lunedì 14 aprile 2014

Repubblica 14.4.14
Scontri di Roma, agente calpesta una ragazza a terra

In questo video esclusivo di Servizio Pubblico, la telecamera registra il momento in cui un agente di polizia appoggia con tutto il peso un piede sulla pancia della ragazza coperta in parte da un altro giovane, a sua volta ferito alla testa, che tenta di proteggerla. Le immagini sono tratte dal servizio di Dina Lauricella
qui

Il servizio completo su Servizio Pubblico


Il titolista dell’Unità oggi definisce “malpancisti” gli oppositori di Renzi nel Pd
l’Unità 14.4.14
Senato, parte la battaglia per la riforma


Fi alza la posta e cerca l’asse con i malpancisti
di Vladimiro Frulletti


Si apre un’altra settimana difficile per la riforma del Senato proposta da Matteo Renzi. Una riforma costituzionale che, più si avvicina al dibattito parlamentare, più si rafforza il fronte di chi è contrario.
I primi a dare battaglia sono i senatori di Forza Italia, con Paolo Romani che avverte: il gruppo non voterà un Senato trasformato in «assemblea dei sindaci». Il capogruppo azzurro di Palazzo Madama contra di riunire una maggioranza (contando sul malumore di Chiti e degli altri nel Pd) che non sia d’accordo con la proposta presentata dal governo. Romani sta affinando la sua idea, ma non dice molto, a parte che il Senato dovrebbe rispettare il
voto dei cittadini «in modo proporzionale». Ma Fi cerca di alzare il tiro, e ne approfitta per rilanciare la riforma che aumenta i poteri del premier e che permette l’elezione diretta del Capo dello Stato.
I senatori del Pd che hanno firmato la proposta di Vannino Chiti, invece, si riuniranno domani cercando una mediazione, tenendo contro che la minoranza Pd cerca di aumentare la rappresentanza con le tessere.
Oggi comunque la ministra Boschi arriverà a un punto sulle riforme in un incontro (a porte chiuse); alla Camera intanto discuterà di riforme l’assemblea plenaria straordinaria dei Consigli regionali.
Lavoro e riforme, due seminari per tenere unito il Pd
Renzi si prepara a una settimana cruciale per il governo
L’obiettivo è convincere la minoranza a sostenere i provvedimenti economici e istituzionali

l’Unità 14.4.14
Gianni Cuperlo: «Pd, la sinistra deve rompere gli schemi»
«Il congresso è finito, Renzi è il nostro leader e il nostro premier. E tutto il nostro impegno è per far vincere le elezioni al Pd. Ma le istanze di cambiamento non sono solo a Palazzo Chigi. E le critiche non sono conservazione»
«Le riforme in Parlamento vanno fatte in fretta ma devono essere migliorate»
intervista di Maria Zegarelli


L’amarezza deriva soprattutto da due circostanze: la lettura dei quotidiani e la polemica che da sabato si è riaccesa nel Pd dopo la sua iniziativa a Roma, al Teatro Ghione, dove sono arrivate mille persone. Sette ore di dibattito riassunte per lo più nell’intervento di Massimo D’Alema, nella sua esortazione a riprendersi il partito. E poi quell’immagine che ne è venuta fuori di una minoranza che si vuole mettere di traverso proprio nel giorno in cui Matteo Renzi a Torino lancia la campagna elettorale. Gianni
Cuperlo non ci sta a che tutto si riduca a questo. Dice che la sua iniziativa è stata ben altro e guarda ben oltre le dinamiche interne, le polemiche, il congresso che per quanto lo riguarda è chiuso e archiviato. Cuperlo, una discussione di sette ore e sui maggiori quotidiani di oggi il titolo è dedicato a D’Alema che invita riprendersi il partito diventando di nuovo maggioranza. Un risultato che brucia?
«I titoli spesso sono pigri. È in questo caso hanno ignorato la realtà. Io volevo un confronto libero su cosa dev’essere la sinistra in questo nuovo inizio e penso che ci siamo riusciti. Aspettavamo 400 persone e ne sono arrivate mille a conferma che il bisogno c’è. Orlando e Fassina hanno fatto ragionamenti coraggiosi. Hanno parlato giovani dei circoli, un prete di strada come don Mapelli, il direttore di Banca Etica, e amministratori di frontiera, economisti, immigrati, tante donne. Io dico, lasciamoci il congresso alle spalle e cambiamolo davvero il Paese con una sinistra innovativa».
Sergio Staino era venuto per ascoltare lei ma poi è andato via quando ha preso la parola l’ex premier. Ha detto “ha rovinato tutto”. Cosa risponde a Staino?
«Lui è un amico fraterno. L’ho chiamato e gli ho detto “Sergio dovevi restare e avresti ascoltato parole preziose”. Nessuno era lì per rovinare. Io per primo ho detto che in pochi mesi è cambiato tutto e che la sinistra, se vuole avere un senso, non può restaurare quel che c’era ma deve stare nel tempo rompendo i suoi tabù, rovesciando riti e ritardi della sua cultura ». Lei ha annunciato i comitati promotori di una sinistra rinnovata. Rinnovata come e per andare verso cosa?
«Se la sinistra nel Pd resta appesa a parole e ricette degli ultimi vent’anni è destinata a non spingere il cambiamento nella parte giusta. Se trova la forza per rompere gli schemi e riparte dalla dignità della persona può rialzarsi. Vuol dire uscire dal ricatto di un pensiero unico sull’economia, il mercato, il valore del pubblico. Significa capire una buona volta che i diritti, umani civili sociali, sono indivisibili e segnano il discrimine della democrazia. Vuol dire entrare nei nuovi mondi di una scienza che cambia natura ai corpi, alle passioni e che ci restituisce una società dove una politica che ragioni con le vecchie classi non basta più. E ancora, vuol dire stare dentro i conflitti enormi che ci sono, per il lavoro, la salute, la casa. Ma significa anche riscoprire una sobrietà di stili e linguaggi perché è triste ma vero: c’è una sinistra che sta sulle palle al suo stesso popolo ed è quella sinistra che dal suo popolo si è distaccata sul piano dei comportamenti e delle coerenze prima che su quello della politica».
Renzi ha invitato a non spaccarsi proprio ora, durante la campagna elettorale eppure in molti hanno letto l’iniziativa di Roma come una sfida al premier.
«Avevamo fissato questo appuntamento da un mese e mezzo e il primo ad essere invitato è stato il vicesegretario Guerini che aveva subito accettato. Quando dico che il congresso è finito intendo che Renzi oggi è il leader e il premier. Punto. Cosìcomeèovviochetuttifaremounacampagnaelettoralesenzarisparmiopervincere in Italia e in Europa. Questo  non è il tempo della polemica sul nulla».
Su un quotidiano si riporta la frase: “non siamo antirenziani ma neanche renziani”. Cosa è questa area a cui pensa, che va oltre il 18% del congresso?
«Veramente una frase così non l’ho mai detta e non la penso. Noi siamo democratici a tutti gli effetti, vogliamo un partito- collettivo e comunità. Al congresso abbiamo sfiorato il 40% del voto degli iscritti . Il punto è cosa vuoi rappresentare. Una minoranza chiusa nel suo recinto o un pensiero che condiziona in meglio le scelte, aiutando sia il governo che il partito? Io penso serva la seconda cosa, allargare, mescolare, includere».
L’ultima discussione aperta è sulla sinistra. Cosa è di sinistra e cosa di destra.
«Intanto è di sinistra dire che quella distinzione esiste ancora è non è stata soppiantata dal conflitto tra velocità e lentezza o tra vecchio e nuovo. La sinistra è il contrasto delle diseguaglianze immorali che la crisi ha esaltato. È il primato della persona sul denaro. È l’idea che ci sono sfere della vita sociale e privata dove il mercato e il profitto non devono spingersi pena il venir meno di valori che non sono accidenti, a cominciare dalla dignità di ciascuno. Di sinistra è dare respiro alle buste paga dei più deboli e distribuire le risorse con più equità. Pensare che la crisi è giusto la paghino anche quelli che l’hanno creata. La sinistra è garantismo, tolleranza. È fare dei diritti umani, a cominciare da quelli delle donne, una bussola di civiltà. La sinistra è l’opposto dell’indifferenza».
Tagliare i costi della politica, restituire 80 euro in busta paga a chi guadagna meno, colpire le banche, ridurre lo stipendio d’oro dei manager è di sinistra?
«Sì, lo penso e l’ho detto».
Riforma elettorale, Senato e Titolo V: quale è il contributo che vuole dare al partito e al governo?
«Fare presto e migliorare tutte e tre quelle riforme. Sull’Italicum le priorità sono ridare ai cittadini il diritto di scegliere il loro parlamentare e una norma sull’equilibrio di genere. Il Senato deve avere un ruolo vero di garanzia e di rappresentanza delle autonomie».
Teme che anche il Pd diventi un partito personale, leaderistico?
«In parte lo è già e molti dicono che sia inevitabile e giusto. Io continuo a credere in una maggiore collegialità. Penso che una leadership forte sia fondamentale ma distinguo tra un leader solitario e una classe dirigente autorevole. La collegialità confligge col primo e aiuta la seconda ».
Renzi è vissuto come un corpo estraneo da una parte del Pd, eppure attrae consensi che sembravano impensabili. C’è stato qualche errore in chi non ha saputo cogliere la richiesta di cambiamento?
«Certo che c’è stato. La forza di Renzi è innanzitutto nel tentare quelle riforme che per vent’anni prima di lui non si sono fatte. Lui sta cercando di cambiare moltecoseevaaiutato.Masbagliaquandoliquidaognicriticacomeconservazione perché molto di buono vive fuori da Palazzo Chigi e dai palazzi dove la politica non deve rinchiudersi».

l’Unità 14.4.14
Quando un normale confronto diventa una notizia
di Massimo Adinolfi


Il ragionamento che è comparso ieri su molti giornali è di una semplicità disarmante. Muove da un fatto inoppugnabile: si è riunita a Roma la minoranza del Pd. Se si è riunita, non è difficile dimostrare che esiste; ma, se esiste una minoranza del Pd, è a maggior ragion necessario - hanno inferito gli spiriti più arguti - che esista una maggioranza del Pd; dunque esistono due Pd. Questo impeccabile ragionamento ha bisogno naturalmente di una premessa aggiuntiva. La quale dice che: una minoranza e una maggioranza non possono stare nel medesimo partito.
O meglio, non possono starvi senza che il partito, da uno che era, si divida in due. Il fatto che il partito si chiami “democratico”, e che la democrazia si fondi a quanto pare sul principio di maggioranza - che perciò stesso non può non prevedere almeno la possibilità di una minoranza - questo fatto non disturba i ragionatori di cui sopra. Il fatto ulteriore che lo stesso Matteo Renzi, prima di diventare maggioranza nel Pd, è stato minoranza entro lo stesso partito di cui poi è divenuto il segretario: neppure questo scompone minimamente i sagaci commentatori delle vicende interne del Pd.
Il fatto è che questa benedetta personalizzazione della politica non deve affatto coincidere con la depersonalizzazione di tutti gli altri, e nemmeno con il rinsecchimento dei partiti. I quali partiti, per la verità, negli ultimi anni sono già rinsecchiti abbastanza di loro stessa mano, che proprio non c’è bisogno che si insegni loro come svuotarsi ulteriormente di istanze critiche e di articolazione interna. C’è peraltro, in questa tendenza, un’accentuazione tutta italiana, perché negli altri Paesi non si rimprovera certo alle minoranze di esistere, o di provare a riorganizzarsi, come accade qui da noi.
Poi ovviamente vi sono modo diversi di essere minoranza (così come, beninteso, vi sono modi diversi di essere maggioranza). Tra i più critici nei confronti di Renzi, nel suo intervento di sabato scorso all’assemblea romana Miguel Gotor ha assicurato anzitutto lealtà e responsabilità: sarebbe politicamente incomprensibile - ha detto - mettersi a fare l’opposizione al governo guidato dal segretario del partito. Dopodiché ha aggiunto: insieme alla lealtà e alla responsabilità ci vuole anche autonomia, per non condannare all’eutanasia un intero patrimonio politico e culturale. Ecco: anche in questo ragionamento sembra in verità che sia all’opera una premessa aggiuntiva: che cioè di quel patrimonio politico e culturale non vi sia traccia alcuna né in Renzi né in alcun pezzo della maggioranza che lo sostiene. Che dunque quel patrimonio non lo si possa mettere in gioco se non mettendolo al riparo. In attesa che passi la nottata.
Ma questa osservazione attiene, per l’appunto, ai modi diversi di essere minoranza. Il che è tutt’altra cosa dal farsi cadere le braccia per il fatto che nel Pd non c’è un unanime e compatto coro di assensi ad ogni proposta che venga formulata dal governo. Eh no: le braccia devono cadere, al contrario, se non si ascolta più alcuna voce critica. Abbiamo avuto per anni Berlusconi, per anni Bossi. Abbiamo avuto per anni partiti fondati esclusivamente sulla figura più o meno carismatica del Capo. Che in questo modo quei partiti abbiano funzionato è tutto meno che dimostrato. Per giunta, ora abbiamo anche Grillo, e anche lì non sapremmo come immaginare una dialettica fra componenti diverse.
Eppure, quelli stessi che fanno la morale a Grillo, e che magari lo accusano di metodi antidemocratici nei confronti dei dissidenti, non riescono ad accettare l’esistenza di una minoranza fra i democratici. Cosa che invece Renzi sa fare benissimo, non foss’altro perché è forte dei numeri. Così la direzione si riunisce, i gruppi parlamentari si riuniscono. Certo, la curvatura personale è tale, che non sempre si riesce a differenziare quel che vuole la comunità dei democratici da quel che vuole invece il segretario. Ma proprio per questo non c’è alcun bisogno di assecondare il fenomeno dimostrandosi più realisti del re. Anche questa tendenza, peraltro, sembra contenere una specificità tutta italiana.

l’Unità 14.4.14
Lavoro e riforme, due seminari per tenere unito il Pd
Renzi si prepara a una settimana cruciale per il governo


L’obiettivo è convincere la minoranza a sostenere i provvedimenti economici e istituzionali
di Vladimiro Frulletti


Una domenica delle Palme passata fra la Fiorentina in tv, la playstation coi figli e tante telefonate. Soprattutto col ministro Padoan e i sottosegretari Delrio e Lotti. Questa infatti è la settimana in cui Renzi dovrebbe cominciare a tirare sulla sua barca governativa un po’ delle reti che ha lanciato dal momento del suo arrivo a Palazzo Chigi. Riforme del lavoro e istituzionali e misure economiche sono i pesci che il premier ha intenzione di trovarci appesi. E anche per evitare spiacevoli strappi ha deciso di seguire una strategia dell’attenzione verso la minoranza interna del proprio partito che (particolare non secondario) nei gruppi parlamentari eletti sotto la segreteria Bersani ha un peso ancora rilevante, probabilmente decisivo.
Certo, alcuni toni usati al convegno organizzato da Cuperlo a Renzi non sono piaciuti, ma non per questo ha intenzione di riaprire una battaglia congressuale che considera non solo chiusa con le primarie dell’ 8 dicembre, ma anche oramai superata dagli eventi. Non a caso a Renzi ha fatto piacere vedere a Torino esponenti di spicco di quella che è stata la minoranza congressuale come il capogruppo alla Camera Roberto Speranza (presenza che il premier non a caso ha volutamente sottolineato dal palco) Nico Stumpo, Davide Zoggia, che oramai nella mutevole geografia democratica va annoverato fra i più convinti pontieri fra ex cuperliani e Renzi.
L’indicazione che arriva da Palazzo Chigi infatti è chiara: se il governo ottiene risultati sarà il Pd il primo a goderne (come dicono i sondaggi ) quindi via libera al dialogo se serve a fare passi in avanti per rendere meno tortuosa la strada in Parlamento. L’obiettivo insomma è «tenere tutti sulla stessa barca », ma senza per questo essere costretti a invertirne la rotta.
Assumono questo significato i seminari del partito su lavoro e riforme annunciati da Renzi. Mercoledì o al più tardi giovedì (dipende dall’agenda del ministro Poletti) ci sarà quello dedicato alla riforma del mercato del lavoro. E sarà lì che il ministro spiegherà in maniera più ampia di quanto abbia fatto fino a oggi che la direzione imboccata dal governo sul mercato del lavoro è l’esatto contrario di quello che sostengono ad esempio Fassina e la Cgil. Che non c’è una spinta verso la precarizzazione ma «l’esatto contrario», come dice Filippo Taddei della segreteria Pd. «Nel nostro progetto di riforma il centro è il contratto a tempo indeterminato e infatti il costo del lavoro avrà un andamento decrescente: dal più alto per il contratto a tempo determinato al più basso per quello determinato con in mezzo il contratto a tutele crescenti ».
Il seminario sulle riforme invece ci sarà la prossima settimana, ma intanto la ministro Boschi oggi avrà un incontro a porte chiuse con giovani costituzionalisti. La questione Senato (domani è prevista una nuova assemblea dei senatori Pd) e Italicum non sono ancora da considerarsi chiuse, almeno a guardare alle intenzioni uscite dalla manifestazione di Cuperlo. Quindi ci sarà da discutere. Renzi è convinto che la maggioranza dei parlamentari anche al Senato alla fine starà con lui e che per il 25 maggio almeno in prima lettura ci sarà il voto favorevole al superamento del bicameralismo. Ma non vuol chiudere il confronto e l’appuntamento del 23 aprile servirà proprio a questo.
Intanto stasera, a mercati chiusi, è previsto che il ministero del Tesoro renda note le nomine ai vertici delle principale aziende pubbliche: Eni, Finmeccanica, Enel e Terna. E forse già stamani Graziano Delrio annuncerà la cura dimagrante per le buste paga dei dirigenti di Palazzo Chigi. Ma il grosso comunque arriverà venerdì (l’esame in Parlamento deve chiudersi entro giovedì), quando il consiglio dei ministri tradurrà in atti concreti le intenzioni scritte nel documento di economia e finanza.
E fra queste c’è appunto la riduzione degli stipendi dei dirigenti della pubblica amministrazione che superano il tetto dei 238 mila euro del Presidente della Repubblica. Ma soprattutto ci sarà il decreto per dare (fin dalle buste paga del 27 maggio) gli 80 euro a chi guadagna meno di 1500 euro lordi con le relative coperture e quindi l’indicazione di dove andrà concretamente a tagliare la forbice della spending review.

Repubblica 14.4.14
I renziani a D’Alema “Il congresso ha deciso non cercate ribaltoni ”
Il vicesegretario Guerini sull’offensiva della minoranza “Matteo scelto dai militanti, ma per alcuni è lesa maestà”
di Giovanna Casadio



ROMA. «Qualcuno nella minoranza del Pd vive la vittoria di Renzi come lesa maestà». Lorenzo Guerini, l’uomo a cui Matteo Renzi ha affidato il partito, è un tessitore. Più propenso a ricucire che a dividere. Però sulla convention cuperlian- dalemiana assesta un paio di altolà: «È sbagliato pensare a ribaltoni nel partito; discutere va bene purché si sia leali».
Guerini, sono ripartite le ostilità nelle file democratiche?
«Non torno sulle polemiche. Cuperlo aveva deciso da tempo la convention di sabato, la concomitanza con l’avvio a Torino della campagna elettorale di Renzi è stata fortuita ma forse si poteva sospendere l’iniziativa per evitare fraintendimenti. Dopodiché è fisiologico che una minoranza rifletta sulle prospettive».
Un dirigente come D’Alema non si rottama mai?
«Non è questione di rottamazione, ognuno porta nel dibattito la propria storia e la propria sensibilità. E D’Alema è una figura di primo piano. Ma c’è un risultato del congresso, che ha scelto Matteo come leader: i tentativi di ribaltare quella vittoria sono sbagliati. Il dibattito è un elemento positivo, a patto che ci sia lealtà».
Una scalata del partito non la preoccupa, quindi?
«La vittoria di Renzi al congresso non è stata un atto di lesa maestà. Sono stati proprio la base del Pd, i nostri militanti a sceglierlo segretario dando un messaggio chiaro di un partito che guarda al futuro, invece di riproporre un continuo passato ».
Alle europee il Pd si gioca il tutto per tutto?
«Sì, la campagna elettorale è decisiva sia per la direzione di marcia che si intende imprimere all’Europa che per la rilevanza di politica interna che avrà. Il Pd serrerà le file».
Non teme sgambetti e fuoco amico?
«Non credo, non ce lo perdonerebbero gli elettori».
Ma sul Senato un’assemblea di parlamentari dem domani potrebbe riproporre l’ennesimo braccio di ferro. Oltre agli attacchi sull’Italicum.
«L’impianto delle riforme era nella mozione di Matteo per le primarie e nel programma di governo che ha avuto la fiducia. Ma quando si passa dalle parole ai fatti, ecco che scoppiano le critiche. Quindi fine del bicameralismo paritario, Senato delle autonomie e no alla elezione dei senatori. Però sulle funzioni e sulla composizione si può e si deve discutere. Il testo di Chiti è alternativo a quello su cui si è data la fiducia al governo. Sull’Italicum l’impianto di fondo non può essere modificato; su alcuni temi però a partire dalla parità di genere ci potrà essere un miglioramento ».
Quando nominerete la segreteria? Oltre a lei e Serracchiani vice, ci sarà una assegnazione delle deleghe?
«Tra una o due settimane ridisegneremo la segreteria. C’è un’esigenza di lavorare a pieno regime, discutendo anche con la minoranza, se sarà interessata ».
Ma le tessere le state facendo o D’Alema deve rivolgersi lui alle tipografie?
«Abbiamo deciso di fare il tesseramento finalmente nella massima trasparenza, dopo cioè avere ricostruito l’anagrafe degli iscritti. Stamperemo 600 mila circa tessere. Il 25 aprile, data simbolica, ci sarà la nuova tessera con il “qr code” per entrare nella piattaforma online del Pd e lo slogan “Cambia il Pd, cambia l’Italia”».

Corriere 14.4.14
Le rivendicazioni nel Pd non preoccupano
Renzi: la minoranza ci seguirà
E D’Alema resta il candidato alla Ue
di Maria Teresa Meli


ROMA — «Combattenti e reduci»: in un altro momento Matteo Renzi avrebbe bollato così, non solo nei commenti con gli amici, ma anche con dichiarazioni pubbliche, gli esponenti della minoranza del Pd che si sono radunati l’altro ieri per dimostrare di essere i veri rappresentanti del Partito democratico. Però non è questo il momento: «Ora non è il tempo delle polemiche».
Già perché il presidente del Consiglio, che alle elezioni europee punta a superare il risultato ottenuto da Walter Veltroni nelle politiche del 2008, non vuole dare ora l’immagine di «un partito diviso»: «Ci sarà modo di discutere dopo il 25 maggio». I sondaggi, del resto, sono più che confortanti. Uno degli ultimi rivela che in un solo mese, grazie all’effetto Renzi, il Pd è aumentato di cinque punti in percentuale. E infatti, nonostante le affermazioni pubbliche, l’inquilino di palazzo Chigi sa bene che il voto sarà anche «un test per il governo». Sul campo è rimasto solo Grillo, che alcune rilevazioni danno in testa nelle isole, mentre in tutte le altre circoscrizioni elettorali è secondo.
Ma c’è anche un’altra ragione per cui il presidente del Consiglio non si preoccupa delle polemiche di Massimo D’Alema o degli altolà di Pier Luigi Bersani. Renzi sa bene che la minoranza è divisa, che «Speranza e company vanno in un’altra direzione», recidendo il cordone ombelicale con i padri. E poi il premier ha capito che sulla riforma del Senato, ci si limiterà a qualche emendamento, che la parte più rilevante della minoranza (bersaniani duri e puri inclusi) non seguirà Vannino Chiti e la sua proposta. La battaglia è rinviata, il terreno sarà quello dell’Italicum. Un terreno che non presenta insidie particolari secondo i renziani. Primo, perché quando si tratterà di affrontare la riforma elettorale, il presidente del Consiglio lo farà da una posizione di forza, quella del risultato elettorale delle europee. Secondo, perché gli stessi contraenti del patto del Nazareno, ossia il premier medesimo e Silvio Berlusconi, si rendono conto che con il crollo di Fi lo scenario politico potrebbe mutare e, di conseguenza, potrebbe cambiare anche l’Italicum. E comunque, e su questo Renzi mantiene l’atteggiamento duro di sempre, «alla fine, la minoranza dovrà rispettare le decisioni del Pd, dovrà seguire la maggioranza, come si è sempre fatto».
Dunque, anche se il discorso non gli è piaciuto troppo, il premier con i suoi derubrica l’intervento di D’Alema come il tentativo, senza speranza, di «cercare di riprendersi il partito», ma anche di dimostrare alla minoranza di essere ancora lui il capo. Renzi, però, e lo ha spiegato piu volte ai suoi, non vuole farsi coinvolgere «nelle divisioni che riguardano tradizioni politiche passate». Quanto a D’Alema, può stare «tranquillo», per quanto riguarda la sua aspirazione a indossare i panni del Commissario europeo. Quel ruolo è suo. Anche se nello stesso giro renziano c’è chi ritiene che alla fine potrebbero esserci delle sorprese pure su quel fronte.
Se Renzi è convinto di ridurre la minoranza del Pd a più miti consigli, concedendole qualche modifica «non sostanziale» al testo del disegno di legge governativo, è anche pronto a scommettere che nello stesso modo si riuscirà a trovare un accordo con Forza Italia, nonostante le prese di posizione dei suoi esponenti. Non è escluso, però, che il raggiungimento di questo obiettivo necessiti di un nuovo incontro tra l’inquilino di palazzo Chigi e Silvio Berlusconi questa settimana.
Ma nemmeno in questo caso Renzi è disposto a «cambiare idea» sull’impianto della riforma. Né il leader di Fi né la minoranza del suo partito riusciranno a farlo cedere e rinunciare ai «paletti fondamentali» del ddl. Anche perché il presidente del Consiglio, di fronte a certe resistenze e tentativi di ostacolare il percorso delle riforme, oppone sempre lo stesso ragionamento: «Io non ho firmato nessun contratto per restare attaccato alla seggiola, non ho proprio problemi da questo punto di vista, io...».
Un’efficacissima arma di dissuasione, perché se Renzi si staccasse da quella «seggiola» le elezioni anticipate sarebbero inevitabili. Ma né Berlusconi né la minoranza del Pd le vogliono.

Repubblica 14.4.14
Il progetto del governo
La rivoluzione del salario minimo

Allarme sindacati “Paghe ridotte”
È una soglia di sopravvivenza sotto la quale scatterà il reato e il carcere per il datore di lavoro ma Cgil, Cisl e Uil temono l’appiattimento degli stipendi e lo svuotamento della contrattazione
Rischio addio per il contratto nazionale Ecco come funziona negli altri Paesi
di Paolo Griseri



UNA rivoluzione. Un cambio destinato a mettere in discussione l’intero sistema di contrattazione italiano e, temono Cgil, Cisl e Uil, a mettere in forse la stessa sopravvivenza del sindacato confederale. «La proposta si basa su tre pilastri fondamentali», premette Enrico Morando, oggi viceministro dell’Economia, per decenni esponente dell’area riformista del Pci piemontese (insieme a Chiamparino). Il primo pilastro è «il salario minimo di legge». Una norma che esiste in molti Paesi del mondo, una linea della sopravvivenza sotto la quale è reato scendere. Che cosa accadrebbe se venisse introdotto anche in Italia? L’esempio che propone Morando è chiaro: «Se io imprenditore faccio lavorare le persone in nero, commetto una grave violazione di legge. Che si traduce in pesanti multe se la paga corrisposta è comunque superiore al salario minimo di legge, ma che diventa reato penale, punibile con il carcere, se la paga è inferiore ». Il salario minimo è una soglia di sopravvivenza stabilita dallo Stato sotto la quale lavorare significa trovarsi in condizione
di semi-schiavitù. Per questo è un reato.
In Francia, Usa, Gran Bretagna, il salario minimo di legge vige da decenni. In Usa è di poco superiore all’equivalente di 5 euro, ma alcuni sindaci di grandi città come Seattle puntano alla soglia dei 15 dollari, circa 11 euro. In Francia il salario minimo è di 9,5 euro, in Gran Bretagna di 7,3 euro. In Germania un salario minimo non esiste, ma nell’accordo Spd-Cdu è previsto che il governo Merkel lo introduca. Si immagina che il livello minimo tedesco sia intorno agli 8,5 euro.
E l’asticella italiana a quale soglia sarà? «E’ troppo presto per dirlo - risponde Morando - per ora stiamo preparando la norma, successivamente sarà stabilito il quantum». Tutto semplice? Non proprio. I sindacati sono in allarme. «Stabilire un salario minimo di legge - teme Raffaele Bonanni - significa appiattire verso il basso tutti i minimi contrattuali ». Perché in Italia ogni categoria di lavoratori ha un suo salario minimo contrattato dai sindacati. Il minimo contrattuale di ogni categoria ha sostituito di fatto il salario minimo di legge. Il sistema ha funzionato per decenni perché fino all’inizio degli anni Duemila quasi tutti i lavoratori italiani avevano un contratto di categoria di riferimento. «Oggi non è più così - spiega Serena Sorrentino della segreteria nazionale della Cgil - perché la precarietà ha finito per creare decine di contratti diversi di collaborazione quasi mai agganciati a un contratto nazionale. La legge Fornero prevedeva che se io sono un ingegnere meccanico e vengo pagato a progetto, devo essere remunerato secondo i parametri minimi degli ingegneri metalmeccanici. Ma in realtà nessuno rispetta quella legge».
I sindacati sanno che il salario minimo oggi definito per contratto da ogni categoria di lavoratori è significativamente più alto del salario di legge che sarà sta- bilito dal governo perché il secondo sarà inevitabilmente una soglia di sopravvivenza. Da qui l’allarme di Cgil, Cisl e Uil: «In breve tempo - dice Sorrentino - le aziende sarebbero tentate di uscire da Confindustria, disdettare il contratto nazionale e applicare il minimo di legge che è più basso». C’è questo rischio? «Il sistema che intendiamo rinnovare - risponde Morando - si basa sull'idea che per uscire dal contratto nazionale le aziende debbano sottoscrivere con i sindacati un loro contratto aziendale, come sta accadendo, ad esempio, alla Fiat. In quel caso il contratto deve essere approvato dai sindacati che rappresentano davvero la maggioranza dei lavoratori coinvolti. L’accordo del giugno scorso tra Cgil, Cisl, Uil e Confidustria, sui criteri per decidere chi è davvero rappresentativo nelle fabbriche, è un passo decisivo per realizzare le modifiche all’intero sistema che stiamo studiando».
Ecco allora i tre pilastri su cui sta lavorando il governo: il salario minimo di legge per decidere la soglia inviolabile della dignità delle persone; il contratto nazionale per tutti quei lavoratori, soprattutto nelle imprese più piccole, che non siano in grado di contrattare direttamente con la loro azienda le condizioni del salario; il contratto aziendale per le imprese o i gruppi che vogliano avere condizioni diverse dal contratto nazionale. Una delle differenze rispetto ad oggi è che nello schema del governo Renzi il contratto nazionale e quello aziendale sono alternativi tra di loro mentre attualmente i contratti aziendali aggiungono soldi in busta paga rispetto ai minimi contrattuali della categoria nazionale.
Una discussione per addetti ai lavori? Non è così. I sindacati temono che, nella tenaglia tra salario minimo di legge e accordi aziendali, i contratti nazionali finiscano stritolati, diventando un residuo marginale del Novecento. Uno scenario da incubo per i sindacati confederali: la stessa idea di sindacato generale, che cerca di dare uguali diritti a chi fa lo stesso lavoro in ogni parte del Paese e in ogni fabbrica, finirebbe per essere sconfitta. Il fiorire di contratti aziendali coinciderebbe con il fiorire di sindacati d’azienda, ognuno in concorrenza con le sigle del capannone vicino. Questa è la vera posta in gioco nel braccio di ferro tra sindacati e governo delle ultime settimane.

l’Unità 14.4.14
Laureati, disoccupati e scoraggiati
Dal 2008 al 2012 il tasso di disoccupazione dei laureati di primo livello è cresciuto di 11 punti
di Carlo Buttaroni

presidente Tecné

Nella prima metà degli anni Cinquanta, per le strade circolavano poco più di 400mila automobili e c’erano 4 apparecchi televisivi ogni 1.000 abitanti. Per vedere Febo Conti, Settenote o la Domenica sportiva comodamente seduti nel salotto di casa, bisognava spendere una cifra che corrispondeva a circa dodici mensilità di un reddito medio, vale a dire il costo attuale di un’utilitaria di fascia media.
Dieci anni dopo, le auto circolanti in Italia erano 2,5 milioni e gli apparecchi televisivi quasi 6 milioni. Erano gli anni di una crescita non solo economica ma anche sociale. Gli italiani guardavano Non è mai troppo tardi, un programma d’insegnamento elementare condotto dal maestro Alberto Manzi che ha aiutato milioni di italiani ad affrancarsi dall’analfabetismo. Le grandi trasformazioni avvenute in quegli anni alimentavano l’idea che in Italia, come in altri paesi occidentali, la rigida divisione in classi appartenesse ormai al passato. E, in effetti, il cambio di struttura economica iniziato negli anni Cinquanta con il processo d’industrializzazione prima e di terziarizzazione poi, hanno segnato una rapida crescita della classe operaia urbana e della classe media impiegatizia, insieme all’affermarsi di una borghesia legata alla piccola industria e al commercio, registrando tassi elevati di mobilità sociale ascendente. Erano anni in cui a crescere era il numero di posizioni sociali più elevate, e non si poteva fare altro che abbandonare la classe di origine e salire, determinando l’ascesa sociale dei figli delle classi economiche più svantaggiate. Una mobilità che ha consentito non solo a milioni d’italiani di raggiungere condizioni di benessere individuale, ma a tutto il Paese di crescere e acquistare fiducia in se stesso, dando corpo a un ceto medio sempre più diffuso e dinamico.
MOBILITÀ SOCIALE
È stato questo il grande potere della mobilità sociale: non solo il recupero di efficienza economica legata a una gamma più ampia di opportunità, ma il diffondersi di un sentimento di fiducia che ha spinto a investire per migliorare la propria condizione e a guardare avanti. Questo imponente processo di mobilità sociale ha avuto il suo apice negli anni Sessanta per rallentare progressivamente nei decenni successivi. E mentre diminuivano le possibilità di ascesa sociale, crescevano contestualmente i vantaggi determinati dalla posizione di partenza ereditata della famiglia. Con il risultato che, dagli anni Ottanta, gli eredi delle classi medie e superiori riuscivano con minore frequenza a ricalcare la dinamica ascendente dei padri, e assai più fatica dovevano fare i figli delle classi inferiori per emanciparsi dalle loro origini.
Già negli anni Novanta, le possibilità che avevano i figli d’imprenditori, liberi professionisti, dirigenti di accedere ai vertici della gerarchia sociale superavano di dodici volte le possibilità su cui potevano contare i giovani provenienti da famiglie di classi inferiori. Non solo: le classi più elevate riescono anche a garantire una protezione più elevata contro i rischi di discesa verso posizioni inferiori, riducendo, quindi, le opportunità di ricambio ai vertici della piramide sociale. Questo fenomeno si accentua ancora di più nel decennio successivo fino a quando, a cavallo tra il nuovo secolo e i giorni nostri, le traiettorie sociali invertono la direzione. Gli ascensori sociali si bloccano in salita, mentre aumentano le frequenze delle discese e l’Italia sperimenta, complice anche la crisi economica, una radicale discontinuità storica rispetto agli ultimi cinquant’anni. Gli individui tra i 25 e i 40 anni rappresentano la prima generazione del dopoguerra a rivelarsi impossibilitata a migliorare la propria posizione rispetto a quella dei propri genitori. E questa condizione non riguarda soltanto l’ascesa verso i livelli superiori dei figli delle classi più svantaggiate, ma anche l’accesso dei figli delle classi medie e alte alle posizioni già occupate dai genitori. Non solo si accentua, cioè, la posizione di vantaggio derivante dalla provenienza familiare ma i posti disponibili nelle posizioni apicali, complice la crisi economica, si sono notevolmente ridotti, col risultato che molti giovani, pur provenienti da classi elevate, sono costretti ad accontentarsi di essere collocati in posizioni economicamente e socialmente meno prestigiose.
Paradossalmente, ad aggravare gli effetti del blocco della mobilità sociale ascendente è la crescita dei livelli d’istruzione dei giovani. A parità di titolo di studio, infatti, i figli si collocano in posizioni professionali meno qualificate rispetto a quelle dei loro genitori, rendendo inevitabilmente meno produttivo il loro capitale umano.
A UN ANNO DAL TITOLO
La fotografia di questo fenomeno è nell’indagine che ogni anno il consorzio Almalaurea realizza sulla condizione occupazionale dei laureati. A un anno dal conseguimento del titolo, il tasso di disoccupazione dei laureati di primo livello è cresciuto di oltre 11 punti in soli 4 anni, passando dal 15,1% del 2008 al 26,5% del 2012. E mentre è cresciuta la difficoltà a trovare un lavoro, per gli occupati si sono ridotti i guadagni netti mensili, inferiori di un quinto per i laureati nel 2012 rispetto ai colleghi che hanno conseguito il titolo nel 2008. Un fenomeno che inevitabilmente induce a ritenere la laurea meno efficace rispetto al passato. Difficile, quindi, pensare che sia un caso il fatto che l’Italia si colloca in fondo alla classifica europea per numero di giovani tra i 30 e i 34 anni che ha conseguito un titolo di studio universitario. La straordinaria crescita delle economie occidentali, che ha preso avvio nel dopoguerra, ha corrisposto a un ampliamento delle possibilità degli individui di elevarsi dalla condizione di partenza, a una rimozione delle barriere di ceto, a un rafforzamento dei sistemi di protezione sociale, a una crescita generale dei livelli d’istruzione.
Per questo il tema della mobilità sociale è centrale nel momento in cui si è impegnati collettivamente nello sforzo di uscire dalla lunga fase recessiva di questi anni. Un tema che non riguarda soltanto il «quando» si tornerà ai livelli pre-crisi ma anche il «come», visto che il deterioramento delle opportunità di accesso ha fatto tornare gli indici di mobilità sociale indietro di sessant’anni.

l’Unità 14.4.14
In grembo i figli di un’altra Bufera sul Pertini di Roma
Parte l’inchiesta del ministero dopo uno scambio di provette
Il giallo delle quattro coppie coinvolte
Il nosocomio: caso isolato, errore durante diagnosi prenatale
Zingaretti: «Chi ha sbagliato pagherà»
di Felice Diotallevi


La task force del ministero della Salute sta già prendendo visione di cartelle cliniche, eventuali comunicazioni interne scritte, analisi. Ma ci arriva con qualche mese di ritardo e non per imperizia, solo perché la notizia dello scambio di embrioni all’ospedale Pertini è arrivata con colpevole ritardo, almeno un mese dopo che una coppia sottoposta a fecondazione in vitro ha scoperto di aspettare due gemelli con patrimonio genetico incompatibile, cioè figli di un’altra coppia al momento senza nome. Il caso è scoppiato ieri, alla vigilia dei risultati della commissione di genetisti incaricata dalla Regione di fare luce sul caso, ma è da tempo che lo scandalo viaggia sotto traccia.
Lo sapevano certamente i responsabili del centro specializzato in fecondazione assistita dell’ospedale Pertini di Roma, Vitaliano De Salazar, direttore sanitario che però non era ancora in carica quando i fatti si sono verificati, il governatore del Lazio Zingaretti e naturalmente la coppia che si è trovata in gestazione dei figli non suoi. Non sapevano nulla, almeno fino alla lettura dei giornali ieri, le coppie che si sono sottoposte a fecondazione assistita nel centro specializzato del nosocomio - almeno quelle trattate nello stesso periodo - e che ora temono e con ragione che il pasticcio sia molto più grande e molto più grave di quanto si possa immaginare. Dal Pertini cercano di tranquillizzare: «È certamente un caso isolato, non servono allarmismi». Ma la verità è che nessuno in questo momento può dire se l’errore ha coinvolto una sola coppia, le quattro che quel giorno si sono sottoposte all’intervento o se addirittura nessuno possa stare tranquillo - chi ha già partorito e chi è in gestazione - vista la facilità con la quale è avvenuto lo scambio di provette. Potrebbe, ma è dubitativo, essere stato uno scambio di provette a livello di diagnosi prenatale.
Il punto è proprio questo, quanti sono i genitori o aspiranti tali coinvolti? Di certo le quattro coppie che si sono sottoposte a fecondazione assistita il 4 dicembre dello scorso anno. Ecco, una data almeno c’è per poter risalire almeno a una parte della verità, il numero invece non è certo. Il 4 dicembre, sostengono al Pertini, sono stati «trattati» quattro aspiranti genitori. Per tre coppie l’esito è a buon fine, nella quarta invece l’embrione non ha attecchito ma questo, a rigor di logica, non esclude affatto che il «pasticcio» possa riguardare anche queste persone come al contrario assicurano al Pertini. Perché comunque si presume, si spera, che gli embrioni prelevati quel giorno appartengano esattamente alle quattro coppie in questione. Dunque la ricostruzione è che tre gravidanze vanno avanti con successo e senza preoccupazioni fino a quando la coppia che ha scoperto di aspettare due gemelli decide di sottoporsi a test genetico subito dopo il terzo mese di gestazione al Sant’Anna di Roma. E l’esito è choc. I due bambini stanno benone, ma non sono figli loro. Presentano un esposto.
Scatta la prima inchiesta interna, ma è solo quando arriva De Salazar che la vicenda assume contorni ufficiali. Circa un mese fa il dirigente blocca subito l’unità di fisiopatologia e il caso arriva sul tavolo del governatore Zingaretti che nomina una commissione di genetisti presieduta dal rettore di Tor Vergata Giuseppe Novelli per accertare i fatti. I risultati ufficiali si avranno oggi pomeriggio, dopo le 17. Il professore non si pronuncia: «L’unico dato certo è che la Regione si è mossa tempestivamente e bene. Io sono stato chiamato dopo l’esposto. Il caso al momento riguarda una sola coppia». Zingaretti che ha attivato l’indagine promette: «Chi ha sbagliato pagherà duramente». E mentre le coppie di futuri genitori vivono ore di evidente angoscia, e il ministero chiede di sapere anche perché non è stato avvisato prima, la politica si scatena. E non è solo Eugenia Roccella, deputato del Nuovo Centrodestra a protestare tirando in ballo pretestuosamente le regole della legge 40 appena bocciata. Anche l’Associazione Coscioni punta il dito: «Nella precedente legislatura - accusa Filomena Gallo, segretario dell’Associazione - abbiamo sollevato con interrogazioni regionali i problemi che determinava la mancata applicazione della legge 40 art. 10 da parte della regione Lazio: il Lazio risultava essere l’unica regione d’Italia dove i centri nonostante le richieste degli stessi responsabili non erano stati autorizzati e non venivano effettuati controlli». Accuse cui replica Zingaretti: «Tutti i centri per la fecondazione del Lazio sono assolutamente in regola».

Repubblica 14.4.14
Scambio di embrioni “Quei figli non sono miei ma ho deciso di tenerli”
Incinta di due gemelli scopre che i genitori sono altri Bufera sul Pertini di Roma, il ministro invia gli ispettori
di Maria Novella De Luca e Carlo Picozza



ROMA. Cercavano da anni un figlio. Ma qualcosa è andato storto nelle pratiche di fecondazione assistita. Una coppia romana ora aspetta da quattro mesi due gemelli che non hanno il suo patrimonio genetico, le sono stati infatti impiantati gli embrioni di un’altra coppia che lo stesso giorno si è sottoposta all’identico trattamento nel centro Pma dell’ospedale Pertini di Roma. Una storia drammatica - di cui ha dato conto ieri la “Stampa” - dal futuro doloroso, incerto anche dal punto di vista legale. Se infatti Anna e Luca (i nomi sono di fantasia, ndr) hanno deciso di proseguire la gravidanza nonostante tutto, la seconda coppia ha perso il bambino.
Una caso raro nei centri italiani. Negli ultimi 18 anni sono solo tre i casi conosciuti arrivati sulle pagine di cronaca: il primo a Modena dove una coppia partorì due bambini di colore e solo allora scopri che vi era stato uno scambio di provette, gli altri a Torino e Padova dove, la stessa mattina dell’impianto, i medici si accorsero dell’errore e le donne decisero di prendere la pillola del giorno dopo.
All’ospedale “Pertini” oggi arriveranno gli ispettori del ministero della salute, guidati dagli esperti del centro nazionale trapianti che si occupa per legge dal 2010 di fare i controlli sui centri italiani, circa 25 l’anno, e che ne ha bocciati due per mancato rispetto delle norme europee di sicurezza.
«È un caso gravissimo, vogliamo verificare il percorso seguito dal centro e le ragioni per cui non ne sia stata data tempestiva informazione all’autorità centrale», dicono al ministero della Salute. Una commissione d’inchiesta, attivata da Asl Roma B e Regione Lazio, si è insediata già dall’inizio di aprile, mentre l’Unità medica per la sterilità è chiusa da due settimane.
IL RACCONTO
Anna diventerà madre, Lia invece il suo bambino l’ha perso. I nomi, naturalmente, non sono veri. Ma lo strazio, invece, di questa partitura a quattro, Anna che porta l’embrione di Lia e Lia che porta l’embrione di Anna, e dei loro mariti disperati testimoni, è purtroppo tutta vera. Ed è incredibile. Il brutto sogno di ogni genitore, avvenuto in uno dei più grandi ospedali romani, in quei reparti di figli venuti dal freddo che dovrebbero essere i luoghi più sicuri del mondo.
Anna racconta, attraverso il suo avvocato, Michele Ambrosini: «Questi bambini vivono dentro di me, li ho sentiti battere sul mio cuore, crescono e sono sani. Come posso decidere del destino di due creature così attese? Sì, ho avuto un momento di umano rigetto quando ho saputo che non erano miei, anzi nostri, che gli embrioni che avevo in grembo erano di un’altra donna, ma poi abbiamo deciso che la gravidanza doveva continuare, i nostri valori sono questi...».
Di Lia sappiamo invece che non ce l’ha fatta, ha avuto un aborto spontaneo: un prova sofferta e dura quando per anni si è sperato in una gravidanza, e poi si scopre di essere vittime di un terribile errore medico. Perché se a Lia fossero stati impiantati i suoi embrioni e non quelli di Anna, oggi forse sarebbe lei in attesa di due gemelli. E dunque futura madre.
Inizia il quattro dicembre del 2013 all’ospedale Sandro Pertini di Roma questa storia di scambio di embrioni tra due coppie romane, Anna e Luca, e Lia e Mario, nel reparto di Procreazione medicalmente assistita, oggi diretto dal dottor Massimo Giovannini. Un giorno che per gli aspiranti genitori della fecondazione assistita è sempre in bilico tra le lacrime e la gioia: perché in quella data avviene l’impianto, e se l’embrione attecchirà sarà festa, se invece andrà male si dovrà ricominciare daccapo. Ma quel quattro dicembre, venti giorni prima di Natale, sembra una data fortunata: Anna e Lia, che naturalmente non si conoscono, restano incinte entrambe, dopo tanti tentativi andati a vuoto.
Immaginiamo le settimane di attesa, e poi la gioia di fronte al test di gravidanza positivo. Fa freddo, è inverno, ma per Anna e Luca e Lia e Mario, tutti già alla soglia dei quarant’anni, è grande il calore della speranza. Anna e Lia non sanno, invece, che il quattro dicembre le loro vite si sono assurdamente incrociate per sempre. Perché forse a causa di cognomi troppo simili, o di incuranza medica, si verifica uno scambio di provette, in Anna viene impiantato l’embrione di Lia e Mario, e in Lia l’embrione di Anna e Luca.
Racconta Michele Ambrosini, noto legale di Urbino, e oggi difensore di Anna e Luca. «Quando sono arrivati nel mio studio erano sconvolti. Portavano tra le mani i risultati della villocentesi, in cui c’era scritto che quei due gemelli che stavano aspettando, e che aspettano tutt’ora, non avevano nulla del loro patrimonio genetico... Mi hanno chiesto di tutelarli, lei è provata, soffre, ha perso molti chili in poche settimane, però mi ha ripetuto più volte: “Avvocato, cosa posso fare adesso? Questi bambini li ho sentiti dentro di me”. Ha deciso di portare avanti la gravidanza, adesso lei e il marito cercano soltanto pace e silenzio, ma siamo di fronte ad un dramma». Chi è oggi Anna, si chiede infatti l’avvocato Ambrosini, «una futura madre o un utero in affitto, coartatamente in affitto, e che cosa succederà dopo, quando Anna avrà messo al mondo i due gemelli che ha in grembo? ».
Cosciente che nulla sarà come prima, la coppia decide insieme all’avvocato Ambrosini di inviare una lettera al direttore generale dell’ospedale Pertini, Vitaliano Da Salazar, allegando le prove. Sì, le prove. Cioè la scoperta casuale, e dunque ancora più grottesca, di Anna e Luca di non essere genitori biologici dei figli che aspettano. Accade infatti che al terzo mese, come si fa spesso nelle gravidanze complicate, per non rischiare un aborto con l’amniocentesi, Anna si sottopone alla villocentesi, test che permette di evidenziare se ci sono anomalie genetiche del feto. L’esame non avviene all’ospedale Sandro Pertini, bensì in un altro centro romano, il Sant’Anna. Il referto è chiaro: i due gemelli sono sani, crescono, ma il loro Dna è diverso da quelli dei genitori, cioè Anna e Luca.
Infatti. Perché l’embrione impiantato nell’utero di Anna è quello di Lia e Mario...
È metà marzo. La lettera dell’avvocato Ambrosini scatena il finimondo. Il reparto di Procreazione assistita viene prudenzialmente chiuso, tutti gli interventi sospesi. «Prima di iniziare un’azione legale sono andato a parlare con il direttore generale, mostrandogli tutte le prove raccolte. I miei assistiti non si sono fermati agli esami del Sant’Anna, ma hanno fatto ulteriori test seguiti da un genetista. E a mio parere non ci sono dubbi su quanto è accaduto il quattro dicembre al Pertini». Anche se c’è chi avanza, come il genetista Giuseppe Novelli, membro della commissione d’inchiesta, uno scambio non di provette, ma di referti, avvenuto durante la villocentesi. Insomma ad Anna sarebbe stato semplicemente consegnato un referto sbagliato e i due gemelli sarebbero biologicamente suoi.
Sarebbe bello. Ma fino al parto è impossibile che Anna si sottoponga ad altri test, che potrebbero essere rischiosi per i bambini. E poi c’è Lia. Di certo saprà cosa sta accadendo, cosa è accaduto quel brutto e freddo quattro dicembre. Potrebbero Lia e Mario un giorno chiedere la restituzione di quei due gemelli che hanno il loro patrimonio genetico, ma che sono nati dal grembo di Anna? No, dice la legge. Di certo dietro questo terribile errore, ci sono due madri e due padri che hanno perduto il sorriso.

Repubblica 14.4.14
“A noi fecero nascere due gemelli di colore ora siamo tutti felici”
Quattordici anni fa a Modena un altro errore sconcertante “Quando abbiamo detto loro la verità ci hanno ringraziato”
di Caterina Giusberti


MODENA. «Hanno giocato con la vita di quattro persone, ci hanno trattato come provette. Ma tornando indietro lo rifaremmo mille volte: i figli sono di chi li cresce ». Marta e Luigi (i nomi sono di fantasia) quattordici anni fa sono stati vittime di un errore al centro di riproduzione assistita del Policlinico di Modena: una provetta sbagliata, una siringa non lavata bene. Marta, italiana, ha ricevuto gli spermatozoi di un’altra coppia, proveniente dall’Africa del Nord. Risultato: i bambini, una coppia di gemelli, sono nati mulatti. Dopo quattro anni, nel 2004, hanno fatto causa al Policlinico e nel 2007 sono stati risarciti. «Ci è crollato il mondo addosso», ricordano. Ora dicono: «Siamo una famiglia normalissima».
Cos’avete pensato quando avete saputo dello scambio di embrioni avvenuto a Roma?
«Che continuano a fare pasticci - dice il padre - È un caso ancora peggiore del nostro, nessun legame genetico. Ma vogliamo dire a questa coppia che non è così terribile come sembra: avranno due bambini, si accertino solo che siano sani, poi faranno le loro valutazioni giuridiche. Ma per adesso stiano tranquilli e vadano avanti: i figli sono di chi li cresce».
Cosa è successo quando avete scoperto che i vostri figli non erano geneticamente vostri?
«All’inizio non volevamo rendercene conto, questi bambini li volevamo così tanto - ricorda lei - Poi il pediatra ci ha convinto a fare il test. La cosa triste è stata che i medici non ci avevano detto niente, ci siamo sentiti ingannati. Subito abbiamo pensato alle malattie, all’Aids, all’ebola, ai rischi che avevamo corso. Poi, quando ce la siamo sentita, abbiamo denunciato l’ospedale: nel protocollo qualcosa non andava».
Pensate che altri possano aver subito un errore come il vostro?
«Io - dice il padre - mi auguro che nessuno cominci a fare dei test del Dna, perché in giro ce ne sono parecchi, secondo me. Se ci fossero nati due ragazzini bianchi non ce ne saremmo mai accorti ».
Se l’aveste saputo prima avreste abortito?
«No, no, no, no - salta su la mamma - Avremmo fatto i controlli, ma abortire mai. Chi li conosce, chi li vede tutti i giorni, sa che siamo stati molto fortunati: sono dei ragazzi meravigliosi, educati, sensibili».
Cosa diceva la gente?
«È stato difficile, viviamo in un piccolo paese, c’è molta ignoranza in giro, a volte scappa la pazienza. All’inizio pensavano tutti che io - dice lei - fossi stata con un altro».
Quando lo avete raccontato ai vostri figli?
«Avevano undici anni, eravamo a cena, con la televisione spenta. Gli abbiamo fatto vedere i ritagli dei giornali, le trasmissioni che avevano parlato di loro ».
E loro cosa hanno detto?
«Lo sapevano benissimo, avevano capito da soli. Hanno detto che non cambiava niente, che noi siamo i loro genitori ».
E adesso?
«Sono orgogliosi di quello che abbiamo fatto per loro, il risarcimento è un’assicurazione per quando saranno grandi. Poi se lo vorranno potranno fare tre parti, anche con la sorella».
Qual è stato il momento più difficile?
«Quando abbiamo avuto una figlia naturale, inaspettatamente. È stato difficile spiegare a dei ragazzini di sei anni perché erano di colore diverso, ancora adesso ogni tanto la sorellina li prende in giro, dice: “Perché siete così abbronzati?”».
Ricorrereste di nuovo alla fecondazione assistita?
«Io - sorride la mamma - mi ritengo una donna miracolata dal Signore. Anche se magari la fecondazione non è molto cattolica...».

Repubblica 14.4.14
Il parere Lorenzo D’avack, giurista
“Se i veri mamma e papà volessero i loro bambini non avrebbero chance”
di Caterina Pasolini



ROMA. «Questa storia è drammatica, dolorosa e soprattutto complessa dal punto di vista umano e legale: i gemelli hanno in teoria quattro genitori: due biologici e i due che li cresceranno. Pur non avendo con loro alcun rapporto genetico e non avendo scelto l’eterologa come molti hanno fatto in questi anni all’estero». Lorenzo D’Avack, avvocato, è vicepresidente del Comitato nazionale di bioetica.
Chi è per legge la madre?
«Su questo non ci sono dubbi: per la legge italiana è madre la donna che partorisce».
E se i genitori biologici volessero i bambini?
«Anche se la signora incinta fosse d’accordo, e mi pare che non lo sia, non c’è nulla da fare: i piccoli non sono dei pacchi postali che si possono scambiare così. Ricorsi legali o altro sono inutili per riavere i gemelli».
E se la signora incinta non volesse riconoscerli?
«Non può assolutamente farlo. Se resti incinta naturalmente puoi chiedere di non essere nominata e abbandonare il bambino, ma se fai la fecondazione assistita la legge 40 ti impegna e obbliga a riconoscerlo».
Ma geneticamente non sono suoi.
«Lo so, questo accade anche nell’eterologa, eppure il principio della gestazione resta sempre valido, infatti viene considerata madre colei che partorisce, non la donna che ha donato l’ovulo».
I bambini frutto di un errore.
«Le due coppie possono far ricorso contro l’ospedale ma ai fini di chi è il genitore, non cambia nulla. Anzi, in questo caso per assurdo la signora incinta è persino fuori legge».
La signora viola la legge?
«Sì perché portando in grembo gli embrioni di un’altra coppia si configura la maternità surrogata, severamente vietata dalla legge italiana a pagamento ma anche a titolo gratuito».
Come se ne esce?
«Con molto dolore da tutte le parti. Trovare una soluzione è difficile. Io una cosa però vorrei dirla: il divieto per chi fa la fecondazione assistita di non riconoscere il bambino secondo me è incostituzionale. Crea una differenza di diritto solo in base al modo in cui un bambino viene concepito. E se non ci fosse il divieto, ora quella sarebbe la chiave di volta».
Quale sarebbe la soluzione?
«La gestante una volta partorito chiede di non essere nominata, il marito dell’altra coppia riconosce il bambino che poi adotterà con la moglie».

l’Unità 14.4.14
La fecondazione eterologa e le parole di Ruini
di Luigi Cancrini

psichiatra e psicoterapeuta

La Corte Costituzionale ha dichiarato che il divieto di fecondazione eterologa è incostituzionale. Il cardinale Ruini ha poi affermato: «Non può esistere un “diritto al figlio” perché il figlio è una persona e come tale non è disponibile». Ma perché dobbiamo parlare di diritto e non di amore, desiderio di avere un figlio per crescerlo ed amarlo? ATTILIO DONI

La decisione della Corte Costituzionale stabilisce il principio, semplice, per cui di fronte alla novità della tecnologia, l’uomo e la donna di una società democratica decidono liberamente sulla possibilità di utilizzarla. Ciascuno di fronte alla propria coscienza, dunque, nel momento in cui una condizione di patologia (la sterilità) chiede alla coppia di scegliere se rassegnarsi, affrontare il percorso di adozione o quello della fecondazione eterologa. Sapendo che quest’ultima propone, sul piano psicologico, alcune difficoltà perché sapere, avendolo scelto, che il proprio figlio abbia una derivazione biologica, materna o paterna, diversa da quella desiderata espone alla necessità di riconoscere e di accettare, con il dolore più o meno consapevole che questo comporta, il limite legato alla propria incompletezza e di ospitare, in seguito, gran parte dei fantasmi con cui si confrontano tutti i genitori adottivi sulla diversità naturale di un figlio amato quanto e più del proprio e di fronte a cui è impossibile non sentire, tuttavia, una forma speciale di timidezza e di inadeguatezza. Problemi che possono essere affrontati, tutti, da persone capaci di guardarsi dentro e di riflettere. Sapendo che come molti genitori naturali tendono spesso a non sapere o a trascurare, il lavoro del genitore, sospeso sempre fra affetto e rispetto, fra naturalezza dell’istinto e accettazione della diversità, è un compito fra i più difficili di quelli che si affrontano nel corso della vita.

l’Unità 14.4.14
Scola: «Immigrati, il futuro di Milano». La Lega insorge
di Pino Stoppon


Non è la prima volta che la diocesi di Milano entra in contrasto contro la Lega Nord. Era già successo ai tempi del cardinale Martini, in quelli di Tettamanzi, e oggi il rituale sembra ripetersi.
Che cosa è successo? È successo che il cardinale Angelo Scola durante la messa per la festività delle Palme ha parlato degli immigrati come degli artefici del «futuro» della città e della sua nuova fisionomia. Il cardinale si è rivolto anche a un gruppo di stranieri, da tempo residenti nel capoluogo lombardo, che hanno partecipato alla processione con gli ulivi dalla chiesa di Santa Maria Annunciata in Camposanto verso piazza Duomo. In un passaggio della sua omelia l’Arcivescovo, rivolgendosi in particolare ai migranti che hanno animato il corteo, ha detto: «Guardando ai dolorosi conflitti e alle troppe forme di violenza ancor oggi diffuse il nostro cuore è preso da sgomento. E tuttavia non perdiamo la speranza. Ne è segno - ha sottolineato - il fatto che siamo convenuti qui in Duomo, provenienti dalle molte nazioni che abitano la metropoli milanese e ne stanno costruendo il futuro e la nuova fisionomia, per affidare a Gesù la supplica per la pace. Il ramo di ulivo o di palma che esporremo nelle nostre case e nei nostri ambienti di vita sarà un segno che vogliamo essere autentici uomini di pace». Le parole di Scola non sono piaciute al neo segretario della Lega Nord Matteo Salvini. «Chiederò un incontro al cardinal Scola per dirgli che il futuro della città di Milano è in mano in primo luogo ai milanesi, agli italiani e anche agli stranieri che però sono ospiti...» ha detto Salvini.
Calibrando anche le parole. Perché a Scola, tutto sommato, è andata bene. Nel dicembre del 2009, tanto per fare un esempio, il suo predecessore, Dionigi Tettamanzi fu insultato pesantemente dai leghisti per aver espresso vicinanza agli immigrati. Paragonato a un «imam» dalla Padania e a un «mafioso mandato in Sicilia» dal ministro leghista Roberto Calderoli, il porporato brianzolo che stava sullo stomaco alla Lega non arretrò di un millimetro dalla sua posizione. Del resto, disse durante la sua omelia per Sant’Ambrogio, i vescovi avevano il compito di «vigilare sul gregge e così di difenderlo dagli assalti delle bestie spirituali, ossia dagli errori di quei lupi rapaci che sono gli eretici».
Non era chiaro se i lupi di cui parlava l’arcivescovo avevano i lineamenti dei leghisti che lo avevano attaccato per aver difeso i 250 rom sgombrati in quel tempo a Milano. Ma contro la Lega e a difesa del cardinale si era mobilitato tutto il gregge dei cattolici in politica. Destra e sinistra, non c’erano distinzioni di schieramento nella censura delle sparate del carroccio. I leghisti avevano offerto al cardinale un ramoscello d’ulivo. Lo stesso Matteo Salvini aveva chiesto, ma non ottenuto, un incontro natalizio per farsi gli auguri e avere un «chiarimento».
Ma che i rapporti tra gli Arcivescovi di Milano e i leghisti non siano mai stati idilliaci ce lo ricorda anche una celebre frase di Carlo Maria Martini. Nel 2002 al giornalista Marco Garzonio ne il libro «Il Cardinale» aveva risposto alla domanda su cosa avrebbe fatto se un giorno ci fosse stata la Padania separata: «Rimarrei al mio posto come Schuster è rimasto al suo posto quando ha dovuto reggere la diocesi praticamente separata dal resto d’Italia nel ’43, cercando di tenere saldi valori di ogni tipo: carità, solidarietà, onestà, di relazione con il resto del mondo». Un comportamento che anche Scolò a sembra onorare.

Repubblica 14.4.14
Visita a Pompei la Merkel paga anche per la scorta


NAPOLI. Visita a sorpresa di Angela Merkel agli Scavi di Pompei. La consueta vacanza a Ischia della cancelliera tedesca ha avuto ieri un prologo a sorpresa quando quella che è stata definita “la donna più potente del mondo” si è presentata alle 9.30 all’ingresso di Porta Marina con un piccolo seguito. La Merkel ha pagato di persona il biglietto, 11 euro a testa, per sé, per il marito Joachim Sauer e per i due uomini di scorta. È entrata negli Scavi con in mano una cartina ma ad illustrarle le bellezze della città sepolta c’era anche un archeologo tedesco. Quella della Merkel è stata una vera e propria full immersionnegli Scavi,ben tre ore e mezza, più del tempo medio che si concede chi si reca per la prima volta a Pompei. Al termine, un veloce pranzo in una trattoria, una visita alla Villa di Poppea a Torre Annunziata e una puntata all’Acropoli di Pozzuoli.
Infine, partenza per Ischia a bordo di un traghetto di linea della Medmar.

La Stampa 14.4.14
Usa, orrore tra le mura domestiche
Uccide i suoi sette neonati e li nasconde
A fare la scoperta l’ex marito della donna che ha trovato un corpicino in garage.
I vicini di casa: «Non ci eravamo accorti che fosse incinta, neanche una volta»

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Corriere 14.4.14
Rivelazioni dall’America
Il tesoro personale di Putin è di 28 miliardi di dollari


WASHINGTON — Venti residenze, dalla dacia Ozero sul lago nei pressi di San Pietroburgo alle proprietà vicino a Sochi; quattro yacht e 58 aerei. E ancora: quote in importanti società energetiche e immobiliari. Il patrimonio personale di Vladimir Putin ammonterebbe a 28 miliardi di dollari, frutto dei fondi neri garantiti dai grandi investimenti pubblici come quello per le olimpiadi di Sochi. È quanto emerge da informazioni raccolte dall’intelligence e dalla magistratura Usa, che l’amministrazione Obama avrebbe deciso di rivelare dopo l’annessione della Crimea alla Russia. I documenti, riportati dai media americani, rivelano una fitta rete di cointeressi del presidente e di uomini a lui vicini (anche di dacia), molti dei quali oggetto delle sanzioni americane. Tra i possedimenti di Putin, figurerebbero ad esempio il 4,5% del colosso energetico Gazprom e il 37% della Gunvor, tra i leader mondiali nelle materie prime. Secondo il giornalista americano Bill Gertz il presidente e i suoi associati «avrebbero inoltre rubato tra i 25 e i 30 miliardi di dollari dai fondi per le infrastrutture dei Giochi di Sochi».

Corriere 14.4.14
Il re dei casinò di Las Vegas alla conquista di Israele
Adelson ha fiuto per i giornali e un chiodo fisso: la sicurezza dello Stato ebraico
di Davide Frattini


GERUSALEMME — L’ultima donazione vale 16 milioni di dollari e serve a sponsorizzare il gruppo di israeliani che sogna di sbarcare sulla Luna. Gli altri investimenti vogliono impedire che Benjamin Netanyahu debba lasciare la poltrona di primo ministro e tornare sulla Terra. Così in poche settimane Sheldon Adelson ha comprato per 17 milioni di shekel (oltre 3 milioni e mezzo di euro) il giornale Makor Rishon e quel che resta del sito legato al semi-defunto Maariv .
Il magnate americano dei casinò a Las Vegas è già proprietario di Yisrael Hayom : distribuito gratis ogni giorno, tre anni fa è diventato il quotidiano più diffuso in Israele. Tanto schierato con Netanyahu che i concorrenti lo chiamano Bibi Times e Naftali Bennett, ministro dell’Economia in attrito con il premier, lo ha paragonato alla Pravda . «Yisrael Hayom sembra essere stato fondato — scrive Anshel Pfeffer su Haaretz — con l’unico obiettivo di sostenere Netanyahu e le sue scelte politiche, di assicurare che resti alla guida del governo e del Likud. I rivali — a sinistra, a destra o dentro il suo partito — vengono ridicolizzati, qualsiasi forma di critica al primo ministro e soprattutto alla moglie viene respinta come “persecuzione”».
Lo studioso di media Aviv Horowitz ha contato gli articoli dedicati a Sara Netanyahu da Yisrael Hayom nei cinque anni in cui il marito è tornato al potere: su 208, l’80 per cento era positivo e il resto neutrale. Non male per la first lady: gli altri giornali la descrivono come una Maria Antonietta inseguita dalle cause degli assistenti che l’accusano di averli trattati come schiavi.
Adelson può permettersi di pubblicare giornali in perdita. Il suo patrimonio è stimato in 40 miliardi di dollari, accumulati con i casinò a Las Vegas e quelli costruiti in Cina. Con l’acquisto di Makor Rishon — fino ad adesso su posizioni oltranziste, alla estrema destra di Netanyahu — ha creato un monopolio ideologico tra i conservatori, capace di influenzare (o far sparire) il dibattito sulla questione palestinese. Per arginare il suo dominio sette deputati (perfino quelli del partito che rappresenta i coloni) stanno proponendo una legge che vieti la distribuzione su scala nazionale di quotidiani gratuiti.
Figlio di un tassista di origini lituane (ha cominciato a lavorare a 12 anni vendendo giornali per strada), Adelson considera la sicurezza di Israele una missione personale. Come se non fossero mai finiti i tempi della sua infanzia a Boston quando «noi ragazzi ebrei venivamo picchiati ogni giorno dai coetanei irlandesi».
Quello che preoccupa gli analisti sono le soluzioni che ha in mente per garantire questa sicurezza. Thomas Friedman sul New York Times lo ha definito «il miglior amico dell’Iran» perché vuole impedire agli Stati Uniti di premere per un accordo di pace e «le sue idee estremiste porteranno alla distruzione di Israele». Peter Beinart, sionista liberale, già direttore di The New Republic , ne descrive «la cultura dell’odio»: «È convinto che i palestinesi siano un popolo inventato, ha proposto di sganciare una bomba atomica su Teheran e proclama sentenze come “non tutti gli islamici sono terroristi ma tutti i terroristi sono islamici”».
Lo Stato ebraico è una priorità per Adelson anche quando deve scegliere quale candidato repubblicano alla presidenza inondare con milioni di dollari per la campagna elettorale americana. A fine marzo gli aspiranti si sono precipitati a Las Vegas nel suo mega-hotel «Venetian» — tra i canali, le gondole e la riproduzione del campanile di San Marco — per quattro giorni di incontri con i donatori. Chris Christie, governatore del New Jersey, ha dovuto passare qualche ora a scusarsi nell’ufficio di Adelson perché nel discorso aveva usato il termine «territori occupati». Errore: per il magnate l’occupazione non esiste.

HAARETZ DI OGGI A RAI 3

La Stampa 14.4.14
Il Papa in agosto in Asia sull’ultima frontiera del cattolicesimo
Andrà nella Corea evangelizzata dai gesuiti, dove i cattolici sono passati dall’uno al 10 per cento dal 1949 a oggi
di Andrea Tornielli

qui

Repubblica 14.4.14
Sos da Padova “Troppi crimini poliziotti romeni pensateci voi”
di Jenner Meletti


PADOVA. MA voi che fate, contro i romeni che rubano o svaligiano case e negozi?». È appena finita la Messa ortodossa, nella chiesa di San Gregorio, zona industriale di Padova. È un giorno di festa perché la comunità romena - novemila persone - ha appena acquistato l’edificio sacro. A porre la domanda non sono i leghisti del Nordest ma l’ambasciatrice della Romania in Italia, Dana Constantinescu, e il console generale di Trieste, Cosmin Dimitrescu. «Non vogliamo - dicono i due diplomatici - che pochi delinquenti danneggino la vita di migliaia di donne e uomini romeni che qui da voi lavorano onestamente». Nasce così, di
domenica, l’idea di utilizzare funzionari del consolato e poliziotti della Romania nella lotta contro i ladri e rapinatori arrivati da Bucarest e dintorni. «La proposta - dice Ivo Rossi, sindaco reggente di Padova - mi è piaciuta subito. Ne ho già parlato con il questore e con il prefetto. Fra pochi giorni passeremo alla fase operativa».
Guardie e ladri parleranno dunque la stessa lingua. Nona Evghenie (34 anni, romena da 11 in Italia e prima cittadina straniera eletta nel Consiglio comunale di Padova - lista Pd - nel giugno 2009) è stata il trait d’union fra l’ambasciata e l’amministrazione comunale. «Non posso accettare - racconta - che alcuni miei connazionali non rispettino le leggi italiane. E lo facciano senza pudore. L’altro giorno un romeno ha fatto una spaccata in un negozio, è stato preso e portato in questura poi in carcere. Ventiquattro ore dopo era fuori. “Mi sono fatto una notte al caldo”, ha detto. Io penso che una proposta giusta sia quella di far scontare le pene nel Paese d’origine. In Romania, se fai un furto o una rapina, vai in carcere subito e ci resti a lungo. Ad attirare qui i delinquenti è proprio la sensazione di impunità, o quasi».
Anche Nona Evghenie è arrivata in Italia con un pullman della speranza e un visto turistico. «Ho fatto la baby sitter e la colf. Poi mi sono inserita bene, adesso lavoro in banca. Mi sono impegnata per i miei connazionali, arrivati qui per cercare una vita migliore. Quando sono arrivati i primi rom romeni, come Comune abbiamo cercato di dare un rifugio alle donne incinte e ai minori, soprattutto in inverno. Ma quando abbiamo chiesto i nomi e i cognomi, perché non potevamo dare assistenza a chi avesse problemi con la giustizia, sono scomparsi tutti. Spesso fra loro - romeni rom e non rom - ci sono persone ricercate, persone che non sono più accettate in Francia e Germania e scelgono l’Italia perché più permissiva».
Molte cose cambieranno, con l’arrivo della polizia di Bucarest. «Intanto i nostri agenti parlano la stessa lingua di chi commette reati. Conoscono le diverse bande che vengono qui in transumanza per organizzare furti e prostituzione. Già leggendo i loro nomi, possono sapere anche se siano cittadini della Romania, che fa parte della comunità europea o moldavi o di altre nazioni che si spacciano per comunitari. Noi vogliano rispettare i diritti delle persone ma questo rispetto non può trasformarsi in buonismo. A Vicenza tanti romeni sono stati rimandati a casa, con la collaborazione del nostro consolato, perché non avevano mezzi di sussistenza. Questa la strada che anche noi vorremmo percorrere». Dall’inizio dell’anno nel padovano ci sono state 80 “spaccate” in negozi e tabaccherie. Qualcuno è stato preso. «Sgominata una banda - annunciava l’altro giorno un comunicato della questura - di predoni dell’Est. Arrestate quattro persone di nazionalità romena. Innumerevoli i colpi portati a segno dalla banda. Usando cesoie e piedi di porco entravano in esercizi pubblici devastandoli letteralmente…».
«Ma tante volte - dice il sindaco Ivo Rossi - sembriamo davvero il ventre molle dell’Europa. L’altro giorno, scendendo al bar per un panino, ho assistito a un fermo: un romeno era entrato in un negozio e aveva rubato sette paia di jeans. La commessa lo aveva rincorso gridando e due agenti della nostra polizia locale lo avevano bloccato. Ma lo stesso uomo era stato fermato davanti allo stesso negozio quattro giorni prima, sempre dai nostri vigili, con sei paia di jeans. Foto-segnalato, era stato mandato in Procura per trasformare il fermo in arresto. Il magistrato ha deciso però la denuncia a piede libero. E sa cosa ha detto il romeno, dopo il secondo fermo? “La prossima volta cambio negozio”».
C’era anche il sindaco, alla Messa ortodossa. «Mi sembrava di essere in una nostra chiesa negli anni Sessanta, con tutte le donne con il velo in testa… Persone oneste che si guadagnano il pane, le donne come badanti, gli uomini come operai. E, solo perché romeni, rischiano di essere additati come delinquenti: per colpa di bande per le quali l’Italia è il Paese dell’impunità. Arriveranno presto, i poliziotti romeni, per collaborare con le nostre forze dell’ordine. Far rispettare le leggi, fermare e punire davvero chi commette reati: credo che questa sia la vera integrazione europea».

Repubblica 14.4.14
Occupy Hong Kong
Sulla metropoli-azienda più competitiva al mondo si allunga l’ombra di Pechino
Di fronte al moltiplicarsi di censure, ricatti e pressioni, si è formato un movimento che unisce democratici e intellettuali:
“Attenzione, il prezzo non lo pagherà solo l’Asia”
Occupy Hong Kong
di Giampaolo Visetti


HONG KONG. DAVANTI ai vecchi moli di Wan Chai, nel Mar Cinese Meridionale, scorre uno degli spettacoli più sconvolgenti di oggi. Migliaia di navi, portacontainer, chiatte, ferries, giunche, aerei ed elicotteri, spostano ogni giorno un decimo della ricchezza, pulita e sporca, del mondo. Tra Kowloon e il Central, l’istinto per gli affari ormai è genetico. In meno di due secoli, grazie all’oppio e ai soldi che l’hanno poi sostituito, pirati e mercanti hanno trasformato il pestilenziale delta del fiume delle Perle nell’asettica metropoli-azienda più competitiva del pianeta. Questo miracolo spaventoso, celebrato dal cemento che ricopre ogni centimetro di terra e di acqua, è il prodigio di due maghi: gli inglesi, che qui hanno regnato per oltre 150 anni, e i cinesi, rientrati in possesso di casa loro nel 1997. Solo una stratosferica montagna d’oro, dopo il crollo dell’impero giapponese, ha evitato che il forzato abbraccio tra Occidente e Oriente si sia risolto in un’altra guerra. Pechino ha vinto, Londra non ha perso del tutto, la febbre degli interessi ha sostituito i conti con la storia: l’esperimento più spietato di fusione tra comunismo e capitalismo, tra dittatura e democrazia, minaccia così di scatenare ora il terremoto capace di distruggere un sistema ideato per assorbire le pressioni più violente dello sviluppo globale.
A scuotere l’ex “cortina di bambù” è la clessidra che consuma i logorati patti dell’universo di ieri, che Deng Xiaoping sintetizzò nel marchio «un Paese due Sistemi ». Nel 2047 Hong Kong tornerà totalmente Cina: «un Paese, un Sistema». Prima però, nel 2017, sarà la cavia di un altro esperimento senza precedenti: le elezioni in un’icona della libertà a termine, incastonata dentro il simbolo dell’autoritarismo senza fine. Le regole del voto si decidono adesso: per questo nell’ex colonia, dove si guida a destra e l’inglese precede il mandarino su ogni scritta, le scosse già sconvolgono il quieto business dei grattacieli sotto il Peak e gli azionisti politici domiciliati a Pechino e a Washington.
«La dirompente novità - dice il giurista James To - non è certo che la Cina pretende di scegliere chi comanda. È che vuole illudere gli abitanti di Hong Kong, i cinesi e la comunità internazionale, di non farlo più». Un obiettivo straordinario: un regime democraticamente eletto grazie a una stampa pluralista controllata dalla propaganda. La leadership rossa, diciassette anni fa, aveva promesso elezioni a suffragio universale nel 2007. È riuscita a rinviare di dieci anni e il governatore della metropoli ha continuato ad essere nominato da un comitato di 1200 lobbisti selezionati da Pechino. Ora però il tempo è scaduto e lo scontro esplode. È nato perfino un movimento, Occupy Central, che perfino nel nome si si rifà a quello che ha scosso Wall Street e la finanza globale. La Hong Kong democratica di giovani, studenti e intellettuali, sostenuta da Usa ed Europa, invoca il principio classico: una persona, un voto. Quella autoritaria di anziani e busines-smen, fedele alla madrepatria Cina, propone la via cinese: per candidarsi occorre la firma del 2% degli elettori. «Una preselezione farsa - dice Tai Yiu-ting, leader del movimento Occupy Central - che consegna gli eleggibili nelle mani del potere comunista. Per la prima volta nella storia, una democrazia verrà riassorbita da una dittatura e una popolazione sarà costretta a votare candidati proposti da un partito-Stato».
Il problema è che Hong Kong, oltre che un paradiso fiscale globalmente accettato, è la cassaforte finanziaria della seconda economia del secolo. Può diventare, nell’indifferenza collettiva, il modello universale di una nuova democrazia antidemocratica alimentata di un nuovo capitalismo comunista? «La violenza a cui assistiamo - dice il capo della federazione degli studenti, Joshua Wong - suggerisce che il prezzo sarà altissimo e che non lo pagherà soltanto l’Asia». Il primo è la libertà di stampa e di parola. L’associazione dei giornalisti di Hong Kong ha denunciato che questi valori «nella regione hanno toccato i minimi storici» e che «le telefonate della censura di Pechino nelle redazioni ormai sono quotidiane». I giornalisti indipendenti vengono licenziati, i direttori rimossi. Agli editori dei media critici viene levata la pubblicità, agli altri sono concessi incarichi politici e appalti del potere.
A fine febbraio due sicari, con un coltello da cucina, hanno tranciato nervi e tendini delle gambe a Kevin Lau, direttore appena cacciato dal Ming Pao. Il giornale aveva svelato lo scandalo dei conti correnti alle Isole Vergini dei leader cinesi. «I cronisti che resistono - dice Sham Yee-lan, presidente dei giornalisti di Hong Kong - diventano vittime delle triadi, o di criminali destinati a restare ignoti. Pressioni economiche, ricatti, pestaggi e censura ci hanno fatto precipitare dal 18° al 62° posto al mondo per la libertà di stampa». Le forze democratiche, più volte scese in piazza, lanciano l’allarme: normalizzare i media e far tacere gli intellettuali è la pre-condizione per imporre a Hong Kong false elezioni a suffragio universale, controllate da Pechino.
La realtà però è già un passo più in là. Professori e studenti sono in rivolta contro l’obbligo delle “lezioni di comunismo”, imposto dal governatore filo-cinese Leung Chun-ying. Le donne lottano contro l’invasione di puerpere del Guangdong, che accaparrano latte in polvere e letti nei reparti maternità. I 7 milioni di residenti insorgono contro i 40 milioni annui di turisti cinesi, ribattezzati “locuste”. «Improvvisamente - dice il sociologo Jonathan London - vengono al pettine i nodi più esplosivi. E non è un caso se la miccia parte ancora da piazza Tiananmen ».
Il 4 giugno sarà il 25° anniversario dalla strage del 1989, che bloccò le riforme democratiche a Pechino. In Cina il tema resta tabù, i dissidenti di un quarto di secolo fa sono in carcere, o in esilio. Centinaia però vivono nell’ex Victoria britannica, dove ogni anno il massacro viene ricordato dalle candele di mezzo milione di persone. «Negare elezioni vere - dice Wang Dan, ex studente ferito a Tiananmen - è parte del sistema che impone di censurare la stampa, di reprimere il dissenso, o di negare le violenze dell’89. Quando in gioco è il potere, il regime cinese non può avvallare precedenti o derogare dalla repressione». Un sondaggio online, subito rimosso, ha rivelato che il 90% della popolazione di Hong Kong preferirebbe tornare sotto la Gran Bretagna piuttosto che «essere assorbito» dalla Cina e che 7 hongkonghesi su 10 non vogliono essere chiamati “cinesi” né perdere i diritti democratici.
«L’insofferenza contro il neo-nazionalismo patriottico - dice il commentatore Li Wei-ling, licenziato dalla sua radio - monta assieme alla pressione globale di Pechino. A Taiwan gli universitari hanno dovuto occupare il parlamento per denunciare la svendita dell’isola alla Cina. Giappone e Filippine sono a un passo dalla guerra per difendere il proprio territorio. Hong Kong è una tessera del mosaico: se la comunità internazionale non si muove, Pechino seguirà l’esempio di Mosca con l’Ucraina e l’Asia in guerra non sarà solo l’incubo dei mercati». Per gli Stati Uniti l’emergenza è già scattata. La scorsa settimana, alla vigilia del tour di Barack Obama in Giappone, Corea del Sud, Malesia e Filippine, i leader storici dei democratici di Hong Kong, Anson Chen e Martin Lee, sono stati ricevuti alla Casa Bianca dal vicepresidente Jo Biden. La Cina ha reagito con inedita durezza, svelando un incontro che doveva restare riservato per diffidare gli Usa dall’«intromettersi nei nostri affari interni». «Hong Kong - dice il docente della scuola del partito, Rao Geping - non è uno Stato. È una regione cinese. Pechino non permetterà che qui scoppi una rivoluzione a colori finanziata dall’Occidente, come nell’Est europeo, in nord Africa, o in Medio Oriente. I pan-democratici hongkonghesi sono poco saggi a schierarsi con un’America che ha imboccato una strada pericolosamente sbagliata». Washington ha risposto invitando Londra, ex capitale della colonia conquistata nel 1841, a «intervenire per proteggere autonomia e democrazia di Hong Kong», come se il primo luglio di diciassette anni fa il «Britannia» non fosse salpato dall’isola con lord Patten e il principe Carlo a bordo. «La verità - dice l’attivista Leung Kwok-hung, fermato a Shanghai - è che la battaglia di Hong Kong per la libertà oggi riguarda tutti ed è appena cominciata».
Suffragio universale, no alla censura e verità su Tiananmen sono così le tre bombe della “regione amministrativa speciale”, dove i democratici annunciano nuove dimostrazioni e minacciano di occupare il parlamento al grido di «Free speech, free Hong Kong». Forse è tardi e forse nessuno, né gli occidentali né i cinesi, nel porto commerciale più ricco del mondo, che da sempre preferisce i soldi ai diritti, può parlare a nome della libertà, o di una storia onestamente raccontata. I fatti dicono che il contratto a favore della dittatura, qui ha chiuso con una resa il Novecento, di comune accordo. Ma ora che la clessidra degli affari sta per esaurire i granelli di sabbia, anche i pirati di Repulse Bay, rivestiti da finanzieri di Admiralty, capiscono di non poter tenere più la bocca in Occidente e le mani in Oriente. E non rinunciano alla speranza che una lotta generosa per la democrazia possa inaugurare, proprio nei Nuovi Territori, il secolo del loro riscatto.

La Stampa 14.4.14
«La Cina rallenta ma cresce sempre»
intervista di S. Ric.


Chi Lo, senior Economist, Greater China Bnp Ip, la Cina e i numeri sulla reale crescita del Paese allarmano i mercati. Si tratta di preoccupazioni esagerate?
«Se vuole, il governo cinese ha le risorse finanziarie per spingere la crescita economica. La politica di Pechino però è cambiata e non punta più a una crescita indiscriminata bensì alla ricerca di un incremento di qualità. Quindi sta implementando riforme strutturali e riducendo investimenti eccessivi e questo provoca il rallentamento del prodotto interno lordo. Quest’anno noi ci aspettiamo una crescita del 7,6% e per il decennio le nostre attese sono tra il 7 e l’8%. Gli investitori tendono a pensare che dietro al rallentamento si nascondano problemi nell’economia cinese. Non è così, quel che vediamo è solo frutto delle manovre del governo. Un male di breve termine che porterà a benefici di lungo».
Molti investitori sono usciti dal mercato asiatico e dalla Cina. Quale sarà il segnale che dirà che è arrivato il momento di comprare di nuovo?
«Questo trend si nota tra gli investitori retail mentre gli istituzionali, che hanno il privilegio del lungo orizzonte, hanno approfittato dell’opportunità per posizionarsi sul fixed income dell’Asia che negli ultimi 6-8 mesi offre ritorni del 5%. Per un riposizionamento su Asia e Cina guarderei a consolidamento e volatilità».
Perché mettere la Cina in portafoglio?
«La ragione principale sta nel fatto che la Cina è l’unica grande nazione che in questo momento sta portando avanti riforme strutturali. Questo significa che le potenzialità di re-rating degli asset cinesi sono molto più rilevanti che in altri Paesi sviluppati. La volatilità in questa fase di passaggio, che è solo al suo inizio, è una buona opportunità per fare acquisti».
Quali i settori a cui guardare?
«I settori che offrono buone performance sono quelli legati ai consumi interni, favoriti dalle riforme. Si tratta di comparti come quello del turismo, dei servizi medicali, le assicurazioni e le telecom, per citarne alcuni».
Avete appena lanciato un nuovo prodotto che scommette anche sulla corsa del Rmb. Cosa vi aspettate?
«Ci aspettiamo un rendimento medio tra il 4 e il 4,5 per cento sul nostro Rmb short duration bond fund. Riteniamo che la recente correzione offra una buona opportunità d’ingresso e questa è la ragione per cui abbiamo lanciato il nuovo fondo».

La Stampa 14.4.14
Freud rinasce a Teheran
Incontro con l’iraniana Gohar Homayounpour tornata in patria per portarvi la “peste” psicoanaliticaLa cultura iraniana è più libidica che aggressiva, è avvolta nella fantasia e nel sogno. Siamo dei depressi
Oggi la sessualità a Teheran somiglia di più a quella della Vienna di Freud che a quella dell’America contemporanea
di Silvia Ronchey


L’Iran ha una popolazione di 73 milioni di abitanti e 28 milioni di utenti Internet. La sola Teheran conta 13 milioni di persone. Il 38% di questa popolazione è al di sotto dei 18 anni ed è tra le più politicamente attive di tutto l’Islam. Secondo le statistiche dell’Unicef, tra le 57 nazioni islamiche del mondo l’Iran è quella che ha il maggior numero di blogger.
Ci sono solo dieci psicoanalisti in Iran, di cui due sono donne. Una di loro è Gohar Homayounpour, una giovane minuta dai lunghi capelli neri, un’antica miniatura persiana dall’accento universitario bostoniano. Nata a Parigi, vissuta in esilio, passata negli Usa per la dura formazione prescritta dalla disciplina freudiana, due anni fa è tornata in Iran per riportare il contagio di quella «peste» psicoanalitica che un secolo prima il padre fondatore Freud aveva portato dal vecchio al nuovo mondo, e che da allora non ha cessato di propagarsi dall’uno all’altro capo del globo, come addita il progetto scientifico sulle «Geografie della psicoanalisi» che l’ha portata alla Società psicoanalitica italiana di Roma, dove l’abbiamo incontrata.
A richiamarla a Teheran sono stati, confessa, «il desiderio e la sete di psicoanalisi» che ha trovato nella patria dei suoi avi. È rimasta nonostante le difficoltà e le lotte quotidiane, una battaglia che si ostina a definire anzitutto come paradosso: fare psicoanalisi nella repubblica islamica iraniana degli ayatollah, farlo oltretutto essendo una donna, è per lei una provocazione psichica prima ancora che politica. Per riuscirci «bisogna disinnescare le contraddizioni ideologiche», spiega, «trovare un linguaggio che non minacci l’ideologia fondamentale» della teocrazia. Le domandiamo se questo linguaggio esiste nella cultura iraniana. «Non dobbiamo confondere l’attuale sistema politico dell’Iran con la sua cultura», risponde. «Quella iraniana è una cultura più libidica che aggressiva. È anche una cultura del qui e ora, avvolta nella fantasia e nel sogno. La visione del mondo persiana è poetica, filosofica e introspettiva. Anche se abbiamo i nostri momenti paranoico-schizoidi, siamo fondamentalmente dei depressi. Mentre la modalità di espressione del malessere psichico americano è più spesso l’ansia». Se le chiediamo perché, parafrasa Kundera: «Potrei dire che mentre l’Occidente soffre di un’insostenibile leggerezza dell’essere, in Oriente è la pesantezza dell’essere a diventare insostenibile».
Ma l’opposizione Oriente/Occidente è a sua volta una sovrastruttura psicologica, forse patologica: «L’Altro esotico, orientale, affascina l’uomo occidentale, ma lo sguardo rende l’Altro inferiore», spiega, citando Edward Said e i suoi concetti di orientalismo e di esotizzazione. «Possiamo erotizzare il chador o parlare di “‘rossetto jihad” o raccontare che gli uomini iraniani picchiano le donne: gli orientali eccitano il desiderio in ragione dei piaceri ”inferiori” che evocano». La sessualità della Teheran di oggi «somiglia molto più a quella della Vienna di Freud che a quella dell’America contemporanea». Cita un grande freudiano francese: «Dov’è finita la sessualità della psicoanalisi?, domandava André Green. Posso rispondere: a Teheran». Nei casi clinici raccontati dal suo libro, uscito in Italia con una penetrante postfazione di Lorena Preta (Una psicoanalista a Teheran, Cortina, pp. 147, € 13,50), convivono tradizionalismo orientale e sfrenata disinibizione occidentale, e si affollano storie femminili in cui con naturalezza le libertà private travolgono le pubbliche virtù dell’osservanza politica o religiosa.
Chiunque a Teheran abbia un divano disponibile ha lo studio pieno di pazienti, spiega. Ma è un vero divano orientale-occidentale, quello di Gohar. Negli ultimi sei anni non solo ha costituito il «gruppo freudiano di Teheran», ha anche messo al lavoro un’équipe parallela di analisti europei e americani disposti ad alzarsi a ore impossibili e a restare svegli fino a tarda notte per fare analisi e supervisioni via skype. Sentirla parlare di «divani» fa sorridere. Vengono in mente le quartine di Khayyam, i suoi trasognati triclìni, la sua malinconia scettica da teologo ateo, il fiorire su sé stessa della sua lingua «de aves y de rosas», come la definì Borges. Forse è questo l’antico spirito persiano che riemerge nella psicoanalisi del gruppo di Teheran: un ateismo con un’ortodossia, una teologia atea dell’interpretazione.
Forse il fare psicoanalisi a Teheran riprende e riflette una millenaria tradizione di quieta e privata disobbedienza, là dove la fantasia collettiva «è ancorata a un desiderio di assoluta obbedienza»; di oralità del racconto, della conversazione e dell’ascolto; di sensualità e malinconia. Una garbata e stoica indifferenza ai decreti e ai dogmi della teocrazia.

Corriere 14.4.14
Addio a Karlheinz Deschner critico severo del cristianesimo


Nato nel 1924, aveva studiato dai francescani e dai carmelitani, poi al collegio filosofico-teologico di Bamberga. Ma lo storico tedesco Karlheinz Deschner, scomparso all’età di quasi 90 anni, era un critico severo e ben documentato di tutte le Chiese. La sua opera principale è una poderosa Storia criminale del cristianesimo in dieci volumi, che giunge fino alla rivoluzione francese ed è stata pubblicata integralmente in Italia tra il 2000 e il 2013 dall’editore Ariele. Sempre presso Ariele è uscito in due tomi il lavoro di Deschner La politica dei papi nel XX secolo , mentre altre sue opere, come Il gallo cantò ancora (1998), La croce della Chiesa (2000) e Anticatechismo (2002), sono state pubblicate dall’editore Roberto Massari

l’Unità 14.4.14
Attentato a Gentile: trappola per Togliatti
Ecco chi volle l’esecuzione del filosofo
Luciano Mecacci con metodo indiziario ricompone i tasselli del caso e ricostruisce moventi e mandanti
A settant’anni dall’omicidio, avvenuto il 15 aprile 1944, ecco una tesi plausibile di come andò: è tutto scritto nel suo libro «La Ghirlanda fiorentina»
di Bruno Gravagnuolo


DAVVERO L’ATTENTATO A GENTILE, MAESTRO DELL’ATTUALISMO CHE ADERÌ ALLA RSI, RESTA UN MISTERO? Davvero non sono chiari moventi e mandanti dell’attentato dopo 60 anni? E davvero il Pci non ne fu protagonista e ideatore, nella Firenze occupata dai tedeschi? Proprio nell’anniversario di un’esecuzione che fa ancora discutere esce il libro ricco e suggestivo di uno psicologo, Luciano Mecacci. Che con metodo indiziario ricompone e scompone i tasselli del caso. Non senza suggerire una tesi: furono i servizi segreti britannici, con la complicità di un nugolo di intellettuali (Manlio Rossi, Berenson Markevitch, Bilenchi e molti altri) a volere la morte del filosofo. Favorendo l’azione del Gap guidato da Bruno Fanciullacci, che per mano di Giuseppe Martini freddò il filosofo quella mattina del 15 aprile 1944 a Villa Montalto in via del Salviatino.
Il libro, si intitola La ghirlanda fiorentina (Adelphi, pp. 528, euro 28). E ghirlanda fiorentina è nome in codice: l’agenda usata da John Purves, «italianista» e storico della filosofia a Edimburgo, arruolato nell’esercito segreto di Churchill, per i suoi rapporti ante-guerra con gli intellettuali fiorentini. Tra gli indizi della pista britannica, Mecacci tira in ballo Radio Cora, emittente del Partito d’Azione e canale di collegamento con l’VIII armata britannica. Un «giro» da cui proveniva anche un misterioso esponente del P.d.’Az., accompagnato in anticipo sul luogo dell’attentato dall’ex partigiano azionista Bindo Fiorentini. E tra le prove-indizio ci sono anche le parole di Gentile stesso prima dell’8 settembre a Mario Manlio Rossi, storico della filosofia: «Ho completato la mia opera, i suoi amici possono uccidermi se vogliono». Dunque intellettuali, azionisti, criptocomunisti, o in bilico tra le ideologie nella fase di trapasso (Garin, Ragghianti, Bianchi Bandinelli, Calogero). Tutti vicini al filosofo. Ai quali egli confida i suoi presentimenti, e da alcuni dei quali è scongiurato di non aderire alla Rsi, per la tragedia che poteva derivarne. Come nel caso di Cesare Luporini, lettore di italiano alla Normale e poi filosofo dell’italo-marxismo. Come rivelò a Luciano Canfora in una trasmissione radiofonica del 1985, «c’erano cose che ancora non si potevano dire» su quella esecuzione ». Concetto ribadito a chi scrive nel marzo del 1993, alla vigilia della sua morte. Con in più l’aggiunta - nel corso di una intervista per l’Unità - di un ricordo preciso: «Lo supplicai in autunno di non andare a Salò ma lui disse domani vado da Mussolini e mi lasciò nell’angoscia..».
Era turbato e reticente Luporini. E le stesse cose tornano nel libro di Mecacci, con la «frase- replica» di Gentile al filosofo Carlini nel 1944, riferita da Luporini: «Ci siamo tutti immersi (in questa tragedia) fino alla fronte...». Gentile immaginava, paventava, e molti della sua cerchia presentivano, o sapevano. Del resto la scelta di presiedere l’Accademia d’Italia della Rsi - anche per salvare il figlio Federico prigioniero in Germania - aveva generato odio. La Banda Carità infieriva, cinque giovani renitenti erano stati fucilati prima di quel 15 aprile, mentre Gentile pur da moderato, condannava «traditori e sobillaltori», e inneggiava a Hitler «condottiero della Grande Germania». Ma qual era la posizione del filosofo? Coerente, dopo le esitazioni successive al 25 luglio. Aveva protetto intellettuali ebrei come Kristeller, dissentendo (solo) in privato dalle leggi razziali. Protetto antifascisti e «corporativisti impazienti» alla sua corte - chierici comunisti e azionisti - in un famoso discorso «dissenziente» dal regime in Campidoglio nel giugno 1943. Perciò da lealista nazionale e fascista, osteggiava il fascismo più feroce, e sperava in una pacificazione che consentisse alla Rsi di ottenere una tregua o un armistizio: che salvasse Mussolini e ciò che restava dell’Italia. Eccola quindi la tesi di Mecacci, che riprende argomenti già lanciati da Luciano Canfora nel 1985 nel suo La sentenza: erano i britannici che bersagliavano per radio Gentile, a osteggiare il suo moderatismo. E a volerlo eliminare, per arrivare a una resa del fascismo senza condizioni. Tesi suggerita anche dal figlio Benedetto Gentile: una moderazione che dava fastidio, a tutti. Inglesi, partigiani e fascisti duri.
A questo punto andrebbe però ricordato che la pacificazione di Gentile non aveva nessuna chance in quel 1944 (al più Gentile poteva chiedere al Duce di fare pressioni sui tedeschi, dopo l’uccisione del suo segretario). E poi - fuor dal reticolo degli indizi ragionati da Mecacci - restano alcuni fatti certi. L’attentato fu compiuto da gappisti comunisti, e condannato dagli azionisti. Fu accompagnato da una rivendicazione, consistente in un discorso anti-Gentile di Concetto Marchesi da Padova, poi chiosato (solo) nell’edizione fiorentina della Nostra Lotta da una postilla apocrifa di Girolamo Li Causi. Quel periodico voluto da Eugenio Curiel era controllato a Milano da Longo , Secchia e Li Causi. Ed ebbe un ruolo chiave. Così come lo ebbe Teresa Mattei, partigiana e inventrice della mimosa l’8 Marzo, futura moglie di Bruno Sanguineti, figlio del patròn dell’Arrigoni, uomo dai collegamenti decisivi nell’Italia occupata tra Pci centrale e periferico. Fu la Mattei a indicare agli uomini del commando la figura di Gentile, che come rivelò essa stessa al Corsera il 6 agosto 2004, doveva morire per vendicare suo fratello: il chimico accademico Gianfranco Mattei morto per le torture a Via Tasso. Il tutto disse la Mattei, fu voluto da Sanguineti (ma sparò Giuseppe Martini). In collegamento con Milano, riteniamo. Né c’è motivo di dubitarne, poiché a distanza di anni non si vede perché mai la Mattei, uscita dal Pci e legata alla sua storia, dovesse attribuirsi a vuoto un gesto così grave e controverso. Non valgono alcune sfasature del resoconto rilevate da Mecacci che concede del resto l’attenuante della memoria incerta alla donna scomparsa nel 2013. La versione tiene. Ed è confortata da considerazioni più generali. E cioè: il tipo di rivendicazione, con postilla apocrifa apposta al discorso di Marchesi solo nell’edizione fiorentina del giornale.
La copertura goffa e propagandistica data ex post da Togliatti dell’attentato. Fatta di insulti («bestione, corruttore») e motivata dall’ansia di chiudere qualcosa di imbarazzante: di cui non si sarebbe parlato più troppo. Né agli esecutori - Martini e Fanciullacci - venne mai reso «onore». Infine c’è la contraddizione palese, tra la «pacificazione antifascista» voluta da Togliatti con la svolta di Salerno, e l’attentato contro una figura come Gentile, dioscuro dell’idealismo italiano con quel Croce che avrebbe governato con Togliatti (e che a Croce non lesinò critiche per la sua convivenza col regime). Morale, l’attentato fu voluto dal Pci interno: fiorentino e «milanese ». Senza consultare Togliatti che a quel tempo era in viaggio da Mosca per annunciare la bomba della svolta di Salerno. Svolta osteggiata dal settembre 1943 - quando Togliatti la lanciò da Radio Milano Libera - da un ampio fronte: dagli azionisti, a Longo, Amendola, Secchia, Scoccimarro. Uccidere Gentile fu un segnale preciso a Togliatti: questa è anche una resa dei conti civile e ogni pacificazione, come quella con Badoglio, il Re e Croce, ha un limite. Togliatti prese nota e finse di adeguarsi. Ma andò per la sua strada di unità nazionale e democratica. Per fortuna.

WIKIRADIO DOMANI SU RADIO 3
ALESSANDRA TARQUINI

La Stampa 14.4.14
Miti e streghe dell’800 inglese
Una collettiva a Roma, al Chiostro del Bramante
di Marco Vallora


Per penetrare in questa divertente, e gremita di dettagli, mostra sui pittori inglesi del periodo vittoriano, collezionati tutti dal magnate spagnolo Pérez Simòn, potremmo farci accogliere dalla contrita dama Elaine, di un interessante artista, qui rivalutato, come Strudwick. È vero: questa figura sottratta alla poesia d’un lirico, nodale e influentissimo all’epoca, come Tennyson, non si sospingerà nemmeno al verone di gusto medievale, né si profilerà per noi al ponte levatoio di quest’universo reimmaginato e fantastico. Rimarrà impietrita nel suo dolore sconfinato e romantico, che le fa increspare di nevrotico struggimento le nodose dita da pianista e le dipinge pallido il volto.
Rubato a una tela di Burne-Jones (di cui Strudwick è timido assistente) in un attimo d’assenza del maestro dall’atelier, e qui incastonato, quasi a rosea decalcomania, entro un soffocante ambiente anacronistico. Cesellato di horror vacui decorativo, che quasi ci soffoca e stucca di delizie dettaglistiche. Come nel caso delle coeve e complici Rose di Eliogabalo, dell’anglo-olandese Alma-Tadèma, che ispirarono ad Arbasino il suo impagabile poema pop-artaudiano, «super». Gli stordenti petali di rose color dentiera, che crollano velenosi da una fragile tettoia di tela (che proteggeva la torbida siesta dell’imperatore-divinizzato) e che con la loro piangente, estenuata mollezza, sinestetico-languorosa, strangolano, di perfida delizia soffocante, i suoi annaspanti commensali. Non ha occhi per noi, Elaine, la «strega» goticamente addomesticata, eppure, trascurandoci, impietrita nel suo lapideo consumarsi, è la musa-guida ideale, per farci filtrare in questo mondo, fiabesco ed insieme anacronistico.
Illuminante miscela di modernità ed arcaismo, tipico di quel movimento decadente-estetizzante che Gaunt ha chiamato dell’ «Avventura estetica», vecchia reminiscenza Saggi Einaudi. «Per un istante lo sguardo di lei è fermo è schivo/ ma se dà il frutto che contiene il suo incantesimo/ quegli occhi arderanno come per il suo ragazzo frigio», scriveva Dante Gabriele Rossetti, grande vate, con l’amico Millais, della Confraternita Preraffaellita, al cuore di questo periodo pittorico (è la prima e unica volta in cui l’arte si rivolge a un «pre», e non a un «neo»).
Così indeciso fra poesia e pittura, che maliziosamente il collega Whistler gli consigliava: «incornicia le tue poesie, non dipingere i tuoi poemi!», Rossetti inventa un genere ed un «tipo» di donna fatale, «belle dame sans merci», crudele e magnetica. Che Strudwick appunto emula, con la sua dama innamorata, che non può dire il suo amore per Lancillotto, ma feticisticamente ne adora il suo scudo, ferito d’avventure, issato su un inginocchiatoio, quasi fosse un mitico crocefisso. Specchio di dolore. Ed è Henry James ad aver intuito che: «Quest’arte intemporale, di bellezza femminile ideale (…) è creata da individui che non guardano il mondo direttamente, ma attraverso il suo riverbero, l’effigie ornamentale, plasmata dalla letteratura e dall’erudizione». Canzone senza parole intitolano le loro tele Lord Leyton e Strudwick, suggestionati dal pianoforte di Mendellsohn e dalla teoria «art pour l’art» di Pater, convinto che l’arte emotiva della musica sia la vera arte-leader del romanticismo venato di simbolismo.

Repubblica 14.4.14
Singolo e società non sono due entità opposte, l’uno non esiste senza l’altra e viceversa Così i filosofi hanno introdotto una nuova categoria, che si adatta anche alla scienza
Perché siamo diventati tutti “transindividuali”
di Roberto Esposito



POCHI concetti come quello di individualismo sono oggetto di sguardi così contrastanti. Considerato dagli uni come il portato essenziale della modernità, è visto da altri come una potenziale minaccia alla dimensione della vita associata. La stessa opposizione metodologica tra modello individualistico, che parte dal singolo, e modello olistico, che privilegia la totalità rispetto alle parti, si è rivelata poco utilizzabile quando ci si trova di fronte a fenomeni irriducibili a schemi dicotomici. Nei suoi Saggi sull’individualismo ( Adelphi) l’antropologo Louis Dumont, ad esempio, ha dimostrato come il nazionalismo non sia riducibile a nessuno di questi due modelli, ma nasca precisamente dalla loro sovrapposizione.
ESSO è l’esito dell’applicazione della concezione individualistica, non al singolo individuo, ma allo Stato rispetto agli altri Stati. La verità è che le dinamiche socio-culturali contengono al proprio interno un elemento proveniente dal loro contrario. È stato così per il liberalismo, che a un certo punto ha dovuto inglobare misure di protezione sociale. Ma qualcosa del genere si può dire anche della globalizzazione, che si sviluppa generando al suo interno tendenze localistiche ed identitarie. La difficoltà in cui oggi si dibattono le scienze sociali dipende anche dalla sottovalutazione di questa legge fondamentale, relativa al carattere autocontraddittorio dei concetti politici moderni di popolo, sovranità, rappresentanza. E anche di individuo. Tipica di questa vera e propria miopia epistemologica è il contrasto che comunemente si pone tra esso e la società. L’intera tradizione sociologica si divide sul primato che assegna ad uno di questi due termini a detrimento dell’altro. O si immagina che gli individui precedano la
società, costituendola attraverso la loro aggregazione, o al contrario che sia soltanto questa a determinare il comportamento degli individui. Entrambi questi presupposti, evidentemente errati, sono adesso messi in discussione da una prospettiva più raffinata che fa capo alla categoria di “transindividuale”. Originata in Francia dai pioneristici lavori di Gilbert Simondon su l’individuazione psichica e collettiva (una traduzione del suo testo principale, così intitolato, è stata curata da Paolo Virno per Deriveapprodi), è adesso ripresa e sviluppata in un volume collettaneo introdotto da Étienne Balibar e Vittorio Morfino, edito da Mimesis con il titolo Il transindividuale. Contro tutte le interpretazioni che antepongono l’individuo alla società o viceversa, Simondon cerca di pensarli insieme, spostando lo sguardo dall’individuo già formato al processo di individuazione, di cui esso è solo l’esito provvisorio, destinato a riprodurre una nuova dinamica relazionale. In tal modo la stessa società appare, piuttosto che una entità trascendente il libero gioco degli individui, il processo, mai definitivamente compiuto, della loro costituzione momentanea. Ma l’elemento forse più suggestivo dell’ipotesi di Simondon è la sua traducibilità all’interno di altri saperi come l’antropologia e la psicologia, la linguistica e la biologia, fino alla filosofia della mente e alla teoria della storia. In questa chiave, per esempio, Andrea Cavazzini può dimostrare come gli “individui” con cui ha a che fare la biologia - specie, organismi, geni - tutt’altro che elementi originari, non sono che il risultato di combinazioni preindividuali convergenti in una trama di rapporti complessi.
A sua volta Felice Cimatti, rifacendosi alla prospettiva dello psicologo russo Lev Vygotskij, sostiene che l’evoluzione psichica dell’individuo non solo non è collocabile al di fuori del contesto sociale, ma si origina da un vero e proprio trapianto dell’esterno nell’interno. A differenza di quanto accade per un castoro, fin dall’inizio inchiodato alla sua natura – programmato a costruire dighe – l’uomo può optare tra le dighe e i ponti, oppure attraversare il fiume a nuoto. E ciò perché quella che chiamiamo “essenza umana” si trova al di fuori della costituzione biologica del singolo individuo, facendo capo a una rete di connessioni sociali. Né il cognitivista, che immagina la mente umana originariamente provvista di tutte le informazioni necessarie, né il comportamentista, che invece la considera vuota e perciò in balìa di stimoli esterni, colgono questo elemento transindividuale che destabilizza entrambi i modelli.
Un ultimo esempio della fungibilità di tale paradigma è fornito da Francisco Naishtat nell’ambito della teoria della storia. Alla domanda sulla responsabilità degli eventi storici – del singolo o del collettivo – egli replica con una risposta che taglia obliquamente le ipotesi contrapposte. Il verificarsi di un evento non può essere ascritto né all’individuo né al collettivo, dal momento che esso è costituito da una catena multipla, composta da una miriade di azioni individuali, ma irriducibile ad essa. Nella notte del 14 luglio 1789, giorno della presa della Bastiglia, Luigi XVI scrive sul diario «Rien» – che non è accaduto nulla. Certo, non era uomo di particolare perspicacia. Ma la cosa dimostra che un evento, pure decisivo come quello, per stagliarsi sui microfatti insignificanti di cui è composto, va inserito all’interno di un quadro interpretativo più ampio e multipolare di quello concesso ad un singolo uomo.

il Fatto 14.4.14
Capitali nel vuoto
Grattacieli nel deserto per la gioia dei sultani
di Fabrizio Gallanti


Se assumi una posizione politicamente corretta e decidi di non sporcarti le mani, ci sono pochi luoghi dove puoi andare, pochi progetti che puoi realizzare. Non è realistico”. Patrik Schumacher, socio principale di Zaha Hadid Architects, intervistato da Fred Bernstein, Architectural Record, marzo 2014. Il flusso incessante di immagini sulle riviste specializzate d’architettura e su Internet proietta rappresentazioni seducenti di edifici che incarnano un linguaggio innovativo e tecnologicamente avanzato. Talvolta si tratta di simulazioni digitali, estremamente realistiche, talvolta di inquadrature patinate di progetti freschi di inaugurazione.
Grandi cubi bianchi, accatastati uno sull’altro, si stagliano sulla steppa fuori dall’antica capitale del Kazakhstan, Almaty. Ad Astana, la nuova capitale, una piramide in vetro e un cono obliquo rivestito di plastica traslucida sembrano duellare a distanza per convertirsi nelle icone di una città in rapida espansione. A Baku, in Azerbaijan, un edificio maestoso, incrocio tra una scultura sinuosa di Henri Moore e il guscio di un mollusco marino è circondato da palazzoni residenziali in cemento dell’epoca sovietica e da nuovi grattacieli postmoderni . Invece sull’isola di Zira, di fronte alla città, ciclopiche montagne artificiali scintillano sotto il sole del Mar Caspio. A Tbilisi, in Georgia, grandi membrane curvilinee, simili a foglie reclinate di un banano mastodontico, galleggiano al di sopra della grana di costruzioni modeste del centro, mentre a Sarpi, alla frontiera con la Turchia, una torre che sembra la nuvola di un fumetto futurista si affaccia sulla riva del Mar Nero. Alla periferia di Mosca quattro parallelepipedi, ricoperti da una pelle che ricorda i tessuti stampati dell’Africa sub-sahariana sono in bilico su un grande anello trasparente.
Capitali di vetro e plastica
I cubi bianchi avrebbero ospitato un campus universitario, progettato da Rem Koolhaas / OMA e non realizzato. La piramide di Astana accoglie il Centro per la Pace e Riconciliazione, destinato al dialogo inter-religioso. Il cono, alto 150 metri, contiene il centro di intrattenimento Khan Shatyr: ristoranti, negozi , equipaggiamenti sportivi e un parco al coperto. Entrambi gli edifici sono stati progettati da Foster + Partners.
L'edificio a forma di conchiglia è stato progettato da Zaha Hadid Architects ed è l’Heydar Aliyev Centre, intitolato al padre dell’attuale presidente dell’Azerbaijan, Ilham Aliyev. All’interno si trovano un auditorium, gallerie e un museo.
Le montagne artificiali di Zira, che riprendono le sette vette più importanti dell’Azerbaijan, sono giganteschi complessi residenziali, che sostengono pannelli fotovoltaici e apparati di riciclaggio di acqua e rifiuti, che farebbero di Zira la prima città a impatto ambientale zero. Il progetto è dello studio Bjarke Ingels / BIG.
I petali sono l’elemento saliente del centro servizi, coprono sette volumi e un’area centrale di uffici pubblici. Il progetto è di Massimiliano Fuksas.
La torre di Sarpi fa parte di una serie di edifici per la dogana della Georgia progettati dall’architetto berlinese Jürgen Mayer H. Mayer.
Il complesso dal sapore africano ospita la scuola di gestione aziendale dell’università Skolkovo, lanciata da Dmitry Medvedev, ex presidente della Russia. Il progetto è del ghanese David Adjaye, promessa dell’architettura contemporanea.
Questi strani oggetti si trovano in luoghi per noi esotici, le nazioni che appartenevano all’Unione Sovietica, che si estendono dai confini dell’Unione Europea sino al Mar della Cina. Tutti, sia quelli costruiti sia quelli rimasti sulla carta, sono stati firmati da architetti internazionali. Nessuno è di un architetto locale.
Un’area in perenne agitazione
Sono trascorsi più di venti anni dalla dissoluzione dell’Unione Sovietica; un territorio gigantesco, governato per settanta anni dal partito comunista e congelato dalla burocrazia, è diventato un’area in perenne agitazione. Da uno stato centralizzato, si è passati a quindici nazioni con almeno sei regioni che ambiscono all’indipendenza. Spesso, queste giovani nazioni sono in situazioni economiche fragili, la porzione di popolazione sotto la soglia di povertà è alta: un quadro di ingenti risorse naturali, minerali e idrocarburi, ma di governi autoritari con eredità del comunismo, forme di affiliazione tribale e familistica e corruzione galoppante. Eppure, per molti architetti occidentali offrire i propri servizi al satrapo locale o alla multinazionale torbida non sembra un ostacolo. Considerando che la sopravvivenza di molti studi dipende da nuovi mercati appare quasi scontato che dopo la Cina e le varie monarchie autocratiche del Golfo Persico, l’ex Unione Sovietica sia il nuovo El Dorado. Esistono differenze, e riunire in un cumulo uniforme i progettisti non sarebbe corretto: la Georgia tenta di svilupparsi come una democrazia e architetti come il giapponese Arata Isozaki sono protagonisti di progetti di alto valore culturale e sociale, come i campus di una università internazionale promossa dalla Aga Khan Foundation, con sedi in Kazakhstan, Kyrgyzstan e Tajikistan.
Ma leggere alcune dichiarazioni recenti su che cosa significhi lavorare per un tiranno è raggelante. Si va dal candore quasi infantile con il quale Bjarke Ingels, astro nascente danese, apprezza come i processi decisionali in Kazakhstan siano più spicci rispetto al suo paese natale o al distacco blasé con cui Patrik Schumacher, il socio principale di Zaha Hadid, sfida chi lo critica a non storcere il naso se si vuole costruire. Altri preferiscono glissare e nascondere la propria produzione in paesi di dubbia reputazione, senza che questa appaia sui loro siti Internet o pubblicazioni.
Le trasformazioni stanno avvenendo adesso a un ritmo e un volume senza precedenti (l’Azerbaijan, governato dal 1969 dalla dinastia Alyev, ha investito gli ingenti proventi del petrolio estratto nel Mar Caspio, all’incirca sei miliardi di dollari all’anno, in nuovi progetti, mentre lo stipendio medio mensile è di 590 dollari): bisognerà armarsi di curiosità e viaggiare in quei luoghi per poter elaborare dei giudizi più precisi. Non più ritratti da fotografi compiacenti ma contrapposti a quartieri ancora fatiscenti e infrastrutture dissestate, gli edifici di Zaha Hadid, Norman Foster, o di altri meno conosciuti come Manfredi Nico-letti, non solo appaiono fuori luogo e fuori scala, ma quasi farseschi nella esibizione tronfia di una monumentalità vuota di contenuti.

il Fatto 14.4.14
Le nuove piramidi
Quell’antico rapporto tra gli architetti e i regimi
Albert Speer fu lo scenografo delle gigantesche adunate hitleriane
Assunse un ruolo così importante all’interno della gerarchia che venne noiminato ministro degli armamenti
di F. Gal.


Il rapporto, spesso assai problematico, tra dittatori e architetti non è un fenomeno recente. Anzi, si potrebbe sostenere che sin dalle piramidi egizie, secondo alcuni storici probabilmente innalzate da schiavi, la voglia di affermazione simbolica del potere abbia ricorso da un lato al genio di progettisti brillanti e dall’altro abbia determinato immani sacrifici umani, che potevano essere garantiti - e di conseguenza anche imposti - solamente da sistemi autoritari.
IN EUROPA sino all’epoca dell’illuminismo e della prima rivoluzione industriale la committenza per le opere più significative coincideva in ogni caso o con il potere politico dei governi e della nobiltà o con l’autorità religiosa. Da oltre 400 anni la gamma di possibili clienti invece si è ampliata, eppure, l’attrazione reciproca tra regimi autoritari e architetti, pure spesso i migliori in circolazione, continua a operare. Quali possono esserne i motivi? Nel caso dei regimi europei della prima metà del ventesimo secolo, l’attrazione era stata prevalentemente di tipo politico e ideologico.
Gli architetti presumevano una possibilità di sviluppo futuro delle proprie idee d’architettura che il fascismo e il nazismo avrebbero garantito. In Italia, tutti gli architetti moderni più innovativi (Adalberto Libera, Giuseppe Terragni, Luigi Figini e Gino Pollini, Ignazio Gardella) aderirono al fascismo, convinti che il proposito di modernizzazione di Mussolini avrebbe coinciso con l’affermazione dell’architettura razionale, che stavano sviluppando in linea con le esperienze europee più avanzate. Il regime decise invece che il linguaggio simbolico che ne doveva rappresentare l’eternità e quindi il collegamento con i valori italiani tradizionali sarebbe stato meglio rappresentato dalla rivisitazione neoclassica della tradizione romana, propria dell’architettura di Marcello Piacentini, che divenne anche l’architetto delle colonie in Africa. Quando si pensa all’architettura fascista, quella dell’Eur a Roma, ma anche quella dei tribunali, delle questure, degli uffici postali sparsi in mezza Italia, si parla di architettura piacentiniana.
Nella Germania nazista, invece, prevalse da subito, invece, un linguaggio tradizionalista, che si opponeva al cosmopolitismo dell’architettura moderna e che però riprendeva, anche in questo caso la tradizione greca e romana come matrici dei progetti più simbolici e grandiosi (e non il gotico nordico). Albert Speer, l’architetto e scenografo delle gigantesche adunate hitleriane assunse un ruolo così importante all’interno della gerarchia, al punto di essere nominato ministro degli armamenti e della produzione di guerra nel 1942. Un uomo che faceva parte del potere vero.
NEL RAPPORTO con le dittature degli architetti moderni si possono riconoscere anche calcoli meno idealistici e più prosaici: è ben noto che uno degli architetti piu importanti del ventesimo secolo, lo svizzero naturalizzato francese, Le Corbusier tentò, invano, di ottenere da Mussolini l’incarico per la pianificazione di Pontinia nel 1934, pochi anni dopo aver flirtato con l’Unione Sovietica di Stalin.
Nel 1940 invece è con il governo collaborazionista di Vichy che Le Corbusier cercò un incarico come urbanista, per sua fortuna invano, visti poi gli incarichi del dopoguerra. Si potrebbe dire che la necessità banale di incarichi professionali che permettano di mantenere uno studio, una certa propensione egotistica, per cui poter costruire e mostrare al mondo il proprio talento è tutto e una sostanziale indifferenza rispetto a chi siano i propri clienti, che si leggono nella traiettoria errabonda di Le Corbusier, siano analoghi ai fenomeni ai quali assistiamo oggi. Talvolta architetti, pure intelligenti, come Frank Gehry o Herzog & de Meuron si lasciano sfuggire pensieri per cui in paesi un po’ meno democratici (gli Emirati per il primo, la Cina per i secondi) si riuscirebbero a fare le cose meglio e più in fretta, per via dell’assenza dei controlli incrociati che caratterizzano le democrazie mature. Talvolta autori rispettati hanno una seconda linea di progetti, assai poco pubblicizzati, se non addirittura segreti, con i quali bilanciano le opere negli Stati Uniti o in Europa che non forniscono sufficienti ritorni.
O altri, sia noti, sia meno conosciuti cercano attivamente commesse, spesso accompagnando le grandi società di ingegneria e costruzione in paesi di reputazione dubbiosa. Quello che rappresenta un elemento di novità è come oramai si stia osservando un mercato internazionale dove al tirannello di turno affascina l’idea di avere al suo servizio il progettista di Parigi o New York. In fondo si tratta di un’altra idea di lusso, che solo pochi autocrati possono permettersi.

il Fatto 14.4.14
“La nostra è un’arte imposta”
di Renzo Piano


IL MIO MESTIERE Sono felice, orgoglioso e grato di essere nominato architetto dell'anno, qualunque cosa ciò voglia significare anche di buffo. Ma che cosa è esattamente un architetto? Che cos'è l'architettura? Sono trent'anni che la faccio, ma forse solo ora cominciando a comprenderla: essa, tanto per incominciare, è un servizio, nel senso più letterale del termine, in quanto attività produttiva di cose utili. Ma è anche socialmente pericolosa: un brutto libro si può non leggere; una brutta musica si può non ascoltare; ma l'orribile condominio, che abbiamo di fronte a casa, dobbiamo vederlo per forza. L'architettura, insomma, non risparmia l'utente, talvolta imponendogli un'autentica immersione nella bruttezza: e questa, anche nei confronti delle generazioni future, è responsabilità ben grave(...) Nell'architettura compaiono tanti altri componenti: la storia e la geografia, l'antropologia e l'ambiente, la scienza e la società, di cui essa, inevitabilmente, diventa lo status-simbol. Ma forse posso spiegarmi meglio con un'immagine: l'architettura è come un iceberg - non nel senso del Titanic, che se la incontri ti manda a picco - ma nel senso che da una ben piccola parte di esso dobbiamo risalire a tutto il resto, sommerso e nascosto .
E’ società perché non esisterebbe senza la gente, senza le sue speranze, le sue aspettative, le sue passioni; e che è importante che siano ascoltate, anche se è difficile, per quell'architetto, che abbia la tentazione di imporre il proprio progetto, il proprio modo di pensare, o peggio il proprio stile. Credo invece sia necessario un diverso atteggiamento verso il committente, senza rinunciare a quei capisaldi , che consentono di testimoniare le proprie idee, ma, al tempo stesso, dimostrandosi permeabili, di capire le idee altrui.
*dal discorso pronunciato il 17 giugno 1998 nel ricevere il premio Pritzker.

il Fatto 14.4.14
I miei primi novant’anni di Eugenio Scalfari
di Furio Colombo


IL MIO MESTIERE Sono felice, orgoglioso e grato di essere nominato architetto dell'anno, qualunque cosa ciò voglia significare anche di buffo. Ma che cosa è esattamente un architetto? Che cos'è l'architettura? Sono trent'anni che la faccio, ma forse solo ora cominciando a comprenderla: essa, tanto per incominciare, è un servizio, nel senso più letterale del termine, in quanto attività produttiva di cose utili. Ma è anche socialmente pericolosa: un brutto libro si può non leggere; una brutta musica si può non ascoltare; ma l'orribile condominio, che abbiamo di fronte a casa, dobbiamo vederlo per forza. L'architettura, insomma, non risparmia l'utente, talvolta imponendogli un'autentica immersione nella bruttezza: e questa, anche nei confronti delle generazioni future, è responsabilità ben grave(...) Nell'architettura compaiono tanti altri componenti: la storia e la geografia, l'antropologia e l'ambiente, la scienza e la società, di cui essa, inevitabilmente, diventa lo status-simbol. Ma forse posso spiegarmi meglio con un'immagine: l'architettura è come un iceberg - non nel senso del Titanic, che se la incontri ti manda a picco - ma nel senso che da una ben piccola parte di esso dobbiamo risalire a tutto il resto, sommerso e nascosto . E’ società perché non esisterebbe senza la gente, senza le sue speranze, le sue aspettative, le sue passioni; e che è importante che siano ascoltate, anche se è difficile, per quell'architetto, che abbia la tentazione di imporre il proprio progetto, il proprio modo di pensare, o peggio il proprio stile. Credo invece sia necessario un diverso atteggiamento verso il committente, senza rinunciare a quei capisaldi, che consentono di testimoniare le proprie idee, ma, al tempo stesso, dimostrandosi permeabili, di capire le idee altrui. *dal discorso pronunciato il 17 giugno 1998 nel ricevere il premio Pritzker.

il Fatto 14.4.14
Le parole innate del linguaggio umano
di Laura Berardi


Lingue diverse possono differire anche molto una dall’altra, e appartenere a famiglie che hanno origini geografiche, diffusione e sviluppo dissimili e allo stesso tempo avere qualcosa in comune. Alcuni fonemi, infatti, sembrano essere ricorrenti tra i diversi idiomi. Il motivo, spiegato per la prima volta nell’ultimo studio della Sissa di Trieste pubblicato su Pnas, è presto detto: i suoni più comuni sono preferiti dal nostro cervello. Si potrebbe dire che, appena nati, già sappiamo quali sillabe siano quelle “corrette” a prescindere dall’idioma che impareremo; o che, come negli uccelli la capacità di cinguettare è innata, negli esseri umani “i pattern del linguaggio sono il prodotto di un istinto biologico innato”, spiega Iris Berent, ricercatrice della Northeastern University di Boston che ha collaborato alla ricerca dell'Istituto italiano. Non è strano, dunque, che in italiano esistano molte parole che iniziano con le lettere bl (blu, blando, blocco, ecc) - e lo stesso accada anche in inglese (blink, blind, blame, ecc) e in spagnolo (blando, blanco, e così via) - ma sia difficile trovare una parola che inizi per lb, così come in qualsiasi altra lingua. Per dimostrarlo, gli scienziati hanno analizzato con una tecnica non invasiva come il cervello dei neonati percepisca le diverse sillabe e, in particolare, in che modo ad esse reagisca la corteccia cerebrale, lo strato più esterno del nostro cervello. Secondo lo studio, anche quando i bambini non sapevano ancora parlare e nemmeno riuscivano a fare versi o balbettii di senso compiuto, il loro cervello durante l’ascolto reagiva in maniera diversa se le parole erano “buone” (come quelle che iniziano per bl), o “cattive” (come quelle che iniziano per lb), indicando una preferenza per quelle con sillabe più comuni nei vari linguaggi che rispecchia le risposte registrate in esperimenti simili con adulti. “Se è possibile mostrare che queste preferenze sono già presenti nei primi giorni di vita, allora possiamo pensare che esista una disposizione innata che favorisce certe parole rispetto ad altre", ha spiegato David Gomez, ricercatore alla Sissa e primo autore dello studio. “In altre parole, i nostri bambini vengono al mondo in grado di distinguere le parole dalle ‘non parole’ fin dalla nascita, non importa quale sia la lingua che poi impareranno”.