venerdì 4 aprile 2014

l’Unità 4.4.14
Domani su «left» un viaggio nell’Aquila del futuro
di Manuele Bonaccorsi


Un reportage dal futuro è il servizio di copertina del secondo numero del nuovo left, in edicola domani insieme a l’Unità. Un viaggio a L’Aquila, distrutta dal sisma del 6 aprile del 2009 (domenica ricorreranno i 5 anni dalla catastrofe che ha messo in ginocchio una delle più belle città italiane, procurando 308 vittime e oltre 60mila sfollati). Che volto avrà la città al termine della ricostruzione, nel lontano 2059? Recupererà la sua vitalità e il suo fascino? Il settimanale ha provato a rispondere a questa domanda con l’aiuto di uno dei più importanti urbanisti italiani, Vezio De Lucia. Con lui left ha virtualmente visitato le new town di Berlusconi e Bertolaso, divenute dei ruderi e ha attraversato la campagna aquilana, completamente ricoperta da villette a schiera e casette abusive. Fino ad arrivare dentro il Centro storico, svuotato di abitanti e trasformato in un mega outlet. «A L’Aquila nel 2059 vivrà la metà della popolazione, ma nel doppio dello spazio», racconta l’urbanista nel viaggio, immaginario ma non troppo. Perché il futuro della città viene deciso proprio oggi, dipende dalle scelte prese nella difficile fase della ricostruzione. Durante la quale – sostiene De Lucia - molti errori sono stati fatti.
E se per descrivere l’Aquila left compie un viaggio nel futuro, all’interno delle pagine del settimanale ai lettori viene anche offerto un veloce salto nel passato. Insieme, questa volta, a Dario Fo, che racconta - e mostra, coi suoi quadri dal tratto espressionista - l’enigmatica figura di Lucrezia Borgia, messa in scena ne La figlia del papa, l’ultimo libro del premio Nobel. Fo ribalta la versione ufficiale, che descrive la cortigiana rinascimentale come donna dissoluta e violenta. Nel suo libro Lucrezia Borgia diventa invece una vittima di soprusi, una tenace combattente, una geniale governante.
E a una donna è dedicato anche un ampio sfoglio sulla legge 40, la norma del 2004 che ostacola la fecondazione assistita e la ricerca. Si tratta di Filomena Gallo, l’avvocato che coi suoi ricorsi negli ultimi 10 anni ha demolito una norma antiscientifica che ha avuto anche una condanna dalla Corte europea dei diritti dell’Uomo. L’8 aprile la Corte costituzionale è chiamata a pronunciarsi proprio sulla fecondazione assistita, in seguito al suo ricorso. Grazie a lei, forse, il 9 aprile l’Italia diventerà un Paese un po’ più civile.
Infine, left parla di Europa, o meglio della sinistra in Europa. Da Atene a Berlino, viaggio nella gauche che si presenta alle elezioni per Strasburgo dietro la figura del candidato alla presidenza della commissione Alexis Tsipras. Tra nostalgie comuniste e la speranza di far nascere una nuova sinistra continentale. Magari aprendo un dialogo coi cugini del Pse di Schulz.

il Fatto 4.4.14
La polemica Salvatore Settis
“Renzi? Solo democrazia spot e neoliberismo. Così il Pd muore”
Non si può accettare che a incidere così profondamente sulla Carta siano un Parlamento e un premier nominati e non eletti
intervista di Beatrice Borromeo


La riforma di Renzi è contraria alle regole più elementari della democrazia”. Per Salvatore Settis, ex direttore della Scuola Normale di Pisa e firmatario dell’appello di Libertà e Giustizia contro la “svolta autoritaria” di questo governo, il progetto di riforma costituzionale tanto voluto dal premier è “affrettato, disordinato e assolutamente eccessivo”.
Perché, professor Settis?
Non si può accettare che a incidere così profondamente sulla Carta sia un Parlamento di nominati e non di eletti, con un presidente del Consiglio nominato e non eletto.
I giuristi sono divisi: c’è chi dice che la
sentenza della Consulta delegittima il Parlamento e chi sostiene il contrario.
Vero. Ma se possono esserci dubbi dal punto di vista giuridico, non ce ne sono dal punto di vista morale: questo Parlamento non può fare una riforma di questa portata, né tantomeno anteporla alla riforma elettorale, che è la vera urgenza.
Come si spiega il cambio di priorità?
Il problema è che queste decisioni, prese in stanze segrete, non ci sono mai state spiegate. Non ne sappiamo nulla: non mi pare che queste manovre corrispondano alla democrazia parlamentare così com’è prevista dalla nostra Costituzione.
A cosa pensa?
Per esempio al famoso rapporto di J.P. Morgan del 2013, che è stato riportato quasi alla lettera nel progetto di riforma del governo Letta, e ora è citato come un testo sacro da Marzio Breda sul Corriere della Sera.
Anche Renzi secondo lei subisce pressioni esterne?
Non penso mai alle grandi congiure. Però di certo c’è una vulgata neoliberista secondo la quale il mercato è tutto, l’eguaglianza è poco significativa e la libertà è quella dei mercati, non delle persone. E a questa vulgata si sono piegati in molti. Solo che finché si adeguano Berlusconi e Monti mi stupisco ben poco. Ma che ceda il Pd, che dovrebbe rappresentare la sinistra italiana, è incredibile. E porterà a un’ulteriore degrado del partito, e dunque a una nuova emorragia di votanti.
Per la verità, prima di Renzi il Pd era già in agonia.
Ora però la sinistra sta proprio perdendo la sua anima. Si sta consegnando a un neoliberismo sfrenato, presentato come se fosse l’unica teoria economica possibile, l’unica interpretazione possibile del mondo. Come se non fosse possibile, per esempio, mettere l’eguaglianza dei cittadini prima della libertà dei mercati. E poi Renzi sta patteggiando questa riforma con Berlusconi.
L’ex Cavaliere è stato anche ricevuto dal capo dello Stato.
Se Berlusconi ha proposto di appoggiare le riforme in cambio di qualcosa e Napolitano l’ha mandato al diavolo, allora l’incontro è stato positivo. Altrimenti ci sarebbe da preoccuparsi.
Renzi sarà il cavallo di Troia di questo neoliberismo nella sinistra?
Non so quanto ne sia consapevole. Certamente l’unico elemento chiaro del suo stile di governo è la fretta. Dovrebbe prima spiegarci quale è il suo traguardo e poi come vuole arrivarci. Non basta solo la parola “riforma”, che può contenere tutto. Anche abolire la democrazia sarebbe una riforma. E non credo che il Pd voglia questo.
Il nostro sistema bicamerale però è farraginoso e costa parecchio, lo lascerebbe inalterato?
Credo che vada mantenuto, ma con delle correzioni. Che non sono certo quelle delineate da questo governo. Il Senato deve essere elettivo, ma il numero dei suoi membri si può notevolmente ridurre. Se gli Stati Uniti hanno solo 100 senatori possiamo tagliare anche noi, no? Usano questa foglia di fico dei costi, che è popolare, per coprire manovre più gravi. Quanto alle competenze, non è affatto difficile immaginare un bicameralismo meno perfetto di quello odierno.
In più il Senato, come ci spiega il giurista Gianluigi Pellegrino, manterrebbe in realtà un peso significativo, rendendo ancora più confuso l’iter legislativo.
Giudizio che conferma la mia impressione: questa è una riforma pretestuosa, disordinata, superficiale. Quello che cerca il premier è l’effetto annuncio, il titolone sui giornali: “Renzi rottama il Senato”. Lui punta a una democrazia spot, a una democrazia degli slogan. Se il premier sostiene che la Camera alta non è più elettiva, ma doppiamente nominata, allora significa che ha veramente perso il senso di che cosa voglia dire “democrazia”.
La infastidisce che i nuovi membri saranno presidenti di Regione e sindaci?
Mi pare una concessione volgare agli slogan leghisti secondo i quali il Senato dev’essere la Camera delle autonomie, cioè l’anticamera dei secessionismi. È inutile festeggiare i 150 anni dell’Unità d’Italia se poi i nostri figli rischiano di non celebrare il 200esimo compleanno.
Renzi le risponderebbe: ho giurato sulla Costituzione, non sui professoroni.
Mi auguro che l’abbia anche letta, la Costituzione, oltre che giurarci sopra. Perché, per esempio, ha detto che il suo è un “governo costituente”. Nella Carta non esiste nulla di simile. Eviti le battute sugli intellettuali, e soprattutto le bestemmie contro la Costituzione.

Corriere 4.4.14
Matteo Renzi lo desiderava da quando è arrivato a Palazzo Chigi
Udienza privata con la famiglia
Prima volta del premier da Francesco
di Gian Guido Vecchi


CITTÀ DEL VATICANO — Matteo Renzi lo desiderava da quando è arrivato a Palazzo Chigi, di recente sembrava fatta ma poi l’appuntamento era stato rinviato. E ora pare proprio sia arrivato il momento: il premier sarà ricevuto oggi in udienza privata da Papa Francesco, probabilmente nel pomeriggio. La notizia filtrata da parte italiana non trova conferme né alcun tipo di commento Oltretevere, e del resto non potrebbe essere altrimenti. Non si tratta di un incontro ufficiale — anche per quello, come è normale con tutti i presidenti del Consiglio italiani, verrà il momento — ma di una visita privata chiesta da Renzi (dovrebbe arrivare con la famiglia) che non compare nel fittissimo programma quotidiano del Papa.
È il primo incontro del premier con Francesco, anche se in questi casi in Vaticano si tende a non dare alcun particolare significato politico all’appuntamento. Che il Papa riceva il presidente del Consiglio rientra nei buoni rapporti istituzionali tra le due sponde del Tevere. Nelle sue ultime ore da premier, il 19 febbraio, Enrico Letta ha ricevuto la telefonata «affettuosa» del pontefice, che aveva incontrato in forma ufficiale a luglio dell’anno scorso, in Vaticano, e poi in ottobre ad Assisi. Di là dalla cordialità dei rapporti, peraltro, Francesco è attento a mantenere una certa distanza — la distinzione evangelica tra Cesare e Dio —, e già da arcivescovo di Buenos Aires spiegava che per la Chiesa «l’importante è non mettersi nella politica di parte, ma nella grande politica che nasce dai Comandamenti e dal Vangelo». Dall’elezione non si è stancato di mettere in guardia vescovi e gerarchie dalla «mondanità spirituale» e dalle «seduzioni» del potere.
La settimana scorsa, dopo l’omelia ai parlamentari sui «corrotti» e i «sepolcri imbiancati» di cui parla Gesù, «uomini di buone maniere, ma di cattive abitudini», Francesco era rimasto seduto al momento dell’Eucaristia, lasciando che fossero gli altri sacerdoti presenti a dare la comunione. Non è stato un trattamento riservato in particolare ai politici italiani. Da arcivescovo di Buenos Aires, Bergoglio lo spiegava già nel libro (Sobre el cielo y la tierra , 2010)scritto assieme all’amico rabbino Abraham Skorka, sempre a proposito degli ipocriti che «si spacciano per cattolici ma hanno comportamenti indecenti di cui non si pentono»: «In alcune occasioni non dò la comunione, rimango indietro e lascio che siano gli assistenti a farlo, perché non voglio che queste persone si avvicinino a me per la foto».
Matteo Renzi quel giorno non c’era, il suo primo incontro con il pontefice avviene ora in forma «privata». Rispetto al nuovo governo italiano, il Vaticano si è espresso il 18 febbraio, durante la cerimonia tradizionale per i Patti Lateranensi, con le parole istituzionali e beneauguranti del Segretario di Stato Pietro Parolin: «Il nostro auspicio è che possa realizzare il programma, mi sembra un programma molto impegnativo ma spero che con l’aiuto di Dio ci riesca». La settimana scorsa, alla fine del consiglio permanente della Cei, il segretario generale Nunzio Galantino ha spiegato che è ancora troppo presto, «siamo ai primissimi passi, si tratterebbe di dare un giudizio sulle intenzioni», salvo aggiungere: «Una cosa è oggettivamente importante: ci si muove, si fanno proposte, un recuperato dinamismo che di per sé è un valore».

Corriere 4.4.14
Tsipras: Io e Matteo? In comune solo l’età

«Cosa ho in comune con Renzi? A parte l’età, lui tifa Fiorentina e io tifo Panathinaikos». Lo ha detto il leader del partito greco Syriza, Alexis Tsipras, candidato per la sinistra europea a presidente della Commissione Ue con la lista «L’altra Europa». «La sinistra deve stare a sinistra. Per Hollande combattere la destra significa spostarsi ancora più a destra ma così la socialdemocrazia finisce per assomigliare troppo alla destra — ha spiegato Tsipras —. A Renzi quindi dico di capire bene questa cosa e imparare a distinguere tra le diverse sinistre se vuole avere successo».

La Stampa 4.4.14
Operazione “occupy tv”, il premier imperversa su tutti i teleschermi
Compare in video quasi 5 ore al giorno
di Mattia Feltri

qui

l’Unità 4.4.14
Alain Touraine: la sinistra cambi o sarà travolta
di Umberto De Giovannangeli


«La cosa peggiore da fare sarebbe minimizzare la portata di ciò che è avvenuto col voto delle amministrative- Le cose vanno chiamate con il loro nome. E il nome più appropriato per dar conto di ciò che è avvenuto a sinistra è la raclée (batosta, ndr). Questa è la dimensione dello tsunami che si è abbattuto sul Partito socialista. Quel risultato non ha nulla di congiunturale, circoscrivibile a un atto di ribellione episodico. Perché alla base del raclée è l’assenza di pensiero politico da parte del Ps. Ed ora vedo che invece di affrontare di petto, e con coraggio, il tema di come riempire questo vuoto, si preferisce assecondare gli umori dell’opinione pubblica, mettendo in campo l’uomo che si pensa possa intercettarli massivamente: Manuel Valls». La raclée socialista in Francia analizzata da uno dei più grandi sociologi europei: Alain Touraine, direttore di ricerca all’École des hautes études en sciences sociales di Parigi. «Alla base di questa disfatta - rimarca Touraine - c’è la sottovalutazione della devastazione sociale prodotta dalla crisi e dalle ricette neoliberiste. C’è l’incapacità di prospettare e praticare una idea nuova di crescita da parte socialista. La sinistra può tornare ad essere attraente, e vincente, se saprà realizzare il tema di una nuova modernità, un nuovo progetto di sviluppo all’altezza del mercato globale e dei problemi dell’ambiente. La sinistra perde se resta legata agli anni Ottanta e Novanta». ProfessorTourainecomeleggereladisfattasocialistaalleelezionimunicipali?
«Di certo non come un fatto episodico. Non è stato un incidente di percorso. E nemmeno, o non solo, il frutto di un giudizio negativo, profondamente negativo, sui due anni di “non” presidenza Hollande. C’è qualcosa di più su cui varrebbe la pena di riflettere con una buona dose di coraggio e di capacità autocritica a da parte della sinistra, politica e intellettuale...».
A cosa si riferisce?
«Al vuoto di pensiero politico, di visione del Ps. Un vuoto che ci si è illusi di riempire abusando di categorie concettuali vetuste, quelle usate per 100 anni e che oggi non aiutano più a capire dove va il mondo. La sinistra esiste se è capace di rinnovarsi, altrimenti è destinate a recitare stancamente un copione che non attira più nessuno, soprattutto le nuove generazioni. Molto si è discusso del successo del Front National, ma il dato più inquietante per il Ps è stato quello dell’astensionismo che lo ha colpito pesantemente, un astensionismo fortissimo nei ceti popolari e tra i giovani privati di futuro. Ed ora l’onda lunga di questo distacco può estendersi al voto delle europee, tanto più che le europee sono le uniche elezioni in Francia fondate sul proporzionale e questo può favorire la frammentazione del voto».
In un nostro precedente colloquio dedicato alla vittoria di Francois Hollande nelle presidenziali, lei aveva sostenuto che la grande sfida di Hollande presidente era quella di costruire una Europa «sociale », oltre il monetarismo. È ancora di questo avviso?
«Sulla portata della sfida sì, resto di quell’idea, ma purtroppo devo constatare, e in questo la débacle elettorale nelle amministrative ne é una tangibile conferma, che nei suoi primi due anni all’Eliseo Hollande non è stato all’altezza delle aspettative che lui stesso aveva evocato. Soprattutto su un fronte, che reputo decisivo: quello di una nuova politica economica capace di praticare l’obiettivo della crescita. Una crescita non solo quantitativa ma qualitativa. Su questo terreno faccio difficoltà a vedere segnali incoraggianti. Semplicemente, non ve ne sono stati».
Il messaggio che lei ha lanciato e sostanziato nei suoi lavori più recenti, è:sinistra, riparti dalle idee. Ed a una visione nuova, moderna, della società. Qual è il punto di lettura innovativo che lei suggerisce?
«Il discorso è più vasto e riguarda l’idea stessa di democrazia. Occorre costituire delle società che riconoscano come fondamentali i diritti, diritti che sono al di sopra delle leggi, innovando, modernizzandola, l’idea stessa di Democrazia. La lotta per l’affermazione sociale di questi diritti deve fronteggiare il predominio del capitale finanziario, che è fondato su logiche speculative contrarie a ogni diritto, ribadendo che è la democrazia, che trasforma gli individui in cittadini responsabili, la condizione prima del rilancio economico e sociale. E questa battaglia di civiltà si gioca sempre più a livello europeo».
In una recente intervista a l’Unità, il candidato del Pse Martin Schulz alla presidenza della Commissione europea, ha affermato che la priorità assoluta della sinistra deve essere «lavoro, lavoro, ancora lavoro». «Questa priorità va praticata e non solo evocata, e innervata in una visione innovativa della crescita, consapevoli che l’aumento delle disuguaglianze sociali rappresenta attualmente la più seria minaccia alla stabilità e alla coesione dell’Unione europea e dei suoi membri ».
Quanto ha pesato l’incapacità della sinistra di innovare le sue categorie politiche interpretative rispetto allo spiazzamento registrato con l’affermazione del Front National di Marine Le Pen?
«Ha pesato moltissimo. Lungi da me sottovalutare la pericolosità dell’affermazione e del radicamento del Front National, se ha saputo cavalcare un diffuso malessere e una crescente rabbia sociale. Quello che sostengo è che questa affermazione non può essere spiegata, e combattuta, utilizzando la vecchia categoria della destra radicale, perché se così fosse non si capirebbe perché l’Fn abbia conquistato consensi nel sud della Francia, che non ha tradizioni di destra radicale, o tra settori sociali, pensionati, operai, che in passato hanno rappresentato un forte serbatoio elettorale per la gauche».

l’Unità 4.4.14
Non basta agitare lo spettro del populismo
di Michele Ciliberto


Sono interessanti le reazioni che anche a livello giornalistico stanno suscitando i risultati delle elezioni francesi con la forte affermazione della destra gollista e del fronte nazionale di Le Pen.
Tanto tuonò che piovve, si potrebbe dire. Ma questa esplosione viene da molto lontano, ed è stato grave non essere riusciti a individuarla e contrastarla. Eppure è da tempo che è in corso una crisi radicale delle forme della democrazia rappresentativa, e della sovranità moderna, oltre che in Italia, in Europa – anche se molti commentatori hanno ritenuto che il berlusconismo fosse una patologia specificamente italiana. Certo, in questo fenomeno si sono riversati elementi propri della nostra storia, ma in esso si è espressa una crisi generale della rappresentanza democratica che ha riguardato, e riguarda, tutto il nostro continente. Su questo punto, che è cruciale, le elezioni francesi fanno chiarezza. Da qui si deve dunque partire se si vuole cominciare a guardare avanti, e si vuole rimettere in moto una proposta di carattere riformatore, cioè di sinistra. Ma per questo occorre fermare alcuni punti e cercare di usare concetti precisi e non qualificazioni generiche come quella di «populismo», oggi di moda su tutte le gazzette.
La crisi viene da lontano, dagli ultimi decenni del secolo scorso; si acuisce e destremizza nell’ultimo decennio sul piano economico e sociale, con una disoccupazione senza precedenti; si intreccia al declino e al collasso delle forme di organizzazione politiche e sindacali di massa tipiche del Novecento, a destra e a sinistra; si esprime con la liquefazione dei tradizionali blocchi sociali e la formazione di un magma senza stabili punti di aggregazione, evidente nella scomposizione di schieramenti elettorali che sembravano eterni; spezza le barriere della storia dell’Europa generando una profonda, e mai vista, trasformazione della «composizione demografica», da cui sta scaturendo una nuova «struttura» dell’umanità europea, con una vasta e incontrollata, proliferazione di modelli politici, civili, antropologici, religiosi. Un vero e proprio sconvolgimento di identità individuali e collettive - paragonabile, per gli effetti che sta avendo, alla guerra dei Trent’anni - che coinvolge milioni di individui, i quali precipitano nel risentimento, nel ribellismo, in una frustrazione che può generare violenza, e in un rifiuto radicale degli istituti della rappresentanza politica, considerati come un ostacolo degenerato e corrotto di cui liberarsi per far rifluire la vita, le energie originarie. Sono tutti fenomeni materiali, che si annodano e si potenziano reciprocamente, generando una situazione che, non arginata e governata, può avere esiti imprevedibili.
Per cercare di determinare questo gorgo - che ha infranto il nesso tra Stato, nazione e territorio, e sta dissolvendo lo Stato europeo moderno- si sono utilizzati vari termini e concetti: prima, e a lungo, globalizzazione; poi populismo - un’altra delle tante parole-totem che infestano il nostro tempo. A destra e a sinistra, è questo il termine utilizzato per rappresentare il carattere essenziale di questo periodo storico: la rottura delle vecchie forme della rappresentanza; la crisi del nesso tra Stato, nazione, territorio; la fine delle «strutture» della politica moderna; il tramonto dell’antica Europa; il risentimento e il ribellismo impermeabili alle vecchie forme della politica e della rappresentanza democratica... Per la sua evidente, ed intrinseca, genericità, populismo è diventato il termine, alla fine, più adatto per descrivere varietà, novità e indeterminatezza dei processi in corso. In questo senso, più che la propria forza, esso si è affermato per l’impotenza delle tradizionali categorie storico- politiche incapaci di afferrare gli sconvolgimenti materiali in atto. Per quanto teoricamente debole, generico, il populismo ha, dalla sua, la forza simbolica di un quadro di Goya: rappresenta, e interpreta, il «popolo» - concetto altrettanto generico - che si libera dalle vecchie «forme» per ridiventare padrone di se stesso e del proprio destino, occupando, e devastando, i palazzi, i luoghi, i simboli del potere.
Sta qui in effetti proprio il nucleo di verità del populismo: segnala con efficacia simbolica quello che è oggi il problema di fondo, ossia la riapertura delle fonti della sovranità, dopo la crisi della rappresentanza democratica moderna, opponendosi al paradigma rappresentativo, cui sostituisce quello della delega rovesciando tutte le gerarchie sociali e i «valori» consolidati . Risiede qui la sua forza espansiva. Ma qui sta anche il punto di massima responsabilità delle forze riformatrici e di sinistra. Esse non hanno compreso il declino del paradigma democratico classico e la necessità di ripensare a un nuovo livello il rapporto tra partecipazione e decisione, elaborando forme capaci di andare «oltre il Novecento» (uso una formula). In breve: non hanno compreso che era, ed è, tornato in primo piano il problema delle fonti, dei soggetti e delle forme del potere. Sono scese, con le primarie, sul terreno della crisi ma senza afferrarne le radici e coglierne l’ampiezza, ed hanno fatto proprie, a sinistra, forme «populistiche», ponendo, a questo livello, anche il problema della leadership. Una via brevis, si potrebbe dire; una scelta difensiva e anche comprensibile, in questa fase. Ma, certo, non sufficiente: bisogna misurarsi con i punti più sensibili delle trasformazioni, a cominciare da quelle che stanno avvenendo in Europa, seguendo strade diverse da quelle attuali. Mi esprimo in modo sommario eme ne scuso: la «nuova» Europa non può essere pensata, e realizzata, come una sorta di macro-Stato moderno, con capitale a Berlino, se vuole mettere salde radici nei popoli europei, nelle nuove identità che stanno nascendo. Non è possibile pensare di costruire una «nuova» storia con materiali «vecchi», finiti: i principi della statualità moderna sono tutti in crisi, in via di dissoluzione.
I nostri non sono tempi ordinari: occorre dunque, sia in Italia che in Europa, intervenire con rapidità nei punti di maggiore sofferenza come sta facendo il nuovo governo italiano nel suo campo e con gli strumenti a disposizione sforzandosi di dare speranze alla Nazione e contenendo in questo modo i movimenti cosiddetti «populistici». Per riprendere una espressione una volta di moda, sta cercando di cambiare il motore dell’auto mentre corre. Lavoro rischioso, ma indispensabile, e che è perciò insensato demonizzare. Ma non basta. Bisogna cominciare a sciogliere i nodi di fondo, ripensando, in primo luogo, il problema della democrazia: chi sono i nuovi soggetti della sovranità; quali le sue strutture politiche e organizzative; con quali forme istituzionali si costituisce il rapporto tra sovranità, democrazia e politica. E per far questo il termine e il concetto di populismo non sono sufficienti, anzi rischiano di confonderci le idee.

Repubblica 4.4.14
La riforma e le garanzie
di Andrea Manzella



DATA la fragilità delle cose italiane, le opposte tensioni sono sempre vive. Avviene anche per la riforma del Senato. C’è la posizione di chi dice che non se ne deve fare nulla perché l’attuale Parlamento sarebbe ormai delegittimato a fare e a durare. E c’è la posizione di chi dice che la riforma partorita dalla testa del governo si deve accettare a scatola chiusa: perché ogni obiezione significa sabotaggio o conservazione contro il “nuovo che avanza (di corsa)”. Sono due posizioni insostenibili.
Che questo Parlamento, benché eletto con legge viziata, possa continuare a lavorare sino a nuove elezioni è stato definitivamente affermato dalla Corte costituzionale. Ma anche la contraria posizione del “tutto e subito” è infondata.
La riforma del Senato è necessaria e popolarmente sentita per un punto fisso che convince tutti. È oramai insopportabile per il Paese il rischio di una paralisi politica a causa di maggioranze diverse nelle due Camere.
Ma bisogna tener conto che nell’architettura della Costituzione il Senato non è solo una istituzione politica, è anche - e soprattutto - un istituto di garanzia. Ancora più indispensabile oggi che la nuova legge elettorale crea una immediata maggioranza assoluta alla Camera. E con un assolutismo parlamentare senza argini, la Costituzione diventa zoppa.
Sotto il profilo politico, l’essenziale ragione di una seconda Camera è l’integrazione della funzione di rappresentanza generale, svolta dalla prima assemblea. Nel disegno del governo, questa integrazione dovrebbe essere svolta da un doppione di rappresentanze territoriali, in un circuito chiuso in se stesso. Ma già nella lontana (non solo nel tempo) Assemblea Costituente si guardava alla “base regionale” non come organizzazione istituzionale ma come luogo di riferimento del profondo pluralismo sociale italiano. Oggi la situazione è ancora più complicata. Non a caso le nuove forme-partito che sono verticistiche e personalistiche a livello centrale, cercano poi, per sopravvivere, di incrociare i movimenti locali. Il dubbio è se questo vitalismo possa essere intercettato politicamente attraverso la duplicazione di una rappresentanza regionale che ha mostrato tutti i suoi limiti. È una scommessa in controtendenza rispetto al divieto di cumulo dei mandati.
La scelta del governo all’interno della organizzazione regionale, si può spiegare con l’ansia di prevenire i sempre più frequenti conflitti di competenza Stato-regione. Sotto il profilo della garanzia, poi, anche con un Senato così “derivato” è discutibile che, secondo la proposta governativa, non ci sia tutela di immunità personali contro detenzioni e intercettazioni. Ma è ancora più preoccupante che i senatori regionali - pur approvando leggi costituzionali, pur partecipando a procedure europee e alla elezione del presidente della Repubblica, pur essendo i naturali titolari della clausola di salvaguardia dell’unità repubblicana - non rappresentino più la Nazione. Si deve ancora osservare che ogni deficit di garanzia nel funzionamento della Camera dei deputati comporta, di per sé, un deterioramento della capacità garantista del Senato. Ammettere perciò che la stessa maggioranza assoluta, già elettoralmente assicurata, possa approvare da sola il regolamento della Camera significa aggravarvi il rischio di assolutismo penalizzando ancor di più il ruolo del Senato. Un Senato a cui, per altro si nega il potere di inchiesta.
Ma l’innovazione che più mette sotto stress il profilo di garanzia dell’intero sistema parlamentare è certamente la introduzione del “voto bloccato”. La possibilità cioè del governo di ottenere che un suo disegno di legge sia posto in votazione, senza modifiche, trascorso il tempo (massimo) di 60 giorni dalla iscrizione all’ordine del giorno. Chi vince le elezioni ha il diritto di governare senza ostruzionismi aperti o nascosti. Ma perché vi sia equilibrio costituzionale è necessario allora che una minoranza parlamentare abbia il diritto, prima della promulgazione, di chiedere un rapido giudizio alla Corte costituzionale sulla legittimità di quello che la Camera ha approvato. Così avviene dappertutto in Europa e su questo punto non ci possiamo permettere diversità.
Insomma, per quanto radicale possa essere questa riforma, valenza politica e valenza garantista devono andare di pari passo. Non servono opposti estremismi. Occorre discutere di queste cose concrete per rendere accettabile a tutti una riforma necessaria per tutti.

Corriere 4.4.14
Se il culto del «nuovo e subito» rischia di scontrarsi con la realtà
di Giuseppe De Rita


Sono spesso accusato, e talvolta mi piace darne conferma, di coltivare il continuismo, cioè il valore dei processi sociali spontanei e di lunga durata. Ed è comprensibile che mi venga in questi giorni facile la domanda di come un continuista possa vivere la fiammata di ambiziosa intenzionalità che circola nella classe dirigente italiana: quella che spinge il presidente Renzi a «rivoluzionare l’Italia»; quella dei radicali italiani che esigono l’amnistia; quella di Barbara Berlusconi che chiede potere nel partito oltre che nella squadra di calcio; e non ultima quella del Papa che vuole non solo la riforma della Chiesa, ma il rinnovamento del modo stesso di vivere la fede.
Di fronte a questa fiammata d’intenzioni, fra l’altro circondata da una certa empatia d’opinione pubblica, chi si pensa continuista potrebbe o convertirsi, citando nobilmente la convinzione di Bonhoeffer che «occorre tornare alla virtù medievale della intenzionalità»; o dar spazio a un silenzioso malessere individuale, aspettando che l’onda passi; o magari prender nervosamente armi contro un possibile mare di guai. Non riuscirebbe comunque a garantire un’adeguata interpretazione di quel che sta avvenendo.
È meglio allora partire dai fondamentali, e più precisamente dal capire il favore collettivo che circonda chi esprime oggi una forte dose d’intenzionalità. In esso opera naturalmente la stanchezza e quasi il rifiuto per i meccanismi di gerontocrazia, di casta, di corruzione, di furbizia corporativa, che hanno ammorbato gli ultimi decenni della vita pubblica. Ma ciò non può bastare a spiegare l’accondiscendenza generalizzata a chi propone radicali cambiamenti; la si può spiegare solo se si avverte che, nel sentire comune, circola in questa settimana una sorta di disperata speranza che gli ambiziosi «ce la facciano», anche a prezzo di qualche fuga in avanti di ungarettiana rimembranza («morire come l’allodola assetata sul miraggio, ma non vivere di lamento come un cardellino accecato»).
L’intenzionalità risponde di fatto a una profonda attesa collettiva e può quindi esprimersi con forza; e a ciò provvede esaltando i due suoi fondamentali corollari strumentali, la determinazione e la rapidità (negli impegni come nelle decisioni), senza il cui concorso ogni politica intenzionale può impaludarsi in difficoltà e trappole; e addirittura può sfocarsi e regredire verso una preferenza a vivere di lamento (magari rancoroso o indignato) che circola da tempo nei recessi antropologici del Paese. Non c’è chi non veda, a questo punto, che se tutto dipende dalla determinazione e dalla rapidità, occorre avere occhio al fatto che queste due opzioni sono essenziali ma fragili. È fragile la determinazione, perché scivola spesso in un volontarismo testardo e autoreferente, senza una dialettica e senza addentellati alla realtà e ai processi sociali di una società complessa (ad esempio i processi di rappresentanza elettorale o di rappresentanza degli interessi intermedi); ed è altrettanto fragile la rapidità, perché rende sempre a rischio e improbabile il governo delle cose, nei tempi in cui le cose emergono ed evolvono.
I prossimi mesi quindi si giuocheranno verosimilmente non tanto sulla previsione di quanto l’intenzionalità regga e le sue ambizioni si realizzino, ma piuttosto sull’equilibrio fra determinazione volontaristica e complessità sociale, da una parte, e fra rapidità e senso dei tempi delle cose, dall’altra. Senza scompensi e squilibri, c’è da sperare, altrimenti rischiamo il ritorno della contrapposizione fra continuismo e culto del nuovo, che non ha portato troppo bene al Paese negli ultimi decenni.

l’Unità 4.4.14
Vannino Chiti:«Nessuna trappola, ma il Senato deve essere eletto»
«L’impianto maggioritario della legge elettorale per la Camera richiede che i senatori siano scelti dai cittadini. Con il nostro testo i risparmi sono maggiori»
di Andrea Carugati


«Per noi il Senato deve essere di garanzia, e va eletto direttamente dai cittadini. Con una Camera eletta con l’Italicum servono dei contrappesi».
Vannino Chiti, senatore Pd, ex ministro dei Rapporti con il Parlamento del secondo governo Prodi, ieri ha presentato una proposta di legge sulla riforma del Senato insieme ad altri 21 colleghi democratici. Perché questa proposta? Volete fermare il disegno del premier Renzi?
«Di testi ne sono stati presentati diversi, dal governo, dal Pd e da altri partiti. Questa è una riforma costituzionale ,non una legge ordinaria. Una riforma che noi vogliamo fortemente, perché serve al Paese, non solo perché lo propone il governo, che ha il merito indubbio di aver accelerato. Vogliamo confrontarci alla luce del sole, chi pensa a complotti o trappole di solito se ne sta defilato e si manifesta al momento del voto, siamo per un confronto leale».
In quali aspetti la vostra proposta diverge da quella di Renzi?
«Anche nel nostro testo si prevede la fine del bicameralismo paritario, e che per la gran parte delle leggi l’ultima parola spetti alla Camera, tranne che per le riforme costituzionali, le leggi elettorali, ordinamenti dell’Ue, ratifica dei trattati internazionali e diritti civili e politici fondamentali, come ad esempio i temi eticamente sensibili. Nel nostro testo prevediamo 106 senatori, tutti eletti direttamente dai cittadini (6 all’estero) contemporaneamente ai consigli regionali e con il proporzionale, e il dimezzamento dei deputati da 630 a 315. Solo la Camera dà la fiducia ai governi. La differenza fondamentale riguarda l’elezione dei senatori e le competenze più ampie del Senato ».
Voi però mantenete l’indennità per i senatori...
«Nel nostro disegno i costi della politica si abbattono in modo più significativo: ci sono solo 421 parlamentari contro i 630 del ddl del governo. Secondo me le indennità di tutti vanno parificate a quella del sindaco di Roma, e cioè circa 5mila euro netti al mese. Qualunque sia l’indennità dei parlamentari, comunque nella nostra proposta si risparmia rispetto a quella del governo».
Perché insistete per l’elezione diretta?
«Per noi è fondamentale che, in un momento di distacco tra istituzioni e cittadini, la sovranità resti pienamente nelle mani degli elettori, non di collegi composti da sindaci o consiglieri regionali. Questo perché il nuovo Senato, avrà compiti rilevanti, compresa l’elezione del Capo dello Stato».
Dunque non volete i sindaci e i governatori promossi a senatori?
«La sovrapposizione di funzioni e i doppio incarichi non sono una buona cosa. In Francia i doppi ruoli li stanno eliminando, perché dobbiamo adottarli noi? Che senso ha fare del Senato un dopolavoro per sindaci? Fare bene due mestieri non è semplice. E poi promuovendo senatori sindaci e governatori rischiamo di avere pochissime donne, e anche una sottorappresentazione di alcune forze politiche importanti come il M5S: se il nuovo Senato si facesse oggi, i governatori e i sindaci dei capoluoghi sono quasi tutti uomini, del Pd o di Forza Italia. Ma un Senato di garanzia deve essere scelto col proporzionale, possibilmente con le preferenze. Le forze nuove che nascono devono poter entrare in Parlamento, altrimenti diventano anti-sistema».
Condivide l’allarme di Rodotà per i rischi di squilibrare il sistema o addirittura di autoritarismo?
«Con una Camera eletta col maggioritario, cosa per me giusta, la seconda deve riequilibrare e avere l’autorevolezza dovuta. Non parlerei di autoritarismo, ma di un rischio di squilibrio e accentramento dei poteri».
Come vi muoverete?
«Ci confronteremo col governo, con il gruppo Pd e con gli altri. Quando ci sarà un testo base valuteremo se proporre emendamenti. Al governo chiediamo di non aver paura della discussione, ci sono molti punti su cui l’intesa è possibile. Non credo che l’idea di dimezzare i deputati possa essere respinta dal governo. E non si può lasciare la bandiera dell’elezione diretta nelle mani della destra e del M5S: per il Pd sarebbe un autogol».
Sull’elezione diretta andrete fino in fondo?
«Discuteremo. Su una legge di questo tipo non è previsto il voto di fiducia. Auspico convergenze ampie e trasversali. La Costituzione non appartiene a un governo o ad una maggioranza».

Corriere 4.4.14
Le contromisure del segretario: c’è anche il referendum confermativo
Il premier avverte i partiti, da FI al Pd: senza riforme meglio le elezioni
di Maria Teresa Meli


ROMA — «Bisogna accelerare»: il premier che corre vuole stringere i tempi della riforma del Senato. Per questa ragione in un colloquio con Verdini, domenica scorsa, aveva fissato l’appuntamento di ieri a Palazzo Chigi: «La credibilità del mio governo dipende dalle promesse mantenute. La gente ci giudicherà per i risultati, non per le chiacchiere che facciamo e che ha sempre fatto la politica». Per questo il premier annuncia che andrà «avanti come un rullo compressore» su tutti i temi che gli stanno a cuore.
Sempre per questo motivo, Renzi è disposto a fare qualche concessione (minima, come la cancellazione dei 21 senatori di nomina presidenziale), ma con «l’impianto sostanziale che deve restare il medesimo», e intavolare (come ha fatto appunto ieri) un confronto sull’Italicum con FI. Su un punto, però, il premier è irremovibile: «Noi non facciamo confusione tra le riforme e le questioni giudiziarie di Berlusconi».
Ma i tempi sono quelli che sono e il 25 maggio è vicino. Entro quella data Renzi deve portare a casa le sue riforme. Sondaggi alla mano, non lo preoccupano le contrarietà dei Rodotà e degli Zagrebelsky e le influenze che possono avere su una fetta dei senatori del Pd: «Sono i soliti che tentano di bloccarci, ma non ci riusciranno, la gente sta con noi ed è stanca dei dibattiti infiniti e dei rinvii». Anche perché persino lo stesso Pippo Civati, che è pronto a dare battaglia, è pure pronto a fermarsi di fronte alle decisioni ufficiali del Pd in materia di riforma del Senato. D’altra parte, Renzi lo ha ripetuto più volte e in più occasioni: «Credo che i gruppi parlamentari seguiranno le decisioni prese a maggioranza e le indicazioni che sono venute dagli elettori delle primarie».
Piuttosto ciò che può impensierire il premier è l’atteggiamento di Berlusconi. «L’accordo con Forza Italia sulle riforme tiene», sosteneva anche ieri, dopo l’incontro con Letta e Verdini. Ma la possibilità che FI, allo sbando, scarti può sempre esserci. E a quel punto? A quel punto, come Renzi ha spiegato anche agli ambasciatori dell’ex Cavaliere, «si va avanti con chi ci sta». A maggioranza semplice. Tanto «un referendum confermativo» non potrebbe non ribadire che «queste riforme sono in sintonia con quello che pensa la gente». Come a dire: un referendum del genere converrebbe a me mentre sancirebbe la sconfitta di Berlusconi.
Senza contare che, per quanto non venga considerata come ipotesi subordinata, per convincere Forza Italia c’è sempre l’ultima spiaggia, quella delle elezioni anticipate in nome della battaglia alla palude che non consente di fare le riforme. Ed è chiaro che questo scenario a un Berlusconi in crisi di consensi non può che risultare sgradito. Peggio, potrebbe essere per lui un incubo. Ma è un’ipotesi che Renzi al momento non prende nemmeno in considerazione perché è convinto che il leader di FI «non potrà sottrarsi e tornare sui suoi passi, rispetto agli accordi presi». E comunque, Renzi non ha dubbi: «Non cederò al potere di interdizione dei partititi». Del suo, di FI e di quello degli alleati di governo. Il confronto va bene, il dialogo anche. Come è stato sull’Italicum e sul decreto Poletti. Anche se per ottenere questi risultati il presidente del Consiglio sa che si dovrà «giocare sul campo tutto», anche «la mia autorevolezza».
E quella, anche se è stato bene attento a non far mettere il suo nome sul simbolo del partito per queste Europee, Renzi se la giocherà anche sul campo elettorale del 25 maggio. Qui le certezze sono meno granitiche. Perché se è vero che il Pd va benissimo in tutti i sondaggi, è anche vero che le rilevazioni danno il Movimento 5 Stelle in continuo aumento, mentre Forza Italia frena e il Nuovo centrodestra, pure in compagnia di Casini e di altri esponenti moderati, è quotato intorno al 4 per cento.
Insomma, dalle consultazioni potrebbe emergere una fotografia politica dell’Italia molto diversa da quella rappresentata in Parlamento, sia dalla maggioranza che regge il governo che da quella che sostiene le riforme. A meno che... a meno che il Pd non superi il 30 per cento, magari arrivando al 34. Al Nazareno c’è chi sostiene che centrare questo obiettivo non sia impossibile.

La Stampa 4.4.14
Renzi ostenta sicurezza “Forza Italia voterà le riforme”
E avverte gli oppositori: se vado a casa io, ci vanno anche loro
di Fabio Martini


Una volta ancora ci ha pensato Denis Verdini, che per Matteo Renzi ha un debole, a rassicurare il presidente del Consiglio: tranquillo - gli ha detto a tu per tu - perché Silvio Berlusconi non ha alcuna intenzione di rompere. I due, oramai vecchi amici, si sono incontrati a palazzo Chigi e alla fine Renzi ne ha tratto una doppia convinzione: i movimenti di “truppe nemiche” sul fronte di palazzo Madama - decine di senatori riottosi del Pd e di Forza Italia - vanno scrutati con la massima attenzione, ma gli stati maggiori - ecco il punto - non hanno alcuna intenzione di far naufragare il progetto di riforma del Senato, il cardine sul quale Renzi ha collocato tutto il suo “castello” riformatore.
E così ieri sera, quando si è presentato negli studi de “la7” per essere intervistato in diretta da Lilli Gruber, Matteo Renzi ha potuto annunciare la lieta novella: «Denis Verdini non mi ha detto che Berlusconi è preoccupato, spero che FI resti nell’accordo e sono convinto che voterà la riforma del Senato, del Titolo V e l’abolizione del Cnel». E così, il 3 aprile ha finito per diventare un giorno di festa per il governo: in tv Renzi, come di consueto, si è vivacemente complimentato con sé stesso («Si viaggia come un rullo compressore»), ma lo ha fatto in una giornata propizia: in Parlamento è stato dato il via libero definitivo alla cancellazione dei consiglieri provinciali («Oggi abbiamo abolito tremila politici!»), si è capito che l’incontro di due giorni fa di Berlusconi col Capo dello Stato non prelude ad un voltafaccia del Cavaliere ed è sempre più vicino il varo del Def e del provvedimento che darà il via libera all’aumento delle buste paga per i lavoratori dipendenti con un’Irpef sotto i 25.000 euro.
Certo, anche ieri sera Renzi non ha voluto dire quali saranno le coperture in grado di garantire busta paga più pesanti. Il presidente del Consiglio si è limitato ad annunciare: «Martedì prossimo presenteremo il Def, il 15 o il 16 aprile ci sarà il Consiglio dei ministri per sbloccare i denari che servono per il taglio dell’Irpef». Renzi ha detto poco di più, segno che ancora non è stata trovata la “quadra”: «Per il taglio dell’Irpef, la stragrande maggioranza dei denari verrà dalla cosiddetta revisione della spesa». In compenso Renzi è visibilmente infastidito dalla fronda che continua a circondare le sue riforme, tanto è vero che ha liquidato con un certo sprezzo il disegno di legge di riforma del Senato presentato da 22 senatori del Pd, che diverge significativamente da quello del governo: «Quel ddl - ha detto il presidente del Consiglio - non ha alcuna chance di passare né al Senato né alla Camera». Si può presentare il provvedimento più interessante ma se non si hanno voti non passa». 
E, con un tono poco amichevole, ha avvertito i suoi oppositori: «A quelli che dicono “vediamo se ce la fa”, dico con chiarezza: io vado a casa, perché mi sono impegnato a farlo, ma secondo me vanno a casa anche loro». Una battuta anche per Stefano Rodotà che, assieme ad altri, ha visto nel progetto renziano una deriva autoritaria: «Lui, 29 anni fa, propugnava l’abolizione del Senato, però si cambia idea, basta dirlo e comunque le mie idee non sono autoritarie perché lo dice Rodotà». Per Berlusconi solo elogi: «Lui ha fatto una scelta molto importante, quella di stare al tavolo delle riforme e accetta che le regole del gioco siano scritte insieme». All’amministratore delegato dell’Eni Paolo Scaroni che ha contestato il criterio di onorabilità tra i requisiti per le imminenti nomine, Renzi ha risposto così: «È vero, quel criterio non c’è negli altri paesi, ma abbiamo ragione noi a volerlo».

La Stampa 4.4.14
Berlusconi non fa saltare il banco. Prevale il realismo di Verdini e Letta
Dopo l’incontro con Napolitano era tentato di non rispettare gli accordi col premier
di Ugo Magri


Per ricevere conferma che (almeno nell’immediato) il Cavaliere non farà scherzi, e in particolare eviterà di rovesciare il tavolo delle riforme, Renzi ha dovuto attendere l’ora di pranzo, quando da lui si sono presentati in coppia Verdini e Gianni Letta nella loro veste di carabinieri berlusconiani. I due a loro volta erano reduci da un faticosissimo colloquio col «principale», e insomma recavano al premier notizie fresche. Le notizie sono sinteticamente queste: il treno delle riforme procede, sebbene la sera prima Berlusconi fosse sceso dal Colle «incavolato come un picchio» (rivela fonte super-attendibile). 
Napolitano era stato ad ascoltare i suoi sfoghi sulla condanna ingiusta, sulla pena che mortifica un uomo di Stato, sull’umiliazione di essere affidato ai servizi sociali eccetera, senza minimamente battere ciglio. «Un muro di gomma», è come Silvio ha raccontato poi l’atteggiamento del Presidente. Non che Berlusconi gli abbia chiesto espressamente la grazia: pare si sia limitato a rivendicare i propri meriti passati presenti e futuri, sottintendendo che andrebbero contraccambiati con un atto di altrettanta generosità nei suoi confronti (e chi vuole intendere, intenda). Però Napolitano non gli ha dato corda, consigliandogli al massimo quello che già aveva suggerito pubblicamente lo scorso anno, cioè di distaccarsi dalla vita pubblica e di comportarsi con grande sobrietà, in modo da creare le condizioni per un eventuale provvedimento di clemenza che comunque, questo è sicuro, non potrebbe maturare nelle prossime ore. «Ne mancano le condizioni politiche», è stato il succo della riflessione presidenziale.
Dunque Berlusconi sulle prime non l’ha presa bene. Tanto che ieri mattina s’è fatto vivo con un autorevole senatore del suo partito per spingerlo a infilare qualche bastone tra le ruote delle riforme, in particolare a quella del Senato, dove oltre metà del gruppo forzista è pronto a firmare una proposta di Minzolini che fa a pugni con quella governativa. La notte aveva ingigantito gli incubi di Berlusconi, «non ho chiuso occhio» s’è confidato verso mezzogiorno con un amico: e non si sa se sia stata colpa del colloquio «duro e sincero» con Napolitano, oppure di un ginocchio dolorante. Finché da lui, subdorando il peggio, si sono precipitati tra gli altri il consigliere politico Toti, l’avvocato Ghedini, più i due che avevano già da giorni appuntamento con Renzi e volevano sapere «che si fa? andiamo o non andiamo a Palazzo Chigi?». 
Gli hanno fatto notare che, mandando all’aria le riforme, il primo a rimetterci sarebbe stato lui dal momento che Renzi avrebbe marciato lo stesso con una maggioranza risicata, per farsi poi approvare la nuova Costituzione a furor di popolo tramite un referendum confermativo. E così, finalmente, la ragione ha preso il sopravvento sulla «pancia» del Cavaliere. «D’accordo, andate pure da Renzi a trattare sul Senato e sul resto», ha detto sospirando a Letta e a Verdini. 
Intanto i sondaggi di Forza Italia precipitano sotto il 20 per cento. «Lo so, e dipende dal fatto che io non posso andare in televisione a sfogarmi», è la spiegazione offerta a un visitatore allibito, «ma mandarci altri è inutile, tanto che stiamo come stiamo...».

Corriere 4.4.14
Il rapporto ambivalente tra governo e FI non blocca il dialogo
di Massimo Franco


In un momento di incertezza nei rapporti tra Matteo Renzi e Silvio Berlusconi, è rispuntato il vero asse dell’alleanza Palazzo Chigi-Forza Italia: quello che lega il presidente del Consiglio al fiorentino Denis Verdini. Insieme con Gianni Letta, Verdini ieri ha incontrato per oltre un’ora il premier. E il colloquio è servito sia a registrare il sostanziale nulla di fatto ottenuto da Berlusconi nell’udienza della sera precedente al Quirinale sui suoi problemi giudiziari; sia a confermare il patto di collaborazione istituzionale che ha come obiettivi primari la riforma elettorale e quella del Senato. Uno degli effetti immediati è stato quello di sbloccare un lungo conflitto sulla legge che riguarda il voto di scambio.
Improvvisamente, ieri è stato trovato l’accordo, dopo che in precedenza il provvedimento aveva creato scintille tra Pd e FI. E Renzi in tv ha ribadito la propria fiducia nell’impegno berlusconiano. Questo farebbe pensare che il Cavaliere non cederà alla tentazione di sfilarsi, perché ne ricaverebbe soprattutto svantaggi: anche se il suo partito continua a usare due lingue quasi agli antipodi verso il governo. Renato Brunetta, capogruppo alla Camera, grida al golpe dopo l’approvazione della legge per l’abolizione delle Province, presentata dal sottosegretario alla Presidenza, Graziano Delrio.
Non smette di definire Renzi «populista d’accatto», ed i suoi ministri «dilettanti allo sbaraglio». Ma forse è perché teme che la fine delle Province renderà più forte «il partito dei sindaci» di sinistra. Il ministro delle Riforme, Maria Elena Boschi, fa sapere che Berlusconi «ha confermato» l’accordo col premier sul Senato. «Se in FI ci sono posizioni diverse, troveranno una sintesi», prevede. Sono contraddizioni tipiche di un movimento privato della leadership di un tempo; e oscillante tra subalternità a un governo di cui non fa parte, e voglia di opposizione, nel timore di essere imprigionato in un limbo elettoralmente pericoloso. Ma un discorso non diverso vale per il Pd.
Anche nelle file dei Democratici l’atteggiamento verso Renzi è ambivalente. Pochissimi lo attaccano frontalmente. La fronda di chi insiste per un Senato eletto come in passato, tuttavia, sta uscendo allo scoperto. E contraddice uno dei capisaldi sui quali il presidente del Consiglio finora è irremovibile. D’altronde, l’unico modo per depotenziare l’assemblea di Palazzo Madama è di darle una legittimazione indiretta. Vannino Chiti, il senatore del Pd che ha raccolto le firme di ventidue parlamentari e presentato il suo disegno di legge costituzionale, ieri ha protestato: proporre un Senato elettivo non significa «mettersi di traverso». «Renzi non è il verbo» e chi si oppone al progetto del governo di riforma del Senato, afferma la minoranza del Pd, «non è un infedele».
Palazzo Chigi, però, rimane avaro di concessioni nei confronti degli avversari interni. Teme che cedendo anche su un solo punto si apra la strada a modifiche a catena, tali da frustrare la strategia renziana del «rullo compressore» e complicare l’intesa con Berlusconi. Così, il governo ribadisce col ministro Boschi che «per il momento non ci sono spazi» per modificare la posizione sull’elezione dei senatori. E la sponda berlusconiana, almeno puntellata col colloquio Renzi-Verdini, blinda di fatto i contorni della riforma. Rimane da capire che cosa accadrà dal 10 aprile, quando la magistratura deciderà se affidare Berlusconi ai servizi sociali o al carcere domiciliare, in seguito alla sentenza definitiva di condanna. È possibile che proprio in quei giorni il capo di FI cerchi una nuova legittimazione per dimostrare di avere ancora un ruolo, nonostante tutto. Il problema è chi sarà disposto a dargliela.

gli 80 euro promessi da Renzi saranno il tetto massimo dell'elargizione che andrà non a tutti i redditi fino a 25mila ma esclusivamente ai redditi davvero più bassi
La Stampa 4.4.14
Tagli fiscali ottanta euro ma non per tutti
Sgravi a scalare per i redditi dai 25 mila agli 8 mila
di Alessandro Barbera

qui

l’Unità 4.4.14
Camusso attacca Poletti: cooperative legge da rifare
Duro intervento del leader Cgil contro le coop spurie che aggirano regole, contratti e diritti
Il decreto lavoro? «Assurdo dire che c’è poca flessibilità: ci sono aree vicine allo schiavismo»
Cambiare le disposizioni sugli appalti perchè oggi i lavoratori sono le vittime designate
«Anche se non siamo stati ascoltati nelle forme tradizionali, la Cgil sa come farsi sentire»
di Silvia Gigli


Troppe false cooperative nel mondo della logistica e dei trasporti. Troppe regole violate e dumping sulle condizioni di lavoro ai danni dei dipendenti, troppi casi di criminalità organizzata che si insinuano nelle pieghe di una legislazione non più all’altezza. Susanna Camusso non usa la mano leggera. Al X congresso nazionale della Filt Cgil, in corso a Firenze, il segretario della Cgil chiede esplicitamente «una nuova legislazione sulle cooperative». Lo chiede direttamente al ministro del lavoro Giuliano Poletti che, invitato ai lavori del congresso, non è potuto intervenire. Glielo chiede soprattutto perché fino a poche settimane fa Poletti era presidente della Lega nazionale delle cooperative e come, tale, secondo Camusso, avrebbe dovuto vigilare forse un po’ di più sul fenomeno delle coop spurie.
«Ci dispiace che non sia potuto venire - ha esordito -. Ci avrebbe fatto piacere discutere con lui non solo come ministro del welfare ma come ex presidente della Lega delle cooperative. Noi veniamo da una storia comune di mutualismo e di solidarietà e continuiamo a pensare che la cooperazione sia un mondo da salvaguardare che non può confondersi con chi usa il costo del lavoro come unica variabile economica. Questo dovrebbe essere un suo quotidiano cruccio e una battaglia continua ». Ma così a quanto pare non è stato. «Avrei voluto davvero che il mondo della cooperazione fosse stato il primo a firmare il rinnovo del contratto nazionale di lavoro del settore (che è scaduto da sette anni ndr) perché solo il contratto nazionale può davvero garantire i lavoratori - ha continuato Camusso - . Ogni tanto bisogna che sia il sistema ad osare, non si possono lasciare solo i lavoratori a difendere quella grande ricchezza che è il lavoro». Per il segretario Cgil però non è troppo tardi: «serve un cambio di passo, un salto di qualità, ci vuole una nuova legislazione sulle cooperative. Se c’è stato un moltiplicarsi di forme false o spurie che teoricamente danno lavoro ma che non rispettano le regole formali c’è un buco nella legislazione. Chiediamo che sia una delle priorità». Ma Susanna Camusso non esita a ribadire la propria contrarietà, e quella della sua organizzazione, ad una visione del mondo del lavoro che cerca sempre di far profitto ai danni di chi lavora. Il messaggio chiaro e forte è ovviamente rivolto al governo Renzi al quale il segretario Cgil fa sapere, tra gli applausi della sala rossa del Palazzo dei Congressi, che «anche se in questi giorni non siamo ascoltati nelle forme tradizionali, un’organizzazione come la nostra sa come far sentire la propria voce». «Il messaggio che si dà in questi giorni - sintetizza Camusso chiosando le ultime uscite di Palazzo Chigi - è quello di venire a investire in Italia, perché i contratti a termine si possono rinnovare fino a otto volte in tre anni». L’ennesima conferma che un certo tipo di politica vede solo nella precarizzazione portata all’ennesima potenza una via d’uscita alla crisi. Il riferimento è alla recente dichiarazione del premier Renzi che aveva affermato che in Italia c’è «un sistema che manca di flessibilità».
«MI VENGONO I BRIVIDI» «Quando sento dire che il problema è che c’è poca flessibilità mi vengono i brividi - ha ribattuto Camusso - Non c’è un futuro di crescita se non c’è un significativo investimento industriale sulla capacità manifatturiera del Paese e invece in molte categorie cominciamo ad avere delle aree con schiavismo, anche perché tante volte incrociamo situazioni che sono organizzate per caporali, con forme di ricattabilità». Non solo. Non c’è un futuro di crescita se non si cambiano una volta per tutte le regole sugli appalti. «Dobbiamo farci promotori di una proposta di legge che ridefinisca tutto il settore e che metta al riparo il lavoratore dall’esserne l’unica vittima. In qualche caso c’è la netta sensazione che non ci sia un vantaggio imprenditoriale ma solo il vantaggio che se esternalizzi puoi fare un appalto al massimo ribasso». Il settore dei trasporti e della logistica, con il suo mondo imprenditoriale così frammentato e con una grossa fetta di manodopera straniera, spesso priva degli stessi diritti degli altri lavoratori, è un laboratorio interessante per capire i fenomeni della precarizzazione e delle esternalizzazioni. Il lavoro nero non emerge perché alla fine, per quelle due lire che li pagano, ai datori di lavoro conviene assumere. Tanto l’ingaggio è legato all’appalto. Una volta finito, tutti a casa.

l’Unità 4.4.14
Landini: violate le regole. La Cgil: rispetta il voto
di Massimo Franchi


Era partito come un congresso unitario, ma più si avvicina e più si alzano i toni dello scontro interno. Ad un mese dall’assise di Rimini, in Cgil lo scambio di accuse arriva a toccare gli stessi segretari confederali. L’oggetto del contendere sono gli emendamenti, lo strumento scelto lo scorso autunno per dare vita ad un documento unitario sottoscritto in pratica dalla totalità del gruppo dirigente - e che difatti è stato votato dal 97,5 per cento degli iscritti. Il ragionamento fu: evitiamo documenti e liste contrapposte e misuriamoci nelle varie posizioni tematiche sugli emendamenti che ognuno potrà presentare. Corollario a questo ragionamento è la norma inserita nel Regolamento congressuale sottoscritto all’unanimità: l’articolo 11 Punto 17 prevede che tra il voto sugli emendamenti e il numero dei delegati vi sia «un equilibrato rapporto». E ieri proprio su questo punto Maurizio Landini, Domenico Moccia e il segretario confederale (ma leader della componente Lavoro e Società) Nicola Nicolosi hanno denunciato come «il principio democratico dell’equilibrato rapporto non è stato applicato», «è stato violato», «visto che sono pochissimi i delegati eletti al congresso per l’appoggio a questi emendamenti ». I tre poi contestano anche la bocciatura degli emendamenti, specie quello sulle pensioni - che prevedeva la richiesta del ritorno alla pensione con40 anni di contributi e che ha raccolto 390mila voti favorevoli - sostenendo che sia «sbagliato conteggiare i voti palesi rispetto al totale degli aventi diritto e non ai votanti sugli stessi emendamenti». La differenza fra i due bacini (938mila votanti sugli emendamenti contro il milione e 695mila votanti sui documenti) dipende dal fatto che in gran parte delle quasi 50mila assemblee congressuali di base - di un’ora di durata - il voto sugli emendamenti non si è per niente tenuto. L’ultima polemica riguarda la partecipazione al congresso. «La forma congresso non è uno strumento di partecipazione democratica, va cambiata», attacca Landini, mentre Moccia denuncia «le strane percentuali di partecipazione al Sud».
DUELLONICOLOSI-SCUDIERE A rispondere arriva prontamente l’altro segretario confederale –con delega all’organizzazione - Vincenzo Scudiere. Che contesta «l’uso di un metodo insolito di calcolo soprattutto perché esclude i partecipanti al voto congressuale ed è irrispettoso degli iscritti». In merito all’«equilibrato rapporto» previsto dal regolamento congressuale per la formazione della platea dei delegati, Scudiere precisa: «È già in atto dalle assemblee di base in poi e si concluderà con i congressi nazionali di categoria, ma non c’è un automatismo tra voti sugli emendamenti e numero di delegati. In ogni caso, comunque la si metta, gli emendamenti sono stati bocciati. E questo è un fatto democratico indiscutibile». Sul futuro del congresso Scudiere commenta: «Siamo in attesa di sapere se si intende confermare lo spirito unitario, inbase al quale si potranno definire i gruppi dirigenti. Personalmente considero preoccupante l’attivismo di Nicola Nicolosi, che è giustificabile solo in presenza della volontà di candidarsi a leader di una minoranza». Il quale comunque continua «a lavorare per un congresso unitario, obiettivo raggiungibile riconoscendo le diverse sensibilità e mantenendo gli attuali equilibri», spiega Nicolosi. Mentre Landini si tiene aperto «a qualunque soluzione» in vista «di un congresso che ha cambiato natura», non escludendo dunque di dar vita ad un’altra lista, come accaduto in Lombardia.

il Fatto 4.4.14
Fiom sfonda nella base, ma è alla porta
Il 35% è con Landini
Ma i delegati che conteranno al Congresso per la nomina del vertice Cgil li decide Camusso
di Salvatore Cannavò


In queste condizioni il congresso non c’è più, cambia natura”. Maurizio Landini opera l’ennesimo rilancio nello scontro interno alla Cgil alla vigilia del congresso nazionale. Lo fa insieme ad altri dirigenti, Domenico Moccia del credito, Nicola Nicolosi della segreteria nazionale, Gianni Rinaldini, ex segretario Fiom, puntando il dito contro una “crisi democratica preoccupante”. L’accusa alla Cgil è quella di non rispettare il voto degli iscritti e, in particolare, di non far corrispondere agli emendamenti presentati, l’effettiva rappresentanza negli organismi dirigenti.
Al congresso che si concluderà a maggio, infatti, Landini e Camusso hanno presentato lo stesso documento. Ma il segretario della Fiom e altri esponenti critici della Cgil hanno presentato una serie di emendamenti: per riportare l’età pensionabile a 60 anni, per il reddito minimo, per la difesa della contrattazione (anti-Fiat) o sulla democrazia e la rappresentanza. Lo scontro verte sulle modalità di calcolo dei voti. Landini, Moccia e Nicolosi ritengono che il calcolo vada fatto su coloro che effettivamente li hanno votati, circa 900 mila iscritti. Su questa base rivendicano risultati notevoli: 46% sulle pensioni, 34% sulla contrattazione “modello Landini”, 38% sul reddito minimo. La Cgil, invece, basa i suoi calcoli sull’insieme dei votanti che si sono recati alle urne dopo la conclusione delle assemblee di base e dopo lo svolgimento del voto sugli emendamenti. In questo caso la platea sfiora 1,7 milioni di iscritti molti dei quali si sono presentati solo al momento specifico del voto. In questo caso, la percentuale degli emendamenti scende sensibilmente. “Ho presentato un emendamento che ha ottenuto 235 mila voti - dice Moccia - e avrò 3 delegati su mille”. “L’organizzazione della Cgil - rincara Rinaldini - sta formando una platea congressuale scandalosa. C’è il sospetto che vogliano lasciarsi le mani libere per fare chissà cosa ma così si mette a rischio la Cgil”.
PER CONTO DELLA SEGRETERIA replica Vincenzo Scudiere, responsabile organizzativo, che parla di “un metodo strano e insolito di calcolo soprattutto perché esclude i partecipanti al voto congressuale ed è irrispettoso degli iscritti all'organizzazione”. Scudiere, poi, ricorda che “non c’è un automatismo tra voti sugli emendamenti e platea congressuale” e se la prende in particolare con Nicolosi il cui comportamento “è giustificabile solo in presenza della volontà di candidarsi a leader di una minoranza”. Nessuna mediazione, quindi. Gli “emendatari” però si sentono forti. Le loro posizioni hanno avuto risultati notevoli vincendo in Fiom e nella Fisac, ma con esiti importanti nella Flc o nella Funzione pubblica. L’emendamento sulle pensioni, ad esempio, vince in 11 regioni ma viene complessivamente battuto grazie al voto dello Spi e del Sud. L’emendamento più spinoso, quello sulla contrattazione di Landini, vince in Abruzzo, Emilia Romagna, Friuli, Lazio, Trentino, supera il 40% in Lombardia, Piemonte e Toscana.
Dai numeri emerge anche il problema dell’affluenza. Che si ferma al 29,6% degli iscritti (5,7 milioni). Dove il tessuto produttivo è più forte si verifica l’affluenza più bassa. In Emilia ha votato il 20%, in Lombardia il 28. Gli exploit si hanno, invece, al Sud: 51% in Puglia, 45% in Campania, 40% in Calabria. Boom, invece, a Crotone dove ha votato l’82,7% mentre a Reggio Emilia solo il 24,5.

l’Unità 4.4.14
«Investimenti, lavoro, equità»: oggi protesta europea
A Bruxelles manifestazione dei sindacati europei
di Marco Mongiello


Oggi a Bruxelles ci saranno anche i lavoratori italiani a sfilare nel corteo organizzato dai sindacati europei per protestare contro le politiche di austerità. A poche settimane dalle elezioni del 25 maggio la Confederazione dei Sindacati Europei (Ces) ha deciso di riportare i temi sociali al centro del dibattito. «Una nuova strada per l’Europa » è lo slogan della manifestazione scritta sui volantini e rappresentata da una grande freccia che indica la via d’uscita dalla crisi e verso «investimenti, occupazione di qualità ed eguaglianza ».
Nella capitale belga si attendono almeno 40.000 manifestanti provenienti da 21 Paesi europei. Dall’Italia hanno aderito all’evento Cgil, Cisl e Uil. Il corteo attraverserà la città e arriverà nel primo pomeriggio nel parco che costeggia le istituzioni europee e dove a quell’ora i funzionari in giacca e cravatta della Commissione approfittano della pausa pranzo per prendere un po’ di sole primaverile.
Anche a loro i sindacalisti ricorderanno che per milioni di senza lavoro in Europa l’inverno della crisi sembra non finire mai. «Noi nel movimento sindacale non pensiamo che la crisi sia finita - spiegano al Ces - quello che dobbiamo chiederci è chi è fuori dai guai? Il sistema finanziario o le persone?». Nelle settimane scorse la Confederazione dei Sindacati Europei (ETUC nell’acronimo inglese), che rappresenta 85 sigle sindacali provenienti da 36 Paesi, ha approvato un documento in cui chiede ai governi europei un corposo piano di investimenti. Dopo cinque anni di crisi, si legge nella proposta della Ces, «vi è un urgente bisogno di prendere una nuova direzione, per ristabilire la situazione economica e creare posti di lavoro di qualità in un’Europa sociale». Da qui la proposta del sindacato europeo di «avere una prospettiva a più lungo termine » che deve passare attraverso «necessari investimenti massicci per dare alle nostre economie un nuovo inizio, basato sulla crescita sostenibile». Nel dettaglio la Confederazione europea propone «un obiettivo di investimento annuo del 2%del Pil dell’Unione europea per un periodo di dieci anni. Questo avrà l’ulteriore effetto di aumentare gli investimenti privati e di promuovere misure private di modernizzazione su vasta scala. Tali investimenti potrebbero aiutare a costruire una forte base industriale, servizi pubblici di qualità, sistemi pubblici efficienti, con sistemi di welfare inclusivi, ricerca ed istituzioni educative innovative».
In un video postato su Youtube e sul sito del Ces il Segretario generale dei sindacati europei, la francese Bernardette Ségol, spiega le ragioni della manifestazione: «L’austerità non sta funzionando, più di 26 milioni di europei sono senza lavoro, 10 milioni di più rispetto al 2008, 7,5 milioni di giovani non studiano, non lavorano e non seguono corsi di formazione e in 18 su 28 Stati membri dell’Ue i salari sono crollati. In Grecia sono il 23% rispetto a cinque anni fa e 5% in meno in Gran Bretagna». Quindi, conclude Ségol, «l’Europa ha bisogno di una nuova strada e di un ambizioso programma di investimenti per creare posti di lavoro e crescita. Per questo migliaia di sindacalisti provenienti da tutta Europa dimostreranno a Bruxelles. Noi chiediamo al nuovo Parlamento europeo, dopo le elezioni di maggio, e alla nuova Commissione di prendere una nuova strada».
Secondo il responsabile del segretariato Europa della Cgil, Fausto Durante, quella di oggi è un’iniziativa «giusta e importante, da sostenere con l’impegno e la partecipazione attiva di tutti i sindacati europei, affinché i temi dell’Europa sociale e del lavoro siano riportati al centro della discussione ».

l’Unità 4.4.14
Che cosa è successo veramente durante gli «anni di piombo»?
risponde Luigi Cancrini


Ripropongo alcune domande sugli «anni di piombo». Com’è possibile che, in un mondo dominato da Gladio, Cia, P2 etc, si siano potuto costituire organizzazioni tipo Brigate rosse e Prima linea? I pentiti muoiono in carcere. E gli irriducibili dove sono sistemati? MICHELE SCHIAVINO
Un romanzo di Alberto Garlini, La legge dell’odio, ricostruisce in modo a mio avviso molto efficace quello che accadde in quel periodo. Brigate Rosse e Prima Linea erano organizzazioni di estrema sinistra infiltrate e manovrate, come i loro avversari dell’estrema destra, dai servizi segreti. Che usavano le loro follie per organizzare attentati e rapimenti utili ad alimentare un clima di tensione e a eliminare o intimidire i protagonisti di un cambiamento politico in atto nel tempo in cui i successi elettorali del Pci facevano paura all’ortodossia della guerra fredda e dei blocchi contrapposti. Il caso Moro in cui il fanatismo di un gruppo di pazzi venne utilizzato per evitare che i comunisti partecipassero al governo del Paese è esemplare da questo punto di vista. I gruppi eversivi erano tutti infiltrati da agenti dei servizi segreti, d’altra parte, come confessò a me l’ufficiale della Digos che mi avvertiva di un possibile attentato contro la mia persona nel ’79. Senza spiegarmi perché i componenti del gruppo che mi aveva «messo in lista» insieme ad altri (giudici ed esponenti politici) non venivano semplicemente arrestati e solo «sorvegliati». Come accadeva allora in modo sistematico con tutti gli utili idioti dell’estremismo. Viene da qui il «perdonismo» del dopo? Probabilmente sì. A non capirlo o a non volerlo capire sono stati solo gli «irriducibili» che stanno ancora in carcere o che non hanno comunque mai patteggiato con chi li aveva usati e condannati.

il Fatto 4.4.14
Da Cir in giù: l’impero De Benedetti scricchiola
Il gruppo Espresso emette un bond da 100 milioni per pagare i debiti
Le banche creditrici vogliono prendersi l’indebitata Sorgenia
di Andrea Pacini


Dall’energia all’editoria, l’impero dell’Ingegnere comincia a scricchiolare. È questione di ore e poi si conoscerà il destino di Sorgenia che ha accumulato quasi 2 miliardi di debiti. E soprattutto si saprà se Cir, la cassaforte della famiglia di Carlo De Benedetti gestita dal figlio Rodolfo, ne perderà il controllo mentre l'altro socio, l'austriaca Verbund, ha già abbandonato il campo. La holding approverà i risultati del 2013 nel prossimo consiglio di amministrazione del 14 aprile.
INTANTO anche il business editoriale non gira: all’assemblea del 6 aprile il gruppo Espresso chiederà di approvare un 2013 chiuso con un utile netto pari a 3,7 milioni, in calo rispetto ai 21,8 milioni dello scorso anno. Anche il fatturato è sceso del 12,4% su base annua attestandosi a 711,6 milioni mentre il risultato operativo che si è attestato a 31,3 milioni dai 60,4 milioni del 2012. Conti che lasciano a secco di dividendi gli azionisti. Non solo. Il gruppo editoriale è stato costretto a chiedere soldi al mercato con un un prestito convertibile di 100 milioni per rimborsare parzialmente l’obbligazione da 227 milioni che scade nel 2014 e per sostenere le attività di sviluppo dell’azienda.
La partita più calda è comunque quella che si sta giocando sull’energia di Sorgenia dove il braccio di ferro fra De Benedetti, disposto a mettere sul piatto solo 100 milioni, e le banche (che ne chiedono almeno
150) è arrivato all’ultimo round.
Il vertice di mercoledì tra i principali creditori, a fronte dello stallo nel negoziato con Cir, sarebbe servito ad affinare la proposta, che contempla una parziale conversione in azioni dei 600 milioni di debito in eccesso, e a fare il punto sulla raccolta delle adesioni delle 21 banche creditrici. Lo schema prevedrebbe 400 milioni con un aumento di capitale tramite la conversione di debiti e per i restanti 200 un prestito convertibile o convertendo oltre a rifinanziamento delle controllate Sorgenia Power e Sorgenia Puglia e allo sblocco delle linee di credito. Come conseguenza, le partecipazioni di De Benedetti e degli austriaci verrebbero azzerate e i nuovi padroni sarebbero 19 banche. Qualcuno sospetta che le banche stiano forzando la mano per sbloccare il negoziato. E che alla fine trovino il modo di lasciare un’opzione a Cir per prendere parte all’aumento con un importo dal quale dipenderà la quota futura. Di certo gli istituti più esposti con il gruppo energetico sono Mps (sulle cui casse gravano 600 milioni, ovvero un terzo dell'indebitamento totale dell'azienda energetica), Unicredit, Intesa, Ubi, Bpm e il Banco Popolare.
SE LE BANCHE andassero fino in fondo l'azionariato di Sorgenia verrebbe completamente ridisegnato, le banche trasformerebbero i loro crediti in azioni. Un modello rodato che imporrà anche la revisione del governo societario. Non solo. L’accordo sulla ristrutturazione del debito di Sorgenia avrà un impatto sul salvataggio della partecipata Tirreno Power appesa in queste settimane alla decisione
del tribunale di Savona di sospendere l'attività della centrale di Vado Ligure. Per il sistema bancario che si è accorto tardivamente del tracollo, e in particolare per la già acciaccata Mps, non sarebbe di certo un buon affare. I De Benedetti (come è successo nel caso della Carlo Tassara di Romain Zaleski) potrebbero invece evitare il fallimento senza pagare gli errori commessi in passato con investimenti sbagliati e piani industriali troppo ambiziosi. Del resto, dei circa 2 miliardi di euro di valore di Borsa dell’impero (nelle quotate Cofide, Cir, Espresso e Sogefi) solo 200 milioni (un euro su dieci) sono capitali rischiati dal cosiddetto padrone, il resto è messo dagli azionisti di minoranza.
L’esito della partita su Sorgenia è ancora imprevedibile. Ma di certo il capitano della nave ha già la scialuppa di salvataggio. Mentre il suo comandante in seconda è già pronto per saltare a bordo di vascelli più solidi: Monica Mondardini, amministratore delegato di Cir e del gruppo Espresso, si starebbe scaldando da settimane a bordo pista per partecipare al valzer di poltrone che sta per suonare alle Poste o all’Enel.

La Stampa 4.4.14
«Noi, senza specializzazione con un futuro di medici a metà»
I corsi sono in numero insufficiente. «Così non possiamo esercitare»
All’estero, ad esempio in Francia, nessun universitario resta escluso
«Tante parole ma il nostro Paese stronca i sogni dei suoi giovani»
di Lorenza Castagneri


Per anni hanno dedicato la loro vita all’università, non si sono persi una lezione, hanno studiato fin dal primo giorno di corso, fatto tirocini. Un lavoro part-time? Impossibile da conciliare. Per tasse, libri e affitto li hanno sempre aiutati mamma e papà.
E adesso migliaia di giovani medici, laureati di primo livello, potrebbero restare senza lavoro o dover scappare all’estero per avere un futuro in questa professione. «In Italia rischiamo di essere medici a metà. Senza nessuna possibilità di esercitare». Motivo: i contratti di specializzazione non sono sufficienti. 
Quest’anno, a fronte di 9 mila domande di studenti, i posti disponibili potrebbero essere soltanto 3500. Poco più di un terzo. Ma senza specializzazione non si può lavorare all’interno del Sistema sanitario nazionale. «Puoi soltanto fare la guardia medica oppure sostituire qualche medico di base quando va in ferie. Due o tre settimane all’anno. E uno come si mantiene? Di solito questa é una soluzione temporanea in attesa di iniziare la specializzazione» spiega Davide Pianori. Fa parte del comitato Aspiranti specializzandi. Con altri coordinamenti, una decina di giorni fa, ha lanciato una petizione online, «Medici senza futuro», indirizzata, tra gli altri, al ministro della Salute, Beatrice Lorenzin e al capo dello Stato. 
In poche ore, sono arrivate oltre 30 mila firme. I ragazzi chiedono più risorse e una miglior programmazione per l’accesso ai corsi di laurea. Programmazione che finora è stata apparentemente sbagliata o comunque poco lungimirante. 
Negli ultimi anni, i posti per entrare alle facoltà di Medicina italiane sono aumentati: nel 2007 erano 7.300, nel 2013 10.700. A questo incremento non è, però, corrisposto un adeguato numero di posti ai corsi di specializzazione: cicli di studi post-laurea, della durata di cinque anni, durante i quali chi li frequenta approfondisce una specialità e riceve uno stipendio di circa 1600 euro al mese. Invece di crescere, sono passati dai 5 mila nel 2012 agli ipotetici 3.500 del 2014. Vanno aggiunti, poi, ulteriori mille posti per i corsi di formazione in medicina generale, tre anni che servono per diventare medico di famiglia. In tutto, quindi, sarebbero 4500 posti, sempre pochi rispetto al numero dei candidati. 
«Il problema è che le regioni non hanno strumenti sufficienti e aggiornati per calcolare il fabbisogno di medici sul loro territorio. Con queste premesse, è impossibile riuscire a fare una corretta programmazione per gli accessi ai corsi di laurea» ragiona Walter Mazzucco, presidente del Segretariato italiano giovani medici (Sigm). «Bisognerebbe sapere - aggiunge Pianori - quali figure mancano: geriatri, rianimatori, oncologi. Allo stato attuale, gli enti locali non sono in grado di dirlo, mentre lo Stato ha già pagato costi altissimi per la nostra formazione».
Durante l’incontro di lunedì tra Lorenzin e i «medici senza futuro», il ministro della Salute ha garantito nuove risorse per aumentare il numero dei contratti di specializzazione disponibili per quest’anno. Il decreto dovrebbe essere pronto per metà aprile. Mercoledì, altri comitati che rappresentano gli aspiranti specializzandi sono anche scesi in piazza. Domina lo scetticismo. Se le cose non cambieranno, il rischio vero è che nel 2015 il numero dei candidati per un posto sia ancora più alto. «In Francia ci sono 7 mila posti per la laurea di primo livello e altrettanti per la specializzazione - rimarcano i comitati -. Anche qui servirebbe un sistema analogo. Non è difficile arrivarci». I giovani medici pensano all’estero. Per molti di loro, sempre più vicino.

Corriere 4.4.14
L’Aquila, 5 anni dopo: macerie e sfollati
Il miracolo mancato dell’Aquila
di Gian Antonio Stella


C’è un tanfo da svenire, nelle case «belle e salubri» per i terremotati dell’Aquila. L’impiegato comunale spalanca la porta e vien fuori una folata fetida come il fiato rancido di una bestia immonda. Siamo a Cansatessa, a due passi da Coppito. Dove l’Italia, cinque anni fa, pianse ai funerali dei morti del terremoto e dove accolse i Grandi del G8 chiamati a testimoniare la «miracolosa rinascita che tutto il mondo ammira».

È vuoto e spettrale, il «villaggio modello» di Cansatessa-San Vittorino. Avevano cominciato a consegnarlo agli aquilani rimasti senza tetto nel gennaio 2010. C’erano Guido Bertolaso, Franco Gabrielli, il sindaco Massimo Cialente, la presidente della Provincia Stefania Pezzopane e gli alti papaveri della «Task Force Infrastrutture» delle Forze Armate che si era fatta carico del progetto. Brindisi e urrà.
Certo, carucce: 1.300 euro al metro quadro per case di legno, ferro e cartongesso. Quattrocento euro in più di quanto, tolto questo e tolto quello, viene dato oggi a chi ristruttura le vecchie e bellissime case di pietra. Ma che figurone! Pochi mesi per costruirle ed eccole là, pronte: con la bottiglia di spumante in frigo.
Pochi mesi e già puzzavano di muffa. Pessimo il legno. Pessime le giunture. Pessimi i vespai contro l’umidità. Asma. Bronchiti. Artriti. Finché è intervenuta la magistratura arrestando il principale protagonista del «miracolo», mettendo tutto sotto sequestro e ordinando l’evacuazione totale. Centotré famiglie vivevano lì, a Cansatessa. Quando le spostarono avevano il magone: «Siamo sfollati due volte». In via Fulvio Bernardini, via Nereo Rocco, via Vittorio Pozzo, tutti allenatori di calcio, non è rimasto nessuno. «Giardini» spelacchiati. Lampioni storti. Pavimenti semidistrutti. Piastrelle divelte. Case cannibalizzate. Docce rubate. Lavandini rubati. Bidè rubati. Mobili e materassi lasciati lì: facevano schifo anche agli sciacalli.
L’abbiamo scritto e lo riscriviamo: sarebbe ingiusto liquidare l’enorme sforzo di migliaia di uomini e donne, nei mesi febbrili seguiti alla tremenda botta del 6 aprile 2009, soltanto come un’occasione di affari. E sarebbe ingiusto ricordare di Silvio Berlusconi solo le sdrammatizzazioni nelle tendopoli («Bisogna prenderla come un camping da fine settimana»), le battute alle dottoresse («Mi piacerebbe farmi rianimare da lei!») o la promessa di case con le «lenzuola cifrate e una torta gelato con lo spumante in frigo». Furono migliaia e migliaia gli aquilani che all’arrivo del gelido inverno ai piedi della Maiella, nell’autunno del 2009, ringraziarono Iddio e il Cavaliere per quel tetto sopra la testa.
Non si può liquidare tutto come un business scellerato. Come se si fossero occupati dell’emergenza, degli sfollati e della ricostruzione solo faccendieri come Francesco De Vito Piscicelli, quello che la mattina del 6 aprile gongolava: «Io stamattina ridevo alle tre e mezzo dentro al letto...». Non è stato solo quello, l’intervento dello Stato a L’Aquila. E forse è davvero troppo spiccio il dossier di Søren Søndergaard, il deputato europeo della Sinistra membro della Cont, la commissione di controllo del bilancio di Bruxelles, che ha rovesciato sugli interventi d’emergenza e la ricostruzione accuse pesantissime parlando, a proposito delle case provvisorie, di «materiale scadente... impianti elettrici difettosi... intonaco infiammabile...» e di pesanti infiltrazioni delle mafie al punto che parte dei fondi per i progetti Case e Map (Moduli abitativi provvisori) sarebbero finiti a società «con legami diretti o indiretti con la criminalità organizzata».
Ma certo, in questi anni, è venuto a galla di tutto. Prima i conti pazzeschi di certe spese del G8: 4.408.993 euro per gli «arredi» delle foresterie dei Grandi alla caserma Coppito, 24.420 euro per gli accappatoi, 433 euro per ciascuna delle «60 penne in edizione unica» per un totale di 26.000, 500 euro per ognuna delle 45 ciotoline portacenere di Bulgari, 92.000 per la consulenza artistica di Mario Catalano, chiamato a dare un tocco di classe al G8 dopo essere stato lo scenografo (tette, culi e battute grasse) di «Colpo grosso». Poi le accuse di Libera e di Don Ciotti, tra le quali quella incredibile sull’acquisto di un numero così spropositato di gabinetti chimici, per un totale di 34 milioni di euro, che ogni sfollato nelle tendopoli avrebbe potuto produrre «fino a un quintale al giorno di pipì e di popò». E poi ancora il diluvio di leggi e leggine, regole e regolette che hanno ingabbiato L’Aquila peggio ancora dei grovigli (152 milioni di euro) di impalcature. Riassunto: nei primi quattro anni dopo il sisma 5 leggi speciali, 21 Direttive del Commissario Vicario, 25 Atti delle Strutture di Gestione dell’Emergenza, 51 Atti della Struttura Tecnica di Missione, 62 dispositivi della Protezione Civile, 73 Ordinanze della Presidenza del Consiglio dei ministri, 152 Decreti del Commissario Delegato, 720 ordinanze del Comune. «Ma devo confessare poi mi sono anche stufato di tenere i conti», spiega l’ingegnere Gianfranco Ruggeri.
Per non dire dei conti delle sistemazioni provvisorie: 792 milioni iniziali per le C.a.s.e. (Complessi antisismici ecocompatibili), 231 per i Map, 84 per i Musp (Moduli a uso scolastico provvisorio) e 736 mila euro per i Mep, i Moduli ecclesiastici provvisori. Troppi: fatti i conti, ammesso che abbiano accolto 18 mila persone, quelle case temporanee sarebbero costate oltre mille euro al mese per ogni ospite. Una enormità. «Credo che difficilmente queste case nuove verranno lasciate perché sono molto belle e saranno immerse nel verde», ammiccò il Cavaliere davanti ad alcune di queste abitazioni. Certo si sperava fossero un po’ meno «provvisorie». Che avessero meno magagne. Quanto all’«ecosostenibilità», un dossier di Legambiente accusa: il 43% è al di sotto di ogni soglia. Dice tutto la polemica sulle bollette arretrate che il Comune, dopo quattro anni, ha chiesto di pagare agli sfollati. «Per 60 metri quadri mi sono ritrovata una bolletta del gas di 875 euro l’anno», spiega Giusi Pitari, la docente animatrice del Popolo delle carriole, «Alla signora di sotto è andata peggio: per gli stessi 60 metri, deve pagarne 1.250 l’anno. Alla faccia del risparmio energetico!»
E intanto, mentre troppe case temporanee diventano velocemente inabitabili, quelle vecchie abbattute o devastate dal sisma sono ancora in larga parte lì, in macerie. Certo, dopo cinque anni di silenzio irreale, finalmente il centro dell’Aquila è un frastuono di martelli pneumatici, rombar di camion, urla di muratori in tutte le lingue. «Il problema non sono i soldi. Ce ne sono tanti ma tanti che potremmo lavorare tutti», dice l’architetto Sestilio Frezzini che sta sistemando uno dei più bei palazzi del centro. I problemi, quelli veri, sono i lacci e lacciuoli burocratici. Anche se il Comune, dopo lo scandalo delle intercettazioni dell’ex assessore comunale Ermanno Lisi («Abbiamo avuto il culo del terremoto e con tutte ‘ste opere che ci stanno farsele scappà mo’ è da fessi…») pare avere infine accelerato. Spiega Massimo Cialente, il «sindaco antisismico» capace di resistere a tutte le scosse telluriche, partitiche e giudiziarie che da anni lo circondano, che i cantieri aperti sono 150. Il ministero dei Beni culturali abbassa: 101. Accusa Ruggeri: «Comunque troppo pochi su 190 ettari di abitazioni e 1.532 cantieri da aprire solo a L’Aquila». Dire che tutto sia fermo come due anni fa, tre anni fa, quattro anni fa sarebbe ingiusto. Ma gran parte degli edifici sono ancora lì. Com’erano. Con gli armadi rimasti spalancati su ciò che resta del pavimento.
Alla prefettura, finita su tutti i giornali del mondo per la foto di Barack Obama, hanno rifatto la facciata in legno e raddrizzato la scritta «Palazzo del governo». Dentro, però, è un disastro. Perfino i cavi di acciaio tesi per tenere i muri, sono pericolosamente afflosciati e le pareti minacciano di staccare. La Casa dello studente, uno dei simboli della tragedia, è ancora lì. Con le stanze spalancate nel vuoto. Sulla rete di recinzione si accavallano le foto dei ragazzi morti, qualche regalino, biglietti di affetto: «Luminoso sognavi il tuo avvenire. / Un giorno diventare medico. / Curare con amore grande / i malati nel corpo e nello spirito. / Al di là del tempo, tra gli angeli / alla Vergine Addolorata / porti il dolore dei tuoi cari…».
Morirono in quaranta, a Onna. Su trecento abitanti. Le macerie di via dei Martiri, la strada principale del paese dedicata alle vittime di una rappresaglia nazista e devastata dal terremoto, furono uno dei simboli della catastrofe. Cinque anni dopo, c’è all’ingresso una struttura modernissima, la «CasaOnna» progettata dall’architetto sudtirolese Wittfrida «Witti» Mitterer. Subito dopo, al posto del vecchio asilo, la Casa della cultura. Ma gli edifici che si affacciavano sulla strada sono rimasti com’erano. Macerie. Mute. Non senti lo schiocco di una gru, la botta di un martello, il cigolio di una carriola… L’unico cantiere aperto, dice l’architetto Onelio De Felice, è quello per ricostruire la chiesa: «I tedeschi sì, ci sono stati vicini. Il Comune meno. Il piano di ricostruzione, per rifare il paese com’era e dov’era, è stato fatto abbastanza in fretta. Ce l’ha tenuto fermo un tempo immemorabile, all’Aquila. Forse non volevano che noi partissimo per primi…».
Eppure, sono tornate a sfrecciare le rondini, nel cielo azzurro di Onna. E tra le robinie e i meli in fiore, quelli vecchi sotto i quali quel giorno maledetto adagiarono i morti e quelli nuovi piantati tra le case prefabbricate, cantano i passeri e le cinciallegre e Matteo e gli altri bambini della nuova «materna» fanno merenda sotto disegni rossi e gialli e blu che sprizzano allegria primaverile.
Matteo è il primo dei piccoli nati dopo il terremoto. Il simbolo stesso della rinascita. L’antico paese che un tempo si chiamava Villa Unda, lui e gli altri che sono cresciuti nel villaggio costruito dalla Provincia di Trento, non l’hanno mai conosciuto. Quando qualche figlioletto, così, di colpo, chiede come fosse il paese «prima», la mamma lo porta al di là della strada, dove la staccionata è tappezzata da grandi fotografie di struggente malinconia.
Ogni foto, per gli onnesi, è un tuffo al cuore. La processione in via dei Calzolai, coi rampicanti che salivano per i muri. L’angolo Sant’Antonio con l’altarino coperto di fiori. La chiesetta di Sant’Anna. Via Oppieti, coi balconi che traboccavano di gerani. C’è anche una poesia di Giustino Parisse, il giornalista de il Centro che qui viveva e che sotto le macerie perse il padre e i due figli Domenico e Maria Paola: «Quanto era bella Onna prima dell’orrendo scossone. Sorta fra le acque e immersa nella verde valle dell’Aterno. Mille anni di storia e milioni di storie».

l’Unità 4.4.14
Rifiuti, Marino: «O troviamo soluzioni o sarà caos»
di Felice Diotallevi


«Tra qualche giorno non saprò più come e dove smaltire i rifiuti di Roma. Siamo in una situazione di stallo totale. Ho esternato le mie preoccupazioni al procuratore affinché mi venga indicata una strada da percorrere per uscire da questo scacco matto perfetto». Lo ha detto il sindaco della Capitale, Ignazio Marino, dopo un incontro con il procuratore capo di Roma, Giuseppe Pignatone. La riunione, a cui ha partecipato anche il vicesindaco Luigi Nieri, è durata oltre un’ora. E le parole, dunque, non sono niente affatto rassicuranti. «Da chirurgo preferisco prevenire piuttosto che curare. A fine maggio scade l’ordinanza con la quale conferiamo ai due impianti Tmb di Colari lo smaltimento dei rifiuti. Però da un lato la magistratura ha portato alla luce con i suoi arresti di Cerroni e del suo gruppo una serie di reati che io non potevo immaginare fossero così gravi e dall’altro c’è il prefetto che mi dice di non poter pagare le aziende coinvolte e continuare a conferire i rifiuti». Così ha continuato il sindaco Marino dopo aver incontrato il capo dei pubblici ministeri della Capitale. «Non voglio arrivare a fine maggio con il problema ancora sul tavolo - ha aggiunto il primo cittadino -Al procuratore Pignatone ho rappresentato le mie preoccupazioni e illustrato la situazione attuale. Adesso lo stesso farò al Prefetto ed al Governo perché o troviamo una soluzione oppure l’immondizia resta per strada».
«Seguo con la massima attenzione e preoccupazione la situazione dei rifiuti di Roma che le istituzioni locali non sono riuscite ad affrontare e risolvere. L’allarme lanciato dal sindaco Marino non rimarrà senza risposta », afferma in una nota il ministro dell’Ambiente Gian Luca Galletti. «Ho intenzione - afferma Galletti - di chiarire con Comune, Provincia e Regione quali sono gli ostacoli che impediscono la soluzione della questione, utilizzando i poteri ordinari e straordinari che la legge attribuisce loro. Intendo chiarire, quindi, cosa potrebbe e dovrebbe fare il Commissario, reiteratamente invocato, che il sindaco o il presidente della Regione non possono già fare». «E importante che il Ministro abbia compreso l’urgenza della situazione. Dopo 90 giorni dal mio insediamento, con il Presidente della Regione Lazio Nicola Zingaretti, abbiamo chiuso la discarica di Malagrotta dove tutti i rifiuti venivano smaltiti da decenni con grave danno sanitario e ambientale. Si tratta di problemi creati in passato e che questa città sta risolvendo».

il Fatto 4.4.14
Israele non libera i palestinesi
Gli Usa: “È una sfida alla pace”


È notte fonda sulle trattative di pace tra israeliani e palestinesi. La riunione di mercoledì sera a Gerusalemme tra le parti, con l’inviato Usa, Martin Indyk (dopo l’annullamento del viaggio del segretario di Stato Usa John Kerry), è stata un completo insuccesso e l’annuncio di Israele di aver annullato il rilascio degli ultimi detenuti palestinesi pattuiti è stato definito dalla Casa Bianca “una sfida al processo di pace”.
Quella che doveva essere un tentativo in extremis di riannodare il colloquio tra le parti si è trasformata, secondo fonti concordanti, in una “feroce battaglia politica”. Anche se la Casa Bianca ha detto che il dialogo “resta aperto”, l'impressione, a meno di ulteriori sorprese, è che sia alle battute finali. Lo stesso Kerry, da Algeri ha ammesso, prima degli sviluppi della serata, che i negoziati sono in uno “stato critico. Esiste ancora un fossato che deve essere colmato molto rapidamente”. I mediatori, “possono facilitare , possono spingere, possono dare un piccolo colpo di coda, ma sono le parti stesse che devono prendere le decisioni cruciali in vista di un compromesso”. E per fotografare la situazione ha citato un vecchio proverbio: “Si può portare un cavallo all’abbeveratoio, ma non lo si può costringere a bere. Ora è il momento di bere e i leader sanno cosa devono fare”.
Sul campo la situazione è già addirittura peggiorata: nella “accalorata” riunione di Gerusalemme, durata circa 7 ore, il capo negoziatore israeliano, l’ex premier Tizpi Livni, ha chiesto il ritiro della decisione del presidente palestinese, Abu Mazen, di aderire a 15 trattati internazionali, ricordando che gli accordi sul rilascio dei detenuti “erano soggetti all’adempimento della promessa palestinese di non ricorrere all’Onu fino alla fine di aprile”. Poi ha ipotizzato, nel caso i palestinesi persistano nelle loro posizioni, il ricorso a possibili sanzioni.

La Stampa 4.4.14
L’ultima sfida di Abu Mazen
“Dateci Gerusalemme Est”
di Maurizio Molinari


Israele annulla la liberazione dell’ultimo gruppo di detenuti palestinesi, la Casa Bianca reagisce parlando di «sfida al negoziato» e Abu Mazen chiede il formale riconoscimento di Gerusalemme Est come capitale del nuovo Stato.
L’escalation di posizioni fra Israele e palestinesi è frutto di una giornata di burrascose trattative. Nella notte fra mercoledì e giovedì le due delegazioni, alla presenza dell’inviato Usa Martin Indyk, hanno duellato senza arrivare a un’intesa. Secondo una ricostruzione fatta da fonti palestinesi, appena seduti attorno al tavolo Saeb Erekat, rappresentante di Abu Mazen, ha detto di esser lì «a nome dello Stato di Palestina» e non più dell’Autorità palestinese riconosciuta da Israele. Poco dopo un altro delegato ha rimproverato a Indyk di non essere credibile perché «sempre dalla parte di Israele».
Il corto circuito è avvenuto quando Erekat ha chiesto a Tzipi Livni, negoziatrice israeliana, la liberazione dei rimanenti 26 detenuti palestinesi del gruppo di 104 concordato un anno fa. «Non possiamo farlo perché le condizioni sono cambiate» ha obiettato la Livni, riferendosi alla decisione palestinese di presentare domanda di adesione a 15 Trattati e organizzazioni dell’Onu. Alle 4,50 del mattino di giovedì le delegazioni si sono lasciate quasi senza salutarsi.
E ieri pomeriggio la contromossa di Abu Mazen è stata la presentazione di una lista di sei formali richieste a Israele, la prima delle quali è «una lettera di Benjamin Netanyahu nella quale si riconosce Gerusalemme Est come capitale della Palestina e i confini del 1967 come frontiere del nuovo Stato». Abu Mazen chiede anche il rilascio di 1200 detenuti «inclusi Marwan Barghouti, Ahmed Saadat e Fuad Shubaki» simboli della rivolta armata, la fine del blocco di Gaza, il ritorno dei palestinesi espulsi nel 2002 dalla West Bank, il congelamento degli insediamenti. Per rendere inequivocabile il messaggio agli israeliani, Erakat ha aggiunto: «Potremmo denunciarvi per reati di guerra nei Territori Occupati».
La Casa Bianca ha reagito con forte preoccupazione. «La decisione israeliana di cancellare la liberazione dei detenuti è una sfida al negoziato» ha detto il portavoce Jay Carney mentre il Dipartimento di Stato ha precisato che «la trattativa continua». Anche se in pochi scommettono sulla possibilità di salvarla.

La Stampa 4.4.14
Il dopo Karzai comincia dalle donne
Tutti a caccia del voto femminile: migliaia le candidate, una alla vicepresidenza
Timori per attacchi taleban
di Maurizio Molinari
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La Stampa 4.4.14
Siria, l’allarme dell’Onu per i rifugiati
“In Libano 400mila bambini a rischio”
di Giordano Stabile

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La Stampa 4.4.14
Spagna, un libro imbarazza il re
“Dietro il golpe c’era Juan Carlos”
di Gian Antonio Orighi


Nel 1981, in Spagna, di tentati golpe ce ne sarebbero stati due, e non uno solo. Il primo «di governo», organizzato dal re Juan Carlos per sostituire l’allora premier centrista Adolfo Suárez con il suo precettore ed ex capo del gabinetto, il generale Alfonso Armada. Il secondo, militare, culminato nell’assalto al Parlamento da parte del tenente colonnello Antonio Tejero, agli ordini di Armada.
Il secondo tentativo di golpe non sarebbe mai scattato se non fosse partito il «putsch» di governo. Chi l’ha messo in moto è stato proprio chi l’ha poi fermato: il re. L’ha fatto con quel famoso appello in piena notte, indossando la sua uniforme di capo supremo delle forze armate e chiedendo a tutti di restare fedeli alla democrazia e alla Costituzione.
Sono queste le tesi sostenute nel libro «La grande smemoratezza, ciò che Suárez dimenticò e che il re non vuole ricordare» presentato ieri a Madrid dall’autrice, la giornalista Pilar Urbano, 74 anni, conservatrice, numeraria dell’Opus Dei e grande amica di Suárez.
Una rivelazione che demolisce la figura del re ad appena 11 giorni dalla morte di Suárez , ritiratosi dalla politica nel 2003 per il morbo di Parkinson e commemorato con onori di Stato. «Ho impiegato 14 anni a scrivere questo libro - spiega Urbano - consultando decine di fonti allora al potere che poi, ormai lontane dalle stanze dei bottoni, mi hanno raccontato la verità». Il libro sembra un thriller. Il re, che si scontra con Suárez dicendogli di togliersi di mezzo, il premier che rifiuta e propone elezioni anticipate che però il Juan Carlos rigetta, e ancora Suàrez che si dimette a sorpresa poco prima di una mozione di sfiducia pianificata da Juan Carlos, che appoggia Armada fino al 10 febbraio, 13 giorni prima del tentativo di golpe militare. Dopo il colpo di stato fallito Suárez vorrebbe ritornare al potere ma il re gli dice che è «politicamente morto». Juan Carlos scarica Armada e opta per un civile, Calvo-Sotelo. «Il generale non si ferma e prepara il golpe di Tejero, all’insaputa del monarca», assicura la giornalista.
La conclusione del libro è devastante per una monarchia già sotto scacco per i tanti scandali. «Juan Carlos diventò eroe in una notte. Il re di Franco divenne il re della democrazia».

Il Sole 4.4.14
Pechino. Accelerano i progetti nelle ferrovie, sgravi fiscali per le piccole imprese
Nuovo piano di stimoli in Cina
di Rita Fatiguso


PECHINO. Avevano detto, i cinesi, dopo il pacchetto varato dopo il crack dell'economia globale, del 2008: mai più misure di stimolo all'economia, troppo alto il rischio di un uso distorto dei fondi, in certi casi completamente opposto all'obiettivo iniziale. Fondi finiti in macerie, dalla sovracapacità allo shadow banking alla speculazione edilizia ai progetti campati per aria.
Invece la situazione si è complicata, così il Governo cinese ha adottato ieri un mini-pacchetto che ha l'obiettivo di contrastare il rallentamento dell'economia. Pechino introduce tagli delle tasse per le piccole imprese - come già era successo la scorsa estate - e dei piani per accelerare la costruzione di ferrovie.
In particolare lo State Council incrementerà del 18% le nuove linee ferroviarie da costruire quest'anno e prevede che le piccole imprese possano dimezzare il carico fiscale.
È opinione diffusa che le pmi siano le più penalizzate dalla stretta del credito e dagli effetti della rincorsa dello yuan sul dollaro, che si è placata solo in parte con l'inizio del 2014. Sono loro a soffrire la frenata del Pil cinese che, stando a quanto dichiarato dal premier Li Keqiang, dovrebbe attestarsi intorno al 7,5 contro il 7,7 dell'anno scorso. A marzo l'indice Pmi si è fermato a quota 48, sotto la soglia di salvaguardia di 50.
Il pacchetto privilegerà le zone interne del Paese, più arretrate. Il Governo deve creare almeno 10 milioni di posti di lavoro per poter garantire l'espansione dei consumi interni, uno dei pilastri per la crescita, accanto agli investimenti varati ieri e al commercio con l'estero. Il pacchetto servirà a sostenere anche la costruzione di case a portata di cittadini meno abbienti, un problema molto serio che riguarda soprattutto la popolazione di migranti che lasciano le campagne: il piano del Governo prevede che altri 200 milioni di contadini andranno a cercare un futuro migliore a ridosso delle megalopoli cinesi.
Lo stimolo alle imprese prevede un dimezzamento delle tasse sugli utili fino al 2016 per le attività che producono un reddito inferiore ai 60mila yuan all'anno, circa 7mila euro. In ballo anche un'ulteriore riduzione del carico fiscale delle imprese di piccole e piccolissime dimensioni in futuro per stimolare ulteriormente questo settore. Lo sviluppo del settore ferroviario passerà attraverso la vendita di bond per 150 miliardi di yuan, pari a 17,5 miliardi di euro, e la creazione di un fondo per lo sviluppo da altri 200-300 miliardi di yuan, dai 23 ai 35 miliardi di euro, per l'aumento dei finanziamenti al settore. Nel 2014 ci saranno circa 6.600 chilometri di nuove linee ferroviarie, il 18% in più delle linee realizzate lo scorso anno. L'ultimo punto del piano di stimoli, l'ammodernamento delle città più degradate, prevede un investimento di oltre mille miliardi di yuan (117 miliardi di euro), una misura che dovrebbe portare, nelle intenzioni dello stesso primo ministro Li Keqiang, alla costruzione di oltre 4,7 milioni di abitazioni per i cittadini che vivono oggi in condizioni disastrose.
La manovra dovrebbe permettere una crescita equilibrata, quella alla quale puntano i vertici del partito per ammortizzare il calo fisiologico del Pil, reduce da un ventennio di incrementi straordinari e, ormai, irripetibili.

Il Sole 4.4.14
Lo yuan è arrivato in Europa
Le imprese potranno regolare le transazioni a Francoforte e Londra
di R. Fa.


PECHINO. La visita del presidente cinese Xi Jinping in Europa ha scatenato la rivalità tra Germania e Gran Bretagna nella corsa a mettere la bandierina sul primo centro di clearing del renminbi creato fuori dai confini asiatici, ovvero la stanza di compensazione tra moneta di Pechino e altre valute estere che ne permetta una reale conversione.
Il renminbi resta infatti una divisa tecnicamente non convertibile, il Terzo Plenum del Partito comunista cinese ha previsto che debba esserlo integralmente entro il 2020, ma di fatto già contende al franco svizzero la palma di settima valuta più utilizzata al mondo per i pagamenti stando alle valutazioni della Society for worldwide interbank financial telecommunication (Swift), l'organizzazione mondiale dei pagamenti.
La quota del commercio cinese realizzata in renminbi dovrebbe crescere almeno del 30% nei prossimi tre-cinque anni, dal 18% attuale riferibile soprattutto ai Paesi del Sud-Est asiatico che, nel commercio, preferiscono usare la moneta di Pechino.
L'ha spuntata Francoforte, in Europa, di appena qualche ora, anche se oltre il 60% dei pagamenti in renminbi al di fuori della Cina sono realizzati a Londra.
Eppure nel giugno scorso Bank of England è diventata la prima Banca centrale in Europa a dotarsi di uno sportello di swap con la Pboc , la People's bank of China, sostenendo le operazioni in renminbi necessarie ai finanziamenti. Ma proprio a luglio una delegazione della Pboc è partita alla volta di Francoforte per parlare di renminbi, nonostante il primo currency swap siglato dalla Gran Bretagna con la Cina da 80 miliardi di yuan.
A settembre la Banca centrale europea ne ha siglato, a sua volta, uno in euro, almeno quattro volte più "pesante" rimuovendo soprattutto un grosso ostacolo sulla strada tedesca, vale a dire la possibilità di un accordo tra Cina e Paesi della zona euro.
L'accordo britannico, alla fine, è arrivato soltanto tre giorni dopo che la Bundesbank tedesca ha firmato l'accordo sigillato da Xi e dal cancelliere tedesco Angela Merkel che ha messo sul piatto la potenza manifatturiera della Germania e l'asse economico di ferro con Pechino. A Francoforte operano banche cinesi come Industrial & Commercial Bank of China, Bank of China, Bank of Communications, Agricultural Bank of China e China Construction Bank.
Il primo ministro britannico David Cameron e il suo cancelliere dello scacchiere George Osborne hanno dovuto firmare "soltanto" il 31 marzo. L'intenso lavorio diplomatico profuso in autunno è rimasto sospeso, fintanto che Xi Jinping non è arrivato in Europa.
Eppure la Cina è da anni un obiettivo del governo britannico nel tentativo di aumentare le esportazioni del paese, ma anche un modo per piazzare l'eccellente expertise in termini tecnico-finanziari.
Nonostante la concorrenza di Francoforte e di altri centri europei, come il Lussemburgo (che però ha rinunciato a ulteriori pretese proprio quando i vertici hanno fatto visita in Cina alle autorità di Pechino) e Parigi l'ambizione di Londra è quella di essere il vero hub in Europa.
Certo, lo sviluppo di un mercato obbligazionario è stato più lento a prendere piede e più prestiti obbligazionari sono stati realizzati in Lussemburgo che a Londra, ma il mercato dei cosiddetti dim sum bonds offshore rischia di superare i 750 miliardi di yuan (120,62 miliardi di euro) entro l'anno facendo realmente concorrenza alla piazza di Hong Kong, di gran lunga il più grande centro per i depositi off-shore in renminbi.
Taiwan, Singapore e Macao sono molto avanti, ma Lussemburgo, Londra e forse anche Parigi, rimasta a bocca asciutta nonostante i 14 miliardi di depositi "cinesi", si faranno sentire.
L'attività economica tra i due blocchi economici non potrà che essere potenziata, specie se dovesse andare in porto - come sembra - il trattato bilaterale sugli investimenti i cui negoziati sono in corso tra Bruxelles e Pechino.
Adesso parte, in Europa, la lotta ad avere una banca di compensazione, un istituto cinese riconosciuto in un Paese europeo che possa emettere direttamente finanziamenti in renminbi. Francoforte e Londra sono di nuovo testa a testa. Ma, prenotate il biglietto aereo: a luglio il primo convegno mondiale sul renminbi si terrà nella City londinese.

Il Sole 4.4.14
Chen Fengying, Economista
«La valuta offshore svolta nella strategia di crescita»
intervista di Rita Fatiguso


PECHINO. Almeno una volta all'anno Chen Fengying, che dirige il World economy institute del China's institute of contemporary international relations, accetta di condividere con i giornalisti la sua visione dell'economia inserita in una prospettiva mondiale. «Nel 2014, i tre pilastri della crescita - precisa Chen - saranno i consumi, gli investimenti e il commercio con l'estero. L'internazionalizzazione del renminbi è la chiave di volta dell'intera strategia».
Direttore Chen, la manovra sul renminbi, che ora sta abbracciando l'Europa, sembra essere la più avanzata tra le riforme in cantiere dopo il Terzo Plenum. L'impressione è che sia talmente spinta da lasciare indietro la piazza per eccellenza per il clearing: Hong Kong. È così?
Hong Kong ha lavorato bene in questi anni di sperimentazione e ha accumulato una significativa esperienza nei servizi finanziari. Ma adesso gli occhi sono, inevitabilmente, su Shanghai dove il Governo ha attivato la pilot Free trade zone. Questa novità non potrà che far bene a entrambe le aree, dovranno rafforzarsi a vicenda.
La torta per le operazioni offshore in renminbi, in ogni caso, si sta dilatando.
Esatto. La torta deve diventare più grande. Il renminbi potrà essere scambiato a Hong Kong in maniera ancor più agile. E Shanghai opererà a complemento delle operazioni offshore di Hong Kong. Non vedo nessun tipo di sovrapposizione tra i due ambiti. Anzi, la riforma spingerà anche Hong Kong a riformarsi, a sua volta.
A proposito di efficienza, si dice che la borsa in Cina è come un ventenne che affronta, riluttante, la fase della maturità.
Londra, Singapore, la stessa Tokio e New York, hanno borse consolidate nella tradizione. L'apertura del renminbi ai mercati globali contribuirà ad accelerarne la maturazione. Del resto, il dollaro ha i suoi problemi e il renminbi non sarà a lungo confinato nelle riserve di Paesi come quelli asiatici o dell'Africa.
Nel 2013 la Cina ha continuato a lottare per una crescita accettabile.
Con il 7,7 la Cina ha contribuito l'anno scorso al 50% alla crescita mondiale, Paesi come il Giappone hanno dato un contributo pari a zero. Il punto è se frenano Russia e Brasile, per questo motivo a margine del G-20 in Australia i Brics si sono riuniti per creare un fondo di sostegno, se con la ripresa statunitense i capitali torneranno negli Usa, questo sarà un problema.
La Cina è in fase di aggiustamenti epocali, ce la farà?
La Cina deve accettare una crescita moderata per riequilibrare la sua struttura economica e garantire almeno 10 milioni di posti di lavoro. Deve rivoltare intere regioni come l'Hebei, afflitta da un eccesso di capacità specie nella produzione di acciaio. Lo Zheijiang, la mia provincia di origine, sta marciando in maniera più veloce di tutti, mettendo in conto duri contraccolpi a livello locale. Dobbiamo accettare di crescere di meno. Dobbiamo accettare strette al credito per non finanziare attività inutili o dannose.

Corriere 4.4.14
Cina, la rivolta in nome dell’ambiente
Scontri nel Guangdong per una fabbrica petrolchimica. Forse 4 vittime
di Guido Santevecchi


PECHINO — La protesta è cominciata domenica: centinaia, poi migliaia di abitanti di Maoming, città della ricca provincia meridionale del Guangdong, sono scesi in strada per contestare la costruzione di una fabbrica petrolchimica per il paraxilene (PX), sostanza che serve alla produzione di bottiglie di plastica e tessuti in poliestere. La gente ha paura per le ricadute inquinanti. Le manifestazioni sono proseguite per giorni e le autorità locali hanno reagito con la forza: cariche di polizia e manganellate. Sul web sono circolate foto di auto bruciate, gente insanguinata e qualcuno sostiene che ci sono stati quattro morti: non ci sono verifiche indipendenti su quelle immagini. L’amministrazione di Maoming ha smentito, si è detta sdegnata per le voci «false e destabilizzanti».
«Mantenere la stabilità», che in cinese si dice «weiwen», è un’espressione chiave nella politica e nella gestione dell’economia a Pechino. Per cercare di placare la piazza, le autorità di Maoming hanno promesso che la fabbrica non sarà costruita prima di aver convinto gli abitanti (circa 700 mila) della sua utilità e della non pericolosità. Una linea seguita da altri governi locali a partire dal 2009, quando a Xiamen nella provincia sudorientale del Fujian la protesta popolare bloccò una prima fabbrica di PX. Notizie come questa corrono su Internet, nonostante la censura: dal 2009 il movimento «no paraxilene» si è mobilitato a Dalian, Shifang, Nantong, Ningbo, Kunming. A luglio dell’anno scorso, ancora nel Guangdong, è bastato che un migliaio di cittadini scendesse in strada contro un impianto per l’arricchimento di uranio e il partito comunista ha ceduto. Eppure si trattava di un progetto da cinque miliardi di dollari, strategico perché avrebbe dovuto fornire di uranio metà delle centrali nucleari della Cina.
Di fronte alle paure ambientali dei cinesi, per mantenere la stabilità, il governo è disposto a volte ad arretrare. Il premier Li Keqiang ha dichiarato «guerra all’inquinamento». Ma il caso di Maoming non è chiuso. La protesta si è allargata a Guangzhou (la grande Canton): quelli di Maoming hanno creato una rete di solidarietà attraverso QQ, un sistema di chat su Internet e telefonini. Anche a Guangzhou manganellate e almeno nove arresti. Qualcuno sui social media ha diffuso voci sull’arrivo di carri armati in città: nuova smentita delle autorità, che hanno anche rilasciato gli arrestati con insolita rapidità.
Però questa volta a Pechino non vogliono cedere, perché da qualche parte la fabbrica va costruita. Il Global Times , giornale controllato dal gruppo del Quotidiano del Popolo , ha scritto in un editoriale che il PX è un elemento base importante per l’industria nazionale e che impianti in Giappone e Corea del Sud lo producono e lo esportano in Cina con grande vantaggio commerciale. Il giornale sostiene che il progetto di Maoming è ragionevole e conclude: «Bisogna spezzare il circolo vizioso instaurato da una minoranza contro la produzione del paraxilene».
La Cina è il primo consumatore al mondo della sostanza: 16 milioni di tonnellate nel 2013, per oltre la metà importata. L’impianto di Maoming è citato nel piano quinquennale (2011-2015) di sviluppo economico: dovrebbe produrre 600 mila tonnellate l’anno di PX. I giornali cercano di rassicurare la popolazione del Guangdong scrivendo che i rischi di inquinamento non vengono tanto dalla produzione, ma dallo stoccaggio e dal trasporto. Sinopec, il gigante petrolifero statale, promette di far vedere ai cittadini di Maoming il processo produttivo e i suoi 16 impianti già in funzione.
Tutte queste spiegazioni, i titoli sui giornali, dimostrano che il governo è allarmato: che succederebbe se invece di protestare per una fabbrica in una città relativamente piccola come Maoming la gente cominciasse a scendere in piazza in tutta la Cina, per reclamare il sacrosanto diritto ad avere aria pulita, a non vivere per metà dell’anno in media sotto una cappa di smog irrespirabile?

il Fatto 4.4.14
Corsi e ricorsi, lo studio Usa
La nostra civiltà rischia il collasso. Ce lo dice un modello matematico
La storia insegna che lo sfruttamento non sostenibile delle risorse naturali e la concentrazione della ricchezza sono letali
di Marco Vitale


È stato pubblicato il 19 marzo da Human and Nature Dynamics, un rapporto di grande interesse sul collasso delle civiltà, in presenza di elevate differenze economico-sociali e di un uso non sostenibile di risorse naturali. Parte della stampa attribuisce il rapporto alla Nasa, ma è impreciso. Lo studio è stato, in parte, finanziato dal Goddard Space Flight Center della Nasa e ciò aggiunge credibilità, ma si tratta di uno studio indipendente, di altissimo livello, condotto da un gruppo di studiosi di diverse discipline guidato dall’insigne matematico dell’Università del Maryland Safa Motesharrey. Lo studio parte dall’esame dei maggiori collassi di civiltà del passato. Apprendiamo così che, contrariamente alla convinzione comune, i collassi di civiltà, negli ultimi 5.000 anni, oltre ai classici collassi che tutti conosciamo, Impero Romano e Maya, sono stati numerosi e distribuiti in tutto il pianeta, dalla Mesopotamia all’Egitto all’India, al continente americano , alle civiltà cinesi.
In generale questi collassi comportano un drammatico impoverimento della popolazione, una fortissima riduzione del numero degli abitanti, un regresso delle conoscenze e delle capacità tecniche e mediamente il ciclo regressivo dura dai 300 ai 500 anni. In alcuni casi ha portato alla scomparsa totale della relativa civiltà.
LO STUDIO cerca di individuare alcune cause comuni di questi collassi e di razionalizzarle in un modello matematico sofisticato formato da un certo numero di equazioni (chiamato modello Handy o Human and Nature Dynamics). Oltre alle varie cause specifiche e contingenti, lo studio ne identifica due che sono presenti nella maggioranza dei casi esaminati: lo stress ecologico dovuto a uno sfruttamento non sostenibile delle risorse naturali e la concentrazione della ricchezza in un numero ristretto di élite (i ricchi) che si contrappongono alla massa impoverita (o commoners, i poveri). L’esasperazione di una di queste due cause può anche da sola portare al collasso ma, di solito, si presentano insieme e l’una alimenta l’altra.
Forte di questa strumentazione storica, concettuale e matematica lo studio applica il modello alla nostra civiltà, sviluppando e arricchendo il modello “predatore, preda” sviluppato nel 1925 e 1926 da due matematici, Alfred Lotka e Vito Volterra. Le elaborazioni del modello, applicato a diversi scenari, portano alla conclusione che, nella nostra situazione attuale, caratterizzata da un super sfruttamento della natura e una crescente concentrazione della ricchezza, il collasso è difficile da evitare. Come è successo in passato, le élite non affrontano il problema perché la ricchezza accumulata permette loro di non percepire i pericoli mentre montano: “La protezione della ricchezza accumulata permette alle élite di continuare business as usual nonostante la catastrofe incombente”.

La Stampa 4.4.14
Globalizzazione non vuol dire democrazia
di Luigi La Spina


Il sospetto covava da tempo, ma da quando la protesta contro l’Europa alla tedesca sembra dilagare, la tesi ha scavalcato i convegni dei politologi e ha fatto irruzione nei salotti televisivi, consacrazione popolare della sua verità. La globalizzazione, contrariamente alle illusioni dei soliti tardoilluministi, non solo non favorisce la diffusione della democrazia dove non era mai arrivata, ma la trasforma in una odiosa oligarchia proprio là dove era nata, nei sistemi politici sulle sponde dell’Atlantico.
Quando un pensiero alla moda diventa uno slogan tanto comodo all’intera trasversalità degli schieramenti politici, da Marine Le Pen a Beppe Grillo, è certamente utile scavarne le ragioni, per cercare di distinguere il nocciolo dell’attendibilità dalla corteccia del luogo comune. Ed è quello che meritoriamente fa un agile libretto, appena uscito dal Mulino a opera di Giuseppe Berta, intitolato, appunto, Oligarchie (pp. 122, € 10). L’uso del plurale è la spia anche del curioso metodo dell’autore per approfondire il tema, attraverso sia la storia, sia la geografia. Berta, infatti, parte proprio dalla patria della democrazia moderna, la Gran Bretagna, per esaminare l’evoluzione dei classici caratteri oligarchici del Parlamento inglese, a partire dalla metà del Settecento, fino a quando la Prima guerra mondiale e la crisi economico-finanziaria del ’29 fecero trionfare i regimi di massa.
Con un audace salto temporale e spaziale, l’autore, poi, analizza la struttura politica e sociale delle famose «tigri asiatiche», Singapore, Corea del Sud, Taiwan, Hong Kong, per arrivare alla Cina, dove le illusioni sull’inevitabile abbinamento del mercato alla democrazia paiono contraddette da una ben più cruda realtà di ferrea autocrazia. Il libro si conclude con il capitolo per noi più inquietante, quello che descrive la parabola dell’ideale europeista, da Einaudi e Monnet fino al dottrinarismo della Bundesbank.
Ma è riformabile questa dominante eurocrazia? Berta se lo chiede con un esile filo di speranza, troppo esile, forse, per non essere spezzato dalla cavalcata del prossimo futuro.

l’Unità 4.4.14
La provincia del duce dove si scatenò la caccia all’ebreo
Un volume di Emilio Drudi ricostruisce la terribile storia delle persecuzioni nell’Agro Pontino
di Vittorio Emiliani


EMILIO DRUDI, DA CRONISTA SEMPRE ATTENTO ALLA STORIA, ESCE CON UN NUOVO INTERESSANTE VOLUME DEDICATO ALLE VICENDE DEGLI EBREI DOPO LE INFAMI LEGGI RAZZIALI. Due anni fa aveva raccontato, sempre per la Giuntina, la cronaca romanzesca, in quel caso a lieto fine, di una quarantina di israeliti slavi fuggiti da Asolo e approdati sulla riviera romagnola, a Bellaria. Dove l’albergatore Enzo Giorgetti li salverà, assieme al brigadiere OsmanCarugno, in 377 giorni di peripezie (Giorgetti è stato il primo italiano ad essere ricordato nel Giardino dei Giusti fra le Nazioni, dopo di lui il coraggioso Carugno). «Un cammino lungo un anno » conclusosi felicemente.
Stavolta Drudi, per anni a capo delle pagine di Latina del Messaggero, ricostruisce le storie degli italiani ebrei perseguitati nella provincia del duce, cioè a Littoria, nel libro Non ha dato prova di ravvedimento (Giuntina, pag. 206, 15 €).Sono italiani ebrei che si chiamano Milano, Spagnoletto, Minerbi, Sermoneta, Veneziani, Piperno, Sonnino, Di Veroli, Fano, Alatri. Nuclei famigliari tornati dalla ghettizzazione forzata aRoma(dovuta alla odiosa bolla di Paolo IV Carafa) nei centri del Lazio periferico dei quali hanno portato per secoli il nome. Oppure immigrati nell’Agro Pontino dov’è in corso di bonifica quali funzionari, tecnici dell’Opera Nazionale Combattenti, commercianti, insegnanti, o professionisti.
Di essi, città per città, borgo per borgo, Drudi ricostruisce le schede biografiche intessendo di continuo - e questo è uno dei meriti maggiori del suo scrupoloso lavoro - le loro vite con la cronaca drammatica di quegli anni infami e col contrastato contesto socio-economico pontino generato dalle bonifiche.
DEPORTATI NEI LAGER
Nel settembre del 1939 i carabinieri di Sezze descrivono gli ebrei del paese quali persone modello, del tutto innocue per il regime, «di buona condotta morale e civile», qualcuno militante nelle organizzazione giovanili o professionali del Fascio (abbandonate a malincuore l’anno prima). Si possono dunque cancellare dal casellario dei sovversivi? «No. Pur non avendo dato luogo a rimarchi, non hanno dato prova di serio ravvedimento». Come ci si può «ravvedere » dal fatto di essere di madre ebrea? In quella frase burocratica assurda c’è la tragedia di massa degli ebrei pontini. Alcuni di loro finiranno ad Auschwitz o a Bergen Belsen. Altri saranno salvati dalla generosità e dal coraggio di contadini, pastori, parroci. Ma ciò che più colpisce nella minuziosa narrazione di Emilio Drudi è la maniacalità, in piena guerra mondiale, dei censimenti, dei controlli operati dagli uffici di Demorazza e dai carabinieri sui singoli, sui nuclei famigliari «non ariani», sulle loro attività e proprietà, con un impegno burocratico degno di miglior causa. Comportamento che ribadisce il delirio, la demenzialità del regime instaurato da Benito Mussolini antisemita assai prima delle leggi razziali. Quelle schedature sciagurate serviranno ai nazisti per cercare, catturare, deportare senza pietà.
La «provincia del duce», osserva bene Drudi, ha per il regime il valore di un «laboratorio politico», essa rientra in una strategia di esaltazione mediatica che non deve conoscere ombre. Già la bonifica stenta. Ci sono stati abbandoni nei poderi meno fertili. Non pochi assegnatari, assillati dai debiti, si sono arruolati volontari per l’Africa o la Spagna. Poi ci sono i focolai di sovversivismo alimentati dai confinati antifascisti a Ponza e nelle altre isole e dai loro parenti (su questi argomenti si è soffermato con acutezza Annibale Folchi), un quadro ben lontano dall’idillio talora affiorante in Canale Mussolini di Pennacchi. Inoltre Littoria è alle porte di Roma. Le notizie corrono. Quella terribile della razzia nel ghetto romano nel tragico 16 ottobre 1943 arriva subito a Sezze dove vive la famiglia di Cesare Di Veroli. Gli ebrei, tutti schedati, non sanno che fare: andare a Roma può essere mortale, così come tentare di passare le linee. Il racconto della famiglia Di Veroli è drammaticamente incalzante. Ed è soltanto una delle tante vicende - alcune finite tragicamente, altre no - che racconta Emilio Drudi in questo utilissimo libro, da diffondere, ci auguriamo, fra i più giovani.

La Stampa 4.4.14
Il vulcano di Santorini alleato del faraone nella guerra agli Hyksos
In un’iscrizione egizia la chiave per spiegare il collasso delle grandi civiltà del Bronzo alla metà del secondo millennio
di Vittorio Sabadin


I frammenti di una antica stele egizia, trovati da una spedizione francese nel 1947 vicino al terzo pilone del tempio di Karnak, potrebbero costringere a datare diversamente la cronologia dei faraoni e contribuire a spiegare perché le antiche civiltà dell’Età del Bronzo collassarono all’improvviso tutte assieme, più di 3000 anni fa.
La «Stele della tempesta» era già stata studiata da decine di esperti, incuriositi dalla tremenda descrizione, ricavabile dalle 48 righe di testo rimaste intatte, di un evento meteorologico estremo: per giorni e giorni, raccontano le incisioni nella pietra, sull’Egitto cadde una pioggia devastante, il cielo divenne nero, l’oscurità totale. Le acque sempre più vorticose del Nilo trasportavano a valle centinaia di cadaveri e il rombo dei tuoni copriva le urla della folla terrorizzata.
Risalente al regno di Amose I, primo faraone della XVIII dinastia, la stele è il più antico resoconto dettagliato di una tempesta, ma poiché eventi meteorologici così devastanti sono del tutto rari nell’Egitto moderno, molti studiosi hanno pensato che il testo non fosse altro che una metafora per descrivere l’invasione degli Hyksos, che dominarono il paese tra la XV e XVII dinastia.
Per nulla convinti di questa ipotesi, Robert Ritner e Nadine Moeller, due ricercatori del Chicago Oriental Institute, un’istituzione molto rispettata nel campo dell’Egittologia, hanno ora avviato una nuova serie di studi sui frammenti della stele, cominciando nel modo più semplice: con una nuova traduzione. Esaminando le iscrizioni, Ritner si è convinto sempre di più che gli eventi descritti rispondevano perfettamente ai mutamenti del clima che si riscontrano dopo una imponente eruzione vulcanica. Bisognava dunque scoprire quale.
Ai tempi di Amose, intorno al 1520 a.C. non ce n’era stata nessuna. Ma solo un secolo prima nel Mediterraneo era però esplosa un’intera isola vulcanica, quella di Thera, ora chiamata Santorini. Ritner e Moeller sono convinti che la «Stele della tempesta» descriva le conseguenze di quella eruzione, e che l’evento fu di tale portata da avere riflessi letali per tutte le civiltà dell’area mediterranea. Per provarlo bisognava però prima mettere a posto le date, cosa non facile. Tutti gli esperti dicono che l’eruzione di Santorini avvenne pochi anni prima del 1600 a.C. Nel 1620, secondo la datazione al radiocarbonio di un ramo di ulivo, nel 1630 in base alla datazione ricavabile dagli anelli degli alberi, nel 1644 secondo lo strato di un carotaggio effettuato nel sottosuolo della Groenlandia. In ogni caso Amose, che visse tra i 30 e i 40 anni, non era ancora nato e non avrebbe quindi potuto fare iscrivere in una stele le conseguenze di un evento al quale non aveva assistito.
I due studiosi dell’Oriental Institute di Chicago sono però convinti che basti retrodatare di pochi anni, fra i 50 e i 100, l’epoca del regno del faraone perché tutti i pezzi della teoria combacino. Non si tratta di una forzatura: l’esatta cronologia dei faraoni è ancora incerta e dibattuta, perché è stata desunta da pochi reperti in contraddizione tra loro.
Se Amose avesse regnato al tempo dell’eruzione di Santorini, molti altri avvenimenti del passato troverebbero una spiegazione più plausibile di quella che è stata finora data. A cominciare dalla vittoria del faraone sugli Hyksos, culminata nella distruzione della loro capitale, Avaris. Il regno degli Hyksos, più che essere annientato da Amose, potrebbe essere crollato a causa delle terribili conseguenze dell’eruzione vulcanica, che bloccarono le vie di comunicazione, distrussero i porti e la flotta, incrinandone fortemente la potenza militare.
L’evento catastrofico generato nella caldera di Santorini non distrusse soltanto la civiltà minoica, ebbe conseguenze in Egitto e ancora più lontano, sostengono i professori Ritner e Moeller. Anche la civiltà babilonese ne fu fortemente indebolita, lasciando spazio alle scorrerie degli Ittiti. E forse nuove indagini porteranno ancora oltre, a dare una spiegazione al quel «riallineamento» dell’Età del bronzo che vide cadere quasi contemporaneamente le grandi civiltà dell’epoca, con la distruzione di città come Hattusa, Micene, Ugarit e improvvisi cedimenti nelle strutture sociali dell’Anatolia, dell’Egitto, della Siria.
Gli storici hanno spiegato questo decadimento, collocato tra il XIII e XII secolo a.C., con il collasso delle autorità centrali, la distruzione delle connessioni su lunga distanza e la perdita dell’alfabetizzazione. Recentemente, scienziati israeliani lo hanno attribuito a un lungo periodo di siccità. Può darsi invece che l’inizio di tutto sia da collocare in quella apparentemente pacifica laguna, che oggi i turisti percorrono in barca e ammirano estasiati guardando tramontare il sole.

Corriere 4.4.14
Dialogo tra un critico d’arte e l’operaio che comprò Gauguin
di Philippe Daverio


Caso Gauguin/Bonnard in «collezione privata» siciliana. Non ho potuto trattenermi dal chiamare i fortunati proprietari. C’è chi compera arte perché crede che valga, in quanto il valore viene garantito dalle case d’asta e dal mercato internazionale. Le follie del genere «pescecane in formaldeide» di Damien Hirst ne sono ottimo esempio. Roba che costa 15 milioni di euro e poi rischia di decomporsi durante uno spostamento. C’è chi compera perché è affascinato dall’opera, al di là del prezzo.
È ciò che ha fatto per tutta la sua vita un operaio Fiat di Torino, andando alle aste, scegliendo soprattutto fra quelle povere, quelle dove le Ferrovie dello Stato mettono in vendita gli oggetti smarriti dopo che per lungo tempo nessuno ne ha rivendicato la proprietà. L’operaio Fiat era addetto alla verifica dei pezzi di precisione dei motori. Ho sempre pensato che vi è una intelligenza particolare nel capire l’arte da parte di chi ha una buona conoscenza tecnica del lavoro. In fondo Sergio Rossi, l’uomo che inventò il Comau, la fabbrica per la robotizzazione delle catene di produzione, sosteneva d’essere anche lui solo un operaio specializzato e capiva l’arte di primo acchito, senza fronzoli mentali: lo vidi personalmente acquistare capolavori senza istruzioni supplementari, valutandone solo l’intima qualità.
Anche l’operaio siciliano acquistava all’asta oggetti scientifici, macchine fotografiche o bastoni da passeggio dimenticati in treno. E già che c’era s’è comperato anche due dipinti di bell’aspetto per i quali nel 1975 spese all’asta delle Ferrovie, in via Sacchi 61 dietro Porta Nuova, a Torino, alcune decine di migliaia di lire: acquisto per puro piacere di opere da appendere al muro di casa. E intanto cresce i figli: il maschio è iscritto alla facoltà di architettura di Siracusa, la sorella si è appena laureata in scienza della comunicazione e poi specializzata in graphic design . Il figlio, a vanto del fatto che l’università contribuisce tuttora a formare il gusto, s’accorge che si tratta di opere degne d’attenzione e quindi di studio. Le studia effettivamente, ne decifra le scritte e scopre che la natura morta ha tutte le caratteristiche di Gauguin mentre l’altro dipinto sembra essere di Bonnard. Con questi dipinti era cresciuto, li aveva guardati mentre studiava al liceo artistico, Bonnard gli sembrava «Bonnato», però gli appariva come lavoro di qualità. La dedica in francese alla «comtesse de…» era più misteriosa, assieme al cagnolino stilizzato. Il babbo questo cagnolino lo trovava affascinante fino al punto di disegnarlo. Aveva portato il figlio alle mostre, e nel libro delle firme posto all’uscita si firmava spesso disegnando il cagnolino. Il figlio poi colleziona libri, sulle bancarelle, e trova una biografia di Bonnard, la scoperta per lui d’un autore nuovo. Lo sfoglia col padre, il Fratelli Fabbri Editore, e scopre che la foto di Bonnard corrisponde al quadro appeso in casa, stessa poltrona e poi stessa firma.
Ma se l’uno è Bonnard, l’altro che cosa può essere? La calligrafia della dedica e quella della data corrispondono a Gauguin, basta guardare su Internet, e qui nella Rete si trova lo stesso cagnolino. Copie? Falsi? Le tele erano state acquistate, tolte dal telaio e poi poste su un telaio nuovo. E così padre e figlio tornano alla ricerca della verità. Chiamano la Sovrintendenza, la quale dice che non vuole perdere tempo. Intanto passano anni. E loro passano per mitomani. Un amico archeologo suggerisce di mettersi in contatto con il ministero dei Beni culturali, a Roma. I carabinieri li hanno informati della storia del furto in Inghilterra, e hanno posto le opere sotto custodia. In teoria le opere appartengono a loro, i nuovi possessori, in quanto hanno acquistato in buona fede al secondo passaggio di proprietà. Il babbo fa sculture, il figlio dipinge. Se li meritano. Sono veri cattolici e come tali non accendono ceri alla Madonna. Il babbo ha una pensione di 1.500 euro al mese. Il valore dei dipinti corrisponde circa a duemila anni di pensione.

Repubblica 4.4.14
Autobiografia di Scalfari la scrittura e il desiderio
di  Massimo Recalcati


Quando uno psicoanalista si interessa di una biografia non è per raccogliere i dettagli della cronaca di una esistenza ma per provare a individuare quei tratti che, nel variare infinito delle esperienze e degli eventi, hanno conferito una forma singolare ad una vita. Nel caso di Eugenio Scalfari, per come egli si descrive nel suo Racconto Autobiografico, uno di questi tratti, se non il tratto principale, è la vocazione della scrittura («la mia vera passione era quella di scrivere»). “Vocazione” non è un termine qualunque. Per la psicoanalisi esso traduce la parola tedesca Wunsch con la quale Freud descriveva il desiderio.
Dunque per Scalfari, che domenica compie novant’anni, la scrittura è stata la manifestazione più forte, più costante e più imprescindibile, del suo desiderio. Qualcosa di cui sarebbe per lui, come afferma a conclusione del suo racconto, «impossibile fare altrimenti». Questa vocazione è ciò che lo rende un testimone. Il lettore troverà in questo racconto non solo la storia di una vita, di una formazione, dei suoi inciampi e delle sue realizzazioni, ma anche quella della nostra storia più recente, dall’affermazione del fascismo sino alla “seconda repubblica”. La testimonianza della scrittura non è mai solo un esercizio privato, ma si carica di una responsabilità pubblica. La vocazione personale che vive la scrittura come una necessità paragonabile a quella di respirare o di mangiare non si disgiunge dal suo impegno militante alla ricerca della verità sia essa quella più intima, legata alle sorti del proprio Io, sia quando coinvolge le sorti di un intero paese.
Un secondo tratto della personalità di Scalfari è quello del coraggio e del senso dell’avventura «per l’alto mare aperto», come titola uno dei suoi ultimi libri. Questo coraggio non è solo una dote soggettiva, ma è un suo modo di essere erede. Il coraggio gli viene innanzitutto dal padre. È lì, attraverso il padre calabrese, ardito dannunziano, lettore avido di storia e di poesia e sciupafemmine, che il figlio potrà respirare il desiderio dell’avventura. Quel figlio che ha sempre avuto una predilezione speciale per la fragilità addolorata e malinconica di sua madre, con la quale si è sempre sentito “una cosa sola”, è nel padre che può riconoscersi erede della capacità di non indietreggiare di fronte al rischio della propria vocazione. In pagine struggenti, tra le più toccanti del libro, Scalfari indugia sull’ultimo anno di vita trascorso insieme al padre afflitto da un tumore alla prostata. Era il 1972, Scalfari aveva già fatto molto nella sua vita. Ma è proprio quel «giorno piovoso di marzo», quando il padre se ne andò nel regno dei morti, a rivelare al figlio la sua eredità più autentica: la trasmissione della memoria. Non è di questo che, come ci ricorda Philip Roth, si nutre la pratica della scrittura? Accogliere il padre malato nella propria casa mostra tutto il senso positivo del debito simbolico. Diversamente dalla “razza padrona” che ha gestito le sorti spesso spregiudicate e criminogene del capitalismo italiano nel segno di una avidità pulsionale sconfinata, il gesto umanissimo di accompagnare alla morte il padre malato ci rivela l’essenza dell’ereditare: portare dentro di sé l’altro da cui proveniamo, custodirlo in noi, non per riprodurlo passivamente, ma per oltrepassarlo.
Un terzo tratto che emerge in questo racconto autobiografico è l’illuminismo di Scalfari. Non si tratta solo di una adesione libresca ad una cultura, ma di una attitudine esistenziale. Il richiamo alla ragione critica è costante in tutta la sua vita ed è ciò che lo porta a guardare con diffidenza ogni rappresentazione metafisica della verità. Qui il giornalista e l’intellettuale si intrecciano. Il giornalista: non accontentarsi mai della pura cronaca (politica o economica), ma svelare sempre il suo retroscena, allargare lo sguardo, estendere l’argomentazione, rendere la ragione critica operativa mostrando quello che una descrizione empirica dei fatti non può cogliere. È l’ispirazione fondamentale da cui è nata l’impresa straordinaria
di Repubblica. Un altro modo di intendere il giornalismo: una ricerca permanente della verità che la superficie degli eventi tende talvolta a occultare. L’intellettuale: diffidare dalla Verità con la V maiuscola, includere l’incertezza come condizione insuperabile della vita e del pensiero, affermare il primato dell’etica – della ragion pratica – rispetto a qualunque speculazione ontologica. È questo il modo con il quale Scalfari rilegge Nietzsche attraverso Diderot e Voltaire e gli altri philosophes della grande stagione dei lumi. L’uomo è una tensione mai risolta tra la spinta della libertà (volontà di potenza) e l’esigenza di costruire argini civili che permettano la vita insieme.
L’ultimo tratto è il più intimo e, almeno per lo psicoanalista, fatalmente, il più decisivo. Veniamo a sapere che un’angoscia profonda attraversa la vita del piccolo Eugenio. È un’angoscia che non l’abbandonerà mai. È l’angoscia suscitata dalla possibilità che i propri genitori possano separarsi. Troppo diversi. Il figlio unico si prodigherà per eccellere, per non deludere, per soddisfare tutte le loro attese e per fugare il terrore per la loro separazione. Sarà lui a tenerli insieme, lui il padre dei suoi genitori. Ecco emergere il tratto decisivo della personalità di Scalfari: la sua attenzione ai legami e il suo sogno di ricomporli, la sua tendenza ad assumere una funzione paterna («la componente paternale è stata la dominante d’ogni mio tipo di affetto e di amore per gli altri», scriveva in L’amore, la sfida e il destino). Non è forse questa la cifra segreta, l’anima più profonda, arcaica, inconscia, del suo riformismo? Non è forse sempre stata una sua aspirazione quella di ricomporre differenze che apparivano irriducibili, eterogenee per storia e cultura? Per lui riformismo è una forza ricompositiva che non cede al compromesso, ma che avvicina elementi apparentemente opposti, sordi, finanche ostili. È quello che assume le forme di una vera e propria strategia politica nello sforzo di avvicinare il liberalismo repubblicano di La Malfa con il Partito Comunista Italiano di Enrico Berlinguer negli anni tra i più bui della nostra vita collettiva che culminarono con l’assassinio di Moro. Se il terrorismo si configurò come una rottura atroce e traumatica del legame sociale, come una separazione violenta dalla cultura democratica, egli vide nell’avvicinamento tra le forze laiche liberali e quelle comuniste, la possibilità di liberare le energie più sane del capitalismo italiano dall’avventurismo e i comunisti italiani dall’egemonia sovietica. Riformismo per Scalfari ha sempre voluto dire possibilità di ricomporre produttivamente le differenze, di evitare che la separazione risulti solo sterile e traumatica.

Corriere 4.4.14
Scalfari, una certa idea di notizia
Sfide, successi, equivoci e ironie del fondatore di «Repubblica»
di Aldo Cazzullo


È difficile dire a un giovane lettore chi sia stato e chi sia Eugenio Scalfari.
Fondatore di un settimanale, «L’Espresso», i cui titoli scandirono la vita pubblica nell’Italia degli anni Cinquanta e Sessanta: «Capitale corrotta, nazione infetta», «L’Africa in casa», «L’avanguardia in vagone letto» (era il reportage del suo grande amico Sandro Viola sul Gruppo ’63), «Nottetempo casa per casa» (era la deposizione del generale dei carabinieri Zinza, che confermava il suo scoop sul piano Solo, il progetto di golpe del generale De Lorenzo).
Fondatore di un quotidiano, «Repubblica», che in pochi anni divenne competitivo con il «Corriere della Sera» e che assunse la leadership della sinistra italiana. Creatore di un linguaggio, di uno stile, di una formula che mise insieme il libertinismo intellettuale (e il rigore culturale) del «Mondo» di Mario Pannunzio ed Ernesto Rossi e lo spirito «nazionalpopolare» della «Stampa» di suo suocero, Giulio De Benedetti. E pontiere tra il comunismo italiano, nella versione berlingueriana e poi nell’evoluzione troppo lenta verso una sinistra moderna, e la borghesia riformista: socialisti anticraxiani, crociani, lamalfiani, ceti emergenti — giovani e donne —, intellettuali di cultura azionista o semplicemente insofferenti dell’Italia prima democristiana e poi berlusconiana.
Scalfari non ha solo fondato giornali. Ha anche diretto per cinque mesi una casa da gioco nell’Italia del dopoguerra, a Chianciano, seguendo le istruzioni del padre, direttore del casinò di Sanremo, dove sui banchi del liceo il giovane Eugenio si era legato a Italo Calvino. «Era un bell’uomo mio padre; mia madre era bellissima. Ma tra loro non ci fu mai vero amore — ha scritto — . Mio padre passava le serate quasi sempre fuori casa, era anche un giocatore accanito e spesso perdente. Molto vitale e molto impetuoso, gioioso e audace». Pietro Scalfari, medaglia di bronzo al valor militare, aveva combattuto sull’Isonzo e sul Grappa; nel 1919 disertò per seguire d’Annunzio a Fiume. (Suo fratello Antonio, medaglia d’argento, ferito in un assalto nel 1916, ebbe la spina dorsale spezzata, e finì suicida per sottrarsi alla sedia a rotelle e alla morfina). «Fu l’amore per me che tenne uniti i miei genitori finché vissero. E io feci tutto ciò che potevo per tenerli insieme ed evitare una separazione che avrei vissuto come una catastrofe».
Neppure Eugenio Scalfari volle mai separarsi da Simonetta De Benedetti, neanche quando nella sua vita entrò, mezzo secolo fa, un nuovo amore, la donna che ora è sua moglie, Serena. Ne L’uomo che non credeva in Dio , uno dei suoi libri più belli, l’autore evoca — parafrasando Petrarca — quattro donne che «intorno al cor mi son venute»: le altre due sono Enrica e Donata, le sue figlie. È lo stesso libro in cui Scalfari confessa l’infatuazione giovanile per il regime: la notte della proclamazione dell’impero, i tripodi di bronzo accesi, la voce del Duce. I suoi primi articoli compaiono su «Roma fascista», la rivista del Guf: da cui però Scalfari viene espulso. Renitente alla leva di Salò, nascosto dai gesuiti, assunto in Vaticano come operaio verniciatore, prende contatto con la Resistenza, la notte del 2 giugno 1944 presidia con una squadra ponte Sant’Angelo, la notte successiva occupa il comando militare di Roma: «All’alba sentimmo il rumore dei cingoli dei carri armati americani…».
Al referendum del 2 giugno 1946 vota monarchia. È assunto alla Bnl e licenziato per un’inchiesta sulle ruberie della Coldiretti pubblicata dal «Mondo». Vive con le 150 mila lire che ogni settimana Raffaele Mattioli gli paga per un bollettino con le notizie da Roma. Fonda «L’Espresso» con Arrigo Benedetti, con cui avrà una dolorosa rottura. Scrive con lo pseudonimo di «Bancor» i resoconti delle sue conversazioni con Guido Carli. Pranza sull’Appia Antica con l’avvocato Agnelli, esasperato da Cefis e dai tanti nemici dell’«Espresso», convinti che il giornale sia suo: Scalfari si dimette da direttore («tranquillo, rimani pure, ora Gianni parte per New York, al ritorno avrà dimenticato tutto» gli dice Carlo Caracciolo). È eletto in Parlamento nel 1968 con il Psi e si scontra con Craxi, che oltre vent’anni dopo congederà titolando a tutta pagina su Repubblica: «Addio, Ghino di Tacco». Tiene duro sulla linea della fermezza durante i 55 giorni del sequestro Moro. «Porta la testa come il Santissimo in processione» (dice ancora Caracciolo). Si sdraia davanti all’ascensore per impedire a Paolo Guzzanti di andare in un altro giornale. Intervista Berlinguer che parla per la prima volta di «questione morale». Vende le sue quote della casa editrice a Carlo De Benedetti e si schiera con lui nella lunga guerra contro Berlusconi. È confidente di Pertini e avversario di Cossiga. Con Scalfaro diventano amici quando l’allora deputato della destra dc è l’unico ad applaudire il suo discorso alla Camera per l’abolizione del Concordato: «Non la penso come lei, ma sono felice di ascoltare una voce libera» È vicino a Ciampi e a Napolitano. Anche coloro che con lui hanno rotto, da Guzzanti a Pansa a Jannuzzi, continuano a parlare di lui negli articoli e nei libri.
Ha commesso ovviamente errori. Pensò che De Mita potesse essere il modernizzatore della politica italiana. Alla vigilia della grande vittoria di Berlusconi del 2008 si illuse che «contro avversari così non si può perdere». Ma paradossalmente è riuscito a fare un punto di forza pure dei suoi abbagli: anche ora resta il bersaglio preferito della destra, ossessiona i suoi avversari, attira critiche e satire; e lui alla polemica non si sottrae, anzi ne appare lusingato, ne esce ricaricato. (Talora ci gioca su. Una volta concluse l’editoriale della domenica preannunciando per la settimana successiva un articolo su Spinoza. Il «Foglio» di Giuliano Ferrara, uno dei suoi più cari nemici, iniziò un count-down quotidiano: meno 6 all’articolessa di Scalfari su Spinoza, meno 5, meno 4… quando la domenica arrivò, Scalfari scrisse di Berlusconi, ovviamente attaccandolo, e annotò di passaggio: «Mi spiace per Spinoza e per i miei lettori amanti di questioni filosofiche; sarà per un’altra volta»).
Soprattutto, il fondatore ha fatto sua la lezione di una delle sue grandi firme, Gianni Brera, che parlando di calcio scriveva: «Puoi essere anche il Gesù Cristo del pallone in terra, ma se trovi un brocco disposto a correre più di te, tu non puoi giocare». Pur mettendosi alla prova nel romanzo e nel saggio filosofico, è stato ed è ancora un cronista del nostro presente. Cioè Scalfari è uno che a quasi 90 anni — li compie dopodomani — porta al suo giornale un’intervista al Papa. Per tutte queste ragioni, anche chi non ha mai lavorato con lui non può che riconoscere in Eugenio Scalfari il decano del nostro mestiere. E se, come ha scritto, «il solo modo per difenderci dalla morte» è vivere dentro le persone che ci hanno amato, stimato, voluto bene, allora la sua lezione non morirà per moltissimo tempo.

l’Unità 4.4.14
Il film di oggi - ore 21,15 RAI 5
Herzog e la caverna dei sogni agli albori dell’umanità

«CAVE OF FORGOTTEN DREAMS» Nella grotta di Chauvet-Pont-d’Arc, nel Sud della Francia, sono state ritrovate nel 1994 quelle che vengono considerate le più antiche pitture rupestri. Non essendo consigliata l’apertura del sito al pubblico per via della delicatezza del con- testo, è stata affidato a Werner Herzog il compito di un documentario. Il risultato è un affascinante doc in 3d, raffinato, meditato, bellissimo.