giovedì 3 aprile 2014

l’Unità 3.4.14
Stefano Rodotà: «Con l’Italicum serve un Senato di garanzia»
«È vero, nel 1985 ero per il monocameralismo, ma allora c’erano grandi partiti e il proporzionale. Grillo condivide l’appello? E che argomento è?»
intervista di Andrea Carugati


«Il mio disegno di legge del 1985 sul monocameralismo? Me lo ricordo perfettamente. Quel testo voleva rafforzare la rappresentanza dei cittadini e la centralità del Parlamento contro i tentativi che c’erano anche allora di spostare l’equilibrio a favore dell’esecutivo. Nel 1985 c’erano il proporzionale, le preferenze, i grandi partiti di massa, regolamenti parlamentari che davano enormi poteri ai gruppi di opposizione. Il nostro obiettivo era dare la massima forza alla rappresentanza parlamentare, mentre oggi la si vuole mortificare». Stefano Rodotà è un fiume in piena. Il conflitto tra il premier Renzi e il fronte dei «professoroni» che lo vede in prima fila insieme a Gustavo Zagrebelsky ha ulteriormente rafforzato la sua volontà di lanciare un allarme sui rischi di una «deriva autoritaria».
E tuttavia anche lei il Senato lo voleva eliminare...
«Certo, ma utilizzare questo argomento come obiezione alle mie critiche alle riforme di Renzi è culturalmente imbarazzante. Le critiche che ci arrivarono nel 1985 era che eravamo troppo parlamentaristi. Il nostro riferimento era rafforzare la rappresentanza del Parlamento, lo steso tema al centro della sentenza della Consulta contro il Porcellum. E l’Italicum è chiaramente in violazione di quella sentenza, basti pensare allo sbarramento dell’8% per i partiti non coalizzati. È qui l’abisso che divide le nostre proposte del 1985 da quelle di oggi».
Il vostro appello ha avuto anche l’endorsment di Grillo e Casaleggio...
«Ma che argomento è? Grillo firma quello che vuole, sono affari suoi. Quando c’è una proposta sul mercato chiunque ha il diritto di valutarla nel merito. Grillo vuole il vincolo di mandato per i parlamentari, noi no, mica c’è la proprietà transitiva verso Rodotà e Zagrebeslky».
Rispetto al Senato di Renzi lei che obiezioni muove?
«Ho letto pochi testi così sgrammaticati. Non mi pare neppure emendabile. Vedo poi che cambia continuamente. Ma questa disponibilità a cambiare mi pare soprattutto un segno di debolezza culturale e di approssimazione istituzionale. Gli argomenti portati sono imbarazzanti. Risparmiamo un miliardo? Ma questo è l’argomento più antipolitico che abbia sentito. È questo il metro per misurare la riforma costituzionale? Se aboliamo la presidenza della Repubblica e vendiamo il Quirinale si risparmia ancora di più...».
Non rischia di sottovalutare l’indignazione popolare contro gli sprechi?
«Assolutamente no. E infatti considero sacrosanta la proposta di eliminare i rimborsi nelle regioni che hanno generato fenomeni di corruzione. Ma di qui a tagliare il Senato per risparmiare c’è un salto pericoloso»: il Senato non è il Cnel».
Voi che tipo di riforma vorreste?
«Ci sono state tante proposte da parte dei firmatari del nostro appello. All’inizio del governo Letta alcuni di noi proposero di evitare la modifica del 138 e di fare subito le riforme possibili: la riduzione dei parlamentari e la fine del bicameralismo perfetto. Se si fosse fatto, oggi avremmo già queste due riforme approvate. Altro che conservatorismo».
In quali aspetti le vostre proposte differiscono da quelle del governo?
«Se una sola delle Camera ha la competenza sulla fiducia e sui bilanci, per evitare di modificare gli equilibri costituzionali occorre dare al Senato poteri sulle leggi costituzionali, le grandi leggi di principio, l’attività di controllo e inchiesta parlamentare. E poi un Senato eletto direttamente dai cittadini con il proporzionale. C’è una proposta in Senato firmata da Walter Tocci e altri che riprende alcuni di questi obiettivi. Sarebbe una strada per avere un Senato di garanzia, ancor più necessario se si sceglie per la Camera una legge ipermaggioritaria come l’Italicum. Altrimenti un partito con poco più del 20% rischia di diventare dominus dell’intero sistema. Di un governo con troppi poteri. Ecco perché parliamo di sistema autoritario. E poi c’è il tema della legittimità di questo Parlamento...».
Sarebbe illegittimo?
«Questo Parlamento eletto con un Porcellum incostituzionale non è rappresentativo del Paese. E bisognerebbe interrogarsi sulla sua legittimazione a modificare la Costituzione in modo così radicale. Servirebbe un minimo di cautela, non certo la tracotanza di chi dice “prendere o lasciare”.»
Il ragionamento può essere ribaltato. Istituzioni così delegittimate hanno la necessità di profonde riforme per arginare i populismi.
«Dipende da quale risposta si intende dare. Accentrare i poteri nelle mani di poche persone è una vecchia ricetta già utilizzata più volte. È la ricetta di chi dice basta coi sindacati, con i partitini, con i professoroni. Ma ce n’è un’altra. Visto che c’è un deficit di rappresentanza delle istituzioni, si può fare una buona manutenzione della macchina dello Stato riaprendo dei canali di comunicazione con i cittadini di tipo non populista».
Come si traduce in concreto?
«Si può rafforzare la capacità di decisione senza stravolgere gli equilibri e le garanzie. I cittadini devono poter intervenire valorizzando gli strumenti dell’iniziativa popolare e del referendum, rendendo vincolante la discussione delle proposte dei cittadini. Si potrebbe così canalizzare la rabbia che alimenta i populismi».
È una risposta alla sfida di Grillo?
«È un modo per aprire canali nuovi dopo che i vecchi, a partire dai partiti di massa, si sono rinsecchiti. Ci sono tante forme di partecipazione civica che vanno oltre le forme povere delM5S. Anche Obama ha saputo dare una risposta partecipativa capillare alla crisi della politica».

La Stampa 3.4.14
“Voleva abolire il Senato e critica Renzi”
Verità e bugie sugli attacchi a Rodotà
Il costituzionalista Ceccanti ripesca una proposta di legge del 1985. E piovono accuse di ipocrisia
Ma il testo aveva fini opposti rispetto a quelli del premier
di Giuseppe Salvaggiulo

qui

Corriere 3.4.14
Corruzione e lotte intestine, malattie di partiti sbrindellati
di Corrado Stajano


Ci vuole il Papa per parlar chiaro ai politici sulla vergogna della corruzione? Non deve esser stato gradevole per quei 518 uomini e donne di governo e di opposizione che si erano accalcati nella Basilica di San Pietro per guadagnare i primi posti come all’Opera ascoltare le parole di papa Francesco. Dopo il suo sermone, infatti, se ne sono andati via come il cane Pluto di Topolino, le orecchie penzolanti all’ingiù. Non pensavano certamente di venir rampognati in quel modo, sentirsi dare dei peccatori diventati corrotti incalliti, sepolcri imbiancati, uomini che Dio non perdona, una classe dirigente che si è allontanata dal popolo, interessata soltanto alle proprie cose, al proprio partito e alle sue lotte intestine abbandonando il gregge. Quello di Gesù che è quello del popolo di sempre.
Pare che si faccia finta di non vedere, o che si voglia addirittura non sapere, quel che viola quotidianamente la legge in ogni angolo d’Italia, in tutti gli strati sociali. La questione morale, frutto proliferato a dismisura in questo ventennio berlusconiano, dopo il breve lavacro di Mani Pulite, è considerata qui da noi una bestemmia giustizialista. Solo che la corruzione è purtroppo una realtà ben presente e non sembra che i contravveleni siano all’ordine del giorno. Basta che le guardie, alle quali vengono negati anche la benzina per le macchine, oltre ai soldi per le inchieste, vadano a mettere il dito in un posto qualsiasi per scoprire scandali, tangenti di ogni genere, truffe allo Stato, evasioni fiscali, ammanchi di miliardi. Mazzette e veleni, tutto fa brodo.
L’Italia è in grave difficoltà non soltanto per la crisi economica e finanziaria ancora da sanare. La crisi è degli uomini chiusi nei propri problemi di sussistenza, di tutta la società, della politica malata, dei partiti sbrindellati, essenziali, invece, per la tenuta di un sistema democratico parlamentare.
Questi principi elementari vengono recepiti e discussi o si preferisce l’ottimismo di maniera, il professionismo della rassicurazione? La classe dirigente di governo sembra affidare crescita e riscossa al giovanilismo e alla velocità del fare, speriamo nutriti dal pensare. Il mondo salvato dai ragazzini?
Renzi è spuntato d’improvviso, come un misirizzi, dopo due anni di travagli politici: la caduta di Berlusconi, il governo Monti, le elezioni del 2013, il pasticcio venuto dopo, il Quirinale, i 120 traditori di se stessi e del Pd, il governo Letta al quale Renzi giurò fedeltà prima di andar lui al suo posto a Palazzo Chigi. Per alcuni è il salvatore della patria — «se non lui, chi?» — per altri è la controfigura del donizettiano dottor Dulcamara, il taumaturgo donator fallace dello «stupendo elisir che desta amore».
Non pareva dissennata l’idea di sostituire l’infame Porcellum e di andare subito alle elezioni per ritrovare quella legittimazione popolare che ancora oggi manca a un governo anch’esso provvisorio. E soltanto allora metter mano alle riforme istituzionali che hanno bisogno di un largo consenso frutto di una seria discussione, perché riguardano la vita delle future generazioni. Non è stato possibile perché la nuova legge elettorale, approvata ingloriosamente dopo tanto parlarsi addosso, riguarda solo la Camera e non il Senato, il punto dolente. Si cerca allora di risolvere il problema della drammatica disoccupazione, al 13 per cento, del disagio collettivo, delle piccole e medie fabbriche che chiudono i cancelli? No, la vera questione diventa il Senato. Da cancellare, dimezzare, privare dei poteri legislativi e di controllo. «O il Senato va a casa o il caos». Per risparmiare, viene anche detto.
Renzi agisce come se fosse protetto da un’entità metafisica. Senza alcuna parvenza di progetto globale di riforme procede per ultimatum, un aut aut dopo l’altro. «O così o me ne vado», minaccia un giorno sì e un giorno no.
Il Pd, o meglio il suo capo-segretario, decide, il Consiglio dei ministri approva il testo del disegno di legge costituzionale, adesso tocca al Senato che dovrà autoaffondarsi: 148 senatori, non più 315; non voterà più la fiducia al Governo; non voterà più neppure la Finanziaria; non sarà elettivo, ma nominato. (Certo, non è finita qui, l’iter costituzionale è una lunga marcia. Renzi ha poco da dettare condizioni, termini, modi). E chi saranno i prescelti per il laticlavio di serie B? I presidenti delle Giunte regionali, certi sindaci, con doppio incarico, cittadini meritevoli, a titolo gratuito, escluse le spese di viaggio e di soggiorno, pericolose, come si è visto, per il Tesoro.
Ci si è già dimenticati della corruzione dilagata nelle regioni, dei presidenti incriminati, dei consiglieri incarcerati, in Piemonte, in Lombardia, nel Lazio, in Abruzzo, in Calabria, in Campania, in Sicilia, altrove? Saranno loro i designati? Dovrà celebrare un’altra messa papa Francesco? Ma quel che forse è peggio è la percezione che si stia fomentando nel Paese un clima di intolleranza contro chi dissente, gli intellettuali critici e disturbanti, «i professoroni», come li ha definiti Renzi. E viene in mente Scelba, il ministro di polizia degli anni Cinquanta del secolo scorso, che bollava inviperito «il culturame».

Repubblica 3.4.14
Gustavo Zagrebelsky:“Una Grande Riforma piena di pasticci fuori dalla Costituzione”
Il giurista: “L’adesione di Beppe Grillo al nostro appello non mi imbarazza, anzi è un buon segno”
“Quanto c’è di Berlusconi nel progetto del premier? Essendo d’accordo, tutto è di tutti e due”
intervista di Liana Milella


ROMA. Una definizione della riforma Renzi? «Un annuncio di rischio». È in sintonia con il resto della Costituzione? «L’insieme, sottolineo l’insieme, mi pare configuri, come si usa dire, una fuoriuscita». Il governo avrà troppi poteri? «La questione è piuttosto chi ne avrà troppo pochi o nessuno: le minoranze, la partecipazione, le istanze di controllo». Il Senato sarà ancora degno di questo nome? «I Senati storici erano altra cosa, ma con le parole si può far quel che si vuole». Governatori e sindaci sono degni di starci? «Dipende dai compiti, cosa non chiara. Piuttosto che farne un pasticcio, sarebbe meglio abolirlo del tutto». Tra Renzi e Grasso chi ha ragione? «Francamente, più saggio m’è parso il presidente del Senato». Quanto c’è di Berlusconi nel disegno di Renzi? «Essendo d’accordo, tutto è di tutti e due. Le schermaglie non sono divergenze sui contenuti, ma timori reciproci di mancamenti ai patti o calcoli d’utilità politica contingente». Il professor Gustavo Zagrebelsky spiega a Repubblica le ragioni del suo dissenso.
Lei non è mai stato tenero con chi ha messo o tentato di mettere mano alla Carta. Sono storiche le bacchettate a Berlusconi. Con Renzi non è che si sta superando?
«C’è un disegno istituzionale che cova da lungo tempo e che, oggi, a differenza di allora, viene alla luce del sole. Gli oppositori d’un tempo sono diventati sostenitori. Delle due, l’una: o tacere, con ciò acconsentendo di fatto, o parlare forte. È quanto s’è fatto col documento di Libertà e Giustizia».
Non la imbarazza che Grillo l’abbia firmato?
«Perché dovrebbe? Se, su una certa materia, si condividono le stesse idee… C’è un fondo d’intolleranza, in questa domanda che da molte parti ci è posta. M5S ha aderito all’appello per la difesa della democrazia costituzionale: è un brutto segno?
Semmai, il contrario.
Poi si vedrà».
È seccato perché Renzi ha detto che non dà retta a professori come lei e Rodotà?
«Non è questione di “dar retta”, ma di ragionare e soppesare gli argomenti. Sarà lecito invitare chi deve prendere le decisioni a considerare le cose “da tutti i lati”?».
E quale sarebbe il «lato» che manca?
«L’antiparlamentarismo. Ora s’abbatte sul Senato, capro espiatorio di mali collettivi. È un sentimento elementare che non s’accontenta di qualcosa ma vuole tutto. “Tutto” significa il demiurgo di turno: fuori i trafficanti della politica, i profittatori, i corrotti, gli incompetenti, i chiacchieroni. Eppure, negli anni trascorsi, non sono mancati gli avvertimenti. Si è chiesta “dissociazione”: per riconciliarsi con i cittadini. Siamo stati accusati di antipolitica, di populismo: noi, che ci preoccupavamo di quel che stava accadendo; loro, che preferivano non vedere. E ora, proprio di questo vento gonfiano le vele. Chi sono allora gli antipolitici, i populisti, i demagoghi?».
Ma è un nostalgico del bicameralismo perfetto?
«Per nulla. Ma per mettere mano a una riforma, bisognerebbe chiarirsene il senso. Qual è la vocazione di tutte le “seconde Camere”? I Senati devono corrispondere a un’esigenza di precauzione. La democrazia rappresentativa ha un difetto: divora risorse, materiali e spirituali. È una vecchia storia, alla quale non ci piace pensare. I Senati dovrebbero servire ai tempi lunghi, dato che la democrazia rappresentativa pensa ai tempi brevi, i Senati dovrebbero servire ai tempi lunghi: dovrebbero essere “conservatori di futuro”».
Il Senato finora non l’avrebbe fatto?
«Non in misura sufficiente. Per questo, non sono un nostalgico. Mi piacerebbe che si discutesse d’un Senato autorevole, elettivo, per il quale valgano rigorose norme d’incompatibilità e d’ineleggibilità, diverso dalla Camera dei deputati, sottratto però all’opportunismo indotto dalla ricerca della rielezione. Una volta, i senatori erano nominati a vita. Oggi, la nomina e la durata vitalizia non sarebbero “repubblicane”. Ma si potrebbe prevedere una durata maggiore, rispetto all’altra Camera (come era originariamente), e il divieto di rielezione e di assunzione di cariche politiche ».
Ciò significherebbe differenziare i poteri delle due Camere?
«Per ciò, si dovrebbe andare oltre il bicameralismo perfetto, non per umiliare ma per valorizzare: eliminare il voto di fiducia, ma prevedere un ruolo importante sugli argomenti “etici”, di politica estera e militare, di politica finanziaria che gravano sul futuro. Altro potrebbe essere il controllo preventivo sulle nomine nei grandi enti dello Stato, sul modello statunitense. Sarebbe uno strumento di lotta alla corruzione e di bonifica nel campo dove alligna il clientelismo. Insomma, ci sarebbe molto di serio da fare».

il Fatto 3.4.14
Renzi: “Concertazione the end”
“È finita”. Intervistato dal Financial Times, il premier prova a convincere gli investitori che il paese è cambiato
di Alessio Altichieri


Londra. Matteo Renzi ha spiegato alla City di Londra che in Italia la stagione della concertazione è finita. Avevamo capito anche noi, udite le parole di Renzi su Confindustria e Cgil, che non c’è amore tra il presidente del Consiglio e le associazioni degli imprenditori e dei lavoratori. Ma che questa rivendicazione sia ormai una politica di governo, che chiude una stagione che risale almeno al governo Ciampi di vent’anni fa, se non addirittura al dopoguerra, l’hanno saputo in anticipo i vertici editoriali del Financial Times, il principale quotidiano finanziario europeo, ai quali Renzi (“il giovane che va di fretta”, l’avevano definito) ha dichiarato schiettamente i suoi propositi, per aprire l’Italia agli investimenti stranieri. Non usa giri di parole, Renzi, va dritto al segno. E sarebbe bello sapere se, veloce a dire la sua, è anche veloce ad apprendere, sentita la panoramica che la sera prima, in ambasciata, l’ex premier Tony Blair, ormai un sessantenne con un filo di pancetta, segno di sazietà, gli ha dato dei problemi del mondo.
PARTIAMO anzi da qui, dalla cena informale e senza cravatta, nemmeno mezza dozzina di persone al tavolo, la cronaca delle ultime ore di Renzi a Londra, prima della trasferta a Bruxelles. Lasciati gli stilisti italiani e Naomi Campbell al Victoria & Albert Museum, il presidente del Consiglio ha trovato Blair in ambasciata. Senza che l’uno s’atteggiasse a maestro e l’altro ad allievo, i due hanno confrontato le rispettive esperienze nei rispettivi partiti: si sa che Blair s’impadronì del Labour Party, e lo trasformò in New Labour, vincendo la guerra contro l’ala sinistra, dogmatica sulla “clausola 4” delle nazionalizzazioni. Solo imponendosi nel partito Blair convinse i sudditi britannici di poter governare il regno. Renzi non ha ancora avuto il suo “momento Blair”, ed evidentemente se ne rende conto: i dubbi sul sostegno che ha nella base, e ancor più nella società italiana, torneranno ancora, prima che lasci Londra. Più rilassante sentire da Blair un rapporto sulla “questione europea” nel Regno Unito e una serie di scenari globali, da un uomo di esperienza, su Medio Oriente, Cina, Africa. Renzi, almeno mentalmente, avrà preso nota.
Clima opposto al palazzo del Financial Times affacciato sul Tamigi, dove ieri mattina l’italiano era atteso da una “Renzi frenzy”, una frenesia per l’ospite che non c’era stata per i predecessori Monti e Letta (Berlusconi, là, non ha mai messo piede...). Accolto dal board editoriale del FT, una ventina di persone guidate dal direttore Lionel Bar-ber, e accompagnato da una nutrita delegazione italiana, Renzi ha parlato per una mezz’oretta in inglese (“Non buono come quello di Letta, ma accettabile”) e ha esposto le politiche che vuole attuare in Italia: le riforme costituzionali e della politica, la trasformazione del Senato, la riforma della Pubblica amministrazione, la riforma del mercato del lavoro. Ed è stato a quel punto che ha pronunciato le parole decisive: “The end of concertazione”. Molti di coloro che lo sentivano per la prima volta sono rimasti sbalorditi dalle parole di Renzi, inaudite per un capo di governo italiano. Lo stupore era giustificato anche dall’atteggiamento personale di Renzi, “così energico, così impegnato e così ambizioso”.
È stato al momento delle domande poste a Renzi che i dubbi sono emersi. Ce la può fare, hanno chiesto e si sono chiesti i giornalisti inglesi? In fondo, il presidente del Consiglio non ha un mandato elettorale per tale programma. E non vanta nemmeno un’evidente base sociale per fare tutte queste riforme. È vero quello che dice Renzi, che gl’imprenditori per investire vogliono vedere le cose fatte (all’ora del breakfast aveva visto, tra gli altri, Vittorio Colao di Vodafone, Bob Dudley di BP, Douglas Flint della HSBC, Win Bischoff della Lloyd Bank). Ma deve avere almeno il controllo del suo partito, per avere il governo dell’Italia.
Nel palazzo sul Tamigi, così, è ritornato il problema evocato lunedì sera nella cena all’ambasciata: finché non avrà avuto il suo “momento Blair”, finché non avrà identificato il ceto sociale che l’appoggia, verificato in un passaggio elettorale, l’impegno di Renzi rischia di restare tale: un impegno.
PERCIÒ, la reazione istintiva è stata quella degli inglesi disincantati: Wait and see.

Repubblica 3.4.14
Tony Blair: “Matteo mio erede con la sua corsa alle riforme cambierà l’Italia”
intervista
di Enrico Franceschini e John Lloyd


LONDRA. «I momenti di grande crisi sono anche momenti di grandi opportunità, perciò penso che Matteo Renzi possa realizzare l’ambizioso programma che si è dato per rilanciare l’Italia». Parola di Tony Blair, il leader che il nuovo primo ministro italiano cita come ispirazione e modello, l’unico laburista della storia eletto tre volte (consecutive) a Downing street, l’ideatore insieme a Bill Clinton di un riformismo che portò la sinistra al potere in tutta Europa. Il giorno dopo aver cenato con il nostro presidente del Consiglio all’Ambasciata italiana, in pratica l’incontro a cui Renzi ha riservato più tempo nella sua visita a Londra, Blair parla in esclusiva con Repubblica delle chances dell’ex sindaco di Firenze e più in generale delle forze progressiste davanti agli attacchi del populismo.
Come è stata la cena, mister Blair?
«Eccellente. Abbiamo avuto un’ampia discussione sulle cose che Renzi vuole fare in Italia. È stato molto interessante incontrarlo ».
I suoi critici, in Italia, dicono che vuole fare troppe cose, tutte in una volta: lei pensa che ci riuscirà?
«I momenti di grande crisi sono anche momenti di grande opportunità. In tempi normali sarebbe difficile per chiunque realizzare un programma ambizioso come quello delineato dal nuovo premier italiano. Ma questi non sono tempi normali per l’Italia. Renzi comprende perfettamente la sfida che ha di fronte. Se facesse solo dei piccoli passi rischierebbe di perdere la spinta positiva con cui è partito. Perciò c’è una coerenza tra il suo programma di riforme costituzionali e le riforme strutturali per rilanciare l’economia. E la crisi può dargli l’opportunità per compiere quei cambiamenti che sono necessari al Paese, ma che finora non sono mai stati fatti per le resistenze di lobby e interessi speciali».
Il Financial Times scrive stamane che Renzi e il nuovo primo ministro francese Valls sono i suoi eredi. Li riconosce come tali? Le sue idee possono tornare buone per l’Europa di oggi?
«Da un lato la risposta è no, perché le circostanze odierne sono molto differenti da quelle del 1997 quando io entrai a Downing street. Ma dall’altro il progetto fondamentale dei riformisti può ancora funzionare, andando oltre i vecchi divisori ideologici tra destra e sinistra. Oggi come ieri, occupare quello che io definisco il “centro radicale” rappresenta la posizione politica più sensata».
Ma occuparlo per fare cosa?
Per generare crescita e posti di lavoro o per tagliare il welfare e imporre l’austerity in nome del debito? Renzi sembra impegnato a chiedere più flessibilità a Bruxelles rispetto al vincolo del 3 per cento del rapporto deficit-pil.
«La scelta tra crescita senza riforme strutturali e austerity con le riforme è secondo me una falsa scelta. A mio parere occorre calibrare tre elementi: la riduzione del deficit, che è essenziale; le riforme necessarie per cambiare politica economica; e la crescita non solo per generare occupazione ma anche per portare più denaro nelle finanze pubbliche. Per fare tutto questo non serve la contrapposizione destra/sinistra, bensì quella tra giusto e sbagliato, fra ciò che funziona e ciò che non funziona. Se la riduzione del deficit è troppo veloce, la crescita non riparte. Ma se non si fanno le necessarie riforme, il deficit non si riduce. E mi sembra che questo Renzi lo abbia capito benissimo».
Che messaggio dovrebbe venire dalle forze progressiste alle elezioni europee del mese prossimo, di fronte all’avanzata del populismo, come si è visto in Francia alle recenti amministrative con la crescita della destra di Le Pen ma come si nota anche altrove, in Italia, in Gran Bretagna, in Olanda?
«Il messaggio più importante è comprendere perché la gente è arrabbiata e spaventata. Dopodiché non bisogna esaudire le paure e la rabbia, bensì offrire risposte chiare. I populisti hanno un programma anti-immigrazione, anti-Europa, anti-politica, ma non offrono risposte: hanno solo degli slogan che parlano alle emozioni dell’elettorato. La sinistra in Europa deve spiegare alla gente cosa farà per creare lavoro, per combattere il crimine, per impedire l’immigrazione illegale. Se riesce a connettere con l’opinione pubblica, non perderà».
L’immigrazione è un tema chiave, in Italia come nel resto del continente. Secondo lei i partiti di centro-sinistra dovrebbero puntare più sul magnificare i risultati positivi dell’immigrazione o adottare una politica che vi ponga dei limiti?
«Nel 2005 io ho fatto e vinto una campagna elettorale nel Regno Unito in cui i conservatori fecero dello spauracchio dell’immigrazione la questione centrale. Non è un problema nuovo. Occorre capire assolutamente perché tanta gente è preoccupata. Ma che cos’è che preoccupa veramente la gente? Secondo me alla gente non piace un sistema senza regole, senza ordine, ma non credo che la maggioranza degli europei abbia dei pregiudizi anti-immigrati. Quindi bisogna offrire regole sicure e al tempo stesso ricordare che le economie di maggiore successo del nostro tempo hanno enormemente beneficiato dall’immigrazione, basta guardare Londra per accorgersene».
Tornando a Renzi, che effetto le fa come uomo politico?
«Mi fanno effetto la profondità con cui analizza i problemi e le strategie che adotta per superarli. E un’altra cosa mi colpisce, il suo genuino patriottismo: l’amore che ha per il suo paese, il suo assoluto desiderio di fare occupare all’Italia il posto che merita nel mondo. Renzi non è interessato ai piccoli giochi della politica e del potere. Ha grandi ambizioni per l’Italia, come ho detto all’inizio, e proprio per questo credo che abbia la possibilità di farcela».

Libero 3.4.14
Barbara Palombelli:
"L'Italia s'inginocchia al potere di Matteo Renzi"


"Piace, ma quanto piace!". Barbara Palombelli, dalle pagine del Foglio, lancia il suo attacco contro Matteo Renzi e i suoi tanti - troppi - ammiratori: "I grandi quotidiani sono pazzi di lui. I cronisti politici dimenticano di fare domande, sono come ammaliati, ipnotizzati". Gli italiani stravedono per il nuovo presidente del Consiglio? Può darsi, ma la conduttrice di Forum pare proprio non essere dello stesso avviso. Nel suo mirino finiscono tutti quelli che si sono lasciati ammaliare dal "marketing politico" del nuovo premier. La figura dell'ex rottamatore, per la Palombelli, riesce a esercitare un fascino pressoché irresistibile sull'opinione pubblica e nessuno, neppure tra i suoi avversari, sembra più essere capace di valutarne lucidamente l'azione governativa: "Aumenterà le tasse? Ottimo. Toccherà le pensioni? Non aspettavamo altro. Chiude il Senato? Lo vuole il popolo".
Gli innamorati di Renzi - Degli incrollabili estimatori del "ragazzo toscano", si legge nell'articolo, fanno parte anche "Berlusconi, Veltroni e D'Alema". Tra i supporter di Renzi, non va dimenticato, c'è anche Giuliano Ferrara, il direttore del giornale per cui la Palombelli scrive e che, ultimamente, ha preso a chiamare "amorazzo nostro" l'ex sindaco di Firenze. Che qualcuno sia in cerca di "poltrone e poltroncine?", si chiede poi la moglie di Francesco Rutelli: questa, se non altro, è l'unica spiegazione che riesce a darsi per giustificare quella che, ai suoi occhi, appare come un'ingiustificata adulazione. Infine, in un misto di disappunto e sconsolazione, Barbara chiude il pezzo dando sfogo a tutta la sua amarezza: "Quel che si vede - per ora - è uno spettacolo piuttosto indecente. Un paese che si inginocchia davanti al potere - chiunque lo detenga - non è un paese messo bene".

l’Unità 3.4.14
Lavoro, Poletti ascolta ma il decreto cambia poco
di Massimo Franchi


Un incontro interlocutorio. Che ha confermato l’apertura del governo su piccole modifiche - calo da 8 a 6 del numero di rinnovi nel contratto a tempo determinato e il ritorno ad una limitata formazione pubblica obbligatoria per il praticantato - e la chiusura totale sullo stravolgimento degli altri punti del decreto. «Non vuol dire però prendere o lasciare - ha detto Poletti - che non possiamo presentare proposte». Così molto è lasciato al gioco degli emendamenti e delle possibili alleanze trasversali. Sul decreto Lavoro ieri sera si è tenuto l’atteso faccia a faccia fra il ministro Giuliano Poletti e i parlamentari del Pd.
La disponibilità all’ascolto da parte di Poletti non si è comunque tramutata in una definizione compiuta e precisa delle possibili modifiche al testo, mentre da parte del partito le varie posizioni - molto critica da parte della minoranza (che però è largamente maggioritaria in commissione Lavoro, 17 componenti su 21 del Pd) e positiva da parte della maggioranza renziana - si tradurranno negli emendamenti che verranno presentati. Il cammino però è ancora molto lungo. Ieri il presidente della commissione Cesare Damiano ha chiesto alla presidenza della Camera l’allungamento dei tempi per le audizioni delle parti sociali. Se la richiesta verrà accettata, la scadenza per la presentazione degli emendamenti sarà l’11 aprile. Nel merito la linea ribadita anche ieri dallo stesso Damiano è quella maggioritaria nella commissione: «Noi non accettiamo la logica del “prendere o lasciare” perché un decreto non è un dogma e, al tempo stesso, non ci proponiamo di stravolgere il testo».
Da parte dei Giovani turchi ieri è invece arrivata una sfida al ministro: «Gli chiederemo riaprire lo scheletro del decreto con il contratto unico progressivo. Altrimenti il contratto a termine rischia di diventare un elemento di debolezza rispetto alle norme che prevedrà il jobs act». Una proposta che però vede contrario lo stesso Damiano e lo stesso ministro Poletti. Quando fu presentato il decreto, Poletti spiegò che la scelta di fare un decreto solo su contratto a termine e apprendistato era stata fatta per dare «una scossa immediata all’occupazione », mentre il contratto a tutele crescenti sarebbe arrivato nel disegno di legge delega - che dovrebbe essere depositato al Senato in questi giorni - assieme ad una riduzione della giungla contrattuale -45 tipologie - attuale. I Giovani turchi comunque escludono di rompere l’unità del Pd in commissione votando emendamenti con M5s e Sel, assai critici con il provvedimento.
Se a sinistra ci sono critiche, il decreto continua ad essere difeso a spada tratta sia da Ncd che da Forza Italia. Ieri il governo si è fatto sentire anche per bocca del ministro dei Trasporti, Maurizio Lupi (Ndc): «Il decreto non si tocca, non si fa alcun passo indietro: abbiamo fatto un patto di governo e lo abbiamo fatto seriamente. Il presidente Renzi è stato su questo non solo coerente ma sul fattore tempo sta giocando la sua partita vera».
«I PREPENSIONAMENTI COSTANO»
Un’altra delle novità più grandi di queste prime settimane di governo - l’idea del ministro Madia di usare i prepensionamenti per riaprire il turn over nel settore pubblico - ieri ha registrato una frenata. La Ragioneria generale dello Stato si è fatta sentire per rimarcare come il piano avrebbe costi elevati. «Se prevedo un ricambio, ho da pagare una pensione in più e uno stipendio e poi ci sono gli effetti sull’anticipo dell'età pensionabile e quello della buona uscita, c’è un impatto». Così si espresso il capo dell’Ispettorato generale per la spesa sociale della Ragioneria generale dello Stato, Francesco Massicci parlando alla commissione di controllo sull’attività degli enti previdenziali. Secondo Massicci, infatti, l'operazione sarebbe a costo zero «se si manda via una figura diventata obsoleta che non si deve rimpiazzare, ma la condizione viene meno se la figura deve essere sostituita».
Ma Madia non pare intenzionata a fare marcia indietro. Illustrando le linee programmatiche presso le commissioni riunite Affari costituzionali e Lavoro della Camera, ha spiegato: la cosiddetta staffetta generazionale è una necessità perché «se non si fa, non ci può essere il rinnovamento della pubblica amministrazione, ma la sua agonia, con il rischio di alimentare un scontro generazionale.

La Stampa 3.4.14
Staffetta tra vecchi e giovani
La Ragioneria contro Madia
I contabili dello Stato: anticipare le uscite dal lavoro avrà un costo
di Roberto Giovannini


Marianna Madia rilancia il suo progetto per ringiovanire la pubblica amministrazione: staffetta generazionale, no al blocco del turn over, più mobilità, garanzie per i vincitori di concorso e punteggi aggiuntivi per i precari. Nel corso di un’audizione alla Camera, il ministro della Pubblica amministrazione si è detta pronta a «un confronto innovativo di idee con le parti sociali». E soprattutto ha spiegato di aver chiarito tutto con la sua collega dell’Istruzione Stefania Giannini: «Ho parlato con il ministro - ha detto - non c’è nessuna intenzione di mettere in contrapposizione giovani e anziani, tutt’altro. C’è la volontà di avere delle uscite non traumatiche di persone molto vicine alla pensione affinché, in modo selettivo, entrino giovani».
L’amministrazione, ha affermato Madia, «ha bisogno di cambiamento, di rinnovamento e di nuove competenze fresche». Per questo «la prima azione» sarà quella della staffetta, che - ha assicurato - non provocherà disastri: «Va avviato un processo di riduzione non traumatica dei dirigenti e, più in generale, dei dipendenti vicini alla pensione, per favorire l’ingresso di giovani. Se non si fa, non ci può essere il rinnovamento» del comparto, «ma la sua agonia». Ovviamente c’è un problema di costi previdenziali, ha ricordato in un’altra audizione Francesco Massicci, della Ragioneria generale dello Stato. L’idea del ministro dunque è quella di programmare più uscite per ogni nuovo ingresso, citando come esempio un rapporto tra 3 uscite e 1 assunzione, anche «se non so se sarà questa la proporzione». La «staffetta» oltre al rinnovamento «garantirebbe un risparmio complessivo per le casse dello Stato, dato dalla differenza tra gli stipendi attualmente pagati e quelli dei neo assunti, al netto della spesa per le pensioni erogate in anticipo», mentre altre risorse per finanziare questo piano verranno da risparmi aggiuntivi sulla spesa per il settore, dagli stipendi dei dirigenti alla struttura delle partecipate. Tra le priorità del ministro c’è anche «il drammatico problema dei precari», una platea di centinaia di migliaia di persone, per i quali Madia pensa che «la soluzione più idonea da percorrere sia il riconoscimento a questi soggetti di un certo punteggio nei futuri concorsi, aperti a tutti, che verranno banditi in applicazione del progetto “staffetta generazionale”».
Per il leader della Cisl, Raffaele Bonanni, è «giusto favorire il turnover dei giovani. Ma prima serve un vero e proprio piano industriale». Mentre il numero uno della Uil, Luigi Angeletti, pur considerando la staffetta una «buona idea», intravede il rischio che si operi «un taglio lineare». Il ministro aveva ricordato che gli 80 euro in più in busta paga grazie alla manovra Renzi «di fatto significano, per il pubblico impiego, l’equivalente di un rinnovo contrattuale che altrimenti non sarebbe stato possibile». In pratica, niente contratto: una tesi, quella dello scambio tra riduzione dell’Irpef e rinuncia al rinnovo contrattuale per i dipendenti pubblici, fermo dal 2009, che per la Funzione Pubblica Cgil è «una beffa».

Corriere 3.4.14
Il castello degli annunci
Il governo tra volontà e atti concreti
di Antonio Polito


La politica dell’annuncio è politica. Produce fatti e conseguenze politiche. Non è solo marketing. Se un annuncio convince dieci milioni di italiani che dal giorno dopo le Europee staranno un po’ meglio, non solo vanno meglio le Europee, ma cresce anche l’indice di fiducia delle famiglie, e si può sperare in più consumi e investimenti.
Tony Blair visse per l’intera prima legislatura sull’onda degli annunci: si chiamavano white paper , riforme annunciate, date in pasto alla stampa, digerite dal pubblico come cambiamenti epocali, e poi dimenticate. Ma tirarono su il morale di una nazione depressa dal post-thatcherismo. Mentre fu solo quando dagli annunci passò ai provvedimenti che Gerhard Schröder perse le elezioni, per aver davvero rifatto il welfare tedesco e salvato la Germania dal declino economico. Ma il problema di Renzi, come ha notato ieri il Financial Times , è che i suoi giorni non ricordano neanche pallidamente gli anni ruggenti di Blair e Schröder. I quali danzarono su un’era di espansione e di crescita. Mentre Renzi si deve calare nella peggiore recessione del dopoguerra.
La politica dell’annuncio di Renzi è l’opposto di quella praticata dal suo predecessore. Quando Letta voleva fare una cosa, prima cercava il consenso dei tecnici e della sua maggioranza, e poi procedeva col minimo comun denominatore. Quando Renzi vuole fare una cosa, prima l’annuncia e poi chiede ai tecnici e alla sua maggioranza di realizzarla. In questo modo Letta produsse uno sconto fiscale di 18 euro al mese per i redditi bassi e Renzi ne produrrà uno da 80 euro al mese. Si direbbe dunque che funziona.
Non c’è però bisogno di essere un gufo, un rosicone, un disfattista (o come altro si chiama oggi chi si permetta di coltivare l’arte liberale del dubbio) per capire che tutto ciò comporta dei rischi. Questa tattica, che nel ciclismo si chiama «dell’elastico» (uno in testa scatta a ripetizione, e il gruppo deve accelerare per stargli dietro) ha i suoi limiti: se l’elastico si allunga troppo, si spezza. Fuor di metafora: Renzi ottiene ciò che vuole minacciando ogni volta di andarsene. Siccome oggi a nessuno conviene che se ne vada, la spunta. Ma prima o poi a qualcuno converrà, e i termini dell’equazione cambieranno. Per questo l’esperimento Renzi dipende così tanto dal risultato delle Europee.
In secondo luogo bisogna considerare l’effetto boomerang che potrebbe derivare da una inflazione degli annunci. In Europa, dove è essenziale essere creduti quando offriamo riforme in cambio di flessibilità. Ma anche in Italia, dove si vive in uno stato di sospesa incertezza, come in un castello delle fiabe, e tutti attendono di capire, prima di agire, se Renzi riuscirà a fare tutto ciò che dice, o solo una parte, e come.
Facciamo l’esempio del lavoro. Se un imprenditore può assumere, oggi sta sicuramente aspettando l’esito del braccio di ferro tra governo e sinistra parlamentare sull’unico decreto fin qui varato, che rende più facili i contratti a tempo determinato. E poi aspetterà di vedere se il disegno di legge seguente, il Jobs Act propriamente detto, lo contraddirà, restaurando un contratto unico a tempo indeterminato. Del resto è già successo che aspettative generate da Renzi siano cadute: quella di ricavare maggiori risorse dalle pensioni, per esempio, o dalla lotta all’evasione.
Il governo è quindi giunto a un momento cruciale. A metà mese ci saranno le tabelle del Def, numeri vincolanti. Gli annunci sono stati tutti fatti, e da qui alle Europee bastano e avanzano. Ora serve che diventino leggi e provvedimenti. Come in ogni storia d’amore, alla seduzione deve seguire l’atto.

Corriere 3.4.14
Berlusconi
Anche per Renzi è più utile che resti in gioco
di Maria Teresa Meli


L’agibilitá politica di Berlusconi rischia di diventare un problema anche per il Pd. L’idea originaria di Renzi era chiara: con un leader di Forza Italia «addomesticato» dalle difficoltà elettorali e dalle peripezie giudiziarie, si aveva la sicurezza di poter trattare senza problemi. Anche perché, come Renzi ha spiegato più volte ai compagni di partito, «Berlusconi non può più fare retromarcia». A suo giudizio, infatti, l’ex premier non é in grado di far saltare il tavolo delle riforme, perché «altrimenti perderebbe il suo elettorato»: «Se il 76 per cento di chi ci vota é favorevole alla riforma del Senato, nel caso di Forza Italia la percentuale sale».
Renzi sa che, nonostante tutto, con la sponda di Berlusconi, tanto più se «indebolito», può portare avanti i suoi progetti. E da questo punto di vista non lo preoccupa nemmeno il fatto che nel weekend Verdini gli abbia consegnato questo messaggio da parte dell’ex Cavaliere: «Non mi puoi chiedere di prendere o lasciare, noi dobbiamo poter fare delle modifiche al testo della riforma». No, non è questo che impensierisce il premier. È un altro il suo timore, come spiegano i renziani del cerchio stretto: «Con Berlusconi fuori dai giochi il patto sulle riforme potrebbe saltare». È l’eclissi totale del leader azzurro che potrebbe mutare radicalmente gli scenari. Perché «le forze populiste potrebbero prendere il sopravvento e vanificare tutto, con l’obiettivo di dimostrare che la politica non è in grado di autoriformarsi». Frangente complicato, questo, per il premier. Sì, perché se da una parte Renzi non può assolutamente «riaprire il patto con Forza Italia e ridiscuterlo», ma é destinato a cercare di apportare qualche migliorìa, continuando «il confronto e il dialogo», e niente di più, dall’altra non può nemmeno cambiare i suoi piani e consegnarsi a Grillo. Per questo l’incontro al Quirinale non gli é risultato sgradito. Ma nei confronti del Movimento 5 stelle, unico vero spauracchio del renzismo, cominciano i primi segnali di dialogo, perché i grillini «rappresentano una parte importante del Parlamento» e perciò «bisogna lasciare aperta la porta del confronto anche con loro». Per farla breve: se Berlusconi dovesse scomparire, cosa che comunque ora nell’universo renziano nessuno si augura, bisognerà cambiare strategia. Per l’ennesima volta.

Corriere 3.4.14
Il vertice del «correntone»
La minoranza pd punta a rottamare i vecchi capi corrente
di Monica Guerzoni


ROMA — Diversamente renziani, sì. Ma con quante sfumature di grigio? Può sembrare bizzarro, eppure anche di questo discutono i democratici dopo che la minoranza ha deciso di «azzerare il congresso» e rottamare le vecchie leadership correntizie. Relegati Bersani, D’Alema, Letta (e persino Cuperlo) nella vetrinetta dei padri nobili, è iniziata l’operazione riposizionamento dei parlamentari non-renziani. Lo slogan ufficioso è «Adesso tocca a noi». Noi chi? I trenta-quarantenni, ansiosi di scrollarsi di dosso vecchie etichette per non trovarsi confinati nel recinto minoritario dei benaltristi, parrucconi o frenatori. E forse anche desiderosi di non restare fuori dalle liste elettorali al prossimo giro. Ecco allora sparire i cuperliani della mozione congressuale e comparire i «riformisti», nuova categoria «dem» che include ex bersaniani come Alfredo D’Attorre e già dalemiani alla Enzo Amendola. Per provare a decifrare il caos calmo scatenato nel Pd dal ciclone Renzi bisogna partire dal «summit» di martedì sera, quando il capogruppo Roberto Speranza ha riunito a Montecitorio un centinaio di parlamentari e battezzato l’«Area riformista». Obiettivo dichiarato, «archiviare le contrapposizioni». Chi ha la forza di sfidare una barca che veleggia col vento in poppa? Nessuno, nella sinistra che Bersani amava chiamare «la ditta» e dove persino Stumpo, Zoggia e Fassina ed Epifani si sono affacciati in sala Berlinguer per ascoltare Speranza. Al giovane presidente dei deputati, Renzi ha affidato il compito di mediare: per portare a casa le riforme senza tafazzismi e sfatare, a colpi di numeri, la leggenda che il «capo» controlli il Paese ma non i suoi gruppi parlamentari. «Io non mi sento bene con la parola minoranza - ha voltato pagina Speranza, fissando al 28 aprile la prima assemblea - Nella mia cultura politica ho sempre provato a fare egemonia». Ed egemonia (renziana) fu.
I lettiani si sono divisi: Francesco Russo e Paola De Micheli dentro, Marco Meloni fuori. Gianni Cuperlo, che ha organizzato per il 12 aprile una convention aperta a Sel, è rimasto spiazzato dall’operazione «sinistra riformista» che, di fatto, ha rottamato la minoranza del 18 per cento. Al suo posto c’è un correntone che, non potendo sottrarsi alla sfida delle riforme, si prepara a «differenziarsi» nel merito. «Dal decreto lavoro al Titolo V faremo guerriglia in positivo» dicono gli ormai ex cuperliani. «Niente Aventino» promette Zoggia. Fino alle europee, Renzi può dormire tra due guanciali. Dopodiché il correntone riformista (che i renziani doc derubricano a «correntino») porrà il tema della leadership e qualcuno ipotizza la discesa in campo di una figura esterna, come Nicola Zingaretti o Enrico Rossi. «Io non chiedo il congresso, ma il premier non dovrebbe fare anche il segretario», avverte Stumpo. Nel frattempo Pippo Civati sfoggia sorrisi larghi così. Con i «Turchi» di Orfini che per primi hanno aperto il dialogo con Renzi, la corsa degli «ex» verso i lidi di maggioranza spalanca una prateria a sinistra: «Qui ognuno si fa la sua corrente renziana... Ma non erano i bersaniani a battersi contro l’uomo solo al comando? - attacca Civati — Un Pd al servizio di Palazzo Chigi mi sembra un po’ poco». Il 12 sarà anche lui alla convenzione dei cuperliani superstiti e intanto, al Senato, lavora per unire le forze con i grillini dissidenti: «Abbiamo una proposta alternativa che ha raccolto un bel po’ di firme, perché non si può passare dal Cnel al Cral».

Il Sole 3.4.14
L'abolizione del Senato
Chiti guida i dissidenti, Fi conferma l'asse con Renzi
«Sì alle riforme entro maggio» Ma nel Pd resta la fronda
di Em. Pa.


ROMA Sì del Senato entro il 25 maggio, giorno delle elezioni europee. E il testo che andrà in Aula sarà quello del governo. In un ufficio di presidenza del gruppo del Pd in Senato il capogruppo Luigi Zanda serra i ranghi dem sulla riforma costituzionale che supera il bicameralismo perfetto, abolisce il Senato elettivo e riforma il Titolo V. Martedì sera una riunione dei senatori democratici farà il punto prima dell'approdo in Aula, ma proprio dai senatori del Pd vengono le grane maggiori per la riforma delle riforme targata Matteo Renzi. La fronda interna infatti si è esplicitata in un disegno di legge alternativo, a prima firma Vannino Chiti, che raccoglie anche i civatiani: 22 le firme. La proposta, che prevede senatori eletti direttamente scardinando così uno dei paletti fissati dallo stesso premier (gli altri sono l'assenza di indennità, legata appunto alla non elettività dei nuovi senatori, e il superamento del bicameralismo perfetto con la fiducia al governo accordata dalla sola Camera dei deputati), sarà presentata alla stampa oggi e depositata nei prossimi giorni. Ma è convinzione della maggioranza dei senatori del Pd che alla fine si tradurrà in emendamenti al Ddl del governo.
In ogni caso, a parte i 22 dissidenti tra i quali non ci sono né lettiani né bersaniani, il dato nuovo è che la minoranza interna (appena ribattezzatasi corrente "riformista") appoggia completamente la riforma renziana. Nella riunione dell'ufficio di presidenza del gruppo uno degli interventi più a favore è stato non a caso quello di Maurizio Migliavacca, il plenipotenziario della segreteria di Bersani: «Il superamento del bicameralismo perfetto e l'istituzione di un Senato delle Autonomie è un progetto della sinistra fin dagli anni Ottanta». In agitazione è anche Forza Italia, anche se l'asse sulle riforme siglato tra Berlusconi e Renzi con il patto del Nazareno non è in discussione. E il leader di Fi avrebbe in questo senso rassicurato anche il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano nel suo incontro di ieri (si veda l'articolo a pagina 4).
L'alzata di toni degli azzurri, che a più voci chiedono l'elettività, sembra dovuta più ad esigenze di visibilità che a reale intenzione di sabotaggio. Lo stesso obiettivo sembra avere la richiesta di inserire l'elezione diretta del premier, come spiega Maurizio Gasparri: «Rischiamo di approvare una riforma di cui in campagna elettorale si prenderà tutto il merito Renzi – dice –. Noi portiamo avanti la nostra bandiera del premierato, sta a Renzi dirci di no...». Il premier intanto incassa l'appoggio di Mario Monti e di Scelta civica sul punto dirimente della non elettività dei nuovi senatori. Il treno, lentamente, si incammina.

Repubblica 3.4.14
Beppe Grillo:
“O vinciamo alle europee e li mandiamo a casa oppure mi ritiro
intervista
di Tommaso Criaco



Si parte dal caffè. Da quello che Beppe Grillo sorseggia in aeroporto con il suo fido scudiero, un giovane sardo di nome Pietro Dettori. È un mercoledì caldo e luminoso, a Catania. Un barista gli fa: «Beppe, ma ci riesci davvero a mandarli tutti a casa?». Il leader si sfila gli occhiali a goccia: «La situazione è questa: o li cacciamo democraticamente noi a maggio, oppure arriveranno altri che lo faranno diversamente». Pochi minuti prima il comico si è concesso un “dolce” risveglio — caffè e abbondante colazione — nel suo hotel in via Etnea. È rilassato, quasi svuotato. Si lascia intervistare. Giura che si farà da parte se non vincerà le Europee, non risparmia il “ribelle” Pizzarotti. Poi saluta cordialmente la concierge. «Abbiamo pagato? ». Lo rassicurano. Ora c’è un taxi per l’aeroporto. E un volo per Napoli, prossima tappa del tour.
“O vinciamo alle europee e li mandiamo a casa oppure mi ritiro”

CATANIA. Martedì sera, prima di sorprendere gli spettatori travestito da spettro, Grillo sembrava un po’ emozionato. È così ogni volta, per chi deve affrontare il palcoscenico di un teatro.
Poi si è sciolto, Beppe. Normale pressione da “prima”?
«È sempre così, all’inizio. Bisogna sciogliersi, è ovvio. Con gli spettacoli ci devi prendere la mano. Succede un po’ alla volta, mentre si va avanti con il tour. Questo non è un problema».
Non era facile, comunque. Fare ridere parlando d’Europa è una scelta indubbiamente coraggiosa.
«Non c’è dubbio. L’argomento è ostico, lo so. E d’altra parte non l’avrei fatto, se non ci fossero state le Europee. E così ho preso questa decisione di parlare d’Europa».
A una platea che difficilmente riesce a orientarsi tra le problematiche dell’Unione.
«In realtà, calcola che chi viene a teatro da me è gente che invece conosce di cosa si parla. Come ieri sera, c’erano molto attivisti».
Sì, parecchi.
«Quindi persone che conoscono le cose che dico. Io, comunque, ne parlo in modo che anche la gente normale capisca quanto conti l’Europa, quanto decida del nostro futuro».
E intanto si avvicina la sfida elettorale per l’Europarlamento. Una battaglia decisiva per il Movimento.
«Stavolta bisogna che la gente capisca che dobbiamo fare un culo così a tutti. Perché su una cosa non ho dubbi: o vinciamo, o stavolta davvero me ne vado a casa. E non scherzo».
Calcherà il palcoscenico di dieci teatri italiani. E poi la piazza, in campagna elettorale. Punta a convincere quelli che non vanno a votare. E che potrebbero scegliere Cinquestelle. È quello il suo target?
«Noi dobbiamo mobilitare anche quella gente che va ai seggi solo per votare bianca o annullare il voto. Lo sapete quanti sono? Pare che siano due milioni! Ma capite che ci sono due milioni di persone che escono di casa non per votare qualcuno, ma per scegliere bianca o nulla?».
Lei punta a conquistarli.
«Quelli sono i nostri. Se riusciamo a prendere quei voti, sono due milioni di voti per il Movimento. Poi, per il resto, non prenderemo tantissimo dagli altri partiti, il due o tre per cento... ».
Sembra fiducioso. Ottimista. Davvero sente un’aria simile a quella dello tsunami tour che precedette le Politiche?
«Assolutamente sì. È come l’ultima volta, non c’è dubbio. Naturalmente il tipo di elezione è diversa, ma l’aria è quella. E lo sa perché?».
Dica.
«Dobbiamo mandali via davvero, stavolta. E possiamo farcela. Ma bisogna che la gente capisca che lo facciamo per loro. Che è là — in Europa — che si decide tutto».
Le tensioni con il sindaco di Parma Federico Pizzarotti non rischiano di rovinarle la campagna elettorale?
«Pizzarotti, Pizzarotti... diciamo che è uno che ha bisogno di visibilità... ». Poi Grillo allarga le braccia, accanto a lui l’agente teatrale lo osserva incuriosito. E il leader prosegue.
«Pizzarotti può dire quello che vuole, non è che la mia parola vale qualcosa. Io esprimo un parere, sono solo una voce».
Nel corso del suo show dice, a un certo punto: «Sbaglio anche per voi che non fate un cazzo». E la gente applaude, convita. Curioso, no?
«Forse è perché li scuoto. Non c’è dubbio, comunque, che vengono perché la situazione che ci circonda è quella che è...».
Altro elemento da non trascurare: pagano per assistere al suo show.
Che, però, è pure un comizio.
«È una forma di finanziamento, va bene così. E poi che cosa erano i miei spettacoli, anche prima? Comizi».
E con i giornalisti come la mettiamo?
Sempre tensione, ma in fondo faccia a faccia tutto (o quasi) fila liscio.
«Ma voi giornalisti, a volte, siete terribili... Mi fate paura, siete “walking dead”».
Lo dice spesso. Perché?
«Perché siete come in quella serie televisiva, non l’hai vista? Voi vi accalcate in cento, vi spalmate sulle vetrate, travolgete tutto con le telecamere. Tutti spingono, è pazzesco. E poi cercate di strappare una parola, di stravolgere una frase...».
Non risulta che sia così. Grillo, comunque, è un fiume in piena. Promette un referendum sull’euro, respinge le critiche dei militanti rilanciate da Pizzarotti — «chi è scontento non è già del Movimento» — e attacca Matteo Renzi: «Votatelo se non siete intelligenti, onesti e democratici». Lo ripeterà anche stasera, a Napoli. «Mi sento di fare così, dobbiamo vincere le elezioni».

l’Unità 3.4.14
Clandestinità, la Camera cancella il reato
Primo via libera alla depenalizzazione nonostante l’ostruzionismo della Lega
Forza Italia spaccata. Sì anche alle pene alternative al carcere
di Federica Fantozzi


«Si volta pagina» annuncia la presidente della Camera, Laura Boldrini. Nemmeno la spigola agitata in aula da Buonanno è bastata. Nonostante le proteste e l’ostruzionismo della Lega, è stato approvata ieri alla Camera in via definitiva la depenalizzazione del reato di immigrazione clandestina. Il disegno di legge delega - passato con 332 sì, 104 no e 22 astenuti - contiene la riforma del sistema sanzionatorio e l’applicazione di misure alternative al carcere, dalla messa in prova al braccialetto elettronico. Commenta il ministro della Giustizia Orlando: «È un importante passo avanti nella direzione di un Paese più giusto e moderno, che ci mette in linea con l’Europa senza minare la sicurezza dei cittadini».
Hanno votato a favore Pd, Ncd, Udc, Sel. Marcia indietro del M5S, che al Senato aveva votato a favore del testo: stavolta dà luce verde all’emendamento specifico sul reato di clandestinità ma vota no al ddl complessivo. È l’ultima torsione, dopo che la posizione anti-depenalizzazione di Beppe Grillo era stata sconfessata dalla Rete attraverso un referendum online. Maretta anche dentro Forza Italia, che alla fine si è spaccata con 8 no, 14 sì e la maggioranza, 19 deputati, astenuti per incertezza sul da farsi. Un caso che ha provocato molti malumori, concentrati su Brunetta ma che hanno lambito anche Berlusconi per «l’assenza di una strategia e di una linea chiara di opposizione ». Contrarissimi Fratelli d’Italia che hanno cavalcato e criticato con ben simulato dispiacere l’atteggiamento degli azzurri. Soddisfatta, invece, la presidente della commissione Giustizia, la Democratica Donatella Ferranti, che alle critiche ha risposto netta: «Non è uno svuotacarceri ». Emozionato Khalid Chaouki, responsabile Pd dell’intergruppo su immigrazione e cittadinanza e in prima linea sull’argomento: «Finalmente è stata eliminata una delle più odiose bandierine leghiste. Un reato di immigrazione clandestina era inutile e lesivo. Ora serve una riforma della legge sulla cittadinanza ».
Depenalizzata l’immigrazione clandestina, resta rilevante a livello penale il reingresso in Italia in violazione di un provvedimento di espulsione. Adesso sarà compito del governo determinare sanzioni pecuniarie, amministrative e civili alternative alla detenzione. Ma la riforma ha l’obiettivo complessivo - attraverso l’alleggerimento delle pene per chi delinque per la prima volta in caso di reati punti fino a 4 anni - di limitare il sovraffollamento delle carceri. Problema non nuovo ma sempre attuale. Il ministro della Giustizia Andrea Orlando è appena stato in Marocco a firmare un accordo bilaterale per cui, a determinate condizioni, sarà possibile che i detenuti marocchini scontino gli ultimi due anni di pena nelle carceri del loro Paese. Un provvedimento che riguarderebbe circa 4mila detenuti.
In trincea è salita la Lega. Che già il giorno precedente ha applaudito lo show di Buonanno, dopo aver messo nel mirino il ministro dell’Interno Angelino Alfano con una mozione di sfiducia ad personam proprio per la gestione delle politiche di sicurezza. «Noi non ci stiamo » strilla il segretario del Carroccio Matteo Salvini, che annuncia un referendum sul tema, molto sentito degli elettori padani.
Protesta anche Giorgia Meloni: «Lo Stato scarica sui cittadini onesti la propria inefficienza». E mentre Guido Crosetto se la prende con Renzi - «Grazie Matteo. È il secondo atto della tua leadership dopo la svendita di Bankitalia» - in realtà nel mirino ci sono i forzisti. Rei di pensarla come il premier e Alfano. Un punto da sfruttare al massimo durante la campagna elettorale per le Europee, dove l’ex Cavaliere ha arruolato Storace proprio in chiave anti-Fdi.
Nel partito di piazza in Lucina accusano il colpo. Al mattino, quello che manca è un’indicazione chiara su come comportarsi. Liberi tutti, si va in ordine sparso. Diversi criticano il «protagonismo» del capogruppo Brunetta «che esterna a colpi di slide sui temi economici ma lascia il gruppo al buio sui lavori dell’aula ». Fatto sta che votano contro, tra gli altri, Annagrazia Calabria, Daniela Santanchè, Giorgetti. C’è chi riceve telefonate allarmate di Gasparri e Matteoli dal Senato. Altri, come Fitto e Mara Carfagna, si astengono. Ma in Translatlantico la sensazione è di spaesamento. E la lontananza di Berlusconi dalla politica, l’assenza di una prospettiva su temi che li riguardano da vicino, la sensazione di «non essere nè carne nè pesce» è palpabile.

Redattoresociale.it 31.3.14
Dai respingimenti ai Cie, prove di “annullamento” degli esseri umani
Cinque anni di cronache italiane raccontati dalla giornalista francese Flore Murard Yovanovitch nel libro “Derive”
mettono in luce le radici culturali e psicologiche della disumanità delle politiche contro rom e migranti
di Raffaella Cosentino

qui

l’Unità 3.4.14
Una scelta di civiltà
di Luigi Manconi e Valentina Brinis


Finalmente è stato approvato alla Camera il disegno di legge sulle pene alternative che prevede, tra le altre cose, anche la depenalizzazione della fattispecie di immigrazione irregolare.
Ciò significa che il Governo dovrà, entro diciotto mesi, trasformare in illecito amministrativo l'attuale reato di immigrazione clandestina (previsto dall'articolo 10-bis del testo unico), rendendo penalmente rilevante solo il reingresso in Italia in violazione di un precedente provvedimento di espulsione. Il reato, voluto dalla Lega Nord e dal Pdl, era stato introdotto nel 2009 e prevedeva una sanzione pecuniaria, che tuttavia non veniva mai irrogata in quanto l’espulsione determinava il proscioglimento. In questi anni, quel reato ha portato alla criminalizzazione di numerosissimi stranieri (solo ad Agrigento negli ultimi dodici mesi ne sono stati indagati migliaia e migliaia). È questo che costituisce, in particolare nella percezione dell’opinione pubblica, la “giustificazione” dell’esistenza dei Centri di identificazione ed espulsione: se lo straniero rappresenta una minaccia sociale e un pericolo per l’incolumità e la sicurezza dei cittadini, esso va “contenuto”, classificato come criminale, recluso nei Cie. Eppure, nonostante che siano stati avviati numerosi processi, quell'illecito non ha avuto l'effetto di dissuadere dall'ingresso irregolare quanti intendevano e intendono venire in Italia. Ciò significa che il miglior modo di affrontare questo fenomeno non è quello di criminalizzare e punire, ma quello di agevolare e di rendere "più conveniente" (per tutti: italiani e stranieri) l'ingresso regolare. Ecco perché sarebbe opportuno introdurre il visto di ingresso per ricerca di occupazione, al fine di favorire l’incontro tra offerta e domanda nel nostro paese, contribuendo a regolarizzare una quota notevole degli ingressi e dei soggiorni non regolari. Il sistema attuale – decreto flussi, quote, chiamata nominativa – si basa sull’ipotesi, rivelatasi del tutto irrealistica, che offerta e domanda di lavoro si incontrino nei paesi di emigrazione. Con il visto di ingresso per ricerca di occupazione, chi voglia venire in Italia si deve rivolgere al consolato italiano nel suo paese. Lì rilascia copia del passaporto e impronte. Se non vi sono precedenti negativi, gli verrà riconosciuto un visto per cercare lavoro in Italia; tempo: sei o dodici mesi. Se trova lavoro, stipula un contratto e ottiene il permesso di soggiorno. Ciò, oltre tutto, scoraggerebbe i rapporti di lavoro in nero. Se non trova un’occupazione, deve tornare al suo paese, salvo concedergli in futuro un’altra chance. Per concludere. Il reato di immigrazione irregolare ha certamente influito sul modo di intendere la presenza straniera in Italia. Ha fatto sì che la categoria dei migranti venisse assimilata – secondo una concezione giuridica precedente allo stato di diritto – a quella di una «classe pericolosa»: da perseguire non per i reati commessi ma per la sua stessa condizione esistenziale (non per ciò che si fa, ma perciò che si è). Il Parlamento, la sua parte l'ha fatta. Ora spetta al Governo non essere da meno.

Il Sole 3.4.14
Giustizia
Sì della Camera allo «svuotacarceri»
Per il viceministro della Giustizia, Costa, «un passo di civiltà giuridica»
di Vittorio Nuti


«Un passo di civiltà giuridica», esulta il viceministro della Giustizia, Enrico Costa (Ncd), gli stessi toni usati dalla capogruppo Pd in commissione Giustizia, Donatella Ferranti, che parla di «punto di svolta culturale». La maggioranza - per l'occasione allargata a Fi e Sel - conferma alla Camera l'unità di intenti con il via libera definitivo al ddl che cambia radicalmente l'approccio sulle pene alternative al carcere. Soddisfatto anche il Guardasigilli Andrea Orlando: «Passi avanti per un paese più giusto e moderno».
La legge, due deleghe e 16 articoli in tutto, ridisciplina anche il procedimento nei confronti degli irreperibili abolendo l'istituto della contumacia. Il voto vede 332 favorevoli (Pd, Fi, Ncd, Sel, Sc, e Pi), 104 contrari (M5S, Fdi e Lega, che pratica l'ostruzionismo e subisce l'espulsione del deputato Fedriga per i cartelli di protesta "Vergogna, vergogna") e 22 astenuti. Questi sono soprattutto tra i banchi di Forza Italia, dove si registra una spaccatura sulla norma - altra novità della legge - che di fatto abroga il reato di clandestinità, mentre resta la sanzione penale per il reingresso in violazione di un provvedimento di espulsione. Dei 41 azzurri presenti, alla fine otto votano contro, diciannove si astengono e solo quattordici dicono sì, tra accuse di mancata regia e opposizione di facciata.
Se gli effetti del ddl si vedranno solo quando il Governo metterà in campo i decreti attuativi, fin d'ora è prevedibile una nuova stagione per i 60mila detenuti (-7.734 sul 2010), a fronte di una capienza regolamentare ferma a 48.300, in base ai dati diffusi ieri dal Dap. La riforma supera infatti il modello attuale, incentrato sulla pena in carcere, destinata a diventare l'estrema ratio, e allinea l'Italia agli ordinamenti giuridici avanzati introducendo a pieno titolo nel Codice penale la misura della pena detentiva non carceraria, ossia la reclusione o l'arresto presso il domicilio.
In base ai principi fissati dalla delega, i domiciliari - che potranno essere continuativi, per fasce orarie o giorni della settimana, eventualmente con prescrizione di braccialetto elettronico - diventeranno la pena principale da applicare in automatico a tutte le contravvenzioni oggi colpite da arresto e a tutti i delitti puniti fino a 3 anni. In caso di reclusione da tre a cinque anni, sarà il giudice a decidere tenendo conto della gravità del reato. Esclusi comunque i delitti più gravi e le persone considerate a rischio di fuga. Per i reati per i quali è prevista la detenzione domiciliare, il giudice potrà anche prevedere la condanna al lavoro di pubblica utilità, per una durata minima di 10 giorni.
Una delle novità più importanti riguarda l'estensione dell'affidamento in prova ai servizi sociali anche per chi è condannato a 4 anni di pena (al massimo e anche se residui). In base alla delega, il governo ha poi il compito di trasformare in semplici illeciti amministrativi una serie di reati, ma non quelli connessi fronti “caldi” come edilizia, territorio, sicurezza sul lavoro e proprietà intellettuale. La depenalizzazione riguarderà tutte le infrazioni attualmente punite con la sola multa o ammenda e altre specifiche fattispecie, come ad esempio l'omesso versamento (se non superiore a 10mila euro) di ritenute previdenziali e assistenziali.
In serata, una nota dei penalisti - peraltro soddisfatti per lo «sforzo riformatore», che comprende anche il contemporaneo via libera in prima lettura al Senato del ddl sulla custodia cautelare - sottolinea il «ridimensionamento» del tetto per la detenzione domiciliare a tre anni dai sei iniziali, e invita a non «scomodare toni enfatici», e soprattutto a non chiamare le nuove norme una «riforma del sistema delle pene».

Il Sole 3.4.14
Il populismo e il rischio di battute d'arresto verso una nuova cultura della pena
È solo l'inizio di un lungo cammino
di Donatella Stasio


L'approvazione della riforma del sistema sanzionatorio potrebbe essere davvero il segnale di una svolta culturale dopo decenni di politiche criminali oscurantiste, che hanno fatto leva sulla paura e su un concetto distorto di sicurezza, grazie anche a slogan (spesso rilanciati acriticamente dai media) come "tolleranza zero" o "certezza della pena". Ma il condizionale è d'obbligo, purtroppo, come dimostra l'esperienza di riforme "epocali" che hanno perduto, strada facendo, proprio ciò che le qualificava come epocali.
Era già una svolta culturale la riforma dell'ordinamento penitenziario del '75 e così la successiva legge Gozzini, poi anestetizzate dalla prassi e dai pacchetti sulla sicurezza. Epocale era anche la riforma che nel 2012 aveva sancito la chiusura degli Ospedali psichiatrici giudiziari (Opg), ma che è stata rinviata già due volte. D'altra parte, in un recente Convegno svoltosi a Bologna, dov'erano riuniti i migliori giuspenalisti italiani, Massimo Pavarini ha richiamato i colleghi a un'autocritica, denunciando «l'assenza» della scienza giuridica penalistica proprio nel settore della pena e della sua esecuzione. Un richiamo a recuperare terreno, il suo, tanto più nel momento in cui la «scienza penale» rilancia la necessità di una dialettica con la politica (Luigi Foffani), riconosce il dovere di «prendere posizione, uscendo dall'asetticità» (Marcello Gallo), rivendica il proprio ruolo di «interlocutore indipendente» fermo restando che, «per farci sentire, non dobbiamo diventare populisti» (Massimo Donini).
Oscar Wilde diceva che «l'esperienza è semplicemente il nome che gli uomini danno ai loro errori», una massima che i detenuti citano spesso per sottolineare la volontà di non ripetere l'esperienza che li ha portati in prigione. Il populismo è l'errore più grave e frequente delle politiche criminali, e quindi un'esperienza da non ripetere, anzi da archiviare, anche se continua a mietere consensi (non solo in Italia). Ieri, alla Camera, se ne è avuta un'eco nelle frasi di alcune forze politiche, Lega in testa («Aiutano i clandestini, liberano migliaia di delinquenti...»), rimaste fortunatamente in minoranza.
Il populismo fa guadagnare consensi, ma inchioda il Paese a una subcultura indegna di una democrazia, qual è invece quella che dovrebbe riconoscersi nei valori costituzionali. Eccita paura, odio, vendetta, mistificando la realtà e spacciando il carcere come massima garanzia di sicurezza collettiva, mentre studi economici di tutto il mondo dimostrano il contrario. E allora, per evitare frenate, marce indietro o ritardi (molte novità della riforma sono solo una delega al governo, che dovrà attuarla), è bene che il voto di ieri sia considerato l'inizio, e non l'approdo, di un cammino ancora lungo verso una diversa cultura della pena. Su questa strada dovranno impegnarsi tutti i protagonisti della politica criminale (giuristi, magistrati, media, partiti), senza scorciatoie.
L'emergenza del sovraffollamento carcerario, se da un lato ha consentito di rompere l'immobilismo dell'illegalità, rischia, una volta superato l'esame di Strasburgo (a maggio), di soffocare il respiro culturale di un processo riformatore che è soltanto alle prime battute. Matteo Renzi, nonostante qualche cedimento alla demagogia nei suoi primi interventi sulla giustizia, può imprimere a questo cammino, più che velocità, un'andatura regolare, costante, come quella che serve in montagna per raggiungere la cima. Sarebbe un segnale di discontinuità e di coraggio.

l’Unità 3.4.14
Sette milioni di pensionati sotto i mille euro
Sono il 42,6%, e un altro 38% percepisce tra mille e 2mila euro

I sindacati: «Situazione drammatica, il governo intervenga»
Sono undicimila quelli oltre i 10mila euro
di Laura Matteucci


Milano. La spesa pensionistica aumenta, ma più di quattro italiani su dieci, 7 milioni di persone (il 42,6% del totale), ricevono meno di mille euro al mese. A questi, fanno da contraltare gli 11mila pensionati d’oro - lo 0,1% del totale - che guadagnano più di 10mila euro al mese.
I dati arrivano dall’Istat e fanno riferimento al 2012, primo anno post-riforma Fornero: la spesa complessiva per prestazioni pensionistiche è stata pari a 270.720 milioni di euro, con un aumento dell’1,8% rispetto all’anno precedente, mentre la sua incidenza sul Pil è cresciuta di 0,45 punti percentuali (dal 16,83% del 2011 al 17,28% del 2012). L’importo medio annuo delle pensioni cresce anch’esso: è pari a 11.482 euro, 253 euro in più rispetto al 2011 (+2,3%). Bisogna però considerare che, sui 16,6 milioni di pensionati censiti nel 2012 (75mila in meno del 2011), in media ognuno di essi ha percepito 16.314 euro all’anno (358 euro in più del 2011) visto che, in alcuni casi, uno stesso pensionato può contare anche su più di una pensione.
CONTI IN ORDINE
La nuova fotografia dell’Istat sul sistema previdenziale chiarisce la situazione degli assegni: il 38,7% percepisce tra mille e 2mila euro, il 13,2% tra 2mila e 3mila euro; il 4,2% tra 3mila e 5mila euro e il restante 1,3% percepisce un importo superiore a 5mila euro. In più, c’è quello 0,1% con un reddito da 10mila euro. Le donne rappresentano il 52,9% dei pensionati e percepiscono assegni di importo medio pari a 13.569 euro (contro i 19.395 degli uomini); oltre la metà delle donne (52,0%) riceve meno di mille euro al mese, a fronte di circa un terzo (32,2%) degli uomini.
Il 47,8% delle pensioni è erogato al nord, il 20,5% nelle regioni del centro e il restante 31,7% nel sud. Le persone che hanno iniziato a percepire una pensione nel 2012 (i nuovi pensionati) sono 626.408, mentre sono 701.101 le persone che nel 2012 hanno smesso di esserne percettori. Il reddito medio dei nuovi pensionati (14.068 euro) è inferiore a quello dei cessati (15.261) e a quello dei pensionati sopravviventi (16.403), che già nel 2011 percepivano almeno una pensione. Il 26,5% dei pensionati ha meno di 65 anni, il 50% ha un’età compresa tra 65 e 79 anni, il 23,5% ha più di 80 anni.
Rassicurante il messaggio del ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan: «Le pensioni non si toccano», conferma infatti citando il premier Matteo Renzi. Come positivo è anche l’intervento della Ragioneria dello Stato: «La sostenibilità macroeconomica del sistema pensionistico italiano è, in prospettiva, tra le migliori in Europa - dice il capo dell’Ispettorato generale per la spesa sociale, Francesco Massicci - La variazione della spesa sul Pil è in netta controtendenza, e i rischi sono assai contenuti». «A fronte di un valore che cresce di circa 1,5 punti percentuali - aggiunge poi - in Italia scende di 0,9 punti».
Se dal punto di vista della tenuta finanziaria i conti non destano preoccupazione, dal punto di vista sociale, invece, l’allarme lanciato dai sindacati è più che giustificato. «I pensionati vivono in una condizione di grande difficoltà e avrebbero bisogno di una scossa. Il governo però li ignora e non sembra preoccuparsene», commenta la segretaria generale dello Spi-Cgil Carla Cantone. «È stata fatta una scelta - continua poi - quella di escludere i redditi da pensione dagli sgravi fiscali, come se i pensionati non avessero anche loro bisogno di 80 euro in più a fine mese ». Sulla stessa linea anche la Fnp Cisl: «Il governo prenda atto che non è più possibile lasciare i pensionati nello stato di difficoltà in cui versano».

l’Unità 3.4.14
Il rinvio della chiusura degli Ospedali psichiatrici giudiziari
risponde Luigi Cancrini
psichiatra e psicoterapeuta

Quello che abbiamo visto e sentito al tempo della Commissione Marino nel 2012 sugli Ospedali Psichiatrici Giudiziari faceva pensare che la loro chiusura fosse una questione di civiltà. Da fare subito. Pare si parli invece di rinvio. Ancora per un anno. È davvero così?
SILVIA NUZZO

Il rinvio della chiusura degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari è stato firmato l'altro ieri «con rammarico» dal Presidente Napolitano. Passati al servizio sanitario nazionale sulla base di una mia iniziativa parlamentare nel 2008 questi ospedali, male amministrati in precedenza dal ministero della Giustizia, si rivelarono inadatti all'esigenza di dignità e di cura delle circa 1200 persone in essi recluse quando la Commissione d'Inchiesta sul Servizio Sanitario Nazionale guidata da Ignazio Marino ne esaminò le strutture fatiscenti e l'organizzazione: totalmente irrazionale e drammaticamente disumana. Quello che ne venne fuori fu uno scandalo ampiamente rappresentato sui media e una legge che ne prevedeva la chiusura. Che doveva essere definitiva in questi giorni e che deve essere invece di nuovo rinviata. Per mancanza di soldi? Io mi permetto di dire di no, che il difetto è stato soprattutto un difetto di cultura e di volontà politica dei governi (Monti e Letta) che avrebbero dovuto guidare, con una loro task force centralizzata, l'iter comunque difficile di una riforma epocale e degli amministratori regionali che al problema dei pazienti psichiatrici detenuti non hanno dedicato di fatto alcun tipo di interesse. Gli ultimi degli ultimi rimarranno lì, dunque. Scandalosamente e con rammarico. Ma senza che nessuno paghi per le responsabilità che non si è assunto.

il Fatto 3.4.14
Nuove professioni
Archeologia da lustrascarpe
di Tomaso Montanari


Certo la veneranda Accademia dei Lincei non si può dipingere come un covo di intemperanti giovinotti inclini al ribellismo. Tanto più colpisce il durissimo documento con cui quasi tutti gli archeologi che ne fanno parte attaccano l’abilitazione nazionale della loro materia. Ermanno Arslan, Luigi Beschi, Nicola Bonacasa, Edda Bresciani, Giovannagelo Camporeale, Filippo Coarelli, Antonio Giuliano, Eugenio La Rocca, Vincenzo La Rosa, Salvatore Settis, Mario Torelli e Fausto Zevi si rivolgono alla ministra per l’Università, Stefania Giannini, per esprimere tutto il loro sconcerto per l’operato della commissione che ha distribuito le idoneità agli archeologi italiani. “Sono stati resi idonei candidati – si legge – la mediocrità o addirittura l’irrilevanza della cui produzione è visibile a chiunque”, in base a “un criterio meramente quantitativo, per cui vale ‘uno’ sia una prefazione di una pagina sia un lavoro enormemente più impegnativo”. E ancora: “Ci si è voluti mostrare generosi a spese della scienza, una scelta palesemente fatta con l’obiettivo di compiacere singoli professori e cordate vecchie e nuove, e finanche intere regioni (una sola scorsa della lista degli abilitati permette di dire a quali regioni ci si riferisce: (la Sicilia, ndr), per la prima fascia.
E “IL SEMPLICE confronto delle esclusioni con le inclusioni fornisce un quadro del tutto evidente delle scelte ‘di scuola’, che hanno privilegiato alcuni candidati, non sempre di evidente alta qualità, e danneggiato altri”. I lincei non esitano a giudicare i commissari stessi: “Quando, come qui è il caso, una commissione non contenga né studiosi di primo piano e con vasta esperienza internazionale né competenze essenziali (per esempio, di storia dell’arte greca e romana), i commissari possono facilmente cedere alla tentazione di condizionare il futuro della disciplina limitando le scelte di prima fascia ai candidati a essi affini per ambito di studi (anche ristrettissimo) o per appartenenze e colleganze che nulla hanno a che fare con la scienza. Scelte come queste risulteranno incomprensibili in the profession a livello dell’opinione pubblica internazionale”.
Nella tempesta che sta, meritatamente, investendo tutto il carrozzone delle abilitazioni, la lettera dei nostri più illustri archeologi rappresenta un episodio di inedita durezza, anche perché si conclude chiedendo alla ministra “di voler sospendere l’operatività di queste abilitazioni e tornare sull’intera materia delle abilitazioni e dei concorsi con un nuovo provvedimento legislativo, che ripristini il criterio assolutamente prevalente della qualità (e non della quantità) della ricerca”.
In effetti, a prendere in mano i giudizi di archeologia c’è da trasalire. Di fronte a lampanti conflitti di interesse, come nel caso di pubblicazioni firmate sia da un commissario che da un candidato, come hanno deciso di comportarsi i callidi commissari? Di astenersi? Di non valutarlo? No, manco per sogno, hanno previsto di allegare al giudizio “una dichiarazione da cui si evinca chiaramente la parte di contributo pertinente al candidato”. Basterebbe questo per chiedere di invalidare tutto il concorso. Ma non è finita.
Un commissario, il professor Alessandro Guidi, ha inserito tra i propri titoli un intervento (peraltro scritto a quattro mani con una collega) sull’archeologia dei nettascarpe, quei ferri otto-novecenteschi talvolta murati vicino ai portoni dei palazzi. Una curiosità da settimana enigmistica, decisamente improbabile nel curriculum di uno specialista in preistoria, e la cui unica rilevanza accademica è forse da cercare nella prossimità semantica che unisce nettascarpe e leccapiedi.
UN ALTRO commissario, Francesco Tomasello, dichiara di non votare per l’idoneità di una candidata, per il suo “scarso coinvolgimento in attività universitarie”. Ma la candidata in questione (Maria Luisa Catoni, cui è stata negata l’idoneità) presiede una commissione per il finanziamento di ricerche nell’influentissimo European Research Council, è Senior Fellow e Membro del Consiglio Scientifico dell’Italian Academy della Columbia University, dirige un programma di dottorato della sua università, è stata Fellow del Wissenschaftskolleg di Berlino, Senior Project Associate al J. P. Getty Center Institute di Los Angeles: e dunque, viene da chiedersi, a quale mai tipo di attività universitarie pensava il commissario? A questo punto resta solo da vedere se la ministra accoglierà l’invito dei Lincei, o se invece lascerà ai Tar il facile compito di ridurre questi giudizi a carta buona per nettarsi – giustappunto – le scarpe.

Corriere 3.4.14
Il viaggio nel tempo del Colosseo
Tornano i colori di due millenni fa
Il travertino ripulito con l’acqua. Ecco il giallo, l’oro e l’ambra
di Paolo Conti


ROMA — «Noi che lavoriamo nel Colosseo e per il Colosseo siamo abituati a convivere con il monumento probabilmente più famoso del mondo. E il mondo si stupirà scoprendo il suo vero colore. Ma sono sicura che quando le impalcature verranno smontate, entro qualche settimana e comunque prima dell’estate, il Colosseo sarà capace di sorprendere anche noi». La voce di Rossella Rea, che dirige il Colosseo dal 2008, tradisce una forte emozione.
Il cantiere per il restauro dell’Anfiteatro Flavio, aperto nel settembre scorso intorno alle prime dieci arcate Nord, sta lentamente svelando l’antico e insieme nuovissimo colore del travertino. Un timbro complessivamente chiaro ma variegato, che spazia dal miele al giallo ocra, fino al castagno, e si alterna nello spazio di pochi centimetri, restituendo una coloritura intensa, dorata, sorprendente.
L’architetto Gisella Capponi, direttore dei lavori di restauro del Colosseo e responsabile dell’Istituto Superiore per la Conservazione e il Restauro (suoi il progetto e i lavori di ripristino della Torre di Pisa) parla di «un colore che definirei ambrato. Una tonalità derivata da quella “patina del tempo”, rigorosamente preservata durante le operazioni di pulizia, frutto dell’ossalato di calcio che si forma naturalmente negli anni. Sparirà completamente la copertura nera dovuta al traffico e all’inquinamento». Gisella Capponi spiega che la porzione di Colosseo sottoposta al primo intervento di restauro è in assoluto la più scurita dagli agenti chimici contemporanei: «È l’area più vicina al traffico, dove il particolato si è deposto con maggiore intensità».
Ed eccoci nel cuore del cantiere. Ed ecco il sistema di pulizia. Una ragnatela di tubi che alimentano centinaia di ugelli spruzzatori a intensità regolabile, ciascuno con un proprio rubinetto. Nulla di chimico o di intrusivo: semplice acqua romana pubblica, ma diretta, con maggiore o minore intensità a distanza di pochi centimetri, verso un travertino per natura molto «alveolato», pieno di rientranze e fessure di diversa forma, adatte a contenere lo sporco. Nel cantiere lavorano dieci restauratori laureati e specializzati, indirizzati nei minimi dettagli dalla direzione scientifica del cantiere. Ancora Gisella Capponi: «Certamente non abbiamo usato le sabbiatrici, strumenti ben più potenti e adatti ad altri casi. Qui l’acqua va usata con attenzione proprio perché deve sciogliere le impurità, ma non abradere la superficie né intaccare la preziosa patina del tempo». Altra incognita deriva dalla solfatazione, cioè dalla trasformazione — sempre e comunque a causa dell’inquinamento — del carbonato di calcio (quindi il travertino) in gesso. Infine c’è da fare i conti con gli inserimenti di cemento armato tra un lastrone e l’altro, che risalgono agli interventi di consolidamento di fine ‘900 nelle prime due arcate, ma che ora appaiono nel complesso fortunatamente poco invadenti.
Quello del Colosseo è un intervento di manutenzione straordinaria. Ma la cultura della Soprintendenza speciale per i Beni archeologici di Roma retta da Mariarosaria Barbera è basata sulla manutenzione ordinaria: «Fondi economici magari moderati ma costanti, che assicurano una buona conservazione ai monumenti. Ma il Colosseo ha richiesto un intervento, appunto, straordinario. I danni prodotti dall’inquinamento dal Dopoguerra a oggi non sono nemmeno lontanamente paragonabili a quelli registrati in diciannove secoli. La fine del riscaldamento a carbone, vietato in Italia dal settembre 2005, ha migliorato la situazione. Però traffico e vibrazioni meccaniche sono peggiorati».
Il cantiere per la pulizia esterna del Colosseo andrà avanti per altri due anni. Seguirà la realizzazione del Centro servizi («che resterà rigorosamente di proprietà della Soprintendenza», avverte Barbera) e infine gli interventi per i sotterranei, le gallerie coperte del primo e del secondo ordine, l’impiantistica. In tutto cinque anni. Come si sa, il restauro è stato finanziato con 25 milioni di euro dal gruppo Tod’s di Diego Della Valle che così commenta: «Considero la sponsorizzazione del restauro del Colosseo un onore. Un impegno che ci rende orgogliosi di essere italiani. Mi piacerebbe continuare a vedere aziende private di successo che dedicano parte delle loro risorse a questo genere di attività. Dobbiamo dare un esempio positivo di questo Paese valorizzando la nostra cultura che è la risorsa fondamentale per la ripresa economica».
Ma la soprintendente Barbera non teme un’invasione della mano privata? «Io lavoro per lo Stato e nello Stato, sono più che convinta che la mano pubblica abbia il dovere di garantire la tutela, la valorizzazione, la fruizione del nostro patrimonio. Ma perché mai l’interazione con un privato, basata su regole precise, ben governata, destinata a finalità di pubblico interesse, andrebbe demonizzata?».
Fuori, sul piazzale, regnano incontrastati i centurioni, i camion bar, i tavolini di souvenir, stuoli di guide turistiche non autorizzate che fermano gli stranieri. Rossella Rea sospira: «Ormai non commento più questo desolante panorama. Più aumentano le promesse di decoro dal Campidoglio, e più crescono loro. Gli irregolari». Chissà che affari, col Colosseo color oro sotto il sole di Roma.

Corriere 3.4.14
Rosso per le stoffe e ocra sui templi, così gli antichi vedevano il mondo
di Eva Cantarella


Resteremmo trasecolati, oggi, se apparissero davanti a noi — portati da una macchina del tempo — un’opera d’arte, un edificio, un’intera città antica. Siamo troppo abituati a pensare l’antico come un film in bianco e nero. Dico antico qui, meglio specificarlo, pensando alla Grecia o a Roma. Siamo troppo abituati a immaginarle prive di ogni colore: bianche le statue, grigi i muri... Solo gli affreschi romani (quando non sono andati distrutti dal tempo e dall’incuria) si salvano da questa monocromia. La pittura greca, non essendo su muratura, purtroppo non ci è arrivata.
Ma sto parlando solo della Grecia e di Roma, come dicevo: assai minore sarebbe la sorpresa se dovessimo trovarci di fronte a opere di altre civiltà antiche: ad esempio quella egizia, i cui colori a partire dall’Ottocento sono noti. Ma fino a non molto tempo fa, quando si pensava all’antico si pensava solo ai greci e ai romani (spesso pensati solo come imitatori dei greci). Gli altri popoli non interessavano, non erano «classici». E nel mitico neoclassico costruito nel Settecento da Winckelmann i classici erano immacolati nella loro eterna «purezza», mai contaminata dal colore: le statue greche erano di marmo chiaro, dunque, possibilmente pario. Solo i romani, meno «puri», le avevano a volte in parte colorate.
E anche se oggi questo modo di pensare l’antico è cambiato, a noi continua a restare negli occhi l’immagine di un mondo i cui colori sono quelli che vediamo nei musei, nelle esposizioni e in quel che resta dell’architettura. Un mondo diverso, dunque, molto diverso da quel che era.
Sia i greci sia i romani amavano i colori. Li amavano e li usavano molto. Allora — sia detto per inciso — questi venivano ricavati dal mondo animale, vegetale e minerale (il rosso, ad esempio, si ricavava generalmente da un miscuglio di ossido di ferro e di argilla dalla grana molto sottile). Ma questo non significa che non se ne usasse una notevole varietà, in gran parte prodotta in loco, ma anche importata: azzurro, rosso, verde, giallo, ocra e bruno, in varie tonalità, per non parlare dell’oro, rendevano vivi gli edifici pubblici, le case, i templi, le vie, animate anch’esse delle vesti colorate dei passanti, soprattutto se di sesso femminile.
E così dovremmo sforzarci di vederli, oggi, gli antichi, quando ne visitiamo i resti: usando l’immaginazione, così che il passato non ci sembri il residuo, bello ma inutile, di un mondo morto, così lontano da noi da essere ininfluente sul nostro presente e il nostro futuro.
Conoscere gli antichi come realmente erano, anche visivamente, ci aiuta a capirci e a progettare il domani di cui abbiamo tanto bisogno.

Corriere 3.4.14
Una seria democrazia per i beni culturali
di Pierluigi Panza


La cultura della conservazione sta riscoprendo gli abecedari. Ne sta pubblicando uno, a puntate, la rivista «Ananke» (edizioni Alinea) nei suoi numeri del 2014 e ne pubblica un’altro lo sorico dell’arte Tomaso Montanari per minimum fax (Istruzioni per l’uso del futuro. Il patrimonio culturale e la democrazia che verrà , pp. 128 e 9). Segno che si vogliono fissare dei paletti nel settore.
I lemmi dell’abecedario di Montanari declinano le sue posizioni: difesa dell’articolo 9 della Costituzione, affidare allo Stato la tutela dei beni, sottrarre il patrimonio dalla sfera del turismo e contenere l’intervento privatistico. Una visione che Montanari ritiene controcorrente, perché in un arco costituzionale che va da Forza Italia a Matteo Renzi l’Italia punta sulla «petrolizzazione» dei beni e sulle slot-machine come veltroniana zecca per finanziarne la custodia (salvo poi costruire macchine mangiasoldi tipo il Maxxi). Forse controcorrente, ma certo non isolata, visto che Montanari è sodale a quell’élite intellettuale (Settis, Zagrebelsky) ostile al cambiamento stigmatizzata sul «Corriere» di domenica scorsa da Ernesto Galli della Loggia.
Credo si debba condividere il richiamo centrale del libro: i beni storico-culturali hanno come valore principale quello educativo e non quello intrattenitivo; tanto che, all’inizio degli anni Settanta facevano capo al ministero della Pubblica istruzione e non a quello del Turismo. Successivamente, la perdita d’importanza dello studio delle arti nella scuola è andato di pari passo con la cementificazione, la corruzione nella gestione dei beni e, aggiungiamo, l’iperprotezione sindacalizzata dei lavoratori del settore e un consumo culturale oscillante tra banalizzazione e snobismo radical-chic.
Ma per capire fino in fondo il rapporto tra Costituzione (che fissa un condivisibile principio sul patrimonio) e sua applicabilità oggi, bisogna fare i conti, fino in fondo, con alcuni dati. Cinquant’anni prima della nascita della Costituzione, quando da circa un secolo si era andata imponendo la cultura della conservazione, la popolazione mondiale era un miliardo e mezzo e l’Europa, con 400 milioni di abitanti, controllava circa il 90% dei commerci e stava conferendo identità alle proprie nazioni anche ampliando i musei statali. Quasi settant’anni dopo la Costituzione, la popolazione mondiale si aggira sui 7 miliardi (solo un decimo in Europa), nuove potenze controllano il mercato globale, le maggiori concentrazioni finanziarie non sono in Europa e favoriscono la destrutturazione delle identità nazionali in favore di sovranazionalità (Europa, Nazioni Unite). E l’Italia ha messo in valigia oltre duemila miliardi di debiti. La critica militante fa bene a ribadire i principi, ma la politica non può eludere questi scenari.
Credo pertanto che il nuovo abecedario dei Beni culturali debba ribadire che il modo d’essere che l’Italia propone al mondo è quello di continuare a vivere in un territorio della bellezza e della memoria, di volerlo custodire e comprenderne il senso, che non è riducibile alla sua digitalizzazione (archivi digitali, musei digitali...). Comprendere dunque che gli Uffizi non sono il Louvre, che il nostro è un patrimonio diffuso, ma anche che una buona nuova architettura può sorgere nei centri antichi — aspetto che agli storici dell’arte continua a rimanere troppo «postmoderno».
Per ottenere ciò, c’è bisogno di una rinascita civile che parta dagli individui — che poi si fanno comunità e anche Stato —, di un aiuto extranazionale, dell’appoggio alle sovrintendenze che sono enti utili e con validi combattenti (Montanari cita il caso di Gino Famiglietti). Ben vengano il crowdfunding e il taglio alle spese militari, anche se l’amico Obama ha visitato il Colosseo e poi chiesto di acquistare gli F35. Utile anche l’invito ai media di trattare l’argomento con serietà e specificità, non come orpello di moda o camera di compensazione di interessi lobbistici. È giusto richiamare a mostre di ricerca; tuttavia anche l’intrattenimento è un gradino di avvicinamento all’educazione e pure le fiction sull’arte sono utili. A meno che vogliamo epurare anche Shakespeare e Verdi e fare della filologia la misura di tutte le cose. Salvo poi scoprire imbarazzanti letture waburghiane o paradossali attribuzioni da parte di insigni storici d’arte.

l’Unità 3.4.14
Via libera al salario minimo in Germania dal 2015
Entro il 2017 riguarderà tutti i lavoratori tranne minorenni, stagisti e disoccupati da lungo tempo
di Roberto Arduini


Otto euro e mezzo lordi l’ora. È questa la paga che prenderanno come minimo salariale tutti i tedeschi. Si annuncia come una rivoluzione la norma che entrerà in vigore in Germania il primo gennaio 2015, sebbene sia previsto un periodo di transizione per alcuni settori. Entro il 2017 riguarderà tutti i lavoratori, eccetto i minori di 18 anni, gli stagisti e i disoccupati di lunga durata. La legge sul «Mindestlohn» varata dal Consiglio dei ministri dovrà ora essere approvata dai deputati del Bundestag, la Camera bassa del Parlamento tedesco e anche dal Bundesrat, la Camera alta, ma entrambi i passaggi non dovrebbero rappresentare problemi.
L’introduzione di un salario minimo in Germania è un passo rivoluzionario, in un Paese che storicamente ha sempre lasciato le parti sociali negoziare i salari in autonomia. Finora le garanzie salariali sono state assicurate agli iscritti ai sindacati, ma il tasso di partecipazione è drasticamente calato da oltre il 70% della fine degli anni Novanta al 59% attuale. La platea dei sottopagati si è così estesa fino a raggiungere circa 4 milioni, anche a causa della diffusione di contratti flessibili di vario tipo, dal part-time all’impiego stagionale fino ai mini-job a 480 euro mensili. Forse è per questo che il «Mindestlohn» sfiora l’80% di preferenze tra i tedeschi.
Nelle ultime settimane la Bda, la Confindustria locale, aveva criticato la misura, ritenendola un vero freno al mercato del lavoro per i più deboli, per esempio per i lavoratori di lungo termine e per chi non ha mai lavorato, e perché ingiusta a livello nazionale, con i salari nell’ex Ddr al momento ancora inferiori a quelli della Germania ovest. Critici anche molti economisti, secondo i quali la nuova norma aumenterà i costi per le aziende, portandole a licenziare: centinaia di migliaia di lavoratori potrebbero perdere il posto.
PROGRAMMA SPD
Il salario minimo esiste già per legge in ben ventuno dei ventotto Stati membri dell’Unione europea. Naturalmente in ogni Paese è applicato in modo diverso, sia per le tariffe calcolate sia per i criteri di applicazione: si va dagli 1,04 euro orari della Bulgaria agli 11,10 euro del Lussemburgo.
«È fatta», ha dichiarato una fonte governativa al termine della riunione dei ministri a Berlino, riferendosi al «Mindestlohn ». La rivoluzione del mondo del lavoro fa parte del programma di governo ed è stato il cavallo della battaglia elettorale della Spd di Sigmar Gabriel: la sua istituzione per legge era una delle condizioni alle quali i socialdemocratici avevano vincolato l’ingresso nella Grosse Koalition.
La Cdu della cancelliera era contraria, preferendo piuttosto l’ipotesi di contrattazioni per categoria affidata ai singoli Laender, cioè degli accordi regionali. Il partito conservatore ha così ceduto per poter giungere alla formazione di un governo con i socialdemocratici.
La ministra del Lavoro, la socialdemocratica Andrea Nahles, ha esultato dicendo che il salario minimo «fornirà maggiore equità» in Germania. Nahles ha preparato il disegno di legge e lo ha sottoposto ai colleghi del governo Merkel spiegando come «il salario minimo è giunto così comeè stato concordato nel Patto, a parte qualche eccezione ». È stata questa l’unica concessione fatta ai colleghi della Cdu.
«Troppe le eccezioni», è stata la dura critica giunta dalla Linke, unica forza all’opposizione in parlamento assieme ai Verdi, che rivendica il merito di aver introdotto per prima il tema del salario minimo. «Così c’è il rischio concreto di una spaccatura tra lavoratori tutelati e una riserva di manodopera a basso costo e zero tutele che finirebbe per vanificare gli effetti della legge», è stato il commento del leader sindacale Frank Bsirske sul sito di Der Spiegel.
La Grosse Koalition ora potrebbe orientarsi su un’altra misura voluta dalla Spd per sostenere il mercato interno e aiutare i ceti meno abbienti. Secondo voci interne al governo, Merkel sarebbe pronta a varare anche una legge per calmierare gli affitti nelle città più care.

il Fatto 3.4.14
Lo spione e il “Mandela arabo” La pace palestinese è in carcere
Uno agente del Mossad, l’altro leader indiscusso: sono le chiavi per l’intesa
di Alessandro Oppes


Una volta di più, tutto in alto mare. Il sottile filo che teneva in piedi la complessa mediazione di pace tra israeliani e palestinesi rischia di spezzarsi dopo l'annullamento repentino della visita a Ramallah da parte del segretario di Stato americano John Kerry. L'inviato di Obama ha replicato così - subito dopo l'infruttuoso incontro con il premier israeliano Benjamin Netanyahu - alla mossa a sorpresa annunciata martedì notte in tv dal presidente palestinese Abu Mazen, secondo cui l'Anp presenterà formale richiesta di adesione a 15 agenzie dell'Onu: un passo deciso in violazione degli impegni assunti nel luglio scorso - alla ripresa delle trattative frutto proprio dell'impegno di Kerry - in base ai quali i palestinesi avrebbero congelato provvisoriamente ogni iniziativa presso l'Onu per facilitare il riconoscimento reciproco con Israele. Ma ora il futuro si prospetta nuovamente carico di incognite. Una riguarda il destino dell'ex 007 della marina statunitense Jonathan Pollard, in carcere da 30 anni dopo che l'Fbi scoprì che era stato ingaggiato da un ex dirigente del Mossad a capo di un ufficio del ministero della Difesa all'epoca guidato da Yitzhak Rabin, con il compito di filtrare a Tel Aviv documenti dell'intelligence Usa relativi ai paesi arabi e all'arsenale militare sovietico.
IL NOME DI POLLARD era stato inserito nelle ultime settimane da Kerry in un'ipotesi di triangolazione: a cambio della liberazione della spia da parte di Washington, Netanyahu si sarebbe dovuto impegnare a congelare in modo quantomeno ufficioso i nuovi insediamenti di coloni e a liberare circa 400 prigionieri palestinesi, per ottenere così da Abu Ma-zen il via libera alla prosecuzione delle trattative oltre la data fissata del prossimo 29 aprile e possibilmente fino alla metà del 2015.
Un piano che rischia a questo punto di sfumare per l'alzata di testa del leader di Ramallah (indotta probabilmente dalla convinzione che il negoziato non porterà risultati significativi ). Secondo un anonimo responsabile dell'amministrazione Usa citato dal Washington Post, “senza passi significativi dalle due parti, Pollard è fuori dal tavolo”.
L'altra grande incognita riguarda invece il campo palestinese, ma non può essere circoscritta - neppure questa - a una questione di politica interna. Il discorso sulla successione di Abu Mazen non è più un tabù. Il presidente dell'Anp non solo è anziano (79 anni) e in precarie condizioni di salute, ma è da tempo oggetto di critiche sempre più aspre per l'incapacità di portare a compimento il processo d'indipendenza (troppo moderato, secondo alcuni). Ed è comunque in scadenza: anzi, il suo mandato è già scaduto ed è stato prorogato in modo unilaterale, una situazione che non si potrà perpetuare ancora a lungo.
I PALESTINESI hanno bisogno di trovare il loro nuovo Arafat. Difficile che possa essere l'attuale primo ministro Salan Fayyad, un burocrate affine alle posizioni di Abu Mazen. E forse non sarà neppure l'ex braccio destro di Arafat, Mohammad Dahlan, da 4 anni è in esilio negli Emirati Arabi, o l'uomo di punta di Hamas, il premier di Gaza, Ismael Haniyeh. Un nome forte, probabilmente l'unico capace di mettere tutti d'accordo e di rilanciare le speranze di un popolo, i palestinesi ce l'hanno. Ed è quello di Marwan Barghouti, la cui figura comincia già a essere idolatrata come quella del “nuovo Nelson Mandela”. Secondo alcuni recenti sondaggi, è il più popolare tra i politici palestinesi. Il problema è che Barghouti, esponente di primo piano di Al Fatah, uno dei leader della seconda Intifada, è agli arresti dal 2002 e sconta in Israele una condanna a 5 ergastoli per altrettanti omicidi dei quali si dichiara innocente. Intorno alla richiesta della sua liberazione si ritrovano, per una volta, uniti Hamas e Al Fatah (anche se la popolarità di Barghouti, diffusa soprattutto tra le generazioni meno giovani, spaventa soprattutto il movimento che governa a Gaza, ndr). Abu Mazen ha sollevato il caso nel suo incontro del 20 marzo alla Casa Bianca con Barack Obama. E all'insegna dello slogan “free Barghouti” è partita una grande mobilitazione internazionale. Se gli israeliani cederanno, sarà perché avranno capito di aver trovato un interlocutore autorevole con cui negoziare la pace.

Repubblica 3.4.14
I profughi e gli aquiloni
di Khaled Hosseini


KAWERGOSK. S’AVVICINAVA il tramonto al campo di Kawergosk, nel Kurdistan iracheno. La tendopoli ai piedi del colle era sorta quasi d’improvviso una notte d’agosto di un anno fa: 60 mila siriani s’erano riversati oltre il confine come un fiume in piena, in fuga dalla guerra. Ora io mi muovevo in mezzo a loro, “ambasciatore di buona volontà” dell’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (Unhcr). Osservavo questa immensa umanità, per tre quarti donne e bambini, condannata a vivere come sospesa nel tempo, priva di una direzione nella vita.
Eppure quel giorno successe qualcosa di straordinario: in migliaia, al crepuscolo presero a salire sul colle. Calzolai, artigiani, liberi professionisti, laureati, erano venuti a sistemarsi tutti assieme sulle pendici erbose fra le scorrerie dei bambini. A gruppetti preparavano la cena; s’alzavano sbuffi di fumo dai piccoli falò mentre le musiche riempivano l’aria. Era uno spettacolo meraviglioso, dall’aspetto ordinario, eppure tanto più strano poiché nasceva da una tragedia.
Proprio io, col mio passato, mi ritrovavo lì fra i 13 mila rifugiati di Kawergosk. Certo, non potevo paragonarmi a loro: io afgano, la mia sorte era stata fra le più fortunate. La mia famiglia era già in Europa quando i sovietici invasero l’Afghanistan. Ci fu concesso l’asilo politico negli Stati Uniti: il nostro era un paradiso in confronto al destino di altri, anche se l’inserimento non fu facile. Però, sia attraverso l’esperienza personale, sia attraverso i miei libri, ero in grado di afferrare i sentimenti dei rifugiati siriani a Kawergosk, riparati sotto le tende dell’Unhcr. Comprendevo il peso, centrale, della loro perdita: lo smarrimento della propria identità, della propria dignità, della propria comunità. La sofferenza, lo spavento della fuga precipitosa nella notte, i soldi pagati ai trafficanti, la prospettiva di trascorrere uno o più decenni in quei campi. Conoscevo quel sentimento della vita andata di colpo in frantumi, l’umiliazione del rifugiato, di chi avverte d’essere un peso per gli altri; la gratitudine verso chi ti apre le frontiere, ti offre un rifugio e la salvezza, nella speranza d’iniziare una nuova vita.
So, quasi per procura, cosa stiano patendo i siriani, come prima di loro milioni di afgani. Per lungo tempo gli afgani hanno costituito la più numerosa popolazione di profughi al mondo. Ora il primato spetterà alla Siria, con 6,5 milioni di sfollati interni e 2,5 milioni di profughi nei Paesi confinanti, quest’anno destinati ad aumentare fino a 4 milioni, di cui il 75 per cento donne e bambini. Le similitudini fra le tragedie dei nostri popoli continuano: la complessità della guerra, il tessuto sociale che si sfalda, l’indicibile distruzione del Paese, dell’economia, delle istituzioni; l’impatto su milioni di bambini formati dalla violenza, segnati da traumi psicologici, privi di scuola e spesso costretti a lavorare per mantenere le famiglie, col rischio reale di una generazione perduta.
Quella stessa ansia, lo spavento, li ho riconosciuti nel doloroso racconto di una famiglia fuggita due settimane prima da Aleppo. La loro storia ricalca quella di tante altre famiglie. Erano in cinque: i genitori e tre figli. Lui, il pa- dre, era un calzolaio. Conducevano una vita modesta ma felice. Con la guerra hanno perso tutto: prima il lavoro, poi la scuola, l’energia elettrica, l’acqua; prigionieri della propria casa, senza sicurezza sotto le bombe, e coi prezzi degli alimenti balzati alle stelle non potevano più permettersi la spesa. Eppure, tenaci, speravano ancora. Finché un giorno un ordigno è piombato al quinto piano, e ha fatto quattro morti: tre bambini e un anziano. Una scena raccapricciante, ricordano: di fronte all’orrore dei figli per i corpi smembrati dei loro amici, hanno deciso di partire.
Come quasi tutti, anche loro non sono fuggiti per scelta, ma vi sono stati costretti da circostanze insostenibili. Come ripete la maggioranza dei rifugiati siriani, disperano in una soluzione pacifica, in tempi rapidi, della guerra. Dalle loro parole affiora il tratto universale di tutti i profughi: il rovello del futuro, di quel che accadrà alla famiglia; la costrizione di vivere alla giornata, l’oggi sempre identico all’indomani, in una dimensione immobile del tempo, monco dell’avvenire.
Tutto questo si traduce nel disperato desiderio di riacquistare la dignità, dotarsi di un obiettivo, imprimere una direzione alla propria vita. L’ho visto nella tenda di Naleem, 21 anni all’anagrafe, ma una compostezza e una serietà da donna matura. Data in sposa appena dodicenne a un uomo più anziano, ha tre bimbi. Sotto i teloni candidi con la scritta dell’Unhcr, Naleem ha improvvisato un salone di bellezza e una sartoria per abiti da sposa. Lei ne è orgogliosa, e ha ragione: si dà daffare fra pareti tappezzate di specchi e foto di donne con diverse acconciature. Nella tenda le ragazze vengono a farsi il trucco, i vestiti. Con l’alta percentuale di giovani nel campo, le cerimonie nuziali sono piuttosto frequenti. Naleem ha esaudito una necessità fondamentale dell’essere umano: dare un significato alla propria vita.
Un incontro, forse più di altri, ha segnato il mio viaggio a Kawergosk. Infatti, che grande sorpresa trovarmi al cospetto di Payman, 16 anni ma la profondità, la consapevolezza di un’adulta. Due occhi neri come i capelli a incorniciare il bel volto, qualcosa ci legava: il suo sogno di diventare un giorno scrittrice. Che emozione, quando ha preso nelle mani il suo quaderno a righe vergato con l’inchiostro blu, e m’ha letto i suoi scritti: un testo sui diritti femminili e l’importanza di dar voce alle donne nella società; un altro metodologico sulla celebrazione del Capodanno. Magari avessi potuto apprezzare la bellezza della sua prosa in arabo. L’interprete ne era affascinata.
Che scena surreale, riflettevo: eccomi, io scrittore sbarcato dalla California, capitato nella tenda di una giovane scrittrice. Due completi estranei, non parlavamo la stessa lingua, ma sembrava che un legame ci unisse. Che stretta al cuore quando, d’un tratto, Payman è scoppiata in singhiozzi: alla parola «istruzione » la sua compostezza s’è infranta. Senza una scuola, i suoi studi erano stati interrotti. Il campo di Kawergosk ha istituito le classi elementari, però servono ancora fondi e addestramento per allestire un liceo. Per Payman, questo significa la fine di un sogno, un anno di vita sprecato. Ma lei testardamente continua a scrivere.
Mentre mi allontanavo dal campo, rivedevo gli occhi neri di Peyman, lo spettacolo delle migliaia di profughi siriani tra i falò e le musiche al tramonto sul colle. Riflettevo sulle statistiche che riducono a numeri gli esseri umani, persone che hanno nomi, pensano, camminano, parlano. Consideravo la generosità del Kurdistan iracheno, che aveva accolto i siriani in fuga, e quanti di loro non sarebbero sopravvissuti se le frontiere fossero state sigillate. Lo stesso vale per gli altri Paesi confinanti della Siria, che s’addossano un fardello importante.
Allora mi chiedevo: non spetta forse a noi occidentali, tanto fortunati, condividere il peso di quel fardello? Aiutare i Paesi che ospitano i profughi? L’interrogativo è tanto più urgente visto che la pace in Siria s’allontana, la situazione s’aggrava. È di vitale importanza che la comunità internazionale, l’Occidente, tengano aperte le frontiere ai milioni di profughi siriani, di cui i tre quarti sono donne e bambini. In poche, ma essenziali, parole: proteggere gli esseri umani è più importante che proteggere le frontiere.

Corriere 3.4.14
Afghanistan, le donne al voto per non tornare al Medioevo
Oltre 300 candidate. E una in lizza per la vicepresidenza
di Lorenzo Cremonesi


KABUL — Scrivi Afghanistan e leggi burqa, accenni ai talebani e pensi al Paese delle mogli-bambine, ai matrimoni combinati, alle violenze diffuse contro le donne. Sono luoghi comuni che paiono rafforzati dai timori crescenti per le incognite del piano di ritiro delle truppe Nato entro la fine dell’anno, accompagnato dalla recrudescenza degli attacchi talebani. Il rischio cioè che le libertà civili ottenute dal 2001 ad oggi siano destinate al regresso. Ma, a guardare da vicino, scopri che l’appuntamento delle elezioni presidenziali di sabato prossimo rappresenta proprio un motore primo per il rilancio di quelle battaglie.
«La questione dei diritti delle donne è oggi più che mai al cuore della campagna elettorale. Non fu nel così nel 2004 al primo voto dopo la sconfitta della teocrazia talebana, dove primeggiò il dibattito sui nuovi equilibri politici. E neppure alle elezioni del 2009-10, quando il presidente Hamid Karzai lavorò per ingraziarsi i circoli più conservatori dell’elettorato. Ora, invece, sono le stesse donne a scendere in piazza. Si rendono conto che il loro voto è l’arma che garantisce le loro libertà, la loro vita, le loro persone», ci dice Shukria Barakzai, nota in tutto il mondo per il suo impegno di lunga data in difesa del diritto alla scuola per le ragazze. Deputata della prima ora con una piattaforma femminista, le sue vicende private divennero clamorosamente politiche nel 2004: allora scoprì che il marito aveva sposato segretamente una donna più giovane grazie alla poligamia garantita dalla legge islamica. Solo tre anni prima avrebbe dovuto accettare senza reagire. Al tempo dei talebani venne anche picchiata perché era uscita da sola di casa per cercare delle medicine, sfidando la regola per cui una donna poteva farsi vedere in pubblico solo se accompagnata da un congiunto maschio. Ma con il nuovo corso ebbe la facoltà di divorziare e rifarsi una famiglia.
«Chi parla di pericolo del ritorno all’oscurantismo pre-2001 non si rende conto che l’Afghanistan è cambiato in modo irreversibile», esclama. Decine di donne incontrate negli ultimi giorni a Herat e Kabul confermano. «Andremo a votare perché è un nostro diritto. Vogliamo dirigenti donne che ci rappresentino sempre più numerose», sostiene Morsal Habib, studentessa iscritta al terzo anno della facoltà di Legge a Herat. Altre chiedono apertamente che la Nato «posponga il ritiro», col rischio altrimenti che le conquiste sociali degli ultimi anni siano «congelate». Zarifa e Sona Habibi, due sorelle di 24 e 19 anni, ci parlano mentre passeggiano tra i negozi del Centro Golbahar, un grande magazzino nel cuore di Kabul: «Il nostro sarà un voto soprattutto nella speranza che i politici si impegnino per porre fine alla violenze contro le donne in famiglia». Zarifa l’anno scorso ottenne finalmente il divorzio quando riuscì a dimostrare in tribunale che era stata «picchiata e torturata» dai parenti del marito, che non voleva lavorasse fuori casa (è impiegata presso la clinica dell’organizzazione umanitaria italiana Emergency).
Oltre 300 candidate sono in lizza per il rinnovo dei consigli provinciali. Le donne costituiscono ormai il 40 per cento della popolazione studentesca. Oltre 150 giudici sono donne. Per legge il 27,6 per cento dei deputati in Parlamento devono essere donne. La più in vista tra le candidate alla vicepresidenza, la 57enne Habiba Sarobi, è una ex farmacista che ha lasciato da poco la carica di governatrice del distretto di Bamiyan per mettersi al fianco di Zalmai Rassoul, a sua volta ex ministro degli Esteri che gode del sostegno di Karzai. «Se vinco, tutti i miei sforzi saranno indirizzati ad assicurare le scuole aperte per le bambine», proclama. Una causa per nulla scontata.
Le organizzazioni per i diritti umani ricordano che nei villaggi di montagna poco è cambiato negli ultimi tredici anni. Qui i mullah fanno da padroni in nome dell’interpretazione più retriva della legge islamica. Sono gli stessi ambienti che considerano i team medici incaricati di vaccinare i bambini «dei traditori al servizio degli infedeli occidentali». Sembra che oltre 18.000 donne muoiano ancora annualmente di parto. Eppure ciò non impedisce che le donne abbiano ora un peso politico rilevante: costituiscono almeno il 35 per cento degli iscritti al voto, soprattutto sembrano meno disposte a seguire le indicazioni degli uomini di casa. «Oggi possiamo affermare che il voto di una donna va a una candidata», ha tuonato di recente la Sarobi di fronte a mille elettrici.
Non stupisce dunque che i principali candidati alle Presidenziali abbiano per la prima volta scelto di lanciare le proprie consorti nella campagna elettorale. Karzai non ha mai voluto coinvolgere la moglie Zeenat, che pure in passato era una nota ginecologa. Ma lo ha fatto il tecnocrate filoamericano Ashraf Ghani con la moglie Rula. Persino il ruvido signore della guerra uzbeko, Abdul Rashid Dostum, ha spinto la moglie Zubeida a incontrare le sue elettrici nella regione di Mazar el Sharif. E Abdul Rab Rassoul Sayyaf, candidato pashtun super-conservatore, ha accettato di «rimettere in discussione» la sua vecchia scelta di opporsi alla penalizzazione dei crimini contro le donne. Miracoli della democrazia: del loro voto nessuno può più fare a meno.

La Stampa 3.4.14
Il caso India-Italia
Il “fattore Sonia” contro i marò
di Roberto Toscano

qui

La Stampa 3.4.14
Truppe Ue in Centrafrica: c’è anche l’Italia
L’annuncio di Renzi: un contingente di 40 militari del Genio lavorerà per la logistica dell’operazione militare
di Tonia Mastrobuoni


Un vertice Ue-Africa che si annunciava difficile, dopo il fallimento nei giorni scorsi di un accordo preliminare tra i Paesi della parte occidentale sull’area di libero scambio. E adombrato dal tentativo del dittatore dello Zimbabwe Mugabe di trascinare il continente nel boicottaggio del summit dopo che alla moglie era stato negato il visto per la Ue. Così, l’attenzione nel primo giorno della riunione è stata proiettata tutta, abilmente, sulla missione militare europea in Centrafrica approvata ieri dal Consiglio europeo. Menzionata con grande enfasi anche durante la conferenza stampa congiunta tra Angela Merkel e François Hollande. Ma anche su questo dossier, che aveva fatto molto parlare di sé nei mesi scorsi soprattutto per la rafforzata presenza tedesca, è arrivata una novità targata Renzi.
«Il Consiglio ha lanciato oggi un’operazione militare dell’Ue nella Repubblica Centrafricana per contribuire alla creazione di un ambiente sicuro in questo paese», si leggeva ieri nel comunicato ufficiale che dava conto della missione. L’Eufor Rca, che opererà in alcuni distretti di Bangui e nell’aeroporto della capitale, contribuirà agli sforzi internazionali per proteggere la popolazione ma anche a predisporre il paese agli aiuti umanitari. All’impegno contribuiranno nove Paesi e la novità «delle ultime settimane», come specifica una fonte militare, è che una quarantina di uomini dei circa 800 previsti, verranno dall’Italia. La «sorpresa» del governo Renzi è dunque l’impegno a rafforzare la missione europea in Centrafrica con uomini propri.
Il quartier generale della missione sarà in Grecia, a Larissa, sotto il comando del generale francese Philippe Ponties. I costi dell’operazione Ue sono stimati in quasi 26 milioni di euro per la fase preparatoria, mentre il mandato sarà sino a sei mesi, a partire da quando la forza avrà raggiunto la sua piena capacità operativa. Secondo l’Alto rappresentante della Ue Catherine Ashton, le truppe saranno dispiegate «rapidamente» per ottenere «effetti immediati nella zona di operazione».
Il contributo italiano, in particolare, sostiene il tenente colonnello tedesco Harald Kammerbauer, ai vertici del nucleo che sarà stazionato a Larissa, è «molto, molto importante». Compito del plotone tricolore inviato in Centrafrica sarà quello «di costruire campi, strade, edifici, di sminare terreni, insomma di condurre quell’attività pionieristica che è fondamentale per ogni missione militare». E Renzi stesso ha precisato che quello italiano è «un contributo di ingegneri che danno una mano nella logica di sviluppo e cooperazione».
Il presidente del Consiglio aveva anche in programma alcuni incontri bilaterali chiesti dai leader africani di Etiopia, Mozambico, Angola e Somalia. E Renzi ha voluto anche sottolineare, al termine del summit, che «noi abbiamo spesso un’idea di noi stessi raggrinzita, di un Paese che ha paura di mostrare ciò che vale. Ma siamo il settimo finanziatore dell’Onu. Guidiamo la missione in Libano, e il primo Paese fornitore di caschi blu». Proprio per questo il premier ha chiesto «l’attenzione dell’Onu» sulla questione dei due marò italiani detenuti in India sollecitando «il rispetto delle regole», ovvero che la questione sia affrontata «nelle sedi opportune», ovvero quelle «internazionali». Richiesta giudicata «doverosa e legittima» dal segretario generale dell’Onu Ban Ki-moon.

Corriere 3.4.14
Verdi e Puccini di moda a Pechino
Il futuro della lirica parla cinese
di Marco Del Corona


Il Grand National Theatre di Pechino è una struttura rilucente (l’«Uovo gigante») acquattata alle spalle dell’edificio che ospita i congressi del Partito comunista e le sedute del Parlamento: la posizione proclama con imperiosa onestà le sue ambizioni. Che cominciano a prendere forma. Dal 2007 ha messo in cartellone 35 diverse produzioni, 26 delle quali d’opera. Gli investimenti sono corposi, sui 60 milioni di euro e il pubblico, scrive il South China Morning Post , è «per lo più di ventenni e trentenni». Basterebbe questo per sollecitare l’attenzione di noi occidentali, che vediamo sale da concerto e teatri spesso museificati, con pochi giovani. Ma c’è dell’altro. Pechino ha abbracciato una prassi lanciata dal Metropolitan di New York: registrazione delle rappresentazioni e trasmissioni in alta definizione. Una soluzione poi ripresa anche da altre istituzioni, alla ricerca di strategie per far fruttare nome, tradizione, allestimenti. Ingaggiate società europee, con le loro troupe specializzate (una è l’italiana Metisfilm Classica), il Grand National Theatre ha inaugurato il suo catalogo di produzioni in alta definizione con tre titoli italiani: Un ballo in maschera, Nabucco e, naturalmente, Turandot. L’idea è di procedere: spettacoli a teatro, registrazioni, commercializzazione in dvd e altri mezzi.
La potenza di fuoco economica di Pechino potrebbe nel medio periodo alterare le gerarchie di capacità produttiva dei teatri del mondo. La Scala resterà pur sempre la Scala, ma se il pubblico dell’opera in Cina è giovane o comunque più giovane che in Europa e in America, gli artisti potrebbero guardare con sempre maggiore interesse a città parvenue della lirica come Pechino. Andiamo verso un lento svuotamento della nostra tradizione? Forse non ancora. Però viene il dubbio che la Cina punti sulla progressiva trasformazione dell’opera da evento teatrale, dal vivo, a semplice matrice di un prodotto multimediale dalla fruizione globale e denaturata. Ma se fosse davvero così, quantomeno la Cina ci offre un mercato .

Corriere 3.4.14
Dopo le stragi, troppe leggi Far West nell’America che ama ancora i fucili
di Ennio Caretto


Nonostante le frequenti stragi in luoghi pubblici, che dilaniano da decenni l’America, anziché disarmarsi la popolazione civile si arma ulteriormente. Ciò avviene con leggi che secondo la National Rifle Association, la lobby delle armi da fuoco, «sono altrettante vittorie del secondo emendamento della Costituzione» che sancirebbe il diritto dei cittadini di circolare armati, interpretazione messa in dubbio da autorevoli costituzionalisti. Secondo il Centro per la prevenzione della violenza della Georgia, nei dodici mesi successivi a una delle stragi più orribili, quella della scuola elementare di Newtown (2013) in cui morirono 26 bambini e un’insegnante, molti Stati hanno emanato nuove leggi sulle armi: 106 in tutto, di cui 70 a favore.
L’analisi di questi dati è inquietante. I primi Stati, a maggioranza democratica, reagirono a quella strage con leggi restrittive. Ma nei mesi successivi Stati a maggioranza repubblicana facilitarono una forte diffusione delle armi. Di questi ultimi Stati, ventuno in tutto, otto consentono ora agli insegnanti di portare armi cariche a scuola (naturalmente «a difesa degli alunni»), quattro permettono agli avventori di portarle al bar, tre ai fedeli di portarle in chiesa, due agli studenti di portarle nel campus. Il caso estremo è quello della Georgia, dove anche il criminale che si senta in pericolo, invece d’allontanarsi, può sparare. È da notare che in Georgia la polizia, l’Agenzia della sicurezza dei trasporti, le chiese si sono invano opposte a queste leggi. L’ex deputata Gabrielle Gifford, che nel 2011 sopravvisse per miracolo a una strage durante un comizio in Arizona, lo Stato più armato d’America, ha denunciato le «leggi armi dappertutto», come le chiama, sottolineando che nei sondaggi il 70% dei cittadini non le vuole nelle scuole, in chiesa o al bar.
Più che ai cittadini, la casta politica è attenta alla lobby delle armi, una delle maggiori finanziatrici alle elezioni, come ha dimostrato (votando a suo favore in Georgia) persino Jason Carter, senatore democratico e aspirante governatore, nonché nipote dell’ex presidente Jimmy Carter, il paladino dei diritti umani. «Noi combattiamo il terrorismo internazionale — rileva il Centro per la prevenzione della violenza —, ma non quello che è fra noi».

La Stampa 3.4.14
Marx è vivo ma non lotta insieme a noi
Dall’Archivio del filosofo, i testi inediti sull’eredità del marxismo
di  Norberto Bobbio


Marx è vivo?
Vivo certo, per il fatto che nessuno oggi può prescindere da Marx. C’è qualcuno che oggi possa occuparsi dei problemi della società contemporanea senza tener conto di Marx? Anche per criticarlo.
Vivo non vuol dire valido. Bisogna distinguere vitalità da validità. Un pensiero può essere vivo anche se lo giudichi negativamente, anche se ritieni che abbia avuto funeste conseguenze: è vivo cioè e invalido.
Chi è che può negare che Nietzsche è vivo anche se io posso considerarlo responsabile del nazismo?
È necessario distinguere ciò che è da ciò che vorremmo che fosse. Altro è desiderare che Marx sia in soffitta. Altro è ritenere seriamente che ci sia o ci resti.
Tutte o quasi le rivoluzioni del Terzo Mondo, le guerre di liberazione, sono combattute in nome del marxismo (o del marxismoleninismo).
Si potrà obiettare: ma non è il vero Marx. Ma qual è il vero Marx? Qual è il vero Nietzsche, qual è il vero cristianesimo, quello di Pinochet o quello del vescovo Romero?
Si tratta di sapere se possiamo prescindere da Marx per capire il mondo contemporaneo o almeno una parte. Io credo di no.
Pensate alla critica e alla condanna della società capitalistica che dura da più di un secolo, e che non accenna a venir meno. Si potrà non essere d’accordo sui termini di questa critica, dire che non ha tenuto conto della straordinaria capacità del capitalismo di superare le crisi per cui le sinistre europee prima e mondiali poi lo hanno dato mille volte per morto, ma non si può negare che sino a che ci saranno società capitalistiche la critica marxiana non avrà perduto nulla della sua straordinaria forza eversiva.
Voglio dire che non è necessario essere d’accordo con Marx per affermare che Marx è vivo.
Lo stesso accade con il cristianesimo: posso essere un non credente, credere che la discendenza divina di Cristo è una favola, ma sarebbe stolto se io dicessi che il cristianesimo è morto. Con questo non voglio dire che non muoia nulla nella storia. Il paganesimo è ben morto. Il cristianesimo, no. Il marxismo no. Tanto che facciamo tutti i giorni i conti con il suo fondatore e ispiratore.
Personalmente ritengo che le sinistre europee debbano liberarsi da Marx. Ma non posso confondere il mio desiderio con la realtà.
La realtà è quella presentata dal nostro dibattito e da tutti i dibattiti che si svolgeranno nel mondo in quest’anno. Raramente un centenario avrà suscitato più risonanza di questo. Il che mi sembra una prova che Marx è ancora – piaccia o non piaccia – ancora vivo.
[Appunto del 1983]

Socialismo come strumento libertà come fine
[...] A questo punto dobbiamo domandarci: qual è il punto di differenziazione tra noi e i marxisti? In sostanza l’una e l’altra corrente, sia quella democratica sia quella totalitaria, derivano sostanzialmente da Marx. Sono due interpretazioni, diverse sul terreno della attuazione del marxismo, le quali si differenziano nel modo d’intendere come meglio possono attuare quelli che sono i principi del marxismo. Dal punto di vista ideologico entrambe le correnti sono molto simili perché hanno un punto in comune che è fondamentale: cioè pongono come fine dell’azione politica, sia democratica sia totalitaria, l’attuazione di una società socialista, integralmente socialista, di quella società in cui la proprietà sia completamente collettivizzata e in cui, non essendoci più proprietà individuale non ci sono più lotte di classe. La meta finale dei marxisti, sia democratici sia totalitari, è una società senza classi, dove non ci sono più proletari e borghesi, ma soltanto lavoratori, e siccome non ci saranno più classi non ci sarà neppure più bisogno di quello strumento fondamentale di un dominio di una classe sull’altra, che è lo Stato. La società senza classi è anche una società senza Stato. Il termine finale del marxismo, in tutte e due le posizioni, è quindi l’abolizione dello Stato, l’abolizione di quella macchina che serve unicamente allo scopo di dominio di una classe sull’altra.
Qui appare il punto critico del marxismo: una società senza Stato? Ma questo è l’elemento ideologico che salta fuori, perché questa società senza classi e quindi senza Stato è una impossibilità. Le classi (qui sta l’elemento utopistico anche nel socialismo cosiddetto scientifico) non potranno mai essere abolite e quindi non potrà essere abolito neppure lo Stato. L’elemento utopistico del marxismo deriva dal ritenere che sia una meta ultima che si debba raggiungere a ogni costo. Ma la storia [nel documento manca una riga] raggiungendo di volta in volta fini sempre particolari; la meta ultima è al di là di questo mondo.
Questo è il punto critico del marxismo, il punto in cui noi crediamo di poterci contrapporre al marxismo sostenendo una concezione diversa dell’uomo e della storia. La meta fondamentale dell’uomo non è la società senza classi: il problema dell’uomo è uno solo, è il problema della libertà. Tutta la storia umana è storia di libertà; è la storia delle successive liberazioni dell’uomo da tutti i pregiudizi, le superstizioni, le oppressioni fisiche e spirituali, che l’hanno nelle diverse epoche storiche tenuto in vari modi e con diversi legami incatenato. Il progresso della storia umana si può indicare come passaggio graduale dalla società chiusa alla società aperta. Ma se pure questo è lo scopo che dobbiamo raggiungere, non è evidentemente uno scopo finale, ma è un problema da risolvere giorno per giorno; cioè un problema che dobbiamo porci di volta in volta a seconda che ci si presenti l’occasione di compiere una azione feconda di civiltà e di progresso.
Noi dunque diciamo socialismo, ma socialismo in funzione di una maggiore libertà; la meta finale non è il socialismo, ma la libertà. Dunque non socialismo come meta finale, ma socialismo come strumento, come un possibile strumento di libertà umana. Questo vuol dire in sostanza, socialismo liberale.
[Conferenza tenuta all’Università di Padova il 29 maggio 1946]

Il primato dell’economia sulla politica
[...] Mi domando però se non vi siano almeno due tesi generali, generalissime, di Marx, che mantengono la loro forza dirompente: a) il primato dell’economia sulla politica e sulla ideologia, il che si può constatare continuamente anche nelle nostre libere democrazie in cui il peso del potere economico per determinare le scelte degli elettori è enorme; b) il processo di mercificazione universale prodotto dall’universalizzazione del mercato, per cui ogni cosa può diventare merce, dai figli agli organi, e, per restare nell’ambito delle società democratiche, ai voti, purché ci sia uno che domanda e l’altro che offre. Esiste un limite etico alla mercificazione universale. E se è bene che esista, chi deve porlo? E in base a quali criteri? Il mercato può autolimitarsi? E se non può, è bene che non vi siano limiti (in fondo si potrebbe sostenere che se una madre per sopravvivere è costretta a vendere i propri figli, è libera di farlo), oppure che questi limiti vengano posti dall’esterno, ma allora da chi?
Ciò su cui sono totalmente d’accordo con te, e che anch’io riterrei essere stata la prima causa del mio non marxismo, è una certa diffidenza morale per la spregiudicatezza di Marx nei riguardi dell’uso dei mezzi, e nel disprezzo usato verso gli avversari. Anch’io non ho dubbi sul fatto che il fascino di questi atteggiamenti abbia avuto effetti disastrosi.
[Lettera a Paolo Sylos Labini del 19 maggio 1991]

La Stampa 3.4.14
Non poteva accettare il messianismo rivoluzionario
di Franco Sbarberi


La scelta degli inediti di Bobbio su Marx e il marxismo, che ho raccolto con Cesare Pianciola, è stata effettuata sulla base di una ricognizione delle carte di Bobbio depositate dalla famiglia presso il Centro studi Piero Gobetti. Nella prefazione del 1984 alla sua Bibliografia Bobbio ha indicato una «decina» dei suoi «autori». Per l’età moderna la scelta è sembrata «quasi obbligata» intorno ai nomi di Hobbes, Locke, Rousseau, Kant e Hegel. Quanto a Marx, pur non rientrando tra i pensatori della modernità che lo hanno maggiormente coinvolto come studioso e come teorico della politica, egli lo ricorda perché ha compiuto una radicale «rottura della tradizione del pensiero politico razionalistico».
Nove anni prima Bobbio era stato altrettanto netto nell’individuare in Marx il primo pensatore politico moderno che ha coniugato «una concezione realistica della storia con una teoria rivoluzionaria della realtà». Gli inediti del dopoguerra e della seconda metà del ’900 dimostrano che Bobbio si inserisce autorevolmente nella discussione internazionale su ciò che è vivo e ciò che è morto del pensiero di Marx, attratto da quella lettura della storia «dal punto di vista degli oppressi», ma contemporaneamente respinto dal messianismo rivoluzionario che attraversa l’intera produzione marxiana.
Kelsen aveva sottolineato sin dal 1923 l’aspetto messianico della nuova dottrina. I documenti che abbiamo raccolto indicano che anche per Bobbio Marx ha introdotto una visione provvidenzialistica della vicenda umana scandita dai movimenti della caduta (il lavoro salariato ridotto a merce) e della redenzione (la «rivoluzione socialista come atto risolutivo della storia»). Ciò nondimeno, l’analisi di Marx, intesa «come sociologia critica, come critica dell’esistente», ha sollevato il problema ineludibile delle conseguenze della mercificazione del lavoro nella società capitalistica su cui Bobbio continuerà a riflettere sino alla fine. Lo dimostrano con grande chiarezza il primo e l’ultimo documento pubblicati nel libro: la conferenza Marxismo e liberalsocialismo del 1946 e la lettera a Paolo Sylos Labini del maggio 1991. I problemi e le domande sollevati da Bobbio sono più che mai attuali, come suggeriscono anche i lavori più recenti di Martha Nussbaum e di Luciano Gallino, di Joseph Stiglitz e di Paul Krugman che, non diversamente da lui, non si sono mai dichiarati marxisti, ma neppure marxofobi.
Più in generale, come tutti i classici del pensiero politico, Marx possiede per Bobbio tre caratteristiche fondamentali: essere stato un interprete autentico del proprio tempo; aver elaborato teorie-modello che hanno travalicato la sua epoca; mantenere una costante attualità attraverso letture diverse, e talora contrastanti. Ma è sul duplice volto di Marx, cui hanno guardato alcuni dei suoi critici, che si è soffermato più frequentemente Bobbio: lo scienziato e il profeta; il sociologo e il filosofo della storia; il teorico dell’antagonismo sociale e il fautore dell’estinzione di ogni conflitto sociale nel comunismo.

Lo Straniero 27.3.14
Renzi, Bobbio e l’uguaglianza
di Alessandro Leogrande


A volte gli incroci tra cultura politica e politica rivelano molto più del racconto del tran tran quotidiano del Palazzo. Strano a dirsi, è capitato anche con Matteo Renzi. Nelle stesse settimane in cui si compiva la sua frenetica e forsennata ascesa a Palazzo Chigi, alla guida di un governo in tutto e per tutto identico a quello guidato da Letta (forse con ancora minore qualità), la casa editrice Donzelli ha mandato in libreria una nuova edizione di Destra e sinistra di Norberto Bobbio con una postfazione del neopremier.
Sono passati vent’anni esatti dalla prima uscita del saggio bobbiano. Era il 1994, uscì proprio nell’anno dell’arrivo a Palazzo Chigi di Silvio Berlusconi. Passato un ventennio (“il” ventennio berlusconiano, senza che con esso siano stati fatti i conti), la nuova edizione esce nel 2014, anno dell’ascesa renziana. Curiose coincidenze editoriali.
Cosa diceva in sostanza Bobbio in Destra e sinistra? Diceva che in un mondo in cui le distinzioni tra destra e sinistra rischiano di cadere, allargando una indistinta palude comune, il discrimine tra conservatori e progressisti rimane quello dell’uguaglianza. Chi vuole porre rimedio alle feroci disuguaglianze, allo scandalo della disuguaglianza, in un contesto democratico, può continuare a dirsi di sinistra.
È proprio questa idea cruciale che Renzi azzanna in poche pagine. E lo fa con lo stesso miscuglio di semplicismo e spavalderia cui ci ha abituati nelle sue performance davanti alle telecamere. Il Renzi che guida pur sempre un governo di larghe intese (e che sembra un riuscito prodotto del ventennio berlusconiano: avete notato che i suoi riferimenti temporali non superano mai le colonne d’Ercole degli anni novanta? e che quando si spinge oltre, approdando agli anni ottanta, è solo per ricordare qualche cartone animato?) dice che “la coppia eguaglianza/diseguaglianza” non riesce più “a riassorbire integralmente la distinzione destra/sinistra” e si chiede se “non sia più utile oggi declinare quella diade nei termini temporali di conservazione/innovazione”.
Una sinistra vecchia (e quindi per lui inservibile) guarda all’uguaglianza. Una sinistra moderna (e per lui vincente) guarda all’innovazione. Per Renzi (o, molto più prosaicamente, per il ghost writer del testo donzelliano) l’innovazione è una vera stella polare, una sorta di divinità inscalfibile, non soggetta a critica alcuna.
Ma di cosa si compone questa innovazione renziana? Dalle poche righe che seguono ricaviamo questo passaggio rivelatore: “Di fronte a questo potente mutamento di prospettiva sociale ed economica, culturale e politica, la sinistra deve mostrare di avere coraggio e non tradire se stessa. Deve accettare di vivere il costante movimento dei tempi presenti e accoglierlo come una benedizione e non come un intralcio. È questo straordinario, irrefrenabile movimento che sfonda la vecchia bidimensionalità della diade destra/sinistra e le dà temporalità e nuova forza.”
L’esaltato narratore delle “magnifiche sorti e progressive” del nuovo secolo è un premier che ha ereditato la guida di un paese dilaniato dalle disuguaglianze e dalle fratture sociali. Un paese in cui il tasso di disoccupazione giovanile è alle stelle, in cui le povertà reali (specie al Sud) sono in aumento, in cui il sottosalario e i woorking poor sono una realtà, in cui la forbice tra ricchi sempre più ricchi e ceto medio impoverito (alle spalle del quale si ingrossano le maglie della disperazione e dell’esasperazione, di tanti suicidi silenziosi) si allarga sempre di più. L’Italia è uno dei paesi più diseguali d’Europa, in cui si registrano le maggiori disuguaglianze nella distribuzione dei redditi.
È fin troppo banale notare come ci sia un chiaro legame, teorico e materiale, tra tale disparità e il rifiuto di utilizzare qualsiasi categoria di pensiero che abbia a che fare con l’uguaglianza, e che questo in buona sostanza è stato uno dei pilastri del ventennio berlusconiano. Nella frase di Renzi prima citata, tuttavia, c’è qualcosa di più: un’esaltazione primo-ottocentesca del “movimento irrefrenabile” che oggi è davvero difficile non definire reazionaria.
Sembra quasi di leggere una volgarizzazione di Adam Smith: bisogna lasciare che il movimento vada da sé, non intralciarlo con inutili meccanismi re-distributivi né tanto meno con correzioni progressive, perché questo disporrà automaticamente giustizia per tutti. Per sostenere tutto ciò fuori da ironia, dopo le devastazioni della crisi mondiale determinata dal capitale finanziario che ha avuto inizio nel 2007-2008, ci vuol davvero coraggio. E in fondo il noto “coraggio renziano” è fatto anche di tale pasta.
Proprio perché volta le spalle all’uguaglianza (in perfetta controtendenza con quanto affermato da Schulz e dai socialisti europei) l’innovazione che Renzi propone all’Italia è del tutto fasulla. La storia del movimento operaio, e più in generale della sinistra, sta tutta nel rapporto dialettico con quel “movimento irrefrenabile”, non per arrestarlo, ma per rivoluzionarlo o quanto meno riformarlo. Il punto è: né rifiutarlo in toto (cosa che sarebbe tra l’altro impossibile), né accettarlo così com’è, ma studiarlo, decomporlo, analizzarlo nelle sue parti e nelle sue classi, nelle sue forze di morte e in quelle di liberazione... Per Renzi invece il movimento è tutto. Ed è proprio quando afferma ciò che appare più vecchio che mai. Ed appare ancora più vecchio quando afferma – non si capisce in base a quale salto logico – che è solo in ragione dell’accettazione di tale movimento (contro l’orrore della “stagnazione”) che è possibile rappresentare gli interessi degli ultimi e degli esclusi.
Il curioso destino di Bobbio è quello di essere tirato in ballo (da vivo e da morto) nei testi che segnano l’ascesa politica di alcuni leader in Italia. È capitato ora con Renzi. Capitò anche con Craxi nel 1978, in quello che è passato alla storia come il Saggio su Proudhon, e che segnò l’avvio dell’autonomia socialista. Concludendo quelle poche pagine per “l’Espresso” (nel tempo poi attribuite al ghost writer Luciano Pellicani), Craxi scriveva in polemica con i dettami del marxismo-leninismo: “Il socialismo, come ha ricordato Norberto Bobbio, è la democrazia pienamente sviluppata, dunque è il superamento storico del pluralismo liberale e non già il suo annientamento. È la via per accrescere e non per ridurre i livelli di libertà e di benessere e di uguaglianza.”
Come sia finita la parabola craxiana è noto a tutti. Ma se dovessimo rimanere al solo aspetto testuale (proprio ora che in molti hanno evocato una somiglianza tra il decisionismo renziano e il decisionismo craxiano, tra l’ascesa renziana e quella craxiana), beh, il confronto è davvero impietoso.

Lo Straniero 27.3.14
Asor Rosa e Scalfari
di Luca Lenzini


Il volume della collana dei “Meridiani” Mondadori che raccoglie una scelta di scritti di Eugenio Scalfari (E. Scalfari, La passione dell’etica. Scritti 1963-2012, Saggio introduttivo di A. Asor Rosa, Racconto autobiografico di E. Scalfari, Notizie sui testi e Bibliografia a cura di A. Cannatà, Mondadori, 2012) non è certo passato inosservato, al suo apparire. Né c’è da stupirsene, dato il profilo dell’editore-editorialista titolare dell’opera, ascoltato non solo ai piani più alti della Repubblica, ma anche presso il Soglio Pontificio e – secondo fonti accreditate – anche oltre quella suprema soglia, là dove vige un numerus clausus tra i più inflessibili ed eterni. E nemmeno mancò chi seppe scorgere nel libro tratti epocali e movenze intellettuali tale da fargli assumere, agli occhi dei lettori futuri, la funzione di vera e propria milestone dei nostri anni, destinati a specchiarvisi come in pochi altri prodotti dello spirito: livre de chevet al quale tornare, nei momenti di smarrimento o di depressione, per trovare nuovo slancio e sicuro nutrimento. Quanto allo spirito dei tempi, già il titolo presenta una eloquenza non banale, bensì significativa, sicché il lettore che trovasse generica o appena enfatica l’insegna dell’antologia (La passione dell’etica), non ne coglierebbe il nucleo storico: il richiamo alla tradizione filosofica è introdotto dall’urgenza dei sentimenti, come in una endiadi in cui a spiccare è il lato cordiale o, più precisamente, una vena esistenziale che corregge quel tanto di algido e impersonale che è del secondo termine o categoria. Tutto appare rassicurante e corroborante, tutto invita all’acquisto e insieme al rafforzamento della coscienza; un po’ come per il Book Two di The Master, il film di Paul Thomas Anderson “Niente più segreti… Questo è uno studio sugli ultimi 83 trilioni di anni… È sull’origine della creazione… Del bene e del male… e dell’origine di tutto… Ora, il buffo è che l’origine di tutto… siete voi”.
Eppure si veda come nelle strategie della comunicazione editoriale e nel proporsi del libro si faccia vivo, quasi serpentello penetrato in un giardino urbano o verdeggiante attico, un che di reificato e inquietante. Esso si annuncia sin nell’esposizione del titolo altisonante, che per via di astrazione sottintende il soggetto (della passione) ma così lo esalta (per così dire) silenziosamente, in absentia, quasi per contrappasso riducendo l’istanza morale alla coltivazione di un hobby. Si vedrà che tutto ciò è presagio di altro, ma senza per ora attribuire allo squillo del frontespizio troppe responsabilità, è da precisare che non sono soltanto i testi di Scalfari raccolti nel volume a sfoggiare il carattere d’epoca – questo è un destino che la pagina giornalistica non può evitare – ma l’introduzione che li precede: è questa, firmata da un critico la cui bibliografia vanta titoli con pochi confronti, cioè Asor Rosa, a farsi carico di stabilire (com’è d’obbligo) l’orizzonte di lettura. Ed è questa, senza dubbio, che più colpisce e interessa, sia nella prospettiva dell’era vigente sia in quella, incognita e incombente, dei posteri.
Soffermiamoci ancora brevemente sulla soglia del libro, il cui impianto propone più di una sollecitante questione. Si sa che è inerente alla dinamica dei “lanci” editoriali accompagnare l’autore i cui scritti sono proposti in nuova confezione con la presentazione di un nome di grido, tale da assicurare risonanza mediatica ma al tempo stesso legittimare, con la sola firma, il prodotto. Non c’è bisogno di dire che in questo caso l’accoppiamento è di ordine pressoché titanico, impeccabile nella sua logica verticistica: fin qui, tutto bene. Ma si noti il titolo del saggio, Il giornalismo e altro, molto altro: ecco che immediatamente il lettore entra in un universo insieme magniloquente ed ellittico, ridondante e allusivo. Una quota di calcolata suspense lo fa indugiare, per un attimo; però egli sa già, d’altra parte, che il critico lo guiderà con collaudata sapienza in quella zona non detta: con fare colloquiale, Asor Rosa lo prende per mano, come chi voglia fare una sorpresa: vedrai, non sai cosa ti aspetta. Il percorso sarà di certo sbalorditivo, segnato dal plurale e dall’abbondante; strabordante, per meglio dire, dato che tutto quel che c’è nel libro, s’intende, non può stare dentro i limiti angusti di un titolo, non riesce a trovarvi una sintesi adeguata, esonda a destra e a manca. Il gesto, pertanto, è al tempo stesso di ammirata confidenza e di compiaciuta impotenza, e suggerisce che la categoria un po’ triviale e transeunte del “giornalismo” sarà ampiamente bilanciata da quel copioso “altro” che non si nomina, ma proprio per questo si delinea sullo sfondo con una sua seducente, molteplice e fatale gravità.
C’è poi un altro aspetto da non trascurare. Non meno importante del titolo è la dedica che sotto vi campeggia: A Eugenio Scalfari. Di nuovo, un che di eccedente torna a visitare il lettore, che resta perplesso: titolare del libro nonché del Racconto autobiografico che, non senza un vezzo autoriale, sostituisce la tradizionale “cronologia”, Scalfari è altresì il dedicatario del saggio che introduce il suo libro medesimo? A fronte del sobrio, classicamente composto assetto dell’opera ne varietur, accolta nel canone e già per questo al di sopra di ogni sospetto d’indebita apologia, la proliferazione dei livelli in cui si manifesta il nome dell’autore assume i tratti di una sfrontata invadenza, e quasi di una deriva di autoreferenzialità; deriva a cui l’introduttore, a sua volta, si conforma sin dall’inizio, con umile e mimetica dedizione. In realtà, tuttavia, dedicare il saggio su Scalfari a Scalfari (qui, nel libro di Scalfari) sembra superfluo o di dubbio gusto soltanto a chi non si lasci catturare dal significato profondo dell’operazione che, in apertura, afferma la propria legge più intima. A un primo livello, la dedica è infatti un gesto amicale, in quanto tale pertinente alla sfera del privato; ma in quanto atto pubblico, essa è un indice culturale. E in questo, risponde alla logica che governa il saggio stesso di Asor Rosa, che a farla breve e in via sperimentale si potrebbe dire del raddoppiamento immanente. Senza ipocrisie fuor di luogo in una occasione così memorabile ed esposta, insomma, di fronte ai posteri il critico si stringe affettuosamente all’oggetto del proprio discorso, a quello che comme il faut e ogni volta egli definisce con la maiuscola, l’Autore: si tratta infine (e non dobbiamo dimenticarlo – né potremmo) dell’omaggio che proviene da un intellettuale con una formazione e una storia ideologica di orientamento marxista, e tanto di militanza “extraparlamentare” ed ex-operaista; formazione e storia del tutto differenti e anzi remote da quelle di Scalfari, com’è lo stesso Asor Rosa a sottolineare (p. XIV, “Il punto di vista”): “la storia dell’Autore e dell’Introduttore di questo libro non avrebbero potuto essere più diverse”. Il valore aggiunto dell’introduzione parrebbe quindi risiedere proprio nell’alterità dell’introducente, ragion per cui – in apparente contraddizione con quanto si è appena notato – sarebbe la differenza a fondare il “saggio introduttivo”, ovvero la posizione del critico rispetto ai testi dell’Autore. In cosa consisterebbe tale differenza (la garanzia fondante la canonizzazione in vita dell’Autore), a chi legga in lungo e in largo Il giornalismo e altro, molto altro non è dato d’acchito capire; in compenso, non si può ignorare che il discorso assume, a questo punto, una valenza politica: il patto siglato dalla dedica andrà letto entro tale cornice, e tanto per quel che vi è detto, che per quel che viene taciuto.
A livello di metodo, il primo paragrafo del saggio contiene numerose proposizioni degne di attenzione, e tra queste ce n’è una, in particolare, che la dice lunga sul tema della Differenza. Dopo aver evidenziato le divergenti storie personali dell’Autore e sua, Asor Rosa rivela che essi (Introduttore e Introdotto) “non hanno mai, o quasi mai, smesso di guardarsi nel corso degli ultimi decenni, con un’attenzione rilevantemente maggiore, com’è ovvio e com’è giusto, da parte dell’Interprete nei confronti del suo Autore”. (p. XIV). Per quanto asimmetrica (e anzi proprio per questo), tale incoercibile, reciproca insistenza dello sguardo presuppone un’attrazione non priva di complicanze, un’intimità a distanza che investe di significati ulteriori il rapporto tra i due portatori di Maiuscole, adombrando una dimensione ambivalente e tutta da esplorare dell’alterità (tra école du regard e liaisons dangereuses); ma è invece da registrare, a questo proposito, una certa evasività del critico, una reticenza che si sospetta a suo modo esemplare. Le intenzioni dichiarate suonano poco convincenti, così come l’approfondimento della (sbilenca) reciprocità degli sguardi non va oltre, nelle parole di Asor Rosa, una fenomenologia di piccolo cabotaggio, limitante rispetto alle ambiziose premesse (tutto quell’Altro che stava nel Molto, molto…): “Anche su questo versante del punto di vista (…) la facoltà che emerge di più è quella dello sguardo: per capire bisogna guardare, e poi, dopo aver guardato, vedere; ed è quello che io mi proporrei fondamentalmente di fare, anzi di continuare a fare, come ho fatto (o penso di aver fatto) nel corso di tutti questi anni” (ibid.). Questa, sotto le spoglie di una scoraggiante ovvietà ottica, è a veder bene una dichiarazione di metodo, una poetica e un’ermeneutica, in un sol colpo. E se nei melensi e persino goffi giri di parole ora citati le capacità conoscitive del gioco di sguardi – in cui s’indovina ch’è in gioco qualcosa di decisivo, di portata forse storica – non decollano, e restano per il momento in latenza (e, anzi, quasi disinnescate ab initio), è tuttavia lecito il dubbio che si tratti infine di tergiversazioni tattiche, che non fanno che prolungare e opacizzare la relazione tra Introduttore e Introdotto, senza nulla dirci di quel rapporto che s’intuisce di cruciale importanza sul piano ideologico: tocca a noi, dunque, farci interpreti di quei lunghi anni di sguardi. Sempre nel primo paragrafo, poi, Asor Rosa c’informa che procederà con “prudenza esegetica” (p. XI), il che sembra riflettere una posizione di cauta distanza dall’oggetto del proprio discorso; ma di lì a poco, ecco che il critico avverte, con parole altrettanto inequivoche, che il suo “intento precipuo” è senz’altro quello “di mettere in luce quanto i testi stessi contengono e propongono: tenendo fede perciò – per lo meno il più possibile – a quel credo critico cui io stesso sempre più mi attengo, per cui l’‘interprete’ è in primissimo luogo un ‘esegeta’, un disvelatore di sensi, un fedele (si fa per dire, naturalmente) interprete dei pensieri altrui, e soltanto in secondo luogo (se mai) un’‘commentatore’ più o meno arguto dei medesimi”.
Ora, come ha capito sin dalle prime pagine il lettore di Passione dell’etica, la sola espressione davvero fuori posto, in questa dichiarazione (a parte l’aggettivo arguto, forse un refuso) è quel “si fa per dire, naturalmente” in parentesi: la modestia è estranea non meno della prudenza allo spirito del “saggio introduttivo”, e soltanto la fedeltà dell’Interprete è quello che conta, come testimonia la modalità stessa del “disvelamento” dei sensi proposta dal saggio, streap-tease critico che a tanto guardare procura la finale e meritata jouissance. Diciamolo subito e senza perifrasi, allora: per comprendere la fedeltà dell’Introduttore non importa seguirlo per le decine di pagine in cui egli illustra fasi e fondamenti dell’opera dell’Introdotto, attraversando la “mole gigantesca di pensiero” (p. LIV) che vi si addensa, al cui cospetto la Fenomenologia dello spirito appare un episodio trascurabile e dilettantesco, né apprendere come “il mercuriale si trasformò in saturnino, restando mercuriale” (pp. XXX-XXXI, con richiamo a Calvino, Italo), o anche apprezzarne la personale e tarda declinazione dell’illuminismo, a lungo incubata in Via Veneto e dintorni. È più che sufficiente, in effetti, verificare come egli si ponga davanti al suo compito, ovvero in che modo guardando vede (e viceversa).
Basteranno pochi esempi. Il primo passaggio, che si potrebbe anche dire supremo per via delle entità chiamate in causa (secondo alcuni, vi è riecheggiata una celebre frase di Einstein, a sua volta influenzato da Spinoza; mentre altri vi leggono un rinvio a Machado), è questo: “Credo”, scrive Scalfari, “che il nulla sia l’ombra di dio e che il divino sia dovunque, nel filo d’erba, nella rosa, nel passero, nel leone, nell’uomo. In questo ho fede”. Di fronte a questa concezione allo stesso tempo umile e grandiosa, dialettica e panteistica, il critico non indietreggia, ma solo si arresta, chiosando: “Parole che l’Interprete rinuncia a commentare, perché parlano da sé” (p. LVIII). Lo stesso, infatti, può dirsi di quelle del critico ma, come si vede, la fedeltà e la rinuncia sono, con ogni evidenza, in stretto rapporto fra loro; il disvelamento si precisa come tautologia, resa senza condizioni, in quanto non si dà alcun Oltre della parola d’Autore. Meglio non è umanamente possibile fare, e oltre certe soglie è salutare non spingersi. Ma non si trascuri, d’altra parte, il modo in cui l’Introduttore si sofferma sul “dialogue philosophique” (p. XXXVI) fantasiosamente intitolato Alla ricerca della morale perduta. Richiamandosi a Diderot, scrive Asor Rosa, “l’Autore sostiene che solo una forza istintuale possente – non la ragione, non il sentimento – può tenere insieme le parti che altrimenti potrebbero selvaggiamente scontrarsi e disgregarsi (nell’uomo). E, naturalmente, ragionando in termini più generali, è l’istinto di sopravvivenza della specie il “fondamento della morale”, è esso “che detta le regole, è da esso che promana la necessità della legge (…). La ragione entra in gioco per scegliere i modi più efficaci affinché quell’istinto produca i voluti effetti (…). Insomma, gli istinti ordinano, la ragione sceglie i modi, la volontà li trasforma in azioni” (pp. XXXVII-XXXVIII). Naturalmente, e perché mai? si chiede l’ingenuo lettore, che stenta a inerpicarsi a tali altezze, già sentendo le proprie parti più riposte disgregarsi e scontrarsi in un marasma fisico e morale: ebbene, l’Introduttore qui concede che “su questa posizione scalfariana si potrebbe discutere a lungo”, ma poi tutto quel che gli interessa sapere “è se essa s’inserisca oppure no nel sistema scalfariano”, e la risposta che fornisce è la seguente: “A me pare che questo accada perfettamente” (ibid.). Poteva essere altrimenti, se l’orizzonte dello sguardo coincide così mirabilmente con quello del proprio oggetto?
La (tauto)logica del “disvelamento” riproduce coerentemente i “sensi” del testo, non si dà cesura ma raddoppiamento tra il lavoro dell’Introduttore e quello dell’Introdotto. In linea con questa posizione gnoseologica, si noti bene, è anche il rilievo attribuito a Eros nelle battute conclusive del saggio: non tanto perché è lo stesso Introdotto, come si può facilmente immaginare, a decretare nell’Eros il “fulcro del ragionamento” (p. LV), ovvero il succo dei filosofemi esposti e trasmessi fedelmente dall’Introduttore, ma perché il suo dominio era già implicito nel gioco di sguardi che abbiamo incontrato nel paragrafo inaugurale, di cui il saggio non è che l’estensione (secondo la concezione di Asor Rosa: esegesi). Ma soprattutto, è tramite il livello erotico, nell’accezione più alta e nobile (ma è inutile precisarlo), che si apprezza la valenza politica del saggio introduttivo, a cui si accennava all’inizio. Per un marxista del versante non ortodosso come Asor Rosa il processo di svelamento dei testi poggiava, una volta, sui fondamenti del pensiero critico, volto a demistificare l’ideologia degli autori per accertarne le verità storiche, per così dire estorte alla tradizione degli avversari, borghesi come Mann per esempio. Ora siamo, invece, agli esercizi di ammirazione per chi, perseguendo un suo “credo rimasto a lungo, almeno in Italia, sostanzialmente elitario e minoritario, come quello liberaldemocratico”, ha negli anni “prima sfiorato e coltivato e poi conseguito un’audience (…) di massa” (p. XXI). E qui siamo arrivati al Dunque, al compimento del viaggio nel Molto e nell’Altro: tanto la passione che l’etica ritrovano il proprio oggetto rimosso, il fantasma del desiderio che impacciava le circonlocuzioni ottiche. Il colpo di fulmine che magnetizza lo sguardo ha il proprio movente in questa zona attraversata da ardenti speranze e tremende delusioni novecentesche: quel che la parte dell’Interprete (sempre in ritardo nei suoi tentativi di egemonia, sempre illusa e delusa dalla Storia che disobbediente e inarrestabile avanza) non ha saputo fare, è ciò che ha realizzato l’Autore, conseguendo infine la meritata audience e transustanziando l’élite in massa. Di qui l’ammirata e interminata contemplazione riaffiorante nei passaggi in cui Asor Rosa mette in risalto il carattere di “esercizio intellettuale altamente energetico” (p. XII) dell’attività di Scalfari, definito “il robusto atleta del giornalismo liberaldemocratico” (p. XXXI). Potenza di Eros, manco a dirlo. Grazie a essa l’illuminismo ci rivolge forse, dalle pagine di Passione dell’etica, un ultimo atletico sguardo – così struggente, perché insieme atletico e ultimo.
Nota Asor Rosa che in epigrafe a Un viaggio di Scalfari sono riuniti Pascal, La Rochefoucauld e Nietzsche: “Tutti e tre, sebbene, com’è ovvio, in modo diverso – egli commenta – si ravvolgono e sviluppano intorno alle domande: chi siamo? come siamo? perché ci siamo? dove andiamo?” (p. XXXI). Così noi, nel riporre la sua Passione, a nostra volta ce ne congediamo ripensando alla domanda che, proprio a queste medesime, aggiunse una volta Woody Allen: “… e chi ha ordinato la cotoletta?”

il manifesto 3.4.14
L’epopea di un dissidente
Saggi. «Camus deve morire» di Giovanni Catelli
di Sara Borriello


Il nome di Albert Camus è asso­ciato a opere come lo «Stra­niero» o «La Peste», agli studi sul mito di Sisifo. Opere let­te­ra­rie, cer­ta­mente, ma Albert Camus era tanto altro. Gio­vanni Catelli ricorda e sot­to­li­nea pro­prio que­sto aspetto «plu­rale» nel libro Camus deve morire (Nutri­menti, pp. 159, euro 13). Un intel­let­tuale che voleva la giu­sti­zia sociale, che rin­ne­gava ogni forma di sopruso: ecco il ritratto che fuo­rie­sce da que­ste pagine. Lo scopo di Catelli è sve­lare il mistero che da anni grava sulla morte di que­sto scrit­tore, scom­parso a soli qua­ran­ta­sei anni in un inci­dente stra­dale. Una morte piut­to­sto banale, anche a detta dello stesso Camus poco tempo prima del fatto. Per alcuni fu solo una fata­lità, per altri la cosa fu orche­strata a dovere per togliere di mezzo un uomo sco­modo, che par­lava troppo senza curarsi di chi stava al potere. Catelli sostiene con molta con­vin­zione que­sta seconda ipotesi.
Camus era uno scrit­tore «ribelle». Aderì in un primo momento al par­tito comu­ni­sta, per poi diven­tare, secondo l’autore, un anar­chico. L’evento che più di tutti gli altri potrebbe aver cau­sato la sua morte è l’opposizione che, attra­verso i suoi scritti, portò avanti con­tro le poli­ti­che del governo sovie­tico. La que­stione calda che viene ana­liz­zata è quella dell’invasione sovie­tica dell’Ungheria nel 1956. Camus, così come altri intel­let­tuali del suo spes­sore, rispose all’appello degli scrit­tori unghe­resi, che chie­sero soli­da­rietà agli intel­let­tuali «euro­pei». La let­tera che lo scrit­tore pub­blicò in rispo­sta fu una denun­cia rivolta con­tro la Rus­sia e, in par­ti­co­lare, con­tro il mini­stro degli esteri Dmi­trij She­pi­lov. Que­sto fu, secondo Catelli, una atto di sfida con­tro l’Unione sovie­tica. Attorno a un tale evento ruota la tesi secondo cui la morte di Camus sarebbe stata pro­get­tata dal Kgb, con lo stesso mini­stro She­pi­lov come mandatario.
Ma que­sta tesi è da leg­gere come un pre­te­sto per un obiet­tivo, a suo modo, più ambi­zioso: la rivi­si­ta­zione della figura sto­rica di Camus in quanto intel­let­tuale dis­si­dente. Tutto ciò spesso viene tra­la­sciato, dando rilievo solo al Camus scrit­tore vin­ci­tore di Pre­mio Nobel. I cri­tici ten­dono a per­dere di vista la voca­zione sociale e poli­tica, entrambi pre­senti nell’opera di Camus. Il merito di Catelli sta nell’avere ripor­tato alla luce una figura che rischiava di scom­pa­rire die­tro tomi di ana­lisi let­te­ra­ria, di averle ridato luce e colore, spes­sore, vita. Un altro aspetto rile­vante è la forma che Catelli sce­glie di dare a una mate­ria così tra­sver­sale come la rico­stru­zione di una per­so­na­lità storica.
Il libro è veloce, leg­gero, asso­lu­ta­mente acces­si­bile e chiaro, senza nes­suna con­ces­sione alle reto­ri­che dell’Accademia. Catelli è sin­te­tico, ma mai troppo gior­na­li­stico, nel senso che la sua scrit­tura somi­glia più a un romanzo, una sto­ria di fan­ta­sia più che a un dos­sier su un omi­ci­dio. Il lato posi­tivo è che ciò resti­tui­sce al let­tore la dimen­sione di suspense e imme­de­si­ma­zione che può donare un romanzo; il lato nega­tivo, invece, è che la tra­gi­cità di que­sta figura sto­rica ine­vi­ta­bil­mente si smussa e cade un po’ nel domi­nio dell’irreale.
Tut­ta­via un rischio del genere andava corso per rag­giun­gere il risul­tato finale e per distin­guere quest’opera dalle solite bio­gra­fie, che hanno come unico scopo quello di for­nire una rico­stru­zione sto­rica. Catelli cerca di andare oltre e, per buone parte del libro, ci rie­sce, rega­lando al let­tore il tra­sporto let­te­ra­rio unito alla verità sto­rica di un grande personaggio.

Corriere 3.4.14
L’emozione, misura di tutte le cose
La creazione può avvenire anche a freddo. Ma perde fascino
di Gillo Dorfles


Siamo in preda delle nostre emozioni. Ma è anche vero che, senza emozioni, non avremmo potuto partecipare alle vicende della vita nostra e del prossimo; dunque l’emozione è quello che ci rende umani (anche se ritengo che pure i cani e i gatti provino delle emozioni, forse non minori delle nostre). Ecco perché l’emotività è inseparabile dalla nostra vita di relazione anche per poter apprezzare le informazioni che ci vengono dall’arte, dalla società e dalla scienza.
Che le emozioni, legate come sono quasi sempre a un organo di senso, abbiano necessariamente un contenuto vicino a quello di un fattore sensoriale — vista, udito, tatto — è ovvio; e questo fatto comporta che ogni emozione sia inseparabilmente legata a quello che può essere un particolare elemento artistico; effettivamente ogni emozione non potrà andare disgiunta della presenza di un fattore artistico: musicale, visivo, poetico, a meno della presenza di una totale «sordità», «cecità», di fronte all’elemento artistico. Ecco perché un’estetica che voglia tener conto dell’elemento emotivo sarà sempre legata ad un organo di senso. E tuttavia si potrebbe osservare, come non sia detto che davanti a un opera d’arte ognuno debba emozionarsi: senza bisogno di essere ciechi o sordi, molti individui passano dinanzi a un capolavoro delle diverse arti, senza il minimo fremito di emozione; e forse senza anche la coscienza di questa manchevolezza.
Non è un caso che un recente convegno della Società di estetica (sempre guidata da Luigi Russo dell’Università di Palermo), Convegno sull’emozione (a cura di Luigi Russo e Salvatore Tedesco, Centro internazionale Studio di Estetica), sia stato dedicato ai problemi dell’emozione, e sia stato studiato a fondo nelle diverse branche di questa sensibilità umana.
Anche se di solito gli estetologi preferiscono non discettare di etica (la kalokagathia non è più di moda), il convegno cui accenniamo ha trovato il modo di affrontare tutti gli aspetti più noti e appariscenti e quelli reconditi e misteriosi dell’emotività umana. Naturalmente la finalità del convegno è stata soprattutto quella di propugnare la convinzione che le diverse fasi emotive siano quasi sempre legate ad una disciplina o creazione artistica e quindi la loro appartenenza a un fenomeno decisamente estetico. Eppure ritengo che si possa affermare come esistano alle volte, nostre emozioni totalmente o parzialmente disgiunte dai diversi aspetti estetici. Non solo, ma che spesso possano essere del tutto scissi dal regno dell’arte o da quello delle singole passioni — dolore, gioia, gelosia — presenti nell’uomo. Sicché, molto spesso la motivazione estetica può restare disgiunta dai fenomeni patetici o patologici che così spesso albergano nella nostra sensibilità.
Una delle prime cose che vorrei sottolineare è la netta scissione studiata anche nei lavori del convegno — che viene fatta tra emotività e passionalità. Ecco un primo fondamentale punto da cui partire se non si vuole confondere la nostra normale situazione con lo scoppio in coordinato di una patologia della sensibilità, dunque di un sentimento piuttosto legato al settore della patologia che a quello dell’etica e dell’estetica. Eppure, non si dimentichi che ancora una volta risulta evidente la omogeneità dell’emozione — dunque di una sensibilità «patetica» — che può coinvolgere spesso anche l’estetica. Si è fin troppo giocato alla insensibilità, al capriccio, al fascino dell’orrore o della corruzione, per non rendersi conto che, tutto sommato, non tutto è «cattivo» o sempre «bello»; ma che solo il «buono» non dovrebbe mai mancare.
Naturalmente l’armonia, nel lavoro del convegno, viene spesso considerata non solo per il suo valore estetico o patetico, ma anche per quello decisamente corporeo e per l’interferenza che quasi sempre esiste con i nostri organi del senso quali partecipi della emotività umana nelle sue «specializzazioni» anche quando esulano dal normale quoziente sentimentale e trascendono nel dominio di una patologia mentale o sentimentale.
Un altro problema che si pone è quello di indagare se sia possibile o meno che una creazione artistica d’indubbia qualità, possa essere realizzata «a freddo» pur seguendo le regole della tecnica e della composizione artistica. Ritengo che questo caso può effettivamente realizzarsi. Forse l’individuo che è capace di agire con quest’assenza di emozioni nel realizzare l’opera d’arte, rientra nella patologia del sentimento e non fa più parte di una «vera» umanità. Tuttavia, non sono convinto a fondo da questa ipotesi e preferisco ritenere davvero che purtroppo una certa fascia dell’umanità possa vivere e «vegetare» senza sfiorare quello che costituisce l’aspetto più affascinante della nostra personalità conscia o inconscia che sia.

Repubblica 3.4.14
Se lo Stato uccide siamo tutti Socrate
Nelle sue lezioni inedite su “La pena di morte” Jacques Derrida smaschera la natura teocratica nascosta in ogni potere politico. In pace come in guerra
di Jacques Derrida


Che dire a qualcuno che venisse a dirvi all’alba: «Sapete, la pena di morte è il proprio dell’uomo?». (Lungo silenzio) Io sarei subito tentato di rispondergli — troppo velocemente: sì, lei ha ragione. Almeno che non sia il proprio di Dio — o che non sia la stessa cosa. Poi, resistendo alla tentazione in virtù di un’altra tentazione — o in virtù di una contro tentazione, sarei allora tentato, riflettendoci, di non rispondere troppo velocemente e di farlo attendere — giorni e notti. Fino all’alba. [...]
E supponendo che la decisione di cui ci apprestiamo a parlare, la pena di morte, non sia l’archetipo stesso della decisione. Supponendo dunque che chiunque possa mai prendere una decisione che sia la sua, per sé, la sua propria. A questo riguardo ho manifestato spesso i miei dubbi. La pena di morte come decisione sovrana di un potere forse ci ricorda innanzitutto che una decisione sovrana è sempre dell’altro. Venuta dall’altro. [...] Con la crudeltà che conoscete, e una crudeltà, sempre la stessa, della quale sapete anche che può andare dalla più grande brutalità dell’abbattimento, alle raffinatezze più perverse, dal supplizio più sanguinario o bruciante, al supplizio più denegato, più mascherato, più invisibile, più sottilmente macchinalizzato, dal momento che l’invisibilità o la denegazione non sono altro mai, e in alcun caso, che un pezzo di marchingegno teatrale, spettacolare, perfino voyeuristico. Per definizione, per essenza, per vocazione, non ci sarà mai stata invisibilità per una messa a morte legale, per una pena di morte applicata, per principio, per questo verdetto non c’è mai stata una esecuzione segreta o invisibile. Sono richiesti lo spettacolo e lo spettatore. La città, la polis, la politica tutta intera, la concittadinanza — di persona o mediata attraverso la sua rappresentazione — deve assistere e attestare, deve testimoniare pubblicamente che è stata data o inflitta la morte, deve veder morire il condannato. Lo Stato deve e vuole veder morire il condannato. [...] Ogni volta uno Stato, associato a un potere clericale o religioso, in forme da studiare, avrà pronunciato verdetti e giustiziato grandi condannati a morte che furono dunque inanzitutto Socrate. Socrate, voi lo sapete ma ci ritorneremo, a cui fu imputato di aver corrotto i giovani non credendo agli dei della città e sostituendo a essi nuovi dei, come se avesse avuto il progetto di fondare un’altra religione e di pensare un uomo nuovo. Rileggete l’ Apologia di Socrate e il Critone, vi troverete che un’accusa essenzialmente religiosa è presa in carico da un potere di Stato, un potere della polis, una politica, una istanza giuridico-politica, ciò che si potrebbe chiamare, con un terribile equivoco, un potere sovrano come potere esecutivo. l’ Apologia lo dice espressamente (24bc): la kategoria, l’accusa lanciata contro Socrate, è di aver avuto il torto, di essere stato colpevole, di aver commesso l’ingiustizia (adikein) di corrompere i giovani e di (o per) aver smesso di onorare (nomizein) gli dei (theous) della città o gli dei onorati dalla città — e soprattutto di averli sostituiti non semplicemente con nuovi dei, come spesso dicono le traduzioni, ma con dei nuovi demoni (etera de daimonia kaina); e daimonia, sono senza dubbio degli dei, delle divinità, ma anche a volte dei fantasmi [revenants], come in Omero, degli dei inferiori o dei fantasmi [ revenants], le anime dei morti; e il testo distingue bene gli dei e i demoni: Socrate non ha onorato gli dei (theous) della città, e ha introdotto dei nuovi demoni (etera de daimonia kaina).
L’accusa dunque, nel contenuto, è religiosa, propriamente teologica, addirittura esegetica. Socrate è accusato di eresia o di blasfemia, di sacrilegio o di eterodossia: si sbaglia sugli dei, si inganna o inganna gli altri, soprattutto i giovani, riguardo agli dei; ha confuso gli dei o ha generato confusione e disprezzo sugli dei della città. Ma questa accusa, questo capo di accusa, questa kategoria essenzialmente religiosa, è presa in carico, come sempre, e noi ci interessiamo regolarmente a questa ricorrente articolazione, sempre ricorrente, da un potere di Stato, in quanto sovrano, un potere di Stato la cui sovranità è essa stessa essenzialmente fantasmatico teologica e, come ogni sovranità, si marca nel diritto di vita e di morte sul cittadino, nel potere di decidere, di fare la legge, di giudicare e di eseguire/giustiziare l’ordine operando l’esecuzione del condannato. Anche negli stati-nazione che hanno abolito la pena di morte, abolizione della pena di morte che non equivale affatto all’abolizione del diritto di uccidere, ad esempio in guerra, ebbene, i pochi stati della modernità democratica che hanno abolito la pena di morte, conservano un diritto sovrano sulla vita dei cittadini che possono mandare in guerra per uccidere o per farsi uccidere in uno spazio radicalmente estraneo allo spazio della legalità interna del diritto civile in cui la pena di morte può essere mantenuta o abolita. [...] È sempre legale uccidere un nemico straniero in situazione di guerra dichiarata, anche per un paese che ha abolito la pena di morte (e a questo proposito dovremo domandarci cosa definisce un nemico, uno straniero, uno stato di guerra — civile o meno; è sempre stato difficile determinarne i criteri e lo diventa sempre di più). D’altra parte, in secondo luogo, fino a certi fenomeni recenti e ristretti di abolizione legale della pena di morte in senso stretto in un numero ancora limitato di paesi, cioè negli stati-nazione di cultura abramitica, gli stati-nazione in cui una religione abramitica (ebraica, cristiana o islamica) era dominante, sia che fosse religione di Stato, religione ufficiale e costituzionale, sia che fosse semplicemente religione dominante nella società civile, ebbene, questi stati-nazione, fino a certi fenomeni recenti e limitati di abolizionismo, non hanno trovato alcuna contraddizione tra la pena di morte e il sesto comandamento «Tu non ucciderai».

Repubblica 3.4.14
Tra gioco filosofico e fantasmi personali
di Maurizio Ferraris



I SEMINARI di Derrida sulla pena di morte, tra gli ultimi che ha tenuto all’ École des Hautes Études en Sciences Sociales, sono un esempio impressionante dell’intreccio fra dimensione politica e riflessione privata nel pensiero di un grande filosofo. Da una parte, c’è la presa di posizione pubblica, il fatto che in moltissimi stati sia assunto come normale che una decisione legale interrompa la vita di un essere umano. Una posizione politica inaccettabile, ma che trova sostegno in una tradizione filosofica che ha esponenti insospettabili (in questo seminario Derrida dedica pagine memorabili alla giustificazione razionale della pena di morte in Kant). D’altra parte, c’è la posizione esistenziale: la pena di morte non pesa soltanto sui prigionieri nei bracci della morte, ma su chiunque, ognuno di noi è, per il solo fatto di vivere, condannato a morte. Sono temi che rivelano la prossimità di Derrida con gli autori letti da ragazzo in Algeria: Rousseau, Nietzsche, Gide, Camus, Sartre, Kierkegaard, una prossimità che diviene più esplicita nel momento in cui, con l’avanzare dell’età, Derrida sente che la pena di morte si sta avvicinando.
Come evitare l’inevitabile?
Attraverso la sua lunghissima e fecondissima riflessione sulla scrittura, si può dire che nella sua intera opera Derrida abbia messo in atto una strategia di sopravvivenza o di resurrezione: che resti almeno la scrittura, nel momento in cui non c’è più lo scrittore. Ma, ovviamente, è illusorio pensare che questo sopravvivere spettrale (quello dello spettro è un altro tema centrale della riflessione derridiana) sia un rimedio all’inevitabile. È un farmaco, un rimedio provvisorio, una specie di anestesia. Derrida tiene questo seminario dell’anno accademico 1999-2000.
Morirà quattro anni dopo, il 9 ottobre 2004, e tutti i suoi ultimi scritti sono impegnati in una specie di lavoro del lutto anticipato, in una preparazione o rassegnazione all’inevitabile, facendo ricorso a tutte le consolazioni della filosofia.