martedì 1 aprile 2014

il Fatto 1.4.14
Il professore Stefano Rodotà
“Renzi è solo un insicuro E non ci rottamerà”
intervista di Silvia Truzzi


Dice il presidente del Consiglio con le mani in tasca di aver “giurato sulla Costituzione, non sui professoroni”. E dunque abbiamo interpellato Stefano Rodotà, uno dei professoroni firmatari dell’appello di Libertà e giustizia, eloquentemente intitolato “Verso una svolta autoritaria”.
Professor Rodotà, si sente un po’ professorone?
Sono un vecchio signore che qualche libro l’ha letto e un po’ conosce la storia. Questi modi hanno un retrogusto amaro. “Quando sento la parola cultura metto mano alla pistola”: ecco, non siamo a questo, ma il rispetto per le persone e per le idee male non fa. C’è, dietro l’atteggiamento sprezzante di Renzi, una profonda insicurezza. Altrimenti il confronto non gli farebbe paura. Potrebbe parlare con dei buoni consiglieri e poi argomentare: il confronto andrebbe a beneficio di tutti. Direttamente s’interviene su un terzo della Costituzione, indirettamente su tutto il sistema delle garanzie. Per i cittadini esprimere la propria opinione è un diritto, per chi si occupa di questi temi intervenire è un dovere.
La discussione non può ridursi al “prendere o lasciare”.
Matteo Renzi usa toni ultimativi, non gli piace la critica perché si disturba il manovratore. Non è la prima volta: quando c’era stata una presa di posizione, molto moderata, sulla legge elettorale aveva parlato di “un manipolo di studiosi” con un tono di sostanziale disprezzo. Però non gli riesce di rottamare la cultura critica: è un pezzo della democrazia. Le reazioni che ci sono state a questo appello dimostrano che la nostra non è una posizione minoritaria: è una rottamazione difficile.
“Ho giurato sulla Carta, non su Zagrebelsky e Rodotà”: significa “non mi curo di loro” oppure “non sono i depositari della verità costituzionale”?
Che Renzi pensi che noi non siamo i depositari della verità è assolutamente legittimo. Però non può nemmeno dire: “Ho giurato sulla Costituzione e dunque sono io il depositario della verità”. La storia è piena di spergiuri. Se ritiene che il terreno proprio sia la Carta, allora discuta.
Ci vuol tempo a fare discussioni. E ora è in voga il mito della velocità, la politica futurista.
I tempi della democrazia sono anche quelli della discussione. Proprio perché la democrazia è in grande sofferenza, si dovrebbero costruire ponti verso i cittadini. Non si è sentita una parola, in questo senso. Ho avuto la fortuna di essere amico di Lelio Basso, cui si deve anche l’articolo 49 della Costituzione sui partiti politici: Basso ha sempre detto “dobbiamo discutere”. E su quel tema una discussione ci fu, eccome. Non a caso c’è, in quell’articolo, la mano di un grande giurista, che non aveva paura né del confronto né di avere con sé il meglio della cultura giuridica. Questo c’è dietro un’impresa costituzionale, non la fretta, non i consiglieri interessati o i saggi improvvisati.
“Non ci sto a fare le riforme a metà. O si fanno le riforme, o me ne vado”. Il premier dimostra di non avere orizzonti ampi. Alza i toni, urla e dice “me ne vado”. Ma chi si alza e se ne va, svela insicurezza.
Un aut aut minaccioso.
Mettiamo insieme la debolezza di Renzi e la scelta di Berlusconi come suo alleato, con cui pensa di potere fare questo tratto di strada. Il Pd può accettare a capo chino questa strada? Nessuno si pone il problema. Dicono: “Sta piovendo, cosa ci possiamo fare? ” Almeno potrebbero comprare un ombrello!
Ci mette la faccia, ripete spesso.
Può voler dire “mi assumo la responsabilità”. Ma non può significare “da questo momento in poi detto le regole, i tempi, i modi e poiché la faccia ce la metto io mi dovete seguire”. La democrazia non funziona così. E poi anche noi, i firmatari del famigerato appello, ci abbiamo messo la faccia. Nel dialogo, siamo in condizioni di assoluta parità. Se vuole affermare una posizione di supremazia, sbaglia.
Non è il primo politico che usa toni da uomo della provvidenza.
Sono sempre molto diffidente, quando si afferma “dopo di me il diluvio”. In questi anni la politica italiana, ancor prima di Renzi, è stata condotta all’insegna dell’emergenza. Non si va alle elezioni, c’è bisogno del governo Monti e via dicendo: i progetti che c’erano dietro questa logica sono falliti.
Una circostanza è stata quasi ignorata: si vogliono fare le riforme durante un mandato in cui il Parlamento è fortemente delegittimato dalla sentenza della Consulta sul Porcellum. La non elettività del Senato, poi, diminuisce il potere dei cittadini di esprimersi: un “restringimento” democratico di cui si parla molto poco.
Per questo era indispensabile la nostra presa di posizione. Il discorso sulla delegittimazione politica del Parlamento non nasce come argomento contro Renzi. Alcune persone – Gustavo Zagrebelsky, Lorenza Carlassare e mi permetta: anche il sottoscritto – vanno ripetendo questo concetto da tempo. Il cuore della sentenza è la mancanza di rappresentatività del Parlamento. Ora bisognerebbe dire: ci sono mille ragioni, emergenza, fretta, i segnali da dare al mondo intero, per cui il Paese ha bisogno di riforme. Non è solo necessario coinvolgere un’ampia maggioranza, ma anche consentire a quel Parlamento scarsamente rappresentativo di essere coinvolto il più possibile. E aprire alla discussione pubblica: non dico che questo compensa il deficit di legittimazione, ma almeno tutti coloro che non sono rappresentati possono avere diritto di parola. Mi pare evidente che ci sia l’intenzione di far approvare le modifiche costituzionali con la maggioranza dei due terzi, in modo da impedire un possibile referendum: è un pessimo segnale. Il fatto che un Parlamento con questo grave deficit voglia mettere mano così pesantemente alla Carta, è un azzardo costituzionale: non può essere ignorato.
Si pensa di abolire il Senato come se si dovesse cambiare il senso unico di una strada di Firenze.
Una pericolosa semplificazione: mancanza di strumenti o di cultura istituzionale?
C’è stata una regressione culturale profonda. È questo tipo di semplificazioni che introduce elementi autoritari. Si cancella il Senato, si compone la Camera con un sistema iper-maggioritario, il sistema delle garanzie salta: il risultato sarebbe un’alterazione in senso autoritario della logica della Repubblica parlamentare che sta in Costituzione. E dovremmo stare zitti?

il Fatto 1.4.14
Cose da matti
Sindrome “Repubblica”: si scorda le sue firme

Se Beppe Grillo non avesse firmato l’appello di Libertà e Giustizia contro la “svolta autoritaria” impressa da Renzi, forse i lettori di Repubblica non ne sarebbero mai venuti a conoscenza. Come accaduto altre volte, il quotidiano di Ezio Mauro dà le notizie per induzione. Ha scelto di non pubblicare il testo – eppure, tra i primi firmatari figurano Stefano Rodotà, Gustavo Zagrebelsky, Nadia Urbinati, Salvatore Settis, Sandra Bonsanti, nomi che i lettori del quotidiano di largo Fochetti conoscono bene, visto che ne sono tutti editorialisti prestigiosi - ma nell’edizione di ieri un articolo senza firma raccontava dell’adesione di Beppe Grillo e Gianroberto Casaleggio. A cosa? A un appello avanzato dalle firme di Repubblica, pubblicato dal Fatto , e ignorato dal loro giornale.

il Fatto 1.4.14
Perché abolire il Senato?
risponde Furio Colombo


CARO COLOMBO perché l'accanimento vitalistico di Renzi si è lanciato per prima cosa contro il Senato?
Marinella

SI POSSONO DARE tante risposte. Nessuna giustifica la “velocizzazione” (parola cara al nuovo corteo che segue e precede e scorta Renzi, con poca allegria ma molta tenacia in ogni nuova missione) ma ciascuna contiene una parte di verità. La prima è il delitto Calderoli, definito da lui stesso “porcata”, ovvero la famosa legge elettorale che garantiva l'ingovernabilità. La seconda è che la Corte costituzionale non ha avuto il coraggio di cancellare per evidente incostituzionalità tutta la legge e l'ha solo mutilata. A quel punto un patto tra Renzi e Berlusconi (il mandante della porcata Calderoli) ha deciso, fuori dal Parlamento, una nuova legge elettorale che però riguarda solo la Camera e non il Senato. Si poteva fare una legge normale, in linea con la Costituzione. Oppure abolire il Senato. Detta così sembra una battuta neanche tanto spiritosa. Ma è esattamente ciò che sta accadendo. Dobbiamo abolire il Senato. E oggi cominciano. Ha detto la giovane Maria Elena Boschi che, come primo incarico e per farsi una esperienza è, appunto, ministro dei Rapporti con il Parlamento da amputare: “Oggi si sono svegliati tutti (‘tutti’ si riferisce alla protesta del presidente del Senato, a nome del Senato, ndr) perché pensavano che scherzassimo”. No, no, molti hanno capito subito. Ma hanno sperato invano che qualcuno fermasse la gita. L'idea di rovesciare il problema (non so come fare una legge elettorale che piaccia a Berlusconi e allora ti chiudo il Senato) è rozza ma facile . Prima di tutto, come loro ti dicono, “velocizza”. Invano i migliori costituzionalisti del Paese fanno segni di allarme. Il padroncino risponde dalle colonne del Corriere della Sera (intervista ad Aldo Cazzullo, 31 marzo) che a lui dei “professoroni” non importa niente. Mettetevi nei suoi panni. Perché uno che si affida ai suggerimenti di Berlusconi e a ministri del tutto privi di esperienza e in tenera età, dovrebbe tener conto delle critiche di uno come Rodotà? Siamo matti? Perché usare tutte quelle medicine, se in pochi minuti puoi tagliare una gamba? Contro le obiezioni, politiche o giuridiche, la ragazza che, per questa gita, è anche il ministro delle Riforme, risponde così: “Se la classe politica si arrocca, con quale faccia chiediamo di fare la spending review agli altri settori?”. E qui viene fuori la carta vincente: Palazzo Madama, senza emolumenti. Ecco il contributo alla ripresa, ecco che cosa mancava, dopo la fuga di Marchionne con la Fiat in America: il Senato svuotato e gratuito. Però non so se sia una buona idea per gente come la Boschi che progetta, politicamente, vita lunga per se stessa (e comincia con due ministeri). Presto qualcuno legittimamente chiederà: “E la Camera, con tutta quella gente dentro (il triplo del Senato)”? L'unico alibi del giovane Renzi è che lui non è mai stato eletto, governa perché è bravo. “Rischi per la democrazia? È un allarme che non condivido” risponde dai suoi due ministeri la giovane, coraggiosa Maria Elena Boschi.

Corriere 1.4.14
Le contromosse dei resistenti pd: basta ultimatum
Battaglia su ogni comma e progetti alternativi
La fronda pd si prepara
Grasso: io imparziale, non sto con la casta
di Monica Guerzoni

ROMA — Parrucconi? Gattopardi? Sfascisti? Conservatori incatenati allo scranno? I senatori non ci stanno. Dal presidente sino all’ultimo peone, in tanti respingono il «prendere o lasciare» e si preparano a emendare il testo del governo, replicando agli ultimatum con un «facciamo le riforme, ma facciamole bene». Lo stop di Pietro Grasso ha dato forza al fronte trasversale di chi teme danni irreparabili alle istituzioni. La seconda carica dello Stato si dice «rammaricato» per la strigliata del premier, promette che sarà imparziale, rivendica il diritto di esprimere le proprie idee e, su Facebook, si difende: «Chi mi accusa di voler restare attaccato alla poltrona e di difendere la Casta dimentica che sono stato l’unico a tagliare del 50% il mio compenso...».
È scontro e Rosy Bindi difende Grasso dall’attacco di Debora Serracchiani: «Sono scandalizzata e molto preoccupata per l’incultura costituzionale della dirigenza del mio partito, la vicesegretaria si è permessa di richiamare la seconda carica dello Stato non perché si è macchiato di qualche colpa, ma perché ha fatto una proposta». La presidente dell’Antimafia respinge la divisione del campo di gioco tra frenatori e innovatori: «Qui non c’è un’Italia che vuole cambiare e una che resiste, ma per fare le riforme sul serio bisogna approfondire e discutere». Lei vuole farle? «Il Senato delle autonomie è un’ipotesi percorribile, ma chi governa deve dar prova di pazienza e disponibilità al dialogo, oltre che di velocità. Se il Senato è questo, la legge elettorale non può avere quelle soglie e quelle liste bloccate, perché verrebbero meno rappresentatività e governabilità, elementi fondamentali di una democrazia parlamentare».
Clima variabile al peggio, terreno franoso. Mario Monti, Renato Balduzzi e Linda Lanzillotta hanno scritto un testo alternativo e molti altri ne stanno spuntando nel perimetro della maggioranza. Vannino Chiti, Pd, raccoglie firme per una Camera elettiva su base proporzionale. Il ddl di Pippo Civati reca in calce il «sì» di 15 senatori che la pensano come lui: «Roba da matti legare il destino del premier alla riforma, una forzatura assurda. Basta minacce e ultimatum». Il documento del lettiano Francesco Russo ha pronte 25 firme, da Caleo a Vaccari. «Fa bene Renzi a dire che è disposto a lasciare se le riforme non si fanno — ribalta l’ultimatum Russo — ma anche noi siamo pronti ad andare a casa se si fanno male». Senatore, il premier ci ha messo la faccia... «Non è in gioco solo la credibilità di Renzi, ma di tutto il Pd. Se facciamo un pasticcio costituzionale perdiamo consensi. Insistere con il prendere o lasciare vuol dire complicarsi la vita, visti i numeri che abbiamo». Il pallottoliere è un problema serio, come ha certificato il voto di fiducia sulle Province e come ha affermato, sia pure irritualmente, Grasso. La battaglia si combatterà articolo per articolo e, se Berlusconi si sfila, per il governo sono guai. Civati fa di conto: «Basta che ne manchino dieci del Pd ed ecco che la riforma di Renzi non passa. Io non voglio che lui si ritiri dalla politica, voglio poter discutere». Per Miguel Gotor «strappi e fratture sono controproducenti» quando occorre una maggioranza qualificata: «Questa miscela di antiparlamentarismo e decisionismo poco combacia con l’azione costituente. Perché gettare benzina sul fuoco? La propaganda rischia di sabotare le riforme». Come voterà la minoranza del Pd? «Tutti i senatori della Repubblica emenderanno il testo e su queste modifiche si formeranno maggioranze e minoranze. Io, che il Senato voglio cambiarlo, mi impegnerò per rafforzare le competenze sui diritti». Il Ncd di Alfano non si metterà di traverso, ma chiede modifiche. «Stiamo toccando la Costituzione e bisogna farlo bene — ammonisce Quagliariello — Cosa c’entrano i 21 nominati dal capo dello Stato?».

La Stampa 1.4.14
Esposito, uno dei 25 senatori Pd che si oppongono
“Matteo fa come all’oratorio ma il pallone non è suo”
di Francesca Schianchi


«Noi siamo tacchini felici di correre verso il forno il giorno del Ringraziamento».
Allora senatore Stefano Esposito perché avete scritto in 25 una lettera al premier sulla riforma del Senato?
«Perché vogliamo poter discutere di alcuni punti. Vogliamo essere protagonisti quanto il governo di questa epocale riforma».
Quali punti? Volete il Senato elettivo?
«No, nessuno pensa al Senato elettivo né all’indennità. Il problema sono la composizione e le competenze».
Cioè?
«Io penso al Bundesrat tedesco. Metterci dentro i sindaci non credo sia una buona idea. E credo che tutto quello che riguarda l’Europa debba essere tra le sue competenze».
Non sarete mica tra i nemici del cambiamento evocati da Renzi?
«Questa sua reazione scomposta dinanzi a qualunque voce non sia un coro di applausi la trovo inaccettabile. Vogliamo solo discutere, non possiamo essere derubricati a conservatori o boicottatori. Gli do un consiglio da fratello maggiore: noi siamo tacchini felici, ma ce ne sono anche di meno felici. Se prima di mandarli in forno li prendi a calci, magari potrebbero anche pensare di fartela pagare…».
Cosa intende dire? Non ci saranno i numeri secondo lei?
«Questo dipenderà da cosa succede negli altri partiti. Noi siamo i migliori alleati di Renzi, perché discutiamo in campo aperto. Ma non ci può dire “o è così o me ne vado”: come quando all’oratorio c’era il ragazzino che diceva “o si fa così o porto via il pallone”…».
Lei ha votato Cuperlo: non è che parla così solo per fare opposizione al premier?
«Tra noi 25 c’è chi ha votato Renzi. La nostra è una posizione nel merito, non c’è nessun senso di rivalsa. E non mi metto a fare imboscate: non è nel costume di nessuno di quelli che hanno firmato».
Se il testo non cambiasse, lei non lo voterebbe?
«Io chiedo di discuterne: poi, come sempre, mi adeguerò alla maggioranza».

La Stampa 1.4.14
Grasso: “State sereni. Io sono super partes”
di Fabio Poletti

Zittirlo, non lo zittisce nessuno. Ma il presidente Pietro Grasso vuole pure rassicurare che non verrà meno al suo ruolo di super partes: «Non ci può essere nessuna ipotesi che l’aver espresso le mie opinioni possa influenzare la mia attività di presidente del Senato». Ma poi alla presentazione del suo libro a Milano, «Lezioni di mafia», tira una staffilata al premier Renzi con cui battibecca a distanza da due giorni e poi ridacchia: «State tranquilli. State sereni». Le parole sono quelle con cui Matteo Renzi ha affossato il suo predecessore Enrico Letta. In bocca alla seconda carica dello Stato non sono una dichiarazione di guerra al premier, ma di sicuro non sono il segno della resa.
Perché se Pietro Grasso nella sua giornata milanese - oggi sarà pure ai funerali di Gerardo D’Ambrosio - non vuole tornare sulle sue perplessità e sui dubbi sulla riforma del Senato che ha in mente Matteo Renzi - «Quello che dovevo dire l’ho già detto in maniera abbastanza chiara», ripete come un mantra per un giorno intero - di sicuro non vuole nemmeno rinunciare alla possibilità di esprimere il suo pensiero. «Rivendico il diritto di esprimere le mie idee e dare un contributo dialettico che interessa tutti i cittadini in un momento in cui si parla di cambiare la Costituzione».
E fa niente se qualcuno storce il naso. O se teme che nel retropensiero di Grasso ci sia la difesa d’ufficio della seconda Camera. In un tweet che per tutto il pomeriggio svolazza sul mondo politico, Grasso rivendica il suo ruolo anche dalla poltrona più alta di Palazzo Madama: «Sono e resto super partes. Non ho mai difeso la casta e voglio il cambiamento». Da presidente del Senato magari non è facilissimo dire quello che pensa. Cosa che giura di aver scoperto già il giorno in cui venne eletto: «Mi hanno detto subito di stare attento perchè ero la seconda carica dello Stato. Ho chiesto se potevo presentare un disegno di legge o votare e mi hanno detto di no. Ma può almeno parlare il presidente del Senato? Qualche opinione politica ce l’ho anch’io...».
E a quelle non rinuncia, l’ex magistrato e procuratore antimafia. Attento al ruolo e alle competenze ma pure a non fare solo la bella statuina in Parlamento. In visita alla Comunità di Don Mazzi, Pietro Grasso giura di essere stato sempre così. Ma questa volta assicura che parlava solo di mafia: «Nella mia vita ho sempre cercato di combattere contro i Golia, sono sempre stato dalla parte di Davide cercando di combattere sfide impossibili»..

Repubblica 1.4.14
Mauro: “Grasso ha ragione, servono gli eletti”
intervista di Umberto Rosso


ROMA. «Bene, intanto, che il governo abbia approvato il disegno di legge per il superamento del Senato. Giusta l’idea di lasciarci alle spalle il bicameralismo perfetto».
Però, senatore Mario Mauro?
«Però, anche se vedo che Renzi lo inserisce tra i quattro paletti “invalicabili” della legge, io penso che accanto a rappresentati delle regioni e sindaci sia necessaria e indispensabile una certa percentuale di senatori eletti».
Con il meccanismo tradizionale?
«Proprio così: eletti direttamente dal popolo, non di “secondo livello”. In questo paese abbiamo ancora bisogno di uomini espressi direttamente dal popolo».
Qualche allusione a Renzi?
«No, nessuna» .
Quanti sarebbero i senatori da eleggere?
«Lo vedremo, ne discuteremo in commissione Affari costituzionali al Senato, dove presenterò una proposta. Ma per esempio penso che quei 21 senatori di cui si parla nominati dal presidente della Repubblica, sarebbe meglio eleggerli. Diciamo, comunque, una quota attorno al 40 per cento».
La pensa come il presidente Grasso che non vuole “chiudere” il Senato?
«Mi dispiace ma non entro nel merito di uno scontro tutto interno al Pd».
Però rischia di finire lo stesso fra quelli che Renzi accusa di voler affossare le riforme, di frenare.
«Il pensiero è la cosa più veloce che ci sia».
In che senso?
«Nel senso che si fa molto presto ad aprire un confronto. Mi auguro che ci sia. Tenendo il “tempo”, che Renzi vuole veloce. Facciamola questa riforma, ma facciamola bene».
Dentro il governo la sua ex collega di partito, il ministro Giannini, aveva sollevato dubbi.
«Se arrivano proposte e osservazioni da persone che lo fanno in modo intelligente e ragionevole, sarebbe ingiusto e ingenerose accusarle di remare contro».
Ma perché sarebbe così importante mantenere una quota elettiva di senatori nel nuovo Palazzo Madama?
«Per evitare il rischio di un presidenzialismo di fatto, senza bilanciamento fra i poteri».
Spieghiamo meglio.
«Partiamo dalla legge elettorale. L’Italicum consente ad una partito col 20 per cento di voti di arrivare al 55 per cento dei seggi, e saranno deputati non scelti dagli elettori, e in un contesto in cui ancora non è stato sciolto il nodo del conflitto di interessi. Con grandi poteri per il presidente del Consiglio. E nell’altro ramo del Parlamento, nel Senato delle Autonomie, il premier non avrebbe difficoltà, con leggi e provvedimenti mirati, a ottenere l’appoggio dei rappresentanti di quelle realtà locali. E non ci sarebbe solo un grande potere per il premier».
Che altro?
«Un Parlamento così composto, è chiamato ad eleggere anche il capo dello Stato. Riproponendo il nodo di un presidenzialismo di fatto senza bilanciamento ».
Ma perché con una quota di senatori eletti, il rischio verrebbe meno?
«I senatori eletti hanno piena libertà di mandato, sono rappresentanti nazionali e non rappresentanti locali, di interessi specifici, che siano di Milano o di Palermo».
Il suo obiettivo, allora?
«Passare da un bicameralismo perfetto ad uno di garanzia. Alla Camera il controllo dell’attività del governo, al Senato l’attuazione dei grandi progetti costituzionali».

Repubblica 1.4.14
La sfida di Renzi è appesa a 40 voti
Trappole per Matteo dal Pd ai centristi
di Tommaso Ciriaco


NUMERI da brivido. «Stretti, strettissimi», ammette sconsolata Nunzia De Girolamo. È il Senato alla prova delle riforme. Una specie di matrioska, una terra di mezzo dove spadroneggiano gruppi, gruppetti e manipoli di senatori.
SONO pronti a tutto pur di pesare (e pesarsi). Matteo Renzi, però, ha in mente solo un numero magico: 160. È l’asticella da scavalcare per cancellare il bicameralismo perfetto. Per riuscire nell’impresa, deve conquistare una quarantina di voti a rischio.
Più che un’Aula parlamentare, un rompicapo. Così si presenta Palazzo Madama di fronte alla sfida delle riforme. Abolire la Camera alta, depotenziarla o semplicemente ritoccarla: sentieri che si dividono, inesorabilmente, inseguendo
maggioranze variabili. Al netto della propaganda e dei distinguo di maniera, Renzi può contare su un pacchetto di circa 120 voti certi. In larga parte sono democratici (almeno una novantina dei 107 senatori Pd). E poi ancora gli 8 di Scelta civica, i 12 delle Autonomie e una decina fra senatori a vita (quattro, oltre a Monti) e gruppo Misto. Per il resto, è caccia all’indeciso.
Nel caos spicca lui, il Cavaliere. Decaduto, con la libertà personale che gli sfugge dalle mani. A Palazzo Madama, però, Silvio Berlusconi resta ancora centrale. Determinante, forse: «Non porteremo le patatine al party di Renzi — sibila Maurizio Gasparri — Bisogna ragionare, su tutto». I berlusconiani brandiscono bastone e carota. Non vogliono mostrarsi ostili alle riforme, hanno disperato bisogno di tenere in vita la stagione costituente per non finire ai margini. «La contabilità del Senato è complicata. Se il ddl non cambia — avverte Gasparri — meglio allora abolire del tutto il Senato. Io, comunque, proporrò l’elezione diretta del Presidente della Repubblica».
Dovesse reggere il patto tra il premier e Berlusconi, i 60 azzurri basterebbero a garantire una navigazione tranquilla. «Ma figuriamoci — protesta Augusto Minzolini — questo testo è una follia! E ricordate: l’ultima fiducia ha preso giusto 160 voti, mentre stavolta diversi dem voteranno contro, me l’hanno assicurato... «. Il senatore, nel dubbio, si prepara a presentare una nuova proposta: «Quattrocento deputati, duecento senatori. E in seduta comune votano la fiducia».
Se Berlusconi rassicura — «saremo leali» — i pretoriani lasciano che l’accordo scricchioli. Traballi. «Quale patto? », domanda Deborah Bergamini. Quello siglato dai due leader, insistono i berlusconiani, va aggiornato. Reclamano un nuovo faccia a faccia, sperano che si tenga la prossima settimana. Tutto bene — è già accaduto — se non fosse che intorno al 10 aprile il Cavaliere finirà ai domiciliari o ai servizi sociali. Una foto imbarazzante, per l’inquilino di Palazzo Chigi.
In realtà, il Pd preoccupa addirittura di più. Venticinque senatori dem hanno appena firmato un documento molto critico sulla riforma. Almeno una quindicina non torneranno indietro, comunque vada. Né il premier potrà contare sui quarantuno senatori grillini, come assicura l’ex capogruppo Nicola Morra: «I numeri non ci sono. Noi, comunque, non riteniamo che il problema sia il bicameralismo perfetto. Riduciamo il numero dei parlamentari, piuttosto. La proposta del signor Renzi, invece, è funzionale a quanto proposto da un tal Licio Gelli... ».
L’ago della bilancia, allora, potrebbe diventare il Nuovo centrodestra. Arruola 32 senatori, basterebbero ad avvicinare di molto la quota magica. «La linea di Renzi — porge la mano Gaetano Quagliariello — è convincente: la riforma va avanti, ma verrà corretta e migliorata. E sì, certo, noi numericamente dovremmo essere decisivi». Su alcuni ritocchi, però, gli uomini di Alfano non cederanno. «Non c’è dubbio — spiega De Girolamo — il premier dovrà scegliere. E quando accontenterà qualcuno, scontenterà qualche altro...».
Nuotando poi tra le correnti dei microgruppi, aumentano i rischi per il premier. I popolari di Mario Mauro e Pier Ferdinando Casini, per dire, sono allo sbando. Undici in tutto, ma frammentati in almeno due pattuglie. In sette sostengono l’ex ministro della Difesa, quattro si battono per il leader Udc. E Mauro — già impallinato dal premier — ha in mente di consumare tremenda vendetta verso Renzi. Dove cercare, allora, i preziosi consensi necessari a sorpassare il bicameralismo perfetto? Gli autonomisti di Gal — in orbita berlusconiana — possono riservare qualche sorpresa. Sono undici, ma tre di loro votarono la fiducia a Enrico Letta. E tra gli altri otto, qualcuno è legato a Nicola Cosentino e sempre più distante da Arcore. I quindici senatori leghisti, invece, intendono utilizzare il bottino di voti in cambio di una legge elettorale gradita. La partita è in mano a Roberto Calderoli, la mente del Porcellum.
Il Misto, infine, sembra un cubo magico. Mille sfumature, mille ambizioni. Ci sono i tre ex grillini raccolti intorno al microgruppo Gap, sulla carta i meno distanti da Renzi. E poi c’è l’ala sinistra, quella composta dagli altri dieci epurati cinquestelle come Orellana e Battista, Campanella e Bocchino, che mai ha negato la voglia di confrontarsi con le altre forze. I sette di Sel, invece, difficilmente si convinceranno. Un rompicapo, appunto.

Repubblica 1.4.14
La fronda
La ragnatela trasversale dei democratici per bloccare la riforma
di Giovanna Casadio


ROMA. La fronda trasversale è pronta. Una ragnatela del centrosinistra rischiosa e agguerrita che tiene assieme la sinistra dei professori - Gustavo Zagrebelsky, Stefano Rodotà, Barbara Spinelli, Sandra Bonsanti - e i malumori dem. Non più solo della minoranza nel partito, che del resto si sta sciogliendo come neve al sole, ma dei tanti “frenatori” e “benaltristi”. Michele Anzaldi, renziano doc, ad esempio è lapidario: «I maldipancia democratici sono diventati una enterite acuta».
E il premier è preoccupato. Tant’è che ha chiamato Anna Finocchiaro per farle gli auguri di buon compleanno. Tenuto conto che voleva “rottamarla” e che tra i due, appena un anno fa, sono volate parole grosse, è un gesto di cordialità inatteso. Ma Finoccharo è la presidente della commissione Affari costituzionali del Senato, nelle cui mani è da oggi l’iter per l’abolizione del Senato. Il velocista Renzi non sottovaluta la contrarietà del presidente del Senato, Pietro Grasso, che si salda con la fronda larga fuori e dentro il Pd.
Il premier-segretario controlla il partito, ma non controlla i gruppi parlamentari del Pd. I senatori-tacchini — la definizione fu di Matteo Renzi per dire che sono chiamati a votare sulla loro fine — sono molto infastiditi dall’accusa di avere alzato trincee solo perché non vogliono essere rottamati. Così alcuni rilanciano. Francesco Russo - alla guida della pattuglia dei 25 senatori dem che hanno chiesto cambiamenti al testo renziano - rincara: «Lui afferma che va a casa se non fa la riforma, io sono pronto ad andare a casa subito piuttosto che fare male le riforme». Russo chiarisce che «siamo disposti a cambiare musica come chiede Matteo e a farlo anche “andante con brio”, però chiediamo di potere scrivere lo spartito». La partita è importante e delicata. Rosy Bindi affonda il dito nella piaga: «Stiamo parlando di un disegno costituzionale che ha conseguenze in molti articoli della Carta. Il governo ha dato prova di volontà di cambiamento. Bene. Ma ora si entra in una fase delicatissima, ci si prende i tempi necessari per fare le cose bene». Attacca la presidente dell’Antimafia: «Non mi piace che chi critica o dissente venga definito disturbatore, i professori liquidati come professoroni... inoltre sono scandalizzata dall’incultura istituzionale che c’è nella classe dirigente del mio partito e che ha portato Debora Serracchiani a rispondere in quel modo alla seconda carica dello Stato, a Pietro Grasso ». I renziani raccolgono dossier con le dichiarazioni degli anti renziani di qualche settimana fa: da Stefano Fassina a Miguel Gotor. Lorenzo Guerini, il vice segretario del Pd, grande mediatore, invita a ragionare insieme nei gruppi dem: «Non ci sono diktat». Ovvio che le spinte e controspinte siano potenti. Pippo Civati ha presentato un ddl alternativo. Ma Sandra Zampa, che è stata supporter di Civati, è vice presidente del partito e portavoce di Prodi, invita «Matteo a un confronto più paziente, se no a furia di strappi il Pd si lacera del tutto».
Sono gli aut aut, la minaccia di “o riforme o mi dimetto” che fa sobbalzare i non renziani. Oggi si riunisce la nuova corrente dei riformisti, a cui aderiscono bersaniani, Epifani e sul tavolo c’è anche la questione dell’abolizione del Senato. Si riuniscono anche i “giovani turchi”. «E c’è una gran voglia di fare sgambetti a Matteo - ragiona Paolo Gentiloni, renziano - Se ne parla da decenni di questa riforma, ci rendiamo conto della frustrazione e quasi vergogna di fare politica con questo distacco dai cittadini?».

Corriere 1.4.14
Un’accelerazione per mettere in mora il partito del Senato
di Massimo Franco


Sullo sfondo rimane l’aut aut di sempre: o le riforme plasmate da palazzo Chigi, o le elezioni anticipate. La sostanza della conferenza stampa di ieri del premier Matteo Renzi non lascia margini. Il Senato deve diventare un’altra cosa, priva di qualunque peso politico. E l’Italia dovrà cambiare, altrimenti lui, il presidente del Consiglio, andrà a casa. «Ma andranno a casa anche quelli che frenano, perché non potranno uscire di casa», inseguiti a suo avviso dalla collera popolare. Lo schema non prevede vie di mezzo o mediazioni: l’unico linguaggio è quello di una sfida che non ammette distinguo né rallentamenti. Renzi assicura che non vuole nemmeno pensare al voto politico. E giura di non minacciare nessuno. Eppure, lo scontro istituzionale è vistoso: in particolare con i vertici del Senato.
La durezza con la quale il premier attacca Piero Grasso, seconda carica dello Stato, reo di avere criticato apertamente la riforma, è indicativa. Fa capire quanto sia forte la determinazione a seguire una tabella di marcia che inevitabilmente si porta dietro una scia di riserve e malumori; e quanto qualunque richiesta di chiarimento, di dibattito, e di potenziale ritardo, venga subito additata come sabotaggio, e come difesa dello status quo. Sostenere che Grasso ha sbagliato se parlava da presidente del Senato, perché avrebbe rinunciato al ruolo di arbitro, è già un’affermazione impegnativa. Aggiungere che se invece si è espresso da esponente del Pd, è naturale che possa essere stato criticato dai fedeli di Renzi, come la vicesegretaria Debora Serracchiani.
La discussione è aspra, e in entrambi i casi conferma che il partito di maggioranza continua a produrre conflitti e a trasmettere un’immagine di confusione. Il capo del governo ostenta sicurezza. Assicura di non essere minimamente preoccupato dalla fronda del Pd al Senato. Ha in mano l’iniziativa e l’impressione di essere seguito da un pezzo non piccolo di opinione pubblica. E sembra convinto di godere tuttora di una sorta di monopolio della novità: parola magica da sbattere in faccia agli avversari, bollati come frenatori e nemici di un’Italia ansiosa di cambiamento.
Sono costrette a passare in secondo piano le perplessità sugli squilibri del bicameralismo che potrebbe prendere corpo, o quelle sulla riforma del sistema elettorale. La strategia renziana è in qualche modo obbligata. Deve raggiungere risultati prima delle elezioni europee, perché altrimenti confermerebbe l’idea diffusa di una politica inconcludente; e dunque porterebbe acqua al mulino di Beppe Grillo e dell’antieuropeismo che soffia in tutto il Vecchio Continente: tanto più che Grillo attacca le riforme. E pazienza se Renzi lo fa con un atteggiamento così sicuro da sfiorare l’arroganza. Veste i panni del politico che per sfidare l’antipolitica deve connotarsi come nemico dell’attuale classe parlamentare; come il premier che taglia le spese. E annuncia di voler ridurre il personale del Senato e di rivedere gli stanziamenti per la Difesa, ai quali pure gli Usa sono molto sensibili.
Rimane da vedere come il Senato accoglierà le sue indicazioni; e quanti, in un Pd diviso tra la maggioranza a favore del premier e una pattuglia di oppositori, usciranno davvero allo scoperto. Renzi si sente forte non tanto del sostegno del partito, ma dell’opinione pubblica e del terrore dei parlamentari di essere «mandati a casa» dopo l’ennesimo fallimento. Eppure, l’iniziativa di un uomo prudente come Grasso fa pensare che il «partito del Parlamento» ostile al premier sia più numeroso di quanto dicano i numeri ufficiali. La domanda è se abbia la forza per condurre una campagna che, a torto o a ragione, sarebbe bollata come passatista. La nota diramata ieri sera dal Quirinale sul superamento «improrogabile» del bicameralismo e sul suo silenzio «per ragioni di carattere istituzionale», suona come una copertura della quale Renzi aveva un enorme bisogno.

il Fatto 1.4.14
La frangetta invece dei baffetti
Dal Friuli con furore Vietato contraddire
Il senso di Debora per le istituzioni
di Ferruccio Sansa

La frangetta invece dei baffetti. Sono questi i nuovi del Pd di Renzi? Prendete Debora Serracchiani. Accendi la tv al mattino e te la trovi davanti. Al tg rieccola. Ti accompagna fino a sera con il suo sorriso che non capisci se in fondo ti derida. Se ti voglia quasi mordere, come ha fatto con il presidente del Senato, Pietro Grasso, liquidato come uno scolaretto che non rispetta la disciplina di partito. È sempre lì, tanto che ti chiedi se abbia trasferito l’ufficio di governatore del Friuli Venezia Giulia a Roma, Saxa Rubra.
TUTTI se la ricordano catapultata sulla ribalta nazionale nel 2009 con un discorso da rottamatrice ante-litteram all’assemblea Pd. Era il 21 marzo, bastarono 13 minuti per segnare la primavera di Debora. Per farla diventare leader nazionale e cucirle addosso l’etichetta di nuovo. Ma a leggere il curriculum di Serracchiani – se sfugge la data di nascita, 1970 – viene il dubbio di trovarsi davanti un’ottantenne, tante sono le poltrone accumulate. Nel 2006 viene eletta al consiglio provinciale di Udine. Carica riconfermata nel 2008 (con l’aggiunta di segretario cittadino Pd). Ma in un anno Serracchiani cambia già orizzonte: Bruxelles. Il Friuli le sta stretto. Grazie a quei 13 minuti di gloria viene candidata alle Europee. E l’elettorato Pd la premia con 144.558 voti. Parlamentare europeo a 39 anni. Giovani come Debora, spera qualcuno, manderanno in pensione le vecchie cariatidi della politica che vedono Bruxelles come un parcheggio. Dove si fa poco e si guadagna molto. Ma a lei nemmeno l’Europa basta: il 21 ottobre 2009 viene eletta segretario Pd del Friuli Venezia-Giulia. Bruxelles, Udine e Roma. È questo il nuovo? Debora mantiene la frangetta, ma comincia una metamorfosi dei modi. L’entusiasmo degli esordi lascia spazio a un piglio deciso che zittisce chi osa contraddire. Come certi politici vecchia maniera. Serracchiani è un rullo compressore. E presto anche l’Europa le sta stretta. Prima ventila una candidatura alle primarie per la segreteria Pd. Poi nel 2013, lasciando a metà il mandato europeo per il quale si era impegnata con gli elettori, si candida alle Regionali del Friuli. Presidente di Regione, un impegno a tempo pienissimo. Ma Serracchiani riprende la spola tra Udine e Roma, un presenzialismo che non si capisce se serva a promuovere la Regione o la carriera personale. Dopo un mese è nominata responsabile nazionale Pd per i Trasporti e le Infrastrutture. Regnava Guglielmo Epifani. A dicembre Matteo Renzi la conferma. Impossibile metterla in discussione, Serracchiani è il nuovo. Fino all’ultimo capitolo: dal 28 marzo ha la poltrona di vice-segretario Pd. Altro impegno full time. Serracchiani esordisce con piglio energico. Prende per l’orecchio il presidente Grasso che osa mettere in discussione la riforma Renzi del Senato: deve rispettare le decisioni del Pd. Punto.
UNA FRASE che ti fa pensare ai baffetti di Massimo D’Alema. Ma adesso è tempo di frangette. E allora ti chiedi in che cosa siano diversi i Renzi-boys (o girls). Gente che, come i predecessori, ha lavorato una manciata di anni (molti nemmeno quelli, leggete i curricula dei ministri) prima di diventare politici di professione. Nuovi potenti che fanno collezione di poltrone, ma spesso hanno gli stessi titoli dei loro coetanei laureati che fanno la coda per i concorsi di vigile. Sembra più giovane l’ottantenne senatore a vita Carlo Rubbia che in un’intervista a Repubblica dice: “Non mi preoccupa la mia morte. Le cose sono e continueranno a essere, resterà ciò che abbiamo costruito, l’amore che abbiamo saputo offrire, l’amore che abbiamo meritato. Vado avanti come se niente fosse, imparerò quello che ancora riuscirò a imparare”. Questo è un giovane!

La Stampa 1.4.14
Giannini di lotta e di governo. Prima strappa, poi si adegua
Scettica sul ddl dell’esecutivo: “Metodo inconsueto”. Ma lo vota
di Amedeo La Mattina


Non aveva mai alzato la voce, non aveva mai creato problemi al governo, invece da un po’ di tempo la mite professoressa Stefania Giannini sta facendo la «pierina». Alcuni giorni fa ha criticato la collega della Funzione Pubblica Marianna Madia che aveva lanciato l’operazione svecchiamento della PA, aprendo ai prepensionamenti per i più anziani in cambio di assunzioni di giovani. Un approccio sbagliato, secondo il ministro dell’Istruzione. Giannini è convinta che «un sistema sano non ha bisogno di mandare a casa gli anziani per far entrare i giovani». Ci vuole più equilibrio e gradualità. Soprattutto prudenza, anche nell’affrontare la riforma del Senato. È questo il secondo fronte aperto ieri dalla segretaria di Scelta civica che in un’intervista a Radio Città Futura ha definito «inconsueta» la presentazione di un disegno di legge per superare il bicameralismo perfetto e riformare il Titolo V. Una critica alla corsa di Renzi. «Serve che il Parlamento ne discuta per ritoccare e migliorare alcuni aspetti. È necessario qualche momento di riflessione e maturazione in più». Giannini suggerisce prudenza al premier perché la rapidità può giocare brutti scherzi. Suggerisce «di non farne una questione di calendario: meglio non confondere l’irrinunciabile dibattito parlamentare con la manfrina di chi non vuole cambiare le cose. Il premier non cada nella trappola di chi fa finta che tutto cambi perché nulla cambi».
Giannini è anche una senatrice e forse sente le resistenze autoconservative di Palazzo Madama. Teme che la fretta di Renzi possa compromettere le riforme. Ma alla fine Giannini si è adeguata: al Consiglio dei ministri non ha ripetuto le critiche mosse pubblicamente alla fretta imposta da Renzi. Critiche in palese contraddizione alle opinioni espresse dai capigruppo di Scelta civica. Andrea Romano e Gianluca Susta hanno infatti chiesto un’accelerazione delle riforme, aggiungendo che bisognerebbe andare oltre: dare più poteri al premier.
Insomma, le dichiarazioni pubbliche della Giannini non corrispondono sempre alla linea del suo partito e al Consiglio dei ministri si è pure contraddetta. Quella che prima era l’«inconsueta» mossa del governo nel presentare il ddl costituzionale, è diventata «inconsueta ma necessaria», l’unico modo per avviare una riforma costituzionale che rischierebbe di finire nella palude. Tuttavia non sono mancate le perplessità espresse dalla stessa responsabile dell’Istruzione e dai ministri Ncd Lupi e Lorenzin. Hanno detto di essere contrari alla nomina di 21 senatori scelti dalla società civile, al fatto che il Senato delle Autonomie partecipi all’elezione del capo dello Stato. Lupi in particolare ha chiesto di inserire in Costituzione i costi standard per la Pubblica amministrazione, come già fatto dalla Lorenzin per la Sanità. Perplessità anche sul rapporto tra il nuovo Senato e la Conferenza delle Regioni. Alla fine le proposte di riforma costituzionale sono state approvate in Consiglio dei ministri all’unanimità, lasciando al Parlamento alcune necessarie modifiche di carattere tecnico.
Non aveva mai alzato la voce, non aveva mai creato problemi al governo, invece da un po’ di tempo la mite professoressa Stefania Giannini sta facendo la «pierina». Alcuni giorni fa ha criticato la collega della Funzione Pubblica Marianna Madia che aveva lanciato l’operazione svecchiamento della PA, aprendo ai prepensionamenti per i più anziani in cambio di assunzioni di giovani. Un approccio sbagliato, secondo il ministro dell’Istruzione. Giannini è convinta che «un sistema sano non ha bisogno di mandare a casa gli anziani per far entrare i giovani». Ci vuole più equilibrio e gradualità. Soprattutto prudenza, anche nell’affrontare la riforma del Senato. È questo il secondo fronte aperto ieri dalla segretaria di Scelta civica che in un’intervista a Radio Città Futura ha definito «inconsueta» la presentazione di un disegno di legge per superare il bicameralismo perfetto e riformare il Titolo V. Una critica alla corsa di Renzi. «Serve che il Parlamento ne discuta per ritoccare e migliorare alcuni aspetti. È necessario qualche momento di riflessione e maturazione in più». Giannini suggerisce prudenza al premier perché la rapidità può giocare brutti scherzi. Suggerisce «di non farne una questione di calendario: meglio non confondere l’irrinunciabile dibattito parlamentare con la manfrina di chi non vuole cambiare le cose. Il premier non cada nella trappola di chi fa finta che tutto cambi perché nulla cambi».
Giannini è anche una senatrice e forse sente le resistenze autoconservative di Palazzo Madama. Teme che la fretta di Renzi possa compromettere le riforme. Ma alla fine Giannini si è adeguata: al Consiglio dei ministri non ha ripetuto le critiche mosse pubblicamente alla fretta imposta da Renzi. Critiche in palese contraddizione alle opinioni espresse dai capigruppo di Scelta civica. Andrea Romano e Gianluca Susta hanno infatti chiesto un’accelerazione delle riforme, aggiungendo che bisognerebbe andare oltre: dare più poteri al premier.
Insomma, le dichiarazioni pubbliche della Giannini non corrispondono sempre alla linea del suo partito e al Consiglio dei ministri si è pure contraddetta. Quella che prima era l’«inconsueta» mossa del governo nel presentare il ddl costituzionale, è diventata «inconsueta ma necessaria», l’unico modo per avviare una riforma costituzionale che rischierebbe di finire nella palude. Tuttavia non sono mancate le perplessità espresse dalla stessa responsabile dell’Istruzione e dai ministri Ncd Lupi e Lorenzin. Hanno detto di essere contrari alla nomina di 21 senatori scelti dalla società civile, al fatto che il Senato delle Autonomie partecipi all’elezione del capo dello Stato. Lupi in particolare ha chiesto di inserire in Costituzione i costi standard per la Pubblica amministrazione, come già fatto dalla Lorenzin per la Sanità. Perplessità anche sul rapporto tra il nuovo Senato e la Conferenza delle Regioni. Alla fine le proposte di riforma costituzionale sono state approvate in Consiglio dei ministri all’unanimità, lasciando al Parlamento alcune necessarie modifiche di carattere tecnico.

La Stampa 1.4.14
Un patto tra governo e parlamento
di Luigi La Spina


È un passaggio cruciale e molto difficile. Renzi, a tutti i costi, deve rispettare il suo programma di riforme, anche perché gli annunci fatti con uno spiegamento di propaganda mediatica tambureggiante sono stati tali da suscitare nell’opinione pubblica attese quasi miracolistiche. Incoraggiato, da ultimo, persino dal presidente della più importante potenza mondiale, Barack Obama, confortato da un atteggiamento prudente, ma non ostile da parte dei colleghi europei, aiutato dal favorevole andamento del famoso «spread», termometro della fiducia dei mercati internazionali nei confronti dell’Italia, il premier sa di giocarsi, nei prossimi due mesi, la partita decisiva. A fine maggio, le elezioni europee, infatti, diranno se l’onda del consenso popolare, sul quale sta danzando con l’audacia di un surfista oceanico, lo consegnerà alla presidenza del semestre italiano della Unione con gli onori del successo oppure lo travolgerà nella delusione delle promesse mancate. Ed è proprio la consapevolezza del momento che costringe Renzi ad accelerare i tempi con un ritmo febbrile, a rendere più rigidi i margini di compromesso sulle sue proposte, a lanciare ultimatum che evocano scenari di caos dietro l’ipotesi di una sua sconfitta.
Dall’altra parte, partiti alleati e avversari, compreso il suo, Parlamento, sindacati e Confindustria si rendono conto, con altrettanta evidenza, che, negli stessi due mesi, si deciderà la funzione che riusciranno a esercitare in futuro, in bilico tra un’alternativa drammatica. La prima è quella di consegnarsi a una sostanziale irrilevanza politica e sociale, tra la crescente sfiducia, nei loro confronti, degli italiani e la costrizione a subire sempre l’iniziativa incalzante del premier, senza possibilità di intervenire sulle sue riforme con risultati apprezzabili. La seconda è legata al recupero, quasi in extremis, di un ruolo di rappresentanza ascoltata e di mediazione indispensabile.
Questo duro confronto, il cui risultato determinerà la sorte del Paese nei prossimi anni, si è aperto essenzialmente su due fronti, quello delle modifiche istituzionali e quello dei provvedimenti economici. Legge elettorale e mutamento dei compiti del Senato sono i temi sui quali Renzi ha deciso di combattere la sua battaglia campale con partiti e Parlamento, riforma del mercato del lavoro e crescita dei consumi sono gli strumenti con i quali pensa di agganciare l’Italia alla, sia pure modesta, ripresa europea.
Sia sul primo fronte, sia sul secondo, la fretta di Renzi e la rigidità delle sue proposte, entrambe obbligate visto il timore che l’allungamento dei tempi di discussione e l’annacquamento degli effetti concreti delle sue iniziative tradiscano gli impegni che ha preso con i cittadini, possono rischiare di compromettere non tanto la sorte del premier, quanto quella del Paese, che di riforme, e radicali, ha urgente bisogno. E’ comprensibile, però, che i partiti, a cominciare dal Pd, non si possano rassegnare a un ruolo di semplici ratificatori delle decisioni governative e che il Parlamento, nel suo complesso, si rifiuti di farsi espropriare del primario diritto costituzionale di discutere e varare leggi senza diktat minacciosi. Come è comprensibile che le rappresentanze delle forze sociali non accettino di essere umiliate dal rifiuto pregiudiziale di qualsiasi loro contributo a provvedimenti che toccano gli interessi dei loro associati.
Sarebbe utile, perciò, che il superamento di questo passaggio, comunque indispensabile per il nostro futuro, possa avvenire anche con un patto tra Renzi e i suoi interlocutori, in Parlamento e nel Paese. Il premier si dovrebbe dichiarare disponibile a modifiche che migliorino l’efficacia delle sue riforme, senza vanificarne, naturalmente, gli effetti di sostanziali cambiamenti nella vita politica italiana. Ma le Camere dovrebbero impegnarsi a rispettare i tempi ravvicinati delle decisioni, imposti non dal presidente del Consiglio, ma dalle attese dei cittadini italiani. Una riunione dei capogruppo parlamentari potrebbe stabilire un calendario di lavori che consenta, sia un sufficiente dibattito tra i partiti sui provvedimenti avanzati dal governo, sia il varo delle leggi senza dilazioni strumentali. I presidenti Grasso e Boldrini dovrebbero garantire l’applicazione puntuale di tale patto. La stessa flessibilità si potrebbe chiedere a Renzi in campo economico, una flessibilità che consenta una consultazione, magari evitando i lunghi rituali di una volta, con sindacati e Confindustria, ma senza concedere diritti di veto o possibilità di ritardi nelle decisioni politiche a rappresentanze sociali che, tra l’altro, a norma della Costituzione, non possono e non devono poter esercitare.
È troppo importante che l’Italia riesca a dimostrare all’Europa e al mondo di riuscire finalmente a realizzare quelle riforme che, da decenni promette e che da decenni tradisce, perché il suo futuro dipenda dai fuochi di artificio di un giovane e ambizioso primo ministro e dalle resistenze autoconservative dei suoi avversari.

l’Unità 1.4.14
La sinistra ha un futuro
di Alfredo Reichlin


Quali che siano le vicende del governo è chiaro che si è chiusa una intera fase politica. Condivido alcuni interrogativi ma il fatto da cui non si può prescindere è, finalmente, la scesa in campo di una nuova generazione di donne e di uomini. Il cambiamento è grande. Insieme con gli interrogativi tornano così anche le speranze. Io penso che da qui bisogna partire.
E aggiungo subito che il senso di questo mie note è dire che il terreno dell’azione e della lotta politica si è spostato in avanti. Sono convinto ed è questa la cosa essenziale che lo spazio per le forze che vengono dalla tradizione della sinistra e che non rinunciano a concepire la politica come espressione di grandi ideali e lotta per cambiare il mondo, non si sono ristretti. Anzi, potenzialmente si sono allargati. Non si tratta di guardare indietro ma di capire il senso di questo sorprendente presente che sembra voler cancellare di colpo tutto il passato. La spiegazione è che la vicenda italiana è giunta a un punto di svolta. L’ordine economico-politico che ha dominato l’Europa non regge e la conseguenza non è solo la crescita dei sovversivismi alla Grillo. Si è determinato anche una profonda rottura generazionale. Il che significa che la politica non parla più alla gente se non si misura con quel che di nuovo e di profondo si muove al di là della superficie e che riguarda la esperienza umana. I problemi politici cominciano a essere anche antropologici. I giovani sentono che l’ordine attuale (il «pensiero unico» mercatista) li condanna a non avere un futuro. Basta guardare le cifre della disoccupazione giovanile nel mezzogiorno. È un genocidio. Dietro la «rottamazione» c’è questa frattura.
È tempo quindi di mettere in campo qualcosa di più di una politica che guarda solo nel breve periodo. Penso che bisogna cominciare a indicare anche un orizzonte, una prospettiva. Non parlo di correnti politiche tradizionali ma della necessità di un pensiero ideale e culturale che non rappresenti non freno ma un impulso allo sforzo in atto del Pd di «europeizzare l’Italia». Parlo di una visione, di una idea del futuro di questa lunga penisola protesa nel Mediterraneo e del suo ruolo in Europa. Una Europa che non si chiuda in se stessa ma che si apra al dialogo con i popoli nuovi. È evidente che occorre risolvere i molti problemi di cui qui non parlo: dal «fiscal compact» al ruolo del Senato. Ma è difficile farlo se non viene avanti una classe dirigente capace di coinvolgere la gioventù italiana dicendo ad essa la verità. È la verità è che l’Italia è di fronte a una sfida molto grande, a un vero e proprio appuntamento con la sua storia. Un «prima» e un «dopo», come fu quella straordinaria prova del dopoguerra che allora vincemmo con la Costituzione di una Repubblica democratica.
La sfida che qualche decennio dopo ci ha rivolto il processo di europeizzazione era, ed è, di questa natura. Siamo al centro di un grandioso passaggio storico, di un cambiamento che rompe tutti i vecchi equilibri della società italiana. Che cambia il nostro posto nel mondo. Si dirà che io la prendo troppo da lontano. Non lo penso. Penso invece che solo la consapevolezza della dimensione di questo problema è la condizione per aiutare le forze nuove a venire in campo e a combattere e a ritrovare una ragion d’essere e una prospettiva. A non regalarle a non si sa chi. Bisogna uscire dalle macerie delle vecchie ideologie e rimettere la lotta con i piedi per terra. Bisogna tornare a pensare il ruolo delle forze che io chiamo la sinistra come inseparabile dal destino dell’Italia. Il problema che ci sta di fronte è difficilissimo ma chiaro.
Sta maturando è una grande crisi sociale. La verità è che questo modello di sviluppo non può più funzionare. Si parla di rilanciare la domanda. Ma una domanda (e una crescita) basata su questo tipo di economia e basato su una gamma di consumi come quelli attuali finanziati in buona parte a debito non ha più margine. Così non rinascerà mai una nuova civiltà del lavoro. Il rilancio dell’economia richiede lo sviluppo di nuovi consumi e quindi di una grande riforma dello sviluppo sociale e umano. Spetta a noi definire un nuovo nesso tra crescita e valorizzazione del lavoro umano, nel nuovo bisogno di libertà e di difesa dell’ambiente. Se non si fa questo il punto di rottura è più vicino di quello che pensiamo.
Dunque una prospettiva. Portare a compimento la europeizzazione dell’Italia (Mezzogiorno compreso) come il grande obiettivo del Pd di una nuova sinistra. Ma non nascondiamolo: questo non è un problema soltanto economico. Comporta la ridefinizione della figura reale dello Stato-nazione, si tratta di porre su nuove basi lo stare insieme degli italiani. Ma questa cosa non si può fare dall’alto senza una mobilitazione di grandi masse, senza una riforma della morale e della cultura degli italiani, senza cominciare a chiamare le cose col loro vero nome. Cioè quali interessi e quali forze reali sono in gioco e quindi senza mobilitare altre forze e altri interessi.
Si torna a rimpiangere Enrico Berlinguer. Ma questo fu il grande tema di Berlinguer, ciò che lui chiamò il «compromesso storico». Non era solo e non era tanto uno schieramento politico ma l’assillo di dar vita a un movimento reale e unitario che consentisse una «seconda tappa della rivoluzione democratica». Essendo la prima (l’antifascismo e l’avvento della Repubblica) rimasta incompiuta. E avendo egli ben chiaro che senza di essa la grande svolta della modernizzazione che già allora era in atto anche a livello mondiale avrebbe avuto ben altri protagonisti. Ed è ciò che abbiamo visto: la fine del compromesso democratico e la «rivoluzione conservatrice».
Se guardo così alla sfida che abbiamo di fronte capisco sempre meglio perché era decisiva la costruzione di un partito «nuovo» (Scoppola). Non l’assemblaggio delle nomenclature di partiti del passato. Un partito della «nazione» (espressione per la quale sono stato molto sfottuto). Insomma, un organismo capace di dare alla nazione italiana quel fattore di integrazione sociale e culturale che è sempre stato debole ma che l’europeizzazione mette a rischio. Purtroppo non siamo riusciti a farlo. Ma forse troppi non hanno voluto farlo.

il Fatto 1.4.14
Fughe e disperazione: storie di immigrati on line
di Chiara Daina


DI MESSAGGI istituzionali, ricerche, inchieste, libri sul fenomeno migratorio siamo sovraccarichi. E non sono mai stati sufficienti a scalfire i luoghi comuni sugli stranieri e la tanta diffidenza tra noi e loro. È l’ora di cambiare direzione e di escogitare un nuovo modo di comunicare l’immigrazione: dare la parola direttamente agli uomini, donne e bambini che lasciano il Paese di origine e salpano per altri lidi, in un video pubblicato sul web. È questa la strategia del Migrador museum, il primo museo online dedicato alle storie degli immigrati che oggi vivono in Italia (Il Fatto ne ha scritto un paio di settimane fa). La stessa utilizzata da Acrossthe  sea.net  , il portale attivo dal 19 marzo che mappa le rotte di migranti tra le sponde del Mediterraneo attraverso file audio e video-interviste ai protagonisti. A promuoverlo è il Servizio civile internazionale con la collaborazione di alcune agenzie multimediali di informazione sociale (Amisnet, Active Vision, Geminaire group, Apdha). Ogni settimana, fino alla fine di maggio, vengono messi online due video e tre file audio. Sul sito è attiva anche una mappa che indica il tragitto percorso dal migrante su cui è linkato il video corrispondente. Come quello del ragazzo di 23 anni che quando ne aveva 18 è partito dall’Algeria diretto a Cartagena, in Spagna, a bordo di una barca. Ha speso 28 ore in mare e ha pagato 500 euro. Una volta arrivato a destinazione, è stato rinchiuso in un centro per minori, da dove è fuggito. Ha trascorso tre mesi in strada a dormire sotto i ponti e frugare tra i rifiuti a caccia di cibo ma alla fine si è diplomato alla scuola per cuochi e conseguito l’esame di lingua spagnola.
A UN CERTO PUNTO viene espulso e rispedito in Algeria. Ha trascorso sei mesi a casa dei suoi genitori, poi è ritornato a Melilla, l’enclave spagnola sulla costa orientale del Marocco, dove oggi è ancora segregato perché se oltrepassa la frontiera rischia di morire ammazzato dalla polizia. Sono tre i pregiudizi che si intende sfatare. Primo: “Gli stranieri non scappano solo dalla povertà e non vengono qui per rubarci il lavoro – spiega Riccardo Carraro, responsabile di Across the sea e coordinatore per l’Italia del Servizio civile internazionale (Sci) -: dall’Eritrea se ne vanno perché c’è un regime repressivo, dalla Nigeria perché c’è la persecuzione dei cristiani, dalla Costa d’Avorio perché la fazione al potere fa strage dei politici dell’opposizione e dei loro familiari”. Secondo: “Non è vero che gli immigrati si concentrano in Italia – continua Carraro”. Il rapporto dell’UNHCR Asylum Trends 2013 indica che lo Stato dell’Unione europea che l’anno scorso ha ricevuto il maggior numero di nuove domande di asilo è la Germania (109.600). Segue la Francia (60.100) e la Svezia (54.300). In Italia invece ce ne sono state 27.800 e in Grecia 8.200. Terzo: “Gli stranieri non sono al sicuro una volta sbarcati: c’è carenza di personale adeguato diverso da poliziotti e militari che li informi circa i loro diritti e strumenti che hanno a disposizione”.

l’Unità 1.4.14
Allarme infanzia. I dati di Telefono Azzurro
«Ogni giorno quattro violenze»
Abusi per l’80% da persone conosciute. Più segnalazioni da stranieri
di Adriana Comaschi

Bambini maltrattati, terrorizzati, violentati. O trascurati tanto da sfiorare l’abbandono, vittime della conflittualità tra genitori o della loro rabbia, acuita da crisi e difficoltà di lavoro. Quattro casi di violenza al giorno psicologica, fisica e sessuale riferiti agli operatori negli ultimi 5 anni, 16mila richieste di aiuto, un aumento dell’11% delle violenze sugli adolescenti, una crescita preoccupante del numero di minori a loro volta autori di abusi sessuali. Ecco alcuni dei dati raccolti da Telefono Azzurro, su cui l’associazione richiamerà l’attenzione per tutto aprile con una campagna per ricordare che «i bambini sono patrimonio di tutti» e contro ogni tipo di violenza sui minori (il 12 e 13 in 2300 piazze, i fiori per una raccolta fondi), Un fenomeno che nella «civile» Europa ha dimensioni impressionanti: la stima è di 18 milioni di bimbi e adolescenti vittime di abusi sessuali, di 44 milioni che patiscono violenze fisiche mentre quelle psicologiche colpirebbero 55 milioni di minori. Una violenza che si rivela dunque diffusa, trasversale ai ceti sociali, ma quasi invisibile, anche perché si fatica a riconoscerla come tale complice il fatto ricorda Telefono Azzurro tornando in Italia che nell’80% dei casi l’autore è una persona conosciuta, quasi sempre un familiare.
La parola d’ordine della campagna sarà dunque «Non stiamo zitti». C’è un muro di omertà, consapevole o meno, da abbattere. Troppo spesso chi anche a livello professionale viene in contatto con situazioni di violenza che coinvolgono minori fatica a riconoscerle e non le segnala, ricorda il presidente di Telefono Azzurro Ernesto Caffo: dai genitori agli insegnanti, dai medici ai pediatri
«si attivano troppo tardi». In Italia in generale «la capacità di risposta resta molto limitata. Non si è ancora allineata agli elevati standard internazionali, servono interventi specifici e di elevata professionalita». Intervenire il prima possibile è indispensabile, per mettere fine alle violenze ma anche per non compromettere le possibilità di recupero delle piccole vittime. E non si pensi solo alla violenza fisica e sessuale, ci sono anche abbandono e incuria o altri tipi di vessazioni psicologiche e «ogni abuso è una stimmate» avverte Caffo, lascia cicatrici durevoli, fisiche ma appunto anche emotive che nei casi più gravi portano a disturbi e ritardi nello sviluppo.
I NUMERI
La «mappa» di questa violenza nascosta parte dalle oltre 16 mila richieste di consulenza ricevute dall’associazione negli ultimi 5 anni, per telefono email e dal 2010 anche tramite una chat più centrata sugli adolescenti. Oltre 8mila le forme di violenza censite, e spesso un singolo bimbo è vittima di più di un tipo di vessazione o abuso. Gli operatori hanno raccolto 626 segnalazioni di violenze sessuali (125 l’anno), 1800 per violenze fisiche, ben 3056 per violenze psicologiche, 1709 casi di trascuratezza, nel complesso significa 1438 casi di violenza l’anno, quattro al giorno. Le vittime sono di sesso femminile nel 53% dei casi, percentuale che però sale al 68% per gli abusi sessuali. Cresce anche quella di minori stranieri vittime, in particolare di violenze fisiche (dal 17,5% del 2008 al 30,5% del 2013) e ancor di più sessuali (dall’8,8% al 30,5% nello stesso arco di tempo), aumentano anche le famiglie o le comunità di stranieri che chiedono aiuto all’associazione.
Vittime e carnefici. Telefono azzurro restituisce in parte anche un identikit di questi ultimi: il responsabile dell’abuso è di sesso maschile nel 53% dei casi, nell’88% quando la violenza è sessuale mentre gli episodi di trascuratezza vedono protagoniste soprattutto le donne, il 64%. Padri e madri o comunque familiari, le segnalazioni raccontano che l’orco si nasconde in casa. Un
dato che rende più difficile denunciare o anche solo chiedere aiuto e ascolto, «un bambino fatica a percepire la violenza come tale ricorda il presidente Caffo -, magari ci si adatta perché comunque teme di perdere una persona amata». È il doppio dramma di chi vede tradita la propria fiducia proprio dalle persone che più dovrebbero tutelarlo, proteggerlo, amarlo. Lo raccontano in prima persona gli adolescenti chattando con l’associazione. Parlano di genitori che arrivano alla violenza sfogando sui figli fragilità dovute a problemi economici o stress da lavoro, e la propria incapacità di instaurare una disciplina senza punizioni fisiche.

il Fatto 1.4.14
Ospedali psichiatrici, il Cdm li proroga ancora


ANCHE PER QUEST’ANNO verrà prorogato il trasferimento delle competenze degli ospedali psichiatrici giudiziari alle Regioni. Lo ha deciso il Consiglio dei ministri, approvando, su proposta del presidente, Matteo Renzi, e dei ministri della Salute, Beatrice Lorenzin, e della Giustizia , Andrea Orlando, un decreto legge in materia. “La proposta - spiegano da Palazzo Chigi - prevede la proroga di un anno della chiusura degli Opg (che era prevista per oggi ndr.) poiché tale termine non risulta congruo per completare definitivamente il superamento degli ospedali psichiatrici giudiziari, soprattutto in ragione della complessità della procedura per la realizzazione delle strutture destinate ad accogliere le persone cui sono applicate le misure di sicurezza”. “Le motivazioni d’urgenza che inducono a proporre una proroga contenuta in un anno nascono dalla necessità di contemperare le esigenze rappresentate dalle Regioni di avere a disposizione un maggior lasso tempo per concludere i lavori per la realizzazione e la riconversione delle strutture sanitarie destinate ad accogliere i soggetti oggi internati negli Opg”.

Corriere 1.4.14
Ospedali psichiatrici giudiziari, rinvio al 2015
Doveva chiudersi ieri l’era dei vecchi manicomi criminali, ma non ci sono alternative
di Margherita De Bac


ROMA — Il rischio era che la chiusura sarebbe stata posticipata di tre anni, al 2017. Era l’auspicio delle Regioni. E sarebbe stato un vero scandalo dopo il primo rinvio del 2013. La fine dei sei ospedali psichiatrici giudiziari italiani, infatti, doveva avvenire oggi, dodici mesi più tardi. Un decreto del Consiglio dei ministri ha rimandato lo stop definitivo. Ma lo slittamento è stato almeno limitato: i manicomi situati all’interno delle carceri finiranno di funzionare il 31 marzo 2015. È il risultato delle sdegnate proteste. In testa il sindaco di Roma Ignazio Marino che la scorsa settimana si è appellato al presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, molto sensibile al tema tanto da menzionarlo nel messaggio di fine d’anno del 2012: «Basta con i luoghi dell’orrore».
La proroga però è stata necessaria. Non sono ancora pronte le strutture che dovranno ospitare le persone detenute (circa 890 in base alla stima di Giuseppe Dall’Acqua, capo del dipartimento di Salute mentale di Trieste, 1.051 secondo il Coordinamento interregionale Sanità penitenziaria). Le strutture in chiusura sono gli Opg di Castiglione delle Stiviere (Lombardia), Reggio Emilia (Emilia Romagna), Montelupo Fiorentino (Toscana), Secondigliano e Aversa (Campania), Barcellona Pozzo di Gotto (Sicilia).
«È stato un passo obbligato per il ritardo accumulato da non poche Regioni italiane per quanto riguarda i piani di riconversione», chiarisce il ministro della Giustizia, Andrea Orlando. Per scongiurare altre proroghe verrà compiuto a metà anno «un puntuale monitoraggio del percorso di riconversione prevedendo anche ipotesi di poteri sostitutivi nei confronti degli inadempienti». Il problema è la realizzazione delle Rems (residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza sanitarie), le strutture alternative dove verranno trasferiti i detenuti psichiatrici. «Piccoli ospedali giudiziari che in teoria non dovrebbero avere personale carcerario ma solo riabilitatori e medici. Concepite in base al numero degli internati, ad esempio sei in Lombardia, uno in Emilia Romagna», li descrive Giandomenico Doda, ricercatore della Bicocca, docente di diritto penale. Che denuncia: «Nell’80% dei reparti ancora si usa legare».
Alcune Regioni hanno presentato al ministero della Salute i progetti per richiedere i finanziamenti. «Noi non abbiamo nessun interesse a perdere tempo — dice l’assessore Carlo Lusenti, Emilia Romagna — siamo impegnati nei percorsi della presa in carico ma dobbiamo essere sostenuti da Salute, Giustizia e magistratura. Dieci Regioni sono pronte. E poi devono decidere cosa fare dei detenuti più pericolosi». Dall’Acqua riconosce che la situazione è migliorata. Gli internati dai 1.400 del 2010 sono oggi 890: «Mai toccate punte così basse. Chi è uscito è tornato nel suo luogo di residenza oppure in comunità. L’augurio è che i nuovi centri non siano aree di parcheggio ma di terapia».

Corriere 1.4.14
«Io, rinchiuso da ventidue anni per una rapina da seimila lire»
La poesia «Non avevo neanche la pistola, fingevo con la mano nella tasca»
di Paolo Foschini


All’epoca c’erano ancora le lire. Mario ne aveva portate via seimila, tre euro di oggi, entrando in un bar con una mano in tasca atteggiata a pistola.
Fu dichiarato «momentaneamente incapace», ma pare che quel momento sia duro a finire visto che Mario è dentro da 22 anni.
Peraltro va detto che a Salvatore è andata peggio. Anche lui aveva fatto una rapina. Roba minima anche lui, come diceva Jannacci. Ma anche lui mentalmente «incapace»: e di anni dentro, di proroga in proroga e di perizia in perizia, ne ha fatti 36 filati. L’anno scorso, quando l’hanno mandato in comunità, quasi non ci credeva.
Ergastoli bianchi, li chiamano. Sono solo due tra le storie di Barcellona Pozzo di Gotto, sede di uno degli Ospedali psichiatrici giudiziari più tristemente famosi d’Italia: quelli che da oggi dovevano restare solo un brutto ricordo, se non fosse che no. A raccontarle pescando nella propria memoria è un gruppetto dei pochi fortunati riusciti a venirne fuori grazie all’impegno di un prete, don Pippo Insana, che qualche anno fa ha aperto nel pieno centro storico del paesone siciliano una Casa d’accoglienza pensata specificamente per loro. «La stragrande maggioranza dei detenuti negli Opg — dice — non è gente pericolosa ma solo bisognosa di cure. Ed è assurdo che per chiudere questi inferni, secondo i politici, se ne debbano per forza costruire altri uguali ma più piccoli: la nostra esperienza dimostra che basterebbe molto meno».
O molto di più, dipende dai punti di vista: cosa c’è di più facile, in fondo, che dichiarare uno «matto» e buttare la chiave?
Giorgio è uno dei suoi nove ospiti, sei fissi e tre in permesso. Ha 40 anni e la sua storia è questa: «Facevo il pizzaiolo in provincia di Taranto, ero piuttosto bravo. Per otto anni lo avevo fatto anche in Germania. A un certo punto, durante un ritorno a casa, sono caduto in un periodo di brutta depressione. E un giorno, nel mezzo di una discussione in famiglia, mi sono chiuso in bagno con una bombola di gas. Non avrei fatto niente di più, era solo un gesto teatrale. All’arrivo dei carabinieri sono uscito. Ma mi hanno dato l’incapacità al 75 per cento e condannato a cinque anni per tentata strage. All’Opg di Barcellona ne ho fatti quattro, l’anno scorso mi ha tirato fuori don Pippo e ora sono qui da lui».
Anche lui, come altri ospiti della Casa, lavora nel laboratorio di ceramica che il sacerdote ha avviato con l’aiuto del maestro d’arte Maurizio Calabrò.
L’associazione «StopOpg», che da anni invoca la chiusura di quelli che prima del politically correct venivano chiamati senza troppi complimenti manicomi criminali, continua a raccogliere in questo senso adesioni che vanno dai sindacati a don Ciotti, imprenditori e docenti universitari: «Non è un problema di edilizia carceraria — si legge in sintesi sul loro sito — e dire che servono nuove strutture è una scusa». Numerosi artisti, come all’epoca del Cavallo Azzurro di Basaglia, si sono mobilitati ciascuno a modo proprio: con poesie come quella di Rita Filomeni, scritta apposta per questo «primo aprile della proroga», o con disegni come quello di Adamo Calabrese, illustratore di Gibran, entrambi pubblicati in questa pagina.
Giuseppe, 41 anni, nella Casa di don Pippo è arrivato dall’Opg sette mesi fa: «Avevo violato una diffida, andando in un paese che mi era stato vietato in seguito a una lite in un bar. Non so perché mi hanno dato l’incapacità. Se non era per don Pippo ero ancora dentro, lo ricordo come un incubo: le feci per terra dei pazzi veri, le risse... ora faccio il guardiniere sia qui sia in città, possiamo uscire ogni giorno dalle sette di mattina alle nove di sera. Sto aspetando il mio fine-pena, ma intanto ho ricominciato a vivere».
Certo, c’è ancghe chi ha alle spalle reati più gravi. Come Antonio, 61 anni: «Dieci anni fa ho ucciso mia moglie, in una crisi di gelosia. Dopo diciotto mesi in carcere mi hanno mandato all’Opg, dove sono rimasto sette anni. Fino a otto uomini nella stessa cella. Ricordo soprattutto l’odore pesantissimo, le persone più agitate che venivano legate nude al letto con un buco per i bisogni che cadevano sul pavimento. Ricordo quelli che ho visto morire suicidi: chi con un sacchetto in testa, chi appeso a una sbarra».
Costantino invece, 40 anni, era finito dentro dopo una lite coi carabinieri. «Soffrivo di epilessia, ero senza dimora, al processo per direttissima dissero che dovevo essere mandato in una casa di cura. Mi ritrovai in una cella dell’Opg. Dovevo starci un anno, ci sono rimasto ventisei mesi». Per vivere, prima, faceva quadri e disegni che vendeva a cinque euro l’uno. Adesso ha imparato a lavorare la ceramica.

il Fatto 1.4.14
Acea, il prezzo dei lampioni e la guerra di Marino ai privati
di Daniele Martini


Il Campidoglio si svena per illuminare la Città Eterna pagando circa 260 euro l’anno a lampione alla sua azienda comunale, l’Acea. Più del doppio di quel che sborsa Bologna (115 euro a lampione) e molto più di quel che spenderebbe se la luce la comprasse al prezzo proposto ai comuni del Lazio da Consip (la centrale acquisti per le amministrazioni pubbliche): 188 euro. Essendo i lampioni della Città Eterna 210 mila, il Campidoglio spende dai 15 ai 30 milioni di euro in più all’anno rispetto a quel che spenderebbe adottando lo standard Consip o pagando come Bologna. In compenso il servizio fornito da Acea è scadente, come certifica nel dossier 2013 l’Agenzia per la qualità di Roma Capitale. E come la stessa Acea ha implicitamente riconosciuto dando il benservito alla fine di febbraio al manager preposto, Giancarlo Daniele (che però è stato accompagnato alla porta con una buonuscita di circa un milione di euro).
L’AZIENDA COMUNALE giustifica il prezzo fuori quota sostenendo di offrire più degli altri: la manutenzione straordinaria o la rapida sostituzione dei cavi di rame ciclicamente rubati. Ma basta guardarli i lampioni, spesso spenti di notte e accesi di giorno, per avere la conferma che la manutenzione più che una realtà è una promessa. E per quanto riguarda i cavi di rame, è sufficiente parlare con gli abitanti dei quartieri dove i furti sono avvenuti per scoprire che per riavere la luce hanno dovuto attendere settimane. Di fronte a queste carenze, il sindaco Ignazio Marino ha continuato per settimane a pungolare i capi dell’azienda comunale, l’amministratore Paolo Gallo e il presidente Giancarlo Cremonesi, perché migliorassero il servizio. I manager hanno reagito arroccandosi e sventolando gli ottimi risultati di bilancio a riprova della buona gestione. Marino si è impuntato e gliel’ha giurata.
L’Acea ha chiuso il 2013 in bellezza, con circa 142 milioni di euro di utile, circa il doppio rispetto all’anno precedente, anche grazie al super-prezzo imposto al Comune per l’illuminazione (e alle bollette di luce e acqua pagate dai romani). In seguito a questi risultati agli azionisti è stato distribuito un dividendo di 0,42 euro ad azione. Possedendo il comune di Roma il 51 per cento del capitale, il sindaco Marino ha ricevuto un assegno di circa 45 milioni. Mentre i due azionisti privati maggiori, il costruttore ed editore romano Francesco Gaetano Caltagirone (16 per cento) e i francesi di Suez (12 per cento), hanno incassato rispettivamente 14 milioni e 10 milioni di euro.
Ricapitolando: il comune di Roma paga più del dovuto la mediocre illuminazione pubblica all'Acea che così si ingrassa e fa utili. Poi, però, quando si tratta di distribuire i dividendi il Campidoglio deve spartire con i privati. Il sindaco Marino considera Gallo e Cremonesi i garanti di questo andazzo ed è arrivato ad accusarli di essersi imbullonati alle poltrone a difesa dei loro superstipendi. Gallo è stato voluto da Caltagirone, Cremonesi fu scelto dall'ex primo cittadino, Gianni Alemanno.
DA ALCUNI GIORNI in un cartellina sulla scrivania di Marino c'è una tabella con un confronto tra le remunerazioni 2012 dei manager capitolini e dei loro colleghi delle maggiori aziende italiane fornitrici di servizi come Hera, A2A e Iren. Le cifre sono tratte da pubblicazioni ufficiali, tranne quelle di Gallo. Nel 2012 Gallo era solo direttore generale e prendeva 700 mila euro, ma dal 2013 è anche amministratore. Dagli atti al momento non risulta nulla relativamente al suo nuovo incarico. Le fonti aziendali ufficiali parlano di uno stipendio 2013 di appena 380 mila euro di retribuzione come amministratore che possono raddoppiare se vengono raggiunti tutti i risultati, più 36 mila euro di gettoni. Quindi un massimo totale di 800 mila euro. Ad altre fonti interne risultano cifre diverse: 1 milione di euro, 700 mila dell'ex stipendio da direttore generale a cui avrebbe aggiunto parte dei 438 mila euro riconosciuti al suo predecessore, Staderini. L'amministratore delegato di Hera, Maurizio Chiarini, ha riscosso 475 mila euro, mentre quello di Iren, Roberto Garbati, 478 mila. Il presidente di Acea Cremonesi ha incassato invece 532 mila euro: 300 mila di stipendio base, un bonus di 108 mila più altri 124 mila euro per incarichi in altre società del gruppo. Il presidente di Hera, Tomaso Tommasi di Vignano si è fermato a 475 mila euro, quasi come Roberto Bazzano di Iren, mentre Graziano Tarantini di A2A ha sfiorato il mezzo milione. Tra i consiglieri Acea Andrea Peruzy riceve il compenso più alto, 132 mila euro; elevate anche le retribuzioni del collegio sindacale, dai 269 mila euro di Alberto Romano ai 297 mila di Enrico Laghi.

La Stampa 1.4.14
Amos Oz Amoz Oz, fondatore di «Peace Now»
«Per Israele il deserto del Negev è la nuova frontiera»
Lo scrittore israeliano: la penso come il presidente Peres, se dovremo lasciare la West Bank i nostri coloni potranno dedicarsi a far fiorire quel deserto
di Maurizio Molinari


Per entrare nelle viscere di Israele bisogna varcare la soglia della casa di Amoz Oz. Seduto nel suo salotto in un elegante quartiere a Nord di Tel Aviv, Oz racconta il suo Paese con il misto di passione e lucidità che distingue lo stile dei libri e scritti tradotti in tutto il mondo: vede nel Negev la nuova frontiera di Israele, nella lingua ebraica una fonte inarrestabile di creatività, nella soluzione dei due Stati l’unica via d’uscita al conflitto con i palestinesi e rilancia la richiesta all’Europa di non guardare al Medio Oriente come se fosse un film di Hollywood con buoni contrapposti a cattivi.
Nel quartiere di Nahlaot, a Gerusalemme, Natalie Portman sta girando il film tratto dal suo best seller Sippur Al-Ahava VeHoscech (Una storia d’amore e di tenebra) ma la cosa non lo emoziona più di tanto. «E’ come se un pianista descrivesse un violinista», dice, affiancando rispetto e distacco. Resta il fatto che i suoi libri sono fra i più tradotti al mondo, trasformando la letteratura ebraica in un prodotto globale. E’ un fenomeno che spiega con «l’attrazione che i lettori hanno per le realtà particolari che possono suscitare grande interesse o repulsione» e lo porta a soffermarsi anche sulla «intrinseca creatività della lingua ebraica». «Posso essere un critico aspro di alcune posizioni dei governi israeliani – sottolinea - ma sono un appassionato sostenitore della lingua ebraica». Il motivo è che si tratta di un idioma «in continua trasformazione», che «si arricchisce di vocaboli grazie all’arrivo di nuovi immigrati» e possiede forme lessicali «che consentono di cambiare l’ordine di vocaboli, articoli e avverbi mantenendo lo stesso significato». D’altra parte il numero di persone che oggi parlano l’ebraico è simile a quello di chi conosceva l’inglese ai tempi di Shakespeare e dunque nulla preclude ad un’ulteriore espansione di un bacino di lettori in lingua originale che «quando Israele venne creata era di appena 300 mila anime ed ora è superiore agli abitanti della Norvegia o della Danimarca».
La vitalità intrinseca dell’ebraico nasce, per Amoz Oz, anche dall’essere stata una «Bella Addormentata» per 17 secoli, perché se è vero che non apparteneva a nessuno Stato lo è pure che «se un rabbino ashkenazita dell’Europa orientale dove corrispondere per iscritto con un rabbino sefardita in Nordafrica lo faceva nella lingua della Bibbia perché era l’unica che li accomunava».
Ciò che colpisce nell’ascoltare Amos Oz è la semplicità di pensieri che esprimono una creatività dirompente. Avviene ad esempio quando, pochi minuti dopo, davanti a due tazzine di tè da lui stesso preparato e versato, si sofferma sul «Negev, possibile nuova frontiera di Israele». Qui si parla spesso e volentieri del grande deserto meridionale: Shimon Peres immagina di popolarlo, Benjamin Netanyahu vi investe sulle nuove tecnologie, lo «Shafdan» è un modello di ripulitura delle acque e l’agricoltura continua a fiorirvi. «Quando ci ritireremo dalla West Bank, il Negev potrà diventare il nuovo orizzonte», dice lo scrittore, sottolineando la possibilità di trasferirvi gran parte dei residenti negli insediamenti. E’ una delle idee che lo accomuna a Shimon Peres, a cui è molto legato, fino al punto da essere stato indicato da lui in passato come possibile guida per il partito laburista. Ora ad esserne leader è il giovane Isaac Herzog, che apprezza, mentre Peres sta per lasciare la presidenza dello Stato «e fra i possibili successori non c’è nessuno neanche lontanamente paragonabile alle sue qualità».
Fra i leader politici emergenti nessuno lo emoziona più di tanto, incluso Naftali Bennet capo del partito Bayit HaYehudì (Casa ebraica) in crescita nell’elettorato di destra. «I migliori fra i giovani non si avvicinano alla vita pubblica, in Israele come in Italia, perché temono che emergendo si troverebbero obbligati a dover giustificare ogni sorta di comportamenti passati, anche quelli più lontani negli anni», osserva, aggiungendo però di avere fiducia nel «fattore-sorpresa» che spesso ha cambiato il corso del XXI secolo. «Nessuno si aspettava che De Gaulle avrebbe lasciato l’Algeria, che Churchill avrebbe gestito la liquidazione dell’Impero britannico, che Begin si sarebbe ritirato dall’intero Sinai e che Gorbaciov avrebbe fatto implodere l’Urss ma questo è quanto in realtà avvenuto» osserva, indicando per il conflitto fra israeliani e palestinesi una soluzione «simile al divorzio dolce fra cechi e slovacchi» che portò la Cecoslovacchia a lasciare il posto alle attuali Repubblica Ceca e Slovacchia.
Amoz Oz, fondatore di «Peace Now», fu fra i primi a battersi per la soluzione dei due Stati per due popoli ed oggi davanti alle perduranti difficoltà e resistenze ribadisce che «non c’è una strada alternativa per porre fine ad un conflitto tragico perché non oppone un torto ad una ragione ma vede confrontarsi due parti che hanno entrambe ragione». Da qui l’appello all’Europa di «guardare a israeliani e palestinesi non come ad un film di Hollywood con i buoni e i cattivi», bensì come ad una realtà dove «si può esprimere sostegno ad entrambi». Riguardo alle incomprensioni fra Europa e Israele, la spiegazione che ne dà è duplice. Da un lato «l’Europa dimentica che siamo una nazione di profughi, dove ogni singolo porta dentro di sé la memoria delle persecuzioni, e dunque abbiamo bisogno costante di rassicurazioni», mentre dall’altro «sbagliano quegli israeliani che considerano ogni critica alle nostre politiche come una dimostrazione di antisemitismo».
In realtà nella stagione di Barack Obama vi sono anche molte incomprensioni fra Israele e Stati Uniti, fino al punto da far ipotizzare l’avvicinamento dello Stato Ebraico ad altre potenze, come la Cina e la Russia. E in Cina proprio la traduzione del suo libro dimostra la crescente attenzione per Israele. «Ciò che ci dobbiamo chiedere non è se noi guarderemo ad altri Stati – osserva Amos Oz – ma se vi saranno altri Stati capaci di aprirsi a noi come hanno fatto gli Stati Uniti negli ultimi quarant’anni diventando il cugino potente di uno Stato senza famiglia come Israele». Sulle trasformazioni in atto nello Stato ebraico l’approvazione delle legge che abolisce l’esenzione dal servizio militare per gli ultraortodossi lo trova tiepido. «Non sono come quegli israeliani laici per i quali il servizio militare degli ultraortodossi è determinante – osserva, seduto con a fianco l’inseparabile gatto Freddy – per me ciò che conta di più è la loro integrazione nel mondo del lavoro». Più in generale comunque non crede ad un’Israele sempre più religiosa: «Quando lo Stato venne fondato i partiti religiosi in totale avevano 28 seggi, oggi ne hanno 31, dunque sono cresciuti ma non molto» e Israele «resta un Paese dove la maggioranza della popolazione, che vive lungo la costa da Naharya ad Ashkelon, è composta al 75 per cento da laici».
Dare eccessivo risalto agli ortodossi «è un errore che spesso fa chi vive a Gerusalemme». Anche fra i palestinesi le differenze sono sensibili: «Ramallah è la loro Tel Aviv ma nei piccoli villaggi albergano povertà e disperazione». Prima di salutarci, il ricordo di Oz va a Gianni Agnelli, che ricevette anni fa nel kibbutz di Hulda, in un incontro a cui parteciparono anche le rispettive mogli, Nily e Donna Marella. «Lo rammento come un uomo con grande cura per i dettagli e curiosità – termina Oz – a farci incontrare l’amico comune Vittorio Dan Segre».

Corriere 1.4.14
Israele, Olmert colpevole di corruzione

L’ex premier israeliano Ehud Olmert, 68 anni, è stato riconosciuto colpevole di corruzione avvenuta con un versamento di 500 mila shekel (100 mila euro) al fratello Yossi per facilitare il controverso progetto edilizio di Holyland a Gerusalemme. La condanna riguarda un periodo precedente il suo mandato da premier (dal 2006 al 2009), quando fu sindaco di Gerusalemme e ministro di Industria e Commercio. La pena massima che potrebbe essere applicata, e che sarà resa nota il 28 aprile, comporta 10 anni di carcere. Il portavoce di Olmert ha fatto sapere che l’ex premier ricorrerà contro la sentenza.

La Stampa 1.4.14
Il viaggio in Europa di Xi Jinping, l’alfiere del “mercantilismo leninista”
Nel modello cinese capitalismo e partito unico non sono in contraddizione:
senza il Partito il capitalismo diventerebbe selvaggio e dannoso
di Alberto Simoni

qui

Repubblica 1.4,14
La Ue si piega al silenzio stampa per Xi
Niente cronisti e tanti contratti: la prima volta del presidente cinese a Bruxelles
di Gp. V.


PECHINO. Per la prima volta nella storia un leader cinese visita le istituzioni dell’Unione europea e lo “stile Cina” contagia anche l’Europa. È successo ieri a Bruxelles, dove il presidente Xi Jinping ha incontrato i colleghi di Consiglio, Parlamento e Commissione Ue, Herman Van Rompuy, Martin Schulz e Josè Manuel Barroso. Abolito, su richiesta di Pechino, ogni incontro con la stampa e contenuti del vertice affidati ad uno scarno comunicato concordato tra le parti, metodo più in armonia con l’autoritarismo cinese che con la democrazia europea. Xi Jinping era reduce dal suo primo tour nel Vecchio continente, dove ha firmato ricchi contratti in Olanda, Francia e Germania, e in Belgio è stato contestato sia da esuli tibetani, che in segno di protesta di sono rasati il capo, che da attivisti per i diritti umani, che hanno chiesto la scarcerazione di alcuni dissidenti. I vertici Ue, in attesa del discorso sull’Europa che Xi terrà oggi a Bruges, hanno però badato più alle relazioni economiche che ai valori politici e hanno evitato di irritare il primo partner commerciale della zona euro. L’interscambio Cina-Ue vale oltre 1 miliardo al giorno e dopo la crisi del 2009 i richiami europei affinché la seconda economia del mondo rispetti a diritti dell’individuo si sono fatti sempre più formali. Solo Amnesty ha dato ironicamente il «benvenuto al grande leader della Repubblica popolare di Cina», affiggendo striscioni nei tunnel di Bruxelles dopo che il governo belga aveva negato l’autorizzazione a manifestare, come preteso dall’ospite. Nella dichiarazione Ue-Cina, i leader hanno riconosciuto che «diritti umani e stato di diritto sono il presupposto per la cooperazione economica», ma non hanno affrontato casi concreti, come la detenzione del Nobel per la pace Liu Xiaobo e di sua moglie. Xi pare aver gradito l’attenzione, assicurando neutralità sul dossier Russia-Ucraina e mostrando interesse ad un rapido accordo di libero commercio. «Ue e Cina — è scritto nella nota congiunta — sottolineano il multilateralismo e il ruolo centrale dell’Onu negli affari internazionali, nonché l’importanza di risolvere le dispute regionali attraverso soluzioni pacifiche». Nessun accenno esplicito alla crisi in Crimea, ma messaggio chiaro: Pechino non sosterrebbe interventi armati promossi da Usa ed Europa, mentre è decisa a trasformare la Ue in una destinazione strategica per i propri investimenti in Occidente, sostituendo influenza e sostegno di Mosca. È la linea presentata da Xi agli europei: «La Cina è tornata ad essere un leone: ma se prevarrà la non ingerenza negli affari interni, resterà un leone pacifico».

Repubblica 1.4.14
I 15 miliardi di Zhou l’intoccabile il sequestro che fa tremare Pechino
Il presidente e il suo nemico
di Giampaolo Visetti


PECHINO LA CINA è scossa in queste ore dal più devastante terremoto sotterraneo da quando Mao Zedong ha portato il partito comunista al potere. Le autorità di Pechino hanno sequestrato un tesoro da 15 miliardi di dollari a famigliari e alleati politici di Zhou
Yongkang, 71 anni, ex capo della sicurezza nazionale e membro del comitato permanente del politburo. È la prima volta, in 65 anni, che uno dei nove “intoccabili” del partito-Stato, se pure appena pensionato, viene messo sotto inchiesta per «violazione della disciplina», ossia per corruzione. Per i cinesi è «la caduta della tigre a cui sono stati già strappati i denti» e nonostante la censura abbia bloccato la notizia il Paese attende l’annuncio ufficiale destinato a cambiare la storia nazionale.
Zhou Yongkang, proiettato ai vertici grazie al controllo dei colossi di Stato dell’energia, è scomparso lo scorso primo ottobre, festa della rivoluzione, e risulta agli arresti domiciliari “virtuali”. Nessuno gli ha notificato un ordine di cattura, ma se osasse uscire dalla sua casa nella capitale, verrebbe condotto in carcere. Le indagini su di lui, partite in dicembre, stanno rivelando l’esistenza di un onnipotente sistema di potere parallelo, dedito agli affari illegali e capace di sostituirsi al partito stesso. Senza precedenti gli sviluppi dell’inchiesta. In dieci anni, con Hu Jintao e Wen Jiabao al potere, il clan di Zhou ha occultato beni per oltre 90 miliardi di yuan, agendo come un’organizzazione criminale più potente dell’apparato di cui avrebbe dovuto difendere la sicurezza. Negli ultimi quattro mesi, da quando il presidente Xi Jiping ha intensificato la sua “guerra alla corruzione”, la polizia ha fermato, interrogato e arrestato oltre 300 persone tra parenti, alti funzionari e businessmen della galassia di Zhou Yongkang. In carcere, in un drammatico e segreto stillicidio quotidiano, anche moglie, figlio, fratello, suoceri, segretari, autisti, guardie del corpo, generali, viceministri e manager pubblici connessi con l’uomo che teneva in pugno le sorti del regime. Tra i beni sequestrati, conti bancari per oltre 4 miliardi di euro, obbligazioni nazionali ed estere per quasi 6 miliardi, ville e appartamenti per 2,5 miliardi, oltre che 60 automobili, oggetti d’antiquariato, opere d’arte contemporanea, gioielli, oro e denaro per oltre 150 milioni di euro.
Un tesoro ricco al punto che la storica “caduta della tigre” rischia di trascinare nel precipizio la stessa leadership rossa che l’ha pretesa. Nessuno in Cina, senza il via libera e il sostegno del potere, può accumulare un patrimonio occulto da oltre dieci miliardi, né piazzare famigliari e amici sulle poltrone strategiche dello Stato. Xi Jinping, già scosso dalle rivelazioni della stampa estera sui tesori nascosti dall’ex premier Wen Jiabao, dal suo predeces- sore Hu Jintao e dagli stessi propri famigliari, si scontra così contro un’inedita e pericolosa spaccatura dentro il partito. Una parte invoca il silenzio e chiede che lo scandalo Zhou sia risolto all’interno del potere, limitandosi a rimuovere e a privare dei beni i colpevoli. L’ex sceriffo cinese è il custode dei più delicati segreti della nomenclatura e rendere pubblico il valore del suo tesoro equivarrebbe a porre sotto processo i vertici dello Stato che hanno segnato un’epoca. L’altra parte chiede invece uno spettacolare arresto-simbolo, shock tale da calmare l’incontenibile ira popolare contro il cancro della corruzione politica, che minaccia di far implodere il sistema.
Questa è anche la scommessa di Xi Jinping, che appena nominato presidente, un anno fa, promise ai cinesi che avrebbe abbattuto «sia le mosche che le tigri». La preda individuata però è così grossa che il nuovo “principe rosso” si scopre stretto in una morsa, tra l’apparato e il popolo, e che la sua dichiarata voglia di trasparenza rischia di essere confusa con una resa dei conti interna. Zhou Yongkang, due anni fa, si oppose all’ascesa di Xi al potere e fino all’ultimo difese il suo avversario, il carismatico ex leader neo-maoista Bo Xilai, condannato all’ergastolo in settembre. Nei mesi dello scandalo Bo, accusato di aver coperto l’omicidio di una spia inglese commissionato dalla moglie Gu Kailai, a Pechino corsero voci di colpo di Stato e Xi Jinping, alla vigilia della nomina a segretario generale del partito, scomparve misteriosamente per due settimane. Zhou, in quei giorni, chiese che a succedergli come capo della sicurezza fosse proprio l’amico Bo. Ora entrambi sono caduti, vittime di un sisma che non allarma solo la Cina. Chiarire se la nuova leadership della seconda potenza mondiale è animata da fame di giustizia, o da sete di vendetta, non è più un rinviabile dettaglio.

Corriere 1.4.14
«Sei famoso, mi piaci», le lettere d’amore ai carnefici
I messaggi inviati in cella da tante donne «Chi scrive preda di un’illusione di forza»
di Elena Tebano


Ha poco di un Principe del male l’«avvocato con la Porsche» che sconta vent’anni di carcere a Teramo. Quando sabato Luca Varani, 37 anni, è stato condannato in primo grado per l’aggressione con l’acido alla sua ex Lucia Annibali, tra le prove a suo carico c’erano anche i disegni con le istruzioni per i suoi complici che — come uno sprovveduto — aveva scritto loro in cella. Eppure c’è chi ha sentito lo stesso il suo «fascino»: sono una decina le lettere di ammirazione, persino «amore», che gli sono stare recapitate nel penitenziario. Tutte scritte da donne.
Non è un caso isolato: a febbraio hanno fatto scalpore i messaggi intercettati in Belgio per Marc Dutroux, il «mostro di Marcinelle» che nel 1996 rapì e torturò sei bambine, uccidendone quattro. Almeno dodici adolescenti hanno cercato di mettersi in contatto con lui: «Ciao, sono una ragazza di 15 anni, vivo a la Roche-en-Ardenne. Mi hai sempre affascinato, sei una persona famosa, quando vedo le tue belle foto non posso fare a meno di credere che sei una persona onesta», ha scritto una delle «fan», secondo il quotidiano Le Soir . «Vorresti avere una corrispondenza con me? Posso mandarti le mie foto se vuoi», gli ha chiesto un’altra. Non erano ancora nate quando Dutroux ha lasciato morire di fame le sue piccole vittime. Oggi ne sono in qualche modo affascinate. Sembra inspiegabile. Messaggi di amore sono arrivati, nello stesso carcere teramano dove si trova Varani, anche all’ex caporalmaggiore Salvatore Parolisi, condannato in Appello il 30 settembre a 30 anni per avere ucciso la moglie Melania Rea.
Casi tanto più impressionanti perché questi uomini sono il simbolo di violenze inaudite contro le donne e non di un malinteso spirito ribelle — come potevano sembrare Pietro Maso o «il bel René» Vallanzasca, che pure è stato inondato di lettere e in carcere si è anche sposato. «Chi scrive a queste persone lo fa in virtù di una propria fantasia. Non c’è quasi nulla di reale nella relazione con loro, se non il fascino della notorietà: rappresentano un ideale che si può costruire a piacere. Chi ne è attratto probabilmente ha bisogno di creare un immaginario che perverte e sostituisce la realtà, in modo da riempire un vuoto», spiega Alessandra Pauncz, psicologa e presidente del Centro ascolto uomini maltrattanti (Cam) di Firenze.
«Tra i meccanismi frequenti, inoltre, può esserci una sorta di sindrome della crocerossina: queste donne si illudono che, anche se quella persona ha commesso crimini terribili, non farebbe mai del male a loro, perché saprebbero “capirlo”, prendersi “cura” di lui. Rivendicano in qualche modo un potere superiore alle altre», aggiunge Pauncz. È un’illusione.
«Ho sposato l’uomo che amavo da sempre. Lui ha detto sì alla donna che lo aspettava da tutta una vita. È stato un vero matrimonio d’amore», annunciò Donatella Papi all’uscita dal carcere di Velletri, dopo aver sposato nel 2010 Angelo Izzo. Cioè uno degli autori del massacro del Circeo del 1975 (Rosaria Lopez seviziata e uccisa, Donatella Colasanti sopravvissuta con ferite incancellabili solo perché si era finta morta) e omicida recidivo nel 2005 (le vittime questa volta erano madre e figlia, Maria Carmela e Valentina Maiorano). Un anno dopo Papi chiedeva la separazione: «Izzo non è colpevole dei reati che gli sono stati attribuiti, ma di altri fatti gravissimi», disse ai giornalisti. E poi: «Non mi voglio fare complice di cose che non condivido». Nessuna parola d’amore.
A Luca Varani, nelle ultime settimane, altre ammiratrici avrebbero scritto che è bello, che lo aspettano e non è solo. «Sono dieci lettere, non diecimila, reazioni anomale da parte magari di persone che hanno problemi con la propria immagine di sé — avverte Michele Sforza, psichiatra e psicoanalista comasco che si occupa di dipendenze —. Sono donne, si può ipotizzare, che se lo immaginano abbandonato e quindi si identificano con l’aggressore. È una reazione, ovviamente distorta, alla dignità con cui Lucia Annibali non si è fatta schiacciare dal gesto del suo ex. Per donne che non saprebbero avere la sua forza, il suo senso di sé, la reazione può essere anche di invidia. Allora rovesciano la realtà e si comportano come se fosse lui la vittima», ragiona Sforza. Anche questa una fantasia.

Corriere 1.4.14
Le giornate di «genio e regolatezza» che hanno reso grandi artisti e pensatori
Come impiegavano il tempo Flaubert e Kant? Leggevano e sgobbavano
di Paolo Di Stefano


Genio e sregolatezza? Genio e follia? Qualche volta, ma prima di tutto, sempre: il lavoro. Se nelle giornate dei grandi scrittori, pensatori e musicisti del passato cercate la ricetta magica della genialità, resterete delusi. Non c’è quasi niente che li renda simili. Freud amava giocare a carte, Auden passava ore a sbevazzare, Flaubert non rinunciava alla chiacchierata con mamma, Kant non si faceva mancare la passeggiata serale, Dickens marciava per tre ore, Mozart impiegava un’oretta per vestirsi, a Thomas Mann piaceva la pennichella pomeridiana. Ognuno è genio a modo suo; del resto: non c’è niente di più individuale del talento. L’unica costante è la cosa più terre-à-terre che si possa immaginare: il lavoro. L’accensione del genio si realizza solo nella banalità del metodo. Tutti dormono con regolarità, neanche il brivido dell’insonnia che farebbe tanto genio alla Hemingway. È vero che Milton si svegliava alle 4 del mattino, ma andava a nanna alle 9 di sera, con le galline. E se proprio si deve trovare una stravaganza, rivolgetevi a Balzac, che alle sei del pomeriggio era già a ronfare. Ma se all’una di notte era sveglio come un grillo con la penna (d’oca) in mano, aveva pur dormito sette ore piene.
A chi gli chiedeva il segreto delle sue composizioni, il poeta Paul Valéry rispondeva che il primo verso viene da Dio, il resto è una fatica disumana (o umanissima). Pensate che cosa ne sarebbe stato del talento di Mozart se non avesse sgobbato — tra composizione, concerti, lezioni — 12 ore al giorno. Certo, è anche vero il contrario: 12 ore al giorno di lavoro senza talento non bastano a fare un Mozart e neanche un Darwin. Ed è pur vero che Flaubert dedicava alla scrittura non più di 5 ore (fino alle tre di notte), ma ne impiegava almeno altrettante a leggere: provate voi a leggere per cinque ore al giorno! C’è poco da fare, i risultati, anche per i geniacci, si giocano sulla costanza, sulla regolarità. Geni e regolatezza. A volte regolatezza inutile, se un giorno Oscar Wilde esclamò sconsolato: «Oggi ho impiegato tutta la mattinata a mettere una virgola e tutto il pomeriggio a toglierla». Sudate carte? Sudatissime. La morale della favola è: che fatica e soprattutto che noia essere un genio.

Corriere 1.4.14
Agguato a Giovanni Gentile
Riemerge la pista britannica
Lo scopo: fermare il disegno di pacificazione del filosofo
di Paolo Mieli


Una questione che resta aperta Esce il 16 aprile in libreria il saggio di Luciano Mecacci La ghirlanda fiorentina (Adelphi, pp. 528, e 25), dedicato ai risvolti oscuri dell’uccisione di Gentile. L’ipotesi d’un coinvolgimento dei servizi segreti inglesi venne avanzata nel 1985 da Luciano Canfora in La sentenza (Adelphi). Sul tema: Francesco Perfetti, Assassinio di un filosofo (Le Lettere, 2004); Paolo Paoletti, Il delitto Gentile (le Lettere, 2005).

Ai primi di settembre del 1943, Giovanni Gentile ebbe occasione di incontrare lo storico della filosofia Mario Manlio Rossi e, a fine conversazione, lasciò cadere una strana frase che lo stesso Rossi riferì alcuni anni dopo: «Ho completato la mia opera; i vostri amici, ora, possono uccidermi se vogliono». Il fascismo era caduto il 25 luglio di quello stesso 1943 e il colloquio avveniva, presumibilmente, nei giorni precedenti l’armistizio dell’8 settembre, con quel che ne sarebbe seguito: la divisione dell’Italia in due, da una parte il Regno del Sud liberato dagli Alleati, dall’altra la Repubblica sociale «protetta» dai nazisti. Il filosofo di Castelvetrano avrebbe aderito alla Rsi, si sarebbe trasferito a Firenze, dove il 15 aprile del 1944 sarebbe stato ucciso da un commando di partigiani comunisti davanti a Villa Montalto. Le parole riferite da Rossi hanno colpito gran parte dei biografi di Gentile, che hanno intravisto in esse una sorta di presentimento per quel che di tragico sarebbe accaduto di lì a qualche mese. Adesso Luciano Mecacci in un libro assai interessante, La ghirlanda fiorentina , che sta per essere pubblicato da Adelphi, individua tra le righe qualcosa di sorprendente a proposito dei «vostri (Rossi lo scrisse in corsivo) amici» che Gentile aveva individuato come suoi futuri assassini.
Giova qui ricordare due particolarità di La ghirlanda fiorentina . L’autore, Mecacci, è un illustre psicologo che alcuni anni fa si era imbattuto nella figura di Mario Manlio Rossi ed è da quel personaggio che ha dipanato il filo del racconto. L’editore, Roberto Calasso, è figlio del grande giurista Francesco Calasso (e di Melisenda Codignola, figlia a sua volta del pedagogista Ernesto, nonché sorella dell’esponente del Partito d’Azione, Tristano). Francesco Calasso ebbe a che fare con la vicenda trattata in La ghirlanda fiorentina, dal momento che — assieme a Ranuccio Bianchi Bandinelli e a Renato Biasutti — fu uno dei tre docenti fermati per l’uccisione del filosofo. Per giorni e giorni i tre professori restarono sospesi tra la vita e la morte. Furono poi rilasciati per intercessione del console tedesco Gerhard Wolf e degli stessi familiari di Gentile, i quali, oltre ad essere persuasi che i tre insegnanti non avessero avuto a che fare con il delitto, non volevano, in ogni caso, che all’uccisione del filosofo fosse dato un seguito di sangue. Così Roberto Calasso, che all’epoca aveva tre anni, poté riabbracciare il padre.
Per decenni, nonostante la rivendicazione del Partito comunista, si seppe poco degli esecutori materiali dell’assassinio. Si sapeva solo che il loro leader era stato Bruno Fanciullacci, successivamente catturato dai tedeschi, evaso, ripreso e infine morto suicida, il 17 luglio 1944, nelle carceri naziste. Finché un’inchiesta di Giampiero Mughini, pubblicata dall’«Europeo» nel maggio 1981, rivelò le identità degli appartenenti al commando. Tutto risolto? Nient’affatto. Nel 1985 un libro di Luciano Canfora, La sentenza (Sellerio), riaprì il caso prendendo le mosse dalla rivendicazione comunista del delitto, sul giornale clandestino «La Nostra Lotta». Rivendicazione che avvenne tramite una postilla apocrifa (vergata da Girolamo Li Causi) ad uno scritto — precedente — del grande latinista Concetto Marchesi. Marchesi non prese mai le distanze da quelle righe scritte da Li Causi, ma, a marcare una distinzione di responsabilità, a guerra finita ristampò, nel libro Pagine all’ombra (Zanocco), il proprio articolo nella versione originaria, priva dell’aggiunta che conteneva la «condanna a morte».
Quando poi uscì La sentenza di Canfora, Sergio Bertelli raccontò che lo scrittore Romano Bilenchi gli aveva rivelato esser stato Bianchi Bandinelli uno dei mandanti del delitto. Nel 1989 il filologo Carlo Dionisotti riassunse così (in una lettera privata) la questione: «Che gli uccisori di Gentile fossero comunisti è fuori dubbio. Resta a sapere chi diede l’ordine. Certo non Marchesi. Certo qualcuno che allora era e aveva autorità a Firenze». Un modo di sottolineare che le rivendicazioni dello stato maggiore del Pci e l’individuazione dei partecipanti al commando non avevano chiarito del tutto i termini del delitto. Poi, una decina di anni fa, sono stati editi da Le Lettere due libri — Assassinio di un filosofo. Anatomia di un omicidio politico di Francesco Perfetti e Il delitto Gentile. Esecutori e mandanti. Novità, mistificazioni e luoghi comuni di Paolo Paoletti — che hanno messo in luce numerosi altri aspetti ambigui della vicenda. Che la fanno per molti versi assomigliare a quelle delle uccisioni, negli anni Settanta, di Luigi Calabresi (1972) e di Aldo Moro (1978): qualche relativa certezza sugli esecutori, poche sui mandanti e ancor meno (al massimo qualche supposizione) su chi si muovesse alle loro spalle.
Il filosofo Cesare Luporini, già senatore del Partito comunista italiano, in una trasmissione radiofonica del 1989 — in onore (e in presenza) di Eugenio Garin — ammise che in merito a quell’uccisione c’erano «cose che forse ancora non si possono dire». Un altro filosofo, Gennaro Sasso, che aveva ascoltato alla radio quelle parole, commentò: «Può darsi che il momento (di dire quelle cose di cui parla Luporini) non sia ancora venuto; mi auguro che, nella forma che egli riterrà la più opportuna, le sue informazioni siano comunque messe a disposizione del postero che desideri stabilire con verità come in quel lontano giorno dell’aprile 1944, davanti a Villa Montalto, andarono propriamente le cose, e chi, propriamente, avesse deciso che andassero così». Ma Luporini non raccolse il suggerimento di Sasso. Anche sul ruolo di Bianchi Bandinelli restano dei dubbi. Bianchi Bandinelli, raffinato archeologo, grande amico (come anche Luporini) di Bernard Berenson, accompagnatore, in camicia nera, della visita di Adolf Hitler nel 1938 a Roma e Firenze, all’epoca dei fatti si stava avvicinando al Pci. «Oggi non sembrano cristalline le posizioni politiche da lui assunte in quegli anni, ma non so se è giusto considerarle ambivalenti», ha scritto Alvar González-Palacios in un libro che è un piccolo gioiello, Persona e maschera , appena pubblicato da Archinto. Anche un’altra gappista, Teresa Mattei, raccontò che Bianchi Bandinelli aveva quanto meno avallato il delitto, definendolo «un atto terribile, ma necessario». Già Canfora, però, ha dubitato della veridicità di quei ricordi, mettendo in evidenza il fatto che Bianchi Bandinelli aveva aderito al Partito comunista nel settembre del 1944 ed era perciò improbabile che fosse stato ammesso nella ristretta cerchia di chi, cinque mesi prima, aveva concepito l’attentato a Gentile.
A proposito di Garin va ricordato che quattro giorni dopo l’uccisione, lui stesso si trovò a tenere a Firenze una lezione (su san Carlo Borromeo) nel corso della quale svolse una sorta di orazione funebre in onore del filosofo ucciso. «Invano», scrive Mecacci, «ho cercato nell’archivio del circolo qualche documento sullo svolgimento della serata». E ancora: «Rincresce che fra le carte di Garin detenute dalla Scuola Normale di Pisa non ci sia traccia del testo della commemorazione di Gentile». Ci dobbiamo attenere ad un succinto resoconto pubblicato dalla «Nazione», secondo cui, quella sera a Firenze, «l’oratore, legato di filiale amicizia a Giovanni Gentile», ne aveva «tratteggiato l’alta figura morale». A tal punto «filiale» era l’amicizia di Garin che Gentile aveva proposto all’editore Vallardi di pubblicare una storia della filosofia italiana con le due firme, la sua e quella dello stesso Garin, appaiate. Cosa di cui Gino Vallardi scrisse esplicitamente al figlio di Gentile, Federico, un mese dopo l’uccisione del padre. Poi fu lo stesso editore ad avere un ripensamento. Il 25 aprile del 1945 l’Italia fu liberata e il 29 luglio Vallardi scrisse a Garin, spiegando che «gli avvenimenti dell’aprile scorso ci hanno fatto pensare sull’opportunità — o meno — di editare un volume che uscisse col nome del prof. Gentile».
Nel frattempo Garin aveva già provveduto a mettere in regola le proprie carte. Nel settembre del 1944, appena quattro mesi dopo la sua commemorazione di Gentile, aveva scritto sul «Corriere di Firenze» che «il fascismo era, non già una discutibile teoria politica, ma il malcostume eretto a sistema e la organizzazione programmata di quanto peggiore i secoli più tristi della storia d’Italia abbiano lasciato in eredità nel carattere italiano». Poi collaborò al giornale liberale «La Nazione del Popolo», quindi firmò, il 26 febbraio del 1946, il «Manifesto agli italiani» del Movimento della democrazia repubblicana di Ferruccio Parri e Ugo La Malfa. Garin aveva poi rimesso in ordine i propri conti con il passato, scrivendo nell’aprile del 1954 (sul «Nuovo Corriere») che, pur essendo ancora un «non comunista», desiderava esprimere un netto «ripudio dell’anticomunismo». E Togliatti lo aveva premiato, nel 1958, invitandolo a tenere all’Istituto Gramsci una relazione sul fondatore dell’«Ordine Nuovo» alle cui «Lettere» e ai cui «Quaderni» Garin aveva prestato attenzione già dalla seconda metà degli anni Quaranta. Dopodiché, secondo Mecacci, i riferimenti di Garin al maestro di Castelvetrano furono caratterizzati da «reticenze» e «inusitate sciatterie» sulla quali, afferma l’autore de La ghirlanda fiorentina , «non mi sento di fare altra ipotesi se non che la morte di Gentile dovette agire su di lui come un fatto traumatico, tale da condizionare l’elaborazione del distacco necessario a consentirgli un lavoro storico compiuto».
Ma torniamo ai fatti del 15 aprile 1944. Sono da registrare alcune stranezze che hanno caratterizzato quello che è difficile classificare in senso stretto come un episodio della Resistenza all’invasore nazifascista. Bruno Fanciullacci, il capo del commando che eseguì la «sentenza di morte» per Gentile figura nel Dizionario della Resistenza edito da Einaudi nel 2001 senza che ci sia alcun riferimento al gesto più clamoroso a lui attribuito, l’uccisione del filosofo, appunto. E ancora: l’uomo che sparò quasi sicuramente fu il gappista Giuseppe Martini (nome in battaglia «Paolo»), espatriato in Cecoslovacchia tra il 1948 e il 1954, morto nel luglio del 1999 senza che, nel Pci, mai più nessuno abbia parlato di lui. Sia Martini che Luciano Suisola, anch’egli gappista, dissero di aver avuto l’impressione che «l’ordine di giustiziare Gentile venisse da più in alto» di Alvo Fontani, Cesare Massai o altri dirigenti del Pci fiorentino. Quando, 55 anni dopo l’uccisione di Gentile, Martini morì — malato e con scarse risorse finanziarie (campava della sola pensione minima) — al suo funerale, per quel che risulta a Mecacci, «non si presentarono rappresentanze ufficiali dei suoi vecchi compagni di lotta». C’è poi un’altra vicenda curiosa. Nel 2004, un ex partigiano azionista, Bindo Fiorentini, raccontò che alla fine di marzo del 1944 «una figura in vista nel movimento di liberazione fiorentino» gli aveva chiesto di accompagnare un esponente del Partito d’Azione per un sopralluogo là dove sarebbe stato ucciso Gentile. Citava, Fiorentini, il giro di Radio Cora, l’emittente clandestina del Partito d’Azione, canale di comunicazione tra il partito stesso e l’VIII armata britannica. La sede di Radio Cora in Piazza d’Azeglio, a Firenze, sarebbe poi stata scoperta dai tedeschi il 7 giugno del 1944. Bizzarro quel coinvolgimento degli azionisti, dal momento che il Partito d’Azione avrebbe poi polemizzato con i comunisti non solo per l’assassinio del filosofo, ma soprattutto perché in quel partito aveva rivendicato quell’impresa a nome dell’intero Cln. Con l’aggravante — secondo la loro denuncia — degli epiteti a cui aveva fatto ricorso il segretario del Pci, Palmiro Togliatti, all’indirizzo del pensatore ucciso: «canaglia», «bandito politico», «camorrista», «corruttore di tutta la vita intellettuale italiana», «immondo», «filosofico bestione». Giudizi a cui immediatamente si era adeguato il filosofo comunista Antonio Banfi: «Gentile», scrisse Banfi, «era e rimase un incolto… Le sue ricerche non uscivano dall’ambito della ‘filosofia delle bancarelle’… La crudeltà della morte sembra sproporzionata alla persona, sembra gettare non una luce tragica, ma un senso di grottesco su una vita ed un’anima mediocre». E qui Mecacci ripropone, non senza malizia, precedenti lettere nelle quali, per perorare la causa della propria carriera universitaria, Banfi si era rivolto a Gentile con espressioni oltremodo melliflue: «la mia sorte nel concorso è tutta affidata a Lei», «la Sua stima m’è ora di vivo compiacimento e conforto», «le scrivo e ancora una volta le raccomando la mia sorte».
Diverso il comportamento di Guido Calogero, che di Gentile era stato allievo e, pur essendo un convinto antifascista, non volle dimenticare anche in quei tragici momenti quanto il filosofo dell’attualismo aveva fatto per consentire a quelli come lui di potersi esprimere e, soprattutto, come si fosse prodigato in sostegno agli intellettuali ebrei. Una volta Gennaro Sasso così riferì della «censura» di Calogero in relazione a quel tragico evento: «Della morte del suo antico maestro, col quale aveva intrattenuto un rapporto profondo, preferiva dimenticarsi (avvolgendola, intendo dire, dell’oblio che riserviamo alle cose che non abbiamo la forza di tener dolorosamente vive nella memoria) e Gentile era in genere per lui un argomento sul quale non riusciva a soffermarsi». Per quel che riguarda i professori universitari, i funerali di Gentile si segnalarono — come fece immediatamente notare Giacchino Volpe — più per le assenze che per le presenze. Tra quelli che parteciparono ci fu l’intellettuale crociano Raffaello Franchini (allievo di Mario Manlio Rossi), il quale, poco tempo dopo, fu il primo a puntare l’indice accusatore contro gli ex allievi del filosofo: «Se pensiamo che tra i mandanti morali ci sono alcuni uomini che da Gentile ebbero cattedre, pubblicazioni di libri, titoli accademici, favori di ogni genere e che del nome di Gentile fecero l’etichetta, il biglietto da visita a effetto sicuro per le loro opere storiche filosofiche e letterarie, se noi pensiamo a tutto ciò, più che lo sdegno ci prende un’angoscia profonda, uno smarrimento indicibile». C’è poi un’altra circostanza poco chiara. A seguito dell’uccisione di Gentile, a parte l’arresto (e il rilascio) delle persone di cui si è detto, non furono presi provvedimenti. Invece due settimane dopo, allorché fu ferito a morte un ufficiale della Guardia nazionale repubblicana, Italo Ingaramo, furono immediatamente mandati al plotone di esecuzione prima quattro e poi altri tre prigionieri. È evidente la sproporzione tra le due reazioni.
Insomma tanti, tantissimi misteri avvolgono questa storia. Mecacci, sulla scia di alcune intuizioni contenute ne La sentenza di Luciano Canfora, riprende un filo a suo giudizio lasciato cadere troppo in fretta: quello del rapporto tra i servizi segreti inglesi, Radio Cora e un circolo, il più insospettabile, di intellettuali fiorentini. Quello di Mecacci non è un ragionamento a tesi: un grande pregio de La ghirlanda fiorentina è quello di aprire squarci in zone d’ombra dove la luce non era mai penetrata, senza avere la pretesa di dire una parola definitiva. Qui torna come personaggio centrale Mario Manlio Rossi. Quel Rossi che avrebbe avuto un rapporto molto conflittuale, per dispute di concorsi universitari, con Garin (il Garin da lui definito in anni successivi «quel piccolo carognetto che dài e picchia, saltando dal fascismo alla sacrestia, è riuscito a battermi con i suoi soliti pasticcetti e giocherelli») e che, pur potendo vantare validi titoli di antifascismo — o forse proprio per questo –, aveva sempre rifiutato di avvicinarsi al Pci e, anche nel secondo dopoguerra, aveva tenuto rapporti di affetto e amicizia con i figli di Gentile. In particolare con Federico, che condivideva con lui il disprezzo per molti ex allievi del padre, tant’è che il 5 aprile del 1948 gli scrisse: «In nessun campo si è visto fare tante capriole indecenti come quello della cultura, e veramente c’è un limite anche alla indecenza». Rossi non aveva un carattere facile (ma Benedetto Croce ebbe per lui parole di stima) e quando, per reazione alle vicende di cui si è detto, andò a insegnare a Edimburgo, furono pochi i giovani italiani che andavano a fargli visita: fra questi — particolare interessante — lo studioso del teatro inglese Masolino d’Amico e sua moglie, la francesista Benedetta Craveri, nipote di Croce. Nel corso della guerra Rossi era stato assunto dal Governo militare alleato, per conto del quale aveva lavorato a Firenze, dove però non esiste documentazione su quel che fece in tale veste. «Non voglio scivolare in banali dietrologie», scrive Mecacci, «ma insospettisce il fatto che non vi siano tracce». Quali erano, all’epoca, gli «amici» di Rossi a cui avrebbe potuto essersi riferito Gentile nella conversazione in cui aveva previsto la propria uccisione? Certo, afferma Mecacci, non i comunisti, bensì «amici anglosassoni, soprattutto irlandesi e scozzesi, con cui Rossi era venuto a contatto nel corso dei suoi lunghi viaggi». Quelle stesse persone che avrebbero avuto un peso determinante «sulla sua assunzione come assistente-interprete degli ufficiali inglesi del Governo militare alleato, e poi, presso il contingente americano, come insegnante di storia e filosofia dalle alte benemerenze antifasciste». Tra questi si segnala John Purves, suo predecessore nella cattedra di Edimburgo. Purves era venuto in Italia prima della guerra e aveva avuto un’ intensa frequentazione, a Firenze, con Eugenio Montale e i suoi sodali. Un ambiente di cui Purves, arruolato (come si desume da numerosi indizi) nell’«esercito segreto di Churchill», annotò tutto, nome per nome, in un taccuino a cui pose il titolo — già allora, una prima volta — «Ghirlanda fiorentina». «Ghirlanda fiorentina» che servì da «agenda» per i servizi segreti alleati. Ed è in margine a questo taccuino di Purves che Mecacci scrive le pagine più ricche, suggestive e affascinanti del suo libro pubblicato da Adelphi.
Ma torniamo alla morte del filosofo. Gentile tra il 1943 e l’inizio del 1944 era praticamente in rotta con fascisti e nazisti. Già nel giugno del 1943, prima della caduta del fascismo, aveva pronunciato in Campidoglio un discorso a favore della pacificazione nazionale. Poi aveva sì seguito Mussolini nell’avventura della Rsi (probabilmente anche per ottenere la liberazione del figlio Federico, internato dai nazisti in un campo di prigionia a Leopoli), ma aveva manifestato dissenso nei confronti di Alessandro Pavolini e sdegno per le efferate imprese della banda guidata da Mario Carità. Il 10 aprile del 1944 i tedeschi avevano ucciso Brunetto Fanelli, segretario della sua casa editrice, la Sansoni (ed è curioso, osserva Mecacci, che nella saggio La Resistenza a Firenze di Carlo Francovich, dove pure di lui si parla, non si faccia cenno al legame tra Fanelli e Gentile). Il filosofo — che seppe dell’assassinio del suo segretario la mattina del 15 aprile — aveva precedentemente chiesto un incontro a Mussolini, il quale lo avrebbe ricevuto il 18. Per ascoltare, presumibilmente, le sue rimostranze. Strano che, essendo questo lo stato dei fatti, radio Londra avesse proprio in quel periodo intensificato gli attacchi a Gentile e ancor più sorprendente la messe di indizi che collegano americani, inglesi e ambienti della «ghirlanda fiorentina» all’uccisione del filosofo. Mecacci, ripetiamo, si limita ad elencarli, guardandosi bene da puntare l’indice accusatorio. Al più spiega come attorno a Gentile si stesse creando una corrente politica pronta a offrire una soluzione di compromesso — la «pacificazione nazionale» — per fare uscire dalla guerra la Rsi. E come, a quel punto, gli Alleati volessero evitare che tale proposta venisse anche solo presa in esame. Mecacci si spinge a ipotizzare che «se Gentile fu ucciso, nel mese della svolta di Salerno (quella con cui Togliatti accettò il patto con Vittorio Emanuele III in funzione antitedesca), per la preoccupazione che destava un suo possibile futuro di leader, proprio tale futuro avrebbe potuto essere l’argomento centrale di discussione con il Duce» fissato per il 18 aprile. Su una cosa l’autore non sembra aver dubbi: i colpi contro Gentile non furono esplosi per il suo passato ma per il futuro che, proprio in quel frangente, avrebbe potuto avere.

Repubblica 1.4.14
Diritto d’untore
Mettiamo fine alla barbarie della vecchiaia senza sesso
Una proposta per diminuire l’aggressiva veemenza delle infelicità esistenziali
di Guido Ceronetti


Per disabili e carcerati qualcosa si sta muovendo; ma per i vecchi maschi, eterosessuali, coniugati o soli si muoverà mai qualcuno?

UNA parola infallibile ci dice l’essenziale. Sofocle, Edipo a Colono, dramma della vecchiaia e del suo potere magico, che si paga a caro prezzo: «La più grande sciagura per un uomo è una lunga vita».
Verità che il volgo aborrisce, contestata rabbiosamente, ma cui bisogna arrendersi: vecchiaia è brutto, vecchiaia protratta è ininterrotto soffrire fino alle peggiori degradazioni di esseri più o meno innocenti. E oggi sono moltitudine. E in Italia più numerosi che altrove. Eppure là, dove si gioca a scacchi interminabilmente la partita perdente con la Morte, qualcosa d’indecifrato, di coniugante cielo e terra, di rivelatore d’essere, si nasconde. A un artista pensante (vedi Bosch, Rembrandt) in modo preminente interessano i vecchi. Togli i vecchi da una città e ne fai una città morta. La loro terribile sofferenza la protegge. Metterli da parte, costringerli all’ozio, abbrutirli di TV e psicofarmaci è un crimine inodoro che attira il male.
Ma queste sono divagazioni. Va messo in luce questo stupefacente esempio di barbarie medica, politica, sociale: la fabbrica dei giubilati, degli esclusi, dei frustrati del sesso, e dell’amore a sfondo sessuale, a partire da un’età prossima alla settantina, o ancor prima, fino alla spossatezza e alle disperazioni di quelli che la geriatria contemporanea non abbandona neppure al di là dei cento.
LA RINUNCIA forzata è, approssimativamente, di una trentina d’anni, la durata media del tempo iuvenile. Per disabili e carcerati, in paesi civili, qualcosa si è mosso e si sta muovendo; ma per i vecchi-maschi, eterosessuali, coniugati o soli (quelli di cui posso conoscere meglio e condividere le sciagure della longevità) si muoverà mai qualcuno?
C’è un notevole vantaggio nella sessualità senile: il cosiddetto istinto che acce-
ca e spinge a procreare (cosa dall’utilità discutibile), piglia altre strade: si depura e spiritualizza, o si perverte e si maializza. Ma spiritualizzarsi non è rinunciare, e la maialità è spiegabile coll’indebolimento del controllo mentale. Giovenale dice che i vecchi hanno tutti le stesse facce (una facies senum): massima sbagliatissima, le stesse facce ce l’hanno i neonati, i vecchi più si fanno orridi più sono caratteristici i loro volti tristi. La persistenza del desiderio è madre d’infinite disperazioni, che per lo più non poche chiavi nei nostri sepolcri psichici tengono sepolte. Hillman nel suo mirabile saggio sulla vecchiaia raccomanda di mantenere viva l’immaginazione erotica: benissimo, ma poi come esci da quel tormento?
Il ricorso alle prostitute non è certo un rimedio. La prostituzione degrada l’uomo, molto più della donna. Del resto le battone sono una specie in estinzione. Ma dal momento che già esiste nell’Europa non cattolica il servizio erotico volontario per i disabili, non dovrebbe essere fatto un passo successivo estendendolo a tutti i vecchi d’immaginazione vivace e di speranza morta? Le ierodule erano persone sacre che compivano un servizio presso tutti gli antichi templi d’Occidente come d’Oriente: si tratterebbe di far riemergere secondo una socializzazione d’anno Duemila, quella sacralità femminile, del corpo offerto liturgicamente per amore della Divinità, che certissimamente non è mai morta.
Non tocca a me, scrittore, dire modalità e legiferare intorno a questo costume che potrebbe diminuire, di poco o di molto, l’aggressiva veemenza delle infelicità esistenziali. Disse una volta Buddha a un monaco che, in città, aveva frequentato prostitute: — Era meglio per te mettere il tuo arnese tra le fauci di una tigre, piuttosto che tra le gambe di una donna! — E come maestro di salvezza non aveva torto: quelle gambe procurano un’estasi nirvanica di attimi, ma ahimè ti giochi là qualsiasi merito in vista di un Nirvana autentico che ti libererebbe dalla catena delle rinascite, supremo male.
Però, caro Dottor Buddha, non siamo che poveri esseri mortali, e se ai denti di una tigre preferiamo le carezze compensatrici di una donna illegittimamente giovane — per il diritto di sognare — faremo di colpo scattare l’inesorabile, se la temiamo, punizione karmica? La sofferenza è umana, ma non siamo uomini soltanto per soffrire. Il trenino che porta al Paese delle Nevi di Yasunari Kawabata, qualunque sia la nostra età anagrafica, non è da perdere.

Repubblica 1.4.14
La famiglia infinita
Padre, madre e figli che spesso hanno superato i trent’anni. Un vero clan
di Rosaria Amato e Maria Novella De Luca


NELLA famiglia-clan c’è sempre un piatto caldo. Accuratamente conservato in cucina, con la scodella rovesciata al contrario per tenerlo fragrante, perché i figli si sa entrano ed escono, magari hanno trent’anni, addirittura quaranta, ma poi restano lì, nella famiglia-diga, nella famiglia cuccia, nella famiglia-baluardo contro l’incertezza del fuori. E non è solo una questione di made in Italy, ormai in tutta Europa assistiamo ad uno strano allungamento del vivere insieme, sempre più generazioni sotto lo stesso tetto, l’autonomia è un percorso ad ostacoli, e il rassicurante modello mediterraneo
sembra contagiare tutti.
Succede che complice la crisi, ma anche la paura di saltare nell’ignoto, nel nostro paese ben sette milioni di under 35 continuino (non sempre felicemente) a coabitare con mamma e papà,rimandando sine die quel distacco che già in passato avveniva in età adulta. Con la conseguenza che in questi nuovi clan familiari si stanno riscrivendo le regole della convivenza affettiva, psicologica e interiore, tra un salto all’indietro che ci riporta alla casa-cascina e una nuova condizione che sente invece il gruppo parentale come un soffocante limite della propria autonomia. Figli grandi eppure un po’ adolescenti, genitori ancora autorevoli ma già fragili. L’avevano definita “generazione Tanguy”, film cult sui giovani francesi tenacemente refrattari ad abbandonare la casa dell’infanzia, oggi tutto si è complicato, ma la confusione sentimentale resta. E diventa soprattutto transnazionale, come dimostra uno studio della «European Foundation for the Improvement of Living and Working Conditions», secondo il quale tra il 2007 e il 2011 la percentuale di giovani “Ue” tra i 18 e i 29 che restano ad abitare con i genitori è passata dal 44% al 48%. Un vero contagio, un mutamento antropologico ed esistenziale. Spiega Anna Ludwinek, una delle curatrici dell’indagine: «La crisi economica ha costretto un numero sempre maggiore di giovani a rinunciare alla propria autonomia, con serie conseguenze per la loro indipendenza, la transizione nell’età adulta e la percezione del livello di esclusione sociale».
Non bastano però i dati macro economici per spiegare la famiglia allungata, in particolare la nostra famiglia allungata. Infinita addirittura. Dove i legami sono così stretti che anche quando, finalmente, le generazioni più giovani prendono la via del fuori, continuano ad abitare vicine, nel raggio di pochi chilometri, più spesso di pochi metri. Ma cosa vuol dire restare sotto lo stesso tetto se si è ormai tutti adulti? Chi detta le regole del mangiare, del dormire, della libertà e dei limiti, come si gestiscono le risorse economiche?
Alessandro Rosina, demografo dell’università cattolica, e attento osservatore dei mutamenti sociali, invita prima di tutto a distinguere l’Italia dal resto del mondo. «I genitori italiani considerano naturale occuparsi dei propri figli fino a qualunque età. Nel senso che a differenza dei genitori anglosassoni o scandinavi non rivendicano una loro autonomia di coppia, o spazi finalmente liberi, ma privilegiano piuttosto una solidarietà interfamiliare che non si interrompe mai».
Un accudimento assiduo, che varia dalla cena pronta alle camicie stirate, ai soldi quando ce n’è bisogno, ma nel piacere, arcaico, e tutto mediterraneo, del tenere i figli con sé. «C’è una bassa conflittualità in questi clan di adulti, dove può capitare che ci siano addirittura quattro generazioni insieme. È evidente che tutto viene rinegoziato, la vita sessuale, il dormire fuori, a volte i figli danno un contributo economico, a volte no. Il dato collettivo — aggiunge Rosina — è che i giovani in famiglia si sentono liberi, nessuno si sogna di proibire che un fidanzato dorma in casa o di imporre orari di pranzi e cene». L’altro dato, aggiunge Rosina, «è che i genitori si fanno carico quasi di tutto». Un forte sostegno per le generazioni più giovani, «ma anche un condizionamento affettivo che non spinge certamente all’uscita, al salto nel mondo». Basta riflettere su un dato: in Italia è naturale considerare un venticinquenne un figlio, un ragazzo, all’estero quello stesso venticinquenne è, invece, un uomo. Dunque la crisi ha semplicemente amplificato la famiglia lunga, trasformandola in una famiglia senza età, mutando in necessità quello che era fino a ieri uno stile di vita.
Ci sono però paesi che vanno controcorrente, come dimostrano i dati della Ue. Se infatti il numero di giovani che restano in casa aumenta in stati come l’Italia, l’Ungheria, in Francia e in Inghilterra dal 2007 ad oggi è cresciuta la percentuale di under 30 che vanno a vivere da soli. E basta allontanarsi dalle metropoli, suggerisce Elisabetta Ruspini, che insegna Sociologia all’università Bicocca di Milano, per vedere come e quanto si stia tornano alla coabitazione, al clan. Alla simbolica casa-cascina. «Vivo in provincia e vedo come ormai nelle famose villette unifamiliari convivano anche quattro generazioni, otto, nove persone insieme. Due bambini nati nel 2005, con due genitori degli anni Settanta, una coppia di nonni sessantenni e due longevi bisnonni nati forse nel 1930. Così, mettendo insieme le forze, si riesce ad andare avanti, mescolando magari due pensioni e un reddito, facendo la spesa e cucinando per tutti, ma di certo non sono situazioni prive di conflitti».
Se infatti come dice Alessandro Rosina, tra genitori e figli adulti si respira una certa pace familiare, è assai più difficile far coabitare più generazioni. Un simulacro di quella che era la casa patriarcale o matriarcale, mentre oggi i ruoli sono assai meno definiti. «È fisiologico che non si sia d’accordo su cosa mangiare, su cosa guardare in televisione o sul colore delle tende, quando ci sono tanti anni di differenza tra i componenti dello stesso nucleo. È un familismo di ritorno, rafforzato dalla crisi, ma anche dalla mancanza di welfare e di prospettive per i giovani. Che seppure sostenuti dai genitori rischiano così di non conquistare mai la propria autonomia».

Repubblica 1.4.14
“Dall’affetto ai pranzi insieme una risorsa contro la deriva”
intervista a Luigi Zoja

psicoanalista

«C’È qualcosa di buono e di pericoloso insieme nella famiglia allungata. C’è l’affetto, il sostegno, ci sono valori spirituali importanti. Ma nel permanere troppo in un guscio protetto, tra conflitti che non esplodono, il rischio per i giovani è quello di ritrovarsi a vivere in un ambiente depressivo e ripiegato su di sè». Un nido troppo caldo cioè, che non permette di spiccare il volo. Per Luigi Zoja, psicanalista junghiano, narratore dell’anima e dei miti, dei padri che cambiano nel “Gesto di Ettore” e dunque dei nuovi rapporti genitori-figli, la “famiglia infinita” è un contenitore di chiaroscuri, di forze e di sentimenti contrastanti.
Zoja, come si vive in queste famiglie dove figli non vanno più via?
«Credo che nello stile mediterraneo ci siano dei forti aspetti positivi. La solidarietà, il sostegno tra generazioni. La cura dei più deboli di cui si fa ancora eroicamente carico la famiglia. Il cibo, lo stare insieme come aiuto reciproco. In questo noi siamo diversi da tutti gli altri. Positivamente diversi».
E i giovani come si sentono? Non c’è qualcosa di regressivo nel coabitare così a lungo?
«Sì, se la convivenza viene protratta per troppo tempo. I conflitti magari non esplodono, ma questo non vuol dire che non ci siano, o che non si respiri un’atmosfera depressiva. Non credo ad esempio che gli adulti siano neutri rispetto alla vita sessuale dei figli, ai loro comportamenti, che forse non condividono. Però c’è tolleranza. I genitori e i nonni sostengono con enorme generosità le nuove generazioni, ma il paradosso è che così i giovani diventano poco adattabili, più conservatori, meno inclini a rischiare».
Un po’ viziati insomma?
«I ragazzi chiedono e cercano la loro autonomia, ma certo è diverso vivere con un clan di adulti, invece che con altri ventenni in un rapporto alla pari. Misurandosi, sfidandosi. Ma in un momento tanto drammatico, in questa crisi economica sempre più dura, a me sembra che la cultura familiare ancora così forte Italia, sia una straordinaria risorsa contro la deriva psicologica e sociale».
Ma come si comportano i genitori verso figli ormai adulti e i figli verso madri e padri di cui si sentono già pari?
«È evidente che non esistono più le regole del patriarcato, nemmeno in queste nuove famiglie allungate. C’è la coppia dei genitori e quasi sempre un figlio unico. Ma la coppia, là dove è rimasta integra, non è più un fronte comune come accadeva nelle generazioni precedenti, ma privilegia con il figlio un rapporto autonomo. E il fatto che questi siano adulti non è un problema: le relazioni sono trasversali, sono generazioni cresciute già in un rapporto paritario con il mondo dei grandi».
Lei ha parlato dello stile mediterraneo...
«È un modo di dimostrare l’affettività. Il cibo ad esempio. Fondamentale nelle famiglie italiane. È un prendersi cura gli uni degli altri. I giovani mangiano a casa, nelle famiglie si cucina. I ragazzi inglesi consumano da soli e davanti alla tv cibi precotti e hanno uno dei tassi di obesità più alti in Europa. Devo dire che dopo molti anni oggi mi ritrovo in certi messaggi della Chiesa. La crisi rischia di aumentare la frammentazione in cui viviamo, i vecchi abbandonati negli ospizi, i malati in ospedale, in questo senso la famiglia è uno scudo, uno schermo buono».
Anche se i “ragazzi” restano a casa fino a 35 anni?
«Naturalmente no. Lo sforzo deve essere quello di aiutarli ad uscire. Abbiamo di certo qualcosa da imparare dai paesi anglosassoni dove l’autonomia dei giovani è considerata fondamentale. Senza perdere però la grande forza della nostra cultura mediterranea, dove la famiglia è ancora oggi il porto affettivamente più saldo». ( m. n. d. l)

Repubblica 1.4.14
Autismo. Così Naoki ci spiega il suo mondo diverso
Per domani, giorno dedicato alla malattia, appare in Italia il bestseller del ragazzino giapponese che svela cosa avviene nella sua testa, rispondendo a 58 interrogativi
di Franco e Andrea Antonello


IN OCCASIONE della Giornata dell’autismo (domani, 2 aprile), arriva in libreria il bestseller mondiale “ Il motivo per cui salto”, scritto dal giapponese Naoki Higashida, quando aveva 1-3 anni ( ora ne ha 2-1). Sono 5-8 domande e risposte di una ” voce dal silenzio dell’autismo”.
Qui pubblichiamo brani della prefazione italiana scritta da un padre insieme al figlio autistico. Naoki scrive: “ Il mondo dell’autismo deve sembrarvi un luogo davvero misterioso. Vi chiedo un favore: datemi un po’ del vostro tempo per ascoltare quello che vi dirò..”
GUARDA che Andrea sa leggere. Quando la sua insegnante me l’ha detto l’avrei quasi presa a schiaffi. Mi voleva prendere in giro? Mio figlio, a dodici-tredici anni, non sapeva neanche farmi capire se aveva caldo o freddo, sete o fame, come poteva leggere? Chi glielo avrebbe insegnato? (...) Abbiamo cominciato così con la comunicazione facilitata, la stessa che ha permesso a Naoki di scrivere questo libro. Funzionava così: uno di noi (io, la mamma Bianca, un insegnante) prendeva Andrea per il polso e accompagnava la mano verso la tastiera. Lui schiacciava un tasto, riportavamo la mano al petto, e di nuovo sulla tastiera. Così via fino a comporre parole e frasi. È una fregatura, ho pensato.
Perché se io guidavo la sua mano a comporre la parola (...), lui davvero scriveva (...), ma ero io a volerlo. (...) e ho chiuso.
Bianca invece (...) ci ha creduto per cinque anni, durante i quali Andrea ha imparato a scrivere da solo (..) Bogdan, un altro ragazzo autistico di origine serba che vive in Italia da una quindicina d’anni, ha ordinato sempre e soltanto la margherita. Una passione sfrenata? La tendenza a cercare gli stessi, rassicuranti sapori? No, quando lui diceva margherita, in realtà voleva dire pizza. Forse aveva associato male la parola al suo significato. Forse diceva la cosa che più si avvicinava al concetto che aveva in testa. (....) Non so cosa impedisce a questi ragazzi di parlare. Non di capire, di pensare o di esprimersi: proprio di comunicare con la voce. (...) Per questo il libro di Naoki è prezioso: è un tentativo di spiegare a noi come funziona la sua testa, qual è la differenza tra ciò che fa e ciò che vorrebbe fare. Perché la ripetizione è importante. Perché la solitudine non è una scelta. (...) Invece esiste un gap, grande o piccolo, occasionale o frequente, tra quello che vuole fare e quello che riesce a fare. Lo sforzo costante di Naoki, il suo obiettivo, la sua coraggiosa lotta quotidiana, è colmare questo gap, e rendere il modo di fare più simile al suo modo di essere. Un impegno non da poco per un ragazzino di tredici anni! (...) Andrea è cresciuto, e si vede, ma è sempre stato più maturo della sua età. Ora che ha vent’anni dimostra la consapevolezza di un uomo. Anche Naoki sembra molto più maturo della sua età. È così per tutti? Non saprei dirlo. Generalizzare non va bene. Ogni ragazzo autistico è un caso a sé: ognuno ha le proprie manie, i propri tic, le proprie paure o preferenze. Naoki non ama essere toccato, Andrea abbraccerebbe chiunque. Naoki rivendica la vividezza delle sue sensazioni, più nette e intense che per gli altri, e dice che per lui il mondo è più bello. (...). Vorrei chiudere questa prefazione sottolineando una frase di Naoki (...): Leggendo questo libro, mi auguro anche che possiate diventare un po’ più amici di chi soffre di autismo.
* Autori di “ Sono graditi visi sorridenti”

La Stampa 1.4.14
Addio allo storico Le Goff
raccontò la vita del Medioevo
È morto nella sua casa di Parigi a 90 anni. Fu tra i più grandi studiosi contemporanei dei secoli dopo la caduta dell’Impero romano d’Occidente

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