui questa tensione potrebbe manifestarsi è quello del decreto sul lavoro e dei rapporti con i sindacati: temi, questi, che potrebbero riemergere nella direzione Democrat di domani.

l’Unità 27.3.14
Concresso CGIL Lombardia
«Camusso attaccata perché donna»


Sotto attacco perché donna. Secondo il segretario della Cgil in Lombardia, Nino Baseotto, Susanna Camusso è vittima di insulti e volgarità perché è una donna. Nel suo intervento di ieri in apertura dell’undicesimo congresso della Cgil lombarda, Baseotto ha detto: «C’è chi legittimamente rivolge duri rilievi critici nei confronti del gruppo dirigente e del segretario generale in particolare. Vi sono però altri che sono andati e vanno ben oltre la critica politica per scadere nell’insulto personale e nella volgarità. Così non va bene: noi non ci stiamo. E ci chiediamo se quei toni volgari e offensivi verrebbero ugualmente usati se alla guida della Cgil vi fosse un uomo e non il primo segretario generale donna della nostra storia. Mettiamo al bando il sessismo, la violenza degli insulti e del fango, perché per noi il pluralismo delle idee e delle posizioni deve sempre fare rima con il rispetto delle persone». Un rispetto, ha aggiunto il sindacalista, che «è il nostro tratto distintivo, il minimo comune denominatore non dell’unanimismo ma dell'unità della Cgil».
Baseotto ha proseguito parlando dello stato di salute del suo sindacato, «che in Lombardia sta bene, perché nonostante una crisi devastante tutti i dati organizzativi dicono che reggiamo», mentre «non sta bene la Lombardia, perché i dati parlano di una crisi che non è finita». Il segretario, che non è in scadenza di mandato, ha quindi concluso ricordando «un grande dirigente della sinistra italiana, al quale molti di noi hanno voluto bene, che diceva: “Ci si salva e si va avanti se si agisce insieme e non solo uno per uno”. Quel dirigente è morto trenta anni fa a Padova, si chiamava Enrico Berlinguer». In apertura dei lavori, sono intervenuti tra gli altri il sindaco di Milano, Giuliano Pisapia, l’assessore Valentina Aprea a nome della Giunta della Region e Lombardia, e Monica Chittò, sindaco di Sesto San Giovanni. Il congresso, al quale si è arrivati dopo tredici mila assemblee in azienda e nelle leghe dello Spi-Cgil, continua oggi e verrà chiuso dall’intervento della segretaria generale, Susanna Camusso. Sono oltre novecento mila gli iscritti al sindacato in Lombardia. Fanno «di noi - ha precisato Baseotto - la più grande struttura regionale della Cgil e di tutto il sindacato italiano».

Repubblica 27.3.14
Il sì di Cuperlo al premier forte “Ma si comanda con la democrazia”
intervista di Giovanna Casadio


ROMA. «La crisi democratica non la risolvi pigiando solo il tasto dell’efficienza e della rapidità ». Gianni Cuperlo, il leader della sinistra, a sorpresa si trova d’accordo con Renzi: il premierato forte va nella direzione giusta. Però, avverte, «il Pd deve essere al centro dell’attenzione perché per fare buone riforme ci vuole un partito solido alle spalle».
Cuperlo, un premier forte, con più poteri non la preoccupa?
«No, ma mi preoccupa una democrazia più fragile. Salvatore Veca lo spiega da anni, servono partecipazione e rappresentatività perché senza consenso non governi, al massimo comandi».
Ma era il caso di introdurre il cambiamento della forma di governo mentre si parla di bicameralismo?
«Capisco che tra le due cose ci sia un legame. Il governo deve poter realizzare il suo programma. La corsia preferenziale alla Camera per un certo numero di leggi o la possibilità per il premier di “revocare” i ministri erano proposte che abbiamo depositato due legislature fa e restano valide oggi».
Non teme una deriva presidenzialista?
«Dico no a una repubblica presidenziale e sì a un primo ministro con migliori strumenti di governo».
Quindi in futuro il Cancelliere Renzi?
«Il problema non credo stia nella qualifica. Presidente del Consiglio va più che bene, l’importante è che sia messo in condizione di governare in una repubblica parlamentare e coi giusti contrappesi».
Intanto Renzi accelera e riuscirà a dare 80 euro in più in bustapaga?
«Benissimo gli 80 euro: era tempo. Quanto all’accelerazione una buona vettura accelera ma poi deve riuscire a frenare».
È convinto che al Senato vada approvato prima dell’abolizione della Camera Alta e della riforma del Titolo V?
«So che sulle riforme dobbiamo andare in fretta. Poi la razionalità consiglia di affrontare prima la riforma del Senato e dopo la legge elettorale correggendo le cose che non vanno. Però no alibi per affossare l’una o l’altra ».
Lei sta nella palude contro il cambiamento?
«Io sostengo il governo e sono convinto che dalla sua riuscita dipende la tenuta del paese. Ma non si può pensare che chiunque esprima una critica viva nella palude».
Da sinistra, Sel rivolge un appello alla minoranza dem per stoppare la riforma del
mercato del lavoro che ha in mente Renzi. Accogliete l’appello?
«Quel decreto va corretto: 36 mesi senza causale per i contratti a termine sono troppi come sono troppi 8 rinnovi consecutivi. Sull’apprendistato non va bene eliminare l’obbligo alla formazione e quello a stabilizzare un certo numero di giovani dopo la prova e prima di assumerne di nuovi».
Tremila posti in meno ai politici, con l’abolizione delle Province, è un bel segnale?
«Mi lasci dire che in nessun paese del mondo i costituenti nel disegnare le istituzioni sono mai partiti dal criterio dei costi. Non è che cancelli il Senato perché costa, lo devi cambiare perché com’è non risponde a un’idea contemporanea dello Stato ».
Lei è il leader dell’opposizione interna. Ma ormai sembrate davvero frammentati.
«Per me il congresso è alle spalle. Voglio che il Pd aumenti i suoi consensi a cominciare dalle prossime europee. Prova a reclutare un ragazzo a una corrente di partito e scapperà a gambe levate. Raccontagli che il mondo è guasto ma lo può cambiare e chissà che non scopra il senso della politica. Allora nessun pregiudizio a una gestione unitaria ma voglio capire di che partito si parla».

Corriere 27.3.14
«Riforme, il Pd terrà Ma bisogna lavorare ancora sull’Italicum»
Speranza: avanti o imploderemo
intervista di Monica Guerzoni


ROMA — «Se salta il tavolo delle riforme, salta l’architrave che regge le istituzioni democratiche». Fiutata l’aria, non troppo salubre, che tira sul Parlamento tra abolizione delle Province, nuovo Senato e legge elettorale, il capogruppo del Pd, Roberto Speranza, avverte maggioranza, opposizioni e anche deputati e senatori democratici: «Stiamo attenti, perché il Paese rischia l’assuefazione. Cos’altro deve accadere dopo che i grillini hanno occupato i banchi del governo e dopo le liste di proscrizione dei giornalisti? Siamo a un punto di rottura, rischiamo l’implosione».
Le riforme sono a rischio?
«Penso sinceramente di no, perché sono un elemento decisivo di questa fase politica. Il nostro obiettivo è dimostrare che, dopo anni di annunci, la politica è finalmente nelle condizioni di autoriformarsi. Non ci possiamo permettere un fallimento, perché vorrebbe dire dare ragione a chi, dentro e fuori il Parlamento, vuole abbattere le istituzioni democratiche».
N omi e cognomi?
«Le forze politiche antisistema, da Marine Le Pen in Francia a Beppe Grillo in Italia. Nella partita delle riforme ci giochiamo un pezzo decisivo della tenuta democratica del Paese. Se gli italiani cominciano a pensare che le istituzioni sono irriformabili, il passaggio successivo sarà pensare che non servano più».
Sta estremizzando perché il premier ha detto «o aboliamo il Senato, o lascio la politica»?
«No, la partita delle riforme non è legata ai destini personali di Matteo Renzi, ma alla tenuta del sistema democratico in un momento in cui la presidenza della Repubblica viene frequentemente attaccata in maniera violenta. Il premier ci mette il petto fino in fondo con un atteggiamento generoso e positivo, ma il fallimento del disegno riformista non avrebbe a che fare con la vicenda di Renzi».
È sicuro che i senatori del Pd voteranno il loro «suicidio»?
«Il Pd si è assunto tutte le responsabilità mandando il proprio segretario a Palazzo Chigi e le riforme sono la grande sfida di questa stagione».
I malumori vengono anche dalle vostre file.
«Io riscontro un atteggiamento di grandissima responsabilità. Posso garantire che nessuno, nel Pd, ha provato a far saltare le riforme».
I numeri hanno ballato paurosamente, sia sulle Province che sulle quote di genere dell’Italicum.
«Legittime questioni di merito, le quote di genere sono una di queste e altre ce ne saranno. Anche chi aveva dubbi sulla legge elettorale ha seguito l’indicazione del partito ad andare avanti».
Non è vero che l’ala sinistra medita di rallentare il treno della riforma elettorale?
«No. È chiaro che un grande partito discute nel merito, ma la sfida che abbiamo davanti è un’altra, è il campo delle forze democratiche contro il campo delle forze populiste».
È sicuro che la legge elettorale vada bene così? Con l’uscita di scena di Berlusconi resterebbero solo Renzi e Grillo.
«La legge approvata alla Camera è decisamente migliore di quella che era uscita dalla stretta di mano tra Renzi e Berlusconi. Ma c’è ancora da lavorare su quote di genere, soglie e rapporto tra eletto ed elettore».
I gruppi del Pd reggeranno all’urto della riforma del Senato?
«C’è la totale consapevolezza che non possiamo perdere una partita di sistema. Poi è chiaro, lo ribadisco, che nel merito si discute».
Orfini ha detto che i giovani turchi non voteranno il decreto lavoro...
«Premesso che ho trovato il ministro Poletti molto disponibile a discutere, i provvedimenti che escono dal governo vengono sempre aggiustati dalle Camere. Ci sono alcuni punti da migliorare e lo faremo».
Il Pd digerirà il premierato forte, caro a Berlusconi?
«A me non risulta che l’idea sia nella bozza di riforma del Senato».
Dalla palude si esce a colpi di fiducia?
«Se ne esce con il coraggio delle riforme e con la capacità di ascoltare, valorizzando i diversi punti di vista».
Senza Berlusconi i numeri al Senato sono a rischio...
«Sulle riforme Forza Italia ha risposto all’appello del Pd e ora mi auguro che non commetta un’altra volta l’errore del 2 ottobre, quando Berlusconi uscì dalla maggioranza mettendo gli interessi di uno solo da-vanti agli interessi dell’Italia. Il Paese non può mancare questa straordinaria occasione».

Corriere 27.3.14
Voto di scambio, sul reato i dubbi dei pm antimafia
di Giovanni Bianconi


ROMA — Superato agevolmente lo scoglio delle pregiudiziali di incostituzionalità, la riforma del voto di scambio politico-mafioso slitta alla prossima settimana nel tentativo di disinnescare l’ostruzionismo annunciato da Forza Italia a Montecitorio. Svelando una strana mescolanza di schieramenti: la norma uscita dal Senato vede favorevole il Partito democratico e contraria Forza Italia, con l’appoggio del governo. Però il Nuovo centrodestra e Scelta civica, che sono nella maggioranza di Renzi, chiedono una diversa formulazione del reato, mentre Lega, Movimento 5 stelle e Sinistra ecologia liberta, dall’opposizione, vogliono approvarlo in fretta.
Ma a parte le maggioranze variabili, altri elementi sfuggono alla classica divisione tra destra e sinistra; o, peggio, tra mafia e antimafia; tra voglia di combattere la cosiddetta «zona grigia» e volontà di coprire certe collusioni. Ci sarà pure chi vuole salvaguardare specifici interessi, però le perplessità su alcuni passaggi del testo in discussione alla Camera da parte di magistrati in prima fila nel contrasto a Cosa nostra, camorra e ‘ndrangheta, suggeriscono considerazioni più problematiche. Soprattutto su un aspetto della riforma: l’estensione della punibilità non solo alla «promessa di voti», ma anche a chi offre «la disponibilità a soddisfare gli interessi o le esigenze dell’associazione mafiosa o di suoi associati».
Commenta il pubblico ministero di Palermo Gaetano Paci, già impegnato in diversi processi sui rapporti tra mafia e politica, aderente a Magistratura democratica, la corrente di sinistra dei giudici: «Parliamo di una riforma necessaria da vent’anni, perché la norma attuale è pressoché inapplicabile. Dunque è molto importante che lo scambio punito dalla legge non sia solo tra l’appoggio elettorale e i soldi, ma che venga ricompresa «qualunque altra utilità», com’è stato scritto nella nuova proposta. Tuttavia il concetto di “disponibilità” rischia di essere talmente indeterminato e ambiguo da rendere la norma incostituzionale». Inoltre, aggiunge il pm antimafia, «un’indagine per verificare la disponibilità sarebbe quasi di tipo psicologico, alla ricerca di uno stato d’animo, tanto ampia quanto difficile sul piano dei riscontri. Col risultato che lunghe inchieste porterebbero a probabili assoluzioni, alimentando un nuovo conflitto tra politica e giustizia». Conclusione: «Sembra l’ennesimo tentativo della politica di delegare alla magistratura ciò che non sa o vuole fare assumendosi le proprie responsabilità, cioè risolvere nel proprio ambito problemi relativi alla sfera dei comportamenti politici. Affidano tutto al processo penale, salvo poi fare le barricate contro gli sconfinamenti della giurisdizione».
Da Napoli Fabrizio Vanorio, pm nel processo contro l’ex parlamentare del Pdl Nicola Cosentino per concorso esterno con la camorra, anche lui esponente di Md, sostiene che «con questa formulazione si finirebbe di incappare nel classico processo alle intenzioni», e spiega: «Già incriminando la promessa di voti si anticipa a sufficienza la condotta passibile di sanzione, e togliendo la restrizione della dazione di denaro che rende quasi impossibile contestare il reato le modifiche sarebbero soddisfacenti. Andare a indagare sull’atteggiamento interiore di una persona credo sia scorretto sul piano giuridico e pericoloso per le possibili conseguenze. La disponibilità è un concetto troppo labile, che si presta a confusioni interpretative e creerebbe molte difficoltà sul piano probatorio».
Stefano Musolino è titolare di diverse inchieste sulla ‘ndrangheta a Reggio Calabria, comprese alcune sulla «zona grigia» del crimine organizzato, nonché segretario locale di Md. «Capisco la logica della riforma — dice —, perché a volte il concorso esterno viene escluso proprio in quanto la mera disponibilità al patto coi mafiosi non è considerata sufficiente. Ma la nuova formulazione mi sembra più uno slogan ideologico che un rimedio. Ottenere la “promessa di voti”, infatti, già ricomprende la disponibilità; aggiungere quel termine significa voler punire un comportamento diverso, qualcosa in meno della promessa, che però diventa molto difficile da provare, quasi impossibile. Anche se animati dalle migliori intenzioni, bisognerebbe ricordare che la tecnica legislativa è complicata, le norme non si possono scrivere basandosi solo sull’onda di spinte emotive».

Repubblica 27.3.14
Il pressing dei magistrati sul premier “Norme da rafforzare o si aiutano i boss”
di Liana Miella



ROMA. Magistrati e giuristi, da giorni, bussano alla porta di Renzi per scaricargli addosso tiepidi e forti allarmi sul 416-ter. Quasi un incubo ormai. Che ha messo il premier in una strettoia politica non da poco. Da una parte Forza Italia si batte per annacquare il 416-ter, il reato di scambio politico mafioso, in mezzo gli alfaniani dubbiosi (ma alla fine propensi ad astenersi se il testo rimane com’è adesso), dalla parte opposta chi chiede da anni il nuovo delitto, ma ne vuole uno effettivamente efficace e giuridicamente trasparente. È il fronte di chi vuole lottare contro la mafia con le armi del diritto giusto, senza sbavature, e invece vede brutte crepe nel testo approvato dal Senato, ora in discussione alla Camera.
La questione è giuridica, ma le possibili conseguenze politiche. Perché, se il testo cambia, Forza Italia canterà vittoria, ma M5S attaccherà il Pd per «l’asse scellerato con Berlusconi sulla mafia». Non solo: se il 416-ter viene rimandato al Senato, dov’è rimasto per mesi dopo il primo sì della Camera, c’è la fondata preoccupazione che finisca nel nulla. Renzi sta valutando due strade: incassare un 416-ter imperfetto, o rischiare di perderlo per strada per averlo migliore. Tocca a lui decidere. Sul suo tavolo la situazione è questa. Partiamo dall’attuale testo del 416ter. Dice che può essere accusato di «scambio elettorale politico mafioso chiunque accetta la promessa di procurare voti mediante le modalità del 416-bis in cambio dell’erogazione o della promessa di erogazione di denaro o di qualunque altra utilità, ovvero in cambio della disponibilità a soddisfare gli interessi o le esigenze dell’associazione è punito con la stessa pena del 416-bis» (7-12 anni per i gregari, 9-14 per i capi cosca).
Il primo dubbio riguarda l’entità della pena, identica per il politico che ottiene voti dalla mafia e per il mafioso. «Un’obiettiva sproporzione » dicono pm di periferia e della procura nazionale antimafia. Il secondo dubbio è su un reato «evanescente, troppo ampio, sovrapponibile al concorso esterno in associazione mafiosa», come spiegano molti pm e giuristi come il palermitano Costantino Visconti (scuola Fiandaca, per capirci). Tant’è che i nemici del concorso esterno vorrebbero il nuovo reato proprio per mettere in crisi il primo.
Ma c’è una frase nel testo del 416-ter sul cui si appuntano le perplessità più forti. Laddove si parla della «disponibilità a soddisfare gli interessi o le esigenze dell’associazione mafiosa». Un passaggio introdotto al Senato e che il Pd Giuseppe Lumia difende tuttora strenuamente: «Qui sta il lavoro di una vita, la mia, perché questa è l’unica strada per spezzare il legame con la mafia, in quanto chi accetta il vincolo lo fa per denaro, per un’altra utilità, ma anche mettendo se stesso a disposizione dei mafiosi ». All’opposto, chi ha parlato con Renzi ha espresso dubbi «su una definizione giuridica troppo generica» che rischia solo di complicare le indagini. A Palermo, il pm Gaetano Paci propone un testo molto più semplice, «promessa di denaro o di altre utilità per sé o per un terzo», identica a quella della commissione Garofoli, cui hanno lavorato il neo commissario anticorruzione Raffaele Cantone e il procuratore aggiunto di Reggio Calabria Nicola Gratteri. È la stessa soluzione del presidente del Senato Pietro Grasso, depositata il giorno dopo la sua elezione.
Pure al ministero della Giustizia c’è chi, pur parlando di «riforma importante, incisiva e utile nella lotta alla mafia», critica il passaggio sulla «disponibilità». È il sottosegretario Cosimo Maria ferri, toga conservatrice di Magistratura indipendente in “prestito” alla politica, che ieri alla Camera rappresentava il governo. «È giusto ampliare l’area del reato di voto di scambio punendo anche lo scambio delle promesse, ma una soluzione tecnicamente equilibrata sarebbe quella di bilanciare questo ampliamento con un maggior rigore nel definire l’oggetto dell’accordo, descrivendolo in maniera assolutamente precisa e inequivocabile ». Giusto i dubbi messi sul tavolo di Renzi. Quando il 416ter fu discusso al Senato, l’ex Guardasigilli Nitto Palma propose di buttare via la frase incriminata. I tecnici di via Arenula erano favorevoli, ma l’ex Guardasigilli Annamaria Cancellieri tagliò corto, perché voleva portare a casa la norma, senza trattare con Forza Italia. Ora siamo daccapo. 416-ter migliorato o 416-ter subito? Renzi sembra propenso a seguire la prima strada.

Repubblica 27.3.14
La Camera rinvia dopo il no dei forzisti. Il capo del governo: presto l’approvazione
Renzi: migliorare la legge sul voto di scambio
di Conchita Sannino


SCALEA (COSENZA). Prende le distanze da Alfano e dall’Ncd sugli ostacoli posti in Parlamento alla legge che dovrebbe contrastare più radicalmente il voto di scambio politico-mafioso. Assicura l’impegno «della maggioranza» affinché sia «al più presto approvato» quel ddl: «Ma facendo attenzione - scandisce - a che la norma sia efficace». E alla fine della sua intensa tappa in Calabria, per il mercoledì dedicato alla visita nelle scuole, il premier Matteo Renzi lancia un invito che è quasi un grido. «Amici calabresi, rialzatevi! Il nemico non è sempre fuori, dipende anche davoi». É gremita la piazza di Scalea, comune sciolto per collusioni tra amministratori e cosche. «Noi ci metteremo il cuore e tanto lavoro. Ma sappiate che ci vuole il vostro coraggio e impegno - esorta ancora il premier -. Dovete rimettervi in gioco, scommettere su voi stessi e la legalità. Noi faremo la nostra parte».
Poco prima, Renzi aveva riservatamente incontrato Nicola Gratteri, capo della Distrettuale antimafia alla Procura di Reggio Calabria: il magistrato sarebbe sotto corteggiamento da parte del segretario Pd, che vedrebbe in lui, tra un anno, l’ideale anti-Scopelliti, candidato governatore in Calabria.
Per Renzi, è la terza visita tra bambini e insegnanti, stavolta lo attende l’istituto “Gregorio Caloprese”. Alle 10, bimbi con palloncini tricolore, ma anche cartelli di protesta e le contestazioni del personale «Ata» delle scuole. Intorno, segni di un deserto: uffici giudiziari chiusi e trasferiti; ospedale di Praia ridotto a un piccolo pronto soccorso, case popolari che marciscono, disabitate o occupate abusivamente. Renzi incontra 250 sindaci, poi dal palco con i ragazzi di Libera lancia un patto: «Calabria, dobbiamo lottare insieme. Contro la criminalità, ma anche contro la sfiducia, il degrado e la cattiva politica che, non solo qui, ha speso male i fondi europei».

l’Unità 27.3.14
Scuola, l’anomalia precari davanti alla Corte europea
Oggi in Lussemburgo udienza sui contratti a tempo reiterati oltre i 36 mesi, la decisione sarà vincolante per i giudici italiani
140mila docenti e Ata interessati. I costi delle mancate assunzioni
di Adriana Comaschi


Il conto alla rovescia comincia oggi. Gli occhi di centinaia di migliaia di precari della pubblica amministrazione, in primis quelli della scuola, sono puntati sul Lussemburgo, sulla Corte di Giustizia Europea chiamata a pronunciarsi sull’anomalia italiana del precariato sine die. Ovvero su quei contratti a tempo determinato da supplente su posti vacanti e disponibili, fatti sottoscrivere dai Provveditorati a settembre e chiusi a fine anno scolastico. Contratti rinnovati di anno in anno, per svolgere le stesse mansioni di chi è in ruolo (ma con stipendi inferiori). Su tutto questo, ora l’Europa potrebbe scrivere la parola ‘fine’.
Se la Corte Ue giudicasse illegittimi i contratti a tempo determinato reiterati per più di 36 mesi (questione sottoposta da un giudice napoletano in seguito al ricorso di un’insegnante precaria) si capovolgerebbero le sorti di docenti e Ata (tecnici amministrativi) con almeno tre anni di servizio alle spalle, anche non continuativo. La decisione è infatti vincolante per i giudici italiani, dunque chiunque ne avesse diritto - l’Anief stima 140 mila, 120 mila docenti e quasi 20 mila Ata - potrebbe fare causa e vedersi assegnato il diritto al posto, o a un congruo risarcimento per il trattamento discriminatorio subìto. Non a caso in aula oggi siederanno gli avvocati dei sindacati, in prima fila Anief e Flc-Cgil che da tempo seguono e promuovono cause in questo senso. Così come da tempo invitano gli inquilini di viale Trastevere, e ora la neo ministra Stefania Giannini, ad affrontare con un piano straordinario la questione del precariato strutturale della scuola, una realtà vecchia di decenni che negli ultimi anni si attesta almeno sul 15% del totale dei docenti: «Ci sono almeno 125 mila posti disponibili, di cui 25 mila per gli Ata. Giannini ha già fatto sapere di non essere disponibile a una stabilizzazione di massa e questo ci dispiace - osserva polemico il presidente Anief Marcello Pacifico -: come altro rispondere a una precarizzazione di massa?».
QUEI MONITI DALL’ EUROPA
I numeri italiani sono in effetti del tutto sui generis, tanto da essere già finiti nel mirino della Commissione europea che a fine febbraio ha rilevato come «Non può ritenersi obiettivamente giustificata ... una legislazione nazionale, quale quella italiana, che nel settore scolastico non prevede alcuna misura diretta a reprimere il ricorso abusivo a contratti di lavoro a termine successivi». Una presa di posizione che sindacati e mondo della scuola interpretano come un buon viatico. Domenico Pantaleo, numero uno della Flc Cgil, per una volta si dice «ottimista. Anche se non decidono oggi, la sentenza della Corte di Giustizia arriverà più avanti, crediamo in un possibile pronunciamento positivo, sarebbe coerente con la strada già indicata dalla Ue». I richiami in effetti sono stati diversi, a partire da una direttiva del ‘99 sul lavoro a tempo determinato, l’Italia però ha sempre tirato dritto. Ora lo spettro di ricorsi di massa o quello di pesanti sanzioni potrebbero costringerla a una brusca inversione a ‘U’, un po’ come è avvenuto per il sovraffollamento delle carceri con il governo che studia sconti di pena e rimborsi ai detenuti che hanno vissuto in condizioni condannate come «inumane» dall’Unione Europea. Intanto sono già centinaia i ricorsi a tribunali ordinari contro queste assunzioni usa e getta. «È finito in Europa un tema che qui non si è mai voluto risolvere politicamente - rileva Pantaleo -, lo ribadiamo al nuovo governo: centralità e qualità della scuola non sono compatibili con il precariato strutturale». Che non solo penalizza i docenti e la continuità didattica, dunque gli studenti, specie sul sostegno. Ma a conti fatti non costituisce nemmeno un risparmio per le casse dello Stato. Ai precari infatti non vengono versati i contributi, che però sarebbero figurativi, mentre ogni estate debbono essere versati Tfr e indennità di disoccupazione. «La Ragioneria generale dello Stato ha calcolato che il mantenimento di una mole così alta di precari nella scuola è costata tra 2007 e 2012 - ricorda Pacifico - ben 350 milioni di euro».

Repubblica 27.3.14
Il ministro Stefania Giannini
“Lezioni in lingua alle elementari la mia scuola parlerà inglese”
intervista di Corrado Zunino


Si è insediata al ministero dell’Istruzione 31 giorni fa. Ha già dovuto affrontare la protesta degli addetti alle pulizie, il caos delle abilitazioni, le incognite dei test per il numero chiuso anticipati, il pasticcio degli scatti negati ai prof. “Si va avanti con il soffio al cuore, ma questo posto ha bisogno di progetti che poi si realizzano”, dice. E i suoi sono ambiziosi: “I nostri giovani devono imparare a dialogare col mondo, per questo serve una full immersion già alla primaria con insegnanti madrelingua o quasi. Bisogna ampliare l’offerta degli istituti tecnici specializzati a cominciare da quelli per il turismo e i beni culturali. E all’università dobbiamo superare il numero chiuso”. Ma ce n’è anche per i professori: “Più soldi a quelli che vogliono lavorare di più e soprattutto basta con concorsi nazionali e abilitazioni”. Oggi si presenterà in Senato per illustrare il suo programma di riforma. Ecco le novità.
ROMA. Vorrei riuscire a trasformare un ministero dell’emergenza in un ministero di prospettiva. Un piano di tre anni, medio termine. Lo presento oggi pomeriggio in Senato. Le linee programmatiche dell’istruzione e del sapere per staccare questo Miur dal rosario di problemi che lo assedia. Li ho trovati tutti qui sopra, sulla scrivania di Benedetto Croce». Il ministro dell’Istruzione Stefania Giannini, 53 anni, glottologa, ex rettore dell’Università per stranieri di Perugia, si è appena accomiatata dal Consiglio nazionale degli studenti universitari, a cui ha detto che rifinanzierà le borse di studio inserendo, però, nuove richieste di merito e che, fosse per lei, il valore legale del titolo di studio sparirebbe. In trentun giorni di guida del dicastero ha visto in ufficio i presidi toscani e quelli lombardi impossibilitati a diventare presidi, gli addetti alle pulizie da trasformare in piccoli manovali, si è occupata del caos delle abilitazioni nazionali universitarie, ha difeso lo scatto d’anzianità dei dipendenti. «È un procedere con il soffio al cuore e invece questo posto ha bisogno di progetti e di realizzazione dei progetti».
Ce ne illustra uno, ministro?
«Quattro linee politiche: programmazione, semplificazione, attuazione e verifica. Abbiamo una teoria di leggi sovrapposte, stratificate, senza un disegno cosciente. Ti strozzano. E se le leggi dall’inizio alla fine scopri che si contraddicono. Farò bene in questo ministero se toglierò, toglierò, senza aggiungere».
In quest’ottica, il primo progetto a levare?
«Il reclutamento. L’assunzione di docenti e ricercatori. Partiamo dall’università, il luogo che conosco meglio. Oggi ci sono i Tfa ordinari, quelli speciali, i Pas, le vecchie Ssis, una follia. Detto che il prossimo tirocinio formativo lo confermerò, perché non voglio fermare nulla di ciò che si muove, mi attiverò subito per varare un’unica forma di abilitazione a professore entro il 2018. I tirocini andranno fatti nel corso dell’ultimo anno di laurea magistrale, è già così all’estero. I candidati non sprecheranno mesi ad aspettare la data di riapertura di questa fisarmonica che è ormai un concorso e potranno formarsi per insegnare già durante gli studi».
Per decidere che un docente è pronto è giusto affidarsi alle abilitazioni nazionali? Stanno naufragando in un mare di curriculum irregolari.
«I ricorsi sono percentualmente bassi rispetto ai numeri mobilitati, ma le abilitazioni vanno comunque fermate. Lascerò consumare il secondo turno di questo round, poi cambierò il sistema. Mi ispirerò a quello spagnolo. La valutazione dei curriculum, delle pubblicazioni, degli articoli scientifici non avverrà in una solo periodo, i giorni del concorso. I candidati saranno valutati in continuazione da una commissione che ad appuntamenti ravvicinati, e quindi più gestibili sul piano numerico, controllerà gli archivi Cineca e offrirà il suo giudizio: “Abilitato”, “non abilitato”. Le commissioni ruoteranno. E poi saranno le università, tenendo conto del budget a disposizione, delle loro necessità, a chiamare l’idoneo migliore».
Si torna alle assunzioni a chiamata.
«Si torna a responsabilizzare gli atenei. Basta con superconcorsi nazionali allestiti perché sospetti che il dieci per cento dei docenti stia barando. Costringi il novanta per cento serio dentro regole che non funzionano. Chiamate dirette e autonomia degli atenei».
Niente abilitazioni, mai più concorsi.
«La parola concorso non ha una traduzione nelle altre lingue, significherà pur qualcosa?».
Le università del Nord salgono nelle classifiche internazionali, quelle del Sud spariscono.
«Gli arabi dicevano che l’Italia è troppo lunga, e avevano ragione. Bisogna riuscire a tenere insieme due cose: università di massa e rating internazionali. Al Sud c’è stato poco rigore, poca cultura dell’autovalutazione. Chi sbaglia, stavolta, perde i finanziamenti».
In generale, quei 7 miliardi destinati ogni anno alle università cresceranno?
«Nel 2014 sì, 191 milioni in più grazie al precedente ministro, Maria Chiara Carrozza. Ma questo governo tornerà a finanziare università e scuola, senza soldi non si fa nulla. Soprattutto, ogni ateneo saprà di quanto potrà disporre dall’estate precedente, non più a fine stagione».
Gli studenti le chiedono di togliere di mezzo il numero chiuso, che ormai coinvolge metà dei corsi universitari.
«Il numero chiuso è utile per fare una selezione, collegare l’offerta alla domanda. Sarei favorevole a lasciare l’accesso libero al primo anno e poi, come in Francia, selezionare gli studenti negli anni successivi».
Vuole continuare sulla strada dei prestiti d’onore? In Italia fin qui non hanno funzionato.
«Funzionano se c’è un fondo di garanzia, una tutela. È questa la strada che perseguirò».
Diceva, autonomia anche per le scuole. Anche lì insegnanti a chiamata?
«Intanto assorbiamo i 178 mila supplenti precari, su 800 mila insegnanti totali. Costano cifre spropositate. Assumendoli, risparmieremo. E poi insisto: merito e valore anche nella scuola, maestri e professori devono ritrovare prestigio mentre spesso sono demotivati da un ugualitarismo nefasto: tutti devono fare le stesse cose con lo stesso stipendio. Oggi la scuola è un acquario a cui hanno tolto l’ossigeno».
Lei, invece, vuole differenziare, premiare.
«Certo, è un’architrave del mio mandato. Gli scatti d’anzianità, ribadisco, sono arcaici. Dobbiamo consentire a chi ha voglia di lavorare e ritrovare la sua missione di insegnante di essere gratificato anche sullo stipendio».
Come?
«Creeremo nuovi ruoli, nuove funzioni. Un esempio. Il coordinatore delle materie umanistiche all’interno di un istituto avrà un premio in busta paga. E, ovviamente, lavorerà più ore. I presidi mi hanno già detto sì, sui nuovi stipendi mi muoverò subito».
E poi?
«Dobbiamo lavorare sulle lingue, mamma mia. Possibile che solo in Italia si parli questo pessimo inglese? A 18 anni bisognerebbe stare, almeno, al livello C2, quello che ti consente di dialogare con il mondo, di lavorare. L’inglese è come lo sci: o lo impari da piccolo o zoppichi tutta la vita. Cercheremo di immettere nelle nostre scuole insegnanti madrelingua o “native like”. E dovremo sperimentare classi di “solo inglese” e “solo francese”, dove alcune materie saranno insegnate solo nella lingua straniera. Le due ore a settimana propinate da insegnanti oggettivamente scarsi servono a poco».
Come gli ultimi due ministri, proverà a imitare la Germania sulle scuole tecniche e professionali?
«È necessario. Aumenteremo gli Istituti tecnici superiori, danno lavoro. Oggi sono 63. Ne apriremo nuovi legati al turismo e ai beni culturali».
Abbiamo appena letto i dati sugli iscritti alle superiori: gli alberghieri sono la seconda richiesta delle matricole, dopo i licei scientifici.
«Gli alberghieri, e con loro le scuole per periti, tutto il tecnico-professionale, vanno riqualificati. Non sono scuole di serie B, sono scuole di specializzazione. Sull’educazione alimentare, in vista dell’Expo di Milano, abbiamo appena aperto bandi per 4,5 milioni».
Con il semestre europeo?
«Daremo forza a tutte le materie umanistiche, filosofia compresa. Alla storia dell’arte. Alla musica. Ci sono cinque milioni per l’alta formazione artistica, i conservatori. E dobbiamo rafforzare la diffusione di base. Nel paese di Verdi e Puccini i nostri ragazzi non possono essere così lontani, nell’apprendimento dei rudimenti della musica, dai coetanei tedeschi».
I dieci istituti superiori che quest’anno hanno sperimentato i quattro anni al posto di cinque?
«Continueranno a sperimentare. L’idea di finire il liceo a 18 anni è giusta ed europea, ma forse non bisogna toccare i licei, piuttosto rivedere l’intero ciclo scolastico ».
E il bonus maturità?
«Non mi piace. Il destino di un ragazzo non può dipendere da una giornata: quindi diamo premi da spendere all’università ai migliori diplomati, ma valutiamoli su tutto l’arco scolastico».

l’Unità 27.3.14
Il tiro al piccione sui pensionati
di Bruno Gravagnuolo


C’ÈUNO SPORT DI SUCCESSO MOLTO DIFFUSOIN ITALIA.ILTIROALPICCIONE SUI PENSIONATI. VIENE PRATICATO ormai da più di vent’anni come prescrizione sanitaria, dalla società civile ai rami alti della politica. Come l’allarme colesterolo ieri, è divenuto oggi senso comune. Demagogico e rigorista: il grasso si annida tra i pensionati. Lì bisogna tagliare e poi ce lo chiede l’Europa. E per di più dice la Madia i pensionati che cumulano - magari prepensionati coatti! - tolgono lavoro ai giovani.
In realtà la dietà c’è stata eccome. Dalla prima riforma Dini, a quella di Prodi, dagli scalini agli scaloni e al ricalcolo dei coefficienti. Fino agli esodati brutalizzati dalla Fornero, con contorno di blocco della contingenza anche per gli assegni più bassi e contributo di solidarietà per le pensioni superiori a 91mila Euro.
Ma era falso che il bubbone della spesa si annidasse lì. Di fatti la spesa pensionistica, prima dell’ultima riforma che ha alzato le soglie e ristretto le finestre (più che altrove in Europa) era il 13% del Pil, al netto dell’assistenza, che ovunque è in carico alla fiscalità generale. E questo dettaglio i predicatori rigoristi contro la spesa pubblica se lo dimenticano puntualmente. La cifra è scesa ancora, ma le salmodie neo liberali continuano imperterrite. E si mescolano al nuovismo giovanilista, che divide vecchi e giovani, poveri e meno poveri, garantiti e non garantiti.
Insomma, questo il punto, i pensionati sono dei parassiti e vanno colpiti. E il tema ritorna alla vigilia del Def, tra le slide di Cottarelli e quelle di Renzi, benché quest’ultimo abbia promesso solennemente che altri sacrifici ai pensionati non saranno chiesti. Salvo aggiungere che sono i pensionati che guadagnano «il giusto», a non dover temere. Ea non escludere contributi in futuro. E il giochino ricomincia. Ma dove sarà posta l’asticella, se un’asticella ci sarà? Contributo di solidarietà a partire da più di tremila euro lordi? Bene, sarebbe l’ennesima ingiustizia. Perché quei tremila divengono al netto duemila. Tra Irpef, trattenute varie, addizionali regionali e comunali. In certe città altissime, come le aliquote della Tasi, sbloccate verso l’alto, «per consentire le detrazioni»... Naturalmente i nostri tagliatori di teste di piccioni, non si scompongono. Avevano persino ipotizzato tagli pensionistici sopra i 23mila euro lordi! E finanche tagli dell’accompagnamento ai disabili pensionati con redditi di 30mila Euro lordi. Indecente? Loro tagliano per mestiere, e perciò ricevono redditi di centinaia e centinaia di migliaia di Euro all’anno, più corpose liquidazioni. Ma questo è un altro discorso, all’ordine del giorno peraltro. Qui conta ricordare alcune cose. Ad esempio, al momento per i pensionati (tutti) ci sono solo digiuno e tagli. Non riceveranno sgravi Irpef le pensioni basse (più della metà su 19milioni e seicentomila). Mentre quelle medio basse attorno ai tre-quattromila (lordi) sono a rischio di ulteriore taglieggiamento, laddove già c’è stato il salasso del blocco della rivalutazione, in parte reinserita sopra i 1500 lordi.
E si ventila pure il taglio delle detrazioni sotto i 35mila euro lordi, a colpire oltre che i pensionati, milioni di dipendenti e contribuenti onesti (per finanziare il bonus promesso da Renzi). Per alzare stipendi e salari sotto i 25mila euro lordi si andrebbero così a colpire altrettanti milioni di lavoratori dipendenti, oltre alle pensioni mediane più basse che alte. Una violenza consumata contro il ceto medio impoverito, e all’insegna del grido: pensioni d’oro! E il tutto solo perché i soggetti in questione sono senza tutela e incapaci di pesare, nell’immediato. Soggetti bancomat. Che andrebbero tutelati come cittadini, e rispettati nella loro dignità. Tanto per cominciare infatti la Corte Costituzionale con sentenza n. 116 del 2013 ha giudicato illeggittimo il prelievo effettuato da Monti sulle pensioni alte - e già sono partiti i rimborsi - e non perché non sia giusto che chi più ha debba pagare di più. Ma perché, dice la Corte, in ballo ci sono sempre dei «contribuenti» e non «categorie». Sicché l’eventuale obbligo contributivo straordinario deve riguardare tutti e ciascuno, in modo equo e progressivo. Dal magazziniere della Roma a Francesco Totti, per intendersi. Altrimenti c’è discriminazione verso una categoria, criminalizzata in quanto tale. Vedremo come finiranno i ricorsi già sollevati contro l’espediente di trattenere il contributo di solidarietà presso l’ente previdenziale di competenza . E però nel frattempo il Tribunale di Palermo ha già fatto pubblicare in Gazzetta ufficiale il ricorso alla Corte contro l’illegittimo blocco protratto della contingenza dopo il 2008. E proprio sulla base della sentenza 116 del 2013. Una pioggia di ricorsi dunque, che potrebbe costare salata allo stato e a noi tutti. E che dovrebbe dissuadere il governo da ulteriori interventi sulle pensioni.
Non si può e non si deve fare nulla dunque contro le ingiustizie contributive e le vere pensioni d’oro? Niente affatto. Si può agire sui cumuli di megapensioni, vitalizi e incarichi. Sulle finte pensioni, quelle corrisposte fuori legge. E poi si può agire sulla fiscalità generale. Contributo straordinario? Deve riguardare eventualmente tutti. Ciascuno secondo le sue possibilità, a partire da Irpef, megastipendi e grandi patrimoni, e in modo equo e progressivo. Si obbietterà che così c’è il rischio di flop dell’«effetto Renzi»: rialzo generale delle tasse. Ma quel rischio c’è in ogni caso, anche toccando le pensioni medio-basse. Perché la platea degli 845mila delle cosiddette «pensioni d’oro» va moltiplicata per quattro o cinque. Dentro ci sono anziani e famiglie monoreddito, in affitto o che hanno venduto la nuda proprietà (pagano la Tasi), giovani in carico alle famiglie, badanti, domestici. Insomma un cespite di «domanda aggregata» non indifferente. Che, spende, vota e giudica. Infischiarsene - in tempi di antieuropeismo e populismo - nonché illegittimo e anti-economico, sarebbe un regalo alla destra e a Grillo. E politicamente può costare molto caro.

l’Unità 27.3.14
I diritti del malato e il servizio «di consulenza etica»
di Maurizio Mori


IL GRUPPO NAZIONALE DI ETICA CLINICA E CONSULENZA ETICA IN AMBITO SANITARIO PRESENTERÀ OGGI 27 MARZO 2014, ALLA SALA DELLE COLONNE il «documento di Trento» che esplicita le ragioni teoriche a sostegno della proposta di istituire i servizi di «consulenza etica al letto del malato». Tutti sappiamo che la sempre più diffusa consapevolezza del pluralismo morale porta le persone a pretendere il rispetto dei propri valori etici, e che quest’aspetto fa emergere con forza come l’etica sia componente essenziale e intrinseca alla pratica clinica. Fino a pochi anni fa l’omogeneità del contesto socio- culturale garantiva una sostanziale sintonia di valori tra medico e paziente ponendo in ombra l’aspetto etico. Oggi questa base comune non è più scontata, e gli operatori sanitari devono affrontare i problemi morali presenti nella pratica clinica. Avendo una formazione scientifica focalizzata sulle tecnicalità, incontrano tuttavia notevoli difficoltà a svolgere questo compito. Di qui l’idea di un servizio di «consulenza etica» che fornisca loro un ausilio. Ecco l’idea centrale del documento di Trento, che a prima vista sembra ovvia e innocente. Ma lo è davvero?
Per stabilirlo è opportuno vedere che cosa si intende con «consulenza etica». Il documento la presenta come «una consulenza specialistica analoga alle altre consulenze svolte in ambito ospedaliero», con la sola particolarità di «una più attenta e mirata opera di relazione e dialogo». Questo significa che quella etica non è altro che una consulenza specialistica analoga per esempio a quella ortopedica, richiesta quando di fronte a diversi tipi di protesi si tratta di scegliere quello più adatto al caso particolare. Così nell’etica clinica la specifica competenza del consulente consisterebbe in una maggior attenzione al dialogo col paziente, che consentirebbe di trovare la soluzione più adatta. Tuttavia, l’analogia proposta non regge, perché in ortopedia la consulenza serve per individuare il miglior mezzo per conseguire il fine condiviso (la migliore mobilità), mentre nell’etica la consulenza non può dare per scontata la condivisione del fine: anzi, l’interesse per l’etica nasce dal fatto che nelle nostra società ci sono fini diversi e anche opposti, che è compito dell’eticista esplicitare. Il documento di Trento fraintende e svilisce il ruolo e il compito dell’etica, che invece di essere riflessione sui fini (valori) viene ridotta e declassata a mero mezzo «relazionale e dialogico » per conseguire fini che si presumono condivisi.
Proponendo la consulenza etica come consulenza specialistica analoga alle altre, il documento di Trento cerca di far passare una concezione antica e obsoleta dell’etica che trascura il pluralismo etico caratteristico delle moderne società contemporanee e secolarizzate. Per far emergere la centralità della diversità dei valori morali, si consideri un solo esempio: supponiamo che un Mario Monicelli chieda con convinzione l’eutanasia attiva: che fa il «consulente etico»? Si limita a prenderne atto e suggerisce al medico che deve acconsentire alla richiesta, o la sua competenza in «relazione e dialogo» viene usata per cercare di farlo desistere dalla richiesta? Quando il dr. Mario Riccio ha dialogato con Piergiorgio Welby per chiedergli il consenso di staccare il respiratore, questi gli ha subito risposto che non voleva l’ennesimo «dialogo» (o predicozzo) teso a farlo «riflettere ancora»! Esempi del genere sono migliaia, e mostrano che il consulente etico come specialista o è superfluo o diventa il surrogato del prete, o forse dello psicologo e dell’assistente sociale.
Essendo sprovvisto di solidi argomenti, il documento di Trento sostiene la proposta osservando che la figura del consulente etico è già diffusa all’estero (Stati Uniti). Ma solo un eccesso di esterofilia può portare a far credere che basti la trasposizione meccanica di esperimenti in corso in condizioni sociali così diverse per renderle adatte al nostro Paese. Anche negli Usa, comunque, la consulenza etica suscita parecchi dubbi e perplessità, e forse può avere un ruolo negli ospedali delle grandi confessioni religiose (cattolici, ebrei, ecc.) in cui c’è una certa omogeneità di valori ma non in altri contesti. Ciò conferma l’idea che il vero compito assegnato al «consulente etico» è quello di riaffermare i «valori condivisi » (quelli cattolici romani) contro il crescente pluralismo etico. Per assicurare questo risultato il documento opta per il «modello del singolo consulente» rispetto a quello del «gruppo di consulenti»: in quest’ultimo caso potrebbe riaffiorare il pluralismo etico, per cui è bene addurre generiche «ragioni di praticabilità e sostenibilità» a sostegno del consulente fidato.

il Fatto 27.3.14
Il film sugli OPG


Piscio e farmaci, in sala la follia criminale
di Silvia D’Onghia


Due dita a pistola sotto il maglione e settemila lire in tasca. Lire, non euro. Mani in alto, questa è una rapina di vent’anni fa che il suo autore sta ancora scontando. Non in carcere, peggio, in un Opg. È così che si chiamano i luoghi in cui si viene dimenticati da dio e dagli uomini: Ospedali psichiatrici giudiziari, un’istituzione pensata 80 anni fa col Codice Rocco e rimasta lì. Immutabile, immobile, immortale come la puzza di piscio che riempie le celle. Perché di questo si tratta: della peggiore delle galere mascherata da luogo di cura. Sbarre, guardie, muri che non ti fanno vedere oltre perché tanto il mondo va avanti senza di te e non sai quando e se uscirai. La misura di sicurezza è prorogabile, basta una firma e di sei mesi in sei mesi ti fai l’ergastolo bianco, anche se non hai ucciso nessuno, anche se magari hai solo spaccato due slot perché sei ludopatico. E lo Stato, anziché curarti, ti imbottisce di antidepressivi e ti dimentica a Barcellona Pozzo di Gotto. Gli Opg vanno chiusi il 31 marzo 2013, ha sentenziato il Senato nel gennaio 2012 (col parere contrario di Lega e Giovanardi). Prima proroga di un anno, perché le Regioni squattrinate ‘sti poveracci non sanno dove metterli. E poi? Nuova proroga, 2017, tanto per stare tranquilli. Eppure quanto sdegno avevano provocato quelle immagini girate all’interno dei 6 Opg dalla commissione d’inchiesta sul Servizio sanitario nazionale presieduta da Ignazio Marino. Immagini di morti viventi, di cloache a cielo aperto e di farmaci-caramelle; grida di aiuto, perché “l’uomo è un animale che può provare ad abituarsi, ma qui viene messo a dura prova”. Passata la festa, gabbato lo sdegno.
ORA A RICORDARE agli onorevoli e, perché no, a Strasburgo che tanto ci bacchetta l’inferno dei manicomi criminali gira per le sale (info sulla pagina Facebook) un documentario, Lo stato della follia, realizzato da Francesco Cordio, che per conto della commissione ha girato quelle immagini e che ha ricevuto una menzione speciale al Premio Ilaria Alpi 2011. Quel raccapriccio è diventato un racconto, guidato dalla voce attoriale di Luigi Rigoni, che da quella follia è passato e ne è uscito, per fortuna, quasi indenne. Non possono dire altrettanto i 1051 disperati rinchiusi negli Opg al 31 dicembre 2013. “È evidente che la chiusura degli Opg diverrà definitiva solo quando tutte le Regioni e P.A. avranno pronta la struttura – ha scritto due giorni fa la conferenza delle regioni –. I tempi vanno quindi calcolati avendo a riferimento l’ultima Regione e non la prima”. Tanto non c’è fretta, “qui ti uccidono piano piano”.

il Fatto 27.3.14
Mafia e città
41-bis, strane revoche a Catania
di Claudio Fava


Ci sono dinastie criminali cui spetta, senza volerlo, il compito di raccontare la terra di mezzo, la linea d’ombra lungo la quale mafia, politica e affari fabbricano i loro patti, si promettono protezione, si tengono per mano. A Catania (che è terra di mezzo essa stessa) questo ruolo è toccato alla famiglia Ercolano. Famiglia solidamente mafiosa per lignaggio, misfatti, parentele (22 gli Ercolano e affini condannati per mafia in questi anni). Morto Pippo Ercolano, il capostipite, ricordato il giorno del funerale da sedici corone di fiori e da un lungo, compunto “coccodrillo” del quotidiano locale La Sicilia, il bastone del comando della famiglia è passato al figlio Aldo Ercolano, condannato all’ergastolo e in regime di 41-bis. Fino a qualche mese fa.
Oggi Ercolano è tornato a essere un detenuto comune grazie alla provvidenziale revoca del 41-bis predisposta dall’ex ministro della Giustizia, non si capisce su proposta di chi e soprattutto per quali ragioni. Ne dà notizia, preoccupata, la relazione semestrale della Dna avvertendo che dal carcere Ercolano potrà ricominciare a reclutare, organizzare, ordinare: come si conviene a un capo. Perché questo era e resta oggi Aldo Ercolano: un capomafia riconosciuto, nipote prediletto di Nitto Santapaola, reggente di Cosa Nostra a Catania dopo l’arresto dello zio. Un mafioso – scriveva l’anticrimine di Catania in una sua nota – che “seppur detenuto da molti anni, ha sempre avuto e continua ad avere una posizione di assoluto prestigio all’interno della Famiglia”.
Chi l’ha tolto dall’isolamento carcerario? Solo distrazione, sciatteria o altro? Nel momento in cui tanti si preoccupano per la revoca del carcere duro a Provenzano malato terminale, come mai nessuno si è accorto che uno tra i boss più pericolosi di Cosa Nostra non è più al 41-bis? Ammetto: a me non piace il 41-bis, mi sembra l’ammissione di una debolezza dello Stato che non riesce, attraverso la detenzione normale, a evitare che un capomafia continui a distribuire i propri ordini anche dal carcere. Non mi piace la compressione di alcuni diritti fondamentali che sta dentro la natura stessa del 41-bis perché non credo che la pena debba essere una vendetta: se c’è un principio di civiltà che ci distingue dai mafiosi è che noi applichiamo le regole dello Stato di diritto, loro quelle della violenza, della menzogna e della viltà. Detto questo, fino a quando nella legge sarà previsto il 41-bis, un boss come Aldo Ercolano non può essere beneficiato da trattamenti di favore. Anche per non dover pensare che quel beneficio non sia stata una svista ma una scelta.
Seconda chiosa: la famiglia mafiosa degli Ercolano. Non nuova a trattamenti di favore. Se l’editore del La Sicilia Mario Ciancio è indagato per concorso esterno in associazione mafiosa lo deve anche al garbo con cui si intratteneva con il capofamiglia Pippo Ercolano: fino al punto da rivolgere – in presenza del boss, suo ospite al giornale – un sonoro cazziatone a un cronista che si era permesso di citarlo a sproposito in un articolo. “Veramente sono gli atti del maxi-processo Orsa Maggiore” si giustificò il cronista. “E a noi che ci frega? Noi facciamo i giornalisti, non i carabinieri: e il signor Pippo Ercolano è una persona perbene” (talmente per bene che lo avrebbero condannato per omicidio e associazione mafiosa).
ANNI felici e ingordi. Gli Ercolano trafficano con la droga e intanto investono nelle imprese di trasporto, flotte di tir che solcano l’Italia portando a spasso pomodori di pachino e latitanti di Catania (qualche volta anche Nitto Santapaola, per la cronaca). E quando infine, per senso di decenza, viene confiscata l’azienda di famiglia Avimec, loro ne aprono subito un’altra, tenaci e impuniti. L’ultima confisca, la Geo-trans(120 mezzi e 5 milioni di euro di fatturato), risale a pochi giorni fa e si deve al rigoroso lavoro di una rinnovata Procura della Repubblica.
In famiglia c’è stato anche chi l’impresa di trasporti è andato ad aprirsela al nord, al riparo da sospetti e malelingue: Angelo Ercolano, cugino di Aldo. Per anni si è detto che quel bravo ragazzo incensurato nulla aveva in comune con la sua famiglia, a parte la coincidenza di un cognome e del business dei camion. Il Giornale gli dedicò la copertina del proprio inserto domenicale, con foto in prima pagina per celebrare la fertile imprenditoria meridionale che aveva resistito alla cultura del sospetto e all’antimafia chiodata. Gli autotrasportatori siciliani se lo scelsero perfino come loro vicepresidente. Una novella da libro Cuore. Fino alla settimana scorsa quando la Procura di Catania gli ha messo sotto sequestro la Sud Trasporti (600 tir, 17 milioni di fatturato dichiarato) per un giro di fatture false da più di tre milioni di euro.
E adesso questa cortesia ad Aldo Ercolano, silenziosamente tolto dal 41-bis. Ripeto la domanda: distrazione, sciatteria o cosa?

Repubblica 27.3.14
Perché è necessario tornare a Keynes
di Guido Carandini



IN EUROPA siamo fra i Paesi che si trovano a fronteggiare una prolungata e ostinata recessione che rende estremi i fenomeni delle disuguaglianze, che accresce la disoccupazione di massa e quindi l’inevitabile immiserimento della classe media. Anche da noi cresce il numero degli studiosi che sostengono la scarsa validità della scienza economica definita main stream, nel senso di “tradizionale”, che ancora si insegna nelle Università, che viene professata dalla maggior parte degli economisti e di conseguenza finisce per essere accettata anche dal senso comune.
Scarsa validità perché quella scienza non soltanto non spiega i disastrosi fenomeni, ma neppure li concepisce non essendo disposta - incredibile a dirsi - a rinunciare ad alcuni principi di fondo e di lontana provenienza i quali sono ancora incapaci di dare una spiegazione semplicemente perché negano la possibilità stessa del loro verificarsi. Infatti, per assurdo e fantasioso che possa apparire, fra quei principi continua a esserci quello della presunta “efficienza e razionalità dei mercati”, nel senso che essi sarebbero capaci in via di principio di impedire in ogni caso che si verifichino le situazioni di squilibrio da cui crisi e recessioni hanno origine.
Se si immagina una situazione in cui i prezzi e i salari, al contrario di quel che accade in realtà, fossero completamente flessibili, cioè capaci all’occorrenza di aumentare o diminuire nella misura in cui sarebbe di volta in volta necessario per mantenere in equilibrio l’economia, allora regnerebbero la piena occupazione e la piena utilizzazione delle risorse. Perché ogni shock produrrebbe nel sistema un istantaneo aggiustamento di prezzi e salari capace di evitare ogni possibile trauma al sistema economico nel suo complesso. Tuttavia, se questo non accade non è colpa del mercato ma appunto secondo la scienza economica main stream lo si deve allo Stato e ai suoi interventi che violano il libero manifestarsi delle forze autonome degli agenti economici.
Peccato che la supposta efficienza e razionalità dei mercati siano puramente frutto di una ideologia e non di una visione critica principalmente per due ragioni. La prima è che sono affermate da una teoria che riflette l’immagine del mondo caratteristica di quella determinata classe che in ogni tempo è dominante proprio in quanto quei mercati cerca di controllarli secondo le sue convenienze e il suo tornaconto. E questo avviene anche se è una classe che costituisce in ogni Paese una esigua minoranza dato che in quelli più avanzati, come sostiene il Premio Nobel Stiglitz, costituisce generalmente appena l’uno percento della popolazione.
La seconda ragione è che quel principio, per essere valido, esige a sua volta di essere basato su una ipotesi del tutto fantasiosa ma che ancora pare sia necessaria a molte teorie insegnate nelle Università, e cioè che tutti gli agenti economici hanno “una perfetta conoscenza del futuro”. Il guaio sarebbe che proprio questa ipotesi assai azzardata era stata respinta come del tutto inconcepibile da un teorico che apparteneva anche lui al mondo accademico e cioè da John Maynard Keynes.
Keynes sosteneva l’opposto principio delle “incerte aspettative” che immancabilmente dominano le decisioni di quegli agenti. Ed è stato lui che quasi ottant’anni fa scriveva una Teoria generale nella quale, al contrario dei suoi colleghi, mostrava che le possibilità di crisi sono endemiche del capitalismo proprio perché si tratta di un sistema caratterizzato da quella insuperabile incertezza. Tutto questo ce lo ricordano gli economisti di ispirazione keynesiana come Paolo Leon e il più importante biografo di Keynes, cioè l’economista e storico Robert Skidelsky nel suo più recente libro The Return of the Master( Allen Lane 2009), nel quale sostiene che sessant’anni dopo la sua morte egli continua a essere il più grande pensatore economico fin qui apparso nel mondo.
Ed è proprio per questo che il suo ritorno oggi sarebbe indispensabile per restituire alla scienza economica la effettiva capacità di interpretare la realtà, invece di camuffarla per renderla compatibile con teorie assai spesso campate in aria ma sicuramente gradite a ben precisi interessi.

Corriere 27.3.14
I limiti e le possibilità della democrazia in Rete
di Serena Danna


«Il nostro contratto sociale con i sovrani digitali è a un livello primitivo, hobbesiano, monarchico. Se siamo fortunati, abbiamo un buon sovrano e preghiamo che il figlio o l’erede da lui scelto non siano cattivi». Le parole di Rebecca MacKinnon, cofondatrice di Global Voices, fanno da premessa alla tesi di Critica della democrazia digitale , il saggio di Fabio Chiusi in uscita oggi per Codice edizioni.
Se Facebook e Google governano il mondo, la responsabilità è anche dei cittadini che — scrive Chiusi — «non sembrano curarsene», e sono incapaci di portare la relazione «dall’imposizione al consenso».
Tuttavia, se, da un lato, è necessario e auspicabile favorire una maggiore consapevolezza nei cittadini sulla gestione dei dati personali bramati dalle aziende, dall’altro, avverte il giornalista e cyberattivista, la partecipazione dei cittadini alla vita pubblica attraverso il web è per sua natura limitata. Non basta usare i social media «per garantire maggiore partecipazione», sostiene l’autore del blog II Nichilista , che sottolinea come il «rapporto tra “viralità” e partecipazione sia molto più complesso della sua riduzione a una sorta di determinismo tecnologico per cui il semplice ricorso ai social media è sufficiente sempre e comunque a mobilitare l’elettorato».
Considerazioni che suonerebbero ovvie, se non fosse che l’Italia ha rappresentato negli ultimi anni «uno dei laboratori del rapporto tra Internet e policy making al mondo», nonché il Paese simbolo della retorica sulla democrazia digitale proposta da gruppi e movimenti politici — su tutti, il Movimento Cinque Stelle — come soluzione ai mali della politica. Idea, ricorda Chiusi, bollata come puerile già da Norberto Bobbio nel 1984: «Il prezzo che si deve pagare per l’impegno di pochi è spesso l’indifferenza di molti. Nulla rischia di uccidere la democrazia più che l’eccesso di democrazia», scriveva il grande intellettuale nel Futuro della democrazia.
Chiusi smonta la retorica che ha «trasformato un web marketer come Gianroberto Casaleggio in un guru» attraverso l’analisi di casi e piattaforme che dall’Italia di Grillo e della «sempre annunciata e mai compiutamente attuata» Agenda Digitale arrivano all’istituto del recall californiano (la possibilità per i cittadini di revocare una carica a un eletto nel caso in cui ritengano che il mandato non è stato svolto correttamente) e al Senador Virtual del Cile, piattaforma che permette ai cittadini diversi gradi di partecipazione alla vita politica.
Chiusi — che cita spesso i lavori del giurista Stefano Rodotà — non si limita alla critica, e prova a formulare proposte per dare a partecipazione e trasparenza un significato funzionale ai netizen contemporanei, identificando nei partiti politici le figure più adatte. I quali dovranno però essere «aperti all’ascolto delle istanze dei cittadini, gestiti in modo chiaro e immediatamente verificabile da ciascuno, e capaci di ribadire che la politica richiede rappresentanza».

il Fatto 27.3.14
Il trionfo elettorale di B.
27 marzo ’94: il Caimano mostra i denti all’Italia
di Pino Corrias


Il 27 marzo 1994, poche ore prima che l’Italia voltasse pagina per sempre, ipnotizzata dalla perpetua colonna sonora di Forza Italia, musica di Renato Serio, parole di Silvio Berlusconi, per infilarsi in un ventennio ad alta intensità lisergica e banditesca, soffiava, sulle impolverate macerie della politica, un venticello che annunciava tempesta. Specie a Milano, dove noi cronisti annotavamo, dopo i 5 mila arresti di Tangentopoli, la quotidiana carognata degli automobilisti che riconoscendolo per strada sputavano in faccia al giovane Bobo Craxi, colpevole di niente. E assistevamo increduli alla irresistibile ascesa di Umberto Bossi che sputava anche lui, ma solo ire secessioniste, contro “i porci di Roma”.
Di quasi nulla si accorgevano gli eleganti narratori della bella primavera romana, politici e giornalisti protetti dagli eterni velluti dei Palazzi, che avevano già assorbito gli sfracelli del Nord con un’alzata di spalle, archiviandoli come suoni gutturali dei barbari. E il nuovo potere dei magistrati neanche li impensieriva, persuasi com’erano che il vuoto in politica non poteva esistere: le foto segnaletiche dei vecchi politici non sarebbero state sostituite, semmai truccate con qualche artificio, la gioiosa macchina da guerra di Achille Occhetto avrebbe perfezionato il compromesso storico, la Dc e i socialisti erano pronti a cambiare pettinatura, qualche mariuolo si sarebbe offerto di pagare il conto, e tutto sarebbe tornato come prima.
Il mio ex direttore Paolo Mieli, appena passato al Corriere , pronosticava che Berlusconi avrebbe incassato al massimo il 10 per cento dei voti per poi affidarli a Francesco Cossiga esperto di labirinti romani: “Cosa volete che ne sappia Berlusconi di Palazzo Chigi?” diceva in riunione, rasserenando tetre avvisaglie di imminenti sfracelli che filtravano dal mondo reale. Il suo giovane allievo Marcello Sorgi, responsabile romano de La Stampa, aspettava “il sicuro ritorno di De Mita”, o al massimo del suo amato Nicola Mancino. Eugenio Scalfari, il fondatore di Repubblica , si limitava a prevedere l’insuccesso del “ragazzo Coccodè”. Mentre l’altro genio della politologia, Ernesto Galli della Loggia, rassicurava che quello di Berlusconi “era un partito di yuppies” che non conteneva nulla delle speranze, dei bisogni, delle idealità “della politica nobile”.
Come le tre scimmiette
Facevano tutti finta di non vedere, non sentire, non capire. Otto mesi prima, Raul Gardini, l’uomo più riccod’Italia,sierasparatoallatempiaalle9delmattino, in accappatoio, dopo avere bevuto il succo d’arancia preparato dal suo maggiordomo. Avrebbe dovuto andare a Palazzo di giustizia, dove Di Pietro lo voleva interrogare sulla tangente Enimont destinata al penta partito e sulla valigia di soldi consegnata al Pci in via delle Botteghe Oscure. Lo sparo era riecheggiato nei saloni di Palazzo Belgioioso, a pochi isolati dalla chiesa di San Babila dove in quei minuti si stavano officiando i funerali di Gabriele Cagliari, ex presidente Eni, che si era suicidato nella sua cella a San Vittore, soffocato dai rimorsi e da un sacchetto di plastica. Per salvare Gianni Agnelli, la Fiat aveva consegnato alle manette dei magistrati una modica quantità dei suoi manager maggiori, e pure Cesare Romiti si era genuflesso nella contrizione. Carlo De Benedetti era stato addirittura arrestato, anche se solo per una manciata di ore.
E l’impero di Silvio su quale cornicione stava? Sul più alto, sul più pericoloso. Nel tetro villone di Arcore, dove ancora aleggiava come una premonizione il fantasma della marchesa Casati Stampa distrutta dalle ossessioni sessuali del marito, Berlusconi stava respirando da molti mesi il rischio incombente. Fininvest stava per crollare sotto il peso dei debiti: 7 mila miliardi di lire, 4,2 lire di debito per ogni lira di capitale. Le banche più esposte –Monte Paschi, Banca di Roma, Bnl, Cariplo, Comit – avevano imposto Franco Tatò al vertice del Biscione, come garanzia del debito. E Tatò, dopo aver dato un’occhiata alla voragine dei conti aveva sentenziato: “Dobbiamo portare i libri in tribunale”. Berlusconi, che sa tutto di quello che c’è scritto e (specialmente) non c’è scritto sui libri contabili, non ci pensa proprio. Nei 24 mesi appena passati ha visto il fuoco di Tangentopoli divorare uomini, carriere, aziende, patrimoni, partiti. Ha visto la macchina del Palazzo di Giustizia di Milano inghiottire un mondo e restituirlo in pezzi. Il suo mondo. Quello di Bettino Craxi, Arnaldo Forlani, Giulio Andreotti che lo hanno coccolato nella bambagia. Di Oscar Mammì, repubblicano che gli ha cucito una intera legge televisiva a sua misura, tre reti Fininvest contro tre reti Rai. Di tanti altri soldatini – da Giorgio La Malfa a Francesco De Lorenzo – che pretendevano e incassavano come fossero generali.
Da sei mesi aveva visto con chiarezza le alternative: consegnarsi alle indagini dei magistrati, sperando di uscirne vivo. Ma per farlo avrebbe dovuto sciogliere fin troppi misteri di bilancio del suo impero, a cominciare dai primi miliardi spuntati dalla Svizzera a metà degli anni Settanta, quando Stefano Bontade, il principe di Villagrazia, veniva a fargli visita, con quell’altro mafioso, Vittorio Mangano che si sarebbe installato per anni nel villone a guardia dei soldi e della incolumità dei figli, Marina e Pier Silvio. Oppure resistere, consegnare una rete alla sinistra postcomunista, come gli consigliavano Fedele Confalonieri e Maurizio Costanzo, per poi trattare la sopravvivenza con il nuovo potere politico. “Si è sempre fatto così, guarda la Rai” gli ripetevano i suoi colonnelli nei consigli di guerra del lunedì pomeriggio. Tranne uno, che da molti mesi gli diceva: “E noi faremo diverso”.
L’uomo chiave è Dell’Utri. Si tratta di Marcello Dell’Utri, palermitano, che da un decennio guida i mille venditori di Publitalia, organizzati regione per regione, città per città, riempie di spot le reti, fattura 2.500 miliardi di lire l’anno, organizza convention con migliaia di imprenditori, conosce i gusti, i sogni, i bisogni, le idealità degli italiani molto meglio di tutti i Galli della Loggia che galleggiano nel loro inchiostro. Dice: siamo lo scrigno dei desideri, abbiamo i soldi, le star televisive, i nostri capi area, i club del Milan che sono il doppio delle sedi Dc. Se siamo orfani dei partiti che ci proteggevano le spalle, è venuto il momento di tutelarci da soli. Propone l’impensabile, trasformare la Fininvest in un partito e il pubblico televisivo in un elettorato. Il Dottore mette in scena un ponderoso tormento, o almeno ce lo racconterà: “Non dormivo la notte. E qualche volta, sotto la doccia, piangevo”. Poi decide, si parte. La rumba comincia a gennaio, con il messaggio urbi et orbi “Questo è il Paese che amo”. Incassa la benedizione di Craxi e quella di Agnelli: “Se perde, perde lui. Se vince vinciamo tutti noi”, dirà l’Avvocato, credendo di essere un dritto.
Gli avversari in campo sono già metà della sua vittoria. Mino Martinazzoli, fuoriclasse della vecchia guardia democristiana, fuma, legge, fa politica, Berlusconi nessuna delle tre cose, gli italiani non hanno dubbi a scegliere tra i due. Achille Occhetto, traghettatore del post comunismo, veste giacchette di tweed marroncine. Ha i baffi, il ciuffo, ma passando (e parlando) non lascia traccia. Bossi lo chiama “paperello”. Nell’unico confronto tv con Berlusconi inciampa parlando della sua piccola barca a vela. Silvio (che di barche ne ha una dozzina) lo trafigge: “Meno male che lei ha il tempo di andare in barca. Io lavoro”. Il quieto Segni, che pure era il trionfatore del referendum per il maggioritario e l’abolizione delle preferenze, ha il suo destino nel nome: Mariotto; fatta la legge elettorale non la capisce, come gran parte dei suoi alleati. Berlusconi invece la capisce eccome e la incorpora nel suo imbroglio di nuovo marketing politico: alleanza al nord con la Lega secessionista che “si pulisce il culo” col tricolore, e al centro-sud con gli orfani di Almirante, i post camerati guidati da Gianfranco Fini, che davanti al tricolore fanno ancora finta di lacrimare per l’emozione.
Una certezza per tutti
Durante la campagna elettorale Berlusconi orienta le sue parole d’ordine secondo la bussola dei sondaggi macinati dalla Diakron di Gianni Pilo. Parla male dei vecchi politici, tanto non gli costa niente. E benissimo dei magistrati, anche si gli costa moltissimo. Promette il taglio delle tasse sotto “la soglia naturale” del 33 per cento. E un milione di nuovi posti di lavoro: “In Italia ci sono 4 milioni di aziende. Basta che una su quattro assuma almeno un giovane e il gioco è fatto”. Con lui sembra tutto facile, tutto a portata di mano. È monopolista, ma predica il liberismo. Gli va bene l’Europa, il federalismo, l’autarchia. È massone, ma anche unto del Signore. È filo americano, ma fa affari in Russia. È libertino e credente. Ha due famiglie e tre zie suore. Ai suoi alleati dice: “Se vinciamo ce ne sarà per tutti”. Agli italiani: “Sono ricco, non ho bisogno di rubare”.
Tante ragioni preparano il suo trionfo. Offre sogni invece che sacrifici. Conosce la pancia degli italiani, le loro debolezze, la loro insofferenza alle regole: lui la pratica e se ne vanta. È nuovo, o almeno sembra. È allegro, o almeno sembra, in un’Italia cupa, che in 15 anni è diventata la nazione più anziana d’Europa. Che contiene la guerra strisciante delle tre mafie: 5 mila morti ammazzati nell’ultimo decennio in Sicilia, 3 mila in Calabria, altrettanti in Campania. Fino alla nuova stagione delle stragi, aperta con il boato di Capaci, durante la quale la mafia e lo Stato ridisegnano le loro reciproche compatibilità. Una classe dirigente corrotta. Una università a pezzi e una scuola in malora. Lui se frega, mostra tutti i denti del sorriso e dice: “Abbiamo il sole in tasca”.
Quando si apre il cristallo elettorale, ecco il portento: Forza Italia incassa il 21 per cento dei voti, Alleanza nazionale il 13,5, la Lega supera l’8. Il Polo è maggioranza. La sinistra esce annichilita e sconfitta. Come Napoleone, Silvio è sceso in campo e in tre mesi ha conquistato l’Italia, ma stavolta con un alleato formidabile, gli italiani. Il governo nascerà a maggio, con il voto decisivo di tre senatori a vita – Agnelli, Cossiga, Leone – a dire che il nuovo potere sì è già alleato con quello vecchio e peggiore. Comincia l’era delle grandi bugie. E della finta opposizione guidata da Massimo D’Alema, la volpe del Tavoliere e della Bicamerale. Qualche anno dopo persino l’inno di Forza Italia verrà accusato di plagio per aver copiato un brano americano, This Is The Moment, tratto dal musical Dottor Jeckyll & Mr Hide. La verità si nasconde nei dettagli.

Per un puro fortuito e - ne siamo sicuri - assolutamente  accidentale caso...
Repubblica dichiara a gran voce che si rinnova da oggi, che è giovedì 27
Sempre che non sbagliamo, dunque, proprio due giorni prima di sabato 29...
(e tutto il rinnovamento di cui si vantano ci sembra francamente ridursi a una prima pagina vuota... fuffa!)
Repubblica 27.3.14
Scopri in edicola la nuova Repubblica
Un giornale per l'Italia  del futuro
di Ezio Mauro

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Alle viste un altro mega-ricatto: alle europee ci chiederanno di votare un’altra volta per la padella per il pericolo di finire nella brace...
L’abbiamo fatto per vent’anni, e non ne abbiamo mai ricavato altro che delusioni e fregature...
Ci viene il pensiero (malizioso?) che a chi ce lo dirà, sotto sotto, Renzi vada proprio bene...
La Stampa 27.3.14
Renzi alla carica per le Europee “Primi in Italia e secondi nel Pse”
Il premier presenta il Ddl sul nuovo Senato ai parlamentari Pd: così batteremo Grillo
di Fabio Martini


Alle dieci di sera, Matteo Renzi si è ripresentato - oramai con una frequenza senza precedenti - agli oltre 400 parlamentari del Pd, e con la “scusa” di presentare la piccola “Grande Riforma” istituzionale da lui voluta a tutti i costi, ha lanciato la campagna elettorale per le Europee del 25 maggio sulle quali il presidente del Consiglio si gioca la faccia: «Andiamo a testa bassa perché dobbiamo vincere le Europee ed è difficile in alcuni comuni. 
Dobbiamo essere il primo partito in Italia, il secondo nel Pse». Forte del più recente “scalpo” (il sì del Senato di poche ore prima all’abolizione delle Province) il presidente del Consiglio ha spiegato il pacchetto di riforme istituzionali da portare a casa (Senato, nuovo disegno delle competenze Stato-Regioni, legge elettorale) ma soprattutto ha lanciato alcuni slogan elettorali: «Noi stiamo cambiando il Paese davvero, mentre Grillo grida e altri parlano di candidature. Noi abbiamo capito il messaggio della gente, cioè che erano stanchi di quella politica. Noi rispondiamo con la buona politica, non con l’antipolitica».
Un Renzi letteralmente “affamato” di consensi, anche alla luce del ruolino di marcia che intende imporre al suo partito: «Tra due settimane chiudiamo le candidature e il 12 aprile si parte con la campagna elettorale per le Europee». Significa che Renzi non intende aspettare le canoniche scadenze per la presentazione delle liste, ma vuole far partire in anticipo la macchina e i candidati. E sempre davanti ai suoi parlamentari un nuovo annuncio: «I cantieri per 3,5 miliardi sulla scuola partiranno da giugno» investimenti che saranno conteggiati «fuori dal patto di stabilità», una procedura che dovrebbe consentire di sbloccare un altro 1,5 miliardi di investimenti contro il dissesto idrogeologico.
Annunciata come un’assemblea dedicata alle riforme, il senso della serata si è subito chiarito: Renzi ha voluto stringere i bulloni al suo partito alla vigilia di due mesi molto impegnativi e nel corso dei quali, un provvedimento dietro l’altro, Matteo Renzi proverà a costruire un gratificante risultato per il Pd alle elezioni Europee. I parlamentari del Pd hanno ascoltato e applaudito. D’altra parte in questa fase Matteo Renzi vive in uno stato di grazia che è plasticamente dimostrato dalla assenza di veri oppositori, sia dentro che fuori il suo partito. Se si esclude la resistenza dei 5 Stelle, nella sfera politica il presidente del Consiglio da un mese ha imposto la sua agenda, gli altri la seguono e la inseguono e, per ora, chi non è d’accordo, fatica a far valere i propri argomenti. In questo clima di luna di miele, Renzi ha adottato dentro al Pd un metodo di consultazione quasi permanente della Direzione, mai riunita tanto negli anni precedenti, e dei gruppi parlamentari.
Ieri sera, alla vigilia della giornata dedicata al presidente americano Obama, il presidente del Consiglio si è presentato ai parlamentari del Pd con una bozza di testo elaborato nei giorni scorsi, un testo unificato che assorbe tutte le riforme istituzionali da lui preannunciate nelle settimane scorse: la fine del bicameralismo perfetto, con la sostituzione dell’attuale Senato con un Senato delle autonomie chiamato a non esprimere più il voto di fiducia ai governi ma solo su una quantità limitata di materie; la riforma del titolo V della Costituzione, con un ridisegno delle materie concorrenti tra Stato e Regioni; l’abolizione del Cnel. 
Nella bozza che il governo presenterà non è prevista una norma, caldeggiata da Forza Italia e non sgradita a Renzi, che prevede la possibilità di revoca dei ministri da parte del capo del governo e che il governo intende lasciare al libero gioco parlamentare. E ha concluso: «Le riforme sono la risposta all’anti-politica. Non ci serviva certo il voto francese per capire la necessità di riforme, il voto francese ci invita però a riflettere sul modello di Europa che vogliamo costruire e se riusciamo a chiudere questo pacchetto di riforme siamo più credibili anche per chiedere un’altra Europa». 

Corriere 27.3.14
La lotta di classe che divide l’Europa
di Giuseppe Sarcina


Impossibile andare avanti. Impossibile tornare indietro. Ma anche lo status quo è insostenibile. Conclusione: L’Europa è in trappola . Questo è il titolo dell’ultimo libro di Claus Offe, 73 anni, uno dei più importanti intellettuali tedeschi, già professore all’Università Humboldt di Berlino e oggi docente di Sociologia politica nell’Università Hertie School of Governance sempre nella capitale. Sarebbe sbagliato, però, inserire questo breve saggio, pubblicato dal Mulino (pp. 102, e 10), nella folta schiera di omelie funebri in memoria del progetto europeo. Offe, studioso con ascendenze marxiste, sensibile alla lezione di Jürgen Habermas sul deficit di legittimità delle istituzioni occidentali, prova a indicare come superare la «contraddizione fondamentale» che imprigiona la Ue.
In linea di principio, sostiene l’autore, tutti concordano su ciò che bisognerebbe fare con urgenza, tanto nel Nord quanto nel Sud dell’Europa. I Paesi più solidi, a cominciare dalla Germania, dovrebbero accettare di mettere a fattore comune il debito dell’intera Unione Europea. Nel concreto significherebbe chiedere ai cittadini tedeschi, olandesi o finlandesi di concorrere a coprire le passività accumulate negli ultimi vent’anni nei bilanci pubblici italiani, greci, spagnoli.
Di converso le autorità degli Stati «periferici», appunto Grecia, Spagna, Portogallo e Italia, dovrebbero imporre misure severe per aumentare la competitività del sistema economico, partendo dalla riduzione del costo del lavoro che vuol dire produrre di più a parità di salario oppure, brutalmente, produrre le stesse cose, ma con retribuzioni minori. Ma, argomenta Offe, sia la «mutualizzazione» del debito pubblico che la riduzione del costo del lavoro, si sono dimostrate politicamente impraticabili tanto nel centro quanto nella periferia dell’Unione europea. Anzi la loro semplice evocazione ha favorito la crescita tumultuosa delle formazioni anti-europeiste. Con motivazioni opposte, ma in un certo senso complementari. Nel Nord Europa lo slogan ricorrente è: mai più regali ai Paesi mediterranei. Nel Sud, invece, si proclama: basta con l’austerity e dunque basta con «l’euro germanico».
Sul piano politico l’Europa è assediata da forze tra loro contrastanti, ma oggettivamente alleate e con un obiettivo comune. Il sociologo tedesco richiama i successi elettorali di Alleanza per la Germania e, soprattutto, del Movimento 5 Stelle. Entrambi i raggruppamenti chiedono la dissoluzione di «questa» Europa. I primi paventando la fine dell’Eden tedesco, travolto dal dissesto mediterraneo. I secondi pronosticando l’asfissia dell’Italia per l’eccesso di rigore finanziario imposto dalla Germania di Angela Merkel.
La domanda, dunque, dovrebbe essere questa: i partiti anti-europei (definizione forse più precisa di quella troppo generica di «populisti») saranno davvero in grado di distruggere la costruzione di Bruxelles? Il libro di Offe fornisce solo una risposta indiretta: tocca alle formazioni tradizionali europeiste (popolari, liberaldemocratici, socialisti, verdi) cambiare il paradigma della contesa politica. E qui Offe mette in campo l’analisi economica, ripercorrendo i dati sugli squilibri strutturali all’interno della Ue (disavanzi commerciali e dei bilanci pubblici) per concludere, un po’ marxianamente, che lo scontro non è tra nazioni. La Germania «contro» la Grecia; l’Olanda «contro» la Spagna o l’Italia. Bensì tra classi sociali.
Il sociologo tedesco fa un solo esempio, ma è più che sufficiente: «Ogni anno i greci ricchi trasferiscono 40 miliardi di euro fuori dal Paese sui loro conti in Svizzera o altrove». I grandi partiti storici tedeschi, francesi o olandesi avrebbero, dunque, il dovere di distinguere tra la Grecia degli evasori e quella dei disoccupati. Ma, osserva con amarezza Offe, non è così: questo slittamento dei grandi partiti, questa «miseria politica» impedisce di riformare le istituzioni comunitarie, di adottare i provvedimenti che servirebbero. Spetta, dunque, agli schieramenti politici tradizionali liberare l’Europa dalla trappola, cessando, innanzitutto, di rincorrere gli avversari.
È una conclusione cui giunge anche Michele Salvati, economista e politologo, che firma la presentazione del volume di Offe. In chiave italiana Salvati si «stupisce» che esista qualcuno che seriamente proponga «la catastrofe» cioè il ripudio dell’euro, come via d’uscita dalla crisi. L’unica strada, osserva concordando con il collega tedesco, «è la speranza di un risveglio di serietà, di concretezza e di orgoglio nel mondo della politica».

La Stampa 27.3.14
2013, il triste record del boia
Il mondo riscopre il patibolo
di Enrico Caporale


L’uomo non è diventato meno crudele col passare di quella cosa illusoria che si chiama tempo, anche se in quasi tutte le parti del mondo è diventato più ipocrita di quello che era», scriveva nel 1928 Charles Duff (Manuale del boia, Adelphi editore). Da allora diversi passi avanti sono stati compiuti nel cammino verso l’abolizione della pena di morte, ma il libro di Duff continua ad essere drammaticamente attuale. Nel 2013, infatti, il boia ha continuato a uccidere in 22 Paesi, uno in più rispetto al 2012.
Secondo l’ultimo rapporto di Amnesty International, nel corso dell’anno passato sono state messe a morte almeno 778 persone (contro le 682 del 2012, una crescita del 15%), quattro Paesi (Indonesia, Kuwait, Nigeria e Vietnam) che non avevano fatto ricorso alla pena capitale per lunghi periodi, sono tornati ad affidarsi al boia, e un allarmante aumento delle esecuzioni è stato registrato in Iran e Iraq (ma Amnesty non possiede dati su Egitto e Siria, entrambi dilaniati da disordini e conflitti civili). Il rapporto, inoltre, non tiene conto delle migliaia di persone che si ritiene siano state giustiziate in Cina, responsabile di un numero di esecuzioni superiore a quello di tutti gli altri Paesi del mondo, e dove la pena capitale è considerata segreto di Stato.
Ciononostante, uno sguardo ai dati globali dimostra che il trend è positivo (con una riduzione delle persone affidate al boia di quasi un quarto rispetto al 2003). Sebbene gli Stati Uniti restino l’unico Paese del continente americano a eseguire condanne a morte, ad esempio, qui il numero di esecuzioni è diminuito, e nel 2013 il Maryland è diventato il 18° Stato abolizionista. Lo scorso anno, inoltre, nessuna condanna a morte è stata eseguita in Europa e Asia Centrale: la Bielorussia, unico Stato della regione a farne uso, per la prima volta dal 2009 non è entrata nella lista di Amnesty.
Ma nel mondo sono oltre 23 mila i detenuti rinchiusi nel braccio della morte e l’anno scorso 57 Paesi hanno disposto 1925 condanne capitali. Scriveva sarcasticamente Charles Duff: «Molti avranno sentito raccontare quella vecchia storia del marinaio che naufragò sulla costa inglese. Egli non sapeva che costa fosse, ma mentre si sforzava di raggiungere la riva, vide una forca con appeso un criminale. Il marinaio tirò un sospiro di sollievo e mormorò fra sé: “Grazie a Dio sono arrivato in un Paese civile!”». Ma era il 1928.

Gli F.35 e il gas americano allora ci toccano per forza...
Repubblica 27.3.14
Obama striglia la Ue “Basta tagli alla Difesa cercate fonti d’energia”
“Il primo anno del Pontefice e il suo messaggio d’uguaglianza sono stati fonte d’ispirazione”
di Federico Rampini


«L’America non esiterà mai a difendere i suoi alleati» e denuncia la «forza bruta con cui la Russia vuole intimidire i suoi vicini». Barack Obama incontra i vertici Ue e Nato a Bruxelles, mette la crisi ucraina al centro della sua prima visita nella capitale europea. La sua difesa dell’Alleanza atlantica è appassionata: «È la pietra angolare del nostro impegno internazionale, il mondo è più sicuro e più giusto quando gli Stati Uniti e l’Unione europea si mobilitano insieme», dice alla conferenza stampa col presidente Ue Van Rompuy e il presidente della Commissione Barroso. Obama ammonisce gli alleati a non sottovalutare il senso delle azioni di Vladimir Putin: «Il comportamento della Russia non riguarda un solo paese, ma l’Europa intera». Anche il suo summit bilaterale col governo belga ha una tappa simbolica: il presidente visita nelle Fiandre un cimitero dove sono sepolti soldati americani caduti durante la prima guerra mondiale. «L’Unione europea nacque dopo la seconda guerra mondiale — dice alludendo ancora all’Ucraina — proprio basandosi su principi di rispetto della sovranità». Ma la libertà «non è gratis», i valori comuni dell’asse atlantico vanno difesi con comportamenti coerenti, anche quando costano sacrifici. «Se abbiamo unsistema di difesa collettivo — avverte Obama — ciascuno deve avere un “chip”, una carta sul tavolo. Ho seri dubbi che i tagli negli impegni di alcuni nostri alleati assicurino una forza credibile alla Nato.
Ciascuno deve farsi carico della propria parte. È così che si costruisce la fiducia per le nazioni al confine con la Russia».
Stesso monito sulla questione energetica, punto dolente delle sanzioni economiche che sono state minacciate qualora Putin prosegua con gesti aggressivi verso l’Ucraina: quelle sanzioni farebbero male anche alle economie europee. «L’Europa — dice Obama — deve guardare alle proprie risorse. Ogni possibile fonte di energia ha i suoi svantaggi. L’America come nuova fonte di approvvigionamento è una possibilità, ma noi stessi abbiamo dovuto fare delle scelte difficili. L’Europa deve affrontare una conversazione seria al suo interno, sul futuro energetico». Prima di andare al museo Beaux-Arts dove lo attendono duemila giovani che applaudiranno a lungo il suo discorso, Obama si spende in favore della nuova Transatlantic Trade and Investment Partnership, il negoziato per l’ulteriore liberalizzazione degli scambi. Giudica «legittime» le resistenze europee sulla tutela dei consumatori e sull’ambiente. Da Van Rompuy il presidente incassa un giudizio positivo sulla riforma dell’intelligence.
In serata Obama è atterrato a Roma dove incontrerà Renzi e Papa Francesco. «Il presidente, come molta gente nel mondo — ha detto il suo consigliere Ben Rhodes — è stato ispirato dal primo anno di papa Francesco e dal modo in cui ha motivato la gente nel mondo con il suo messaggio di inclusione, eguaglianza».

Corriere 27.3.14
Intervista a Barak Obama:
“Il Papa ci incalza: non ci abitueremo a ritenere normali le diseguaglianze”
“Bene Renzi a Tunisi. l’America riconosce la vostra leadership nel Mediterraneo”
di Massimo Gaggi


A Milano so che stiamo lavorando per mettere insieme uno straordinario padiglione Expo che mostrerà le innovazioni promosse dagli Stati Uniti, dalla sicurezza alimentare a una maggiore abitudine a mangiare cibi sani

Papa Francesco invoca un impegno universale contro la povertà: lei ha identificato la battaglia per ridurre le diseguaglianze estreme nella società come la sfida cruciale della nostra era. Dunque, siete impegnati tutti e due su questi temi, ma il Pontefice che lei incontra oggi per la prima volta non sembra riconoscere il ruolo avuto dalla globalizzazione nella creazione di ricchezza anche in Paesi poveri, mentre gli Stati Uniti sono stati il principale motore di questo processo di internazionalizzazione delle economie. Che tipo di sforzo comune è possibile tra lei e il Papa? Quali risultati si propone di raggiungere nel mondo e negli Stati Uniti?
«Sono profondamente grato a Sua Santità per aver manifestato la volontà di ricevermi. Il Santo Padre ha ispirato le genti di tutto il mondo e anche me col suo impegno per la giustizia sociale e il suo messaggio di amore e compassione, specialmente per le persone che, tra tutti noi, sono più povere e vulnerabili. Lui non si limita a proclamare il Vangelo: lui lo vive. Siamo stati tutti colpiti e commossi dalla sua umiltà e dai suoi atti di misericordia. La sua testimonianza, il semplice fatto di andare sempre a cercare il contatto con gli ultimi, con coloro che vivono nelle condizioni più difficili, ha anche il valore di un richiamo: ci ricorda che ognuno di noi ha la responsabilità individuale di vivere in modo retto, virtuoso. Noi sappiamo che, vista la sua grande autorità morale, quando il Papa parla, le sue parole hanno un peso enorme. Questo è il motivo per il quale mi sono riferito a lui nel mio discorso sulle sperequazioni nella distribuzione del reddito.
«Negli Stati Uniti, negli ultimi decenni, abbiamo assistito a una forte crescita del gap tra i guadagni di coloro che hanno già i livelli di ricchezza più elevati e la famiglia media. È diventato anche più difficile per gli americani che lavorano duro risalire la scala del benessere e garantire una vita migliore alle loro famiglie. E questo non è di certo solo un problema degli Stati Uniti: è una questione che ritroviamo in molti Paesi di tutto il mondo. E non è solo un problema economico: al fondo di tutto c’è una questione etica. Io credo che, incalzandoci di continuo, il Papa ci metta sotto gli occhi il pericolo di abituarci alle sperequazioni. Di abituarci, cioè, a questo tipo di disuguaglianze estreme fino ad accettarlo come normale. È un errore che non dobbiamo commettere. Credo che questo sarà uno dei principali temi della nostra conversazione.
«Per quanto mi riguarda, cercherò di illustrare al Pontefice le iniziative che stiamo prendendo negli Stati Uniti per creare lavoro, aumentare i salari e i redditi complessivi e, in definitiva, aiutare le famiglie ad andare avanti. In giro per il mondo la globalizzazione e lo sviluppo dei commerci hanno contribuito in pochi decenni a portare centinaia di milioni di persone fuori dalla povertà. Ma il Papa ha ragione quando dice che questi progressi non hanno raggiunto un numero sufficiente di esseri umani, che troppa gente resta indietro. È per questo che ho promesso che gli Stati Uniti lavoreranno coi loro partner nel mondo con lo scopo di sradicare la povertà estrema entro i prossimi vent’anni e sono ansioso di ascoltare i pensieri del Papa su come possiamo vincere la nostra sfida».
Papa Bergoglio è un leader religioso che conduce le sue battaglie etiche senza avere rilevanti vincoli di governo. Il Pontefice ha pronunciato discorsi molto forti, ha usato parole potenti — il capitalismo senza scrupoli descritto come una nuova forma di tirannia — ma, al tempo stesso, è stato talmente umile da stupire il mondo dichiarando: «Chi sono io per giudicare?». Ora, se è vero che molte delle battaglie per promuovere il rispetto dei diritti umani e la dignità dell’uomo sono comuni a voi e alla Chiesa, è anche vero che in passato ci sono stati disaccordi profondi su diverse questioni, dalla contraccezione all’aborto. Considerato tutto questo, come può papa Francesco ispirare il leader del Paese più potente al mondo nel suo tentativo di definire una leadership americana basata maggiormente sulla prosperità economica e la difesa dei valori universali piuttosto che sulla forza militare?
«Una delle qualità che ammiro di più nel Santo Padre è il suo coraggio nel parlare senza peli sulla lingua delle sfide economiche e sociali più grandi che ci troviamo ad affrontare nel nostro tempo. Questo non significa che siamo d’accordo su tutte le questioni, ma sono convinto che la sua sia una voce che il mondo deve ascoltare. Lui ci sfida. Lui ci implora di ricordarci della gente: soprattutto della povera gente, la cui vita è condizionata proprio dalle decisioni che noi prendiamo. Lui ci invita a fermarci a riflettere sulla dignità che è innata in ogni essere umano. E, come abbiamo già avuto più volte modo di toccare con mano, le sue parole contano. Con una sola frase egli è in grado di focalizzare l’attenzione del pianeta su una questione urgente. Il Papa è in grado di spingere le genti del mondo a fermarsi a riflettere. E magari a rivedere certe vecchie abitudini: cominciare a trattarsi reciprocamente con maggiore senso della compassione e della dignità.
«Come presidente, una delle cose che ho cercato di fare è stata quella di riorientare la leadership americana. Abbiamo concluso la guerra in Iraq e concluderemo anche quella in Afghanistan alla fine di quest’anno. Man mano che ci allontaniamo da questo sfondo dominato dai confitti militari, ho posto una rinnovata enfasi sulla diplomazia. Credo lo si veda da un ampio ventaglio di iniziative, compreso il nostro negoziato sul programma nucleare iraniano e lo sforzo di creare le condizioni per una pace durevole in Terra Santa tra israeliani e palestinesi. Nessuna nazione è perfetta, ma la determinazione americana e i sacrifici dei nostri uomini e delle nostre donne in uniforme hanno aiutato a liberare nazioni dalla tirannia, difendere l’Europa durante la Guerra fredda e difendere in ogni parte del mondo i diritti umani universalmente riconosciuti dalle genti. In effetti sostenere questi valori universali e promuovere la prosperità economica sono elementi centrali della mia politica estera. Lavoriamo per incrementare gli scambi commerciali e gli investimenti che creano opportunità e posti di lavoro, sollevando molta gente dalla sua condizione di povertà.
«Il nostro sforzo sul fronte dell’agricoltura e della sicurezza alimentare punta a raggiungere entro un decennio l’obiettivo di sollevare 50 milioni di abitanti dell’Africa subsahariana oltre la soglia di povertà. E non c’è nessuna nazione che fa più degli Stati Uniti e in più parti del mondo, per riaffermare il valore universale dei diritti umani. La campagna aerea della Nato in Libia, tanto per fare un esempio, fu concepita per evitare il massacro di un numero immenso di civili. Il nostro vuole essere un impegno infaticabile affinché cresca il numero degli esseri umani ai quali vengono riconosciuti i diritti fondamentali, compresa la libertà religiosa».
In cinque anni alla Casa Bianca lei non era mai stato a Bruxelles. Ora ha appena concluso la sua prima visita all’Unione Europea. L’Italia assumerà presto la presidenza della Ue. Quali progressi nei rapporti Usa-Europa possono essere ragionevolmente conseguiti nel semestre a guida italiana? L’obiettivo di chiudere in tempi relativamente rapidi il negoziato per il Ttip, la nuova partnership transatlantica focalizzata sul «free trade» e gli investimenti, si è rivelato più arduo del previsto da raggiungere. E la forza dell’euro, che aiuta le esportazioni americane, rende la ripresa più difficile in Italia e nel resto d’Europa.
«L’incontro di ieri a Bruxelles col presidente Van Rompuy e col presidente Barroso è stato per me un’occasione preziosa per riaffermare i legami straordinari tra l’Unione Europea e gli Stati Uniti. A tenerci uniti ci sono valori condivisi: i diritti universali dell’uomo, certo, ma soprattutto la consapevolezza che dobbiamo fare di tutto per difenderli in ogni parte del mondo. Rappresentiamo, insieme, la più grande rete di relazioni economiche del mondo e siamo partner nella gestione delle grandi questioni globali: che si tratti degli sforzi diplomatici con l’Iran o di lavorare per alleviare le sofferenze del popolo siriano o, come avviene in questi giorni, di affrontare la grave situazione che si è creata in Ucraina. Come ho detto a Bruxelles, credo che Stati Uniti ed Europa possano fare ancora di più, lavorando uniti, per migliorare le condizioni comuni di prosperità e di sicurezza. Confido nella presidenza italiana che inizierà in estate per raggiungere questi obiettivi. È di questo che abbiamo discusso l’altro ieri all’Aia col primo ministro, Matteo Renzi. Credo davvero che lui riuscirà a rendere molto produttivo il periodo nel quale l’Italia avrà questa importante leadership.
«Come lei ben sa, una delle nostre principali priorità, nel rapporto con l’Europa, è quella di concludere la Transatlantic Trade and Investment Partnership. Un successo della Ttip avvicinerebbe ulteriormente le nostre economie, renderebbe i nostri Paesi più competitivi nell’economia globale, spingerebbe la crescita e sosterrebbe la creazione di nuovi posti di lavoro. Un simile accordo si risolverebbe anche in sostanziali risparmi per i consumatori e nell’apertura di nuove opportunità per le imprese europee e americane, comprese quelle piccole e medie alle quali tengo molto e che so essere assai importanti per l’economia italiana. Al tempo stesso dovremo mantenere elevati standard di protezione dei consumatori, della salute e della sicurezza dei cittadini, delle condizioni di lavoro e della tutela dell’ambiente. La Ttip è, come diciamo noi, una “win-win opportunity”, un’occasione nella quale hanno tutti da guadagnare, l’Europa e gli Usa: per questo sono fermamente convinto che arriveremo in porto».
L’Italia presto ospiterà una manifestazione internazionale molto importante: l’Expo 2015. L’Esposizione universale offrirà l’occasione di presentare e discutere le sfide che il nostro pianeta deve affrontare: dall’utilizzo ottimale di risorse che sono sempre più limitate come l’acqua, alla protezione dell’ambiente naturale. L’Expo 2015 sarà anche un palcoscenico per promuovere il mangiare sano. Aggiungendoci, magari, un po’ di sapore italiano che so essere molto apprezzato dalla famiglia Obama. Proprio di recente gli Stati Uniti hanno deciso di svolgere un ruolo di rilievo nell’ambito dell’Expo di Milano.
«Il fatto che l’Expo si tenga proprio in Italia è un riflesso della forte leadership che l’Italia ha esercitato per molti anni nella lotta contro la fame e la malnutrizione. Trovo moralmente oltraggioso che nel 2014 ci siano ancora centinaia di milioni di persone nel mondo che soffrono l’ingiustizia di vivere senza abbastanza cibo per sfamarsi. Ecco perché quella di migliorare l’agricoltura e la sicurezza alimentare è diventata una priorità chiave negli sforzi dell’America di promuovere lo sviluppo globale. Abbiamo la possibilità di salvare una quantità innumerevole di vite. A Milano so che stiamo lavorando alacremente coi nostri partner per mettere insieme uno straordinario padiglione degli Usa che mostrerà le innovazioni promosse dall’America in varie aree, dalla sicurezza alimentare a una maggiore abitudine a mangiare cibi sani. Quest’ultima questione, come lei ben sa, ci sta molto a cuore, in casa Obama. Michelle ha fatto un lavoro straordinario per quanto riguarda la promozione di diete più equilibrate e di stili di vita più salutari, soprattutto per quanto riguarda l’infanzia. E, ovviamente, noi americani adoriamo la cucina italiana. Quindi ci aspettiamo che dall’Expo vengano fuori nuove idee e nuovi stimoli».
Le primavere arabe sono finite male. La tragedia della guerra civile in Siria. La rivoluzione libica che ha portato al potere un governo che non riesce a controllare tutto il Paese. Gli Stati Uniti sembrano orientati a ridurre la loro presenza diretta nel Mediterraneo proprio mentre questa è divenuta di nuovo un’area fortemente instabile. In un mondo che è sempre più multilaterale, l’Italia e gli altri Paesi dell’area dovranno prendersi maggiori responsabilità in Libia, in Medio Oriente e perfino nella protezione delle rotte di accesso al Golfo Persico?
«Gli straordinari cambiamenti e le situazioni tumultuose del mondo arabo affondano le loro radici nel desiderio della gente comune di vivere con dignità e prosperità, decidendo del suo futuro. Fin dall’inizio io ho avvertito che qui non ci sarebbe stata la possibilità di percorrere un sentiero rettilineo. La guerra civile siriana e la morte di tanti innocenti, uomini donne e bambini, è una enorme tragedia. Gli Stati Uniti si sono impegnati con molta energia nello sforzo diplomatico per cercare di porre fine ai combattimenti, promuovendo una transizione nella quale i diritti del popolo siriano vengano rispettati. L’Italia ha, poi, giocato un ruolo vitale nella campagna aerea lanciata tre anni fa per proteggere il popolo libico. E ora l’Italia e gli Stati Uniti stanno lavorando insieme per migliorare le capacità di difesa del governo centrale di questo Paese, per addestrare le sue forze di scurezza e per migliorare i servizi di base che devono essere forniti al popolo libico.
«Tutto questo riflette il ruolo essenziale che l’Italia svolge nel Mediterraneo. L’Italia non solo contribuisce a un rilevante numero di iniziative di peacekeeping , ma guida anche la forza internazionale in Libano. E il primo ministro Renzi, scegliendo la Tunisia per il suo primo viaggio all’estero, ha mandato un importante messaggio circa l’impegno del suo Paese nella regione. Io ho detto ripetutamente che la situazione del mondo è migliore quando aumenta il numero dei Paesi che contribuiscono a garantire il mantenimento delle condizioni di pace e sicurezza a livello internazionale. Proprio per questo continuiamo a vedere come benvenuta la leadership dell’Italia nel Mediterraneo e oltre. Per quanto, poi, riguarda la presenza Usa nel Mediterraneo, voglio essere molto chiaro: non stiamo affatto pensando di ridurla. Anzi, il nostro coinvolgimento nel Mediterraneo sta crescendo, non si sta restringendo. Così come cresce la nostra partnership con l’Italia e gli altri alleati. Siamo molto grati al governo e al popolo dell’Italia per l’ospitalità che è stata data ai 30 mila americani in uniforme, uomini e donne, che sono basati nel vostro Paese assieme alle loro famiglie. Vorrei ancora ricordare che appena un mese fa la prima di quattro unità navali della classe Aegis (incrociatori lanciamissili dotati di efficacissimi sistemi di protezione antimissile, ndr ) è arrivata in Spagna dove supporterà il sistema di difesa missilistica balistica della Nato e contribuirà ad altre missioni marittime nella regione. In aggiunta, di recente gli Stati Uniti e la Spagna hanno firmato un accordo che estende nel tempo ed espande il dispiegamento di una forza americana di risposta rapida a Moron, nella penisola iberica. Quindi credo che nessuno dovrebbe nutrire dubbi sul nostro impegno per la sicurezza di una regione che è così vitale per tutte le nostre nazioni».

il padre storico della Spd la pensa come Berlusconi
Repubblica 27.3.14
Helmut Schmidt:
“Contro Putin è sbagliata la linea dura
di Matthias Nass



Sulla crisi ucraina interviene l'ex cancelliere tedesco, padre storico della Spd, uno delle ultime “icone morali” del Paese. Ha trattato alla pari con i Grandi del mondo in piena Guerra Fredda, segnando come pochi la storia dell'Europa libera del Dopoguerra, e ancora in ogni sondaggio è il politico più popolare.
In questa intervista, a sorpresa dice di non condividere le posizioni della Merkel e di Obama e spiega. 'Fino ai primi anni Novanta l'Occidente non ha dubitato che Crimea e Ucraina fossero parte della Russia. Il comportamento del leader del Cremlino è comprensibile'. E sulle sanzioni, aggiunge: 'Sono una stupidaggine che danneggerà i paesi europei e gli Usa'.
AMBURGO. «Il comportamento di Putin è comprensibile. La situazione è pericolosa perché il nervosismo dell’Occidente crea nervosismo anche in Russia. La maggior parte dei conflitti - pensate alla Prima Guerra Mondiale - non furono programmati». Ecco il monito dello storico ex cancelliere tedesco Helmut Schmidt su quanto sta accadendo in Ucraina.
Signor Schmidt, l’annessione della Crimea è una violazione del diritto internazionale?
«Ho i miei dubbi. Il diritto internazionale è molto importante, ma è stato violato molte volte. Per esempio l’ingerenza nella guerra civile in Libia: l’Occidente ha ben ecceduto il mandato del Consiglio di sicurezza dell’Onu. Lo sviluppo storico della Crimea è più importante del diritto internazionale. Fino ai primi anni Novanta l’Occidente non ha dubitato che Crimea e Ucraina fossero parti della Russia».
Ma la Crimea è parte di uno Stato indipendente… «Di uno Stato indipendente che non è uno Stato nazionale. E’ molto discusso tra gli storici, se esista una nazione ucraina».
Per l’Occidente, insisto, in Crimea è violazione del diritto internazionale… «Una violazione contro uno Stato che, provvisoriamente, attraverso la rivoluzione di Majdan, non esisteva e non era capace di funzionare».
Come giudica il comportamento di Putin?
«Al Consiglio di sicurezza dell’Onu, mi asterrei come hanno fatto i cinesi».
Lo trova cioè legittimo?
«Lo trovo comprensibile. L’espressione “legittimo” non vorrei usarla, perché la situazione non può essere giudicata soltanto col metro del diritto».
Quanto è pericolosa la situazione attuale?
«E’ pericolosa, perché l’Occidente si innervosisce in un modo tremendo, e ciò naturalmente causa un simile nervosismo nell’opinione pubblica e negli ambienti politici russi. In questo senso, va lodata la prudenza della cancelliera Angela Merkel».
Pensa che Putin, dopo la Crimea, voglia anche l’Est dell’Ucraina?
«Non lo so. E mi rifiuto di condurre speculazioni. Lo ritengo possibile, ma penso che sarebbe un errore da parte dell’Occidente comportarsi pensando che un simile sviluppo sia l’inevitabile prossimo passo russo. Ciò potrebbe aumentare l’appetito di Mosca».
Uno scontro militare è possibile?
«È pensabile. Non è né necessario, né inevitabile. Al momento il pericolo è piccolo, ma non è nullo».
Cosa pensa delle sanzioni decise da Usa e Ue?
«Sono una stupidaggine. Specialmente il divieto di viaggio in Occidente per alte personalità della leadership russa. E sanzioni economiche colpirebbero l’Occidente come i russi».
L’Europa dovrebbe divenire indipendente dall’energia russa?
«È possibile. Non sarebbe saggio. Anche alla fine del XXI secolo la Russia resterà il vicino molto importante che fu dai tempi di Pietro il Grande. Nelle due guerre mondiali la Russia era con l’Occidente e la Germania era dalla parte sbagliata, oggi lo dimentichiamo».
Cioè, da tedeschi, bisogna condurre una politica estera cauta verso la Russia?
«Sicuramente sì».
Diversa da quella americana?
«Non necessariamente. Dipende più dagli americani che non dai tedeschi».
Che cosa spinge Putin: patriottismo, nazionalismo, nostalgia dell’Urss, megalomania?
«Non è un megalomane. Si metta nei suoi panni, probabilmente avrebbe reagito come lui sulla Crimea».
E’ un nuovo zar?
«No, non direi. Riunire territorio russo è un modo di mascherare l’imperialismo russo. Ma naturalmente si sente erede di Pietro, dei Romanov e di Lenin».
Russia e Occidente tornino a un’epoca di normali rapporti diplomatici?
«C’è da augurarselo. Si discute molto sulle cause della Prima Guerra Mondiale, che nessuno voleva, eppure scoppiò. La maggior parte delle guerre non sono pianificate. Lo furono solo alcune: l’attacco di Napoleone alla Russia, o la Seconda Guerra Mondiale, pianificata da Hitler. Una Terza Guerra Mondiale è molto inverosimile, ma non è totalmente impensabile».

La Stampa 27.3.14
Francia, l’ascesa di Le Pen zittisce anche gli intellettuali
Il direttore del Festival di Avignone Py unico a esprimere indignazione
di Alberto Mattioli


E gli «intellos» che fine hanno fatto? Marine Le Pen si prende la Francia e tutti i soliti noti del prêt-à-penser rimangono zitti. Non un editoriale sui giornali, un appello, una raccolta di firme. La categoria tace, tacciono gli indignati speciali, tace perfino Bernard-Henry Lévy, che pure di solito parla di tutto. Mai silenzio è stato più assordante e soprattutto più sorprendente. Quando Le Pen padre rischiò di diventare Presidente della Repubblica si scatenò l’indignazione per la prospettiva di un «facho» all’Eliseo. Era il 2002, ma sembra il pleistocene.
L’unico a scendere in campo, finora, è stato Olivier Py. Regista, autore, attore, da settembre è direttore del Festival di Avignone, la più grande manifestazione teatrale del mondo. Ma domenica scorsa, al primo turno delle amministrative, ad Avignone è arrivato in testa, con il 29 e rotti per cento, il candidato del Front national, Philippe Lottiaux, quindi domenica prossima è, se non probabile, possibile che diventi sindaco. Py è omosessuale, cattolico, di sinistra e quando ne ha voglia si esibisce come cantante «en travesti» con lo pseudonimo di Miss Knife: non è esattamente il curriculum che piace ai frontisti. Di certo, i frontisti non piacciono a lui. Quindi Py ha fatto sapere che, se Lottiaux vincerà, lui se ne andrà dopo il Festival «di resistenza» del 2014, che sarà fatto soltanto per «emmerder» (occorre tradurre?) i nuovi padroni.
Al telefono, Py ostenta una serenità che non ha («Sto ricevendo insulti omofobi e minacce di morte») e conferma tutto: «Il Festival e il Front sono incompatibili. Perché ovunque abbia governato, il Fn ha distrutto la cultura. E poi perché il Festival è nato nel segno dell’accoglienza per lo straniero, contro l’intolleranza, la chiusura, il nazionalismo. Contro tutto quel che Marine Le Pen rappresenta». La quale Marine ha risposto che Py «è penoso» perché «prende in ostaggio la cultura. Se non è contento, dia pure le dimissioni». Dal canto loro, i suoi seguaci locali assicurano che non toccheranno il Festival, anche perché Avignone è come Salisburgo, vive principalmente di quello, e la kermesse «vale» 23 milioni di indotto e il 50% del fatturato annuo di alberghi e ristoranti.
Fin qui, è il gioco delle parti. Ma era legittimo aspettarsi un coro di solidarietà per Py. Invece è arrivato solo il sostegno di Jean-Michel Ribes, direttore del Théâtre du Rond-Point di Parigi, che però ha fatto la campagna elettorale per Hollande e quindi è schieratissimo. Per il resto, silenzio. Anzi, i commentatori culturali dei giornali hanno stroncato Py. Per esempio, Jérôme Béglé che sul «Point» titola la sua bordata «Py farebbe meglio a stare zitto» e spiega che proprio dove il Fn vince c’è più bisogno di cultura.
Il più sorpreso di tutti è proprio Py: «Non capisco questo silenzio. I casi sono due. O pensiamo che il Front national non sia più quello di una volta, cioè sia diventato più democratico e meno violento, e allora ci sbagliamo. Oppure abbiamo deciso di fare la politica dello struzzo, e allora ce ne pentiremo tutti amaramente. Io vado avanti anche da solo. Sono il direttore del Festival di Avignone e non mi assumo la responsabilità storica di consegnare l’opera di Jean Vilar (il mitico fondatore del Festival, ndr) a madame Le Pen».
Tira le somme Robert Maggiori, filosofo e firma di «Libération»: «Gli intellettuali ci sono ancora, la classe intellettuale no. Mancano le figure di riferimento e manca la voglia di mettersi insieme. E poi ormai les jeux sont faits: il Fn esiste da vent’anni, è entrato stabilmente nel gioco politico francese. Il suo successo è la fine di una dinamica, non l’inizio». Indignazione addio.

Repubblica 27.3.14
Prima visita del leader cinese nelle capitali Ue
Vuole un patto per la crescita: “Ma basta lezioni”
“Siamo alla pari” Xi Jinping in Europa da azionista globale
di Giampaolo Visetti



PECHINO. Xi Jinping, il leader cinese più potente dai tempi di Mao Zedong, nel fine settimana è atterrato a l’Aja da presidente della Cina. Nel giro di poche ore è ripartito per il suo primo viaggio in Europa da azionista unico del “mondo nuovo”, interlocutore obbligato sia per Washington che per Bruxelles. Un formidabile salto di qualità, che accompagna quei certi momenti che decidono la storia. Lo zar del Cremlino Vladimir Putin, reo di essersi riannesso la Crimea, è stato espulso dal club dei Grandi, i capitali degli oligarchi sono in fuga dalla Russia, Mosca è rientrata d’un tratto dalla parte sbagliata della Guerra Fredda. Il “principe rosso”, padrone della Città Proibita da un anno esatto, è arrivato dunque ieri a Parigi da amministratore delegato delle potenze in crescita, ma pure da rappresentante politico del pianeta che non si riconosce nell’Occidente guidato dagli Usa. La caduta della stella di Putin, imprigionato dalla nostalgia sovietica, diventa così la leva per un’ascesa ancora più rapida sulla scena internazionale dell’uomo che ha promesso di assegnare un ruolo «decisivo» al mercato nella seconda economia del mondo.
Xi Jinping, per ora, si conferma sponsor della Russia, come pure della Siria, dell’Iran, della Corea del Nord, di Cuba o del Venezuela. Il lungo tour europeo, undici giorni tra Olanda, Francia, Germania e Belgio, lo accredita però quale solo ambasciatore globale delle nazioni emergenti. La Cina segue con attenzione il lento tramonto del secolo americano, la crisi dell’Europa e il grande balzo all’indietro del Giappone e Xi è deciso a non lasciarsi sfuggire la grande occasione di diventare il partner indispensabile di una Ue che ha bisogno delle armi Usa, ma più ancora degli yuan cinesi. Per questo, atteso a Bruxelles quale primo leader di Pechino a prendere la parola nella sede del parlamento comunitario, Xi Jinping si appresta a proporre all’Europa uno storico «patto per la crescita»: raddoppiare entro il 2020 l’interscambio di quello che già è il primo mercato mondiale, in cambio di una «nuova fase dei rapporti », in cui Cina e Ue «siano considerati alla pari» e nessuno si senta «autorizzato a impartire lezioni all’altro». Ieri a Parigi e poi a Berlino, il presidente che ha garantito ai cinesi e alle istituzioni internazionali «riforme profonde» e un «cambio del modello di sviluppo», incarna così l’estrema alternativa agli equilibri del passato: moratoria a tempo su diritti umani e libertà d’espressione, in cambio di ripresa economica e stabilità globale.
Nessun altro leader al mondo ha una prospettiva di potere decennale, una crescita superiore al 7% e l’obiettivo di conquistare la guida del secolo. Promettere all’Europa di aprire il mercato cinese alle sue merci e di continuare a sostenere l’euro è così una proposta irresistibile, che ha illuminato immediatamente di una luce nuova anche i 200 accompagnatori di Xi, tra alti funzionari e nuovi miliardari. Nel 2012 l’interscambio Cina-Ue valeva 546 miliardi di dollari, rispetto ai 370 della bilancia commerciale Pechino-Washington. Lo scorso anno si è toccata quota 558,33 miliardi: la Cina ha spedito in Europa 338,27 miliardi di merci, importando beni per 220,06 miliardi. Il paradosso è che dopo la folle delocalizzazione produttiva in Oriente, la Ue ora scopre di avere un disperato bisogno dell’ex «fabbrica del mondo» per tentare di ricreare posti di lavoro nell’eurozona. Interessi convergenti: trasferire i capannoni per far posto agli shopping center. La missione di Xi Jinping nelle capitali del Vecchio continente è dunque quella di ricostruire l’antica attrazione europea verso l’Asia, simboleggiata dalla Via della seta, oltre che di «far diventare Pechino di moda anche a Bruxelles». Ora è Xi Jinping, più di Barack Obama, a poter ricondurre Putin alla ragione sull’Ucraina ed è Pechino, più di Washington, a poter riaccendere i motori delle imprese europee, saldando debiti e importando prodotti. Il nuovo imperatore della Cina è così l’ospite più ambito sia per Hollande, che per la Merkel, che per Barroso, consapevoli che anche un’Europa più forte è l’interesse che ha spinto l’allievo di Deng Xiaoping a riservare alla Ue la più lunga delle sue visite all’estero. Lo scontro Washington-Mosca spinge Bruxelles nelle braccia di Pechino e rispetto al prepotente zio Vladimir, anche il compagno Jinping non è più una minaccia, ma finalmente un’opportunità.

Repubblica 27.3.14
Palestinesi “No a Stones a Tel Aviv”

Funerali privati a Los Angeles per L’Wren Scott, morta suicida il 17 marzo. Di fronte a un gruppo ristretto di amici e familiari, Mick Jagger ha tenuto un breve discorso in ricordo della compagna. Lo stesso ha fatto il fratello della Scott, il cantante Randy Bambrough. Dopo i concerti cancellati in Australia, i Rolling Stones potrebbero annullare anche lo show di Tel Aviv: la richiesta arriva dal movimento palestinese Bds contro «uno Stato che promuove l’apartheid e viola i diritti umani».

La Stampa 27.3.14
Kim e la dittatura del look: impone il suo taglio a tutti

qui

Corriere 27.3.14
L’arte, vittima dimenticata della Siria


La distruzione del patrimonio culturale in Siria ha ormai dimensioni catastrofiche, ma è circondata da un’inquietante rassegnazione. Il dramma umanitario, i morti e i profughi richiamano a stento l’attenzione dell’opinione pubblica internazionale, e dunque pochi si occupano delle irreparabili devastazioni di uno dei patrimoni più importanti al mondo, che include le tracce neolitiche della prima vita sedentaria e della nascita dell’agricoltura, le antichissime città della seconda urbanizzazione del pianeta (come Ebla e Mari), la creazione del più antico alfabeto della storia, gli eccezionali resti archeologici romani, le memorie meravigliose del Califfato degli Omayyadi; monumenti, moschee, chiese, mercati e centri antichi.
La cultura moderna è cambiata profondamente quando le classi dirigenti europee si sono poste un inedito problema: limitare le distruzioni del patrimonio culturale durante le guerre. Sfida straordinaria, difficile, spesso sotterranea, che inizia con le Lettere a Miranda (1796), con cui il francese Quatremère de Quincy denunciò «il danno causato all’Arte e alla Scienza dalla deportazione dei Monumenti dell’Arte dall’Italia» al termine delle campagne napoleoniche e richiese la restituzione dei capolavori-bottino di guerra, che infine Canova riuscì a riportare a Roma. Dopo le distruzioni della II Guerra Mondiale, questa conquista di civiltà è divenuta, da europea, universale: la Convenzione dell’Aia per la protezione del patrimonio culturale nei conflitti armati (1954) stabilisce che la distruzione dell’arte «danneggia l’intera umanità», e va prevenuta e impedita con l’impegno della comunità internazionale.
Quando ci troviamo di fronte alla cecità dell’intolleranza politica o religiosa — come nel caso della distruzione da parte dei talebani dei Buddha giganti di Bamiyan, in Afghanistan — ci sentiamo impotenti. Ma oggi dobbiamo interrompere il silenzio quasi generale che circonda la distruzione del Patrimonio in Siria. Sir Harold Nicholson (diplomatico, scrittore, e membro del Gabinetto di guerra di Churchill) scrisse nel 1944: «Io sarei assolutamente pronto a farmi fucilare, se fossi certo che con questo mio sacrificio io potrei preservare gli affreschi di Giotto (...), un bene che mai più, in nessun caso, potrà essere creato di nuovo». Nessuno pensa che un sacrificio personale sarebbe produttivo nel disastroso contesto del conflitto siriano. Ma molte cose possono e debbono essere fatte. Con studiosi e personalità internazionali della cultura, abbiamo lanciato la Campagna per la salvezza del patrimonio culturale in Siria (www.prioritacultura.it). Tra i suoi obiettivi: monitorare il Patrimonio danneggiato; supportare ovunque possibile la guardiania dei siti in pericolo e, in collaborazione con l’Unesco, contrastare il traffico illecito delle opere trafugate. Una giuria internazionale premierà un soggetto che si sta impegnando con coraggio per salvare beni inestimabili. Abbiamo prodotto un filmato (con musiche di Ennio Morricone e la regia di Matteo Barzini) per sensibilizzare l’opinione pubblica e ci aspettiamo dal ministero della Cultura italiano e dall’Unione europea sostegno per realizzare una mostra («Siria. Splendore e Dramma») che dovrebbe ospitare, a Roma e in altre capitali europee, anche alcuni capolavori oggi riparati in depositi siriani. Questo patrimonio è una vittima dimenticata. Ma il suo destino non può esserci indifferente, se vogliamo restare legati alle radici stesse della nostra civiltà.
*ex ministro dei Beni culturali e Presidente dell’Associazione priorità cultura
**decano degli archeologi internazionali in Siria, scopritore della Città di Ebla

Repubblica 27.3.14
Un paese senza trentenni
Più vecchio è solo il Giappone. I giovani in Italia non arrivano al 30 per cento. Colpa di tre decenni di culle vuote
Un capitale umano che rischia di estinguersi Una società che smarrisce il suo futuro
di Maria Novella De Luca


A SENTIRSI dire che sono in via d’estinzione, ossia il più scarno gruppo di giovani sul pianeta Terra, rispondono inevitabilmente con una battuta: «Se ci pagate siamo pronti a moltiplicarci, del resto l’hanno fatto anche i panda». Poi però, seduti tra i vialetti dell’università “La Sapienza” di Roma, tra alberi fioriti e marciapiedi sconnessi, sezionano con perizia e disincanto la loro età giovanile. O quel che ne resta, nella desertificazione progressiva di un mondo di bambini e ragazzi che si fa ogni giorno più esiguo. In una nazione, l’Italia, che è diventata ormai il Paese (quasi) più vecchio del mondo. Più grigio di noi c’è soltanto il Giappone, mentre la Germania ci precede di poco, in una sorta di ricostituito asse Roma-Berlino-Tokyo, così lo definisce scherzosamente con echi guerreschi il demografo Gian Carlo Blangiardo. Triplice (e casuale) alleanza di culle vuote e figli unici che nella classifica dei Paesi con il numero minore di “under 30” secondo i dati dell’ “United States Census Bureau”, afferma che in Italia i giovani da zero a 29 anni, cioè la vera classe del futuro, sono il 29,4% della popolazione complessiva. Cioè ultimi in Europa, penultimi nel mondo.
È come se fosse scomparso un pezzo di società, quella fetta di “meglio gioventù” degli ultimi figli dei baby boomers, dell’Italia dove l’ascensore sociale funzionava ancora e la laurea aveva un senso. Il saldo, in rosso, di tre decenni di culle vuote, di natalità in picchiata, di politiche sempre più ostili alla maternità, della speranza che forse è andata via dal cuore. Ecco allora le voci “di dentro”, come quella di Arianna, che ha 23 anni, sta per laurearsi in Fisica, e dice di sé di essere figlia unica, molto fortunata e molto testarda. Seduta in un’aula vuota con il neon acceso nell’ora di pausa, spiega come ci si sente ad appartenere ad un gruppo sociale a rischio di scomparsa. «Ho due genitori che mi hanno concepita a oltre quarant’anni e quattro nonni ottantenni incredibilmente attivi, per laurearmi in tempo ho fatto una corsa incredibile, ma ho già una borsa di studio per Boston. Tutte le risorse della mia famiglia sono state investite su di me. Un peso e una responsabilità pazzesca. I miei amici ed io siamo in gran parte figli unici, su di noi i riflettori sono sempre accesi. Perché siamo pochi, se ce ne andiamo, perché non facciamo figli. Ma vedete forse un’alternativa, voi adulti?».
Difficile rispondere, quello che Arianna tratteggia con acutezza infatti è simile a ciò che spiegano i demografi, e cioè che la desertificazione attuale della giovinezza in Italia è la somma di due fattori precisi: il calo demografico e l’allungamento straordinario della vita media. A cui oggi si aggiunge il fenomeno delle migrazioni giovanili, nel 2012 sono fuggiti dal nostro Paese circa 80milaitaliani, di questi il 44,8 per cento tra i 20 e i 40 anni. «Il sorpasso dei nonni sui nipoti c’è già stato, in meno di 10 anni assisteremo al sorpasso dei bisnonni sui pronipoti », descrive Gian Carlo Blangiardo, professore di Demografia all’università Bicocca di Milano. «Già oggi il mondo è diviso tra i Paesi del G8, cioè il vecchio mondo, e i “Brics”, cioè Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica dove la natalità cresce. Un paese senza giovani vuol dire minore capacità produttiva, e se non si agisce la bomba dell’invecchiamento graverà in modo insostenibile sulle spalle di pochi under 30». E senza scendere in scenari apocalittici, Blangiardo dice che basterebbero politiche più family friendly. «C’è un piano per la famiglia che giace nei cassetti della presidenza del Consiglio. Chissà se il premier Renzi deciderà di prenderlo in mano, e di investire sul capitale umano del futuro dell’Italia».
Appunto. Il capitale umano. Quello che Carlo e Giulia, studenti di Scienze Politiche, affermano essere stato fatto a pezzi dagli ultimi governi, una vera e propria rapina del loro futuro. «Ormai siamo soggetti da antropologia culturale, studiati come le tribù degli aborigeni», dicono mentre lavorano ad un nuovo striscione con scritto “salario minimo”, nonostante l’apparente pax politica dell’università. «Che l’Italia sia il Paese più vecchio del pianeta è sotto gli occhi di tutti, basta vedere chi occupa posti e poltrone, e a noi non vuole lasciare nemmeno le briciole. Giulia ed io stiamo insieme da tre anni - ragiona con amarezza Carlo - e ogni tanto ci chiediamo come potrebbe essere la nostra vita con un figlio. La verità è che non sapremmo cosa dargli da mangiare. Certo, potremmo farci aiutare dai nostri genitori, felici magari di diventare nonni. E forse, chissà, finirà così...».
Strategie, prove di sopravvivenza. Ma nei giovani bisogna credere, dice Linda Laura Sabbadini, direttore delle statistiche sociali e ambientali dell’Istat. «La questione giovanile è stata sempre troppo drammatizzata. Prima della crisi i ragazzi venivano accusati ingiustamente di essere bamboccioni, adesso vengono bombardati dicendo che non avranno futuro. È un clima paralizzante, ed è difficile così per loro credere nel futuro quando la voce unanime è che il futuro non c’è. Non voglio sottovalutare la gravità della crisi che documentiamo ogni giorno con i dati Istat, ma non possiamo sempre dire che è la peggiore nella storia del nostro Paese. È vero: sono pochi, figli di un perdurante calo della natalità, e si ritroveranno a dover pagare le pensioni di un enorme numero di anziani. Ma le opportunità possono essere trovate. Bisogna non rinunciare ai propri sogni, non fermarsi, e aiutati da politiche adeguate, proprio i giovani ce la potranno fare e portare il paese fuori dalla crisi».
E Giuseppe De Rita, fondatore del Censis, si spinge più in là: «Non è solo un problema di welfare. Il calo demografico riguarda Stati diversissimi tra loro, più ricchi, meno ricchi. La verità è che oggi l’antropologia della nostra felicità è fatta di soggettività, di individualità più che di comunità. E le politiche sulla natalità servono a poco se non torna il desiderio di mettere al mondo dei figli».

La Stampa 27.3.14
Lawrence Ferlinghetti, la mia America sta diventando un Terzo mondo
Incontro con il poeta della Beat Generation mentre a San Francisco si celebrano i suoi 95 anni
I viaggi con Ginsberg, un ricordo di Castro, l’infelice Urss di Stalin
di Mauro Aprile Zanetti


«Ecco un Ferlinghetti molto più politico, una voce per i poeti del dissenso». Robert Weil, direttore della Liveright Publishing, ha presentato così il nuovo progetto editoriale, Writing Across the Landscape: Travel Journals (1950-2013) di Lawrence Ferlinghetti. L’edizione prevista per il 2015, a cura di Giada Diano in collaborazione con Matthew Gleeson, includerà un’estesa diaristica, appunti di viaggio. A parte uno dei suoi primi memoir che risale alla fine degli Anni 40 – dove racconta dello sbarco in Normandia andando su e giù per l’Atlantico su una carretta di mare, guidando un pugno di sbarbatelli verso la liberazione dell’Europa dal nazismo –, l’itinerario dell’avventuriero Ferlinghetti ci porta in Cile, a La Paz in Bolivia, «il più povero e miserabile paese in cui io sia mai stato; persino più povero di Haiti», in Messico e Nord Africa, a Cuba, nella Spagna di Franco, nell’Unione Sovietica e in Nicaragua sotto i sandinisti, senza dimenticare la Francia e la sua adorata Italia.
Sessant’anni di viaggi in giro per il mondo? «No, a dire il vero sono 95», corregge lui, ridendo. A dimostrazione che «San Francisco era ed è ancora l’ultima frontiera» di resistenza della Beat Generation, agli antipodi dell’attuale Bit Generation, questa settimana la leggendaria libreria City Lights dedica una serie di iniziative al suo fondatore che compie 95 anni. È un Ferlinghetti in ottima forma, illuminato da una luce serafica, agile e spietato d’intelletto, politico più che mai, lirico nei suoi montanti, stracolmo di umorismo con tinte di cupezza «sull’avvenire della terra e la razza umana». Gli fa perfettamente eco l’allarme sollevato in questi giorni da Paul Krugman sul «capitalismo patrimoniale» secondo l’accezione di Thomas Piketty. Alla domanda su cosa può dirci dopo un secolo di vita, risponde lapidario: «Questo sarà l’ultimo secolo degli umani sulla terra».
Il poeta di North Beach è molto preoccupato di quanto poco stia facendo la politica. Dopo tutto quello che ha visto (Nagasaki inclusa), tra comunismo e capitalismo, è la poesia che lo ha salvato? «A dire il vero è alquanto difficile scrivere poesie in questi giorni, dinanzi alla tragedia che viviamo come pianeta. E il capitalismo ora è veramente fottuto - il comunismo lo è già stato -, specialmente negli Stati Uniti, dove ogni cosa è veramente incasinata: i ricchi diventano sempre più ricchi, i poveri sempre più poveri. Se i repubblicani vincono le prossime presidenziali sarà un disastro».
Che ne è della middle class e all’American dream? «Beh, il Paese sta piuttosto diventando un Terzo mondo. E abbiamo l’invasione dell’innovazione.com: il denaro della Silicon Valley che compra la città. Abbiamo anche un sindaco che è completamente a favore di questo business. Uno dei principali pericoli è che il capitalismo nel suo più completo sviluppo è un nemico della democrazia. I poveri perdono persino la loro rappresentanza secondo la linea repubblicana. Ogni trionfo per il capitalismo è una sconfitta per la democrazia».
La conversazione tocca anche l’ex premier italiano Berlusconi: Ferlinghetti non si capacita di come possa ancora essere in giro. Scherza sulla sua ossessione per l’altezza, e racconta degli stivali di Castro che per l’appunto lo rendevano anche più alto di lui quando furono faccia a faccia a Cuba agli albori della rivoluzione. Quando sente dei lavori socialmente utili che dovrà fare Berlusconi, ride di cuore tra l’ipotesi di badante per anziani o in convento con le suore. Di papa Francesco, di cui condivide «la rivoluzione con la tenerezza», dice: «È il primo con un cervello, speriamo non lo ammazzino».
«Il mio primo viaggio come poeta all’estero - continua - fu con Allen Ginsberg a Concepción in Cile. Poi andai a Machu Picchu, su cui scrissi la poesia Hidden Door, ispirato a Las alturas di Pablo Neruda. Lo stesso anno a Cuba, in un bar, io e mia moglie Kirby incontrammo due giovani che dissero di essere poeti e collaboratori di Lunes de Revolución. Avevano pubblicato Ginsberg, Kerouac, Corso, e anche alcune delle mie poesie. Quando realizzarono che ero io, dissero che avevano letto tutto di me, chiedendomi se volevo incontrare Fidel. Perché no, risposi». Ed ecco, verso la fine del pasto, l’epifania: «Questo uomo grande e alto venne fuori dalla cucina in divisa militare, fumando un sigaro. Chiesi ai giovani poeti se mi potevano presentare. E loro risposero che non lo conoscevano. L’unica cosa che potevo dire in spagnolo era: “Soy amigo de Allen Ginsberg”».
Ferlinghetti ride molto divertito e continua: «Allen l’aveva incontrato a New York al Lenox Hotel, quando cercava finanziamenti. I governi e le banche non gli volevano prestare denaro. Così andò a cercarlo in Unione Sovietica, perché noi gli avevamo girato le spalle. Fu stupido da parte degli americani. Quando incontrai Fidel mi sorprese vedere che quel “feroce dittatore” era zoppicante e tremolante. Era tutto solo, quando venne fuori guidò una jeep aperta senza guardie. Era l’inizio della rivoluzione cubana, il tempo dell’euforia, quando tutto era grandioso. Pablo Neruda era in città, allora questi giovani poeti mi dissero che avrebbe fatto un reading di fronte a tutti i castristi e mi chiesero se volevo andare a sentirlo. Quando entrai nel Senato vidi una ressa: tremava ogni cosa! Entrarono tutti con una divisa militare e il sigaro in bocca. C’era grande eccitazione. Quando salì sul palco ci fu un applauso di massa. Tempo dopo ebbe molte discussioni e un sacco di disaccordi con Cuba. Neruda era comunista. Fidel non era uno di quelli del gruppo originario. Era uno di quegli studenti universitari, intellettuali. Non erano gli operai del partito. Anni dopo, quando ero in Nicaragua, lessi che Fidel aveva dichiarato: “Non sono un seguace del comunismo, ne sono una vittima”. Beh, è ancora vivo!».
Ultimo flash di Ferlinghetti: un passaggio sul suo viaggio in Russia, prendendo la Transiberiana nel 1967, gli permette di descrivere la vita sotto Stalin. «C’era un enorme striscione che glorificava l’anniversario dei 50 anni della Rivoluzione, e un’orda umana lungo la strada, tutti vestiti di nero. Sembravano completamente infelici. Andai in un cinema: non mostravano che film di propaganda, con musica marziale, truppe che marciavano. Il pubblico sedeva in assoluto silenzio per tre ore, dopo di che si trascinava fuori muto. Era così patetico. Era la gloria del 50° anniversario del comunismo!».

La Stampa 27.3.14
Il “ribelle” che all’alcol preferisce il cappuccino
di Claudio Gorlier


Conosco Lawrence Ferlinghetti da cinquant’anni, quando cominciai a frequentare la sua leggendaria libreria, City Lights Books, sulla Columbus a San Francisco, un punto ribollente di incontri creativi. Nel 1955 fu lui a pubblicare Howl, Urlo, il poema di Allen Ginsberg a causa del quale subì un processo per oscenità, e che in qualche modo segna la nascita della Beat Generation, di cui Ferlinghetti rimane, a mio avviso, uno dei tre supremi protagonisti, con Ginsberg e Jack Kerouac, l’autore dell’altro testo canonico beat, il romanzo Sulla strada. Perché beat? Ironicamente, dicevano loro, come abbreviazione di beaten, sconfitto, ma anche di beatitude, beatitudine. Come ha osservato Thomas Parkinson, lo studioso più qualificato dei beat, il significato più autentico era, più ancora che «rivolta», «ribellione», una ribellione a 360 gradi, contro l’ipocrisia oppressiva delle istituzioni, del costume, della società letteraria, dell’America perbene.
La poesia e la prosa di Ferlinghetti, pur altrettanto sperimentali delle altre opere dei beatnik (termine insieme qualificante e derisorio), possiedono una misurata intensità, direi una spazialità verbale, culminando nel ritmo disteso ma penetrante di A Coney Island of the Mind (Coney Island della mente, 1958) e del programmatico Poetry as Insurgent Art (Poesia come arte che insorge, 2009). Persisto nel ritenere che Ferlinghetti sia, osservato in prospettiva, il direttore di orchestra della beat generation nella sua autenticità e genuinità californiana. Ma attenzione: Ferlinghetti non è stato mai, pur nella sua densa ironia, un ribelle integrale. Niente alcol, niente droga, mi è capitato di osservare, solo cappuccino, a differenza degli altri beat. A San Francisco gli hanno persino intitolato la piccola via accanto alla libreria. Tieni duro, Lawrence.

La Stampa 27.3.14
E il re bruciò i Templari per fare cassa
Una mostra a Genova ripercorre la storia dell’ordine cavalleresco: dalla fondazione al rogo del Gran maestro
di Teodoro Chiarelli


Una storia di tonaca e spada lunga due secoli e soffocata brutalmente nel sangue. Anzi, nei roghi: l’ultimo giusto settecento anni fa. È il 18 marzo 1314, Jacques de Molay, ultimo Gran Maestro dell’Ordine dei Cavalieri del Tempio, viene bruciato sulla pubblica piazza a Parigi per ordine del re Filippo IV il Bello, complice una bolla di legittimazione di papa Clemente V. Accusati di eresia e di ogni tipo di nefandezza, i monaci guerrieri dell’ordine nato per proteggere i pellegrini in viaggio verso la Terrasanta vengono perseguitati, inquisiti e brutalmente sterminati. Le loro immense proprietà e le loro enormi ricchezze sono confiscate dal re. E qui vengono fuori le vere ragioni di un’operazione che è ben poco religiosa, ma piuttosto politico-economica. Filippo IV era pesantemente indebitato con l’Ordine del Tempio. Cancellando i Templari prende i classici due piccioni con una fava: estingue il debito e incamera una fortuna.
A nulla servirà l’appassionata autodifesa di de Molay sull’ortodossia dell’Ordine. Al concilio convocato a Poitiers da Clemente V, il portavoce del re di Francia chiede al Papa di attivarsi affinché l’Ordine templare sia ripudiato dalla Chiesa, in caso contrario il Papa sarebbe stato abbandonato dal più cristiano dei sovrani. Clemente V cede al ricatto e i Templari sono condannati al rogo. Proprio le ricchezze, il senso di autonomia, i caratteri esotici della religiosità templare sono gli elementi che risulteranno decisivi per lo scioglimento dell’Ordine.
A 700 anni dal rogo di Parigi, una mostra a Genova, nella Commenda di San Giovanni di Prè (gioiello medievale di singolare bellezza costruito nel 1180 come luogo di assistenza a pellegrini e crociati che si recavano o tornavano dalla Terrasanta), a due passi dall’Acquario, ripercorre la vicenda dei Templari in maniera scientifica. La rassegna, «Templari, storia e leggenda dei cavalieri del Tempio», si inaugura domani e resterà aperta fino al 2 giugno. Curata da Cosimo Damiano Fonseca e Giancarlo Andenna, conta sul contributo di studiosi di livello internazionale e sull’alto patrocinio del Pontificium Consilium de Cultura.
Un percorso tra il XII e il XIV secolo attraverso importanti reperti storico-artistici, alcuni esposti per la prima volta al pubblico: il codice pergamenaceo La regola dei Cavalieri del Tempio dalla Biblioteca Nazionale dei Lincei di Roma, i documenti del processo ai Templari dell’archivio segreto Vaticano, il San Pietro di Simone Martini dal Museo dell’Opera del Duomo di Orvieto, la Madonna del colloquio di Giovanni Pisano dal Museo dell’Opera del Duomo di Pisa, le lastre tombali di alcuni cavalieri templari dall’Abbazia di Fontevivo di Parma e dal Museo Archeologico Nazionale di Napoli.
La nascita dell’Ordine del Tempio è considerata uno degli avvenimenti chiave della storia europea: la creazione di una forza, per la prima volta universalmente riconosciuta e riconoscibile, di un’idea di bene e di valori comuni e condivisi, che risulteranno fondanti per i sistemi di governo futuro. La protezione dei deboli, la virtù e l’abnegazione al servizio del compimento del dovere, la subordinazione degli interessi particolari a un concetto di bene universale, rappresentano le nuove parole d’ordine di una comunità del coraggio e della cavalleria.
Scrivendo De laude novae militiae Bernardo di Chiaravalle si inserisce nello scontro tra il pontefice Innocenzo II e l’antipapa Anacleto II. A essa si ispirano i milites (i sette fondatori guidati da Ugo da Payns) per darsi una propria Regola di vita quotidiana di cavalieri al servizio dei pellegrini diretti in Terrasanta. Nascono così le loro leggendarie fortezze, chiamate Baghras, Safita, Atlit o Castello dei pellegrini. Ma l’Ordine tesse anche una rete di rapporti con il Regno di Gerusalemme, i sovrani cattolici e i loro nemici più fieri come Saladino. Riccardo I parte per la crociata nel 1192, sconfigge più volte Saladino, ma non riconquisterà Gerusalemme. I Templari, intanto, si espandono in Europa.
I cavalieri si considerano i guerrieri eletti del Cristo. L’etica di base dettata da San Bernardo viene ulteriormente sviluppata associando ai Templari il tema del sacrificio (coloro che davano il sangue per la salvezza del Cristianesimo e della Terrasanta) e della passione di Cristo. Il segno del sangue (esplicitamente richiamato dalla Croce Rossa), che era loro simbolo esclusivo, diventa un elemento fondamentale.
Divenuti ormai troppo potenti, i Templari e le loro ricchezze finiscono nel mirino di Filippo «il Bello». E iniziano i roghi.

La Stampa 27.3.14
Un mistero nato nell’età dei Lumi
di Mario Baudino


Non ci sono paragoni, come diceva una famosa pubblicità. La popolarità dei Templari umilia qualsiasi altro ordine e istituzione del Medioevo. Non da ieri, non certo da Dan Brown, l’ultimo in ordine di tempo ad attingere a questa inesauribile fonte di successo. E dire che in sé non erano poi tanto diversi da altri ordini monastici o cavallereschi, come quelli di Malta o gli antipatici cavalieri Teutonici; e che, persa la Terrasanta, non hanno combinato granché. La loro sfida storica è stata semmai di reggere come multinazionale finanziaria.
Ciò che dei Templari ha affascinato la nostra cultura a partire dal Settecento è la loro caduta, il rogo di Jacques de Molay, l’espropriazione dei beni avvenuta soprattutto in Francia, la fantasia esoterica profusa nei processi, presa a volte sul serio anche da storici accademici, fra mille polemiche. Tutto questo è diventato un archivio straordinario che dal Secolo dei Lumi non ha cessato di produrre narrazioni: soprattutto quella dei Templari sopravvissuti come ordine segreto e padroni dei destini del mondo.
In tutti i presunti «misteri» della storia un cavaliere con la croce sul petto è così divenuto d’obbligo, dagli eretici Catari al Graal alla Sindone a leggende recentissime come quella di Rennes-les-Chateau. Umberto Eco (nella Storia delle terre e dei luoghi leggendari, Bompiani) li ritrova spesso sul cammino. E cita a questo proposito, lui laico senza se e senza ma, un aforisma attribuito a Chesterton: «Quando gli uomini non credono in Dio, non è che non credano a nulla: credono a tutto».

Corriere 27.3.14
Un secolo nella morsa delle tigri di fango
Perché nell’inconscio collettivo perdura il lutto per quell’eccidio
E i fantasmi della distruzione sono sempre viviNonostante la lunga pace apparente, la Grande guerra del 1914 non è mai finita
di Guido Ceronetti


Agli storici è abbastanza facile, ma con parecchie riserve, dopo cent’anni considerare la Grande guerra finita. Di regola, la si fa riprendere e terminare nel 1945. La guerra intereuropea, con l’eccezione non da poco della Jugoslavia, è certamente finita allora. A poco a poco l’Europa occidentale ha rinunciato alle leve militari e ammesso l’obiezione di coscienza anche in caso di conflitto, ormai ritenuto impensabile. Crolla l’Urss e si smontano anche le difese missilistiche americane. La pace tra i due implacabili galli da combattimento del 1914, Francia e Germania, è totalmente, oggi, priva di ombre. Di fatto, l’Europa in cui mi trovo a umbratilmente vivere e scrivere è un semicontinente vagante, senza frontiere e senza difese d’insieme, aperto alle invasioni dal Mediterraneo e dalle regioni orientali, che gode delle leggi più miti e più tolleranti del mondo. Si può dire, con Giovenale, che tra i moltissimi mali e malesseri che soffriamo c’è, in coda ma non è l’ultimo, quello di una troppo lunga pace?
D’altra parte le guerre non s’inventano. Nei miei vagabondaggi tra Belle Époque e 1914, ho trovato questo, nel paragone con gli anni più recenti: la scomparsa, nei Paesi (non ci sono più le patrie) più ricchi e progrediti, della forza maschile. Si stenta a ritrovarla perché non la si è mai pensata: c’era e nessuno ci badava, non c’è più e nessuno ne ha nostalgia. Ma la tradizione cinese insegna che la perdita di Yang, il principio mascolino, è tanto fatale a un mondo quanto la perdita di Yin, l’ewig weibliche , il principio femminile. La guerra del Quattordici è stata, per la mascolinità archetipica espressa nel concreto umano, spremendo tutto il possibile della realtà uomo nel fiore degli anni, una mostruosa macchina distruggitrice. Nel contempo ne è stata il trionfo, l’apoteosi, la sommità attraverso la servitù, l’avvilimento continuo militare. Ufficialmente, l’emblematica battaglia di Verdun, con la caduta del forte di Vaux, termina a metà dicembre 1916. Ma i combattimenti in alcuni settori proseguirono per quasi un anno ancora.
In un libro (Verdun , 1980) Georges Blond dà questa immagine di combattenti dell’inverno 1917: «Il termometro scese a meno venti, gli uomini divennero statue di fango ghiacciato quasi disanimate, coabitanti con cadaveri congelati, e i chirurghi militari amputarono senza numero piedi e mani, braccia e gambe ghiacciate, cancrenose, incurabili. E poi ricominciarono le piogge che liquefecero il carnaio, e l’estate, la mosche, il fetore atroce, e di nuovo le piogge, il freddo, fino alle lacrime». Il pellegrinaggio ai Luoghi della battaglia, franco-tedesco, europeo e americano, è di mezzo milione di persone ogni anno. Credo che in questo 2014 sorpasseranno il milione. Perdura, nell’inconscio collettivo, il lutto per la mascolinità perduta, nello strazio dei corpi e negli eccidi di anime viventi, che non furono dei Dna di laboratorio.
Perdura. Qualcosa è cambiato, nella specie umana più cittadinizzata, da quando quei pupazzi di fango ghiacciato sofferenti hanno ripreso a muoversi e hanno procreato discendenti.
E la «guerra di materiali» ha generato materia, né poteva altrimenti. Grandi, indicibili riserve di idealismo superiore e di spiritualità (anche di pensiero nichilistico, novità postcristiana) esistevano intatte prima che si spalancasse l’abisso del Quattordici. Il ventre malato della trincea ha inghiottito tutto. Vedo simulacri dell’autentico principio mascolino nelle abbominazioni nazionalsocialiste e della rivoluzione bolscevica; simulacri e degenerazioni epigonali, parti di mostri, a catena. Per una giusta definizione di una guerra di materiali di tali proporzioni bisogna vederla come madre di tutte le guerre successive dal pianeta, anche la minime, le terroristiche, le fredde, le interminabili del secolo XX come in quello che si sta sgranando adesso, gravido di nuove tempeste. Tutto era là nell’uovo…
I materiali si sono riprodotti all’infinito, la mascolinità spirituale (l’ewig männlich del romanzo di Frank Thiess, Tsushima) è stata riassorbita dal cosmo di luce che le è proprio.
Su tutti i fronti, uomini furono costretti a commettere crimini di sangue, come obbedendo all’ingiunzione di Krishna ad Argiuna nella Bhagavad-Gita: «Va’ e combatti», e l’umanità dell’uomo ne uscì disfatta. Eppure versi di umanità altissima e di fraternità nella sofferenza, come i poemi di guerra di Wilfred Owen, nessun’altra guerra, dopo, li ha suscitati...
E canzoni! A centinaia, in tutte le lingue... La canzone diceva la protesta dagli offesi («Oh Gorizia tu sei maledetta», «La chanson de Craonne»), la rassegnazione, l’ironia, la nostalgia («Tipperary, Oh it’s a lovely war»), i treni dei condannati («La Tradotta»), la vittoria («La Madelon de la Victoire»). Nato nel 1939 come da una suggestione telegrafica della vigilia del Quattordici, ha volato adattandosi a tutte le lingue il motivo tutt’altro che militaresco di Lili Marleen, che Marlene Dietrich elargì in inglese alle truppe americane dalla Normandia al Pacifico.
L’ultima guerra che ha cantato è stata la Civile di Spagna. Ma il reimbarco americano dal Vietnam è muto; le guerre balcaniche di fine secolo sono mute. Ancora, nel 1962, la voce di Edith Piaf col suo irresistibile Je ne regrette rien accompagna la sconfitta dall’Algeria francese. Senza catarsi musicale qualsiasi guerra, vinta o persa, è una guerra perduta. Ma la macchina fotografica Kilian dov’è finita? E il suo potere magico di mostrare evocandoli gli stuoli dei caduti in guerra? Era, credo, quella che fotografava gli ectoplasmi disgustosi delle sedute medianiche; ma quei soldati fatti pallide ombre provano la sopravvivenza breve del corpo eterico, caro alle dottrine teosofiche fiorenti nella Belle Époque.
Per una definizione di quella guerra-madre che mi soddisfi, quantunque possa suonare ingratissima, devo ricorrere necessitato a un termine teologico: è stata una guerra escatologica – da éschatos , ultimo, estremo; ma il greco classico non lo conosce, perché si riferisce alla visione ciclica del Tempo.
L’escatologia riferendosi al tempo lineare, col quale computiamo la storia e ragioniamo malamente in tutto, non significa che la Grande guerra sia stata l’Ultima, al contrario. È stata la prima di una miriade di guerre piccole e grandi che culminano nella fine di ogni storia possibile. Detto secondo il cannocchiale classico, la prima delle guerre escatologiche ha svegliato Némesi la vendicatrice e le guerre ultime ne sono il castigo. A tanto male fatto agli esseri umani non poteva toccare soltanto una punizione da trattati del 1919, ma qualcosa d’incalcolabile, e già ne fu l’annuncio l’epidemia di spagnola.
E ne fu Némesi non saziata la mondiale bis del '39, con le sue stragi di civili e città, le sue paranoie razziste criminali. La colombetta bianca di Picasso, radiografata, rivela una proliferazione di orrori all’Est, gulag e forche messe in fila, popoli schiavi e crocifissi. È vero che prospera il traffico mondiale delle banane, ma il commercio delle armi e dell’uranio da bombe attira molto di più il babeloide inebetimento umano. L’esibizione di armi nelle parate non ha finito più di annoiarci e viene tuttora utilizzata come minaccia. L’uso e il far scorte di gas tossici durano da quando per la prima volta, nel 1915, le prime bombe al cloro colpirono, con precisione tedesca, le linee britanniche.
Tant’è buona la pace che nessuno se ne fida, se non all’ombra di tremendi arsenali. Le grandi battaglie della storia sono finite ed ecco affacciarsi scenari da Guerra dei mondi, impensati perfino nelle pessimistiche visioni di Wells: Marte si è messo a generare droni, che annunciano guerre e terrorismi talmente facili da far sorgere presagi di hobbesiane guerre di tutti contro tutti, e l’uomo si è arreso al potere delle Tenebre, non ha più forza, gliel’ha disintegrata la trincea, tigre di fango, dal mar del Nord alle Dolomiti.

Corriere 27.3.14
Chi legge ha il potere di salvarsi. Così una ragazza sfida i nazisti
di Maurizio Porro


Ci sono film in cui il Libro ha la potenza di salvare l’uomo, come in effetti accade, tramandando il valore della memoria, come dimostra il Diario di Anna Frank. Dopo The reader , ecco Storia di una ladra di libri , tratto dal un voluminoso best seller da 8 milioni di copie dell’australiano Markus Zusak, edito da Frassinelli, dove una ragazzina viene affidata nella Germania nazista del ‘38 a una coppia adottiva, dopo la fuga della madre comunista. Qui Liesel capirà i bilanci non semplici degli affetti, la rustica madre, il buon padre, gli odiosi compagni, diventa amica del cuore del coetaneo Rudy con cui scambia il primo bacio, soffre l’arrivo in casa di un giovane ebreo nascosto che resterà amico per la vita.
Dalla realtà hitleriana, che finisce nel macello umano del bombardamento finale degli alleati, la ragazza fugge e si salva imparando a leggere e ritagliandosi quel momento magico la sera in cui si entra nel fantastico mondo delle pagine. Così partendo dal poco invitante Manuale del becchino , la giovane inizia a leggere tutto ciò che trova, cercando di salvare i volumi, in un periodo in cui sono dati alle fiamme, Mann, Proust e compagnia, specie se ebrei. Il contrasto è manicheo: da una parte la violenza e il razzismo, dall’altra la cultura, a volte è una sfida ancora evidente. Qui viene offerta dalla produzione Fox in versione patinata, un po’ per signore, musicata a note sempre alte dallo spielberghiano John Williams (47 nomination all’Oscar) e ripresa con dolly sfrenati da Florian Ballhaus, mentre Brian Percival, regista di molte puntate dello smagliante «Downton Abbey», si adagia nel rassicurante stile che smussa gli angoli anche di una storia selvaggia che inizia e finisce con la voce fuori campo della Morte. Il libro rischia di puntare troppo sulla poesia del dolore, mentre la medicina omeopatica della lettura rimane sullo sfondo ma non diventa redenzione né catarsi, rimane colore anche se promuove la libertà di pensare.
Una quasi fiaba che rivela il viso dolce diabolico della 14enne Sophie Nélisse accanto alle facce note di Emily Watson e del grande Geoffrey Rush .

Repubblica 27.3.14
"L'autismo inizia nel grembo materno da difetti nello sviluppo della corteccia cerebrale"
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La Stampa Medicitalia 24.3.14
Orgasmi più intensi con gli esercizi di Kegel
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