lunedì 7 aprile 2014

Libertà e Giustizia 5.4.14
Comunicato stampa
Zagrebelsky e Rodotà. Bicameralismo perfetto: una precisazione

Su “Repubblica” di oggi Eugenio Scalfari scrive che “nessuno, tranne il movimento di Rodotà e Zagrebelsky, si oppone all’abolizione del bicameralismo perfetto”. Intervistato proprio da “Repubblica”, Gustavo Zagrebelsky ha affermato che bisogna “andare oltre il bicameralismo perfetto”. Intervistato da “l’Unità”, Stefano Rodotà ha delineato con chiarezza un sistema che abbandonava proprio il bicameralismo perfetto, configurando un Senato di garanzia, privo in particolare del potere di votare la fiducia al governo e di approvare la legge di bilancio. Inoltre, in molte occasioni, entrambi hanno criticato l’attuale bicameralismo e sottolineato la necessità di un suo abbandono.
La disinformazione che ha accompagnato il dibattito sul Manifesto di Libertà e Giustizia ha prodotto spesso giudizi fuorvianti che ne alterano lo spirito e gli obiettivi.

La Stampa 7.4.14
Bonsanti: disinformazione sulla rivolta dei professori
di Jacopo Iacoboni


Siamo così sicuri che il problema italiano siano «i professoroni», e non invece l’establishment istituzionale, i direttori generali dei ministeri, gli amministratori delle aziende pubbliche, o interi pezzi dell’establishment imprenditoriale?
La battuta con cui Matteo Renzi ha liquidato le critiche di Gustavo Zagrebelsky, Stefano Rodotà, Barbara Spinelli e tanti altri brucia. E ieri la lettera in cui Rusconi critica su La Stampa i suoi amici giuristi. Libertà e Giustizia - che promosse l’appello contro i rischi di «svolta autoritaria» - ha scritto una nota assai puntuta, e singolare: «Eugenio Scalfari ha scritto che “nessuno, tranne il movimento di Rodotà e Zagrebelsky, si oppone all’abolizione del bicameralismo perfetto”». Eppure - osserva il network vicino a Carlo De Benedetti - «intervistato proprio da Repubblica, Gustavo Zagrebelsky ha affermato che bisogna “andare oltre il bicameralismo perfetto”. E intervistato dall’Unità, Stefano Rodotà ha delineato con chiarezza un sistema che abbandonava proprio il bicameralismo perfetto, configurando un Senato di garanzia, privo in particolare del potere di votare la fiducia al governo e di approvare la legge di bilancio. Inoltre, in molte occasioni, entrambi hanno criticato l’attuale bicameralismo e sottolineato la necessità di un suo abbandono». Conclusione: «La disinformazione che ha accompagnato il dibattito sul Manifesto di Libertà e Giustizia ha prodotto spesso giudizi fuorvianti che ne alterano lo spirito e gli obiettivi».
Insomma, le acque non sono calme, dentro tradizionali mondi della sinistra. Sandra Bonsanti, presidente di L&G, spiega: «Noi vogliamo migliorare, non affossare, le riforme. Rodotà era a favore dell’abolizione del Senato, ma in un quadro in cui c’era una legge proporzionale, e in cui si proponeva di limitare la decretazione, il contrario di ciò che avviene oggi». Oppure: «Zagrebelsky ha fatto alcune proposte, anche noi ne faremo una, ci stiamo pensando, ma non si può cambiare la Costituzione così, come un rullo compressore, senza ascoltare nessuno». Senza ascoltare neanche i migliori, i più retti? «Io non dico che siamo la parte migliore della società, ma come singoli ci sono alcune persone che non hanno nessuna voglia di ambire e potere e poltrone, e già solo per questo andrebbero ascoltate».
Sostiene Bonsanti che «il problema di Renzi è innanzitutto un modo di ragionare, e la nostra è una battaglia culturale: l’irrisione delle ragioni degli altri, della società, dei movimenti, è esattamente quello che lui rimproverava al vecchio Pd». Sarebbe paradossale facesse anche lui - proprio ora - un errore analogo.

il Fatto 7.4.14
Zagrebelsky e Rodotà smentiscono Scalfari


A PROPOSITO DEL DIBATTITO sul bicameralismo Gustavo Zagrebelsky e Stefano Rodotà con Libertà e Giustizia hanno ieri precisato: “Su Repubblica Eugenio Scalfari scrive che ‘nessuno, tranne il movimento di Rodotà e Zagrebelsky, si oppone all’abolizione del bicameralismo perfetto’. Intervistato proprio da Repubblica, Zagrebelsky ha affermato che bisogna ‘andare oltre il bicameralismo perfetto’. Intervistato da l’Unità, Rodotà ha delineato con chiarezza un sistema che abbandonava proprio il bicameralismo perfetto, configurando un Senato di garanzia, privo in particolare del potere di votare la fiducia al governo e di approvare la legge di bilancio. Inoltre, in molte occasioni, entrambi hanno criticato l’attuale bicameralismo e sottolineato la necessità di un suo abbandono. La disinformazione che ha accompagnato il dibattito sul Manifesto di Libertà e Giustizia ha prodotto spesso giudizi fuorvianti che ne alterano lo spirito e gli obiettivi”.

Repubblica 7.4.14
Zagrebelsky e Rodotà
“Cambiare il bicameralismo”


ROMA. «Bisogna andare oltre il bicameralismo perfetto». In una nota di Libertà e Giustizia, si sottolinea che sia Gustavo Zagrebelsky, sia Stefano Rodotà si sono espressi a favore di una revisione dell’attuale sistema in cui le due Camere hanno i medesimi poteri. L’occasione è il dibattito sulla riforma del Senato e l’editoriale di ieri su Repubblica di Eugenio Scalfari in cui si fa riferimento alle posizioni proprio di Zagrebelski e Rodotà. Nello stesso comunicato si ricorda che l’ex presidente della Consulta si è già pronunciato per il superamento del bicameralismo perfetto: «Bisogna andare oltre ». Rodotà ha invece delineato un sistema che abbandoni il bicameralismo perfetto, configurando un Senato di garanzia, privo del potere di votare la fiducia al governo e di approvare la legge di bilancio. Secondo Zagrebelsky «la democrazia rappresentativa ha un difetto: divora risorse, materiali e spirituali. I Senati dovrebbero servire ai tempi lunghi, dato che la democrazia rappresentativa pensa ai tempi brevi».

l’Unità 7.4.14
Gli Usa: «Dall’Italia nessuno stop sugli F-35»


Dall’Italia non è stato annunciato alcun cambiamento rispetto agli impegni del passato: il piano di acquisti italiano resta lo stesso, 90 F35 da comprare entro il 2025. A confermare che l’Italia non ha fatto alcun passo indietro sull’acquisto dei super cacciabombardieri è Joe Della Vedova, portavoce dell’operazione F35 per il Pentagono.
«La fornitura complessiva di F35 all’Italia è rimasta invariata, durante l’ultima riunione dell’Executive Steering Board che gestisce il programma. Può darsi che in futuro ci saranno aggiustamenti, magari sui tempi degli acquisti, ma per ora non sono arrivate comunicazioni formali in proposito», ha detto Della Vedova, citato da La Stampa. Il Board che si è riunito giovedì scorso a Washington include i rappresentanti di tutti i paesi membri; per l’Italia era presente il contrammiraglio Francesco Covella.
Secondo Della Vedova, dall’Italia non è stata comunicata nessuna intenzione di cambiamento: l’ordine resta di sessanta F35 A e trenta F35 B, con un prezzo (al momento) fissato attorno ai 117 milioni di dollari per aereo (nel 2019, secondo i calcoli della Lockheed Martin, dovrebbe scendere tra gli 80 e gli 85 milioni). La prossima riunione dei rappresentanti internazionali sarà a settembre in Norvegia. Per ora, sulla carta, tutto resta invariato. Eppure c’era stato uno stop del Parlamento.

l’Unità 7.4.14
Domani la Consulta su quel che rimane della Legge 40
I giudici decideranno sul divieto di fecondazione eterologa
Ad oggi sono 29 le sentenze contrarie
di Franca Stella


Mai una legge aveva avuto una vita così tribolata, affossata da ben ventinove sentenze che ne hanno ridimensionato la portata, smantellandola dalla fondamenta. La legge 40 sulla procreazione assistita, in dieci anni di vita, ha subbito un contraccolpo sull’altro. Ma la mazzata finale potrebbe arrivare domani quando la Corte Costituzionale sarà chiamata a decidere sul divieto di fecondazione eterologa (l’utilizzo di gameti, maschili o femminili che non appartengano alla coppia) previsto dalla legge insieme a quello sulla ricerca sugli embrioni.
Fino a qui sono tre i pilastri della legge sulla fecondazione in vitro già abbattuti dai giudici: il divieto di produzione di più di tre embrioni, l’obbligo di impianto contemporaneo di tutti gli embrioni prodotti, su cui è intervenuta appunto la Consulta nel 2009, e il divieto di diagnosi preimpianto (ma per le coppie infertili, quelle che hanno accesso alla Pma, con intervento del Tar del Lazio sulle linee guida).
«Siamo ottimisti anche sulla sentenza di domani afferma Filomena Gallo, avvocato e segretario dell'associazione Coscioni con la caduta del divieto di eterologa le coppie potranno tornare a utilizzare gameti donati liberamente come facevano prima della legge, e non ci sarà nessun commercio. Inoltre le massime tutele del nascituro sono già previste dalla legge».
Una delle conseguenze del divieto dell’eterologa è il turismo procreativo. Secondo un’indagine dell’Osservatorio sul Turismo Procreativo nel 2012 erano ancora 4mila le coppie che sono andate all'estero per trattamenti di fecondazione assistita, metà delle quali per l'eterologa. L’ultima relazione del Ministero della Salute sulla Legge nel 2011 ci dice che sono stati 11.933 i bambini nati da tecniche di fecondazione assistita, erano 12.506 l’anno precedente, in costante aumento dal 2005. Gli embrioni abbandonati, che secondo l'esperto vivono in un «limbo» perché la legge impedisce sia di distruggerli che di donarli alla scienza, sono un po’ meno di 19mila. Sono state molte le richieste alle istituzioni politiche di cambiare la legge, anche da parte di diverse società scientifiche, ma finora a modificare uno dei provvedimenti più contestati degli ultimi anni sono state solo le sentenze. «Io sono spaventata dalla politica afferma Gallo in questi anni il Parlamento ha dimostrato di essere inadatto ad affrontare il tema dei diritti della persone. Le leggi andrebbero fatte dai parlamenti e non dai tribunali, ma in questo caso i politici dovrebbero accettare con umiltà ciò che anche i cittadini hanno dimostrato di volere».
La decisione della Corte di domani non dovrebbe essere la sola in questo anno solare. L’Associazione Coscioni ha presentato, lo scorso gennaio, i casi di due famiglie portatrici di malattie genetiche ereditarie il cui ricorso al tribunale di Roma per avere la diagnosi sull’embrione prima dell'impianto ha generato una nuova richiesta di pronunciamento alla Corte Costituzionale. Le ordinanze riguardano due coppie, Valentina e Fabrizio e Maria Cristina e Armando, in entrambi i casi portatrici di malattie che si trasmettono per via materna. Nel caso di Maria Cristina la malattia è la distrofia di Becker, di cui era affetto anche il padre, che porta alla degenerazione di tutte le fibre muscolari. A quel punto la decisione di ricorrere alla fecondazione in vitro, con la diagnosi preimpianto che avrebbe potuto evidenziare quali embrioni erano portatori della malattia, possibilità però negata dalla struttura pubblica a cui si sono rivolti i genitori perché la legge la vieta, permettendola solo in caso di coppie sterili o in cui l'uomo abbia delle malattie infettive. Da qui il ricorso e la decisione del tribunale di Roma dello scorso gennaio di sollevare l'eccezione di costituzionalità.
Un caso analogo, anche se con una diversa malattia, è quello di Valentina e Fabrizio, che si sono visti rifiutare la diagnosi preimpianto e che hanno provato, come del resto l'altra coppia, ad avere un figlio per vie naturali. In questo caso la bambina è risultata affetta dalla patologia genetica rara per cui non c’è prognosi, e la coppia è stata costretta ad abortire, peraltro senza assistenza in un ospedale romano. La coppia ha poi presentato un ricorso al tribunale di Roma per la diagnosi, che ha ottenuto un'ordinanza gemella della prima, che la Corte potrebbe discutere prima dell'estate. In caso di esito positivo la decisione varrà per tutte le coppie che si trovano nelle stesse condizioni.

l’Unità 7.4.14
Il sindaco Marino: istituirò il testamento biologico in Campidoglio


«In attesa che il Parlamento riempia questo vuoto, Roma vuole fare la sua parte e consentire ai suoi cittadini di depositare presso tutti gli uffici decentrati le proprie volontà. Per questo mi impegno a sottoporre la Vostra proposta all'Assemblea Capitolina». Così il sindaco Ignazio Marino in una lettera inviata in occasione della riunione di una Assemblea Cittadina sull'istituzione del registro dei testamenti biologici a Roma tenutasi in Campidoglio. «Sono onorato che in Campidoglio si legge nella missiva sia affrontato il tema del testamento biologico e della necessità di dare corso a tutto ciò che è utile per la sua attuazione nel rispetto dei diritti di ciascuno. Un tema delicato, che sta a cuore a questa Amministrazione. Lo dico da medico e anche da sindaco. Quella del testamento biologico resta una problematica di grande attualità. La sua approvazione in Parlamento rappresenterebbe un passo avanti molto rilevante per il nostro Paese, non
solo dal punto di vista delle implicazioni sanitarie, ma soprattutto per quelle culturali e del rispetto dei diritti di ogni persona. Lo chiede il 77,3 per cento degli italiani che, come fotografa il Rapporto Italia 2013 dell'Eurispes, sono favorevoli al testamento biologico. Lo chiedono gli operatori della sanità costretti, in assenza di uno strumento normativo, a prendere decisioni certamente in scienza e coscienza, ma solo secondo la propria visione della vita».

il Fatto 7.4.14
Corruzione, la tassa da 1.000 euro a testa
di Gian Carlo Caselli


Di settimana in settimana, di legge in legge, è arrivato il momento di parlare di corruzione. Anche in questo caso si può constatare, riscontri alla mano, che la legalità costituisce per ciascuno di noi un’effettiva e precisa “convenienza”: al di là del fatto pur importante che è cosa bella buona e giusta che le regole stabilite per tutti siano osservate da tutti e non soltanto da alcuni, oltretutto guardati con sufficienza arrogante dagli altri, i sedicenti “furbi”. Che la corruzione sia, in Italia, una tassa immonda di devastante immensità lo sappiamo bene. Perché, se non siamo tanto bravi a contrastarla efficacemente, ci consoliamo stabilendone l’ammontare con conteggi ufficiali sfornati periodicamente (sempre in crescendo) dalla Corte dei Conti o da un qualche costoso “carrozzone” alle dipendenze della Presidenza del consiglio dei ministri. Le stime dei profitti illeciti di solito sono approssimative per difetto. Ma i dati sulla corruzione italiana (sessanta miliardi di euro l’anno! Un vergognoso prelievo occulto che “ vampirizza” i cittadini, risucchiando di nascosto mille euro a testa, neonati compresi...) sono comunque spaventosi. Resi ancor più pesanti – se mai fosse possibile – da un recente report UE che valuta il costo della corruzione in Italia pari alla metà del totale europeo. E non consola per niente, anzi, notare che l’accentuazione del fenomeno in casa nostra può derivare anche dalle maggiori difficolta di prevenzione e contrasto che qui si registrano. Si tratta, in ogni caso, di costi che hanno ricadute non solo sul piano immediato delle risorse che sfumano e si perdono. Riflessi pesantissimi vi sono anche sul versante dello scialo di opportunità preziose, sia nel medio che nel lungo periodo;- con ulteriori non meno deleterie ripercussioni per la sfiducia che una corruzione pervasiva inesorabilmente scatena contro il sistema economico e contro le stesse istituzioni. E alla fine della triste storia, nel gioco sfacciato della corruzione, oltre ai corruttori e ovviamente a coloro che si lasciano corrompere ( personaggi che usano il potere loro delegato per soddisfare propri interessi, rendendosi così responsabili di una velenosa “frattura” degli interessi generali), ci sono soprattutto quelli che ci rimettono: una grande famiglia, della quale facciamo parte tutti quanti noi;- noi che a causa della corruzione dobbiamo tirare avanti con fatica e qualcosa in meno (trasporti, scuole, ospedali, campi sportivi, centri per anziani, manutenzione strade....), qualcosa che se invece l’avessimo sarebbe decisamente superiore la qualità della nostra vita. Dunque che la legalità paghi in termini di concrete prospettive di una vita migliore, con speranze di più felicità, non è la fissazione di un qualche magistrato con l’anello al naso delle regole. È semplicemente vero. E dimostrato.

La Stampa 7.4.14
Il nodo degli immigrati a Rosarno
“Con il salario minimo il 90% delle imprese da noi fallirebbe”
Nelle campagne di Rosarno ogni anno si radunano 5 mila immigrati
di Giuseppe Salvaggiulo


«Io potrei accettare un salario minimo legale, ma qui il 90 per cento delle imprese agricole fallirebbe». Mimmo Cannatà è un imprenditore nella campagne di Rosarno, dove ogni anno si radunano 5 mila immigrati. Nei 35 ettari dei suoi agrumeti lavorano otto dipendenti fissi più gli stagionali, 40 nei picchi. Metà stranieri (in maggioranza africani) «senza i quali dovremmo chiudere», soprattutto per la raccolta «perché i giovani italiani disponibili sono pochi, preferiscono essere laureati disoccupati».
Perché dice che il 90 per cento delle aziende fallirebbe?
«Un salario minimo esiste già nei contratti. Un operaio costa all’azienda, contributi compresi, 49 euro al giorno. Incide su ogni kg di arance per 6 centesimi, a cui bisogna aggiungerne 1,5 per potatura, irrigazione, concimi... Le industrie ce le pagano 7 centesimi al chilo. Dove vado a prendere i soldi per pagare il salario minimo?».
E quindi che cosa accade?
«Semplice: non raccolgo nemmeno. Basta girare nella piana per trovare arance sugli alberi. Abbandono totale».
C’è un’alternativa: il lavoro nero. Girando nella piana si vede anche quello, no?
«Quest’anno la polvere dell’Etna ci ha fatto perdere l’80 per cento del raccolto. Ho dovuto licenziare tutti. Dopo qualche giorno si presentavano in azienda chiedendo di lavorare anche per 10 euro al giorno in nero. Nessuno li prendeva».
Nega il lavoro nero?
«Non nego. L’80 per cento dei produttori qui non supera i 2 ettari. Non si tratta nemmeno di aziende. C’è un rapporto con gli immigrati che prescinde dalle regole: per lo più gli immigrati raccolgono e poi dividono l’incasso con i proprietari, oppure si paga in nero. Non c’è speculazione o arricchimento, è l’unico modo per farli lavorare. D’altronde se pensassero di avere a che fare con razzisti 8 africani su 10 non tornerebbero tutti gli anni».
Che effetti avrebbero salario minimo e minacce di arresto su questi produttori?
«Rinuncerebbero a raccogliere. Racconto la mia esperienza. Fino a un paio di anni fa avevo un aranceto e non stavo dentro con i costi. A me non interessava più raccogliere, ma vedendo questi ragazzi alla fame dicevo: raccogliete, vendete, guadagnate qualcosa. Da quando sono aumentati i controlli evito: se arrivano gli ispettori del lavoro non mi credono e finisco nei guai».
Quindi o nero o niente?
«No. Per questo dico che la mia azienda è in grado di sostenere un salario legale. Negli ultimi anni con i soldi della politica agricola europea anziché comprare il suv ho girato il mondo: Spagna, Australia, California. Ho capito che il mercato richiede nuove varietà e le ho impiantate. Ora posso vendere le mie arance a 50 centesimi. I nostri agrumeti sono fermi a mezzo secolo fa, fuori mercato: questo è il problema, il lavoro nero è la conseguenza».
Si può fare qualcosa?
«Il piano di sviluppo rurale finanziato dall’Ue prevede il 40 per cento a fondo perduto per le riconversioni. Non le fa nessuno perché il tecnico prende l’8 per cento solo per fare la domanda e la Regione impiega tre anni a valutarla. Io non voglio soldi a fondo perduto, ma prestiti a tasso agevolato: dal terzo anno vado in produzione e ripago anche il capitale».
Ne ha parlato alle istituzioni?
«Certo che ne ho parlato. Ma qui è come parlare a vuoto».

Corriere 7.4.14
Sanità e sprechi, l’equità negata
di Enrico Marro


In queste ore alla presidenza del Consiglio e al ministero dell’Economia si stanno facendo le ultime verifiche sul testo del Def, il Documento di economia e finanza che domani verrà approvato dal governo, il piano triennale che, nelle intenzioni di Matteo Renzi, dovrà conciliare il rilancio della crescita con il rispetto del percorso di risanamento dei conti pubblici («non perché ce lo chiede l’Europa, ma per i nostri figli»).
Al centro della manovra per il 2014 ci sarà il taglio, da maggio, delle tasse di 80 euro al mese per i lavoratori dipendenti che guadagnano fino a 1.500 euro netti, ha promesso lo stesso presidente del Consiglio, per un costo su base annua di 10 miliardi. Per il periodo maggio-dicembre il governo deve quindi trovare 6,6 miliardi per finanziare lo sgravio Irpef. Le coperture ci sono tutte e verranno dai tagli di spesa, assicura Renzi. La credibilità dell’operazione bonus in busta paga si misurerà, in Italia e in Europa, proprio su questo, cioè su quanta parte delle risorse necessarie a far salire gli stipendi medio-bassi verrà da riduzioni permanenti della spesa pubblica.
Il presidente e il titolare dell’Economia Pier Carlo Padoan dovranno saper respingere i veti dei ministri. Non ci possono essere capitoli di spesa esclusi a priori, nemmeno la Sanità, dove gli sprechi sono doppiamente gravi, perché tolgono risorse preziose che potrebbero essere impiegate per migliorare un servizio fondamentale che, in tante parti d’Italia, è a livelli ancora inaccettabili.
È vero, il ministro della Sanità è impegnato in una trattativa con le Regioni per un nuovo Patto per la Salute che faccia risparmiare «dieci miliardi di euro in tre, quattro anni» da investire, spiega Beatrice Lorenzin, nello stesso settore «in infrastrutture, ricerca, personale e accesso alle cure più innovative». Non è un risultato scontato, visto che anche in questa materia lo Stato, a causa del Titolo V della Costituzione, deve scendere a patti col sistema delle autonomie, ma è il minimo che si possa fare. Secondo il rapporto del commissario per la revisione della spesa, Carlo Cottarelli, l’incidenza della spesa sanitaria pubblica sul Prodotto interno lordo è salita dal 5,7% del 2000 al 7,1% del 2013. Dal 2009 le uscite non crescono più, essendosi fermate intorno a 111 miliardi di euro l’anno, ma il peso sul Pil, dice il commissario, deve scendere se l’Italia vuole riuscire a ridurre le tasse. Si può fare, a partire dall’applicazione di criteri uniformi negli acquisti (costi standard), dalla famigerata siringa agli appalti più importanti. E invece, proprio a causa della gestione inefficiente della Sanità, metà delle Regioni sono commissariate, col risultato che i cittadini pagano pesanti addizionali Irpef per coprire i buchi di bilancio. Il tutto mentre il 50% degli assistiti e il 70% delle ricette sono esenti dal pagamento del ticket, con punte dell’86% nel Sud. Uno spreco inaccettabile ai danni degli onesti: prestazioni regalate agli evasori mentre c’è chi non ha i soldi per andare dal dentista.
Il Def che Renzi varerà domani sarà diverso dai precedenti solo se conterrà un credibile percorso pluriennale di tagli strutturali della spesa pubblica, come premessa di altrettanti tagli permanenti delle tasse. Non ci possono più essere zone franche. È stato lo stesso Renzi a dirlo, ponendo giustamente anche il tema delle spese militari. Sanità e pensioni sono i principali capitoli di spesa del bilancio. Tutti sappiamo che contengono ampie sacche di spreco. Adesso vanno rimosse.

Corriere 7.4.14
Partito democratico
Licenziato in tronco un dipendente nel limbo tra Pd e Ds: lì l’articolo 18 non vale
di Segio Rizzo


Vent’anni a lavorare per un partito, e questo è il ringraziamento: licenziato senza preavviso. Magari ci sta pure, direte. Le casse dei partiti si stanno prosciugando ed è questo il risultato inevitabile. Se non fosse che la storia di Carmine De Guido, un «pollo di allevamento” (come lui stesso si autodefinisce) del Pds, poi dei Ds, e infine del Partito democratico, con i tagli ai costi della politica c’entra fino a un certo punto. Tutto comincia infatti due anni fa, nel febbraio del 2012, quando ancora la scure doveva abbattersi sui rimborsi elettorali. È allora che arriva a Taranto, dove De Guido in quel momento presta servizio per il Pd, una telefonata del tesoriere dei Ds, Ugo Sposetti: il quale annuncia al Nostro la chiusura di un rubinetto rimasto aperto, dice, anche troppo a lungo. Gli spiega che Ds e Pd sono due soggetti diversi, e il primo non può formalmente continuare a pagare gli stipendi per il secondo. «Guadagnavo 1.300 euro al mese. Il mio stipendio si è interrotto da un giorno all’altro senza che mai sia arrivata la lettera di licenziamento», racconta De Guido.
La ragione è forse che quella lettera nessuno la può, o la vuole firmare. E qui si toccano con mano le conseguenze assurde del metodo usato per far nascere il Partito democratico: non con una fusione fra i Ds e la Margherita che sarebbe stata la strada più logica (e forse avrebbe anche impedito certi abusi come quelli emersi nel caso che ha coinvolto l’ex tesoriere margheritino Luigi Lusi), bensì creando un soggetto nuovo e lasciando in vita i due partiti fondatori. Di fatto morti, ma giuridicamente ancora in vita.
In una frazione di secondo, nel febbraio del 2012, De Guido si ritrova figlio di nessuno. Non è più riconosciuto come dipendente dei Ds, che non esistono più, ma nemmeno risulta in forza al Pd, per cui invece lavora. Dice: «Avevo formale contratto di lavoro con la federazione di Taranto dei Ds ma i soldi arrivavano da Roma. Il passaggio dai Ds al Pd non è mai stato contrattualmente formalizzato, ma nei fatti lavoravo per il Partito democratico. Tant’è che il mio posto di lavoro era la sede della federazione provinciale del Pd. Lo sapevano tutti, da Sergio Blasi (l’ex segretario regionale, ndr) al suo successore Michele Emiliano».
Nel partito, De Guido non è proprio un ragazzino di bottega. A giugno compie 49 anni e per quasi tredici, dal marzo del 1993 al dicembre 2005, ha lavorato al Bottegone. Era uno di quelli della sinistra giovanile di Stefano Fassina e Nicola Zingaretti e si occupava della sicurezza urbana. Poi nel 2006 viene trasferito a Taranto. Ha in tasca un regolare contratto della federazione diessina, dove c’è scritto: «funzionario politico». Il passaggio al Pd è impalpabile. Tanto per lui quanto per suo fratello Vincenzo, che è addirittura segretario della sezione Gramsci-città vecchia, prima dei Ds e poi dei democratici. L’attività politica continua, insomma, come se nulla fosse accaduto: nel 2009 De Guido ha l’incarico di seguire la campagna elettorale di Elena Paciotti per le europee.
Fino a quel famoso giorno di febbraio. La cosa però non finisce lì. «Nell’agosto del 2012», continua De Guido, «c’è un incontro a Bari nella stanza di Blasi, con i tesorieri provinciali e regionali, e anche il tesoriere nazionale Antonio Misiani. Il tuo problema sarà risolto, dicono. Idem mi dice Fassina. E poi Emiliano. Ma alle rassicurazioni non seguono i fatti». Sfinito, fa una causa di lavoro contro la federazione diessina di Taranto e il Pd provinciale e a luglio del 2013 il giudice impone il reintegro di De Guido. Motivo: il licenziamento verbale non è ammesso. Però non succede niente, nonostante il partito venga inondato dalle sue lettere: «Ho scritto a Massimo D’Alema, Pier Bersani, Sposetti, Fassina. All’attuale responsabile degli enti locali Stefano Bonaccini. Ho scritto anche a Renzi. Tutto inutile». Rinuncia persino al reintegro, nella speranza di incassare almeno gli arretrati e la liquidazione. Anche perché se venisse reintegrato (e poi da chi, dai Ds che non esistono più o dal Pd?) potrebbe a quel punto scattare un licenziamento con tutti i crismi, che in base a un provvedimento del 1990 esclude i partiti dall’applicazione dell’articolo 18 dello statuto dei lavoratori. Con il risultato di subire, oltre al danno, anche la beffa. Per tutta risposta la sentenza del giudice del lavoro viene impugnata dalle controparti. Mentre scattano i pignoramenti alla sede tarantina del Pd. Alla domanda se abbia ancora la tessera del partito in tasca, De Guido risponde che non è riuscito a rompere del tutto, al punto che per sei mesi ha anche dato una mano alla presidente regionale Anna Rita Lemma. Quanto a quella tessera, sostiene di non averla più rinnovata. Dice di avere soltanto quella di un’associazione da lui fondata: «Le Belle città». Inguaribile ottimista.

Corriere 7.4.14
Chi ha visto le primarie Pd per le Europee?
Grillo, sfida aperta a «Renzie»: è come il leader nordcoreano
di R. P.


MILANO — «Renzie è nudo. Ripeto. Renzie è nudo. Vinciamonoi!». Se la prende ancora una volta con Matteo Renzi, Beppe Grillo, concludendo con questa frase un post sul suo blog, pubblicato ieri con il titolo «Primarie pd, chi le ha viste?» e accompagnato da un fotomontaggio del volto del presidente del Consiglio sul corpo del leader nordcoreano Kim Jong-un.
«Hanno destato scandalo le europarlamentarie del M5S — scrive online il leader, che stasera sarà a Milano per il suo tour «Te la do io l’Europa» —. Oltre 33.000 persone che decidono liberamente e insieme tutti i candidati delle liste per le elezioni europee hanno fatto storcere il naso a giornalisti paladini del partito unico e a un manipolo di schiaccia bottoni messi in Parlamento da segretari di partito e lobbisti. Nessuno parla invece delle primarie del Pd per le Europee». L’attacco è all’inquilino di Palazzo Chigi nonché segretario democratico: «Le regole sono semplici. Il votante è uno solo: il caro (nel senso che è costato due euro a ogni elettore pd) leader Renzie. I potenziali candidati devono essere foglie di fico (si parla di Tardelli, l’ex calciatore), ex ministri finiti nel dimenticatoio (come la Kyenge o De Castro), pasdaran di partito (Bresso, Cofferati, Emiliano, Cozzolino). L’ebetino sa che le primarie sarebbero state un flop, nessuno avrebbe partecipato alle ennesime buffonarie, nessuno avrebbe pagato altri due euro per sostenere ancora Berlusconi. Ha quindi optato per il votante unico: lui stesso, ma si è smascherato da solo. Gli elettori del pd contano zero».
Sempre sul blog, poi, ieri è stato postato un video che riprende i momenti di tensione tra i manifestanti e le forze dell’ordine durante un presidio NoTav: «Il senatore del Movimento 5 Stelle Marco Scibona manganellato dai poliziotti al presidio NoTav. Le immagini si commentano da sole...». Si legge ancora nel testo di commento alle immagini: «Il senatore Scibona è stato colpito con alcune manganellate dalle forze dell’ordine durante una marcia popolare ad Arquata Scrivia, durante la quale i cittadini hanno manifestato contro la costruzione della Tav. Finalmente la polizia ha cambiato bersaglio. Finalmente la polizia si è decisa a manganellare i politici. Certo che iniziare proprio da noi ci sembra un pochino eccessivo».

Repubblica 7.4.14
Il piano B del governo maggioranza al Senato con Sel e ex grillini
Boschi dopo lo stop di Berlusconi: avanti anche senza Fi Alfano: pronti a rompere con chi pone veti sulle riforme
di F. B.


ROMA. «I numeri li abbiamo comunque». Dopo la minaccia di Berlusconi di far saltare l’accordo sulle riforme, è il ministro Maria Elena Boschi a rispondere con un avvertimento rivolto a Forza Italia. «Se dovesse sfilarsi», puntualizza la renziana, si andrebbe avanti con i soli voti della maggioranza. A palazzo Chigi restano comunque convinti che le ultime uscite di Berlusconi siano legate a un problema personale (i servizi sociali in arrivo) e alla campagna elettorale e non mettano a rischio l’intesa. «Scommetto sulla tenuta dell’accordo», afferma infatti Boschi. L’altolà del ministro provoca in ogni caso una raffica di reazioni pesanti da parte di Forza Italia e s’intuisce una divaricazione fra i dialoganti e l’ala dura. Mentre il Cavaliere rilancia sul presidenzialismo, una colomba come Giovanni Toti in tv chiarisce che sulla fine del Senato «i margini di accordo ci sono, ma solo se non viene chiesta la fiducia né a colpi di maggioranza». Mentre il falco Renato Brunetta sfida Denis Verdini (architetto dell’intesa) a rendere pubblico il testo dell’accordo del Nazareno per vedere chi «bara» tra FI e Pd. Stretto nella dialettica tra i due partiti maggiori prova ad alzare la voce anche Angelino Alfano: «Siamo pronti anche a strappi e a rotture: chi vuole starci, ci sta».

La Stampa 7.4.14
Dolcemente complicate addio
Maria Elena diffonde la novella del «cambia verso»
di Alberto Infelise

qui

l’Unità 7.4.14
Lerner e Ovadia appello alla comunità ebraica: «Basta scandali»
di Pino Stoppon


«Dopo lo scandalo dell’Ospedale Israelitico di Roma, un altro caso di grave negligenza si abbatte sulla Comunità Ebraica di Milano, dal cui bilancio risultano sottratti fondi ingenti». Lo denunciano Gad Lerner, Stefano Levi Della Torre e Moni Ovadia, facendo riferimento al maxi ammanco nei bilanci della Comunità ebraica di Milano, recentemente denunciato dal presidente, Walker Meghnagi, secondo cui sarebbero stati sottratti nel corso degli anni alcuni milioni di euro.
Lerner, Della Torre e Ovadia rivolgono dunque un appello a una svolta alla leadership delle comunità ebraiche italiane. «Avvertiamo da tempo scrivono i tre il pericolo che leadership dedite a rapporti privilegiati col potente di turno, disinvolte nell’abbinare il settarismo identitario con le pratiche clientelari, danneggino seriamente la reputazione dell’ebraismo italiano; mortificando i suoi valori fondativi e il suo pluralismo culturale». «Le autoassoluzioni frettolose incalzano ancora i firmatari della lettera aperta decretate in nome della compattezza comunitaria non fanno altro che aggravare la situazione. Tanto più che fomentano atteggiamenti di intolleranza nei confronti di chi dissente: lo si è verificato a gennaio a Roma con l’interruzione di un pubblico dibattito». «Urge è la conclusione di Lerner, Levi Della Torre e Ovadia fare pulizia prima di Pasqua, come ci insegna la tradizione». Lo scandalo era scoppiato tre giorni fa quando una denuncia per un maxi ammanco nei bilanci della Comunità ebraica di Milano era stata presentata alla Procura della Repubblica dal presidente, Walker Meghnagi. Un dirigente amministrativo e alcuni impiegati sono tra i principali sospettati del «buco», secondo quanto riportato dal Corriere della Sera e da La Repubblica. L'ex tesoriere, indagato, avrebbe tentato il suicidio con il gas. In un’assemblea della comunità era' stato osservato che «negli ultimi mesi è stata sottoposta a controllo generale tutta la contabilità: approfittando della buna fede di tutti sono stati sottratti nel corso degli anni alcuni milioni di euro». Quanti, di preciso, ancora non si sa, anche se secondo indiscrezioni si tratterebbe di una cifra oscillante tra i 2 e i 5 milioni.
Non è il primo scandalo che investe la comunità ebraica. Lo scorso febbraio era toccato all’Opedale Israelitico di Roma costato molto caro ad Antonio Mastrapasqua, che qualche mese fa si è dimesso dal vertice dell'Inps, dopo che la procura di Roma ,lo aveva indagato per truffa aggravata. La vicenda al centro delle indagini risale al 2009, quando un controllo dell' Asl Roma D su alcune prestazioni dell'Ospedale Israelitico di Roma, di cui il manager era direttore generale, portò alla luce diverse incongruenze. Si trattava in particolare di alcune fatture per semplici interventi odontoiatrici per cui però venivano richiesti alla Regione Lazio rimborsi da intervento con ricovero, più onerosi, e questo nonostante la struttura non avesse quel tipo di accreditamento. Dai controlli successivi emerse che tra il 2006 e il 2009 questo accadeva nella stragrande maggioranza dei casi verificati, il 94% delle cartelle cliniche.

l’Unità 7.4.14
Minori, a Manila: arrestato nostro diplomatico
L’ambasciatore Bosio in vacanza nelle Filippine è stato denunciato dopo essere stato visto in un parco con tre ragazzini: nega ogni accusa
La Farnesina: «Massima trasparenza e rigore»
di Umberto De Giovannangeli


«Massima trasparenza e rigore assoluto». Ma ciò che trapela sembra delineare un caso scabroso. Più di un caso diplomatico. Ed è così per i possibili capi d’imputazione, e perché in questa vicenda è coinvolto un Ambasciatore della Repubblica italiana. Il garantismo, soprattutto in casi di questa natura, più che una opzione è un obbligo. Ma la trasparenza e il rigore invocato dalla Farnesina impongono di non abbassare i riflettori sul caso esploso a Manila, Filippine. Un diplomatico italiano è stato arrestato, secondo ambienti investigativi locali il fermo sarebbe stato convalidato ieri dal giudice. Si tratta di Daniele Bosio, ambasciatore in Turkmenistan. Il diplomatico era in vacanza a Manila. La polizia filippina lo ha trattenuto sulla base di una denuncia di chi lo ha visto con alcuni minorenni in un parco di Manila. L’accusa fa riferimento ad una legge delle Filippine per la tutela dei minori, datata al 1972. Secondo fonti di polizia locali, nella vicenda sarebbero coinvolti tre bambini. L’ambasciatore Bosio è trattenuto in un posto di polizia a sud di Manila.
Il diplomatico, dicono a l’Unità fonti della Farnesina, nega tutto. Le stesse fonti rimarcano il fatto che in passato, Bosio si era impegnato in attività di cooperazione e volontariato rivolte a favore dei minori.
Detto questo, restano interrogativi che attendono ancora una risposta. Per il momento, il diplomatico non può lasciare il Paese. In queste ore, stando a notizie di agenzia, sta facendo arrivare al giudice testimonianze sulla sua attività passata a favore dell’infanzia e della sua collaborazione con alcune Ong come McDonaldHouse a New York (dedicata all’assistenza a bambini con tumori), Big Brothers of New York (mentoring di minori), Caritas Roma (minori in disagio), Peter Pan (bambini con tumori).
LA LEGGE
Bosio ha ora tra i tre e cinque giorni di tempo per presentare un promemoria di difesa, spetterà poi al giudice decidere quali, nel caso, saranno i capi d’imputazione. Nella fattispecie, i reati che potrebbero essere contestati all’ambasciatore Bosio, sulla base della legge del 1972, sono di due ordini: tratta di minori o molestie e abusi. Comunque, capi d’imputazione gravissimi. Il diplomatico ha accesso a telefono ed e-mail e, confermano fonti della nostra sede diplomatica a Manila, si trovava nelle Filippine per una breve vacanza.
L’ambasciata italiana sta fornendo «ogni assistenza legale, come si fa in tutti i casi di fermi o arresti di connazionali». Sempre secondo fonti della nostra ambasciata a Manila, l’arresto è avvenuto sulla base della denuncia presentata da un’attivista australiana.
Daniele Bosio dal 2 dicembre scorso ha il grado di consigliere d’ambasciata e svolge le funzioni di ambasciatore italiano ad Ashgabat, il primo in Turkmenistan. Nato a Taranto nel 1968 è entrato nella carriera diplomatica nel 1995, quattro anni dopo essersi laureato in Scienze politiche all’Università «Luiss» di Roma.
Ha iniziato il suo percorso professionale alla Farnesina presso la Direzione generale Affari Politici. Dal 1995 al 1998 ha prestato servizio presso la Direzione Affari Politici Ufficio Osce. Dal 1998 al 2002 è stato Primo Segretario all'Ambasciata d'Italia a Algeri. Dall’agosto 2002 all’agosto 2006 è stato Console presso il Consolato Generale d’Italia a New York.
Rientrato a Roma, ha prestato servizio fino al febbraio 2010 nella Direzione Generale Mediterraneo e Medio Oriente Ufficio Vicino Oriente, con funzioni di Vicario. Dal 2010 alla fine di novembre 2013 è stato destinato all’Ambasciata d’Italia a Tokyo prima con le funzioni di Capo dell’Ufficio Economico-Commerciale e, dal luglio 2012, con quelle di Vicario dell' Ambasciatore.
Alla Farnesina si segue il caso passo dopo passo in continuo contatto con la nostra rappresentanza diplomatica a Manila. Diversi sono i lati oscuri di questa vicenda, ripetono fonti del Mae, garantendo l’impegno a far luce sulla vicenda, senza precostituite posizioni innocentiste ma anche senza volere dare adito a boatos, alquanto preoccupanti, che provengono dalla capitale filippina.

l’Unità 7.4.14
I partigiani di via Rasella senza tomba
Il cimitero acattolico rifiuta un posto a Carla Capponi e Rosario Bentivegna
La figlia: «Le loro ceneri saranno disperse nel Tevere»
La Regione Lazio: «Troveremo una soluzione»
di Nicola Luci


Non c’è pace neanche da morti per Rosario Bentivegna e Carla Capponi, i due gappisti che il 23 marzo del 1944 parteciparono all’azione di via Rasella, a Roma, contro una colonna di soldati tedeschi (il Battaglione Bozen), cui seguì la rappresaglia dell'eccidio delle Fosse Ardeatine. Due giorni fa il presidente del cimitero acattolico del Testaccio l’ambasciatore del Sud Africa Nomatemba Tambo, ha rifiutato uno spazio cimiteriale per le ceneri dei due partigiani.
La richiesta era stata avanzata dal sindaco di Roma, Ignazio Marino, e dal presidente della Regione Lazio, Nicola Zingaretti, che avevano preso carta e penna avanzando una richiesta formale. «L’ambasciatrice del Sudafrica Nomatemba Tambo, presidente di turno del Cimitero Acattolico ha spiegato non ha dato il permesso per la sepoltura di Rosario Bentivegna e Carla Capponi» ha detto la direttrice del cimitero Amanda Thursfield. Un «no» che suona come un gesto poco apprezzabile da parte della comunità internazionale nei confronti di Roma Capitale e dell’Italia. Carla e Rosario, che furono anche marito e moglie prima di separarsi, appartengono non solo alla memoria di una comunità cittadina ma anche alla storia della Resistenza di questo Paese.
Bentivegna, poi, fu un personaggio anche dopo la fine del conflitto bellico. Gli anni successivi del partigiano furono scanditi da una stagione di lotte politiche e sociali vissute attraverso la militanza nel Pci e la professione di medico-legale dell’Inca-Cgil, in prima linea nelle battaglie per la prevenzione sui
luoghi di lavoro. Comunista sui generis, libertario e anticonformista, nel ’56 si schierò contro il partito, condannando l’invasione sovietica in Ungheria. Nel ‘68 l'impegno internazionale a fianco della Resistenza greca durante il regime dei colonnelli e l'organizzazione dei viaggi clandestini dalla Grecia all'Italia, per permettere la fuga dei comunisti greci condannati a morte. Negli anni ’70 si schierò apertamente contro la violenza dei gruppi di sinistra extraparlamentare. Bentivegna fu molto critico, parlò apertamente di avventurismo. «Per questo motivo raccontò fui minacciato dagli estremisti sia neri che rossi. Ai tempi delle Br, rifiutai la scorta e la Digos mi consigliò di prendere il porto d’armi e di girare con una pistola per difendermi».
«Quel “no” del Cimitero acattolico mi risolve parecchi problemi» ha commentato Elena Bentivegna figlia proprio di Rosario e Carla. «Il 5 giugno, anniversario della Liberazione di Roma, disperderò le ceneri di mio padre e mia madre nel Tevere, come era nei loro desideri». «I miei genitori aggiunge avevano espresso come primo desiderio quello di avere le loro ceneri disperse nel Tevere, perché così avrebbero attraversato per l’ultima volta Roma e sarebbero giunti al mare che piaceva ad en-
trambi. In seconda battuta, avevano chiesto di essere sepolti al Cimitero acattolico per lasciare un punto di riferimento ai posteri. Ma visto che si sta anche cancellando la Costituzione per la quale loro avevano rischiato la vita, mi sembra giusto disperdere le ceneri come loro volevano».
«La risposta del cimitero acattolico va rispettata, c’è un protocollo molto rigido, è una struttura internazionale.
Hanno risposto che mancavano alcuni presupposti. Adesso vedremo e proveremo ad ascoltare le volontà della figlia Elena» ha spiegato a margine del Viaggio della Memoria, il vicepresidente della Regione Lazio Massimiliano Smeriglio. «Probabilmente ha aggiunto proveremo con il presidente del Consiglio regionale Daniele Leodori, che è stato sindaco di Zagarolo dove lei abita, a capire se c’è la volontà di trovare altre soluzioni. Sabato o domenica andrò a trovarla. Cercheremo di fare tutto ciò che è nelle nostre possibilità». Riguardo all' ipotesi che le ceneri vengano disperse nel Tevere, Smeriglio ha commentato: «Penso che sarebbe un peccato, la memoria appartiene alla figlia, alla famiglia, ma anche alla città di Roma, a tutti gli antifascisti, a chi ha combattuto. Quindi è bene che la città, la Regione e tutte le istituzioni facciano del loro meglio per trovare una collocazione, la più adeguata possibile. Invitiamo la figlia a riflettere bene ha concluso l'esponente di Sel quello del cimitero acattolico è un 'nò di cui prendiamo atto, che ci dispiace. Ora proviamo a ragionare su altre soluzioni che permettano agli antifascisti e a chi ha a cuore la resistenza di avere un luogo materiale in cui rendere omaggio ai due partigiani».

Repubblica 7.4.14
Unione dei popoli europei
La lezione di Mandela
di Tzvetan Todorov


L’UNIONE dei popoli europei è sorta come reazione alle guerre che hanno devastato il continente nel XX secolo, o alla minaccia di un regime tirannico. Paradossalmente, i politici che più hanno contribuito alla sua nascita sono stati i peggiori nemici di quei popoli: dapprima Hitler, poi Stalin. Il superamento delle divergenze nazionali è stato possibile solo grazie ai pericoli che incombevano sul continente: il ritorno della guerra, l’imposizione di un regime comunista. Da questo punto di vista, la costituzione di un’Europa politica è un successo: le guerre sono diventate impossibili tra Paesi membri di istituzioni comuni, e i tentativi di rovesciare i governi democratici sono falliti.
D’altra parte, l’impossibilità di una guerra tra gli Stati europei è all’origine di un’illusione nefasta: quella di un’invulnerabilità automatica, e quindi estesa anche al mondo esterno al continente europeo.
LO ATTESTA l’esiguità dei bilanci militari della maggior parte dei Paesi del Vecchio continente. In realtà, gli europei hanno scelto un’altra soluzione: quella di delegare la propria difesa globale a un fedele alleato, gli Stati Uniti, ottenendo così i vantaggi della sicurezza senza doverne assumere icosti.Un free ride, che però non è privo di inconvenienti.
Di fatto, dal momento in cui si affidano a un terzo, i popoli europei rinunciano a esercitare un controllo sui mezzi che quest’ultimo decide di mettere in campo. E di conseguenza non possono protestare contro il loro uso senza coprirsi di ridicolo: se non li approvano, perché non provvedono direttamente alla propria difesa? Per citare alcuni esempi recenti, come denunciare le torture ai prigionieri nemici, legalizzata nel corso della precedente presidenza degli Stati Uniti? Come dissociarsi dall’uso massiccio di droni in Paesi lontani per giustiziare individui sospetti, mai giudicati da un tribunale? Come protestare contro la sorveglianza generalizzata delle comunicazioni di interi segmenti della popolazione, e persino dei capi di Stato alleati? In tutti questi casi dovremmo attenderci una risposta inoppugnabile: queste misure — ci direbbero — sono indispensabili non solo alla nostra sicurezza, ma anche alla vostra.
L’Europa farebbe dunque meglio a farsi carico della propria difesa, per stabilire un più giusto equilibrio tra efficacia e legalità, sfuggendo alla tentazione dell’eccesso — di ciò che gli antichi greci chiamavano hubris. Questo atteggiamento di moderazione, in grado di preservare la coesistenza tra diversi principi direttivi, potrebbe divenire il marchio dell’Unione Europea anche in altri campi della vita pubblica. In particolare in quello dei rapporti tra potere politico e potere economico. Nei Paesi totalitari di tipo sovietico le esigenze economiche erano interamente assoggettate al diktat politico. I risultati sono noti: scaffali dei negozi perennemente vuoti, penuria cronica, con la popolazione costretta a ricorrere a miracoli di ingegnosità per sovvenire ai propri bisogni. Ma nel mondo contemporaneo dell’economia globalizzata sorge un pericolo di segno opposto: l’economia, affrancata da ogni dipendenza dalla politica, tende addirittura ad asservirla. Il termine di “democrazia” si svuota allora del proprio significato: il potere non appartiene più al popolo ma alle corporation multinazionali. In definitiva, ciò vuol dire che un ristretto numero di individui, potenti in ragione della propria ricchezza, decide del destino dei popoli. In linea di principio, l’Unione Europea avrebbe la capacità di proporre, e persino di imporre un rapporto più equilibrato tra i diversi poteri, per non lasciare che il perseguimento dell’efficienza economica comporti necessariamente la distruzione di ogni forma di protezione sociale e di controllo giuridico — in breve, della qualità della vita, che dopo tutto è lo scopo ultimo delle nostre istituzioni.
Nel campo della difesa come in quello economico, l’Unione Europea potrebbe riuscire dove i singoli Stati sarebbero condannati all’insuccesso: proteggersi militarmente senza dover legalizzare la tortura, e ovviare agli inconvenienti di un’economia globalizzata. Ma per affrontare questi compiti, e diventare così un agente sulla scena mondiale, è imperativo che l’Ue rafforzi la propria unità. Quest’evoluzione dovrebbe andare di pari passo con una democratizzazione, la quale implicherebbe il trasferimento di poteri dal Consiglio dei ministri — che riunisce i capi di Stato e di governo dei Paesi membri — al parlamento europeo, i cui deputati sono eletti dai loro popoli. Dovrebbe essere il parlamento a eleggere il proprio organo esecutivo, cioè la Commissione, il cui presidente sarebbe al tempo stesso presidente dell’Unione (funzione che oggi è assurdamente ripartita tra diverse istanze).
Al momento, questa auspicabile evoluzione delle istituzioni europee incontra un ostacolo non di poco conto: l’atteggiamento delle élite politiche di ciascun Paese, timorose di perdere nel quadro europeo le prerogative di cui godono a livello nazionale (secondo il principio che «è meglio un uovo oggi di una gallina domani»). Come convincerle a rinunciare volontariamente al potere di cui dispongono? Ma forse non è un’impresa impossibile: dopo tutto, Nelson Mandela è riuscito a persuadere il governo sudafricano a cedergli pacificamente il potere… In attesa di quel giorno felice, ogni misura volta a rafforzare il parlamento europeo è un passo nella giusta direzione. Quanto più elevata sarà la partecipazione alle elezioni europee, tanto maggiore sarà la legittimità del Parlamento.
Traduzione di Elisabetta Horvat

La Stampa 7.4.14
Ungheria, le destre fanno il pieno di voti
Stravince il premier conservatore Orban
Gli xenofobi di Jobbik salgono al 20%
Flop della sinistra
di Andrea Sceresini


Nuovo trionfo per Viktor Orban. Il premier uscente ungherese, leader del partito di centrodestra Fidesz, ha sbaragliato la fragile coalizione composta da socialisti, liberali e verdi, si è aggiudicato il 48% dei consensi e si appresta a governare, per altri quattro anni, forte di una assoluta maggioranza parlamentare, ben 134 seggi su 199 secondo le prime proiezioni. Nulla da fare per il centrosinistra, che si ferma al 25%. Il partito dell’estrema destra Jobbik, più volte tacciato di antisemitismo e xenofobia, fa registrare un ulteriore balzo in avanti, seppure non travolgente, attestandosi a ridosso del 20%. Un risultato ottenuto a suon di provocazioni e slogan nazionalistici: «Votate Jobbik per sconfiggere gli zingari», è il testo del lapidario sms che milioni di ungheresi si sono ritrovati ieri mattina sul proprio cellulare.
Budapest si getta ancora più a destra, confermando i sondaggi della vigilia e i timori di parte della comunità internazionale. Per Viktor Orban è il secondo mandato consecutivo, il terzo della sua carriera politica. «Andremo avanti senza esitazione sulla strada che abbiamo tracciato», aveva promesso alla vigilia. Certamente sarà così. Dopo il clamoroso trionfo del 2010 - quando ottenne il 53% dei consensi contro il 19% dei socialisti - il leader di Fidesz diede vita a una controversa serie di riforme: fece approvare unilateralmente una nuova carta costituzionale; varò la legge sui media, che contribuì a imbavagliare le voci d’opposizione; riformò la Banca centrale magiara, riservando all’esecutivo il potere di nomina dei nuovi governatori.
Cinquantuno anni ancora da compiere, decisionista dal piglio burbero e spiccio, Viktor Orban ha ottenuto il suo primo mandato di governo nel lontano 1998. Durante gli ultimi quattro anni si è conquistato la stima - e le preferenze elettorali - dei membri delle comunità ungheresi residenti in Romania, Ucraina e Slovacchia, concedendo loro, con l’ennesimo colpo di teatro, il diritto di voto in patria. «Manifestare contro il governo equivale a tradire il Paese», ha dichiarato. Grande amante del calcio, ex centravanti di belle speranze, fierissimo self-made man in salsa post-socialista: «il Berlusconi magiaro», così lo chiamano da queste parti. Il suo Milan si chiama Felcsùt, la squadra del villaggio dove è cresciuto, per la quale ha fatto edificare un futuristico stadio da quattromila posti, che troneggia come un’astronave tra le modeste casupole dal tetto di legno.
Ha detto di lui il leader dell’opposizione, il socialista Attila Mesterházy: «Orban è a capo di una potentissima lobby politico-economica, grazie alla quale è riuscita a soggiogare l’intero Pease». L’ultimo colpo di scena risale a un paio di mesi fa, quando il premier magiaro ha firmato un accordo economico con Vladimir Putin, concedendo alla società russa Rosaton l’incarico di costruire due nuovi reattori nella centrale nucleare di Paks, l’unica dell’Ungheria. I suoi provvedimenti sono stati aspramente contestati dall’Unione Europea, che lo scorso anno minacciò sanzioni finanziarie. Ben lungi dal lasciarsi intimorire, il leader di Fidesz ha reagito alzando la voce: «Noi non crediamo nell’Unione Europea - ha dichiarato -, crediamo nell’Ungheria».
Il suo cavallo di battaglia si chiama economia. Nel ultimi quattro anni il Paese è riemerso dalla crisi, i salari sono aumentati e la disoccupazione è stata sensibilmente ridotta. Un dato su tutti: dalla primavera del 2013 a oggi il numero dei senza lavoro è sceso dall’11% all’8%. Oggi Orban promette nuovi miracoli: gli ungheresi hanno deciso di credergli.

l’Unità 7.4.14
Budapest, dove il sonno dell’Europa genera mostri
Oggi c’è un abisso tra la ragion d’essere della Ue e i comportamenti concreti
Alla freddezza sociale fa riscontro una colpevole insensibilità verso i diritti e i doveri della democrazia
di Paolo Soldini


Il sonno dell’Europa genera mostri. Un mostro è Fidesz, il partito di Viktor Orbàn, che ha vinto le elezioni in Ungheria sulla base di un politica ultranazionalistica e autoritaria sul piano interno.
Non è ancora chiaro se riuscirà a conservare la maggioranza dei due terzi dei parlamentari che gli consentirebbe di proseguire la sua politica di smantellamento delle garanzie nell’ordinamento democratico del paese, ma comunque la sua vittoria è chiara. Jobbik, il partito fascista alla sua destra, ha avuto un successo temperato per fortuna dalla buona (e inattesa) tenuta dell’opposizione democratica, ma il suo estremismo xenofobo, revanscista e antisemita che va a sommarsi all’autoritarismo in doppio petto di Fidesz rende ancor più minacciosi i molti fantasmi dell’eversione che si agitano per l’Europa, dalla Francia lontana alla vicina Ucraina.
La conferma dello strapotere di Orbàn racconta all’Europa il contrario di quello che predicano le anime belle delle attuali istituzioni di Bruxelles e del Ppe, il partito popolare cui l’uomo forte di Budapest e i suoi aderiscono. Senza che nessuno abbia mai posto loro un problema di coerenza. Anzi, il capogruppo del Ppe al parlamento europeo, Joseph Daul, ha fatto addirittura un comizio con il primo ministro magiaro. Ha «messo la faccia» (come si ama dire di questi tempi) sua e del Ppe accanto all’uomo che rivendica l’esistenza della Grande Ungheria in cui dovrebbero riunirsi tutte le minoranze sparse per l’Europa orientale. Che ha asservito al governo la Banca centrale e ha cacciato i giudici costituzionali che lo infastidivano. Che ha istituito un organismo che distribuisce direttive e «visti di qualità» ai giornali e alle tv per controllare che non diffondano notizie «inopportune, offensive e non rispettose delle esigenze di ordine pubblico». Che ha promosso una politica di incentivi alle imprese, dopo averle strette in una ragnatela di clientele, che fa a pugni con le direttive Ue.
Ora ci si può chiedere: se le autorità di Bruxelles fossero state più coerenti e più attente, se i partiti che fanno capo al Ppe, a cominciare dalla Cdu tedesca, non avessero pesato col bilancino dei propri vantaggi l’apporto di Fidesz al gruppo popolare nel parlamento europeo sarebbe cambiato qualcosa in Ungheria e lo strapotere di Orbàn sarebbe stato almeno contenuto? Poiché la controprova non c’è nessuno può dirlo. Si sa però che tempo fa il gruppo dei liberali europei propose l’apertura di un procedimento contro Budapest in base all’art. 7 del Trattato di Lisbona, quello che prevede la sospensione dei Paesi che non rispettano i criteri minimi di democraticità e di rispetto dei diritti fondamentali dell’Unione.
L’iniziativa fu bloccata, e non solo dai popolari, ma anche dai socialisti perché i loro colleghi ungheresi temevano che potesse sfociare nell’uscita pura e semplice del Paese dalla Ue. Patetica manifestazione di impotenza e di colpevole rassegnazione che dice tutto sulla debolezza della sinistra magiara, povera di idee politiche e ricca di scandali, non ultima delle cause della resistibile ascesa di Viktor Orbàn. A voler essere ottimisti si può pensare che il risultato migliore delle pessime previsioni che circolavano alla vigilia ottenuto dalla coalizione democratica tra i socialisti, centristi e liberali sia un primo segnale di risveglio. Un segnale, nulla di più.
Ma la riflessione più seria che l’Europa deve fare prendendo spunto da quanto accade in un paese piccolo ma importante nella sua geografia e nella storia come l’Ungheria è quella evocata all’inizio. Ed essa non riguarda solo la contingenza, l’imminenza di elezioni per il parlamento europeo che rischiano di far diventare l’unica istituzione dell’Unione votata dai cittadini la tribuna di un populismo senza princìpi che vuole sfasciare tutto. Riguarda qualcosa di ben più profondo. Oggi c’è un abisso tra la ragion d’essere dell’Unione europea, la comunità di valori che essa rappresenta, prima e oltre l’economia, e i comportamenti concreti delle sue istituzioni e dei governi nazionali. Alla freddezza sociale, l’inimicizia quasi verso i cittadini, che le politiche economiche europee hanno dispiegato con l’austerità, i tagli e le trojke specie negli ultimi anni, fa riscontro una colpevole insensibilità verso i diritti e i doveri della democrazia, che pure sono esplicitamente sanciti nella Carta fondamentale approvata 14 anni fa e recepita nei Trattati. Il problema, prima che con l’Ungheria di Orbàn, si era posto con l’Austria delle coalizioni con gli xenofobi di Jörg Haider e per qualche altro paese in più di un passaggio della sua vita politica. Inclusa l’Italia, almeno per quanto riguardava l’informazione e la giustizia, ai tempi del Berlusconi trionfante. A Bruxelles e nelle cancellerie si sono commessi peccati di omissione.

La Stampa 7.4.14
Atene piegata dalla recessione
“Europa per noi vuol dire crisi”
Cresce la rabbia, sinistra radicale e neonazisti di Alba Dorata ormai fanno breccia fra i giovani
La sinistra radicale di Syriza è in testa ai sondaggi
di Francesca Paci


Atene è la finestra sulle paure dell’Europa, demagogia, nazionalismo centrifugo, nostalgie neofasciste. Tra i negozi vuoti e i caffè pieni circola un’energia primordiale in cui la rabbia si perde nella rassegnazione a godere del poco che resta, come fumare all’interno dei locali, estremo ribellismo contro i veti comunitari. Se c’è un paese in cui l’immagine di Bruxelles arriva così distorta da far paura ai bimbi che, racconta la maestra Panagiota Vasileiadi, ne parlano come dell’anti Babbo Natale, è la Grecia, dove la combinazione tra recessione e austerity è stata uno tsunami, con il salario medio precipitato a 600 euro, la disoccupazione giovanile vicina al 60%, un Parlamento che ospita Alba Dorata, «l’unico partito nazista in un’assemblea elettiva europea» scrive nel suo libro Dimitri Deliolanes.
Mentre l’Eurogruppo sblocca nuovi aiuti e il paese finanziario torna sui mercati, quello reale, che non vedrà presto gli effetti della eventuale ripresa, s’interroga sull’identità di una generazione per cui, in barba all’Erasmus, Europa è associata automaticamente alla crisi.
«Lavoriamo per i vampiri» dice l’attore 29enne Alex Tsotsis che gestisce la taverna Zoodohos Pigi nel quartiere di Kaminia dove, racconta, «si vedono persone ben vestite girare nel mercato per rubare le arance». I media filo-governativi non ne parlano, gli ateniesi sì. «Non vedo più tg» ammette la studentessa Melponemi Tsitsimpi. Nella libreria Elefterutakis chi può spendere sceglie i romanzi d’evasione della Fakinu,
«La relazione tra Grecia ed Europa è iniziata su basi superficiali tipo i bassi tassi d’interesse, un approccio utilitaristico svanito con la crisi» nota Konstantinos Ifantis, docente di relazioni internazionali all’Università di Atene. I suoi studenti, molti dei quali voteranno per la prima volta a maggio, lamentano di pagare le colpe dei padri che per trent’anni, dividendosi tra i due partiti del bipolarismo nato dopo la dittatura, hanno partecipato alla nuova orgia del potere.
«Nessuno ci ha imposto di indebitarci, ora però dobbiamo decidere se sopravvivere fuori dall’euro o vivere» ragiona l’informatico 24enne Stefanos Antypas. Gli amici al Floral Caffè, nel quartiere anarchico di Exarchia, sono scettici. Tasos Kampouris, laurea in business, sintetizza: «L’Europa è tante cose belle come viaggiare, ma la Grecia muore. Se avessimo un governo vero staremmo meglio fuori anche perchè siamo europei ma anche balcanici».
Così vicini, così lontani. «Per creare un’identità europea ci vorrebbe l’Erasmus obbligatorio perché solo i greci che partono si staccano davvero dal legame con una terra di sole, feste, lavoro non durissimo» nota la scrittrice e docente di legge Lena Divani (ha pubblicato «Memorie di un gatto» con e/o).
«Ho paura di andarmene, l’Europa del Nord è diversa», ammette l’ingegnere Eleni Letsioce che in un Paese con 11 milioni di abitanti e 24 università (più 14 politecnici) fa la commessa nel quartiere borghese di Kolonaki. Agli antipodi da lei la disoccupata Katerina Stavroula, anima della web radio antagonista RadioBubble, conferma: «Posso lavorare a Londra, certo. Ma è una necessità. Io sceglierei di restare qui».
Qui significa Grecia. A metà tra l’Occidente e quell’Oriente a cui tende il governo trattando investimenti russi e cinesi. Lo sanno bene gli immigrati che sognano Lamerica e si ritrovano bloccati nella pancia della crisi dagli accordi di Dublino II. Sono loro la «scusa» di Alba Dorata che spadroneggia nel quartiere di Agios Panteleimonas dove il 20% della popolazione è straniera e le famiglie assaltano i supermercati con il cibo scaduto in offerta. «Alba Dorata è un voto di protesta» dice la sociologa 21enne Vasiliki Meletaki. Lei invece, come molti suoi compagni, è delusa dai partiti tradizionali, confusa, offesa con l’Europa che «ci dipinge pigri»: andrà alle urne ma assai meno baldanzosa degli estremisti della destra (Alba Dorata è al 7,6%).
«I giovani sono disgustati dalla politica» riflette l’autore della Trilogia della Crisi Petros Markaris. Il quasi coetaneo John Panaretos, docente di statistica ed ex del governo Papandreou (i socialisti sono al 4,5%), fa mea culpa: «La mia generazione ha creato il problema ma non ne capisce l’effetto, per quanto valgano questi ragazzi non dispondono del loro futuro».
Il risultato è un arcano. La sinistra radicale di Syriza è in testa ai sondaggi. «Anche se la gente ce l’ha con Bruxelles sa che da soli faremmo peggio, per questo, diversamente dal 2012, ci battiamo per cambiare l’Europa da dentro» spiega la 28enne di Syriza Irini Agathopoulou. Ma nell’arena in cui sono nate 14 forze politiche in due anni avanza To Potami, il partito dell’ex reporter Theodorakis che in un mese di vita è già al quarto posto.
«Non saremo più fideistici verso i partiti come i nostri genitori» dice il 38enne Sotiris Bekas. Il ricordo della dracma seduce. Ma Dimitri Sotiropoulos della Hellenic Foundation for European and Foreign Policy minimizza: «Fuori o dentro l’Europa è un dibattito retorico, i greci sono come i giovani che contestano la famiglia ma non se ne vanno. È l’effetto della scuola che qui forma le coscienze su forti dicotomie».
La Grecia si sente la Cenerentola d’Europa. Leggerezza e resilienza. Come quando, nel 2009, all’inizio della fine, si scatenava ballando la canzone pop di Adonis Remos «Kommena piata de nica» («Ci hanno tolto il prestito»).

La Stampa 7.4.14
Israele e Palestina
Se i negoziati ostacolano la pace
di Abraham B. Yehoshua


Negli ultimi due anni l’espressione «processo di pace» si è fatta a mio parere problematica e, in un certo senso, dannosa. Per assurdo potrei dire che il processo di pace è diventato un ostacolo alla pace stessa.
Il «processo di pace», a causa degli israeliani, dei palestinesi, degli americani, e forse anche degli europei, si è trasformato in una sorta di entità diplomatica indipendente, la cui retorica morale e politica appare più importante dei fatti.
Dietro la facciata nasconde non solo uno stato di immobilità ma talvolta anche peggio: azioni contro la pace stessa. Il «processo di pace» crea l’illusione che la pace alla fine arriverà e, di conseguenza, infonde un senso di rilassamento, induce ad avere pazienza, quando, in fin dei conti, tale pazienza non è altro che una forma di passività.
Ricordiamo, per esempio, il rapido ed efficiente processo di pace svoltosi tra Israele ed Egitto, due Paesi che si erano affrontati in cinque grandi e sanguinosi conflitti. La visita del presidente egiziano Sadat in Israele nel novembre 1977 diede drammaticamente il via ai negoziati e, dopo meno di un anno, i princìpi di un accordo furono sanciti a Camp David: ritiro dell’esercito israeliano dal Sinai, smilitarizzazione della penisola, smantellamento degli insediamenti israeliani e apertura di sedi di ambasciata. Dopo pochi mesi la pace, che resiste da più di 35 anni, fu firmata.
Viceversa, nonostante nel 1993 fosse siglata a Oslo una prima intesa tra israeliani e palestinesi, un accordo di pace tra loro è ancora lontano. Inoltre, anche se in questi anni sono stati sottoscritti numerosi trattati provvisori, gran parte di essi è stato violato e tra le due fazioni sono avvenuti gravi e sanguinosi scontri, che continuano sporadicamente ancora oggi, per non parlare del notevole ampliamento degli insediamenti israeliani nei territori palestinesi.
Per ventun anni, a partire dagli accordi di Oslo, decine, se non centinaia, di emissari e di inviati europei e americani hanno fatto la spola tra Israele e i territori dell’Autorità palestinese. Si sono tenuti decine di vertici e ci sono stati contatti diretti a tutti i livelli. Presidenti, Segretari di Stato e della Difesa degli Stati Uniti, nonché ministri di molti paesi europei, sono venuti a Gerusalemme e a Ramallah per parlare, sollecitare e avanzare nuove proposte. Il Segretario di Stato americano John Kerry negli ultimi sei mesi è stato undici volte in Israele e nei territori dell’Autorità palestinese per promuovere il processo di pace, che però continua a languire.
La testimonianza più autentica della disillusione sull’attuale «processo di pace» la si ha nel corso di casuali conversazioni nelle strade delle città israeliane e palestinesi. Sia moderati che estremisti di entrambe le parti sono accomunati da una totale mancanza di speranza che la pace possa essere raggiunta e c’è anche chi, a destra e a sinistra, ritiene che nemmeno in futuro si potrà mai arrivare a tale obiettivo. Eppure la stragrande maggioranza della popolazione concorda che non si debbano in alcun modo fermare gli sforzi e questo perché, dopo una giornata spesa di fatto ad agire contro qualsiasi possibilità di raggiungere un accordo, è bello addormentarsi la sera con il «processo di pace» posato addormentato sul guanciale.
È interessante notare che la stragrande maggioranza degli israeliani e dei palestinesi e, naturalmente, di tutti gli intermediari europei e americani, descrive più o meno in maniera simile le possibili linee guida (reali, non immaginarie) di un giusto accordo tra Palestina e Israele. Se non che, nel frattempo, questo infinito «processo di pace» genera fantasie su possibili concessioni che una parte vorrebbe ottenere dall’altra, così che durante questa interminabile e inesauribile serie di illusioni, la pace si fa sempre più lontana.
Che cosa fare allora? Personalmente ritengo che solo una vera e propria crisi potrebbe favorire la pace. Non una crisi necessariamente legata a focolai di violenza bensì un’interruzione dei rapporti e la sospensione ufficiale (benché temporanea) del «processo di pace». E questa sospensione, naturalmente, non interesserebbe unicamente le parti coinvolte ma soprattutto i vari intermediari, europei e americani, che si comportano come assistenti sociali dal carattere debole in un istituto per ragazzi problematici. Un ritiro ufficiale degli Stati Uniti dal processo di pace, con tutto ciò che questo comporta per israeliani e palestinesi, potrebbe suscitare un senso di panico in ampi circoli e, forse, servire da incentivo per un dialogo concreto, e preferibilmente segreto, in vista di un possibile accordo.
A metà degli Anni Settanta, dopo la guerra dello Yom Kippur, il Segretario di Stato americano Henry Kissinger iniziò a darsi da fare per separare le forze di Israele, Egitto e Siria. Per un intero mese fece quotidianamente la spola tra le varie capitali. A un certo punto, disperato per la testardaggine di Israele, lasciò intendere che si sarebbe ritirato dalla mediazione e che gli Stati Uniti avrebbero riconsiderato i loro rapporti con lo stato ebraico e, in men che non si dica, meraviglia delle meraviglie, la posizione di Israele si ammorbidì e un’intesa fu raggiunta.
Non è possibile che gli Stati Uniti, ancora considerati la principale superpotenza mondiale e con le idee molto chiare sui dettagli e sul tipo di accordo che dovrà essere stipulato tra palestinesi e israeliani, sprechino le loro risorse, si umilino e creino false illusioni in un «processo di pace» che non fa che ritardare la pace stessa.

La Stampa 7.4.14
Testuggine romana e lezioni di tiro così nascono i carabinieri palestinesi
I nostri ufficiali addestrano a Gerico le forze di sicurezza del futuro Stato
di Maurizio Molinari


Lezioni di tattica romana, uso della forza senza violenza, addestramento agli imprevisti e all’ora di colazione formaggio e melanzane: benvenuti nella sede del «Miadit-Palestine», la missione dei carabinieri per istruire soldati ed agenti dell’Autorità nazionale palestinese alla gestione della sicurezza nelle aree della Cisgiordania di cui ha il pieno controllo. Agli ordini del colonnello Massimo Menniti, 51enne altoatesino, ci sono 30 carabinieri. Fra loro ci sono veterani delle missioni in Iraq, Afghanistan, Libia e Gibuti che riversano a 200 reclute provenienti da ogni centro della Cisgiordania nozioni ed esperienze tese a trasformarli in unità autosufficienti nelle attività di controllo del territorio, ricognizione, controguerriglia, tutela delle antichità, gestione delle scorte e protezione dei vip. 
L’Autorità palestinese ha selezionato alcuni dei suoi elementi più promettenti in polizia, guardia presidenziale, forze di sicurezza e difesa civile per affidarli ai carabinieri e la giornata per tutti - reclute e istruttori - comincia in mensa, facendo colazione con formaggio e melanzane. Subito dopo in quattro classi da 50 reclute ognuna iniziano i corsi. Nell’aula sul «controllo della folla» l’ufficiale dei carabinieri si sofferma sulla «tecnica difensiva della testuggine che risale ai tempi dell’antica Roma». Le reclute, incuriosite, lo bersagliano di domande e la spiegazione è fra storia e tattica: «Per affrontare minacce improvvise a aggressive i soldati romani si riunivano, proteggendosi con gli scudi» per resistere all’impatto dell’avversario e poi assumere progressivamente l’iniziativa. Nell’aula accanto un altro ufficiale italiano illustra le tecniche di pronto soccorso: come aiutare un agente o un civile ferito. Ed anche qui colpisce l’interazione con i palestinesi che, in inglese o attraverso l’interprete arabo, seguono ogni dettaglio, chiedono di tutto. «Hanno fretta di apprendere e il nostro compito è di metterli in grado di affrontare ogni situazione» sottolinea Mennitti, che nel quartier generale a Roma è il responsabile dell’addestramento di tutti i carabinieri.
Ecco come spiega il metodo per prepararli: «Ogni recluta deve seguire tutti i corsi, a rotazione, e poi affrontare un periodo di specializzazione nel suo settore, in maniera da essere in grado di gestire qualsiasi eventualità». Ovvero, mostrando davanti agli imprevisti la flessibilità che distingue gli stessi Carabinieri. Per il generale palestinese Mohammed Suleiman, capo del centro di addestramento di Gerico, «i vostri militari ci stanno aiutando a formare il nostro esercito il cui compito sarà vegliare sulla pace con Israele come sulla sicurezza dei nostri cittadini». 
Il rapporto fra militari e civili è uno degli aspetti sui quali i carabinieri si impegnano di più: vi sono corsi sul rispetto dei diritti umani, sulle differenze di genere e su un approccio alla popolazione teso a smorzare tensioni e attriti. Come dimostra l’addestramento all’uso del tonfa, un particolare manganello che serve più a proteggere l’agente che non a picchiare chi lo confronta. «Forza ma non violenza» è il motto che - anche in arabo - campeggia e viene ripetuto in classi, corridoi e nella palestra dove le reclute si addestrano al corpo a corpo sotto lo sguardo degli ufficiali palestinesi. C’è anche spazio per le donne: ve ne sono fra gli ufficiali palestinesi, gli addestratori italiani e i traduttori consentendo alle reclute di vivere in un ambiente militare non comune nei Paesi arabi.
Poco lontano dal centro di addestramento - costruito con il contributo di americani, canadesi, tedeschi e scandinavi - c’è il poligono e qui Mennitti sottolinea come «l’addestramento al fuoco avviene nel rispetto degli accordi fra palestinesi ed israeliani» che limitano ai fucili le armi consentire per soldati e poliziotti. «Questa missione avviene con il piano consenso di Israele perché rispettiamo regole condivise fra le parti» precisa Mennitti che a Ramallah ha incontrato il ministro dell’Interno palestinese, Said Abu Ali, prima dell’inizio della missione. 
«La firma di questo accordo - spiega il Console Generale d’Italia Davide La Cecilia - dimostra il sostegno italiano al “capacity building” palestinese perché il rafforzamento delle loro isti-tuzioni costituisce l’obiettivo principale della collaborazione fra i due governi». Con il tricolore issato sulla caserma della guardia presidenziale, «Miadit-Palestine» ha una durata prevista di quattro mesi ma l’impressione è che sia destinata a prolungarsi. Anche in vista della formazione di unità di polizia turistica per rafforzare tutela e salvaguardia del patrimonio artistico palestinese, a cominciare dal Palazzo di Hisham la cui finestra rotonda è il simbolo scelto dai carabinieri come il logo della missione.

La Stampa 7.4.14
Il “Dottor Zivago” arma segreta della Cia per abbattere l’Urss
Gli agenti fecero arrivare nel 1958 centinaia di copie oltrecortina
di Paolo Mastrolilli

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La Stampa 7.4.14
Ecco perché la sfida di Putin aiuta l’Europa
di Marta Dassù

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il Fatto 7.4.14
Ammainabandiera
Urss, impero crollato come castello di carte
Putin è l’erede del sogno della Grande Russia
Prima di lui, L’Unione sovietica
Gorbaciov, aprendo alla libertà, segnò la propria fine
di Alessandro Oppes


Mai tracollo fu più fragoroso. E rapido. Un impero che si disintegra - la storia insegna - suole essere un processo lungo, macchinoso. Per non dire poi che la durata dei grandi imperi si misura in uno spazio temporale di secoli. Non così per l'Urss, venuta giù come un castello di carte dopo - appena - settant'anni di vita. Non è che mancassero i segnali, ma pochi osavano scommettere su uno sgretolamento talmente repentino (tra le scarsissime eccezioni, quella di un fine analista di geopolitica come Zbigniew Brzezinski, consigliere Usa per la Sicurezza Nazionale ai tempi della presidenza Carter, che da tempo aveva messo in guardia sull'insostenibilità del sistema sovietico). E allora, quando il giorno di Natale di quel fatidico 1991 il tricolore russo venne issato sul pennone più alto del Cremlino rimpiazzando la bandiera rossa, il mondo reagì con sconcerto, tra il sollievo di alcuni - l'Occidente in primis - e il senso di vuoto dei nostalgici, che c'erano allora e, in parte, sopravvivono anche oggi.
Ma non poteva andare altrimenti, se si pensa che, già due anni prima, il vento del cambiamento aveva demolito la Cortina di ferro sotto lo sguardo impassibile di Mosca, in un frenetico crescendo di rivoluzioni - pacifiche alcune, altre meno - capace di spazzare via in pochi mesi l'intero blocco di "paesi fratelli" riuniti intorno a un ormai anacronistico Patto di Varsavia. Con un punto di svolta - oltre che elemento altamente simbolico - che fu la caduta del Muro di Berlino.
ERANO CONSEGUENZE logiche e inevitabili del clamoroso processo di riforme avviato cinque anni prima da Mikhail Gorbaciov, arrivato come un uragano ai vertici del Politburo del Comitato centrale del Pcus dopo che, morto Breznev, la gerontocrazia dominante aveva sparato le sue ultime cartucce bagnate con i decrepiti Andropov e Cernenko. Cambiare per non morire. L'architetto della perestrojka sapeva che l'Urss aveva bisogno di una cura shock, gesti tangibili di apertura economica e politica, che lo indussero a imporre la fino ad allora impensabile linea della trasparenza, la glasnost che raccoglieva consensi entusiastici più in Occidente che nelle impolverate stanze del potere sovietico. Gorbaciov sceglieva la rottura con il passato ma metteva le premesse per la sua stessa fine. E per lo sgretolamento dell'Urss.
I primi segnali arrivarono dalla repubbliche baltiche, inglobate nell'Impero dai tempi del patto Molotov-Ribbentrop del 1939. A febbraio del '90, quando Gorbaciov rinunciò di fatto al monopolio politico del Pcus convocando per la prima volta elezioni parzialmente pluralistiche, in Lituania, Estonia e Lettonia (ma anche in Moldavia) si imposero i partiti indipendentisti. Vilnius fu la prima a separarsi da Mosca, le altre seguirono subito, mentre il nazionalismo si affacciava anche nelle repubbliche caucasiche, aizzato dal conflitto tra armeni e azeri nel Nagorno Karabakh. Gli sforzi del leader di mantenere insieme i cocci dell'Urss erano destinati al fallimento. L'idea di varare un Trattato dell'Unione, per rifondare su nuove basi, meno centralistiche e con maggiori spazi di libertà, il paese dei Soviet, venne stroncata il 19 agosto '91 con il tentato golpe dei comunisti ortodossi guidati dal vice-presidente Gennadj Janaev. La manovra fallì, per le divisioni in seno all'Armata Rossa e per la resistenza organizzata dal presidente del Parlamento Boris Eltsin, nuovo eroe popolare. Gorbaciov, rientrato a Mosca dopo essere stato per giorni agli arresti nella sua dacia in Crimea, era ormai un leader finito. L'8 dicembre, con la dichiarazione di Belovezhskaya Pusha, Russia, Ucraina e Bielorussia abbandonavano l'Urss per dar vita a una fantomatica Comunità degli Stati Indipendenti, germoglio appassito di un'impossibile unione già andata in frantumi. Due settimane più tardi, anche le altre otto repubbliche che ancora non avevano proclamato l'indipendenza, si congedarono dalla "casa madre". Per Gorbaciov, ormai isolato e impotente, non ci fu altra soluzione che ammainare la bandiera e dichiarare sciolta l'Unione Sovietica.

il Fatto 7.4.14
“Lascio con un sentimento di angoscia”
Il discorso di addio da presidente dell’Urss
di Michail Gorbaciov


... Lascio il mio incarico alla Presidenza dell’Urss… sono intervenuto con fermezza a favore dell'autonomia, dell’indipendenza dei popoli e della sovranità delle repubbliche. Però ho difeso anche la conservazione dell’unità dello Stato e l’integrità del Paese. Gli eventi hanno preso un’altra direzione. ”
“Il destino ha voluto che quando mi sono trovato a capo dello Stato, fosse ormai evidente che il Paese non versava in buone condizioni … la società era soffocata da un sistema di comando burocratico. ” “Il Paese aveva perduto la prospettiva. Non si poteva più vivere così. Si avvertiva la necessità di un cambiamento radicale. ”
“La società ha avuto la libertà, si è emancipata politicamente e spiritualmente. Questa è la conquista più importante, di cui non siamo ancora consapevoli fino in fondo, perché questa libertà non abbiamo ancora imparato a usarla. ”
“Sono diventate realtà le libere elezioni, la libertà di culto, l'elezione degli organi di potere, il multipartitismo. I diritti dell’uomo sono stati riconosciuti come fondamentali. È stato avviato il passaggio a un’economia composita, proclamata la parità di diritti di tutte le forme di proprietà. ”
“Tutti questi cambiamenti hanno richiesto un impegno enorme e una dura lotta, a causa della resistenza crescente da parte del vecchio, dell’antiquato, del reazionario, delle strutture partitiche statali e dell’apparato economico precedenti, e anche della nostra abitudine ai pregiudizi ideologici, alla mentalità egalitaria e parassitaria. ” “Lascio la mia carica con un sentimento di angoscia, ma anche di speranza, fiducioso nella vostra saggezza e nella vostra forza d'animo. Siamo gli eredi di una grande civiltà e adesso spetta a ciascuno di noi aiutarla a rinascere a nuova, moderna e degna vita. ”

il Fatto 7.4.14
22 anni dopo
Nostalgia della Guerra Fredda
di A. Opp.


Non che abbia lasciato un grande ricordo di sé ma, a 22 anni dalla sua dissoluzione, l'Unione Sovietica continua a sollevare passioni e a suscitare qualche rimpianto. Fenomeno popolare o politicamente diretto? Entrambe le cose. Da un lato, un sondaggio Gallup realizzato tre mesi fa in 11 delle 15 repubbliche dell'ex-Urss rivela che oltre il 50 per cento degli intervistati ritengono la scomparsa del blocco comunista come un evento negativo per i loro paesi, soprattutto per le situazioni di violenza e i conflitti etnici che ha portato con sé, mentre solo il 24 per cento la giudica in modo positivo. Dall'altro, Vladimir Putin - l'ex agente del Kgb che da quasi tre lustri ha in mano le chiavi del potere al Cremlino - definisce ancora oggi come una "catastrofe geopolitica" la scomparsa del paese dei Soviet. Secondo Vladimir Bukovskij, l'ex dissidente che patì per dieci anni l'isolamento nelle galere brezneviane, l'attuale "zar" non comprese mai fino in fondo che lo sgretolamento non fu conseguenza di un complotto occidentale ma di un processo di crisi profonda, di insostenibile inefficienza. E per questo "crede che la sua missione sia quella di restaurare il sistema sovietico prima possibile". Da qui a dover paventare il pericolo di un ritorno alla Guerra Fredda, comunque, ce ne corre. Nel mondo della globalizzazione, l'interdipendenza economica è destinata a far premio su aspirazioni più o meno velleitarie. E se Mosca si è affrettata a mostrare i muscoli nella crisi della Crimea, per il resto sono parecchi gli esperti convinti che limiterà il suo piano a tenere intorno a sé un certo numero di paesi satelliti sottomessi. Le cinque repubbliche dell'Asia Centrale lo sono già. I veri rischi, mentre i baltici sono ormai saldamente ancorati all'Europa, potrebbero venire come al solito dal Caucaso, a cominciare dall'instabilità permanente in Abkhazia e Ossezia del Sud, territori reclamati dalla Georgia ma la cui indipendenza di fatto ha il pieno appoggio di Mosca.

Corriere 7.4.14
La presidente suggella il sacramento cattolico per una bambina figlia di una coppia omosessuale
Cristina Kirchner fa da madrina al battesimo gay
di R.E.


BUENOS AIRES — La presidente argentina Cristina Fernández de Kirchner è da ieri madrina della bambina di una coppia di donne omosessuali. Il battesimo di Uma, nata per inseminazione artificiale il 27 gennaio, ha avuto luogo nella cattedrale di Cordoba, seconda città del Paese, ed è il primo caso benedetto in Argentina dalla Chiesa cattolica che riguardi il figlio di una coppia gay. Mentre il papa (argentino) Francesco ha più volte condannato le nozze omosessuali, legali nel Paese dal 2010, il vescovo di Cordoba ha invece dato il suo assenso al battesimo. Il caso di Uma è anche il primo di «madrinaggio» della peronista Kirchner «al di fuori del decreto che autorizza che il capo di Stato sia la madrina di tutti i settimi figli, maschi o femmine», ha precisato l’ufficio della leader 61enne che ieri non ha presenziato alla cerimonia, preferendo inviare una sua rappresentante. Da quando ha assunto la presidenza nel 2007, la Kirchner è diventata la madrina di circa 400 bambini.
La richiesta di diventare madrina di Uma era stata mandata alla Kirchner via Facebook da Soledad Ortiz, la madre biologica, e da Karina Villarroel, unite in matrimonio un anno fa. «Nè mia moglie nè io siamo cattoliche praticanti, ma abbiamo pensato che nostra figlia meritasse di essere battezzata», ha dichiarato Villarroel, ex poliziotta. «Abbiamo chiesto alla presidente perché i nostri diritti li dobbiamo a lei. E lei ha risposto con un grande gesto».

Repubblica 7.4.14
Per oltre trent’anni ha spulciato documenti ed è andato alla ricerca di prove sui crimini contro l’umanità
Grazie al suo lavoro sono finiti in carcere leader del calibro di Pinochet e Duvalier Adesso l’ultima missione è la Siria
Brody, il terrore dei dittatori “Così ho incastrato i tiranni del mondo”
di Alix Van Buren


COME si diventa cacciatore di tiranni? Reed Brody, 60 anni, consulente e portavoce di Human Rights Watch, lo sa bene: ha trascorso un trentennio a inchiodare alla sbarra dittatori sulfurei come il cileno Augusto Pinochet, l’haitiano “Baby Doc” Duvalier, il chadiano Hissène Habré e pletore di aguzzini responsabili di atrocità dall’America Latina all’Africa all’Asia. Per conquistare gli “scalpi” — dice — servono una volontà tetragona, corvée snervanti di ricerche e di viaggi, e, soprattutto, «la profonda convinzione che anche un semplice cittadino possa cambiare il mondo».
Brody sorride soddisfatto mentre è al telefono da New York e si prepara a volare a Dakar dove l’aspetta il processo a Habré, “il Pinochet d’Africa”, per i crimini compiuti
in Ciad.
Soddisfatto della nuova vittoria, avvocato Brody?
«Può scommetterci. Abbiamo impiegato quindici anni a costruire l’accusa, convincere l’Unione africana a istituire una Corte speciale, emarginare i giudici corrotti dai soldi di Habré sottratti al Tesoro del Ciad. Finalmente il Senegal, dove lui s’è rifugiato, ha capitolato. Però, ho avuto un’immensa fortuna».
Quale?
«In Ciad, mentre aiutavo le vittime a raccogliere le prove, sono letteralmente incappato in cumuli di documenti: l’intero archivio della polizia politica. Nel quartier generale abbandonato, ho trovato migliaia di carte sparse fra calcinacci e ossa spolpate di polli, con la prova delle incarcerazioni, gli assassinii. Il Pinochet africano aveva portato con sé il tesoro nazionale ma non aveva badato a distruggere le prove dei suoi crimini».
Quella “pesca miracolosa” l’ha riportato ai giorni dell’arresto a Londra di Pinochet, nel ‘98?
«Era la prima volta che scendevamo in campo, con Human Rights Watch, come parte in causa al fianco delle vittime. Pinochet pretendeva l’immunità. Noi abbiamo ottenuto la conferma dell’arresto e l’estradizione. Quel giorno è suonata la sveglia per i dittatori, non più immuni dalla giustizia, ma si sono svegliate anche le vittime».
Cos’è successo?
«Mi sono piovute richieste da mezzo mondo: dall’Etiopia, dall’Uganda, dal Ciad. Mi chiedevano: e Suharto? Idi Amin? Sarebbe bello sottoporre tutti i despoti alla giustizia, ma a volte bisogna sfidare i poteri forti, e non sempre si riesce. Idi Amin era protetto dall’Arabia Saudita, come oggi l’America protegge sé stessa e Israele, la Russia protegge la Siria, e la Cina la Corea del Nord».
Eppure lei ha sfidato il presidente Reagan, nella faccenda dei contras in Nicaragua.
Come andò?
«Avevo 30 anni, ero viceprocuratore dello Stato di New York. Un amico m’invitò in Nicaragua. In giro per le montagne con un missionario, tanta povera gente mi raccontava le atrocità dei contras: i roghi, gli omicidi, le torture. “Devi farlo sapere in America”, imploravano».
E lei cosa ha fatto?
«Mi sono dimesso dalla procura, ho attraversato il Nicaragua in lungo e in largo sul retro di un camioncino pick-up, e raccolto testimonianze di centinaia di vittime. Fu un altro colpo di fortuna: il mio resoconto finì in prima sul New York Times. Reagan fu costretto a sospendere i fondi ai contras ».
Qual è oggi la sua più grande sfida?
«La Siria, l’inferno in cui sta precipitando. Abbiamo fatto un lavoro capillare, individuato i responsabili delle atrocità, i centri di tortura. Ma più continuiamo e più emergono atrocità anche dei ribelli, e questo rende più ambigua la situazione sotto il profilo morale, indebolisce la volontà politica d’intervenire da parte della comunità internazionale».
E il suo maggiore rimpianto?
«Non essere riuscito a fare incriminare l’ex presidente americano George W. Bush per avere ordinato il ricorso alla tortura, per gli abusi ad Abu Ghreib, per Guantanamo. Abbiamo depositato la richiesta in America e all’estero. Il fatto è che gli Stati Uniti si sono resi immuni alla Corte di giustizia internazionale, infatti non hanno ratificato il Trattato di Roma, ed esercitano il veto al Consiglio di sicurezza dell’On».
Chi sono i suoi peggiori nemici?
«I poteri politici, che fanno scudo ai propri protetti. I veri eroi, invece, sono le vittime che traggono forza dalle proprie sofferenze e l’investono nella ricerca della giustizia. È la loro determinazione a portare i tiranni alla sbarra».

l’Unità 7.4.14
7 aprile ’44 L’ultima cena
Il ricordo di Piero Terracina, unico superstite della sua famiglia deportata ad Auschwitz
In partenza per i viaggi della memoria nei quali da vent’anni accompagna ragazzi e studenti ci racconta quella notte quando arrivarono le Ss nel loro rifugio romano a seguito di una spiata: «Siamo stati venduti per cinquemila lire»
di Mariagrazia Gerina


«FINO A CHE NON VERRÀ MENO IL TESTIMONE, FINO A QUANDO NON MI MANCHERANNO LE FORZE?», recita la sua promessa ai ragazzi. Sono loro il viatico migliore per ogni nuovo viaggio. Anche adesso che ha ottantacinque anni compiuti, Piero Terracina se la ripete e parte. Così, appoggiandosi al bastone della memoria, stamattina sarà di nuovo ad Auschwitz-Birkenau. Ci è andato tante volte, in questi vent’anni, ha accompagnato migliaia di studenti. «Però stavolta temo l’emotività», confessa. Il viaggio, organizzato dalla Regione Lazio, cade in un giorno drammaticamente speciale. Il 7 aprile 1944, esattamente settanta anni fa, nella Roma occupata dai nazisti, Piero, che aveva appena 15 anni, insieme a tutta la sua famiglia, il padre Giovanni, la madre Lidia, la sorella Anna, i fratelli Cesare e Leo, lo zio Amedeo, il nonno Leone, furono venduti ai tedeschi, strappati dal loro nascondiglio, e avviati al massacro. Di otto che erano, soltanto lui è tornato. Quello fu il «16 ottobre» dei Terracina. E Piero, l’unico sopravvissuto, settanta anni dopo, è ancora qui per raccontarlo. Accetta di farlo con noi, prima della partenza.
Il primo ricordo di quella giornata è suo padre Giovanni: «Il 7 aprile 1944 era Pesah, l’inizio della Pasqua ebraica, festa della libertà. Noi l’avevamo sempre festeggiata con tutta la famiglia. E quel mattino, anche se vivevamo nascosti, papà ci disse: “Perché stasera non facciamo il Seder tutti insieme (cioè la cena pasquale)? Poi ce ne torneremo ciascuno al suo rifugio”». Il rifugio era un palazzo in piazza Rosolino Pilo, nel quartiere di Monteverde: «Il portiere, rischiando la vita, ci aveva dato le chiavi di un appartamento rimasto vuoto, ma per essere più sicuri ci eravamo divisi: i nonni dormivano a casa sua, noi ragazzi in un vano a metà dello scivolo per il carbone». Il secondo ricordo è Anna, sua sorella maggiore, che va al mercato: «Non aveva ancora ventitré anni, era molto bella. C’era ancora un mercato dietro casa, Anna uscì per andare a prendere qualcosa da mangiare e un ragazzo si mise a seguirla, facendole qualche complimento. Lei si voltò e disse: “Perché non giri un po’ alla larga?”». I fratelli invece restarono a casa: «Avevano trovato della farina, certo non kosher, e si misero ad impastare i pani azzimi per la cena. Papà intanto stava alla finestra. Se qualcuno fosse entrato nel portone, noi ragazzi avevamo una via di fuga: saremmo saltati sul terrazzo, avremmo scavalcato e ci saremmo ritrovati nel palazzo accanto, scendendo giù per le scale, senza farci notare».
Sembra un film il racconto di quel 7 aprile. La vita che continua, fino all’ultimo, anche in mezzo al terrore dell’occupazione nazista. «Uscivamo di casa tutti i giorni, a rischio di essere scoperti: dovevamo procurarci da vivere. Compravamo qualsiasi cosa per rivenderla: saponette, lamette da barba, filo da cucire». Piero aveva persino una bicicletta: «Come potevo tornavo nei posti dove un tempo avrei trovato i miei amici o qualche compagna della scuola ebraica, ce ne era una in particolare anche se, dopo il 16 ottobre, sapevo che non avrei incontrato più nessuno». Vivevano come fantasmi, ma speravano che presto sarebbero stati liberati. «Gli angloamericani erano vicini. A volte penso che se ci fossimo messi in cammino avremmo potuto raggiungerli anche a piedi».
E invece arrivò la sera. C’era anche zio Amedeo: «Era venuto a farci gli auguri». I Terracina si disposero tutti attorno alla tavola e nonno Leone intonò l’Haggadah, il lungo racconto dell’esodo: «Nonno aveva studiato alla scuola rabbinica, era nato in ghetto, nel 1860, si ricordava l’apertura dei cancelli il giorno della presa di Roma». In tavola c’erano le uova sode, il sedano, l’aceto, il sale, un cesto e il pane azzimo che Leo e Cesare avevano fatto al mattino: «Non eravamo ancora giunti al termine della preghiera quando bussarono alla porta. Mia sorella andò ad aprire: ritornò sconvolta, dietro di lei due SS con i mitra imbracciati. Venivano ad arrestare la più pacifica delle famiglie, armati come per un’azione di guerra. Sull’uscio c’era un italiano che li aveva accompagnati. Un altro era rimasto giù al portone.“Se ci indicate dove avete nascosto i gioielli proveremo a convincere i tedeschi a lasciarvi andare”, ci dissero. Anna ci raccontò che uno dei due era il ragazzo che l’aveva seguita al mattino, ci aveva venduto per cinquemila lire: eravamo in otto, un bel bottino».
Li portarono in carcere a Regina Coeli: «Sentii i cancelli chiudersi, ci misero con le spalle al muro, uno per uno ci schedarono e ci presero le impronte digitali, per me fu un trauma terribile, uscii piangendo, papà se ne accorse e sentì il bisogno di rivolgere a noi figli delle parole: “Ragazzi, possono accadere delle cose terribili, mi raccomando, qualsiasi cosa accada, siate uomini, non perdete mai la dignità”». Le ultime frasi umane, quella notte, le pronunciarono dei detenuti: «Cercarono di farci coraggio, ci dissero che gli alleati ci avrebbero liberato da un momento all’altro, uno di loro aveva ricevuto un pacco con delle cose da mangiare, che divise con noi». Quella fu la cena di Pasqua. Il giorno dopo per i Terracina iniziò la deportazione, prima a Fossoli e poi ad Auschwitz-Birkenau, dove Piero tornerà oggi. «Per fortuna non sarò solo», si schermisce immaginandosi già circondato dagli studenti, davanti alla «rampa» dove finivano i binari: «Mia mamma ci abbracciò, ci pose le mani sul capo un attimo soltanto per darci la sua benedizione. Poi, vedendo arrivare le SS con i cani, ci disse: “andate via, andate via”. Aggiunse: “non vi vedrò più”. Aveva capito tutto».
Ma suo figlio Piero è qui a raccontarlo. A porre le mani sul capo dei ragazzi a regalare la sua testimonianza: «Oggi non temo per me, ormai prossimo al traguardo, ma per i giovani, ho paura per le derive che vedo riaffacciarsi in Europa, le tensioni si scaricano sempre sui più deboli: il rispetto, la dignità, la libertà, la solidarietà non sono dono di dio, ma prodotto degli uomini, bisogna difenderli, non voltarsi dall’altra parte».

l’Unità 7.4.14
L’anarchico venuto dall’America: la fine del viaggio di Bresci
Anticipiamo un brano del libro di Paolo Pasi dedicato all’uomo che uccise Umberto I a Monza, nel 1900
di Paolo Pasi


MILANO, 24 LUGLIO 1900. L’ARIA È CALDA, UMIDA, MALSANA, E NON È SOLO PER VIA DELL’AFA APPICCICOSA CALATA SULLA CITTÀ COME UN MANTELLO SOFFOCANTE. È come se recasse traccia della polvere da sparo, come se Milano fosse ancora avvelenata dai colpi del generale che solo due anni prima ha ordinato il fuoco sulla folla affamata. È qui che è iniziato tutto, ed è qui che sta per finire il viaggio. Gaetano Bresci è arrivato da Piacenza dopo essere stato a Bologna, e ancora prima a Prato, la sua città natale dove ha rivisto i familiari, i pochi amici, i conoscenti, le persone attorno a cui ha costruito gli affetti dell’infanzia e oltre. Mancava da tre anni.
È un viaggio a ritroso, quello che lo sta portando a destinazione. È arrivato in Italia ai primi di giugno, passando per la Francia e Parigi, dopo la traversata in terza classe a bordo della nave Gascogne partita da New York.
L’anarchico venuto dall’America, come lo chiameranno alcuni intellettuali di rango e storici, è un uomo di quasi 31 anni, distinto, piacente, dai baffi curati e dall’abbigliamento raffinato per uno della sua condizione. A Prato, per questo, lo avevano soprannominato fin da ragazzo il «paino», ovvero il damerino, e lui si è sempre risentito per questa etichetta, appiccicata come se ai poveri non dovesse essere riconosciuto il diritto allo stile, all’eleganza, all’incedere dignitoso nonostante sopraffazioni e angherie. Ha visto tanti luoghi senza trovare pace in alcuno.
New York, Parigi, Genova, Prato, Bologna, Piacenza... Il viaggio si riavvolge come un nastro che torna a scorrere nella giusta direzione di marcia. Milano è rovente, il centro della città un luogo di passaggio poco affollato che reca testimonianza delle novità d’inizio secolo: l’elettricità, i tram senza cavalli, i grandi magazzini lungo corso Vittorio Emanuele. Ma non c’è applicazione moderna che possa cancellare le tracce del più recente passato. Ci sono ancora carrozze a cavallo, per esempio, e quell’aria sempre inquinata dall’odore della polvere da sparo.
Bresci imbocca via San Pietro all’Orto, una traversa di corso Vittorio Emanuele, e va dritto all’obiettivo. Con sé ha una valigia marrone e una macchina fotografica che cattura l’attenzione per le sue ridotte e avveniristiche dimensioni. È il taccuino visivo del suo viaggio, la testimonianza dei passaggi intermedi. Adesso è quasi arrivato. Ad attenderlo c’è Carlo Colombo, custode di uno degli stabili, ma soprattutto anarchico tra i più attivi e conosciuti a Milano. Uno che avrà problemi con la polizia fino all’ultimo giorno di vita.
«Qui, due anni fa, c’era l’esercito a presidiare le redazioni dei giornali e i sospetti covi sovversivi. Avevano militarizzato tutta la città» spiega Colombo a Bresci mentre lo accompagna dai coniugi Ramella, che gestiscono una piccola pensione poco più in là, al numero civico 4. I due anarchici s’intendono, anche se non possono dirsi intimi conoscenti. Solo compagni che condividono la percezione olfattiva della città e sanno ridurre al minimo certe parole e argomenti. Sebbene l’aspetto sia cambiato dai moti del 1898 repressi da Bava Beccaris, Milano è ancora sotto sorveglianza regale, e ogni minimo commento che evochi semplicemente rabbia, può essere l’anticamera della cella. Come avviene, peraltro, nel resto d’Italia.
I due arrivano dalla signora Ramella, che squadra l’amico di Colombo e lo trova un tipo distinto, rassicurante, come non se lo immaginava. Perfino un bell’uomo, ancora giovane, dal tono affabile.
«Gaetano Bresci, piacere».
«Benvenuto. La sua stanza è al primo piano».

pp.176, euro 14,00 Con illustrazioni di Fabio Santin Elèuthera
Il libro verrà presentato mercoledì alle 21, presso Cox 18 (via Conchetta, 18) a Milano. Dibattito e musiche con Paolo Pasi, Alberto Patrucco, Andrea Staid.

il Fatto 7.4.14
Quei “detective” sulle tracce di Dio
Viaggio nell’Ufficio miracoli che esamina le guarigioni prodigiose
In trent’anni 500 istanze
Fedeli e atei - anche l’avvocato Taormina - che raccontano d’aver sconfitto malattie inguaribili
Ecco come si svolge l’inchiesta
di Fabrizio d’Esposito e Carlo Tecce


Il primo miracolo di Gesù causò una sbornia generale. Racconta Giovanni l’evangelista: “Ci fu uno sposalizio a Cana di Galilea e c’era la madre di Gesù. Nel frattempo, venuto a mancare il vino, la madre di Gesù gli disse: ‘Non hanno più vino’”. Il Messia diede una risposta dura a Maria. Chiamandola donna: “E Gesù rispose: ‘Che ho da fare con te, o donna? Non è ancora giunta la mia ora’. La madre dice ai servi: ‘Fate quello che vi dirà’”. Venne così il momento: “Vi erano là sei giare di pietra per la purificazione dei Giudei, contenenti ciascuna due o tre barili. E Gesù disse loro: ‘Riempite d’acqua le giare’; e le riempirono fino all’orlo. Disse loro di nuovo: ‘Ora attingete e portatene al maestro di tavola’. Ed essi gliene portarono. E come ebbe assaggiato l’acqua diventata vino, il maestro di tavola (...) chiamò lo sposo e gli disse: ‘Tutti servono da principio il vino buono e, quando sono un po’ brilli, quello meno buono; tu invece hai conservato fino ad ora il vino buono’”.
Ufficio eventi soprannaturali: le verifiche scientifiche e teologiche
Quel che la ragione non riesce a spiegare è un miracolo. E sant’Agostino, che non fu mai privo di ragione critica, n’era convinto: “Non sarei cristiano senza miracoli”. La Chiesa cattolica per conservare se stessa deve accertare i miracoli, afflati di presenza divina, segni di onnipotenza del creatore, ma non deve raggirare la scienza. In Vaticano, in piazza Pio XII, c’è l’ufficio miracoli che lambisce la basilica di san Pietro. L’ultima correzione fu impressa più di trent’anni fa con la Divinus perfectionis magister: è la costituzione apostolica che accerta i miracoli. In piazza Pio XII ha sede la Congregazione per le Cause dei Santi, composta da 36 componenti fra cardinali, arcivescovi e vescovi supportati dai collegi di consultori, teologici e storici. Il prefetto è il porporato Angelo Amato, salesiano di Molfetta. In trent’anni le “istanze miracolose” sono circa state 500. Attraversato il sentiero lugubre del Medioevo, il Vaticano ha costruito un meccanismo per non confondere la mano divina con la mano di un impostore. Quando un fedele, o anche un ateo convertito, rivela di aver ricevuto una guarigione con l’intercessione di un uomo o una donna in odore di santità, che parrebbe al cospetto di Dio e così potrebbe intervenire per alleviare le pene ai sofferenti, la pratica non viene subito trasferita al palazzo in Vaticano. La procedura prevede una serie lunghissima, e complessa, di verifiche intermedie, teologiche certo, ma soprattutto scientifiche.
Apparizioni e stimmate a indagare è l’ex Sant’Uffizio
Non c’entrano nulla, per restringere il campo, i fenomeni mistici di apparizioni di Madonne o di statuette che piangono, come accadde a Civitavecchia qualche anno. O come l’apparizione a Palermo, nel quartiere popolare di Capo, di un’ombra sul campanile della chiesa di Santa Maria della Mercede (chiusa da anni) che i fedeli giuravano fosse l’adorata Santa Rita da Cascia o la Madonna Addolorata. Su questi fenomeni, che includono anche le stimmate, pensiamo a san Francesco d’Assisi o san Pio da Pietrelcina, indaga invece la Congregazione per la Dottrina della Fede, l’ex Sant’Uffizio. Proprio padre Pio, negli anni venti del secolo scorso, non venne creduto dal severo organismo vaticano. Padre Agostino Gemelli lo definì “un imbroglione”. Successivamente, le stimmate sono entrate pure nel processo di canonizzazione. Altro caso clamoroso sono le apparizioni della Madonna a Medjugorje. L’ex Sant’Uffizio continua a investigare con una speciale commissione d’inchiesta presieduta dal cardinale Camillo Ruini.
Il potere taumaturgico del fondatore dell’Opus Dei
I miracoli per eccellenza sono le guarigioni. Nel ’98, una donna indiana sconfisse il tumore dopo aver pregato una suora di origini albanese, madre Teresa di Calcutta. Nel ‘61, un italiano, malato di fegato, rimosse la malattia dopo aver pregato con un’immagine di Nicola Stenone, vescovo danese, sotto il cuscino. E nel 2005, una suora francese non ebbe più i sintomi del Parkinson dopo aver invocato l’aiuto di Giovanni Paolo II, appena scomparso. Non ci sono corsie preferenziali per i pontefici, tutti si devono sottoporre all’itinerario contemplato dalla Congregazione. Anche uno dei santi più discussi, Josemaría Escrivá de Balaguer, fondatore dell’Opus Dei, vanta una guarigione miracolosa. Nel 1993 si ebbe notizia della guarigione “rapida, completa e duratura, scientificamente inspiegabile” del dottor Manuel Ne-vado Rey. La sua malattia era “cancerizzazione di radiotermite cronica grave al 3° stadio, in fase d’irreversibilità”.
Processo per diventare santi: il rischio dell’intromissione diabolica
Per conquistare la santità, ci sono tre protagonisti essenziali: l’attore, il postulatore e il vescovo che controlla. L’attore propone una causa di canonizzazione, il postulatore, che deve risiedere a Roma, la sostiene in Congregazione e il vescovo conferisce la procura. La presunta guarigione miracolosa viene esaminata da una commissione di cinque medici più due periti, che possono essere anche atei o appartenenti a un’altra religione. Vengono ascoltati dei testimoni, vengono sottoscritti verbali e vengono anche incrociate le prove. Quando i medici non riscontrano dinamiche scientifiche, il fascicolo – sì, sono davvero faldoni di documenti – viene trasferito ai teologici, che devono scongiurare qualsiasi intromissione di satana, uno spirito del male che può superare le leggi naturali.
Giovanni Paolo II, un miracolo per l’avvocato Carlo Taormina
Non è necessario per un santo aver compiuto un miracolo perché il pontefice, esercitando i suoi poteri di capo supremo della Chiesa, può ricorrere alla “canonizzazione equipollente”. Questo tipo di accertamento, dunque non classico, presuppone tre caratteristiche: il possesso antico di culti, virtù del martirio, ininterrotta fama di prodigi. Giovanni Paolo II ha utilizzato soltanto una volta la “canonizzazione equipollente”, così come il successore Benedetto XVI, mentre Francesco lo farà per la terza occasione, il 27 aprile, quando proclamerà santo Angelo Roncalli, Giovanni XXIII. Insieme al “papa buono” sarà santo anche Karol Wojtyla. Tra i miracoli del pontefice che distrusse il comunismo (altro evento soprannaturale?) compare il volto noto di Carlo Taormina, ex legale berlusconiano. Prima di essere sottoposto a un delicato intervento chirurgico durato dieci ore, la moglie gli disse di aver sognato Wojtyla e che si sarebbe salvato. Taormina si è salvato. E da quel giorno va a messa.
Il santuario di Lourdes e i cinque gradi di guarigione
Un luogo di miracoli continui, almeno secondo i suoi pellegrini, è il Santuario di Lourdes, in Francia, dove non manca mai un dottore all’U fficio delle Constatazioni Mediche. Sette anni fa, per evitare di scadere nel “miracolificio”, a Lourdes hanno reso più rigorosa l’inchiesta medica. Cinque tappe per arrivare al miracolo. Prima, guarigione constatata: una sorta di autocertificazione, il malato si dichiara ex malato, all’improvviso, ma oltre la situazione fisica, va esaminata la situazione psicofisica. Seconda, guarigione confermata: scatta l’indagine scientifica e teologica. Terza, guarigione ratificata: cessano i dubbi sull'avvenuto miracolo. Quarta, guarigione certificata. Quinta, guarigione proclamata dal vescovo diocesano.
La gamba ricresciuta a un contadino “El milagro de los milagros”
Un incredibile miracolo “mariano”, attribuito cioè alla Madonna, in questo caso la Vergine del Pilar, avvenne nel 1640 nel villaggio spagnolo di Calanda, in Aragona. Non a caso è definito “El milagro de los milagros”. Il miracolo dei miracoli. Vittorio Messori ci ha dedicato un libro, anni fa. Nel luglio del 1637, un contadino analfabeta, Miguel Juan Pellicer, cadde dal mulo e finì sotto un carro. Gamba destra amputata a Saragozza e sepolta nel cimitero dell’ospedale della città. Nella notte del 29 marzo 1640, a Miguel ricrebbe la gamba, nel sonno. C’è anche la cicatrice dell’amputazione, quattro dita sotto il ginocchio.

il Fatto 7.4.14
Il seminario sulla teologia del miracolo


SI CONCLUDERÀ a metà Aprile il seminario Studium organizzato a Città del Vaticano dalla Congregazione delle cause dei santi. Lo Studium, istituito da un’udienza pontificia del 1984, ha per obiettivo la formazione di postulatori e collaboratori del Dicastero, nonché delle figure di Delegato episcopale e Notaio nei tribunali specifici che trattano le cause dei santi. Il seminario, a pagamento, prevede la ripartizione degli insegnamenti in tre parti, a carattere teologico, storico-agiografico e giuridico. Nelle 76 ore di lezione svolte presso la Pontificia Università Urbaniana si affrontano diversi temi che ai non adepti possono sembrare singolari: alcune lezioni riguardano segni necessari e contingenti della santità, fama di martirio e teologia dei miracoli, altre il culto delle reliquie. Nella parte giuridica invece ben otto ore sono dedicate alla procedura per identificare i miracoli effettivi e raccogliere le diverse prove.

Gli italiani credono nelle apparizioni e nei miracoli

Secondo un Rapporto dell’Osservatorio del Nord Ovest, il 64% della popolazione ci crede (+16,4%). Al Sud si raggiunge il 72% mentre al Nord il 58%.
Crolla la percentuale di chi si fida degli oroscopi (-70%) o crede nel malocchio (-44,3%), nella comunicazione con l'aldilà (-31,6%) o nella possessione demoniaca (-6,1%).

il Fatto 7.4.14
Il teologo
Mancuso: “Prodigi nati dall’energia della mente”
di Alessio Schiesari


La scienza non può capire tutto. Sempre più medici e scienziati se ne rendono conto”. Vito Mancuso, teologo e intellettuale cattolico, cerca di ricucire lo strappo tra ragione e fede, tra natura e intervento divino.
Qual è il suo rapporto con i miracoli?
Non ne ho mai visto uno, ma ho avuto a che fare con persone miracolate da Padre Pio. Si dice che i miracoli siano eventi prodigiosi che non riescono a trovare spiegazione nelle leggi naturali e che quindi vengono dal divino. Non li nego, ma credo in una spiegazione diversa: sorgono dal basso, dall’energia della mente umana, che non dominiamo del tutto e che la scienza non è in grado di spiegare. Non è qualcosa appannaggio esclusivo della fede cattolica: nel santuario greco di Esculapio, il dio delle medicina, sono stati ritrovati degli ex voto uguali a quelli di oggi. La stessa cosa avveniva in Egitto e oggi in India.
Si può essere buoni cristiani senza credere ai miracoli?
Certo, Gesù Cristo non ha mai legato la fede al miracolistico. Il cristianesimo consiste nell'amore per dio e per il prossimo ipostatizzato dalla figura di Dio. Se uno ama queste cose ma non riesce a fare spazio nella sua mente per i miracoli, pazienza. La dimensione cristiana della vita è qualcosa di più concreto.
Cosa direbbe a una donna sterile che, invece di andare dal ginecologo, va a sedersi sul trono della santa della fertilità?
Di fare l’una e l’altra cosa. I benefici della medicina sono sotto gli occhi di tutti, ma anche i suoi limiti. L’uomo non è solo un corpo: una carezza, una parola dolce hanno lo stesso potere curativo di un farmaco.
C’è spazio nel mondo moderno per questo tipo di fede?
Una certa ideologia che pensava di poter ridurre tutto a scienza e politica è in declino, per questo oggi parliamo di post modernità. Io sono convinto che certi fenomeni riguardino la scienza subatomica: anche lo spirito con cui si pensa alla malattia conta. Ci sono persone cui si dice che moriranno in poche settimane e poi questo avviene. Altre volte no. La scienza non può capire tutto, lo diceva anche l’Amleto: “Ci sono più cose in cielo e in terra, Orazio, di quante ne sogni la tua filosofia”.
Qual è la forza che attira la gente, da secoli, verso questa dimensione paranormale della fede?
Le stesse forze descritte nei vangeli: la disperazione per una malattia, la volontà di non essere schiacciati in una società che ti valuta per quanto spendi, la speranza. Poi ognuno con la sua sensibilità declina le cose a modo suo. Quando Gesù moltiplica i pani e pesci e la gente resta lì. Quando inizia a predicare la maggior parte se ne va. Sono passati duemila anni, ma non è cambiato niente.
Come si sente ad Assisi, a San Giovanni Rotondo, nelle vie piene di gadget “sacri”?
Anche Roma ormai è così, c’è Papa Francesco perfino sui lecca lecca. Sarebbe sbagliato non scandalizzarsi, ma anche scandalizzarsi troppo. Le persone vogliono avere un ricordo, un oggetto. L’uomo è fatto così.

il Fatto 7.4.14
Il Nobel
Fo: “I miracoli esistono, sono dentro la natura”
di Al. Sc.


Un miracolo? Hai presente i latterini, quei pesci piccolini che, di fronte a un predatore, si dispongono fino a creare l’immagine di un pesce grande e feroce? Ecco, per me questo è qualcosa di straordinario, come dire un miracolo”. Dario Fo, premio Nobel e drammaturgo è capace di stupire sempre. Il 14 aprile riporterà al teatro Arcimboldi di Milano “Lu Santo Jullare Francesco”, per questo di miracoli ha parlato spesso. E qualche volta si è anche arrabbiato.
Esiste una declinazione atea dei miracoli?
Gli eventi capaci di sorprendere la fantasia: lì c’è la presenza di uno spirito superiore capace di mettere in piedi cose straordinarie.
Cioè?
La storia dei pesci latterini. Gli scienziati rimangono sbalorditi, non riescono a capacitarsi di quest’organizzazione fantastica. Ogni pesciolino ha un numero e uno spazio dentro il mosaico, ma non c'è un regista a organizzare il tutto. Sono animaletti nati dieci giorni prima e riescono a realizzare una cosa fuori da ogni logica, impossibile. I miracoli, la magia: tutto esiste, ma dentro la natura. Lo sai che ci sono fiori che si trasformano, si mascherano da calabroni? Così gli insetti maschi credono di andare ad accoppiarsi, e invece il fiore lascia il proprio polline e, quando l’insetto se ne va, feconda altri fiori.
Cosa pensa dei miracoli della chiesa? Padre Pio, ad esempio.
Non l’ho mai seguito con attenzione. Però c’è qualcosa di straordinario: è cresciuto fuori dalla chiesa, perfino contro la chiesa in alcuni momenti.
Non è l’unica volta in cui è successo.
Assolutamente. Sa qual è la cosa che faceva arrabbiare San Francesco? Si adirava quando i fedeli raccontavano che aveva compiuti dei miracoli e non era vero. Ci teneva a dire “non sono santo, non faccio miracoli. Sono un semplice uomo che segue il vangelo”. Il più grande santo italiano non accettava si parlasse di miracoli e diceva anche che persino Gesù spesso si rifiutava di farne perché non voleva che la gente credesse in lui solo per questi gesti prodigiosi. Ne ha resuscitato solo uno: Lazzaro. Nessun altro, perché non voleva attirare l’attenzione della gente attraverso le magie. Avevo un altro strumento più potente: le storie di aldilà e di gioia. Gesù prometteva un mondo diverso, per questo la gente lo amava.
C’è una fede che ha bisogno di prove tangibili e un’altra più spontanea, gratuita.
Anni fa ho condotto un’analisi sulla pittura di Assisi: è saltato fuori che Giotto non ha mai dipinto la parte superiore della basilica. Le opere a lui attribuite erano di altri autori, Pietro Cavallini per esempio. Sono andato dai francescani a proporre uno spettacolo che lo spiegasse ai fedeli: loro erano d’accordo, ma il vescovo ha fermato tutto. Mi ha detto che, se la gente si è abituata a una cosa, non c’è ragione di cambiarla. Con i miracoli di San Francesco è accaduta la stessa cosa: alcune storie prodigiose rappresentate in tre dipinti sono inventate. La chiesa ha deciso che non poteva essere il santo più importante d’Italia senza miracoli. Poi la sua biografia non andava: la ribellione, il carcere, tutto doveva essere cancellato. Allora gli hanno appioppato i miracoli di altri santi, perché l’amore, la pietà e la carità verso i più poveri non bastavano.

il Fatto 7.4.14
Qualcuno che ci aiuti
La crisi alimenta l’industria della speranza
di Emiliano Liuzzi


E' un destino quello di correre dietro ai francesi. Sono i cugini nemici, da tempi immemorabili. Per buttarla sul profano, come direbbe Paolo Conte, si incazzavano, loro, i francesi, al passare di Gino Bartali prima e Fausto Coppi dopo. Non c'era storia. Se vogliamo parlare di sacro, e il dato sembra impossibile, siamo noi di qua dalle Alpi a dover correre dietro a loro: secondo i dati in possesso del Governo il turismo religioso in Europa occidentale si aggira intorno ai 10 miliardi di euro. L’Italia attrae il 40% di questo segmento. Non uno scherzo. “Ma è seconda”, spiega la ricerca, “dietro alla Francia. Si tratta di un dato sorprendente considerando il numero di mete rilevanti per pellegrini e turisti religiosi presenti in Italia”.
AD OGNI MODO tra i tour operator del settore la guida non può che essere a Roma: per gli spostamenti religiosi, dei devoti al miracolo, a padroneggiare è infatti l'Opera romana dei pellegrinaggi, l'Orp, organo della Santa Sede, alle dirette dipendenze del cardinale vicario del Papa. Una realtà che ha convenzioni con 2500 agenzie e una rete con migliaia di referenti sul territorio. E le mete più ambite sono quelle destinate ai miracoli, più o meno divise (in Italia) tra Roma, San Giovanni Rotondo, Orvieto, Assisi. Questa è l'industria ufficiale. Ma i numeri, sarebbero molto più alti. Secondo l'indagine Trademark, nel 2010, la Chiesa cattolica controlla ogni anno un traffico di 40 milioni di presenze, 19 milioni di pernottamenti, 250 mila posti letto in quasi 4 mila strutture. Il volume d'affari supera i 5 miliardi di euro all'anno, il triplo del fatturato della Alpitour, primo tour operator italiano. Oltre alle mete nostrane ci sono poi quelle estere: Fatima, Lourdes. La spesa di ogni singolo turista è calcolata in 104 euro al giorno, molto più dei turisti mordi e fuggi, e dei normali vacanzieri. E qui parliamo di quello che, per difetto, è calcolabile e che risponde ai crismi dell'ufficialità e del legale. Quello che invece ruota attorno alla vendita dei santini, per intenderci, è molto difficile. L'oggettistica religiosa, dai rosari alle madonnine con l'acqua spacciata per acqua benedetta, dalla stampa delle statuette ai crocifissi. In questo caso è assolutamente incalcolabile il giro d'affari. Centinaia di milioni di euro, solo a Roma. Sempre a calcolare quello che è il turismo ufficiale e assolutamente legato a luoghi di culto e miracoli, ai primissimi posti ci sono il Santuario della Santa Casa, a Loreto, San Giovanni Rotondo, la Beata Vergine del Rosario, a Pompei, Sant'Antonio, dove secondo stime recenti della Segreteria pellegrinaggi italiani (Spi), arrivano ogni anno quattro milioni di visitatori per ognuna delle località. Tre milioni di persone, invece, arrivano ogni anno alla Basilica di San Francesco, Assisi, al santuario della Porziuncola, Santa Maria degli Angeli e per la Sacra Sindone, a Torino. Ma anche in questo caso le fonti non sono verificabili, seppur timbrate dalla Spi. Sempre secondo la ricerca, un terzo delle persone arriva con gruppi organizzati, e in questo l'affare è gestito ancora dall'Opera romana pellegrinaggi. E' interessante notare, e qui emerge l'aspetto legato al miracolo e alla grazia divina, che molti dei visitatori sono repeater, cioè persone che tornano nello stesso luogo di culto più di una volta, il 30,22 per cento. Moltissimi sono alla seconda visita, molti altri, almeno un decimo di quelli calcolati, almeno alla sesta. Un discorso assolutamente a parte lo merita Lourdes, la meta più desiderata con il suo santuario costruito là dove nel 1858 la Madonna apparì per la prima volta a Bernadette Soubirous.
Tutt'oggi i pellegrini che si dirigono a Lourdes, oltre che per raccogliersi in preghiera, lo fanno nella speranza di godere degli effetti miracolosi dell'acqua santa. A differenza delle mete religiose italiane, i turisti vi arrivano (l'86 per cento) attraverso i viaggi organizzati e oltre la metà dei visitatori si ferma almeno tre notti. Anche il mezzo di trasporto è diverso: il 55 per cento arriva in aereo e, non a caso, l’Orp, attraverso un accordo, ha salvato la compagnia aerea Meridiana grazie all'esclusiva dei viaggi organizzati verso i vari luoghi di culto.
E LA CRISI? Negli ultimi dieci anni il business non ha subito alcun calo. Anzi. A confermarlo sono i dati dell'Istat: “Tra il 2004 e il 2010 i viaggi religiosi sono aumentati del 99,6 per cento”. Rilievi ulteriori non ce ne sono stati nel frattempo. Il calo, secondo don Piero Sabatini, parroco dell'Isolotto, a Firenze, ma anche responsabile della Turishav, l’agenzia dei viaggi religiosi della diocesi di Firenze, “c'è stato, soprattutto in Italia. Funziona Medjugore, assolutamente e sempre, meno i viaggi in Italia, ma non sappiamo calcolare la percentuale. E sicuramente il calo è sensibile rispetto alla crescita che c'è stata negli anni scorsi che è molto alta”.

il Fatto 7.4.14
La Scala santa
Quei 28 gradini in ginocchio per l’indulgenza
di Alessio Schiesari


“Non esiste luogo più santo al mondo”, dice con orgoglio frate Marcello. Sta traducendo dal latino e mentre parla indica con la mano la scritta scolpita nel marmo bianco che campeggia sopra l’affresco di Cristo in croce: “Non est in toto sanctior orbe locus”. Siamo a Roma, anche se questo è territorio pontificio. Accanto alla chiesa più antica del mondo, San Giovanni Laterano, c’è il santuario che per lunghi secoli è stato usato come cappella privata dai papi. I fedeli di tutto il mondo lo visitano perché ospita la reliquia più importante di Roma, la Scala Pilati, meglio conosciuta come Scala Santa: 28 gradini di marmo su cui Gesù Cristo avrebbe passeggiato più volte il giorno della sua condanna a morte. Percorrendoli in ginocchio durante i venerdì di quaresima si ottiene l’indulgenza plenaria, negli altri giorni dell’anno l’indulgenza parziale. Frate Marcello spiega di cosa si tratta con una metafora: “Il peccato è un chiodo nel muro. La confessione toglie il chiodo. L’indulgenza è lo stucco è ripara il buco”.
Il luogo sarà anche il più santo al mondo, ma chi trascorre qui le sue giornate è costretto ad occupazioni profane. “Signora, stia attenta alla borsa perché qui è pieno di ladri”, avverte Michela, la ragazza che lavora in biglietteria. Frate Marcello intanto raccoglie le cartacce che i turisti infilano in ogni intercapedine del pesante cancello in metallo.
Fa un certo effetto vedere tante persone in ginocchio che lentamente, ognuno con il suo ritmo, si avvicinano all’immagine di Cristo risalendo il marmo bianco della Scala. Qualcuno ha in mano una piccolo libretto: “La Scala Santa, storia e devozione”. Costa due euro, si vende in biglietteria ed è un misto tra una guida turistica e un breviario: dentro ci si trovano sia informazioni storico-artistiche che una raccolta di versetti del Vangelo. Ognuno racconta un momento degli ultimi giorni di Cristo, dal bacio di Giuda alla risurrezione. Una signora di mezz’età lo tiene nella mano destra mentre nella sinistra stringe un rosario. Il ragazzo accanto a lei, che avrà al massimo 25 anni, sfila lo smartphone dalla tasca e gli dà una rapida occhiata. Poi lo rimette nei pantaloni e sale un gradino.
Il luogo è meraviglioso ma, almeno nei week end primaverili, l’atmosfera difficilmente si potrebbe definire mistica: nella sala c’è troppo rumore e dagli altoparlanti una voce è costretta a richiamare lo sciame di turisti misti al silenzio. C’è gente da ogni parte del mondo: cinesi, giapponesi e coreani fanno foto; i russi vengono a visitare le icone conservate in un’altra ala del santuario, però non rinunciano quasi mai a salire la scala. Ci sono anche due fedeli che vengono ogni giorno, un anziano di Roma e una bella ragazza dell’est Europa. “Sono persone che soffrono molto, caratteri difficili. Nel risalire la Scala trovano un po’ di pace”, spiega Marcello, evidentemente un po’ imbarazzato. Michela racconta che ultimamente c’è un nuovo tipo di visitatori, quelli che fanno il tour dei set de La grande bellezza. Nella scena finale appare un’ala del Santuario: in molti arrivano e non hanno idea della reliquia che vi è custodita. Ma non è sempre così: “Accadono anche cose straordinarie: ho visto musulmani e protestanti piangere dopo avere risalito la Scala con il rosario in mano. Questo, per me, è un vero miracolo”.

il Fatto 7.4.14
La religione in “carta patinata”


PERIFERIE VIVIBILI L’editoria legata alla religione funziona. Per la prima volta, Mondadori, ha pubblicato un settimanale che è dedicato solo ed esclusivamente a una persona: il papa. Ed è già il fenomeno editoriale dell’anno, vista la diffusione e le vendite in edicola. L'idea di un giornale pensato per raccontare gli atti e le parole di Papa Francesco è nata dal direttore, Aldo Vitali. Il mio Papa, in edicola tutti i mercoledì a partire da oggi al prezzo di lancio di 0,50 euro, ha un taglio popolare, con fotografie di grande impatto. Altro settimanale, invece, si chiama Miracoli. E parla dei personaggi famosi che sono stati in qualche modo miracolati e raccontano la loro esperienza. Sulle copertine si sono alternati Al Bano, Carmen Russo, Veronica Maya. Il punto centrale è la figura di padre Pio, già ampiamente sfruttata da molti giornali popolari..

il Fatto 7.4.14
L’ospedale Galliera di Genova e il cardinale
I primari fanno a gara per il record dei rosari
di Ferruccio Sansa


“Carissimi, vi scriviamo per dirvi che la catena del rosario è arrivata a 1.330 Ave Maria al giorno. La preghiera è per la nostra conversione, per la conversione dei cuori di Genova”. Ancora: “Gentili direttori, è intenzione della direzione generale offrire a Sua Eminenza Reverendissima il cardinale Angelo Bagnasco, in occasione della sua visita al nostro ospedale, un omaggio… è a vostra disposizione un quaderno su cui trascrivere brevemente di vostro pugno un contributo che desiderate riportare a Sua Eminenza”. E poi mail con inviti a messe che aprono convegni di oculistica in occasione della festa di Santa Lucia Martire.
I medici dell’ospedale Galliera di Genova ormai ci sono abituati: le loro caselle di posta elettronica sono invase da messaggi che ricordano più una scuola di catechismo che un ospedale. Ormai non ci fanno quasi più caso. Ma “il tappo – come dice qualcuno – è saltato quando la direzione dell’ospedale ha convocato un incontro di tutti i dirigenti nella sede genovese dell’Opus Dei”. All’inizio discorso introduttivo e un’Ave Maria. Niente di grave, dirà qualcuno: un aiutino dal Padreterno può sempre essere utile, soprattutto se hai a che fare con la vita delle persone. Ma c’è un piccolo dettaglio: l’ospedale Galliera è una struttura che fa parte del Sistema Sanitario Nazionale. Quindi dello Stato. Uno strano ibrido: è pubblico, riceve finanziamenti regionali, ma con “una posizione peculiare”, come è scritto sul sito. Un ospedale storico per Genova, un punto chiave nella sanità della città. Pubblico, ma frutto del lascito della Duchessa di Galliera, guidato da una fondazione presieduta dal cardinale Angelo Bagnasco, che svolge un ruolo non soltanto di rappresentanza. Che ci tiene a essere informato sulla gestione. Sulle nomine. Del resto la Curia ha sempre messo qui uomini di sua fiducia, a cominciare da Giuseppe Profiti – vicino a Tarcisio Bertone, all’epoca cardinale di Genova – arrestato per l’inchiesta Mensopoli e infine assolto da una sentenza della Cassazione che ha ribaltato le pronunce precedenti. Quel Profiti che dal Galliera è stato poi promosso a guida del Bambino Gesù di Roma e della sanità vaticana.
E tra i medici c’è più d’uno che, sentito dal Fatto Quotidiano, lamenta “l’importanza data al curriculum spirituale oltre a quello professionale”. C’è chi ricorda che le preghiere di uno dei più devoti forse sono state esaudite perché lo hanno aiutato a diventare primario di un reparto che era senza medici. “Primario di se stesso”, dicono le malelingue.
Altri sottolineano la singolarità di un ospedale che non è ente di ricerca, ma ha un coordinatore scientifico, che percepisce uno stipendio complessivo di 192mila euro.
Stato, Chiesa, un nodo mai sciolto. Ma quelle mail forse non sono solo un episodio curioso, di costume. La questione è ben più profonda, ci ballano decine di milioni pubblici destinati all’ospedale. É un’operazione immobiliare che cambierà il cuore della città, fortissimamente voluta dalla Curia, non c’è bisogno di dirlo, ma anche dalla Regione guidata dal centrosinistra (che da dalemiano si è risvegliato un giorno convertito al verbo di Matteo Renzi). Oltre, ovviamente, l’opposizione di centrodestra da sempre vicina agli ambienti ecclesiastici (che alle ultime elezioni per il sindaco hanno sostenuto il candidato del Pdl, vicino agli ambienti dell’Opus Dei).
Insomma, dalla piccola storia del Galliera si può partire per raccontare di un progetto immobiliare che porterà cemento – e molto – nel cuore di uno degli storici quartieri di Genova, nonostante la rivolta degli abitanti. Ma soprattutto serve a tracciare una mappa del potere ligure, dove politica e curia sembrano ancora una volta molto vicine.
Tutto nasce dallo storico ospedale ottocentesco: padiglioni immersi nel verde, belli come palazzi nobiliari, con i soffitti a volta alti dieci metri. Un luogo di sofferenza, certo, ma anche un patrimonio per la città.
Ecco il punto: quegli edifici eleganti, nel quartiere residenziale di Carignano, uno dei più ricchi di Genova, valgono oro. Fino a ottomila euro al metro. Chissà se questo fattore ha pesato nella decisione del Galliera di lanciare il progetto. Che cosa prevede? Il grosso dell’ospedale sarà ospitato in una struttura nuova. Costo: 160 milioni, di cui ben 54 forniti dalla Regione che ha sempre sostenuto l’iniziativa. Accanto al vecchio ospedale nascerà un complesso di sei piani per 420 posti letto (oggi sono 540, ma è tempo di tagli). In totale fanno 226mila metri cubi.
Insomma, cambia faccia un quartiere. Ma soprattutto la città si chiede che cosa ne sarà dei vecchi padiglioni. Vincolati. Si parla di università, ma anche di residenze. Di grandi esercizi commerciali. In pratica su venti padiglioni ben diciotto cambierebbero destinazione.
“Dall’operazione incasseremmo 48 milioni, ma non è una speculazione. Ci servirebbero per il nuovo ospedale”, giurano i vertici del Galliera.
Ma gli abitanti del quartiere non ci stanno. Il Movimento Cittadini per Carignano che raccoglie 1.600 persone passa alle vie legali. Presenta ricorso al Tar. Ed ecco il primo colpo di scena: il Tribunale amministrativo regionale con una decisione clamorosa boccia il progetto.
Fine di un sogno (o di un incubo)? Neanche per idea. Il Galliera presenta ricorso al Consiglio di Stato. Ed ecco un’altra sorpresa: la Regione decide di appoggiare il ricorso dell’ospedale. Nonostante che gli stessi uffici dell’amministrazione avessero dato parere negativo.
Ed eccoci all’ultimo capitolo: il Consiglio di Stato dà ragione al Galliera. Il comitato dei cittadini non era legittimato a presentare ricorso. Niente da fare.
E, però, qualcosa resta da chiarire: “Il presidente della sezione del Consiglio di Stato che ha bocciato il ricorso è Giorgio Giaccardi, un imperiese che nel 1996 fu capo di Gabinetto dell’allora ministro dei Trasporti, Claudio Burlando, proprio lui che oggi, da Governatore della Liguria, sostiene il progetto in questione. Giaccardi avrebbe dovuto astenersi”, attacca Aleandro Longhi, ex assessore comunale ed ex senatore del centrosinistra, oggi profondamente critico con la maggioranza. Soprattutto per le scelte in materia di sanità.
Succede sempre così a Genova: tiri un filo, parti da una piccola mail, e ti ritrovi in mano mille nodi. Sempre gli stessi. Quei rapporti inestricabili tra chi guida la città, centrosinistra e centrodestra che dovrebbero essere l’uno contro l’altro armati e invece sembrano uniti su tante scelte molto discusse. Il cemento in primis.