martedì 8 aprile 2014

Repubblica 8.4.14
Il pasticcio delle riforme
di Stefano Rodotà


HO SCOPERTO in questi giorni di detenere da anni un potere immenso. Faccio parte di un “manipolo di professoroni” (così veniamo graziosamente apostrofati) che è riuscito nell’impresa di sconfiggere le velleità riformatrici di Craxi e Cossiga, di D’Alema e Berlusconi, e oggi intralcia di nuovo ogni innovazione. Usiamo un’arma impropria - “la Costituzione più bella del mondo” - per terrorizzare politici pavidi e cittadini timorati.
So bene che al grottesco, alla mancanza di senso delle proporzioni, all’assenza di informazioni accurate è difficile porre ragionevoli limiti. Ma qualche chiarimento può essere utile, per evitare che venga inquinata una discussione che si vorrebbe seria. Comincio proprio da quel riferimento alla Costituzione più bella del mondo, che viene usato con toni di dileggio e per accusare di testardaggine conservatrice chi critica questa o quella proposta di riforma, o meglio i tentativi di stravolgimento del testo costituzionale. Ora, quelle parole vengono da una fantasiosa uscita di Roberto Benigni, ma non sono mai state la bandiera di chi ha riflettuto sulla Costituzione con la guida di Costantino Mortati e Carlo Esposito, di Massimo Severo Giannini e Leopoldo Elia. Ed è falso che vi sia stato un irragionevole arroccamento intorno all’intoccabilità della Costituzione. È notissimo, invece, che si è insistito sull’obbligo di rispettarne principi e diritti, mentre si avanzavano proposte per una “buona manutenzione” della sua seconda parte. Mi limito a ricordare solo quello che io stesso e molti altri suggerimmo quando il governo Letta si imbarcò nella rischiosa, e fallita, impresa di modificare l’articolo sulla revisione costituzionale. Si disse che sarebbe stato opportuno cominciare subito, senza forzare quell’articolo, dai punti sui quali già si era formato un largo consenso - dunque dalla riduzione del numero dei parlamentari e dal superamento del bicameralismo perfetto, per il quale esistevano proposte ragionevoli, ben lontane da quelle sgrammaticate che circolano in questi giorni. Se quel suggerimento fosse stato seguito, oggi molto probabilmente già avremmo portato a compimento questa significativa riforma.
Facendo una veloce ricerca in rete, non sarebbe stato difficile trovare le molte riforme proposte anche dal mondo di chi critica le riforme costituzionali della fase cominciata con il governo Letta. Invece, tutta l’acribia filologica è stata impiegata per cogliere in flagrante peccato di contraddizione il noto Rodotà, reo di aver firmato nel 1985 una proposta di riforma in senso monocamerale. Purtroppo il ricorso a questo argomento è, all’opposto, la prova evidente di quanto profonda sia ormai la regressione culturale nella quale sono caduti molti che intervengono nella discussione pubblica. Quella proposta veniva fatta in un tempo in cui il sistema elettorale era quello proporzionale, i deputati erano scelti con il voto di preferenza, i regolamenti parlamentari rispettavano i diritti delle minoranze, non prevedevano “ghigliottine”, costrittivi contingentamenti dei tempi, limiti alla presentazione degli emendamenti. Erano i tempi in cui l’ostruzionismo della sinistra fece cadere in prima battuta il decreto con il quale Craxi tagliava i punti di contingenza e il Parlamento svolgeva grandi inchieste come quella sulla loggia P2. Quella proposta (n. 2452 della IX legislatura) era stata scritta da un costituzionalista di valore come Gianni Ferrara e andava nella direzione assolutamente opposta rispetto alla linea attuale. Voleva riaffermare nella sua pienezza la funzione rappresentativa del sistema parlamentare, assicurata da una forte Camera dei deputati che garantiva gli equilibri costituzionali e si opponeva alle emergenti derive autoritarie, alla concentrazione del potere nel governo. Nasceva dall’idea della centralità del Parlamento, rispondeva all’ineludibile diritto dei cittadini di essere rappresentati, che è alla base della sentenza con la quale quest’anno la Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità del Porcellum. Oggi, invece, l’Italicum deprime la rappresentanza, le proposte relative al Senato sono un pasticcio, e tutto confluisce in un sostanziale antiparlamentarismo, alimentato da artifici ipermaggioritari che fanno correre il rischio di una nuova dichiarazione di incostituzionalità.
Chi cerca proposte sulla riforma del Senato, com’è giusto che sia, può attingerne alla bella intervista su questo giornale di Gustavo Zagrebelsky o al disegno di legge presentato dai senatori Walter Tocci e Vannino Chiti, entrambi del Pd. La verità è che non sono le proposte ad essere mancate. Non si vuol riconoscere che da anni si fronteggiano due linee di riforma costituzionale, una neoautoritaria e una volta a mantenere ferma la logica democratica della Costituzione, senza ignorare i punti dove le modifiche sono necessarie. Ora il confronto è giunto ad un punto critico, ed è bene che tutti ne siano consapevoli.
Chi sinceramente vuole una Costituzione all’altezza dei tempi, e delle nuove domande dei cittadini, non deve cercare consensi con appelli populisti. Deve essere consapevole della necessità di ricostruire le garanzie e gli equilibri costituzionali alterati dal passaggio ad un sistema già sostanzialmente maggioritario. Deve riaprire i canali di comunicazione tra istituzioni e cittadini, abbandonando la logica che riduce le elezioni a investitura di un governo che risponderà ai cittadini solo cinque anni dopo, alle successive elezioni. Ricordate la critica estrema di Rousseau? “Il popolo inglese ritiene di essere libero: si sbaglia di molto; lo è soltanto durante l’elezione dei membri del parlamento. Appena quelli sono eletti, esso è schiavo, non è nulla”. Rousseau è lontano, è impossibile ridurre i cittadini al silenzio tra una elezione e l’altra, perché troppi sono ormai gli strumenti per prendere la parola. Se si vuole sfuggire alla suggestione che la Rete sia tutto, alle ingannevoli contrapposizioni tra democrazia rappresentativa e democrazia diretta, bisogna lavorare per creare le condizioni costituzionali perché queste due dimensioni possano essere integrate, come già cerca di fare il Trattato europeo di Lisbona. Le proposte non mancano, a partire da quelle sulle leggi d’iniziativa popolare (ne parlo dal 1997, e ora sono arrivate in Parlamento).
Le semplificazioni autoritarie sono ingannevoli, la concentrazioni del potere nelle mani del solo governo, o di una sola persona, produce l’illusione dell’efficienza e il rischio della riduzione della democrazia. Si sta creando una pericolosa congiunzione tra disincanto democratico e pulsioni populiste. Vogliamo parlarne, prima che sia troppo tardi, e agire di conseguenza?

il Fatto 8.4.14
Dopo l’appello
Riforme, l’insofferenza ai critici E le colpe degli intellettuali
di Roberta De Monticelli


A proposito della presa di posizione pubblicata qualche giorno fa sul sito di “Libertà e giustizia” ( liberta e  giustizia.it  ). Che non è un partito politico, ma raccoglie persone che intendono la cittadinanza come un impegno attivo, e non limitato al momento del voto. Un esercizio di attenzione e di riflessione critica, quindi di partecipazione allo “spazio delle ragioni”, o del dibattito pubblico – anche se sempre meno voci hanno “le ragioni” rispetto alle urla, agli slogan, ai match di pugilato televisivo o ai cinguettii.
CHI ASSUME questo impegno concepisce la democrazia come il regime politico in cui – in ultima analisi – la difesa della giustizia è affidata ai cittadini. Se la sovranità appartiene al popolo, punto, non c’è risposta alla domanda: chi difende la democrazia se il popolo decide democraticamente di sopprimerla? C’è solo un insieme di “forme e limiti” all’esercizio di questa sovranità, organi di rappresentanza, poteri distinti, equilibri e contrappesi, una Costituzione. Ma nessuno di queste forme e limiti è sacro e intangibile, e quello che è intangibile – la parte immodificabile della Costituzione – non ha di per sé efficacia sulle norme vigenti e sulla loro modificazione. Non vive quindi che nella voce dei cittadini, o meglio in quello strato della loro partecipazione che non è propriamente “politica”, ma “prepolitica”, non esprimendo interessi parziali, ma la cornice ideale di qualunque progetto politico. Perciò una filosofa ha scritto che la sovranità della sovranità è la giustizia. O, che è lo stesso, l’insieme dei valori che questa implica e che la nostra Costituzione riconosce. Ma questa giustizia è indubbiamente affidata ai cittadini: a questo livello la cittadinanza attiva è espressione di idealità, non di interessi. E cioè di quell’eccedenza dell’ideale sul fatto e sulla forza, senza la quale non esisterebbe un miracolo come il governo della legge, in quanto opposto all’arbitrio di questo o quell’uomo o gruppo di potere. Fra questi valori ce ne è uno, tanto fondamentale da essere quasi il presupposto di tutti gli altri: la fiducia.
Debbo potermi fidare di chi decide, in nome mio e degli altri, la modifica “delle forme e dei limiti” entro cui si svolge il nostro esercizio di sovranità. Senza questa fiducia, e la correlativa affidabilità, semplicemente non esiste una Repubblica, ma appunto e di nuovo solo una forzosa convivenza e una infida sudditanza. Ma nessuna simile fiducia può essere accordata non dico a un uomo, ma a un governo come tale, dove si tratti di cambiare, non in funzione propria ma per il bene di tutti noi, le regole stesse della della rappresentanza o della divisione dei poteri. E proprio contro la riduzione di rappresentanza ha argomentato Rodotà da par suo (Bersaglio mobile, 5 aprile). Oggi, ha sottolineato Zagrebelsky (intervista a Piazza Pulita, 31 marzo), è tutto un sistema che si tocca – pezzo a pezzo – senza un apparente disegno unitario e coerente. E infatti pare che occorrerà modificare qualcosa come 80 articoli della Costituzione (intervista a Sandra Bonsanti, Corriere della Sera 2/4/14). Questo vuol dire riscriverla, la Costituzione. Benissimo: Calamandrei non avrebbe voluto presente un governo ovunque si discutesse di Costituzione. Anche Massimo Cacciari ha detto chiaro e forte che a riscrivere una Costituzione deve essere un’Assemblea Costituente, non un governo.
C’È STATO un profluvio di parole sprezzanti contro chi ha sollevato obiezioni di metodo e di merito. Vediamo gli argomenti. Il primo: avete dato ragioni ideali alla palude – a queste sanguisughe della Repubblica – che sono i politici del malaffare o i burocrati dell’immobilità. Il secondo: le misure prospettate non hanno niente a che vedere con un rafforzamento dell’esecutivo o un plebiscitarismo o un’involuzione autoritaria. Al netto delle risposte (nessuno dei critici ha mai difeso lo status quo, nonostante la maligna bugia di Scalfari, Repubblica 6 aprile; le obiezioni riguardano l’apparente assenza di disegno coerente, oltre all’aspetto demagogico) resta un dato inquietante, che nessuno vede essere già parte dell’involuzione autoritaria di cui parliamo: l’insofferenza ai critici come tali. E questo vanifica completamente il senso del dissenso. Che serve a creare nuovo senso, non a far piangere o ridere, come fanno i comici. Hanno accusato i dissenzienti di gridare “al lupo” inopportunamente: e non si avvedono che è già da lupi rispondere così. Pochi vedono la tragedia vera: quanto l’idealità sia stata già appiattita sul fatto, e il diritto sul potere. E allora, se sono gli “intellettuali” a essere sotto accusa, questa accusa ce la meritiamo. Chi, se non noi, avrebbe dovuto tenere in vita il senso della differenza fra l’idealità e la volontà di potenza? Evidentemente, non ne siamo stati capaci.

La Stampa 8.4.14
Zagrebelsky: l’appello forse è stato tranchant. Ma Renzi con noi è presuntuoso
“Non ci mettiamo in gioco? Il premier ci ascolti, ho una proposta”
intervista di Jacopo Iacoboni


«La critica di Rusconi, tanto amichevole quanto severa, mi ha fatto molto riflettere». Pranzo a menu fisso col «professorone», 22 euro in due: arriviamo alla piola del cinema, due passi dietro il bellissimo campus di giurisprudenza a Torino, passeggiando lungo la Dora e parlando di tutto, da Renzi a Grillo alle riforme e ai «parrucconi».
Cosa l’ha fatta riflettere delle parole di Rusconi, professore?
«In primo luogo la contrapposizione tra le nuove generazioni, che hanno “una gran voglia di cambiare”, e noi vecchi. Rusconi su questo ha ragione».
In che senso?
«Esiste, nella contrapposizione, un elemento di biologia fisiologica. Viene un momento in cui i giovani dicono che tocca a loro, e noi siamo una palla al piede. Sotto certi aspetti questo è positivo. Tuttavia se è vero che l’insofferenza dei giovani ha il suo fondamento in un istinto vitale, non vuol dire che i vecchi debbano tacere, o peggio mettersi a fare i giovani. Il giovanilismo dei vecchi è una delle cose più disgustose. Ognuno faccia la sua parte».
La vostra è quella dei professoroni? Lei si sente un professorone?
«Ma è una parola di scherno. Ci gonfiano per poterci umiliare e cantar vittoria. Sono e mi sento un professore. Il mio habitat è l’Università, a contatto con gli studenti. Varie volte mi sono state offerte candidature. Ho sempre rifiutato perché la politica non fa per me. È cosa molto seria, e bisogna averne la vocazione. L’unico potere, per quelli come me o Rodotà, è dire ciò che si pensa. Mentre il dovere di un politico è ascoltare tutti; poi naturalmente tocca a lui decidere».
Renzi non ascolta? L’ha incontrato?
«Due volte, non recentemente. Un paio di anni fa Carlin Petrini organizzò una cerimonia a Pollenzo, il conferimento delle lauree ai suoi studenti. C’eravamo Lella Costa, io e, per l’appunto, lui, chiamati a rievocare la giornata della nostra laurea. Lo conobbi come un ragazzo brillante, nel quale, allora, non avrei immaginato la vena di una certa presunzione che mi pare emerga ora e si manifesta con battute e frasi fatte al posto di argomenti».
In che senso presunzione?
«La presunzione consiste nella chiusura a ogni discussione, un atteggiamento che presuppone il possesso del criterio del bene e del male. Se ci fossero canali aperti di confronto, si farebbe tutti più strada: tutti, come si conviene in materia di Costituzione. Ma questo presupporrebbe una cosa, che manca, come ha detto Massimo Cacciari: la chiarezza d’un disegno generale del quale discutere».
Davvero siete convinti che ci sia una svolta autoritaria in Italia?
«La svolta autoritaria non è la riforma del Senato, un obiettivo marginale. E’ un insieme di elementi che formano un quadro inquietante: la riduzione del Senato a un ibrido non politico; una legge elettorale che comprime il pluralismo con “soglie” assurde; deputati nominati dalle segreterie che faticano a mostrare la loro libertà di rappresentanti; il crollo dei partiti da cui emerge solo la leadership personale; una riforma strisciante, ma non dichiarata, della forma di governo; il rifiuto altezzoso delle mediazioni sociali, sostituite dalla presunta immedesimazione popolare. Ce n’è abbastanza, tanto più che la chiusura degli spazi della democrazia corrisponde a richieste d’interessi esterni, che passano sopra la nostra testa».
La critica che vi fa Rusconi è: perché non vi mettete in gioco? Magari per migliorare le riforme di Renzi.
«Vuol dire che non siamo propositivi? Ecco la mia proposta: dimezzamento dei deputati; due senatori per regione, eletti direttamente tra persone con cursus honorum rispettabile; durata fissa e lunga senza rieleggibilità; poteri rivolti a contrastare la tendenza allo spreco di risorse comuni; controllo sulle nomine pubbliche e d’indagine sui fatti e sulle strutture della corruzione. C’è bisogno d’un organo che abbia lo sguardo lungo e, perciò, non sia sotto la pressione, o il ricatto, delle nuove elezioni».
Perché l’idea di Renzi non funziona?
«Scaricare integralmente l’avvio dell’iter legislativo sulla Camera ingolferebbe Montecitorio. Cambia, senza dirlo, l’articolo 138, che prevede due camere elettive nel processo di revisione della Costituzione. Crea un’assemblea eterogenea di amministratori di diverso livello e di uomini illustri non meglio qualificati».
Sareste disposti a dialogare anche voi con Renzi? L’appello non è una forma un po’ vecchia?
«Ma chi ce lo chiede? Forse l’appello è stato tranchant, ma quali altri strumenti vede oltre l’appello? Il problema, dico a Rusconi, è che l’unico modo di mettersi in gioco, per Renzi, sembra essere quello di dire sì a Renzi. C’è un calcolo politico: se realizza le riforme lui sarà il riformatore; se non le realizza, si sarà creato un capro espiatorio, il nemico interno, il sabotatore: “non sono riuscito a causa loro” e la riforma apparirà ancor più ineludibile».
E Napolitano? Raccontano che alcune vostre preoccupazioni siano anche le sue.
«Mi limito a dire che chi apre la porta a questa riforma si assume una grande responsabilità per il futuro».
Ci dica infine una cosa: ha notato che si è parlato tanto del vostro appello solo quando l’ha firmato Grillo?
«Spesso mi chiedono se sono in imbarazzo per questo. Ma perché dovrei esserlo? In questo atteggiamento vedo un elemento d’intolleranza. Se qualcuno condivide le nostre posizioni è un bene. Per tutto il resto, vedremo».

l’Unità 8.4.14
Perché Berlinguer parla a noi
di Alfredo Reichlin


PERCHÉ SI TORNA A PARLARE DI ENRICO BERLINGUER? SONO TRASCORSI DALLA SUA MORTE trent’anni e da allora tutto è cambiato: il mondo. Del comunismo si è sbiadito perfino il ricordo e i segni di decadenza, non solo economici ma morali del paese, sono evidenti. Eppure non stiamo celebrando solo un anniversario. Al di là della novità delle cronache politiche resta il fatto che la tenuta della Repubblica è messa alla prova da una crisi la cui portata riguarda il posto della nazione in Europa. È la sensazione che è venuto in gioco il destino degli italiani. Tutto ciò interroga la nostra coscienza e pone una domanda che io formulerei così. C’è nell’opera di Enrico Berlinguer qualcosa che parla non solo a noi che lo conoscemmo ma a quanti cominciano a pensare che (anche al di là delle vicende politiche contingenti) sia arrivato il momento di elaborare un pensiero politico capace di misurarsi con la devastazione sociale e culturale prodotta da un sistema che ha inondato il mondo di debiti e di scandalose ricchezze impoverendo il lavoro e la produzione?
Il Berlinguer che oggi torna ad occupare i nostri pensieri assunse la responsabilità della segreteria comunista come un duro dovere e in nome del rifiuto di ogni mito (iniziò citando il Machiavelli che esorta a non almanaccare su «repubbliche che non esistono»). Ma era animato da una «scandalosa» convinzione. Quella che bisognava tornare a pensare la politica in funzione dell’idea che una sorta di «rivoluzione » italiana fosse ancora attuale. Intendendo con questa parola grossa (come egli stesso spiegò) non l’assalto al potere, ma una seconda tappa di quella rivoluzione democratica che era uscita dalle rovine dell’8 settembre e aveva trasformato l’Italietta sabauda e fascista nell’Italia repubblicana. A me sembra che stia qui il punto su cui bisognerebbe tornare a riflettere. Di che stiamo parlando? Di un problema ormai sepolto oppure di una «questione» tuttora irrisolta, cioè di quella questione italiana per cui si producono sempre nuovi «capi» ma resta sempre aperto un deficit di classe dirigente? Dopo anni di governi dall’alto, torna oppure no il bisogno di una politica concepita come strumento di un nuovo protagonismo delle masse, ivi comprese quelle subalterne? Non sto parlando di movimenti di protesta, che certo non mancano, ma di un vasto disegno politico basato su una diversa combinazione delle forze storiche, di una rottura dei blocchi culturali, dell’idea scandalosamente gramsciana di lavorare a un mutamento del rapporto tra dirigenti e diretti.
Sia chiaro. Io non credo affatto che Matteo Renzi sia una riedizione del passato. Vedo le novità anche positive della situazione e soprattutto l’avvento di una nuova generazione. Ma stiamo attenti. È diventata enorme e molto pericolosa la distanza tra i governi e la gente. E tutta la lezione di questi anni mi sembra dica che la politica riformista non funziona se le riforme sono fatte solo dall’alto, dai tecnici, da partiti senza popolo diretti da uomini soli al comando. Voglio dire apertamente ciò che penso. Io spero che Renzi ce la farà, ma dubito che ce la farà l’Italia se non mettiamo in campo una più ampia idea ricostruttiva della nazione. È demenziale aver dimenticato che il problema principale dell’Italia, se vuole reggere alle sfide competitive del mondo, non è lo «spread» con la Germania ma il rapporto malato tra Nord e Sud, è la questione meridionale, è l’illusione di conquistare competitività svalutando il lavoro, riducendo la gente in miseria e consentendo che la ricchezza privata si formi sulla miseria pubblica. Ecco cosa voglio dire: non basta un nuovo patto di cittadinanza e qualche riforma costituzionale se non si lavora anche a un nuovo patto sociale. In questa più alta idea della politica stava il senso degli articoli sul Cile. Essi nascevano dall’assillo di Berlinguer di rispondere al fallimento del centro-sinistra guardando al di là degli schieramenti politici. Bisognava suscitare nel paese una riscossa democratica: questo era il suo problema. Ecco perché pensava a un nuovo «compromesso storico» tra le grandi forze popolari il quale ridisegnasse la costituzione materiale, di fatto, del paese. Era un grande disegno. Esso fallì per tante ragioni che riguardano anche la pochezza di molte nostre analisi (una idea non chiara della nuova società italiana). Ma ciò che ebbe un peso decisivo è il fatto che parte integrante della costituzione materiale dell’Italia era la sua collocazione geo-politica, la sua necessità vitale di schierarsi da questa parte della cortina di ferro. Era quindi il problema della collocazione insostenibile del Pci, del suo rapporto con l’Urss, essendo questo un ostacolo insuperabile affinché lo stesso disegno di Berlinguer avesse uno sbocco di governo.
Berlinguer lo sapeva benissimo e pose fine, nei fatti, alla «doppia lealtà». Ma lo fece senza cambiare il nome del Partito e tuttavia spostando, di fatto, la collocazione politica e ideale del Pci dal movimento comunista verso il campo delle correnti riformiste occidentali e verso i partiti dell’internazionale socialista. Il rapporto anche personale, di fiducia, che instaurò con Willy Brandt ne è la testimonianza. Si potrebbe dire che Berlinguer non cambiò il nome ma cambiò il «campo». Ma tutto questo non era sufficiente. E tuttavia la prova tragica che quel «compromesso» non era una manovretta ma qualcosa che cambiava l’Italia l’ha dato il fatto che Moro è stato assassinato. E la contro prova che la posta in gioco era un po’ più seria di un «inciucio» dei comunisti con i democristiani l’ha data il fatto che, subito dopo, il potere (non solo il governo)è passato in altre mani. Quali mani? Magari fossero state quelle dei socialisti. È allora che finisce la repubblica dei partiti. La Dc viene decapitata, il Psi subisce quella metamorfosi che lo porterà alla catastrofe e il Pci venne chiuso nell’angolo senza più una capacità di incidere nei grandi processi di ristrutturazione ormai in atto (la mondializzazione, il neo-liberismo, la rivoluzione conservatrice). Né al governo né all’opposizione. Intanto, al potere, andava una oligarchia, un superpartito che teneva insieme i nuovi ceti e le vecchie clientele e massonerie.
La mia, dunque non è l’apologia di un capo molto amato. È piuttosto una riflessione su che cos’è la grande politica quando essa si fa storia. Rievocandola io penso oggi alle forze nuove che stanno cercando di dare corpo a un moderno riformismo emi permetto di indicare ad essa quello sforzo tenace, quasi disperato, di Berlinguer di guardare al di là del ceto politico per rendere attive le forze nuove della società, per ristabilire un rapporto tra la politica e la gente. Il punto è questo. Bisogna consentire alle persone di tornare a impadronirsi delle propria vita.

il Fatto 8.4.14
Oplà, ecco gli 80 euro I trucchi di Renzi nel Def
Oggi il Consiglio dei ministri approva i conti per la manovra elettorale
I soldi arriveranno, ma con tagli pesanti o entrate fiscali una tantun
di Marco Palombi


Conviene mettere in fila alcuni fatti prima che la cortina fumogena di tagli ai manager e alla politica, lotta gli sprechi e quant’altro vorrà comunicare all’Italia Matteo Renzi impedisca di capire cosa accadrà oggi, quando il governo avrà approvato il Documento di economia e finanza (Def) e relativo Piano nazionale di riforme (Pnr).
Riassunto in tre punti: le coperture per tagliare l’Irpef di 80 euro sui redditi più bassi da maggio almeno per il 2014 non sono affatto strutturali (cioè non ci sono tutti i risparmi di spesa necessari); la riduzione del 10 per cento dell’Irap per le imprese grazie all’aumento della tassazione sulle rendite non è del tutto finanziata; il premier e il suo governo chiedono gentilmente alla Ue - che da quest’anno, grazie al Two Pack, pesa assai nella redazione dei bilanci nazionali - di tollerare qualche piccolo spostamento temporaneo dai vincoli (specialmente sul debito) perché poi, alla fine, la Renzienomics farà il miracolo.
Primo tema: i soldi per il taglio dell’Irpef. Nelle bozze di Pnr circolate ieri i proventi della spending review per il 2014 sono cifrati tra i 3,5 e i 5 miliardi per poi salire a 17 l’anno prossimo e arrivare a 32 miliardi nel 2016. Palazzo Chigi in serata ne prometteva, con qualche eccesso di ottimismo, addirittura sei già quest’anno. In ogni caso, visto che per il 2014 servono 6,6 miliardi per garantire i famosi 80 euro a dieci milioni di italiani alcune coperture del decreto sul tema che arriverà la prossima settimana saranno una tantum: niente di più facile che il taglio strutturale, dunque, arriverà solo con la legge di Stabilita. La fonte individuata è il pagamento straordinario di circa 40 miliardi di vecchi debiti commerciali della P.A. grazie a Cassa depositi e prestiti (che dovrebbe garantire pure il pagamento dell’esposizione sul 2014 agli enti poco liquidi) comporta maggiori introiti Iva una tantum per almeno 4 miliardi.
Secondo tema: l’Irap. Renzi, nel memorabile giorno delle slide, ha promesso alle imprese una riduzione del 10% della tassa regionale - che in soldi fa circa 2,4 miliardi di euro - grazie ad un aumento dell’aliquota sulle rendite finanziarie (esclusi i titoli di stato) dal 20 al 26%. Il gettito, secondo Renzi, sarebbe di 2,6 miliardi, mentre per la Ragioneria generale non più di un miliardo e mezzo. Questo sta comportando qualche imbarazzo al Tesoro: ora l’ipotesi è che l’abolizione sia solo del 5% quest’anno, per poi salire negli anni successivi (anche in questo caso bisognerà tornare sull’argomento nel ddl Stabilità).
Terzo tema: il rispetto dei vincoli di bilancio Ue. “Le regole - si legge in una delle bozze di Pnr - saranno rispettate, ma è necessario uno spazio per permettere alle riforme di dispiegare i loro effetti di medio-lungo periodo, attenuando eventuali impatti negativi di breve”. Tradotto: i nostri conti pubblici potrebbero momentaneamente peggiorare . Il problema più grande è il debito, il cui rapporto rispetto al Pil è previsto in peggioramento quest’anno e pure il prossimo. Niente paura, ci pensa la Renzienomics: “L’effetto espansivo” delle riforme “si manifesterà debolmente nel corso del 2014 per poi risultare via via più pronunciato nel corso degli anni successivi”. In numeri: +0,3% quest’anno e poi su su fino al “+2,1% rispetto allo scenario di base del 2018”. I numeri per quest’anno, invece, sono quelli annunciati: Pil in crescita dello 0,8 per cento anziché dell’1, calo che curiosamente non ha alcun effetto sul rapporto tra deficit e Prodotto, stabile al 2,6%.
Corollario: la guerra dei tagli. I quattro o sei miliardi che verranno dalla spending review hanno innescato una battaglia sotterranea nel governo. Il comparto più a rischio è la salute, su cui sono circolate allarmanti voci di una riduzione da due miliardi di euro quest’anno e una decina nell’arco del quadriennio: “Nel Def non ci saranno tagli, sarebbe un pacco con sorpresa”, mette le mani avanti la ministro Beatrice Lorenzin. Anche la collega della Difesa, Roberta Pinotti, prova a rassicurare il suo stato maggiore, ma almeno mezzo miliardo nel 2014 dovrà lasciarlo a disposizione del premier. Tagli (ma in misura minore) saranno in capo anche ad altri ministeri. Il problema è che questi tagli - oltre a sommarsi a quelli delle manovre degli ultimi tre governi - hanno impatti recessivi (cioè fanno diminuire il Pil) che il governo non ha quantificato.
I classici: dalle privatizzazioni in giù. Ovviamente pure l’esecutivo Renzi promette - come chiedono a Bruxelles e aveva promesso Enrico Letta - di privatizzare le partecipate del Tesoro: 12 miliardi l’anno fino al 2017, è la sua promessa da 50 miliardi. Non mancano altri impegni tradizionali: dalla riforma del catasto al fisco amico, dalla lotta all’evasione a quella contro la burocrazia.

il Fatto 8.4.14
Le invasioni di Boschi, l’altro volto tv del governo Renzi
Il ministro per le riforme, dopo la conferenza stampa in slide, ha rilasciato interviste a tutti
Nove volte nei titoli dei Tg serali e persino un servizio celebrativo al Tg4
di Carlo Tecce


Va messo in riga quel discolaccio di Renato Brunetta? Un paio di battute con l’inflessione toscana, puntuali e asettiche, e ci pensa Maria Elena Boschi. Vanno riposti dietro la cattedra (o la lavagna) - simbolico contrappasso - i professoroni che non esaltano le riforme costituzionali? Un breve intervento, più estetico che chirurgico, e ci pensa sempre Maria Elena Boschi: non caracollando in Transatlantico, ma a Uno Mattina su Rai1, il contenitore più sulfureo per casalinghe, febbricitanti, minorenni che non vanno a scuola, proprio mentre i professoroni sono in servizio. Vanno ipotizzate maggioranze parallele, paracaduti d’emergenza, spianate per l’atterraggio? Con l’autorevolezza di una studentessa che ha memorizzato il compito e l’ha recitato dinanzi ai familiari raccolti in adulazione, senza smuovere un muscolo facciale tranne per un sorriso d’ordinanza, ci pensa ancora Maria Elena Boschi: il volto di Palazzo Chigi, il numero 2 di Matteo Renzi, l’unica a poter illustrare le miracolose slide (seppur non stravaganti come quelle a disposizione del Capo).
IL MINISTRO per le Riforme e i Rapporti col Parlamento, che fu Madonna in un presepe vivente di paese, non ha bisogno di istruttori, esperti di comunicazione, consulenti di immagine: non ha voluto, e chissà se vorrà, il tradizionale (e doveroso) portavoce. Non ha testimoni : il verbo boschiano lo diffonde la Boschi: l’ufficio stampa fa da protezione, il resto è “dichiarazione”. E con lungimirante generosità, la Boschi ha dichiarato ai quattro telegiornali di Viale Mazzini, ai colleghi di La7 e s’è meritata un servizio celebrativo su Rete 4: esatto, su Rete 4. Da lunedì 31 marzo, dopo aver informato l’Italia
che il Senato era da considerare rottamato, il nome Boschi è transitato nove volte nei telegiornali di prima serata: non ai saluti, ma nei titoli di testa, fa notare Alberto Baldazzi, direttore dell’Osservatorio Quotidiano dei Tg. La rincorsa (in discesa) di Maria Elena Boschi è cominciata a fine ottobre, ultima Leopolda, accanto a Matteo Renzi, in tacchi a spillo: i consiglieri dell’allora sindaco, non ancora segretario, la spedirono in televisione, nei salotti dove le chiacchiere possono durare ore senza condurre a un punto. E l’avvocato fiorentino ha sfrattato la concorrenza, da Alessia Morani a Simona Bonafè, inclusi i parlamentari devoti a Matteo. Dopo la firma al Quirinale, in versione pizzardone, la Boschi s’è piazzata in aula a dirigere il traffico per poi uscire e commentare, aggiungere, sottrarre, sbottare. Non per l’imitazione di Virginia Raffaele: no, adesso giura che non l’ha offesa. Adesso, dopo che il prode Michele Anzaldi ne chiese la censura. Domenica mattina, in collegamento con Maria Latella su SkyTg24, s’è presentata in maglietta e occhiali oblunghi. Icona di un governo t-shirt.

l’Unità 8.4.14
Bonanni: un errore non discutere con le parti sociali
«Questo stile di Renzi mi preoccupa molto»
di Luigina Venturelli


Milano. Oggi il governo presenterà il documento di economia e finanza per fissare le linee guida della politica di bilancio del Paese. E nelle prossime settimane procederà con il decreto per il taglio del cuneo fiscale e con la spending review necessaria a finanziarlo. Provvedimenti dal notevole impatto sociale, di cui pure il sindacato verrà a conoscenza a cose fatte, via conferenza stampa, come il resto degli italiani.
Raffaele Bonanni, segretario generale della Cisl, non la disturba la mancanza di discussione tra l’esecutivo e le organizzazioni sindacali?
«Mi sembra che la mancanza di discussione non riguardi solo i sindacati, ma tutte le parti sociali. Il governo decide senza discutere con nessuno: è un modo di fare che non mi piace, che mi preoccupa, ma che è ormai innegabile. Non discuto della piena legittimità dell’esecutivo ad assumere decisioni in autonomia, ma ritengo che le valutazioni e i contributi che ad esse possono dare le parti sociali abbiano un grande valore, che riguarda non solo la comprensione della realtà che rappresentano, ma anche la trasparenza e la chiarezza del dibattito con cui si giunge a un provvedimento».
Forse è il momento storico a non consentire lunghe fasi di concertazione delle decisioni politiche.
«Le frustrazioni dei governi italiani degli ultimi vent’anni hanno portato molti alla convinzione che per decidere sia necessario evitare il più possibile i luoghi di discussione istituzionali. Non è un problema solo di Matteo Renzi, ma di questa fase storica, in cui il Paese prova con il leaderismo a recuperare il terreno perso finora. Ma è un’illusione, la storia ci dimostra il contrario. Non basta decidere, bisogna decidere bene».
Pensa che il governo deciderà bene nel Def e nei decreti che lo seguiranno? Quali sono le sue aspettative in proposito?
«Mi aspetto che l’esecutivo affronti le emergenze sociali che affliggono il Paese, che dia risposte ai cassintegrati e agli esodati, che aiuti e dia risorse alla contrattazione di secondo livello e ai salari di produttività, che dovrebbero rappresentare il fulcro della contrattazione tra le parti sociali, e che sostenga con una sensibile riduzione delle tasse quelle imprese che reinvestono gli utili in azienda. Ancora, mi aspetto che mantenga tutte le promesse sul taglio del cuneo fiscale e che quegli 80 euro al mese in più in busta paga diventino strutturali».
Presto, però, quando l’esecutivo entrerà nel merito della spending review, inizieranno ad arrivare anche le cattive notizie. E forse la mancanza di un confronto con le parti sociali si farà sentire di più.
«Per questo la chiusura al dialogo mi preoccupa molto. Se l’esecutivo non fornisce un quadro esatto del come, dove e quando andrà a diminuire la spesa pubblica, i tagli non potranno che essere lineari, senza alcuno spazio per una reale riorganizzazione».
Si spieghi meglio.
«Parliamo, ad esempio, dell’annunciata revisione della spesa delle società municipalizzate e partecipate, che la Cisl peraltro caldeggia da tempi non sospetti: allo stato attuale, senza un preventivo confronto con gli enti locali che sono effettivamente presenti nelle municipalizzate, il governo non ha alcuno strumento per razionalizzarne la spesa. L’unica leva di cui dispone è quella di regolare i flussi di denaro destinati a tali società, in modo da indurre gli enti locali alla riorganizzazione. Ma le modalità con cui ciò viene fatto fanno tutta la differenza, perchè è fondamentale premiare le società efficienti che stanno bene sul mercato e penalizzare quelle inefficienti».
Quindi, il dialogo si dimostrerà sempre più indispensabile.
«Le prime risorse andranno trovate già nel 2014, in tempi brevi, e se vogliamo evitare la falce di una spending review dai tagli lineari sarà necessaria la collaborazione di tutti. Le parti sociali hanno il diritto e il dovere di esserci nei momenti di gestione delle difficoltà del Paese. La politica ha il potere di decidere, ma il sindacato ha il potere di parlare con la gente. E se il governo si dimostrerà sordo, noi non rimarremo

l’Unità 8.4.14
«Aiutatemi a essere madre»
Fecondazione: oggi la Consulta decide. Elisabetta racconta la sua «via crucis»
di Mariagrazia Gerina


«Il medico ci ha spiegato che era possibile avere figli, ma solo attraverso la fecondazione eterologa, che in Italia è vietata». Inizia così la storia di una coppia siciliana che in questi anni ha tentato - a care spese - la strada della fecondazione all’estero.
Devono permetterci di farlo in Italia, io all’estero non ci torno più», ripete con un filo di voce Elisabetta, trentaquattro anni, siciliana. Lei e suo marito sono una delle migliaia di coppie sterili che la legge 40 sulla procreazione assistita ha costretto ad emigrare in cerca delle cure negate. A loro è andata male e sentono di aver pagato un prezzo troppo alto per provarci ancora. Se la Consulta dovesse cancellare il divieto di fecondazione eterologa, allora sarebbe diverso: «In Italia mi sentirei più tutelata», spiega Elisabetta, in attesa del verdetto della Corte costituzionale. «C’è qualche speranza stavolta?», ha scritto alla vigilia dell’udienza a Filomena Gallo, legale e segretario della Associazione Luca Coscioni, che interverrà davanti alla Consulta parlerà a nome di tutte le coppie ostacolate dalla legge 40.
Coppie come Elisabetta e Giovanni. I nomi sono di fantasia, la loro storia no. È storia italiana. Elisabetta e Giovanni sono siciliani. Quando si sono sposati, ad agosto 2011, sapevano già che sarebbe stato difficile avere figli. «Mio marito ha la sindrome di Klinefelter e non produce spermatozoi», spiega Elisabetta: «Però pensavamo che con la fecondazione assistita avremmo potuto lo stesso mettere al mondo dei bambini. Poi il medico ci ha spiegato che era possibile sì, ma solo attraverso la fecondazione eterologa, che in Italia è vietata». Inizia così il loro viaggio della speranza, fai-da-te. «Prima cerchi in rete le cliniche e i centri che all’estero fanno l’eterologa, poi entri nei forum, cominci a scambiarti informazioni con le altre coppie…». Un viaggio senza rete. Si va per tentativi. «All’inizio ci siamo rivolti al centro Procrea in Svizzera, ma ci chiedevano 3.500 euro solo per la fecondazione, escluso il viaggio: troppo per noi, così abbiamo cercato ancora». Alla fine, per risparmiare, hanno scelto di andare a Praga, al centro Gennet, dove i costi sono molto più bassi: «1900 euro tra prelievo e trasferimento più i costi dei medicinali che devi assumere prima di partire». E così ha fatto Elisabetta, che, come fosse un agente segreto, ha ricevuto da Praga il piano terapeutico da seguire in Italia. Poi ad aprile è partita per la Repubblica Ceca per la fecondazione. Le cose però non sono andate bene: «Cinque giorni dopo il prelievo degli ovociti avrei dovuto fare i trasferimento in utero, ma ho cominciato a sentirmi male: sono andata in iperstimolazione ovarica, ho preso dieci chili in tre giorni. Mi hanno detto di farmi ricoverare lì a Praga, ma io non me la sono sentita e sono voluta tornare in Italia, dove sono stata in ospedale per 11». Non è stato facile, ma a luglio, quando è stata meglio, Elisabetta è tornata a Praga per l’impianto. Solo che, dopo essere rimasta incinta, alla ottava settimana ha avuto un aborto spontaneo. L’unica cosa semplice è stata quella che in Italia mette più paura: la scelta del donatore. «Ci hanno domandato una fotografia per fare in modo che fosse simile a mio marito, non l’abbiamo chiesto noi, non ci importava. Non so se altrove funziona diversamente».
Il terzo e ultimo viaggio lo hanno fatto a gennaio. Ultimo perché è andata male, gli embrioni sono finiti e Elisabetta e Giovanni non hanno i soldi per provarci un’altra volta. «Io sono laureata in Lingue ma disoccupata, mio marito è artigiano. I soldi per andare a Praga ce li hanno prestati i nostri genitori. Anche risparmiando su tutto, scegliendo il paese più economico, la stanza d’albergo a 40 euro, ci vogliono almeno 6mila euro per tentare ancora». E poi non è solo una questione economica: «Ho avuto paura - racconta Elisabetta -, sono stata male, ho rischiato la vita. Un’altra volta non ce la faccio. Non così, non sei abbastanza seguita. Se potessi ritentare in Italia sarebbe diverso, mi sentirei più tutelata. Così il tuo ginecologo non può neppure prendere contatto con la clinica che ti segue, per paura della legge».
L’unica speranza ora è che la Consulta metta fine a questo incubo, suo e di tante altre donne. «Io credevo di essere l’una e invece ho scoperto che ce ne sono tantissime in Italia di coppie come noi. A Praga ne ho incontrate proprio tante. Per questo mi chiedo: perché all’estero sì e in Italia no? Forse perché in Italia c’è il Vaticano? Ma che c’entra la religione? Perché non lasciare queste scelte alla coscienza di ciascuno?», si domanda Elisabetta, da cattolica oltretutto, che crede e va a messa. «E poi basta ripeterci: ma perché non adottate un bambino? Come se poi fosse più facile. O come se fosse da egoisti voler restare incinta. Sì mio marito, anche se non può avere figli, vuole vedermi con il pancione, vivere la gravidanza con me e allora? La scienza ce lo permette perché la legge ce lo deve vietare?».

l’Unità 8.4.14
Legge 40 tutti i divieti abbattuti dai giudici


Sono stati dieci anni travagliati quelli della Legge 40, due lustri di battaglie giudiziarie che ne hanno riscritto e ridimensionato la portata e il significato originari. Sono stati 29 gli interventi dei tribunali con venti bocciature e la «riscrittura» di alcune sue parti con sentenza della Corte costituzionale, unico organo che può cancellare i divieti modificando leggi in vigore.
Sono tre i pilastri della legge sulla fecondazione in vitro già abbattuti dai giudici: il divieto di produzione di più di tre embrioni, l’obbligo di impianto contemporaneo di tutti gli embrioni prodotti, su cui è intervenuta appunto la Consulta nel 2009, e il divieto di diagnosi preimpianto (ma per le coppie infertili, quelle che hanno accesso alla Pma, con intervento del Tar del Lazio sulle linee guida).
Ecco la fotografia attuale della legge 40 (secondo una elaborazione dell’Associazione Coscioni): Divieto di produzione di più di tre embrioni: rimosso con sentenza della Corte costituzionale 151/2009.
Obbligo di contemporaneo impianto di tutti gli embrioni prodotti: rimosso con sentenza della Corte costituzionale 151/2009.
Divieto di diagnosi preimpianto: rimosso con sentenza del Tar del Lazio del 2008 che ha annullato per «eccesso di potere» le Linee Guida per il divieto di indagini cliniche sull’embrione.
Divieto di accesso alle coppie fertili ma portatrici di patologie genetiche: è oggetto della questione di costituzionalità sollevata dal Tribunale di Roma e in attesa di udienza davanti alla Corte costituzionale.
Divieto di eterologa: in attesa di udienza in Corte costituzionale che sarà oggi. Divieto di utilizzo degli embrioni per la ricerca scientifica: in attesa di udienza in Corte costituzionale che sarà oggi.
Divieto di accesso alla fecondazione assistita per single e coppie dello stesso sesso: in vigore. In Italia manca però, come spiega Filomena Gallo dell’associazione Coscioni, una legislazione di riferimento

l’Unità 8.4.14
Anna Pia Ferraretti
«Senza il divieto saremmo pronti a ripartire subito»
La ginecologa pioniera della fecondazione: «C’è una generazione che cerca un figlio
a 38 e 40 anni. Ogni anno quattromila coppie vanno fuori dall’Italia»
di M. Ger.


«Se la Consulta togliesse il divieto saremmo in grado di ripartire da subito con la fecondazione eterologa», assicura Anna Pia Ferraretti, una pioniera delle tecniche di fecondazione assistita. Ginecologa, direttore clinico del Sismer di Bologna, presidente del registro europeo della società per la riproduzione e l’embriologia (Eshre). Da un punto di vista tecnico quindi non ci sarebbero problemi?
«No, i centri italiani direi che sarebbero pronti da subito. Si tratta di procedure tutto sommato semplici. Le abbiamo eseguite fino al 2004, quando è entrata in vigore la Legge 40».
E da un punto di vista normativo?
«Ci sono le direttive europee che sono in vigore anche in Italia, perché l’Italia le ha già sottoscritte. Non si rischia di cadere nel Far West. In Europa è in vigore il divieto di commercializzazione dei gameti. Immagino però che andrebbero approvate delle nuove linee guida emi auguro in tempi brevi. Ma intanto, per quanto riguarda la donazione del seme, non vedo problemi a ripartire subito. In tutta Europa esistono centri autorizzati che hanno delle banche di liquido seminale. Senza divieto quelle stesse banche potrebbero fornire il seme ai centri italiani».
E per la donazione di ovociti?
«Le scelte variano da paese a paese. In Francia, per esempio, la normativa è molto complessa, ogni donna infertile deve trovare una donatrice volontaria, che dona in forma anonima a un’altra donna. In Spagna, possono esserci delle donatrici volontarie ed è previsto anche un rimborso. Regolare questi aspetti potrebbe richiedere un po’ di tempo. Però, nell’attesa, ci sono dei centri che hanno già degli ovociti congelati. Basterebbe il consenso alla donazione da parte delle pazienti che li hanno congelati. Il tutto nel rispetto delle direttive europee esistenti».
Nel frattempo quante coppie italiane vanno all’estero per l’eterologa?
«Il dato minimo stimato è di 3-4mila coppie l’anno. C’è un fenomeno sociale che va considerato: c’è una generazione che ormai cerca figli dopo i 38-40 anni. E bisogna tenerne conto. E poi ci sono anche le donne che hanno fatto terapie oncologiche o che vanno in menopausa precoce, anche a vent’anni. Una su mille circa. È per loro che è nata la donazione di ovociti. Poi vedendo che funzionava è stata utilizza anche per le altre».
Ma andare all’estero espone a rischi?
«Con l’Eshre stiamo studiando il fenomeno della migrazione procreativa. In alcuni paesi come la Spagna, Gran Bretagna, Belgio, Repubblica Ceca c’è una regolamentazione precisa, i dati sono trasparenti, pubblici. In altri paesi, come la Russia o la Grecia, non c’è trasparenza, dipende dalla serietà del centro ».
Come si fa a scegliere?
«Questo è un problema, nel 2004 addirittura sembrava che noi medici non potessimo neppure parlare di ovodonazione o dare un consiglio. Io se qualcuno me lo chiede spiego che in Spagna, per esempio, c’è una legge che regolamenta i centri, altrove no. Dopodiché ogni paziente prende i suoi contatti».

l’Unità 8.4.14
Per la violenza di genere appello ad agire in fretta
di Delia Murer


NEL GOVERNO CHE AMA LA VELOCITÀ C’È UN TEMA SU CUI SI REGISTRA UNA INSPIEGABILE E SCANDALOSA LENTEZZA: LA LOTTA ALLA VIOLENZA DI GENERE. Ad oggi, dopo un mese e mezzo, non risulta che il presidente del Consiglio dei Ministri abbia assegnato la delega alle Pari Opportunità. Non solo, quindi, è stato defalcato il ministro che, ormai per tradizione consolidata, si occupava di questi temi sedendo ai banchi del Consiglio, ma non è stata neppure attribuita la competenza a uno dei componenti del governo. Come leggere questo clamoroso ritardo? È un segno di disattenzione, di superficialità, o di totale disinteresse al tema?
Ma più ancora di questo, preoccupa il ritardo clamoroso con cui si sta affrontando il tema specifico della violenza sulla donna. Con l’avvio di questa legislatura, e sotto il governo Letta, si è andati piuttosto speditamente su alcuni punti: è stata ratificata la Convenzione di Istanbul ed è stata, seppure con un decreto poi ratificato in legge con molte, necessarie, correzioni, varata una normativa ad hoc sulla violenza di genere, la legge 119 del 2013.
Si sono, così, assegnate anche delle risorse economiche, dentro un percorso progettuale con un nuovo Piano Nazionale Antiviolenza. Diciassette milioni di euro per il biennio 2013/2014, in particolare, da distribuire ai centri antiviolenza e alla case rifugio. Il governo Letta aveva anche avviato tavoli di confronto, luoghi di lavoro comune con una task force interministeriale per mettere insieme le esperienze di istituzioni e associazioni e far nascere così un nuovo Piano nazionale contro la violenza di genere, nel tentativo di elaborare una strategia comune su tutto il territorio nazionale che garantisse prevenzione e, al tempo stesso, sostegno e aiuto alle vittime.
Poi questo lavoro si è fermato. Con il cambio di governo, del nuovo Piano antiviolenza si sono perse le tracce. Degli atti esecutivi per organizzare la spesa per i centri antiviolenza non s’è vista nemmeno l’ombra. Ho personalmente, ormai da alcuni mesi, presentato una interrogazione al Governo per chiedere spiegazioni proprio su questo incomprensibile blocco. Ma non ho ancora ricevuto risposta. In questi giorni sta circolando, soprattutto sulla Rete, una lettera appello al presidente del Consiglio, Matteo Renzi. L’hanno scritta le donne dell’associazione D.I.Re, a cui aderiscono ben 65 centri antiviolenza del territorio nazionale.
Si tratta di un avamposto straordinario di lavoro sociale, che ha accolto migliaia di donne vittime di violenza. L’appello chiede al governo che la lotta alla violenza contro le donne esca dal cono d’ombra e diventi una priorità nell’agenda politica; chiede che il confronto avviato dal precedente governo tra associazioni e istituzioni arrivi ad una conclusione operativa, e che sia varato il nuovo Piano Nazionale antiviolenza; chiede che siano assegnate alla rete dei centri antiviolenza le risorse fissate dalla legge 119 del 2013 e che, soprattutto, il governo assuma l’impegno a sostenere e finanziare, in maniera certa e continuativa, le attività dei centri, che devono uscire dall’insicurezza nella quale sono costretti ad operare e diventare, invece, presidio certo e stabile. Si tratta di un appello condivisibile e da sostenere. Mi auguro che Renzi si accorga velocemente di aver messo inopinatamente in cantina una questione cruciale per la nostra vita civile e sociale, e che esca, finalmente, da un immobilismo che non fa bene al Paese, e alla tanto annunciata nuova fase politica che, almeno da questo punto di vista, mostra segni di regressione e non di innovazione.

il Fatto 8.4.14
Parioli, così i clienti delle baby squillo rimarranno anonimi
Niente nomi di chi pagava le ragazzione in cambio di sesso
La Procura di Roma smentisce i patteggiamenti, ma per ogni imputato è stato aperto un singolo fascicolo
di Rita Di Giovacchino


L’unica cosa certa, nella vicenda delle baby squillo ai Parioli, è che sta per calare definitivamente il sipario sullo scandalo che ha messo a soqquadro famiglie e salotti. Nell’arco di due o tre giorni il procuratore aggiunto Maria Monteleone e il pm Cristina Macchiusi comunicheranno al gip la chiusura indagine per gli otto indagati coinvolti nel primo filone dell’inchiesta sullo sfruttamento di otto ragazze. Tra loro le ormai famose Azzurra e Serena (nomi di fantasia), uniche minorenni del giro gestito dal pusher Mirko Ieni e dal socio Nunzio Pizzacalla.
DUE SFRUTTATORI, due clienti, un sedicente investigatore privato, un commercialista dedito alla diffusione di filmati pedopornografici, la madre di una delle ragazzine andranno a processo e, per quel che ne sappiamo, il cerchio si chiude qui. I clienti sono un discorso a sé, a che serve bruciare dignità e carriere, distruggere la quiete di famiglie? “A noi interessa soltanto accertare e perseguire il reato”, afferma un investigatore che ha subìto quest’inchiesta come un dramma personale. Così, a parte lo sfortunato Mauro Floriani, il primo a essere bruciato nel falò mediatico in quanto marito di Alessandra Mussolini, e di pochi altri la cui posizione è tutta da vagliare, mettiamoci pure il cuore in pace: nessuno forse conoscerà il nome dei 52 clienti sorpresi nello scantinato dei Parioli. Nessuno chiederà loro, in un’aula di tribunale: “Quante volte, dottore?”. Proteggere l’anonimato dei clienti, accomunati da comune reato di prostituzione minorile, che poi vuol dire aver fatto sesso a pagamento con minori dai 14 ai 16 anni (al di sotto di questa fascia scatta l’accusa di violenza sessuale), è considerato al primo piano della Procura di Roma una scelta di civiltà. Scelta che certamente farà discutere perché a uscire marchiate per sempre da questa turpe storia ci sono comunque Azzurra e Serena. Molti ai Parioli sanno chi sono, dove abitavano e che scuola frequentavano le due ragazzine. Con loro nessuno sconto di pena; intercettazioni e interrogatori integralmente pubblicati, sappiamo tutto di loro, anche i tatuaggi più segreti. Quanto al resto tutti i particolari in cronaca. Due pesi e due misure? Certamente non si poteva andare avanti in questo modo, dicono in procura, con pagine intere di giornali (quotidiani nazionali e non riviste pornografiche) alle prese con dettagli scabrosi su prestazioni sessuali e relativi costi. Il tutto accompagnato da foto ammiccanti di ragazze desnude, e quel che peggio da ipocriti commenti moralistici. E se qualcuno poi si suicidava, e chi si faceva carico di proteggere dal trauma i figli adolescenti? Niente liste di proscrizione dunque. Anzi per proteggere l’anonimato si è escogitato un sistema macchinoso ma intelligente, reso possibile dal fatto che nessuno dei 52 clienti è stato arrestato.
E QUESTA IN DEFINITIVA è stata la prima scelta. Per ciascuno di loro, Floriani compreso, sono stati confezionati singoli procedimenti giudiziari, piccole scatole chiuse da un fiocchetto all’interno delle quali troviamo intercettazioni e interrogatori, noti soltanto ai medesimi e ai rispettivi avvocati, che mai in tal modo saranno a conoscenza della posizione dei coimputati. Ognuno risponde per sé e dio per tutti, per ognuno a seconda delle responsabilità sarà scelta la via da seguire: patteggiamento, rito abbreviato, processo immediato. Tutto si svolgerà in modo riservato in una fase pregiudiziale, secondo quanto il codice prevede. Inutile dire che la goccia che ha fatto traboccare il vaso è stato quello dell’ingegner Andrea Cividini, alto dirigente di Bankitalia, responsabile informatico di Palazzo Koch, il cui nome è finito sui giornali per una telefonata partita dal suo telefono aziendale accessibile a molte persone. Dopo aver rischiato il licenziamento Cividini è riuscito fortunatamente, a dimostrare la sua estraneità al circuito di Bacheca incontri. “Casi del genere non si ripeteranno”, è la linea della procura che smentisce l’avvio di patteggiamenti con un quinto degli imputati. Solo contatti informali con avvocati. Destituita di fondamento è anche la notizia che possano bastare 40 mila euro per ottenere sanatorie. Notizia che ha fatto saltare su una sedia Sandra Zampa deputata Pd e vicepresidente della commissione Infanzia: “Nessuno sconto di pena per chi sfrutta la prostituzione minorile”, ha tuonato. Ma un cliente non sfrutta, semmai usufruisce, è soltanto un utilizzatore finale, ben lo sappiamo. Speriamo che nessuno di loro, forte dell’anonimato, decida di riprovarci.

l’Unità 8.4.14
Abusi su minori, sospeso l’ambasciatore Bosio
di Umberto De Giovannangeli


Dal carcere di Binian, 40 chilometri da Manila, continua a proclamare la sua innocenza e a ripetere: «Non sono un pedofilo». Ma col passare delle ore la posizione di Daniele Bosio, ambasciatore italiano in Turkmenistan, sembra farsi più grave. «Seguiremo il caso con la massima trasparenza e rigore assoluto », aveva garantito l’altro ieri la Farnesina. E ieri il rigore si è trasformato in un primo provvedimento. «A seguito della convalida del fermo dell’Ambasciatore in Turkmenistan Daniele Bosio, il Ministero degli Esteri ha sospeso oggi (ieri, ndr) l’Ambasciatore dal servizio in ottemperanza alle disposizioni di legge», si legge in una nota della Farnesina. «Li ho solo portati alle giostre», aveva aggiunto l’altra sera Bosio al telefono con il Corriere della Sera. E sulla possibilità che qualcuno gli abbia teso una trappola, il diplomatico commenta: «Non penso. Io non ho nessun nemico, perciò non voglio parlare di fango, di sicuro non conoscevo la severità della legge filippina (la massima pena prevista per questo tipo di abusi è l’ergastolo, ndr ), perciò non so cosa possa essere successo. Spero di chiarire tutto».
I RACCONTI
Secondo il quotidiano filippino The Inquirer, il diplomatico è stato arrestato sabato scorso in compagnia di tre bambini tra i 8 e i 12 anni. Il ministro della Giustizia filippino, Leila de Lima, ha riferito che il diplomatico 46enne è stato fermato dalla polizia nello Splash Island, un parco acquatico nella località di Binian. «È agli arresti mentre la procura sta svolgendo le indagini preliminari. Èstato trovato in compagnia di tre bambini di 8, 10 e 12 anni» di Caloocan City», ha spiegato de Lima. Il ministro ha detto di non sapere quanto dureranno le indagini. Né Lima, né la polizia hanno fornito dettagli sulle accuse a carico di Bosio che domenica si era difeso affermando di aver soltanto pagato qualche giro di giostra ai bambini, senza alcuna finalità ulteriore.
RISCHIO ERGASTOLO
La polizia ha depositato presso la procura accuse di abuso su minorenni e traffico di esseri umani e saranno i procuratori a decidere se formalizzare le accuse nei confronti del diplomatico italiano. Ai sensi del codice penale filippino, il traffico di esseri umani può essere punito con l'ergastolo e una multa minima di 2 milioni di pesos (32.500 euro), se la vittima è un minorenne. L’abuso sui bambini comporta invece la pena massima di 40 anni di reclusione.
Secondo Catherine Scerri (una delle due attiviste della ong filippina Bahay Tuluyan Foundation che ha denunciato il diplomatico), si tratta di «un caso molto evidente» di abusi o tentati abusi su minori. Raggiunta telefonicamente a Manila dall'Adnkronos, la Scerri ha raccontato le circostanze che hanno portato lei e la collega Lily Flordelis a denunciare Bosio. «Aveva offerto del denaro ai bambini», spiega. Sono stati gli stessi bambini trovati con Bosio, inoltre, a raccontare a lei e alla Flordelis di «essere stati portati nel suo appartamento, dove aveva fatto la doccia insieme a loro» e che «i bambini erano nudi. Era il secondo giorno che portava quei bambini nel resort». «Lo abbiamo visto in piscina - prosegue il suo racconto Catherine Scerri -. Giocava con i bambini, li portava sulla schiena, li toccava molto. Era una situazione insolita. Poi abbiamo scoperto tutte le altre informazioni».
La denuncia contro il diplomatico italiano è scattata sulla base della legge sulla tutela dei minori varata nelle Filippine nel 1992. Secondo questa legge, ogni adulto che sia visto in pubblico con un bambino, con cui non ha relazioni, e con il quale abbia una differenza di età di almeno 10 anni, deve essere denunciato alla polizia. Stando alle nuove notizie diffuse dalla polizia, Bosio ha detto agli investigatori che si trattava di «bambini di strada che lui aveva portato con sé da Manila» e che i loro genitori erano stati informati del viaggio.
Sempre stando alla polizia, inoltre, i bambini hanno riferito agli agenti che l’ambasciatore li aveva portati nel suo alloggio dove «ha fatto loro personalmente il bagno strofinando la pelle mentre erano nudi, dopodiché ha dato loro soldi e cibo». Sempre secondo la polizia, l’ambasciatore italiano a Manila, Massimo Roscigno, si è recato nella stazione di polizia a Binian, nella provincia di Laguna, per garantire che Bosio riceva l’assistenza legale.
«I bambini hanno dichiarato di aver fatto il bagno insieme a Bosio, che li ha lavati e ha strofinato i loro corpi, ma ovviamente sappiamo che le intenzioni dell’uomo erano altre», incalza il capo della polizia di Laguna, Romulo Sapitula, aggiungendo che il diplomatico italiano si trova «insieme agli altri detenuti» del carcere di Binian e che «non gli è stato riservato alcun trattamento speciale».

Repubblica 8.4.14
L’attivista anti-pedofilia che ha fatto fermare Daniele Bosio nelle Filippine
“Così ho incastrato l’ambasciatore”
 di Vincenzo Nigro


CI SONO pochissimi margini per la difesa di Daniele Bosio, l’ambasciatore italiano in Turkmenistan che è stato arresto sabato a Manila con l’accusa di pedofilia. La ricostruzione dei fatti ormai riduce sempre più le speranze di un equivoco, di un errore. Alla Farnesina non è rimasto che prendere atto del caso: il diplomatico è stato sospeso dal servizio e quindi dalla rappresentanza dell’Italia in Turkmenistan.
Tutto inizia con l’osservazione attenta di due attiviste anti-pedofilia, sostenitrici di una Ong che si occupa di proteggere i bimbi che nelle Filippine e in Asia sono vittime delle attenzioni sessuali soprattutto di turisti europei. «Noi non abbiamo avuto nessun dubbio, dal primo momento, appena abbiamo visto quest’uomo europeo con tre bambini », dice al telefono l’australiana Caty Scerri, una delle due attiviste della “Bahay Tuluyan Foundation” che ha avvertito la polizia. «Lo abbiamo
visto nel resort e ci siamo subito insospettite perché un uomo straniero con tre bambini filippini, che chiaramente non avevano nessun rapporto con lui, era un segnale di allarme per possibile pedofilia». Assieme alla sua collega Lily Flordelis, la Scerri era nello Splash Island Resort di Binyan, 40 km a sud di Manila, dove Bosio, 46 anni, girava in compagnia di tre bambini di 9, 10 e 12 anni.
«Abbiamo provato a parlare, prima con i bambini e poi con lui stesso, e poco alla volta è venuta una versione dei fatti che ci ha imposto di chiedere alla polizia di intervenire. Tutto inizia con l’italiano che offre delle piccole somme di danaro ai bambini per ingraziarseli ». La Scerri continua dicendo che sono stati i bambini trovati con Bosio a raccontare a lei e alla Flordelis di «essere stati portati nel suo appartamento nel resort, dove aveva fatto la doccia insieme a loro, e li ha lavati e massaggiati, nudi ».
Le due attiviste dicono di aver avvertito la direzione del resort, che però all’inizio non ha voluto chiamare la polizia. «Poi un paio d'ore più tardi abbiamo visto di nuovo il gruppo, e allora sono riuscita a portare da parte uno dei bimbi. «Che rapporto hai con quest'uomo », gli ho chiesto. E il bambino mi ha risposto, “è il mio daddy”. Poi il bambino è corso via». Ma la stessa domanda la Scerri l'ha fatta anche a un altro dei bambini che si trovavano con Bosio. Che rapporto hai con questo signore? «Nessun rapporto», la risposta.
A quel punto la Scerri decide di parlare direttamente al diplomatico italiano. «Che rapporto ha con questi bambini? », gli chiede. «Sono dei bambini di strada di Manila», avrebbe risposto Bosio. «I loro genitori sanno che sono qui?», chiede ancora l’australiana. «No, ci stiamo solo divertendo», risponde Bosio. La Scerri incalza, «Lo sa che è contro la legge?». «No, non lo sapevo», risponde ancora Bosio. «Farebbe lo stesso con dei bambini in Italia?». «No, naturalmente no», replica il diplomatico.
La versione delle due donne è stata rilanciata ieri ai media filippini dal ministro della Giustizia, Leyla de Lima, al quale la polizia ha confermato la sostanza della versione delle due attiviste di Bahay Tuluyan. Il rapporto della polizia aggiunge che i bambini sarebbero stati avvicinati in un quartiere povero di Manila. Lì l’ambasciatore avrebbe offerto soldi, cibo, vestiti e la promessa di un bagno in piscina. Sarebbero state trovate anche foto compromettenti sul cellulare.
Il fratello del diplomatico, Andrea, oggi sarà alla Farnesina per parlare con l’Unità di crisi e capire che tipo di assistenza potrà essere offerta. Il problema è che ormai pochi sono disposti a testimoniare in suo favore.

il Fatto 8.4.14
Farnesina rosso vergogna
Minori, black jack e fascio-rock Vizi poco diplomatici
Dall’ambasciatore arrestato nelle Filipine al rappresentante in Africa patito di Casinò
di Roberta Zunini


L’ultima è sempre la peggiore. Ma, nel caso del primo ambasciatore italiano in Turkmenistan, Daniele Bosio, fermato e quindi arrestato a Manila, con l'accusa di aver adescato minori, la regola viene confermata. Fatta salva la presunzione d'innocenza, e l'eventuale malafede dell'attivista australiana pro infanzia che lo ha pedinato, pare strano che un ambasciatore di 46 anni, in vacanza da solo nelle Filippine, anziché essere su una spiaggia, passi il tempo in appartamento in compagnia di 3 bimbi tra i 6 e gli 11 anni. Li voleva portare a fare un giro sulla giostra “perché li ho visti malmessi” , si è giustificato il diplomatico, che la Farnesina ha sospeso dall’incarico. rischia fino a 20 anni di carcere. Continua dunque l'annus horribilis del nostro corpo diplomatico. Al netto della questione ‘stipendi stratosferici'’ e sedi ‘inutili’, si va dai presunti reati per uso a fini personali del denaro pubblico, abuso d'ufficio, peculato e comportamenti inopportuni. A questo proposito, anche se fu assolto dal Tar, Mario Vattani non fece un buon servizio alla diplomazia quando nel 2011, pur essendo console generale in Giappone, salì su un palco romano, legato a Casapound, per cantare testi dal sapore violento e fascista, accompagnandoli con saluti a braccio teso. Sospeso dalla Farnesina perché i giudici avevano aperta un'inchiesta per apologia di fascismo, fece ricorso al Tar che gli diede ragione. Ed è tornato a Osaka come ministro plenipotenziario, mezzo gradino in meno di quello che occupava prima.
A CONFRONTO, quella che era considerata la madre di tutti gli scandali, diventa la figlia, quantomeno. Era il 2006 quando Salvatore Sottile, portavoce dell'allora ministro degli Esteri Fini, a bordo dell’auto blu con autista, trasportava dalla sede del ministero degli Esteri, la soubrette Elisabetta Gregoraci, che aveva prima ammesso di aver fatto sesso con lui per ottenere parti televisive, per poi ritrattare dicendo che si trattava di “semplici coccole”. Sottile è stato condannato a 8 mesi in via definitiva per peculato, cioè per l'uso dell'auto blu per questioni private, mentre era caduta l'accusa di concussione sessuale. Solo negli ultimi 3 anni, i giudici contabili hanno inflitto 15 condanne. L'ultimo a pagare (180mila euro) il funzionario Teodoro Sgandurra, dell'ufficio diplomatico di Harare, Zimbabwe. Ha spiegato di aver prelevato a più riprese migliaia di euro dalle casse dell'ambasciata perché vittima della sindrome del gioco d'azzardo.

il Fatto 8.4.14
Giustizia, il no di Cantone alla riforma
Alla Camera verso l’ok finale il ddl sulla custodia cautelare
di Sara Nicoli


Prima l’ha bocciata Giuseppe Pignatone, procuratore di Roma: “Stanno rendendo impossibile l’arresto, anche domiciliare, per delitti che considero di un certo allarme sociale”. Ieri è arrivato il neo presidente dell’Autorità anti-corruzione, Raffaele Cantone, sul Messaggero : “La politica criminale non spetta alla magistratura, ma al Parlamento, ma se questo disegno di legge sarà approvato definitivamente nella versione del Senato, ci saranno conseguenze per quanto riguarda i reati da strada, come il furto, e per quelli contro la Pubblica amministrazione”. Il guaio è che, in barba a questi illustri avvertimenti, il ddl sulla custodia cautelare, ora in arrivo alla Camera in terza lettura, sembra avviato verso un’approvazione senza scosse prima del 28 maggio, quando l’intero pacchetto giustizia, che comprende anche le questioni legate alle carceri, sarà al vaglio della Corte europea dei Diritti dell’Uomo (che da tempo minaccia condanne senza appello). Già, perché il provvedimento, ora in commissione Giustizia, ma in discussione la prossima settimana, era già frutto di un accordo tra Pd e Forza Italia e il Senato ha modificato alcune parti ma non ha toccato l’asse portante della legge. Ovvero gli articoli 1 e 3 che prevedono che il giudice non possa desumere dalla gravità del reato le situazioni di concreto e attuale pericolo di reiterazione da parte dell’accusato. Inoltre, la misura della custodia cautelare non può essere applicata se il giudice ritiene che, all’esito conclusivo del giudizio, possa essere sospesa la pena. Siccome queste parti non sono state toccate, prima la commissione Giustizia di Montecitorio, poi l’aula si limiteranno a votare le modifiche del Senato, per poi votare in toto il provvedimento approvandolo. L’unica speranza è costituita dal fatto che Cantone faccia sentire la sua voce con Renzi. Così com’è, l’articolato sancisce infatti “l’impossibilità per il giudice di dare misure cautelari in carcere o ai domiciliari – è parola di Cantone – quando presuma che le pene irrogate possano essere inferiori a quattro anni, mi sembra una scelta troppo rigorosa. E anche pericolosa”. Ma Renzi non ha grandi possibilità di manovra, vista l’urgenza di schivare una condanna della Corte europea: modificare il ddl significa rispedirlo di nuovo al Senato e – sostengono nel Pd – perdere un’occasione importante di riforma. L’ennesima. Stavolta più dannosa che inutile.

il Fatto 8.4.14
Al Teatro Argentina
La messa cantata per i 90 anni di Scalfari
di Fabrizio d’Esposito


La beffa, per i presenti, arriva alla fine, dopo centocinquanta minuti di pensiero, opere e persino poesie di Eugenio Scalfari. Il Fondatore torna grande giornalista e grande affabulatore e rivela: “Alle otto di ieri sera, mi arriva una telefonata. Ormai riconosco il numero. È Giorgio Napolitano. Mi fa gli auguri: ‘Non sapevo che fosse oggi (domenica 6 aprile, ndr), pensavo domani”. Il capo dello Stato fa riferimento al novantesimo di Scalfari in scena ieri al teatro Argentina di Roma. Continua Scalfari: “Napolitano aveva deciso di venire oggi. Gli ho risposto: “Giorgio ti prego di non venire, non puoi stare lì due ore a sentire come sono fatto. Hai cose più importanti cui dedicarti”.
“Giorgio” no, ma tutti gli altri sì. In ordine sparso: Walter Veltroni, Enrico Letta, l’Ingegnere, Ezio Mauro, Carla Fracci, Roberto Benigni, Francesco Rosi, Achille Bonito Oliva, Luigi Zanda, Fabrizio Saccomanni, Vincenzo Visco, Renzo Arbore, Raffaele La Capria, tantissime firme di Repubblica ed Espresso, ovviamente. Paolo Sorrentino, il regista premio Oscar, crolla quanto tocca al professore Alberto Asor Rosa, incaricato dell’orazione sull’amicizia, in questo caso quella tra “Eugenio”, cioè Scalfari, e “Italo”, cioè Calvino. Pure la Grande Bellezza si addormenta, in sesta fila, salvo scuotersi con qualche secondo di ritardo durante l’applauso finale.
Teatro Argentina, dalle diciassette e trenta alle venti. La Chiesa scalfariana si raduna per i novant’anni del Fondatore. L’officiante-presentatore Antonio Gnoli, sommo speculatore filosofico, annuncia che ci saranno “parole destinate a restare nella memoria”. La biografia di ES è sorretta da cinque pilastri puntellati da Bruno Manfellotto, il viaggio; Franco Marcoaldi, la conoscenza; Simonetta Fiori, la passione; Asor Rosa, l’amicizia; Ezio Mauro, la sfida. Prima ancora c’è l’introduzione-omaggio di Carlo De Benedetti, l’editore della Chiesa fondata da Scalfari che ricorda l’amico come un caso unico nella storia mondiale del giornalismo perché “inventore, imprenditore e direttore”.
L’approccio dogmatico e acritico alla vita di ES dovrebbe avere un vangelo con al centro i giornali da lui fondati, Espresso e Repubblica , e la celebrazione dell’Italia migliore, quella che non votava Dc e non vota Berlusconi e si richiama sempre alla “certa idea” del Paese di gobettiana memoria. Un compito che svolge solo Ezio Mauro. Per il resto prevalgono gli ultimi 18 anni della parabola di ES, da quando a 72 anni lasciò la direzione di Repubblica e cominciò un viaggio dentro se stesso, testimoniato da volumi vergati da filosofo dilettante. Ed ecco che Scalfari diviene Noè, Gulliver, Ulisse, Diderot. Silvio Orlando legge brani da questi pensosi tomi e Marcoaldi, per esempio, individua l’originalità umanista di Scalfari nell’equilibrio tra cuore e mente. Ancora: “Non c’è alcuno scarto tra la persona e la scrittura, un’osmosi continua” alimentata da “una conoscenza senza limiti”. Di qui l’immane compito affidato al Novantenne: “Preservare la migliore tradizione dell’umanesimo italiano”. Da Dante a Scalfari. In attesa di eguagliare Shakespeare. Scalfari sale sul palco. “Ho una sorpresa”. Estrae dei fogli da una cartellina verde. Poesie. Dopo la filosofia, è la nuova frontiera del suo ego. ES ha un po’ di pudore. Non la chiama poesia. “Versificazione della prosa”. Legge: “La notte sentivo il respiro del mare e mi è sembrato il respiro dell’universo”.
Il Poeta Fondatore alterna battute e imbarazzo. È come se capisse che gli altri sono costretti ad applaudire i suoi capricci intellettuali, scambiandoli per Opere Immortali. Il finale fa respirare tutti. Il racconto delle telefonate di auguri (Napolitano, Renzi, papa Francesco) restituisce alla platea lo Scalfari giornalista, che gigioneggia con maestria. Auguri.

Repubblica 8.4.14
Ieri all’Argentina di Roma, l’omaggio per i novant’anni del fondatore di “Repubblica”
Tra lettori in fila, poesia e i racconti delle telefonate del pontefice e di Napolitano
Scalfari, festa tra amici con gli auguri del Papa
di Francesco Erbani


È un Eugenio Scalfari asciutto e allegro quello che ieri sera, al teatro Argentina di Roma, riceve gli auguri delle tante famiglie culturali e professionali, le tante persone appartenenti a diversi mondi che lui ha incrociato nei suoi novant’anni. E che con lui hanno avuto affinità politiche, intellettuali e sentimenti d’affetto. Ma anche tanti lettori, che si mettono in fila davanti al teatro un’ora prima che incominci l’incontro.
Il fondatore di Repubblica accoglie tutti con due sorprese: un gruppo di poesie che ha scritto negli ultimi tempi, «provando a versificare », spiega, «una prosa che aveva già qualcosa di poetico»; e il racconto, da vero cronista e a tratti esilarante, di due telefonate ricevute domenica, giorno del suo novantesimo compleanno: quella del premier Matteo Renzi e quella di papa Francesco. Una terza telefonata, fra le tante, è stata quella di Giorgio Napolitano, che ha poi condensato i suoi auguri in un messaggio «al coetaneo» letto in apertura della serata da Antonio Gnoli, che ha coordinato gli interventi: «I punti di contatto tra le nostre storie - scrive il presidente della Repubblica - non sono mai mancati, ma in tempi recenti essi sono sfociati in un vero e proprio comune sentire rispetto al travaglio spesso angoscioso del nostro Paese, nella consapevolezza di quel coraggio della realtà e di quel dovere dell'equilibrio cui non possiamo sottrarci».
La telefonata di Renzi è giunta nella tarda mattina di domenica. «Quel giorno stesso», racconta Scalfari, «era uscito un mio articolo pieno di bastonate per lui. Ho letto il suo editoriale, ha esordito il presidente del Consiglio, in cui lei sostiene che si deve preparare un’alternativa a me, ma che nel frattempo, in attesa di questa alternativa, non si può che votare per me. Al che Renzi ha aggiunto: e se diventassi io l’alternativa a me stesso? Non c’è che dire, è un ragazzo sveglio. Ma io gli ho risposto: guardi tutto è possibile, solo che lei è così perché il suo carattere è così, lei è soprattutto un seduttore. Lei dovrebbe cambiare carattere, dovrebbe diventare un’altra cosa. Ci siamo lasciati con la promessa di vederci».
Verso le 9 di sera un’altra telefonata. «Sono papa Francesco », si sente dall’altro capo dell’apparecchio. «Mi hanno detto che è il suo compleanno e io voglio farle gli auguri. Novant’anni sono tanti, ha aggiunto il pontefice. Sono stato molto contento, lui vuol parlare con me, non perché io ne scriva. Vuol parlare con un non credente che però ama Gesù, figlio di Maria e di Giuseppe. Vuole avere un confronto, di tanto in tanto. Mi ha chiamato recentemente anche in clinica. Mi ha detto: “Ricorda i versi di Dante su Costantino e su quanto mal fu madre, alludendo alla nascita del potere temporale della Chiesa, della Chiesa come istituzione? Ecco, io voglio che la Chiesa siano i fedeli, i sacerdoti, i vescovi e che la Curia sia lì per fornire servizi ai fedeli. Noi perseguiamo lo stesso obiettivo, ama il prossimo tuo come te stesso, ma che l’amore per il prossimo sia un po’ di più di quello per se stessi”. L’editto di Costantino è del 313, ho detto al Papa, lei vuol riformare una Chiesa che è così da 1700 anni…”Vabbe’ se guardiamo le date…”».
L’incontro - in platea personaggi noti come Enrico Letta e Walter Veltroni, Roberto Benigni e Nicoletta Braschi, Paolo Sorrentino, Francesco Rosi, Carla Fracci - scivola su cinque parole-chiave che hanno designato vita privata e vita pubblica di Scalfari. Scandisce il passaggio da una parola all’altra Silvio Orlando, che legge brani dai suoi libri cominciando da Racconto autobiografico, ilvolume ora uscito da Einaudi e in vendita insieme a Repubblica e L’Espresso. Prima ancora Carlo De Benedetti, presidente del Gruppo Editoriale L’Espresso, fa gli auguri «al grande giornalista, ma anche grande imprenditore ed inventore, caso unico nel panorama del giornalismo. Era il 1975 quando veniste da me con Carlo Caracciolo a chiedermi di partecipare al finanziamento di un nuovo quotidiano. Vi diedi dei soldi, ma convinto che sarebbe stato un fallimento. Mi offriste delle azioni, non le volli prendere. Anni dopo, quando le ricomprai le dovetti pagare molto più care».
La parola “viaggio” è scelta da Bruno Manfellotto, direttore dell’ Espresso, per raccontare il lungo itinerario che ha portato alla nascita dell’ Espresso, prima, e di Repubblica, poi. Franco Marcoaldi declina la parola “conoscenza”. Sulla “passione” si sofferma Simonetta Fiori. Su Calvino e sul rapporto cominciato al liceo di Sanremo si concentra Alberto Asor Rosa, con la parola “amicizia”. “Sfida” è la parola con la quale Ezio Mauro tratteggia l’avventura giornalistica di Scalfari, «non una prova, ma una partita con se stessi, chi ha fondato un giornale ne definisce la radice, il perimetro, l’identità e il percorso ». «Prima ancora di conoscerlo personalmente», ricorda Mauro, «pensavo a Scalfari come al Gulliver raffigurato in alcune illustrazioni che trascina con tanti fili le navi dei lillipuziani. La sfida è una scommessa sul cambiamento e persino sul cambiamento di un paese come l’Italia. E Scalfari l’ha messa in atto coniugando l’algebra con il fuoco, la normalità con la passione».

Corriere 8.4.14
E arriva il musical su Karol Wojtyla

Arriva a Roma il musical sul Papa santo. All’auditorium Conciliazione, dal 21 al 24 aprile, andrà in scena Non abbiate paura , l’unica opera teatrale riconosciuta dalla Chiesa come valida a comunicare la figura di Wojtyla. Il protagonista che interpreta il pontefice è Danilo Brugia. Con il patrocinio del Pontificio Consiglio della Cultura della Santa Sede, lo spettacolo sarà ad ingresso libero fino ad esaurimento posti, in occasione della solenne cerimonia in cui il Beato Giovanni Paolo II sara’ proclamato Santo.

Repubblica 8.4.14
Archeologi in rivolta: “Fermateli”
Il golf a Caracalla, scempio a Roma
di Rory Cappelli



ROMA. «Un campo da golf a ridosso delle Mura Aureliane? È un’orrore, un’indecenza. Ed è incredibile. Incredibile che qualcuno abbia anche solo potuto pensare di aprire una struttura del genere nel cuore di Roma. Incredibile che il Tar abbia annullato il parere negativo del ministero dei Beni culturali. Stanno abolendo tante cose: che aboliscano pure il Tar, che è solo una delle disgrazie del nostro Paese». Non usa mezzi termini l’archeologo Adriano La Regina, presidente dell’Istituto nazionale di archeologia e storia dell’arte, dal 1976 al 2004 soprintendente alle antichità di Roma. Una sentenza del Tar annulla infatti la decisione della soprintendenza di non concedere la fattibilità al progetto della società Bastioni del Sangallo per realizzare un campo da golf davanti alle Terme di Caracalla.
La storia ha inizio tre anni fa, quando la Bastioni del Sangallo, una società aperta ad hoc per il progetto e che ha tre soci - la Andros Sas di Pietro Salini (quello della Salini-Impregilo), la Fresia 2200 e la Immobilflora (ma di mezzo ci sono anche la Immobiliare Santa Teresa, la Federici, la Ares 2002) -
presenta alla Regione Lazio il progetto per trasformare l’area compresa tra il Bastione Ardeatino delle Mura Aureliane e le Terme di Caracalla. A realizzare la relazione paesaggistica è lo studio Camaxx di Roma: «Era solo un’idea preliminare e comprendeva il drive, cioè il campo di allenamento, per intenderci dove si tira la palla» spiega il titolare dello studio, l’architetto Carlo Terzoli che ha anche una specializzazione in architettura del paesaggio. «Una zona buche, per un totale di cinque, là dove si trova il Bastione di Sangallo (da cui il nome delle società, ndr). E nel mezzo, dove ora si trova un edificio diroccato, una club house».
La Regione Lazio in un primo momento approva, ma la soprintendenza ai beni architettonici mette il suo veto e alla fine anche la Regione dice no. «Frequento moltissimo i funzionari della soprintendenza» dice Terzoli «e il loro atteggiamento culturale è: cercare di bloccare tutto. Certo, a volte si lascia mano libera a situazione insostenibili, ma in questo caso non capisco quale potrebbe essere il deperimento del patrimonio paesaggistico, perché qui le opere archeologiche non vengono compromesse: è un campo da golf, un prato che viene innaffiato, non ci sono impianti che potrebbero arrecare pregiudizio. Oltretutto attirerebbe molti stranieri. Sarebbe un plus turistico. E poi quando lo abbiamo preso in mano e ripulito era occupato abusivamente ed era diventato un inguardabile ricovero di clochard».
La Regina la racconta in modo diverso: «Anni fa quello spazio era meraviglioso. Allora volevano trasformare la zona in un teatro all’aperto: e il progetto venne bloccato. C’erano capitelli, cornicioni, elementi di pietra recuperati dalle demolizioni operate nel centro di Roma durante il fascismo. Era un posto molto suggestivo. Poi abusivamente, per pretese esigenze di igiene, venne tutto smantellato. Altroché accampamenti abusivi».
Dopo il rigetto della soprintendenza, la società Bastioni di Sangallo non si arrende. Ricorre al Tar: che annulla lo stop dato al progetto argomentando in sostanza che il ministero è stato superficiale e avrebbe potuto chiedere «ulteriori integrazioni documentali e procedimentali». Cosa che invece non ha fatto respingendo il piano della società senza grandi argomentazioni. «Siamo soddisfatti e speriamo che la sentenza venga eseguita quando prima» dice l’avvocato di Bastioni di Sangallo, Angelo Buongiorno. «Se il Mibac vorrà fare appello (anche se ormai il tempo stringe) siamo pronti a far valere le nostre ragioni anche in altra sede».
La palla passa al Consiglio di Stato: «E speriamo vada in buca» dice La Regina. Altrimenti in buca andranno quei 60mila metri quadri, dietro le Terme di Caracalla, a ridosso dell’antica cinta di Roma.

La Stampa 8.4.14
Da Milano a Bucarest per la laurea
Università: via ai test, ma c’è chi pensa al piano B
Solo uno studente su 4 entrerà nella facoltà desiderata. E così crescono i “turisti dell’ammissione”
di Flavia Amabile


Si parte oggi con i test di ammissione alle università a numero chiuso. In una qualsiasi giornata di metà aprile mentre manca una settimana alle vacanze di Pasqua, due mesi e mezzo all’esame di maturità e per la prima volta ragazze e ragazzi dell’ultimo anno delle superiori devono mettere da parte presente e futuro prossimo per concentrarsi su quello che al momento sembra solo un futuro remoto, la loro vita dopo il diploma. 
C’è anche un’altra novità rispetto al passato: forse proprio per il disorientamento creato dall’anticipo del test ad iscriversi sono stati meno studenti, solo i più convinti e quelli che sono al secondo-terzo tentativo, si sono cimentati nell’impresa. In totale, infatti, sono poco più di 83mila partecipanti contro i quasi 100mila dell’anno scorso. Aumentano, quindi, le probabilità di entrare. Per Medicina le probabilità aumentano da 1 un posto ogni 6 candidati rispetto al rapporto 1 a 7 dell’anno passato. Ad Architettura c’è un posto quasi per tutti, sono circa 7mila posti per 11mila aspiranti. Mentre a Veterinaria ci sarà un posto per ogni 9 candidati rispetto ai 10 del 2013. 
Anche se aumentano le probabilità soprattutto nella prova di Medicina se verrà ammesso 1 su 6 vuol dire che 5 non verranno ammessi e che o faranno una scelta diversa oppure tenteranno di arrivare allo stesso obiettivo ma in un altro modo, andando all’estero. È la carta di riserva degli esclusi. Non tutti, però, possono giocarla: più che la preparazione in questo caso conta innanzitutto avere un po’ di soldi da parte: tra soggiorno all’estero, tasse di iscrizione e di frequenza si può essere costretti a pagare cifre astronomiche, fino a 100mila euro se ci si iscrive ad un’università pubblica con corsi regolari. e’ un piano B ma che può risultare molto più ambizioso e interessante del piano A se ci si dirige verso Stati al di sopra di ogni sospetto dove si ha la garanzia di poter frequentare Medicina senza test d’ingresso ma è bene sapere che la vera selezione avviene poi durante gli studi come in Francia o in Germania dove comunque la lingua può rappresentare un ostacolo non indifferente. 
Oppure si possono scegliere altre destinazioni, dalla Spagna alla Bulgaria, la Romania, la Repubblica Ceca, la Slovacchia e l’Albania dove è tutto un proliferare di università (molto spesso private) pronte a promettere tutto pur di attirare studenti da ovunque. Costi abbordabili, una laurea si riesce a prendere anche con 15mila euro l’anno, tutto compreso. In Romania, infatti, sono oltre 600 gli studenti italiani iscritti alla privata Vasile Goldis di Arad mentre oltre un migliaio sono sparsi tra Oradea, Iasi, Bucarest, Cluj e Costanza. Vantaggi oltre ai costi e all’accesso libero il fatto di uscire dall’università con una laurea di un Paese dell’Unione europea quindi un titolo valido anche in Italia. Non è necessario imparare il romeno, i corsi sono anche in inglese e francese, il praticantato è abbastanza semplice e in sei anni si dovrebbe essere dotati del pezzo di carta. Eventualmente si può anche tentare di forzare la mano già dal secondo anno e con un ricorso al Tar per chiedere di rientrare: le probabilità di vincere sono molto alte, otto volte su dieci si riesce.
L’altro paradiso per gli italiani esclusi è l’Albania tristemente balzata agli onori delle cronache dopo che si era scoperta la fuga di Renzo, il figlio di Umberto Bossi che aveva preferito le aule della Kristal di Tirana all’Italia. E proprio alla Kristal si può uscire con laurea in Medicina firmata dall’UniZkm e dall’università di Roma Tor Vergata, o in Farmacia cofirmata dall’Università di Milano evitando ulteriori problemi per il riconoscimento del titolo in patria. 

l’Unità 8.4.14
Mea culpa dell’Onu in Ruanda
Kagame accusa la Francia
Parigi esclusa dalla commemorazione del genocidio: «Nessun Paese è abbastanza potente da cambiare i fatti»
Il grido di dolore di Kigali
di Gabriel Bertinetto



Sugli spalti dello stadio Amaharo, a Kigali, la folla piange e la memoria ravviva il dolore. Alcuni non resistono all’emozione, cadono a terra in preda agli spasmi, vengono portati via. Fuori dal luogo in cui trentamila ruandesi sono riuniti per commemorare le vittime dei massacri del 1994.
Sette aprile 2014. Esattamente vent’anni dal giorno in cui nel Paese africano iniziò una spaventosa mattanza. Cento giorni di atrocità. Ottocentomila persone uccise, per lo più cittadini di etnia tutsi contro cui si scatenò la rabbia dei connazionali della comunità hutu. O meglio degli estremisti hutu, che non esitarono a colpire anche coloro che nella loro stessa comunità si opponevano alle stragi. Sul podio delle autorità, il presidente Paul Kagame e gli ospiti stranieri venuti a esprimere a nome dei loro governi la solidarietà verso i superstiti, la condanna dei responsabili. Alla solennità dell'evento contribuisce la presenza di Ban Ki-moon, segretario generale dell’Onu, che non si tira indietro di fronte al dovere dell’autocritica. «La vergogna ci resta appiccicata addosso», dice Ban, perché se è vero che «molti esponenti delle Nazioni Unite dimostrarono allora un coraggio straordinario, avremmo dovuto e potuto fare molti di più». «I caschi blu furono ritirati dal Ruanda - ammette il segretario dell’Onu - proprio quando sarebbero serviti di più». E definisce il genocidio ruandese «uno dei capitoli più oscuri della storia umana».
Ban e Kagame accendono assieme nello stadio una fiaccola che arderà per cento giorni, tanti quanti durarono le stragi, prima che le milizie tutsi del Fronte Patriottico riuscissero a riportare l’ordine nel Paese. Cerimonia all’insegna della solidarietà internazionale. Ma anche delle polemiche, che il capo di Stato ruandese non rinuncia a sollevare nel giorno del lutto collettivo e della sofferta rievocazione.
COMPLICI DEL MASSACRO
Bersaglio principale degli attacchi è la Francia, chiamata in causa da Kagame come complice, né più né meno, dei misfatti che furono perpetrati fra l’aprile e il luglio del 1994 in Ruanda. Di poco più sfumate le accuse che tra gli applausi dei presenti il presidente rivolge dal palco dello stadio all’ex-potenza coloniale. «Nessun Paese è abbastanza potente, anche se pensa di esserlo, da rovesciare la realtà», scandisce Kagame, riferendosi a Parigi, che secondo lui rifiuta di ammettere fino in fondo le sue colpe. «Dopo tutto - conclude - i fatti sono testardi». Nessun rappresentante del governo francese è sul posto ad ascoltare l’invettiva del leader rwandese. Per protesta contro le ancora più dure parole da lui pronunciate nei giorni scorsi, Francois Hollande aveva in un primo tempo rifiutato di mandare rappresentanti ufficiali a Kigali per le celebrazioni. In un secondo tempo aveva deciso che si presentasse almeno l’ambasciatore Michel Flesch. Ma a questo punto è stato il governo locale a impedirne, come «sgradita », la partecipazione.
Presenza puramente virtuale dunque quella di Parigi ieri a Kigali, attraverso il comunicato diffuso dall’Eliseo: «La Francia si unisce al popolo ruandese nel rendere omaggio alla memoria di tutte le vittime del genocidio» che fu «una delle peggiori atrocità dei nostri tempi». «Abbiamo il dovere - si legge ancora nel testo - di fare tutto il possibile per evitare che questo genere di tragedia si ripeta. La prevenzione dei genocidi è diventata parte centrale della politica estera francese».
Secondo Kagame la Francia al pari del Belgio avrebbe avuto «un ruolo diretto nella preparazione politica del genocidio» e addirittura avrebbe partecipato alla sua «esecuzione». Sono frasi pronunciate in un'intervista pubblicata domenica dalla rivista Jeune Afrique, e bollate come «menzogne strumentali» da Edouard Balladur, che sedeva a Palazzo Matignon all’epoca dei fatti. Meno drastico il giudizio di Bernard Kouchner, che in qualità di ministro degli Esteri, gestì il riavvicinamento fra i due governi nel 2010. Nessuna partecipazione diretta alle stragi, dichiara. Piuttosto una sorta di tacito avallo. Kouchner pone a se stesso la domanda: «Forse che le nostre truppe hanno assassinato con le loro mani dei tutsi?». Lui non lo crede «per nulla». Ma aggiunge di ritenere «sicuro» che tutto fu «preparato con il loro assenso illecito e implicito».
L’ex-capo di Médecins sans Frontières critica i connazionali per non avere avuto il coraggio di andare a fondo nel riesame di quei tragici avvenimenti, a differenza dei belgi che vi hanno dedicato «un vero dibattito parlamentare con una commissione d’inchiesta e una giuria». «Noi ci siamo limitati a nominare una commissione informativa, nella quale peraltro io, unico francese presente durante il genocidio, non ho potuto parlare».

Le Monde 8.4.14
Genocidio in Rwanda. Di che cosa è accusata la Francia?

una videointervista al vice capo dei servizi esteri di Le Monde (in francese)
qui

Le Monde 8.4.14
Rwanda. I media del genocidio

un video in francese
qui

il Fatto 8.4.14
Ungheria nuovo muro d’Europa
Tra Orban e xenofobi Budapest dominata dagli anti-Ue
di Maria Elena Scandaliato


Dopo la lunga notte elettorale, Budapest si è svegliata sotto un sole primaverile. E Viktor Orban, riconfermato alla guida del Paese, si è finalmente concesso alle domande dei giornalisti. “Gli elettori hanno detto sì al nostro modo di governare”, ha dichiarato il premier, incalzato sulle prospettive del suo governo e sul difficile rapporto con Bruxelles; “Non c’è nulla di straordinario nella nostra posizione rispetto all’Ue. Semplicemente, l’Ungheria è un Paese dove la popolazione chiede politiche economiche diverse da quelle europee”.
POLITICHE CHE I SUOI concittadini hanno sposato domenica, regalando a Fidesz e al Kdnp, piccolo partito democristiano, il 44,5% dei consensi, pari a 133 seggi in Parlamento su 199. Quattro anni fa, con la stessa percentuale, Orban non avrebbe ottenuto i due terzi dell’assemblea; forse per questo aveva cambiato la legge elettorale, garantendosi la necessaria governabilità in futuro. L’esempio, per il super-premier, è Budapest: in questi anni si è incredibilmente sviluppata, e ha realizzato una nuova linea della metro (la quarta, inaugurata da Orban poco prima delle elezioni). Difficile negare il successo di Viktor e della sua via “alternativa” alla ripresa; mentre l’Europa soffoca sotto la stretta dell’austerity, il Pil è tornato a crescere, e quest’anno prevede un +2,1%. E non si tratta solo di numeri. Orban ha tagliato le tariffe dei consumi energetici; ha preteso tasse extra dalle multinazionali dell’energia e delle telecomunicazioni – quasi tutte straniere – e dalla finanza, attirandosi lamentele e critiche dall’establishment bancario europeo (tra cui Unicredit, presente con 105 filiali). A proposito di banche, Orban ha precisato: “Riteniamo giusto che gli istituti di credito diano il loro contributo. E siamo anche lieti che abbiano incamerato le tasse extra nel loro budget, tornando a fare profitti”. Al tempo stesso, Orban ha cercato di arginare la disoccupazione dilagante – all’11% nel 2013 - incentivando gli investimenti produttivi, grazie al flat rate del 16% di Irpef per tutti, e grazie a un costo del lavoro molto basso. Ecco perché, negli anni dell’orbanismo, in Ungheria sono stati inaugurati impianti Mercedes, Audi e Siemens. Una politica tatcheriana con forti contrappesi, che è riuscita a riportare la disoccupazione all’8,6%. Tutto mentre lo Stato recuperava il controllo sul settore strategico dell’energia; basterà ricordare il ri-acquisto delle utilities ungheresi del gas dalla tedesca Eon, o il recupero del 21% della Mol, compagnia petrolifera magiara in mano ai russi. Strategie, quelle di Orban, che mischiano liberismo e nazionalismo, riflesso della collocazione tra Europa e Russia, dove Putin sta restaurando uno Stato imponente e accentratore.
A riprova della libertà di manovra che Orban vuole garantirsi, c’è poi la “special relationship” con Mosca, che a gennaio ha prestato 10 miliardi di euro all’Ungheria per realizzare, tramite la Rosatom, due nuovi reattori nella centrale nucleare di Peks.
I detrattori sostengono che le performance siano frutto di éscamotage contabili (come la nazionalizzazione dei fondi pensione, messa a bilancio), e che il consenso ottenuto sia risultato di un’informazione imbavagliata, dalle epurazioni trascorse nella tv di Stato e del controllo governativo sulla banca centrale e sulla magistratura. Da oggi il leader arancione – questo il colore di Fidesz – avrà altri 4 anni per dare prova delle sue ragioni; e, forse, non gli sarà così difficile.

l’Unità 8.4.14
Jobbik al 20%, allarme del Congresso ebraico
di U.D.G,


Alla fine, grazie anche ad una legge elettorale ad hoc, Viktor Orbàn si conferma il «padrone» dell’Ungheria. Al 99%dello spoglio delle elezioni politiche Fidesz ottiene il 44,4%, Alleanza 25,9%, Jobbik 20,5%, verdi 5,2%. La ripartizione dei seggi vede Fidesz conquistarne 133, Alleanza 38, Jobbik 23, verdi 5 deputati su 199. Nonostante aver perso 600mila voti rispetto alle precedenti legislative, il partito di Orbàn è riuscito ad ottenere di nuovo una maggioranza di due terzi. «Ogni dubbio e incertezza è scomparsa, abbiamo vinto», esulta il primo ministro parlando ai sostenitori che si erano radunati l’altro ieri sera a Budapest. «L’Ungheria - scandisce Orbàn - è un luogo in cui vale la pena di vivere, lavorare e mettere su famiglia. Abbiamo dichiarato che non torneremo indietro». «L'Ungheria - ha proseguito - ha confermato che il suo posto è nell'Unione europea, ma soltanto se ha un forte governo nazionale».
INQUIETUDINE Ma a destare maggiore inquietudine è l’avanzata dell’estrema destra antisemita. Il partito Jobbik ha sfondato la soglia del 20%, e i n alcune circoscrizioni, ha addirittura sfondato la soglia del 35%. Un risultato sorprendente, ottenuto cavalcando l’intolleranza e la paura, con una campagna elettorale aggressiva, infarcita di slogan xenofobi e antisemiti, come quello che rese tristemente celebre di uno dei leader del partito, Marton Gyöngyösi, che durante una seduta del Parlamento propose la schedatura di tutti i deputati di origine ebraica. Come se non bastasse, ancora l’altro ieri mattina, i telefoni cellulari dei cittadini magiari sono stati inondati con migliaia di messaggi dal tono inequivocabile: «Votate Jobbik per sconfiggere gli zingari».
DENUNCIA
Un risultato che, in realtà, non ha soddisfatto il leader del partito. «Jobbik è riuscito a ottenere un risultato superiore a quello che i sondaggisti attribuivano», ha affermato Gabor Vona, «Dobbiamo ammettere - ha continuato - che non siamo stati in grado di raggiungere l'obiettivo che ci eravamo posti nella campagna elettorale».
L'avanzata dell'estrema destra è stata invece denunciata dalla comunità ebrica. «Il successo di Jobbik, partito sfacciatamente neonazista, dovrebbe servire come una sveglia per l’intera Europa», ammonisce il presidente del Congresso ebraico europeo Moshe Kantor. «Questo è veramente un giorno buio per l’Ungheria”, ribadisce Kantor che sottolinea come questo risultato infonda coraggio agli altri estremismi europei che «con il vento inpoppasi dirigono verso le prossime elezioni europee». Attila Mesterhazy, candidato premier dell'Alleanza di centrosinistra, ha accettato il risultato ma si è rifiutato di congratularsi con il suo avversario.«Orbànha continuamente abusato del suo potere. L’Ungheria non è libera, non è una democrazia», ha dichiarato. Il quarantenne leader dei socialisti ungheresi denuncia anche «l’impossibilità di poter condurre una campagna politica in un Paese dove i principali media sono controllati dal governo».
Incassata la vittoria elettorale, il neopremier cerca di vestire i panni del leader moderato, tranquillizzando i partner europei del Ppe, di cui Fidesz fa parte. Si è detto no all'intolleranza e all'uscita dall'Ue», ha affermato Orban in dichiarazioni alla stampa magiara. «La Fidesz -ha aggiunto - è la garanzia che nessun estremismo troverà spazio nella vita pubblica né da destra né da sinistra».

Corriere 8.4.14
L’Ungheria e i fantasmi emergenti
di Paolo Valentino


«Fidesz è la garanzia contro il rischio che partiti estremisti come Jobbik acquistino un’influenza eccessiva nella vita pubblica ungherese», dice Viktor Orbán rispondendo alla domanda del Corriere . Il giorno dopo la netta vittoria nelle elezioni politiche, il premier magiaro mette la sordina alla focosa retorica nazionalista che ne ha costituito la cifra. E cerca di tranquillizzare l’Europa e i partner comunitari, allarmati dalla forte avanzata del partito neonazista e antisemita, balzato dal 17 al 20,5%, con un milione di voti in più rispetto al 2010. Il paradosso è che Orbán, un leader che pure ha blandito pulsioni scioviniste e xenofobe, ha una parte di ragione. Molto infatti dipende da quel seggio ancora traballante, che al momento porta a 133 su 199 il numero dei deputati del suo Fidesz, cioè una maggioranza di 2/3 in seno all’Orszaghaz, il Parlamento ungherese. Se i conteggi finali dovessero confermarlo, Orbán continuerebbe a poter governare senza condizionamenti. Sicuramente proseguirebbe sulla linea populista e autoritaria, che ha segnato il suo primo mandato. Ma non dovrebbe concedere nulla a Jobbik e al suo leader Gabor Vona, un signore tanto banale quanto abilissimo ad aizzare gli istinti più estremi. Ma se quel seggio gli venisse a mancare, il premier magiaro si scoprirebbe i piedi d’argilla, dovrebbe negoziare su molte leggi, a partire da quelle di bilancio e agrarie, cercando appoggi o nello Lmp di András Schiffer, un altro tribuno, con venature verdi, che ha racimolato un pugno di deputati, ovvero nelle fila dei «migliori», la traduzione italiana di Jobbik, appunto, che di seggi ne ha presi 23. È uno scenario inquietante. Neppure Marine Le Pen vuole aver nulla a che fare con i neonazisti di Vona, che pure ha cercato attivamente di collegarsi al Front National. Apertamente ostile all’Ue, Vona immagina per l’Ungheria un’alleanza organica con Croazia e Polonia fuori dall’Unione. Chiede la creazione di campi chiusi e vigilati per i rom «devianti», denuncia di continuo la «delinquenza tzigana» e chiede l’instaurazione nel codice penale del reato di «crimine etnico». Giocando con l’antisemitismo latente di molti ungheresi, uno dei suoi deputati di punta ha proposto di creare un registro speciale per tutti gli ebrei che vivono in Ungheria. E non passa giorno senza che Jobbik denunci «la cospirazione giudaica per colonizzare il Paese». Di più, Vona tollera e foraggia le formazioni paramilitari della Guardia Ungherese, milizia razzista e omofoba, nonostante in campagna elettorale le abbia tenute in disparte per darsi un’immagine meno violenta ed estrema. Questo non gli impedisce di avere come punto del suo programma la creazione di una gendarmeria rurale. Il risultato del voto, ha detto ieri il portavoce del governo tedesco, dà a Viktor Orbán una «responsabilità speciale» e lo ha invitato a usarla «con moderazione, prudenza e sensibilità». E il successo di Jobbik è la perfetta illustrazione di quest’onere.

Corriere 8.4.14
L’italiana Sonia Gandhi il vero ostacolo per i marò
Non parla più la sua lingua con i connazionali
di Danilo Taino


NEW DELHI (India) — La domanda che deve passare per la mente in questi giorni ai due marò trattenuti a New Delhi, e molto presente nelle analisi della diplomazia italiana, è questa: è meglio che le elezioni in corso in India le vincano Sonia Gandhi e il suo partito o è preferibile una vittoria (probabile) del leader nazionalista indù Narendra Modi? Se si guarda ai fatti, si può dire che l’italiana Sonia Gandhi, presidente del partito del Congresso oggi al governo, è stata di gran lunga il maggiore ostacolo a una soluzione concordata del caso. Politicamente ma — a quanto risulta al Corriere — anche direttamente.
Alla base del suo modo di agire c’è un fatto noto. L’essere italiana la penalizza. Viene indicata dall’opposizione come una straniera al potere grazie al matrimonio nella famiglia più eminente del Paese, i Nehru-Gandhi: già tre primi ministri dal 1947 e un quarto, Rahul, in corsa ora. Per gli avversari, un’usurpatrice: nei giorni scorsi Modi non ha esitato ad attaccare la sua italianità proprio in relazione al caso dei marò (a suo parere sarebbero trattati troppo bene). Sonia, dunque, si tiene lontana miglia da tutto ciò che ha a che fare con l’Italia e la possa fare sembrare non indiana a 360 gradi. Non parla mai in italiano, nemmeno se incontra un politico o un diplomatico in missione da Roma. Quando la vicenda dei due fucilieri di Marina è diventata un caso politico, dunque, è andata su tutte le furie — secondo un funzionario del Congresso.
Era il marzo del 2013 e il governo Monti decise (per un breve periodo) che i due marò, in Italia in licenza elettorale, non sarebbero tornati a Delhi a differenza di quanto promesso: in quel momento il caso diventò una disputa seria tra Italia e India. Sonia, trascinatavi per i capelli, ne colse immediatamente il rischio politico. Chiamò il primo ministro Manmohan Singh, che emise un comunicato durissimo. Diede indicazione al partito di trattare la questione con la massima fermezza. Protestò con Roma. Sostenne che il comportamento di sfida del governo italiano era «del tutto inaccettabile». E che nessun Paese può permettersi di umiliare l’India: «Devono essere usati tutti i mezzi per fare in modo che l’impegno del governo italiano (di rimandare i marò a Delhi, ndr) sia onorato», disse.
La Corte Suprema intimò all’ambasciatore italiano, Daniele Mancini, di non lasciare l’India e sue fotografie furono mandate negli aeroporti. L’opposizione attaccò il governo. Ma furono i membri di quest’ultimo ad assumere le posizioni più intransigenti, con la parziale eccezione del ministro degli Esteri Salman Khurshid, preoccupato per la reputazione internazionale del suo Paese. La durissima e inaspettata reazione pretesa da Sonia raggiunse un obiettivo immediato: il 22 marzo 2013 Salvatore Girone e Massimiliano Latorre furono rimandati a Delhi. Ma anche uno di lungo termine: da allora, tutto il partito del Congresso e l’Amministrazione sanno che sulla vicenda non si può dare l’impressione di essere deboli, che l’italianità di Sonia non deve diventare una vulnerabilità politica. L’avvicinarsi delle elezioni indiane — iniziate ieri per proseguire fino al 12 maggio — ha reso ancora più rigida la prescrizione. «È stata innanzitutto la signora Gandhi a non volere cedere a un negoziato con l’Italia», dice un funzionario coinvolto nel caso.
Che esito elettorale preferiscano i due marò non ha senso chiederglielo. Il governo di Roma e la sua diplomazia a questo punto sanno però due cose. Innanzitutto, che ormai la vicenda non si chiuderà prima della fine della tornata elettorale indiana e della formazione di un nuovo governo. A quel punto, di fronte alla pressione di un possibile ricorso unilaterale italiano alla giustizia internazionale, il nuovo potere a Delhi potrà forse decidere di seguire una strada veloce per liberarsi della imbarazzante questione dei due Italian Marines. Secondo, sanno che se vincesse il Congresso, contare sulla benevolenza di Sonia sarebbe un’ingenuità; se vincesse Modi, come dicono i sondaggi, ci sarebbe almeno il vantaggio che non ha abiti italiani nell’armadio. Il guaio è che sapere due cose non significa sapere tutto.

il Fatto 8.4.14
New Delhi
Il ciclone Modi contro gli “italiani”
Il leader nazionalista hindù favorito nelle elezioni-fiume iniziate ieri
In bilico il rampollo Rahul
di Marta Franceschini


Con percentuali che hanno sfiorato l'80% dei votanti sono ufficialmente iniziate ieri le elezioni nei primi due Stati, Assam e Tripura, della più popolosa democrazia del mondo. La sfida politica del paese, alla sua sedicesima prova elettorale, si gioca tra l'attuale partito al governo, il Congresso nazionale indiano (Inc, rappresentato da Rahul Gandhi e il Bjp (Bharatiya Janata Party), il cui leader Narendra Modi è dato per vincente da tutti i sondaggi. Rahul è l'ultimo rampollo della dinastia Gandhi (che non ha nulla a che vedere col Mahatma, ma discende dal bisnonno Nehru, la cui figlia Indira sposò un certo signor Gandhi, economista di Allahabad) e figlio dell'italiana e potentissima Sonia, presidente del Partito e considerata da molti il vero potere occulto del paese. Poco brillante, privo di carisma e probabilmente inadatto alla politica, Rahul è il candidato di un partito in caduta libera, che solo un miracolo sembra poter salvare.
L'ESODO dell'ultim'ora dei suoi rappresentanti verso le altre coalizioni è l'ultimo segnale di un declino che sembra inarrestabile. Nel discorso tenuto domenica nella capitale, Gandhi ha criticato, senza far nomi, i suoi avversari, e ha promesso di mantenere le porte aperte ai poveri e ai bisognosi: decisamente non è un trascinatore di folle. Eppure il Congresso, benché soffocato da scandali, truffe e promesse mancate, benché abbia deluso e continui a deludere, resta il miglior garante in lizza a difesa del secolarismo. Ed è proprio su questo piano che lo sfidante Narendra Modi sta giocando tutta la sua partita. Il Bjp rappresenta l'ala nazionalista hindù, con derive fondamentaliste che hanno radici soffocate ma profonde in tutto il paese. Figlio di un droghiere, ex-venditore di tè e cameriere, Modi si è impegnato in una campagna elettorale in stile bollywoodiano, senza badare a spese. Ha tappezzato il paese di giganteschi manifesti arancioni, il colore hindù per eccellenza, sul quale spiccano il loto, simbolo del suo partito, la sua faccia e il suo slogan “una sola India, una grande India”. Ha fatto largo uso dei più moderni mezzi di comunicazione di massa, internet, twitter, facebook, sms e persino comizi in 3D proiettati su mega-schermi in tutta l'India. Ha violentemente attaccato i suoi avversari con tanto di nomi e cognomi, accusandoli di essere spie del Pakistan, terroristi, Taliban. E ha invitato Sonia e Rahul a tornarsene a casa nudi, e per casa intendeva l'Italia. Quanto ai marò, si chiede perché stanno ancora presso l'ambasciata italiana, invece che in prigione.
FINO A IERI, giorno di inizio delle votazioni, il Bjp era l'unico partito a non aver ancora presentato un programma politico. “A cosa serve il programma, quando abbiamo Modi?” si giustificavano i suoi sostenitori, “è lui il nostro manifesto!”. Finalmente ieri sono apparse on line 42 pagine di promesse, le cui parole d'ordine sono “il buon governo” e “lo sviluppo”. A seguire: 100 nuove città, internet in ogni villaggio, treni super-veloci, lavoro, turismo, agricoltura, tecnologia, ecologia, minoranze, donne e bambini. Non manca nulla al programma di super-Modi. Forse, solo un po' di realismo.

Repubblica 8.4.14
La seconda guerra fredda
di Ian Buruma



I RAPPORTI dell’Occidente con la Russia raramente sono stati peggiori di quelli attuali. Il presidente Obama ci assicura però che non si tratta di una nuova guerra fredda.
AMMESSO che abbia ragione, oggi la sua leadership viene sfavorevolmente paragonata tanto dai liberal americani più intransigenti che dai falchi conservatori, a quella di presidenti all’apparenza più inflessibili come Dwight Eisenhower o Ronald Reagan. Queste persone hanno evidentemente dimenticato che Eisenhower non fece nulla per impedire ai carri armati russi di schiacciare la rivoluzione ungherese del 1956. E che Ronald Reagan non ci pensò nemmeno a dare il proprio sostegno agli attivisti di Solidarnosc, quando questi si rivoltarono contro il regime comunista polacco.
Per molti aspetti la Guerra fredda agevolò le cose per i presidenti Usa. All’epoca infatti esistevano solo due grandi potenze (la Cina ha iniziato ad assumere rilievo in tempi più recenti), le cui rispettive sfere di interesse erano nettamente definite. Così come definita era l’ideologia dominante in Unione Sovietica: una versione stalinista del comunismo.
Al pari del maoismo, sua controparte cinese, lo stalinismo era in realtà profondamente conservatore e mirava soprattutto a consolidare il potere del regime in patria e il suo dominio sui Paesi satelliti. L’antagonista ideologico era rappresentato dal mondo capitalista, ma i nemici più immediati erano invece i “trotzkisti”, i “revisionisti” e altri “cattivi elementi” interni alla sfera sovietica. In tempi di crisi, il nazionalismo russo fu fatto coincidere con il nazionalismo sovietico.
In Cina vigeva una situazione analoga. Mao non fu mai un imperialista espansionista, ed è per questo che non si preoccupò di chiedere ai britannici la restituzione di Hong Kong: il nazionalismo cinese era quasi del tutto concentrato sul nuovo, eroico mondo del comunismo maoista.
Dopo la morte di Mao e con il crollo dell’Unione Sovietica tutto cambiò. In Russia il comunismo, in quanto ideologia dominante, scomparve - mentre nella Cina capitalista si diluì quasi al punto da non poter più essere definito tale.
Ciò determinò un vuoto in entrambe le nazioni, i cui governi si diedero da fare per ridefinire se stessi e giustificare, in Russia, un’autocrazia eletta e in Cina una dittatura mono partitica. Le vecchie tradizioni, un tempo screditate, furono improvvisamente riportate in auge: le autorità cinesi iniziarono a parlare del Confucianesimo come della base di una nuova identità politica. E nel tentativo di dimostrare la superiorità spirituale dell’animo nazionale, Vladimir Putin ha preso a citare dei filosofi russi semidimenticati, Posizioni simili sono come minimo malferme. La maggior parte dei cinesi, compresi quelli che siedono al governo, hanno una conoscenza molto approssimativa dei classici del Confucianesimo e tendono a ricordare quelle citazioni che corroborano la loro permanenza al potere ed enfatizzano virtù “tradizionali” quali l’obbedienza verso l’autorità - dimenticando però che il pensiero confuciano prevede anche il diritto a ribellarsi ai governanti iniqui. I filosofi prediletti da Putin formano un variegato drappello di nazionalisti mistici, accomunati tra di loro dal fatto di considerare la Russia una comunità spirituale basata sulla fede ortodossa, ma le cui opinioni riguardo ad altri temi sono così divergenti e confuse da impedire di trarne un’ideologia coerente. Le loro idee, inoltre, non sono sempre in linea con quelle di Putin: il leader russo ha definito il crollo dell’Unione Sovietica una calamità immane, eppure cita liberamente Ivan Ilyin, che divenne un feroce oppositore del regime sovietico, al punto da essere espulso dal Paese da Lenin, nel 1922.
Forse Putin è davvero convinto che la Russia sia un bastione di antichi valori spirituali, da opporre alla decadenza di un Occidente corrotto dal materialismo e dall’omosessualità. È altresì possibile che gli attuali governanti della Cina, le cui famiglie si sono arricchite grazie ai favori della politica, siano dei convinti cultori della filosofia confuciana. Tuttavia, ciò che davvero muove i governi di Cina e Russia è un nazionalismo basato sul risentimento - il che rende particolarmente difficile qualsiasi tipo di trattativa con loro.
In Cina il dogma maoista è stato per lo più rimpiazzato da quella che viene definita “istruzione patriottica”, e che si manifesta nei testi scolastici, nei musei di storia e in una varietà di monumenti storici. I cinesi crescono nella convinzione, non erronea, che per più di cento anni, e in particolare durante le guerre dell’oppio e le brutali invasioni giapponesi, la Cina sia stata profondamente umiliata dagli stranieri. Solo una Cina forte, guidata con mano ferma dal partito comunista, potrà proteggere i cinesi da future vessazioni.
Anche Putin in Russia sta strumentalizzando le antiche recriminazioni e la radicata convinzione secondo la quale il perfido Occidente sarebbe deciso a minare l’unità nazionale della Russia, distruggendone l’animo. Inoltre, al pari dei leader cinesi, Putin ha l’impressione che l’Occidente si stia coalizzando contro di lui.

Corriere 8.4.14
Il ribelle legalitario che piegò l’ingiustizia
Pedro Carmona, lo schiavo ribelle che lottò contro tutti in nome della legge
La storia esemplare del nero in catene capace di sfidare i persecutori
Il ribelle legalitario che piegò l’ingiustizia
di Claudio Magris


il ribelle, scriveva in un incisivo libro Vittorio Mathieu, è ben diverso dal rivoluzionario, anzi è il suo opposto. Il rivoluzionario rifiuta la legge del sistema in cui vive; vuole abbattere l’ordine vigente, che considera iniquo, per crearne uno nuovo e antitetico, fondato su altri valori e principi, su altre leggi. Il ribelle invece crede nella legge cui è sottoposto e nella cultura e nella società che la esprimono, ma non sopporta di vederla disattesa e violata, anche o soprattutto da chi la proclama e da chi dovrebbe applicarla.
Si ribella pure con violenza all’ingiustizia, ma in nome della giustizia e della legge; non per instaurarne una nuova, bensì per restaurare quella esistente e distrutta da chi dovrebbe difenderla e invece la tradisce.
La letteratura ha spesso narrato questa ribellione contro la legge in nome della legge e il tragico disordine che spesso ne consegue; ad esempio in uno dei più grandi racconti della letteratura universale, Michael Kohlhaas di Heinrich von Kleist, drammatica e violenta odissea di un mercante di cavalli al tempo di Lutero, che, avendo subito un torto — peraltro modesto — da un nobilastro e non avendo ottenuto giustizia dall’autorità imperiale in cui crede fermamente, si fa brigante per restaurare la giustizia e si pone in guerra col mondo, devastandolo col ferro e col fuoco, persuaso di dover agire in tal modo ma anche di essere, ciò facendo, pure gravemente colpevole.
È stata soprattutto la cultura tedesca, in particolare quella nutrita di ethos prussiano (il medesimo che ha portato alla rivolta del 20 luglio dei generali contro Hitler), a sentire e a rappresentare con particolare forza questo tema e questo conflitto. È nota la storia del contadino che, venuto a diverbio col re di Prussia, il grande Federico, per un torto subito, ha fiducia che la sua protesta avrà ciò che le è dovuto, perché «ci sono pur sempre giudici a Berlino». Anche un altro famoso romanzo tedesco, La questione del sergente Grischa di Arnold Zweig, divenuto poi marxista anche in nome di questa morale prussiana, ruota intorno al conflitto fra l’ordine, che bisogna rispettare per tutelare lo Stato e tutti i cittadini, e l’ingiustizia provocata da uno stravolgimento di quest’ordine, che esige la ribellione a sua volta colpevolmente lesiva del bene di tutti.
Una storia di una difesa accanita ma accanitamente legalitaria del proprio diritto vilipeso è quella — vera, storicamente accertata e priva di illazioni letterarie — che si è svolta in tutt’altra parte del mondo, retta da istituzioni barbare come la schiavitù. È una storia che viene dai Caraibi, da Puerto Rico; quella di uno schiavo e della sua lotta per il proprio diritto, garantito — solo in teoria — pure dall’inumano sistema basato sulla schiavitù.
Una storia rimasta sepolta per più di quattrocento anni nell’Archivio Generale delle Indie a Siviglia e ripescata soprattutto per merito di due studiosi, Jalil Sued Badillo e Angel Lopez Cantos. Il protagonista si chiama Pedro Carmona, schiavo di Juan de Almodóvar a Puerto Rico, nella prima metà del Cinquecento. La schiavitù dei neri (e di pochi indios) a Puerto Rico era una realtà economicamente assai importante e — nel quadro della crudeltà e dell’arbitrio che la caratterizzava, come dovunque prima e poi — in un vivace movimento, che vedeva pure casi di affrancamento, destinati a crescere nel tempo pure prima dell’abolizione della schiavitù, e un’attività economica di liberti intraprendenti. Nel complesso, una realtà nera in condizioni di feroce servaggio ma percorsa da fremiti, ricca di energie compresse ma destinate a erompere, umanamente e intellettualmente vitale ad onta delle catene.
Pedro Carmona era schiavo di Juan de Almodóvar, possidente della città di San Juan a Puerto Rico e ufficialmente registrato nel 1530 quale «proprietario», ovvero padrone di ventun schiavi neri (diciassette uomini e quattro donne) e di sei schiavi indios. Si occupava soprattutto di una miniera nei pressi del Rio Loiza e risiedeva nell’isola da diciotto anni, anni di turbamenti e disordini dovuti alla crisi economica che aveva indebitato molti coloni. Si sa che non sapeva scrivere. Fra i suoi schiavi c’era un giovane della Guinea, Pedro Carmona, alto nero e prestante, sposato con un’altra schiava, Isabel Hernández o Isabel de Carmona. Almodóvar, nel testamento, gli concesse, com’era nelle sue facoltà, la libertà, lasciandogli pure un cavallo morello, due giumente e centoventi pesos d’oro. Aveva nominato esecutore testamentario un eminente e ricco commerciante molto in vista nell’isola, García de Villadiego, il quale invece, in dispregio della certificata volontà del defunto, vendette Pedro e Isabel, come schiavi, a Hernando Alegre, legato per vincoli famigliari all’Inquisitore Generale delle Indie e divenuto poco dopo alcalde della città. Pedro, non si sa come, riuscì a recarsi a Santo Domingo per appellarsi all’alcalde di quella città, il quale si pronunciò negativamente, ordinandogli di ritornare a Puerto Rico dal suo (nuovo e, anche dal punto di vista della legge che regolava il sistema schiavista, illegale) padrone. Ritornato nella sua isola, Pedro Carmona fece istanza di ricorso al tribunale superiore, la Audiencia.
Il caso si ingarbuglia sempre più, cavilli formali pro e contro il ricorrente si intrecciano a contrastanti strategie e trucchi legali dei diversi giudici e presidenti che si succedono, giudizi contradditori danno ragione, mai definitivamente, all’una o all’altra parte. Finisce per non essere chiaro nemmeno chi siano i pretesi padroni dell’uomo dichiarato e divenuto secondo la legge libero, perché i vari Hernando Alegre, Melchior de Torres, lo stesso figlio degenere del suo liberatore e altri lo vendono, lo comprano, lo rivendono, mentre lui continua a trattare da solo con i tribunali. I nomi dei padroni, ex padroni, presunti e aspiranti padroni si mescolano in un confuso brusio, nomi di comparse interscambiabili, sui quali grandeggia invece, inconfutabile e protagonista, il suo, come un eroe sulla folla.
Nella sua memoria ritrovata secoli dopo nell’Archivio di Siviglia, Pedro Carmona contesta con straordinaria precisione giuridica e fattuale — stupefacente in uno schiavo uso a lavorare in miniera — le contraddizioni e le falsificazioni della parte avversa. Sottolinea come i suoi millantati padroni siano uomini influenti e potenti, che i giudici tendono a favorire per timore, ma non contesta mai il sistema, men che meno invoca la rivoluzione, la resistenza violenta. È molto più legalitario di Michael Kohlhaas, perché non pensa mai di farsi giustizia da sé. Non mette nemmeno in discussione il sistema schiavista. Semplicemente non si piega e si ribella alla sopraffazione, ma sempre in nome della legge e con strumenti giuridici.
Una notte, mentre è ancora in corso il processo, uno degli arbitrari padroni lo prende, insieme alla moglie, lo carica su una nave e lo porta nell’Honduras, ricco di miniere d’oro e attrattivo per i negrieri.
Ma Pedro Carmona non disarma e si appella a un’istanza ancor superiore, l’Audiencia de los Confines, dove nuovamente perde la causa, per gli intrighi di un ex padrone. Ma nell’Honduras Pedro Carmona pesca l’asso del gioco della sua vita ossia incontra Bartolomé de las Casas, il grande vescovo che, dopo aver lottato contro la schiavitù degli indios accettando quella dei neri, consapevole e pentito di questo suo errore, stava conducendo un’indomita battaglia contro il sistema schiavista. Las Casas capisce subito la verità e la forza d’animo di Carmona e si offre di pagargli il viaggio in Spagna e di accompagnarlo davanti al più alto tribunale dell’Impero, il Real Consejo de Indias, a perorare la sua causa, scrivendo egli stesso la petizione, assumendosi pure le spese del processo e impegnandosi in una sfibrante lotta avvocatesca, che vede ambigui e alterni risultati e infine la pilatesca scappatoia di rimettere la decisione al tribunale dell’Audiencia Centroamericana, intimando a Carmona di tornare, a spese di Las Casas, a Puerto Rico per ritrovare, ed esibire entro due anni, il documento attestante la sua condizione di uomo libero.
Qui finisce la storia, senza un vero finale — probabilmente il processo non fu mai concluso e non si sa più nulla di Carmona. Un uomo solo — no, non solo, la presenza silenziosa, costante e intrepida di Isabel accanto a lui è una forte storia d’amore — che si batte, in catene, «contro lo spaventevole disordine del mondo», come lo chiamerà Michael Kohlhaas. Un rivoluzionario direbbe che ha sbagliato a credere in una legge creata dai padroni degli schiavi. Forse era invece così intelligente da capire che, in quell’epoca e in quel mondo, una rivoluzione era impossibile e quindi sarebbe stata disastrosa. Forse, senza poter aver letto Engels, non voleva essere il protagonista di quella tragedia che, secondo il co-fondatore del marxismo, è ogni rivoluzione in anticipo sui tempi. Forse era semplicemente un uomo geniale, coraggioso e caparbio, una di quelle zucche dure contro le quali si spezza pure il bastone dell’ingiustizia.

l’Unità 8.4.14
Un gruppo di ricercatori italiani e europei presenta oggi al Cnr un documento firmato per rilanciare l’unità europea
L’Europa che vogliamo
Il manifesto degli scienziati
di Pietro Greco

Lo hanno firmato molti tra i ricercatori italiani più prestigiosi, compresa quella Fabiola Gianotti che ha contribuito alla scoperta del bosone di Higgs al CERN di Ginevra e che alla fine del 2012 ha conteso a Barack Obama la copertina di Time come «persona dell’anno». Lo hanno firmato anche alcuni tra quegli scienziati italiani più prestigiosi che ricoprono cariche istituzionali, come Luigi Nicolais, presidente del CNR, Fernando Ferroni, presidente dell’INFN, Giovanni Bignami, presidente dell’INAF. Lo hanno firmato infine altre decine di ricercatori, alcuni dei quali non meno bravi e famosi, come primo nucleo di una rete europea. Con un obiettivo politico. Di alta politica. Per rilanciare l’unità europea. Infatti, scrivono che: «come scienziate e scienziati di questo continente - consapevoli che esiste un nesso inscindibile tra scienza e democrazia - sentiamo la necessità di metterci in gioco. Di ribadire che il processo di costruzione degli Stati Uniti d’Europa è la più importante opportunità che ci è concessa dalla storia». Un’Europa unita, sì. Ma non un’Europa qualsiasi. Bensì un’Europa dalla chiara e netta fisionomia: «L’unica risposta possibile alla crisi incombente è la costruzione dell’Europa dei popoli, di un’Europa di Progresso! Realizzata sulla base dei principi di libertà, democrazia, conoscenza e solidarietà».
L’analisi e la proposta sono molto precise. Il nostro continente vive in una condizione di crisi, che non è solo economica. Ha difficoltà a riposizionarsi in un mondo l’economia è sempre più globalizzata e fondata sulla conoscenza. La crisi sta alimentando gli egoismi nazionali, le visioni miopi, nuovi e vecchi irrazionalismi. Proprio mentre avremmo bisogno di maggiore unità, solidarietà, fiducia nella cultura e nel progresso civile. Per realizzare l’obiettivo di un’Europa unita e democratica - questa è la notizia - gli scienziati italiani ed europei sentono il bisogno di mettersi in gioco. Di proporsi come collante culturale.
È una notizia. Perché indica la percezione della gravità del momento. Ma non è una novità. I firmatari del Manifesto, infatti, fanno esplicito riferimento non solo al «Manifesto di Ventotene » redatto nell’isola pontina da Altiero Spinelli, Eugenio Colorni ed Ernesto Rossi nel pieno della seconda guerra mondiale, ma anche al «Manifesto agli Europei» elaborato da Albert Einstein e da Georg Friedrich Nicolai trent’anni prima, nell’ottobre 1914, a Berlino, mentre la prima guerra mondiale era ancora in corso. Il grande fisico e il meno noto biologo non esitarono a mettersi in gioco (e a rischiare il carcere per sabotaggio) nel cuore della Prussia per affermare che solo l’unità politica dei popoli dell’Europa avrebbe potuto salvare la civiltà del nostro continente.
Le condizioni in Europa sono diverse, per fortuna, dal 1944 e dal 1914. Ma è significativo che, settant’anni dopo il Manifesto di Ventotene e cento anni dopo il Manifesto di Berlino, scienziati italiani e non sentano il bisogno di mettersi in gioco per indicare e cercare, finalmente, di raggiungere i medesimi obiettivi.
Che non si tratti di una fuga in avanti è il terzo, significativo riferimento a un fatto storico da parte degli estensori del Manifesto per un’Europa di Progresso a dimostrarlo. Il riferimento è alla «Prima riunione degli scienziati italiani» che si tenne a Pisa nel 1839.
Quella riunione fu organizzata da Carlo Bonaparte per «risvegliare dal torpore» i matematici e gli studiosi della natura che abitavano negli innumerevoli stati e staterelli della penisola italiana e cementare, nel riconoscimento della loro «italianità», non solo la nascita di una comunità scientifica, ma anche di un’intera nazione.
Per cementare l’Italia unita. Per molti anni gli «scienziati italiani» organizzarono nuove riunioni comuni in diverse città, da Torino a Napoli. Diventando uno delle principali malte di quella che, in capo a vent’anni, sarebbe diventata l’Italia unita.
Il progetto degli estensori del Manifesto per un’Europa di Progresso è analogo. Intendono raccogliere le firme per «risvegliare dal torpore » gli scienziati di tutto il continente per accelerare il progetto, sempre più stanco ma sempre più necessario, di reale unità politica del continente e organizzare, simbolicamente, a Pisa la «Prima riunione degli scienziati europei» quale esempio e preludio di una comunità che si propone come malta di un nuovo soggetto politico. Dopo Pisa l’idea è che ogni anno, in una differente città del continente, si tengano nuove «riunioni degli scienziati europei» fino a quando l’obiettivo non sarà raggiunto.
Che il progetto non sia velleitario è ancora una volta la storia a dimostrarlo. Non è stato forse il CERN, nato a Ginevra proprio sessant’anni fa su iniziativa di Edoardo Amaldi e di un gruppo di fisici europei disposti a mettersi in gioco, la prima istituzione unitaria di un’Europa appena uscita da una guerra fratricida terribile e a dare corpo all’idea che era stata di Einstein?
Diceva Paolo Rossi, il grande storico delle idee scientifiche, che non esiste un luogo di nascita della scienza moderna, perché quel luogo è semplicemente l’Europa. La scienza è uno degli elementi principali, se non il principale in assoluto, che caratterizzano l’identità del nostro continente. La comunità scientifica dei Galileo, dei Kepler, dei Descartes, dei Newton è riuscita a creare, nel ‘600, una cultura comune dell’Europa e a salvarne un’identità comune nel pieno di terribili guerre.
Oggi la comunità scientifica si rimette in gioco per rilanciare l’unità politica dell’Europa salvarne l’identità comune nel piano di una crisi acutissima.
Chi ha voglia, dia forza a questo progetto. Il manifesto si può leggere e firmare all’indirizzo: http://www.osservatorio-ricerca.it/sondaggi/foreurope2014/

Riportiamo alcuni stralci del documento con i nomi dei primi promotori (contrassegnati da una *) e di alcuni firmatari. «Il mondo è in rapida trasformazione. Società ed economia della conoscenza hanno profondamente ridisegnato equilibri ritenuti consolidati. Aree geografiche depresse hanno conquistato, in tempi storicamente irrisori, potenziali enormi di sviluppo e crescita. Conoscenza, cultura e innovazione rappresentano più che mai il traino decisivo verso il futuro. All’opposto l’Occidente,  e alcuni aspetti del suo modello di sviluppo, sono entrati in una crisi profonda. L’Europa,inparticolare,risultainvestitadagravissimieapparentementeirresolubiliproblemi: disoccupazione, crisi del tessuto produttivo, riduzione sostanziale del welfare. (...)Lo storico americano Walter Laqueur ha parlato della «fine del sogno europeo». Le responsabilità sono diverse e distribuite e investono certamente l’eccessiva timidezza nel processo di costituzione politica del soggetto europeo: la responsabilità di presentare questo orizzonte politico, culturale e sociale con le sole fattezze della severità dei «conti in ordine». L’Europa dei mercanti e dei banchieri, della restrizione e del rigore: una sorta di gendarme che impone limiti spesso insensati, piuttosto che sostegno nell’ampliare prospettive di visuale sugli sviluppi del futuro. Proprio a causa di ciò, assistiamo, in corrispondenza dellacrisi, ad un’impressionante crescita di egoismi locali, di particolarismi e di veri e propri nazionalismi.(...) Come scienziate e scienziati di questo continente – consapevoli che esiste un nesso inscindibile tra scienza e democrazia-sentiamo quindi la necessità di metterci in gioco. Di ribadire che il processo di costruzione degliStatiUnitid’EuropaèlapiùimportanteopportunitàchecièconcessadallaStoria.(...) L’unica risposta possibile alla crisi incombente è allora la costruzione dell’Europa dei popoli, di un’Europa di Progresso!(...) Giovanni Bachelet Università di Roma «La Sapienza» Carlo Bernardini (*) Università di Roma «La Sapienza» Vincenzo Cavasinni (*) Università di Pisa e INFN Tullio De Mauro Università di Roma «La Sapienza» Rino Falcone (*) CNR Roma, Direttore Istituto di Scienze e Tecnologie della Cognizione Fabiola Gianotti CERN, Ginevra Pietro Greco (*) Giornalista e scrittore, Roma Francesco Lenci (*) (CNR Pisa e Pugwash Conferences forScience and World Affairs) Lamberto Maffei (Presidente Accademia dei Lincei) Ignazio Marino (Thomas Jefferson University, Sindaco di Roma) Paolo Nannipieri (*) (Università di Firenze) Pietro Nastasi (*) (Università di Palermo) Giulio Peruzzi(*) (Università degli studi di Padova) Claudio Pucciani (*) (Vice Presidente Associazione Caffè della Scienza-Livorno) Settimo Termini (*) (Università di Palermo) Nicla Vassallo (Università di Genova) Elena Volterrani (*) (Provincia di Pisa e INFN) John Walsh (INFN)

l’Unità 8.4.14
Al Salone l’enigma del nuovo Vaticano
di Maria Serena Palieri


STAI A VEDERE CHE UNO DEI SOGGETTIPIÙ INTERESSANTI, AL PROSSIMO SALONE DEL LIBRO DI TORINO(8-12 MAGGIO), sarà l’ospite d’onore, presenza in genere snobbata da giornalisti e visitatori. Dopo Catalogna e Olanda, Svizzera e Lituania, quest’anno il paese ospite è il Vaticano. Un Vaticano che arriverà al Lingotto con una selezione dei suoi tesori, in genere ai più inattingibili: un Inferno dantesco illustrato da Botticelli, un’Iliade in greco... Ma in linea con il pontificato popolare di papa Francesco anche con un incontro in cui, partendo dallo Spirito Santo che a parere di Wojtyla si celava nel vento dylaniano di Blowing in the wind, si ripercorrerà l’immaginario biblico della musica rock e folk. Ma non è tutto qui. Per niente. In realtà, tramite papa Francesco, la Chiesa ha fornito alla nostra editoria, nell’ultimo anno, una miriade di titoli che hanno rianimato casse svuotate dalla crisi. In tutte le salse: dal pensoso laico dialogo tra due «papi», Scalfari e Bergoglio, giù per li rami fino al rotocalco che univa in connubio invincibile due must, pontefice & cucina, annunciando «le ricette di papa Francesco». E dunque sarà interessante valutare quanto l’iniezione religiosa abbia rianimato l’editoria laica. E quanto, al contrario, la popolarità di questo papa non possa più essere contenuta nei classici territori della Chiesa, privando l’Editrice Vaticana di certi suoi privilegi (ma la faccenda cominciò con Giovanni Paolo II, il primo, se non andiamo errate, a pubblicare extra Vaticano, con Rizzoli). Insomma, il 2013-2014 è stato il primo anno in cui al reparto Saggi delle grandi librerie ha cominciato a giganteggiare la postazione «Chiesa». Con epistole, encicliche, fioretti, ma anche tutto ciò che dietrologia può ispirare a chi pensa ai sotterranei di San Pietro... In che misura il Salone sarà la fotografia di questo Vaticano rinchiuso in se stesso e, insieme, protagonista in top ten?

il Fatto 8.4.14
L’Iliade Vaticana del 1400 oggi si consulta on line
di Andrea Valdambrini


Ottantadue mila manoscritti, per un totale di oltre 4 milioni di pagine: un patrimonio immenso che si apre al mondo per la prima volta. E poi la sensazione di mettere piede, anche se solo in modo virtuale, in un luogo mai visto prima. La Biblioteca Apostolica Vaticana – fino ad oggi un tempio per studiosi, praticamente inaccessibile al grande pubblico – sceglie la strada della digitalizzazione del proprio archivio. Sembra proprio un progetto complesso e ambizioso (il cui costo complessivo è di 18 milioni di dollari), quello grazie al quale andranno online testi preziosissimi, incunaboli, volumi rari o unici raccolti nella biblioteca fondata a Roma nel 1451 da papa Niccolò V e resa ufficiale da papa Sisto IV pochi anni dopo. Un cambiamento impensabile fino a poco tempo fa. Certamente epocale per gli studiosi e gli appassionati di volumi antichi, anche se forse un po’ meno per il grande pubblico dei non esperti.
MA COME SI articola esattamente il progetto? “Sul web si vedranno tutti i manoscritti digitalizzati, pagina per pagina”, spiega al Fatto il prefetto della biblioteca, monsignor Cesare Pasini. Certo, si tratta di un lavoro che richiede tempo. “L’idea è nata in fase pre-crisi economica. Allora si stimavano 10 anni per mettere online tutti gli 82.000 volumi della Biblioteca apostolica. Ora che i tempi sono cambiati, partiamo per 4 anni e dopo si vedrà”. Dunque, sulla fine dell’opera, al momento, ci si limita a incrociare le dita. Si parte con la messa in digitale, e in rete, di 6000 volumi. “Parliamo di 3000 manoscritti che vengono messi online grazie alla collaborazione con una società giapponese di information technology, NTT Data. Giusto per avere un’idea di quello che verrà reso accessibile nella prima fase, tra le tante meraviglie troviamo un manoscritto azteco di epoca precolombiana, un altro manoscritto del 1613 testo di un giuramento, sottoscritto da 42 cristiani giapponesi di Kuchinotzu per difendere i loro missionari fino alla morte, una Iliade in greco e latino di un copista del 1400 poi miniata nel 1600, la rinascimentale Bibbia urbinate e le illustrazioni alla Divina Commedia di Sandro Botticelli. Ma come si passa concretamente dal manoscritto al web? Si tratta senza dubbio di un lavoro di squadra: “Circa 20 fotografi” prosegue il prefetto Pasini “lavorano su due turni ogni giorno, utilizzando anche 5 scanner contemporaneamente. Ci sono altre persone che controllano le foto, ad esempio gli esperti di restauro che hanno cura che le pagine fotografate non abbiano subito danni. Poi ancora c’è l’équipe di chi fisicamente porta ogni giorno i volumi (come si immagina, devono essere trattati con cura) nelle sale degli scanner. E infine tutti quelli che si occupano dell’organizzazione e della logistica delle sessioni di scannerizzazione”.
Una porzione dell’intero progetto, già avviata lo scorso dicembre, viene svolta in coordinamento con la Bodleian Library di Oxford, dove si conserva una copia della Bibbia di Gutemberg. Perché quello che ieri rappresentava la stampa, in termini di accesso al sapere, oggi lo fa il web.

Repubblica 8.4.14
Perché gli sfruttati di Marx non sono i poveri di Gesù
risponde Corrado Augias


Gentile Augias, la minipolemica sul Papa, che ha respinto l’accusa di comunismo, è stata talvolta presentata come una scelta fra cristiani e marxisti nei confronti della povertà. La contrapposizione si potrebbe riassumere così: la posizione cristiana, da Gesù a papa Francesco, constatato che ci sono i poveri, si adopera per aiutarli, magari avvicinando i propri comportamenti quotidiani ai loro attraverso sobrietà e rinunzie. Nella visione marxista la povertà va cancellata, i poveri non devono esistere e la società deve fare in modo che le disuguaglianze che li creano siano eliminate. La posizione cristiana è realistica, quella marxista è utopistica. Però sarebbe sbagliato confrontarle sulla base dei risultati. La dottrina marxista, figlia di un selfmade man, è stata applicata solo per pochi decenni in paesi con pregresse gravi difficoltà di organizzazione sociale e ha dato discreti risultati, considerati i livelli di partenza. Quella cristiana è stata applicata per oltre duemila anni e, se lo scopo era di conservare la povertà, ha funzionato benissimo.
Franco Ajmar

Sono in piccola parte d’accordo con il parallelo avanzato dal signor Ajmar. Anzi condivido solo il punto di partenza, vale a dire che cristianesimo e marxismo sono gli unici due grandi movimenti ad aver messo i poveri al centro della loro dottrina. C’è anche nel marxismo un certo messianismo che non stupisce essendo anche Marx un ebreo. Le analogie però, a mio parere, finiscono qui diversi essendo metodo e finalità di questa presa di coscienza. Marx ragionava in termini di classi sociali, più che ai poveri pensava agli “sfruttati” cioè ai produttori che venivano depredati di una parte del loro lavoro dal sistema capitalistico. È il famoso “plusvalore”, ovvero la differenza tra il valore del prodotto del lavoro e la remunerazione sufficiente al mantenimento della forza-lavoro. Degli individui a Marx importava poco, la sua finalità era che le masse, presa coscienza del loro sfruttamento, si ribellassero facendosi levatrici di storia. L’esatto contrario per Gesù che pensava soprattutto ai singoli. Egli voleva che sani e ammalati, poveri e ricchi sedessero alla stessa mensa, spezzando lo stesso pane. Prima ancora pensava però alla loro salvezza eterna. Tentato dal diavolo nel deserto di trasformare in pane una pietra, risponde con le famose parole (Mt, 4-4): «Non di solo pane vivrà l’uomo ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio». Erano gli individui che voleva rinati alla luce dello spirito; predicava una loro trasformazione interna più che un rivolgimento sociale. Più che di riformare la società Egli si proponeva di risanare gli uomini anche in vista di un avvento del Regno che riteneva, come molti altri, imminente.

Repubblica 8.4.14
Le mille piazze dove costruimmo la nostra identità
Dai furori di popolo alle lotte sindacali e alle battaglie per la democrazia
I luoghi della storia e della politica in un inedito della giornalista scomparsa
di Miriam Mafai


Io sono figlia di un’epoca in cui la politica si faceva in piazza e nelle sezioni, quando non esisteva la TV e, naturalmente, non esisteva il web e i comizi si annunciavano in paese con il banditore, un giovanotto che percorreva la piazza e le strade del paese annunciando che una donna (allora era un avvenimento) avrebbe parlato in piazza, e invitava le donne a scendere in piazza per ascoltarla…Non sempre questo accadeva e le donne del paese spesso ascoltavano il comizio nascoste dietro le persiane di casa.
Secoli fa, ma da allora io amo la piazza. Vi dirò dunque subito che a me piace la piazza. Mi piacciono tutte le piazze. Non solo, naturalmente, quelle storiche, grandiose, ricche di fontane e monumenti come Piazza Navona a Roma o piazza di Siena da secoli aperta alle corse dei cavalli e agli scontri tra ragazzi. Queste piazze, dopotutto, piacciono a tutti, italiani e stranieri, che fanno kilometri in aereo per venirle a vedere. No, a me piacciono tutte le piazze degli ottomila comuni di cui è composta l’Italia, le piccole piazze senza nome, chiuse tra i gradini di una chiesa, una stele che ricorda i caduti e un balcone da dove pare che, una volta si sia affacciato Garibaldi. E vi segnalo, per chi non la conoscesse, la piccolissima piazza di Panicale, dove mi sono fermata qualche giorno fa in ricordo del grande pittore, e solo quando mi sono alzata per andarmene ho letto una vecchia lapide sul muro che ricordava che lì, nel 1920, erano caduti sotto il piombo fascista un gruppo di contadini e contadine del contado venuti in paese per manifestare.
Qualcuno di voi forse ricorda la piazza siciliana raccontata da Tornatore nel suo Nuovo Cinema Paradiso con quel pazzo che gridava: «La piazza è mia». E qualcuno forse di voi ricorda la bella poesia di Patrizia Cavalli «L’aria è di tutti, non è di tutti l’aria?/Così è una piazza, spazio di città,/Pubblico spazio, ossia pubblica aria…». Questo è la piazza, insomma: è la piazza, luogo dei sentimenti, dei rancori, degli entusiasmi, della rabbia, della protesta. A me piace la piazza. E nella mia ormai lunga, lunghissima vita, di militante politica e di giornalista ho organizzato, guidato, raccontato piazze di ogni tipo. Ho fatto politica, ho fatto i mie primi comizi in un’epoca nella quale non esisteva né TV, né telefonini, né Google, e in molti paesi persino il telefono era una rarità. Ma esisteva in cambio il cosiddetto “banditore” che annunciava il comizio attraversando le strade del paese e annunciando chi avrebbe parlato in piazza…
Le prime piazze che ricordo, con vera e propria commozione sono certe piazze dei miserabili paesi del Fucino, da Celano a Pescina a Ortucchio, che all’alba si riempivano di contadini e delle loro donne che, con i bambini in braccio, da lì si muoveranno per andare ad occupare le terre del principe Torlonia e imporre a un governo ancora incerto ed esitante la Riforma agraria, che poi, grazie alle loro battaglie abbiamo avuto sebbene al di sotto delle aspettative e delle necessità. Così ricordo nell’immediato dopoguerra, a Genova, come a Torino le manifestazioni di piazza degli operai che, dopo aver salvato le macchine, si trovavano disoccupati e chiedevano un lavoro. E ricordo, naturalmente, come molti di voi, le piazze in della fiammate del ’68, occupate da migliaia di ragazzi e ragazze, studenti che manifestavano per cambiare l’Università, e conquistare per tutti il diritto allo studio. E ricordo, con vera e propria angoscia, le piazze tragiche e minacciose attraversate da migliaia di ragazzi che alzavano la mano nel segno della P.38, e quelle, dolenti, nelle quali si piangevano e ricordavano le vittime del terrorismo e delle stragi, i morti della strage di Bologna, di Piazza La Loggia, Aldo Moro, e Guido Rossa. Ricordo infine con riconoscenza le piazze occupate dalle ragazze e dalle donne del movimento femminista che alzavano il cartello, per noi più anziane quasi scandaloso “il corpo è mio e lo gestisco io”. Ed altre piazze ancora ricordo, in segno di lutto di protesta di richiesta di ribellione. La storia Prima Repubblica, a ben vedere, è in gran parte segnata dalla presenza, dall’intervento della piazza, che talvolta, non di rado, riesce non solo a incidere sulla vicenda politica, ma anche a modificarne gli esiti. Valga per tutti l’esempio della piazza di Reggio Emilia, simbolo di una rivolta popolare che, nel luglio del 1960, sconfisse il rozzo tentativo reazionario di Tambroni, salito a Palazzo Chigi con il voto della destra fascista, e impose ad una esitante DC un radicale cambiamento di linea e l’avvio dell’esperimento di centro sinistra. (...) Ma la prima piazza che ricordo con emozione – avevo appena 14 anni – è una piazza, anche quella straordinariamente affollata, che esplode in un urlo di fiducia e di entusiasmo quando Mussolini annuncia che l’Italia, finalmente, entra in guerra. Era il 10 giugno del 1940. La ricordo, quella piazza perché l’ho vissuta, umiliata e preoccupata, da adolescente che era stata cacciata da tutte le scuole del Regno (così si diceva allora) perché nata da una madre ebrea. Ma tutti ricordiamo, anche senza averle vissute, altre piazze che in Europa in quegli anni si raccoglievano in un delirio di ammirazione per il padrone di turno. La piazza può essere infatti ed è stata sempre il sostegno, il luogo privilegiato delle dittature. Tutti i dittatori del XX secolo, Mussolini Hitler Stalin, hanno stabilito con la piazza un rapporto che all’osservatore lontano, nel tempo o nello spazio, può apparire irrazionale, quasi mistico. Ma la piazza è mutevole. La stessa piazza e tutte le piazze d’Italia che avevano applaudito alla dichiarazione di guerra, solo tre anni dopo, nel luglio del 1943, rovesceranno, con rabbia dovunque, i simboli del regime. La piazza non è oggi nei nostri paesi l’agorà dell’antica Grecia, dove pare (ma un grande storico come Luciano Canfora ne dubita…) si discutesse dei problemi della città e si prendevano a maggioranza le relative decisioni. Non è e non può esserlo. La piazza non si identifica con la democrazia, ma non c’è democrazia senza il sostegno della piazza, un sostegno che va e viene, che si concede e si rifiuta, a seconda delle scelte e delle decisioni di chi governa. La democrazia, è oggi nel nostro paese una “religione stanca”. Ma il disincanto democratico può essere rivitalizzato dall’intervento della piazza.
Siamo oggi, forse, esattamente in questa fase. La piazza è un luogo nel quale ognuno smarrisce qualcosa di sé e partecipa di una identità, di un sentimento collettivo. “La natura dell’identità” cito questa volta da un testo di Bodei “non è quella di un unico filo, quanto piuttosto di una corda lentamente e pazientemente intrecciata, è composta dall’avvolgimento di più fili…” Non credo di tradire il pensiero di Bodei se penso alla piazza come al luogo, uno dei luoghi, nel quale le nostre identità si intrecciano, possono intrecciarsi a formare la corda dei una identità collettiva.
La piazza, insomma, come il luogo nel quale si forma e di definisce, nel rapporto con gli altri la nostra identità che è in continuo divenire, non è mai una volta definita per tutte. Tutti noi siamo, per dirla con Zygmunt Bauman, uomini (e donne) modulari, sottoposti e disponibili a continui cambiamenti, a seconda delle persone o degli ambienti con i quali entriamo in contatto. (2-3 giugno 2-011)

Corriere 8.4.14
Il giallo risolto dell’undicesima mummia
Ritrovata in un museo. Venne recuperata nella prima spedizione in Egitto
La missione nell’Ottocento guidata dall’italiano Rosellini e dal francese Champollion
di Cecilia Zecchinelli


Un giovane orientalista pisano, Ippolito Rosellini, a capo della prima spedizione archeologica mai effettuata in Egitto nel 1828-29, insieme al già celebre decifratore dei geroglifici Jean-François Champollion. La scoperta nelle sabbie di Tebe di un vero tesoro: solo la parte italiana, anzi toscana, contava duemila oggetti tra cui una decina di mummie, caricati ad Alessandria sul mercantile Cleopatra con destinazione Livorno. E poi l’avaria della nave, la burrasca che in parte danneggia quel prezioso carico. Al Granduca Leopoldo II, co-finanziatore della storica impresa tosco-francese, alcune casse non arrivarono mai. Distrutte forse, certo dimenticate. Tra loro quella con i resti di Kenamun, fratello di latte del faraone Amenofi II. L’undicesima mummia rimasta ignota per quasi due secoli e ora riapparsa. A trovarla, ricomponendo i pezzi del puzzle sparsi tra Nubia, Toscana e Boemia, un’egittologa napoletana e pisana d’adozione che insegna nella stessa Università in cui fu docente Rosellini.
Sembra la trama di un romanzo o di un film. Più o meno belle ma sempre popolari fin dall’Ottocento, sono tantissime le opere a base di Antico Egitto con sudari, sepolcri e morti che tornano, in genere per vendicarsi. Dal capostipite La Mummia dell’inglese Jane Loudon (1827), passando per Indiana Jones fino al recente Adèle e l’enigma del faraone di Besson, la serie è infinita. Ma questa storia è vera. «Vera e documentata, come si potrà vedere nella mostra che il 12 aprile apre a Calci al Museo di Storia naturale dell’Università di Pisa», dice Marilina Betrò, ordinaria di Egittologia e capo del sistema museale dell’ateneo, direttore degli scavi archeologici di Dra Abu El Naga a Luxor, e appassionata studiosa di Rosellini. «È nelle ricerche sulla sua spedizione che nel 2012 a Praga ho trovato documenti inediti, portati da Leopoldo II quando fu costretto all’esilio. Il più emozionante: la lista compilata da Rosellini di tutti i reperti imbarcati sul Cleopatra . Per la prima volta si parlava di 11 mummie, noi ne conoscevamo dieci». È bastata quella lista per ritrovare i resti di Kenamun: uno scheletro ormai privo di bende ma con segni di mummificazione, chiuso in una scatola nel magazzino del Museo di Storia Naturale di Pisa a cui Rosellini l’avrebbe lasciato perché troppo danneggiato per donarlo al Granduca. «La scritta sul cranio è chiara, ci dice che appartiene a una mummia della spedizione», spiega Betrò. «Le altre dieci erano note: sette sono al Museo Egizio di Firenze e tre sono andate distrutte ma ne avevamo seguito la sorte».
Le scoperte non si fermano qui: sempre grazie all’elenco di Praga si individua quanto resta del sarcofago. «Cassa in tinta nera e geroglifici tracciati in giallo», aveva precisato Rosellini. E così è stato identificato nei magazzini del Museo Egizio di Firenze, incompleto del coperchio e in cattive condizioni, dimenticato. Ma pur semidistrutto, il sarcofago con i suoi geroglifici ha tramandato il nome e il titolo di Kenamun, uno dei personaggi centrali della storia egiziana nel XV secolo a.C.. Altri dettagli della sua vita emergono dai dipinti nella sua tomba sulle colline di Tebe.
«Kenamun era fratello di latte di Amenofi II, cresciuto con lui nel palazzo reale di Perunefer, il Porto del Buon Viaggio, città ricchissima e viva, prima base navale dell’Egitto del Nord forse vicina all’antica Menfi —, spiega Betrò —. Diventato re nel 1427 a.C., Amenofi gli conferì molte cariche: Gran Maggiordomo, capo delle truppe, amministratore di Perunefer, incarichi importanti nel tempio del sommo dio Amon a Karnak. Sul piano privato, i dipinti mostrano che la sua fu una vita di fasti e di svaghi». Non durò molto però: le analisi dello scheletro mostrano infatti che Kenamun morì all’improvviso prima dei trent’anni, e non per ferite o malattie. La sua morte prematura fa pensare invece che fosse caduto in disgrazia. «Un’ipotesi confermata dalla tomba, che fu sottoposta a una furia distruttiva che si accanì quasi soltanto sulla sua figura, il suo nome e i suoi titoli — racconta l’egittologa —. Probabilmente Kenamun fu messo al bando quando Amenofi era ancora re e forse non sapremo mai se questo portò a una condanna a morte o a più onorevole suicidio. Certo è che quello scempio indica la volontà di cancellarne per sempre la memoria». Chi lo seppellì, conclude Marilina Betrò, volle però ricordare quanto era stato potente: accanto alla mummia fu posto un prezioso e rarissimo cocchio da corsa, dono di Amenofi. Che Rosellini trovò a Tebe, imbarcò sul Cleopatra e inviò a Firenze dove si trova da allora, senza sapere che fosse di Kenamun. Ma ora anche questo mistero pare finalmente chiarito.

La Stampa 8.4.14
Chaplin, le radici del successo nell’infanzia miserabile a Londra
Nella nuova biografia scritta da Peter Ackroyd il racconto dell’abbandono da parte della madre: da quella sofferenza l’impulso verso la gloria futura
di Vittorio Sabadin


Le biografie di Charlie Chaplin sono centinaia, compresa quella, forse non completamente sincera, che scrisse lui stesso nel 1964. Ora Peter Ackroyd, uno dei più prolifici e interessanti scrittori inglesi, ne ha realizzata un’altra per dimostrare una tesi: tutto quello che Chaplin è diventato nel bene e nel male, il suo genio e la sua crudeltà, la tenerezza e i tremendi scatti d’ira, il senso etico e le continue violazioni che ne faceva, le duemila donne che ha avuto e maltrattato, le minorenni che ha sedotto e plasmato; tutto, ma proprio tutto, trova una ragione e spiegazione nell’abisso della sua infanzia, trascorsa in una povertà infinita, priva di affetto e di speranze.
Già si sapeva molto di sua madre Hannah, che partorì Charlie nel 1889 non si sa dove e da quale padre. Era una modesta cantante e attrice con sangue zingaro nelle vene, che si esibiva nei locali a Sud del Tamigi, tra i luoghi più malfamati di Londra. Ackroyd sostiene che per mantenere se stessa, Charlie e l’altro figlio Sydney, si prostituisse nelle strade di tanto in tanto, come erano costrette a fare molte donne nelle sue stesse condizioni. Le cose erano andate un po’ meglio quando aveva frequentato un tale Chaplin, un discreto attore che morì ubriaco a 39 anni ma diede il cognome a suoi figli, pur non essendone il padre. Charlie ha raccontato che non potendo pagare l’affitto, cambiavano abitazione ogni mese, caricandosi i materassi sulle spalle solo per finire nell’ennesima lurida cantina.
Non potendo più badare ai figli, Hannah li lasciò all’Hanwell School for Orphans and Destituite Children, un istituto vittoriano rimasto aperto fino a metà del ‘900. A quei tempi i bambini venivano rasati a zero, picchiati con canne di bambù e costretti a sopportare una disciplina molto simile a quella raccontata da Dickens all’inizio di Oliver Twist. Per Charlie, che aveva 7 anni, non erano tanto le condizioni di vita all’interno dell’orfanotrofio a renderlo insopportabile: il cibo non era certo buono, ma almeno ce n’era. A tormentarlo era l’abbandono, l’assenza della madre che non si fece mai vedere per 18 mesi. Definì questo tempo i suoi «anni di prigione» e confessò più avanti che a permettergli di resistere fu la convinzione che sarebbe un giorno diventato un grande attore, il più bravo e il più famoso di tutti.
Sembra un’affermazione inventata a posteriori per dare un tono profetico alle sofferenze della sua infanzia, ma non è così. Charlie amava già allora esibirsi, ballare davanti ai pub, fare pantomime. Osservava i clown e i mimi per ore e ne imparava e ripeteva i movimenti e le espressioni.
Quando nel 1903 una bambina venne ad avvisarlo che la madre era impazzita e stava distribuendo pezzi di carbone in ogni casa, la sua infanzia finì per sempre. Hannah fu ricoverata in un manicomio, dal quale uscì 17 anni dopo. Charlie per vivere aveva rubato cibo e denaro, e sarebbe potuto finire davvero male. Fu una compagnia teatrale che portava Sherlock Holmes in tournée a offrirgli una piccola parte e a salvarlo dall’abisso nel quale stava per cadere.
Dieci anni dopo era in America, ingaggiato da Mack Sennett per le pantomime della Keystone a 175 dollari la settimana. A 26 anni ne guadagnava 60 mila al mese e il personaggio del Vagabondo era diventato un’icona globale. «Mi conoscono in paesi – diceva Chaplin – dove non sanno chi è Gesù». Il denaro e la fama lo resero una compagnia ambita, soprattutto dalle donne. Era alto poco più di un metro e sessanta e aveva una testa un po’ grossa rispetto al corpo, ma i suoi occhi azzurri erano svelti e intelligenti e il sorriso irresistibile. Cercava di conquistare ogni donna che incontrava e raccontò di averne sedotte 2000, senza accorgersi che la maggior parte di loro aveva sedotto lui. Gli piacevano acerbe e principianti, come Mildred Harris, 16 anni, Rita Grey (15), Paulette Goddard (17), Edna Purviance (19). L’unica un po’ scafata che frequentò fu Peggy Hopkins, che aveva già divorziato da cinque miliardari e per la quale era stata coniata l’espressione di «gold digger», cercatrice d’oro. Quando si videro per la prima volta, Peggy disse a Chaplin: «Ma è vero quello che dicono di te tutte le ragazze, che sei superdotato?». Paulette Goddard confermò che Charlie era una «sex machine», capace di maratone notturne inenarrabili.
Una volta gli chiesero quale fosse la sua donna ideale. «Deve essere una – rispose – che io non amo del tutto, ma che è totalmente pazza di me». Le trattava tutte male, facendole piangere, ma aveva anche atteggiamenti teneri e irresistibili. Il suo difetto principale era la gelosia, che causò scenate terribili per un nonnulla. Sul set era un tiranno, che pretendeva la perfezione assoluta. Fece ripetere per due anni interi e per complessivi 342 ciak la scena iniziale di Luci della città, quella in cui la fioraia cieca offre un fiore al Vagabondo: di certo aveva ragione, è ancora un capolavoro di dolcezza e di leggera armonia di movimenti.
Per Ackroyd tutto si spiega con quell’infanzia crudele e spezzata: anche il tema della sopravvivenza in un mondo ostile comune nei suoi film, e la sfida continua all’autorità del Vagabondo, che si comporta come se fosse invincibile. E il bisogno insaziabile di compagnia femminile, compensazione di una madre assente che lo aveva abbandonato al suo inatteso, meraviglioso destino.

Corriere 8.4.14
Dare una speranza alle periferie urbane
di Vittorio Gregotti


Mi sembra che l’iniziativa di Renzo Piano di utilizzare positivamente il suo ruolo di senatore per costituire un gruppo di studio intorno ai problemi della periferia della città italiana sia importante anzitutto in quanto esempio di come si possa concretamente mettere a disposizione le proprie competenze specifiche, pur con tutta la loro parzialità, nel momento di assumere responsabilità politiche nazionali.
La città europea ha, da un lato, caratteristiche di stratificazioni storiche del tutto particolari e, da un altro, la sua rete insediativa è particolarmente fitta. Si incontrano ogni dieci chilometri città che, anche se piccolissime, sono dotate dei loro elementi essenziali. Nello stesso tempo le città che si possono definire «postmetropoli» sono rarissime, a differenza di altri continenti dove lo stesso impeto di sviluppo senza regole è incessante e produce fenomeni di ideologie della deregolazione del tutto diverse (talvolta, provincialmente imitate, come ad esempio, in Italia, il grattacielismo o la bizzarria formalistica senza necessità). La banlieue è, secondo l’origine del nome, il luogo della «messa al bando», e le politiche degli insediamenti in periferia hanno attraversato fasi molto diverse: dal borgo, alle residenze proletarie presso le fabbriche sino alle bidonville africane.
Non si possono non ricordare gli sforzi dell’urbanistica «riformista» compiuti anche negli ultimi cinquant’anni per migliorare la città tradizionale consolidata, ma anche proprio la sua periferia. In particolare proprio quelle europee, comprese le loro differenze rispetto a quella nordamericana caratterizzata dal rifiuto della residenza collettiva su più piani e dalle difficoltà delle separazioni razziali o di censo con la costituzione delle «gated community» e con la tendenza della classe media ad abitare in periferia pur con l’ossessione della casa singola. In Europa, dopo quella delle città-giardino e poi delle «new town», è la tradizione della «Siedlung» degli anni Venti che diviene, nel dopoguerra, modello della periferia dei grandi quartieri monoclasse e monofunzionali con esiti molto diversi nei vari Paesi d’Europa, secondo soprattutto una diversa fornitura di servizi e dei modi di accedere al welfare state, con tentativi più o meno riusciti di integrazione territoriale, con il problema dello scontro con le comunità un tempo esterne, sino all’abbandono oggi di ogni pianificazione e l’elogio del caos della deregolazione come libera opportunità.
È importante quindi che venga ripresa l’antica questione della periferia urbana, che è stata al centro dei dibattiti dell’architettura fin dagli anni Cinquanta, ma che dagli Ottanta presenta (con la crisi della stabilità degli insediamenti industriali anche come condensatori sociali) con chiarezza la necessità dell’estensione delle qualità di polifunzionalità, di mescolanza sociale e di presenza di servizi urbani eccezionali (oltre a quelli funzionalmente necessari) capaci di fare, di quella parte specifica, elemento strutturale dell’intera città, anche riutilizzando ogni possibile esistente e praticando l’idea del progetto come modificazione creativa.
Anche la proposta di Renzo Piano di riprendere l’idea di Abercrombie del 1942 - che prevedeva per la città di Londra una vasta fascia di verde capace di definire con chiarezza il limite dello sviluppo urbano nei confronti della campagna agricola - è, pur con qualche importante correzione, un tema importante da verificare. Così come mi sembra importante il richiamo all’attenzione verso il costruire o ricostruire nel tessuto già costruito, cercando di compensarne gli alti costi con i vantaggi delle loro collocazioni strategiche nell’utilizzo dei servizi esistenti (senza gli sprechi proposti dalle periferie disperse) e con il costringere la cultura degli architetti verso obiettivi più ragionevoli e meno esibizionisti, ed anche meno incerti di fronte alla questione della bellezza, oggi sempre più connessa alla moda. È inutile tentare di coniugare la rapidità del mutare dei gusti e dei desideri simbolici della società con i tempi lunghi del permanere del costruito.
Qualche esempio positivo di nuove periferie, anche se non molto frequente, è disponibile negli stati del Nord Europa e in Germania: assai raro nei Paesi mediterranei e specie in Italia.
Che l’interesse per la costituzione di «centri storici della periferia» e degli spazi per attuarli sia proposta da un senatore della Repubblica può costituire un aiuto importante per le amministrazioni comunali anche per i pesanti ostacoli burocratici che sovente ne ostacolano le proposte. Senza mettere da parte la questione essenziale del disegno urbano della città.

Corriere 8.4.14
Nicola Rao ha raccolto in «Trilogia della celtica» i suoi precedenti volumi sull’estrema destraIl tragico vicolo cieco dei neofascisti violenti
di Aldo Cazzullo


«U na storia nata dalle macerie del fascismo e della guerra civile e morta all’alba della Seconda Repubblica. Una storia densa di sogni e di speranze, che troppo spesso si sono trasformati in abbagli e illusioni. E talvolta in violenze e tragedie, che hanno prodotto tanto sangue e troppi morti. Una storia unica, incredibile, inimmaginabile. Una storia che, speriamo, non si ripeta mai più».
Così Nicola Rao definisce la vicenda del neofascismo italiano, cui ha dedicato tre longseller (La fiamma e la celtica , Il sangue e la celtica , Il piombo e la celtica ), ora raccolti da Sperling&Kupfer in Trilogia della celtica (pp. 1.070, e 19.90). L’opera è arricchita da pagine inedite in cui l’autore racconta la genesi del suo lavoro — ispirato a Noi terroristi , il libro di Giorgio Bocca dell’85 sull’eversione rossa — e da una conclusione, intitolata non a caso La resa dei conti , dedicata ai funerali di Pino Rauti e alla dura contestazione che in quella circostanza subì l’ultimo segretario del Movimento sociale, Gianfranco Fini. Un volume di oltre mille pagine, in cui la storia della destra italiana è ricostruita da un bravo giornalista con il rigore dello storico, grazie a testimonianze e documenti spesso inediti, sullo sfondo del dopoguerra italiano, e con una forte partecipazione emotiva.
In sintesi, la celtica è il simbolo di più generazioni che non si riconoscono nella linea ufficiale dell’Msi e si richiamano alla visione sociale del fascismo repubblicano. Da una parte, dirigenti che lavorano per inserire il partito nel gioco democratico, spesso in funzione subordinata alla Democrazia cristiana nel tentativo di ancorarla a destra, elaborando una visione filoatlantica dello scenario internazionale e un’idea in sostanza «borghese» dei rapporti sociali. Dall’altra, giovani che rifiutano il sistema, che tentano di rifarsi al «diciannovismo» e a Salò, al fascismo anticlericale e antiborghese delle origini e al fascismo della socializzazione che segna il drammatico tramonto del Duce. A fare da detonatore di quella contraddizione è il Sessantotto.
In un primo tempo i giovani neri si ritrovano insieme con i rossi. Poi una parte di loro viene usata dal vecchio Msi e da apparati dello Stato per accendere una mimesi della guerra civile 1943-45, in cui non ci saranno vincitori, ma solo vinti.
Rao, che è del 1962, è mosso dalla curiosità tipica della sua generazione per l’idea che ragazzi di poco più grandi di lui potessero pensare che, nell’Italia degli anni Settanta, fosse possibile una rivoluzione, o una restaurazione. Ma poi la ricerca prosegue mossa dalla pietà per vite bruciate dall’ideologia, dall’odio, dalla violenza, o anche solo dal rifiuto del presente. Ci sono storie oggi dimenticate di aspiranti terroristi in fuga sugli Appennini, culminate in sparatorie come la battaglia di Pian del Rascino, cui sono dedicate pagine avvincenti. C’è la vergogna delle bombe e delle stragi nere. Ci sono i drammatici giorni della Roma tra fine degli anni Settanta e inizio degli Ottanta (impressionante la cartina con i caduti di entrambi i fronti nelle diverse zone in cui le opposte fazioni si erano divise la capitale). E c’è l’abisso nichilista dei Nar di Fioravanti, che con la loro follia cieca chiudono una stagione il cui unico esito possibile diventa allora il riflusso, la ritirata nel privato, lo scioglimento di una comunità, la riduzione della politica a interessi particolari.

Corriere 8.4.14
Buddha, Spinoza, Russell (e anche i coccodrilli)
L’empatia verso l’altro è un valore universale
di Giulio Giorello


 «Avete mai tenuto in braccio un piccolo di alligatore? State attenti, perché hanno una bella chiostra di denti, ma quando sono sconvolti emettono suoni simili a latrati», e la loro mamma si lancia al salvataggio!
Così scrive l’etologo Frans de Waal (nel suo Il bonobo e l’ateo , Raffaello Cortina, Milano 2013), che peraltro dubita che tutti i rettili si comportino in tale modo; ma congettura che i dinosauri già si prendessero cura della prole. E tra i mammiferi la pietà della madre è ricorrente. In certi casi anche nei confronti del figlio adulto, specie se questi è umiliato e offeso dai propri simili: così i bonobo maschi sono dei veri e propri «cocchi di mamma», che la femmina coraggiosamente protegge, o se non vi riesce, almeno compatisce talvolta in maniera esplicita e drammatica.
Siamo noi umani che proiettiamo le nostre considerazioni morali sul comportamento animale? O non ci stiamo invece accorgendo che in non poche forme di vita che usualmente consideriamo «inferiori» (e alcuni ricercatori si spingono ancor più «indietro» rispetto ai rettili) si trovano i semi di quel sentimento morale che un tempo consideravamo solo cosa nostra? Charles Darwin era solito annotare che gli animali possono avere i loro affetti: «paura e dolore», e forse anche «dispiacere per i morti», e «rispetto». E dunque, «potremmo essere tutti legati in un’unica rete».
La formulazione della teoria dell’evoluzione ha messo in luce anche il nesso profondo tra natura ed etica. Per molti, ancor oggi, insistere su di esso significa svilire ciò che di più sublime c’è nella creatura umana, fatta a immagine e somiglianza di Dio (Genesi 1, 26). Al contrario io ritengo che riscoprirci come parte della rete di tutti i viventi esalti il ruolo della pietà che religioni e filosofie hanno spesso descritto con accenti di grande commozione. Per esempio, il Buddhismo crede che la compassione coincida con l’essenza della vita stessa. Più laicamente Baruch Spinoza nella seconda metà del Seicento scriveva che la pietà è quel tipo di amore che modifica l’essere umano «in maniera che goda del bene altrui e si rattristi invece dell’altrui male». Così la pietà è quel tipo di affetto che connette l’interiorità dell’uomo alla realtà esterna, la sua coscienza alle vicende altrui, appunto attraverso la cognizione del dolore.
Oggi sappiamo che della pietà fanno parte sia il «rispetto» di cui parlava Darwin, o meglio l’empatia grazie a cui siamo in grado di metterci nei panni altrui, sia la vera e propria compassione, cioè la capacità di «patire» insieme con chi soffre. Oggi ne parla soprattutto la scienza; in passato ne hanno narrato il mito e l’arte, nelle più diverse forme simboliche: dalla consapevolezza della umana fragilità di qualsiasi amico pur potente e coraggioso — come racconta l’epopea mesopotamica dell’eroe Gilgamesh, da Uruk a Babilonia — fino a Voltaire che ricorreva alla favola di Zadig (1749) per illustrare come si rischiarino a vicenda pietà e conoscenza. La mia preferenza va al giudizio di Salomone riferito nella Scrittura ebraica (1 Re 3, 16-28). Due donne pretendono di essere madri dello stesso bambino. Il sovrano propone allora che il piccolo venga tagliato in due da una spada. Una delle donne accetta, l’altra preferisce rinunciare: diano alla rivale il bambino conteso purché esso viva! Salomone in lei riconosce la vera madre, e mostra ancora una volta come saggezza e passione vadano insieme.
Infine, nel tracciare un bilancio della propria vita, il filosofo novecentesco (agnostico) Bertrand Russell diceva di essersi sempre sentito governato da tre grandi sentimenti: «la sete d’amore, la ricerca della conoscenza e una struggente pietà per le sofferenze».
La pietà diventa allora strumento di comprensione che ci permette di superare i confini della famiglia o del clan, anzi di qualsiasi comunità in cui si vive. E’ sempre questione di riconoscere il dolore nei propri «simili». Ma chi conta come nostro simile è sempre più colui che ci appare «altro» da noi: lo straniero al nostro gruppo di appartenenza.
E allora chi è stato più «straniero» su questa Terra di Gesù, capace però di ricercare la comunanza con noi, fino a incarnarsi in un corpo di uomo?

Corriere 8.4.14
Bellini. Variazioni sul Cristo
Un maestro della pittura veneta e il suo capolavoro restaurato
di Chiara Vanzetto


Il confronto con un’icona sacra che riflette il dolore dell’uomo Novità, confronti, riflessioni su un tema chiave della Pasqua, credenti o non credenti poco importa, l’arte parla a tutti: quello della «imago pietatis» o «Cristo in pietà», l’immagine di Gesù morto ed eretto, occhi chiusi e braccia abbandonate, accompagnato dagli angeli, da Maria, o da Maria con San Giovanni Evangelista.
Un soggetto sacro approfondito oggi dalla Pinacoteca di Brera con una rassegna preziosa, coprodotta da Skira e sostenuta da Fondazione Cariplo, che lo contestualizza nel XV secolo in area veneta: titolo «Giovanni Bellini. La nascita della pittura devozionale umanistica», curatela di Sandrina Bandera, Matteo Ceriana, Keith Christiansen, Emanuela Daffra, Andrea De Marchi e Mariolina Olivari. Fulcro della piccola esposizione, in tutto 26 opere tra manoscritti, disegni, bassorilievi e dipinti, la meravigliosa Pietà belliniana di Brera, recuperata in tutti i suoi straordinari valori espressivi e linguistici dal recente restauro. Punto di partenza per ricostruire la carriera del pittore negli anni 1450/60 e per farlo dialogare con pezzi coevi dello stesso soggetto, molto diffuso nel territorio veneziano già dal ‘300. «Quest’opera segna una nuova stagione della pittura veneta, quella della rappresentazione dei sentimenti — spiega Sandrina Bandera —. Che non nasce in modo naturale ma attraverso il filtro della cultura classica, la conoscenza della poesia elegiaca antica, nota in Veneto già dai tempi di Francesco Petrarca».
Fondamentale per comprendere questo legame la scritta con la firma apposta da Bellini al dipinto: un distico delle «Elegie» del poeta latino Properzio, seconda metà del I secolo a.C., in cui si parla di «occhi gonfi di pianto». Verso che il pittore fa suo, partecipando al dolore della morte a cui assiste e coinvolgendovi l’osservatore. Verso che ci racconta il fil rouge che unisce Bellini ai più colti ambienti veneziani, documentato in mostra da due manoscritti d’epoca: un’edizione di Properzio della Libreria Marciana, del 1453, e un testo dell’umanista veneto Zovenzoni, anno 1474, dove il ritratto miniato dell’autore, attribuito a Bellini, dimostra la reciproca conoscenza. Anche la presenza del paesaggio, sottolinea Bandera, è un elemento di novità ispirato alla poesia classica latina. Un paesaggio limpidissimo, che grazie al restauro recente ha recuperato i toni freddi della tavolozza originaria: struggente grazie alla luce del tramonto e del giorno che muore, in sintonia con il tema rappresentato. Tema centrale per Bellini, che lo ripropone in molte versioni di uso devozionale e per l’area veneta, come dimostra la selezione di opere che circonda il dipinto belliniano. Il punto di origine viene identificato da una icona del XIV secolo di gusto bizantino, la Madre tragicamente stretta al Figlio come in Bellini. Fondamentale poi l’apporto di Donatello e della sua scuola, presente con una bassorilievo marmoreo padovano, e quello di Mantegna, di cui Giovanni era cognato.
«Un rapporto alla pari tra due geni, uno scambio fruttuoso per entrambi: Mantegna si addolcisce, Bellini invece scava nelle asprezze mantegnesche e le fa sue», spiega Mariolina Olivari. Asprezze che il restauro ha restituito appieno alla «Pietà» braidense. Avendo eliminato, prosegue Olivari, alcuni piccoli e sapienti tocchi ottocenteschi, dovuti al restauro di Giuseppe Molteni, anno 1864, che ne avevano reso la lettura più dolce del vero. Di Mantegna si vede esposta la meravigliosa cimasa della Pala Pesaro dei Musei Vaticani, dove, come nota Bandera, «si arricchisce il tema dei legami affettivi e della misericordia, strumento attraverso cui Cristo vive ancora in mezzo a noi». Di Mantegna anche un pezzo molto raro, un disegno delle Gallerie dell’Accademia di Venezia, accostato a due disegni belliniani di altrettanto pregio, in prestito da Londra e da Rennes: nell’immediatezza della grafica, rappresentano tutti l’abbraccio di Maria al Cristo, meditazioni commoventi e dirette che toccano le corde più profonde del dramma. A far da corona altri dipinti di grande interesse, come le versioni date da Marco Zoppo e Giorgio Schiavone, entrambi allievi con Mantegna della scuola squarcionesca di Padova. O ancora la rilettura che dà del tema Carlo Crivelli nella lunetta dell’«Incoronazione della Vergine» di Brera.
A chiudere l’esposizione un capolavoro poco noto di Giovanni Bellini, la «Madonna del Magistrato da Mar» delle Gallerie dell’Accademia. Che racchiude in sé entrambi i temi più cari all’autore: la «Pietà» e la rappresentazione della Madonna. Perché il Bambino che la Vergine tiene sulle ginocchia non dorme come appare ma è morto. Con il piccolo braccio abbandonato, ispirato alle rappresentazioni classiche della «Morte di Meleagro», prefigura già nell’infanzia il futuro sacrificio di Cristo per la salvezza dell’uomo.

Corriere 8.4.14
Dalla devozione alla compassione
Fra i tanti volti (e corpi) della Pietà
Michelangelo ne fece il simbolo dei suoi tormenti spirituali
di Francesa Bonazzoli


Come altre iconografie sacre - per esempio Il riposo nella fuga in Egitto o l’Assunzione della Vergine - anche quella della Pietà non ha riscontro nei Vangeli. È un tema che nasce tardi, nel repertorio iconografico bizantino dove fa la sua comparsa solo nel XII secolo e da lì passa in Occidente attraverso la letteratura mistica del Duecento e del Trecento come le Meditationes di Giovanni de’ Cauli o le Revelationes di santa Brigida di Svezia. Illustra il momento successivo alla Deposizione dalla croce e col tempo viene declinato in due modi: quello devozionale, chiamato Pietà; e quello narrativo, detto Compianto sul Cristo morto.
Nella Pietà, di solito, appare la sola Vergine con il corpo del figlio morto disteso sulle ginocchia, come si vede ancora nel primo Rinascimento nell’esempio più celebre: la Pietà collocata in San Pietro, scolpita nel 1499 dal giovane Michelangelo. Alcune fra le varianti più praticate prevedono il Cristo sorretto da angeli, come nella tavola di Antonello da Messina a Madrid o quelle di Londra, Berlino o Rimini di Bellini. In seguito, soprattutto durante la Controriforma, si attesta la versione con il corpo di Cristo steso a terra su un sudario e la sola testa appoggiata sulle ginocchia di Maria, come nella Pietà di Annibale Carracci a Capodimonte. La scena, però, a quell’epoca, viene ormai declinata in chiave narrativa, forzando gli effetti patetici grazie alla partecipazione teatrale di altri personaggi. È in tale contesto che possiamo parlare di Compianto sul Cristo morto, iconografia che può arrivare fino a coinvolgere otto personaggi, gli stessi che si ritrovano nella Deposizione dalla croce: il Cristo morto; la Vergine; la Maddalena; San Giovanni; Giuseppe d’Arimatea, il vecchio che regge il lenzuolo per la deposizione; Nicodemo, con un vaso di aromi per ungere il corpo di Gesù; le pie donne. Nel secondo Quattrocento questo Compianto venne rappresentato anche con gruppi di statue in legno o terracotta di cui grandi maestri furono Nicolò dell’Arca e il modenese Antonio Mazzoni che importò il genere (molto in auge in Borgogna e Linguadoca) a Napoli, dove tali «quadri viventi» si svilupparono in scene dal carattere «parlante», popolare e ingenuo.
Nella fase «piagnona» della sua carriera artistica, condizionata dalla predicazione di Savonarola, anche il Botticelli ha molto calcato sul pedale patetico, per esempio nelle versioni di Monaco o del Poldi Pezzoli di Milano, dove Giuseppe d’Arimatea alza al cielo la corona di spine e i chiodi come a chiedere minacciosamente ragione di tanto strazio, mentre la Vergine si accascia in deliquio, sorretta da san Giovanni. Quest’ultima immagine, però, scomparirà verso la metà del XVI secolo perché una tale reazione di sconforto fu bollata dal Concilio di Trento come troppo umana, non confacente a Maria che conosceva il destino di resurrezione del proprio figlio.
Si torna allora alla «virilità» quattrocentesca con la Vergine che sorregge dolente, ma austera, il Cristo, come vediamo nella Pietà dello spagnolo Luis de Morales, il quale interpreta la disperazione di Maria come quella di un hidalgo; o come nell’ultima Pietà di Michelangelo, la cosiddetta Rondanini, ancora in lavorazione nei giorni a ridosso della morte.
Nell’ultima parte della sua lunga vita, infatti, Michelangelo non faceva che disegnare Crocifissi e Pietà. Era stata la marchesa Vittoria Colonna a iniziarlo alla devozione per il corpo santo di Cristo, praticata da una cerchia di cattolici che, aspirando alla riforma morale della chiesa, erano in odore di eresia, controllati speciali dell’Inquisizione. Le speranze riformiste di questo gruppo si infransero nel 1555, quando il Carafa (lo stesso che voleva distruggere il Giudizio Universale della Sistina per la presenza dei nudi) divenne papa col nome di Paolo IV. Michelangelo, che aveva sempre avuto in odio i Medici e l’arroganza del potere dei papi, trovandosi però tutta la vita conteso fra i primi e i secondi, stava scolpendo la cosiddetta Pietà Bandini. L’inquisizione arrestò molti suoi amici e anche lui ebbe paura delle proprie idee. Ma si sentiva un pavido perché, agli occhi di tutti, egli era il più illustre servitore della gloria temporale della chiesa. Forse per questo scolpì il proprio ritratto nel volto di Nicodemo, l’uomo che, non avendo il coraggio di vivere apertamente la fede, andò a parlare con Gesù di notte, ma non mancò di rendere l’estremo onore al suo corpo santo.

Corriere 8.4.14
Aggiunse colline e persone al Gesù solitario bizantino
di Carlo Bertelli


Per lunghi mesi, attraverso i gesti misurati dei tre restauratori, chiusi nella gabbia di vetro in una sala di Brera, abbiamo visto sorgere nella tavola di Giovanni Bellini la luce livida dell’alba, osservare il fiume gonfio di pioggia che lambisce la collina alle spalle della Madonna. È stata un’operazione delicata e difficile. Il dipinto proviene da una delle più prestigiose collezioni di Bologna, la raccolta Sampieri, di dove è giunto insieme ai capolavori di Guido Reni, Annibale Carracci, Guercino, con le loro sontuose cornici dorate. Come in tutte le collezioni di antica data, anche in questa le cure erano soprattutto consistite in coprire il dipinto con colle e vernici, che col tempo si erano ulteriormente scurite. A queste difficoltà, dovute alla storia del dipinto, altre se ne aggiungevano che dipendevano dalla costituzione stessa della scena. Nella tradizione bizantina era consolidata la rappresentazione del Cristo morto in piedi sul sarcofago. Egli era il Re della Gloria, vivente malgrado la crocifissione e la deposizione. Le braccia conserte coprivano il suo costato, l’inverosimiglianza della sua posa eretta invitava alla meditazione e alla preghiera. In un dipinto di qualche anno prima, conservato al Museo Poldi Pezzoli, Giovanni Bellini aveva ripetuto fedelmente lo schema bizantino, ma aggiungendovi il paesaggio di sfondo, che da all’immagine l’aspetto di un’apparizione. Nella Pietà di Brera affiora appena il ricordo di questa iconografia più antica. Cristo non è più solo. Il volto della Madre è accostato al suo e i due formano un solo blocco, dove l’angoscia materna non arriva a comunicare col Figlio, ormai uscito dal mondo degli uomini. Un terzo personaggio, il fedele discepolo Giovanni, è entrato nella composizione,come già era avvenuto con Filippo Lippi, il pittore fiorentino che aveva operato a Padova. Altri due importanti cambiamenti sono avvenuti nel caso di Brera rispetto alla tavola del Poldi Pezzoli. Il braccio sinistro del Cristo si scioglie dall’abbraccio di Maria e ricade con tutto il peso sull’orlo del sarcofago, che sulla fronte accoglie un’iscrizione latina derivata dal poeta latino del secolo di Augusto Properzio, che suona così: questi occhi gonfi quasi emetteranno gemiti, questa opera di Bellini potrà spargere lacrime. Mentre l’iscrizione capitale e il nome dell’autore reificano l’immagine, questa a sua volta è dotata di propri sentimenti. Il mondo bizantino della contemplazione ha trovato qui una giustificazione umanistica.

l’Unità 8.4.14
Da domani
Al via il Festival del cinema patologico


Al via domani a Roma il V Festival Internazionale del Cinema Patologico, composto da una giuria di disabili psichici che si mette alla prova come un’équipe di valutazione, adottando parametri e criteri lontani dai canoni comuni per assegnare i premi per il Miglior film, la Miglior regia, il Miglior attore protagonista, la Miglior attrice protagonista. Tra gli sopiti Giorgio Tirabassi (Giovedì 10), Francesco Montanari (sabato 12) Claudia Gerini (domenica 13). Il Festival si aprirà con lo spettacolo in anteprima nazionale «Anna Freud, un Desiderio Insaziabile di Vacanze» di Marco Mattolini.

Repubblica 8.4.14
L’appello
Fieg e Fnsi: Renzi approvi aiuti ai giornali


ROMA. Fieg e Fnsi chiedono al governo di stanziare subito le risorse per il sostegno all’editoria previste dalla legge di Stabilità 2014. «L’intesa con il precedente governo — dice il presidente degli editori, Giulio Anselmi — per superare l’emergenza congiunturale e sostenere il passaggio all’era della multimedialità non deve restare allo stadio delle buone intenzioni». Il presidente del sindacato dei giornalisti, Franco Siddi, e lo stesso Anselmi, si augurano che il presidente del Consiglio Renzi non segua le indicazioni del commissario straordinario per la revisione della spesa Cottarelli, che ha inserito i fondi per l’editoria tra i “trasferimenti aggredibili”. «Gli stanziamenti produttivi per l’occupazione non si possono comprimere», dice Siddi.

Repubblica 8.4.14
L’indagine Ads
La Repubblica ancora prima nelle edicole


ROMA. La Repubblica si conferma il primo giornale in Italia per quanto riguarda le vendite in edicola. Anche nel mese di febbraio 2014 il quotidiano guidato da Ezio Mauro ha mantenuto il primato di copie medie acquistate giornalmente, piazzandosi a quota 270 mila 051 contro le 260 mila 536 del suo diretto concorrente, il Corriere della Sera.
Un tetto che si amplia ulteriormente quando il quotidiano è venduto assieme al settimanale femminile D-La Repubblica delle donne (278 mila 167)e che raggiunge le 365 mila 030 copie medie quando è in edicola assieme al settimanale il Venerdì di Repubblica.
Buono anche l’andamento della versione digitale che, sempre a febbraio del 2014, registra una vendita media di 53 mila 720 copie, come risulta dagli ultimi dati dell’indagine Ads.
Ma le cifre sulla diffusione premiano a febbraio anche L’Espresso, storico settimanale del gruppo, che raggiunge il primato delle vendite in edicola con 62 mila 120 contro le 56 mila 750 del suo concorrente Panorama. Unendo le vendite digitali a quelle cartacee, l’Espresso raggiunge il tetto delle 214 mila 398 copie.
Tra gli altri quotidiani a diffusione nazionale, dopo Re-pubblica e Corriere, al terzo posto per vendite in edicola troviamo la Gazzetta dello Sport del lunedì che a febbraio ha venduto una media di 205 mila 338 copie (la media degli altri giorni è 176 mila 345).Segue la Stampacon 171 mila 725 copie.