venerdì 11 aprile 2014

l’Unità 11.4.14
left e la fine del «tabù giustizia» nel dopo-Berlusconi
Il numero domani in edicola analizza
le vicende giudiziarie dell’ultimo ventennio e le prospettive future
di Giovanni Maria Bellu


Un giorno la sinistra smise di occuparsi della cattiva giustizia. Non se ne conosce la data precisa, ma si può affermare con certezza che l’inizio di questa «distrazione» coincide col momento in cui l’uomo più ricco e potente d’Italia cominciò ad attaccare i giudici, e a cambiare le leggi, per difendere se stesso. Prima dell’inizio dell’era berlusconiana la questione della difesa dei diritti dei più deboli era stabilmente all’ordine del giorno del dibattito della sinistra. Si parlava senza imbarazzo di procure che occultavano le inchieste (i «Porti delle nebbie») o che si accanivano su figure deboli e marginali per distogliere l’attenzione dalle responsabilità degli apparati dello Stato nelle stragi (il «caso Valpreda»). Poi tutto (o quasi) tacque.
Abbiamo dedicato il prossimo numero di left (in edicola domani con l’Unità) a questo tabù. Ne abbiamo parlato con giuristi come Luigi Ferrajoli, con storici come Salvatore Lupo. Nell’editoriale di apertura il giudice Alberto Cisterna chiarisce un aspetto cruciale della questione. Ecioè che a questo silenzio della sinistra si è accompagnata, da parte della politica, di tutta la politica, la progressiva rinuncia all’esercizio della sua funzione di controllo, per esempio attraverso le authority. È una questione complessa e delicata. Ma proprio per questa ragione è opportuno cominciare ad affrontarla. Perché se il «tabù-giustizia» è stato uno dei più nocivi tra gli «effetti collaterali» del berlusconismo, romperlo è una delle condizioni indispensabili per tornare a essere un Paese normale. E per chiudere definitivamente col berlusconismo.
Uno dei servizi è dedicato all’autogoverno dei giudici e a specifiche vicende che – nell’assegnazione degli incarichi direttivi, nella elezione dei membri del Csme dell'Associazione nazionale magistrati – richiamano modi e metodi della cosiddetta «vecchia politica». Perché il silenzio, l’attribuzione di una sorta di delega illimitata, ha fatto male anche ai giudici e ai loro «partiti interni». Gli unici a essere sopravvissuti al passaggio tra la prima e la seconda Repubblica. Un problema di difesa e di riconoscimento del merito esiste anche tra i magistrati. Le «logiche correntizie» sono spesso decisive per la scelta di capi di uffici delicatissimi. Col risultato paradossale che così come la politica delega alla giurisdizione scelte che non è in grado di compiere (dalla riforma elettorale a quella della legge 40), gli stessi giudici finiscono con l’affidare ad altri giudici (quelli del Tar) la risoluzione dei conflitti interni generati da un uso improprio dei poteri di autogoverno.
In definitiva, parliamone. Col senso di responsabilità dovuto a una materia che, contemporaneamente, attiene al buon funzionamento della democrazia e alla vita quotidiana di tutti noi. Parliamone in modo semplice e chiaro. Come la vignetta-editoriale di Sergio Staino (che non anticipiamo qua per non guastare la sorpresa) suggerisce, in apertura del numero, con amara e feroce ironia.

l’Unità 11.4.14
Fecondazione, una vittoria per quei 10 milioni di «sì»
Il referendum sulla Legge 40 non raggiunse il quorum
ma sapevamo che quella non era la sconfitta definitiva
di Lanfranco Turci


CON LA SENTENZA DELLA CORTE COSTITUZIONALE CHE CANCELLA IL DIVIETO DELLA FECONDAZIONE ETEROLOGA SUBISCE UN ALTRO COLPO DECISIVO LA LEGGE 40 CONTRO CUI PROMUOVEMMO A SUO TEMPO I REFERENDUM ABROGATIVI.
In quanto fui tesoriere e coordinatore del Comitato referendario, non posso perciò non esprimere anche una particolare soddisfazione personale. Ma il mio pensiero grato va allo schieramento delle forze politiche, culturali e scientifiche che sostennero quella dura prova.
Una costatazione obiettiva, anche ad anni di distanza, non può non riconoscere al loro interno il ruolo decisivo che ebbero le donne dei Ds e i Radicali. Furono mesi terribili quelli del 2004 dedicati alla raccolta delle firme. Complice anche il generale agosto, sembrava che non ce la facessimo a raggiungere la soglia di sicurezza. Con il maggiore partito della campagna che per una parte (le donne e alcune componenti interne) era decisamente impegnato e per l'altra parte frenava vistosamente, per il timore di scontrarsi con lo schieramento guidato dal cardinale Ruini e da Paola Binetti, eletta non a caso nel 2006 nelle liste dell'Ulivo. Poi si arrivò al referendum e il mancato raggiungimento del quorum fu valutato da molti come una sconfitta irrecuperabile e meritata, ignorando il fatto che referendum analoghi pochi mesi prima avevano avuto successo in Svizzera e in California perché in quei Paesi non era prevista il limite del cinquanta per cento degli elettori per la validità dei referendum stessi. Di fronte ai dieci milioni di «sì» e alla qualità di quel consenso, raccolto soprattutto nei centri urbani e fra i cittadini più acculturati, noi parlammo invece di quel risultato come di un investimento positivo che avrebbe dato i suoi frutti nel futuro.
Così è stato, grazie alla tenacia delle persone che hanno sofferto sulla loro pelle i danni di quella legge ingiusta e oppressiva, dei comitati di medici e di giuristi che le hanno sostenute e della permanente vitalità dei principi fondamentali della nostra Costituzione repubblicana che guidano il lavoro della magistratura ordinaria e della Corte Costituzionale.
Il referendum non fu affatto uno scontro fra portatori di un presunto valore umano inderogabile, quale la sacralità dell’embrione, e i propugnatori nichilisti della libertà senza limiti. Chi contestava la legge 40 lo faceva in nome di altri valori non meno eticamente difendibili, quali la difesa della salute delle donne, la speranza dei portatori di malattie genetiche di poter generare figli immuni da quelle terribili tare, la possibilità della ricerca scientifica di esplorare nuove terapie contro alcune delle più gravi e diffuse malattie, il diritto delle coppie sterili di realizzare la loro aspirazione alla procreazione.
Le sentenze dei tribunali e la maturazione di un più vasto consenso fra l’opinione pubblica stanno dando ragione a quella battaglia. Un grazie particolare e personale voglio esprimere a Luca Landò, che seguì con passione il referendum da l’Unità di quegli anni e a Ugo Sposetti, che ci aiutò anche verso gli altri partiti referendari a raccogliere la parte di fondi che non raccogliemmo direttamente dalla sottoscrizione pubblica.

il Fatto 11.4.14
Giustamente
La legge 40 non c’è più. Il resto sono chiacchiere
di Bruno Tinti


LA CORTE costituzionale ha dichiarato l’incostituzionalità del divieto di fecondazione eterologa (l. 40/2004). Ora una coppia che non può avere figli può utilizzare lo sperma o l’ov u l o di una terza persona. Fino adesso non si poteva: i poveretti erano costretti ad andare all’estero, Spagna, Svizzera, Olanda etc. Naturalmente non sempre un solo viaggio era sufficiente: come avviene nei rapporti naturali, non è detto che all’accoppiamento segua la gravidanza. E così spesso i viaggi della speranza diventavano numerosi. Con l’ovvia discriminazione di chi non aveva adeguate possibilità economiche. Si trattava di una norma assurda: razionalmente prima che eticamente.
1) Il ministro Lorenzin ha subito detto che l’incostituzionalità della legge non significa che da domani la fecondazione eterologa sarà a disposizione di tutti. “È un fenomeno complesso da regolamentare, ci deve pensare il Parlamento”. Evidentemente costei ignora il principio fondamentale secondo cui ciò che non è esplicitamente proibito è lecito. Il divieto è caduto perché incostituzionale; il Parlamento certamente non può riproporlo; chi vuole servirsi di seme od ovuli di estranei alla coppia non ha più ostacoli.
2) Sempre Lorenzin: “Dobbiamo regolamentare l’anonimato dei donatori”. E perché? Supponiamo che una coppia infertile si rivolga a un amico o un’amica e gli chieda di donare seme od ovuli. Chi glielo impedirà? E chi potrà vietargli di recarsi con il prodotto presso una clinica e chiedere la fecondazione? Il divieto non c’è più. Ed è ovvio che, in casi come questi, l’identità del donatore è pacifica.
3) “Si deve vietare il commercio di sperma o di ovuli”. E perché? Se una coppia si rivolge a un estraneo e chiede, dietro compenso, di donare quanto necessario, chi glielo può impedire? E poi; se non si può impedire l’accoppiamento “naturale” con un estraneo che fecondi la donna non fertile e ciò gratuitamente o dietro pagamento (la cosa non è vietata e non costituisce reato); se analogamente può coinvolgersi una estranea (anche se la cosa è un po’ più complessa). Perché non dovrebbe essere lecito evitare una situazione penosa, sotto il profilo sentimentale, sostituendo all’accoppiamento mercenario la donazione, sempre mercenaria?
4) Il divieto continua a sussistere per le coppie fertili, anche se portatrici di malattie genetiche che sconsigliano di generare. E per le coppie omosessuali. Il che è veramente ridicolo.
CERTO, entrambi i coniugi possono essere portatori di dette malattie; e allora l’unica soluzione è l’adozione. Ma perché vietare la fecondazione eterologa se solo uno della coppia è malato? Tanto più in quanto, per riprendere l’esempio appena esposto, nulla impedisce un accoppiamento naturale con un estraneo da parte del coniuge non malato al solo scopo di procreare, gratuitamente o a pagamento che sia. E ciò vale naturalmente anche per le coppie omosessuali.
Insomma, ipocriti e bigotti impongono leggi impietose; e speculano sui naturali sentimenti di chi non vuole accettare la pur occasionale relazione del partner con un estraneo, evento che non sarebbe in loro potere impedire, vietando la soluzione di una fecondazione eterologa artificiale, alternativa che sarebbe invece emozionalmente accettabile. È così che privano tante sfortunate persone dei loro diritti. Ci vorranno altri 10 anni perché questa gente sia finalmente messa in condizioni di non nuocere?

il Fatto 11.4.14
Fecondazione eterologa
Bioetica, il silenzio prudente del Papa
di Marco Politi


Il silenzio dell’Osservatore Romano sulla sentenza della Corte costituzionale, che ha legalizzato la fecondazione eterologa, è il segnale più eclatante del mutamento di clima introdotto da papa Francesco rispetto alla tematica della bioetica. Nessuna scomunica, nessuna crociata.
Sia chiaro, il pontefice argentino non muta di una virgola la posizione dottrinale della Chiesa cattolica. Quando gli stessi problemi – oggi all’attenzione dell’opinione pubblica in Italia – esplosero a Buenos Aires, la Conferenza episcopale argentina insieme al cardinale Bergoglio si pronunciò nettamente contro la fecondazione eterologa, l’utero in affitto e il matrimonio gay. Da allora il suo atteggiamento non è cambiato. Il suo no resta.
Quello che riflette il nuovo clima del pontificato è la volontà di non interferire come Santa Sede in una questione che riguarda lo stato-Italia, perché i problemi di ciascuna nazione sono di competenza degli episcopati locali. I rapporti con le istituzioni e la situazione socio-politica italiana – disse papa Bergoglio, incontrando poco dopo la sua elezione i presuli della Cei – sono “cosa vostra”. E lo ripeté due volte per fare capire che non vi sarebbero più state istruzioni della Segreteria di Stato vaticana su come gestire gli affari italiani.
NATURALMENTE questo implica che il pontefice è d’accordo con gli interrogativi posti dalla presidenza della Conferenza episcopale italiana, quando viene contestato un diritto individuale alla figliolanza “sganciato da qualsiasi visione relazionale”, trascurando in tal modo anche il “diritto del figlio a conoscere la propria origine biologica”. Ma anche in questo caso un mutamento di terminologia nel comunicato della presidenza Cei segnala un nuovo modo di approcciarsi a problematiche, che durante il pontificato di Wojtyla e Ratzinger hanno scatenato frequentemente guerre di religione. Dalla Cei viene espresso “necessario rispetto (verso) l’operato della Corte costituzionale” e non partono fulmini, bensì vengono posti all’attenzione “alcuni nodi problematici”.
In questa maniera – ed è il secondo elemento di novità della situazione prodottasi con l’avvento di Bergoglio – la discussione viene spostata su un terreno più laico. Al posto di una riproposizione di una “verità” calata dall’alto in nome di una dogmatica legge divina si fa strada un confronto, anche polemico se si vuole, su diverse visioni del mondo e delle relazioni.
Sull’Osservatore Romano, significativamente, Lucetta Scaraffia pone l’interrogativo (nel caso della donna milanese) di una gravidanza iniziata a 54 anni, dichiaratamente al di fuori del ritmo biologico normale delle donne. Per quanto riguarda l’utero in affitto, l’editorialista del giornale vaticano, riprendendo tematiche esposte in Francia dalla filosofa femminista (ovviamente laica) Sylviane Agacinski, focalizza l’attenzione sul rischio (che oggi tende piuttosto a diventare già prassi) di un mercato che spinge o costringe per necessità donne povere del Terzo mondo a “vendere il loro corpo o sotto forma di ovuli o come utero”. Non siamo qui in presenza, si chiede la Scaraffia, di una nuova forma di sfruttamento?
È EVIDENTE che da questo punto di vista la problematica rientra nell’ambito della visione del mondo di ciascuna persona, fa appello a una riflessione sul rapporto tra nuove tecnologie e utilizzo del corpo delle donne (si tratti di utero in affitto o di utero “prestato”), in ultima istanza è un richiamo al legislatore a valutare che cosa sia più positivo rispetto all’ “umano”.
Chi, ad esempio, al tempo della legislazione sull'aborto – battendosi per ciò che era ritenuta giustamente una conquista delle donne – respingeva l’idea della “madre-contenitore”, costretta a portare a termine una gravidanza non voluta, non è detto che oggi sia automaticamente a favore della “donna-contenitore”, che per soldi o solidarietà, trascorre una gravidanza per conto terzi.
In altre parole, usciti dal campo dei dogmi imposti ex cathedra, si entra nella dimensione della libera discussione, dove non è detto che l’utero in affitto sia di per sé “progressista” e il rifiuto di una simile prassi sia di per sé “reazionario” .
Non è un caso che nel mondo ebraico, per tradizione non ossessionato dalla sessuofobia che ha caratterizzato per secoli la dottrina cattolica, si manifestino perplessità sulla fecondazione eterologa. C’è grande favore verso le procedure di fecondazione assistita per superare le difficoltà di una coppia, spiega il rabbino capo di Roma, Riccardo Di Segni, ma rispetto alla fecondazione con ovuli o gameti di terzi la valutazione cambia radicalmente ed è negativa. “È una procedura sconsigliata anche per motivi etici e psicologici – afferma Di Segni – Ci si deve ad esempio interrogare sull'identità del donatore, sulle possibilità che vengano trasgrediti alcuni divieti, tra cui quello gravissimo dell’incesto (sui figli del donatore), e sui problemi che possono sorgere nei rapporti padre-figlio e madre-figlio”.

il Fatto 11.4.14
Eterologa? Sì, no, forse si può fare
Dopo la decisione della consulta i centri per la procreazione assistita attendono indicazioni
di Chiara Paolin


La centralinista del Centro di Fisiopatologia della Riproduzione all’Ospedale Papa Giovanni XXIII di Bergamo è perplessa. Qui si fanno circa mille cicli all’anno di tecnica riproduttiva (Icsi, Fivet, Gift): è una fra le strutture più quotate a livello nazionale, ma la richiesta di accedere alla nuova pratica mette in imbarazzo. “Vuole sapere se facciamo l’eterologa? Ah sì, ne parlavano ieri in tivù, sono cambiate le regole vero? Non so, le do il numero della segreteria, provi lì”.
É il day after della Consulta che boccia l’ultimo baluardo della Legge 40 sulla fecondazione assistita: da ieri è decaduto il veto all’inseminazione eterologa per le coppie sterili, ma l’accesso alla donazione dello sperma o dell’ovulo non si ottiene in un giorno. Sul sito dell’Istituto Superiore di Sanità sono 357 i centri accreditati, e teoricamente tutti potrebbero garantire l’utilizzo dei gameti: dal primo della lista (un laboratorio di Agrigento che in un anno ha trattato 9 casi e classificato come “inspiegata” al 100% l’infertilità di tutti i pazienti) all’ultimo (un centro di Vibo Valentia con all’attivo due trattamenti), c’è solo da decidere a chi rivolgersi.
Non al Centro di Procreazione medicalmente assistita di Padova, che ieri in una nota ufficiale si diceva pronto all’azione “solo dopo che il Ministero avrà emanato le nuove direttive”. Laura Rienzi, presidente della Società italiana di embriologia riproduttiva agli spermatozoi, aggiunge: “La tecnica eterologa è accessibile in tempi rapidi perché esistono banche europee, e si costituiranno facilmente banche italiane. Però dovremmo sicuramente consultare gli avvocati per chiarire i dettagli”.
PIÙ LANCIATO ANTONINO GUGLIELMINO, ginecologo dell’associazione Hera che ha promosso il ricorso delle coppie siciliane alla Consulta. “Noi siamo pronti a partire subito, pure domani mattina: in Italia ci sono 79 mila ovociti congelati, materiale biologico che le donne hanno ceduto per le tecniche di inseminazione. Bisogna fare come in Gran Bretagna, dove gli ovociti estratti per le proprie esigenze e non utilizzati possono essere donati alle banche, messi a disposizione delle coppie. Si chiama egg sharing, condivisione delle uova, ed è una pratica sicura, oltre che civile”. Nel frattempo, i medici cattolici invocano il diritto all’obiezione di coscienza: “Nessuno potrà obbligare i medici a fare procedimenti diagnostici o di trattamento terapeutico in contrasto con la coscienza - dice Filippo Bo-scia, presidente dell’Associazione Medici Cattolici Italiani -. C’è un effetto a cascata anche sul piano sociale, perché è irrinunciabile il diritto a conoscere le proprie origini. Potrà un figlio sapere della sua salute in presenza di patologie genetiche? E allora il donatore dovrà essere conosciuto?”. Elisabetta Coccia, presidente dell’associazione che riunisce i Centri di Studio e Conservazione Ovociti e Sperma Umani privati e convenzionati, conferma: se il settore pubblico s’incastra tra obiettori e pastoie burocratiche, il privato è prontissimo: “I nostri centri stanno ricevendo centinaia di richieste in queste ore. In termini tecnologici siamo sicuramente pronti, anche perché da anni è attiva in Italia la normativa Ue che identifica i Centri di fecondazione come banche di tessuti, autorizzati alla conservazione di gameti, maschili e femminili, ed embrioni. I gameti conservati non possono però essere utilizzati per l’eterologa: ciò che ora urge è una normativa o delle linee guida per attivare un percorso per la donazione. Non serve un intervento parlamentare, che allungherebbe enormemente i tempi: la legge è già esecutiva”.

Corriere 11.4.14
Partiti divisi su una nuova legge. Centri pronti


L’ipotesi di intervenire con una nuova legge, invocata da alcuni subito dopo la sentenza della Consulta che ha abbattuto il divieto alla eterologa, divide il Parlamento e le coscienze. La decisione della Corte costituzionale, secondo la Conferenza episcopale italiana, lascia «alcuni nodi problematici che suscitano dubbi e preoccupazioni». In particolare «viene affermato un non meglio precisato diritto al figlio o diritto alla genitorialità, col rischio di confondere il piano dei desideri con il piano dei diritti». E mentre i centri in tutta Italia si dicono già pronti a praticare la eterologa, si solleva il dubbio di un vuoto normativo. Per il ministro della Salute, Beatrice Lorenzin, servirà capire se toccherà al Parlamento occuparsi di aspetti come l’eventuale anonimato di chi cede i gameti. «Come ci comporteremo con i figli dell’eterologa? Ci vorrà una norma, non credo che bastino i decreti». «Nessun vuoto normativo» invece, secondo Amedeo Santosuosso, bioeticista e consigliere di Corte d’appello a Milano: «Il regime giuridico è perfetto». Altro possibile effetto della sentenza: migliaia di coppie che non potevano avere figli, se non attraverso il ricorso alla eterologa, potrebbero chiedere un risarcimento allo Stato. A valutare questa ipotesi sono gli avvocati dell’associazione Coscioni, che hanno seguito buona parte dei procedimenti contro questo aspetto della legge 40.

Corriere 11.4.14
Dieci anni dopo come un secolo
di Angelo Panebianco


Ora che con la sua sentenza la Corte costituzionale ha dichiarato illegittimo il divieto di fecondazione eterologa seppellendo così, di fatto, la legge 40 varata dieci anni fa (nel 2004), si può fare un confronto fra il clima di allora e quello di oggi. Nel 2004, quando la legge venne approvata dal Parlamento, e ancora nel 2005, quando su quella legge si tenne un referendum, il Paese si spaccò in due, venne trascinato dentro una specie di «scontro di civiltà». Il fronte che vinse allora, per via politica, e che adesso esce sconfitto per via giurisdizionale, sembra quasi silente. Poche e isolate sono state, fino ad ora, le voci cattoliche che si sono levate a criticare la sentenza. Nel suo complesso, la Chiesa sembra orientata a scegliere una condotta prudente, di implicita, più o meno rassegnata, accettazione dell’esito che si è determinato.
Che cosa è cambiato? Diverse cose e in diversi luoghi: nella Chiesa, nella società, nella politica italiana.
Quanto alla Chiesa, il cambiamento si chiama Francesco. Nel 2004 era ancora alla testa della Chiesa (sarebbe morto l’anno successivo) Giovanni Paolo II, il Papa venuto dal freddo, il Papa che aveva fatto della lotta contro la secolarizzazione la vera cifra del suo Pontificato. Seguito da papa Ratzinger, un Pontefice che, del predecessore, con un diverso stile, avrebbe continuato l’opera. Quelli che giornalisticamente (ma non certo nella dottrina cristiana) vengono chiamati «temi etici» — in buona sostanza, la difesa, in tutti i suoi aspetti, della famiglia naturale — erano al centro delle preoccupazioni e delle azioni di quei Papi e, per conseguenza, della Chiesa nel suo insieme.
Papa Francesco ha fatto altre scelte. Non ha certo abbandonato la difesa di principio della famiglia naturale (solo gli sciocchi potrebbero pensarlo) ma ha chiarito, fin dai primi discorsi che inaugurarono il suo Pontificato, che non su quei temi avrebbe caratterizzato la sua azione. Alla inflessibilità e alla energia — c’è chi le dice genuinamente evangeliche e chi le dice, forse più grossolanamente, latinoamericane — sui temi della ingiustizia sociale, non corrisponde una uguale energia spesa nel confronto/scontro su altri argomenti: in particolare, contro chi sostiene e incoraggia i cambiamenti, dovuti a una combinazione di innovazioni tecnologiche e di mutamenti del costume, che investono la famiglia (e le concezioni della famiglia) nel mondo occidentale, Italia inclusa.
È probabile che molti prelati, che avrebbero forse levato le loro voci con durezza qualche anno fa, oggi tacciano perché non è ancora a tutti chiaro quali direzioni sceglierà e, soprattutto, in quale modo deciderà di confrontarsi con il mondo secolare, su diversi temi sensibili, la Chiesa di papa Francesco.
In questi dieci anni è anche cambiato molto nel costume italiano. Dicono i sondaggi (quale che ne sia l’affidabilità, soprattutto su temi come questi) che si è largamente diffusa una concezione pluralistica della famiglia, l’idea che di famiglie possano essercene legittimamente di tipi diversi, anche molto lontani da ciò che un tempo si intendeva per famiglia naturale. Come sempre, le motivazioni sono le più varie.
Alcuni applaudono al cambiamento considerandolo un segno di progresso, altri sono semplicemente rassegnati di fronte a quella che ritengono la sua inevitabilità. Soprattutto, là dove il cambiamento è favorito, come nel caso dell’impianto di ovuli fecondati, dalla tecnologia, è idea diffusa che resistere al cambiamento sia una fatica inutile. La tecnica, soprattutto quando si sposa con il mercato, ha una forza irresistibile. Prima o poi travolge qualunque argine legale le venga velleitariamente opposto.
E ci sono, infine, le vicissitudini della politica italiana e, soprattutto, i problemi della nostra malandata democrazia. Proprio il caso della legge 40 è un buon punto di osservazione. Documentava ieri il Corriere (Mario Pappagallo, pagina 3) che nel corso di questi dieci anni ben trentadue sentenze hanno smantellato la legge pezzo per pezzo. Attraverso un lungo lavorio compiuto dai tribunali ordinari e dalla Consulta. E ciò che è accaduto alla legge 40 è accaduto ad altre leggi, votate dal Parlamento, su altri temi controversi. È un bene? È un male? Quello che è certo è che gli spazi decisionali degli organi rappresentativi, dei luoghi deputati alla rappresentanza della volontà popolare così come si manifesta attraverso libere elezioni, sono ormai assai ristretti. Potremmo dire: la politica propone, l’organo giurisdizionale dispone.
Ma, si dice, c’è il vincolo di costituzionalità. Sarà, ma occorre per lo meno riconoscere che si tratta di un vincolo piuttosto elastico, variamente interpretabile (tanto è vero che sulla legge 40 la Corte si è spaccata in due: otto contro sette). E il vincolo risulta più o meno stringente a seconda di quanto debole oppure forte, screditata oppure rispettata, risulti, nel momento storico dato, la politica rappresentativa. Se, ad esempio, la politica fosse stata forte e rispettata, la Corte costituzionale non si sarebbe mai potuta permettere l’invasione di campo che ha fatto sentenziando sulla legge elettorale.
Una buona ragione per ridare credibilità alla politica rappresentativa è anche quella di allentare il vincolo, di non spostare definitivamente su tribunali, Corti, e relativi funzionari, il monopolio in ultima istanza dell’interpretazione della volontà popolare.
A proposito di costume, va segnalato infine quanto siano stati inappropriati certi commenti sulla sentenza della Corte in materia di fecondazione. È legittimo pensarla come si vuole. Non lo è invece immiserire questioni così essenziali per la vita sociale tutto appiattendo e tutto riducendo, semplicisticamente, a uno scontro fra cosiddetti amanti del progresso e cosiddetti oscurantisti.

Corriere 11.4.14
I figli potranno cercare i genitori biologici? I dilemmi dell’eterologa
Meno Paesi garantiscono l’anonimato
di Margherita De Bac


L’eterologa ora si può fare anche in Italia. Ma come? Con quali regole? Per i giuristi ci sono, per i politici vanno scritte per richiamare i centri a una disciplina univoca. La Corte costituzionale ha cancellato il divieto contenuto nella legge, la numero Quaranta del 2004, sulla procreazione medicalmente assistita. Una svolta storica. Eravamo l’unico Paese europeo a vietarla. Fra un mese usciranno le motivazioni. E allora si capirà meglio cosa hanno deciso i giudici e come potrà avvenire la riapertura alle tecniche che implicano l’impiego di cellule-gameti (ovocita e spermatozoi) non appartenenti alla coppia ma donati. Molti sono i punti da approfondire. A cominciare dall’anonimato di chi «fornisce» gameti, cioè chi li cede a persone infertili. È un loro diritto? O deve prevalere l’interesse del bambino desideroso o bisognoso per motivi medici,di sapere chi ha reso possibile la sua nascita?
Nuova legge?
Prima del 2004 la materia era molto confusa. I centri si autogestivano. «Le società scientifiche devono produrre delle linee guida, siamo pronti a partire», non vede difficoltà Andrea Borini, della Sifes (Società italiana di fertilità e sterilità). Ma sarà davvero così semplice ricominciare? «Non c’è certezza del diritto — commenta Cinzia Caporale, vicepresidente del Comitato nazionale di bioetica —. Il cittadino, medico o paziente che sia, gira come bendato. Se non è un fine giurista non è in grado di capire cosa è lecito e cosa no. È il peggiore dei mali». Sarà forse necessaria una nuova legge che tenga conto di quanto hanno sancito i giudici in questi anni. Il ministro della Salute Betarice Lorenzin ragiona: «L’introduzione dell’eterologa nel nostro ordinamento è un evento complesso che difficilmente potrà essere attuato solo con decreti. Ci sono aspetti delicati. Non bastano atti amministrativi».
Le norme in Europa
Secondo l’ultimo rapporto della Commissione europea sulla donazione di cellule per fini riproduttivi, l’eterologa è permessa in tutta Europa. L’Italia era l’unica a vietarla. Prima del 2004 era consentita solo nelle cliniche private perché una circolare del ministro della Salute Degan, nel 1985, l’aveva esclusa dagli ospedali pubblici. In alcuni Paesi oltre a essere prevista dalla legge è normata da linee guida nazionali o internazionali. In Irlanda manca una legge. In Italia un riferimento potrebbe essere il parere del Comitato nazionale di bioetica dove viene richiamata l’attenzione soprattutto sul diritto del figlio a sapere come è stato concepito. Con un’inversione di tendenza sul piano etico e giuridico internazionale: l’abbandono della tesi dell’anonimato totale del donatore. Due le linee di pensiero emerse: una a sostegno dell’anonimato parziale (accesso solo alle informazioni genetiche), l’altra favorevole a rivelare anche l’identità del donatore.
L’anonimato del donatore
Il diritto del donatore di ovociti e spermatozoi a restare anonimo era previsto in tutta Europa fino all’inizio del 2000. Poi il paletto è saltato in molti Paesi. Ha cominciato l’Austria, seguita da Germania, Svizzera, Olanda, Norvegia, Gran Bretagna, Svezia, Finlandia e, al di fuori dell’Europa, Australia. In Svezia l’abolizione di questo segreto ha comportato un drastico calo di donatori. L’anonimato totale in ogni caso non può essere mantenuto nei confronti del centro di pma: nei registri delle banche in genere viene indicata l’identità. In Gran Bretagna sono richiesti ai donatori informazioni sul numero di bambini avuti col proprio partner e su eventuali problemi medici. Si può addirittura lasciare un messaggio di benvenuto al figlio biologico. In Spagna gli uomini non possono donare più di sei volte per evitare incroci tra fratelli di famiglie diverse.
«Negli anni è stata data la precedenza all’interesse del bambino. In Australia hanno legiferato in senso retroattivo» dice Edgardo Somigliana, direttore del Centro per la cura dell’infertilità della Mangiagalli di Milano. E aggiunge: «Per affossare l’eterologa basterà decidere che si può accedere all’identità del donatore e che è vietata ogni forma di rimborso».
Gratuita o a pagamento?
Quasi ovunque viene affermato il valore della gratuità della donazione. Questo è scritto nella maggior parte delle leggi Ue e dove non è scritto, come in Germania e Danimarca, c’è una raccomandazione a non pagare. Però i modi di aggirare l’ostacolo esistono. Si ricorre alla formula del «rimborso spese». Certo è che per una donna produrre ovociti non è uno scherzo. Deve prendere ormoni e sottoporsi a un prelievo. Insomma, per farlo da volontarie bisogna essere molto motivate e altruiste.
Le tutele per il nascituro
I figli dell’eterologa sono ben protetti in Italia. Già la legge 40 stabilisce che «nel caso la coppia si sottoponga a eterologa all’estero non può disconoscere il nascituro e il donatore non può avanzare nessun diritto sul bambino». «Abbiamo un sistema di garanzie ben consolidato, più avanzato rispetto ad altre realtà, servono solo dei ritocchi. Il Far West non è tornato» rassicura il costituzionalista Stefano Rodotà.

l’Unità 11.4.14
La Cei: «Preoccupati»
Renzi all’epoca dei referendum sulla legge 40, da presidente della provincia, promuoveva il fronte per l’astensione, obbediente alla Cei
«Non ci vuole una legge, la sentenza della Consulta sarà immediatamente applicabile e poche norme regolamentari potrebbero farle anche le società scientifiche»
«Modificare la Legge 40? No, solo piccoli accorgimenti»
«Non c’è bisogno di norme particolari per applicare la sentenza della Consulta»
I centri si stanno organizzando per garantire l’eterologa
di Mariagrazia Gerina


Renzi lo conosco piuttosto bene, è uno che sa sentire gli umori della gente, mentre era sindaco il consiglio comunale fiorentino approvò il testamento biologico, anche se quello della fecondazione assistita è per lui un terreno piuttosto scivoloso, saprà trovare il modo di intervenire andando incontro ai bisogni delle persone e rispettando il dettato della Consulta», assicura o almeno si augura Claudia Livi, ginecologa fiorentina, responsabile del centro per la procreazione assistita Demetra di Firenze e consigliera comunale del Pd a Palazzo Vecchio per due consiliature.
Con l’ex sindaco si sono trovati spesso da parti opposte della barricata. Specie all’epoca dei referendum sulla legge 40, quando lei era in trincea per il sì e lui, da presidente della provincia, promuoveva il fronte per l’astensione. «Abbassare i toni», disse Renzi il giorno dopo la sconfitta dei referendari. «Tanto più ora davanti alla sentenza della Consulta, dovrebbe suggerirlo a chi è al governo con lui», osserva la ginecologa fiorentina, a proposito della “road map” sulla fecondazione assistita invocata dal ministro Lorenzin, che ipotizza anche un nuovo intervento del parlamento.
Di restare ancora appesi a dibattiti etici o a quello che farà il legislatore ginecologi, medici ed embriologi non ne hanno alcuna intenzione. «Attenderemo la pubblicazione della sentenza e ci organizzeremo», replicano, all’indomani del pronunciamento della Consulta. «Non si può sottoporre il rispetto della Costituzione a negoziazioni legate alla sopravvivenza di una maggioranza politica», avverte con loro anche il costituzionalista Stefano Rodotà, che concorda: «Non c’è bisogno di norme particolari per applicare la sentenza della Consulta». E ipotizza semmai «interventi modesti non particolarmente bisognosi di discussione» per garantire l’anonimato e insieme l’accesso ai dati genetici del donatore. Mentre alla classe politica preoccupata di legiferare su questi temi in linea con la Cei, che proprio ieri è tornata a manifestare «preoccupazione» per la sentenza della Consulta, suggerisce di seguire l’esempio di Bergoglio: «Su questi temi per anni c’è stato un dialogo ristretto tra due oligarchie. Quella vaticana Bergoglio l’ha messa radicalmente in discussione, non vorrei che la politica dimostrasse di non essere all’altezza dei tempi».
Legiferare ora rischia di essere legiferare contro. Chi sta in trincea semmai chiede cose molto più semplici e concrete all’esecutivo. Per esempio, il nuovo modello di consenso informato, da firmare per accedere alle tecniche di fecondazione assistita. E un aggiornamento delle linee guida sulla fecondazione assistita, rispettoso della sentenza della Consulta. E non solo: «È auspicabile che nell’aggiornare le linee guida, il legislatore non cerchi modalità per rendere farraginoso l’accesso alle tecniche di fecondazione assistita, ma provveda invece ad ampliare il concetto di infertilità alle coppie portatrici di patologie genetiche, come fece il ministro Turco nel 2008 rispetto ai maschi fertili portatori di patologie virali», suggerisce Filomena Gallo, segretario dell’Associazione Luca Coscioni e legale, insieme al collega Gianni Baldini, di molte coppie costrette in questi anni a difendersi dalla legge 40. «Con alcune di loro stiamo valutando la possibilità di azioni di risarcimento per la lesione dei diritti di cui sono state vittime in questi anni a causa della legge 40», spiega. Mentre, in attesa che i centri si organizzino per ripartire con l’eterologa, ricorda che «c’è una direttiva europea che consente il rimborso delle cure effettuate all’estero, l’Italia l’ha recepita da poco e dovrà essere applicata anche alle coppie che, appena pubblica la sentenza della Consulta, chiederanno di andare all’estero». Infine: «esistono embrioni abbandonati, non idonei per una gravidanza, prodotti prima della legge 40, il decreto ministeriale del 4 agosto 2004, mai applicato, ne prevedeva il trasferimento presso un centro di raccolta a Milano per incentivare la ricerca sulle tecniche di criconservazione». Se governo e Parlamento vogliono recuperare terreno, insomma, possono anticipare le prossime sentenze della Consulta, che entro ottobre si pronuncerà sia sul divieto di utilizzo degli embrioni per la ricerca e sul divieto di accesso per le coppie fertili portatrici di patologie genetiche. Una nuova legge sulla fecondazione assistita «hanno avuto dieci anni per farla ma il silenzio di Renzi, della sua maggioranza e delle maggioranze che l’hanno preceduto in questi anni di diritti calpestati è stato eloquente», osserva Gallo.
In attesa che il silenzio si interrompa, il sottosegretario Ivan Scalfarotto assicura che «questi temi non saranno demandati solo al ministro Lorenzin». A cui replica che «non ci vuole una legge, la sentenza della Consulta sarà immediatamente applicabile e poche norme regolamentari potrebbero farle anche le società scientifiche». Semmai, quello che auspica anche lui è un intervento del governo che anticipi le decisioni della Consulta.

Corriere 11.4.14
Dalle radio libere a Eluana: l’Italia cambiata dai giudici
di Riccardo Bruno


Non capita tutti i giorni che due decisioni della magistratura incidano così profondamente, come il sì all’eterologa e quello alle nozze tra persone dello stesso sesso. Anche se la storia d’Italia è scandita da salti in avanti dei giudici, rivoluzioni scoppiate prima nei tribunali e solo dopo diventate leggi: dal delitto d’onore alle radio libere, dalla privacy al diritto di famiglia.
Franca Viola, diciassettenne di Alcamo, nel dicembre 1965 venne rapita e violentata dall’ex fidanzato, ma si rifiutò di mettere tutto a posto con un «matrimonio riparatore» come suggeriva la morale comune e autorizzava il codice. Un giudice le diede ragione, le vecchie norme iniziarono a essere scalfite, la morale comune si adeguò e così anche il legislatore (ma soltanto nel 1981).
Anni Settanta, dopo il Boom e il Sessantotto, la società ha cambiato pelle. Le sentenze sono il grimaldello per allinearsi ai tempi, i giudici da custodi dell’ortodossia diventano i paladini del nuovo. I «pretori d’assalto», alfieri della cresciuta sensibilità ambientalista, sfidano multinazionali e poteri forti. Il democristiano Flaminio Piccoli tuona che «non siamo disposti a dare ai pretori il governo del Paese» ma loro, in qualche modo, se lo prendono lo stesso. Non solo giovani toghe all’arrembaggio. Sono i maturi giudici della Consulta a rendere legali nel 1974 le centinaia di radio già nate da Nord a Sud, sancendo la fine del monopolio Rai e aprendo a nuovi orizzonti della musica e dell’informazione.
Per carità, a volte i costumi cambiano «nonostante» i giudici. Dieci anni dopo, nell’ottobre 1984, tre magistrati di Torino, Roma e Pescara mandano i finanzieri a sequestrare le cassette e fermare le reti tv dell’astro nascente Berlusconi. Sappiamo tutti come è andata a finire.
Il diritto di famiglia, dalle coppie di fatto ai diritti e doveri dei genitori, per esempio, è stato adattato, rimodellato e spesso capovolto prima nelle aule dei tribunali. È stata una sentenza della Corte di cassazione, nell’ottobre 2007, a mettere dei punti fermi sulla storia di Eluana Englaro, riconoscendo al padre il diritto a non tenerla «in vita» a tutti i costi, a interrompere l’alimentazione artificiale quando «la condizione di stato vegetativo sia irreversibile e non vi sia la benché minima possibilità di un qualche recupero di coscienza».
La Corte di giustizia (questa volta europea, ma poco cambia) nel 1995 diede ragione al calciatore belga Jean-Marc Bosman che non riusciva a cambiare squadra: da allora un giocatore di pallone europeo è come ogni altro lavoratore, compreso il diritto alla libera circolazione nei Paesi dell’Unione. I tifosi sanno bene come sono cambiate da allora le loro squadre, anche se il povero Bosman è rimasto lo stesso senza lavoro e ha dovuto disintossicarsi per eccesso di alcol.
La differenza tra droghe leggere e pesanti è stata rimessa in discussione poche settimane fa non da un ripensamento del legislatore, ma dall’accetta di incostituzionalità decretata dalla Consulta. Anche il diritto alla privacy (nonostante la tutela della Carta del 1948), si è fatto strada grazie alla Cassazione che nel 1975 fissò in una decisione caposaldo l’interesse a difendere «situazioni e vicende strettamente personali e familiari».
Sentenze che segnano una svolta, non solo su grandi temi. Un giudice milanese, due anni fa, smentendo tanti altri suoi colleghi e persino la richiesta del pm, ha assolto un giovane writer, in arte «Manu Invisible», valutando la sua opera come abbellimento di un muro che era brutto e sporco. Insomma, non tutti i graffitari sono imbrattatori. A suo modo, anche questa una decisione storica, che, chissà, potrà aiutare a isolare i vandali e rendere più belle le nostre città.

Repubblica 11.4.14
L’amaca
di Michele Serra


PER la deputata cattolica Roccella la fecondazione eterologa lede “il diritto di ogni nato a crescere con i genitori naturali”. E la scienziata cattolica Morresi rimpiange “la pienezza del rapporto tra madre e figlio”. Ci si guarda attorno, nel mondo, tra i viventi. Niente o quasi, nel campo della trasmissione della vita, rimanda a quella “pienezza” invocata, e a quel “diritto” certo. Perfino nella sedicente “famiglia naturale” è tutto un faticoso e approssimato inseguimento all’amore, al reciproco riconoscersi. Capita che padri e madri naturali abbandonino i figli, carne della loro carne; che genitori adottivi allevino con abnegazione figli di ovulo e seme altrui; che figli abbandonino i genitori, naturali o meno, alla demenza e alla morte; che un nato su dieci o addirittura su cinque — è la non verificabile diceria medica — non sia figlio genetico di colui che chiama padre. Dove stia la Norma, in tutto questo, e dove la “naturalezza”, è un mistero che solamente l’arroganza dogmatica può illudersi di risolvere. Da sempre si viene al mondo come capita, questa è la verità (con la minuscola). Non si vede perché un figlio nato anche grazie a un artifizio tecnologico sia “meno figlio”. La fecondazione eterologa è antica come l’umanità: per stupro, per adulterio, oggi per scelta, finalmente.

Repubblica 11.4.14
La paura di Pd e Renzi “Se Forza Italia crolla l’Italicum andrà rivisto”
Il premier alla minoranza democratica: “Adeguatevi”
L’ipotesi delle elezioni nel 2016 dopo le riforme
di Francesco Bei



ROMA. L’approvazione «definitiva» della legge elettorale dovrà avvenire «entro settembre 2014», mentre l’ok «finale» alle riforme costituzionali arriverà «entro dicembre 2015». Il governo, con il Def firmato da Renzi e Padoan, ha messo ieri nero su bianco il suo timing per le riforme.
E tuttavia, su questo cronoprogramma — che fa balenare un voto nella primavera 2016, quando il processo riformatore sarà concluso — incombe una grande nuvola nera. Il premier ne ha discusso con i suoi e la stessa preoccupazione è emersa nelle riunioni di questi giorni tra Anna Finocchiaro e il capogruppo Pd Luigi Zanda. La nuvola nera riguarda il Cavaliere, scelto dal Nazareno come interlocutore privilegiato per l’Italicum. Perché, con i sondaggi che indicano una picchiata di Forza Italia settimana dopo settimana, adesso è il Pd a preoccuparsi di un crollo troppo repentino del partito azzurro. Un paradosso, ma nemmeno tanto. Perché il meccanismo dell’Italicum, grazie a soglie killer per i non coalizzati, privilegia i due maggiori partiti. Ma tutta l’architettura della riforma elettorale è costruita dando per scontato che il ballottaggio si risolva in una battaglia tra Pd e Forza Italia. E se Berlusconi finisse vicino al 15%? È chiaro che al quel punto non avrebbe più interesse a siglare una riforma elettorale che potrebbe finire in una sfida tra Renzi e Grillo, con il centrodestra lasciato nella marginalità. Anche per questo l’Italicum, nonostante ieri Lorenzo Guerini ne abbia assicurato l’approvazione «molto prima dell’estate », ancora langue in un cassetto a palazzo Madama. E lì resterà probabilmente fino alle Europee, quando sarà chiara la consistenza residua di Forza Italia.
L’altra partita in corso è quella sulla riforma del bicameralismo. Ed è una match che, per ora, si svolge tutto nel campo del centrosinistra. Come ammette Maurizio Gasparri in un Senato deserto, «noi fino alla sentenza su Berlusconi siamo in stand-by, il nostro atteggiamento dipenderà anche da quello». E dunque la novità è che, dopo l’emergere di una consistente fronda di 22 senatori dem allineati dietro il disegno di legge alternativo presentato da Vannino Chiti, le fratture interne si vanno ricomponendo. Certo, apparentemente sembrerebbe il contrario. Ieri Renzi al Tg3 ha lanciato una pesante bordata contro i dissidenti. «Il Pd ha delle regole interne: la minoranza non va per i fatti suoi ma dove va la maggioranza». Quanto alla proposta Chiti, per il premier si tratta solo di una trovata «buona per essere sventolata sui giornali». Inoltre dodici senatori fuoriusciti dal M5S hanno firmato la proposta Chiti, che ha ricevuto anche il via libera di Sel. Sembrerebbe quindi più vicina la nascita di quella maggioranza alternativa di sinistra-centro ipotizzata da Pippo Civati. Eppure, a guardar bene, le cose non stanno così.
Certo, Civati insiste col dire che il Ddl Chiti non sarà ritirato, ma qualcosa già scricchiola. Due dei firmatari, Claudio Broglia e Giuseppe Cucca, si dicono «pronti a raccogliere l’invito al ritiro del ddl di fronte alle garanzie di una discussione profonda» del testo del governo. E un altro gruppo di senatori si inserisce per smussare gli angoli e riavvicinare minoranza e maggioranza. Sono i sei «facilitatori» democratici (il nome se lo sono scelti da soli) e annunciano di accettare «la sfida del ministro Boschi» per approvare la riforma «rispettando i paletti del 25 maggio». Avanzano richieste di modifiche, che tuttavia non toccano i caveat imposti dal premier, vale a dire la non eleggibilità dei senatori e il Senato privato della fiducia al governo. «Le proposte — specificano Russo, Caleo, Esposito, Fabbri, Filippin e Vaccari — non sono alternative a quelle del governo, hanno semplicemente l’ambizione di rendere il nuovo senato un vero organo di controllo e garanzia».
Del resto anche Anna Finocchiaro condivide l’idea di dare funzioni non ornamentali al nuovo Senato. In primis un controllo penetrante sul bilancio (sul modello del Senato francese) e una forte voce in capitolo sulla legislazione europea. Punti che il governo potrebbe accettare senza difficoltà se è vero che ieri, in un seminario di costituzionalisti alla presenza del ministro Boschi, il professor Francesco Clementi, vicino al premier, ha parlato di un «un rafforzamento della partecipazione del Senato alle decisioni dirette alla formazione degli atti normativi della Ue».
Ma l’iter accelerato delle riforme dovrà scontrarsi anche con la sciatteria dei parlamentari di maggioranza. Ieri sera, sul decreto Salva-Roma, alla Camera è mancato il numero legale per l’assenza di 104 deputati, costringendo alla ripetizione della votazione. Non accadeva dal 2007, ma allora era la sfrangiatissima Unione di Prodi a governare.

l’Unità 11.4.14
Riforme, Renzi striglia
Ai ribelli Pd: «Adeguatevi»
Il premier alla minoranza: «Si discute e poi si fa quanto deciso dalla maggioranza»
Il timing inserito nel Def
di Andrea Carugati


Un governo «più semplice e meno costoso rafforzerebbe la fiducia fra gli italiani e gli investitori». E «non a caso le riforme istituzionali sono uno dei punti centrali» del governo Renzi, spiega dagli Stati Uniti il ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan.
Il cronoprogramma delle riforme è stato inserito nel Def, Documento di economia e finanza varato martedì dal Consiglio dei ministri. Per l’Italicum, l’approvazione definitiva è prevista a settembre 2014, mentre l’ok «finale» alle riforme costituzionali arriverà «entro dicembre 2015».
Il timing ristretto è stato ribadito ieri anche dal ministro per le Riforme Maria Elena Boschi, che è intervenuta a un convegno di costituzionalisti liberal in Senato. Boschi ha allontanato le polemiche con i «professoroni» dei giorni scorsi, si è detta pronta ad ascoltare ancora proposte e suggerimenti e a «migliorare» il testo partorito dal governo. «Ma c’è anche l’esigenza di mettere dei punti fermi e di decidere». Alcuni dei promotori del convegno, tra cui Stefano Ceccanti, Michele Salvati, e Paolo Segatti hanno consegnato a Boschi un documento che dà un sostanziale via libera al ddl del governo, chiedendo però che la componente regionale sia prevalente rispetto ai sindaci e che il collegio chiamato a eleggere il presidente della Repubblica sia allargato, in modo da evitare che la maggioranza della Camera sia il dominus assoluto della scelta. Nessun dubbio invece sull’elezione indiretta dei senatori e una critica ai colleghi Rodotà e Zagrebelsky, che avevano evidenziato rischi per gli equilibri democratici nella bozza del governo: «Critiche frutto di un antistorico complesso del tiranno, per fortuna ormai ampiamente minoritario», dicono Ceccanti e gli altri. Michele Ainis, invece, ha proposto di eliminare i 21 senatori scelti dal Quirinale e ha evidenziato la necessità di arrivare in ogni caso a un referendum confermativo sulla riforma.
In Senato resta alta la tensione per il ddl Chiti, che prevede l’elezione diretta di 106 senatori, e che ieri è stato rilanciato con Forza da Pippo Civati, che ha auspicato la convergenza su questa base di un’ampia maggioranza con Fi e M5S e ribadito che quel ddl «non sarà ritirato». Un gruppo di una trentina di senatori di Fi e Ncd guidati da Augusto Minzolini ha infatti presentato una proposta sull’elezione diretta. Il testo Chiti è stato firmato ieri da 12 senatori ex M5s, ma due firmatari del Pd, Claudio Broglia e Giuseppe Cucca, si sono detti pronti a ritirare la firma. «Pronti a discutere su un testo comune alternativo a quello del governo», ha fatto sponda a Civati il coordinatore di Sel Fratoianni. Mentre Gaetano Quagliariello di Ncd spiega che «è possibile trovare una mediazione tra Boschi e Chiti, potenziando le funzioni di garanzie e controllo della seconda camera». Una linea su cui converge anche il gruppo dei 25 Pd guidati da Francesco Russo, che si candidano a fare da «facilitatori» per recuperare l’unità del gruppo in Senato».
Renzi però tira dritto e striglia i ribelli Pd. «Ci chiamiamo Partito democratico, e ne siamo orgogliosi. Significa che la minoranza non va per i fatti suoi, si discute e poi si fa quello che ha deciso la maggioranza».Eil ddl Chiti? «Un’ipotesi da sventolare sui giornali per tre giorni non ha alcuna possibilità di passare», ribadisce il premier. «Il Pd manterrà il suo impegno». Quanto al possibile nuovo incontro con Berlusconi, dice Renzi: «Per ora non è previsto, ma è un bene che Forza Italia resti al tavolo delle riforme». Nella ex area Cuperlo cresce il numero dei pontieri. La neonata area riformista di Epifani e Fassina ha ribadito, nell’incontro di mercoledì sera, di non voler ostacolare la riforma del Senato, ma di puntare a radicali modifiche dell’Italicum. «Giusto partire dal testo del governo, ma il Pd deve ancora discutere», ha detto Cuperlo.
Ieri alcuni firmatari del ddl Chiti si sono ritrovati a un convegno del Centro per la riforma dello Stato di Mario Tronti, con molti esperti come Stefano Rodotà e Massimo Luciani. «Il mio giudizio severo sul ddl del governo non era sbagliato», ha chiosato Rodotà, dopo una sfilza di interventi molto critici, tra cui Carlo Galli e Mario Dogliani, che hanno parlato di «populismo» in relazione all’impianto di riforma del governo. I governatori annunciano un pacchetto di emendamenti su Senato e Titolo V.A partire dalla richiesta di un numero di senatori proporzionale agli abitanti delle varie regioni: dai 16 della Lombardia giù fino al minimo per la Valle d’Aosta. E dalla richiesta di chiarire per legge «in modo più rigoroso» i confini delle competenze tra centro e periferia.

Repubblica 11.4.14
Francesco Campanella
“I nostri 12 sì a Chiti, ora il gruppo”
di Tommaso Ciriaco


ROMA. Non ancora formalmente, ma ieri a Palazzo Madama è nato il gruppo di ex grillini. In dodici hanno firmato il ddl di Vannino Chiti per riformare il Senato. Mente dell’operazione è Francesco Campanella, epurato da Beppe Grillo a febbraio.
Perché firmare la proposta della minoranza del Pd?
«Con Chiti ci siamo confrontati. E siccome il ddl del governo è una mezza mostruosità, ci è parso opportuno cercare delle convergenze».
Cosa non va, nella proposta di Renzi?
«L’elezione di secondo livello, ad esempio. Avvizzisce il Senato. È uno stravolgimento inaccettabile. Il disegno, a ben vedere, è unico: ridurre gli ambiti normativi delle Regioni e trasformare la Camera - con l’-Italicum - nella claque del governo. Un massacro per la minoranza, con il rischio di extraparlamentizzare il dissenso: sicuri che sia giusto così?».
Ora tocca a Renzi venire incontro alle vostre richieste?
«La riforma della Costituzione è una questione parlamentare. Il governo può promuoverla, certo. Ma se l’approccio renziano è “o passa la riforma, o vado via io”, noi non poniamo limiti alla sua libertà di movimento... Se invece addivenisse a una soluzione che si avvicina a quella di Chiti, che problema c’è?».
Potreste trovare un punto di incontro.
«Se con la riforma si azzerano le garanzie, Renzi non è un interlocutore. Se comprende che una riforma necessita contrappesi, allora faccia le proposte. E le analizzeremo».
Senatore, quello di oggi è il primo passo per il gruppo.
«Sì, spero sia così. Cominciamo a confermare la vicinanza di visione su alcuni punti fondamentali».
È anche il primo atto per strutturare l’area che comprende gli ex grillini, Sel e la sinistra del Pd?
«Mi sembra prematuro. Sulla riforma c’è intesa - penso che la firmerà anche Sel - ma per il resto sono già troppo occupato a definire la convergenza degli ex M5S, mi basta quello...».
E il M5S che apre sul ddl Chiti è credibile?
«Mi sembra un avvicinamento tattico, in una funzione antigoverno. Meglio di niente, comunque, per fermare il ddl del governo. Per il resto, si stanno dimostrando politicamente inaffidabili. Ho visto persone a disagio, perché esistono tabù che non si possono infrangere. Ad esempio, gli altri vanno fatti parlare, altrimenti si scade in una modalità operativa che non è democratica. E mi fermo qui...».

l’Unità 11.4.14
IL DEF
Per gli statali contratti congelati fino al 2020
Rinviato l’adeguamento: nuovo rinvio per l’adeguamento delle buste paga ferme al 2009
I sindacati sul piede di guerra: «Basta usare i dipendenti pubblici come un bancomat, i lavoratori non sono un bancomat»
Cig in deroga, manca un miliardo.Poletti: «Stiamo cercando le coperture»
Camusso avvisa: «Si avvicina il rischio di licenziamenti»
di Andrea Bonzi


Sono i sindacati a rimarcare le spine del Documento di programmazione economica e finanziaria (Def), il giorno dopo la presentazione fatta dal premier Matteo Renzi. Due le storture da correggere, secondo i confederali: la prima l’ulteriore proroga del rinnovo per i dipendenti statali, spostata al 2020, la seconda i timori per il rifinanziamento della cassa integrazione in deroga, per la cui copertura mancherebbe ancora un miliardo di euro.
SINDACATI SUL PIEDE DI GUERRA
A far arrabbiare Cgil, Cisl, Uil e Ugl un passaggio del Def in cui si legge che «la spesa per redditi da lavoro dipendente è stimata diminuire dell 0,7% per il 2014, per poi stabilizzarsi e crescere dello 0,3% nel 2018, per effetto dell’indennità di vacanza relativa al triennio contrattuale 2018-2020». Si tratta di un’indennità che scatta per legge quando non sono previsti rinnovi. È dal 2009 (governo Berlusconi) che le buste paga degli statali - circa 3 milioni e 400mila persone - non vengono adeguate: già la finanziaria messa a punto dall’esecutivo di Enrico Letta aveva fissato al 2017 la possibilità di rinnovo, ora si rischia di differire gli aumenti di ulteriori tre anni. Si stima che ogni punto percentuale di aumento valga circa un miliardo.
Soldi che non sono previsti nel Def ma che, dicono i sindacati, vanno trovati. «È aberrante spostare in avanti il contratto dei dipendenti pubblici - attacca a testa bassa Raffaele Bonanni, segretario della Cisl, intervistato a Radio Uno -, significa mettere completamente a terra la Pubblica amministrazione». Un ulteriore blocco, dicono in coro i sindacati del pubblico impiego, «sarebbe inaccettabile. È un’inutile ingiustizia alla quale, in caso di conferma, ci opporremo con tutti i mezzi a disposizione». Antonio Foccillo, segretario Uil, aggiunge: «Ancora una volta si utilizza questo settore come un bancomat. Non è più possibile continuare con questo andazzo: se non si corregge questa anomalia, la risposta sarà molto ferma».
Ma i sindacati chiedono risposte anche su un altro tema, ugualmente se non più urgente: il rifinanziamento della Cassa integrazione in deroga. Serve almeno un miliardo, che non è stato ancora trovato. La conferma arriva dal ministro Giuliano Poletti, ieri a Torino a margine della fiera «Io lavoro». «La legge di stabilità non ha finanziato adeguatamente questo strumento - osserva il ministro -, è un problema che stiamo gestendo».
Ma, sottolinea Poletti rivendicando la riforma degli ammortizzatori in cui è in prima linea, «dobbiamo sapere tutti che è uno strumento che va a chiudere, non possiamo continuare in eterno dopo aver utilizzato cassa ordinaria, straordinaria e mobilità. È insostenibile per il bilancio dello Stato e non è giusto per le persone, che devono provare ad avere tutte un lavoro dignitoso».
Urge una soluzione, e in fretta. Per questo, la risposta del governo finora «è generica e insufficiente - tuona Susanna Camusso, leader della Cgil, abbiamo regioni nelle quali sono iniziati i licenziamenti». «Non si può interrompere la Cig in deroga, che rappresenta per i lavoratori l'unica forma di sussistenza - sottolinea Camusso a margine di un convegno alla Federazione nazionale della stampa - ma rimane anche l'unico strumento che riesce a mantenere una prospettiva per l'attività produttiva che altrimenti sarebbe chiusa. Servono finanziamenti e che non ci siano cambiamenti in corso d'opera che impediscano l'attuazione degli accordi».
Parlando poi più in generale del Def, Camusso ha promosso la riduzione Irpef che porta 80 euro in tasca a chi guadagna fino a 25mila euro lordi, aggiungendo però che «quest’unico stimolo alla crescita è un primo passo ma non basta», rimarcando inoltre l’assenza di un aiuto per i pensionati.
A spingere per l’erogazione urgente delle risorse per la Cig sono anche i territori: il presidente della Conferenza delle Regioni, Vasco Errani, ha scritto a Poletti per rappresentare la drammaticità della situazione in cui versano decine di migliaia di lavoratori. Per il 2013 sarebbero necessari 680 milioni, e richieste crescenti per l’anno in corso.

l’Unità 11.4.14
Rossana Dettori, la leader della Funzione pubblica Cgil: «Abbiamo lottato unitariamente contro altri governi, lotteremo anche contro Renzi»
«80 euro e poi bloccano i rinnovi: è uno scambio inaccettabile»
di Massimo Franchi


“Far passare gli 80 euro in busta paga come uno scambio per la rinuncia al rinnovo contrattuale è inaccettabile”.
Il segretario generale della Funzione pubblica Rossana Dettori risponde da Assisi, dove è in corso il Congresso dei pubblici della Cgil. E la notizia contenuta nel Def di un blocco dei contratti non ha sorpreso nessuno.
Segretario Dettori, vi aspettavate questo ulteriore blocco?
“Lo scambio lo avevamo già denunciato prima di trovare nel Def che fino al 2017 continua il blocco che va avanti già da 5 anni. E che dal 2017 al 2020 ci saranno aumenti una tantum. Per noi è inaccettabile anche perché quegli 80 euro promessi dal governo Renzi non andranno a tutti i 3 milioni di dipendenti pubblici. Abbiamo lottato unitariamente contro tutti i governi, lo faremo anche contro quello Renzi”.
Per voi poi ci sono anche gli 85mila esuberi indicati da l commissario Cottarelli. È possibile trattarli con i prepensionamenti annunciati dalla ministra Marianna Madia...
“Madia ha sempre detto che gli 85mila sono un numero indicato da Cottarelli e non dal governo. Gestire 85mila esuberi con i prepensionamenti è impossibile per le casse dell'Inps, visto che l'idea del governo è scaricare i costi spostandoli dallo Stato all'ente pensionistico. Noi ci siamo detti disponibili a discutere lo strumento prepensionamenti con il ministro Madia. Ma con alcuni paletti: nessuna contrapposizione con i lavoratori privati, evitare nuovi esodati e penalità sugli assegni. La staffetta generazionale è poi possibile senza dimenticare i 130mila precari e i 70mila vincitori di concorsi”.
La situazione dei dipendenti pubblici italiani ha similitudini con quelli greci...
“Sì, le politiche di austerità della troika e dei governi si sono abbattute soprattutto sul settore pubblico, riducendone il perimetro. In Grecia hanno privatizzato gli ospedali. Noi per ora ci siamo fermati alla Croce Rossa, dove è stato scelto un contratto altamente peggiorativo e mettendo a rischio l'assistenza ai cittadini. Per cambiare politica e abbandonare l'austerità le elezioni europee sono fondamentali”.
Passiamo ai temi del congresso Cgil. Sarà unitario come era stato previsto o la rappresentanza porterà a divisioni?
“Noi riteniamo il Testo unico utile perché permetterà ai lavoratori pubblici di votare su piattaforme e contratti. Poi toccherà alla capacità delle singole categorie migliorarlo specie sulla questione sanzioni ai delegati. Ma faccio notare che le sanzioni erano previste anche per i datori di lavoro. Le togliamo per tutti e due?”.

Il Sole 11.4.14
Pubblico impiego. Cgil-Cisl-Uil contro il «blocco»
Sindacati in trincea: rinnovare i contratti
di G. Pog.


ROMA La stretta sul pubblico impiego – fino al 2020 il Def non prevede rinnovi dei contratti che sono congelati dal 2010 – allarma i sindacati: «È aberrante spostare in avanti il contratto dei dipendenti pubblici. Questo significa mettere a terra completamente la pubblica amministrazione», sostiene il leader della Cisl, Raffaele Bonanni.
Per i sindacati di categoria, Fp-Cgil, Cisl-Fp, Uil-Fpl e Uil-Pa «è fondamentale che il governo trovi le risorse per i contratti del pubblico impiego»; sul tema sollecitano «un chiarimento immediato», sottolineando che «i Def hanno sempre colpevolmente omesso la programmazione delle risorse per le retribuzioni del pubblico impiego», il punto è che «quelle risorse vanno trovate». Il differenziale tra pubblico e privato, fanno notare i sindacati, «non può essere più utilizzato come un'arma», dal momento che la retribuzione media si è allineata nei due comparti per effetto del blocco dei contratti. «Un ulteriore blocco sarebbe inaccettabile e la nostra risposta non si farebbe attendere» avvertono rinnovando l'appello al governo affinchè «affronti la riforma della pubblica amministrazione e il riordino dei servizi ai cittadini, a partire dalla valorizzazione del lavoro pubblico». Secondo i sindacati «pretendere che gli stessi lavoratori a cui si chiede uno sforzo di efficientamento, producano risultati mentre si impoveriscono» è «un'inutile ingiustizia alla quale in caso di conferme ci opporremo con tutti i mezzi a nostra disposizione».

l’Unità 11.4.14
Landini chiede a Renzi cambiamenti profondi
«La forza del premier è il disastro sociale, chiedersi se è di destra o di sinistra è una stronzata pazzesca»
Il segretario della Fiom apprezza e critica il premier e lo invita a «non stare sereno»
È immutata la distanza dalla Cgil sulla rappresentanza
di Massimo Franchi


Roma. L'applauso più forte dei 725 delegati al congresso di Rimini, Maurizio Landini lo strappa quando dice: “Chiedersi se Renzi è di destra, centro o sinistra è una stronzata pazzesca, la sua forza è data proprio dal disastro sociale e dalla crisi delle forze politiche e sindacali, il governo Renzi è lo specchio delle nostre difficoltà”. E poco dopo, aggiunge: “Il problema non è chi sta con Renzi, ma le politiche che fa la Cgil”. Ma subito arrivano le critiche e gli affondi: “Renzi non può dire che la centralità del governo è l'occupazione e poi fare le privatizzazioni con cui fare cassa con aziende strategiche per la ripresa del Paese”, “mentre gli 80 euro non vanno ai pensionati e ai giovani precari”, mentre sulle pensioni chiede “il ripristino di quelle di anzianità e l'abolizione del cumulo”, chiudendo con un “non vedo i cambiamenti promessi”, lanciando l'hashtag #Matteononstaresereno.
Evocato e forse atteso per una visita a sorpresa, il presidente del Consiglio che usa Landini in chiave anti-Camusso e che il segretario della Fiom usa per avere la benedetta legge sulla rappresentanza che consentirebbe ai metallurgici Cgil di tornare pienamente in gioco, è il fantasma che aleggia sull' astronave della Fiera di Rimini.
NOI VOGLIAMO CAMBIARE
In un gioco sapiente di critiche e complimenti, Landini convince i suoi delegati sospettosi che “Renzi è l'unico che può portare cambiamento. Noi vogliamo il cambiamento più di tutti, ma lo vogliamo per i lavoratori, questa è la sfida”.
Una sfida che dà il titolo alla relazione che apre il 26esimo congresso Fiom Cgil: “Cambiare si può”. Si tratta della sua prima relazione da segretario generale, che lo costringe a leggere un discorso scritto, da cui scapperà per i passaggi più efficaci nelle oltre due ore e mezza di eloquio ininterrotto in cui la parte sul governo ha molta più sostanza rispetto ai problemi interni in Cgil, per i quali usa toni molto accorti, senza comunque cambiare la sostanza delle critiche al Testo unico, bocciato - annuncia Landini - nella consultazione separata dei metalmeccanici dall'86,5 per cento dei lavoratori, anche non iscritti. Un voto che “vincola la Fiom” a non rispettare l'accordo sulla Rappresentanza, anche se la formula usata ieri è più soft: “è un mandato preciso per cambiare e migliorare il Testo su 5 punti: garantire sempre il diritto di voto, riportare la titolarità a firmare i contratti aziendali in modo congiunto fra Rsu e livelli territoriali (questi ultimi ora esclusi, ndr), garantire a tutti i lavoratori l'agibilità sindacale, togliere l'arbitrato interconfederale che deve dirimere le controversie nelle categorie”.
Il cambiamento, dunque. Anche perché “non abbiamo più niente da perdere, non c'è rimasto niente” perché “la concertazione non è servita a niente”. “Si deve partire dall'Europa, dalla riforma della Bce e dall'inserire la piena occupazione tramite intervento pubblico nei trattati”. Cambiare anche il sindacato, partendo dai dati di partecipazione del congresso Cgil (“hanno votato solo il 17 per cento degli iscritti”), ribadendo che “la forma congresso così com'è non funziona più”.
Tra una citazione di Pio Galli, Claudio Sabattini e Don Gallo, davanti agli amici Gino Strada e Don Ciotti, Landini non ha mancato di sfidare Sergio Marchionne. “Dicono che a maggio a Detroit dirà che Fiat Chrysler avrà come obiettivo di costruire 6 milioni di auto all'anno. Bene, allora il governo, invece che dire che la Fiat è una azienda privata e può fare come vuole, imponga che almeno un milione di quelle auto siano prodotte in Italia, visto che l'anno scorso ne sono state prodotte solo 380mila”.
FISCHI A FIM E UILM
La vicenda Fiat è il vero casus belli della rottura con i dirimpettai di Fim e Uilm. E Landini, davanti a Beppe Farina e Rocco Palombella, ritenta di aprire il dialogo: “fra maggio e giugno rinnoviamo tutte le Rsu aziendali per ripartire per una nuova stagione”. Qui però lo stallo rimane. Palombella e soprattutto Farina vengono fischiati – come era stato fischiato Landini al congresso Fim di Lecce l'anno scorso – quando ribadiscono il “No” alla legge sulla rappresentanza, con la Uilm più aperta sulla possibilità di trovare una convergenza su singoli punti.
Oggi arriva Susanna Camusso, domani il tanto atteso confronto con l'intervento del segretario generale della Cgil, seguito dalla replica finale di Landini.

Repubblica 11.4.14
Fiom oltre la Cgil viaggio nel sindacato diventato pre-partito
Al congresso gadget, rap e Internazionale Landini: la concertazione non è servita
di Luca Pagni


RIMINI. «Io non sono un informatico – dice non proprio scioltissimo Maurizio Landini, segretario generale della Fiom, nell’usare il linguaggio dei social network – ma al presidente del Consiglio lancerei questo hashtag: #matteononstaresereno». Perché vanno bene gli 80 euro («io da sindacalista un aumento così non l’ho mai ottenuto», ammette) nelle buste paga dei lavoratori con redditi fino a 25 mila euro lordi, ma non basta: ci sono i pensionati che sono stati esclusi e i giovani precari che non arrivano a quella cifra. E non va bene affatto la liberalizzazione dei contratti a termine come il silenzio sulla politica industriale. Com’era ampiamente prevedibile il feeling tra Renzi e Landini si infrange alla prova dei provvedimenti concreti. «Tutti quei cambiamenti annunciati non li vedo e vedo il rischio che si continui con le scelte sbagliate del passato», ha detto il leader della Fiom nella sua lunga relazione con cui ha aperto il 26° congresso dei metalmeccanici Cgil. Insomma si salvano solo le detrazioni Irpef. «E noi questo Paese – ha aggiunto – lo vogliamo davvero cambiare». Ma il cuore della lunga relazione di Landini è stato l’attacco senza precedenti alla Cgil, all’accordo sulla rappresentanza sindacale che la Fiom non condivide e che cercherà di cambiare con i prossimi contratti. Un muro contro muro. Landini ha parlato di un congresso confederale falsato dal non rispetto, da parte della confederazione, delle regole; di una deriva autoritaria. Ha chiesto alla Cgil di Susanna Camusso «di accettare il confronto democratico vero». Poi ha condannato senza appello la concertazione: ha portato all’aumento dell’età pensionabile e al progressivo impoverimento dei redditi dei lavoratori. A Renzi ha chiesto una legge sulla rappresentanza sindacale per impedire che prevalga il “modello Fiat” bocciato dalla Corte costituzionale e pure dell’Organizzazione internazionale del lavoro. Poi ha respinto il jobs act: «Noi in italiano diciamo che 46 tipologie contrattuali sono troppe. Il contratto unico è unico o è la 47°?». Domani qui a Rimini arriva Susanna Camusso. E si temono i fischi dei delegati.
Maurizio Landini ha aperto ieri a Rimini il congresso della Fiom, la federazione dei metalmeccanici.

l’Unità 11.4.14
«Nozze gay subito la legge Il governo si muova»
Mobilitazione dopo la sentenza di Grosseto
di Adriana Comaschi


Mobilitazione dopo la sentenza di Grosseto.
Le speranze si sono riaccese, e ora è difficile ricacciarle indietro. La sentenza con cui il Tribunale di Grosseto impone al Comune di registrare il matrimonio di una coppia gay, celebrato all’estero, riapre il dibattito sui diritti delle persone omosessuali. Subito bollata dalla Cei come «una pericolosa fuga in avanti», la scelta del presidente del Tribunale Paolo Cesare Ottati fa sognare centinaia, forse migliaia di coppie. E poco importa che la Procura annunci già che impugnerà il provvedimento, lo schiaffo all’immobilismo che da anni periodicamente affonda le aspirazioni delle coppie omosessuali ha già lasciato il segno. E il senatore Pd Sergio Lo Giudice lo riassume così: «Ora tanti si muoveranno a livello giudiziario, il Parlamento affronti il tema con una legge organica».
L’alternativa in caso contrario sembra già tracciata: «Vediamo se il Parlamento si vedrà costretto ad adeguarsi a sentenze Ue e italiane e se si farà di nuovo umiliare come per la legge 40 sulla fecondazione, smontata dai giudici che hanno dimostrato come fosse ideologica e impraticabile». I toni tornano agguerriti. Le cinque pagine della sentenza del Tribunale di Grosseto di qualche giorno fa del resto rappresentano un precedente di peso. Vi si afferma che Giuseppe Chigiotti e Stefano Bucci, sposati a NewYork nel dicembre 2012, hanno diritto alla trascrizione dell’atto di matrimonio all’ufficio stato civile del Comune di Grosseto a cui l’avevano richiesto. Un passaggio formale, che però implica un’equiparazione delle nozze a quelle celebrate in Italia e dunque, per quanto implicitamente, il conseguente riconoscimento di diritti e doveri previsti per le coppie eterosessuali.
Così lo legge anche la Conferenza Episcopale Italiana. «Il tentativo di negare la realtà del matrimonio per via giudiziaria rappresenta uno strappo, una pericolosa fuga in avanti di carattere fortemente ideologico», accusa la Cei, sempre partendo dal presupposto che «il matrimonio è l’unione di un uomo e di una donna: così si mette a rischio uno dei pilastri di questa istituzione». Reazione che ben dà la misura della posta in gioco. E dire che il sindaco di Grosseto Emilio Bonifazi, Pd, si era detto pronto «ad adeguarsi da subito alle decisioni del Tribunale», anzi aveva salutato con favore l’intervento del giudice: «Finalmente arrivano indicazioni chiare e inequivocabili sulle risposte da dare a richieste di questo genere». Il Comune in origine si era opposto, perché per l’ufficiale di stato civile la legge italiana non prevede il matrimonio tra persone dello stesso sesso. Da qui il ricorso della coppia, assistita dall’avvocato Claudio Boccini, a gennaio di quest’anno. Ora la risposta del giudice Ottati, positiva: il magistrato nota che le nozze gay celebrate a New York non sono contrarie all’ordine pubblico, rileva che non ci sono impedimenti alla trascrizione di un matrimonio celebrato all’estero, sottolinea che negli articoli dall’82 all’84 del Codice civile «non è individuabile alcun riferimento al sesso in relazione alle condizioni necessarie» al matrimonio. Solo due anni prima, la Cassazione aveva rigettato un ricorso analogo di una coppia gay di Latina, sposata in Olanda.
RISTABILIRE UN EQUILIBRIO
«Anche io avevo provato questa strada, dopo il mio matrimonio a Francoforte di tre anni fa - racconta Anna Paola Concia, storica attivista dei diritti Lgbt e membro della direzione Pd -: il Comune di Romanon ha accettato la registrazione delle nozze, ho fatto ricorso proprio come la coppia di Grosseto ma il tribunale romano lo ha bocciato». Lo ricorda come fosse ieri e si dice «contenta per loro, questa sentenza a differenza del Parlamento non fa finta che le nostre vite non esistano. La politica ha fatto carne da macello del tema dei diritti, perché o non ha agito o l’ha usato in modo ideologico, a destra come a sinistra. Chiedo solo di ristabilire un equilibrio, sia il Parlamento a fare le leggi che servono, senza urlare, senza anatemi, così che ai giudici tocchi solo applicarle». Ma se a dettare la linea oggi sono i Tribunali le responsabilità vanno cercate in altre aule. Ne è convinto Marco Gattuso, magistrato che con altri colleghi ha dato vita al sito articolo 29, portale giuridico sulle questioni dell’orientamento sessuale e dell’identità di genere: «Sicuramente la magistratura sta sopravanzando la politica, la sentenza di Grosseto e anche quella sulla fecondazione eterologa ne sono un esempio. Ma non può che essere così: la politica italiana segna il passo, certi diritti sono riconosciuti in tutto il mondo occidentale. Difficile per un tribunale non tenerne conto. E i giudici - avverte - non possono non tutelare i diritti delle minoranze, il primo principio a cui devono ispirarsi è quello di uguaglianza».

il Fatto 11.4.14
Matrimonio gay: il procuratore di Grosseto s’oppone


IL PROCURATORE capo di Grosseto, Francesco Verusio, impugnerà la sentenza del Tribunale di Grosseto che impone al comune di Grosseto la trascrizione del matrimonio tra due uomini celebrato il 6 dicembre 2012 negli Stati Uniti. “Per fortuna esiste una sentenza della Cassazione che dice chiaramente che non si può fare. Stiamo predisponendo le motivazioni della nostra impugnazione in appello che sarà fatta il prima possibile” ha precisato il procuratore Verusio. La coppia, l’11 giugno dello scorso anno, aveva presentato all’ufficiale di Stato civile di Grosseto un’istanza per procedere alla trascrizione nel registro degli atti di matrimonio delle nozze contratte a New York. L’ufficiale si era però rifiutato con un provvedimento nel quale aveva evidenziato il “contrasto con la normativa vigente sia di rango costituzionale che ordinaria in quanto l’istituto del matrimonio nell’ordinamento giuridico italiano è inequivocabilmente centrato sulla diversità di sesso dei coniugi”. A quel punto i due uomini hanno presentato ricorso al Tribunale di Grosseto.

l’Unità 11.4.14
Liste Pd, Emiliano e Giusi Nicolini non si candidano
La sindaca: «Prevalse altre logiche»
di Vladimiro Frulletti


In Transatlantico Fausto Raciti, assieme a Matteo Orfini, distribuisce a deputate e giornaliste dolcetti di pasta di mandorle arrivati direttamente da Acireale. Buonissimi ma probabilmente insufficienti a far scomparire nel segretario regionale del Pd siciliano l’amaro in bocca che gli ha lasciato lo scontro col presidente della Sicilia Rosario Crocetta alla direzione di mercoledì sulle liste per le europee. Anche perché dall’Isola intanto la sindaca di Lampedusa, Giusi Nicolini, ha già fatto sapere che non si candiderà. Aveva accettato l’offerta per guidare la lista (dopo parecchie insistenze), ma poi, fa notare, «sono prevalse altre logiche». Cioè la scelta del partito siciliano, confermata dalla segreteria nazionale e quindi dalla direzione di mettere come capolista Caterina Chinnici, figlia del magistrato Rocco ucciso dalla mafia. Una rinuncia che il vicesegretario del Pd, Lorenzo Guerini, spiega come frutto «di una situazione prettamente regionale». Insomma questioni siciliane. E più precisamente lo scontro fra il presidente Crocetta e l’ex parlamentare Beppe Lumia da una parte e il segretario regionale Raciti dall’altra. Risultato? Lumia che non viene proposto dal partito siciliano e il consigliere regionale Antonello Cracolici che pur proposto dalla direzione regionale esce dalla lista: «sono stato vittima della vendetta di Crocetta» spiega. Fratture profonde che rischiano di far affondare la nave guidata da Crocetta (con Cracolici stanno 9 consiglieri regionali su 18). La lista del Sud comunque andrà ritoccata perché oltre a ricoprire (con una donna) il terzo posto lasciato libero da Nicolini, c’è anche la questione Raciti che considera la propria candidatura come «figurativa».
Stessa operazione dovrà essere fatta anche sulla lista per la circoscrizione Sud da dove s’è tolto il sindaco di Bari Michele Emiliano, colpito, come dice lui «dall’elettroshock» di Renzi. Emiliano al telefono ha spiegato (e «concordato») con Renzi il proprio passo indietro. «Avevo accettato la proposta di fare il capolista - spiega - perché mi sembrava un’occasione per mostrare che c’è un altro Sud in grado di essere protagonista in Europa. È stata fatta poi un’altra scelta politica, che condivido, di candidare capolista 5 donne, e quindi è venuta meno la motivazione della mia candidatura». Certo non si dice felice ma assicura che non tirerà i remi in barca. Anzi. Ieri ha fatto 4 comizi in Salento e da oggi e fino a domenica sarà in Abruzzo: «Farò campagna come se fossi candidato e per dare una mano alla capolista Picierno».
Restano due rinunce pesanti, ma del resto lo stesso Renzi aveva messo in conto che qualche scossone «fisiologico» la sua scelta di candidare 5 capolista donne l’avrebbe provocata. E Guerini non si mostra particolarmente preoccupato. A margine della conferenza stampa col segretario del Psi Riccardo Nencini per presentare il patto federativo fra i due partiti (il Psi ha un proprio candidato in ogni circoscrizione) per le europee del 25 maggio, il vicesegretario democratico fa notare come le liste siano state approvate all’unanimità dalla direzione e che comunque «c’è tempo fino al 15 aprile» per aggiustamenti e che «se qualcuno si ritira verrà sostituito». Quello che conta insomma è il «messaggio politico» voluto lanciare da Renzi con le 5 capolista donne.
Messaggio che domani il Pd rilancerà da Torino (appuntamento al Pala Olimpico dalle 10,30) per l’avvio della propria campagna elettorale quando sul palco saliranno proprio le cinque capolista alle europee: Alessia Mosca, Alessandra Moretti, Simona Bonafè, Pina Picierno e Caterina Chinnici. L’appuntamento, che servirà anche a far partire la corsa di Sergio Chiamparino vero la guida della Regione Piemonte, vedrà la presenza di trecento candidati sindaci provenienti da tutt’Italia (il 25 maggio si vota anche in oltre 4mila comuni) e sarà chiuso dallo stesso Renzi che poi nel pomeriggio sarà a Lucca al festival del volontariato.
E domani quasi nelle stesse ore (dalle 10) andrà in scena al teatro Ghione, di via delle Fornaci a Roma, la convention della minoranza interna del Pd convocata da Gianni Cuperlo. All’iniziativa, tra gli altri, parteciperanno Don Massimo Mapelli, della Caritas di Milano, Pietro Crosta, Direttore di Banca Etica, Lorenzo Guerini, vice segretario del Pd, Pier Luigi Bersani, Massimo D'Alema, Guglielmo Epifani, Andrea Orlando, Roberto Speranza, Pippo Civati, Carla Cantone, Francesco Boccia.

il Fatto 11.4.14
Europee, rinunce e tensioni. Ma Renzi non si scompone

Emiliano: "Superflua la mia candidatura". Continua la trattativa in Sicilia
di Wanda Marra

Renzi mi aveva chiesto di fare da capolista per il sud alle Europee, al momento in cui ha scelto di dare questo posto a Pina Picierno, è evidente che le ragioni della mia candidatura anche simboliche sono venute meno”. Michele Emiliano, sindaco ha deciso: non corre per le europee. Anche se, “faccio e continuerò a fare campagna elettorale”. Nonostante il tono tranquillo, il passo indietro non è stato proprio pacifico. “Ha deciso Renzi martedì notte e mi ha comunicato la sua decisione”. A cose fatte, dunque. Emiliano ci ha pensato. Ha persino mandato un messaggio di congratulazioni alla neo capolista. Ma poi ha adombrato la rinuncia, l’altroieri sera. Forse, un tentativo di trattativa, anche la voglia di far pesare al Pd la forza delle sue preferenze. Perché poi alle europee i voti bisogna prenderli. Essere capolisti può anche non bastare. Lui però chiarisce: “Le mie preferenze ce le hanno comunque, vanno alla Picierno”. Certo, non è la stessa cosa. Tanto che Lorenzo Guerini ha provato a trattare per tutta la giornata di ieri. “Vedremo, vedremo. Le liste si presentano il 16”. Lui, il sindaco, per il quale la partita vera è la guida della Regione Puglia per cui si va al voto l’anno prossimo ribadisce: “Io ho parlato con Renzi, con lui abbiamo deciso il mio ritiro”. Molti tra i renziani sono convinti che ci ripenserà. Anche perché il suo mandato da sindaco scade a maggio e poi per un anno dovrebbe rimanere a fare solo il segretario regionale della Puglia. Intanto, il premier ha detto la sua in un’intervista al Tg 3 di Bianca Berlinguer: “Stimo molto Michele Emiliano. Il punto, però, è politico: arriva un momento in cui, dopo settimane e settimane durante le quali tutti hanno detto ‘che vergogna, non si fanno leggi sulla parità di genere’, noi abbiamo riposto con i fatti”. Chiuso. Senza ripensamenti, né patemi d’animo. Continua intanto la grana Sicilia, con la Nicolini che si è ritirata, dopo la scelta che la Chinnici facesse la capolista. “Noi lavoravamo per le liste in Sicilia, e a Roma si faceva una contro lista”, denuncia il segretario regionale Fausto Raciti. Che sostiene di aver concordato con lo stesso Renzi il primo posto per il magistrato. Un posto che però Davide Faraone, fedelissimo renziano, suo uomo in Sicilia, e responsabile Welfare della segreteria aveva proposto alla Nicolini. Ma lì la battaglia è complessa, con l’ex segretario Lumia e Crocetta da una parte (escluso il primo avrebbero voluto candidare Sonia Alfano) e dall’altra Antonello Cracolici, escluso all’ultimo minuto. Al suo posto è entrato Raciti, che però definisce la sua una “candidatura figurativa”. Pronto a farsi indietro e a costringere Guerini a mantenere l’accordo fatto in direzione: incassare il voto sulle liste e in cambio tornare sulla composizione delle liste in Sicilia.
NONOSTANTE fermenti, rinunce illustri e sommovimenti, Renzi e i suoi non sembrano essersi scomposti. Anzi. Per dirla con David Ermini: “È la prova che è andata bene così”. Perché il leader del Pd con una sola mossa ha ridimensionato gli apparati e ha incassato un’operazione mediaticamente utile. Senza contare la sfida: ancora una volta quello che Renzi fa è chiarire che chi vota il Pd vota lui, che le liste sono sue, che i capolista non contano. Una sfida: il test europeo ancora una volta è un test su di lui. Non per niente ieri in Transatlantico a sfoggiare un sorriso a 360 gradi era il segretario della Toscana, Dario Parrini. Super renziano. “Per la prima volta nella storia abbiamo un capolista toscano.”. Che sarebbe Simona Bonafè. Forte di questo risultato, approcciava il segretario del Lazio, Fabio Melilli. Volto più scuro. Nonostante le dichiarazioni ufficiali David Sassoli non è stato troppo soddisfatto di cedere il posto alla Bonafè. Ma tant’è. Ieri intanto Renzi ha ribadito ancora una volta, a proposito delle riforme: “Il Pd ha delle regole interne: la minoranza non va per i fatti suoi ma dove va la maggioranza”. Domani apre la campagna elettorale a Torino. In contemporanea Cuperlo fa una manifestazione della minoranza a Roma. Con lui in piazza ci saranno pesi massimi come Bersani e D’Alema (che però ormai col suo Rottamatore va d’amore e d’accordo, visto che si sta guadagnando un posto in Europa). E anche Guerini. Un modo (preventivo) per il leader di abbassarne il grado di conflittualità. E le tentazioni di contro-manifestazione.

il Fatto 11.4.14
Giusi Nicolini Il sindaco di Lampedusa
“Il leader del Pd ha ceduto a logiche di apparato”
di Sandra Amurri


Giusi Nicolini, la sindaca di Lampedusa, la rivoluzione – da non confondersi con quella “rosa” fiore all'occhiello del premier – la fa ogni giorno, affrontando i mille problemi della sua isola. Lei, che non ha diritto a un segretario comunale, che ha affrontato a testa alta e con il cuore la carneficina di 366 immigrati, aveva accettato di essere capolista per il Pd alle Europee su richiesta pressante dei vertici del Nazareno. Lo aveva fatto per garantire a Lampedusa quella forza di cui avrebbe bisogno per contare di più in Europa. Ma il Pd, rimangiandosi la parola data, le ha preferito Caterina Chinnici, figlia del magistrato del pool antimafia assassinato dalla mafia, ex assessore della giunta Lombardo, braccio destro della ministra Cancellieri. E Giusi Nicolini ha detto: no, grazie.
Ci spiega perché essere capolista era così importante?
A candidarsi alle Europee non era Giusi Nicolini, ma Lampedusa. Lo avevo spiegato forte e chiaro, tant'è che nel caso in cui fossi stata eletta avrei continuato a fare il sindaco. Ma visto che Lampedusa, evidentemente, non è stata ritenuta degna di essere capolista, scelta che avrebbe avuto un alto significato simbolico, ho rinunciato.
Non teme che questa scelta possa essere letta come la paura di non farcela non essendo più capolista visto che nelle isole si eleggono due parlamentari e il Pd in Sardegna gioca la carta di Renato Soru?
Non ho fatto tutti questi calcoli. Ho solo preso atto che la richiesta fattami e reiteratami dal deputato del Pd Faraone per conto di Renzi, era venuta meno. Giusi Nicolini non ha ambizioni personali, dedica tutte le sue energie ad affrontare fatiche disumane per amministrare e tentare di dare dignità alla sua isola. Qui tutto è più complicato di altrove. Qui la normalità è emergenza.
Lei scrive “evidentemente nel Pd sono prevalse altre logiche”.
Quali sarebbero queste logiche?
Non sono una maga. Non faccio parte della direzione nazionale, non sono neppure iscritta al Pd. Dico questo intuendo che Renzi non sia riuscito a difendere quella sua volontà rappresentatami con insistenza da Faraone di correre da capolista e a conti fatti non è stato così. La mia parola vale quanto me e mi piacerebbe che fosse così anche in politica, anzi soprattutto in politica. Non ero certamente alla ricerca di una poltrona, mi era sembrata una opportunità per Lampedusa: il mio amore viscerale, la mia dannazione.
Non teme che questo suo rifiuto potrà far venire meno o che possa indebolire l'attenzione del
Non voglio neppure pensarlo. Lampedusa è carne viva, è orgoglio di questo Paese e dell'Europa non merce di scambio, di rivalse. Sono certa che durante la presidenza italiana del prossimo semestre europeo, il governo terrà fede agli impegni assunti a ottobre di fronte alle 366 bare allineate nel piccolo aeroporto. Così come sono certa che non dimenticherà i tanti bisogni della mia comunità e non abbandonerà mai più le Isole Pelagie alla solitudine alla quale sono state relegate per troppo tempo.
Altrimenti, come sempre, farà sentire la sua voce?
Su questo non ci sono dubbi: chi combatte per una causa giusta lo fa sempre non a corrente alternata.

Repubblica 11.4.14
L’eroina di Lampedusa “Che delusione questi partiti”
di Emanuele Lauria


PALERMO. «Mi scusi, sto ricevendo il pubblico. Non posso dedicarle molto tempo». Non è ancora mezzogiorno e Giusi Nicolini ha appena smesso i panni del candidato alle Europee per tornare a vestire solo quelli di sindaco di Lampedusa. Una decisione presa dopo essere scivolata, per effetto dello scontro fra Crocetta e i cuperliani siciliani, dal numero uno al numero tre della lista. «Mi tiro indietro senza polemica», dice. E aggiunge: «Legga il mio comunicato».
Lei afferma che sono prevalse logiche che «svuotano di significato» la sua candidatura». Quali?
«Guardi, io non volevo e non voglio partecipare a una competizione elettorale. Mi hanno chiesto insistentemente di fare la capolista: domenica scorsa, in ultimo, è venuto Faraone a Lampedusa a farmi questa proposta. Allora, solo allora, ho pensato che questo potesse spostare l’asse della campagna elettorale: il Pd, attraverso la mia presenza in cima alla lista, si sarebbe intestata come primaria la questione della centralità del Mediterraneo, una diversa idea dell’Europa e dell’accoglienza».
E invece?
«E invece non so cosa sia successo, ho appreso delle liti fra i dirigenti siciliani in direzione. Come lei ho avuto l’impressione che qualcosa sia cambiato. E che, insomma, sarei stata una pazza a candidarmi».
Pazza?
«Ma sì, insomma, come si fa a concorrere per un posto all’Europarlamento da Lampedusa, senza un’organizzazione sul territorio e - particolare fondamentale - con un apparato di partito che evidentemente non ha sposato la linea del governo nazionale...».
Ha sentito Renzi prima di decidere?
«No, Renzi no. Ma Faraone e altri dirigenti sì. E voglio dire che non ho nulla contro Caterina Chinnici, che ha assunto il ruolo di capolista nella circoscrizione Isole. Io ho sempre messo Lampedusa davanti a tutto: in passato, d’altronde, mi era stato chiesto di fare altro, di entrare ad esempio nella segreteria del Pd. E avevo sempre rifiutato. Ora, sono certa, altri potranno rappresentare in Europa le istanze che avrei portato io. Nessuno è indispensabile. Significa che non servivo io per veicolare l’importanza delle politiche sull’immigrazione» Sosterrà il Pd in campagna elettorale?
«Non sono un’iscritta. Si può dire simpatizzante? Di certo, non sono di centrodestra. Io ho chiuso con i partiti, non mi appassionano. Ma già da tempo».

La Stampa 11.4.14
Manifesti, slogan, invasione tv: solo il Pd è in campagna elettorale
Renzi non vuole inseguire. Ed è partito 50 giorni prima
di Fabio Martini


Adrenalinico come è, affamato come è di consenso, Matteo Renzi ha schierato con largo anticipo la sua macchina propagandistica, talmente in anticipo che il Pd è l’unico partito che abbia già fatto partire la sua campagna elettorale in vista delle elezioni Europee del 25 maggio. Ad un mese e mezzo dal test, è tutto in pista: slogan, manifesti, liste, web, il leader ogni sera in tv. Un partito solo al comando e tutti gli altri ad inseguire, a cominciare da Forza Italia, fino a ieri ferma ai blocchi di partenza, senza slogan e senza liste, condizionata dal destino del suo leader. Quel Berlusconi che per venti anni ha insegnato a tutti come si fanno le campagne elettorali, con le sue trovate, le navi, «i sei per tre» e i patinati infilati nella buca delle lettere.
Certo, per Matteo Renzi le elezioni Europee sono un rovello e lo sono state anche prima di «prendersi» palazzo Chigi. Al punto che, chi lo conosce, assicura che Renzi segretario di partito, due mesi fa, abbia accelerato la «defenestrazione» di Enrico Letta, anche nel timore che un governo al «ralenti» potesse erodere consensi al Pd. Ma una volta preso il potere, è sempre più evidente che Renzi considera il consenso degli elettori come un’assicurazione sulla vita, una spinta per le riforme che devono ancora arrivare.
Ecco perché il presidente del Consiglio ha voluto che l’agenzia di comunicazione «Proforma», i pugliesi che gli hanno curato la campagna «Cambiaverso», si mettessero al lavoro in anticipo e preparassero una carrellata di immagini e di poster che fosse in grado di partire 50 giorni prima delle elezioni e che rispondesse al messaggio di fondo della presidenza Renzi: stare sempre e comunque dalla parte dei cittadini.
Già da alcuni giorni in tutte le principali stazioni, nelle paline degli autobus e negli spazi riservati, campeggiano i manifesti che hanno per protagonisti cittadini qualunque (sono altrettanti militanti del Pd) a mezzobusto, affiancati dalla stessa frase: «Ce lo chiede Chiara». Oppure Alex, Claudia, Mario e Gianna. Un logo che, come sanno bene a «Proforma», si presta agli sfottò, che puntualmente sono partiti in rete. Del tipo: Marco Tardelli e dietro: «Fermare lo strapotere tedesco, ce lo chiede Bearzot». Ma l’effetto-sfottò era atteso ed è considerato benvenuto, perché segnala attenzione, circolazione del messaggio. Esattamente come il famoso «Più tasse per Totti»: doveva irridere, ha reso memorabile l’originale.
Il Pd ha licenziato prima degli altri anche le liste elettorali, con alcuni candidati che sono già in campagna elettorale. Curiosamente, regnante un personaggio tutto effetti speciali come Renzi, le liste risultano totalmente prive di «glamour», le più partitiche da molti anni a questa parte. Nel 2004 il Pd riuscì a coinvolgere in lista personaggi non di partito popolarissimi come Lilli Gruber (record delle preferenze) e Michele Santoro, un’esperienza replicata nel 2009 con Sergio Cofferati, Debora Serracchiani, David Sassoli, Rita Borsellino, Rosario Crocetta.
Stavolta, a parte la «trovata» delle cinque capolista donne, i maggiori indiziati ad essere eletti sono tutti personaggi legati al partito e capaci di intercettare preferenze in aree delimitate. Col sottinteso che, nell’assenza di testimonial, il compito di arrivare ad una opinione pubblica più vasta di quella di partito è delegato tutto a Renzi. Ma come sanno bene al Pd, anche con le liste è molto più in difficoltà colui che finora è stato l’insuperabile professionista delle campagne elettorali, Silvio Berlusconi. L’attesa della decisione del giudice di sorveglianza aveva imballato la macchina forzista e ieri sera, conosciuto l’orientamento di massima della magistratura, da Forza Italia partiva il tam-tam che annunciava l’imminente riscossa. Ma al Pd sanno che nella cassa di Fi ci sono pochi soldi e restano convinti che prima di una settimana Berlusconi non riuscirà ad avviare tutti gli ingranaggi necessari per una campagna elettorale che per una volta potrebbe trasformarsi in una rincorsa.

La Stampa 11.4.14
Ma l’ordine in lista non è rilevante
Soprattutto al Sud
Il precedente del 2009 e la sfida delle preferenze
di Marco Bresolin


Cinque donne in testa alle liste del Pd, gli uomini scalzati che fanno gli offesi e qualche candidato che storce il naso perché lo hanno messo «troppo in basso» nella lista. Ma quanto conta l’ordine di presentazioni dei candidati nelle possibilità di elezione? Ufficialmente zero. Perché alle Europee gli elettori votano con le preferenze: chi ne prende di più, viene eletto. E infatti, scorrendo gli elenchi delle precedenti elezioni per il parlamento Ue, quelle del 2009, la correlazione tra posizione in lista ed elezione è tutt’altro che immediata. Soprattutto nelle circoscrizioni centro-meridionali, visto che a Sud l’uso delle preferenze da parte degli elettori è molto più forte.
Discorso diverso alle Politiche, dove il sistema delle liste bloccate (nel Porcellum, ma anche nell’Italicum) si basa solo sull’ordine di presentazione delle liste. Vengono eletti quelli più in alto. Il vero scontro nei partiti, dunque, sarà al momento di stilare i mini-listini. Anzi, un vero scontro su questo fronte c’era già stato, con la protesta delle «donne in bianco», che chiedevano più rappresentanza: a oggi l’Italicum prevede infatti un’alternanza «mite» nei mini-listini bloccati, vale a dire che non ci possono essere più di due candidati uomini (o donne) consecutivi. Le deputate chiedevano un’alternanza vera - un uomo e una donna e così via - o quantomeno l’alternanza dei capilista. Niente da fare, per ora il «contentino» alle rivendicazioni rosa nel Pd si limita alle cinque teste di lista.
Ma quindi il capolista alle Europee è solo un candidato di bandiera? Di fatto sì, anche se stare in cima alla lista aiuta. Perché il numero uno è certamente il più sponsorizzato dal partito e anche il primo nome su cui cadono gli occhi degli elettori. Ma non sempre risulta essere il più votato: basti guardare, per esempio, nel 2009 nella circoscrizione Nordest: il capolista del Pd Luigi Berlinguer prese meno voti (81.409) dei compagni di partito Debora Serracchiani (144.558) e Vittorio Prodi (99.913). Situazione simile nel Sud, dove Paolo De Castro – capolista Pd, 111.882 voti - riuscì a conquistare solo per un pelo la candidatura (presero più voti Gianni Pittella e Andrea Cozzolino, 136 mila preferenze a testa).
E gli altri partiti? Nel 2009 i principali misero ovunque come testa di lista i rispettivi leader (Silvio Berlusconi, Umberto Bossi e Antonio Di Pietro), che risultarono chiaramente i più votati, ma per gli altri candidati la posizione si rivelò pressoché irrilevante.
Alla fine, per tornare al Pd, tutti i capilista sono riusciti a prendere il treno per Bruxelles, ma quelli dietro di loro si sono presi una bella delusione, soprattutto nel Mezzogiorno. Se nel Nordovest, tra i cinque eletti c’erano i primi quattro in lista (più Francesca Balzani, che era in ottava posizione), nella circoscrizione Sud, di cui parlavamo prima, gli eletti erano rispettivamente in prima, terza e ottava posizione. Nelle Isole, sono stati eletti il primo e il quinto in lista. La spiegazione di questi diversi risultati da circoscrizione a circoscrizione sta proprio nel ricorso alle preferenze da parte degli elettori (alle Europee se ne possono esprimere fino a un massimo di tre). L’esempio del Pd: 2.002.919 voti conquistati nel Nordovest e solo 747.889 preferenze espresse, pari al 37,3%, percentuale poco più alta nel Nordest (37,9%), che però cresce ad altre latitudini: 60,5% al Centro, 76% al Sud e addirittura 117% nella circoscrizione Isole. Questo perché, su 616.140 voti presi dal Pd tra Sicilia e Sardegna, sono state espresse ben 726.162 preferenze (229.981 delle quali per Rita Borsellino).

Corriere 11.4.14
Nel Def il sì all’Italicum slitta a settembre


ROMA — Il via libero definitivo della legge elettorale «entro settembre del 2014», insieme al sì in prima lettura della riforma costituzionale del Senato e del Titolo V, che sarà varata definitivamente «entro il mese di dicembre 2015». È questo il calendario del governo che emerge dalla lettura del «Programma nazionale di riforma» allegato al Documento economia e finanza. Tempi più ampi rispetto a quanto annunciato nelle scorse settimane dal premier: riforme costituzionali in prima lettura (servono due passaggi per ciascuna Camera) e Italicum entro il 25 maggio, la data delle Europee.

Corriere 11.4.14
Sacconi: al governo prevale la cultura del centrodestra
«In Forza Italia ora hanno capito gli errori»
intervista di Alessandro Trocino


ROMA — «Angelino Alfano sarà quello che è stato Matteo Renzi per la sinistra: il candidato che ridà speranza al centrodestra». Maurizio Sacconi, presidente dei senatori del Ncd, si prepara alla tre giorni di Assemblea costituente del suo partito, che comincia oggi alla Fiera di Roma.
Alfano come Renzi?
«Quella che si apre ora è l’assemblea costitutiva del Nuovo centrodestra, ma punta a definire un percorso ancora più ambizioso. Che si può paragonare alla crescita di Renzi nella sinistra».
Un modo per chiudere con il passato e aprire un’altra fase?
«All’atto della trasformazione del Pdl in Forza Italia fu questa la causa della rottura. Il non voler rinunciare a un’ambizione maggioritaria. Venuta meno la candidatura di Berlusconi, per ragioni ancorché ingiuste, serve una nuova leadership. Che, in partenza, è minoritaria come fu quella di Renzi, ma rappresenta l’unico futuro possibile per il popolo moderato nel breve periodo».
Perché nel breve periodo?
«Perché il primo passo è rappresentato dall’unità dei moderati di governo. Questo esecutivo si va definendo ormai come un governo bipartitico, con una formazione che aderisce al Pse e una al Ppe».
Il governo però è guidato da Renzi.
«Se Renzi è il motore dell’esecutivo, i moderati uniti ne sono il timone. Il nostro ruolo è quello di garantire la direzione di marcia. E di proteggere le decisioni di questo governo anche dallo stesso Pd».
L’opposizione interna a Renzi, dice?
«Sì. C’è una vecchia sinistra che subisce a fatica la nuova direzione intrapresa da Renzi. Noi ci assumiamo il compito delle iniezioni liberali negli atti di governo e di difenderli. Come sta accadendo sul decreto legge sul lavoro e come accadrà per le riforme economiche e istituzionali».
Però ci sono anche non pochi punti di discordia tra voi e il Pd. A cominciare dalla questione dell’elettività dei nuovi senatori.
«I problemi veri riguardano i sindaci, che è impossibile scegliere in modo che siano rappresentativi del popolo, così come non possono fare il doppio mestiere. Ma sulla riforma del Senato non sarà difficile andare d’accordo. Si tratta anche di raggiungere una solida intesa su Titolo V e federalismo responsabile».
Non è un problema stare al governo con un pezzo di sinistra?
«Noi non possiamo che essere soddisfatti del prevalere della cultura del centrodestra. Ci siamo posti due obiettivi: meno tasse e meno vincoli sul lavoro e sull’impresa. E quando una persona intellettualmente onesta come Fassina ribadisce che la sinistra dovrebbe spendere per la crescita, noi andiamo in un’altra direzione: quella di restituire alla società un pezzo dei costi dello Stato».
E se Renzi non ce la facesse?
«Se dovesse malauguratamente fallire, Alfano rappresenterà l’alternativa democratica. Per questo abbiamo scritto il suo nome nel simbolo delle Europee».
Dialogherete con Forza Italia? E con Berlusconi?
«Il popolo di Forza Italia, ma anche molti dirigenti, si rendono conto delle nostre ragioni. Quanto a Berlusconi, continuiamo a ritenere ingiusta la sua vicenda giudiziaria. E sbagliata ogni volontà di inibire la sua agibilità politica. Per questo crediamo che questo governo dovrebbe fare quello che non siamo riusciti a fare in 20 anni: riforme vere della giustizia penale, per mettere fine all’anomalia giudiziaria italiana».

Corriere 11.4.14
Bagarre e saluti fascisti sul voto di scambio
Tensioni sul salva Roma
La ghigliottina al dibattito scatena i 5 Stelle
di Dino Martirano


ROMA — Con la chiusura della seduta fissata alle 14 di un giovedì, per i grillini scatenati nell’Aula del Senato («Fuori la mafia dallo Stato», hanno urlato ai colleghi) è stato un gioco da ragazzi bloccare il testo che riformula, e di fatto rende applicabile, il reato di voto di scambio politico-mafioso (416 ter). Pd, FI e Ncd hanno provato a forzare la mano votando una richiesta di «chiusura anticipata della discussione generale» (una «ghigliottina» sul dibattito) ma poi, vista la protesta dei Cinquestelle, il controllo dell’Aula è sfuggito di mano ai presidenti di turno (Roberto Calderoli e Linda Lanzillotta; il presidente Pietro Grasso è impegnato all’estero) e la mattinata si è conclusa senza che fosse votato un solo emendamento. Mentre alla Camera, qualche ora dopo, si registravano altri momenti di tensione sul decreto salva Roma, tra M5S e Pd, per il numero legale che è venuto a mancare (a Montecitorio non accadeva dal 2007) con 104 assenze solo sui banchi della maggioranza, prima dell’approvazione finale a tarda sera.
Per il ddl sul voto di scambio tutto rinviato a martedì 15, dopo una mattinata di autentica bagarre con urla, strepiti, minacce, saluti fascisti, insulti tra senatori inviati per sms. A scaldare gli animi ci si è messo poi anche il sanguigno campano Giuseppe D’Anna, del gruppo fiancheggiatore di Forza Italia denominato Gal, che ha raccolto una per una le provocazioni del M5S («Siete degli squadristi», li ha incalzati) e infine ha addirittura reagito avanzando nell’emiciclo col braccio alzato del saluto romano e spargendo epiteti tipo «guarda lo str... che sei». Così, alla fine, lo spettacolo desolante visto al Senato ha causato uno stop di almeno sei giorni. E a nulla è servito l’appello del capogruppo del Pd, Luigi Zanda, che ha speso l’argomento tempo. Non secondario in questa vicenda: «Ogni rinvio di questa legge favorisce chi non vuole che la nuova norma entri in vigore prima delle Europee».
In prima lettura, il testo di questa tormentata legge fu licenziato all’unanimità dalla Camera; in seconda battuta, il Senato ha inasprito la norma (contraria Forza Italia, astenuto il Ncd) provocando però la reazione inaspettata dei pm antimafia e dell’Anm che, forse, hanno visto in quel 416 ter disegnato a Palazzo Madama «una gabbia troppo stretta» per il concorso esterno di stampo mafioso; così, in terza lettura la Camera (con i voti della maggioranza e di Forza Italia e l’opposizione del M5S) ha di nuovo alleggerito la norma, abbassando le pene per i politici a 4/10 anni come d’altronde avevano suggerito le commissioni Fiandaca e Garofoli per evitare che fossero uguali a quelle previste per i mafiosi colpiti dal 416 bis (7/12 anni).
Per il senatore Mario Giarrusso (M5S), questo è il più grande regalo alla mafia anche perché «l’infiltrazione delle cosche al Nord si serve di un solo mezzo: la politica». Anche per il senatore Felice Casson (Pd), che si è astenuto in commissione, «il testo della Camera è un compromesso al ribasso». Il sottosegretario Cosimo Ferri (Giustizia), non condivide: «La norma attuale, non efficace, è stata applicata 2 volte nel 2010, 6 nel 2011, 12 nel 2012. Noi ora la rendiamo applicabile». Donatella Ferranti (Pd),ricorda ai grillini che è la pena massima (10 anni) a determinare l’obbligo di arresto e che «il nuovo testo è stato giudicato ottimo dal procuratore nazionale antimafia».

La Stampa 11.4.14
L’alba del premier mattiniero
di Mattia Feltri


Cresciuti tendenza Oscar Wilde («Solo gli ottusi sono brillanti la mattina a colazione»), ci toccherà abbracciare la dottrina Ennio Flaiano («Basta alzarsi una mattina e uscire alle sette per capire che abbiamo sbagliato tutto»). Che poi la mattina alle sette Matteo Renzi - siccome risponde agli sms di Chicco Testa tra le 5.15 e le 6.01, come il medesimo Testa ha raccontato ieri sul Foglio in una lettera al direttore - ha già fatto cyclette, ha riletto e aggiustato il testo del Def, ha fotografato e twittato l’alba che lo sorprende chino sulle carte, ha risposto alla corrispondenza degli elettori e, si presume, ha bevuto uno zabajone. Infatti dovrà arrampicarsi fino a sera, e sera tardi, tanto è vero che, come succedeva in altre entusiastiche epoche, si passa sotto il palazzo del comando e la finestra è sempre illuminata (lampadine a basso consumo, però). Vari articoli hanno dettagliato sull’autoreclusione del premier - nascosto alle tentazioni carnali e palatali di Roma capoccia - e avvinto al lavoro, in t-shirt, scalzo e trottante lungo i corridoi, col piatto di roast-beef sulla scrivania in pausa pranzo, abbracciato al cartone della pizza giusto se si concede la partita in tv. Un brulicare perenne che si avvia quando noialtri siamo ancora orizzontali, e contagioso: Federica Mogherini arriva alla Farnesina alle 8 e capita pure alle 6, se deve volare all’estero; Maria Elena Boschi è sincronizzata col capo, puntuale alle riunioni delle 7 e mezzo dopo aver controllato l’avvio del giorno su iphone e ipad. Graziano Delrio e il sottosegretario Luca Lotti, per dirne altri due, non sono mai colti in flagrante, e repentini rispondono via sms alle esigenze aurorali del presidente del Consiglio. Vari addetti stampa ci hanno detto di essere pronti a fornire prove testimoniali sui ministri ebbri del nuovo corso: sono loro che nell’ultima oscurità della notte sorseggiano caffè e riforme. Davanti a questo risoluto tentativo di rivolgimento della natura romana, per millenni godereccia dal tramonto in poi, ci sentiamo di adattare l’immortale motteggio: «Spunta il sole, canta il gallo, Matteo Renzi è già a cavallo».

l’Unità 11.4.14
Il Papa: la tratta delle persone delitto contro l’umanità
Francesco incontra quattro ex prostitute straniere che attualmente vivono sotto protezione
di Roberto Monteforte


«La tratta degli esseri umani è un delitto contro l’umanità». Ha ribadito con forza la sua denuncia ieri Papa Francesco incontrando, nella Casina Pio IV in Vaticano, i partecipanti alla seconda Conferenza internazionale sulla tratta delle persone umane organizzato dalla Conferenza episcopale d’Inghilterra e del Galles.
Vescovi, religiose, responsabili di organizzazioni di volontariato, operatori sociali e i responsabili delle forze dell’ordine di oltre 20 Paesi, tra cui l’italiano Alessandro Pansa, si sono confrontati per due giorni sulle strategie di collaborazione più efficaci per contrastare l’«abominio di commerciare in donne, bambini, uomini» e su come prevenirlo, garantendo percorsi di tutela e di accoglienza per le vittime, recuperandole alla dignità e alla vita. Ma anche con azioni di efficace contrasto verso i carnefici, i «trafficanti».
«La tratta è una piaga nel corpo dell’umanità contemporanea e nel corpo di Cristo» ha aggiunto il pontefice che prima di salutare i partecipanti al Convegno riuniti nell’Aula magna della Pontificia Accademia delle Scienze Sociali, ha voluto incontrare quattro donne vittime della tratta e costrette a prostituirsi: una cilena, una della Repubblica Ceca, un’ungherese e un’argentina che hanno portato al convegno la loro drammatica testimonianza. Le ha ascoltate e rincuorate. «Basta» ha esclamato, ribadendo l’impegno della Chiesa e sottolineando l’importanza dell’incontro «delle autorità di polizia, impegnate soprattutto a contrastare questo triste fenomeno con gli strumenti e il rigore della legge», con «gli operatori umanitari, il cui compito principale è di offrire accoglienza, calore umano e possibilità di riscatto alle vittime». «Sono due approcci diversi - ha osservato - ma che possono e devono andare insieme». L’impegno, infatti, è straordinario. Il fenomeno delle nuove schiavitù va crescendo. Secondo gli ultimi dati forniti dal Global Slavery Index, alla fine dello scorso anno erano quasi trenta milioni gli individui vittime del traffico di esseri umani in 162 Paesi, che interessa il cosiddetto Terzo mondo (solo in India si contano 14 milioni di «nuovi schiavi»), ma anche i «Paesi avanzati», luogo di destinazione di chi va ad alimentare il mercato della prostituzione o quello del lavoro clandestino.
Le conclusioni dei lavori sono state presentate alla stampa dal cardinale Vincent Gerard Nichols, arcivescovo di Westminster e dal cardinale nigeriano John Olorunfemi Onaiyekan, insieme a suor Aurelia Agredano, vice generale della congregazione spagnola delle Adoratrici che ha sottolineato come il percorso di liberazione delle donne sottratte al racket della prostituzione, per essere efficace, debba essere di «condivisione», più che di «riabilitazione», libero da giudizi e pregiudizi. Che preveda una mentalità diversa e vada oltre i pur essenziali interventi di polizia. Resta fondamentale la collaborazione con le forze dell’ordine, rappresentate alla conferenza stampa da Sir Bernard Hogan- Howe, capo della polizia di Londra. L’impegno comune contro questa nuova forma di schiavitù è stato sancito da una «dichiarazione finale» sottoscritta alla fine dell’incontro. Il prossimo si terrà l’anno prossimo a Londra.

il Fatto 11.4.14
Riabilitare Giordano Bruno, le prime aperture del Vaticano
di Maurizio Chierici


Dopo aver incontrato Frey Betto, Francesco ha attraversato la piazza sulla jeep del papamobile. Mani, sorrisi e la risposta a chi gridava “Sei unico”. “Anche tu lo sei”. Forse per confortare, forse memoria fresca dell’incontro con l’ex monaco brasiliano, teologo della liberazione. Hanno parlato di Giordano Bruno e dell’unicità nella quale “l’eretico ribelle” riunisce l’universo: “Uno solo è il corpo, uno solo l’ordine, uno solo il governo, uno solo il principio e una sola la fine, una sola cosa definisce tutte le cose, uno solo è lo splendore della bellezza, un solo fulgore luccica dalla moltitudine della specie”. La mente umana non si illumina di idee proprie (analisi di Brun), ma di ombre di idee e per raggiungere l’armonia che connette ogni cosa “affida le ombre alla memoria che prepara la luce”.
Bruno rifiutava i dogmi affidandosi all’intuizione di Copernico: terra che gira attorno al sole. L’infinità dell’universo, la molteplicità dei mondi e non il contrario come sentenziava la divinità delle Scritture. E Betto ha chiesto udienza al papa per riabilitare Giordano Bruno. “Ripensare criticamente la condanna della Chiesa...”, invocazione del cardinale Martini. Nel 2000 Giovanni Paolo II si dice rammaricato per il “triste episodio della storia cristiana moderna”, ma rifiuta la riabilitazione: “La sua opera di filosofo è incompatibile con la dottrina”. Eppure Betto va dal papa, gli parla per la prima volta, e insiste: Giordano Bruno martire di una Chiesa spaventata dalle idee che scioglievano i credenti dalle ombre del medioevo.
Perché un teologo dimenticato e mal sopportato dal romanocentrismo Wojtyla-Ratzinger chiede a Francesco di riabbracciare Giordano Bruno bruciato dagli inquisitori in piazza Campo de’ Fiori? Betto sa cosa vuol dire la solitudine di un religioso sepolto nel silenzio del Vaticano, limbo in compagnia di Leonardo Boff, Gutierrez, Mar-celo Barroso, rimprovero mai gridato eppure implacabile nell’emarginazione.
L’ARRIVO di Francesco ha riaperto la speranza. Li unisce la teologia dei poveri per anni confusa con rivoluzioni armate mai contemplate al di fuori della solidarietà. Intrighi cortigiani per chiudere la Chiesa nei privilegi che i teologi degli stracci respingevano con dolore. Non è che la vita di Frey Betto sia stata quieta. Nel Brasile dei generali vivere dalla parte dei poveri voleva dire galera. “Ho passato quattro Natali dietro le sbarre. Celebravo assieme ai prigionieri sfiniti dalla tortura. Nella messa ricordavo chi non l’aveva sopportata...”. Leonardo Boff veniva chiamato dal cardinale Ratzinger col rimprovero di “essere schiavo di cellule marxiste”. Come si fa a dire che nel Brasile della bella vita esiste una povertà senza speranza? E cominciano a girare da un paese all’altro, a scrivere libri e ad attraversare il mare per spiegare l’impegno, semplice ma urgente, di una teologia che parla a chi non può sapere. Se Frey Betto ha raccolto in un libro che ha sollevato l’indignazione dei conservatori, il racconto di Fidel Castro e della sua giovinezza fra i gesuiti, le glorie del filosofo avevano aperto corti e università d’Europa. Vagabondaggio di Giordano Bruno alla ricerca di una cattedra lontana da Roma: altri conservatori non sopportavano le sue idee e non perdonavano le dissidenze. Denunciato per eresia da un nobile veneziano, si inginocchia davanti agli inquisitori che lo condannano “al fuoco eterno”. Non riesco a rintracciare il Frey Betto felice, ma le agenzie raccontano la risposta di Francesco: “Io pregherò, ma pregate anche voi”. È il primo papa a non dire di no.

Repubblica 11.4.14
La fabbrica dei santi
Il record spetta senz’altro a Giovanni Paolo II: ne fece 482, cui vanno aggiunti 1.345 beati. Quasi tutti martiri. Quanti nei quattro secoli precedenti
Più contenuto papa Ratzinger, mentre con Francesco se ne contano già 804. Così i successori di Pietro suggeriscono ai fedeli il loro modello di Chiesa
di Paolo Rodari



CITTÀ DEL VATICANO. LA “fabbrica dei santi” non si ferma. E continua a macinare beati e santi, strumento di governo efficace attraverso il quale i Pontefici esprimono un modello di Chiesa. Canonizzare o non canonizzare una persona, infatti, significa anche scegliere se esercitare o meno un potere reale, concesso da secoli soltanto a chi siede sul soglio di Pietro. Un esempio per tutti riguarda papa Francesco. Da pochi mesi ha dato il via libera al processo di beatificazione dell’arcivescovo salvadoregno Oscar Arnulfo Romero, assassinato mentre celebrava l’eucarestia. Per anni la causa è rimasta ferma alla Congregazione per la Dottrina della fede, sembra a motivo dell’influenza che sullo stesso Romero aveva esercitato il gesuita Jon Sobrino, esponente di punta della teologia della liberazione e figura poco gradita ad alcuni esponenti della curia romana.
Benedetto XVI, sul finire del suo pontificato, aveva dato un primo via libera alla causa, ma c’è voluto Francesco perché il sì papale divenisse di fatto ufficiale. Per Jorge Mario Bergoglio, insomma, Romero e la sua vita spesa per i poveri e gli ultimi sono un modello a cui tutti oggi devono guardare.
Francesco, nel suo primo anno di pontificato, ha mantenuto i numeri da record che furono dei suoi due predecessori: nel 2013 ci sono state 18 cerimonie di beatificazione con 540 nuovi beati, dei quali 528 martiri e 12 confessori. Sempre lo scorso anno Francesco ha canonizzato 804 nuovi santi, ovvero 800 martiri di Otranto uccisi dai turchi nel 1480 e quattro confessori. Cinque, inoltre, le canonizzazioni equipollenti in tutto il suo pontificato: quelle di Angela da Foligno, di Pietro Favre, di Francesco de Laval, di Giuseppe de Anchieta e di Maria dell’Incarnazione. Ritmi che anche Benedetto XVI, che pure aveva deciso di presiedere di persona solo le proclamazioni dei nuovi santi lasciando a un cardinale il compito di presiedere le beatificazioni, sapeva tenere: 45 le cerimonie di canonizzazioni presiedute personalmente dal 2005 al 2012.
Fu comunque con Giovanni Paolo II che il Vaticano divenne a tutti gli effetti quella “fabbrica dei santi” capace di macinare numeri da record come mai era avvenuto prima. Karol Wojtyla fece più canonizzazioni che tutti i Papi degli ultimi quattro secoli messi assieme. Durante il suo pontificato ha fatto 1.345 beati e 482 santi, che da soli rappresentano più della metà delle santificazioni della Chiesa cattolica a partire dalla nascita della Congregazione dei Riti, l’attuale Congregazione per le cause dei santi. Come ha scritto Valentina Cicliot, in una tesi dedicata alla “politica delle canonizzazioni” di Wojtyla, “se si analizzano i dati relativi alle beatificazioni e canonizzazioni wojtyliane, l’elemento che appare preponderante è la forte presenza di martiri (1.032 beati su 1345, il 76 per cento, e 402 santi su 483, l’83 per cento). Il pensiero, espresso dal Pontefice, che la Chiesa del Novecento e del terzo millennio sia nuovamente Chiesa martiriale, con la riproposizione dell’antica immagine sanguis martyrum se-men christianorum, trova nelle glorificazioni non solo conferma, ma attuazione concreta”.
Altro elemento importante è l’interesse per le figure polacche: 11 santi e 158 beati. “La motivazione di tale significativa presenza non è solamente dettata da affetti e devozioni personali, ma rientra in una strategia più ampia legata tanto al concetto wojtyliano di patria e di Europa, quanto al confronto tenuto con il regime sovietico e le democrazie occidentali prima e dopo la caduta del muro di Berlino, spartiacque nell’azione del magistero pontificio. Inoltre, si palesa la volontà di proporre la Chiesa e il cattolicesimo polacco come modelli per gli altri Paesi”.
Joseph Ratzinger non lesinò il numero di beatificazioni e canonizzazioni. Decidendo, tuttavia, di non presiedere direttamente i riti di beatificazione diede un segnale di discontinuità significativo rispetto a Wojtyla. A suo avviso, infatti, finché un candidato agli altari non è santo resta una figura a cui non tutta la Chiesa deve essere costretta a guardare. Disse alla rivista “30Giorni” quando ancora era cardinale: «La distinzione tra beatificazione e canonizzazione è secondo me uno strumento del tutto ragionevole per differenziare figure che possono esercitare una funzione di esempio solo per un determinato ambito e quelle che hanno da trasmettere un messaggio a tutta la Chiesa».
Francesco si è avvalso per cinque volte della proclamazione per equipollenza. Ovvero, cinque dei suoi beati sono stati canonizzati non con la procedura ordinaria, che esige il riconoscimento canonico di un miracolo attribuito alla loro intercessione, ma attraverso un canale straordinario definito appunto “canonizzazione equipollente”. Ha detto il cardinale Angelo Amato, prefetto delle Cause dei Santi, all’Osservatore Romano: «Per tale canonizzazione si richiedono tre elementi: il possesso antico del culto; la costante e comune attestazione di storici degni di fede sulle virtù o sul martirio; la ininterrotta fama di prodigi». In questo casi il Papa «può procedere alla canonizzazione equipollente». Giovanni Paolo II usò una “procedura abbreviata”, il 3 ottobre 1982, per beatificare Giovanni da Fiesole, meglio noto come Beato Angelico. Benedetto XVI fece una sola canonizzazione equipollente, quella di Ildegarda di Bingen. Francesco, invece, ha fatto ricorso a questa modalità speciale in una quantità di casi inferiore al solo Leone XIII, che l’ha usata però in un arco di vent’anni (tra il 1880 e il 1899). E anche la canonizzazione di Giovanni XXIII del prossimo 27 aprile, che pure si avvale della prassi ordinaria, avviene senza che sia stato canonicamente accertato un miracolo attribuito alla sua intercessione e avvenuto dopo la sua beatificazione: un modo, questo, per esercitare in pieno tutte le prerogative che gli spettano in qualità di Pontefice. Ma non una scorciatoia: Francesco ha semplicemente accolto con favore le motivazioni presentate dalla Congregazione delle cause dei santi su istanza della postulazione della causa dello stesso Giovanni XXIII.
Anche per Bergoglio, dunque, tanti santi, seppure con equità. È entrato in vigore, all’inizio di questo nuovo anno, un tariffario di riferimento, affinché, spiega il cardinale Amato, «venga garantito, in maniera sobria ed equa, che non vi siano «sperequazioni tra le varie cause». Una causa di beatificazione non particolarmente impegnativa tra spese per il processo e cerimonia arrivava a costare non meno di mezzo milione di euro. Con il risultato che chi non raccoglieva abbastanza denaro non poteva portare sugli altari un testimone di santità. Con Francesco non è più così.

l’Unità 11.4.14
Riforme, Italicum contro Senato
di Claudio Sardo


L’ITALICUM E LA RIFORMA DEL SENATO - ALMENO NEI TESTI ATTUALI - MINACCIANO GLI EQUILIBRI E LE garanzie costituzionali. Proprio perché non si può fallire di nuovo, è assolutamente necessario correggere le storture. La proposta di Chiti (e di altri 21 senatori Pd) pone questioni serie, ma per ricostruire pesi e contrappesi non è obbligatorio concentrare sul Senato le funzioni di garanzia. Si può ancora lavorare sullo schema del governo, migliorando l’impianto del Senato delle Autonomie, rendendolo più coerente a un federalismo cooperativo, soprattutto affrontando la questione delle garanzie in una logica di sistema. Riforma del Senato, legge elettorale, nuovo Titolo V sono vasi comunicanti. E i sostenitori di Renzi farebbero bene ad affrontare le critiche senza cedere alla tentazione di delegittimare chiunque le faccia. Oggi il premier ha molta forza, ma i cicli si accorciano sempre più e il senso di precarietà dipende proprio dal fatto che poco è pensato per durare nel tempo.
C’è anche un’altra tentazione da scongiurare: legare le riforme a determinate formule politiche. Il tavolo delle istituzioni è per definizione aperto a tutti. Renzi fa bene a dialogare con Forza Italia, nonostante sia all’opposizione del suo governo. Berlusconi però non può rivendicare poteri di veto. Né può escludere da quel tavolo il partito di Grillo, qualora decidesse di sedersi e assumersi la sua quota di responsabilità sulle modifiche costituzionali. Hanno destato scandalo le aperture dei senatori grillini alla proposta Chiti. Ma Brunetta non può alzare la voce con il Pd sostenendo che «sarebbe inaccettabile il ricorso a una doppia maggioranza». La doppia maggioranza è esattamente ciò che pratica Forza Italia: per questo la pretesa di blindare un’intesa a due sulle riforme è inaccettabile. Il tripolarismo italiano è un dato stabile nel medio periodo. Se Grillo dovesse derogare alla linea sfascista che sta perseguendo e dire la sua sulle riforme in modo costruttivo, non ci sarebbe ragione per non ascoltarlo. Purtroppo pensiamo che Grillo non derogherà alla linea sfascista. Così come pensiamo che, alla fine, anche Berlusconi si sfilerà dall’intesa come ha fatto nel passato. Ma la regola al tavolo delle riforme non può cambiare. Per tutelarsi, Renzi e il Pd non possono far altro che impegnarsi ancor di più sulla qualità e gli equilibri complessivi delle riforme. E rafforzare l’intesa nella maggioranza di governo: non per contraddire le aperture sulle regole ma perché qui c’è il nucleo che più ha scommesso sul successo riformatore. Peraltro, alla fine del percorso il referendum popolare sarà inevitabile.
Di Senato delle Autonomie si parla in Italia da almeno trent’anni. Il progetto governativo per la prima volta ridimensiona, e in modo drastico, i poteri delle Regioni. Da qui ha preso forza la riflessione sul Senato delle garanzie, che invece è una novità nel nostro dibattito pubblico. Ma prima di abbandonare il Senato delle Autonomie - oggi deficitario e incoerente - bisogna tentare di aggiustarlo. Il federalismo cooperativo, tanto per cominciare, deve poggiare anzitutto sulle rappresentanze regionali. Le Regioni hanno funzioni legislative, i Comuni solo amministrative. Il numero dei sindaci-senatori va dunque ridotto. E i 21 esperti nominati dal Capo dello Stato non hanno alcun senso in una Camera espressione delle Autonomie.
Ma è soprattutto sul terreno dei pesi e dei contrappesi che il governo deve rispondere a chi teme «derive autoritarie». Si vuole un Senato senza elezione diretta? Allora alla Camera, come minimo, vanno evitate le liste bloccate. Che equilibrio avrebbe un Parlamento con senatori nominati (dai consigli regionali e dai sindaci) e con deputati altrettanto nominati (da due o tre leader di partito)? Sarebbe un Parlamento mostruoso, inaccettabile per una coscienza democratica.
L’Italicum va cambiato in profondità se si vuole preservare lo schema del Senato delle Autonomie. La strada delle preferenze di genere è ormai segnata in tutte le elezioni (comprese le europee): non c’è ragione perché i cittadini debbano essere esclusi proprio dalla scelta dei deputati. Non c’è ragione perché la soglia di sbarramento non debba essere uguale per tutti, per le liste alleate e per quelle avversarie. Non c’è ragione perché i voti delle liste che non superano la soglia minima debbano essere contati a favore dei partiti coalizzati (questo è un incentivo alle liste civetta, alle coalizioni infedeli e a loschi scambi politici). Se vogliamo che governi uno solo dei poli del tripolarismo italiano, dobbiamo rendere pulita la competizione e fornire ai cittadini valide garanzie.
In un bicameralismo non più paritario, è logico attribuire un maggiore potere al primo ministro. Ma questo va compensato, ad esempio, consentendo a una minoranza qualificata della Camera il ricorso in via preventiva alla Consulta sulle leggi di dubbia costituzionalità. E non sarebbe certo uno strappo se per alcune categorie di leggi, come quelle attinenti ai diritti di libertà, fosse richiesto il voto del Senato (magari obbligando la Camera a una seconda deliberazione con maggioranza qualificata).
Così il Senato non elettivo di Renzi diventerebbe più solido. Ovviamente, con un sistema iper-maggioritario per la Camera, la scelta del presidente della Repubblica dovrebbe essere affidata a una platea di grandi elettori nella quale i deputati siano in minoranza. Su questa traccia Renzi può rafforzarsi, insieme al suo partito e alla sua maggioranza di governo. Altrimenti, negando il problema delle garanzie, la proposta dei 22 senatori Pd diventerà la sola ciambella di salvataggio. E lo scontro potrebbe sfuggire di mano. La cosa peggiore è che nello stesso Pd si alimenti l’antipolitica, con Renzi che proclama un Senato senza stipendi e gli oppositori che mostrano come, nel loro progetto, il taglio dei parlamentari è ancora maggiore.

il Fatto 11.4.14
Dramma e martirio
Paolo Liguori: “Berlusconi non potrà neppure parlare col pregiudicato Sallusti”
intervista di F.D’E.


Servizi Sociali Show. Sss. In diretta con il Condannato. Tuttavia, Paolo Liguori è ancora prudente. Il direttore editoriale dei new media di Mediaset non si sbilancia sulla prossima campagna elettorale di Silvio Berlusconi. Tutta da scoprire.
Direttore, i servizi sociali allargano l’orizzonte.
Aspettiamo, bisogna avere la certezza, capire la sua reale disponibilità, il modo di valorizzarla.
Ne avete parlato?
Ovviamente, abbiamo chiesto lumi anche a Toti e alla Bergamini (rispettivamente consigliere politico di B. e responsabile comunicazione di Forza Italia, ndr). La mia idea però ce l’ho già.
Quale?
Fare tutto quello che è possibile con Internet, con lo streaming.
Fa molto Grillo.
Vero, però ci siamo costretti. Si può pensare a una postazione fissa da casa. Vedremo, bisognerà conoscere le limitazioni che avrà.
Coi domiciliari sarebbe peggio.
Si può impostare però tutta una campagna sul candidato che non può fare campagna.
Gioco di parole per gridare al martirio.
Ma se l’ha detto pure Padellaro, che è il direttore del tuo giornale, che Berlusconi va lasciato libero, agibile fino al 26 maggio.
Padellaro l’ha detto proprio per evitare che B. faccia il martire.
Allora ti dico che pochi hanno notato una cosa, l’ennesima corsia preferenziale contro Berlusconi. Per arrivare a discutere della sua misura sono passati dal numero 4mila e qualcosa a 7mila. Perché tutta questa fretta?
Una persecuzione infinita. Ma è vero che ci sono video e spot già registrati?
No, non mi risulta. Finora ci sono stati solo scambi di opinione ma si farà tutto in base alla sentenza. Si tenga presente anche che Berlusconi non potrà comunque avere contatti con altri pregiudicati.
Che significa?
Per esempio non potrà parlare con Alessandro Sallusti, il direttore del Giornale.
Graziato da Napolitano.
Ma sempre pregiudicato.
Un direttore in meno da convocare.
Aspettiamo, vediamo cosa decidono.

Corriere 11.4.14
Silvio Berlusconi e la pena alternativa: per la giustizia è uno come tanti
di Luigi Ferrarella


Il via libera della Procura Generale ai servizi sociali per Berlusconi spiazza soltanto chi amava terrorizzarlo nel bunker di Arcore o chi gli consigliava di lucrare un po’ di vittimismo pre-elettorale.
Berlusconi, con i suoi 4 anni per frode fiscale ridotti a 12 mesi dallo sconto di 3 anni di indulto sui reati commessi prima del 2006, ieri in Italia era infatti il 5.570esimo condannato definitivo in libertà ad essere avviato o confermato nel 2014 ai servizi sociali come forma di esecuzione della pena alternativa al carcere sotto i 3 anni. E del resto il Tribunale di Sorveglianza milanese è lo stesso che di recente ha ad esempio ammesso al beneficio anche un uomo che doveva scontare 1 anno per aver picchiato e strappato un dente alla moglie, che a differenza di Berlusconi era pregiudicato e senza lavoro, che (sempre a differenza dell’ex premier super-difeso da super-avvocati) aveva persino sbagliato a fare la richiesta nel modo giusto, ma che si era comunque visto concedere i servizi sociali proprio a casa della moglie dettasi disponibile a risperimentare un percorso per il bene dei figli. Nella maggior parte dei casi, del resto, i condannati ottengono l’affidamento ai servizi sociali senza specifici programmi ma solo con l’indicazione di «relazionarsi con l’assistente sociale designato», e l’unico obbligo di rispettare le prescrizioni standard di stare in casa dalle 23 alle 6, non frequentare pregiudicati, non espatriare.
Ciò che vale per tutti, dunque, vale per Berlusconi. E viceversa. Perché in generale si possono anche nutrire dubbi su un sistema sanzionatorio che vede in carcere 8.601 evasori fiscali in Germania e solo 156 in Italia (lo 0,4% contro la media Ue del 4,1%), o che tra condoni e sconti sbriciola l’entità teorica delle condanne definitive. Ma intanto varrebbe la pena che tutta questa inedita attenzione pubblica, dedicata ai servizi sociali per Berlusconi, fosse poi prestata anche alle risorse economiche, alle assunzioni nelle cancellerie e alle fluidità normative necessarie per irrobustire ancor più le misure alternative al carcere: quelle che fanno il bene della collettività prima che dei condannati, statisticamente abbattendone al 19% la recidiva che sfiora invece il 70% per chi espia tutta la pena in carcere.

Il Sole 11.4.14
Epilogo scontato, male minore
di Stefano Folli


Sarà anche una «giornata infausta per la democrazia», come dice Maria Stella Gelmini, ma in fin dei conti Berlusconi ha limitato i danni. L'affidamento ai servizi sociali, soluzione per la quale manca solo il suggello definitivo del tribunale, significa in pratica che il leader di Forza Italia presterà la sua opera per circa dieci mesi, in maniera molto blanda e comoda, presso un centro anziani vicino a Milano. Tutto secondo le previsioni.
S'intende che Berlusconi sfrutterà, per quanto è possibile, l'eco delle sue disavventure giudiziarie nell'imminente campagna elettorale.
Campagna alla quale egli potrà partecipare in misura limitata, a meno che non ottenga qualche deroga "su misura". Peraltro i margini di libertà personale garantiti dai servizi sociali sono piuttosto rilevanti se paragonati al nulla assoluto degli arresti domiciliari. Non siamo alla famosa "agibilità politica" che il condannato Berlusconi ha reclamato a gran voce quasi fosse un suo diritto, ma certo egli viene trattato con un occhio di riguardo. Dopo anni di processi, sentenze appellate, condanne confermate fino alla Cassazione, ecco che all'improvviso la pena si ammorbidisce e diventa quasi una formalità. Di fatto si è riconosciuto all'ex presidente del Consiglio una sorta di "status" particolare derivante dal suo essere un uomo pubblico, anzi un protagonista per vent'anni della scena nazionale. Nei limiti concessi dal codice e dalle consuetudini, non si è voluto infierire su un uomo già molto provato.
Che egli si lamenti e si consideri vittima di una sovrana ingiustizia, è comprensibile. Che il capogruppo Brunetta lo paragoni alla dissidente birmana Aung San Suu Kyi, premio Nobel per la pace, è già più singolare. Di sicuro l'epilogo della vicenda era ormai scontato e tutti adesso sembrano recitare un po' una parte in cui non credono realmente. Del resto la notizia è stata accolta con una certa indifferenza dell'opinione pubblica. Altri fatti premono e i riflettori oggi sono accesi sul nuovo astro Renzi, o magari sul duello fra lui e il solito Grillo.
Questo vuol dire che, esclusa una cerchia piuttosto estesa di fedeli, seguaci e militanti intransigenti, nella percezione della gente il personaggio Berlusconi appartiene al passato. Alle elezioni può ancora raccogliere voti (non lui direttamente bensì il partito, se riuscirà a non frantumarsi), ma l'onda della sua storia si esaurisce qui. Ed il primo a rendersene conto è proprio lui, anche se non sopporta di sentirselo dire. Quindi la domanda da porsi riguarda, ma non da oggi, le conseguenze a breve termine del nuovo scenario sugli equilibri di governo e sugli assetti generali della politica.
La risposta è: scarse conseguenze. Il patto Renzi-Forza Italia era già alquanto sfilacciato e tale resterà. Ma nessuno lo spezzerà e dunque il cammino delle riforme proseguirà, sia pure fra ostacoli che sono manifesti e che non riguardano solo le convulsioni del centrodestra, bensì anche il malessere dentro il Pd. Niente di irrisolvibile, ma non c'è da illudersi circa un percorso trionfale in Parlamento. Si andrà avanti a fatica, ma si andrà avanti: magari con qualche compromesso sul Senato e sulla legge elettorale. Sulla politica economica invece il centrodestra cercherà di distinguersi e di non lasciare tutto lo spazio a Renzi. Aspettiamoci crescenti polemiche sul Def.
Per quanto riguarda gli assetti di Forza Italia, invece, siamo all'anno zero. Può esistere un berlusconismo senza Berlusconi che non sia solo piatta nostalgia senza prospettive? No, con ogni probabilità. E le incognite nascono proprio dalla mancata creazione di un vero gruppo dirigente. Così, nel terrore di perdere ogni identità, i più si aggrappano al vecchio leader, al nome nel simbolo, "al suo DNA che è dentro Forza Italia", come dice Toti. Ma è un po' poco per guardare all'avvenire.

l’Unità 11.4.14
Che offesa alla memoria il Grand Hotel Gramsci
di Vittorio Emiliani


IL NOME DI ANTONIO GRAMSCI EVOCA SENTIMENTI DI AMMIRAZIONE, DI AFFETTO RICONOSCENTE per quanto ha fatto e scritto per noi, e di dolore acuto per quel decennio di carcerazione che dovette patire per mano fascista. Detenuto, di fatto, sino alla morte, avvenuta il 21 aprile 1937, nonostante la prima emottisi risalisse al 1931 e al 1933 il primo attacco di arteriosclerosi. E con tutto ciò capace di scrivere libri tuttora fondamentali di riflessione storica e politica.
Ora, la notizia che a questo martire dell’antifascismo verrà intitolato un Grand Hotel a Torino non può non suscitare contrarietà, insofferenza, opposizione senza equivoci. Proprio nel palazzo dove il giovane leader socialista e poi comunista abitò e dove creò nel dopoguerra L’Ordine Nuovo il giornale del «biennio rosso», la fucina giornalistica della occupazione delle fabbriche. Sarò anche influenzato dalla lunga consuetudine avuta con Alfonso Leonetti che a più di ottant’anni mi parlava ancora con entusiasmo del periodo trascorso con Gramsci quale redattore capo de L’Ordine Nuovo, e tuttavia a me sembra uno sfregio alla memoria gramsciana l’insegna luminosa di un Grand Hotel Gramsci pluristellato con area fitness, piscina, suite lussuose.
Riferisce Repubblica che l’impresa la quale sta ristrutturando il vastissimo palazzo (10mila metri quadrati) nato come Albergo «di virtù per il ricovero e l’istruzione dei poveri» preserverà restaurandoli i locali dove ebbe sede la mitica redazione ordinovista, e per questo va elogiata, come per lo spazio riservato alla biblioteca dell’Istituto Gramsci del Piemonte e alla sala convegni. Pare tuttavia che gli stessi vertici della catena spagnola NH Hotel avessero manifestato serie perplessità sul nome Gramsci così legato ad una tragedia personale, familiare e politica sanguinante. Poi si sono convinti che fosse comunque un nome di richiamo turistico internazionale.
Vorremmo far risorgere in loro - sulla scorta anche di un appello indignato sottoscritto da numerosi intellettuali dopo le prime obiezioni dello storico Nicola Tranfaglia - i fondati dubbi originari. Antonio Gramsci è stato uno dei primi antifascisti arrestati e condotti davanti al Tribunale Speciale mussoliniano. Al processo venne condannato a vent’anni di galera, col pubblico accusatore Michele Isgrò che, ben interpretando il pensiero del duce, affermò: «Per vent’anni dobbiamo impedire a questo cervello di funzionare». Scontò fra carcere e ospedali (guardato a vista) un decennio senza mai rassegnarsi a non pensare, a non predicare fra i compagni - come ben scrisse Giuseppe Fiori nella prima completa biografia gramsciana - il dialogo coi socialisti, per esempio con Sandro Pertini recluso anch’egli a Turi. Mentre la linea staliniana della «svolta» aveva imposto nel 1930 la disastrosa teoria del socialfascismo facilitando la vittoria di Hitler in Germania e portando all’espulsione di numerosi compagni, fra i quali Leonetti, Tresso, Ravazzoli, Camilla Ravera, Silone, lo stesso Terracini. Per quella sua posizione dialogante, subito definita «socialdemocratica», il pur infermo Gramsci subì intimidazioni e aggressioni.
Che c’entra questa vicenda terribile, di lacrime, dolore e sangue, con un Grand Hotel? Nulla, davvero nulla. L’accostamento è offensivo quanto un Grand Hotel Matteotti, Gobetti, o fratelli Rosselli. La memoria storica non va offesa. Tanto più per ragioni turistico-commerciali.

Repubblica 11.4.14
Ricerca indipendente “smonta” il Tamiflu: inefficace per influenza suina e dei polli
Il farmaco inutile contro l’aviaria pagato dai governi oltre tre miliardi
di Corrado Zunino



IL CASO. ROMA. Il costoso farmaco Tamiflu che ci avrebbe salvato dall’aviaria, che avrebbe impedito il passaggio dell’influenza dai polli all’uomo su scala mondiale e combattuto un’epidemia che nei grafici clinici avrebbe potuto fare 150 mila morti soltanto in Italia, non è servito a niente. Solo a gonfiare i bilanci della Roche spa, multinazionale svizzera che grazie alle ondate di panico collettivo ha venduto nel mondo, solo nel 2009, confezioni per 2,64 miliardi di euro. Due miliardi e sei per un solo farmaco che, si calcola, a quella data è stato utilizzato da 50 milioni di persone. Inutilmente.
Già. Un gruppo di scienziati indipendenti — Cochrane collaboration — ha ripreso in questi giorni un suo studio realizzato nel 2009 sul rapporto tra l’antivirale Tamiflu e l’influenza suina (seimila casi mortali nel mondo). E se allora l’organizzazione medica no profit sosteneva che non c’erano prove a sostegno dell’utilità del medicinale per la suina, ora si spinge oltre e lo stampa sul British medical journal: per l’influenza aviaria (62 morti accertati, fino al 2006) l’antivirale della Roche è stato inutile. Lo si certifica adesso, ma per dieci anni una teoria di stati nel mondo, sull’onda della speculazione emotiva, ha accumulato milioni di confezioni, buttato valanghe di denaro pubblico e, dopo cinque stagioni, buttato anche le confezioni scadute. Secondo la controricerca il Tamiflu (dai 35 ai 70 euro a scatola, secondo richiesta e Paese) contrappone alle influenze gli stessi effetti del più conosciuto paracetamolo. Non ha prevenuto la diffusione della pandemia, né ha ridotto il rischio di complicazioni letali. Ha attenuato solo, nei primi quattro giorni del contagio, alcuni sintomi. Una tachipirina, non certo la panacea per epidemie da kolossal.
Ecco servito un nuovo caso di inganno Big Pharma, segnalato da ricercatori che hanno rilevato errori e mancanze in ogni stadio del processo: la produzione, le agenzie di controllo, le istituzioni di governo. Gli uffici stampa della Roche hanno tempestivamente replicato, ieri: la ricerca è incompleta e frammentaria. È un fatto, però, che il Tamiflu passerà alla storia della farmaceutica contemporanea come il medicinale più gonfiato e redditizio.
L’influenza aviaria venne descritta per la prima volta in Piemonte, nel 1878, ma è dal 1996 che si è scoperta pericolosa per l’uomo. Da allora e per dieci anni focolai hanno toccato cinque continenti. Hong Kong l’origine, poi l’approdo in Australia, Cile, Centro America, Olanda, Belgio, Germania, quindi Canada, Stati Uniti, Sudafrica, di nuovo Sud-Est asiatico, il resto dell’Asia, ancora Europa. Centocinquanta milioni di volatili contagiati e, alla fine, 62 umani morti (in media un normale ceppo influenzale, ogni anno, provoca nel mondo 700 mila decessi). Grazie all’Organizzazione mondiale della sanità, spinta dai centri di controllo medico americani, a metà dei Duemila il Tamiflu Oseltamivir diventa il farmaco elettivo per il trattamento dell’influenza aviaria. Nel novembre 2005 il presidente George W. Bush richiede al congresso 7,1 miliardi di dollari per prepararsi a una pandemia, 1,4 miliardi sono necessari per acquistare farmaci antivirali. Si scoprirà che uno degli articoli su cui si basavano le evidenze scientifiche per lanciare il Tamiflu era uno studio fatto su un solo paziente. Si scoprirà, soprattutto, che il brevetto del farmaco è stato dal 1997 al 2001 della società Gilead, il cui presidente era Donald Rumsfeld, segretario di Stato americano dell’amministrazione Bush dal 2001 al 2006: Rumsfeld mai ha lasciato il pacchetto di azioni Gilead e tutt’oggi riceve il 22 per cento dei profitti derivanti dalla vendita del Tamiflu.
In quei giorni di allarmi a comando, il segretario di Stato impose la somministrazione obbligatoria del suo farmaco alle truppe nordamericane. E i governi occidentali si superarono negli ordinativi alla Roche, che faticò a star dietro alle richieste: 2,3 milioni di dosi la Svizzera, 5,4 milioni il Canada, 13 milioni la Francia, 14,6 milioni la Gran Bretagna. L’Italia, governo Berlusconi, Storace ministro della Salute, autorizzò l’acquisto di antivirali per il 10 per cento della popolazione: sei milioni di confezioni. La Roche spa, tra il 2003 e il 2005, quadruplicò le vendite nel mondo.
Sull’allarme aviaria, ha rivelato l’ultimo numero dell’ Espresso, la procura di Roma sta indagando su un’ipotesi impaurente: il virus esistente, in Italia, fu trasformato ad arte in un’epidemia in procinto di esplodere. Psicosi generata da ricercatori e industrie farmaceutiche (in questo caso la Merial di Noventa Padovana) che portò il governo Berlusconi (ter) a spendere 50 milioni per vaccini poi rimasti inutilizzati. Per ora è stata indagata per associazione a delinquere, insieme ad altre 38 persone, Ilaria Capua, virologa di fama internazionale, deputato di Scelta civica.

Corriere 11.4.14
Per un pugno di olive Italia e Spagna alla guerra dell’olio
Duello sull’export del gruppo Deoleo
di Andrea Nicastro


MADRID — Tutt’e due sono cresciuti a pane e olio, solo che uno lo chiama bruschetta e l’altro tostada . Da una parte l’andaluso di Jaen, capitale mondiale degli ulivi, Cristobal Montoro. Dall’altra il toscano di Firenze, Matteo Renzi. L’andaluso ora fa il ministro delle Finanze a Madrid e nel caos della ristrutturazione bancaria spagnola ha annusato il pericolo di veder tornare all’Italia il controllo della filiera dell’olio d’oliva. Non preoccupatevi — ha detto tre giorni fa —. Dovesse servire lo Stato è pronto ad intervenire. Il toscano, ora presidente del Consiglio, ha reagito ad una fiera vinicola. «Lo dico da persona rispettosa dei mercati: quella sorta di avversione ideologica emersa pochi giorni fa rispetto all’italianità della proprietà è inaccettabile».
La reazione italiana è forse arrivata tardi per difendere gli interessi nostrani, però ha almeno avuto l’effetto di dare all’operazione un’apparenza di rispetto delle regole di mercato. Solo un’apparenza, forse. Gli spagnoli hanno scelto un partner inglese, ma imponendogli, secondo voci di corridoio, di rispettare l’integrità della società e quindi gli interessi nazionali.
In palio c’era Deoleo, il conglomerato di produzione e commercializzazione che vende (calcoli del presidente della Coldiretti, Roberto Moncalvo) 300 milioni di litri di olio spagnolo sfruttando marchi storici del Made in Italy. L’intera società vale, secondo i suoi nuovi futuri proprietari, 439 milioni. Per un confronto, sempre lungo la linea di faglia tra le economie di Italia e Spagna, salvare l’italianità di Telecom sarebbe costato all’incirca 2,3 miliardi. Fatte le debite proporzioni, quindi, le olive restano comunque affare serio. Siamo noi ad avere lanciato la moda: spaghetti, olio e parmigiano e tutti si vedevano a tavola con Sofia Loren. La Spagna però è di gran lunga il più grande produttore globale. Una volta latifondi e manovalanza, oggi cooperative e clientele politiche. La Spagna produceva e l’Italia imbottigliava. Poi è arrivata la riscossa iberica e la sbadataggine italiana.
Spinte dal credito facile, le imprese iberiche hanno comperato i marchi italiani. Sfruttando il crac Ferruzzi si sono portati a casa Carapelli. Con il crac Cirio, Bertolli. Primo e quarto marchio mondiale. Grazie al mezzo miliardo di debiti di Deoleo, l’olio spagnolo non deve più lasciare il Paese nelle navi cisterna, ma in bottiglia con etichetta italiana e a prezzo pieno. Ne guadagnano produttori e bilancia dei pagamenti. Spagnoli.
Con la crisi del sistema bancario iberico tutto è tornato in discussione. Gli istituti di credito legati ai potentati politici locali sono crollati. La famigerata Bankia salvata con 19 miliardi europei, è costretta a disfarsi delle partecipazioni azionarie, Deoleo inclusa. Così come un’altra nazionalizzata: Bnm. Altre due banche si erano aggiunte alla dismissione, ma poi ci hanno ripensato facendo valere il loro peso (e quello di Madrid) sul futuro assetto del gruppo. L’asta era stata deludente con offerte inferiori al prezzo corrente delle azioni. In lizza anche una cordata costituita dal Fondo Strategico Italiano e dal fondo del Qatar contro la quale si sono puntate le attenzioni politiche spagnole. Il prezzo più alto è stato proposto da Cvc, un fondo inglese, e in tarda serata il Consiglio di amministrazione Deoleo ha scelto di accettare comunque la magra offerta britannica. In cambio Cvc Capital Partners avrebbe dato assicurazioni a Madrid di non dividere la società in pezzetti e non sottrarre alla regia spagnola il ciclo dell’olio, dall’albero al supermercato. Gli italiani mancata questa prima finestra per rientrare in gioco, potrebbero non trovarne altre per molti anni a venire. «Ne parlerò con il mio amico Rajoy», ha promesso Renzi. Probabilmente è tardi. La faccenda, per sua natura, è scivolata via in fretta.

il Fatto 11.4.14
Il cimitero fantasma
L’isola dei morti invisibili nel cuore di New York
di Angela Vitaliano


New York Seconda stella a destra e poi dritto fino al mattino. Così, Peter Pan arriva all’Isola che non c’è, dove vive con i suoi “amici bambini” che, come lui, non cresceranno mai. Anche a New York, c’è un isola che pochissimi possono dire di conoscere, un piccolo lembo di terra al largo del Bronx, dove si trovano migliaia di bambini che non diverranno mai grandi. Hart Island (l’“isola del cuore”, ndr), è il cimitero comune che ospita circa un milione di morti, senza nome, famiglia, identità e nemmeno il diritto a un segno che aiuti a ritrovarne, eventualmente, la tomba.
Fosse comuni accolgono ogni anno, circa 1500 nuovi cadaveri: gli adulti vengono “raggruppati” in gruppi di 150 e i bambini in migliaia: se ci si inginocchiasse a pregare, si pregherebbe, insieme, per tantissimi altri. Dal 1868, questo lembo di terra, un tempo carcere, poi manicomio, poi deserto, accoglie tutti quelli che, altrimenti, non avrebbero sepoltura: i bambini nati morti i cui genitori non possono permettersi un funerale, i senza tetto o, semplicemente, coloro i cui cadaveri nessuno reclama e che, dopo qualche settimana di obitorio, devono trovare una “destinazione”.
DAL 1976, QUANDO HART ISLAND fu affidata alla gestione del Department of Corrections, in quanto ex carcere, l’accesso al sito è stato vietato, impedendo a genitori o parenti di andare a visitare le tombe dei propri cari. Per circa 30 anni, dunque, fino al 2007, protetta dalla sua inaccessibilita’, l’isola è sembrata davvero scomparire dalla geografia e dall’immaginario dei newyorchesi molti dei quali si sono convinti che ormai lì non ci fosse più nulla.
Anno dopo anno, invece, i detenuti di Riker’s Island (il carcere dove fu imprigionato anche Dominique Strauss-Kahn), hanno continuato a scavare fosse, per pochi centesimi di guadagno, per dare sepoltura ai tanti cadaveri senza nome. Sono loro, i detenuti, che, a volte, lasciano un segno su quelle fosse comuni, qualcosa che possa, in qualche modo, cancellare un po’ di quella disperazione e di quella desolazione.
Se ci si avvicina in barca, si scorgono dei cilindri di plastica bianca, uno a poca distanza dall’altro, come pali della luce senza fili: ciascuno di quei cilindri è il segno di mille corpi di bambini che in comune hanno il non essere mai nati veramente o di essere morti troppo presto e troppo poveri. Solo dal 2007, dopo pressioni esercitate da tanti familiari, le autorità penitenziarie hanno cominciato a consentire l’accesso all’isola, una volta al mese, scortati dalle guardie e senza poter portare telefoni o altro materiale elettronico.
Un conforto che, però, è solo relativo: ai visitatori non è consentito l’accesso alle fosse vere e proprie ma solo a dei gazebo situati poco distante dall’attracco. Un incendio nel 1977 ha fra l’altro distrutto gran parte dei segnali per localizzare i siti di sepoltura, ma The Hart Island Project, associazione nata proprio per ricostruire la memoria storica dell’isola e fare pressione affinché possa essere affidata al Dipartimento dei Parchi, così da poterla recuperare e aprirla al pubblico, è riuscita, in questi anni, a risalire ai dati di almeno 60mila siti. Molti si rivolgono all’Associazione in cerca di aiuto e sono almeno 500 i familiari che sono riusciti a localizzare i propri cari che vorrebbero visitare più spesso e senza aver la sensazione di andare in una prigione. “L’accesso all’isola – conferma una voce al telefono, alla richiesta di recarci a Hart Island – è consentito solo per gli ‘addii’”.

Corriere 11.4.14
La scommessa di Cameron
Un figlio d’immigrati alla Cultura
di Fabio Cavalera


Divisi e impauriti dall’onda populista dell’Independence Party di Nigel Farage, i conservatori mettono in rampa di lancio una nuova «stella»: quella di un musulmano, figlio di un emigrato arrivato nel Regno Unito con una sola sterlina in tasca, poi conducente di autobus. David Cameron, in crisi di consensi, ha nominato il quarantaquattrenne Sajid Javid ministro della Cultura e delle Pari opportunità al posto di Maria Miller costretta alle dimissioni per avere aggirato le regole sulle note spese parlamentari (5.800 sterline). Un avvicendamento necessario ma che, al di là della formalità, ha un significato di un certo rilievo. Sajid David è la sintesi del «nuovo» tory. Non il tory che esce dalla upper class, dall’aristocrazia, dai circoli etoniani o oxoniani. E non è il tory bianco, inglese doc e supponente. È un asiatico, è l’ex studente discriminato che alla fine del liceo i professori non pensavano fosse in grado di frequentare l’università, l’ex ragazzo di una famiglia che abitava in Stapleton Road a Bristol, una delle strade più violente dell’Inghilterra. Insomma, un proletario che però a vent’anni si dichiarava supporter di Margaret Thatcher. È un conservatore anomalo che si è fatto da solo fino a diventare banchiere, il più giovane vicepresidente (a 24 anni) della Chase Manhattan Bank e successivamente direttore della Deutsche Bank. Nel 2010 ha rinunciato a tre milioni di sterline di stipendio (lui ex povero) per le 150 mila sterline di Westminster. Ha sostenuto la legge sui matrimoni gay, è moderatamente europeista e contrario agli estremismi anti-immigrati. Eppure si professa seguace della Lady di Ferro della quale tiene la foto appesa dietro la scrivania. È la scommessa dei tory. Per risalire la china, specie in vista delle elezioni politiche del 2015.

il Fatto 11.4.14
La ricetta dei “migliori” per l’Ungheria anti-Ue
Il partito xenofobo Jobbik vince nelle aree più depresse del paese. “Basta col il liberismo e i rom”, così si prepara a trionfare alle europee
di Maria Elena Scandaliato


Miskolc (Ungheria). Miskolc sembra un paesone, immersa tra colline ricoperte di betulle. Eppure è la quarta città dell’Ungheria, capitale di quel Nord Est duro che si sente lontano da Budapest e dalle sue luci mitteleuropee. Prima dell’89, qui vivevano 210mila ungheresi; oggi se ne contano appena 160mila. “Non c’è più niente, quaggiù. Stanno emigrando tutti”, taglia corto Peter, militante della locale sezione degli Jobbik. Il “partito nero” (letteralmente “per un’Ungheria migliore”) domenica ha conquistato il 20,5% dei voti, e Miskolc è una delle sue roccaforti. Il suo candidato locale – Zoltan Pakusza – è rimasto in testa fino all’ultimo (con il 30,58% dei consensi), per essere superato di un soffio dall’uomo della coalizione democratica (con il 31,6%) e da quello di Fidesz (con il 30,8%).
“In epoca socialista, a Miskolc c’erano tante fabbriche. Oggi sono tutte chiuse”. Peter mostra un enorme stabilimento industriale, ricoperto di ruggine. “Questa fabbrica produceva ferro. La terra, qui, è ricca di metalli, e si estraeva il necessario per tutta l’Ungheria”, continua Peter. Nel quartiere vicino decine di bambini sporchi e scalzi ma gioiosi. Tutti Rom, come il resto degli abitanti della zona. “Qui una volta vivevano i 13mila operai. Sono andati tutti via. Il governo ha portato gli zingari, che sono il vero problema di Miskolc”. Peter li guarda come fossero alieni, spiegandoci che “non vogliono integrarsi, e rifiutano di lavorare perché tanto li mantiene lo Stato”. Loro, i Rom, sembrano tranquilli. Ciononostante, uno dei cavalli di battaglia di Jobbik è proprio la lotta alla comunità zigana, tanto che i consensi salgono proprio nelle zone ad alta densità Rom. Sembra di ascoltare gli slogan della Lega Nord: stessa rabbia, stesse argomentazioni. I “Cigany” sono la valvola di sfogo a ben altre frustrazioni. Lo stesso candidato di Jobbik Pakusza non naviga nell’oro: insegna storia e geografia in un istituto tecnico, e guadagna 400 euro (lo stipendio medio è attorno ai 500) al mese; un salario bassissimo, se consideriamo che il costo della vita non è troppo dissimile da quello italiano.
MARTON GYONGYOSI, numero due dei Jobbikos, sostiene che “le accuse di antisemitismo servono solo a screditarci. Siamo contro lo stato di Israele, che massacra i bambini in Palestina, non contro gli ebrei”. In effetti, non abbiamo visto svastiche; è evidente che Jobbik, ormai terza forza politica, vuole eliminare dalla propria immagine ogni connotazione di impresentabilità. “Il nostro nemico è il liberismo, che negli ultimi 24 anni ha svenduto l’economia”. Gyongyosi racconta che prima dell’89 l’Ungheria riforniva di zucchero tutta l’Europa dell’est, con 12 zuccherifici. Con le privatizzazioni, gli impianti sono stati acquistati da una multinazionale francese, che ha lasciato fallire tutto per far largo alla propria produzione. Idem nell’industria degli insaccati (“Da 10 milioni di maiali, oggi se ne alleva appena un milione”) e in quella dell’olio di girasole. “Noi vogliamo un governo che protegga gli interessi dell’Ungheria, non fabbriche straniere che ci sfruttino”. Per questo Jobbik è contro l’Ue: “Vogliamo un referendum per uscire dall’Ue, perché lo vogliono gli ungheresi. Vedrete che dopo le elezioni per il Parlamento europeo sarà chiaro a tutti”.

La Stampa 11.4.14
Ungheria, nel paese degli Jobbik
“Noi veri patrioti, via i traditori”
Inquadramento militare per gli attivisti del partito Jobbik
A Miskolc il partito xenofobo oltre il 30%. Gli ebrei: ora abbiamo paura
di Andrea Sceresini


Miskolc è una grigia cittadina di provincia, a mezz’ora di auto dal confine slovacco. Conta 170 mila abitanti, raccolti attorno a un’ampia distesa di fabbriche dismesse. Tra il 1945 e il 1989, questo era il centro nevralgico dell’industria metallurgica ungherese.
C’erano le immense acciaierie «Lenin», che oggi deturpano la città con le loro torrette arrossate di ruggine. Negli ultimi 25 anni la disoccupazione è salita alle stelle, mentre le vecchie case degli operai sono state destinate alle famiglie rom. Se si vogliono comprendere le ragioni del clamoroso trionfo dell’estrema destra magiara, bisogna partire da posti come questo.
La storia di un trionfo
A Miskolc, nelle elezioni del 6 aprile, il partito Jobbik ha ottenuto il 30,6% dei voti, sfiorando il sorpasso sul Fidesz di Viktor Orbàn. Un risultato eclatante, in un Paese dove un cittadino su due ha votato per il premier uscente: «Da queste parti la politica tradizionale ha palesemente fallito - racconta il dirigente locale del partito, Zoltán Pakusza, di professione insegnante -. Dopo la caduta del Muro i giovani hanno cominciato ad andarsene. Non c’è più lavoro e il salario medio è di 300 euro al mese. La colpa è di chi ci ha governati in questi ultimi due decenni: il centrosinistra prima e il centrodestra poi. Noi rappresentiamo l’unica voce non compromessa: per questo la gente ci vota».
Sulle pareti della piccola sede di Jobbik spiccano due grandi quadri: c’è il ritratto dell’ammiraglio Miklós Horthy, il reggente filofascista che governò il Paese dal 1920 al 1944, e c’è la cartina della «Grande Ungheria», la super-nazione che andava dalla Croazia alla Transilvania, sogno proibito del nuovo sciovinismo magiaro.
Nasce qui, nelle lande più estreme e povere del Paese, la micidiale mistura di nazionalismo populista, anti-europeo e xenofobo.
«Cambiare regime»
Dopo aver sfondato la soglia del 20% alle recenti elezioni politiche, Jobbik punta ancora più in alto: «Nel 2018 conquisteremo il governo», ha promesso il leader Gàbor Vona. Nel frattempo, il 25 maggio, ci saranno le elezioni europee e l’estrema destra magiara insegue un nuovo trionfo. Le parole d’ordine sono sempre le stesse: no alle direttive di Bruxelles, no allo strapotere della finanza, no all’immigrazione; sì alle piccole imprese del territorio, alla costruzione di nuovi alloggi per le famiglie e alla creazione di una Gendarmeria nazionale, sul modello delle milizie brune degli Anni 40. «Non vogliamo un cambio di governo - dicono i dirigenti dell’organizzazione -, vogliamo un cambio di regime. Ed è per questo che facciamo paura».
L’ombra dell’antisemitismo
Ma ovviamente c’è anche dell’altro. Ci sono, ad esempio, le manifestazioni per l’uscita dell’Ungheria dall’Ue, che furono convocate nel 2012 e si conclusero con uno spettacolare rogo di stendardi blustellati. C’è il grande scandalo dei raid anti-rom, che tra il 2008 e il 2009 portarono all’assassinio di sei gitani e i cui responsabili, condannati dal tribunale di Budapest, erano tutti simpatizzanti Jobbik. Ci sono le «bravate» della Magyar Gárda, la milizia legata al partito, accusata di violenze e pestaggi, che è stata sciolta nel 2008 e poi rifondata con un nuovo nome. E ancora, ci sono le continue dichiarazioni antisemite, che hanno più volte suscitato le proteste della comunità ebraica.
Nel novembre del 2012, uno dei leader di Jobbik, il deputato Márton Gyöngyösi, dichiarò in parlamento che gli ebrei «sono un pericolo pubblico» e che i suoi colleghi di origine israelitica «andrebbero censiti».
«Noi non siamo pregiudizialmente antisemiti, e neppure anti-rom - spiega oggi lo stesso Gyöngyösi -. I nostri nemici sono tutti coloro che agiscono contro l’interesse nazionale, la sicurezza e il bene comune».
Parole che fanno paura. Lily Làszlò ha 85 anni: si è trasferita a Budapest al ritorno da Auschwitz. È ebrea, e ultimamente, quando legge i giornali, spesso scuote la testa. «Ai miei figli lo dico sempre che anche allora, tutto cominciò così...».
Miskolc è una grigia cittadina di provincia, a mezz’ora di auto dal confine slovacco. Conta 170 mila abitanti, raccolti attorno a un’ampia distesa di fabbriche dismesse. Tra il 1945 e il 1989, questo era il centro nevralgico dell’industria metallurgica ungherese.
C’erano le immense acciaierie «Lenin», che oggi deturpano la città con le loro torrette arrossate di ruggine. Negli ultimi 25 anni la disoccupazione è salita alle stelle, mentre le vecchie case degli operai sono state destinate alle famiglie rom. Se si vogliono comprendere le ragioni del clamoroso trionfo dell’estrema destra magiara, bisogna partire da posti come questo.
La storia di un trionfo
A Miskolc, nelle elezioni del 6 aprile, il partito Jobbik ha ottenuto il 30,6% dei voti, sfiorando il sorpasso sul Fidesz di Viktor Orbàn. Un risultato eclatante, in un Paese dove un cittadino su due ha votato per il premier uscente: «Da queste parti la politica tradizionale ha palesemente fallito - racconta il dirigente locale del partito, Zoltán Pakusza, di professione insegnante -. Dopo la caduta del Muro i giovani hanno cominciato ad andarsene. Non c’è più lavoro e il salario medio è di 300 euro al mese. La colpa è di chi ci ha governati in questi ultimi due decenni: il centrosinistra prima e il centrodestra poi. Noi rappresentiamo l’unica voce non compromessa: per questo la gente ci vota».
Sulle pareti della piccola sede di Jobbik spiccano due grandi quadri: c’è il ritratto dell’ammiraglio Miklós Horthy, il reggente filofascista che governò il Paese dal 1920 al 1944, e c’è la cartina della «Grande Ungheria», la super-nazione che andava dalla Croazia alla Transilvania, sogno proibito del nuovo sciovinismo magiaro.
Nasce qui, nelle lande più estreme e povere del Paese, la micidiale mistura di nazionalismo populista, anti-europeo e xenofobo.
«Cambiare regime»
Dopo aver sfondato la soglia del 20% alle recenti elezioni politiche, Jobbik punta ancora più in alto: «Nel 2018 conquisteremo il governo», ha promesso il leader Gàbor Vona. Nel frattempo, il 25 maggio, ci saranno le elezioni europee e l’estrema destra magiara insegue un nuovo trionfo. Le parole d’ordine sono sempre le stesse: no alle direttive di Bruxelles, no allo strapotere della finanza, no all’immigrazione; sì alle piccole imprese del territorio, alla costruzione di nuovi alloggi per le famiglie e alla creazione di una Gendarmeria nazionale, sul modello delle milizie brune degli Anni 40. «Non vogliamo un cambio di governo - dicono i dirigenti dell’organizzazione -, vogliamo un cambio di regime. Ed è per questo che facciamo paura».
L’ombra dell’antisemitismo
Ma ovviamente c’è anche dell’altro. Ci sono, ad esempio, le manifestazioni per l’uscita dell’Ungheria dall’Ue, che furono convocate nel 2012 e si conclusero con uno spettacolare rogo di stendardi blustellati. C’è il grande scandalo dei raid anti-rom, che tra il 2008 e il 2009 portarono all’assassinio di sei gitani e i cui responsabili, condannati dal tribunale di Budapest, erano tutti simpatizzanti Jobbik. Ci sono le «bravate» della Magyar Gárda, la milizia legata al partito, accusata di violenze e pestaggi, che è stata sciolta nel 2008 e poi rifondata con un nuovo nome. E ancora, ci sono le continue dichiarazioni antisemite, che hanno più volte suscitato le proteste della comunità ebraica.
Nel novembre del 2012, uno dei leader di Jobbik, il deputato Márton Gyöngyösi, dichiarò in parlamento che gli ebrei «sono un pericolo pubblico» e che i suoi colleghi di origine israelitica «andrebbero censiti».
«Noi non siamo pregiudizialmente antisemiti, e neppure anti-rom - spiega oggi lo stesso Gyöngyösi -. I nostri nemici sono tutti coloro che agiscono contro l’interesse nazionale, la sicurezza e il bene comune».
Parole che fanno paura. Lily Làszlò ha 85 anni: si è trasferita a Budapest al ritorno da Auschwitz. È ebrea, e ultimamente, quando legge i giornali, spesso scuote la testa. «Ai miei figli lo dico sempre che anche allora, tutto cominciò così...».

Corriere 11.4.14
Nel braccio di ferro sull’Ucraina a vincere è la Cina, non la Russia
di Ian Bremmer


Dopo l’annessione russa della Crimea, l’imposizione di sanzioni da parte di America ed Europa, e con la minaccia d’una nuova escalation in Ucraina, irrompe sulla scena internazionale geopolitica l’evento più drammatico dall’ 11 settembre. Gli ultimi sviluppi in Ucraina rappresentano il punto di svolta. I rapporti tra Washington e Mosca erano già tesissimi, ma oggi che la Russia è stata sospesa dal G8 e con nuove sanzioni in arrivo, le comunicazioni si sono completamente interrotte. Si profilano all’orizzonte, inevitabilmente, varie forme di conflitto Est-Ovest, con preoccupanti ripercussioni sia per la sicurezza in Europa, la stabilità in Russia, il futuro dell’Unione Europea e della Nato, sia per i mercati energetici globali. Ma sebbene, con ogni probabilità, le tensioni siano destinate ad aggravarsi, non esistono analogie che possano far pensare a una nuova Guerra fredda, né la situazione attuale rischia di riproporre l’antico scenario. E i motivi sono molteplici.
Innanzitutto, la Russia non ha amici potenti, né la capacità di assicurarsene di nuovi. Quando l’assemblea generale delle Nazioni Unite ha votato sulla legittimità dell’annessione russa della Crimea, solo dieci Paesi si sono schierati con la Russia. Il sostegno è arrivato dai Paesi confinanti, soggetti alle pressioni russe (Armenia e Bielorussia) e da vari Stati-canaglia che non godono d’alcun prestigio internazionale (Cuba, Corea del Nord, Sudan, Siria, Zimbabwe). Aggiungete una manciata di Paesi simpatizzanti — per antica tradizione — in America latina (Venezuela, Bolivia e Nicaragua) e appare chiaro che alla Russia manca ormai la capacità d’attrazione ideologica della vecchia Unione Sovietica. I suoi sostenitori sono accomunati soprattutto nel condividere il malcontento verso l’ordine globale prestabilito, piuttosto che il miraggio d’eventuali soluzioni alternative proposte dalla Russia.
Inoltre, il Pil russo è salito appena dell’ 1,3 per cento lo scorso anno e la crescente dipendenza del Paese dalle esportazioni di risorse naturali assicura che l’economia non migliorerà, se non in vista d’un futuro aumento dei prezzi globali. Nel 2007, alla Russia bastava il prezzo del Brent di 34 dollari al barile per pareggiare il bilancio federale; cinque anni dopo, quella cifra era arrivata a 117 dollari. L’anno scorso, petrolio e gas costituivano circa la metà delle entrate del governo russo. Ad aggravare la situazione, l’economia è controllata da un piccola élite la cui esistenza è legata alle simpatie di Putin. Più d’un terzo della ricchezza totale del Paese è in mano a soli 110 multimiliardari.
Malgrado il suo arsenale nucleare, soggetto alla vecchia regola di distruzione reciproca assicurata, che costituiva l’ago della bilancia tra gli armamenti americani e sovietici, alla Russia manca tuttavia la capacità militare dell’Unione Sovietica. Oggi gli Stati Uniti spendono circa otto volte quello che la Russia può elargire alle sue forze armate. La Russia può permettersi di flettere i muscoli per intimorire i suoi vicini, ma non è più in grado di sfidare il mondo come faceva un tempo l’Unione Sovietica.
La limitazione fondamentale della Russia è la mancata disponibilità della Cina a trasformarsi in un alleato affidabile contro l’Occidente. Pechino ha ben poco da guadagnare, schierandosi in questo conflitto. Pure sperando d’accaparrarsi una fetta maggiore delle esportazioni energetiche russe, la Cina non ha alcun interesse a inimicarsi i suoi principali partner commerciali, come l’Europa e l’America, a favore di Mosca. Anzi, la Cina potrebbe rivelarsi il principale (se non l’unico) vincitore nell’attuale crisi ucraina. Mentre l’Europa s’affretta a cercare alternative per ridurre la sua dipendenza dal gas russo, i cinesi sanno di poter spuntare prezzi più favorevoli, mantenendo al contempo relazioni pragmatiche con entrambe le parti. La Cina inoltre è ben contenta che l’attenzione americana in questo frangente sia puntata sull’Europa (e non sull’Asia) orientale. La Cina si muoverà con molta cautela quando la Russia proverà a scatenare una crisi secessionista in Ucraina, poiché s’oppone strenuamente a qualsiasi precedente che possa suscitare simili rivendicazioni d’autonomia nelle sue province più turbolente, quali il Tibet e lo Xinjiang.
In mancanza di una nuova Guerra fredda, la Russia proverà a sabotare i piani di politica estera occidentali. La Russia potrebbe incoraggiare il governo di Bashar Assad in Siria a ignorare le richieste occidentali di distruggere o consegnare i suoi arsenali chimici e potrebbe elargire nuovi aiuti finanziari e militari al suo regime. Ma Assad ha già guadagnato abbastanza terreno per sopravvivere alla guerra civile in Siria e c’è ben poco che la Russia possa fare per rimettere in piedi quel Paese disastrato. La Russia potrebbe inoltre provare a far saltare i negoziati sul programma nucleare iraniano. Ma non sarà facile per Mosca persuadere Teheran a ritirarsi da un accordo che l’Iran va attivamente cercando per poter ricostruire la sua economia interna, e la Russia non vuole certo scatenare una corsa agli armamenti nucleari in una zona, il Medio Oriente, assai più vicina ai suoi confini che non agli Stati Uniti. In breve, la Russia resta una potenza regionale (raccomandiamo tuttavia al presidente Obama di astenersi dal fare simili dichiarazioni in pubblico!).
(traduzione di Rita Baldassarre)

Il Sole 11.4.14
Pechino. Vendite estere in calo del 6,6%
In Cina a marzo nuova caduta delle esportazioni
di Rita Fatiguso


PECHINO. Dal nostro corrispondente
Quello dell'import-export è, ormai, l'indicatore che crea più patemi d'animo al Governo cinese. Dopo aver più volte fatto i capricci almeno in due momenti, con i picchi anomali di maggio e novembre 2013, a marzo 2014 l'export cinese ha registrato un crollo del 6,6%, scendendo a 170,11 miliardi di dollari.
Le importazioni sono calate dell'11,3 e il volume del commercio estero, nel complesso, è andato sotto del 9 per cento. La bilancia commerciale è tornata a segnare un surplus di 7,71 miliardi di dollari dopo aver incassato un sorprendente deficit di 22,98 miliardi del mese precedente.
Il verdetto delle dogane cinesi, anche questa volta, si trascina dietro polemiche a non finire, e tutto ciò a pochi giorni dal varo del mini-pacchetto di stimolo benedetto dal premier Li Keqiang come misura per far ripartire l'economia, inclusi nuovi fondi per case popolari, tagli fiscali e sostegno alla costruzione di nuove tratte ferroviarie.
Niente a che vedere con il maxi-piano del 2008, rivelatosi un clamoroso boomerang, in grado di favorire corruzione e sovracapacità produttiva in settori chaive come l'acciaio, il cemento, il solare, ma se il commercio con l'estero non va, ovviamente, l'economia ne risente e, allora, non c'è pacchetto di stimolo che tenga.
Un anno fa la crescita eccessiva a doppia cifra dell'import-export era stata imputata al fenomeno della sovrafatturazione orchestrata per favorire i capital inflows, e un chiaro segnale era arrivato dai movimenti su Hong Kong. A metà anno, la stretta del Governo aveva portato a un crollo dei valori registrati dalle dogane e al ripristino di una situazione di quasi normalità.
Tra i motivi addotti per giustificare il calo di marzo ci sono, di volta in volta, la debolezza dei consumi americani, i numeri gonfiati dell'anno scorso, i costi delle materie prime. Al netto dei dati alterati, le esportazioni potrebbero però riprendersi del 5-8 per cento, ma molto dipenderà da altri indicatori. Ma è evidente che diventa sempre più difficile imputare queste drastiche oscillazioni a fenomeni estranei alle dinamiche della bilancia commerciale: a gennaio-febbraio il Capodanno cinese ha portato a valori molti bassi e anche le statistiche dei due mesi sono state accorpate per cercare di spiegare il fenomeno. A marzo, ancora un crollo repentino, ma stavolta il Capodanno non c'entra.
La situazione non è rosea se la People's Bank of China ha ripreso a iniettare liquidità nel mercato dopo una sfilza di otto settimane di rigore assoluto. Lo yuan è ancora svalutato, Pboc ha tagliato il tasso di riferimento della moneta di Pechino dello 0,03%, sul finale di giornata lo yuan è calato dello 0,19 per cento, il massimo dal 25 marzo, e ieri a chiuso a 6,2125 sul dollaro a Shanghai.

Il Sole 11.4.14
Combustibili. In marzo Pechino esportatrice netta di carburanti
Arriva la benzina made in China
di S. Bel.


Dopo gli Stati Uniti, anche la Cina in prospettiva potrebbe diventare un temibile concorrente per le raffinerie europee. Per la prima volta da gennaio 2010 – e soltanto per la terza volta in dieci anni – Pechino ha esportato più carburanti di quanti non ne abbia importati. Non si tratta ancora di grandi numeri, ma la tendenza secondo molti analisti è destinata a continuare, considerato l'eccesso di capacità di raffinazione che si profila nel Paese asiatico, dove si continuano a costruire impianti, a fronte di una domanda interna che per ora resta asfittica (si veda Il Sole 24 Ore del 14 marzo).
I dati ancora provvisori sulla bilancia commerciale in marzo indicano che l'export di prodotti raffinati (per ora non dettagliato per singoli prodotti) è stato di 650mila barili al giorno, in rialzo del 3,4% rispetto a un anno prima. L'import è invece crollato del 24,3% a 560mila bg, il minimo da agosto 2012.
Anche le importazioni di greggio stanno di nuovo rallentando, dopo il rimbalzo di inizio anno: in marzo sono state pari a 5,5 milioni di bg, in calo dell'8,8% rispetto al mese precedente. Gli acquisti dall'estero avevano superato 6 mbg per tre mesi consecutivi, da dicembre 2013 a febbraio 2014, ma l'anno scorso avevano dimostrato un'inusuale debolezza, legata presumibilmente al rallentamento dell'economia cinese.
Dopo anni di crescita a due cifre percentuali, i consumi petroliferi del gigante asiatico nel 2013 sono aumentati di appena l'1,6%, ossia di 150mila bg: il tasso più basso da almeno 22 anni. Non ci sono indicazioni di un miglioramento, su questo fronte, ed è molto probabile che sia questo il motivo per cui i carburanti «made in China» hanno cominciato a riversarsi sui mercati internazionali.

Sette del Corriere 11.4.12
Il carteggio inedito tra Himmler e la moglie

Le dolci lettere del “papino” sterminatore
Lui le scrive «caro tesorino». Marga, anche lei nazista militante, lo chiama «buono e adorato». E lo scusa per il suo «enorme lavoro da fare»

di Diego Gabutti
qui

Sette del Corriere 11.4.12
Max Stirner, il precursore dimenticato
Anticipò Nietzsche, piaceva al Duce ma anche a Camus: il flosofo tedesco ora è riscoperto per la sua modernità

di Diego Gabutti
qui

La Stampa 11.4.14
L’Europa dell’Euro sul lettino del dottor Freud
Conferenza annuale della Federazione Europea di psicoanalisi al Lingotto di Torino: uno sguardo alla società «frantumata»
di Egle Santolini


Psicoanalisti a convegno, al Lingotto, da stamattina. Per rispettare la precisione nell’uso delle sigle che i seguaci di Freud esigono, si tratta della 27ma Conferenza annuale della Fep, Federazione Europea di Psicoanalisi, fondata dalla figlia ed erede di Sigmund, Anna Freud, e formata da una quarantina di Società da tutto il continente, oltre che da Australia e Israele. Il tema attorno al quale si discute è «Rotture»: programmaticamente neutro e polisemico, proprio per essere esaminato nel modo più ampio e ricco.
Una rottura non è per forza un male e anzi può essere l’inizio di una nuova storia. Siccome di traumi (anche) si parla, e a farlo sono gli analisti europei, non ci si è sottratti però a un argomento caldissimo. Il lussemburghese Serge Frisch e la svedese Franziska Ylander, presidente e vicepresidente della Fep, ricordano come «raramente l’Europa, almeno quella occidentale, abbia conosciuto un periodo di pace e di sviluppo così lungo»; ma come oggi «questo lungo periodo appaia frantumato, e con esso ne risentano interi settori dell’organizzazione economica, politica e sociale. Frantumati la promessa di una vita migliore, il sogno dell’integrazione dei migranti, spesso anche la speranza di risolvere i conflitti attraverso il dialogo democratico. L’unione europea vacilla, e unione è l’antonimo della parola “rottura”. Il rischio di un’implosione non può essere escluso».
Come si riverbera questo senso di precarietà e di disequilibrio sulla sofferenza dei pazienti? Intanto in una maggiore difficoltà a entrare in analisi, perché la crisi picchia e la disponibilità agli investimenti (ancora in senso polisemico) si riduce. Antonino Ferro, presidente della Spi, la Società Psicoanalitica Italiana, riconosce che «chi voglia sottoporsi a un’analisi propriamente detta, con tre o quattro sedute a settimana, può incontrare serie difficoltà. Molti dei miei colleghi stanno venendo incontro a queste esigenze». Quanto costa in media una seduta? «È come chiedere quanto costa un ponte da un dentista. Parecchi giovani e bravi analisti oggi applicano tariffe molto basse, diciamo pari a una cena in pizzeria».
Ferro rifugge dalle teorizzazioni generali a sfondo psicoanalitico, e se lo porti sul crinale dell’eurocrisi vista dalla stanza dell’analisi si definirà «come un ortopedico che per mestiere aggiusta le ossa. Io, per mestiere, curo la sofferenza psichica. Non leggo nella palla di vetro. Di sicuro esistono elementi di realtà con cui fare i conti. Ma c’è il rischio di esteriorizzare i conflitti, situando il nemico al di fuori di sé: in scala, i cinesi, il venditore ambulante marocchino, il vicino di casa, un membro della famiglia». Dunque bisogna stare attenti a non incolpare di tutti i nostri guai la signora Merkel, o le banche, o l’euro? «Proviamo a immaginare. Se un paziente mi portasse in analisi la propria angoscia sull’euro, magari il desiderio di tornare alla lira, penserei a un problema di svalutazione o di rivalutazione personale. Se raccontasse un sogno sulla disgregazione dell’unità europea, indagherei sulle sue, di istanze di separazione, sui suoi, di aspetti lacerati».
Diverso il punto di vista di David Tuckett, psicoanalista inglese, attento ai temi finanziari visti attraverso la lente freudiana. Il suo intervento al Lingotto, previsto per oggi pomeriggio, s’intitola Ripeteremo il passato? Capire l’eurocrisi e i problemi nel risolverla. Il nesso è dunque ai temi classici della rimozione e della coazione a ripetere: se non lo rielabori, il passato tornerà a farti male; e il riferimento è ancora e sempre alla Seconda guerra mondiale, al sospetto nei confronti di uno strapotere da parte della Germania, alla paura di essere inghiottiti dalla vertigine dei nazionalismi. Le persone intervistate nel corso di una ricerca che Tuckett presenta a Torino, effettuata in collaborazione con George Soros e con l’Institute of New Economic Thinking, evidenziano, ci dice il professore, «una tensione fra la realtà, le aspettative e il senso di delusione che ne è scaturito». In estrema sintesi, i cittadini europei nell’unità e nella moneta unica speravano moltissimo, e quando le cose hanno cominciato a irrancidirsi avrebbero emotivamente accusato l’impossibilità di conciliare la ferrea austerità tedesca con i loro modi di vita. Su tutto aleggia la Schuld, cioè il senso di colpa e di debito insieme che emana dalla Germania postnazista: e a Freud dunque si torna, con un volo ardito.
Ferro si attiene al proprio minimalismo: «Se di Europa volessimo parlare, da psicoanalisti, lo farei dicendo che a Torino sto lavorando in modo splendido con una quarantina di colleghi da tutto il continente, molti dei quali non avevo mai conosciuto prima. Abbiamo appena approvato un articolo del nostro statuto che allarga i confini terapeutici della psicoanalisi, non limitandola più alla cura delle sole nevrosi, ma interessando, per esempio, i pazienti con gravi sofferenze psicosomatiche o i bambini molto piccoli. L’analisi è viva, sta bene e continua ad aiutare le persone. Nel mondo intero».

Corriere 11.4.14
Cesare Segre, il custode del testo che amava curiosare nel passato
La filologia contro il decostruzionismo, che è dissoluzione del sapere
di Pier Vincenzo Melgaldo


La scomparsa di Cesare Segre è stata un colpo durissimo per la civiltà italiana (o quel che ne rimane), e lo è stato per i suoi amici, che sapevano apprezzare la sua finezza d’animo e la sua generosità sotto la scorza della timidezza e del riserbo, e diciamo pure di una scarsa fiducia nel genere umano che non poteva non venirgli dalla sua giovinezza di ebreo perseguitato dai nazifascisti e rifugiato, sempre nel timore che coloro arrivassero per assassinarlo (di questo egli ha toccato nella sua autobiografia, Per curiosità ). Con lui se n’è andato l’ultimo grande maestro delle discipline umanistiche, tanto più tale in quanto aveva sempre saputo accostare e anzi fondere perizia filologica (probabilmente unica), capacità critico-saggistiche e di teorico: il tutto rifinito da una scrittura elegantemente sobria ed essenziale, senza bolle (e infatti ammirata da un uomo come Giulio Einaudi); in mia presenza un giorno Cesare disse che rivedeva ogni suo scritto sei volte: ecco da cosa ne derivava la proverbiale asciuttezza.
La pubblicazione del «Meridiano» a lui dedicato (Cesare Segre, Opera critica, a cura di Alberto Conte e Andrea Mirabile, con un saggio introduttivo di Gianluigi Beccaria, Mondadori), che fece meno tristi i suoi ultimi giorni, mi rallegra anzitutto per una ragione generale: perché è dedicato a uno studioso, iniziativa che se non sbaglio ha preso l’avvio una quarantina d’anni fa col volume di saggi di Roberto Longhi (e curato da Contini) ed è proseguita con altri studiosi, ma non senza lacune (difficile a giustificarsi, mi si lasci dire, quella dello stesso Contini). Ricordo questo per ribadire la mia convinzione che scrittura, invenzione, pensiero di un grande critico non siano di rango e natura inferiori a quelli di un narratore di vaglia. E che meritino, come certo è il caso di Segre, di essere studiati e ristudiati con attenzione.
Se mi chiedessero qual era la caratteristica principale della mens segrina, non so se risponderei come tanti altri e abbastanza ovviamente: la logica imperterrita. Tanto più che per esempio a me pare di cogliere nei suoi procedimenti logici certamente un uso costante delle nette opposizioni binarie ma nello stesso tempo la volontà e capacità di sfumarle, vale a dire arricchirle. Se mi chiedessero dunque quanto appena detto, io non avrei difficoltà a rispondere: la qualità principale di Cesare era la curiosità, madre di tutte le doti intellettuali. Come è ben noto, è questa curiosità quasi senza limiti che lo ha fatto uscire presto dai confini medioevistici della sua disciplina, la filologia romanza, verso, che so, Shakespeare, Kafka, Beckett, Gombrowicz ecc., e dalla narrativa e dalla lirica al teatro, dai mondi presenti ai mondi alternativi e possibili; e stando solo all’italianistica, ecco che Cesare fin dagli anni giovanili ha esplorato non solo la letteratura nella lingua nazionale, ma anche quella nei vari dialetti, da Giotti a Belli a Meneghello al recente Cecchinel. Fuori del Medioevo sono poi alcuni dei saggi che non solo a me paiono tra i suoi più brillanti e originali; quelli sul Don Chisciotte, su Machado, su García Márquez.
Ma la curiosità, a mio avviso, non è solo attrazione per il nuovo, il diverso, l’immaginario nelle più varie direzioni, è anche consapevolezza che non ci si può arrestare ai dati più appariscenti di un problema, ma occorre scavarne concomitanze e anche contraddizioni, e comunque, come dicevo, sfumarlo, arricchirlo. C’è una frase di Cesare che mi piace particolarmente (nel saggio Fra strutturalismo e semiologia, uno dei suoi basilari), ed è questa: «In realtà le cose sono molto più complesse»; e un’altra che mi piace ancora di più (da La natura del testo e la prassi ecdotica ): «Alla domanda “Che cosa costituisce un testo?”... non si dovrebbe rispondere con una definizione (“Il testo è costituito da...”), ma con una serie progressiva di restrizioni alla definizione più generale di enunciato». Cesare si caratterizza in questo libro anzitutto come un critico del testo, ma anche se procede spesso per coppie concettuali ospita una nozione estremamente ricca e complessa di testo, punto di fusione fra diverse spinte, compresa, perché no?, quella dell’autore biografico stesso; e così si batte contro l’idea di una scarsa comunicabilità dei testi medievali, anche perché spesso trasmessi oralmente: questi pure, non c’è dubbio per lui, sono effabili, la distanza da loro può e deve essere colmata (e del resto, la conoscenza non è sempre e solo conoscenza del diverso?). E qui mi azzardo a dire che forse la coscienza vigile della complessità del testo non è poi del tutto lontana dal senso della reversibilità del testo stesso. Ed ecco che anni fa Cesare ci ha regalato un delizioso volumetto di narrativa controfilologica (non saprei come chiamarla) dal titolo di Dieci prove di fantasia, che a me hanno fatto venire in mente un autore che gli dev’essere stato caro, Jean Améry o Hans Mayer, che ha riscritto M adame Bovary dal punto di vista del marito Charles.
Ma è anche vero che questo critico e teorico delle complessità e della sfumatura diventa aspramente polemico verso le concezioni critiche (e a monte concettuali) che gli appaiono irricevibili. Farò due casi: il primo, nel campo filologico-testuale, è la netta opposizione, sulla base di Lachmann, ma anche di Bédier, alla nozione (Guiette, Zumthor) di mouvance, cioè di tradizione testuale diffusa capricciosamente e irriducibile a schemi razionali. Il secondo caso, molto più pesante e che mi sorride ancor più, è lo smontaggio del decostruzionismo specie statunitense (ma prima già della narratologia e nouvelle critique francesi, che ai miei occhi sono il segno non della vitalità di quella grande cultura, ma della sua decadenza); verso il decostruzionismo Cesare ha parole insolitamente ma sacrosantamente dure. Anch’io credo che il decostruzionismo, nella sua fuga dal testo inteso come pretesto, e nella sua mancanza di umiltà, significhi né più né meno che la morte del testo e del suo necessario legame, che ci fa studiosi responsabili, con interpretazioni non arbitrarie. Non stento neppure a credere che in ultima analisi il decostruzionismo sia un risultato della globalizzazione, perché questa apparentemente ci rende tutti uguali o simili, in realtà è un spinta sottile ma potente alla dispersione e falsa libertà degli individui, incapaci ormai di dialogare fra loro e col mondo.
Ora vorrei seguire, grosso modo, le partizioni o riquadri entro cui Cesare ha distribuito la sua scelta di saggi, riassumendone sagacemente il senso in pagine introduttive intitolate «Ragioni di una scelta». Egli ha saggiamente evitato una distribuzione cronologica, ma ha distribuito i suoi contributi per temi: ha anche dichiarato di limitare gli interventi di critica testuale, la «nobile scienza» come la chiama, e tuttavia meno assimilabile dal lettore colto — e qui colpisce l’affinità con le prime righe dell’Introduzione alla filologia romanza di Auerbach dove si afferma che la forma di filologia considerata da molti «la più nobile e autentica» è «l’edizione critica dei testi». Ma bisogna dire che i capitoli di filologia testuale sono più frequenti nel libro di quanto l’introduzione farebbe credere. Il lupo non perde il vizio. Dall’antologia, Cesare ha escluso anche gli interventi di critica «militante», distinguendola da quella «vera e propria»; io però non sono così sicuro che la prima si distingua dall’altra per l’occasionalità, da parte del soggetto, e per l’up-to-date dell’oggetto; sarà piuttosto una questione d’accento, di rapporto col totale della propria personalità, com’era palpabilmente nel caso di Croce? Ma non voglio insistere, se non per notare che qualche intervento militante forse avrebbe arricchito l’ultimo riquadro rappresentato da un solo testo, Etica e letteratura, il cui nesso come sappiamo era da tempo particolarmente caro a Cesare. Tra l’altro per la questione ebraica, e allora si potrebbe rimpiangere l’assenza di pagine dell’autobiografia Per curiosità, se questa non fosse largamente rappresentata dalle ampie citazioni distribuite dai curatori nella «Cronologia»...
Con le parole dell’autore, la scelta di questo «Meridiano» è «una passeggiata nei territori della critica», con preferenza dunque, egli aggiunge, per la «parola del testo» rispetto a «quella della teoria», e ancora egli scrive: «Preferisco considerare quella riflessione [teorica] come una fase importante ma posta ormai, se non tra parentesi, almeno in secondo piano, a vantaggio dell’impegno critico». Verissimo, anche per chi seguiva quasi quotidianamente l’attività di Cesare; solo mi chiedo se non ci sia un rapporto con l’evidente crisi o svuotamento delle novità teoriche che si sono avuti più o meno negli ultimi tre decenni; e tuttavia per quanto lo riguarda personalmente era quasi impossibile un tempo distinguere affondi teorici e affondi critici, o per meglio dire quasi unica di lui era la capacità di risolvere i primi nei secondi. Magari ci si può chiedere come avrebbe difeso Bachtin, da lui sempre più seguito negli ultimi anni, dal robusto attacco mossogli da un altro maestro, Francesco Orlando, in un numero recente di «Allegoria». Ma è giusto che uno studioso di questo calibro ci lasci delle domande, come ci ha lasciato chissà quante certezze e stimoli per tutti noi, che ora lo rimpiangiamo e lo ringraziamo per il tanto che ha fatto a nostro beneficio.

Repubblica 11.4.14
Addio a K.S.Karol dissidente generoso
Polacco, giornalista, aveva 90 anni. Fuggì i nazisti e gli stalinisti
di Wlodk Goldkorn



K.S. Karol ha sempre creduto nella possibilità, anzi nella necessità di costruire «il socialismo dal volto umano», un comunismo diverso da quello sovietico. Questa convinzione è stata la sua forza, ma anche, il limite. Era nato nel 1924, in Polonia, a Lodz. È morto ieri a Parigi, dopo anni di malattia. È stato compagno di vita e di molte battaglie di Rossana Rossanda.
Con lei ha condiviso l’impegno giornalistico sulle pagine del Manifesto.
In realtà K. S. Karol si chiamava Karol Kewes. Il padre era commerciante a Rostov in Russia, ma si trasferì in Polonia con la moglie per fuggire dai bolscevichi. Bilingue, Karol ha sempre amato la cultura e la letteratura russe. Ma, frequentando scuole cattoliche, era diventato un patriota polacco. Allo scoppio della seconda guerra mondiale si arruolò nell'esercito per combattere i nazisti. Ecco: il coraggio, non solo intellettuale, ma prima di tutto fisico è una caratteristica che Karol ha preservato durante tutta la vita.
E siccome non voleva vivere sotto l'occupazione tedesca, fuggì in Urss.
Parlava con troppa libertà e finì deportato in Siberia. Fuggì. Si arruolò nell'Armata rossa. Venne ferito. Poi di nuovo imprigionato in un campo di lavoro e infine mandato a fare l'operaio in fabbrica. Quel periodo lo ha descritto in un libro bellissimo, Solik( Einaudi). Finita la guerra, tornò in Polonia e visto il disastro dello stalinismo, si trasferì in Inghilterra e poi in Francia.
Cominciò la carriera di giornalista e fu tra i fondatori del Nouvel Observateur. Rimase affascinato dalla rivoluzione cubana e dal comunismo cinese.
Non gli piacevano gli eccessi del maoismo, ma ne apprezzava la critica all'Urss.
Rimase sempre legato alla sua Polonia. Un giorno, era il 1979, tornato da un viaggio a Varsavia, raccontava quanto non gli piacesse “la deriva nazionalista” dei dissidenti di sinistra. Ma poi continuò a sostenerli. Perché era generoso, e perché pensava che la libertà fosse comunque il valore più importante.

La Stampa 11.4.14
È morto lo scrittore K. S. Karol
Fu tra i fondatori del “manifesto”


E’ morto ieri a Parigi K. S. Karol, uno dei fondatori del «manifesto», compagno di Rossana Rossanda, a lungo inviato di Le Nouvel Observateur, polacco naturalizzato francese, partigiano, poi grande indagatore e critico dell’Unione sovietica. Karol è stato un intellettuale colto, raffinato, mai allineato su posizioni ortodosse in anni in cui facile non era per niente. Da ragazzo aveva studiato in Unione Sovietica, poi era tornato in Polonia ma aveva riattraversato le linee, sapendo che questo gli avrebbe fatto rischiare la vita, a combattere il regime. Fu ferito, finì ai lavori forzati in Siberia, ne uscì vivo. Un’eco di queste esperienza è in Solik, in cui racconta (anche) le sue vicende a cavallo della seconda guerra mondiale. Scrisse reportage memorabili per il manifesto su Cuba e il Vietnam. E’ considerato un maestro di scrittura al livello di Pintor. Il libro La guerriglia al potere gli valse tra i cubani l’appellativo di «servo della Cia». Si appassionò alla rivoluzione maoista – salvo poi ritrarsene. Dialogava con Fortini e Cesare Cases, denunciò, in un dialogo con Foucault, la tirannide sovietica.

Corriere 11.4.14
Addio al giornalista Kewes Karol com­pa­gno di Ros­sana Rossanda
di A. Car.


Noto in Italia come firma del «Manifesto» e compagno di Rossana Rossanda, Kewes Karol veniva davvero da lontano, anche se Parigi, dove si è spento ieri, era diventata il suo approdo definitivo. Nato nel 1924 nella città polacca di Lódz, aveva vissuto in Polonia e in Urss, aveva conosciuto il Gulag e aveva combattuto nell’esercito di Stalin, per poi narrare quelle avventure nel libro Solik. Peripezie di un giovane polacco nella Russia in guerra (Feltrinelli, 1985). Emigrato in Occidente, si era affermato come giornalista esperto dei Paesi dell’Est ed era stato tra i fondatori della rivista «Le Nouvel Observateur».

Corriere 11.4.14
Francia 1940, l’eclissi della patria
Destra e comunisti minarono l’unità e contribuirono al crollo
di Sergio Romano


Quando scoppiò la Seconda guerra mondiale, nel settembre 1939, Mussolini annunciò che l’Italia sarebbe stata «non belligerante». Credeva che gli eserciti della Germania e degli Alleati si sarebbero confrontati per molto tempo lungo le due grandi linee fortificate — Maginot e Sigfrido — costruite negli anni precedenti, e che l’Italia sarebbe stata libera di gettare il suo peso sul piatto della bilancia nel migliore dei momenti possibili. La drôle de guerre, la buffa guerra che si prolungò stancamente fino al giugno del 1940, lo rafforzò nelle sue convinzioni. Poi improvvisamente, il 10 giugno, i tedeschi invasero l’Olanda, il Belgio e il Lussemburgo, attaccarono a Sedan e nelle Ardenne, ruppero il fronte, inseguirono i francesi e gli inglesi sino a Dunkerque, puntarono su Parigi. L’Europa assistette così al più inatteso degli eventi: lo sbriciolamento di quella che era stata sino ad allora una grande potenza militare. Dove erano i taxi della Marna che avevano portato i soldati al fronte per fermare la grande offensiva tedesca del settembre 1914? Dove erano i generali di Saint Cyr, la più intelligente scuola militare europea? Dov’era la fanteria di Verdun? Discusso e analizzato in migliaia di libri, il collasso dello Stato francese resta ancora una delle vicende più sorprendenti del XX secolo. Il problema, ovviamente, non poteva essere soltanto militare. Per capire le ragioni della disfatta occorreva scavare in altre direzioni, prendere in considerazione altri fattori, culturali e sociali.
Viveva a Parigi, allo scoppio della guerra, un giornalista spagnolo, Manuel Chaves Nogales. Era repubblicano e liberale, ma aveva lasciato la Spagna quando la ferocia del conflitto e le responsabilità di entrambe le parti gli erano parse intollerabili. Aveva scelto Parigi perché la Francia era un baluardo della democrazia, il Paese generoso che aveva accolto gli antifascisti italiani, gli antinazisti tedeschi, i repubblicani spagnoli, i cecoslovacchi mutilati e obliterati dagli accordi di Monaco, i polacchi in fuga, gli ebrei alla ricerca di un rifugio, gli esuli e i proscritti di tutti i regimi dittatoriali. Lavorava per l’agenzia d’informazioni Havas, collaborava con un ministero francese, mandava corrispondenze alla stampa di lingua spagnola nelle Americhe. Ma nel corso del suo soggiorno, a mano a mano che la situazione internazionale andava peggiorando, Nogales aveva capito che all’origine del malessere francese vi erano eventi non troppo diversi da quelli di cui era stato testimone nel suo Paese. In Francia non vi era stata una sanguinosa guerra civile, ma vi erano stati due tentativi rivoluzionari: il primo fra il 1933 e il 1934, quando le Leghe antidemocratiche avevano dato l’assalto allo Stato e investito il palazzo del Parlamento, il secondo nel 1936, quando i socialisti e comunisti del Fronte popolare avevano costituito il governo presieduto da Léon Blum.
I due tentativi rivoluzionari erano egualmente abortiti, ma avevano segnato l’inizio di una guerra civile fredda che stava corrodendo lo spirito nazionale. Per allontanare la minaccia stalinista, una larga parte della società francese era pronta a sacrificare la democrazia. Roma e Berlino, ai suoi occhi, non erano capitali di Stati potenzialmente nemici; erano modelli da invidiare e imitare. Per Charles Maurras, fondatore dell’Action Française, la sconfitta fu una «divina sorpresa». Per molti uomini politici la Francia, dopo la vittoria tedesca, avrebbe trovato un ruolo europeo, creando con l’Italia e la Spagna un blocco mediterraneo. Per coloro che odiavano la Repubblica molto più di quanto odiassero i boches, il problema non era combattere e resistere, ma affrettarsi a perdere la partita per ricominciare a vivere con un altro regime politico.
Nogales non aveva simpatie comuniste, ma fu colpito dal modo in cui i seguaci di Pétain colsero immediatamente l’occasione per regolare i conti con il «nemico interno». I deputati comunisti furono incriminati e i militanti arrestati, mentre Léon Blum, Edouard Daladier e Paul Reynaud venivano processati a Riom nel 1942 per avere dichiarato guerra alla Germania: una farsa che si concluse, dopo qualche mese, senza sentenza. Ma anche i comunisti contribuirono al collasso morale del loro Paese. Sino a quando la Germania hitleriana fu obiettivamente alleata dell’Unione Sovietica, molti dirigenti del partito credettero che la collaborazione con la potenza occupante potesse tornare utile alla loro strategia rivoluzionaria e negoziarono con i tedeschi per qualche settimana la pubblicazione dell’«Humanité». Diventarono patriottici e resistenti soltanto dopo l’invasione tedesca dell’Urss, nel giugno 1941.
Nogales seguì a Bordeaux il governo di Paul Reynaud e lasciò la Francia a bordo di un incrociatore inglese. A Londra, dove visse sino alla morte, continuò fare il mestiere del giornalista. Ma nel 1941 pubblicò a Montevideo un libro (L’agonia della Francia ) che appare ora in Italia da Neri Pozza con una lunga introduzione biografica di Marco Cicala. Non è soltanto un saggio sulle due rivoluzioni abortite. È anche una sorta di bollettino medico scritto al capezzale di un Paese che stava spensieratamente rinunciando alla propria identità e alla propria storica missione. Fortunatamente un’altra Francia, quella di de Gaulle, avrebbe riscattato la Francia del 1940. Nogales, morto a Londra nel 1944, alla vigilia dello sbarco in Normandi, non ebbe la fortuna di vederla.

Il libro: Manuel Chaves Nogales, «L’agonia della Francia», introduzione di Marco Cicala, traduzione di Hado Lyria, Neri Pozza, pagine 185, € 16,50

Repubblica 11.4.14
Ma allora chi ha ucciso Giovanni Gentile?
C’è il killer, c’è la rivendicazione Eppure a 70 anni dall’omicidio del filosofo ecco una nuova pista
di Paolo Mauri



La scena potrebbe essere quella di un film: una macchina con due persone a bordo sta per infilare il cancello di una villa nei pressi di Firenze. Si avvicinano due uomini in bicicletta e fanno cenno di voler parlare al passeggero che, per ascoltarli, abbassa il finestrino: è lei il professore? Alla risposta affermativa uno dei due gli scarica addosso sette colpi di pistola. Il professore è Giovanni Gentile, l’ideologo del fascismo, la villa quella del Salviatino dove il filosofo si è trasferito da quando Roma è diventata per lui pericolosa. E’ il 15 aprile del 1944, settant’anni fa. Gentile ha aderito alla Repubblica Sociale ed è stato nominato presidente dell’Accademia d’Italia.
In un articolo pubblicato dal Corriere della Sera il 28 dicembre del 1943, Gentile avanza una proposta di pacificazione tra gli italiani. L’articolo si intitola Resistere, ma un passo è molto esplicito: non bisogna interrompere la lotta «contro i sobillatori, i traditori, venduti o in buona fede, ma sadicamente ebbri di sterminio». Parla dei partigiani anche senza nominarli esplicitamente e lo ribadisce in una successiva lettera al Corriere. Inquadriamo ora i due ciclisti: uno è Bruno Fanciullacci l’altro si chiama Giuseppe Martini, detto Paolo. Sono due gappisti (Gap vuol dire Gruppo armato patriottico). C’era anche Antonio Ignesti: doveva sparare lui, ma qualcuno lo aveva riconosciuto e dunque s’era messo in disparte. A sparare è stato il solo Martini, che vivrà ancora a lungo mentre Fanciullacci, arrestato e portato a villa Triste, dove il maggiore Carità insieme alle SS tortura i prigionieri, si lancerà dalla finestra il 15 luglio del ‘44. Perché i due gappisti volevano uccidere Gentile e chi aveva dato loro quest’ordine? Luciano Mecacci, studioso di psicologia e storico, ha passato e ripassato quel film alla moviola cercando di ricostruire ogni frammento di una vicenda in apparenza semplice e in realtà molto complessa, tant’è che la sua decifrazione alla quale si erano dedicati nel passato anche Luciano Canfora (La sentenza, Sellerio 1985 e 2005), Paolo Paoletti, Francesco Perfetti, lascia sempre qualche punto scoperto. Comunque La ghirlanda fiorentina di Mecacci (Adelphi) chiarisce parecchi dubbi, costruendo un racconto che è insieme un libro di storia e una sorta di puzzle in cui un numero infinito di voci cercano di far quadrare una difficile verità.
Gentile, portato subito all’ospedale di Careggi, dove lavora il figlio medico Gaetano, non sopravvive all’agguato. Il fascicolo sulla morte del filosofo che dalla questura dovrebbe essere stato riversato all’Archivio di Stato, non si trova più e questo alimenta qualche sospetto. L’unico a sparare fu dunque Martini: una figura sfuggente, per molto tempo ignorata cui ora Mecacci ridà una biografia dettagliata. Ancora in anni recenti, raccontando dell’attentato allo storico Paoletti, Martini (che muore nel 1999) non vuole rivelare quello che accadde negli ultimi due minuti, tra l’uccisione del filosofo e la fuga. Nel 1984 lo scrittore e militante comunista Romano Bilenchi a una precisa domanda di Luciano Canfora risponde che non si saprà mai chi ha sparato davvero.
L’uccisione di Gentile fu comunque rivendicata dai comunisti e deprecata, per la penna di Tristano Codignola, dagli azionisti. C’era stato, in risposta ai tentativi di pacificazione di Gentile, un articolo del latinista comunista Concetto Marchesi corretto da Girolamo Li Causi, che aveva trasformato un anatema in una esplicita condanna a morte. Tutto sembrerebbe semplice, anche se non si conoscono i nomi dei mandanti. Ma spunta un’altra pista di cui dà conto Mecacci. Il tenente Bindo Fiorentini, un ufficiale azionista che si era dato alla clandestinità, raccontò e ribadì anche in tempi molto recenti di essere stato avvicinato da un amico azionista che gli chiese di uccidere Gentile. Fiorentini si rifiutò dicendo che sarebbe stato un assassinio, ma accompagnò l’amico (di cui non volle mai fare il nome) a fare un sopralluogo al Salviatino, dove poi avvenne l’attentato. A complicare le cose ecco spuntare un nome divenuto poi celebre per altre vicende: quello di Licio Gelli. Gelli (nato nel ‘17) era un fascista di fede provata ma era riuscito ad avere appoggi anche dalla parte avversa, come dimostra un lasciapassare degli Alleati che gli consente libera circolazione. Secondo Gelli, intervistato da Mecacci, l’uccisione di Gentile era opera di un gappista esaltato, mentre l’autista non era un semplice autista, ma un appartenente ai servizi segreti fascisti. E qualche ombra c’è anche su di lui. Gentile aveva comunque lasciato scritto che in caso di morte violenta non voleva ci fossero rappresaglie e difatti non ci furono. Ci si limitò ad arrestare e a tenere in cella per diversi giorni alcuni professori universitari (tra cui anche il giurista Francesco Calasso, padre di Roberto e l’archeologo Ranuccio Bianchi Bandinelli).
La testimonianza di Bindo Fiorentini apre un nuovo versante di indagine: e se tutta l’operazione avesse avuto il marchio dei servizi segreti britannici? Secondo Renzo De Felice, «la morte di Gentile fu preceduta da una sequenza di furibondi attacchi del colonnello Stevens da Radio Londra. Che l’idea sia venuta da fuori Italia? Benedetto Gentile, il figlio, fin da allora ha dato credito all’ipotesi che il delitto sia stato suggerito da Londra. Erano tempi in cui bastava una parolina ben detta…». Intanto il 10 aprile era stato prelevato Brunetto Fanelli, segretario di Gentile e suo factotum presso la casa editrice Sansoni che apparteneva al filosofo. La mattina del 15 poco prima di essere a sua volta colpito, Gentile seppe che Fanelli era stato fucilato.
Luciano Mecacci, che dà credito all’ipotesi del coinvolgimento inglese, ha anche messo in luce la figura dello studioso Mario Manlio Rossi: proprio Gentile, che lo conosceva, aveva alluso in una lettera ai suoi (di Rossi) amici che ora lo potevano anche uccidere. L’indizio è labile, ma sta di fatto che Rossi qualcosa combinò con gli inglesi a Firenze e forse fu questo qualcosa a procurargli una cattedra in Scozia dove andò a sostituire l’italianista John Purves. Fu proprio Purves, quando era in Italia, ad annotare su un taccuino, da lui intitolato “Ghirlanda fiorentina” (da lì il titolo del libro di Mecacci) i nomi di molti intellettuali italiani, forse in vista di un loro utilizzo come possibile sponda dei servizi inglesi. Naturalmente di tutto ciò non rimane traccia concreta, né l’inimicizia tra Rossi ed Eugenio Garin prova più di tanto. Garin aveva commemorato Gentile poco dopo l’uccisione, ma pian piano si sarebbe spostato su posizioni comuniste.
Mecacci ricostruisce molto bene le vicende di diversi ex amici di Gentile che al momento opportuno presero le distanze. Antonio Banfi, che aveva pregato Gentile di aiutarlo nella carriera universitaria, dopo la fine della guerra scriveva che la sua era una filosofia da bancarella. In realtà Gentile aveva aiutato molte persone e la loro ingratitudine si misurò a cominciare dai funerali dove le assenze erano forse più vistose delle presenze. Cesare Luporini, in una trasmissione radiofonica degli anni Ottanta dedicata a Garin, disse che forse c’era ancora qualcosa da sapere sull’uccisione di Gentile. Ma Gentile doveva essere giustiziato?.

La Stampa 11.4.14
Neri e Gianna, vittime del lato oscuro della Resistenza
Nel libro di Mirella Serri la storia del comandante partigiano e della staffetta uccisi perché amanti e perché sapevano chi aveva preso l’oro di Dongo
di Marcello Sorgi


Un amore partigiano, forte, disperato, come può esserlo una passione nata nei giorni più tragici della guerra. E un destino terribile, finire vittima della brutalità del fascismo morente, e della violenza irrazionale dei partigiani. La storia di «Neri» e «Gianna», nomi di battaglia del comandante partigiano Luigi Canali della Cinquantaduesima brigata che catturò Mussolini e Claretta Petacci, e della staffetta, «collegatrice», Giuseppina Tuissi, rivive in un saggio di Mirella Serri («Un amore partigiano», pagg. 215, Longanesi, € 16,40), in cui lo spessore dei sentimenti e il rigore dell’analisi storica si fondono in un duro atto d’accusa delle responsabilità della classe dirigente, da Togliatti a Longo alla prima fila dei capi del Pci clandestino, che guidarono la lotta di Liberazione.
Siamo nell’inverno ’44-’45, ultimi mesi della seconda guerra mondiale, in quel fazzoletto di terra attorno a Como in cui Mussolini e la Repubblica di Salò vivono la loro agonia, circondati dalla stretta sorveglianza nazista delle SS e dalla Resistenza dei partigiani clandestini, in un clima di tensione, sospetti e doppi giochi che a un certo punto non consente davvero a nessuno di fidarsi di nessuno.
Luigi Canali, impiegato già a sedici anni della Società Funicolare Como-Brunate, è un campione atletico, collezionista di medaglie, alto, forte, attraente, gran lettore di Marx, Proudhon, Turati, figlio di un’operaia di una filanda, e presto sposato a un’impiegata della sua stessa ditta, Giovanna Martinelli, che se ne innamora, ma senza condividerne la passione politica e il gusto della clandestinità. Giuseppina Tuissi, una maschiaccia che faceva a botte con i fascistelli in erba, è nata in una famiglia antifascista e fa l’operaia alla Borletti. Ai primi scioperi è in prima linea. Presto si fa strada nel movimento partigiano: Gianna, questo il suo nome di battaglia, va e viene in bicicletta dalle linee della guerriglia ai rifugi segreti, per portare ordini e informazioni. L’incontro con Neri, che sta per diventare comandante di una brigata partigiana, è scritto nel destino. Vanno a vivere insieme, continuando a svolgere ciascuno i suoi compiti e a correre rischi, cambiando continuamente nascondigli, dividendo spazi angusti e rari momenti di intimità, aggravati da stanchezza e disagi.
Il racconto dell’autrice si svolge su piani diversi. C’è, appunto, quello della guerra di Liberazione, sullo sfondo della quale Serri descrive, con acri e sapienti pennellate, la nascita di una burocrazia di partito conformista e stalinista, che ha in odio la coppia clandestina, il coraggio e il gusto dell’avventura, l’amore per i sogni e per la libertà sopra ogni cosa. E c’è, nelle stesse pagine, nell’area di pochi chilometri di Valtellina, fatta di frazioni come Grandola o Dongo, dove il Duce verrà catturato, una mirabile descrizione degli ultimi giorni di Mussolini, chiuso nella Villa Feltrinelli di Gargnano, raggiunto da un’estenuata Claretta Petacci.
Il Duce è nevrotico, pallido, tormentato dall’ulcera, insofferente alla stretta sorveglianza dei tedeschi, che manifestamente non si fidano più di lui. Eppure, nei momenti in cui è in compagnia dell’amante, non rinuncia alla sua intrinseca volgarità: la intrattiene sulle passioni sessuali delle donne francesi per gli uomini di colore, sulle differenze tra «l’uccello ben piantato» degli italiani, e quello inutilmente lungo e pendulo degli africani. Parlano, litigano, Claretta è gelosa e Benito inutilmente bulimico di tradimenti. Un giorno una segretaria si rivolge al Duce, dicendosi disciplinatamente «a disposizione», e quello ne approfitta possedendola prima che la malcapitata abbia modo di rendersene conto.
È nella stretta tra il fascismo decadente di Salò e il nuovo potere nascente dei partigiani che preparano l’insurrezione che i due «irregolari» protagonisti verranno stritolati. Arrestati dai repubblichini, vengono sottoposti a torture che Serri ricostruisce nelle pagine più crude del racconto: schiaffi, pugni, calci, frustate, ustioni, umiliazioni personali e violenze sessuali imposte a Gianna dai soldati, fino a un espediente di fronte al quale tutti i prigionieri prima o poi si arrendono: la reclusione in un armadio collegato a una cantina piena di topi e scarafaggi affamati, che non lasciano scampo. Neri riuscirà a fuggire; Gianna, ridotta allo stremo, qualcosa dovrà dire. Alla fine entrambi riconquisteranno la libertà - e Neri anche il suo posto di comando della brigata -, ma non la fiducia dei loro compagni, che anzi li terranno a distanza, imprigionandoli in una rete di maldicenze, e arrivando a pronunciare contro di loro, alla fine di un processo staliniano, una condanna a morte come «traditori».
L’epilogo grottesco della vicenda, a cavallo dei giorni della cattura e dell’esecuzione di Mussolini e della Petacci, e della selvaggia esposizione dei cadaveri a Piazzale Loreto, vedrà Neri e Gianna – scampati ai fascisti, perfino riabilitati al punto da poter prendere parte alla cattura del Duce e della sua amante –, giustiziati, uno dopo l’altro, dagli stessi comunisti, in forza della condanna precedentemente subita, e solo formalmente annullata dopo il 25 aprile, la Liberazione e la conclusione della guerra. Pagano così, non solo la palese ingiustizia dei sospetti che avevano subìto, mentre, sopportavano le torture del regime. Ma anche il dissenso espresso sulla procedura sommaria che ha portato alla fucilazione della Petacci, oltre che di Mussolini, senza uno straccio di processo, né alcuna considerazione dell’evidente divario di responsabilità tra l’una e l’altro. Su Gianna, pesa anche la scomoda coincidenza che l’ha portata ad essere testimone della razzìa dell’oro di Dongo, il tesoro che il Duce e i suoi ufficiali in fuga portavano con sé, di cui i dirigenti comunisti di Como decisero inopinatamente di appropriarsi.
Nel silenzio colpevole di Togliatti, Longo e di tutti i leader del Pci della storia della Prima Repubblica, ci vorranno più di sessant’anni prima che il Presidente Ciampi, su spinta di Veltroni, restituisca l’onore di combattenti al comandante Luigi Canali e alla staffetta Giuseppina Tuissi, i partigiani innamorati, torturati dai fascisti e uccisi dai loro compagni.

Repubblica 11.4.14
Eco: “La conoscenza è la cura al dolore”



BOLOGNA. «La cultura alza la soglia della sofferenza. Credo che possa essere incoraggiata un’educazione culturale al dolore. Così come il filosofo impara a essere “per la morte”, tutti noi dovremmo imparare a essere “per il dolore”». Umberto Eco a Bologna, di fronte a una platea di medici e infermieri che si sono appena specializzati in cure palliative, parla della sofferenza. Individuando una nuova frontiera, non tanto per la medicina o la psicologia, ma per «la filosofia di domani»: la necessità, per quei tipi di sofferenza che non annunciano una malattia terminale, di un diverso approccio culturale al dolore. La ricetta — la conoscenza come cura — per Eco non è semplice. «Ma come impartirla non è affar mio», osserva celebrando le «virtù delle cure palliative».
Il semiologo, che oggi all’Ambasciata del Brasile a Roma riceverà il titolo di dottore honoris causa dell’università federale del Rio Grande do Sul, affronta per la prima volta, per sua stessa ammissione, una riflessione sul dolore. Lezione tenuta al Mast, la cittadella della cultura della Fondazione Seragnoli. Con Eco il rettore dell’Alma Mater Ivano Dionigi e il direttore dell’Accademia delle scienze di medicina palliativa Guido Biasco. Una riflessione che dall’immagine mitologica di Algea, «i dolori che fanno piangere» nella Teogonia esiodea, arriva ai giorni nostri, «in un crescendo di erotica del dolore» che gioca «ai limiti della compiacenza, come nel Cristo sanguinolento di Mel Gibson» o come «il piacere per il dolore altrui istituzionalizzato nelle trasmissioni televisive».
Eco ricorre ai classici: il saggio che cerca di raggiungere l’assenza di dolore in Aristotele, l’atarassia e l’apatia degli stoici ed epicurei. E ricorda la svolta del Cristianesimo: il dolore salvifico, la sua accettazione come strumento di redenzione. Indugia sulle descrizioni di corpi putrefatti dei predicatori, arriva al pensiero romantico — la sofferenza come tramite di conoscenza — cita Schelling, Nietzsche, Dostoevskij, Proust, il male di vivere di Montale e il suicidio di Pavese. Sino alla «grande conquista della sensibilità moderna e contemporanea: non si nega l’esistenza del dolore, ma si è deciso che è eliminabile il dolore eccedente». E dunque, l’educazione alla sofferenza.
E per parlarne, Eco ricorre a un ricordo personale: lui soldato febbricitante in caserma. «Ma accanto a me ragazzi meridionali e analfabeti soffrivano più di me perché non capivano cosa avessero e che di solito dall’influenza si guarisce. Sapendo cosa stai subendo, vi sai resistere meglio». L’invito allora è «se non a conoscere attraverso il dolore, almeno a conoscere il dolore e accettarlo nella funzione biologica». Eco strappa la risata e un lungo applauso con una battuta: «Io mi fermo. E vi lascio al prossimo mal di denti».

l’Unità 11.4.14
IL FILM DI OGGI
Ritratto di Che Guevara da giovane on the road in Sudamerica
«I DIARI DELLA MOTOCICLETTA»
(USA, D, GB, ARGENTINA 2004) Ritratto del Che da giovane, quando assieme all’amico Alberto Granado attraversano avventurosa- mente l’America Latina in sella a una motocicletta. Un «on the road» che segnerà il destino del futuro rivoluzionario. La regia di Walter Salles segue un percorso più intimista che politico. Magnifica la fotografia e buon esordio per Gael Garcia Bernal
ORE 21,10 LAEFFE