giovedì 17 aprile 2014

La Stampa 17.4.14
Veltroni: “Il Pd? In preda alle correnti”
di Francesco Semprini

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La Stampa 17.4.14
Crescono le firme al ddl di Chiti
di Car. Ber.


«Possiamo ipotizzare di prevedere che nell’elezione del presidente della Repubblica sia introdotta nuovamente la delegazione regionale. E possono essere previsti correttivi rispetto alla previsione di 21 senatori nominati dal presidente della Repubblica: valuteremo insieme se ha un senso che i 21 rimangano con queste modalità di nomina e con questo peso numerico nel nuovo Senato». Nel giorno in cui la riforma del governo incassa il primo sì in commissione, con la bocciatura delle pregiudiziali di costituzionalità sollevate dai 5 Stelle, il ministro Maria Elena Boschi apre su un punto che ha sollevato dubbi anche nelle stanze del Quirinale e che non sembra esser gradito neanche dal centrodestra, leggasi Forza Italia. Ma le aperture del Pd non si limitano a questo, anche sulla nomina dei consiglieri regionali secondo un criterio di proporzionalità in base alla popolazione le porte sono aperte, così come sulla presenza di sindaci ritenuta eccessiva da più parti ovvero sulle funzioni da attribuire al nuovo Senato. La tempistica resta un tassello cruciale della strategia renziana e anche il vicesegretario Pd Lorenzo Guerini insiste sulla volontà di passare il primo giro di boa in Senato entro il 25 maggio, compreso il passaggio dell’aula, ma si capisce che se si riuscisse a centrare il target con un voto solo in commissione Affari Costituzionali nessuno si straccerebbe le vesti.
Ma questa volontà di dialogo del governo si inserisce in un contesto di forte tensione, dove fioccano iniziative di segno diverso. Sotto il testo di Vannino Chiti sul Senato di eletti da ieri son lievitate le firme, oltre alle 19 del Pd, se ne sono aggiunte 12 di ex M5S, 3 di Sel e una di un senatore di Gal, in tutto 35. E prende corpo anche una proposta del senatore di Forza Italia Minzolini che raccoglie ben 37 firme. Dunque in Commissione Affari Costituzionali fervono i lavori: sedute notturne, audizioni, interventi, 59 disegni di legge sul tema messi agli atti. Roberto Calderoli, esperto in materia e uno dei due relatori, lancia la sua, «senatori eletti contestualmente ai Consigli Regionali, ma con un taglio del numero dei Consiglieri regionali». Nell’illustrare le decine di proposte agli atti, Calderoli fa notare che rispetto al ddl del governo «in tutti gli altri disegni di legge prevale la soluzione dell’elezione diretta che appare più compatibile con il quadro costituzionale di riferimento, soprattutto ove fossero rafforzate le competenze legislative del nuovo Senato». Ma la Boschi su questo punto è irremovibile. «Se all’Assemblea di Palazzo Madama non viene più attribuito il rapporto di fiducia con il governo, scelta che mi sembra ampiamente condivisa, è difficile immaginare un’elezione diretta del Senato».

Vladimiro Frulletti, sull’Unità:
Renzi punta ad avere il primo sì sul nuovo Senato entro il 25 maggio, giorno del voto per europee e amministrative. Anche ieri davanti alla commissione affari costituzionali della Camera la ministro Maria Elena Boschi ha ribadito che il disegno di legge costituzionale dovrà essere approvato in Senato in prima lettura entro il 25 maggio. Non basterebbe cioè un sì in commissione. Ma i tempi sono stretti. (...) E in Parlamento il clima non è affatto tranquillo...
Resta il fatto che per i parlamentari vicini al premier c’è ancora una parte rilevante di parlamentari Pd che puntano a far tornare indietro le lancette delle riforme.

Laura Matteucci sull’Unità:
Padoan alla Ue: deroga dal pareggio di bilancio per poter mantenere la promessa degli 80 euro almeno per i dipendenti, mentre l’estensione dello sgravio agli incapienti (altre 4 milioni di persone, il cui reddito è talmente basso da non pagare l’Irpef) potrebbe slittare.

Lorenzo Salvia sul Corsera:
Nessun rinvio per i redditi più bassi. Ma i cosiddetti incapienti, quelli che guadagnano meno di ottomila euro lordi l’anno e non pagano le tasse, si dovranno accontentare di un bonus più basso: 40/50 euro al mese contro i famosi 80 che andranno a chi le tasse le paga e avrà lo sconto promesso dal governo.

Maria Zegarelli sull’Unità:
I renziani presentano un documento a favore della linea economica del governo con ex bersaniani e civatiani.
Ieri a Montecitorio è stato presentato un documento pro-Def, a cui hanno lavorato Matteo Richetti e il sottosegretario Angelo Rughetti, che ha raccolto le firme di oltre 120 parlamentari. Si tratta di dem che intendono difendere l’operato del governo (...) Un’iniziativa politica molto gradita a Palazzo Chigi

Maria Teresa Meli sul Corsera:
L’iniziativa, maturata in questi ultimi giorni, ha un fine ultimo: quello di far capire ai bersaniani in via di redenzione renziana che l’idea di condizionare il premier non esiste e non ha ragion d’essere.
Di più: Speranza deve stare molto attento, perché potrebbe esserci un altro, al posto suo, lì sulla poltrona di presidente dei deputati del Pd. Quel qualcuno ha un nome e cognome: Matteo Richetti.

Osvaldo Sabato sull’Unità:
Riccardo Nencini: «Se Fi arriva terza Italicum a rischio»
Sul tavolo c’è sempre il ddl di Chiti alternativo a quello del governo per un Senato ancora elettivo... Le prossime elezioni europee saranno la base elettorale che il premier Renzi non ha avuto prima e penso che sarà vasta».
il risultato della lista Pd-Psi sarà formidabile. Questa esperienza avrà la rappresentanza più alta in Europa fra i partiti della sinistra».

Renzi è in caccia dei voti della destra, il programma del governo non pare certo fatto per dispiacere a quell’elettorato. La tradizionale divisione fra sinistra e destra ha così perduto di rilievo e di visibilità.
La Stampa 17.4.14
La destra e i capponi di Renzi
di Giovanni Orsina

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il Fatto 17.4.14
Finmeccanica, l’ascesa del super-renziano Landi
A Genova è stato il braccio destro di Castellano, amico di Napolitano a Firenze socio di Marco Carrai e lavora con la famiglio Aleotti
di Stefano Feltri


di Stefano Feltri Matteo ha messo uno di cui si fida in tutti i consigli di amministrazione”, così un renziano di quelli più stretti spiega le scelte del premier nelle nomine pubbliche. A cominciare da quella di Fabrizio Landi, a Finmeccanica. Questo massiccio imprenditore mezzo fiorentino e mezzo genovese, classe 1953, è un caso interessante per capire la rete renziana e come ragiona il premier.
A ROMA, QUASI un anno fa, in un seminario organizzato dall’erede di Renzi come sindaco di Firenze, Dario Nardella, si ponevano le basi della Renzinomics, c’era l’embrione di idea degli 80 euro in busta paga e a discuterne c’erano il deputato Pd Yoram Gutgeld, il banchiere Alessandro Profumo e poi lui, Landi. Che con singolare preveggenza a gennaio 2013 ha praticamente smesso di fare l’imprenditore per dedicarsi all’impegno civile, scommettendo su Renzi, “mi ha insegnato che si può sempre mettersi in gioco”, diceva a Repubblica in quei giorni. Una Leopolda dopo l’altra, all’ultima convention fiorentina Landi spiegava dal palco che l’Italia è un Paese con 2 mila miliardi di debito pubblico e 4 mila miliardi di ricchezza privata e che la sfida della politica è rimettere il risparmio in circolo (anche con una patrimoniale? Chissà).
Renzi non ha scelto Landi per il cda di Finmeccanica per i 10 mila euro che l’imprenditore ha versato come finanziamento. Nella testa del premier c’erano altre valutazioni. La prima: Landi un legame, tenue, con Finmeccanica ce l’ha. Per oltre trent’anni ha lavorato al vertice della Esaote, di cui da un anno non è più amministratore delegato, ma ne conserva una quota dello 0,85 per cento del capitale. Il presidente della genovese Esaote è Carlo Castellano, un ex manager della Ansaldo (gruppo Finmeccanica), ferito dalle Brigate Rosse nel 1977. Landi e Castellano hanno l’intuizione che in Italia si possa sviluppare un mercato per le macchine che fanno tac e risonanze, prima nasce una divisione biomedicale dentro Ansaldo, poi Castellano e altri manager nel 1994 portano la divisione che nel frattempo è diventata Esaote fuori da Ansaldo con un’operazione che nel mondo anglosassone si chiama management buyout, cioè i dirigenti che investono sull’azienda che guidano diventandone proprietari. Oggi Esaode è controllata dal fondo Ares Life Sciences basato nel paradiso fiscale di Jersey, nel 2012 aveva ricavi per 217 milioni e un utile di 2,3. Castellano è tuttora presidente, ma si occupa anche del progetto di costruire una cittadella della tecnologia che vale mezzo miliardo di euro, questo il business della Genova High Tech Spa, di cui il presidente è sempre Castellano e Landi è azionista, come tanti altri nomi dell’imprenditoria genovese, con una quota simbolica dello 0,47 per cento. Della cittadella, come raccontato dal Fatto Quotidiano il 10 febbraio scorso, si è interessato direttamente il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, unito a Castellano da un’amicizia pluridecennale alimentata dalla comune militanza nel Pci.
A voler dare un’interpretazione industriale alla scelta di Landi, che si somma a quella di Mauro Moretti delle Fs per la guida della società, si rafforza l’impressione che il governo Renzi veda Finmeccanica come un’azienda che deve fare ricerca e dedicarsi ai trasporti, più che agli armamenti e al settore della difesa. Meno elicotteri da guerra e più infrastrutture insomma, cioè il contrario della strategia seguita negli ultimi anni (e premiata dalla Borsa).
NEL CASO DI LANDI l’alto tasso di renzismo conta almeno quanto il curriculum manageriale. Nella sua nuova vita post-Esaote, Landi è nel cda della Cassa di Risparmio di Firenze, snodo cruciale del potere renziano, azionista tra l’altro della Firenze Parcheggi e dell’Aeroporto di Firenze: della prima Marco Carrai è stato amministratore delegato, della seconda è presidente. Carrai è uno degli amici più stretti di Renzi, ma anche di Landi, a giudicare dagli intrecci: il manager ex Esaote ha l’11,88 per cento del capitale di una minuscola azienda (nel 2012 ricavi zero e una perdita di 820 euro), la stessa quota di Carrai. Una scatola vuota. Molto più rilevante un’altra carica di Landi: siede nel cda della Menarini Diagnostics, e la presidente del gruppo Menarini è quella Lucia Aleotti così vicina a Renzi da accompagnarlo anche a Berlino per l’incontro con Angela Merkel.

La Stampa 17.4.14
Bilancio, voto a rischio il governo blinda tutti i suoi senatori
di Fabio Martini


Renzi: sulle nomine la comunità internazionale ha capito
Non sa vivere senza di lui. Lo tiene sempre vicino a sé. Gli affida i messaggi più urgenti. Anche ieri Matteo Renzi non ha resistito a digitare dal suo inseparabile iPad il tweet che più gli stava a cuore: «Dicevano che era una televendita. Poi che non c’erano le coperture. Poi le coperture sì, ma non quelle. #Amicigufi ma aspettare venerdì no?». È stato l’unico tweet di giornata e anche le uniche parole ufficiali del Presidente del Consiglio, loquace e presenzialista come nessun altro suo predecessore, ma che invece ieri ha limitato all’essenziale le sue esternazioni. Una giornata quasi tutta spesa a chiudere il «dossier Irpef» e durante la quale il presidente del Consiglio ha deciso di non replicare in nessun modo all’escalation di critiche sulle nomine negli enti pubblici. Un riserbo rimarchevole per un personaggio molto reattivo, in particolare alle critiche. Un silenzio con un suo perché. Raccontano che Renzi abbia considerato fisiologiche le critiche e che le abbia ridimensionate alla luce di due dati: l’andamento brillante della Borsa di Milano, ma soprattutto i commenti favorevoli alle nomine da parte di alcuni dei più autorevoli quotidiani europei e americani, dal «Wall Street Journal» al «Financial Times», da «Le Monde» al «Figaro»: «Evidentemente la comunità internazionale ha capito», ha chiosato Renzi nelle segrete stanze.
Ma da ieri è davvero partita la volata che porterà fino al traguardo delle elezioni Europee del 25 maggio. Sei settimane nelle quali Renzi punta ad evitare battute a vuoto che possano «sporcare» il risultato del Pd. Il primo passaggio stretto è in programma nella giornata di oggi e riguarda non tanto la votazione di entrambe le Camere sul Def (per il quale è richiesta una maggioranza semplice dei votanti), ma invece il voto sul rinvio di un anno dell’obiettivo assunto dal governo italiano di raggiungere il pareggio di bilancio strutturale a partire dal 2015. Si tratta di una votazione nella quale le due assemblee sono chiamate a votare col voto favorevole della metà più uno degli aventi diritto. Questo significa che il governo corre qualche rischio al Senato, dove la maggioranza vanta margini stretti e dove serviranno 161 sì. Nei giorni scorsi, proprio per evitare spiacevoli sorprese un no al rinvio del pareggio di bilancio rappresenterebbe uno scacco esiziale per il governo il gruppo del Pd di palazzo Madama ha avviato contatti informali per verificare se tra i gruppi di opposizione si potessero aprire disponibilità a votare a favore non certo del Def, ma per il rinvio del pareggio di bilancio. Sondaggi finiti male. Ecco perché da ieri mattina il gruppo del Pd (d’intesa con gli altri gruppi di maggioranza) ha blindato i senatori, obbligandoli senza se e senza ma alla presenza per le votazioni di oggi. 
Certo, la discussione più aspra per tutta la giornata di ieri si è consumata alla Camera, dove i numeri consentono alla maggioranza sonni tranquilli, ma dove la presenza del vulcanico presidente dei deputati forzisti Renato Brunetta costringe alla massima vigilanza i custodi dell’«ordine costituito». Ad un certo punto da parte di Forza Italia è stata ventilata la possibilità di un ostruzionismo che, per un effetto a catena, avrebbe costretto il governo a rinviare il cruciale Consiglio dei ministri fissato domani per l’operazione-Irpef. Lo scenario si è sgonfiato anche per effetto del ruolo di garanzia assicurato dal pd Francesco Boccia, presidente della Commissione Bilancio. Con l’effetto di lasciare i riflettori accesi soltanto sull’aula di palazzo Madama.

La Stampa 17.4.14
Battaglia in aula il prossimo nodo è il decreto sugli sgravi Irpef
di Marcello Sorgi


Al Senato e alla Camera è stato un mercoledì nero. Il voto finale sulla legge per il voto di scambio a Palazzo Madama e la relazione del ministro dell’Interno Alfano a Montecitorio sono state l’occasione di attacchi durissimi, al limite dello scontro fisico, da parte di Movimento 5 stelle e Lega. I due presidenti delle Camere sono stati costretti ad espellere un senatore e un deputato dalle aule, mentre i commessi raccoglievano a fatica materiale di propaganda da esporre alle telecamere delle sedute in diretta tv. Il grido “fuori!”, di Grasso e Boldrini è risuonato a breve distanza di tempo, di fronte a una situazione che rischiava di sfuggire al controllo. Se si trattasse di casi eccezionali, come purtroppo si verificano di tanto in tanto in Parlamento, si potrebbe anche evitare di drammatizzare. Ma da settimane, per non dire da mesi, le opposizioni in Parlamento stanno dando luogo a una sorta di ostruzionismo permanente, che non potrà che accentuarsi nel corso della campagna elettorale. Nel caso del Senato, il M5s ha cercato di impedire l’approvazione di un testo che alla Camera era stato approvato all’unanimità, cioè anche con il contributo grillino. Alla Camera, di fronte ad Alfano che spiegava le ragioni di allarme per una nuova ondata migratoria che potrebbe portare decine di migliaia di immigrati verso le nostre coste, la Lega ha dato luogo a una contestazione durissima, innalzando cartelli che intimavano al ministro di dimettersi.
Ce n’è abbastanza per temere che il clima che ormai stabilmente si avverte nelle aule parlamentari, possa influire sull’iter della riforma del Senato, ripreso dopo il secondo incontro tra Renzi e Berlusconi, e facilitato dalla nuova disponibilità di Forza Italia, che ha rinunciato ai cinquanta interventi che erano stati prenotati in precedenza, quando l’orientamento era quello di rallentare la discussione del procedimento. Ma non solo: il governo infatti si accinge a definire domani il decreto che dovrebbe concedere gli 80 euro ai redditi inferiori ai mille e cinquecento al mese, e anche questo dovrebbe essere discusso nelle prossime settimane e votato in coincidenza con la prossima tornata delle europee. Tra l’altro, proprio alla vigilia del consiglio dei ministri, l’impostazione della manovra che pareva ormai condivisa anche dalle autorità europee, è tornata in forse, perchè Bruxelles non condivide la richiesta di spostare di un anno, al 2016, l’obiettivo del pareggio di bilancio su cui l’Italia si era impegnata. Da oggi, con la presentazione delle liste, la campagna entrerà nel vivo: Berlusconi è rimasto a Roma per definire gli ultimi nomi, proprio mentre la Corte di Strasburgo confermava che non potrà essere candidato.

il Fatto 17.4.14
Dopo l’Italicum, il Senato Slitta un’altra riforma
Tempi stretti, tensioni molte: difficile che si riesca a fare, come promesso, la prima lettura in aula entro il 25 maggio. 
E arriva il testo “Minzolini”
di Wanda Marra


L’obiettivo resta il sì dell’Aula di Palazzo Madama alla riforma del Senato entro il 25 maggio”. Maria Elena Boschi, ministro delle Riforme, ieri la mette così. Un obiettivo, non più un dovere, un auspicio, non più una promessa. Alla faccia degli annunci “sparati” di Matteo Renzi. E della necessità elettorale: perché l’eliminazione di Palazzo Madama così come lo conosciamo ora è un provvedimento di cui il premier ha bisogno per poterselo giocare alle europee. Il punto è che non è certo di riuscire nell’intento. Le difficoltà, infatti, sono superlative: i tempi sono strettissimi, i numeri risicatissimi e le tensioni nella Camera Alta moltissime.
Ieri, intanto, la Commissione Affari costituzionali ha respinto le pregiudiziali di incostituzionalità, presentate da Francesco Campanella per gli ex grillini e da Vito Crimi per i pentastellati “doc”. Il primo voto sulle riforme. E siamo al 16 aprile. Anna Finocchiaro ha dato tempi strettissimi per l’esame, ma se c’è qualsiasi tipo di intoppo la riforma si incaglia. Ora è iniziata la maratona della discussione generale, a cui sono iscritti un centinaio di senatori, con tanto di seduta notturna ieri sera, che proseguirà per la settimana dopo Pasqua.
L’esame del testo dovrebbe iniziare in Commissione il 29 aprile, passare al suo esame e poi arrivare al voto dell’Aula. Teoricamente, ci si può riuscire. Praticamente è molto difficile. È vero che Forza Italia ha dimostrato tutte le intenzioni di rispettare l’accordo, ritirando ieri 50 dei suoi oltre 60 iscritti a parlare. Ma sulla sua tenuta i dubbi restano obbligati. Scontato l’ostruzionismo dei grillini. Tanto che i Dem cominciano a ragionare sul fatto che se alla fine i tempi rallentano si può dare la colpa a loro. Insomma, quando le cose si dovessero mettere male si potrà sempre addossare ai Cinque Stelle la volontà di far fallire le riforme.
Sono 50 le proposte di legge (51 con quella del governo) e il 29 i relatori (Anna Finocchiaro e Roberto Calderoli) dovranno presentare un testo base: presumibilmente quello del governo oppure un “testo unificato” che recepisca già qualche indicazione maggioritaria in Commissione. Posizioni divergenti: l’esecutivo vuole che si parta dal suo di testo e i relatori invece spingono per farne un altro. Nodo del contendere, ancora il Senato elettivo (per il quale si è espresso pure Calderoli), che Renzi esclude assolutamente.
IL DISEGNO di legge di Vannino Chiti, che lo mantiene, ha raggiunto le 37 adesioni (21 del Pd, 12 ex M5s, 3 di Sel e 1 di Gal). Ed è arrivato anche un testo dei “malpancisti” di Forza Italia, guidati dall’ex direttore del Tg1, Augusto Minzolini. Anche loro propongono un Senato elettivo e tra le adesioni ci sono anche nomi di provata fede berlusconiana. La Boschi ieri in audizione in Commissione Affari Costituzionali alla Camera ha detto che il governo è aperto a “contributi migliorativi” del suo testo, per esempio sui 21 senatori di nomina quirinalizia, che potrebbero venire eliminati, ma ha ribadito i punti fermi, tra i quali il principio che il Senato sia composto da rappresentanti delle Regioni senza indennità. E dunque, non eleggibili. Ce n’è abbastanza per aspettarsi guai e intoppi. Non a caso lo stesso Renzi ha lasciato trapelare che un sì anche solo in Commissione prima del 25 maggio potrebbe essere già un risultato. Un modo per mettere le mani avanti.
Di annuncio in versione anti casta ne potrebbe arrivare un altro, allora: il governo sta lavorando ai tagli per Palazzo Chigi, che dovrebbero essere annunciati dopo il Cdm di domani (quello in cui dovrebbe essere fatto il taglio dell’Irpef). Il premier sta pensando di auto-ridursi lo stipendio. Un modo per dire, in fondo, che se il Parlamento non fa quello che deve, lui comincia da se stesso.

l’Unità 17.4.14
Pensioni e lavoro, duello a distanza Poletti-Camusso
Il ministro: più flessibilità nella previdenza
Il leader Cgil: cambiamo la «Fornero»
di Massimo Franchi


“Flessibilità nel sistema pensionistico”. “No, bisogna cambiare la riforma Monti-Fornero”. E ancora: “Il contratto a tempo indeterminato deve costare il 10 per cento in meno di quello a termine”. “Finora si è creata solo ulteriore frammentazione contrattuale”. Doppio botta e risposta fra Giuliano Poletti e Susanna Camusso. Se il ministro del Lavoro – durante un forum a repubblica. it – mette tanta carne al fuoco, rilanciando l'idea di prevedere forme di prepensionamento anche per i dipendenti privati e di far costare meno il contratto a tempo indeterminato, il segretario generale della Cgil da Rimini gli risponde prontamente criticando in gran parte le posizioni del governo.
Si parte dalle pensioni. Con il ministro del Lavoro che rilancia una flessibilizzazione del sistema, reso granitico dall'innalzamento dell'età a 67 anni decretato da Elsa Fornero. Poletti non va più in là di una generica dichiarazione: “Stiamo pensando a forme flessibili di prepensionamento”, nel solco delle parole del ministro Marianna Madia che si riferiva però ai soli dipendenti pubblici. Poi accenna all'idea di un “prestito” per rendere compatibile finanziariamente il progetto.
SERVE ALTRO
La leader della Cgil pensa invece che entrambi siano interventi troppo specifici, mentre “serve ben altro”. “È assolutamente evidente che la legge MontiFornero non regge rispetto all'impatto della crisi e dell'invecchiamento e soprattutto alla possibilità di far entrare i giovani”, sottolinea Susanna Camusso. “In Germania hanno rivisto l'allungamento dell'età pensionabile. Il difetto di quello che ho letto – aggiunge è l'idea che si genera l'ennesimo sistema ad hoc che peraltro è fatto di un prestito che mi pare un'idea ardita, perché per tanti le pensioni non sono così straordinarie”. Piuttosto bisogna “mettere mano al sistema rendendosi conto che questo sistema ha bloccato l'ingresso al lavoro. Non bisogna parlare di flessibilità per i singoli ma rispetto all'idea di andare in pensione”.
Poi si passa ai contratti e al loro costo. Se il decreto Poletti ha reso più semplici quelli a tempo determinato, ora dichiara di voler rendere meno costosi quelli a tempo indeterminato. “Vogliamo riscrivere l'intero codice – spiega il contratto a tempo indeterminato deve costare il 10% in meno di quello a termine”.
A parte le critiche sul decreto Lavoro – che per la Cgil precarizza ulteriormente il mondo del lavoro – Camusso contesta il ragionamento generale di Poletti. La riforma dei contratti a termine “è una parte di un disegno, questo governo sa bene che il cambiamento profondo riguarda prima di tutto l'aspettativa per il futuro dell'economia. Gli interventi importanti sono il taglio delle tasse, gli interventi sulle scuole. Avere una regola che rende più tranquillo un imprenditore quando assume è una norma “accessoria” che aiuta quell'imprenditore che, se accoglie il dato che l'economia cambierà in positivo, allora sa che può assumere».
Ma il duello continua. Perché Poletti ieri ha spiegato come intende ridisegnare le 46 tipologie oggi esistenti. “Noi sottolinea non abbiamo un elenco dei contratti da eliminare. Avremmo bisogno di un contratto temporaneo, di un contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti e questo è previsto -, le tipologie poi dovranno essere tra loro in equilibrio. Il tempo indeterminato deve costare di meno nella fase di avvio rispetto a quello determinato: oggi un contratto a termine costa l'1,4% in più di un indeterminato, se non arriviamo al 10% non è significativo. Bisogna dare al datore di lavoro la possibilità di scegliere: scelgo questo perché mi costa meno o quello perché mi lascia più libero”.
Ma anche su questo la posizione della Cgil è molto critica. “Il ministro del Lavoro – attacca Camussso mi sembra molto dinamico nella costruzione di nuove forme lavorative, di cui non avevamo bisogno. In pochissimo tempo ha prodotto una ulteriore frammentazione dei contratti a termine, mi sembra l'opposto di quanto annunciato all' insediamento, cioè l'idea di rafforzare percorsi di stabilità. Credo si sbagli, non si tratta di ricostruire il posto fisso ma questo paese deve fare una svolta profonda nella costruzione di percorsi di certezza e progetti di vita per le persone”.

Il Sole17.4.14
Sanità
Riduzione del Fondo da 868 milioni per il 2014 e 1,508 miliardi dal 2015
di Roberto Turno


Tagli alla spesa farmaceutica, ai posti letto e ai piccoli ospedali. Sforbiciata alle buste paga dei dirigenti medici e non, ma quelli più ricchi, chissà se ai manager delle asl. Beni e servizi sotto tiro. Il Governo è pronto a calare una scure da 868 milioni quest'anno e da 1,508 miliardi nel 2015-2016 sulla spesa sanitaria, riducendo il Fondo ma tenendo conto delle regioni con i fondamentali in regola. E lasciando i governatori liberi di tagliare in altro modo: basta che arrivino risparmi di pari valore.
Eccola la manovra sui conti di asl e ospedali che emerge dalla bozza del decreto che arriverà domani a palazzo Chigi. Oggetto di una trattativa all'ultimo respiro, la nuova stangata al Ssn è contenuta in un solo articolo (il 5), ma anche in altri punti del decreto, a cominciare dalle regole che possono valere per l'acquisto di beni e servizi. E per il taglio agli stipendi dei medici (anche convenzionati) oltre i 240mila euro percepiti dal capo dello Stato, ma con limiti differenziati tutti da definire: nel calcolo dei redditi entreranno anche tutte le indennità e somme comunque incassate, inclusi gli incarichi occasionali, si presume pure l'attività intramoenia.
Il capitolo farmaci è la new entry del momento. Si parte dalle gare («procedura selettiva a evidenza pubblica») che l'Aifa dovrà lanciare per selezionare tra farmaci generici uguali i tre che costano meno: lo Stato rimborserà solo i medicinali che costano meno, sugli altri l'assistito pagherà la differenza di prezzo. Evidente l'intenzione di indurre le imprese ad abbassare i listini, e dunque far risparmiare il Ssn. Altra novità: l'individuazione di categorie terapeutiche omogenee sovrapponibili per risultati: in questo caso le regioni potrebbero scegliere con altre gare i farmaci che costano meno. Risultato del tutto: si abbassano i tetti della farmaceutica. La territoriale (canale farmacia) passerà dall'11,35% all'11,25 già quest'anno poi all'11,20 nel 2015; il tetto dell'ospedalierà scenderà imnvece dall'attuale 3,5% al 3,4 e poi nel 2015 al 3,35%.
Altro taglio: le tariffe, dunque i volumi di attività, delle convenzioni per la specialistica e l'ospedalità privata. Il taglio sale dal 2 al 3,5% quest'anno e poi compare anche la riduzione del 4% per il prossimo anno.
Un risparmio preciso sul totale viene indicato solo per i prezzi di riferimento (relativi a lavori, servizi e forniture) e per i nuovi standard degli ospedali: in tutto si indicano 200 milioni quest'anno e 500 nel 2015. Sugli ospedali (oggetto di accordo col «Patto salute») vale ricordare che si tratta di interventi che riguardano il taglio dei posti letto e l'addio (sarebbero 190) alle strutture private con meno di 60 posti.
Le regioni potranno scegliere altre misure, purché risparmino. Ma nel riparto del nuovo Fondo, potranno «in autocoordimento» indicare modalità (da sancire a fine maggio d'intesa col Governo, e a fine settembre per il 2015-2016) che tengano conto del rispetto dei tempi di rimborso ai fornitori (ma l'Economia è scettica) e degli acquisti centralizzati già in corso. Altrimenti si ragionerà in base a costi e fabbisogni standard.

l’Unità 17.4.14
La svolta di Fiandaca
di Claudio Sardo


DI RENZI CI SONO COSE CHE FANNO BEN SPERARE E ALTRE MENO. Ma non si può negare che la sua azione vada nel senso di un recupero di autonomia della politica, dopo anni di declassamento e umiliazione dovuti in parte a processi strutturali globali, in parte a malattie endogene.
Ovviamente, la ridefinizione di un perimetro della politica democratica, e di un suo primato, tornerà utile al Paese solo se alla fine produrrà positivi contenuti sociali. Tuttavia il consenso e le aspettative suscitate da Renzi offrono un’opportunità che pareva smarrita. Di certo, offrono alla sinistra l’opportunità di fronteggiare il populismo non restando sulla difensiva. Emblematica in questo recupero di autonomia della politica è la candidatura nel Pd di Giovanni Fiandaca, uno dei maggiori penalisti italiani, maestro di tanti giuristi di sinistra, battistrada con altri delle battaglie siciliane contro la mafia e tuttavia protagonista in questi ultimi anni della polemica con quella parte del movimento antimafia che si è interamente affidato ai pubblici ministeri, ai loro processi, alla loro narrazione giudiziaria (che è diventata così anche politica e storica). Il merito principale della candidatura di Fiandaca è del giovanissimo segretario del Pd siciliano, Fausto Raciti. Difficilmente, però, la scelta avrebbe retto l’urto dell’opinione pubblica se non fosse stata benedetta e fatta propria dal premier. Troppe volte la sinistra, pur consapevole della necessità di separare politica e amministrazione della giustizia, pur consapevole del rischio di settarismo connesso a un’idea elitaria dell’antimafia, non ha avuto forza sufficiente ed è stata piegata dalle ondate mediatico-giudiziarie.
Il tema non è dividere le forze antimafia. Al contrario, il tema è come riunirle, come allargare il consenso, come razionalizzare e innovare gli strumenti politici, giuridici, sociali per contrastare la criminalità e affermare una cultura della legalità. Sia chiaro, ci sono ragioni e sentimenti forti che hanno prodotto squilibri e rotture. La mafia vive grazie a una zona grigia, che ne perpetua il potere e la pervasività. E il carattere emergenziale del contrasto criminale dettato anche dalla spaventosa scia di sangue ha finito per esasperare ogni reazione. Per fortuna che c’è stato chi ha reagito. Per fortuna che hanno gridato in tanti. Tuttavia, i cicli dei successi e degli insuccessi hanno determinato un primato della giurisdizione. Nella soluzione giurisdizionale si è intravista un’efficacia che non si riconosceva più alla politica. Ma questo ha prodotto distorsioni. La via giudiziaria si è fatta politica. E il «populismo giudiziario» ha avuto una versione particolarmente aggressiva a sinistra: il risultato è stato una divisione del fronte antimafia, con una crescita della cultura del sospetto e uno spostamento dei consensi negli strati alto-borghesi. Peraltro, il bilancio istituzionale è stato negativo sul piano delle divisione dei poteri, con un eccesso di diritto penale (e una più incerta definizione dei reati). Il garantismo, il diritto mite e uguale, l’equilibrio dei poteri sono non da oggi valori fondanti della sinistra. Quando vi deroga, la sinistra perde se stessa. Bisogna aggredire davvero la «zona grigia» della mafia. Ma per farlo occorre avere il coraggio di innovare. Non si può arrivare al punto di affidare al processo penale compiti politici, o addirittura funzioni di ricostruzione storica. Lasciamo questa tentazione alle destre e ai regimi autoritari. Autonomia della politica è poi capacità di riportare all’iniziativa delle istituzioni, dei governi, dei corpi intermedi il cuore della battaglia per la legalità. I magistrati vanno difesi senza se e senza ma dalle minacce mafiose, qualunque sia la loro opinione. Ma la loro azione sarà tanto più utile al Paese quanto più aiuterà a ridefinire lo spazio di una giurisdizione efficiente all’interno uno Stato di diritto. In ogni caso, il recupero del primato della politica democratica, in termini di guida dei processi, non potrà mai diventare una «rivincita» sui poteri di controllo e di garanzia. Questa è la sfida. Che Renzi consente di affrontare con una forza maggiore rispetto al passato. Del resto, chi altro potrebbe dire oggi a viso aperto che bisogna fare le riforme istituzionali con tutti? Era il primo punto del programma dell’Ulivo nel ’96, ma dagli anni 2000 era diventato un tabù. Chi altro avrebbe potuto formare un governo, dandogli addirittura un orizzonte di legislatura, passando sopra sia alle critiche (fondate) di chi contestava i modi del siluramento di Letta, sia a quelle (infondate) di chi gridava al Parlamento «delegittimato»? Quanti leader della sinistra sono stati crocifissi per molto meno in questi anni in cui la sfiducia ha logorato le fondamenta stesse della rappresentatività politica. Ora il compito della sinistra è fare in modo che la forza di Renzi sia spesa al meglio. È giusto fare le riforme con tutti: purché il Porcellum non venga resuscitato, purché le garanzie non siano indebolite, o travolte. È giusto rafforzare l’autonomia della politica (e anche del Parlamento): purché serva a riprendere almeno un po’ del potere ceduto all’economia, alla finanza, alle tecnocrazie. Il cuore della sinistra sarà sempre nel contenuto sociale delle politiche, nella tensione verso l’uguaglianza. Ma l’ordinamento democratico non è indifferente. E la cultura delle istituzioni, depositata nelle lotte e nelle conquiste, non può essere svenduta. Il prezzo pagato in questi anni è stato già fin troppo pesante.

l’Unità 17.4.14
Una cura efficace per il narcisismo patologico
risponde Luigi Cancrini

psichiatra e psicoterapeuta

Io ricordo, e penso che molti altri rammentino, Riina dire al processo «mi hanno condannato dei giudici comunisti». Come il boss di Forza Italia cui è stata comminata la «pena» da espletare ai servizi sociali, 4 ore la settimana. Ha ragione la Littizzetto, la condanna giusta sarebbe stata «agli arresti socialmente utili». Lara Bonvicini
Avevo detto e scritto nel tempo in cui Berlusconi sembrava invincibile che il suo narcisismo patologico sarebbe stato messo in crisi solo dalla sconfitta. Cui lui avrebbe reagito all'inizio con la rabbia e con la proiezione all'esterno della colpa (il tema della persecuzione politica e giudiziaria) prima di dare spazio ad una depressione di cui ci si poteva chiedere allora se sarebbe stata quella, disperata e violentemente antidistruttiva, del narcisismo più maligno (e più gonfia, cioè, di aggressività) o quella, lentamente ma progressivamente più costruttiva, del narcisismo meno grave (e più legato, cioè, al successo, ai riconoscimenti e all'adulazione di chi gli stava intorno). Che avesse un senso quella riflessione è, mi pare, sotto gli occhi di tutti. I toni di Berlusconi hanno subito un lieve ma ben percettibile cambiamento anche nelle dichiarazioni più «politiche» mentre un cambiamento sostanziale si è verificato nelle sue frequentazioni e nelle sue scelte di vita. C'è un sapore dell'antica vanagloria, certo, nel modo in cui commenta il viaggio di Dell’Utri in Libano ma c'è un modo nuovo e normale anche di accomiatarsi da chi, come Bonaiuti, lo lascia dopo un sodalizio di vent'anni. Senza clamori e senza insulti. All’idea di essere una persona come le altre, ormai, anche lui potrebbe riuscire a rassegnarsi. Con l’aiuto, se sarà in grado di utilizzarlo ragionando, di questo incontro, cui i giudici ora (intelligentemente?) l’hanno costretto, con la vecchiaia e con la disabilità.

il Fatto 17.4-14
Rissa in Senato. Cacciati due M5S
Voto di scambio, reato dimezzato e pene abbassate
di Luca De Carolis


Urla, cori, insulti, foto strappate e due grillini espulsi. Ma alla fine la curva del Senato ha detto sì alla nuova norma sul voto di scambio, che abbassa le pene e manca di parole cruciali. Inutile l’ostruzionismo di Cinque Stelle, che in aula ha fatto di tutto; ininfluente l’astensione della Lega, valsa come un no. Soffocati i mal di pancia nel Pd, fedele all’accordo con Forza Italia. Ieri, in quarta lettura, Palazzo Madama ha dato il definitivo via libera con 191 sì, 32 contrari e 18 astenuti al nuovo articolo 416 ter del codice penale “sullo scambio elettorale politico-mafioso”, che punisce “chiunque accetta la promessa di procurare voti in cambio della promessa di erogazione di denaro o di altra utilità”. Scendono le pene, da 7-12 anni a 4-10 anni di reclusione. Sparisce (rispetto al ddl originario) la punibilità per chi “dia disponibilità a soddisfare gli interessi o le esigenze dell’associazione mafiosa”. Scomparsa anche la parola “qualunque” davanti ad “altra utilità”, nove lettere he ampliavano la lotta alla compravendita di voti. Tutto cancellato in terza lettura alla Camera dalla maggioranza e Fi.
INSENATO si parte presto, dopo la discussione di martedì a cui aveva assistito anche Grillo. Assenti tutti gli ex M5S. Il filo rosso della mattinata è il duello tra il presidente dell’aula Pietro Grasso e i 5 Stelle. Il capogruppo di M5S, Maurizio Buccarella, chiede tempo per l’illustrazione di altri emendamenti. Grasso dice no: “Il tempo è esaurito”. Marco Scibona protesta: “Vado alle manifestazioni (No Tav, ndr) e mi manganellano, arrivo in aula e mi tagliano il tempo”. Grasso non arretra: “Se i suoi colleghi avessero contenuto i loro interventi avrebbe potuto parlare”. Tocca ad Alberto Airola. Dal Pd rumoreggiano, lui replica: “Sono quelli che ci danno dei fascisti”. Il presidente gli toglie la parola, e il grillino reagisce: “Questa è la democrazia sua e del suo partito”. L’ex capogruppo Vincenzo Santangelo stacca il microfono dal supporto. Grasso scherza: “Non lo rompa, è danno erariale”. Risate. Santangelo: “Non è stato intenzionale”. L’ex procuratore: “Lo so, altrimenti sarebbe danneggiamento aggravato”. Poi precisa: “Era una battuta per sdrammatizzare”. Il Senato boccia emendamenti in serie, M5S polemizza ancora. Vito Petrocelli: “Nell’ottica di armonizzare i tempi l’ultima parola spetta alla presidenza?”. Grasso: “Hanno deciso i capigruppo”. Dichiarazioni di voto. Peppe De Cristo-faro (Sel) ammette: “Il provvedimento poteva essere migliore”. Accusa i 5 Stelle di “propaganda becera”. Proteste, liti. Un leghista contro una grillina: “Zitta scimmia”. Grasso si scusa con la scolaresca in tribuna. De Cristofaro chiosa: “Il tentativo di prendere voti in più non si ferma neppure davanti alla Shoah”. Chiaro riferimento al post di Grillo.
DAI BANCHI M5S applausi e “ciao” ironici. Airola e Santangelo urlano senza sosta. Grasso minaccia “provvedimenti”, anche a gesti. I grillini lo sfidano: “Buttaci fuori”. Grasso risponde con due censure. Santangelo non si placa, il presidente lo espelle. Dai 5 Stelle il coro: “Fuori la mafia dallo Stato”. Viene espulso anche Airola. Irrompe Lucio Barani, storico craxiano, ora in Gal: “Non vorrei che in quest’aula si urlasse perché circolano sostanze tossiche, chi urla venga con me in laboratorio”. Caos. Grasso prova a contenerlo ma Barani non si frena, definisce Craxi “uno dei più grandi statisti”. Dai 5 Stelle, un classico: “Tutti a casa”. L’ex pm riprende Barbara Lezzi: “Non vorrei usare la parità di genere per le espulsioni”. A Sergio Puglia: “La prego di non trascendere in atti violenti sul banco”. Grasso arriva a minacciare “l’espulsione di tutto il gruppo”. Intanto la Lega si astiene: “La pena doveva rimanere quella della prima formulazione”. La dichiarazione di voto per M5S la fa Mario Giarrusso: “Volete ridurre le pene dopo un accordo tra il premier e un ex senatore che abbiamo cacciato (Berlusconi, ndr). Avevamo una norma che metteva paura alla mafia e ai suoi sodali, presenti anche in quest’aula...” Gli urlano: “Fai i nomi”. Lui prosegue: “Questa norma va approvata perché qualcuno deve fare un nuovo patto con la mafia prima delle elezioni”. Il Pd insorge, Giarrusso va avanti: “Perché il nostro presidente (Napolitano, ndr) è andato a Catania e ha tenuto fuori dalle cerimonie il procuratore della Repubblica? A noi risulta che abbia incontrato Tinebra (Giovanni, procuratore generale di Catania, ndr)”. I 5 Stelle mostrano fogli con le facce di Berlusconi e Napolitano e un fotomontaggio che ritrae un incrocio tra Renzi e Berlusconi: sotto, la scritta “i padrini del voto di scambio”. I commessi corrono a strapparli assieme al questore Lucio Malan (Fi), Grasso sospende la seduta. Franco Mirabelli (Pd): “Nulla vieta a nessuno di noi di ritenere che sarebbe stato più giusta la pena tra i 7 e i 12 anni, e di correggere questo con una leggina”. Poco dopo le 12 di vota. Il nuovo 416 ter sarà legge. M5S lavora già a un emendamento in un prossimo ddl per inasprire le pene. Il civatiano Felice Casson assicura il suo appoggio (“lavoro a un testo sullo stesso punto”). In serata l’ufficio di presidenza del Senato “deplora” il comportamento dei 5 Stelle.

il Fatto 17.4.14
Michele Emiliano. Accordo al ribasso
“Norma sbagliata, ma Pd costretto a stare con B.”
di Enrico Fierro


Sono contento che la norma sia stata approvata e costruita per essere applicata, ma mi fermo qui, perché il resto non mi piace proprio”. Voto di scambio, parla Michele Emiliano, sindaco di Bari e leader molto “eretico” del Pd.
Sindaco, cosa non le piace?
Vorrei capire come sia stato possibile che per una norma che ha sempre avuto il minimo edittale del 416 bis, il reato di associazione mafiosa, alla fine le pene siano state drasticamente ridotte. Questo è il punto che non mi trova d’accordo, considerare più grave il comportamento di chi prende parte a una cosca mafiosa rispetto al politico che chiede voti offrendo in cambio vantaggi al boss di turno. La penso esattamente come il senatore Casson...
Suo compagno di partito e con un passato da magistrato come lei.
Appunto, io come Felice so cos’è la mafia, conosco le dinamiche e la composizione sociale delle cosche. Spesso chi aderisce a una consorteria mafiosa lo fa per paura, per una forma di assoggettamento o adesione a una certa cultura, parlo ovviamente dei peones. Quando ho proposto di togliere i figli ai boss, in molti si sono scandalizzati, ma quella mia proposta parte dalla necessità di tagliare alla radice uno dei punti di forza delle varie mafie, che è quello dell’affiliazione o della trasmissione per via ereditaria del potere.
Dicevamo dei politici che baciano le mani per i voti.
Un politico è un uomo che non ha condizionamenti culturali o territoriali che lo spingono nelle braccia del boss. Non deve e non può averli, e quando chiede i voti a un mafioso compie un delitto gravissimo, la sua azione mette in crisi le istituzioni, inquina la democrazia, la uccide. Un sindaco che si fa eleggere con voti mafiosi sa che da quel momento la libertà della sua città è compromessa, che dovrà soddisfare non più il bene comune, ma gli interessi dei mafiosi. Per questa ragione dico che la norma approvata è criminologicamente sbagliata.
Sindaco Emiliano, nel suo partito in pochi la pensano così, se vuole le leggo le dichiarazioni entusiastiche di molti dirigenti.
La prego, li conosco bene i facili entusiasmi.
Quindi è d’accordo che la norma approvata è viziata da un patteggiamento al ribasso?
Parliamo di fatti incontestabili: quando il ddl è stato approvato in Senato con i voti del Pd, la pena era fissata da un minimo di 7 a un massimo di 12 anni, l’unica opposizione fu quella di Forza Italia: è un dato oggettivo.
Si poteva fare di più e meglio?
Certo, se deputati e senatori M5S si fossero comportati diversamente il Pd non sarebbe stato costretto a patteggiare con Forza Italia.
Cosa che sarete costretti a fare per i prossimi mesi.
No, è molto difficile, direi quasi impossibile. Chi sarà il nostro interlocutore all’interno di Forza Italia? Non lo so, il partito è diretto da Berlusconi, un pregiudicato in esecuzione di pena non può essere un interlocutore politico. Come fa il premier a incontrarlo, con chi si discute di riforma delle istituzioni?
Con un pregiudicato ai servizi sociali.
Per queste ragioni da mesi mi sono assunto un compito ingrato, convincere i Cinque Stelle a essere dentro un percorso costituente, ad aiutarci a cambiare questo Paese. Certo, anche con il compromesso politico. Avevo chiesto a Di Battista di prendere i progetti di legge del MoVimento e di discuterne con Renzi. Zero, Di Battista non si è fatto più sentire.
Quindi?
Non sto in maniera serena sulle posizioni del Pd e, diciamolo, rompo le scatole ai Cinquestelle. Pazienza, assumo il rischio, l’importante è mantenere la connessione tra linea politica e coscienza individuale.

il Fatto 17.4.14
416 Ter
Voto di scambio: un buon bisturi male assemblato
di Gian Carlo Caselli


In democrazia è lecito dividersi su tutto, salvo che si tratti di lotta alla mafia. Sarebbe bello. Anche giusto. Ma di fatto è quasi impossibile. Troppi sono i condizionamenti dell’orientamento ideologico-culturale, del colore di casacca, del fluttuare delle alleanze, al limite dell’ipotetico coinvolgimento di compagni di cordata in faccende oscure. Un quadro che trova una cartina di tornasole di tutta evidenza nelle vicende dell’art. 416 ter sul voto di scambio. Ma con un corollario: se in tali condizionamenti i contrasti possono avere una parziale spiegazione (non giustificazione), resta inspiegabile la mancanza di rigore e coerenza, per cui scelta una via disinvoltamente se ne percorre poi un’altra, con piroette tanto impreviste quanto sconcertanti, tali da giustificare la traduzione maccheronica del detto tot capita tot sententiae come “tutto capita nelle sentenze”: una volubilità dei giudizi che obiettivamente poco si confà alla gravità dei problemi di mafia.
La storia è nota: per 22 anni abbiamo tollerato lo sconcio di una norma che era un insulto alla logica e al buon senso, finché – nel luglio scorso – la Camera approvò un nuovo testo praticamente all’unanimità. Incuranti di questo formidabile “assist” (l’unanimità garantiva una sollecita approvazione della tanto attesa riforma), le obiezioni di un paio di magistrati, subito trasformate in “rivolta dei pm”, riuscirono a bloccare tutto ancora una volta. Soltanto dopo un bel po’ di tempo il Senato tornò sul tema adottando una versione del 416 a mio parere accettabile. Invece fu ancora “bagarre” e la Camera operò un ulteriore stravolgimento, sfornando un testo che ora (alla quarta lettura) è stato definitivamente approvato dal Senato.
MA LA “BAGARRE” non sembra cessata: forte è ancora l’eco dell’irriducibile ostruzionismo dell’opposizione “grillina”, mentre fra le file della maggioranza non sono pochi quelli che si son turati il naso per disciplina di partito, magari dopo aver espresso critiche non troppo diverse da quelle dei “grillini”. Che dire, a questo punto? La nuova formulazione del 416 ter costituisce un significativo progresso rispetto al passato là dove aggiunge, alla promessa o dazione di denaro (statisticamente inesistente), quella ben più realistica di “altre utilità”. È controversa invece la questione delle pene su cui alla fine (dopo alcune oscillazioni) ci si è assestati: vi è chi le considera non del tutto adeguate sia rispetto alla gravità e pericolosità delle condotte in oggetto (che attengono al processo di regolare formazione del consenso democratico); sia rispetto alla scarsa funzione deterrente che potrebbero avere, tenuto conto che con quelle basse “tariffe” il rischio di finire in carcere sembra ridotto, mentre alta è la probabilità che tutto possa sfumare in prescrizione. Ma saranno soltanto le future prassi applicative che potranno sciogliere o confermare questi nodi.
Si è persa inoltre l’occasione preziosa (che il Senato aveva in una prima lettura saputo cogliere) di introdurre una valvola di chiusura del rapporto di scambio con la formula della “disponibilità a soddisfare gli interessi e le esigenze dell’associazione mafiosa”. Tutti gli inquirenti che non hanno una concezione burocratica del proprio ruolo (cioè non si fermano né rallentano quando intervenire risulta scomodo) non possono che salutare con entusiasmo tecnico-investigativo la formula. Perché consente di corrispondere alle molteplici sfumature e sfaccettature di un fenomeno che investe la “zona grigia”, dove i confini sono per definizione sfumati, per cui una relativa genericità dell’approccio normativo è un pregio, certamente non un difetto!
Non è buon segno che ci siano “esperti” pronti a scartare normative che consentirebbero alle indagini di battere (oltre alle strade scontate e tranquille) anche strade complesse, solo perché potrebbero comportare un seguito di polemiche, mentre la ricerca della verità senza sconti né scorciatoie è un evidente postulato dell’antimafia tutta, si tratti di 416 ter o di “concorso esterno”.

Europee
La Stampa 17.4.14
I Popolari staccano i Socialisti. Avanzano gli Euroscettici
Per la prima volta gli anti euro potrebbero avere un gruppo
di Marco Zatterin


A quaranta giorni dal voto europeo, i partiti della famiglia popolare sono in fuga, e i rivali socialisti e democratici appaiono per la prima volta staccati. Dopo averlo fotografato al secondo posto fra febbraio e marzo, il sondaggio PollWatch2014 di metà aprile accredita al Ppe un vantaggio di 13 seggi sugli S&D. È un divario limitato, ma è più che doppio rispetto all’ultima rilevazione. Le altre notizie sono che gli euroscettici, qualora politicamente possibile, potrebbero avere i numeri per fare un gruppo tutto loro nella nuova assemblea che decollerà in luglio. E che, in Italia, il Pd vola davvero alto, mentre il centrodestra perde pezzi, evidentemente anche a vantaggio di Grillo e le 5 stelle che mantengono tutta la loro luce.
Cominciamo dalla cose di casa. La summa delle risposte degli intervistati da Votewatch, in partenariato con Burson-Marsteller e Europe Decides, è che Matteo Renzi, segretario e premier, vale oggi 29 dei 751 seggi dell’Europarlamento. Nella passata legislatura il Pd si era fermato a 23, dunque il progresso se confermato potrebbe essere netto. La cosa più rilevante, però, appare la possibilità che la delegazione italiana diventi la più numerosa del gruppo S&D, posto che i tedeschi avrebbero 22 fra uomini e donne, e i britannici 26. Col nome giusto, conquistare la presidenza della compagine, mai avuta in passato, potrebbe essere facile come un calcio di rigore. Si può solo sbagliare.
Arretra il centrodestra. Pdl e dintorni, nel 2009, spedirono 34 deputati nel gruppo popolare di maggioranza relativa. Al punto in cui siamo glie ne sono attribuiti 22, uno scivolone davvero significato, anche se Berlusconi non è ancora sceso in campagna elettorale. Il travaso potrebbe essere avvenuto in direzione dei grillini (18 seggi attribuiti), anche se qualche voto l’ex cavaliere e Alfano potrebbero averlo concesso al Pd. Rispetto alla legislatura che si chiude spariscono gli italiani dell’Alde (LibDem), mentre non dovrebbero esservene nella sinistra Gue, né coi Verdi. Un peccato per la rappresentatività complessiva del paese, ma così è la legge.
Sin dall’inizio delle rilevazioni di Votewatch, i Socialisti & Democratici hanno avuto un vantaggio sul Ppe, era di 17 punti a metà febbraio. Con aprile, si cambia. I popolari hanno registrano un incremento di consensi nei paesi dell’est, in particolare in Polonia, dove pulsa l’insicurezza strategica dovuta al caso ucraino e spinge gli elettori verso il «centro storico». Qualche progresso anche in Francia, come testimoniato dal voto amministrativo. Gli umori sono comunque variabili. I ricercatori stimano che vi sia ancora un 25% di possibilità che la famiglia S&D si ritrovi in testa domenica 25 maggio.
Da questo dipende parte del percorso delle euronomine. Popolari, socialisti e liberali hanno sottoscritto un patto secondo cui il primo arrivato esprimerà il presidente della Commissione Ue. Questo fronte a tre è apparentemente destinato a comandare nel nuovo parlamento anche se con il 65% dei voti contro il 72 del quinquennio che va esaurendosi. La Gue avrà il 12% degli scranni, mentre il 10 andrà a conservatori e simili.
Con una incognita. Se riuscissero a parlarsi, il Fronte nazionale di Marine Le Pen, coi vari Wilders e Lega uniti nel nome dell’odio per l’euro e l’immigrazione, potrebbe avere i requisiti per formare un gruppo autonomo, 38 deputati di sette paesi. Grillo resterebbe fuori, a meno di scendere a patti con altri. Si vocifera di prudenti contatti a distanza con l’Ukip di Farage e con i Verdi. Al momento, però, è tutto per aria. Se chiedi in giro, ti dicono tutti la stessa cosa: «Aspettiamo l’esito del voto: poi vedremo cosa costruire».

il Fatto 17.4.14
D’Alema, la Ue e la sindrome Fassino
L’ex ministro degli esteri teme che Renzi finisca per favorire il rivale-sindaco per la guida di Bruxelles
di Giampiero Gramaglia


Un’Italia più credibile in Europa. E nel Mondo. Alla presentazione del rapporto dello Iai sulla politica estera, ‘Scegliere per contare’ ne hanno parlato tre ex ministri degli Esteri, Massimo D’Alema, Franco Frattini, Emma Bonino insieme al sottosegretario Benedetto Della Vedova. L’Europa polarizza l’attenzione, in vista del voto di maggio e del semestre di presidenza di turno italiana del Consiglio Ue. Lo spartiacque tra chi vuole più Europa, ma la vuole diversa, e chi nega l’euro e l’integrazione domina il dibattito elettorale: “Sarebbe suicida cedere alla tentazione di considerare il populismo anti-europeo il nemico principale, che assedia la fortezza europea democratica, nella quale rinchiuderci con i conservatori”, afferma D’Alema.
La Bonino non rinnega il federalismo, anche se brandirlo – ammette non fa guadagnar consensi. Tutti denunciando le lacune dell’Ue nella gestione della crisi, nel Mediterraneo e sul fronte dell’immigrazione, verso la Russia (anche nella crisi ucraina) e sulla questione energetica, verso Turchia e Balcani.
Bonino e Frattini sono già stati commissari europei, D’Alema potrebbe divenirlo quest’autunno. L’ex premier è oggi il favorito per il posto italiano nell’Esecutivo comunitario, benché girino pure i nomi di Enrico Letta e di Piero Fassino, che nelle ultime settimane sarebbe divenuto lo spauracchio dell’ex ministro degli Esteri, anche per via dei giochi di convenienze e alleanze delle anime democratiche condotti dal segretario-premier Renzi.
D’ALEMA APPARE IN POLE POSITION, dopo ‘il patto del libro’ appunto con Renzi, intervenuto a Roma alla presentazione del volume ‘Non solo euro. Democrazia, lavoro, uguaglianza! Una nuova frontiera per l’Europa’, firmato come presidente della Fondazione di studi progressisti europei. Il che non impedisce a D’Alema di essere caustico, rispetto al nuovo Pd. Per rispondere alla sfida del populismo, osservava di recente i “partiti tradizionali iniettano dosi di populismo nella propria narrativa: noi siamo quasi all’avanguardia, abbiamo fatto una cura da cavalli”. E ancora: “Chi pensa di risolvere i problemi da solo s’illude ... In Italia, ora, il governo si diverte a dire che taglierà i costi della politica”, ma, per recuperare quanto serve, l’unico modo sarebbe “assassinare tutti i politici: ci vuole un Pol Pot”. L’ex premier è pure intervenuto a un altro convegno a Roma sulla politica industriale europea ispirato ad Altiero Spinelli, commissario all’industria negli Anni ‘70. Di qui, l’illazione che D’Alema a Bruxelles punti a quell’incarico, anche se è quasi impossibile che lo stesso portafoglio vada per due volte consecutive a un italiano – dal 2009, lo gestisce Antonio Tajani.
Le mire del Pd d’occupazione dei posti europei prevedono, inoltre, la candidatura di Gianni Pittella a presidente del Parlamento europeo, incarico mai ricoperto da un italiano da quando l’Assemblea di Strasburgo è eletta a suffragio universale (1979). Pittella potrebbe trovarsi contro proprio Tajani, che – come altri 6 suoi colleghi s’è messo ‘in sonno’ da commissario per candidarsi: sarà capolista di Forza Italia nel Centro.
Quasi tutto dipenderà dai negoziati estivi fra governi e partiti. Ma c’è chi dà i giochi per (quasi) fatti: Juncker (Ppe) alla presidenza della Commissione e Schulz (Pse) alla politica estera e di sicurezza. Alla guida del Consiglio Ue, una donna dopo Van Rompuy: la presidente lituana Grybauskaite, un’ex commissaria, o la premier danese Thorning-Schmidt.

il Fatto 17.4.14
Tsipras: “Ho l’età di Renzi, ma lui non dà fastidio ai forti”
di Matteo Pucciarelli e Giacomo Russo Spena


Settimo piano, l’ultimo. Un ufficio di una ventina di metri quadri, grande vetrata che guarda sulla piazza del popolare e sgarrupato quartiere di Eleftherias, nel centro di Atene. Il palazzo è di proprietà del partito, una struttura degli anni Settanta che se non fosse per i pc sulle scrivanie sembrerebbe ferma ad allora. Che qualcosa sia cambiato lo capisci solo dai poliziotti fuori dall’ingresso, sempre almeno in sei. Sono la scorta di Alexis Tsipras. Ormai è un politico famoso, ma anche odiato: l’estrema destra di Alba Dorata lo vedrebbe volentieri morto e nel frattempo lo insulta dandogli dell’agente dell’imperialismo americano. Sui muri dello studio Tsipras ha due manifesti incorniciati risalenti alle riforme sociali di Salvador Allende in Cile: la terra ai contadini e l’istruzione obbligatoria. Poi c’è un piccolo Che Guevara pensoso, col sigaro in bocca. Un medaglione palestinese in bella mostra sulla grossa libreria, dove non mancano i classici greci, la storia del Panathinaikos (la sua squadra del cuore), ma nemmeno Il Capitale di Karl Marx.
Partiamo da “lontano”, dal 2009, anno in cui la crisi greca scoppia in mano a tutta la classe politica. Allora interviene l’Europa. Le misure imposte al Paese come le giudica? Non c’era effettivamente bisogno di mettere mano a un sistema che non si reggeva più in piedi?
Personalmente sono convinto di una cosa: la ricetta che ci ha imposto la leadership europea sarà insegnata nelle facoltà di Economia. E diranno: “Avete visto come si sono mossi? Ecco, fate il contrario” (...) L’establishment ha risposto a una crisi di debito con l’austerità e la “svalutazione interna”. Lo ha fatto per salvare le banche che detenevano titoli di Stato dei paesi altamente indebitati, senza considerare che ciò avrebbe peggiorato le cose (..). Il filosofo Jürgen Habermas ha giustamente osservato che la gestione della crisi “non affronta le cause che l’hanno provocata e nasconde anche il pericolo di sfociare in un’Europa tedesca”. (...)
Eppure il ministro delle Finanze tedesco, Wolfgang Schäuble, sostiene che le misure di austerity in Grecia stanno iniziando a funzionare. Nel 2014 il Pil della Grecia è, o sarebbe, destinato a crescere.
Ammesso che sia vero, mi domando: a quale prezzo? L’avanzo primario ha portato il Paese al disastro sociale. Non è sostenibile. (...) Il contenimento della spesa del programma degli investimenti pubblici (...) ha di fatto rinviato la crescita (...) Aumenta l’avanzo primario e con esso la povertà: adesso abbiamo oltre il 30% di disoccupazione e il 35 della popolazione costretta ad affrontare il pericolo dell’esclusione sociale. Le immagini quotidiane di Atene e degli altri grandi centri urbani mostrano uomini, ben vestiti, rovistare nella spazzatura. Si chiudono gli ospedali, si accorpano le scuole. Secondo l’Ocse invece la recessione in Grecia è destinata a continuare. Smentendo quindi certi trionfalismi. (...) Lei si candida a presidente della Commissione europea a Bruxelles.
Perché un elettore europeo di sinistra dovrebbe sostenere lei e non il socialista Martin Schulz, che pure critica l’austerity e parla di Europa più eguale?
Qui non si tratta di scegliere me o qualcun altro, anzi vi dirò che Schulz è una persona simpatica, a livello umano. Il fatto è che incarna il fallimento della socialdemocrazia europea, ferma in una impasse che l’ha spinta tra le braccia del consenso neo liberale. Per quasi due decenni il Pse ha partecipato alla rottura del contratto sociale del Dopoguerra, il quale paradossalmente aveva ispirato e contribuito a far nascere. Così si è tagliato fuori dalla sua tradizionale base politica e sociale diventando parte del problema e non la soluzione. Non si può difendere una prospettiva diversa dall’austerità e nello stesso momento governare in Germania con Angela Merkel. Non è credibile (...)
Nel frattempo i movimenti populisti stanno crescendo nell’intero continente. È un altro prodotto della crisi. Come li si fronteggia?
L’ascesa dell’estrema destra in Europa è il prodotto più che altro del neoliberismo, che a sua volta ha originato la crisi. Il populismo rappresenta una falsa risposta perché orienta la disperazione e la rabbia sociale non verso i fautori dell’austerity e contro la classe dominante, ma contro i deboli, quasi sempre gli immigrati. (...)
Lei è un leader politico giovane, in più è un buon comunicatore. Si racconta spesso di quanto sia ambizioso. La sostanza è che Tsipras è diventato un personaggio, un prodotto attraente sugli scaffali della politica. Quanto c’è della sua figura e quanto invece delle idee del suo partito nella vostra crescita?
Viviamo indubbiamente nell’epoca della comunicazione ed è molto importante che qualcuno riesca a veicolare il proprio messaggio nel modo più efficace. Però facendo un confronto con il mio coetaneo italiano Matteo Renzi, io – a differenza sua – non ho avuto un trattamento di favore dai media: non mi hanno dipinto come un “bravo ragazzo”, anzi hanno provato con testardaggine e determinazione a trasformare il mio essere giovane in un punto debole. La mia età come limite e non come risorsa. Probabilmente la posizione di Syriza, diversamente da quella di Renzi, fa paura ai poteri forti in Grecia e in Europa. (...)

l’Unità 17.4.14
Troppo rigore, Marino silura il magistrato
Daniela Morgante, assessore al Bilancio lascia dopo
lo scontro con il sindaco che prende l’interim
di Jolanda Bufalini


Il buongiorno s’è visto dal mattino, quando, alla riunione della cabina di regia, Daniela Morgante non è andata. C’era Giovanni Legnini, sottosegretario all’economia, Marco Causi, deputato ed ex assessore al Bilancio a Roma, il ragioniere generale di RomaCapitale Maurizio Salvi, il segretario generale Fucito, il relatore del “Salva Roma” Fabio Melilli. Mancava la regina, nella partita a scacchi con il governo sul piano di rientro, l’assessore al Bilancio.
I rumors erano cominciati alla vigilia mentre i tamburi di guerra rullavano da mesi. Alla fine la comunicazione ufficiale: Daniela Morgante, magistrato della Corte dei conti prestato alla politica, ha rimesso il mandato al sindaco Marino. La decisione, presa martedì, ha dato il tempo all’assessore di avvertire personalmente il presidente della Corte dei conti e i collaboratori. Ora sindaco e assessore parlano di separazione consensuale ma, come in tutti i divorzi, anche questo è stato preceduto da giornate molto tempestose, consumate in un dissidio sempre più inconciliabile.
Il sindaco si è trovato nella situazione di dover ricordare che il bilancio non è una questione personale dell’assessore, ma un atto politico che impegna primo cittadino e giunta. Prima la rigidità di Daniela Morgante aveva portato allo scontro diretto con il collega dei trasporti, Giudo Improta, sul cantiere Metro C. Con la discussione sul bilancio 2014 la situazione è diventata ingestibile, con l’assessore deciso a tenere il punto di non far passare nulla senza copertura di spesa, il Pd sempre più insofferente, fra presidenti di municipio disperati e partito contro il «bilancio ragionieristico ». Ignazio Marino aveva apprezzato la magistrata revisore dei conti quando si trattava di fare le pulci alla situazione ereditata da Alemanno, ma lo scontro è diventato inevitabile quando è stato chiaro che i «niet» di Daniela Morgante rischiavano di paralizzare il governo della città, dagli investimenti sulla scuola alla chiusura del Parco della musica e Santa Cecilia, come ha detto l’assessore alla cultura Barca.
Il sindaco ha assunto l’interim, almeno fino alla approvazione del bilancio 2014, prevista in giunta, nelle intenzioni del sindaco subito dopo pasquetta. Marino non è solo, accanto a lui ci sono quelli che il segretario del Pd Lionello Cosentino, chiama «i tre moschettieri», Giovanni Legnini, Marco Causi, Fabio Melilli. Intanto l’opposizione si scatena chiedendo le dimissioni, per Alfio Marchini, quello di Marino all’interim è «un suicidio» perché «se non riesce ad approvare il bilancio entro aprile si deve dimettere». M5S e il radicale Magi (lista marino) si schierano con l’assessore giubilato. Fra gli oppositori, da ieri, si annovera ufficialmente Francesco Gaetano Caltagirone che, da editore, ha dichiarato: «Non c'è dubbio che Il Messaggero a Roma  sta all'opposizione, noi non stiamo dalla parte di chi vince». Risponde Lionello Cosentino: «Quella non è opposizione ma attività di lobbying».
Il coinvolgimento dei «tre moschettieri » si deve al puzzle piuttosto complicato fra conti capitolini, piano di rientro da concordare con il governo, risorse che il «Salva Roma» dovrebbe liberare al Senato. La scadenza dei bilanci comunali è stata posticipata per tutti a luglio. Si può fare prima ma Roma dovrà approvare «apposita variazione » una volta definito il piano di rientro. Oggi Ignazio Marino va dal ministro dell’economia Padoan. Poi , approvato il bilancio in giunta, in consiglio andrebbe, in sostanza, una prima bozza su cui raccogliere il parere dei municipi e delle parti sociali. Altro step: il tavolo con il governo e il calcolo degli extracosti che Roma sostiene come capitale. L’Ad Daniele Fortini ha calcolato che solo le manifestazioni costano ad Ama 48 milioni di euro. A tutto questo, dice Marco Causi, si dovrebbe aggiungere un piano «intenso di dismissioni immobiliari». Un percorso che arriva all’estate. Con un punto delicato. Il piano di rientro condiziona e gli integrativi dei dipendenti comunali ai risultati. «Giusto», dice Cosentino, «ma c’è una transizione e il governo non può lasciare sola Roma». Intanto c’è da identificare un nuovo assessore, ed è difficile trovare un professionista che si carichi il fardello per 3500 euro al mese. L’equilibrio di genere sarà mantenuto, dice Marino. E se l’assessore al bilancio sarà un uomo, qualcun altro si farà da parte . Potrebbe essere l’assessore allo sport Pancalli.

il Fatto 17.4.14
Roma col buco
La giunta Marino si sgretola: Morgante si dimette
Il sindaco aveva bollato il piano dell’assessore come un “puffo informe”
di Sara Nicoli


Due visioni troppo distanti per “salvare insieme Roma” dal baratro economico, troppo lontane per non finire con uno strappo lacerante. Daniela Morgante, la “lady dei conti” del Campidoglio, assessore al Bilancio del Comune di Roma convinta di poter mettere mano ai debiti della Capitale senza misure drastiche, ma attraverso 400 milioni di tagli e una ridistribuzione di un tesoretto di 130 milioni di euro (utili a non mettere mano alla Tasi e addirittura abbassare l'Irpef allo 0,25%), si è dimessa per un contrasto ormai insanabile con il sindaco, Ignazio Marino. Convinto – invece – di poter gestire la voragine dei conti di Roma solo attraverso ritocchi all'insù del cosiddetto “tariffone”, ovvero la delibera che ricalibra tutte le tariffe dei servizi erogati dal Comune: aumenti per i biglietti dei musei – "al massimo uno o due euro" ha proposto la titolare della Cultura, Flavia Barca –, delle tariffe del trasporto scolastico, dell'occupazione di suolo pubblico per grandi eventi e maxi-concerti nella Capitale, della sosta sulle strisce blu, i permessi Ztl per i residenti e le tariffe per loculi e cremazioni nei cimiteri, matrimoni e set cinematografici. Insomma, una manovra lacrime e sangue per i romani, che vedono da mesi una città lasciata a se stessa e dove anche le emergenze non vengono gestite. La tensione tra i due ha raggiunto l'apice domenica scorsa, durante l'ultima riunione di giunta a cui ha preso parte la Morgante presentando il suo piano, bollato dal sindaco, con la consueta arroganza, come “un puffo informe”. Chiaro che dopo un'offesa del genere, la Morgante ha deciso di sbattere la porta e andarsene.
CON L'USCITA di scena della “lady dei conti” capitolina si acuisce dunque la crisi della giunta Marino, appesa anche all'approvazione del decreto “Salva Roma”, ora al Senato e foriera di nuove polemiche. Anche perché i tempi per l'approvazione del Bilancio, che Palazzo Chigi ha chiesto di visionare, attraverso il sottosegretario al Tesoro, Giovanni Legnini, sembrano allungarsi un po'. Marino, intanto, ha preso su di sé la delega al Bilancio, confermando l'intenzione di approvare tutto entro il 30 aprile. "Il lavoro del bilancio 2014 andrà avanti senza alcuno stop – ha commentato – e sulle dimissioni non ho alcun commento da fare”. Nessun rimpasto, dunque, all'orizzonte, almeno per il momento, ma la frattura di queste inattese dimissioni peserà non poco su Marino e la sua gestione. Morgante, infatti, tornerà a fare il magistrato della Corte dei conti, ma il prossimo anno non ci potrà essere un altro “Salva Roma” per coprire eventuali, nuovi danni gestionali dell'attuale giunta.

Repubblica 17.4.14
Nuovo video accusa gli agenti
Il prefetto di Roma: ora basta sono i poliziotti le vere vittime
di Carlo Bonini



IL PREFETTO di Roma, Giuseppe Pecoraro, la declina quale premessa a scanso di diplomazie: «Ho un’età e un’esperienza che mi consentono di dire quello che penso». E dunque: «La gestione della piazza, che mi ha visto insieme al questore responsabile dell’ordine pubblico, è stata un successo».
UN successo?
«SÌ. Un successo. E sfido
chiunque a dimostrare il contrario. Non ci sono stati danneggiamenti significativi, abbiamo difeso i luoghi istituzionali, è stato consentito lo svolgimento della manifestazione, è stata contenuta e respinta la provocazione dei violenti evitando che la situazione degenerasse. Se qualcuno avesse avuto l’onestà intellettuale di raccontarlo, avrebbe notato che di fronte al lancio di bombe carta e di poliziotti feriti, si sono evitate le cosiddette cariche profonde in punti che avrebbero messo a repentaglio l’incolumità di migliaia di manifestanti».
Le immagini di quella manifestazione, a cominciare da quella dell’artificiere che calpesta la ragazza in terra, documentano altro. Come dicono altro le immagini del reparto che si accanisce su un manifestante inerme.
«Siamo seri. Davvero vogliamo giudicare quello che è accaduto in piazza da quei fotogrammi? Davvero vogliamo riflettere sull’ordine pubblico facendo un taglia e incolla di immagini? Perché non ci chiediamo cosa è accaduto prima di quella carica? O perché quell’artificiere si abbandoni a un uso abnorne della forza?».
Questo lo vorrei sapere da lei.
È un fatto che per quelle immagini il Capo della Polizia ha chiesto scusa, definendo il comportamento dell’artificiere degno di «un cretino».
«Io userei un’altra parola».
Non “cretino”?
«Io direi che il comportamento di quell’artificiere è apparentemente inspiegabile ».
Suona pilatesco e un po’ corporativo, non trova?
«Al contrario. Io credo che se ci interroghiamo sul perché quell’artificiere era dove non doveva stare e ha fatto quel che le immagini mostrano e che non doveva fare, magari ci avviciniamo a una possibile soluzione».
Perché lo ha fatto, dunque?
«Forse per dare una mano ai suoi colleghi. Per la frenesia e la frustrazione di chi, improvvisamente, si sente bersaglio alla mercé di chi, i manifestanti, è chiamato a tutelare. Non voglio essere retorico. Ma provi a immaginare. Per 1.200 euro al mese, lei è per strada per difendere il diritto di manifestare di qualcuno che, al contrario, la battezza come bersaglio simbolico della sua personale guerra. Succede in piazza, succede allo stadio... ».
È successo anche ieri alla Montagnola. Possibile che in uno sgombero debbano volare quel genere di mazzate e si debba spaccare per forza qualche testa?
O che, per tornare a sabato scorso, dei poliziotti debbano apostrofare chi manifesta - come riferisce la ragazza calpestata - «siete gente di merda »?
«Io che dei poliziotti abbiano detto a chi manifestava “siete gente di merda” non ci credo. Quanto alla Montagnola, io e il questore stamattina (ieri, ndr) eravamo qui in Prefettura uno accanto all’altro quando siamo stati messi in contatto con chi operava di fronte a quello stabile. È stato cercato in ogni modo il dialogo. Senza contare che è da quindici giorni che gli occupanti sapevano che esisteva un provvedimento della magistratura di sgombero a cui la polizia doveva dare esecuzione. Ora, cosa bisogna fare se qualcuno decide di impedire che quell’ordine venga eseguito? E se per impedirlo accade che vengano tirati oggetti di ogni tipo dall’alto, addirittura lanciati segnali stradali? Siamo o no in uno Stato di diritto?».
In uno Stato di diritto, lo Stato ha il monopolio della forza ma non ne deve fare un uso proporzionato. E la frustrazione non è un’esimente.
«Non c’è alcun dubbio. Ma se vogliamo trovare un punto di equilibrio noi dobbiamo considerare il quadro e le dinamiche della piazza nel loro complesso».
Questo è l’argomento con cui da anni viene bloccata la proposta di introdurre un codice “alfanumerico” che consenta di identificare i poliziotti in ordine pubblico. Si dice: a manifestante travisato, poliziotto anonimo e altrettanto travisato. È un po’ come dire “a brigante, brigante e mezzo”. E così, la strada diventa la terra di nessuno e la violenza un dato accettato.
«Io dico un’altra cosa. Io dico, benissimo, introduciamo pure il codice identificativo, ma, contestualmente, introduciamo norme che regolamentino il diritto costituzionale di manifestare. Lo abbiamo fatto per il diritto di sciopero, perché non possiamo farlo per quello di manifestare? Le sembra ragionevole che l’ordine pubblico sia ancora disciplinato dal testo unico delle leggi di pubblica sicurezza del periodo fascista? O che il giorno prima della manifestazione di Roma io e il questore ci siamo ritrovati a fare un sopralluogo lungo il tragitto del corteo neanche fossimo due generali che pianificano una battaglia campale? E le dico di più. La Costituzione va letta tutta. Esiste il diritto di libera manifestazione del pensiero. Ma esiste anche il diritto all’integrità di quei lavoratori, i poliziotti, che sono lì proprio per garantire un pacifico godimento dei diritti costituzionali di tutti. Se si accetta questo scambio, le regole di ingaggio saranno chiare e non ci saranno più alibi. Né per quei pochissimi poliziotti che violano le regole e saranno facilmente identificabili, né per chi sa che, oggi, andare a una manifestazione con il casco integrale allacciato alla cinta o sfilare con un passamontagna e una spranga in pugno non ha di fatto nessuna conseguenza».

Repubblica 17.4.14
La ferita originaria
di Concita De Gregorio



IL PREFETTO di Roma, Giuseppe Pecoraro, la declina quale premessa a scanso di diplomazie: «Ho un’età e un’esperienza che mi consentono di dire quello che penso». E dunque: «La gestione della piazza, che mi ha visto insieme al questore responsabile dell’ordine pubblico, è stata un successo».
UN successo?
«SÌ. Un successo. E sfido
chiunque a dimostrare il contrario. Non ci sono stati danneggiamenti significativi, abbiamo difeso i luoghi istituzionali, è stato consentito lo svolgimento della manifestazione, è stata contenuta e respinta la provocazione dei violenti evitando che la situazione degenerasse. Se qualcuno avesse avuto l’onestà intellettuale di raccontarlo, avrebbe notato che di fronte al lancio di bombe carta e di poliziotti feriti, si sono evitate le cosiddette cariche profonde in punti che avrebbero messo a repentaglio l’incolumità di migliaia di manifestanti».
Le immagini di quella manifestazione, a cominciare da quella dell’artificiere che calpesta la ragazza in terra, documentano altro. Come dicono altro le immagini del reparto che si accanisce su un manifestante inerme.
«Siamo seri. Davvero vogliamo giudicare quello che è accaduto in piazza da quei fotogrammi? Davvero vogliamo riflettere sull’ordine pubblico facendo un taglia e incolla di immagini? Perché non ci chiediamo cosa è accaduto prima di quella carica? O perché quell’artificiere si abbandoni a un uso abnorne della forza?».
Questo lo vorrei sapere da lei.
È un fatto che per quelle immagini il Capo della Polizia ha chiesto scusa, definendo il comportamento dell’artificiere degno di «un cretino».
«Io userei un’altra parola».
Non “cretino”?
«Io direi che il comportamento di quell’artificiere è apparentemente inspiegabile ».
Suona pilatesco e un po’ corporativo, non trova?
«Al contrario. Io credo che se ci interroghiamo sul perché quell’artificiere era dove non doveva stare e ha fatto quel che le immagini mostrano e che non doveva fare, magari ci avviciniamo a una possibile soluzione».
Perché lo ha fatto, dunque?
«Forse per dare una mano ai suoi colleghi. Per la frenesia e la frustrazione di chi, improvvisamente, si sente bersaglio alla mercé di chi, i manifestanti, è chiamato a tutelare. Non voglio essere retorico. Ma provi a immaginare. Per 1.200 euro al mese, lei è per strada per difendere il diritto di manifestare di qualcuno che, al contrario, la battezza come bersaglio simbolico della sua personale guerra. Succede in piazza, succede allo stadio... ».
È successo anche ieri alla Montagnola. Possibile che in uno sgombero debbano volare quel genere di mazzate e si debba spaccare per forza qualche testa?
O che, per tornare a sabato scorso, dei poliziotti debbano apostrofare chi manifesta - come riferisce la ragazza calpestata - «siete gente di merda »?
«Io che dei poliziotti abbiano detto a chi manifestava “siete gente di merda” non ci credo. Quanto alla Montagnola, io e il questore stamattina (ieri, ndr) eravamo qui in Prefettura uno accanto all’altro quando siamo stati messi in contatto con chi operava di fronte a quello stabile. È stato cercato in ogni modo il dialogo. Senza contare che è da quindici giorni che gli occupanti sapevano che esisteva un provvedimento della magistratura di sgombero a cui la polizia doveva dare esecuzione. Ora, cosa bisogna fare se qualcuno decide di impedire che quell’ordine venga eseguito? E se per impedirlo accade che vengano tirati oggetti di ogni tipo dall’alto, addirittura lanciati segnali stradali? Siamo o no in uno Stato di diritto?».
In uno Stato di diritto, lo Stato ha il monopolio della forza ma non ne deve fare un uso proporzionato. E la frustrazione non è un’esimente.
«Non c’è alcun dubbio. Ma se vogliamo trovare un punto di equilibrio noi dobbiamo considerare il quadro e le dinamiche della piazza nel loro complesso».
Questo è l’argomento con cui da anni viene bloccata la proposta di introdurre un codice “alfanumerico” che consenta di identificare i poliziotti in ordine pubblico. Si dice: a manifestante travisato, poliziotto anonimo e altrettanto travisato. È un po’ come dire “a brigante, brigante e mezzo”. E così, la strada diventa la terra di nessuno e la violenza un dato accettato.
«Io dico un’altra cosa. Io dico, benissimo, introduciamo pure il codice identificativo, ma, contestualmente, introduciamo norme che regolamentino il diritto costituzionale di manifestare. Lo abbiamo fatto per il diritto di sciopero, perché non possiamo farlo per quello di manifestare? Le sembra ragionevole che l’ordine pubblico sia ancora disciplinato dal testo unico delle leggi di pubblica sicurezza del periodo fascista? O che il giorno prima della manifestazione di Roma io e il questore ci siamo ritrovati a fare un sopralluogo lungo il tragitto del corteo neanche fossimo due generali che pianificano una battaglia campale? E le dico di più. La Costituzione va letta tutta. Esiste il diritto di libera manifestazione del pensiero. Ma esiste anche il diritto all’integrità di quei lavoratori, i poliziotti, che sono lì proprio per garantire un pacifico godimento dei diritti costituzionali di tutti. Se si accetta questo scambio, le regole di ingaggio saranno chiare e non ci saranno più alibi. Né per quei pochissimi poliziotti che violano le regole e saranno facilmente identificabili, né per chi sa che, oggi, andare a una manifestazione con il casco integrale allacciato alla cinta o sfilare con un passamontagna e una spranga in pugno non ha di fatto nessuna conseguenza».

l’Unità 17.4.14
Sgombero e manganelli. Agenti ancora sotto accusa
A Roma un video riprende un gruppo di poliziotti
che infierisce su un attivista del movimento per la casa Negli scontri 8 occupanti sono rimasti feriti
di Dan. Am.


Ancora tensioni a Roma, ancora scontri tra il movimento dei senza casa e le forze dell’ordine, e ancora un altro episodio di violenza documentato da un video dove si vedono quattro agenti infierire con i manganelli contro un manifestante scivolato per terra. L’uomo ha riportato un trauma cranico, e non è il solo. Il bilancio è di otto feriti tra gli occupanti di un palazzo nel quartiere della Montagnola, periferia sud della città. Palazzo disabitato da anni di proprietà dell’Inarcassa, «requisito »da circa700persone molti sono giovanissimi lo scorso 7 aprile durante il terzo «Tsunami Tour» dei movimenti per il diritto all'abitare in contrasto con il piano casa dei ministro Lupi. Non era la prima volta. Era successo già tre anni fa. Ma questa volta si è trattato di un’occupazione di massa, forse la più importante per dimensioni mai registrata in città.
SIT-IN A REGINA COELI
E mentre sotto il carcere di Regina Coeli si teneva un sit-in in solidarietà con i quattro ragazzi arrestati in via Veneto durante l’ultima manifestazione per il diritto alla casa, alla Montagnola si preparava la battaglia. L’area, ieri mattina, è stata completamente circondata da vigili urbani, carabinieri, poliziotti in tenuta antisommossa. Decine i blindati. Divieto di circolazione per tutti, dai residenti ai giornalisti. Un cul-de-sac per isolare lo stabile, impedendo così vie d’ingresso e di fuga.
Sul tetto del palazzo gli occupanti con fischietti, a battere ritmicamente sui corrimano. Sotto intanto si posizionava un gruppo di altri 200 «solidali», accorsi da ogni parte di Roma. Sono volate pietre, bottiglie, rami strappati dagli alberi (più che bastoni), segnali stradali. Un cordone umano ha cercato di impedire alle forze dell’ordine di entrare nel palazzo. C’è stata una trattativa tra occupanti e poliziotti che è fallita, a quel punto gli agenti hanno caricato. Tra i feriti Paolo Di Vetta, uno dei leader del Movimento. Gli sgomberati parlano anche di una donna con una gamba fratturata. La Questura di Roma, invece, precisa che la polizia «ha dovuto disperdere i manifestanti, dopo un fitto lancio di oggetti contundenti, per proseguire nelle operazioni».
«Una gestione indecente dell'ordine pubblico sostiene il presidente del Municipio VIII, Andrea Catarci a conferma dei problemi palesati già nella manifestazione di sabato con comportamenti violenti. Una carica ingiustificata perché la politica avrebbe trovato una soluzione. Qualcuno vuole fare salire la temperatura sulla disperazione sociale. È tutto incomprensibile». Incomprensibile anche perché proprio ieri si sarebbe dovuto tenere un tavolo sull’emergenza abitativa a Roma.
I capogruppo in consiglio comunale Francesco D'Ausilio (Pd), Gianluca Peciola (Sel), Luca Giansanti (Lista Civica per Marino) e Massimo Caprari (CD) al termine di una giornata convulsa hanno firmato un comunicato congiunto: «La situazione è ormai fuori controllo, più di quanto si pensi. A Roma stiamo registrando una emergenza abitativa eccezionale frutto della crisi alla quale non si può rispondere solo con l'ordine pubblico. Chiediamo per questo l'immediato stop agli sgomberi e, contestualmente, l'apertura di un tavolo istituzionale con il sindaco Marino, il presidente della Regione Lazio Zingaretti, il Prefetto e gli assessori competenti. È inoltre urgente accelerare l'attuazione dei contenuti della delibera regionale sull'emergenza abitativa ».
Il rischio è una polveriera sociale. Altro che grande bellezza.

La Stampa 17.4.14
Abbandonati come randagi
“Non capiamo dove siamo”
Tra i migranti che vagano per la Sicilia: “Scappiamo anche da qui”
di Laura Anello


«Dove vado? Scappo, verso l’Europa. Certo qui non ci resto». Adal, 17 anni, somalo, cammina su uno stradone intorno ad Augusta, 38 mila abitanti a un tiro di schioppo da Siracusa. Gli sono bastate poche settimane in Sicilia, dopo mesi passati ad attraversare il deserto africano, per decidere che no, qui non è aria. Prima un mese al Palajonio, il palazzetto dello sport trasformato in un centro di prima accoglienza con i migranti accampati tra gli spalti e gli atleti della città costretti a sospendere gare e allenamenti – poi il trasferimento in una scuola dismessa. Materassi a terra, due soli bagni per 350 ragazzi, neppure un mediatore culturale per farsi capire.
L’epicentro dell’emergenza
Maria Carmela Librizzi, il commissario messo alla guida del Comune sciolto per mafia, ha la faccia di chi non pensava proprio di finire nel nuovo epicentro dell’emergenza migranti. La nuova Lampedusa. «Il nostro Comune è a un passo dal dissesto finanziario – spiega – è impossibile pensare che possiamo farcela da soli». Già, perché lì, nell’isola a metà tra Italia e Africa, il centro di prima accoglienza è stato chiuso dopo lo scandalo della disinfestazione di gruppo. I profughi vengono prelevati in mare con i mezzi dell’operazione «Mare Nostrum» e portati in salvo. In salvo, sì, ma nel caos più assoluto. Li vedi vagare in piazza, girare nelle campagne, tirare quattro calci a un pallone. O li vedi diretti alla stazione degli autobus a Catania, per prendere un mezzo verso l’Europa. O ancora in fuga verso il Cara di Mineo, il ghetto straripante di 4.200 migranti che però, in confronto ai magazzini adattati per l’emergenza, è pur sempre un centro attrezzato per l’accoglienza. La polvere messa frettolosamente sotto il tappeto a Lampedusa è riemersa qui e si è alzata così tanto che si fa fatica a capire che cosa succederà nelle prossime settimane, nei prossimi mesi, quando altre migliaia arriveranno. In Sicilia dal primo gennaio ne sono sbarcati 20 mila. E più di 2.300 sono minorenni.
Sulle spalle dei Comuni
Se i migranti adulti finiscono in carico alle prefetture, faticosamente impegnate a trovare spazio nei cosiddetti Cas, parola magica che indica i Centri di accoglienza straordinaria (leggasi alberghi, magazzini, capannoni dove i privati incassano 30 euro al giorno a migrante, a fronte di servizi spesso inesistenti), l’ipocrisia della macchina organizzativa vuole che dei minorenni debbano occuparsi i Comuni con i loro poverissimi mezzi. «Ci piacerebbe che ci fosse un piano di distribuzione dice il commissario Librizzi –. Invece ci si arrangia di volta in volta. L’altro giorno sono arrivati 350 minorenni, tutti in uno sbarco. Abbiamo approntato una scuola in attesa di ristrutturazione, siamo riusciti a sistemarli. Ne sono rimasti un centinaio, gli altri sono scappati. D’altronde non sono prigionieri». Mohammed, Abdel, Sirus. Li vedi vagare come randagi, con lo sguardo di chi non se l’aspettava, di chi ha cercato la via del tesoro tra deserti e mare e poi ha scoperto che il tesoro non c’era.
«Ho lasciato la mia famiglia – dice Assad, 16 anni, del Sudan, i capelli tagliati alla Balotelli – ce l’ho fatta a partire. Voglio lavorare, ma sono rimasto venti giorni fermo qui senza capire neanche perché. Domani me ne vado. Dove? Non lo so».
La paura dei «neri liberi»
Secondo Save the Children, degli oltre 800 minori non accompagnati arrivati via mare a Porto Empedocle, Catania e Augusta fra il 9 e il 14 aprile, almeno 500 sono scappati. Giovanissimi eritrei, somali ed egiziani che vanno incontro a rischi, abusi, sfruttamento. E per fortuna che la città ancora regge, che la solidarietà di parrocchie e volontari è stata più forte, finora, degli spauracchi sull’invasione, degli allarmi sull’emergenza sanitaria, della paura dei «neri liberi e in giro per le campagne», come dice una signora in piazza.
Perennemente in fuga
Augusta affronta l’emergenza con cinque assistenti sociali, con nessun mediatore culturale, con una società che assicura (finora non pagata) i pasti, con strutture inadeguate sul territorio (anche loro non pagate). Ogni tanto arriva qualche soldo dal ministero del Lavoro, dal quale dipendono i minorenni, ma è una goccia nell’oceano. Alcuni li hanno messi a Floridia, in un centro per malati mentali in aperta campagna: scappati. Altri a Pozzallo, negli ex magazzini delle dogane. Scappati. Altri ancora sono accampati sotto un ponte. In attesa di racimolare qualche soldo e scappare anche loro.

l’Unità 17.4.14
Quattro genitori e un embrione
Tra legge e biologia un figlio con troppi genitori
di Luigi Manconi Federica Resta


Quanto un figlio sia il nostro «sangue» e quanto, invece, il nostro progetto. Quanto sia frutto di affinità genetica e quanto di sollecitudine e accoglienza, non è facile a dirsi. Non lo è in generale e lo è, ancor meno, in un caso come quello dello scambio di embrioni che sembrerebbe essersi verificato nell’ospedale Sandro Pertini di Roma.
Chi deve considerarsi genitore del bambino che nascerà: in ogni caso la donna che lo partorisce e il suo compagno o la coppia a cui appartengono i gameti? Nel caso di rivendicazione da parte di entrambe le coppie, chi dovrà prevalere e in nome di cosa: della discendenza genetica o dell’aver accolto quell’embrione fino al momento del parto? E fino a quando potrebbe ammettersi una contestazione sulla «effettiva genitorialità»: solo prima della nascita, anche dopo, «in ogni tempo», come recita il codice civile proprio in materia di azioni «di stato»? E se la donna nel cui utero è stato impiantato l’embrione, dopo aver appreso che non le appartiene geneticamente, dovesse non sentirlo più suo, avrebbe il diritto di interrompere una gravidanza che non desidera più? E su questa scelta potrebbe mai intervenire la madre «biologica», richiedendo la «gestazione per altri» di un figlio di cui rivendichi l’appartenenza genetica?
La molteplicità e la diversità degli interrogativi, tutti in qualche modo legittimi e ragionevoli, spiegano bene la complessità delle questioni trattate: e per ciò stesso la delicatezza delle risposte che è possibile tentare. Intanto va detto che un’eventuale interruzione della gravidanza in casi del genere risponderebbe, certo, alla necessità accolta dalla stessa disciplina sull’aborto e dalla giurisprudenza costituzionale di considerare la maternità mai come un’imposizione (un destino da accettare anche contro la volontà della donna): bensì il frutto di una scelta consapevole e libera. Così bilanciando i diritti di chi è «già persona» con quelli di chi «persona deve ancora diventare» (Corte costituzionale, sentenza 27/1975). E tuttavia, la scelta dell’aborto avrebbe, il senso e le conseguenze di una tragedia ancora maggiore. Interrompere una gravidanza così desiderata da superare, con l’aiuto della tecnica ma anche con molti sacrifici per la salute stessa della donna, l’impotenza del corpo. Di fronte a queste «scelte tragiche», ciò che può definire la legge sono e devono essere le garanzie per il bambino che nasce; le condizioni per coniugare, con la maggiore equità possibile, i diritti dei genitori (quelli biologici e quelli elettivi) tra loro e con il «superiore interesse» del figlio; i presupposti perché qualsiasi scelta venga fatta in piena libertà e senza condizionamenti.
Ciò che però la legge non può fare è privare, del diritto e della libertà di scelta, quelle donne e quegli uomini che si trovino a vivere un’esperienza certamente non facile, come quella di una genitorialità che prescinda dal legame biologico. La scissione tra genitorialità biologica e genitorialità elettiva ammessa dalla recente sentenza della Consulta sulla fecondazione eterologa è una opportunità che deve essere consentita, pur nel rispetto dei diritti che possano contrapporvisi, a coloro che desiderino viverla. Di più: questa possibilità è un diritto che non va negato, almeno quando sia l’unica condizione per accogliere una vita desiderata e impedita dal corpo. Ma non può essere certo imposta, ad esempio alla donna cui sia stato impiantato, per errore, un embrione non suo. Non solo perché così si violerebbero libertà e dignità di quella donna, ma anche perché una genitorialità non biologica, proprio in quanto «elettiva», presuppone il superamento di un’idea la filiazione basata sul legame di sangue così radicata in noi da poter essere vinta solo da una forte consapevolezza. Dalla convinta adesione, cioè, a un’idea di amore come accoglienza di chi non in tutto ci appartiene. La tecnica ci ha aperto nuove e finora impensabili possibilità: che implicano rischi, certo, ma anche straordinarie opportunità. Ma che, soprattutto, ci investono di responsabilità. Responsabilità certamente destabilizzanti, difficili da esercitare, spesso laceranti, ma che sono il presupposto della nostra libertà e che non possono, per questo, essere delegate all’astrattezza e impersonalità della norma.
Di fronte a una vita sempre più al crocevia tra natura e determinazione (biologia e tecnica), si avverte la tentazione di spogliarsi, ciascuno, della propria responsabilità e del peso che inevitabilmente comporta una scelta in materie così importanti, per delegarli a una legge che possa cogliere quella complessità. Ma vorrebbe dire privarsi dell’essenza stessa della libertà, che il diritto dovrebbe limitarsi a ri-conoscere e comporre con le libertà e i diritti di tutti coloro che vi siano coinvolti.

l’Unità 17.4.14
Gli embrioni scambiati contesi a colpi di diritto
La coppia che ha fornito i gameti punterà sullo «scambio di culla»
La madre con i gemelli in grembo: «Sono miei»
Il caso non ha precedenti al mondo. Non c’è legge alla quale fare riferimento Solo il «buon senso»
di Anna Tarquini


Per la legge italiana non si scappa: è madre chi mette al mondo i figli. Il padre invece è padre solo in quanto marito, a prescindere dall’identità del patrimonio genetico. A meno che... A meno che non si possa configurare un’altra fattispecie di «reato», o errore: lo scambio in culla. In questo caso e solo in questo caso la legge dice che genitori riconosciuti sono quelli biologici.
Ed è l’ipotesi su cui punterà la coppia che forse ha fornito involontariamente i gameti e che ha presentato un esposto in Procura avviando così l’inchiesta sul caso dello scambio di embrioni al Pertini di Roma. Lo dice anche Filomena Gallo, vicepresidente dell’associazione Coscioni, esperta in diritto di famiglia: «È la coppia biologica ad avere ragione. C’è da chiedersi se gli embrioni nel trasferimento fossero tracciabili, cioè in linea con le normative. Altrimenti ci sono ulteriori elementi di danno».
Tutto questo «in punta di fatto» e non di «diritto», perché una legge specifica non c’è e qualunque giudice si troverà a dover redimere questa causa potrà farlo solo a propria discrezione, inseguendo l’analogia delle norme oppure il buon senso. Altra cosa è il ruolo del padre. Perché il padre può disconoscere o riconoscere il figlio, ma le due cose sono legate insieme, propedeutiche, non c’è cioè riconoscimento senza preventivo disconoscimento e qui si aprirebbe un altro scenario tutto da analizzare. Insomma, comunque la si metta, i gemelli concepiti il 4 dicembre in una sala fecondazione dell’ospedale Pertini di Roma avranno di fatto, forse di diritto, certamente in consuetudine e buon senso, quattro genitori. Sicuramente due mamme: quella che li ha fatti nascere e quella che l’ha concepiti.
È un caso che non ha precedenti in Italia come nel mondo. Fino ad oggi ci sono stati episodi di doppi genitori per i figli concepiti in provetta con ovuli donati. C’è stato il caso di Catania, le due ragazze scambiate per errore in ospedale al momento della nascita che poi sono rientrate nelle famiglie che realmente le avevano generate. Mai però è accaduto un pasticcio che mette a confronto due diritti confliggenti. Chi l’avrà vinta adesso: la madre che ha sta portando avanti la gravidanza e che dice: «I figli sono miei» o la donna che crede di aver fornito gli embrioni e che oggi dice: «Me li devono ridare, sono figli miei»? E questo sempre che l’errore riguardi due sole coppie e non come invece è logico immaginare più d’una.
QUANTE COPPIE
Sono poche le certezze in una storia che sembra quasi impossibile. Certamente l’inchiesta. La Procura di Roma ha aperto un fascicolo senza ipotesi di reato sull’esposto presentato dalla coppia che avrebbe fornito i gameti. La seguono il procuratore aggiunto Leonardo Frisani e il sostituto Claudia Alberti che hanno già sequestrato e messo agli atti le cartelle cliniche e tutta la documentazione del caso. Poi c’è una data, il 4 dicembre, giorno nel quale quattro donne sono state sottoposte a fecondazione nel centro specializzato dell’ospedale Pertini. Ma siamo sicuri che siano 4 le donne inseminate quel giorno? La signora che ha presentato denuncia alla Procura è sicura di sì, ricorda quattro facce, ricorda anche di esser stata chiamata per sbaglio al posto di un’altra in sala operatoria e poi fatta riuscire. La macchina degli accertamenti però dice che le donne coinvolte potrebbero essere di più. Almeno sei se si calcolando quelle inseminate il 4 dicembre, molte, molte di più se si ipotizza che lo scambio di provette sia avvenuto come all’inizio ha detto l’ospedale nella fase preliminare, cioè al momento del prelievo. In questo caso siccome è prassi che tra il prelievo e l’impianto passino circa cinque giorni lo scambio di provette dovrebbe essere calcolato su un lasso di giorni più vasto e coinvolgerebbe tutte le donne inseminate in quell’arco di tempo. Certo è che l’analisi del Dna con il prelievo della saliva deciso dalla Asl Roma B, insieme alla commissione ministeriale che indaga sul caso, ha richiamato quattro donne fino ad oggi estranee alla storia. Le coppie sarebbero dunque almeno sei.
A questo si aggiunge un altro particolare abbastanza stravagante. E cioè che fino ad oggi proprio la donna che ha presentato denuncia perché presunta genitrice degli embrioni non è stata contattata dal Pertini né ufficiosamente, né per il prelievo del Dna.
Di «caso isolato sicuro» parla il governatore del Lazio Nicola Zingaretti. «Attendiamo gli esiti della commissione dice Zingaretti In questo momento bisogna attenersi ai dati scientifici che la commissione produrrà. Sono temi delicatissimi e va usata anche una certa discrezione, affidandoci a un processo di monitoraggio e verifica che probabilmente presto ci dirà quale è il reale stato dell'arte della vicenda del Pertini. La Asl ha fatto comunque benissimo a chiudere subito il reparto».
IMPLICAZIONI PESANTI «Ci terrei a rassicurare tutti interviene il ministro della Salute Beatrice Lorenzin . In Italia vengono effettuati centinaia e centinaia di interventi di inseminazione ogni giorno con delle procedure molto strette e rigorose di controllo e tracciabilità. Quando succedono queste cose significa che non si sono rispettati i sistemi di procedura che sono sistemi e protocolli di sicurezza». E aggiunge: «Ho chiesto al governatore Zingaretti che il Lazio si metta in regola veramente in modo veloce. Questo caso ha concluso scatena una serie di implicazioni anche etiche e di riflessioni in tutti noi molto pesanti. Mi metto nei panni di entrambe le mamme: quella che sta portando avanti la gravidanza e quella che sa che un'altra donna sta portando avanti i suoi embrioni, i suoi bambini. È una situazione che profila riflessioni grandi».

Corriere 17.4.14
La psicologa Grazia Attili
«L’unica soluzione è che vivano con 4 genitori»
di Elvira Serra


MILANO — Se è il «successo riproduttivo» a determinare inconsapevolmente una maternità/paternità, è inevitabile che un genitore non voglia rinunciarci. «Siamo programmati in maniera tale da avere come fine ultimo della nostra esistenza non solo la sopravvivenza, ma anche quello di lasciare in quanti più individui possibile ciò che ci contraddistingue dagli altri; il colore della pelle o dei capelli, la forma degli occhi o del naso, il tipo di viso, la struttura corporea».
Così scrive Grazia Attili, psicologa evoluzionista docente alla Sapienza di Roma nel suo L’amore imperfetto (Il Mulino), nel quale esplora le varianti di genitorialità partendo da quelle due mamme di Mazara del Vallo le cui figlie furono scambiate nella culla: se ne accorsero quando le piccole avevano già tre anni e decisero, con fatica (e, con il senno di poi, con saggezza) di formare un’unica grande famiglia allargata.
Lei parla in maniera molto chiara della «voce del sangue», che in quel caso ebbe la meglio. È così forte il Dna?
«È forte il nostro bisogno di immortalità, di replicarci nei nostri figli e nei figli dei nostri figli. Una sorta di imperativo evoluzionistico fa sì che i genitori cerchino di occuparsi in prima persona della prole. Ma l’esigenza di successo riproduttivo è talmente forte che quando non si riesce ad avere figli propri si cerca di adottarli. I progressi scientifici oggi permettono di superare anche l’adozione e, come nel caso delle coppie romane, di concepire un bambino in provetta per fare poi l’impianto dell’embrione».
Questo caso è diverso rispetto a quello delle due mamme di Mazara del Vallo. Qui una madre sta già sentendo crescere dentro di sé figli biologicamente non suoi.
«Sì infatti, e non è un dettaglio da poco. Non possiamo considerarlo un utero in affitto. Il legame di attaccamento tra i due gemelli e la madre è già cominciato. Loro riconoscono il battito cardiaco della mamma, lei li sente muovere. Il cervello della donna sta già cambiando, la sua emozionalità pure. Non mi sorprende che non voglia rinunciare ai bambini».
La madre è evidentemente coinvolta. Ma il padre può dirsi tale?
«Certo. Anche lui sta partecipando alla gravidanza. E dopo il parto prenderà in braccio i bambini, se ne occuperà, darà loro da mangiare, se ne prenderà cura. Poi può accadere di tutto, chi può dirlo? Una ricerca condotta a livello mondiale ha fatto emergere che dal dieci al 30 per cento dei bambini non sono figli del loro padre anagrafico, ma sono nati da un adulterio. È un dato di fatto, anche se non si può dire».
Abbiamo parlato della mamma incinta. Ma l’altra, la biologica, che in questo momento potrebbe avere in grembo figli non suoi oppure potrebbe essere una donna per la quale l’inseminazione non è andata a buon fine, quali diritti può avanzare?
«Se ci fosse reciprocità, cioè se fosse rimasta incinta pure lei, sarebbe più semplice. E in questo caso suggerirei di provare a vivere vicini, come a Mazara. Farei allevare i figli da tutti e quattro i genitori, ovviamente con la preponderanza di una figura, che poi è quella che si prende cura dei piccoli ed è riconosciuta come figura principale».
Lei che idea si è fatta del caso dell’ospedale Sandro Pertini di Roma?
«È una situazione pazzesca, molto molto complessa. Noi siamo l’unica specie animale che, oltre ad essere spinta da un diktat biologico analogo a quello di tutti gli altri animali verso la replicazione genica e “culturale”, ha anche consapevolezza che la genitorialità genetica può essere diversa da quella gestionale e affettiva».

l’Unità 17.4.14
Fecondazione, ecco la proteina Giunone
«Così l’uovo cattura lo spermatozoo»


Quando Izumo incontra Juno nasce la vita. È «l’attrazione fatale» tra due proteine che permette a uovo e spermatozoo di riconoscersi e fondersi, generando un embrione. Una delle due, Izumo, era già nota (fu scoperta sulla superficie degli spermatozoi nel2005da un team giapponese, che la battezzò con il nome di un santuario dedicato alla divinità dei matrimoni), mentre l'altra, la sua compagna, è rimasta per anni un mistero. A svelare il rebus sono gli scienziati britannici del Wellcome Trust Sanger Institute, che hanno individuato e dato un nome alla dolce meta» di Izumo: una proteina esposta sulla cellula uovo, chiamata Juno (proteina Giunone) in onore della dea della fertilità nell’antica Roma. La scoperta, pubblicata su Nature, apre nuove vie al miglioramento delle tecniche di fecondazione assistita e allo sviluppo di nuovi contraccettivi. «Abbiamo risolto un mistero biologico di lunga data – commenta Gavin Wrigth, autore senior dello studio - Le due proteine sono presenti sulla superficie di tutti gli spermatozoi e gli ovuli, e per dare origine a una nuova vita al momento del concepimento si devono necessariamente accoppiare. Senza questa interazione essenziale, nulla accadrebbe».

Repubblica 17.4.14
Gli ispettori: embrioni non identificati con certezza E le analisi confermano lo scambio tra due coppie
Il rapporto shock “In quell’ospedale è caos provette”
di Michele Bocci e Mauro Favale



UN SISTEMA di identificazione degli embrioni insufficiente, poco personale in laboratorio, moduli di sala operatoria lacunosi e poi una lunga lista di problemi strutturali: locali non adeguati, poco sicuri, stoccaggio eseguito in modo non corretto. La commissione incaricata dal ministero della Salute di ispezionare il centro di pma dell’ospedale Pertini di Roma dà un giudizio impietoso di quello che ha visto lunedì e martedì scorsi. E chiude il suo resoconto imponendo una serie di interventi da fare subito, in 15-20 giorni, periodo durante il quale l’attività di reclutamento di nuovi pazienti dovrà restare sospesa. Intanto dagli esami dei Dna delle 5 coppie coinvolte nella vicenda verrebbe confermato lo scambio di embrioni avvenuto tra due donne: nella prima la gravidanza è arrivata ora al quarto mese, nella seconda, invece, l’embrione non ha attecchito. All’origine dell’errore ci sarebbe un caso di semi-omonimia tra i cognomi delle pazienti.
OMONIMIA E DESTINI INCROCIATI
L’ipotesi dello scambio di persona sembra essere avvalorata anche da quanto hanno trovato gli ispettori ministeriali. I cognomi di due donne, infatti, sono molto simili, hanno in comune l’iniziale, e 5 lettere su 7. Per di più entrambe hanno ricevuto tre embrioni a distanza di appena un quarto d’ora una dall’altra il 6 dicembre: alle 10.30 e alle 10.45. «Si fa notare che le due donne hanno cognomi che si assomigliano molto», scrive la commissione. Tra le coppie che hanno fatto la stessa procedura (in tutto 5) in due l’impianto non è andato a buon fine. Una delle due si è presentata il 4 dicembre alle 10.45 per il “pick up”, cioè per il prelievo di ovocita e gameti. Due giorni dopo, a partire dalle 9.30 è iniziato il trasferimento. A mezzogiorno il lavoro del centro è finito. L’errore sembrerebbe avvenuto quella mattina. Ieri dal Pertini hanno chiamato la coppia che nei giorni scorsi ha presentato un esposto in procura sostenendo di aver fatto l’impianto il 4 dicembre e temendo un altro errore: «Se scambio c’è stato sicuramente non riguarda voi».
IDENTIFICAZIONE INSUFFICIENTE
Al centro di pma del Pertini, che fa 700 trattamenti all’anno, lavorano tre ginecologi, un andrologo, una ostetrica, una ausiliaria e due biologi. Tutti collaboratori a progetto da 28 o 36 ore settimanali. Quando accolgono le coppie, che spendono circa 2mila euro, seguono una procedura operativa in cui «non è indicato come il biologo identifica i pazienti». Il laboratorio si basa solo sul cognome della donna e non adotta un codice a barre. Dopo lo sbaglio è stato introdotto un codice colore, da assegnare a ogni coppia. Quando si chiarisce l’identità delle donne dovrebbe essere presente un secondo biologo, come testimone, cosa che non avviene quasi mai per problemi di organico. La commissione ha poi chiarito che non esiste un sistema di gestione scritto della qualità e non c’è un referente che per questo aspetto. Le procedure sono poche, «talvolta solo abbozzate». E poi la stoccata finale: il sistema di identificazione delle provette con gameti ed embrioni non è sufficiente a garantire un sicuro riconoscimento. La struttura del Pertini da questo punto di vista non è adeguata. Anche i moduli di sala operatoria non sono compilati nel modo giusto.
STRUTTURE E SICUREZZA CARENTI
La commissione ha trovato laboratori con «carenze strutturali», un ambiente della crioconservazione non sicuro e una gestione non corretta delle condizioni di stoccaggio. Insomma, una situazione piuttosto precaria e grave. Per questo si chiede di intervenire subito, adottando «nuove modalità di identificazione del materiale biologico», individuando le criticità nell’attività e promuovendo la «tracciabilità» di operatori e materiali vari. Forse se si fossero avviate a suo tempo le procedure di autorizzazione della Regione, che sarebbero obbligatorie e mancano in tutti i 48 centri di pma del Lazio, errori come quello drammatico al centro di questa storia non sarebbero avvenuti.

l’Unità 17.4.14
Stampa, 1.600 occupati in meno. Lotti: i fondi ci sono
Gli editori fanno il punto: bene il web, ma è un momento difficile
di Rachele Gonnelli


Gli editori presentano i dati di quella che definiscono «la crisi nella crisi»: la drammatica situazione della carta stampata, soprattutto dei quotidiani, comparto che sta vivendo il suo anno più buio e sprofonda in una recessione ben peggiore del resto dell’economia italiana. Più che un grido di dolore suona però come una tromba di carica. Finito di illustrare le slide, la vice presidente Fieg Azzurra Caltagirone chiarisce qual è la ricetta degli editori per risolvere la divaricazione del 2013 della forbice tra costi e ricavi: nel 2013 che si sta chiudendo per le aziende nel rapporto tra costi e ricavi si è passato dal non aver margine al margine negativo, mentre il fatturato pubblicitario dei quotidiani è crollato del 19,4 per cento, le copie sono cadute del 6,5 complessivamente. «Siamo aziende in cui la prima voce di costo è quello del lavoro - ha detto Azzurra Caltagirone -, pur andando a una riduzione degli addetti la dinamica contrattuale non è più sostenibile. Così come il numero di addetti non è più sostenibile».
A suo dire andrebbe inoltre fatta una operazione svecchiamento del personale. Considerando il numero di giornalisti contrattualizzati, cioè assunti, come 15mila unità nei giornali e nelle agenzie di stampa, 5mila hanno almeno 50 anni e solo 735 meno di 30 anni. «Se vogliamo una modernizzazione ci servono invece 20 e 30enni, il futuro di questo Paese», dice l’editrice del Messaggero moglie di Pierferdinando Casini, anche senza chiarire come si può invertire questo rapporto, né come in questo passaggio possa essere salvaguardata «la qualità dei prodotti giornalistici e la loro autorevolezza», che pure gli editori riconoscono come obiettivo per invertire la rotta. Anche il presidente Fieg Giulio Anselmi ha indicato «la necessità di una maggiore flessibilità», aggiungendo che comunque «senza un sostegno di politica industriale non usciremo dalla spirale.» La domanda sottesa, cioè non formulata con punto interrogativo finale ma rivolta al nuovo sottosegretario alla presidenza del Consiglio con delega all’editoria Luca Lotti, era: con il nuovo governo che fine farà il cosiddetto fondo Legnini ( 120 milioni di euro in tre anni) per incentivare innovazioni tecnologiche e digitali, piani di ristrutturazione e ammortizzatori sociali, leggi prepensionamenti e quote per l’occupazione di giovani professionisti. Lotti, presente al convegno, ha spiegato a margine dell’iniziativa che per la gestione dei 50 milioni di euro previsti quest’anno dal cosiddetto fondo Legnini per l’editoria le linee guida saranno queste: «Assunzione dei giovani e ristrutturazioni delle crisi aziendali, che dovranno dare delle garanzie sull’occupazione».
Gli editori puntano, dunque, flessibilità totale e spazzare via dinamiche di miglioramento contrattuale, insieme a una buona iniezione di finanziamenti pubblici per nuovi esodi e tagli al personale, incluso quello poligrafico: nelle redazioni di quotidiani e agenzie ci sono ancora 4.500 poligrafici di supporto a 6.500 giornalisti. Un rapporto indicato come «eccessivo». Mentre oltre alla prospettiva dei tagli, il negoziato per il rinnovo del contratto nazionale di lavoro, alle sue mosse iniziali dopo oltre un anno di vacanza, non sembra per ora decollare. Quanto all’analisi dei motivi della crisi, tanto «dei modelli di business » quanto del crollo delle copie vendute in edicola (tra il 2009 e il 2013, il numerodei giornalisti fuoriuscito è stato di 1.662 unità, di cui 887 nell'area dei quotidiani e 638 in quella dei periodici) e non compensate, se non in minima parte, da un aumento degli abbonamenti su tablet, non c’è molto nel rapporto Fieg 2011-2013. Nessuna analisi di dettaglio ad esempio sul mercato dell’informazione locale e la concorrenza dei siti di citizen journalism. Roberto Sommella, che ha presentato un suo studio, fa notare che nel 2011 c’è stata una piccola inversione di tendenza, un leggero aumento di lettura e vendita dei giornali (+ 1,8). Anselmi attribuisce la disaffezione dei lettori alla congiuntura economica e all’avanzare di un’offerta di informazione gratuita in rete. Avverte che le aziende non devono mollare il loro core business cartaceo, considera «un errore da non ripetere» le tv nate dai siti dei giornali, insiste su puntare su una pluralità di piattaforme con pubblici e modalità di scrittura diversi. L’esperimento di successo è il NewYork Times con i suoi ricavi da pay wall, notizie in esclusiva a pagamento sul web. Ma non nasconde che gli editori sono ancora allo slogan «digital first mentre ancora non è arrivato il digital on», ammettendo che l’innovazione è ancora una variabile poco conosciuta in Italia. Niente autocritica però. E nessuna slide sui profitti, inclusi quelli delle quotazioni in Borsa delle aziende editoriali.

Repubblica 17.4.14
Editoria
Fieg: i tagli non fermano la caduta


ROMA . L’esodo di giornalisti (1662 dal 2009 al 2013) e poligrafici (-8,3% nel 2013) e i tagli più che consistenti apportati ai costi negli ultimi anni dalle aziende editoriali non frenano il calo del fatturato, che anche nel 2013 si riduce dell’11,1% per i quotidiani e del 12,7% per i periodici, secondo i dati Fieg. La crisi, ribadisce il presidente della Fieg Giulio Anselmi, rende ancora più urgente la conversione al digitale, coniugata con una valorizzazione dei mezzi tradizionali. Una “smartphone revolution” che non lasci indietro il cartaceo.

Repubblica 17.4.14
De Benedetti: “Nessun ripensamento sul no al dividendo soddisfazione per la decisione di Mondardini di restare”
Espresso, regge l’utile nonostante la crisi 2,1 milioni in tre mesi
di L. Gr.


ROMA. In utile, nonostante la crisi. Il gruppo Espresso, dopo aver chiuso con un risultato positivo il 2013, presenta conti in attivo anche nei primi tre mesi di quest’anno: malgrado il settore continui a risentire della fase recessiva, ha registrato fra gennaio e marzo 2014 un utile consolidato di 2,1 milioni, in linea con lo stesso periodo 2013 (2 milioni). Il risultato, approvato ieri dal cda, mette in evidenza un deciso calo dell’indebitamento netto, sceso nel trimestre a 58,2 milioni rispetto ai 73,5 registrati a fine dicembre 2013. In calo anche il fatturato, sceso a 157,8 milioni dai 182,1.
Un andamento che conferma i risultati positivi del bilancio 2013, approvati ieri dall’assemblea dei soci e maturati in un contesto decisamente critico. L’anno appena chiuso, anche per l’editoria, è stato un anno difficile: il settore, nel suo complesso, ha dovuto fare i conti con una caduta degli investimenti pubblicitari del 12,3 per cento che ha penalizzato soprattutto la stampa (meno 21,2 per cento). Le vendite dei quotidiani hanno segnato un meno 10,2 per cento. Il gruppo presieduto da Carlo De Benedetti ha contenuto gli effetti di tale tendenza: i ricavi diffusionali sono risultati in flessione del 5,8 per cento e, quanto alla pubblicità su carta stampata, la caduta è stata del 19,5 per cento. Il bilancio 2013 ha chiuso in attivo per 3,7 milioni a fronte di un fatturato di 711,6 milioni (meno 12,4 per cento sul 2012). I costi totali sono diminuiti del 9,6 per cento, ma escluse le attività di edizione digitale e televisione digitale terrestre - due settori su cui puntare per il futuro - il calo arriva all’11,2 per cento. Per il 2013 il gruppo Espresso non distribuirà dividendo: «non ci sarà nessun ripensamento» ha precisato De Benedetti.
In particolare “La Repubblica”, 323,5 mila copie medie cartacee diffuse in totale si è confermato primo quotidiano per vendite; i quotidiani locali hanno migliorato il risultato operativo chiudendo a 26,9 milioni; “L’Espresso” si è confermato primo fra i newsmagazine con 2 milioni di lettori. Ampio sviluppo della divisione digitale: i siti web del gruppo hanno registrato una media giornaliera di 1,8 milioni di utenti unici; “Repubblica.it” in particolare conta su una media 1,4 milioni ed è il primo sito d’informazione in lingua italiana con un vantaggio sul secondo aumentato al 24 per cento. I dati positivi, ha specificato l’amministratore delegato Monica Mondardini: «sono stati ottenuti grazie all’abbattimento dei costi e alla capacità di adattarsi alle esigenze del mercato cogliendo le opportunità del digitale». Il nome della Mondardini era entrato nei giorni scorsi nella rosa delle nomine realizzate dal governo Renzi, ieri De Benedetti si è detto «molto soddisfatto della sua decisone di restare nel gruppo nonostante le prospettive presentate».

Il Sole 17.4.14
Crisi continua: i ricavi del primo trimestre giù del 13%
L'Espresso tiene sugli utili Il 2014 parte in discesa
di Simone Filippetti


Cambia il numero dell'anno, c'è il 2014 al posto del 2013, ma è l'unica novità nella tormentata industria dei media. Per il resto lo scenario, pessimo, è immutato: crolla la pubblicità, cadono le vendite. La buon notizia per Carlo De Benedetti, presidente del gruppo editoriale l'Espresso, è che nonostante una crisi che sembra infinita, la società riesca a chiudere in utile, cosa che ne fa una mosca bianca nel panorama editoriale italiano: 2,1 milioni, di fatto gli stessi dell'anno scorso che però aveva più ricavi.
Nei primi tre mesi del nuovo anno, la gente continua a comprare meno giornali e gli investitori fanno meno inserzioni pubblicitarie dell'anno scorso che già era in calo sull'anno precedente a sua volta in discesa. Sono almeno 5 anni che l'industria soffre. Da gennaio a marzo, la casa editrice che pubblica il settimanale omonimo e il quotidiano Repubblica si è fermata a 157 milioni di giro d'affari, dai 180 dell'anno scorso. È uno scivolone del 13%. Le vendite di giornali e periodici sono scesi a 58 milioni (4 in meno del 2013), ma ancora più vistosa la caduta della pubblicità che è scivolata da 101 milioni a 86,5. Ormai irreversibile anche il calo dei prodotti in abbinamento (film, cd, fumetti, ecc, venduti in allegato), ulteriormente scesi da 10 a 7 milioni.
Ma il netto peggioramento della parte alta del bilancio non ha avuto alcun impatto sulla redditività perchè il Mol è rimasto lo stesso dell'anno scorso: 17 milioni. Effetto della drastica cura Mondardini, l'amministratrice delegata che tiene sotto rigido controllo i costi (-12%). Risultato industriale di 8 milioni e utile netto, 2 milioni, uguali all'anno prima. Un buon risultato viste le premesse. Per quello non sono state scontate le parole di Carlo De Benedetti che ieri ha espresso elogi per la volontà della Mondardini di rimanere in sella del gruppo l'Espresso, nonostante la promozione a presidente di Cir dove ad attenderla c'è stata la mina Sorgenia (il gruppo energetico soverchiato dai debiti e a rischio insolvenza).
Con questi numeri, però, niente dividendo e ieri l'assemblea degli azionisti, che ha approvato il bilancio, in primis la famiglia De Benedetti tramite la holding Cir, ha dato l'ok alla dieta ferrea.

Il Sole 17.4.14
Rapporto Fieg. Nel 2013 giù del 13,5% la diffusione di quotidiani e periodici Anselmi: da ripensare il modello di business
Si aggrava la crisi della stampa
Il sottosegretario Lotti annuncia per dopo Pasqua i decreti attuativi degli aiuti
di Marco Mele


«È una crisi nella crisi, di cui non sempre si percepisce la dimensione e la profondità». Giulio Anselmi, presidente della Fieg, non ricorre a metafore o figure retoriche per illustrare un «momento di crisi peggiore di quella generale, che impone un ripensamento del modello di business, nell'interesse sì degli editori, ma anche del sistema dell'informazione, della democrazia, della società». I numeri parlano da soli.
La pubblicità, innanzitutto. Quella sui mezzi di comunicazione è calata del 12,3% nel 2013 sull'anno precedente: sui quotidiani è scesa del 19,5%, sui periodici del 23,9%, sulla tv del 10%, su Internet dell'1,8 per cento. Secondo Nielsen, nel 2013 la televisione ha raggiunto quasi il 60% sul mercato dei mezzi (59,5%) mentre tutta la stampa è al 24% e Internet all'8,5 per cento. I vertici della Fieg hanno evitato qualsiasi accenno alla ripartizione degli investimenti, preferendo concentrarsi sul decreto di attuazione delle legge di stabilità 2014, che ha stanziato 120 milioni in tre anni per «gli interventi di sostegno all'editoria».
Il sottosegretario con delega all'editoria Luca Lotti, che non è intervenuto nel corso della presentazione annuncia che, dopo Pasqua, il governo metterà in agenda incontri con le categorie «per illustrare le linee guida che vogliamo portare avanti per l'attuazione di questi decreti», che prevedono «50 milioni per quest'anno. Le misure andranno nella direzione dell'assunzione di giovani» ha dichiarato Lotti, a margine dell'incontro Fieg.
La diffusione dei quotidiani e dei periodici è scesa del 13,5% in un anno, da 24 a 20 milioni di copie. I quotidiani, da soli, hanno perso il 10,7% delle copie diffuse, scendendo sotto quota quattro milioni (3,7 milioni). La lettura dei quotidiani "tiene", perdendo solo lo 0,9% annuo. «Nonostante la grave contrazione dei consumi sottolinea Anselmi nell'anno passato oltre 20 milioni di persone hanno letto almeno un quotidiano, quasi 29 milioni un periodico, oltre cinque milioni sono stati utenti dei siti web di quotidiani e periodici: numeri che ribadiscono una diffusa esigenza di informazione».
Gli editori solo in parte si consolano con le copie digitali in crescita del 103,8% annuo, pari a 359mila al giorno, rispetto a un calo dell'11% delle vendite cartacee: «Il 90% del fatturato precisa il presidente della Fieg è rappresentato dai mezzi tradizionali».
I bilanci risentono di tale crisi strutturale: i costi operativi dei quotidiani scendono dell'8% nel 2013, ma i ricavi calano ancor di più, dell'11,1 per cento. Il relativo margine operativo lordo, sui bilanci di 51 imprese editrici, è negativo per quasi 110 milioni secondo stime sul 2013. Era positivo nel 2011 per 138 milioni e negativo nel 2012 per 33 milioni. I bilanci 2012 dei quotidiani sono complessivamente in perdita per 44,8 milioni mentre nel 2011 e nel 2010 prevalevano gli utili. Nel 2012 16 imprese erano in attivo e 35 in perdita. I dati disaggregati contenuti nello studio "La stampa in Italia 2011-2013" mostrano andamenti diversificati tra grandi e piccoli quotidiani: il costo per copia, ad esempio, è più elevato (nel 2012) tra le testate da 100mila copie di tiratura in giù. I ricavi editoriali, nello stesso anno, sono più elevati (1,24 euro a copia) nei quotidiani con tiratura oltre le 200mila copie rispetto, ad esempio, a quelli sotto le 20mila (0,67 euro).
Quanto ai giornalisti, Azzurra Caltagirone non usa mezzi termini: «Le dinamiche contrattuali sono insostenibili, così come il numero degli addetti, anche se tutti gli interventi devono mantenere costante la qualità dell'informazione». Nel 2013 la popolazione poligrafica è calata dall'8,3%, quella giornalistica del 6,1%: nei quotidiani vi sono 4.500 poligrafici per 6.500 giornalisti, «ed è un rapporto insostenibile» aggiunge la vicepresidente della Fieg.
Molto interessanti gli spunti di uno studio di Roberto Sommella, «Un nuovo lettore, un nuovo quotidiano»: dal caso del New York Times con il suo paywall che prevede l'accesso gratuito a un numero limitato di articoli al mese e il pagamento per gli altri e anche edizioni tematiche in abbonamento, a quello di BuzzFeed, piattaforma di notizie condivise con gli utenti, 170 giornalisti e 60 milioni di dollari di ricavi pubblicitari. Google, secondo Swg, è la prima fonte di notizie per gli utenti del web, prima di quotidiani e agenzie, con Facebook al quinto posto e Twitter tredicesima.

Il Sole 17.4.14
L'economia di Pechino. Il dato del primo trimestre è il più basso da 18 mesi
Pil cinese avanti «adagio»: la crescita frena al 7,4%
di Rita Fatiguso


PECHINO. Dal nostro corrispondente
La Cina arriva, ormai, all'appuntamento con i dati congiunturali più importanti con il patema d'animo. Sheng Laiyun, il portavoce dell'Istat cinese in conferenza stampa allo State Council ieri riusciva a stento a dissimulare il disappunto per il dato del Pil cinese del primo trimestre, ai minimi da 18 mesi a questa parte, appena il 7,4%, leggermente superiore alle attese del 7,3% ma più vicino alle realistiche previsioni del ministro delle Finanze Lou Jiwei (7,3-7,4) rispetto al benchmarking d'ordinanza consegnato al Parlamento cinese dal primo ministro Li Keqiang, +7,5 per tutto il 2014.
Il gioco delle percentuali, sempre nel mirino delle critiche di chi pensa che siano manipolate, c'entra poco: proprio Li Keqiang, nell'intervento al Forum di Bohao, il più importante summit sulle prospettive dell'economia asiatica che ha appena chiuso i battenti, ha detto chiaro e tondo che la situazione attuale è particolarmente impegnativa.
La Cina non può più far finta che tutto fili liscio. Nelle ultime settimane ha inanellato una serie di dati negativi che, messi insieme, consegnano un quadro preoccupante per i mesi a venire. Le profezie del Fondo monetario, aspramente criticate, rischiano di essere avallate da una realtà cruda.
Non fosse bastato l'indice Pmi crollato sotto la soglia critica dei 50 punti, l'import-export di marzo del big trader mondiale è incappato in un inatteso scivolone, con un -6,6% nelle esportazioni, -11,3 nelle importazioni rispetto all'anno precedente, riperpetuando così l'altalena che ha contrassegnato i dati del commercio con l'estero per tutto il 2013.
Una giostra dai valori sospetti, con insolite bande di oscillazione che gli addetti ai lavori stanno monitorando attentamente per capire quanto di vero import export ci sia nei dati diffusi dalle Dogane cinesi e quanto pesino, invece, le manovre basate sul semplice spostamento di carte e non di merci, fatto semplicemente per spostare valuta.
Ecco perché un Pil declinante fa ancora più paura, specie se lo si associa a un altro fenomeno, la contrazione del circolante registrata lunedì scorso dalle autorità monetarie: la massa di denaro è cresciuta del 12,1%, ai minimi in dieci anni, un sintomo preoccupante del calo dei depositi e della liquidità, il cosiddetto M2 include infatti il cash e i depositi (M1) ma anche asset che possono essere convertiti all'occorrenza in cash o checking deposit. Anche la Banca centrale ha dovuto ammettere che nel primo trimestre i nuovi prestiti sono crollati dello 0,94 anno su anno.
Con questi presupposti, lo sforzo della Banca centrale di riorientare l'economia rischia di penalizzare insieme agli speculatori anche le realtà economiche più fragili, già colpite dal calo della domanda estera e dall'aumento dei costi, specie quello del lavoro, a casa propria. Con effetti perversi tipicamente cinesi come lo sciopero a Dongguan della fabbrica di scarpe con migliaia di lavoratori in sciopero, furibondi, per aver visto diminuire i salari netti a causa dell'aumento dei contributi sociali.
Si comprende così come mai in questo quadro poco entusiasmante il dato dell'inflazione che è la vera ossessione del governatore della banca centrale resta l'unico elemento di consolazione: è rimasta al 2,3 al di sotto del 2,6 dell'anno scorso e inferiore al limite del 3,5 fissato dal Governo per il 2014.
Ieri l'Istituto di statistica ha rivelato anche che nel primo trimestre la Cina ha creato 3,4 milioni di nuovi posti di lavoro, 40mila in più dell'anno scorso nello stesso periodo, e mentre sono aumentati i redditi sia dei migranti sia degli abitanti delle città. Il valore delle vendite delle case è sceso del 5,2 e le nuove costruzioni sono calate del 25,2 per cento, gli investimenti in property development del 16,8.
Ma gli scricchiolii iniziano a sentirsi: il default miliardario del real estate Xingrin, il primo crack di un bond in Mainland China che ha avuto per protagonista Chaori Solar, il delisting appena annunciato di una società di shipping, Nanjing Tanker, il big del peer to peer CreditEase a due passi dal baratro a causa di progetti avventati nel Nord est della Cina, sono spie di un malessere che, forse, è destinato ad aggravarsi.
Quel che è certo è che il passaggio da un'economia distorta finita nel vicolo cieco dell'overcapacity e dell'iniquinamento a una orientata sui reali bisogni di una crescita sostenibile non sarà, inevitabilmente, a costo zero. Per nessuno.

l’Unità 17.4.14
La sinistra e l’eredità di Federico Caffè
di Nerio Nesi


CARO DIRETTORE, NELLA NOTTE TRA IL 15 E IL 16 APRILE DEL 1987 – ESATTAMENTE 27 ANNI FA–FEDERICO CAFFÈ, uno dei più grandi economisti italiani, lasciava la sua casa e scompariva nel nulla. Ma il suo insegnamento non è scomparso. Anzi, il suo libro più famoso, La solitudine del riformista, resta uno degli esempi più alti della nostra concezione del riformismo, quella capace di dare a questo sostantivo ambiguo un valore preciso. Così come le parole che costituiscono il suo testamento: «La fiducia che le idee finiscono per prevalere sugli interessi costituiti non può essere abbandonata da chi ne abbia fatto il fondamento della propria visione della vita».
Facciamo nostro questo impegno morale. La sinistra deve darsi un progetto che unisca l’idealismo a lungo termine alla azione di governo: un progetto alto, in grado di determinare e rendere protagonista una nuova alleanza, che comprenda il mondo del lavoro, il mondo della cultura, della scuola, della ricerca, quelle parti del mondo imprenditoriale che non intendono essere attori del declino, l’articolazione dei movimenti giovanili e delle associazioni diffuse sul territorio e che in modo vario esprimono la domanda di una società civile, quella società «diversamente ricca» alla quale ci richiamano Riccardo Lombardi e Enrico Berlinguer.
La sinistra deve lanciare un messaggio affascinate e credibile: una immagine, una visione, una speranza, che concili i bisogni individuali con l’interesse generale e che non entri in contrasto con la necessaria gradualità di un programma, che conquisti le menti e i cuori degli uomini e delle donne.
In sintesi, la sinistra deve affermare che la lunga tradizione storica, politica e culturale del socialismo europeo, nelle sue varie espressioni, può e deve essere sempre rinnovata e rivitalizzata, attraverso una analisi rigorosa, ma mai rinnegata, perché le radici sulle quali si fonda costituiscono tuttora la nostra base ideale.

l’Unità 17.4.14
Emma Castelnuovo, la matematica che vedeva con la mente
di Michele Emmer


«NEL 1932 MI ISCRIVO ALL’UNIVERSITÀ, MATEMATICA  E FISICA. ERO SEMPRE ANDATA MALE INMATEMATICA; HO AVUTO PER GLI OTTO ANNI DI SCUOLA SECONDARIA UN INSEGNAMENTO FORMALE E RIPETITIVO. Mi iscrivo a matematica e fisica con l’idea di passare a fisica: dopo un anno, sono passata a matematica. Nel 1934-35 al 3° anno seguo il corso di Federico Enriques. Ho ancora i quaderni di appunti, anche se era impossibile prendere appunti. Il nostro era un continuo esercizio a vedere con la mente». Chi scrive queste parole ha avuto Enriques come zio, Guido Castelnuovo come padre, due dei più importanti matematici italiani del novecento, ben noti nel mondo. Emma Castelnuovo, che di lei si tratta, ha avuto una vita piena di interessi e di idée. Una vita attivissima che si è interrotta a 100 anni domenica 14 aprile.
Raccontava Emma: «Nel 1938 fu proibito in Italia, ai bambini, ai ragazzi, ai giovani ebrei di frequentare le scuole pubbliche e l’università. E fu proibito, naturalmente, ai professori ebrei di insegnare. Nelle grandi città come Roma, Milano fu organizzata una scuola ebraica elementare e secondaria. Gli insegnanti erano di ruolo, allontanati dalle scuole pubbliche; io ero fra questi: avevo vinto il concorso nell’agosto del ’38, e avevo perso il posto pochi giorni dopo ». Negli anni 1941-43 a Roma funzionò una università clandestina in cui insegnarono diversi matematici.
Una delle grandi idée di Emma Castelnuovo è stata quella di far «vedere con la mente» il maggior numero di persone. «L’obiettivo del libro è quello di far capire qualcosa di matematica e anche qualcosa del modo di ragionare del matematico a chi ha frequentato, e anche male, la scuola dell’obbligo». Ha scritto nella presentazione del suo libro Pentole, ombre, formiche: in viaggio con la matematica (La Nuova Italia, 1993). Un viaggio «per soddisfare le curiosità partendo da qualche teoria suggerita da problemi di pentole, da osservazioni sulle ombre, e da riflessioni fatte da una formica pensierosa». Con lo scopo, che è stata da sempre la missione di Emma, di «abituare i ragazzi alla ricerca autonoma, proponendosi di svilupparne le possibilità di osservazione, l’intuizione, il senso critico, e, in generale, alcune fondamentali attitudini di pensiero. Ciò è particolarmente utile nella vita di oggi che, diventando sempre più complicata, rischia di non essere compresa da una larga massa di persone, in tal modo relegate a un atteggiamento puramente passivo». Parole scritte nel 1975 nella presentazione di quel libro straordinario Matematica nella realtà (Con Mario Barra, Bollati Boringhieri) che raccoglieva i materiali delle prime mostre di matematica realizzate da Emma Castlenuovo nell’aprile del 1974 alla scuola media Tasso di Roma.
Ecco che cosa rispondeva anni fa alla domanda su a che cosa serve la matematica nella società: «Mi sembra una domanda assurda, lo sappiamo benissimo che serve moltissimo, però l’insegnamento della Matematica è rimasto molto arretrato. Direi che l’Italia, per quello che riguarda l’insegnamento della Matematica nella scuola media è fuori di dubbio sia stata all’avanguardia per i programmi del ’79. Quei programmi sono ben noti perché sono dei programmi non specifici, non dettagliati, ma dalle idee larghe. A qualche insegnante possono rimanere difficili proprio perché non ci sono i dettagli, ad altri, agli insegnanti aperti, riescono belli e interessanti proprio perché sono aperti e uno può insegnare come vuole. L’Italia, dobbiamo tutti riconoscerlo, ha sempre avuto una grande libertà nella scuola secondaria e uno può fare, e infatti l’ho fatto, le pazzie che vuole. Comunque, oggi come oggi, quello su cui si deve insistere a mio avviso è la fantasia che occorre per fare il matematico, perché, con i mezzi formidabili che abbiamo, ci sono tante, a volte troppe, informazioni e bisogna saperle scegliere, e ci vuole anche il posto per l'intuizione e la fantasia del matematico». Senza grandi proclami, senza alte grida e facili entusiasmi Emma Castelnuvo si è da sempre proposta di far comprendere come si può «vedere con la mente». L’utopia di credere nelle capacità dell’umanità tutta. E sappiamo quanto bisogno abbiamo di utopie. Addio Emma.

La Stampa 17.4.14
Il convento dei golosi
Guerre di propaganda tra i monaci medievali
Un libro racconta l’ascesa e la caduta dei grandi centri monastici attraverso il conflitto tra Cluny e Cîteaux
di Alessandro Barbero


Il ritorno dei monaci è un fenomeno del nostro tempo; la visibilità di un Enzo Bianchi e della sua comunità di Bose sarebbe stata impensabile ancora pochi anni fa. E tuttavia, chi dovesse descrivere a un alieno com’è fatta la società moderna sarebbe scusato se dimenticasse di includere nel quadro i monasteri e i loro abitanti. C’è stata invece un’epoca in cui i monaci erano il gruppo sociale più influente d’Europa, in cui la maggior parte delle teste pensanti rivestiva l’abito benedettino e in cui le voci che uscivano dalle abbazie intimorivano la politica. La concorrenza fra diversi monasteri suscitava confronti accesi e appassionati, che possono stupire per la loro durezza. Al più aspro e polemico di quei confronti, che vide protagonisti i monaci di Cluny e quelli di Cîteaux, dedica un poderoso volume proprio la casa editrice della comunità di Bose, Qiqajon, che celebra quest’anno il suo trentennale (Sotto la guida del vangelo. Cluny e Cîteaux: testi e storia di una controversia, a cura di Cecilia Falchini, pp. 617, € 50).
Cluny era il più vecchio dei due monasteri. Era nato nel 909, in un’epoca di violenza e d’insicurezza, quando chiunque esercitasse un potere doveva andare a cavallo e impugnare la spada. I monaci erano gli unici a rifiutare la violenza, il denaro e il sesso, e la gente li guardava con crescente rispetto. Loro stessi erano convinti d’essere gli unici destinati alla salvezza, perché soltanto loro avevano le mani pulite: i parenti rimasti nel secolo non sarebbero sfuggiti alla dannazione. Qualcuno lo viveva come un trauma: ci sono monaci che raccontano con angoscia d’aver sognato il padre e i fratelli che bruciavano all’inferno. Ma la reazione più frequente era d’orgoglio: noi, pensavano i monaci di Cluny, siamo quel che c’è di meglio sulla terra, e noi soli possiamo aiutare gli altri a salvarsi, pregando per loro. Il giorno dei Morti, che celebriamo ancor oggi, è stato inventato proprio dai cluniacensi, a partire dai registri di tutti i morti che avevano fatto del bene al monastero e dovevano essere ricordati nelle preghiere.
L’orgoglio, naturalmente, si paga: i monaci erano antipatici a molti. I loro fratelli e cugini rimasti nel mondo a fare i cavalieri si divertivano ad ascoltare canzoni di gesta in cui i monaci erano descritti come vigliacchi, pigri e ingordi. I menestrelli strizzavano l’occhio: solo chi vale poco può scegliere una vita così, al calduccio nel monastero. Ma anche il clero amava poco i monaci, perché chi aveva scelto l’abito benedettino si sentiva superiore anche al parroco e al vescovo, e non mancava di farglielo sapere. Proprio un vescovo, Adalberone di Laon, in un poema satirico scritto intorno all’anno Mille schizza la caricatura del monaco di Cluny: va a cavallo come un gran signore, orgoglioso e altero, avvolto in una sontuosa pelliccia, il colbacco in testa, e quando gli parlano del re risponde arrogante: quale re? Il mio re è l’abate di Cluny.
Quella di Adalberone era una parodia malevola; ma altre critiche toccavano nel segno. Nei monasteri cluniacensi si beveva bene e si mangiava troppo. Perfino un amico di Cluny come il cardinale Pier Damiani, invitato a pranzo dall’abate Ugo, rimase scandalizzato: possibile che lì non si potesse mangiare di magro almeno due giorni alla settimana? E’ vero che la risposta dell’abate lo rese pensoso. Tu non t’immagini neanche, gli disse Ugo, com’è faticosa la vita che facciamo qui; e aveva ragione. Alzarsi nel cuore della notte e restare per ore in piedi a cantare i salmi nella chiesa gelida, e poi per tutto il giorno rispettare un’agenda inflessibile alternando il duro studio in biblioteca e le interminabili preghiere, e poi andare a dormire distrutti e di nuovo svegliarsi nell’ora più buia e ricominciare, e così ogni giorno per tutta la vita: i miei monaci, disse Ugo, devono mangiare per farcela.
La nemesi, però, era in agguato. Come tutti i movimenti di grande successo, il monachesimo cluniacense finì per perdere il suo fascino rivoluzionario; chi voleva cambiare il mondo cominciò a cercare altre vie. Il nuovo monastero di Cîteaux superò Cluny in popolarità; i suoi monaci, i cistercensi, misero tutto il loro zelo nel far sapere che loro erano diversi, tanto che si vestirono di abiti bianchi, anziché neri come si usava. La gente, che faticava a pronunciare quei nomi difficili, non parlò di cluniacensi e cistercensi, ma di monaci neri e monaci bianchi. I testi raccolti nel volume di Qiqajon mostrano con quanta petulanza i bianchi rinfacciavano ai neri i loro difetti: a Cluny non si lavorava abbastanza provassero un po’ i cluniacensi, se il lavoro della zappa non era più duro del loro lavoro di topi di biblioteca! Il portavoce dei bianchi, Bernardo di Clairvaux, fece ridere la cristianità menzionando i dieci modi diversi in cui i cuochi di Cluny sapevano preparare le uova, e descrivendo il monaco al mercato alla ricerca della stoffa per la sua cocolla, tutto intento a buttare all’aria le botteghe, frugare, palpare, osservare controluce, per trovare il tessuto più raffinato e costoso.
I neri si difesero debolmente: la regola di san Benedetto dice che l’abate deve dare ai monaci tutto quello di cui hanno bisogno, e noi facciamo appunto così; se la domenica mangiamo il doppio, è per onorare il Signore; e quanto al vino, anche Gesù alle nozze di Cana ha dimostrato che bere vino è meglio che bere acqua! Non stupisce che Cluny sia uscita da queste polemiche con le ossa rotte; ma i cistercensi non si rallegrarono a lungo, perché ben presto esperienze ancora più rivoluzionarie, come quella di Francesco d’Assisi, avrebbero reso fuori moda anche il loro monachesimo. Cominciava un lungo declino, al termine del quale perfino un cattolico fervente come il Manzoni avrebbe dato per scontato che nei monasteri viveva gente disperata come la monaca di Monza. Nasceva così, fra il dileggio degli illuministi e l’ironia dei protestanti, quell’immagine sinistra del mondo monastico, in confronto alla quale le polemiche di san Bernardo sul quartino di vino e sulle uova sode sembrano cose da ragazzi; un’immagine la cui ombra arriva fino al Nome della Rosa, e che forse solo oggi esperienze come quella di Bose stanno cominciando a cambiare.

Repubblica 17.4.14
Da Platone agli indiani

Senza la filosofia antica è difficile capire scienza e matematica moderne
E fu così che i greci inventarono l’algoritmo
di Paolo Zellini



Hanno gli scienziati bisogno della filosofia? Se lo chiedeva qualche tempo fa Gerald Holton, storico e filosofo della scienza, sulle colonne del Times Literary Supplement. La risposta era sorprendente. Se ancora Einstein sosteneva che la scienza che ignori l’epistemologia e le opere dei classici - da Platone a Hume, da Sofocle a Spinoza - è primitiva e confusa, dalla metà del XX secolo era prevalsa una fiducia agnostica, audace e anti-epistemica, ben più ispirata all’esteriorità delle applicazioni che alla ricerca introspettiva dei fondamenti.
Tanto che la lettura di quei classici sembrava inutile, faticosa e ottenebrante. Eppure mai come negli ultimi decenni la scienza è stata feconda e ricca di nuovi metodi e risultati. A salvarla dall’anarchia, ipotizzava Holton, sarebbe stata un’epistemologia pur sempre efficace, anche se nascosta e non pienamente consapevole; occorreva cercare, per riscoprirla, nuove tendenze compensatrici e centripete. Forse un nuovo sguardo verso il passato?
Del resto, a ben guardare, non assistiamo sempre a un superamento delle vecchie concezioni scientifiche. Tra scienza antica e moderna c’è un bilancio complicato: nella matematica antica troviamo un rigore e una complessità confrontabili con quella moderna; gli scienziati contemporanei ne hanno generalizzato e smaterializzato i procedimenti, con formalismi astratti, efficaci e pieni a loro volta di un’intenzionalità e di un potere ermetico che spinge sempre a nuove scoperte. Almeno dal ‘600 è stata inventata un’algebra che, ha osservato il matematico Henri Lebesgue, «pensa spesso al posto di chi la impiega». Abili maestri possono oggi addestrare i loro giovani allievi alla manipolazione meccanica dei simboli algebrici, ma è sempre «con l’aritmetica che li fanno ragionare». Possono ora i meccanismi dell’algebra moderna prescindere dalle argomentazioni matematiche di Euclide, di Archimede o di Apollonio? Quanto è davvero distante, oggi, la computatio algebrica dal pensiero e dal ragionamento aritmetico dei matematici greci, indiani o babilonesi che ancora la ignoravano?
I matematici greci seppero piegare la lingua comune a un ragionare preciso, fatto di teoremi, ipotesi, dimostrazioni, definizioni e problemi, e dal loro pensare i numeri e lo spazio ebbero origine figure, algoritmi e tecniche di ragionamento. Una conquista che ancora sorprende; un passaggio arduo, delicato e perfino improbabile. Ne erano esempi i procedimenti di divisione tra grandezze e le tecniche di analisi e di sintesi. Analizzare voleva dire ricondurre una tesi a un principio riconosciuto, di cui quella fosse una conseguenza; come pure cercare le condizioni che rendono possibile la risoluzione di un problema qualsiasi. Nell’analisi interviene l’intuizione invece della deduzione, un ricercare all’indietro i princìpi, indovinando via via gli anelli della catena che, percorsa in senso inverso, sarà la sintesi, cioè la dimostrazione o deduzione della tesi. Con i termini bottom upe top down si denotano oggi percorsi di ricerca simili, rispettivamente, all’analisi e alla sintesi. Ne faceva già uso Platone: l’ anamnesi e i cammini dialettici erano un’ascesa del pensiero, un movimento anagogico di cui l’analisi geometrica era un’illustrazione esemplare. Se ancora nel primo ‘900 la matematica era pensata da molti come un sistema ipotetico-deduttivo, dopo la scoperta dell’incompletezza dei sistemi formali negli anni ‘30 si dovette rivalutare l’importanza dell’intuizione tipica dei processi analitici.
Analizzare è anche “ridurre” un problema a un altro, cioè ricondurre la risoluzione del primo a quella del secondo. È un criterio già applicato nel V secolo a.C. da Ippocrate di Chio, che seppe ricondurre il problema della duplicazione del cubo - tra i più importanti della scienza antica - alla ricerca di due medi proporzionali. Di un’analoga tecnica di riduzione si è valsa la scienza del calcolo negli ultimi decenni: per dimostrare che un problema è indecidibile, cioè non risolubile in modo meccanico, si dimostra che a esso è riducibile un problema di cui è nota l’indecidibilità; una strategia estesa allo studio della complessità degli algoritmi, da cui dipende la risposta a una delle principali domande della scienza dell’ultimo secolo: che cosa può essere automatizzato?
Per studiare i nessi tra scienza moderna e pensiero antico occorre il contributo di esperti di diverse discipline, con ricerche inter- disciplinari tra matematica e filologia di cui in passato hanno dato esempi straordinari Otto Toeplitz, Abraham Seidenberg e Otto Neugebauer. Fanno oggi da modello centri di ricerca come il Needham Research Institute di Cambridge, soprattutto per l’antica scienza cinese, e il Max Planck Institute for the History of Science di Berlino, dove si studiano i significati di concetti fondamentali della scienza, come quello di numero, di movimento, di forza o di organismo nella prospettiva di una “epistemologia storica”. Anche in Italia si pensa ora a progetti per lo studio di forme del sapere antico di cui si è avvalsa la ragione scientifica. Lo scopo è anche di recuperare gli schemi e i profili di ragionamento che sono una specie di a priori, un presupposto evidente di ogni scienza concepibile. È lo studio della scienza antica, dalla fisica alla medicina, dalla matematica alla geografia, a evidenziare questi a priori , ma occorre interrogare anche altre fonti. Nei testi filosofici, come pure nell’ epos e nei poeti tragici, non mancano parole che rimandano al pensiero scientifico. Risalgono al pensiero antico complesse strategie computazionali, di cui si avvale ancora oggi il calcolo scientifico su grande scala. Ne dipendevano non soltanto la scienza e la tecnica, ma anche l’etica, la metafisica e la teologia. Di questo calcolo, che è ora fiduciosamente e perentoriamente rivolto alla tecnica e alla scienza applicata, non capiremmo oggi le più segrete finalità senza risalire alle sue prime formule e conquiste. In Grecia e in India i riti e le offerte votive che accompagnavano le scoperte della scienza ne esaltavano le più essenziali connotazioni: l’intensa ricerca dell’esattezza, il rigore della dimostrazione, la volontà di stabilire una tesi in modo efficace e categorico. I moderni algoritmi hanno ereditato l’esattezza, l’effettività e perfino la struttura degli atti rituali che se ne servivano fin da tempi remoti. Forse gli antichi, pur trascurando inizialmente le potenziali applicazioni degli algoritmi, ne avevano già compresa, sul piano trascendente di una religio delimitata e scrupolosa, tutta la virtuale e temibile efficacia.

Repubblica 17.4.14
De Cataldo incontra Ian Rankin Indagine in coppia sul male “Per definirlo lo raccontiamo”
“La crime story è nata in Scozia con Stevenson”
di Giancarlo De Cataldo



In una stanza piena di fumo, un uomo di mezza età dall’aria amareggiata sorseggia un bicchiere di whisky torbato compulsando il dossier di un efferato delitto. Sullo sfondo, le note di una ballata dell’Incredible String Band. A un certo punto l’uomo ne ha abbastanza, e va a cercarsi una diversa solitudine in un pub malfamato di Edimburgo, pronto a riemergere domattina dalla nebbia alcolica e a riprendere la sua solitaria battaglia contro il crimine. Quell’uomo si chiama John Rebus, fa il poliziotto a Edimburgo ed è il protagonista di una delle epopee più appassionanti dell’intero “crime” contemporaneo.
È così che m’immagino Ian Rankin, il creatore di John Rebus. Avvolto in una nube di fumo, scontroso, irascibile e sarcastico come la sua creatura prediletta, desideroso di liberarsi quanto prima di questo intervistatore telefonico che gli chiederà del suo ultimo romanzo, L’ombra dei peccatori (Longanesi), per tornarsene in santa pace alle atmosfere torbide della sua Edimburgo. Niente di più sbagliato. Questo scozzese di 54 anni con un passato da mancato musicista punk, più un’altra dozzina di altri lavori, è un affabile comunicatore e ha una gran voglia di raccontare di sé e del proprio mondo. E tanto per cominciare, quando gli chiedo quanto ci sia dell’autore nel personaggio, si fa una bella risata.
«A parte la musica e il whisky, Rebus e io siamo molto diversi. Lui è molto più cupo, sospettoso, diffidente della natura umana, cinico. È stato il confronto quotidiano con il male a renderlo così. Abitiamo tutti e due a Edimburgo, una città bellissima, ma lui riesce a vederne solo il lato oscuro, quello notturno. Insomma, io sono Rebus e non lo sono. Sa una cosa? Ogni volta che finisco un romanzo, mi sento meglio. Più leggero. Ho scaricato il mio lato oscuro su Rebus, ed è lui che ne esce peggio, fra i due. Un bel risparmio sulle spese dello psicanalista! Comunque, se mi chiede chi è veramente John Rebus, non so dirglielo. Continuo a scrivere di lui proprio perché cerco di capire chi diavolo è!».
Forse è per questo che lei a un certo punto lo ha spedito in pensione e poi ha dovuto richiamarlo in servizio, a furor di popolo.
«Sì, i lettori chiedevano Rebus e Rebus è tornato. Ma in fondo è stata una decisione facile. Il fatto è che il “crime” è il modo migliore per raccontare la realtà. A volte provo il desiderio di allontanarmene, di scrivere qualcosa di diverso. Ma poi finisco inevitabilmente per ritornarci. Come raccontare la società se non ricorrendo al “crime”?».
Sono spiazzato, lo confesso. Di solito, quando incontro gli autori di “noir” anglosassoni e accenno all’argomento, la reazione è fredda. Io racconto storie, mi dicono, invento, fantastico, la realtà è un’altra cosa. Lei, invece, rivendica l’alto tasso di realismo delle sue opere.
«Intanto, sono orgogliosamente scozzese! La nostra letteratura poliziesca non è figlia di Agatha Christie e del “whodunit”, ma del cinema “noir” e soprattutto di Stevenson. La mia bibbia è Il dottor Jekyll e Mister Hyde , l’investigazione della parte nascosta del perbenismo che tutti noi ci portiamo dentro... E poi mi ha sempre interessato raccontare la realtà. Sono figlio del popolo. Il primo della mia famiglia a studiare all’università. Quando dissi ai miei che avrei preso lettere, e che volevo fare lo scrittore, rimasero senza parole. Lo scrittore? E con il lavoro come farai, figlio mio? Rebus conosce la strada come la conosco io. In fondo, un detective gode di una condizione privilegiata, perché le sue indagini lo portano ad abbracciare l’intera società, dalle fogne ai piani nobili... Credo che accada anche a lei, che fa il giudice, no?».
Fatte le debite proporzioni, mister Rankin. Io non ci sto così tanto sulla strada, come Rebus.
«Sì, ma il senso è che comunque un detective e un giudice si misurano continuamente con tutti i livelli sociali... Perciò Rebus fa le domande che io stesso vorrei fare ai membri eminenti e agli scarti della nostra società. Nei miei romanzi c’è politica, immigrazione, razzismo, finanza, provincialismo, intolleranza religiosa, discriminazione... I mille volti del male, per intenderci».
Posso confermare, da lettore e da fan. Rebus affronta sempre i grandi temi del contemporaneo. Il che, non so se lei è d’accordo, lega la sua opera al “noir” mediterraneo e a quello scandinavo.
«Sicuramente. Per fortuna, grazie al grande successo di Stieg Larsson, anche da noi si cominciano a tradurre scrittori di altri paesi. Arrivano anche serie televisive interessanti. È un’apertura molto positiva. Il male non ha confini, è bene saperlo».
Tuttavia, “il male” a me è sempre sembrata un’espressione troppo generica. Alla fine, come definirlo questo “male”?
Forse è meglio evitare proprio di definirlo...
«Per questo lo raccontiamo! Una volta ho collaborato a una serie di documentari sul male. Cercavamo di capire tre cose: di cosa parliamo quando parliamo di male, da dove viene, cosa fare per combatterlo. Inutile dire che tutte e tre le domande sono rimaste senza risposta. E pensare che sono anche venuto a Roma, in Vaticano, per intervistare padre Amorth, l’esorcista. Alla fine è stato lui a esorcizzarmi. Molto piacevole, considerato l’accompagnamento della grappa!».
Beh, le grandi domande sul male noi cattolici apostolici romani ce le poniamo sin dalla fondazione della Chiesa, e neanche noi siamo riusciti a trovare le risposte giuste.
Anche se qualche indicazione in più possiamo fornirla.
Dopo tutto, “mafia” è una parola italiana.
«Per uno scozzese la Mafia resta un oggetto misterioso. Io l’ho conosciuta studiando Sciascia, il vostro grande scrittore di polizieschi, e poi l’ho approfondita grazie al commissario Montalbano, che qui è popolarissimo... Un fenomeno come la Mafia da noi non esiste. Abbiamo i gangster, ma non certo la criminalità organizzata, come da voi».
Se è per questo, a noi non mancano neanche quelli! A proposito di gangster: negli ultimi romanzi sembra scomparso Big Ger Cafferty, il malavitoso amico d’infanzia di Rebus.
«Anche i gangster cambiano. Big Ger appartiene a una generazione che aveva un certo codice morale. Ora è stato sostituito da giovanotti algidi, ben istruiti, che magari hanno frequentato ottime scuole. Il nuovo volto della “mala” è, se possibile, ancora più cinico e spregiudicato».
E molto attento al potere e al denaro. A quanto pare, le banche inglesi e scozzesi non si so- no coperte di gloria nella lotta al riciclaggio, anzi...
«Ah, certo! Le banche sono puntigliosissime sulle transazioni della gente comune, hanno controlli asfissianti, ma se un oligarca russo si presenta con cinque milioni di sterline cash e si compra un isolato al centro, allora è un benemerito dell’economia! Sarà per questo che siamo così tiepidi con Putin. Per le banche e per il gas... Ma non è certo il problema di un solo paese, non crede?».
Già. I problemi sono globali, e intorno cresce la voglia di defilarsi. Ne L’ombra dei peccatori circola ossessivamente la questione del prossimo referendum sull’indipendenza della Scozia. Come vota John Rebus?
«Vota no, perché è un conservatore, un uomo che ha paura dei cambiamenti».
Ne deduco che Rankin, il progressista, voterà sì...
«Non ho ancora deciso. I politici dovranno spendere argomenti più validi per avere il mio voto. Vede, la situazione è paradossale. L’indipendenza potrebbe essere, in astratto, un tema progressista. Ma qui in Scozia i laburisti sono molto forti, costituiscono l’ossatura del partito anche a Londra. Separandoci, lasceremmo un’autostrada ai conservatori. Non sono convinto che ne valga la pena».
Un’ultima domanda. Ho letto da qualche parte che lei non è entusiasta delle due serie televisive tratte dai suoi romanzi.
«Non mi sono piaciute. Forse è anche colpa mia. Me ne sono disinteressato. Lei è stato più fortunato con Romanzo Criminale ».

l’Unità 17.4.14
Ostia antica
Scoperta una città più grande di Pompei


Torri, magazzini, nuove mura di cinta e tracciati stradali finora sconosciuti. Ostia Antica «diventa una vera e propria città» e rivela tutta la sua grandezza, come nessuno l'aveva mai immaginata fino a oggi. Per la prima volta, la sua pianta integrale scavalca le sponde del Tevere e arriva fino a Isola Sacra, nella zona settentrionale del fiume. Una scoperta archeologica «eccezionale» partita nel 2007.Unimpegno che ha visto lavorare insieme Angelo Pellegrino e Paola Germoni della Soprintendenza speciale per i beni archeologici di Roma e i professori Simon Keay della University of Southampton-British school at Romae Martin Millett della University of Cambridge.

Repubblica 17.4.14
Svelato il segreto di Ostia antica “Una città più grande di Pompei”
di Sara Grattoggi



COSÌ grande da doppiare Pompei. Nessuno fino a ieri lo aveva immaginato, ma Ostia Antica era ben più estesa di quanto si credesse. E proseguiva oltre il Tevere con un quartiere circondato da possenti mura fortificate, a proteggere i grandi magazzini per le merci e un edificio con un doppio colonnato, ancora misterioso. A scoprire l’altra metà “segreta” di Ostia Antica nel sottosuolo dell’Isola Sacra, a pochi chilometri dall’aeroporto di Fiumicino, sono stati gli archeologi guidati da Paola Germoni e Angelo Pellegrino per la Soprintendenza archeologica di Roma, Simon Keay per l’Università di Southampton e la British School at Rome e Martin Millett dell’Università di Cambridge. Grazie alle indagini condotte con un magnetometro, in grado di rivelare senza scavare la presenza di strutture sepolte,
hanno scoperto un quartiere commerciale, finora sconosciuto, con 70mila metri quadri di strutture, fra grandi magazzini e un imponente edificio porticato ancora da interpretare.
Nel 2007 gli archeologi della Soprintendenza e delle università inglesi, che collaborano da 10 anni, avevano iniziato le indagini geofisiche su quella lingua di terra, dove oggi si alternano campi, capannoni, qualche casa e numerosi abusi edilizi. Cercavano l’hinterland di Portus, l’antico insediamento marittimo cresciuto intorno ai porti di Claudio e Traiano, a nord di Ostia. La scoperta delle mura, forse il prolungamento di quelle costruite da Cicerone e Clodio fra il 63 e il 58 a.C. per proteggere la città, ha portato però al risultato inaspettato. «Eccezionale - lo definisce la soprintendente, Mariarosaria Barbera - perché fino a oggi si credeva che il Tevere chiudesse Ostia Antica a nord».
Invece, oltre il fiume, la città continuava: «Abbiamo individuato almeno quattro grandi complessi sottoterra. Non possiamo datarli con certezza, ma pensiamo possano essere di età imperiale» racconta Keay. «Tre di questi erano magazzini usati per lo stoccaggio delle merci, come rivelano le loro piante, con molte celle, simili a quelle dei Grandi Horrea di Ostia. Il quarto, invece, è ancora “misterioso”». Si tratta di un grande edificio porticato «con una pianta atipica, che non permette di definirne la funzione ». «Potrebbe trattarsi di un altro tipo di magazzino, di un deposito per le navi o, forse, di una residenza monumentale» ipotizza Keay. Mentre Germoni non esclude che potesse trattarsi di «un edificio con funzioni pubbliche ». A rivelarlo, saranno le prossime indagini: «Abbiamo già un piano per il 2015 - spiega Germoni - Non faremo scavi estensivi perché non ce li possiamo più permettere, ma li faremo mirati, con una sorta di “microchirurgia archeologica”». Ma soprattutto, sottolinea l’archeologa, «faremo in modo che l’area venga tutelata con un vincolo archeologico più stringente di quello in vigore dal ‘62, in un’area che fino alla fine degli anni ‘90 è stata la prima in Italia per abusivismo edilizio».

Repubblica 17.4.14
“Più di 40 anni fa trovai i primi ruderi ma non capimmo la loro importanza”
di S. G.



«NEMMENO io che lì avevo scavato, aprendo alcune “finestre” sulle strutture nascoste, avevo immaginato che quella fosse l’altra metà della città, cinta probabilmente dalle stesse mura». L’archeologo Fausto Zevi nel 1968 aveva già scavato nella stessa area dell’Isola Sacra interessata dalla recente scoperta.
Ci racconta quella campagna?
«Per costruire una linea elettrica l’Enel aveva piantato quattro piloni, a 150 metri di distanza l’uno dall’altro, e ciascuno di essi era incappato in strutture antiche. Quindi cominciammo a scavare e portammo alla luce resti e reperti di strutture commerciali e grandi depositi, probabilmente proprio i magazzini di cui parliamo oggi. Chiamammo il quartiere la “Trastevere ostiense”, ma non immaginavamo certo che fosse parte integrante della città».
Come l’avevate interpretato?
«Pensavamo fosse il suburbio, al di fuori delle mura».
Cosa cambia, invece, ora?
«Cambia tutto, l’intera conoscenza della topografia e dello sviluppo urbanistico di Ostia Antica. È una scoperta davvero straordinaria ».
Come contestualizzerebbe la scoperta del nuovo quartiere?
«Il 58 a.C., anno in cui Clodio completò la costruzione delle mura di Ostia Antica, fu lo stesso anno in cui con una legge estese il privilegio dell’elargizione gratuita di grano alla plebe a 230 mila nuovi capi famiglia. Questi grandi magazzini, strutture così enormi e capienti, potrebbero indicare la funzione annonaria che il quartiere aveva. Non dico che le cose siano collegate, ma penso che, magari, Clodio nel promuovere la propria legge abbia tenuto conto della disponibilità di tali imponenti edifici per lo stoccaggio del grano».