mercoledì 2 aprile 2014

Corriere 2.4.14
Zagrebelsky e Bonsanti
Quegli intellettuali contro: "Così si ribalta la democrazia"
di Fabrizio Roncone


Tra gli intellettuali e i giuristi che hanno firmato l’appello di Libertà e Giustizia contro le riforme costituzionali volute dal governo — e che Matteo Renzi, mettendo su una smorfia che è un miscuglio di scherno e di fastidio, definisce «professoroni» — c’è anche Sandra Bonsanti: e poiché alla Bonsanti, scrittrice ed ex deputata progressista, è rimasto intatto l’intuito della grande giornalista, senza cincischiare affrontiamo subito il punto politico che, in queste ore, accende il dibattito.
«Sì, capisco la sorpresa e, davvero, è un dispiacere per me: di là l’arroganza di Renzi e poi anche il capo dello Stato, che si dichiara favorevole a superare il bicameralismo paritario, spingendo, sollecitando il cambiamento, e di qua noi, un gruppo di persone altrettanto perbene e al di fuori di ogni sospetto che invece...».
Un sospetto, in realtà, ci sarebbe: alcuni osservatori ritengono infatti che tra voi ci sia chi si ostini a ostacolare ogni cambiamento quasi per principio.
«Guardi: premesso che tutti, ma proprio tutti, dai politici alla società civile, per arrivare a coloro che fanno informazione, tutti siamo responsabili di aver fatto precipitare il Paese nell’attuale crisi politico-istituzionale, i firmatari di quell’appello di Libertà e Giustizia non sono contrari a modificare la Costituzione per capriccio, ma perché, come ripete spesso Gustavo Zagrebelsky, la Costituzione è quella cosa che i Paesi si danno quando sono sobri, per quando saranno ubriachi. E qui, in Italia, in questo momento, mi sembra ci sia un sacco di gente un po’ brilla».
Con la Bonsanti finiremo di parlare dopo (e vedrete quanto severa sarà con il nostro giovane premier).
Andiamo a sentire subito proprio il professor Zagrebelsky, 71 anni, giurista di rango assoluto, ex presidente della Corte costituzionale. E ricordiamo, intanto, un passaggio dell’appello che anche lui ha firmato.
«Stiamo assistendo impotenti al progetto di stravolgere la nostra Costituzione da parte di un Parlamento esplicitamente delegittimato dalla sentenza della Corte costituzionale n.1 del 2014, per creare un sistema autoritario che dà al Presidente del Consiglio poteri padronali...».
Professore, sono toni gravissimi: e tuttavia colpisce, ne converrà, che pure il presidente Giorgio Napolitano, custode della Costituzione, sia favorevole a un percorso di cambiamento.
«La pensiamo diversamente. Non c’è un monopolio di pensiero sulla Costituzione. Del resto, persino le sentenze della Corte Costituzionale, il guardiano giuridico della Costituzione, sono commentate e commentabili, o no?»
Resta la sensazione forte che voi, il gruppo di intellettuali democratici che ha firmato l’appello di Libertà e Giustizia, freni sulla riforma del Senato quasi un po’ a prescindere...
«Sa, i giornali fanno sempre piuttosto in fretta a classificare... in verità, se qualcuno si prendesse la briga di leggere fino in fondo il nostro appello, capirebbe che noi non siamo affatto contrari a che si metta mano al problema. È innanzitutto il contesto...».
Continui, professore.
«Noi manifestiamo profonde perplessità sul fatto che la cura della crisi politico-istituzionale che attanaglia il Paese passi attraverso l’abolizione del Senato. A noi sembra che il Senato sia diventato un capro espiatorio di colpe collettive, un modo di far finta. La verità è che non si può cambiare per cambiare. Occorre porsi degli interrogativi: cambiare come? Cambiare, soprattutto, in che verso? Conoscono i riformatori le ragioni profonde che, nelle democrazie, hanno le seconde camere? Se le conoscessero, forse, avrebbero fatto proposte diverse. Che poi qualcuno non la pensi come il Capo dello Stato, beh, cosa vuole che le dica? A me sembra normale».
In ogni caso, i toni che usate nel vostro appello paiono estremi, definitivi, tragici. Non starete esagerando?
«La prospettiva di un monocameralismo si somma alla nuova legge elettorale con liste bloccate, a deputati nominati, al rafforzamento della figura del premier, alla nuova forma che hanno ormai assunto i partiti, macchine nelle mani di un capo. Ecco, il nostro timore è che si arrivi rapidamente a un ribaltamento della democrazia, con tutto il potere che discende dall’alto».
Le parole sono queste. La posizione di quelli che Silvio Berlusconi, facendo sponda a Renzi, definisce «parrucconi», è netta. Ieri, un altro dei più autorevoli firmatari dell’appello di Libertà e Giustizia, Stefano Rodotà, in un’intervista rilasciata a «Il Fatto», sosteneva che «Renzi è un insicuro. Chi alza i toni, urla e dice “me ne vado”, svela insicurezza».
I «professoroni» (cit.Renzi) non mostrano incertezze neppure quando, in questa vicenda, si ritrovano insieme a Beppe Grillo e Gianroberto Casaleggio, i capi del M5S che due giorni fa hanno firmato il loro appello. Anzi, Lorenza Carlassare ha addirittura commentato: «Sono contenta ci sia una larga adesione. E sono contenta che lo condividano persone che mi sembra tendano a gestire in modo padronale un movimento così interessante» (replica di Grillo: «Affanc... Ci avete rotto i co...»).
Comunque, Sandra Bonsanti, a parte Grillo, la questione resta questa: per una volta che sembra esserci la possibilità di modificare questo terribile bicameralismo perfetto, che blocca il Paese, voi insorgete. Perché?
«Perché, come le stavo spiegando poco fa, noi per primi siamo convinti che il bicameralismo vada scardinato: ma immaginiamo, ad esempio, che mentre una camera resti a fare leggi, l’altra diventi camera alta, di garanzia...».
Quindi lei pensa che...
«No, aspetti: l’altro giorno poi ho sentito dire alla Boschi che qui, comunque, si cambieranno circa 80 articoli della Costituzione. Ma così si scrive una nuova Costituzione! Non è un aggiustamento, ma un aggiornamento! Questi varano la Costituzione personale di Matteo Renzi... Ma dico: con quale faciloneria si procede? E con quale disprezzo, mi permetta, per chi dissente...».
Sono costretto a ricordarle che il Capo dello Stato, pur non pronunciandosi, per ragioni istituzionali, sul progetto del governo, è tuttavia convinto che un cambiamento sia improrogabile.
«Cosa posso risponderle? Se sul serio Giorgio Napolitano dovesse dare il suo assenso a questo tremendo testo di riforma, ne resterei meravigliata e profondamente addolorata».

il Fatto 2.4.14
“Riforme per il potere, non per la democrazia”
Duro intervento a "Piazzapulita" di Zagrebelsky, Presidente emerito dlla Consulta:

"I vincoli esterni hanno gravissime ripercussioni"
di Gustavo Zagrebelsky


Riforma del Senato, nuova legge elettorale e, in prospettiva, l’elezione diretta del presidente del Consiglio (ma questa riforma a mio avviso sarebbe perfino superflua perché di fatto sarebbe già realtà) fanno parte di un unico disegno. Inoltre, prima o poi si agirà sulla magistratura col rischio che si riducano i poteri di controllo. Questo scenario ci fa immaginare un accrocco di potere che non è la democrazia, perché la democrazia è il potere diffuso tra tutti: è partecipazione, controllo, trasparenza. Una minoranza va a votare, una minoranza ancora più ridotta vince le elezioni e nei partiti c’è un capo che governa attraverso il controllo delle candidature: tutto questo fa sì che il potere si concentri in alto. Noi siamo sulla strada di un rovesciamento: non più le energie coinvolte dal basso, ma la concentrazione in un potere unico. Finché le forme della democrazia rimarranno ci sarà ancora bisogno di un consenso, ma sarà una democrazia che si risolve in un sì o in un no: questa non è la democrazia Costituzionale. Le democrazie nazionali sono in grave crisi perché sono costrette da vincoli esterni che hanno gravissime ripercussioni sulle condizioni della popolazione. Gli interessi finanziari mondiali impongono grossi sacrifici ai Paesi con una finanza debole e con debito pubblico elevato. Per questo si rende necessario un potere politico forte: per tenere insieme una situazione sociale che può, da un momento all’altro, sfuggire di mano. In un momento di sovranità sempre più ristretta degli Stati, si assiste a un’accentuazione dei poteri di imposizione governativa. Mi sembra chiaro che di fronte alla crisi abbiamo due opzioni: o l’autorità o la partecipazione. Gli obiettivi e i vincoli imposti dall’esterno comportano una riduzione di capacità di scelta politica nei diversi Paesi. Quando si dice che ormai in Italia non c’è più bisogno di politica perché il governo agisce col timone e con il pilota automatico, dobbiamo chiederci da che parte ci guida il pilota automatico? Dell’autorità che si rafforza e si chiude o della democrazia che si espande? Basta la domanda per capire che la risposta

Repubblica 2.4.14
Osare più democrazia
di Barbara Spinelli



LA DEMOCRAZIA deve cambiare forma e rimpicciolirsi, a causa della crisi? E andando alla sostanza: c’è un tempo per la democrazia e uno per l’economia — come c’è un tempo per piangere e ridere, per demolire e costruire — diversi l’uno dall’altro e concepibili solo in successione?
AGIUDICARE da quel che accade in Italia si direbbe che questo sia il convincimento di chi governa, quando non riesce a fronteggiare il degrado democratico nei modi che scelse il cancelliere Willy Brandt, in un altro momento critico della
storia recente.
«Quel che vogliamo è osare più democrazia», disse Brandt il 28 ottobre 1969, e promise metodi di governo «più aperti ai bisogni di critica e informazione » espressi dalla società, «più discussioni in Parlamento », e una permanente concertazione «con i gruppi rappresentativi del popolo, in modo che ogni cittadino abbia la possibilità di contribuire attivamente alla riforma dello Stato e della società ». Ai cittadini si chiedeva più responsabilità (specie ai giovani contestatori del ‘68): ma i doveri s’iscrivevano in una democrazia più estesa, partecipata. Non sembra vadano in questo senso le riforme costituzionali del Premier Pd, né le parole di chi gli è vicino, riportate su questo giornale da Claudio Tito: «Per governare efficacemente nel XXI secolo serve soprattutto velocità: approvazione o bocciatura rapida dei disegni di legge e capacità di mantenere la sintonia con tutti i componenti della squadra ». Velocizzare, semplificare, dilatare i poteri dell’esecutivo: questi gli imperativi. Cambiano le sequenze, perfino i vocaboli: prioritaria diventa la rapidità, e i ministri sono «componenti di squadre». Renzi non è il primo a dire queste cose, né l’Italia è l’unica democrazia debilitata dalla crisi. Sono spesso così, gli interregni: ci si congeda dal vecchio ordine, e al suo posto se ne insedia uno che solo in apparenza rispecchia le mutazioni in corso. Ovunque i governi sentono che la terra trema, sotto di loro, e imputano il terremoto a una democrazia troppo lenta, a elezioni troppo frequenti. Denunciano a ragione la fatica dell’azione, ma si guardano dallo smascherarne i motivi profondi. La perdita di sovranità e il trasferimento dei poteri reali verso entità internazionali spoliticizzate sono il problema, non i «lacci» interni che sono la Costituzione, i sindacati, addirittura il suffragio universale. Il farmaco non è la velocità in sé, ma il cambio di prospettiva. L’equivoco è ben spiegato dal sociologo Zygmunt Bauman: la crisi del governare è indubbia, «benché in definitiva sia una crisi di sovranità territoriale» (Repubblica 29 3).
Renzi non smaschera i mali autentici, quando propone l’accentramento crescente dei poteri in mano all’esecutivo, la diminuzione degli organi eletti dal popolo, lo svigorimento di istituzioni e associazioni nate dalla democrazia: Senato in primo luogo, ma anche sindacati e perfino soprintendenze (il cui scopo è quello di occuparsi del patrimonio artistico italiano resistendo ai privati). Una delle sue frasi emblematiche è: se Cgil o Confindustria s’oppongono, «ce ne faremo una ragione». I traumi ci saranno, ma alla lunga la loro razionalità sarà chiara. C’è una differenza, fra la sua accelerazione e quella di Brandt.
Scansare gli ingombri della democrazia è una tentazione ormai antica in Italia. Cominciò la P2, poi seguita da Berlusconi. Ma il pericolo di una bancarotta dello Stato, e i costi di una politica colpita dal discredito, hanno dato più forza a queste idee, seducendo governi tecnici e anche il Pd. Memorabile fu la dichiarazione di Monti, intervistato dallo Spie-gel il 5 agosto 2012. Accennando ai veti opposti dai Paesi nordici alle decisioni europee, e al mandato affidatogli dalla Camera (difendere a Bruxelles gli eurobond), disse:«Capisco che debbano tener conto del loro Parlamento, ma ogni governo ha anche il dovere di educare le Camere. (...) Se io mi fossi attenuto in maniera del tutto meccanica alle direttive del mio Parlamento, non avrei mai potuto approvare le decisioni dell’ultimo vertice di Bruxelles. Se i governi si lasciano totalmente ingabbiare dalle decisioni dei Parlamenti senza preservare la propria libertà di agire, avremmo lo sfaldamento dell’Europa».
Renzi dunque completa ragionamenti già in circolazione, e li trasforma in «spirito del tempo». Quel che non aveva previsto, era la critica che sarebbe venuta dal presidente del Senato Pietro Grasso, oltre che l’allarme creatosi fra costituzionalisti come Gustavo Zagrebelsky e Stefano Rodotà. La riforma potrebbe indebolire la democrazia, sostiene Grasso nell’intervista a Liana Milella su Repubblica di domenica. Mutare il ruolo del Senato e abolire le Province è importante, ma qui si stanno facendo altre cose. Il Senato resta, solo che cessa di essere elettivo. E restano di fatto le Province, anch’esse non più elettive ma governate da dirigenti comunali. L’ambizione è liberare l’Italia dai lacci che l’imbrigliano, ma la paralisi decisionale non si supera riducendo gli organi intermedi creati per servire l’interesse generale, o rendendoli non elettivi. Tantomeno può imbarcarsi in simile impresa un Parlamento certo legale, ma che la Consulta ha sostanzialmente delegittimato giudicando incostituzionale il modo in cui è stato eletto.
Più fondamentalmente, l’impotenza dei governi non si sormonta ignorando il male scatenante che è appunto la loro dipendenza dai mercati, e cioè da forze anonime, non elette, quindi non licenziabili. Sono loro a decidere il lecito e l’illecito. È stata la JP Morgan a sentenziare, in un rapporto del 28-5-13, che l’intralcio, nel Sud Europa, viene da costituzioni troppo influenzate dall’antifascismo postbellico: costituzioni «caratterizzate da esecutivi e stati centrali deboli, dalla protezione dei diritti del lavoro, dal diritto di protesta contro ogni mutamento sgradito dello status quo».
Così come dalla crisi europea si esce con più Europa, anche dalla crisi delle democrazie si esce con più democrazia. Lo disse fin dall’800 Tocqueville, esaminando i difetti delle società democratiche. Si esce ampliando i sistemi del check and balance, dei controlli e contrappesi: frenando con altri poteri la tendenza del potere a straripare. I continui conflitti sociali e istituzionali sono un rischio delle democrazie, non una maledizione. Sbarazzarsene con leggi elettorali non rappresentative o eludendo le obiezioni («ce ne faremo una ragione») sfocia nel contrario esatto di quel che si vuole: i conflitti inacidiscono, l’opposizione non ascoltata disimpara a trattare. Resta il rapporto diretto fra leader e popolo, non dissimile dall’»unzione » plebiscitaria di Berlusconi. E Renzi neppure è un Premier eletto. Quando parla di «promesse fatte agli italiani », non si sa bene a cosa si riferisca.
Salvare le costituzioni in un solo Paese non è possibile: questo è vero e andrebbe detto. Occorre che l’Europa e il mondo si dotino di strumenti democratici per governare poteri già sconnessi dalle sovranità territoriali: gli interessi finanziari e commerciali, l’informazione, il commercio della droga e delle armi, la criminalità, il terrorismo. Manca un ordine nuovo che li controlli, e cui i cittadini aderiscano non più nazionalmente (è impossibile) ma per patriottismo costituzionale, come preconizzato nel ‘79 dal filosofo liberale Dolf Sternberger, prima che Habermas resuscitasse il concetto. Manca uno spirito cosmopolita della democrazia: qui è il cambio di prospettiva. L’Europa potrebbe incarnarlo, se agisse come argine contro le crisi delle democrazie nazionali, e al contempo contro l’arbitrio dei mercati. Più democrazia e più governabilità non si escludono a vicenda; non si conquistano «in sequenza ». O si realizzano insieme, o perderemo l’una e l’altra.

il manifesto 1.4.14
Il rozzo Stil novo
Populismi. E’ tipico di Renzi, da quando ha varcato la porta di palazzo Chigi, lavorare per aggirare e tendenzialmente liquidare ogni mediazione istituzionale (a cominciare dal Parlamento) per istituire un rapporto diretto capo-massa
di Marco Revelli


La crisi ita­liana sta pro­du­cendo uno dei feno­meni poli­tici più inquie­tanti, oggi, in Europa: un popu­li­smo di tipo nuovo, viru­lento e nello stesso tempo isti­tu­zio­nale. Tanto più pre­oc­cu­pante per­ché emer­gente non al mar­gine ma nel cen­tro stesso del sistema di potere. Non dal basso (come avviene per i movi­menti così eti­chet­tati) ma “dall’alto” (dal cuore del potere ese­cu­tivo, dal Governo stesso), assu­mendo come vet­tore (altro para­dosso) l’unico par­tito che con­ti­nua a defi­nirsi tale.
E che fino a ieri ten­deva a pre­sen­tarsi, a torto o a ragione, come la prin­ci­pale bar­riera con­tro le derive auto­ri­ta­rie e popu­li­sti­che. Mi rife­ri­sco al rozzo Stil novo intro­dotto da Mat­teo Renzi, con la con­vin­zione che non si tratti, solo, di una que­stione di stile. O di comu­ni­ca­zione, come fret­to­lo­sa­mente lo si clas­si­fica. Ma che tutto ciò che si con­suma sotto i nostri occhi alluda a una muta­zione gene­tica del nostro assetto isti­tu­zio­nale e dell’immaginario poli­tico che gli fa da con­torno, in senso, appunto, populista.
Se infatti per popu­li­smo si intende l’evocazione (in ampia misura reto­rica) di un “popolo” al di fuori delle sue isti­tu­zioni rap­pre­sen­ta­tive e per molti versi con­trap­po­sto alla pro­pria stessa rap­pre­sen­tanza (al corpo dei pro­pri rap­pre­sen­tanti ricon­fi­gu­rati in “casta”), allora non c’è dub­bio che Renzi ne inter­preta una variante par­ti­co­lar­mente viru­lenta. E’ tipico di Renzi, da quando ha var­cato la porta di palazzo Chigi, lavo­rare per aggi­rare e ten­den­zial­mente liqui­dare ogni media­zione isti­tu­zio­nale (a comin­ciare dal Par­la­mento) per isti­tuire un rap­porto diretto capo-massa.
Le mani­che di cami­cia osten­tate nei palazzi del potere (come fosse il lea­der di un movi­mento di desca­mi­sa­dos anzi­ché pro­ve­nire da una tra­di­zione demo­cri­stiana di lungo corso e da uno dei più for­ma­li­stici pezzi dell’establish­ment quale è stato in que­sti anni il Pd). Il les­sico da ricrea­zione sco­la­stica, anche dove si parla di cose serie. Il discorso al Senato — lo ricor­date? -, volu­ta­mente sgan­ghe­rato, infor­mal­mente invol­ga­rito, con quello sguardo per­duto lon­tano, nell’occhio delle tele­ca­mere per sem­brare pun­tato sull’intimità delle fami­glie, comun­que oltre i volti pre­oc­cu­pati dei sena­tori seduti davanti… Tutto allude a una volontà, espli­cita, di far tabula rasa della “società di mezzo”, delle mol­te­plici strut­ture di media­zione del rap­porto tra popolo e Stato, che siano le forme con­so­li­date della demo­cra­zia rap­pre­sen­ta­tiva (il Par­la­mento in primo luogo), o quelle spe­ri­men­tate della rap­pre­sen­tanza sociale e dei gruppi di inte­resse (sin­da­cati, Con­fin­du­stria, liqui­dati tutti come con­cer­ta­tivi). E di ver­ti­ca­liz­zare quel rap­porto sull’asse per­so­na­liz­zato dell’uomo solo al comando. Del “mi gioco tutto io”. Anche “quello che è vostro”.
Ora non c’è dub­bio che in que­sta spe­ri­co­lata ope­ra­zione Renzi può con­tare su un dato sacro­santo di realtà, costi­tuito appunto dalla macro­sco­pica crisi della Rap­pre­sen­tanza. Dei suoi sog­getti e dei suoi isti­tuti, ben visi­bile nei fatti di cro­naca: nell’impotenza mostrata dal Par­la­mento a più riprese, dalla crisi che portò al governo Monti alle ver­go­gnose scene che accom­pa­gna­rono l’elezione del Pre­si­dente della Repub­blica. Nel discre­dito dei par­la­men­tari (quasi tutti), dei con­si­glieri regio­nali, degli ammi­ni­stra­tori pro­vin­ciali e comu­nali, giù giù a cascata lungo tutta la scala degli organi elet­tivi, nes­suno salvo. Per­sino nello sta­tus dei pro­ta­go­ni­sti attuali: nes­suno dei tre lea­der che si spar­ti­scono la scena, da Grillo, a Ber­lu­sconi a Renzi stesso è un “par­la­men­tare”. Ma a dif­fe­renza di chi di quella crisi non ha voluto nep­pur pren­dere atto (la pre­ce­dente mag­gio­ranza Pd, che infatti si è andata a schian­tare senza nep­pure capire per­ché), e di quanti (pochi) su quella crisi si arro­vel­lano per cer­carne una uscita in avanti (noi della lista per Tsi­pras, per fare un nome), Renzi ha deciso di quo­tarla alla pro­pria borsa.
E’ il primo che ha scelto con­sa­pe­vol­mente di capi­ta­liz­zare sulla crisi degli ordi­na­menti rap­pre­sen­ta­tivi. Per valo­riz­zare il pro­prio per­so­nale ruolo nel qua­dro di un modello di gestione del potere espli­ci­ta­mente post-democratico. O, dicia­molo pure senza temere di appa­rire retrò, anti-democratico. Fon­dato su una forma estrema di deci­sio­ni­smo, non più nep­pure legit­ti­mata dai con­te­nuti, ma dal metodo. Deci­dere per deci­dere. Deci­dere in fretta. Anzi, fare in fretta anche senza deci­dere, per­ché comun­que, quello che con­terà al fine del con­senso, non sarà un fatto con­creto ma piut­to­sto il rac­conto di un fare (Crozza docet).
Per que­sto hanno ragione, ter­ri­bil­mente ragione, gli autori del docu­mento di Libertà e giu­sti­zia, lad­dove denun­ciano il reale rischio di un auto­ri­ta­ri­smo di tipo nuovo. Basato sullo scon­quasso dell’architettura isti­tu­zio­nale e sulla rot­ta­ma­zione dell’idea stessa di demo­cra­zia rap­pre­sen­ta­tiva, fatta con gio­va­ni­li­stica non­cu­ranza (con “stu­den­te­sca spen­sie­ra­tezza”, per usare un’espressione gobet­tiana), nel qua­dro di una par­tita in cui l’azzardo pre­vale sul cal­colo, la velo­cità sul pen­siero. E’ pos­si­bile, come temono (o spe­rano) in molti, che Mat­teo Renzi “vada a sbat­tere”. Che, come il cat­tivo gio­ca­tore di poker costretto a rilan­ciare con­ti­nua­mente la posta ad ogni mano per­duta, alla resa dei conti (all’emergere dell’ice­berg som­merso del fiscal com­pact e delle decine di miliardi da pagare) fac­cia default. Prima o poi. Ma, appunto, dalla vici­nanza di quel prima o dalla distanza di quel poi dipende l’ampiezza dei danni (irre­ver­si­bili) che è desti­nato a fare. Den­tro que­sta for­bice tem­po­rale, si gioca la pos­si­bi­lità di costruire un’alternativa poli­tica, di sini­stra, par­te­ci­pa­tiva, non arresa ai vin­coli euro­pei, come vuole l’Altra Europa con Tsipras, e al malaf­fare ita­liano. Anche solo una testa di ponte, per tenere quando si dovranno calare le ultime carte.

l’Unità 2.4.14
Il grillo moderato parlante. Chi è?
Ma è facile: avete indovinato.  È Ernesto Galli della Loggia

di Bruno Gravagnuolo

MA È FACILE: AVETE INDOVINATO. È ERNESTO GALLI DELLA LOGGIA. L’ultima sua trovata sul Corsera di domenica, è una sparata contro il ceto intellettuale radicale. In puro stile reazionario, sul modello di quelle classiche contro i chierici. Ora Della Loggia si accanisce su Rodotà, Zagrebelsky e Settis, che denunciano i rischi di monocameralismo e premierato presidenziale, nella riforma Renzi. Ma più ancora se la prende con l’Unità, rea di tacere sulle critiche a Renzi. E di non isolare e denunciare il «sinistrismo radicaleggiante», caro a non pochi intellettuali e «sempre pronto all’agitazione piazzaiola». Sembra una caricatura di Bava Beccaris! Ben strana concezione liberale, ha il liberale Della Loggia, della funzione di un giornale. Lo vorrebbe prono, pronto a scattare come un sol uomo a difesa della linea. E se si tratta de l’Unità lo immag

l’Unità 2.4.14
Sul web spunta il Rodotà «monocameralista»


Fa discutere sul web la segnalazione del professor Stefano Ceccanti, costituzionalista e già senatore del Partito democratico nella scorsa legislatura, che dall’archivio della Camera dei deputati ha riesumato una proposta di legge costituzionale del 1985, in cui molti illustri giuristi di sinistra, tra i quali Stefano Rodotà, proponevano di sostituire al «bicameralismo paritario» il «monocameralismo puro», prevedendo dunque di fatto l’abolizione del Senato. Proprio ieri Rodotà, che contro la riforma del Senato ha promosso anche un appello, era tornato a criticare il governo per la proposta di riforma, in un’intervista al Fatto quotidiano, parlando di una «alterazione in senso autoritario della logica della Repubblica parlamentare che sta in Costituzione». Evidente quindi il riferimento polemico della segnalazione. «L’onestà intellettuale e politica impone di ricordare che l’opzione della cultura e della politica istituzionale della sinistra a favore del monocameralismo è costante e storicamente consolidata», scrivevano ad esempio i firmatari del disegno di legge. Parole che oggi è facile ritorcere contro il promotore dell’appello contro la riforma del Senato. Va detto però nel 1985 era ancora vigente la legge elettorale proporzionale. E che proprio nell’intervista di ieri, laddove si scagliava contro la riforma, il professor Rodotà chiariva esplicitamente come il punto non fosse semplicemente la riforma del bicameralismo perfetto (o paritario). Queste le parole precise del professore: «Si cancella il Senato, si compone la Camera con un sistema iper-maggioritario, il sistema delle garanzie salta: il risultato sarebbe un’alterazione in senso autoritario della logica della Repubblica parlamentare che sta in Costituzione».

il Fatto 2.4.14
Scoperta renziana: “Rodotà propose una sola Camera”

LA POLEMICA giornaliera dei renziani si è concentrata ieri su una proposta di legge fatta nel gennaio del 1985 alla Camera. Una proposta che chiedeva di superare il bicameralismo e di concentrare il potere del Parlamento in un’unica aula. Tirata fuori dal costituzionalista Stefano Ceccanti, senatore Pd nella scorsa legislatura, il testo reca la firma di Stefano Rodotà, il professore che prima firmando l’appello di Libertà e Giustizia “Verso la svolta autoritaria” e poi ieri, in un’intervista al Fatto Quotidiano, aveva bocciato senza appello la riforma renziana. Rodotà è quindi accusato di aver cambiato idea, che 30 anni fa voleva una singola Camera e oggi si batte contro la “semplificazione” scritta da Renzi. In verità, a leggere bene quella proposta (all’epoca si votava con il sistema proporzionale) c’erano dei reali contrappesi tra potere legislativo e potere esecutivo. Oggi, invece , è lo stesso Rodotà ad annotarlo: “Si cancella il Senato, si compone la Camera con un sistema iper-maggioritario, il sistema delle garanzie salta: il risultato sarebbe un’alterazione in senso autoritario della logica della Repubblica parlamentare”. Anche in presenza di due Camere.

Corriere 2.4.14
Zagrebelsky e Bonsanti
Quegli intellettuali contro: così si ribalta la democrazia
di Fabrizio Roncone


Tra gli intellettuali e i giuristi che hanno firmato l’appello di Libertà e Giustizia contro le riforme costituzionali volute dal governo — e che Matteo Renzi, mettendo su una smorfia che è un miscuglio di scherno e di fastidio, definisce «professoroni» — c’è anche Sandra Bonsanti: e poiché alla Bonsanti, scrittrice ed ex deputata progressista, è rimasto intatto l’intuito della grande giornalista, senza cincischiare affrontiamo subito il punto politico che, in queste ore, accende il dibattito.
«Sì, capisco la sorpresa e, davvero, è un dispiacere per me: di là l’arroganza di Renzi e poi anche il capo dello Stato, che si dichiara favorevole a superare il bicameralismo paritario, spingendo, sollecitando il cambiamento, e di qua noi, un gruppo di persone altrettanto perbene e al di fuori di ogni sospetto che invece...».
Un sospetto, in realtà, ci sarebbe: alcuni osservatori ritengono infatti che tra voi ci sia chi si ostini a ostacolare ogni cambiamento quasi per principio.
«Guardi: premesso che tutti, ma proprio tutti, dai politici alla società civile, per arrivare a coloro che fanno informazione, tutti siamo responsabili di aver fatto precipitare il Paese nell’attuale crisi politico-istituzionale, i firmatari di quell’appello di Libertà e Giustizia non sono contrari a modificare la Costituzione per capriccio, ma perché, come ripete spesso Gustavo Zagrebelsky, la Costituzione è quella cosa che i Paesi si danno quando sono sobri, per quando saranno ubriachi. E qui, in Italia, in questo momento, mi sembra ci sia un sacco di gente un po’ brilla».
Con la Bonsanti finiremo di parlare dopo (e vedrete quanto severa sarà con il nostro giovane premier).
Andiamo a sentire subito proprio il professor Zagrebelsky, 71 anni, giurista di rango assoluto, ex presidente della Corte costituzionale. E ricordiamo, intanto, un passaggio dell’appello che anche lui ha firmato.
«Stiamo assistendo impotenti al progetto di stravolgere la nostra Costituzione da parte di un Parlamento esplicitamente delegittimato dalla sentenza della Corte costituzionale n.1 del 2014, per creare un sistema autoritario che dà al Presidente del Consiglio poteri padronali...».
Professore, sono toni gravissimi: e tuttavia colpisce, ne converrà, che pure il presidente Giorgio Napolitano, custode della Costituzione, sia favorevole a un percorso di cambiamento.
«La pensiamo diversamente. Non c’è un monopolio di pensiero sulla Costituzione. Del resto, persino le sentenze della Corte Costituzionale, il guardiano giuridico della Costituzione, sono commentate e commentabili, o no?»
Resta la sensazione forte che voi, il gruppo di intellettuali democratici che ha firmato l’appello di Libertà e Giustizia, freni sulla riforma del Senato quasi un po’ a prescindere...
«Sa, i giornali fanno sempre piuttosto in fretta a classificare... in verità, se qualcuno si prendesse la briga di leggere fino in fondo il nostro appello, capirebbe che noi non siamo affatto contrari a che si metta mano al problema. È innanzitutto il contesto...».
Continui, professore.
«Noi manifestiamo profonde perplessità sul fatto che la cura della crisi politico-istituzionale che attanaglia il Paese passi attraverso l’abolizione del Senato. A noi sembra che il Senato sia diventato un capro espiatorio di colpe collettive, un modo di far finta. La verità è che non si può cambiare per cambiare. Occorre porsi degli interrogativi: cambiare come? Cambiare, soprattutto, in che verso? Conoscono i riformatori le ragioni profonde che, nelle democrazie, hanno le seconde camere? Se le conoscessero, forse, avrebbero fatto proposte diverse. Che poi qualcuno non la pensi come il Capo dello Stato, beh, cosa vuole che le dica? A me sembra normale».
In ogni caso, i toni che usate nel vostro appello paiono estremi, definitivi, tragici. Non starete esagerando?
«La prospettiva di un monocameralismo si somma alla nuova legge elettorale con liste bloccate, a deputati nominati, al rafforzamento della figura del premier, alla nuova forma che hanno ormai assunto i partiti, macchine nelle mani di un capo. Ecco, il nostro timore è che si arrivi rapidamente a un ribaltamento della democrazia, con tutto il potere che discende dall’alto».
Le parole sono queste. La posizione di quelli che Silvio Berlusconi, facendo sponda a Renzi, definisce «parrucconi», è netta. Ieri, un altro dei più autorevoli firmatari dell’appello di Libertà e Giustizia, Stefano Rodotà, in un’intervista rilasciata a «Il Fatto», sosteneva che «Renzi è un insicuro. Chi alza i toni, urla e dice “me ne vado”, svela insicurezza».
I «professoroni» (cit.Renzi) non mostrano incertezze neppure quando, in questa vicenda, si ritrovano insieme a Beppe Grillo e Gianroberto Casaleggio, i capi del M5S che due giorni fa hanno firmato il loro appello. Anzi, Lorenza Carlassare ha addirittura commentato: «Sono contenta ci sia una larga adesione. E sono contenta che lo condividano persone che mi sembra tendano a gestire in modo padronale un movimento così interessante» (replica di Grillo: «Affanc... Ci avete rotto i co...»).
Comunque, Sandra Bonsanti, a parte Grillo, la questione resta questa: per una volta che sembra esserci la possibilità di modificare questo terribile bicameralismo perfetto, che blocca il Paese, voi insorgete. Perché?
«Perché, come le stavo spiegando poco fa, noi per primi siamo convinti che il bicameralismo vada scardinato: ma immaginiamo, ad esempio, che mentre una camera resti a fare leggi, l’altra diventi camera alta, di garanzia...».
Quindi lei pensa che...
«No, aspetti: l’altro giorno poi ho sentito dire alla Boschi che qui, comunque, si cambieranno circa 80 articoli della Costituzione. Ma così si scrive una nuova Costituzione! Non è un aggiustamento, ma un aggiornamento! Questi varano la Costituzione personale di Matteo Renzi... Ma dico: con quale faciloneria si procede? E con quale disprezzo, mi permetta, per chi dissente...».
Sono costretto a ricordarle che il Capo dello Stato, pur non pronunciandosi, per ragioni istituzionali, sul progetto del governo, è tuttavia convinto che un cambiamento sia improrogabile.
«Cosa posso risponderle? Se sul serio Giorgio Napolitano dovesse dare il suo assenso a questo tremendo testo di riforma, ne resterei meravigliata e profondamente addolorata».

il Fatto 2.4.14
Gianluigi Pellegrino. Una riforma da riscrivere
“Con quel nuovo Senato fare le leggi sarà un caos”
intervista di Beatrice Borromeo


Semplificare? Purtroppo la riforma del Senato di Renzi fa il contrario: crea un meccanismo legislativo enormemente farraginoso che mantiene le navette, i ping pong e aumenta addirittura la confusione”. Il giurista Gianluigi Pellegrino boccia senza rinvio il progetto di revisione costituzionale su cui il premier sta puntando tutto il suo capitale politico. E lo smonta punto per punto. “Il governo dice: per prima cosa dobbiamo semplificare l’iter di formazione delle leggi”.
E invece?
La proposta prevede ben dodici modi diversi per una povera legge di arrivare finalmente in porto.
Per esempio?
In parte è mantenuto l’iter attuale, di bicameralismo puro, che paradossalmente è l’unica parte chiara. Perché poi c’è un nuovo bicameralismo confusionario: entrano in gioco mille variabili a seconda che il Senato decida o meno di intervenire; e poi, anche quando annuncia di voler intervenire, può decidere poi di non farlo.
Sembra un pesce d’aprile.
Ma non è finita. Perché se il Senato interviene a quel punto si aprono molte altre ipotesi, differenziate in base ai labili confini delle materie. La Camera a sua volta potrà adeguarsi al Senato, oppure non farlo, oppure ancora farlo in parte. Con esiti diversi in base alle materie e alle maggioranze da raggiungersi. E le navette ripartono…Il caos, così, è garantito.
Quindi il Senato mantiene un peso rilevante.
Direi ancora decisivo nel processo legislativo. Ed inoltre confuso.
Ma la Camera, in casi specifici, avrà un ruolo prioritario.
Anche in quelle situazioni un passaggio dal Senato è comunque previsto. E comunque c’è una serie di materie rilevanti nelle quali l’intervento del Senato crea un vincolo per la Camera, perché essa può resistere alla richiesta del Senato solo con una maggioranza qualificata.
E quindi?
Questo comporta moltissimi problemi. Una delle ragioni per cui si vuole riformare il titolo V della Costituzione è che il riparto per materie non ha funzionato: decidere ogni volta a che materia appartenga un argomento che spesso è trasversale, è cosa complicatissima, dato che i confini delle materie sono in sè labili. E loro cosa fanno? Prendono questo stesso sistema fallimentare e lo usano per decidere quale di questi complicati iter legislativi vada eseguito e se scatta o no il vincolo determinato dall’intervento del Senato. Insomma, riproducono le patologie del titolo V nell’iter legislativo. Poi dicono che il Senato non avrà voce in capitolo sull’approvazione delle leggi di bilancio...
Non è così?
No. Mentono: il Senato avrà capacità d’interdizione anche sulla legge di bilancio. Può creare un vincolo che può di fatto impedire alla Camera di varare la legge finanziaria così come la vorrebbe.
Vede altri problemi, oltre alla confusione?
C’è il paradosso di un Parlamento eletto con una legge incostituzionale che però vorrebbe essere costituente. Nessuno sottolinea che alla Camera stanno tenendo ben nascosto il ricorso contro i 148 nominati con il premio illegittimo; ricorso che dopo la sentenza della Consulta può solo essere accolto facendo entrare in parlamento chi vi ha diritto al posto di chi ci sta abusivamente. È una condizione minima per mettere mano alla Costituzione.
C’è una questione democratica anche per quanto riguarda la riforma del Senato?
Sì, perché tutto questo pasticcio è enormemente aggravato dal fatto che nella primaria funzione legislativa una Camera democraticamente eletta dai cittadini viene interdetta da un Senato non eletto e privo di rappresentanza democratica.
Sarà composto da presidenti di Regione, Sindaci e così via.
Che infatti non sono eletti per legiferare, ma per amministrare gli enti locali. E poi, mentre la Camera avrà una maggioranza politica, il Senato ne avrà una del tutto occasionale, perchè frutto di nomine. Si paralizza tutto con due maggioranze diverse. Un disastro.
Quindi il superamento del bicameralismo paritario non c’è?
C’è solo nel titolo della riforma. Ma è smentito dal contenuto del testo dove è in parte mantenuto e in parte notevolmente complicato.
Il capo dello Stato da’ l’assist a Renzi: “Improrogabile superare il bicameralismo”.
Si renderà conto che non è affatto superato. Ammesso che arrivi la riforma al Quirinale, perchè come il mostruoso Italicum che dà più deputati se prendi meno voti, sembra fatta per non arrivare mai porto. Se sostieni che le leggi le debba fare una Camera sola, poi devi essere conseguente. Altrimenti consenti il saldarsi di resistenze giuste a quelle conservative. Chi fa una rivoluzione a metà si scava da solo la fossa. Nel frattempo non si fa ciò che sarebbe possibile implementare subito, ad esempio, sul fronte delle spese, il taglio delle indennità.
Ma il premier ci crede: dice che se non passa la riforma molla tutto, si ritira dalla politica.
Come direbbe Renzi stesso, “ce ne faremo una ragione.”

il Fatto 2.4.14
Secondo Matteo
Il consenso che odia la cultura
di Tomaso Montanari


Agli argomenti di chi indica il carattere autoritario della sua riforma costituzionale, Matteo Renzi non oppone altri argomenti, ma una delegittimazione radicale dei “professoroni, o presunti tali”. Non risponde a chi dice che un governo non può essere costituente (Piero Calamandrei chiese che durante la discussione dell’articolato della Costituzione i banchi del governo fossero addirittura vuoti). Non risponde a chi spiega perché un Senato degli enti locali potrebbe portare a una rottura dell’unità nazionale. Non risponde a chi - come Walter Tocci, senatore pd che ha annunciato il suo voto contrario - scrive che “l’Italicum consente a una minoranza sostenuta dal 20% degli aventi diritto al voto di arrivare al governo, potendo contare su deputati non scelti dagli elettori e non avendo risolto il conflitto di interessi”.
AL SAPERE RENZI oppone il plebiscito: i professori avranno studiato, ma lui ha il consenso. Poco importa se il consenso è quello delle primarie (consultazioni private a cui ha partecipato una quota minuscola di elettori), se è al governo senza essere stato eletto, se questo Parlamento è legalmente eletto, ma forse non proprio legittimato a cambiare la Costituzione. E poco importa se si sta facendo di tutto per far passare la riforma con i due terzi delle Camere, e dunque per evitare di consultare, con un referendum, il popolo sovrano del quale ci si riempie la bocca.
Invece di discutere, Renzi preferisce scagliarsi contro Rodotà e Zagrebelski con un tono che ricorda queste parole del primo discorso alla Camera di Mussolini capo del governo (16 novembre 1922): “Lascio ai melanconici zelatori del supercostituzionalismo il compito di dissertare più o meno lamentosamente”.
Non è una novità. Renzi sta replicando, su una scala ben più larga, ciò che fece a Firenze durante la caccia alla Battaglia di Anghiari di Leonardo. L’allora sindaco non si abbassò a discutere le prove dell’assoluta infondatezza di quella purissima operazione di marketing esibite dalla comunità scientifica internazionale degli storici dell’arte. Invece, si scagliò contro i “presunti scienziati”, accusati di non essere “stupiti dal mistero” a causa di un “pregiudizio ideologico”. Arrivò a scrivere: “Penso agli studenti di questi professoroni. Mi domando con quale fiducia ascolteranno adesso le loro lezioni”. La violenza denigratoria contro i “professionisti della cultura che pretendono di fare a pugni con la realtà e con l’innovazione” echeggiò il “culturame” di Scelba. E certo Renzi non si scusò quando le operazioni si conclusero senza trovare alcunché.
MA PERCHÉ il capo del governo teme così tanto i portatori del sapere critico? Perché sa che la loro funzione, in una democrazia evoluta, è - come ha scritto Tony Judt - “tirar fuori la verità e poi spiegare perché è proprio la verità. La verità spiacevole, nella maggior parte dei luoghi, è di solito che ti stanno mentendo”. Ecco, questo Renzi non se lo può permettere: sa benissimo di essere un prodotto che vende solo in regime di monopolio, e con un marketing senza smagliature. La prima funzione del pensiero critico, al contrario, è quella di mostrare che c’è sempre un’alternativa: sempre. Un filologo, un giurista, uno storico, un fisico sanno partecipare al discorso pubblico demistificando la retorica dell’ultima spiaggia e dell’uomo della provvidenza. Perché lo fanno usando argomenti comprensibili e razionali, dimostrabili e verificabili. Tutte cose pericolose per chi basa l’acquisizione del consenso non sul cervello, ma sulla pancia degli ascoltatori-elettori. La cui digestione non dev’essere turbata da dubbi. Quel famoso discorso di Mussolini si chiudeva così: “Non gettate, o signori, altre chiacchiere vane alla Nazione. Cinquantadue iscritti a parlare sulle mie comunicazioni, sono troppi”.
Al tempo del Leonardo inesistente Renzi esaltava le emozioni (che sarebbero state 'popolari') e demonizzava la conoscenza (secondo lui elitaria e inutile). Ora Renzi fa leva sulla disperazione diffusa, sul viscerale rigetto per il criminale immobilismo di chi lo ha preceduto, sul riflesso condizionato prodotto dalla promessa degli ottanta euro.
Chi si oppone è «un sacerdote del no», come ha prontamente scritto Ernesto Galli della Loggia evocando addirittura il terrorismo: ecco la parola d'ordine da far passare a tutti costi, prima che qualcuno possa spiegare a cosa si oppone quel no.
È il momento di «fare»: ma guai a chi si chiede cosa si stia davvero facendo. Guai a chi sa dimostrare che il re è nudo.

Corriere 2.4.14
I timori del premier per l’asse Civati-Grillo
di Maria Teresa Meli


Matteo Renzi non si sente sulle spine per la riforma del Senato, tuttavia teme la saldatura dell’asse tra Pippo Civati, unica vera opposizione dentro il Pd, e Beppe Grillo.

ROMA — «Non ho paura. Come va a finire va a finire, ma una sola cosa è certa: non ho paura di come finirà al Senato»: Matteo Renzi è convinto che, tra un tira e molla e l’altro, non ci sarà Grasso che tenga. E nemmeno la minoranza interna lo preoccupa.
«Nessuna paura», ripete il presidente del Consiglio. Spavalderia? O una sorta di mantra confortante e autoconsolatorio, che Matteo Renzi ama ripetere ai compagni di partito, ai colleghi di governo e ai giornalisti, per non sentirsi sulle spine per quello che avverrà di qui al 25 maggio a Palazzo Madama?
La verità é che sul serio il presidente del Consiglio non teme la prova dell’Aula che dovrà pronunciarsi sulla riforma del Senato. A Palazzo Madama lo sanno tutti. A cominciare dai pochi lettiani e bersaniani che puntano a una rivincita in Parlamento. Tant’è vero che alla Camera proprio gli ex lettiani e gli ex bersaniani si sono acconciati a dare vita a una corrente che ha come unico scopo il «prepensionamento» dei vecchi leader — a cominciare da Pier Luigi Bersani e Massimo D’Alema — e la nascita di una nuova componente che interloquisca con il leader. Ci saranno dunque problemi al Senato? A sentire i parlamentari del Partito democratico no. «Fosse per me lo abolirei», dice Enzo Amendola. «Figuriamoci se questo è il problema», assicura Nico Stumpo. E si sta parlando di deputati che non hanno fatto di certo il tifo per Renzi. Anzi.
Insomma, per farla breve, dal Pd Renzi non ha problemi veri. Lo sapeva anche il presidente del Senato, che ha pubblicamente preso la parola per dire che il progetto del segretario del Pd non gli piaceva.
Pietro Grasso, qualche giorno fa, prima di fare la sua uscita pubblica, aveva detto quello che pensava anche al capogruppo del Pd Luigi Zanda: «Possibile che tu stia zitto? Non capisco perché pure tu non difenda il Senato di cui fai parte. Muoviti». E Zanda gli aveva spiegato che ormai persino Anna Finocchiaro, di rado d’accordo con il premier, aveva capito che non era più il caso di fare resistenza. Del resto, il presidente del Consiglio lo ha spiegato ai fedelissimi: «Se il disegno di legge non passasse con la maggioranza necessaria, per una riforma costituzionale, cioè con i due terzi, si andrebbe al referendum. E sapete che c’è? A quel punto il provvedimento passerebbe con un plebiscito popolare». Ed è questa la vera ultima strada del premier. La strada che nessuno vuole intraprendere perché sa che, alla fine della festa, sulla ruota della fortuna politica, Renzi può giocare la carta più pesante. È questo il motivo per cui Berlusconi, pur vedendo i sondaggi che danno Forza Italia in picchiata, alterna la frenata e l’accelerata. Già, il leader di Forza Italia teme che Renzi si giochi il tutto per tutto. Magari anche ventilando elezioni anticipate, dopo l’eventuale referendum confermativo.
A quel punto, e questa è l’opinione di Berlusconi, «Renzi avrebbe tutto per sé: le urne prima del tempo, per saldare la sua leadership, il referendum confermativo, per saldare il suo asse con il Paese e poi chissà che altro...».
Ma in realtà, l’uomo che continua a dire «non ho paura», anche se lo ha confessato a pochissimi, un timore lo ha. È un rovello che lo rode dentro. E non riguarda l’eventuale reazione della minoranza tradizionale, per intendersi quella degli ex Cuperlo, perché con quella parte del Pd il premier sta già regolando i conti, anche nel caso in cui questo equivalga a una distribuzione di posti, prebende e seggi che verranno. Riguarda piuttosto l’unica vera opposizione che esiste ormai dentro il Partito democratico: l’ala di Pippo Civati.
Ecco di che cosa ha paura il presidente del Consiglio: che la corrente civatiana conduca con il Movimento 5 Stelle la battaglia contro quella che sia Grillo che Civati definiscono «una finta riforma». La saldatura mediatica di questi due mondi potrebbe mettere in difficoltà persino il Renzi sulla cresta dell’onda.

Corriere 2.4.14
Un esercito eterogeneo prova a formare un fronte conservatore
di Massimo Franco


Sulla carta, l’armata che si prepara a contrastare la riforma del Senato è possente: almeno dal punto di vista numerico. Include un pezzo, seppure minoritario, del Pd. Poi il grosso di Forza Italia. Il Movimento 5 Stelle di Beppe Grillo. E una filiera che attraversa i partiti minori. L’uscita nei giorni scorsi di Pietro Grasso, seconda carica dello Stato, le ha dato anche un’importante sponda istituzionale. Eppure, a ben guardare si tratta di un esercito tutt’altro che compatto. Troppo eterogeneo per riuscire a invertire una rotta che Palazzo Chigi non sembra disposto a cambiare. E messo in mora di fronte all’opinione pubblica da un Matteo Renzi che addita gli avversari come conservatori e difensori dello status quo ; e che da Londra precisa di essere critico con Grasso soprattutto perché «dice cose che non condivido».
Per questo, almeno di qui alle elezioni europee di maggio, non si riesce a vedere come uno schieramento trasversale del genere possa opporsi fino in fondo alla strategia che prevede lo smantellamento del Senato; e, di fatto, la fine del bicameralismo. Anche perché dal Quirinale un Giorgio Napolitano sempre più distaccato dalle diatribe politiche ha mostrato di appoggiare il processo di riforme. Il senatore Vannino Chiti ha annunciato una legge costituzionale presentata con un gruppo di parlamentari del Pd, che prevede il dimezzamento dei membri della Camera e una riduzione a 100 del numero dei senatori. Può sembrare un’offensiva per smontare lo schema del governo. In realtà, è uno strumento per tentare di strappargli qualche concessione.
Quando Chiti spiega che spetterà solo all’assemblea di Montecitorio il voto di fiducia e l’approvazione della legge di bilancio, e che i senatori saranno eletti nelle Regioni, accoglie implicitamente quasi tutti i «paletti» piantati da Renzi. Il ministro delle Riforme, Maria Elena Boschi, d’altronde, ha ripetuto anche ieri che «il punto imprescindibile» è che i senatori non abbiano una legittimazione elettorale diretta. Si insiste in maniera quasi ossessiva sull’esigenza di «accelerare». Altrimenti, martella Renzi, «la classe politica è finita».
Forza Italia annuncia con Renato Brunetta che non voterà «il pasticcio» preparato dal presidente del Consiglio. E non si fermano le ironie sugli annunci renziani non seguiti, è l’accusa, da risultati tangibili. Eppure, contestualmente Il Mattinale , bollettino quotidiano e ufficiale del partito, fa filtrare la richiesta di un secondo incontro tra il capo del governo e Silvio Berlusconi. Motivo: ricontrattare un accordo oggi interpretato da Renzi a proprio favore: una richiesta che sottolinea le difficoltà berlusconiane e la volontà di non rompere comunque. C’è di mezzo il «sì» all’Italicum, il nuovo sistema elettorale che FI vorrebbe approvare prima della riforma del Senato.
A schierarsi apertamente e frontalmente contro lo schema Renzi, per quanto controverso, è soltanto Beppe Grillo, convinto che il Senato vada riformato e asciugato per ridurne il costo. «Ma ci vuole un organo di controllo oltre la Camera», aggiunge. Il problema, però, è che la discussione si sta concentrando sulla fine del bicameralismo. E chiunque mostri di avere delle remore viene additato come un conservatore: a cominciare dallo stesso Grillo. L’unica previsione plausibile è che la bozza preparata in fretta dal governo uscirà un po’ cambiata dalla discussione; ma non nei punti ritenuti qualificanti. Per il resto, l’asse Pd-Berlusconi tende ad andare oltre: chissà, magari anche nella prospettiva dell’elezione del successore di Napolitano. Forse è una questione di mesi e non di anni: sempre che le riforme si facciano.

La Stampa 2.4.14
Il premier punta sull’Europa ma si complica la partita del Senato
di Marcello Sorgi


I nuovi dati sulla disoccupazione oltre il 13 per cento («sconvolgenti», li ha definiti Renzi, con l’occhio al 42,3 per cento dei giovani senza lavoro) sono piovuti sulla visita del premier a Londra e sull’incontro con il primo ministro inglese David Cameron, membro critico della Ue, con cui il presidente del consiglio ha subito condiviso l’insofferenza per il peso della burocrazia europea sul futuro dei singoli paesi dell’Unione.
Renzi ha insistito sul decreto lavoro che affronta il Parlamento tra molte resistenze, soprattutto del Pd, e ha detto che senza flessibilità il problema della disoccupazione non può essere affrontato, dandosi l’obiettivo, assai ambizioso (ma difficilmente realizzabile, almeno a breve, secondo molti osservatori specializzati), di riportare il tasso dei senza lavoro sotto il 10 per cento.
La visita di Renzi proseguirà anche oggi con una serie di incontri nella City, ma in sua assenza si sono fatte più forti le resistenze del centrodestra sull’annunciato progetto di riforma del Senato. Sebbene Berlusconi, con il suo consigliere politico Toti, ribadisca che l’intesa sui cambiamenti istituzionali regge, i due capigruppo di Forza Italia, che lunedì avevano firmato una nota congiunta di tono collaborativo, ieri hanno ribadito che il testo va modificato (Romani, presidente dei senatori, chiede che si valiti l’ipotesi di una quota di senatori elettivi) e che probabilmente si renderà necessario un nuovo incontro tra Berlusconi e Renzi, come quello del 18 gennaio al Nazareno in cui fu stretto il patto sulle riforme e sulla legge elettorale.
Fermo restando che, a parte Grillo, nessuno, neppure la minoranza Pd che ieri sera ha tenuto riunioni separate tra le varie correnti, punta a far saltare la trasformazione del Senato, s’intravede il tentativo di rallentare i lavori parlamentari per impedire a Renzi di arrivare al 25 maggio, data delle elezioni europee, avendo incassato il voto di prima lettura di Palazzo Madama sulla riforma e quello definitivo sulla nuova legge elettorale. Un obiettivo che ieri il ministro Maria Elena Boschi ha ribadito, ma sulla cui strada ci sono ancora parecchi ostacoli da rimuovere.

La Stampa 2.4.14
Sull’abolizione del Senato cresce il fronte del “sì, però”
Tutti vogliono la trasformazione, ognuno a modo suo
di Mattia Feltri


Sulla trasformazione del Senato sono tutti d’accordo ma sono anche tutti in disaccordo. Questo per assolvere subito Beppe Grillo che oggi è allibito dalla facilità di modifica della Costituzione quando ieri era allibito dalla difficoltà di modifica della Costituzione («Non è un dogma né un totem», ottobre 2012: voleva inserirvi il referendum senza quorum). Perché la Carta, come la politica, è di gomma e si lascia tirare di qua e di là. E se si tratta di riforme, poiché chiunque le vuole e chiunque le vuole a sua immagine e somiglianza, cioè perfette come una sfera, le qualità elastiche del dibattito diventano competitive. E così sulla trasformazione del Senato sono (quasi) tutti d’accordo ma anche (quasi) tutti in disaccordo perché, per esempio, Pierantonio Zanettin (FI) non vorrebbe un’assemblea che «così è un dopolavoro» e allora il Senato sarebbe meglio abolirlo del tutto, mentre Aldo Di Biagio (popolare ex finiano) vedrebbe bene l’inserimento di rappresentanti degli italiani nel mondo, intanto che il suo compagno di partito Mario Mauro è dei numerosi convinti che serva l’elezione dei senatori: «In questo Paese abbiamo ancora bisogno di uomini espressi direttamente dal popolo». Stefano Esposito, del partito democratico, amplia la considerazione: «Metterci dentro i sindaci non penso sia una buona idea». Quindi i sindaci no, gli eletti sì e pure gli italiani nel mondo.
Vi sembra il solito delirio? Siamo soltanto all’inizio. Ecco, il segretario della Lega, Matteo Salvini, che cambia strada: «La riforma è zoppa», si aboliscano le prefetture. E comunque, secondo il contributo del governatore leghista del Veneto, Luca Zaia, «si doveva dimezzare anche la Camera». La qual cosa propone la storica alleanza fra Lega e Psi che, nella persona di Enrico Buemi, dettaglia la proposta: quattrocento deputati, duecento senatori e poi «differenziare le funzioni». Infatti, come dice quel vecchio osso della politica parlamentare di Pino Pisicchio (vicepresidente del Centro democratico, partito effettivamente esistente) «il sistema di pesi e contrappesi è fondamentale». Dunque, secondo Pisicchio, riforma sì e dunque riforma no. Si riprenda in mano tutto perché, spiega Nichi Vendola (Sel), riforme sì ma «non ci piace la modalità ricattatoria». Posizione che scala le cime della temerarietà in Gabriella Giammanco (FI), una che parte dalla democrazia interna del suo partito: «Non accetteremo qualsiasi provvedimento calato dall’alto». L’approfondimento, sempre in Forza Italia, tocca a Maurizio Bianconi che riforme sì ma - «trogloditi, arroganti, giovinastri, impreparati» - si fanno in Parlamento. Traduce Francesco Russo (Pd): riforme sì ma «chiediamo di giocare questa partita da protagonisti».
Riforme sì, anzi riformissime con Maurizio Gasparri incrollabile nel convincimento che «il bicameralismo va superato» ma «rilanciamo l’elezione diretta del capo della Stato». In un soffio si ricompone la diaspora postfascista, e infatti ecco Ignazio La Russa (F.lli d’Italia): «Bene il superamento del bicameralismo perfetto, ma perché si fa finta di dimenticare l’elezione diretta del presidente della Repubblica?». In un soffio la diaspora si rifà, con Giorgia Meloni (presidente del suddetto F.lli d’Italia) che riforme sì ma «quando il governo e le altre forze politiche le affronteranno in modo serio». Chissà se è sufficientemente seria la proposta di Lucio Malan (FI): «È ora di cambiare, ma il modello più sensato è quello del federalismo tedesco, nel quale la seconda camera, il Bundesrat, non è elettiva ma è formata da rappresentanti dei governi regionali». Bundesrat sì, dice Renato Brunetta, ma sia chiaro: «I ventuno senatori nominati dal Quirinale con noi non passeranno mai». Bundesrat sì, dice Gianluca Susta (Scelta civica) ma sia chiaro... (segue progetto troppo ambizioso e rivoluzionaria per il nostro povero spazio). Rimane giusto un angolino da dedicare a Lorenzo Cesa, dell’Udc: «La legge elettorale dovrà prevedere le preferenze». Che c’entra? Con Cesa c’entra sempre.

l’Unità 2.4.14
La nuova minoranza Pd con Speranza: ora un’altra fase
Cento parlamentari (bersaniani, lettiani, dalemiani) riuniti alla Camera per riorganizzare l’area «non renziana»

Come nome si pensa a «Sinistra riformista»
di Andrea Carugati


Il congresso è finito e archiviato, ora si apre una fase nuova». È questo uno dei concetti, e dei mantra, che una parte consistente dell’ex minoranza Pd va ripetendo. E che ha dato il via alla riunione di ieri sera alla Camera, in cui è nata una nuova area «riformista» che riunisce una fetta di quelli che avevano sostenuto Cuperlo alle primarie, e che ora sembrano guardare altrove.
Bersaniani come Davide Zoggia, Alfredo D’Attorre e Nico Stumpo, dalemiani come Enzo Amendola, Danilo Leva e Andrea Manciulli, lettiani come Francesco Russo e Paola De Micheli, popolari come Enrico Gasbarra. Più una schiera di non allineati come Vannino Chiti, Alessandra Moretti e Stefano Esposito, e alcuni lettiani che avevano scelto Renzi
come i senatori Carlotta Fabbri, Anna Ascani e Massimo Caleo. E poi nomi di peso come Guglielmo Epifani, Stefano Fassina e il ministro dell’Agricoltura Maurizio Martina. Fino a Roberto Speranza, il capogruppo alla Camera, che molti vedono come il «leader naturale» di questa nuova componente, anche se lui si sfila e si dice concentrato sul delicato mestiere che svolge. Un centinaio di parlamentari in tutto, tra Camera e Senato.
L’obiettivo è quello di scrollarsi di dosso l’etichetta di «minoranza del 18%», e di aprire una fase nuova nei rapporti dentro il partito e con il governo. Il tema del rapporto con Renzi, il segretario-premier, è delicato: la nuova area, che probabilmente si chiamerà «Sinistra riformista», si muove su un crinale stretto, certamente «autonoma», ma non «contrapposta».
«Non siamo né antirenziani né renziani », taglia corto Nico Stumpo. Una frase che assomiglia molto al concetto espresso dal giovane turco Francesco Verducci. Mai due gruppi restano distinti, tanto che i turchi ieri sera hanno tenuto una riunione parallela al Nazareno. Comune la battaglia per cambiare il decreto lavoro, non troppo dissimile l’atteggiamento sulla riforma del Senato (con alcuni dubbi di merito ma una sostanziale condivisione dell’urgenza di superare il bicameralismo). Ma i Turchi, che il congresso l’hanno chiuso subitodopol’8 dicembre, restano autonomi, più vicini a Renzi, vagamente ironici sul «ritardo» dei compagni e tuttavia soddisfatti che anche l’altro troncone abbia superato «la pura contrapposizione ». Entrambe le componenti potrebbero, nelle prossime settimane, entrare in una segretaria unitaria. Ma i turchi, dopo la nomina dei due vicesegretari renziani, hanno congelato la questione. Mentre i riformisti prendono tempo, «prima bisogna capire se abbiamo le stesse idee su come gestire e rilanciare il partito». Per i riformisti l’obiettivo è andare oltre lo steccato del 18%: «Vogliamo intercettare una domanda di politiche di sinistra che c’è anche tra chi ha votato Renzi e Civati», spiega D’Attorre. Bersani e Letta vengono indicati come padri nobili dell’area. Il primo, in qualche modo, benedice l’iniziativa, il secondo per ora resta distante dal dibattito Pd. «Stasera le appartenenze precedenti si sciolgono», dice Francesco Russo. «Siamo un gruppo di trenta-quarantenni che vuole fare rete, una leadership diffusa».
Certo, le sfumature non mancano. Sul grado di distanza da Renzi, ad esempio. O sui dubbi sulla riforma del Senato partorita dal governo. Nel gruppo c’è chi assicura che «così non passerà mai» e chi, come Nico Stumpo, spiega che «la fronda sarebbe una stupidaggine, siamo sempre stati per il monocameralismo». L’arcipelago è vasto, la sintesi possibile ma non garantita. «Autonomi ma leali e costruttivi», fa sapere Speranza, che è stato uno dei più attivi per convincere i deputati riottosi a votare l’Italicum. «Con Renzi non serve avere una opposizione pregiudiziale », spiega un senatore. «Meglio una dialettica che porti a dei risultati». Sullo sfondo resta il tema dell’alternativa a Renzi, e cioè della costruzione di un’area e di una leadership che, a tempo debito, possano sfidare il segretario. «Non è imminente, ma è giusto lavorarci »,spiega Zoggia. Altri bersaniani sottolineano con più forza come la nuova area debba essere «alternativa» all’ex sindaco di Firenze, in particolare alla sua «idea di partito».
Quanto a Cuperlo, anche lui è intervenuto ieri sera all’assemblea riformista. Così come molti dei presenti di ieri saranno alla sua iniziativa del 12 aprile. «È un dirigente di primo piano del Pd», spiegano i promotori, che scacciano ogni dubbio su un eventuale strappo. C’è chi spiega che «Gianni resta il collante tra le due anime della mozione, un punto di riferimento per tutti». Da ieri però la vecchia minoranza ha chiuso i battenti, ufficialmente.

il Fatto 2.4.14
Oppositori contro

Le correntine del Pd che amano dividersi
I gruppi sono dieci: i neo-riformisti si organizzano con Speranza, Epifani e Bersani
I Giovani turchi si isolano e Cuperlo convoca una Covention con Nichi Vendola
di Fabrizio d’Esposito

Lasciate ogni Speranza o voi ch’entrate. Speranza, con l’iniziale maiuscola perché di nome fa Roberto ed è il leaderino del nuovo correntino generato dalla Babele democratica che quantomeno vorrebbe arginare, rintuzzare, raddrizzare “il pensiero unico renziano”. Per dirla alla Bersani. “Evitare che Renzi faccia troppe cazzate”. Addentrarsi nella minoranza del Pd è peggio che entrare nell’inferno dantesco. Non c’è pathos. Solo noia, più la fatica per orientarsi. Viene in mente l’autocritica di Piero Fassino dopo la catastrofica sconfitta alle politiche del 2001 contro Berlusconi: “Abbiamo perso perché siamo tristi”. Fatte le dovute proporzioni, è più o meno la stessa situazione per la minoranza dem devastata dal tornado di Matteo Renzi, dalle primarie dell’Immacolata in poi. Civatiani a parte, le truppe che nel dicembre scorso raccolsero uno striminzito e inatteso 18 per cento attorno a Gianni Cuperlo oggi si dedicano prevalentemente a due attività: nei giorni dispari si frammentano, in quelli pari si mescolano.
La riunione per organizzare la controffensiva
Ieri sera, di martedì, cioè un giorno pari, nella sala Berlinguer è nato quello che con grande enfasi è stato chiamato correntone. Il problema è nella natura double face della conquista renziana. Quella che è minoranza nel partito a livello parlamentare ha numeri più consistenza grazie ai nominati del Porcellum in piena era Bersani. Di qui i circa cento tra deputati e senatori alla riunione iniziata alle venti. Un’area riformista che assembla spezzoni delle vecchie correnti: bersaniani, ex dalemiani, ex lettiani (che però alle primarie erano renziani e oggi sono divisi, così dicono, in tre tronconi, roba da non crederci), ex giovani turchi (Stefano Fassina), ex fassiniani nel senso di Piero (Cesare Damiano), finanche fioroniani o ex popolari.
Da Martina a Epifani: tutti insieme contro Matteo
A parole, l’obiettivo è ambizioso: dare un’anima riformista al Pd. Nei fatti, spiega uno dei partecipanti, c’è molto realismo: “Questo non è il momento di costruire nuovi leader, si tratta di organizzare un minimo di differenza rispetto al renzismo dominante”. In pratica, prepararsi a una lunga marcia nel deserto. Anche per questo il capo scelto non provoca emozioni o sussulti. Speranza, appunto. Unto direttamente da Bersani settimane fa. I detrattori del giovane capogruppo sostengono si tratti di un renziano in sonno, il vero motore del complotto contro Enrico Letta. In ogni caso, dialogante con l’attuale premier. E questo potrebbe depotenziare le minacce sui quattro fronti di scontro: lavoro, programmazione finanziaria (Def), Italicum e riforma del Senato. Tre a presiedere: la De Micheli, Leva e Fornaro. In prima fila, il padre nobile dell’operazione: Guglielmo Epifani. Assente, invece, ma non in spirito, Pier Luigi Bersani. Poi, in ordine sparso: il ministro Martina, Stumpo, D’Attorre, Amendola, Pizzetti, Damiano Fassina, Gasbarra, Martini, Zoggia, Pollastrini, Chiti, Manciulli, Manconi, Mucchetti. Lo stesso Speranza e persino Cuperlo.
Il tweet di Boccia: “Troppi spifferi nonostante il sole”
Strano destino quello di Cuperlo, ex dalemiano. Così come la parola che più rende l’idea di quanto sta accadendo nel Pd è straniamento. Una volta divelto il potere della storica “Ditta” di derivazione comunista, si procede a tentoni, alla ricerca di spiragli più che di nuove frontiere. Cuperlo si muove in solitudine e ieri è andato alla riunione dei riformisti pur conoscendo il retropensiero alla base del correntino. Ossia contrastare e boicottare la convention che lo stesso Cuperlo ha convocato per il 12 aprile, aperta anche a Sel. Tra quelli che vanno per conto loro c’è anche l’ex lettiano Francesco Boccia, che ieri ha malignamente twittato: “Troppi spifferi nonostante il sole... nel Pd nascono nuove correnti. La rottamazione le moltiplica o si moltiplicano per la rottamazione?”.
La sinistra ai margini: rigurgiti ex dalemiani
Ieri sera, alla stessa ora, al Nazareno a Roma, sede nazionale del Pd, si sono riuniti anche i giovani turchi sopravvissuti agli sconquassi renziani: il ministro Orlando, Orfini, Verducci, la Velo, la giovane Pini e altri ancora. In teoria, dovrebbero essere a sinistra del correntino, ma trattandosi soprattutto di ex dalemiani l’aspetto tattico viene prima di quello strategico. I loro numeri sono più piccoli dei riformisti. Nel rispetto della tradizione frazionista, il loro avversario sembra più la fazione di Speranza che il premier. Nulla di nuovo sotto il sole. Quel che resta delle vecchie correnti del Pd cerca di sopravvivere. Per la serie: buonanotte sinistra.

il Fatto 2.4.14
Finocchiaro & C. aspettano il premier
Il testo del governo partirà dalla Camera che vuole cancellare

Il Pd, con Chiti, fa un'altra proposra
di Sara Nicoli


Se fosse per Matteo Renzi, la prima lettura della nuova riforma del Senato e il voto finale sulla nuova legge elettorale dovrebbero arrivare, quasi in simultanea, entro il 25 maggio, data delle elezioni Europee. Ma pensare che in poco più di un mese (esclusi i festivi) palazzo Madama possa davvero votare senza scosse due delle riforme fondamentali del governo appare quantomeno improbabile. La volontà politica della maggioranza latita. Nel Pd, in particolare, sale il malumore contro la fretta del premier che ha imposto un articolato (per altro non ancora pervenuto in commissione Affari Costituzionali) senza aprire al dibattito interno sulle modifiche. Malumore pesante: “Non possiamo accettare un progetto a scatola chiusa - dice la senatrice Pd Angelica Saggese - serve un confronto e spero che Renzi lo accetti”. Che aggiunge come il gruppo dei 25 senatori Pd contro la riforma “potrebbe essere anche più ampio”. Potrebbe, cioè, andare oltre il Pd. “Io prendo per buono quello che c’è nell’iniziativa di Grasso - sostiene il lettiano Francesco Russo, promotore del documento dei 25 che ha chiesto l’apertura di un dialogo a Renzi - ma bisogna valorizzare il lavoro dei gruppi”. E un altro firmatario, Stefano Esposito, sottolinea: “Siamo d’accordo con Renzi sul fatto che il nuovo Senato non dovrà votare la fiducia ai governi, né le leggi di bilancio, ma non ci convince la presenza dei sindaci nel nuovo Palazzo Madama”. Tanto da discutere e poco tempo per farlo. C’è comunque chi sostiene che, al dunque, Renzi non troverà grossi ostacoli da parte del Pd. Il testo, d’altra parte, è poco più di un’ossatura e all’interno della commissione Affari Costituzionali la presidente, Anna Finocchiaro, potrebbe trovare modo di dare ampio sfogo al lavoro svolto dai gruppi del partito. Come alla proposta di Vannino Chiti: “Con una legge elettorale per la Camera - sostiene il senatore Pd - che dà una maggioranza certa per assicurare la governabilità, sarebbe una sconfitta per la democrazia se ci fosse un monocameralismo di fatto. Il meccanismo maggioritario configurerebbe un presidenzialismo senza contrappesi”. Se si vuole risparmiare, meglio ridurre il numero di deputati e senatori.
LA FRONDA INTERNA al Nazareno par destinata a sgonfiarsi, mentre monta il disappunto del berluscones sull’eccessiva disinvoltura con cui Renzi supera i paletti imposti dal patto siglato con il leader di Forza Italia. Dice Paolo Romani, capogruppo al Senato facendo eco all’omologo della Camera, Renato Brunetta. “Sul Senato c’è bisogno di un approfondimento e comunque l’approvazione dell’Italicum deve venire prima”. E Brunetta: “Lo slittamento della legge elettorale a noi non va assolutamente bene, è stato deciso, se è stato deciso, unilateralmente da Renzi. A noi non sta bene, anche perché l’accordo era tutt’altro”.
Ora, va detto che Berlusconi in questo momento “è molto debole”, sostiene un forzista di stretta osservanza, e che almeno “fino al 10 aprile, giorno del suo affidamento ai servizi sociali, nulla si muoverà davvero”. Però il partito perde colpi e punti, è ormai ampiamente sotto Grillo nei sondaggi e “c’è bisogno di una scossa” per riaprire i giochi elettorali. Dopo il 10 aprile, partirà dunque un’offensiva contro Renzi per “rinnovare” il patto sulle riforme e mettere sul piatto anche altra carne, come l’elezione diretta del capo dello Stato, rafforzamento dei poteri dell’esecutivo con possibilità di revocare i ministri. Difficile, per Renzi, dire di no ad almeno due proposte su tre, visto che le condivide, anche se nel Pd, su questi punti, è invece chiusura netta perchè sono le proposte fatte da Berlusconi nel 2006. La marea è alta, all’interno e all’esterno della maggioranza. E persino dentro la sala macchine del Senato. Il via alla riforma ha messo in allarme i più alti dirigenti interni che si dice siano pronti anche ad azioni eclatanti per difendere la rendita di posizione.

Corriere 2.4.14
L’agenda del governo per il nuovo Senato

Mossa della minoranza pd
Ddl Chiti e apertura al dialogo con Renzi
di Dino Martirano

ROMA — Gentile nei toni ma ferma sui contenuti, anche il ministro Maria Elena Boschi ha dettato le condizioni per la riforma del Senato. E lo ha fatto andando di persona nella tana del lupo, a Palazzo Madama, dove, a questo punto, si respira un misto di rabbia e rassegnazione: prima lettura entro il 25 maggio e, soprattutto, nessun passo indietro sulla non elezione diretta dei senatori, ha argomentato la responsabile delle Riforme e dei Rapporti con il Parlamento, precisando comunque che «per il governo», come importanza, «viene prima la legge elettorale». Per il resto se ne può anche parlare.
Ma già i primi interventi ascoltati in commissione Affari costituzionali (Calderoli, Mineo, Romani, Campanella, De Petris, Maran) hanno mostrato a Boschi un clima di diffidenza se non di malcelata ostilità. Il secondo round dei preliminari ci sarà domani e poi, martedì 8 aprile, si parte davvero con l’iter (4 passaggi parlamentari) delle riforme costituzionali. Un percorso che, almeno nelle parole del presidente del Consiglio, si concluderà rispettando l’obiettivo del primo voto entro le elezioni europee: «Non so cosa fanno le forze politiche più piccole però l’accordo tra maggioranza e anche Forza Italia mi sembra che regga...», ha detto Renzi. Che però è tornato a lanciare avvertimenti: «Senza le riforme la classe politica è finita».
Però, già martedì, all’ordine del giorno della commissione Affari costituzionali presieduta da Anna Finocchiaro ci sarà, oltre a quello del governo, anche il disegno di legge presentato da Vannino Chiti e da almeno altri 15 senatori del Pd (tra gli altri Felice Casson, Walter Tocci, Paolo Corsini, Corradino Mineo, Massimo Mucchetti) che ha l’ambizioso obiettivo di lanciare una sfida aperta e leale a Renzi. Una prova parlamentare in piena regola con la quale, spiega Chiti, «accettare e onorare la sfida sulle riforme istituzionali che il governo ha lanciato» sui costi della politica e sulla razionalizzazione del processo legislativo. La proposta prevede un Parlamento dimezzato (315 deputati e 106 senatori, tutti eletti) e quindi più leggero anche rispetto allo schema del governo (630 deputati eletti e 148 senatori provenienti da Regioni e Comuni o di nomina presidenziale), la fine del bicameralismo paritario con la sola Camera che vota la fiducia al governo e le leggi di bilancio.
In ogni caso, con il ddl Chiti verrebbero meno due paletti fortemente difesi da Renzi che vuole senatori non eletti e non retribuiti. Per questo il testo dei 15 del Pd immagina una via di mezzo: i senatori, infatti, verrebbero eletti contestualmente al voto per i consigli regionali in modo da creare un forte legame con il territorio. Inoltre, spiega Chiti, un Senato «confortato dal voto popolare diretto su base proporzionale in collegi ampi che favoriranno la scelta di personalità eminenti... sarà un Senato delle Autonomie ma anche delle garanzie».
Il tentativo in atto al Senato, ora, può trarre forza anche dal riposizionamento delle varie opposizioni interne al Pd. Ieri bersaniani, lettiani, dalemiani e cani sciolti si sono riuniti con il capogruppo Roberto Speranza per dare vita a un «correntone riformista», più propositore che oppositore nei confronti del leader-segretario. Una mossa, avallata dai leader non presenti alla riunione, per contare di più ma anche per non essere bollati come «la solita opposizione interna velleitaria che non rispetta primarie e congresso». Al Senato, questo schema sembra già attuato con la presentazione del ddl Chiti (simile a un testo Civati già presente alla Camera) che, appunto, vuole scrollarsi di dosso l’etichetta dell’«opposizione interna» che rema contro e non per qualcosa di concreto. Una sponda a questo tentativo di mediazione, rispetto alle rigidità del governo, potrebbe arrivare da Forza Italia. Il capogruppo Paolo Romani, ha detto due cose a Maria Elena Boschi: che il termine del 25 maggio è «troppo ravvicinato» e che nell’accordo Renzi-Berlusconi si era discusso molto di legge elettorale e di Titolo V. Ma pochissimo di Senato, per cui sarebbe il caso di riparlarne.

Repubblica 2.4.14
Quei 45 senatori Pd pronti al “salvataggio” di Palazzo Madama
di Giovanna Casadio


Se fosse per Matteo Renzi, la prima lettura della nuova riforma del Senato e il voto finale sulla nuova legge elettorale dovrebbero arrivare, quasi in simultanea, entro il 25 maggio, data delle elezioni Europee. Ma pensare che in poco più di un mese (esclusi i festivi) palazzo Madama possa davvero votare senza scosse due delle riforme fondamentali del governo appare quantomeno improbabile. La volontà politica della maggioranza latita. Nel Pd, in particolare, sale il malumore contro la fretta del premier che ha imposto un articolato (per altro non ancora pervenuto in commissione Affari Costituzionali) senza aprire al dibattito interno sulle modifiche. Malumore pesante: “Non possiamo accettare un progetto a scatola chiusa - dice la senatrice Pd Angelica Saggese - serve un confronto e spero che Renzi lo accetti”. Che aggiunge come il gruppo dei 25 senatori Pd contro la riforma “potrebbe essere anche più ampio”. Potrebbe, cioè, andare oltre il Pd. “Io prendo per buono quello che c’è nell’iniziativa di Grasso - sostiene il lettiano Francesco Russo, promotore del documento dei 25 che ha chiesto l’apertura di un dialogo a Renzi - ma bisogna valorizzare il lavoro dei gruppi”. E un altro firmatario, Stefano Esposito, sottolinea: “Siamo d’accordo con Renzi sul fatto che il nuovo Senato non dovrà votare la fiducia ai governi, né le leggi di bilancio, ma non ci convince la presenza dei sindaci nel nuovo Palazzo Madama”. Tanto da discutere e poco tempo per farlo. C’è comunque chi sostiene che, al dunque, Renzi non troverà grossi ostacoli da parte del Pd. Il testo, d’altra parte, è poco più di un’ossatura e all’interno della commissione Affari Costituzionali la presidente, Anna Finocchiaro, potrebbe trovare modo di dare ampio sfogo al lavoro svolto dai gruppi del partito. Come alla proposta di Vannino Chiti: “Con una legge elettorale per la Camera - sostiene il senatore Pd - che dà una maggioranza certa per assicurare la governabilità, sarebbe una sconfitta per la democrazia se ci fosse un monocameralismo di fatto. Il meccanismo maggioritario configurerebbe un presidenzialismo senza contrappesi”. Se si vuole risparmiare, meglio ridurre il numero di deputati e senatori.
LA FRONDA INTERNA al Nazareno par destinata a sgonfiarsi, mentre monta il disappunto del berluscones sull’eccessiva disinvoltura con cui Renzi supera i paletti imposti dal patto siglato con il leader di Forza Italia. Dice Paolo Romani, capogruppo al Senato facendo eco all’omologo della Camera, Renato Brunetta. “Sul Senato c’è bisogno di un approfondimento e comunque l’approvazione dell’Italicum deve venire prima”. E Brunetta: “Lo slittamento della legge elettorale a noi non va assolutamente bene, è stato deciso, se è stato deciso, unilateralmente da Renzi. A noi non sta bene, anche perché l’accordo era tutt’altro”.
Ora, va detto che Berlusconi in questo momento “è molto debole”, sostiene un forzista di stretta osservanza, e che almeno “fino al 10 aprile, giorno del suo affidamento ai servizi sociali, nulla si muoverà davvero”. Però il partito perde colpi e punti, è ormai ampiamente sotto Grillo nei sondaggi e “c’è bisogno di una scossa” per riaprire i giochi elettorali. Dopo il 10 aprile, partirà dunque un’offensiva contro Renzi per “rinnovare” il patto sulle riforme e mettere sul piatto anche altra carne, come l’elezione diretta del capo dello Stato, rafforzamento dei poteri dell’esecutivo con possibilità di revocare i ministri. Difficile, per Renzi, dire di no ad almeno due proposte su tre, visto che le condivide, anche se nel Pd, su questi punti, è invece chiusura netta perchè sono le proposte fatte da Berlusconi nel 2006. La marea è alta, all’interno e all’esterno della maggioranza. E persino dentro la sala macchine del Senato. Il via alla riforma ha messo in allarme i più alti dirigenti interni che si dice siano pronti anche ad azioni eclatanti per difendere la rendita di posizione.

Il Sole 2.4.14
Renzi: «L'accordo con Fi regge»
Boschi apre a piccole modifiche ma blinda la non elettività e la fine del bicameralismo
di Emilia Patta


ROMA «Se la classe politica italiana non accetta di fare le riforme è finita». Matteo Renzi torna anche da Londra, dove è impegnato nel vertice con il premier David Cameron, sul punto che più gli sta a cuore: il sì di Palazzo Madama, ed entro il 25 maggio, alla riforma costituzionale che comprende stop al Senato elettivo, riforma del titolo V e cancellazione delle Province e del Cnel. Più volte il premier ha legato il proprio destino politico alla riforma delle riforme. Ma il punto non è se c'è il rischio di andare al voto anticipato in caso di fallimento, spiega. «La questione non è se si va alle elezioni o no ma la fine della classe politica in Italia. Sono molto convinto che portare a termine le riforme sia l'unica soluzione». Se vado via io, dice dunque Renzi neanche tanto tra le righe forte della mancanza di alternative alla sua leadership, vanno via tutti. «Se pensano di avermi messo qui per fare la bella statuina, e poi loro continuano con le solite riforme a metà, hanno sbagliato persona. Io ci sto se cambia. Se non si cambia ne prendiamo atto», incalza.
Il paletto imprescindibile resta quello della non elettività dei nuovi senatori, nonostante nelle ultime ore anche Fi sembra accarezzare l'elezione diretta. La posizione del governo è stata ribadita ieri dalla ministra per le Riforme Maria Elena Boschi durante un'audizione davanti alla commissione Affari costituzionali del Senato sulle linee programmatiche del suo dicastero. «La non elettività dei nuovi senatori è imprescindibile – ribadisce in serata –. Sono quattro i punti per noi "blindati": no all'elezione diretta, appunto; no all'indennità; superamento del bicameralismo perfetto con le leggi ordinarie approvate dalla sola Camera dei deputati; fiducia al governo data dalla sola Camera dei deputati. Sul resto si può discutere. In particolare da parte nostra c'è la massima disponibilità ad accogliere la richiesta di una proporzionalità tra rappresentanti e popolazione delle Regioni purché il numero complessivo dei senatori resti più o meno lo stesso e purché ci sia accordo tra le Regioni. Mentre i quattro punti per noi intoccabili recepiscono l'accordo tra i partiti che hanno stipulato il patto su riforme e legge elettorale». Ossia Forza Italia e i partiti della maggioranza, a cominciare dall'Ncd di Angelino Alfano. Eppure proprio da Fi, ieri per bocca del suo capogruppo in Senato Paolo Romani proprio durante l'audizione di Boschi, si levano in queste ore voci in favore dell'elezione diretta dei nuovi senatori. La posizione degli azzurri sembra tuttavia dettata più dall'esigenza di non restare schiacciati sotto il carro riformatore del premier che da volontà di sabotare le riforme. Tanto che sia Romani sia il capogruppo del Ncd Maurizio Sacconi hanno rassicurato i vertici del Pd sul loro sì alla riforma. E Renzi, da Londra, può dire con una certa tranquillità che «l'accordo tra i partiti della maggioranza e con Fi mi sembra che regga».
Quanto alla tenuta del suo Pd, la notizia di ieri è la nascita dell'area "riformista" che raccoglie bersaniani cuperliani, dalemiani e anche lettiani. Ed è una notizia buona per Renzi, dal momento che la nuova area punta a superare le contrapposizioni congressuali per dare un contributo critico all'avventura riformatrice del premier-segretario. Basta con la «ridotta del rancore», dicono i protagonisti. Tradotto: la minoranza del Pd aiuterà il percorso della riforma costituzionale e dell'Italicum marcando un po' più da vicino i temi del lavoro, a cominciare dal decreto Poletti giudicato troppo precarizzante. Alla riunione di ieri sera nella sala Berlinguer di Montecitorio hanno partecipato tra gli altri Roberto Speranza, Guglielmo Epifani, Gianni Cuperlo, Stefano Fassina, Cesare Damiano, Davide Zoggia, Nico Stumpo, Alfredo D'Attorre, addirittura i lettiani Paola De Micheli e Francesco Russo e molti giovani usciti dalle parlamentarie di Bersani (in tutto 130). E naturalmente l'iniziativa non è avvenuta all'insaputa dell'ex segretario, che l'ha benedetta da lontano. Sul fronte riforme-legge elettorale Renzi non ha più molto da temere dal suo partito, insomma: il fronte interno si sposta sul Dl Poletti e sul Jobs act.

Repubblica 2.4.14
Calderoli: “Noi potremmo votare sì”
di Rodolfo Sala



MILANO. Senatore Calderoli, voi della Lega voterete la riforma del Senato voluta da Renzi?
«Se sarà una cosa seria sì».
Ma allo stato lo è?
«Il testo di oggi no, bisogna lavorarci e noi daremo il nostro contributo. Anche perché non credo che l’accordo del Nazareno reggerà».
Si spieghi.
«Berlusconi farà quel che ha fatto con D’Alema ai tempi della Bicamerale, farà saltare tutto perché Forza Italia vuole introdurre il modello semipresidenziale. E infatti sono stati i forzisti a fare uscire le indiscrezioni sulla revoca dei ministri da parte del premier».
I parlamentari leghisti che sostituiscono quelli azzurri al momento del voto?
«A certe condizioni sì. Ma non so se potremo essere determinanti».
E Renzi lo sa?
«Io sono il confessore abituale di molti miei
colleghi senatori del Pd».
Quindi il segnale al premier è arrivato?
«La dico così: Matteo stai sereno, Senatores boni viri, Senatus autem mala bestia ».
Nel merito, che cosa c’è da correggere?
«Bisogna separare l’istituzione del Senato federale dalla riforma del titolo V, che sopprime il federalismo a velocità variabile già introdotto in Costituzione. Vuole dire che tutte le Regioni hanno le stesse competenze, il Molise come la Lombardia. E per risolvere il problema delle materie concorrenti, si riporta tutto in capo allo Stato».
E poi?
«Andrebbe ridotto anche il numero dei deputati ».
Ma il Senato?
«Non farei le barricate sulla sua elezione indiretta, anche se obietto sulla presenza dei sindaci, che non ci sono neppure nel sistema tedesco. Un culo, una sedia: per fare bene il proprio lavoro un sindaco, e anche un governatore, deve stare sul territorio tutto l’anno. Questa è la riforma dell’Anci, non a caso l’hanno fatta tre sindaci: Renzi, Delrio e Guerini».
Che cos’altro non le piace?
«I 21 senatori di nomina presidenziale. Prefigurerebbero un conflitto di interessi del Capo dello Stato in vista di una possibile rielezione».
E con queste modifiche voi dareste via libera?
«Si, sono ragionevoli. E poi, scendiamo dal pero: 28 senatori del Pd non vogliono votare quel testo, ci sono forti perplessità nel Ncd e tra i centristi, senza contare quel che succederà quando Forza Italia farà saltare l’accordo».

l’Unità 2.4.14
Gli idealisti con il broncio
E Grillo firma in difesa della Carta ma poi esige dai parlamentari il vincolo di mandato
di Massimo Adinolfi


L’appello promosso da Gustavo Zagrebelsky, Stefano Rodotà, Roberta De Monticelli e altri illustri professori contro il disegno di legge costituzionale approvato dal governo è stato subito adottato dal Movimento 5 Stelle: che cosa significa questa così repentina adesione? Che Grillo e Casaleggio sono i migliori custodi dei valori della Carta? È alquanto improbabile. «Il dialogo con la principale forza d’opposizione continua, ma io auspicherei che sulle riforme costituzionali si sviluppasse un confronto anche con il Movimento 5 Stelle, che costituisce un’importante parte del Parlamento» OnorevoleDelrio,leièilsottosegretarioallapresidenzadelConsiglioedèconsideratoilbracciodestrodelpremier. Forza Italia vi accusa di aver rotto il patto sulle riforme e chiede un nuovo incontro Berlusconi- Renzi...
«Mi pare che Berlusconi abbia confermato che si sente ancora impegnato nell’appoggiare le riforme, non vedo la necessità di rinnovare continuamente un impegno preso in modo solenne e pubblico. Il dialogo deve continuare e continuerà. Non serve che ogni due giorni ci sia una dichiarazione di rivisitazione di patti già presi»
Prima la riforma del Senato e poi l’Italicum quindi, la direzione non cambia?
«La direzione è stata presa, nel senso che il tema della riforma del Senato è prioritario anche per rendere più credibile la legge elettorale»
E il Senato riuscirà ad auto riformarsi e a varare l’Italicum entro il 25 maggio?
«Noi stiamo lavorando tantissime ore al giorno. Sono convinto che anche il Parlamento si rende conto dell’urgenza. Ho molta fiducia, ho visto i parlamentari impegnarsi molto intensamente nelle settimane scorse» Sì ma molti senatori chiedono di poter discutere senza fretta. «Credo che il tema sia quello della volontà di concludere un percorso che non deve avere nulla di frettoloso, ma non deve nemmeno diventare un luogo di palude o un’occasione per ricatti e veti incrociati. Abbiamo ben presente che stiamo cambiando la seconda parte della Costituzione e che stiamo cercando di darle un assetto più moderno, in linea con ciò che auspicavano già molti Costituenti. Stiamo cercando anche di correggere alcune storture insorte con l’interpretazione del Titolo V e la sua applicazione »
Corsa contro il tempo prima della campagna elettorale che di fatto è già iniziata...
«Già da queste prime settimane si capirà se c’è una volontà seria di procedere, o se ripartirà il solito antico vizio italiano del “benaltrismo” e della sacralità dello status quo. Noi abbiamo fatto un patto con la nostra maggioranza e con l’opposizione, quello di cambiare regole del gioco che vanno riscritte insieme. Ci può essere naturalmente una diversa sensibilità su alcune questioni, anche se io ho parlato per tanto tempo con esponenti di varie forze politiche. Partiamo da un punto di condivisione molto alto, perché c’è stato a monte un lavoro importante dei saggi nominati dal Quirinale, del Comitato insediato dal governo Letta, eccetera. Il nostro lavoro si inserisce nell’ottica di tutto ciò e segue quei consigli». C’è chi parla di testo improvvisato tuttavia... «Stiamo parlando di un testo piuttosto solido, tutt’altro che improvvisato. È chiaro che ognuno può dare un ulteriore contributo, ma non vorrei che persone che hanno partecipato magari alla stesura di documenti con gli stessi contenuti, si inventassero poi obiezioni che prima non c’erano. E non vorrei che questo si verificasse soltanto perché quel testo lo ha presentato il governo. I contributi vanno bene, ma vorrei ricordare ancora il lunghissimo percorso che ha preceduto la stesura del progetto di legge. Quel percorso è stato recepito in tantissime parti».
Un testo blindato, a questo punto?
«Ci sono alcune questioni non rinunciabili. Se si parla di queste il confronto è difficile da sostenere, se si parla di altro invece il dialogo è aperto. Tra l’altro sono previste due letture sia alla Camera che al Senato, e non mi sembra quindi che manchino il tempo e l’occasione per un confronto». Tra le strade che il governo considera impraticabili c’è l’elezione diretta dei rappresentati delle Regioni.
«Nel mio disegno di legge su province e città metropolitane, per fare un esempio, l’elezione diretta stravolgeva il senso degli organismi di area vasta, cooperativi e non competitivi. Se si vuole andare verso elementi semplificati e si vuole avere ruoli come quelli del Bundesrat tedesco, che si riunisce una volta al mese, il Senato non va pensato come una mini Camera, ma in modo diverso »
Se il riferimento è alla Germania perché la rappresentanza paritaria di Regioni e sindaci?
«La proposta che presentiamo è largamente condivisa dalle autonomie nel loro complesso. Certo uno può dire che i Consigli regionali hanno più attitudini legislative. Non stiamo parlando di un Senato che deve fare leggi in continuazione però, ma di una Camera Alta che deve valutare alcune tipi di leggi e gli effetti che queste avranno rispetto al mondo delle autonomie. Il problema centrale non mi sembra quello dell’equilibrio tra consiglieri regionali e sindaci»
Luciano Violante apprezza la proposta del governo, ma parla di scarto di rappresentanza tra Camera e Senato e pone un problema complessivo di contrappesi.
L’assunto è che grazie all’Italicum un partito che conquista il 30%, o anche meno, può diventare “il dominus” del governo, dell’elezione del Capo dello Stato, del Csm, e così via.
«Obiezioni come quelle del presidente Violante sono serie e forniscono materia su cui riflettere. Non voglio anticipare nulla, adesso. Mi sembra che il presidente Violante, però, ponga problemi che costituiscono il senso del lavoro che va fatto nelle prossime settimane e nei prossimi mesi. Considero il suo un contributo utile alla discussione. Il ricorso preventivo alla Corte costituzionale da parte di minoranze, l’attenzione a non determinare squilibri di garanzia costituzionale sono temi che vanno affrontati. Credo che il Parlamento li valuterà con grande attenzione. Siamo di fronte a contributi positivi, nel senso che dicono “l’impianto va bene, la riforma va fatta, ma stiamo attenti a questi nodi”. È il segno di un dialogo costruttivo che aiuta a determinare una decisione e non rimane accademico »
Molte fibrillazioni nel Pd e nella maggioranza. La stampa registra i numeri che mancherebbero al Senato per varare la riforma. L’allarme lo ha lanciato il presidente Grasso, ma è stato richiamato alla disciplina di partito.
«Nessuno si appella alla disciplina di partito, ma stiamo discutendo di onestà e responsabilità verso i nostri elettori. Il segretario del Pd ha fatto le primarie dicendo che se fosse stato eletto avrebbe portato a casa alcune riforme, a nome del Pd e per il bene del Paese. Il percorso che sta facendo questo governo è coerente rispetto a impegni presi anche da parte del Partito democratico. Un segno di rispetto verso i cittadini, le forze sociali ed economiche del Paese che da anni invocano queste riforme, i numerosi gruppi di studio che si sono avvicendati, la determinazione del Capo dello Stato. Confrontiamoci nel merito, ma senza mettere in discussione la direzione di marcia. Se qualcuno approfittasse di questa occasione per altri calcoli riporterebbe la credibilità della politica italiana ai minimi storici, e si assumerebbe la responsabilità di alimentare il populismo che non aspetta altro per dimostrare che questa politica è incapace di autoriformarsi.»

l’Unità 2.4.14
Parità di genere, iniziamo a cambiare dal voto europeo
di Valeria Fedeli


CARISSIME DEPUTATE, MI APPELLO A VOI, CHE CON CORAGGIO ED IN PIENA AUTONOMIA AVETE COMBATTUTO la battaglia per sostenere la modifica in senso paritario dell’Italicum, perché possiate sostenere con forza il ddl sulle elezioni europee in arrivo in questi giorni alla Camera e la sua veloce approvazione. Lo scrivo a voi, per dirlo in realtà a tutte le deputate e i deputati, perché so che il vostro lavoro in questa direzione è già partito. L’alleanza trasversale che avete saputo costruire e sostenere per modificare l’Italicum è stata guardata da me, e da tante che come me fanno politica con e per le donne, con ammirazione, accompagnando il vostro lavoro con azioni esplicite di sostegno: la dimostrazione che una stagione diversa delle relazioni tra donne è pienamente matura. Per questo non abbiamo mancato, noi che siamo al Senato, di sostenere con forza il vostro impegno, la vostra iniziativa, e come noi le tante associazioni di donne che da anni lavorano per la piena affermazione della democrazia paritaria.
Purtroppo il voto segreto ha bocciato le vostre, le nostre, qualificate proposte, ma quello che siete state capaci di fare non può smarrirsi dopo questa prima sconfitta.
La legge che abbiamo votato in Senato sulle elezioni europee prevede una norma «transitoria» per le prossime elezioni di maggio per il 2014, secondo la quale nel caso di tre preferenze espresse queste devono riguardare candidati di sesso diverso pena l’annullamento della terza. A partire dal 2019, poi, l’adozione della presenza paritaria nelle liste, l’alternanza nel ruolo di capolista e la preferenza di genere con seconda e terza preferenza annullate se il principio non viene rispettato.
Il ddl presentato originariamente, di cui ero prima firmataria, prevedeva parità di genere al 50 per cento e la doppia preferenza di genere sin dalle prossime elezioni. Questa proposta di legge era stata poi firmata da tutte e tutti i senatori Pd, da Scelta Civica, dal Nuovo Centro Destra, da esponenti di Forza Italia, dalla Lega, da senatrici dei 5 Stelle (che solo il giorno del voto, hanno ritirato la firma).
Malauguratamente non si sono realizzate le condizioni per avere la maggioranza dei voti a favore della proposta della relatrice Lo Moro in Aula. Si è dunque raggiunta una mediazione che rappresenta comunque un risultato, sancendo per legge un diritto che, nelle norme per le elezioni europee, non era finora riconosciuto.
Nel Parlamento europeo le deputate sono il 31% e solo il 21% in seno alla delegazione italiana (il quinto peggior dato tra tutti i Paesi membri). Vi appare dunque evidente come una norma che contribuisca ad un riequilibrio di genere nella rappresentanza al Parlamento europeo sia urgente e necessaria. È lì, in quel Parlamento, che si formano gli atti di indirizzo delle politiche comunitarie, politiche che senza lo sguardo delle donne sarebbero monche.
Non possiamo più accettare che la composizione delle delegazioni nel Parlamento europeo sia discriminatoria verso le donne. L’Europa è l’orizzonte istituzionale, politico ed economico nel quale costruire ogni nostra prospettiva, se vogliamo cogliere con serietà e credibilità le opportunità di ripresa e di rilancio.
Se vogliamo un’Europa che innovi il modo di considerare la propria funzione, che assuma la prospettiva della crescita, che scelga lo sviluppo etico e sostenibile per creare lavoro e benessere. Se vogliamo, di conseguenza, lavorare per la crescita e l’uguaglianza anche in Italia, non possiamo rinunciare al pieno contributo di donne e uomini, pieno contributo che deve partire dal riconoscimento delle differenze e dalla paritaria condivisione delle responsabilità e dell’impegno parlamentare, a livello nazionale e comunitario.
Il voto su questa legge è anche un primo banco di prova per reagire alla bocciatura dell’Italicum. Per questo vi chiedo di non arretrare e di lavorare, con lo stesso spirito che vi ha animato finora, per costruire consenso intorno alla proposta uscita dal Senato e farla diventare legge. Nel contempo, il nostro impegno al Senato sarà altrettanto determinato per l’introduzione nell’Italicum della norma antidiscriminatoria.
Ciascuna di voi può avere, anzi sicuramente ha, opinioni che avrebbero voluto una conclusione diversa: non ce ne sono state le condizioni numeriche e politiche. Non lasciamo comunque cadere questo parziale risultato, portando rapidamente in approvazione anche alla Camera il testo licenziato dal Senato.

Repubblica 2.4.14
Il Colle proroga gli ex manicomi “con rammarico”


ROMA. «Profondo rammarico», così in una nota del Quirinale il presidente Napolitano ha descritto il suo stato d’animo dopo aver firmato il decreto legislativo di proroga urgente della norma del dicembre 2011 che fissava la data di chiusura degli ospedali psichiatrici giudiziari al 31 marzo, ora rimandata all’aprile 2015. Il decreto legge 22 dicembre 2011, successivamente convertito in legge 17 febbraio 2012, fu adottato dopo un’indagine parlamentare che accertò le condizioni di estremo degrado degli istituti. Si tratta del terzo rinvio rispetto alla scadenza prevista dalla legge: all’origine, secondo il Quirinale, l’incapacità delle Regioni di dare «attuazione concreta a quella norma ispirata a elementari criteri di civiltà e di rispetto della dignità di persone deboli». Napolitano ha però espresso sollievo per gli interventi previsti nel decreto «per evitare ulteriori slittamenti e inadempienze, nonché per mantenere il ricovero in ospedale giudiziario soltanto quando non sia possibile assicurare altrimenti cure adeguate alla persona internata e fare fronte alla sua pericolosità sociale». In Italia sono ancora in funzione sei ospedali psichiatrici giudiziari, che ospitano circa mille detenuti.

Repubblica 2.4.14
“Nei campi 12 ore senza paga” i 100mila prigionieri dei caporali
di Valeria Teodonio


LATINA. Il sole è appena tramontato e Kumar può tornare a casa. Da 12 ore è chinato sui campi per seminare.
Ha le mani sporche di terra e la pelle già cotta dal sole. Per ogni ora passata piegato in due ha guadagnato meno di tre euro. Abita cinque chilometri più in là, vicino al Circeo, in 30 metri quadrati fatiscenti. Che divide con altri ragazzi indiani di etnia sikh come lui. Quanti, non lo dice.
È partito dieci anni fa, Kumar. Appena diciottenne ha lasciato il Punjab, regione nel nord-ovest dell'India. Ha salutato i genitori e la giovanissima moglie. Per arrivare in Italia ha dato seimila euro ai trafficanti di uomini. Seimila euro per diventare schiavo. Sfruttato dalle aziende che lo pagano una manciata di euro al giorno, sfruttato da chi gli affitta una casa squallida a un prezzo esagerato. E la storia di Kumar non è la peggiore che possiamo raccontare. Ci sono altri braccianti indiani nel Lazio che non guadagnano neanche quei pochi euro a giornata. Lavorano gratis per mesi, a volte anni: devono risarcire un debito inventato da chi li usa. Quando il permesso stagionale scade, i loro 'padroni' (così li chiamano) pretendono altri soldi. La scusa è che servono per pagare il permesso di soggiorno, che in realtà è gratuito. Chi non ha quei soldi è costretto a lavorare senza stipendio. Schiavo in piena regola. Lo sfruttamento riguarda Latina e altre decine di località italiane. Sono 22 le province in cui si registrano condizioni di paraschiavismo. In tutto 12 regioni, da nord a sud. A dirlo è il rapporto della Flai Cgil sulle agromafie curato dall'osservatorio Placido Rizzotto. «Nel nostro Paese si può azzardare una stima di 100mila braccianti gravemente sfruttati, in 5mila vivono in condizioni di schiavismo vero e proprio — spiega Francesco Carchedi, docente di Sociologia alla Sapienza di Roma — Sono assoggettati, ricattati, vivono in condizioni igieniche indecenti, spesso vengono ghettizzati. Molti vengono anche picchiati dai caporali, che prendono una percentuale sul lavoro degli immigrati ».
Gli addetti all'agricoltura in Italia sono un milione e 200mila. Un quarto sono stranieri, dicono i dati di Coldiretti. L'Istat parla del 43 per cento di lavoro sommerso. Dunque i lavoratori a rischio sfruttamento nel nostro Paese sono almeno 400mila. Di certo a migliaia restano sui campi anche 12, 14 ore al giorno. Anche per due euro e mezzo l'ora. Tre o quattro, quando va bene. Dovrebbero prenderne 8,60. «È una partita molto ricca — aggiunge Carchedi — un raccolto delle angurie fatto con gli indiani sfruttati, ad esempio, dura 20 giorni e costa 25 euro a giornata per ogni bracciante. Se si trattasse di italiani, costerebbe almeno 70 euro e durerebbe un mese e mezzo ». Il giro d'affari legato al business delle agromafie, secondo le stime della Direzione nazionale antimafia, è di 12,5 miliardi di euro all'anno. L'evasione contributiva legata al caporalato vale 600 milioni di euro.
I braccianti indiani non arrivano come clandestini. Alle organizzazioni che trafficano esseri umani danno fino a 8mila euro. In cambio hanno un biglietto aereo e un permesso di tre mesi per lavorare come stagionali. Per pagare questi viag- gi le loro famiglie si indebitano. Poi vengono ingaggiati da caporali, a Latina come nelle altre zone: all'alba li caricano sui furgoni e li portano sui campi. Dai lavoratori pretendono anche personali tasse giornaliere: 5 euro per il trasporto, 3,50 per il panino, 1,5 euro per ogni bottiglia d'acqua. Ma il caporale è solo l'ultimo anello di questa catena dello sfruttamento. Sopra di lui - quasi sempre un italiano - c'è un faccendiere, un avvocato o un commercialista. Che gestisce il giro degli affitti e dei permessi di soggiorno. Al di sopra c'è il capo dell'organizzazione, un uomo della malavita locale che si occupa del traffico di uomini. Campania, Puglia e Sicilia le regioni più colpite dal fenomeno: a Rignano Garganico (Foggia), esiste un enorme ghetto, un villaggio di baracche. Ci abitano 1.500 persone, quasi tutti africani, impiegati nell’industria del pomodoro.
Le campagne del Piemonte, invece, sono popolate soprattutto da braccianti dell'est Europa. A Saluzzo (Cuneo), e a Canelli (Asti), raccolgono le uve pregiate per produrre spumanti. Ma anche i tartufi. I braccianti vengono reclutati in Romania, Bulgaria e Macedonia, lo stipendio non supera i 300-400 euro al mese. Nel Lazio molti dormono nelle serre dove lavorano. Oppure nei templi dove pregano. Altri affittano appartamenti a prezzi esagerati dove vivono anche in 10. Kumar paga 500 euro per 30 metri quadrati: soffitti neri per l'umidità, materassi ammuffiti, mosche. Sopra il letto Kumar ha appeso la foto del suo matrimonio. Con l'abito tipico e il turbante rosso. «Il mio padrone di casa — racconta Kumar — mi ha portato una bolletta della luce da 575 euro. Poi ha detto: se non la paghi ti sparo ». Eppure, Kumar resta convinto che il suo datore di lavoro sia una brava persona. «Perché mi paga», spiega. E abbassa lo sguardo, gli occhi scuri e stanchi. «Ma sai che dovrebbe darti il triplo?», gli chiediamo. «Non ho alternativa», risponde con la voce che trema. Fermare questo sfruttamento non è semplice. La Flai, insieme agli altri sindacati di categoria di Cisl e Uil, ha presentato una proposta di legge per rendere trasparente il mercato del lavoro in agricoltura. In tutto, le persone arrestate o denunciate negli ultimi due anni per caporalato (reato introdotto solo nel 2011) sono 360. Ma resta difficile da provare, e non è scontato che si arrivi a una condanna.
Il sole è tramontato. Kumar sta tornando a casa. In sella alla bicicletta, forse, pensa a sua moglie. Ma in Italia non può, non vuole farla venire. Perché? Gli chiediamo. Ci risponde a labbra strette: 'Cosa le farei mangiare?'

Repubblica 2.4.14
Frequenze, sconto a Rai e Mediaset e lo Stato perde quaranta milioni
di Aldo Fontanarosa



ROMA. Rai e Mediaset hanno già lo champagne in freddo, per lo sconto milionario che vedono arrivare. Gli editori nazionali più piccoli si preparano invece a pagare cifre importanti, sia pure nel tempo. E le emittenti locali, anche loro, dovranno soffrire. Il Garante per le Comunicazioni (AgCom) sta per cambiare le regole e i pesi di una “tassa” che ricade sulle nostre televisioni, nazionali e locali, pubbliche e private. Si tratta del canone che questi editori devono allo Stato, ogni anno, per le frequenze tv. Ma la strada del provvedimento è in salita. La bozza provvisoria ipotizza che l’Erario, almeno in prima battuta, incassi meno soldi che nel 2011 e nel 2012. Circa 40 milioni in meno, nel 2014. Preoccupato di cadere in una mossa impopolare e temeraria, il Garante prenderà la sua decisione finale solo dopo aver «sentito la Ragioneria Generale dello Stato».
Fino ad oggi, gli editori nazionali hanno pagato, alla voce canone, l’1% del loro fatturato come stabilito fin dalla Finanziaria del 2000 (mentre le locali dovevano
un importo fisso di 17.776 euro). Il canone è stato progressivo perché gravava soprattutto sulle emittenti dai ricavi più alti. Al punto che Rai e Mediaset hanno assicurato il 96% del gettito totale (48-49 milioni) nel 2011 e nel 2012.
Ora, per la prima volta, il Garante applicherà le regole scritte nella legge 44 del 2012 (la stessa che disciplina l’asta per le frequenze televisive in corso in queste settimane). Nel nuovo regime, la “tassa” ricadrà sugli operatori di rete (cioè sulle società titolari delle frequenze e del relativo “diritto d’uso”: RaiWay per Rai, Elettronica Industriale Towers per Mediaset, ad esempio). Questi operatori di rete verseranno il canone sulla base di quantità e qualità delle frequenze, a prescindere dal fatturato della casa madre e delle televisioni.
Gli effetti di questo approccio sono molteplici. Primo, Rai e Mediaset pagheranno di meno (a regime lo sconto sarebbe superiore ai 10 milioni a testa, ogni anno). Secondo, gli editori nazionali minori pagheranno di più. E ancora. Alcuni editori nazionali minori — che fino a ieri pagavano zero euro — nel 2014 inizieranno a versare il canone, anche loro. Si tratta di emittenti finora esentate perché nate nell’era del digitale terrestre (come Dfree, H3G, Telecom Italia Media per due delle sue re- ti, ed altre). Infine le locali non verseranno più un importo fisso (17.776 euro), ma un canone commisurato - anche in questo caso - alle frequenze che hanno in mano e al bacino di popolazione raggiunto. La somma sarà pari a circa un terzo di quella versata dalle nazionali. Il Garante immagina che l’intero nuovo sistema vada a regime poco alla volta, in 5 anni.
La bozza del provvedimento viene discussa per la prima volta il 13 marzo. E il presidente Angelo Cardani - numero uno di Ag-Com - dà un colpo di freno. Non sfugge al suo occhio che lo Stato, in prima battuta, almeno nel 2014 incasserà di meno che negli anni precedenti (sarà sentita la Ragioneria, sul punto). E poi. Alcune emittenti hanno in mano frequenze - “binari” in banda 700 - che avranno un valore molto maggiore quando, dal 2016, saranno abilitate anche all’Internet mobile. Sarebbe normale che il canone pagato oggi allo Stato venisse poi aggiornato, dal 2016. La bozza tornerà all’esame del Garante il 24 aprile. Dopo l’eventuale sì, partirà una consultazione pubblica che permetterà a chiunque di dare un parere. Il via libera definitivo, solo questa estate.

La Stampa 2.4.14
Coltivare marijuana e immigrazione clandestina non saranno più reati
Via al piano di depenalizzazione. Lega e Fdi contro
di Francesco Grignetti

qui

l’Unità 2.4.14
Il Senato Usa: la Cia mentì sugli interrogatori-tortura
Waterboarding e violenza non hanno prodotto informazioni di rilievo per la lotta al terrorismo
di Gabriel Bertinetto


Brutali, bugiardi e inefficienti. Sono i funzionari della Cia che grazie alle leggi speciali varate durante la presidenza di George Bush jr hanno avuto per anni amplissima libertà d’azione nel contrasto del terrorismo. Per molti di loro quelle norme valsero come uno scudo al riparo del quale riservare impunemente atroci torture ai prigionieri durante gli interrogatori. È il quadro che emerge dall’indagine svolta a partire dal 2009 da una commissione del Senato americano. Tre volumi e 630 pagine di orrori. Il testo per ora è top-secret, ma alcuni media, il Washington Post in particolare, hanno divulgato parte del contenuto, di cui sono venuti a conoscenza.
Quello che più colpisce, assieme all’inumana violenza dei trattamenti inflitti in luoghi di detenzione illegali, è la loro totale inutilità. Pur di assicurarsi l’autorizzazione a continuare le torture, gli agenti della Cia hanno ingigantito l’importanza delle informazioni strappate alle vittime, e presentato ai superiori come materiale nuovo e scottante, confessioni che erano già state rese in precedenza.
Gli esempi sono numerosi. Significativo il caso di Abu Zubaida, un uomo che aveva il semplice compito di guidare le reclute di Al Qaeda ai campi di addestramento in Afghanistan. La Cia lo ha spacciato come una figura di primo livello nell’organizzazione. Tutto quello che sapeva Abu Zubaida l’aveva rivelato agli inquirenti durante la degenza in un ospedale pachistano. Per fargli ridire le stesse cose gli uomini dei servizi lo sottoposero 83 volte all’ormai tristemente noto waterboarding, l’immersione in acqua sino al limite del soffocamento.
Abbastanza simile è la vicenda di Hassan Ghul, che aveva ammesso di essere stato il più fidato corriere di Bin Laden negli anni in cui quest’ultimo se ne stava nascosto in Pakistan. Rivelazioni rese alla polizia prima di essere trasferito in una struttura clandestina della Cia, che se ne attribuì successivamente il merito come se Hassan Ghul avesse «cantato » solo dopo essere finito nelle sue grinfie.
CARCERISEGRETE Quel carcere segreto era in Romania. Non il solo Paese, a quanto pare, che abbia lasciato via libera ai torturatori dell’intelligence Usa. Un altro è la Thailandia. Qui però è avvenuto che parte degli 007 si siano rivoltati contro i metodi usati dai colleghi. Non è l’unico caso fortunatamente, stando al rapporto, in cui qualcuno nella Cia abbia dato ascolto alla propria coscienza.
Chi non era sottoposto al waterboarding, poteva essere costretto a prolungati bagni in acqua gelida. Gli aguzzini si avvalevano della consulenza di medici premurosi, che vigilavano sulla temperatura corporea del disgraziato per evitare che si raggiunsero livelli letali di ipotermia. Più difficile per i sanitari calcolare la forza con cui sbattere la testa del prigioniero contro il muro senza provocargli lesioni troppo gravi. Anche questo era un modo che alla Cia si considerava o si fingeva di considerare utile per sciogliere la lingua a un sospetto terrorista.
Il rapporto cita la dichiarazione di un funzionario del governo Usa che suona come un severo atto d’accusa verso il principale organismo dell’intelligence americana: «Al ministero di Giustizia e poi al Congresso la Cia descriveva il suo programma inquisitivo come volto a ottenere informazioni non altrimenti ricavabili per sventare complotti terroristici e salvare migliaia di vite. Era vero? La risposta è no».

Corriere 2.4.14
Torture, la Cia ha mentito al governo

di Guido Olimpio

WASHINGTON — Immaginate la scena. Un hangar in una base non precisata della Thailandia. Un presunto qaedista subisce torture da parte degli agenti Cia, forse lo infilano in una vasca di acqua e ghiaccio. Alcuni dei funzionari, sconvolti dal trattamento, se ne vanno. Un episodio. Uno dei molti raccontati nel rapporto di 6.300 pagine preparato dalla Commissione intelligence del Senato Usa, diretta da Dianne Feinstein (nella foto). Un documento che accusa la Cia di aver ingannato il Congresso.
Per il comitato l’intelligence si è resa responsabile di colpe gravi: 1) Ha esagerato il ruolo di alcuni militanti catturati. 2) Ha mentito nel sostenere che le informazioni ottenute con pressioni fisiche sono state determinanti per altre indagini, compresa la localizzazione di Bin Laden. 3) Ha nascosto forme di tortura. 4) Sono evidenti le contraddizioni tra quanto sostenevano le gerarchie dell’agenzia e la valutazione degli uomini sul campo. Insomma, una sorta di manipolazione per sostenere l’uso della forza per far parlare i detenuti. All’atto di accusa la Cia ha replicato affermando che il rapporto è inficiato da errori e conclusioni sbagliate. Inoltre la «company» ha fatto trapelare il suo dissenso verso l’Fbi che avrebbe indagato sui colleghi dell’intelligence. Vecchie ruggini tra le due grandi agenzie ampliate da contrasti recenti. Un evento citato nel documento aiuta a capire. Quando, nel 2002, gli americani catturano in Pakistan l’operativo di al Qaeda Abu Zubaida il primo a interrogarlo è un investigatore dell’Fbi, Ali Soufan. E sarebbe lui a ottenere informazioni importanti con un normale interrogatorio. Successivamente il terrorista passa alla Cia che lo sottopone per 83 volte al waterboarding, tecnica che simula l’annegamento. Secondo i senatori, che si sono avvalsi dell’aiuto di Soufan, si trattava di violenze senza alcuna utilità.

Repubblica 2.4.14
Il viaggio di Xi Jinping in Occidente
Cina, il grande mistero dell’imperatore leninista
di Timothy Garton Ash



PECHINO. È UN esperimento che il leader cinese sta portando avanti in patria. In breve, Xi tenta di trasformare la Cina in un’economia avanzata e in una superpotenza tridimensionale, attingendo alle energie del capitalismo, del patriottismo e delle tradizioni cinesi, il tutto però ancora sotto il controllo di quello che, nell’anima, resta uno stato-partito leninista. Xi sarà un imperatore cinese, ma è anche un imperatore leninista. Il suo è l’esperimento politico più sorprendente e importante sulla faccia della terra. Nessuno nel ventesimo secolo se lo aspettava. Nessuno, nel ventunesimo, sarà esente dall’impatto del successo odel fallimento di questo esperimento.
Nel lontano 1989, mentre il comunismo vacillava a Varsavia, Berlino, Mosca e Pechino, chi avrebbe mai detto che, a venticinque anni di distanza, saremmo ricorsi alla neo-sovietologia nell’analisi dei 60 punti della Decisione del terzo plenum del diciottesimo congresso del partito comunista, per capire bene in che modo la leadership cinese intenda promuovere la crescita economica del paese tenendolo al contempo politicamente sotto controllo. Dopo il trauma dell’affare Bo Xilai, Xi ha compiuto passi decisivi in direzione di un rafforzamento del potere del partito centrale e della sua personale posizione. Oltre ad assumere le tradizionali maggiori cariche delle forze armate nonché dello stato e del partito in tempi più brevi rispetto ai suoi predecessori, ha creato almeno quattro altri organismi di comando centrale, i “piccoli gruppi di testa”, competenti per la riforma economica, la sicurezza dello stato, la riforma militare e, significativamente, Internet. «Più di Mao!» lamenta contrariato un membro riformista del partito.
Molti reputano che la guerra dichiarata alla corruzione sia mirata a colpire l’ex capo dell’apparato di sicurezza dello stato nonché membro del vertice del partito, Zhou Yongkang. Bisogna cacciare sia le tigri che le mosche, dice la propaganda del partito con una delle sue metafore esopiche. Da un certo punto di vista potrebbe sembrare una seria presa di posizione contro la corruzione imperante ai massimi livelli dello stato partito. Da un altro rientra nel novero delle tradizionali manovre del nuovo leader che tutela il proprio potere contro reali o potenziali fazioni all’interno del partito. È una purificazione, ma anche una purga. Intanto si cancellano gli account dei blogger scomodi, si incarcerano i dissidenti e si blindano le province insofferenti.
Però, potreste obiettare, la Pechino del 2014 è distante anni luce dalla Mosca del 1974, per non parlare di quella del 1934! Avete ovviamente ragione. A Pechino o Shanghai, si vaga tra le mille luci dei centri commerciali per incontrare uomini d’affari astutissimi e sofisticati, giornalisti, opinionisti e accademici che parlano liberamente quasi di tutto. Gli executive e i miliardari di Internet parlano californiano. Gli imprenditori di successo attingono alla storia antica cinese, al confucianesimo e al buddismo per dare un senso al post-materialismo. I livelli di consumo sono alti, lo stile di vita è cosmopolita e all’ultima moda, ma sono vivi anche l’orgoglio nazionale e il senso di ottimismo storico. Gli studenti brillanti e ambiziosi entrano a frotte nel Partito Comunista, non mossi da convinzioni egualitarie ma per motivi di carriera misti a patriottismo. Ho chiesto a uno di questi giovani membri del partito in che senso, ammesso che ne esista uno, questo paese è un paese comunista. «Beh, è governato dal Partito Comunista», ha detto. Gli è sembrata una risposta perfettamente esauriente.
Il Partito riconosce esplicitamente l’esigenza di poter contare su un maggior numero di forze di mercato. Ha annunciato l’intenzione di fare un falò della burocrazia che frena le piccole e medie imprese, anche se i giornalisti cinesi che osservano queste società sul territorio nutrono dubbi sulla loro capacità di affermarsi in concorrenza con le imprese statali tuttora dominanti, dotate di forti connessioni politiche. Li Keqiang, l’abile primo ministro dello stato partito, si rende perfettamente conto dell’enorme peso delle sfide economiche individuate dagli esperti, cinesi e stranieri, come la crescita del debito, la bolla immobiliare e la troppo esigua domanda interna di consumo.
A mio avviso quindi non è vero che non c’è nulla di nuovo sotto il sole cinese (ammesso che riusciate a vederlo dietro la cortina di smog). Anzi, c’è un cocktail frizzante di vecchio e nuovo. Meglio non o perdere di vista il vecchio che c’è dentro il nuovo e che non immaginare che il linguaggio da Politburo del terzo plenum del partito sia puramente formale. Ovunque si guardi, fabbriche, giornali, aziende agricole, università, il segretario del partito ha un potere decisivo. Esistono comitati o cellule del Partito comunista all’interno delle aziende private, incluse quelle di proprietà straniera. Molti sono apertamente riconosciuti, alcuni forse no. (Sarebbe interessante sapere chi è l’uomo del partito nell’operazione che ha portato alla realizzazione del sito del Financial Timesin lingua cinese. Perché non intervistarlo al ristorante per la rubrica del sabato della testata, Lunch with the F-T?) Nel momento in cui Xi e i suoi colleghi del comitato permanente del Politburo si sono attivati per consolidare il proprio potere e stabilire la rotta è chiaro che “l’approfondimento delle riforme” di Xi verrà realizzato tramite un più forte controllo del partito. Da anni ormai molti miei amici, cinesi e stranieri, membri del partito e critici dichiarati, attendono passi avanti in direzione di una maggior separazione tra stato e partito, una più autentica legalità (invece del mero legalismo) , maggiore spazio alle ong e un dibattito pubblico più aperto. Qualche rimasuglio di queste speranze permane nell’attuale pacchetto di riforme — ad esempio i tribunali risponderanno almeno ad un’autorità superiore dello stato partito invece di essere controllati direttamente da pari livello dei quali dovrebbero regolare i poteri. Ma non c’è molto altro. In una direttiva del partito dalla denominazione squisitamente orwelliana, il Documento numero 9, sono elencate sette idee apparentemente sovversive che il buon compagno non deve tollerare. Tra questi sette tabù figurano la democrazia costituzionale, i valori universali e la società civile.
Dato che i prossimi anni saranno critici per l’economia cinese, si pone un interrogativo preciso, che non riguarda più la possibilità che la riforma politica evolutiva, la graduale maggior trasparenza, i meccanismi equilibratori di tipo costituzionale, la libertà di espressione e il dinamismo della società civile vengano utilizzati a complemento e rafforzamento della riforma economica. Ci si chiede invece se uno stato partito rinvigorito sfruttando in misura senza precedenti le energie del capitalismo, del patriottismo e delle tradizioni cinesi del passato, possa riuscire a padroneggiare le sfide sempre più ardue poste da una continua modernizzazione.
La risposta è ….? Nell’arco di qualche ora parlo con due dei massimi corrispondenti stranieri in Cina, entrambi molto ben informati. La diagnosi che fanno è pressoché identica, le previsioni straordinariamente diverse. L’uno pensa che il partito possa ancora mantenere il carrozzone gestendo con intelligenza lo sviluppo guidato dallo stato. L’altro ipotizza il crollo economico, la rivolta sociale e lo sconvolgimento politico. In breve, nessuno sa rispondere. Ma almeno l’interrogativo dovrebbe esser chiaro. ( Traduzione di Emilia Benghi)

Corriere 2.4.14
La stretta di Xi sui generali

«Processate i corrotti».  Ma la vecchia guardia del partito si ribella
di Guido Santevecchi

 PECHINO — Ci sono due processi per corruzione e attività criminali che si sono aperti contemporaneamente in Cina questa settimana. I giornali statali parlano in prima pagina degli imputati e dei loro intrecci con sistemi di potere politici.
Il generale Gu Junshan, 57 anni, ex vice capo dei servizi logistici dell’esercito, è accusato di essere stato tanto corrotto e ladro da vivere in una casa a forma di Città proibita che aveva all’ingresso una statua d’oro di Mao, una cantina così piena di lingotti e di bottiglie pregiate che ci sono voluti due grossi camion e venti uomini per portare via il bottino. Gu è l’ufficiale più alto in grado a finire di fronte ai giudici dal 2006: un affronto al prestigio delle forze armate, tanto grave che il caso «non può essere reso completamente pubblico a causa delle implicazioni per la sicurezza nazionale», scrive il Quotidiano del Popolo .
L’altro processo è pubblico: alla sbarra Liu Han, 48 anni, miliardario delle miniere che aveva alle sue dipendenze un esercito privato per regolare i conti con i concorrenti.
Ma c’è un terzo uomo del quale la stampa governativa non è autorizzata nemmeno a fare il nome: si tratta di Zhou Yongkang, 71 anni, fino a marzo dell’anno scorso capo dei servizi di sicurezza della Repubblica popolare cinese. Era venuto su da ranghi il compagno Zhou: aveva cominciato come ingegnere petrolifero ed aveva finito come membro del Comitato permanente del Politburo; intorno si era costituito una corte di parenti, alti dirigenti, protetti in molti settori industriali e politici e un giro di molti miliardi. Da ottobre è scomparso nel nulla, si dice che sia agli arresti domiciliari con la moglie, una ex star della tv. Tutte le notizie che riguardano il suo caso sono state pubblicate dalla stampa di Hong Kong (territorio ad amministrazione speciale) o dai giornali internazionali. L’ultima rivelazione è dell’agenzia Reuters ed è gigantesca per le proporzioni: 300 arresti compreso il figlio e altri familiari di Zhou, i suoi quattro segretari particolari, i capi delle industrie petrolifere che avevano fatto carriera grazie a lui; sequestrate centinaia di ville, appartamenti, oro, opere d’arte, titoli azionari per un totale di 90 miliardi di yuan, più di dieci miliardi in euro.
Queste informazioni non sono ufficiali, perché il presidente Xi Jinping non è ancora riuscito a trovare il consenso tra i vecchi leader del partito per processare «la tigre». Troppo imbarazzante dover spiegare ai cinesi che un ex membro del Comitato permanente del Politburo, invece di servire il popolo, era al centro di un sistema di corruzione enorme. Ma poco alla volta i giornali di Pechino sono stati autorizzati a scrivere che il figlio di Zhou è stato arrestato e hanno rivelato che il giovane era anche in rapporti d’affari con Liu Han, il miliardario mafioso e assassino delle miniere.
Ormai l’accerchiamento di Zhou Yongkang è completo. O quasi. Fonti anonime hanno detto al Financial Times che contro il processo si è levata la voce di Jiang Zemin, ex capo dello Stato, in pensione dal 2003: la campagna anticorruzione di Xi Jinping, puntando così in alto, rischierebbe di destabilizzare il vertice del Partito comunista. Dello stesso parere sarebbe anche Hu Jintao, successore di Jiang e immediato predecessore di Xi. Mettendo sul banco degli imputati generali corrotti e l’ex capo dei servizi segreti, il nuovo presidente gioca una carta rischiosa per ripulire la Cina e consolidare il suo potere personale. Quando (se) il nome di Zhou Yongkang finirà in prima pagina sul Quotidiano del Popolo , Xi avrà vinto.

Repubblica 2.4.14
La presidente Kirchner madrina
Nell’Argentina di Papa Francesco verrà battezzata la figlia di 2 donne
di Omero Ciai e Paolo Rodari



IL PROSSIMO sabato la piccola Umma Azul sarà battezzata nella cattedrale di Córdoba, città del centro dell’Argentina, e una delle due madrine sarà Cristina Fernández Kirchner. La presenza della presidente è stata chiesta da Karina Villarroel e Soledad Ortiz, la coppia di donne omosessuali di cui la bambina è figlia. Una coppia diventata nota in seguito a una recente polemica innescata da Villaroel: poliziotta di professione, ha chiesto ai suoi superiori un permesso di maternità di quattro mesi pur non essendo lei la madre naturale di Umma Azul.
In Argentina è la prima volta che viene battezzato il figlio di una coppia gay. Prime a Córdoba a usufruire della legge sul “matrimonio egualitario”, Karina e Soledad sanno che senza l’elezione al soglio di Pietro di Jorge Mario Bergolgio il battesimo difficilmente
si potrebbe celebrare. Beninteso, difficile che Francesco sia stato informato della decisione. Ma resta evidente che senza i suoi richiami al fatto che tutti i bambini, anche quelli nati fuori dal sacramento del matrimonio, siano battezzati, la celebrazione di sabato sarebbe potuta essere negata. Diceva Bergoglio nel 2012: «Lo dico con dolore, se suona come una denuncia o un’offesa, perdonatemi: nella nostra regione ecclesiastica ci sono presbiteri che non battezzano i bambini delle madri non sposate perché non sono stati concepiti nella santità del matrimonio ». Fra questi non c’è l’arcivescovo di Córdoba, Carlos Ñáñez. Seppure sia stato lui, nel 2010, ad avviare un processo canonico contro un sacerdote che aveva appoggiato la legge sul matrimonio gay. Ma un conto è approvare il matrimonio fra gay, un passo, fra l’altro, che Bergoglio non ha mai detto di voler fare: «Sono un figlio della Chiesa», risponde quando gli si chiedono lumi su sue presunte rivoluzioni dottrinali. Un altro è “sequestrare” il sacramento che segna l’inizio della vita cristiana, «l’espressione di un neo-clericalismo rigorista quanto ipocrita, che tratta anche i sacramenti come strumenti per affermare la propria supremazia», ha scritto su Vati-can Insider Gianni Valente. Secondo Bergogliotale modus operandi stravolge e rinnega la dinamica dell’incarnazione di Cristo, ridotta a slogan dottrinale per operazioni di potere religioso. «Gesù — ha detto Bergoglio — non fece proselitismo: accompagnò. E le conversioni che provocava avvenivano per questa sua sollecitudine».
È a Buenos Aires, a Plaza Costituciòn, quartiere difficile a causa di spaccio, prostituzione e criminalità, che le parrocchie allestiscono da diversi anni la Carpa misionera, la tenda missionaria, dove sacerdoti e laici distribuiscono ai passanti santini e preghiere. Spesso c’è anche un cartello: “Bautismos aquí”, “battesimi qui”. Dice a Repubblica padre Josè Juan Cervantes, responsabile del Comitato migrazione della diocesi: «A Costituciòn Bergoglio veniva a dire messa. Ha aiutato a liberare tante baby prostitute dalla strada. Alcune gli chiedevano di battezzare i propri figli e lui con gioia acconsentiva. Diceva: “La misericordia proviene da Dio e non spetta a noi negarla o limitarla”».

Repubblica 2.4.14
Fine corsa per Abu Mazen la Palestina cerca il nuovo Arafat
di Fabio Scuto


RAMALLAH. SFRECCIANO per le viuzze della capitale “de facto” dei palestinesi i Suv blindati che portano i negoziatori americani per l’ennesima volta alla Muqata dal presidente Abu Mazen. Vent’anni dopo gli accordi di Oslo, quel negoziato di pace che aveva acceso tanti entusiasmi, è giunto alla fine della corsa. Se le speranze di salvare la trattativa sono legate alla liberazione di Johanatan Pollard, una spia israeliana da 25 anni in un oscuro carcere di massima sicurezza degli Usa, vuol dire come dice
qualcuno qui a Ramallah che «il negoziato di pace è un cane morto». Ma se il crollo delle speranze di pace lasceranno probabilmente in sella il premier Benjamin Netanyahu - che guida un governo di coalizione con la destra dei coloni - anche se con qualche aggiustamento, finiranno invece per travolgere questa leadership palestinese definita «la più moderata», anche dal presidente israeliano Shimon Peres, a partire dal presidente Abu Mazen.
Per l’anziano leader palestinese - 79 anni, una salute malferma - è già partita l’ultima corsa, perché alla fine anche la piazza dopo vent’anni di attesa è adesso delusa, stanca, e ne ha abbastanza di questi leader tutti ultra-settantenni accusati di «aver voluto credere alle bugie di americani e israeliani». Nella Anp, così come dentro Fatah, si prepara una notte dei lunghi coltelli, una resa dei conti, per chi alla fine guiderà i palestinesi (forse) verso l’indipendenza. Una volta era un argomento tabù, adesso in ogni caffè di Ramallah si parla della successione ad Abu Mazen.
Avanzano giovani leader che a gran voce, e con in tasca i petro-dollari del Golfo, che chiedono la testa di Abu Mazen e un cambio di rotta totale dell’Anp, come Mohammed Dahlan - l’ex delfino di Arafat in esilio dal 2010 negli Emirati - Jibril Rajub, oggi potente commissario del Cio palestinese ma un tempo capo dei servizi segreti in Cisgiordania. E Marwan Barghouti, l’ex capo dei Tanzim di Fatah in cella in Israele con cinque ergastoli. Al divenire dei prossimi avvenimenti in Palestina è intrecciato il destino di questi tre esponenti della “nuova guardia”.
Dalla richiesta di un boicottaggio internazionale di Israele a proteste di massa per chiedere un riconoscimento maggiore alle Nazioni Unite. Sono solo alcune delle opzioni che i palestinesi stanno valutando come “piano B” se i negoziati in corso con gli israeliani dovessero portare a un nulla di fatto. La strada più ardua, quella che gli israeliani vedono come una minaccia, è quella di cercare di denunciare Israele al Tribunale penale internazionale per i crimini di guerra commessi dall'esercito nella Cisgiordania occupata. In un recente studio del “Centro palestinese di politica e ricerca” intitolato “The Day after” si prevede lo scioglimento dell'Autorità nazionale palestinese e la crisi dell'economia della Cisgiordania con stipendi non pagati e fallimento di banche, illegalità dilagante e ritorno ai giorni in cui le milizie provocavano il “caso” tra israeliani e palestinesi. L'Anp potrebbe proprio collassare nel caso in cui i palestinesi decidessero di rivolgersi al Tribunale penale internazionale e gli Stati Uniti e Israele decidano di vendicarsi interrompendo flusso di denaro e altre forme di sostegno. In questo caos potrebbero trovarsi i vertici palestinesi e la faida interna che è iniziata da qualche settimana non aiuta. Veleni, accuse, avvisi, minacce, e poi alla fine l’immancabile sventagliata di kalashnikov. Da tempo a Ramallah si spara la notte, contro le case, contro le macchine, un stile politico che qualche sociologo contemporaneo potrebbe definire clanico- mafioso. Abu Mazen avrebbe voluto nominare un vice qualche settimana fa e nel Comitato esecutivo di Fatah si è svolta una consultazione informale. Tutti e 47 i biglietti depositati dentro un vaso di vetro sul tavolo sono risultati bianchi: nessuno si è voluto schierare. Si è già schierato apertamente invece Mohammed Dahlan, il ras di Khan Younis, ex capo della sicurezza preventiva nella Striscia di Gaza, da quattro anni in esilio nel Golfo, dopo lo scontro frontale con Abu Mazen che definì un «debole» e inadatto alla guida dell’Anp. Accuse che si sono estese poi ai due figli del presidente, con ombre su alcuni guadagni illeciti. In mezzo ci fu un quasi-golpe che però non andò in porto e Dahlan fu espulso da Fatah e dalle cariche nell’Olp, mentre decine di uomini a lui fedeli venivano arrestati. Un “pronunciamento” al quale non era estraneo nemmeno Nasser al Kidwa, il nipote prediletto di Arafat, finito in ombra. Adesso, il cinquantenne che piaceva tanto ai Clinton, sostenuto da potenti finanziamenti del Golfo, dall’amicizia con i generali egiziani, lancia apertamente la sua sfida ad Abu Mazen, che replica adesso accusandolo di ogni nefandezza, compresa quella di essere coinvolto nell’assassinio di Yasser Arafat, sospende dal servizio gli uomini rimasti fedeli a Dahlan. Altri, come l’ex ministro Sufian Abu Zaida, si sono visti invece mitragliare la macchina la notte come segno di avvertimento. Una rappresaglia a cui non è sfuggita nemmeno la casa a Ramallah di Jibril Rajub, i cui vetri del piano terra sono stati frantumati da raffiche di AK-47 in piena notte. Avvertimenti che non sembrano però intaccare la fiducia Dahlan. «Tornerò presto in Palestina », dice al telefono dal Cairo, «e non sarà per fare qualsiasi cosa».

Corriere 2.4.14
La medicina dei nazisti e le atrocità sugli ebrei si studiano all’università
Il primo corso si terrà alla Sapienza
di Paolo Conti


Il titolo basta per capire la sostanza: «Medicina e Shoah». Lunedì 14 aprile alle 15, nell’Aula A1 del Dipartimento di Scienze odontostomatologiche e maxillo facciali della facoltà di Medicina de «La Sapienza» di Roma in via Caserta 6, comincerà il primo corso universitario al mondo dedicato alla catastrofe dell’Olocausto esaminata attraverso la medicina, in particolare quella inumanamente applicata ad Auschwitz-Birkenau: l’atroce vicenda delle sperimentazioni scientifiche sulle donne e gli uomini ebrei. Le inquietanti figure di Josef Mengele, che usò come cavie umane persino i bambini internati per i suoi esperimenti di eugenetica, e di Carl Clauberg, il ginecologo che proprio ad Auschwitz-Birkenau condusse le sue «ricerche» sulla sterilizzazione costringendo centinaia di donne a sottoporsi a un suo «metodo» che provocava giorni e giorni di indicibili dolori alle ovaie, portando quasi sempre a una terribile morte. Si studierà insomma il rapporto tra scienza medica e ideologia nazista, e le sue ripercussioni nelle persecuzioni razziali.
Racconta Marcello Pezzetti, direttore scientifico del Museo della Shoah, professore dell’Università di studi sulla Shoah situata presso il museo Yad Vashem di Gerusalemme, portavoce per l’Italia della Task force internazionale per la didattica della Shoah in Europa: «Sono sinceramente molto soddisfatto. Questo esordio assoluto sta interessando numerose realtà didattiche non solo italiane. Stiamo già chiudendo un accordo con l’Università di Trieste che, interessatissima, ci ha chiesto di organizzare un corso analogo, creando così una triangolazione tra le due università e il Museo della Shoah».
Tutto è nato, racconta Pezzetti, due anni fa con alcuni incontri all’università «La Sapienza» dedicati proprio al tema dei campi di concentramento e soprattutto al ruolo di medici e infermieri tedeschi nel progetto T4, l’operazione eutanasia che coinvolse prima i disabili poi i Rom e infine gli ebrei internati. Pizzetti racconta che l’interesse fu enorme e portò anche a un viaggio ad Auschwitz al quale parteciparono medici e infermieri ebrei e non ebrei sia della facoltà di medicina de «La Sapienza» che dell’Ospedale Israelitico di Roma: «Di lì nacque l’idea di un corso di aggiornamento scientifico per il personale medico, che ebbe 120 iscrizioni. E quel successo ci convinse che sarebbe stato possibile dare vita a un vero e proprio corso universitario, con tanto di lezioni, di esami e di voti finali. Stavolta il consenso è stato persino maggiore: superiamo le 200 adesioni».
La direzione scientifica del corso è stata affidata a Fabio Gaj, docente di Chirurgia generale a «La Sapienza» e presidente dell’Associazione Medici Ebrei, e a Silvia Marinozzi, storica della medicina. Ma le diverse lezioni verranno tenute da vari studiosi. Lunedì 14 aprile, per esempio, il primo incontro su «T4 - l’Operazione eutanasia- dall’uccisione dei disabili allo sterminio degli ebrei, uno sguardo sui persecutori» verrà tenuta da Sara Berger, ricercatrice della Fondazione Museo della Shoah. Il 28 aprile Libera Picchianti, sempre della Fondazione Museo della Shoah, e Fabio Gaj illustreranno la storia delle cavie umane sottoposte alla sperimentazione nazista e quindi si affronterà il nodo delle sterilizzazione di massa. Infine il 5 maggio Antonio Pizzuti, ordinario di Genetica Medica, parlerà su «Eugenetica, le origini del razzismo biologico» e Gilberto Corbellini, studioso di Bioetica ed Epistemologia Medica, partirà dal processo di Norimberga per approdare alla bioetica contemporanea e al consenso informale. L’orario delle lezioni sarà dalle 15 alle 17.30.
Per l’occasione, Marcello Pezzetti e il museo della Shoah hanno ristampato il volume di Désire Haffner «Aspetti patologici del campo di Auschwitz-Birkenau». Si tratta di una tesi di laurea dello stesso Haffner, medico ebreo deportato ad Auschwitz nel 1942 e laureatosi dopo la Liberazione, che la pubblicò clandestinamente in Francia quattro anni dopo. Il volume è stato presentato a più riprese qui a Roma nel 2012. Ma oggi assume una rinnovata, straordinaria valenza come tassello anche storico-scientifico del tragico affresco della Memoria legata alla tragedia della Shoah.

Corriere 2.4.14
Plebisciti e referendum nella storia nazionale italiana
risponde Sergio Romano


La posizione critica dell’Occidente verso l’annessione della Crimea da parte della Russia sembra unanime. In particolare si stigmatizza l’illegittimità del referendum senza, tuttavia, argomentarne le motivazioni. Peraltro, anche l’unificazione dell’Italia è passata attraverso referendum, allora definiti plebisciti, e successive annessioni. L’esito di quelle consultazioni, con
maggioranze, si direbbe oggi, bulgare, presumibilmente non rifletteva la posizione dell’intera popolazione in assenza di suffragio
universale. Ciò nonostante
la consultazione legittimò l’annessione di Stati sovrani
al Regno d’Italia. Quale fu la reazione delle altre potenze verso i referendum e le annessioni da parte del Regno d’Italia? I governi stranieri
e la comunità internazionale
si rifiutarono di riconoscere i nuovi assetti?
Raffaello Savarese

Caro Savarese,
Il referendum in Crimea è considerato illegale perché contrario alla Costituzione ucraina dove è scritto che a ogni consultazione sulla domanda d’indipendenza di una parte del Paese debba partecipare l’intero elettorato nazionale. Naturalmente quella norma non fu scritta per disciplinare i referendum, ma per renderli impossibili.
I dubbi sulla legittimità dei plebisciti italiani sono un fenomeno recente e corrono parallelamente alla crisi dello Stato centrale e dei suoi servizi fondamentali. Delusi da Roma e da molte istituzioni nazionali, i veneti sognano la resurrezione della Serenissima, i napoletani rimpiangono il «felice» Regno dei Borbone, i friulani e i triestini celebrano il genetliaco dell’imperatore Francesco Giuseppe, qualche toscano rimpiange il Granduca. Per coloro che nutrono questi sentimenti i plebisciti non furono libere manifestazioni di volontà popolare, ma eventi organizzati dalle nuove autorità e da quelle minoranze che desideravano l’unificazione all’ombra del Piemonte. Non è del tutto inesatto. Bettino Ricasoli, patriota toscano, presidente del Consiglio dopo la morte di Cavour e grande proprietario di terre nella provincia di Siena, organizzò la partecipazione popolare con queste istruzioni: «(…) gli intendenti agricoli a capo dei loro amministrati, il più influente proprietario rurale a capo degli uomini della sua parrocchia, il cittadino più autorevole a capo degli abitanti di una strada, di un quartiere ecc. (…) ordineranno e condurranno gli elettori alle urne della Nazione in gruppi o in file più o meno numerosi, ma sempre disciplinati e procedenti in buon ordine. In testa sarà la bandiera italiana; ciascuno deporrà nell’urna la propria scheda, poi si ritirerà e in un punto determinato il gruppo si scioglierà con quella calma e quella dignità che proviene dalla coscienza di avere compiuto un alto dovere». Ma sarebbe stato possibile fare diversamente in un Paese dove l’analfabetismo, in alcune regioni, era superiore all’80% della popolazione?
I plebisciti, d’altro canto, hanno una importanza che non sfuggiva neppure ai rappresentanti della sinistra mazziniana. Vittorio Emanuele II, da quel momento, non avrebbe più regnato soltanto «per grazia di Dio», ma anche «per volontà della nazione»; e alla volontà della nazione avrebbe dovuto piegarsi 85 anni dopo, grazie a un’altra consultazione popolare, il pronipote Umberto.
Alla sua ultima domanda, caro Savarese, rispondo che l’influenza dei plebisciti sulla posizione dei governi europei ebbe una modesta importanza. I Paesi che riconobbero l’Italia lo fecero nella realistica convinzione che esistesse ormai nel Mediterraneo un nuovo Stato con cui sarebbe stato necessario avere rapporti ufficiali. Quelli che tardarono a riconoscerlo, come l’Impero russo e la Santa Sede, lo fecero nella speranza che questa creatura fosse gracile e destinata a scomparire in breve tempo. Tutti i nostalgici degli Stati preunitari commettono probabilmente lo stesso errore.

Corriere 2.4.14
Il primo Meneghello: un artista bambino e le piccole storie di Malo
«Dio era vecchio e in gamba, severissimo»
di Gian Antonio Stella


«Questa sera io non so cosa a scrivere e alora o fato queste parole domani di sera speriamo che ci suceda qual che cosa». Era il 14 aprile 1928 quando, con una grafia incerta e un mucchio di errori, lo scolaretto Luigi Meneghello riempì così la pagina 7 del suo diario.
Da due giorni, i quotidiani traboccavano di indignazione per l’attentato dinamitardo contro Vittorio Emanuele III alla Fiera di Milano in cui erano morte venti persone e moltissime altre erano rimaste ferite. Un bilancio pesantissimo e destinato ad aggravarsi. Il giorno prima, il «Corriere» aveva titolato: «La virile reazione della cittadinanza milanese all’atto terroristico presso la Fiera». Quella mattina: «Il Re lascia la Lombardia dopo nuovi imponenti manifestazioni d’affetto». In Italia non si parlava d’altro. Ma cosa ne sapeva un bambino di sei anni compiuti da un paio di mesi che viveva col papà, la mamma e il fratellino Bruno in contrada San Bernardino a Malo, nella campagna vicentina non ancora stravolta dallo sviluppo industriale?
È pieno di errori quel piccolo diario dalla copertina scarlatta che la maestra Prospera avrebbe tempestato di cancellazioni e sottolineature con la matita rossa e blu. Per non dire del miscuglio (anzi, lui avrebbe detto «smisioto») di italiano e di dialetto impastati insieme. Insomma, non c’è velleità letteraria o editoriale nella riscoperta di questo libriccino ritrovato per caso e ristampato dal Comune di Malo uguale identico all’originale, comprese le pagine vuote, a mezzo secolo dalla pubblicazione dei due libri forse più famosi dello scrittore vicentino: Libera nos a malo e Piccoli maestri .
Sono solo pensierini di un bambino della prima elementare, figlio di un meccanico che aveva con i fratelli un’officina e una piccola linea di torpedoni, uno scolaretto che certo non immaginava che sarebbe diventato docente universitario a Reading, collaboratore della Bbc, scrittore di successo. «Questa sera il mio fratello Bruno non ha voluto mangiare il caffè ed io continuavo a dirli bevi il caffe». «Questa sera andando fuori mi sembrava daver fredo le ganbe e volevo a Metermi le calse di lana». «Questa sera sono andato aleto e quando sono levato su la mia nonna mi dise che non sono andato a dottrina». «Quest’oggi il falegname ha fatto la scala nuova della galetiera». Il deposito dove le famiglie di allora tenevano i bachi da seta.
Storie piccolissime di vita quotidiana. Senza neppure l’eco lontana dell’indottrinamento di regime. Men che meno il rispetto per l’ordine mussoliniano di scrivere sempre accanto alla data, in numeri romani, l’anno dell’era fascista, che era il VI. Solo un piccolo cenno il 21 aprile: «Questa volta in vece sono stato a casa perche e il Natale di Roma. e anno deto che facevano il corteo».
Sfogliando il diario, però (forse per autosuggestione, chissà…), ti par di riconoscere due delle cose che hanno fatto grande Meneghello. La prima è la curiosità abbinata a uno stupefacente spirito di osservazione per i fatti di tutti i giorni che avrebbe poi travasato nei suoi libri, come appunto Libera nos a Malo : «Qui in paese quando ero bambino c’era un Dio che abitava in chiesa, negli spazi immensi sopra l’altar maggiore dove si vedeva infatti sospeso in alto un suo fiero ritratto tra i raggi di legno dorato. Era vecchio ma molto in gamba (certo meno vecchio di San Giuseppe) e severissimo; era incredibilmente perspicace e per questo lo chiamavano onnisciente, e infatti sapeva tutto e, peggio, vedeva tutto».
La seconda è l’arte innata, che avrebbe affinato negli anni, di mischiare, come forse nessun altro ha saputo fare, due delle sue lingue più amate e poi studiate, il dialetto veneto e l’italiano. La terza, come noto, sarebbe stata l’inglese. Che lui spiegava di conoscere e assaporare fino in fondo proprio perché era cresciuto imparando filastrocche come «potacio batòcio spuacio pastròcio / balòco sgnaròco sogato pèocio…»
Per questo non capiva le famiglie di un Veneto arricchito che si liberavano del dialetto come di un vecchio comò e chiamavano i figli Kevin invece di Bepi e Ketty invece di Catina o perfino, a Chioggia, «Mongomericlif», che nell’intenzione della madre sarebbe stato «Montgomery Clift Boscolo»: «Se oggi sono padrone non solo dell’italiano ma anche dell’inglese è perché sono padrone del dialetto. È vero, però, che in questa rimozione c’entra anche, benché inespressa, un’altra preoccupazione molto più profonda: farla finita con ogni richiamo al mondo della povertà, delle strettezze e delle tribolazioni, sentite come “cose in dialetto”. L’ho scritto: “Ora che abbiamo cominciato a mutilare i bambini, bisogna rassegnarsi al pensiero che la nostra lingua morirà presto, non c’è niente da fare”. E non perderemo solo una lingua ma “cose” che possono esser dette “solo” in quella lingua». Esiste forse una sola macchia al mondo, per quanto sporca, unta e appiccicosa, che possa valere uno «spotacio»?
E lì, in quei disegnini e quei pensierini, sembra di risentire lui quando, ormai anziano, si lanciò a spiegare la differenza tra l’uccellino e l’«oseleto»: «Vedi, l’”uccellino” in italiano, con tutto il suo lustro, ha l’occhietto un po’ vitreo di un aggeggino di smalto e oro. Vuoi mettere la differenza con l’”oseléto” veneto? Annuncia la primavera e ha una qualità che all’altro manca: è vivo».

Repubblica 2.4.14
L’altra metà del sesso
Da Freud a Sex and the City. Tra tabù e falsi miti la scoperta del piacere femminile è stata una conquista
Così è saltata la costruzione artificiale fatta sulla natura: madre, monogama, fedele, priva di fantasie erotiche
E la convinzione che la vecchiaia sia l'età dell’astinenza
di Natalia Aspesi


OGNI volta che un uomo si occupa di sessualità femminile, a partire dal mitico Freud, si resta di sale: ma come, se lo raccontano ancora, ce lo raccontano ancora, che le donne non sono come da secoli se lo dicono e ce lo dicono? La loro signora non gli ha mai dato una sveglia? Non hanno mai letto i testi fondamentali degli anni ‘70, scritti ovviamente da donne in cui solo alle donne (gli uomini non li leggevano), si spiegava che “non era per piacere a Dio”, ma trovando una persona volonterosa e creativa, maschio solitamente, si poteva godere scompostamente “per piacer mio”, come si vede oggi in ogni pubblicità di yogurt gustato da femmine. Proprio nel paese del serioso giornalista Daniel Bergner che crede di sapere cosa vogliono le donne, gli Stati Uniti, uscì nel 1971 (poco dopo in Italia da Feltrinelli) “Our bodies, ourself”, in cui un collettivo femminile di Boston ce la raccontava tutta. Per le donne una rivelazione, sia per chi non ne sapeva niente e sperimentava il suo corpo nel sesso solo come un vuoto soporifero, sia per chi in certe situazioni si vergognava se le veniva da gridare, terrorizzando l’inconsapevole collaboratore. Il libro conteneva anche orrifici grafici di quella cosa là, assolutamente sconosciuta sia alla proprietaria che a chi se ne riteneva l’utente. Anche da noi i gruppi di autocoscienza si obbligarono a mettere uno specchietto tra le gambe per vedere questa cosa invisibile, che si era costrette tra brividi a trovare bellissima. Quel saggio fu radicale, disse di smetterla di credere o far finta di credere all’illusione maschile di possedere uno strumento penetrativo salvifico e in grado di far felici le donne già al primo sguardo. Disse, sorpresa! che il vero piacere femminile era nel clitoride, sempre che si trovasse qualcuno con la pazienza di rintracciarlo: o di seguire gli ordini della proprietaria che per conto suo l’aveva già favorevolmente sperimentato.
Da quel momento i testi scritti da donne sull’argomento furono una valanga, comprese le inchieste anni ’70 di Nancy Friday sulle fantasie masochiste femminili, che si riallacciavano al magistrale e a suo tempo proibito Histoire d’O( anni ‘50), della porchissima studiosa di monachesimo Paulin Reage. Lo smascheramento di massa della sessualità delle donne, silenziosamente, mandò all’aria, almeno teoricamente, tutta la costruzione artificiale sulla loro natura: madre (o puttana), monogama, fedele, priva di fantasie erotiche, nemica della pornografia (anche se ormai scritta da donne e letta quasi solo da donne).
Da anni ormai al cinema sono più le scene in cui è lui ad abbassarsi goloso sotto la vita di lei, che intanto mugola, di quelle in cui è lei a farlo su di lui (che spesso non mugola). Resta indimenticabile un film inglese molto divertente accolto però con una certa pruderie, Hysteria (2011) che racconta dell’invenzione fine Ottocento dell’antenato del vibratore: adottato dai medici come cura all’isteria, cioè a quella perniciosa malattia che era l’impossibile godimento delle donne. La televisione ha portato in tutto il mondo l’intelligente, spiritosa, coraggiosa serie Sex and the city, 94 puntate dal ‘98 al 2004, ridate anche da noi decine di volte e sempre illuminante: scritta da donne ha raccontato benissimo il bisogno d’amore femminile attraverso l’accumulo di avventure sessuali e talvolta pure sentimentali, sino all’immancabile finale, quello non cambia mai, del “vissero felici e contenti”.
Ma in generale la maschilità è zuccona, smemorata, fragile ed egoista: ancora sono in tanti, anche cervelloni, a immaginare l’erotismo come un servizio addirittura sociale, pure a spese dei contribuenti, che si prenda per esempio carico degli anziani insaziabili, senza neppure obbligarli non si dice a pagare, ma almeno a meritarselo con una certa capacità di seduzione o di risvegliare in buone Signore della Lampada un senso di cura e abnegazione. Giovani però, perché il maschio vecchio tende a sfuggire le coetanee: non è di una donna che queste persone, hanno bisogno, ma di un contenitore che accolga senza orrore lo sfacelo del loro corpo. E le anziane? Hanno imparato da secoli a nascondere i loro non riconosciuti piaceri, a soddisfarli oppure a farne a meno, quasi sempre con grande contentezza, magari dopo decenni di noiosissimo sesso coniugale. Hanno maggior senso di dignità del loro corpo, hanno avuto quello che hanno avuto e va bene così. Però sono tante le coppie invecchiate insieme, e lo scrivono a Questioni di cuore, che continuano ad amarsi, con la meravigliosa tenerezza che nasce dall’abitudine, dal rispetto, dalla riconoscenza reciproca per quella gioia inestricabile che ha insegnato a due corpi ad armonizzarsi oltre la bellezza e la giovinezza.

Repubblica 2.4.14
Ecco perché essere cattivi può aiutarci a vivere meglio
Astio, rancore disprezzo: sentimenti “eterni” che lo studio di un’università americana adesso prova a rivalutare
di Natalie Angier


NEW YORK. L’ILIADE sarà pure un caposaldo della letteratura occidentale, ma la sua trama si basa su un impulso umano che siamo soliti considerare piuttosto meschino: l’astio, la cattiveria, il disprezzo. Achille nutre contro Agamennone un aspro rancore («Mi ha ingannato... Vada in malora…»), e pur di prolungare la sofferenza del re rinuncia a doni, tributi e persino a riprendersi la propria amante Briseide.
Dopo essersi concentrati per decenni su dei pilastri della cattiva condotta quali l’aggressività, l’egoismo, il narcisismo e l’avidità, gli scienziati hanno adesso rivolto la propria attenzione al tema più sottile del dispetto, ovvero il desiderio di punire, umiliare o tormentare un’altra persona anche quando ciò non ci porta alcun ovvio vantaggio e potrebbe anzi avere un costo. Dal nuovo studio si deduce che al pari dei due tratti di una stessa V, vizio e virtù potrebbero essere inestricabilmente collegati tra loro.
David K. Marcus, psicologo presso la Washington State University, ha presentato sulla rivista Psychological Asses-smenti risultati preliminari di nuova «scala di cattiveria» da lui messa a punto insieme ad alcuni colleghi. Marcus e la sua équipe hanno chiesto a 946 studenti e 297 adulti di assegnare a diciassette situazioni un voto sulla base del loro grado di condivisione rispetto a quanto in esse contenuto. L’elenco comprendeva affermazioni come: «Se il mio vicino si lamentasse dell’aspetto del mio giardino, sarei tentato di trascurarlo ancora di più solo per dargli fastidio », oppure «Sarei disposto a prendermi un pugno se in cambio una persona che non mi piace ne ricevesse due».
Gli uomini si sono dimostrati di norma più dispettosi delle donne, e i giovani più dispettosi degli anziani; dallo studio è emerso inoltre che il dispetto si accompagna di solito a tratti quali l’insensibilità, il machiavellismo e una scarsa fiducia di sé, mentre di norma non si concilia con la gentilezza, la coscienziosità o la tendenza a provare sensi di colpa.
Applicando la teoria del gioco per sondare il comportamento sociale degli esseri umani, il teorico dell’evoluzione Patrick Forber, della Tufts University, e Rory Smead della North eastern Univeristy, hanno creato al computer un modello nel quale alcuni giocatori virtuali si sfidano a vicenda. In base alle regole da loro stabilite, il giocatore A decide in che modo spartire una somma di denaro con il giocatore B: fare a metà o tenere l’ottanta per cento per sé e dare a B il restante venti. Se B acconsente, entrambi ricevono la percentuale pattuita. Gli studiosi hanno lasciato che i giocatori si coalizzassero a piacere, e sono rimasti stupiti dai risultati: coloro che dimostravano maggiore flessibilità nel condividere il denaro non solo hanno dato prova di saper trattare con i tipi più dispettosi, ma la presenza di questi ultimi ha prodotto un effetto positivo, incrementando la percentuale degli scambi equi anche tra gli individui ben disposti.
Gli esiti della ricerca riecheggiano quelli emersi da studi recenti, dai quali si evince che onestà e cooperazione richiedono una certa dose di quella che viene detta «punizione altruistica », ovvero la disponibilità di alcuni individui a punire chi viene meno alle regole anche quando la violazione in questione non li lede direttamente. Omar Tonsi Eldakar, dell’università Nova Southeastern, in Florida, ha studiato il nesso tra comportamento collaborativo e punizione egoistica. «Perché si dà sempre per scontato che a punire debbano essere i buoni? », si è domandato. Utilizzando dei modelli teorici di gioco, il dottor Eldakar ha dimostrato che quando dei giocatori egoisti decisi ad ottimizzare i propri profitti puniscono regolarmente gli altri giocatori o li escludono dal gruppo, gli scambi egoistici nel complesso diminuiscono sino a raggiungere un livello ragionevolmente stabile. «Gli egoisti finiscono per ridurre la criminalità nei territori da loro stessi abitati», spiega il dottor Eldakar. Agamennone ha bisogno del suo Achille

Repubblica 2.4.14
Joe Bastianich
“Maltrattare ha un effetto positivo sulle persone”
intervista di Alessandra Baduel


«NON hai visto il programma? Però, così non va: come faccio a spiegarti? È troppo complicato». E anche l’intervista, finisce con una sgridata. Joe Bastianich, giudice di MasterChef noto per la sua cattiveria con i concorrenti, risponde sulle nuove ricerche che ne esaltano l’utilità mentre è negli Stati Uniti alle prove di MasterChef
Usa.
Bastianich, lei come la definisce, la cattiveria?
« Frustrazione, il non avere abbastanza pazienza, una debolezza umana. Certo la gente a volte fa proprio incavolare, e uno reagisce. Diciamo che non è sempre un fatto positivo, ma scarica l’emozione del momento ».
Le ricerche americane dicono che il lato positivo c’è.
«Come giudice di Master-Chef, posso rispondere in un ruolo del tipo maestra e allievo, allenatore e giocatore: lì, certi comportamenti estremi aiutano le persone a essere se stesse. E poi, si sta insieme tre mesi, un giorno può volare uno schiaffo, un altro un bacio. È così che tiri fuori il meglio della gente. La cattiveria, lì, fa parte del rapporto fra due persone in una situazione estrema. Ma il programma lo conosci? Solo di fama? E allora, scusa, ma come faccio a spiegarti?».

Repubblica 2.4.14
Perché dobbiamo imparare dagli dei
Il politeismo di greci e romani tollerava le religioni degli altri Così Marte e le divinità dell’Olimpo possono ancora darci lezioni
di Maurizio Bettini


Affermare che la religione dei Greci e dei Romani è superata corrisponde né più né meno a dichiarare che la poesia di Omero o quella di Virgilio sono superate. Affermazioni che potevano avere un senso al tempo della «querelle des anciens et des modernes», ma che difficilmente lo avrebbero oggi. In realtà, da molto si è compreso che i prodotti della cultura non si misurano sul parametro del tempo o dell’evoluzione, e questo vale anche per la religione. Sappiamo bene quanto colonialismo, quanto eurocentrismo si nascondeva dietro il paravento di certe gerarchie evolutive.
La religione greca e romana è semplicemente un’altra religione, o meglio una religione, tanto quanto lo sono lo shintoismo o l’islam. Eppure nella percezione comune essa non è affatto considerata tale. [...] Gli dei che furono venerati e onorati da due civiltà, e che sono stati al centro di organizzazioni sociali, culturali e intellettuali molto complesse, si sono infatti ridotti a personaggi di una generica «mitologia», semplici attori di racconti fantastici. Gli esiti di questa metamorfosi, realizzatasi molti secoli fa, sono peraltro ancora ben visibili nella cultura comune (per fare un esempio, alle voci «Minerva» e «Iuno» Wikipedia recita: «divinità della mitologia romana»). Eppure già Leopardi aveva rilevato quanto vano fosse il ricorso a questa «mitologia » classica, «giacché non abbiamo noi colla letteratura ereditato eziandio la religione greca e latina ». Non diversamente, anche le antiche statue di culto si sono trasformate in generiche opere d’arte, quelle Afrodite o quei Dioniso di cui contempliamo la bellezza e talvolta ammiriamo gli autori, senza pensare però che tali immagini erano chiamate a rappresentare divinità, non personaggi del “mito”. Tutto il resto, ossia quel complesso sistema di relazioni che nel mondo greco e romano legava fra loro uomini e dei, ha assunto il ruolo di oggetto di studio - ma per la verità si è conquistato questo status faticosamente, e in modo del tutto autonomo solo a partire dal XIX secolo. In conclusione potremmo dire con Heinrich Heine che gli dèi antichi sono stati «esiliati»: ma non «nell’oscurità di templi in rovina o nell’incanto dei boschi», come quelli evocati dal poeta tedesco, ma dentro le Università e negli Istituti di ricerca. [...] Ecco dunque, in breve sintesi, le ragioni per cui l’antico politeismo non è più una fonte di ispirazione viva per la cultura moderna e contemporanea, come invece continuano a esserlo la filosofia o il teatro dei Greci e dei Romani. Con ciò non intendiamo affermare che siano mancati poeti, filosofi o scrittori moderni i quali, in qualche momento della loro vita, hanno propugnato i valori del politeismo. [...] In una lettera a Max Jacobi, Goethe dichiarava ad esempio che in quanto artista si sentiva “politeista” (così come in quanto scienziato naturale si sentiva “panteista” e in quanto persona morale “cristiano”). […] La “religione sensibile” cui dovrebbe dare alimento questo programmatico “politeismo dell’immaginazione e dell’arte” altro non è, in definitiva, se non la poesia. Ben diverso il caso di Friedrich Nietzsche, che nella sua polemica anticristiana si appellerà invece al politeismo come esercizio preliminare alla nascita dell’individualismo. «Un dio» scriveva «non era la negazione o la bestemmia di un altro dio! Qui per la prima volta furono permessi individui, qui per la prima volta si onorò il diritto degli individui. L’inventare dei, eroi, superuomini di ogni specie […] costituì l’inestimabile propedeutica alla giustificazione e dell’egoismo e della sovranità del singolo». Il politeismo come incunabolo della morale, ovviamente nel senso in cui Nietzsche la intendeva.
Nel corso del Novecento il politeismo avrà invece una notevole vitalità in qualità di rappresentazione (o meglio, ancora una volta, in qualità di metafora) a carattere psicologico. Scriveva Carl Gustav Jung: «Ciò che noi abbiamo superato sono però soltanto i fantasmi delle parole, non i fatti psichici che furono responsabili della nascita delle divinità. Siamo ancora così posseduti dai nostri contenuti psichici autonomi come se essi fossero divinità. Ora li chiamiamo fobie, coazioni, e così via, in una parola, sintomi nevrotici. Le divinità sono diventate malattie, e Zeus non governa più l’Olimpo, ma il plesso solare». Sarà proprio da queste affermazioni di Jung (ma non forse dalla loro ironia) che prenderà dichiaratamente ispirazione il programma psicologico di James Hillman, inteso a riconoscere gli dei come essi stessi patologizzati […].
Ricorrendo a esempi tratti perlopiù dalla religione romana, abbiamo dunque scelto di puntare su quegli aspetti del politeismo che, se trasferiti nelle nostre società, potrebbero contribuire a ridurre uno dei molti mali che continuano ad affliggerle: il conflitto religioso, e assieme ad esso quel variegato spettro di ostilità, riprovazione, indifferenza che tuttora avvolge agli occhi degli “uni” le divinità onorate dagli “altri”. [...] Marte ad esempio, che tutti conosciamo come dio della guerra, può essere invocato anche per garantire la felice riuscita delle messi o la buona salute del bestiame. A prima vista queste diverse attribuzioni sconcertano - perché mischiare guerra, fertilità dei campi e salute dei buoi? Il fatto è che questi momenti sono accomunati da uno stesso tratto: il pericolo. Pericoli della guerra, quando si va in battaglia, pericoli delle calamità atmosferiche, quando le messi stanno crescendo, pericoli della selva, quando il bestiame va in pastura. Ecco che in tutti questi casi è chiamato a intervenire lo stesso dio, il bellicoso Marte. Tornare a tessere questa antica rete, segmentando e ricomponendo la realtà secondo le linee indicate dalle religioni classiche, offre uno stimolo prezioso per chiunque abbia voglia di pensare il mondo in modo diverso da come normalmente ci viene presentato.

Repubblica 2.4.14
Dai santi ai banchieri il nostro Medioevo narrato da Le Goff
Lo storico francese è morto ieri a Parigi. Aveva 90 anni È stato il rifondatore degli studi sui secoli XII e XIII
di Agostino Paravicini Bagliani



Come nessun altro storico, Jacques Le Goff, morto ieri a Parigi a 90 anni, ha modificato la nostra percezione del Medioevo e come pochi altri storici la sua opera nasce dal desiderio di innovare con sempre nuove domande e nuovi temi, allargando il «territorio dello storico» alla luce della Nouvelle histoire e, grazie a una straordinaria abilità nel comunicare con un pubblico vasto, con la parola oltre che con la scrittura. Nei suoi radiofonici Lundis de l’histoire presentò per decenni (dal 1968 in poi) i nuovi libri di storia discutendo con gli autori, sovente anche giovani. E dal suo Seminario parigino (1962-1992) lanciò temi (come la storia del riso, I riti, il tempo, il riso, 2001)che si imposero presto, anche perché accoglievano le scienze sociali (antropologia culturale, etnografia) e la storia delle immagini, allora agli inizi.
Nato a Toulon nel 1924 - suo padre, bretone, era professore di inglese e sua madre, insegnante di pianoforte -, vince nel luglio 1945 il concorso per entrare alla École Normale Supérieure. Nel 1953 è ospite a Roma della Scuola francese di Palazzo Farnese, dove inizia una tesi di dottorato sulle università medievali (che si trasformerà in una tesi sul lavoro nel Medioevo, soprattutto intellettuale). Al suo ritorno in Francia, Michel Mollat lo vuole come assistente all’università di Amiens. Nell’autunno 1959, Maurice Lombard, studioso di storia economica del mondo islamico, che Le Goff ha ammirato alla pari di Marc Bloch, lo chiama ad insegnare all’allora nascente VIe Section dell’École Pratique des Hautes Études.
Inviato più volte da Braudel a Varsavia per insegnare nell’ambito di una convenzione con quell’università, incontra e poi sposa (1961) una giovane dottoressa polacca specializzata in psichiatria infantile, Hanka, che gli darà due figli e alla cui memoria dedicherà un affettuosissimo libro di ricordi ( Avec Hanka, 2008). Più tardi, nel 1968, sempre a Varsavia, assisterà alle repressioni di Gomulka e alla rottura del suo amico Bronislaw Geremek con il partito comunista.
Fin dai suoi primi due libri, sui mercanti e i banchieri (1956) e gli intellettuali (1957), poi con la sua prima grande sintesi, La civiltà dell’Occi-dente medievale( 1964), forse la sua opera più originale, Le Goff riesce ad imporre il suo modo di intendere il Medioevo: studiarne le strutture fondamentali - la foresta, la città e così via - incrociando i vari contesti sociali con l’immaginario e il simbolico e con l’analisi di gruppi sociali visti quali figure tipologiche della società. Non la storia dei monaci ma il monaco. Non i mercanti ma il mercante, che nel Medioevo è sempre un po’ usuraio, a causa della condanna dell’usura da parte della Chiesa ( La borsa o la vita, dall’usuraio al banchiere, 2003). La ricchezza nel Medioevo non è soltanto di questo mondo, anche se il ruolo del denaro non fa che crescere dal Mille in poi(Lo sterco del diavolo. Il denaro nel Medioevo, 2010). Studiando l’intellettuale come rappresentante di quel gruppo sociale che ha il compito di pensare e di insegnare, pur in un contesto di condanne e di censure, Le Goff apre la porta a una storia delle università più attenta al contesto sociale. È forse il suo libro più agile e vivace. Lo aiutarono frequenti conversazioni con un domenicano geniale, Marie-Dominique Chenu.
Nel 1969, Fernand Braudel lo chiama a dirigere insieme a Emmanuel Le Roy Ladurie e a Marc Ferro la prestigiosa rivista degli Annales fondata da Marc Bloch e da Lucien Febvre. Nel 1972 viene eletto successore di Braudel alla direzione della VIe Section. Sotto la sua direzione (1975), la VIe Section si trasforma nell’ormai celebre École des Hautes  Etudes en Sciences Sociales. Quando (1977) lascia la direzione dell’École esce un suo nuovo libro, il cui titolo- Per un altro Medioevo -è un programma cui aggiunge un altro concetto a lui molto caro e destinato a diffondersi, quello di un lungo Medioevo, perché molte sono le strutture dalla feudalità all’immaginario sociale, sopravvissute fino alla Rivoluzione francese.
Proprio in quegli anni di pesanti responsabilità amministrative Le Goff inizia a studiare una struttura dell’immaginario - il Purgatorio - con fortissime implicazioni di carattere sociale ed economico oltre che intellettuale eteologico. La nascita del Purgatorio (1981) diventerà uno dei suoi libri più famosi - i principali sono stati tradotti in Italia da Laterza, per cui ha diretto, dal 1993, la collana “Fare l’Europa”. Partendo da una scoperta lessicale - il fuoco purgatorio (aggettivo) di cui si parla già nei primi secoli del cristianesimo si trasforma nel corso del XII secolo in un sostantivo - lo storico francese vede nel Purgatorio una struttura positiva che accompagna l’uscita del Medioevo dal dualismo inferno-paradiso e permette all’uomo di impadronirsi del tempo dell’aldilà. In un altro famoso saggio aveva già teorizzato che il tempo dei mercanti si fosse sostituito al tempo della Chiesa ( Annales, 1960, trad. 2000).
In quel XIII secolo che ha tanto studiato, il re di Francia Luigi IX incarna l’apogeo dell’Europa cristiana. Il personaggio lo affascina a tal punto da dedicargli, un po’ controcorrente, una ponderosa biografia(San Luigi, 1996). Come il mercante e l’intellettuale, anche San Luigi è visto nella sua singolarità e come figura tipologica (di sovrano medievale).
San Luigi è anche il re sofferente, ad imitazione del Cristo in croce. Come Francesco d’Assisi è nelle sue stimmate un alter Christus (San Francesco d’Assisi, 2000). Ed ecco sorgere uno spiccato interesse per la storia del corpo che Le Goff tratta come una «delle principali tensioni dell’Occidente», perché nel Medioevo il corpo è stretto tra una straordinaria valorizzazione cristiana (Incarnazione, reliquie, stimmate) e un’altrettanto forte retorica di disprezzo del mondo (Il corpo nel Medioevo, con Nicolas Truon, 2007). Il dualismo che attanaglia il corpo si attenua però dal XII secolo in poi, lasciando spazi nuovi alla medicina e alle scienze del corpo che aprono la via alla modernità. Sebbene il cristianesimo medievale condanni come errori le novità, Le Goff scorge verso la fine del Medioevo una società europea creatrice che innova e prepara la modernità che si consoliderà nell’Umanesimo ( L’Europa medievale eil mondo moderno, 1994). Il Medioevo di Le Goff affascina perché realtà e immaginario si fondono pur nelle loro contraddizioni. Il suo Medioevo non è mai senza legami profondi con il tempo lungo, è sempre attento all’uomo ( L’uomo medievale, 2006) ed è quindi più vicino a noi.

La Stampa TuttoScienze 2.4.14
Noi umani, così neanderthaliani
di Gabriele Beccaria


Tredici anni di lavoro, segnato da difficoltà tecniche e ostacoli burocratici. Poi, nel 2010, l’articolo su «Science». Sensazionale e iper-citato. E ora un saggio-racconto, «Neanderthal Man», che equivale a un suggello, scientifico e psicologico.
Svante Pääbo, 58 anni, svedese, direttore dell’Istituto di antropologia evoluzionistica al Max Planck Institute di Lipsia, è il ricercatore che più di ogni altro si è avvicinato all’enigma delle origini: ha scoperto che la nostra specie Sapiens si è intrecciata con un’altra di omini, i Neanderthal, e da questo incontro, avvenuto tra 110 mila e 30 mila anni fa, siamo diventati ciò che siamo. A raccontarlo è il Dna, che porta le tracce di quei primordiali incontri: tra l’1.5 e il 2% del nostro Genoma è stato ereditato da quei parenti, un po’ alieni. Pääbo ne ha decifrato il patrimonio genetico e ha cominciato a cercare somiglianze e differenze, arrivando alla conclusione - clamorosa - che tanti frammenti vivono ancora in noi.
I capelli rossi e biondi e gli occhi azzurri sono un’eredità neanderthaliana. E lo sono anche la predisposizione alla dipendenza dal fumo come diverse malattie: il diabete di Tipo 2 e il lupus, la cirrosi biliare, la sindrome di Crohn e le maculopatie. Una lista di inconsapevoli regali destinata ad allungarsi e a generare vortici di risposte e ulteriori interrogativi: il gene FoxP2, per esempio, associato al linguaggio, presenta nell’uomo moderno tre cambiamenti specifici. Il che significa che anche i Neanderthal sapevano parlare, ma comunicavano in modo diverso da noi. La Ioro lingua era probabilmente un’aggregazione di vocaboli e pensieri irriducibile rispetto alle migliaia di idiomi che i Sapiens hanno ideato in migliaia di anni.
Probabilmente. «L’oscuro segreto della genomica - ammette Pääbo - è che siamo ancora scarsi nell’osservare il Dna e concludere: ecco come questo gene si traduce in un comportamento oppure quest’altro ci fa apparire o quest’altro ancora agire». Il viaggio nel passato profondo del nostro io è un’avventura appena sbocciata.

La Stampa TuttoScienze 2.4.14
A Rizzolatti il premio che vale un Nobel
Il “Brain Prize” allo scopritore dei neuroni specchio insieme con Stanislas Dehaene e Trevor Robbins
di Piergiorgio Strata


Tutti sanno che dire Nobel significa fare riferimento per unanime consenso al premio più prestigioso nei vari campi del sapere scientifico, campi che all’epoca di Alfred Nobel erano molto ristretti e che oggi navigano su praterie sconfinate. Pochi sanno che nel tempo premi di altissimo prestigio si sono moltiplicati per fare fronte a realtà e ricerche sempre più sofisticate. Tra questi riconoscimenti c’è il giovanissimo «Brain Prize», conferito a studiosi che si sono distinti per un contributo straordinario alle neuroscienze europee. Il premio del valore di un milione di euro è stato istituito dalla «Grete Lundbeck European Brain Research Prize Foundation», che nella sua quarta edizione annuale l’ha assegnato a tre star del settore, Giacomo Rizzolatti, Stanislas Dehaene e Trevor Robbins.
Rizzolatti è noto per la scoperta nelle scimmie dei neuroni specchio, neuroni che esistono anche nell’uomo ed entrano in gioco quando si devono interpretare le reciproche intenzioni tra due individui, buone o cattive che siano. Questi studi sono di grande interesse per l’analisi dei rapporti interpersonali e di patologie come l’autismo. Al francese Dehaene, invece, si deve la scoperta di come alcuni gruppi di neuroni interpretano numeri e lettere, «moduli» nei quali è scritto anche il manuale della loro manipolazione. Lo stato di coscienza emerge quando avviene la simultanea attivazione di un certo numero di questi «moduli» e il contenuto della coscienza stessa varia a seconda dei «moduli» coinvolti. L’inglese Robbins, infine, ha scoperto i meccanismi delle regole che controllano il comportamento, dimostrando che l’abuso della droga, oltre ai classici principi della punizione e della ricompensa, si basa sull’instaurarsi di un meccanismo d’abitudine.
Nell’insieme questi tre ricercatori sono stati dei veri pionieri nel tracciare la strada sui meccanismi neurali che sono alla base dei processi mentali. Le loro scoperte nascono dalla fusione di interessi diversi, tra le neuroscienze e la psicologia cognitiva, portando a una nuova frontiera che oggi viene definita «biologia della mente». Questa frontiera necessita dell’indispensabile apporto di culture diverse con le competenze di informatici, matematici, filosofi e modellisti per approfondire il problema più difficile: come i multiformi aspetti della mente emergano dalle nostre molecole incoscienti. La sfida, quindi, si focalizza sull’intreccio di connessioni all’interno del nostro cervello e sulla costruzione di una «carta geografica», nella quale vengano identificati i punti di partenza e di arrivo di ogni neurone, oltre alla loro specifica funzione.
Questo è proprio lo scopo principale dei due mega-progetti che sono da poco iniziati con investimenti straordinari in Europa e negli Stati Uniti. Le prospettive sono quelle di ridurre le distanze con altri aspetti della nostra cultura e delle nostre conoscenze, che hanno già aperto spazi significativi alla neurofilosofia, alla psicoanalisi e alla psicoterapia, ma anche alle scienze umane e sociali. E, infatti, nella proclamazione del premio si legge: «Siamo lieti di assegnare il premio di quest’anno a scienziati che ci hanno dotati di una migliore consapevolezza e conoscenza e di un miglior trattamento dei disordini di natura comportamentale e cerebrale, che sono un grave fardello nella nostra società».
Rizzolatti si è augurato che questo «prestigioso riconoscimento alla scienza italiana possa essere di stimolo al nuovo governo e crei maggiore interesse per la ricerca di base, superando la scarsa attenzione che attualmente c’è per tale ricerca, incrementando anche la disponibilità di fondi». E non caso il neuroscienziato sta pensando di destinare una parte del suo premio ad un’associazione che si occupi di neuroscienze. Scopriremo più particolari, probabilmente, alla cerimonia di premiazione che si terrà a Copenaghen il prossimo 1° maggio.