sabato 19 aprile 2014

l’Unità 19.4.14
Il nodo coperture non è sciolto. Rinviati gli aiuti agli incapienti
Dubbi sui tagli del 2015: servono 20 miliardi
di Bianca Di Giovanni


Dieci milioni di italiani a fine maggio avranno in busta paga il bonus Renzi. Il governo ha scelto di procedere sulla prima ipotesi annunciata dal premier, rinviando alla legge di Stabilità l’intervento per gli incapienti (chi non paga le tasse) e le partite Iva. Il beneficio, che per quest’anno vale 6,9 miliardi, andrà ai lavoratori con un reddito annuo da 8mila a 26mila euro. Il bonus sarà più pesante tra i 20 e i 24mila euro, dopo c’è il decalage.
Non si tratterà di una detrazione Irpef ma di un bonus, ovvero di una somma anticipata dal sostituto d’imposta, che poi avrà uno sconto fiscale corrispondente. Nel caso in cui non ci sia il sostituto d’imposta, si agirà sul taglio dei contributi Inps. Sarà lo Stato ad erogare all’istituto di previdenza una quota di contributi del lavoratore. Il decreto è in fase di limatura: sarà pubblicato in Gazzetta tra qualche giorno.
Il vero nodo a cui si è lavorato fino all’ultimo è quello delle coperture. Renzi rivendica la manovra come strutturale, anche se per ora si sviluppa nel biennio. Il resto si vedrà nella legge di Stabilità. Ma i dubbi restano. Pier Carlo Padoan non ha voluto replicare in dettaglio alle obiezioni di Bankitalia, che ha espresso perplessità sulle effettive risorse disponibili per la manovra l’anno prossimo, visti gli oneri già previsti nella legge di Stabilità di Letta. «Vedremo quello che servirà - ha detto il ministro dell’Economia - Noi indichiamo tagli per 14 miliardi, per una manovra di 10. Rimane, se le nostre attese sono confermate, un margine, un grado di libertà che è un sogno per chi fa politica economica, e speriamo che sia così per fare scelte migliori». Una previsione molto ottimistica, visto che le cifre sono scritte nero su bianco nei documenti, e sono pesantissime: nel 2015 si prevedono già 4 miliardi di tagli, poi altri 4 per la riduzione del deficit e ancora 4 sono necessari per le cosiddette spese insopprimibili non previste a legislazione vigente. Se si sommano anche i 10 miliardi per la manovra fiscale di Renzi si arriva alla cifra record di circa 22 miliardi. Numeri confermati in commissione Bilancio da Bankitalia.
Ci sarà tempo per definire i risparmi di spesa di qui all’anno prossimo. Anche perché è ormai chiaro che l’esecutivo punta a sostenere il Pil, riducendo in questo modo l’impegno per ridurre il deficit. Lo chiarisce il titolare dell’Economia durante la conferenza stampa. «Se facciamo i conti non solo relativi alle coperture, ma pensando agli impatti sul Pil, secondo noi c'è un aggiustamento strutturale positivo e l'economia italiana si mette a crescere sul sentiero più alto degli ultimi venti anni - ha detto - Questo intervento va visto insieme agli altri su lavoro, Pa e soprattutto riforme istituzionali, a cui gli investitori sono molto interessati». Padoan ha già dichiarato che il pacchetto di riforme in cantiere avrà un effetto pari allo 0,3% del Pil, circa 5 miliardi.
Le coperture annunciate in conferenza stampa sono «il primo passo verso una riorganizzazione complessiva della spesa». In effetti, a parte il maggior gettito sui titoli Bankitalia (al 26%) in seno alle banche, che vale solo per quest’anno (1,8 miliardi), e l’Iva sui pagamenti della Pa (600 milioni quest’anno, un miliardo l’anno prossimo), per il resto si tratta di risparmi di spesa. Le agevolazioni alle imprese subiscono una revisione di un miliardo. Forte il richiamo al mondo della politica e della pubblica amministrazione per un uso più sobrio del denaro: non potranno esserci più di 5 auto blu per ministero (a piedi sottosegretari e dirigenti), mentre viene confermato il tetto di 240mila euro annui per i dirigenti e i manager delle società non quotate. La cosa vale anche per l’alta magistratura, mentre resta un dubbio sulla Rai che non dovrebbe essere inclusa nella lista stilata da Monti. Le misure sono riunite sotto il titolo «sobrietà» (900 milioni totali), che include anche un risparmio di 150 milioni della Rai (con la cessione di una quota di Rai Way e la riorganizzazione delle sedi regionali). Ai ministeri è richiesto un risparmio di 200 milioni, mentre dai conti di tesoreria e i costi di riscossione si reperiranno 310 milioni, 60 milioni dagli organi costituzionali e 100 milioni dalla cancellazione delle Province. Abolita anche la tariffa postale agevolata nella campagna elettorale. Altra voce pesante è quella del taglio all’acquisto di beni e servizi, che vale 2,1 miliardi (700 milioni rispettivamente da Stato, Regioni e enti locali). Si avrà tempo 60 giorni per indicare i risparmi, altrimenti interverrà il governo, attraverso il commissario alla Spending, che è chiamato a tenere sotto controllo le voci di bilancio d’ora in poi tutte da pubblicare online. Trecento milioni arrivano dalla lotta all’evasione già certificata (tre miliardi l’anno prossimo), mentre il riordino delle municipalizzate che dovranno diventare qualche decina a fronte delle 8mila attuali, comporterà risparmi per 1 miliardo nel 2015 (100 milioni quest’anno). All’operazione contribuirà anche il fondo strategico Il premier Matteo Renzi alla conferenza seguita al Consiglio deiministri della Cdp.

La Stampa 19.4.14
Redditi bassi sacrificati per salvare la Sanità
Il mini-bonus ai poveri salta per mancanza di coperture

Ma il governo chiede di più alle banche e 700 milioni alle Regioni

Capita talvolta di dover scegliere il male minore. Capita, per ambizione, di spingersi oltre il possibile. Ieri Renzi aveva di fronte a sé due opzioni. Le tabelle che i tecnici gli avevano preparato non lasciavano vie d’uscita. Escluse le pensioni o interventi che avrebbero lasciato per strada qualche migliaio di dipendenti pubblici, l’unica voce che avrebbe potuto garantire coperture sicure all’allagamento del bonus ai più poveri era un taglio netto alla sanità per un miliardo di euro. Come è nello stile dell’uomo, tutto è avvenuto molto rapidamente. Nel pomeriggio, poco prima di entrare in consiglio dei ministri, Renzi su twitter si era sbilanciato: «Non ci sono tagli alla sanità», in ogni caso «riduciamo le tasse a quindici milioni di italiani». Era quel che lui stesso aveva chiesto nonostante le prime simulazioni non lo prevedessero. 
Promettere ottanta euro a dieci milioni di italiani era di per sé una sfida enorme: quasi sette miliardi di minori entrate. Dare un aiuto altrettanto sostanzioso ad altri cinque milioni di persone significava avere a disposizione altri due miliardi. Le bozze circolate fino a 24 ore prima del consiglio facevano i conti con le risorse limitate: fra i 25 e i 40 euro a lavoratore. Troppo pochi per giustificare un taglio alla spesa sanitaria. Renzi ha preferito concentrarsi sulla fascia di reddito mediana, la più numerosa, quella che paga più tasse e alla quale sin dall’inizio aveva promesso il bonus. Per sottolineare la scelta ha insistito per un ritocco all’insù dell’erogazione: da 620 a 640 euro, che diviso per otto fa esattamente ottanta euro. Il resto lo hanno fatto le resistenze della ministra Lorenzin e delle Regioni. Renzi ha fatto di necessità virtù, ma non ha rinunciato a dare un segnale a chi nei tagli - quelli agli sprechi - vede il segno di un governo capace di decidere. Nel corso di quest’anno le Regioni dovranno dare il loro contributo ai risparmi per 700 milioni di euro, decidendo in autonomia dove risparmiare. Il messaggio è chiaro: cari presidenti, o tagliate le poltrone, o vi assumete la responsabilità di ridurre i posti letto ai malati. Per compensare il mancato taglio ha anche battagliato con le banche, alle quali ha raddoppiato la tassa sulla rivalutazione delle quote di Bankitalia. 
«Ancora ieri mattina i numeri su sanità, Difesa e Pubblica amministrazione erano molto diversi», spiega una fonte di governo che preferisce non essere citata. Sugli F35 Renzi per ora ottiene un taglio al programma di 150 milioni di euro, 400 per l’intero comparto. Sul taglio degli stipendi ai dipendenti pubblici strappa la conferma del tetto massimo per le retribuzioni a 240mila euro ma deve rinunciare alle quattro fasce di redditi previsti dalle prime bozze. Su questo nel governo pochi credevano che il premier avrebbe potuto andare fino in fondo. Ci sono due sentenze della Corte Costituzionale contro ogni contributo di solidarietà applicato ai soli dipendenti pubblici - e non a tutti, come prevede il principio di equità fiscale - oltre a quintali di giurisprudenza che avrebbero tutelato i diritti acquisiti di dipendenti firmatari di accordi collettivi di lavoro. 
Spiega il sottosegretario Pierpaolo Baretta: «Una cosa è ridurre la parte variabile di uno stipendio, come è il caso dei dirigenti di Palazzo Chigi, in quel caso è il datore di lavoro che interviene sulla base di un accordo contrattuale. In questo caso il taglio si può fare subito. Altra cosa è ridurre gli stipendi per legge. Di questo si può parlare in sede di riforma della pubblica amministrazione o di contrattazione». Anche in questo caso Renzi ha però fissato le sue bandierine: il decreto dice che entro il 30 giugno gli organi costituzionali (Camera, Senato, Presidenza della Repubblica e Corte Costituzionale) dovranno contribuire alla riduzione della spesa per 55 milioni di euro. Nei gruppi di maggioranza alla Camera ci sono già state riunioni per discutere una proposta da presentare a Laura Boldrini. Stessa cosa, «nella loro autonomia», dovranno fare i magistrati. La politica è l’arte del possibile, la strada per ottenere di più passa anche da questi messaggi.

Corriere 19.4.14
Per il 2015 risorse da trovare
Sanità, niente sacrifici subito, Ma poi toccherà alle Regioni
di Simona Ravizza


MILANO — Almeno la Pasqua è salva: «Ufficiale, niente tagli alla sanità! — twitta esultante alle 17 di ieri il ministro Beatrice Lorenzin —. Non una vittoria personale, ma dei cittadini e del Ssn (Servizio sanitario nazionale, ndr )». Ma la partita non è chiusa. Tutto adesso si gioca al tavolo della Conferenza Stato-Regioni, dove nelle prossime settimane dovrà essere sottoscritto il Patto per la salute 2014-2016.
Per oggi non s’abbatte la mannaia dei tagli, dal decreto legge sull’Irpef sparisce l’articolo 5 dedicato al «Contenimento della spesa sanitaria», degli 868 milioni di riduzione di risorse per il 2014 e del miliardo e mezzo per il 2015 non c’è più traccia. Ma la sanità dovrà, comunque, risparmiare. In fretta. «Ora avanti tutta — continua la Lorenzin nel tweet — con Patto salute e riforme».
Lo spostamento dei risparmi sul tavolo con le Regioni dovrebbe consentire un esito diverso rispetto ai temuti tagli indiscriminati. I soldi che saranno recuperati dal giro di vite contro gli «sprechi» saranno reinvestiti in sanità per l’ampliamento delle cure gratuite ai cittadini. E sul sistema sanitario non si abbatteranno gli ennesimi tagli lineari (che impongono gli stessi sacrifici alle Regioni in regola con i conti e a quelle in profondo rosso). La Lorenzin ostenta il successo: «Abbiamo mantenuto la promessa di non fare tagli lineari alla sanità. In tutto il decreto, infatti, la parola sanità non è menzionata e questo è estremamente importante — rimarca il ministro —. Rimane quindi intatto il principio che io ho affermato in questi mesi di fare tagli e risparmi attraverso il Patto della salute e reinvestirli in sanità».
Ora in gioco nel Patto per la salute ci sono l’eventuale chiusura degli ospedali privati accreditati con meno di 60 posti letto (i ben informati considerano a rischio 170 strutture, con oltre 15 mila lavoratori); la revisione complessiva della rete ospedaliera (con parametri a livello nazionale più severi tra Pronto soccorso, strutture ospedaliere e numero di abitanti); una stretta alle spese per i dispositivi medici tipo protesi (farà testo l’Osservatorio nazionale dei prezzi); e gare più aperte al mercato per l’acquisto dei farmaci ospedalieri (perché vengono messe sullo stesso piano le medicine con la medesima equivalenza terapeutica indipendentemente dal principio attivo). Attenzione, però: il decreto di ieri dà alle Regioni e agli enti locali 60 giorni di tempo per gestire una serie di tagli su beni e servizi che inevitabilmente — secondo le prime indiscrezioni — riguarderanno anche la sanità. I soldi risparmiati dovrebbero servire ad ampliare i Lea, ossia le cure gratuite ai cittadini.
Scampato il pericolo, la partita della sanità continua. E il tempo stringe.

l’Unità 19.4.14
Passi avanti ma da verificare
di Paolo Guerrieri


Nel decreto del governo presentato ieri, dai contenuti fortemente eterogeni, spicca l’intervento di bonus Irpef di 80 euro a favore di milioni di lavoratori con basso reddito finora fortemente penalizzati dalla crisi, che rappresenta una misura assai importante in chiave redistributiva. L’impatto economico si profila, tuttavia, assai modesto, anche per le coperture utilizzate che a una prima lettura destano qualche perplessità.
Il rischio da evitare è che finiscano per offrire scarso supporto alla credibilità e sostenibilità della manovra più ampia prospettata nel Documento di economia e finanza approvato dal Parlamento giovedì scorso.
La fase recessiva dell’economia italiana si è chiusa nella seconda parte del 2013, com’è scritto nella sezione del Def relativa al programma di stabilità, e per l’anno in corso si prevede una ripresa del Pil stimata intorno allo 0,8%, destinata a irrobustirsi moderatamente nel corso del 2015 (1,3%). Sono numeri che rivelano tutta la modestia della dinamica di espansione in corso. Tenuto conto dei crolli dell’attività produttiva e dell’occupazione in questi ultimi cinque anni di crisi, non si può certo sperare di recuperarli attraverso una ripresa di così basso profilo. Ecco perché l’obiettivo di rafforzare significativamente la ripresa in corso, per cercare di trasformarla in una vera fase di crescita stabile e sostenuta, figura in cima alla lista delle priorità che la politica economica del governo si prefigge di perseguire - com’è scritto nel Def - a partire dalle misure varate ieri. Anche perché la compresenza di un alto debito pubblico e di una bassa crescita resta il problema di fondo della nostra economia. E per non ripetere gli errori delle politiche di austerità a tutto tondo degli ultimi anni l’unica strada è il rilancio a pieno ritmo della crescita, approfittando di un contesto internazionale che da anni non si presentava così favorevole. Per irrobustire la ripresa e ricostruire un percorso di crescita sostenuta è necessario agire in due direzioni: interventi a breve termine utili a fornire un sostegno sul piano macroeconomico alla domanda aggregata (consumi e investimenti di persone e imprese) e gli altri in grado di incidere più a medio periodo sulla capacità di offerta, le tanto citate riforme di struttura che devono migliorare produttività e competitività, accrescendo il prodotto potenziale della nostra economia. Solo così si potrà conseguire un vero e duraturo rilancio dell’occupazione.
È un percorso che si ritrova in qualche misura nel programma del Def del governo che punta, da un lato, su misure di cauto sostegno alla domanda e, dall’altro, su un ampio numero di interventi strutturali, a partire dalle riforme istituzionali. La lista in quest’ultimo caso è lunga, forse troppo, ma la si potrebbe sintetizzare così: alcuni sgravi fiscali subito, un taglio consistente delle spese pubbliche crescente nel tempo (spending review), delle riforme strutturali importanti poi. Il rigore dei conti pubblici è visto in questo quadro come un vincolo più che - com’è stato in passato - un obiettivo prioritario da perseguire e a cui subordinare tutto il resto. Tant’è che è posto al centro di uno scambio con l’Europa: una deviazione temporanea - un anno più di tempo - dagli obiettivi di pareggio di bilancio di finanza pubblica, per non compromettere la debole ripresa in corso, da compensare con la maggiore crescita generata dagli interventi e dalle riforme strutturali programmati.
Ovviamente l’esito positivo di un tale scambio dipenderà innanzi tutto dall’Europa che dovrà dimostrare una reale flessibilità nell’applicazione delle politiche di aggiustamento. Ma anche il nostro governo dovrà fare la sua parte dimostrandosi credibile sia nelle misure prospettate sia nella loro realizzazione. Le scelte concrete, in altre parole, devono essere in grado ad un tempo di incrementare la crescita potenziale dell’economia e assicurare equilibrio nei conti pubblici, non sottovalutando il tema delle coperture finanziarie a fronte degli interventi da attuare. Ma qui nascono i primi problemi. Innanzitutto nel Def appena approvato. Come sostenuto dalla Banca d’Italia e dalla Corte dei Conti qualche giorno fa, non è sostenibile che i proventi attesi di revisione della spesa riescano a finanziare tuti gli interventi governativi in programma (dallo sgravio dell'Irpef, all'aumento previsto delle entrate, agli esborsi dei programmi non inclusi a legislazione vigente, fino alla clausola di salvaguardia dell'ultima legge di stabilità). In altre parole i conti potrebbero non tornare ed è vano sperare che a Bruxelles non se ne accorgano. Il che potrebbe indebolire la posizione del governo nel negoziato decisivo che si svilupperà nelle prossime settimane con la Commissione europea sulla richiesta di scostamento temporaneo dall’obiettivo di pareggio strutturale dei nostri conti pubblici. In questa prospettiva il decreto varato ieri e le sue modalità di copertura certo non aiutano a aumentare la credibilità e sostenibilità dell’insieme di misure di politica economica prospettate. Resta l’alto valore di equità redistributiva dell’intervento. Ma sul resto, i dubbi e le preoccupazioni è auspicabile siano presto fugate.

«Se le scelte si riveleranno giuste, ne riceverà popolarità e consenso. È quel che Renzi spera, naturalmente, guardando alle europee di maggio. Tra un mese o poco più saprà – e sapremo – cos’è rimasto di quella speranza...»
La Stampa 19.4.14
Matteo e la politica di ascolto
di Federico Geremicca


Per valutare gli effetti che la manovra annunciata ieri da Matteo Renzi avrà sul rilancio dell’economia del Paese, occorrerà – naturalmente – aspettare mesi, forse molti mesi; per conoscerne, invece, l’impatto politico – e persino psicologico – basterà attendere i sondaggi elettorali della prossima settimana e poi, soprattutto, il voto europeo del 25 maggio. Che il più giovane premier della storia repubblicana abbia guardato più al secondo (le elezioni) che ai primi (gli effetti economici), è l’obiezione fondamentale che le opposizioni stanno muovendo alla sua manovra in queste ore. È possibile che abbiano ragione: ma è assai riduttivo – e perfino fuorviante – chiudere la faccenda così.
Gli avversari del premier-segretario (e non solo loro, in verità) sono soliti definire Renzi un «prodotto politico» a mezza via tra Berlusconi e Grillo, per sottolineare i tratti un po’ populisti e un po’ demagogici che – a loro giudizio – ne contraddistinguono il modo di far politica. A parte l’ovvia considerazione – che pure dovrebbe far riflettere – che il paragone guarda a due dei tre leader più votati nel Paese (il terzo è appunto Renzi), quel che convince sempre meno – in una società profondamente in crisi – è quella sorta di snobismo, quando non addirittura di sprezzo, che sembra esser riservata a chi pone orecchio alle richieste, al malessere e a ciò che si muove nel ventre molle di quella che viene solitamente definita, appunto, società civile.
Naturalmente c’è modo e modo di interpretare quel malessere e quelle richieste: ed è appunto questa la prova alla quale è atteso, nei prossimi mesi, Matteo Renzi. Eppure, non cogliere il fatto che proprio la distanza da quelle aspettative e da quella rabbia sia uno degli elementi che ha prima determinato il distacco di milioni di cittadini dalla politica e poi offerto propellente per il boom di Beppe Grillo e del suo movimento, è prova di superficialità: quando non, addirittura, di irresponsabilità.
Molte delle misure annunciate dal premier nelle settimane passate (e confermate ieri) vanno precisamente in quella direzione. Si tratta di scelte che sono – nella maggior parte dei casi – economicamente poco incidenti, ma che possono avere un salutare effetto psicologico (e non solo) presso quanti – e si tratta di fasce assai ampie della società – avevano del tutto perso la speranza, la fiducia circa il fatto che una classe politica chiusa nella sua cittadella fosse in grado (e avesse voglia) di prestare ascolto alle loro richieste.
Lasciamo perdere gli 80 euro in busta paga, iniziativa che non ha bisogno di grandi commenti e che era la vera – perché più difficile e costosa – scommessa del premier. Parliamo del resto. La vendita delle auto blu (diventate negli anni il simbolo della casta): «Solo cinque per ministero – ha spiegato Renzi – e i sottosegretari andranno a piedi». Il tetto agli stipendi dei manager pubblici (i detestati «papaveri di Stato»). La riduzione dei compensi alle sfere più alte della magistratura. Il colpo alle banche, e in qualche misura ai giornali. Le spese di tutti i ministeri consultabili on line. La revisione del programma per gli F35. La riduzione da 8 mila a mille delle aziende pubbliche locali. E, prima ancora, un Senato non elettivo e non costoso; l’avvio dell’abolizione delle Province e la cancellazione del Cnel.
A guardare tali decisioni da un certo punto di vista - un punto di vista che non è solo delle opposizioni politiche - le si potrebbero definire senza ombra di dubbio demagogiche e populiste; ad osservarle da un altro, invece, le si possono considerare non solo una mannaia su sprechi e privilegi non più sostenibili, ma il risultato – il prodotto – di una «politica di ascolto»: di ascolto – appunto – di un distacco e di un malessere capaci, a lungo andare, di minare le basi, la sostanza e la credibilità di qualunque democrazia.
Tutto ciò, naturalmente, potrebbe portare nuovi consensi a Matteo Renzi, al suo governo ed al partito che dirige – il Pd – in vista delle ormai vicine elezioni di maggio. Che ciò accada è possibile. Ma la domanda è: la politica non è anche questo? Non è forse aspetto fondamentale del lavoro di un qualunque amministratore – a qualunque livello – esaminare i problemi, ascoltare le richieste che salgono dalla società e poi scegliere e decidere? Se le scelte sono sbagliate, quell’amministratore sarà punito; se si riveleranno giuste, ne riceverà popolarità e consenso. È quel che Renzi spera, naturalmente, guardando alle europee di maggio. Tra un mese o poco più saprà – e sapremo – cos’è rimasto di quella speranza...

«più una scommessa che a un coerente e meditato piano di rilancio dell’economia... La voce sui tagli ad acquisti e servizi (stimata in 2,1 miliardi) in realtà rimanda a ulteriori articolazioni che nel caso delle Regioni forse fanno rientrare dalla finestra quei tagli alla sanità che il ministro Beatrice Lorenzin sostiene a gran voce di aver lasciato fuori della porta»
Corriere 19.4.14
Il coraggio e i dubbi
di Dario Di Vico

qui

il Fatto 19.4.14
Bonus di scambio
di Antonio Padellaro


Dopo ieri sera sarà difficile che Renzi non porti a casa un sontuoso risultato alle elezioni europee del 25 maggio. Perché sul piano della comunicazione politica la conferenza stampa di palazzo Chigi sugli 80 euro è stato un mezzo capolavoro. Se sarà un capolavoro intero lo vedremo nelle prossime settimane solo quando il pacco dono festosamente denominato “Per un Italia coraggiosa, semplice” avrà superato indenne le sabbie parlamentari annientando definitivamente “gufi e rosiconi”. I quali adesso si leccano le ferite inferte con spericolata baldanza dal premier in blue jeans perché non si aspettavano certo che il bonus fosse accompagnato da una esemplare raffica di bastonate alla casta come odiatissimo simbolo del privilegio e alle caste intese come corporazioni arroccate nei propri vantaggi. Insomma il messaggio è: Grillo strilla ma io faccio. Cosa gli puoi dire del resto a uno che con il vento furioso dell'antipolitica nelle vele vuole costringere sottosegretari e superdirigenti a recarsi al lavoro “a piedi o in taxi” procedendo alla quasi completa demolizione delle spregevoli auto blu (solo cinque per ministero). Provassero gli alti papaveri della pubblica amministrazione a lamentarsi perché non potranno percepire più di 240mila euro l’anno, che non sono proprio una miseria. E il sottile sadismo che riduce lo spazio degli uffici dei detestati burocrati da 44mq a 24mq (mancava solo il coro da stadio: “devi morire”)? Senza contare il taglio agli insopportabili F35 e quel rivolgersi a brutto muso contro i magistrati dell’Anm che “confondono le buste paga con l’automia” e che gli varrà sicuramente l’applauso dei garantisti alle vongole. Non staremo qui a ricordare le perplessità di quanti intravedono nella copertura piuttosto raccogliticcia per il bonus una manovra di corto respiro, buona soltanto per qualche mese, per niente strutturale. Sarà pure così ma alla fine di maggio dieci milioni di italiani avranno un po’ più di soldini in tasca da spendere e Renzi nelle urne parecchi voti. Come scambio ci può stare.

il Fatto 19.4.14
Miracolo pasquale: ecco gli 80 euro I punti oscuri delle coperture
Il bonus, per ora, è una tantum: esclusi gli incapienti, salva la sanità, non Coop e agricoltori
di Marco Palombi


Il giorno del trionfo di Matteo Renzi è arrivato, o l’# oraics come scrive su Twitter: dopo il Consiglio dei ministri il nostro scende in sala stampa col sorriso del vincitore e annuncia che darà la quattordicesima agli italiani, detta “i mitici 80 euro”. Alla fine, nonostante gli annunci, per gli incapienti (chi guadagna meno di ottomila euro) non c’è niente: si torna al progetto originario, dare 10 miliardi di euro a 10 milioni di italiani a basso reddito. Quella che segue - in attesa di leggere il decreto, ancora in scrittura a palazzo Chigi - è una breve analisi per punto di quello che si sa al momento.
IL BONUS. Il meccanismo non è chiaro, Renzi non lo ha spiegato nella sua conferenza stampa: non si sa se si agirà sull’Irpef o sui contributi, ma i soldi da fine maggio ci saranno per tutti i dipendenti e i co.co.co. che guadagnano meno di 26mila euro. L’effetto massimo, cioè gli 80 euro pieni, lo otterranno i redditi tra i 18 e i 24mila euro annui, per gli altri la cifra dovrebbe aggirarsi attorno ai 50-60 euro. Ossigeno puro, in ogni caso, per questo livello di stipendi.
IL COSTO. L’operazione costa, per gli otto mesi restanti di quest’anno, circa 6,6 miliardi di euro e dieci a regime, il premier sostiene di aver trovato coperture per 6,9 miliardi nel 2014 e 14 l’anno dopo.
UNA TANTUM. Ci tiene assai, Renzi, a dire che il bonus è strutturale, ma non è così: al momento è finanziato solo fino a dicembre, per renderlo strutturale - come ha spiegato lui stesso a fine conferenza stampa - bisognerà intervenire nella legge di Stabilità, cioè il prossimo autunno: “E lo faremo”, ha promesso.
LE COPERTURE. Secondo lo schemino utilizzato da Renzi a palazzo Chigi sono queste: 1,8 miliardi dalla tassazione delle plusvalenze ottenute dalle banche grazie alla rivalutazione delle quote di Bankitalia; un miliardo di riduzioni delle agevolazioni per le imprese; 600 milioni di maggior gettito Iva dovuto al pagamento di circa otto miliardi di debiti commerciali della P.A.; 2,1 miliardi grazie a un taglio lineare degli acquisti di beni e servizi (700 milioni a testa per Stato, regioni e enti locali); 900 milioni da vari tagli (auto blu, tetto agli stipendi pubblici, sforbiciata al canone Rai e alla pubblicità istituzionale sui giornali; riduzione dei fondi ai ministeri e delle spese degli organi costituzionali); 100 milioni dalla razionalizzazione delle municipalizzate e altrettanti dalla messa online delle spese della Pubblica amministrazione; 300 milioni sono frutto di un maggior recupero dell’evasione già avvenuto nei primi tre mesi di quest’anno. Quasi 7 miliardi.
IL GIALLO BANKITALIA. Renzi conteggia in 1,8 miliardi il gettito delle plusvalenze sulla rivalutazione delle quote di palazzo Koch, stima coerente con un aumento dell’aliquota dal 12% deciso da Letta al 24% (il premier ha detto il 26%, che vale quasi due miliardi). La metà della cifra, però, è già impegnata a pagare l’abolizione dell’Imu 2013.
MAZZATA SU COOP E AGRICOLTURA. Una delle norme sulle agevolazioni alle imprese, secondo indiscrezioni, riguarda l’addio all’esenzione Irap per le cooperative di lavoro. Una stangata fiscale che sta già terrorizzando il mondo da cui proviene il ministro del Lavoro Poletti. Brutte notizie, pare, anche per il settore agricolo: torna l’Imu su terreni e fabbricati rurali, che vale circa 350 milioni.
LA SANITÀ E LA DIFESA. Alla fine le bozze sono state smentite: niente tagli diretti sulla salute. È pur vero che un taglio di 2,1 miliardi all’acquisto di beni e servizi per due terzi a carico di comuni e regioni finirà per sforbiciare soprattutto la sanità. Confermata, invece, la riduzione di 400 milioni alla Difesa: 153 milioni, peraltro, arrivano dal programma F35.
I SOGNI. Tutte le spese della P.A. online entro 60 giorni; razionalizzazione degli uffici pubblici passando da 44 a 24 metri quadri per dipendente; ottomila municipalizzate che in un anno diventeranno mille; 32mila centri di costo che passeranno a cinquanta in tutto. Al momento siamo alle petizioni di principio.
L’IRAP BALLERINA. Confermato il taglio del 10% dell’aliquota dell’imposta regionale sulle imprese: il costo stimato era circa 2,5 miliardi che dovrebbe essere coperto con un aumento del prelievo sulle rendite finanziarie (l’aliquota passa dal 20 al 26%): in realtà l’incasso a regime non supera gli 1,4 miliardi (700 milioni quest’anno).
IL 2015. Alcune coperture per l’anno prossimo, che comunque andranno formalizzate nel ddl Stabilità, sembrano fantasiose: 3 miliardi dalla lotta all’evasione, ad esempio, cinque di ulteriori tagli all’acquisto di beni e servizi e addirittura uno dall’innovazione nella P.A. che per ora non esiste.

il Fatto 19.4.14
Austerità mascherata inseguendo la crescita
Il premier pensa alle elezioni ma l’effetto negativo dei tagli compenserà la spinta positiva dell’intervento sull’Irpef
di Stefano Feltri


Ora che il provvedimento dei famosi 80 euro in più in busta paga è arrivato, la domanda obbligata è: a che cosa serve? Basterà a consolidare quella “ripresa che già c’è ed è fragile”, come dice il ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan?
È chiaro che il taglio dell’Irpef ha ragioni elettorali prima che economiche. Lo ha confermato di fatto lo stesso premier Matteo Renzi: piuttosto che rimettere in discussione la cifra tonda promessa, abbassandola di poco, ha bocciato l’ipotesi di allargare la platea dei beneficiari agli “incapienti”, cioè a chi guadagna così poco da non pagare le tasse e quindi da non trarre alcuna utilità da un calo dell’Irpef. Traduzione politica: Renzi vuole i voti dei lavoratori dipendenti che guadagnano tra gli 8 e i 26mila euro lordi all’anno, la parte bassa della classe media che il Pd deve riconquistare. Lavoratori autonomi, precari e pensionati restano esclusi. Per i dipendenti ad alto reddito, specie se pubblici o parapubblici, ci sono solo cattive sorprese, con decurtazioni molto pesanti (se mantenute) per tutti quelli che superano i 239mila euro del nuovo tetto massimo fissato per gli stipendi statali. Per intercettare i consensi di chi non riceverà gli 80 euro, Renzi prova a sedurre tagliando gli “sprechi”: dalle auto blu ai contributi pubblici ai giornali per la pubblicità legale ai trasferimenti alla Rai. Il 25 maggio ci sarà l’unico bilancio che interessa a Renzi, quello dei risultati elettorali del Pd.
MA LA STIMA DEGLI EFFETTI di queste misure sulla crescita italiana è già nota, nel Documento di economia e finanza presentato dal governo appena approvato dal Parlamento. Il bonus Irpef produrrà un aumento dello 0,1 per cento del Pil nel 2014 e dello 0,3 per cento nel 2015 (ammesso che sia confermato) e dello 0,4 nel 2016. I tagli alla spesa pubblica necessari per trovare le risorse, 6,9 miliardi nel 2014 e ben 14 nel 2015, avranno ovviamente un effetto recessivo, meno soldi spende lo Stato, meno si cresce. E l’impatto sul Pil della spending review sarà -0,1 nel 2014, -0,2 nel 2015 e -0,3 nel 2016. Come si vede il saldo finale è praticamente zero. Tradotto: se si misura esclusivamente l’effetto sulla crescita nel suo complesso, tagliare la spesa per abbassare le tasse è inutile, anche se politicamente può avere un senso. Anzi, rischia addirittura di essere dannoso se chi riceve i famosi 80 euro ha l’impressione che si tratti di un bonus concesso una tantum invece che di una riduzione delle tasse permanente. Perché invece di spenderli li terrà da parte per tempi peggiori. E che ci siano i soldi per gli emendamenti anche di maggioranza ne stanno già smussando gli aspetti più caratterizzanti, cosa che, si suppone, ne ridurrà anche l’impatto economico.
IL PRIMO BILANCIO dell’operato di Renzi finora è quello di una politica di austerità mascherata che allenta un po’ la gabbia dei vincoli, quel tanto che basta da ricavare degli spazi di movimento politico, ma senza scardinarla. Il premier ha rinunciato, per ora, a usare la leva del deficit, che resta al 2,6 per cento del cia il nuovo premier Manuel Valls ha visto in Renzi un compagno di lotta contro l’austerità richiesta da Bruxelles e dal Fiscal Compact. Ma il premier sta dimostrando di non essere un ribelle, o forse il ministro Padoan è stato efficace nel contenerne le intemperanze. La scelta di esautorare il commissario alla revisione della spesa Carlo Cottarelli si sta dimostrando strategica: è lo stesso Renzi a decidere cosa annunciare e come, niente fredde tabelle tecniche ma un approccio totus politicus. I tagli agli statali? Non un sopruso ai danni dello Stato, ma un sano riequilibrio (neanche Silvio Berlusconi sarebbe stato così convincente nel motivare la riduzione dello stipendio dei magistrati). La riduzione dei trasferimenti alle Regioni, l’insostenibile decurtazione dei trasferimenti alla Rai? Non tagli lineari, ma la richiesta che “ciascuno dia il suo contributo”.
I tagli sono recessivi e pesanti come quelli di tutti gli ultimi governi, ma Renzi chiede (e per ora ottiene) che gli italiani esultino per la riduzione della spesa invece che indignarsi come al solito. Nella speranza che la forza del suo ottimismo produca un effetto leva: datemi 80 euro e vi solleverò un Paese decotto. In economia la psicologia conta. Ma non sempre basta.

il Fatto 19.4.14
La strana storia della Sanità
risponde Furio Colombo


CARO COLOMBO, da persona anziana e non proprio in forma come Renzi, (che si alza alle sei del mattino e a mezzanotte sta ancora a dare ritocchi a una riforma, dopo essere stato in due capitali del mondo e tre ex province italiane) sento con ansia notizie contraddittorie sulla Sanità. Si tocca, non si tocca, cambia? Dove, come, a carico di chi? Silvano
SPESSO ACCADE che la lentezza provochi sopore e la velocità imitazione. E così accade che il continuo spostamento d’aria di Matteo Renzi spinga i cronisti a non darsi pace nel raccogliere voci (dieci personaggi per una nomina, nuove donne da spingere in campo, raddoppio di notizia per giorni sgridata interna al Pd) senza l’opportuna selezione. La Sanità certo è uno dei settori più sensibili, dove ogni annuncio fra trasalire milioni di persone. Ma gli annunci si moltiplicano, e sono incoerenti. Ecco quelli tra il sabato e il lunedì scorsi: Uno: “Non ci saranno tagli alla salute degli italiani. I fondi da reperire si troveranno altrove”. (fonte: ministero della Salute, sabato 12). Due: “Le Regioni virtuose non hanno nulla da temere. Le altre, che hanno prodotto buchi, dovranno pagare”. (Fonte: Il sottosegretario Del Rio, domenica 13 aprile ). Tre: “Truffe record e frodi alla Sanità. Stimato danno erariale di un miliardo”. ( Fonte: Il Corriere della Sera, 14 aprile ). Sono tre notizie importanti e nessuna concorda con l’altra. Infatti quasi tutte le regioni non sono “virtuose” nel settore Sanità. La frase significa un annuncio: pagherete tutti. Perché la strana storia della Sanità nelle mani delle regioni ha questa caratteristica. Se tutto va bene (e non succede quasi mai) i dirigenti trionfano e il cittadino perde solo a causa di altri tagli (pronto soccorso super affollato, letti che c'erano e non ci sono più, vagabondaggio fra vari ospedali). Se va male, il dirigente resta al suo posto e il paziente paga la differenza, in un modo o nell'altro, a seconda del tipo di “sforbiciata”. Nel caso (a quanto pare diffuso) di truffa e frodi, ci saranno magari arresti e processi, ma il buco è a carico dei cittadini, perché la regione non è più “virtuosa”, e chi sbaglia paga. Ecco uno strano settore pubblico in cui chi sbaglia (e paga) è sempre l’utente e non il gestore del servizio pubblico. Dunque tutti hanno da temere, specialmente quando si procede a spot: adesso mi occupo del settore Uno e tolgo quel che mi serve da Due e da Tre. Poi proclamo che, giustamente, sistemo Tre, e vado a prendere quel che mi serve da Uno e da Due. Cinque, però, non ha ancora dato e toccherà a Cinque rimborsare Tre. E così via, finché dura. Ricordate il detto “un bel gioco dura poco”? Questo non è un bel gioco. Ma dura.

Corriere 19.4.14
Servizi, Manenti è il nuovo direttore dell’Aise


Per la prima volta un «interno» arriva al vertice dell’Aise, il servizio segreto esterno. Il premier Matteo Renzi ha scelto Alberto Manenti, siciliano di 62 anni, dei quali gli ultimi 30 da 007, sempre al Sismi, diventato Aise nel 2007. Entrato al Sismi da capitano dell’Esercito, ha fatto tutti i gradini della carriera fino a giungere al vertice. Con la nomina si chiudono alcuni mesi di incertezza ai vertici dell’Agenzia. Il mandato quadriennale del precedente direttore, Adriano Santini, era infatti scaduto a fine febbraio scorso, ma con le dimissioni di Enrico Letta e l’arrivo a Palazzo Chigi di Matteo Renzi, la successione è stata «congelata» e a guidare il servizio è stato chiamato con un incarico a tempo di un paio di mesi Paolo Scarpis, vicario di Santini.
In ballottaggio con Manenti— secondo i boatos delle ultime settimane — c’era soprattutto l’ammiraglio Filippo Maria Foffi, capo della squadra navale della Marina Militare. Ma la scelta è caduta su quello che è stato finora il vicedirettore operativo dell’Aise, l’uomo che conosce più di tutti la «macchina». Manenti — con l’hobby della pesca subacquea — ha fama di eccellente negoziatore, gode di credito all’estero, è molto attento alle nuove tecnologie. La sfida che lo attende è ora quella di intensificare la presenza del servizio nei teatri internazionali, rafforzandone l’operatività.

l’Unità 19.4.14
Dello scambio e delle pene
Perché sul voto di scambio non servono pene più pesanti
di Giovanni Pellegrino


Non può meravigliare che la riforma della norma punitiva dello scambio politico-mafioso sia stata accolta con favore dall’Associazione nazionale magistrati e da molti dei magistrati impegnati in prima linea nel contrasto alle cosche; e tra questi dal Procuratore nazionale antimafia Franco Roberti.
Era una riforma attesa da trent’anni. Era attesa da così tanto perché sin dalla sua emanazione il testo dell’art. 416 ter del codice penale è stato oggetto di critiche di principio, poiché individuava e puniva una condotta assai poco ricorrente nella realtà degli intrecci tra politica e mafia.
Si sa che le cosche hanno forti disponibilità di denaro, frutto dei traffici illeciti in cui sono impegnate, sicché è più logico che scambino la promessa dell’appoggio elettorale non già con denaro, di cui non hanno bisogno, ma con concessioni, autorizzazioni e appalti, che consentono loro di acquisire anche in modo indiretto il controllo di ulteriori attività economiche, in cui riciclare le liquidità, di cui sono già abbondantemente in possesso. I difetti di stesura della norma hanno trovato preciso riscontro nella trentennale vicenda della sua applicazione. In questa, mentre l’ipotesi tipica (scambio di denaro contro promessa di voto) è stata di rado individuata, da un lato i tentativi di una sua applicazione estensiva non hanno avuto successo, dall’altro ad esiti problematici hanno condotto quelli di utilizzare il concorso esterno all’associazione mafiosa quale rimedio alle lacune della previsione dell’art. 416 ter. Ovviamente anche il nuovo testo della norma, come ogni prodotto dell’umano intelletto, è perfettibile, come su queste colonne ha giustamente osservato Claudia Fusani. È ben dubbio però che un affinamento della norma possa utilmente consistere in un ulteriore ampliamento della sua previsione, come avveniva nel testo anteriormente approvato dal Senato, strenuamente difeso dai senatori pentastellati con i toni consueti di una sgradevole gazzarra elettoralistica.
Come sottolineato tra gli altri dal gip di Palermo Morosini, il testo anteriore conteneva formule abbastanza sfuggenti, contrarie al principio di tassatività e che ne avrebbero reso ancora una volta incerta e problematica l’applicazione concreta. Più articolate, ma comunque non del tutto condivisibili, le critiche che sono venute da voci autorevoli come quelle di Gratteri e Emiliano, che hanno ritenuto non opportuna la innovativa previsione per lo scambio elettorale politico-mafioso di una pena edittale più mite di quella prevista per i partecipi all’associazione mafiosa e per coloro che alle fortune di questa concorrono all’esterno. Si tratta però di ipotesi differenti, in cui la diversità della sanzione obbedisce al criterio di gradualità della pena.
Il quadro ordinamentale complessivo determinato dalla riforma consente, infatti, citando ancora Morosini, di individuare una piramide di reati caratterizzati da una diversa intensità del rapporto illecito tra il politico e i clan e che vede al suo vertice il 416 bis e poi a scalare il concorso esterno e il voto di scambio con pene edittali, che rispettano una razionale gradualità. E tuttavia si tratta pur sempre di ipotesi contigue, di cui ognuna costituisce il confine dell’altra; sicché è in tale contiguità la fonte di un agevole rimedio alla possibilità che comportamenti più gravi non ricevano una sanzione adeguata Penso in particolare alla patologia cui ha fatto acutamente riferimento Michele Emiliano, e cioè quella di un sindaco che, fattosi eleggere con i voti mafiosi, compromette la libertà di una intera comunità cittadina, impegnandosi nel governarla a perseguire non più il bene comune, ma gli interessi dei clan. A chi scrive però sembra chiaro che un fenomeno di questa intensità esorbita dallo scambio elettorale politico-mafioso, perché nel momento in cui una intera amministrazione cittadina si pone al servizio di una cosca, la ipotesi del concorso esterno alla associazione mafiosa risulta pienamente verificata e sarà quindi suscettibile di essere sanzionata con pene adeguate alla sua gravità.

l’Unità 19.4.14
Alfano: «Basta saccheggi» No al codice identificativo
Il ministro dell’Interno difende l’operato della Polizia: «Attacchi inaccettabili
«Se costretti potremmo vietare l’accesso al centro di Roma»
di Franca Stella


«Per noi la libertà di manifestare è sacra, ma tirare razzi non vuol dire manifestare. E poi sono contrario a prevedere un codice identificativo per le forze dell’ordine che prestano servizio durante la manifestazioni. Anzi se questi sono i manifestanti l’identificativo lo metterei a loro e non alla polizia». E così il ministro degli Interni Angelino Alfano ha aperto e chiuso la discussione che il viceministro Filippo Bubbico aveva tentato di sollevare all’indomani delle violenze al corteo per la casa svoltosi a Roma il sabato precendete. Bubbico, solo quattro giorni fa, aveva detto, durante una trasmissione radiofonica, che «anche in situazioni difficili, estreme, mai la Polizia di Stato deve venir meno ai propri obblighi confermando la propria tradizione democratica». «Il Codice identificativo delle Forze dell’Ordine - aveva aggiunto - riapre una vecchia questione. È utile per individuare immediatamente gli operatori di Polizia, ma ci sono aspetti che riguardano la tutela di questi lavoratori, che lavorano spesso in condizioni difficilissime, per garantire la sicurezza e l’ordine pubblico». Il viceministro, dunque, non aveva escluso a priori una discussione sul tema (d’altronde altri paesi europei, come la Germania, adottano questo tipo accorgimento). Alfano, evidentemente, non è stato dello stesso avviso.
Il ministro, durante una conferenza stampa, ha voluto dare una prova di compattezza, di ordine corporativo, difendendo a spada tratta la polizia per la gestione della piazza. «Gli attacchi di questi giorni alla polizia sono inaccettabili» ha detto Alfano, dopo le immagini della manifestante calpestata durante il corteo di sabato scorso a Roma. Il ministro ha addirittura portato in conferenza stampa altre immagini. Foto che mostrano dei manifestanti mentre «tentano di saccheggiare il centro di Roma» per sottolineare che «noi siamo dalla parte degli uomini e delle donne in divisa che difendono il paese ogni giorno».
L’obiettivo è quello di arginare le polemiche scoppiate per il filmato dell’agente «calpestatore», definito «un cretino» dal capo della polizia, Alessandro Pansa ed indagato dalla procura. «Questi - ironizza il ministro indicando le foto - sono i bravi ragazzi che si battono contro l’austerità e la precarietà». Quanto al poliziotto indagato per gli scontri, «se qualcuno ha sbagliato se ne occuperà chi di dovere ». Il titolare del Viminale definisce poi «inaccettabile che il centro storico di Roma sia sottoposto al rischio di saccheggio ogni due o tre mesi. Non vorremmo che ci costringessero a vietare in queste manifestazioni l’accesso al centro storico» della Capitale.
Le parole del ministro sono state apprezzate dai sindacati di polizia, che si sono affrettati a ringraziarlo. «Il ministro - ha detto Felice Romano, segretario del Siulp - ha ridato fiducia e motivazione alle donne e agli uomini della Polizia di Stato e di tutte le forze dell’ordine che, nonostante i “quattro soldi” con cui vengono retribuiti e nonostante gli attacchi fisici e morali hanno sempre continuato a fare il loro dovere fino al sacrificio estremo». Quanto detto da Alfano, fa eco Gianni Tonelli, presidente nazionale del Sap, «fa piacere perché il ’sistema del Viminale, nel suo complesso, era apparso carente nei nostri confronti all’indomani degli ultimi scontri verificatisi a Roma e si erano creati dei “vuoti” che rischiavano di lasciare un segno indelebile e non positivo nei confronti delle motivazioni del personale». La proposta di Alfano di chiudere la zona centrale della Capitale alle manifestazioni ha avuto anche un altro plauso: quella del municipio del Centro storico di Roma, la cui presidente Sabrina Alfonsi, ha ricordato che «già da mesi avevamo individuato il problema, il diritto a manifestare è sacro ma non può ricadere sempre sullo stesso pezzo di città, residenti, negozi costretti a chiudere». Critico, invece, il leader di Sel, Nichi Vendola. «Che Paese è - si chiede - quel Paese in cui il ministro dell’Interno scarica il capo della Polizia, smentisce il viceministro dell’Interno pur di difendere determinati poliziotti che hanno abusato del loro potere?».
Dario Ginefra del Pd sostiene di essere «con Alfano quando alza le foto di ciò che le forze di polizia si trovano ad affrontare nello svolgimento del loro lavoro, ma vietare cortei nel centro storico significa di fatto silenziare significativamente la voce delle manifestazioni, che oggi più che mai vanno ascoltate con attenzione».

La Stampa 19.4.14
Ma le molotov fanno male anche in periferia
di Luigi La Spina


Con le dichiarazioni del ministro Angelino Alfano si è chiusa una settimana caratterizzata, sul problema della violenza durante le manifestazioni, da una certa confusione di idee, aggravata dal consueto strabismo psicologico e politico.
Proviamo a riassumere i fatti e i commenti di questi giorni.
Dopo i gravi incidenti provocati a Roma dai soliti infiltrati nel corteo di protesta per la casa, con l’intento preordinato di seminare una violenza distruttiva nelle vie della città, la pubblicazione di foto e filmati nei quali si vedeva un agente calpestare una ragazza già a terra suscitava un coro di riprovazione. Con inusuale prontezza e altrettanto inusuale coraggio, il capo della polizia, Alessandro Pansa, invece di ricorrere alla prevedibile difesa corporativa, bollava come «un cretino» il poliziotto protagonista del gesto e ne annunciava l’inevitabile punizione. Un commento certamente consapevole dei difficili compiti delle forze dell’ordine nel fronteggiare gli scontri di piazza, ma una definizione dell’agente, forse, non azzeccata. Poliziotti e carabinieri non sono semplici cittadini, ma rappresentano lo Stato, a cui la Costituzione affida il monopolio della violenza, ecco perché la loro responsabilità nell’esercitarla è molto importante e i limiti nei quali possono praticarla devono essere strettamente rispettati. L’agente che li ha sorpassati, quindi, non è «un cretino», ma un rappresentante dello Stato colpevole di averli violati, magari con l’attenuante dello stress emotivo, non con quello della dabbenaggine di averlo fatto davanti ai fotografi.
La mezza «gaffe» di Pansa otteneva un duplice effetto negativo. I suoi uomini si sono sentiti ingiustamente colpevolizzati, dopo essere stati bersaglio di aggressioni violente che potevano avere conseguenze drammatiche per la loro incolumità ed è stata utilizzata strumentalmente, da una parte della classe politica e dai soliti strabici commentatori, per attacchi generalizzati contro la polizia. Nessuna condanna, o ipocrite deplorazioni, come se la violenza fosse ammissibile purché non si esageri, nei confronti di coloro che, in tutte le manifestazioni di protesta, si armano di bastoni, razzi, bottiglie molotov, indossano caschi e cappucci per non essere identificati e si applicano a una sistematica opera di devastazione di negozi, sedi di banche, uffici e di furibonda aggressione contro le forze dell’ordine. Un rituale ormai intollerabile, anche perché assolutamente preordinato con criminale efficienza organizzativa, ad opera di sparuti, ma pericolosi gruppi eversivi, del tutto noti alla polizia e ai carabinieri, ma contro i quali sembra non si voglia o non si possa agire con rigorosi comportamenti di prevenzione e di repressione.
Per chiudere questa settimana sfortunata, diciamo così per il rispetto terminologico dovuto al tempo pasquale, è intervenuto, ieri, il ministro dell’Interno. Obbligato a confortare gli umori depressi e irritati degli agenti di polizia, Alfano si è comprensibilmente prodotto in una vigorosa difesa di uomini impegnati in un compito pericoloso e difficile, in nome dello Stato e dei suoi doveri di tutela nei confronti dei cittadini e dei loro beni. Ma, forse trascinato dalla foga oratoria, ha lanciato una minaccia tanto inutile quanto equivoca, quella di impedire le manifestazioni nel centro di Roma.
Da una parte, è ovvio che i cortei di protesta si dirigano verso i palazzi del potere, simboli, veri o presunti, delle supposte malefatte contro cui si agitano cartelli e slogan, per cui sarebbe irrealistico pensare di trasferirli in quartieri isolati o sulle spiagge di Ostia. Dall’altra, non è accettabile che le vetrine dei negozi di via Condotti siano considerate più preziose di quelle a rischio alla Garbatella o che gli abitanti del centro storico siano da proteggere maggiormente rispetto a quelli che stanno alla Magliana. A parte il rimprovero che si meriterebbe da Papa Francesco, giustamente definito «il Pontefice delle periferie», Alfano dovrebbe ascoltare l’illuminato consiglio del senatore a vita e grande architetto Renzo Piano, il quale ha ricordato la necessità di «rammendare le periferie delle città italiane». Con l’ago e il filo e non con le bottiglie molotov e i manganelli.

Repubblica 19.4.14
Nella testa dei poliziotti “Noi, contagiati dalla violenza”
“La bomba carta ti schiaccia lo sterno pensi solo alla vendetta”
di Carlo Bonini


MARCO ha 35 anni. Un diploma, un corso di laurea abbandonato troppo presto, una moglie che una sera di qualche mese fa ha cambiato la serratura della porta di casa. Marco è un “celerino” e sabato era in piazza a Roma, in via del Tritone. Dice: «Senti un po’, ti è mai esplosa una bomba carta a qualche metro di distanza? Lo sterno ti schiaccia i polmoni, la gola si chiude e cominci ad avere conati di vomito. Le orecchie ti fischiano in modo lancinante. Sudi freddo. E se resti in piedi e non cadi come un birillo la testa riesce a dirti solo due cose. Grazie a Dio sono vivo. E poi, quanto è vero Dio, ora ammazzo chi ha cercato di ammazzarmi. Sabato scorso ho anche smesso di contarle, le bombe carta che ci hanno tirato. E a un certo punto ho pensato che persino i razzi di segnalazione marittima che ci sparavano ad altezza d’uomo erano meglio di quella merda».
L’epica della violenza è una brutta bestia. Può declinare in retorica. E la piazza di epica della violenza ne ha una peculiare. Ma è anche vero che i 5mila uomini della Celere, nome dismesso solo negli organigrammi del ministero (“Reparti Mobili”), da quell’epica appaiono contagiati e impregnati per “necessità”. Adriano, 46 anni, che di mestiere i celerini li addestra: «Devi immaginare che chi assume ogni giorno dosi omeopatiche di rabbia sul marciapiede rischia, prima o poi, di somigliare ai violenti che fronteggia. Fino ad assumerne le regole, i riflessi condizionati. L’addestramento, e dunque il lavoro sulla tecnica e sulla testa, è fondamentale. Ma spesso non basta. Alla fine, sul marciapiede arriva un momento in cui sei solo. Tu e loro. C’è una frazione di secondo in cui sei l’unico responsabile dei movimenti del tuo corpo in un contesto in cui vola di tutto, il rumore è assordante e la tua adrenalina è quella di chi reagisce a un’aggressione fisica. In quel momento conta solo chi sei. Drammaticamente, se sbagli paga tutta la Polizia ».
Anche per questo, è andato per sempre il tempo in cui questa “carne da cannone” arrivava dal sottoproletariato urbano e dal bracciantato agricolo, meritan- dosi la solidarietà controcorrente di Pierpaolo Pasolini nel giorno della battaglia di Valle Giulia (1 marzo 1968). Certo, la Celere è ancora affare di “terroni” (più della metà è ancora arruolata nel centro-sud), ma non è più il Calimero della Polizia di Stato. Il 70 per cento degli effettivi ha un diploma di scuola superiore. Il 10, una laurea. Alla Celere si chiede di andare, non ci si viene più spediti perché puniti o inabili ad altra incombenza che non contempli solo l’uso dei muscoli. I “burocrati del Ministero”, come nella Celere chiamano “quelli del Viminale”, hanno mandato a mente la lezione del G8 2001. Sull’ordine pubblico, si giocano le carriere di ministri, capi della polizia, prefetti e questori e con loro l’immagine dello Stato. Il “pulviscolo informativo” fatto di smartphone e videocamere ha fatto di una manifestazione, dello stadio, di uno sgombero, uno streaming dove nessun dettaglio sfugge e il dettaglio diventa il tutto. Una sineddoche che mette in fuori gioco gli ideologismi, i corporativismi e insieme però azzera ogni complessità. Ancora Adriano: «Lo ripetiamo fino alla nausea ai ragazzi. La piazza ha mille occhi. E uno di quegli occhi vi giudicherà senza appello».
Anche per questo, l’ordine pubblico è diventato priorità. «Nessuno ti ricorderà se hai sventato una rapina - dice un ex questore di Roma - Ma nessuno dimenticherà un agente che scalcia un manifestante inerme. E su questo verrai giudicato». I Reparti Mobili sono stati portati a 15 (Torino, Genova, Milano, Padova, Bologna, Firenze, Roma, Senigallia, Taranto, Bari, Napoli, Reggio Calabria, Palermo, Catania, Cagliari). E 7 anni fa, ormai, Antonio Manganelli, il Capo della Polizia che ebbe l’onore di chiedere scusa per i fatti di Genova, inaugurò la scuola di formazione di Nettuno. Luogo in cui affinare testa e tecnica di uomini che, tuttavia, continuano a sbagliare. Perché sbagliare è umano, evidentemente. Ma forse anche per altro.
«Perché - osserva Luca, ispettore di un Reparto Mobile del Nord - la volontà e l’equilibrio di un uomo lo spezzi non solo con una bomba carta, ma ogni 27 del mese, quando apre la busta paga ». Mediamente più pesante di quelle dei colleghi di altre specialità. Perché rimpolpata da indennità speciali. E tuttavia sempre troppo leggera. Netti, 1.400 euro per un agente, 1.500 per un vicesovrintendente, 2.000 per un sostituto commissario, il vertice del ruolo degli ispettori. Con un dettaglio. Dal 2009, le retribuzioni della Celere, come quelle dell’intera Polizia, sono congelate negli scatti di anzianità e in quelli legati all’avanzamento di grado. E - se verrà confermato quanto ipotizzato nel Def - tali resteranno fino al 2020.
«Una beffa e insieme un danno », spiega Riccardo, agente 30enne di un Reparto Mobile del sud. A metà degli anni 2000, la prospettiva di una “paga migliore”, si fa per dire, ha spinto nella Celere schiere di poliziotti sulla quarantina, convinti di muovere carriere altrimenti immobili. Ma il blocco degli stipendi e del turnover ha trasformato questa “trasfusione” in glaciazione che, nel giro di pochi anni, ha invecchiato i Reparti. Per intendersi, l’età media della Celere di Taranto è 50 anni. I più giovani sono a Senigallia e viaggiano sui 35. Complessivamente, l’età media è stabilmente sopra i 40. «Ogni tanto qualcuno rimane per terra e non si rialza più. Non per una pietra o un colpo di mazza. Ma per infarto », chiosa Riccardo. Già, la piazza non è un luogo per “vecchi”. Ma il rigore di bilancio l’ha resa tale. E questo, a ben vedere, non l’ha necessariamente resa più “saggia”. Semmai, disincantata.
Fulvio, 48 anni, in un Reparto Mobile del Nord da quasi dieci anni, inspira profondamente. Quasi fosse insostenibile ormai anche la fatica di pronunciarle certe parole. «In questo disgraziato Paese non cambia mai nulla... Quando a Torino i colleghi si tolsero il casco di fronte ai Forconi, scoppiò il finimondo. Sembrava che stessimo per ammutinarci. Oggi scoprono che di fronte a una piazza incazzata nera le cose possono mettersi per il verso sbagliato e ci processano per le ragioni opposte. La verità è che di noi non frega nulla a nessuno. Né frega niente e a nessuno di mettere nero su bianco quattro regole quattro che mettano fine a quest’insensata battaglia. Anche stavolta sarà così. Tra qualche giorno, tutti avranno dimenticato. Nessuno avrà messo mano al problema. Fino alla prossima volta. Tra un mese, una settimana. O magari domani».

Corriere 19.4.14
La scelta (giusta) di stare con la Polizia
di Fiorenza Sarzanini

È la mossa per cercare di serrare le file dopo le polemiche seguite al corteo di sabato a scorso a Roma. È la sortita che cerca di placare l’ira dei poliziotti contro chi ha criticato la gestione della piazza e i comportamenti violenti di alcuni agenti.Ma anche per lanciare una stoccata forte a Filippo Bubbico, viceministro scelto dal Pd, che aveva sollecitato una riflessione sull’introduzione del «numero identificativo» per gli uomini impegnati in servizio di ordine pubblico.
C’è tutto questo dietro le parole del titolare del Viminale Angelino Alfano che minaccia di «chiudere il centro storico alle manifestazioni perché è inaccettabile che ogni due o tre mesi sia sottoposto a rischio di saccheggio». E smentisce con decisione la possibilità di «identificare» con un numero sulla divisa e sul casco gli agenti impegnati in servizi di ordine pubblico.
Da giorni la «base» della polizia invocava una presa di posizione forte e il ministro ha deciso di schierarsi in maniera eclatante.
L’immagine della manifestazione di Roma era ormai inesorabilmente legata al video che mostra l’artificiere mentre sale sul fianco di una ragazza finita a terra dopo una «carica» e a quelli sulle violenze compiute da altri agenti. Alfano ha stigmatizzato questi comportamenti assicurando che «chi ha sbagliato pagherà», ma decidendo di difendere gli altri, di «stare con la polizia». È l’unica strada possibile, soprattutto in un momento tanto delicato.
La crisi economica e le tensioni sociali possono accendere nuovi focolai di tensione. L’ala violenta dei contestatori rischia di prendere il sopravvento su chi invece protesta pacificamente, su chi vuole far sentire la propria voce esclusivamente per esprimere il disagio.
Ecco perché è importante tutelare la polizia anche rispetto alle intemperanze dei suoi appartenenti, ecco perché è fondamentale lanciare un richiamo forte al rispetto delle regole contro chi scende in piazza solo per «sfasciare».
Nelle prossime settimane Roma sarà vetrina di appuntamenti importanti che richiameranno migliaia di persone, a partire dalla festa del 1º maggio che potrebbe diventare occasione di nuove proteste.
La scelta del ministro, presa in totale accordo con il capo della polizia Alessandro Pansa, serve a dare fiducia alle migliaia di agenti che svolgono in maniera impeccabile la propria attività nonostante gli stipendi bloccati e la minaccia di nuovi tagli economici che il governo ha già pianificato.
Fiorenza Sarzanini

l’Unità 19.4.14
L’esclusione delle liste verdi
Caro ministro Alfano, lei non può cambiare la legge
di Roberto Della Seta


ANGELINO ALFANO HA DECISO CHE LA LISTA CHE RAPPRESENTA IN ITALIA I VERDI EUROPEI NON DEVE PARTECIPARE ALLE ELEZIONI EUROPEE, e attraverso una circolare ha dato indicazione agli uffici elettorali di eliminarla. L’ha deciso malgrado la lista soddisfi tutti i requisiti previsti dalla legge elettorale italiana per le Europee, la n. 18 del 1979. Infatti, come tutte le liste collegate a gruppi presenti nel Parlamento europeo o nel Parlamento italiano, anche quella ecologista è esentata dalla raccolta delle firme prevista invece per le altre; ma mentre la regola è stata fatta valere per Forza Italia, Lega, Pd, Centro democratico, Fratelli d’Italia, Cinquestelle, Scelta Civica, per i Verdi europei si è fatta un’eccezione, interpretando la legge come se il collegamento che esenta dal raccogliere le firme funzioni solo se è con parlamentari italiani.
Decidendo così, Alfano ha ignorato ciò che dice la legge, ha ignorato una recente ordinanza del Tar del Lazio che ha confermato le nostre valutazioni e ha ignorato anche un ordine del giorno approvato pochi giorni fa dalla Camera che invitava il governo ad applicare correttamente la norma in questione: un abuso grave, inaccettabile, che lede i princìpi della democrazia e arroga al Ministro dell’Interno, in modo del tutto illegittimo, una sorta di super-potere legislativo, cioè la facoltà di modificare con una sua circolare una legge dello Stato.
Noi che abbiamo promosso la lista «Green Italia Verdi Europei» ci impegneremo in ogni sede e in ogni modo nei prossimi giorni per vedere riconosciuti i nostri diritti. Ma vorremmo non essere soli, perché la nostra non è una battaglia di parte. Noi Verdi europei siamo per dimensione il quarto gruppo nel Parlamento europeo, siamo una forza politica europea radicata ormai da decenni: escluderci dalla possibilità di partecipare anche in Italia alla competizione elettorale da cui scaturirà il prossimo Parlamento europeo significa mettersi contro la legalità e contro la democrazia. Il colpevole a oggi si chiama Alfano, ma da domani chi per indifferenza o per interessi di bottega preferirà tacere diventerà suo complice.
Io non so, noi non sappiamo quale sia il movente che ha spinto il Ministero dell’Interno a decidere contro la legge. Ma sia che esso nasca da ottusità burocratica, sia che abbia a che fare con più maliziosi calcoli politici (in fondo l’arbitro in questo caso è anche giocatore), sappiamo che questa prepotenza va fermata. Da troppo tempo manca in Italia una rappresentanza ecologista in politica, e anche per questo l’ambiente, l’ecologia sono quasi del tutto scomparsi dal dibattito pubblico. Le conseguenze si vedono: si chiamano Ilva di Taranto, terra dei fuochi, dissesto del territorio, abusivismo edilizio. Eppure l’ambiente serve moltissimo all’Italia, è un’arma decisiva anche per uscire davvero dalla crisi di questi anni. Di questo vorremmo parlare con gli italiani nella campagna elettorale che porterà al voto del 25 maggio: di come la green economy, dall’energia pulita alla chimica verde, ha già creato migliaia di posti di lavoro e in futuro potrà crearne ancora molti di più; del perché sia una bestemmia e una stupidaggine contrapporre, come fanno in tanti nel caso dell’Ilva e in tante altre situazioni analoghe, lavoro e salute; di quanto potrebbero avvantaggiare l’economia italiana politiche industriali green; dell’urgenza di politiche infrastrutturali che anziché buttare miliardi in opere inutili come il mega-tunnel Torino-Lione puntino sul trasporto locale e sul miglioramento della mobilità urbana.
Di questo vorremmo parlare con gli italiani nelle prossime settimane, per questo abbiamo presentato liste dove accanto a figure importanti dell’ecologismo europeo - un nome per tutti: la presidente del Partito Verde Europeo Monica Frassoni - vi sono rappresentanti delle grandi associazioni ambientaliste, imprenditrici e imprenditori della green economy, molti giovanissimi alla prima esperienza politica che hanno scoperto l’impegno sociale lavorando sull’ambiente e per l’ambiente.
Di questo vorremmo parlare, riusciremo a farlo se tutti quelli che hanno a cuore lo Stato di diritto faranno la loro parte per convincere l’onorevole Alfano che anche lui è tenuto a rispettare le leggi della Repubblica.

Repubblica 19.4.14
La ricerca dell’uguaglianza
di Federico Fubini


ANGELINO ALFANO HA DECISO CHE LA LISTA CHE RAPPRESENTA IN ITALIA I VERDI EUROPEI NON DEVE PARTECIPARE ALLE ELEZIONI EUROPEE, e attraverso una circolare ha dato indicazione agli uffici elettorali di eliminarla. L’ha deciso malgrado la lista soddisfi tutti i requisiti previsti dalla legge elettorale italiana per le Europee, la n. 18 del 1979. Infatti, come tutte le liste collegate a gruppi presenti nel Parlamento europeo o nel Parlamento italiano, anche quella ecologista è esentata dalla raccolta delle firme prevista invece per le altre; ma mentre la regola è stata fatta valere per Forza Italia, Lega, Pd, Centro democratico, Fratelli d’Italia, Cinquestelle, Scelta Civica, per i Verdi europei si è fatta un’eccezione, interpretando la legge come se il collegamento che esenta dal raccogliere le firme funzioni solo se è con parlamentari italiani. Decidendo così, Alfano ha ignorato ciò che dice la legge, ha ignorato una recente ordinanza del Tar del Lazio che ha confermato le nostre valutazioni e ha ignorato anche un ordine del giorno approvato pochi giorni fa dalla Camera che invitava il governo ad applicare correttamente la norma in questione: un abuso grave, inaccettabile, che lede i princìpi della democrazia e arroga al Ministro dell’Interno, in modo del tutto illegittimo, una sorta di super-potere legislativo, cioè la facoltà di modificare con una sua circolare una legge dello Stato. Noi che abbiamo promosso la lista «Green Italia Verdi Europei» ci impegneremo in ogni sede e in ogni modo nei prossimi giorni per vedere riconosciuti i nostri diritti. Ma vorremmo non essere soli, perché la nostra non è una battaglia di parte. Noi Verdi europei siamo per dimensione il quarto gruppo nel Parlamento europeo, siamo una forza politica europea radicata ormai da decenni: escluderci dalla possibilità di partecipare anche in Italia alla competizione elettorale da cui scaturirà il prossimo Parlamento europeo significa mettersi contro la legalità e contro la democrazia. Il colpevole a oggi si chiama Alfano, ma da domani chi per indifferenza o per interessi di bottega preferirà tacere diventerà suo complice. Io non so, noi non sappiamo quale sia il movente che ha spinto il Ministero dell’Interno a decidere contro la legge. Ma sia che esso nasca da ottusità burocratica, sia che abbia a che fare con più maliziosi calcoli politici (in fondo l’arbitro in questo caso è anche giocatore), sappiamo che questa prepotenza va fermata. Da troppo tempo manca in Italia una rappresentanza ecologista in politica, e anche per questo l’ambiente, l’ecologia sono quasi del tutto scomparsi dal dibattito pubblico. Le conseguenze si vedono: si chiamano Ilva di Taranto, terra dei fuochi, dissesto del territorio, abusivismo edilizio. Eppure l’ambiente serve moltissimo all’Italia, è un’arma decisiva anche per uscire davvero dalla crisi di questi anni. Di questo vorremmo parlare con gli italiani nella campagna elettorale che porterà al voto del 25 maggio: di come la green economy, dall’energia pulita alla chimica verde, ha già creato migliaia di posti di lavoro e in futuro potrà crearne ancora molti di più; del perché sia una bestemmia e una stupidaggine contrapporre, come fanno in tanti nel caso dell’Ilva e in tante altre situazioni analoghe, lavoro e salute; di quanto potrebbero avvantaggiare l’economia italiana politiche industriali green; dell’urgenza di politiche infrastrutturali che anziché buttare miliardi in opere inutili come il mega-tunnel Torino-Lione puntino sul trasporto locale e sul miglioramento della mobilità urbana. Di questo vorremmo parlare con gli italiani nelle prossime settimane, per questo abbiamo presentato liste dove accanto a figure importanti dell’ecologismo europeo - un nome per tutti: la presidente del Partito Verde Europeo Monica Frassoni - vi sono rappresentanti delle grandi associazioni ambientaliste, imprenditrici e imprenditori della green economy, molti giovanissimi alla prima esperienza politica che hanno scoperto l’impegno sociale lavorando sull’ambiente e per l’ambiente. Di questo vorremmo parlare, riusciremo a farlo se tutti quelli che hanno a cuore lo Stato di diritto faranno la loro parte per convincere l’onorevole Alfano che anche lui è tenuto a rispettare le leggi della Repubblica.

Corriere 19.4.14
Ieri la lettera di Napolitano al Corriere della sera
L’applauso di Rodotà: l’ho sempre stimato, indica una strada giusta
intervista di Dino Martirano


ROMA — A tratti, quando rievoca un anno trascorso al centro di polemiche e contrapposizioni, il professor Stefano Rodotà tradisce una incrinatura nella voce. Lui dice che «non è emozione». Ma di buon mattino conferma di avere «già letto tutto, con grandissima attenzione». E dunque esplicita il suo vivo apprezzamento per la lettera inviata dal capo dello Stato al direttore del Corriere della Sera : «Le parole del presidente della Repubblica, che ho trovato gratificanti personalmente, sono, al di là della mia valutazione, obiettivamente molto importanti da un punto di vista istituzionale. Lo sono perché rimettono sui giusti binari una discussione sulle riforme in vista dei mesi impegnativi che abbiamo davanti. E se devo essere sincero, in primo luogo questo messaggio dovrebbe essere raccolto dal presidente del Consiglio: l’indicazione di Napolitano vale per la politica, non è una concessione fatta ai professori».
Dunque, si riconosce quando il capo dello Stato ribadisce «attenzione e disponibilità al confronto verso le posizioni critiche di alcuni costituzionalisti...» cui dice di essere legato «da rapporti di stima reciproca».
«Mi riconosco. E da parte mia non è mai venuta meno la stima. Al di là della personalizzazione, perché i costituzionalisti in questione sono tanti, trovo di grandissima rilevanza ciò che dice Napolitano perché stiamo toccando un terzo degli articoli della Costituzione e il cambiamento può portare a un mutamento della forma di governo. Una discussione di questa portata non si può incardinare solo su un largo consenso parlamentare ma esige una discussione aperta, franca, tenendo conto anche delle critiche più incisive e dure. Ecco, in un clima in cui la parola “conservatori” è rivolta a noi professori come un passepartout per non discutere, l’apertura di Napolitano è in controtendenza».
Lei ha sostenuto che non si possono fare le riforme con Berlusconi che «è il responsabile dello sfascio del Paese».
«Di fronte agli atteggiamenti non solo critici ma anche aggressivi nei confronti del presidente sono andato nella direzione opposta quando si è parlato di forzature della Costituzione e di impeachment. Si può dissentire politicamente ma non dire che Napolitano si è mosso al di fuori del perimetro istituzionale. Certo, la scelta della larghe intese non è quella che politicamente mi convince. È chiaro, però, che Napolitano si è mosso non solo per rendere possibile una governabilità ma anche per imprimere una spinta per le riforme. In modo da uscire da quella situazione in cui si era venuto a trovare il Paese una anno fa. Quando due terzi del Parlamento e i governatori lo investirono della crisi del sistema e gli chiesero di rendersi disponibile per un secondo mandato perché i partiti non erano capaci di eleggere un altro presidente».
Il governo ha posto i paletti per le riforme. Sono paletti inamovibili?
«Una prorogativa parlamentare, in qualche modo, è stata sequestrata dal governo che ha non solo preso l’iniziativa ma ha anche detto: “O si va nella direzione indicata o si va a tutti a casa”. Magari così non si arriva da nessuna parte. Per cui, ora, le indicazioni di Napolitano potrebbero aiutare una discussione che è partita con il piede sbagliato sulla legge elettorale e rendere così possibile una correzione in corso d’opera. La riforma del Senato, invece, è un vero pasticcio. Lo hanno detto in tantissimi: le critiche sono parecchie, gli elogi, poi, non sono così sperticati».
Il Senato deve continuare a essere eletto a suffragio universale?
«È possibile, come ha notato Andrea Manzella, che il Senato abbia la competenza per intervenire sulle leggi costituzionali senza avere rappresentanza nella nazione? Ecco, bisogna fare attenzione alla grammatica costituzionale».
Voi professori siete stati definiti conservatori dal ministro Boschi.
«Sulla legge elettorale e sulle riforme costituzionali, ci sono proposte mie e di altri di cui non si è voluto tenere conto solo perché non erano sulla linea indicata dal governo. Sul Senato, per esempio, il testo Chiti è ampiamente condivisibile».
Lei, professore, augura a Napolitano di restare ancora per molto al Colle?
«Gli auguro lunga vita, naturalmente. So bene che lui ha accettato il secondo mandato legandolo ad alcuni obiettivi ma la crisi del sistema politico è ancora molto forte e, in questo momento, risulterebbe problematico investire il sistema anche del rinnovo del capo dello Stato».
Lei disse che la disgregazione del Pd avrebbe costituito un rischio per la democrazia. In questo Renzi ha fatto centro: ha rimesso in sella il partito.
«Più che in sella lo ha rimesso in riga, il partito».

La Stampa 19.4.14
Chi saranno i genitori dei due gemelli?
Nel vuoto normativo, questa vicenda farà giurisprudenza.
Ecco come s’incrociano il codice civile e la legge 40
di Maria Corbi

qui

La Stampa 19.4.14
Un diritto da inventare
di Vladimiro Zagrebelsky


Nella vicenda che vivono i sei protagonisti della situazione in cui una coppia vede la donna incinta dei gemelli geneticamente figli di altra coppia, si pongono problemi e angosce e dubbi umanamente inimmaginabili e dal diritto infatti non immaginati. La situazione ha evidenti e preponderanti aspetti umani: qualunque soluzione venga infine trovata, gli strascichi saranno dolorosi e duraturi. Basti pensare alle conseguenze, per la serenità dei gemelli che nasceranno, che potrà avere un’eventuale protratta conflittualità che contrapponga le due coppie, ed anche al diritto che essi avranno di conoscere le loro origini; un diritto il cui esercizio ha molti risvolti e su cui si è anche espresso nel 2011 il Comitato nazionale di bioetica. Ma oltre agli aspetti umani, ad affrontare i quali il diritto è comunque inadeguato, andrà risolta la questione giuridica della filiazione, rispondendo alla domanda di chi siano i genitori dei due nati, di chi essi siano figli. Si tratta di domande che non possono rimanere senza risposta formale, non bastando il rinvio a una qualunque situazione di fatto che eventualmente si instauri. Troppe sono le conseguenze legali dello stato di filiazione, perché il quesito rimanga senza risposta. E la ricerca di una soluzione certa, giuridicamente certa, è una delle caratteristiche della legislazione sulla filiazione. Infatti la legge pone limiti alla possibilità di smentire ciò che risulta dall’atto di nascita o dal c.d. possesso di stato. Ma le regole stabilite dal codice civile riflettono condizioni di concepimento, gestazione e parto in tutto e per tutto naturali; solo con qualche forzatura possono essere applicate al caso che si è inopinatamente verificato. Per esempio, il codice civile, secondo lunga tradizione, stabilisce la presunzione di paternità del marito, ma non si preoccupa di dire che si presume madre la donna che ha dato alla luce il nato. Il detto latino «mater certa, pater numquam», ha senso solo nelle nascite interamente naturali (e prima dello sviluppo della genetica). Per suo conto, la legge sulla procreazione medicalmente assistita disciplina la materia con riferimento alle nascite frutto della procedura che la stessa legge descrive e di cui il consenso della coppia è elemento centrale. Tanto che essa espressamente stabilisce che i nati a seguito delle tecniche di cui si tratta hanno lo stato di figli della coppia che ha espresso la volontà di ricorrere alle tecniche medesime. Ma il consenso informato che quella legge specificamente disciplina e richiede perché la procedura sia messa in atto, difficilmente può essere risolutivo nel caso di una coppia che abbia subìto l’impianto di embrioni altrui e in cui la donna si trovi a vivere, non avendola voluta, una esperienza simile a quella della madre surrogata o, come si dice, dell’utero in affitto. Ed anche il divieto di disconoscimento della paternità e quello della scelta dell’anonimato da parte della madre, si spiegano con il fatto che entrambi hanno consentito alla procedura medica di inseminazione e che è ragionevole impedir loro di cambiare idea. Ma in questo caso, hanno essi consentito a ciò che è stato in effetti praticato? L’errore non vizia forse il loro consenso? In ogni caso resta aperta la posizione della coppia che ha dato origine agli embrioni impiantati e che se li è visti «sottratti».
E’ probabile che non si trovi nella legge la norma disegnata apposta per rispondere - non alle attese delle due coppie - ma almeno alla esigenza di certezza giuridica dello stato di figli dei due che nasceranno. Dopo la nascita, al momento della denunzia all’ufficiale di stato di civile, questo chiederà probabilmente lumi al pubblico ministero. La linea direttrice dovrà essere quella dell’interesse dei bambini. Ma anche qui, una risposta certa sarà difficile da trovare. E’ probabile che ancora una volta sarà un giudice a dover affrontare e decidere il grave problema, se prevalga l’origine genetica o il rapporto che si instaura durante e per il fatto della gravidanza. Qualunque decisione prenda troverà più critiche che apprezzamenti. Ma questo è il destino dei giudici dei casi difficili.

La Stampa 19.4.14
Il genetista “I diritti dei neonati non contano nulla”
Dallapiccola: situazione inaccettabile
intervista di Giacomo Galeazzi


La sconcertante vicenda avvenuta all’ospedale Pertini svela una falla gigantesca. La genetica è il settore della medicina a più alta commercializzazione e senza regole chiare e controlli severi si rischia l’anarchia nei laboratori». A denunciare il «vuoto legislativo» è il genetista Bruno Dallapiccola, che al Comitato nazionale per la bioetica e nei principali enti internazionali di ricerca, è tra i massimi esperti al mondo di genetica clinica.
Professore, perché teme un effetto-domino nello scambio di embrioni avvenuto a Roma durante una fecondazione assistita?
«Nel 5% dei test genomici si scopre che la paternità non è quella dichiarata. In Italia l’intero settore è sprovvisto di regolamentazione e il vuoto legislativo è pesantemente aumentato dopo che la Consulta ha bocciato il divieto di fecondazione eterologa, ossia praticata con gameti di un donatore esterno alla coppia. Nel caso accaduto al “Pertini” la gestante dei gemelli funge da madre, ma al momento della nascita dei bambini il donatore del gamete maschile potrà richiedere il test di paternità. In questo modo l’interesse dei neonati è del tutto assente. Con gravi danni».
Quali effetti teme per i gemelli?
«Oltre al patrimonio genetico, esiste un imprinting, cioè un’impronta, una modulazione del genoma provocato dall’ambiente, dai legami affettivi ed emotivi. Adesso il mescolamento dei gameti non è limitato da alcuna legge e così l’effetto paradossale è che in pratica potrebbero essere smembrate anche le due coppie: la madre è qualla che li porta in grembo e il padre è quello che ha donato il gamete maschile erroneamente impiantato nell’utero della donno sbagliata. E’ una situazione inaccettabile, come l’utero in affitto». 
Cosa bisogna fare per evitare il “far west della provetta” da lei denunciato?
«Per garantire il concepito occorre legiferare al più presto sulla procreazione assistita. Nella genetica non si possono nascondere informazioni vitali. La soluzione a tutti i problemi non è la fecondazione in vitro con annessa diagnosi pre-impianto. La donna fecondata artificialmente al “Pertini” si era sottoposta a un’analisi dei villi corviali in gravidanza per accertare che i gemelli fossero sani. Così è venuta a sapere che non sono figli suoi. In questi casi il genetista deve essere supportato dal comitato di bioetica, anche se ciò non elimina il pericolo di errori come dimostra il via libera dato a Brescia al protocollo Stamina».
Di chi è la colpa?
«Senza regole certe le probabilità di errori umani aumentano, tanto più in presenza di una non-cultura ideologica, spesso propagandata per fini commerciali. Bisogna rendersi conto che vi sono dietro interessi economici enormi. Le applicazioni inappropriate della scienza producono disastri. Ormai viene eseguita anche l’analisi genomica dalla saliva. La scienza è in grado di spostare la soglia delle scoperte sempre più in avanti senza che vi sia un’adeguata informazione delle implicazioni e delle conseguenze. Le coppie non sono ben consigliate. E’ il momento di regolamentare i test genetici e di vigilare sulle procedure della fecondazione. Il nodo dei bambini in provetta geneticamente perfetti ci porta verso una pericolosa deriva etica eugenetica. I difetti fanno parte della vita non c’è algoritmo che tenga. Prima il legislatore interviene, meglio è».

l’Unità 19.4.14
Shalabayeva, l’Italia concede l’asilo politico
di U.D.G.


Da «sequestrata» ad «asilante». L’Italia ha concesso l’asilo politico ad Alma Shalabayeva, moglie del dissidente kazako Mukhtar Ablyazov, e a sua figlia. A renderlo noto è l’avvocato Anton Giulio Lana, che specifica che «questo importante riconoscimento» vale sia per lei che per la figlia Alua. A decidere di concedere lo status di rifugiato alla Shalabayeva è stata la Commissione territoriale per il riconoscimento della protezione internazionale del Viminale, al termine di un’audizione durata oltre tre ore. «Il riconoscimento dello status di rifugiato - spiega l’avvocato - è il più importante che una persona che nel suo Paese è perseguitata, politicamente ma non solo, possa ottenere». Il legale spiega ancora che questo riconoscimento permette a Shalabayeva e a sua figlia di «non essere più mandate via dall’Italia, come era già successo in passato, grazie a un permesso di soggiorno valido per almeno 5 anni». Una bellissima notizia. Sono felice ». È il primo commento di Alma Shalabayeva, stando a quanto si apprende in ambienti dei legali, alla notizia della concessione dell’asilo politico.
LASTORIA La storia di Alma Shalabayeva, moglie del dissidente kazako Mukhtar Ablyazov, ha inizio il 28 maggio 2013, quando viene fermata da alcuni agenti della questura di Roma, insieme ad Alua, la figlia di 6 anni, mentre si trovava in una villa a Casalpalocco. Le forze dell’ordine stanno cercando il marito, ma ad Alma viene contestata l’accusa di possesso di un passaporto falso. Solo due giorni dopo, il 30 maggio 2013, la questura firma l’espulsione di Alma e delle figlia: la donna è accusata di essere entrata illegalmente in Italia. Il giorno dopo le due donne vengono imbarcate su un aereo diretto in Kazakistan. A chiedere l’intervento della polizia all’allora prefetto Giuseppe Procaccini, capo di gabinetto del Ministro dell’Interno, Angelino Alfano, è l’ambasciatore kazako Andrian Yelemessov. Alma esibisce per sé e la figlia un passaporto centrafricano, ma la polizia lo ritiene falso. Il 30 maggio madre e figlia vengono espulse dall’Italia e il giorno dopo messe su un aereo affittato dall’ambasciata kazaka e rimpatriate in Kazakistan. Il5 luglio 2013 il dissidente Ablyazov si appella al premier Letta per fare faccia piena luce sulla vicenda e appena una settimana dopo, il 12 luglio, Palazzo Chigi revoca l’espulsione di Alma. Ad Almaty Shalabayeva è sottoposta a limitazioni della libertà personale perché accusata di detenzione di passaporto falso. L’Ue i chiede chiarimenti a Roma. Anche il presidente Napolitano interviene sulla vicenda, giudicandola «una storia inaudita- Poi, a fine dicembre, è riuscita a lasciare il Paese grazie al lavoro diplomatico della Farnesina. Il 27dicembre, in una conferenza stampa a Roma con l’allora ministra degli Esteri Emma Bonino, Shalabayeva aveva ringraziato il nostro governo per gli sforzi in suo favore. Lo scorso gennaio Shalabayeva aveva dichiarato: «Mi sento protetta e bene accolta dal popolo italiano. Voglio una vita normale, per me e mia figlia, sto cercando casa a Roma». Ora potrà farlo da donna libera. Una buona notizia. Per Alma, la piccola Alua. E per l’Italia.

l’Unità 19.4.14
Se il governo parla a sinistra
Maggioranza, non chiudere le porte
di Claudio Sardo


Ha dato la stura a varie congetture il voto favorevole di Sel alla proposta Renzi-Padoan di rinviare il pareggio strutturale di bilancio dal 2015 al 2016. Si è parlato della nascita di una terza maggioranza.
Una terza maggioranza dopo quella di governo con il Nuovo centrodestra e quella sulle riforme con Forza Italia e si è persino almanaccato sull’uso possibile da parte del premier di queste geometrie variabili. Ma è sempre bene partire dai fatti concreti. Al pareggio strutturale l’Italia si è vincolata modificando addirittura l’articolo 81 della Costituzione. Una scelta contestabile e contestata, benché sostenuta a suo tempo da un larghissimo consenso. Proprio la lettera della nuova norma costituzionale imponeva una maggioranza qualificata per consentire quel rinvio, senza il quale sarebbe saltata la manovra economica del governo e, ovviamente, il governo stesso. Il voto dei sette senatori di Sel (e di due ex grillini) non è risultato alla fine determinante per pochissime unità: ma, politicamente, è come se lo fosse stato. Sel ha deciso di contribuire al raggiungimento della maggioranza assoluta di Palazzo Madama proprio per marcare il segno anti-austerity della scelta governativa. Del resto, a sinistra sta crescendo la riflessione critica su quella modifica dell’art. 81. Ci siamo chiusi in una cella - ha scritto Giulio Sapelli - e abbiamo gettato la chiave: ora per aprire la cella siamo costretti a fabbricarci una nuova chiave. Sarebbe stata una follia per una forza di sinistra non assecondare un atto del governo, volto a interpretare in modo flessibile il canone europeo (e dunque a lanciare una sfida di cambiamento delle politiche europee). Semmai, in contraddizione sono caduti coloro i quali ieri inneggiavano alle virtù salvifiche del nuovo articolo 81 e oggi inneggiano al coraggio del governo di derogarvi già alla prima applicazione.
Ma torniamo al valore politico di quel voto. Non si tratta di un cambio di maggioranza. Non è possibile in questa legislatura sostituire il Nuovo centrodestra con una forza di sinistra radicale (neppure se questa dovesse scaturire dalla confluenza di Sel con tutti i grillini dissidenti). È prima di tutto l’aritmetica a negare questa possibilità. Tuttavia, ciò non vuol dire che il Pd non debba aprire un dialogo anche alla sua sinistra, e realizzare utili convergenze. La legislatura poggia su un terreno instabile. E il carattere pienamente politico del governo Renzi non cancella l’eccezionalità e al tempo stesso l’inevitabilità della coalizione che lo sostiene. Questa è una legislatura che non può non vedere alleati, per una fase, chi sarà avversario alle prossime elezioni. E non può neppure permettersi un altro fallimento sulle riforme: quando i cittadini saranno chiamati al voto per le politiche, dovranno avere un quadro chiaro e possibilmente stabile. La confusione e l’indeterminatezza stavolta possono far crollare l’intero sistema.
Il problema però sta nelle asimmetrie, sempre più numerose. Il Nuovo centrodestra è al governo, ma Renzi sembra favorire il dialogo con Forza Italia sulla legge elettorale e le materie istituzionali. Il partito di Alfano è insofferente, si lamenta in privato, ma in pubblico fa buon viso a cattivo gioco. Secondo lo schema (pessimo) dell’Italicum - che ricalca quello del Porcellum - il Nuovo centrodestra sarà obbligato ad allearsi con Berlusconi, e dunque deve trattenersi nella polemica. Il paradosso è che il Nuovo centrodestra tenta di rifarsi, esercitando il suo potere di interdizione non appena il Pd trova convergenze a sinistra, oppure quando corregge da sinistra le proposte del governo (come è accaduto con l’approvazione degli emendamenti al decreto Poletti sui contratti a termine).
Alfano e i suoi si sono assunti, insieme al Pd, il compito di guidare il Paese in questo frangente difficile, e ciò non può essere disconosciuto. Hanno rotto a destra e inferto a Berlusconi una sconfitta cocente. Ma neppure loro possono sopportare lo schema della doppia maggioranza, con Berlusconi che di fatto assume un potere di veto sulle riforme. Che Forza Italia sia al tavolo è bene. Ma che tocchi ad essa pronunciare il sì e il no definitivo non va bene per niente. Peraltro, stando al merito, Forza Italia continua a spingere la legge elettorale verso un’inaccettabile riproposizione del Porcellum.
Per questo l’emergere a sinistra di una nuova interlocuzione, benché esterna all’area di governo, rappresenta un fatto positivo. Viviamo in un tripolarismo ormai stabile. Si illude chi pensa che una legge elettorale basti a riportare indietro l’orologio. Ma nell’asimmetria, la cosa più pericolosa è che Grillo - il terzo polo, o forse il secondo - rifiuti ogni responsabilità, e anzi lavori tenacemente affinché l’Italia vada sempre peggio. Proprio il voto dei Cinque stelle sul rinvio del pareggio di bilancio è la plastica conferma di una linea sfascista che vale per il governo come per le istituzioni. Come può giustificare un voto contro il rinvio chi osteggia l’austerità europea? Il punto è che Grillo vuole solo macerie. Anche per questo il Pd, e l’intero governo, dovrebbero valorizzare il dialogo con Sel (e con gli ex grillini che a Sel potrebbe legarsi). Dialogo a partire proprio dai temi istituzionali: aiuterebbe a migliorare l’impianto e a ridurre le pretese di Berlusconi. Per Renzi è un’opportunità. Non si tratta di cambiare cavallo. Si tratta di guidare un Paese che non è più bipolare. È per questo, non per un pregiudizio, che Berlusconi non può essere trattato come se fosse l’opposizione di Sua Maestà.

La Stampa 18.4.14
Il Risiko ucraino: chi vince e chi perde
Un’analisi della posizione dei protagonisti della partita che si gioca Kiev
di Anna Zafesova

qui

La Stampa 18.4.14
Il gas, quel filo che da sempre lega Mosca a Roma
di Antonella Rampino


Tre ex ministri degli Esteri intervengono al convegno dello Iai

Dei rapporti tra Russia e Italia ha parlato anche Putin, che punta molto sull’«amico italiano». Ma gli italiani? La rappresentazione di cosa sia la politica estera di una media potenza che sta storicamente come un ponte tra posizioni contrapposte (ricordando un po’ il «neoatlantismo» fanfaniano) la si poteva avere l’altro pomeriggio, quando ben tre ex ministri degli Esteri italiani, D’Alema Frattini e Bonino, praticamente la leadership della politica estera italiana dal 2006 a due mesi fa, ha dibattuto su invito dello Iai, l’Istituto affari internazionali. La guerra fredda non c’è, ha esordito D’Alema, «ma una ripresa dello spirito di rivincita e del nazionalismo russo sì. Gli Stati Uniti hanno scelto di fare della vicenda un banco di prova di potenza, ma a loro le sanzioni verso la Russia costerebbero molto poco e all’Europa invece moltissimo. Ma qual è la strategia dell’Europa? Che cosa offriamo alla Russia? Quali limiti ci sono all’espansione dell’Unione europea e della Nato?». Domande retoriche, ovvio, che mostrano come ai giudizi del l’ex premier non faccia velo l’esser stato proprio il premier della guerra per il Kosovo. Quando la parola passa a Franco Frattini, ci si aspetterebbe un diverso punto di vista. Niente affatto, ed evidentemente quella che si chiama «continuità in politica estera» deve avere un significato profondo: «ho la stessa impostazione di D’Alema» dice Frattini e, forte anche della lunga esperienza alla Commissione Ue, ricorda che in Europa «la politica di vicinato e i summit per il partnerariato orientale», ovvero con i Paesi ex Urss, «nacque proprio come contrappeso alla Russia, nel timore che uscisse dall’angolo, e quei percorsi vennero presentati non come ovvi accordi, ma come potenziali pre-adesioni alla Ue, inquinando l’allargamento dell’Unione e dando un’idea di antagonizzazione con la Federazione russa». Ed è proprio quello che è successo nei rapporti con l’Ucraina, vale la pena di ricordare, e al vertice di Vilnius che era stato preceduto dagli avvertimenti lanciati da Putin alla bilaterale di Trieste. E se D’Alema aveva annoverato tra gli errori europei anche l’aver permesso una certa qual ghettizzazione delle comunità russofone, perché «non dobbiamo dimenticare che sino a poco tempo fa ai russi di Lettonia era negato addirittura il diritto di voto», il dilemma di tutti è «cosa farà l’Europa». Punta il dito Emma Bonino, «il problema è stata anche la debolezza della linea di politica estera europea, e il fatto che ci fosse in atto come uno scambio: la Ue si occupi del partnerariato e noi dell’Africa, per questo è stato impossibile frenare sull’associazione conl’Ucraina. Quando invece la politica estera Ue dovrebbe essere una linea di interessi condivisi, non il risultato di interferenze e scambi». Cosa offriamo ai russi, chiede D’Alema? «Una cosa per loro essenziale: siamo il loro mercato per il gas e il petrolio: Come dice un mio amico, non a caso saudita, se non lo vendi il petrolio non ti serve a niente». E quel che servirebbe, comunque, è «interconnettere la rete energetica interna all’Europa, renderla in grado di pompare anche da Ovest a Est». 

La Stampa 19.4.14
Putin vuole Turchia e Israele neutrali sulla crisi ucraina
Il leader del Cremlino tenta di scompaginare i piani di Washington e Bruxelles facendo leva sulle crepe dell’Occidente
di Maurizio Molinari

qui

Corriere 19.4.14
Strage in Sud Sudan. Donne e bimbi uccisi in una base dell’Onu
Le vittime potrebbero essere cento
di Alessandra Muglia


«Li ho visti arrivare, armati. Hanno iniziato a sparare in mezzo alla gente che aspettava: donne, bambini, anziani inermi. Non abbiamo potuto far altro che correre, ma non tutti sono riusciti a salvarsi». Gabriel Hilaire, operatore umanitario di Intersos, stava distribuendo kit d’emergenza agli sfollati, quando un gruppo di giovani armati, in abiti civili, ha seminato panico e morte nel campo profughi Onu di Bor, capitale dello Stato petrolifero di Jonglei, tra i più instabili del Sud Sudan. Il bilancio delle vittime è ancora provvisorio: almeno 48 tra i rifugiati, ma i feriti, anche gravi, sono più di un centinaio e molti potrebbero non farcela. Morti anche 10 assalitori.
Un’altra strage nel giovane Paese che, nato nel 2011 con un referendum dopo una guerra ventennale ingaggiata per separarsi dal Nord, si ritrova da dicembre di nuovo dilaniato da un conflitto che ha già fatto migliaia di morti e oltre un milione di sfollati negli scontri tra governativi e ribelli, prima schierati fianco a fianco contro Khartoum nell’Esercito per la liberazione popolare. Le antiche divisioni etniche e religiose si sono riaperte alimentate dalla lotta per il petrolio di cui la regione è ricca. Da una parte c’è il presidente Salva Kir, di etnia dinka, che conta sulla fedeltà di larga parte dell’esercito. Dall’altra il suo ex vice, Riek Machar, di etnia nuer, destituito a luglio con l’accusa di aver tentato il colpo di Stato, mentre lui si considera vittima di un’epurazione per aver annunciato la sua candidatura alle prossime presidenziali.
Sulla dinamica dell’attacco al campo che ospita 5mila civili fuggiti dalle loro case per mettersi al riparo da esecuzioni di massa e stupri, è scontro tra il Palazzo di Vetro e il governo del Sud Sudan.
Toby Lanzer, responsabile locale dell’Onu, riferisce che «un gruppo di circa 350 giovani si è presentato all’entrata della base delle Nazioni Unite giovedì mattina. Hanno forzato il cancello, sono entrati e hanno iniziato a sparare indiscriminatamente». Un portavoce precisa che «i peacekeeper hanno prima esploso colpi di avvertimento e poi risposto al fuoco, dopodiché gli assalitori si sono diretti verso il campo profughi adiacente», colpendo anche donne e bambini.
Il governo di Juba ha invece accusato i caschi blu dell’Onu di aver provocato i dimostranti sparando in aria, e di aver dato rifugio ai sostenitori dei ribelli. Per il ministro dell’Informazione, Michael Makuei Lueth, i giovani si erano recati al campo solo per protestare contro gli sfollati che stavano celebrando l’avanzata dei ribelli.
C’è poi chi sostiene che gli assalitori cercavano di vendicare la presa del polo petrolifero di Bentiu da parte dei ribelli avvenuta due giorni prima. Durante questi combattimenti, denuncia l’Unicef, centinaia di minori sono fuggiti alla ricerca di protezione in una base Onu, mentre altri sono stati visti trasportare armi, vestiti in uniforme militare, come se fossero in fase di addestramento. L’agenzia ha lanciato un allarme per il reclutamento dei bambini da entrambe le parti in conflitto. Il numero preciso dei piccoli rimasti uccisi nell’ultimo attacco non è ancora noto. Preoccupazione è stata espressa dall’ambasciatore Usa alle Nazioni Unite, Samantha Power, che ha esortato i Paesi che si erano impegnati a inviare nuove forze sul campo ad affrettarne il dispiegamento. Le basi Onu devono essere considerate «inviolabili». Dura la condanna del segretario generale Ban Ki-moon che ha definito l’attacco «un crimine di guerra».

La Stampa 19.4.14
La strage degli sheroa sull’Everest
Umili vittime dei nostri capricci
di Enrico Camanni


Quando nel lontano 1953 Hillary e Tenzing scalarono per primi la montagna più alta del mondo, il Chomolangma o «Madre dell’Universo», Sagarmatha per i nepalesi ed Everest in onore del geografo ufficiale britannico in India, lo scrittore Dino Buzzati si domandò con il consueto disincanto romantico: «Guardatela, ora, la superba montagna, la solenne cattedrale che fino al 29 maggio poteva essere creduta un miraggio, una parvenza, un mito. Non è forse più piccola di ieri? Non è in un certo senso meno bella? E quell’infinitesima traccia che i quattro ramponi e le piccozze hanno lasciato sulle cornici della suprema cresta non sono in fondo malinconiche a vedersi?».
Certo Buzzati non immaginava che il sogno dell’Everest, di lì a qualche decennio, sarebbe diventato una meta commerciale e che i discendenti di Tenzing Norgay, il primo sherpa a calcare la cima della montagna con il suo «signore» neozelandese, si sarebbero trasformati in addetti turistici al servizio delle grandi spedizioni mercantili, montanari che rischiano quotidianamente la vita per preparare i campi e fissare le corde necessarie agli occidentali per andare in vetta. La tragedia di ieri appare ancora più sconcertante perché non colpisce degli stravaganti avventurieri degli ottomila e nemmeno degli alpinisti famosi in cerca dell’exploit; colpisce degli umili operai locali che lavorano al servizio dei vacanzieri della vertigine, come chi fissa i cavi delle funivie sulle Alpi o chi ti dà il piattello per afferrare lo skilift. Operatori qualificati, indubbiamente, ben pagati in rapporto allo stipendio medio di un nepalese, ma infinitamente mal compensati in relazione alla fatica, agli imprevisti, al rischio della vita.
La via nepalese all’Everest comincia con un labirinto di crepacci e seracchi pericolanti che nessuna polizza renderà mai sicuri, dove le scale metalliche e le corde fisse vanno spostate in continuazione per assecondare i capricci del ghiacciaio e prevenire, senza alcuna certezza definitiva, le fratture del ghiaccio, i crolli e gli incidenti. In alto sulla montagna gli alpinisti affrontano i pericoli della quota e del maltempo, in basso sono in balia di un fiume congelato che scorre senza tregua, muggisce, raschia, si rompe e si ricompone. Se fosse roccia si arrampicherebbe sicuri, ma il ghiaccio è imprevedibile, bizzarro, lunatico, e al ghiaccio si aggiungono le valanghe di neve fradicia di primavera, oppure gli accumuli freddi depositati dal vento. È come camminare su un campo minato.
Non c’è mai la sicurezza assoluta dietro i trionfali apparati delle megaspedizioni commerciali, né per gli sherpa né per i clienti, ma il sogno di scalare la cima del mondo abita anche in chi paga centomila dollari per la vetta e in chi si fa portare perfino le bombole dell’ossigeno dalle guide nepalesi, respirando la vita dalle spalle di un altro, e da una macchina, come un malato terminale. Il sogno esiste e resiste anche in chi non è mai stato un vero alpinista, ma semplicemente un buon camminatore, e in chi sa di essere – nel migliore dei casi – l’ultra millesimo salitore della montagna più alta e famosa, un anonimo candidato all’avventura pianificata e mercificata, un imitatore di scalatori che vissero la solitudine, l’incognita, il mistero. Il sogno resiste, e anche il mito, e sogno e mito fanno crescere i prezzi, le domande, i pretendenti, rinascendo sempre a ogni estate. Se non fosse crudele dopo una tragedia come quella di ieri, si direbbe che gli sherpa addetti alla Madre dell’Universo siano come dei facilitatori di sogni, o almeno di quella voglia molto prosaica e molto contemporanea di conquistarsi la meta più prestigiosa e un attimo di gloria programmata.

La Stampa 19.4.14
Intervista a Reinhold Messner
«Il vero colpevole è chi specula con il turismo sull’Himalaya»


«È un gravissimo incidente sul lavoro. E la responsabilità è dei datori di lavoro di quei poveri ragazzi, le agenzie che organizzano quelle che ormai sono diventate spedizioni turistiche». È Lapidario il giudizio di Reinhold Messner.
Come si spiega quello che è avvenuto?
«Gli sherpa stavano preparando la pista per i turisti. Una pista tracciata peraltro troppo a sinistra, sotto la parete della spalla ovest».
Scusi l’ignoranza, cosa significa «troppo a sinistra»?
«Ho scalato l’Everest due volte e l’ho fatto al centro dell’icefall, dove le valanghe non arrivano. Adesso, invece, le piste vengono tracciate nei tratti più facili, ma anche più pericolosi. Ma per un cliente che paga 90 mila dollari si fa questo e altro. Questo non è alpinismo, è turismo; quegli sherpa sono vittime di un’incidente sul lavoro».
Chi sono i responsabili?
«Gli organizzatori di quelle spedizioni, le agenzie viaggi che hanno capito che vendere l’Everest è un affare, perché può comprarlo chiunque abbia due mesi di ferie e la disponibilità economica: al campo base ci sono sempre 400/500 clienti pronti a salire. Sono trent’anni che denuncio questa situazione. Dopo la tragedia dell’11 maggio 1996 (otto vittime, ndr) qualcuno aveva capito che la situazione stava degenerando, poi però chi di dovere se n’è dimenticato».
Il sacrificio degli sherpa può servire a salvarne altri?
«La mia speranza è che questa tragedia possa riportare l’attenzione su quello che avviene in Himalaya. È ora di dire che l’Everest fatto su una pista non ha nessun valore, che non bisogna mandare gli sherpa a morire sotto una valanga per lavoro».
[m. d. gia.]

La Stampa 19.4.14
La tragedia in Corea del Sud: il vicepreside non ha retto al dolore
Portò i ragazzi sul traghetto, si uccide per il rimorso
di Ilaria Maria Sala


L’hanno trovato appeso a un albero, la cintura al collo, come un cappio. Morto suicida. Kang Min-gyu aveva 52 anni, era il vicepreside del liceo sudcoreano Danwon di Ansan. Era stato lui a organizzare la gita all’isola Jeju con i suoi studenti.
Poi il Sewol era colato a picco portando con sé trecento studenti. Kang era sopravissuto, l’avevano portato sull’isola di Jindo dove sono rifugiati i quasi 130 passeggeri portati in salvo. Ma dinanzi al dramma, quelle vite spezzate in una giornata che doveva essere solo di spensieratezza, il professor Kang non ha retto e si è tolto la vita.
Non ha lasciato alcun messaggio, non ha spiegato i motivi del suo gesto. La polizia ha cominciato a cercarlo solo dopo che un altro insegnante ne aveva denunciato la scomparsa. Kang non era più lì sull’isola, in mezzo a quei ragazzi che soccorritori e pescatori avevano tratto in salvo mentre il Sewol piegava su un lato per poi inabissarsi. Davanti alla tragedia che scorreva sotto i suoi occhi, ha reagito come avviene di frequente in Corea del Sud, il Paese al quarto posto nel mondo per numero di suicidi.
Ci si toglie la vita per non essere entrati all’università, per aver perso il lavoro, per aver portato la propria azienda a indebitarsi o per un fallimento matrimoniale: secondo le statistiche, in questa nazione di 51 milioni di abitanti, 40 persone si uccidono ogni giorno. Vittime di una società in cui la pressione per il successo è altissima, e dove i valori conservatori spesso definiti «confuciani» enfatizzano la vergogna come scotto per chi non riesce a soddisfare le aspettative sociali. Per sfuggire alla vergogna, molti non vedono altra via se non quella di togliersi la vita, proprio come ha fatto Kang, il gesto supremo che consente di non far fronte mai più a nessun insuccesso, a nessun dramma.
Intanto emergono nuove storie su quanto accaduto a bordo del Sewol durante e poco dopo il naufragio. Mentre il traghetto si adagiava placido nelle acque trasformandosi in una mostruosa e gigantesca prigione di morte, i ragazzi afferravano cellulari e smartphone. Sms di speranza, «ho il giubbotto di salvataggio», di terrore, di addio, «mamma è l’ultima occasione per dirti ti voglio bene...». E poi gesti di solidarietà estrema, pagati con la vita. Come quello di Park Ji-young, 22 anni, che ha ceduto il suo giubbotto salvagente a uno dei 325 studenti. Oggi il suo nome è nella lista dei dispersi.
La procura continua a indagare su quanto è accaduto. Ieri in manette è finito il comandante Lee Joon Seok, il più lesto ad abbandonare la nave e incapace - a detta dei testimoni - di capire subito la gravità della situazione. Ma il capitano paga un’altra colpa, quella di aver ceduto il timone proprio nei momenti che hanno preceduto la tragedia al terzo ufficiale, una donna di 26 anni con pochissima esperienza, meno di un anno di navigazione, e da appena 6 mesi a bordo del Sewol.

Corriere 19.4.14
Dal maoismo alla Borsa, così l’onda capitalista ha sommerso la Cina
di Giovanni Stringa


MILANO — Tutto è iniziato in un piccolo villaggio, chiamato «Collina del drago numero nove», nella provincia dello Sichuan, Cina centro-meridionale.Qui, una sera del settembre 1976, è partita quella rivoluzione poi sfociata nei grattacieli di Pechino e nella Borsa di Shanghai. La prima pietra del passaggio della Cina dal comunismo di Mao al «capitalismo» di oggi è stata scagliata 38 anni fa da Deng Tianyuan, segretario del partito della comune del paesino del profondo entroterra cinese: l’uomo radunò un piccolo gruppo di quadri locali per discutere il problema della produzione agricola e, «dopo un lungo e acceso dibattito, concordarono sul provare l’agricoltura privata come soluzione ai problemi amministrativi e all’assenza di incentivi che affliggevano le coltivazioni». Così si legge nel libro «Come la Cina è diventata un Paese capitalista» di Ronald Coase e Ning Wang, pubblicato in Italia da IBL Libri, la casa editrice dell’Istituto Bruno Leoni guidato da Alberto Mingardi.
Privata — quella nuova agricoltura del 1976 — non lo era del tutto, come spiega il libro, perché la terra restava formalmente di proprietà dello Stato; ma a cambiare erano le forme di gestione. Così, passo dopo passo, si è poi arrivati alla svolta più importante e dirompente, quella del 26 agosto 1980, quando l’Assemblea nazionale del popolo ha approvato le norme per le «zone economiche speciali» della provincia del Guangdong: proprio quella, la regione alle spalle della turbocapitalistica Hong Kong. E l’allora colonia britannica, da ultima roccaforte dell’economia di mercato (insieme a Macao) rimasta sulla terraferma cinese, si è trasformata in una sorta di «benchmark» per l’intero Dragone rosso. Da retrovia del capitalismo assediato dal comunismo, Hong Kong è diventata in un certo senso guida e faro della nuova Cina globale, economicamente aperta al mondo anche se politicamente ancorata al partito di Mao.
Già, la politica. Perché il libro ripercorre tutte le tappe della metamorfosi cinese, non solo nell’economia, nei campi, nelle fabbriche, nei grattacieli e nelle Borse. Ma anche in piazza. Come in quei terribili primi giorni del giugno 1989 a Tienanmen. Una repressione, una tragedia. Eppure, solo pochi giorni dopo, il 9 giugno, l’allora numero uno di Pechino Deng Xiaoping ha detto: «La cosa importante è che non dobbiamo mai far ritornare la Cina a essere un paese che tiene chiuse le sue porte». Parole che suonano inconciliabili con i fatti di pochi giorni prima. E che in qualche modo raccontano il connubio molto cinese tra economia dinamica e politica monolitica. Con quest’ultima che, quando parla di economia, ricorda il discorso di Deng del 1992: «Un’economia di mercato non è capitalismo, perché esistono mercati anche nel socialismo».
Così i comunisti si fanno ancora chiamare comunisti, mentre le Borse impazzano, si moltiplicano i negozi delle griffe occidentali e le residenze dei Paperoni con gli occhi a mandorla. Accanto ai contadini delle campagne dell’entroterra e agli operai delle gigantesche fabbriche. E accanto al problema dell’inquinamento, al recente rallentamento dell’economia e ai rischi di scoppio di «bolle» finanziarie: altro aspetto molto capitalistico della Cina rossa, operosa e rampante.

La Stampa 19.4.14
Macondo-Italia con la saga di Márquez  sognava il nostro ’68
Inge Feltrinelli ricorda il primo incontro con l’autore
di Cent’anni di solitudine: “Era schivo, umile, delizioso”
di Mario Baudino

qui

La Stampa 19.4.14
Gabo, una via d’uscita dal maoismo
di Ilaria Maria Sala


Alla fine degli anni Settanta, dopo la morte di Mao e la chiusura della pagina più ideologica, militante e irrazionale della storia cinese recente, la letteratura del Paese era in uno stato di grande fermento. Man mano che la censura totale che si era avuta durante l’impero del Grande Timoniere veniva meno, i lettori divoravano tutto quello che veniva tradotto, dapprima col contagocce poi in una valanga che non è ancora terminata. Dieci anni dopo, le librerie cinesi, sui cui scaffali fino a pochi anni prima si poteva trovare poco più che l’opera omnia di Mao Zedong, erano piene da scoppiare: tutto il teatro di Shakespeare, i devastanti adultèri di Anna Karenina e Madame Bovary, e il magico realismo sudamericano. In particolare, Gabriel García Márquez, o Ma Er Ke Si, in cinese, l’autore che più di ogni altro diede agli scrittori che uscivano frastornati dalla Rivoluzione Culturale una via maestra da seguire, quella del «realismo magico» all’interno del quale nascondevano di tutto, dalle velate critiche alle autorità, a un senso di spaesamento personale e politico che poteva essere colorato di un surrealismo immaginifico, allucinatorio, le cui possibilità sembravano infinite.
Ieri la Cina tutta ha reagito con grande commozione alla notizia della scomparsa del premio Nobel colombiano, sia con brevi tributi sui social network come Weibo (un tipo di Twitter cinese) che nei media ufficiali.
L’impatto di Gabriel Garcia Marquez è considerato vitale per quel movimento letterario sviluppatosi proprio negli anni Ottanta chiamato «Xun Gen», o «Ricerca delle Radici», i cui nomi di spicco sono Jia Pingwa, Han Shaogong e, almeno per un periodo, Mo Yan, Premio Nobel per la Letteratura del 2012.
Non a caso, nel discorso di accettazione del Nobel lo scrittore cinese ha citato fra le influenze centrali nello sviluppo della sua scrittura, oltre alle miriadi di storie del suo Shandong natale, proprio «Ma Er Ke Si», e William Faulkner. Aggiungendo che la forza della scrittura di García Márquez è tale che per anni ha dovuto combattere contro di essa, per riuscire a sviluppare la sua voce.
Per i lettori cinesi, Marquez presentava caratteristiche finalmente liberatorie: dopo gli anni maoisti, nel corso dei quali l’uniformità era un valore assoluto, il movimento per la Ricerca delle Radici voleva asserire l’importanza delle diversità locali e regionali. Politicamente, sottolineare le diversità era ancora sospetto, ma in letteratura, grazie all’esempio colombiano, gli esperimenti poterono procedere spediti.
Gabriel Garcia Marquez però non ha sempre avuto una relazione delle più facili con la Cina: quando si recò in visita nel 1990 l’autore rimase talmente offeso dalla quantità incalcolabile di copie piratate dei suoi libri, che promise di non cedere i diritti del suo lavoro a un editore cinese «per almeno 150 anni». Ci sono voluti venti anni per portarlo a più miti consigli, e infatti la prima edizione legittima di «Cento anni di solitudine» è stata pubblicata, con enorme successo, solo nel 2011.

Corriere 19.4.14
L’affetto del mondo. Gabo come Mandela
di Francesco Piccolo


L’affetto del mondo accompagna, con una straordinaria onda emotiva che dilaga online, la scomparsa di Gabriel García Márquez, lo scrittore premio Nobel morto a Città del Messico dopo una lunga malattia. Sentimento di appartenenza ed eredità condivisa: persone anche molto lontane si riconoscono in Cent’anni di solitudine, il capolavoro di Gabo, come García Márquez era conosciuto.
Ogni uomo che lascia così tanti amici deve per forza essere stato un grande uomo. Per questo, la scomparsa di Gabriel García Márquez sta mostrando reazioni forti in tutto il mondo. Qualcosa di simile a quanto successo con Nelson Mandela. Però il conforto che ci danno gli scrittori, lo esprimiamo dicendo: lui vive ancora, perché ci ha lasciato questo o quel libro. Di Gabo sappiamo perché non morirà mai più.
Tutti, o quasi tutti, hanno letto Cent’anni di solitudine. Tutti, o quasi tutti, si ricordano dove e quando lo hanno letto. Per esempio, io tornavo ogni giorno su una panchina del par- co vicino a casa, esattamente come García Márquez tornava di continuo davanti al plotone di esecuzione di Aureliano Buendía. Il romanzo è lungo e complicato, oltre a essere bellissimo. E quindi non era consigliato leggersene qualche pagina prima di andare a dormire. È questa la magia di certi romanzi: se li vuoi capire, se ci vuoi stare dentro, devi galoppare tra le pagine; e però hanno sviluppato un antidoto alla costrizione, una potenza della pagina che ti avvinghia e ti fa galoppare. E ce n’è un’altra di magia: chi ha letto Cent’anni di solitudine, mentre lo leggeva, si è dimenticato del mondo — delle cose da fare, dei baci da dare, dei compiti da svolgere; si è dimenticato di mangiare, di dormire, e ha fatto un sacco di confusione tra la vita propria e quella dei personaggi, tra la propria città e Macondo. E anche qui, c’è una corrispondenza perfetta con il romanzo, che è costruito con un tempo esploso, in cui si va in avanti e indietro, si ripassa per certi momenti decisivi e si vola via in qualche altro secolo. Molti anni dopo, siamo rimasti incantati da certi azzardi nella narrazione, da Quentin Taranti- no ad altri geni del cinema. Ma solo perché ci eravamo dimenticati di Cent’anni di solitudine.
Nessuno ricorda la trama, o l’intreccio dei personaggi. Si ricordano le code di maialino, la fucilazione, un castagno; si ricorda come muoiono i personaggi ancora più di come hanno vissuto. Ma soprattutto — è quello che sta accadendo in queste ore, con le parole che rimbalzano tra i social e i giornali e le tv e i caffè affollati — si ricorda di aver tenuto tra le mani quel libro, di averlo cominciato ed esserci caduto dentro. Si ricorda quando e dove si è letta la parola Macondo e il fatto che un romanzo cominci con le parole «Molti anni dopo...». E poi un ammasso di strane immagini apparse nella testa, di bambini e adulti, di gemelli e di vecchie che non muoiono più. Si ricorda più di ogni altra cosa una sensazione sfocata e precisissima: un sentimento di appartenenza al genere umano, attraverso le vicende disgraziate di una famiglia e di una città prima immaginata e poi costruita da José Arcado Buendía, il primo di una lunghissima serie di Buendía. Quel sentimento di appartenenza al genere umano corrisponde alla Creazione. Quasi con esattezza. Questo è il segreto di Cent’anni di solitudine: un uomo, un giorno, decide di creare la città dal nulla, quindi crea un complesso di relazioni che il tempo moltiplica e complica. E sfogliando le pagine sembra di scorrere la nascita e i dolori di tutto il genere umano. Non è usuale, in un romanzo. Tutti i lettori che oggi ricordano il momento in cui hanno cominciato il Grande Libro, quando lo hanno richiuso sull’ultima frase: «Le stirpi condannate a cent’anni di solitudine non avevano una seconda opportunità sulla terra», hanno chiuso anche gli occhi e hanno sentito con precisione di appartenere al mondo.
A molti piace dire che in fondo García Márquez ha scritto un solo libro, questo. La verità è che ne ha scritti molti, e molti libri buoni. Ma ha anche scritto un romanzo gigantesco. E non è colpa sua.

Repubblica 19.4.14
Morgan Freeman: non credo in Dio la mia vita guidata dalla scienza
di Silvia Bizio



Il grande amore per la scienza, che coltiva da quand’era ragazzino, lo ha portato a mettere su una trasmissione tutta sua, il Morgan Freeman Science Show , in onda sul Discovery Channel dal 2010, che mette insieme «le rockstar della scienza, da Michiu Kaku a Brian Cox, e le scoperte più interessanti, nel campo dell’astrofisica, dell’astrobiologia, della fisica quantistica, fino alla neurobiologia e alla teoria delle stringhe».
FREEMAN è un grande anfitrione, non risparmia domande provocatorie e dissertazioni filosofiche. «Io per primo imparo tantissimo da ogni episodio », racconta Freeman all’incontro nel salotto del Four Season Hotel di Los Angeles. L’occasione è l’uscita del film Transcendence di Wally Pfister, al fianco di Johnny Depp. «Non crediate che io abbia tutte queste conoscenze. La scienza mi appassiona, ma non posso certo chiamarmi un esperto. Ma, da attore, fingo di saperne di più».
La passione per l’universo e la vita lo affascina fin dall’adolescenza. «Mi piace la fisica fin dai tempi del liceo. Non ero bravo in scienze biologiche, e odiavo la matematica. Facevo fatica a restare fermo seduto al banco tranne quando avevamo la lezione di fisica. Allora mi trasformavo in uno studente modello. Facevo un sacco di domande. «Quello spirito, negli anni è rimasto intatto, più imparo, più domande mi pongo», ci dice l’attore. Sono tanti gli argomenti difficili da capire affrontati nello show. «Molto interessanti sono le teorie sull’esistenza di universi paralleli », continua Freeman la chiacchierata è ormai lezione divulgativa. «Oggi sappiamo che le condizioni favorevoli alla vita sul nostro pianeta sono frutto di una serie di fattori, che si ritrovano una volta ogni sei trilioni di volte. Forse gli alieni altro non sono che infinite copie di noi negli altri universi paralleli. Sono loro che cercano di mettersi in comunicazione con noi. Ma oggi non disponiamo ancora della giusta tecnologia per rispondere». Dagli alieni a Dio, il passo è ardito, ma Freeman è inarrestabile «Ho le mie idee sull’esistenza, anzi, sulla non-esistenza di Dio da quando ho 13 anni. Intanto non mi sembra che Dio faccia nulla per rendere migliore o peggiore la nostra esistenza. Inoltre, dato che a Dio si attribuisce la creazione del paradiso e della Terra, dove stava lui, o lei, prima di questo processo di creazione?». Ridacchia. «Se volete credere in Dio, credete in voi stessi. Noi siamo Dio. È Dio che è raffigurato a nostra immagine e somiglianza, non il contrario».
La sua passione per la scienza si sposa perfettamente con Transcendence, il film (in Italia dal 17 aprile) che s’interroga su cosa succede quando gli uomini, cercando di migliorare il mondo con la tecnologia, si spingono oltre i limiti. «Quella che una volta chiamavamo fantascienza è già alle porte - racconta l’attore, che interpreta un esperto di computer - l’intero cervello umano è stato mappato: pensare di trasferire il cervello di una persona dentro una macchina è virtualmente possibile, fra 30 anni potremo farlo. Ma il problema è: dovremmo? Non sarebbe più la persona che amiamo. Sarebbe una macchina, e basta. L’intelligenza artificiale non mi sembra la cosa migliore che potremmo sviluppare».
L’attore di Memphis, Tennessee, è convinto che l’accanirsi della scienza nel tentativo di prolungare la vita, è uno dei segni della decadenza della nostra società. «Il vero risultato del capitalismo - ammonisce - è produrre di più per consumare di più. Vivere a lungo per continuare a consumare. Ma ormai stiamo esaurendo tutte le risorse, mentre la popolazione aumenta a dismisura. L’umanità non finirà perché ci bombarderemo a vicenda, non siamo così stupidi, ma perché non avremo più nulla con cui sostentarci».
Paradossalmente, l’attore più ferrato a Hollywood sulle questioni scientifiche, è anche il grande nemico della tecnologia quotidiana. «Telefoni, tablet, computer. Non ci capisco niente, è roba che ho solo perché la ricevo in regalo» sottolinea. Addirittura, confessa, non voleva nemmeno un cellulare di nuova generazione. «La mia socia mi ha costretto ad avere questo dannato smartphone perché dovevo essere rintracciabile. L’altro giorno mi ha fatto diventare matto! Non riuscivo più a collegarmi alla mail. Ho dovuto chiamarla e lei in due secondi ha sistemato tutto. Mi fa sentire così limitato, io non mi ci raccapezzo. Per quello che mi riguarda posso vivere felicemente senza tutta questa robaccia».
C’è solo un caso in cui Freeman riconosce l’importanza degli strumenti tecnologici: «Quando volo e quando vado per mare, utilizzo quella strumentazione specifica, è molto utile. Ma non bisogna mai dimenticare che è la conoscenza dell’elemento naturale la cosa più importante». Freeman, possiede tre aerei (un Cessna 414, un Cessna Citation 501 e un Emivest SJ30 a sei posti) e una barca a vela Shannon 43 che lui definisce «una delle 12 barche meglio costruite al mondo», con cui veleggia spesso da solo.
«Puoi saperne tanto sul mondo e sulla vita, ma poi ti ritrovi in mare e ti accorgi che non conti nulla», sentenzia. «L’oceano se ne infischia di te. Ci vai a tuo rischio e pericolo. Ho avuto momenti di paura fra le onde, in cui ho dovuto attivarmi per salvarmi la pelle. Ma, senza rischio non c’è gusto». Sorride. «Una volta, una donna mi disse: “Se non vivi al limite occupi troppo spazio”. Sono d’accordo. Bisogna spingersi oltre i propri limiti, sempre. È li che comincia il vero divertimento».

Corriere 19.4.14
Il luterano Bach? Un controriformista
di Paolo Isotta


Una straordinaria esecuzione avutasi a Milano prima all’Orchestra Verdi, poi in Duomo, della Johannespassion , La Passione secondo Giovanni , di Bach, consente qualche riflessione di ordine generale.
La caratteristica di quest’opera, e della sua più nota sorella, la Passione secondo Matteo , è di tradurre il racconto evangelico con un pathos quasi insopportabile. Il testo viene affidato al Recitativo di un Evangelista, tenore acuto: non c’è inflessione che non trovi la sua trasposizione musicale, sia nel senso descrittivo (per esempio: la voce scende e sale quando si tratta dell’attraversamento del torrente Cedron) che in quello emotivo: celeberrimi il Weinete bitterlich (Pianse amaramente ) e il Geisselte hin (lo flagellarono ) che il tenore Bernhard Berchtold nell’esecuzione milanese fraseggia in modo incomparabile. Poi vi sono i Corali: sono questi Canzoni, molte delle quali profane, che Lutero volle ricoperte d’un testo devozionale onde render più partecipe la pietà popolare. Come tutti sanno, Giovanni Sebastiano è nella Storia il più grande armonizzatore dei Corali; e non v’è ombra testuale che non trovi la sua trasposizione armonica: qui poi, come nell’altra Passione, domina uno dei più belli e dei più densi di significato tragico Corali esistenti, O Haupt voll Blut und Wunden , O capo coperto di sangue e ferite : il Salve caput cruentatum di San Bernardo.
Non è finito. Le Arie dei solisti, sopra un testo basato sulle similitudini barocche più astruse insieme e belle che esistano (e si vuole che alcune di esse siano dello stesso Bach), sono l’occasione per la meditazione e la contemplazione : e sono di un Figuralismo a volte eversivo: si pensi solo al rapporto tonale fra il primo coro e l’Aria conclusiva della prima parte. I cori impersonano le Turbae o gli Anziani ; ma hanno brani autonomi, come quello rapinoso introduttivo o quello, altrettanto rapinoso, che chiude l’opera augurando al Signore buon riposo: e in questi il coro assume la figura dello spettatore ideale che già aveva nel Dramma classico di Atene.
Or è opinione dominante che Bach fosse un fervidissmo luterano; né certo a questa opinione oppugneremmo se la cosa si limitasse alla fede personale. Ma tutta la critica storica — con l’eccezione del nostro Buscaroli — ha voluto interpretare il dato in fatto siccome posizione artistica: e si considera Giovanni Sebastiano come il campione della musica liturgica luterana.
Singolare errore! La traduzione figuralista ed espressiva del testo, il suo commento e la sua meditazione, fanno di Bach uno dei casi di volontà di potenza massimi avutisi nella storia delle arti: egli del Vangelo prende possesso nel modo più violento e radicale. Il fatto che su di esso edifichi possenti monumenti d’arte, laddove il Luteranesimo vorrebbe che l’arte del Vangelo fosse non più che una voce impersonale, rende Bach un enorme artista controriformista: per luterano che fosse egli è un parallelo di Bernini e Borromini.
Faccio una parentesi per dire di quanto stolidi siano quelli che fanno le copertine dei dischi: sempre Bach è accompagnato da immagini di Dürer o Altdorfer o della pittura gotica quando invece ci vorrebbero Guido Reni e Caravaggio, due opposti che lui riesce a fondere.
Ruben Jais, il direttore che, lo ripeto: straordinariamente, ha diretto la Johannespassion con l’Orchestra Verdi e il Coro Sinfonico di Milano, dà a tutta l’esecuzione dell’opera un taglio drammatico: non teme di considerare Bach un musicista idealmente teatrale che, lo dice la Storia, non disdegnò il teatro, non ebbe l’occasione pratica di accostarvicisi, ma nelle Passioni e in tante Cantate (una per tutte: l’Ercole al bivio che diverrà l’Oratorio di Natale ) teatro assoluto crea. Egli adotta tempi serrati e un fraseggio particolare e per me nuovo; gli accenti del coro sono parlanti pur nella purezza polifonica e le sonorità vocali di esso sono così attentamente graduate da portar la dissonanza sempre in primo piano: com’è giusto. Dopo l’esecuzione somma incisa da Eugen Jochum questa è la migliore Passione secondo Giovanni che abbia ascoltata in vita mia: straccia quelle dei varî Sawallisch, Gardiner, Richter, Harnoncourt e compagnia.
Il coro (incredibile: non professionista) istruito da Erina Gambarini, che ora mi sembra appartenere ai vertici dell’arte sua, fornisce una prestazione eccelsa. Così i solisti orchestrali dei quali ricorderò solo l’organista Davide Pozzi che realizza un basso continuo discreto e raffinato, con scelta dei registri concertati col direttore. Il quale ha eletto una compagnia di canto di valore altissimo: il controtenore Filippo Mineccia è la voce bianca più vicina alla realtà del contralto che abbia mai ascoltata; Anicio Zorzi Giustiniani interpreta con pathos sublime l’Aria Ach mein Sinn ; Christian Senn, per le Arie del basso, e Oddur Jònsson, per Gesù, completano degnamente la schiera.

Corriere 19.4.14
L’impero, il mercante, la donna Il Medioevo in quattro incontri

Ombre di Medioevo. Aperitivo con lo storico è il titolo del ciclo di quattro incontri che si apre il 7 maggio a Roma con una conferenza di Claudio Strinati sul tema Il mestiere d’artista . La manifestazione, organizzata dall’Istituto storico italiano per il Medio Evo (ww.isime.it) con l’associazione antimafia Libera, prevede una parte culturale e una gastronomica. Gli incontri si tengono tutti alle 18 presso la Casa delle Letterature (Piazza dell’Orologio 3). Il 14 maggio Amedeo Feniello parlerà dei mercanti-banchieri, il 21 Alessandro Barbero interverrà su Costantino e il 28 Corrado Bologna si occuperà dell’immagine femminile.

La Stampa 19.4.14
Marco Bellocchio
New York, al Moma una retrospettiva sul regista
“Con i miei film racconto all’America cinquant’anni d’Italia”
intervista di Francesco Semprini


Il cinema al tempo della crisi, la vivacità dei giovani cineasti contro l’assistenzialismo statalista, l’omologazione della televisione, ma anche la vicenda dello scambio di embrioni. È una chiacchierata a tutto campo quella con Marco Bellocchio, a New York per inaugurare la retrospettiva organizzata da «Istituto Cinecittà Luce» e «Moma», assieme al lancio del libro a lui dedicato, Morale e bellezza.
Cosa racconta agli americani con questa iniziativa?
«Racconto 50 anni della mia vita e della società italiana con una serie di passaggi importanti, dalla contestazione alla famiglia, dal bisogno di certe riforme al terrorismo e al tema dei valori». 
Come è nata l’idea del libro?
«Quando hanno deciso di fare questa retrospettiva hanno affidato il compito a Sergio Toffetti; ritengo abbia svolto un ottimo lavoro. Chi è interessato ai miei film trova una serie di interpretazioni, di notizie, di immagini che ne arricchiscono la visione». 
Come è cambiato il modo di fare cinema, dai suoi esordi nel 1965?
«Allora aveva una potenza popolare che in vari settori è stata sostituita dalla tv, si chiamava cinema politico o di denuncia, tutte cose che non esistono più. Adesso non è che il cinema debba essere più aristocratico, ma certamente deve cercare la profondità, scoprire cose che il linguaggio tv non è in grado di dare. Poi naturalmente c’è un cinema popolare che ha una grande diffusione». 
E il cinema al tempo della crisi?
«Dal profondo della crisi, giovani cineasti si sono inventati un modo molto economico di fare cinema, vivace e pieno di talenti, più di quanto non lo fosse prima. In passato era più assistito, statalizzato, ora i soldi sono sempre meno e ciò spinge a fare un cinema libero ma di grande economia, oppure un cinema che tenga conto di quello che vuole il pubblico. Questo è l’aspetto positivo della crisi».
E quello negativo?
«Omologazione. La tv ha un suo linguaggio che cerca di diffondersi anche nel cinema. Se fai tv devi rispettare certe regole e questo ha una logica, però il linguaggio televisivo e pubblicitario è spesso riconoscibile anche nei film. C’è perdita di originalità».
È preoccupato per lo spazio che i governi danno alla cultura?
«La cultura bisogna saperla non solo amministrare ma anche farla diventare affare. D’altra parte è giusto tagliare gli sprechi e lavorare con meno, che non significa sopprimere ma immaginare cose che non abbiano costi contenuti». 
Michael Douglas, da ambasciatore Onu per il disarmo, ha detto che sarebbe necessaria una grande mobilitazione come quella del ’68. Lei di contestazione se ne è occupato, la ritiene un’utopia?
«Le condizioni storiche sono cambiate, quello che si chiamava impegno, assume altre sembianze, pertanto bisogna trovare un altro linguaggio. Tanti giovani cineasti fanno film su temi difficili come immigrazione, povertà, emarginazione. Questo significa che nel giovane c’è ancora questa aspirazione alla giustizia a un mondo meno violento».
Una domanda su Papa Francesco, sembra quasi un Papa da film.... 
«Parlo da non credente, penso che Bergoglio sia un Papa coraggioso con straordinaria capacità di perdono e di non esclusione».