giovedì 10 aprile 2014

l’Unità 10.4.14
Così in Italia cambia la fecondazione: «L’eterologa? Subito»
«Le procedure ci sono, collaudate a livello europeo, e i centri possono autoregolamentarsi»
La decisione della Consulta non crea vuoti normativi. I privati «possono iniziare già domani»
Tempi lunghi per la donazione di spermatozoi: almeno sei mesi
«Da noi la più grande banca di ovociti: 76mila»
di Mariagrazia Gerina


«Si devono rassegnare, grazie alla Corte Costituzionale ora c’è una legge che ce lo consente, quindi noi la fecondazione eterologa la faremo, non aspetteremo il Parlamento», scandisce euforico Antonino Guglielmino direttore dell’Unità di medicina di riproduzione di Catania, che da ieri mattina non fa altro che ricevere telefonate e sms. Primi a chiamarlo sono stati C. e suo marito, gli aspiranti genitori di Catania che hanno avuto il coraggio di portare in tribunale il divieto di eterologa. «Continuavano a piangere, non ci potevano credere», racconta Guglielmino, che ha combattuto al loro fianco anche la battaglia legale, insieme agli avvocati Massimo Clara, Maria Paola Costantini, Marilisa D’Amico e Sebastiano Papandrea, che difendevano anche la coppia milanese, e a Filomena Gallo e Gianni Baldini, che difendevano la coppia fiorentina. Né lui né i suoi pazienti hanno intenzione di perdere altro tempo. «Sono contentissima, voglio cominciare subito se è possibile», festeggia Elisabetta, la giovane donna siciliana di cui avete letto la storia l’altro giorno sull’Unità. Anche lei una paziente di Guglielmino. «Non c’è settimana che non veda partire all’estero una coppia, ora basta», ribadisce il medico catanese. Pronto a praticare da subito la fecondazione eterologa. Senza attendere decreti, linee guida o altri interventi legislativi.
Caduto il divieto, non c’è un vuoto normativo. Alcune regole le fissa paradossalmente proprio la legge 40. Pur vietando la fecondazione eterologa, la legge approvata nel 2004, stabiliva già per esempio che «in caso di applicazione di tecniche di tipo eterologo il donatore di gameti non acquisisce nessuna relazione giuridica parentale con il nato e non può far valere nei suoi confronti alcun diritto né essere titolare di obblighi». Mentre d’altra parte «il coniuge o il convivente il cui consenso è ricavabile da atti concludenti non può esercitare l’azione di disconoscimento della paternità». In questo modo la legge, sapendo che il divieto fissato poteva essere aggirato andando all’estero, ha dato in questi anni tutela ai bambini nati dalle coppie che continuavano a fare l’eterologa fuori dall’Italia. Ora cade il divieto ma le tutele restano. Come pure resta (se non saranno la Consulta o il Parlamento a intervenire) la regola per cui «possono accedere alle tecniche di procreazione medicalmente assistita coppie di maggiorenni di sesso diverso, coniugate o conviventi, in età potenzialmente fertile, entrambi viventi».
Il punto cruciale ovviamente riguarda la donazione di spermatozoi e ovociti. L’ex sottosegretaria Roccella ha parlato addirittura di possibile «mercato dei corpi». Ma la stessa legge 40 (articolo 12, comma 6) prevede che «chiunque, in qualsiasi forma, realizza, organizza o pubblicizza la commercializzazione di gameti è punito con la reclusione da tre mesi a due anni e con la multa da 600mila a un milione di euro». E questo divieto, che vige in tutta Europa, resta. La donazione di gameti quindi sarà possibile solo in forma gratuita. Ma ci vorrà tempo: «Bisogna reclutare il donatore prelevare gli spermatozoi e riesaminarlo dopo sei mesi» dice Andrea Borini presidente della Società italiana di Fertilità e Sterilità.
Qualche complicazione in più c’è rispetto agli ovociti. «Prima della legge 40 in Italia si pratica lo sharing eggs, vuol dire che le coppie con problemi di sterilità si aiutano a vicenda e se una donna ha prodotto molte uova ne può cedere alcune a un’altra che non ne ha», spiega Guglielmino. Ma c’è un’alternativa, più semplice: «Grazie alla legge 40, che fino al 2009 vietava di produrre più di tre embrioni, abbiamo la più grande banca di ovociti che ci sia al mondo: 76mila ovociti congelati, molti appartengono a donne che nel frattempo hanno già soddisfatto il loro bisogno di maternità e penso che soprattutto loro se vorranno potranno donarli».
La tracciabilità e la sicurezza sono garantite dalle «norme per la donazione, l’approvvigionamento, il controllo, la lavorazione, la conservazione, lo stoccaggio e la distribuzione di tessuti e cellule umani» fissate nella direttiva europea 23 del 2004 e recepite in Italia attraverso due decreti, del 2007 e del 2010. In breve: la donazione di tessuti e cellule è volontaria e gratuita, è obbligatorio il consenso informato, è garantito l’anonimato, in modo tale che né il ricevente né il donatore siano identificabili. «Fatta salva la legislazione in vigore negli Stati membri sulle condizioni di comunicazione dell’identità, che potrebbe autorizzare in casi eccezionali, in particolare nel caso della donazione di gameti, la revoca dell’anonimato del donatore», aggiunge la direttiva. Su questo se il Parlamento vorrà legiferare potrà farlo. Così come se vorrà il ministero potrà approvare nuove linee guida per dare attuazione alla legge modificata dalla Consulta. «L’importante è che lo facciano in fretta, non è che possiamo aspettare per altri dieci anni. Ora ben venga il confronto ma senza perdere altro tempo», ribadisce Anna Pia Ferraretti, del Sismer di Bologna. Altrimenti: «Io se nessuno mi dice che è negata l’eterologa la faccio: le procedure ci sono, sono collaudate a livello europeo, i centri possono autoregolamentarsi, non possiamo continuare ad attendere».

il Fatto 10.4.14
Legge 40 Cade l’ultimo tabù
La Consulta boccia il divieto di fecondazione eterologa, cioè con ovulo o sperma altrui
«Legge 40» Via il veto all’eterologa
Torniamo europei. La Corte costituzionale ha bocciato 20 volte in 10 anni la norma sulla riproduzione assistita
di Chiara Daina


Da ieri il divieto di fecondazione eterologa è morto e sepolto. La Corte costituzionale ha dichiarato illegittima la norma della legge 40 che vieta alle coppie sterili di ricorrere a un donatore esterno di ovuli o spermatozoi. La via crucis è durata dieci anni, da quando cioè è entrata in vigore la legge sulla procreazione assistita. Nel resto dell’Europa, soltanto Lituania e Turchia continuano a negare la fecondazione eterologa nei casi di assoluta infertilità.
A sollevare per la seconda volta la questione di incostituzionalità degli articoli 4 e 12 della legge 40 (relativi appunto al divieto di fecondazione eterologa medicalmente assistita) sono stati due Tribunali, Milano e Catania. La prima volta è stato nel maggio del 2012, ma in quell’occasione la Corte aveva deciso di restituire gli atti ai giudici rimettenti, perché riformulassero i passaggi tenendo in considerazione la sentenza pronunciata dalla Corte europea dei diritti dell’uomo il 3 novembre 2011 sul caso analogo della legge austriaca, in cui invitava gli Stati membri dell’Unione europea a non trascurare il rapporto tra la legge e l’evoluzione scientifica.
NIENTE DA FARE PERÒ: per i due tribunali la norma italiana negava il diritto di avere una famiglia alle coppie sterili nonostante il progresso delle tecniche mediche. Dal 2010 ci sono stati dieci ricorsi contro la legge 40 in quattro Tribunali: due a Catania, due a Firenze, uno a Milano e quattro a Bologna. Dopo l’udienza pubblica di martedì mattina, di poco più di un’ora, che si è aperta con la relazione del giudice Giuseppe Tesauro, i giudici della Consulta si sono ritirati in Camera di Consiglio fino alle 18.40. Il verdetto è arrivato solo ieri a mezzogiorno. “Aspettiamo di poter leggere le motivazioni della sentenza, che ovviamente recepiamo”: queste le prime parole espresse dal ministro della Salute, Beatrice Lorenzin, premurosa di sottolineare che “in Italia non siamo ancora attrezzati dal punto di vista normativo” e che ora spetta al Parlamento intervenire. “Ma di quale vuoto normativo stiamo parlando?” attacca l’avvocato Maria Paola Costantini, l’avvocato delle coppie che si sono costituite in giudizio. Che aggiunge: “È possibile una modifica nei limiti e nei confini di quanto disposto già dalla legge 40: alla fecondazione eterologa potrebbero accedere le coppie maggiorenni, di sesso diverso, coniugate o conviventi, in età potenzialmente fertile ma affetti da sterilità, e partner entrambi viventi. Inoltre sarà necessario il consenso informato del donatore di gamete e del ricevente, come avviene con la donazione di organi”.
È proprio questa una delle motivazioni presentate dall’avvocato alla Consulta. Le altre due riguardano la responsabilità dello Stato di non tutelare il diritto di procreare come alle coppie sane e quella di favoreggiamento del commercio di gameti all’estero. “I soggetti che già seguono un trattamento di fecondazione assistita, e perciò hanno gameti in abbondanza, potrebbero donarli a queste coppie – spiega Costantini -. In Italia oggi ci sono 77 mila ovociti crioconservati, che molto probabilmente non verranno più utilizzati”.
FINO AL 2004 la fecondazione eterologa era consentita nel nostro Paese soltanto in strutture private. “Ci auguriamo adesso che anche il pubblico si faccia carico degli interventi - conclude l’avvocato –. L’esempio da seguire potrebbe essere l’Inghilterra o la Francia dove la donazione dei gameti è gratuita”. Per Silvio Viale, presidente del Comitato nazionale di Radicali italiani, la caduta del divieto rappresenta “una vittoria sui diritti civili che ha il marchio di fabbrica radicale”. La battaglia dei Radicali iniziò subito nel 2004 con quattro referendum abrogativi della legge 40 depositati in Cassazione. Ma nel 2005 al voto andò solo il 25,9 per cento degli aventi diritto e il quorum non fu raggiunto. Non esulta Girolamo Sirchia, ministro della Salute quando fu varata la legge 40: “Non conoscendo l’identità del donatore si creano problemi al figlio, che una volta cresciuto vorrà conoscerlo, e anche a chi dona, che non vuole essere identificabile. Insomma, c'è un problema di equilibrio psicologico, più che di privacy”.

l’Unità 10.4.14
Dai giudici costituzionali solo semplice buonsenso
di Carlo Flamigni


CREDO CHE LA COSA PIÙ IMPORTANTE ACCADUTA IN EUROPANEGLIULTIMIANNI, almeno per quanto riguarda i problemi della bioetica e del biodiritto, sia una sollecitazione arrivata proprio al nostro Paese, dalla Corte Europea dei diritti dell’uomo (Cedu) a proposito delle donazioni di gameti. In una prima sentenza, del 1°aprile 2010, una Camera della I Sezione della Cedu aveva affermato che il dispositivo della legge austriaca che vietava la donazione di gameti femminili violava l’articolo 14 della Cedu stessa, in combinato disposto con l’articolo 8.
La sentenza criticava poi in modo molto severo le motivazioni addotte dall’Austria per giustificare le proprie scelte in materia di donazione di gameti. La sentenza ha trovato, come era naturale, forte opposizione ed è stata sottoposta al giudizio della Grande Chambre per una revisione; nel giudizio definitivo, il Collegio l’ha ribaltata ricordando anzitutto che la normativa europea non si schiera su questi temi e lascia agli stati membri un ampio margine di discrezionalità. Inoltre, l’ingerenza della legge nelle libere scelte delle coppie appare giustificata, sempre secondo la Grande Chambre, anche in una società democratica, in quanto persegue lo scopo legittimo di proteggere la salute, la morale, i diritti e la libertà di tutti i cittadini. In definitiva secondo la Corte il margine di discrezionalità del quale deve disporre ogni singolo paese non può che essere ampio, ferma restando la necessità di un armonioso equilibrio tra gli interessi dello Stato e quelli dei cittadini e in particolare di quei cittadini che sono particolarmente toccati dalle scelte che lo Stato decide di compiere. La sentenza si conclude però con una affermazione che molti commentatori hanno ritenuto qualunquista, ma che in realtà ha un contenuto fortemente innovatore: in materia di Pma il diritto è in costante evoluzione (ma il riferimento è chiaramente fatto a tutte le innovazioni che conseguono al progresso della scienza) sia perché la ricerca scientifica in questo campo è in rapido sviluppo, sia perché cambia continuamente la capacità della morale di senso comune di accettare le nuove proposte che la scienza continuamente le sottopone e tutto ciò richiede una attenzione permanente da parte degli Stati contraenti. Queste conclusioni rappresentano un chiaro invito ai Governi a considerare in modo sistematico l’evoluzione della coscienza sociale relativamente ai temi della vita riproduttiva, per potere adeguare le normative vigenti a questi mutamenti, considerati molto probabili e costanti, oltre che in chiaro rapporto con i progressi delle scienze mediche e con l’efficacia della divulgazione operata in questi settori. Solo per confermare la rapidità con la quale si modificano morale e normative in questo campo, ricordo che nel gennaio del 2014 la Corte Costituzionale austriaca ha giudicato illegittima la proibizione della ovodonazione, dando in effetti ragione alle decisioni prese dalla sezione della Cedu, quelle successivamente contraddette dalla Grande Chambre.
Tutto ciò conferma una cosa che i laici hanno sempre sostenuto: la norma etica si struttura soprattutto per l’influenza di una generale disposizione della coscienza collettiva, che definisco per semplicità morale di senso comune, che si forma dentro ognuno di noi per molteplici influenze e che, pur essendo generalmente restia ad accettare anche le più elementari proposte di cambiamento, si modifica in rapporto a quelle che vengono definite «le intuizioni dei vantaggi che possono derivare dalle conoscenze possibili». Tutto ciò naturalmente avviene solo se è possibile trovare, in queste nuove conoscenze, indicazioni attendibili e comprensibili sui miglioramenti che ne deriveranno e garanzie nei confronti dei presumibili rischi. Deve dunque cessare da subito - e la sentenza della nostra Consulta lo conferma - l’incomprensibile divario e la inaccettabile contraddizione tra il senso morale della nostra società e le norme giuridiche approvate dal Parlamento, norme troppo spesso suggerite da una morale religiosa ossificata, rigida e incapace di adattarsi al mondo moderno. Adesso però ci sono cose che debbono essere affrontate con animo sgombro da risentimenti e da preoccupazioni assurde. La prima riguarda il fatto che la donazione di gameti deve tornare ad essere, nel nostro Paese, oblativa e non può essere affidata ad alcun tipo di commercio. Dovranno essere affrontati poi alcuni temi di rilevante interesse, come quello dell’opportunità di preparare un semplice protocollo che consenta di selezionare in modo semplice e non punitivo le coppie richiedenti, di affrontare il problema dell’età dei candidati a questa genitorialità e di discutere il problema del segreto, cioè se garantire al figlio la conoscenza della propria origine genetica (o in alternativa di affidare ai genitori la scelta di dargli o no accesso a questa informazione).
Merita certamente una analisi anche il problema della richiesta di donazioni di gameti e di embrioni che certamente arriverà da parte di donne sole e di coppie omosessuali e lo stesso deve riguardare il problema del dono del grembo (come si vede non dell’affitto dell’utero, che cosa completamente diversa).
Penso che se esiste ancora un po’ di logica nei nostri parlamentari queste questioni debbano essere affrontate, in prima battuta, dal Comitato Nazionale per la Bioetica il quale, tra l’altro (anche se nessuno se ne è accorto ) è stato creato proprio per occasioni come questa.
E se posso permettere di dare un consiglio alle persone religiose che trovano scandalosa questa decisione, vorrei ricordare loro che modificare la dottrina tenendo conto dello spirito del tempo non è alito del demonio, è solo semplice buonsenso.

l’Unità 10.4.14
Paletti e sentenze, quel che resta di una brutta norma
Bocciati anche gli articoli correlati
Resta ancora in piedi il divieto alle coppie fertili con patologie genetiche
di Franca Stella


Il divieto di fecondazione eterologa è incostituzionale. Lo ha deciso la Consulta in merito alla parte della legge 40 del 2004 sulla procreazione assistita in cui si vieta di ricorrere alla donazione di gameti (ovociti o spermatozoi) esterni alla coppia per concepire un figlio. Cade, dunque, il «paletto» più impopolare imposto dalla discussa normativa italiana. Bocciati anche gli articoli correlati al divieto come l’articolo 12 comma 1 che puniva «chiunque a qualsiasi titolo utilizza a fini procreativi gameti di soggetti estranei alla coppia richiedente » con una sanzione amministrativa da 300mila a 600mila euro. Per la seconda volta la Corte era stata chiamata a giudicare il divieto di fecondazione eterologa. Nel maggio 2012 i giudici decisero di restituire gli atti ai tribunali rimettenti, per valutare la questione alla luce della sopravvenuta sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo sulla stessa tematica. Ieri la nuova decisione. In dieci anni la legge 40 è stata rivista alla luce di 20 sentenze da parte di vari tribunali. Per la senatrice Pd Anna Finocchiaro «è venuto il momento di ridare la parola al legislatore». Anche perché rispetto al testo del 2004, molto è cambiato. Vediamo cosa:
a) Limitazioni all’analisi dell’embrione: non previsto dalla legge ma inserito nelle Linee guida del ministero della Salute del 2004. Nel 2008 il Tar elimina la limitazione alla sola analisi osservazionale
b) Divieto di produzione di più di tre embrioni: è stato eliminato dalla sentenza della Corte Costituzionale nel 2009.
c) Obbligo di contemporaneo impianto di tutti gli embrioni prodotti: è stato eliminato dalla sentenza della Consulat nel 2009.
d) Limitazione della deroga al divieto di crioconservazione degli embrioni: previsto per i soli casi di «grave e documentata causa di forza maggiore relativo allo stato di salute della donna non prevedibile al momento della fecondazione è stato modificato dalla Corte costituzionale 2009 che ha chiarito che «il trasferimento degli embrioni, da realizzare non appena possibile, deve essere effettuato senza pregiudizio della salute della donna».
e) Divieto di soppressione degli embrioni: è previsto dall’articolo 14 comma 1 della legge ed è tuttora in vigore.
f) Divieto di diagnosi preimpianto per le sole coppie infertili portatrici di malattie genetiche: è da considerare non sussistente sia in relazione all’annullamento delle Linee guida ministeriali che introducevano la sola possibilità di analisi osservazionale dell’embrione (sentenza del Tar Lazio del 2008) sia in virtù della giurisprudenza consolidata (13 tra sentenze e ordinanze dei Tribunali italiani).
g) Divieto di accesso alle coppie fertili ma portatrici di patologie genetiche: è previsto dall’art. 5, che consente l’accesso alla Pma solo per i soggetti con problemi di infertilità e sterilità: questione ancora aperta, mail cui divieto è stato ritenuto illegittimo da 4 sentenze di tribunali italiani (Salerno e Roma) nonché dalla pronuncia definitiva di condanna della Corte europea per i diritti dell’uomo del 29 agosto 2012 emessa nei confronti dell'Italia. La decisione europea è stata eseguita nel 2013 dopo autorizzazione del tribunale di Roma. La questione è oggi davanti alla Corte costituzionale.
h) Divieto di utilizzo degli embrioni perla ricerca scientifica e quindi possibilità di donazione degli embrioni da parte di una coppia: è una questione in attesa di udienza davanti alla Corte costituzionale. La questione sarà affrontata anche dalla Corte europea per i diritti dell'uomo il prossimo 18 giugno.
i) Divieto di revoca del consenso alla procedura di procreazione assistita se non prima della fecondazione dell'ovulo, previsto dall'art. 6 comma3. La questione è ancora aperta ma è stata sollevata in più occasioni nei tribunali.
l) Divieto di accesso alla procreazione medicalmente assistita per single e coppie dello stesso sesso: la norma è tuttora in vigore.
m) Divieto di surrogazione di maternità è tuttora in vigore.
n) Divieto di accesso alla fecondazione in vitro nel caso uno dei componenti della coppia sia deceduto previsto dall'art. 5: ancora in vigore
o) Possibilità di donazione degli embrioni: non prevista dalla legge ma il divieto è implicito. Sono state presentate diverse proposte di legge, non ancora in discussione.
p) Procreazione assistita per la preservazione della fertilità attraverso la crioconservazione dei gameti, in caso di cure che potrebbero danneggiare la possibilità di generare un figlio: ammessa implicitamente sia per il soggetto maschile che quello femminile, ma non in virtù della legge 40 che vieta la crioconservazione dei gameti e che consente l’accesso solo a coppie conviventi o sposate.

l’Unità 10.4.14
Fuga dall’Italia
4mila coppie all’anno tentano all’estero 6mila euro la spesa


Sono almeno 4.000 le coppie italiane che decidono di andare all'estero per un trattamento di procreazione assistita: di queste, circa il50%ricorre alla fecondazione eterologa, vietata in Italia fino alla decisione della Consulta, il restante 50%invece sceglie di migrare anche se deve sottoporsi a trattamenti disponibili nel nostro Paese. Lo spiega l'Osservatorio sul turismo procreativo relativi a 39 centri esteri in 21 Paesi europei ed extraeuropei. Le mete più gettonate sono Spagna, Svizzera, Austria, Belgio, Danimarca, Grecia, Gran Bretagna, Repubblica Ceca e Ungheria. Nonostante la sua portata - rileva l'Osservatorio - il fenomeno del turismo procreativo non è oggetto di frequenti indagini istituzionali a livello nazionale o europeo. Uno studio del 2010, apparso su «Human Reproduction», stimava in un numero compreso tra 3.500 e i 4.500 gli italiani che decidono di affrontare un viaggio alla ricerca di un figlio. Da notare che fra i 6 Paesi presi in considerazione, il nostro risultava quello più colpito dal turismo procreativo: i pazienti 'transfughì italiani rappresentavano il 31,8% del totale. La Spagna rimane la meta preferita per le coppie infertili italiane: sono stati circa950 i pazienti italiani che si sono rivolti agli 8 centri che hanno risposto al questionario per trattamenti di eterologa. Madrid e Barcellona si confermano le città d'elezione per chi deve ricorrere alla donazione di gameti, in special modo quella di ovociti. La legislazione spagnola permette infatti la donazione di gameti e di embrioni. Pochi, al confronto, i trattamenti omologhi registrati dall'indagine: circa 500. I trattamenti sono molto costosi: da un minimo di cinquemila euro nei paesi dell’Est a un massimo di 6-8mila in Spagna e Svizzera.

Repubblica 10.4.14
I veri diritti di mamma e papà
di Michela Marzano



CON la decisione presa ieri dalla Consulta sulla fecondazione eterologa è caduto l’ultimo paletto imposto dalla tristemente celebre legge 40. Non si potrà più impedire la fecondazione a chi, per avere figli, ha bisogno di ricorrere a un dono di gameti (ovuli o sperma).
E NON si potranno quindi più discriminare alcune coppie sterili. Perché d’altronde focalizzarsi sui legami genetici esistenti o meno tra genitori e figli senza accettare l’evidenza del fatto che non è certo il patrimonio genetico che rende una donna “madre” o un uomo “padre”? Come diceva lo scrittore francese Marcel Pagnol, quando un bimbo nasce, pesa tre o quattro chili. Poi cresce, e mette su i “chili amore” dei propri “ parents”, termine che in francese designa i “genitori sociali”, da non confondere con la parola “ géniteurs” che indica invece i “genitori biologici”. Ancora una volta, però, l’Italia è vittima di un provincialismo culturale che impedisce a molti di capire che la genetica non potrà mai spiegare la complessità dei legami familiari, e che le questioni “eticamente sensibili” dovrebbero essere affrontate con rigore e lucidità. Ci si immagina che rendere possibile l’inseminazione eterologa significhi trasformare la maternità e la paternità in
una sorta di marketing con compravendita di gameti. Si fantastica che il dono di gameti possa introdurre in una coppia il “fantasma dell’adulterio”. Si invoca il primato dell’interesse dei bambini rispetto a quelli degli adulti, ricordando il diritto dei figli a conoscere le proprie origini. Nessuno di questi argomenti, però, è decisivo. Anzi. Basta analizzarli con serenità - guardando anche come gli altri paesi europei hanno affrontato la questione della fecondazione eterologa - per rendersi conto della loro inconsistenza.
Nel momento in cui si organizza il dono di gameti sulla base dei principi di gratuità e di anonimato, come accade ad esempio in Francia già dal 1994, vengono meno molti pericoli: non è la coppia che sceglie i donatori, ma i medici, che decidono sulla base di criteri strettamente sanitari; i donatori non vengono mai remunerati per il dono che fanno e non acquisiscono alcuna relazione giuridica parentale con i bambini; il dono è solo “dono di materiale genetico”, e non ha né “volto”, né “nome”. Per quanto riguarda poi la questione delle origini, basterebbe ricordare la sentenza del 18 novembre 2013 della Corte Costituzionale, in cui si spiega come permettere ad un figlio di conoscere le proprie ori- gini significhi permettergli di “accedere alla propria storia parentale”. Ma quando si parla di storia, non si parla certo di “codice genetico”, a meno di immaginare che il codice genetico ci racconti la storia dei nostri genitori. Quella storia che li ha portati a desiderarci o meno, a volerci crescere e darci o meno affetto, a trasmetterci o meno valori e principi.
Il caso dei bambini adottati, in questo senso, non ha niente a che vedere con quello dei bambini nati grazie ad un’inseminazione eterologa. Nell’adozione, c’è sempre la storia di un abbandono. Storia cui è sicuramente importante avere accesso, anche solo per poter fare il lutto di quest’abbandono. Ma quale abbandono ci sarebbe nel caso di chi è nato grazie ad un dono di gameti? La storia parentale, in questo caso, non è forse quella di chi, sterile, desiderava a tal punto avere un figlio che è ricorso ad un dono di gameti?
Chi si oppone con accanimento alla fecondazione eterologa forse dimentica (o fa finta di dimenticare) che non c’è bisogno di ricorrere alle tecniche procreative per trattare i figli come “oggetti” a propria disposizione. Basta desiderare un figlio per colmare un vuoto oppure perché i propri sogni e i propri desideri possano un giorno realizzarsi, per trasformare i figli in “cose”. E lo stesso vale per tante altre motivazioni che spingono ad avere un figlio, che si tratti del conformismo o del desiderio di avere una discendenza. Ma questo, appunto, vale sempre, non solo nel caso in cui si ricorra ad una fecondazione eterologa. Diventare genitori è sempre complesso: si tratta di accogliere un’altra vita riconoscendola come “altro” rispetto a sé; significa aiutare a crescere chi dipende in tutto e per tutto da noi; significa amare incondizionatamente e senza ricatti. Poco importa, poi, se ci siano stati ostacoli o incidenti di percorso o se, per far nascere un figlio, ci sia stato bisogno di ricorrere ad un dono di gameti. Chi può anche solo immaginare che avere lo stesso patrimonio genetico dei propri genitori metta al riparo dalle difficoltà della vita?

La Stampa 10.4.14
Perché serve una Corte più efficace
di Vladimiro Zagrebelsky


La Corte Costituzionale ha dichiarato illegittimo il divieto di fecondazione artificiale eterologa, stabilito dalla legge n. 40 del 2004. Quando verrà depositata la sentenza con la sua motivazione, quel divieto cesserà di martoriare le coppie che avrebbero potuto avere un figlio, se non fosse loro stato impedito da una legge, che ha imposto una ideologia illiberale anche a chi non la condivide.

Ma dopo dieci anni molte coppie hanno certo dovuto rinunciare a quello che ora sappiamo fosse un loro diritto. Un commento alla sentenza sarà naturalmente possibile solo quando essa sarà pubblicata dalla Corte; con la motivazione se ne conoscerà anche l’esatta portata rispetto alle varie forme che quella tecnica di fecondazione può assumere. E sarà anche importante conoscere gli argomenti che la Corte ha sviluppato, in particolare con riferimento al peso riconosciuto alla giurisprudenza della Corte europea dei diritti umani, cui la Corte Costituzionale aveva già prestato attenzione in una fase precedente dell’esame della questione.
Ma c’è un aspetto della vicenda che merita subito un commento. Molti si chiedono perché si è dovuto aspettare tanto? Benvenuta la decisione della Corte Costituzionale, ma quanti danni e dolori non possono ormai essere riparati! La stessa reazione, lo stesso commento ha accompagnato la recente sentenza della Corte, che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale della legge elettorale del 2005. Perché tanto tempo dopo che una legge - sùbito da tutti riconosciuta come «porcellum» - era entrata in vigore e aveva potuto produrre ben tre Parlamenti? Si sono letti commenti del tipo: adesso si sono svegliati? Domanda comprensibile, ma male indirizzata se vuol colpire la Corte Costituzionale, che invece è stata tempestiva nel decidere, pochi mesi dopo che era stata investita delle questioni. Il fatto è che in Italia il controllo della costituzionalità delle leggi è rimesso alla Corte Costituzionale solo se e quando un giudice, nel corso di una causa, si trova a dover applicare una legge che sospetta essere contraria alla Costituzione. Occorre quindi che vi sia una causa davanti a un giudice e che questi, di ufficio o su sollecitazione delle parti, sollevi l’eccezione di costituzionalità. Una legge può dunque sopravvivere e produrre effetti (e danni) per molto tempo, senza che la sua costituzionalità possa essere esaminata dalla Corte Costituzionale. La legge può trovare applicazione senza che siano iniziate cause davanti a un giudice, perché raramente se ne presenta l’occasione, o perché gli interessati vi rinunciano e cercano altre vie (all’estero, nel caso della fecondazione eterologa). Inoltre l’esistenza di una questione di costituzionalità può non essere subito percepita. La vicenda della fecondazione artificiale eterologa è un esempio, poiché poche sono state le cause davanti ai giudici e perché sono i ricorsi alla Corte europea che hanno posto in evidenza l’esistenza del problema.
Il ritardo nell’eliminazione delle leggi contrarie alla Costituzione ha dunque una spiegazione, che non consente critiche alla Corte Costituzionale, che anzi ormai da anni decide con tempestività. Ma è il sistema stesso che potrebbe essere ripensato. Nel mondo e anche in Europa vi sono molti e diversi modi per far intervenire le Corti Costituzionali. Vi è il ricorso diretto di cittadini danneggiati dalle leggi, in Germania, in Spagna, e altrove. In Francia il Consiglio costituzionale, oltre che con una procedura simile a quella italiana, può essere richiesto di pronunciarsi da una quota di parlamentari, prima ancora che una nuova legge entri in vigore.
I vari sistemi, nell’architettura dei poteri pubblici, collocano diversamente un potere rilevante, come è quello di salvaguardare la Costituzione rispetto alle leggi del Parlamento. Ma una riforma del sistema italiano richiede la modifica della Costituzione. Se essa consentisse alla Corte Costituzionale di intervenire subito, le assegnerebbe un ruolo di molto maggiore efficacia. Ma sarebbe ben vista dal Parlamento? Le leggi incostituzionali di cui parliamo sono state approvate dal Parlamento, che nella procedura di deliberazione prima di tutto ha votato proprio sulla costituzionalità del progetto di legge. E poi il Parlamento, quando nel dibattito pubblico sono state poste serie questioni di costituzionalità ha avuto la possibilità di intervenire abrogando o modificando le leggi. Ma non lo ha fatto, non ha voluto farlo, per distrazione o perché convinto di potere imporre, a colpi di maggioranza, irrazionali restrizioni alle libertà altrui. La Corte Costituzionale impersona la barriera e il limite al potere del Parlamento. Sarebbe bello ma sorprendente, se esso consentisse al suo controllore di essere più efficace.

Corriere 10.4.14
I ritardi della politica
di Luigi Ripamonti


La Corte costituzionale, dichiarando illegittimo il divieto di fecondazione eterologa, ha fatto cadere non solo uno degli ultimi limiti imposti dalla discussa legge 40 sulla procreazione assistita,ma quello con il maggior valore simbolico.
Al di là delle motivazioni della decisione, che si apprenderanno quando saranno depositate, la sensazione, da cittadini, è che sia stato preso atto che la norma, comunque la si volesse giudicare, era nei fatti discriminatoria e per di più sulla base, odiosa, del censo.
Non è necessario invocare la giurisprudenza, basta il buon senso, per giudicare non equo un divieto che poteva essere aggirabile, a condizione di potersi permettere uno o più «viaggi della speranza procreativi» all’estero. Il pronunciamento della Consulta non è però significativo solo per questo, ma anche perché segna uno scatto, e uno scarto, nei confronti dei ritardi della politica nel rispondere alle domande e alle esigenze suscitate dai mutamenti che l’evoluzione scientifica continuamente impone a livello sociale.
Si tratta, beninteso, di un ritardo in certa misura fisiologico e persino opportuno, perché è sacrosanto che i decisori pubblici abbiano il tempo di soppesare benefici e rischi delle nuove opportunità offerte dalla scienza sul tessuto sociale, sul diritto e sulla sicurezza dei cittadini. Tuttavia, quando il ritardo è eccessivo può dare adito a fenomeni che creano sconcerto, come quello rappresentato dal fatto che sempre più spesso siano organi diversi dal Parlamento, come i giudici, a farsi interpreti di richieste (non sempre legittime) di singoli cittadini su temi drammatici che attengono all’area della salute. L’auspicio, dopo la decisione della Consulta, « è che la politica prenda atto di questo iato e torni prontamente a occupare il posto e il ruolo che le spettano e che gli elettori le hanno assegnato a questo scopo». Il Parlamento viene da ieri sollecitato a prendere atto, ancora una volta, che su temi sensibili e difficili come quelli che attengono alla bioetica è necessario dotare il Paese di «binari» solidi.
Nel caso specifico si potrà obiettare che la legge 40 è stata votata da un Parlamento liberamente eletto e che il referendum per la sua abrogazione è stato altrettanto liberamente disertato dagli aventi diritto al voto. È verissimo e questo non può e non dev’essere dimenticato nelle prossime discussioni sull’argomento. Così come dovrà essere disposta senza tentennamenti la regolamentazione di tutti gli aspetti problematici (non sono pochi e sono importanti) della fecondazione eterologa, nonché affrontato con granitica fermezza un eventuale rischio di commercio dei gameti (ancora più odioso della discriminazione per censo nella possibilità di accedere all’eterologa), paventato da più d’una voce. Quello che, comunque, c’è da augurarsi è che la decisione della Consulta sia una sfida che venga raccolta dalla classe politica per coniugare maggiore consapevolezza, preparazione e prontezza di fronte alle possibilità che pone il progresso. Non per accettarle supinamente, ma nemmeno per ignorarle. Servirebbe a poco e per poco.

La Stampa 10.4.14
Legge 40
Nell’Italia che cambia lo scontro sui temi etici passa in secondo piano
Nel giro di 10 anni sparite le “crociate sui valori”
di Fabio Martini


Un riserbo più eloquente di tante parole. Il silenzio che l’Osservatore romano si è imposto sulla questione della fecondazione eterologa dà la misura di quanto sia cambiato il mondo nell’ultimo decennio sulle questioni «eticamente sensibili». Non molti anni orsono - era il 2003 - proprio la legge sanzionata ieri dalla Corte Costituzionale stazionava a Palazzo Madama in attesa di modifiche e fu in quel delicato frangente che il cardinale Joseph Ratzinger, futuro Papa, emanò una nota molto stringente. Affermando che i cattolici non avrebbero potuto più collaborare con «forze e movimenti che su questioni fondamentali abbiano espresso posizioni contrarie all’insegnamento della Chiesa» e che i politici cattolici erano tenuti a votare e legiferare secondo la più rigorosa «coerenza tra fede e vita». Una «bolla» ricca di conseguenze: la legge, governante Berlusconi, venne approvata senza la minima modifica, due anni dopo la Cei del cardinale Ruini diede un contributo determinante per far fallire il referendum abrogativo di quella stessa legge e nel 2007, sempre le gerarchie, promossero un partecipatissimo Family Day.
Cinque anni di «crociate sui valori» segnati da una buona condivisione popolare e proprio per questo lo spiazzante understatement manifestato ieri dalle gerarchie (anche la Cei ha taciuto) rilancia la più elementare delle domande: su questi argomenti quanto è cambiata in un decennio l’Italia, la società, il comune senso etico? La sentenza della Consulta ha fotografato un’Italia rapidamente cambiata? «Sì, in pochi anni è cambiato molto - dice il sociologo Domenico De Masi - anzitutto la crisi economica ha scombussolato la gerarchia dei valori e delle priorità e le questioni etiche appaiono meno urgenti di quelle legate alla sopravvivenza, al lavoro, al futuro: gli 80 euro vengono prima di ogni altra questione. E naturalmente c’è anche la novità di un Papa che ha deciso di presidiare le zone border line, la aree di confine che non vanno più lasciate ai laici».
Il milieu nel quale in Italia presero quota i temi eticamente sensibili (procreazione assistita, matrimoni gay, coppie di fatto, eutanasia) non era provinciale. Ricorda il vicepresidente dei senatori Pd Giorgio Tonini, già presidente della Fuci (Federazione universitaria cattolica italiana): «Dal 2003 Berlusconi, riprendendo la strategia già sperimentata da Bush, tentò di darsi una legittimazione etica che non fosse soltanto il principio di mercato, in questo disegno incrociando la decisione della Cei che a sua volta cercava una sponda politica dopo la fine del partito di ispirazione cristiana. Ma mentre sui suoi valori “progressisti” (la pace, la povertà) la Chiesa continuava a favorire i compromessi, sull’altro piano stabilì che i valori non erano negoziabili e ne assunse direttamente la gestione. Una asimmetria nel magistero che infatti è poi andata in crisi». Ma in quegli anni le battaglie guidate dalla Cei intercettano un certo spirito del tempo, a cominciare dalla diffidenza per le manipolazioni, e fanno proseliti: nel referendum del 2005 si sfalda il fronte progressista: mentre Romano Prodi si proclama «cattolico adulto», tra gli altri aderisce alla campagna di Ruini per l’astensione anche il giovane presidente della Provincia di Firenze Matteo Renzi. Osserva Rocco Buttiglione, in quegli anni tra i più convinti seguaci della linea Ruini: «La legge venne approvata in Parlamento, nel Paese c’era un consenso su quei valori e negli anni successivi si può anche immaginare che il mondo sia cambiato, ma la prova non c’è. Le leggi le scrive il Parlamento, non la Consulta».
Eppure, una volta ancora, il mondo ha ricominciato a cambiare sempre a partire dagli Stati Uniti: «Nel 2008 - sottolinea Tonini - Obama viene eletto col voto di molti cattolici, un evento che ha poi contribuito alla ascesa di Bergoglio, il quale a sua volta ha favorito il primato delle questioni economiche e sociali, ha relativizzato le questioni eticamente sensibili, ha riproposto l’autonomia della politica». Un trittico che ha messo la sordina ai «crociati dei valori», un declino al quale hanno contribuito tre leadership diversissime tra loro (quelle di Mario Monti, Enrico Letta, Matteo Renzi) unite da un tratto comune: la rottamazione delle ideologie.



Repubblica 10.4.14
Il ministro Lorenzin “Serve una legge per evitare il caos”
di Michele Bocci



IL COLLOQUIO. ROMA. La notizia della bocciatura del divieto alla fecondazione eterologa arriva al ministro alla Sanità Beatrice Lorenzin mentre sono in corso gli “Stati generali della salute”, maxi convegno dedicato al futuro del settore, alla ricerca, alla prevenzione e a come migliorare i servizi tenendo sotto controllo i costi. La sentenze spinge il ministro a ipotizzare un intervento più profondo: «Rivedremo tutto il settore». L’idea è di rilanciare il settore pubblico perché in certe aree del Paese strutture private e convenzionate sono quasi monopoliste, talvolta con scarsi risultati, come dimostra anche il gran numero di coppie che si spostano per fare la fecondazione.
Ministro, cosa pensa della decisione della Consulta?
«Non voglio dare un giudizio di merito, devo leggere le motivazioni. Coincidenza vuole che me l’abbiano comunicata mentre parlavamo di medicina dedicata alle donne. Comunque le sentenze si applicano. Ci tengo a dire che su questi temi bisogna essere molto equilibrati anche nel linguaggio, perché tutte le persone che fanno ricorso alla procreazione vivono grandi sofferenze».
Cosa succederà adesso?
«Ho parlato brevemente con gli uffici e ci sono varie questioni in campo. Amministrative e giuridiche. Altre invece hanno risvolti politici. Ora che la legge 40 è stata smantellata a colpi di sentenze è necessario riaffrontare il tema della pma in modo organico, con calma e serenità».
In che senso?
«Intanto adesso dobbiamo capire se toccherà al Parlamento, come credo, occuparsi di aspetti come l’eventuale anonimato di chi cede i gameti. Come ci comporteremo con i figli dell’eterologa? In certi Paesi spediscono una lettera a casa il giorno del diciottesimo compleanno per comunicare l’identità del padre, ad esempio. Poi c’è da risolvere il problema dei fratelli naturali. Ci vorrà una norma, non credo che bastino i decreti. Non siamo nel tipico caso in cui togli una legge e torna tutto come prima, perché prima non c’erano leggi».
E gli aspetti amministrativi?
«Di quelli si occuperà il ministero, faremo la nostra parte. Va affrontato per esempio il tema delle analisi, bisogna dare disposizione per assicurarle al donatore, visto che dovrà fare tutti i controlli sul suo stato di salute. Va regolata poi la questione delle banche del seme e degli ovociti e ribadita la gratuità della donazione, già prevista per sangue e organi».
Eterologa a parte, come interverrete nel settore della fecondazione assistita?
«Dobbiamo tenere conto che l’ultima decisione della Consulta riguarda una minima parte di persone. La grande maggioranza dei trattamenti di non prevede il coinvolgimento di terzi. Io voglio rendere la procreazione più efficace, sicura e trasparente di adesso. Deve essere possibile farla in centri pubblici in sicurezza, anche per le donne che affrontano le cure ormonali. Per come è organizzato adesso il sistema, ci sono aree del territorio dove il pubblico non esiste».



l’Unità 10.4.14
Barbara Pollastrini: «Ora una nuova legge, il governo la sostenga»
«Provo gratitudine per chi ha lottato e sollievo: avevamo ragione, contro una norma disumana»
«Ci sono già diverse proposte, indicazioni Ue e soprattutto l’esperienza delle coppie»
L’ex ministra promotore dei referendum: «È una priorità al pari di Jobs Act e riforma del Senato, il Parlamento ascolti quello che la società dice»
di Adriana Comaschi


«Eravamo nel giusto. Ora la politica si assuma la responsabilità di una nuova legge, essenziale, con le cautele del caso e regole ma senza divieti. Subito. I temi sensibili e i diritti civili non sono meno importanti di quelli del lavoro o della riforma del Senato, un governo che ha il cambiamento come ragione sociale non può non fare da sponda». Dopo nove anni, Barbara Pollastrini tira un sospiro di sollievo. La deputata Pd, già ministro per le Pari Opportunità con Prodi, nel 2005 con il coordinamento delle donne Ds fu tra i promotori dei quattro quesiti referendari per abolire la legge 40, in particolare proprio quelli poi abbattuti nei fatti da diverse sentenze della Consulta.
Onorevole, una sentenza storica?
«Giustizia è fatta, ecco cosa ho pensato. Mi sono emozionata io, immagino i sentimenti di tante coppie: il rimpianto per il tempo perso a causa della legge 40, la fatica dei viaggi all’estero, ora forse la speranza. Il mio primo pensiero è stato per loro, di gratitudine per coppie associazioni e avvocate che non si sono rassegnate e hanno lottato, fatto ricorso. Certo, rimane una ferita lunga dieci anni, per l’ottusità e il cinismo di un Parlamento che allora a stretta maggioranza con il nostro voto contrario ha voluto la legge 40. Oggi però provo anche sollievo: chi aveva fatto campagna per i referendum non era avventurista, avevamo ragione. Sapevamo di correre un rischio, ma ci siamo detti “meglio perdere in nome dei valori, che perdere i propri valori”. Ecco, quello è uno dei pochi errori che non può essere imputato alla sinistra».
I referendum non ottennero il quorum, affossato da una corposa campagna per l’astensione. Crede che oggi la sensibilità della maggioranza del Paese sia diversa? «Penso proprio di sì. Anche per questo, ora il Pd deve essere in prima fila per lavorare a una nuova legge, che contenga cautele essenziali - sui centri che devono applicare la fecondazione, sull’età e la salute di chi vi ricorre. Una legge che però sia ispirata a un diritto mite, senza divieti. La medicina avanza e offre nuove opportunità, non si possono tirare indietro le lancette dell’orologio».
Come arrivarci?
«Ci sono diverse proposte di legge già depositate, da colleghe Pd e non solo, dunque non si parte da zero. Si tratta di agire in tempi rapidi, non tra sei mesi, allargando il dialogo a tutte le forze politiche, cercando la massima condivisione. Abbiamo diverse bussole a cui rifarci, tra cui le norme Ue, le sentenze della Corte e dei magistrati e soprattutto l’esperienza delle coppie, che poi è quella che più conta. Ricordo poi che la fecondazione assistita anche eterologa è praticata ovunque, non è un tema sconosciuto. E che qui in Italia abbiamo bravissimi scienziati esperti in materia. C’è insomma tutta una cultura a cui fare riferimento, la politica si metta in ascolto e impari, anche dalla sofferenza delle persone: si prenda quella responsabilità che dieci anni fa non ha voluto prendersi per pochi voti in modo cinico. E lo faccia questa volta per dare una speranza». Famiglia Cristiana insorge, «una follia»...
«Il mio atteggiamento è sempre stato di ascolto, a tutti dico dialoghiamo. Ma non si può chiedere alla buona politica un passo indietro, che condannerebbe tante coppie a situazioni di grande sofferenza. La legge 40 era confusa, irrazionale, disumana nell’imporre ad esempio l’impianto di embrioni potenzialmente malati».
Dunque una nuova legge immediatamente. Cosa si aspetta dal ministro Lorenzin?
«Vedo che sollecita l’intervento del Parlamento, mi sembra che prenda atto in modo adeguato degli scenari che si sono aperti: ora esistono solo pezzettini di una ex legge sulla procreazione assistita, è urgente intervenire in modo compiuto con una nuova norma».
Dev’essere una priorità per il governo Renzi?
«C’è un vento di cambiamento che ispira riforme istituzionali costituzionali e sono d’accordo, bisogna correre dopo tanti anni di immobilismo. C’è un vento che spinge il premier e il nuovo governo a rapportarsi con l’Europa con una logica finalmente diversa sull’economia, e sono d’accordo. C’è un vento di cambiamento che si traduce nel decreto sul lavoro, lo vogliamo migliorare ma per dare lavoro. Ecco, credo allora che questo vento non possa non riguardare anche i cosiddetti temi “eticamente sensibili” come la fecondazione, il fine vita, i diritti civili delle coppie di fatto e la cittadinanza per i bambini di origine straniera che nascono nelle nostre città. C’è tempo per ogni cosa, anche per fare una buona legge sulla fecondazione. Perché storicamente i diritti avanzano se avanzano insieme, il lavoratore a cui guarda il Jobs Act è anche un cittadino che vorrebbe diventare genitore e magari non può, non possiamo occuparci prima di un tema e poi della fecondazione perché la persona è unica, nei suoi bisogni e nella sua dignità: sfuggire a questa responsabilità è un po’ come pretendere di “sezionare” un cittadino e la sua vita in fronti diversi. Non è così. È una visione antica quella che separa diritti umani, civili e sociali».
La norma insomma dovrebbe vedere la luce prima dell’estate?
«Voglio crederci, e soprattutto so che ci credono tante colleghe e colleghi. Se davvero vogliamo parlare di svolta, di liberazione da strettoie e conservatorismi questo è un tema da affrontare».

La Stampa 10.4.14
I medici pronti al cambio
“Non ci sarà un Far West però servono linee guida”
di Fla. Ama.


Nei luoghi dove da oggi si dovrebbe scatenare il Far West ieri si respirava un’atmosfera di grande prudenza. Nessuno sottovaluta l’importanza della sentenza e delle conseguenze che avrà, ma nemmeno i rischi e le difficoltà legate a un divieto cancellato da un giorno all’altro da una sentenza.
Se per Far West si intende un caso alla Elton John che è riuscito ad avere un figlio con il suo compagno con la fecondazione artificiale, bisogna sapere che in Italia è impossibile, sottolinea Antonio Colicchia che dirige il Servizio di Fisiopatologia della Riproduzione del Centro Pubblico S.Anna di Roma.
Quella che si apre ora è una situazione fluida ma non selvaggia, spiega. «La sentenza fa tornare alla situazione che esisteva prima del 2004 ma con una differenza, mancano linee guida ministeriali che permettano ad ogni centro di darsi dei codici e di sapere entro quali limiti operare».
In teoria dal momento della pubblicazione in Gazzetta Ufficiale della sentenza una donna piuttosto avanti con gli anni basta che sia in età «potenzialmente fertile» come prescrive la parte ancora valida della legge 40. «Prima della legge, invece, avevamo limiti molto precisi in questo senso».
Secondo Andrea Borini, presidente della Società Italiana di Fertilità e Sterilità e medicina della Riproduzione, le direttive ministeriali esistono già, sono due «una del ministro Bindi che vieta di retribuire i donatori e una precedente che vieta la fecondazione eterologa ai centri pubblici. I centri privati potrebbero iniziare già da subito, rispettando alcuni tempi tecnici, e non vedo perché non dovrebbero farlo. Prima della legge 40 venivano da tutt’Europa a fare l’eterologa da noi».
Da definire anche se la donazione sarà gratuita come avviene in Francia o dietro rimborso come avviene in Spagna. Altro nodo da sciogliere, le patologie. «Serve un consenso informato ben strutturato, che metta al riparo ad esempio da eventuali patologie derivanti dal gamete donato».
E in assenza di linee guida sarà il Far West come temono le associazioni cattoliche? «Il Far West non è mai esistito, nemmeno prima della legge 40 - assicura Colicchia -. Senza indirizzi dall’alto si agisce secondo scienza e conoscenza e, di sicuro, con grande cautela, ci sono molte implicazione mediche e legali di cui si teneva conto prima della legge 40 e di cui si continuerà a tenere conto anche ora che la Corte Costituzionale ha cancellato il divieto di eterologa».
Altro nodo da sciogliere secondo i medici, le banche del seme. Secondo Andrea Borini prima della legge 40 «le donne potevano donare gli ovociti che non utilizzavano per la Pma. Anche ora si potrebbe tornare a questo genere di utilizzo. Per il seme esistevano le banche del seme e ora vanno ricreate». In questi anni le coppie che si sono recate all’estero per l’eterologa «andavano completamente allo sbaraglio perché i medici italiani non potevano dare indicazioni sui centri più affidabili. Era quello il vero Far West. Ora spetta alla politica prenderne atto e ricordarsi che l’Europa non vuol dire solo moneta unica ma anche diritti condivisi. In altri Stati l’eterologa è ammessa e ben regolamentata».

Corriere 10.4.14
Stefano Canestrari, ordinario di diritto penale a Bologna
«Nessun rischio se non coincidono i genitori sociali e quelli biologici»
intervista di M. D. B.


Professore Stefano Canestrari è ordinario di diritto penale a Bologna ROMA — «Per vietare in modo così perentorio e assoluto ci vuole un danno. E in questo caso il danno che deriverebbe dall’eterologa e che ne ha determinato il divieto nella legge è soltanto ipotizzato», afferma Stefano Canestrari, ordinario di diritto penale a Bologna e membro del Comitato nazionale di bioetica.
Dunque condivide la decisione della Consulta?
«Certamente sì. Il divieto dell’eterologa non era posto a salvaguardia di un interesse di rilievo costituzionale. Difendeva invece i bambini nati con questa tecnica da un presunto pericolo di uno sviluppo psicofisico diverso da quello degli altri bambini».
E non è dimostrato il danno?
«Non c’è la verifica scientifica che la frattura tra genitorialità sociale e quella biologica provochi dei problemi al nascituro. Il divieto difendeva solo la naturalità della procreazione».
E adesso?
«L’eterologa andrebbe regolamentata. Bisogna chiedersi se il nato ha il diritto di sapere la verità e di conoscere le sue origini. Io ritengo che in alcuni casi debba poterlo fare».

l’Unità 10.4.14
I cattolici insorgono
Famiglia Cristiana: è una follia italiana


«Fecondazione selvaggia per tutti» è il commento di Famiglia Cristiana che, dopo la sentenza della Corte Costituzionale, ha aperto così il suo sito. Sulla homepage del settimanale Paolini si parla di «ultima follia italiana». «È una sentenza choc ma non giunge inaspettata», scrive Famiglia Cristiana che sottolinea: «Ora si rischia il vuoto normativo e il Far west su una materia delicatissima». Vuoto normativo che in realtà non ci sarà visto che resta in vigore la legislazione precedente alla legge del 2004.macontro la decisione della consulta è un coro. Per Eugenia Roccella, di Ncd, «si apre una deriva molto pericolosa: cade il diritto di ogni nato a crescere con i genitori naturali», mentre secondo Paola Binetti, dell'Udc, si consuma una «grave attacco alla famiglia». Il ministro della Salute, Beatrice Lorenzin è rimasta più cauta: «La legge è stata svuotata, serve un intervento del Parlamento. In Italia non siamo ancora a attrezzati dal punto di vista normativo», aggiunge. Collerico, invece, Giovanardi: «Come per la legge sulla droga ancora una volta viene cancellata una decisione del Parlamento, con l'aggravante che in questo caso era stata avallata da un referendum popolare, cioè dal popolo italiano».

il Fatto 10.4.14
Riecco i “Supercattolici”, ma la bioetica non tira più
“Interverremo”. Esecutivo e Pd promettono nuovi ddl, ma la maggioranza si fonda sull’esclusione dei temi etici dall’agenda di governo
di Marco Palombi


La sentenza della Consulta che ha bocciato – per la ventesima volta o giù di lì – la legge 40 sulla fecondazione assistita ha avuto l’effetto di una macchina del tempo. Sul rullo delle agenzie di stampa in cui scorrono ogni secondo notizie e dichiarazioni sembrava di essere tornati al 2003 o 2004, quando ogni vagito su embrioni e dintorni scatenava un flusso di “lanci” che nemmeno la guerra in Iraq. Anche i protagonisti sono gli stessi, solo un po’ invecchiati, polverosi come il teatrino che tentano di rianimare senza capire che il pubblico ha già lasciato la sala da un pezzo: eccoli i Sacconi, i Giovanardi, le Binetti, le Roccella e i loro amici delle associazioni cattoliche. Persino Girolamo Sirchia, che pare fosse ministro della Salute all’epoca della legge 40, viene riesumato dall’oblio. I termini sono quelli, indigeribili, di allora, gli schieramenti pure: il Pd è abbastanza diviso, Forza Italia uguale, ma l’impressione è che stavolta importi poco a tutti.
“L’ULTIMA FOLLIA italiana”, strilla Famiglia Cristiana sul suo sito; “sentenza choc”, “Far West”, “babele procreati-va”, elenca il più moderato Avvenire. Gli emuli parlamentari non sono da meno. L’allora ministro Maurizio Sacconi (Ncd), ex socialista riscopertosi cristiano nella maturità: “Non è difficile immaginare che i costituenti si stiano rivoltando nelle loro tombe”. Colpa della Consulta che ormai ha perso “credibilità e autorevolezza” e pure dell’Avvocatura dello Stato, che ha sì difeso la legge 40 ma “relativizzandone i principi sulla base di un malinteso scientismo”. Pure Eugenia Roccella (Fi), già radicale, poi supercredente e sottosegretario con delega alla bioetica, torna sulla scena: “La legge 40 aveva dato buoni risultati, ora iniziano le pressioni per introdurre anche nel nostro Paese la compravendita dei gameti e l’utero in affitto”. Carlo Giovanardi (Ncd), che non ha bisogno di presentazioni, partecipa da par suo: “Ancora una volta le idee e gli orientamenti ideologici di 15 signori valgono più del Parlamento. A questo punto, oltre che il Senato, mi viene da dire: aboliamo anche la Camera, non è più chiaro cosa ci stia a fare”. Sobria, come suo solito, Paola Binetti (Udc), medico cattolico spedito dall’ex capo della Cei, Camillo Ruini, dietro le file nemiche della sinistra piddina: “È un attacco alla famiglia: la Corte ignora i diritti del concepito, pure citati nell’articolo 1 della legge”.
Citazione a parte merita Fabio Rampelli (FdI), secondo cui “Ormai la Corte costituzionale rappresenta un vulnus per la democrazia”. Nota bene: non la sentenza, che già sarebbe abbastanza, ma proprio la Corte in sé. Non si fa mancare, il nostro, nemmeno la “giustizia a orologeria” e la possibilità che “questa sentenza apre orizzonti imprevedibili, finanche la possibilità delle coppie omosessuali di prestare il proprio seme per avere un figlio a tutti i costi”. Aulico, e non sorprende, l’autonomista berlusconiano Vincenzo D’Anna , senatore di professione biologo: “Una vittoria della scienza più che della legge e del buon senso”, che “assoggetta il nascituro a una condizione di diversità biologica”.
IL MINISTRO della Salute, Beatrice Lorenzin (Ncd), che bontà sua sarebbe una liberal, parla di “legge svuotata, che richiede un intervento parlamentare”, subito appoggiata da un bel pezzo di parlamentari Pd a partire da Anna Finocchiaro. Cosa bisognerà scrivere in questa nuova legge nessuno ancora lo dice, ma non è un caso: non solo, infatti, il patto di maggioranza si regge sull’esclusione di diritti civili e temi bioetici per evitare problemi con Angelino Alfano e i suoi accoliti, ma le priorità di opinione pubblica e media sono anni luce lontane. A mettere al passo la legislazione, per quanto si può, ci pensa la Corte costituzionale, la politica guarda. E parla.
La domanda è: ma allora da domani si può andare in clinica e chiedere di avere un figlio con l’ovulo o il seme di un donatore? Risposta secca: no, non si può.
Perché la decisione della Consulta fa decadere un divieto, ma non avvia automaticamente il recupero di tecniche rimaste nel cassetto per dieci anni. Anzi, è già partita la varietà interpretativa che ogni colpo alla legge 40 puntualmente genera, con l’aggiunta di una dichiarazione ministeriale mica male: “Servirà il Parlamento per questa materia così complessa” ha detto a caldo Beatrice Lorenzin.
ATTENDERE PREGO
Carlo Flamigni, ginecologo esperto della riproduzione assistita, si mette la mani nei capelli: “Per carità, se saranno i parlamentari a dover prendere una decisione torneremo subito indietro. Prima litigando nelle aule per mesi e mesi, poi finirà come al solito con cilicio&martello”. Ovvero: la politica tende a privilegiare i temi cari alla morale cattolica, difficile rendere obbligatorio per legge un iter che potrebbe invece sbocciare con un approccio normativo molto soft. “Se il Comitato Nazionale di Bioetica o l’Istituto Superiore di Sanità fossero incaricati dal ministero di individuare alcune semplici linee guida, si potrebbe partire con l’eterologa in poche settimane, qualche mese al massimo - è convinto Flamigni -. Certo bisogna decidere i parametri minimi: che età massima deve avere la donatrice? E il donatore? Rimarrà segreta l’identità del donante o potrà scegliere se essere rintracciabile? Deciso ciò, i centri privati e pubblici potranno offrire il servizio ai cittadini, evitando costosi e snervanti viaggi all’estero”.

Corriere 10.4.14
Francesco D’Agostino presidente emerito del comitato di bioetica
«Una sconfitta che riguarda tutti Non rispettati i criteri dell’etica»
intervista di M. D. B


ROMA — Professor Francesco D’Agostino per lei la sentenza sull’eterologa è una sconfitta?
«Non solo per me. Lo è per la bioetica. È sempre più chiaro che le leggi le fanno i giudici. Questi temi, anziché essere sottratti a scontri ideologici, sono trattati come mere questioni politiche», risponde il presidente emerito del Comitato di bioetica.
Gran parte della comunità scientifica era contrario alla legge o no?
«Loro pensano all’ottimizzazione delle pratiche senza valutare il rispetto dei criteri etici».
L’eterologa vietata introduceva una discriminazione?
«Ma quale discriminazione. Davanti a tutto ci sono i bambini. I figli dell’eterologa hanno un genitore biologico con cui non avranno mai contatti e due genitori sociali. La fecondazione omologa non pone problemi etici. Inoltre la sentenza ha generato un paradosso».
Quale?
«È caduto il divieto dell’eterologa ma non la norma che proibisce il commercio di gameti. Siamo seri. Davvero pensiamo che i donatori non prendono soldi? I centri usano la formula del rimborso spese. Però sappiamo che la gratuità non esiste».

La Stampa 10.4.14
La dura reazione di Ruini: “Sono vicino a chi soffre ma un figlio non è un diritto”
intervista di Andrea Tornielli


«Non può esistere un “diritto al figlio”, perché il figlio è una persona». Il cardinale Camillo Ruini, 83 anni, già vicario di Roma e presidente della Conferenza episcopale italiana ha appena appreso la notizia della sentenza della Corte Costituzionale che ha dichiarato l’illegittimità della legge 40 nella parte in cui vieta il ricorso a un donatore esterno di ovuli o spermatozoi nei casi di infertilità assoluta. E di fronte all’ennesima decisione della Corte sulla normativa manifesta a «La Stampa» tutta la sua perplessità e il suo dissenso.
Dieci anni fa il porporato, protagonista indiscusso della Cei e dei suoi rapporti con la politica, era stato uno dei principali fautori di una legge che pur non essendo in linea con la dottrina morale cattolica (secondo la quale non è lecita nemmeno la fecondazione in vitro omologa) era apparsa agli occhi della Chiesa come un buon compromesso. Ruini, nel 2005, aveva invitato i cattolici all’astensione dalle urne in occasione del referendum popolare che proponeva di cambiarla, registrando uno dei dati più bassi di affluenza nella storia repubblicana, 25,9 per cento.
«È presto per parlare di una sentenza appena uscita, di cui non si conoscono ancora le motivazioni - commenta ora Ruini - tuttavia una cosa sembra chiara: la Corte Costituzionale ha dichiarato illegittimo il divieto alla fecondazione eterologa e su questo non posso non esprimere la mia profonda perplessità, diciamo pure il mio dissenso. Per un motivo di fondo: una sentenza di questo genere - spiega il cardinale - implica infatti un “diritto al figlio”, ma un tale diritto non può esistere, perché il figlio è una persona e come tale non è disponibile».
Ruini vuole esprimere vicinanza alle coppie che cercano di avere un bambino. «Esprimo tutta la mia comprensione - dice - per coloro che soffrono per la mancanza di un figlio, per coloro che si sforzano di averlo, come pure per coloro che cercano di aiutarli in questo. Però per il bene non solo loro, ma di tutti, bisogna ricordare che non esiste un diritto al figlio. Anche nel loro giusto desiderio di essere genitori le persone vanno aiutate a non dimenticare che il figlio rimane sempre una persona, da accogliere in dono».
Il porporato, che Giovanni Paolo II volle ai vertici dell’episcopato italiano per oltre tre lustri, parla anche dell’importanza per chi viene al mondo di sapere di chi è figlio: «Un altro motivo del mio essere contrario a questa sentenza - aggiunge Ruini - è il fatto che i bambini e i ragazzi che nascono hanno il diritto di poter conoscere le proprie origini biologiche, cioè di chi sono figli. Ma con la fecondazione eterologa, questo diventa impossibile».
«Infine vorrei ricordare - conclude il porporato - che con questa decisione si apre alla commercializzazione - non alla donazione - dei gameti maschili e femminili, come pure alla commercializzazione dell’utero delle gestanti. Ed è un’altra delle ragioni che motivano la mia profonda perplessità e il mio dissenso».

La Stampa 10.4.14
Eterologa
di Jena

La Chiesa dovrebbe gioire d’ora in poi anche il Papa potrebbe fare un figlio.

La Stampa 10.4.14
Una mutazione sociale in tre mosse
di Mariella Gramaglia


In una luminosa giornata di primavera i piedi nel mondo si mettono più volentieri. Ieri nove aprile, poi, è davvero cambiato un po’ il verso nel nostro Paese. Con il concorso di tanti soggetti autonomi gli uni dagli altri e la compresenza casuale di più eventi, è successo in poche ore l’abbozzo di una mutazione sociale. Bella, a giudizio di chi scrive. E universale (anche se a un primo sguardo riguarda di più le donne) perché al fondo ci rende tutti un po’ più liberi e un po’ più primaverili. Meno parrucconi.
I fatti. Mettiamoli in fila.
Primo. Renzi ha scelto cinque giovani donne come capilista nei cinque grandi collegi dove si corre pe le europee: Simona Bonafé, Alessandra Moretti, Alessia Mosca, Pina Picierno, Caterina Chinnici. Competenti? Preparate? Si metteranno alla prova. Certo non sono notabili che vanno a completare a Bruxelles il loro cursus honorum. Anche noi cominciamo a diventare previdenti e a usare l’Europa anche come un’alta scuola per giovani politici, non come un riserva indiana di ex.
Secondo. Alla Camera è passata a larga maggioranza una legge che ha lo scopo di riequilibrare la rappresentanza dei due sessi al Parlamento europeo. Cosa si è deciso? Che l’elettore ha a disposizione tre preferenze: se non ne adopera almeno una per eleggere una donna (o, chissà, domani un uomo, se fosse lui a trovarsi in minoranza nell’assemblea elettiva) la sua terza preferenza viene invalidata. Dal 2019 poi il gioco si fa più duro, o se vogliamo, più netto. Democrazia paritaria in piena regola: due sole preferenze, una per un uomo e l’altra per una donna, pena l’invalidità della seconda.
Terzo. E’ stata emessa la sentenza della Corte costituzionale sulla legge 40 relativa alla fecondazione assistita. La Corte ha abolito il divieto di ricorrere alla fecondazione eterologa. La legge 40 è ormai come una tenda strappata ancora appesa a qualche gancio. Già nel 2009 la Corte si era pronunciata contro altri aspetti controversi della legge: per esempio il limite di produzione di tre embrioni e l’impianto contemporaneo nell’utero materno. Nel 2012 la Corte europea dei diritti dell’uomo ha bocciato il divieto imposto a una coppia fertile di far ricorso all’indagine pre-impianto.
Restano ancora altri vincoli assai prescrittivi: possono ricorrere alla fecondazione assistita solo le coppie sposate o formalmente conviventi. E non dello stesso sesso. Se dunque Mariano Rajoy lo concede, non finirà ancora il cosiddetto turismo della fecondazione della cui pubblicità la rete abbonda. Prima visita su Skype: soggiorno su un’altura boscosa da cui rapidamente si possono raggiungere Madrid e Toledo e buone speranze di farcela. Auguriamoci che presto le giovani coppie italiane vadano a visitare la Spagna senza troppi altri fardelli nel trolley.
Sarà necessario che il Parlamento italiano torni a legiferare su una legge ormai sbrindellata? Vedremo. Ma per fortuna non siamo più nel clima di guerra di religione del 2004-2005, sotto l’assalto degli atei devoti.
Per una volta godiamoci l’Europa. Il picconamento della legge 40, costante e determinato, viene proprio dagli organismi europei: una comunità di valori comuni e non solo un luogo di vincoli economici e di tirate d’orecchie ai discoli della classe.

il Fatto 10.4.14
Grosseto, il giudice convalida le nozze gay:
“Nel codice non ci sono indicazioni sul sesso”
di Alessio Schiesari


Per la prima volta un matrimonio gay celebrato all’estero è stato riconosciuto valido anche in Italia. I primi sposi (quasi sposi in realtà, la decisione può ancora essere impugnata in Corte d’Appello) sono Giuseppe Chigiotti e Stefano Bucci, entrambi di Grosseto. Non si tratta di una coppia di giovani attivisti Lgbt, ma di un giornalista e di un professore universitario (uno del ‘46, l’altro del ‘57). Nel dicembre 2012 si erano recati in viaggio a New York dove si sono sposati, “un po’ perché stanno vivono da tantissimo tempo e volevano formalizzare la loro relazione – benché in un tribunale straniero –, un po’ perché volevano provare la via del riconoscimento presso in Italia”, spiega il loro legale, Claudio Boccini.  Com ’ era prevedibile però l’ufficiale di stato civile del Comune si era rifiutato di trascrivere nei registri l’atto di matrimonio, sostenendo che “la normativa italiana non consentisse il matrimonio tra persone dello stesso sesso”. A sorpresa ieri è arrivata la notizia che – il 3 aprile scorso – il giudice ha dato ragione alla coppia e ha accolto il loro ricorso. Secondo il tribunale il nostro ordinamento non impedisce di recepire un atto di matrimonio celebrato all’estero, anche se contratto da una coppia gay. Questo non significa che alla coppia verranno riconosciuti tutti i diritti come se si trattasse di due eterosessuali ma, almeno, risulteranno formalmente coniugati anche per lo Stato Italiano. “Per noi è un passo storico. È il primo passo concreto per il riconoscimento del matrimonio gay in Italia”, ha spiegato Aurelio Mancuso, il presidente di Equality. Meno ottimista Chigiotti, uno dei due sposi: “In Italia una legge del genere non ci sarà mai. Ci sono parlamentari sposati all’estero che lo nascondono. Che fiducia possiamo avere?”. In passato. altre decine di coppie gay e lesbiche avevano tentato la stessa strada, ma la risposta era sempre stata respinta o rinviata alla Corte Costituzionale. La Consulta già quattro anni aveva invitato il Parlamento italiano a legiferare sulla materia.

Corriere 10.4.14
Il Papa riceve Frei Betto
Per Giordano Bruno forse una riabilitazione
di Gian Guido Vecchi


Intorno a San Pietro passa inosservato, quell’uomo dai capelli grigi in giubbotto di pelle non fa pensare a un frate predicatore né si direbbe abbia quasi settant’anni. Frei Betto, celebre teologo della liberazione brasiliano che nel 1969 patì le torture del regime militare, ha appena parlato con papa Francesco, qualche minuto al termine dell’udienza del mercoledì, tra i fedeli ammessi al cosiddetto «baciamano». Racconta: «Sono un domenicano e gli ho detto: Santo Padre, le chiedo e pongo nelle sue mani la riabilitazione di Giordano Bruno e Meister Eckhart, due domenicani come me...». E Francesco che cosa le ha risposto? «Mi ha sorriso e ha detto: “Prega per questo!”». Bruno, il filosofo degli «infiniti mondi», venne condannato come eretico e, «spogliato nudo e legato a un palo», arso vivo in Campo de’ Fiori, a Roma, la mattina del 17 febbraio 1600. Nel 1998 il cardinale Carlo Maria Martini, durante la «Cattedra dei non credenti» su scienza e fede, invitò a riconsiderarne la figura: «Potrebbe essere oggetto di uno di quei ripensamenti critici che la Chiesa intende fare per la fine di questo millennio». Di rado si parla invece della riabilitazione di Meister Eckhart, grande filosofo e mistico che ha avuto un’influenza enorme nel pensiero tedesco, da Hegel a Schopenhauer, e fu condannato da una bolla papale nel 1329, un anno dopo la morte. Frei Betto allarga le braccia: «Giovanni Paolo II chiese perdono per Galileo, la Chiesa può farlo anche con loro, del resto ogni teologo e pensatore va compreso e considerato nel suo contesto storico, distinto dal nostro...». È la seconda volta che Francesco incontra un teologo della liberazione. Resta memorabile la messa che il Pontefice ha celebrato l’11 settembre 2013 con Gustavo Gutiérrez, padre della Teología de la liberación, accompagnato dall’amico Gerhard Müller, il cardinale prefetto dell’ex Sant’Uffizio. «L’atteggiamento della Chiesa nei nostri confronti è molto cambiato. Avevo visto il Papa l’anno scorso, durante la Giornata mondiale della gioventù a Rio de Janeiro, ma non avevo avuto occasione di parlargli. Così ora ho ringraziato Francesco della lettera che ha mandato al tredicesimo incontro delle comunità di base, a gennaio in Brasile. È la prima volta di un Papa. E gli ho spiegato che non ci definiamo un movimento, come ha scritto: per noi le comunità sono la presenza della Chiesa alla base e la base della Chiesa», prosegue Frei Betto. «Gli ho chiesto anche che, come padre amorevole, abbia sempre un dialogo con quella figlia amorosa che è la teologia della liberazione, una figlia fedele che vuole bene alla Chiesa». E le deviazioni marxiste? Lui, amico di Fidel Castro, scuote la testa: «Sciocchezze. A parte che non esiste una teologia chimicamente pura, il problema è che c’era un contesto di rivoluzioni popolari, come in Nicaragua o in Salvador, ma la teologia della liberazione non è mai stata manipolata né ha mai provocato uno scisma. Tutti gli scismi nella Chiesa sono arrivati da destra, pensi a Lefebvre...». L’ultimo suo libro in italiano è il romanzo Quell’uomo chiamato Gesù (edizioni Emi, pagine 414, e 16) . Come Gutiérrez, Frei Betto cita una battuta dell’arcivescovo brasiliano Hélder Câmara: «Se do un pane a una persona affamata, la gente dice che sono un santo. Se chiedo perché questa persona ha fame, mi dicono che sono un comunista». Alla fine, conclude il teologo brasiliano, «ho salutato Francesco dicendo: extra pauperes nulla salus!, non c’è salvezza lontano dai poveri... E lui ha annuito: “Sono d’accordo”».

Repubblica 10.4.14
Il Papa tentato dal teologo ribelle “Riabilitare Giordano Bruno”
L’incontro col domenicano Frei Betto “Gli ho chiesto del frate finito al rogo e lui mi ha risposto: pregherò per lui”
di Paolo Rodari



CITTÀ DEL VATICANO. Frei Betto, religioso brasiliano domenicano, fra i teologi della liberazione più famosi al mondo, autore di un celebre libro intervista con Fidel Castro di cui è amico, già assessore del programma Fome Zero (Fame Zero) del primo Governo Lula (autore di “Quell’uomo chiamato Gesù” Emi), è stato ricevuto ieri da Papa Francesco a casa Santa Marta.
Di cosa avete parlato?
«Da teologo domenicano gli ho chiesto di riabilitare ufficialmente Giordano Bruno, condannato al rogo dall’Inquisizione cattolica, e Meister Eckhart, contemporaneo di Dante, condannato anch’egli dalla Chiesa per eresia. La Chiesa può finalmente ridare loro la dignità perduta, può riabilitarli. E fare giustizia. Ho chiesto questo a papa Francesco perché ritengo che il tempo sia finalmente propizio in questo senso. Sono convinto infatti che, come Tommaso d’Aquino, i loro scritti superino i secoli e siano un contributo fondamentale alla teologia mistica. Giordano Bruno aveva una visione panteistica del mondo, era un umanista importante ma i suoi scritti sono un contributo da valorizzare. La Chiesa era spaventata da lui e non viceversa. Fu un martire e occorre riconoscerlo».
Papa Francesco cosa le ha risposto?
«Che ci pregherà. E ha chiesto anche a noi di pregarci sopra. E così faremo, sperando che una riabilitazione arrivipresto. Sono contentissimo di non aver ricevuto una risposta negativa. È davvero un Papa capace di ascoltare le istanze di tutti, senza chiusure né pregiudizi. Per questo non posso che ringraziarlo».
Ha parlato col Papa della teologia della liberazione?
«Certo, prima però gli ho detto che ho letto la sua lettera recentemente inviata alle comunità di base. Il Papa diceva che le comunità di base, a lungo bistrattate dalle gerarchie, sono un movimento nella Chiesa cattolica. Io gli ho detto che non sono un movimento, ma sono la Chiesa, un modo d’essere all’interno della stessa Chiesa, una realtà radicata internamente e non a essa esterna, non un corpo estraneo. E che loro per prime non desiderano essere considerate un movimento estraneo. Quanto alla teologia della liberazione, gli ho detto che il Papa deve essere per tutta questa teologia un padre amoroso, come di fatto egli già è. Noi teologi della liberazione siamo figli della Chiesa. Per troppo tempo ci hanno considerato corpi estranei. Invece siamo parte della Chiesa».
Jorge Mario Bergoglio a Buenos Aires era sempre dalla parte dei poveri e degli ultimi. Avete parlato del suo passato, del tempo trascorso a Buenos Aires da arcivescovo?
«Certamente. Francesco ha a cuore i poveri da sempre. Gli ho citato una frase in latino: “Extra pauperum nulla salus (senza poveri non c’è salvezza)”. E lui mi ha detto di essere del tutto d’accordo, annuendo soddisfatto. Sono i poveri e gli ultimi la forza della Chiesa, la luce del mondo. Insieme abbiamo parlato delle sofferenze degli indigeni, delle popolazioni locali. Francesco ritiene che in America Latina gli indigeni siano sfruttati e non amati. Egli soffre per e con loro. Il Papa ha detto di volere una Chiesa dei poveri e per i poveri. E per lui queste non sono parole ma vita vissuta».

il Fatto 10.4.14
Renzi, la mossa rosa: 5 donne capolista per coprire il vecchio
di Wanda Marra


Mi è cambiata totalmente la vita. Fino a che facevo il sindaco ero un uomo libero, bicicletta, in giro per Firenze”. E poi, “sono anche ingrassato tre chili”. Così diceva Matteo Renzi una settimana fa da Lilli Gruber su La7. Poi, lunedì, a un certo punto i cronisti lo vedono uscire da Palazzo Chigi, in maniche di camicia. “Non ne posso più di stare chiuso lì dentro”. Turbo Renzi non scherza, non esagera, non la butta lì a uso puramente mediatico. Anche se c’è da scommettere che il giovane premier, pieno di energie, il ragazzo normale, abituato a vedere la partita con lo staff con la pizza take away, costretto a vivere nei polverosi appartamenti presidenziali, diventerà presto un tormentone, una leggenda.
MATTEO ha scelto di vivere a Palazzo Chigi, nell’appartamento del presidente, per una questione di praticità. Non è certo il tipo che organizza serate mondane, e per lui la casa è sempre stata soprattutto un posto dove fermarsi e dormire. Un giaciglio. Ma adesso si sente un recluso. Una camera, una cucina, un salotto, un salottino e tanti corridoi al terzo piano, più lo studio al primo sono diventati spesso l’orizzonte delle sue giornate. All’inizio, si perdeva quasi cercando gli studi degli altri. Appena è arrivato ha provato a insistere con la scorta: “Io la mattina vado a correre”. Gli è stato gentilmente risposto che no, non si poteva fare. A meno che la scorta non andasse con lui. “Ve lo immaginate Matteo che va a correre con la scorta?”, commenta chi lo conosce bene. E dunque, non se n’è fatto niente. Gli hanno attrezzato una cyclette e stanno cercando una palestra in cui possa correre al chiuso. Un paio di volte però ce l’ha fatta a fuggire e andare a giocare a calcio. Come a Firenze, quando costringeva amici e collaboratori alle partitine tra le 13 e le 15, magari con 40 gradi. Con Luca Lotti (ora sottosegretario all’Editoria) e l’ex portavoce-amico, Marco Agnoletti sempre rigorosamente nella squadra avversaria, per poterlo picchiare indisturbati. Lo sport, per Matteo, è anche funzionale. Sta sempre a dieta, anche se alterna fasi di alimentazione salutista (pasta al pomodoro, roast beef, prosciutto) e “schifezze vere” (“Stamattina ho mangiato due bomboloni, che volete che siano?”). Adesso a Palazzo Chigi c’è una persona che si occupa di casa e cucina. Capita spesso che con lui mangino anche Graziano Delrio e Lotti, magari durante qualche riunione. La pizza, per lui un “must” da sempre, è diventata un lusso sporadico. Riservato magari a quando qualcuno dei collaboratori, Lotti in primis, si ferma per vedere la partita.
Perché Matteo passa tanto tempo da solo. E se non ha riunioni ufficiali gira scalzo per Palazzo Chigi, con i jeans, il maglione e qualche maglietta improbabile. I collaboratori, quelli con cui ha i rapporti più confidenziali, li accoglie così. Sveglia, prestissimo, alle 6 e, come al solito, compulsa iPhone e iPad. Manda messaggi, legge i giornali, si intrattiene su Twitter. Ogni tanto, come ieri, risponde ai cittadini normali che gli scrivono. Un modo per uscire, per fuggire anche quello. Lunedì alla Feltrinelli non ha comprato solo i libri dei “professoroni” che lo criticano per la riforma del Senato o il saggio di Giulio Tremonti, ma pure House of cards di Michael Dobbs. Il quale non per niente ha twittato (in inglese): “Mi auguro che lo usi come intrattenimento, non per avere delle istruzioni”. La realtà è che Renzi aveva letto delle recensioni, si era incuriosito. C’è da giurare che ieri sera uno sguardo alla prima puntata della serie su Sky lo abbia dato (non poteva sottrarsi, piace a Barack Obama). A fare il recluso del tutto non ce la fa: e continua a organizzare bagni di folla in giro per l’Italia, oltre a intrattenere rapporti via sms con il mondo intero. Appena può, scappa a Pontassieve. Meglio se in treno. E nelle rare domeniche romane va a Messa la mattina alle 8 in via del Corso. Martedì per il Consiglio dei ministri ha scelto di togliere le transenne dalla piazza di fronte a Palazzo Chigi. Se lui non può scendere tra la folla, almeno la folla può andare sotto le sue finestre.

Repubblica 10.4.14
Finocchiaro: è un segnale positivo ma cancelliamo il voto della Camera
“Ora la parità di genere anche nell’Italicum”
di G. C.


ROMA. «Un buon segnale ma ora si metta la parità nell’Italicum». Anna Finocchiaro, la presidente della commissione Affari costituzionali del Senato, non molla. Si complimenta con Renzi per le cinque capolista donne alle europee, ma chiede il cambiamento della nuova legge elettorale.
Cinque capilista donne nelle cinque circoscrizioni delle europee. Renzi fa pace con l’altra metà del cielo dopo la bocciatura della parità nell’Italicum?
«Correggerei: sono state scelte cinque dirigenti politiche donne. Alcune hanno una specifica esperienza parlamentare e competenza politica in materia europea come Alessia Mosca, capogruppo alla Camera della commissione per le politiche europee. Bene inoltre che ci sia in lista nelle Isole Giusi Nicolini, sindaco di Lampedusa, è una esperta in questioni centrali per l’Europa come l’immigrazione e l’accoglienza... Insomma, sono state indicate donne che non sono lì solo perché donne, bensì perché hanno una forza politica e istituzionale».
E tanto basta a sanare lo sfregio dei cento “franchi tiratori” alla Camera che nella nuova legge elettorale non hanno voluto né la parità nelle liste né la non discriminazione?
«Lo sfregio è stato ammortizzato, recuperato con il voto sulla parità di opportunità nelle liste alle elezioni europee che è passato al Senato e ora in via definitiva alla Camera. Possiamo dire che il vagone è stato rimesso sui binari da ora in poi e verso l’Italicum. Il registro su cui bisognerà muoversi è quello della parità di genere nella rappresentanza politica».
L’Italicum quindi va cambiato in Senato anche sulla questione parità?
«Certamente. Su questo non c’è ombra di dubbio».
In quale modo?
«Dipende dal meccanismo di voto che si sceglie: o la doppia di preferenza di genere, oppure il sistema delle liste 50 e 50 più i capilista metà uomini e metà donne. Gli strumenti per agevolare la parità della rappresentanza esistono, li conosciamo tutti e siamo in grado di usarli perfettamente ».
Non crede che così possa saltare il patto per le riforme tra Renzi e Berlusconi?
«Mi auguro di no. La parità è una questione generale, non appartiene a un solo partito».
Per le europee però è stata rinviata al 2019.
«È vero ma è stato fatto un passo in avanti, altrimenti saremmo andati a votare senza nessuna norma, nè per l’oggi né per il futuro. Ribadisco il valore della legge per le europee, ha rimesso la discussione e l’orientamento del Parlamento nella direzione giusta alla vigilia dell’ok all’Italicum, imponendo la differenza di genere nelle prime tre candidature».
Ora Renzi le è simpatico, anche se in passato sono volate parole grosse?
«Diciamo che i rapporti sono decisamente migliorati. Tra persone non rancorose che lavorano per lo stesso partito capita. Fortunatamente ».

La Stampa 10.4.14
Ravetto: ora nomine femminili, altrimenti Matteo fa propaganda
“I suoi deputati hanno già affossato la parità di genere”
di Francesca Schianchi


«Mi auguro che la scelta di mettere cinque donne capolista non sia una semplice operazione propagandistica, ma un ravvedimento operoso da far fare a tutto il Pd, dopo che i suoi deputati hanno affossato gli emendamenti sulla parità di genere quando votammo alla Camera la legge elettorale».
Partiamo con la polemica, onorevole Laura Ravetto? Almeno però Renzi nel Pd un segnale l’ha dato, e il suo partito, Forza Italia, che cosa fa?
«Io dico che è facile mettere le donne in lista quando bisogna correre e prendere le preferenze: ma il fatto è che quando la concorrenza c’è, non c’è nessun bisogno di aiuto, le donne se la giocano da sole e non hanno certo bisogno di sponsorizzazioni maschili. Guardi che non è il Pd a fare un favore a donne come la Bonafè o la Moretti se le mettono capolista: è il contrario, sono loro a fare un favore al partito, perché sono trainanti».
Il segnale vero, quindi, sarebbe mettere le donne nelle liste bloccate, giusto?
«Secondo me un riequilibrio forzato sarebbe necessario quando la concorrenza non c’è, quando il sistema prevede la cooptazione o la nomina. Il vero segnale che potrebbe dare Renzi, come premier, è un altro».
Cioè?
«Il segnale reale sarebbe se Renzi dicesse che nelle prossime nomine riguardanti le aziende pubbliche, di competenza del governo, la metà saranno donne. Sogno un Paese in cui la metà dei manager e dei presidenti di Authority sono donne. Questo sarebbe un vero segnale: mentre mettere donne capolista nelle liste per le Europee rischia di essere solo un gesto simbolico».
Sarà anche solo un gesto simbolico, ma torno alla domanda di partenza: e Forza Italia che cosa fa?
«Ricordo che essere capolista, alle Europee, non garantisce l’elezione, mentre noi le donne le vogliamo elette. La valutazione su chi sarà stato il maggior sponsor delle donne la facciamo alla fine, su quante eurodeputate verranno elette: se saranno di più quelle del Pd farò i complimenti a Renzi, altrimenti li dovrà fare lui a noi…».
Ammetterà però che qualche problema sull’argomento da voi c’è: sugli emendamenti sulla parità di genere nella legge elettorale, che lei ricordava, anche alcuni suoi colleghi erano contrari…
«E’ vero, resistenze a meccanismi di riequilibrio ci sono in tutti i partiti. Ma vede, io preferisco colleghi come i miei, che lo dicono chiaramente, ad altri che si sperticano in dichiarazioni per la parità di genere e poi si nascondono dietro al voto segreto…».

La Stampa 10.4.14
Donne dentro
di Massimo Gramellini


Considerando che il ciclonico Renzi ha appena messo cinque donne capolista alle Europee. Che otto ministri su sedici sono donne, alcune anche piuttosto sveglie. Che tra le prossime nomine nei grandi enti ci sarà per la prima volta almeno una donna. Che il capo della Germania e quindi dell’Europa è una donna: prevenuta nei nostri confronti come un birraio di Monaco, ma pur sempre una donna. Che il capo francese del Fondo Monetario è una donna: supponente e snob come un certo tipo di maschio francese, ma pur sempre una donna. Che la star mediatica del momento è una cantante donna, anzi di più: una cantante suora. Che in America il presidente con gli attributi è Michelle, una donna, e dopo di lei quasi certamente lo sarà Hillary, una donna. Che a leggere romanzi e a credere nel futuro sono rimaste le donne. Che a laurearsi meglio e lamentarsi di meno sono le donne. Che a prendere la vita con serietà senza mai perdere la leggerezza sono le donne (non tutte, ma tante). Che il crollo dei muri etici - come il divieto di fecondazione eterologa annullato ieri dalla Corte Costituzionale - è una missione inarrestabile delle donne. 
Ecco, considerando tutto questo e molto altro ancora, noi maschi siamo chiamati a compiere un gesto coraggioso e al tempo stesso indifferibile, pena la nostra rapida estinzione per sopraggiunta inutilità. Cambiare sesso (interiormente, s’intende). 

l’Unità 10.4.14
Senato, si tratta per evitare strappi
Tocci: «La nostra proposta fa risparmiare di più, perché dimezza anche la Camera»
Boschi: «Riforma approvata entro il 25 maggio»
La fronda non prende quota: la renziana Amati pronta a ritirare la firma dal ddl Chiti, neanche i bersaniani vorrebbero fare le barricate
di Andrea Carugati


Il premier Renzi e il ministro Boschi ribadiscono l’obiettivo: la riforma del Senato deve essere approvata in prima lettura entro il 25 maggio. «Obiettivo ambizioso» ma «realizzabile, necessario e non più rinviabile», spiega il ministro in audizione alla Camera.
«Sono riforme che si possono fare e non bandierine da piantare», sottolinea Renzi, «io non evoco la disciplina di partito, alla quale sono stato spesso richiamato e alla quale mi sono sempre attenuto», spiega, «perché credo che esiste una disciplina superiore, che è quella delle idee». «Stiamo facendo un lavoro sulle riforme molto serio e penso che i cittadini se ne sono accorti perché dopo che per 30 anni hanno solo parlato noi oggi le stiamo realizzando».
Il governo dunque tira dritto. Renzi annuncia due seminari Pd su lavoro e riforme, ma ricorda che «su entrambe le questioni abbiamo già votato, alle primarie e poi in direzione». I lavori sulla riforma del Senato inizieranno in commissione Affari costituzionali a palazzo Madama il 15 aprile. Ieri sono stati nominati i relatori: la presidente della Commissione Anna Finocchiaro e, per le opposizioni, l’ex ministro delle Riforme, il leghista Roberto Calderoli. Dopo la discussione generale, i due relatori dovranno adottare un testo base che, con ogni probabilità, sarà quello presentato dal governo. Ma già depositati ci sono altri 56 disegni di legge di riforma del bicameralismo, di tutti i partiti. Tra questi anche quello firmato da Vannino Chiti e da altri 21 senatori Pd, che prevede l’elezione diretta di 106 senatori e che ha già riscontrato l’interesse dei 5 stelle, sia quelli ortodossi, sia gli espulsi che ormai sono arrivati a quota 14. Come annunciato martedì, i promotori non intendono ritirarlo: lo sottoporranno all’esame della commissione e poi, se sarà adottato come testo base quello del governo, valuteranno quali emendamenti proporre. Walter Tocci, uno dei firmatari, manda un consiglio al premier: «Lasci che il Parlamento migliori la legge elettorale e il bicameralismo, perché quando si parla di Costituzione non deve esistere fedeltà di governo». «La nostra proposta - ha proseguito Tocci - raddoppia i risparmi rispetto a quello che propone Renzi, perché dimezza anche la Camera dei deputati». Sulla stessa linea anche Corradino Mineo: «Non si può avere un Senato a tempo perso, come ha immaginato la Boschi, se hai un sistema ipermaggioritario alla Camera. Renzi non potrà non fare i conti con la nostra proposta».
Le posizioni per ora restano distanti. Ma è un fatto che tra le 56 proposte presentate la maggior parte prevede l’elezione diretta del Senato. Un elemento di cui i due relatori Finocchiaro e Calderoli dovranno tenere conto. «Vogliamo fare un serio ma celere, non perderemo tempo», assicura Finocchiaro. «Partiremo dalle funzioni, e cioè dai compiti del nuovo Senato, non dalle modalità di elezione ». Boschi ribadisce il suo no all’elezione diretta: «Potrebbe trascinare con sé il rischio che i senatori si facciano portatori di istanze legate più alle forze politiche che alle istituzioni di appartenenza ovvero alle esigenze del loro territorio ». «La legittimazione diretta dei senatori da parte dei cittadini inciderebbe sulle scelte di indirizzo politico che coinvolgono il rapporto fiduciario riservate in via esclusiva alla Camera, contraddicendo le vie portanti del disegno di riforma ».
Per il governo dunque l’elezione indiretta resta un punto fermo. Uno dei quattro paletti essenziali della riforma. Nel gruppo Pd la fronda non sembra prendere quota. Uno dei 22 firmatari, la senatrice renziana Silvana Amati, è pronta a ritirare la firma. Larga parte dalla ex mozione Cuperlo, in particolare quella che fa riferimento a Bersani, non intende fare le barricate per l’elezione diretta. Ma semmai insistere per modificare l’Italicum, per i «rischi di corruzione » denunciati dallo stesso Bersani sui partitini coalizzati ma non rappresentati in Parlamento. «Quel sistema non funziona, rischia di essere antidemocratico », ha detto l’ex segretario. Che intende dunque avere un atteggiamento più morbido sul Senato, ma più incalzante sulle modifiche all’Italicum. «In fondo, il Senato non elettivo è una proposta della sinistra da trent’anni», spiega il senatore Miguel Gotor. Nicola Latorre, renziano, ipotizza una mediazione con Chiti: «A mio parere alcune loro proposte, ad esempio sulle funzioni di garanzia del Senato, possono essere fatte proprie dal Pd con alcuni emendamenti ». Probabilmente sarà questa la strada che sarà seguita, a partire da martedì 15, quando il gruppo Pd si riunirà nuovamente. Del resto, l’ipotesi di un asse colM5Sappare indebolita, soprattutto dopo la gazzarra scatenata ieri a palazzo Madama dai grillini contro la Tav. «C'è davvero ancora qualcuno che pensa di fare riforme con loro? Ravvedetevi! », dice il renziano Andrea Marcucci.
Ieri l’ufficio di presidenza della commissione Affari costituzionali del Senato ha dato il via libera all’unanimità al calendario: prima la riforma costituzionale, poi sarà esaminato l’Italicum. Forza Italia però, con Donato Bruno, insiste perché la legge elettorale sia esaminata in parallelo. «Chiederemo che sia trattata in “quota opposizione”». Ieri la Camera ha dato il via libera definitivo alla modifica della legge elettorale per le europee: già il 25 maggio, su tre preferenze, almeno uno dovrà andare a una donna, pera l’annullamento della terza preferenza.

Repubblica 10.4.14
“Senato di 200 eletti” fronda di Forza Italia si salda al dissenso pd
Trenta adesioni al testo Minzolini, firme anche dal Ncd
Civati: fate presto. E prepara l’offensiva tra i democratici
di Goffredo De Marchis



ROMA. I nemici della riforma del Senato parlano tra di loro, organizzano alleanze trasversali, sono pronti a bombardare il fortino di Renzi con altri disegni di legge, altre proposte, contando sull’istinto di autodifesa dei senatori che non vogliono smettere di essere eletti. Accanto al disegno di legge firmato da Vannino Chiti, sta prendendo corpo un nuovo testo, stavolta dalle file di Forza Italia. Il primo firmatario è Augusto Minzolini, ex direttore del Tg1, senatore berlusconiano, da sempre critico verso il progetto di trasformazione di Palazzo Madama in Camera delle autonomie. Dicono che abbia già raccolto 30 firme nel suo gruppo e dentro il Nuovo centrodestra.
La fronda comunque è a uno stadio avanzato. Pippo Civati, al quale fanno riferimento molti dei 22 senatori che hanno sottoscritto il ddl Chiti, ha chiesto a Minzolini di presentare il suo testo prima di martedì quando si riunisce l’assemblea dei senatori Pd. Ha bisogno di sponde per spostare gli equilibri interni al Partito democratico, di dimostrare che un’altra maggioranza è possibile per correggere in profondità il provvedimento varato dall’esecutivo. Alla base del dissenso c’è uno dei paletti fissati dal premier: la non elezione dei parlamentari. «Io parto dall’eleggibilità come Chiti - spiega Minzolini - rispettando le altre condizioni del governo». Nel progetto del senatore di Fi ci sono due Camere, una di 400 membri l’altra di 200. La fiducia e la legge di stabilità la votano in seduta congiunta realizzando il monocameralismo. Il Senato poi si occupa di esteri, difesa, giustizia, Europa e autonomie locali. La Camera del resto. «Così valorizziamo le competenze. Poi decideremo come modulare l’indennità». E la promessa di rispettare i patti confermata da Berlusconi? «Ma io voglio la riduzione del numero dei parlamentari e la fine del bicameralismo perfetto. In questa storia la differenza è tra innovatori, conservatori e arruffoni. Renzi appartiene alla terza categoria. La sua riforma è un pasticcio. Allora è meglio cancellare del tutto il Senato». In realtà, il processo per arrivare al 25 maggio con la legge approvata in prima lettura, è cominciato ieri. Sono stati scelti i relatori del provvedimento. Sono Roberto Calderoli per la minoranza (seguirà soprattutto il Titolo V ossia i poteri delle regioni) e Anna Finocchiaro per la maggioranza. Finocchiaro e Renzi sono nemici giurati, però ci sono delle novità in questo rapporto. La presidente della commissione Affari costituzionali può gestire al meglio le divisioni interne al Pd e questo risponde a criteri di convenienza. In più, lei e il ministro delle Riforme Boschi sono ormai «pappa e ciccia», come maligna un dalemiano. Vale a dire che si sentono spesso, lavorano a stretto contatto e che si è creata una sintonia.
Il Pd sta cercando di convincere Chiti a ritirare il suo ddl. Per evitargli una cocente sconfitta nell’assemblea di martedì. Ma Civati annuncia battaglia: «Non credo che Vannino archivierà il suo progetto. Comunque dietro di lui ci sono anchealtri. Noi vogliamo che il testo arrivi in commissione e che sia esaminato liberamente da tutti». Senza farsi troppi problemi sulle alleanze possibili. «Va benissimo Minzolini, vanno benissimo i grillini. Vediamo se sono davvero interessati - dice Civati - . Le riforme si fanno con tutti, è la regola delle regole».

il Fatto 10.4.14
Renzi non rinuncia alla pensione
Prima di essere eletto si fece assumere dal papà: 300 mila euro di contributi e 40 mila di Tfr pagati dallo Stato
di Marco Lillo


Mentre i precari, gli esodati e i baby pensionati d’oro tremano, Matteo Renzi sorride e consolida la sua straordinaria anzianità pensionistica costruita grazie a una furbata svelata dal Fatto Quotidiano, nella disattenzione generale. Renzi non si dimette dalla società di famiglia, come gli avevamo chiesto il giorno del suo insediamento. I dieci anni di anzianità e i 40 mila euro di Tfr versati dai contribuenti di Firenze all’azienda di famiglia che lo ha assunto alla vigilia della candidatura nel 2003 potevano bastare. Invece il premier mantiene la sua dorata aspettativa aprendosi la strada verso il raddoppio della pensione con il vitalizio da parlamentare, se un domani sarà eletto.
ABBIAMO già raccontato la storia: Renzi si è fatto assumere un giorno prima dell’ufficializzazione della sua candidatura a presidente della Provincia da parte del suo partito. Il 27 ottobre 2003 l’azienda di famiglia Chil Srl trasforma il suo contratto di co.co.co in uno da dirigente. Da quel momento Renzi, in caso di elezione, ha diritto ai contributi pensionistici figurativi. Il giorno dopo, il 28 ottobre, la Margherita ufficializza la sua candidatura alla presidenza.
Renzi incasserà i vantaggi dell’assunzione solo a giugno del 2004 quando sarà eletto ma c’era una ragione di tanta fretta: il patto Pds-Margherita che lanciava Leonardo Domenici al comune e Renzi alla provincia si chiudeva in quei giorni.
I Renzi pagano al dirigente di famiglia lo stipendio per otto mesi quando possono metterlo in carico alla provincia e poi al comune per altri 5 anni. La legge infatti prevede che sia l’ente locale a pagare i contributi e a versare il Tfr anno per anno. Grazie a quella furbata, Provincia e Comune hanno pagato circa 300 mila euro di contributi fino all’inizio di quest’anno per costruire la pensione e il Tfr di Renzi. Dal 2004 al 2013 i contribuenti di Firenze hanno versato nelle casse della società di famiglia Chil, poi divenuta Eventi 6, per Renzi poco meno di 40 mila euro (solo per il Tfr). Se accogliesse il nostro consiglio di dimettersi per mettere fine a questa situazione imbarazzante, Renzi potrebbe incassare i soldi versati per lui dai suoi concittadini anche domani. A parte il Tfr pronto nella cassa di famiglia, Renzi potrà contare su un’anzianità contributiva che i suoi coetanei si sognano.
SE REGGE FINO ALLA FINE della legislatura, Renzi, a 43 anni, avrà accumulato 14 anni di anzianità. Il Fatto ha chiesto allo staff di Renzi i dati sul suo trattamento economico. Il presidente, spiega il suo staff, non ha ancora preso il suo primo stipendio. Gli uffici stanno mettendo a punto la busta paga che può variare tra due regimi possibili. Il premier dovrà optare tra il trattamento dei ministri non parlamentari e quello previsto per il presidente del Consiglio. In questo secondo caso lo stipendio sale a una volta e mezzo quello dei ministri: circa 115 mila euro all’anno. Una somma persino bassa per l’impegno e le responsabilità dell’incarico che non garantisce nessun vitalizio. Solo se sarà eletto deputato Renzi potrà in futuro cumulare pensione e vitalizio.
I tecnici di Palazzo Chigi spiegano che la presidenza “verserà per Renzi solo i relativi contributi all’Inps ma non verserà i contributi per il precedente impiego privato. I contributi connessi a quanto erogato in relazione all’incarico di Presidente - proseguono i tecnici di Palazzo Chigi - potranno essere ricongiunti, a domanda del presidente Renzi, presso la cassa previdenziale ove sono stati versati quelli relativi all’incarico privato oppure, in alternativa, il presidente potrà fare richiesta di corresponsione della ‘indennità una tantum in luogo di pensione’ ove l’incarico di membro del governo abbia avuto una durata superiore all’anno”. In pratica, se il governo cadesse per esempio nel febbraio 2016 Renzi potrebbe chiedere di incassare subito l’una tantum invece di lasciare i contributi all’Inps.
A PALAZZO CHIGI Renzi dovrà dire addio alla manna dei contributi figurativi sui quali stava costruendo una pensione gratuita e invidiabile. Se sarà eletto deputato però tornerà nel magico mondo del ‘figurativo’. In quel caso l’onorevole Matteo Renzi potrebbe chiedere alla Camera di versare al posto della società Eventi 6 i contributi a carico del datore di lavoro, circa il 25 per cento. Mentre il dirigente in aspettativa Renzi – a differenza di quanto accadeva quando era sindaco – dovrà almeno versare la sua quota del 9 per cento. In compenso, quando sarà vecchio, Renzi potrà cumulare pensione privata e vitalizio della Camera. Se invece Renzi si dimettesse dalla società di famiglia non avrebbe più diritto a questo privilegio in caso di elezione al Parlamento. Si torna sempre lì, ai privilegi garantiti da un’assunzione a ridosso della candidatura. Una furbata che ad altri è fruttata molto meno ed è costata molto di più.
L’ex ministro Josefa Idem è indagata per truffa per 8 mila euro di contributi perché si è fatta assumere dal marito poco prima della nomina ad assessore. Il sindaco di Noventa Vicentina, Marcello Spigolon, a ottobre sarà processato perché si è fatto assumere qualche mese prima dell’elezione. Ulrich Veith, sindaco di Malles Venosta, si è visto sequestrare 80 mila euro dalla Procura di Bolzano che vuole processarlo per truffa a ottobre.
“IL MIO CASO è diverso da quello di Renzi. Io avevo un lavoro a tempo indeterminato in Svizzera - spiega Veith al Fatto - ma sono stato così ingenuo da dimettermi il giorno dopo l’elezione, invece di chiedere l’aspettativa, perché pensavo che il comune mi pagasse i contributi come per un dipendente”. Quando ha capito il sistema italiano, Veith è corso ai ripari e si è fatto assumere dal negozio del fratello. Ma in Italia rischia più un ingenuo che si dimette di un furbo che si fa assumere.

"dimmi con ci vai e ti dirò chi sei"
La Stampa 10.4.14
Gli imprenditori veneti a Renzi: siamo di destra ma ti votiamo
Il premier seduce il Vinitaly. E Zaia: ha capito che il Veneto è il cuore pulsante
di Michele Brambilla


Matteo Renzi era appena ripartito per Roma e con un noto esponente leghista si scherzava su quale titolo avrebbero fatto oggi i giornali. «Potreste titolare: Renzi si inchina al Veneto», ci diceva.
«Oppure Renzi criptoveneto. Anzi anzi, senta questa: Renzi leghista!». Mancava la proposta di «Renzi Serenissimo» ma insomma, battute a parte, una cosa è parsa certa dopo la visita al Vinitaly: tra il giovane presidente del Consiglio che ha l’ambizione di cambiare l’Italia e la Regione che ha l’ambizione di staccarsi dall’Italia è scoppiato l’amore.
Di sicuro Renzi è un pezzo che ha ben chiara in testa l’importanza del Veneto. Ricordate? Nel settembre del 2012 volle far partire proprio da Verona le primarie contro Bersani. Cinque mesi fa, poco prima di altre primarie – quelle, stavolta vinte, per la segreteria del Pd – tornò ancora qui, a Verona, in Fiera, per incontrare gli imprenditori. Altra visita, sempre in Fiera, per un dibattito con Oscar Farinetti di Eataly. Infine, non è certo stato un caso se la primissima uscita da premier Renzi l’ha voluta fare a Treviso, il giorno dopo aver incassato la fiducia del Parlamento.
Ieri è stata la volta di Vinitaly, la più grande fiera del vino al mondo, 155 mila visitatori (in quattro giorni) anche quest’anno, media rispettata. Renzi è il primo presidente del Consiglio che, da tempo immemore, viene a visitarla. Certo ha fatto una toccata e fuga, ma del resto tutte le sue visite sono una toccata e fuga. È arrivato alle dieci e venti (quattro ore dopo il consueto primo tweet del mattino) ed è ripartito a mezzogiorno e un quarto, perché all’ora di pranzo aveva la direzione del Pd a Roma. Ma se pur tra tanti impegni non ha voluto disertare Vinitaly, un motivo ci deve essere, ed è quello che abbiamo detto. E che poi è lo stesso che ci ha sintetizzato il governatore Luca Zaia all’ingresso della Fiera, quando stavamo aspettando l’arrivo del premier: «Il fatto che venga qui così spesso vuol dire che ha capito che il Veneto è il cuore pulsante del Paese».
Quando poi è arrivato, c’è stata la solita ressa. «Molti di noi», ci ha detto un imprenditore, «pur essendo di centrodestra si sono iscritti alle primarie del Pd per votarlo». La convinzione di tanti ex berlusconiani ed ex leghisti è che Renzi sia un uomo di sinistra che farà cose di destra. Comunque. Renzi si è diretto subito – saltando a piè pari lo stand dell’Emilia Romagna, il primo davanti a lui – nello stand del Veneto, dove naturalmente gli è stato messo in mano un bicchiere di Prosecco di Valdobbiadene. Poi Zaia gli ha messo in mano un’altra cosa, più compromettente: la bandiera del Veneto. Quella rossa con il leone di San Marco giallo. Tale e quale a quella degli indipendentisti arrestati qualche giorno fa. Precisa identica. Ma il fiorentino Renzi sa come si sta al mondo, e anche come si sta a Verona: «Questa è la bandiera del Veneto», ha detto, «e sono orgoglioso di averla. Il Veneto è una colonna dell’Italia».
La gente l’ha accolto bene. Gli gridavano «Matteo vai avanti, non mollare» e lui poco dopo, quando ha incontrato noi giornalisti nell’auditorium, s’è detto come rinfrancato, anzi confermato da quegli incoraggiamenti: li ha interpretati come un riconoscimento delle cose fatte. Da uomo pratico che sa di parlare a gente pratica, ha elencato gli obiettivi già raggiunti: il Def, l’abolizione dei politici nelle province, il taglio ai super stipendi dei manager pubblici, «i sacrifici chiesti anche alle banche».
«Non sono venuto qui per stringere tre mani e per bere tre calici», ha voluto chiarire: «Sono venuto qui perché il vino non è solo un piacere: è un pezzo rilevante della nostra economia. Negli ultimi quindici anni è cresciuto del 90 per cento, il Pil dell’Italia dell’1 per cento». Come piace agli imprenditori, ha parlato per obiettivi: «Oggi esportiamo vino per cinque miliardi di euro all’anno: dobbiamo arrivare a sette e mezzo entro il 2020». Annuncia «diciotto cose concrete da fare per l’agroalimentare con il ministro Martina» e chiede agli imprenditori presenti «di farci le pulci, perché siamo qui per raccogliere suggerimenti». Poi un cronista del Corriere Veneto, Alessio Antonini, gli chiede del vento di secessione che soffia, e del referendum che la Regione vuole proporre per ottenere una qualche forma di autonomia. È qui che Renzi supera le aspettative. Non chiude nessuna porta, pur nel rispetto dell’unità d’Italia, dice che «il Veneto può essere la locomotiva della ripresa» e ne riconosce una sorta di superiorità: «Ha dato più di quello che hanno dato altre regioni e quindi una ridistribuzione è sacrosanta. Il Veneto non deve pagare come gli altri. Questo non è leghismo: questa è giustizia». Un trionfo. Durerà? «Per adesso siamo in luna di miele», ci dice Zaia all’ora di pranzo: «Ma i veneti sono gente concreta, vogliono vedere i fatti».

La Stampa 10.4.14
Renzi. L’equivoco sui professoroni
di Jacopo Iacoboni

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l'amichetto di Renzi...
La Stampa 10.4.14
Tegola su Verdini, sì del Senato all’utilizzo delle intercettazioni
Via libera dell’Aula alla richiesta dei magistrati di Roma e Firenze
per le inchieste su grandi opere, eolico sardo, P3 e Credito fiorentino

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il Fatto 10.4.14
Lecca lecca
Cazzullo il giornalista-scorta del rottamatore


CI SONO COSE che voi umani, soltanto semplici e un po’ inutili umani, non potere fare, ma Aldo Cazzullo sì. Il prossimo vicedirettore del Corriere della Sera (dicono), impaziente erede assieme a Mario Calabresi di Ferruccio de Bortoli, verga con piglio descrittivo: “Sono le dieci di sera, Matteo Renzi prima di cena fa il punto della situazione mentre segue la performance del ministro Guidi a Ballarò”. Il racconto è di Cazzullo, ripetiamo, ma per evitare equivoci va precisato che non stava scolando i bucatini nel tinello di Palazzo Chigi, ma s’aggirava circospetto nell’appartamento presidenziale con la stessa vitalità di un arazzo. Il lettore sarà folgorato da queste doti mimetiche di Cazzullo, che segue, scorta e pedina il povero Matteo. Chissà dove e chissà come era nascosto nella stanza con il premier, magari ridotto a cimice nell’asola della camicia. Ma nonostante l’abilità di Cazzullo – apprendiamo dal Corriere della Sera – Renzi lo becca in servizio, non se ne cura essendoci abituato, e gli chiede un consiglio per sfruttare la fortunata occasione : “La prossima tappa sarà una campagna on line: “E tu cosa taglieresti?”. Più che riportare con adulazione il Renzi-pensiero, il baldo Aldo non può fare nulla e consegna al lettore svariate righe di virgolettati di Renzi, interrotti da affettuosi intercalari del tipo: “La linea è quella di un rinnovamento radicale” (si parlava di nomine nelle società del Tesoro, ma va bene pure per la spesa al supermercato, ndr). In estasi cazzulliana, Cazzullo lascia a Renzi l’ultima carezza: “Mi spiace per quelli che remano contro: anche stavolta sono rimasti delusi”. Ma Cazzullo , no: Cazzullo è un solluchero. A breve potrà scalare il Corriere della Sera, grazie alla divisa renziana che gli casca a pennello, e affollare le librerie con un libro-intervista al medesimo Renzi, ovviamente verranno pubblicate soltanto le risposte, le domande sono cose che interessano soltanto ai semplici e un po’ inutili umani, non ai cazzulliani. Il baldo Aldo sarà emozionato: per cotanta opera editoriale il titolo è volutamente dimesso, “Magari”. L’ultimo l’aveva chiamato “Basta piangere”. Poi ha incontrato Renzi, e ha smesso. Ma solo di piangere.

Corriere 10.4.14
Il def di Matteo Renzi
Dipendenti Pubblici, niente aumenti in busta paga fino al 2020
di Enrico Marro


Prevista solo l’indennità di vacanza contrattuale I contratti pubblici, bloccati dal 2010, rischiano di restare fermi fino al 2020. Nel Def, il Documento di economia e finanza approvato martedì dal governo, non sono infatti previsti stanziamenti per il rinnovo dei contratti, il cui blocco è stato prorogato dall’ultima finanziaria (governo Letta) fino al 2017. E, a pagina 34 della sezione II, si dice solo che la spesa per i dipendenti pubblici (164 miliardi di euro nel 2013) aumenterà dello 0,3% ma solo «nel 2018 in ragione della nuova indennità di vacanza contrattuale relativa al triennio 2018-2020». Ma se si prevede di pagare tale indennità (che recupera il 50% dell’inflazione), finora congelata, è perché non si ha in programma di rinnovare i contratti. Secondo stime sindacali, alla fine del 2014, a causa del blocco in vigore dal 2010, avranno perso in media 240 euro al mese di potere d’acquisto.
«Ci preoccupa molto la prospettiva di un ennesimo mancato rinnovo dei contratti dei dipendenti pubblici — dice il segretario aggiunto della Uil, Carmelo Barbagallo —. Oggi, lo Stato è il peggior datore di lavoro del nostro Paese: si può decidere come e cosa contrattare, ma non si può negare la contrattazione». La previsione contenuta nel Def è arrivata come una doccia fredda per i lavoratori del pubblico impiego e i sindacati che si stanno battendo per ottenere lo sblocco immediato dei contratti. Il ragionamento proposto dal ministro della Pubblica amministrazione, Marianna Madia, che in fondo gli 80 euro di taglio delle tasse per i lavoratori dipendenti con un stipendio fino a 1.500 euro che scatterà a maggio equivalgono a un rinnovo contrattuale, è già stato respinto al mittente dai sindacati.
Secondo l’ultimo Rapporto dell’Aran (l’agenzia governativa per la contrattazione nel pubblico impiego), dal 2010 a oggi la forbice tra le retribuzioni pubbliche, tradizionalmente più ricche, e quelle private si è praticamente chiusa. Nel 2010 la retribuzione contrattuale media pro-capite per impiegati e quadri nel pubblico impiego era di 27.472 euro lordi contro i 25.531 euro nel privato. Nel 2013 lo scarto si era ridotto a meno di 500 euro: 27.527 euro nel pubblico contro 27.044 nel privato.

o non aveva detto "fino a 1500"?
Corriere 10.4.14
Il def di Matteo Renzi
80 euro in più fino a 8.000 euro
di L. Sal.


L’obiettivo del governo è che il bonus per gli incapienti, le persone che hanno un reddito al di sotto degli 8 mila euro lordi l’anno e quindi non pagano le tasse, sia uguale nelle dimensioni a quello che i lavoratori dipendenti dovrebbero trovare nelle buste paga di maggio grazie all’aumento delle detrazioni sull’Irpef. Un massimo di 80 euro netti al mese, quindi, che poi scenderebbe a seconda delle diverse fasce di reddito. Palazzo Chigi preme affinché le due operazioni, aumento degli sgravi Irpef e bonus per gli incapienti, vadano di pari passo, con effetti visibili già negli stipendi di maggio. Ma non è da escludere che il decreto legge in calendario per il 18 aprile preveda un’operazione in due tempi, con l’intervento per gli incapienti rimandato di qualche settimana. Il nodo, come al solito, è quello delle risorse.
Aggiungere i 4 milioni di lavoratori dipendenti incapienti ai 10 milioni di dipendenti al di sotto dei 25 mila euro lordi l’anno significa aver bisogno quasi di un miliardo di euro in più. Oppure recuperare una parte dei soldi necessari limando l’aumento delle detrazioni Irpef, fermo restando il punto massimo degli 80 euro al mese. Tutte e due le strade non sono semplici. Per questo il bonus per gli incapienti potrebbe partire non a maggio ma più in là, con il vantaggio di costare qualcosa in meno per il 2014. Non è ancora chiaro se l’intervento a favore degli incapienti prenderà la forma di un taglio ai contributi Inps oppure di un assegno pagato dall’Inps. Secondo l’associazione Unimpresa c’è il rischio che, con i dettagli ancora da definire, le aziende non abbiano il tempo di modificare le buste paga.

tagli alla Sanità per circa un miliardo nel 2014. Poi...
Corriere 10.4.14
Il def di Matteo Renzi
Addio ricette, saranno online


Ilpeso della spesa sanitaria in rapporto al Prodotto interno lordo scenderà: dal 7% del 2014 al 6,8% nel 2018. Secondo le stime contenute nel Def, il Documento di economia e finanza, ciò avverrà perché la spesa per la sanità, pur aumentando a un tasso medio annuo del 2,1%, salirà meno del P il nominale, previsto al 3%. Tradotto in euro, si passerà dai 111,4 miliardi previsti per quest’anno ai 121,3 miliardi del 2018. Al contenimento della spesa concorreranno il blocco dei contratti, il taglio della farmaceutica e le misure di spending review. Per il 2014 è prevista «l’estensione a tutto il territorio nazionale delle attività di dematerializzazione delle ricette mediche cartacee, avviata già in alcune Regioni». Le ricette online consentiranno «il potenziamento dei controlli delle prescrizioni mediche » e conseguenti risparmi. Non ci saranno tagli lineari, assicura il ministro della Sanità Beatrice Lorenzin. Servirà però, aggiunge, «un’operazione veramente chirurgica per stabilire interventi di recupero che non devono cadere sui servizi ai cittadini e non si devono tradurre in mero taglio di offerta dei servizi ospedalieri o meno offerta di farmaci», aggiunge il ministro, che entro maggio dovrà trovare l’accordo con le Regioni sul nuovo Patto per la salute, dal quale dovrebbero venire risparmi per circa un miliardo nel 2014: «O ci impegniamo a recuperare questi risparmi o non siamo credibili». Nel Documento ci sarà «una particolare attenzione agli elementi di spreco, nell’ambito del cosiddetto "Patto per la salute" con gli enti territoriali, e tramite l’assunzione di misure contro le spese che eccedono significativamente i costi standard». Contro le misure sono pronti a mobilitarsi la Federazione di Asl e ospedali (FiaSo) e i sindacati di medici e dirigenti (Anaao-Assomed) contrari al tetto di 239 mila euro per i

il Fatto 10.4.14
793 Uomini al colle
L’esercito di Napolitano ci costa 40 milioni
La presidenza sbandiera i risparmi sul bilancio 2014
Ma strapaga gli addetti alla sicurezza del Presidente che allo stipendio base sommano altri ingenti bonus
di Silvia D’Onghia


La Polizia stradale rischia di rimanere a piedi, ma il presidente della Repubblica può senz’altro sentirsi al sicuro. A fronte dei paventati tagli al comparto, infatti, che tanta maretta stanno generando tra gli operatori delle forze dell’ordine, esiste un servizio che non conosce crisi. Quattordici milioni e 300 mila euro di stanziamento nel bilancio di previsione 2014; 793 unità, tra poliziotti, carabinieri e corazzieri, il cui stipendio “grava in misura largamente prevalente sulle amministrazioni di appartenenza”, quindi costa allo Stato almeno altri 30 milioni di euro l’anno, considerando una retribuzione media di 40 mila euro lordi. E i 14 milioni a che servono? A pagare al personale le indennità supplementari, come vedremo.
Le cifre sono facilmente verificabili : come ogni anno, all’inizio di febbraio, sul sito del Quirinale è apparsa la nota illustrativa del bilancio di previsione 2014. Il capo dello Stato, Giorgio Napolitano, ha sempre voluto evidenziare i risparmi operati sotto la sua gestione, e la nota non ne fa mistero: i 228 milioni di euro a carico dello Stato “sono pari a quelli del 2008, con una riduzione in valore reale di circa il 12 per cento, tenendo conto dell’inflazione”. Cifra che viene confermata anche per i prossimi due anni, “grazie a ulteriori misure di riduzione della spesa adottate nel corso del 2013”. Sicuramente un segnale positivo. Eppure, quando poi si passa al comparto sicurezza, le cifre relative ai tagli appaiono ben poca cosa: “La consistenza del personale distaccato per esigenze di sicurezza – si legge ancora – si è ridotta nel corso del 2013 di 26 unità, passando da 819 a 793”, corazzieri compresi. Il numero è stabilito da un decreto interministeriale e non dalla Presidenza, fa sapere il Colle.
MA A CHE servono tutti questi uomini? La risposta viene dal passato. “È istituito presso la Real Casa un Regio commissariato di pubblica sicurezza per la tutela dell’augusta persona di sua maestà il re e della reale famiglia nell’interno delle reali residenze e fuori di esse... eccezion fatta per quella parte del palazzo ove il servizio è disimpegnato dai carabinieri Guardia del re”: così recitava il regio decreto del 6 novembre 1900 che istituiva quello che sarebbe diventato l’Ufficio presidenziale della Polizia di Stato. Un ex direttore dell’Ispettorato, Vito Rizzi, ha spiegato così qualche anno fa le ripartizioni dei compiti: “Inizialmente il servizio di vigilanza all’interno della residenza era svolto in parte dagli uomini del commissariato e in parte dai carabinieri Guardia del re. Oggi invece tutti i compiti di rappresentanza e di sicurezza all’interno del Quirinale sono completamente assicurati dai corazzieri, mentre i servizi esterni di protezione e di scorta del presidente, nonché di vigilanza e di presidio di tutti i siti presidenziali, sono svolti dal personale del nostro ufficio insieme ai militari del Reparto Carabinieri Presidenza della Repubblica”. Naturalmente se Napolitano si reca in visita in qualche città, a loro si aggiunge il personale del posto.
Coloro che lavorano per il presidente hanno diritto a un’indennità, che appunto grava sulle casse del Colle (i famosi 14 milioni di euro) e che varia dai 400 euro per gli agenti agli oltre 1600 per i dirigenti. L’indennità si somma allo stipendio e alle ore di straordinario, che spesso sono oltre 50 in un mese. Un posto di lavoro decisamente ambito. “Consideriamo che le squadre mobili non hanno indennità e che la stessa Direzione investigativa antimafia ne ha una di soli 200 euro al mese per gli agenti”, sottolinea Gianni Ciotti, segretario nazionale del Sed, sindacato nato da pochissimo dopo una travagliata scissione nel Silp Cgil. “Noi siamo assolutamente d’accordo con Renzi sulla necessità di tagliare, ma se si vanno a toccare le sezioni della Polstrada si fa un danno ai cittadini, è come lasciare scoperti 200 km di autostrada. Bisogna invece intervenire sui palazzi istituzionali, che hanno un numero esorbitante di personale, spesso sovra pagato. Per dare un messaggio agli italiani, cominciamo dal Colle”.

Corriere 10.4.14
Renzi a rapporto da Napolitano
Poteri del premier e del Presidente
risponde Sergio Romano


I media ci hanno informato che il presidente della Repubblica ha ricevuto al Quirinale il presidente del Consiglio, occasione in cui sono stati esaminati l’iter del progetto di riforme costituzionali e il Def, che era all’odg del consiglio dei Ministri di martedì. Sembra tutto tranne che un incontro di cortesia istituzionale. La Costituzione però dice tutt’altro, perché l’art. 95 al primo comma statuisce che: il presidente del Consiglio dei ministri dirige la politica generale del governo e ne è responsabile. Mantiene l’unità di indirizzo politico e amministrativo promuovendo e coordinando l’attività dei ministri. D’accordo che il governo non ha avuto la designazione popolare, ma la Costituzione dovrebbe sempre e comunque rimanere quella di sempre.
Romolo Rubini

Caro Rubini,
L a Costituzione ha mal definito, forse intenzionalmente, i poteri del capo dello Stato. Ha dato formalmente al presidente del Consiglio la direzione del governo, ma lo ha privato di un potere fondamentale, lo scioglimento delle Camere, e ne ha fatto una sorta di coordinatore che non ha neppure il diritto di congedare un ministro quando avrebbe buoni motivi per rimpiazzarlo con una persona più adatta all’incarico. Questa ambiguità ha suscitato in alcuni presidenti della Repubblica la convinzione che le loro funzioni potessero venire estese e rafforzate. È accaduto con Luigi Einaudi quando affidò a Giuseppe Pella la formazione del governo. È accaduto con Giovanni Gronchi, quando fece lo stesso con Fernando Tambroni e pretese di dirigere la politica estera italiana dal Quirinale. E’ accaduto con Sandro Pertini quando intervenne nello sciopero dei controllori di volo. Ed è accaduto quando Francesco Cossiga cominciò a «picconare» la «Prima Repubblica».
Il caso di Giorgio Napolitano è alquanto diverso. Quando nominò Mario Monti alla presidenza del Consiglio, dovette agire in circostanze eccezionali (l’impennata dello spread sui mercati internazionali, le pressioni di Bruxelles) ed esercitò un potere previsto dall’articolo 92 della Costituzione. Quando il Parlamento non riuscì a eleggere il suo successore e i partiti gli chiesero di restare al Quirinale, mise condizioni (l’approvazione di una nuova legge elettorale) che erano direttamente collegate all’esercizio delle sue funzioni. Se lo scioglimento delle Camere rientra fra le sue responsabilità, era giusto chiedere l’approvazione di una legge che evitasse i danni provocati da quella con cui l’Italia aveva votato nelle elezioni precedenti. Annunciò che se questo non fosse accaduto si sarebbe dimesso, e fissò in tal modo una sorta di scadenza che serviva a rendere Parlamento e governo maggiormente responsabili.
Mi sembra normale quindi che il presidente della Repubblica segua attentamente l’azione del governo e abbia il diritto di essere informato sul modo in cui sta realizzando il suo programma. Non dimentichi infine, caro Rubini, che fra i compiti del presidente della Repubblica vi sono anche la promulgazione delle leggi e l’emanazione dei decreti che hanno valore di legge. Chi mette la sua firma in calce a una legge, ha il diritto di sapere che cosa firma. Continuo e pensare che occorra correggere le ambiguità presenti nella Costituzione e rafforzare i poteri dell’esecutivo. Ma con questa Carta è giusto che Renzi vada spesso al Quirinale.

il Fatto 10.4.14
Pd si tura il naso, il voto di scambio sarà legge
Giarrusso (M5S): “Affossata la lotta alla mafia”
di Sara Nicoli


Un compromesso al ribasso. Entrando ieri a tarda sera in commissione Giustizia del Senato per la lunga notte del “voto di scambio politico mafioso” – ddl che stamattina sarà in aula per l’approvazione definitiva – Felice Casson, senatore Pd, aveva l’aria di chi sta per fare qualcosa che non gli piace. Neanche un po’. “La pena doveva rimanere alta – ci dice – perché il fatto che un politico possa venire a patti con la mafia deve essere considerato più grave rispetto al comportamento di un cittadino normale. E sulla questione, che avevamo inserito, della ‘messa a disposizione’ del politico, nella nostra ottica era un modo per precisare meglio i confini dell’illecito penale, invece...”. Invece il provvedimento uscirà da Palazzo Madama nella stessa, identica, declinazione con cui è stato licenziato da Montecitorio. Ieri notte, infatti, il Pd si è astenuto sul voto degli emendamenti e a palazzo Madama l’astensione è voto contrario. Insomma, oggi all’ora di pranzo, il voto di scambio politico mafioso sarà legge. “Non possiamo fare altrimenti – è ancora il giudizio di Casson – perché deve entrare in vigore prima delle elezioni Europee, non possiamo permettere che si perda in un ping pong con la Camera, mentre c'è chi ha remato perché questo avvenisse”. Casson non lo dice, ma il suo pensiero è corso alla compagine grillina al Senato. Gli M5S hanno messo in atto una resistenza quasi eroica, ieri notte in commissione Giustizia, presentando oltre un centinaio di emendamenti per tentare di arginare l'inevitabile. “Chi ha votato questa cosa – dichiara Michele Giarrusso, senatore stellato – è un soggetto che sostiene il voto di scambio politico mafioso. Renzi si è incontrato con Verdini e hanno deciso che doveva essere fatto questo regalo”. Bocciata anche la richiesta di sospensiva del voto fino al chiarimento, da parte del ministero della Giustizia, di chi siano i “beneficiari della decurtazione di pena in questione”. Insomma, se il Senato (questo il punto ‘qualificante’ della richiesta) “si appresta ad approvare con urgenza il testo licenziato dalla Camera” a parere di fonti qualificate a Palazzo Madama “si paventa il rischio che così com’è il ddl renda possibile, per il principio del favor rei, di far punire con pene più lievi anche i mafiosi”.
CIOÈ: IL TESTO della Camera mantiene la previsione che la pena della reclusione da 4 a 10 anni possa venire applicata non solo a chi commette il reato di voto di scambio, ma anche al mafioso che procura voti con metodi mafiosi. Una questione non da poco che, tuttavia, resterà nel novero del dubbio. O della certezza – nel caso M5S – di aver fatto davvero un regalo alla mafia. Dicevano, infatti, i grillini in commissione ieri notte: “Così si rischia di far pagare meno ai mafiosi veri e propri visto che il codice penale, all'articolo 416 bis, comma terzo, punisce con una pena da 7 a 12 anni la stessa tipologia di comportamento; l'associazione è di tipo mafioso, recita il 416 bis che punisce questo reato, quando coloro che ne fanno parte si avvalgano della forza di intimidazione del vincolo associativo e della condizione di assoggettamento e di omertà che ne deriva, tra l’altro al fine di impedire o ostacolare il libero esercizio del voto o di procurare voti a sè o ad altri in occasione di consultazioni elettorali. E chiunque fa parte di un'associazione mafiosa formata da tre o più persone è punito con la reclusione da sette a dodici anni”. Obiezioni fondate (molto fondate) che avrebbero trovato ascolto in parte del Pd se “ci fosse stato tempo”. Invece, non c’è. Per questo Cosimo Maria Ferri, sottosegretario Ncd alla Giustizia, brinda sereno: “È una norma severa, seria, efficace e importante per la magistratura e le forze dell’ordine per contrastare le infiltrazioni della mafia nella politica”. Oggi, insomma, il voto finale su un ddl controverso. Anzi, su “un compromesso al ribasso”.

l’Unità 10.4.14
«Libertà e giustizia». Vertici sotto accusa
Il caso scoppiato dopo l’appello contro la «svolta autoritaria»
Bonsanti: «Macchina del fango contro di noi»
di C. Fus.


«Non merita davvero soffermarsi sulla macchina del fango che deve tenere oliati i propri ingranaggi». Sandra Bonsanti, la giornalista presidente (dal 2002) di Libertà e giustizia, liquida in due parole e una definizione molto netta il giro di mail finite sui giornali che hanno raccontato in questi giorni il malessere, talvolta anche la rabbia, di alcuni circoli di L&G (almeno tre, Roma, Pisa e Val di Cecina) contro il proprio vertice accusato di «scarsa democrazia interna». Non è piaciuto, a qualcuno, il modo («poco democratico») e i contenuti («sappiamo sempre solo dire dei no, ma noi cosa proponiamo? »). Ad altri invece, a giudicare dai commenti sul web e dal numero di nuovi iscritti («stiamo ricevendo molte richieste» dice la segreteria dell’associazione) l’appello contro le riforme costituzionali del governo Renzi è piaciuto moltissimo. «In ogni caso - si aggiunge - si è aperta al nostro interno una discussione e un dibattito molto stimolanti, non si capisce perché trasformarle subito in “fronda tra i parrucconi” o in “rivolta dentro Libertà e Giustizia”».
Bonsanti chiama in causa la «macchina del fango» per via dell'uso improprio di documentazione interna che invece che essere mandata in giro per «regalare qualche titolo a qualche giornale», sarebbe dovuta servire al dibattito interno. Cosa che è successa. Sul sito, accanto al post di Bonsanti viene pubblicata l’intervista pubblicata martedì su La Stampa in cui Zagrebelsky ammette che forse l’appello «Contro la svolta autoritaria » è stato un po’ «tranchant» e raccoglie la sfida della proposta. Il Professore il Senato lo vorrebbe così: «Dimezzamento dei deputati, due senatori per regione eletti direttamente tra persone dal cursus honorum rispettabile; durata fissa e lunga senza rieleggibilità; poteri rivolti a contrastare la tendenza allo spreco di risorse comuni; controllo sulle nomine pubbliche e di indagine sui fatti e sulle strutture della corruzione… un organo che abbia lo sguardo lungo e, perciò, non sia sotto la pressione o il ricatto delle nuove elezioni». Per Bonsanti la proposta è «affascinante».
Il cuore dell’appello di L&G, però, resta invariato. «Mi chiedo - scrive il presidente dell’associazione - cosa farebbero gli americani se un bel giorno Obama si svegliasse e dicesse loro: sapete cosa? Ho pensato di imporvi una nuova Costituzione, perché quella di George Washington non va più bene. È vecchia, crea troppi intralci all’azione del governo e non basta emendarla. Con la maggioranza che ho vi impongo di abolire il Senato: e se non vi piace, me ne vado a casa…Non voglio pensare a come la prenderebbero laggiù».
Ecco, il punto su cui si dibatte in queste ore tra gli iscritti a Libertà e Giustizia resta il modo. Ovverosia «la presunzione » come la chiama Zagrelsky, «cioè la chiusura a ogni discussione, un atteggiamento che presuppone il possesso del criterio del bene e del male. Se ci fossero canali aperti di confronto, si farebbe tutti più strade: tutti, come si conviene in materia di Costituzione. Ma questo presupporrebbe una cosa che manca, come ha detto Massimo Cacciari: la chiarezza d’un disegno generale del quale discutere».
È presto per dire se lo scontro nell’associazione possa considerarsi risolto o, invece, sia destinato ad allargarsi. Per ora i Professoroni, come li ha chiamati il premier, hanno fatto ammenda e hanno avanzato una loro proposta. Saprà ascoltarli Renzi?

il Fatto 10.4.14
Trattati come bestie
“Io non mi faccio portare al guinzaglio”
Bari, la ribellione dell’immigrato al Cie
di Antonio Massari


Bari Ho rinunciato alla cura: volevano portarmi in ospedale con un guinzaglio ai polsi” ci racconta il ragazzo algerino recluso nel suo padiglione. Poi - quando siamo nella stanza del direttore - chiediamo perché l’ammalato non sia stato curato. E il medico del Centro d’identificazione ed espulsione prende la parola: “Scusi senatore, ma il ragazzo le ha detto perché, quella risonanza magnetica alla schiena, non l’ha più fatta? Guardi che noi l’avevamo prenotata”. Pausa. “Gliel’ha detto - continua - che e stato lui a rinunciare?”. Già. E infatti il punto è: perché ha rinunciato? “Perché non voleva essere portato in ospedale con un una... contenzione alle mani... alle braccia... insomma... questo ci ha raccontato... e questo ho scritto nella cartella clinica”. E così - nella sua surreale giustificazione - il medico conferma la versione del ragazzo. “Cos’è una contenzione alle mani? Ci spieghi: il ragazzo le ha parlato di manette?”, chiede il Senatore Luigi Manconi (Pd), presidente della Commissione parlamentare per i diritti umani in visita ieri al Cie di Bari. “No” risponde il medico. Infatti il ragazzo - durante l’incontro - ci ha parlato di una sorta di guinzaglio. Un lungo legaccio ai polsi. “In quelle condizioni, in ospedale, non volevo andarci detto - piuttosto, ho preferito rinunciare alia risonanza magnetica”. Un “guinzaglio” non e previsto da alcun regolamento.
II RAGAZZO peraltro non è un carcerato e quindi: non deve sopportare misure di contenzione - manette incluse. La funzionaria della questura, dinanzi a tutti, si dice disponibile a dimostrare, esibendo le comunicazioni interne, che in quell’occasione era prevista “soltanto una scorta di tre persone” per accompagnare il malato in ospedale. Intanto nel Cie - che reclude 77 persone - si sente odore di bruciato: due sere fa, per la disperazione, qualcuno ha provato a dar fuoco a una sedia imbullonata. Kharim ha interrotto soltanto ieri, dopo 5 giorni, il suo sciopero della fame. “Lo abbiamo convinto noi a smettere lo sciopero della fame”, dice un amico, “perché ha iniziato a orinare sangue. Abbiamo chiesto ai medici di dargli un’occhiata ma nessuno ci ha ascoltato”. “Ha curato qualcuno, in questi giorni, perché orinava sangue?”, chiediamo al medico. “No, nessuno” risponde. Scortati da un ispettore di Polizia - e non accompagnati dal direttore del centro - visitiamo un reparto in ristrutturazione: se non sarà in regola per la fine d’aprile - ha deciso il tribunale di Bari - il Cie andrà chiuso. Qui la gestione è affidata alla “Connecting People ” di Trapani. È la stessa società accusata di aver frodato, nella gestione del Cie di Gradisca d’Isonzo, milioni di euro.“II Cie invece va chiuso punto e basta - conclude Manconi - Al di là dei lavori di ristrutturazione non ancora conclusi, questo centro, persino piu di altri, richiama un clima carcerario - anche nei rapporti interni e nell’organizzazione gerarchica - mentre, per la legge italiana, non dovrebbe essere un carcere”.
DAI 77 PRIGIONIERI del Cie si passa ai 1.461 richiedenti asilo del Cara (attesa di circa 6 mesi, ndr), gestito dalla cooperativa Auxilium: “Le dimensioni del Cara - commenta Manconi - sono abnormi rispetto alla possibilità di offrire un’accoglienza minimamente dignitosa”. I bagni sono fatiscenti. Una ragazza, che oggi dovrà presentarsi in tribunale, per la rivolta dello scorso 16 dicembre, sarà difesa da un legale d’ufficio, ma racconta piangendo: “Avevo chiesto di parlare con un avvocato ma nessuno mi ha dato ascolto”. Qui c’è un grande uso di psicofarmaci: “Soltanto sotto prescrizione di uno psichiatra” dice il medico del Cara. “A meno che non si tratti di sedativi per dormire, in quel caso non consultiamo lo psichiatra”, aggiunge un’infermiera. Sedativi di che tipo? “Blandi, tipo Tavor”. E perché per il Tavor non si consulta lo psichiatra? “Perché non è uno psicofarmaco”, risponde l’infermiera, dinanzi al medico, che neanche ribatte.

La Stampa 10.4.14
Sbarchi, 90 migranti all’ora
Allarme rosso del Viminale
Record: da martedì 4400 persone. La Libia è un porto franco
di Guido Ruotolo


Inarrestabile. Un flusso di donne e bambini, vecchi e giovani che scappano dal disperato Corno d’Africa e dalla tumultuosa fascia subsahariana, e attratti da una Libia «porto franco», attraversano il Mediterraneo. Sono decine e decine di migliaia pronti a salpare per arrivare da noi, aspettano solo di potersi imbarcare. Dal primo gennaio a ieri mattina ne abbiamo già accolti 13.071 ma in serata si sono superati i 15.000. E altri seicento sbarcheranno stamani a Porto Empedocle.
I piani alti del Viminale seguono l’evoluzione della situazione con molta apprensione. Si fanno le stime: «Nei primi cento giorni del 2013 ne sono arrivati 1500 e a fine anno 43.000. Nei primi cento giorni di quest’anno siamo già a 15.000. A fine anno arriveremo a mezzo milione?».
Speriamo di no. Ma intanto è una corsa contro il tempo per trovare una sistemazione alle migliaia di profughi sbarcati e in arrivo in questi giorni. Il Viminale ha inviato una circolare ai prefetti per sollecitarli ad allestire centri di accoglienza. I Comuni di quella rete di solidarietà che in questi anni ha garantito ospitalità ai richiedenti asilo sono a secco di risorse finanziarie.
Il viceministro dell’Interno Filippo Bubbico: «Speriamo di risolvere velocemente il problema della copertura finanziaria. Servono 140 milioni di euro per le esigenze attuali».
In Libia la situazione è completamente fuori controllo. Il volume del traffico di «merce umana» dipende soltanto dalla disponibilità di natanti, di barche in grado di galleggiare. Non c’è un apparato di polizia centrale di contrasto ai trafficanti di clandestini. Anzi, il traffico finanzia le milizie che non si sono mai sciolte. Le stime che parlano di trecentomila, seicentomila irregolari pronti a venire in Europa potrebbero essere verosimili.
La novità di questi sbarchi, che fa saltare quel meccanismo che aveva retto il sistema dell’accoglienza e dei rimpatri, è che si tratta per il 90% dei casi di richiedenti asilo. È diventato inefficace quel sistema che dagli arrivi portava all’identificazione e poi all’espulsione. A fatica, ma funzionavano gli accordi bilaterali con i Paesi d’origine. Oggi tutto questo sembra insufficiente nel momento in cui si tratta di accogliere (ci riferiamo agli sbarchi avvenuti dal 1° gennaio ad oggi) 2200 eritrei, 1321 siriani, e poi somali, pachistani, maliani e profughi del Gambia.
La protezione umanitaria va garantita. Semmai la riflessione da fare, suggeriscono gli addetti ai lavori, è se non si debba mettere mano all’Accordo di Dublino, per cui un curdo che voglia andare in Germania può anche presentare domanda di richiedente asilo in Italia. E non, come oggi, per cui si deve risiedere nel Paese in cui si è fatta domanda di asilo.
I report della nostra intelligence segnalano una possibile evoluzione positiva della situazione in Libia solo in presenza di una stabilizzazione politica. Positivo che si siano riaperti i pozzi petroliferi e che un nuovo incarico per formare il governo sia stato affidato ad Al Thinni.
Ma intanto la situazione rimane fuori controllo. Lo stesso dispositivo in mare dei mezzi di salvataggio, «Mare Nostrum», che vede impegnata la nostra Marina militare accanto al volontariato umanitario e alla Croce Rossa, rischia di alimentare il circuito del traffico dei clandestini. A Tripoli e nelle altre città libiche della fascia costiera, si è diffusa la notizia che in alto mare le imbarcazioni vengono intercettate dalle navi militari che portano i migranti in Italia.
Si sono abbassati anche i costi del viaggio. Oggi con 300 dollari si compra il biglietto di sola andata per Lampedusa, per l’Italia-Europa, a fronte dei 1000/1500 dollari che si pagavano una volta. E si finanziano così le milizie mai sciolte. Sono troppi anni che l’Italia denuncia la solitudine, e l’egoismo europeo. Un po’ troppo «tirchia» quest’Europa che investe poco in Frontex e nella accoglienza.

l’Unità 10.4.14
Clinica degli orrori, ergastolo all’ex primario
Arrestato dopo la sentenza: poteva fuggire
Al S. Rita 4 decessi a causa di operazioni inutili
di Giuseppe Vespo


Ergastolo, e tre anni di isolamento diurno. È la pena decisa dalla prima corte d’Assise del Tribunale per Pier Paolo Brega Massone, l’ex chirurgo della clinica Santa Rita di Milano, qualche anno fa finita al centro delle cronache per lo scandalo degli interventi chirurgici inutili, fatti solo per ottenere i rimborsi del sistema sanitario.
«Pezzi anatomici del paziente, seno o polmoni che fossero, e rimborsi. Una raggelante equazione», aveva sostenuto l’accusa, costata adesso all’ex primario di chirurgia toracica la pena massima prevista dall’ordinamento. Brega Massone, in aula con la moglie, è stato arrestato poco dopo la lettura della sentenza perché secondo il pubblico ministero aveva soldi e contatti all’estero, ed era concreta la possibilità che fuggisse. È accusato di omicidio volontario per la morte di quattro pazienti e per 45 casi di lesioni. Per altri ottanta casi di lesioni e per truffa l’ex medico ha già subito una condanna in appello a 15 anni di reclusione, sulla quale ora si dovrà esprimere la Cassazione.
La Corte ha così sposato in pieno la richiesta dell’accusa, sostenuta dalle pm Tiziana Siciliano e Grazia Pradella, che hanno ottenuto la condanna di altri due membri dell’equipe chirurgica sotto accusa: trenta anni per Fabio Presicci, che risponde del concorso in due omicidi, e 26 anni e due mesi di reclusione per Marco Panzera - concorso in un omicidio - al quale sono state riconosciute le attenuanti generiche anche per via della «minore esperienza professionale ».
Non è passata dunque la linea della difesa del medico, rappresentata dall’avvocato Luigi Fornari, che «escludeva » si trattasse di omicidi volontari e sosteneva che «tutti gli interventi erano giustificati e che le conseguenze negative rientrano purtroppo nella normalità statistica degli interventi chirurgici ». Fornari aveva contestato che Brega Massone avesse agito «con dolo o anche solo con colpa». Poco prima che arrestassero l’ex chirurgo, la moglie Barbara ha commentato: «Non è normale quello che è successo. Persino i consulenti della procura avevano detto che gli omicidi erano imprevisti, eppure lo condannano lo stesso, come mai? Oggi tocca a mio marito, domani può toccare a chiunque altro». La donna si è detta comunque speranzosa nel secondo grado. Quella di Brega Massone resta una condanna senza precedenti: mai era stato richiesto e inflitto l’ergastolo nei confronti di un medico accusato di reati commessi in quanto medico.
Durante la requisitoria le due pm avevano parlato di Brega Massone e Presicci come di chirurghi che non avevano esitato a eseguire interventi inutili con tanto di mutilazioni per soldi, dimostrando di non possedere «il senso dell’umana pietà». Le morti dei quattro pazienti risalgono al 2006, gli arresti sono scattati nell’estate del 2008 quando è esploso lo scandalo degli «orrori».
La Corte d’Assise ha condannato anche altri quattro imputati a reclusioni comprese tra un anno e due mesi e due anni e tre mesi. Pena, quest’ultima, inflitta a Renato Scarponi, ex responsabile del reparto di riabilitazione della Santa Rita. Mentre due anestesisti sono stati condannati a un anno e sei mesi e un’infermiera a un anno e due mesi. Per altri due imputati è stata dichiarata la prescrizione.
I giudici disposto provvisionali che vanno da dieci a cento mila euro, in anticipo ai risarcimenti da quantificare in sede civile per la Regione Lombardia, la Asl di Milano, l’Ordine provinciale milanese dei medici, Medicina Democratica e per i familiari dei pazienti e i pazienti che si erano costituiti parti civili.

La Stampa 10.4.14
“Mia figlia è stata umiliata. Fatturava sulla nostra vita”
La signora Aloia: per me possono buttare la chiave
di Stefano Rizzato


«Siamo in tanti, in tanti a soffrire ancora, tutti i giorni. Per questo ho voluto assistere fino alla fine, per questo ero lì mentre i suoi avvocati lo difendevano a spada tratta. Per me, possono buttare la chiave della cella da subito». 
Per Giovanna Aloia la condanna a Paolo Brega Massone è una vittoria atroce e faticosa. Che regala la convinzione che giustizia possa esistere, ma non cambia la realtà quotidiana di una figlia malata e menomata da un medico senza scrupoli. 
Giovanna è la mamma di Barbara Bigoni, all’epoca trent’anni e oggi 37. Una ragazza down, arrivata in ospedale con la febbre e una broncopolmonite e poi portata in sala operatoria, con la febbre, per l’asportazione di parte di un polmone. Un’operazione insensata, utile solo a gonfiare la parcella. «Un intervento abnorme ed invasivo, in totale disprezzo delle condizioni di fragilità della paziente», lo definivano i primi atti del lungo processo a carico del medico della Santa Rita, la «clinica degli orrori», quelli che nel 2008 invocavano l’applicazione delle misure cautelari.
Oggi, dopo aver assistito all’ultimo atto del lungo processo, la signora Aloia non si trattiene: «L’abbiamo vissuta tutta da vicino questa storia, sulla nostra pelle, fin da quando Barbara è stata ricoverata per volere del medico di base, quando l’hanno portata a fare una tac, poi operata dopo pochi giorni senza ragione, con la febbre, sfruttando la nostra ignoranza. Da sette anni Barbara non riesce a camminare bene, ha perso tutti i denti davanti. È stata umiliata per l’unico obiettivo di fare soldi. Per fatturare fatturare fatturare fatturare. Ma non si fattura sulla vita delle persone». 
A poco sono valsi, per migliorare le condizioni della ragazza, i soldi del risarcimento avuti nell’altro processo. «Non mi ridanno la vita e non cambiano le cose. Le dirò di più: secondo me quei soldi toccavano ai pm, perché davvero abbiamo trovato persone capaci di fare il loro lavoro. E che ci fanno tornare fiducia nella giustizia», dice Giovanna. 
E conclude così: «Io sono grintosa ma non sono cattiva. Sono stata in prima fila durante tutto il processo, ma non è come hanno detto alcune persone, non è vero che volevamo farlo condannare a tutti i costi. La verità è che in ospedale possono succedere degli errori. Ma far male di proposito, per soldi, alle persone, no. Quello non si può fare».

La Stampa 10.4.14
I valori perduti
di Umberto Veronesi


La sentenza di condanna di Pier Paolo Brega Massone disegna una vicenda ad un tempo tragica e atroce, ma deve essere innanzitutto un monito per tutto il Paese al recupero dei valori etici originari della medicina. Anche se sempre più si lavora in équipe multidisciplinari, la decisione finale sull’atto terapeutico spetta in gran parte al singolo medico. 
E richiede sicuramente esperienza e competenza, ma anche limpidezza ed equilibrio morale. L’asse di questo equilibrio, e dunque il valore fondamentale da rimettere al centro della professione medica, è il rapporto umano con il paziente. Bisogna recuperare la relazione di fiducia fra medico e paziente, che era la parte migliore della medicina paternalistica dello scorso secolo e che si fonda sul dialogo. E’ importante che il medico oggi come ieri sappia ascoltare, ma anche che sappia spiegare in modo chiaro ed esaustivo le cure che propone al malato, e in questo momento soprattutto si gioca la sua onestà. In Italia lo strumento di questo dialogo è il Consenso informato alle cure, che è di per sé una grande conquista dei nostri tempi perché permette al cittadino di riappropriarsi della decisione se e a quali cure sottoporsi. Il problema è che la burocrazia che si è creata intorno al Consenso informato in realtà oggi riduce la comunicazione perché il processo di acquisizione del consenso - che presuppone appunto il capire e il condividere - si è risolta in buona parte in moduli e modulistiche che portano ben lontano da quella che era l’intenzione del legislatore. Oggi fra medico e paziente si è creata una distanza eccessiva, uno spazio asettico che va urgentemente ricolmato. I medici del futuro dovranno recuperare la dimensione umana delle medicine antiche. 

La Stampa 10.4.14
Il giallo kazako
Shalabayeva, la Cassazione francese blocca l’estradizione di Ablyazov
A dicembre il tribunale di Aix-en-Provence aveva autorizzato la consegna dell’oligarca alle autorità russe. Il caso passa alla Corte d’Appello di Lione
qui

Repubblica 10.4.14
Se la Turchia è una potenza con l’immunità
di Barbara Spinelli


ISTITUITA nel 1949 per unire Europa e America nella guerra fredda, la Nato sta diventando uno strumento spesso pernicioso, che sopravvive nel disorientamento, implicato in conflitti armati fallimentari. Alla sua guida una potenza Usa poco disposta a immettersi in un mondo multipolare, impelagata costantemente in manovre torbide, abituata a suscitare spettri che poi non controlla.
ALCUNI Stati membri - Turchia in testa - usano la Nato per dilatare nazionalismi e squilibri regionali senza mai doverne rispondere. Non incarnando più una linea chiara, l’Alleanza andrebbe sciolta e l’idea d’occidente ridiscussa sul serio: nessuno lo fa.È quanto si evince dall’inchiesta, pubblicata ieri nel nostro giornale e come sempre accuratissima, condotta da Seymour Hersh sulla recente crisi siriana. Al centro dell’indagine: la guerra sventata per un pelo contro Damasco, nell’autunno scorso, e la maniera in cui l’amministrazione Usa ha rischiato di cadere in una trappola che si era confezionata con le proprie mani. Una trappola congegnata dal governo Erdogan, in congiunzione con regimi che l’occidente s’ostina a ritenere amici (Arabia Saudita, Qatar) e assecondata agli esordi dallo stesso Obama.
Tutti ricordiamo l’incidente che quasi trascinò America e Europa in un’ennesima guerra, nel 2013. All’origine, un micidiale attacco con armi chimiche (il sarin), il 21 agosto nelle periferie di Damasco, che fece centinaia di morti. Fu subito accusato il governo siriano, e Obama dichiarò che la Linea Rossa, da lui fissata il 20 agosto 2012, era stata sorpassata. L’intervento militare fu presentato come ineludibile, e il governo inglese e quello francese assentirono (il ministro Bonino annunciò che l’Italia non avrebbe partecipato, senza un mandato del Consiglio di sicurezza dell’Onu).
Come in Iraq, mancavano tuttavia prove evidenti delle colpe di Assad. L’occidente e la Nato sono rapidi a parlare; lenti a comprendere gli intrichi regionali, oltre che a imparare da sbagli passati. Ubriacati dalle rivoluzioni arabe, non avevano calcolato le loro degenerazioni islamiche, bellicose. Avevano spento Gheddafi creando caos, e il disastro minacciava di ripetersi, amplificato, a Damasco. Inutilmente lo spionaggio americano aveva fornito le prove, sin dalla primavera del 2013, che l’esercito siriano non era l’unico a possedere il gas nervino. La Casa Bianca prima ignorò l’avvertimento, poi fu presa dai dubbi, poi cambiò di nuovo idea e presentò l’ipotesi dell’attacco siriano come un fatto incontrovertibile che giustificava la rappresaglia. Proprio come era avvenuto in Iraq, ai tempi di Bush jr. O in occasione dell’incidente del Golfo del Tonchino nel ‘64, quando Johnson s’inventò un’offensiva viet-cong per scatenare bombardamenti del Vietnam del Nord.
Hersch constata il barcollare nefasto dell’amministrazione Usa, in Siria. Ingenti quantitativi di gas nervino sono finiti nelle mani del Fronte Al-Nusra, la fazione jihadista presente nel movimento anti-Assad. Tra i principali fornitori c’era Erdogan (tramite l’azienda turca Zirve Export), e le consegne vennero organizzate all’inizio del 2012 in accordo con Arabia Saudita e Qatar, con l’assidua assistenza americana e dei servizi britannici. Si trattava di piegare l’Iran, alleato chiave di Damasco, e a questo scopo Washington consentì a incanalare armi chimiche in provenienza dagli arsenali di Gheddafi in Libia. Quando Washington cominciò a tergiversare, nel 2013, l’asse turco-saudita si diede un obiettivo preciso: «fabbricare» un attacco chimico di vaste proporzioni, attribuirlo a Assad, e mettere nell’angolo Obama stringendolo nella morsa della Linea Rossa.
Nell’ultima fase dell’operazione Obama tentò una marcia indietro, cercando di divincolarsi dall’accordo segretamente concluso con i tre «amici» dell’occidente: con la Turchia membro della Nato, e con Arabia Saudita e Qatar. Fu a quel punto che Erdogan, sentendosi abbandonato, ordì l’eccidio del 21 agosto. L’orrore causato dall’uso del sarin nei sobborghi di Damasco avrebbe indotto la Casa Bianca a rientrare nei ranghi e a proclamare infranta la Linea Rossa. Cosa che Obama fece, anche se ancora una volta, alla fine, tornò sui suoi passi: accolse la promessa siriana di smantellare le armi chimiche, accettò la mediazione di Putin, e fermò l’offensiva contro Damasco.
C’è qualcosa di marcio in occidente e nella Nato, se un paese membro può impunemente, addirittura tramite carneficine, portare l’Alleanza sul bordo della guerra. Se l’impunità impedisce che la verità venga alla luce: la verità di un’America incapace di imbrigliare le deviazioni violente di propri alleati, e l’uso che vien fatto della Nato come scudo, e come scusa. E c’è del marcio nell’Unione europea, che da anni tratta con Ankara senza mai indagare sulle sue condotte di potenza regionale irresponsabile. Erdogan ha vinto di nuovo le elezioni, il 30 marzo, e subito ha minacciato gli oppositori interni ed esterni senza tema d’esser redarguito: «Chi ha attaccato la Turchia è rimasto deluso, e da domani può essere che qualcuno scapperà. Noi però entreremo nei loro covi, e loro pagheranno il prezzo». Questo significa che nessuna istituzione occidentale - Nato o Unione europea - è in grado di garantire un ordine nel mondo, come pretende. È vero piuttosto il contrario: ambedue stanno divenendo garanti del caos, e di manovre che mal-governano e neppure capiscono. Continuano a considerare Siria e Iran grandi nemici, e non si rendono conto che stanno invischiandosi in un Grande Gioco a fianco di alleati inaffidabili (Turchia, Arabia Saudita, Qatar), il cui primo interesse strategico è regolare i conti con l’Islam sciita.
La cosa più inquietante è la volubile incompetenza degli Stati Uniti, nel Grande Gioco. Solo in parte dominano la storia che fanno, divisi tra establishment militare, servizi, ideologi politici. Washington precipita spesso in imboscate di cui si libera a stento (quando si libera, ricade nel vecchio bipolarismo russo-americano). Lo si è visto in Iraq, Afghanistan, Libia. Appena due giorni prima dell’attacco che aveva programmato in Siria Obama chiese l’approvazione del Congresso, e fu il primo segno di un ritiro volontario dall’operazione turco-saudita, opportuno ma umiliante. Lo stesso era successo nell’ormai irrilevante Inghilterra: Cameron s’era già armato di tutto punto, e il 30 agosto 2013 il Parlamento votò contro e lo svestì.
L’accumularsi di simili incidenti dovrebbe spingere l’Europa a dotarsi di una comune politica estera e di difesa, che non sia al traino della sempre più fiacca, ingabbiata potenza Usa. Dal 2005 Bruxelles negozia con Ankara, rinviando continuamente l’ingesso nell’Unione, ma la questione decisiva non l’affronta: in Europa non si entra con un’intatta sovranità assoluta, e questo nessuno s’azzarda a dirlo a chi si candida all’adesione (analogo errore fu commesso nell’allargamento a Est). Non si entra neppure senza la memoria dei propri misfatti: nel caso turco, il genocidio degli armeni nel 1915-16. Non è una questione minore, visto che Erdogan non esita a produrre e distribuire nel mondo il gas nervino, e a provocare massacri pur di raggiungere - sotto l’ombrello della Nato - le proprie mire nazionaliste.
Il caso siriano e la trappola turco-saudita (originariamente turco-saudita-americana) confermano che l’ordine mondiale non può più essere affidato alla sola e imprevedibile leadership Usa. Il nuovo ordine ha da essere multipolare, e l’Europa dovrà, in esso, conquistarsi un suo spazio. L’attacco occidentale contro la Siria è stato cancellato all’ultimo minuto, ma casi simili possono riprodursi, e che le cose erano marce lo si saprà sempre troppo tardi. Troppo tardi si apprenderà che Occidente è parola piena di strepito, buoni propositi, vista corta, e anche inciviltà.

l’Unità 10.4.14
Palestina, Kerry critica lo stop di Israele ai colloqui
Gerusalemme decide il blocco dei contatti con l’Anp
Gli Usa: falliscono i negoziati di pace
di Umberto De Giovannangeli


L’ira statunitense non fa breccia nelle granitiche certezze di Benjamin Netanyahu. Le affermazioni critiche da parte del segretario di Stato John Kerr y sulle ragioni che hanno determinato lo stop ai negoziati di pace con l’Autorità nazionale palestinese di Mahmoud Abbas (Abu Mazen) hanno scatenato la reazione del primo ministro dello Stato ebraico. Netanyahu passa alla controffensiva. In una duplice direzione: Washington e Ramallah. Al «moderato» Abu Mazen, Netanyahu imputa di voler scatenare il secondo tempo della sua «intifada diplomatica », minacciando di chiedere di far parte di 15 organismi internazionali legati alle Nazioni Unite. Per i falchi di Gerusalemme si tratta di una provocazione inaccettabile. Ecco allora le contromisure.
BRACCIO DI FERRO
«Bibi» ordina a tutti i suoi ministri di interrompere qualsiasi relazione, dialogo, negoziazione, con i loro omologhi palestinesi. L’Anp «deve pagare un prezzo alto» per le sue «provocazioni» unilaterali, avverte il ministro degli Esteri israeliano, Avigdor Lieberman. Da Ramallah si prova a minimizzare ma l’impatto più pesante che l’«ordinanza» di Netanyahu potrebbe avere riguarda la possibilità pressoché una certezza, di uno stop all’erogazione del trasferimento delle tasse raccolte da Israele per conto dell’Autorità palestinese. Si tratta di un a somma che si aggira attorno ai cento milioni di dollari, vitali per pagare gli stipendi a i funzionari e dipendenti pubblici dell’Anp.
Non basta, l’intesa mediata nel novembre scorso dal segretario di Stato Usa, faceva sì che Israele s’impegnasse a liberare in quattro fasi 104 palestinesi detenuti prima degli accordi di Oslo del 1993, in cambio della disponibilità palestinese a tenere in sospeso ogni iniziativa di adesione a organizzazioni internazionali fino al termine dei colloqui, il prossimo29 aprile. Ma anche questa mediazione è saltata. Lo scontro è totale. Ed è uno scontro che riguarda non solo i rapporti tra Israele e la leadership palestinese di Abu Mazen, ma anche, e per certi versi soprattutto, i rapporti tra Gerusalemme e Washington. La Casa Bianca non ha nascosto la crescente irritazione del presidente Obama verso l’atteggiamento del governo israeliano, ritenuto «troppo chiuso» rispetto alla necessità di dare segnali concreti all’Anp di disponibilità a trattare, almeno su due punti chiave: il blocco della politica di colonizzazione degli insediamenti nei Territori, e il mantenimento degli impegni assunti sulla liberazione dei detenuti palestinesi. Ora l’eterna partita del negoziato sembra azzerarsi. Il linguaggio che torna a dettar legge è quello della forza. Gli innumerevoli tour diplomatici di Kerry in Terrasanta non hanno prodotto risultati. «La misura è colma», è sbottato nei giorni scorsi Obama. Ma da Gerusalemme, gli «alleati» israeliani non intendono mollare. La destra non ha mai amato Barack Hussein Obama, considerandolo troppo attento alle invocazioni arabe. E allora se braccio di ferro deve essere, che sia. Via libera ad un piano di costruzione di altre 708 unità abitative a Gerusalemme Est, e un aut aut a Ramallah: chiedere di essere parte di organismi internazionali è per Netanyahu una forzatura politica che rasenta il ricatto. E Israele, ribadiscono fonti vicine al premier, ai ricatti non si è mai chinato. E poco importa se questa «legge non scritta » faccia imbestialire l’amministrazione Obama. D’altra parte, Netanyahu sa di poter contare su una trasversale «lobby israeliana» al Congresso. Quegli «amici », democratici e repubblicani, non tradiranno mai.

Corriere 10.4.14
Netanyahu: «Basta contatti israelo-palestinesi»


GERUSALEMME — Il premier israeliano Benjamin Netanyahu ha bloccato tutti i contatti tra i ministri del suo governo e le controparti palestinesi, dopo che queste hanno chiesto di aderire come entità statale a diversi trattati e convenzioni Onu. Sono previste due eccezioni: i colloqui in materia militare e di sicurezza e gli interventi della ministra della Giustizia Tzipi Livni, capo della delegazione negoziale dello Stato ebraico. Un messaggio anche agli alleati di Washington: la decisione di Netanyahu arriva dopo le dichiarazioni del segretario di Stato Usa John Kerry che ha indicato, come causa ultima del fallimento del dialogo israelo-palestinese, la recente approvazione di 700 nuove unità abitative in Cisgiordania e intorno a Gerusalemme Est. Israele accusa i palestinesi di essere responsabili dello stallo nei colloqui di pace. Per l’Autorità nazionale palestinese «la decisione del governo israeliano non rappresenta solo un’illegittima pressione sulla nostra leadership, ma mina alla base qualsiasi negoziato futuro».

l’Unità 10.4.14
Aleksej Nikitin: «In Crimea famiglie separate dall’occupazione»
Ipotesi di scenario ceceno per l’Ucraina nel caso in cui la Russia non si limitasse alla Crimea
Lo scrittore è nato a Kiev nel 1967 e laureato in fisica
In Italia sono stati tradotti i romanzi «Istemi» (2011) e «Mahjong» (2012)
intervista di Jolanda Bufalini


Aleksej Nikitin, scrittore ucraino, appartiene alla generazione che aveva 20 anni quando è crollata la Cortina di ferro, ha sperimentato e creduto nella possibilità dell’autodeterminazione e ora è incredulo: «Nessuno avrebbe mai immaginato ciò che sta accadendo».
Il suo romanzo, «Istemi», (edito da Voland), è una sorta di war-game fra fiction e realtà. Perché si stupisce?
«Se qualcuno, sei mesi fa, avesse pronosticato un intervento militare russo in Ucraina, sarebbe stato considerato un provocatore o un extraterrestre. Per l’Ucraina indipendente la Russia era un Paese molto vicino e amico. Ma il primo marzo abbiamo assistito in diretta al voto unanime del Consiglio della Federazione russa per l’intervento militare in Ucraina (non in Crimea). La questione non è la Crimea».
Cosa allora?
«Negli ultimi decenni sono stati sottoscritti trattati sulla base della Carta dell’Onu e degli accordi di Helsinki, i due Paesi hanno riconosciuto reciprocamente l’integrità territoriale. Di tutto questo non resta che un enorme buco attraverso il quale soffia il vento gelido di una nuova guerra».
Aleksej, come ha vissuto i mesi di Maidan?
«Come la maggioranza degli abitanti di Kiev, come l’assoluta maggioranza dei miei amici. Siamo stati al Maidan a dicembre, gennaio, febbraio. Con il tempo la piazza è cambiata e noi siamo cambiati con lei. Da dicembre alla prima metà di gennaio sembrava un festival non una rivoluzione. Dopo le prime vittime è stato un crescendo. Gente pacifica, artisti, poeti, manager di piccole imprese, hanno scoperto di essere dei combattenti coraggiosi, capaci di rischiare anche la vita sulle barricate. Da parte del potere il ricorso alla forza aumentava di giorno in giorno. Noi non avevamo un’opinione molto elevata di Janukovic, ma non avremmo mai pensato che avrebbe dato l’ordine di sparare. Il risultato è stato più di cento morti, decine di scomparsi, mille feriti ancora negli ospedali».
Lei scrive in russo, ciò rappresenta un problema in Ucraina?
«Il russo è la mia lingua materna, non solo lo parlo da sempre ma scrivo articoli in russo per le riviste di Kiev, do interviste in russo ed è in russo anche la mia prosa letteraria. Vivo a Kiev e non percepisco alcuna minaccia dai colleghi ucraini ».
Nel mondo prevale, comunque, l’opinione che la Crimea sia russa. Lei cosa ne pensa?
«Importante non è di quale Paese faccia parte la Crimea, ma la possibilità per chi ci vive di essere felice. Intanto, però, dopo l’occupazione russa, decine di migliaia di famiglie di Crimea, comprese quelle russe, sono state separate. Nel quarto di secolo in cui la Crimea è stata parte dell’Ucraina indipendente e nei 40anni dell’Ucraina sovietica, molti giovani hanno studiato a Kiev, Charkov, Lvev, dove sono rimasti e hanno creato le loro famiglie pur tornando in Crimea a trovare i genitori. Ora questo non è più possibile. Ancora peggiore è la situazione per chi è in Europa, che con la cittadinanza russa non ha più il visto... Molti dipendenti pubblici ucraini hanno lasciato il lavoro e la casa in Crimea. I militari e le loro famiglie si sono trovati di fronte a scelte tragiche: o adempiere al giuramento al popolo ucraino e lasciare tutto, oppure passare all’esercito russo ».
Tuttavia è stato un plebiscito in favore della Russia.
«I risultati referendari non sono credibili. I russi sono maggioranza in Crimea, ma lo sono anche in molte altre regioni ucraine. Secondo la propaganda di Mosca, tutti i russi ucraini sognano di vivere in Russia, ma è una affermazione molto discutibile. La Russia si pensa come un impero, nel quale le libertà individuali sono subordinate agli interessi dello Stato. L’Ucraina è più libera, nella Russia di Putin sono vietate molte cose che gli ucraini danno per scontate. Nel Maidan di Kiev c’erano russi, ucraini, ebrei, bielorussi, armeni, polacchi, abkhazi, georgiani, cittadini ucraini di tutte le nazionalità che vogliono un Paese democratico in cui l’informazione sia libera, senza censura».
Sul risultato referendario in Crimea hanno influito i salari russi più alti?
«Sembra che un ruolo decisivo l’abbia giocato il voto dei pensionati. Per le pensioni più alte? Può darsi, mai pensionati sanno poco delle attuali condizioni di vita in Russia. Invece ricordano i tempi dell’Unione sovietica, quando erano giovani e il sole splendeva luminoso e gli alberi erano verdi. Il referendum è stato, per loro, un ritorno alla giovinezza. Comunque, io auguro alla Crimea bene e prosperità».
Teme uno scenario ceceno per l’Ucraina?
«Intanto spero che non ci sia uno scenario ceceno in Crimea. Dopo le guerre cecene, la Russia ha instaurato rapporti pacifici con i popoli del Caucaso. Voglio credere che useranno questa esperienza con i tatari, che hanno sofferto le deportazioni staliniane. Per l’Ucraina, l’ipotesi di uno scenario ceceno è pensabile solo nel caso in cui la Russia decida di non limitarsi alla Crimea. Se la Russia decidesse di occupare, la guerra partigiana sarebbe inevitabile».
L’Ucraina tra Est e Ovest, la guerra del gas. Una situazione di grande pericolo?
«Ci si abitua. La pace è un bene fragile, abbiamo vissuto tutto il XX secolo con questa consapevolezza. Nel XXI avevamo cominciato a dimenticare cosa sia la minaccia costante di una guerra. Evidentemente abbiamo corso troppo. Si torna alla condizione di abituale inquietudine ».
Da scrittore, come valuta Putin, Timoshenko, Janukovic?
«Timoshenko e Putin si assomigliano molto. Anche Timoshenko e Janukovic si assomigliano, sebbene non lo diresti a un primo sguardo. Ciò significa che dovrebbero assomigliarsi anche Putin e Janukovic. E questa è una strana conclusione. Putin è un politico aggressivo, di successo, straordinariamente popolare in Russia, mentre Janukovic ha perso tutto a causa della sua vigliaccheria e smisurata avidità. Ma se effettivamente si assomigliano, allora con Putin si ripeterà il destino di Janukovic. Oggi ciò appare incredibile, ma la storia ci ha già insegnato che la realtà supera il più fantasioso dei romanzi».

La Stampa
Terrore in Pennsylvania
Sedicenne accoltella 20 compagni di scuola
di P. Mas.


Venti persone ferite, di cui almeno sette in condizioni gravi. È il bilancio dell’ultimo episodio di violenza, accaduto ieri in una scuola americana.
L’allarme è scattato poco dopo le sette del mattino, quando uno studente di 16 anni si è presentato con due coltelli in mano alla Franklin Regional High School di Murrysville, circa 20 miglia ad est di Pittsburgh, in Pennsylvania. Il giovane ha cominciato a ferire i colleghi, alcuni in maniera leggera, ma altri con vere pugnalate all’addome e alla schiena. Uno degli studenti è riuscito ad azionare l’allarme anti incendio, consentendo così agli altri di fuggire. A quel punto il vicepreside sarebbe riuscito a bloccare l’aggressore e, aiutato da una guardia della sicurezza, a disarmarlo. Quindi è arrivata la polizia, che ha arrestato il colpevole e lo ha portato in ospedale, per curarlo dei tagli che si era procurato. La sua identità e i motivi dell’attacco sono ancora sconosciuti, ma la sera prima ci sarebbe stata una telefonata minatoria del colpevole ad un collega.
Almeno sette studenti sono rimasti feriti in maniera grave, e sono stati operati d’urgenza. La previsione dei medici è che tutti dovrebbero riuscire a sopravvivere.
Questo nuovo assalto ha riportato alla mente degli americani l’incubo della violenza nelle scuole, ma stavolta con una prospettiva diversa. Finora l’attenzione si era incentrata su due punti: le condizioni mentali degli aggressori, e il facile accesso alle armi da fuoco. In questo caso il colpevole ha usato dei coltelli, che sarebbe impossibile bandire. Aumenta quindi il senso di vulnerabilità, davanti a queste folli esplosioni di violenza.

La Stampa 10.4.14
Wall Street, la bolla della marijuana
La Borsa Usa scommette sui titoli dell’erba
di Giuseppe Bottero


Il capofila è Michael Mona junior, 25 anni nel mondo del business, moltissime ambizioni, soldi quasi zero. In compenso, una carriera parecchio accidentata: un mezzo flop la scommessa sull’attività alberghiera a Las Vegas, un flop totale la caccia alla licenza per aprire un casinò, sempre in Nevada. Eppure il suo faccione divertito - capelli all’indietro, orologio d’oro in bella vista - da qualche mese rimbalza tra le pagine dei magazine di finanza più prestigiosi. L’ultimo a dedicargli un servizio è Fortune, che l’ha eletto a simbolo della nuova, stramba, carica di (futuri) milionari verdi: pionieri che hanno puntato tutto sull’industria della marijuana e ora, dopo la valanga delle liberalizzazioni, fanno il pieno di investimenti.
Il rally della CannaVest di Mona jr., specializzata nella produzione e nel commercio di prodotti a base di canapa, dura ormai da un anno: 12 mesi in cui ha visto balzare il valore delle sue azioni da 4 a 400 dollari. L’azienda con sede legale a Las Vegas è la punta dell’iceberg del mercato legale dell’erba, che negli Stati Uniti vale 2,34 miliardi di dollari e secondo gli analisti può schizzare a 10 miliardi. Negli Usa la legge federale classifica la marijuana come droga illegale, ma ormai in 20 Stati più il District of Columbia la vendita è autorizzata per uso terapeutico, e nello stato di Washington e in Colorado lo è anche per uso ricreativo. Per abbattere le barriere s’è mosso pure George Soros, che ha donato 80 milioni di dollari. Il settore ha un indice - il Cannabis Index, balzato del 265% nei primi mesi dell’anno - e sta ereditando i tic del vecchio mondo dei lupi di Wall Street. Il Gekko, o aspirante tale, è un utente di Twitter che dietro l’hashtag #WolfPack dispensa consigli agli investitori. Si fa chiamare “Wolf of Weed Street”, ed è il reuccio delle penny stock, azioni di società con bassissima capitalizzazione, che operano fuori dagli scambi dei mercati principali, particolarmente volatili. Un esempio: Hpc Pos System ha messo a segno un balzo di quasi il 500% eppure il valore dei suoi titoli sta attorno ai 4 centesimi. Hemp, che produce abbigliamento in canapa, è decollato da 0,03 dollari a 0,2 in quindici giorni. Growlife, che il primo aprile valeva 0,04 dollari ora veleggia verso il dollaro. Terra Tech, infine, è cresciuta del 515%.
È qui, in quest’area ancora avvolta dalle nebbie, che rimbalzano i titoli delle società legate al business della marijuana. Gli americani le chiamano «dot bong,» un gioco di parole che mescola echi di new economy e pipe per la ganja. Le cose si muovono pure in Canada. La Tweed Marijuana inc., nel primo giorno di contrattazioni alla Borsa di Torono, ha chiuso a 2,59 dollari canadesi ad azione, con un incremento del 191 per cento rispetto al valore di 89 centesimi, basato sull’offerta privata dello scorso 7 marzo. L’azienda, ospitata in un ex fabbrica di cioccolato di Smith Falls, nell’Ontario, ha annunciato la scorsa settimana di avere acquistato 60 nuove varietà di semi di marijuana medica da coltivatori autorizzati. «La quotazione in borsa ci aiuta, perché ci dà più trasparenza e credibilità e ci servirà per la raccolta di capitali», dice il presidente Bruce Linton.
Come da tradizione, la bolla al momento produce pochi utili, e per credere nei manager bisogna armarsi di parecchia fiducia: molti hanno precedenti penali, spesso legati - appunto - all’uso di stupefacenti. Nella strana corsa c’è anche un aspetto sentimentale. Todd Harrison, veterano del floor, ha iniziato a puntare sull’erba nel 2012 e adesso si gode la pensione: in qualche modo, racconta, è tornato l’hippy di trent’anni fa.

Corriere 10.4.14
Pugno di ferro egiziano con laici e gay
Al Sisi non colpisce solo gli Islamisti
di Cecilia Zecchinelli


Sono milioni, in Egitto e nel mondo, a pensare che il generale Abdel Fattah Al Sisi abbia salvato il più grande Paese arabo dalla dittatura dei Fratelli musulmani e sia ora il garante di una democrazia laica. In milioni l’hanno infatti appoggiato quando in luglio depose l’impopolare raìs islamico Morsi. In milioni lo eleggeranno in maggio suo successore. Ma se sui rischi di una deriva teocratica corsi con l’ex presidente-Fratello si può e si deve discutere, sulla democrazia laica di Al Sisi c’è poco da dire. Se non che, come ammettono alcuni suoi sostenitori, «arriverà quando il Paese sarà pronto, inshallah ». Ovvero, per adesso non c’è.
Il pugno di ferro del nuovo regime non si è abbattuto solo sui Fratelli, con centinaia di morti e migliaia in cella. Anche i rari democratici laici che osano alzare la voce stanno pagando caro. Come i tre giovani leader di Tahrir condannati lunedì a tre anni di carcere, dopo mesi in cella e scioperi della fame. Colpevoli di aver protestato pacificamente contro la legge di Al Sisi che vieta ogni protesta. Tra loro il più noto è Ahmed Maher, capo del 6 Aprile, il più importante movimento della Rivoluzione del 2011. Moderato, anzi «socialdemocratico», si dichiara questo ingegnere 33enne. Le ong umanitarie e molti governi hanno chiesto il loro rilascio, come lo chiedono per i giornalisti (tra cui quattro stranieri), in prigione da tempo per aver sfidato la censura massiccia. Ma tutti gli appelli sono stati vani.
E adesso è emerso un altro caso allarmante: quattro uomini sono stati condannati a otto anni, uno di loro pure con lavori forzati, per omosessualità. L’ong Human Rights First sostiene che dall’arrivo di Al Sisi le condanne per orientamenti sessuali sono in aumento, quest’ultima è la più grave dal 2001. Perfino i diritti delle donne, in teoria più garantiti dalla nuova Costituzione, sono minacciati: la legge che punisce le molestie sessuali, già poco applicata, è ad esempio «in fase di revisione» . Il timore è che finisca per essere cancellata.

La Stampa 10.4.14
Baghdad 1991, anche se capovolto è sempre Omero
Così la guerra che non si poteva raccontare si confermò “paradiso dello spettatore”
di Antonio Scurati


La guerra è il paradiso dello spettatore.
Per giorni, settimane, mesi - forse per tutta la vita - abbiamo atteso invano la battaglia di Baghdad. Un satrapo orientale l’aveva proclamata «madre di tutte le battaglie», la coalizione occidentale era andata a nozze con quella definizione. Ma quella battaglia, poi, non è mai arrivata. Tutto si ridusse per noi a una nottata trascorsa davanti al televisore. E per capire cosa (non) accadde la notte del 17 gennaio 1991 nei cieli sopra Baghdad trasmessi dagli schermi delle nostre tv a colori bisogna tornare indietro nei millenni e salire ancora una volta sugli spalti di Troia assediata dagli Achei. Fu Omero, infatti, a stabilire per primo che la narrazione occidentale della guerra sarebbe sempre stata il «paradiso dello spettatore».
Siamo nel III canto dell’Iliade. Priamo, il vecchio e saggio re dei Troiani, chiama Elena perché si unisca al consesso degli anziani che scrutano, dagli spalti della rocca di Troia, il disporsi in battaglia dell’esercito acheo che si appresta ad assalire la città. Elena recalcitra. Sa di non essere amata. Lei è la moglie che rompendo i sacri vincoli della fedeltà coniugale ha causato la guerra che si è mangiata i figli di quei vecchi. Elena è, però, l’unica a conoscere il nemico per aver dormito nella sua casa, sotto il suo tetto, nel suo letto. Incoraggiata da Priamo, accetta e, dunque, comincia a descrivere i guerrieri greci scorti in fondo alla piana. Sfidando le leggi della verosimiglianza ottica, Elena li nomina uno a uno. Ecco il gigantesco Aiace, ecco il terribile Diomede, l’astuto Ulisse …
Tecnicamente questo avvistamento si definisce teichoskopía (sguardo dall’alto delle mura) e in questa tecnica narrativa omerica si riassume perfettamente la poetica dell’eroismo propria dell’epica guerriera. La narrazione epica della guerra è, infatti, esperienza estetica della piena visibilità. Lo sguardo di Elena è, insomma, lo sguardo stesso di Omero. Ma a questo modo di vedere la guerra corrisponde anche un modo di condurla. È la cosiddetta monomachía che domina l’Iliade e poi qualsiasi narrazione improntata al suo modello. Si tratta del duello a singolar tenzone, all’arma bianca, corpo a corpo, all’ultimo sangue, tra due campioni appiedati, i quali in questo modo si distinguono rispetto allo sfondo indistinto della mischia offrendosi al canto eternante del poeta nello «splendore della gloria».
L’ideologia occidentale del «decisive warfare», cioè di uno scontro frontale, di una battaglia campale tra eserciti-massa che risolvano il conflitto in modo inappellabile e inequivocabile in una «giornata del destino», sarà per millenni debitrice di questa antica concezione del misurarsi attraverso una violenza estrema e risolutiva. Attribuendo alla guerra/duello la duplice virtù di essere decisiva e rivelativa, l’Occidente per millenni pensa la battaglia come evento fatidico, momento della verità, in cui le controversie si decidono irrevocabilmente, le identità dei contendenti si definiscono reciprocamente, gli individui e i popoli manifestano chiaramente il loro valore, i destini si dipanano irrevocabilmente e la vicenda umana trova il proprio senso entrando in una narrazione memorabile. Da Agamennone fino a George Bush, l’Occidente condurrà, motiverà, legittimerà e racconterà le proprie guerre sulla base di questa ideologia.
Facciamo, dunque, un salto di quasi tremila anni e saliamo su un’altra torre. Siamo a Baghdad ed è il 17 gennaio 1991. Alle 02,38, ora locale, si scatena l’attacco aereo che inaugura la prima guerra del Golfo. Peter Arnett e altri due inviati della Cnn, asserragliati nel grattacielo dell’Hotel al-Rashid, grazie a un collegamento telefonico satellitare scampato al black out piombato sulla capitale irachena, danno vita alla prima telecronaca in diretta televisiva da un fronte di guerra nel momento della battaglia della storia dell’umanità. Per 17 ore filate Arnett racconterà in diretta quello che vede fuori dalla finestra. Ma il punto è che non vede niente. Dapprima la narrazione avverrà in una totale assenza d’immagini, ma anche quando queste arriveranno la testimonianza visiva di quella memorabile notte di bombardamenti aerei consisterà quasi esclusivamente nella celebre visione del cielo notturno solcato dai traccianti della contraerea e rischiarato dai remoti bagliori di esplosioni sullo sfondo. Il tutto transnaturato in un mistico verde.
I reporter sono lì, sul luogo dell’evento nell’attimo del suo farsi, e dunque sono pienamente autorizzati a informare su di esso, ma per lo stesso motivo ne sono profondamente ignari, non potendo nemmeno alzare il capo per guardare fuori dalla finestra, onde scongiurare il rischio di essere colpiti. È la sovversione del paradigma omerico ma non la sua confutazione. I suoi concetti fondamentali - visibilità, gloria, eroismo, verità, decisione - sono ancora in vigore anche se declinati per via negativa. Lo scacco di Arnett e soci non comporta per niente, come ci si potrebbe aspettare, una dichiarazione d’impotenza da parte del sistema informativo. Al contrario: mai come in questo caso il telereporter è l’eroe dell’informazione. La televisione è tutta con lui. Ore di diretta e nessuna notizia («Non riusciamo a vedere niente - ammetterà Arnett - ma sembrano i fuochi d’artificio del 4 luglio»). Milioni di parole proliferanti e nessun racconto («I nostri colleghi a Washington e nell’Arabia del Sud sanno ovviamente più di noi»). Eppure la vertigine bellica della antica teichoskopía ancora s’impossessa della scena cruenta, sebbene in una nuova forma: «Siamo nel centro della Storia», proclamerà Arnett al culmine dell’esaltazione. Ma è una battaglia storica sofferta sulla propria pelle da un lato dello schermo e combattuta, sull’altro lato, da guerrieri da salotto.
Il sistema informativo televisivo si esalta, infatti, identificandosi nello scacco del proprio inviato. La totale incertezza riguardo ai valori di verità della notizia, e l’impotenza narrativa, fanno sì che l’informatore, ridotto a osservatore orbo, si assimili al telespettatore. È come se Arnett affermasse: noi che siamo qui ne sappiamo quanto gli spettatori da casa. Cioè poco più di niente. Ma proprio in questo consiste l’inaudito successo colto dal reporter post-giornalistico: il telespettatore s’identifica con lui dal suo salotto piccolo borghese a migliaia di miglia di distanza. Nasce così il telespettatore totale. L’informazione giornalistica in diretta tv dal fronte di guerra tiene a battesimo una nuova modalità di incomprensione del mondo modellata sull’inettitudine cognitiva e pratica dello spettatore televisivo. La televisione canonizza se stessa elevando a norma di comportamento generale la stolidità e impotenza del proprio pubblico.
Proprio in virtù di questo paradosso, l’operazione Desert Storm sarà un grande successo politico, e lo sarà in qualità di successo mediatico. Dopo settimane di bombardamenti sulla popolazione civile (90.000 morti), l’offensiva di terra sbaraglierà in poche ore quell’esercito iracheno dipinto come formidabile dalla propaganda americana. La battaglia di Baghdad non ci sarà comunque. Le divisioni corazzate, pur avendo la strada libera, si fermeranno inspiegabilmente prima di raggiungere la capitale del tiranno. La via all’uso della guerra per risolvere le controversie internazionali – impraticabile dopo il Vietnam - sarà, però, nuovamente aperta. E noi, noi celebrati, canonizzati, marmorizzati nella nostra essenza di telespettatori, staremo ancora a guardare.

l’Unità 10.4.14
Fondi alla ricerca, aiutiamo i «ribelli della conoscenza»
di Maria Chiara Carrozza


Cosa si prova a lavorare per gli altri e rimanere invisibili allo Stato? Un giovane ricercatore mi ha raccontato che nel rinnovare la carta d’identità è stato in difficoltà nel dichiarare il proprio mestiere, non riconosciuto formalmente dalla burocrazia. Paradossalmente «ricercatore» è ancora una professione non riconosciuta, invisibile.
Non esiste nemmeno un comparto della ricerca nella pubblica amministrazione e si applicano regole e criteri che non possono essere adatti a questo mondo. In un mondo che va velocissimo obblighiamo gli enti di ricerca a utilizzare strumenti come quello della «pianta organica», che blocca quei processi di adattamento necessari ad una continua competizione internazionale. È come chiedere di correre la Formula 1conuna cinquecento. Eppure il ricercatore è il mestiere più progressista che c’è: sempre in movimento, sfida continuamente le verità acquisite, il dogmatismo. Per loro quello che ieri era sicuro, non lo è più oggi, con la certezza che verrà sicuramente modificato in futuro. Addirittura per il biologo e filosofo francese Jean Rostand, la ricerca scientifica è la sola forma di «poesia» che sia retribuita dallo Stato. E noi, nonostante tutto, abbiamo buoni «poeti». Infatti su Nature, la più diffusa e nota rivista scientifica al mondo, i nostri ricercatori vengono definiti «pochi ma buoni»: negli ultimi dieci anni la qualità media degli articoli scientifici pubblicati da ricercatori italiani, misurata attraverso il numero di citazioni, è costantemente aumentata. Ma la prosa della realtà è molto aspra per i ricercatori che contribuiscono a migliorare le nostre vite in tutti i campi del sapere umano, con enormi difficoltà burocratiche, una vita precaria e ampie sacche di conservatorismo. In realtà la ricerca serve eccome: al progresso, a costruire il nostro futuro ed a creare i presupposti perché il nostro rimanga un paese manifatturiero.
Ma per rilanciare la ricerca in Italia occorre pensare ad una riforma radicale del sistema pubblico, in modo da allineare il nostro paese alle buone pratiche europee e internazionali. Sfruttiamo questo momento di riforme e di revisione della spesa pubblica per parlare anche degli enti pubblici di ricerca. Spending review non deve essere sinonimo di tagli, ma di una migliore comprensione di come spendiamo, di come investiamo e di come possiamo migliorare la gestione delle esigue risorse messe in campo per la ricerca dando alla politica, al governo e al Parlamento gli strumenti per programmare, finanziare e utilizzare al meglio i risultati della ricerca. Come potremmo affrontare altri tagli se gli investimenti in ricerca sono indietro rispetto alla media europea? Siamo ancora fermi all’1,26% del Pil, lontano dall'obiettivo di raggiungere l'1,53% per il 2020.
In attesa di una forte volontà politica che possa aumentare fondi e risorse, abbiamo il dovere di riorganizzare tutto il settore degli enti pubblici di ricerca, rendendoli più integrati, più efficaci, collaborativi e di respiro internazionale. L’attuale organizzazione degli enti pubblici di ricerca, dispersi negli uffici dei vari ministeri «vigilanti», nascosti sotto sigle dai nomi esotici e con acronimi impossibili da sciogliere ,non può essere funzionale al ruolo fondamentale che essi devono svolgere al servizio del governo e del paese. Il modello di organizzazione non può che essere quello di consigli di ricerca tematici, su temi strategici, raccolti in un sistema gestito da una agenzia nazionale delle ricerche che provveda alla programmazione, al finanziamento e al monitoraggio delle attività. L’agenzia deve essere dotata di consiglieri scientifici e di personale qualificato con alto profilo internazionale: la ricerca non può essere gestita da burocrati.
Se la politica non esercita la sua funzione d’indirizzo in modo trasparente, la ricerca frammentata rischierà di essere controllata da qualche capo dipartimento dei ministeri e non riuscirà a ritrovare la funzione ideale di sostegno allo sviluppo scientifico del paese. Dobbiamo sciogliere il legame con il singolo ministero vigilante, per abbracciare un modello di gestione più orizzontale che possa portare ad una maggiore autonomia e capacità di sviluppo. In questo nuovo contesto il Piano Nazionale della Ricerca(PNR)deve essere considerato il documento principale per la definizione del nostro progresso economico, sociale e tecnologico. Per questo deve essere un atto del governo e influire su tutti gli altri enti pubblici, che a loro volta devono dare contributi e pareri, in un ambiente di forte condivisione e collaborazione.
Una nuova organizzazione degli enti pubblici di ricerca è uno strumento essenziale per un nuovo modello economico basato sulla conoscenza e sul capitale umano, l’anello di congiunzione tra lavoro e sapere. Il progresso scientifico è il risultato dell’azione di ricercatori «ribelli» che sfidano lo status-quo dei saperi consolidati e portano avanti la scienza. Una politica della ricerca deve dare a questi «ribelli della conoscenza» gli strumenti per avere l’autonomia necessaria per inseguire con passione le proprie sfide. Per questo avevo definito il 2014 l’anno dei giovani ricercatori, cercando di porre un freno alla tremenda emorragia di talento che costringe molti italiani a spostarsi all’estero o peggio ancora, all’abbandono del perseguimento dei propri sogni.

il Fatto 10.4.14
La vera storia della figlia del Papa
Il romanzo di Dario Fo, racconto dell’umanità di Lucrezia Borgia, liberato dai cliché della donna dissoluta e incestuosa
di Dario Fo


Siamo alla fine del Quattrocento. Dopo Pio II, Paolo II, Sisto IV e Innocenzo VIII, il cardinale Borgia decide che è giunta l’ora di far eleggere se stesso al soglio più alto. A questo punto è inutile che egli continui a recitare in famiglia il ruolo dello zio munifico che giunge la sera e riparte all’alba. Ormai, giacché sarà fra poco il padrone della santa cattedra di Roma, può buttare nel pattume ogni eventuale pettegolezzo che esploderà di certo appena si saprà che il papa tiene figli e moglie morganatica. Ora però bisognerà far sapere questa verità anche alla sua prole. Non abbiamo, a tal proposito, documenti, ma è facile immaginare le parole e il dialogo che ne sarà sortito al momento della rivelazione.
Egli riunisce la famiglia intorno a sé e dice: “Cari figlioli, il vostro zio fra poco diventerà papa”. Grida e applausi, abbracci e sbaciucchi da parte dei bimbi in coro. Ma a ’sto punto qual è l’età dei pargoli? Il maggiore, Juan, ha diciotto anni, Cesare ne ha sedici, Lucrezia dodici e il quarto, Jofré, ne ha dieci. Lucrezia, saltando fra le braccia di Rodrigo, gli chiede: “Ma noi potremo sempre chiamarti zio o dovremo aggiungere Santità?”.
Rodrigo prende fiato un attimo, li invita a sedersi tutti intorno a lui, compresa Vannozza e il marito, e poi annuncia l’incredibile verità: “No, non mi dovrete più chiamare zio, perché invero non sono il fratello di vostra madre, e Carlo Canale non è il suo vero secondo marito, e il defunto vostro padre non era affatto vostro padre”.
I ragazzi restano come annichiliti, Cesare chiede: “E allora, se tutti qui siamo personaggi finti, fasulli, tu chi sei?”. “Sono il padre, il vero padre di tutti voi, non solo spirituale ma soprattutto carnale, che vi ha generato con vostra madre, l’unica persona reale”. Cesare in tono risentito chiede: “E avete continuato a raccontarci questa menzogna per tutto questo tempo, perché?”. “Perché sarebbe stato uno scandalo far venire alla luce il fatto che il vicepapa, quale sono stato fino a questo punto, avesse una donna che amava e insieme a quella avesse generato quattro figlioli che adora. E anche per voi sarebbe stato difficile uscirne indenni”. Lucrezia scoppia in lacrime e con lei anche il fratello più piccolo: “Ci avete sempre raccontato che non bisogna mentire – singhiozza la figliola – che la verità non si può tradire né insozzare. E ora veniamo a sapere che tutto nella nostra casa era finto, truccato. Nostro padre mentiva, prendendoci in braccio, mentiva sdraiandosi nel letto con nostra madre, e anche lui, il nostro precettore, tutto finto. Cosa diremo ai nostri amici, alla gente che con ironia ci chiederà: ‘Come stanno i vostri padri?’”.
RODRIGO con calma dice: “Rispondete chiedendo loro: ‘E i vostri?’, giacché anche questo dovete sapere, in Vaticano e nei suoi dintorni pochi sono i figli legittimi e le madri veramente sposate. Ad ogni modo sappiate che io vi ho sempre amato come i miei figli e ora potrò amarvi alla luce del sole”. “E perché soltanto ora?”. “Ma è semplice miei cari. Fra qualche giorno verrò eletto alla cima della piramide. Una piramide composta da migliaia di uomini più o meno potenti che, sistemati uno sull’altro, con le braccia levate reggono la costruzione. Chi regge lo deve fare tenendosi in equilibrio, se scaracolla viene schiacciato o buttato fuori dalla reggenza e sostituito subito con un altro più adatto e accorto. L’unico che non rischia mai di venir schizzato fuori dalla piramide è chi ci sta in cima, cioè il papa. Solo il decesso lo può scansare. Quindi neanche le infamità e le calunnie, per non parlare delle verità indicibili, potranno sfiorarmi. E così vale per voi, che siete le mie creature. Come ho imparato dal mio maestro di geometria, l’equilibrio dinamico è la forza della fede. Qualcuno sostiene che sia una bestemmia , ma a me va bene così!”.
Ci siamo dimenticati di dirvi che, qualche tempo prima (...) Rodrigo aveva incontrato una giovanissima figliola, la cui straordinaria bellezza era nota a tutta la Roma che conta. Si tratta di Giulia Farnese.
All’epoca la famiglia Farnese non possedeva ancora la fama che avrebbe acquistato di lì a qualche anno. Giulia è cresciuta in campagna, presso Capodimonte, ma è stata finemente educata alle lettere, alla danza e perfino alla musica. Infatti suonava deliziosamente il liuto. È appena uscita dalla pubertà quando incontra per la prima volta a Roma il cardinale Borgia, che sta organizzando le prove generali per diventare papa.
L’incontro con la figliola fu un vero e proprio colpo di fulmine, di quelli che scuotono le montagne. La bellezza di Giulia era descritta da ognuno con tale fervore che anche Raffaello volle ritrarla in una sua famosa opera. Il cardinale si innamora all’immediata. Egli ha 58 anni, è gonfio di forza spirituale ma anche di adipe in eccesso, tanto che faticherà non poco ad abbracciare quella fanciulla di appena quattordici, un’adorabile ninfa. Ma come giunge l’anziano vescovo a gestire la relazione? Ci pensa Adriana Mila, cugina di Rodrigo, è lei in quel momento che gestisce tutta la tresca. Per di più Mila è l’istitutrice di Lucrezia che abita presso di lei. La ruffiana si preoccupa di scansare ogni pericolo di scandalo, e come ulteriore copertura giunge a fare in modo che Lucrezia diventi amica della nuova fiamma di Rodrigo. Questo è proprio il tempo in cui Lucrezia viene a sapere che lo zio affettuoso è il suo autentico padre: quando scopre che il padre è anche l’amante della sua amica il suo stupore dilaga oltre ogni limite della disperazione.
MA AHIMÈ, Rodrigo non è ancora ufficialmente papa e quindi non si può permettere di imporre le sue follie private a tutto il regno. Perciò non gli resta che una soluzione, o lasciare questa figliola o tenersela e dividerla almeno apparentemente con qualche tutore ufficiale, meglio se un marito. Ma, come dice un antico proverbio, le cose sporche è sempre opportuno che rimangano in famiglia. A ciò pensa appunto la ruffiana, che propone come sposo per l’amante del prossimo pontefice addirittura suo figlio, Orsino Orsini. Una soluzione proprio casa e chiesa! Il figlio oltretutto è orbo di un occhio, quindi lasciamo correre e chiudiamo anche l’altro! Bisogna subito affrettarsi, Giulia è incinta, naturalmente di Rodrigo... Non a caso il termine vescovo nell’espressione degli antichi cristiani si traduceva in “attivo e infallibile”. Perfetto! Ad ogni modo è meglio che il figlio nasca con un padre legittimo.
Intanto a Lucrezia non sfugge più nulla di ogni manovra e maneggio del padre e della tutrice. Cosa può fare? Come deve comportarsi? In verità ogni tanto prova un certo disgusto, vorrebbe poterne parlare con Cesare, il fratello con cui si è sempre confidata nei momenti difficili, ma purtroppo egli sta all’università di Pisa. Lucrezia ormai abita da tempo con la sua nutrice, la ruffiana, ma certo non è il caso di confidarsi con lei. Quindi decide per la madre e la raggiunge nel suo vecchio palazzo. Appena le accenna dei suoi turbamenti, Vannozza la abbraccia e scoppia in lacrime: “Madre, ho scoperto che mio padre si è legato a una ragazzina più giovane di me”. “Sì, lo so” le confida con un fil di voce la madre. “So anche che chi tiene le fila di questa storia è Adriana, tua cugina. L’avevo immaginato subito che s’era fatto un’altra donna e che soprattutto, questa volta, io sono da buttare”. Ed esplode a sua volta in lacrime.

La Stampa 10.4.14
“Io e Fenoglio con l’auto in un fosso”
Compie 90 anni Aldo Agnelli, il fotografo amico dello scrittore Una vita in Langa, tra Pavese, Luigi Einaudi e il pallone elastico
di Bruno Quaranta


«Le Langhe non si perdono» è un verso pavesiano che annuncia il virgilio, il custode, l’interprete - immagine dopo immagine - delle mitiche colline. Aldo Agnelli è il fotografo princeps di zolle e caratteri e pietre fra l’alba e il tramonto, fra il tramonto e l’alba dei giorni. Al mondo che ha via via testimoniato può, lui sì, opporre le sillabe montaliane: «Ora non domandarmi perché t’ho identificato».
Novant’anni, eppure tutto è qui, tutto è ancora presente nell’atelier di Aldo Agnelli, l’atelier che è Aldo Agnelli, il confrère di Beppe Fenoglio. «Oggi ho le mani stupide» lamenta, cercando nella sua vasta galleria Martin, «il re del Tanaro: quante anime che volevano affogare ha salvato, ricevendone rosari di grazie» e la mensola dove la zuccheriera, la cuccuma, il macinacaffè hanno un respiro morandiano.
Fenoglio... Fenoglio verrà. Agnelli, una figura filiforme, giacomettiana, che sa essere aggrondata, come appare nell’annuncio dell’incontro «Uno scatto lungo 90 anni», vuol cominciare dall’inizio. Perché si discende pur da qualcosa, no? «Mio padre, milanese, fotografo della pregiata ditta Dotti&Bernini, capitò ad Alba per il servizio militare. Qui conobbe mia madre, sarta per bambini. Qui rimase, aprendo una bottega in via Mazzini, poi trasferendosi in via Maestra. Divenni suo allievo, ma la mia timidezza mal si conciliava con il lavoro in studio, allora dominante. Ho cominciato così a uscire, assaporando la Langa la domenica e il lunedì, nostro giorno di riposo. I langhetti, che parlano poco, che lavorano duro, che rispettano (che rispettavano) il dì festivo, mi aprirono le loro case, mi accolsero nelle loro aie, mi vollero al loro desco profumato di tajarin. Con la Leica, seguita dalla Rollei, li ho raccontati, trasmettendo una civiltà, un modo di stare al mondo, un galateo».
Negli Anni Settanta, introducendo Alba e la sua Langa, una promenade a colori e in bianco e nero di Aldo Agnelli («Il bianco e nero prediletto e sfidante: impone di scegliere davanti al paesaggio»), Giovanni Arpino misurò l’uomo indigeno e, quindi, chi lo ha via via posto in primo piano: «Conserva abiti mentali propri, magari lievemente mascherati per non dar noia o non subire noia dal prossimo, che certamente non puoi amare come te stesso».
«La mia Langa? L’alta Langa, che si distende verso la Liguria, badando a non superare il confine. E la Langa della valle Bormida, Cortemilia e dintorni, intatta fino a mezzo secolo fa. La mia stagione? La primavera, tale la sua delicatezza. Il mio modello? Cartier Bresson, la passione che nutriva per il teatro umano». «L’appareil photographique est pour moi un carnet de croquis» confessava il «maggiore» d’Oltralpe. I croquis, gli schizzi, le orme sul taccuino, il journal di un visionario, di un cronista (di un croniqueur) del nostro andirivieni.
Come Aldo Agnelli, di volto in volto. Cesare Pavese: «Un’apparizione all’hotel Savona...». Luigi Einaudi: «Il Presidente. In visita ad Alba nel dopoguerra, quando appuntò sul gonfalone la Medaglia d’oro al valor militare. Un ammiratore del centro storico. Dal Municipio al Seminario, dal liceo Govone a San Domenico, sollecitando - sarà ascoltato - che ne venisse rimossa la superficie in calce». Augusto Manzo: «Il re degli sferisteri, che Giovanni Arpino renderà mitico». Don Natale Bussi, il sacerdote-professore: «Riservato, a suo agio soprattutto fra i libri, una straordinaria intelligenza. Di tanto in tanto si intratteneva con me, lo ragguagliavo sulla Langa».
E Fenoglio? «L’amico. Da sempre. Mia madre acquistava la carne nella macelleria di suo padre. Ci legava il pallone elastico. Lo abbiamo fatto volare, in Alba, ovunque fosse possibile. E i bagni nel Tanaro, allora non inquinato, ammirando le ragazze. E le camminate, di paese in paese, da San Benedetto a Cascina della Langa, di mercato in tartufo, di mandria in nevicata,di botte in carro, di neve in fisarmonica, di bosco in rio, in camposanto». Come quello di Treiso, «fantomatico nell’imbrunire, vigilato da concreti cipressi in austera affezione», lo trasfigurerà Beppe nel Diario.
A piedi e non solo. «In macchina, si tornava da Mango, dove Fenoglio aveva ritirato un premio. Al volante della Cinquecento c’era lui. Avvicinandosi Serravalle, esclamò, lasciando il volante: “Che tramonto!”, Cappottammo, l’auto nel fosso. Alcuni giovani nerboruti ci rimisero in carreggiata. “Come stai?” gli chiesi. “Io bene”. Ripartimmo, in compagnia dei nostri silenzi».
C’è un’assenza nell’album di Aldo Agnelli: i partigiani, le imboscate, la guerra civile. «Rimasi in Alba, non mi si aprì il sentiero di Johnny. Perché? Sarà che non amo le armi... Durante i ventitré giorni, nell’autunno di settant’anni fa, confidai a Beppe di sentirmi in colpa. Mi rasserenò: “Il tuo posto è qui”».
In via Maestra, Aldo Agnelli, il doverista che è, mentalmente va ogni mattina, lastra dopo lastra conquistando la libertà di salire, di abbracciare, di ri-abbracciare Madre Langa, un campanile, un filare, un pozzo, una salvifica malinconia. Specialmente nella stagione a lui così intonata, la primavera (è nato il 7 aprile), tornando al 18 maggio 1959, quando Fenoglio gli dedicò la sua Primavera di bellezza. Scabra la dedica: «A Aldo Beppe con promessa di farti leggere anche il seguito». Il «cielo del Piemonte, austero, con rallentatissime evoluzioni di nuvole», come appare a Johnny, attende sempre il fotografo di Alba.

Repubblica 10.4.14
Dante e Mozart, il futuro riparte da loro
di Ulrich Beck

(Traduzione di Carlo Sandrelli)

LA CRISI dell’Europa non è, essenzialmente, una crisi economica. La crisi dell’Europa è una crisi mentale; di più: una crisi di immaginazione della buona vita al di là del consumismo. Gran parte dei critici dell’Europa, degli anti-europei, che ora alzano la loro voce, è prigioniera di una impolverata nostalgia nazionale. In questo senso argomenta ad esempio l’intellettuale francese Alain Finkielkraut: l’Europa ha creduto di potersi costituire senza, o addirittura
contro le nazioni.
VOLEVA punire le nazioni per gli orrori del XX secolo. Ma non c’è una democrazia post-nazionale. La democrazia parla una sola lingua. Non nasciamo cittadini del mondo. Le comunità umane hanno confini. L’Europa non ne tiene conto. Ma questa critica all’Europa si basa sull’illusione nazionale che in una società e in una politica europeizzate sia possibile un ritorno all’idillio nazional-statale. Essa presuppone l’orizzonte nazionale come quadro diagnostico per il presente e per il futuro dell’Europa. A queste critiche rispondo: aprite il vostro sguardo, e vedrete che non solo l’Europa, ma il mondo intero si trova in una transizione dove i confini entro i quali l’Europa si pensa politicamente non sono più reali.
Due esempi paradossali a questo riguardo: tutti i giornali, tutti i notiziari televisivi britannici sono pieni di accuse all’Ue - l’euroscettica Gran Bretagna è attraversata da un’ondata mai conosciuta di opinione pubblica europea. Oppure: la Cina, per effetto della sua politica degli investimenti e delle sue dipendenze economiche, è da tempo un membro informale dell’eurozona - se l’euro fallisse, per la Cina sarebbe un colpo durissimo. È chiaro, perciò, che la cosmopolitizzazione non crea cittadini del mondo, anzi: mentre la globalizzazione dissolve le frontiere, le persone ne cercano di nuove. Il bisogno di confini diventa tanto più forte, quanto più il mondo diviene cosmopolitico. Da un lato, lo dimostra il successo del Front National alle ultime elezioni locali in Francia, ottenuto con il motto «Fuori dall’euro, fuori dall’Ue!». Dall’altro, questo bisogno di confini ha contribuito al consenso raccolto da Vladimir Putin, con la sua massima «Dove abitano dei russi, lì c’è la Russia».
Tuttavia, proprio l’aggressivo nazionalismo interventista russo dimostra che non si può proiettare il passato delle nazioni sul futuro dell’Europa, senza distruggere il futuro dell’Europa. E se l’etno-nazionalismo imperiale di Putin fosse uno shock salutare per l’Europa afflitta dall’egoismo nazionale? Alain Finkielkraut controbatte: noi europei siamo traumatizzati da Hitler. Eppure Hitler disprezzava la nazione. Voleva sostituire la nazione con la razza. Oggi, però, facciamo espiare alle nazioni la follia hitleriana. Per il loro trauma da Olocausto i tedeschi vogliono forse eliminare l’intero nazionalismo? No, ma abbiamo un presupposto in comune: la catastrofe di Hitler, dell’Olocausto e della Germania nazionalsocialista. Proprio questa catastrofe, con i processi di Norimberga, ci ha fatto elaborare il concetto di crimini contro l’umanità. I soldati tedeschi o i guardiani dei campi di concentramento colpevoli di crimini nei confronti di ebrei erano soltanto criminali, anche se il diritto nazionale non puniva i loro misfatti. Così è nata una nuova dimensione, il diritto europeo, che relativizza il diritto nazionale - e, nello stesso tempo, una nuova visione mondiale dell’umanità: l’etica del “mai più”.
Noi, e il mondo, abbiamo più che mai bisogno (anch’io lo ho argomentato) di una visione europea, per venire a capo dei mali della globalizzazione - mutamento climatico, povertà, disuguaglianza estrema, guerra e violenza. L’idea è che la forza mobilitante della catastrofe anticipata fonda l’identità europea. La lotta contro i rischi globali è indubbiamente uno sforzo erculeo. Può perfino dar vita a una nuova morale mondiale della giustizia. Il mutamento climatico è un rischio storicamente sconosciuto che minaccia tutti e costringe inevitabilmente ad agire. Chi dice “mutamento climatico” deve pensare al di là dei confini, cooperare con i nemici, tenere presenti le generazioni future, immedesimarsi nella situazione dei più poveri - non perché li ama, ma perché ne ha bisogno per creare assieme un futuro vivibile. Qui si delinea uno stile di vita purificato dal mutamento climatico, un “cosmopolitismo egoistico”, per così dire. Ma, siamo sinceri, lo spirito del mutamento climatico è la pozione magica che concilierà gli europei euroscettici con l’Unione Europea?
Un altro consiglio (tra gli altri, anche di Alain Finkielkraut) suggerisce che se l’Europa vuole superare la sua crisi della convivenza deve ritrovare la propria identità nelle grandi opere dell’Europa, nei monumenti, nei paesaggi della civiltà. Certo, rileggere l’opera di classici come Shakespeare, Cartesio, Dante o Goethe o farsi incantare dalla musica di Mozart e di Verdi non può che far bene. A me, ad esempio, interessa politicamente il concetto di “letteratura mondiale” di Goethe. Con esso egli intende un processo di apertura al mondo, nel quale l’alterità dello straniero diventa componente anche della propria autocoscienza. Ciò implica l’apertura dell’orizzonte, del nazionale, della propria lingua. In questo senso Thomas Mann parla di “tedeschi del mondo”; ma si può parlare anche di “italiani del mondo”, “francesi del mondo”, “spagnoli del mondo”, “inglesi del mondo”, “polacchi del mondo”, ecc., cioè di un’Europa delle nazioni cosmopolitiche.
«Dalle coste dell’Africa», scrive Albert Camus, «dove sono nato, si vede meglio il volto dell’Europa. E si sa che non è bello». Per Camus, allievo di Nietzsche, la bellezza è un criterio della verità e della vita buona. La storia ha logorato tante cose - l’idea di nazione, l’astuzia della ragione, la speranza nella forza liberatrice della razionalità e del mercato; perfino l’idea di progresso è diventata l’origine dell’apocalisse. La poesia brilla, ma lo fa nel modo più intenso dove lotta con la disperazione, lo sdegno, la perversità, la mancanza di senso. Anzi, essa manifesta la sua massima efficacia quando fa dileguare il volto dell’uomo (europeo).
Il segreto dell’Europa, afferma un disilluso Camus, è «che non ama più la vita… ». E allora qual è l’antidoto, la visione alternativa di un’altra Unione Europea, nella quale si viva la gioia per il puro presente? L’Europa italiana! Ad esempio, il sogno di un «letto matrimoniale mediterraneo» (Michael Chevalier), nel quale l’Est e l’Ovest, il Nord e il Sud si amerebbero. Nasce così l’immagine di un’Europa delle regioni dove valga la pena di vivere e che meriti di essere amata. Il nesso apparentemente necessario tra Stato, identità nazionale e lingua unitaria si è dissolto. L’Unione, gli Stati membri e le loro regioni si occupano a diversi livelli del bene dei cittadini. Da un lato, essi danno loro una voce nel mondo globalizzato; dall’altro, un senso di sicurezza e un’identità regionale. La democrazia diventa democrazia a più livelli, come già cominciamo a praticarla: il Mediterraneo - come savoir vivre, come gioia di vivere, indifferenza, disperazione, bellezza e speranza, cioè quella mescolanza contraddittoria che noi nord-europei veneriamo e romanticizziamo come i giardini del Sud, dove «fioriscono i limoni» (Goethe).
D’accordo, il senso di colpa ha imposto anche a questa estetica e a questa poetica dell’esistenza gioiosa, cosmopolitica, mediterranea un volto grigio, brutto. Ma non è forse vero che se i tedeschi fossero andati a scuola dai giocatori di bocce del Sud non avrebbero precipitato il mondo nella Seconda guerra mondiale? Oppure che se la cancelliera Merkel fosse stata un’appassionata giocatrice di bocce non avrebbe mai predicato con zelo missionario una politica protestante di risparmio ai Paesi mediterranei? O, ancora, che se Putin fosse nato giocatore di bocce mediterraneo non avrebbe mai concepito l’idea del tutto folle di annettere l’Ucraina?
Iris Radisch scrive che «il pensiero mediterraneo regionale e confederale è sopravvissuto alle grandi ideologie nazionali e politiche, e forse è la sola utopia sociale del XXI secolo che abbia ancora un futuro». E dunque, cosa potrebbe conciliare gli europei con l’Europa? Un anticentralismo. L’ibernazione della nostalgia etnico-nazionale in tutte le sue forme. Un riavvicinamento e un ritorno alla bellezza delle regioni. Il sentimento mediterraneo. La capacità di affrontare in modo non sgradevole il caos della vita. Di rispettare la natura interna ed esterna. La coesistenza con l’altro, lo straniero, per cercare il proprio arricchimento. Ovvero, come dice Gabriel Audisio, vivere bene e morire bene.

Repubblica 10.4.14
Ansiosi e felici
Le ricerche confermano una teoria cui pare non vogliamo rassegnarci: esiste la tensione buona, quella che migliora lo studio e il lavoro
Anziché ammalarci di stress, allora, viviamo secondo la filosofia del “take it heavy” Insomma, falla difficile
di Emilio Marrese



LO STRESS è come il colesterolo: c’è quello buono e quello cattivo. È tutta questione di dosaggio, perché eliminarlo dalle vene non si può né si deve. L’adrenalina è un propellente necessario, la nostra energia elettrica: senza si resta spenti, troppa e si va in corto circuito. Gli psicologi di Harvard l’hanno enunciato meglio (si chiama Legge di Yerkes-Dodson) già nel 1908 e ancora dobbiamo farcene una ragione, smettendola una buona volta di idealizzare spiagge deserte dove, dopo mezz’ora, stiamo lì a tormentare il telefonino. «Se tutti raggiungessero lo stato idilliaco vagheggiato dalla nostra frenetica società - sostiene David Barlow, direttore del Centro per l’ansia e i disturbi correlati della Boston University - , quello di passare la vita all’ombra di un albero, ciò sarebbe letale per l’umanità come una guerra nucleare». La
conseguenza più diretta dell’inflazione di stress da tempi moderni è il proliferare di teorie (occidentali) a sostegno delle sue virtù benefiche, fino ad eleggerlo, addirittura, a stile di vita. Come fa la scrittrice ed editorialista Katie Roiphe sul Fi-nancial Times: «È uno stato della mente, un’atmosfera. C’è una vitalità speciale nell’ansia, una sorta di energia nevosa che non si può esattamente dire che sia divertente, ma nondimeno è leggermente assuefacente e fertile. Mia madre in uno dei suoi romanzi descrisse la scena di una donna talmente felice, sulla spiaggia con il marito e i figli, da scrutare continuamente l’orizzonte in cerca di squali. Io non sono quel tipo di persona, ma mi sono sorpresa, anche nei momenti più euforici, a cercare squali nella grigia e nebbiosa alba cittadina. Gli squali, sono arrivata a capire solo ora, fanno parte della felicità». Charles Darwin l’aveva spiegato: «Le specie che provano un’appropriata quantità di paura, aumentano le proprie possibilità di sopravvivenza». E le biblioteche universitarie traboccano di studi in materia: «In caso di pericolo imminente - certifica il professor Jeromy Caplan del New York Downstate University Medical Center - l’ansioso ha più chance di essere pronto a superarlo. Se chi ricopre ruoli di comando è incapace di vedere il pericolo anche quando incombe, minimizzandolo, è probabile che prenda la decisione sbagliata ». È la filosofia del Take it heavy: falla difficile. La sindrome dello squalo ha molti seguaci: quelli che se non hanno un problema se lo inventano, se ce l’hanno lo ingigantiscono. sapere che, secondo l ’ Academy of Management Journal, inevrotici contribuiscono ai progetti di gruppo in modo più efficace degli estroversi; che, secondo una ricerca britannica, a parità di quoziente intellettivo i manager del- Piuttosto li gaserà la finanza più produttivi sono quelli più ansiosi; che le persone più stressate, per il Longevity Project, uno studio psicologico durato 90 anni, cioè quelle che hanno più lavorato e più ottenuto, sono campate più a lungo; e che i bambini irrequieti, secondo lo psicanalista canadese Robin Alter, sviluppano capacità immaginative spesso molto più alte dei coetanei più calmi.
Eppure 9 milioni di italiani accusano patologie da stress e ogni anno in Europa vengono spesi 25 miliardi per combatterlo. «Gli stress insostenibili in realtà sono pochi, mentre la maggior parte serve a tener desta l’attenzione» dice Eugenio Borgna, primario di Psichiatria dell’Ospedale Maggiore di Novara, forte di una lunga bibliografia sul tema(Le figure dell’ansia è alla quarta ristampa per Feltrinelli). «Nei secoli la fenomenologia delle grandi forme depressive non è mutata mentre si è abbassata la soglia di resistenza e comprensione delle situazioni stressanti che così destano subito contraccolpi più intensi. Aumentano le forme di stress derivanti dalla disperata ricerca di traguardi che, una volta raggiunti, vengono poi colti nella loro miseria, lasciandoci ancora più stressati: meglio essere tartarughe che Achilli piè veloce. Ed è infinitamente meglio avere l’ansia come compagna di strada che non camminare privi: si corre il rischio, sennò, di vivere senza pathos, senza capacità di distinzione tra ciò che serve sopportare passivamente e ciò che va trasformato in esperienza vissuta».
I rotocalchi accorrono in soccorso con decaloghi di sopravvivenza a base di yoga, respiraziosibilità ne, passeggiate, fagioli o cereali integrali: «Promesse impossibili e inutili perché lo stress non si elimina: noi siamo fatti per conviverci quotidianamente» afferma lo psicologo scalatore Pietro Trabucchi, autore di Resisto dunque sono (Corbaccio).«Èun insieme di risorse che abbiamo in dotazione. È ciò che viene definito resilienza, la capacità di un metallo di resistere alle forze che vi vengono applicate: il contrario della fragilità». Durante i bombardamenti della Seconda guerra mondiale a Londra diminuirono i ricoveri negli istituti di igiene mentale, anziché incrementare come si temeva. E per contro in quelle regioni del mondo dove oggi non c’è traffico né disoccupazione, s’impennano i tassi di alcolismo e suicidi. Perché dunque un collega o un semaforo ci stressano più di un cacciabombardiere sulla testa? Questione di cellule. «Madre Natura - risponde sempre Trabucchi - ci ha dotato di un sistema biologico finalizzato ad aumentare le possibilità di sopravvivenza in caso di minaccia, detto FFR, Fight or Flight Response: lotta o fuga. Davanti allo stimolo emozionale, i centri nervosi rilasciano ormoni, tra cui l’adrenalina, che attivano una reazione intensa. Se anche le fonti di minaccia oggi sono più astratte e immateriali, come le tasse o un ingorgo, la nostra struttura cerebrale è sempre la stessa di centinaia di migliaia di anni fa e la risposta è uguale, che ci sia davanti un capoufficio o un orso che punta alla giugulare».
Magari non proprio al cospetto di un grizzlie ma di un mostro interiore, il cervello diventa anche più fantasioso e immaginifico. «L’ansia è l’ancella della creatività », si consolava l’ansioso TS Elliot. Il luogo comune è rafforzato da un’interminabile fila di testimonial: Kafka, Woody Allen, Proust, Newton, Freud, Emily Dickinson. E via discendendo, per ore, fino a Fiorello. Anche il solare e pacioso scrittore Maurizio De Giovanni, papà della fortunata serie del commissario Ricciardi (Einaudi), è un altro che non sta bene se non sta male: «Mi metto a scrivere a un mese esatto dalla consegna in stato febbrile di totale immersione. Mi chiudo in una stanza con la stessa tuta addosso, lavandomi anche poco e male, e sprofondo nella mia angoscia, sicuro ogni volta di non farcela, profondamente convinto della mia inadeguatezza fino alla fine, deciso a difendere questa sensazione perché porta al massimo della concentrazione e del rigore».
Difficile però immaginare un’apoteosi di stress più intensa di chi si gioca quattro anni di vita, sogni, allenamenti e futuro in un millesimo di secondo e un millimetro di bersaglio, nell’ultimo colpo di carabina sparato dall’ingegnere Niccolò Campriani, oro e argento nel tiro a segno alle Olimpiadi di Londra 2012. Mica per niente ci ha scritto un libro (Ricordati di dimenticare la pau-ra, Mondadori). «Se invece di stress lo si chiama “attivazione” ecco che può diventare un utile alleato. Una prova? Tutti i miei record personali sono in gara: in allenamento non mi sono mai neanche avvicinato a tali livelli. Tuttavia non è facile individuare il proprio livello ottimale di attivazione. Per conoscersi meglio bisogna sapersi ascoltare e soprattutto bisogna mettersi alla prova. L’importante è che sfidiate voi stessi e che godiate di quella dolce sensazione di inquietudine. A tal proposito l’autrice e artista Vivian Greene dice: “La vita non è aspettare che passi la tempesta, ma imparare a danzare sotto la pioggia”». Altro che sole tropicale.

Repubblica 10.4.14
L’Europa è un’Unione fondata sul maiale
Dal Medioevo la nostra cultura comune nasce anche a tavola Con pane e carne, vino e birra
di Massimo Montanari



Esiste una cucina europea? Si direbbe di no: la varietà degli ingredienti, dei modi di preparazione, dei gusti che caratterizzano i singoli paesi e le singole regioni dei singoli paesi sta a testimoniare una diversità di culture, di vicende storiche, di atteggiamenti nei confronti del cibo. Tuttavia, è anche evidente l’esistenza di una comune identità, che, nell’insieme, contraddistingue come un’unità queste diverse culture. Un’identità in qualche modo analoga a quella che si ritrova all’interno di ciascun paese, che dall’esterno appare dotato di una cultura omogenea ma poi si rivela, a guardarlo più da vicino, articolato e differenziato.
Anche l’Europa nel suo insieme funziona così: grandi diversità locali, regionali, nazionali; forte identità complessiva. Fra questi due poli solo apparentemente contraddittori si muove la cultura alimentare degli europei. L’identità si forma con la nascita stessa dell’Europa ed è, dunque, una creazione medievale. Essa nasce dall’incontro - dapprima soprattutto uno scontro - tra culture diverse e contrapposte: quella dei romani (nozione estremamente diversificata al suo interno, che esprime un’appartenenza civile e non etnica) e quella dei barbari, le popolazioni di stirpe germanica e slava che nel Medioevo entrano in Europa: esattamente da questo incrocio prende vita la nuova civiltà medievale, né romana né barbarica, ma le due cose insieme.
Agli albori del Medioevo, lo scontro fra romani e barbari è anche uno scontro di modelli alimentari: la cultura del pane, del vino e dell’olio (simboli della civiltà agricola romana) si oppone alla cultura della carne, della birra e del burro (simboli della civiltà barbarica e in particolare delle popolazioni germaniche, più legate all’uso della foresta che alla pratica dell’agricoltura). Ma i due mondi a poco a poco si integrano e si viene delineando un modello alimentare romano- barbarico che rispecchia da vicino ciò che sta avvenendo in tutti i campi del vivere civile, sul piano delle strutture sociali (con il mescolarsi delle etnie), delle istituzioni (la formazione dei cosiddetti regni romanobarbarici), della cultura giuridica (l’innesto delle consuetudini non scritte delle nuove popolazioni nella tradizione legislativa romana). I modi di sfruttamento del territorio e i costumi alimentari vengono anch’essi uniformandosi, con l’incrocio tra cultura agricola e cultura forestale, che dà vita a modi di produzione complessi che mescolano cereali, la viticoltura e l’orticoltura all’allevamento brado del bestiame, alla caccia. Il fascino dei modelli antichi (tradizione romana) e il prestigio della nuova classe dirigente (in prevalenza barbarica) sono veicoli di questa integrazione, che finisce per assegnare non a uno, ma a due prodotti-chiave, il pane e la carne, il ruolo di protagonista. Se per la cultura romana il pane era il cibo ideale dell’uomo, e se per la cultura barbarica questo ruolo spettava alla carne, nel Medioevo si afferma una nuova cultura che vede nella compresenza di pane e carne (dei prodotti vegetali e dei prodotti animali) il modello perfetto di regime alimentare. In tale processo di osmosi è decisiva la diffusione del cristianesimo, da un lato perché essa significa una forte promozione d’immagine del pane, del vino e dell’olio, simboli e strumenti della nuova fede; dall’altro perché la Chiesa introduce obblighi di alternanza fra cibi diversi - “di grasso” e “di magro”: se durante la Quaresima (e in altri giorni di penitenza) si doveva rinunciare alla carne e ai grassi animali, sostituendoli con cereali e verdure e con gli oli vegetali, non meno vincolante era la consuetudine di segnalare con il consumo di carne e di lardo le feste (per non parlare del Carnevale). In questo modo si sollecitava la presenza di tutti i cibi, di tutti i grassi, di tutti i condimenti su tutte le tavole dell’Europa cristiana.
Soprattutto un tipo di carne, quella di maiale, diventerà il simbolo di questa Europa, non solo per motivi di carattere economico (la centralità della pastorizia suina) ma anche per cause culturali e religiose: il maiale, escluso dalla mensa ebraica e da quella isla- mica, funzionava perfettamente da indicatore dell’identità cristiana. Questo fenomeno di integrazione, che nei secoli medievali venne delineando una comune identità alimentare dell’Europa, si percepisce anche sul piano della gastronomia, ossia nella preparazione degli alimenti. Innanzitutto dietro tali scelte si intravede una comune cultura dietetica, basata sui fondamenti dettati dalla scienza di Ippocrate e Galeno. Le modalità di cottura, gli accostamenti tra carni e salse, si definiscono in base a regole ribadite in tutti i trattati di medicina del tempo: combinare le diverse qualità degli alimenti (umida o secca, fredda o calda) in rapporto alle necessità; temperarle fino a raggiungere un punto ideale di equilibrio... Queste norme si travasano nelle pratiche di cucina, rendendole “filosoficamente” coerenti e omogenee. Anche per questo i ricettari manoscritti del XIV-XV secolo rivelano, al di là delle differenze regionali, una forte circolarità di idee, una sorta di koinè gastronomica che unisce i paesi europei nel nome di ricette simili, di gusti affini. L’agrodolce, per esempio, trionfa ovunque. Così l’uso delle spezie, legato sia alle teorie dietetiche del tempo (che assegnavano a quei prodotti capacità digestive) sia al prestigio che le costose polveri orientali conferivano alla tavola.
Eppure, questa cucina internazionale conosce infinite varianti locali. Una micro-storia è istruttiva poiché ci mostra lo straordinario spessore storico che si nasconde dietro le tradizioni di cucina. Nei modi diversi di preparare il cibo si percepisce un forte retrogusto storico, e non è difficile intuire quanta ricchezza e varietà di sapori possa aver prodotto una storia travagliata e complessa come quella dell’Europa medievale e moderna. Dietro ogni prodotto, dietro ogni piatto, dietro ogni sapore c’è una storia diversa, e si è ormai fatta strada con forza l’idea che valga la pena studiare queste storie, conservare e valorizzare quei prodotti, quei piatti, quei sapori come altrettanti “beni culturali”. In tale direzione si muovono recenti iniziative della Ue, volte a censire le varietà gastronomiche locali nel segno della cosiddetta tipicità.

Repubblica 10.4.14
Dalla Müller a Nádas il festival che indaga il demone dell’utopia
di Stefania Parmeggiani


TORNANO gli Eventi letterari del Monte Verità dedicati al demone dell’utopia: da oggi a domenica ad Ascona, in Svizzera, s’indagheranno le pieghe del presente dove nascono i grandi processi di trasformazione dell’uomo e della società. Il tema richiama le concezioni di vita che alimentarono il mito del luogo, dall’inizio del Novecento terra di elezione per i sognatori europei. Iniziò quasi per caso, grazie a un gruppo di idealisti che cercavano una terza via tra il blocco capitalista e quello comunista. Si fermarono sul monte Monescia, dove fondarono una comunità che viveva in pace e armonia con la natura. Quel luogo, poi ribattezzato Monte Verità, non ha mai smesso di attrarre chi cercava un ideale modello di società primigenia: teosofi, riformatori, anarchici, comunisti, socialdemocratici, psicoanalisti, scrittori, poeti, artisti...
Sulla scia di questa energia visionaria e riformatrice, i direttori artistici degli Eventi Letterari (Irene Bignardi, Paolo Mauri e Joachim Sartorius) hanno invitato il premio Nobel Herta Müller (nella foto), Péter Nádas e Joanna Bator a misurarsi con i sogni e anche con gli incubi che minacciano le nostre esistenze. Di mostri e di allegri demoni della poesia si occuperanno invece Nora Gomringer, Durs Grünbein e Valerio Magrelli, mentre lo sguardo di tre analisti di diversa formazione come Carlo Ossola, Martin Meyer e Frank A. Meyer, si soffermerà su alcuni aspetti dell’utopia che toccano il nostro tempo. E visto che in passato il Monte Verità è stato il luogo in cui, attraverso la natura, si cercava il benessere del corpo e dello spirito, sarà approfondito il tema della utopia ambientalista con Daniel Cohn-Bendit e Jakob Augstein: «Che futuro attende il Pianeta Azzurro? L’utopia verde può divenire realtà» e ancora, «La politica verde può conciliare la crescita con la salvezza della natura?». Si indagherà inoltre sulla città ideale del futuro con Mario Botta e Vittorio Gregotti: «Vi sono delle visioni urbanistiche che potrebbero aiutare l’umanità a far valere i propri diritti?». A chiudere la seconda edizione sarà Serena Dandini con un evento dal titolo Uomo/donna, L’eterna Utopia, in cui affronta il tema della pace mai raggiunta nel rapporto tra i due sessi. Oltre a letture, dibattiti e conferenze torna il premio Enrico Filippini, nato in onore e memoria del traduttore, editor e inviato culturale di Ascona. Il riconoscimento sarà consegnato da Inge Feltrinelli all’editore tedesco Klaus Wagenbach. Per maggiori informazioni www. eventiletterari.ch.

Repubblica 10.4.14
L’appello degli intellettuali
“Non intitolate a Gramsci quell’albergo di lusso a Torino”


TORINO. «Antonio Gramsci non può essere un hotel a cinque stelle». Il mondo della cultura si mobilita contro il progetto di intitolare a uno dei fondatori del Partito comunista italiano l’albergo di lusso che aprirà a Torino, in un antico palazzo del centro dove Gramsci abitò dal 1914 al 1922. Nello stabile visse anche Angelo Tasca. L’appello, promosso dai siti eddyburg e massimo comune multiplo, è rivolto al sindaco Piero Fassino ed è sottoscritto, tra gli altri, da Piero Bevilacqua, Anna Maria Bianchi, Vezio De Lucia, Vittorio Emiliani, Maria Pia Guermandi, Paolo Maddalena, Tomaso Montanari, Maria Paola Morittu, Giorgio Nebbia, Tonino Perna, Sandro Roggio, Edoardo Salzano, Chiara Sebastiani, Salvatore Settis, Nicola Tranfaglia, Marco Revelli e Guido Viale. Si chiede di impedire che il nome di Gramsci «scivoli dai discorsi orgogliosi del popolo della sinistra al chiacchiericcio sull’idromassaggio e il minibar di chi frequenta alberghi di lusso». Si conclude affermando che «Gramsci non è un’eredità di pochi, è ancora un compagno di strada di una moltitudine».

La Stampa 10.4.14
Firenze rende omaggio a Jackson Pollock

Firenze rende omaggio a Jackson Pollock (1912-1956) con una mostra che accosta idealmente l’opera dell’artista americano a quella di Michelangelo Buonarroti di cui si celebra il 450° anniversario della morte. La rassegna, dal titolo «La figura della furia», sarà ospitata a Palazzo Vecchio dal 16 aprile al 27 luglio. Tra le opere, sei disegni prestati dal Metropolitan Museum di New York per la prima volta esposti in Italia, oltre a dipinti e incisioni concessi da musei internazionali e collezioni private.

il Fatto 10.4.14
I visionari di Augias, ostaggi dei “televisionari”
di Nanni Delbecchi


Dopo parecchi anni trascorsi a raccontare ogni giorno Le storie del Diario italiano su Rai3, Corrado Augias avrà pensato di avere esaurito le scorte di contemporanei da ospitare e intervistare; anche per questo, forse, aveva solennemente annunciato di ritirarsi dal video e di voler concludere la sua più che onorata carriera di conduttore. “Un momento, però”, avrà forse riflettuto in un secondo tempo, “dopotutto, mi restano ancora i progenitori”. Come dargli torto? I defunti hanno fatto sempre un figurone al cospetto dei viventi, e i tempi che corrono ce lo dimostrano più che mai. Lo ha capito anche Walter Veltroni: se non abbiamo pane, scongeliamo le brioche. Ecco quindi Augias sganciare il riflettore dal chiodo a cui lo aveva appeso troppo precipitosamente, e ripresentarsi su Rai3, questa volta in seconda serata, con una nuova serie dal titolo Visionari, dedicata ai grandi spiriti del passato che con le loro idee e scoperte hanno segnato la storia del mondo moderno; serie che si è aperta lunedì scorso con un faccia a faccia nientemeno tra Augias stesso e Charles Darwin. Inizio di grande impatto, con il teorizzatore dell’Evoluzionismo ripreso di spalle, il volto celato in controluce, come usava nella Tv degli a
nni Settanta per i rei confessi, e il conduttore seduto di fronte a lui, a chiedergli appunto di confessare: “Professore, dunque secondo lei saremmo solo un incidente biologico, un capriccio del caso?”
SEMBRAVA di essere tornati ai tempi di Telefono giallo, il memorabile debutto televisivo di Augias, anche perché quando Darwin ha confermato che, effettivamente, le specie non sono immutabili, e noi uomini siamo poco più evoluti degli scimmioni, “è stato come confessare un delitto”. E quale delitto: la morte di Dio. Ma naturalmente Augias non poteva accontentarsi di acchiappare il colpevole, e da maestro della divulgazione qual è, ha proseguito con l’esplorazione dell’eredità darwiniana nelle più diverse direzioni, indugiando in particolare su quanto uno dei fondamenti del pensiero laico sia stato recepito nel Paese più cattolico del mondo. Poco e male. Un Paese così intriso di creazionismo mal digerito, il nostro, da avere promulgato una legge che nega la diagnosi preimpianto alle coppie fertili, anche se uno dei componenti è affetto da fattori genetici che mettono a rischio la salute del feto. Un esempio perfetto per mostrare quanto la lungimiranza di un visionario si ritrovi a fare i conti con la miopia dell’attualità più stretta.
Si è parlato anche dei rapporti dell’Evoluzionismo con la Fede, ma anche con la moderna antropologia criminale, chiamando in causa Cesare Lombroso. Così, lasciando Darwin in disparte nel suo angolino, Augias si è intrattenuto prima con il teologo Vito Mancuso, poi con il sociologo Vittorino Andreoli; e pur di fronte a conversazioni tutt’altro che banali, veniva da chiedersi se Darwin non avrebbe rivisto la sua teoria se fosse vissuto in tempo per leggere l’ultimo libro di Mancuso (prontamente pubblicizzato), e per assistere alla nascita della televisione. Se c’è un luogo dove la ripetizione sembra prevalere su ogni elemento di novità, e dove la selezione sembra muoversi al contrario, quello è proprio il monoscopio. Tra visionari e televisionari c’è di mezzo il mare; ma a volte quel mare sembra ridursi a un canale navigabile, sul vaporetto dell’eterno ritorno.

Corriere 10.4.14
La tv di Lilli Gruber in dieci domande
di Aldo Grasso


Le dieci domande che dobbiamo porci mentre guardiamo «8 e mezzo» di Lilli Gruber (si fa per scherzare, ognuno è libero di rispondere come vuole, magari su «TeleVisioni» il forum di corriere.it).
1) Lilli ha un’ideologia? Certamente, come tutti. Diciamo che il suo è un sinistrismo ben temperato dall’Auditel.
2) Come sceglie gli argomenti? Legge i giornali, ascolta la redazione. Il più delle volte, a caso. Molto dipende dagli ospiti che si trovano, forse anche dagli agenti delle starlet tv.
3) E come gestisce gli ospiti? A seconda delle sue preferenze, politiche e personali. Con alcuni è più «duretta», con altri più morbida, scopertamente.
4) A proposito di domande, perché alcune sono lunghe, verbose e altre stringate? La durata della domanda è la cartina di tornasole dei conduttori. Quando la domanda è lunga significa che vogliono imporre il proprio punto di vista, quando è concisa significa che assecondano l’interlocutore.
5) Perché Lilli interrompe spesso i suoi ospiti, specie quelli che sono in collegamento? Risposta di tipo tecnico. L’interruzione serve per mantenere alto il ritmo della trasmissione e un buon conduttore è anche un metronomo. Risposta di tipo politico. Si interrompono le persone che la pensano diversamente da noi. Non dalle domande ma dalle interruzioni si svela l’ideologia del programma.
6) Perché a metà programma c’è «Il punto di Paolo Pagliaro»? Perché è un suo amico, perché Lilli vuol far vedere che ha studiato e si è preparata.
7) Perché ci sono sempre alcuni interlocutori fissi? In pubblico, tutti abbiamo bisogno di una spalla.
8) Perché invita anche blogger sconosciuti? Per far dire loro le cose più sgradevoli.
9) Perché Lilli fa le boccucce? È una civetteria.
10) Perché presenta anche libri? È una dolce paraguru, come tanti altri conduttori.

l’Unità 10.4.14
Scelto per voi
Il film di oggi
Freud e Jung, le relazioni pericolose tra maestro, allievo e paziente

«A DANGEROUS METHOD» (F, D, GB, IRE, CANADA 2011) Una coproduzione internazionale per il film di Cronenberg sul rapporto controverso tra Freud (Mortensen) il suo allievo «ribelle» Jung (Fassbender) usando come lente d’ingrandimento la relazione tormentata che questi instaura con Sabine Spielrein (Keira Knightley). Ben disegnato il confronto tra maestro e allievo, più con- torto quello tra terapeuta e paziente.
ORE 21,05 RAITRE

Repubblica 10.4.14
L’Espresso e Ti Media alleanza per i ripetitori tv


MILANO. Telecom Italia Media e il Gruppo Editoriale L’Espresso mettono insieme le loro infrastrutture digitali - le frequenze, i ripetitori - per dare vita al primo operatore di rete italiano indipendente. Il matrimonio verrà celebrato attraverso il conferimento da parte del Gruppo L’Espresso del 100% delle azioni di Rete A in Telecom Italia Media Broadcasting (Timb). Dalla fusione delle due attività nascerà un gruppo dotato di 5 multiplex digitali, con un’infrastruttura a copertura nazionale di elevata capillarità e basata su tecnologie di ultima generazione. La capacità trasmissiva è paragonabile a quella di Rai e Mediaset.
Il gruppo che nascerà dalla fusione sarà il naturale fornitore di tutti i principali editori televisivi non integrati, nazionali ed esteri, operanti sul mercato italiano. Mettere insieme le piattaforme e l’offerta permetterà alla società di conseguire rilevanti sinergie industriali. L’operazione, che è subordinata al via libera del Garante di settore (l’AgCom), darà vita a una società con un giro d’affari annuale di circa 100 milioni, un risultato economico positivo e una robusta generazione di cassa. Alla fine dell’operazione che dovrebbe essere perfezionata entro giugno,
TiMedia ed il Gruppo Espresso deterranno rispettivamente il 70% e il 30% delle azioni della nuova Timb, cui farà capo l’intero capitale di Rete A; mentre la partecipazione in All Music Spa rimarrà di proprietà del Gruppo L’Espresso. Quanto alla governance, gli accordi prevedono che che TIMedia abbia il diritto di nominare la maggioranza dei consiglieri, compreso l’amministratore delegato, mentre il Gruppo L’Espresso indicherà il presidente. È inoltre previsto che Telecom Italia Media abbia un’opzione d’acquisto del diritto d’uso (esclusa l’infrastruttura e i clienti) di una delle cinque frequenze, cioè della banda relativa al canale 55. Si tratta di un contratto a tre anni per un corrispettivo di 5 milioni, oppure dell’opzione di acquisto dell’intero capitale della società di nuova costituzione alla quale questo diritto dovesse essere conferito al prezzo di 50 milioni (valore che sarà rettificato in funzione della posizione finanziaria netta della società). Nel caso il diritto d’uso di canale 55 venisse conferito alla newco è prevista inoltre la sottoscrizione con Timb di un contratto di affitto a 10 anni, con un canone di 2,5 milioni l’anno, e un diritto di recesso da parte del locatore a partire da metà 2016. Insomma, se le frequenze di canale 55 saranno utilizzabili anche per la telefonia, TiMedia si riserva di ricomprare l’infrastruttura o di utilizzarla in via preferenziale. Nell’operazione, TiMedia e il Gruppo L’Espresso sono stati assistiti rispettivamente da Mediobanca e Banca Imi in qualità di advisor finanziari.

Repubblica 10.4.14
Cir (De Benedetti) rinvia bilancio in attesa dell’accordo su debito di Sorgenia


MILANO. Cir e Cofide, le holding controllate dalla famiglia De Benedetti, hanno rinviato i consigli di amministrazione per l’approvazione dei conti dal 14 al 28 aprile. Si tratta di uno slittamento tecnico per attendere gli sviluppi nella trattativa con le banche creditrici del gruppo Sorgenia. «Tale differimento - si legge in una nota - consentirà di tenere conto
degli eventuali progressi dei negoziati in corso sulla ristrutturazione del debito della società».
Proprio oggi, si riunisce il cda della società del settore energia - controllata da Cir - che dovrà prendere in esame la proposta degli istituti di credito. Sulla carta le posizioni sono ancora distanti. Ma - come riferisce l’agenzia Radiocor- i canali di comunicazione tra la Cir e le 21 banche esposte per 1,9 miliardi di euro sono aperti e le trattative stanno proseguendo.

l’Unità 10.4.14
Comunicato Rsu de l’Unità


La Rsu de l’Unità vuole segnalare e raccontare a tutti i lettori la storia recente della nostra categoria. Siamo in attesa del rinnovo contrattuale da 3 anni, non abbiamo aumenti contrattuali da 5 anni, i governi Monti, Letta e Renzi hanno proposto e modificato la legge 416/81 il giorno 16 gennaio 2014, la 416 è un ammortizzatore sociale previsto in stato di crisi. La crisi dell’editoria è evidente e sotto gli occhi di tutti. Il sindacato si è mosso adeguatamente proclamando una giornata di sciopero contro il governo Letta per il giorno 21 gennaio. Il ministro Giovannini ha convocato le parti e aperto un tavolo tecnico per congelare lo sciopero. Dopo tre incontri al ministero si è arrivati al 3 marzo, con il parere favorevole sia dei tecnici del ministero sia dell’Inps. Il 14 marzo le strutture sindacali dei grafici e poligrafici e la parte datoriale hanno chiesto un incontro urgente al ministro del Lavoro (si può leggere sul sito Cgil nazionale produzione multimediale la documentazione dei tre incontri avvenuti il 21 gennaio, 28 gennaio e 3 marzo), alla data di oggi, passati 35 giorni dall’ultimo incontro, non c’è stata nessuna risposta da parte del ministro del Lavoro Poletti. Ricordiamo che nei poligrafici ci sono circa 250 esodati e circa 250 esuberi che hanno sottoscritto a normadi legge la richiesta di prepensionamento. Il nostro invito è quello di dar voce e forza a questi compagni che non percepiscono né lo stipendio né la pensione da molti mesi e di non farli precipitare verso probabili licenziamenti. Il nostro pensiero è quello di proclamare da subito lo sciopero nazionale.