lunedì 31 marzo 2014

Corriere 30.3.14
Il comunista poeta che ha fatto scoprire il dubbio alla sinistra
di Paolo Franchi


Ieri ha compiuto novantanove anni Pietro Ingrao, uomo del Novecento che il secolo lo ha attraversato e vissuto intensamente tutto ma, per quanto gli hanno consentito e gli consentono le forze, pure sul secolo e sul millennio nuovi ha continuato a interrogarsi. Senza rinserrarsi nel conservatorismo e nella nostalgia, senza alzare bandiera bianca. Ma ostinandosi a cercare risposte alle sconfitte: «Pensammo una torre/scavammo nella polvere». È stato rappresentato in tanti modi, spesso astiosi. Cocciuto, anzi, tetragono, nonostante quel suo permanente arrovellarsi nel dubbio. Oppure, al contrario, astratto, sognatore, fumoso come se in testa avesse (si è sentita anche questa) i soffioni di Larderello. Ma anche le definizioni giornalistiche («padre nobile della sinistra comunista») non gli rendono giustizia. Forse perché è insensato incasellare un personaggio così. Il giovane poeta che, «con dei brutti versi» (dice lui) sulla bonifica delle paludi pontine arriva terzo ai Littoriali del 1934, dove «incontra l’antifascismo», e continua a scrivere e a pubblicare libri di poesia (Il dubbio dei vincitori , L’alta febbre del fare , Variazioni serali ) fino al 2000. Il giovane appassionato di cinema che si innamora dello Chaplin delle Luci sulla città e di Tempi moderni («Ci ha sconvolto e trascinato l’immagine della macchina, e di come l’operaio sta dentro la macchina»), ma nel 1936, allo scoppiare della guerra di Spagna, scopre che, senza dimenticare le altre, la sua passione più forte è la lotta politica. L’antifascismo. E il comunismo che, ancora nell’89, rivendica (proprio lui, così critico verso l’Urss e il cosiddetto «socialismo reale») come «orizzonte» e, nello stesso tempo, come insopprimibile «grumo di vissuto». Suo, e di una comunità che è stata e continua a pensare sua. Molti di noi, allora ragazzi, ricordano le parole (a quel tempo drammatiche) con cui concluse, nel 1966, il suo intervento all’undicesimo congresso del Pci: «Non sarei sincero se dicessi a voi che sono rimasto convinto…». E ricordano pure quella grande platea che applaudiva commossa, e quella presidenza immobile, muta, ostentatamente ostile. Probabilmente aveva torto, Ingrao, sul piano politico. Ma da quel giorno la rivendicazione del diritto al dissenso e la pratica del dubbio sono diventate, in una sinistra che non le tollerava, la sua cifra. Auguri, Pietro.

Corriere 30.3.14
Il fronte del No
«Sulle riforme una svolta autoritaria»
Rodotà e Zagrebelsky guidano la protesta contro il progetto di revisione della Costituzione: «Darà al premier poteri padronali»


«Stiamo assistendo impotenti al progetto di stravolgere la nostra Costituzione da parte di un Parlamento esplicitamente delegittimato dalla sentenza della Corte costituzionale (n. 1 del 2014), per creare un sistema autoritario che dà al presidente del Consiglio poteri padronali». Sui legge in un appello firmato tra gli altri da Gustavo Zagrebelsky e Stefano Rodotà.
«Come Berlusconi»
«Con la prospettiva di un monocameralismo e la semplificazione accentratrice dell’ordine amministrativo, l’Italia di Matteo Renzi e di Silvio Berlusconi cambia faccia mentre la stampa, i partiti e i cittadini stanno attoniti (o accondiscendenti) a guardare. La responsabilità del Pd è enorme poiché sta consentendo l’attuazione del piano che era di Berlusconi, un piano persistentemente osteggiato in passato a parole e ora in sordina accolto» si legge nell’appello ripreso anche sul blog di Grillo. «Il fatto che non sia Berlusconi ma il leader del Pd a prendere in mano il testimone della svolta autoritaria è ancora più grave perché neutralizza l’opinione di opposizione» osservano i firmatari. Che aggiungono: «Bisogna fermare subito questo progetto, e farlo con la stessa determinazione con la quale si riuscì a fermarlo quando Berlusconi lo ispirava. Non è l’appartenenza a un partito che vale a rendere giusto ciò che è sbagliato. Una democrazia plebiscitaria non è scritta nella nostra Costituzione e non è cosa che nessun cittadino che ha rispetto per la sua libertà politica e civile può desiderare. Quale che sia il leader che la propone».
Hanno sottoscritto il testo anche Lorenza Carlassare, Alessandro Pace, Roberta De Monticelli, Gaetano Azzariti, Elisabetta Rubini, Alberto Vannucci, Simona Peverelli, Salvatore Settis, Costanza Firrao contro le riforme. All’appello si sono poi aggiunti anche Beppe Grillo e Gianroberto Casaleggio.

Corriere 31.3.14
Affondo di Grasso È subito battaglia sul Senato non elettivo
Tensioni nel Pd. Il premier fa muro
di Alessandro Trocino


ROMA — «Mai più bicameralismo perfetto, sul Senato non si torna indietro». Matteo Renzi respinge l’attacco frontale del presidente di Palazzo Madama Pietro Grasso. Attacco reiterato ieri a In mezz’ora di Lucia Annunziata dopo un’intervista a Repubblica : «Non sono né un parruccone né un conservatore — spiega Grasso — sono un riformista. Ma le riforme devono stare dentro un quadro istituzionale». E sul disegno di legge che dovrebbe essere varato oggi dal Consiglio dei ministri infuria la battaglia, con Forza Italia che si prepara alla guerriglia e molti scricchiolii sinistri nel Pd e nella maggioranza.
Il segretario democratico prova a fare muro: «Capisco le resistenze di tutti, ma la musica deve cambiare». Grasso insiste e rivela: «Avevo parlato con il ministro delle Riforme Maria Elena Boschi di queste mie perplessità. Si dice: “è una bozza” e “accettiamo dei contributi” ma vedo che questo non è avvenuto». Il presidente di Palazzo Madama sostiene di essere il primo a voler «rottamare» questo Senato ma nella bozza del governo vede «molte contraddizioni in termini». In sostanza vorrebbe che il Senato, pur superando il bicameralismo perfetto, restasse elettivo, senza sindaci e governatori. Nell’intervista all’Annunziata spiega di non parlare a nome del Quirinale e aggiunge che non si può cambiare «a colpi di fiducia, come si è fatto per le Province», pensando «solo ai risparmi». Infine, lancia un monito: «I numeri non ci saranno». La Annunziata chiede: «È un avvertimento?». «No — è la risposta — è un contributo di riflessione». Anche perché, sottolinea, «in quella bozza vedo una diminuzione degli spazi di libertà e di democrazia».
Le parole di Grasso naturalmente non piacciono ai renziani. «Non stiamo cercando di fare nulla di straordinariamente rivoluzionario — assicura il sottosegretario a Palazzo Chigi, Graziano Delrio, a Che tempo che fa —, ma cerchiamo di dire che il Senato diventerà come in Germania il rappresentante delle autonomie locali: sarà un Senato di non eletti». Mentre Andrea Marcucci sostiene che «il Senato bonsai sarebbe una riformicchia». Ma Gianni Cuperlo, della minoranza, difende Grasso: «Non possiamo votare qualunque cosa, non sono disposto a sacrificare la bibbia costituzionale sull’altare dell’accordo con Verdini». Un gruppo di senatori pd (che sul tema avevano firmato due settimane fa «il documento dei 25»), diramano una nota contro «gli ultimatum» di Renzi.
Walter Veltroni, ai microfoni di Maria Latella, su SkyTg24, spiega: «È chiaro che Grasso esprime il malumore che c’è tra i senatori: ma non possiamo fare le riforme a metà». Debora Serracchiani, nuovo vicesegretario pd, risponde dura a Grasso: «Lo rispetto molto, è un presidente di garanzia ma essendo stato eletto con il Pd dovrebbe accettare le indicazioni del partito». Parole che irritano Giuseppe Fioroni: «Non è nella nostra storia richiamare le cariche dello Stato agli ordini del partito». Controreplica-precisazione della Serracchiani: «Il ruolo di garanzia del presidente Grasso non è in discussione, ma il Pd deve rispettare l’impegno con gli italiani».
Mentre Angelino Alfano (Nuovo centrodestra) si schiera con Renzi («Conservatori e difensori dell’esistente ci troveranno dall’altra parte»), da Forza Italia le reazioni sono composite. Mariastella Gelmini parla di «atto istituzionalmente clamoroso». Francesco Paolo Sisto di «resistenza fuori luogo». Renato Brunetta si incarica di esplicitare l’ambivalenza del suo partito: da una parte stigmatizza, chiedendo che il presidente della Repubblica eserciti la sua moral suasion per avere chiarezza, dall’altra sottolinea «l’inopinata» inversione di priorità decisa da Renzi (prima la riforma del Senato e poi la legge elettorale) e ne mette in dubbio la «credibilità politica».
Secondo un sondaggio Demopolis, per il programma «Otto e mezzo», il 76 per cento degli italiani sarebbe favorevole alla cancellazione del Senato come Camera elettiva.

l’Unità 31.3.14
Riforme, duello sul Senato
Grasso: «Questa legge non ha i numeri per il via libera»
«Non difendo caste né poltrone, il premier ascolti i consigli»
Testo adottato ma «salvo intese»
Senatori Pd contro Renzi. Ncd furiosa. Fi sente aria di crisi
di Claudia Fusani


Non sono né un parruccone né un conservatore. Sono un riformista, male riforme vanno fatte in un contesto costituzionale e non a colpi di fiducia che altrimenti qui è a rischio la democrazia. Io voglio solo aiutare Renzi a non incontrare quegli ostacoli che potrebbero esserci se le riforme non sono appoggiate dai senatori. E se le cose restano così, il premier non avrà i numeri». Quando il presidente del Senato Piero Grasso inizia a rispondere alle domande di Lucia Annunziata a Inmezz' ora, lo scontro è già ad alzo zero. Uno scontro istituzionale tra presidente del Consiglio e seconda carica dello Stato che segnerà inevitabilmente il percorso delle riforme. Uno scontro - va detto - che Renzi ingaggia di prima mattina appena letti L'Unità e Repubblica. Il premier chiede ed ottiene di replicare al presidente del Senato tramite i microfoni del Tg2. «Quella di Grasso è una battaglia conservatrice per difendere lo status quo» chiarisce il premier. Tradotto, significa che le riforme si fanno solo in quel modo. Il punto è che quella di Grasso non è affatto una difesa dell’esistente ma una seria ed elaborata proposta di riforma del Senato che ottiene almeno due dei tre obiettivi fissati da Renzi: una sola fiducia, fine della navicella tra le due camere per approvare le leggi e quindi semplificazione dell’iter legislativo. Il Senato immaginato da Grasso si differenzia da quello di Renzi per la composizione e la funzione: «Senatori almeno in parte eletti dai cittadini contestualmente alle elezioni dei consigli regionali» e «luogo di decisione e di coordinamento degli interessi locali in una visione nazionale, con potere di bilanciamento su alcune questioni e con il potere di legiferare su temi delicati come i diritti». E se la differenza tra eletti e non è solo una faccenda di soldi e di risparmi, attenzione, dice Grasso, «non si può riformare la Carta pensando solo ai risparmi». Stavolta c’è in palio la democrazia. Ed è chiaro, aggiunge, che «un sistema monocamerale eletto con una legge come l’Italicum che ha un forte premio di maggioranza, può mettere a rischio la democrazia».
Il faccia a faccia in tv con Lucia Annunziata diventa così, all'ora di pranzo, la replica della seconda carica dello Stato al presidente del Consiglio. A quell'ora il mondo politico è in subbuglio. E la previsione di Grasso - occhio Matteo che così facendo non avrai i numeri - diventa il filo rosso della giornata.
Il presidente del Senato scende in campo anche a nome di tutti quei senatori, nel Pd come in Forza Italia, tra i centristi e nel Nuovo centrodestra, a cui la bozza di riforma presentata da Renzi il 12 marzo non piace affatto. «Ci ha detto che era un testo aperto ai suggerimenti, invece siamo alla vigilia del Consiglio dei ministri e ancora non abbiamo un testo. Ma che modo di fare è questo» polemizza un esponente di primo piano di Ncd. Stamani, probabilmente, il disegno di legge sarà adottato dal Consiglio dei ministri ma «salvo intese». Che non vuol dire approvato. Subito dopo, infatti, comincia l’iter in commissione Affari costituzionali del Senato presieduta da Anna Finocchiaro che ha idee molto chiare su come va riequilibrata la proposta Renzi. E 25 senatori Pd, circa un quarto della squadra di palazzo Madama, ieri hanno subito reso pubblica una lettera. «Non siamo - scrivono - meri esecutori a cui non resta che alzare la mano in aula. Si lasci la porta aperta a soluzioni migliorative». La prima, la più importante: «Solo dopo aver deciso i compiti che è necessario far svolgere alla nuova assemblea di palazzo Madama valuteremo quale sia la scelta migliore rispetto alla composizione del Senato provando ad evitare il rischio di un eccesso di dopolavorismo ».
Anche tra i deputati si lavora alle correzioni del testo Renzi. Giuseppe Lauricella, deputato Pd che già ha stoppato il cammino dell’Italicum per quello che riguarda il Senato, ha pronto un emendamento che ricalca in buona parte la proposta di Grasso. E forse non è un caso.
Ncd osserva preoccupata. Gaetano Quagliariello ha depositato un proprio testo di riforma al Senato. «Qui il problema non è se i senatori siano o meno eletti ma se il testo tiene da un punto di vista costituzionale». Una domanda: «Se i senatori sono eletti di secondo grado, scelti quindi dagli enti e non rappresentano la sovranità del popolo, come fanno ad avere funzioni di revisione costituzionale?». Domanda retorica che contiene la risposta: non possono. Ecco perché è necessario fissare prima le funzioni e poi la composizione.
In tutto questo Forza Italia, maggioranza necessaria per le fare le riforme, sente l’odore del sangue, passa all’attacco e punta allo sfascio. Anche i berluscones hanno un proprio testo: senatori eletti, premierato, un’altra storia. Il capogruppo Renato Brunetta chiede «l’intervento del Quirinale» perché «tra il presidente del Senato e il presidente del Consiglio si è aperta una crisi istituzionale».
Il mistero è come sia possibile che «suggerimenti» e «consigli» possano diventare attacchi sotto la cintura. O, peggio, macigni sulla strada delle riforme.

il Fatto 31.3.14
Senato, Grasso azzoppa la rottamazione di Matteo
Sono 25 i senatori del Pd che scrivono un documento a favore delle tesi del presidente
Il gruppo guidato da Luigi Zanda ne conta in totale 108
di Stefano Feltri


Nessuno pensava che sarebbe stato facile. Ma l’inizio è il peggiore possibile: oggi il Consiglio dei ministri approverà la proposta di Matteo Renzi di abolire il Senato e trasformarlo in una “camera delle autonomie” (con rappresentanti non eletti di Regioni ed enti locali), ma già il fronte degli oppositori ha trovato il leader più autorevole: proprio il presidente del Senato, Pietro Grasso, Pd, che in una intervista a Repubblica e poi durante In mezz’o ra di Lucia Annunziata su Rai3 si oppone al progetto renziano: “Il Senato non va abolito, resti eletto dai cittadini, no a sindaci e governatori”. Al massimo un misto, un po’ di eletti e un po’ di rappresentanti degli enti locali, senza votare la fiducia al governo. La combinazione di monocameralismo e legge elettorale Italicum che assegna un premio di maggioranza al partito vincitore costituiscono “un rischio per la democrazia”, dice la seconda carica dello Stato, certificando i timori di deriva autoritaria denunciati dall’appello di Libertà e giustizia. Il quartier generale renziano non prende bene l’uscita di Grasso. Renzi si fa subito intervistare dal Tg2: “Capisco le resistenze di tutti, ma la musica deve cambiar”. Debora Serracchiani, da pochi giorni vicesegretario del Pd, viola il galateo istituzionale e intima a Grasso di adeguarsi alla linea del partito che l’ha mandato in Parlamento: “É un presidente di garanzia ma credo anche che, essendo stato eletto nel Pd, debba accettarne le indicazioni”. Richiamare la seconda carica dello Stato a seguire la disciplina di partito è un po’ troppo anche nell’epoca dell’irruenza renziana e quindi, nel giro di poche ore, la Serracchiani è costretta a precisare: “Il ruolo di garanzia istituzionale che spetta alla seconda carica dello Stato non è in discussione”.
L’offensiva della seconda carica dello Stato - che si difende, “non sono un parruccone né un conservatore” - legittima le critiche che stanno arrivando da tutti i partiti: da destra a sinistra, nessuno è disposto a concedere a Renzi il suo più grosso successo di immagine senza ottenere qualche contropartita, e dunque via con l’ostruzionismo. Sul Corriere della Sera Mario Monti, senatore a vita cui risponde quel che resta di Scelta Civica, lancia la sua proposta alternativa: un Senato composto da rappresentanti delle autonomie territoriali ma anche da “esponenti delle autonomie funzionali e sociali”, che non vota la fiducia al governo ma esprime il suo parere su alcune materie, una specie di maxi-Cnel (quello attuale sarà abolito). Nel Pd ogni minoranza interna - da Pippo Civati a Gianni Cuperlo - ha le sue perplessità e suggerimenti, che ora trovano nuova forza grazie all’uscita di Grasso. Il senatore lettiano Francesco Russo è il primo firmatario di un documento sottoscritto da 25 colleghi che non sono disposti a essere “ meri esecutori cui non resta che alzare la mano in aula”. Tradotto: la riforma del Senato va discussa con i senatori, non può decidere tutto il governo, “n o n ostante sia più divertente dipingerci come tacchini terrorizzati dall’attesa del Natale”.
Forza Italia contempla le divisioni sapendo che se Renzi riesce a salvare l’accordo con Berlusconi perde il controllo del partito (almeno delle polemiche sui giornali, la direzione è compatta), se si concentra placare il Pd mette a rischio l’intesa col Cavaliere e la grande riforma. “Sulle riforme istituzionali noi ci siamo, ma solo se sono una cosa seria, non accetteremo testi blindati”, dice Silvio Berlusconi che comincia a farsi bellicoso.

l’Unità 31.3.14
Grillo e Casaleggio con Rodotà: «No a svolte autoritarie»
I capi del M5S aderiscono all’appello di Libertà e Giustizia contro la riforma Bonsanti: una sorpresa
di Rachele Gonnelli


«Fermare la svolta autoritaria» è il titolo di un durissimo appello contro le riforme costituzionali in discussione lanciato da un gruppo di intellettuali e costituzionalisti legati all’associazione “Libertà e Giustizia”. I firmatari, che sono in gran parte gli stessi che lanciarono l’anno scorso la grande manifestazione a Roma in difesa della Costituzione - tra i quali Gustavo Zagrebelsky, Stefano Rodotà, Lorenza Carlassare, Alessandro Pace, Nadia Urbinati, Salvatore Settis, ai quali si sono aggiunti Barbara Spinelli, portabandiera della lista Tsipras, e Maurizio Landini, segretario Fiom - sostengono che l’Italicum e più in generale le riforme istituzionali non siano altro che un progetto semi-presidenzialista, tendenzialmente plebiscitario e autoritario - quello di «creare un sistema autoritario che dà al presidente del Consiglio poteri padronali» -, di fatto un sostanziale stravolgimento dell’impianto costituzionale repubblicano. E affermano che questo progetto, per come da loro delineato, deve essere fermato a tutti i costi, «con la stessa determinazione con la quale si riuscì a fermarlo quando Berlusconi lo ispirava ».
Scrivono: «Con la prospettiva di un monocameralismo e la semplificazione accentratrice dell’ordine amministrativo l’Italia di Matteo Renzi e di Silvio Berlusconi cambia faccia mentre la stampa, i partiti e i cittadini stanno attoniti (o accondiscendenti) a guardare. La responsabilità del Pd - dicono - è enorme poiché sta consentendo l’attuazione del piano che era di Berlusconi, un piano persistentemente osteggiato in passato a parole e ora in sordina accolto ».
L’appello - al quale seguiranno iniziative ancora da definire - è stato lanciato venerdì pomeriggio. Ieri è arrivato il sostegno di Beppe Grillo e Gianroberto Casaleggio. Ma è anche arrivata la presa di posizione del presidente del Senato Pietro Grasso che sembra dare alle critiche degli intellettuali una sponda istituzionale, almeno per quanto riguarda la riforma del Senato. È così, almeno, che le parole di Grasso vengono interpretate dalla giornalista Sandra Bonsanti, che di “Libertà e Giustizia” è la presidente. «Lungi da noi voler tirare per la giacca il presidente del Senato, certamente le sue parole ci incoraggiano, ci fanno sentire meno soli». Nell’appello, ammette l’ex direttrice del Tirreno, «è vero che abbiamo dovuto alzare un po’ i toni, perché altrimenti le nostre preoccupazioni sarebbero passate del tutto sotto silenzio, annullate in una sorta di pensiero unico per cui chi critica o pone problemi su modifiche di principi basilari della nostra democrazia viene tacciato di lesa maestà, incolpato di sabotare un treno in corsa».
Le proposte di Grasso sul Senato incontrano il favore dei sottoscrittori, in particolare l’idea di trasformare il Senato in vera e propria Camera alta di garanzia e di supervisione. «Sbaglia Ernesto Galli Della Loggia a tacciarci di essere intellettuali del no - dice ancora Bonsanti: Galli li ha accusati di difendere i loro «feticci ideologici» -, al contrario anche noi pensiamo che il bicameralismo perfetto vada superato. Solo, pensiamo che non si possa fare con l’accetta, né con la fretta o personalizzando il tema», così come fa Renzi quando dice che «se il Senato non va a casa, vado a casa io». Il Senato, anche per loro, dovrebbe assumere un ruolo diverso da quello, più legato al governo, della Camera - «ad esempio potrebbe occuparsi delle nomine degli enti pubblici, adesso ne arriverà un’imponente mandata, e sarebbe bello che il Senato, come negli Usa, servisse per far le pulci a queste nomine» - e dovrebbe essere più snello, con un ridotto numero di senatori. Però anche per gli intellettuali e i costituzionalisti non può essere solo una logica contabile a determinare le scelte sul taglio degli eletti.
Quanto all’appoggio di Grillo e Casaleggio, «è sicuramente importante anche se non è stato cercato». Sandra Bonsanti lo ha accolto «con sorpresa e sinceramente vorrei capire cosa vuol dire». A titolo personale dice: «Avrei preferito che ad accogliere il nostro messaggio fosse stato il Pd, il partito più grosso ». E aggiunge: «Trovo insopportabile la risposta di Serracchiani a Grasso, credo che la neo vicesegretaria del Pd prima di ribattere alla seconda carica dello Stato avrebbe fatto meglio ad attendere e fare una riflessione più attenta».

La Stampa 31.3.14
Grillo e Casaleggio, stavolta sì all’appello
“No alla svolta autoritaria di Renzi”: un fronte dal M5S a Zagrebelsky-Rodotà. Con Landini e Spinelli
Grillo: Abbiamo deciso di sostenere questo appello molto importante
Barbara Spinelli: Il fondatore del M5S un segnale l’ha già lanciato nell’intervista a Mentana
Il premier vuole riforme plebiscitarie
Il Pd sta attuando il piano che era di Berlusconi
di Jacopo Iacoboni


Stavolta Grillo e Casaleggio firmano l’appello degli intellettuali promosso da Libertà e Giustizia, che denuncia «la svolta autoritaria» verso una «democrazia plebiscitaria». E bisogna andare dentro questa storia perché potrebbe essere la spia di qualche sommovimento, anche pensando al voto imminente.
Mentre un altro appello - subito dopo le politiche, per fare delle cose insieme - era stato bruscamente rispedito al mittente da Grillo, anche con l’irrisione di quegli intellettuali, ieri il fondatore e cofondatore del Movimento cinque stelle hanno sposato in pieno il testo di L&G, rilanciandolo sul blog (unica aggiunta, una grande foto di Licio Gelli). Incapaci di stare assieme ad altri per governare, potrebbero fare strada comune al riparo dell’opposizione. Vedremo.
Il testo - firmato tra gli altri da Zagrebelsky, Rodotà, Spinelli, Ginsborg, Revelli, Settis, De Monticelli, ma anche, aggiunta di ieri, da quel Maurizio Landini certo non antipatizzante con Renzi - lamenta che «stiamo assistendo impotenti al progetto di stravolgere la Costituzione da parte di un Parlamento esplicitamente delegittimato dalla sentenza della Corte costituzionale» (tesi classica del M5S), che con «monocameralismo e semplificazione accentratrice dell’ordine amministrativo, l’Italia di Matteo Renzi e di Silvio Berlusconi cambia faccia». La responsabilità del Pd «è enorme poiché sta consentendo l’attuazione del piano che era di Berlusconi»; che lo faccia il leader del Pd «è ancora più grave perché neutralizza l’opinione di opposizione».
Barbara Spinelli sostiene di essere «sbigottita dall’ammirazione diffusa che suscita il falso nuovismo costituzionale del governo in carica. In nome della rapidità, del cosiddetto “efficientamento”, si stanno smantellando una dopo l’altra istituzioni che hanno come compito quello di garantire la pluralità dei poteri e il loro reciproco bilanciamento». E aggiunge di non esser sorpresa stavolta dell’apertura di Grillo, «un segnale già l’ha lanciato nell’intervista a Mentana, secondo me» (fu quando disse che Tsipras gli piaceva «abbastanza», pur continuando ovviamente a chiedere di votare, in Italia, il M5S). E’ davvero un punto chiave: se è illusorio immaginare che Grillo e Casaleggio facciano partecipare chicchessia al loro copyright, lo è meno pensare che possano fare, assieme a chi ci sta, una battaglia d’interdizione (anche assai spregiudicata, in Parlamento). Battaglia che incrocia mondi assai lontani dal Movimento, per esempio il girotondismo delle origini; che partiva guarda caso dalla Firenze di Renzi.
Paul Ginsborg, per dire, spiega di essere «molto preoccupato per quello che accade in Italia, dopo aver scritto più di mille pagine sulla vostra democrazia». E Marco Revelli, storico e studioso di movimenti, vede una vera e propria «manomissione della Costituzione» che porterebbe a «una sorta di plebiscitarismo personalistico basato sul rapporto diretto tra il leader e la massa, incarnato da Matteo Renzi». Una «forma di populismo tanto più pericolosa» perché sostenuta da un partito «che pretende di portare il nome “democratico”».
È un cantiere; e attenti, non è la questione Tsipras. Con le europee vicine sarebbe miope liquidarlo con alzate di spalle.

Corriere 31.3.14
I 5 Stelle firmano l’appello di Rodotà
Ecco la nuova strategia di Grillo
di Emanuele Buzzi


MILANO — Due righe, una frase secca. Un piccolo passo, che potrebbe diventare l’incipit di un nuovo cammino. Beppe Grillo e Gianroberto Casaleggio si affidano ancora una volta come tradizione al blog. Danno il loro sostegno all’appello promosso da «Libertà e giustizia» e firmato da Stefano Rodotà e Gustavo Zagrebelsky e da altri giuristi, intellettuali e scrittori contro la «svolta autoritaria» impressa dal premier Matteo Renzi sulle riforme costituzionali.
I due leader lo annunciano, appunto, con un poche parole — «Sosteniamo l’appello “La svolta autoritaria” che riportiamo integralmente» — e lasciano spazio poi ai contenuti dell’iniziativa. «Stiamo assistendo impotenti al progetto di stravolgere la nostra Costituzione da parte di un Parlamento esplicitamente delegittimato dalla sentenza della Corte costituzionale n. 1 del 2014, per creare un sistema autoritario che dà al presidente del Consiglio poteri padronali», si legge nel testo. E ancora: «Con la prospettiva di un monocameralismo e la semplificazione accentratrice dell’ordine amministrativo, l’Italia di Matteo Renzi e di Silvio Berlusconi cambia faccia mentre la stampa, i partiti e i cittadini stanno attoniti (o accondiscendenti) a guardare». Secondo i firmatari, «bisogna fermare subito questo progetto, e farlo con la stessa determinazione con la quale si riuscì a fermarlo quando Berlusconi lo ispirava. Non è l’appartenenza a un partito che vale a rendere giusto ciò che è sbagliato».
L’idea è stata raccolta dai due leader del Movimento, che seguono così un percorso iniziato già nell’ultimo mese di maggior coinvolgimento dei Cinque Stelle sia a livello mediatico sia nel dibattito politico. Una mossa in autonomia, in linea con quanto sostenuto finora sull’idea di schierarsi a seconda dei singoli atti. Un gesto che serve a respingere anche le accuse di impasse e — forse — crea un nuovo ponte verso personalità come Rodotà stimate dalla base (era stato candidato come capo dello Stato dal Movimento) e con cui si erano incrinati i rapporti dopo la querelle della scorsa primavera e l’attacco di Grillo, che lo aveva dipinto come un «ottuagenario miracolato dalla Rete».
Proprio i militanti ieri hanno discusso sul web la scelta dei due leader. Molti i consensi, ma c’è anche chi, come Michele Borrielli, propone che l’adesione all’appello venga ratificata e votata dall’assemblea dei parlamentari e degli iscritti al Movimento (con votazione online). Intanto, Grillo si prepara al lancio del suo nuovo spettacolo teatrale: la prima tappa è in programma domani sera a Catania.

il Fatto 31.3.14
Scontro Renzi-Grasso sul Senato
Grillo accoglie l’appello contro “la svolta autoritaria”
di Valeria Pacelli


Per la prima volta Beppe Grillo appoggia un’ini - ziativa politica lanciata da altri: ha dichiarato sul suo blog che sottoscriverà l’appello di Libertà e Giustizia firmato dall’ex presidente della Corte costituzionale Gustavo Zagrebelsky e da altri giuristi contro le riforme costituzionali volute dal governo. Un appello pubblicato dal Fatto Quotidiano sulla prima pagina di venerdi 28 marzo e che finora è stato quasi ignorato dalla stampa nazionale.
SUL BLOG Grillo titola il post “La svolta autoritaria”, sullo sfondo il volto di Licio Gelli, il Gran maestro della P2. E così l’appello, sostenuto anche da Stefano Rodotà e Lorenza Carlassare, diventa adesso, con il sostegno del principale partito di opposizione, un documento politico. “Stiamo assistendo impotenti al progetto di stravolgere la nostra Costituzione - scrive sul suo blog Grillo pubblicano il testo dell’associazione Libertà e Giustizia - da parte di un Parlamento esplicitamente delegittimato dalla sentenza della Corte costituzionale n. 1 del 2014, per creare un sistema autoritario che dà al presidente del Consiglio poteri padronali”. Il tema più urgente è quello dell’abolizione del Senato, con la conseguente prospettiva di un monocameralismo. Oggi il Consiglio dei ministri approverà la proposta di riforma che già ieri è stata stroncata dal presidente del Senato Pietro Grasso, che ha dichiarato: “Con un ampio premio di maggioranza e una sola Camera politica, il rischio è che possano saltare gli equilibri costituzionali e ridursi gli spazi di democrazia diretta”. Posizioni che per una volta sembrano trovare d’accordo anche il Movimento cinque Stelle. Giulia Grillo, deputata del M5s, spiega al Fatto : “La riforma del Senato non dice nulla di nuovo. Renzi mescola le carte, sostenendo che taglierà le spese. Ma non c’è uno studio serio a monte, il suo è un approccio estremamente superficiale e poco preciso. Il difetto di questo bicameralismo perfetto è la lentezza, che si potrebbe superare in altri modi”. É un punto di vista sostenuto da tutto il Movimento? “Si. Non abbiamo avuto un ampio dibattito, ma ne abbiamo già parlato”. La pensa allo stesso modo Roberta Lombardi, anche lei alla Camera per il M5s: “Siamo tutti d’accordo con questa decisione. Renzi dovrebbe capire che per risparmiare non bisogna eliminare il Senato. Potrebbero adeguare gli stipendi ai nostri, ottenendo rimborsi solo per le spese effettivamente sostenute, ovvia- mente con un tetto. Renzi dice che noi siamo populisti, in realtà lui, con questi annunci, fa grande scena, dimenticano cose reali, come il lavoro, la riforma del welfare e delle università”. Ma a parte il Movimento Cinque stelle, non ci sono altri partiti che pensano di sottoscrivere l’appello per la difesa della Costituzione.
“IO NON FIRMO l’appello - dice il deputato Pd Pippo Civati al Fatto - Ho già detto che c’è stata molta leggerezza sulla questione delle riforme, con un eccessivo protagonismo di Forza Italia”. E, pur essendo di solito il dirigente Pd più incline al dialogo coi M5s, Civati si schiera dalla parte di presidente del Senato, Piero Grasso. “Le dichiarazioni di Grasso sono molto vicine alla mia visione - continua Civati - L’idea è superare il bicameralismo, ma senza fare pasticci. Se il Senato resta, è giusto che ci siano senatori, anche in numero inferiore e pagati meno. Altrimenti bisogna avere il coraggio di abolirlo del tutto”.

La Stampa 31.3.14
Tutti i nodi difficili da sciogliere
di Ugo De Siervo


Sarà molto interessante esaminare le decisioni dell’odierno Consiglio dei Ministri in tema di disegno di legge di riforma della Costituzione: ciò non solo per l’oggettiva importanza dei due grandi temi che dovrebbero essere affrontati (modificazione del bicameralismo e nuova riforma del rapporto fra Stato e Regioni), ma anche per verificare l’effettiva esistenza di una volontà del Governo sui modi concreti con cui affrontare questi temi impegnativi e complessi.
Mentre, infatti, il Presidente del Consiglio dei Ministri ha drasticamente confermato la volontà di andare avanti su alcune linee da lui solo molto sommariamente accennate, si moltiplicano suggerimenti di autorevoli esponenti istituzionali, dal Presidente del Senato Grasso al senatore a vita Monti, di apportare non secondarie modificazioni alla progettazione, mentre altrettanto sembrano pure proporre vari partiti interni ed esterni alla coalizione di Governo. Sarà quindi interessante verificare quanto tutto ciò peserà sulle deliberazioni collegiali del Consiglio dei Ministri, che dovrebbe varare l’impegnativo disegno di legge costituzionale. 
E ciò senza considerare lo spropositato allarmismo diffuso da una inopportuna dichiarazione di alcuni intellettuali (fra cui purtroppo anche qualche autorevole giurista), che vede addirittura nella appena accennata progettazione lo stravolgimento della nostra Costituzione, se non addirittura una «svolta autoritaria». E naturalmente questo abuso concettuale e linguistico viene utilizzato nel modo più demagogico da un movimento come Cinque stelle, che pur certo non appare sempre coerente nelle battaglie liberal-democratiche (si pensi, solo per fare un esempio, ai reiterati tentativi di escludere la libertà del mandato elettorale).
Ma le scelte del Consiglio dei Ministri saranno interessanti anche in riferimento alla sostanza delle proposte che potrebbero essere avanzate, perché si potrà infine prender atto se ci si trova dinanzi a credibili progettazioni costituzionali o solo a sommarie e scoordinate ipotesi di mutamento, che rispondono al tentativo di cavalcare in superficie alcuni diffusi umori anti parlamentari o anti autonomistici. Dico questo perché purtroppo le proposte finora emerse sono davvero troppo opinabili: se sembra abbandonata l’originaria incredibile proposta di fare del Senato una sorta di assemblea dei Sindaci (108 su 150), la stessa bozza di disegno di legge di revisione costituzionale che è stata pubblicata alcuni giorni fa sul sito del Governo, appare molto discutibile in alcuni snodi fondamentali, quasi che non esistano più uffici legislativi degni di questo nome e si sia largamente dimenticata la lunga esperienza fatta nel tentativo di far funzionare il nostro regionalismo. 
Facciamo solo quattro esempi fra i tanti possibili: nel Senato ipotizzato, ogni Regione avrebbe l’identico peso, a prescindere dalla sua popolazione e dagli interessi rappresentati; tutto ciò in un Paese con venti Regioni molto diverse tra loro, produrrebbe conseguenze paradossali (si tenga anche presente che il Senato voterebbe le leggi di revisione costituzionale e contribuirebbe ad eleggere il Presidente della Repubblica). 
In secondo luogo, sul piano della legislazione, il Senato non farebbe altro che esprimere meri pareri, superabili da difforme volontà della Camera dei deputati anche quando riguardano i più incisivi limiti all’autonomia delle Regioni e pure se i pareri fossero approvati a larghissima maggioranza.
In terzo luogo, nella decisiva nuova descrizione dei criteri di divisione degli spazi legislativi fra Stato e Regioni, tutto sembra ridursi ad un’ulteriore amplissima estensione dei poteri statali, mentre l’autonomia delle Regioni sembra ridotta al lumicino, quasi che ci si sia dimenticati di quanto le Regioni fanno ormai da decenni.
Infine, sembra che ci si sia dimenticati del tutto che cinque delle venti Regioni esistenti hanno una disciplina profondamente diversa e che quindi una modifica del nostro regionalismo deve, almeno in parte, necessariamente riguardarle; altrimenti il rischio di incomprensioni e conflitti si moltiplicherebbe a dismisura.
Ecco che allora le scelte del Consiglio dei Ministri dovranno essere esaminate con grande attenzione.

l’Unità 31.3.14
Oltre il bicameralismo imperfetto
di Gianfranco Pasquino


Il bicameralismo italiano, non essendo affatto «perfetto», come troppi, persino fra gli addetti ai lavori, si ostinano a dire, deve, comunque, essere riformato. Meglio definito paritario o simmetrico, può anche essere abolito del tutto.
Esiste il monocameralismo in Paesi non scivolati sotto il tallone dell’autoritarismo né di altri «ismi» come la Danimarca, la Finlandia, il Portogallo, la Svezia. Altrimenti può essere differenziato in maniera risolutiva ed efficace, vale a dire, affinché se ne giustifichi la persistenza. Fermo restando che in nessun sistema politico bicamerale sono entrambe le Camere a dare (e a togliere) la fiducia, questa non può essere l’unica nota differenziante e la giustificazione di una presunta migliore governabilità sarebbe davvero meschina e insufficiente. La differenziazione che conta è quella che riguarda la competenza, congiunta o esclusiva, per materia. Se il prossimo Senato dovrà essere una camera di «riflessione», allora bisogna che siano chiare le materie sulle quali darà il suo apporto. La grandissima maggioranza dei parlamenti bicamerali basa la sua differenziazione sulla rappresentanza territoriale. Le due eccezioni sono costituite dal prototipo della democrazia parlamentare, la Gran Bretagna, dove la Camera dei Lord, composta da Lord ereditari o di nomina reale, ha un collegamento minimo con il territorio, e dal prototipo della democrazia presidenziale, gli Stati Uniti d’America, dove il Senato, probabilmente, il più forte ramo parlamentare esistente al mondo, ha certamente un collegamento fortissimo con il territorio, gli Stati, ma sarebbe alquanto improprio definirlo camera di rappresentanza territoriale. In Europa, la migliore e più forte rappresentanza territoriale è offerta dal Bundesrat tedesco. I suoi solo 69 componenti sono nominati dalle maggioranze di governo di ciascun Land. Vittoriosi in Baviera i democristiani nominano i loro rappresentanti al Bundesrat senza nessuna concessione ai socialdemocratici e ai verdi. Nei Länder dove vincono, i Socialdemocratici e i Verdi fanno altrettanto nominando soltanto loro rappresentanti. Lo stesso vale per tutti gli altri Länder. Mutatis mutandis, purché i mutamenti siano limitatissimi, questa modalità di composizione del prossimo, numericamente ridottissimo, Senato italiano, sono facilmente imitabili. Come stanno le cose, in Lombardia, saranno la Lega Nord e Forza Italia a nominare i loro rappresentanti (che potrebbero anche essere senatori uscenti, o giù usciti), mentre in Emilia-Romagna sarà il Partito Democratico a farlo, tenendo conto degli eventuali alleati al governo della Regione. Esiste, però, anche una modalità più innovativa, che garantirebbe rappresentanza territoriale, dando grande potere agli elettori e agli eletti. Una volta stabilito il numero complessivo dei prossimi Senatori, suggerirei non più dei componenti del Bundesrat, e distribuiti fra le Regioni di modo che quelle piccole ne abbiano uno soltanto e quelle grande non più di quattro/cinque, la loro elezione avverrebbe in una competizione su scala regionale, in inglese si dice at large. Vale a dire che ciascun elettore avrebbe un solo voto con il quale scegliere il suo candidato in liste regionali presentate dai partiti, ma anche da associazioni dei più vari tipi. Coloro che otterranno il più alto numero di voti individuale saranno eletti e andranno a rappresentare la loro Regione, proteggendone e promuovendone gli interessi in Italia, e anche in Europa, se a questo nuovo Senato saranno affidate le politiche europee e se l’UE riuscirà mai a diventare effettivamente l’Europa delle Regioni.
Stabilita con criteri chiari e univoci la composizione del nuovo Senato, dovrebbe risultare più semplice la differenziazione delle materie di competenza delle due camere. Comunque, se l’attuale Senato mira a giustificarsi come camera di riflessione, ne ha l’opportunità immediata. Respinga la blindatura imposta dal governo e proponga una riforma all’altezza della sfida. Hic Rhodus hic salta.

Repubblica 31.3.14
Come non dare alibi a chi frena il cambiamento
di Gianluigi Pellegrino



NON sarà Pietro Grasso a minare le riforme. Non avendone del resto né forza, né, crediamo, intenzione. La questione è ben più grave ed attiene da un lato a diffuse resistenze e dall’altro al cuore dell’azzardo in cui Matteo Renzi si è lanciato quando ha aperto questa nuova (ma sempre incerta) stagione italiana scommettendo su un patto costituente con
Silvio Berlusconi.
Non a caso la parte più efficace dell’intervento di Grasso è quando richiama le recenti uscite degli esponenti di primo piano di Forza Italia che hanno già sollevato un muro all’accelerazione del governo. E a darne conferma si è subito incaricato ieri stesso l’ineffabile Renato Brunetta.
È un film purtroppo già visto, e che pure qui ed ora ci sta consegnando i suoi frutti avvelenati. Dire «le regole si scrivono insieme» è impeccabile ma anche troppe volte ripetuto da rischiare di nascondere spiacevoli insidie. Sacrosanto per buona prassi politica e per vincolo normativo, con riguardo alle riforme costituzionali se si vogliono le maggioranze necessarie ad abbreviarne il percorso. E però anche insidioso se si mette troppo in ombra il merito di ciò che si vorrebbe partorire “insieme”, nonché natura, vizi e inclinazioni recidive di compagni di viaggio come Berlusconi, e della presenza non proprio rassicurante di Verdini. Il rispetto della regola del “fare insieme” non può essere la coltre sotto la quale tutto il resto, persino il merito di ciò che si fa, può restare irrilevante.
I primi concreti segnali di questo allarmante cortocircuito sono purtroppo già nella tanto attesa riforma elettorale. L’Italicum passato alla Camera è già rinnegato sostanzialmente dagli stessi partiti che lo hanno votato. Ma il guaio è che le critiche e l’abiura trovano piena conferma nei clamorosi buchi, contraddizioni, illogicità ed evidenti incostituzionalità che quel testo presenta e che quei medesimi partiti hanno causato. Basta riferirsi all’apparente pregio che tutto il resto dovrebbe farci digerire, e cioè la declamata governabilità che il ballottaggio garantirebbe. Peccato però che il compromesso concluso con Berlusconi ha portato all’aberrazione che mentre se si vince al primo turno con (solo) il 37% dei voti si ha diritto a 340 deputati, se invece si vince al ballottaggio con il 51%, la dotazione di deputati scende (incredibile solo a dirsi!) a 327. Con la conseguenza che meno voti prendi più deputati hai, e che la cosiddetta garanzia di governabilità viene affidata ad appena sei deputati, con i quali in Italia si governa cinque giorni e non certo cinque anni. Se questa sarebbe la parte buona della norma, non diciamo poi delle liste bloccate, delle soglie contraddittorie, della tradita parità di genere, dell’applicazione solo alla Camera per non rischiare (ma così garantendo!) due maggioranze diverse.
Come si vede non è nemmeno questione che il fine giustifica i mezzi, una volta che sono proprio i mezzi (il compromesso con Berlusconi) a distruggere il fine (una riforma decente). Così l’accordo con il Cavaliere rischia di rivelarsi una manna inattesa di rilegittimazione per lui, ma un ennesimo frutto avvelenato per il Paese.
Stessa giostra si rischia sul Senato, anche perché né Forza Italia né gli altri partiti (e magari qualche anima del Pd) hanno alcun interesse a consentire a Renzi di esibire risultati concreti su questo fronte prima delle europee. Allora se dall’esperienza è necessario imparare, l’unica arma per il governo è sfidare tutti con proposte chiare ed inequivoche nel merito. Se si vuol superare il bicameralismo, si deve, come dicono le stesse parole, abolire una delle due camere, assegnando poi alla conferenza unificata Stato-Regioni-Comuni, maggiori poteri sul versante della tutela del coordinamento territoriale. Alla luce del nostro impianto costituzionale la scelta più logica sarebbe abolire la Camera. Comunque si parli chiaro, senza inventare ircocervi inediti nel mondo che aumenterebbero incertezze e contenzioso costituzionale.
Proposte contraddittorie e scarsamente difendibili sul versante logico prima che tecnico rischiano di costituire la sponda più ghiotta per dare l’alibi vincente a nuove e vecchie resistenze al cambiamento.

l’Unità 31.3.14
Minoranza Pd sempre più divisa. Pressing su Speranza. Che frena
Domani l’incontro con bersaniani e lettiani
Il capogruppo: «Non mi interessano le correnti Pensiamo all’unità»
di Maria Zegarelli


Una fitta di agenda di appuntamenti nella minoranza del Partito democratico, tanto fitta che diventa faticoso presenziare a tutte le iniziative in corso per le diverse anime della cosiddetta opposizione congressuale, se ancora si può così definire. Domani sera nella sala Berlinguer della Camera si danno appuntamento Roberto Speranza, Guglielmo Epifani un consistente numero di parlamentari bersanian-lettiani per mettere insieme un’area riformatrice che, come spiega Alfredo D’Attore, «ha un’idea meno leaderistica della politica rispetto al renzismo e si rivolge oltre i confini della mozione congressuale. Quella è una fase conclusa, il rapporto positivo con Cuperlo resta intatto, ma noi vogliamo aprire un confronto sui temi politici e economici sui quali il partito è chiamato a pronunciarsi». In realtà c’è anche chi legge in questi movimenti un percorso che porti la minoranza, una parte di essa, a superare gli schieramenti congressuali, certo, ma anche la leadership di Gianni Cuperlo in vista del futuro. Nei bersaniani c’è chi guarda al giovane capogruppo Roberto Speranza che ha condotto le trattative con Renzi anche per la formazione del governo e del sottogoverno. Speranza frena. «L’8 dicembre è passato, archiviato. Non mi convincono le discussioni astratte su maggioranze e minoranze del Pd né tantomeno su correntini e correntoni - dice parlando a Milano -. È in atto una discussione molto aperta sul rilancio di un’area riformista dentro il Pd che parli a tutti, fuori dagli schemi del congresso che non c’è più. È invece interessante la sfida di un cantiere aperto alle idee, non un’area delimitata da confini predeterminati. Io lavorerò come ho sempre fatto per unire e rafforzare il Pd. La sfida di Renzi in queste prime settimane di governo è la sfida di tutti noi per cambiare l'Italia». All’incontro ci saranno anche i dalemiani Amendola, Manciulli, Danilo Leva, Basso De Caro, oltre ai lettiani De Micheli, Brandolini.
Al Nazareno invece si incontrano i giovani turchi, sempre oggi, un incontro, spiega Matteo Orfini, «per discutere di tutti gli argomenti che si affronteranno durante la riunione del gruppo dei parlamentari sul decreto Poletti sul lavoro». Ma esiste o no una presa di distanza da Cuperlo? «Per noi il congresso è finito l’8 dicembre e dal giorno dopo il nostro tema non è con chi stare nel Pd ma come stare nel Pd - risponde Orfini ». Cuperlo? «Un importante dirigente del partito». Per Orfini e i giovani turchi non esistono più maggioranza e minoranza ma il partito, le sfide che ci sono davanti. Quanto alla proposta di Matteo Renzi di aprire la segreteria ad una gestione unitaria per loro il discorso si è chiuso con la nomina di due vicesegretari di stretta osservanza renziana, «scelta legittima da parte del segretario ma in evidente contraddizione con la volontà di gestire in modo unitario il partito. Non siamo stati noi a chiedere di entrare in segreteria». Diversa la posizione dei bersaniani: «A noi non interessa chi è diventato vicesegretario, a noi - spiega D’Attorre - interessa capire che idea di partito ha in mente Renzi, quindi ogni decisione verrà rimandata a quando sarà chiaro cosa intende fare», Cioè luglio, data indicata dal segretario per aprire il dibattito proprio sul Pd.
Gianni Cuperlo l’altro giorno non ha nascosto la sua amarezza: «Quando la sinistra si chiude e si divide perde. Continuerò a lavorare per allargare, mescolare, includere. Rispetto chi non la pensa così ma credo sia un peccato rassegnarsi a correnti piccole, medie o grandi che non comunicano». Il 12 aprile ha organizzato a Roma una convention della sinistra, «una giornata dove si discute sul futuro dell'Italia e su come la nostra storia si ricolloca nella nuova storia d'Europa», come ha spiegato sulla sua pagina Facebook. Orfini non ci sarà, «ho un impegno in Romagna fissato da tempo», idem l’altro giovane turco Francesco Verducci. «Andremo ad ascoltare - dice invece D’Attorre - perché è un’iniziativa che parla oltre i confini dello stesso Pd». Di fatto è evidente che quella variegata area che si era cimentata attorno alla candidatura di Cuperlo, dopo l’esito congressuale, si è sfarinata. Su una cosa si sono ricompattati: il decreto Poletti sul lavoro che, ritengono, va cambiato. Quanto al resto c’è chi si pone il tema di una leadership alternativa a Renzi dentro il Pd e chi si pone il tema di come provare a resistere senza farsi asfaltare.

Corriere 31.3.14
Cuperlo: «Non si può votare qualsiasi cosa»


Sul fronte della legge elettorale «noi non possiamo votare qualunque cosa: su questo punto arriveremo al momento della verità». Così Gianni Cuperlo, intervenendo a un incontro pubblico del Pd a Bologna. «Aiuteremo le riforme — ha concluso l’ex presidente del partito — ma rivendicando rispetto nei principi e nel merito». E sul decreto sul lavoro: «Il governo ha tutto il diritto di realizzare il suo programma ma deve promuovere buoni provvedimenti. Il decreto sul lavoro, ad esempio è importante ma si possono fare delle correzioni per migliorarlo».

Corriere 31.3.14
«Basta professoroni, il Senato lo cambio»
«Ho giurato sulla Carta non su Rodotà o Zagrebelsky»
«No, il Senato non sarà più elettivo»
Renzi striglia Grasso: «Lancia avvertimenti. Se la riforma non passa, mollo tutto. Faremo il salario minimo»
«Sono molto colpito dall’avvertimento di Grasso sui numeri in Aula. Se l’avessero fatto Schifani o Pera si sarebbero visti i girotondi»
«Ora vedremo chi correrà più forte Mi gioco il governo e la mia storia politica»
intervista di Aldo Cazzullo

qui

l’Unità 31.3.14
Mari Elena Boschi: «Agire subito, lo chiedono i cittadini»
«I cittadini ci chiedono di uscire da questa palude»
di Vladimiro Frulletti


«Noi andiamo avanti». La ministra alle Riforme Maria Elena Boschi non pare propensa a rallentamenti sulla riforma del Senato, nonostante i dubbi del presidente Pietro Grasso. Anzi lo invita a seguire le indicazioni del Pd e «le scelte fatte da milioni di elettori democratici con le primarie» perché se è in Parlamento «come me è grazie al Pd».
Ministro, domani (oggi per chi legge ndr) dovreste approvare la proposta di riforma del Senato, ma il presidente Grasso....
«Toglierei il condizionale. La faremo».
Il presidente Grasso però non pare convinto che la proposta del governo sia percorribile. Che ne pensa?
«Penso che cerchi in qualche modo di preservare...».
...s’è definito favorevole al cambiamento.
«Sì, ha detto che anche lui è un rottamatore. In realtà, con una parte di senatori eletti, avanza una proposta intermedia che rischia di fare ammuina, di far finta che cambi qualcosa per lasciare le cose come stanno. Noi però domani (oggi ndr) presentiamo il nostro testo». Grasso sembrainvitarvi alla cautela. «Sono solo 30 anni che se ne discute fra commissioni, bicamerali, seminari, convegni. Ora si passa all’azione. I tempi sono maturi per decidere. Avevamo detto che entro fine marzo avremmo presentato la riforma del Senato e del Titolo V, l’abolizione del Cnel e delle province, e lo facciamo».
Nonostante pareri contrari così autorevoli?
«Io sento molti pareri favorevoli non solo da parte dei professori ma anche fra i cittadini e gli elettori del Pd. Abbiamo ascoltato Regioni, Comuni, parti sociali, autorevoli costituzionalisti e il giudizio complessivo è positivo. Il Pd la scelta sul Senato l’ha già fatta. E non ha mica deciso Matteo Renzi da solo, hanno scelto milioni di elettori del Pd che hanno votato alle primarie un programma chiaro in cui era scritto che se avessimo vinto noi avremmo superato il bicameralismo perfetto con un senato delle autonomie dove sarebbero stati presenti i presidenti delle Regioni e i sindaci, senza senatori eletti e senza indennità e senza potere di fiducia sul governo. Questa proposta poi è stata discussa e votata negli organismi di partito fino all’ultima direzione. Quindi, almeno per chi fa parte del Pd, sarebbe utile rispettare le decisioni prese da milioni di elettori democratici. Anche il presidente Grasso, come me, del resto è in Parlamento grazie al Pd».
Il presidente del Senato spiega che lui vuole dare un contributo proprio per modificare la riforma in modo che poi ci siano i numeri per approvarla.
«Fra i senatori ci sono le condizioni numeriche e politiche per approvarla, certo se il primo a rallentare e frenare è lo stesso presidente del Senato è ovvio che poi è difficile capire quale sia la causa e quale l’effetto. Cerchiamo di essere seri e di rispondere ai cittadini».
Cosa stanno chiedendo?
«Non solo gli elettori del Pd, ma tutti o quasi i cittadini stanno chiedendo un cambiamento vero, che si esca dalla palude di questi anni a cui ha contribuito anche un sistema istituzionale che col bicameralismo perfetto, coi suoi passaggi duplici ha reso inefficiente lo Stato impedendo spesso ai governi di dare risposte. Ecco, ora c’è da scegliere, o si è protagonisti del cambiamento o si fa gli ultimi difensori dello status quo. La bozza è a disposizione in rete dal 12 marzo, questi ripensamenti dell’ultima ora o del giorno prima fanno anche un po’ sorridere».
E dopo aver sorriso, come se lo spiega?
«Secondo me non pensavano che l’avremmo fatto davvero e quindi erano convinti di potersi prendere un po’ di tempo, di rallentare. La solita tattica del rinvio. Non hanno creduto che se noi ci prendiamo un impegno davanti ai cittadini poi lo manteniamo».
Il nome?
«Rimane. Era una osservazione giusta, fatta anche dal presidente Grasso, e l’abbiamo accolta, sarà il Senato delle autonomie. Che Senato sarà?
«Un Senato che ha pieni poteri quando si tocca la Costituzione, che svolge funzioni di garanzia a cominciare dall'elezione del Presidente della Repubblica, e dà il proprio contributo su ogni altra decisione, ma le leggi le approva la Camera».
Nessuna altra funzione legislativa?
«Voler ri-attribuire una serie di funzioni al Senato rischia di diventare il cavallo di Troia per re-introdurre l’elezione diretta dei senatori. Per noi il Senato deve invece rappresentare i territori e quindi avere le funzioni conseguenti».
Non avrà competenza su leggi riguardanti i diritti civili?
«Nella nostra proposta no proprio perché non c’è elezione diretta dei senatori. Il punto però è che non si tratta di una modernizzazione di questo Senato, ma di un altro Senato». I numeri per approvarlo ci saranno? Perché anche Forza Italia ha un’altra idea. «Forza Italia ha sottoscritto un accordo che prevede legge elettorale e riforme costituzionali e fra queste c’è anche il Senato delle autonomie tra i cui caratteri fondamentali c’è il no all'elezione diretta dei senatori. Se decide di non rispettare gli impegni se ne assumerà la responsabilità. Ma non credo che avverrà. Lo stesso vale con i partiti che sono al governo con noi, anche loro hanno sottoscritto questa intesa».
Ncd nutre dubbi...
«La bozza è stata discussa il 12 marzo dal Consiglio dei ministri dove siede come ministro dell’Interno il segretario del Ncd, Alfano, che ha dato il proprio ok».
Se le riforme non passano che succede al governo?
«Queste riforme non sono un optional, sono l’elemento centrale e fondamentale del nostro programma di governo. Perché è da qui che passa la credibilità della politica nei confronti degli italiani e dell'Italia nei confronti degli alleati internazionali. È ovvio quindi che se questo governo fallisce sulle riforme ne trarremo le conseguenze. Il presidente del consiglio non usa il politichese e ha detto chiaramente che se fallisce torna a casa. E noi con lui». Da casa chiederete un nuovo mandato agli italiani col voto? «Non diremo agli italiani “ok, scusate, avevamo fatto finta” se questo progetto di riforme sarà fermato, ma proprio per questo ci mettiamo tutto l’impegno ».
L’Italicum sembra che non piaccia più a nessuno. Riuscirete ad approvarlo entro il 25maggio?
«Il percorso prevede di anticipare le riforme costituzionali quindi chiediamo al Senato l’impegno ad approvare in prima lettura la sua riforma in tempi relativamente rapidi, poi voteremo l’Italicum entro il 25 maggio».
Nessun ripensamento?
«Miglioramenti ci possono essere, però a me l’Italicum piace perché col ballottaggio, richiesto da sempre dal Pd, porta a un bipolarismo vero superando i veti dei piccoli partiti, garantendo la governabilità e dicendo per sempre addio alle larghe intese».
Forse ci sta ripensando Forza Italia che teme che al ballottaggio ci vada Grillo. «Fi ha rispettato correttamente l’accordo fin qui. Poi se ci ripensa se ne assumerà la responsabilità. Dopo anni di immobilismo siamo a un passo dall’avere una legge elettorale che dà ai cittadini la possibilità di scegliere da chi essere governati e a chi vince le elezioni di avere la forza per attuare gli impegni presi con gli elettori. Buttare via tutto sarebbe un delitto contro l’Italia».
Visto che attorno al capogruppo alla Camera Speranza sta nascendo una nuova area nel Pd, lei è sicura che i vostri gruppi parlamentari, che sono figli di un’altra stagione politica, vi seguiranno?
«Di una nuova corrente non sentivamo proprio il bisogno. È un modo vecchio di fare politica. Tutte le scelti di Renzi si sono mosse nella direzione di superare la logica delle correnti. Nel partito ha cercato e sta cercando una gestione unitaria con le minoranze. Nello stesso governo i cosiddetti renziani sono pochissimi. Forse tutti dovrebbero cominciare a capire che il Pd è uno solo. E chi sta nelle istituzione dovrebbe avere rispetto per chi ci sostiene tenendo aperti i circoli, lavorando alle feste e votandoci. Non puoi pensare di chiamare 3 milioni di tuoi elettori alle primarie, fare loro scegliere un progetto e poi non rispettarne le decisioni. In un partito democratico si discute, ci si confronta e si decide a maggioranza».

La Stampa 31.3.14
Boschi: “Qualcuno forse pensava
scherzassimo
Ecco il Senato delle autonomie 148 persone senza indennità”
Il ministro delle Riforme: “A Grasso dico che i progetti si condividono e non si smontano”
intervista di Carlo Bertini

qui

Repubblica 31.3.14
La Repubblica preterintenzionale
La maggioranza non vuole toccare “i principi fondamentali” della Costituzione
Consenso sulla trasformazione del Senato in nome dei tagli alla politica
Camere, province, burocrazia gli italiani chiedono riforme nel nome della governabilità
di Ilvo Diamanti



NON sarà facile, per Matteo Renzi, portare a termine il suo programma di riforme istituzionali - che modificherebbero profondamente la Costituzione. Per almeno due motivi. La resistenza - anzi: l’opposizione aperta - di autorevoli componenti ed esponenti dell’ambiente politico e intellettuale. Anche di centrosinistra.
IN SECONDO luogo, la complessità - e la lunghezza delle procedure richieste per iniziative che toccano la Costituzione. Per questo non sarà facile. Trasformare il Senato in una Camera delle autonomie, ad esempio. Con il contributo diretto dei senatori, visto che la riforma dovrebbe/ dovrà passare, per due volte, attraverso la loro approvazione. Non a caso il Presidente del Senato, Pietro Grasso, in un’intervista a Repubblica, proprio ieri, ha proposto, in alternativa, di abolire il bicameralismo, ma non il Senato. Attribuendo, cioè, solo alla Camera dei Deputati il potere di votare la fiducia al governo e di occuparsi delle materie politiche,
economiche e sociali più importanti. Ma Renzi ha, immediatamente, ribadito la sua intenzione di andare avanti. Veloce, come sempre. In direzione opposta al passato. Per confermare la sua immagine di ”rottamatore”, che molto ha contribuito - e contribuisce - al suo successo. Che non accenna a declinare, come mostrano i sondaggi d’opinione. Naturalmente, prima o poi, anch’egli dovrà rendere conto dei risultati di tanti progetti. Anche se, come ha suggerito argutamente Nando Pagnoncelli sull’agenzia InPiù, «Renzi rammenta un giocoliere che fa volteggiare cerchi, palline e clavette. Non importa affatto se nel corso dell’esercizio ne cade qualcuna ». Perché l’abilità e la velocità del protagonista rendono difficile al pubblico accorgersene. E perché, nel frattempo, altri progetti attraenti sono stati lanciati sul mercato. Tuttavia, la fiducia nei confronti del premier non è solo frutto di “illusionismo”. Ma dipende, in modo significativo, dal consenso verso le proposte che egli ha avanzato. Come emerge da un sondaggio condotto qualche tempo fa da Demos, quando Renzi si accingeva a sostituire - con modi spicci e risoluti - Letta alla guida del governo. Cambiare la Costituzione, anzitutto, è considerato lecito e perfino utile, da quasi i due terzi della popolazione, se può migliorare l’efficienza delle istituzioni. Ovviamente, senza intaccarne i “principi fondamentali”. Questa posizione, peraltro, è largamente condivisa, da sinistra a destra, passando per il centro. Solo un quarto dei cittadini intervistati sostiene, invece, l’intangibilità della Costituzione. “La più bella del mondo”. Comunque, troppo equilibrata per poter essere modificata in punti “sensibili” come quelli di cui si discute. Se si entra nello specifico delle proposte, il sostegno ai temi avanzati da Renzi e dal governo si conferma ampio e trasversale. L’abolizione delle Province e la trasformazione del Senato in Camera delle autonomie ottengono, infatti, l’approvazione di circa il 60% dei cittadini. Il sostegno risulta più elevato fra gli elettori del PD e di SEL, in riferimento all’abolizione delle Province. Mentre la trasformazione del Senato ottiene largo consenso non solo nella base del PD, ma anche del NCD. Tuttavia, anche fra gli elettori di FI e del M5s l’adesione ai progetti risulta molto estesa. Dietro a questi orientamenti si intuisce l’insoddisfazione diffusa nei confronti del funzionamento e dei costi del sistema pubblico. E, in generale, della politica. Vista la difficoltà di scindere i due piani, nella percezione sociale. Così si spiega il consenso plebiscitario verso l’ipotesi di ridurre il numero dei parlamentari. In qualche modo, sintesi dell’abolizione delle Province - e dunque delle burocrazie e delle amministrazioni provinciali - ma anche della trasformazione del Senato. Presentata, tempo fa, dallo stesso Renzi, come un contributo alla riduzione della spesa pubblica. Tuttavia, il sostegno dei cittadini alle proposte di riforma istituzionale ha anche un significato diverso. Riguarda la domanda di governo e di governabilità. Riflette, al tempo stesso, il malessere che attraversa la democrazia rappresentativa (non solo in Italia). Come emerge, con chiarezza, dal consenso espresso dai cittadini per l’elezione diretta del Presidente della Repubblica. Approvata da quasi 3 persone intervistate su 4. E dalla maggioranza assoluta dei principali elettorati. Dal PD a FI, da SEL allo stesso M5s. L’ipotesi di rafforzare i poteri del capo del governo, invece, appare meno gradita. Ciò riflette, soprattutto, lo stile “presidenziale” di Renzi. Che ha personalizzato il PD, interpretando, però, (come ho già osservato) un “Presidente senza partito”. Comunque, “oltre” il PD. Per questo è facile prevedere che il premier proseguirà sulla strada delle riforme senza rallentare. Le difficoltà che incontra e incontrerà lungo il percorso, invece di produrre ripensamenti, sono destinate a rafforzarne la determinazione. Perché le resistenze e l’opposizione - tanto più della sua parte e del suo partito - ne consolidano la legittimazione. L’immagine di “uomo solo al comando”. Senza indulgenza per nessuno. Alleati e avversari politici. Manager pubblici e privati.
Il problema, semmai, mi sembra proprio questo. La discussione appare, infatti, sempre più “personalizzata”. E sempre più “radicalizzata” sulla Costituzione come “valore in sé”. Oppure, fin troppo focalizzata sui singoli progetti: Le Province, il Senato… Viziata, per questo, da uno sguardo miope oppure presbite. Così, si rischia di trascurare aspetti essenziali. Per esempio, non ci si accorge che il ddl approvato dal Senato (come ha osservato Tito Boeri su Lavoce.info) «non abolisce affatto le province, ma si limita a svuotarle senza stabilire a chi andranno le loro funzioni». Con “risparmi” del tutto ipotetici. Mentre, quanto alla nuova Camera delle autonomie, non è chiaro da chi e in che modo verrà costituita. Con quali competenze e con quali poteri. Più in generale, mentre si toccano, in modo deciso, punti sostanziali del nostro sistema istituzionale, non si spiega a quale modello si guardi. Che cosa vogliamo diventare. E si rischia, così, di proseguire quello stesso percorso intrapreso vent’anni fa. Quel riformismo episodico e sussultorio che ci ha condotti dentro a questa singolare Repubblica preterintenzionale.

l’Unità 31.3.14
Europee
Veltroni: non vedo problemi sul nome di Matteo nel simbolo


«Il nome nel simbolo? Non vedo grandi controindicazioni. Non stiamo parlando di una forzatura di tipo populistico. Se c’è un candidato alla presidenza del Consiglio non vedo che problema ci sarebbe ad avere anche il nome dentro». Queste le parole dell’ex segretario del Pd, Walter Veltroni, che ieri è stato intervistato da Maria Latella per SkyTg24 e interpellato sull’ipotesi di inserire il nome di Matteo Renzi nel simbolo del Pd alle elezioni. «Il problema è quando i partiti coincidono con i nomi, cioè quando i partiti nascono perché hanno il nome del leader nella scheda» ha sottolineato Veltroni, che invece in tema di riforma del Senato si è schierato: «Non possiamo restare con un sistema bicamerale di tipo tradizionale. Dobbiamo superarlo».

Corriere 31.3.14
Nencini al segretario: insieme alle Europee con il Pse nel simbolo


ROMA — Sostiene che il suo partito è «come una 500». E cioè «piccolo e affidabile». Ma in realtà con il suo Psi Riccardo Nencini è pronto a lanciare una sfida a Matteo Renzi per le Europee: «Presentiamoci insieme, alleati», ma il Pd «deve avere» con chiarezza nel suo simbolo un riferimento al Pse. E ora tocca vedere se il Partito Democratico accetterà: «Proponiamo a Renzi — spiega Nencini — un patto federativo a cominciare dalle elezioni europee, con candidature condivise, un simbolo condiviso con un riferimento chiaro al socialismo europeo e un programma fortemente innovativo».
In altre parole, secondo il segretario del Psi, durante la campagna elettorale per le Europee occorre portare avanti parole d’ordine che puntino a costruire «il terzo tempo dell’Europa» (il primo venne rappresentato dalla sua fondazione nell’immediato dopoguerra e il secondo dal periodo che va da Maastricht ai giorni nostri). E per sostenere la candidatura alla presidenza della commissione di Martin Schulz bisogna «ispirarsi alla storia e alla cultura del socialismo liberale e democratico europeo». In sintesi: «Una sinistra riformista, ognuno con la propria individualità, ma che combatta insieme per un’Europa più giusta».

Corriere 31.3.14
Lavoro, trattativa difficile
L’asse con Forza Italia e la minoranza Pd in rivolta
Damiano: sistema usa e getta. Brunetta: votiamo sì
di Lorenzo Salvia


ROMA — Matteo Renzi ha detto che quel testo non si tocca. Ma nel Pd è già partito il confronto sotterraneo per limare il decreto legge sui contratti a termine e l’apprendistato, primo capitolo del Jobs act, che oggi riprende il suo cammino dalla commissione Lavoro della Camera. «Così com’è il testo non mi convince» dice il pd Carlo Dell’Aringa, l’ex sottosegretario al Lavoro del governo Letta che ha il compito di relatore, cioè di guida del dibattito per le possibili modifiche. Non è il solo a pensarla così. A guidare quella commissione è l’ex ministro Cesare Damiano, sempre pd, che annuncia modifiche contro un sistema basato sul «lavoro usa e getta a basso costo». Insomma, i renziani rischiano di finire in minoranza nel partito. E per approvare il decreto potrebbe servire l’appoggio di Forza Italia.
Una partita politica che va al di là delle regole sul lavoro. Ma per capirne schemi e tattiche bisogna partire dal motivo del contendere. Il decreto fa una bella iniezione di flessibilità ai contratti a termine: porta da uno a tre anni la durata massima di quelli senza causale, per definizione i più flessibili. E alza da uno a otto il numero delle possibili proroghe, cioè i rinnovi senza interruzione. La minoranza del Pd, a partire da Stefano Fassina, dice che così si distrugge il lavoro a tempo indeterminato, che invece di rilanciare l’economia si finisce per affossarla. E chiede di fare marcia indietro: durata massima due anni e non più di tre proroghe. «Sono due posizioni estreme — dice Dell’Aringa — e la soluzione andrà trovata a metà strada». A metà strada dove? «È ancora presto per dirlo, io per ora emendamenti non ne presento».
Al momento la minoranza del Pd si muove in ordine sparso. C’è chi considera accettabile un tetto di due anni con sei proroghe, a patto di alcuni correttivi anche sull’apprendistato, come il ripristino dell’obbligo di assunzione di una parte degli apprendisti prima di poterne assumere di nuovi. Ma c’è anche chi si accontenterebbe del semplice tetto di due anni, che pure sembrava il cuore dell’accordo informale raggiunto la sera prima del Consiglio dei ministri che ha approvato il decreto. Una sintesi ancora non c’è, questa sarà la settimana degli ultimatum e (forse) delle concessioni. Ma qualcosa si muove. «A patto di mantenere l’impianto complessivo, sui dettagli si può ragionare», dice Davide Faraone, responsabile welfare nella segretaria del partito e perno dei renziani nella commissione Lavoro della Camera. Un’apertura prudente ma pur sempre un’apertura. Un modo per evitare che il partito si spacchi tra favorevoli e contrari, rendendo necessario l’esplicito sostegno di Forza Italia? «Vedrete — risponde lui — non ci sarà bisogno di andare a caccia di voti alternativi. Il Pd discuterà al suo interno ma poi voterà unito».
Il Nuovo Centrodestra non ha dubbi: «Per noi — dice l’ex ministro del Lavoro Maurizio Sacconi — il testo rimane quello al 100%. Probabilmente non presenteremo nemmeno emendamenti». Forza Italia, invece, si gode lo spettacolo. «Il decreto Poletti, anzi il decreto Poletti-Berlusconi, visto che è in linea con le politiche dei governi di centrodestra, lo voteremo sicuramente», garantisce il capogruppo Renato Brunetta, che siede proprio nella commissione Lavoro di Montecitorio. Anche se i vostri voti fossero decisivi per salvare il primo vero provvedimento del governo Renzi? «Non è una scelta tattica ma di merito. Dopodiché se il Pd si spacca sono problemi loro. Non siamo mica la Croce Rossa di nessuno». Stavolta i pop corn per assistere al match deve averli comprati lui.

l’Unità 31.3.14
Il congrassio Cgil. Tutte le categorie al voto
Assise nel vivo. Camusso punta alla riconferma dei segretari uscenti


Roma. Prima i precari. Poi tutte le altre categorie, dai chimici ai meccanici, dai tessili alla Funzione pubblica. Fino alla chiusura con i pensionati. I congressi di categoria della Cgil entrano nel vivo. Camusso punta alle riconferme dei segretari generali.
Il congresso Cgil entra nel vivo. Arrivano le assise delle categorie, nelle quali però - a meno di sorprese - ci saranno solo conferme per i segretari generali.
In un congresso confederale cominciato in modo quasi unitario, diventato poi al calor bianco per lo scontro Camusso-Landini sul Testo unico sulla rappresentanza, le varie federazioni non dovrebbero risentirne, confermando gli attuali vertici, con i segretari che sono tutti al di sotto degli otto anni di mandato. I congressi poi serviranno per definire i 509 delegati che avranno diritto di voto all’assise nazionale della Cgil prevista dal 6 all’8 maggio a Rimini. Un congresso - novità degli ultimi giorni - che sarà preceduto da una tre giorni di dibattiti, confronti e spettacoli - «Le giornate del Lavoro» - con cui la Cgil vuole rimettere al centro della scena pubblica italiana il tema del lavoro.
Come reso noto due settimane fa, il XVII congresso della Cgil ha visto una affermazione quasi bulgara del documento «Il lavoro decide il futuro » - prima firmataria Susanna Camusso, ma sostenuto dalla quasi unanimità dei dirigenti, Landini compreso - che ha ottenuto il 97,56%, pari a 1.616.984 voti. Il documento alternativo - «Il sindacato è un’altra cosa», primo firmatario Giorgio Cremaschi - solo il 2,44%, pari a 40.461 voti. I voti nulli sono stati 5.122 e gli astenuti 9.251.
COME SI MISURERANNO I RAPPORTI DI FORZA
Se la riconferma di Susanna Camusso a segretario generale non è in discussione, i rapporti di forza interni si misureranno sugli emendamenti, quelli che distinguevano la maggioranza - cioè Camusso e gran parte delle categorie e dei territori - dalla Fiom, che ne ha presentati su pensioni, contratti, reddito minimo e precariato. I risultati su questi voti ancora non ci sono, ma da Corso Italia filtra l’opinione che difficilmente modificheranno il documento approvato.
L’oggetto vero dello scontro fra segreteria confederale e metalmeccanici - tramutato poi anche in un altro emendamento a prima firma Landini - riguarda come detto il Testo unico sulla rappresentanza. In questi giorni è già partita la consultazione promossa dalla segreteria confederale fra gli iscritti attivi. Si stanno tenendo le assemblee unitarie con Cisl e Uil per dare un giudizio positivo di quell’accordo e poi i soli iscritti Cgil votano al referendum.
La Fiom invece ha promosso un’altra consultazione, aperta a tutti i lavoratori metalmeccanici. Nonostante la porta aperta lasciata dalla segreteria - Camusso ha chiesto a Landini di prevedere una doppia urna per poter «pesare» anche i voti della Fiom nella consultazione confederale - le tute blu non forniranno i loro dati.
I risultati definitivi dovrebbero arrivare il 4 aprile. Non è poi da escludere che al congresso si possa consumare - come appena accaduto in Lombardia - una spaccatura, con la Fiom che proporrà una sua lista separata in appoggio alla mozione vincitrice.
SI COMINCIA DAI PRECARI, ULTIMI I PENSIONATI
Dopo aver terminato i congressi territoriali, con il livello regionale della Confederazione, da oggi si parte dunque con le categorie. I primi sono i precari del Nidil, mentre si finirà il 17 aprile con i pensionati dello Spi, chiamati a fare le cosiddette «compensazioni» fra gli iscritti.
Le tredici federazioni saranno impegnate nei loro congressi in un giro d’Italia del lavoro, con al centro comunque quella Romagna che è il luogo scelto per l’assise nazionale.
Si parte oggi dunque con il Nidil, che a Montesilvano (Pescara) tiene il suo quarto - è la federazione più giovane - congresso fino a mercoledì. Scontata la conferma di Claudio Treves, nominato lo scorso settembre. Quasi in contemporanea si svolgeranno i congressi della categoria dei trasporti - la Filt, a Firenze dal primo al 4 aprile - gli edili - la Fillea, a Roma il 2 e 3 aprile - e le comunicazioni - la Slc, a Perugia dal 2 al 4 aprile. In tutti e tre i casi il segretario generale dovrebbe essere riconfermato: Franco Nasso alla Filt, Walter Schiavella alla Fillea e Massimo Cestaro alla Slc. Solo nel caso di Nasso, il segretario generale non potrà concludere il mandato di quattro anni, visto che è stato eletto nel 2008 e gli 8 anni di mandato massimo scadono nel 2016.
DALL’8 AL 13 SETTIMANA DI FUOCO
Nella settimana dall’8 al 13 aprile saranno poi concentrati la maggior parte dei congressi. Si parte dall’8 al 10 aprile con bancari della Fisac a Rimini e i tessili e chimici della Filctem a Perugia, i pubblici della Fp a Assisi dal 9 all’11, mentre nelle stesse date si tengono anche i congressi degli addetti del commercio e terziario della Filcams a Riccione, gli agroalimentari della Flai a Cervia. Concludono la settimana la Fiom a Rimini e i lavoratori di scuola e conoscenza della Flc, a Napoli dal 10 al 12 aprile.
Anche in tutti questi casi, il segretario generale verrà confermato. Due le donne - Stefania Crogi alla Flai e Rossana Dettori alla Fp - cinque gli uomini - Agostino Megale alla Fisac, Franco Martini alla Filcams, Domenico Pantaleo alla Flc, Emilio Miceli alla Filctem e Maurizio Landini alla Fiom.
Prima della chiusura dello Spi di Carla Cantone, verrà riconfermato anche Daniele Tissone, da meno di un anno segretario generale del Silp, ultima categoria a tenere il suo congresso a Perugia il 14 e 15 aprile.
LA NOVITÀ DELLE GIORNATE DEL LAVORO
In tutti questi casi sarà un esponente della segreteria confederale a dover indicare il nome del segretario generale, dopo aver consultato la commissione Politica formata dai delegati di categoria. Una regola formale che naturalmente verrà rispettata anche nel caso più spinoso: sarà direttamente Susanna Camusso a proporre la riconferma di Maurizio Landini alla guida della Fiom.
Proprio per ragioni di contemporaneità, il segretario generale della Cgil non riuscirà a partecipare a tutti i congressi di categoria. Si limiterà a partecipare a quelli degli edili (Fillea), dei trasporti (Filt), della Funzione pubblica (Fp), degli agroalimentari (Flai) e - come detto - dei metalmeccanici. Per poi non mancare al congresso conclusivo dello Spi (15-17 aprile), la categoria con più iscritti - quasi 3 milioni sui 6 totali.
Da quel giorno mancheranno tre settimane al congresso confederale. Nel week-end precedente del 2-4 maggio - come detto - si terranno sempre a Rimini «Le giornate del lavoro». Una novità assoluta che, però, dovrebbe divenire una consuetudine, andando a sostituire la festa annuale, negli ultimi anni tenuta a Serravalle (Pistoia). Il centro storico della città romagnola, da venerdì sera a domenica, si trasformerà in un palcoscenico per il lavoro. Si terranno una ventina fra dibattiti e confronti a due, lezioni magistrali, spettacoli teatrali e mostre, che coinvolgeranno il meglio dei pensatori economici e sociali a livello europeo.

il Fatto 31.3.14
Lavoratori o nuovi schiavi?
Gli working poor sono italiani, magari hanno una laurea nel cassetto
Lavorano fino a dieci ore al giorno senza garanzie e tutele, ma riescono a campare
Mentre i loro manager guaagnano fino a cento volte in più
di Elisabetta Ambrosi


Sono italiani, lavorano fino a dieci ore al giorno, senza riposi, ferie e weekend, ma non riescono a campare. Storie di addetti alle pulizie, operatori di call center, ma anche medici, ricercatori, avvocati, hostess. Ecco le loro buste paga da 700 e 1.200 euro al mese. Mentre i loro manager prendono anche cento volte di più
È giovane e curata, ti serve il caffé con un sorriso. E tu sorridi di rimando, come se la cabina di un aereo consentisse, almeno per un po’, di lasciare a terra gli incubi di poveri e sfruttati che popolano le nostre città. Ma Sonia, hostess di 28 anni, non lavora per la nota compagnia di volo low cost di cui indossa la divisa, ma per un’agenzia interinale che fornisce “materiale umano” alle compagnie aeree. Come racconta il sindacato FamilyWay, Sonia ha speso 3.000 euro per il corso di formazione, 325 euro per la divisa. Oggi non ha un contratto ed è pagata a ore: 15,33 euro per ora di volo, per uno stipendio di 1100 euro. Se è malata non guadagna e in più paga le tasse - dal maggio del 2012 - in due paesi. Provate a distrarvi, leggendo le notizie sull’Ipad. Aprendo un importante sito di informazione, potreste incappare nell’articolo di France sca , giovane neomamma. Scrive per diversi siti che fanno capo a un’unica società, con cui ha un contratto di collaborazione occasionale. Guadagna 20 euro per 7 pezzi (4 ore), 40 per 14 (8 ore): 2,85 euro a pezzo, calcola, mentre “la signora delle pulizie di mia madre prende otto volte tanto”.
Quando, infine, atterrate all’aeroporto, magari progettato da un’archistar milionaria, potreste pensare alla storia di Alessandra , architetta entrata nel 2009 in un prestigioso studio di progettazione internazionale. Oggi pratica la “libera” professione con partiva Iva, ma in realtà ha orari stabiliti (10 ore, sabato compreso), postazione fissa, assenze detratte dallo stipendio, obbligo morale di non lavorare con altri committenti, per 1700 euro al mese. Tante? “Provate a togliere 366 euro di Iva non scaricabile, 300 euro di inarcassa, 500 euro di affitto, spese per l’assicurazione, la formazione, il commercialista e l’ordine. Cosa rimane?”.
Se è il pubblico a sfruttare
Hostess, giornalista, architetto: tre lavori che vent’anni fa erano considerati prestigiosi e remunerativi. Oggi chi rientra in queste categorie, specie se giovane, è entrato nella fascia sempre più popolosa dei working poor. Quelli che un lavoro ce l’hanno, e quindi dovrebbero ritenersi fortunati rispetto ai colleghi Neet che non studiano né lavorano. E invece riescono a malapena a sopravvivere, persi in un girone infernale e ormai incontrollato di sfruttamento, lavoro dipendente mascherato da partita Iva, contratti parcellizzati. Dove il compenso arriva come un osso spolpato, senza più intorno contributi, tutele per malattia e maternità. Più che precari, come la politica continua genericamente a chiamarli, veri neo-schiavi. Paola è una delle migliaia di precari della scuola. “Lo stipendio varia a seconda dei giorni lavorati: se lavoro un giorno, guadagno 40 euro, se non lavoro per una settimana consecutiva non ho la disoccupazione”. Tutte le mattine dell’anno Paola deve restare nella sua città, reperibile al telefono alle otto, per sostituire nel giro di dieci minuti un’insegnan - te che si assenta. “Se non rispondo, precipito in fondo alla graduatoria. L’altra mattina mi hanno chiamato alle 11.45 per un ingresso alle 12.30 in una scuola a 50 km da casa: come si può vivere così?”.
La storia di Paola racconta di un ulteriore e inquietante tassello, e cioè il fatto che ormai il pubblico assomiglia sempre più al peggior privato. Vale per la scuola, vale soprattutto per l’università, oggi un terreno desertificato da tagli e blocco delle assunzioni. France sca , ricercatrice sociale da dieci anni, sopravvive con un contratto di collaborazione con l’Università di Milano di poche centinaia di euro e deve continuare a pubblicare per avere chances di lavoro, “anche se ormai ai concorsi si presentano persone di 45 anni già abilitate come professori associati”. Monica, 900 ore di insegnamento agli stranieri alle spalle tra università, accademie e studenti Erasmus, continua a guadagnare dieci euro l’ora. E oggi si trova a competere con un girone di disperati costretti al volontariato coatto presso associazioni che si spartiscono il mercato dell’italiano agli immigrati, nell’indifferenza del ministero. Anche nel settore sanitario specializzandi e medici sono costretti a lavorare sempre più ore e sempre per meno, tanto che spesso il privato è l’unico sbocco. “Ho 35 anni, sono un medico specialista con dottorato e master”, dice Filippo : “Come ricercatore prendo 1200 euro dall’Università, poi lavoro come patologo clinico in una clinica privata con partita Iva (tra i 700 e i 1200 euro): almeno dieci ore al giorno, più sera, e a volte notte e weekend”.
Ancora peggio se la passa chi, da privato, con il pubblico ci lavora. Come Laura , che ha una piccola società di ricerca: “I bandi pubblici prevedono budget sempre più leggeri, qui siamo ipercompetenti eppure guadagniamo 800 euro al mese, senza tredicesima ferie, tfr”. “Sono un’archivista specializzata, emetto fatture anche per cinquanta euro”, aggiunge Sara, “ma lavorare con un pubblico che ti paga in ritardo perché crede che la cultura sia un privilegio è umiliante”.
Dipendenti e non, tutti sottopagati
L’altro fenomeno di questa Italia dove il ceto medio lavorativo sta scomparendo è che dipendenti e autonomi finiscono ormai per assomigliarsi, sovrapporsi, confondersi. Il gap tra tutelati e non, che le famose riforme avrebbero dovuto avvicinare, si sta assottigliando: perché le protezioni stanno sparendo per tutti. I primi con stipendi che non crescono, oppure cassintegrati e “solidarizzati” - è la storia di Katia, impiegata di Alitalia Cai, oggi in cassa in deroga al 40% con uno stipendio di 500 euro al mese, quando arriva - oppure messi nei più bizzarri part time: come Francesco , che per 18 mesi ha lavorato in un’azienda nel settore delle rinnovabili con part time al 30% per 400 euro al mese. I secondi precipitati dai contratti a progetto al lavoro occasionale o a partita Iva, oppure a pigione. “Dopo anni di contratti di collaborazione”, racconta Chiara , traduttrice specializzata due bimbe di 3 e 5 anni, “oggi lavoro con diritto d’autore: guadagno poco, e i soldi arrivano sessanta giorni dopo”. “Lavoravo in una rivista specializzata di architettura”, racconta Luigi: “base di 300 euro più un tot per ogni abbonamento chiuso, un incubo”. Così, molti sono costretti a tornare al lavoro nero, magari a fare lavori di pulizia o babysitteraggio. “Sono laureata in scienze sociali”, spiega Marta, “ma oggi l’unico reddito certo è fare la family helper, per 500 euro al mese”. Anche Margherita, 44 anni, dipendente part-time di una farmacia, si è messa a fare le pulizie. “Non voglio essere messa in regola, altrimenti tolte tasse e contributi cosa resta per me e mia figlia?” All’impoverimento materiale si sta aggiungendo, ancora più doloroso, quello affettivo. Così, mentre è sempre più difficile fare figli, quasi tutti raccontano di giovani amici e parenti volati via: “Non è giusto”, commenta Sabrina, “che la mia famiglia sia sventrata per colpa del lavoro che non c’è”. “Il Quinto Stato”, l’hanno battezzato Roberto Ciccarelli e Giuseppe Allegri, autori dell’omonimo libro e del blog “La furia dei cervelli”. “Avvocati, medici, insegnanti, lavoratori dell’intrattenimento e dell’arte: tutti si sono proletarizzati”, spiega Ciccarelli. “Tornare indietro non si può, ma servirebbero riforme radicali: salario minimo, reddito minimo, riforma delle tutele, riforma radicale dell’Inps, riforma del diritto del lavoro. Di certo non se ne esce con il Job Act. Semmai, ci vorrebbe la rivoluzione”. (Ha collaborato Elena Ribera)

“TRADIZIONALMENTE LA POVERTÀ è stata associata alla mancanza di lavoro (...) più recentemente questi confini sono diventati più sfumati e anche categorie di lavoratori regolarmente occupati si trovano di fatto in condizioni di povertà”. La sostanza del problema di cui ci occupiamo in questa inchiesta è così riassunto dall’ultimo rapporto Cnel sul mercato del lavoro. L’analisi sugli “working poor”, i lavoratori poveri che pur lavorando non riescono a raggiungere una soglia dignitosa di reddito, è diventata ormai essenziale in tutte le indagini sul mondo del lavoro. Secondo il rapporto in questione, infatti, in Italia, nel 2010, erano il 12,5% della forza lavoro, calcolati con i criteri di misurazione definiti in ambito internazionale (Eurostat, Ilo, Ocse). Ma nel 2011 erano già saliti al 14,3%. Gli working poor, cioè i lavoratori “a basso s a l a r i o” sono coloro la cui retribuzione è inferiore ai due terzi “della mediana della distribuzione dei salari orari”. In Italia questa media è pari a 11,9 euro lordi contro i 13,2 euro dell’area euro. Il basso salario nel nostro paese, quindi, è indicato in 7,9 euro lordi l’ora, circa 5,5 euro netti orari, 800-900 euro al mese. Troppo poco per vivere ma abbastanza per essere considerati lavoratori, o lavoratrici, a tutti gli effetti. La contraddizione è tutta qui, in questo conflitto tra lo status percepito e quello vissuto concretamente nella vita di tutti i giorni. Ci si alza la mattina presto (si veda la pagina seguente), si va al lavoro con orari sempre più lunghi, si torna a casa, magari con la valigetta 24 ore e, in un mondo di disoccupazione crescente, si è visti come persone fortunate. Eppure, a fine mese, quando la busta paga fa a pugni con le bollette, ci si accorge di essere poveri, di non potercela fare, di essere costretti a correre ancora più forte per campare. La situazione è stata aggravata fortemente dalla crisi economica i cui effetti si sono fatti sentire con qualche anno di ritardo. Ecco perché l’offerta di Matteo Renzi di mettere nelle busta paga di maggio 80 euro per ogni lavoratore dipendente sotto i 1500 euro al mese, fa tanta presa a livello generale. Un aumento di quelle dimensioni non è stato realizzato con nessuno dei più importanti rinnovi contrattuali. In questo senso l’ipotesi di un salario minimo orario per legge potrebbe costituire un deterrente. La Germania l’ha fissato in 8,5 euro, Obama in 10 dollari (7,5 euro). L’I ta l i a non ce l’ha. I sindacati temono che possa ridurre i salari attuali. Ma i lavoratori poveri hanno bisogno di una qualche risposta. (di s.c.)

il Fatto 31.3.14
Dalle sei alle venti, giornata di lavoro no-stop
di Salvatore Cannavò


Il lavoro può rendere “schiavi” non solo perché sotto-pagato, come abbiamo visto nelle pagine precedenti. Salari e stipendi più bassi, spesso al limite della soglia di povertà, costringono infatti a lavorare più a lungo. La tendenza in atto ad allungare gli orari di lavoro era chiara, in fondo, nel piano di Marchionne per Pomigliano, prima, e per tutta la Fiat, poi. Riduzione delle pause da 40 a 30 minuti, riduzione della pausa mensa, portata a fine turno. Non è un caso, quindi, che qualche settimana fa un’altra azienda, l’Alcoa di Venezia, abbia ipotizzato di abolire la pausa mensa perché l’intervallo per recarsi a pranzare era troppo lungo. L’idea, dopo le proteste degli operai, è rientrata ma resta indicativa di una tentazione.   
C’era una volta il paese dei fannulloni
Eppure l’Italia, secondo l’Ocse, è uno dei paesi dove si lavora di più, il secondo tra quelli dell’Europa occidentale dopo la Grecia paesi in cui si lavora per 2.034 ore medie annue a persona. In classifica scorrono i paesi dell’Europa dell’est, la Russia, la Turchia e gli Stati Uniti ma al tredicesimo posto troviamo l’Italia con 1.752 ore medie annue a persona (dati Ocse, 2012). In Francia sono 1.479, in Germania 1.393, in Spagna 1.666. La media dell’area euro è di 1.557, molto al di sotto di quella italiana. Quindi, a dispetto delle tradizionali battute sugli italiani “fannulloni”, il nostro paese è collocabile più nella fascia dei paesi emergenti che in quelli pienamente sviluppati dove pure figura.
Sul piano della produttività, ovviamente, il discorso cambia: per ogni ora lavorata, infatti, il prodotto interno lordo italiano, 46,7 dollari, è sotto la media dell’area euro pari a 52,9 dollari. La Germania produce in ogni ora 58,3 dollari, la Francia 59,5 mentre gli Stati Uniti arrivano a 64,5 dollari. La produttività, però, dipende da numerosi fattori come lo stato delle infrastrutture, l’innovazione industriale, l’organizzazione del lavoro e, comunque, non elimina il fatto che nel nostro paese si lavori molto.
E sempre più si lavorerà, come nel resto dell’occidente, in seguito allo sviluppo di organizzazioni del lavoro basate su internet. L’impatto delle nuove tecnologie sta modificando in profondità il rapporto con il lavoro e per capirne la portata occorre guardare a quanto avvenuto alla Bmw, la casa automobilistica tedesca. In seguito all’accordo raggiunto il mese scorso, infatti, l’orario di lavoro comprenderà anche le ore passate dai dipendenti fuori dall’azienda, in operazioni di lavoro, su computer, smartphone o anche solo ricevendo e trasmettendo mail. Le ore passate su internet, per conto dell’azienda verranno conteggiate in un conto globale del dipendente e quindi detratte dal proprio orario.
L’accordo tedesco mette in evidenza un aspetto apparentemente secondario degli orari di lavoro, e di vita, ma facilmente misurabile da chiunque sia abituato, o costretto, a “portarsi il lavoro a casa”.
In realtà, anche il ritorno a casa dal lavoro è cambiato. Da diversi anni, infatti, la prima serata tv è slittata dalle 20,45 - l’orario di inizio dei film o degli spettacoli di circa venti anni fa-alle attuali 21,30.
Le mail della Bmw cambiano l’orario settimanale
Un modo per adattare la tv allo slittamento degli orari anche se, a giudicare dalle molte proteste degli utenti, il ritardo serale impatta negativamente su famiglie che devono alzarsi molto presto per andare a lavoro. Il problema degli orari e del “rientro a casa” e quindi della gestione delle famiglie, è stato preso molto seriamente qualche anno fa dall’Ufficio “per la pastorale della famiglia” e da quello “per i problemi sociali e del lavoro” della Conferenza episcopale italiana.
Quando, nel 2007, monsignor Nicolli e monsignor Tarchi hanno presentato il convegno “Un lavoro a misura di famiglia” hanno utilizzato la testimonianza di una giovane “lavoratrice madre “madre lavoratrice”: “Esco da casa alle 6,30 e rientro alle 19,30. Da quando mi sono sposata l’orario di lavoro è diventato insostenibile, soprattutto dopo la nascita del mio primo figlio che oggi ha due anni e mezzo. Nonostante il mio titolo di studio e il lavoro che svolgo, percepisco una retribuzione al netto tra i 1.100 e i     1.200 euro mensili”. Il marito ha gli stessi orari e percepisce lo stesso reddito. “Rientrati a casa - continua la signora trentenne - nonostante la stanchezza della giornata lavorativa, ci occupiamo di tutte le faccende domestiche: cena da preparare, camere da riordinare eccetera. Oltre a queste attività io e mio marito cerchiamo di dedicare le attenzioni necessarie a nostro figlio che vuole giocare, vuole le coccole che alla sua età sono più che normali. Dopo cena, mentre mio marito lava i piatti e sistema la cucina, io mi occupo di preparare il bimbo per la notte e se tutto va bene per le 23:00 siamo tutti a letto”. Il giorno dopo, ovviamente, si ricomincia.

il Fatto 31.3.14
L’Alta Velocità pagata dai pendolari
di Stefano Campolo e Daniele Martini


Ma perché per i clienti dell'alta velocità i treni ci sono sempre e per i pendolari no? Non è una domanda oziosa. Forse perché i primi, i viaggiatori dei treni veloci, sono pochi rispetto agli altri che sono tre milioni e passa al giorno? O perché i primi possono mettersi comodamente le mani in tasca mentre i secondi pagano poco? É così, ma è solo un pezzo della verità. Qualsiasi azienda coccola i clienti facoltosi e le Ferrovie di Mauro Moretti non fanno eccezione. C'è però dell'altro dietro la decisione di dividere i viaggiatori tra fortunati e dannati. Privilegiando i primi con una scelta strategica di fatto classista, le Ferrovie si sono soprattutto comprate facilmente gli applausi di chi fa opinione, dai manager ai giornalisti, ovviamente contenti di viaggiare puntuali, comodi e veloci sulla tratta Roma-Milano, tanto da convincersi che le Ferrovie sono state risanate e non sono più un inguardabile carrozzone.
Meccanismi alla rovescia
Incassato il favore del pubblico che conta, Moretti è andato oltre. All'interno delle Ferrovie non solo non è mai scorso un flusso solidale che portasse gli utili del servizio ricco dell'alta velocità al miglioramento delle condizioni dei pendolari. É successo il contrario: i pendolari sono stati costretti a viaggiare da cani perché di fatto le Ferrovie hanno imposto sui binari un meccanismo da Robin Hood alla rovescia. I viaggiatori dei treni regionali sono stati sostanzialmente obbligati a portare il loro obolo al totem degli utili ferroviari ottenuti soprattutto con lo scintillio dei Frecciarossa su cui le Fs hanno concentrato investimenti e attenzioni. Non potendo però imporre ai pendolari aumenti stratosferici delle tariffe per non correre il rischio che scoppiasse la rivoluzione, sono stati fatti pagare in un modo meno diretto e più subdolo: costringendoli a scendere ogni giorno all'inferno su un numero di convogli del tutto insufficiente, su carrozze strapiene e di qualità sempre più scadente. Per loro, i pendolari, è stato inesorabilmente ridotto quello che in gergo chiamano il materiale rotabile, locomotive e vagoni.
Oggi non ci sono treni a sufficienza per i pendolari perché le Ferrovie non li comprano più da un decennio. Lo ammette perfino Moretti, senza spiegare, naturalmente, il motivo vero, anzi, utilizzando l'argomento per battere cassa. Alla presentazione di Treno Verde 2014 l'amministratore delle Ferrovie ha attaccato: “Da più di 10 anni non riceviamo un soldo da parte dello Stato per treni nuovi”. Lo Stato non li compra i treni per i pendolari non tanto perché la coperta è troppo corta e non ci sono i soldi. La coperta statale è in effetti senza dubbio corta e le casse sono mezze vuote, ma i quattrini per il materiale rotabile regionale ci sarebbero anche stati, stanziati dalle leggi dei governi di centrodestra e centrosinistra che si sono dati il cambio. A partire dal 2006 per il rinnovo delle flotte lo Stato aveva accantonato 739 milioni di euro. Quei soldi, però, non si sono mai trasformati in locomotori e carrozze, sono stati spesi per pagare il servizio dei treni regionali il cui costo proprio da quell'anno è aumentato a vista d'occhio, fino al 30 e anche il 35 per cento. Un incremento ottenuto con una novità introdotta da Moretti: la vendita del servizio ferroviario alle regioni, titolari del trasporto locale, sulla base del tanto strombazzato «catalogo». Per far fronte ai repentini aumenti imposti dal catalogo lo Stato ha dovuto non solo spostare le risorse dagli investimenti in treni alla gestione, ma addirittura incrementare le risorse per il servizio ferroviario regionale, da 1.222 milioni nel 2001 a 1.789 milioni nel 2012, più 46 per cento. Con il sistema inventato da Moretti in pratica lo Stato ha dovuto spendere di più, le Ferrovie hanno incassato, ma per i pendolari il servizio non è migliorato né per la qualità né tanto meno per la quantità dei treni.
In astratto l'idea del catalogo non sarebbe stata affatto peregrina, anzi, avrebbe potuto essere un modo per rendere chiari e trasparenti i rapporti. Il guaio è che questa idea è stata forzata in modo tale che alla fine a pagare sono stati i pendolari. Il catalogo si basa su tre parametri fondamentali, il pedaggio dei binari a Rfi (società Fs), il costo di trasporto (il treno) e i servizi accessori (per esempio le biglietterie). Partendo da questi punti di base le Fs offrono un elenco di treni e servizi e le regioni-clienti scelgono che cosa acquistare in base alle necessità e disponibilità. Ma una cosa è la teoria, un'altra la pratica. Prima di tutto non sempre la qualità del servizio fornito è in linea con quello promesso nel catalogo, anzi. Le regioni, però, devono pagare lo stesso, anche se di malavoglia e alcune con sempre minore regolarità, innescando così un contenzioso durissimo e gigantesco con le Fs. Il catalogo, inoltre, è rigido perché impone alle regioni di acquistare in blocco tutto il turno di servizio di un treno e per di più richiede     una fatturazione ad ore innescando la tentazione in Trenitalia (Fs) di allungare ad arte i tempi di percorrenza. Il catalogo impone poi il pagamento di maggiorazioni su tutto: le tratte con poche corse, i convogli nuovi o ristrutturati, i notturni, i festivi etc.. Alle Ferrovie, in pratica, è stato consegnato il coltello dalla parte del manico, ai pendolari, invece, sono stati regalati i disagi: viaggi più scomodi, spesso più lunghi, treni soppressi, ritardi. Alle regioni il catalogo ovviamente non è mai piaciuto, come spiega anche l’Osservatorio della spesa del Consiglio regionale del Veneto che evidenzia le numerose criticità, a cominciare dal “segreto industriale” dietro cui le Ferrovie si trincerano per nascondere la congruità dei prezzi imposti.
Questione di monopolio
Alle Ferrovie è stato consentito di sfruttare fino in fondo la posizione di monopolio. Invece di intervenire con le necessarie correzioni, la politica si è voltata dall'altra parte, in alcuni casi rafforzando il monopolista stendendogli una guida rossa perché potesse imporre meglio il suo comando. Come successe nel 2008 quando il governo Berlusconi obbligò di fatto le regioni a non alzare gli occhi al di là del catalogo delle Ferrovie di Moretti, minacciando di togliere risorse a quelle che avessero avuto l'ardire di sottrarsi al diktat indicendo gare internazionali per far posto a un nuovo gestore ferroviario, pubblico o privato, italiano o straniero. Berlusconi minacciò di tagliare alle regioni disubbidienti proprio quegli stanziamenti non enormi, ma importanti, che avrebbero potuto usare per comprare in prima persona locomotori e vagoni da mettere sui binari regionali al posto di quelli sempre più scassati di Ferrovie. La minaccia fece effetto, le regioni si piegarono per salvare gli investimenti: in questi ultimi anni i pochi treni nuovi che hanno permesso al servizio pendolare di non sprofondare del tutto nell'abisso portano proprio le insegne regionali.

il Fatto 31.3.14
L’Antitrust indaga su rimborsi, ritardi e sulle obliteratrici
di Daniele Martini


Tra tutte le orribili esperienze che possono capitare in treno, la richiesta di un rimborso per un ritardo è di quelle che marchiano a fuoco il viaggiatore. Gli può tener testa solo il combattimento con un controllore testardo su una faccenda che già dal nome fa venire l'orticaria: l'obliterazione del biglietto. Decine di casi di entrambi i tipi sono state raccolte da diverse associazioni, dal Codacons ad Atc (Associazione tutela del consumatore), da Cittadinanza attiva a Federcosumatori Abruzzo a Confconsumatori, e inviate all'Antitrust. Che ha aperto due distinti procedimenti nei confronti di Trenitalia.
Nel caso della richiesta del bonus, l'Autorità per la concorrenza sospetta che l'azienda ferroviaria bari a più non posso scoraggiando «le istanze degli utenti con una pluralità di comportamenti che renderebbero, in concreto, difficoltoso e in alcuni casi impossibile, il godimento degli indennizzi». In pratica per il viaggiatore farsi pagare il bonus sarebbe una specie di caccia al tesoro. I tecnici dell'Antitrust hanno individuato almeno 5 ostacoli e trucchetti di Trenitalia per non pagare. Primo: la richiesta al cliente di un contatto preliminare con un call center, per di più a pagamento. Della serie: intanto tu viaggiatore paga e poi si vedrà se tocca anche a me Trenitalia. Secondo: l'elaborazione di una casistica «assolutamente discrezionale» in cui nonostante il ritardo sia accertato, il ritardo stesso come per incanto sparisce. Terzo: anche quando il ritardo è accertato, Trenitalia sostiene che la colpa non è sua. Quarto: quando la richiesta di rimborso non viene accolta, il rifiuto viene comunicato in modo laconico «con scarsa motivazione». Quinto: i tempi. Trenitalia si concede la bellezza di 21 giorni per accertare se un suo treno ha ritardato e per verificare se il cliente ha diritto al rimborso. Quando poi si arriva al dunque sul sito www.treni  talia.it   ogni tre per due salta proprio la sezione «richiesta indennizzo». E sicuramente sarà un caso.
Queste le accuse dell’Antitrust.
ANCHE l'obliterazione spesso è un incubo. Il regolamento ferroviario prevede inflessibile che il cliente possa viaggiare solo dopo aver obliterato il biglietto, operazione che consiste nel segnare sul ticket con una macchinetta o a mano la data e l'ora del viaggio in modo che lo stesso biglietto non sia utilizzabile una seconda volta. L'intento ha una sua logica, l'applicazione sovente no. Istruttiva l'esperienza raccolta da Cittadinanza attiva di una viaggiatrice su una tratta regionale umbra. La poveretta aveva obliterato con una penna, ma il controllore non ha voluto sentir ragioni e applicando il regolamento l'ha multata senza pietà. Soprattutto nelle stazioni più piccole i viaggiatori sono spesso costretti a obliterare a mano, dal momento che le macchinette apposite o non ci sono o sono fuori uso, scassate da tempo. Alle Ferrovie italiane non viene in mente di comportarsi come le altre aziende ferroviarie d'Europa dove acquistare un biglietto in treno non è considerato un comportamento sospetto, ma una normalità.

il Fatto 31.3.14
Moretti
L’ex sindacalista ora manager piace al Palazzo


Tra tutte le orribili esperienze che possono capitare in treno, la richiesta di un rimborso per un ritardo è di quelle che marchiano a fuoco il viaggiatore. Gli può tener testa solo il combattimento con un controllore testardo su una faccenda che già dal nome fa venire l'orticaria: l'obliterazione del biglietto. Decine di casi di entrambi i tipi sono state raccolte da diverse associazioni, dal Codacons ad Atc (Associazione tutela del consumatore), da Cittadinanza attiva a Federcosumatori Abruzzo a Confconsumatori, e inviate all'Antitrust. Che ha aperto due distinti procedimenti nei confronti di Trenitalia.
Nel caso della richiesta del bonus, l'Autorità per la concorrenza sospetta che l'azienda ferroviaria bari a più non posso scoraggiando «le istanze degli utenti con una pluralità di comportamenti che renderebbero, in concreto, difficoltoso e in alcuni casi impossibile, il godimento degli indennizzi». In pratica per il viaggiatore farsi pagare il bonus sarebbe una specie di caccia al tesoro. I tecnici dell'Antitrust hanno individuato almeno 5 ostacoli e trucchetti di Trenitalia per non pagare. Primo: la richiesta al cliente di un contatto preliminare con un call center, per di più a pagamento. Della serie: intanto tu viaggiatore paga e poi si vedrà se tocca anche a me Trenitalia. Secondo: l'elaborazione di una casistica «assolutamente discrezionale» in cui nonostante il ritardo sia accertato, il ritardo stesso come per incanto sparisce. Terzo: anche quando il ritardo è accertato, Trenitalia sostiene che la colpa non è sua. Quarto: quando la richiesta di rimborso non viene accolta, il rifiuto viene comunicato in modo laconico «con scarsa motivazione». Quinto: i tempi. Trenitalia si concede la bellezza di 21 giorni per accertare se un suo treno ha ritardato e per verificare se il cliente ha diritto al rimborso. Quando poi si arriva al dunque sul sito www.treni  talia.it   ogni tre per due salta proprio la sezione «richiesta indennizzo». E sicuramente sarà un caso.
Queste le accuse dell’Antitrust.
ANCHE l'obliterazione spesso è un incubo. Il regolamento ferroviario prevede inflessibile che il cliente possa viaggiare solo dopo aver obliterato il biglietto, operazione che consiste nel segnare sul ticket con una macchinetta o a mano la data e l'ora del viaggio in modo che lo stesso biglietto non sia utilizzabile una seconda volta. L'intento ha una sua logica, l'applicazione sovente no. Istruttiva l'esperienza raccolta da Cittadinanza attiva di una viaggiatrice su una tratta regionale umbra. La poveretta aveva obliterato con una penna, ma il controllore non ha voluto sentir ragioni e applicando il regolamento l'ha multata senza pietà. Soprattutto nelle stazioni più piccole i viaggiatori sono spesso costretti a obliterare a mano, dal momento che le macchinette apposite o non ci sono o sono fuori uso, scassate da tempo. Alle Ferrovie italiane non viene in mente di comportarsi come le altre aziende ferroviarie d'Europa dove acquistare un biglietto in treno non è considerato un comportamento sospetto, ma una normalità.

Repubblica 31.3.14
I sospetti 36 anni dopo sul sequestro Moro
di Franco Cordero



NOTIZIE giornalistiche riaprono i margini d’un terribile caso. Dopo 31 anni il Pci rimette piede nell’area governativa, alquanto diverso ab illo, votando fiducia al governo monocolore Dc, ma desta sospetti Giulio Andreotti (quattro volte premier), archetipo d’un versatile clericalismo reazionario, e circolano aggressivi malumori. Le Camere votano giovedì 16 marzo 1978.
La svolta conflittuale è opera d’Aldo Moro, cattedratico penalista. Quel mattino esce in via Forte Trionfale n. 79, dove l’aspettavano due automobili, 130 blu, Alfetta bianca e i cinque della scorta. In via Fani era appostato un commando delle imperversanti Brigate Rosse: la scorta tamquam non sit; li abbattono come sagome al bersaglio e lo sequestrano. L’iconografia indica un signore gentile, diverso dalla fauna politica democristiana: porta sul viso un sommesso taedium vitae, congenitamente triste, stanco, annoiato; così appare nelle fotografie 18 marzo e 20 aprile, mandate dai sequestratori.
L’occulta “Prigione del popolo” ospita un processo: capo d’accusa avere servito lo Stato Imperialista delle Multinazionali (i terroristi recitano dogmi rudimentali); tortuosamente abile nel labirinto verbale, tiene in scacco gl’inquisitori. Nel partito aveva sostenuto che gl’innocenti non siano sacrificabili al rigorismo statolatrico; e lettere ai confrères contemplano uno scambio con guerriglieri detenuti: ipotesi estrema, intanto guadagna tempo confidando nelle ricerche. Qualche parola, sfuggita alla censura, suona come riferimento topografico (Leonardo Sciascia, L’affaire Moro, Sellerio, ed. 1983, 175s.). Non è un ago nel pagliaio: Joseph Fouché, ministro della polizia napoleonica, troverebbe il bandolo a colpo d’occhio; e l’omologo Francesco Cossiga vantava singolari abilità tecnocratiche. Dev’essersene dimenticato. In mano sua al Viminale comanda la P2, nel cui disegno va stroncata l’apertura al Pci: l’apparato dà spettacolo senza l’ombra d’un piano intelligente; omissioni, sviste, passi malaccorti; davvero lo cercano? Nell’immaginario collettivo le BR assurgono a potente ente metafisico.
Sincronicamente vanno in scena orribili pantomime. Vedendosi perso, sperava ancora uno scambio. Sul teorema umanitario sostenuto illo tempore chiama testimoni due eminenti democristiani: vero, risponde Luigi Gui; Paolo Emilio Taviani nega, duramente rimbeccato. Stavolta squadra i conti, fuori dei denti. Quel boss ribatte: «Non entro in polemica con le BR»; tanto vale dire che sia succubo dei terroristi, in preda a ignobile paura. Antonello Trombadori, comunista da salotto, e Indro Montanelli gl’intonano un requiem: non esiste più, moralmente morto; riposi in pace (ivi, 68-76, 97).
Che lo Stato dovesse raccogliere la sfida terrorista, l’aveva predicato subito Ugo La Malfa, e nel clamore mediatico qualche mistificatore coinvolgeva la futura vedova attribuendole massime matronali; non lo barattino (ivi, 47 ss.). L’ineguale partita prende cadenze d’inferno. Da 40 giorni abita un cunicolo largo 90 cm e lungo 3 metri: vi macina pensieri e scrive (anche un memoriale), riuscendo a non impazzire; era impresa enorme. Martedì 25 aprile, festa della Liberazione, gli statolatri gonfiano l’ugola: non è più lui, irriconoscibile, testimoniano 50 “vecchi amici”; al posto loro, anche lui sosterrebbe la linea dura, ciarla Flaminio Piccoli (ivi, 102-8). Stando al sicuro, scherniscono l’uomo in spaventoso pericolo. E resiste alla delusione quando Paolo VI implora un rilascio senza corrispettivo (le Br chiedevano 13 detenuti, contropartita impossibile). Questo passo gli salverebbe la vita se i guerriglieri avessero l’organo pensante. Il senso salta agli occhi. Sinora hanno vinto contro lo Stato guadagnando un capitale d’immagine: l’atto pietoso lo moltiplicherebbe; libero, A. M. pone problemi insolubili; ucciderlo è favore alla clique reazionaria. E non significa niente che là dentro (nella balena democristiana) sia il più pulito? Lo stile Andreotti risplende quando Craxi propone un modico atto umanitario: niente vieta che se ne parli, ma il governo non ammetterà la minima deroga alle norme (l’afferma uno spregiudicatissimo illegalista, partner d’accordi mafiosi), né dimentica il lutto delle famiglie colpite dall’attentato in via Fani; morto chi lo scortava, muoia anche lui. Bel teorema cannibalesco. Il morituro tocca l’argomento con mano lieve nella lettera 4 aprile a Benigno Zaccagnini: la squadra era impari al compito; l’avesse adempiuto, «non sarei qui».
Basterebbe poco a deviare le serie causali giovedì 16 marzo, h. 8.55, ma l’agguato riesce, altrettanto la fuga. Gli restano 55 giorni d’agonia: vilipeso dalla platea, non piange né inveisce, nemmeno parlando d’Andreotti. Nel cunicolo e attraverso i ritagli, scopre una diabolica giostra del potere. L’ultima lettera alla moglie contiene addii e istruzioni sul funerale. Dio sa cos’avverrebbe se, essendosi improvvisamente svegliata qualche fibra cerebrale, martedì 7 le BR lo liberassero raccomandando cautela, perché esiste un fronte statale mortuario. Sabato 13 quanti Tartufi fingono cordoglio in San Giovanni. Vincono P2, Andreotti, Cossiga (s’è guadagnato una funesta carriera). Il Pci sbaglia partita. L’affarista emergente d’Arcore mette piede nell’etere, futuro Re Lanterna. Corrono fili neri nella storia italiana tra i due secoli: degli oligarchi simulavano rigore etico, genuflessi davanti all’entità mistica “Stato” (da queste parti pochi sanno cosa sia); così liquidano l’innovatore: 36 anni dopo dei giudici devono stabilire se e come lo Stato coesistesse transigente con temibili antagonisti criminali; puntuale, l’oligarchia tenta d’allungare le mani nel giudizio e oppone dei segreti. Meno visibile, ha ancora voce determinante l’ormai vecchio Re Lanterna, tre volte premier, egemone d’un ventennio, negromante dei media, smisuratamente ricco.

La Stampa 31.3.14
Una legge trasversale per i profilattici nelle superiori
di Carlo Bertini


Il tema è serissimo, la prevenzione dell’Aids, lo strumento magari provocherà facili ironie, fatto sta che è la seconda volta che in Parlamento viene proposta una legge per la distribuzione di profilattici nelle scuole secondarie superiori e non si sa se sarà la volta buona per vederla approvata. Ci hanno messo la firma quarantatrè deputati, quasi tutti del Pd, i renziani Scalfarotto, Realacci e Carbone, lettiani come Anna Ascani, bersaniani come Micaela Campana e poi Pippo Civati, Romano e la Tinagli di Scelta Civica. Una proposta definita «un sasso nello stagno per una presa di coscienza dello Stato verso un problema che ha costi umani e finanziari enormi». Lo scopo è «assicurare ai giovani l’accesso agli strumenti della prevenzione di malattie sessualmente trasmissibili», informandoli sui «confini di una sessualità responsabile». E per divenire lo strumento principale di prevenzione, «il profilattico deve essere affrancato da tabù, paure e vergogne e per questo deve trovare spazio nei luoghi quotidiani della vita degli studenti». Coinvolgendo le imprese produttrici per sostenere i costi di installazione di distributori e per raggiungere, «nel rispetto degli standard qualitativi il più basso prezzo di vendita possibile».
Italicum a luglio
«Prima di luglio non ce la faremo mai ad approvare l’Italicum»: la previsione non è buttata lì, ma viene da una fonte autorevole del Pd, se non altro perché il deputato in questione riveste un ruolo di primissimo piano nella gestione del gruppo. E dunque ha voce in capitolo per dire che se pure il Senato riuscisse a licenziare entro le europee, cioè il 25 maggio, una prima lettura della riforma costituzionale che ne prevede la sua stessa abolizione, la palla passerebbe subito alla Camera. Che comincerebbe ad esaminare la riforma costituzionale mentre il Senato potrebbe a quel punto occuparsi della legge elettorale. «Volete che il Senato non apporti qualche modifica all’Italicum? Impossibile». Dunque se pure entro giugno i senatori riuscissero ad approvare la riforma elettorale, poi toccherebbe di nuovo alla Camera pronunciarsi, o con un sì definitivo, o con altre modifiche, facendo tornare indietro in quel caso la legge per una quarta lettura…

l’Unità 31.3.14
D’Ambrosio, una vita a difesa della giustizia
di Oreste Pivetta


Gerardo D’Ambrosio è morto. Aveva 84 anni, era un magistrato, ma era stato anche senatore della Repubblica, la cui storia aveva esplorato in alcuni dei momenti più tragici.
La strage di Piazza Fontana, la morte di Giuseppe Pinelli, lo scandalo di Tangentopoli, momenti indimenticabili e insuperati, malgrado gli anni trascorsi comincino ad essere tanti, momenti per tutti di rottura e di svolta. Li affrontò con senso di responsabilità, con profondo rispetto non solo della legge ma della cultura democratica e civile di un Paese, con la consapevolezza di un ruolo che non poteva essere tradito da opinioni personali, buone o cattive, per amore della verità ben conoscendo i limiti di ogni ricerca della verità. Anche con fatica (aveva sofferto di gravi malanni cardiaci). «Un uomo sopra le parti, nonostante i suoi convincimenti politici», lo ricorda Francesco Saverio Borrelli. Un «magistrato integerrimo»: la definizione sarebbe giusta se non tradisse ritualità, abitudine, esercizio retorico. Gerardo D’Ambrosio era soprattutto un uomo colto e onesto, verso se stesso, per gli altri, davanti ai codici. Lo hanno contato tra le «toghe rosse» milanesi. O addirittura qualcuno lo ha apostrofato alla stregua di «capo delle toghe rosse». Un pallido insulto, che faceva e fa sorridere, considerando le qualità di Gerardo D’Ambrosio.
Lo si poteva incontrare nel suo ufficio dentro Palazzo di Giustizia a Milano. Lo si poteva ascoltare al telefono, per un’intervista, quando ormai aveva lasciato la magistratura ed era entrato in Senato. Colpivano subito quei modi eleganti, raffinati e discreti. Colpiva quel suo accento campano, che restava malgrado i decenni trascorsi al Nord, a Milano. Colpivano la disponibilità, la gentilezza e quel modo paziente, pedagogico, di spiegare a chi l’ascoltava come «stavano le cose». Rivelava, negli ultimi anni, la sua amarezza. Lo spiegò in un intervista all’Unità: amarezza per quanto era stato scoperto, denunciato, perseguito, e per quanto, comunque, nel malaffare, nella corruzione, nell’offesa alle istituzioni si era ripetuto negli anni, in una sorta di «tangentopoli infinita». «Il problema della corruzione - disse di recente - c’è sempre. Se i risultati sono inferiori al periodo d’oro, quello di Mani Pulite, è solo perché si sono creati gli anticorpi, è stato fatto tesoro dell’esperienza di quegli anni per sottrarsi alle indagini».
Gerardo D’Ambrosio s’era occupato di piazza Fontana, del bomba del dicembre 1969, e grazie al suo coraggio (e al coraggio e all’obiettività di magistrati come Giancarlo Stiz ed Emilio Alessandrini, assassinato dai terroristi di Prima Linea) si giunse all’incriminazione di Franco Freda e di Giovanni Ventura, alla individuazione quindi di quella matrice fascista della strage (Freda e Ventura erano già stati incriminati per le bombe ai treni dell’estate dello stesso anno).
Gerardo D’Ambrosio s’era occupato anche della morte di Giuseppe Pinelli, nella notte che precedette l’arresto di Pietro Valpreda. Gli era toccato il compito di ricostruire quanto era avvenuto dentro un ufficio della questura, a Milano, in via Fatebenefratelli. Non era riuscito a concludere la sua inchiesta come avrebbe voluto, interrogando il commissario Calabresi, ultimo teste, ucciso pochi giorni prima l’appuntamento. Le conclusioni di Gerardo D’Ambrosio (il «malore attivo») mossero nei suoi confronti polemiche e accuse violente da parte di alcuni ambienti di sinistra (e in particolare di Lotta Continua). Ma D’Ambrosio, giudice istruttore, nella sentenza depositata il 27 ottobre 1975, ebbe parole durissime a proposito dei comportamenti della polizia e del questore. Citò la conferenza stampa, quando il questore dichiarò: «Era fortemente indiziato», «Ci aveva fornito un alibi ma questo alibi era completamente caduto », «Il funzionario e l’ufficiale gli hanno rivolto una ultima contestazione… Poi sono usciti dalla stanza. D’improvvisoGiuseppe Pinelli è scattato. Ha spalancato i battenti della finestra socchiusi e si è buttato nel vuoto» … Colpevole dunque. Affermazioni vili e menzognere, scrisse D’Ambrosio, rese perché gradite ai superiori, «strumento per avvalorare la tesi della colpevolezza degli anarchici». Gerardo D’Ambrosio non s’era arreso a un «senso comune» pseudo istituzionale, a un pseudo rispetto del «potere». Per quanto gli era stato possibile aveva difeso una persona, aveva cercato di restituire dignità e giustizia a una persona.
Gerardo D’Ambrosio s’era occupato di Tangentopoli, di Mani pulite. Il procuratore capo Francesco Saverio Borrelli lo volle coordinatore del pool, del quale all’inizio fecero parte magistrati come Di Pietro, Colombo, Davigo. Era il 1992: il 17 febbraio il socialista Mario Chiesa, presidente del Pio Albergo Trivulzio, fu colto in flagrante mentre incassava la sua tangente. «Un mariuolo» lo definì Bettino Craxi. L’onda si estese travolgendo ogni confine. L’onda continua.
Nato a Santa Maria a Vico, in provincia di Caserta, era entrato in magistratura nel 1957 ed era arrivato al tribunale di Milano dopo un primo incarico a Voghera. Nel 1981 venne assegnato alla Procura di Milano con funzione di sostituto, per otto anni. In questo periodo sostenne l'accusa nei primi processi per terrorismo e nel processo conseguente allo scandalo dei petroli. Condusse inoltre le istruttorie relative agli illeciti del Banco Ambrosiano, che vedevano tra gli altri imputati Roberto Calvi. Lasciò la magistratura nel 2002, per limiti d’età. Entrò in politica nel 2006, nelle file dei Democratici di sinistra, e fu eletto al Senato, dove rimase fino al 2013.
Il 21 maggio 2012 il consiglio comunale di Santa Maria a Vico, sua città natale, gli negò la cittadinanza onoraria. Il sindaco Alfonso Piscitelli (Pdl) motivò il suo no dichiarando: «Riteniamo che D’Ambrosio non abbia volato troppo in alto, non sia stato al di sopra delle parti».

l’Unità 31.3.14
Gherardo Colombo: «Un maestro sempre corretto deluso dalla politica»
«Credo si fosse convinto che quando la corruzione è massiva non basta l’azione penale.
Mani pulite occasione persa per il Paese non per noi»
intervista di Adriana Comaschi


Un maestro, un magistrato correttissimo. Così l’ex procuratore capo di Milano nel ricordo di Gherardo Colombo, membro del pool di Mani Pulite e protagonista di altre inchieste storiche come quella sulla Loggia P2 e sul delitto Ambrosoli, in anni più recenti dei processi Imi-Sir/Lodo Mondadori/Sme. «Abbiamo lavorato insieme per tanti, tantissimi anni, Gerardo era un bravissimo investigatore - ha detto tra l’altro Colombo -. Lavoravamo affinché l’articolo 3, secondo cui tutti i cittadini sono uguali davanti alla legge, da speranza diventi realtà». Chi è stato per lei, Gerardo D’Ambrosio?
«Un uomo estremamente sensibile ai diritti delle persone, che faceva il suo lavoro con una grande attenzione e passione. Per me personalmente è stato anche un maestro, negli anni 70 quando ero appena entrato in magistratura, arrivato a Milano eravamo nello stesso Ufficio Istruzione e succedeva spesso che la sera, prima di tornare a casa, ci fermassimo a rivivere con lui le indagini che aveva fatto. Ea imparare, imparare moltissimo ».
Nel 2012 D’Ambrosio in un’intervista all’Unità a proposito della stagione di Mani Pulite disse «abbiamo perso una grande occasione, quella di sconfiggere la corruzione ». Lei ha lasciato la magistratura a 60 anni, dichiarando «ho visto riabilitati molti dei corrotti che ho indagato». Avete condiviso questa delusione?
«A muovermi è stata la convinzione forte, fortissima che non è l’accertamento delle responsabilità individuali delle singole persone lo strumento con cui si poteva marginalizzare la corruzione, in un paese come l’Italia dove la corruzione era allora altissima. Credo che anche la scelta di Gerardo poi di fare dell’altro, anche se dopo la pensione, sia stata originata da una convinzione analoga. L’azione penale può servire soltanto quando la devianza è marginale. Ma quando è normale, come era normale, che i rapporti tra privati e pubblica amministrazione fossero accompagnati dalla corruzione, allora lo strumento giudiziario diventava uno strumento inadeguato. Tra l’altro avevo anche proposto, proprio all’inizio di Mani Pulite a luglio del 1992, avevo buttato lì che chi avesse raccontato come erano andate le cose, restituito e si fosse allontanato per un periodo di una certa consistenza dalla vita politica non andasse in prigione. Insomma questa scelta di Gerardo di dedicarsi invece che all’applicazione alla creazione delle leggi in Parlamento credo potesse corrispondere all’idea che la soluzione si trovasse in un altro settore, in un altro campo ».
Come giudicava l’esperienza in Parlamento?
«Lui era sempre un corpo estraneo all’interno della politica. Non mi pare sia stato accolto a braccia aperte a livello elettorale, e credo che la sua voce abbia fatto fatica, ma molta molta fatica a farsi sentire. Ci sentivamo tre quattro volte l’anno, succedeva che mi parlasse di una sua iniziativa parlamentare e magari della delusione che aveva incontrato nelle risposte».
Cosa rimane allora della stagione di Mani Pulite?
«Parlavamo di Gerardo, fermiamoci qui. Voglio solo precisare, a proposito di quello che si diceva prima: non credo che abbiamo perso una grande occasione noi, come magistrati, era impossibile arrivare a modificare la situazione di devianza così massiva attraverso una indagine penale».
D’Ambrosio ha lavorato con passione e poi è passato alla politica. Lei dopo aver lasciato la toga ha cercato di muoversi su un altro fronte, quello dell’educazione alla legalità, nelle scuole e con i libri...
«Non voglio parlare di me. Quanto all’impegno di Gerardo, vorrei precisare perché può essere travisato questo aspetto della passione civile, potrebbe essere magari interpretato nel senso che allora uno fa il magistrato tenendo un po’ meno in conto le regole della propria professione: sicuramente per Gerardo non è stato così. In uno Stato di diritto le regole vanno rispettate e se si pensa che non siano coerenti con la Costituzione vanno portate davanti alla Corte Costituzionale. Lui era estremamente corretto anche sotto questo profilo».

l’Unità 31.3.14
Ump: 49%, l’astensione: 38,5%, Le Pen: 9%l’Unità 31.3.14
Crollano i socialisti Hollande fa il rimpasto
Otto città al Front national, destra dell’Ump primo partito
Il Ps tiene solo Parigi con Anne Hidalgo
Il presidente ammette la sconfitta
di Umberto De Giovannangeli


È più di una sconfitta. È un tracollo per il Partito socialista e l’inquilino dell’Eliseo: Francois Hollande; un tracollo che non tracima in una débacle devastante grazie alla vittoria a Parigi, secondo i primi exit poll, della candidata socialista, Anne Hidalgo. La Francia vira a destra. La destra gollista. E quella ancor più inquietante del Front National Di Marine Le Pen. Il secondo turno delle elezioni amministrative conferma il segno politico del primo turno: a sommergere la gauche prim’ancora che la «marea nera» e quella delle astensioni, che hanno riguardato pezzi consistenti dell’elettorato socialista. Dai primi risultati che arrivano dalle città francesi, si profila un’ampia vittoria della destra Umpe una nettissima sconfitta della sinistra. Il Front National conquista almeno otto città: Bèziers, Frejus, Hayange e Villers-Cotterets, Le Luc, Cogolin e Le Pontet. Il partito di Marine Le Pen non è invece riuscito ad imporsi a Perpignan e Avignone. Il ministro delegato all’Economia sociale e solidale, Benoit Hamon intanto ha già annunciato alla radio RTL che oggi ci sarà un rimpasto nel governo di sinistra. Potrebbe essere la fine dell’esperienza da premier di Jean-Marc Ayrault, che soffre di una impopolarità ancora maggiore di Hollande. Per la sua sostituzione al momento si fanno i nomi dell’attuale ministro dell’Interno Manuel Valls, ma anche dei titolari degli Esteri Laurent Fabius e della Difesa Jean-Yves Le Drian. Altri papabili alla successione di Ayrault sono il sindaco uscente di Parigi Bertrand Delanoe, il sindaco di Lille Martine Aubry e il presidente dell’Assemblea nazionale Claude Bartolone.
DÉBACLE
«Da oggi siamo il terzo grande partito nel Paese», esulta ai microfoni di France 2 Marine Le Pen. Ma l’affluenza non è mai stata così bassa. La proiezione dell’istituto Ifop-Sas prevedeva un’affluenza complessiva del 61,5%, ancor meno del 63,5% del primo turno, un dato estremamente basso per un Paese in cui il ruoli dei sindaci è visto con grande rispetto. Un astensionismo del 38,5%. Avotare al secondo turno delle amministrative sono stati 6.455 comuni, tra cui la maggior parte delle grandi città. Col passare delle ore il bollettino che arriva a Rue Solferino, il quartier generale del Ps a Parigi, è quello di una disfatta: La sinistra francese perde almeno quattro comuni nel secondo turno delle amministrative, mentre vengono diffusi i primi dati: si tratta di Limoges, Nevers, Saint-Etienne e Quimper. Lo riporta Rtl nella sua versione online. «Una punizione severissima, che bisogna prendere molto sul serio» sono state le prime parole della dirigente socialista Segolene Royal, in predicato di entrare al governo con il rimpasto dopo la sconfitta elettorale di ieri. «Incontestabilmente una sconfitta» per il partito socialista e il governo, ha fatto eco il ministro dell’Economia, Pierre Moscovici, a France 2. «I risultati» delle municipali francesi «sono cattivi per la Sinistra. Ne prendiamo nota». Così la portavoce del governo, la ministra Najat Vallaud Belkacem, subito dopo la chiusura dei seggi. Secondo i sondaggi, considerando il tasso di gradimento basso di cui gode Hollande, i conservatori dell’Ump potrebbero soffiare ai socialisti il controllo di circa cento comuni.
Ma c’è ancora il duello tra donne a Parigi, che per la prima volta avrà un sindaco «rosa». La socialista franco-spagnola Anne Hidalgo, alla fine riesce a spuntarla sulla candidata dell’Ump Nathalie Kosciusko-Morizet, ex portavoce di Nicolas Sarkozy. Hidalgo, 54 anni, è stata per 13 anni la vice del primo cittadino uscente Bertrand Delanoe e ha dalla sua parte i progetti di successo portati a compimento dallo stesso Delanoe, come le iniziative di bike-sharing e car-sharing Velib e Autolib e la realizzazione di un lungofiume lungo la Senna molto apprezzato dai cittadini. Hidalgo avrebbe raccolto il 54,5% dei consensi, secondo un exit poll dell’istituto Ifop: la rivale è data al 45,5%. La candidata socialista ha beneficiato inoltre del sistema di voto indiretto che è in vigore, in cui il sindaco viene scelto in realtà dai 163 membri del Consiglio comunale. In pratica gli elettori scelgono i membri del Consiglio comunale in base alle liste dei partiti in 20 distretti della città e i consiglieri eleggono poi a loro volta il primo cittadino.
A Marsiglia il candidato socialista Patrick Mennucci è stato superato dai conservatori dell’Unione per un movimento popolare (Ump) e dall’ultradestra del Font National. Limoges, storico bastione della sinistra dal 1912, è passato a destra. Lo sostiene Le Figaro, dando per sconfitto il sindaco uscente, il socialista Alain Rodet. Oltre a Limoges, la destra sarebbe in vantaggio anche a Pau, Reims, Saint-Etienne, Roubaix e Quimper. Buon risultato per l’Ump anche a Brive- la-Gaillarde, il più grosso centro abitato della Correze, dove il candidato di destra Frederic Soulier precede il socialista Philippe Nauche con il 58,81% dei voti contro il 41,19%.ARue Solferino il bollettino di guerra segnala perdite su perdite: secondo i primi dati del secondo turnodelle amministrative, il Partito socialista perde il controllo di 15 città.Lo riporta Le Point, sul suo sito web. Si tratta di Saint-Étienne, Nimes, Nevers, Pau, Perpignan, Fécamp, Reims, Quimper, Limoges, Roubaix, Angers, Belfort, Anglet, La Rochelle e Brive-la-Gaillarde. Secondo un primo dato complessivo, la destra «moderata» raggiunge il49%, la sinistra (Ps e gauche radicale), 42%, il Front National si attesterebbe al 9%. «La prima grande vittoria dell'Ump in una elezione locale». Così Jean-François Copé, presidente dell'Unione per un movimento popolare, commentando l’esito del secondo turno delle amministrative Il presidente François Hollande deve «assolutamente cambiare politica», ha proseguito Copé affermando che «il primo partito di Francia è l’Ump».
Le elezioni di ieri erano considerate un referendum sul presidente François Hollande, dopo i primi due anni di permanenza all’Eliseo. Il risultato non si presta a equivoci: per Hollande è una sonante bocciatura. Solo in parte mitigata dal voto parigino.

l’Unità 31.3.14
Elettori di sinistra in fuga: pessimo segnale per le Europee
di Paolo Soldini


Parigi resterà alla sinistra ed è già qualcosa. Il secondo round delle amministrative francesi conferma il disastro dei socialisti, l’avanzata della destra «normale» e lo sfondamento, dove si è presentato, del Front National di Marine Le Pen.
Pessimo presagio per le elezioni europee ormai quasi imminenti. Un centinaio di comuni con più di 10 mila abitanti passano dalla sinistra alla destra e nell’elenco i socialisti debbono amaramente annotare città importanti come Strasburgo, Tolosa, Metz, Reims, Amiens, Roubaix e tantissimi centri più piccoli considerati, fino al terremoto di domenica scorsa, roccaforti tranquille. Tre città importanti, Bezières, Frejus e Hayange vanno al Front National, che fallisce, comunque, il tentativo di conquistare Avignone. Nella capitale però la socialista Anne Hidalgo riesce a spuntarla nonostante il salasso dei voti sottratti al PS soprattutto da un’astensione con un chiaro marchio politico e potrebbe continuare l’opera di rinnovamento e la buona amministrazione (riconosciuta dai più) del sindaco Bertrand Delanöe. Si può anche leggere il risultato in negativo: più che di una vittoria della candidata di Hollande si sarebbe trattato di una sconfitta della sua rivale, quella Nathalie Kosciusko-Morizet (NKM per chi non ama gli scioglilingua) che era stata scelta dalla destra nonostante l’handicap di essere stata la portavoce di Nicolas Sarkozy. A testimonianza del fatto che se François Hollande non attraversa un periodo facile, la memoria del suo predecessore non brilla certo nel confronto neppure a posteriori. I risultati, s’è detto, confermano sostanzialmente quelli del primo turno: l’«ondata blu» dell’Upm e il boom di FN, e pochi, d’altronde, si aspettavano sconvolgimenti ulteriori o rimonte clamorose. Il dato più interessante, però, è l’aumento delle astensioni, che a giudicare dai dati disponibili ieri sera avrebbero superato il 38%, con un incremento ben più sensibile di quello medio che si registra in ogni secondo turno rispetto al primo e che, secondo la maggior parte degli osservatori, avrebbe punito soprattutto i socialisti. È chiaro che c’è una grossa fetta di elettori francesi che si è disamorata della sinistra al governo o che ha voluto comunque darle una lezione segnalando la scontentezza per la disoccupazione che ha continuato a crescere, per i tagli nel bilancio che hanno colpito il settore pubblico, per la generale stagnazione (anche psicologica) in cui pare essersi incagliata l’economia dell’esagono. Chi prende atto di questo stato d’animo può anche consolarsi con l’idea che esso possa essere contrastato se la compagine di Hollande si mostrerà capace di riprendere l’iniziativa. Appaiono come un tentativo di risposta in questo senso le voci, che in queste ore si accavallano fino a diventare previsione sicura, sul cambio dell’uomo che è alla guida del governo, con la sostituzione di Jean-Marc Ayrault con il dinamico (e contestato) ministro dell’Interno Manuel Valls, con l’eterno Laurent Fabius o, addirittura, con lo stesso Delanöe, forse l’unico che esce da questa drammatica tornata elettorale senza essersi rotte le ossa. Non tutte, almeno.
Ma è evidente che il problema più che di uomini è di programmi. È sul piano delle scelte di governo che Hollande non si è mostrato all’altezza delle promesse con cui aveva vinto la campagna elettorale. Alcune le ha mantenute, ed è giusto dargliene atto, con una riforma fiscale che, sia pure con qualche esitazione, ha colpito le diseguaglianze più clamorose, con le misure in materia di pensioni, con il coraggio mostrato sui temi civili come il matrimonio tra omosessuali. Ma su quelle che davvero avrebbero dovuto incidere sulla sostanza delle politiche economiche della Francia e dell’Unione, quelle mirate al riequilibrio nel senso degli investimenti e della crescita dalle politiche restrittive imposte da Berlino e da Bruxelles incardinate sul Fiscal compact del quale da candidato Hollande aveva (incautamente?) annunciato la «ridiscussione», la svolta promessa non c’è stata. Magari non (o non solo) per colpa sua, ma troppo spesso l’inquilino dell’Eliseo ha dovuto piegare la testa.
Se le cose stanno così sarà molto difficile invertire la tendenza nelle nove settimane scarse che ci separano dall’elezione del nuovo parlamento europeo. L’estrema destra francese costituirà una grossa parte di quella rumorosa valanga di contestatori dell’Europa che si siederà sui banchi dell’unica istituzione europea scelta dai cittadini. I segnali che arrivano da Bruxelles dicono che non sarà facilissimo per Marine Le Pen e il suo alter-ego olandese Geert Wilders mettere in riga tutte le varie demagogie anti-euro e anti-Unione che si agitano in quasi tutti i paesi. Ma il radicamento del populismo nel suo cuore politico sarà il grande problema politico che l’Europa dovrà affrontare dopo il 25 maggio.

il Fatto 31.3.14
Tra morti e urne chiuse, Erdogan va oltre il 50%
di Roberta Zunini


Alle 22 di ieri, con i seggi ormai chiusi da quattro ore, in Turchia i risultati delle consultazioni comunali davano il partito del primo ministro-sultano Tayyip Erdogan in testa ad Istabul e Ankara, per poi auto-smentirsi pochi minuti dopo. “Se il mio partito non risulterà il primo, mi dimetto”. Ma il premier-sultano, la settimana scorsa si era ben guardato dallo specificare in quale città l'Akp, il suo partito “moderato” islamico, avrebbe dovuto ottenere la poltrona di sindaco. Non perché non lo sapesse ma perché dopo gli scandali che lo hanno travolto, a partire dalla sollevazione popolare di Gezi del giugno scorso, lui e il suo entourage sono diventati impopolari nella principale città, motore economico e intellettuale, del Paese: la laica Istanbul. Dove Erdogan è nato e ha mosso i suoi primi passi in politica, diventandone per l'appunto primo cittadino nel 1997. Meglio dunque evitare qualsiasi precisazione, a scanso di un'inattesa disfatta. Che però non sembra esserci stata. Dato che in questa decade il premier è stato abile a crescere e fidelizzare un ceto medio islamico che senza la sua guida si sentirebbe orfano di un padre, non solo di una figura politica. È la prima volta nella storia delle repubblica turca che semplici votazioni comunali si sono trasformate in consultazioni politiche. Con tanto di scontri fatali fra i sostenitori dei candidati sindaci delle opposte fazioni (8 morti negli ultimi giorni) e sospetti blackout in alcuni distretti della megalopoli sul Bosforo.

Corriere 31.3.13
Soli Ozel, professore di Relazioni internazionali e di Scienze politiche alla Bilgi University di Istanbul
«Un referendum vinto a mani basse»
di Mo. Ri. Sar.


ISTANBUL — « Una vittoria netta per Erdogan e una sconfitta durissima per il Chp di Kemal Kiliçdaroglu». Non ha dubbi Soli Ozel, professore di Relazioni internazionali e di Scienze politiche alla Bilgi University di Istanbul. «È chiaro che queste sono solo elezioni amministrative – dice al telefono commentando a caldo i primi risultati – ma il premier le ha trasformate in un referendum sulla sua popolarità e si può dire, senza ombra di dubbio, che ha vinto a mani basse. L’Akp arriva al 45%, un risultato del tutto rispettabile. Si è confermato vincente a Istanbul Oltre a Istanbul si è riconfermato vincente anche ad Ankara».
Gli elettori hanno creduto alla teoria del complotto per far cadere il governo? Come mai gli scandali sulla corruzione e le leggi liberticide non hanno spostato alcun voto?
«Una strana domanda fatta da un’italiana. Come mai da voi Silvio Berlusconi ha continuato a vincere le elezioni? La risposta è sempre la stessa: la gente preferisce credere al leader in carica, soprattutto quando non c’è un’alternativa convincente».
Cosa succederà ora?
«È difficile dirlo. Bisogna vedere se Erdogan, una volta incassata la vittoria, deciderà di abbassare i toni e cercare una riconciliazione con i suoi oppositori. O se, invece, calcherà ancora più la mano e cercherà la vendetta. L’obiettivo auspicabile dovrebbe essere quello di unire il popolo anziché dividerlo».
Il premier correrà per le presidenziali?
«Siamo un Paese diviso tra il 45% e 55%. In questa situazione per Erdogan sarà difficile diventare presidente senza l’accordo con un altro partito. Forse anticiperà le politiche e farà il primo ministro per la quarta volta modificando le norme vigenti».
La posizione del presidente Gül a questo punto si indebolisce.
«Abdullah Gül ha giocato su due tavoli: ha firmato quello che voleva Erdogan ma dall’altro lato si è schierato contro il blocco di Youtube e Twitter. Così ha perso molta della sua autorevolezza».
Lo scontro con Gülen, il predicatore islamico che vive in Pennsylvania e guida milioni di adepti, è finito?
«Sicuramente Gülen ha dimostrato di non avere un grande seguito elettorale. Il suo risultato è del tutto deludente. Ma il vero sconfitto di queste elezioni è il principale partito di opposizione, il Chp».
Cosa succederà ora nel Chp? Kiliçdaroglu si dimetterà?
«Di certo Kiliçdaroglu dovrà aprire una seria riflessione su un risultato elettorale che vede inchiodato il suo partito a un misero 27%».

Corriere 31.3.14
Ma il voto fa sfumare le ambizioni del leader
di Antonio Ferrari


Il verdetto del popolo turco è abbastanza chiaro, nonostante il caos, le manipolazioni e lo strano blackout elettrico, a macchia di leopardo, che ha costretto molti scrutatori a un romantico lavoro al lume di candela. Il premier Erdogan, pur ferito e screditato, si salva dal naufragio. Numericamente il leader tiene bene, politicamente si indebolisce per aver trasformato il voto amministrativo in un referendum su se stesso.
Il suo futuro, infatti, è in declino e la presidenza della Repubblica è sempre più lontana. Un sogno di gloria e di presunzione che pare arenato nel deserto dell’arroganza. L’immagine che affiora dalle urne, con i seggi assediati da un’affluenza record che rivela l’estrema politicizzazione (e polarizzazione) della volontà popolare, è quella di una sentenza senza veri vincitori e vinti. Erdogan, pur travolto dagli scandali, non è stato severamente punito. Però ha corso il rischio di perdere il controllo di Istanbul, la città più importante del Paese con i suoi 15 milioni di abitanti: polo miliardario di appalti dorati. I fedelissimi sostenitori dell’Akp, il partito islamico di cui il premier è l’anima, hanno infatti deciso di restare dalla sua parte, tacitando le correnti di dissenso interne al partito. Se valesse una metafora sportiva, si potrebbe dire che il voto turco ha espresso un virtuale pareggio: non tra il governo e l’opposizione laica, ma tra chi è sempre con Erdogan, costi quel che costi, e chi invece è contrario al capo del governo ed è pronto ad allearsi col diavolo pur di abbatterlo politicamente. A conti fatti, il discusso leader resta in sella, anche se i più attenti analisti turchi sostengono, già adesso, che sarà assai improbabile, fra pochi mesi, alle elezioni presidenziali, vedere Erdogan come candidato vincente. Il capo dello Stato, pur indicato dal partito di appartenenza, deve essere espressione della conciliazione nazionale: in sostanza non può essere totalmente sgradito agli avversari, come è accaduto per Ozal, per Demirel, per Sezer, e per lo stesso Gül, che con l’attuale premier è fra i fondatori dell’Akp. È proprio la divisione in due blocchi dell’elettorato turco, avvenuta ieri, a suggerire le interpretazioni del voto più aderenti alla realtà. Nel fronte islamico moderato ha prevalso la conservazione: più che gli scandali ha pesato sul voto il rischio che la rovinosa caduta di Erdogan riporti il Paese al rigore laicista del passato. La macchina del consenso è stata quindi tradizionale: controllo della stampa, delle televisioni, comizi con folle oceaniche, capillare propaganda porta a porta. Quella del fronte opposto si è scatenata sui social network, i veicoli della comunicazione più sgraditi al premier. La chiusura coatta di Twitter e YouTube ne ha rivelato, per contro, la forza inarrestabile. Sul web, il giorno delle elezioni, sono stati invitati tutti i sostenitori del «no» ad andare a votare indossando le maglie di tutti i club più famosi, compresi quelli che il premier riteneva dalla sua parte. In sostanza, per ora, cambierà poco o nulla in Turchia. La guerra tutta islamica fra Erdogan e il predicatore Fetullah Gülen, che vive negli Usa, si è combattuta anche ieri. L’agenzia di Stato e quella di Gülen si sono scontrate velenosamente sui risultati e sui loro interessati (seppur illegali) exit poll. Chi sperava da questo voto un raggio di luce è sempre al buio. E senza candele. Le incognite, invece di risolversi, si sono moltiplicate.

Corriere 31.3.14
Duecento manager e la moglie al seguito
Xi in Europa per un affare da 400 miliardi
di Luigi Ofeddu


Qualcuno ha parlato di «occasione storica», e non esagera: per la prima volta dal 1975, quando Unione Europea e Cina comunista allacciarono le loro relazioni, un presidente cinese è arrivato a Bruxelles e oggi vi incontrerà tutti i leader della Ue. Quel presidente, Xi Jinping, che viaggia accompagnato da 200 manager e consiglieri economici cinesi, non terrà conferenze stampa, non risponderà alle domande di giornalisti liberi: ma questo, quasi nessuno si illudeva che accadesse.
Il rapporto economico e commerciale fra i due mondi vale circa 400 miliardi di euro, quello geopolitico molto di più (soprattutto ora, con le inquietudini della Russia): e l’uomo di Pechino ha riassunto ieri i due concetti, parlando di una Cina aperta al «rinnovamento», di una Ue che esce «dall’inverno economico», e di una relazione reciproca «vincente per entrambi». A confermare il tutto, Xi ha già firmato e firmerà ancora vari accordi con il Belgio e la Ue per la cooperazione scientifica, tecnologica, economica, e nel settore delle telecomunicazioni. Su quest’ultimo, si è litigato a lungo fra Pechino e la Commissione Europea, che non voleva concedere troppo spazio alle «curiosità» tecnologiche dei cinesi; poi, grazie anche alla visita di Xi, e al via libera concesso dalla stessa Cina alle importazioni di vino francese, è tornata una tregua guardinga.
Xi è accompagnato dalla moglie, la bella cantante popolare Peng Liyuan. Nei giorni scorsi, hanno visitato insieme un bel pezzo d’Europa, e a Berlino hanno anche goduto una partitina di calcio al fianco del presidente della Volkswagen, Martin Winterkorn. Rispetto alla capitale tedesca, il benvenuto che Bruxelles ha riservato alla coppia cinese è stato più romantico: guardie a cavallo, il re Filippo e la regina Matilde e il governo belga al completo sulla piazza del Palazzo Reale, batter di tacchi e scintillare di sciabole. E i due ospiti cinesi che sorridevano ai rappresentanti di una monarchia capitalistica, com’è in fondo capitalistica — secondo i suoi ritmi particolari — la nuova Cina che Xi dichiara di voler costruire.
Il business Bruxelles-Pechino da 400 miliardi di euro si regge anche, paradossalmente, sulle zampe paffute di Hao Hao, alias «Gentilina», femmina di panda gigante che con il suo compagno Xing Hui è stata prestata poche settimane fa dalla Cina al Belgio, per un periodo di 15 anni: un segno significativo di amicizia, per i linguaggi della diplomazia cinese. E proprio i due panda, Xi e signora sono andati ieri a «salutare» (così han detto), nel parco naturale di Pairi Daiza a mezz’ora da Bruxelles. Hao Hao li ha accolti appollaiata tra le fronde, intenta a sgranocchiare un rametto. Il presidente e la moglie, con il re e la regina, hanno poi passeggiato fra i boschi, che ricreano quelli cinesi. Senza sapere, probabilmente, che proprio per quei due panda si è accesa l’ennesima polemica tra il Belgio fiammingo e quello francofono: «Perché quelle bestiole devono vivere in una zona francofona?», ha protestato qualche giornaletto fiammingo. Ma poi la baruffa è finita lì, per una volta almeno.
Qualche preoccupazione, a Bruxelles, c’era stata anche per il menu delle cene allestite per il presidente e la sua signora. Era fresco il ricordo di quanto avvenuto a Parigi: un menu «disgustoso», secondo un ministro francese, poi una «cena riparatoria» affidata al grande cuoco Alain Ducasse con tanto di cosce di rana, ravioli alle aragostine, gnocchi fondenti, rombo ai tartufi neri. Ma qui tutto è andato bene, previe fitte e prudenti consultazioni con un cuoco pechinese.

Corriere 31.3.14
Il trionfo dell’insabbiatore di scandali
L’ex consigliere capo della Thatcher spiega com’è la vera politica: sporca e afrodisiaca
«Margaret Thatcher aveva idee e visione. Per fortuna aveva anche un senso portentoso del potere»
di Danilo Taino


LONDRA —Nella Royal Gallery del Palazzo di Westminster, Lord Dobbs indica sul muro di sinistra l’enorme dipinto che celebra la vittoria di Waterloo e il Duca di Wellington; poi mostra, sulla destra, quello altrettanto grande in gloria della battaglia di Trafalgar e dell’ammiraglio Nelson. «È qui che riceviamo i presidenti francesi»,scoppia in una risata. Siamo nella madre di tutti i parlamenti o, se preferite, nella House of cards dove tutto può succedere, il tradimento coniugale e l’assassinio politico.
«Ogni Parlamento è anche una House of cards , un castello di carte – dice il pari del Regno –. A Londra, a Washington, a Parigi, a Mosca, nella Repubblica Centrafricana». Sono luoghi di ideali e di idee da agitare, saloni nei quali intimidire gli avversari con il peso della storia e del potere, ma anche corridoi di intrighi, di invidie, di sesso. Lord Dobbs – semplicemente Michael Dobbs fino al 2010 – sa di cosa parla. Il lato nobile e il lato nero della politica li ha vissuti nel cuore del carciofo in anni straordinari di battaglie parlamentari e di fervori ideologici, quando era braccio destro di Margaret Thatcher. Questo weekend, è uscito in Italia il suo romanzo, pubblicato in Gran Bretagna a fine Anni Ottanta: House of cards (Fazi editore). È un enorme successo internazionale: ha venduto centinaia di migliaia di copie, la Bbc ne ha fatto una serie televisiva vent’anni fa, ambientata nella politica britannica, ed è la base sulla quale Netflix ne ha prodotta una seconda l’anno scorso, che ha fatto impazzire americani e cinesi, protagonista Kevin Spacey, al cuore del potere più puro nel Campidoglio di Washington.
Dobbs, 65 anni, era il capo dello staff del partito conservatore prima e dopo l’elezione di Maggie Thatcher a primo ministro. «Tra i miei compiti c’era quello di tenere sotto controllo la vita politica dei parlamentari – racconta davanti a un tè, nella cafeteria della House of Lords – ma anche la loro vita privata. Era assolutamente necessario che identificassi uno scandalo prima che lo facessero i giornali, non dovevo farlo arrivare a loro. E ovviamente gli scandali sessuali erano uno dei problemi maggiori. Cosa facevo? Una volta informato di un rischio, andavo dal protagonista e lo convincevo a mettere le cose a posto, a coprire le tracce. Ho fermato almeno cinque possibili scandali sessuali seri. Sono stato più di una volta nella condizione di dover decidere se salvare il partito o salvare l’individuo, magari l’amico, che avevo di fronte. Naturalmente il partito viene prima». In House of cards racconta questo: cinismo e sesso che trionfano. E assicura che non c’è esagerazione. «La politica – dice – è fatta di valori e di potere. Vanno bilanciati: la reputazione di un politico dipende dalla sua capacità di soppesarli, di non scivolare da un lato o dall’altro. Ma è chiaro che il potere è essenziale, senza quello non fai niente, senza potere la politica è una landa selvaggia. Ecco, House of cards ha uno spirito shakespeariano nel senso che è totalmente dedicato al lato oscuro della politica, al potere inteso in senso puro. Persone in lotta con tutti i mezzi. Il dramma della politica è che spesso ti mette in posizioni difficili, quelle in cui non devi scegliere tra il bene e il male ma tra due mali. E quando la pressione è alta i caratteri vengono alla luce». In positivo e in negativo. «Lo scontro tra Tony Blair e Gordon Brown è una storia straordinaria di ambizioni e tradimenti che li ha distrutti entrambi».
Ma le manovre, i ricatti, gli Io ipertrofici trionfano in ogni partito. «Testosterone che scorre a fiumi». «Il novanta per cento di quello che scrivo è tratto da casi che ho vissuto o dei quali sono stato testimone diretto». Per quel che riguarda il cinismo, dice che nelle stanze del potere non ne mancherà mai: «Anzi, negli ultimi tempi è in crescita, se possibile. Ho sentito più di un politico sostenere che il cinismo è spregevole… ma non l’ha mai deluso».
Quanto al sesso, non c’è niente da fare: l’accoppiata con il potere è una roccia. «È una questione di testosterone. In politica ce n’è un’esagerazione ed è inevitabile che si propaghi anche nel privato. Si vive nella bolla della politica, a un certo punto ti viene da credere che i valori non siano una cosa che riguarda anche te: se sei un politico è più facile avere comportamenti sbagliati. Poi ci sono le lunghe ore di lavoro, lo stare lontano dalla famiglia, l’alcol. E il fatto che le glorie del potere hanno la vita corta, mentre il sesso dura. Ma non è affatto una relazione recente quella tra sesso e potere, come non lo è l’effetto afrodisiaco del comando. In questo palazzo, Lloyd George era un adultero oltraggioso, Anthony Eden aveva relazioni multiple e potremmo andare avanti ore. Devo anche dire che con l’arrivo di più donne in politica e in parlamento non sembra che la tendenza si sia indebolita».
Il protagonista del thriller politico è Francis Urquhart — F.U. —, uomo arrivato ai vertici del partito, il chief whip , consigliere stretto del primo ministro e depositario, proprio come lo era Dobbs, dei segreti dei parlamentari. Usa i buoni rapporti, le lusinghe, le minacce, i ricatti, le soffiate ai giornalisti, anzi alle giornaliste, per tessere trame, politiche e personali.
«Tutto è nato alle elezioni britanniche del 1987 — racconta —. Ero capo dello staff del partito conservatore e nei sondaggi avevamo un vantaggio senza precedenti. Ciò nonostante, Margaret Thatcher temeva di perdere, vedeva ovunque complotti e si rivolgeva a me per fermarli. Una settimana prima del voto, litigammo furiosamente, capii che il mio rapporto con lei era finito. Subito dopo la vittoria trionfale, me ne andai a casa, depresso. Presi dei fogli di carta, una bottiglia di vino e iniziai a scrivere. La sola cosa che riuscii a buttare giù fu F.U., nel senso dell’espressione spiccia britannica fuck you . Diventarono le iniziali del mio personaggio e da allora ho scritto venti romanzi». Nel gioco della House of cards e della politica vera, nessun moralismo ha senso. I grandi uomini e le grandi donne, dice Dobbs, sono sempre e ovunque così, hanno sete di potere.

l’Unità 31.3.14
Pietro Secchia, una vita spesa in nome del proprio ideale
Esce la biografia del dirigente del Pci ricostruita con cura e passione politica da Marco Abeltaro
di Giacomo Verri


HA RAGIONE MARCO ALBELTARO QUANDO, NELL’INTRODURRE LA PROPRIA INFORMATISSIMA BIOGRAFIA DI PIETRO SECCHIA, Le rivoluzioni non cadono dal cielo. Pietro Secchia, una vita di parte (pp. 237, euro 22, Laterza) avvisa che la storia lì narrata ormai «sembra lontana anni luce»: egli, classe 1982, fa parte, come chi scrive, della «generazione post-novecentesca, nata senza nessuna delle coordinate politiche, sociali, e esistenziali e, oserei dire, antropologiche » di quel secolo breve che forse iniziò a declinare proprio di conserva con l’ultima grande sollevazione del ‘900, il Sessantotto appunto, che per la prima volta poneva due generazioni l’una contro l’altra armate e i cui slogan, come pure ha scritto lo stesso Hobsbawm, lungi dall’essere affermazioni politiche nel senso tradizionale, furono piuttosto «pubbliche proclamazioni di desideri e sentimenti privati». Ed è proprio il contrasto tra dimensione privata e pubblica a darci la distanza lunare tra noi e l’universo di Secchia (o di Togliatti, o di Longo o Moscatelli); il rivoluzionario professionale novecentesco - tale è il profilo «genetico» - non offre infatti e forse non ha «questioni private» perché ciò che a lui nasce nel «lessico famigliare» finisce fagocitato dal «discorso» del partito. Con questo, se muoviamo dall’epilogo della parabola esistenziale di Secchia, affermiamo con Albeltaro che egli nel Sessantotto volle vedervi «un fenomeno di lotta di classe», fraintendendo la natura d’un movimento che fu generazionale e di cui Secchia, come altri della vecchia guardia, credette di isolare invece la sola urgenza all’azione per incanalarla in «quell’idea di mobilitazione permanente che deve caratterizzare la militanza comunista».
Secchia muore, coperto da un alone di mistero circa un presunto avvelenamento, il 7 luglio 1973. All’evento le pagine di questo giornale diedero grande risalto con le parole di protocollo dell’allora Comitato centrale del Pci. In realtà, da tempo, colui che fu il numero due del partito viveva in regime di epurato, non tanto a causa della destalinizzazione (egli che divenne l’icona del sinistrismo filosovietico), quanto per lo iato sempre maggiore, in seno alla medesima linea politica, che lo separava da Togliatti (la cui condotta è per Secchia troppo morbida e a tratti equivoca) e che si sostanziò in mosse strategiche da entrambi giocate per screditare o allontanare l’altro: c’è il voto della direzione di partito nel 1951 a favore dell’invio a guidare il Cominform di un riluttante Togliatti, il quale di lì a poco porrà Secchia sotto osservazione; e c’è il clamoroso caso Seniga (il più stretto collaboratore di Secchia, «un personaggio da film», che il 25 luglio 1954 sottrasse enormi somme dalle casse del Pci, scomparendo) del quale Togliatti approfitterà per gettare sul rivale alcune denigranti diminuzioni, dall’esclusione dalla direzione, al declassamento a responsabile dell’attività editoriale del partito, al lavoro di coordinamento dell’attività dei gruppi comunisti alla Camera e al Senato (lui che veniva da tradizioni antiparlamentari e parlava in aula come si parla alla folla in piazza). Eppure egli non si scaglia mai contro il partito ma contro le personalità che ne hanno tradite le virtù. Il partito resta la divinità, «l’unico luogo politico nel quale possono avere cittadinanza delle speranze di cambiamento»; un partito «di massa di quadri», sempre pronto alla prospettiva insurrezionale per togliersi dalla «palude parlamentare», ben organizzato dentro una disciplina rivoluzionaria per «continuare lo spirito della Resistenza anche in tempo di pace».
Dopo la guerra, fu premiato con la funzione di responsabile dell’organizzazione del Pci, per l’impegno e la maestria nel dirigere la spontaneità dei movimenti partigiani comunisti, composti nell’ideale secchiano da «uomini superiori agli altri, quasi antropologicamente ». E prima ancora della guerra fece della propria esistenza il perfetto copione del dissidente politico: partecipò al biennio rosso, aderì tra i primi al Pcd’I, fu in carcere e al confino.
Albeltaro nel tracciarne questo profilo che si legge d’un fiato posa in modo impeccabile i grani della narrazione, sì che dei personaggi seguiamo passo via passo le tappe biografiche, psicologiche e ideologiche. E le amicizie, gli scontri, i legami e le fratture vi vengono calati tanto bene che il saggio in molti punti scorre come un romanzo ove le molte politiche e gli screzi interni al partito sembrano altrettanti colpi di scena per l’avventura rocambolesca di un uomo che diede tutto se stesso per il proprio ideale.

il Fatto 31.3.14
Trovato l’interruttore del Dna umano
di Laura Berardi


Una mappa come quella che è appena stata pubblicata su Nature e altre 16 riviste scientifiche non si era mai vista. Una “carta topografica” delle sequenze di Dna e delle interconnessioni tra geni che permettono a cellule e tessuti del corpo umano di funzionare come dovrebbero. Uno strumento che “permette di definire con precisione quali regioni del genoma si attivano durante la normale attività dell’organismo e quali invece si accendono nei processi patologici, sia che questi riguardino cellule cerebrali sia che interessino pelle, staminali del sangue, follicoli dei capelli e così via”, ha spiegato Winston Hide, docente alla Harvard School of Public Health e co-autore dello studio. La ricerca è costata 3 anni di fatica a 250 scienziati provenienti da 20 nazioni diverse, che insieme hanno dato vita al progetto Fantom 5 (acronimo di Functional Annotation of the Mammalian Genome). I ricercatori usando una tecnologia chiamata Cap Analysis of Gene Expression (Cage), sviluppata nell’Istituto giapponese Riken, a capo del progetto di ricerca, sono riusciti a identificare gli “interruttori on/off” dei geni umani. Si tratta di particolari regioni del Dna, dette promoter (letteralmente promotori) e enhancer (amplificatori), capaci di organizzare l’attività del genoma. Sebbene tutte le cellule umane contengano lo stesso patrimonio genetico, infatti, i geni si accendono e spengono in momenti diversi in tessuti diversi. Questo processo è controllato per l’appunto dai promoter e dagli enhancer che si trovano lungo tutto il genoma: quando questi interruttori scattano permettono a ogni tessuto di diventare quello che deve e fanno dunque la differenza - ad esempio - tra una cellula della pelle e una del fegato. Nello specifico lo studio ha mappato il funzionamento di 180 mila promote r e 44 mila enhancer in un ampio spettro di cellule e tessuti nel corpo umano. “Ora abbiamo la capacità di ridimensionare moltissimo la quantità di geni da analizzare ogni volta che ci troviamo di fronte a una specifica patologia”, ha spiegato Hide, concludendo: “Si tratta di una sorta di indirizzario che indica l'esatto punto in cui andare a cercare le varianti genetiche coinvolte nello sviluppo di patologie specifiche, direttamente nei tessuti o negli organi in cui queste agiscono”.

Corriere 31.3.14
La scoperta del gene che può svelarci i segreti della Sla
di Edoardo Boncinelli


È stato individuato un gene cruciale nell’insorgenza della Sla, la sclerosi laterale amiotrofica, una tremenda malattia neurodegenerativa che costituisce uno dei peggiori spauracchi dei nostri tempi. È stato individuato da un consorzio di ricerca dove spiccano molti centri di ricerca italiani. È stato individuato con un poderoso sforzo investigativo che rappresenta anche una garanzia di affidabilità della scoperta stessa.
È stato confrontato «a tappeto» il genoma di persone sane e persone geneticamente affette, un’impresa nemmeno lontanamente pensabile prima del 2000 e della decodificazione del genoma umano. Si resta increduli davanti a un tale ritrovamento, ma anche pieni di speranza per analoghe «spedizioni» a caccia di altri geni colpevoli di tremende malattie. Il gene si chiama Matrin3, localizzato sul cromosoma 5 e attivo in un ruolo piuttosto insolito. Codifica infatti una proteina adibita al trasporto dell’informazione genetica portata dall’Rna messaggero dal nucleo della cellula alle fabbriche intracellulari delle proteine, cioè i ribosomi. Quando Matrin3 è difettoso, questo trasporto non avviene più in modo corretto e si intralcia tutto il delicato equilibrio della produzione di proteine cellulari, con conseguente «intasamento» e avvelenamento della cellula. Appare ormai sempre più chiaro, infatti, che la Sla sia causata da un accumulo di proteine anomale nel neurone motorio, quello che regola il movimento, ma bisogna definire in che modo questo avviene per trovare bersagli adeguati per una terapia efficace.
Occorre dire che questo è un gigantesco passo avanti, ma non è ancora la soluzione del problema. Esistono infatti almeno due forme della patologia, una genetica — ed è quella che è stata analizzata — e una sporadica. Per poter trattare la forma sporadica, di gran lunga più frequente, occorre trovare tutti i meccanismi implicati — e magari aggredirli — ma la scoperta aiuta a capire di che cosa si sta parlando. Vale la pena di osservare come l’approccio è stato di tipo molto avanzato, come abbiamo detto, ma di tipo nuovo e quasi inusitato è stato anche il meccanismo cellulare danneggiato in questo caso. Doppia novità quindi, e doppia soddisfazione. Comincia l’era dei meccanismi cellulari scoperti solo di recente e quasi sconosciuti anche solo cinque anni fa. Se è veramente così, il futuro si fa sempre più interessante e promettente.
La ricerca, che comparirà sulla copertina della rivista Nature Neuroscience , è stata condotta dai ricercatori del consorzio Italsgen, coordinati da Adriano Chiò dell’ospedale Le Molinette e dell’Università di Torino e di Mario Sabatelli dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Roma, in collaborazione con Bryan Traynor dell’Nih di Bethesda che ha eseguito le analisi genetiche. La ricerca è stata finanziata per la parte italiana da AriSLA - Fondazione Italiana di ricerca per la Sla nell’ambito del progetto Sardinials, dalla Fondazione Vialli e Mauro per la Ricerca e lo Sport Onlus, dalla Federazione Italiana Giuoco Calcio, dal ministero della Salute e dalla Comunità europea nell’ambito del 7° Programma Quadro. Soldi spesi bene, insomma. Per oggi e per domani.

La Stampa 31.3.14
Improvvisazioni d’uno sciamano che amava l’antica arte russa
All’Arca di Vercelli la rassegna del maestro espressionista
di Francesco Poli


In un suo scritto del 1918, Testo d’autore, Wassily Kandinsky racconta quanto sia stata fondamentale per gli sviluppi futuri della sua pittura la visita delle povere case dei contadini del nord della Russia, durante un suo viaggio di studio nel 1889, quando aveva 23 anni. «Nell’habitat dei komi, per la prima volta nella vita, trovai qualcosa di veramente meraviglioso, e questo prodigio diventò l’elemento di tutti i miei lavori successivi». L’artista ricorda di essersi fermato sulla soglia di un’izba e di aver visto uno spettacolo inatteso: il tavolo, le panche, la grande stufa, gli armadi, tutto era decorato da ornamenti variegati. Ai muri c’erano delle stampe con immagini di eroici protagonisti di storie epiche popolari, e «l’angolo bello» era tutto ricoperto di icone sacre dipinte o a stampa. Questa esperienza gli fa comprendere che un quadro non deve essere solo contemplato ma deve coinvolgere completamente l’osservatore nella sua dimensione interiore.
Dopo quel viaggio Kandinsky pubblica anche un saggio sulla cultura e i riti animistici delle popolazioni dei Sirieni, di origine ugro-finnica, e in particolare sul ruolo dello sciamano come mediatore fra la realtà sensibile e il mondo ultraterreno.
Il fascino per l’energia della spiritualità primitiva, e per la forza espressiva della dimensione decorativa e iconica dell’arte popolare sono alla radice dell’elaborazione del suo personale «immaginario etnografico» nella fase di formazione e maturazione del suo linguaggio pittorico che si svilupperà progressivamente in direzione astratta.
L’entusiasmo per l’arte e il folklore nazionale, per la musica etnica e per le narrazioni fiabesche, epiche e storiche leggendarie, era un aspetto tipico della cultura russa (musicale, letteraria e artistica) tra Ottocento e Novecento, caratterizzata da tensioni simboliste e dal culto per la rinascita dell’antico spirito russo. Anche per altri pittori d’avanguardia come Mikhail Larionov, Natalia Goncharova, Kasimir Malevich, Pavel Filonov, David Burljuk, Aleksandra Ekster, l’arte popolare era una fonte fondamentale di ispirazione. Queste fonti folkloriche (in relazione al più generale interesse degli artisti d’avanguardia per le fonti primitive e arcaiche) sono un aspetto peculiare dei temi che entrano in gioco nell’Almanacco del Blaue Reiter, e Kandinsky e gli altri esponenti del gruppo di Monaco, espongono anche al Salon di Vladimir Izdebskij a Mosca del 1911, insieme agli artisti russi innovatori.
Kandinsky in quel periodo lavorava a Murnau, in Germania, ma aveva continui rapporti con la Russia, dove ritorna nel dopoguerra dopo la rivoluzione sovietica, con l’incarico di commissario per le arti, attività che lo impegna fino al 1922, quando accusato di spiritualismo si trasferisce in Germania come insegnate al Bauhaus di Walter Gropius. Questa mostra all’Arca di Vercelli, è di grande interesse perché la curatrice Eugenia Petrova mette a fuoco, con un notevole gruppo di opere dei musei di stato (mai presentate fuori dai confini) «l’anima» più specificamente russa dell’opera di Kandinsky. E in effetti all’interno dell’esposizione ci si trova davanti a uno spiazzante e suggestivo accostamento fra ventidue suoi dipinti di vari periodi (insieme una selezione di quadri di altri artisti tra cui Goncharova, Larionov, Lentulov, Filonov, Burljuk, Ekster) e molti oggetti, icone, stampe, arredi, e indumenti della cultura popolare, religiosa ortodossa, e dello sciamanesimo siberiano.
La connessione con gli oggetti più primitivi, quelli sciamanici (vestiti di pelli, e tamburi variamente decorati) non è per la verità molto evidente, ma l’influenza delle stampe popolari e delle icone appare chiara. Per esempio in quattro piccoli dipinti illustrativi su vetro, con figure femminili e fluttuanti paesaggi con chiese ortodosse (del 1918), e soprattutto in un magnifico San Giorgio (1911) già sostanzialmente astratto, messo a confronto con una antica icona del mitico santo uccisore del drago. Dal punto di vista della qualità, dell’espressività cromatica, della freschezza segnica e della libertà d’invenzione, i quadri più notevoli e sorprendenti sono una serie di eccezionali Improvvisazioni dipinte tra il 1910 e il 1917, che si trovano nel museo di San Pietroburgo ma anche in lontani musei provinciali a Kazan, Krasnojarsk e persino a Vladivostok.
Tutti i quadri (alcuni dei quali sono dipinti su cartone) hanno ancora le loro cornici originali, molte fatte con semplici listelli di legno. Queste opere (come quelle di altri artisti d’avanguardia russi) erano state dislocate così lontano durante la fase eroica della rivoluzione per educare all’arte nuova anche le popolazioni più decentrate. Ed è una bella cosa che oggi noi le possiamo vedere, in trasferta nel mezzo delle risaie vercellesi, nello spazio dell’Arca che ha visto fino all’anno scorso le mostre in collaborazione con il Guggenheim di Venezia.