domenica 13 aprile 2014

il Fatto 13.4.14
Lorenza Carlassare: Costituzione a rischio
“Questo governo non ama il pluralismo, cioè la Carta”
intervista di Silvia Truzzi


Professoressa Carlassare, le polemiche sulle riforme non accennano a placarsi.
C’è una verità sotterranea che unisce certi comportamenti: l’insofferenza al dialogo e alle critiche, la reazione smodata a un appello firmato da persone completamente prive di potere, come siamo noi che abbiamo sottoscritto il documento di Libertà e Giustizia. Ed è la mancanza assoluta di cultura costituzionale, che porta a un’idea deformata di democrazia: cioè che si può arrivare anche a escludere i cittadini dalle decisioni. Quello che si avverte - ed è ben evidenziato dall’articolo di Marco Travaglio sul Fatto di mercoledì - è che il concetto di democrazia costituzionale è del tutto estraneo anche a persone di buona cultura.
Ce lo spieghi meglio.
Democrazia “costituzionale” significa soprattutto controllo sul potere; per evitare che si concentri, ha come fondamentale principio la divisione dei poteri e il reciproco controllo. L’abbiamo ripetuto centinaia di volte: il costituzionalismo esprime l’esigenza di dare regole e limiti al potere e dunque, limiti alla maggioranza per realizzare “una serie di garanzie reciproche tra le varie forze sociali e politiche in modo da evitare che la sovranità popolare si risolva automaticamente nella sovranità di una semplice maggioranza parlamentare” (come diceva un grande costituzionalista, Vezio Crisafulli).
La nostra è una democrazia pluralista.
Il punto è esattamente questo, la Costituzione vuole il pluralismo in tutte le sue forme: pluralismo religioso, sindacale, politico, territoriale. Ma siccome il pluralismo costituisce un freno, non lo si ama. E ora si vogliono eliminare i limiti giuridici e politici derivanti dalla pluralità di opinioni difformi. Si vuole cancellare il Senato: io non amo il Senato, né il bicameralismo perfetto, vorrei chiarire, ma a questa riforma che vuole eliminarlo o reciderne il legame con gli elettori si accompagna l’idea di eleggere la Camera dei deputati con un sistema che esclude il pluralismo e potenzia al massimo un partito (che raggiunge una soglia non elevata) mediante un premio che lo pone in posizione egemone. Il limite politico, in democrazia, è dato dalle minoranze, ma con l’Italicum restano fuori dal Parlamento.
Oltre al contenuto, a lei non è piaciuto nemmeno il modo in cui le riforme sono nate, con il patto del Nazareno.
Il modo in cui le riforme sono nate non è democratico. Non possono essere i capi di due partiti a decidere. Al Parlamento si fanno proposte, non si può pretendere che siano immodificabili. È una cosa folle: a questo punto sarebbe meglio eliminiamo non solo il Senato, ma anche la Camera! Spendiamo meno e le leggi le fanno in due.
Tra il Porcellum e l’inerzia legislativa degli ultimi anni, ci siamo assuefatti a un Parlamento diminuito?
Appunto, si vuole - si è voluto - emarginare il Parlamento che è l’organo della rappresentanza popolare. O meglio: quello che ci resta perché questo Parlamento, per le note vicende del Porcellum, non ci rappresenta. Depotenziata la rappresentatività delle due Camere, ora si vuole sancire anche lo svuotamento delle loro funzioni imponendo decisioni prese altrove.
Ormai si legifera solo con decreti leggi o leggi delega.
Il paradosso è che nel periodo berlusconiano le leggi che servivano all’ex Cavaliere venivano approvate alla velocità della luce. Sono riusciti perfino a fare una riforma costituzionale che nel 2006 il referendum ha bocciato. Poi c’è stato un abnorme ricorso alla legislazione d’urgenza e ora si vuole un Parlamento che si limiti ad approvare. Si ricorda Berlusconi quando parlava di un “Parlamento di figuranti”? Che, aggiungo io, è stato sfigurato da quella legge elettorale poi dichiarata illegittima. Ma ora la si vuole perpetuare: l’Italicum ha gli stessi difetti del Porcellum. Dunque un Parlamento “per approvare”. Ma attenzione, per approvare non solo ciò che propone il governo, ma ciò che i capi partito hanno deciso nelle segrete stanze e che impongono all’Assemblea che dovrebbe rappresentare il popolo. Cioè il popolo “sovrano”, in base all’articolo 1 della Costituzione: forse vogliamo cancellare anche quello?

l’Unità 13.4.14
Sì alla proposta di Chiti. Senza se e senza ma
di Pietro Folena


TROVO ABBASTANZA INCREDIBILE IL CLIMA CONFORMISTA E INTIMIDITO CHE IN MOLTI, NEL PARTITO DEMOCRATICO, HANNO ASSUNTO A FRONTE DEL PROGETTO DI RIFORMA COSTITUZIONALE. Capisco quando Matteo Renzi chiede coesione e compattezza sull’azione di governo: per ottenerla bisognerebbe, anche su materie economiche e sociali, ascoltare di più tutte le opinioni. Ma non capisco sinceramente il clima intimidatorio che si è creato alla Camera in occasione della discussione sull’Italicum, che ha visto anche la minoranza del Pd sostanzialmente subalterna e incapace di un’iniziativa significativa. E ancor di meno capisco il clima che si sta creando al Senato, o le parole di dileggio dei «professori» che il segretario- premier ha pronunciato alla Direzione.
Si pretende addirittura che, senza discussione, venga adottato come testo base quello del governo, sostanzialmente immodificabile, a causa dell’accordo con Forza Italia.
Scherziamo? Stiamo parlando di Costituzione. I membri di sinistra della Bicamerale del 1998 vennero crocifissi per le sole ipotesi di riforma di cui si parlava. Oggi si vuole invece correre, senza riflettere, verso un modello ipermaggioritario in una sola Camera, con tutto il sistema delle garanzie nelle mani di chi vince - e quindi con l’offuscarsi della separazione dei poteri - , dando vita a un confuso Senato delle Autonomie, che si accompagna con una proposta di svuotamento di tutte le competenze regionali, in senso antifederalista e neocentralista.
Almeno si può discutere?
Si possono valutare altre ipotesi? Ci si può porre il problema dei contrappesi democratici non a Matteo Renzi, ma a chiunque vinca?
L’argomento dell’accordo Pd-Forza Italia, con tutta evidenza, per ammissione del ministro Boschi e del premier, non esiste più. E a breve Forza Italia si sfilerà anche formalmente. Perché non coinvolgere nella riforma più ampiamente Sel, il Movimento Cinque Stelle, quella parte del centrodestra e della destra che già ragionano in termini post-berlusconiani?
E soprattutto perché non porsi il problema di un sistema equilibrato, che possa funzionare col vento e con la bonaccia, col sole e con la tempesta? A Renzi va riconosciuto il merito di aver rotto gli indugi, e costretto tutti ad avviare un processo senza il quale la politica e la democrazia verrebbero seppellite. Basta che questo processo non sia esso stesso un funerale.
Matteo Renzi dovrebbe ascoltare di più chi è mosso non da istinti conservatori, ma da fondamentali preoccupazioni democratiche. Vannino Chiti, un uomo misurato e equilibrato, non certo un estremista, e i ventidue senatori firmatari del suo progetto di legge hanno avuto il merito di piantare con chiarezza un paletto che può aiutare tutti, se non partono scomuniche.
La minoranza del Partito democratico, piuttosto che dividersi in tanti pezzi e litigare su improbabili leadership future, dovrebbe ora con chiarezza dare tutto il suo sostegno all’iniziativa di Chiti e dei senatori.

La Stampa 13.4.14
“Il Pd non è comitato elettorale di Renzi”
D’Alema torna all’attacco del premier
Il leader storico frena il segretario: «Il partito è una risorsa, non un peso»
E sprona la minoranza: dobbiamo diventare la prossima maggioranza
di Francesca Schianchi

qui

il Fatto 13.4.14
Grandi manovre. Doppio ‘congresso’ tra Capitale e Torino
Renzi, Bersani, D’Alema De profundis Italicum
L’Italicum è morto ma Renzi non lo sa
“La legge elettorale di Verdini non passerà”
D’Alema e Bersani tornano uniti dopo il grande gelo: il senato lo facciamo passare, la “Legge di Verdini” no
di Marco Palombi


I 2 leader della minoranza Pd si ritrovano per la prima volta dopo un lungo gelo: Il presidente del Consiglio, in Piemonte per lanciare la candidatura di Chiamparino, replica: “Basta perdere tempo litigando”.
C’è stata una sola vera novità politica nella giornata democratica di ieri: dopo lungo guerra interna iniziata da anni e culminata nel cortocircuito sul Quirinale del dopo-elezioni, Pier Luigi Bersani e Massimo D’Alema si sono ritrovati per la prima volta insieme nella trincea anti-Renzi. Lo hanno fatto in quella sorta di riunione dei reduci e combattenti che è stato il convegno dalla minoranza Pd al teatro Ghione di Roma, svoltasi proprio mentre Matteo Renzi inaugurava la campagna per le europee a Torino. Poco carino, per carità, ma d’altronde il premier non era stato molto carino coi due ex capi partito: Renzi, per dire, ha già spaccato la minoranza Pd prendendo con sé un bel pezzo dei quarantenni che sui giornali vengono ancora chiamati bersaniani o dalemiani. I ministri Andrea Orlando e Maurizio Martina, ad esempio, e altri come il capogruppo alla Camera Roberto Speranza o l’ex responsabile organizzazione del Pd Davide Zoggia (non a caso ieri tutti presenti a Torino).
IL RISULTATO è che l’Italicum così come lo conosciamo è morto. Alla fine verrà cambiato perché i numeri sono sempre numeri, specialmente quelli del gruppo democratico in Senato, e perché il ridimensionamento di Silvio Berlusconi porta con sé anche il ridimensionamento dell’accordo del Nazareno. “C’è una maggioranza di governo che si va allargando - spiega un dirigente del Pd - e non si può non tenerne conto mentre si fanno le riforme istituzionali”. Il duo Bersani-D’Alema, al di là dei toni duri che ora vedremo, offre a Matteo Renzi una via d’uscita politica: passi pure il Senato non elettivo, ma la legge elettorale ipermaggioritaria no. Le critiche di Bersani, in particolare, riecheggiano quelle dei “professoroni” sbertucciati dal premier (una la intervistiamo qui accanto): “Ora c’è una legge elettorale per una sola Camera con un megapremio di maggioranza per cui chi vince col 52% si può nominare il presidente della Repubblica, la Consulta e tutti gli assetti istituzionali del Paese. Questo da parte di un Parlamento formato essenzialmente da ‘abbastanza nominati’. Poi ci sono delle primarie non regolamentate per plebiscitare il nominante universale”. Conseguenza: “Dobbiamo batterci per consentire alla gente di scegliere gli eletti”. La butta sul romantico, Bersani, parla della sinistra italiana, se ne intesta la storia, la concede in ostensione ai presenti, reclama quella che Berlusconi chiamerebbe “agibilità politica” dentro il Pd per il presente e per il passato: “
D’ALEMA è più pragmatico, cosa che è insieme il suo pregio e la sua dannazione. Si concentra sul partito, sull’organizzazione, sulle tessere: “Noi siamo una parte grande della militanza e questa forza deve attivarsi. Il Pd dobbiamo farlo funzionare noi, dobbiamo lavorare per il tesseramento del Pd anche se le tessere non si stampano più. Noi nelle sezioni, nei circoli ci siamo, vediamo se ci stanno anche loro”. Il partito, scandisce il fu leader Maximo, appassisce, sta morendo: “Il Pd sta diventando un comitato elettorale del leader, un partito radicato nelle istituzioni e ‘servente’. Ma il partito delle primarie senza il partito che cosa è, cosa diventa?”. Stilettata finale: “C’è il rischio di un mutamento qualitativo del sistema democratico”. Pure sull’Italicum si riversa il veleno di Massimo D’Alema: “Nessuno toglierà al premier il merito di aver rimesso in moto questo processo riformatore, anche se la legge elettorale verrà fuori un po’ meglio di come è nata. L’ha scritta Verdini, non veniva fuori da un circolo di riformatori illuminati, e serviva a tenere la destra ancorata a Berlusconi”. La cosa strana di questo attacco così duro è che nel Pd si dà per scontato che D’Alema abbia già l’accordo con Renzi sulla sua nomina a commissario Ue: “Sì, ma non si fida - spiega una fonte di minoranza - È convinto che non avrà niente se non tratta da posizioni di forza”.
Matteo Renzi, dal canto suo, sembra non aver capito che la situazione sta rapidamente cambiando. Ieri a Torino per lanciare la campagna per le europee e per le regionali in Piemonte ha lavorato la folla col solito atteggiamento da velocista: “Nei prossimi mesi non perdiamo tempo a litigare tra noi, c’è tanto da fare, dobbiamo andare pancia a terra per cambiare l’Italia. La sinistra che non cambia diventa destra”. I suoi fedelissimi la buttano sull’indice di gradimento: “Ma che volete? Nei sondaggi siamo al 33,9%, un livello mai toccato”, si irrita Federico Gelli. Il compito di rispondergli è toccato a Gianni Cuperlo, benedetto ieri coram populo dal duo Bersani-D’Alema leader unico della minoranza: “Una cosa di destra non diventa di sinistra perché la proponiamo noi”. Chiosa di Bersani: “Calma, ci vuole lo stesso tempo a fare le cose giuste e quelle sbagliate”.

l’Unità 13.4.14
Cuperlo lancia i Comitati della sinistra
Appuntamento a Roma della minoranza Pd
D’Alema: «Non accettiamo che il partito si spenga, facciamolo funzionare noi e torniamo maggioranza»
Bersani: «No a riforme sbrigative»
di Marcella Ciarnelli


C’era il rischio, sventato dall’intelligenza e dalla passione dei protagonisti, che si consumasse una frattura tra il Pd che si è radunato a Torino attorno al segretario e premier per l’avvio della campagna elettorale, e il Pd che si riconosce in una minoranza diventata tale a seguito di una sconfitta congressuale, che Gianni Cuperlo ha chiamato al Teatro Ghione di Roma per invitare a rimettersi tutti in moto, anche in un orizzonte più allargato e più disponibile. Per guardare al futuro ritrovando la passione del fare politica e dimostrando, sul campo, che «la minoranza non siamo noi».
Entusiasmo e voglia di fare ce n’è stata tanta fin dall’inizio della manifestazione. Bandiere, applausi, un riconoscersi positivo. È andata avanti così per sette ore di discussione quando Gianni Cuperlo, traendo le conclusioni e superando di slancio la sua natura («l’organizzazione non è il mio forte») ha dettato l’agenda per il lavoro da portare avanti dai prossimi giorni in poi. Di certo per il voto imminente perché «la campagna elettorale va vissuta senza risparmiarsi» ma, innanzitutto, ritrovando quanto c’è di positivo nel confronto delle idee. «Dobbiamo dare vita ai comitati promotori di una sinistra democratica rinnovata» ha detto Cuperlo. «Comitati aperti, inclusivi, in ogni città e in ogni circolo. Comitati per temi, campagne e progetti». E già prima dell’Assemblea del Pd è prevista l’organizzazione di due appuntamenti aperti, uno sulla situazione internazionale con un focus su Russia e Crimea e l’altro su cosa è oggi il partito e cosa dovrà essere in futuro. Comitati proposti come strumenti per «uscire dai palazzi romani e tornare a costruire politica e democrazia sul territorio. O facciamo questa scelta o saremo risucchiati in una logica di potere fine a se stesso. Lo so che dopo una sconfitta è più difficile, ma non dobbiamo perdere il senso di una sinistra da reinventare, per la quale servono fantasia, coraggio e passione, poi saranno le nostre scelte a dire chi siamo e quanti siamo».
Se nel momento del bilancio la giornata di ieri è apparsa «bella» a Torino come a Roma, legata da un filo rosso che non si è spezzato, resta il fatto che tutto quello che c’era da dire sull’attuale situazione politica, sulle iniziative del governo, sulle indiscusse capacità di rinnovamento di Renzi a volte troppo ruvide, è stato detto. Con schiettezza e sincerità. C’è preoccupazione per alcune scelte. Quelle sul mercato del lavoro, sulle riforme, sulla legge elettorale. «Non sono disposto a sacrificare la Bibbia costituzionale sull’altare di uno scambio» ha detto Cuperlo. «Aiuteremo le riforme con spirito costruttivo ma dobbiamo farlo rivendicando sempre i principi e il merito delle scelte», perché «sono in gioco i principi scolpiti nella prima parte della Costituzione» e «alla fine di quel percorso di riforma noi non possiamo votare qualunque cosa». Cuperlo ha insistito in particolare sulla riforma della legge elettorale che a suo avviso «va migliorata su punti di fondo: liste bloccate, soglia troppo alta per l'accesso al parlamento, assenza di una norma sulla democrazia paritaria».
«Le riforme vanno fatte rapidamente ma non sbrigativamente perché ci vuole lo stesso tempo a fare le cose giuste e le cose sbagliate» ha detto Pier Luigi Bersani, accolto da uno straordinario e affettuoso applauso. E se sul Senato si può cercare di trovare qualche aggiustamento perché non possiamo «essere accusati di voler bloccare le riforme» ma neanche, come ha detto il segretario, essere accusati di opporsi «per conservare gli emolumenti» nella legge elettorale ci sono almeno «sette, otto cose che non vanno ». Quindi «la legge elettorale va cambiata. Non è serio che uno ottiene il premio di maggioranza mettendo insieme liste che non possono eleggere nessuno e poi, con il 52 per cento, quei parlamentari, nominati anche loro, eleggono il presidente della Repubblica, i giudici costituzionali, i membri del Csm. Se poi si fanno primarie non regolate per plebiscitare i nominati, io non ci sto».
Avanzati suoi dubbi su alcune riforme Massimo D’Alema ha rivendicato alla minoranza il diritto di diventare maggioranza. «Noi dobbiamo essere il Pd, non possiamo accettare che diventi il partito un’altra cosa, che si spenga». Ed ha aggiunto: «Noi siamo una grande parte della militanza e questa forza deve attivarsi. Il Pd dobbiamo farlo funzionare noi, dobbiamo lavorare per il tesseramento anche se le tessere non si stampano più. Noi ci siamo nelle sezioni e nei circoli. Vediamo se ci sono anche gli altri » nell’impegno a non fare «appassire il partito»: «Se siamo la forza fondamentale che fa vivere il Pd nella società la prospettiva potrebbe essere quella di tornare a essere maggioranza». Il ruolo della minoranza non può ridursi ad «una frazione parlamentare che frena il riformismo di Renzi. Dobbiamo essere noi a rilanciare la sfida riformista, non dobbiamo piegarci ad essere vissuti solo come il passato». Né, ha detto Cuperlo, ad accettare che il confronto si tramuti in «un conflitto tra riformisti e conservatori». Sette ore di confronto aperto a ogni idea. Goffredo Bettini, esponente di Campo democratico, alle primarie schierato con Renzi, è intervenuto per ricordare come «può piacere o no, ma Renzi agli occhi degli italiani ha rappresentato il ritorno alla politica, alla decisione politica, al rapporto diretto con i cittadini. Noi che vogliamo difendere la presenza di una sinistra dobbiamo spingere perché si torni alla vita reale e si giochi il suo avvenire nei flutti della storia di oggi e non dentro i simulacri del passato».

Repubblica 13.4.14
D’Alema parla alla minoranza “Il partito muore riprendiamocelo”
di Goffredo De Marchis



IL RACCONTO. ROMA. Dalla riunione degli “sconfitti” sale il grido di battaglia: riprendiamoci il partito. Gianni Cuperlo dice: «Abbiamo perso il congresso ma anche no. Sento che oggi la minoranza non siamo noi». Massimo D’Alema sfida l’impossibile, al momento: «Siamo minoranza e non mi sento a mio agio, non sono abituato. Il nostro obiettivo non è solo il pensiero di sinistra, ma tornare maggioranza del Pd». Pier Luigi Bersani appare più cauto sui destini del partito. «Nella legge elettorale ci sono 7-8 cose da cambiare», avverte. Ossia, lavoriamo sulle riforme e cambiamole. Ma anche lui è tornato. «Mi sono ripreso - saluta prima di scappare via -. Si ricomincia, devo andare a Bologna. Ormai faccio due manifestazioni al giorno».
Il teatro Ghione di Roma è pieno: la platea, la galleria, la piccionaia. Ci si muove tra i velluti rossi, le luci soffuse anche nei corridoi. Dall’8 dicembre, il giorno delle primarie, è cambiato il mondo, Anzi, è cambiato verso. Renzi ha stravinto la corsa per la segreteria, Cuperlo si è fermato al 18 per cento, l’ex sindaco ha spodestato Letta a Palazzo Chigi. In contemporanea a Torino il premier lancia la campagna per le europee e per la regione Piemonte. Quattro mesi dopo lo shock, l’area degli ex Ds sceglie lo stesso giorno per provare a rilanciarsi. L’obiettivo è ambizioso, riconquistare il terreno perduto. Lo è ancora di più se verranno confermati i sondaggi delle Europee che oggi danno il Pd sopra al 30per cento, un risultato storico. Ma il 25 maggio finisce la tregua con Renzi, a prescindere dai rapporti di forza che comunque in Parlamento sono diversi da quelli congressuali. In sala ci sono Epifani, Stefano Fassina, Alfredo D’Attorre, Goffredo Bettini, Alfredo Reichlin e Francesco Boccia, uno dei pochi a non aver avuto la tessera dei Ds in tasca.
La riunione è autofinanziata. La scenografia inesistente: tre bandiere, del Pd, italiana e europea, un simbolino appeso al podio. Gli oratori sfilano davanti a un pannello bianco. D’Alema parla in francese con la sua portavoce Daniela Reggiani che ha vissuto Oltralpe e fa qualche selfiecon imilitanti.La strada la indica Cuperlo: «Abbiamo perso le primarie ma non abbiamo smarrito il senso di una sinistra da reinventare». Bisogna fare come l’aquila che quando è vecchia si rifugia in cima alla montagna, spacca da sola il becco stanco e aspetta che ne ricresca uno nuovo. Una resurrezione ma per fare cosa, su quali basi? «Sul lavoro le norme della destra non diventano giuste se le proponiamo noi», dice Cuperlo. La legge elettorale va smontata: «Non è buona. Il treno delle riforme doveva partire, ma non possiamo votare qualsiasi cosa». Lo spiega anche Bersani che è inaccettabile avere «un superpremio di maggioranza, una sola camera di nominati che nomina il capo dello Stato, la corte costituzionale, il Csm. Il tutto condito da primarie non regolate che scelgono il nominante universale». Ce l’ha con Renzi.
Il premier è oggi un fantasma che appare imprendibile. Si affaccia appena nei discorsi del teatro Ghione. Cuperlo lo evoca rammaricandosi dello «spirito del tempo», della «velocità che non basta» ad affrontare i problemi della crisi. Bersani, senza citarlo, ricorda al segretario che non si può criticare ogni voce dissidente, che «non si può dire a chi si oppone alle riforme che lo fa per l’indennità. C’è gente che ha la pelle sottile». Ma occorre risvegliare l’orgoglio di questa parte del Pd che vede crescere l’onda travolgente del renzismo. D’Alema si prende la croce: «Il partito sta morendo - dice l’ex premier - . Quelli che lo guidano lo considerano un peso, un ostacolo anziché una straordinaria risorsa. Vogliono farne un comitato elettorale. Allora tocca a noi, ai militanti impedirlo ». D’Alema non rinuncia alla battaglia: «Non fanno il tesseramento perché non ci sono neanche le tessere. Stampiamole noi, le tessere. Un atto di protesta. Ma non per la minoranza. Per il Pd». I conti veri però si fanno il 25 maggio.

Corriere 13.4.14
La sinistra interna cerca una strada
La linea di D’Alema: riprendiamoci il Pd
di Andrea Garibaldi


ROMA — Qui al Teatro Ghione, cento metri dalla cupola di San Pietro, non si riunisce la fronda del Pd contro il segretario Renzi. Più precisamente, fra questi velluti rossi un po’ consumati, si riuniscono coloro che credono ancora nella funzione ammodernata ma tradizionale del partito, che temono un Pd trasformato in un partito personale, col nome del leader nel simbolo, proprio come tutti gli altri. Una riunione di ex comunisti, decisi a fronteggiare i renziani ex popolari, cattolici? Un po’ è così, anche se si vede un ex Margherita come Boccia e anche se non c’è la minoranza al completo. Assente Civati, assente Chiti che sul Senato ha presentato una riforma diversa da quella del governo, assenti i «giovani turchi» di Orfini.
A dire le cose nel modo più netto è l’antico leone Massimo D’Alema: «Noi dobbiamo prendere l’impegno e la sfida di organizzare il partito, non possiamo lasciarlo spegnere, morire. Ho l’impressione che stia diventando un comitato elettorale di Renzi. Noi siamo la parte maggiore della militanza, dobbiamo far funzionare il Pd, fare il tesseramento anche se non si stampano più le tessere». Ancora, risvegliando l’orgoglio della platea: «Oggi siamo vissuti come un peso, considerati un ostacolo e non una straordinaria risorsa. Noi nelle sezioni, nei circoli ci siamo, speriamo ci siano anche loro...».
Poi, le questioni di merito. La legge elettorale a D’Alema «pare congegnata per mettere la destra intorno a Berlusconi». Per Pier Luigi Bersani, ironico, «ci sono solo sette-otto cose da correggere». Il leader giovane qui è Gianni Cuperlo, secondo arrivato alle primarie. Spetta a lui entrare nel merito: «Non possiamo votare qualsiasi cosa». Tre punti da correggere nell’«Italicum»: liste bloccate, soglia troppo alta per l’accesso in Parlamento, assenza di una norma sulla rappresentanza di genere. Sul Senato il problema non si deve ridurre ai costi. Con un avvertimento: «Non sacrificherò mai la Bibbia della Costituzione sull’altare di un accordo politico». L’attacco più duro è sulla riforma del mercato del lavoro: «Se sbagliava la destra a introdurre norme rischiose sul fronte dei diritti di chi lavora, quelle norme non diventano di colpo giuste quando a proporle siamo noi». No, dunque, all’eliminazione della causale nei contratti a termine, no all’eliminazione dell’obbligo della formazione nei contratti di apprendistato: «Tra Carniti o Trentin e Sacconi non mi è chiaro perché dovremmo scegliere il terzo». Tutto questo, però, con richiami continui a un percorso ben dentro i confini del partito, alla ricerca di un comune denominatore, «perché migliorare le riforme è il modo più leale per aiutare il governo a fare riforme giuste». Colpi e carezze. Il governo «corre e fa bene», ma quelle frasi di Renzi - «si fa in questo modo o me ne vado a casa», «prendere o lasciare» - non sono esempi «della forza mite della democrazia».
Ci sono, fra tanti altri l’ex segretario Epifani, Andrea Orlando, ministro prima di Letta e ora di Renzi, Goffredo Bettini, sostenitore di Renzi alle primarie. Alla fine, dopo sette ore, Cuperlo lancia i «comitati promotori di una sinistra democratica rinnovata». Fa un appello unitario per la campagna elettorale, collegandosi idealmente con Torino, dove Renzi ha sostenuto la candidatura Chiamparino. Chiude così, ottimista: «Sento che la minoranza non siamo noi».

Repubblica 13.4.14
L’intervista
Staino: “Non riesco più a sopportare il vecchio Massimo”
di G. D. M.



ROMA. «Non lo sopporto più». Appena D’Alema comincia a parlare Sergio Staino, l’inventore di Bobo, il fondatore di Tango che “Massimo” lo ha disegnato centinaia di volte nelle sue vignette satiriche, si alza e svicola verso l’uscita. Un gesto voluto. «Doveva essere un’assemblea di giovani, irrequieti e incazzati. Oppure, seguendo la bussola del bellissimo discorso di Cuperlo, un luogo per sviluppare il pensiero di una nuova sinistra. Invece salgono sul palco ancora loro. D’Alema, Bersani, quella della Cgil Carla Cantone, pure simpatica ma si capisce che ha imparato a prendere applausi alla scuola Pci. Così è diventato l’appuntamento dei reduci sconfitti ».
È Cuperlo ad averlo organizzato in questo modo.
«Lo so. Non riesce a lasciarli andare. Ne avessero azzeccata una. Ma non mollano.
Mettono il cappello su ogni cosa. Lo dico con affetto, gli abbiamo voluto bene. Adesso basta, però. Gianni potrebbe viaggiare solo, ha testa e idee per disegnare una nuova rotta. Eppure non resiste al richiamo dei vecchi dirigenti. Sa quanto ha preso Cuperlo a Firenze nelle primarie? L’11 per cento. Zero, una miseria».
Che è successo?
«Era circondato dai dalemiani, sempre gli stessi. La gente li ha visti, li ha riconosciuti. Allora, tra le solite facce e Renzi che mescola tutto, ha scelto Renzi. Almeno col rimescolamento si apre una speranza».
A Bobo non garba Renzi, ma si trova a disagio anche con la minoranza.
«Ero venuto per sentire Cuperlo. Poi arriva D’Alema e dice all’apparato che il pensiero non serve, che bisogna tornare a essere maggioranza. Ha rovinato tutto».

Corriere 13.4.14
Renzi ai suoi: chi non cambia è di destra
di Marco Imarisio


Altolà a minoranza (e Grillo). «Entreremo nella burocrazia con la ruspa» DAL NOSTRO INVIATO TORINO — «Avanti veloce, in fila per due». Alla giovane Valentina Caputo, segretaria di un circolo cittadino del Pd, è toccato il ruolo del caposquadra. Lei adempie con zelo, seminando il panico tra i candidati democratici a Regionali, Europee, Amministrative. «Chi non ha il pass si scordi di fare la foto» urla con voce stentorea, generando convulse ricerche collettive del prezioso talloncino.
Nella città più fordista d’Italia entra in funzione una catena umana di montaggio che dice molto sugli attuali rapporti di forza interni al Pd. Matteo Renzi ha appena finito il suo comizio di apertura della campagna elettorale. Dal podio del Palaolimpico, al quale una scenografia forse ispirata a Dracula ha conferito un aspetto sul lugubre andante, tappeto rosso, buio in sala e lumini in platea, il presidente del Consiglio parla per quasi un’ora, diluendo la sua capacità istrionica in un discorso a tratti molto istituzionale.
Ad attenderlo, allineati nel sottopassaggio come da ordini della feroce Valentina, ci sono trecento aspiranti europarlamentari e amministratori, bisognosi della foto con il leader alla quale attribuiscono virtù taumaturgiche nell’urna. «Vale almeno un cinque per cento in più» sostiene Rita Cavani che vuole riconsegnare Siziano, provincia di Pavia, al centrosinistra. Gli altri annuiscono. «Forse anche dieci» chiosa il giovane Raffaele Gallo, ultimo di una dinastia cara al Pd locale, in corsa per il consiglio regionale. Non ci sarà il nome di Renzi nel simbolo, ma guardando e ascoltando queste aspettative, il partito personale sembra già realtà.
La scelta di Torino è stata facile. Qui si voterà per le Regionali con Sergio Chiamparino che parte decisamente favorito. Per Renzi è come giocare in casa, e infatti agli austeri democratici piemontesi viene propinato un filmato introduttivo che mischia Maradona e la sua mano di Dio, già vista alla prima Leopolda, Forrest Gump che si libera dalle stampelle di ferro, idem, e l’immancabile Fantozzi, onnipresente nelle kermesse fiorentine. Chiamparino, uno dei pochi in sala a potersi dire renziano della prima ora, rivela di essersi reiscritto al Pd, dove mancava dal 2011, e lo accoglie con un omaggio venato di rimpianto personale. «Matteo ha avuto il coraggio di rompere gli schemi consolidati di una sinistra che rischiava di rifugiarsi nel conservatorismo. Io e gli altri come me non abbiamo avuto questo coraggio».
Renzi prende la palla al balzo e appena si avvicina al microfono ribadisce il concetto, parlando all’amico Chiamparino perché la minoranza del Pd intenda. «La sinistra che non cambia si chiama destra. Ecco perché andiamo in Europa, per cambiare l’Europa dei tecnici e delle banche, per farla diventare l’Europa delle famiglie». E poi, nello specifico, sullo scarso entusiasmo suscitato in una parte del Pd dalla riforma/abolizione del Senato: «L’idea di superare il bicameralismo perfetto è sempre stata patrimonio di questo partito. Se qualcuno ha cambiato idea, è un problema suo». In un passaggio abbastanza freudiano del suo discorso arriva a citare nella stessa frase il nemico esterno, ovvero Grillo, e l’opposizione interna al Pd. «Non facciamo la campagna elettorale seguendo i profeti dell’insulto, lasciamo Grillo e i suoi blog dire quello che vogliono. Il Pd non perda tempo a litigare al suo interno, ma lavori per cambiare l’Italia».
Alla voce annunci e progetti, da segnalare un passaggio molto deciso sull’impiego statale. «Abbiamo bisogno di vincere la sfida del Fisco, a maggio dobbiamo entrare con la ruspa dentro la Pubblica amministrazione». A «Chiampa», come lo chiama lui, che gli consiglia di tagliare l’Irpef ai pensionati con meno di mille euro risponde con un «bella idea!» neppure ironico. Nella tappa seguente, a Lucca, la farà sua, tra una promessa di nuovi regolamenti parlamentari per avere leggi più veloci e quella di mettere online le spese di partiti, sindacati e Pubblica amministrazione.
Intanto, la stanza del corridoio che porta agli spogliatoi è già stata addobbata come uno studio di posa, due luci su cavalletto, uno sfondo bianco. Renzi fa aspettare i candidati e riceve una delegazione degli 82 lavoratori della Agrati, una azienda di Collegno, che hanno problemi più seri, come la perdita improvvisa del posto di lavoro. Poi comincia la lunga sessione fotografica. «Come ti chiami?». «Dai che ce la facciamo». Una pacca sulla spalla. «Sorridi». Avanti un altro. Alberto Avetta, ex assessore provinciale, si è portato da casa la cornice blu con sopra il suo nome e la scritta «L’Europa ti aspetta». «Un incontro breve ma intenso». I candidati escono con aria estasiata. Passa Roberto Speranza, che in una vita precedente era stato molto vicino a Pier Luigi Bersani. «Mai vista una cosa del genere». Lo interrompe l’urlo della feroce Valentina. «E con questi cinque abbiamo finito!».

Corriere 13.4.14
In contemporanea a Torino
Pienone in piazza per i 5 Stelle (senza il leader)

Folla a Torino in piazza Castello per la presentazione dei candidati 5 Stelle alle Regionali. «Non c’è Grillo, ma la piazza è piena — ha detto l’aspirante governatore Davide Bono — mentre invece il Palaolimpico è rimasto mezzo vuoto, nonostante Renzi abbia cercato di riempirlo offrendo caffè e brioche. Era imbarazzato quando ha presentato Chiamparino» (foto Ansa)

Corriere 13.4.14
Parigi, la piazza di Tsipras

Sinistra radicale in piazza a Parigi contro l’austerity. La protesta, a cui hanno partecipato migliaia di persone (100mila secondo gli organizzatori), è stata organizzata dal Front de gauche di Jean-Luc Melanchon. Accanto a lui il candidato delle sinistre radicali alla Presidenza della Commissione Ue, il leader greco Alexis Tsipra.

il Fatto 13.4.14
Le vite parallele dei partiti
Chi sta con chi
Non solo Pd: il partito bussa sempre due volte
di Furio Colombo


Strani tempi. Strani legami si sono formati fra parti politiche opposte, dopo avere scoperto di avere lo stesso programma. Adesso a volte lo scontro è se l’idea di chiudere il Senato sia tua o sia mia. Più o meno tutto ciò che era la politica, un tempo, adesso governa insieme, con legami sempre più stretti, e intanto minaccia – l’uno all’altro, quasi per le stesse ragioni – il divorzio. Gli oppositori sono venuti di recente e da fuori. E senti che sono portatori di rigore e alla ricerca di un campo di gioco nel quale far pesare la propria diversità, non si sa se venendo più vicino o spostandosi più lontano, anche perché, incalzando la crisi, diventa difficile rispondere alla domanda: lontano dove? Lontano da cosa? Resta il felice slogan “tutti a casa”, che vuol dire proprio tutti. Ma resta anche il problema del vuoto. È mai esistita, salvo imposizioni violente, una politica vuota di avversari sul cui torto costruire le proprie ragioni? Eppure, ora che si avvicinano le elezioni europee qualche altra cosa si vede. È bel un problema e non si sa come se la caveranno. Ogni partito sono due. Due ce ne sono dentro, due se ne vedono da fuori, e lo sguardo forzatamente sdoppiato degli elettori crea una nuova, inedita fatica, che rischia di esprimersi in una vasta astensione.
CI SONO DUE PD, è innegabile. Non Renzi e contro Renzi. Il problema è molto più complicato perché dentro ogni aggregazione politica due mondi o visioni o futuri combattono dentro la stessa persona collettiva che è il partito in modo quasi psichiatrico. Due Pd vogliono vincere, l’uno con un legame ormai fisiologico e non districabile con gli ex avversari, prima tutti uniti nella lotta, poi solo con alcuni, che però vengono accettati come la irrinunciabile pietra di governo. L’altro è il partito che ha l’orgoglio esclusivo delle riforme. È convinto, e lo dice, di avere aperto finalmente le porte del nuovo mondo. E infatti le riforme si moltiplicano, si accelerano, si celebrano (si autocelebrano) e diventano un valore in sé, di cui si trascura persino di illustrare l’urgente necessità (pensate alla brusca abolizione del Senato), perché diventa un bene in se stesso e un marchio di fabbrica. In ciascuno dei due Pd c’è polvere di opposizione, ma è lo sdoppiamento che dovrebbe attrarre attenzione, visto che il progetto è di far durare a lungo (per anni) questa strana storia.
Ci sono due partiti di Alfano, come si chiama, Ncd? Non lasciatevi distrarre da modesti espedienti elettorali, per esempio l’alleanza con Casini per la campagna elettorale europea. Il punto è che ci sono due Alfano, un sottomesso ministro dell’Interno, a cui sfuggono ogni tanto gesti e comportamenti del prepotente passato (il caso Shalabayeva, madre e bambina, arrestate di notte dalla polizia italiana e consegnate subito a un governo persecutore, gravissimo evento che, avrete notato, nessuno gli ha fatto pagare) ma che il più delle volte appare come un fedele top burocrate, bene attento a stare nei limiti dello strano legame con “la sinistra”. Ma l’altro Alfano, che compare all’improvviso senza cravatta nei giorni festivi, ha proclami di rottura da lanciare: uno è che le “riforme” non sono che l’attuazione del programma di Berlusconi (qualcuno va un po’ più indietro, ai tempi di Licio Gelli); un altro è che questo è il governo che la destra ha sempre voluto.
E infine, in un modo o nell’altro, fa sapere che nessun legame dell’illustre passato è stato tagliato per sempre, il che appare ovvio, dati i precedenti di tutti loro. Se dico che ci sono due Forza Italia, l’immediata obiezione è che si tratta di un grosso oggetto frantumato. Eppure è vero se consideriamo ciò che resta della forza politica nell’insieme e del suo elettorato.
Osservate la scena: una Forza Italia è per la partecipazione immediata assoluta e per sempre al governo denominato, all’inizio, “delle larghe intese”, in quanto naturale governo di destra con programma di destra e autore delle riforme annunciate e mai fatte. Un’altra Forza Italia è per la lotta senza quartiere, casa per casa, seggio per seggio, finché tutto ciò che, con un po’ di fantasia, si può chiamare “sinistra” non sarà raso al suolo, politica, professori e giudici. Nella descrizione che ne ho fatto si noterà che ognuna delle situazioni che ho proposto, più che spaccatura e contrapposizione (come accade quando un partito si divide sulla base di visioni che appaiono inconciliabili) si tratta di una curiosa situazione di ambivalenza, di tipo più psicanalitico che politico.
GUARDATE BRUNETTA mentre annuncia fuoco e fiamme nel caso che accada qualcosa che sta già accadendo. Guardate la Boschi mentre letteralmente intima ai professori di togliersi di mezzo, con il più bel sorriso del mondo, beata per la sua età più che per il potere che prematuramente brandisce. Guardate la Gens Alfana, popolazione che presidia i confini “moderati” della destra (mentre a quelli estremi provvedono i “Fratelli d’Italia”). Ognuno vuole e non vuole questa (la situazione così com’è, dove più o meno tutti governano) e quell’altra soluzione (rottura, rivolta e ritorno alle origini). E vi rendete conto all’istante che ogni riforma uscirà storta (ma ci sarà, in modo da nutrire critica e gloria), la pace sarà turbolenta (ma fondata sulla larga intesa), e le elezioni in Italia restano lontane (se si sentirà la necessità di farle). Per quelle europee, allacciarsi le cinture.  

Corriere 13.4.14
La sindrome della nostalgia
di Ernesto Galli della Loggia


Una contraddizione percorre l’Europa: la crisi economica ha diffuso dappertutto, specie nell’Europa mediterranea, un fortissimo disagio sociale, eppure la Sinistra non sembra saperne approfittare sul piano elettorale. Lungi dall’essere all’attacco essa appare piuttosto sulla difensiva se non addirittura, come si è visto in Francia, alle prese con una grave crisi di consensi.
I dati sul disagio sociale nell’Unione parlano da soli: almeno 25 milioni di senza lavoro su una forza lavoro potenziale di circa 245 milioni; inoltre, secondo le statistiche ufficiali, metà dei nuovi posti di lavoro sono precari, mentre non si contano, specie in Italia e Spagna, i lavoratori che pur conservando il loro posto tuttavia non vengono pagati da un mese o più. Eppure, ripeto, la Sinistra non riesce a trarre da tutto ciò alcun particolare vantaggio sul piano dei consensi elettorali (se l’Italia fa eccezione è solo per una ragione assolutamente fuori dal comune: e cioè che da noi il lungo dominio di Berlusconi da un lato e l’inconsistenza politica del senatore Monti dall’altro hanno letteralmente disintegrato sia la Destra che il Centro; in queste circostanze non si vede proprio come potrebbe riuscire il Pd a non vincere!).
Sono soprattutto tre le ragioni che aiutano a spiegare le difficoltà della Sinistra a tradurre la crisi economica in consenso.
Innanzitutto, la Sinistra è tuttora vittima della sindrome della nostalgia. Nostalgia di quella vera e propria età dell’oro che fu il lungo dopoguerra del «consenso socialdemocratico» (1945-1990), caratterizzato dalla crescita economica e dalle politiche keynesiane: pieno impiego, welfare, sindacalizzazione diffusa. Sono stati quelli i suoi «giorni alcionii», ed essa non se ne sa distaccare: si veda per un esempio italiano l’autentico struggimento con cui il suo popolo ha accolto il film di Veltroni su Enrico Berlinguer. Prigioniera del passato, la Sinistra non è riuscita a mantenersi in sintonia con i tempi nuovi, a comprenderli e a trovare rispetto ad essi un ruolo insieme compatibile ma diverso da quello dei suoi rivali.
In secondo luogo, questo attaccamento al passato impedisce ovviamente alla Sinistra stessa di accorgersi che parti centrali della sua tradizionale narrazione del mondo non corrispondono più alla realtà. Una in particolare: cioè l’idea che il suo avversario, la Destra, rappresenterebbe sempre e comunque gli interessi delle classi dominanti mentre solo lei, invece, rappresenterebbe realmente i bisogni ideali e pratici delle classi popolari. È proprio ciò, tuttavia, che è sempre meno vero, nel momento in cui in molte situazioni sociali europee (vedi la Francia, ma non solo) è piuttosto la Destra, al contrario, che si mostra capace, con le sue tematiche nazional-populiste, di «insinuarsi nell’esperienza della gente e di contribuire a darle un senso nuovo», di «captare l’immaginario collettivo» specie delle classi popolari. Non sta scritto da nessuna parte, insomma, che i «poveri» debbano per forza pensare e fare cose «di sinistra».
Il terzo e ultimo elemento che danneggia elettoralmente la Sinistra è il fatto che oggi i suoi esponenti vengono percepiti — giustamente — come una parte significativa dell’élite delle società europee, in molti casi ai vertici del potere. Si pensi ad esempio a come la Sinistra domini il sistema dei media e come sia lei in generale a plasmare l’opinione «rispettabile», i valori accreditati proposti obbligatoriamente al resto della società. Nell’ambito dell’Ue e delle sue politiche, poi, la Sinistra appare poco o nulla distinguibile dai suoi avversari, prona da tempo alla medesima vuota ideologia dell’«europeismo» a prescindere. Si aggiunga infine l’ormai sopravvenuta mancanza in Italia come altrove di qualunque tratto «popolare» nell’antropologia dei suoi dirigenti, nel loro abbigliamento, nei modi, negli svaghi, nel linguaggio, nel loro laicismo di maniera; insomma, la loro omologazione — sia degli uomini che delle donne — al modello di agio borghese simboleggiato dal tailleurino Armani e dalla casa in campagna con relativa vigna. È precisamente rispetto a questo panorama che acquista rilievo — forse non solo italiano — la novità che per la Sinistra rappresenta la leadership di Matteo Renzi. Una novità riassumibile in tre punti che sembrano quasi altrettante risposte alle difficoltà illustrate sopra.
Innanzitutto nella prospettiva dell’attuale presidente del Consiglio non esiste più alcuna centralità — e quindi tanto meno nostalgia — né per la classe operaia né per il sindacato, pilastri dell’ormai tramontato «consenso socialdemocratico». Il loro posto appare preso piuttosto (cristianamente? Forse. Del resto non si è stati boyscout per nulla...) dai «poveri», da coloro che non sanno come tirare avanti, da coloro che in genere «non hanno avuto».
In secondo luogo è abbastanza chiaro che, avendo ben poco in comune con il tradizionale sfondo ideologico della Sinistra (e delle sue molte presunzioni), da Renzi è difficile aspettarsi scomuniche altezzose nei confronti di temi, punti di vista, anche insofferenze, di segno «populista» o fatte comunque proprie dagli strati popolari. Al contrario, ad ogni eventuale furore «populista» di destra egli appare perfettamente pronto ad opporre, per la sua formazione e il suo temperamento, un ben più convincente buon senso «populista» di sinistra.
Da ultimo, vuoi per la giovane età, vuoi per il percorso tipicamente da outsider , il nuovo segretario del Pd è ben poco identificabile con la Sinistra dell’élite stancamente imborghesita, da tempo allocatasi nel potere sociale diffuso, da tempo padrona dei canali di formazione e diffusione dell’ideologia dominante. Verso la quale élite anzi, come si sa, egli non ha mai nascosto i suoi propositi di «rottamazione».
Ma se sono visibilmente queste le novità che Matteo Renzi rappresenta, e che spiegano il suo successo, rimane ancora impregiudicato il punto decisivo: se esse, dando luogo a un’efficace azione di governo, riusciranno a oltrepassare la dimensione della leadership personale e a coagularsi in forme collettive. Per esempio nella formazione di nuovi gruppi dirigenti o nella costituzione di una prospettiva egemonica, nelle sole cose cioè che permetteranno di parlare di una vera svolta nella cultura generale della Sinistra: al di là dell’ondata di conversioni opportunistiche — «tutti renziani!» — che già si sta sollevando e che al primo successo, c’è da giurarci, sommergerà l’Italia.

La Stampa 13.4.14
Il ritorno della doppia sinistra
di Federico Geremicca

qui

La Stampa 13.4.14
Crozza-Renzi e il Def show vuol dire “Dov’è la fregatura”

il video qui

Repubblica 13.4.14
La Santa Sede scrive al governo e reclama le frequenze e i ripetitori in base ai patti, disattesi, del 2010
L’ira del Vaticano “L’Italia deve darci radio e televisione che ha promesso”
di Aldo Fontanarosa



ROMA. LO STATO Vaticano, questa volta, non porge l’altra guancia, anzi. Si fa sentire, con severità e vistosa impazienza. E come dargli torto. Anni di attese, di preghiere inascoltate, di indifferenza farebbero perdere la pazienza anche
a un santo.
D’ALTRA parte la predicazione elettronica, via radio e via televisione, è una priorità per la Chiesa che ora reclama dall’Italia – inadempiente – quello che le spetta, contratti alla mano. Un canale tv nazionale e un canale radiofonico, anch’esso nazionale e nella tecnologia ultramoderna del Dab. Beni che la nostra Repubblica si è impegnata a dare e che non ha dato.
Questa storia nasce nel novembre del 2009 quando il Lazio, anche il Lazio, abbandona la vecchia tecnica di trasmissione dei canali tv (l’analogico) per abbracciare il digitale terrestre, con la sua promessa di migliorare la qualità del segnale (disattesa) e di moltiplicare le emittenti. Paolo Romani, ministro dello Sviluppo Economico con Berlusconi, si accorge che il digitale terrestre funziona a singhiozzo nella regione, dopo anni di anarchia e Far West dell’etere. E subito va a caccia di frequenze di pregio, soprattutto a Roma e nella sua provincia. Molto presto, Romani bussa alla porta del Vaticano che ha diritto – in base al “piano regolatore” dei ripetitori e agli accordi internazionali di Ginevra – ad alcune frequenze, ad alcuni “binari” di trasmissione di una qualità eccellente. Romani chiede ufficialmente di appropriarsene. Sono i canali 6 e 11 in Vhf, si legge nella documentazione ufficiale. E ancora: il 21 in Uhf (banda 4) e il 57 in Uhf (banda 5). Merce preziosa, anche se la Santa Sede può irradiare il segnale, in concreto, solo entro il perimetro dello Stato Vaticano, a Castel Gandolfo e nell’area di Santa Maria di Galeria (dove sono i suoi tralicci).
Lo Stato Vaticano acconsente a cedere tutti questi canali. E ottiene un impegno, a compensazione del favore che fa all’Italia. Entro il Natale del 2012, dovrà ricevere «capacità trasmissiva » su scala nazionale per una sua televisione («ad una velocità di 4 megabyte al secondo »). Significa che un operatore di rete (supponiamo la Rai) deve farsi carico di ospitare sui suoi tralicci («e senza oneri») questa emittente della Santa Sede. E non solo. Il Vaticano – entro il Natale del 2012 – avrà diritto a un canale radio «a copertura nazionale» che si ascolterà sempre sulla stessa frequenza. Questo canale proporrà – si immagina – la versione extra lusso della Radio Vaticana, nella nuova tecnologia digitale (il Dab).
La Santa Sede rispetta i patti. Rende i suoi 4 canali romani, ma non riceve mai il canale radiofonico e neanche l’ospitalità per la sua tv. A fine del 2012, il Vaticano fa una prima discreta sollecitazione (il governo, ora, è presieduto da Mario Monti). Quindi si fa sentire nuovamente quando premier diventa Enrico Letta. E ottiene un successo parziale: l’Italia giura che fornirà i canali non più tardi di Natale 2013 (dunque con un anno di ritardo rispetto agli impegni originari). Neanche a Natale 2013, però, avviene il miracolo delle frequenze...
L’8 aprile 2014, pochi giorni fa dunque, arriva al ministero dello Sviluppo Economico una nuova lettera - severa e documentata – a firma di Padre Federico Lombardi, direttore della Sala Stampa vaticana, che torna a reclamare il canale radio e l’ospitalità tv (supportato da monsignor Dario Viganò, il raffinato massmediologo brasiliano che guida il Centro Televisivo Vaticano). Il dossier, intanto, è già salito di livello visto che il dicastero chiave della Santa Sede (la Segreteria di Stato) lo sta esaminando. Se non è un ultimatum all’Italia, poco ci manca...
La grana vaticana è solo una delle questioni incandescenti finite nelle mani del nuovo sottosegretario alle Comunicazioni, Antonello Giacomelli, che dovrà anche gestire l’asta delle frequenze (per fare un altro esempio). Risulta che Giacomelli abbia letto con scrupolo la lettera vaticana e studiato a fondo il tema, deciso a dare una risposta adeguata.
Piccolo dettaglio, però: il sottosegretario non ha ancora ricevuto da Palazzo Chigi la delega operativa che preciserà il perimetro delle sue competenze. Fino a quando non avrà la delega, il margine d’azione di Giacomelli sarà limitato.
Con buona pace di chi reclama il giusto...

l’Unità 13.4.14
Rappresentanza, Fiom a Cgil: «Cambiamo insieme il testo»
Al congresso dei metalmeccanici acceso confronto tra Landini e Camusso
Applausi e qualche fischio alla segretaria, che chiede: «Non autoescludetevi»
di Massimo Franchi


Chi si aspettava la resa dei conti e la rottura fra Landini e Camusso è rimasto deluso. La divisione rimane sempre sul Testo unico sulla rappresentanza. La Cgil chiede alla Fiom di «non autoescludersi», la Fiom rilancia chiedendo «alla Cgil di cambiare assieme quel testo». All'ultima giornata del 26esimo congresso della Fiom a Rimini c'era grande attesa per quello che sarebbe successo. Prima di tutto sull'accoglienza che i 765 delegati fiommini avrebbero riservato al segretario generale della Cgil. Ebbene, quando Susanna Camusso ha iniziato il suo intervento i fischi ci sono stati – da parte della minoranza cremaschiana -ma subito sono stati sovrastati dagli applausi, trascinati dallo stesso Landini, a cui Susanna Camusso si è rivolta con un «Grazie Maurizio ». L'altra attesa era per i toni dei discorsi: se il segretario Cgil, giocando in trasferta, si è limitata a pochi passaggi sui temi caldi – strappando l'applauso quando ha ricordato: «Siamo l'organizzazione più democratica di questo Paese, dovremmo andarne orgogliosi -, la replica di Landini – confermato segretario per altri 4 anni con il 76% dei consensi - è stata più diretta, senza però mai acuire lo scontro, rilanciando in modo “costruttivo” sui nodi del rapporto Fiom-Cgil. Come un mese fa al Comitato centrale dei metallurgici, l'oggetto del contendere è sempre quello: l'accordo firmato il 10 gennaio dalla Cgil con Cisl, Uil e Confindustria (e Confservizi, per ora). Landini da subito ha contestato la parte che prevede “sanzioni” per i delegati in caso di mancato rispetto dell'accordo e l'Arbitrato interconfederale che deve giudicare sull'applicazione in attesa degli accordi demandati alle categorie. Dopo le tensioni nel Direttivo Cgil, il gruppo dirigente ha deciso di tenere una Consultazione vincolante sul Testo unico fra tutti gli iscritti. Decisione avversata però dalla Fiom che l'ha ritenuta «un voto sul segretario», decidendo di tenere un proprio Referendum – alle sfumature lessicali in Cgil si dà ancora molta importanza – aperto però a tutti i metalmeccanici che ha bocciato il Testo con l'86,5% dei voti. Nei prossimi giorni anche la Cgil renderà noti i risultati della Consultazione e proprio per questo, Camusso ha detto: «A Maurizio faccio una domanda: come fa la Cgil a concludere la consultazione? Vale il giudizio dei lavoratori, ma siamo un'organizzazione che deve decidere. Per tutti noi c'è il dovere della sintesi. Se si pensa che non sia utile dare i risultati degli iscritti della Fiom si genera un processo di autoesclusione. E nessuno lo vuole, perché siamo sì una casa complicata, ma una casa comune», riprendendo il concetto iniziale con cui aveva detto di «non avere nessun imbarazzo» a parlare alla Fiom, «una parte della casa comune». Landini ha risposto poco dopo. «La Fiom non si è autoesclusa. La domanda la voglio fare io: perché si è deciso di escludere la Fiom e le altre categorie dalla possibilità di conoscere quell' accordo e di decidere? Io rispetto il mandato del voto che i lavoratori metalmeccanici hanno espresso», spiega. Poi arriva il rilancio: «La Cgil sostiene i metalmeccanici e la Fiom per migliorare quel testo, o no? Io lo chiedo, visto che siamo la stessa organizzazione e il soggetto negoziale rimangono le categorie. Se il punto – aggiunge - è rilanciare la contrattazione e io sono totalmente d'accordo con Camusso, chiedo su quali gambe la facciamo camminare», sottolinea. «Voglio sapere cosa pensa di fare la Cgil a fronte del voto dei metalmeccanici», dice ancora Landini che poi avanza «una proposta: perchè non riapriamo insieme una battaglia per modificare il testo? Noi non abbiamo fatto un referendum per fare un dispetto alla Cgil, ma teniamo in conto o no il giudizio? Noi siamo pronti da domattina. Non ho mai pensato che il problema fosse il segretario della Cgil, che non era e non è in discussione, il problema è cosa fa la Cgil», urla tra gli applausi dei suoi. Infine annuncia che il nuovo comitato centrale sarà convocato già ad aprile «per rilanciare la compagna del rinnovo delle Rsu e dell'aumento degli iscritti alla Fiom, perchè noi viviamo sul contributo dei lavoratori». La partita sulla rappresentanza si deciderà dunque fra tre settimane, sempre a Rimini. Al congresso Cgil sarà però Camusso a giocare in casa, forte di una schiacciante maggioranza fra i delegati al congresso. Sempre che – e dopo ieri non è più così scontato – Landini e i contrari al Testo unico facciano un documento e una lista separata.

Corriere 13.4.14
Camusso nell’arena Fiom. Landini la sfida
Fischi isolati all’intervento del segretario che ha tenuto la linea (senza provocare)
di Dario Di Vico


RIMINI — Susanna Camusso giocava fuoricasa e ha impostato una gara tattica. Maurizio Landini era sostenuto a gran voce dai suoi ed è andato più volte all’attacco della Cgil. Un congresso lungo cinque mesi come quello della maggiore confederazione sindacale italiana vive anche di questi paradossi: il documento che si discute è formalmente unitario ma ieri a Rimini si è corso il rischio che il segretario generale della Cgil fosse clamorosamente fischiato dal congresso Fiom. Sarebbe stato un incidente senza precedenti e Camusso è stata attenta ad evitarlo, riuscendo però a concedere poco o niente al rivale. Del resto una buona fetta della platea aveva voglia di contestare chiunque fosse disallineato o non appartenesse alla categoria dei «mostri sacri» come Stefano Rodotà, ospite del congresso e accolto invece da un diluvio di applausi. A dividere la Fiom dalla Cgil è il cosiddetto testo unico sulla rappresentanza firmato dalle tre centrali sindacali e dalla Confindustria lo scorso 10 gennaio per misurare e certificare i rapporti di forza nei luoghi di lavoro. Landini accusa la Cgil, nel metodo, di averlo sottoscritto senza aver informato le categorie e, nel merito, di aver avallato quello che considera «un attentato alle libertà sindacali e alla democrazia». E per questo ieri ha sfidato la confederazione chiedendo a Camusso di fare fronte comune per «migliorare» l’accordo rimettendone in discussione alcuni punti-chiave (tra cui sanzioni e arbitrato obbligatorio).
Dietro la querelle sulla rappresentanza si individuano però altri due punti di contrapposizione tra Landini e Camusso. Il primo considera Matteo Renzi una novità di cui bisogna tener conto («dobbiamo diventare più veloci anche noi») e ha persino raccontato come a un semaforo sia stato riconosciuto dall’autista di una macchina accanto, che ha subito abbassato il finestrino e l’ha implorato di «dare una mano a Renzi». La numero uno della Cgil invece non digerisce la rottamazione («meglio la mescolanza»), l’enfasi sul primato dei giovani e pensa che il premier preferisca «parlare alla pancia del Paese e non alla testa». In più sul piano economico-sindacale Camusso considera le politiche del governo dannose per la scelta sulle privatizzazioni e sul lavoro («il voucher è diventata la nuova forma di occupazione»). A rendere viva la competizione tra Landini e Camusso c’è anche, sullo sfondo, la contesa sulla leadership della confederazione. Il segretario della Fiom ieri lo ha negato anche perché il congresso della Cgil che si terrà, sempre a Rimini, nella prima decade di maggio vedrà stravincere la sua rivale, ma la sensazione di molti è che Landini punti a indebolire la posizione di Camusso nel medio periodo e anche per questo motivo giochi di sponda con il premier Renzi. Al quale invece il segretario della Cgil manda a dire: «Siamo una grande organizzazione e non abbiamo mai pietito un tavolo di consultazione».
Già al momento di salire sul palco Camusso è stata fatta segno di fischi isolati, ampiamente coperti da un corale e provvidenziale battimani. «Non ho nessuno imbarazzo a parlare qui — ha esordito — perché la Cgil è una grande casa comune e non un condominio». Una casa comune però nella quale si deve sapere cosa pensano gli iscritti per poter formulare una sintesi unica. Invece la Fiom, a detta di Camusso, «si autoesclude» perché ha fornito i dati di una consultazione lanciata tra i lavoratori (86% di no al testo unico sulla rappresentanza) ma non ha mai registrato l’opinione degli iscritti come invece hanno fatto tutte le altre organizzazioni di categoria.
Dopo l’intervento del segretario della Cgil Landini avrebbe potuto contenere i toni, invece il suo è stato un discorso tonante, tutto all’attacco. L’identità Fiom sopra tutto e tutti e la voglia di portare la battaglia sui luoghi di lavoro. Il segretario ha infatti promesso di far partire una campagna di rinnovo delle Rsu aziendali, di aprire vertenze con le singole imprese per «migliorare» l’accordo sindacati-Confindustria e di puntare anche ad aumentare il numero degli iscritti Fiom. In mezzo magari ci potrà scappare anche uno sciopero generale dei metalmeccanici, tanto per cominciare. Manca però meno di un mese al congresso nazionale della Cgil, in quell’occasione a giocare in casa sarà Camusso e si vedrà quanto pesa Landini non solo nella sua categoria. La confederazione stima la forza della Fiom attorno al 15% ma i diretti interessati considerano «truffaldino» questo conteggio.
P.s. Ieri nel suo intervento Camusso ha provato a proporre alla platea un’analisi sulla frantumazione del sistema produttivo tradizionale e sull’emergere di nuovo forme di lavoro povero. Condivisibile o meno che fosse la riflessione è caduta nel vuoto. Non era una giornata per palati fini.

il Fatto 13.4.14
Camusso, gelo e fischi al congresso della Fiom
Continua lo scontro nel sindacato: Maurizio Landini, che rischia il processo interno, viene riconfermato al vertice e sollecita uno sciopero generale
di Salvatore Cannavò


Se mi baci ti fischiano” gli ha detto Susanna Camusso. “A me non mi fischiano” è stata la risposta di Maurizio Landini. Lo scambio di battute finali, cortese e diplomatico, non rende giustizia alla giornata conclusiva del congresso nazionale della Fiom in cui lo scontro tra il segretario della Fiom e quello della Cgil è stato netto. Non sul piano della faida personale e nemmeno su quello della mimica congressuale.
QUANDO È SALITA sul palco per il suo intervento da 45 minuti, Camusso ha affrontato di petto uno dei pochi delegati pronto a fischiarla: “Quando hai finito posso continuare” e poi si è esibita in un intervento accolto da un silenzio totale. Si è mantenuta alla larga dalla polemica. Ha portato la discussione su temi di strategia della Cgil, si è dilungata nella critica alle politiche del governo lasciando trapelare tutta la propria insofferenza nei confronti di Matteo Renzi. “Non pietiremo un tavolo qualunque per poter dire di essere stati ammessi al confronto” ha risposto alla volontà del premier di chiudere con la concertazione. Poi ha definito il “cambiamento senza aggettivi” come pericoloso e in particolare ha criticato “l’arroganza del cambiamento solitario”. In particolare, ha detto no alla proposta di Renzi sul salario minimo perché , ha spiegato, “come viene agitato rischia di essere una sostituzione del salario contrattuale”.
SOLO NEGLI ULTIMI cinque minuti Camusso ha deciso di entrare nella disputa del congresso e, pur senza nominare l’accordo del 10 gennaio, contestato dalla Fiom e su cui la Cgil ha promosso la consultazione degli iscritti ha rivolto “una domanda a Landini”: “Come facciamo a chiudere la consultazione se la Fiom impedisce di conteggiare i voti dei suoi iscritti? Perché la Fiom si vuole autoescludere?”. Quando è toccato al segretario della Fiom intervenire per chiudere il congresso, ha cominciato da qua: “La giro io una domanda alla Cgil? Perché voi ci avete escluso dalla discussione sull’accordo?”. E poi: “La fate una battaglia insieme per cambiare quel testo?”.
Palla buttata al di là della rete e discorso che per 45 minuti su un’ora complessiva, è servito a polemizzare con chi l’aveva preceduto. Al di là delle divergenze sulla strategia complessiva, le conclusioni del congresso Fiom sono servite in particolare a puntualizzare che Landini non si farà normalizzare: “Se sarò eletto segretario della Fiom non firmerò mai un accordo che sanziona un delegato e rispetterò sempre il mandato che i metalmeccanici hanno espresso”. Per dare legittimità alla propria azione ha chiesto alla Fiom di organizzare la consultazione dei lavoratori, chiudendola con un consenso dell’86 per cento. Ha tirato la platea dalla propria parte ricevendone boati di approvazione. Ha parlato anche al nuovo direttore generale di Federmeccanica, per la prima volta presente al congresso dei metallurgici Cgil, per ribadire quanto la Fiom sia rappresentativa e quanto intenda esserlo di più nei prossimi mesi con una campagna delle iscrizioni e per il rinnovo delle Rappresentanze sindacali unitarie. Ha anche scomposto la minoranza legata a Camusso portandone con sé una buona parte e ha annunciato l’intenzione di organizzare lo sciopero generale della categoria a partire dalle tante vertenze in corso (Lucchini, Electrolux, etc.) e di chiedere alla Cgil di andare a un vero sciopero generale contro il governo.
SU RENZI il segretario della Fiom non ci sta a farsi schiacciare sul lato della conservazione. “Non si può difendere l’esistente e per quanto riguarda Renzi non si tratta di salire sul carro del vincitore ma di essere veloci anche noi e quindi cambiare”. Apertura quindi alla discussione sul salario minimo - “in Germania è stato positivo”. Ultimo elemento di scontro la pubblicazione o meno dei bilanci sindacali e delle buste paga dei dirigenti: “Non lo facciamo per populismo”, ha scandito Landini, “ma per dimostrare che fare il sindacalista non è un mestiere”. Un congresso vinto di slancio, con il 76,2 per cento dei voti con la minoranza legata a Camusso al 16,5 e la sinistra di Bellavita al 7,2. L’appuntamento, ora, è di nuovo a Rimini agli inizi di maggio. La platea del congresso Cgil, però, sarà molto diversa.

l’Unità 13.4.14
La Flc-Cgil: «Povero il 53% del personale della scuola»
di Adriana Comaschi


Cifre che spiazzano, come quella portata nella sua relazione dal segretario (riconfermato) Domenico Pantaleo: «Nel comparto scuola il 53% dei lavoratori secondo i nostri calcoli dovrebbe beneficiare degli 80 euro di riduzione fiscale, il che significa che hanno salari nella fascia di povertà». Proposte decise, come quella sugli investimenti necessari per scuola formazione e ricerca: «Serve un progetto complessivo sostenuto da 20 miliardi in 5 anni, è il differenziale che ci separa dall’investimento dei Paesi Ocse per queste voci». Segnali dal terzo congresso della Flc Cgil, chiuso ieri dopo tre giorni alla Città della Scienza di Napoli.
Un incendio doloso l’ha parzialmente distrutta a marzo 2013, un anno dopo l’accordo per la sua rinascita fatica a decollare. La Flc Cgil ha deciso di ripartire da questo simbolo della voglia di riscatto del mondo della conoscenza e del Mezzogiorno, lanciando anche una campagna di raccolta fondi (fino all’8 giugno) per la ricostruzione del laboratorio di robotica. Preceduto da quasi 3 mila assemblee di base, il congresso ha accolto 528 delegati. Sul tavolo, i nodi di un comparto che politica ed economia di fatto collocano ancora in “serie B”. I numeri sugli investimenti sollecitati dal sindacato lo dimostrano , Pantaleo più in generale accusa il governo: «Non vedo una diversa visione rispetto agli ultimi anni, al di là di buone intenzioni e dei provvedimenti per l’edilizia scolastica, c’è maggiore attenzione a scuola e ricerca ma si ripropongono le fallimentari ricette di stampo gelminiano». Il nodo del contendere con l’esecutivo rimane anzitutto uno, «il contratto deve essere rinnovato per il personale e per tutte le professioni di tutti i comparti della conoscenza» detta Pantaleo, senza questa premessa non si può discutere di valorizzazione o di merito, nè rivendicare di puntare sulla conoscenza. Bisogna poi ripensare gli interventi per ridurre la dispersione scolastica e far crescere il numero di laureati e ricercatori. Puntare su di loro è indispensabile, «l’ultimo rapporto di Confindustria dice che un livello d’istruzione come quello dei Paesi più avanzati - cita Pantaleo - consentirebbe in 10 anni un incremento del Pil di 234 miliardi». O come ricorda il giornalista scientifico Pietro Greco in un’interessante tavola rotonda con il direttore del Cnr, rettori e pedagogisti, «la politica italiana non sembra essersi accorta che il 27% dell’economia mondiale si fonda sulla conoscenza».

il Fatto 13.4.14
Vaticano SpA
La Fabbrica di Pietro e degli affari
di Alessio Schiesari


C’è una domanda a cui nessuno è mai riuscito a dare risposta: quanto vale, in termini di vile denaro, la Chiesa Cattolica? Per rispondere bisognerebbe dare una valutazione alla Cappella Sistina, alla Basilica di San Marco a Venezia, alla Sacra Sindone. Semplicemente impossibile. Qualche stima però è stata fatta. Il gruppo immobiliare Re ha calcolato che il 20 - 22 per cento del patrimonio fondiario italiano sia in mano alla chiesa, per un valore che supera abbondantemente i mille miliardi di euro. Ancor più impressionante è la somma dei terreni posseduti in giro per il globo: tra chiese , cimiteri e conventi, alcune stime – non si sa quanto affidabili – parlano di 716.290 mila chilometri quadrati, due volte la superficie dell’Italia. Nel bilancio dello Ior, pubblicato per la prima volta l’anno scorso, si legge che la banca vaticana gestisce una ricchezza di oltre 6 miliardi di euro.

La Stampa 13.4.14
Scambio di embrioni
Mamma si trova in grembo due gemelli di un’altra
Chiusa l’unità medica per la sterilità al Pertini di Roma, parte un’inchiesta interna
Maurizio Mori: “L’aborto è possibile. È la donna che decide  cosa fare del suo corpo”
intervista di Maria Corbi


Maurizio Mori è professore di Bioetica all’Università di Torino, presidente della consulta di bioetica. Pensatore laico. Iniziamo da qui. «La prima osservazione da fare è che si è trattato di un tragico errore. E gli errori hanno sempre conseguenze gravi e gravissime», spiega Mori.
Mi scusi professore, ma se questa donna avesse deciso di abortire gli embrioni appartenenti a un’altra donna e a suo marito? La conseguenza sarebbe stata non solo gravissima, ma irrimediabile. E potrebbe succedere.
«Questi genitori hanno riconosciuto un errore biologico e hanno deciso di non interrompere la gravidanza. Ma avrebbero potuto farlo. Sulla gravidanza decide la donna. La sintesi di questo ragionamento è nella legge 194, la legge sull’aborto, che ha una corretta impostazione etica».
Ma una legge non riesce a sollevare dal dubbio doloroso: può una donna eliminare l‘embrione di un’altra?
«Il mio ragionamento non vuole nascondersi dietro a una legge ma, ripeto, credo che questa posizione sia eticamente accettabile. È la donna che decide su ciò che accade nel proprio corpo. Continuare una gravidanza dipende dalla volontà della donna. Se una donna vuole essere madre non biologica o diventare surrogata può farlo, se non vuole è legittimata a non farlo. Anche nel caso di un marito contrario all’aborto, alla fine decide la donna perché la gravidanza si svolge nel corpo della donna».
Lei comprende che il ragionamento fila logicamente, ma non emotivamente. Non pensa che la fecondazione assistita, artificiale, porti con sé una serie di problemi e di possibilità di errore che sarebbe bene regolamentare in maniera precisa?
«Tornando al caso che esaminiamo è chiaro ce ci sono stati dei danni subiti da queste coppie, ci saranno rivalse. Ma volevo farle notare che problemi simili a quello che lei mi sta prospettando esistono anche in natura. Pensi ai neonati scambiati in culla».
Sì, certo. Ma in quei casi non c’è la possibilità di non far nascere un bambino. Sono già in vita quando l’errore viene scoperto.
«Dobbiamo usare la terminologia giusta. In questo caso non si tratta di un bambino ma di un embrione che non ha la capacità di soffrire. Le ripeto: la donna è sovrana in caso di gravidanza, può decidere di andare avanti nonostante la consapevolezza sull’errore biologico, oppure comportarsi da mamma surrogata affidando - una volta nato - il bambino alla madre biologica. Oppure abortire. Possiamo parlarne per ore ma la risposta è sempre questa».
Quindi secondo lei non c’è bisogno di nuove norme?
«Sulla legiferazione ci andrei con cautela, perché la legge non è un bisturi preciso, ma spesso un’accetta. In questi casi dove vi è un problema etico, si devono usare strumenti più leggeri e agili rispetto a quelli del diritto. Meglio valutare caso per caso».
Ma senza chiarezza non sarà il far west?
«Il risultato di questo ragionamento è alla fine sempre lo stesso, ossia arrivare a dire che la fecondazione assistita crea difficoltà terrificanti. La verità è che la fecondazione assistita aumentando le capacità naturali può a volte aumentare il groviglio di problemi quando i problemi ci sono. Ma poiché ci si augura che errori non ce ne siano è un enorme beneficio. Nel 99,9 per cento dei casi aumenta la felicità delle persone compresi i nati. Poi certamente dobbiamo cercare di risolvere i problemi eventuali e che ci sarebbero anche con la fecondazione naturale».

La Stampa 13.4.14
Il cardinale “bioeticista” Elio Sgreccia
“Come in Bosnia per le donne violentate la gravidanza è un dovere”
intervista di Giacomo Galeazzi


«La vita è un bene primario. Come per le donne violentate, c’è il dovere di portare a termine la gravidanza». Fa esplicito riferimento al messaggio di Giovanni Paolo II alle bosniache stuprate in guerra il cardinale bioeticista Elio Sgreccia, già presidente della Pontificia Accademia per la Vita, direttore al «Gemelli» del Centro di Bioetica e dell’istituto creato all’Università Cattolica. Prima al Consiglio d’Europa e nel comitato Italiano per la bioetica, poi alla guida del dicastero vaticano della bioetica, il porporato si è occupato delle principali questioni etiche e giuridiche della medicina: donazione di organi, cellule staminali, obiezione di coscienza, stato vegetativo permanente, fecondazione assistita. Ha ideato anche la fondazione internazionale «Ut vitam habeant» per promuovere nella Chiesa la pastorale della vita .
Eminenza, quali dilemmi pone alla coscienza una vicenda del genere?
«Molti. Il fatto che sia lì per errore, e che non sia il figlio che la coppia voleva, non sarebbe comunque motivo sufficiente per abortire. Certo, per non interrompere la gravidanza si chiede alla donna l’eroismo di vedervi il bene primario della vita come chi lo riconosce in un bimbo abbandonato per strada. Comprendo che la situazione possa anche essere percepita come un’intrusione. Anche per me è una storia inaudita che crea turbamento. Ma comunque sia avvenuto il concepimento non sarebbe eticamente ammissibile l’aborto».
Perché?
«Per violenza, per errore o incompetenza dei medici oppure per deliberato contratto (come accade nella fecondazione eterologa) la sostanza non cambia e rimane comunque il dovere di portare a termine la gravidanza».
Su cosa si fonda questo dovere?
«Non si gioca con la vita, non si uccide una persona, il figlio di altri, un innocente. Non è un ladro che si è introdotto di sua volontà. Per lo stesso motivo nel ’93 Wojtyla si schierò a difesa dei nascituri nel caso delle donne stuprate dai serbi. È sempre valido l’appello ad un atto d’ amore superando la prova di accettare il frutto indesiderato. Lo stesso discorso vale per un errore nell’impianto. Anche in situazioni così dolorose vanno tutelati i nuovi esseri umani venuti comunque alla vita».
Prevale il diritto del nascituro?
«Il nascituro, non avendo alcuna responsabilità in quanto accaduto, è innocente. È una creatura che deve essere rispettata e amata non diversamente da qualsiasi altro membro della famiglia umana. La Chiesa non approva la fecondazione eterologa, ma uccidere la vita in qualunque modo sia stata concepita è sempre inammissibile. Va respinto il relativismo anti-solidale dove tutto è convenzionale e negoziabile. Anche in questa vicenda va accudito chi è debole invece di “risolvere” le difficoltà della vita nascente attraverso il ricorso a un intervento cruento come l’aborto. Il bambino, di chiunque sia figlio ha diritto di nascere».

La Stampa 13.4.14
Quel cortocircuito tra etica e diritti
di Franca D’Agostini


La situazione che si è creata al Pertini di Roma sembra un «esperimento mentale» del tipo molto frequentato dai filosofi contemporanei. Se non fosse che vi sono coinvolte persone umane, con autentici problemi e autentiche ansie, si potrebbe dire che è un caso paradossalmente «fortunato».

Quello che è successo può aprire uno sguardo rinnovato sulla questione dell’inizio della vita. Se non altro, ci obbliga a ripensare, forse per una volta al di là di assurdi e dannosi giochi politici, il problema dell’aborto, e più in generale il problema della maternità.
Una donna che desidera un figlio suo, e riesce ad averlo con la fecondazione assistita, si trova incinta di due gemelli, dopo qualche tempo l’analisi del Dna rivela che non sono suoi né di suo marito. Come potremmo descrivere la sua situazione? Giuridicamente, non credo che ci siano molti problemi: esiste un danno, subito dai genitori biologicamente mancati, e i responsabili dovranno renderne conto; d’altra parte la donna può abortire, la legge lo consente (a quanto sembra la gravidanza è ancora nei termini previsti). Eticamente la situazione è più complessa.
Un aspetto disorientante è che in condizioni normali, chi abortisce interviene su se stessa e su un proprio figlio, in questo caso invece si tratterebbe di prendere una decisione che riguarda due figli altrui, e che peraltro sono stati in tutta probabilità chiamati in causa dal desiderio di altri genitori. La scelta è difficile, ed è anche complicata dal fatto che comunque la madre-non-madre e il padre-non-padre avevano cercato e voluto questa gravidanza. Già, si direbbe: però volevano un figlio «loro», e non «altrui». Ma che cosa significa davvero la proprietà di un figlio?
Qui ci spostiamo su un piano ontologico, che cioè riguarda il particolare modo d’essere di un individuo che contiene in sé un altro individuo. Uno dei punti più tipicamente in discussione in bioetica è se l’analisi del problema dell’aborto debba basarsi sulla natura del feto, sul cosiddetto «statuto ontologico dell’embrione», oppure soltanto sui diritti in conflitto (il diritto della madre di scegliere il proprio destino, e il diritto dell’embrione di vivere). La prima posizione è poco frequentata dalla bioetica «laica» (la cosiddetta embryontology è rimasta un ambito di ricerca raramente applicato in bioetica). Ma in nessun caso ci si è preoccupati di riflettere a fondo sul fatto che la stessa condizione di una donna che ospita un figlio (suo o altrui) è una seria minaccia al principio di identità.
Il fatto è che la produzione di un figlio umano è in definitiva uno «stato d’eccezione», e come tale dovrebbe essere trattato. Questo era ciò che sosteneva Kant, il quale riteneva che le donne incinte o che hanno appena partorito non dovrebbero essere soggette alle leggi della convivenza civile, appartenendo di fatto allo stato di natura. Kant era insolitamente estremista, a questo riguardo. Ma se valutiamo il problema nei termini della situazione di un individuo che ne contiene un altro (in questo caso altri due), ci accorgiamo anzitutto che l’aborto non è in nulla paragonabile a un assassinio, precisamente perché l’essere due di una unità umana è qualcosa di nuovo e di diverso, con sue leggi ontologiche proprie.
Ciò non vuol dire che in simili condizioni non esistano obblighi e norme. Vuol dire piuttosto che l’aborto più che a «un assassinio» (come alcuni sventatamente vorrebbero) è paragonabile a un’automutilazione: una donna si priva di una parte di sé, e una parte che è anche una condizione di vita, e come tale di felicità o infelicità. È semplicemente giusto lasciarle questa libertà, ed è ignobile sfruttare politicamente il suo dolore.
Ci si chiede allora che cosa accada a una madre e a un padre che devono rinunciare a un figlio non loro, e che è stato concepito e accolto nel quadro di un effettivo desiderio di maternità e paternità. Al dolore derivante dal privarsi di una parte di sé si aggiunge la preoccupazione di dover decidere per qualcun altro, per altre relazioni, per altri destini. Ma c’è una speranza. L’analisi del Dna delle quattro coppie potrebbe favorire una soluzione brillante: che ciascuno porti a termine la propria gravidanza, e infine ci si scambino i figli, appena nati, e se mai si mantenga in vita a lungo questa strana e grande famiglia allargata.

l’Unità 13.4.14
Corteo per la casa, guerriglia in centro a Roma
di Jolanda Bufalini


Una scia surreale di plastica blu, scarpe perdute, bandiere rosse a terra, l’assedio ai palazzi finisce nel peggiore dei modi, pensavano di assediare sono stati assediati. Un manifestante peruviano con la mano spappolata dalla bomba carta che stava per lanciare, una ragazza prosperosa dalle spalle scoperte cammina lungo via del Tritone ormai deserta, tenendo alta una bandiera arcobaleno con la scritta pace, immagine malinconica di fine corteo. Un corteo che si sapeva sarebbe finito male. Ambulanze, in piazza Barberini, soccorrono i feriti, manifestanti, forze dell’ordine (saranno una ventina). Una signora che è arrivata da Taranto, «siamo comunisti proletari, per noi il problema è la disoccupazione », si tampona la testa con un fazzoletto bagnato. È caduta, durante le cariche, è stata calpestata dagli altri che scappavano, si è presa una manganellata in testa. Peggio di così non poteva andare. Un ragazzo con la testa sfasciata abbraccia la sua amica in terra, per proteggerla.
Poco dopo le 17 è scoppiato il primo botto davanti al ministero del Welfare. «Sanzioniamo questo palazzo del potere», si grida dall’altoparlante, con il linguaggio allusivo preso in prestito dal burocratese. E poi: «Non abbiate paura». Ma non è clima di portarsi dietro negli scontri la piazza. La battaglia è dura ma impegna solo una piccola parte del corteo, quello delle pseudo kway blu. Petardi e bombe carta a via Veneto, arance e uova a via XX settembre, contro il ministero dell’Economia. Alla fine il bilancio sarà di quindici feriti. Il più grave, il peruviano, è uno degli occupanti dell’hotel 4 stelle di via Prenestina. C’è un poliziotto che riportato ustioni alle gambe, gli altri feriti ricoverati negli ospedali erano tutti codici verdi.
L’inferno si è concentrato tutto in pochi metri, fra via Veneto e piazza Barberini. Oltre, su via Veneto, via del Tritone, Quattro Fontane, Quirinale, lo schieramento dei blindati, delle forze dell’ordine, carabinieri e polizia, è impressionante, invalicabile. È una zona rossa d’altri tempi, quella messa in atto ieri pomeriggio a Roma, blocchi di sbarramento nei punti più sensibili, verso Montecitorio e verso il ministero del Welfare. Dietro, turisti smarriti cercano di raggiungere la stazione Termini e gli hotel, c’è l’immagine incongrua di uscieri di pelle nera in redingotte, un cilindro per cappello, che trascinano le valigie dei clienti. «Spezza le catene», dice uno degli striscioni in piazza. «Disoccupazione-precarietà. Non siamo schiavi».
Il concentramento a Porta Pia è alle 14, ma il corteo parte in ritardo. Si aspettano diversi pullman che devono ancora arrivare, si aspettano quelli del Verano, che invece non arrivano perché vengono fermati e denunciati per possesso di bastoni e picconi. I carrelli con le arance fanno uno strano effetto. Si capisce che non sono lì per essere messe in vendita. In fondo, verso il ministero delle infrastrutture, i capannelli dei ragazzi che si organizzano. Lo capisci subito, si capisce che non sarà un corteo tranquillo.
C’è tanta gente vera dei movimenti per la casa, ma non tanta come nel corteo del 19 ottobre. Meno bambini, meno carrozzine, meno ragazze velate, meno condivisione, meno clima da festa popolare. Ci sono i ragazzi dell’Angelo Mai: «Da sempre c’è sintonia fra noi e i comitati di lotta per la casa. Ora questa solidarietà fra produzione culturale indipendente e problema abitativo è stata travisata come associazione criminale». C’è lo spezzone di Action (che ha aderito ma non è fra i promotori), ordinato e numeroso, ci sono i teatranti del Valle. C’è Sandro Medici che sembra il sindaco del rione Sanità, quando era presidente di municipio requisì diversi immobili per fronteggiare l’emergenza abitativa, al Quadraro, a Cinecittà: «Sono passato indenne attraverso tre gradi di giudizio. Vuol dire che ci sono delle strade percorribili». L’emergenza abitativa nella sola Roma conta circa 50.000 persone nelle liste di attesa o sotto sfratto. L’incongruenza è che ci sono 250.000 immobili sfitti e circa 50.000 invenduti, le licenze edilizie non vengono ritirate perché i costruttori non sanno che farne. Salvatore Bonadonna, ex assessore rifondarolo alla Regione Lazio: «Manca una politica, è una situazione esplosiva». Giorgio Cremaschi arringa dal camioncino alla partenza del corteo contro «il progetto di una società mostruosa e la criminalizzazione delle lotte sociali». I «Neetbloc» urlano slogan contro i democratici: «Il Pd sta con le cooperative dei costruttori e organizza i caschi blu». Caschi blu? Hai miei tempi erano le forze di interposizione dell’Onu. «De che? Semo troppo giovani per ricordare». C’è un gruppo di forconi, ma gli viene chiesto di togliere lo striscione «9 dicembre ». Chiude il corteo un pulviscolo di formazioni comuniste: partito comunista, partito comunista dei lavoratori, proletari comunisti...

l’Unità 13.4.14
Hanan Ashrawi
«Nel silenzio complice Israele fa pulizia etnica»
L’ex ministra palestinese: «Sono per il dialogo dal basso, per la disobbedienza civile ma non c’è pace senza giustizia»
intervista di Umberto De Giovannangeli


Il suo è un possente, argomentato, j’accuse contro un «processo di pace che ha ucciso la pace». La sua narrazione delinea un quadro angosciante fatto di una «legalità calpestata quotidianamente», di un’arroganza del più forte che «non conosce limiti». E al grande scrittore israeliano Abraham Yehoshua che, di fronte all’intransigenza del governo Netanyahu, chiede pubblicamente agli Usa di rinunciare al ruolo di mediatori, lei replica: «Mediare non può voler dire coprire chi usa il processo di pace solo per guadagnare tempo e rendere impraticabile la soluzione “due Stati”». A parlare è Hanan Ashrawi, più volte ministra dell’Autorità nazionale palestinese, la prima donna a ricoprire l’incarico di portavoce della Lega Araba, oggi membro dell’esecutivo dell’Olp. «Perché ci sia pace - dice a l’Unità la “pasionaria palestinese” - ci deve essere un riconoscimento di parità dei diritti. Ma la realtà è un’altra, opposta: la realtà è che a una parte, quella palestinese, anche i diritti più elementari continuano a essere negati. E senza giustizia, pace è una parola vuota, priva di senso».
Il segretario di Stato Usa, John Kerry, ha messo sotto accusa l’intransigenza del governo guidato da Benjamin Netanyahu. A rischio, avverte, è il futuro stesso del processo di pace.
«Il futuro? Kerry è ottimista. Perché mi pare difficile coniugare al presente quello che è stato ridotto a uno stanco rito recitato male. Occorre guardare in faccia la realtà, e non chiudere gli occhi di fronte ad una verità incontestabile...».
Qual è questa verità?
«La verità è che il popolo palestinese ha pagato un prezzo altissimo a un processo che ha negato la pace. L’ha pagato, l’abbiamo pagato, con la vita di molti civili palestinesi, con la colonizzazione forzata della Cisgiordania. L’abbiamo pagato con un furto senza precedenti di terre e di risorse perpetrato dal governo israeliano anche attraverso la pulizia etnica e misure degne di un regime di apartheid. C’è solo una definizione che dà il senso di questo sistematico scempio di legalità: punizione collettiva contro il popolo palestinese. Un reato sanzionato dalla Convenzione di Ginevra, di cui Israele dovrebbe rispondere nelle sedi internazionali appropriate, perché le politiche portate avanti dai governanti israeliani violano i diritti e le libertà fondamentali, istituzionalizzano il razzismo e incitano all’odio, calpestando quella legalità internazionale che sembra valere per tutti tranne che per Israele».
Netanyahu ribatterebbe che la sua è una lettura falsata unilaterale della realtà.
«Cosa c’è di falso e unilaterale nel denunciare il via libera dato da Netanyahu alla realizzazione di migliaia di unità abitative a Gerusalemme Est e in Cisgiordania? È falso che la realizzazione del “Muro dell’apartheid” (la barriera di sicurezza per Israele, ndr) ha spezzato decine di villaggi palestinesi, frantumando il territorio in tante enclavi, espropriando i palestinesi delle terre più fertili? A denunciarlo non è Hanan Ashrawi, sono organizzazioni non governative israeliane, rapporti delle Nazioni Unite, premi Nobel per la Pace... E ora Netanyahu giudica una provocazione il fatto che l’Anp abbia richiesto l’adesione a 15 agenzie delle Nazioni Unite. Dove sarebbe la provocazione nell’aver sottoscritto le Convenzioni di Ginevra, che costituiscono la base del diritto internazionale umanitario?»
Di fronte a tutto questo, cosa si sente di chiedere agli Stati Uniti e alla comunità internazionale?
«Di avere un sussulto di dignità e di esercitare le pressioni necessarie per contrastare non solo la politica ma la cultura dell’impunità che permea la leadership israeliana. Israele sta deliberatamente violando la legge e le convenzioni internazionali».
La parola «dialogo» non ha più diritto di cittadinanza in Terrasanta?
«Tutt’altro. Bisogna intendersi però su cosa s’intenda per dialogo. Per me, è mantenere aperti canali di comunicazione, di ascolto e di azione comune con quei settori della società israeliana che si battono per una pace giusta, tra pari. Un dialogo dal basso. Insisto su un concetto che è stato al centro di nostri precedenti colloqui: esiste una terza via tra rassegnazione e militarizzazione della protesta. È la via della rivolta non violenza, la via della disobbedienza civile...».
È anche la via della campagna internazionale di boicottaggio dei prodotti delle colonie israeliane?
«Assolutamente sì. La reazione rabbiosa di Netanyahu sta a dimostrare che questa campagna sta incidendo. Siamo a un punto di svolta. La gente dice basta, non si può continuare a gettare fumo negli occhi, giocando come fa Israele con le vittime».
Lei è divenuta punto di riferimento di tante donne palestinesi. Recentemente ha usato parole durissime per denunciare i «delitti d’onore» nei Territori.
«È una vergogna a cui metter fine. L’aumento di uccisioni di donne deriva dall’assenza di una legge che garantisca sicurezza e protezione delle donne, dalla mancanza di meccanismi e quadro giuridico adeguati a rendere i criminali responsabili dei loro crimini, e dalla mitezza delle sentenze nei loro confronti. È tempo per la magistratura di fare il proprio dovere giudicando in modo appropriato questi criminali senza scusarli con nessuna “circostanza attenuante”. La donna palestinese lotta contro una doppia oppressione: quella israeliana, certamente, ma anche quella di una società patriarcale che non accetta l’uguaglianza dei diritti di genere. La legge deve inmodoinequivocabile penalizzare i colpevoli di femminicidio e garantire che venga approvato il massimo della pena per questi crimini odiosi».

La Stampa 13.4.14
La storia di Tatiana e Andra
“Noi, le ultime bimbe di Auschwitz”
Reportage di Mario Calabresi

qui

il Fatto 13.4.14
Settis e l’archeologia: Renzi odia la profondità
di Dario Fo


In presentazione di un suo saggio uscito da pochi anni (Azione popolare. Cittadini per il bene comune Einaudi, 2012) il giornalista che intervista Salvatore Settis commenta: “L’ex rettore della Normale di Pisa è un 71enne signore dai modi gentili e leggermente impacciati, tipici di chi ha trascorso più di dieci lustri della propria vita tra libri, convegni, testi antichi, banchi delle più prestigiose istituzioni universitarie”.
Salvatore Settis, dice: “Il mio non è un atteggiamento estremista né ammiccante all’antipolitica, cioè all’odio e alla volontà di eliminare gli altri, ma è invece un modo di pormi fatto di indignazione e radicalità. Tutti i cittadini dovrebbero mobilitarsi per l’interesse generale, a difesa dei beni comuni. Compresi quelli artistici”.
CONOSCO Salvatore Settis da parecchi anni. Ho avuto la fortuna di tenere lezioni e convegni sul teatro e sull’arte della messa in scena alla Normale di Pisa, che ha diretto lungamente. Ho imparato dai suoi saggi e dagli articoli che trattano della salvaguardia del paesaggio e del territorio sommerso quanta negligenza criminale deve sopportare il nostro Paese; non solo, ma il Prof. Settis si inoltra con analisi chiare e inconfutabili a proposito dei progetti ferroviari di transito veloce che causano veri e propri disastri ambientali e che non tengono conto dei sacrosanti diritti delle popolazioni che grazie a questo atto di feroce modernizzazione perdono la propria autonomia e libertà; inoltre, lo scienziato Settis, sottolinea con giusta ironia come siano abili e spudorati i responsabili di questa tutela nello scaricare addosso alla natura e alle calamità imprevedibili la causa dei disastri che ciclicamente colpiscono la nostra terra.
Questi suoi scritti sono lezioni impagabili che ogni gestore della cosa pubblica dovrebbe imparare a memoria. Eppure è talmente desueta la coscienza dell’apprendere che uno scienziato come Settis che ha l’ardire di avanzare una critica al programma politico del governo in carica, fa scattare l’indignazione immediata da parte del presidente del Consiglio Matteo Renzi che con evidente sarcasmo commenta la scienza alla quale è legato il critico Settis, l’archeologia, anzi tout court lo definisce l’archeologo, cioè qualcuno che è con il cervello nel sottosuolo.
SECONDO l’enciclopedia Treccani, caratteristica dell’Archeologia è il metodo di acquisizione delle conoscenze, mediante cioè lo scavo sul terreno, la ricognizione di superficie e la lettura dei resti monumentali residui, cioè è la scienza che invita a guardare sotto, in profondità ai problemi e non dare nulla riguardo alla base per scontato. Come diceva Socrate: “Chi non scava, non sa su cosa cammina e trascorre la vita”.
Si vede subito che il Signor Renzi è uno che resta in superficie e si limita piuttosto ai ‘si dice che’.
Andare in profondo significa scegliere la fatica di osservare le cose sempre da punti di vista diversi, scoprire spesso il rovescio della propria condizione sia statica che dinamica; ed è proprio di lì che Eratostene di Cirene, nel II sec. a.C., intuisce che non solo gli umani vanno vivendo su una superficie sferica ma ha l’illuminazione che, grazie alla rivoluzione del nostro pianeta, nell’universo non esiste né sopra né sotto né donne e uomini all’in piedi o capovolti.
Ma questo Renzi non l’ha ancora capito. Se il governo ha un’idea bisogna che tutti i cittadini la condividano. Chi fa obiezione si ritrova fuori dall’universo.
E non bisogna quindi prenderlo in considerazione, specie se è un archeologo.

il Fatto 13.4.14
Un comunista al di sopra di ogni sospetto
Gian Maria Volnotè. Diario di un attore che è sempre stato contro
I registi lo adoravano perché arrivava sul set preparato: “Ho un metodo di lavoro, scrivo gli appunti su un quaderno e memorizzo”
intervista di Enzo Biagi


Come comincia la sua storia? Quella del signor Volontè e l’altra, la vicenda dell’interprete?
Direi quasi contemporaneamente. Ho debuttato molto presto, diciotto anni, prima la provincia, poi l’Accademia, le Stabili, le compagnie di giro, la tv, il cinema, tutto procede di pari passo: lavoro e invecchio. Mio padre si occupava di una piccola-media industria, madre casalinga, famiglia lombarda, nato a Milano in via Solferino, la strada del Corriere della Sera. Le prime recite le ho fatte con un complesso viaggiante, I carri di Tespi, due figli d’arte; lui, il capocomico, era napoletano. Facevamo il repertorio ottocentesco, io mi accontentavo, facevo un po’ di tutto dal suggeritore al trovarobe, dal segretario al protagonista. Era un teatro che veniva montato nelle piazze. Ci arrangiavamo. Dipendeva dalle “piazze”: a volte c’era da mangiare per tutti, a volte no, quando andava bene ci fermavamo anche un mese, altrimenti il giorno dopo si partiva per un’altra città.
Che cosa le piace, e che cosa la disturba, nel
suo mestiere?
Stabilire un nuovo rapporto col regista, discutere insieme, costruire d’accordo. Questo va bene. Ma siamo in tremila, e solo dieci entrano nel giro clamoroso degli eroi del rotocalco, o delle vittime del pettegolezzo. Del resto, le nostre quotazioni sono regolate dal mercato: domanda, offerta.
Lei è considerato uno dei migliori attori italiani, un film con lei protagonista, “Indagine
su di un cittadino al di sopra di ogni sospett o”, è stato premiato con l’Oscar: come sceglie una sceneggiatura?
Fare l’attore per me è stata una scelta esistenziale, ho fatto molti sacrifici. Quando facevo l’Accademia ho dormito anche dentro le macchine che trovavo aperte. Un film lo interpreto se porta contenuto se racconta dei meccanismi della società, sento la necessità di raccontare agli altri un po’ di verità.
Perché è comunista? Un incontro, delle letture, un’ingiustizia subita? La scoperta di
certi autori come Brecht, il tentativo di fare del teatro off, fuori dalle consuetudini: ricorda l’episodio, il falso scandalo de “Il Vicar i o”? No, lo racconti.
Era il 1965, con la regia di Carlo Cecchi mettemmo in scena il testo di Rolf Hochhuth che denunciava i rapporti tra la Chiesa e i nazisti e le responsabilità del Papa Pio XII verso l’Olocausto, accusato di essere stato passivo nei confronti dello sterminio. Dopo la prima sera intervenne la polizia che impedì le altre rappresentazioni con la scusa che il teatro non aveva il certificato di agibilità. Poi, non ho preso in considerazione certe proposte, anche allettanti; le commedie all’italiana, per intenderci; non me ne importa niente. Abbiamo fatto invece documentari sulle fabbriche occupale, e a Reggio Calabria abbiamo girato delle interviste strepitose. Dico: bisogna cercare spazi democratici più autentici. Dico: bisogna fare film di contenuto. Dico: bisogna battersi per le strutture.
Non le pare che alcune forme di protesta, come quella di scrivere con lo spray frasi rivoluzionarie sulle automobili dei piccoli borghesi che vanno a far compere, per Natale, alla Rinascente, siano per lo meno un po’ buffe, o un po’ ingenue?
Mi sembra di sì. Infatti, io non ho mai spruzzato niente. C’è stata tutta una campagna perché, in quel momento, con altri colleghi facevamo il teatro di strada. Suscitavamo interesse e persecuzioni.
Che cosa cercavate? Dove volevate arrivare?
Miravamo al decentramento culturale.
Spieghiamoci, proviamo.
A Roma rifiutavamo il teatro chiuso, arroccato in centro, venticinquemila spettatori all’anno, su tre milioni di abitanti, troppo pochi. Il teatro era elitario.
In effetti erano pochini. E che testi destinavate ai marciapiedi?
Scene legate alle esigenze delle masse. Che so: la questione della casa, gli inconvenienti del traffico. E alla fine della rappresentazione, assemblee e dibattito. Ci hanno attaccati, la polizia ha effettuato dei fermi e degli arresti, e qualcuno ha tentato di farci passare per un gruppo di irresponsabili.
Tra le persone che ha conosciuto chi è rimasto nella memoria?
Sono parecchie; tanti compagni, tanta gente , io ho un rapporto reale con la sezione del partito, col quartiere.
Chi ammira di più? Tra i contemporanei, nel passato?
Bertolt Brecht, Antonio Gramsci e Giuseppe Di Vittorio, questi sono i miei riferimenti.
Dei giudizi negativi, ce n’è qualcuno che l’ha colpito?
No. La critica non offende. Mi fa riflettere e basta. Ma è la volgarità di un certo tipo di stampa che ferisce, quella, ad esempio, che lancia il mito del Volontè finto proletario, ma autentico avaro, che va al mercato per risparmiare. Ecco: è questo genere di ciarpame che non digerisco.
E delle definizioni? Tutte giuste? È un arrabbiato? A me non pare. La trovo anzi disteso, riflessivo.
Non urlo, sicuro. Ma certe analisi portano a inevitabili conclusioni, ci spingono ad una scelta: può darsi che, assistendo ad alcuni falli che si ripetono ogni giorno, uno si sdegni pure e reagisca.
Ho letto una sua lettera a un ministro, nella quale risponde anche all’accusa di guadagnare troppo, centocinquanta milioni, se non sbaglio, per scrittura. È una contestazione che le fanno spesso: la imbarazza?
No, perché ignoro a chi dovrei lasciare i soldi. Non lo so. Al produttore, al distributore? Perché dovrei rifiutarli? Perché uno è legato all’idea socialista dovrebbe forse, mi dica, regalare i quattrini ai capitalisti?
Le dico: no. Ha simpatia per gli extraparlamentari? Che so: gli anarchici, Lotta Continua, il Movimento studentesco?
A me specialmente quelli di Lotta Continua, sembrano dei monaci, non so di chi, di quale Ordine, forse di Andreotti. Il Movimento studentesco ha esercitato una grossa funzione di rottura, ha posto dei problemi. Gli anarchici sono simpatici oggettivamente. Quando mi documentavo per il film Sacco e Vanzetti, venivano fuori episodi curiosi: sono quelli che hanno gettato meno bombe di tutti e che hanno pagato il prezzo più alto.
Se dovesse cambiare, quale professione l’attrae?
Biagi, la sua: quella del giornalista.
Ha una spiccata vocazione per gli esercizi
complicati, perché?
Mi piace conoscere, e far conoscere.
Come si prepara ad affrontare, che so, il ruolo di Enrico Mattei o di Lucky Luciano?
Raccolgo tutto il materiale possibile, leggo tutto quello che trovo, poi colloco la figura nel suo momento storico. Qualcosa di simile, insomma, a un’inchiesta giornalistica, all’indagine del cronista.
I registi dicono che lei è un attore che si presenta sul set sempre preparato, con il copione in testa. Ha un metodo?
Non credo sia un metodo, faccio una cosa molto semplice: scrivo a mano su di un quaderno le battute più volte. Questo mi serve per impararle, poi le ripeto a memoria come si faceva a scuola con le poesie.
Ha qualche hobby? Come impiega gli assegni che riceve?
Amo molto il mare, la natura. Del denaro ne faccio quello che voglio.
Chi sono i privilegiati? Gli alti burocrati, gli industriali, i divi? Lei come si considera?
Uno che ha la possibilità di scegliere, di esprimersi, questo è già un vantaggio. Sì, io sono un favorito.
C’è qualche gesto che l’ha commosso?
Sì, quelli delle grandi folle popolari.
Scendiamo al dettaglio.
I metalmeccanici quando sono andati a sostenere la piattaforma sindacale per il Mezzogiorno.
Francamente, non è da tutti. Che cosa sogna per sua figlia?
Un mondo in cui non debba mai indossare nessuna divisa.
D’accordo. Se un giorno avesse il potere, che cosa farebbe?
Non lo so; l’irrigazione della piana delle Puglie.
Qual è l’aspetto più umiliante per chi lavora?
Avere un padrone. Dicevano in Francia, nel 1968: “Il padrone ce l’hanno i cani”.
Signor Volonté, se dovesse raccontarsi, dire chi è, come si comporterebbe?
Un attore: questa è la mia parte. E nonostante tutto, mi creda, sono anche ottimista.

Repubblica 13.4.14
Düsseldorf. Arte e alchimia
Al Museum Kunstpalast 250 opere raccontano il rapporto tra creatività e misteri della natura. Dalle incisioni di Dürer a Anish Kapoor
Quando i maestri vanno in cerca della pietra filosofale
di Dario Pappalardo



DÜSSELDORF. Rubens non riuscirà mai a trasformare i metalli grezzi in oro: gli basterà prendere appunti e ritrarre il “venerato maestro” Paracelso. Luca Giordano, invece, si raffigura fiero con sguardo da noir che esce dall’ombra e un misterioso recipiente in mano. I dipinti del suo contemporaneo di Anversa, David Teniers il Giovane, sono tutto un succedersi di oscuri laboratori, esperimenti, ampolle, bacili, pozioni e libri di istruzioni: quasi un genere a sé. Nel Cinquecento, Pieter Bruegel aveva riprodotto quegli stessi interni in quadretti copiati e incisi per anni da allievi e discendenti. Almeno fino a Joseph Beuys, che nel 1982 a Kassel fonde in piazza una copia della corona di Ivan il Terribile e “ottiene” l’oro, dietro un artista si nasconde un alchimista. Su questo rapporto mai sufficientemente indagato fa il punto il Museum Kunstpalast di Düsseldorf dove, in contemporanea con la Quadriennale, è aperta la mostra Arte e alchimia – Il mistero della trasformazione (fino al 10 agosto, a cura di Dedo von Kerssenbrock-Krosigk e Beat Wismer con Anita Hachmann in collaborazione con Sven Dupré).
È un percorso lungo 250 opere che prende il via dall’antichità, quando l’alchimia era “la” scienza, ma anche una filosofia di vita: l’istinto ad andare oltre la natura, trasformandola e perfezionandola con le proprie mani. Per questo i primi alchimisti sono considerati Adamo ed Eva, che colgono il frutto proibito e inaugurano la conoscenza. Lo fanno anche in una delle incisioni più note di Dürer – altro insospettabile alchimista – che qui accoglie il visitatore. Esposti a poca distanza, ci sono i papiri egizi, su cui tutto è cominciato: risalenti al III secolo e custoditi adesso a Leida e a Stoccolma, contengono ricette sulla lavorazione dei metalli e princìpi alchemici. Dal Nilo quella che sarà poi considerata l’antenata della chimica si diffonde presto in Europa, lungo tutto il Medioevo. E pazienza se Dante confinerà gli apprendisti nell’ottavo cerchio dell’Inferno, assieme ai falsari.
L’alchimia vanta un vasto campionario iconografico, non sempre di facile interpretazione. In mostra, i Rotoli Ripley (XVI secolo), provenienti dalla British Library di Londra, raffigurano le varie fasi dell’Opus Magnum, ovvero della costruzione della pietra filosofale e, tra congiunzioni di sole e luna, draghi, ermafroditi, maghi, viandanti, riassumono un immaginario che avrebbe nutrito gli artisti per secoli. A questa cultura appartiene anche un dipinto di Lucas Cranach come Melancholia I che, qui esposto, rappresenta un angelo dalle ali nere intento a tagliare lo strato superficiale di un pezzo di legno; sullo sfondo, tre putti (secondo la metafora alchemica, il processo di trasforma- zione è un “ludus puerorum”, un gioco da ragazzi, per chi possiede la chiave della natura) guardano dalla finestra una nube scura con scene infernali, che rimanda alla nigre-do, la fase I della costruzione della pietra filosofale; un quarto putto, infine, si dondola, leggero e incurante del caos.
Se nel Seicento l’alchimia si confonde ancora con la scienza – come dimostra una lettera (1692) da “iniziato” di Isaac Newton – il secolo dei Lumi la metterà al bando, anche se poi a subirne il fascino saranno presto Goethe e i romantici. Cento anni dopo, la adotteranno Carl G. Jung e Rudolf Steiner. E, in campo artistico, il Novecento si può definire davvero un secolo di alchimisti. Lasciata la penombra, la ricostruzione di antri e wunderkammer, la mostra riparte dai surrealisti come Max Ernst, che desume una serie di figure (vedi Les Hommes n’en sauront rien, 1923) dalle illustrazioni del trattato alchemico di Herbert Silverer (1914). Il pittore Victor Brauner dice: «Nel realizzare i miei dipinti con la cera, sento di praticare la grande arte della spagiria». E guardando i suoi personaggi “magici”, che piacerebbero a Jodorowsky, si capisce perché. Con temi e immagini alchemiche Leonor Fini, Leonora Carrington e Remedios Varo aprono una via tutta femminile e al surrealismo. Yves Klein, che apprende l’alchimia diventando rosa- crociano, si avvale del blu e dell’oro come di colori che si fanno materia, principio e fine del tutto sulla tela: Relief éponge bleu (1960), con le spugne impregnate di blu Klein, da sola, è un’opera che vale la visita. Sigmar Polke si professa alchimista scegliendo per la sua pittura colori igroscopici che, esposti all’aria, assorbono umidità e si modificano. Ma anche l’iconografia dei suoi grandi dipinti, tra Ermeti trismegisti e soli e lune che si uniscono, tradisce riferimenti inequivocabili.
Nel 1967 è Germano Celant a coniare il termine di “artista alchimista”, indicando l’Arte Povera di Jannis Kounellis, Gilberto Zorio e Pier Paolo Calzolari, interessati all’utilizzo, che si può interpretare in chiave alchemica, del carbone (simbolo della nigredo), dell’oro e del mercurio. Rimandano all’Opus Magnum alchemica anche le macchine di Rebecca Horn: Zen of Aracon piume blu eg ialle su supporti d’oro si apre e si chiude periodicamente, come a rievocare un rito misterioso. Riporta all’origine di tutta l’arte, White Sand, Red Millet, Many Flowers di Anish Kapoor, in cui le montagne di sabbia colorata, il puro pigmento, sono l’opera stessa. Perché l’artista è un vero alchimista solo se da qui, da questa semplice polvere di colore, è in grado di costruire infiniti mondi.

Repubblica 13.4.14
Van Gogh visto con gli occhi di Artaud
di Marino Niola



«Vedo il volto rosso insanguinato del pittore venire verso di me, in una muraglia di girasoli sventrati, in un formidabile avvampare di faville». È esattamente quello che si prova entrando nel buio della prima sala, dove Van Gogh ci guarda attraverso una serie di autoritratti che colpiscono prima la gola e poi gli occhi.
Una ventenne americana vacilla: «Sembra un alieno», sbotta davanti all’autoritratto del 1889, in cui il pittore emerge da una corrente azzurra. E ci prende. Perché in realtà quegli occhi senza fondo sono di un alienato nel vero senso della parola, come diceva Artaud, «un uomo che la società non ha voluto ascoltare e al quale ha voluto impedire di proferire insopportabili verità».
L’ottusa indifferenza della società si riflette invece nella vitrea inespressività del dottor Gachet, lo psichiatra che invita questo “convulsionario tranquillo” a dipingere fino allo sfinimento, per distrarsi.
È lui, secondo Artaud, a spingere l’artista fuori dal mondo, a farlo scivolare inesorabilmente sul piano inclinato della follia. Che si manifesta come un terremoto delle forme, una fibrillazione del vivente, nei paesaggi malmenati di colore dove la natura è in preda a un tremore panico. Alberi sussultanti e fiori palpitanti irrompono dalle tele come emorragie della psiche. E il caos calmo delle stelle che ardono su Arles diventa uno stato d’eccezione del vedutismo. Al confronto l’allucinato Bosch era solo un artista, commenta Artaud, mentre Van Gogh è un «povero ignaro che si sforza di non sbagliare».
Proprio come diceva Carmelo Bene, «il talento fa quel che vuole, il genio fa quel che può». E Van Gogh infatti non ce la fa e alla fine soccombe. Si suicida trentasettenne. E il suo grido disperato echeggia nello stormo di quei corvi neri che volteggiano sul campo di grano come presagi di morte. Che il pittore sembra annunciare nel meraviglioso autoritratto di fronte al cavalletto, dove impugna la tavolozza come fanno i santi con gli strumenti del martirio. Mentre il dolore si scioglie gloriosamente in colore.

Corriere 13.4.14
Il depistaggio di Erasmo
Scrisse il libello su Papa Giulio II cacciato dal Paradiso poi finse di investigare per scoprire l’autore dell’opera
di Luciano Canfora


Anna Peeters, protagonista del romanzo di Simenon Chez les Flamands (1932: La casa dei Fiamminghi ), convoca nel suo paesino sul confine del Belgio, Givet, da Parigi, il commissario Maigret perché indaghi sulla uccisione di Germaine Piedboeuf. Anna è in realtà colei che ha ucciso la ragazza: per stornare i sospetti che nel paese si indirizzano verso i Peeters, ricchi e poco amati fiamminghi, Anna promuove essa stessa la caccia all’assassino. Maigret lo capirà dopo un bel po’, ma, non essendo in missione ufficiale, non denuncerà la donna. Ripartirà per Parigi di umore nero.
Un grande fiammingo, Erasmo da Rotterdam, adottò, in una situazione delicata, la stessa tattica di Anna Peeters. Autore — come Silvana Seidel Menchi ha definitivamente dimostrato — della feroce satira postuma contro il terribile Pontefice Giulio II (Giulio , Einaudi, pp. CXLIV+168, e 28), Erasmo, non appena il libello cominciò a circolare suscitando clamore, fu lui stesso ad ostentare zelo nel dare la caccia all’autore. «Molto presto — scrive la dotta curatrice — fu lui a guidare la caccia». «Illustrò la difficoltà del problema. Avanzò congetture riguardo al luogo di nascita dell’opuscolo: la terra d’origine, suggerì, doveva essere la Francia, dove queste quisquilie circolavano con sfrenata licenza, oppure la Spagna. Sulla identità dell’autore avallò molteplici e contraddittorie congetture».
Il libello era suo. E l’autrice di questa eccellente edizione dimostra in modo ferreo che a lungo era sopravvissuto e aveva circolato l’autografo, indubitabilmente di pugno di Erasmo. Il che rende comico il perbenismo dei molti studiosi, anche grandi, che si sono affannati, nei secoli, a negare la paternità erasmiana del libello.
Qual è il contenuto di questa satira in elegante latino e in forma di dialogo? Il Papa, appena passato nel mondo dei più, si reca in Paradiso con un imponente seguito di armigeri e accompagnato però anche da un sardonico «Genius» — il suo Genio! — che gli fa il controcanto. Le chiavi di San Pietro, che ha con sé, non gli funzionano: La porta del Paradiso è sbarrata e San Pietro, guardiano guardingo, si guarda bene dal farlo entrare. Tra i due si intreccia un dialogo via via più aspro. Pietro interpreta P.M. (Pontifex Maximus ) come Pestis Maxima . Le allusioni ai molti vizi del Pontefice abbondano, ma soprattutto il nucleo dello scontro sta nel fatto che tutto ciò che Giulio II adduce come argomenti a proprio favore, che dovrebbero legittimare il suo ingresso trionfale in Paradiso (potenza mondana, violenza, guerre, ambizione sfrenata), appare a Pietro come fondamento certo per escludere Giulio II dal cielo. In tal modo viene ripercorsa l’intera parabola di quel pontificato simoniaco e ultrapolitico. Quello che al Papa appare come trionfo della Chiesa è invece per Pietro l’infamia in cui la Chiesa è stata da lui ridotta. Al termine — ed è conclusione lievemente ambigua — Pietro suggerisce a Giulio di andare altrove a edificare un paradiso tutto suo, nel quale avrà stanza anche il suo esercito: «Costruisciti un nuovo paradiso, ma ben fortificato, che non possa essere espugnato dai diavoli». E Giulio si allontana minacciando: tornerà con un esercito ancora più grande, composto dai moltissimi morti delle guerre che sulla terra continuano incessanti. (Macabra ironia che fa pensare alla carducciana Sacra di Enrico Quinto ).
Lo spunto per l’invenzione della trama — un sovrano, il Pontefice, scacciato dal cielo, dove sembrava ovvio dovesse approdare — venne ovviamente a Erasmo dalla grande novità del momento: la appena edita (agosto 1513) Apocolocintosi di Seneca. Giulio II era morto nel febbraio, ed Erasmo, come la Seidel Menchi ha dimostrato, si mette a scrivere nel maggio 1514. Del resto Erasmo si era già ispirato esplicitamente alla Apocolocintosi anche nell’Adagio 201 («Re o stolti si nasce »). In quel libello fulminante, Seneca immaginava che l’imperatore Claudio, appena morto, e perciò fatto dio secondo una prassi instaurata da Augusto, salisse al cielo ma, a seguito di un acceso dibattito, nel concilio degli dei, ne venisse scacciato soprattutto per l’efficace, vibrante invettiva di Augusto contro di lui. Nel corso della quale, il fondatore del principato, tracciava un profilo feroce del governo di Claudio e delle sua tare. Lo stesso accade nel Giulio , nel corso del dialogo tra Giulio II e San Pietro.
Erasmo aveva avuto tra mano l’editio princeps della satira di Seneca e l’aveva riedita nel 1515 stampandola insieme all’Elogio della follia , nel cui capitolo 59 c’è già il nucleo della satira contro Giulio II. Sia consentito dire che Seneca fu più breve e più efficace.
Alle fonti ispiratrici di Erasmo io credo si debbano aggiungere anche i Cesari dell’imperatore Giuliano (volgarmente detto l’Apostata). Satira, anche questa, culminante nella finale cacciata dall’Olimpo di un altro sovrano: Costantino («detto dai preti il Grande» diceva Engels), inviso a Giuliano come a tutti i seguaci delle antiche fedi religiose e filosofiche. Costantino viene distrutto, nell’esame che vien fatto della sua criminosa carriera, e alla fine scacciato dall’Olimpo, accompagnato dalla Mollezza e dalla Débauche. Giuliano, sferzante, fa dire conclusivamente a Ermes che Gesù ha l’impudenza di cancellare i peccati: àncora di salvezza per un cattivo soggetto come Costantino.
Che Erasmo conoscesse questo testo, la cui edizione a stampa fu molto ritardata (1577), è probabile, se solo si considera che il Marciano greco 366 (manoscritto del «tesoro di Bessarione» = nr. 75 dell’inventario del 1474) può averlo visto a Venezia durante l’anno (1507-1508) in cui vi soggiornò in stretto contatto con Aldo Manuzio, curando la stampa degli Adagia . Non va dimenticato inoltre che il più importante codice giulianeo, il Vossiano greco F 77, aveva circolato tra Giovanni Crisolora e Gemisto Pletone, per giungere poi a Padova e infine, dopo molto, a Isaac Vossius.
La stampa senza nome d’autore, a cura di Hutten, luterano verace, del Giulio ebbe un successo enorme. Erasmo si spaventò e si consacrò a fabbricare le false piste di cui s’è detto in principio. Anche Hutten, del resto, pubblicò anonime le sue Lettere di uomini oscuri , ferocemente antipapali, rivolte soprattutto contro Leone X e la sua corte. La questione che si presenta è dunque quella della prudenza e della doppiezza: due doti tipiche degli umanisti, non solo di quei tempi. Si può dire che in Hutten si rileva la prudenza, in Erasmo la doppiezza.

Corriere 13.4.14
Il patrimonio filosofico e morale che unisce mondo classico e cristianesimo
Un pensiero aperto e plurale che sa coltivare le diversità
Tutto cominciò con le sfide della Grecia e di Augusto
di Giuseppe Galasso


Come si sa, l’Europa iniziò la sua grande carriera storica nella preistoria. Anche il nome è antico e appare legato a un termine non indoeuropeo, che significa, più o meno, Occidente, in opposizione ad Asia, Oriente: contrapposizione ricorsa più volte nella storia europea. Si individuavano, in quei due ambiti geografici, due diverse concezioni del mondo e dell’uomo, corrispondenti a due serie di valori, positivi e superiori quelli riconosciuti come europeo-occidentali, negativi e inferiori quelli qualificati come asiatico-orientali. Così fu per i Greci nelle loro guerre con i Persiani, così nella lotta di Augusto contro Antonio e Cleopatra: e già allora il punto-chiave del contrasto era la questione politica della dignità dell’uomo in quanto cittadino.
Alla Grecia e a Roma l’Europa non è debitrice solo di questo. Ne ha derivato, fra l’altro, un patrimonio di idee e di criteri scientifici, a cominciare dalla conoscenza del mondo, nonché di modelli artistici e letterari, di dottrine e di istituti giuridici e di idee filosofiche, che è poi rimasto a base della posteriore cultura europea. Infine, in questo stesso mondo greco-romano maturarono la genesi e lo sviluppo del cristianesimo: un’enorme rivoluzione religiosa, ma anche culturale, morale, civile. E col cristianesimo entrò pure nella tradizione europea l’ebraismo con i suoi valori, costituendone un fattore spesso deprecato e perseguitato, ma sempre presente, attivo e fecondo.
Dopo la fine dell’età antica, l’Europa si definì a lungo come Cristianità, all’ombra e sotto la guida delle Chiese cristiane, e soprattutto di quella cattolica. Se si astraesse da ciò, l’idea e l’immagine dell’Europa sarebbero, perciò, private di qualcosa di fondamentale. Il cristianesimo ha avuto, peraltro, del tutto in comune con l’essenza della storia europea, una profonda riluttanza alla staticità, da un lato, e all’uniformità, dall’altro. Come l’Europa, il cristianesimo si è diviso in confessioni, correnti, tradizioni, che si sono contrapposte tra loro in dialettiche acerrime e fin troppo spesso sanguinose. Come quella religiosa, e ancor più, la storia dei popoli e degli Stati europei è stata anch’essa cruenta, di un dinamismo incontenibile e ininterrotto, di ricorrenti diversificazioni e di un ineliminabile pluralismo. In essa le piccole dimensioni non hanno contato meno delle grandi, e sempre l’Europa si è dimostrata riluttante a qualsiasi unità imposta con la forza.
Attraverso queste lotte la coscienza europea è, tuttavia, cresciuta e ha potuto avere nella storia del mondo una parte singolare e, alla fine, eminente. Eminenza certamente dovuta a un’altro carattere originale dell’Europa, e cioè che essa non è mai stata un ambiente chiuso alle novità di altra provenienza. Anzi, ha assorbito tutto quel che poteva da altri ambienti, dall’Oriente antico mesopotamico, fenicio, anatolico, egizio all’Oriente bizantino e musulmano nel Medioevo, per finire all’Oriente e ad altre parti del mondo moderno. L’esplorazione del mondo, il prodigioso sviluppo della scienza, la rivoluzione industriale, l’avvio di un mondo di comforts e di loisirs prima inimmaginabili, i trionfi tecnico-scientifici fino alla comunicazione in tempo reale, all’esplorazione dello spazio e alla biogenetica sono il frutto dell’apertura, del dinamismo, del pluralismo che hanno connotato in modi varii, ma costantemente la vita storica dell’Europa.
Un discorso ancor più pregnante è da fare per le idee di libertà, di diritti dell’uomo, di uguaglianza della legge per tutti, di autodeterminazione dei popoli, di questioni sociali, da quelle di classe a quella femminile, di ordine e di sicurezza internazionale, nonché di diritto internazionale, che, con varie altre, formano l’irrinunciabile eredità europea trasmessa al mondo nel corso del tempo.
L’Europa si è poi definita come tale solo in tempi recenti. Solo, infatti, tra il secolo XV e il XVI un vero concetto d’Europa prese forma e si consolidò, dopo un lungo prologo medievale, iniziato con Carlomagno, che non fu il «fondatore» dell’Europa e non pensava all’Europa, ma determinò condizioni senza le quali l’Europa non sarebbe stata quella che è stata. L’Europa del XV secolo si fermava a oriente sulla linea Baltico-Adriatico. Cracovia e Buda si potevano considerare le sue città più orientali. Al di là si estendeva un mondo slavo, ma largamente permeato di presenze asiatiche (Mongoli, Tartari, Kazachi). La penisola balcanica era degli Ottomani. Fu tra il secolo XV e il XVIII che l’Europa divenne il continente che ancora oggi consideriamo un tutt’uno dall’Atlantico agli Urali, dall’Oceano Artico al Mediterraneo. L’Europa (si può dire) si europeizzò completamente, quale che fosse la fisionomia delle sue parti, per cui divenne una grande realtà civile, e non per caso Voltaire la definiva come una grande société des ésprits , una pur nella sua brillante diversità.
È per ciò che la dimensione culturale dell’identità europea ha avuto un ruolo dominante nella sua storia. Medioevo e Rinascimento, Illuminismo e Romanticismo, Idealismo e Positivismo furono altrettanti momenti progressivi e cumulativi nello sviluppo di una coscienza europea sempre più comprensiva e, insieme, metodicamente curiosa e insaziabile nel domandare e rispondersi, sempre in fermento di esperienze e di trasformazioni. Nessuna parte dell’eredità d’Europa può, quindi, essere rifiutata a priori, e le sue stesse negatività, così frequenti e cospicue, ne fanno tanto parte che solo includendole in quella storia le si può appieno rifiutare secondo i metri più alti dello spirito europeo.
Così l’Europa ha potuto europeizzare il mondo. Ben più: si è potuta moltiplicare come Occidente, al punto che oggi vi sono alcune Europe nel resto del mondo, che spingono alcuni a chiedersi se l’Europa stessa, col suo tradizionale ruolo nella storia non sia ormai superflua, perché altri, europei e non, impersonano oggi più e meglio quel ruolo. Sarà così? Gli europei ne sono consapevoli? L’Unione Europea basterà a smentirlo?

Corriere 13.4.14
Il piccolo genio delle neuroscienze
Piemontese, nata da genitori cinesi: diventerò ricercatrice
di Francesco Alberti


Anna Pan, 17 anni, occhi a mandorla, sangue cinese nelle vene, inflessione piemontese, figlia di ambulanti: ieri ha vinto a Trento la quinta edizione delle Olimpiadi delle Neuroscienze, competizione nazionale riservata agli studenti degli ultimi tre anni del liceo (2.500 partecipanti in rappresentanza di quasi 150 istituti). Sarà lei a portare il vessillo dell’Italia a Washington dove si terrà l’International Brain Bee Competition, una sorta di campionato del mondo per aspiranti scienziati e piccoli geni.

Non chiamatela cervellona: «Ma no, non sono la più brava neanche nella mia classe al liceo». Casomai, del cervello, dei suoi segreti e di quell’insieme di studi sul sistema nervoso che rientra sotto il nome di neuroscienze, Anna, 17 anni, occhi a mandorla, sangue cinese nelle vene, inflessione piemontese, sogna di fare una ragione di vita: «Neurologa o neuroscienziata, chissà, vedremo...». L’ha scoperta solo da qualche mese questa materia che spazia dalla genetica all’immagine cerebrale, fino alla psicologia: da allora ci si è buttata a capofitto, tra una lezione e un compito in classe al liceo scientifico «Antonelli» di Novara, dove, come nel resto d’Italia, questo indirizzo di studio non rientra nel programma. «Me l’ha fatta scoprire — racconta — la mia insegnante di scienze e subito mi sono appassionata. Ho studiato in estate. Ho cercato di approfondire, mi sono creata un piccolo piano di studi. E ora eccomi qua...».
Sorridente, sguardo intenso, pieno di curiosità. Si chiama Anna Pan, è nata e vive a Bellinzago Novarese, 9 mila abitanti, dove i genitori cinesi (il cognome è italianizzato da un ideogramma), ambulanti che girano i mercati della zona vendendo prodotti tessili e abbigliamento, si sono costruiti una vita una ventina di anni fa. Le fanno tutti gran festa nell’aula del dipartimento di lettere e filosofia dell’Università di Trento. Sarà lei, che ieri ha vinto la quinta edizione delle Olimpiadi delle Neuroscienze, competizione nazionale riservata agli studenti degli ultimi tre anni del liceo (2.500 partecipanti in rappresentanza di quasi 150 istituti), a portare il vessillo dell’Italia a Washington dove, a fine agosto, si terrà l’International Brain Bee Competition, una sorta di campionato del mondo per aspiranti scienziati e genietti nel campo delle neuroscienze.
Vincere le Olimpiadi italiane porta bene. L’anno scorso a Vienna, Giulio Deangeli, 18 anni, studente del liceo scientifico «Giovanni Battista Ferrari» di Este (Padova), si piazzò secondo alle spalle di un ragazzo australiano e ora si sta giocando questa importante credenziale tra istituti di ricerca di mezzo mondo. Deangeli, che frequenta l’ultimo anno del liceo e ha appena affrontato il test d’ingresso per medicina, ieri faceva parte della giuria assieme a cinque ricercatori dell’università di Trento (con lui anche il vincitore del 2012, Flavio Miorandi). Ora tocca ad Anna. «È stata dura, non mi aspettavo tanto, chissà i miei amici come mi prenderanno in giro...». La rincorsa di questa ragazzina al podio più alto è partita da lontano. Prima le selezioni nelle singole scuole. Poi la fase regionale. E ieri i migliori tre in rappresentanza di 17 regioni (più l’Istria), in tutto 54 studenti, si sono sfidati per 4 ore a colpi di test, quiz e analisi. A curare la regia, per il secondo anno consecutivo, l’università di Trento assieme al Centro di biologia integrata (Cibio) e al Centro interdipartimentale Mente e Cervello (CiMeC). «Il livello di questi ragazzi è decisamente alto — spiega il professor Yuri Bozzi che fa parte del Consiglio nazionale delle ricerche e dirige un laboratorio del Cibio —. Le neuroscienze hanno avuto negli ultimi anni una notevole espansione sia in termini di ricerca che divulgativi. Il nostro obiettivo è coinvolgere più giovani possibili, c’è fame di scienziati...».
I 54 finalisti arrivati a Trento si sono sfidati in 4 prove: una sorta di cruciverba, una tavola di anatomia del cervello, un test di diagnosi e un questionario a risposte multiple. Quindi, per dare maggior thrilling al gran finale, i migliori 5 si sono dati battaglia su altrettante domande. Quesiti del tipo: «Qual è la parte del sistema nervoso che media le risposte allo stress?» (risposta: sistema simpatico), oppure «Qual è la struttura del lobo temporale importante per la memoria?» (risposta: ippocampo).
Anna, con i suoi 17 anni, tra le mani il diploma di fresca campionessa olimpionica, difende con i denti la sua normalità: «No, non sono una secchiona, ho tanti amici e mi piace divertirmi. Però è vero che se devo scegliere tra un libro e un’ora di palestra preferisco il primo: la lettura è la mia grande passione, leggo di tutto, soprattutto storie e romanzi... Mica penserete che passi tutto il mio tempo sui testi di neuroscienze?». Papà e mamma non sono potuti venire, prima il lavoro: «Saranno felici — racconta Anna — e chissà la faccia quando dirò loro del viaggio a Washington...». In vista del quale la Società italiana di neuroscienze darà ad Anna una borsa di studio di mille euro.

Corriere Salute 13.4.14
Le «proto-parole» condivise dai neonati di tutto il mondo
Non si impara a parlare soltanto per aver sentito parlare:
questa abilità si sviluppa anche graie a basi biologiche e universali
Le preferenze dei piccolissimi sono risultate analoghe a quelle degli adulti
di Daniela Natali


Prendete la sequenza di suoni “bl”: quante parole che iniziano così vi vengono in mente? Blusa, blu, blando...Prendete ora “lb”: quante ne trovate? Nessuna in italiano, e anche in altre lingue sono o inesistenti o estremamente rare. Questo, e moltissimi altri esempi simili, rilevati dai linguisti, sembrerebbero corroborare l’ipotesi che a parlare non si impara soltanto per “esposizione” (cioè per aver sentito parlare e dire “quelle” parole), ma che esistono basi universali, biologiche, innate del linguaggio.
Una congettura interessante, ma non facile da verificare. Una prova a supporto dell’ipotesi “innatista” arriva ora da uno studio condotto da un team della Sissa, la Scuola Internazionale Superiore di Studi Avanzati di Trieste, appena pubblicato su Pnas . Spiega Marina Nespor, PhD in linguistica generale e teorica che, per la Sissa, ha seguito la parte più teorica della ricerca: «Abbiamo analizzato, in più di 70 neonati dai due ai cinque giorni di vita, le reazioni cerebrali a combinazioni di suoni molto frequenti all’inizio di parola e di sillaba in tantissime lingue (come “bla”) confrontando queste reazioni con quelle ad altre sequenze di suoni poco usuali (“lba”) e abbiamo visto che erano molto diverse».
Può chiarire meglio la questione delle combinazione di suoni? «La sequenza “bl” può trovarsi all’inizio di sillaba, invece la sequenza “lb” pur trovandosi all’interno di molte parole, pensiamo ad “alba”, non è mai parte della stessa sillaba. Una parola come alba non è pronunciata a-lba, si pronuncia al-ba. La sequenza “lb” è cioè “malformata” e rara solo se si presenta all’inizio di una sillaba» risponde l’esperta.
L’assenza di certe sequenze non dipenderà dal fatto che sono impronunciabili per il nostro sistema fonatorio? «No, — dice Nespor — tanto è vero che ho parlato di sequenze raramente presenti, non del tutto assenti, e quindi non impronunciabili, tanto è vero che “lb“ esiste a inizio parola in russo e in altre lingue. È sulla frequenza di certe combinazioni e sulla rarità di altre che bisogna interrogarsi, dato che tutte sono pronunciabili». Ma perché uno studio su neonati così piccoli? «Perché non fosse neppure possibile sospettare una qualche forma di apprendimento».
Ma non si dice che i bambini sentono già quando sono nell’utero della mamma? «Certamente, ma di un discorso, di una canzone, colgono solo la prosodia (l’intonazione, il ritmo, l’accento, la durata ndr ) non possono certo imparare nella pancia di mamma a distinguere “bl” da “lb”», chiarisce la professoressa.
Come è stato possibile verificare le reazioni di bambini così piccoli? «Abbiamo usato un metodo assolutamente non invasivo — risponde David Gomez, ricercatore della Sissa e primo autore del lavoro, che ha lavorato con la supervisione di Jacques Mehler —. I piccoli dovevano indossare, per quindici minuti, una “cuffia” che permetteva di rilevare il funzionamento del lobo temporale sinistro del cervello, deputato a comprensione del linguaggio parlato e alla scelta delle parole».
«Semplificando, — continua Gomez — le “cuffie” erano dotate di una tecnologia che permette di rilevare il consumo di ossigeno di una regione cerebrale e poiché un’area encefalica al lavoro consuma più ossigeno di una che non lavora, era facile capire come la zona oggetto di indagine, reagiva a un determinato stimolo. Le “risposte” del cervello dei piccolissimi sono risultate del tutto sovrapponibili alle preferenze che noi adulti abbiamo nei confronti di queste sequenze. Abbiamo così verificato l’esistenza di reazioni diverse di fronte a sequenze di suoni diffuse o, al contrario, assai rare. Anche se serviranno altri studi per confermarlo, sembra che i bambini vengano al mondo in grado distinguere parola da “non” parola, indipendentemente dalla lingua che poi impareranno».

Corriere La Lettura 13.4.14
La mia America comunista
Jonathan Lethem e la sinistra: ha deluso, ma condivideva i valori statunitensi
di Livia Manera


Una giornata a Berlino con Jonathan Lethem sulle rive del lago a Wannsee, nella dependance di una villa non lontana da quella dove nel 1942 i gerarchi di Hilter stesero il protocollo della «Soluzione finale», è un’occasione particolare per conversare con uno dei più brillanti scrittori americani. Si parla non solo del nuovo romanzo autobiografico in uscita da Bompiani nella traduzione di Andrea Silvestri, I giardini dei dissidenti , storia di tre generazioni di attivisti di sinistra newyorkesi destinati alla delusione politica e personale. Ma anche di come abbiano girato a vuoto i comunisti americani tra gli anni Trenta e la fine degli anni Cinquanta. Di quanta amarezza abbia portato loro il mito di un mondo migliore che l’Unione Sovietica ha sfregiato. E di quanto, nonostante tutto, il quarto di sangue tedesco che scorre nelle vene di Lethem (per via di un nonno nato e cresciuto a Lubecca accanto alla casa dei Mann) lo stia influenzando. Autore ebreo e arciamericano, nella sua opera ha mescolato supereroi, fantascienza, polizieschi, Bob Dylan, Brooklyn e Queens: ora rivolge lo sguardo alla vecchia Europa, al punto di pensare di ambientare il prossimo romanzo proprio qui, in Germania.
«Credo che essere cresciuto con un padre artista e una madre attivista in una specie di comune a Brooklyn, e avere assorbito quella cultura di sinistra che ha lasciato molte perplessità e delusioni anche a me, mi abbia trasmesso un’identità permanente di dissidente. A volte la sento come un peso, ma non riesco a liberarmene», dice Lethem mentre prepara il tè nella cucina della casa messa a disposizione dall’American Academy di Berlino per una fellowship di qualche mese. «In fondo non sono mai stato un grande animale politico. Eppure è come se dentro di me scorresse sempre una corrente critica rispetto alla cultura americana. Ecco: in un certo senso quest’eredità emotiva è il tema dei Giardini dei dissidenti ».
Il nono romanzo di Lethem dopo vent’anni anni di carriera letteraria segnata dalla svolta, nel 1999, dell’indimenticabile Brooklyn senza madre a cui è seguito un successo come La fortezza della solitudine , non è però un libro politico, come è stato il suo grido contro l’avidità del capitalismo americano, Chronic City (2009). «È piuttosto un libro sul posto della politica nella vita delle persone. Sull’ideologia come opportunità emotiva, su come alcune divisioni del mondo che si riveleranno catastrofiche si traducano nella vita delle persone», spiega, ora seduto al tavolo della cucina, i grandi occhiali rettangolari sul viso intelligente.
Le persone di cui parla Lethem sono, nel caso delle donne, attori dalla personalità forte, e nel caso degli uomini, debole. C’è la capostipite della famiglia Rose Zimmer, un’ebrea comunista di Queens dalla passione politica muscolosa, che nel 1955 subisce un processo nella cucina della sua casa di Sunnyside Gardens e viene espulsa dal partito perché ha una relazione sessuale con un poliziotto nero. C’è suo marito Albert Zimmer che i compagni di Queens hanno rispedito in Germania Est a fare la spia per la Stasi. C’è la loro figlia Miriam, che si ribella alla madre abbandonando l’università e andandosene al Greenwich Village per unirsi ai movimenti della controcultura degli anni Sessanta e Settanta. E poi Cicero, figlio nero dell’amante di Rose, che diventa un intellettuale rinnegato dai genitori perché gay. C’è il cantante folk irlandese Tommy Cogan che sposa Miriam e poi va con lei in Nicaragua nel 1979, dove saranno rapiti e moriranno nel nome della causa sandinista. E c’è il loro figlio Sergius, un ragazzo «tutto hippie e mezzo ebreo», che cresce orfano e innocuo in un collegio di quaccheri, ma per le autorità dell’Fbi rimane un elemento sospetto, il cui destino di deriva, alla fine del libro, fa pensare al neonato portato via dalle formiche alla fine di Cent’anni di solitudine di García Márquez.
Soprattutto, al centro di questo romanzo, pieno di un’energia verbale che deve molto alla sperimentazione del Modernismo e a un’inventiva stilistica che mescola diversi piani temporali e punti di vista, c’è un luogo forte. Un luogo che appartiene a un mito della sinistra americana: un quartiere di Queens disegnato da Lewis Mumford alla fine degli anni Venti per una comunità utopica comunista. Si chiama Sunnyside Gardens e «quando ero ragazzino mi faceva sognare — racconta Lethem — perché sapevo che mia nonna ci era vissuta per un periodo. Per me questo significava che era un paradiso da cui venne cacciata. Non ho mai saputo perché sia dovuta andare via: se sia stata vittima anche lei di un’espulsione dal partito come Rose Zimmer. Ma quel che so è che certi suoi rapporti e convinzioni politiche diventarono per mia nonna una zona oscura e una ragione di vergogna e di conflitto che hanno suggestionato la mia mente di scrittore».
Lethem racconta di essere stato recentemente a Dresda a visitare la prigione della Stasi. E confida che, da quando si trova in Germania, ha messo a fuoco dentro di sé qualcosa di nuovo: «Una corrente subliminale che mi lega alla lingua e all’identità tedesca. Una cosa improvvisa che devo risolvere nel prossimo libro. Solo adesso mi rendo conto di quanto i miei gusti letterari siano sempre stati legati all’area germanica». E con un gesto della mano indica il luogo vicino all’acqua del Wannsee dove Heinrich von Kleist si suicidò insieme con la sua fidanzata nel 1811.
Un’ora di treno più tardi, nel centro di Berlino, davanti al vecchio Check Point Charlie dove un attore disoccupato, in divisa da polizia militare, posa tristemente contro un muro di sacchi di sabbia per le macchine fotografiche dei turisti, Lethem confessa di avere scoperto, scrivendo I giardini dei dissidenti , «quanto americano fosse nella sua identità il nostro comunismo, radicato nei più tipici miti americani come la libertà, il diritto all’autodeterminazione, l’utopia, l’invenzione della società. Anche se la destra vorrebbe sostenere il contrario, era davvero fatto della stessa stoffa di cui è fatta l’America. E di cui sono fatto anch’io».

Corriere La Lettura 13.4.14
Il patrimonio italiano
Il toro, Spartaco, l’arcangelo
Il culto del dio Mitra s’intreccia a Capua con l’epica del gladiatore e la cristianità
di Carlo Vulpio


Non c’è pianta, albero, giardino, orto, frutteto, anche negli angoli più angusti e trascurati, che non sembri in preda a una perenne esplosione ormonale, a una vigorosa e continua manifestazione di esuberanza della vegetazione in tutte le sue varietà, un’eruzione di verde che è l’antitesi dell’eruzione di lava dal Vesuvio e che tuttavia non è meno vulcanica di quella e ha meritato alla parte di Campania tutt’intorno a Capua l’aggettivo felix : fertile, prosperosa, feconda, ubertosa. Come la natura, così anche la storia, l’arte, la filosofia e le religioni di Santa Maria Capua Vetere, Capua, Sant’Angelo in Formis e Caserta Vecchia si addensano nella stessa area, si contendono lo spazio e la luce, ma alla fine ne emergono tutte vittoriose e inconfondibili. E anzi, l’una non può che rimandare all’altra, ognuna ha bisogno dell’altra per meglio definire se stessa.
Non si può non andare e venire tra le due Capua. Santa Maria Capua Vetere — che è la Capua Antica, «l’altra Roma» (Cicerone), le cui origini risalgono all’Età del Ferro, tra IX e VIII secolo avanti Cristo, e che duecento anni fa è stata chiamata anche Santa Maria per la presenza dell’omonima basilica del V secolo dopo Cristo — e l’attuale Capua, la città medievale rifondata dai Longobardi a metà del IX secolo, dopo la distruzione della città antica a opera dei Saraceni. Né si può credere che salire e scendere tra i monti Tifatini e la pianura sia una fatica che non valga il godimento degli affreschi dell’abbazia benedettina di Sant’Angelo in Formis e del borgo medievale di Caserta (Casa Hirta ) Vecchia, che sta a 400 metri di altitudine, è monumento nazionale dal 1960 ed è «l’equivalente italiano di Les Baux, splendida e illustre città della Provenza abbandonata tra le rocce, con la differenza — ha scritto Guido Piovene — che Les Baux è celebrata in Francia mentre Caserta Vecchia è quasi ignota da noi».
Non si può non lasciarsi catturare e trascinare da un angolo all’altro di questo straordinario quadrilatero anche per un’altra ragione. Che possiamo riassumere in tre nomi: il dio persiano Mitra, il gladiatore ribelle venuto dalla Tracia, Spartaco, e l’Arcangelo Michele, il cui nome significa «chi è come Dio». Tre figure che, come vedremo, nonostante le vicende storiche e mitologiche che le separano, legano tra loro questi luoghi e le rispettive opere d’arte e sono legate l’un l’altra dall’aver tutte e tre usato la spada, il gladio, il pugnale: Mitra per sgozzare il toro bianco su ordine del dio Sole e così creare il mondo, Spartaco per guidare la rivolta contro Roma nel 73 avanti Cristo e dare una speranza di libertà agli schiavi, San Michele Arcangelo per sterminare i 180 mila assiri che assediavano Gerusalemme e poi, nello scontro finale tra Bene e Male, sconfiggere l’Anticristo. Il Mitreo di Santa Maria Capua Vetere, l’ipogeo scoperto nel 1922 che a quattro metri sotto il livello stradale conserva l’affresco della Tauroctonia , in cui appunto Mitra con una mano afferra il toro per le narici e con l’altra lo sgozza, è senza dubbio il luogo più misterioso e affascinante.
Mitra era una divinità di origine persiana che assume un profilo ben definito, scrive il professor Alberto Perconte Licatese ne Il Mitreo di Capua (pubblicato in proprio), grazie a Zarathustra, «riformatore della religione dell’antico Iran, vissuto tra il 1000 e il 500 avanti Cristo, e fondatore dello zoroastrismo». Ma soprattutto, sottolinea lo studioso, «Mitra era il dio del patto concluso con l’umanità». Un aspetto, questo, che, nonostante il suo carattere iniziatico ed elitario, mise il mitraismo — introdotto in Italia dai gladiatori (barbari e nemici sconfitti) nella seconda metà del III secolo avanti Cristo — in concorrenza con il cristianesimo fino al 380 dopo Cristo, quando con l’editto di Teodosio la religione cristiana divenne «religione di Stato».
Quello di Capua Vetere — sostiene in un suo studio del 1971, purtroppo non ancora tradotto in italiano, lo scomparso Maarten Jozef Vermaseren, archeologo e docente all’università di Utrecht — è uno dei 137 mitrei sparsi nel mondo. Ma è uno dei pochi ad affresco ed è l’unico in cui è raffigurato l’intero ciclo di iniziazione degli adepti. I quali vengono ammessi al culto del dio in totale sottomissione, nudi, bendati e con le mani legate dietro la schiena. Nella cripta in cui si svolge il rito, lunga dodici metri e larga tre, tutto è simbologia, dalle stelle a otto punte che decorano la volta e rappresentano il firmamento ai gradi di iniziazione, che sono sette (il sette è il numero-chiave del mitraismo), fino al grande affresco semicircolare in cui Mitra sacrifica il toro. Animale di somma importanza, che viene ucciso da Mitra affinché il suo sangue fecondi la terra e che ritroviamo nei miti del Minotauro, del ratto di Europa, della settima fatica di Eracle, nelle Taurilie — i giochi in onore degli Inferi —, nei nomi delle città di Torino e Taormina e dei monti Tauri in Asia minore, fino alla corrida, che risalirebbe ai misteri in onore di Dioniso (che era taurofago) praticati in Tracia.
Il mitraismo però trovò terreno fertile nell’Impero anche per un’altra ragione. «Mitra — sostiene Perconte Licatese — incarnava tutte le virtù che un soldato romano avrebbe potuto possedere: guerriero invitto, cacciatore astuto, abilissimo cavaliere e, soprattutto, un militare che seguiva un severo codice di autodisciplina, d’onore, di lealtà, di fedeltà». Quelle qualità da «soldato romano» che Giulio Cesare avrebbe ammirato proprio in Spartaco, il gladiatore trace la cui compagna era sacerdotessa di Dioniso e che in quegli anni era, con il re del Ponto, Mitridate (che derivava il nome dal dio Mitra) tra gli irriducibili nemici di Roma. Un’ammirazione che Spartaco si era guadagnato per aver saputo trasformare una massa di sbandati in esercito, anzi in un «esercito romano». In un’Italia in cui «la rete di organizzazione schiavistica — scrive Aldo Schiavone in Spartaco. Le armi e l’uomo (Einaudi) — aveva consentito di raggiungere una ricchezza mai vista, distribuita in modo abissalmente diseguale», Spartaco si ribella. E dalla ricca Capua, proprio da quell’arena in cui aveva dovuto uccidere per non essere ucciso — che alla fine del I secolo dopo Cristo verrà abbattuta per far posto al grande anfiteatro da 60 mila posti e 44 metri d’altezza, secondo soltanto al Colosseo — Spartaco, che «metteva insieme scoperta geografica, rilevazione antropologica, disegno strategico e sicurezza tattica» (sempre Schiavone), entrerà direttamente nella storia e nella leggenda. Oltre che nel cinema e nella tv. Spartacus di Stanley Kubrick, interpretato da Kirk Douglas, vinse quattro Oscar e un Golden Globe nel 1961, mentre negli Stati Uniti in questi ultimi tre anni sono state prodotte tre serie tv, tanto che nei corridoi del Museo archeologico dell’Antica Capua è in bella mostra un manifesto che celebra Andy Whitfield — l’attore che ha interpretato Spartaco nella prima serie, morto di leucemia appena concluse le riprese — e gli riconosce il merito di aver «contribuito a rendere il personaggio storico una figura amata anche dal pubblico contemporaneo».
Non aver rinchiuso nei recinti accademici Spartaco, Capua e il suo anfiteatro, ma al contrario, aver favorito una certa contaminazione tra cultura «alta» e «popolare» è servito a raggiungere un doppio risultato. Nei numeri, con 43 mila visitatori nel 2013, più del doppio dell’anno precedente; e nello stato dei luoghi, con l’anfiteatro, il Museo dei gladiatori e le strutture di accoglienza che sono stati restaurati e realizzati con fondi pubblici, senza stramberie e «buchi neri», e dove la gente ama trascorrere le serate primaverili ed estive. Una bella novità, che suscita un certo orgoglio in chi per anni ha lavorato a questo obiettivo, come la soprintendente Adele Campanelli e gli archeologi Francesco Sirano e Laura Del Verme.
Santa Maria Capua Vetere, abbiamo detto, venne distrutta dai Saraceni nell’841 e venne rifondata cinque chilometri più a nord dai Longobardi, i quali, nel processo di cristianizzazione che avevano intrapreso, «adottarono» come loro santo protettore l’Arcangelo Michele, il più simile al Wodan della mitologia nordica, che oggi è il patrono di Capua e, soprattutto, è il santo al quale sono intitolate la basilica di Sant’Angelo in Formis (in formis è il riferimento all’acquedotto romano che portava l’acqua dal monte Tifata a Capua) e al duomo di Caserta Vecchia.
La chiesa di Sant’Angelo sorge sulle rovine di un tempio di Diana, che fu poi soppiantato da un santuario cristiano dedicato dai Longobardi al santo guerriero «Mika-El» nel VI-VII secolo. Al posto del santuario infine, nella metà dell’XI secolo, sorse la basilica benedettina così com’è oggi, con i suoi meravigliosi affreschi che la decorano completamente e ne fanno un magnifico esempio di quella Biblia picta , o Biblia pauperum , che raccontava e faceva capire le Scritture agli analfabeti e alla gente semplice. E che papa Gregorio Magno, ben prima della furia iconoclasta dell’VIII secolo dovuta all’imperatore bizantino Leone III l’Isaurico, caldeggiava per la loro utilità didattica.
Tutti gli affreschi meriterebbero di essere menzionati, ma quelli del Giudizio universale , che su cinque registri riempiono tutta la parete della controfacciata, con il Cristo Giudice racchiuso in una mandorla e tre angeli che separano i giusti («Venite benedicti ») dai malvagi («Ite maledicti »), sono di una potenza suggestiva unica. Non meno fascinosa è Caserta Vecchia. Il suo duomo, del XII secolo, domina il borgo, con un campanile di 32 metri a pianta quadrata e un tiburio il cui esterno è considerato tra le più importanti testimonianze di decorazione architettonica arabo-normanna. All’interno, i preziosi mosaici (XIII secolo) del pulpito e del pavimento. Sul quale, purtroppo, abbiamo visto battere la pioggia che penetra dal tetto. L’Arcangelo Michele è un santo guerriero. Farlo arrabbiare non conviene.

Corriere 13.4.14
Dorfles, compleanno sul «luogo del delitto


Tornare sul luogo del delitto per Gillo Dorfles significa fare una lezione di design: Università Statale di Milano,  in occasione del Salone del Mobile, come tutti gli anni ospite di Gilda Boiardi, direttore di Interni, ha dialogato con Patricia Urquiola e Enrico Morteo. Ma ieri era anche un giorno particolare perché Dorfles è nato il 12 aprile 1910, e per noi, giovani studenti di allora che andavamo alle sue lezioni di Estetica, nella stessa Università, aula 111, dagli anni 60 fino ai primi anni 70, riascoltarlo ci ha portato indietro di qualche decennio, senza alcuna nostalgia, perché il nostro maestro ci ha insegnato di guardare sempre avanti. Di quegli anni ricordiamo due saggi fondamentali, anche ieri citati, «Simbolo Comunicazione Consumo» (1962) e «Artificio e natura» (1968), dalla cattedra ci indicava un percorso, nuovo e originale, allora come ora: l’arte ha una specificità disciplinare ma il valore estetico è presente dovunque, dal design alla moda, dalla grafica all’architettura, fino ad arrivare alla pubblicità e al linguaggio televisivo. Essere eclettico permette a chiunque di andare al di là della superficie e cogliere l’«essenza» delle cose, senza alcuna interpretazione gerarchica, perché l’«oscillazione del gusto» (un altro saggio famoso del 1970) fa parte del sentimento del bello. Per questa ragione, Gillo ha messo intorno al suo tavolo da pranzo, epoca barocca, 4 sedie di Urquiola, nere, di plastica, non per irriverenza verso la storia, ma perché, come tutti i grandi, vive la propria contemporaneità senza alcuna nostalgia, anche quando torna sul luogo del delitto. Sono le persone che fanno la differenza, e Dorfles è unico, uguale solo a se stesso.

Repubblica 13.4.14
Girella emerito di molto merito
di Eugenio Scalfari



Mi trovo anche d’accordo (l’ho già scritto domenica scorsa) sul fatto che i senatori debbano essere eletti con apposita legge e in numero minore di quello attuale. Se così non fosse e il Senato fosse composto soltanto da governatori e consiglieri regionali nonché sindaci e consiglieri comunali con una sorta di elezione di secondo grado, la conseguenza sarebbe che l’opposizione del Movimento 5Stelle verrebbe completamente tagliata fuori ed anche Forza Italia, Sel, Centro democratico e Nuovo centrodestra sarebbero talvolta assenti o presenti in modesta misura, mentre il Pd farebbe il pieno.
Non citerò altri passi del Girella, ma questo modo di procedere è del tutto inaccettabile e stupisce che i “berluscones” non siano unanimi del respingerlo. Se così sarà evidentemente Berlusconi avrebbe da Renzi delle contropartite personali alla faccia degli interessi (in questo caso legittimi) del suo partito.
Il mio parere sulle competenze del Senato l’ho già manifestato domenica scorsa: in una fase in cui i poteri dell’esecutivo dovranno aumentare per mettersi al passo con l’emergere dell’economia globale e della concorrenza tra Stati di dimensioni continentali, i poteri di controllo del potere legislativo e in particolare del Senato che non vota la fiducia, non possono e non debbono diminuire, anzi debbono essere accresciuti. Si rafforza il potere esecutivo e al tempo stesso deve rafforzarsi il potere di controllo che non può esser affidato a senatori eletti in secondo grado ma direttamente dal popolo sovrano.
Aggiungo che la conferenza Stato-Regioni e quella Stato-Comuni costituiscono già la sede più idonea per affrontare e risolvere le questioni del governo del territorio e i rispettivi poteri che lo esercitano. Naturalmente anche il Senato può e deve occuparsi delle autonomie assegnate agli enti locali ma questa importante funzione non è la sola e forse neppure la principale nel ruolo complessivo della Camera Alta.
I problemi inerenti alla riforma del Senato non tollerano di essere blindati. Quando si mette in discussione l’architettura costituzionale anche la disciplina di partito cede il posto alla libertà dal vincolo di mandato tutelata dalla Costituzione specie quando si affrontano argomenti di questa natura.
C’è un ultimo tema: riguarda i guai con la giustizia dei sodali Dell’Utri e Berlusconi, che fondarono insieme Forza Italia, e chissà quali segreti custodiscono sull’atto di nascita di quel partito. Il primo è stato arrestato, latitante, in un albergo di Beirut - in passato rifugio dorato di tanti fuggiaschi eccellenti - e ci auguriamo che vengo presto consegnato alla giustizia italiana. Il secondo sta aspettando di conoscere la pena sulla base della sentenza che nel 2013 l’ha condannato a 4 anni, tre dei quali coperti da indulto, e l’ultimo ridotto a 10 mesi e mezzo.
Il giudice di sorveglianza della Corte d’appello di Milano ha preannunciato che emetterà al sua ordinanza entro martedì prossimo ma il Procuratore generale che rappresenta la pubblica accusa si è già allineato alle richieste degli avvocati difensori e cioè l’affidamento ai servizi sociali. Sembra molto improbabile che il giudice si discosti dalle richieste della pubblica accusa. La soluzione sarebbe questa: la pena si ridurrà a quattro ore settimanali di lavoro sociale (si vedrà quale), dopo di che il “condannato” sarà pienamente libero di muoversi purché non esca dalla regione nella quale avrà fissato la sua residenza e rincasi entro le ore 23. Potrà muoversi liberamente, andare in televisione, comiziare come vuole e dove vuole (nella suddetta regione). Di fatto parteciperà alla campagna elettorale con il solo divieto a candidarsi lui stesso. Un padre della patria, come di fatto è stato riconosciuto dal Pd, non poteva ottenere di meno, non è vero? E un trattamento del genere sarebbe concesso ad un qualunque cittadino ritenuto colpevole di frode fiscale nei confronti dello Stato con condanna definitiva? O c’è in questo caso una discriminazione che potrebbe in futuro essere invocata da chiunque in nome dell’eguaglianza dei cittadini di fronte alla legge?
«Viva Arlecchini / e burattini / e giacobini / viva le maschere / d’ogni paese».
Lo sgravio dell’Irap avrebbe prodotto un effetto anticiclico nettamente superiore a quello d’uno sgravio dell’Irpef I poteri di controllo del potere legislativo e del Senato che non vota la fiducia non debbono diminuire
ILTITOLO dell’articolo che state leggendo è l’inizio d’una poesia di Giuseppe Giusti, “Il brindisi di Girella”, dedicato dall’autore - pensate un po’ - a Talleyrand, una delle teste più fini e più ipocrite della diplomazia europea ai tempi di Napoleone. Vale la pena di leggerla tutta, quella poesia, perché descrive argutamente e crudelmente i vizi della politica di tutti i tempi e di tutti i Paesi, in particolare dell’Italia della sua epoca (gli anni Trenta dell’Ottocento) ed anche e più che mai dell’Italia di oggi. Si attaglia a molti dei leader attuali, da Berlusconi a Grillo, a Renzi e a molti “rottamati” e a loro volta rottamatori.
Ne cito alcuni versi che rendono con particolare efficacia lo spirito di tutto il componimento: «Barcamenandomi / tra il vecchio e il nuovo, / buscai da vivere / di farmi il covo. / La gente ferma, / piena di scrupoli, / non sa coll’anima / giocar di scherma, / non ha pietanza / dalla Finanza. / Io, nelle scosse / delle sommosse / tenni per àncora / d’ogni burrasca / da dieci o dodici / coccarde in tasca. / Quando tornò / lo statu quo, / feci baldorie, / staccai cavalli, / mutai le statue / sui piedistalli. / E adagio adagio / tra l’onde e i vortici / su queste tavole / del gran naufragio / gridando evviva / chiappai la riva. / Viva Arlecchini / e burattini / evviva guelfi / e giacobini / viva gli inchini / viva le maschere / d’ogni paese / evviva il gergo / e chi l’intese».
Giusti amò la patria in tempi in cui l’Italia era ancora serva dell’Austria e di signorie austriacanti. Lottò per l’indipendenza e la libertà, conobbe Mazzini, fu amico di d’Azeglio e di Gino Capponi.
FU UNO spirito ribelle e un grande poeta satirico non solo della politica ma anche del costume. Morì di tubercolosi a 41 anni. Ce ne fossero ancora di persone come lui.
*** In queste settimane, che sono già di campagna elettorale per le Europee del 25 maggio, i temi dominanti sono due: la politica economica e la riforma costituzionale del Senato. Cominciamo dal primo.
Federico Fubini su Repubblica dell’8 aprile ha già esaminato la manovra del governo e le coperture, rilevandone alcuni aspetti positivi ed altri ancora alquanto dubitabili, specialmente per quanto riguarda le coperture che dovranno finanziare le spese previste. Nel frattempo nuove notizie si sono aggiunte a quelle allora disponibili e un approfondimento è necessario.
Anzitutto c’era la scelta del come destinare il taglio del cuneo fiscale: se diminuire l’Irap sulle imprese o invece diminuire l’Irpef sui lavoratori dipendenti che abbiano un reddito minore di 25mila euro annui lordi.
Molti osservatori “neutrali” e cioè non influenzati dagli interessi della Confindustria, ritengono che lo sgravio dell’Irap avrebbe prodotto un effetto anticiclico nettamente superiore a quello d’uno sgravio dell’Irpef. Personalmente sono dello stesso parere, ma è evidente che il bonus nella busta paga dei lavoratori dipendenti era più efficace dal punto di vista elettorale. Purtroppo gran parte degli 80 euro di bonus mensile sarà compensata dagli aumenti dell’imposta sulla casa e dalla maggiorazione delle imposte comunali consentita dal governo. Ma i vantaggi politico-elettorali restano e Renzi fa bene a perseguirli perché i risultati delle elezioni europee avranno conseguenze decisive sui partiti e sul prestigio del vincitore non solo in Italia ma anche in Europa.
Purtroppo però le coperture non sembrano affatto solide. I 6-7 miliardi di euro che diventeranno 10 nel 2015, destinati al bonus in busta paga dovrebbero essere coperti per 3 miliardi da tagli della “spending review”, per 1 miliardo dall’imposta sulle banche e per 2,6 miliardi dall’Iva proveniente dai pagamenti dei debiti alle aziende creditrici.
Tuttavia l’imposta sulle banche è “una tantum” e quindi non si rinnova nel 2015; il taglio della “spending” non si sa ancora su quale capitolo sarà effettuato ed è quindi possibile che anche quello avvenga su una partita che si esaurisce a taglio effettuato senza rinnovarsi nell’anno successivo. Infine l’Iva riguarda pagamenti che saranno effettuati alla fine di quest’anno e sarà disponibile soltanto nel 2015; usarla a partire dal prossimo maggio significa anticiparla a carico del fabbisogno aumentando ulteriormente il rapporto del debito sovrano con il Pil. Ma non solo questo: il gettito dell’Iva pagato dalle aziende che riescono a incassare finalmente i loro crediti pregressi dall’amministrazione pubblica dovrebbe in pura teoria esser prodotta dalla liquidazione di debiti tra i 20 e i 30 miliardi; la mancata certificazione dei crediti ridurrà però con molta probabilità il monte dei pagamenti ad una cifra estremamente più bassa, non superiore secondo le previsioni ai 7 miliardi e forse meno. Una cifra di quest’ammontare è ben lontana dal produrre un’Iva come quella necessaria per finanziare il taglio del cuneo fiscale.
Tutte queste considerazioni arottenuto rivano alla conclusione che la copertura è insufficiente e comunque in contrasto con le regole europee che escludono l’“una tantum” se si tratta di finanziare spese destinate a riprodursi negli anni successivi. È vero che alcuni membri della Commissione europea hanno dato il loro consenso agli annunci di riforme strutturali per la crescita, ma si tratta di annunci e non sappiamo quale sarà il giudizio definitivo dell’Ecofin quando l’insieme della manovra sarà finalmente tradotto in articoli di legge. Dovrebbe avvenire martedì prossimo. Vedremo, sperando che si avverino i versi del “Brindisi di Girella”: «Viva arlecchini / e burattini / viva i quattrini! / Viva le maschere / d’ogni paese, / le imposizioni e l’ultimo del mese ».
***
La riforma del Senato: argomento quanto mai arduo perché non riguarda la contingenza politica ma l’architettura costituzionale, che è tutt’altra cosa.
Desidero anzitutto prendere atto di quanto nei giorni scorsi hanno dichiarato ed anche scritto sul nostro giornale Stefano Rodotà e Gustavo Zagrebelsky. Gli era stata attribuita da varie parti politiche e giornalistiche ed anche da me una posizione di rifiuto ad ogni riforma costituzionale che riguardasse il Senato. Non è così, abbiamo capito e riferito male. La loro posizione è disponibile a rivedere le competenze del Senato e in particolare a concentrare sulla sola Camera dei deputati il potere di dare o negare la fiducia al governo e di votare la legge sul bilancio dello Stato. Per quanto mi riguarda mi scuso dell’errore compiuto e sono lieto che anche personalità del loro spicco giuridico siano favorevoli a metter fine all’evidente imperfezione del bicameralismo perfetto del quale il nostro Paese è afflitto da quando fu votata la Costituzione nel 1947.

Repubblica 13.4.14
Marco Bellocchio
“Non rinnego nulla di nulla, oggi ho soltanto voglia di seguire le mie idee. Sbagliate oppure no, ha poca importanza”
È i n partenza per New York dove a giorni il MoMA gli dedicherà una grande retrospettiva. Lui, quasi sorpreso dell’omaggio, si prepara a ripassare in pubblico cinquant’anni di carriera da regista fittamente intrecciati con le vicende della vita: “Se potessi dividerla in capitoli il primo riguarderebbe certamente la perdita della fede”. A seguire cinema, politica e psicoanalisi.
di Maria Pia Fusco


BARI. «L’ULTIMA retrospettiva che mi è stata dedicata forse fu quella di Locarno, una ventina d’anni fa. Anzi no, ce n’è stata anche un’altra un po’ più recentemente, a Pesaro. Ma in America...». Il cinema di Marco Bellocchio arriverà a New York tra pochi giorni, il 16 aprile. Il regista di matrimoni aprirà al MoMa una retrospettiva di diciotto titoli che si concluderà il 7 maggio con Vincere. «Non so, può darsi sia stato proprio il successo di quel film a favorire una cosa così corposa. Finora negli Stati Uniti erano usciti solo alcuni dei miei lavori, e soltanto singolarmente» racconta il regista in partenza per Manhattan. O forse la retrospettiva organizzata insieme all’Istituto Luce-Cinecittà vuole più semplicemente raccontare un percorso artistico lungo cinquant’anni: ci sono I pugni in tasca (1965), Enrico IV (1984), Diavolo in corpo (1986), Il principe di Homburg (1996), La balia (1999), Bella addormentata (2012) e le versioni restaurate di Vacanze in Val Trebbia (1980) e Gli occhi, la bocca (1982). E poi, perché no, dopo l’Oscar a Sorrentino una retrospettiva così prestigiosa potrebbe anche essere un ulteriore segno di vitalità del cinema italiano. «Certo che mi fa piacere, e anche se per carattere tendo a tenermi a distanza so che non appena metterò piede sull’aereo cercherò di essere più reattivo e di farmi coinvolgere al massimo da questa cosa. Mi succede sempre così». Anche al Festival del cinema di Bari, dove avviene il nostro incontro e dove Bellocchio ha partecipato all’omaggio a Gian Maria Volontè presentando Sbatti il mostro in prima pagina( 1972): «Ero arrivato non dico con superiorità, ma con molto distacco. Poi alcune domande del pubblico, e certe espressioni di entusiasmo sincero, beh, mi hanno addirittura commosso».
A New York, negli incontri con i media e con gli spettatori, il regista sarà obbligato a ripercorrere le fasi di una movimentata carriera artistica che si intreccia fortemente con la vita personale. Meglio portarsi avanti con un breve ripasso. E dunque, se si potesse racchiudere una vita in capitoli in quella di Bellocchio il primo non riguarderebbe il cinema: «La regia è stata per me la quarta scelta. Un primo capitolo, partendo dall’adolescenza, potrebbe intitolarsi La perdita della fede, un passaggio fondamentale. Me ne resi conto proprio nel bel mezzo dell’educazione cattolica, mentre frequentavo il collegio dei Barnabiti. Andavo a messa tutti i giorni e a un certo punto cominciai a chiedermi “perché sto qui?”, una domanda che è diventata poi il motore di tante altre cose. Incoraggiato da mio fratello Piergiorgio mi sono dedicato alla poesia, e intanto dipingevo. Credevo di soddisfare così la voglia di esprimermi». Non era vero perché, anche se nei primi anni Sessanta un libro di poesie comunque lo pubblicò, I morti crescono di numero e di età, «avevo una passione segreta, ed era quella di fare l’attore». Poeta, pittore, attore: «Nessuna delle tre ha funzionato. Finito il liceo, sono andato a iscrivermi all’Accademia dei Filodrammatici di Milano ed è stato in quel periodo che sono intervenuti grossi problemi psichici. Si manifestavano nella perdita della voce, divenni completamente afono».
Costretto a lasciare il teatro, Marco non si arrese. Lasciò ancora una volta l’amata Bobbio, sui colli piacentini, dove è nato il 3 novembre del ‘39, stavolta per Roma: «Qui tentai l’esame come attore al Centro Sperimentale. La mia voce che ora è pessima allora era ancora più sgraziata, ricordo che con Orazio Costa adducevo strani abbassamenti vocali. E comunque superai l’esame. E fu proprio frequentando i corsi come attore che cominciai a scoprire il cinema. Certo, avevo visto tanti film, ma a scuola era diverso, era la scoperta del muto, la magia delle immagini in movimento dei grandi maestri del passato. Lì cominciai a desiderare di “fare le immagini”. Mi ripresentai a un altro esame al Centro e fui ammesso al corso di regia. Mi fu parecchio utile l’esperienza della pittura».
All’inquieto ragazzo di Bobbio però anche Roma non bastava. «Mi sembrava una provincia, decisi di andare a Londra e ci rimasi due anni. Oggi imparare l’inglese è un obbligo, allora era una cosa più insolita. Erano gli anni dei Beatles, cominciava la Swinging London, ma io non mi scatenai. Andavo a teatro, all’Albert Hall a sentire Pollini. Ero prudente. Ancora oggi gli amici e Francesca (Francesca Calvelli, montatrice eccellente e attuale compagna di Bellocchio, ndr) mi prendono in giro per non aver vissuto l’animazione e il fervore di quel periodo. Londra però è stata essenziale per la progettazione de I pugni in tasca, perché lì ritrovai Enzo Doria, uno dei paparazzi de La dolce vita, uomo affascinante, amato dalle donne: era stufo di fare l’attore e voleva diventare produttore. E io avevo il diploma del Centro Sperimentale ma sentivo di dover dimostrare che ero davvero un regista». Non fu facile trovare i finanziamenti e dopo vari tentativi falliti Bellocchio chiese di nuovo aiuto al fratello Piergiorgio. «Nel mio essere una persona tutt’altro che pratica, dimostrai una notevole praticità. Pensai a una storia personale, la sola che avrei saputo raccontare, mi arrangiai a girare in casa di Piergiorgio, ma attento a non mandare in rovina la mia povera famiglia, che povera non era, ma tutti vivevano di quel patrimonio, e i costi furono tenuti bassi. Avevo avuto la fortuna di incontrare al Centro un ragazzo biondo, Lou Castel, perfetto per il ruolo: non so come sarebbe andata se avessi scelto Gianni Morandi che pure a un certo punto era stato preso in considerazione ».
Così, dopo La perdita della fede, Il fallimento dell’attore, La scoperta delle immagini, arriva nel ‘65, a ventisei anni, il quarto capitolo - Il clamoroso esordio alla regia con I pugni in tasca seguito subito dopo da un quinto: La crisi pre-68.
«Non mi sopportavo più come rappresentante della classe cui appartengo, la classe borghese. Oggi fa ridere, allora era una cosa seria la ricerca di una cultura diversa, opposta. Io sentivo il fascino dell’estrema sinistra, non operaista, piuttosto il movimento marxista leninista, Servire il Popolo. Per un ex cattolico come me c’era qualcosa di religioso, il fascino delle regole, le continue critiche e autocritiche. La classe borghese era morta. Imparare dal popolo, solo mettermi al suo servizio poteva restituirmi una ragione. In quel periodo la mia parte artistica fu praticamente annullata, feci giusto qualche film di propaganda, Il popolo calabrese ha rialzato la testa, Viva il 1° maggio rosso. Ma il contagio non durò».
Il film della crisi arriva nel 1972, Nel nome del padre, con Lou Castel e Laura Betti, il racconto della ribellione alle regole in un collegio cattolico. «Era un film in cui rileggevo un po’ marxisticamente pagine della mia vita. Ma il “fuori”, il rapporto con la realtà sociale esterna non mi bastava. Continuavo ad avere bisogno di capire chi ero io. E dunque la psicanalisi. Per qualche anno un’analisi classica, poi il mio grande amico Piero Natoli mi portò alla scoperta dell’analisi collettiva e a Massimo Fagioli». Era il 1978, l’anno prima Bellocchio aveva fatto Il gabbiano da Cechov, uno degli autori che con Pirandello più lo hanno attratto. «Con Fagioli il rapporto è stato graduale fino a diventare un forte legame personale e il cinema, con la sua partecipazione, mi sembrava prendesse la direzione giusta. Il Diavolo in corpo è un film bello ma imperfetto, perché ci prese alla sprovvista: il rapporto tra Massimo e me non era ancora collaudato. La condanna era già più orientato ideologicamente. Finché arrivammo a Il sogno della farfalla, un film estremo, delicatamente estremo». Fu il film che segnò la fine del legame con Fagioli e, con Il principe di Homburg, un ritorno al cinema classico. «Non mi vergognavo più della mia origine e dei miei problemi personali. Senza rinnegare né il percorso politico né quello psicanalitico sentivo di dover seguire liberamente le mie idee, quello che mi veniva in mente, sbagliando o non sbagliando, non aveva più importanza». Gli è rimasta invece, dice, una dimensione anarchica di vedere le cose. «Mi appartiene da sempre, così come da sempre è fortissima la mia insofferenza nei confronti del Potere. Chissà, verrà forse dalla formazione cattolica, ma ci tengo alla coerenza e alla moralità. A proposito, mi piace molto il titolo del volume pubblicato per il MoMA: Morale e bellezza ».

il Sole24ore Domenica 13.4.14
La Resistenza senza mito
Nell'anniversario della Liberazione escono i racconti di Giulio Questi, novantenne narratore di razza, capace di scrivere il movimento di guerriglia senza cadere mai nel didascalico. Un inno alla polenta e al lardo
di Sergio Luzzattto


Per la letteratura, se non per la storia, il 25 aprile di quest'anno segnerà un anniversario della Liberazione assolutamente eccezionale. Escono infatti da Einaudi – nei Supercoralli – i racconti semi-inediti di un vecchio partigiano bergamasco, il novantenne Giulio Questi. E sono racconti di tale qualità da iscrivere il nome dell'autore, dritto dritto e per diritto, in un elenco sceltissimo di combattenti-narratori della Resistenza italiana: nella compagnia sovranamente ristretta di Calvino, di Fenoglio e di Meneghello.
Cresciuto in una famiglia antifascista, dopo l'8 settembre 1943 Questi era passato quasi senza accorgersene dai banchi del liceo classico di Bergamo alle prime prove della Resistenza. Arrestato dalla Wehrmacht come attivista di Giustizia e Libertà, poi rilasciato, nell'inverno del '44 si era trovato a militare, in val Seriana, nella formazione di Angelo Del Bello, un comandante partigiano tanto efficace nella lotta contro i tedeschi quanto insofferente alla disciplina della Resistenza organizzata. Dopodiché Questi aveva raggiunto, in val Brembana, la banda autonoma dei «Cacciatori delle Alpi», nelle cui file aveva combattuto durante il secondo autunno, il secondo inverno e la seconda primavera: fino alla discesa su Bergamo, il 27 aprile 1945, e alla caccia all'uomo contro i collaborazionisti.
Come altri reduci del partigianato, della sua Resistenza Questi non aveva tardato a fare letteratura: due dei quindici racconti pubblicati oggi da Einaudi con un titolo scopertamente allusivo a Vittorini, Uomini e comandanti, uscirono già nel 1947 sull'einaudiano «Politecnico», diretto da Vittorini medesimo. Ma poi – per cinquant'anni – Questi ha avuto altro da fare che scrivere di Resistenza. Lasciata Bergamo per Roma, è diventato uomo di cinema. Attore, ha recitato ne La dolce vita di Fellini. Sceneggiatore, è andato a un passo dal realizzare, d'intesa con Fenoglio, la trasposizione cinematografica di Una questione privata. Regista, ha girato nel 1967 un film che gli esperti venerano come un cult-movie, lo spaghetti-western Se sei vivo spara. Soltanto negli anni Novanta, dopo mezzo secolo di silenzio condito dalle esperienze più varie (inclusa, nei Caraibi degli anni Settanta, la residenza non obbligata su un'isola deserta), Questi è ritornato a raccontare la sua guerra civile, dietro istigazione letteraria di colui che negli anni Sessanta aveva fondato l'Istituto della Resistenza di Bergamo: lo storico Angelo Bendotti, che di Uomini e comandanti firma ora un'intensa postfazione.
La narrativa di Questi appare come sospesa sulla vertigine di un paradosso: nei suoi racconti c'è tutta la Resistenza, ma non c'è nessuna Resistenza. C'è tutta la Resistenza, nel senso che il lettore incontra – episodio dopo episodio – la gamma completa o quasi delle situazioni rilevanti in un'esperienza partigiana. C'è il formarsi incerto delle bande, l'aggregazione casuale di volontari malmessi. C'è l'organizzarsi difficile delle brigate, l'alchimia precaria della dissidenza e dell'obbedienza. Ci sono gli amorazzi rubati alla lotta, gli spaventosi rastrellamenti e gli aviolanci mancati, le pietose onoranze per i compagni caduti, gli spietati conflitti interni al partigianato. Ci sono gli attacchi temerari contro i presidi della Guardia nazionale repubblicana, e ci sono le spedizioni punitive contro gli ufficiali di Salò.
Ma non c'è nessuna Resistenza, nel senso che il lettore cercherebbe invano un qualunque filo che non sia puramente narrativo. Un filo cronologico. Un filo ideologico. Al limite, un filo logico che tenga uniti spazi e tempi, alto e basso, amici e nemici. Eppure, dalla prima pagina all'ultima i racconti vivono di una loro coerenza evidente, assoluta, garantita dalla compresenza sorprendente – quasi miracolosa – di un registro neorealistico e di un registro fiabesco. Il miracolo di Giulio Questi è la scrittura di una Resistenza, insieme, tutta cose e tutta favole.
Se è epopea, Uomini e comandanti è epopea della polenta. Dea benefica per i partigiani, quand'anche malcotta o grumosa, sporca o trafugata. Dea benefica anche quando, indugiando oltre misura nei loro visceri, li condanna a produrre infine tra i cespugli «pallettoni neri», «numerosi e rotolanti come lo sterco delle capre». E benefica perfino quando, nei sogni notturni, i «grandi seni» di donne sconosciute si tramutano in «polente fumanti appena riversate dal paiolo». Anche fuori dai sogni, d'altronde, quello dei partigiani è più sesso che amore. Li accende il «culo alto» della contadina senza nome che ha un modo tutto suo di mostrare loro la lingua, prima di portarsene due sulla paglia. Li inebria – o almeno inebria Clem – il sapore di Stella, la trentenne tranquilla che il vergine diciottenne possiede «con il muso, a grandi colpi, come un vitello affamato».
La fisicità dei partigiani di Questi è quella povera, scabra, irredimibile dei montanari della Bergamasca. Bovari o carbonai, pastori o uccellatori la cui sostanza umana sembra fare tutt'uno con la sostanza zoologica delle creature che li circondano, nei prati come nel bosco: galline, vacche, maiali, ma soprattutto larve, formiche, salamandre, ragni, vipere, e l'esercito variamente svolazzante di tafani e calabroni, cornacchie e lucherini, storni e fringuelli. Più ancora che Italo Calvino, si direbbe che Giulio Questi abbia combattuto la Resistenza da entomologo. Forse perché il suo sguardo di studentello era già, senza saperlo, quello del cineasta. «Da partigiano ho sempre avuto un'attenzione esasperata a dove mettevo i piedi e gli occhi. Oggi si dice immagine ad alta definizione», ha dichiarato Questi in un'intervista del 2010.
Cinematografici, i racconti di Uomini e comandanti lo sono quasi a ogni pagina. Lo sono attraverso la luminosità di una neve onnipresente e malfida. Lo sono nei movimenti decisivi delle nuvole. Lo sono nella suggestione degli sfondi, il roccolo del cacciatore di uccelli, la montagnola fumante della carbonaia, il lago d'alta quota dove inopinatamente si tuffa Pantelleria il siciliano. Lo sono nell'invadenza della carne animale, come dentro una pulp fiction partigiana (tra i più ferventi ammiratori del cinema di Questi risulta essere Quentin Tarantino). Lo sono nella cromatica dei corpi umani, vivi o morti: le carni bianche dei montanari bergamaschi, il membro blu dell'alieno Pantelleria, lo scrigno di raso rosso che corrisponde alla testa scoperchiata di un aviatore canadese.
Né scrivendo della Resistenza all'indomani della Liberazione, né (meno che mai) tornando a scriverne cinquant'anni dopo, Questi è caduto nella tentazione didascalica del Calvino autore, nel 1947, del Sentiero dei nidi di ragno: la tentazione di spiegare – fosse pure in una manciata di pagine – le ragioni ultime della lotta resistenziale. L'obiettivo più gettonato dai partigiani di Uomini e comandanti è il Monopolio dei Sali e Tabacchi di non si sa quale paese della val Seriana. Il ribelle che più si avvicina all'archetipo del martire, l'oste Antonio, combatte i nazifascisti «per mangiare cotenne di lardo». E la notte, il paesaggio onirico dei dubbi eroi di Questi non si anima unicamente con grandi seni di donna tramutati in polente fumanti: «Sognavano di partire per un qualunque posto e di non tornare mai più. Sognavano di impiccarsi insieme al Bergamino. Sognavano di strozzare il Prete. Sognavano di violentare la Ragazza».
La Storia non entra mai nei loro discorsi, il loro è un presente dimentico del passato e ignaro del futuro. È vero, i partigiani di Questi sono ammiratori incondizionati del comandante M., il loro capo in val Brembana. Si sentono attratti dai suoi scarponi con la gomma, dalla sua giacca a vento bianca, e anche dai suoi occhi celesti. Ma che cosa quegli occhi «vedessero veramente», i partigiani non sanno. «Il Pasqua lo domandò all'Opinel: - Dì un po'. Ma cosa guarda quando guarda? - Non lo sa nessuno, disse l'Opinel». «Forse qualcosa di bello».
Il libro di Giulio Questi, Uomini e comandanti, postfazione di Angelo Bendotti, Einaudi, Torino, (pagg. 194, € 18,00) sarà in libreria da martedì 22 aprile

il Sole24ore Domenica 13.4.14
A colloquio con Edgar Reitz
L'intraducibile "Heimat"
di Cristina Battocletti


Il senso di appartenenza a un luogo, la migrazione, la malinconia e la nostalgia. Il regista tedesco anticipa i temi della lezione locarnese e i miti neorealisti del suo cinema
Il paese è sempre Schabbach, nell'Hunsrück, la regione dove Edgar Reitz nacque nel 1932. La famiglia è ancora la protagonista della trilogia di Heimat, i Simon, attraverso cui il portavoce del "Nuovo cinema tedesco" ha raccontato la storia del suo Paese, dalle macerie della prima guerra mondiale agli anni 2000. Ma Die andere Heimat - di cui domani il regista parlerà ad Ascona nell'ambito della manifestazione L'immagine e la parola - è un fatto a sé. I Simon sono retrocessi nel tempo, alle soglie del 1840, nel villaggio che pare una casa di bambole, sporcata dal freddo e dalla miseria, sotto la cappa quasi medievale dell'impero prussiano. Un borgo che si sogna di lasciare per fame, o per bramosia di chimere, come avviene al giovane Jakob (Jan Dieter Schneider), funambolo di lingue esotiche, imparate sui libri di viaggio.
Die andere Heimat in italiano è stato reso con L'altra Patria, ma il vocabolo Heimat non ha un corrispondente nelle lingue neolatine e in inglese; solo nello slavo dòmovina. «La parola tedesca "Heimat" è certamente connessa a diversi significati secondari carichi di emotività -, spiega il regista -. Ecco perché è così difficile da tradurre. Non descrive soltanto il luogo della propria infanzia, ma anche la particolare sensazione che colleghiamo alle nostre origini, la sicurezza e la felicità correlate al senso di identificazione, e nello stesso tempo, la percezione di aver perso tale appartenenza. Suppongo che nelle parole e nei concetti, ed è così in ogni lingua, si rispecchi l'esperienza vissuta da diverse generazioni. Quella delle popolazioni germaniche, scandinave o slave deve dunque celare un vissuto che ben rappresenta il concetto di "Heimat" e che magari risale a migliaia di anni fa. Non possiamo saperlo».
Forse è un vocabolo strettamente legato agli esodi, alla necessità di spostarsi, di cui si parla sia in Heimat, che in Die andere Heimat. «Il concetto di "emigrazione" contempla la somma di una moltitudine di motivazioni che spingono a lasciare la propria patria per trovare felicità e fortuna in un Paese straniero. A me interessano le storie individuali, non il movimento migratorio in senso lato. Le ragioni che nel 1923 portano Paul ad andare via non si spiegano facilmente; lui stesso non riesce a definirle. È un impulso intrinseco che lo fa partire. Vi è un'altra parola tedesca pressoché intraducibile che ho scelto come titolo della prima parte di Heimat 1: "Fernweh". I presentimenti che tormentano il giovane Jakob per Die andere Heimat sono ancora più complicati, poiché egli viaggia nei lontani Paesi del Sudamerica soltanto con la fantasia. Anche qui ho scelto un sottotitolo per descrivere la vita interiore di Jakob - Chronik einer Sehnsucht - Cronaca di un Desiderio -. Un senso di nostalgia e struggente malinconia che il tedesco descrive con la parola "Sehnsucht", un leitmotiv del romanticismo. Si tratta di un anelito rivolto sia al futuro sia al passato. Una vera e propria contraddizione che attanaglia l'animo del giovane. Per questo motivo Jakob non riesce a decidere, ma si fossilizza nei propri sogni». Una nostalgia che si percepisce nelle immagini potentissime di una campagna dalla bellezza assorta ma avara di frutti, e negli interni oscuri, saturi del fascino e delle paure degli antri magici.
Ogni tanto il bianco e nero è illuminato da colori, come il cappottino rosso e le fiammelle in Schindler's List (1993) di Steven Spielberg: il rosso del sangue e di un ferro di cavallo incandescente, l'azzurro dei fiordalisi in un campo mosso dal vento, l'arancione di una pietra in controluce. «Nell'era digitale il film in bianco e nero non esiste più, è una decisione puramente artistica che concerne la fase di "post produzione". Quando si converte la policromia in monocromia si può anche decidere di riprodurre alcuni oggetti nella loro cromaticità originaria. Sono oltre trent'anni che cerco questo tipo di effetto e solo ora ci sono riuscito. In questo modo i colori tornano a far parlare di sé».
Reitz nella lezione di domani promette di raccontare la nascita della sua ultima opera, che ha richiesto tre anni di preparazione e uno di produzione. Ma anche gli esordi, di quando, giunto a Monaco nel 1952, sperimenta il teatro, la letteratura e la poesia, fino a dedicarsi completamente al cinema, produzione, fotografia montaggio, prima ancora della regia. «Sin dagli anni Sessanta mi sono fatto portavoce del cinema tedesco d'autore. Nella mia generazione la storia cinematografica tedesca ha svolto un ruolo solo marginale. Naturalmente abbiamo anche noi i nostri classici, risalenti all'epoca del cinema muto, con Murnau o Lang, che sono stati un po' "i nostri avi". Io ho preso esempio dai grandi registi del cinema europeo, ispirandomi soprattutto al cinema italiano del dopoguerra, ai film di De Sica, Rossellini, Visconti e Fellini». Die andere Heimat ricorda, tra l'altro, le atmosfere di L'albero degli zoccoli (1978) di Olmi e Novecento (1976) di Bertolucci. «Mi fa molto piacere che vengano citati questi fantastici registi del cinema italiano. Apprezzo moltissimo i film di Ermanno Olmi, lo sento vicino, come un fratello, anche se non ci siamo mai incontrati. Bertolucci è uno dei grandi nomi del cinema europeo, conosco tutti i suoi film, dal primo all'ultimo. Mi è piaciuto soprattutto Il Conformista». Nel 1962 Reitz è tra i firmatari del "Manifesto di Oberhausen" che rivendica il diritto di creare un nuovo corso cinematografico, Junger Deutscher film. «Nei primi anni, ovvero sino alla fine degli anni Settanta, con molti cineasti tedeschi, per esempio Kluge, Herzog e Fassbinder, era nata una profonda amicizia. Poi le nostre strade si sono divise», continua il regista.
Non troppo, visto che per interpretare Alexander von Humboldt ha scelto Werner Herzog. «Mi sembrava che la vita del grande scienziato tedesco avesse una certa somiglianza con quella di Herzog, che aveva dimostrato a più riprese le sue doti di attore». Il legame forse più cementato era quello con Alexander Kluge, con cui fonda L'Institut für Filmgestaltung di Ulma nel 1963 che Reitz dirige fino al 1968. Sono anni di sperimentazione in cui Reitz anticipa la contestazione studentesca e la rivoluzione dei costumi con Mahlzeiten, che vince il Leone come migliore opera prima a Venezia nel 1967. Inquietudini interiori e sociali, attorno a cui ruotano anche alcuni dei film successivi, tra cui Cardillac (1969), fino al sonoro insuccesso di Schneider von Ulm (1978), costosa pellicola in costume, ambientata nel Settecento. Una batosta che immobilizzò il regista fino a Heimat, il cui precursore è il road movie Stunde Null (1977).
Nell'ultima parte della trilogia di Heimat si legge un profondo senso di incertezza nei confronti del futuro e in Die andere Heimat la fine è amara. «Una certa malinconia è tipica del nostro tempo. Sicuramente il futuro non è più quello di un tempo. Per quanto mi riguarda è la cinematografia a rendermi felice. Mi piace perché si ricomincia sempre da zero»

il Sole24ore Domenica 13.4.14
Arthur Rimboud (1854-1891)
Ultima stagione all'inferno
Finalmente tradotta la corrispondenza del poeta maledetto che fuggì in Africa mentre a Parigi diventava un mito
di Giuseppe Saraffia


«La nostra pallida ragione, aveva denunciato Arthur Rimbaud, ci nasconde l'infinito.» Ma, quando decise di esplorare il mondo, ne rimase deluso. Con il suo passaporto consunto il poeta passò dall'Egitto ad Aden fino all'Harar. Eppure neanche quella fuga doveva appagarlo. «Mi annoio molto, sempre. Non ho mai conosciuto nessuno che si annoiasse come me», ammette Rimbaud in questa magnifica prima edizione della sua corrispondenza, sapientemente tradotta e curata da Vito Sorbello, giustamente intitolata Non sono venuto qui per essere felice.
Il poeta passò dall'Egitto ad Aden fino all'Harar. Lo seguiva un pesante baule di pelle, zeppo di carte geografiche, di manuali da falegname e da idraulico. Rimbaud non era un disperato in fuga verso l'autodistruzione, ma un imprenditore attento alla fauna e alla flora. Finalmente era riuscito a diventare uno di quelli che "stringono la realtà rugosa".
Intanto, insieme ma più rapidamente della gloria di Rimbaud, nasceva la sua leggenda. A Parigi si diceva che fosse tornato allo stato di natura o che fosse diventato il re di un popolo selvaggio. "A parte Hugo, si vantava Arthur, nessun poeta francese della fine del XIX secolo ha guadagnato più soldi". Ma i coloni europei non apprezzavano l'abbigliamento trascurato di Rimbaud, i goffi abiti di pesante cotone bianco, che l'ex-poeta si cuciva da solo sostituendo ai bottoni dei legacci. Ad Harar contrasse la sifilide. Poi si comprò una snella schiava abissina, la trattò sempre con gentilezza e la mandò a scuola dai missionari. Quando dovette partire, le diede del denaro e la rimandò a casa.
Era lontano da quella madre scontrosa e autoritaria, dalla campagna e dalla vita opaca, da cui era fuggito la prima volta, approdando al festoso tumulto della Comune di Parigi. Nella capitale, Arthur si era goduto, nel 1871, il festoso tumulto della Comune di Parigi. Poi era tornato indietro. Prima di ripartire per la capitale, si era interrogato a lungo. «Cosa vado a fare laggiù?... Non so come comportarmi, non so parlare...».
Mentre sorprendeva la vita artistica parigina, tutto in lui continuava a parlare della madre amata e detestata, dai calzerotti azzurri sferruzzati a mano al viso paffuto da bambino e all'impronta dialettale della voce. La cauta solidarietà dei poeti parigini lo intimidiva e lo disgustava. «Voglio essere poeta e lavoro a rendermi veggente... si tratta di arrivare all'ignoto attraverso lo sregolamento di tutti i sensi», aveva annunciato. Per Arthur Rimbaud essere veggenti voleva dire non limitarsi alla scontata realtà, ma affidarsi alle onde impreviste del sogno e dell'incubo, alla luce spettrale della disperazione, a tutto ciò che sconfessava il desolante ottimismo del secolo.
Intanto sgomentava quei dandies raffinatissimi con la sua trascuratezza e le sue dissipate abitudini. La chioma irsuta di Rimbaud era piena di pidocchi che si divertiva a buttare sui passanti che gli sembravano antipatici. Chiunque lo ospitava era destinato a pentirsene amaramente.
Solo Verlaine si lasciò travolgere dal "volto perfettamente ovale da angelo in esilio e dagli occhi di un blu pallido inquietante" di quel profeta contadino. Per lui lasciò clamorosamente il tetto coniugale. Insieme i due poeti iniziarono a ubriacarsi e a girovagare per l'Europa, scandalizzando tutti con la loro omosessualità. A Bruxelles il timore dell'abbandono, le liti, la droga e l'alcool esplosero nella rivoltellata di Verlaine. Rimbaud fu ferito al polso. Prima sporse denuncia, poi ritrattò, ma l'amante venne condannato a due anni di carcere. Uscì di prigione pentito. «Verlaine è arrivato qui l'altro ieri, con un rosario tra le dita... Tre ore dopo aveva già rinnegato il suo dio», si vantò spietato Rimbaud.
Ma ormai per Arthur il tempo dell'Europa e della poesia era scaduto. Doveva evadere dalle "paludi dell'Occidente", dalle illusioni dell'arte. Del resto già nella "Stagione in inferno", aveva confessato: «Ora odio gli slanci mistici e le bizzarrie di stile. Ora posso dire che l'arte è una sciocchezza». Come una farfalla impazzita vagabondò per l'Europa. Finalmente in Belgio si arruolò nelle truppe coloniali in partenza per Giava, ma anche lì non resistette a lungo e finì per disertare. Lo attendeva un'altra serie di disordinate avventure, ma sempre, ogni volta finiva per tornare a Charleville, dove era nato e da cui fuggiva.
L'Africa gli sembrò il modo più assoluto di voltare le spalle all'Occidente, all'Inferno, ma anche lì lo raggiunse un eco del passato. "Vivendo così lontano da noi, non sapete, lo avvertì un viaggiatore, che a Parigi siete diventato per un ristrettissimo gruppo una sorta di personaggio leggendario. Questo piccolo gruppo vi chiama maestro." Lo ricorda G Furgiuele in Rimbaud come si difende un mito (Fontana di Trevi ).
L'ultima corsa del "poeta dalle suole di vento", con la gamba in cancrena, fu su una barella, trasportato dagli indigeni verso Aden. Dopo l'amputazione, Rimbaud non si fece illusioni. Non aveva fiducia nelle gambe meccaniche vantate dai medici. Sapeva di essere ormai un invalido, un tronco immobile. Nel 1873 aveva scritto: «Le donne curano / questi feroci infermi di ritorno dai paesi caldi». Fu un malato difficile e scostante, ancora una volta un ribelle. A volte la sofferenza era così insopportabile da strappargli urla di dolore, mentre picchiava il materasso, in attesa della morfina. Lo attendeva la tomba di famiglia, quella del paese da cui aveva sempre cercato di evadere. «L'unica cosa insopportabile, aveva scritto, è che niente è insopportabile».
"harar, 25 febbraio 1890
Care madre e sorella, non stupitevi se scrivo poco: il motivo principale è che non trovo mai niente di interessante da dire, perché in Paesi come questi
si ha più da chiedere che da dire! Deserti popolati da stupidi negri, senza strade, senza posta, senza viaggiatori, che volete che vi si scriva da posti simili? Che
ci si annoia, che ci si scoccia, che ci si abbruttisce, che se ne ha abbastanza ma che non si può finire, etc. etc. ... Ecco tutto, tutto quello che si può dire. Poiché questo non diverte nemmeno gli altri, bisogna tacere. In effetti da queste parti
si massacra e si saccheggia un bel po'. Fortunatamente, non mi sono ancora trovato in casi del genere, e conto di
non lasciare la mia pelle in questi posti – sarebbe da stupidi –. Del resto godo,
nel Paese e sulla strada, di una certa considerazione dovuta ai miei modi umani, non ho mai fatto male a nessuno, al contrario, faccio un po' di bene quando se ne presenta l'occasione, ed è il mio
solo piacere. Questi affari in fondo non sarebbero poi tanto cattivi, se le strade non fossero a ogni momento sbarrate dalle guerre. La gente di qui non è più sciocca né più canaglia dei negribianchi dei Paesi civilizzati; è tutt'altra cosa,
ecco tutto; in fondo, sono anzi
meno cattivi e possono, in certi casi, manifestare riconoscenza e fedeltà. Si tratta di essere giusti e umani con loro. Arthur Rimbaud"

il Sole24ore Domenica 13.4.14
Gioventù strafatta
Le droghe che hanno accompagnato l'uomo per tutta la sua storia mutano più velocemente della nostra capacità di comprenderne l'effetto e alimentano gravissime depressioni cliniche
di Luca Pani


I Lupi di Wall Street adesso si aggirano in Africa centrale, dove ancora si spaccia una versione moderna del diabolico Quaalude. Dalla nostra parte del mondo non si trova neppure nei vicoli più bui e, se si esclude una minoranza di aficionados che appartengono alla psiconautica degli eccessi, nessuno ha la minima idea di quali effetti davvero abbia quello di nuova sintesi, così come per centinaia di psicostimolanti che popolano il commercio illegale su scala planetaria. La produzione e il consumo delle sostanze d'abuso rappresentano uno dei massimi esempi di divergenza evoluzionistica di cui abbiamo riscontro e di cui ci stiamo occupando negli ultimi mesi nella chiave di lettura che proponiamo da queste pagine. Nell'etologia psichiatrica tutto ciò è riassunto nella teoria del cosiddetto evolutionary mismatch. Non v'ha dubbio, infatti, che in pochi altri campi dell'interazione uomo-ambiente si assiste a così cospicue differenze tra quello che ci circonda oggi, rispetto a quello che avevamo intorno sino a poche decine di anni fa, come nel campo delle sostanze d'abuso. In un momento in cui ferve il dibattito politico sulla depenalizzazione dei derivati della Canapa e dell'uso terapeutico degli stessi vale la pena ricordare, dal punto di vista tecnico, che il contenuto dei prodotti psicoattivi della cannabis si è spostato dal 3-5% dei primi anni '70 ad almeno il 25-30% e oltre che si può rilevare in alcuni estratti attuali, ed è in costante crescita con modificazioni dei contenuti relativi dei principi attivi di cui non sappiamo prevedere quasi niente. Lungi dall'esprimere un giudizio politico sull'opportunità o meno di approvare simili leggi non si può fare a meno di riportare i dati a nostra disposizione che, appunto, raccontano come le droghe che hanno accompagnato l'uomo per tutta la sua storia stanno diventano altro e mutano sempre più velocemente. Più rapidamente almeno della nostra capacità di comprendere che cosa fanno davvero, perché quello che producevano anche in un recente passato conta sempre meno e non esiste quasi più. Nella proposta di legge non si trova, ad esempio, nessun cenno alla precisa misurazione dei principi attivi che è invece – opportunamente – prevista per la prescrizione di farmaci contenenti derivati naturali o sintetici della cannabis. Sarebbe come classificare nella stessa categoria bevande al 4% di alcol (birre), al 12% (vino), al 18% (liquori), al 36% (distillati), al 52% (super-distillati), e soprattutto berne la stessa quantità ogni volta attendendosi lo stesso effetto. È farmacologicamente impossibile per una sigaretta che brucia almeno il 25% di Delta-9 cannabinolo insieme all'1% di cannabidiolo produrre gli stessi effetti di una in cui le percentuali sono la metà o addirittura opposte. Non esistono queste percentuali nelle piante analizzate sinora? Non importa, basta aspettare, neppure tanto tempo, e arriveranno. Senza un controllo della cultivar si avrebbero delle significative differenze tra produzioni anche provenienti dalle stesse piantagioni perché soggette – come è giusto che sia – alle variabilità meteorologiche e del terreno. Il risultato sarebbe un ulteriore aumento dell'incertezza e una maggiore tendenza dei consumatori a sperimentare. 
Questi aspetti dell'auto-sperimentazione umana stanno, in effetti, emergendo negli ultimi anni e rivestono particolare interesse per la psichiatria evoluzionista che si è arricchita, anche in questo caso, dei risultati prodotti da anni di sperimentazioni animali, le stesse sperimentazioni che altre proposte di legge vorrebbero cancellare proprio quando invece ne avremo più bisogno per comprendere le alterazioni dei meccanismi cerebrali che sottendono alla dipendenza dalle nuove sostanze che si affacciano all'orizzonte. Per decenni abbiamo, per esempio, letto e insegnato che la dopamina di una precisa sottoregione del nucleus accumbens ha un ruolo importante nel mediare l'impatto edonistico delle sostanze d'abuso e di molte altre condizioni fisiologiche (cibo e sesso ad esempio, ma anche cooperazione sociale) eppure vi sono ormai altrettante e sostanziali evidenze che dimostrano come anche stimoli fastidiosi se non francamente dolorosi producano un rilascio della medesima dopamina nelle stesse aree cerebrali. Ed è ancora più interessante annotare come l'anticipazione del piacere rilasci più dopamina del momento in cui il piacere viene consumato. Si prefigura dunque un ruolo di questo neurotrasmettitore come mediatore delle procedure di apprendimento e come segnalatore di "errori" nell'interazione corpo-ambiente che motivano l'apprendimento. Altre aree, come lo striato dorsale ad esempio, sono reclutate per imparare ad eseguire sequenze comportamentali che permettono di rispondere in modo adeguato a stimoli che producono piacere o cercano di evitare il dolore. 
La domanda che sorge spontanea è che cosa succederà di questi antichissimi meccanismi cerebrali una volta "parassitati" da sostanze d'abuso che non si sono evolute con noi ma che sono state prodotte negli ultimi anni da manipolazioni chimiche in grado di alterare i livelli dei neurotrasmettitori di centinaia di volte? La forza plasmante di questi segnali porta delle informazioni dettagliatissime sul rapporto tra il contesto interno ed esterno ed ha la capacità di modificare la plasticità delle cellule nervose per rinforzare comportamenti volitivi, appetitivi e consumatori delle droghe a discapito di tutto il resto. Questo potente controllo della nostra "centrale di comando" deriva dall'incapacità del meccanismo genetico-molecolare evolutivamente selezionatosi di distinguere il piacere che proviene – ad esempio – dal cibo o dalla cocaina o da un contesto di cooperazione sociale. Una volta che gli psicostimolanti hanno prodotto i loro effetti lo fanno con una potenza, una risposta temporale e una consistenza che è impossibile da eguagliare per qualunque altro stimolo naturale. A quel punto una sorta di pilota automatico viene bloccato su "droghe" ed è molto impegnativo rimpadronirsi dei piaceri (o dispiaceri) naturali della vita. 
Dal punto di vista clinico vediamo, frequentemente purtroppo, dei pazienti sempre più giovani che presentano gravissime depressioni cliniche conseguenti ad anni (in alcuni individui predisposti bastano pochi mesi) di abuso di psicostimolanti, alcol e antidepressivi. Le caratteristiche di queste depressioni sono uniche perché si presentano come delle sindromi amotivazionali, con grande irritabilità, disforia e improvvisi scatti di rabbia seguiti da profonde e dolorose malinconie. I pazienti, tra i vari sintomi, sembrano incapaci di "leggere" i segnali ambientali che rinforzano i comportamenti positivi e non li distinguono da quelli che hanno delle conseguenze negative a medio e lungo termine, queste forme depressive risultano resistenti alla maggior parte dei trattamenti a disposizione comprese le psicoterapie. 
Si tratta di un'emergenza mondiale proprio perché, come altri beni e consumi, le sostanze d'abuso hanno un mercato globale che non dorme mai al pari di coloro che ne sono dipendenti. Sono le nuove droghe che consumano la vita e il futuro di intere generazioni, spesso nella irresponsabile assenza o a causa di discutibili decisioni di quelle precedenti.

il Sole24ore Domenica 13.4.14
Albert Einstein ha affermato che c'è qualcosa di musicale nella meccanica quantistic
Musicalità atomica
di Anna Li Vigni


Albert Einstein ha affermato che c'è qualcosa di musicale nella meccanica quantistica. Cosa volesse intendere ce lo spiegano Maria Luisa Dalla Chiara, Roberto Giuntini, Eleonora Negri e Riccardo Luciani in un saggio tanto coraggioso quanto affascinante intitolato Dall'informazione quantistica alla musica. La fisica quantistica, si sa, ha operato una vera e propria rivoluzione di natura epistemologica e gnoseologica con la mutazione di alcuni concetti-chiave della fisica classica. Incertezza, ambiguità e indeterminazione caratterizzano il comportamento delle micro-particelle (fotoni, elettroni, protoni, ecc.): nel celeberrimo esperimento delle due fessure, si è reso evidente come una stessa particella possa passare attraverso entrambe le fessure verso cui è stata sparata, e ciò in virtù di un fenomeno di sovrapposizione o di interferenza (entanglement) tale per cui, in assenza di un osservatore che ne determina il comportamento in un senso o in un altro, l'informazione relativa alla particella resta incerta e aperta a tutte le possibilità d'azione. Un fenomeno che Feynman ha definito «molto misterioso e più lo si osserva e più appare misterioso». Di fronte a fenomeni del genere, non ha senso utilizzare gli strumenti della fisica classica, della logica classica, della semantica classica: non si può compiere un'analisi di natura composizionale, attribuendo un significato a ogni singola parte, per pervenire al significato dell'insieme e nemmeno si può ragionare in termini di vero/falso. Nella fisica quantistica, al contrario, l'oggetto deve essere pensato in termini di relazioni contestuali e in termini di ambiguità, ovvero di apertura a tutte le possibilità (vero e falso). E se questo modello fosse applicabile anche alla musica? 
Il mondo dei suoni, come quello dei quanti, si basa essenzialmente su relazioni, giacché le note sono entità semantiche che assumono un significato solo in un contesto. Gli spartiti musicali, inoltre, sono esempi di un linguaggio simbolico spesso ambiguo, per analizzare il quale la semantica classica si rivela fallace. Spesso in musica, come nella fisica quantistica, ci troviamo di fronte a fenomeni di sovrapposizione (entanglement), tali per cui il senso globale di un brano musicale deriva dalla percezione complessa di più melodie sovrapposte. Il che non vale per il linguaggio verbale, dove siamo costretti ad ascoltare un discorso alla volta, perché se ascoltassimo quattro discorsi contemporaneamente, non riusciremmo a capire nulla. Nell'incipit del lieder di Schubert Kennst du das Land, la presenza di una forte ambiguità tonale fa coesistere diverse emozioni in conflitto tra loro la gioia d'amore e la dolorosa nostalgia della protagonista Mignon: si tratta di un brano che richiede un ascolto aperto e disponibile verso incertezza e instabilità. Altro esempio è il Preludio del Tristano e Isotta di Wagner. In genere, nella musica romantica, le ambiguità tonali corrispondono a momenti di transizione narrativa; nel Preludio, invece, l'ambiguità non si risolve mai, conferendo al testo un andamento di estrema instabilità, come se ogni nota – come ogni microparticella fisica – restasse sempre aperta verso ogni potenziale sviluppo senza mai realizzarlo. Quello dell'ambiguità, d'altra parte, ha affermato il neuroscienziato Semir Zeki, è l'approccio cognitivo privilegiato dal nostro cervello nei confronti delle opere d'arte. Nel Preludio – afferma Daniel Baremboin – «la mancanza di una risoluzione finale ci permette di immaginare differenti soluzioni possibili, mentre non ne viene proposta nessuna. (…) Lo studio di Tristano e Isotta ha cambiato la nostra visione delle cose, la nostra cornice teorica di riferimento, il che non riguarda solo la musica, ma la vita stessa».
Maria Luisa Dalla Chiara, Roberto Giuntini, Eleonora Negri, Riccardo Luciani, Dall'informazione quantistica alla musica, Aracne, Roma, pagg. 164,

il Sole24ore Domenica 13.4.14
Teoria dei Giochi e neuroscienze
Generosità al testosteroni
Recenti ricerche su cervello dimostrano che molte scelte economiche non sono frutto di calcoli razionali, ma del livello di empatira che si può aumentare dosando l’ossitocina
di Riccardo Campa


L'incontro della teoria dei giochi con le neuroscienze, nell'ultimo decennio, ha delineato i contorni di un promettente programma di ricerca nel campo della scienza economica. Può essere perciò istruttivo ripercorrere alcune tappe di questa fruttuosa contaminazione tra scienze formali, sociali e naturali. 
Nel 2003, Alan Sanfey e il suo team pubblicano un articolo sulla rivista Science intitolato: «The neural basis of economic decision-making in the ultimatum game». L'ultimatum game è un caso tipico della teoria dei giochi, in cui due giocatori interagiscono allo scopo di dividersi una somma di denaro. Le regole sono le seguenti: 1) i soldi sono affidati a un solo giocatore; 2) questi formula l'offerta, proponendo come dividere la somma; 3) il secondo giocatore può accettare o rigettare la proposta; 4) se il secondo giocatore accetta, i soldi sono divisi secondo la proposta; 5) se questi rifiuta, entrambi i giocatori rimangono a mani vuote.
Secondo i postulati dell'economia classica, è razionale ogni decisione che massimizza il profitto. Dunque, in teoria, qualsiasi offerta superiore a zero dovrebbe essere accettata. Se la somma da dividere ammonta a 10 euro, anche l'offerta di un solo euro dovrebbe ottenere una risposta positiva. Invece, le osservazioni empiriche mostrano che le offerte inique vengono in genere rifiutate. Sanfey fornisce una spiegazione per questi inattesi risultati, avvalendosi della risonanza magnetica funzionale. In presenza di offerte inique, si osserva infatti nel cervello un'intensa attività dell'insula bilaterale anteriore, notoriamente associata a stati emozionali negativi come l'angoscia o il dolore. Quando ci troviamo di fronte una persona egoista, rifiutiamo di collaborare anche se ci converrebbe, perché la nostra capacità di calcolo è sovrastata da forti sensazioni di disgusto, analoghe a quelle che proviamo in presenza di sostanze maleodoranti o particolarmente nauseabonde. Per farla breve, passata una certa soglia, la valutazione etica prevale sul calcolo economico.
Resta però da spiegare il motivo per cui alcuni giocatori fanno offerte più generose di altri. Una risposta si trova nell'articolo Oxytocin Increases Generosity in Humans, pubblicato nel 2007 da Zak, Stanton e Ahmadi. Due fattori che spiegano le offerte generose sono la presa di prospettiva e l'empatia. Scambiandosi i ruoli, i giocatori acquisiscono una maggiore capacità di comprendere il partner di gioco e quindi di evitare il rifiuto. Ma l'aspetto più interessante è che si può accrescere artificialmente l'empatia e dunque la generosità, attraverso la manipolazione di un meccanismo fisiologico: il neuromodulatore ossitocina. Al fine di dimostrare l'effetto causale dell'ossitocina sulla generosità, ai partecipanti viene somministrata per via intranasale una dose di ossitocina o di placebo (soluzione salina). I risultati dell'esperimento sono sorprendenti. La media delle offerte nell'ultimatum game risulta più alta del 21% nel gruppo che ha inalato ossitocina, rispetto al gruppo esposto al placebo. Per quanto riguarda la media dell'offerta minima accettabile, la generosità risulta più alta dell'80% nei gruppi ossitocina rispetto ai gruppi placebo. I livelli di ossitocina possono essere aumentati anche in modo non farmacologico, attraverso il contatto tattile, l'interazione in un ambiente sicuro, o lo scambio di segnali di fiducia da parte delle persone che interagiscono.
Sempre nel 2007, la conoscenza dei processi biologici che influenzano le decisioni economiche si amplia grazie ad una ricerca di Terence Burnham, dell'Università di Harvard (High-testosterone men reject low ultimatum game offers). Burnham chiede a un gruppo di 26 studenti di microeconomia di giocare l'ultimatum game, dopo aver prelevato un campione di saliva da ogni partecipante, al fine di rilevare il livello di testosterone e di metterlo a confronto con le decisioni di gioco. L'esperimento conferma che gli individui con il livello di testosterone più alto del 50% della media sono quelli più propensi a rigettare le offerte inique. Gli economisti spesso considerano irrazionali queste risposte. In realtà, esse hanno una loro razionalità intrinseca. I soldi esistono da qualche migliaio di anni, mentre l'uomo esiste da milioni di anni. Dunque, i soldi non possono essere la "vera" misura del valore di un uomo. Deve essere qualcos'altro. Il qualcos'altro di cui parliamo è lo "status sociale", un concetto che include l'autostima e il rispetto da parte di altri individui. Se viene offerto un modo alternativo ai soldi, per acquisire status sociale, può essere razionale seguire quella via. Rifiutare l'offerta iniqua è un esercizio di potere che innalza l'autostima e il rispetto.
Nel 2008, infine, cinque ricercatori dell'Università di Cambridge (Crockett, Clark, Tabibnia, Lieberman e Robbins) pubblicano un interessante articolo su Science che individua un altro fattore coinvolto nel rifiuto delle offerte inique (Serotonin Modulates Behavioral Reactions to Unfairness). Seguendo una procedura a doppio cieco con controllo placebo, i ricercatori provocano in 20 volontari sani un esaurimento acuto del triptofano, ottenendo il concomitante abbassamento temporaneo dei livelli di serotonina. Quindi chiedono ai volontari di giocare all'ultimatum game. Le persone con il livello di serotonina artificialmente abbassato rifiutano le proposte inique più spesso dei giocatori con un livello normale. Non rifiutano però le proposte eque, né mostrano cambiamenti nell'umore, nell'equità dei giudizi, nei processi basilari di ricompensa o nell'inibizione delle risposte. I risultati sembrano dunque suggerire che la serotonina gioca un ruolo critico nella regolazione delle emozioni durante i processi di decisione economica.
Poiché il livello di triptofano dipende dall'alimentazione, si potrebbe pensare che i ricercatori abbiano semplicemente trovato la conferma empirica di una nozione del senso comune. Non è un caso se vengono organizzati "pranzi d'affari" e se a organizzarli è di norma il soggetto che ha un'offerta economica da fare, sapendo che il partner è più malleabile a stomaco pieno che a stomaco vuoto. E questo vale anche per altri tipi di offerta, come vuole la consuetudine di far coincidere l'incontro galante con una "cena romantica". Tuttavia, questo esperimento ci insegna qualcosa di più preciso. Non basta un pasto qualsiasi per alterare il livello di triptofano, essendo l'amminoacido contenuto in misura diversa negli alimenti. Inoltre, il senso comune può dare anche indicazioni sconvenienti. Capita infatti che nei pranzi d'affari e nelle cene galanti vengano offerti alcolici, per la loro nota capacità di rendere malleabili o arrendevoli le persone. Ma questa offerta potrebbe rivelarsi un errore di gioco, proprio perché gli effetti dell'alcol sono noti a tutti. L'altro giocatore potrebbe irrigidirsi, sospettando le intenzioni. Difficilmente, però, la mossa di mettere in tavola agnello, sardine, formaggi e uova attiverebbe un analogo sospetto.

il Sole24ore Domenica 13.4.14
Per un Senato previdente
Il caso della Legge 40 mostra chiaramente perché sarebbe utile introdurre nella Camera alta una componente di esperti competenti
di Carlo Melzi d'Eril e Giulio Enea Vigevani



Qualche settimana fa su queste colonne veniva proposta un'idea: introdurre nel Senato da riformare un buon numero di persone scelte tra chi aveva raggiunto l'eccellenza nel proprio campo di attività. Ci sembrava, infatti, che il valore della altissima competenza ben potesse caratterizzare una seconda camera che non avesse funzioni legislative ma essenzialmente di controllo dell'operato della prima.
Nel testo del disegno di legge approvato dal Consiglio dei Ministri il 31 marzo scorso sembra esserci un'apertura verso questa idea. Nell'ultima proposta, in sintesi, il "Senato delle Autonomie" sarebbe composto da una sessantina di sindaci, da un analogo numero tra presidenti e consiglieri regionali, nonché da ventuno membri nominati dal Capo dello Stato tra coloro che hanno illustrato la patria per altissimi meriti nel campo sociale, scientifico, artistico e letterario.
La presenza di quest'ultimo gruppo – assai numeroso, in proporzione al totale – ha suscitato forti critiche, alcune appoggiate ad argomenti robusti. Chi rappresentano questi ventuno "saggi"? Non è forse inopportuno consentire che un uomo solo, sia pure il Presidente della Repubblica, condizioni l'indirizzo della nuova Camera?
Si tratta di obiezioni serie se, come per certi versi sembra, il ruolo immaginato dal Governo per il Senato è circoscritto al raccordo fra lo Stato e le Regioni e alla tutela delle rispettive competenze.
In un Senato di tal genere, a essere rigorosi, non dovrebbero essere presenti nemmeno i sindaci. La soluzione naturale sarebbe quella della rappresentanza dei soli esecutivi regionali, come il Bundesrat tedesco. Ma il testo del Governo non si limita a questo e attribuisce al Senato compiti più generali di garanzia del buon funzionamento del sistema: la nomina di due giudici costituzionali, la partecipazione in condizioni di parità con l'altra Camera al processo di riforma costituzionale e alla elezione del Presidente della Repubblica. Inoltre, e questo aspetto ci pare da sottolineare, il Senato può sempre imporre alla Camera di tornare a riflettere sulle proposte di legge già approvate.
Questo ruolo di "contropotere" ci sembra da valorizzare, in un contesto di accentuazione della dinamica maggioritaria pressoché inevitabile in un sistema quasi monocamerale. Per di più, di fronte a vere o presunte emergenze, le decisioni della politica sono divenute sempre più affrettate e il rischio di "leggi manifesto" è sempre molto forte. Ancora più pericolosamente, soprattutto in materie sensibili, è possibile che in una camera sola, ostaggio di maggioranze prepotenti, prevalga l'aspetto ideologico e simbolico rispetto alla ricerca di una sintesi tra gli interessi in campo.
È già accaduto con l'attuale bicameralismo perfetto: il divieto assoluto di fecondazione eterologa, dichiarato proprio questa settimana incostituzionale, ne è solo uno dei molti esempi. Ancora più facilmente e frequentemente potrà accadere quando a decidere saranno solo i deputati.
In questo contesto, si trova ben collocata una seconda camera, appunto di garanzia, la cui prima funzione sia quella di essere un salutare freno al potere governante. E per un simile compito non si deve aver timore di coinvolgere anche l'aristocrazia del merito e dunque di prevedere la presenza tra i senatori di un numero cospicuo di nominati per competenza e cultura. Integrare nelle istituzioni le personalità più autorevoli consente il compimento, in determinati momenti, di scelte più meditate. Così il filosofo, lo scienziato, lo storico dell'arte, il medico potrebbero essere punti di riferimento permanenti specie nelle questioni più delicate. Potrebbero ad esempio, quando propongono modifiche alle leggi approvate dalla Camera, far presente i risultati della riflessione della scienza e della cultura.
Per essere un vero contropotere, comunque, il nuovo Senato non deve avere un ruolo decisivo nella formazione delle leggi; deve essere, però, dotato di qualche ulteriore, incisiva competenza rispetto a quelle previste nell'ultimo testo presentato. Anzitutto la possibilità di sottoporre al controllo della Corte costituzionale le leggi appena approvate dall'altra Camera.
Una seconda caratteristica che consentirebbe di andare nella medesima direzione, ovvero quella di creare un Senato non solo delle autonomie ma di garanzia, sarebbe l'attribuzione di un ruolo nelle più importanti nomine della pubblica amministrazione. A tutela dell'imparzialità e del buon funzionamento del potere pubblico potrebbe essergli affidata direttamente la scelta dei componenti delle autorità indipendenti e del cda Rai. In questa stessa prospettiva si porrebbe il conferimento di un potere di dare l'assenso alle nomine dei vertici delle grandi aziende "di Stato", come Eni, Enel o Poste Italiane.
Insomma, si tratterebbe di un Senato che non legifera ma consiglia e controlla. Più in generale di un insieme di persone – tra cui a buon diritto le vette della cultura e della scienza – che da una parte interviene nei momenti di allarme e dall'altra compie una verifica continua dell'equilibrio del sistema costituzionale.
Questi poteri si potrebbero forse sintetizzare con le parole del celebre costituzionalista inglese Walter Bagehot: to be consulted, to encourage and to warn. Certo, lui si riferiva alla regina Vittoria e aveva di fronte un Parlamento di uomini come Disraeli e Gladstone.

il Sole24ore Domenica 13.4.14
La lunga storia delle copie
Si cominciò con i calchi in gesso e poi con le repliche in marmo dei bronzi antichi. Oggi, in Oriente, si riproducono intere città
di Salvatore Settis


La Cina è oggi il paradiso delle copie: il South China Mall di Dongguan (presso Hong Kong), che è il centro commerciale più grande del mondo, include sette zone modellate su Roma, Venezia, Parigi, Amsterdam, l'Egitto, i Caraibi e la California. Repliche di villaggi austriaci, della Torre Eiffel, del ponte di Rialto, di ville palladiane, di parrocchiali inglesi affollano dappertutto i nuovi suburbi di una neoborghesia: sarà forse perché «l'enfasi barocca, la vertigine eclettica e il bisogno dell'imitazione prevalgono là dove la ricchezza manca di storia» (Umberto Eco)? In un libro recentissimo (Original Copies: Architectural Mimicry in Contemporary China, Hawaii University Press) Bianca Bosker avanza un'altra spiegazione: la Cina ha da secoli una forte tradizione di «appropriazione tematica» di architetture estranee, a cominciare da quando il Primo imperatore, dopo aver conquistato gli ultimi sei regni indipendenti, replicò in scala ridotta nella sua capitale Xianyang i palazzi dei sovrani detronizzati (III secolo a.C.). Fra originali e copie c'è una strana tensione: la copia rende omaggio all'originale, e con ciò ne riconosce la superiorità; ma insieme pretende di sostituirlo, e dunque ne contesta l'unicità. Con un tema così sfacciatamente (post)moderno, pare impossibile che le coordinate culturali siano da cercare oltre duemila anni fa. Eppure questo è vero non solo in Cina ma anche nell'arte classica, greco-romana: lo mostra al meglio un libro altrettanto recente e agguerrito, dovuto ad Anna Anguissola (Difficillima imitatio. Immagine e lessico delle copie tra Grecia e Roma, Bretschneider editore).
All'idea di "classico" associamo senza pensarci quella di unicità, irripetibilità: opere come il Partenone o le sculture di Policleto e di Fidia, lo diamo per scontato, furono create come modelli perpetui, da imitare senza mai sperare di raggiungerli. Non è così. L'idea stessa che vi sia stata un'epoca suprema dell'arte (di solito identificata con i secoli V-IV a.C.) è una costruzione culturale relativamente tarda, una visione retrospettiva elaborata in età ellenistica, quando l'indipendenza delle città greche era travolta dai Macedoni (e poi dai Romani) innescando una forte nostalgia, politica e culturale, del passato. Anche la produzione di copie da famosi originali dei grandi maestri greci nasce nella stessa atmosfera, ispirata da uno sguardo volto all'indietro. Sappiamo (e Anguissola ripercorre lucidamente lo «stato dell'arte») che si cominciarono a prender calchi da numerose statue che ornavano santuari e piazze della Grecia, e che questi calchi servirono poi di modello nelle botteghe dei copisti, mentre con più o meno accurate misure l'originale (spesso in bronzo) veniva replicato nel marmo. Dal bronzo al gesso al marmo: questa metamorfosi materica già mostra che, per quanto fosse meccanico il metodo della riproduzione, alla pretesa precisione dell'esito si accompagnava un qualche spostamento di accento e di gusto. Ma quale era la gerarchia dei materiali? Il gesso, una volta usato per trarne la copia, si buttava via (a Baia se ne è trovato un notevole deposito); ma che cosa voleva dire, per un committente o acquirente antico, veder tradotto in marmo il bronzo del Discobolo di Mirone? 
Per rispondere a questa domanda, Anna Anguissola ha scelto una prospettiva erudita e raffinata insieme: e nelle pagine del suo libro documentatissimo usa i linguaggi e il lessico delle copie per mettere in scena la recezione delle opere d'arte antica. Vi furono infatti nell'antichità non solo collezionisti e viaggiatori per templi e per città, ma anche "conoscitori", che amavano conversare, riconoscersi fra loro nelle coordinate di un linguaggio ammiccante, prendere in giro i falsi esperti senza ammetterli nel loro club esclusivo. Insomma, si formò allora un «discorso sull'arte» con le sue regole del gioco, una tessitura concettuale e verbale che ebbe forma orale ma fu tradotta anche in appositi trattati sulla pittura e sulla scultura: la più antica forma di «storia dell'arte» della tradizione europea. Riassunti da Plinio il Vecchio e da altre fonti romane, quei trattati avrebbero poi determinato, secoli dopo, la rinascita della storia dell'arte che porta i nomi di Ghiberti, di Vasari, di Winckelmann. 
Anche nel lessico delle copie fra Grecia e Roma si riflette la ricchezza di una sofisticata estetica della recezione, nella spola fra artista e pubblico, fra orale e scritto, fra pratiche di bottega e gusto dei collezionisti. Ma, per implicazione, anche fra antico e moderno: per secoli, infatti, si stentò a capire che la maggior parte delle statue "greche" emerse dalle rovine di Roma erano in realtà copie di età romana, e perfino l'Apollo di Belvedere, idolatrato da Winckelmann come ideale greco di bellezza, si rivelò copia da un originale in bronzo. Che cosa impariamo dal glossario analizzato da Anguissola? Per esempio, la frequenza di termini come aemulatio, imitatio che si riferiscono non tanto alla precisione della copia, ma alla capacità del copista di accostarsi alle caratteristiche di stile di un maestro. O l'uso di parole che, nel menzionare la copia di un'opera d'arte, ricalcano quelle usate per descrivere la copia di un testo letterario da un manoscritto all'altro: per esempio nell'opposizione tra "archetipo" (originale) e "antigrafo" (copia), che ricorre in Luciano. O ancora il termine paradeigma, che nei testi greci (specialmente epigrafi) designa i modelli plastici che gli scultori approntavano per mostrarli ai clienti e negoziare con essi la forma finale dell'opera ("bozzetto" è in molti casi la traduzione italiana più appropriata).
In questa trama di parole, i fatti contano molto. Nulla incarna l'assidua ricerca degli originali greci quanto la storia di Winckelmann e del Sauroctonos («Apollo che uccide la lucertola») di Prassitele. Winckelmann sapeva da Plinio che l'originale era di bronzo, ma volle convincersi che un marmo in collezione Borghese fosse l'originale, poi lo cercò in una statua Albani in bronzo (oggi sappiamo che sono entrambi delle copie). Ma anche gli Antichi andavano in caccia degli originali: Silla portò via da Atene il famoso quadro di Zeusi La famiglia dei centauri, ma la nave che doveva portarlo a Roma naufragò; tuttavia, Luciano ricorda che al suo tempo (II secolo d.C.) un pittore ateniese ne aveva in bottega una copia fedele, pur essendo «immagine dell'immagine». Nel 140 a.C. il re di Pergamo Attalo II spedì a Delfi tre pittori, incaricati di copiare per lui i famosi affreschi di Polignoto: una «spedizione copistica» immortalata nel marmo di un'iscrizione. Desideratissima era la tavola della Venditrice di ghirlande di Pausias (IV sec. a.C.), tanto che trecento anni dopo il ricchissimo Lucullo, per portarsene a Roma una copia, pagò a un intermediario l'enorme somma di due talenti. 
Quanto complessa fosse in età classica l'«appropriazione tematica» mediante le copie, infine, lo mostra una parola, aphídryma ("trasposizione"). Essa si riferisce alla duplicazione di statue o di edifici in un contesto sacro, come le repliche di una statua di culto o i templi minori edificati sulla falsariga di un tempio-modello. In questi casi, la copia trascina con sé la trasposizione dei riti e dei sacrifici. Perché fra originale e copia s'interpone, inavvertito ma essenziale, un tertium, il filtro delle pratiche socio-culturali che a una copia, surrogato, Ersatz, possono conferire un rango inferiore o eguale al suo archetipo, ma anche (più spesso) del tutto indipendente da esso: una nuova, palpabile, densa «verità della copia».

il Sole24ore Domenica 13.4.14
Uno scrittore, un paese
Periferia Portogallo
I testi inediti in Italia dove Fernando Pessoa riflette, discute, teorizza e critica l’identità e la cultura dei suoi conterranei
di Fernando Pessoa


Esistono tre specie di Portogallo, dentro lo stesso Portogallo; o se si preferisce, esistono tre specie di portoghese. Il primo è quello apparso con l'avvento della nazionalità: è il portoghese tipico, che forma il fondo della nazione e quello della sua espansione numerica, che lavora oscuramente e modestamente in Portogallo e in ogni dove. Questo portoghese si trova, dal 1578, divorziato da tutti i governi e abbandonato da tutti. Esiste perché esiste, ed è per questo che anche la nazione esiste.
Il secondo è un portoghese che non lo è. È apparso con l'invasione mentale straniera che risale, secondo una possibile verità, al tempo del Marchese di Pombal. Invasione poi aggravata con il Costituzionalismo, e completata con la Repubblica. Questo portoghese (che forma grande parte delle classi medie superiori, una certa parte del popolo, e quasi per intero le classi dirigenti) governa il Paese. È completamente divorziato dal Paese che governa. È, per volontà propria, parigino e moderno. Contro la sua volontà, è stupido.
C'è infine un terzo portoghese che ha cominciato a esistere allorché il Portogallo, ai tempi del re D. Dinis, da Nazione iniziò a farsi Impero. Questo portoghese compì le Scoperte, creò l'odierna civiltà transoceanica, e subito dopo scomparve. Scomparve per sempre a Alcácer Quibir, anche se lasciò alcuni parenti, che sono sopravvissuti, e tuttora continuano, ad aspettare che quel portoghese ritorni. Come l'ultimo vero re del Portogallo è stato quel D. Sebastião che cadde ad Alcácer Quibir, dove presumibilmente morì, è nel simbolo del ritorno del re D. Sebastião che i portoghesi della saudade imperiale proiettano la loro fede che la famiglia non si estingua.
Questi tre tipi di portoghese hanno una mentalità comune, in quanto sono tutti portoghesi, ma l'uso che fanno di questa mentalità li differenzia tra di essi. Il portoghese, nel suo fondo psichico, è definibile, con una ragionevole approssimazione, da tre caratteristiche: (1) il predominio dell'immaginazione sull'intelligenza; (2) il predominio dell'emozione sulla passione; (3) l'istintiva adattabilità. Per la prima caratteristica si distingue, per contrasto, dall'antico greco, a lui simile nella rapidità d'adattamento e nella conseguente incostanza e mobilità. Per la seconda caratteristica si distingue, per contrasto, dallo spagnolo medio, a lui simile nell'intensità e nel tipo di sentimento. Per la terza caratteristica si distingue dal tedesco medio; è simile a lui nell'adattabilità, pur se quella del tedesco è razionale e salda, mentre quella del portoghese, istintiva e instabile.
A ognuno di questi tipi di portoghese corrisponde un tipo di letteratura.
Il portoghese del primo tipo è esattamente come l'abbiamo descritto, in quanto è il portoghese normale e tipico. Il portoghese del tipo ufficiale è uguale ma annacquato: l'immaginazione continuerà a prevalere sull'intelligenza, ma non esiste; l'emozione continuerà a prevalere sulla passione, ma non ha la forza per prevalere su alcunché; resta l'adattabilità, ma è puramente superficiale: da assimilatore, il portoghese, in questo caso, diventa semplicemente mimetico. Il portoghese del tipo imperiale assorbe l'intelligenza grazie all'immaginazione; l'immaginazione è talmente forte che, per così dire, integra l'intelligenza in se stessa, formando una specie di nuova qualità mentale. Da qui le Scoperte che non sono altro che l'utilizzo intellettuale, addirittura pratico, dell'immaginazione. La conseguenza è la mancanza di grande letteratura in quel periodo (dal momento che Camões, pur grande, non è nelle lettere all'altezza delle gesta dell'Infante D. Henrique e dell'imperatore Afonso de Albuquerque, rispettivamente creatori del mondo moderno e dell'imperialismo moderno (?). E questa nuova specie di mentalità influisce sulle altre due qualità mentali del portoghese: grazie alla sua influenza, l'emozione diventa profonda in modo da somigliare alla passione, anche se è emozione; grazie alla sua influenza l'adattabilità diventa attiva, e non già passiva, e quello che era abilità a far tutto diventa abilità a esser tutto. Prodotto di due secoli di falsa educazione di frati e gesuiti, seguiti da un secolo di pseudo-educazione confusa, siamo le vittime individuali di una prolungata servitù collettiva. Siamo stati schiacciati da liberali per cui la libertà era una semplice parola di accesso a una setta reazionaria, da liberi pensatori per cui il massimo del libero pensiero era impedire a una processione di uscire in strada, da massoni per cui la Massoneria non mai è stata altro che una Carboneria rituale. Prodotto, così di educazioni impartite da creature la cui esistenza era un perpetuo tradimento di quello che dicevano d'essere, delle credenze o degli ideali che dicevano di servire, abbiamo dovuto sempre vivere nelle periferie.
Che idee generali abbiamo? Quelle che ci affanniamo di cercare all'estero. Le cercassimo almeno fra i suoi movimenti filosofici più solidi; invece, le cerchiamo in superficie, in quel giornalismo delle idee. E finisce che le idee che adottiamo, senza alterazione e senza critica, sono o vecchie o superficiali. Discutiamo seriamente sulle idee di León Blum o di Édouard Herriot che mai hanno avuto un'idea – politica o d'altro tipo – in vita. Discutiamo seriamente di Bourget, di Maurras. Abbiamo plagiato il fascismo e l'hitlerismo, abbiamo chiaramente plagiato, senza aver vergogna di essere incoscienti, come il bambino che imita senza esitazione.