venerdì 18 aprile 2014

l’Unità 18.4.14
La formula matematica dell’austerità
Nel numero di left in edicola domani il caso dei (controversi) sistemi di calcolo adottati
in Europa per vagliare i bilanci nazionali
di Giovanni Maria Bellu


La copertina del numero di left che sabato troverete in edicola con l’Unità è una lavagna nera sulla quale campeggia una formula matematica. Il titolo la spiega in poche parole: «Questa formula vale 15 miliardi (e il nostro futuro)». Sì, a volte per dire, e capire, le cose più semplici è necessario affrontare questioni complesse. La “cosa semplice” è che la nostra situazione economica (il nostro futuro, appunto) non dipende solo dalla nostra capacità di lavorare e produrre, né solo dalle leggi del mercato, ma anche da modelli matematici che, esattamente come il termometro quando si ha l'influenza, misurano la temperatura corporea. Che, per l’economia di un Paese, è il suo potenziale prodotto interno lordo. Il risultato di questa misurazione determina delle conseguenze rilevanti. Per esempio dà o toglie la disponibilità di somme enormi. La “questione complessa” è il funzionamento del termometro, cioè la formula. Left l’ha studiata, con l’aiuto di esperti della materia, per raccontarla ai suoi lettori. E ha constatato che a volte la matematica è un’opinione. Gli analisti del Centro Europa ricerche, per esempio, considerano quella formuletta europea «non neutrale» e «teoricamente mal specificata». Fatto sta che la sua applicazione ci attribuisce un deficit strutturale dello 0,6 per cento. Mentre se si utilizzasse un altro modello matematico (non meno fondato sul piano teorico) avremmo un surplus dello 0,3 per cento. Quasi un punto di Pil, circa 15 miliardi: una manovra economica.
Solo una disputa tra “econometristi” (così si chiamano gli esperti di questa scienza)? Non proprio. Sergio Cofferati nell’editoriale di apertura sottolinea come troppo spesso in Europa le scelte politiche vengano nascoste dietro meccanismi tecnici, col risultato di impedire ai cittadini di dire la loro. Perché è difficilissimo opporsi a una formula matematica, a meno che – facendo un po’ di fatica – non si riesca a decodificarla. Allora i numeri svelano la vita reale: le diseguaglianze, le ingiustizie. Non è facile, ma è possibile. E i risultati sono sorprendenti.
Lo svelamento della micidiale formuletta non è che uno dei servizi di questo numero. Left racconta anche gli astrusi meccanismi della legge elettorale europea (una legge che, benché se ne parli pochissimo, rischia di fare la stessa fine del Porcellum). E dedica un servizio agli straordinari risultati dell’ottimismo della volontà: è la storia del manager di un’azienda importante che, a cinquant’anni suonati, è tornato sui banchi di scuola e, studiando nelle ore serali, si è diplomato in ragioneria. Insomma, decodificando le formule (cioè riappropriandoci del sapere) scopriamo che non è mai troppo tardi per riprendere in mano il nostro futuro.

Il Sole 18.4.14
Nodo coperture
Irpef, per ora sconto solo per il 2014
di Marco Mobili e Marco Rogari

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Il Sole 18.4.14
All'economia servono misure strutturali
Si può anche ricorrere, e il governo si appresta a farlo, a temporanee «una tantum» per coprire il taglio dell'Irpef nel 2014. Ma si tratta di interventi che poi comunque vanno sostituiti da misure strutturali
di Dino Pesole

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Il Fatto 18.4.14
Il gioco delle tre carte: Renzi paga gli 80 euro  una tantum con i soldi della sanità
Due miliardi e mezzo sforbiciati al comparto Salute
Ecco quanto costa la 14esima del premier
Il rischio è che la Ue bocci le coperture
di Marco Palombi


Due miliardi e mezzo sforbiciati al comparto Salute, scure su stipendi pubblici e Difesa (anche gli F-35), forse torna pure l’Imu. Ecco quanto costa la 14esima del premier.
Il giorno è arrivato. Oggi Matteo Renzi regala la quattordicesima agli italiani che guadagnano poco. Il lavoro di scrittura del decreto è ancora in corso mentre andiamo in stampa - tanto che non è chiaro se il Consiglio dei ministri si terrà stamattina, come previsto inizialmente, o nel pomeriggio - ma la sostanza è chiara: i soldi che arriveranno con lo stipendio di maggio sono certi per tutto il 2014 e nella busta paga si leggerà chiaramente che sono un gentile regalo del nuovo governo. Sperando che i beneficiati se ne ricordino nelle urne il 25 maggio. Anche perché la faccenda sta creando di nuovo tensioni col Tesoro: ieri i tecnici di via XX settembre hanno chiarito con un intervento una tantum di questo genere potrebbe innescare le rimostranze della Commissione Ue.
COME CHE SIA, l’intervento - secondo le bozze circolate ieri - costa 6,7 miliardi e si rivolge a chiunque guadagni meno di 24-25mila euro, incapienti compresi (cioè chi mette assieme meno di ottomila euro l’anno e quindi non paga tasse sul reddito): per tenere dentro tutta la platea il testo non lavora sugli sgravi Irpef, ma su un bonus che dovrebbe riguardare i contributi previdenziali. In sostanza sarà il datore di lavoro ad anticipare la somma scontandola poi dai soldi che deve versare ad esempio all’Inps, lo Stato poi verserà la differenza. Il beneficio sarà di 620 euro massimi complessivi per gli ultimi otto mesi del 2014 e di 950 euro l’anno a regime (tra i 77 e i 79 euro al mese): l’effetto massimo dovrebbero ottenerlo quei lavoratori che guadagnano tra i 17.717 e i 20mila euro l’anno, mentre la curva del beneficio dovrebbe scomparire per i redditi dai 28mila in su. Nel decreto dovrebbe trovare posto anche la riduzione dell’Irap per le imprese, finanziata dall’aumento della tassazione sulle rendite finanziarie dal 20 al 26 per cento: l’aliquota principale dovrebbe passare quest’anno dal 3,9 al 3,75% per scendere al 3,5 dal 2015 (scendono, però, anche le altre aliquote Irap, come quella per banche e settore agricolo).
Sulle coperture del bonus, invece, c’è ancora grande incertezza. Circa 2,2 miliardi dovrebbero venire dal maggior gettito Iva dovuto al pagamento dei debiti della P.A. e dalla elevata tassazione delle plusvalenze generate dalla rivalutazione delle quote di Bankitalia (dal 12 al 26%). Gli altri quattro miliardi e mezzo, invece, sono recuperati attraverso tagli di spesa. Dalle bozze si capiscono due cose: saranno tagli lineari (e non, dunque, recupero degli sprechi attraverso buone pratiche) e costituiranno una sorta di manovra lacrime e sangue per parecchi comparti della spesa pubblica. Il bersaglio principale, come previsto, è la sanità: circa 800-900 milioni quest’anno e un altro miliardo e mezzo dal 2015 per un taglio strutturale di 2,4 miliardi. Nel mirino ci sono tutti i comparti: dai farmaci alle convenzioni alla spesa ospedaliera fino all’acquisto di beni e servizi. Difficile che una tale sforbiciata non abbia effetti sui servizi resi ai cittadini (il ministero, comunque, fa resistenza e sta tentando di limitare i danni). Sotto tiro - e anche questa non è una novità - gli stipendi degli statali, magistrati (che già protestano con l’Anm), organi costituzionali e Bankitalia compresi. In sostanza il tetto massimo dei guadagni di chi lavora per la P.A. viene fissato al livello dello stipendio del capo dello Stato, circa 240mila euro l’anno (ora è a 311mila, al livello dei guadagni del primo presidente della Cassazione): il compenso massimo, però, varrebbe solo per i vertici dell’amministrazione, per gli altri dirigenti - anche non di primo piano - sono previsti tetti a scalare fino a 90 mila euro. Il governo ritiene di ricavarne 400-500 milioni (ma il contenzioso sarà enorme).
TRA LE IPOTESI ci sono poi tagli e taglietti di varia natura: dai 200 milioni quest’anno più 900 il prossimo della Difesa (compresi, pare, gli acquisti di sistemi d’arma, quindi anche gli F35) ai 44 milioni che palazzo Chigi ha deciso di tagliarsi da solo; da qualche spicciolo (15 milioni) preso al Fondo per l’editoria ai 100 milioni di risparmi spegnendo i lampioni (il programma montiano “cieli bui”); dal taglio del 70% sulla spesa del 2011 per le auto blu alla sforbiciata lineare ai bilanci delle società partecipata (del 2% quest’anno, del 2,5 dal 2015); dai 167 milioni sottratti a Caf e patronati nel biennio alla riduzione del 5% degli acquisti della P.A., contratti in essere compresi (e anche qui il contenzioso sarà parecchio). Tra le ipotesi c’è pure il ritorno (parziale) dell’Imu sui fabbricati rurali, misura che non piacerà ad Angelino Alfano. Roba particolarmente dura, che potrebbe - invece di consacrarlo - incrinare il matrimonio tra Renzi e l’elettorato. Lui, però, punta sui soldi in busta paga e sui soliti fuochi d’artificio: il premier, oggi, potrebbe annunciare il taglio dello stipendio suo e di tutti i ministri.

Il Sole 18.4.14
La «manovra» sulla salute pubblica
Tagli da 2,37 miliardi nel biennio: trattativa fino all'ultimo momento
Tagli alla sanità, settore in allarme
di Roberto Turno


I medici e i manager, i farmacisti e le industrie, i laboratori e le cliniche private, la Cgil e i governatori: perfino le prime voci di dissenso che salgono nella maggioranza. Non piace a nessuno la nuova manovra annunciata sulla sanità. Neppure a Beatrice Lorenzin, che un fitto tam-tam ministeriale definisce «delusa» nelle sue aspettative dalla bozza dell'Economia. Preoccupata, ma non ancora rassegnata e pronta a trattare fino all'ultimo con Renzi e Padoan. Perché se i tagli alla spesa sanitaria pubblica arriveranno e saranno già quest'anno più salati del previsto, potrebbero avere altri dolorosi effetti collaterali, a partire dal crollo come un castello di carte della grande utopia di regioni e ministro secondo cui «i risparmi li teniamo tutti nel Ssn». Trascinandosi appresso un semi flop, o quanto meno una brusca frenata, di quel «Patto per la salute» presentato per mesi e mesi come il toccasana di tutti mali del Ssn.
Tutto questo sta accadendo ormai a poche ore dal varo del "decreto Irpef" che incorpora tagli miliardari anche per la sanità: come anticipato ieri, 868 milioni quest'anno e altri 1,5 miliardi dal 2015. In tutto 2,37 miliardi in due anni, ma solo un antipasto di altre manovre future. La ministra della Salute, ma non solo, sta naturalmente presidiando le ultime decisioni che saranno prese a palazzo Chigi. La trattativa non potrà dirsi finita fino all'ultimo, prima del Consiglio dei ministri di oggi, anche se ormai cresce la sensazione che le scelte sui tagli alla sanità siano pressoché in dirittura d'arrivo. Resta da vedere se la notte porterà consiglio, spostando non solo qualche virgola. Un'impresa che le stesse regioni considerano improba. Ma che non le sottrae dal tentativo di fare muro accanto alla Lorenzin.
Il testo fin qui elaborato, peraltro, si è già prestato a più considerazioni e a dubbi interpretativi e applicativi. Come ad esempio l'applicazione della clausola secondo cui con la riduzione del Fondo sanitario nazionale, proprio per evitare tagli lineari, le regioni potranno decidere insieme (e sancire poi un'Intesa col Governo in tempi strettissimi) criteri in qualche modo "premiali" per le realtà più "performanti" considerando ad esempio i tempi di pagamento ai fornitori o l'incidenza degli acquisti centralizzati in sede locale. Parametri non facili da impiegare e calcolare. Tanto che la stessa Ragioneria ha avanzato dubbi. Per non dire delle barricate che di sicuro alzeranno le regioni più in ritardo, commissariate o sotto piano di rientro, già in piena asfissia finanziaria, che sopporterebbero a fatica ulteriori riduzioni di trasferimenti.
Insomma, per il Governo si annunciano tante battaglie lungo il fronte caldo dei tagli alla sanità. Lo ripetono a chiare lettere i medici del primo sindacato degli ospedalieri, l'Anaao: «Tagli lineari e amputazione degli stipendi di tutti i professionisti della sanità», saranno un combinato disposto micidiale, la «cronaca di una morte annunciata». Così come i farmacisti mettono in guardia dai «tagli sui farmaci a danno dei cittadini». Mentre ironizza dal partito del ministro, l'Ncd, il capogruppo sulla sanità alla Camera, Raffaele Calabrò: «C'eravamo tanto illusi di aver messo alle spalle la logica della sanità usata come un bancomat». Un segnale di cosa potrà accadere in Parlamento?

Repubblica 18.4.14
Lorenzin: troppi tagli così la sanità muore
di Rosaria Amato



TAGLI alla sanità di quasi 2,4 miliardi di euro in due anni. Riduzioni che si abbattono sulla spesa farmaceutica, sull’attività ospedaliera convenzionata, sugli “ausili”, cioè le protesi e i supporti per i malati. Non una razionalizzazione, contesta con forza il ministro della Salute Beatrice Lorenzin nella riunione di governo cominciata ieri pomeriggio per mettere a punto il Dl Irpef, e andata avanti fino a tarda notte, ma un taglio voluto dal Tesoro che ha il solo obiettivo di reperire risorse.
QUI cambiano i numeri ogni giorno. - dice il ministro - Prima ci hanno parlato di 400 milioni di tagli, poi di 700. Non c’è visione strategica, entrano a
gamba tesa».
Il ministero, d’accordo con le Regioni, si era detto pronto nei giorni precedenti a reperire risorse attraverso la centralizzazione degli acquisti di beni e servizi, ma ieri pomeriggio di quest’ipotesi non c’era traccia nella bozza del decreto. Invece si parla di riduzione di posti letto e chiusura di piccoli ospedali e presidi territoriali, e di interventi sulle tariffe delle convenzioni, oltre che di riduzione della spesa farmaceutica. I tagli sono suddivisi in 860 milioni di euro per quest’anno e un miliardo e mezzo per il 2015: una mannaia che, contesta il ministro, mette a rischio i Lea, i livelli essenziali di assistenza, e il Patto della Salute con le Regioni, quasi in dirittura d’arrivo, in un’intervista all’ Espresso il ministro ne ha annunciato la chiusura entro i primi di maggio. Ma adesso può saltare. Un’ipotesi che il ministro Lorenzin non intende accettare: il braccio di ferro con il ministero dell’Economia ieri è apparso durissimo. «Io sono per le cose razionali, di buonsenso. - è esplosa il ministro - Sulla sanità dovevamo decidere cosa fare con Cottarelli, ora arriva il Mef e ci dice quanto e dove tagliare. Allora che facciano loro il nostro lavoro, mettano il ministero della Salute sotto un dirigente di secondo livello che si occupa della politica sanitaria del Paese ». Il problema non è solo l’entità dei tagli, ma anche l’utilizzo delle risorse risparmiate, che non vengono reinvestite in servizi sanitari, ma utilizzate per andare in aiuto di altre voci di spesa. Il provvedimento infatti sarebbe legato ad una stima previsionale al ribasso del Pil, che dovrebbe comportare un ridimensionamento complessivo della spesa pubblica.
Il ministero, se il decreto passasse così com’è in Consiglio dei ministri, non avrebbe alcuna voce in capitolo né sul reperimento dei risparmi né sulla loro allocazione. Durissimo anche il giudizio del maggiore sindacato dei medici dirigenti, l’Anaao-Assomod, che parla di «un taglio lineare al fondo sanitario nazionale», e di Federfarma, che ricorda che «la spesa farmaceutica convenzionata, a segu

La Stampa 18.4.14
Tremonti: “Due mesi di Renzi Giudizio positivo sulle riforme Sulle manovre vedremo”
intervista di Fabio Martini


L’ex ministro: deve lavorare, dico no a un’opposizione isterica
Non è un approccio tipico di un politico italiano, quello del “nuovo” Giulio Tremonti: «Se c’è un governo, deve governare e non vedo alternative presenti. Non sono l’opposizione per l’opposizione, ma attorno a Renzi c’è un eccesso di consenso che non fa bene ai governi, perché un consenso di blocco ti si volta di colpo. Perciò serve un’opposizione non isterica, seria». E difatti, reduce dal voto sul Def, il senatore Tremonti deposita un’osservazione delle sue, ma senza maramaldeggiare: «Curioso: il Def è stato firmato soltanto dal Presidente del Consiglio. Nel passato, e per legge, c’è sempre stata anche la firma del ministro dell’Economia, stavolta c’è soltanto Renzi, sembra quasi che abbia l’interim...».
Nell’attuale contesto, Giulio Tremonti avrebbe chiesto il rinvio di un anno del pareggio di bilancio? 
«Se le cose fossero andate in modo normale, l’Italia non ne avrebbe avuto bisogno. Nel 2011, per l’Italia, il pareggio al 2014 era considerato appropriato. Nel maggio del 2011 la Banca d’Italia ebbe a dire che la gestione della crisi era stata «prudente» ed «appropriato» l’obiettivo del pareggio per il 2014. Andava benissimo per tutti e invece nell’agosto del 2011 la Bce impose una forzatura che è finita malissimo. Habermas disse: «Fu un dolce colpo di Stato», per la verità, mica tanto dolce. Se non ci fosse stata quella follia (far pagare all’Italia le perdite delle banche tedesche e francesi), il termine del 2014 sarebbe stato appropriato. Ma ora gli italiani hanno capito e il bilancio di quel che è venuto dall’Europa lo faranno gli elettori alle Europee».
Tre anni dopo quella lettera molto irrituale della Bce, perché non riconoscere che oggi l’Italia quantomeno ha una prospettiva migliore? 
«Quello era un ricatto mortale, una pistola alla tempia. Nessun governo si sarebbe preso la responsabilità di un crollo delle aste e dei mercati preparati per il lunedì successivo. Una prospettiva migliore? Il deficit e il debito sono saliti. Il Pil è sceso, la disoccupazione è salita. In questo momento nel mondo c’è una quantità di liquidità che crea un effetto di euforia che prima o poi avrà termine».
Come sempre, per il governo l’ultimo miglio si sta rivelando pieno di bruschi cambi di direzione... 
«Ma perché dice l’ultimo miglio? Questo è il primo miglio. Dopo dovranno fare Finanziaria, la legge di stabilità... Io ho fatto per tre anni i decreti già a luglio, perché una Finanziaria all’italiana si porta dietro illusioni ed elusioni, annunci e contrannunci. Una Finanziaria all’italiana produce nell’opinione pubblica un logoramento al quale non avrebbe resistito neppure il Fuhrer!».
Per ora non si stanno manifestando corti circuiti alla Prodi... 
«Vuole un primo esempio? La notizia del “ti taglio la luce, se non paghi il canone» è stata smentita ma può avere effetti devastanti. A livello di consensi è come se l’avessero fatto. Il cittadino è portato a pensare: ci hanno provato, ci hanno ripensato, la prossima volta lo faranno. La fuga di notizie fa più male di una notizia».
Poi non si farà ma non la compiace l’idea che potrebbero essere toccate categorie “intoccabili” come magistrati e docenti univerisitari? 
«Era legge una norma che valeva per i rinnovi dei dipendenti pubblici e poneva come parametro un livellamento alla media Ue. Non chiedevamo un dato millimetrico ma l’Istat disse che la media era incalcolabile».
C’è però un valore simbolico, o no? 
«Certo, un alto valore simbolico, ma mettendo nel conto resistenze fortissime, ne ottieni un risultato minimo: non ci fai una manovra».
Dopo quasi due mesi di palazzo Chigi, si è fatto un’idea della potenzialità riformatrice di quella che lei chiama la sinistra pop di Renzi? 
«Vedo due quadranti, quello delle riforme, sulle quali sono molto positivo, anche se si tratta di provvedimenti migliorabili. Sulle manovre vedremo. Se hai il posto fisso e un reddito basso, hai un beneficio. Ma se non hai un posto, ma un po’ di risparmio e la casa, hai un maleficio. In giugno l’impatto della Tari temo che per troppi sarà devastante».

La Stampa 18.4.14
Renzi sfonda al centro, la manovra convince i moderati
Rilevamento Ipsos: tracollo dei montiani. Tiene il Movimento 5 Stelle
di Fabio Martini


Mancano sei settimane alle elezioni Europee, tutti gli istituti di sondaggio concordano nell’indicare il Pd come il primo partito, con un nettissimo vantaggio (circa 10 punti) sul Cinque Stelle) e ancora più netto (quasi 15) sul terzo, Forza Italia. Quel che i sondaggi non dicono esplicitamente (ed è invece un suggerimento che viene dai ricercatori sul campo), è un dato clamoroso: trainato da Matteo Renzi, il Pd conquista molti consensi, per ora potenziali, tra gli elettori moderati. Un boom, uno sfondamento verso il centro e in parte il centrodestra, al quale si affianca un mantenimento del proprio elettorato di origine e una erosione parziale di quello grillino.
L’ultima rilevazione, quella sulle intenzione di voto per le Europee, realizzata dall’Ipsos, un istituto che da anni e ogni settimana monitora le opinioni degli italiani, è eloquente. Il Pd è stimato al 34,2%, dunque con un incremento di quasi 9 punti rispetto alle Politiche del febbraio del 2013. Un boom di consensi, ma presi dove e a chi? I flussi elettorali non sono mai rilevabili con una fotografia, ma - come ripetono in tutti gli istituti - vanno scavati e studiati con analisi ad hoc. Ma un dato risulta evidente: mentre il blocco di centrodestra perde poco meno di due punti, la frana si determina al centro, tra l’elettorato che un anno fa premiò Scelta Civica. Il partito di Monti si attestò allora al 10,5% e oggi viene quotato, assieme al Centro democratico di Tabacci, al 3%, anche se di questa aggregazione non fa più parte l’Udc di Casini, alleata con il Nuovo Centro destra di Alfano. Dunque, un salasso di consensi, tra il 7 e l’8%, gran parte dei quali si può immaginare siano stati assorbiti proprio dal Pd di Renzi, almeno secondo quanto sostengono i sondaggisti.
Interessanti anche i movimenti sul fianco sinistro del Pd. Non decolla, secondo Ipsos ma anche secondo gli altri istituti, la Lista Tsipras, che per ora resta al palo, ferma attorno a quel 3% che fu, il risultato deludente, della Sel di Vendola alle Politiche. Dunque, se su questo versante è difficile riscontrare con precisione i movimenti di elettori che da Tsipras vanno al Pd e viceversa, il calo di circa due punti del Cinque Stelle (al 22,7% per Ipsos) può suggerire un piccolo effetto-calamita da parte del “populista soft” Matteo Renzi. E naturalmente Silvio Berlusconi si è accorto di quel che si sta muovendo nel suo elettorato, perché in lui quelle antenne sono state sempre sensibilissime, alimentate anche da un istituto come l’Euromedia Research della fidatissima Ghisleri. Nella sua prima uscita pubblica dopo tanti improbabili collegamenti telefonici con assemblee periferiche, ieri il Cavaliere si è ripetutamente appellato ad una opinione pubblica moderata, tra l’altro stemperando assai i toni, di solito molto più accesi in campagna elettorale. E l’escalation nei sondaggi di Renzi preoccupa tutti. Se Grillo lo ha definito ieri «un pagliaccetto», una delle capofila di Forza Italia, Maria Stella Gelmini, è più chirurgica e twetta; «Def, ecco la svolta a sinistra. Senza Sel, no maggioranza al Senato», E Anna Maria Bernini. dello stesso partito: «Tutti i moderati possono riconoscersi nella ricetta europea di Berlusconi».

Repubblica 18.4.14
Pareggio di bilancio Sel salva il governo ma il partito si spacca
di Tommaso Ciriaco



ROMA. Sinistra e libertà è a un passo dalla frattura. Il partito di Nichi Vendola, finito nel mirino del premier, vive infatti ore travagliate. Una fetta rilevante della pattuglia parlamentare di Sel, delusa dalla “svolta greca“ e dal matrimonio con la lista Tsipras, attende solo le Europee per mollare gli ormeggi. E nel quartier generale renziano non si fa più mistero di lavorare all’allargamento della maggioranza. In fondo, è quanto sostiene in privato anche l’ex sindaco di Firenze: «Il cantiere è aperto ».
Contano soprattutto i numeri. E a Palazzo Madama Sel può contare su sette senatori. Vitali, in un contesto così fluido. Le prove generali si sono avute ieri, in occasione di alcune votazioni sul Def. La risoluzione che rinvia il pareggio di bilancio al 2016 su cui serviva la maggioranza assoluta di 161 voti - passa con 170 sì. Otto senatori dell’opposizione - tra i quali cinque di Sel e due ex grillini - votano a favore. Il Def, invece, ottiene il via libera con 156 voti favorevoli, con il no dei vendoliani.
Ufficialmente nulla di strano, visto che il partito di Vendola sostiene compattamente la risoluzione. Nichi Vendola, governatore pugliese e leader di Sel, partito a un passo da una frattura
In realtà, però, è proprio il leader pugliese a salvare in extremis l’unità della pattuglia. I malpancisti, infatti, avrebbero comunque sostenuto il rinvio del pareggio di bilancio, sancendo la frattura del gruppo.
La verità è che i contatti tra l’ala renziana di Sel e il quartier generale del Pd sono ormai molto avanzati. A Palazzo Madama almeno quattro senatori vendoliani sono pronti a reclamare un progressivo ingresso in maggioranza. E a Montecitorio i “dissidenti toccano addirittura quota quindici deputati. Sono gli stessi che un paio di mesi fa votarono un documento molto duro verso Vendola.
Tutto si consumerà dopo le Europee, perché i renziani di Sel sono convinti - anche a causa di recenti sondaggi della lista Tsipras inferiori alla fatidica soglia del 4% - che l’esperimento greco sia destinato a fallire. I rapporti umani, poi, sono ormai consumati. Anche per questa ragione non è escluso che un gruppetto di malpancisti possa decidere di lasciare il partito anche prima delle Europee. Con loro potrebbero schierarsi anche alcuni ex grillini, primo passo di quel progetto di Nuovo centrosinistra osservato con attenzione anche dalla minoranza Dem.

Corriere 18.4.14
Rinvio del pareggio con Sel ed ex M5S
Lavoro, Alfano frena sulle modifiche
Opposizione in aiuto della maggioranza al Senato sul varo del Def
Ncd: tornano i vincoli sull’apprendistato. Poletti: nessuno stravolgimento
di Andrea Ducci


ROMA — Ultime curve per il via libera al Def (Documento di economia e finanza) in vista del Consiglio dei ministri di oggi. La giornata di vigilia è servita ad as- solvere agli ultimi passaggi for- mali e tecnici del provvedimento che consentirà al premier Matteo Renzi di varare il decreto per lo sgravio Irpef, destinato ai lavora- tori dipendenti. Per approvare il bonus serviva il voto in Aula alla Camera e al Senato sul Def. L’esi- to era abbastanza scontato a Montecitorio (348 voti favorevo- li, 143 i contrari ), un po’ meno a Palazzo Madama. Per cui non sorprende il risultato al termine delle votazioni dei senatori. Pur approvato, il documento è stato votato da una maggioranza risi- cata. Al vaglio del Parlamento, oltre al via libera del Def, c’era da approvare la richiesta del gover- no per rinviare il pareggio di bi- lancio al 2016. A poco è servita l’audizione del ministro dell’Eco-
nomia, Pier Carlo Padoan, che in Senato si è limitato a ricordare «nonostante i segnali di ripresa dell’anno in corso, anche nel 2014 il gap rimarrà molto negati- vo, la ripresa economica ancora fragile e la situazione del mercato del lavoro difficile». Il ministro ha ripetuto che «per favorire il
pagamento dei debiti della Pub- blica amministrazione il governo ha intenzione di avvalersi della procedura eccezionale», chie- dendo il rinvio del pareggio. L’Aula del Senato ha approvato con 170 voti (era richiesta la maggioranza assoluta) a favore dello spostamento del pareggio.
Il punto è che solo 162 voti sono stati espressi dalla maggioranza che sostiene il governo, gli altri 8 sono arrivati dalle forze di oppo- sizione. Ad allinearsi alla truppa governativa sono stati il leghista Roberto Calderoli (primo firma- tario della risoluzione con la quale Palazzo Madama ha recepi-
to la richiesta dell’esecutivo), 5 esponenti di Sel e, infine, 2 degli ex M5S. Sul Def i risultati di voto hanno registrato 156 voti a favo- re e 92 no. La votazione è finita sotto la quota 161, quella che as- sicura la certezza di sopravviven- za all’esecutivo. I numeri della maggioranza, insomma, seppur sufficienti hanno ricordato anco- ra una volta la precarietà del go- verno a Palazzo Madama. Tanto che Renato Brunetta, capogrup- po del Pdl alla Camera, si è subito spinto a sottolineare che il prov- vedimento è passato «con l’aiuto di una decina di voti da parte di sedicenti opposizioni».
Un ulteriore scollamento tra le forze di maggioranza è emerso in Commissione lavoro a Monteci- torio, dove i deputati di Ncd non hanno partecipato al voto sul de- creto legge predisposto dal mini- stro del Lavoro, Giuliano Poletti. Tutta colpa di un emendamento, presentato dal Pd, che ha ridotto da 8 a 5 le possibili proroghe ri- servate ai contratti a tempo de- terminato nell’arco di tre anni. Secondo Maurizio Sacconi e Ser- gio Pizzolante, entrambi di Ncd, il Pd avrebbe smontato e stravol- to il decreto Poletti contestando l’introduzione di «irrigidimenti» e «meccanismi punitivi su ap- prendistato e formazione. Sacco- ni si è spinto a dire, «non siamo alla crisi di governo, ma c’è un trauma che non possiamo non segnalare». In serata è intervenu- to Poletti per ricucire lo strappo. «Credo che l’esame svolto dalla Commissione lavoro, pur appor- tando alcune modifiche al testo, si sia concluso senza stravolgerlo e rispettandone i contenuti fon- damentali», ha spiegato.

Corriere 18.4.14
Per Renzi 3 maggioranze
Da Forza Italia a Ncd e Sel, vantaggi (e rischi) per Renzi
di Francesco Verderami


Il premier Matteo Renzi dispone ormai di tre maggioranze: quella di governo con Ncd, quella sulle riforme con Forza Italia, e quella parlamentare con Sel, che a Palazzo Madama lo ha «autorizzato» a posticipare di un anno il pareggio di bilancio.
ROMA — Allergico com’è al politicamente corretto, prima o poi Renzi troverà il modo di criticare in pubblico la norma costituzionale sul pareggio di bilancio introdotta dal gabi- netto Monti, che in privato i suoi uomini nel Pd e a palazzo Chigi definiscono «aberrante», perché ingessa la politica economica degli esecutivi già vincolati alle procedure e ai pa- rametri europei. Nel frattempo, però, il pre- mier ha trovato il modo di fare ciò che non può dire, e il voto con cui ieri il Senato ha rin- viato al 2016 l’obiettivo finanziario fissato nella Carta, ha dimostrato che Renzi dispone ormai di tre maggioranze: quella di governo con Ncd, quella sulle riforme con Forza Italia, e quella parlamentare con Sel, che a palazzo Madama ha «autorizzato» il presidente del Consiglio a posticipare di un anno il pareggio di bilancio.
Un vantaggio? Fino a un certo punto. Per- ché le «maggioranze variabili» possono cau- sare seri inconvenienti, quando se ne perde il controllo. Alla Camera, per esempio, con que- sta tattica la minoranza del Pd — saldandosi con i vendoliani — ha riscritto in buona parte il decreto del ministro Poletti sul lavoro, au- tentico caposaldo della politica blairista di Renzi. Talmente aspro è stato lo scontro con Ncd a Montecitorio, che in Commissione il provvedimento è passato con i soli voti del Pd: non un buon biglietto da visita, in prossi- mità dell’esame d’Aula. Di più. Mentre il pre- sidente dei deputati democrat, Speranza, ha esaltato «i miglioramenti» al testo, i capi- gruppo per la Camera e il Senato del Nuovo centrodestra hanno denunciato in conferenza stampa la violazione del patto sui nodi cru- ciali dell’apprendistato e della formazione: modifiche che a loro giudizio «stravolgono il decreto e rischiano peraltro di provocare un pasticcio con Bruxelles».
Più della legge elettorale e delle riforme co- stituzionali, il Jobs Act è il vero stress test per il Partito democratico, dunque per il premier, che alla vigilia del taglio Irpef avrebbe fatto volentieri a meno dello scontro. Ma quello sul lavoro è il tradizionale terreno di battaglia tra chi — come l’ex ministro del centrosinistra Damiano — non accetta l’impostazione ren- ziana, e chi — come l’ex ministro del centro- destra Sacconi — sostiene che «così viene ri- montata la legge Fornero»: «È la dimostrazio- ne che il premier non è in grado di incidere. Altro che Jobs act, siamo alla solita zuppa di sinistra», vecchia battuta di Alfano contro Renzi, quando ancora non stavano insieme al governo.
È vero, la campagna elettorale amplifica le differenze, ma ci sarà un motivo se il titolare del Welfare Poletti — più volte elogiato in questi mesi da Sacconi — si è mostrato a di- sagio per le manovre del Pd alla Camera sul suo decreto: «Sono tra l’incudine e il martel- lo», ha confidato ieri in una conversazione ri- servata l’esponente di governo. Spetterà a Renzi — di qui alla prossima settimana — adoperarsi per togliere il suo ministro da quella scomoda posizione. E non c’è dubbio che gli eventi abbiano molto irritato il pre- mier: «Che cosa sono queste barricate? Evitia- mo irrigidimenti». Anche perché se alla Ca- mera Ncd sta pagando dazio, al Senato si è su- bito vendicato sulla norma delle «dimissioni in bianco». Avanti così e ci scappa l’incidente grave.
Il capo del governo non se lo può permettere, e ha anticipato a Poletti e allo stato mag- giore del Pd che si dovrà trovare un compro- messo con Alfano. L’opzione che va per la maggiore è quella di un emendamento del governo su cui porre poi la fiducia. «Se così fosse, noi voteremmo», ha anticipato la capo- gruppo Ncd De Girolamo. Un attestato di leal- tà? Fino a un certo punto, perché al Senato — dove i rapporti di forza sono diversi — la nor- ma potrebbe essere modificata, con il rischio per Renzi di veder sconfessato il suo esecuti- vo e di dover affrontare di nuovo l’esame della Camera. Perciò si pensa di trovare un accordo politico in Parlamento, senza impegnare su- bito il governo. Sulle tecnicalità il premier la- scia il disbrigo ai suoi uomini di partito.
Fa così anche al governo. Sta facendo così anche sul decreto per i tagli Irpef: i suoi obiet- tivo sono «trovare i soldi per gli 80 euro» e «tagliare le unghie ai mandarini» della pub- blica amministrazione. Per tutto il resto c’è Padoan. E poco importa se l’Economia si fa carico delle «rimostranze» delle banche, o se il ministro della Salute si infuria perché un quarto dei tagli viene dalla Sanità, e ancora ieri sera stava «combattendo» — così ha det- to la Lorenzin — per evitare il salasso al suo dicastero. Sotto a chi tocca: a Renzi servono contanti. Uno stile che a Lupi ha fatto subito tornare alla mente l’approccio di Berlusconi con Tremonti. Tanto che al termine della pri- ma riunione tecnica di governo — vedendo Padoan stravolto in viso — il ministro delle Infrastrutture gli diede il benvenuto: «Su con la vita. Quanto serve? Un miliardo? Dieci? Venti? E che problema c’è...».

Corriere 18.4.14
Tensione nel Pd sul ruolo di Speranza
La minoranza con il capogruppo. I renziani: incontrollabili perché divisi
di Alessandro Trocino


ROMA — «Ci sono atteggia- menti distruttivi nella minoran- za. Un giorno si alza Fassina in commissione Affari costituzio- nali, un altro D’Attorre in com- missione Bilancio. Renzi lancia la campagna europea e nello stesso giorno loro fanno la riu- nione». Angelo Rughetti è pre- occupato. Perché i rapporti tra i renziani e la minoranza del par- tito sono delicati. I gruppi sono stati eletti in epoca bersaniana e, per quanto siano stati molti i cambi di bandiera, Renzi non ha la maggioranza. Per questo, quello del capogruppo è un ruo-
lo chiave. Alla Camera c’è Rober- to Speranza, ex bersaniano. E non è detto che resti lui fino a fi- ne legislatura.
«Il vero tema è che non sap- piamo qual è il nostro interlocu- tore nella minoranza — spiega un dirigente renziano —. L’op- posizione è divisa in più tronco- ni e non si è ancora riorganizza- ta. Questo la rende ancora più incontrollabile. Fanno a gara a chi urla più forte». Un tentativo di riorganizzarla, in realtà, è in corso. Diversi esponenti della minoranza si sono dati appunta- mento al 28 aprile a Roma, al-
l’Eliseo, per un incontro sull’Eu- ropa. Obiettivo: creare un’area riformista. Che nelle loro parole dovrebbe essere «autonoma ma collaborativa» con Renzi. Tra chi potrebbe guidare questa mino- ranza c’è proprio Speranza, ulte- riore motivo di nervosismo nei suoi confronti.
Gianni Cuperlo ostenta spirito costruttivo. Risponde così al- l’hashtag di Renzi #amicigufi: «Spero proprio che nel Pd non ci siano gufi: sarebbe come segare il ramo sul quale stiamo. Eserci- zio ginnico poco conveniente».
Matteo Richetti, indicato co-
me possibile sostituto di Speran- za e autore del documento sul Def firmato da 130 parlamentari, gli conferma l’appoggio: «Soste- niamo il nostro capogruppo nel- la discussione nel Pd a sostegno del Def». Il tema però si pone. Fausto Raciti non ha notizie di prima mano su Speranza: «Ma è verosimile che ci sia un cambio prima o poi. I renziani son can- nibali». Pippo Civati la vede così: «Se fanno fuori Speranza, allora sarebbe bello che ci fosse un rie- quilibrio anche tra le altre aree». Il deputato monzese poi piazza una battuta delle sue: «Speranza? La vera speranza è che ci sia la copertura sul decreto».
Matteo Orfini, giovane turco e quindi non renziano ma nean- che ostile al premier, vorrebbe rimandare ogni polemica: «In questi mesi abbiamo dimostrato che si discute ma poi si vota compatti. Io sono per un time out della discussione. Impegnia- moci tutti per la campagna elet- torale». Il lettiano Francesco Boccia avverte: «Il problema non è il capogruppo ma chi concepi- sce la politica in un certo modo. L’unico a sciogliere la sua cor- rente è stato Letta, gli altri le hanno rafforzate. Spero che i parlamentari apolidi, che ri- spondono solo agli elettori, cre- scano ancora. E che non si dia la sensazione che la fedeltà sia il criterio per essere rieletti».

Repubblica 18.4.14
Quest’anno 620 euro in più a fine dicembre Pareggio di bilancio, sì al rinvio grazie a Sel
Tasse, un euro su 4 rubato al Fisco Irpef, tutti gli sgravi
di Federico Fuibini e Roberto Mania



UN EURO su quattro non arriva a destinazione. Ogni anno fra i 100 e i 120 miliardi mancano l’appuntamento con l’erario. È uno dei più vasti, sistematici e distorsivi fenomeni di evasione fiscale nel mondo avanzato.
IN TRE decenni la sua forza di fuoco in termini finanziari è quasi triplicata. Oggi l’evasione vale circa l’8 per cento del Pil, rispetto a un livello inferiore al 4 per cento dei Paesi europei più efficienti e capaci di conciliare crescita, conti in ordine e equità.
Secondo la maggior parte delle stime, peggio dell’Italia fa solo la Grecia. Ma non c’è alcun dato certo perché nessun governo ha mai osato una stima pubblica e ufficiale della massa di risorse sottratte al fisco, o meglio delle tasse scaricate sui contribuenti onesti o incapaci di sottrarsi da quelli che invece sono capacissimi di
farlo. Per quanto incredibile possa sembrare, questo Paese colpito e affondato dall’evasione non ha mai fatto lo sforzo di misurarla e poi informarne i cittadini. «Non esistono stime ufficiali», ha spiegato di recente ai membri della Commissione Finanze del Senato il generale della Guardia di Finanza Saverio Capolupo, augurandosi che presto si arrivi a formularla. Non dev’essere impossibile, dato che per esempio ogni anno in Gran Bretagna il governo calcola con precisione (e pubblica) la sua stima. Qui, niente. In realtà la cosiddetta delega per la riforma fiscale appena approvata in parlamento prevedrebbe che si cominci a farlo, ma per attuarla servirà almeno un anno. Per ora si sa solo che l’Agenzia delle entrate ha stimato un «tax gap» (mancato gettito da evasione) intorno agli 80 miliardi, tenendo conto di Irpef, Ires, Irap e Iva. Ma non dell’evasione contributiva e di quella relativa alle imposte locali.
Un’elaborazione sui dati forniti da Banca d’Italia e dall’Istat permette comunque di fissare fra i 100 e i 120 miliardi di euro il volume delle risorse sottratte grazie alle più svariate forme di evasione e elusione illegale. Per intendersi, è una somma superiore al costo degli interessi sul debito pubblico, al monte retribuzioni lorde dell’intero personale dello Stato centrale, e pari a tre volte il bilancio dell’istruzione in Italia.
Alla commissione Finanze del Senato, di recente Salvatore Chiri e Paolo Sestito della Banca d’Italia hanno ricordato che il gettito evaso dell’Irap, l’imposta regionale sulle imprese, è quasi un quinto di tutto ciò che dovrebbe essere pagato. Per l’Iva, il prelievo sui consumi, l’Agenzia delle Entrate stima l’evasione al 28%. E dell’Irpef, l’imposta sui redditi personali che nel 2013 da sola ha portato 157 miliardi all’erario, sparisce circa il 14%. Visto il gettito di queste voci, significa che ogni anno mancano all’appello (almeno) 5 miliardi di Irap, circa 40 miliardi di Iva e altri venti o 25 di Irpef. Fino a settanta miliardi di tasse evase su tre sole voci che pesano circa due terzi del totale delle entrate tributarie dello Stato. Nel complesso, è dunque molto probabile che l’evasione sottragga almeno cento miliardi l’anno.
Poiché le entrate fiscali nel 2013 sono state di 426 miliardi, di fatto ogni quattro euro regolarmente pagati in tasse dagli italiani uno è illegalmente sottratto.
La situazione è tale che anche la Guardia di Finanza chiede ormai al governo interventi precisi. Quello più delicato è la revoca delle scelte compiute da Silvio Berlusconi più di dieci anni fa: è ora di fare (di nuovo) del falso in bilancio un reato penale, qualcosa per cui si può andare in prigione, in modo da dissuadere un’infinità di piccole frodi sull’Iva. Ha ricordato il generale Capolupo nella sua audizione in Senato: «Se le misure cautelari amministrative si sono rivelate finora poco efficaci, gli strumenti offerti dalla legislazione penale invece ci hanno permesso di arrivare a risultati importanti ». Le Fiamme Gialle chiedono poi al governo anche di scoraggiare ulteriormente l’uso del denaro contante, ben oltre il tetto a mille euro.
Resta da vedere se questa maggioranza sarà pronta a recepire il messaggio di chi combatte l’evasione in prima linea o prenderà una strada diversa. Nell’ultimo Documento di economia e finanza la lotta all’evasione fiscale compare, ma legata all’attuazione delle delega fiscale in tempi non immediati. Non c’è alcuna enfasi e l’intero tema dell’evasione fiscale appare scolorito nell’agenda della politica. L’approccio rispetto ai precedenti governi a maggioranza di centro sinistra è diverso, come spiega il sottosegretario all’Economia Enrico Zanetti: «Questo governo non intende usare la lotta all’evasione fiscale come scusa per evitare la spending review», dice il sottosegretario di Scelta Civica. «Pensiamo anche che i blitz anti-evasori, tipo quello di Cortina, possano essere utili purché scompaia quella deleteria spettacolarizzazione. È come se l’Agenzia delle Entrate pensasse ad operazioni di marketing anziché al risultato, come dovrebbe fare un’istituzione», è la sua accusa.
Non che l’Agenzia delle Entrate non abbia avuto dei successi negli ultimi anni. Gli incassi derivati da quella che definisce l’»attività di controllo» sono progressivamente saliti da 2,1 miliardi di euro del 2004 fino a 13,1 miliardi del 2013. Ma non tutti sono convinti che si stia facendo tutto il possibile. «La verità è che dopo l’ultimo governo Prodi non si è più seguita una linea di controllo dell’evasione », sostiene l’ex ministro delle Finanze, Vincenzo Visco, oggi tornato all’insegnamento universitario. Con il suo centro di ricerca Nens, Visco sta preparando un rapporto analitico sull’evasione con alcune proposte per combatterla. Peraltro anche l’ex ministro è critico sui metodi seguiti di recente. «C’è stato un blocco della lotta contro l’evasione, compensato con i blitz modello Cortina, che non danno risultati - dice - . Invece, andrebbe ripresa con una strategia di medio-lungo periodo agendo su più leve: modifiche alle leggi, incrocio delle informazioni e delle banche dati, rapporto preventivo con i contribuenti».
Nel frattempo l’evasione fiscale continua ad agire sulla società come una sostanza tossica che ne erode i connotati. Basta dare un’occhiata al confronto europeo per capire fino a che punto l’evasione stia producendo disoccupa- ti in questo Paese. L’Italia è ai vertici, seconda nell’Unione europea a 28 Paesi dopo il Belgio, per il peso del fisco sul costo del lavoro: oltre il 30. Dunque le imprese fanno meno assunzioni e quando si possono si liberano del personale. Per un motivo, fra gli altri, si cui sono responsabili esse stesse: evadono l’Iva, dunque lo Stato tiene alte altre imposte, soprattutto sul lavoro. L’Italia è infatti fra le ultime (dopo Spagna e Irlanda) per gettito Iva nella Ue. E il perno dell’evasione è qui: circa 36 dei 100-120 miliardi di evasione. Questa è la tassa più evasa, anche per la diffusione del lavoro autonomo con oltre 5 milioni di partite Iva. «Sottrarsi a questa imposta consente di occultare base imponibile per il pagamento di altri tributi», sostiene la Banca d’Italia. Chi evade su determinate operazioni non si può che farlo, a cascata, sul reddito frutto di quelle operazioni. Nel 2013 la Guardia di Finanza ha accertato 4,9 miliardi di euro di Iva non pagata, di cui 2 miliardi riconducibili alle cosiddette “frodi carosello” basate su fittizie transazioni commerciali con l’estero. Un caso scoperto a Taranto all’inizio di quest’anno dalle Fiamme Gialle: tre società servivano formalmente ad acquistare automobili e ad emettere fatture fittizie ai reali venditori. Questi hanno dedotto l’Iva sulle fatture emesse dalle società fittizie ottenendo un vantaggio che ha permesso di rivendere le vetture ad un prezzo impraticabile per i concessionari corretti. Era un giro di 16,5 milioni di fatture false per oltre tre milioni di Iva evasa. Un caso tipico di un popolo di santi, poeti e inventori delle più innovative tecniche di evasione con cui l’Italia finirà per affondarsi da sola.

Corriere 18.4.14
I prigionieri delle tasse
di Enrico Marro


Che sia difficile trova- re 6,7 miliardi di eu- ro da mettere nelle buste paga di 10 mi-
lioni di lavoratori dipen- denti è noto. Quando poi, la settimana scorsa, Matteo Renzi ha aggiunto che il bo- nus (i famosi 80 euro al me- se) sarebbe andato anche ai cosiddetti incapienti, cioè ai circa 4 milioni di dipen- denti che guadagnano me- no di 8 mila euro lordi l’an- no, al ministero dell’Econo- mia hanno dovuto rico- minciare da capo, dovendo scegliere tra due strade: o la ripartizione dei 6,7 miliardi su una platea più ampia, ri- schiando di vanificare quella che con una certa (troppa) esagerazione lo stesso presidente del Con- siglio ha definito una «tera-
pia d’urto», o il reperimen- to di altre risorse. Ma dove? Il governo è partito con obiettivi ambiziosi, spie- gando che le coperture al decreto legge che verrà ap- provato oggi sarebbero ve- nute dai tagli strutturali della spesa pubblica.
Poi ha specificato che da queste voci si potevano ri- cavare non più di 4 miliardi e mezzo mentre per gli altri 2,2 si sarebbe provveduto con entrate una tantum. Ma negli ultimi giorni que- sto quadro è stato messo in discussione da un fiorire di indiscrezioni trapelate dal- le stanze dello stesso gover- no. Forse i miliardi assicu- rati dai tagli della spesa sa- ranno un po’ meno e le una tantum vacillano.
Quando i conti non tornano, la tentazione di trovare le coperture con la scorciatoia di aumentare le tasse è forte, soprattutto se si ha bella e pronta una giustificazione etica: redistribuire dai ricchi ai po- veri. Il governo ha fatto bene, ieri, a smentire l’ipotesi di un taglio delle detrazioni fiscali (per esempio, le spese mediche) che avrebbe colpito in particolare i redditi medio-alti, ma che comunque è scritta nelle bozze del decreto in circolazione (articolo 38).
Resta in campo l’idea di colpire le retribuzioni dei dirigenti pubblici, non solo fissando il tetto dei 239 mila euro lordi come per il presidente della Repubblica, che può avere una logica, ma tagliando in maniera lineare anche gli stipendi sotto il tetto, fino a colpire retribuzioni di 60 mila euro lordi. Ma attenzione a scambiare il ceto medio per i ricchi, un errore nel quale si può facilmente incorrere prendendo come riferi- mento le dichiarazioni dei redditi, che purtroppo offrono una rappre- sentazione falsa della situazione. Il ceto medio in Italia è letteralmente stritolato dalle tasse. Bastano pochi numeri a dimostrarlo, quelli recente- mente diffusi dallo stesso governo e relativi alle dichiarazioni dei redditi 2013 (anno d’imposta 2012). Su 41,4 milioni di soggetti Irpef, 10,2 milioni non pagano nulla, in pratica uno su quattro, o perché stanno nella no tax area (meno di 8 mila euro) o perché azzerano l’imposta con le detrazioni. Il 5% dei contribuenti più agiati è quello che ha un reddito superiore a 48.576 euro lordi, circa 2.750 euro netti al mese. Costoro hanno versato 57 miliardi e mezzo di Irpef su un totale di 152 miliardi, cioè il 38%. Bene, sapete quanti sono per il Fisco quelli che hanno più di 2.750 euro netti al mese? Appena 2 milioni di contribuenti. Quindi il 5% di chi sta meglio paga da solo il 38% dell’Irpef. Insistere ancora su questi 2 milioni che non sfuggono al prelievo alla fonte non sarebbe equo a fronte di un mancato gettito da evasione fiscale pari a 120 miliardi. Renzi ha promes- so un bonus coperto da tagli struttu- rali di spesa pubblica improduttiva e inefficiente. Non si chiede altro.

La Stampa 18.4-14
Lo scambio che chiediamo all’Europa
di Stefano Lepri


A una legge che era stata definita indispensabile per salvare l’Italia ora si fa una deroga. Il cliché della sciatteria nazionale incombe; in Germania qualcuno già strilla. Ma il rinvio del pareggio di bilancio approvato ieri in Senato è una faccenda complessa, da considerare a mente fredda. Innanzitutto, è di misura modesta; per il 2014, equivale a circa 5 miliardi di euro.
Il governo Renzi ha chiesto alle Camere di autorizzare una trasgressione lieve alle regole europee (il calendario di risanamento strutturale del bilancio), dopo aver scartato la trasgressione grave (il limite del 3% al deficit). Ci sono buone speranze che la Commissione europea non lo sanzioni; l’altra scelta, oltre a una punizione severa, rischiava rapidi effetti di sfiducia nell’Italia.
Ugualmente il nuovo governo francese, dopo essersi baloccato con l’idea dei «pugni sul tavolo», accantona la trasgressione grave. Perfino il ministro Arnaud Montebourg, capo dell’ala massimalista, ora dichiara che la Francia rispetterà senz’altro i suoi impegni. C’è una scelta simile tra Parigi e Roma, cercare qualche spazio in più evitando lo scontro con Berlino.
Occorre tornare in breve all’inizio, per chiarire. Nel panico della crisi dell’euro, due anni fa, il nostro precedente Parlamento approvò (anche con i voti di chi ora si defila, Forza Italia da una parte, la minoranza Pd dall’altra) una modifica della Costituzione indicata per brevità come «pareggio di bilancio».
In realtà il nuovo testo della Carta dice «equilibrio», concetto più vago di «pareggio». Che significa? La legge applicativa, approvata sempre dalla maggioranza Monti nel dicembre 2012, chiarisce che l’«equilibrio» consiste nel rispettare le regole fissate in sede europea. Queste, già allentate dal 2012 ad oggi, imponevano tappe per arrivare a un «pareggio strutturale» nel 2015.
Il «pareggio strutturale» non è un dato ufficiale della contabilità: risulta da calcoli alla portata di pochi tecnici. Per spostare il traguardo al 2016 ora, con la nuova normativa costituzionale, non bastano i soliti negoziati tra Commissione europea e governi. Occorre prima un voto del Parlamento. Già era in traiettoria per chiederlo, se fosse durato, il governo Letta.
Matteo Renzi e Piercarlo Padoan hanno chiesto la deroga in nome di una manovra più ampia: gli sgravi fiscali subito, maggiori tagli di spesa, in seguito riforme strutturali importanti. Al di là dei loro programmi, le regole europee stabilite nella fase acuta della crisi presentano problemi obiettivi di applicazione, per molti Paesi.
Non si tratta della bufala dei 50 miliardi di euro di nuovi tagli che il «Fiscal Compact» imporrebbe all’Italia ogni anno. L’ha ripetuta ieri Silvio Berlusconi, ci crede anche qualcuno nella maggioranza. Ma non ha fondamento; il Tesoro calcola che la regola sarà rispettata se si riusciranno a fare 11 miliardi di privatizzazioni all’anno in 3 anni (obiettivo ambizioso, non irraggiungibile).
Tuttavia quella regola - la regola del debito - era stata concepita con l’aritmetica di un tasso di inflazione al 2%, obiettivo della Bce. Poiché l’inflazione si prospetta più bassa almeno per un paio d’anni a venire, risulta più gravosa di quanto progettato; anche negli uffici della Commissione se ne stanno accorgendo. Un aggiustamento prima o poi si imporrà.
La diversa regola a cui Renzi intende derogare è protetta da procedure sanzionatorie meno rigide. In sé, il discorso fila: «Risanare i conti subito sarebbe troppo pesante per una economia che non cresce: dateci più tempo per fare riforme che la dinamizzino». Ma le riforme occorre farle davvero. E forse è sensato quel che si dice nella City di Londra: se non cominciano entro giugno vuol dire che non si fanno più.

Il Sole 18.4.14
Euroscettici dichiarati e latenti provano a dare l'impronta alla campagna
Dai «no euro» a Grillo fino alle diffidenze di Forza Italia. Liste nel complesso deboli
di Stefano Folli


Se si deve giudicare dalle liste elettorali, non c'è da farsi molte illusioni sul voto europeo. Candidature deboli, nessun nome o quasi di vero richiamo, pochi esponenti della fatidica «società civile». E questo riguarda le liste di tutti i maggiori partiti. A cominciare da Forza Italia, in primo luogo, che deve affidarsi ancora una volta alla presenza scenica di un Berlusconi che ha riconquistato nonostante tutto il diritto di fare quello che sa fare meglio: le campagne elettorali (anche da non-candidato).
Il Partito Democratico non sta molto meglio, al di là della trovata pirotecnica delle cinque donne capilista. Il destino è affidato totalmente alle notevoli capacità di "marketing" politico messe in mostra da Renzi: nei fatti sarà lui, il presidente del Consiglio, il vincitore o lo sconfitto di queste elezioni a cui ha dato la sua impronta, misurando su se stesso l'intera posta in gioco. Gli altri, chi più chi meno, presentano ingigantiti gli stessi difetti dei due partiti maggiori. Il Nuovo centro-destra di Alfano, ad esempio, insegue il sogno di strappare una fetta di elettorato a Berlusconi, ma invece di combattere una battaglia d'opinione a viso aperto preferisce affidarsi specie nel Sud ai «signori del voto», come il calabrese Scopelliti condannato in primo grado a sei anni per abuso d'ufficio e falso.
Si dirà che anche le liste antagoniste, dai Cinque Stelle alla Lega, non brillano per il fascino e le competenze dei candidati. Tuttavia c'è una differenza di rilievo: loro non ne hanno bisogno, a differenza del circuito centrodestra-centrosinistra. Sia il partito di Grillo sia il Carroccio spostato a destra da Salvini cavalcano l'argomento più solido e più pericoloso di queste elezioni, l'euroscetticismo. O magari il rifiuto netto e demagogico della moneta unica.
Sul piano elettorale sono temi d'impatto, ci sono pochi dubbi. Non a caso l'ultimo sondaggio di Demopolis segnala che la fiducia nell'Europa non è mai stata così bassa nell'elettorato italiano. E ben il 34 per cento, una minoranza assai consistente, sarebbe per l'abbandono dell'euro e il ritorno alla lira. Chi ha impostato la campagna elettorale con l'idea di dar voce a tale tipo di malessere verso l'Europa, corre in discesa: quale che sia l'esito finale di questa scelta politica, il raccolto elettorale immediato si annuncia tutt'altro che scarso.
Questa in effetti è la stagione dell'euroscetticismo. E può darsi che le ricette di Renzi non abbiano il tempo di attecchire, convincendo gli elettori. Le riforme prima bisogna farle, senza cercare scorciatoie. E poi è necessario attendere che esse cambino la vita degli italiani. Solo a quel punto si trasformano in solido consenso elettorale. Per ora siamo ancora nella fase dell'annuncio. Idem per il taglio dell'Irpef. Al netto del vaglio europeo, comunque indispensabile, resta il fatto che gli 80 euro sono, sì, un'idea per ricompattare l'elettorato e magari favorire un po' di domanda interna, cioè di consumi. Il guaio è che anche qui ci vogliono tempi medio-lunghi. In altri termini, è chiaro che il voto europeo suscita parecchie incognite nei partiti, chiamiamoli così, dell'"establishment". Ed è un terreno di scorribanda per le opposizioni, tutte a caccia di quel 34 per cento anti-euro. Con Berlusconi che sta già remando per allontanarsi dalla sponda europea e andare a ingrossare le file degli scettici. La partita è cominciata e si annuncia assai intricata.

il Fatto 18.4.14
Jobs Act a pezzi
Alfano: no al Dl lavoro Ma lo scoglio è il Pd
di Salvatore Cannavò


Il Jobs Act sta diventando una coperta strappata. Dopo l’annuncio del suo rinvio al 2015 da parte del ministro Giuliano Poletti, dopo la delusione provocata dalla mancata iniziativa sul contratto unico, ieri in commissione Lavoro alla Camera si è consumato un ulteriore strappo. Interno alla maggioranza di governo con l’annuncio del Ncd di Angelino Alfano di tirarsi fuori dall’approvazione del provvedimento. Ma, soprattutto, dentro al Pd che ha modificato l’ìmpianto originario.
TRA I CAMBIAMENTI PIÙ RILEVANTI c’è la riduzione, come annunciato ieri dal Fatto , delle proroghe previste per i contratti a tempo determinato. All’interno della durata di 36 mesi senza specifica della causale, che rimane immutata, i rinnovi scendono da otto a cinque. Contestualmente, si fissa al 20% dei contratti a tempo indeterminato il numero massimo consentito per la loro stipula. Modifiche anche per quanto riguarda l’apprendistato per il quale viene reintrodotta la formazione pubblica obbligatoria, che però dovrà essere offerta dalle Regioni o il datore di lavoro non avrà più alcun dovere. Inoltre, le aziende con più di 30 dipendenti dovranno assumere almeno il 20% degli apprendisti, prima di poter stipulare nuovi contratti. Per i contratti di solidarietà, infine, viene elevato dal 25 al 35% lo sconto sui contributi per i datori di lavoro che li applicheranno.
Il testo è stato licenziato dalla commissione con il solo voto favorevole del Pd, l’astensione di Scelta civica e Forza Italia, l’opposizione di Sel, Lega e M5S mentre Ncd non ha partecipato al voto.
“Così non è più il Jobs act ma il rewind act” hanno detto Maurizio Sacconi e Nunzia De Girolamo, capigruppo al Senato e alla Camera di Ncd, in una conferenza stampa. Un modo per dare rilevanza allo strappo e annunciare “la battaglia in aula”. Il provvedimento, infatti, approderà oggi alla discussione generale, mentre per martedì prossimo si annuncia la fiducia che l’Ncd vuole sia posta sul testo originario mentre il Pd, con Cesare Damiano, presidente della commissione Lavoro, chiede venga posta, nel caso, sul testo uscito dalla sua commissione.
Il problema è tutto dentro al Pd e ai suoi movimenti interni. Le modifiche apportate ieri, come hanno notato Cgil e Uil, sono infatti solo dei piccoli “miglioramenti” che non stravolgono l’impianto del decreto. In ogni caso, pongono in evidenza la contraddizione di un governo che vede insieme Damiano e Sacconi i quali, da ministri, si sono fatti la guerra. Ne è un segnale anche la legge sulle dimissioni in bianco che, in procinto di essere approvata dal Senato, è stata inserita dalla commissione Lavoro, presieduta da Maurizio Sacconi, nel disegno di legge delega del Jobs act, rinviandola, di fatto, al 2015. Una decisione contestata da Sel e dalla sinistra Pd.
Al di là dei contenuti, però, c’è anche un problema di tattica interna. Il Pd bersaniano ha individuato in questo provvedimento un terreno in cui demarcare la propria iniziativa ed eventualmente, contrattare con Renzi anche altri dossier, legge elettorale in primis. Il braccio di ferro è la spia di un conflitto più ampio.

Repubblica 18.4.14
La maggioranza traballa sull’occupazione ma Poletti e i Dem sono pronti alla fiducia
di Giovanna Casadio


ROMA. Cesare Damiano dice di essere andato in missione dal ministro Poletti tante di quelle volte da non ricordarselo neppure più. Proprio per ottenere qualche modifica al decreto Lavoro. E ora che è passata in commissione la diminuzione delle proroghe che le aziende possono fare nei tre anni di contratto a tempo determinato - da 8 a 5 -Damiano, ex sindacalista Fiom, ex ministro ora presidente della Commissione Lavoro di Montecitorio, liquida Maurizio Sacconi e le barricate del Nuovo centrodestra: «Dalle mie parti c’è un proverbio: “Attenti a non prendere la mucca per le balle”... Ecco Sacconi e il Nuovo Centrodestra stanno sbagliando. Fanno polemica? Se la tengono. Il testo ormai non si tocca più, come ha dichiarato anche Poletti».
Ma gli alfaniani non sembrano voler mollare. Il braccio di ferro
tra Ncd e Pd annuncia tempesta: la maggioranza traballa. Il premier Renzi deve prenderne atto. Martedì quando si entrerà nel vivo nell’aula di Montecitorio, è quasi certo che sarà posta la fiducia. Ancora peggio al Senato, dove il Pd non ha la maggioranza. Con il clima che c’è, il governo porterà a casa il decreto lavoro solo così. Subito dopo il voto sull’abbassamento delle proroghe, il partito di Alfano è partito all’attacco con un fuoco di fila di accuse: «Il Pd perde il pelo ma non il vizio»; «I Dem non tengono, non sono leali con Renzi e Poletti». Stefano Fassina, democratico, ex vice ministro dell’Economia, risponde: niente furbizie. «Ncd deve sapere che questo per noi democratici è un compromesso. Non avremmo voluto un decreto così, e Sacconi dovrebbe rendersi conto che la nostra visione sul lavoro è alternativa alla destra. Se si riapre la partita, se si pensa di cancellare questo punto di equilibrio, allora si ricomincia daccapo e completamente, se ne discute nel Jobs Act». La Cgil del resto non apprezza il risultato: il decreto non va bene. La sinistra dem lo ricorda alla destra che vorrebbe blindare il testo originario, senza nessuna delle dieci modifiche che in Commissione Lavoro sono passate con l’ok del governo (presente il sottosegretario Luigi Bobba) e del relatore Carlo Dell’Aringa. Damiano precisa che il compromesso non si tocca, e che lui è «autonomo» anche dal sindacato. Ma per Guglielmo Epifani, ex segretario della Cgil ed ex leader del Pd, qualche correzione in più si poteva tentare, ad esempio fissando a due anni il tempo determinato: «I paletti sulle proroghe mi paiono un cambiamento di buonsenso ragiona - non capisco tutta questa agitazione di Sacconi». E getta acqua sul fuoco Gianni Cuperlo: «Non c’è stato nessuno stravolgimento sul decreto lavoro, è stato solo migliorato, e lo si potrebbe migliorare di più».
A ratificare che il decreto modificato va bene, non è affatto stravolto e così resterà, arriva a fine giornata la dichiarazione del ministro Poletti. Si tranquillizza il Pd e in particolare la sinistra dem. Fassina, Damiano e il bersaniano Alfredo D’Attorre hanno contestato anche il Def. Però si allineano al momento del voto. Per mezza giornata la tensione nel Pd si taglia a fette. Matteo Richetti, renziano della prima ora, ha raccolto oltre un centinaio di firme su un documento di appoggio al Def proprio per isolare i dissensi. «Non è possibile che un pezzo di partito sia alla ribalta solo per criticare. Il Documento di economia e finanza è anche una visione.... ». La sinistra democratica invece parla di «linea di continuità » del governo Renzi con quelli di Enrico Letta e, prima, di Monti. Fassina prevede un rischio serio per il welfare proseguendo sulla strade dei tagli. Malumori che al centrodestra fanno prevedere il peggio, ovvero «maggioranze variabili», saldature del Pd con Sel e con i fuoriusciti grillini. Pippo Civati, sfidante di Renzi alle primarie, non le esclude. Attacca la «Sacconiade », le performance del centrodestra e la bocciatura anche della legge sulle dimissioni in bianco. I renziani vorrebbero mantenere la polemica entro il livello di guardia. Richetti teme le «continue divaricazioni nel partito» e non gli sono piaciute neppure un po’ le uscite della sinistra dem che scrolla il governo sulle questioni economiche, gli argomenti più delicati e sensibili in questo momento. «Restiamo al merito - sollecita Fassina - Il decreto Lavoro andava semplicemente inserito in un quadro di civiltà». Resa dei conti subito dopo Pasqua.

Repubblica 18.4.14
No alla deroga
I Verdi esclusi dalle europee



ROMA. I Verdi non potranno correre alle europee. La lista Green Italia-Verdi Europei - che tra i suoi volti più noti presenta la conduttrice Susy Blady - non è stata ammessa in nessuna delle cinque circoscrizioni. L’esclusione è dovuta al fatto che alla lista «non è stata riconosciuta la possibilità di esenzione dalle firme ». Possibilità che il partito ecologista rivendicava invece con forza, in quanto collegato al partito Verde Europeo. Reinhard Bütikofer e Jacqueline Cremers, rispettivamente co-presidente e segretaria generale del partito Verde Europeo, con Daniel Cohn-Bendit e Rebecca Harms, co-presidenti del gruppo dei Verdi al parlamento europeo, hanno scritto una lettera indirizzata al presidente della Repubblica Giorgio Napolitano e al presidente del Consiglio Matteo Renzi. Subito è stato presentato ricorso in tutti gli uffici elettorali. Il leader dei verdi Angelo Bonelli ha definito quanto accaduto «una decisione di una gravità inaudita».

Il Sole 18.4.14
Tsipras: «Un New Deal europeo»
Parla il leader della sinistra radicale greca: basta con la politica d'austerità
di Vittorio Da Rold


ATENE. Dal nostro inviato
Il luogo dell'appuntamento è nella sede storica ateniese di Syriza, la sinistra radicale greca, non lontano da piazza Omonia. L'edifico è rimasto quello delle origini quando il partito contava solo il 4,6% dei voti, mentre alle elezioni del 2012 ha raccolto il 26,8% diventando la seconda forza elettorale del paese e ora, in vista della prossima tornata delle europee, potrebbe diventare il primo partito greco.
Alexis Tsipras, 39 anni, leader di Syriza, candidato alla Commissione europea, è capolista di una lista Ue sostenuta in Italia da Sel e Rifondazione. Tsipras è reduce da una dura battaglia parlamentare condotta nei giorni scorsi contro l'ultimo provvedimento omnibus di riforme suggerite dalla troika in cambio della tranche di prestiti. Il cancelliere tedesco Angela Merkel, in visita la settimana scorsa ad Atene, non lo ha palesemente voluto incontrare.
Perché siete contrari all'austerità?
Siamo contrari all'austerity perché dal punto di vista economico non ha prodotto alcun risultato mentre da quello sociale ha comportato conseguenze catastrofiche. Una competizione tra austerity all'interno di un'unione monetaria (quello che sta avvenendo oggi nell'eurozona dove tutti i paesi si trovano ad attuare politiche di austerità) destabilizza l'unione monetaria stessa e la fa precipitare nella trappola della depressione autoalimentata e della disoccupazione.
L'austerity inoltre alimenta l'ultraindebitamento di una nazione come conferma il caso italiano il cui debito pubblico ogni anno stabilisce un nuovo record, e oggi è pari a un quarto del debito dell'intera zona euro. Per questo la Sinistra europea continua a definire il neoliberismo come una minaccia per l'Europa.
Cosa è avvenuto in Grecia?
In Grecia l'austerità ha causato una crisi umanitaria di proporzioni mai viste in una nazione europea in tempo di pace. Durante il quadriennio del Memorandum (l'intesa con i creditori internzionali Ndr), il mio paese è piombato nella povertà: secondo i dati più recenti dell'Ente statistico greco, più del 34,6% della popolazione vive in condizioni di povertà. Il 18% dei greci non ha nemmeno i soldi necessari per acquistare i farmaci come reso noto dal recente studio dell'Ocse "Society at Glance 2014".
Cosa pensate di fare? Qual è la vostra ricetta per uscire dalla recessione?
La Sinistra europea chiede sia la fine dell'austerità sia una svolta politica, con un aumento della domanda per effetto di una politica monetaria espansiva, la redistribuzione del reddito a vantaggio dei ceti medio-bassi e investimenti pubblici per rilanciare sviluppo e domanda interna.
Il secondo presupposto per un'uscita rapida e definitiva dalla crisi, è il finanziamento di un "New Deal" europeo che abbia come priorità la ricerca, la tecnologia, le infrastrutture e il welfare e che ambisca alla creazione di nuovi posti fissi di lavoro dignitosamente retributi.
È preoccupato per la cocente sconfitta subìta dal presidente francese François Hollande? È mancata l'unità della sinistra in Francia?
Non sono particolarmente interesato alla sconfitta di Hollande, che considero giustificata. Mi preoccupa invece molto la crescita dell'ultradestra populista di Marine Le Pen, perché costituisce una sconfitta della democrazia e dell'Europa. L'unità della sinistra di cui lei parla è un presupposto importante, ma non basta. L'unità fine a se stessa, nel migliore dei casi produce la somma di percentuali elettorali, non la loro moltiplicazione. Temo che il voto a Marine Le Pen non sia un semplice fenomeno elettorale ma sociale. È una questione europea perché correlata alle politiche di austerità e all'attuale struttura europea. La Ue provoca, per la mancanza di trasparenza e la burocratizzazione del suo funzionamento, l'alienazione del cittadino, se non la sua aperta ostilità. L'Europa deve cambiare per esistere.
Cosa pensa delle riforme annunciate dal premier italiano Matteo Renzi, suo coetaneo?
Non vengo in Italia per dare direttive al governo del paese o al popolo italiano: sanno molto meglio di me quali sono le cose da fare e quali quelle da evitare.
Mi limito a ricordare che il film proiettato il Grecia è un film dell'orrore. L'Italia sta uscendo, faticosamente, da sei anni di depressione economica (se si esclude il barlume di ripresa del biennio 2010-11). Per quest'anno la Banca d'Italia preve una crescita asfittica dello 0,7%. Non sono certo quanto possa contribuire allo sforzo un programma di tagli alla spesa pubblica di 34 miliardi di euro per il prossimo triennio. I tagli alla spesa pubblica non sono altro che un eufemismo della parola austerità.

l’Unità 18.4.14
Perché la lotta alla burocrazia
di Michele Ciliberto


Con le sue recenti dichiarazioni il presidente del Consiglio ha riaperto con toni molto forti il problema della burocrazia, preannunciando, in questo campo, una lotta «violenta». Ha fatto bene a farlo, anche se è possibile non condividere i suoi toni, perché si tratta di un problema centrale per la nostra democrazia da molti punti di vista. Anzitutto esso riguarda i rapporti tra politica e amministrazione: se la burocrazia prevale, vuol dire che la democrazia è in una situazione di crisi. E che la politica non è più in grado di svolgere il suo compito specifico, che è quello di dirigere la Nazione, non di svolgere una funzione subalterna. Un problema che ha sollecitato a più riprese l’attenzione dei teorici della politica e della democrazia. Max Weber, un pensatore che si è interrogato con acutezza e profondità sui destini della democrazia nel mondo contemporaneo, ha individuato nel prevalere della burocrazia uno degli elementi di fondo della crisi della Germania bismarckiana. Già prima di lui, un grande storico come Theodor Mommsen, nel suo Testamento, si era espresso in termini durissimi contro la germania bismarckiana e guglielmina che non gli aveva consentito di essere, come avrebbe voluto, un animal politicum. Il problema è dunque grave, se è diventato da tempo materia di riflessione da parte dei classici, perché, al fondo, concerne la funzione - l’autonomia - della politica come «potenza» in grado di assumersi la responsabilità di dirigere una Nazione, e di riuscire effettivamente a farlo. Da questo punto di vista non sorprende che il presidente del Consiglio attuale abbia posto con tale durezza il problema perché il tratto più specifico della sua «presa del potere» è rappresentato dalla riaffermazione - del resto esplicitamente dichiarata - del primato della politica, con una liquidazione definitiva della stagione dei «tecnici», cioè la delega del potere alla burocrazia, alla amministrazione. Programma, e obiettivo, che non si può non condividere.
Ma se questo accade, vuol dire che c’è stato, oppure è ancora in atto, una crisi della politica e, quindi, della democrazia. L’amministrazione, la burocrazia riempiono il vuoto che si apre quando la politica non è più in grado di svolgere il suo compito, ed è ridotta a una funzione caudataria, subalterna. Condurre una lotta «violenta» contro la burocrazia si intreccia, anzi si identifica quindi con un lavoro di ricostruzione della politica e di conseguenza, della democrazia. E questo in Italia significa fare i conti fino in fondo con il ventennio berlusconiano che, sul piano storico, coincide, morfologicamente, con un progressivo svuotamento della politica, sia a destra che a sinistra, e con l’affermazione di poteri «burocratici» che, senza alcun controllo politico o parlamentare, hanno feudalizzato lo Stato generando un ceto di nuovi mandarini refrattari ad ogni regola e pronti addirittura a diventare minacciosi, se i loro privilegi vengono messi in discussione.
La questione aperta dal presidente del Consiglio è dunque di prima grandezza coincidendo, senza mezzi termini, con la questione democratica. Ma non può essere risolta limitandosi a liquidare il ceto dei boiardi berlusconiani o affidando ad alcune donne la presidenza di enti prestigiosi.
Certo, sono segnali importanti anzitutto sul piano simbolico, specie in una fase elettorale come questa, alla quale il premier affida un rilievo essenziale anche per la sorte del suo governo, fino al punto di entrare in tensione con l’Europa sulla questione del pareggio del bilancio. E sono scelte rilevanti anche per la dislocazione dei poteri negli enti pubblici - e nella Nazione - che esse comportano.
Ma sono segnali e scelte che rimangano alla superficie, se non affrontano, alle radici, il problema nel nostro Paese della funzione della politica e della crisi della democrazia rappresentativa. Se questo non viene fatto, o si fanno scelte strategiche sbagliate, il potere della burocrazia resta intatto e si ripropone in forme diverse dal passato, ma altrettanto forte e tenaci.
Cerco di spiegarmi. Il presidente del Consiglio si sta impegnando al massimo nella campagna elettorale europea per un motivo assai chiaro. Vuole essere leader della Nazione, non solo segretario del Pd, e vuole per questo avere una investitura popolare: quella che, presumibilmente avrebbe avuto se si fosse andati alle elezioni politiche anticipate. Per molti motivi, non ha potuto farlo e ha dovuto bruciare le tappe liquidando il governo di Enrico Letta in stato, peraltro, comatoso. Si capisce questa esigenza. Sbaglierebbe però a mio giudizio, se «traducesse » questa esigenza nei termini della democrazia diretta e interpretasse - come è avvenuto con le primarie - un voto a lui favorevole come una investitura del popolo alla sua persona e alla sua politica, con una conseguente subordinazione al potere esecutivo degli altri poterti repubblicani. Insomma, sbaglierebbe se pensasse di risolvere la crisi, e a fondare il suo potere, in termini (per capirsi) di carismaticitá. Non è questa, a mio giudizio, la strada per uscire dalla crisi della sovranità moderna e della democrazia rappresentativa e per contrastare il dominio della burocrazia.
Come ci è stato spiegato molto tempo fa, il potere carismatico, imperniato sul rapporto diretto tra leader e popolo, finisce appena «perde quella base puramente personale e quel carattere di fede nettamente emozionale che lo distingue dal vincolo alla tradizione della vita quotidiana ». È forte e, al tempo stesso, precario; a differenza della burocrazia che è invece solida, imperniata sul principio della carriera e dell’avanzamento, compreso quello dello stipendio; ed è sempre pronta a riaffermare il suo inesauribile potere quando il leader cade e si spezza il suo rapporto con il popolo.
Il premier fa dunque bene, ne sono persuaso, a inaugurare una lotta «violenta» contro la burocrazia: è una questione vitale per la nostra democrazia. A patto di inserirla in un programma organico di riaffermazione del primato della politica e di radicale riforma della nostra democrazia rappresentativa. Un programma impegnativo, mene rendo conto. Ma come dicevano i latini, hic Rodhus, hic salta.

Repubblica 18.4.14
I partiti al libero mercato delle scelte individuali
di Nadia Urbinati


HA DETTO Matteo Renzi al festival del volontariato di Lucca che “tutti i partiti politici e tutti i sindacati che accedono ai contributi pubblici devono avere gli stessi standard di comunicazione dei dati”. Ottima proposta. Ma sarebbe desiderabile che includesse anche il riferimento ai contributi privati: trattandosi di associazioni che contribuiscono alla vita delle istituzioni, nessun contributo dovrebbe restare non rivelato. La riforma della politica passa anche di qui. E l’inchiesta di Repubblica sui finanziamenti privati ai partiti politici dal 1992 ad oggi (pubblicata il 2 aprile) ne è una prova ulteriore. L’intensità e la recidività del malaffare ha prodotto un’opinione ostile al finanziamento pubblico, nella convinzione che lasciare ai privati il mercato dell’opinione politica sia meno esoso. L’inchiesta di Repubblica mostra come i soldi seguano le fortune elettorali dei partiti facendo sorgere il sospetto che leader e governi non siano indifferenti ai desideri dei donatori, i quali ovviamente non danno soldi solo per scopi assistenziali.
È ovvio che la politica nelle democrazie abbia bisogno di soldi perché inclusiva di tutti, anche di chi soldi non ne ha. Ha per questo bisogno di regole che ci tutelino dagli effetti che la necessità del denaro può produrre: la corruzione. Benché le leggi non riescano a cambiare la natura umana, possono essere dispositivi di deterrenza capaci di neutralizzare i piani di corruzione. Sono due le forme di corruzione delle quali preoccuparsi: l’uso improprio di risorse pubbliche e la violazione dell’eguaglianza politica di cittadinanza, ovvero l’uso di risorse private per favorire o impedire decisioni pubbliche. La prima è quella che sta a cuore a chi si oppone in Italia al finanziamento pubblico dei partiti e che ha ispirato la legge approvata nel febbraio scorso per la quale i cittadini stessi scelgono di destinare il 2% dell’Irpef ai partiti di loro gradimento. L’idea guida è che privatizzando la scelta alla sorgente si possa controllare meglio l’operato dei partiti. Se non che, affidare l’esistenza dei partiti alla volontà dei privati (oltretutto non di tutti egualmente, ma solo di coloro che pagano l’Irpef) può facilmente legare il potere dell’influenza politica alla diseguaglianza delle possibilità economiche dei singoli cittadini, generando una corruzione ancora più radicale.
Per scongiurare questo scenario, le legislazioni dei paesi europei si sono dotate di misure di controllo. La Germania, che contrariamente all’Italia tratta i partiti come organi di diritto pubblico, prevede l’intervento del legislatore per controllare sia l’aspetto economico sia l’ordinamento interno così da renderlo “conforme ai principi fondamentali della democrazia”. Ciò ha consentito, come sappiamo, di escludere i comunisti e i nazisti dalla vita parlamentare, ma ha anche permesso di controllare il finanziamento. In conformità ai principi democratici, la Germania ha statuito un contributo pubblico ai partiti proporzionale ai voti ricevuti e in rapporto ai voti validi, e stabilito un tetto minimo di voti necessari per accedere ai finanziamenti. La Commissione Bozzi (1983-1985) si era ispirata a questo modello quando aveva proposto un’aggiunta all’articolo 49 della Costituzione che si riferiva esplicitamente al finanziamento pubblico. La proposta non ebbe esito.
Legare il destino dei partiti al mercato delle scelte individuali non pare essere una strategia saggia. L’esempio degli Stati Uniti dovrebbe farci riflettere. I partiti americani sono associazioni libere, finanziati solo con i soldi privati e il sistema politico americano (incardinato sulle primarie) rende le campagne elettorali un pozzo di San Patrizio e la politica un affare nel “libero mercato delle idee”, dove il denaro è un’indicazione di libertà di parola, secondo una nota interpretazione del primo emendamento alla costituzione. Il finanziamento privato è una spina nel fianco della democrazia americana, un passaporto all’ingiustizia politica oltre che a spese sconsiderate e infine per nulla al riparo dalla corruzione, che è anzi resa lecita. La nostra nuova legislazione che ridefinisce il finanziamento pubblico come sostegno privato volontario da parte dei contribuenti si iscrive in una visione del partito politico come associazione privata o extra-statale e con un rapporto conflittuale rispetto allo stato democratico. Il paradosso è questo: sappiamo che il sistema rappresentativo necessita di partiti, eppure ci rifiutiamo di accettare che il partito sia un’associazione in parte pubblica. L’Italia, convinta di seguire il modello tedesco nella riforma del Senato, si ispira al modello americano nel modo di intendere i partiti. Il sistema tedesco, molto meno corrotto del nostro e di quello statunitense, riposa su partiti che sono concepiti e regolati come protagonisti della “partecipazione libera e duratura” alla vita dello Stato, non lasciati alla forza degli interessi privati e al potere diseguale di chi ha più voce nel mercato.

Repubblica 18.4.14
Il Senato va chiuso
di Guido Ceronetti



MATERIA non è da sogni la malnascente riforma del Senato italiano, è però fatta della stessa sostanza dei sogni. Volendo proprio sognare qualcosa di interessante e di inaudito, bisogna immaginare di abolire del tutto il Senato, ingombrante e costosa istituzione, tribuna oratoria perfettamente superflua (per vendere eloquenza ne abbiamo fin troppe), transito di leggi ad effetto enormemente ritardante, e riservare tutto il fior fiore del Legislativo ad una sola autosufficiente, sovrana, croccante Camera, affidata alla deità benevola
della romana Venere Cloachina.
Mettere al posto dei senatori eletti presidenti di regioni, sindaci, e altri sbandati che si sforzerebbero di contare qualcosa contando balle al di fuori del loro ruolo e àmbito di potere, è adunata di zombi parlanti quando nient’altro che il silenzio e le luci spente cancellerebbero almeno in un palazzo l’arroganza e l’empietà, il disonore e il logoramento dei partiti. Penso che tutti abbiano una gran voglia, insaziata, di un poco di verità, di drasticamente purgativo - in fondo, di sogno messianico, erroneamente centrato sulla politica di una democrazia degenerante.
La Camera dei Deputati, liberata dal Senato, potrebbe innamorarsi di se stessa e fare salti e corse da Vispa Teresa. Dal residuo, che con la riforma renziana (lodevole nelle intenzioni), resterebbe del pachiderma senatorio, non potrebbero emanare che vapori tossici.
L’irriformabilità italiana è ormai un calco statuario. La peggiore delle leggi elettorali di quasi un secolo, dopo compianta espulsione dalla porta, te la vedrai ricomparire sul davanzale, nera come il corvo di Poe, per ripetere sfacciatamente: Nevermore. E così tutto il resto. Sono stato giovane, adesso vecchio, e non ho visto succedersi che classi dirigenti democratiche prive di idee: perciò sono un cittadino che non vota più. Restano, fondamentali, la riforma portata col divorzio e quella sull’aborto di fatto disapplicata. Ma dopo tanto scatto, il Pensiero Unico, micidiale costrittore dell’immaginario e della realtà sociale, è sempre più uscito indenne da scalfitture. Un Senato italiano autenticamente riformato è un Senato chiuso.

il Fatto 18.4.14
“I genitori sono razzisti” Il preside lascia la scuola
“Le famiglie iscrivono i bambini in altre strutture per via degli extracomunitari”
di Andrea Giambartolomei


Torino Il giovane direttore lascia. Troppo difficile fare il preside, soprattutto se ci si mette il razzismo di alcuni genitori che iscrivono i propri figli nelle altre scuole per “una diffidenza aggressiva nei confronti del diverso”. E così a settembre nella sua scuola elementare ci sarà solo una classe prima e sarà una classe “ghetto”, con 12 studenti stranieri su 14 allievi. Succede a Dronero, principale centro della Val Maira in provincia di Cuneo, dove Graziano Isaia, 37 anni, da due anni preside di nove scuole della valle (un totale di circa 600 allievi e 150 dipendenti), ha chiesto di tornare a fare il maestro. Dopo essersi dimesso però ha denunciato     una situazione: “A cosa serve avere le mani pulite se si tengono in tasca?”, dice al telefono citando don Lorenzo Milani. Lui ha tirato le sue mani fuori dalle tasche per scrivere una lettera aperta al sindaco Livio Acchiardi e al presidente del consiglio d’istituto, una lettera in cui ha denunciato il razzismo latente di alcuni genitori che discreditano la scuola elementare di piazza Marconi e minano la vita civile.
MA COSA è successo in questo centro delle valli occitane, terre di tolleranza e di lotta partigiana? “Tre madri hanno agito per destabilizzare la situazione”. Si spieghi meglio, direttore. Isaia racconta. Il comitato genitori delle elementari di Dronero stava organizzando una marcia per raccogliere fondi a sostegno     della scuola: “Lo Stato ci passa solo 4 mila euro all’anno e la loro iniziativa è apprezzabile, se non fosse che in quest’occasione ho saputo che alcuni genitori hanno iscritto i loro figli alle classi prime di altri istituti”. I motivi? “Criticano gli insegnanti basandosi su pregiudizi, criticano l’adozione dei libri di testo e, soprattutto, non apprezzano la presenza dei figli degli stranieri in classe. Quest’ultimo problema cova sotto”.
A Dronero il 5 per cento della popolazione è di origine ivoriana, persone arrivate negli anni Novanta per la lavorazione del legno, la raccolta della frutta e la fabbricazione di biciclette. Il preside Isaia vuole capire meglio e organizza un’assemblea coi genitori che dovranno iscrivere i figli alle classi prime, ma nessuno fa emergere questi problemi. Nel frattempo però l’azione di tre madri continua: “Alla fine hanno convinto undici famiglie di italiani ad andare altrove – spiega –. Non potremo costituire due classi prime, ma solo una con dodici stranieri e due italiani. Ho l’85     per cento di stranieri, ben oltre il 30 per cento imposto da una circolare del ministro Gelmini: una classe così deve essere autorizzata dall’Ufficio scolastico territoriale”.
NELLA SUA LETTERA aperta il direttore attacca con chiarezza: “Nessuno lo ammetterà mai, ma alla base della fuga dal capoluogo non c’è soltanto avversione per alcuni metodi d’insegnamento, c’è anche una diffidenza aggressiva nei confronti del diverso”. Aggiunge che per alcuni genitori “in piazza Marconi c’è lo sporco, il fastidio, il peso morto, la puzza, l’ignoranza scimmiesca. Con questi usurpatori del suolo natio chi si sente superiore non si vuole mescolare”. Al telefono aggiunge che questo è “un danno culturale che non potrà essere compensato da nessuna raccolta fondi”. Per il sindaco di Dronero, Acchiardi, tornato da poco da una gita con le terze medie a Mauthausen, la situazione è molto spiacevole: “In questi anni abbiamo fatto di tutto per non discriminare nessuno e inserire tutti”.

l’Unità 18.4.14
Il «nido di vespe» del Quadraro ricorda il rastrellamento
Nel quartiere di Roma iniziative culturali e scolastiche nei 70 anni dalla deportazione di un migliaio di cittadini come rappresaglia nazifascista
di Salvatore Maria Righi


Gli accerchiamenti non finiscono mai, cambiano solo le forme della resistenza alla violenza e alla prepotenza. Per questo, spiega l’assessore Loris Antonelli della circoscrizione VII, l’altro giorno al Quadraro c’erano anche i comitati che a Scampia si oppongono alla militarizzazione della camorra, perché i clan, i padrini e i loro soldati in un certo senso prolungano ed estendono il concetto di occupazione nazifascista, e naturalmente anche quello di partigiano.
Nei giorni del «Q44» in cui il quartiere ricorda se stesso, quel suo essere stato un «Nido di vespe» così spinoso e avvelenato, nel quadrante a sud-est della capitale, da spingere i tedeschi ad un poderoso rastrellamento, secondo solo a quello nel Ghetto e a quello dei Carabinieri Reali, tanto che a quanto pare sarà aggiunto dal prossimo anno agli altri due nei sussidiari di storia delle scuole italiane. Centinaia tra uomini e ragazzi, coi sedicenni considerati adulti dagli uomini del Feldmaresciallo Kesserling, addirittura 947 secondo alcune fonti, presi e ammassati negli attuali studi di Cinecittà, all’epoca in funzione come campo di concentramento per i prigionieri in attesa di essere caricati sui treni per la Germania o la Polonia, con un viaggio di sola andata a cui - nel caso della popolazione maschile in età da lavoro del Quadraro - scamparono a malapena la metà. In questi giorni di primavera fiorita sugli alberi, sono tante le iniziative della memoria allestite e sbocciate nella borgata che per gli occupanti e per i loro fiancheggiatori, come la Banda Koch o gli informatori delle SS guidate dal tenente colonnello Herbert Kappler, era un enorme rifugio di partigiani, disertori, oppositori, fiancheggiatori, intellettuali e operai, socialisti e anarchici, insomma tutti gli uomini liberi che non riuscivano o non volevano rifugiarsi in Vaticano o nei conventi, come scrive E. F. Moellhausen in un saggio del 1948. Questo era il Quadraro, quando già dal 1943 era sulla lista nera dei tedeschi e quando l’uccisione di tre loro soldati il giorno di Pasquetta del 1944 fu un ottimo pretesto per circondarlo e svuotarlo. Settant’anni dopo, fa un certo effetto vedere grandi e colorati nidi di vespe disegnati sulle case e sui muri, come a largo Quintili dove furono radunate quelle centinaia di prigionieri strappati alle loro famiglie quando era ancora notte. Le vespe realizzate in Via Monte del Grano dallo street artist Lucamaleonte e il progetto «Arnia» di Nicola Rotiroti raccontano per chi passa e guarda, il senso di essere un nido di vespe nel 2014. Così come le iniziative alla scuola di Via Diana, che già all’epoca dei fatti era un edificio utilizzato per la repressione nazifascista: il simbolismo dei luoghi, racconta l’assessore Antonelli che è uno degli organizzatori di «Q44», è uno dei fili conduttori delle loro iniziative.
«Le attività del nostro Comitato da diversi anni cercano di tenere insieme la narrazione storica e la memoria puntuale dei fatti, ma anche il significato di tutto questo proiettato nei tempi nostri e per le nuove generazioni. Il nostro obiettivo è cercare di lenire il dolore di chi è sopravvissuto, e di chi ricorda, ma anche cercare di sviluppare una coscienza collettiva che possa fare da argine a subculture o movimenti di massa, o anche in tempi recenti a certi populismi, che possono creare rischi di nuove e preoccupanti violenze di massa».
Per questo, nei giorni del ricordo e della partecipazione, sono stati coinvolti anche i ragazzi delle scuole: in 400 hanno assistito ad un documentario dedicato proprio al «Nido di vespe». Una lezione «fortemente emotiva» anche per chi, ai tempi di Facebook, guarda forse al 1944 come ad un tempo remoto. Molto diverso naturalmente per l’Anrp, Associazione nazionale reduci dalla prigionia, internamento e guerra di liberazione che è alla ricerca degli eredi e dei congiunti di quelle centinaia di persone rastrellate al Quadraro e deportate nei campi di sterminio. Fu il presidente Carlo Azeglio Ciampi a consegnare, nel 2004, la medaglia d’oro al valore civile al Quadraro, il primo quartiere di Roma ad avere questa onorificenza. Col riconoscimento del Quirinale, e con la legge istitutiva della «Medaglia d’onore», l’Anrp, ente morale fondato nel 1949, insieme a Roma Capitale sono alla ricerca di chi è stato deportato dopo la retata del 17 aprile 1944 o di chi ha un padre, un fratello o un parente tra quelli che si sono portati via i nazifascisti. Si può contattare l’Anrp alla mail anrpita@tin.it o al numero 06-700.42.53. Per una medaglia, per non dimenticare, ma anche per le vespe di ieri e di oggi.

l’Unità 18.4.14
Lo scambio degli embrioni
risponde Luigi Cancrini

psichiatra e psicoterapeuta

Salomone riuscì a scoprire la madre vera proponendo di dividere a metà il bambino conteso. Sarà capace il giudice di oggi, o meglio, saremo capaci come società italiana nel nostro conversare, di trovare una risposta alle domande «tragiche» (la parola è di Luigi Manconi e di Federica Resta nel loro problematico e bellissimo articolo) che il caso ci ha affidato per la prima volta nella storia? SILVANO BERT
Una risposta intelligente a questo quesito, mi pare, nel bellissimo Father and Son, il film giapponese in cui si narra la storia di una famiglia cui i figli sono stati scambiati nella culla e che ne vengono informati quando i bambini hanno ormai sei anni: in un’età, cioè, in cui sono già evidenti, ai loro genitori, delle caratteristiche fisiche e temperamentali «inaspettate» e più che evidente è, però, anche la forza del legame stabilito con i genitori che li hanno cresciuti. La risoluzione del problema e la decisione sul «che fare?» vengono affidati, nel film, infatti, proprio ai genitori. Che vengono messi in contatto fra di loro e che finiranno per lasciare, nel tempo, la scelta definitiva al cuore e all’istinto dei loro bambini. Riproponendo l’idea per cui nella razza umana, così come in tante razze animali, la vicinanza e il legame affettivo contano molto di più della ereditarietà biologica. Ma sottolineando, soprattutto, l’importanza, in democrazia, di istituzioni capaci, nei limiti del possibile, di restituire ai cittadini la delega su tutte le loro decisioni più private. Si arriva in Tribunale o sulla stampa per questioni che riguardano i minori, scriveva un grande giudice minorile come Giampaolo Meucci, solo se molti fallimenti si sono verificati fra le persone che di quei minori avrebbero dovuto occuparsi e che non sono state aiutate sufficientemente a farlo. Come potrebbe (ma non dovrebbe) accadere anche in questo caso.

Corriere 18.4.14
Il legale del Pertini
«Per il codice i gemelli non sono figli della gestante»
di M.D.B.


ROMA — «I nati della procreazione medicalmente assistita hanno lo stato di figli legittimi della coppia che ha espresso la volontà di ricorrere alle tecniche e che ha dato il consenso per ricevere attraverso l’impianto i propri embrioni». Cita l’articolo 8 e l’articolo 6 della legge che regola in Italia il mondo della provetta, Vincenzo Zeno- Zencovich, ordinario di Diritto comparato all’università di Roma Tre e legale dell’ospedale Pertini. Fin dalle prime battute ha seguito il caso degli embrioni scambiati.
Di chi sono i gemelli che nasceranno dalla coppia in causa con l’ospedale?
«Non ho dubbi. I due bambini non sono figli della madre gestante perché manca il presupposto del consenso
Mancato consenso
«Manca il presupposto del consenso all’impianto di embrioni non propri»
all’impianto di embrioni non propri. La legge è chiara, laddove si parla di stato giuridico del nato, la parte che non è stata dichiarata incostituzionale dall’ultima sentenza della Consulta». Dunque?
«Queste norme aprono la strada al disconoscimento perché esiste la prova che attesta l’impiego, per l’impianto, di materiale genetico estraneo».
La madre non è quella che partorisce?
«Il parto è apparenza. La genetica è verità. E la verità è che quei figli non sono stati concepiti dalla donna che li partorisce».
E se le donne si mettessero d’accordo su chi poi tiene i bambini?
«Avrei dei dubbi sul fatto che un accordo privatistico possa essere valido e che un pubblico ministero non intervenga».
C’è chi arriva a equiparare questa storia a un caso di maternità surrogata. È d’accordo?
«Per ipotizzare questo scenario bisogna immaginare che ci sia l’impegno da parte della madre gestante a consegnare il bambino a colei che le ha chiesto di accettarlo nel suo grembo. È un volontario accordo. Nel nostro caso è una prospettiva che per un giurista non sussiste».

Il Sole 18.4.14
In ufficio a Roma
Suicida un funzionario della security Telecom


Un altro suicidio di un dirigente della sicurezza Telecom, a 8 anni da quello di Adamo Bove, capo della "security governance" lanciatosi da un cavalcavia della Tangenziale di Napoli nel 2006, durante l'inchiesta sui dossier illegali dell'azienda. Ieri a gettarsi dalla terrazza della sede Telecom a Roma è stato Emanuele Insinna, 54 anni, funzionario della sicurezza, un tempo vicino all'allora responsabile Giuliano Tavaroli, uomo chiave dell'indagine sulle intercettazioni abusive. Tavaroli ha patteggiato una pena di 4 anni di carcere nel 2010, Insinna invece non era stato indagato. Sul suo suicidio la Procura di Roma ha aperto un fascicolo senza ipotesi di reato.

Repubblica 18.4.14
Un francese a New York dà lezioni di economia
Thomas Piketty con il suo studio sulle disuguaglianze sta conquistando l’America Compresi Krugman e Stiglitz con cui si è confrontato
di Federico Rampini


NEW YORK. Era dai tempi dell’inglese John Maynard Keynes, oltre 80 anni fa, che l’America non si lasciava conquistare da un economista europeo. La nazione più ricca e più avanzata del mondo riteneva di non aver nulla da imparare dalla vecchia Europa, almeno nella scienza economica. Oggi si ricrede. È merito di un quarantenne francese, Thomas Piketty, autore del Capitale nel X-XI secolo, un monumentale studio su due secoli di diseguaglianze, la loro storia e le loro cause. L’editore americano ha dovuto anticiparne la traduzione dal francese, perché sommerso di prenotazioni online (e le prime edizioni sono già esaurite).
Il think tank democratico più vicino a Barack Obama, il Center for America Progress, lo ha invitato lunedì a Washington e il presidente ha mandato diversi consiglieri ad ascoltarlo. Harvard lo aspetta per stasera. In mezzo, la sua tappa di 48 ore a New York è stata un fuoco d’artificio. All’università Cuny, il francese è riuscito a fare un piccolo miracolo: riunire i due premi Nobel dell’economia Paul Krugman e Joseph Stglitz, due superstar inclini al protagonismo e noti per la loro rivalità accademica. Per Stiglitz lo studio di Piketty «è un contributo fondamentale», Krugman si dice «affascinato». In cerca di un nuovo «pensiero forte» dopo la grande crisi del 2008, l’America sembra averlo trovato in questo francese che l’ha ripudiata anni fa. Appena ventenne, Piketty insegnò qui al prestigioso Massachusetts Institute of Technology. Poi preferì tornare in Francia, perché diffidente verso la «deriva matematica» dei suoi colleghi americani. Verso i quali non lesina le critiche, accusando molti di loro di essere prigionieri di conflitti d’interessi, al servizio di un’ideologia che perpetua i privilegi delle oligarchie. L’originalità di Piketty da una parte sta nell’aver ricostruito (guidando una squadra mondiale di oltre trenta economisti) l’andamento secolare delle diseguaglianze, sia nei redditi sia nei patrimoni. Dopo la descrizione, l’interpretazione. Una causa delle diseguaglianze odierne sta nel fatto che un’élite – prevalentemente di top manager – ha «fatto secessione » dal resto della società, si è conquistata il potere di fissare i propri stipendi in modo autonomo, senza alcun collegamento con la propria produttività. Il secondo fattore è perfino più importante: quando la crescita economica e demografica ristagna, prende il sopravvento la rendita finanziaria, automaticamente chi ha patrimoni accumulati diventa sempre più ricco e distanzia il resto. Ecco i passaggi più significativi del dibattito al Cuny.
Thomas Piketty: «Questo studio collettivo è cominciato 15 anni fa ed è composto di due parti. Da un lato abbiamo raccolto dati sui redditi, in quei paesi dov’è esistita da tempo un’imposta personale sui redditi. Cioè tutti i paesi occidentali ed anche Cina, India, molte nazioni dell’America latina. Dall’altro lato abbiamo raccolto i dati sui patrimoni, usando anche le statistiche sulle tasse di successione. Europa e Giappone sono due esempi illuminanti per capire come si crea una società “patrimoniale”, dove contano le ricchezze ereditarie: bassa natalità e bassa crescita economica rendono prevalenti le ricchezze già accumulate. Questa sta diventando la regola nel mondo intero. La chiave di tutto sta nel rapporto tra due variabili: da una parte il rendimento netto del capitale, dall’altra la crescita economica (a sua volta legata anche a quella demografica). Se il rendimento del capitale supera la crescita economica, come sta accadendo, ecco che il XXI secolo assomiglia sempre di più all’Ottocento: si va verso delle società oligarchiche. L’eccezione, l’anomalia più importante, l’abbiamo avuta per un lungo periodo del Novecento, dopo le due guerre mondiali, e in particolare nel “trentennio dorato” che va dalla ricostruzione post-bellica agli anni Settanta. Le diseguaglianze diminuirono sia per la forte crescita economica e demografica, sia per gli aumenti nella tassazione dei ricchi. Ci furono prelievi fiscali straordinari sui patrimoni, spesso legati allo sforzo bellico. E ci fu un forte aumento della tassazione progressiva sui redditi. A partire dagli Stati Uniti. Oggi può stupire, ma fu l’America a inventare una patrimoniale progressiva, con questa giustificazione: non voleva diventare una società ineguale come quella europea. E gli americani dopo la seconda guerra mondiale esportarono la loro elevata tassazione nelle due potenze sconfitte, Germania e Giappone, come un segno distintivo di civiltà».
Joseph Stiglitz: «Molti di noi studiarono all’università proprio nel trentennio magico, l’Età dell’Oro della crescita, e abbiamo finito per credere che quello fosse lo stato naturale. È importante l’attenzione che Piketty rivolge all’eredità come fonte di diseguaglianze. La successione ereditaria riguarda il capitale finanziario, immobiliare, e anche il capitale umano, visto l’accesso sempre più ineguale all’istruzione di alto livello. Noi qui in America crediamo di vivere in una società meritocratica per eccellenza, invece stiamo diventando una società di tipo ereditario, con una mobilità sociale perfino inferiore ad alcune nazioni europee. Le diseguaglianze, come dimostra Piketty, non sono il risultato di forze economiche ineluttabili, ma sono il prodotto delle politiche. La politica a sua volta è plasmata dalle diseguaglianze, viviamo in un sistema dove il potere politico è concentrato verso l’alto, e assistiamo a uno svuotamento del ceto medio. Oltre al rapporto tra rendimento del capitale e crescita, illustrato da Piketty, gli altri fattori che pesano sulle diseguaglianze sono la distribuzione del capitale stesso, le norme sulla successione ereditaria, la “segregazione economica” che deriva dagli accessi selettivi alle università o dai matrimoni “endogamici”, infine la tassazione del capitale. È importante capire che creando una società più equa, andremmo anche verso un’economia più efficiente e dinamica».
Pau l Krugman: «Il lavoro di Piketty apre una nuova frontiera intellettuale. Se stasera siete venuti così numerosi ad ascoltarlo qui, se il suo libro ci colpisce con tanta forza, è perché ne sentivamo il bisogno. Le élite hanno avuto la capacità di imporre un’ideologia che giustifica i loro privilegi. Per esempio hanno descritto le diseguaglianze come l’ineluttabile conseguenza di livelli d’istruzione diversi: non è affatto decisiva questa spiegazione, tant’è che un prof di liceo e un top manager hanno una preparazione culturale comparabile. Le performance individuali non hanno più un nesso con i guadagni dei top manager, che costituiscono gran parte dello 0,1% degli straricchi. Qui non siamo più nel mondo di Gordon Gekko, il personaggio di Oliver Stone nel film Wall Street di 27 anni fa, qui siamo in un capitalismo patrimoniale dove i protagonisti sono i figli di Gordon Gekko che hanno ereditato la sua fortuna. Mi colpisce l’analogia ideologica con la Terza Repubblica francese che descrive Piketty. I privilegiati della Belle Époque usavano questo argomento: c’è stata la Rivoluzione francese, come possiamo definirci una società diseguale se abbiamo tutti gli stessi diritti? È lo stesso discorso che fanno i privilegiati nell’America del XXI secolo. Mi piace questa espressione di Piketty: il passato divora il futuro. Cattura l’essenza di ciò che è una società patrimoniale».
Stiglitz: «Nei grafici di Piketty si vede che l’imposta marginale Usa scese negli anni Venti del secolo scorso, proprio quando le diseguaglianze erano già estreme e si sarebbe dovuto fare l’esatto contrario per ovviarvi. Questo conferma la forza dell’ideologia. Oggi viviamo in America sotto un’ideologia sintetizzata da una sentenza della Corte suprema secondo cui “le imprese sono come persone”, hanno gli stessi diritti meritevoli di tutela».
Piketty: «Non siamo giunti alla fine di questo processo di divaricazione. Le diseguaglianze cresceranno ancora, rendendoci simili alla Francia pre-rivoluzionaria, dove i nobili rappresentavano l’1% della popolazione. È decisiva l’importanza dell’apparato di persuasione, con cui i privilegiati possono rendere la diseguaglianza accettabile, o inevitabile. Il XX secolo per invertire la tendenza alle diseguaglianze e imporre un cambiamento di direzione, ebbe bisogno di due guerre mondiali».

Repubblica 18.4.14
La Via Crucis del mondo
di Vito Mancuso



LA NOSTRA civiltà è malata, è in corso una via crucis del pianeta davanti ai nostri occhi distratti. L’aria delle nostre città, i nostri mari inquinati, l’acqua, le foreste, sono vittime di un’ideologia rapace e utilitaristica che considera la natura solo come un’inanimata risorsa da sfruttare e che alimenta la fiorente industria della fiction per la finzione necessaria a sedare le coscienze. I rifiuti prodotti dagli oltre 7 miliardi di esseri umani sono ormai superiori alle possibilità di smaltimento, e per alcuni di essi come le scorie nucleari lo smaltimento è praticamente impossibile. Che cosa avverrà quando nel 2025 la popolazione sarà di 8,1 miliardi? E quando nel 2050 giungerà a 9,6 miliardi? Una nuova guerra mondiale? Una serie permanente di inarrestabili conflitti locali?
Barbara Spinelli l’altro giorno ricordava Hans Jonas e la sua nuova formulazione dell’imperativo etico in senso ecologico. In un’intervista del 1992 a Der Spiegel Jonas segnalava il pericolo del “tragico fallimento della cultura superiore, la sua caduta in una nuova primitivizzazione”, intendendo con ciò “la povertà di massa, la morte di massa, l’uccisione di massa”. Da allora sono passati oltre vent’anni e questo declino verso la primitivizzazione e la massificazione è proseguito: lo vediamo nei costumi, nel gusto estetico, nella politica, nel linguaggio dove tutto diventa più grossolano e più violento. E più irrazionale.
Ai nostri giorni un terzo del cibo prodotto viene buttato via, sono 1,3 miliardi di tonnellate di cibo su scala annuale che finiscono tra i rifiuti, con l’uso scriteriato di acqua, energia e vita animale e vegetale che tutto questo comporta. E ciò a fronte del fatto che ogni giorno muoiono per fame 24.000 esseri umani, 8 milioni e mezzo all’anno. Basta questo per evidenziare la pericolosa malattia mentale di cui soffre la nostra società? Nutriamo la nostra anima con le manifestazioni di massa dell’effimero (sport di massa, musica di massa, cinema di massa...) pagandone i protagonisti con cifre esorbitanti, mentre miliardi di esseri umani vivono con meno di due dollari al giorno. Proprio nell’epoca del trionfo della scienza assistiamo a un tracollo della razionalità nel governo del mondo, con la conseguenza che a trionfare non è veramente la scienza, la quale è sempre ricerca e dubbio, ma è piuttosto la tecnica che ammanisce certezze e cattura le menti. Anche la modalità con cui nelle nostre società si conquista il consenso e si accede al potere è sempre più all’insegna dell’irrazionalità, perché vince chi sa suscitare emozioni forti mentre chi pratica l’onestà dell’analisi è inevitabilmente destinato alla sconfitta: se penso ai leader politici di quand’ero ragazzo (Moro, Zaccagnini, Berlinguer) vedo che per loro non vi sarebbe oggi nessuna chance.
Quando Francesco d’Assisi compose il suo testo più bello, il Cantico delle creature, la pagina più antica della letteratura italiana, era quasi cieco per una malattia agli occhi e soffriva per una serie di altri mali che da lì a un anno l’avrebbero condotto alla morte. Ciò non gli impedì di cantare la luce di frate sole e di frate focu e di celebrare le altre realtà naturali. Penso che guardando alla sua vita sia possibile capire le due principali malattie di cui soffriamo oggi: 1) una filosofia di vita opposta a quella di Francesco e analoga a quella del ricco mercante suo padre, cioè all’insegna dell’accumulo e del consumo, a cui si viene indotti fin da piccoli dalla potenza della pubblicità e dall’industria dell’intrattenimento che le gira attorno; 2) una filosofia della natura opposta a quella del Cantico delle creature che considera la materia come inerte e la vita come lotta, e da cui discende un atteggiamento predatorio verso il pianeta e il conseguente inquinamento. Dal canto suo la religione tradizionale dell’Occidente non è stata in grado di fronteggiare questi due mali, anzi vi ha persino contribuito a causa del suo antropocentrismo, per cui anche il cristianesimo si deve rinnovare, anzi direi convertire.
L’umanità, se vuole sopravvivere, deve cambiare la mentalità che guida le sue politiche economiche e che orienta il suo atteggiamento verso la natura. L’unica possibilità di una svolta è nella presa di coscienza che la Terra è un organismo che deve la sua origine e la sua esistenza alla logica dell’armonia relazionale. Il passaggio da una civiltà basata sulla lotta a una civiltà basata sulla cooperazione può avvenire solo se si comprende che è la stessa logica dell’evoluzione naturale a basarsi sulla cooperazione e si educano i nostri ragazzi in questa prospettiva. Occorre quindi superare la cupa filosofia della vita trasmessa dal darwinismo e comprendere che a guidare l’evoluzione non è soltanto la lotta ma prima ancora il rapporto di complementarietà e di armonia, visto che non esiste vita se non in relazione, non esiste bios se non come symbios, come simbiosi.
Dalla crisi ecologica ed etico spirituale non si uscirà se non si risaneranno le idee che l’hanno prodotta. Occorre che l’urgenza ecologica trasformi la nostra visione della biologia e ci faccia prendere coscienza del legame che unisce tutte le cose, dell’interconnessione di ogni ente con il tutto, di ciò che la fisica chiama entanglement e che costituisce il paradigma ontologico più avanzato. Tutto ciò è traduci- bile in filosofia dicendo che la prima categoria dell’essere non è la sostanza ma è la relazione, all’insegna di una relazionalità globale che supera l’antropocentrismo e l’utilitarismo che ne discende.
Da Francesco d’Assisi malato e alla vigilia della morte nacque uno dei testi più sublimi della spiritualità di tutti i tempi. Dalla nostra civiltà, malata e così cieca da non riconoscere la sua malattia, può emergere ancora la possibilità di una svolta per non precipitare nell’abisso sempre più vicino? Penso che nessuno lo sappia ed è per questo che le tenebre del venerdì santo avvolgono le nostre esistenze e il nostro futuro, senza sapere se ci sarà data la luce di pasqua. Ma credere di sì è un dovere morale, oltre all’unica concreta possibilità che la svolta possa prodursi davvero.

Repubblica 18.4.14
Una lettura mistica della Pasqua cristiana Tra Hegel e antichi riti
Beati coloro che risorgono senza morire
di Marco Vannini



Al primo plenilunio dopo l’equinozio di marzo le antiche comunità pastorali e agricole festeggiavano il passaggio dalla morte dell’inverno alla vita della primavera: perciò a quella data fu posto anche il mitico passaggio - la Pasqua, appunto - degli ebrei dall’Egitto. Pasqua è in effetti la festa del commovente, davvero “miracoloso” rifiorire della vegetazione e, insieme, del risorgere delle forze vitali, generative, in tutti i viventi. Lo indicano chiaramente i suoi simboli: dalle uova ai coniglietti, simpatici animaletti ben noti soprattutto per la loro solerzia sessuale. Del resto nel Nord Europa la festa ancora mantiene il nome Easter, Oster, che viene da Ostara, dea pagana della fecondità.
Non deve perciò stupire che anche nella storia del cristianesimo questo sfondo vitale e sessuale sia stato a lungo presente. Pensiamo al cosiddetto risus paschalis, ovvero la celebrazione liturgica con rapporti carnali, imitati o reali, tra turpiloquio e lazzi osceni che sollazzavano i fedeli nelle chiese proprio nel giorno di Pasqua. Documentato fin dall’alto medioevo, il risus paschalis è proseguito, soprattutto in Germania, fino al Ventesimo secolo, e anche ai nostri giorni c’è chi lo giustifica quale sana espressione popolare di quel piacere sessuale che proprio nella “gioia” pasquale avrebbe un fondamento teologico.
In effetti la resurrezione dei/dai morti, antichissima fantasia apocalittica giudaica, non aveva altro senso che quello di riproporre la vita fisica, e non c’è
dubbio che della vita fisica l’esercizio della sessualità sia manifestazione essenziale. Non a caso nell’islamismo la felicità dei risorti ha il culmine nell’infinito reiterarsi del piacere sessuale, le cui modalità il Corano descrive in dettaglio, e in Israele i sadducei, che non credevano alla resurrezione, domandano a Gesù di chi sarà moglie, dopo la resurrezione, appunto, una donna che ha avuto più mariti: la vita beata dei risorti era pensata soprattutto come vita matrimoniale, sessuale.
La risposta evangelica a questa domanda è però sconcertante: a prendere moglie o marito sono i figli di questo mondo, ma quelli che saranno degni del mondo futuro non prendono moglie o marito e neppure possono morire, perché sono come angeli, già risorti. Dio è infatti Dio non dei morti, ma dei vivi ( Lc20, 24 s.). L’idea giudaica della resurrezione dei morti nel tempo finale è spostata dal mito alla realtà, ovvero sul piano di una resurrezione che avviene in questa vita, per la quale non si può più morire, perché la morte è già avvenuta. Questa morte è la morte dell’egoità, come quella del chicco di grano, che deve morire per portare frutto: è «odiare la propria anima», «rinunciare a se stessi», e la resurrezione è il «nascere di nuovo», dall’alto, non dal ventre materno ma dallo spirito, sperimentando la nuova vita, la vita dello spirito, appunto, come si legge nel vangelo di Giovanni.
Lo comprese bene Hegel: non quella che inorridisce davanti alla morte, ma quella che sopporta la morte e in essa si mantiene è la vita dello spirito; è proprio nell’assoluta lacerazione che lo spirito trova se stesso, «magica forza che sa guardare in faccia il negativo e soffermarsi presso di lui, capace di volgere il negativo nell’essere ». Occorre infatti non pensare il male, comprendere tutto quanto, anche quel che c’è di più lacerante, il tradimento da parte di chi ami: allora v’è spirito, si èspirito, ovvero il finito diviene infinito, il divino non più altro, ma tu stesso. «Nella notte in cui fu tradita, la sostanza divenne soggetto», scrive il filosofo tedesco, trasferendo nell’universale, col linguaggio speculativo della sua Fenomenologia dello spirito , la vicenda particolare della Passione di Cristo.
Passione, morte e resurrezione hanno evangelicamente un significato non mitico ma reale, non fisico ma spirituale, per cui la resurrezione è quella rinascita come spirito che pone nella dimensione dell’eterno. «Prima che Abramo fosse, io sono», dice Gesù ai giudei ( Gv 8, 58), esprimendo l’esperienza fondamentale di ogni tradizione spirituale: quella di essere già qui e ora nell’essere, nell’eterno. Appena ci si distacca da ciò che è transitorio, il nostro amore si estende a tutto il mondo, si scopre davvero come idem amor et spiritus sanctus e la gioia di tutte le creature diventa la nostra stessa infinita, estatica letizia. «Di questo Tutto, nel distacco, gioisci», esortano anche le Upanishad.
È un fatto, peraltro, che la primitiva comunità cristiana si costituì sul fondamento delle attese apocalittiche, per cui le apparizioni di Cristo dopo la morte furono interpretate proprio nel senso di una resurrezione, prova e pegno della resurrezione finale. Questa però fu più una costruzione teologica che un fatto reale. La resurrezione di Cristo non ha avuto testimoni, ha un carattere segreto: da solo, prima che facesse giorno. Egli compare alle donne e agli apostoli già “risorto”. È un evento spirituale, non uno spettacolo dimostrativo: Noli me tangere , dice alla Maddalena, quasi a prendere le distanze da ogni fisicità e a mostrare che non è in atto alcun ripristino della corporeità. Cristo è apparso dopo la morte solo ai suoi amici e solo da essi viene riconosciuto. Il brano con cui Giovanni chiude il suo vangelo è determinante: a Tommaso, che crede solo dopo che e perché ha veduto il risorto, Gesù dice che beati sono quelli che credono senza aver veduto. Essi infatti hanno sperimentato interiormente la resurrezione, in loro soltanto v’è conoscenza dello spirito e della sua beatitudine.
Si comprende allora quanto fuorviante sia l’idea della resurrezione di Cristo come segno definitivo della sua divinità, della verità esclusiva della fede cristiana, e, insieme, come garanzia della finale resurrezione dei morti. Questo è il prodotto di Paolo, quel “funesto cervellaccio”, come lo chiamò Nietzsche, che non comprese il messaggio evangelico della morte dell’anima e della rinascita nello spirito e costruì un dysanghelion, una cattiva novella, appoggiandosi a quella apocalittica giudaica. Se non c’è la resurrezione dai morti, neanche Cristo è resuscitato, scrive infatti (1 Cor 15, 17) mostrando come l’idea della resurrezione di Cristo dipenda da quella della resurrezione dai morti, propria della mitologia apocalittica.
In parallelo, l’affermazione paolina per cui vana è la nostra fede se Cristo non è risorto, mostra un concetto di fede non come esperienza spirituale interiore, la cui verità è testimoniata dalla coscienza, ma come credenza estrinseca, la cui verità dipende dal miracolo. E ciò è quanto di più antievangelico ci sia: nel vangelo infatti la ricerca del miracolo è sempre condannata come mancanza di fede, adorazione della forza, dunque non di Dio ma del demonio. La cosa è chiara proprio dalla resurrezione: proporla come una sorta di super-miracolo per convincere gli increduli è tipico dei falsi profeti, degli impostori. Secondo un’antica e ben documentata tradizione, era infatti Simon Mago ad organizzare resurrezioni di morti “dimostrative” della propria messianicità ed uno dei segni della fine dei tempi sarà proprio la messa in scena della propria, peraltro falsa, resurrezione da parte dell’ingannatore supremo, l’Anticristo.

il Fatto 18.4.14
La Scala suona dal dittatore
Polemiche per la tournée con 100 persone in Kazakistan tra giugno e luglio
Paga il satrapo Nazarbayev
di Gianni Barbacetto e Nanni Delbecchi


Milano La Scala si prepara alla campagna del Kazakistan. Dal 30 giugno al 4 luglio il corpo di ballo scaligero porterà sul palcoscenico del Teatro dell’Opera di Astana il balletto Don Chisciotte di Leon Minkus, nella rivisitazione di Rudolf Nureyev. La storica produzione, che nel settembre di quest’anno torna in cartellone anche a Milano, non è nuova a tournée internazionali, ma le date della trasferta erano scomparse dal sito ufficiale del Teatro in seguito alla spy-story di cui fu protagonista poco meno di un anno fa Alma Shalabayeva, moglie dell’imprenditore e dissidente kazako Mukhtar Ablyazov, arrestata insieme alla figlia di sei anni mentre si trovava in una villa a Casal Palocco, a Roma. Tutto questo, come si ricorderà, su richiesta delle autorità del Kazakistan, mentre il nostro governo dichiarò di essere all’oscuro dell’operazione. Un tipico pasticciaccio all’italiana, ma anche una crisi diplomatica internazionale tale da sconsigliare ogni scambio di cortesie con il dittatore kazako Nursultan Nazarbayev, già molto discusso di suo, e grande amico di Silvio Berlusconi. Ma evidentemente tutto questo non è bastato a cancellare l’offerta di ospitalità per il balletto.
“Non si capisce quale sia il problema” è la posizione ufficiale del Teatro alla Scala, interpellato in proposito da il Fatto Quotidiano. “Ogni anno il corpo di ballo della Scala compie tre tournée all’estero, a riprova del prestigio di cui gode in tutto il mondo. È arrivata un’offerta dal Kazakistan, Paese che oltretutto ospiterà una sua Expo nel 2017, e si è deciso di accettarla. Tutto qui”.
Proprio tutto forse no. È vero che è la Repubblica ex sovietica a coprire i costi dell’operazione (ma non è stato confermato se esistano o no degli sponsor), c’è però chi si fa delle domande sulla presentabilità del partner. Come il sindacalista Giuseppe Fiorito, segretario generale della Cub Informazione e spettacolo, che ha inviato una lettera di protesta indirizzata al ministro della Cultura Dario Franceschini, al ministro degli Esteri Federica Mogherini e al presidente del consiglio d’amministrazione del Teatro alla Scala Giuliano Pisa-pia, che è anche il sindaco di Milano. “È vergognoso che noi italiani mandiamo il Teatro alla Scala a sollazzare il dittatore del Kazakistan”, dichiara Fiorito. “Nazarbayev esibirà lo spettacolo come un risultato dei suoi buoni rapporti con l’Italia e lo sfrutterà per ottenere consenso in un Paese in cui non c’è libertà e non è permessa alcuna forma d’espressione. Evidentemente lo può fare, in forza dei suoi buoni rapporti con l’Eni, stretti direttamente con l’amministratore delegato uscente Paolo Scaroni”.
SE DAVVERO ci sia lo zampino dell’Eni in questa operazione culturale e nella trasferta della Scala in uno dei Paesi in cui l’ente petrolifero italiano ha grandi interessi non è dato sapere con certezza. Di sicuro, questa è la prima volta della Scala in Kazakistan. Forse si poteva trovare un momento più opportuno per il debutto e per inviare una truppa formata da un centinaio di lavoratori e artisti della Scala (un direttore musicale, un regista, un assistente alla regia, un direttore di scena, dodici tecnici di palcoscenico, tre sarte, due calzolai, sessantanove ballerini, un direttore del balletto, tre assistenti di ballo, più la logistica e il personale amministrativo).
I biglietti sono in prevendita da tempo e stanno andando a ruba nonostante i costi proibitivi: ci vorranno dai 2 ai 300 dollari per poter assistere all’allestimento, punto di forza storico del repertorio scaligero, con le scene di Raffaele del Savio, i costumi di Anna Anni, l’arrangiamento da John Lanchberry, mentre ad accompagnare i ballerini italiani saranno i professori dell’Orchestra sinfonica dell’Opera di Astana.
Anche la capitale kazaka avrà dunque la sua “prima”, vissuta come un fiore all’occhiello, e come una rondine che farà primavera: “Stiamo tenendo la barra alta per diventare uno dei teatri d’opera migliori al mondo”, ha dichiarato in proposito il direttore artistico Mukhamedzhanov. “Come mi è recentemente capitato di dire durante un incontro con i vertici del teatro milanese, la Scala di Milano può essere la guida ideale per condurci sulla strada di un futuro sempre più brillante.” Un’ulteriore prova di questo patto di collaborazione sarebbe l’acquisizione da parte dell’Opera di Astana delle scene della Tosca diretta da Luca Ronconi, prodotta dalla Scala nel 2007.
Tornando al Don Chisciotte che il prossimo 30 giugno debutterà davanti alla migliore società kazaka, e quasi certamente alla presenza dello stesso Nazarbayev, sappiamo che l’eroe di Cervantes ha molte attenuanti, essendo un gentiluomo portato a idealizzare la realtà, e a scambiarla per la propria immaginazione. Ma forse in questo caso conveniva affidarsi a Sancho Panza.

La Stampa 18.4.14
Kepler-186f, la Terra ha un gemello
di Francesco Semprini


L’annuncio ha messo in fibrillazione tutti coloro che per anni hanno virtualmente percorso la Via Lattea alla ricerca di un posto, al di fuori del nostro sistema solare, potenzialmente abitabile. Ebbene, per tutti questi, e non solo per loro, il 17 aprile 2014 appare destinato a diventare un giorno di svolta nelle antologie della scienza. Ieri, infatti, è giunto l’annuncio ufficiale di un’ultima sensazionale scoperta: il primo pianeta roccioso, di dimensioni del tutto simili a quelle della Terra, sul quale potrebbe esservi acqua allo stato liquido. Una condizione fondamentale per poter ospitare forme di vita, e che sembra appartenere a questo pianeta situato nella «Goldilocks zone», una zona dell’universo dove non fa né troppo caldo né troppo freddo.
È stato battezzato «Kepler-186f», perché a intercettarlo è stato l’omonimo telescopio spaziale, considerato il più importante «planet hunter» della Nasa, ovvero il principale cacciatore di pianeti dell’agenzia spaziale statunitense. Le caratteristiche ne delineano un profilo assai preciso: è del 10% più grande della Terra, ed è il più esterno di 5 pianeti che ruotano intorno ad una nana rossa (una stella più piccola e fredda del Sole) distante 500 anni luce. Su Kepler-186f «si celebra il compleanno ogni 130 giorni», spiega Elisa Quintana, coordinatrice delle ricerche dell’istituto Seti e del Centro Ames della Nasa. In sostanza il pianeta completa la sua orbita in 130 giorni, mentre la distanza che lo separa dalla sua stella è pari a quella che c’è tra il Sole e Mercurio. Cioè, si trova nella cosiddetta «zona abitabile», ossia nella regione in cui riceve luce e calore tali da poter mantenere acqua liquida in superficie. E’ la diversità di Kepler-186f rispetto ad altri pianeti simili alla Terra scoperti sino ad oggi. «Questo è il caso più plausibile di pianeta abitale che si sia mai visto sino ad oggi», commenta Geoff Marcy, astronomo dell’Università di Berkeley, in California, nulla a che vedere con il team di scienziati autore delle ricerche. Un clamore condiviso da gran parte della comunità scientifica quello che si sta creando attorno a Kepler-186f, e che conferma la vera portata innovativa della scoperta i cui dettagli sono contenuti nella pubblicazione «Science».
Gli astronomi non potranno dire con certezza assoluta se il Pianeta possa sostenere forme di vita, visto che è troppo lontano anche per la prossima generazione di telescopi che la Nasa dovrebbe lanciare nel 2018. Gli elementi in possesso, però, fanno ben sperare «sia nella possibilità di vita sia di processi di fotosintesi», dicono gli esperti. Dal suo lancio, avvenuto nel 2009, Kepler ha confermato l’esistenza di 961 pianeti, ma solo alcune decine sono stati localizzati in zone abitabili.
In gran parte sono grandi strutture gassose, come Giove o Saturno, dove forme di vita sono insostenibili. Di recente, invece, sono stati identificati una serie di pianeti poco più grandi della Terra, sempre nella Goldilocks Zone, chiamati «Super Earths», ma non è ancora chiaro se siano realmente rocciosi.

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