domenica 30 marzo 2014

l’Unità 30.3.14
Pietro Ingrao
99 anni tra passione e poesia
di Walter Veltroni


Son quasi cent’anni, questi di Ingrao. Ma non di solitudine. Perché ha vissuto immerso nella storia e in quel grande magma che è stato il ’900. Eppure, in qualche modo, potremmo anche parlare di solitudine per questo uomo che parla si sé definendosi un «carattere d’orso», sempre tentato da una riflessione introversa ed eretica. Insomma Pietro Ingrao compie 99 anni. È nato nel 1915 nell’Italia agricola e un po’ periferica della sua Lenola proprio mentre la febbre della prima Guerra Mondiale stava per travolgere anche il nostro Paese e nel resto d’Europa i morti si contavano già a centinaia di migliaia, milioni.
Ha attraversato un tempo lungo, un secolo drammatico segnato da due guerre, dalla tragedia della Shoah, dal grande sogno del comunismo e dalla sua crisi.
Ho incontrato Ingrao nella sua casa pochi mesi fa. Stavo lavorando al film su Berlinguer e volevo raccogliere la sua testimonianza. Come sempre incontrarlo mi ha molto colpito: ero partito con tante domande in testa emi sono sentito rivolgere mille domande. Ero andato a cercare memoria, mi son trovato davanti un uomo pieno di curiosità su quello che succede, su quello che succederà. Nel film ci sono le sue poche frasi in cui parla del funerale di Enrico Berlinguer come di un viaggio interminabile nella folla e nel dolore delle persone.
Pietro Ingrao è stato definito in tanti modi: era l’eretico, l’uomo del dissenso interno al Pci, quello che per la prima volta in un congresso comunista dalla tribuna aveva detto di non esser stato convinto dalla relazione del segretario, che era Luigi Longo. Era anche l’uomo che nel Pci ha più seguito, con apertura di idee e senza rigidità, le questioni delle istituzioni, dello Stato e della sua riforma. Per anni, per decenni, a partire dal 1946, tutti i lunedì che Dio mandava in terra, a Botteghe Oscure si riuniva la segreteria del Pci, una decina di persone in tutto. Ingrao c’era sempre, e con lui Togliatti fino al 1964, e Amendola e Pajetta e Berlinguer e Bufalini e Alicata e poi negli anni successivi Napolitano, Macaluso … Un gruppo piccolo di persone che ai nostri occhi appartengono alla storia ma che erano invece spesso dei giovani (Pietro aveva trent’anni quando diventò direttore dell’Unità). Uomini giovani che alle spalle avevano biografie spesse e qualche volta dolorose.
La sua figura è quella di un politico-intellettuale molto speciale. Nato in un piccolo paese sui monti che sono alle spalle di Terracina da una famiglia di origini siciliane. Il nonno garibaldino che aveva combattuto con Bixio e di cui Pietro va molto orgoglioso. Ma i suoi racconti d’infanzia (ne ha parlato spesso) lasciano vivido il racconto della grande casa e della nonna che stava sempre in cucina, il luogo sociale della civiltà contadina, dove le differenze tra questa famiglia di medi proprietari agricoli (a dire il vero già mezzi in rovina) e quelle dei braccianti e delle loro famiglie scomparivano.
GLI STUDI A GAETA
Da ragazzo, durante gli studi al liceo di Gaeta i suoi amori erano la poesia ermetica e il cinema. Andava all’edicola ad aspettare che arrivassero le riviste con le poesie di Montale e Ungaretti. Di Montale racconta un episodio bellissimo e un po’ ironico. Ingrao arrivò a Firenze per i Littoriali e si presentò in stivaloni e camicia nera alle Giubbe Rosse, lo storico caffè in cui si raccoglievano i poeti. «Volevo incontrare Montale, il poeta che aveva scritto quei versi scabri e desolati che dicevano “codesto solo oggi posiamo dirti, ciò che non siamo ciò che non vogliamo”. Ho ancora negli occhi l’espressione tra l’incuriosita e annoiata del poeta che si vedeva davanti quell’oscuro giovane provinciale vestito in quella maniera ». Sì, in camicia nera, perché Ingrao fa parte di quella generazione di italiani che non aveva conosciuto nient’altro che il fascismo, che con questo si immedesimava ma che seppe prestissimo rovesciare in antifascismo la sua giovanile voglia di cambiare il mondo. Due suoi maestri ai tempi del liceo morirono alle Ardeatine. Lui sceglie l’antifascismo nel 1939, un anno dopo arriva al Pci. Il 25 luglio del 1943 lo coglie a Milano dove lo ha inviato clandestino il Pci: fu qui il suo primo comizio e lo ha sempre raccontato con quel misto di entusiasmo e di timidezza che è la sua cifra.
UN’ENORME CURIOSITÀ
I suoi novantanove anni li ha spesi nella battaglia politica fatta con passione, che fosse alla guida dell’Unità o alla presidenza della Camera. Eppure non è quell’uomo totus politicus come altri della sua generazione. È sempre stato spinto da una enorme curiosità intellettuale, scrive poesie, ama il cinema sin dalla giovinezza, ne parla e ne scrive spesso con competenza e passione. Il suo grande amore cinefilo è Charlie Chaplin che legge (a ragione) in chiave poetica ma anche politica e sociale. Se devo cercare una parola per raccontarlo questa parola è dubbio, ma non il dubbio che impedisce l’azione e che paralizza, bensì quel tarlo che spinge a pensare di più, a conoscere meglio anche le cose che sono più lontane da te. Se devo cercarne un’altra questa parola è popolo. Parola difficile, forse poco politica ma nella sua lingua ha sempre indicato gli uomini e le donne «in carne e ossa», come se l’astrazione dell’ideologia e anche della politica-politica si dovesse fermare quando si parla delle persone vere nella loro complessità e umanità. A chi ama le semplificazioni e si irrita davanti ad una complessità che ci obbliga a tenere insieme cose apparentemente lontane e opposte magari con un «ma anche», mi verrebbe da rispondere: guardate questi due leader così diversi, Ingrao col suo dubbio costante, Berlinguer capace di tenere insieme l’ossimoro di lotta e di governo. Cosa c’è di semplice, di bianco e di nero in questa storia?
Mi torna in mente del nostro recente incontro anche un altro particolare. Ingrao ama parlare facendo continui riferimenti ai luoghi. Le città, i quartieri, il paese della sua infanzia sono radici fisiche. Quest’uomo nato nel 1915 è come fosse piantato in un lunghissimo passato, ma riesce ad avere uno sguardo profondo anche sul futuro. Auguri Pietro.

l’Unità 30.3.14
Clandestino in bicicletta per fare uscire «l’Unità»
di Pietro Ingrao


Il primo incontro diretto con l’Unità lo ebbi il pomeriggio del 26 luglio del ‘43 a Milano. La sera prima, a Roma, Mussolini era stato licenziato dal re. Vivevo clandestino e abitavo in una casa di Corso di Porta Nuova insieme con due compagni operai siciliani, i fratelli Impiduglia, che mi ospitavano e mi difendevano dalla polizia, e un’adorabile ragazza lombarda, unita al maggiore dei due fratelli, di nome Santina, che mi aiutò e protesse nei miei soggiorni segreti a Milano, con una grazia e un coraggio semplice.
La notte del 25 luglio era afosa. Nella casa dormivamo tutti un sonno pesante, quando d’improvviso e inatteso entrò Salvatore Di Benedetto, che era un po’ il nostro capocellula e insieme quasi un fratello: sbattè le porte e si precipitò a gridare a squarciagola alla finestra: «A morte Mussolini!». Saltammo dal letto senza capire. Poi, infilati di furia i pantaloni, ci precipitammo con Di Benedetto nelle strade urlando: «A morte il duce, abbasso il fascismo» (...). Finimmo nel vortice di Porta Venezia dove una folla impazzita sciamava ed urlava. Più avanti abbracciammo esultanti Elio Vittorini. E fu così tutta la notte, in una scia di gente tumultuante davanti alle sedi fasciste, da cui cadevano e finivano in falò carte, sedie, armadi, gagliardetti, come una scia di roghi. Tutto s’acquietò con l’imbiancarsi del cielo.
La gente rifluì nelle case e negli uffici. Io finii con Vittorini e Di Benedetto nella sede della casa editrice Bompiani, dove Elio aveva il suo tavolo di lavoro. Da lì partì la telefonata che fissava per il pomeriggio un camioncino a Porta Venezia (...). Alle due ero di nuovo in un enorme corteo senza nome, che sfilò dinanzi a San Vittore chiedendo la liberazione dei prigionieri politici. Poi dal carcere il corteo sfociò ancora a Porta Venezia, e dilagò attorno al camioncino affittato da Bompiani. Riuscii ad arrampicarmi sul tetto dell’auto, dove ci strappavamo da una mano all’altra i microfoni: comunisti, socialisti, anarchici, trotzkisti, repubblicani, e quanti altri non so dire. Conquistato il microfono riuscii a fare un brandello di comizio, che chiedeva la pace subito. L’indomani mattina il Corriere della Sera scrisse che in Piazza del Duomo aveva parlato «l’operaio Pietro Ingrao». E quell’informazione sbagliata dette una prima notizia alla mia famiglia che da mesi di me non sapeva più nulla (...).
La folla sciamò con gridi di esultanza. E io mi trovai trascinato da Salvatore Di Benedetto nella casa di Vittorini che lambiva Corso Venezia. Il pomeriggio di tardo luglio si faceva improvvisamente quieto, con quelle luci estive che si piegano nel lungo tramonto, preparando l’ombra della sera. Nella casa c’era Celeste Negarville, uno dei dirigenti del Pci che era riuscito a rientrare clandestino in Italia, mentre si avvicinava il crollo di Mussolini. Nelle nostre goliardate di partito, gli fu appiccicato un nomignolo scherzoso: lo chiamammo il «marchese di Negarville», per la stranezza di quel cognome, e soprattutto per il suo gusto dell’ironia e il successo che aveva tra le donne. Era invece un operaio, e tornava in Italia da un aspro esilio. Mi guardò con un breve sorriso, ed ebbe una battuta scherzosa sul mio «comizio» a Porta Venezia. Emi fu detto che dovevamo preparare il numero dell’Unità sul grande evento. Io fui incaricato di fare la cronaca della manifestazione. Poi, nella casa, ci ponemmo ciascuno al proprio posto di scrittura. E io cominciai a pesare le parole con cui raccontare quella manifestazione, in cui per la prima volta nella mia vita avevo parlato a una massa di popolo di cui sapevo nulla.
Eravamo tutti presi nel nostro compito, quando la porta della stanza si aprì e apparvero due. Io continuai a scrivere. Gente della casa, pensai, compagni sconosciuti. Uno dei due, quasi sorpreso dalla nostra calma, disse due parole che ci lasciarono di stucco: «Siamo carabinieri». In breve ci radunarono. Ci chiesero i nomi. Quando venne il turno mio non sapevo se dare il mio nome clandestino (Vittorio Infantino) o quello vero. Prima di me fu interrogato Negarville: disse quel suo strano nome vero. Tuttavia dissi anch’io il mio nome vero: Pietro Ingrao. I carabinieri arrestarono Elio Vittorini, che figurava come colui che aveva disposto il camioncino per la manifestazione di Porta Venezia, e Salvatore Di Benedetto, che aveva risposto furente alle loro domande: che volevano? C’era o no finalmente la libertà?
La scelta fu di andare a scrivere quel numero dell’Unità in casa di Ernesto Treccani, che ci sembrava protetto da avventure di poliziotti che ancora non avessero capito l’accaduto. Negarville era calmo, persino un po' pigro, mi sembrava. Ma avevamo appena ricominciato il nostro lavoro di giornalisti neofiti che venne l’allarme: la polizia stava per arrivare anche a casa di Treccani. Ci trasferimmo di corsa alla tipografia Moneta, dove almeno c’era la tutela operaia di fronte a qualsiasi colpo di mano. Negarville era tanto sottile e arguto, quanto lento nella scrittura un po’ prolissa. O forse dovette consultarsi con Roma. Alla fine l’editoriale fu pronto. Il titolo era lungo, calibrato e ridondante. Ma Negarville rifiutò la nostra sollecitazione che chiedeva un titolo più caldo, più breve. Poco dopo, con urla di evviva, un gruppo di operai ci portò stampato quel giornale a due facciate, che recava un nome famoso, così simbolico in quell’istante. E davvero era per me un inizio. Restai nella redazione segreta di quel giornale che non si sapeva se fosse ormai nella legge o ancora aspramente al bando. C’era anche Gillo Pontecorvo, in casa di Vittorini, quando accadde quella irruzione dei carabinieri? Non lo ricordo bene. Ad ogni modo nei giorni che seguirono fummo in tre gli addetti a quel foglio, tutto da fabbricare nell’ambiguo interludio che fu l'estate del ‘43. Celeste Negarville dalla Direzione del partito era stato chiamato a Roma. Girolamo Li Causi era il nuovo direttore (se si possono adoperare queste parole così normali per il subbuglio e le sollecitazioni di quella estate rovente). Nella redazione dell’Unità di Milano eravamo in tre: io, Gillo e Henriette, la fidanzata di Gillo, piombata dalla Francia: una giovane bellezza sconvolgente, venuta a raggiungere di corsa l’innamorato e che sembrava ignorare i rischi terribili che correvano.
I testi di quel breve giornale erano composti in tipografie clandestine nell’hinterland di Milano, da cui li andavamo a ritirare per impaginarli in città: così eravamo come una fluttuante impresa, «new labour» prima del tempo. Essenziale in quella segreta combinazione di lavori era la bicicletta. Ne avevamo una sola, ma con una larga e solida piattaforma in metallo dietro il sellino, splendida per poggiarvi ben mascherati i pacchi di piombo della composizione. La «portapacchi» fu per noi una sorta di arnese di guerra (...). Noi tre giornalisti clandestini eravamo allora molto attratti dalle forme che prendeva quel foglio ancora clandestino, Gillo ancora più di me. Chiedemmo ad Albe Steiner, cervello finissimo, di ridisegnare la testata dell'Unità, poiché quella del tempo di Gramsci ci sembrava bruttissima e ingombrante. Steiner ne immaginò una nuova, forte ed asciutta nel suo modulo razionalizzante d’epoca. Ci parve bellissima. Invece da Roma ci venne un aspro rimbrotto: come osavamo cambiare la gloriosa testata di Gramsci, quel nome favoloso che noi, reclute acerbe, solo allora cominciavamo un poco a conoscere? E tuttavia tenemmo ferma la testata steineriana.
L’articolo integrale è consultabile sul sito www.pietroingrao.it

l’Unità 30.3.14
Ha mantenuto vivo il legame tra popolo e istituzioni
di Laura Boldrini


La mia formazione giovanile è diversa da quella di tante persone che oggi sono impegnate nel campo progressista. Non sono mai stata iscritta ad una formazione politica e la stessa vicenda che ha riguardato il partito di Pietro Ingrao, il Pci, l’ho conosciuta e seguita solo dall’esterno.
Ma ho sempre visto in Ingrao una persona molto aperta e attenta a quei valori della pace, della solidarietà e dei diritti umani che hanno ispirato tutta la mia esperienza personale e professionale con le agenzie delle Nazioni Unite. Questa sua sensibilità lo ha reso una personalità politica peculiare: uomo di partito e delle istituzioni, certo, ma quanto mai curioso di tutto ciò che si muove nella società, di ogni fermento culturale, di ogni aspirazione di libertà. Della sua biografia continua a stupirmi il fatto che, nonostante i suoi notevoli impegni politici e istituzionali, Ingrao abbia sempre conservato un’attenzione e una passione sincera per il cinema, per la letteratura e per la poesia.
È stato Presidente della Camera dei deputati dal 1976 al 1979 e ha lasciato un segno importante nella storia del Parlamento. Erano anni molto difficili. La congiuntura economica metteva a dura prova le condizioni di vita delle famiglie italiane proprio mentre si scatenava l’attacco terroristico ed emergevano scandali che minavano la fiducia dei cittadini. C’era il rischio che le istituzioni reagissero a queste difficoltà chiudendosi e perdendo il contatto con le inquietudini e le sofferenze del Paese. La presenza di Pietro Ingrao alla Presidenza della Camera contribuì non poco ad evitare questo rischio. La sua idea di centralità del Parlamento era l’esatto contrario del Palazzo autoreferenziale che si piega su se stesso. Era invece l’idea di uno scambio continuo tra le istituzioni e la società, e di un Parlamento capace di tenere insieme un Paese che rischiava altrimenti di lacerarsi irrimediabilmente.
L’epoca attuale è diversa da tanti punti di vista, ma come allora gli italiani si dibattono in condizioni economiche difficili. La società è percorsa da forti tensioni, non paragonabili per fortuna all’assalto terroristico, ma comunque assai preoccupanti. E marcata è la sfiducia nei confronti della politica, dei partiti, delle istituzioni: molto più marcata di 30-40 anni fa, quando non c’era da fronteggiare un’ondata populista che raffigura le istituzioni rappresentative come un gigantesco spreco.
Oggi più di ieri, dunque, al Parlamento viene richiesto uno sforzo straordinario di ascolto e di apertura, se si vuole accorciare quella distanza dai cittadini che mina alle fondamenta la nostra democrazia. Stare nelle istituzioni per farvi entrare la domanda di cambiamento, di trasparenza, di sobrietà, di partecipazione che anima e agita la società italiana è oggi la mia sfida. Per affrontarla al meglio, la qualità innovativa della presidenza di Ingrao a Montecitorio è ancora un riferimento prezioso.
Per questo, oltre agli auguri di buon compleanno, voglio esprimere a Pietro Ingrao la più profonda gratitudine per il servizio reso alle istituzioni e testimoniargli l’affetto e la stima che ancora lo circondano alla Camera dei deputati. Presidente della Camera dei Deputati

l’Unità 30.3.14
Stasera a Lenola concerto di Sparagna


Pietro Ingrao compie oggi 99 anni e Lenola, dove è nato nel 1915, gli dedica una serie di iniziative in collaborazione con altri Comunidella provincia di Latina. Stasera alle 20 presso il Palatenda toccherà ad Ambrogio Sparagna e al Coro Popolare dare il via alle celebrazioni con il concerto «Amara terra mia». Poco prima, alle 17, la cerimonia in onore di Ingrao alla presenza dei sindaci della zona a cui parteciperanno il presidente della Regione Lazio Nicola Zingaretti e il vice Massimiliano Smeriglio. Le iniziative andranno avanti fino all’inizio di maggio: sono previste rassegne cinematografiche (il4sarà proiettato «Luci della città» di Chaplin, film molto amato da Ingrao, il 13 «Nonmi avete convinto» di Filippo Vendemmiati e il 5 i documentari di Marrigo Rosato e Danilo Pezzola e quello diMarco Grossi), presentazioni dei volumi della Ediesse «Carte Pietro Ingrao» (il24con Luciana Castellina, Maria Luisa Boccia e Francesco Marchianò e l’8 maggio con Alberto Olivetti, Walter Tocci e Ida Dominijanni) e mostre fotografiche. All’inizio dimaggio arriverà in libreria anche il terzo volume della Ediesse «Crisi e riforma del Parlamento» che contiene, oltre agli scritti di Ingrao, un carteggio tra lui e Norberto Bobbio e un saggio di Luigi Ferrajoli

La Stampa 30.3.14
“La Chiesa non denuncia i preti per tutelare le vittime degli abusi”
Il cardinale Bagnasco: l’obbligo morale è più forte di quello giuridico
di Giacomo Galeazzi


Il no alla denuncia è a tutela delle vittime dei preti pedofili, assicura il cardinale Angelo Bagnasco. Aveva suscitato nei giorni scorsi accese polemiche sui mass media il fatto che nelle linee guida della Cei non ci sia l’obbligo dei vescovi a denunciare all’autorità giudiziaria i sacerdoti che commettono abusi sessuali sui minori. Ma, garantisce il capo della Chiesa italiana, ciò è dovuto soprattutto al rispetto della privacy delle vittime e «risponde a quel che i genitori ritengono meglio per il bene dei propri figli». Infatti, «per noi l’obbligo morale è ben più forte dell’ obbligo giuridico e impegna la Chiesa a fare tutto il possibile per le vittime».
Inoltre, precisa il leader dei vescovi in un convegno a Genova, «la questione è più ampia e il punto fondamentale è la cooperazione con l’autorità giudiziaria». Dunque «il Vaticano prescrive di rispettare le leggi nazionali e la legge italiana non riconosce questo dovere di denuncia». Però «quello che è più importante è il rispetto delle vittime e dei loro familiari, che non è detto vogliano presentare denuncia, per ragioni personali». Perciò «bisogna essere molto attenti affinché noi sacerdoti, noi vescovi non andiamo a mancare gravemente di rispetto alla privacy, alla discrezione alla riservatezza e anche ai drammi di vittime che non vogliano essere messe in piazza, brutalmente parlando». Infatti «noi pastori abbiamo molto riflettuto e questa ragione ci è parsa importantissima». Quindi «a seconda di quello che può essere la posizione dei familiari delle vittime, si può decidere nei casi concreti».
La Cei ha pubblicato venerdì le «linee guida» per i casi di abusi sui minori da parte dei religiosi, corrette dopo che l’ex Sant’Uffizio aveva chiesto di rivedere il precedente documento dell’episcopato. Nella versione finale si legge che i presuli non sono «pubblici ufficiali» e quindi non sono obbligati a denunciare all’autorità giudiziaria casi di abusi sessuali nei confronti dei minori che sono di loro conoscenza. Si parla solo di un «dovere morale di contribuire al bene comune», quindi non riferito esplicitamente alla denuncia.
La collaborazione con l’autorità civile, definita «importante» nel documento della Cei, resta a discrezione dei singoli. I vescovi di altri Paesi, come ad esempio Irlanda, Germania, Danimarca hanno invece scelto la strada di una più stretta collaborazione tra autorità ecclesiastiche e civili. Venerdì il segretario Cei, Nunzio Galantino, presentando a Roma il testo , aveva già chiarito che «il vescovo ha il dovere morale di favorire la giustizia che persegue i reati: non è il difensore d’ufficio del sacerdote eventualmente accusato. È un padre per tutti, soprattutto è padre di chi ha subito gli abusi. E deve agire di conseguenza, cioè prendere decisioni concrete». Inoltre le informazioni su un procedimento giudiziario canonico possono essere richiesti dall’autorità giudiziaria «ma non possono costituire oggetto di un ordine di esibizione o di sequestro». E «riscontrata la veridicità dei fatti», le sanzioni ecclesiastiche previste per i preti colpevoli vanno dalla restrizione del ministero pubblico (niente contatti con i minori) alla dimissione dallo stato clericale.

il Fatto 30.3.14
Con Libertà e Giustizia
“È la Costituzione di Boschi e Verdini”
I giornali tacciono
Abbiamo imparato a conoscere le larghe intese

Qui cambiano
un terzo della Carta Con la benedizione di Napolitano
intervista di Emiliano Liuzzi


Libertà e Giustizia parla di una svolta autoritaria, inaccettabile se in ballo c’è la democrazia parlamentare, la Costituzione. Sandra Bonsanti, da qualche lustro guida l’associazione, ma fu anche tra i pochi giornalisti a prendere le distanze da quella che era la grande ubriacatura del craxismo. Perché il disegno di Renzi non è molto dissimile da quello di Giuliano Amato e Bettino Craxi. 
Chi lo guida il Paese? 
Non lo so, non lo sappiamo più. Questo è un governo che nasce su un vizio elettorale chiamato Porcellum, creato su una presunta emergenza e riformato strada facendo. Sicuramente è questione di larghe intese. 
Due nomi? 
A sentire i toni ci sono due leader, uno si chiama Matteo Renzi, l’altro Silvio Berlusconi. Che appena vede muoversi qualcosa che non è di suo gradimento parla di patti traditi. Piacerebbe sapere che patti siano. Ufficialmente per una legge elettorale: l’evidenza delle cose ci dice che non è solo quello. L’accordo è quello di prendere e buttare mezza Costituzione nel cestino. Mi chiedo se alla fine cambieranno anche la firma, che non sarà più quella di Enrico De Nicola, Umberto Terracini, Alcide De Gasperi. Probabilmente la firmeranno Boschi e Verdini. O Renzi e Berlusconi. Quello che ci preoccupa è il disegno che muove i passi molto prima di ieri o l'altroieri. 
Cioè? 
Quando JP Morgan dice che è obsoleta la nostra Carta costituzionale invita a nozze le larghe intese, offre il pretesto per parlare di riforme. Poche settimane dopo, Enrico Letta inizia l’accelerazione, oggi tocca a un terzo dell’intera Costituzione. Poi toccherà magari all’autonomia della giustizia, all’articolo 101. E tutto nel silenzio assoluto. Loro dicono di aver ascoltato tutti. 
Da voi è venuto nessuno? 
No. Avranno ascoltato le associazioni che fanno riferimento a Luciano Violante, Franco Bassanini e Gaetano Quagliariello. Non siamo stati ascoltati da nessuno. Solo dal Fatto Quotidiano. 
Scoraggiati? 
Abbiamo imparato a conoscere le larghe intese. Io navigo tra la depressione e la rabbia. Credo che prevalga la seconda ragione. Tutti lì a spargere lacrime sul film che Veltroni ha dedicato a Enrico Berlinguer, ma per come l’ho conosciuto io, Berlinguer si sarebbe fermato già alla forma, alle parole molto fuori luogo. Cosa vogliono dire questi quando “manderanno a casa tutti”? Che sconfiggeranno gli “uccelli del malaugurio”, “i gufi”. Inaccettabile. 
Senza legittimazione alcuna. 
Appunto. Neppure quella elettorale. Quando De Gaulle, e non Renzi, mise mano alla Costituzione chiese il parere due volte attraverso un referendum consultivo. Due volte. 
Esiste una via d'uscita? 
Presentarsi in una campagna elettorale con un programma per le riforme e prendere voti. 
Il Quirinale è complice? 
Sicuramente il Colle ha giocato la sua parte, questa ormai è la storia. Siamo passati da una Repubblica parlamentare al semipresidenzialismo. E credo anche che questo, presumibilmente, sarà anche il dopo. Non oso immaginare chi possa arrivare dopo Napolitano, ma penso più verosimilmente che chiedano a gran voce Amato o, che ne so, Gianni Letta, piuttosto che Romano Prodi. È l’ultimo anello mancante. Poi sarà accaduto quello che noi e pochi altri, incluso il Fatto, cerchiamo di evitare. Oggi hanno aderito al nostro appello anche Barbara Spinelli e Maurizio Landini. Ci siamo. Con diverse idee e linguaggio, ma siamo qui a difendere la democrazia.

Corriere 30.3.14
I sacerdoti del non si può
di Ernesto Galli della Loggia


Ancora una volta il Partito democratico è chiamato a scegliere. D’altra parte, se ci si pensa, è proprio questo il significato più generale dell’arrivo sulla scena di una figura come quella di Matteo Renzi: mettere il Pd con le spalle al muro, obbligare la cultura postcomunista a fare apertamente e fino in fondo una scelta a favore di una politica realmente riformatrice. Politica riformatrice progressista, naturalmente, considerando la natura e la storia dei democratici. Ma che in Italia — a causa della latitanza storica di una vera destra liberale: vedasi il fallimento di Berlusconi e di tutti quelli per vent’anni intorno a lui — non può non avere, necessariamente, anche caratteri e contenuti diciamo così non specificamente progressisti, non specificamente di sinistra, bensì dettati dalla necessità di dare spazio a efficienza, merito, razionalità, economicità: dunque, in un senso molto lato, anche caratteri e contenuti liberali. Insomma, così come nella prima Repubblica la Democrazia cristiana svolse un ruolo di supplenza verso la destra, accogliendone molte istanze e punti di vista, e così costruì la propria egemonia, la stessa occasione e lo stesso compito sembrerebbero oggi toccare al Pd.
Ma per ragioni ben note la storia ha dato al Pd un interlocutore particolare che la Dc non aveva: il ceto degli intellettuali. I quali, inclini in genere a un certo radicalismo, non impazziscono certo per la categoria delle riforme in quanto tale, specie poi quando queste non sono in armonia con il loro punto di vista o ancor di più quando contrastano con i loro feticci ideologici. Ed ecco infatti un nutrito e autorevolissimo gruppo di essi (da Gustavo Zagrebelsky a Stefano Rodotà, da Roberta De Monticelli a Salvatore Settis) scendere in campo venerdì scorso con un vibrante appello pubblicato sul Fatto Quotidiano contro le riforme costituzionali proposte dal Pd di Renzi. Altro che riforme: si tratterebbe nei fatti, scrivono i nostri, di «un progetto di stravolgere la nostra Costituzione da parte di un Parlamento esplicitamente delegittimato (...) per creare un sistema autoritario che dà al presidente del Consiglio poteri padronali». Con il monocameralismo, ma in realtà «grazie all’attuazione del piano che era di Berlusconi», nascerebbe «l’Italia di Matteo Renzi e di Silvio Berlusconi», «una democrazia plebiscitaria (...) che nessun cittadino che ha rispetto per la sua libertà politica e civile può desiderare». Questo il tono e questi gli argomenti.
Che per la loro qualità non meritano commenti ma solo un’osservazione: che razza di Paese è quello in cui le migliori energie intellettuali non esitano a tradurre la loro legittima passione politica in pura faziosità, ignorando decenni (decenni!) di studi, di discussioni, di lavori di commissioni parlamentari, che hanno messo a fuoco in maniera approfonditissima i limiti del nostro impianto costituzionale di governo? E dunque la necessità di modificarlo spesso proprio nel senso che oggi si discute? È ammissibile che tuttora si possa sostenere che avere anche in Italia un capo dell’esecutivo dotato dei poteri che hanno tanti suoi omologhi in Europa, o una sola Camera rappresenti l’anticamera del fascismo?
In verità la scelta a cui l’appello degli intellettuali radicali chiama il Partito democratico è una scelta cruciale per la sua identità di partito riformista, ma fin qui sempre rimandata: e cioè tracciare sulla propria sinistra una netta linea di confine e di deciso contrasto ideologico-culturale. Per decenni il Partito comunista unì a una pratica in larga misura socialdemocratica una benevola tolleranza nei confronti del più multiforme estremismo teorico, verso rivoluzionarismi di varia foggia e conio, verso le critiche radicaleggianti di ogni tipo all’ordine borghese. Si poteva essere iscritti al Pci e insieme essere luxemburghiani, filomaoisti, marcusiani, stalinisti. Fino a un certo punto si potè perfino guardare con qualche simpatia alla lotta armata: fino a quando cioè il Partito comunista stesso — resosi conto del pericolo mortale che ne veniva a lui e alla Repubblica — decise di reagire con brutale fermezza. Ma fu l’unica volta. Per il resto questa benevola tolleranza non solo appariva politicamente innocua (tanto a governare erano sempre gli altri) dando per giunta l’idea di un partito aperto che sapeva rendersi amici gli strati intellettuali ma, cosa più importante, consentiva pure di fare regolarmente il pieno dei voti a sinistra.
Il Partito democratico dovrebbe capire che per lui però le cose stanno in modo affatto diverso. Oggi specialmente, quando è al governo in una situazione di crisi grave del Paese e con una responsabilità mai così preponderante e diretta. È questa una responsabilità che dovrebbe implicare alcune ovvie incompatibilità. Tra le quali, per l’appunto, l’incompatibilità tra una linea riformatrice di governo e il sinistrismo radicaleggiante caro a non pochi intellettuali, sempre pronto, peraltro, all’agitazione piazzaiola o a divenire carburante per qualche formazione goscista. Un sinistrismo che dovrebbe obbligare il Pd, se non vuole alla fine restarne vittima, come altre volte gli è capitato, a fare muro esplicitamente, a uscire allo scoperto senza mezzi termini, e magari a contrattaccare; non già a tacere. Come invece tace singolarmente, ad esempio, l’Unità di ieri, la quale, invece che spendersi in qualche difesa delle riforme costituzionali del governo preferisce occuparsi di riservare una gelida accoglienza alle ragionevolissime critiche mosse dal governatore Visco ai vari corporativismi italiani (inclusi quelli dei sindacati), lasciandone il commento ai sarcasmi caricaturali di Staino.
Ma non è così, non è con questa mancanza di chiarezza, mi pare, che ci si può inoltrare in quel cammino sul quale tanta parte dell’opinione pubblica oggi aspetta di vedere avanzare il partito di maggioranza.

Repubblica 30.3.14
Yes we can. Ma Gesù prese anche il bastone
di Eugenio Scalfari



IL GOVERNATORE della Banca d’Italia, ricordando Guido Carli alla Luiss, ha citato una delle frasi che ripeteva più spesso: «Dobbiamo liberarci dai lacci e lacciuoli che rallentano lo sviluppo dell’economia italiana».
Fui molto amico di Carli e la ricordo anch’io quella frase; i lacci e lacciuoli designavano gli strumenti di cui si servivano le corporazioni, le confraternite del potere, le lobby, gli interessi particolari che spesso avevano la meglio sull’interesse generale e che sussistevano in Italia anche dopo la nascita del mercato comune europeo. L’economia del nostro Paese era in gran parte configurata dall’esistenza di un sistema oligopolistico che creava una serie di ostacoli alla libera concorrenza, al centro del quale chi dava le carte erano la Fiat e l’industria elettrica. Con l’inizio del centrosinistra la vera e anzi unica novità voluta dai socialisti e soprattutto dal leader della sinistra Riccardo Lombardi fu la nazionalizzazione dell’industria elettrica spezzando in questo modo il monopolio più importante mentre l’Europa si apriva anche al mercato internazionale.
Il sindacato operaio di quell’epoca non rientrava affatto nell’elenco delle lobby; rappresentava la classe operaia, i suoi interessi e i suoi valori, ma essi non erano affatto contrari a quelli dello Stato. Luciano Lama nei momenti di difficoltà economica gestiva una politica di moderazione salariale e la stessa politica fu anche quella di Berlinguer e di Giorgio Amendola. La moderazione salariale dei sindacati fu riconosciuta più volte nelle relazioni dei governatori della Banca d’Italia, a cominciare addirittura da Menichella e poi da Carli, da Baffi e da Ciampi.
I LACCI e lacciuoli di oggi esistono in un mondo la cui struttura economica e sociale è profondamente cambiata: la popolazione è invecchiata, i giovani tra i 16 e i 29 anni rappresentano meno di un terzo della popolazione, le imprese di grandi dimensioni sono quasi tutte scomparse, le medie imprese devono affrontare mercati dove il costo del lavoro è decisamente più basso che da noi, la delocalizzazione è diventata una prassi, le imprese piccole soffrono di un credito in continua diminuzione e con elevati tassi di interesse, gli imprenditori da trent’anni investono sempre di meno impiegando capitale e dividendi soprattutto nella finanza e sempre meno nell’industria; per conseguenza la base occupazionale si è ristretta e la produttività è fortemente diminuita, il sindacato rappresenta soprattutto i pensionati, la classe operaia come aristocrazia del lavoro non esiste più perché i contratti sono diventati individuali o di piccole categorie diverse tra loro.
Queste sono le condizioni con le quali i lacci e lacciuoli dell’epoca di Carli non esistono più ed hanno cambiato natura. Forse Ignazio Visco avrebbe dovuto spiegarlo alla platea che lo ascoltava.
I lacci e lacciuoli di oggi sono soprattutto la mescolanza tra finanza privata e politica, la carenza di innovazioni nelle manifatture, la scarsità del credito, la corruzione e l’evasione e infine, non ultimo, le mafie.
I contratti aziendali sono una forma idonea per risvegliare le manifatture e le imprese medio-piccole, ma al sindacato resta comunque un compito essenziale: vigilare sui diritti dei lavoratori che non debbono essere lesi ma semmai rafforzati e allargati anche nelle imprese medio-piccole. E al sindacato resta anche il compito e il ruolo di controparte per quanto riguarda il nuovo “welfare” e i nuovi ammortizzatori sociali.
Il governo sembra indirizzato a realizzare questi obiettivi ma non riconosce al sindacato il ruolo decisivo che abbiamo ora indicato. È un grave errore e basterebbe guardare alla funzione dei sindacati in Germania per rendersene conto.
«Yes we can» ha detto Renzi nel suo recente incontro con Obama facendo proprio lo slogan con il quale il senatore di Chicago vinse la sua battaglia per diventare presidente degli Stati Uniti. «Yes we can», ma che cosa esattamente? Adesso si applicherà il decreto di Enrico Letta sul tetto da porre alle retribuzioni dei dirigenti di imprese pubbliche. Sull’occupazione giovanile la legge di Letta ha già prodotto nuovi posti di lavoro per 14 mila giovani e nel 2015 la proiezione statistica prevede un risultato che arriverà ai 60-90 mila. Renzi non lo dice, ma finora i risultati concreti provengono dalle iniziative del suo predecessore. Ora aspettiamo le iniziative che Renzi promette che sono buone e concrete. Do you can? Vi guarderemo con attenzione, ma dovremo aspettare un bel po’ perché la bacchetta magica neanche Renzi ce l’ha.
*** Tuttavia, anche se ho cominciato dal “We can” renziano, non è questo il tema principale di questo articolo. Il tema è Gesù che prende il bastone e bastona cacciando dal tempio gli scribi e i farisei che interpretano malissimo la legge di Dio e i corrotti che hanno gestito i loro sporchi commerci addirittura nei luoghi sacri del popolo di Israele.
Gesù che bastona è stato riportato d’attualità alle sette del mattino del giorno in cui Obama è arrivato a Roma per la sua breve ma intensa visita in Vaticano, al Quirinale e a Villa Madama con Renzi. Alle sette del mattino Papa Francesco aveva convocato a messa in San Pietro 500 membri del Parlamento e tutti i ministri del governo e li ha bistrattati di santa ragione. Non li ha abbracciati, non li ha perdonati, non li ha salutati. Li ha soltanto bastonati.
Il circuito mediatico giornalistico e televisivo, con l’eccezione di pochissimi giornali e di Enrico Mentana, ha sottovalutato quella messa molto particolare di Papa Francesco. Il motivo credo sia quello che le parole del Papa potevano esser ritenute simili agli slogan di Grillo, ma non è così. Grillo straparla contro la casta ma ne fa sostanzialmente parte specie quando si impegna ad abolire la libertà di mandato dei parlamentari per meglio tenerli in pugno impedendo proprio a loro la libertà d’opinione. Il Papa invece parlava ai politici italiani di una battaglia che Lui a sua volta sta combattendo in Vaticano contro tutte le forme di temporalismo.
Il potere temporale, così pensa il Papa, ha deturpato la Chiesa per secoli e secoli se non addirittura per oltre un millennio.
Francesco ritiene che la Chiesa non debba essere sporcata e deformata da questo peccato capitale. Ecco la rivoluzione che da un anno sta conducendo e che dovrebbe avvenire anche nel Paese che è la sede del Papato. Di qui la sua invettiva di giovedì scorso. I media hanno privilegiato Obama ma hanno sbagliato. Il presidente Usa è stato a Roma poco più di 36 ore, ha visto a lungo Napolitano, a lungo Papa Francesco, un po’ meno lungamente il presidente del Consiglio, ha visto il Colosseo e sul predellino dell’aereo il sindaco Marino con tanto di fascia tricolore.
Ma Francesco resta qui, per nostra fortuna. È dolce e mite come il suo Gesù Cristo, ma come Lui quando è necessario impugna il bastone e bastona. Lo fa in Vaticano, lo fa in San Pietro, lo fa con la Curia e lo fa con il Parlamento del paese nella città di cui è il Vescovo; ma il bastone che impugna riguarda il peccato del mondo, il solo vero peccato che mette il mondo fuori dalla grazia e dal bene.
Questo è il suo insegnamento e questa è la sua rivoluzione.
***
Ho incontrato papa Francesco qualche giorno fa, era il 18 marzo scorso, gli avevo chiesto quell’incontro come già accaduto altre volte, non per scriverne raccontando quel che c’eravamo detti, ma per proseguire il dialogo tra Lui e un non credente come io sono. Poi ho scritto raccontando quel dialogo, ma soltanto per me, per ricordare a me i pensieri che ci siamo scambiati. Ma uno di quei pensieri lo voglio qui riferire perché è strettamente pertinente con quello che ha detto alla messa di giovedì scorso. Ha detto: «In tutte le decisioni che ciascuna persona prende esiste il rischio che le sue convenienze personali e di gruppo prevalgano su considerazioni più alte. Ricordo questi versi di Dante: “Ahi Costantin di quanto mal fu matre...” Quei versi ricordano l’editto dell’imperatore Costantino che nel 313 d. C. fece una donazione alla Chiesa e ne autorizzò il culto, anzi lo fece proprio inserendo la croce sui suoi vessilli. Il peccato del mondo è l’ingiustizia e la prevaricazione. Io la chiamo concupiscenza, cupidigia del potere, desiderio di possesso. Questo è il peccato del mondo che noi combattiamo da due diverse sponde».
Questo pensiero è il medesimo che ha ispirato il Papa nell’allocuzione fatta in San Pietro ai membri del Parlamento italiano e probabilmente ad Obama che ha incontrato poche ore dopo. Obama lo sa anche lui che nel suo paese ha combattuto e combatte questa battaglia.
Se tutti i detentori del potere lo usassero per realizzare questa finalità, il mondo affronterebbe quella che Berlinguer chiamò la questione morale. Due domeniche fa, rievocando Berlinguer, scrissi che tra lui e Francesco esistono molti punti in comune ed è vero.
Pensateci, pensateci a lungo e non scordatevene voi che avete il potere. È vero, «You can», ma Gesù a volte prende il bastone. Anche chi non crede, questa verità la conosce, la condivide e non se la scorda.

il Sole24ore domenica 30.3.14
Se la politica fosse cultura
Il fondatore di Repubblica rilancia e arricchisce l'idea di un Senato delle competenze. Per un'Italia matura
di Pietrangelo Buttafuoco

Una Camera Alta. È Eugenio Scalfari che parla. Prossimo a festeggiare, il 6 aprile, i suoi baldanzosi novant'anni, il fondatore di Repubblica, l'uomo che più di ogni altro – come già Luigi Albertini e Mario Missiroli – ha saputo innervare di politica e analisi dell'economia il giornalismo, è anche l'intellettuale la cui storia coincide con l'identità compiuta della sinistra.
L'attesa riforma del ramo anziano del parlamento sembra che sia solo uno sbrigativo colpo di penna su palazzo Madama, e invece, per come spiega Scalfari, può diventare l'occasione di fare al meglio: «Penso, infatti, alla Camera dei Lord, in Gran Bretagna, dove i componenti non sono chiamati a votare la fiducia al premier. Penso allo stesso nostro Senato del Regno, dove i membri erano nominati direttamente dal Re».
Un Senato in luogo del Senato. Domani il governo di Matteo Renzi approverà il ddl costituzionale per l'abolizione del bicameralismo. Si dovrà eliminare il Senato per avere finalmente un vero Senato.
«Finalmente un Senato delle competenze e della cultura. Una Camera Alta sulla cui composizione, magari attraverso una rosa di nomi offerta dall'Accademia dei Lincei o dalle Università, il presidente della Repubblica possa decidere motu proprio. Nessuno pensa a farne dei nominati a vita».
Ecco, è la proposta del Sole-24ore Domenica: immettere nel processo decisionale le competenze, i saperi, l'imprenditorialità, un'idea lanciata da Armando Massarenti l'8 dicembre scorso e arricchitasi di numerosi contributi e interventi (da quello di Luciano Canfora a quello di Domencia scorsa di Elena Cattaneo). «È una proposta che mi trova d'accordo perché l'idea del governo Renzi – trasformare l'assemblea dove ha sede la Seconda Carica dello Stato, senza emolumenti, con soli eletti di secondo grado ma impegnati a interessarsi degli enti locali – è un ridurre a ben poco il Senato. Ho seguito il dibattito e le proposte. Ho ascoltato con attenzione Elena Cattaneo, nominata tra i senatori a vita, e così anche Maria Chiara Carrozza, e convince anche me l'idea di una Camera Alta, un Senato reso ancor più importante chiamando a farne parte personalità dell'eccellenza capaci, anche con il potere di controllo costante sulla pubblica amministrazione, di dare il loro apporto all'attività legislativa».
Vent'anni di berlusconismo e il presagio del nuovo ventennio, quello renziano. Stessa penuria: quella intellettuale. «Gli intellettuali, giusto nella cerchia del premier, sono scarsini. Renzi ha corteggiato Renzo Piano. Ha fatto sua la proposta di manutenzione degli edifici scolastici. Questo non significa che Piano sia diventato renziano, ovvio, però molti intellettuali, tra i quali Massimo Cacciari, non possono che sperare nella durata di questo Re. Lo spera anche Gustavo Zagrebelsky, che non è renziano. E così Stefano Rodotà, che non è renziano. E così io stesso. Siamo tutti costretti ad augurarci che questo Re vinca, altrimenti scompare il Pd».
Si è costretti ad aspettare. «A differenza degli altri partiti, dove tutti erano obbligati a identificarsi con un monarca – un Berlusconi, un Grillo, un Monti, un Casini – il Pd era appunto un partito. Oggi, è il partito di Renzi. Se perde lui, si trascina nella sconfitta il partito. E la sinistra».
E il lascito gramsciano, l'egemonia culturale? «L'intellettuale organico a un preciso progetto politico fu presente tanto nella Dc quanto nel Pci. Cosa furono, se non intellettuali, Giorgio La Pira, Giuseppe Dossetti o lo stesso Amintore Fanfani, la cui caratura culturale era notevole? E così Aldo Moro, o Emilio Colombo? Furono intellettuali chiamati alla guida del partito. Come nel Pci dove già nel 1926, pur in clandestinità, il partito, dominato dalla figura di Gramsci, chiamava a sé intellettuali come Pietro Ingrao che, pur partecipando ai Littoriali di poesia in divisa da avanguardista, prendevano la tessera della Falce e martello continuando a pubblicare su Roma Fascista, il giornale dove sette anni dopo arrivai io».
La politica è una disciplina intellettuale. «Gli intellettuali hanno guidato la politica in Italia. Quando nella Napoli conquistata dagli americani arriva Palmiro Togliatti, arriva un intellettuale. Dà disposizioni precise ai comunisti: riconoscere il governo Badoglio, quindi il Re. Poi illustra il programma: realizzare "la Rivoluzione progressiva". Lo interrompono: "Volevi dire progressista, compagno?". Lui taglia corto: "La Rivoluzione si svolge acquisendo sempre più le masse. Fino alla maggioranza" aggiunge, ma pour la bonne bouche. In lui parlava l'intellettuale. Con un preciso proposito: conservare e rafforzare le libertà borghesi».
Chi erano i non organici? «Alcuni erano di destra. Oggi diremmo qualunquisti. Si proclamavano "a-poti", ossia, coloro che non se la bevono. Giovanni Ansaldo, per esempio, il direttore del Mattino. E poi Indro Montanelli, sempre inevitabilmente a destra. Ricordo quando con Indro ci trovammo insieme sul palco della Festa dell'Unità. Lui aveva appena rotto con Silvio Berlusconi. Aveva fondato La Voce, giornale che durò poco. Dal palco li maltrattò e si prese un diluvio di applausi. Io, invece, ricevetti solo un educato battimani».
E i non organici, a sinistra? «Due nomi. Franco Antonicelli, liberale di sinistra, e poi Norberto Bobbio. Bobbio non vedeva i comunisti come nemici: voleva solo che cambiassero». Paolo Mieli è un non organico? «Tranne che in Potere Operaio, lui non è mai stato in un partito. Due volte direttore del Corriere della Sera – e negli intervalli presidente della Rizzoli Libri – ha oscillato tra Silvio Berlusconi e i Ds, fino al Pd. Giuliano Ferrara, invece, ha seguito un percorso: dirigente del Pci, oppositore delle Br, quindi socialista con Bettino Craxi, infine berlusconiano e, in un certo senso, anche renziano».
La sinistra è naturaliter intellettuale? «Enrico Berlinguer strappa con Mosca. Con lui il Pci diventa un Partito d'Azione di massa. "Ha imboccato una strada irreversibbile", mi disse al telefono Ugo La Malfa, il leader del Partito repubblicano. "Mentre quel miserabbile", aggiunse, con il suo forte accento siciliano, "lo vuole tenere nel ghetto". Il "miserabbile" era Bettino Craxi. Non voleva neppure chiamarlo per nome. La Malfa, ancora una volta un intellettuale, diceva questo di sé: "Appartengo alla sinistra. Ma deve cambiare. Deve pervenire a una democrazia compiuta. E così il capitalismo. Io vi sono dentro. E deve cambiare". Il Pci che fa proprio questo mondo è come Roma che conquista l'Ellade: diventa greca. E così i comunisti: diventano radicali, azionisti e borghesi. Massimo D'Alema, che con Giuliano Amato dà vita alla fondazione Italianieuropei, è l'esempio perfetto di questo percorso di maturità intellettuale. E così Walter Veltroni, che è un fior di intellettuale e, secondo me, ha tutte le carte in regola per diventare un ottimo presidente della Repubblica. Quando, ovviamente, Napolitano deciderà di lasciare».
E Scalfari che fa politica? «C'era una volta un partito, il partito Radicale, che aveva tre segretari e un vice. Uno era Franco Libonati. Uno era Arrigo Olivetti. Il terzo era Leopoldo Piccardi, giurista di fama. Il vice segretario ero io. È il 1956, faccio la campagna elettorale ed è anche l'occasione per conoscere l'Italia. Arrivo in Sicilia per sostenere la nostra candidata, Topazia Alliata di Salaparuta, principessa e madre di Dacia Maraini. Topazia, impegnata a Palermo, mi prega di andare a comiziare, anche in sua assenza, nella sua città di origine, a Bagheria, dove mi aspettano ben due uomini del partito: un iscritto e un simpatizzante. Mi accompagnano in piazza, e lì non trovo quello che mi aspetto di trovare, cioè una ventina di curiosi, ma una piazza gremita all'inverosimile, tutti con la coppola in testa e arrivati lì, mi spiegano, perché desiderosi di ascoltare il comizio precedente al mio e quello successivo. Da quella selva di coppole vedo spuntare un viso familiare: l'avvocato Luprano, cognato di Mario Pannunzio, che vive e opera a Bagheria e, se proprio non è della mafia, è considerato di mezza mafia. Ebbene, Luprano mi vede, si avvicina e mi abbraccia: "Eugenio", mi dice, "ti presento io". Io rispondo: "Sì, va bene, fai un saluto, ma poi la presentazione la fa il compagno radicale di Bagheria". L'avvocato non si perde d'animo, fende la folla in forza della sua autorità e arriviamo sul palco, dove, dopo il suo benvenuto faccio il mio discorso. Il cavallo di battaglia, all'epoca, era l'argomento anticlericale: abolizione del Concordato. Lo svolgo per intero per poi passare, dato il contesto, a un'invettiva contro la mafia, consumata con toni così accesi ed enfatici da produrre in piazza un gelo, un silenzio assoluto presto interrotto. L'avvocato Luprano, alle mie spalle, sentendosi in dovere di ospitalità, guadagna il proscenio e applaude a mani alte. L'intera piazza esplode. "Questa è gente nostra!" dice soddisfatto».
Scalfari sorride al ricordo di quel pomeriggio di Bagheria. Una bellissima vita, la sua. Lunedì 7 aprile, al Teatro Argentina di Roma, Carlo De Benedetti, Ezio Mauro e Bruno Manfellotto festeggeranno Scalfari e il suo nuovo libro edito da Einaudi: Racconto autobiografico

il Fatto 30.3.14
Camusso: “Quelli del Jobs Act hanno già creato precarietà”


L’attacco di Susanna Camusso arriva dal palco del convegno del centro studi di Confindustria, a Bari: “Ma quale rigidità... È la stagione in cui i colpevoli sono le imprese e i sindacati, perché va di moda”, ha spiegato ieri dopo le critiche mosse due giorni fa dal governatore di Bankitalia, Ignazio Visco. Poi l’attacco al premier: “La proposta del governo Renzi sul lavoro è uguale a quelle fatte in tutti questi anni, non c’è nulla di nuovo, anche perché c’è un presidente del Consiglio diverso ma con una maggioranza che è sempre la stessa. Abbiamo 4 milioni di giovani precari, ma quello che accade in Italia sulla precarietà non ha eguali nel mondo”.
“La rigidità di sindacati e imprese frena il Paese”, ha spiegato due giorni fa Visco. Ieri, dopo le critiche delle parti sociali, e il plauso di Matteo Renzi (“parole sacrosante”), il governatore ha corretto il tiro. Davanti a Camusso e al numero uno degli industriali, Giorgio Squinzi, Visco ha cercato di archiviare l'accaduto. “Le mie parole sono state fraintese - ha spiegato - bastava ascoltare bene quello che ho detto”. Secondo Visco, non c’era “nessun riferimento al dibattito su flessibilità e mercato del lavoro” - come invece gli hanno contestato i sindacati - ma solo “una analisi più generale”. Non c’erano critiche neanche per gli industriali. “Ma le imprese italiane devono crescere, bilanciare il peso dell’indebitamento”. Come ? “gli imprenditori devono investire con risorse proprie”, cioè di tasca loro. Squinzi, che due giorni fa era stato cauto nel commentare l’attacco di Visco, si è messo subito sulla difensiva: “Siamo i primi a voler spingere al cambiamento e all’innovazione”. Il presidente di Confindustria ha riconosciuto “i costi altissimi di un immobilismo di maniera durato troppo a lungo” ma ha suddiviso equamente le colpe: “siamo tutti responsabili, chi per non aver agito e chi per non essere riuscito a convincere ad agire in direzioni adeguate”. Le critiche di Visco? “Non le vedo in questo modo”, ha tagliato corto con i cronisti. Nel suo discorso, il governatore di Bankitalia ha poi teso la mano al leader della Cgil, elogiando i contratti a tempo indeterminato fatto ieri da Visco: “I nostri studi - ha spiegato il governatore - mostrano che rapporti di lavoro più stabili incentivano i lavoratori e aiutano le imprese”.

l’Unità 30.3.14
Decreto lavoro, nuovo duello Camusso-Squinzi
La leader Cgil: «Chi invoca il cambiamento ha contribuito alla precarietà»
Industriali in pressing sul Parlamento: «Confermi le scelte dell’esecutivo»
E Visco “fa pace” coi sindacati
di Marco Ventimiglia


Più che il fioretto ha usato la spada, ma c’è da capirla Susanna Camusso. Alle prese, come segretario generale del maggior sindacato italiano, con una crisi epocale, non deve essere stato piacevole sentirsi chiamata in causa insieme agli imprenditori quale corresponsabile della situazione. E così, intervenuta a Bari nella giornata di chiusura dell’evento di Confindustria dedicato alle risorse umane, la leader della Cgil ha rispedito al mittente, ovvero al governatore di Bankitalia, le accuse del giorno prima: «In questa stagione prendersela con sindacati e imprese è di moda. La verità è che il Paese è cambiato, mentre continuiamo a discutere se c'è rigidità nel mercato del lavoro. Ma quale rigidità? - si è chiesta Camusso -. La verità è che abbiamo un livello di flessibilità assolutamente straordinario e unico al mondo». E mentre da Ignazio Visco, anch’egli presente al Teatro Petruzzelli di Bari, è giunta una sostanziale retromarcia, il padrone di casa Giorgio Squinzi ha optato per una terza via: «Il governatore di Bankitalia si è riferito a considerazioni che risalgono a Guido Carli. I tempi sono cambiati. Confindustria, la mia Confindustria sta puntando su innovazione e competitività». Netta, invece, la scelta di campo degli industriali, antitetica a quella del sindacato, relativamente al decreto lavoro messo a punto da Palazzo Chigi.
CONTRATTI A TERMINE
L’appuntamento pugliese ha rappresentato per Susanna Camusso non soltanto occasione di replica sulla stretta attualità, ma anche e soprattutto l’opportunità di ribadire la posizione della Cgil nei confronti dell’esecutivo Renzi. «La proposta del governo - ha detto - è uguale a quelle fatte nel corso di questi anni. Non avverto particolari novità. Non c'è nulla di nuovo, anche perché c'è un presidente del Consiglio diverso, ma con una maggioranza che è sempre la stessa». Il segretario generale ha poi sottolineato che «se ci sono molteplici forme di precarietà il Paese non riparte. Ricordo che abbiamo 4 milioni di giovani precari, invece dobbiamo ricostruire percorsi professionali e dare certezze. Se un giovane va in azienda bisogna investire su di lui, ma quello che accade in Italia sulla precarietà, non ha eguali al mondo. C'è bisogno di 3 anni per capire se un giovane lavoratore vale? I 36 mesi per i contratti a termine sono solo un modo per continuare ad avere la somministrazione a costi minori». Infine, un’altra stoccata: «Quelli che ci dicono di cambiare verso - ha scandito Susanna Camusso - sono gli stessi autori che hanno contribuito a creare le attuali leggi sul lavoro».
Per quanto riguarda l’articolato intervento di Squinzi, il leader di Viale dell’Astronomia ha affermato che «tra noi imprenditori c’è la percezione netta e diffusa della necessità di avviare un cambiamento profondo nella società. Ogni giorno misuriamo i costi altissimi di un immobilismo di maniera, durato troppo a lungo». Da qui l’invito a fare in fretta, «sul decreto lavoro in particolare, il governo e il ministro Poletti, hanno dato prova di rapidità e coraggio, segni chiari di una volontà di cambiare. Ora occorre - ha detto Squinzi - che il Parlamento confermi questa scelta in fase di conversione». In realtà, non sono mancate le bacchettate anche per l’esecutivo: «Il problema del pagamento dei debiti della Pubblica Amministrazione verso le imprese è ancora gigantesco - ha affermato il presidente di Confindustria -. Vi è stato messo mano solo in maniera molto modesta. Stiamo parlando di poco più di 20 miliardi di euro, a fronte di un ammontare complessivo che non si conosce. Probabilmente siamo nell'ordine dei 100 miliardi di euro». Ed ancora, per Squinzi «le riforme vanno fatte non per volere della Germania o della Francia, ma per nostra precisa volontà e per far dimenticare che in Italia il saldo tra dichiarazioni e fatti è purtroppo negativo ». Poi il consueto allarme, purtroppo, sulla perdita di posti di lavoro: «Se si considera anche la cassa integrazione, la disoccupazione in Italia ha raggiunto livelli preoccupanti, superando il 14%. La povertà è crescente e tangibile».
In merito a Ignazio Visco, il governatore ha precisato di non aver detto che «le rigidità delle imprese e dei sindacati frenano lo sviluppo. In realtà la riduzione dei nostri ragionamenti in messaggi da trasmettere via Twitter ha indubbiamente il fascino della rapidità e dell'efficacia, ma corre il rischio di scambiare ragionamenti, per l'appunto, in allarmi, di alimentare incomprensioni».

Repubblica 30.3.14
Precari, Visco dà ragione a Camusso: “Solo un lavoro stabile è produttivo”
Un’inedita coppia contro il decreto
La Cgil: “Così il Paese non riparte”
Mentre Poletti è lodato da Squinzi “È una misura rapida e coraggiosa”
di Roberto Mania



BARI. LA STRANA coppia (copyright Matteo Renzi) non c’è più. Susanna Camusso e Giorgio Squinzi si sono “lasciati”. Sul decreto lavoro, il leader della Cgil e il presidente della Confindustria stanno su sponde opposte: gli industriali con il governo, i sindacati contro il governo.
BARI
SPINGONO in direzioni contrarie e trovano inedite, sorprendenti, alleanze. Nuove coppie che si formano.
Sul palco del risorto Teatro Petruzzelli di Bari, nella due giorni del convegno del Centro studi della Confindustria, va in scena la rappresentazione che non ti aspetti: Ignazio Visco, il governatore della Banca d’Italia, luogo della ortodossa interpretazione dell’economia liberale (mercato del lavoro compreso) e sostenitore dell’ineluttabilità delle politiche di austerity si schiera con la sindacalista rossa. E l’ex comunista Giuliano Poletti, già leader della potente Legacoop, trova l’abbraccio del capo dei capitalisti nostrani Giorgio Squinzi che guida una delle tante multinazionali tascabili tricolori. Intorno una girandola di altre coppie, non tutte “regolari” formatesi tra Roma e Bari: la già sindacalista dell’Ugl, Renata Polverini, che dagli scranni parlamentari di Forza Italia tende la mano ai suoi ex colleghi Raffaele Bonanni & co, strappando con il suo stesso partito; il capogruppo di Forza Italia, Renato Brunetta, un tempo socialista, corre a sostegno di Poletti e Renzi per mettere zizzania nella discussione interna al Partito democratico scommettendo sul fuoco amico su Palazzo Chigi. Infine il governatore della Puglia e leader di Sel, Nichi Vendola, che insieme alla minoranza del Pd si ritrova con l’ad di Finmeccanica, la holding pubblica di aeronautica e difesa (42 mila dipendenti), Alessandro Pansa, il quale si distingue, con argomenti forbiti, dalla linea ufficiale di Confindustria. Questa volta, così, il lavoro finisce per produrre divisioni trasversali. Ma si conferma anche un terreno pieno di pericolose insidie, non solo parlamentari.
Si discute di capitale umano a Bari. Del ruolo decisivo che possono avere l’istruzione e la formazione dei lavoratori per far crescere la ricchezza del Paese. Ed è a metà della sua relazione che il governatore Visco pronuncia una frase che viene accolta con freddezza dalle prime file della platea, con la sola eccezione della Camusso che invece apprezza, eccome. Dice Visco: «Studi della Banca d’Italia mostrano come rapporti di lavoro più stabili possano stimolare l’accumulazione di capitale umano, incentivando i lavoratori ad acquisire competenze specifiche all’attività dell’impresa. Si rafforzerebbe - aggiunge il banchiere membro del board dalla Banca centrale di Francoforte - l’intensità dell’attività innovativa e, in ultima istanza, la dinamica della produttività ». Insomma un lavoratore che non teme la scadenza del suo contratto ma che vede davanti a sé la prospettiva della continuità del lavoro è disposto ad apprendere di più, a lavorare meglio, e così contribuire ad aumentare la produttività. D’altra parte - anche se Visco non lo dice - l’inizio del tracollo della produttività italiana, di cui invece parla il governatore, coincide con l’introduzione via via crescente di contratti flessibili. E come alcuni studi dimostrano tra loro c’è un rapporto di causa ed effetto.
Certo Susanna Camusso usa argomenti e toni diversi, ma la sostanza non è molto diversa. Per quanto - sia chiaro - Visco non si riferisce direttamente al decreto Poletti, mentre la sindacalista della Cgil sì. Perché su quello è la nuova sfida tra il Pd renziano e il sindacato. Afferma Camusso, che gioca fuori casa ma prende gli applausi dal loggione dove siedono gruppi di giovani baresi: «Se ci sono molteplici forme di precarietà il Paese non riparte. Ricordo che abbiamo quattro milioni di giovani precari, invece dobbiamo ricostruire percorsi professionali e dare certezze. Se un giovane va in azienda bisogna investire su di lui. Quello che accade in Italia sulla precarietà non ha eguali al mondo. Ma se si va a vedere come sono gli organici delle imprese che esportano ci si accorge che non sono fondati sulla precarietà. La proposta di Renzi? Non c’è nulla di nuovo. Ha proposto le stesse cose fatte in questi anni. C’è un diverso presidente del Consiglio ma c’è sempre la stessa maggioranza ».
Non c’è più invece la coppia “concertativa” Camusso-Squinzi. Il leader degli industriali prova ad andare all’incasso e evita accuratamente qualunque polemica con Palazzo Chigi: «Sul decreto lavoro, in particolare, il governo e il ministro Poletti - dice - hanno dato prova di rapidità e coraggio, segni chiari di volontà di cambiare. Ora occorre che il Parlamento confermi questa scelta in fase di conversione». La coppia si è rotta, mentre a Bari colpisce l’analogia nelle analisi di Vendola e Pansa. Sostengono entrambi la necessità di una politica industriale. Vendola dice che bisogna smetterla con la precarizzazione del lavoro, Pansa che «la permanenza al lavoro è una garanzia di investimento». Coppie di fatto.

l’Unità 30.3.14
Cesare Damiano
«Il governo ha fatto un errore, ma lo correggeremo»
di Osvaldo Sabato


«Penso che il governo abbia commesso un errore» premette Cesare Damiano a proposito del pacchetto lavoro. Palazzo Chigi ha fretta vuole che il decreto legge venga approvato il prima possibile dal Parlamento. Per il premier però sarà un vero e proprio banco di prova visto che la minoranza del Pd è maggioranza nei gruppi parlamentari e nella stessa commissione Lavoro di Montecitorio. L’esecutivo non ha fatto in tempo a gestire al Senato la mina della Province e ora dovrà affrontare questo nuovo ostacolo, tutto interno al Pd. Il Dl Poletti non piace alla minoranza e la fibrillazione sale a mille. Ma qual è l’errore del governo, secondo Damiano? «Anziché discutere prima del contratto di inserimento a tempo indeterminato, spiegando i vantaggi sostanziali per le imprese che adottano questa modalità di assunzione, come un fortissimo sconto fiscale nel periodo di prova di massimo tre anni e la successiva stabilizzazione - spiega il presidente della commissione Lavoro della Camera dei Deputati - l’esecutivo ha preferito cominciare con un decreto che riguarda invece la liberalizzazione dei contratti a termine ».
Quindi così com’è il decreto Poletti non passa?
«Secondo me non aver fatto questa operazione preventiva rende più difficile il cammino. Perché la prima domanda da farsi è: se sarà così conveniente l’utilizzo del contratto a termine, libero per le imprese, non correremo il rischio di cannibalizzare il contratto di inserimento a tempo indeterminato? È un dubbio legittimo».
Renzi però dice che il pacchetto lavoro è stato approvato dalla direzione del Pd. «Mi pare che lui abbia stroncato qualsiasi possibilità di confronto. A questo punto noi dobbiamo affrontare il decreto e dobbiamo proporre delle modifiche. Renzi in direzione ha detto due cose: che il contratto a termine e di apprendistato sono intoccabili, poi ha aggiunto che il decreto si può migliorare. Mi pare che si tratti di un’affermazione contraddittoria. Come la risolviamo? ».
Tocca a lei dare la risposta.
«La risolviamo dicendo che nessuno ha in mente di stravolgere il decreto, ma che ci proponiamo di aggiustare queste norme. Noi ci stiamo lavorando ».
Come pensate di migliorarlo?
«Credo che noi dobbiamo fare almeno quattro interventi di modifica: sul contratto a termine la mancanza di causale per l’assunzione fino al termine massimo di tre anni è troppo lunga, in secondo luogo, si parla di otto proroghe nei trentasei mesi, sono troppe, in questo modo c’è una frammentazione eccessiva della durata del contratto a termine, rischia di dare un nuovo impulso alla precarizzazione del lavoro. Poi per quanto riguarda l’apprendistato va ripristinato l’obbligo all’utilizzo di una quota di formazione pubblica, perché altrimenti corriamo il rischio di incorrere in una procedura di infrazione da parte dell’Unione europea. Dall’altro lato c’è il tema della cancellazione di qualsiasi percentuale di stabilizzazione dei giovani apprendisti al termine del periodo di lavoro, che era del 30% con la riforma Fornero. Penso che questa percentuale debba essere ripristinata, perché se l’imprenditore dedica molto tempo a insegnare un mestiere a un giovane, alla fine lo vuole tenere nell’azienda. Altrimenti viene il sospetto che le imprese utilizzino l’apprendistato come una forma di contratto a basso costo e senza formazione per avere mano d’opera usa e getta».
C’è chi dice che la minoranza del Pd usi la riforma del lavoro per indebolire Renzi?
«È una lettura stupida. Mi sono sempre mosso sui contenuti, io voglio rafforzare Renzi e mi auguro che abbia successo perché è l’ultima carta che abbiamo contro il populismo e la demagogia, per imboccare una strada di buona politica. Altrimenti rimane Grillo e la distruzione delle istituzioni. Quindi, che non si dicano queste stupidaggini. Ma questo non vuol dire che non si possano sollevare delle obiezioni e fare delle critiche, altrimenti siamo all’imbavagliamento delle opinioni ».

l’Unità 30.3.14
Civati: «Tagliamo la corruzione»
di A. C.


Pippo Civati lancia la sua “spending review”, concentrata sui risparmi derivanti dalla lotta alla corruzione, alle mafie e all’evasione fiscale. Docenti, magistrati, esperti di pubblica amministrazione, protagonisti di storie coraggiose di denunce di corruzione. Una mattinata di lavori al Teatro Eliseo di Roma, «Il giorno legale», titolo dell’iniziativa. Il pm milanese Francesco Greco snocciola numeri da record: il 33% del Pil sommerso, 420 miliardi di imponibile evaso, 180 miliardi di mancate entrate fiscali. «La spending review andrebbe fatta sulla criminalità economica », spiega il pm. «Qui almeno si potrebbero fare tagli lineari. La famosa lettera della Bce al governo italiano si concentrava su pensioni e articolo 18.
Ma c’è ben altro su cui intervenire. Ci sono livelli di corruzione ed evasione fiscale insostenibili». «La prescrizione ci costa una barca di soldi, bisognerebbe dire a Cottarelli di occuparsi di questo, vedere quanti soldi perdiamo. Tutti i processi che cadono in prescrizione impediscono di portare a termine le confische dei beni illecitamente ottenuti e i soldi restano nelle tasche dei corrotti prescritti».
Civati annuncia il suo impegno in Parlamento su più fronti: conflitto d’interessi, autoriciclaggio e prescrizione. «Ci occupiamo di cose impopolari», spiega, «di cui ormai quasi nessuno parla più. Ma sono queste le vere riforme di cui c’è bisogno, molto più del taglio delle Province e della riforma del Senato. La cifre della corruzione valgono mille volte l'abolizione del Senato». Civati lamenta che, durante la discussione sulla legge elettorale, il tema del conflitto d’interessi sia stato eluso. «Se rifacciamo la Costituzione con un condannato è inutile fare pedagogia», spiega. «Se il tecnico, l'interlocutore è Verdini è difficile portare la bandiera della legalità. C’è una mancanza di determinazione nell’affrontare sia il conflitto di interessi sia la corruzione dei politici». Anna Canepa, sostituto procuratore della Direzione nazionale antimafia, rinnova l’allarme sulla «sottovalutazione del fenomeno mafioso al Nord». «Bisogna allargare la prescrizione anche per i cosiddetti “reati spia” e ricordare che le intercettazioni sono uno strumento prezioso per le indagini». Greco chiede norme adeguate sul riciclaggio e spiega come «la depenalizzazione del falso in bilancio» e la «legge Cirielli» sulla prescrizione abbiano alimentato la corruzione. I civatiani annunciano battaglia tra Camera e Senato per modificare queste norme.

La Stampa 30.3.14
Barca: il nuovo governo?
Dategli sei mesi, i sindacati non hanno innovato
intervista di Paolo Festuccia


Fabrizio Barca è in Europa. Per confrontarsi grazie al Pd di Bruxelles con i circoli dei giovani Pd di tutta Italia e il commissario alle politiche del lavoro László Andor. Tra i giovani, euro-convinti ed euro-scettici, Andor e Barca parlano del primato della politica sui tecnocrati, del perché sia un bene sostenere la corsa di un tedesco, Martin Schulz, alla guida della Commissione europea. Nel mezzo c’è l’Italia, la crescita, l’austerità, ma soprattutto il prossimo voto. Barca sarà in lista? «Assolutamente no». Perché? «Faccio un altro lavoro…».
Ma allora tanto attivismo nel partito, sul territorio, il lancio dei «luoghi ideali», a cosa serve?
«A non vedere necessario che uno come me si candidi alla segreteria del Pd. Per questo sarà utile capire se tra un anno in quei “luoghi ideali” le condizioni saranno migliorate grazie al Pd, se gli obiettivi saranno raggiunti. Con “luoghi ideali” si sperimentano soluzioni di sistema, si traccia una strada perché alcuni trentenni diventino i leader del partito».
Con i giovani ha discusso anche di politiche del lavoro. Il piano Renzi però sta creando tensioni nel partito. E la minoranza si dice pronta a non votarlo se non dovesse cambiare. Che ne pensa?
«Penso che la flessibilità sia un valore se serve a tutte le parti. Ma ciò dipende dai dettagli del provvedimento. Perché nei dettagli c’è il diavolo. Ed, infatti, la scelta di avere anche una lunga provvisorietà nell’entrata in azienda non è mai stata respinta in sé ma è subordinata al come. Se è accompagnata da un percorso formativo per il lavoratore e da costi crescenti per l’imprenditore, è utile; se invece si rincorre la competitività con bassi salari allora è dannosa. Sì allora alla flessibilità ma se è un vinci-vinci tra lavoratore e imprenditore e non un perdi-perdi».
Per la ministra Madia ci sono troppi dirigenti anziani nella pubblica amministrazione. Da qui, l’ipotesi di una staffetta generazionale. E’ d’accordo?
«La Madia ha colto nel segno. Non si tratta di tagliare posti nella P.A. che peraltro in molti casi sono necessari, ma di migliorarli e favorire un graduale rinnovamento con giovani ben selezionati e affiancati da dipendenti esperti qualificati».
Dal 1° aprile scatta il tetto per i manager pubblici. Un segnale positivo?
«Qualunque siano le regole è bene che le remunerazioni dei manager delle aziende pubbliche che operano nel mercato siano sottoposte e determinate in modalità non diverse da quanto avviene nelle aziende private. Mettere, infatti, delle soglie generalizzate sarebbe sbagliato perché le aziende pubbliche si devono confrontare con quelle private. L’Ente da parte suo deve tenere sotto vaglio chi le gestisce ma non in modo burocratico».
Matteo Renzi ha detto che sarà un «buffone» se nelle buste paga del 27 maggio non arriveranno gli 80 euro promessi. Come finirà?
«Una dichiarazione così robusta, forte, è una modalità nuova soprattutto a sinistra, che rivendica il primato della politica sulle scelte. Bene o male, tra Irap e Irpef sceglie la politica e se ne assume la responsabilità, ci mette la faccia, vuole valutare una serie di alternative per la copertura finanziaria ma intende centrare l’obiettivo».
A metà febbraio in uno scherzo telefonico del programma «La Zanzara» lei credendo di parlare con Vendola ha espresso giudizi critici sulle prime mosse di Renzi. Qual è il suo giudizio oggi?
«Per giudicare qualunque governo non bisogna avere fretta. Ci vogliono almeno sei mesi, di meno è ridicolo. Rispetto a quella telefonata se fossi una terza persona e la sentissi per l’ennesima volta e, mi lasci dire, superassi il rigetto, ne dedurrei che la persona che parla è un pezzo di quei gruppi dirigenti, minoritari, che teme che questa scossa non ce la possa fare, insomma, un timore espresso con l’emozione».
Il governatore Visco critica le rigidità corporative, sindacali e imprenditoriali, Renzi replica alle critiche dei sindacati con «ce ne faremo una ragione»… Siamo alla fine della concertazione?
«A me la concertazione così come per molti anni è stata concepita non è mai piaciuta. Il problema vero è che le organizzazioni sindacali nate con il compito essenziale di tutelare i lavoratori dai bassi salari e dalla precarizzazione sono state distratte da questo compito che avrebbe aiutato le imprese a cercare la competitività nell’innovazione. Per questo i partiti socialisti europei propongono misure che riducano la concorrenza al ribasso dei salari e della qualità di vita tra Paesi, come ad esempio il salario minimo che ridurrebbe la concorrenza al ribasso da parte dei Paesi più poveri».

l’Unità 30.3.14
Senato, lo stop di Grasso: i senatori vanno eletti
Almeno un centinaio di senatori eletti e con diritto di voto sul bilancio e sui temi centrali per lo Stato
È il contro-piano del presidente di Palazzo Madama
di Claudia Fusani


È la seconda carica e figura terza. Ma è pur sempre il presidente della camera alta che il premier vorrebbe spazzare via il prima possibile.
Ecco che, con tutti i distinguo, le cautele e la riservatezza necessari - e infatti finora tenuto gelosamente segreto - il presidente del Senato Piero Grasso ha lasciato da parte in questo caso il ruolo terzo ed istituzionale ed è sceso in campo con una propria riforma costituzionale. Del Senato e del Titolo V. La differenza principale, nella proposta di Grasso, è che «almeno una quota dei senatori siano regolarmente eletti» ed abbiano piene funzioni. Vere e proprie cariche elettive con specifiche funzioni di sentinelle delle leggi sui passaggi più delicati, il bilancio, riforme costituzionali, legge elettorale, diritti civili oltre che di arbitri delle materie che sopravvivranno come concorrenti tra Stato e Regioni dopo la riforma del Titolo V.
Una decina di giorni fa il presidente Grasso ha invitato a colazione a palazzo Giustiniani, con un innegabile tratto di galanteria, il ministro per le Riforme Maria Elena Boschi. Un pranzo riservato a pochissimi selezionati di cui non sono noti i dettagli di ambiente. Si sa però che il Presidente del Senato ha fatto preparare un computer collegato a un proiettore e ha presentato alcune slides che hanno raccontato, in una sorta di trittico, la riforma del Senato: nella prima colonna la situazione attuale; in quella centrale l'ipotesi del nuovo Senato e del Titolo V secondo Renzi; nella terza quello che, secondo la seconda carica dello Stato, dovrebbe essere articolo per articolo la giusta mediazione. E anche l'unica possibilità perchè i 315 senatori accettino di votare il pacchetto di riforme.
La modifica principale, rispetto al piano Renzi, riguarda la composizione del Senato e il modo per eleggere i senatori. Grasso ha spiegato al ministro Boschi che non può funzionare, non è «istituzionalmente corretto» il previsto mix di sindaci e consiglieri regionali indicati dai partiti in fase di elezione dei governi regionali e che, avanza tempo, assumano l'incarico a palazzo Madama. La giusta mediazione dovrebbe essere invece quella che prevede «almeno un centinaio (si parla di 120-150 ndr) di senatori eletti a cui sono delegate funzioni legislative e di controllo di rilievo».
Il ministro Boschi ha preso diligentemente appunti senza sbilanciarsi nell'esprimere opinioni. Ha solo ripetuto che tre sono i punti da cui la riforma non può prescindere: fine del bicameralismo con una sola una camera che dà la fiducia; fine della navicella da una camera all’altra per l’approvazione delle leggi; taglio di 315 indennità; una camera alta non eletta ma ripescata dalle file dei consigli regionali.
Il trittico del presidente Grasso tiene fermo il punto della fiducia (non è prevista), della tagliola alle leggi (entro 60 giorni per i ddl del governo) ma indica come «necessaria» la mediazione sulla composizione e sull’elezione. E ancora non c’era stato il voto di fiducia fermo a 160 come l’altro giorno sul ddl province.
È eccezionale, ma non casuale, che il presidente Grasso scenda in campo. Renzi sta, giustamente, riscrivendo le regole della democrazia. Ma in questo caso non è lecito sbagliare. Occorre ascoltare più voci. Anche quelle che solitamente, per dovere, tacciono. Gli stessi senatori, in modo trasversale, hanno spinto per un intervento della seconda carica dello Stato a cui viene chiesto di «rivendicare il lavoro svolto dalla camera alta e dai suoi eletti». Visto che invece nell’opinione pubblica sta passando quasi l’idea che palazzo Madama sia «un ente inutile».
Ora dipende tutto da Renzi. Domani il governo presenterà il disegno di legge di riforma costituzionale. Rispetto al testo presentato il 12 marzo dal premier, si sa che non ci sono più i sindaci nè i 21 nominati dal Quirinale. Si sa anche che non sono previsti più poteri al premier quasi a voler smontare ipotesi circolate, e temute, di premierato o riforme ancora più radicali. Il Pd ha rinunciato a un proprio testo (c’è quello del governo) ma non agli emendamenti. Che concordano tutti sulla proposta Grasso: almeno una quota dei senatori devono essere eletti. Giuseppe Lauricella, già noto per aver dimezzato l’Italicum, ne presenterà uno che prevede «un centinaio di senatori eletti a suffragio universale con il proporzionale in modo da garantire anche i partiti più piccoli rimasti fuori dalla camera. Poi una quota di rappresentanti delle professioni». Una quota di eletti piace anche a Ncd e agli altri partiti di maggioranza.
Di fronte a questa ipotesi Renzi ha finora fatto spallucce, sia nell’incontro con i gruppi che in Direzione. «Così facendo si creano parlamentari di seria A e di serie B. E io questo non posso farlo...» è stata la replica del premier.
Vedremo. Certo è che in questo modo il ddl costituzionale non ha i voti per passare. Forza Italia minaccia di far saltare il banco. Martedì presenterà un testo: premierato e elezione di 190-200 senatori (il doppio di quelli previsti da Grasso). Gli azzurri sono poi furiosi per l’inversione dei lavori: prima le riforme poi la legge elettorale (doveva essere il contrario). Soprattutto Berlusconi ha capito che Fi rischia di essere il terzo polo dopo Pd e M5S. E allora, forse, sarà il caso di ridiscutere tutto il patto sulle riforme con Renzi.

Repubblica 30.3.14
Grasso: non abolite il Senato
Il presidente di Palazzo Madama che contesta la riforma proposta da Renzi “Resti un’assemblea di eletti: non dia la fiducia, ma si occupi di leggi costituzionali e etiche”
intervista di Liana Milella


«Certamente la gente pensa, a ragione, che quasi mille parlamentari siano troppi, che la politica costi molto e produca poco, che sia venuto il momento di dare una sterzata. Ma avverto anche la forte preoccupazione di mantenere, su alcuni temi, la garanzia di scelte condivise. Con un sistema fortemente maggioritario, con un ampio premio di maggioranza e una sola Camera politica, il rischio è che possano saltare gli equilibri costituzionali e ridursi gli spazi di democrazia diretta».
E sarebbe?
«Affidare a una sola camera anche le scelte sui diritti e sui temi etici potrebbe portare a leggi intermittenti, che cambiano ad ogni legislatura, su scelte che toccano profondamente la vita dei cittadini e che hanno bisogno di essere esaminate anche in una camera di riflessione, come ritengo debba essere il Senato».
Quindi il suo Senato ideale come si chiama e com’è fatto?
«Non rinuncerei mai a una parola italiana che viene usata in tutto il mondo. Lascerei il nome di Senato, e dovrebbe essere composto da rappresentanti delle autonomie e componenti eletti dai cittadini...».
Che fa, la stessa proposta del capogruppo di Forza Italia Romani? Ancora un Senato di eletti? Ma così crolla il progetto Renzi...
«Non è la stessa proposta, perché io immagino un Senato composto da senatori eletti dai cittadini contestualmente alle elezioni dei consigli regionali, e una quota di partecipazione dei consiglieri regionali eletti all’interno degli stessi consigli. Per rendere più stretto il coordinamento tra il Senato così composto e le autonomie locali, prevederei la possibilità di partecipazione, senza diritto di voto, dei presidenti delle Regioni e dei sindaci delle aree metropolitane ».
Renzi vuole come senatori sindaci e governatori regionali, lei perché è contrario?
«Perché ritengo che per una vera rappresentatività sia indispensabile che almeno una parte sia eletta dai cittadini, come espressione diretta del territorio e con una vera parità di genere. Una nomina esclusivamente di secondo grado comporterebbe una accentuazione del peso dei partiti piuttosto che di quello degli elettori ».
Quindi un fifty-fifty?
«Non si tratta di percentuali, su quelle vedremo. Credo sia utile la presenza di rappresentanti delle Assemblee regionali, proprio per rafforzare la vocazione territoriale del Senato, estendendo la funzione legislativa regionale a livello nazionale. Ma sindaci e presidenti di Giunte regionali, che esercitano una funzione amministrativa sul territorio, a mio avviso non possono esercitare contemporaneamente una funzione legislativa nazionale, ma soltanto consultiva e di impulso».
Altro che Senato delle autonomie, il suo assomiglia a quello di adesso, solo con meno poteri e competenze.
«Niente affatto. Il Senato che immagino io, anche in parallelo con la riforma del Titolo V, è un luogo di decisione e di coordinamento degli interessi locali fra di loro e in una visione nazionale, e in questo senso dovrebbe sostituire la Conferenza Stato-Regioni».
E come la mette con i soldi? Questo suo Senato, sicuramente, avrà un costo maggiore rispetto a uno di sindaci e governatori perché gli eletti, proprio come quelli di illustri che siano?
adesso, dovranno necessariamente essere retribuiti. Quindi, con questo sistema, dove va a finire il risparmio previsto da Renzi?
«Possiamo ottenere risparmi maggiori diminuendo il numero complessivo dei parlamentari e riducendo le indennità, solo per iniziare. Poi mi faccia dire che non si può incidere sulla forma dello Stato solo con la calcolatrice in mano».
Questo suo Senato rispetto alla fiducia al governo che fa?
«Non dà la fiducia, non si occupa di leggi attuative del programma di governo, né di leggi finanziarie e di bilancio. Il rapporto col governo su questi punti deve restare solo e soltanto alla Camera».
Di quali leggi dovrebbe occuparsi?
«Oltre a tutte le questioni di interesse territoriale, delle leggi costituzionali o di revisione costituzionale, di legge elettorale, ratifica dei trattati internazionali, di leggi che riguardano i diritti fondamentali della persona».
Solo questo?
«Io immagino che una Camera prettamente ed esclusivamente politica debba essere bilanciata da un Senato di garanzia, con funzioni ispettive, di inchiesta e di controllo, anche sull’attuazione delle leggi. Chiaramente il Senato dovrà partecipare, in materia determinante, ai processi decisionali dell’Unione Europea, sia in fase preventiva che attuativa».
Prevede anche i senatori a vita o cittadini «L’apporto di grandi personalità del mondo della cultura, della scienza, della ricerca, dell’impegno sociale non può che essere utile. In che modo e in che forma sarà da vedere».
Due questioni calde, la tagliola sulle leggi del governo che vanno a rilento e i poteri “di vita e di morte” del premier sui ministri. Progetto ammissibile e condivisibile?
«Un termine chiaro entro cui discutere le proposte del governo, in un sistema più snello, non può che accelerare e semplificare l’iter legislativo. La ritengo una buona proposta. La seconda ipotesi non mi sembra sia prioritaria in questo momento».
Praticabilità politica. Dopo il caos del voto sulle province, finito con la fiducia, che prevede per il voto su questa riforma?
«Se si vuole un’accelerazione e una maggioranza di due terzi non si deve procedere mostrando i muscoli, ma cercando proposte più possibili condivise e aperte alla riflessione parlamentare. I senatori non sono tacchini che temono il Natale, e sono pronti a contribuire al disegno di riforma del Senato».
Ne è davvero convinto o s’illude?
«Hanno compreso, credo, le aspettative dei cittadini: partecipazione democratica, efficienza delle istituzioni, diminuzione del numero di deputati e senatori, taglio radicale ai costi della politica. Diminuendo di un terzo il numero dei parlamentari tra Camera e Senato, e riducendo le indennità, si otterrebbe un risparmio ben superiore a quello che risulterebbe, bilancio alla mano, dalla sostituzione dei senatori con amministratori dei comuni, delle aree metropolitane e delle regioni».
Un prossimo voto di fiducia di questo Senato sul futuro Senato è ipotizzabile?
«Non penso che si possa riformare la Costituzione con un maxi-emendamento e senza alcun contributo delle opposizioni».
Il timing di Renzi prevede prima la riforma del Senato, poi quella elettorale, il famoso Italicum. Forza Italia dice già di no e vuole il contrario. Lei che tempistica prevede?
«Dal momento che la legge elettorale riguarda solo la Camera approviamo prima la riforma del Senato, per poi passare immediatamente all’Italicum».
Lei sta già riorganizzando gli uffici di questo Senato. Perché? Per mantenere lo status quo o in vista della riforma?
«Sto lavorando per proporre al Consiglio di presidenza una riorganizzazione che risponda ad alcune esigenze attese da anni. Questo non ostacola le riforme, anzi le anticipa: razionalizzando le strutture, eliminando quelle non necessarie, valorizzando la prospettiva regionale ed europea del Senato, tagliando dal 30 al 50% le posizioni apicali e andando a ricoprire i posti restanti con nomine a costo zero, senza alcun aumento in busta paga per nessuno. Inoltre è già stato deliberato l’accorpamento di molti servizi con quelli corrispettivi della Camera, e si va verso l’unificazione dei ruoli del personale di Camera e Senato. Voglio che il nuovo Senato parta già nella sua piena efficienza».
Politica e mafia. La polemica sul 416-ter. La sua proposta, appena eletto, è agli atti. Adesso? È d’accordo sull’ipotesi del decreto legge cambiando il testo uscito dal Senato?
«Come ho detto, la mia proposta è agli atti. L’ho presentata il primo giorno, ho ancora il braccialetto bianco al polso e spero che si faccia presto e bene».

Corriere 30.3.14
Nuovo Senato, l’aut aut del governo
Il no a cambiamenti sostanziali. Ncd, Forza Italia e sinistra pd all’attacco
di Dino Martirano


ROMA — A Matteo Renzi piace solo a metà il «compromesso del Connecticut» del 1787, in base al quale ancora oggi i cittadini degli Stati Uniti eleggono due senatori per ciascun dei 50 stati dell’Unione. Il presidente del Consiglio, infatti, ha confermato che nel suo progetto costituzionale — già varato il 12 marzo ma ora in corso di riscrittura in vista del consiglio dei Ministri di domani che lo licenzierà per le aule parlamentari — il modello americano viene mutuato solo per quel che riguarda i numeri: una «quota fissa di senatori» rappresenterà tutte le Regioni producendo, dunque, delegazioni di ugual peso per la montuosa e minuscola Valle d’Aosta e per la popolosa e industrializzata Lombardia. Proprio come negli Usa. Con la differenza, però, che a Washington ci si va perché eletti dal popolo americano mentre a Roma ci arriverebbero sindaci e consiglieri regionali che si eleggerebbero tra di loro, mentre i 21 governatori scatterebbero di diritto.
Il governo non prevede (almeno per ora) sostanziali aggiustamenti sulla composizione del nuovo Senato: 120-150 membri in tutto non elettivi e non retribuiti (consiglieri regionali, sindaci, governatori, ecc.), con pari dignità numerica tra Regioni e Comuni (e a questo punto anche Città metropolitane) che potranno legiferare solo su alcune materie mentre non potranno esprimersi sulla fiducia al governo e sulle leggi di bilancio. Spariscono dal ddl i 21 «nominati» dal capo dello Stato: un’aliquota, questa, uscita dalla finestra, che però potrebbe rientrare dalla porta perché interessa molto i senatori in carica in cerca di uno sbocco futuro.
Alla vigilia del Consiglio dei ministri che domani darà il via libera al ddl costituzionale — «Superamento del bicameralismo paritario, riduzione del numero dei parlamentari, soppressione del Cnel, revisione del Titolo V» e, dulcis in fundo, anche cancellazione delle Province dalla Costituzione — Renzi conferma che le priorità non si toccano: «Il testo che presenteremo porterà alcune modifiche dovute agli incontri e alle conversazioni che abbiamo avuto in queste ultime due settimane», avverte il ministro Maria Elena Boschi (Riforme) che lavorerà con gli uffici fino a notte magari sotto la pressione di Anci e Regioni che vogliono far pesare i Comuni e le Regioni più popolose.
A Palazzo Chigi si è deciso di proporre un disegno di legge del governo da consegnare in tempi brevissimi alle cure della I commissione del Senato presieduta da Anna Finocchiaro. Lì però il testo governativo, che viene definito «aperto», incrocerà anche quelli in corso di definizione dal Ncd, da Forza Italia (che già chiede un nuovo incontro Renzi-Berlusconi) e da un buon numero di senatori del Pd ispirati da un’idea di Pippo Civati. Tutti e tre questi testi assecondano l’idea renziana di ridurre il numero dei parlamentari e di togliere al Senato la possibilità di esprimersi su fiducia e bilancio ma non fanno sconti sulla composizione della Camera Alta. Devono essere tutti, o almeno in parte, eletti: suona quindi come una sfida possibile il testo di una parte del Pd secondo il quale la cura dimagrante deve portare a un Senato di 150 e a una Camera di 400 eletti.
Nel testo in arrivo in Consiglio dei ministri, poi, balla la cosidetta «approvazione a data fissa» per i ddl del governo. Ospite da Luciano Violante all’incontro a porte chiuse con i costituzionalisti di tre Fondazioni (Italia Decide, Res Publica, Astrid), la ministra Boschi ha ascoltato con attenzione i suggerimenti: in particolare quello che individua un contrappeso alla corsia preferenziale dei ddl governativi nel taglio della decretazione d’urgenza. Che verrebbe limitata alla calamità naturali e agli interventi di politica economica. Resta da vedere, dunque, se Renzi accetterà di legarsi le mani sul fronte dei decreti legge.

il Fatto 30.3.14
Forza Italia adesso frena sulla riforma del Senato


LA RIFORMA DEL SENATO è attesa per il Consiglio dei ministri di domani, ma già le truppe di Forza Italia si muovono. In un’intervista a Repubblica il capogruppo al Senato Paolo Romani dice che il “ddl sul bicameralismo non era nei patti”. E che martedì Fi porterà un proprio testo sulla riforma del Senato. “Il principale problema che abbiamo identificato - spiega - riguarda l’elezione del Senato. Nel gruppo è emersa, a larga maggioranza, la volontà che sia diretta, a suffragio universale e con metodo proporzionale. Ogni Regione che va al voto per i consigli, vota anche i suoi rappresentanti per il Senato”. Chiede inoltre che il Senato voti anche sulla Legge di Stabilità. Nello stesso giorno, Giovanni Toti affonda contro l’alleato delle Riforme: “Mi sembra che Renzi abbia preso un vizio da democrazia sovietica, di decidere prima nella direzione del partito, poi dire cosa deve fare al Cdm e quindi portare testi ‘prendere o lasciare’ alle Camere: ma su questo non ci stiamo”.

l’Unità 30.3.14
La partita delle riforme è aperta. Anche quella dell’Italicum
di Ninni Andriolo


IL DISEGNO DI LEGGE COSTITUZIONALE CHE VARERÀ IL CONSIGLIO DEI MINISTRI NON SARÀ LA FOTOCOPIA DEL DOCUMENTO PRESENTATO DAL PREMIER DURANTE LA CONFERENZA STAMPA DEL 12 MARZO SCORSO. Il governo ha trattato, e domani la sua proposta si discosterà da quella che disegnava un Senato bollato come «dopolavoristico» a Palazzo Madama. La maggioranza si attende un testo non blindato e punta a strappare ulteriori miglioramenti, senza rompere tuttavia il patto per approvare prima delle europee la «riforma storica che cancella il bicameralismo». Chi sperava che il governo si limitasse a dire la sua, rimettendosi al Parlamento, rimarrà contrariato. Ma al di là della «propaganda e degli annunci muscolari» anche questa volta - in realtà - il presidente del Consiglio deve prendere atto della necessità di trattare e mediare. Il testo che arriverà da Palazzo Chigi non risponderà ai molteplici auspici dei parlamentari, ma rivaluterà il Senato rispetto alla bozza iniziale. Sarà diverso, quindi, da quello che lo stesso Renzi auspicava. Si capirà domani in quale misura e quale potrà essere, di conseguenza, l’iniziativa «per migliorarlo ulteriormente» che continuerà a Palazzo Madama, fermo restando l’impegno del Pd e della maggioranza a varare la riforma entro il 25 maggio. Oltre la disputa sui compiti e sulle prerogative da assegnare al “nuovo Senato” si avverte una spinta trasversale all’elezione diretta dei rappresentanti delle Regioni. Anche il presidente Grasso se ne fa carico. Renzi tuttavia rimane contrario.
Al di là delle tensioni che emergeranno, e che non vanno sottovalutate, il dato politico è che la trattativa con il governo c’è stata e continuerà ancora. Un doppio livello quello che contraddistingue l’iniziativa di Renzi. Quello della discussione pubblica chiusa magari a colpi di voti di maggioranza - come è accaduto durante la direzione Pd l’altro ieri - e quello più sotterraneo del prendere atto che non basta la forza dei numeri. Un decisionismo che fa i conti con le esigenze di un governo di coalizione e di una variegata maggioranza. E degli stessi gruppi parlamentari del Pd, della forza politica cioè che rappresenta la spina dorsale della coalizione. Venerdì scorso, mentre blindava in direzione il decreto Poletti, Renzi ricordava che il patto con Berlusconi sulla legge elettorale - considerato in un primo tempo immodificabile - era stato migliorato alla Camera. Quell’intesa reggerà dopo la decisione del Tribunale di sorveglianza di Milano sul leader di Forza Italia? Reggerà dopo i risultati delle Europee, se questi dovessero rispecchiare i sondaggi che segnano la progressiva flessione degli azzurri? Il caos di queste ore evidenzia un partito azzurro pervaso da faide e divisioni. E lo stesso Verdini, accreditato come ambasciatore di Berlusconi presso il premier, è uno dei bersagli delle faide in atto in Forza Italia. E questo mentre Berlusconi oscilla tra la disperata necessità di ritrovare un’interlocuzione con Renzi che lo rimetta al centro della scena e la spinta inversa a recuperare un’impronta d’opposizione che riapra spazi elettorali a Forza Italia. Come si rifletterà questo sul cammino delle riforme è tutto da capire. Ieri, mentre i giornali parlavano di nuovi contatti tra Renzi e Verdini, il capogruppo Fi al Senato, Romani, attaccava il premier per la precedenza data dal Senato alla riforma costituzionale su quella elettorale. Sul cammino dell’Italicum pochi sono disposti a scommettere ancora, in realtà. Gli stessi azzurri temono di pagare alle politiche il ruolo di terza forza - dopo Partito democratico e grillini - al quale dovrebbero condannarli le Europee.
E lo stesso Renzi, pur continuando a battere sulla necessità di varare presto la riforma elettorale, dovrà prendere atto che non ci saranno i tempi per varare l’Italicum prima del voto per Strasburgo.
Nella maggioranza e nel Pd, tra l’altro, molti prevedono il «default» del testo così com’è uscito da Montecitorio e prevedono una radicale modifica e un nuovo meccanismo «con il doppio turno sul modello dei sindaci». Al di là delle «esibizioni decisioniste», si capirà presto dove condurrà il realismo politico della mediazione e della trattativa.

l’Unità 30.3.14
Renzi e le tensioni col gruppo «No a un partito parallelo»
l premier: «Putroppo devo giocarmi l’osso del collo con un Parlamento che non ho scelto io»
Minoranza sempre più divisa. Cuperlo: «Non chiudiamoci dentro fortini a difesa dello status quo»
di Vladimiro Frulletti


È la seconda carica e figura terza. Ma è pur sempre il presidente della camera alta che il premier vorrebbe spazzare via il prima possibile.
Ecco che, con tutti i distinguo, le cautele e la riservatezza necessari - e infatti finora tenuto gelosamente segreto - il presidente del Senato Piero Grasso ha lasciato da parte in questo caso il ruolo terzo ed istituzionale ed è sceso in campo con una propria riforma costituzionale. Del Senato e del Titolo V. La differenza principale, nella proposta di Grasso, è che «almeno una quota dei senatori siano regolarmente eletti» ed abbiano piene funzioni. Vere e proprie cariche elettive con specifiche funzioni di sentinelle delle leggi sui passaggi più delicati, il bilancio, riforme costituzionali, legge elettorale, diritti civili oltre che di arbitri delle materie che sopravvivranno come concorrenti tra Stato e Regioni dopo la riforma del Titolo V.
Una decina di giorni fa il presidente Grasso ha invitato a colazione a palazzo Giustiniani, con un innegabile tratto di galanteria, il ministro per le Riforme Maria Elena Boschi. Un pranzo riservato a pochissimi selezionati di cui non sono noti i dettagli di ambiente. Si sa però che il Presidente del Senato ha fatto preparare un computer collegato a un proiettore e ha presentato alcune slides che hanno raccontato, in una sorta di trittico, la riforma del Senato: nella prima colonna la situazione attuale; in quella centrale l'ipotesi del nuovo Senato e del Titolo V secondo Renzi; nella terza quello che, secondo la seconda carica dello Stato, dovrebbe essere articolo per articolo la giusta mediazione. E anche l'unica possibilità perchè i 315 senatori accettino di votare il pacchetto di riforme.
La modifica principale, rispetto al piano Renzi, riguarda la composizione del Senato e il modo per eleggere i senatori. Grasso ha spiegato al ministro Boschi che non può funzionare, non è «istituzionalmente corretto» il previsto mix di sindaci e consiglieri regionali indicati dai partiti in fase di elezione dei governi regionali e che, avanza tempo, assumano l'incarico a palazzo Madama. La giusta mediazione dovrebbe essere invece quella che prevede «almeno un centinaio (si parla di 120-150 ndr) di senatori eletti a cui sono delegate funzioni legislative e di controllo di rilievo».
Il ministro Boschi ha preso diligentemente appunti senza sbilanciarsi nell'esprimere opinioni. Ha solo ripetuto che tre sono i punti da cui la riforma non può prescindere: fine del bicameralismo con una sola una camera che dà la fiducia; fine della navicella da una camera all’altra per l’approvazione delle leggi; taglio di 315 indennità; una camera alta non eletta ma ripescata dalle file dei consigli regionali.
Il trittico del presidente Grasso tiene fermo il punto della fiducia (non è prevista), della tagliola alle leggi (entro 60 giorni per i ddl del governo) ma indica come «necessaria» la mediazione sulla composizione e sull’elezione. E ancora non c’era stato il voto di fiducia fermo a 160 come l’altro giorno sul ddl province.
È eccezionale, ma non casuale, che il presidente Grasso scenda in campo. Renzi sta, giustamente, riscrivendo le regole della democrazia. Ma in questo caso non è lecito sbagliare. Occorre ascoltare più voci. Anche quelle che solitamente, per dovere, tacciono. Gli stessi senatori, in modo trasversale, hanno spinto per un intervento della seconda carica dello Stato a cui viene chiesto di «rivendicare il lavoro svolto dalla camera alta e dai suoi eletti». Visto che invece nell’opinione pubblica sta passando quasi l’idea che palazzo Madama sia «un ente inutile».
Ora dipende tutto da Renzi. Domani il governo presenterà il disegno di legge di riforma costituzionale. Rispetto al testo presentato il 12 marzo dal premier, si sa che non ci sono più i sindaci nè i 21 nominati dal Quirinale. Si sa anche che non sono previsti più poteri al premier quasi a voler smontare ipotesi circolate, e temute, di premierato o riforme ancora più radicali. Il Pd ha rinunciato a un proprio testo (c’è quello del governo) ma non agli emendamenti. Che concordano tutti sulla proposta Grasso: almeno una quota dei senatori devono essere eletti. Giuseppe Lauricella, già noto per aver dimezzato l’Italicum, ne presenterà uno che prevede «un centinaio di senatori eletti a suffragio universale con il proporzionale in modo da garantire anche i partiti più piccoli rimasti fuori dalla camera. Poi una quota di rappresentanti delle professioni». Una quota di eletti piace anche a Ncd e agli altri partiti di maggioranza.
Di fronte a questa ipotesi Renzi ha finora fatto spallucce, sia nell’incontro con i gruppi che in Direzione. «Così facendo si creano parlamentari di seria A e di serie B. E io questo non posso farlo...» è stata la replica del premier.
Vedremo. Certo è che in questo modo il ddl costituzionale non ha i voti per passare. Forza Italia minaccia di far saltare il banco. Martedì presenterà un testo: premierato e elezione di 190-200 senatori (il doppio di quelli previsti da Grasso). Gli azzurri sono poi furiosi per l’inversione dei lavori: prima le riforme poi la legge elettorale (doveva essere il contrario). Soprattutto Berlusconi ha capito che Fi rischia di essere il terzo polo dopo Pd e M5S. E allora, forse, sarà il caso di ridiscutere tutto il patto sulle riforme con Renzi.

Repubblica 30.3.14
Si frantuma la corrente di minoranza
Esplode la sinistra Pd Cuperlo contro Epifani “Chi si divide perde”
di Goffredo De Marchis


ROMA - È finita la minoranza del Pd. Frantumata da una buona dose di inimicizia, dalla difficoltà di emanciparsi dai vecchi leader proprio mentre Renzi naviga sull’onda della novità, ma soprattutto dalla rovinosa caduta delle primarie. L’estinzione viene certificata da una nota di Gianni Cuperlo, insolitamente dura. Amara, ma anche sferzante. Finisce così la minoranza come corrente. Rimane un’asse di sinistra sui provvedimenti. Sul decreto lavoro per esempio le varie anime dell’opposizione interna, dai bersaniani a Pippo Civati, non sono spaccati. Qualcuno, spiega Cuperlo, «vuole rinchiudersi dentro fortini a protezione dello status quo. Quando la sinistra si chiude e si divide perde. È un peccato rassegnarsi a correnti piccole, medie o grandi che non comunicano». Bersaniani e un po’ di lettiani si separano, vanno da un’altra parte, non riconoscono più la leadership dello sfidante di Renzi, si affidano semmai alla guida di Roberto Speranza e Guglielmo Epifani. Ma Cuperlo li attacca, accusandoli implicitamente di essere rimasti indietro al clichè dell’antirenzismo: «Il congresso è alle spalle. Siamo entrati in un ciclo nuovo». Che non significa schierarsi con il premier. Semmai, dice Cuperlo, evitare di fargli il regalo più grande: un’opposizione frammentata e quindi invisibile.
Martedì, i parlamentari della nuova corrente bersanian-lettiana si vedono alla Camera. Sabato Cuperlo organizza un altro incontro per tenere viva l’esperienza della sua mozione. I Giovani Turchi di Matteo Orfini e del Guardasigilli Andrea Orlando gli restano legati per dialogare in autonomia con Renzi. «Non aveva senso stare tutti nello stesso contenitore vista la diversità di approcci. Si fa chiarezza», dice con piglio polemico Orfini. La frattura del resto si consuma proprio intorno al ruolo dei Giovani Turchi incolpati di essere una quinta colonna renziana. Così non si poteva più stare insieme.
In piccolo è quello che succede anche nel Psi. Riccardo Nencini ottiene il via libera dal partito per un patto federativo con il Pd. Vale a dire presentarsi alle Europee sotto le insegne di Renzi. Una linea contestata da Bobo Craxi che teme la scomparsa delle idee e della tradizione socialista.

Corriere 30.3.14
La minoranza apre al segretario
La paura di un boom 5 Stelle alle urne
Il premier teme la fuga degli elettori forzisti verso Grillo
di Maria Teresa Meli


ROMA — «Finché il vento soffia dalla sua parte, ci dobbiamo stare», così confidava ieri il bersaniano Miguel Gotor a un’amica. Quelle parole fotografano lo stato dei rapporti tra Matteo Renzi e il suo partito.
Il segretario-premier, dunque, ha il vento dalla sua, anche se conosce «i rischi» e «le difficoltà» di un «Parlamento in cui, spiega, non ho una solida maggioranza», anche perché i gruppi del Pd non sono stati forgiati a sua immagine e somiglianza: «Perciò mi gioco il tutto per tutto e corro il doppio». Perché questo è anche l’unico modo per saltare gli ostacoli, rivolgendosi direttamente agli italiani. I quali, stando ai sondaggi illustrati nella trasmissione di Mentana, Bersaglio mobile , sono ancora in luna di miele con il loro premier.
Secondo Pagnoncelli il 65 per cento degli italiani ha fiducia in Renzi. Per Swg la percentuale scende al 54, ma il premier è comunque il primo in classifica e Napolitano, che è al secondo posto, ottiene il 40. Stando così le cose, anche la minoranza si acconcia: in quell’area la gara è a chi conquista il ruolo di interlocutore del segretario. Ruolo che al momento si è assicurato il capogruppo Speranza, a cui fa riferimento un correntone di quarantenni: i bersaniani Stumpo e Leva, i dalemiani Amendola e Manciulli, l’ex ppi Gasbarra e la lettiana De Micheli. Epifani dovrebbe fare da padre nobile di quest’area, che verrà tenuta a battesimo martedì prossimo.
È un’operazione, questa, che spiazza sia Cuperlo che i «Giovani turchi» di Orfini e che relega in un ruolo meno attivo Bersani. Gli obiettivi di questa manovra? Arrivare a una gestione unitaria del partito e ottenere qualche modifica al decreto sul lavoro. Ma minima, giusto ciò che il premier ha già deciso di concedere: «Se servirà fare delle modifiche in corso d’opera nei discuteremo senza preclusioni, ma è il governo che decide».
Dunque, all’interno del Pd, nonostante tutto, Renzi non ha veri problemi, tant’è che pensa già alle Politiche che verranno in questi termini: «Nella mia testa si deve andare verso un sostanziale bipartitismo, dove da una parte c’è un Pd al 40 per cento, con un centrosinistra attorno, e dall’altra un nuovo centrodestra, che si andrà sviluppando in questi anni».
Ma ben prima delle Politiche vengono le elezioni del 25 maggio. Al Nazareno sono quasi certi di riuscire a strappare al centrodestra sia il Piemonte che l’Abruzzo, quanto alle Europee, impensieriscono i sondaggi che danno in caduta libera Forza Italia. «È chiaro — si ragiona nelle stanze della segreteria — che gli elettori che fuggono da FI o restano a casa o votano Grillo, ma non possono scegliere noi già adesso». Ed è questa la preoccupazione dello stato maggiore del Pd: la possibile avanzata del Movimento Cinque Stelle che, sulla scia di un eventuale successo delle Europee, potrebbe sperare di vincere anche in qualche Comune.
Al momento, comunque, il Partito democratico è saldamente in testa in tutte le rilevazioni (tant’è che al Nazareno sono convinti di strappare al centrodestra più di una giunta comunale), mentre i grillini si attestano al secondo posto e Forza Italia al terzo. Non superano invece la soglia del 4 per cento gli alleati del Nuovo centrodestra.
In questi giorni si cercherà di stringere sulle candidature per l’Europarlamento. Alcune sono ormai scontate, come quelle degli ex ministri Kyenge e De Castro nel Nord-Est e di Emiliano e Pittella nel Sud. In Sicilia si sta pensando alla sindaca di Lampedusa Giusi Nicolini e all’Idv Sonia Alfano, mentre nel Centro potrebbe spuntare la candidatura di Gasbarra. Ancora vuota la casella di capolista nel Nord-Ovest. Si sa solo che dovrebbe essere una donna. Non sarà Stefano Boeri, perché la sua non è ritenuta una candidatura forte.

il Fatto 30.3.14
Il turbopremier
Il segreto di Matteo Renzi il presidente “giovane”
di Furio Colombo


Credo di avere capito e voglio condividere con voi questa rivelazione. Renzi, che riesce anche quando non riesce, e aumenta nel gradimento anche dopo i colpi a vuoto, è al centro dell’attenzione benevola della maggioranza dei cittadini non perché è giovane, e neppure perché è così diverso da tutti gli altri, come si usa dire. Il fatto che conta, e che lo sostiene come un atleta portato a spalle, è che Renzi non è mai stato eletto. Non so se vi rendete conto di quanto valga questa carta in tempi di furiosa anti politica. Renzi non è la casta. Poiché non ha mai fatto campagna elettorale (tranne che nella sua città e nei percorsi interni delle “primarie”), non si può tentare di tenerlo in quel perenne stato di punizione che spetta ai politici veri eletti, non gli si può gridare “da che pulpito!”. E non gli si possono rimproverare cose mai accadute. Direte che ha promesso molto e ha ottenuto solo risultati modesti o vittorie apparenti. Non è il punto. 
Il punto è che Matteo Renzi è entrato direttamente nella stanza dei bottoni (niente prescrive o prevede che uno passi di lì e vi entri perché è uno bravo o si presume che sia bravo) e vi resta non solo incontrastato ma abbastanza apprezzato. La ragione è che non è mai stato eletto. Lo so che mi sto ripetendo, ma non mi pare vero di avere individuato la ragione che, con un po' di fortuna e di faccia tosta (che non gli manca), lo salverà a lungo dal crollo dei controsoffitti politici che colpiscono così presto quasi tutti i regolari della politica. 
DIRETE che altri, prima di lui, avevano governato senza essere stati eletti. Vero, ma erano bene in vista due condizioni: una situazione di emergenza; e una lista di poche, essenziali cose da fare, subito. Qui, invece, parliamo di una intera legislatura, dell’abbattimento del Senato e delle Province e di tutte (tutte) le altre riforme. 
I suoi modi simpatici e disinvolti devono avere fatto presa anche sul capo dello Stato, che aveva previsto una situazione eccezionale breve, e si trova di fronte a una situazione eccezionale lunghissima. Ma forse anche lui aveva visto che Renzi ha un lasciapassare prezioso: può dimostrare di non essere stato votato. Non è l’on. Renzi o il senatore Renzi. È il dottor Renzi. 
Fa una differenza grandissima, e Renzi in persona è ben cosciente di questo privilegio che a tutti gli altri non sembra bello ricordare (infatti non se ne parla mai). Renzi ne è cosciente al punto da esprimersi con la libera spregiudicatezza di chi sta fuori dal gioco, mentre sta dentro e al centro. Tipica è la frase con cui liquida il dissenso della leader di Cgil e del presidente di Confindustria: “Vuol dire che ce ne faremo una ragione”. 
Vi immaginate se un regolare politico eletto si abbandonasse a tanto giovanile sarcasmo? Per capire è bene non illudersi che l’ondata fortissima di avversione alla politica prima o poi si esaurisce. Occorre un forte choc perché questo accada. Al momento non sembra né imminente né probabile. Cose enormi e non cancellabili (certo non adesso) hanno segnato e sfregiato la politica. E il colpo di grazia è avvenuto nello stabilire che “sono tutti uguali”, legittimo grido di esasperazione, ma anche salda barriera di protezione per i peggiori, che possono continuare (e continuano, salvo occasionale detenzione) nei propri affari poltico-privati proprio perché protetti dal discredito che ha colpito tutti. Tutti ma non gli estranei al sistema. Chi è più contrario al sistema di uno che non è mai stato eletto, ma è incaricato di portare a termine una lunga e operosa legislatura, mettendo al lavoro, con giovanile impeto, gli eletti sia d'accordo che non d’accordo? Persino nel suo partito, nessuno obietta. Se lo facesse avrebbe tutti contro, dentro e fuori dalla politica. 
Renzi, il capo non eletto di tutto, lo sa benissimo. 
Una lucidissima controprova ci viene offerta da Grillo. Non appena i suoi liberi, nuovi, rispettabili e rispettati cittadini che si sono offerti per la candidatura a Cinque Stelle sono stati eletti, è come se fossero andati in convento. Devono tacere, obbedire e togliersi dalla testa di decidere. Decide il capo (non eletto) che sta battendosi per togliere dalla Costituzione la frase “senza vincolo di mandato”, e imporre una multa all'eletto che si ribella al capo non eletto. 
DUNQUE in Parlamento (ci stanno dicendo anche i nuovi arrivati) non conta la coscienza. Conta l’obbedienza. E dunque il “vincolo di mandato” deve diventare un cappio. Se ti muovi per conto tuo, io stringo. 
Renzi ha notato, con l’attenzione vorace di chi impara subito. Primo, forma un governo modesto (tanto il governo è lui, Renzi), con persone giovani, persino più giovani di lui, così è sicuro che non sdottorino con pretese di competenza e noiose storie di esperienza. 
Secondo, si accerta che non sappiano la materia, in modo da evitare che pretendano di insegnartela. Terzo, fa pesare il fatto che ogni decisione grande o piccola, tocca a lui, non tanto e non solo perché lui è il capo, ma perché lui è esente. Nessuno lo ha eletto, e perciò è esente dalla squalifica che marchia i politici. Per ora funziona. Certo, non conosciamo ancora le conseguenze.

Repubblica 30.3.14
Un libro
Tutti i passaggi dell’ascesa di Renzi
di Francesco Bei


La volta buona di Lavia, Mauro, De Angelis, Colombo (Editori Int. Riuniti, pagg. 160, euro 8)

PERCHÉ Napolitano, nume tutelare di Enrico Letta, decide di “scaricarlo” e accetta l’investitura di Matteo Renzi? Perché la sinistra del Pd, fino al giorno prima alleata del presidente del Consiglio, lo molla all’improvviso e vota in direzione per il governo Renzi?
Perché Berlusconi cambia idea sulle elezioni e si convince a fare da sgabello alla maggioranza? E, soprattutto, da quanto tempo Renzi lavorava per arrivare dove è arrivato? Se vi siete persi qualche passaggio o volete illuminare qualche angolino buio dell’operazione che ha portato Renzi a palazzo Chigi, il libro giusto finalmente c’è. L’hanno curato quattro penne di non comune bravura del giornalismo italiano — Mario Lavia, Angela Mauro, Ettore Colombo e Alessandro De Angelis — mettendo insieme gli appunti dei loro taccuini, riannodando i fili dispersi di una storia e provando a ridare un senso alla cascata di avvenimenti degli ultimi due mesi e mezzo. In questo aiutati dall’utile cronologia curata da Rudy Francesco Calvo.
Appassionante come un giallo (anche se l’assassino è già noto), il saggio La volta buona, l’ascesa di Renzi a palazzo Chigi meritadi finire sul comodino degli appassionati di politica.

La Stampa 30.3.14
È già il partito di Matteo? Per ora c’è “Forza Renzi”
«Forza Renzi», firmato «Gli amici di Milano»: i commercianti di Buenos Aires, per la prima volta, si buttano a sinistra
di Jacopo Iacoboni

qui

La Stampa 30.3.14
Il Pd targato Renzi apre le iscrizioni e cerca nuovi fondi
Nuova tessera-chip : servirà per referendum interni
di Carlo Bertini

qui

il Fatto 30.3.14
Caccia agli 80 euro. I segreti del tesoro per trovare i soldi.
Padoan deve accontentare il premier. Tutto si decide l’8 aprile con l’approvazione del documento di economia e finanza e il decreto con i tagli della spending review
di Stefano Feltri


Il modo lo troverà: Matteo Renzi ha promesso che il 27 di maggio 10 milioni di italiani avranno 80 euro in più in busta paga e così sarà, si è esposto troppo. Magari i beneficiari non saranno proprio 10 milioni, forse gli euro saranno qualcosa in meno di 80 (dipende anche dall’effetto del fisco), probabilmente le coperture di questo regalo elettorale in vista delle Europee saranno precarie, ma Renzi lo farà.
Nella sede del governo ombra, cioè il ministero del Tesoro, hanno capito che il premier è inamovibile e stanno lavorando per avere i numeri giusti. Ma non è facile. Il giorno decisivo è l’8 aprile: ci sarà un Consiglio dei ministri che all’ordine del giorno avrà i due punti cruciali, il Documento di economia e finanza che fissa il quadro di bilancio in cui deve avvenire l’operazione 80 euro, e un decreto legge attuerà i primi tagli della spending review, per trovare le coperture. Ma è meno semplice di come suona.
IL MINISTRO del Tesoro Pier Carlo Padoan ha messo al lavoro i supertecnici del ministero, da giorni alle prese con i modelli econometrici che devono produrre il risultato desiderato: numeri compatibili sia con le promesse del premier che con le richieste della Commissione europea. Venerdì sera, intervistato da Enrico Mentana su La7, il premier Matteo Renzi ha anticipato che la crescita del Pil 2014 sarà rivista al ribasso dall’1 per cento stimato da Enrico Letta al 0,8-0,9 (comunque ottimistico visto che le principali previsioni indipendenti parlano di 0,6). Il deficit, stimato al 2,5 per cento del Pil, non arriverà mai e poi mai al 3 per cento, hanno giurato i tecnici del Tesoro agli sherpa della Commissione che stanno seguendo i lavori preparatori del Def. Certo, un po’ di spesa in deficit ci sarà, ma al massimo fino a 2,7-2,8 per cento. E nella sua intervista a Repubblica di mercoledì, Padoan ha ribadito che l’Italia rispetterà anche la regola del debito, quella che prevede una riduzione progressiva in modo da essere in regola con i parametri del Fiscal compact dal 2016. Tradotto: bisogna fare un aggiustamento strutturale da 0,5 punti di Pil cui corrispondono tagli duraturi per 4-5 miliardi.
Vi siete persi? Normale. È un gioco di abilità o di illusionismo: come si fa a tenere sotto controllo il deficit, però alzandolo un po’, rivedere al ribasso la crescita, ma anche alzarla per effetto delle riforme annunciate e ridurre il debito però anche aumentarlo per pagare gli arretrati della pubblica amministrazione? A Bruxelles sono molto curiosi di scoprirlo. Nelle parole di Renzi c’è un indizio: con il taglio del cuneo fiscale “spero che alla fine la crescita arrivi arrivi all’1 per cento e lo si superi”. Stando a quanto trapela da via XX Settembre funzionerà così:   il Def avrà non due ma tre tabelle. Le prime sono standard: una indica i numeri a legislazione vigente (cioè come andrebbero i conti senza interventi), la seconda è il quadro programmatico, include gli effetti delle cosiddette misure “legislate”, cioè approvate in una qualche forma e tra queste ci saranno i tagli della spending review, gli scostamenti del deficit, il risparmio dovuto agli interessi più bassi sul debito pubblico, l’impatto del Jobs Act e così via. Comparirà poi una terza tabella, quella dell’ottimismo, senza   un valore formale ma con un contenuto politico: lì Renzi e Padoan fisseranno i loro obiettivi e indicheranno quale sarà l’impatto delle misure su cui stanno lavorando e non ancora tradotte in provvedimenti di legge (come il bonus da 80 euro). I numeri della terza tabella saranno ovviamente migliori di quelli delle altre due: la crescita, come anticipato da Renzi, sarà indicata almeno all’1-1,1 forse perfino di più. E così i conti torneranno.
UN’ARDITEZZA CONTABILE
che si fonda sulla forza politica che il premier sente di avere: non guardate i numeri come sono, ma crede a come possono cambiare. Percentuali a parte, ci sono da trovare i soldi veri: il bonus da 80 euro a 10 milioni di italiani costa circa 10 miliardi all’anno, visto che nel 2014 partirà da maggio ne bastano poco più di 6. Se la soglia di stipendio mensile che permette di accedere scendesse da 1.500 a 1.300 euro – come si dice in questi giorni – il conto si ridurrebbe ancora. E per partire subito si può anche usare qualche copertura una tantum, rimandando quelle vere, strutturali, alla legge di stabilità in autunno. Basta gonfiare un po’ l’impatto sulla crescita e anche il deficit non avrà problemi. Anzi, con un Pil a +1,2 o superiore anche i requisiti imposti dalla regola del debito sarebbero più blandi e la correzione da fare più bassa. Chissà se a Bruxelles la Commissione europea approverà questa creatività contabile.

il Fatto 30.3.14
Case, vini e donazioni. La passione per Renzi dei nobili fiorentini
Dal 2009 al 2011 il sindaco risiedeva nello storico palazzo Malenchini. Per le famiglie dei marchesi proprietari dell’appartamento le “cortesie” di comune e provincia
di Davide Vecchi


Se non fosse stato per la marchesa Cornaro nominata assessore in Provincia nel 2004, Matteo Renzi non avrebbe trovato la sua prima casa fiorentina, in via Malenchini 1, dove da sindaco ha registrato la residenza dal 13 novembre 2009 al 13 marzo 2011, prima di trasferirsi nell’appartamento di via degli Alfani 8, pagato dall’amico Marco Carrai.
FU LA MARCHESA Giovanna Folonari Cornaro a presentare l’allora giovane ed esuberante presidente della Provincia alle famiglie nobili di Firenze tra cui il marchese Luigi Malenchini, proprietario dell’abitazione di 80 metri quadri poi affittata al sindaco. Che il cognome sia uguale al nome della via non è un caso: il palazzo è uno dei più antichi di Firenze. Costruito nel 1348, è incastrato a 300 metri da Palazzo Vecchio, gli Uffizi, Santa Maria alle Grazie, Ponte Vecchio. Insomma nel cuore della città. Renzi paga al mese 900 euro d'affitto per una mansarda. Luigi è proprietario di tutti gli immobili e risiede nel palazzo di via Vincenzo Malenchini 1. Qui vive anche sua moglie, Livia Frescobaldi. Mentre Luigi in quegli anni opera nel ramo agricolo, proprietario dell’azienda Agri Carignano e consigliere tra l’altro della Marchesi Ginori Lisci, Livia si dedica alla cultura, pur essendo azionista della Compagnia Frescobaldi Spa, azienda di famiglia che gestisce ben cinque tenute, in particolare nelle zone Chianti Rufina e Montalcino, e produce alcuni dei vini toscani più noti e diffusi al mondo, uno su tutti il Nipozzano. Due mondi simmetrici dunque, quello di Renzi e quello della coppia Malenchini Frescobaldi. Che però inconsapevolmente si incontrano già nel 2008. Quando la Provincia di Firenze, guidata dall’attuale premier, organizza e finanzia il Genio Fiorentino. Alle casse dell’ente l’iniziativa costa 881 mila euro, parte dei quali espressamente dedicati a organizzazioni di eventi e mostre finalizzate alla promozione e sviluppo dei vini toscani. Con esattezza, 141 mila euro di eventi, nella manifestazione GeniDiVini: a farla da padrone (indiscusso) proprio il Castello di Nipozzano-Marchesi de’ Frescobaldi. Una casualità? Senz’altro. I dettagli delle fatture sono però nelle mani della Corte dei conti che sta indagando con l’ipotesi di danno erariale per 9 milioni di euro a carico della giunta guidata da Renzi. Una casualità, senz’altro, perché le cronache cittadine fanno risalire l’amicizia tra il premier e la coppia a inizio 2009, alla cena elettorale organizzata a sostegno dell’allora candidato sindaco da Ambrogio Folonari e signora, Giovanna Folonari Cornaro.
C’erano tutti i blasoni che contano, dai marchesi Mazzei ai Bini Smaghi. Le famiglie patrizie iniziarono così, come mai prima, a mischiarsi con la politica cittadina. Tanto che per sostenere Renzi, i nobili toscani negli ultimi anni hanno persino varcato i circoli Arci e le storiche case del Popolo. Sponsorizzato da Giovanna Folonari che Renzi, con un colpo a sorpresa nel 2004 nominò assessore al Turismo e alla Cultura della Provincia da lui guidata. Lei è rimasta talmente entusiasta dell’esperienza da voler divulgare orgogliosamente il suo curriculum. Dieci righe: nome, cognome, data di nascita, esperienza lavorativa da assessore e firma. Punto. Non stupisce che nel 2011 la Corte dei conti abbia poi condannato Renzi e altri per danno erariale nei confronti della Provincia di oltre 2 milioni di euro per aver assunto persone non qualificate. Tra cui proprio la nobildonna. A cui Renzi prestò, gentilmente, l’avvocato di fiducia: Alberto Bianchi.
NEL 2010, INTANTO, a Livia Frescobaldi, moglie del proprietario di casa in cui abitava, il Comune guidato da Renzi affida la cura della mostra “Il Risorgimento della maiolica italiana”, patrocinata da Palazzo Vecchio e sostenuta, tra gli altri, dall’Ente Cassa di Risparmio di Firenze guidata dall’amico Marco Carrai. L’anno successivo Livia Frescobaldi fa il suo ingresso, nominata sempre dal Comune, nel Gabinetto scientifico letterario Vieusseux. A conferma che la nobiltà sostiene apertamente Renzi, c’è anche il contributo versato dalla Frescobaldi alla fondazione Big Bang per finanziare la campagna di Renzi per le primarie a segretario del Pd. Un contributo simbolico, per carità, 250 eur

il Fatto 30.3.14
Crisi di rigetto?
Terrore a Firenze: Nardella al 30%
di Marco Palombi


Il terrore corre sul Dario. Inteso come Nardella in quanto vicesindaco e candidato alla successione del suo dante causa politico, Matteo Renzi. Si parla di Firenze, ovviamente, e delle elezioni comunali di maggio. Nardella, a leggere i giornali locali, non ha avversari: il voto ha già un suo responso, la città il suo sindaco, la prosecuzione del renzismo con altri mezzi, insomma, è già un fatto. Peccato che in giro per la città e sulla rete si sprechino gli aggettivi non proprio commendevoli al suo riguardo: “avatar”, “paracadutato”, “clone” e via duplicando il premier fuggitivo. Nella realtà, insomma, la corsa di Dario Nardella è meno in discesa di quanto venga raccontato. È il Pd fiorentino a dirlo o, meglio, un paio di sondaggi commissionati proprio dai democratici.
NEL PRIMO, siamo a inizio marzo, il vicesindaco viene quotato attorno al 35%: effettivamente un po’ poco rispetto al 47 messo assieme da Renzi al primo turno nel 2009 e pure all’effetto atteso dell’unzione pubblica dell’ennesimo padrone d’Italia. È stata la seconda rilevazione però, circa tre settimane dopo, a far virare di botto l’umore del renzismo in città: Nardella veleggia poco sopra il 30%. Brutto numero, soglia psicologica e fatto politico di rilievo nazionale insieme: la culla del renzismo,   nel frattempo diffusosi viralmente, sembra in crisi di rigetto. Sopravvivono la macchina del consenso, i rapporti con la stampa e i potentati locali, ma senza entusiasmo: non sono pochi, per dire, gli esponenti di Confindustria e Curia - pure schierate a conservazione dell’esistente - ad essere perplessi sulla scelta (e col cardinal Betori ci fu pure un memorabile scazzo nel giugno scorso). I cittadini, in generale, non sembrano nemmeno aver gradito di aver avuto - tra primarie e complotti di palazzo contro Letta - un sindaco assente per due anni.
Il fatto è che Nardella non ha il fisico per fare quel che dovrebbe: il buon Dario, musicista ed esperto di diritto, non è un politico di prima fila; i veri custodi del renzismo non ne hanno grande stima; il Pd lo riconosce solo in quanto unto del Signore; in Comune lo vedono poco, associazioni e categorie produttive pure. È un candidato in fuga: “Non sono il clone di Renzi”, dice ogni volta che inaugura qualcosa (che poi è la sua unica attività da sindaco). È il segno che è così che si sente e infatti nessuno gli crede. Renzi un po’ ci prova e un   po’ no a tirargli la volata. L’ultima sparata è in puro stile Silvio: “Porterò il G8 del 2017 a Firenze” con annesso stanziamento da 200 milioni per rimettere a nuovo vari pezzi della città.
NARDELLA, PERÒ, ha problemi più seri del G8. Non riesce a liberarsi del suo vizio di nascita: essere un candidato imposto. Ora a sinistra ha anche un avversario nuovo, frutto proprio delle modalità con cui si scelse di regalargli la candidatura: per evitare che l’ex vicesindaco Stefania Saccardi si presentasse alle primarie, infatti, Renzi ha imposto a Enrico Rossi di prendersela nella Giunta regionale. Nel rimpasto è stata fatta fuori Cristina Scaletti, ex IdV, medico immunologo con grosso curriculum, già assessore all’Ambiente di Renzi a Firenze, poi passata alla Cultura in Regione. Scaletti - sollecitata alla candidatura da associazioni e società civile sparsa - ha chiesto di poter partecipare alle primarie del Pd. Risposta no: la coalizione di centrosinistra dovrà appoggiare il nostro candidato.   Il risultato è che ora Nardella si ritrova a competere con “La Scaletti sindaco”, lista civica con tanto di simbolo rosa, che il famigerato sondaggio accredita già di un lusinghiero 13 per cento (stessa percentuale, peraltro, a cui viaggia la grillina Miriam Amato). Ambienti del Pd, raccontano, hanno anche provato a fare qualche pressione per dissuadere l’interessata, ma non c’è stato verso. Non solo. Anche Sel e altri pezzi della sinistra fiorentina che nel 2009 sostennero Renzi stavolta andranno per conto loro: candideranno Tommaso Grassi, consigliere comunale che è stato una vera spina nel fianco del fu sindaco. Al netto della confusione nel campo di centrodestra (due o tre candidati in corsa, ancora non si sa), Matteo Renzi rischia una figuraccia in casa: eppure proprio lui, così digitale e up to date, lo dovrebbe sapere quant’è importante non sbagliare avatar.

il Fatto 30.3.14
Madia e Giannini Scontro tra due titane renziane
La prima viene smentita ogni volta che parla, la seconda dimentica che il suo partito a luglio voleva i prepensionamenti che le critica oggi

di Marco Palombi

 Prima o poi doveva succedere e ieri è successo: prima polemichetta mediatica tra le ministre del governo Renzi. La faccenda, per i curiosi, coinvolge la titolare della Pubblica amministrazione Marianna Madia e quella dell’Istruzione Stefania Giannini. La materia del contendere è, sostanzialmente, la pianta organica della P.A.: quanti dipendenti, reclutati come? Ovvio in tempi di spending review e relative tabelle (in quelle di Carlo Cottarelli, per dire, si parlava di 85mila dipendenti da mandare a casa), ma magari un po’ troppo all’ingrosso per due ministri della Repubblica.
Veniamo al merito. Il parere di Madia sui dipendenti pubblici,   già consegnato ai posteri a inizio settimana, è stato ribadito ieri sul Corriere della Sera: “Va avviato un processo di riduzione non traumatica dei dirigenti e più in generale dei dipendenti vicini alla pensione, per favorire l’ingresso dei giovani. Se in un posto mando in pensione leggermente anticipata tre dirigenti, non devo per forza sostituirli, magari basta prendere un funzionario. Con questa staffetta generazionale riduco, svecchio e risparmio”.
PRIMO PASSO: la riforma della dirigenza “tra fine aprile e inizio maggio”. In sostanza, prepensionamenti in cambio di uno sblocco parziale del turn over. Questa è la ricetta del ministro Madia. Non sia mai, è la risposta di Stefania Giannini, montiana doc per cui i prepensionamenti, l’assunzione dei precari della P.A. senza concorso e le modifiche alla riforma Fornero delle pensioni equivalgono a un crimine   contro l’umanità: “Non amo il collegamento tra chi va a casa e chi entra. Un sistema sano non manda a casa gli anziani per far entrare i giovani. È necessaria un’alternanza costante. Il precariato è una deformazione patologica del principio della flessibilità, che va restituito alla sua fisiologicità. Un governo   che crede nella flessibilità, e non nella sua patologicità, deve trovare gli strumenti”.
BELLA BOTTA, non c’è che dire, ma Marianna Madia deve averci fatto il callo. Non tanto per la cattiva stampa che la perseguita fin da quando Walter Veltroni la piazzò capolista del Pd nel Lazio strappandola, per così dire, ad una verde carriera da ricercatrice all’Arel di Enrico Letta. E nemmeno per la tenera sbadataggine che la portò, volendo illustrare la riforma del lavoro di Matteo Renzi, a sbagliare palazzo finendo per illustrarla all’allora ministro dello Sviluppo Flavio Zanonato anziché al legittimo titolare della materia, Enrico Giovannini, ministro del Lavoro di Enrico Letta, appunto.Ci ha fatto il callo perché è, in sostanza, l’unico ministro dell’attuale governo che viene criticata praticamente ogni volta che parla.
Ieri, per dire, anche se pochi l’hanno notato, è successo due volte: la prima da parte di Giannini, la seconda di Deborah Serracchiani. E sempre per la stessa intervista. “Sto incontrando i sindacati di categoria. Spero collaborino”, ha detto il ministro della P.A., lasciando intendere che il loro parere favorevole è benvenuto quanto non necessario. Sul punto è intervenuta la vicesegretario del Pd via comunicato stampa: “Credo che sulla concertazione si sia sollevato un dibattito più grande e più acceso di quanto sia effettivamente in gioco”. E ancora: “Non c’è mai stata alcuna chiusura   al dialogo”. Piccole sfumature, ma significative.
Ma questa, peraltro, non è nemmeno la prima volta che il ministro Madia si prende il cazziatone da un collega. Martedì 18   marzo, intervistata su LaStampa, s’era scagliata su quel “milione e mezzo di persone” che “cumula lavoro e pensione”. Apriti cielo. Giuliano Poletti, ministro del Lavoro in quota coop rosse, se l’era presa a male: “Non credo sia giusto che i pensionati non possano più lavorare. Credo che bisogna trovare delle modalità nuove che consentano ad ogni persona di avere una cosa da fare”. Se Madia è sfortunata con le rettifiche dei colleghi, Giannini è smemorata: come le ha ricordato quel cattivone di Bruno Tabacci, a luglio scorso Scelta Civica - il suo partito - aveva sottoscritto un emendamento che chiedeva giusto 100mila prepensionamenti nella P.A. in cambio di assunzioni di giovani under 30.

il Fatto 30.3.14
Disarmanti
F-35, Renzi li taglia Pinotti li tiene


Tagliamo, non tagliamo, tagliamo, non tagliamo. Venerdì sera Matteo Renzi a Bersaglio Mobile su La7 ha detto: “Le spese militari in Italia vanno ridotte. Punto. E noi le riduciamo. Obama si arrabbia? Ha fatto la stessa cosa. Come le riduci? Abbiamo un calendario triennale”. E sugli F-35? “Quando la commissione sugli F-35 avrà chiaro cosa si può fare - ha risposto - vi diremo qual è la riduzione su quel capitolo”. Nello stesso giorno, il ministro della Difesa Pi-notti aveva detto che dai piani già sottoscritti non si tornava indietro. Il balletto continua.

l’Unità 30.3.14
Basta sparare sul sindacato
di Claudio Sardo


SPARARE CONTRO IL SINDACATO E LE PARTI SOCIALI È DIVENTATO UNA MODA. UNA VARIANTE DELLA RETORICA ANTI-CASTA che regala consensi a buon mercato e magari illude politici, tecnocrati e oligarchi di costruirsi un alibi per ciò che non hanno fatto o hanno fatto male. Sindacati e parti sociali hanno certamente colpe, ma si può onestamente dire che sono loro i veri impedimenti allo sviluppo del Paese? Colpisce che anche una persona equilibrata e seria come il governatore Ignazio Visco abbia ceduto alla demagogia, e addirittura gettato le rappresentanze sociali nel girone infernale della burocrazia obesa e lenta, della legislazione farraginosa, delle corporazioni che frenano la mobilità. Colpisce, e al tempo stesso allarma: a quale sviluppo si pensa se bisogna escludere i sindacati dei lavoratori e delle imprese?
La concertazione non è un dogma. Ma può essere un’opportunità per un Paese che molto deve fare, e in molti settori, per riacquistare competitività e fiducia. La concertazione non è più praticata dagli anni Novanta, quando consentì all’Italia di evitare la bancarotta. Perché attaccare la concertazione se non esiste più da tempo? Perché gettare la croce sui sindacati quando hanno appena sopportato persino la scure di Monti e Fornero pur di proteggere il debito dello Stato dalla minaccia della speculazione finanziaria? C’è qualcosa di preoccupante in quest’offensiva politica, che non riguarda banalmente il bon ton. Il tema è un altro: qual è la visione, qual è la prospettiva delle riforme strutturali che si intendono attuare? L’interrogativo va posto anche al governo, visto che, non di rado, si concede anch’esso alla retorica contro il sindacato e i corpi intermedi.
La causa principale della crisi economica e sociale sta nelle politiche restrittive che l’Europa si è data. Svalutazione del lavoro, tagli agli investimenti, precarizzazione, contenimento dell’inflazione, delocalizzazione della manifattura: la politica liberista e anti-keynesiana che già aveva colpito il modello sociale europeo prima del crac di Lehman Brothers, è stata in seguito incrementata e non cambiata. A ciò si aggiunge l’inefficienza specifica del sistema-Italia, i suoi ritardi storici, le storture, i poteri sclerotizzati, i privilegi: quali investimenti esteri possiamo pretendere se la nostra giustizia civile è al collasso? Quale sviluppo possiamo progettare nel Sud se l’ipoteca della criminalità è così grande? E’ chiaro che questo extra-deficit va aggredito. E’ persino più importante del contenimento del deficit pubblico. Ma dobbiamo superare l’handicap per avere più forza nel cambiare la politica europea, non certo per adeguarci alla linea che sta mandando tutti alla malora.
Se le nostre riforme strutturali resteranno la precarietà del lavoro, i tagli sommari alla spesa pubblica, la penalizzazione degli investimenti, insomma la continuità sostanziale con la linea di austerità, allora sarà inevitabile lo sgretolamento del modello sociale europeo. Cioè di quell’insieme di diritti, welfare, imprenditorialità, sussidiarietà che compongono l’idea stessa di democrazia e la nostra Costituzione materiale. Se le riforme strutturali sono queste allora si capisce il perché di un attacco così brutale ai sindacati e alle parti sociali.
Una nuova stagione di crescita dipende invece dalla capacità di «cambiare verso» alla dottrina dominante. E per fare questo non si può rinunciare alla «società di mezzo ». Un governo e una classe dirigente riformatori devono ricostruire la società di mezzo, rinnovarla e rafforzarla. È questa la sfida della sinistra europea. Si può, si deve chiedere al sindacato di cambiare. Anche di andare oltre la rappresentanza e gli interessi dei lavoratori stabili. La frattura che si è creata nel mondo del lavoro è una lacerazione che non può lasciare tranquillo nessuno.
Ma come non vedere che la delegittimazione delle rappresentanze sociali è funzionale al mantenimento delle politiche regressive? La classe media, bombardata dalla crisi, sta retrocedendo e con essa la stabilità delle stesse istituzioni. Il nesso è stringente. La possibilità dei lavoratori di accedere alla classe media è l’ancoraggio più solido della democrazia. Viceversa la polarizzazione delle ricchezze, delle sicurezze sociali, delle opportunità apre varchi spaventosi al populismo e alle derive autoritarie. Catastrofi già accadute nel Novecento. I corpi intermedi - tutti, dalla famiglia al volontariato, dalla cooperativa al sindacato, dall’associazione di categoria al partito - sono il telaio di qualunque società intenda definirsi come una nazione. Come si può passare dal welfare state al welfare community senza corpi intermedi significativi e rappresentativi? Dei sindacati c’è bisogno: piuttosto il governo si impegni per garantire una vera rappresentanza democratica nei luoghi di lavoro. C’è bisogno delle associazioni degli industriali, così come è bene favorire il lavoro comune dei «piccoli» anziché compiacersi delle divisioni tra mini-imprese, commercianti e professionisti. È giusto sferzare tutti di fronte alle chiusure corporative. Ma senza la società di mezzo non si consolideranno né le riforme, né lo sviluppo. Non si libereranno gli spiriti animali del capitalismo: sarà semplicemente esaltato l’individualismo e l’egoismo. E il ceto medio regredirà. Senza solidarietà non ci sarà neppure un scatto di efficienza. Faremo altri passi indietro, anche se li chiameremo riforme strutturali.

il Fatto 30.3.14
Destra e sinistra non esistono più
risponde  Furio Colombo


CARO FURIO COLOMBO, ormai si dice, come per le stagioni, che non ci sono più destra e sinistra. Che non fa differenza Ingrao o Alfano. È possibile? È vero? Gino
CI SONO DUE MONDI DIVERSI, quello dei fatti (non tutti i fatti possibili, solo quelli che sono accaduti e che accadono in Italia). E quello delle idee, che si evolvono, ma non si cancellano. Nel mondo dei fatti è vero che, negli ultimi venti anni, gli anni di piena egemonia berlusconiana, la parte definita "sinistra" dalla Storia e dalla persuasione comune, ha cominciato a provare prima timore, poi rispetto, infine attrazione sempre meno resistibile verso la destra. Non la destra del capitale e del mercato. Piuttosto la destra di Berlusconi fondata sulla illegalità come scorciatoia autorizzata (se hai il potere) al fine di risolvere a tuo vantaggio (che arrivi a immaginare come vantaggio di tutti) un tuo problema. Potremmo chiamare “Penati Point” (sto ispirandomi al titolo di Antonioni “Zabriskie Point”) il tempo e il luogo decisivo di una vera e propria svolta della sinistra verso il mercato. È la svolta che sboccherà nelle “Grandi Intese”, un misterioso patto senza partiti e senza popolo che liquiderà in un giorno decenni di vita e di confronto politico (e anche di lotta) della Resistenza e del dopo Resistenza, stabilendo un saldo e leale legame con l'illegalità organizzata. Quel patto dura ancora ed è onorato persino nelle forme (titoli, riguardi, attenzioni giornalistiche ma anche protocollari, fino al punto che un condannato, purché sia di destra illegale, può guidare una delegazione di partito al Quirinale). E perciò è ragionevole dire che, nella parte grande e vistosa dello schieramento politico italiano, destra e sinistra non esistono più, ovvero le parole che si riferivano a quella distinzione sono senza senso perché non corrispondono a fatti reali. La questione delle idee, invece, è completamente diversa. Nessuno ha – o potrebbe – aver abolito, ovvero cancellato, la sinistra come impegno per un mondo fondato sulla uguaglianza come punto di partenza e di giustizia come punto di arrivo, con il divieto di abbandono dei deboli a qualsiasi titolo. Contro la leggenda del sistematico fallimento dell’uguaglianza come fondamento politico, e del sicuro trionfo del mercato, ci sono gli esempi di tre clamorosi salvataggi degli Usa: il New Deal “socialista” di Roosevelt, dopo lo sperpero disastroso di Hoover, il clamoroso recupero di Clinton, dopo le spese pazze militari e il cratere contabile lasciato da Reagan, e la capacità di Barack Obama di salvare banche e imprese industriali (l'industria in rovina dell'auto) e di garantire almeno in parte il diritto di tutti alle cure mediche, dopo due guerre immensamente costose perdute da Bush junior. Ecco, persino ai giorni nostri, segnati da confusioni profonde, nessuno direbbe che non c'è alcuna differenza fra le idee di Reagan e dei Bush e quelle di Clinton e Obama e che non serve distinguere. Certo, se Clinton avesse chiesto a Bush di co-governare e Obama si fosse associato con quelli del Tea Party, saremmo costretti a dire che ogni distinzione è finita. Ma non è accaduto. E il contrasto americano fra “liberal” (sinistra) e conservatori fondamentalisti (la nuova destra) è durissimo, profondo e non rinunciabile. Dunque il problema esiste. Ma è solo italiano. Ed è accaduto in una zona d'ombra della nostra vita politica, che non ha niente a che fare con la volontà popolare.

l’Unità 30.3.14
Lucia, sfigurata con l’acido All’ex 20 anni di carcere
Luca Varani fu il mandate dell’aggressione all’avvocatessa di Pesaro
14 anni per gli esecutori materiali. Applausi alla lettura della sentenza
di Salvatore Maria Righi


Il massimo della pena prevista dal rito abbreviato, il massimo che aveva chiesto il pm. Ma anche una condanna molto dura in senso assoluto e che in Italia non capita molto spesso: Anna Maria Franzoni, per dire, prese 16 anni per l’omicidio del piccolo Samuele. Una sentenza che è un pugno di ferro, in questa storia un po’ da uomini che odiano le donne in versione italiana, agghiacciante come solo può esserlo la realtà nel superare la fantasia. Eppure non è nei 20 anni di carcere stabiliti dal giudice per il suo ex fidanzato che Lucia Annibali troverà la forza di far ripartire la sua vita.
L’incubo, ha ribadito anche ieri dopo la lettura della sentenza nel tribunale di Pesaro, per lei è finito proprio quando pareva cominciasse: nel divorare parte del suo viso, costringendola ad un calvario di operazioni e ricoveri, l’acido l’ha paradossalmente liberata dalla sua prigione. «Nessun rancore, ora penso alla mia vita» ha esordito la donna dopo la pronuncia del Gup di Pesaro, Maurizio Di Palma, che nella quarta udienza a porte chiuse (dopo una breve camera di consiglio) ha condannato per stalking e tentato omicidio Luca Varani, avvocato e collega di Lucia, oltre che ex fidanzato. Condannati a 14 anni, invece, tanto quanto era stato chiesto dal pm Monica Garulli, gli albanesi Rubin Talaban e Altistin Precetaj, accusati di essere rispettivamente l’esecutore materiale e il “palo” nella spedizione punitiva che il 16 aprile di un anno fa si è consumata nell’abitazione di Lucia, al suo ritorno a casa la sera. Un raid di rara crudeltà che si è concluso con le gravi ferite riportate dalla donna, costretta a lunghe e complicate cure presso l’Uoc, Unità operativa complessa di chirurgia plastica e del centro ustioni dell’ospedale Maggiore di Parma.
«Non c’è niente che potrà ripagarmi per questo enorme dolore ma dentro di me ho coltivato sentimenti positivi, non ho rabbia nè rancore. L’ustione mi ha insegnato a esser molto ottimista nella vita perché quando ti tolgono tutto cogli il bello» ha spiegato Lucia Annibali, aggiungendo che «è giusto che chi ha commesso questo scempio sia punito nel modo in cui il giudice ha ritenuto adeguato. Ora ho il desiderio di riprendere la mia vita e di non dare soddisfazione a nessuno. Ho cercato di resistere in questi mesi per la mia famiglia. Rimane comunque una vicenda molto tristezza. Io vado avanti come sempre, con la mia famiglia e i miei amici. Io vado avanti» ha raccontato Lucia che ha ricordato «uno dei momenti più belli è stato quando mi sono alzata dal letto dopo un mese e mezzo e ho ritrovato la vista». Poi ha confessato che ora vorrebbe solo «godersi un po’ di vita». Quella che vita da quella sera è diventata più libera e preziosa, spiega lei, suo malgrado diventata un simbolo della lotta al femminicidio e contro la violenza sulle donne. Così, nel novembre scorso, è arrivata l’onorificenza di Cavaliere della Repubblica dal presidente Napolitano. «Mi sento viva più di prima» aveva confidato Lucia stringendo la mano di Giorgio Napolitano. «La forza è dentro di me assieme al desiderio di riconquistare quello che qualcuno voleva sottrarmi». «La sentenza per l’aggressione a Lucia sia rivolta a tutti e non sia considerata come una pena comminata esclusivamente a questo caso» ha commentato Antonella Pompilio, responsabile dell’Udi di Pesaro-Urbino, l’associazione delle donne che segue la vicenda di Lucia. «Un messaggio all’opinione pubblica» ha aggiunto Antonella Pompilio,
BATTAGLIA IN AULA
Secondo l’avvocato Francesco Coli, il legale di Lucia, «i difensori cercheranno di smontare l’accusa ma non penso che in grado di appello possa subire ritocchi significativi, neppure in termini di pena. È stata data una pena mai vista nel nostro sistema. Comunque andremo ad Ancona e poi a Roma. Gli avvocati della difesa devono vergognarsi ». «I postumi di Lucia non sono ancora stabilizzati» ha aggiunto l’avvocato, riferendosi all’undicesima operazione chirurgica cui dovrà sottoporsi la donna la prossima settimana. l giudice ha stabilito che i danni saranno liquidati in una separata causa civile. Intanto sono stati stabiliti 800mila euro di provvisionale per Lucia. «Ricorreremo in appello sicuramente. Questa è una pena che non ha precedenti nel nostro sistema» ha detto Roberto Brunelli, uno dei difensori di Luca Varani. Lucia Annibali, avvocato, era rientrata a casa la sera del 16 aprile quando nell’androne del palazzo fu avvicinata da un uomo che le gettò acido sul viso. Fu proprio lei a fare il nome del collega ed ex fidanzato Luca Varani, prima di essere portata all’ospedale in condizioni gravissime. La relazione tra i due era finita nell’autunno del 2012, ma Varani, nonostante avesse ormai un’altra donna e fosse con lei in attesa di un figlio, non si era rassegnato alla fine del rapporto con Lucia. Proprio lui è stato giudicato colpevole di aver organizzato l’agguato alla donna, messo in pratica dai due albanesi che furono catturati nei giorni seguenti. Varani si era difeso sostenendo che quella sera era impegnato in una partita di pallone, un alibi spazzato via dalla decisione del giudice di Pesaro.

Repubblica 30.3.14
Quel messaggio ai violenti: da oggi nessuno può sperare nell’impunità
di Michela Marzano



«LA SENTENZA è giusta. Anche se nulla potrà ripagarmi». È con queste parole che Lucia Annibali ha commentato la sentenza di condanna del suo ex fidanzato, che aveva pagato due sicari per aggredirla con l’acido. Vent’anni di reclusione per stalking e tentato omicidio, come era stato richiesto dal pubblico ministero. Per punire in modo esemplare un crimine esemplare. E mostrare così, speriamo una volta per tutte, che la violenza contro le donne non può restare impunita, che gli uomini violenti non possono più farla franca, che la giustizia, anche in Italia, può fare il proprio lavoro. Certo, nulla potrà mai ripagare Lucia per la sofferenza e l’umiliazione subite. Nulla potrà mai ridarle quello che ha perso per sempre. Nulla potrà cancellare quei mesi di lotte per non lasciarsi travolgere dal dolore ed andare avanti. Ma, adesso, Lucia non sarà più solo un simbolo delle violenze contro donne. Sarà anche il simbolo di una giustizia che, senza cadere nella trappola della vendetta, riconosce alle vittime della brutalità maschile il diritto di essere prese sul serio. Certo, il dramma delle violenze che tante donne subiscono quotidianamente non si risolve solo attraverso la punizione. Come accade ogni volta che si è di fronte ad un problema strutturale, per affrontare adeguatamente questa piaga contemporanea è necessario anche cominciare ad agire sulle cause, organizzando un serio piano di prevenzione. Si dovrà, prima o poi, affrontare concretamente la questione della riscrittura della grammatica delle relazioni affettive, insegnando a tutti, fin da piccoli, la necessità del rispetto dell’alterità e della dignità di ogni essere umano, indipendentemente dal sesso, dal genere o dall’orientamento sessuale. Si dovranno finanziare i centri anti-violenza e proteggere le vittime. Si dovrà trovare il modo per aiutare quegli uomini che, rendendosi conto della propria incapacità a controllare l’aggressività e la frustrazione, cercheranno il modo per evitare di passare un giorno all’atto. Ma come fare a portare avanti strategie di questo tipo se non c’è prima l’azione effettiva e simbolica della legge che interviene per punire i colpevoli?
Condannare i colpevoli e applicare la legge è il primo passo per lottare contro le violenze di genere. Non tanto e non solo per riparare i torti, perché quelli, molto spesso, non possono essere riparati. Quanto per dare a tutti un segnale chiaro e preciso: ci sono cose che non si fanno, crimini che la nostra società non è disposta a tollerare, gesti che saranno duramente sanzionati. Nulla è peggio del sentimento di impunità, quel “tanto poi non succede niente” che ha fino ad ora permesso a tanti uomini violenti di continuare ad agire come prima, di non rimettersi mai in discussione, di pensare che non ci fosse nulla di male a perseguitare o picchiare una donna, a deturparla col l’acido o ad ucciderla. Troppe volte gli uomini maltrattanti ne sono usciti indenni. Troppe volte le donne vittime non sono state ascoltate. Troppe volte sono state lasciate sole, talvolta anche rese responsabili di quanto stavano subendo.
Lucia Annibali porterà per sempre con sé i segni della violenza subita. Quell’acido ricevuto in pieno viso per deturparne i contorni e le forme. Quella volontà di cancellarne la specificità, costringendola all’anonimato dell’informe. Ma sarà anche, e per sempre, il simbolo della capacità che tante donne hanno di battersi e di andare avanti per riconquistare la propria soggettività. Sarà anche, grazie alla sentenza di ieri, il simbolo di una giustizia che accoglie e riconosce veramente il dolore delle vittime, punendo i carnefici in modo esemplare.

La Stampa 30.3.14
Annibali: “Ho capito che si può tornare a vivere anche se non si è perfetti”
Lucia: “Alle Europee con il Pd? Ora non ci penso”
intervista di Grazia Longo

qui

l’Unità 30.3.14
Ma possiamo chiamarlo ancora «Belpaese»?
Asfalto e cemento, il consumo di terreno in Italia non si arresta
Per ogni abitante ci sono 343 metri quadrati di terra coperta
di Vittorio Emiliani


Si parla tanto di ridurre l’avanzata combinata di asfalto+cemento, ma l’avanzata continua, disastrosamente. Il rimedio? Accusare di «ipertutela » le Soprintendenze e altri organismi che tentano di arginare, con scarsi mezzi e pochi tecnici, l’irruzione nel paesaggio italiano di nuove «villettopoli », «capannopoli», «fabbricopoli », anche nelle zone vincolate, persino nell’alveo o nelle aree alluvionali di fiumi e torrenti.
Gli ultimi dati forniti dall’Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale (Ispra) sono a dir poco spaventosi. Già nel 2010 (lo mostra con drammatica evidenza la cartina a colori che pubblichiamo) il Belpaese appariva per buona parte - specie nelle aree metropolitane - impermeabilizzato: rispetto al 1956, nonostante l’aumento di popolazione non sia stato altissimo, l’occupazione di suoli per lo più agricoli è invece passata, in media, dal 2,8 al 7%circa del suolo nazionale, con alcune regioni galoppanti oltre il 9 e percentuali disastrose nelle aree metropolitane.
Per ogni italiano c’erano già, nel 2010, ben 343 metri quadrati di suolo sepolto sotto la coltre di asfalto+cemento. Tutto ciò mentre la Germania aveva adottato con una legge Merkel criteri restrittivi efficaci e altrettanto faceva nel Regno Unito il governo Blair.
L’AVANZATA
Da noi invece questa avanzata del cemento - che ora si vuole senza paletti, senza freni in omaggio alla «modernità » - non ha ancora trovato alcun argine legislativo, né nazionale né regionale, e prosegue inarrestabile. Fra 2010 e 2012 Lombardia e Veneto hanno superato infatti il 10 %di suolo impermeabilizzato, Emilia-Romagna, Campania, Lazio, Puglia e Sicilia sono fra l’8 e il 10 %. Cifre agghiaccianti se si pensa che il consumo di nuovi suoli liberi si concentra in pianura e lungo le coste. I Comuni più cementificati risultano Napoli col 62,1 % seguita da vicino da Milano, Torino, Pescara, Monza, Bergamo e Brescia.
Con danni incalcolabili al paesaggio e alla sua bellezza, ma pure alla salute idrogeologica già precaria e a quella di noi abitanti. È l’Ispra a sottolineare infatti che la trasformazione di terreni agricoli o boschivi in asfalto+cemento porta con sé altri guasti terrificanti: a) i suoli resi impermeabili da asfalto e cemento non fanno più filtrare almeno 270 milioni di tonnellate d’acqua all’anno che si riversano dove possono con allagamenti e alluvioni crescenti; b) aumentano i costi di gestione del territorio dal momento che ogni singolo ettaro di suolo «consumato» comporta una maggiore spesa di 6.500 euro per fognature, canalizzazioni, manutenzioni varie, con 500 milioni di costo in più; c) le produzioni agricole si riducono per milioni di tonnellate, con minori ricavi annui per circa 90 milioni; d) la cementificazione galoppante immette nell’atmosfera 21 milioni di tonnellate di CO2 per un costo complessivo stimato sui 130 milioni annui.
«Nonostante la crisi», osserva l’Ispra, «è ancora record» nei consumi di suolo: perdiamo 8 metri quadrati al secondo. E non soltanto a causa della nuova edilizia, ma in forza di strade asfaltate, parcheggi, piazzali, aree di cantiere, centri commerciali, capannoni industriali, ecc. Con chi prendersela? Ma con le Soprintendenze che «bloccano tutto» (?), con la burocrazia che non concede, oplà, all’istante i permessi per costruire dove e come ciascuno vorrebbe, con le Autorità di bacino che si oppongono (come possono) a quanti vogliono edificare ancora in aree alluvionali o nell’alveo dei corsi d’acqua… . Quando ci sono alluvioni - e ormai ce ne sono sempre più - subito si accusa lo Stato di non fare abbastanza. Gli alluvionati intervistati da emozionati telecronisti esprimono la loro rabbia contro i governi, la politica, i politici e così via. Ma, guarda caso, gli stessi hanno, otto volte su dieci, costruito illegalmente le loro case o villette (diecimila, secondo uno dei pochi bravi giornalisti a denunciarlo, Ernesto Menicucci del «Corriere della Sera», a Roma verso il mare, fra Infernetto, Axa e dintorni), le hanno alzate «vicino al fiume» (eufemismo televisivo), o le hanno comprate da speculatori criminali.
RIMEDI
Come rimediare a tutto ciò? Anzitutto - va chiesto con forza al neo-ministro Dario Franceschini - sbloccando e rendendo vincolanti i piani paesaggistici che da anni dovrebbero essere redatti insieme da Ministero e Regioni e che invece dormono nel disastro generale.
La sola Toscana - difatti il suo presidente Enrico Rossi non considera (l’ha scritto su questo giornale) le Soprintendenze «una intrusione», al contrario - sta discutendo meritoriamente in Consiglio piano paesaggistico e nuova legge urbanistica. Bisogna inoltre potenziare il personale tecnico delle Soprintendenze: appena 487 architetti per 141.358 Kmq di territorio soggetto a vincoli, 1 ogni 290 Kmq, con centinaia di migliaia di progetti autorizzati da Comuni e Regioni da vagliare.
Invece si vogliono ridurre ancora di più controlli e tutele. Con una politica che ci pone fuori dall’Europa più civile. Ma, ovviamente, pretendiamo che altri milioni di turisti visitino un Belpaese ridotto sempre più ad asfalto e cemento.
Ma il nostro è un Paese di furbi. O di cretini?

il Fatto 30.3.14
Grandi opere
Variante di Valico La frana minaccia la stazione delle stragi
Si muovono il viadotto dell’A1 e un paesino: a rischio i binari già tristemente noti per l’Italicus e il Rapido 904
di David Marceddu


San Benedetto Val di Sambro (Bologna). Se la terra continua a camminare, la secessione del Paese quassù potrebbe farsi realtà. Non quella ideologica di Umberto Bossi, s’intende. Ma quella infrastrutturale: qui l’Italia rischia di dividersi in due. Perché la Variante di valico potrebbe mettere a rischio le altre grandi opere che da decenni attraversano l’Appennino. Risvegliata dai lavori per la nuova galleria Val di Sambro, la frana che dal 2010 sta facendo muovere il paesino di Ripoli è infatti arrivata a pochi metri dalla stazione ferroviaria di San Benedetto Valdi Sambro. E quelli della Direttissima che passano lassù non sono binari qualunque: sono il teatro di due stragi che hanno segnato la storia della nostra Repubblica. Quella dell’Italicus nel 1974 (12 morti) e la strage di Natale del Rapido 904 nel 1984 (17 morti). Ciò che rimaneva dei treni arrivò sotto quelle pensiline.
Il pilone, alto 40 metri, dell’Autosole si è spostato di 15 centimetri in due anni
Come rivelato dal Fatto il 23 marzo, il viadotto a monte di Ripoli, dove passa l’attuale Autosole Bologna-Firenze, si è mosso di quasi 15 centimetri in due anni e mezzo. I misuratori però segnalano che anche a valle della frazione di San Benedetto Val di Sambro la terra si muove. Tutto sta scritto nelle carte di Spea, società di ingegneria di proprietà di Autostrade per l’Italia, concessionaria della Variante di valico. Mire topografiche piazzate a maggio 2013 ai bordi del parcheggio dello scalo Fs, a poche decine di metri dai binari, segnalano movimenti di quasi tre centimetri verso valle negli ultimi 10 mesi. Pochi metri più a monte le misurazioni sono iniziate ben prima, fin dal novembre 2011, da quando gli abitanti del paese hanno notato le prime crepe sui muri: la mira O-8, per esempio, si è mossa di 18 centimetri tra novembre 2011 e febbraio 2014. Rfi (Rete ferroviaria italiana), interpellata, prova a minimizzare: “Gli studi in corso a cura dell’Università di Bologna non evidenziano, al momento, movimenti tali da compromettere l’agibilità della linea ferroviaria”. I tecnici del servizio geologico della Regione Emilia Romagna, che   da tre anni aggiornano le mappe di Ripoli, la spiegano così: “La stazione e i binari non sono sul corpo di frana, ma su depositi alluvionali di fondovalle. Il colore differente (nella cartina topografica che pubblichiamo in alto è azzurro, ndr) dipende dalla diversa natura dei terreni”. L’enorme macchia di colore rosso sulla mappa, segno di frana attiva, che ora ricopre Ripoli fin su, fino al viadotto dell’A1, l’hanno disegnata loro. Ed esclude solo binari e stazione. “Sono mai state fatte delle misure lì?”, chiediamo. “No. Non ci risulta che vi siano mai stati problemi di alcun tipo sulle linee stesse. Di conseguenza la zona ferroviaria non fa parte del territorio monitorato specificamente per la Variante di valico”. Prima che gli scavi la risvegliassero, la grande frana si muoveva al massimo di 2,7 millimetri l’anno. A stabilirlo è una consulenza che la procura di Bologna ha fatto eseguire per la sua inchiesta. Lunghe indagini sulla quale per mesi hanno lavorato i carabinieri di Vergato, ma per la quale ora i pm hanno chiesto l’archiviazione. Adesso, invece, a Ripoli tutto cammina più veloce. I muri si spaccano, famiglie intere hanno dovuto abbandonare il borgo dalla sera alla mattina. La chiesetta del Duecento, un gioiellino del Medioevo, è stata dichiarata in stato d’allarme secondo le schede Aedes, quelle che si usano dopo i terremoti. Ha camminato per oltre 15 centimetri dal 2011. Ci sono case quassù che sono scivolate per 25 centimetri. Andando dal centro del paese verso la zona chiamata Scaramuzza, che prima dei lavori si muoveva di nove millimetri l’anno, il misuratore A-2 ha segnato movimenti per oltre 80 centimetri da inizio 2011. E nonostante le rassicurazioni non si è ancora fermato.
Il silenzio delle istituzioni dopo una breve  sospensione dei lavori nel 2012  Le istituzioni intanto latitano. Tra il 2011 e il 2012, sotto la pressione di cittadini inferociti e spaventati, Regione e Prefettura imposero ad Autostrade un controllo massiccio affinché a nessuno cadesse in testa il tetto. Ripoli da allora è il paese più monitorato d’Europa. Non c’è casa che non sia controllata al millesimo di millimetro. Ma la frana si muove ancora, anche ora che la galleria della Variante è quasi completa e il danno è fatto. Nel 2012, quando ancora fermare gli scavi poteva significare salvare la situazione, il Consiglio regionale votò unanime lo stop ai lavori proposto dal M5s. La giunta regionale, del Pd, da sempre sponsor politico dell’opera, si presentò da Autostrade con la coda fra le gambe e ottenne giusto una breve interruzione dei lavori. Da allora il silenzio della politica. Rotto periodicamente dalle notizie degli sgomberi. Il 22 marzo il Fatto ha segnalato in un articolo problemi analoghi in un altro tratto della Variante, la galleria Sparvo. La notizia ha spinto i cittadini di Ripoli a far sentire ancora la loro voce: “Le istituzioni dovrebbero prendere atto che le nostre case sono destinate a essere perse. Dovrebbero fare pagare i responsabili per i danni patrimoniali e per quelli alle nostre vite – spiega Dino Ricci, geometra in pensione, ex costruttore di strade, e ora portavoce del comitato civico–Una frana di queste dimensioni, in Appennino non si ferma più”.

il Fatto 30.3.14
Lo scoop del Fatto nel silenzio totale di giornali e tg

UNA SETTIMANA FA il Fatto Quotidiano rivelava, sabato 22 marzo, i problemi della Variante di Valico, con la nuova galleria di Sparvo interessata da un movimento franoso che mette a rischio l’opera. Il giorno dopo, domenica 23, con un reportage da Ripoli, San Benedetto Val di Sambro, sempre il Fatto ha rivelato l’allarme per il viadotto, alto 40 metri, dell’Autosole: si è già spostato, scivolando insieme alla frana sopra Ripoli, di ben 15 centimetri. Già oltre il livello di guardia indicato nel 2012 dalle stesse Autostrade per l’Italia. Sul resto della stampa italiana, nei giorni seguenti, silenzio.

Corriere 30.3.14
Il maestro del carcere minorile a cui Omar affidò la verità
«Arrabbiato con Erika mi disse: l’ho solo aiutata con la madre»
di Marco Imarisio


TORINO — Al suo ingresso in direzione didattica tutte le dirigenti alzarono lo sguardo. «Lei è un maschio!». Non posso negarlo, rispose lui. «Perfetto per il Ferrante Aporti» gli dissero in coro. Era il 9 settembre 1983, e Mario Tagliani credeva che il riferimento delle sue colleghe al santo laico della pedagogia fosse un complimento. Un maestro maschio era ed è ancora una rarità, «più di un Picasso autentico a casa mia».
Le scelte di vita spesso diventano tali per caso. «Pensi che quel giorno, appena arrivato dalla mia Brescia, ero già stato assegnato a una elementare “normale”. Accettai il cambio di destinazione. Non me ne sono mai pentito». A Torino, Ferrante Aporti è sinonimo di un palazzo basso e antico in corso Unione Sovietica. Dal 1829, prima come «Correzionale agricolo pei giovani discoli» sotto il regno di Carlo Alberto, è il carcere minorile del capoluogo piemontese, con il più grande bacino territoriale d’Italia, perché comprende anche Liguria e Valle d’Aosta. Nel 2001 divenne lo sfondo delle centinaia di ore di diretta dedicate al delitto di Novi Ligure, la detenzione dei due ragazzi autori di quell’atrocità, e poi il processo, sempre in quell’edificio austero.
«C’era questo ragazzo, Omar, in isolamento. Immaginavo un bullo. Era un ragazzino dal viso d’angelo, che quando mi vide scattò in piedi rosso in volto: “Buongiorno”. Quando gli proposi di portarlo a giugno senza fargli perdere l’anno mi disse: “Qualunque cosa, purché qualcuno stia con me”. Ogni volta che Omar faceva qualche accenno a quel che era accaduto, mi ritraevo. Sono un maestro, non uno psicologo. “Dai, pensiamo alla scuola” gli dicevo. Un giorno lo trovai furibondo. “Hai visto i telegiornali?” mi chiese. Era indignato. Sosteneva che Erika gli stesse buttando l’intera responsabilità di quell’orrore. Disse, con candore: “In fondo io l’ho aiutata solo con la madre”. Mi cadde il mondo addosso. “Solo con la madre?” gli urlai. “Come rubare la marmellata, no?”. Confesso, non pensai che quella fosse una vera, seppur parziale confessione. Ero sconvolto per il vuoto che vedevo dietro quella espressione neutra. Fu la prima volta che mi sentii incapace di capire».
Tagliani è un uomo semplice, uno di quelli che quando lo chiamano dottore sente ancora il dovere di precisare, «solo diplomato, prego». I suoi trent’anni di insegnamento in un carcere minorile sono finiti tutti in un libro piccolo e commovente, «Il maestro dentro», in uscita presso Add edizioni. Dietro ai muri di quel carcere non c’è solo Omar. C’è la realtà dell’insegnamento in uno dei 17 istituti italiani per minori, che a turno ospitano 500 ragazzi sugli oltre ventimila alle prese con il circuito penale. Il primo fu Rosario, un ragazzo di Mirafiori Sud, furto d’auto, rapina, scippo e spaccio. Veniva dalla Calabria, come la sua famiglia. Emigrazione interna. «Scappava, tornava. Sapevamo sempre dove trovarlo». Aveva una casa, una madre sempre incinta, con lividi su tutto il corpo causati da un padre che si era licenziato per avere la liquidazione e la spendeva al bar. «Avevano comunque una identità, non solo anagrafica. Si riusciva a trovare un linguaggio comune». Non lo salvò, perché non sempre c’è salvezza. L’Aids lo portò via in un pomeriggio di estate, sul letto d’ospedale dell’Amedeo di Savoia. «Morì parlando della sua terra, il ricordo di quando era bambino, cortili assolati e tramonti aperti».
All’improvviso apparvero i ragazzi che vedevano l’Italia come l’America e venivano dall’Albania. Quelli come Amir. Sul giornale lo avevano definito il capo dell’Arancia meccanica. Due mesi in classe senza dire una parola. Eppure, la coppa più grande di tutte nell’ufficio di presidenza l’ha vinta lui. «Era un concorso nazionale sulle prospettive degli adolescenti “difficili”. Lui scrisse la sua personale teoria. In Albania il primo premio della lotteria nazionale è un biglietto aereo per l’Australia con permesso di soggiorno. Che futuro può avere un Paese che offre speranza solo nella fuga?». Adesso è l’epoca dei ragazzi Alias, senza nome, con tanti nomi. «L’Italia per loro è al massimo uno strumento, quasi sempre un luogo di passaggio. Quel che gli interessa è fare soldi da spedire a casa. Spariscono nel nulla, anche perché oggi fuori c’è il nulla. La funzione rieducativa del nostro carcere, e le misure alternative alla detenzione, erano pensate per chi voleva davvero rimanere, inserirsi. Non funzionano più».
Il carcere minorile è un mondo dove la domenica scoppia la rissa per le sigarette che alla fine della settimana sono merce rara. «Ma quando proprio ce n’è una sola, vedi venti ragazzi che fanno educatamente la coda per fare un tiro». Ma è diventato anche il posto dove quando Omar esce dall’isolamento diventa un idolo. «Con i racconti di bella vita, immaginaria o reale, incarnava il sogno dei suoi compagni stranieri di detenzione». Sono cambiati i codici di accesso, alcuni restano sconosciuti. L’unica certezza è che domani il maestro Mario tornerà in classe. Non è detto che gli alunni saranno gli stessi. Ma ne vale comunque la pena. «Questo è ancora uno dei mestieri più belli che esistano. Ti permette di guardare il mondo che cambia e passa. Solo che a differenza degli altri, io l’ho fatto da dentro le mura, chiedendomi spesso com’era la vita fuori».

La Stampa 30.3.14
La guerra di Piero
Usciva nell’aprile 1924 il saggio con cui Gobetti tentò l’ultima battaglia contro il fascismo
di Angelo D’Orsi


Ricordare i novant’anni della Rivoluzione liberale, l’aureo libretto di Piero Gobetti (apparso nell’aprile del 1924) significa ancora una volta affacciarsi sul «prodigioso giovinetto» (l’etichetta, celebre, è di Norberto Bobbio). Il volume era una raccolta di articoli apparsi nell’omonimo settimanale, il cui il primo numero era uscito il 12 febbraio 1922 (l’ultimo il 1° novembre ’25). Piero non aveva neppure ventun anni, essendo nato il 19 giugno 1901. Era la sua seconda rivista, dopo le prove di Energie nove, avviata, diciassettenne, ai tempi del liceo; una terza, intitolata, con scelta significativa, all’illuminista piemontese Baretti, apparve il 23 dicembre 1924, e fu continuata da un gruppo di amici, dopo l’improvvisa morte del fondatore, sino alla fine del 1928. Nel frattempo c’era stato il rapporto con Antonio Gramsci, e la collaborazione come critico teatrale all’Ordine nuovo, nel 1921-22, ma già nel 1920 Piero aveva guardato agli operai in lotta nella Torino industriale come a un contropotere nascente, speranza della rivoluzione italiana, che peraltro egli, suscitando sconcerto tanto tra i liberali quanto tra i socialisti, si ostinava a chiamare «liberale».
La rivoluzione liberale settimanale fu lo stendardo di una disperata intransigenza, proprio quando a molti la vittoria fascista pareva inevitabile: una delle voci più forti e coraggiose dell’antifascismo militante, che denunciò la viltà del ceto politico e l’abiezione di quello intellettuale «vile razza bastarda», pronta a saltare sul carro del vincitore. Gobetti tuttavia non smise i panni a lui congeniali dell’organizzatore culturale, mettendo a frutto l’esperienza fiorentina della Voce, rifiutando però il cinismo di Prezzolini (famoso lo scontro fra i due: a Prezzolini che teorizzava la «società degli apoti», una sorta di prefigurazione del nostro «cerchiobottismo», Gobetti rispondeva proponendo, contro il fascismo, «la compagnia della morte»). Ma tutta l’opera di Gobetti non sarebbe pensabile al di fuori di Torino, la «città seria» lodata da Gramsci, la città «positiva», permeata dalla cultura del rigore, dove la «civiltà dei produttori» raggiungeva il suo culmine; la città dove l’università mostrava una vocazione civile, in un fecondo interscambio con la politica, il giornalismo, l’editoria. Fu una fabbrica di menti eccelse la facoltà giuridica dove Piero si laureò nel ’22, con «il maestro dei maestri», Gioele Solari (nella stessa sessione, con Solari, troviamo Alessandro Passerin d’Entrèves, e, negli anni seguenti, una straordinaria schiera, che annovera Bobbio e Firpo).
Non scelse l’accademia, Piero, troppo grande era il fervore politico; ma volle essere studioso, oltre che giornalista e editore: «Penso a un editore come a un creatore», scriveva. E all’editoria affidava il compito di suscitare «un intero movimento di idee». Le intimidazioni, le censure, le percosse si intensificavano: Mussolini ordinò di «rendere difficile vita questo insulso oppositore di governo e fascismo». Poche settimane prima del delitto Matteotti, nell’aprile 1924, nella «Biblioteca di studi sociali diretta da R. Mondolfo», apparve presso l’editore Cappelli di Bologna l’opera che oggi ricordiamo: 162 pagine. Il sottotitolo, Saggio sulla lotta politica in Italia, era un’esplicitazione del significato che l’autore annetteva al libro: l’ultima dichiarazione di guerra al fascismo che infatti la raccolse, distruggendo quasi tutte le copie nel magazzino dell’editore. Ma era anche il tentativo di capire la genesi del movimento mussoliniano, il punto finale dei mali dell’Italia, la sua triste «autobiografia».
Gobetti stabiliva un canone interpretativo sovente riproposto, specie in epoca recente quando da più parti si è creduto di vedere nel berlusconismo una nuova «autobiografia della nazione». La capacità di sintetizzare in formule efficaci le sue analisi, tanto da apparire una sorta di formidabile copywriter («Risorgimento senza eroi», «paradosso dello spirito russo», e la stessa «rivoluzione liberale»), ha favorito la fortuna di Gobetti, lasciandoci una spigolosa e insieme feconda eredità di un pensiero non giunto a compimento, gravido di spunti, tensioni e paradossi. Nessun suo coetaneo ha inciso così profondamente, sia pure in modo erratico, non tanto nel proprio tempo, quanto in quello a venire.
All’epoca il lavoro febbrile dell’«allievo maestro» (così Augusto Monti, avviando la costruzione del mito), aveva già permeato il tessuto culturale torinese, tanto che si può parlare di un’«aura gobettiana», che ritroviamo in tante iniziative culturali nella città che, orfana dei due dioscuri (Gramsci e Gobetti), sarebbe rimasta per qualche tempo una capitale intellettuale. Questo è il lascito fondamentale gobettiano; ma, sul piano etico-politico, la sua battaglia, condotta sulle colonne del settimanale - poi riprese nella loro parte meno d’occasione nel libro che con felice intuizione ne ripeteva il titolo - è quella più fascinosa, se ancora oggi, per esempio, nell’università che fu sua (quantum mutata ab illa!), un gruppo di studenti avvia un seminario autogestito dedicato al pensiero di Gobetti. Nel ’68 si facevano su Marcuse e i «francofortesi»… È forse proprio la tensione morale che anima tutte le sue pagine, oltre che la stessa vicinanza ideale (un giovane che si contrappone ai vecchi, un «provocatore» che dà scandalo con la formula quasi ossimorica della «rivoluzione liberale», un irregolare rispetto alla cultura e alla politica), a suggestionare i suoi coetanei di un secolo dopo, in tempi di «silenzio degli intellettuali».

La Stampa 30.3.14
Straordinaria Ada che gli mandava tanta vita
Una biografia della moglie: dopo la sua morte seppe ricominciare e combatté nella Resistenza
di Paolo Di Paolo


C’è stato così tanto, così tanta vita dentro questa vita, che varrebbe almeno cinque romanzi. Cinque romanzi per i suoi cinque talenti: Ada Gobetti musicista, dirigente politica, pedagogista, giornalista, scrittrice. La ragazza dal temperamento romantico appassionata al canto. Piero, il ragazzo di cui è innamorata, le regala uno spartito di Wagner, ma lei preferisce Verdi. Lentamente, senza strappi, lui la porta lontano: verso la filosofia e la letteratura; lei ne soffre, però lo segue. Poi, c’è la giovane donna ferita da un immane dolore: il giovane marito geniale muore a Parigi nemmeno venticinquenne. Ha subìto diverse vessazioni fasciste, si è trovato costretto a lasciare l’Italia appena diventato padre. Lei, sul diario del febbraio 1926, alla notizia della morte di Piero, scrive: «Non è possibile. Non deve essere possibile… Amore mio, creatura, vita mia, non ti sono stata vicina là, nella stanza dell’albergo, nella stanza della clinica, quando più avresti avuto bisogno di me».
Ada è trafitta, ma riesce a rialzarsi: ha poco più di vent’anni, si occupa del bambino, insegna a scuola, traduce dall’inglese, coltiva l’amicizia con Croce - c’è una fotografia bellissima che li ritrae l’uno accanto all’altra: è il 1939, camminano su una strada sterrata fra gli alberi di un bosco piemontese. Ada si è risposata con Ettore Marchesini, che di lì a poco sarà tra i fondatori del Partito d’Azione. Lei stessa entrerà nella lotta partigiana, tutt’altro che da spettatrice: su una minuscola agenda, tra il ’43 e il ’45, prende appunti «in un inglese criptico»: daranno vita a quel Diario partigiano che Einaudi sta per rimandare in libreria (pp. XIX-444, € 15) e offre un autoritratto involontario. Quello di una donna energica, coraggiosa, con un forte senso pratico e un’etica che non conosce cedimenti.
È una storia di giorni tesi eppure carichi di speranza, una storia di armi nascoste, di biciclette che corrono, di uova cucinate in fretta; di angoscia, anche, negli istanti più duri e rischiosi, la «strana sensazione di vuoto nei nervi e nel cuore» quando non ha notizie del figlio Paolo, partigiano anche lui, e non smette di nevicare. Non c’è una sola pagina retorica, non un istante di recita: una donna le chiede a un certo punto di occuparsi di un’organizzazione femminile, «Gruppi di difesa della donna e per l’assistenza ai combattenti della libertà». Lei annota: «Non mi piace; in primo luogo è troppo lungo, e poi perché “difesa della donna” e “assistenza”? Non sarebbe più semplice dire volontarie della libertà anche per le donne?».
Straordinaria Ada. La sua intelligenza e la sua sensibilità saltano fuori da ogni pagina, le sue osservazioni sono semplici e acute, i ritratti efficaci, le descrizioni vivide. Ma Ada è scrittrice già nelle lettere d’amore per Piero, raccolte da Ersilia Alessandrone Perona nel 1991 in quel libro commovente che è Nella tua breve esistenza. Di Ada scrittrice si occupa uno dei saggi raccolti in Ada Gobetti e i suoi cinque talenti (appena edito da Claudiana, pp. 136, € 14,90): Emmanuela Banfo e Piera Egidi Bouchard ricompongono per tessere, attraverso studi e testimonianze, il generoso eclettismo di Ada. Il periodo in cui fu vicesindaco di Torino, il lavoro pedagogico, l’invenzione del Giornale dei genitori, che poi fu diretto da Gianni Rodari; l’attenzione ai cambiamenti sociali: muore nel marzo del ’68 e non si sottrae al confronto con l’Italia che cambia e con le richieste dei giovani («I giovani ci chiedono aiuto e non reprimende»).
«L’ho vista anche piangere, qualche volta - racconta l’amica Bianca Guidetti Serra -, però erano momenti che passavano subito. Allora lei si sedeva al pianoforte e cantava». Ecco: di Ada Gobetti scaldano ancora la fiducia nella vita e negli altri, lo spirito solare, la schiettezza, l’impegno politico risolto non come questione professionale, ma - lo ricorda Goffredo Fofi - come fatto esistenziale. È tra quegli esseri umani che si darebbe molto per aver conosciuto. Non a caso, la frase più romantica che sia mai uscita dalla penna di quell’incredibile ragazzo torinese degli Anni Venti, chiuso di carattere, precocemente proiettato nel lavoro intellettuale, è scritta per Ada: «Una lettera di Didì è la vita sai? Quindi mandami tanta vita». E lei, che sapeva e capiva tutto, dopo la morte di lui: «E penso che tu non vorresti che ti si piangesse, ma che si considerasse la tua vita un capolavoro e un esempio». Anche quella di Ada - semplice, generosa, materna - lo è.

La Stampa 30.3.14
Rivoluzione liberale
Usi e abusi di uno slogan (s)fortunato
di Massimiliano Panarari


Tutti la vogliono, ma nessuno se la piglia. È un po’ questa la condizione della malmaritata «rivoluzione liberale», calata dalla nobile sfera delle idee liberalsocialiste alla assai più prosaica politica reale della Seconda Repubblica, dove, tra usi e abusi, e di slittamento semantico in scivolamento propagandistico, ha finito per mutare di significato.
La formula, nel 1994, viene rilanciata da Silvio Berlusconi, e la bandiera liberal-rivoluzionaria passa così a destra (dove c’è chi annovera Piero Gobetti tra gli ideologi del cosiddetto «gramsciazionismo»). C’era in effetti parecchio di «rivoluzionario» (e postmoderno) per la politica nostrana nella spinta propulsiva del berlusconismo, ma il tasso di liberalismo lasciava alquanto a desiderare, configurandosi come una promessa non realizzata, analogamente a quella a cui si erano invece molto applicati, e ben da prima, i radicali di Marco Pannella, i quali affermavano di utilizzare i loro referendum come grimaldelli proprio per innescare e far esplodere l’insurrezione liberale (e liberista).
A sinistra, nel maggio del 1995, era stato Massimo D’Alema, durante il suo «viaggio iniziatico» presso la City di Londra, ad annunciare una rivoluzione liberale prossima ventura guidata dal Pds; di qui, la reazione di Norberto Bobbio che, dalla prima pagina della Stampa, ritenne opportuno evidenziare l’incompatibilità tra «democrazia» e «rivoluzione», mettendo in guardia dal rischio di ricadere in qualche luogo comune e preoccupandosi pure di quale fine avesse fatto l’antica radice socialista di quel partito. Da allora lo slogan ricompare un giorno sì e l’altro pure nel dibattito politico e culturale nazionale, dall’economista Luigi Zingales a Paolo Guzzanti (direttore dell’omonimo web magazine, «organo del PlI»), da Mario Monti ad Angelino Alfano. Perché non possiamo non dirci liberali (anche se, poi, facciamo un’enorme fatica a esserlo davvero…).

La Stampa TuttoLibri 29.3.14
Il giurista che s’affidò alle leggi di Kafka
di Massimiliano Panarari

Una frequentazione assidua e di lunga data, iniziata, quand’era ventenne, sui banchi della Scuola Normale (e forgiata nella lettura delle opere in lingua originale). Antonio Cassese (1937-2011), uno dei massimi giuristi italiani, è stato un appassionato lettore di Franz Kafka, nella cui opera chi esercita il difficilissimo mestiere di operatore del diritto trova anamorfosi profonde della realtà e alcuni quesiti radicali intorno all’idea di giustizia. Come mostra appunto questo libro originale, Kafka è stato con me tutta la vita, nel quale vengono raccolti gli scritti (prevalentemente inediti) che il giurista consacrò lungo gli anni allo scrittore praghese (e che avrebbero dovuto essere prefati dall’amico Antonio Tabucchi); una testimonianza dell’interesse che Cassese nutriva per la letteratura e per le meditazioni etiche che da essa scaturiscono, nonché una chiave d’accesso al suo «”retrobottega” fatto di riposo mentale dalle fatiche del giorno».
È una scrittura potentissima quella kafkiana, come lo sono le tematiche evocate dalle sue storie: sull’una e sulle altre si costruisce il senso di affinità, di sintonia e quasi complicità del giurista italiano con il grande e tormentato letterato di lingua tedesca. Kafka rappresenta un magnete irresistibile per colui che fu presidente del Comitato del Consiglio d’Europa per la prevenzione della tortura e primo presidente del Tribunale penale internazionale per la ex Jugoslavia in virtù del suo interrogarsi (e interrogarci) sull’inafferrabilità della giustizia e della verità, e del suo descrivere così magistralmente la sofferenza e i sentimenti dell’umanità e, in special modo, la dicotomia tra colpa e innocenza, con i suoi drammatici risvolti.
Il corpo a corpo con l’autore de Il processo e de Il castello ci restituisce un Kafka privo di egocentrismo e narcisismo, la problematica relazione con le donne (e con la propria corporeità), e il sofferto rapporto col denaro, oscillante tra un «atteggiamento “ritentivo”», di parsimonia che sconfinava nell’avarizia (ma dal quale emergeva il bisogno di autonomia, innanzitutto rispetto alla famiglia) e la generosità e l’altruismo nei confronti del prossimo su cui Cassese ritorna a più riprese. In uno dei testi pubblicati, il giurista si sofferma sul motivo kafkiano «quasi ossessivo» (e autenticamente polisemico) della finestra, schermo di protezione col quale entrare, in qualche modo, nella realtà senza esserne minacciati e, pertanto, strumento difensivo, ma anche di morte, mediante il suicidio.
C’è, soprattutto, il saggio Del desiderio di aiutare gli altri, cuore della riflessione del giudice e studioso, nel quale, attraverso l’amato scrittore praghese, affronta i conflitti fondamentali e irrisolti tra l’eterno homo biologicus (col suo io istintuale intriso di sopraffazione e violenza) e l’homo societatis civilizzato, e tra la «disciplina» (vale a dire la legge del Padre e il potere) e la «giustizia». Nel volume troviamo infine l’autobiografico racconto «metafisico»  L’isola dei Bianconi, aperta metafora della leucemia con la quale si trovò costretto a lottare nell’ultima fase della sua esistenza, allegoria non del male umano (quello in cui tante volte si era imbattuto), ma di quello della natura, ed espressione diretta del suo convincimento di una «superiorità» narrativa del racconto, e del «frammento», rispetto alla forma compiuta e conclusa del romanzo.

l’Unità 30.3.14
Tra sogni e satira
Si apre il 6 aprile a Siena la prima mostra antologica dedicata a Sergio Staino
di Maurizio Boldrini


MA QUEL SIGNORE APPOLLAIATO CHE TIENE LA TESTAAPPOGGIATAALMENTO, LASSÙINALTO,SOPRA LA PORTA, chi è? È Bobo, è il protagonista della mostra e al contempo Sergio Staino, l’artista a cui è dedicata la mostra. Fa bene ad essere pensoso, di questi tempi. E non tragga in inganno l’arco trionfale. La storia di Bobo è arcinota: è per questo che il Bobo-Rodin non è l’esaltazione del primato dell’artista ma l’immagine simbolo di una stagione complessa e tormentata. La storia di Bobo così come viene ripercorsa nella mostra e nel relativo catalogo è – l’ho detto – molto nota. Il primo a non stancarsi di raccontarla è proprio l’artista che ha creato Bobo, Sergio Staino: negli innumerevoli incontri con il pubblico, nelle molte interviste e nei convivi tra amici rammenta spesso i momenti nei quali dette alla luce Bobo». (...) Nel ’79, inizia il racconto di Bobo e di quei primi ed eterni personaggi che si muovono attorno a lui o, agendo in piena autonomia, disegnano storie e raccontano la vita quotidiana di un’Italia che vive anni intensi e drammatici. Non a caso, in questa mostra antologica, le prime strisce, realizzate quasi tutte per Linus, quelle che vanno dall’esordio agli anni ottanta, il visitatore le trova subito, entrando nella prima sala del Santa Maria della Scala: da Camping Paradiso (che ottiene un premio a Lucca Comix) a Diario Segreto fino ai primi lavori realizzati per L’Unità. (...)
Bobo non sarebbe Bobo senza la sua famiglia. Quella disegnata e quella reale. In quella disegnata ci sono i familiari stretti (Bibi, Ilaria e poi Michele) e quella larga (il compagno Molotov e la femminista Erna). In quella reale ci sono Bruna, la moglie dolce e sicura, i figli, Ilaria e Michele e ora anche la nipote Sofi a e Lola. Il reale e la sua rappresentazione. Nel suo smarrimento di uomo impegnato, di militante qualche volta orgoglioso e il più delle volte deluso, la famiglia è il vero cemento sul quale poggia la sua resistenza. «La sua famiglia – annota Antonio Tabucchi – è la coscienza critica di Bobo. Lo zoccolo duro. La graziosissima moglie sudamericana, con il suo naso a punta e i capelli sulle spalle, non manca di redarguirlo, anche se sempre con tenerezza, sulla sua ingenuità. I due figli, un ragazzo e una ragazza svegli e disincantati, replicano invece con una certa severità alla sua dabbenaggine. È come se gli dicessero: «Ma insomma, babbo, quando ti deciderai a crescere, non ti rendi conto del mondo in cui viviamo?». Nel 1985 Bobo è ormai un protagonista della satira nazionale (sono già stati editi cinque suoi libri) e già da tempo le sue tavole scandiscono quasi quotidianamente le pagine de L’Unità, dopo aver disegnato agli esordi anche per Il Messaggero. Ma è Cavalli si nasce che fa emergere in Sergio Staino nuove prospettive artistiche. (...). Quel film, quel modo di lavorare dietro la macchina da presa, quel misurarsi con spazi inesplorati e prospettive inedite, crea una nuova sintonia anche sul modo di disegnare: i personaggi assumono anche sulla carta spessore e profondità e le storie diventano articolate e complesse. Il disegno stesso assume una nuova rilevanza. Le tavole, che non a caso in mostra si trovano nella stessa sala del film, lo dimostrano con evidenza: l’avventurosa storia di Capitan Kid composta da 247 strisce e 8 tavole introduttive ai relativi capitoli, pubblicata a puntate su Linus tra l’89 e il 90; il tenero racconto di Cresci Ilaria cresci, 27 strisce sempre per Linus dell’89 e i molti racconti firmati per le pagine de L’Unità come Scusi dov’è il bagno o Segnalazione guasti per finire con Salviamo il soldato D’Alema del 1999, persosi nel Kossovo. (...). La storia nella quale si incrociano il vecchio e il nuovo modo di disegnare è Montemaggio, una storia partigiana pubblicata a puntate su L’Unità e poi, nel 2003, raccolta in volume e ora viene esposta nella sua interezza in una sala della mostra. (...) Ecco le tavole sui paesaggi toscani e le scene delle acque con il celeste e il blu marino che si confondono nelle onde del mar Tirreno, il verde e il marrone delle veglie nei poderi toscani, e ancora i tenui colori delle terre e del mare dell’Elba. Ecco, a seguire, la sezione dove Sogni e Incubi si mescolano, dove i colori smaglianti si alternano al nero china, e al sogno di un mondo e un paese migliore si alternano gli incubi delle guerre che ci aspettano (Bush e lraq).
Queste pagine disegnate per L’Unità tra il 2002 e il 2004 ci ricordano tratti di una storia recente forse già riposta nel baule: gli orrori delle torture di Guantanamo (...). Ci si avvia verso il gran finale con opere che vanno oltre il già visto, dove la mai sopita capacità creativa si lega sempre più al sapere, dove gli studi giovanili e si mescolano alla sapiente conoscenza della storia delle arti. Staino, qui, si inventa scrittore e pubblica Il Mistero BonBon: il romanzo, uscito per la prima volta sulle pagine de L’Unità nell’agosto del 2006 e successivamente raccolto in volume da Feltrinelli, si sviluppava su una intera pagina, un capitolo al giorno. (...) L’ultimo grande sguardo sulle opere in digitale è offerto dai fondali di teatro realizzati per la Rassegne del Premio Tenco del 2006 e del 2007 al Teatro Ariston di Sanremo. C’è poesia in questi fondali, c’è amore per la musica e grande creatività. Il cerchio si chiude. (...)
Confidandosi alla vigilia della sua apertura è proprio Sergio Staino ad andare oltre l’inevitabile percorso retrospettivo: «Vorrei tanto che l’aspetto più importante di questa esposizione non fosse il retrospettivo, ma alcuni piccoli germi di futuro, germi di futuro messi a disposizione dalle attuali tecnologie». Ancora una volta Bobo parla per tutti noi.

l’Unità 30.3.14
La Grande Guerra fatta dai media
Oltre alle armi, le nazioni in lotta usarono anche foto, film, manifesti...
di Wladimiro Settimelli


LA GRANDE GUERRA ’14-’18 FU, FORSE PER LA PRIMA VOLTA, anche una guerra mediatica. Con i mezzi e gli strumenti di allora, ovviamente. Bisogna subito aggiungere che tutte le nazioni in lotta utilizzarono, oltre alle armi nuove per uccidere e sterminare, anche mezzi che non erano mai stati messi in campo prima: i grandi manifesti, gli appelli, i discorsi, le cartoline in tricromia, le fotografie, il cinema, le pubblicazioni a puntate e illustrate, il cinema, i documentari, le attualità cinematografiche, i film, i «servizi» scritti dagli inviati, i giornaletti per la truppa, i disegni, le incisioni, gli spettacoli teatrali, i canti e le canzonette, la poesia, i racconti di autori notissimi, le «imprese militari», portate a termine per semplici fini di propaganda e quelle per «impressionare» il nemico. Ogni esercito in lotta, ogni stato maggiore, ogni governo, provvide ad istituire apposite sezioni di propaganda e gruppi di operatori fotocinematografici che vennero disseminati sui vari fronti per le «riprese dal vero in mezzo alle trincee».
Ora, per il centenario del «grande massacro», quel che è rimasto di quei materiali sarà utilizzato per mostre, incontri, dibattiti, iniziative culturali e politiche. Sarebbe doveroso tentare di recuperare anche le lettere censurate dei poveri fanti, mai arrivate a casa o le foto allora ritenute «non pubblicabili» e disperse chissà dove. Se non altro per rispetto verso migliaia e migliaia di poveri morti che lasciarono le loro vite sul Carso, sul Pasubio e su tutti gli altri «monti maledetti», mille volte persi e mille volte riconquistati nelle assurde battaglie di posizione e di attacco frontale, ordinate dal «generalissimo» Luigi Cadorna, con la sua strategia delle «spallate».
A questo punto sarà bene puntare l’attenzione sulla storia della fotografia e su quella del cinema per capire la «guerra mediatica» e gli strumenti utilizzati per la propaganda durante il primo conflitto mondiale. Insomma, partire da lontano, dai vecchi tempi, quando non era ancora possibile pubblicare direttamente le foto sui giornali. Gli incisori, dalle immagini, ricavavano, come si sa, un disegno per poi certificare la veridicità del proprio lavoro con la piccola scritta: «Da vera fotografia ». Il lettore, così, si sentiva garantito: quel che stava guardando era, in assoluto, la cosa più vera del mondo. Naturalmente non era così. Per la grande guerra, però, le cosiddette «immagini ottiche» potevano ormai essere stampate alla perfezione sui giornali e in diretta: battaglia per battaglia. Gli alti comandi italiani avevano, inoltre, a disposizione decine di giornalisti che raccontavano ai lettori tutte le vicende militari secondo il punto di vista di Cadorna che riceveva continuamente il direttore del «Corriere della Sera» Luigi Alberini, il «poetone» (come qualcuno lo chiamava) Gabriele D’Annunzio, Ugo Ojetti, Luigi Barzini e tantissimi altri cantori dell’interventismo, solerti sostenitori della guerra «come unica igiene del mondo». Ovviamente c’erano anche gli interventisti democratici, socialisti e autenticamente patrioti, ma tra mille polemiche. Proprio gli interventisti più sciovinisti erano comunque riusciti a far credere a tutto il Paese, con l’aiuto della stampa benpensante e del governo, che la guerra era il completamento del Risorgimento e che ci si doveva battere per la definitiva unità della Patria. Lo stesso D’Annunzio aveva tenuto un importante discorso, per convincere tutti ad andare al fronte, presso lo scoglio di Quarto da dove erano partiti i Mille. Più tardi sorvolerà Vienna con una squadriglia di aerei per gettare manifestini inneggianti all’Italia. Una grande trovata mediatica, come fu già chiaro allora. Qualche generale spiegò, inascoltato, che gli «alti comandi erano bravissimi nel farsi la reclame, ma per il resto…». E furono proprio gli alti comandi, per tutta la guerra, a far pubblicare soltanto immagini «positive», nelle quali si dovevano vedere i nemici morti e i nostri continuamente all’attacco. Niente bersaglieri o alpini massacrati e, dunque, niente trincee piene di fango, sangue e merda (sì, proprio merda perché non c’erano alternative), niente cannoni fracassati, niente medici senza medicine o battaglioni italiani sotto bombardamento delle stesse artiglierie del nostro esercito, niente decimazioni o ritirate.
La fotografia, all’inizio del secolo, aveva avuto un grandissimo sviluppo ed era la passione del momento, soprattutto tra le classi borghesi e il ceto medio. Non c’era impiegato, professionista, nobile o alto ufficiale che non si facesse vedere in giro con la propria «Vest Pochet Kodak» e la Kodak stessa faceva pubblicità tra gli ufficiali e soldati perché portassero in battaglia la propria macchina fotografica. Quelle, naturalmente, furono le uniche immagini non censurate. Lo stesso re Vittorio Emanuele III era un fotografo appassionato, ma nelle retrovie del fronte, si occupava soltanto di ritrarre paesaggi, mezzi in movimento e tramonti.
Il rapporto tra fotografia e guerra era comunque già antico nel 1915: erano stati già ripresi i combattimenti tra i garibaldini e i francesi, a Roma nel 1849, le battaglie dei Mille a Palermo, la Guerra di secessione americana, il bombardamento di Parigi nel 1870, durante la Comune, la Guerra di Crimea del 1856. E gli italiani avevano fatto uso delle macchine fotografiche in Africa e poi in Libia nel 1911. Nella Grande Guerra l’Italia - sono dati non ufficiali - schierò circa 600 soldati- fotografi, con tanto di carri al seguito per lo sviluppo e la stampa dei materiali. Furono scattate, pare, circa 150mila fotografie. Parte furono distrutte sul posto dalla censura, altre si persero, sempre censurate, in cassetti e armadi di mille diversi archivi. Quelle «meno brutali» furono utilizzate, in parte, per una famosa pubblicazione della Casa Editrice Treves intitolata: La Guerra, uscita in sedici lussuosi fascicoli che ebbero grande successo. Il resto venne distribuito ad altri giornali. Gli austriaci, invece, diffusero in mezza Europa la sequenza impressionante e terribile dell’impiccagione di Cesare Battisti. Doveva essere un esempio da far vedere a tutti.
Per quanto riguarda il cinema, l’Italia aveva uno splendido regista e documentarista che si chiamava Luca Comerio che mollò tutto e si precipitò al fronte già nel 1915, raccomandato da Vittorio Emanuele. Realizzò alcuni documentari, ma poi venne messo alla porta: le sue immagini cinematografiche erano troppo realiste e disturbavano. Di film veri e propri, negli anni della guerra e sulla guerra, pare - insisto sul pare - ne sia stato realizzato uno solo. Il titolo era: Maciste alpino.

il Fatto 30.3.14
“A me del cinema non frega nulla. Sono indifferente”
Il disincanto, l’ironia, la malinconia, le frecciate di Roberto Rossellini, uno dei più grandi registi italiani, riconosciuto nel mondo per il ruolo di padre del neorealismo grazie a pellicole come “Roma città aperta” e “Paisà”. Quindi il suo rapporto con Fellini, il ruolo della critica, la difesa da parte di Togliatti, l’esperienza in Cile vicino al presidente Allende, poi ucciso da un golpe fascista nel 1974
di Enzo Biagi


Rossellini, il film che l’ha lanciata è stato “Roma città aperta”, contestato in Italia, grande successo in America, una vicenda che ha il sapore del romanzo.
Per poterlo realizzare ho usato mille espedienti: rubavamo la luce alla Sala Corse di via Avignonesi, dove avevano piazzato la redazione del giornale americano Stars and Stripe. La pellicola negativa non esisteva, comperavamo spezzoni da venti, trenta metri dagli scattini, i fotografi ambulanti. Ubaldo Arata, l’operatore, fece miracoli, le riprese le realizzammo un po’ con il negativo e un po’ con la pellicola positiva. Marcello Pagliero, il protagonista, era mio compagno di scuola, Anna Magnani aveva alle spalle soltanto una particina in un filmetto di De Sica, una sciantosa invadente e crudele. Ho fatto sei milioni di debiti, che mi sono portato dietro per la vita. Quando uscì, le recensioni furono tremende: “Bruttissimo, banalissimo”, “Questo cretino che confonde la cronaca con l’arte”. Sono stato sempre coperto d’insulti. I critici hanno il loro schema, se lo sono fabbricato amorevolmente, guai se esci fuori. La prima di Paisà fu a Venezia. Era morto Romano, mio figlio di nove anni, non volevo vedere nessuno, non uscii dalla camera. Il portiere dell’albergo mi portò un pacco di giornali. Lessi: “La mente ottenebra il regista”. Per Germania anno zero, furono più gentili: ero diventato involuto.
Questo la ferisce?
No. Sono perfettamente cosciente che la mia indipendenza rompe le scatole a tutti. Sono anche rispettato da un sacco di persone, odiato da altri.
Questa ondata di rancore nei suoi confronti, francamente non la sento.
Per questo, neppure io. Vivo talmente isolato, lavoro venti ore al giorno. Se ti preoccupi di oggi lasci un ricordo, non un segno. La ricchezza economica, i trionfi effimeri, li ho sempre respinti. “Grazie papà”, dicono i miei figli, “che non ci lascerai la preoccupazione dei soldi, quando non ci sarai più”. Se non la pensassi così sarei o uno stupido o un mostro, per tutte le buone occasioni che ho sprecato.
Lei lascerà il segno: il neorealismo, i film che ha fatto, appunto “Roma città aperta”.
Ho conosciuto Fellini all’epoca del film, collaborò alla sceneggiatura. Fu un rapporto molto fecondo, chiacchieravamo all’infinito. Gli altri sceneggiatori erano Sergio Amidei e Alberto Consiglio. Un soldato americano, in un bar di via Frattina, comperò la pellicola senza contratto, per 28 mila dollari. La programmarono in una piccola sala di New York per 38 mesi di fila. Ingrid Bergman la vide lì. Voleva scrivermi una lettera, ma non sapeva dove indirizzarla. Un italiano, per strada, le chiese un autografo, e la consigliò di mandarla alla società Minerva. Diceva: “Se avete bisogno di un’attrice svedese che parla bene in inglese, ha dimenticato il suo tedesco, che si esprime in un francese non molto comprensibile e che in italiano sa dire solo t’amo, sono pronta a venire con voi”. Ingrid, aveva già   ricevuto il primo Oscar, ma non avevo visto i suoi film; la Minerva fu distrutta dalle fiamme di un terribile incendio, ma quella busta spedita da Hollywood arrivò. Facemmo Stromboli terra di Dio e la stampa disse: “Rossellini ha rovinato la Bergman per sempre”.
Con “Roma città aperta” il cinema neorealista fece il giro del mondo. Nessuno dimenticherà le albe livide e le facce disperate di quella Roma nazista.
La speranza era quella di far diventare il cinematografo uno strumento utile. Con Roma città aperta ho innovato tanto. Allora era impensabile girare in ambiente vero e non ricostruito in un teatro di posa, che era il luogo in cui si celebrava il grande rito del cinema; la strada, quella vera, era completamente sconosciuta al cinema di allora. Volevo fare un cinematografo accessibile a tutti: uscire dalla produzione industriale, con tutte le schiavitù che comportava. Abbiamo fallito. Di questo modo di fare cinema se ne sono appropriati gli   stessi industriali che pensano solo all’incasso. Cinema utile lo intendo sul piano sociale, educativo, sul piano dell’insegnamento del vivere civile. Dobbiamo ammetterlo: il cinematografo non è diventato affatto utile, salvo qualche raro caso perché fatto da persone serie.
Il rapporto con i suoi film?
Bisogna essere mobili non coerenti. Rifiuto accuratamente di costruire il monumento a me stesso. Mai rivisti i miei film; se mi piacciono, sono fottuto, se non mi vanno, peggio. Appena terminati li abbandono. Solo il Messia, l’ho proiettato tredici, quattordici volte, perché ci ho trovato dentro quello che ho cercato   di fare per quarant’anni. Se non c’è un po’ di follia, l’esistenza per me non ha senso.
E il successo?
Una scocciatura; è disturbante perché ti lega. Gli attacchi sono sempre condizione di sfida. Quando realizzai Viva l’Italia, fui stroncato anche da l’Unità. A Togliatti era piaciuto, e mi scrisse per scusarsi: “Si dice che siamo un partito monolitico. Come vede, non è vero”. Io anelo alla libertà, io voglio essere veramente libero.
Lei ha conosciuto grandi politici come il Mahatma Gandhi, Nehru, Allende, che ricordi
ha?
Gandhi l’ho conosciuto nel ’31 o nel ’32, quando passò da Roma. Ha abitato per alcuni giorni nell’appartamento in cui sono nato. Era considerato un santo, invece io ho avuto la sensazione di avere a che fare con un uomo d’azione, molto rapido, veloce. Nehru, l’erede di Gandhi, era dolce, distaccato. L’ho conosciuto quando sono andato in India a girare per il telegiornale, alla fine degli anni Cinquanta. Era amatissimo dal popolo al punto che se avesse voluto sarebbe potuto diventare un dittatore. Nehru ha dedicato se stesso per portare in India la democrazia. Salvador Allende l’ho incontrato nel 1971.
Abbiamo messo in onda l’intervista qualche giorno dopo la sua morte, avvenuta l’11 settembre 1973, con la sua introduzione.
Quando incontrai Allende era presidente del Cile da qualche mese. Voleva dimostrare che il socialismo in Cile sarebbe stato portato avanti con tutte le regole della democrazia. Uno dei punti fondamentali del suo pensiero era che non ci potevano essere due morali: una dello Stato, dei politici, cioè del potere e una dei cittadini. Le morali devono essere   uguali. Allende era per la chiarezza assoluta, la sincerità. Il rifiuto totale della furberia. Attorno a lui c’era un odio furibondo, completamente irrazionale: sui giornali si leggevano cose incredibili, la moglie era descritta piena di amanti, invece era una signora gentile di cui si poteva dire tutto, ma non che fosse una Messalina.
Chi erano i suoi nemici?
I fascisti. Il Cile è un paese denso di fascisti nostalgici. Lui aveva l’idea di fare la rivoluzione senza fare la rivoluzione, senza le armi, intendo.
Che cosa ha realizzato secondo lei?
Ha raggiunto il martirio. Oggi Allende ha   conquistato una dimensione che non avrebbe raggiunto se fosse morto nel suo letto.
Rossellini, la maturità che cosa le ha portato? La convinzione che bisogna dare un’informazione precisa, senza l’uso della seduzione e la volontà di persuadere sempre chi ascolta. Diceva il filosofo François de La Rochefoucauld: “Più si diventa vecchi, più si diventa pazzi, più si diventa saggi”. Del cinema, non mi frega nulla. Sì, sono indifferente. Disprezzo l’artista, l’intellettuale: importante è imparare il mistero di uomo. Mi occupo di me stesso. Non ci sono ancora riuscito. Mi impegno ogni giorno a demolire la mia ignoranza, ma arrivo appena a scalfirla. Qualcuno   ha detto che lei prima si è occupato di Cristo, per far contenta la Dc; adesso che sta cercando finanziamenti per realizzare un film su Marx, va in pari con le sinistre.
Ho risposto a uno studente che mi faceva questo rilievo: “Quello che tu dici rivela una mentalità che è anche la tua: quella di un servo”.
C’è qualche sua opera che ama particolarmente?
Nessuna. Ciò che è stato fatto deve essere dimenticato.
Come vive, Rossellini?
La notte scrivo sempre. Mi sveglio alle sette, alle otto prendo il caffè, sfoglio i quotidiani, faccio anche i cruciverba, poltrisco, mi lavo, sono lento. Durante la giornata penso all’organizzazione e alla cassa, come finanziare i progetti. Leggo quattordici, quindici libri assieme, altrimenti mi annoio. Annoto tutto, poi distribuisco nelle rubriche: sentimento, pensiero, intelligenza.
È stato duro?
Nel ’47 mi hanno chiamato per ritirarmi il passaporto, perché ero l’autore di Roma città aperta e di Paisà, sostenevano che i panni sporchi si lavano in casa. Lavorare con dignità ha un prezzo altissimo, non ho mai avuto un momento di tregua. Ma sono riuscito a non essere vendicativo. Rifarei tutto.
Pentimenti, rimpianti?
Non ne ho. Le sembrerò presuntuoso; ogni fatto è un arricchimento.
Qualche modello?
Bisogna dire Marx, Engels, Cristo, l’umanista Leon Battista Alberti, che è poco conosciuto, e il mio caro Comenio, il difensore dell’istruzione pubblica. Bisogna insegnare a rifletter e non quello che si deve pensare. Siamo alla fine di una civiltà, e in uno stato di smarrimento. Nella Roma della decadenza, al teatro di Marcello, c’era in scena un toro che copriva una fanciulla, e si discuteva anche allora di divismo, di emancipazione, di pornografia. Non sono stati i barbari a far crollare quel mondo. Sant’Ambrogio predicava contro uomini e donne che vestivano in modo uguale, e siamo all’unisex. Quando scoppiano i movimenti di rivolta, indossano sempre gli abiti dei primitivi.
Lei ha detto che “Roma città aperta” è il film della paura di tutti, soprattutto della sua: teme ancora qualcosa?
No, io non ho nessuna paura. 

il Fatto 30.3.14
Ingrid, Isabella, la Rai e l’amore per la Ferrari
La sua grande passione erano i documentari: lavorò dieci anni per la televisione di Stato “perché più libera della cinematografia”
di Loris Mazzetti


Il primo amore non si scorda mai. La carriera di Roberto Rossellini cominciò con il documentario Daphne girato nel 1936 e si concluse nel 1977, l’anno della scomparsa, con un altro documentario, questa volta per la tv: Beaubourg centre d’art et culture George Pompidou. Rossellini era stato colpito dal cinema americano di King Vidor: La folla, Alleluja, che aveva potuto vedere grazie al padre proprietario del Cinema Corso a Roma. “Avevo la tessera per entrare, ne ho visti una quantità. Certi film mi emozionavano. Così è nato il mio interesse per le cose del cinema”.
ROSSELLINI arrivò al cinema partendo dal cortometraggio, che considerò come una forma di esercitazione. Daphne e Prélude à l’après-midi d’un faune furono i primi che realizzò: “Li ho preparati consigliandomi con mio fratello, quei documentari mi sono serviti per raccontare la natura e per sondare il terreno del cinematografo. Nei documentari si possono trovare le mie fantasticherie giovanili. La scoperta della vita. Nei miei film, invece vi è molto di autobiografico”. Il documentario è la palestra da cui sono usciti straordinari cineasti, oltre a Rossellini, Michelangelo Antonioni: Gente del Po e N.U.-Nettezza Urbana. La tv, in particolare la Rai, dovrebbe investire maggiormente nel genere e dedicare una prima serata al documentario. Il servizio pubblico ha il dovere di superare l’ostacolo dell’Auditel, altrimenti il lavoro di Rai Cinema, produttore di Sacro Gra di Gianfranco Rosi che ha vinto il Leone d’oro all’ultima Mostra del Cinema di Venezia, rischia di perdersi nelle poche sale cinematografiche lungo la penisola ed essere visto da un numero esiguo di telespettatori. L’intervista di Enzo Biagi che il Fatto Quotidiano pubblica oggi fu fatta un anno prima della morte, per le pagine culturali del Corriere della Sera.
Rossellini è stato il padre del Neorealismo, non soltanto un movimento culturale, ma una scelta morale.
Rossellini creò una scuola che rese il cinema italiano famoso nel mondo insieme con Visconti, De Sica, De Santis, Antonioni, Lattuada, Castellani, Lizzani e altri ancora. Rossellini, raccontandosi a Biagi, disse che amava essere definito un regista di film e non un esteta del cinema, e alla domanda su come raccontare il Neorealismo, rispose: “Non credo che saprei indicare con assoluta precisione che cosa sia il realismo. Posso dire, però, come io lo sento, qual è l’idea che me ne sono fatto. Un bisogno, che è proprio dell’uomo moderno di dire le cose come sono, di rendersi conto della realtà direi in modo spietatamente concreto, conforme a quell’interesse, tipicamente contemporaneo, una sincera necessità, anche di vedere con umiltà gli uomini quali sono, senza ricorrere allo stratagemma di inventare lo straordinario”.
L’INCONTRO tra Biagi e Rossellini avvenne a casa di un amico comune: “Il regista parlava con abbandono, e la notte si consumava. Hanno ragione quelli che dicono che gli piaceva incantare la gente: diffonde attorno a sé, molta simpatia. Ha passato i settanta, ma non si commemora. Racconta la sua vicenda, questa lunga avventura, con ironia”. Rossellini è sempre stato inseguito dalla fama che lo rese un simbolo e anche dalle cambiali che gli servivano per portare a termine i progetti. Ha avuto, accanto a sé, donne bellissime. Un senatore americano lo definì: “una vipera insidiosa”, perché si insinuava nel letto degli altri. A questo proposito scrisse Biagi: “La ragazza nordica (Ingrid Bergman) che per Roberto aveva piantato tutto con un cronista lo giustificò: ‘Davano tutta la colpa a lui, ma nessuno pensava che il mio era amore’”. Si erano sposati nel 1950 e dalla loro unione nacquero Roberto, Isotta Ingrid e Isabella, ma dopo qualche anno l’unione andò in crisi, l’attrice svedese tornò a lavorare in America, e con Anastasia vinse il secondo Oscar come attrice protagonista. “Rossellini mi ha fatto sentire viva, umana. Insieme girammo cinque soggetti, e tutti e cinque furono clamorosi fiaschi. Ma io ero troppo calma o borghese per lui, e lui era troppo impulsivo e irresponsabile per me. Aveva paura di volare, e guidava la Ferrari ai duecento”. Rossellini si tuffò nel lavoro e partì per l’India per girare dieci documentari per la televisione. Per la Rai lavorò ininterrottamente per dieci anni. Il regista considerava la Rai, seppur controllata dai partiti al governo, più libera dell’industria cinematografica, “meno vincolata a ragioni di cassetta, a calcoli industriali e commerciali”. La Rai gli diede la possibilità di tornare al primo amore: il documentario: “senza remore spettacolari; si rivolgeva a larghi strati di pubblico, anche sul piano internazionale; richiedeva costi di produzione notevolmente inferiori a quelli del cinema; impiegava una tecnica molto più agile e con maggiori possibilità di utilizzazione nei più diversi contesti socio-culturali”. Biagi riportò negli appunti presi durante l’intervista che “nel suo lavoro, Rossellini ha voluto dimostrare che la vera rivoluzione è la verità”.

il Fatto 30.3.14
L’agonia del Sud Sudan
Il più giovane paese al mondo, nato nel 2011 dalla separazione con gli islamici di Khartoum sta già affogando nell’ennesimo conflitto tra signori della guerra, etnie e petrolio
di Fabio Bucciarelli


Yirol (Sud Sudan). Ricordo il Sud Sudan dallo sguardo della sua gente. Stanco da decenni di guerra, ma illuminato da un’indipendenza sudata e ottenuta: era il maggio del 2012, pochi mesi dopo che il referendum sancì la nascita del nuovo Stato. Si parlava di sogni, di sviluppo di nuove infrastrutture, di scuole in grado di formare la classe borghese del futuro e di sanità capace di curare una maggiore fetta di popolazione. Le nuove bandiere sventolavano sui tetti di Juba, Capitale dello Stato più giovane del mondo e il presidente Salva Kiir godeva dell’ammirazione della sua gente. Nonostante le grandi aspettative, al nord lungo la frontiera con il Sudan di Khartoum si continuava a combattere. Una guerra per l’annessione dei giacimenti petroliferi. Durante la divisione del paese, il presidente al-Bashir tracciò i confini del nuovo Stato non tenendo conto dei gruppi etnici presenti nella regione e delle richieste di Juba, fomentando così un ennesimo conflitto per l’oro nero lungo la frontiera fra i due Stati.
Andai prima a Turalei, per documentare i migliaia di profughi di ritorno dal Sudan del nord, cacciati dal presidente e obbligati a tornare nella loro terra natia. Poi Bentiu, raccoforte del militari del Spla (Sudan People’s Liberation Army) che lottavano per il controllo della regione. Anche in questa zona, lontana centinaia di chilometri dalla capitale, si parlava della nascita della nuova nazione, ma gli interessi economici e decenni di guerra facevano passare in secondo piano l’euforia indipendentista. Sono passati quasi due anni e la speranza sul volto della gente è scomparsa, quasi dimenticata. Si combatte ancora lungo la frontiera di divisione dei due Sudan, ma non è questa la novità. Le speranze sono passate in secondo piano.
Il Sud Sudan si è risvegliato martoriato da un conflitto politico per la presidenza, diventato guerra civile fra le due etnie più grandi del paese. Da una parte ancora Salva Kiir, Dinka, successore del padre fondatore John Garang, e attuale presidente del Sudan del sud. Dall’altra parte il suo vice, Riek Machar di etnia Nuer. Nell’estate del 2013 cominciano a palesarsi i dissapori fra i due, tanto da obbligare il presidente a licenziare il suo vice e isolarlo dalla vita politica del paese. Machar decide così di scappare da Juba per evitare ritorsioni e di tornare nella sua terra d’origine, lo Unity State dove l’etnia Nuer è più numerosa. Comincia così a formare un nuovo esercito composto dai disertori armati dell’esercito regolare e dalla popolazione Nuer.
Lo scontro politico fra le due personalità chiave del paese diventa guerra civile. Un odio nascosto dalle speranze di libertà, celato dal desiderio di indipendenza e smascherato dal potere. La mia speranza di tornare in Sud Sudan e mostrare lo sviluppo di un ricco paese africano svanisce ancora prima di nascere.
Qui si documenta un paese sul baratro dove lo spettro della pulizia etnica è alle porte. Organizzate le truppe, nel dicembre 2013 Machar sferra i suoi primi attacchi conquistando Malakal, poi Bentiu con l’intenzione di dirigersi varso Juba. In difficoltà Salva Kiir chiede l’aiuto dell’Uganda. Yoweri Museveni interessato a rafforzare il business del greggio con il Sud Sudan schiera le truppe ugandesi in difesa dei territori conquistati rispedendo i ribelli fuori da tutte le città principali. Nel mese di gennaio e febbraio è stato firmato anche il “cessate il   fuoco” non rispettato da entrambe le parti e infranto ufficialmente a fine febbraio con i nuovi scontri di Malakal. Nel tempo trascorso in Sud Sudan mi sono reso conto di quanto è diversa una guerra africana da una mediorientale. In Libia o in Siria si vedeva la battaglia, si assaporava l’odore della polvere da sparo, piangevano i feriti e i morti. Si fotografava il conflitto nelle sue fasi più cruente e inumane. Mentre in Africa la guerra si vive nella sua quotidianità, nei volti della gente, abbandonati al proprio destino, imprigionati senza la possibilità di scappare né di cambiare il futuro.
IL CAMPO DI MINGKAMAN
Con in testa il cappello da cow boy in stile presidenziale, con il solo gesto del braccio il capo villaggio Simon mi apre gli occhi stanchi di tanta miseria, mostrandomi la realtà dei 120 mila sfollati che invadono la pianura al di qua del Nilo. Sono tutti scappati, perché al di là, dall’altra parte c’è Bor. La città contesa dove la vita non conta e la sopravvivenza è diventata un miracolo. Prima, decenni di battaglie contro il governo del Nord, ora tumefatti da una conflitto intestino. Cambiano gli attori ma la sostanza rimane la medesima: la guerra.
Una guerra africana, violenta e senza tregua, infinita, una guerra di potere e ora una guerra etnica. Le figure appaiono sfocate, vibranti sotto il sole equatoriale il paesaggio è surreale. Migliaia di Idp’s (Internal displaced people) fuggiti dagli scontri cercano riparo dai raggi del sole sotto scheletri dei rari alberi o al fresco di cespugli spinosi.
Durante il giorno tengono tutto accatastato: materassi, pentole, vestiti, arnesi vari, carriole e valigie, tutto ammucchiato come se dovessero essere sempre pronti a fuggire, a scappare da un nuovo attacco. Poi quando scende la sera, smontano il mucchio di averi e preparano la loro casa per la notte, costruendo ogni giorno il proprio giaciglio. E domani sarà lo stesso.   Simon mi fa da Cicerone all’interno del campo, mi fa vedere da dove arrivano gli sfollati in fuga da Bor, le interminabili code per la registrazione alle liste del World Food Programm e l’attesa ai pozzi d’acqua non potabile. Mi spiega la percezione del tempo per quelli che aspettano. Quotidianamente decine di persone si muovono da Mingkaman a Bor e viceversa. Quelli che tornano nella città distrutta, vanno per vedere le loro case e a salutare i propri cari che sono restati affrontando   il rischio di incursioni ribelli. E poi tornano indietro verso il deserto di Mingkaman.
Salgono su barchette instabili, in decine accompagnati dalle loro coperte e valigie, attraversano il Nilo e in meno di due ore diventano sfollati. “È come se fossimo tornati indietro al 1993, abbiamo perso tutto quello che avevamo”, Simon si toglie il cappello come in segno di rispetto verso il passato: “Non abbiamo più nulla, nemmeno la dignità. Ci vorranno anni per tornare al passato. Tutto quello che avevamo conquistato ci è stato tolto per l’ennesima volta”.
L’OSPEDALE DI YIROL
Dopo qualche giorno, decido di lasciare il compound della ong Ccm (Comitato Collaborazione Medica) che mi aveva ospitato fino ad ora, a poche decina di miglia dal campo sfollati di Mingkman. Pochi chilometri che in Sud Sudan diventano ore sull’aspra strada sterrata che unisce i due villaggi. Decido così di proseguire verso il nord, verso la contea di Yirol, un’area controllata dell’etnia Dinka che ha visto la violenza degli scontri delle ultime settimane.
Yirol è uno dei villaggi più grandi della zona, ed è percorso da una strada principale non asfaltata con al fondo l’ospedale in muratura, circondato da baracche di legno e lamiera che si affacciano sul lago omonimo. Nella stagione delle piogge, l’area intorno al lago diventa pantano, e il pantano un nugolo di zanzare malariche. Come spesso accade, arrivato al villaggio   vado direttamente all’ospedale, centro nevralgico di informazioni utili per capire lo stato del conflitto. Varcare il cancello dell’ospedale è come entrare in un girone dantesco dove le urla degli uomini e delle donne ferite si confondono con il gemito dei nuovi nati. Nei giorni precedenti al mio arrivo ci sono stati brutti scontri nella contea di Yirol, nella sua parte più a ovest, in prossimità di Adior. Gruppi armati appartenenti alla fazione di Machar hanno cercato di conquistare la zona, con incursioni puntuali ed efficaci.
Durante gli scontri i ribelli sono stati cacciati dai soldati governativi del Spla, ma non senza gravi perdite. Molti dei soldati e dei civili feriti dai colpi di kalashnikov sono arrivati qui, all’unico centro sanitario attrezzato in centinaia di chilometri. Comunque non abbastanza grande per ospitare l’esodo dei feriti di guerra: il corridoio dell’ospedale è diventato un vero lazzaretto. Soldati e civili giacciono nei loro letti mentre intorno, nella tipica tradizione africana, l’intera famiglia li assiste. Mi muovo tra i feriti nell’ultima stanza dove incontro Abraham, seduto, coperto da un leggero lenzuolo. Cominciamo a parlare e mi racconta la sua storia spostando il sudario per mostrarmi le ferite di guerra. Abraham ha perso una gamba, amputatagli qualche giorno fa dal dottore dell’ospedale. In questo modo è riuscito a sopravvivere. Ora spera che la guerra finisca e che i suoi figli possano scordare presto il conflitto e crescere in un Sud Sudan libero dal male. Per lui sarà difficile dimenticare.

Repubblica 30.3.14
Umanisti digitali
Sappiamo tutto di Galileo Galilei? Non è proprio così. Oggi molte università, come quella di Stanford, fanno incontrare la storia e la rete. Grazie ai big data
Ovvero come la tecnologia può aiutarci a capire meglio il nostro passato
di Riccardo Luna


NEL GENNAIO del 2012, in quella che nel calendario accademico americano va sotto il nome di “quadrimestre invernale”, all’università di Stanford la docente Giovanna Ceserani decise di far partire un corso che avrebbe cambiato la sua vita, il modo di studiare il nostro recente passato e quindi quello che abbiamo capito e c’è ancora da scoprire di quel periodo storico che va dal Rinascimento al Romanticismo. In realtà il suo focus fu un periodo più circoscritto, il Grand Tour, i lunghi viaggi che nel ‘700 i britannici più colti e facoltosi facevano in Italia per studiarne le meraviglie artistiche e architettoniche. Giovanna Ceserani è una cultrice di lettere classiche. Nata a Pisa nel 1970, si era diplomata nello stesso liceo dell’ex premier Enrico Letta, poi Cambridge, Parigi e Princeton prima di approdare a Stanford nel 2003. Stanford non è solo una università eccellente: è nel cuore della Silicon Valley e ne è uno dei motori. È il posto dove hanno inventato Google e in definitiva il mondo digitale. Qui l’incrocio fra l’umanesimo e la rete ha aperto la strada ad un nuovo giacimento di cose da scoprire che prende il nome di Digital Humanities. «L’alleanza fra i geek e i poeti» l’ha definita il New York Times. In pratica di tratta di trasformare i documenti di un periodo storico in dati, anzi in “big data”, e analizzarli con gli strumenti tipici del digitale: gli analytics, il text mining, le visualization maps. Perché?
Per scoprire un senso nelle cose che non sarebbe possibile cogliere diversamente.
Relazioni impreviste. Insomma, una sorta di social network dell’Illuminismo.
All’inizio di tutto c’è una gara. E ci sono dei soldi. Il Fondo Nazionale per l’Umanesimo e la Fondazione per la Scienza lanciano una competizione per progetti che sappiano “digging into data, scavare nei dati del passato”. Era accaduto che l’università di Oxford aveva creato l’Electronic Enlightiment, l’Illuminismo Digitale, che non è una confraternita di sapientoni ma il catalogo digitale di oltre sessantamila documenti di circa ottomila personaggi storici. Un catalogo è riduttivo: i documenti sono tutti collegati fra loro in una rete di collegamenti che assomiglia al web. Per farla breve uno dei vincitori della gara era stato un giovane docente di italiano e francese proprio a Stanford, Dan Edelstein, che si lanciò nel progetto di trovare un senso nelle lettere che si erano scritti i grandi pensatori fra il ‘600 e ‘800. Un perfetto esempio di big data: solo Voltaire, uno dei primi casi analizzati assieme a Galileo, Locke e Newton, ne aveva inviate più di 18mila! I risultati furono subito incoraggianti: mettendo quelle lettere su una mappa è possibile vedere con chiarezza da dove partivano e dove erano dirette, tracciando così le reti sociali di ciascuno e le rispettive sfere di influenza. Nacque così il filone di ricerca “Mapping the Republic of Letters”, la cui rappresentazione da Stanford venne affidata ad un team di visual designer italiani, il Density Design del Politecnico di Milano e l’illustratore Michele Graffieti. Nel mondo progetti simili si sono subito moltiplicati, arrivando a toccare anche il Medio Evo. Ma nulla, dal punto di vista della complessità, è paragonabile al tentativo di ricostruire il social network del Grand Tour. E questo per un motivo molto evidente: lafonteprincipale, Il Grande Diziona-rio dei Britannici e degli Irlandesi che hanno viaggiato in Italia dal 1-701 al 1-800, redatto scrupolosamente da John Ingamell, contiene più di cinquemila voci. E il guaio è che non tutte sono ugualmente complete e accurate. La posta in gioco è stata subito evidente: il Grand Tour viene sempre raccontato come un fenomeno molto ampio ma lo si fa sempre attraverso poche decine di casi; ora invece c’era finalmente la possibilità di capirlo in tutta la sua ricchezza e complessità.
Gli studenti del corso della Ceserani si sono tuffati nel lavoro e i primi risultati sono stati incoraggianti. Uno ha incrociato i dati delle lettere e degli spostamenti in Italia di Lady Montagu; il viaggio in Sicilia del barone von Riedesel è stato tracciato con i colori che cambiano in base ai giudizi espressi; e si è scoperto (e visualizzato) che il sistema di rating con le stellette che ormai è diventato uno standard, venne inventato da Ann Rutheford nelle sue 1800 lettere dall’Italia, accanto ad ogni cosa visitata metteva un numero variabile di punti esclamativi in base al gradimento.
Interessante. Ma la Ceserani intuiva che si poteva fare di più: non scoprire solo chi era andato dove e quando, ma anche chi aveva incontrato e influenzato. Dagli oltre cinquemila viaggiatori annotati da Ingamell nel suo Dizionario, lo studio è passato ai sessantanove architetti che vennero in Italia. Con un obiettivo gigante: «Stiamo riscrivendo la storia dell’architettura del ’700, è la storia di come il networking ci cambia e cambia la cultura». La vera geografia intellettuale del Grand Tour. Come sta andando? Con fatica, perché la scienza è fatica che non si cancella con un supercomputer. Ma i risultati si vedono. Presto ci sarà un sito dove chiunque potrà crearsi le mappe che vuole e trovare un senso che prima non c’era. Per esempio, si potrà scoprire «che per l’influenza del Palladio all’inizio del ‘700 tutti andavano a Vicenza, mentre alla fine del secolo le destinazioni preferite erano Napoli e Paestum per il ritorno al classicismo greco». Così si capirà che l’Italia non era solo un luogo dove assorbire stimoli dal passato, ma in cui costruire l’architettura futura attraverso i contatti con gli altri.

Repubblica 30.3.14
Filosofia del selfie
Socrate, Platone e Aristotele furono i primi a insegnare che essere importanti per gli altri ha valore solo se si coltivano giustizia e saggezza per se stessi
Dall’Antica Grecia a Internet, dal Kleos a Klout, il grado di popolarità ci ossessiona Ecco come liberarsi
di Rebecca Newberger Goldstein e Mario Perniola


(traduzione di Fabio Galimberti)

TUTTO è cominciato quando un amico mi ha chiesto quale fosse il mio punteggio Klout. Io non sapevo cosa fosse un punteggio Klout, ma ero abbastanza sicura di non averne uno. E infatti è venuto fuori che non usando né Facebook, né Twitter, né nessuno dei social media che un sito chiamato Klout usa per calcolare la tua influenza online, il mio punteggio probabilmente andava da basso a inesistente. La gente ormai si mette in mostra in ogni modo, producendo - in parole, immagini, video - la storia condivisa della propria vita in tempo reale. Disseminano ovunque pensieri e azioni, grandi e piccoli, in uno sforzo che può apparire come un perpetuo appello per avere attenzione. Non ero così fuori dal mondo da non essere a conoscenza dei grandi cambiamenti culturali che avevano travolto la nostra società mentre la mia attenzione era rivolta altrove, cioè all’antica Grecia. Da qualche anno cerco ossessivamente di scoprire le ragioni di fondo degli spettacolari progressi realizzati da quella civiltà. Nel giro di appena un paio di secoli, le genti di lingua greca passarono dall’anomia e dall’analfabetismo a Eschilo e Aristotele. Cosa c’era dietro questa ambizione esplosiva, dietro questi progressi sensazionali? Forse proprio il fatto che i greci siano ancora saldamente impiantati nel nostro sistema può offrirci qualche punto di vista interessante sul mondo contemporaneo. Per cominciare, il Klout mi sembra molto simile a quello che i greci chiamavano kleos. La parola proviene dal vecchio termine omerico che sta per «io ascolto» e che designava una sorta di rinomanza uditiva. In parole povere, la fama, la celebrità, ma anche il fatto glorioso a cui era dovuta la fama, o ancora il poema che cantava di quel fatto glorioso e che era all’origine della fama. Il kleos era un elemento centrale nel sistema di valori dell’antica Grecia, motivato almeno in parte dal bisogno che abbiamo noi umani di sentire che la nostra vita è importante. Basta avere un po’ di prospettiva, e i greci di sicuro l’avevano, per capire quanto sia breve e insulsa la nostra vita. Che cosa possiamo fare per dare alle nostre vite quel di più che ci aiuti a sopportare i millenni che presto ci ricopriranno completamente, facendo dimenticare che siamo mai esistiti? Perché, viene da chiedersi, ci siamo presi il disturbo di venire al mondo. Le genti di lingua greca erano ossessionate da questa domanda quanto noi.
Ecome tanti di noi, affrontavano il problema in modo laico. La loro cultura era intrisa di rituali religiosi, eppure non era ai loro immortali, notoriamente inaffidabili, che si rivolgevano se volevano avere la garanzia di essere importanti. Ciò che ricercavano era l’attenzione degli altri mortali. Tutto ciò che possiamo fare, era la loro conclusione, è ingrandire la nostra vita, sforzarci di farne qualcosa che valga la pena di raccontare, materia per storie che lascino il segno nella mente degli altri mortali, in modo che la nostra vita, replicata nella testa degli altri, acquisisca quel «di più».
[Non tutti, all’epoca, affrontavano questo problema dell’importanza in termini mortali. Coeva dei greci, sull’altra sponda del Mediterraneo, c’era una tribù ancora sconosciuta, gli Ivrim, come si autodenominavano, gli ebrei. E là elaborarono il concetto di un rapporto un unico e solo Dio che forniva le fondamenta del mondo fisico e del mondo morale. ] E poi c’era un terzo approccio, che emerse anch’esso nell’antica Grecia e anch’esso basato su presupposti laici, un approccio che affrontava la questione in termini rigorosamente mortali. Sto parlando della filosofia greca, che era abbastanza greca da sposare l’assunto kleoseggiante che nessuno di noi nasce importante, ma l’importanza se la deve conquistare, e per riuscirci servono ambizioni e sforzi smisurati, che ti obbligano a fare di te stesso qualcosa di straordinario. Ma la filosofia greca rappresentava un discostamento anche dalla propria stessa cultura: non si diventava importanti attirando l’attenzione di altri. Diventare importanti era qualcosa che bisognava fare per se stessi, coltivando qualità del carattere virtuose come la giustizia e la saggezza. Bisognava mettere ordine nella propria anima impegnandosi a fondo, perché già solo comprendere la natura della giustizia e della saggezza, che è la prima cosa, metteva alla prova i nostri limiti, figuriamoci agire coerentemente con le nostre conclusioni. E non è detto che tutto questo impegno potesse procurarci alcun kleos. A Socrate fruttò una tazza di cicuta: se la bevve con calma, senza turbarsi del suo basso punteggio.
Nel corso dei secoli, la filosofia, forse aiutata dalla religione, ha abbandonato l’errato presupposto dei greci secondo cui solo una vita straordinaria aveva importanza. È stato un progresso di quelli tipici della filosofia: essa produce argomenti che estendono costantemente la sfera dell’importanza. Per i greci era naturale escludere le loro donne e i loro schiavi, per non parlare dei non greci, che etichettavano con l’appellativo di barbari. Esclusioni del genere oggi per noi sono impensabili.
A volte, però, non sembra che abbiamo fatto molta strada. Il nostro bisogno di sentire che la nostra vita è importante è forte oggi come sempre. Ma le diverse varianti dell’approccio teistico non sono più soddisfacenti come un tempo, mentre coltivare giustizia e saggezza resta difficile come è sempre stato. Le nuove tecnologie sono entrate in gioco proprio quando ne sentivamo maggiormente la necessità: il kleos (o il Klout) ora è a portata di tweet.
È strabiliante che la nostra cultura, con l’assottigliarsi del teismo, sia tornata a quella stessa risposta al problema dell’importanza che Socrate e Platone giudicavano inadeguata. La loro contrarietà di allora oggi, forse, è perfino più appropriata. Quanta soddisfazione può dare, in fin dei conti, una cultura basata sull’ossessione per i social media? Questa multireplicazione così accessibile è effimera e inconsistente come i tanti esempi delle nostre vite che replicano. Se a far emergere la filosofia furono inizialmente le inadeguatezze del kleos, forse è arrivato il momento che la filosofia affronti il Klout. Le risorse ce le ha: è molto più sviluppata che ai tempi in cui Socrate girava per l’ agorà cercando di smontare quelle persone così gonfie di kleos. Può cominciare dimostrando, con forza e chiarezza come la filosofia sa fare, che tutti siamo importanti.
Siamo importanti per diritto di nascita, e dobbiamo essere trattati di conseguenza, dobbiamo avere tutti le risorse per «fiorire ». Comprendere questa verità etica può contribuire a placare la frenesia che circonda la nostra importanza personale, consentendoci di indirizzare maggiori energie verso la coltivazione della giustizia e della saggezza. Dirò di più: comprendere fino in fondo questa verità etica costituirebbe già da solo un passo avanti significativo verso la coltivazione della giustizia e della saggezza.

Repubblica 30.3.14
Vita e menzogne di una scrittrice chiamata Nenè
Nel centenario della nascita di Marguerite Duras Sandra Petrignani la reinventa: una donna in rivolta fedele solo alla letteratura
di Elena Stancanelli



«SCRIVERE tutta la vita ti insegna a scrivere, non ti salva da niente». È l’autunno del 1996 e Marguerite Duras sta morendo. Il fido Yann, l’ultimo amore, annota in un quaderno, “le livre a disparaître” lo chiamano tra loro, questa finale scia di pensieri, frasi magre. «È finita. Non ho più niente. Non ho più bocca, più viso. È atroce», detta Duras, con la voce spezzata da una tracheotomia e alcol a fiumi e sigarette. Era nata il 4 aprile del 1914 (cento anni fa) in un altro posto - un piccolo paese vicino a Saigon, ex Indocina francese - con un altro nome: Marguerite Donnadieu, detta Nenè. Segno zodiacale ariete. Come la madre, che amò disperatamente e per tutta la vita, nonostante lei le preferisse il fratello Pierre, bello, tossico e disperato.
Sandra Petrignani inventa una scena straziante e perfetta per raccontare il rapporto che lega i due fratelli. Poche righe, come una boule à neige. La inventa? Chissà. Marguerite è un romanzo, la cui protagonista è un persona vera. Vera? Chissà. Con tutto quello che della sua vita lei stessa, Duras, ha inventato, è difficile fare i conti. Somiglia, Marguerite, alle biografie che Jean Echenoz dedica ai suoi eroi, Ravel, Nikola Tesla, Emil Zátopek. E Jérôme Lindon, l’editore, che fu anche l’editore de L’amante e che Duras abbandonò, irrimediabilmente seccata per il successo mondiale del libro. Ruba, Petrignani, dai libri, dalle interviste, dalle fotografie. Ruba frasi, situazioni, personaggi. «Lassù», dice Pierre al nipote, seduto al ristorante di fronte al numero 5 di rue Saint Benoît, «al terzo piano, vive una grande scrittrice». Duras dal- la sua finestra lo vede, piange, ha la tentazione di invitarlo a salire, ma poi non lo fa. Troppo male, troppo, tra loro, come tra lei e ogni cosa del mondo. E troppe bugie. Duras teme che il fratello possa smentirla, anche solo per sciatteria, distruggere il romanzo della sua vita che la scrittrice ha messo in scena anno dopo anno, cancellando le tracce dietro di sé. Marguerite, come ogni buon romanzo, è una menzogna costruita su altre menzogne, assemblate per sembrare verità. Un gomitolo di rimasugli che si fa maglia preziosa, se è ben lavorato. Quando nel 1950 Duras pubblica Una diga sul Pacifico, la madre si infuria. Non si riconosce in quella vedova pazza che combatte contro il mare, cercando con espedienti sempre più rocamboleschi di salvare la sua risaia, un indomabile concessione sul delta del Mekong. Lo dice sempre Philip Roth, quando in una famiglia nasce uno scrittore, quella famiglia è finita. «E infatti non sei tu, e sei tu. E’ la letteratura!», le grida Marguerite secondo quanto racconta Petrignani. Ma Marie, non paga di non averla amata abbastanza, non la perdonerà, mai più.
Nenè era bella, aveva quella bocca carnosa e gli occhi orientali che conosciamo dalle foto. Era piccola e sensuale, portava tacchi e gonne strette anche quando militava nella resistenza e nella sua casa si nascondeva il giovane Mitterand, alias Morland. Così di lei si innamorò, tra gli altri, Charles Delval, commissario di polizia al servizio dei tedeschi. Forse. E forse anche lei un po’, di lui. Comunque lui morì, fucilato a guerra finita. «Lei gode a farsi picchiare, gli chiede di ucciderla a volte, mentre fanno l’amore. Deve farsi perdonare di essere com’è. Che le importa solo di scrivere ». All’inizio di Marguerite, la scrittrice attraversa la Francia in macchina insieme a uno dei suoi amanti, Gerard. Deve raggiungere la madre che sta morendo, nella tenuta comprata nel 1950, di ritorno dall’Indocina. Il padre era già morto, quando Nenè era una bambina; lei quasi non fa in tempo a conoscerlo. Il suo amico Jacques Lacan dirà che da una vita così, non poteva uscire che una donna affamata di tutto, soprattutto d’amore. Ma va? Centinaia di amanti, capace di qualsiasi imbroglio, all’altezza di qualsiasi tradimento, Duras non si fermerà neanche davanti alla possibilità di ferire a morte l’amatissimo Robert, l’ex marito. Pubblicando il diario che racconta nel dettaglio il calvario di lui, tornato da Dachau, la miseria orribile di un corpo distrutto, la fatica e il disgusto di quel tornare alla vita. Dopo questo episodio, Robert non le rivolse più la parola. Litigò con tutti, col figlio, gli editori, gli amici. Litigò fin quando ne ebbe forza. Perché era una scrittrice, e, lo racconta con emozione e intelligenza Petrignani, nessuno può essere perdonato per questo.
“Lei gode a farsi picchiare, gli chiede di ucciderla a volte, mentre fanno l’amore. Per farsi perdonare di essere com’è. Dell’unica cosa che conta per lei”

Repubblica 30.3.14
Perché le “cose” ci rendono felici
Vivere in un’epoca piena di oggetti e di merci è una benedizione, secondo il filosofo Emanuele Coccia
di Maurizio Ferraris



NELLO stesso anno 1882 in cui, da Genova, Nietzsche annunciava la morte di Dio e il trionfo del nichilismo, sul Gil Blas Zola pubblicava Al paradiso delle signore, storia al cui centro c’è uno dei primi grandi magazzini. Felicità delle donne, si dice in epoca ancora molto maschilista. Ma in realtà paradiso anche degli uomini, che negli oggetti trovano almeno altrettanta felicità. Il nichilismo - questa l’ipotesi di Emanuele Coccia in Il bene nelle cose, il Mulino - è non tanto confermato, quanto piuttosto scongiurato dalla felicità insita negli oggetti, e il fatto di vivere in un’epoca così piena di merci deve essere visto come una benedizione. In fondo, già nella nona Elegia duinese Rilke suggeriva di mostrare all’angelo «come può essere felice una cosa». Ma a favore dell’idea di vedere il bene solo nelle persone e non nelle cose militano molti pregiudizi tradizionali, dalla iper-valutazione del soggetto umano come fonte unica di valori, all’antropocentrismo di molte religioni, all’idea kantiana che l’unica cosa buona al mondo sia la volontà buona, le intenzioni. Ovviamente non c’è convinzione più falsa.
Così come è difficile sottoscrivere sino in fondo le filippiche che per decenni si sono scagliate contro il consumismo e l’alienazione. Ma, a ben vedere, proprio l’argomento della finitezza dei soggetti è tra quelli che depongono con più forza a vantaggio degli oggetti. Come sapevano benissimo i Faraoni, che si facevano seppellire circondati da oggetti, e si facevano imbalsamare, trasformandosi a loro volta in cose, gli oggetti dureranno molto più del nostro oblio.
Ed è un buon segno che sempre più numerosi siano i filosofi che guardano alla ricchezza degli oggetti: dalla cosiddetta “teoria orientata agli oggetti” proposta dal realismo speculativo americano, alla riflessione sugli oggetti sociali così diffusa nella filosofia contemporanea, alla riscoperta della sensibilità, cioè della via fondamentale attraverso cui incontriamo gli oggetti, alla ridiscussione della natura iperconcettuale dell’arte nel Novecento.
Rappresentante di una nuova generazione di filosofi, Coccia ha saputo dare una versione estremamente originale della filosofia dell’oggetto, con una attenzione più pronunciata nei confronti della morale e della politica rispetto all’ontologia, all’estetica e alla metafisica, che sono i campi tradizionali di applicazione. Con un percorso che si rivela come la maturazione dei suoi interessi fondamentali di lungo periodo: la filosofia medievale. E forse ancora di più la grande “Teoria dell’oggetto” di Alexius Meinong, che Coccia tradusse una decina di anni fa, anche in considerazione del fatto che il tema dell’oggetto è in Meinong strettamente connesso con il tema del valore, cioè con la portata morale dell’appello che ci viene dalle cose. È la conferma che per capire davvero il presente, per dire cose originali sull’oggi, è sempre meglio prendere le cose da lontano.

Repubblica 30.3.14
Gustave Doré
L’uomo guidato dal potere dell’immaginazione
Al Museo d’Orsay incisioni e dipinti del genio visionario che illustrò i grandi classici della letteratura, da Dante a Cervantes
di Cesare De Seta



PARIGI. NELLA più modesta biblioteca di ogni casa borghese a Parigi o a Milano, e anche in una casa sperduta della Mancha o della Scozia, c’era almeno uno dei tanti volumi illustrati da Gustave Doré: perché opere celeberrime della letteratura di ogni tempo sono passate sotto il suo bulino. Artista dal talento vulcanico, con una prodigiosa capacità di lavoro, fu incisore, caricaturista di vena salace fin dagli esordi, pittore, e sul finire della vita anche scultore di originale tempra. In una vita relativamente breve, morì a soli cinquantuno anni nel 1883, ebbe il talento del grande sperimentatore che lanciò messaggi ben oltre il suo tempo: il fumetto e il cinema hanno attinto alla sua opera con voracità, da Pabst a Welles, fino a Polanski, Tim Burton e Lucas.
Si sbaglia chi temesse di annoiarsi alla mostra Gustave Doré. L’immaginazione al potere, a cura di Edouard Papet, Philippe Kaenel e Paul Lang al Musée d’Orsay (fino all’11 maggio) oggetto di una saggia ristrutturazione: ne vien fuori un paesaggista di rango che ebbe l’estro di sperimentare il Picturesque e il Sublime, come teorizzati nel secolo dei Lumi da Edmund Burke. Nato a Strasburgo, città sempre contesa tra Francia e Germania, Doré, fu un autodidatta e un enfant prodige: a undici anni risalgono le prime litografie e adolescente comincia a collaborare alla rivista satirica Journal pour rire. Ma Parigi fu il suo destino, anche se scarpinò con l’energia di uno sportivo per tutta la Francia e la Svizzera, andò in Inghilterra e in Spagna alla ricerca degli eroi più amati e a conoscere i paesaggi ove contestualizzarli. Aveva cominciato a illustrare opere di letterati contemporanei come Balzac, Gautier, Hugo più tardi gli inglesi Coleridge e Tennyson, proseguendo con classici come il Rabelais del Gargantua e Pantagruel, il Cervantes di Don Chisciotte, il Paradiso perduto di Milton, Shakespeare, le favole di La Fontaine e di Perrault. Nel 1861 l’ Inferno di Dante ha un successo enorme, e infatti presenta al Salon una tela monumentale dedicata a Dante e Virgilio, tema caro a Delacroix: i due poeti emergono sulle acque dello Stige invaso dai corpi nudi dei dannati che hanno fattura michelangiolesca da Giudizio Universale. Un tema questo dell’inferno che ritornerà altre volte nella sua opera. Nel 1866 esce la Bibbia cui seguono altre opere a carattere religioso. Infatti è pittore di storia sacra con diverse versioni a olio di Cristo lascia il Pretorio: tela monumentale che ebbe i lusinghieri apprezzamenti di Gautier e Zola per la forza drammatica e spettacolare della scena ritratta con decine di personaggi. Tanto che divenne fonte per spettacoli teatrali, lanterne magiche, tableaux vivant.
La vita e la morte, le passioni, il dolore emergono con forza alla morte del poeta e amico Gérard de Nerval quando scoppia nel 1870 la guerra franco-prussiana, e lo strazio alla morte della madre nove anni dopo. Accanto alla ricerca dedicata ai capolavori della letteratura di ogni tempo, Doré ebbe una fervida vena sociale: fu interessato ai reietti del suo tempo, agli zingari, allo spettacolo delle feste popolari dove si trovano saltimbanchi e giocolieri che sopravvivono come possono. Un’umanità derelitta che riconosce nei quartieri più sordidi di Londra, proprio come fece Charles Dickens, e che divenne soggetto del volume London. A Pelegrinage (1872), con il testo di Blanchard Jerrold, un modesto giornalista che l’accompagnò: volume di larga fortuna che fa il paio con Le nouveau Paris( 1861) dove illustra la città sconvolta dal Barone Haussmann. La svolta versus il paesaggio si data a dopo il 1860 quando, consapevole della lezione di Gustave Courbet e di Alexandre Calame, perlustra la Svizzera prima, la Scozia poi. Questi paesi divennero scenario di acquerelli e oli, dove la suggestione delle montagne è assai forte, giungendo a esiti sorprendenti: solo Eugéne Viollet-le-Duc architetto e pittore di montagne può stargli alla pari. La catastrofe sul Cervinoè intensa e drammatica, nella veduta di Loch Lomond (Scozia) ben si vede quanto fosse stato affascinato dai grandi inglesi Gainsborough, Constable e Turner. Man mano, nel procedere di questa ricerca, la figura umana scompare del tutto: c’è un sentimento religioso e un rispetto panico per la grande scena della natura, con montagne, rocce a picco, orridi. La sua religiosità è laica, ma lo stesso vien di pensare al cristianesimo puritano del grande Caspar D. Friedrich. Gli ultimi anni sono segnati dalla malattia, ma Doré, maestro ormai celebre in tutto il mondo, si misura con la scultura con esiti davvero sorprendenti protoespressionisti e protosurrealisti, che certamente il migliore Rodin seppe studiare. La sua ultima opera fu l’illustrazione del Corvo di Edgar Allan Poe che non poté vedere stampato: immagini visionarie di alacre suggestione nelle quali il maestro sembra distillare il meglio della sua immaginazione romantica: forse influenzato dal suo coetaneo Manet e suggestionato da quanto ne scrisse Baudelaire.

Repubblica 30.3.14
Kandinsky
La luce che viene dall’alba del mondo
Una rassegna a Vercelli documenta il lavoro del pittore dagli esordi al 1922 e le suggestioni che gli ispirarono le usanze di antiche etnie
di Lea Mattarella



Nel 1889 Wassily Kandinsky è un giovane studioso di Economia politica che partecipa a una spedizione in Volodga, nel Nord della Russia per studiare il diritto e le usanze dei popoli sirieni, una piccola etnia delle nazioni komi. «È stato qui – dirà tempo dopo – che imparai per la prima volta a guardare un quadro non solamente dall’esterno, ma ad entrarvi, a muovermi in giro con esso e a mescolarmi con la sua vita. Mi accadde di entrare in una stanza; e ancora ricordo come me ne stetti affascinato sulla soglia a guardare dentro. Davanti a me stava un tavolo, delle panche e una grande, magnifica stufa. Le credenze e le dispense erano ravvivate con molti colori disposti disordinatamente. Ovunque sulle pareti erano appese stampe rustiche che raccontavano vividamente di battaglie, di un leggendario cavaliere, di una canzone, tutte rese attraverso i colori. In un angolo c’erano molte icone che mandavano scuri bagliori e davanti a esse al tempo stesso fiera e misteriosa, emanando un caldo scintillio di stelle, pendeva una lampada per immagini. Quando finalmente attraversai la soglia fu come se entrassi in un dipinto e ne diventassi parte».
Tutta la sua pittura successiva, da quando nel 1896, trentenne, si trasferisce a Monaco deciso ad abbandonare la precedente carriera per dipingere, sarà un modo per rivivere e far vivere allo spettatore quella stessa emozione. Trascinando chi guarda all’interno del quadro, risucchiandone lo spirito, avvolgendolo di forme e colori che, pur partendo dalla realtà, se ne allontanano acquistando un’affascinante libertà, irrazionale e misteriosa.
La mostra «Kandinsky, l’artista come sciamano», curata da Eugenia Petrovna, aperta all’Arca di Vercelli dal 29 marzo al 6 luglio, accompagnata da un catalogo GAmm Giunti con scritti della curatrice, di Francesco Paolo Campione e dello stesso Kandinsky, ha come punto di partenza proprio quel viaggio alla scoperta delle usanze, ma anche della spiritualità primitiva dei popoli komi. È lo stesso artista ad affermare di aver creduto che il tempo che precedeva la sua decisione di diventare pittore fosse stato perso e di essersi invece successivamente reso conto che in realtà in lui si «erano accumulate molte cose». L’arco temporale in cui questa rassegna ci conduce è quello che vede Kandinsky dagli esordi al 1922, anno in cui lascia per sempre la sua terra, dove era tornato allo scoppio della Prima guerra mondiale, perché ben presto capisce che lì non c’è posto per i suoi gialli capaci di generare energia ma adatti solo per la superficie, per l’azzurro che «più è profondo e più richiama l’idea di infinito, suscitando la nostalgia e la purezza del soprannaturale», per la forza assertiva del rosso e la «tristezza struggente del nero». Mentre il regime sovietico esalta il realismo socialista, Kandinsky torna in Germania dove insegna al Bauhaus. Ma, inseguito da una nuova dittatura che chiude la scuola di Gropius e bolla la sua pittura come degenerata, l’artista si trasferisce in Francia dove morirà nel 1944. E tutta la vita continuerà a sentire l’eco delle cupole dorate, delle trojke, dell’arte popolare, del folklore, della letteratura e della musica della sua Russia, sempre rievocata nei suoi dipinti.
Per far comprendere visivamente lo stretto rapporto che lega l’anima del pittore a quella, precedente, dello studioso di usi ed economie di popoli diversi, l’esposizione di Vercelli raccoglie accanto a un nucleo di opere di Kandinsky che provengono dai più importanti musei russi, alcuni oggetti collegati alla tradizione dello sciamanesimo e del folklore russo: bastoni, tamburi, abiti da cerimonia, elementi rituali, contenitori, stampe. Una di queste, attribuita alla bottega di Vasil’ev intitolata Canzone “ Non mi sgridare mia cara” e datata 1884, sembra proprio una di quelle ricordate da Kandinsky nella sua evocazione di storie di leggendari cavalieri e di canzoni cromaticamente accese.
Il cavaliere si colora di azzurro a Monaco, mentre Kandinsky indica la via dello Spirituale nell’arte, come chiama il suo libro uscito nel 1911. E per sottrarre la pittura all’imitazione della realtà investendola di una nuova forza profetica, l’unica strada possibile è quella dell’astrazione, di un mondo di forme e colori che esistono parallelamente a ciò che siamo abituati a vedere. Così ci si libera dalla dittatura della ragione di stampo positivista per «educare l’anima oltre lo sguardo». «L’anima è un pianoforte con molte corde. L’artista è la mano che toccando questo o quel tasto fa vibrare l’anima », diceva. Nella secolare contrapposizione tra spirito e materia Kandinsky sta decisamente dalla parte del primo. E Der Blaue Reiter, il cavaliere azzurro, movimento che fonda in quel leggendario ’11 con Franz Marc, chiarisce subito che per lui l’elemento irrazionale, quel soffio salvifico che irrora di nuova energia l’arte moderna, arriva anche dalle culture primitive, da mondi sconosciuti. Nell’almanacco pubblicato nel 1912 accanto alle opere di Picasso, Matisse, El Greco, Cézanne compaiono le sculture lignee della Nuova Caledonia, le pitture giapponesi, l’arte popolare russa, i tessuti dell’Alaska, i disegni dei bambini e dei folli. Lo sciamanesimo in questi anni monacensi è accompagnato dalla scoperta della teosofia di Helena Blavatsky e di Rudolf Steiner che gli suggeriscono che in natura si attraversa una via che va dalla materia allo spirito, un continuo processo dall’oscurità all’illuminazione. Kandinsky traduce tutto questo nel suo meraviglioso linguaggio pittorico. San Giorgio, il cavaliere che uccide il drago, è evocato con stesure di colore vibrante rosso e blu, la sua lancia è un fulmine di luce. La macchia nera (qui efficacemente messa in relazione con i tamburi sciamanici) troverà la sua armonia cosmica con l’alone di giallo, di rosa, di blu che la circondano. I capolavori di Kandinsky di questi anni sono viaggi tra forme e colori dove spesso si affacciano, stilizzati, cupole, barche con rematori, trombe, arcangeli, cagnolini, amanti abbracciati, carrozze, falci, serpenti, e cavalieri. Nel 1918 realizza alcune opere in cui torna la figura sognante e semplificata delle fiabe che lo avevano tanto influenzato all’inizio. Ma questa volta in paesaggi reinventati: stesure cromatiche scaturite da un’emotività che affiora senza sosta. «La creazione di un’opera è la creazione di un mondo», diceva Kandinsky. E ognuno di questi quadri ha la potenza infinita di un piccolo cosmo irripetibile.

Repubblica 30.3.14
Territori della psiche

le nuove uscite a cura di Doriano Fasoli

IL PAZIENTE E L’ANALISTA
Ogni capitolo è dedicato ad un concetto base della psicoanalisi clinica, dal setting al transfert, dal controtransfert all’interpretazione , dalla resistenza all’insight, seguendone lo sviluppo dai primi lavori di Freud fino alle concettualizzazio ni contemporanee più significative.
DI J. SANDLER, C. DARE, A. HOLDER FRANCOANGELI PAGG. 207, EURO 29

LA NUOVA VOLONTÀ
L’autore descrive la volontà nella prospettiva della psicosintesi di Roberto Assagioli, che per primo la riportò al centro della psicologia: una funzione che può affrancarsi da condizionamenti e abitudini, diventando libera.
DIPIERO FERRUCCI ASTROLABIO PAGG. 249, EURO 20

CHE COS’È LA COSCIENZA?
La coscienza presenta i problemi “facili”, che riguardano le diverse modalità dei processi cerebrali e che possono ricevere una spiegazione esaustiva dagli studi neurobiologici e il problema “ difficile” che riguarda invece il significato di avere un’esperienza cosciente.
DI DAVID CHALMERS CASTELVECCHI PAGG. 113, EURO 12

I DISTURBI DISSOCIATIVI DELLA COSCIENZA
Si propone di riassumere alcuni sviluppi della letteratura scientifica internazionale relativi ai disturbi dissociativi, con richiami ai temi della memoria e dei ricordi, alle linee guida terapeutiche e alle più recenti riflessioni sulla patogenesi.
DI GIUSEPPE MITI CAROCCI PAGG. 128, EURO 11

Corriere La Lettura 30.3.14
Niente illusioni, l’universo non è matematico
Per quanto possano apparire coerenti e ragionevoli i modelli aritmetici o geometrici, la rappresentazione del cosmo non è oggettiva
Risponde comunque alla nostra realtà cerebrale
di Sandro Modeo


Narrazione saggistica serrata e avvolgente, il recente libro del fisico del Mit Max Tegmark (Our Mathematical Universe ) è un ambizioso tour de force sulle più aggiornate conoscenze fisico-cosmologiche, dalle fluttuazioni quantistiche all’estensione spazio-temporale dell’universo osservabile. Insieme concreto e speculativo fino all’azzardo, Tegmark incrina il rigore teorico-sperimentale (Big Bang e Big Crunch, energia e materia oscura) con troppi cedimenti alla fisica fanta-new age (il multiverso e i mondi paralleli); ma fatta la tara a queste concessioni meta o patafisiche, il libro ha il merito indubbio di rilanciare con forza l’ipotesi, riassunta nel titolo, di un universo intrinsecamente fisico-matematico. Pur poggiandosi sulle più recenti teorie della coscienza, Tegmark vede infatti il cervello come una soglia più passiva che attiva, una mini-specola da cui osservare e scoprire — passo a passo — la rete immutabile di relazioni numeriche entro cui si organizzano stati e dinamiche della materia, dalle galassie più remote agli alberi di una foresta, dai moti dei pianeti al traffico urbano.

Nella sua versione hard — come quella di certi matematici «formalisti» — questa visione si spinge a rendere la trama matematica (aritmetica, geometria, algebra e topologia) totalmente autonoma non solo rispetto al Soggetto (al cervello), ma anche alla materia stessa. Questo senso di onnipotenza — come mostra il matematico Steven Strogatz nel suo La gioia dei numeri — è dovuto sia alle proprietà della disciplina (la sua coerenza, che si traduce spesso in concisione e bellezza), sia soprattutto alla sua efficacia descrittivo-esplicativa, tutt’altro che «irragionevole», come vorrebbe l’adagio di Eugene Wigner: vedi i nessi tra le equazioni differenziali e le leggi del moto, tra il calcolo infinitesimale e i cambiamenti di stato (dalle epidemie all’«effetto» di una palla), tra la logica binaria (0 e 1) e la codifica di suoni e immagini su un tablet. Vertice di questa efficacia sono forse le onde sinusoidali, che troviamo nelle dune desertiche, nelle vibrazioni della voce umana e nelle «increspature» della materia da cui si è originato il cosmo che abitiamo.
Eppure, ricorrendo a uno scienziato cognitivo come Stanislas Dehaene o alle riflessioni di un neurobiologo come Jean-Pierre Changeux (in un dialogo memorabile con il matematico Alain Connes), possiamo ribaltare la prospettiva, e vedere gli oggetti matematici (teoremi, proposizioni, assiomi) come «oggetti mentali stabili» prodotti dall’evoluzione, selezionati e aggregati via via proprio per la loro adeguatezza nell’aderire alle regolarità del mondo esterno, di cui il nostro cervello è incessantemente vorace per meglio adattarsi all’ambiente. Questa continuità tra biologia e cultura è ben riassunta dalla simmetria, proiettata in tempi preistorici dalla nostra morfologia bilaterale in schemi di orientamento e giudizio estetico (la scelta del partner) e poi eletta a pattern artistico (come in un quadro di Piero della Francesca o in una fuga di Bach) e a principio di teorie matematiche come quella dei «gruppi», oggi decisiva nel tentativo di armonizzare la dimensione «macro» della gravitazione con quella «micro» dei quanti.
È una continuità che tocchiamo, ancora più concretamente, nel «senso dei numeri» di cui siamo tutti, più o meno, dotati: riscontrato anche in altri animali (le capacità di conteggio nei ratti e nei colombi) e nei bambini già tra 2 e 6 mesi, questa predisposizione ha prodotto, in vari periodi e regioni geografiche, sequenze sempre più complesse e astratte, dalle tacche sulle ossa neolitiche per conteggiare i successi di caccia ai recenti oggetti elastici della topologia (i nastri di Moebius usati per raddoppiare certe memorie informatiche), passando per le misurazioni astronomiche babilonesi o la trigonometria usata dagli agrimensori.

Ed è proprio questa storicità uno degli argomenti contro il platonismo matematico: perché se è vero che la matematica non patisce i vincoli delle scienze sperimentali — che le sue teorie non smentiscono le precedenti ma le integrano, com’è successo per le geometrie non euclidee con le euclidee — il suo processo cumulativo è ugualmente sottoposto a spietati scarti di ipotesi e a congetture tormentate, come conferma la «possessione» patologica di tanti grandi matematici. E anche se Connes insiste nel distinguere l’immenso paesaggio matematico dai suoi esploratori (la Realtà matematica dagli strumenti che la decifrano), non bisogna dimenticare che quegli strumenti sono antropomorfici, vincolati alla categorie dell’immaginazione e della logica del cervello umano. Se così non fosse, l’adeguatezza descrittiva della matematica risulterebbe davvero «irragionevole».
Inoltre, indagare proprio le basi neurofisiologiche del «senso dei numeri» dissolve un altro equivoco: quello sulla glacialità anaffettiva della disciplina. Se è infatti innegabile che l’attività matematica coinvolga soprattutto aree corticali (in particolare la corteccia parietale inferiore), una simile specializzazione, come per tutte le funzioni cerebrali, va collocata in un contesto più plastico e distribuito. Lo vediamo bene nella creazione-scoperta del matematico: da un lato (esemplare il caso «proustiano» di Poincaré, che vede emergere d’improvviso la soluzione d’un problema al rientro da un’escursione geologica, dopo averlo lasciato in stand-by ) anche le intuizioni matematiche seguono un processo di incubazione-ruminazione, per lo più inconscio, in cui l’illuminazione irrompe come risonanza di elementi preesistenti. Dall’altro, l’illuminazione stessa scatena un’intensa gratificazione del cervello «limbico» (affettivo-emotivo), tanto da essere paragonata da diversi matematici all’estasi mistica.

Potente in quanto linguaggio universale e privo di ambiguità, la matematica non può però trascendere limiti e vincoli; quelli intrinseci al suo stesso linguaggio (ben descritti da Gödel) e quelli dei matematici che lo producono, così come la fisica, nelle misurazioni subatomiche, ha dovuto affrontare l’interferenza dell’osservatore. Non può cioè descrivere il mondo «dal punto di vista di Dio»: le sue complesse elaborazioni si adattano ma non coincidono con gli oggetti fisici: le traiettorie dei pianeti — ricorda Dehaene — non sono ellittiche, e la Terra non è perfettamente sferica. La realtà della materia conserva sempre un margine irriducibile di irregolarità, verso cui l’astrazione matematica è insieme approssimata e idealizzante, come un guanto elegante, ma — anche di poco — troppo stretto o troppo largo.
In quanto attività umana, la matematica può solo mediare tra le estensioni di materia «là fuori» (entità, proprietà e relazioni di un mondo senza etichette) e le elaborazioni che avvengono «là dentro», nella coscienza e soprattutto nell’inconscio della nostra materia cerebrale. In questo senso, e solo in questo senso, è lo strumento privilegiato che ci permette di essere «la misura di tutte le cose».

Corriere La Lettura 30.3.14
La violenza ha un suo stile e non viene dalla barbarie

di Adriano Favole

La generazione di antropologi italiani formatasi negli anni Duemila ha dedicato molta attenzione alla questione della violenza di massa e della memoria traumatica: sul tema, un volume curato da Fabio Dei e Caterina Di Pasquale raccoglie alcuni contributi significativi (Grammatiche della violenza. Esplorazioni etnografiche tra guerra e pace , Pacini Editore, pagine 208, e 16). Connettendo ricerche extraeuropee (Lorenzo d’Orsi in Uruguay, Francesca Cerbini in Bolivia, Sabina Leoncini tra Palestina e Israele) e italiane (Caterina Di Pasquale a Sant’Anna di Stazzema, Omar Sammartano a Bolzaneto), con un epilogo sulla messa in scena della violenza nella Body Art (Alessandra Verdini), il volume si struttura attorno a una innovativa proposta teorica che farà discutere soprattutto i (numerosi) seguaci di Giorgio Agamben (Homo sacer , Einaudi, 1995).
Quale contributo specifico fornisce l’antropologia all’analisi della violenza? Che cosa rivela lo sguardo antropologico a proposito dei centri di identificazione ed espulsione (Cie), delle carceri, della vita in luoghi frammentati da muri simbolici e reali? La proposta di Dei e Di Pasquale è quella di una lettura «culturale» della violenza. Come un linguaggio, le forme della violenza sono culturalmente modellate, attraverso «grammatiche» che ne definiscono regole e «stili». La violenza è un habitus incorporato fatto di tecniche, procedure, abilità non dissimili da quelle di un artigiano (o di un artista, come mostrano provocatoriamente Marina Abramovic e altri). La violenza è culturalmente costruita, anche se non necessariamente pianificata, e definita nei (e dai) contesti storici e politici particolari in cui si manifesta. Ed è qui che entra in gioco lo sguardo dell’antropologo/a, avvezzo «a cogliere le pratiche sociali e culturali al di là dell’ufficialità istituzionale».
De-naturalizzare il male è uno degli obiettivi centrali del volume. La violenza non scaturisce da una presunta, irriducibile animalità dell’uomo né dall’insorgere di comportamenti arcaici (la «barbarie»). Le grandi violenze di massa non si spiegano neppure con la messa a tacere della coscienza (la «banalità del male», secondo la formula di Hannah Arendt). Allo stesso modo, il paradigma della «nuda vita» e dello «stato di eccezione» elaborato da Agamben è antropologicamente inadeguato, in quanto appiattisce la violenza in una filosofia della storia che vede nello Stato l’origine d’ogni male, oscurando il ruolo di culture e attori sociali (vittime e carnefici) nel fenomeno della violenza. Le umiliazioni quotidiane che i migranti soffrono nei Cie (Fabrizio Gatti, Bilal , Rizzoli) non sono il frutto della riduzione delle loro persone a «nuda vita», ma il prodotto di tecniche e abilità di una «cultura da caserma» diffusa e pronta a manifestarsi (come mostrarono Bolzaneto e la Diaz al tempo del G8 di Genova); di visioni stereotipate delle culture dei migranti; di un dibattito politico inquinato da forze xenofobe.

Corriere La Lettura 30.3,14
Klimt, la mente e il corpo oltre l’arte /1
Il microscopio affascina il pittore: la biologia invade paesaggi e corpi
di Claudio Mencacci
psichiatra


Gustav Klimt è un pittore con una grande manualità, un artista che ha sempre lavorato con rigore, conducendo un’esistenza normale — come Renoir, Monet, Pissarro, Boldini, Matisse, Degas...
La sua vita affettiva, dall’età di 30 anni, è legata a Emilie Flöge, ma parallelamente ha anche una vita sessuale molto intensa con le sue modelle — al pari di Renoir, Toulouse-Lautrec, Gauguin, Picasso...
La Vienna dei suoi anni (a cavallo del ’900) sul ritmo della «Gaia Apocalisse» apre le porte a nuove prospettive nella medicina, nell’arte, nell’architettura, nella filosofia e nella musica, ma soprattutto crea un ponte tra scienze biologiche, basi neurologiche, letteratura e arte, avviando uno sviluppo della coscienza che prosegue fino a oggi.
Precedentemente Ernst Kris, studiando le opere del modernismo viennese, aveva gettato le basi di un connubio tra neuroscienze, psicologia cognitiva e arte. Recentemente il Nobel Eric Kandel ha ripreso i temi della neuroestetica cognitiva per descrivere le basi biologiche dell’arte attraverso l’azione dell’amigdala e delle sue connessioni, i repertori di schemi, i diagrammi, le proto immagini di cui il cervello dispone e di cui si serve per confrontare e riconoscere le forme della percezione, «gli universali della visione». Schemi percettivi collegati nelle reti neurali e immagini impresse nella memoria senza il cui aiuto non si riuscirebbe a identificare gli oggetti né a fissare le invarianze spaziali e temporali. In sintesi «non riconosceremmo nulla se già non lo conoscessimo in parte». Le neuroscienze confermano che l’interprete non è in grado di comprendere e restituire le immagini se non dispone di una vasta familiarità con l’arte in ogni tempo e luogo.

Nel pieno di questa rivoluzione culturale, Klimt — con altri pittori come Schiele e Kokoschka — riesce a dare vita a opere di grande evocatività, opere che esprimono desiderio, paura, angoscia, piacere, sessualità, spiritualità. Arte, medicina e biologia si fondono nei paesaggi, nei corpi, nelle vesti, nei mantelli delle figure di Klimt che pullulano di ovuli e spermatozoi, polline e pistilli.
Klimt è affascinato dal microscopio, strumento della nascente biologia, tanto da utilizzare simboli ed elementi appartenenti al mondo della scienza e inserirli nella sua poetica artistica. Attraverso l’eros e la sessualità Klimt conduce con veemenza una rivolta generazionale contro il tradizionalismo sociale, politico ed estetico che sfocia in un progetto utopistico: trasformare la società attraverso l’arte. Scienza e arte esprimono lo stesso anelito di ricerca, le stesse pulsioni, lo stesso «presente» teso a svelare il mistero della vita e delle energie della natura.
Klimt, a differenza di Schiele, rompe il falso binomio Arte-Follia: nella sua vita non manifesta disturbi psicopatologici, la sua struttura è sana con affetti stabili e durevoli e un grande amore per la giovanissima Alma Schindler (modella per Giuditta II ). Le donne sono per Klimt il tema centrale di tutta la sua arte, le dipinge in forma idealizzata, in tutte le pose, essenzialmente come allegoria (la giustizia e le allegorie del Fregio di Beethoven , tante allegorie delle arti e alla fine un coro delle arti che riprende il suo Inno alla gioia ). Il fregio, dipinto su tre pareti e conservato al Palazzo della Secessione a Vienna, rappresenta un cavaliere sul modello di Parsifal che con armi e corazza, per raggiungere l’estasi amorosa, attraversa ostacoli e tentazioni che sono rappresentati da figure femminili, le Gorgoni della lussuria e dell’impudicizia. Impudicizia che si ispira a una vera modella, ballerina dell’Opera di Vienna, e alle tentazioni, come le ragazze fiore (Blumenmädchen ) del secondo atto dell’opera di Wagner dove alla fine Parsifal abbraccia una figura femminile, mentre nel Fregio di Beethoven il cavaliere nudo abbraccia l’allegoria della poesia: questa è la filosofia di Klimt, arte e poesia sono la salvezza dell’uomo.
Un artista vero, Klimt, che muore per ictus a 56 anni (il ritratto sul letto di morte è di Schiele, suo grande amico, che mancherà nello stesso anno — il 1918 — per influenza spagnola). Un artista che creò un dialogo tra scienze biologiche, psicologia e arti.

Corriere La Lettura 30.3.14
Klimt, la mente e il corpo oltre l’arte /2
Eva prorompe con un sì alla vita mentre il serpente è scomparso
di Giulio Giorello


Che ci fa una gigantesca scimmia antropomorfa in mezzo a figure femminili che simboleggiano malattia, follia e morte, mentre dallo sfondo emergono le spire di lussuriosi serpenti? Gustav Klimt ha incontrato l’evoluzionismo di Charles Darwin, in quel Fregio di Beethoven (1902) che doveva illustrare l’ascesa dell’essere umano verso la gioia e la libertà. La selezione naturale non fa sconti alle specie che cercano di sopravvivere e riprodursi, e le «infinite forme bellissime» da cui prendeva congedo Darwin alla conclusione dell’Origine delle specie (1859) possono rivelarsi estremamente pericolose.
Agli albori del Rinascimento, Copernico aveva declassato la nostra Terra da centro del cosmo a piccolo astro errante intorno al Sole. E mentre qualche filosofo deplorava ancora il fatto che la biologia introducesse nell’uomo la «scimmietà», negli stessi anni della Secessione viennese Freud ritrovava le motivazioni profonde dell’umano comportamento in un inconscio primordiale coperto dalla sottile crosta della coscienza.
Prima ancora del terremoto segnato dall’esordio della psicoanalisi, Klimt aveva ricevuto (1894) dal ministero della Cultura, Religione ed Educazione l’incarico di illustrare «medicina, diritto e filosofia» per il salone delle assemblee dell’Università di Vienna. La realizzazione (1900-1903) aveva volutamente stravolto l’intenzione dei committenti che volevano che l’artista ritraesse «la vittoria della luce sulle tenebre». Erano emerse, invece, una giurisprudenza che consacra l’arroganza del potere, una pratica medica che cura senza guarire e un pensiero che si sperde in oscuri labirinti senza rispondere agli enigmi della condizione umana. I professori insoddisfatti trovavano scandalose le «brutture» che il pittore metteva in scena. La risposta di Klimt faceva sua una delle battute preferite dagli innovatori: «A ogni epoca la sua arte. E all’arte la sua libertà».
Negli stessi anni un grandissimo matematico (nonché fisico e tecnologo), il francese Henri Poincaré, teorizzava l’autonomia della ricerca pura (la scienza per la scienza) con una decisione non minore degli artisti che rivendicavano la loro indipendenza sia dai vincoli istituzionali sia dal peso della tradizione.

La mostra a Palazzo Reale di Milano, che ha anche il merito di ricostruire tele andate perdute e strutture che non possono essere spostate dalla loro originaria destinazione, mette opportunamente in luce come Klimt non si riduca affatto allo stereotipo dell’artista che esprime solo stanchezza e pessimismo, in un’atmosfera di greve «decadenza». Il carattere a un tempo stesso affascinante e terribile della natura trova un corrispondente nella capacità di andare oltre la superficie delle apparenze anche nella rappresentazione della figura umana, specie di quella femminile. Così un meraviglioso Girasole (1907-1908) può diventare donna, mentre le eroine bibliche, nel male e nel bene, come Giuditta e Salomè , possono addirittura sembrare delle temibili piante carnivore e le loro nere capigliature, segni della forza della passione, «formano un cielo scuro tra i rami degli alberi assiri, simboli di fertilità che raffigurano l’erotismo», come nota il Nobel Eric Kandel nel suo splendido L’età dell’inconscio (Raffaello Cortina, 2012).
La spregiudicatezza nei contenuti significa per Klimt anche una rivoluzione dello stile. Di fronte al realismo che ormai ci è consentito dalla fotografia, l’artista viennese abbandonava l’ideale di imitare lo spazio tridimensionale su una superficie piana — quel che a suo tempo Galileo Galilei considerava «l’eccellenza della pittura» rispetto alle altre arti — per una voluta «piattezza» che ricordava le figure su fondo oro dei mosaici bizantini. Ma ora si tratta di una spiritualità tutta carnale, come mostra l’incompiuto Adamo ed Eva (1917-1918) che conclude l’esposizione milanese. Il corpo di lui quasi si perde nello sfondo, quello di lei prorompe dal dipinto, e senza alcun senso di peccato: chiaro è il Sì alla vita della donna, e il Serpente è scomparso.

Corriere La Lettura 30.3.14
Basilea. Malevich al Kunstmuseum
Così la vacca incontrò il violino
Dopo oltre ottant’anni tornano i disegni e le illustrazioni simbolo del Suprematismo:
quadrati, croci e un minimalismo ante litteram ma anche tanti strani accoppiamenti
di Sebastiano Grasso


Per Kazimir Malevich (1879-1935), il 1913 è un anno fondamentale. Dipinge Vacca e violino («Contrapposizione alogica di due forme, come momento di lotta contro la logica, l’ordine naturale, il senso comune e il pregiudizio»); progetta una serie di riviste ispirate al Futurismo; incontra, in Finlandia, il musicista Mihail Matjuschin e il poeta Aleksej Krucenych («Primo congresso panrusso dei futuristi») con i quali decide di realizzare «un’opera-mistero», Vittoria sul Sole , di cui disegna scene e costumi e dove, per la prima volta, appare il Quadrato nero .
Quadrato che apre la strada al Suprematismo, riassunto due anni dopo nel manifesto scritto assieme a Vladimir Majakovskij, e che si concretizza nella mostra 0,10 in cui cerchi, croci, quadrati, ed altre figure geometriche, su fondo bianco, vogliono rompere con l’arte precedente («Si ricomincia da zero»).
«Solo quando rimuoveremo dalla coscienza l’abitudine di vedere, nei dipinti, cantucci di natura, Madonne e Veneri, potremo fare l’esperienza di un fine mondo puramente pittorico — scrive Malevich nel Manifesto , seguito dall’esposizione dei 39 quadri “trans-razionali” —. Io ho trasformato me stesso nello zero della forma, mi sono tirato fuori dalla fetida palude dell’arte accademica».
Suprematismo? Da supremus . «Supremazia assoluta della sensibilità pura». L’opera d’arte tende alla semplificazione geometrica: quadrati, cerchi, croci fusi nel rosso e nel grigio, anche se i colori-base restano il bianco e il nero, che assorbono tutti gli altri. Malevich si identifica col Messia e decide che le proprie opere siano il «nuovo Vangelo dell’arte». Ergo , spiegherà qualche anno dopo, «se l’umanità ha disegnato la Divinità a propria immagine, allora forse il Quadrato nero è l’immagine di Dio come essenza della sua perfezione».
Successivamente, Malevich si volgerà all’arte applicata. Alla pittura tornerà nel 1927: «È insita nel nostro organismo. Le sue vampate sono grandiose e perentorie. Il mio sistema nervoso ne è colorato». L’artista russo si considera una sorta di Cristoforo Colombo dell’astrattismo (che naviga negli spazi cosmici dell’immaginazione), tant’è che nell’Autoritratto (1933) si dipinge come nell’immagine ufficiale del grande esploratore, attribuito al Ghirlandaio.
Nel 1927, Malevich va a Varsavia per una personale e da lì, a Berlino, per un’altra mostra. Durante la permanenza nella capitale tedesca conosce Schwitters, Naum Gabo, Le Corbusier, Arp. Nella collana Bauhausbücher, pubblica Die gegenstandslose Welt , una sorta di «visione del mondo», dove, partendo dal quadrato, egli sviluppa e spiega la concezione del Suprematismo, affidato alla pura e semplice percezione. Accompagnano il testo una serie di illustrazioni da lui riprese da disegni precedenti che, adesso, fanno parte del fondo grafico del Kunstmuseum di Basilea. Il quale, ad oltre ottant’anni di distanza, ha deciso di ripubblicare Il mondo come oggettività , con una nuova traduzione — ritenendo la precedente malfatta — e scritti di Britta Tanja Dümpelmann e di Simon Baier e, contemporaneamente, di esporre i disegni che ispirarono quelli del volume. Immagini e scritte esplicative.
Dal 1927 al 1913. Sembra di assistere ai quadri di Vittoria sul Sole . Primo quadro. Bianco e nero. Pareti bianche, pavimento nero. Due futuristi stracciano il sipario. «Tutto è bene quel che finisce bene!» dice il primo. E il secondo: «E quel che finisce?». Replica. «Non ci sarà fine! Noi sconfiggiamo l’universo, noi armiamo contro di noi il mondo, organizziamo la strage degli spaventapasseri, quanto sangue, quante sciabole e corpi da cannone! Ne carichiamo a mucchi. Grasse bellezze tappammo in casa, là diversi ubriaconi camminino pure, nudi, non abbiamo canti, sospiri, lodi che leniscano la muffa di putride naiadi». «Sole, tu generavi tormenti e bruciavi col tuo raggio fiammante, ti avvolgeranno in una coltre polverosa, ti inchioderanno a un palazzo di cemento».
Fra astrazione e figurazione, sullo sfondo domina il Quadrato nero , immagine-simbolo del Suprematismo, in contrasto con Vacca e violino , che accosta due figure non compatibili. Entrambi, però, generate dalla Vittoria sul Sole , certamente uno degli esperimenti più interessanti dell’avanguardia russa degli anni Venti.

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il Sole24ore domenica 30.3.14
Fabriano, storia di carta

In occasione delle manifestazioni per i 750 anni della carta di Fabriano, si aprirà la nuova area Carta del Museo Nazionale della Scienza e della Tecnologia Leonardo da Vinci (via san Vittore 21 Milano). Le iniziative per festeggiare i 750 anni della carta proseguono durante l'anno: tra le altre segnaliamo «Fabriano Boutique», laboratorio di design cartotecnico, che presenta la linea celebrativa 750, un grande omaggio ai personaggi più prestigiosi che hanno utilizzato la carta Fabriano, diversi appuntamenti in giro per l'Italia con Officine Fabriano. Nuove tappe anche per FABRIANOospita e #SCRIVERELETTERE il progetto di Fabriano dedicato a come è bello pensare, scrivere e ricevere qualcosa di scritto. Infine l'Istituto di Cultura Italiano di Parigi (maggio – giugno) ospita la mostra storica, tecnica e artistica dedicata all'evoluzione dalla fabbricazione della carta fabrianese dal passato ai giorni nostri (tutte le info su fabriano.com).
Per i lettori del Domenicale, presentando il tagliando qui a fianco, ingresso straordinario alla serata del 4 aprile al Museo della Scienza per l'inaugurazione dell'area Carta e la presentazione del libro a cura di Chiara Medioli Cotone, Conigli e invisibili segni d'Acqua (Corraini Edizioni) con una chiacchierata insieme a Fiorenzo Galli e Philippe Daverio dedicata alla storia della carta fabrianese. Sabato 5 e Domenica 6 aprile Week end Carta al Museo (info: museoscienza.org)

il Sole24ore domenica 30.3.14
Potere all'Inquisizione!
Lo storico (e nostro collaboratore) Massimo Firpo rievoca, nel suo nuovo libro, un momento topico per l'istituzione
di Massimo Firpo

Molto si è scritto e discusso sui concetti di Riforma cattolica e Controriforma, sui loro significati, i loro nessi, i loro conflitti, il loro valore periodizzante. Si tratta di concetti tutt'altro che neutrali, com'è ovvio, e anzi dotati di evidenti connotazioni ideologiche, dal momento che comportano giudizi molto diversi sulla storia della Chiesa nel '500, quando il dilagare delle eresie le impose di misurarsi con una crisi drammatica, di superare paralizzanti incertezze, di convocare un concilio e dotarsi di nuovi strumenti d'azione. Nel groviglio di problemi e tensioni che ne scaturì, Riforma cattolica e Controriforma disegnano percorsi alternativi, anche se variamente intrecciati tra loro, l'uno incentrato sulla cura animarum, sulla residenza dei vescovi e il rinnovamento del clero, sull'impegno dei nuovi ordini religiosi; e l'altro fondato invece sul primato dell'ortodossia, sulla repressione del dissenso, sull'autoritarismo ecclesiastico. In ogni caso, comunque li si voglia giudicare, ne scaturirono mutamenti profondi, che tendono invece a scomparire nell'indifferenziata prospettiva di un «cattolicesimo moderno», come alcuni propongono, appena scalfito dalla frantumazione confessionale e dalle lotte religiose del «secolo di ferro».
Per parte mia, continuo a credere che quei concetti mantengano la loro validità, ma al tempo stesso che occorra accentuarne la dicotomia anziché la sintesi, e soprattutto che occorra depotenziare il mito del concilio di Trento come punto d'avvio di una tenace azione riformatrice. In realtà, fu soprattutto nella battaglia contro ogni deviazione ereticale che prese corpo un'iniziativa politica e religiosa che identificava la riforma della Chiesa con la tutela di una granitica ortodossia, già definita prima dei decreti tridentini e quindi non negoziabile, che avrebbe trovato nel Sant'Ufficio lo strumento con cui combattere ogni diversa istanza di rinnovamento allora profilatasi. Il rischio di un tracollo della fede cattolica era troppo grave per attendere che se ne rendessero conto pontefici come Paolo III e Giulio III, indaffarati in cure mondane, privi di ogni autentica sensibilità religiosa e incapaci di capire il rischio che si stava correndo. Occorreva insomma prendere in mano le redini dell'istituzione ecclesiastica, impedendo che a raggiungere la tiara fossero altri e autorevolissimi porporati che, sostenuti da Carlo V, indicavano invece la strada dell'irenismo e del compromesso dottrinale in vista della ricomposizione della respublica christiana, il che agli occhi egli inquisitori avrebbe significato né più né meno che precipitare la Chiesa nel baratro dell'eresia. Per un solo voto ciò non avvenne nell'interminabile conclave del 1549-50, e solo per le inaudite accuse di eresia da essi scagliate contro i loro rivali. Al fine di scongiurare il ripetersi di un simile rischio, negli anni seguenti il Sant'Ufficio venne allo scoperto nel combattere una battaglia tutta interna ai vertici della Chiesa per impadronirsi dei meccanismi dell'elezione papale e del controllo politico della curia, come avvenne a partire dal 1555. Solo in un secondo tempo l'azione repressiva si sarebbe volta verso la periferia per stroncare ovunque il dissenso religioso, allargandone via via gli ambiti, fino a coinvolgere letteratura, filosofia, scienza, santità, magia, stregoneria, trasgressioni sessuali del clero e altro ancora.
Tutto ciò contribuisce a spiegare perché i trionfi del Sant'Ufficio nell'Italia del secondo '500 si accompagnarono a un sostanziale fallimento delle istanze riformatrici manifestatesi alla conclusione del Tridentino, ben presto incagliatesi nel ferreo centralismo della curia romana, nel primato dell'obbedienza, nell'intangibilità del sistema beneficiario, nelle ribadite esenzioni degli ordini mendicanti. Pronti a maneggiare la clava inquisitoriale contro chiunque non si schierasse al loro fianco, infatti, i supremi tutori della fede furono ben disposti a chiudere un occhio, e se necessario anche due, sull'ignoranza e la corruzione dei religiosi o sull'assenteismo dei vescovi dalle diocesi, purché venisse assicurata la più rigorosa tutela dell'ortodossia. Quanto al concilio, un papa in fama di austero riformatore quale san Pio V non avrebbe esitato ad affermare che su molte questioni il Tridentino era stato guidato non tanto dallo spirito santo quanto da un bizzarro «folletto»: il che fra l'altro lo avrebbe autorizzato a non rispettarne in molti casi né la lettera né lo spirito e a continuare a fidarsi più dei frati che dei vescovi. Recenti ricerche hanno documentato con grande efficacia il costante atteggiamento della curia papale in età postridentina nell'arginare l'impegno degli ordinari diocesani contro i preti criminali, che trovavano invece nei tribunali d'appello e nelle congregazioni romane una sostanziale garanzia di impunità. Ne offrono conferma gli atti delle visite pastorali di fine '600, che riflettono un clero non molto diverso da quello di due secoli prima, con buona pace del Tridentino come svolta epocale nella storia della Chiesa e punto d'avvio di una capillare riforma cattolica, sia pur lenta e difficile, ma infine vittoriosa. Al di là delle «Indie di casa nostra» ovunque denunciate dai gesuiti, ancora alla metà del Settecento Antonio Genovesi avrebbe definito «huttentotti» i contadini alle porte di Napoli, selvaggi «senz'arte e talvolta senza religione, della quale molti di costoro non hanno che la sola corteccia senza lo spirito e i principi della vera morale», e nel 1786 le condizioni del clero lunigianese sarebbero apparse disastrose al duca Pietro Leopoldo. Anche a Roma gli slanci di rinnovamento del secondo '500 vennero affievolendosi nell'età dei Borghese, dei Barberini, dei Chigi, dove il presunto rinnovamento postridentino sembrò scivolare come una lieve brezza sul sistema beneficiario e giudiziario della curia papale.
Il che non significa che la Controriforma fu tutta e soltanto dettata dall'agenda e dalle strategie inquisitoriali, ma soltanto che esse ebbero un decisivo ruolo religioso e politico nel suo momento genetico, che costante ne fu la presenza nella storia della Chiesa fino a tempi recentissimi, avvertibile anche nel pur ineguale sforzo di disciplinamento religioso e morale promosso dall'istituzione ecclesiastica dopo la conclusione del concilio. Uno sforzo che non fu solo normativo e repressivo, ma anche caritativo, assistenziale e pedagogico, spesso rivolto ai ceti sociali più deboli, benevolmente paternalistico fin dove possibile, ma se necessario imposto con la forza, attraverso i tribunali della coscienza, gli strumenti della censura, il costante appoggio del braccio secolare. Manifestatosi in forme molto diverse nei diversi contesti politici e sociali, laddove fece sentire la sua influenza esso incise nel lungo periodo sul costume collettivo, sulle pratiche sociali (si pensi al matrimonio, per esempio), sulle forme devozionali dei paesi rimasti cattolici, soprattutto in Italia, di fatto l'unico paese sottoposto alla giurisdizione papale. Ma tale sforzo fu lento, difficile, contrastato da innumerevoli resistenze esterne e interne, non di rado incerto e velleitario, soprattutto nel Mezzogiorno, in larga misura neppure sfiorato dai decreti tridentini a un secolo di distanza, senza che la congregazione del concilio avesse la forza – e forse anche l'intenzione – di fare qualcosa per debellare consolidati abusi e malcostumi del clero, la sua sostanziale ingovernabilità e il continuo infoltirsi dei suoi ranghi per sottrarsi alla giurisdizione ordinaria, l'inadeguatezza dei vescovi, le infinite prepotenze della feudalità.

il Sole24ore domenica 30.3.14
Rwanda. Le colpe dell'Onu
Chi avrebbe dovuto fermare il genocidio non l'ha fatto: i responsabili di allora hanno anche fatto carriera
di Daniele Scaglione

Il 6 gennaio del 1994, mentre tornava a casa dopo l'allenamento, la pattinatrice su ghiaccio Nancy Kerrigan fu colpita al ginocchio da un uomo. Mandante dell'aggressione era la sua rivale Tonya Harding, che voleva toglierla di mezzo in vista delle olimpiadi in Norvegia. Allo scandalo che ne derivò i network televisivi Abc, Cbs e Nbc dedicarono più spazio che al genocidio in Rwanda. Non c'è da stupirsi, perché quei tre mesi che devastarono il piccolo Paese africano, i media internazionali li raccontarono poco e male. Salvo rare eccezioni, i cronisti parlarono di una violenza imprevedibile e incontrollabile, reazione della maggioranza hutu all'uccisione del presidente Habyarimana. Quell'attentato, avvenuto la sera del 6 aprile 1994 e subito attribuito ai tutsi del Fronte Patriottico Rwandese, secondo gli organi d'informazione fu la goccia che fece traboccare il vaso, nella secolare divisione etnica tra hutu e tutsi.
Niente di tutto ciò è vero. In primo luogo, hutu e tutsi non costituivano gruppi etnici differenti. A dividerli, nel XX secolo, erano stati i colonizzatori, che attribuivano ai tutsi una certa superiorità in virtù di caratteri somatici - altezza, forma del naso, colore della pelle - che li rendevano un po' "meno negroidi". In secondo luogo, nulla di quanto accadde in quei maledetti giorni tra l'aprile e il luglio del 1994 fu improvvisato, ma avvenne secondo un piano accurato e moderno che includeva l'uso di mezzi di propaganda come la radio, l'acquisto e la distribuzione di un quantitativo di armi spaventoso e una sofisticata organizzazione che consentì di massacrare decine di migliaia di persone al giorno per cento giorni di fila. La stessa uccisione del presidente hutu Habyarimana - compiuta dagli estremisti hutu e non dai ribelli tutsi - era parte del piano, era il segnale d'inizio della mattanza. Infine, che la tragedia stava per accadere era noto: lo sapevano i dirigenti dell'Onu e i governi più potenti del mondo. Lo sapeva anche Roma, che si affrettò a mandare alcune centinaia di militari di prim'ordine per rimpatriare i nostri connazionali e altri europei.
Queste verità vennero a galla solo in seguito, grazie alle confessioni di estremisti hutu sotto processo al tribunale internazionale di Arusha e grazie al lavoro di ricercatori e intellettuali che volevano capirci qualcosa di più. Ma la fonte più inquietante è costituita da Romeo Dallaire, il capo dei caschi blu a Kigali. Dallaire, dopo il genocidio, raccontò più volte che già nel gennaio del '94 aveva allertato il Palazzo di Vetro sulla carneficina che si stava preparando. I suoi capi a New York, però, non solo non gli inviarono i rinforzi che aveva chiesto, ma gli proibirono anche di requisire le armi destinate alle milizie genocide. Il Consiglio di Sicurezza, dopo l'inizio dei massacri, decise persino di ridurre i soldati a sua disposizione da 2.500 a 270 e se Dallaire potè invece contare su 454 effettivi è solo perché i caschi blu ghanesi non se la sentirono di abbandonare i rwandesi.
Dell'uccisione di almeno 800mila persone è dunque responsabile chi il genocidio lo organizzò ed eseguì ma anche chi, potendo fermarlo, scelse di non fare nulla. Tra i primi, molti stanno facendo i conti con la giustizia internazionale o con quella rwandese. Tra i secondi, la situazione è invece desolante: chi ha commesso gravissimi errori ha fatto carriera. Il caso più eclatante è forse quello di Kofi Annan, vice segretario Onu ai tempi del genocidio e capo diretto del generale Dallaire. Due anni dopo il disastro, Annan fu scelto come Segretario Generale delle Nazioni Unite, carica ricoperta per due mandati consecutivi. Carriera in progressione anche per i suoi più diretti collaboratori nel '94, Maurice Baril e Iqbal Riza. Madaleine Albright ai tempi rappresentava gli Stati Uniti presso il Consiglio di Sicurezza e si oppose con decisione al rinforzo della missione di caschi blu in Rwanda: nel successivo mandato presidenziale di Bill Clinton, venne promossa a segretario di Stato. Il governo di Parigi invece si schierò con decisione, ma dalla parte sbagliata. Sostenne gli estremisti politicamente e militarmente - prima, durante e dopo i massacri - e mandò addirittura il suo esercito a proteggerne la fuga in Zaire, quando il Fronte Patriottico Rwandese stava per vincere la guerra. Mitterrand inaugurò anche la stagione revisionista. Verso la fine del 1994, a un giornalista che lo interpellava sul genocidio in Rwanda, chiese: «Di quale genocidio parla? Del genocidio dei tutsi a opera degli hutu o di quello degli hutu a opera dei tutsi?».
A distanza di vent'anni, la memoria collettiva di questa tragedia è ancora tutta da costruire. Così come nel '94 venne raccontato poco e male, oggi quell'evento viene ricordato in modo insufficiente e impreciso. È emblematico che il prodotto mediatico che più ne ha fatto parlare, il film Hotel Rwanda, sia sostanzialmente un falso. Racconta le sorti di circa 1.300 persone che si nascosero nell'Hotel delle Mille Colline, un albergo di lusso della capitale ma, nella realtà, il direttore dell'albergo non fu l'eroe raccontato dal regista Terry George e interpretato da Don Cheadle, bensì un personaggio ambiguo che approfittò delle persone in fuga, ricattandole e togliendo loro ogni avere.
Questa superficialità nel ricordare quel che è accaduto in Rwanda nel 1994 impedisce di riconoscerne l'importanza universale: quei fatti segnano il punto più basso della storia delle Nazioni Unite dalla loro fondazione e rappresentano il più grande fallimento della comunità internazionale dalla fine della Seconda Guerra Mondiale. Proprio pensando agli orrori di quel conflitto, i rappresentanti dei «popoli delle Nazioni Unite» - così sono indicati in apertura dello Statuto dell'Onu - avevano preso l'impegno più solenne: intervenire senza indugi per fermare un genocidio. Ma cinquant'anni dopo, mentre un genocidio stava accadendo di nuovo, quei popoli si sono voltati dall'altra parte.

il Sole24ore domenica 30.3.14
Il lato scientifico della storia
di Marco Ciardi

La storia, come la scienza, è piena di misteri, talvolta molto intricati, e gli storici lo sanno bene. La storia però, come la scienza, ha le sue regole. Per questo motivo un grande storico quale Carlo M. Cipolla ha potuto sostenere che la costruzione di una «metodologia rigorosa» in ambito storico ha reso giustificabile «l'uso dell'aggettivo "scientifico" applicato allo studio della storia nei nostri giorni». Tale metodologia prevede anche una attenta analisi del curriculum e della professionalità di coloro che trasmettono o riportano le fonti. Una delle cause di «narrazioni menzognere», scriveva lo storico arabo Ibn Khaldun (vissuto nella seconda metà del XV secolo), «è la cieca fiducia verso chi le riferisce: su chi trasmette notizie andrebbe invece condotta la stessa indagine che i giudici fanno subire ai testimoni».
Questo è un punto importante. Ad esempio, i lettori di testi relativi a enigmi e segreti della storia sono abituati a verificare l'effettiva preparazione e competenza degli autori nello specifico campo di cui stanno parlando, oppure tendono a fidarsi in maniera acritica delle informazioni che vengono riportate? E se quelle informazioni fossero errate, distorte o deformate? «Dimmi che amici hai, e ti dirò che storico sei», affermava Arnaldo Momigliano in un fondamentale articolo del 1974, Le regole del gioco nello studio della storia antica: «ogni storico serio nel dubbio consulta i colleghi, soprattutto quei colleghi che hanno fama di essere scettici e inesorabili». Non a caso, gli autori di testi pseudostorici (e pseudoscientifici) fanno sempre continui rimandi fra loro, cercando di far vedere come il giudizio positivo di uno avvalori quello dell'altro, senza tuttavia confrontarsi con il parere degli specialisti. Questo non significa, ovviamente, che importanti contributi alla ricerca storica non possano venire dall'apporto di dilettanti o appassionati cultori della materia. Ma, come accade nell'ambito della ricerca scientifica, il confronto con la comunità degli storici non può essere eluso, così come quello con le regole (faticosamente costruite nel corso del tempo) che stabiliscono la serietà e la validità di una ricerca.
Anche la storia, come la scienza, è soggetta a un continuo avanzamento del sapere. Vale per la storia quello che Feynman ha scritto per la scienza: «Se non si potesse, o volesse, guardare in nuove direzioni, se non si avessero dubbi, o non si riconoscesse il valore dell'ignoranza, non si riuscirebbero ad avere idee nuove. Non ci sarebbe nulla che valga la pena di verificare, perché sapremmo già cos'è vero e cos'è falso. Quindi ciò che oggi chiamiamo "conoscenze scientifiche" è un corpo di affermazioni a diversi livelli di certezza. Alcune sono estremamente incerte, altre quasi sicure, nessuna certa del tutto». Sostituiamo "conoscenze scientifiche" con "storiche": la sostanza del discorso resta immutata. Possono essere scoperti nuovi documenti, che portano alla costruzione di nuove storie. Oppure, documenti già noti possono essere letti sotto un'altra luce, in un'altra ottica. Per questo motivo gli storici, come amava ripetere Paolo Rossi, «sono abituati alla variabilità delle interpretazioni e riescono a manifestare una sufficiente dose di tolleranza anche di fronte a interpretazioni così diverse da rasentare la incompatibilità».
Ci sono però due comportamenti che non sono consentiti nella ricerca storica: 1) raccontare delle storie immaginarie, falsificando i fatti e il contenuto originale delle fonti se non, addirittura, inventando le fonti stesse; 2) negare la realtà di determinati fatti ed episodi, quando la comunità degli storici ne abbia accertato l'esistenza sulla base di documenti, esame critico delle fonti, testimonianze verificate e incrociate. Oltre ogni ragionevole dubbio.

il Sole24ore domenica 30.3.14
I segreti della natura. Ogni cosa è informata
I «bit» sostanza prima del mondo? Studiosi di diverse discipline ne hanno discusso a un recente convegno in un'isola dei Caraibi
di Aldo Rovelli

Di cosa è fatto il mondo? Un'ipotesi confusa e controversa anima discussioni di scienziati in discipline che vanno dalla fisica teorica alla biologia, dalla filosofia alla neuro-scienza: se il mondo fosse fatto di informazione? Studiosi di discipline svariate si sono riuniti recentemente sull'isola di Vieques nei Caraibi, per fare il punto sulla natura dell'informazione e il suo ruolo possibile per spiegare «la natura delle cose». Il convegno era promosso da FQXi, una vivace fondazione privata americana che sostiene la ricerca su questioni scientifiche speculative ai margini del sapere attuale. Il tema del convegno, una domanda provocatoria: «È possibile che il mondo sia fatto di informazione?»
L'informazione è l'unità di misura che usiamo quando comperiamo una chiavetta Usb, per esempio da otto Giga. "Otto Giga" è una misura della quantità di dati che la chiavetta può contenere, cioè quanta informazione possiamo fissare nella sua memoria. Sono molte le quantità che si misurano in termini di unità d'informazione: la capacità della memoria dei calcolatori, la portata di una linea internet, la capacità di elaborare dati del nostro cervello, la quantità di eredità che sta scritta nel Dna, la quantità di segnali che attraversa la parete di una cellula, eccetera. La definizione più precisa di informazione è stata data nel 1948 dal matematico e ingegnere americano Claude Shannon, il padre della teoria dell'informazione.
Shannon lavorava nel centro di ricerca della compagnia americana dei telefoni e si era interessato al problema di misurare la portata delle linee telefoniche. Ma cosa "porta" una linea telefonica? Porta informazione. Nella definizione di Shannon, l'informazione è determinata dal numero di modi diversi in cui qualcosa può stare. Per esempio la memoria interna della chiavetta Usb può essere messa in un certo numero di configurazioni differenti, e questo numero è l'informazione che può contenere. L'unità minima di informazione si chiama "bit" e designa un qualcosa che possa stare solo in due posizioni. Per esempio una moneta sul tavolo può mostrare "testa" o "croce". Se so che è "testa", dispongo di un singolo bit di informazione. Abbastanza semplice. Ma l'importanza di tale «conteggio del numero di modi in cui qualcosa può stare» appare ovunque. Alcuni esempi: «Perché il calore fluisce dai corpi caldi ai corpi freddi?» La risposta è che ci sono più configurazioni in cui gli atomi dei due corpi possono stare quando la temperatura dei due corpi è uguale. L'intera scienza del calore, la termodinamica, può quindi essere compresa puramente in termini di informazione. In un altro campo, la meccanica quantistica, il linguaggio di base della fisica fondamentale, si può formulare in termini di informazione che un sistema ha su un altro sistema. In tutt'altro ambito, uno degli approcci più interessanti allo studio scientifico della coscienza (l'integrated information theory of consciousness) è interamente basato sulla teoria dell'informazione. Un'interpretazione dei sistemi viventi di cui si fa spesso uso in biologia è come sistemi che sono in grado di raccogliere e usare informazione. La teoria dell'evoluzione è basata sul passaggio di informazione dai genitori alla prole… Ovunque si guardi, alla base della nostra comprensione del mondo sembra entrare in gioco la nozione di informazione. C'è un sentimento diffuso che questa nozione debba giocare un ruolo molto generale nella nostra comprensione del mondo.
Alla fine degli anni 80, il grande fisico americano John Archibald Wheeler, allievo di Bohr, collaboratore di Einstein e padre della gravità quantistica, avanzò un'ipotesi sconcertante: che sarebbe utile pensare che tutto è solo informazione. Wheeler ha coniato uno slogan per esprimere quest'idea: «It from bit». Letteralmente la traduzione dello slogan è «esso dai bit». Qualcosa come «tutto è bit», o «qualunque cosa è fatta solo di bit, cioè di informazione». La proposta di Wheeler lasciò tutti confusi e pochi la presero sul serio. Oggi Wheeler non è più fra noi, ma la sua idea ha continuato a serpeggiare ed influire in campi diversi dalla scienza. Alla conferenza di Vieques la discussione è venuta completamente alla luce, e l'ubiquità del concetto di informazione è diventata palese. C'è oggi di nuovo chi suggerisce che l'"informazione" possa essere la sostanza prima del mondo, più fondamentale che non materia, campi o energia.
Nessuno, a dire il vero, ha le idee chiare. Il punto unificante sembra essere il fatto che la trama del mondo non viene dagli oggetti, ma dalle relazioni fra gli oggetti, e dai processi. L'idea di "oggetto", di "sostanza", così cara alla metafisica occidentale, si sta sciogliendo in rivoli diversi, messa in questione da discipline che vanno dalla fisica alle scienze che studiano il cervello, dalla filosofia della scienza alla biologia. Pensare il mondo come un insieme di oggetti sembra funzionare sempre meno. Un oggetto esiste come nodo di un insieme di interazioni, di relazioni, e queste possono essere descritte in termini di informazione relativa di sistemi (o processi): informazione che un sistema ha su un altro sistema. In fondo che cosa sono un'onda del mare, una montagna o una nuvola, se non una porzione del mondo che assume un'identità individuale solo perché noi, che le guardiamo, le consideriamo come entità distinte? Sono oggetti in sé, oppure elementi dell'informazione scambiata fra il mondo e noi? Tutto questo non è chiaro, lo ammetto, e al convegno, animato da discussioni amichevoli ma vivaci, si sono ascoltati i punti di vista più disparati. La situazione ricorda i grandi dibattiti sull'energia della fine del XIX secolo: gli sviluppi della meccanica e della termodinamica mostravano il carattere generale del concetto di energia, fino a evocare letture quasi spiritualistiche: «il mondo è pura energia», aprendo una traccia fumosa che sopravvive oggi in qualche vuoto esoterismo. Oggi sappiamo che queste derive erano prive di fondamento: l'energia è un concetto utile e generale, ma non ha nulla di extra-fisico. Con l'informazione la situazione è simile: sono in diversi a suggerire che il mondo possa essere fatto di informazione, ma per ora nessuno sa spiegare bene cosa questo significhi.
Sembra essere in difficoltà il mondo semplice delle sostanze, il mondo chiaro e distinto di Democrito: lo spazio infinito in cui corrono gli atomi. Ma è davvero così? Per Democrito quello che contava degli atomi non era solo la loro forma, ma anche il modo in cui gli atomi si combinano. Democrito usava la metafora dell'alfabeto: come le combinazioni di una ventina di lettere possono dar luce a commedie o tragedie, storie sciocche o poemi epici, così le innumerevoli combinazioni di pochi tipi di atomi possono generare la straordinaria varietà del mondo che vediamo attorno a noi. Il mondo è dunque come un linguaggio. Ma se è un linguaggio, per chi sono scritte le storie che racconta? È un linguaggio così ricco da riuscire a leggere se stesso… La colorata varietà del mondo è informazione scambiata in continuazione dal mondo con se stesso? 

il Sole24ore domenica 30.3.14
Evolversi con le storie
Jonathan Gottschall spiega perché la mente umana ha bisogno di narrazioni per crescere
Le neuroscienze cognitive al servizio della letteratura
Ernesto Ferrero

L'uomo è l'unico animale che non può vivere senza racconti, cioè senza produrre e consumare continuamente affabulazioni, invenzioni, fantasie. Elabora racconti persino quando dorme in quelle libere fiction autogestite che sono i sogni, di cui è più spettatore che regista. Sin da bambino si appassiona al gioco del «come se», si immedesima in personaggi di sua invenzione, adora i travestimenti, l'arte e la musica, è spontaneamente multiplo. E da adulto, anche a occhi aperti elabora una visione della realtà in cui la componente immaginativa ha una parte essenziale.
Questa che si configura come una vera e propria dipendenza non è un lusso, un simpatico optional per i momenti di relax. Se si trattasse soltanto di regalarci delle occasioni di piacevole intrattenimento, l'evoluzione si sarebbe già incaricata di eliminarla come un inutile spreco di energia. È stata proprio l'evoluzione a crearla, ad affinarla, a renderla indispensabile, quasi una componente dell'equipaggiamento genetico.
È questa la tesi di fondo del libro di Jonathan Gottschall, docente di inglese al Washington & Jefferson College di Pittsburgh, che si muove darwinianamente tra biologia, psicologia, neuroscienze e letteratura (The storytelling animal è il titolo originale, più suggestivo di quello italiano). Siamo dunque in presenza di un istinto fondativo, come già sapeva Sharazade, che riusciva a sospendere la sua condanna a morte incantando il sultano con le sue narrazioni. Sappiamo benissimo che i racconti che produciamo o ascoltiamo sono fittizi, eppure ne abbiamo un bisogno assoluto. È una narrazione anche la politica, quasi un talent dove i giudici sono i cittadini che votano (spesso preferendo inganni piuttosto evidenti a scelte razionali). Forse lo è persino la scienza, almeno fino a quando non sottopone le sue «narrazioni» a verifica; di sicuro la psicoterapia, dove il terapeuta diventa una sorta di editor del racconto che il paziente fa della propria vita, e cerca di metterlo in pulito.
Tuttavia l'uomo non sembra cercare storie a lieto fine. Al contrario, dimentica per un istante la sua quotidianità per immergersi in vicende complicate e spaventevoli: Edipo che si acceca per l'orrore, Medea che uccide i propri figli, i cadaveri di cui rigurgitano i drammi di Shakespeare, persino le truculente fiabe dei Grimm. La finzione narrativa si basa su problemi, conflitti, difficoltà d'ogni genere e sul loro superamento finale, come già aveva accertato Propp (curiosamente assente dal libro).
Esiste insomma una grammatica generazionale delle storie, ma perché il nero, la paura, l'orrore vi occupano una parte prevalente? Perché, sostiene Gottschall, le storie, a partire dai miti sono come dei simulatori di volo che, ponendoci di fronte a situazioni difficili, ci insegnano a elaborare i comportamenti adatti a gestirle. Sono lo spazio in cui sviluppiamo le competenze necessarie alla vita sociale. Esperimenti di laboratorio hanno dimostrato che anche gli animali sognano situazioni di pericolo o di paura, che rappresentano per loro come per gli umani un ottimo training.
La mente umana non è stata modellata per le storie, ma dalle storie, dice Gottschall. La finzione narrativa ci fornisce informazioni, precetti morali, emozioni: ci plasma. Quando ci immedesimiamo nelle storie che leggiamo o che vediamo al cinema o in tv, i nostri neuroni si comportano come se fossimo effettivamente lì. Le cellule attivate si legano insieme, e questo spiega i processi di apprendimento e il loro progressivo affinarsi: la ripetizione dei gesti corre lungo un network già stabilito. Non solo: sin da quando venivano trasmesse oralmente, le storie continuano ad adempiere la loro antica funzione di creare un legame sociale e di rafforzare una comune cultura. Sono una forza coesiva nella partita che si gioca contro il caos e la morte.
Per entrare nella mente umana, un messaggio ha bisogno di una storia che sappia creare un coinvolgimento emotivo, e in questo la narrativa funziona meglio della saggistica (difatti per sedurci l'autore ogni tanto si concede qualche inserto un po' più raccontato). Gli uomini privilegiano l'irrazionalità dei miti e delle religioni perché non riescono a tollerare l'inspiegabile, perché devono conferire un ordine e un senso alla loro esistenza e rispondere alle grandi domande che li assillano. È una strategia di sopravvivenza anche questa. C'è chi, come Richard Dawkins, sostiene che il lato oscuro e violento di certe religioni rappresenta un tragico difetto del l'evoluzione. Altri biologi pensano invece che la religione faccia funzionare meglio le società umane, connoti i gruppi, favorisca la coesione, mantenga l'ordine, privilegi l'utilità collettiva.
Qualcuno ha detto che la verità avvelena la fantasia. La nostra disponibilità a immaginare al di fuori d'ogni logica non si estende per fortuna alla sfera morale. Anche quando parla di atrocità e orrori, la funzione narrativa sottintende un senso etico, un giudizio morale. La violenza non è (per lo più) presentata in modo neutro, anche se il discorso non vale per cinema e video, dove per via dei neuroni specchio i comportamenti violenti finiscono per creare assuefazione e produrre aggressività.
E oggi? Qualcuno teme per la conservazione delle forme finzionali, alte o basse che siano ma, come è stato scritto, il futuro è poco promettente per la realtà. Grazie alle potenzialità offerte dalle tecnologie digitali, vivremo immersi in mondi sempre più virtuali e sempre meno fisici. La vera migrazione che l'umanità sta compiendo non è e non sarà quella verso lontani pianeti, ma verso i continenti fittizi offerti da tablet e smartphones. In questa overdose di virtualità si annidano molti pericoli. Speriamo che l'evoluzione abbia previsto anche questo, o quanto meno si attrezzi per limitare i danni.


il Sole24ore domenica 30.3.14
Piaceri stoici, temperanza epicurea
di Ar. M.

La famosa e, nei millenni, famigerata filosofia epicurea fiorì nel IV secolo a.C., nel cuore dell'Ellenismo, tra la Grecia e l'Asia Minore, ma a Roma dovette diffondersi relativamente presto, ancora prima di Lucrezio, se è vero che già nel 173 a.C., a un secolo dalla morte di Epicuro, il Senato decretava l'espulsione dalla città dei filosofi suoi seguaci, accusati di praticare e insegnare una condotta immorale, incentrata sull'esaltazione del piacere. Ma di che “piacere” si parla nella sapienza filosofica antica? Per capirlo piluccheremo tra i fiori del giardino, come direbbe Seneca (che amava appunto arricchire i suoi scritti di florilegi «colti dai giardini altrui»), di un'altra corrente, la sobria, insospettabile filosofia stoica. E per mettere in discussione le nostre idee più comuni riguardo al piacere daremo la parola a Marco Aurelio, che nei Pensieri non nasconde la vera e propria sensazione di godimento, per quanto di natura intellettuale, che è in grado di sperimentare nel portare a compimento il quotidiano «mestiere di uomo». «Bisogna considerare come un vero godimento tutto ciò che è possibile compiere secondo la propria natura» (X, 33). E ancora (XII, 29): «Ecco quello che ci salva nella nostra vita: l'esaminare bene a fondo che cos'è ogni cosa in se stessa, che cosa sono la sua materia e la sua causa; il praticare la giustizia e il dire la verità con tutta l'anima. Che cosa resta, poi, se non godere di vivere facendo seguire una buona azione all'altra, in modo da non lasciare il benché minimo intervallo?». Lo stesso Seneca, oltre a citare spessissimo nelle sue Lettere le massime di Epicuro, propone un'alternanza a prima vista ben poco stoica tra piaceri e doveri dell'uomo e del saggio: «Bisogna mescolare e alternare codeste cose... mantenere la mente costantemente nella stessa tensione, bensì richiamarla agli svaghi...» «E certo a ciò non tenderebbero gli uomini con così grande brama, se il gioco e il divertimento non avessero in sé un certo qual piacere naturale». E cosa dice Lucrezio, divulgatore più importante del messaggio epicureo a Roma, riguardo al piacere? Come insegna il maestro, «gloria della gente greca», gli unici piaceri che vanno perseguiti sono proprio quelli che nascono da un desiderio naturale e non superfluo, come quello di cibo o di bevande, se volto alla soddisfazione del bisogno senza eccessi. Mentre conviene guardarsi attentamente da tutti quegli impulsi che, come il desiderio sessuale, rischiano di alimentare una ricerca infinita di nuovo piacere, senza avere mai la garanzia di una completa soddisfazione, perché la «muta brama» pregusta il piacere, ma «quanto più possediamo, tanto più s'accende nel petto un desiderio selvaggio».

il Sole24ore domenica 30.3.14
Bibbia & letteratura
Com'è beat il Nazareno
È il «grande codice» della nostra cultura che ha influenzato generazioni di scrittori da Alighieri a Tolstoj da Whitman a Kerouac
di Gianfranco Ravasi s.j.

Nietzsche era convinto che Gesù fosse morto troppo giovane: «avrebbe, infatti, rinnegato lui stesso la sua dottrina, se fosse giunto alla mia età» (in Così parlò Zarathustra). L'autore dell'Anticristo era, poi, persuaso che l'apostolo Paolo fosse un deleterio "disangelista", cioè l'annunciatore di una "cattiva novella", al contrario degli evangelisti, e propugnava nell'Ecce Homo la sostituzione di Dioniso al posto di Cristo sugli altari della civiltà occidentale, facendo così salire sulla ribalta Atene e Roma e sprofondare negli abissi Gerusalemme, all'opposto di quanto sognava Giovanni nell'Apocalisse. Tuttavia, lo stesso filosofo era costretto a riconoscere in Aurora che, per noi occidentali, tra l'esperienza della lettura dei Salmi e quella di Pindaro o Petrarca c'è la stessa differenza che intercorre tra la patria e la terra straniera.
Non c'è dubbio: nonostante ogni rigetto o smemoratezza, la Bibbia costituisce – per dirla col titolo del celebre saggio di Northrop Frye – «il grande codice» della nostra cultura, il Vangelo è la sorgente della nostra civiltà, come asseriva Kant, e il cristianesimo «la lingua materna» dell'Europa, per usare una ben nota definizione di Goethe. Ecco, allora, da tempo moltiplicarsi i testi che approfondiscono la cosiddetta Wirkungsgeschichte, ossia la "storia degli effetti" che le Sacre Scritture e, più in generale, il patrimonio culturale cristiano hanno indotto nel nostro pensare, dire e agire. L'ultimo saggio che procede – ovviamente per sondaggi e per simboli – in questa ricerca vede come autrice una teologa che è anche filologa classica e anglista, la tedesca Karin Schöpflin, docente a Göttingen.
Le sue pagine si inanellano lungo la trama diacronica della Bibbia, partendo, quindi, dall'incipit genesiaco, avanzando di tappa in tappa, attraverso i libri storici, sapienziali e profetici dell'Antico Testamento, per approdare ai Vangeli, alla Chiesa delle origini dominata dalla figura di Paolo e alla grande tela finale dipinta dall'Apocalisse giovannea. In ciascuna di queste tappe, l'autrice imposta il suo discorso su due registri: l'uno è squisitamente esegetico ("biblicamente"), l'altro è, invece, dedicato al l'esemplificazione della recezione letteraria delle narrazioni, dei personaggi, dei simboli, dei temi biblici ("letterariamente"). Si ha, così, l'incrocio di due testi che, di per sé, potrebbero essere usati anche autonomamente in modo da ottenere alla fine un'introduzione alla Bibbia, da una parte, e una vasta antologia letteraria, dall'altra.
La folla degli autori coinvolti – all'appello rispondono tutti i maggiori dall'Alighieri a Tolstoj, tanto per evocare gli estremi alfabetici più significativi – rivela una sorprendente sintonia con le Scritture Sacre, talora in forme inattese, altre volte in modo provocatorio. Così, ad esempio, può sorprendere che – di fronte alla sterminata tradizione letteraria che si è aggrappata a quel capolavoro che è il libro di Giobbe fino a strattonarlo lungo territori estranei (pensiamo alla Risposta di Giobbe di Jung) – la Schöpflin abbia scelto, oltre al dramma Jedermann (Ognuno) di von Hofmannsthal, l'ultima novella del Decamerone, quella di Gualtieri, marchese di Saluzzo, e della povera Griselda.
Nello sterminato "para-testo" che fluisce dal "testo" evangelico e dal suo protagonista Gesù Cristo si fa emergere una trilogia che vede due soggetti imponenti come il Messia di Klopstock e la Risurrezione di Tolstoj, ma a sorpresa anche la "fiaba d'inverno" Deutschland di Heine con un Cristo "fallito" eppure trasformatore del mondo. E, se vogliamo risalire al Bere'shit, l'«In principio» della Genesi, ecco venirci incontro necessariamente il Paradiso perduto di Milton, ma anche l'insospettato Frankenstein della Shelley (quell'orrore è, infatti, sottilmente teologico perché prometeico e, quindi, opera di una de-creazione antidivina), il meno noto Gellert, un poeta settecentesco, e il "metafisico" secentesco Marvell col suo The Garden incentrato sulla sconcertante interpretazione del paradiso come solitudine assoluta, infranta dalla presenza dell'altro (Eva), vero peccato originale.
Ci fermiamo, senza continuare in una lettura di straordinaria attrazione e dalle tante iridescenze. Lo facciamo per lasciare spazio non a una recensione, ma solo a una segnalazione di un altro saggio ancor più affascinante che ingloba ma anche deborda dal genere ora proposto. Antonio Spadaro è il gesuita, classe 1966, divenuto noto in tutto il mondo per l'intervista a Papa Francesco pubblicata sulla «Civiltà Cattolica» da lui diretta. Egli, in verità, è anche un finissimo interprete della cultura americana contemporanea e lo manifesta ora descrivendone il landscape letterario, perché si tratta di un vero paesaggio esistenziale e spirituale che s'incrocia con quello storico-geografico. Questo affresco dell'America nella sua pelle e nelle sue vene (come dice il titolo) si trasforma in una cavalcata lungo migliaia di pagine poetiche e narrative che sono evocate da Spadaro con l'acutezza delle sue analisi, ma anche con l'ingresso diretto delle voci dei protagonisti attraverso l'intarsio delle citazioni.
Si va dal profeta e pioniere Whitman e dalla indimenticabile Dickinson, dalla «commedia umana» dell'antologia di Lee Masters o ancora dal «ring metafisico del mondo selvaggio» di London fino all'«intelligenza lirica» di Ferlinghetti, all'«epica delle cose e delle immagini» e alle loro epifanie di un Williams o della Bishop. Ma si va oltre, fino a personaggi che sempre emozionano come Carver, Sylvia Plath, la O'Connor di Wise Blood e quello «strano solitario pazzo mistico cattolico», come si autodefinì Kerouac. È proprio il ritratto di questa icona della beat generation a sorprenderci per la sua insonne spiritualità, affidata a lettere, preghiere, poesie, invocazioni rivolte a Dio, a Gesù, persino a san Paolo: «Dio, devo vedere il tuo volto questa mattina, il Tuo Volto attraverso i vetri polverosi della finestra, fra il vapore e il furore; devo sentire la tua voce sopra il clangore della metropoli... ».
E così On the road diventa un pellegrinaggio e beat è la prima battuta evangelica di beatitude: «Un pomeriggio andai nella chiesa della mia infanzia a Lowell, Massachusetts, e a un tratto, con le lacrime agli occhi, quando udii il sacro silenzio della chiesa, ebbi la visione di che cosa avevo voluto dire veramente con la parola Beat, la visione che la parola Beat significava beato... ».
Karin Schöpflin, La Bibbia nella letteratura mondiale, Queriniana, Brescia, pagg. 378, € 35,00
Antonio Spadaro, Nelle vene dell'America, Jaca Book, Milano - La Civiltà Cattolica, Roma, pagg. 336, € 18,00; dello stesso autore, ricordiamo Papa Francesco. La mia porta è sempre aperta, Rizzoli, Milano, pagg. 160, € 12,00