domenica 20 aprile 2014

Nobili gare...
Matteo ha lasciato fuori gli “incapienti”? ci pensa Francesco!

Cinquanta euro e un biglietto di auguri: il regalo del Papa ai senzatetto
Ieri sera, mentre il Pontefice presiedeva la Via Crucis, il suo elemosiniere ha donato ai clochard una busta speciale e inattesa con 50 euro...
La decisione dopo l'anatema contro l'idolatria del denaro
da Repubblica, qui

l’Unità 20.4.14
In cassa integrazione oltre mezzo milione di lavoratori
Boom di ammortizzatori sociali: +20% a marzo
La Cgil: «Servono investimenti per creare lavoro»
di Massimo Franchi


Nuova impennata della cassa integrazione a marzo. Cresce in media del 20% sul mese precedente con un vero boom di quella in deroga, la più a rischio in quanto non finanziata fin dalla fine del 2013. A denunciarlo è la Cgil, con il suo Osservatorio sulla Cassa integrazione, elaborando i dati dell’Inps. Numeri che mettono i brividi: lo scorso mese sono state concesse poco più di 100 milioni di ore di Cig, pari ad un più 20,28 per cento su marzo. Il dato peggiore è quello della cassa in deroga che ha toccato un più 30,71%. Sia cassa in deroga (più 14,56%) che cassa straordinaria (più 10,21 per cento) aumentano rispetto al 2013 anche considerando il primo trimestre, mentre la cassa ordinaria (quella usata dalle aziende meno in difficoltà) cala del 23,43 per cento.
Il dato di marzo è in controtendenza con i primi due mesi dell’anno tanto che il raffronto totale del primo trimestre è comunque negativo rispetto al 2013: con 264 milioni di ore pari ad un meno 1,16 per cento. E proprio per questo il dato di marzo risulta più grave: significa che la crisi continua a mordere. Il settore più colpito è di gran lunga la meccanica (92,6 milioni di ore nel trimestre) così come la regione più colpita è la Lombardia (72,5 milioni di ore nel trimestre). La causa della richiesta di «cassa» è per più della metà (50,13 del totale dei «decreti») per «crisi aziendale » mentre - sottolinea la Cgil - «gli interventi che prevedono re investimenti e rinnovamento strutturale continuano ad essere irrilevanti, pari al 5,58 per cento del totale dei decreti».
Equiparando il numero di ore ai lavoratori coinvolti in media ognuno di questi ha subito un taglio del reddito di 1.900 euro netti, coinvolgendo - sempre con un calcolo medio - 517mila lavoratori.
L’EMERGENZA LAVORO CONTINUA Per il segretario confederale della Cgil - con delega all’Industria - Elena Lattuada, «lo stato in cui versa il nostro sistema produttivo, insieme alla condizione dei lavoratori, continuano ad essere una seria e drammatica emergenza da affrontare». Secondo Lattuada, «al netto degli interventi fiscali il paese ha bisogno di una prospettiva che non può non prescindere dalla difesa e dalla valorizzazione del lavoro e della produzione ». Per questo, prosegue, «vanno contrastate operazioni di ulteriore frammentazione del mercato del lavoro, così come vanno immediatamente sbloccate le risorse per gli strumenti di sostegno in deroga. Ma deve essere al più presto - sostiene Lattuada - messo in campo un grande piano di investimenti, a partire da quelli pubblici fino a quelli privati, che si occupi di creare lavoro. La sola via, il solo modo per offrire al paese una prospettiva».
Proprio sul finanziamento della cassa in deroga in questi giorni Cgil, Cisl e Uil stanno tenendo presidi di denuncia sul territorio: in molti Comuni le delegazioni sindacali sono state ricevute dai Prefetti spiegando la situazione insostenibile per centinaia di migliaia di lavoratori che attendono i loro assegni da mesi. Lo stesso ministro del Lavoro Giuliano Poletti si è impegnato al rifinanziamento per il 2014: «A breve finiremo di fare il punto e con il ministero dell’Economia cercheremo le coperture».

il Fatto 20.4.14
Allarme Cgil: nel 2014 in 520mila in cassa integrazione


NEL DAY AFTER dell’annuncio degli 80 euro in busta paga, è arrivato l’allarme della Cgil: cresce vertiginosamente il ricorso alla cassa integrazione. Da inizio anno sono stati coinvolti circa 520 mila lavoratori che hanno subito un taglio del reddito per 1 miliardo di euro, pari a 1.900 euro netti in meno per ogni singolo lavoratore in busta paga. Se oltre a quelli a zero ore, si considerano tutti i lavoratori coinvolti, il numero complessivo sale a 1.034.202.
Con più di 100 milioni di ore registrate lo scorso mese, ben oltre le 80 milioni di ore mediamente conteggiate a partire da gennaio 2009 ad oggi, la cig aumenta in tutti i suoi segmenti: ordinaria (+20,28%); straordinaria (+16,32%) e in deroga (+17,07%). Cresce anche il numero di aziende che fanno ricorso alla cigs. Da gennaio sono state 1.901 (+20,70%) sullo stesso periodo del 2013. La maggior parte dei ricorsi è stato motivato da uno “stato di crisi aziendale”. La crescita si è registrata soprattutto al nord; Lombardia, Piemonte ed Emilia Romagna in testa, mentre il settore più penalizzato, ancora una volta è la meccanica.

Il Sole 20.4.14
Sindacato pronto allo sciopero
Polemica Coop-Cgil sul lavoro a Pasquetta


LA SPEZIA Pasquetta di lavoro e scoppia la guerra tra il sindacato rosso e il colosso rosso della grande distribuzione; da una parte la Cgil, dall'altra la Coop che vuol tenere aperto l'ipermercato nel centro commerciale Le Terrazze alla Spezia, nel giorno di Pasquetta. Una decisione a cui si è opposto il sindacato, pronto allo sciopero.
«È grave – afferma Luca Comiti, segretario Filcams Cgil della Spezia – che l'azienda abbia deciso unilateralmente l'apertura, il giorno di Pasquetta. Per questo è stato proclamato uno sciopero per l'intero turno di lavoro: invitiamo i lavoratori di tutti gli ipermercati a partecipare al presidio di solidarietà che si terrà davanti all'ipermercato». Pronta la replica di Coop: «Il lavoro festivo assicura anche all'occupazione un contributo ormai determinante: nel 2013 abbiamo retribuito oltre 200mila ore di lavoro in giornate festive, pagate sino al doppio. Si tratta di lavoro aggiuntivo per oltre 100 persone a tempo pieno, di cui il 30% nella provincia spezzina. Voler ridurre questa opportunità, in piena recessione, è una azione pericolosa e contraria alla necessità di salvaguardare occupazione e reddito. Abbiamo cercato di trovare un accordo, offrendo condizioni migliorative, ma il sindacato ha posto il veto. Sorprende che non ci siano analoghe iniziative verso i nostri principali concorrenti, pressoché tutti aperti in questa e in altre festività prossime».

l’Unità 20.4.14
Bene comune e interessi privati
di Michele Ciliberto


Il problema più grave dell’Italia sono le diseguaglianze che l’affliggono fin dalla costituzione dello Stato unitario. Ma a quelle classiche - tra Nord e Sud, tra «padroni» e «operai» - se ne sono aggiunte altre, non meno gravi e profonde: ad esempio quella tra nativi e immigrati.
Tutte sono state poi accentuate e incancrenite ulteriormente dalla crisi che ci travaglia ormai da anni, lacerando gli equilibri sociali e spingendo gli individui a rinserrarsi ciascuno nel proprio «particulare» per cercare di difendersi di fronte all’incrinarsi delle forme tradizionali della solidarietà. Ma con risultati assai diversi, a seconda del ceto - o della «corporazione» - alla quale si appartiene. Nella crisi ci sono, infatti, ceti e classi sociali che precipitano in una condizione di indigenza sempre più grave, mentre altri non solo riescono a difendersi ma, chiudendosi in logiche strettamente corporative, tentano di conservare l’esistente e riescono a incrementare il proprio potere e ad aumentare la propria ricchezza. Del resto, non è una novità: è sempre accaduto così - e continua ad accadere - quando viene meno un principio di direzione generale della società e gli «istinti animali» possono espandersi senza alcun controllo. Accade cosi, in altre parole, quando viene meno la capacità della politica di riuscire ad individuare, nelle differenze, gli interessi generali. In questa condizione le singole corporazioni affermano il proprio dominio, generando un processo di feudalizzazione della società nella quale, secondo dinamiche darwiniane, i poveri diventano sempre più poveri e i ricchi o i protetti sempre più ricchi e più garantiti. È la situazione in cui ci troviamo oggi. Reagire e cambiare prospettiva non è semplice, come vediamo giorno dopo giorno: significa, infatti, scontrarsi con interessi costituiti, fortemente incrostati e pronti a diventare perfino minacciosi se i loro privilegi sono toccati o anche solamente sfiorati. In Italia vuol dire scontrarsi con la eredità più grave del berlusconismo, che ha demolito ogni spirito di solidarietà sociale ed ha eccitato gli «spiriti animali», individuati come il motore principale del progresso umano. In questa situazione ci vogliono tempo, forza e visione per riuscire a imboccare una nuova strada.
Ma le battaglie, per essere combattute, hanno bisogno di essere iniziate, nei modi possibili e con i mezzi disponibili. Ora, qualunque sia il giudizio sull’attuale presidente del Consiglio, con i provvedimenti di ieri questa lotta è stata avviata in modo positivo. Certo, sono evidenti i limiti e le contraddizioni di alcune decisioni: non si capisce bene quale peso ricada sugli enti locali, si tratta poi, almeno per ora, di un riformismo «dall’alto», e non è mai positivo «governare in nome del popolo ma senza il popolo». Alcuni inoltre hanno detto che sono iniziative elettorali, come se facessero una grande scoperta. Certo, in campo ci sono anche interessi elettorali, tanto più evidenti ed urgenti, se si tiene conto del modo con cui questo governo è nato, e della sua stessa composizione. In democrazia gli interessi elettorali sono un fatto normale. Il punto discriminante è che mentre altri, per motivi elettorali, hanno varato l’Ici, con tutte le conseguenze che si sanno, il premier attuale ha guardato dalla parte opposta, mettendo soldi nella busta paga di chi guadagna meno. Non capirlo o sottovalutarlo, sarebbe sciocco, così come sarebbe assai miope non capire il valore di una scelta come questa che, al di là delle chiacchiere, ribadisce il valore dell’eguaglianza come principio essenziale per una società democratica moderna. Si è cercato cioè di guardare all’interesse generale del paese, mettendosi dalla parte degli «ultimi». Colpiscono perciò le reazioni dell’Associazione dei magistrati - i quali secondo il premier devono restare nel «limite» dei 240 mila euro lordi di stipendio annuo, 20 mila al mese - e delle banche per i «sacrifici» che sono chiamati a fare. Eppure stanno sotto gli occhi di tutti le condizioni di indigenza e di tendenziale o effettiva povertà di larghe fasce del paese. Sono clamorose le diseguaglianze che le enormi differenze di stipendio accentuano fino alla intollerabilità. E non è un caso se su di esse si è soffermato ieri il predicatore della Casa apostolica, padre Raniero Cantalamessa, con parole che andrebbero severamente meditate. E del resto, anche Papa Francesco è già intervenuto a più riprese su questo punto decisivo. Ma il problema è delicato e vorrei perciò essere chiaro: qui non è in questione l’autonomia dei magistrati che è un bene supremo per tutti in una democrazia rappresentativa, almeno dai tempi di Montesquieu. Né si tratta di una persecuzione contro le banche. Il problema è un altro, e consiste nella necessità di ricostituire nel nostro paese forme elementari di solidarietà sociale, di comune appartenenza, di identità nazionale collettiva. Dobbiamo avviare la ricostruzione della Nazione e della nostra democrazia. Ma questo non è possibile senza affrontare il nodo delle diseguaglianze e senza confrontarsi con i problemi quotidiani degli «ultimi», cercando di chiudere finalmente la stagione del berlusconismo . Se vogliamo rimetterci in cammino occorre guardare «dal basso». E per questo ognuno deve fare la propria parte, senza accampare pretesti ideologici per coprire antichi privilegi.
Occorre perciò demolire la forza, e il potere di interdizione, delle corporazioni che hanno intralciato lo sviluppo del nostro paese estendendo ulteriormente la sfera del loro dominio negli ultimi venti anni. È una battaglia che si deve accompagnare a quella contro la burocrazia, ma con una differenza di fondo: la burocrazia costituisce una struttura dello stato moderno e proprio per questo è capace addirittura di attraversare regimi politici diversi, restando se stessa: l’amministrazione propriamente detta dello Stato - scrive Tocqueville - è in qualche modo al di sopra del sovrano, un corpo particolare che ha le sue abitudini speciali, le sue regole, i suoi funzionari che non appartengono che all’amministrazione stessa. È quindi una forza importante, da regolare e contenere quando, come accade oggi, invade campi non suoi pretendendo di sostituirsi alla politica in nome di un sapere tecnico, oggettivo, che come tale non esiste. L’idea corporativa è invece espressione di interessi particolari, «privati», estranei alla dimensione «pubblica», anche se viene difesa in nome dell’interesse della Nazione. Per questo va combattuta in modo intransigente. Naturalmente se si vuole ricostituire, su nuove basi, un nuovo «vincolo» sociale e civile, una nuova identità della Nazione.

Repubblica 20.4.14
Intervista al presidente del Consiglio: giù le tasse a chi fa figli e lotta alla burocrazia “Via subito il segreto sulle stragi. Torneremo al voto nel 2018 e il Cavaliere lo sa”
Renzi: ora aiuti alle famiglie
di Claudio Tito


Via subito il segreto sulle stragi. Torneremo al voto nel 2018 e il Cavaliere lo sa”
IO VOGLIO ridare fiducia all’Italia. Voglio che a Bruxelles e nelle altri capitali dell’Unione si dica: “Ecco, finalmente l’Italia è tornata in Europa”». Matteo Renzi traccia un bilancio di questi primi 58 giorni di governo. E rilancia. Mette nero su bianco la road map del suo esecutivo nei prossimi sei mesi. Da un nuovo intervento sulle tasse con il “quoziente familiare” da inserire nella delega fiscale alla riforma della giustizia, civile e penale. Mai più leggi ad personam . Ma anche interventi sui Tar perché «il loro sistema non funziona».
DALLE misure per la pubblica amministrazione con «l’identità digitale» che consentirà a tutti il disbrigo delle pratiche burocratiche da casa all’introduzione del principio della “total disclosure”: la desecretazione dei documenti di alcune delle vicende più drammatiche della storia d’Italia come le stragi di Piazza Fontana, dell’Italicum e di Bologna. La base restano le modifiche alla Costituzione e la legge elettorale, per le quali il premier vuole rispettare i tempi fissati. Perché «vorrei un Paese moderno». Per questo «serve una rivoluzione» e soprattutto tempo: «Al voto ci torneremo nel 2018.
Anche Berlusconi lo sa».
Intanto in molti sospettano che ci siano problemi di copertura al decreto Irpef approvato venerdì scorso.
«E’ un falso problema. Siamo stati molto rigorosi. Merito di Padoan e Delrio aver seguito una linea prudenziale. Abbiamo abbassato la stima di crescita del Pil dall’1,1 del precedente governo allo 08,%. Se non lo avessimo fatto avremmo avuto 5 miliardi in più».
Eppure il nodo delle voci una tantum resta.
«Ci sono misure una tantum ma sono indicate anche quelle strutturali. Dopo accese discussioni sull’Iva e sull’evasione abbiamo sottostimato gli introiti ragionando in modo scrupoloso».
Beppe Grillo ha messo nel suo mirino lei e proprio il provvedimento di venerdì.
«E’ divertente come un tempo. Fino a una settimana fa mi accusava di essere il governo della banche e oggi le sue dichiarazioni sono andate a braccetto con quelle dell’Abi. Fino a una settimana fa mi accusava di aver fatto inciuci con Berlusconi e oggi ripete le cose che dice Forza Italia. Lui urla, noi ragioniamo. Lui punta sulla rabbia, noi sulla speranza».
Le banche in effetti non hanno preso bene il decreto.
«Pagano le stesse tasse di tutti gli altri italiani, il 26%. Chiediamo solo di pagare le tasse come tutti. Nessuna crociata demagogica: io so che la banche sono importanti. Ma le regole valgono per tutti: non c’è qualcuno più uguale degli altri. Noi andiamo avanti ma per rendere tutto attuabile abbiamo bisogno di una condizione preliminare».
Ossia?
«Mantenere credibilità sui mercati. Sarà possibile se resta alta l’attenzione sulle riforme. Su tutte le riforme. Se ci riusciamo, allora, presto potremo allargare il taglio delle tasse agli incapienti, alle partita Iva e ai pensionati ad esempio. Ma per il momento faccio notare a chi mi accusava di fare solo televendite che abbiamo mantenuto le promesse. Come diceva Franco Califano, tutto il resto è noia».
Abbassare le tasse ulteriormente? Come? Già con la prossima delega fiscale?
«Piano piano sarà tutto più chiaro. Abbiamo messo la cornice del puzzle, per i tasselli abbiamo bisogno di qualche settimana. Ma la rivoluzione è appena iniziata, gli 80 euro (e l’Irap) sono l’antipasto. E mi fa ridere chi mi accusa di aver approvato quest’ultimo decreto per motivi elettorali. I soldi nelle buste paga degli italiani, arrivano dopo le elezioni, non prima. In ogni caso, la delega serve per cambiare il nostro Fisco ma – so che qualcuno si stupirà – la priorità non è il semplice abbassamento delle imposte. E lo dice uno che ha sempre tagliato le tasse, in Provincia con l’Ipt, in Comune con l’addizionale Irpef più bassa d’Italia e ora al governo con il bonus. No, la priorità è fare le cose semplici: dare certezze di tempi e procedure. La priorità fiscale è semplificare il sistema».
Scusi, ma questi sono slogan.
«Altro che slogan. Manderemo a casa di 32 milioni di italiani un modulo precompilato e con un clic faranno la dichiarazione dei redditi. Non è pensabile che per pagare le tasse ci voglia un esperto».
Quindi non una revisione delle aliquote?
«Non credo. Però, già nella delega, vorrei provare ad entrare in una nuova logica. Negli 80 euro che noi daremo da maggio, c’è un elemento di debolezza. Ottanta euro dati ad un single hanno un impatto diverso rispetto ad un padre di famiglia monoreddito con 4 figli. Dobbiamo porci questo problema».
Parla del quoziente familiare?
«Qualcosa del genere. Ne discuteremo con gli esperti e con la maggioranza. Ma l’I.
talia non si può permettere il lusso di trattare male chi fa figli».
Per qualcuno è una battaglia di destra.
«È un ritornello cui ormai sono abituato. Ma non sono d’accordo. È di destra dare più soldi a chi ha meno? Nessun rinnovo contrattuale sindacale ha mai dato ai lavoratori quello che abbiamo dato noi con il decreto Irpef. È di destra lavorare per la parità di genere? È di destra innovare la Pubblica amministrazione? È di destra stanziare 3,5 miliardi per la scuola e approvare le risorse per gli alluvionati? E se ero di sinistra che dovevo fare? L’esproprio proletario? La verità è che l’impronta del Pd in questa manovra è evidente. Compreso l’elemento etico di porre un tetto agli stipendi. L’equità sociale non si fa con i convegni, ma con le scelte di governo ».
Anche la lotta all’evasione fiscale, però, presenta un carattere etico.
«Si ma non la si combatte con nuove norme. Serve la volontà politica. Ci si riesce se c’è la voglia di incrociare i dati, perseguire i colpevoli. Altrimenti si cade come spesso accade in Italia nel “benaltrismo”. Lo spazio per contrastare l’evasione è ampio. Serve un uso massiccio della tecnologia».
Magari anche più controlli.
«È una logica parziale. Rafforza l’idea che l’Agenza delle Entrate è il nemico. E invece deve essere un partner, un amico. Naturalmente chi imbroglia e froda deve essere punito. Anche pesantemente. Ma per il resto l’Agenzia deve aiutare. La lotta all’evasione non si fa con i controlli spettacolari sul Ponte Vecchio. Siamo nel 2014. Lo Stato, se vuole, sa tutto di tutti. Rispettando la privacy, vogliamo finalmente fare sul serio? C’è solo bisogno di invertire la logica in tutta la Pubblica amministrazione ».
In che senso?
«Lo Stato deve essere al servizio del cittadino. Troppi enti fanno troppe cose e male. Vanno ridotti e questo non vuol dire licenziare i dipendenti. Abbiamo ridotto le auto blu come nessuno ha mai fatto prima e gli autisti tornano a fare i poliziotti. Lo stesso criterio vale per gli altri».
Quando si parla di riforma della Pubblica amministrazione non si capisce mai cosa ci guadagna il cittadino.
«Entro un anno daremo una “identità digitale” a tutti. Per capirci: daremo un pin a ogni italiano e userà quel codice per entrare in tutti gli uffici della pubblica amministrazione restando a casa. Tutti gli enti avranno un unico riferimento. Gli italiani non dovranno più fare file al comune o in circoscrizione o in un ministero per risolvere questioni banali. Cerco di spiegarmi con una metafora. È come se oggi funzionasse così: ciascuna amministrazione parla una lingua diversa e il cittadino deve pagare i costi di traduzione. Noi costringeremo tutti a parlare con una lingua sola».
Si potrà pagare una multa o prenotare una visita alla Asl?
«Tutto. Con quel pin potranno pagare le multe o le tasse, prenotare una vista all’Asl o disbrigare le pratiche della giustizia. Non si dovrà più perdere la testa dietro i burocrati. Ma c’è di più vorrei introdurre il principio della “total disclosure”».
Cioè trasparenza.
«Totale. Venerdi al Cisr – il Comitato per la sicurezza nazionale – accogliendo un suggerimento del sottosegretario Minniti e dell’ambasciatore Massolo, responsabile del Dis, abbiamo deciso di desecretare gli atti delle principale vicende che hanno colpito il nostro Paese e trasferirli all’Archivio di Stato. Per essere chiari: tutti i documenti delle stragi di Piazza Fontana, dell’Italicum o della bomba di Bologna. Lo faremo nelle prossime settimane. Vogliamo cambiare verso in senso profondo e radicale».
Forse, però, è il momento di una riforma della giustizia.
«A giugno, dopo le elezioni. Ascolteremo tutti e la faremo con la massima serietà. Lo spread che ci divide su questo versante con gli altri paesi è enorme. Iniziamo allora con il processo civile telematico».
Va bene la riforma della giustizia civile, ma ammetterà che quella politicamente più sensibile riguarda il processo penale.
«Anche quello, senza interventi ad personam che hanno segnato la sconfitta della politica in questi anni. C’è anche la giustizia amministrativa. Il sistema dei Tar non funziona come dovrebbe. Dobbiamo fare un riflessione anche su questo».
Ha cominciato tagliando gli stipendi ai magistrati.
«Stimo e rispetto la stragrande maggioranza dei magistrati. Sono dei servitori dello Stato, spesso straordinari. Ma continuo a non capire perché in fase di discussione di una legge, alcuni di loro debbano intervenire con un tono superficiale e minaccioso. Se vale il principio sacrosanto per cui le sentenze si rispettano e non si commentano, con quale logica loro intervengono sulla formazione delle leggi? Non è indispensabile che un giudice o un pm guadagni più di 240 mila euro l’anno. Non è un disastro sociale. Se l’Anm ci attacca per questo sono preoccupato per loro. Resta incredibile che chi guadagna 20 volte più dello stipendio medio degli italiani, si lamenti. È un attacco preventivo e ingiustificato. Mi hanno detto: guai ad attaccare i magistrati. Infatti non li attacco. Ma difendo il mio governo e la dignità dei dipendenti pubblici. Cosa dovrebbe dire un professore che guadagna 1300 euro al mese?».
Per fare tutto questo serve tempo. «E infatti questa legislatura durerà fino al 2018. Ci scommetto».
Berlusconi mica tanto.
«Forse non in pubblico, ma secondo me lo sa anche lui. In ogni caso nel nostro Paese sta tornando la speranza. Adesso se riusciamo a sbloccare l’incantesimo, accadrà una cosa straordinaria: in Europa torna l’Italia autorevole e combattiva. A quel punto, le assicuro, ci divertiremo».

Corriere 20.4.14
Intervista al ministro dell’Economia
Padoan: «Regioni ed enti locali facciano la loro parte o scatteranno i tagli lineari»
«Il bonus deve restare. Solo così le famiglie tornano a spendere»
di Enrico Marro


 ROMA — «C’è una ripresa dell’economia che è ancora debole ma che si sta pian piano rafforzando. Dare uno stimolo alle famiglie a reddito medio-basso può avere un effetto immediato, che sarà tanto più forte quanto migliori saranno le aspettative — dice il ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan —. Se la fiducia si rafforzerà, allora ci sarà più propensione a spendere piuttosto che a risparmiare. Mi aspetto quindi che sia dal lato delle famiglie che delle imprese, che avranno un taglio dell’Irap del 10%, ci sia una maggiore propensione a spendere e a investire. E quindi una maggiore crescita dell’economia».
Il prodotto interno lordo crescerà nel 2014 più dello 0,8%?
«Credo proprio di sì, anche se non si può stimare di quanto. Il decreto che abbiamo approvato è una componente della strategia di riforme, comprese quelle istituzionali. Penso ci siano le condizioni per un salto di qualità. L’Italia finora ha sofferto di una percezione di qualità mediamente peggiore di quella di altri Paesi. C’è un enorme problema di fiducia nell’Italia. Per questo dobbiamo innanzitutto fare le cose seriamente: riforme strutturali, coperture che garantiscano l’equilibrio finanziario. Fatto questo si può andare in Europa e dire: cerchiamo di essere ragionevoli e avere regole più attente alla crescita e all’occupazione. E questo non lo chiede l’Italia come scusa per una scarsa disciplina finanziaria, ma lo richiedono i fatti e la gente. Veniamo da una recessione cominciata sette anni fa e abbiamo più del 12% di disoccupati. Queste sono le nostre priorità. E dobbiamo fare presto».
Perché?
«Perché lo stato favorevole dei mercati finanziari non durerà in eterno, il ciclo finanziario va verso una fase più restrittiva. I tassi in America riprenderanno a salire e questo ci arriverà addosso. Non abbiamo moltissimo tempo, dobbiamo sfruttare questa finestra di opportunità per fare le riforme e rilanciare l’economia».
Quanto sarebbe costato dare il bonus anche agli «incapienti», quelli con redditi sotto gli 8 mila euro lordi l’anno?
«Almeno un miliardo in più. Ora abbiamo dato una risposta all’obiettivo immediato del presidente del Consiglio di dare 80 euro in più al mese a una fascia di lavoratori dipendenti con redditi medio-bassi, che noi stimiamo di 10 milioni di persone, che nella recessione hanno subito la decurtazione più forte del potere d’acquisto. Per gli incapienti si interverrà probabilmente con la legge di Stabilità per il 2015, anno in cui ci attendiamo dalla spending review risorse sufficienti non solo per rendere strutturale il bonus 2014, ma anche per intervenire a favore dei redditi fino a 8 mila euro».
Nel 2015 interverrete anche a favore dei pensionati, considerando che quasi la metà prende meno di mille euro al mese? Renzi ha recentemente promesso che nel 2015 provvederà. Conferma?
«Confermo innanzitutto che il bonus contenuto nel decreto deve essere permanente, perché se non è permanente non è credibile e non viene speso. Ovviamente cercheremo di allargare il più possibile la platea, compatibilmente con le risorse. E quindi guarderemo anche ai pensionati a basso reddito».
Ministro, lei non conosceva Renzi prima di entrare nel governo. Che cosa la colpisce di più del premier?
«Sicuramente la grande energia, ma anche la capacità di avere il polso del Paese e di leggere, al di là delle convenzioni, come si può dare più fiducia alla gente. Ha un approccio di estrema concretezza».
Discussioni, escludendo il calcio?
«Più che discussioni, un gioco delle parti. Da una parte la sua grande propensione a trovare soldi per risolvere i problemi della gente e dall’altra la necessità, propria del ministro dell’Economia, di richiamare tutti al vincolo dei conti in ordine».
Com’è andata con i suoi colleghi in consiglio dei ministri?
«La riunione era stata preparata. C’è stata una discussione costruttiva».
Con tutti?
«Se vuole farmi dire che ho litigato con questo o con quell’altro, non è andata così. Ci sono alcuni ministeri che sopportano tagli maggiori nel 2014, come l’Agricoltura e la Difesa. Per gli altri i tagli sono più limitati, ma ciò va interpretato come un incentivo a trovare riduzioni di spesa permanenti per gli anni prossimi, perché questo non è che un processo appena iniziato».
Avete portato dal 12 al 26%, il prelievo sulla rivalutazione delle quote di Bankitalia possedute dalle banche. Una stangata che secondo le banche sarebbe retroattiva, perché i bilanci sono già chiusi, e con evidenti profili di incostituzionalità.
«C’è stato un confronto molto franco con l’Abi, l’associazione delle banche, che è stato risolto perché si interverrà sulla situazione patrimoniale e non sui bilanci».
Lei sposa in pieno questa rivalutazione delle quote decisa dal governo Letta, che invece secondo alcuni sarebbe un regalo alle banche?
«Non è stato un regalo, ma un aggiustamento delle vecchie quote, che non erano mai state rivalutate, al valore di mercato».
Accanto a una tantum come questa, per finanziare il bonus ci sono i tagli della spesa pubblica. Se non dovessero arrivare i 4,5 miliardi attesi, scatteranno clausole di salvaguardia?
«Sì, ci sono clausole di salvaguardia misura per misura, altrimenti il provvedimento non potrebbe ricevere il visto della Ragioneria generale. Clausole che prevedono, secondo i casi, utilizzo di risorse accantonate per altri fini, tagli lineari, aumenti di imposta».
Sicuro che non scatteranno?
«Noi siamo molto fiduciosi che i tagli di spesa funzioneranno e che ne deriveranno i risparmi attesi».
Nel 2015 i tagli dovranno raddoppiare, come farete?
«Nel 2015 le voci una tantum saranno rimpiazzate da tagli permanenti. Si possono fare molti progressi in particolare sull’efficientamento dell’acquisto di beni e servizi. Il lavoro del commissario per la spending review entrerà in una nuova fase: dopo aver individuato cosa aggredire nella spesa dovrà occuparsi dei meccanismi perché a tutti i livelli si spenda meglio».
Anche a livello decentrato, dove i precedenti tentativi sono falliti?
«Sì. Anche Regioni ed enti locali dovranno fare la loro parte in egual misura che lo Stato, con meccanismi che premieranno chi spende meglio e penalizzeranno chi spende peggio. Sia i ministeri sia le autonomie locali hanno libertà su come tagliare nel 2014 i 700 milioni previsti, ma se non lo faranno scatteranno i tagli lineari».
Riuscirete a far vendere le municipalizzate in perdita?
«Le municipalizzate sono troppe. Ci vuole un processo di efficientamento assistito da meccanismi di incentivo e disincentivo. Dobbiamo gestire molto meglio questa materia, come anche credo che molte risorse possano venire dalla dismissione del patrimonio immobiliare. È un tema che sarà nella mia agenda molto presto».
Sulla sanità niente tagli?
«Non ci sono tagli specifici, ma è anche vero che le Regioni possono tagliare voci di spesa sanitaria per ridurre gli sprechi».
Ministro, nonostante il bonus e il taglio dell’Irap, l’Italia resterà ai vertici internazionali del prelievo fiscale. Quando riusciremo a perdere questo primato?
«Intanto cominciamo a ridurre il cuneo fiscale, che è particolarmente alto. Poi attueremo la delega fiscale. Avremo un significativo aumento della base imponibile e del gettito. A quel punto ci sarà un abbattimento del prelievo individuale perché spalmeremo il maggior gettito su una platea più ampia. Ci saranno risultati importanti nella lotta all’evasione».
Da diversi anni non si recuperano più di 12-13 miliardi l’anno su un gettito evaso di 120 miliardi. Perché dovremmo credere alla svolta?
«Nel 2015 prevediamo di aumentare di 3 miliardi il recupero dell’evasione. È possibile con una strategia modulare che riguarderà vari aspetti, dalla trasparenza alla lotta alla criminalità tributaria all’incrocio fra le banche dati. Sulla base dell’esperienza di altri Paesi, posso dire che i risultati maggiori si hanno modernizzando l’amministrazione tributaria, cambiando il rapporto fiduciario coi contribuenti».
Che ne pensa del contrasto d’interessi. La possibilità, per esempio, di detrarre la ricevuta dell’idraulico?
«Che se si stabilisce un rapporto nuovo tra Fisco e contribuente, ciò determina un cambiamento dei comportamenti. A quel punto non servirà il contrasto d’interessi, il livello di compliance, di fedeltà fiscale, aumenterà automaticamente. Io ho vissuto a lungo in Francia, dove il rapporto col Fisco è appunto molto diverso che da noi: l’idea di evadere o eludere è molto lontana dal modo di pensare della gente normale. In un Paese ad alta evasione come il nostro non è così. È questo che dobbiamo cambiare. Non si fa da un giorno all’altro, ma è il nostro obiettivo. Quindi: amministrazione trasparente, non vessatoria, più efficiente, usando le nuove tecnologie».
Anche con l’invio a casa della dichiarazione dei redditi precompilata?
«Sì. Cominceremo con i dipendenti pubblici e i pensionati, nel 2015».
Ministro, la manovra è soggetta al via libera della commissione europea, che lei ha informato del rinvio del pareggio strutturale di bilancio al 2016. Se il parere fosse negativo?
«La commissione ci darà un parere a maggio, dopo le sue previsioni economiche. Penso ci siano ragioni molto valide, sia in termini di eventi eccezionali sia di intensità delle riforme strutturali, per giustificare un leggero rallentamento del percorso di rientro. Aggiungo che molti Paesi sono ancora nella zona di deficit eccessivo dalla quale l’Italia è uscita. Se il nostro Paese non avesse il debito che ha, la nostra posizione fiscale sarebbe di gran lunga una delle più solide della zona euro. La riduzione del debito è essenzialmente un problema di crescita».
Glielo chiedo anche da economista. Un po’ di inflazione farebbe bene all’Italia?
«Se l’inflazione obiettivo per la zona euro, cioè il 2%, fosse effettivamente raggiunta, staremmo meglio tutti».

Corriere 20.4.14
Tagli negli enti locali: gli amministratori pronti alla rivolta
Il rischio di altre tasse
di Andrea Ducci


ROMA — I compiti a casa sostengono di averli già fatti. Sindaci e governatori di Regione stanno cercando di capire in quale misura e con quali modalità verranno chiamati a contribuire al decreto sul bonus in busta paga. La certezza è che il governo Renzi ha chiesto loro di individuare risparmi per beni e servizi indicando il quantum: 700 milioni di euro a carico degli Enti locali, altrettanti a carico delle Regioni. L’ennesima sforbiciata, insomma, non gradita dai destinatari. E poco importa se il taglio non è lineare e si configura come una sollecitazione ad individuare autonomamente dove intervenire con il bisturi. Basta sentire il sindaco di Torino, Piero Fassino, incidentalmente anche presidente dell’Anci (Associazione dei comuni) nonché politicamente prossimo al premier Matteo Renzi. «La manovra ha i suoi pregi, in particolare per la prima volta si restituiscono soldi ai cittadini e si riduce l’Irap, naturalmente la richiesta ai comuni di predisporre ulteriori riduzioni alle spese impone una verifica con il governo», sottolinea, «ci terrei a dire che noi la nostra parte l’abbiamo fatta volentieri e che negli ultimi cinque anni la spesa dei Comuni, a differenza di quella dello Stato centrale e delle Regioni, è diminuita». Agevole, quindi, seguirlo nel ragionamento successivo. «I comuni italiani rappresentano il 7,6% della spesa pubblica complessiva, e il 2,5% del debito pubblico. Osservo che una ripartizione dei risparmi in misura uguale per 700 milioni ciascuno tra Stato, Regioni e Enti locali è squilibrata».
Al tavolo di verifica e confronto sul testo del decreto, che garantisce 80 euro ai lavoratori dipendenti, Fassino si riserva di sollevare un ulteriore questione. «A carico degli Enti locali ci sono 700 milioni, di cui 340 milioni sono in capo ai Comuni. Quest’ultimo importo equivale a quanto il governo centrale deve restituire ai Comuni per gli anticipi di cassa per il mantenimento degli uffici giudiziari dello Stato». Il sindaco di Torino immagina un meccanismo compensativo che, però, farebbe traballare i conti del decreto. In apprensione, del resto, è anche l’assessore al bilancio del Comune di Milano, Francesca Balzani. Il leit motiv è quello di altri amministratori locali. «Una volta ancora si chiedono interventi di riduzione di spesa a un comparto che ha già contribuito in maniera consistente. Il dato è allarmante, basti pensare al taglio dei trasferimenti destinati al Comune di Milano. Nel 2010 erano 728 milioni, nell’ultimo rendiconto sono diminuiti a 462 milioni». Il timore è che a farne le spese siano i cittadini. «Ai comuni, per esempio, è delegato il compito di assicurare le politiche sociali, ma, dopo anni di riduzioni di spesa, tagli e congelamenti, si rischia di non garantire alcuni servizi».
L’altra faccia della medaglia è la tentazione di un aumento delle imposte locali con delle mini manovre per mano dei municipi. Balzani ricorda il caso di Milano. «Ci siamo trovati con uno squilibrio di bilancio di 500 milioni, una situazione che ci ha imposto di varare una manovra fiscale da 200 milioni». Secondo il decreto voluto da Renzi risparmiare rinegoziando i contratti per i servizi e gli appalti, centralizzando gli acquisti, tagliando stipendi e smantellando le municipalizzate (da 8 mila dovranno scendere a mille), non ha alternative. O meglio, ne ha una sola, peraltro, da scongiurare: l’intervento diretto del Commissario alla spending review che predisporrà tagli lineari.
In tutti i casi il governatore del Lazio, Nicola Zingaretti, tiene a rivendicare il lavoro svolto. «Abbiamo chiuso 10 società regionali e ridotto il numero dei consiglieri di amministrazione di conseguenza. La nostra centrale unica per gli acquisti garantisce 170 milioni di risparmi. Le auto blu le abbiamo già passate al setaccio, ora costano 70 mila euro all’anno contro i 245 mila del passato». Quello che serve secondo Zingaretti è un corredo di poteri speciali e transitori per intervenire su contratti in essere e forniture in corso. «Altrimenti ci troveremo impantanati in una lunga serie di contenziosi che rischiano di bloccare l’avvio di un circolo virtuoso». Fassino è ancora più determinato e intende suggerire al governo una misura che imponga a tutti i comuni di non detenere oltre il 35% del capitale delle società municipalizzate. «Una scelta del genere le renderebbe vendibili, appetibili e governabili agli occhi dei privati». Laconico il giudizio sul decreto del Venerdì Santo da parte di Alessandro Cattaneo, sindaco di Pavia. «Quale che sia il colore o l’estrazione del governo di turno, l’esito è sempre lo stesso. Essere amministratori virtuosi alla lunga è penalizzante. I soliti furbi si salvano sempre, mentre agli altri vengono chiesti continuamente sacrifici. E meno male che al governo c’è il partito dei sindaci». A fargli eco è l’assessore Balzani, «chiedere di risparmiare a chi non ha più margini di intervento avvantaggia chi ha finora trascurato di mettere a posto i propri conti».

Il Sole 20.4.14
Speciale
Tutti i prelievi nascosti per imprese e famiglie
Il bonus Irap «bilanciato» dalla rata unica sulla plusvalenza degli asset aziendali - Più tasse anche sul risparmio
articoli di Carmine Fotina e di Marco Mobili

sul giornale nelle edicole

Repubblica 20.4.14
Questa volta il premier mi piace ma...
di Eugenio Scalfari


OGGI è Pasqua. Per i cristiani è il giorno dedicato alla Resurrezione, ma il Resurrexit riguarda tutti perché ciascun individuo, ciascun popolo, ciascuna generazione attraversano nel corso della loro vita momenti di pena, di abbattimento, di disperazione e di smarrimento della speranza
per il futuro.
Gran parte del mondo, l’Europa e l’Italia in particolare, stanno vivendo un momento di crisi profonda e per questo il Resurrexit , incitando a risorgere, rappresenta uno stimolo che va accolto e seguito.
Papa Francesco l’ha ricordato ed in molte occasioni ne ha anche indicato gli aspetti morali che riassumo con le sue parole da me direttamente ascoltate: «Ama il prossimo tuo più di te stesso». Questa è l’indicazione, valida per i credenti e per i non credenti. Valida, anzi obbligatoria soprattutto per i Governi, per le istituzioni e per tutti quelli che operano per realizzare una visione del bene comune. Ama il prossimo tuo più di te stesso significa, in politica, aiutare i deboli, i poveri, gli esclusi, i vecchi che trascinano la vita che gli resta e i giovani che debbono costruirla apprendendo e facendo crescere i loro talenti.
Mai come oggi abbiamo bisogno di risorgere e di conquistarci un futuro. Questo è il metro per capire e obiettivamente giudicare quanto avviene nel nostro Paese che è al tempo stesso l’Italia e l’Europa.
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Il Resurrexit dell’altro ieri nella politica italiana ed anche europea ha il nome di Matteo Renzi. A me di solito non piace e l’ho scritto e detto molte volte.
RICONOSCO le sue doti di comunicatore e di seduttore; da questo punto di vista è il figlio buono di Berlusconi come anche il capo di Forza Italia ha riconosciuto più volte. Buono perché è molto più giovane di lui e soprattutto perché non ha gli scheletri nell’armadio che abbondano invece in quello dell’ex Cavaliere di Arcore.
Ha coraggio ed ama il rischio, ma politicamente improvvisa e spesso le sue improvvisazioni sono fragili, pericolose e preoccupanti.
La sua operazione di taglio del cuneo fiscale è preoccupante: appartiene a quel tipo d’intervento, specie per quanto riguarda le coperture, gran parte delle quali scricchiolano, cartoni appiccicati l’uno all’altro con le spille che spesso saltano via; sicché non è affatto sicuro che convinceranno le autorità europee a dare via libera e concedergli di rinviare a due anni il rientro nel limite del 3 per cento del rapporto tra il Pil e il deficit del debito pubblico.
E poi: la tassa sulle banche è retroattiva e comunque è una una tantum non ripetibile, i tagli della Difesa sono rinviati ma non aboliti; il maggior incasso dell’Iva è un anticipo d’un anno e ce lo troveremo sul gobbo nel 2015; il pagamento dei debiti alle aziende creditrici, che doveva essere almeno di 17 miliardi, è stato ridotto a 7. Infine gli incapienti con redditi inferiori agli 8 mila euro annui e quindi esentati dal pagamento dell’Irpef avrebbero dovuto precedere per evidenti ragioni di equità il bonus in busta paga che premia i redditi superiori. Senza dire dei contributi da parte dei Comuni il cui pagamento però può essere accompagnato dall’aumento delle imposte comunali che potrebbero vanificare o ridurre fortemente il bonus di 80 euro in chi in quei Comuni risiede.
Questi aspetti negativi sono stati ampiamente segnalati nei loro articoli di ieri dai colleghi Boeri, Fubini, Bei, De Marchis, Conte, sul nostro giornale e da Dario Di Vico sul Corriere della Sera , dando un bilancio nettamente negativo dell’operazione.
Eppure a me questi vari e sconnessi cartoni appiccicati con le spille piacciono. Insolitamente lo trovo soddisfacente nonostante le numerose insufficienze che ho appena segnalato.
La ragione è semplice: è una sveglia, uno squillo di tromba in un disperato silenzio di sfiducia e di indifferenza. Probabilmente sposterà voti nelle prossime consultazioni europee pescando nell’elettorato dei non votanti, degli indecisi, dei grilli scontenti, dei berlusconiani delusi e tratterrà in favore del Pd tutti gli elettori incerti e critici di una leadership accentratrice e assai poco sensibile ad un lavoro di squadra che non sia ristretta al cerchio magico degli yes man che restano intorno al giovane fiorentino.
Si è detto da molte parti che l’operazione del bonus in busta paga non è un programma organico ma uno spot elettoralistico. È esattamente così e venerdì sera nella trasmissione Otto e mezzo l’ha ammesso lo stesso sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Graziano Delrio, che del cerchio magico è indiscutibilmente il capo. Concordo con lui: è uno spot elettorale che forse, speriamolo, di-venterà un programma pensato e strutturato nel 2015.
Ma se, come i sondaggi indicano, il risultato elettorale del 25 maggio vedrà il Pd al primo posto, largamente davanti a Forza Italia e a Grillo, quel risultato non sarà soltanto un effimero successo di Renzi che certamente soddisferà il suo amor proprio; ma cambierà anche i rapporti di forza nella politica italiana e la posizione del nostro paese nella politica europea; aumenterà il nostro prestigio all’interno del Partito socialista europeo; rafforzerà la posizione di Schulz che corre proprio in quei giorni per conquistare la poltrona di presidente della Commissione di Bruxelles; rafforzerà il baluardo contro i populismi anti-europei o euroscettici opponendo ad essi un altro tipo di populismo che in questo caso è costruttivo; relegherà i berluscones ad un ruolo marginale incoraggiando uno schieramento liberal-moderato attorno al centrodestra di Alfano, Lupi, Cicchitto, Quagliariello.
Se vogliamo dire tutto dobbiamo anche aggiungere che il percorso di cui Renzi si è servito per costruire il suo spot era già stato avviato e in molti settori anche portato a termine e contabilizzato in appositi atti legislativi dal governo di Enrico Letta. Di questo ci si scorda spesso ed è un grave errore perché Letta è stato e rimane una delle figure importanti della politica italiana ed europea. Gli si può rimproverare di non aver fatto squillare la tromba per risvegliare i dormienti, ma la ragione c’è: Letta non è un uomo da spot. Preparava un programma che, se fosse rimasto in sella, avrebbe trovato piena applicazione durante il semestre di presidenza europea assegnato all’Italia, anche se alcuni segnali di ripresa si erano già verificati con l’aumento della produzione industriale e la diminuzione del fabbisogno di bilancio di 5 miliardi rispetto all’anno precedente. Del resto è stato proprio Delrio a dirci che lo spot renziano diventerà un programma strutturato nel 2015. Le date oltreché i contenuti coincidono con quelli di Letta, ma la sveglia non ha squillato. La differenza è questa, determinata dalle diversità caratteriali di quelle due personalità.
C’è un terzo uomo che in qualche modo le riassume tutte e due nei loro aspetti positivi ed è Walter Veltroni. E ce n’è un quarto che non va dimenticato e si chiama Romano Prodi. Un quartetto niente male per risvegliare gli animi del Bel Paese, specie se troveranno tra loro un modus vivendi che eviti esiziali lotte intestine.
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Penso d’aver spiegato finora le prime quattro righe del titolo di quest’articolo; resta però il “ma” dell’ultima riga ed è quello che ora debbo chiarire ai miei lettori. Quel “ma” riguarda le riforme istituzionali e in particolare quella del Senato. Ne ho già parlato domenica scorsa ma ritengo opportuno tornarci di nuovo poiché tra pochi giorni dovrà essere votata in prima lettura al Senato e la sua importanza è essenziale.
Quella del Senato non è un riforma importante ma limitata ad un settore specifico della vita sociale. Quella del Senato riguarda l’architettura costituzionale che sorregge lo Stato di diritto e cioè il rapporto e la separata autonomia dei poteri costituzionali: il Legislativo, l’Esecutivo, il Giudiziario. La Corte costituzionale tutela il principio sul quale si fonda lo Stato di diritto e la Costituzione che lo accoglie nei suoi principi e ne articola gli effetti. Il Legislativo approva le leggi proposte dal Governo o dai propri membri o direttamente dall’iniziativa dei cittadini ed è l’espressione del popolo sovrano; controlla l’efficienza e il coretto esercizio del potere Esecutivo. Il potere Giudiziario dirime sulle basi della legislazione esistente i conflitti tra i cittadini ed anche tra essi e la pubblica amministrazione. Il Capo dello Stato non fa parte di alcun potere ma valuta nel momento della promulgazione da lui firmata la conformità delle leggi alla Costituzione e coordina la leale collaborazione tra governo e Parlamento, fermo restando il potere definitivo della Corte.
Queste sono le premesse che fanno del Senato uno degli organi del potere Legislativo previsto dalla Costituzione del 1947 ma esistente anche nello Statuto Albertino, composto da senatori a vita di nomina regia.
La Costituzione repubblicana che prevede un Senato eletto dal popolo, con in più i presidenti della Repubblica che hanno terminato il loro mandato e cinque senatori a vita nominati dal Capo dello Stato sulla base di meriti culturali da lui valutati, può certamente esser modificato nelle sue attuali competenze, ma non credo possa essere abolito o privato di competenze che di fatto equivalgano all’abolizione. Una decisione del genere sulla base dell’articolo 38 metterebbe infatti in crisi l’intera architettura costituzionale e dovrebbe essere quindi accompagnata da una serie di contrappesi tali da modificare l’intera struttura su cui poggia la Repubblica.
Il progetto Renzi-Berlusconi prevede in realtà proprio questo: la riduzione del Senato ad organo competente soltanto ad intervenire sui poteri, gli interessi e la legislazione degli Enti locali. Il rapporto tra tali Enti e lo Stato sono invece rimessi alle Conferenze Stato-Regioni e Stato- Comuni per cui un’eventuale competenza del Senato nella sua nuova configurazione sarebbe soltanto un inutile duplicato.
Come se non bastasse a questa diminutio , un’altra se ne aggiunge: i membri del Senato, ridotti di numero come opportunamente dovrebbe avvenire anche per la Camera dei deputati, sarebbero composti dai governatori di alcune Regioni e dai sindaci di alcuni Comuni nonché dai presidenti dei Consigli regionali e comunali, conservando le loro cariche originarie e assumendo anche la nuova senza alcun compenso aggiuntivo. Ma con un effetto politico rilevante: poiché attualmente Regioni e Comuni sono in larghissima prevalenza guidati dal Pd, il nuovo Senato sarebbe di fatto dominato dal Pd e una formazione politica che allo stato attuale non ha nessun governatore e quasi nessun sindaco, e cioè il Movimento 5 Stelle che raccolse nelle ultime elezioni politiche dello scorso febbraio il 29 per cento dei voti e che i sondaggi attuali per le Europee collocano al secondo posto dopo il Pd, risulterebbe escluso dal futuro Senato. Non sarebbe una gran perdita, visto che si tratta di una scatoletta vuota, ma comunque non sopportabile e probabilmente incostituzionale perché modificherebbe totalmente il criterio della rappresentanza che è un requisito di pari importanza (se non addirittura superiore) a quello della governabilità.
Siamo tutti d’accordo di modificare il Bicameralismo perfetto, riservando alla sola Camera dei deputati il potere di accordare o togliere la fiducia parlamentare ai Governi. Ma non siamo per niente d’accordo di ridurre il Senato a una scatola semivuota, tanto più in una fase in cui si parla di instaurare un “premierato” che accresca fortemente i poteri dell’Esecutivo. Ipotesi a mio avviso valida ma che ha bisogno di veder rafforzati i poteri di controllo del Legislativo e in particolare del Senato proprio perché questa Camera alta debitamente eletta dal popolo sovrano non dà la fiducia al Governo e quindi è la più idonea a controllare la pubblica amministrazione.
La senatrice a vita Elena Cattaneo ha già presentato uno studio molto accurato e ricco di proposte in merito. Andrebbe esaminato, eventualmente integrato con altri suggerimenti e messo in discussione nell’imminente esame dello stesso Senato sul disegno di legge Renzi-Berlusconi che personalmente mi permetto di definire una “porcata” così come la Corte costituzionale definì la legge elettorale di Calderoli finalmente abolita.
Il Presidente della Repubblica di solito non interviene in questioni di leggi elettorali, salvo quando si tratta di riformarle per non lasciare il Parlamento in una situazione anomala. Personalmente credo che sia competente ad esprimere le sue idee su una vera e propria decapitazione del Senato, organo sostanziale nell’architettura costituzionale e credo anche che possa e debba intervenire sul modo di reclutamento dei senatori. Già si espresse evidenziando la necessità di modificare il Bicameralismo perfetto ma nulla ha ancora detto sulla scatola vuota e sull’elezione di secondo grado inflitte alla Camera alta che diventerà non bassa ma bassissima e duplicata dalla Conferenza tra Stato ed Enti locali. Una sua opinione sarebbe di essenziale importanza.

La Stampa 20.4.14
Il premier sale, il Pd meno di lui
La fiducia è oltre il 50, ma è one man show
di Maria Corbi


Effetto Bonus. Nelle stime dei sondaggi pesa eccome la politica democratica del premier Matteo Renzi che porta il Pd, dopo anni di limbo, a fare qualcosa di sinistra. 80 euro al mese possono bastare per far salire le sue quotazioni, secondo Roberto Weber, che dirige l’istituto di sondaggi Ixè. Ma non è solo quello. «Renzi ha fatto vedere la discontinuità, tanta o poca che sia, e al centro ha messo l’aiuto economico ai soggetti deboli, il primo dopo tanto tempo. Questo unito al cambiamento di stile e all’impressione che ha dato di non guardare in faccia nessuno, paga». E Renzi incasserà anche dall’elettorato del centro destra e di Grillo. «In questa fase è stato percepito come una persona che fa gli interessi dell’Italia, altrimenti non sarebbe possibile avere un gradimento così alto che supera il 50 per cento. E questo porterà al Pd 7/8 punti in più rispetto alle passate politiche». Forza Italia? Intorno al 18 per cento, sotto le elezioni politiche. Ma è tutto da vedere, adesso è tornato Berlusconi vediamo che succede. Sta salendo anche Grillo».
Anche Antonio Noto, presidente di Ipr Marketing sottolinea l’ascesa della fiducia a Renzi: «In questo mese è passata dal 52 al 57 per cento, tenendo conto che a febbraio era al 48 per cento. Quindi da quando è premier è salito di 9 punti nel gradimento degli italiani. E questo ci fa pensare che quando testeremo nelle prossime settimane, dopo le feste, la fiducia a Renzi sarà ancora cresciuta. Il trend è questo».
Quel che manca, spiega Noto, è un rapporto diretto tra crescita di Renzi e quella del Partito Democratico: «Ancora non si registra in maniera forte. Paradossalmente il Pd è più una gabbia che un volano per Renzi che riceve personalmente consensi anche dagli altri elettorati, In maniera decisa da quello di Forza Italia e del nuovo centro destra, ma anche dal 20 per cento di quello di Grillo». I segnali di cambiamento, l’aver iniziato a cambiare partendo con aiuti alle classi più bisognose e tagli agli stipendi dei manager meno bisognosi, ha creato un larghissimo consenso personale intorno a Renzi che viene percepito come un «one man show», poco legato al partito, ma anche ai suoi ministri. «Per questo è difficile calcolare la forza politica di Renzi, ossia quanti voti porterà al Pd».

il Fatto 20.4.14
Il governo taglia un solo F35 ma forse lo compra nel 2005
13 miliardi la spesa totale
Ridurre la spesadi 153 milioni significa rinunciare a un caccia Usa sui 90 totali
È probabile per di più che sia solo un rinvio all’anno prossimo
di Daniele Martini


Se di un taglio si tratta, è di entità assai modesta: 153 milioni di euro sono appena l’1 per cento circa rispetto ai 13 miliardi di spesa complessiva preventivati fino ad oggi per l’acquisto di 90 cacciabombardieri F 35, gli avveniristici e ultracostosi jet americani prodotti dalla Lockheed Martin. Per avere un ordine di grandezza concreto, 153 milioni equivalgono a un solo aereo (costo attuale stimato 135 milioni) più un pezzetto di motore. Ma non è affatto sicuro che di una riduzione vera e propria si possa parlare. È più verosimile che il governo di Matteo Renzi, nel Consiglio dei ministri di venerdì sera, abbia deciso un rinvio di spesa. Detto in altro modo: è probabile che effettivamente nel 2014 quei 153 milioni per gli F 35 non escano dalle casse statali, ma in un secondo momento sì, presumibilmente l’anno prossimo. In questo caso cambierebbe poco o niente da un punto di vista concreto nella spinosa faccenda dell’acquisto dei cacciabombardieri.
DI CHE NATURA sia l’intervento, se un taglietto o un rinvio di spesa, lo si saprà solo quando sarà reso pubblico il disegno di legge apposito. Nel frattempo, però, lo scaltro Renzi porta comunque a casa un doppio risultato. Il primo, politico e di immagine, rispetto a quella vasta parte di opinione pubblica all’interno del suo partito, il Pd, ma anche esterna, come gli elettori del Movimento 5 Stelle, contraria al programma di acquisto dei cacciabombardieri. A tutti loro Renzi fa balenare l’impressione di aver cominciato l’operazione di riduzione tenendo fede a un impegno preso a suo tempo, quando ancora non era capo del governo e andava dicendo in giro che spendere tutti quei quattrini per dei cacciabombardieri in un momento di crisi e sacrifici come questo non aveva senso.
Il secondo risultato è di natura contabile: il governo ha bisogno subito di un po’ di soldi per finanziare l’ormai famoso incremento di 80 euro nelle buste paga dei dipendenti con stipendi inferiori a 1.500 euro al mese e la limaturina o il rinvio di spesa sugli F 35 un po’ di acqua al mulino la porta.
Le organizzazioni che da mesi si battono contro l’acquisto degli F 35 non sono affatto contente della decisione del governo. Ne mettono in risalto la natura ambigua e la caratura modesta. Spiega Francesco Vignarca, portavoce della campagna contro i cacciabombardieri: “Non c’è un cambio di verso con gli F 35, ma uno spostamento temporale della spesa relativa al lotto numero 10. Vengono quindi implicitamente confermati gli acquisti relativi ai lotti 8 e 9 che riguardano aerei più costosi in quanto ancora non toccati dalle promesse economie di scala. E anche meno affidabili non avendo subito quelle migliorie apportate di continuo a un progetto in perenne evoluzione che al momento sta comportando un aggravio di spesa del 70 per cento rispetto al 2001”. Secondo il portavoce del movimento pacifista la scelta del governo è “grave soprattutto perché politicamente inaccettabile ponendosi di fatto in contrasto con il congelamento di ogni ulteriore spesa per gli F 35 decisa nell’estate di un anno fa dal Parlamento”. Con una mozione presentata dal gruppo Pd in commissione Difesa fu stabilito allora che ogni ulteriore impegno per l’acquisto dei cacciabombardieri fosse rinviato in attesa di una valutazione parlamentare complessiva sulle esigenze difensive dell’Italia.
Era una piccola rivoluzione copernicana perché per la prima volta nella storia delle spese per armamenti e in particolare nella vicenda assai opaca degli F 35, il potere finale di decisione veniva spostato dal governo e dalle segrete stanze degli stati maggiori alle aule della Camera e del Senato. Fino a quel momento per l’acquisto dei cacciabombardieri era stato seguito un percorso inverso a quello che la logica avrebbe dovuto suggerire, stabilendo che l’Italia li avrebbe comprati senza che fossero mai state esplicitate le motivazioni alla base di quella esigenza.
DALLA FINE degli anni Novanta del secolo passato fino ai nostri giorni tutti i governi, di centrodestra e centrosinistra, si sono attenuti a quella scelta come fosse un assioma immodificabile. La mozione Pd spezzava questo continuismo e allo stesso tempo consentiva al Pd di barcamenarsi tra quella parte del partito decisamente contraria all’acquisto e quell’altra parte, con il presidente Giorgio Napolitano come nume tutelare, favorevole in “omaggio agli impegni internazionali assunti”.
Un gruppo di personalità ha rivolto un appello a Renzi esortandolo a una decisione chiara sugli F 35. Tra i firmatari i sacerdoti Luigi Ciotti e Alex Zanotelli, il sindacalista Maurizio Landini, l’attore Alessandro Gassmann, l’oncologo Umberto Veronesi.

il Fatto 20.4.14
Quando Matteo faceva il venditore di giornali
di Marco Lillo


Per trovare la lontana radice del “mezzo capolavoro sul piano della comunicazione politica” di venerdì, come ha definito la conferenza stampa sul taglio dell’Irpef il nostro direttore Antonio Padellaro, bisogna tornare indietro nel tempo. A 10-15 anni fa quando il presidente del consiglio doveva trovare il modo per vendere i giornali e non per riempirli con slogan accattivanti. L’arte del marketing e le tecniche di motivazione della propria squadra, che un tempo erano il marchio di Berlusconi sono diventate di sinistra grazie a Renzi, che le ha respirate sin da piccolo nell’azienda paterna. Renzi non deve fingere di essere in sintonia con il popolo delle partite Iva come gli altri leader della sinistra, perché da quel mondo proviene.
OGGI LA SOCIETÀ di famiglia si chiama Eventi6. Matteo è un dirigente in aspettativa dal giugno 2004 ed è stato assunto, dopo anni di co.co.pro. il giorno prima della sua candidatura a presidente della Provincia, il 27 ottobre del 2003. Il padre Tiziano formalmente è solo un consulente anche se resta il ras dell’azienda. I soci sono le due sorelle Matilde e Benedetta e la mamma Laura Bovoli con una piccola quota. Con la crisi dei giornali la Eventi6 ha diversificato distribuendo oltre ai giornali (come la free press di Leggo e Metro) anche le Pagine Gialle e i volantini dei supermercati. Ed è interessante notare quali supermercati: l’appalto che garantisce una buona fetta del fatturato di quest’anno non viene dalla catena Coop degli amici del ministro Poletti, bensì dalla Esselunga di Caprotti, un cliente storico che sceglie i Renzi per ragioni professionali ma che è amico di Berlusconi.
Negli anni in cui Matteo Renzi ha lavorato presso l’azienda di famiglia, la Chil (questo il nome di allora) distribuiva Repubblica , Il Secolo XIX, Il Messaggero e soprattutto il gruppo Riffeser, cioé Nazione, Resto del Carlino, Il Giorno. Era il momento del boom degli allegati: cd, libri enciclopedie e fumetti. Matteo Renzi e il padre inventavano idee per spingere i clienti a comprare con tecniche di marketing ed eventi. C’era l’allegato di Dante Alighieri con la Nazione? Vicino all’edicola spuntava il ragazzo della Chil vestito da Dante con il costume d’epoca. C’era il cd con la musica classica o il fumetto western? Ecco spuntare Giuseppe Verdi con barba e cappello o il cow boy a cavallo. I Renzi erano i più bravi nell’accalappiare i lettori ed erano arrivati a distribuire 10 mila copie ogni giorno grazie alle stesse tecniche di marketing che oggi sono dietro molte scelte del premier. L’altra ragione del boom del fatturato della società di famiglia, che negli anni d’oro ha superato i 7 milioni di euro, era l’abilità di Matteo Renzi nel motivare i dipendenti facendoli sentire parte di una squadra vincente.
Il Matteo Renzi che chiama per nome i ministri e i membri della sua segreteria del Pd non è tanto diverso da quello che chiamava per nome i suoi strilloni all’appuntamento quotidiano davanti al garage Europa di Borgo Ognissanti a Firenze. Qui ogni mattina alle sei un giovanissimo Renzi arrivava con il suo furgone da Rignano sull’Arno e consegnava ai suoi strilloni i pacchi dei giornali e le news per la giornata. Prima di lui, alle 5 di mattina, partiva la sorella maggiore Benedetta Renzi per andare a Bologna all’appuntamento con gli strilloni in via Tosarelli. A Firenze nello stesso momento, al garage Europa una dozzina di anni fa l’attuale premier aiutava i ragazzi a tirar giù i pacchi con le copie della Nazione dal furgone e li consegnava agli strilloni che gli restituivano in cambio il pacco del giorno prima con le rese. A questo punto Matteo tornava a casa e scriveva - strillone per strillone, semaforo per semaforo - chi era rimasto con troppe rese in mano.
Poi stilava le news, che erano la base del successo della Chil. Ancora oggi papà Tiziano le conserva con un orgoglio. Le news erano le circolari scritte di pugno da Matteo con le pagelle delle performance dei più bravi e i premi di produzione per stimolare tutti a migliorare. Chi superava le soglie di vendita prestabilite, poteva contare su un numero di giornali, fino a un pacco intero, gratis.
“Matteo - ricorda un suo collega di allora che vuole mantenere l’anonimato - era molto creativo e riusciva a fare squadra. Per esempio un giorno Roberto Benigni aveva donato 50 euro a una ragazza di Scandicci che gli aveva venduto la Nazione. Allora Matteo promise nelle news un pacco di giornali a chi vendeva una copia a un altro personaggio famoso”.
COME SI USA in tutte le strutture di vendita, Matteo inseriva nelle news battute ironiche per stimolare tutti a migliorare prendendoli un po’ in giro”. Anche dal ramo materno della famiglia, Matteo ha succhiato il marketing. Quando era un bambino lo zio Nicola Bovoli, già direttore marketing dei periodici Rizzoli, importò in Italia il bingo che fece vendere centinaia di migliaia di copie in più ai grandi giornali. La Chil ha smesso di fare strillonaggio proprio quando Renzi è diventato presidente della provincia nel 2003. La ragione la racconta il solito impiegato anonimo: “Quando Matteo si candida, ad aprile 2004, il padre comunica alla Nazione che molla lo strillonaggio. C’erano molti strilloni extra comunitari. A Bologna c’erano tanti pakistani, a Firenze i peruviani e a Genova su 54 portatori 24 erano nigeriani. L’amministrazione della Chil pretendeva il permesso di soggiorno ma - racconta l’ex impiegato anonimo della Chil - c’era il grande Manuel che era un peruviano. Non si sa come facesse ma Manuel aveva 27 cugini, tutti senza permesso. Ecco, Manuel risolveva il problema dicendo: ‘ci penso io’. E che faceva? Prendeva i giornali, li portava alla stazione di Firenze, girava l'angolo in via della Scala e li dava a un extracomunitario irregolare a cui consegnava la casacchina. E quello andava a vendere i giornali. Se un vigile lo fermava, col cavolo che c’aveva il permesso di soggiorno. Tiziano Renzi - prosegue l’ex impiegato - sapeva benissimo che c'era questo rischio. Per evitare che il primo giornalista potesse scrivere: ‘l’azienda del presidente della Provincia fa immigrazione clandestina’, Tiziano Renzi ha rinunciato a 18 mila euro al mese di fatturato. Ecco perché quando gli dicono che l’impegno politico del figlio lo ha aiutato si incazza come una biscia africana trapiantata in Bolivia”.


il Fatto 20.4.14
Renzi chiama Olivetti
risponde Furio Colombo


CARO COLOMBO, adesso Renzi invoca Olivetti per i tagli che vuol fare a manager e magistrati. La mossa mi sembra un p o’ audace e temo che il suo programma non abbia nulla a che fare con “Comunità” di Olivetti. Sbaglio? Vincenzo
A UN CERTO PUNTO del diluvio di parole, segnate da una accelerazione progressiva del linguaggio (tanto che a volte persino a lui le parole si inceppano), Renzi, il giocoso capo del governo italiano, fa due dichiarazioni curiose. La prima è che i dipendenti pubblici passano da 44 a 26 metri quadrati di spazio per lavorare. Se fossimo in tempi più sereni, qui ci sarebbe da impiantare una interessante conversazione. Se i metri sono molti ma c’è una finestra sola? Se i metri sono molti ma l’ufficio è sistemato a Palazzo Odescalchi, dove le stanze sono grandine? Se lo spazio è troppo grande ma il lavoro è riservato, e non si può condividere con colleghi non autorizzati? Se lo spazio è ampio per poter accogliere senza troppa anticamera (è la parola giusta) il pubblico? E poi, considerato il numero di vani soggetti alla norma, occorrerà o non farci più caso, dopo averla annunciata, o istituire al più presto un corpo di ispettori dello spazio, che avrà pure un certo costo. Un’altra dichiarazione interessante, anche perché avviene in un vuoto assoluto di informazione, di orientamento e anche di ogni possibile senso di riferimento, è la cosiddetta “norma” o “regola” Olivetti. Cito il “Corriere della Sera”: “Adriano Olivetti diceva che nessun manager dovrebbe guadagnare oltre dieci volte lo stipendio di un impiegato”. A chi lo ha detto? A Paolo Volponi, a Ottiero Ottieri e a me, che avevamo, in funzioni diverse, la responsabilità del personale della fabbrica di Ivrea (nel 1956) e poi di quella americana (nel 1960). La citazione (inesatta, come vedremo) serve a Renzi per giustificare il tetto di stipendio imposto ai manager pubblici e poi, in un impeto di euforia, anche ai magistrati, che non hanno dipendenti ma solo nemici, certi gruppi manageriali d’altro tipo, che sfuggono al controllo di Palazzo Chigi. Perché la citazione è inesatta? Perché ciò che stava cuore a Olivetti, direi a Renzi se potessi parlargli alla sua velocità mentre freneticamente misura gli spazi dei dipendenti pubblici, e verifica che siano cinque e solo cinque le auto blu per ogni ministero (Difesa ed Esteri come Riforme e Rapporti col Parlamento?) era la retribuzione dei più piccoli, non il tetto dei più grandi. L’affermazione serviva a fare in modo che nessuno guadagnasse troppo poco. Stabilire un legame con le paghe più alte non voleva dire allontanare i manager bravi (assunti su scala mondiale, cercando i grandi talenti che, infatti, ne avevano fatto il laboratorio più competitivo del mondo) ma impedire l’umiliazione del lavoro di fabbrica. E, allo stesso tempo, far sentire un doppio legame, dei lavoratori verso i loro dirigenti e dei dirigenti verso il loro gruppo di lavoro. La “regola Olivetti” non è mai stata “tagliare”, ma, al contrario, incoraggiare, e dare orgoglio e identità agli uni e agli altri per lavorare insieme. Da cultore appassionato di architettura di una casa e di una città, cercava armonia (il suo progetto era “la comunità” fondata sui diritti di ognuno e sul bene comune). Renzi balza in scena come un samurai, ansioso di tagliare i papaveri troppo alti, cercando, intanto, di tenere a bada i poveri (che adesso vanno sotto il nome umiliante di “incapienti” ). Qualcuno che corre abbastanza veloce gli dica che non è la stessa cosa. Anzi, è il contrario.

il Fatto 20.4.14
Corruzione, la parola che manca alla politica
di Furio Colombo


Il giorno 15 aprile il New York Times, edizione internazionale, ha aperto il giornale (due colonne a destra, impaginazione rara e drammatica) con un articolo datato da Roma, che ha questo titolo: “La mafia allunga i tentacoli e cresce”. Il paesaggio è l’Europa, dove la mafia pianta sempre più bandierine. Ma i nomi, i luoghi dei quartieri generali, le organizzazioni da cui partono sempre nuove e anche fantasiose iniziative, sono tutte italiane. L’articolo continua occupando gran parte di pag. 4   di uno dei grandi quotidiani del mondo e sembra inviare un messaggio ai simpatici alleati italiani: niente da dichiarare? Erano i giorni in cui in Italia si stava facendo un grande discutere di reati di mafia, ma come materia di scontro politico in Parlamento, non come presa d’atto di una realtà tragica che chiede una lotta senza quartiere. Erano le stesse ore in cui, tramite passaggio in Libano, si stava preparando uno scivolo per consentire al noto senatore Dell’Utri di saltare fuori dal rischio della prigione (sette anni per una questione di mafia). Gli stessi giorni in cui veniva consentito a Silvio Berlusconi di scontare un anno residuo di prigione in comode rate da quattro ore alla settimana. È lo stesso Berlusconi che mentre era a capo del governo italiano, da un palco elettorale, abbracciato a Dell’Utri, ha dichiarato “eroe italiano” un assassino di mafia condannato a vari ergastoli. Può farlo perché va e viene, come statista (definizione sua, ma evidentemente accolta nelle istituzioni italiane), tra i vertici del potere.
I CITTADINI, ormai si sono arresi e – quelli non caduti in depressione o nella chiusura della fabbrica – pensano: “Si vede che adesso in Italia si fa così”. Sperano che Renzi ce la faccia (non si sa esattamente che cosa vuol dire, ma funziona come ultima speranza), sperano che i poliziotti non picchino troppo forte i loro figli, in caso di corteo esasperato. E si sono persuasi, ormai, che Silvio Berlusconi sia il padre di questo governo e anche il padre delle riforme che il governo ha fatto (per ora solo mezza legge elettorale e mezza chiusura del Senato) e di quelle che certamente si faranno, tanto ci sono anni di tempo. Il New York Times però ha insistito per dare una mano a questa Italia stremata, tenuta sveglia da un animatore di giochi. Attenzione, alla vostra politica manca una parola. Infatti, qualunque sia la crisi che viviamo, manca la parola corruzione. È come se, di fronte alla roccia impenetrabile di Ali Babà, nessuno avesse potuto dire “abracadabra”, la parola magica che smuove l’ostacolo e apre magicamente il passaggio verso il tesoro rubato.
Le fiabe, si sa, sono un modo per narrare la realtà. In questo caso si tratta di una fiaba di potere, tanto che il suo titolo è “Ali Babà e i Quaranta Ladroni”. Si trattava di batterli in astuzia e bravura. L’idea, invece è stata di fare un governo insieme. E una disorientata folla mista continua a sostare davanti alla caverna cercando non come entrare ma come tenere a bada coloro che avrebbero potuto pronunciare la parola magica, per iniziare il grande inventario.
Si poteva avviare il discorso sui tagli alla Sanità senza confrontarsi con il problema dell’immenso assalto e del continuo, accurato depredare della Sanità da fuori e da dentro, con un attivismo senza tregua? Si poteva affrontare il dibattito sul lavoro e sul “cuneo fiscale” senza tentare di calcolare la vasta quantità di tasse occulte che la malavita impone a quasi ogni attività produttiva in Italia e, adesso apprendiamo, anche in Europa ma a beneficio dell’Italia ricca e clandestina? Si poteva esaltare e sostenere un programma di grandi opere (quelle che “danno lavoro” e “muovono l’economia”) senza domandarsi (ci sono fonti serie, accurate, informatissime a partire da Roberto Saviano) come affrontare l’infezione “tangenti politiche” che gravano fin dalla radice su ogni progetto, e durano fino alla consegna, che spesso (per la grande opera) non arriva mai, ma è pronta cassa per gli strani gruppi misti di politica e imprese che credono di usare la mafia e ne sono sempre usate? Tutto ciò, come racconta il lungo articolo del New York Times, e come molto prima aveva avvertito Saviano, è zona infetta, dunque coltura adatta alla mafia, adatta a sostenerla e a moltiplicarla. Per questo la mafia cresce e cresce la malavita. Cresce dentro i luoghi e le istituzioni che dovrebbero combatterla.
FINO A BERLUSCONI, Dell’Utri, Previti e classe dirigente della “rivoluzione liberale” con cui Berlusconi ha ingannato l’Italia e chi gli ha creduto (un po’ anche, i governi amici) qualcuno poteva dire che non era così chiaro il rapporto fra corruzione, diffusa e mafia, in Italia. Adesso lo è, al punto di dubitare sulla sequenza causa-effetto. Tre poteri ormai si riversano (e allo stesso tempo si nutrono) in un mare di corruzione: la politica, il potere privato e la mafia. La mafia conduce sempre, e questo è il grido d’allarme del giornale americano. Sullo schermo del nuovo, auto-elogiatissimo governo scorrono in continuazione cifre di misure in cui si toglie ai poveri per dare ai poveri o si fanno acrobazie per racimolare pochi soldi per colmare (invano) una immensa diseguaglianza.
Su un altro schermo, che la maggioranza di noi non vede, scorrono le immense cifre della corruzione che non è conosciuta, non è intercettata, non è nei programmi di nessuno. Un grande vuoto fa da contenitore al male che impedisce ogni ritorno dell’Italia alla normalità e la rende pericolosa e infetta. Per ora, avrete notato, non si levano voci. Anzi, di solito cambiamo discorso.

Repubblica 20.4.14
Ior, indagato alto prelato di Siena: riciclaggio
di Maria Elena Vincenzi


ROMA . Una nuova inchiesta sullo Ior e un nuovo prelato indagato. Si tratta di monsignor Gaetano Bonicelli, ex arcivescovo di Siena. Insieme all’alto prelato, oggi 89enne e in pensione dal 2001, sono indagate altre due persone, due laici.
A tutti e tre la procura di Roma contesta il reato di riciclaggio. Nelle scorse settimane, gli indagati hanno ricevuto l’avviso di proroga delle indagini: i magistrati capitolini sono al lavoro su di loro già da diversi mesi. Massimo riserbo a piazzale Clodio sulle vicende che avrebbero spinto il procuratore aggiunto Nello Rossi e il pubblici ministeri Stefano Fava e Stefano Pesci a iscriverli nel registro degli indagati: le attività dei finanzieri del nucleo speciale di polizia valutaria sono ancora in corso.
Una nuova inchiesta sfiora dunque la banca vaticana e coinvolge alti prelati. Prima di Bonicelli c’erano stati i casi di don Evaldo Biasini, noto alle cronache come “don bancomat” e finito nell’inchiesta sul G8, e monsignor Nunzio Scarano. Entrambi i prelati usavano i loro conti Ior per ripulire denaro proveniente da reati. Monsignor Scarano, ex contabile dell’Apsa (Amministrazione patrimonio sede apostolica), è finito in carcere nel giugno del 2013 (poi di nuovo qualche mese fa) con l’accusa di aver aiutato gli armatori D’Amico a far rientrare in Italia dalla Svizzera 20 milioni di euro.
Probabile che anche in questo nuovo caso il meccanismo sia il medesimo e che anche Bonicelli utilizzasse il suo conto Ior per ripulire denaro proveniente da attività illecite. Le attività del Torrione Niccolò V, sede dell’istituto di credito della Santa Sede, d’altronde, sono ormai da anni sotto la lente dei magistrati della procura di Roma. Da quando, era il 2009, furono sequestrati 23 milioni di euro all’istituto di credito e vennero indagati, per violazione della normativa antiriciclaggio, l’allora presidente Ettore Gotti Tedeschi (la cui posizione è stata poi archiviata) e l’allora direttore generale Paolo Cipriani che, insieme la suo vice, Massimo Tulli, è stato invece citato a giudizio lo scorso marzo.
Sono stati proprio i pm romani a spiegare, nel decreto di citazione diretta, come lo Ior per sua stessa natura si presti ad operazioni di questo tipo.

Corriere 20.4.14
Inchiesta aeroporti: i contatti in Vaticano
di F. Sar.


ROMA — Appalti e nomine pilotati per chiudere affari da milioni di euro con i lavori pubblici. C’è un nuovo capitolo nell’inchiesta sulle gare gestite dall’ex direttore dell’Enac (Ente nazionale per l’aviazione civile) del Lazio Sergio Legnante, arrestato qualche settimana fa su richiesta del pm Mario Palazzi. E rivela i tentativi per designare a Provveditore di Lazio, Sardegna e Abruzzo Federico Rapisarda, fino ad allora titolare dello stesso incarico in Emilia-Romagna. Ma soprattutto svela la «rete» di contatti che porta fino in Vaticano, al vertice di Propaganda Fide e nella segreteria dell’attuale ministro delle Infrastrutture Maurizio Lupi.
È l’informativa compilata dai poliziotti della squadra mobile guidata da Renato Cortese a ricostruire cosa accade nell’estate 2013, quando bisogna rinnovare i responsabili della gestione delle commesse. Decine di intercettazioni telefoniche segnano le tappe della trattativa in base alla quale l’imprenditore Massimiliano Mantovano — anche lui arrestato perché accusato di essere «promotore e capo» dell’associazione per delinquere finalizzata alla corruzione e altri reati — «su richiesta di Rapisarda sta facendo pressioni a monsignor Viale affinché i vertici della Chiesa intercedano sul ministro delle Infrastrutture Lupi convincendolo a nominare Rapisarda provveditore alle opere di Lazio, Sardegna e Abruzzo».
Personaggio chiave si rivela monsignor Ermes Viale, che viene contattato proprio per «orientare» la nomina. Il prelato era già comparso, così come Rapisarda, nelle indagini sugli appalti gestiti dalla «cricca» di Angelo Balducci. È lui, secondo le verifiche degli investigatori, il personaggio chiave per organizzare la cena che dovrebbe sancire le nuove nomine. Nella relazione la polizia sottolinea l’intenzione di Rapisarda «di consegnare un appunto a Mantovano e Viale che deve essere recapitato al ministro nel corso di una cena alla quale parteciperanno alte cariche della Chiesa per spiegare le sue ragioni legate alla nomina». Alla cena si decide di far partecipare «il numero uno di Cl, monsignor Viale, l’economo don Remigio e una persona definita Scola il milanese che potrebbe essere l’allora arcivescovo».
La nomina di Rapisarda saltò, ma le indagini per ricostruire ogni passaggio e le procedure di assegnazione degli appalti sono in corso visto che Mantovano si è aggiudicato lavori per oltre 6 milioni in Romagna costruendo o ristrutturando caserme per i carabinieri e la Guardia di Finanza.

l’Unità 20.4.14
Europee, sul filo il duello tra Ppe e Pse
Nei sondaggi sorpasso dei Popolari
di Paolo Soldini


Allarme in casa socialista. Secondo i sondaggi che circolano in queste ore a Bruxelles (confidenziali, ma giudicati proprio per questo abbastanza attendibili) i partiti che fanno capo al Ppe avrebbero superato quelli che formano al parlamento europeo il gruppo dei socialisti&democratici: se si votasse oggi, i primi otterrebbero il 29,6% dei voti contro il 27,8% dei secondi. Il che significa, in termini di seggi, 222 deputati contro 209. La differenza è minima, ma il trend non consola. Solo un mese fa, infatti, erano i socialisti e democratici ad essere in vantaggio, sia pur di poco. Poi le elezioni francesi e le tensioni legate alla crisi dell’Ucraina hanno rovesciato i rapporti di forza. E l’inversione non sarebbe determinata tanto da un rafforzamento del Ppe, il quale aumenterebbe significativamente solo con l’Ump in Francia e con i popolari di Piattaforma civica del premier Donald Tusk in Polonia maperderebbe significativamente consensi rispetto alle elezioni del 2009 (quando ebbe 270 seggi). Determinante sarebbe un indebolimento dei socialisti, i quali continuerebbero a subire in Francia l’emorragia già sofferta alle recenti amministrative e registrerebbero perdite significative in Austria, Bulgaria, Grecia, Polonia e Ungheria. In controtendenza i Democratici italiani che, accreditati in patria di un bacino di voti sopra il 30%, avrebbero addirittura la chance di scavalcare, con i 29 deputati pronosticati dal sondaggio, i tedeschi della Spd, da sempre il partito più forte nel campo della sinistra europea, che ne eleggerebbero 26. Una bella soddisfazione, per gli italiani, ma anche l’assunzione di una responsabilità impegnativa, come componente nazionale più forte della sinistra europea. In calo, grave, i liberal-democratici del gruppo ALDE, che scenderebbero da 84 a 60 deputati, e, leggero, i Verdi, i quali perderebbero cinque dei 58 deputati eletti nel 2009. In netto aumento, invece, il gruppo della sinistra socialista GUE, che aumenterebbe da 35 a 53 seggi grazie, soprattutto, all’iniziativa transnazionale promossa dal leader greco Alexis Tsipras. Nel campo dei conservatori e degli euroscettici dichiarati, le previsioni sono complicate dalla scesa in campo del “gruppone” populista anti-euro (e anti-Unione) di Marine Le Pen e Geert Wilders, che rimescolerà tutte le carte nella destra dell’Europarlamento. Non esistono stime precise sul potenziale elettorale di questa costellazione, che sta raccogliendo le destre dure e pure un po’ dappertutto. Ma appare probabile che, con una quarantina o forse più di deputati di almeno 7 paesi diversi (per l’Italia la Lega nord), i lepenisti saranno in grado di costituire formalmente un gruppo parlamentare. Rimane la massima incertezza su che cosa faranno i Cinquestelle italiani, che potrebbero eleggere una ventina di deputati. Beppe Grillo dice: «Quando saremo là decideremo », ma la configurazione dei gruppi esistenti rischia di mettere il suo movimento in gravi difficoltà dopo il 25 maggio. Poiché al parlamento europeo non esiste l’istituto del gruppo misto, i grillini rischiano di ritrovarsi nei non-iscritti dove, insieme con esponenti di partitini della destra eversiva o di eletti in liste bizzarre di varia natura, conterebbero praticamente zero. Fin qui le previsioni basate sui sondaggi. Dalle quali, però, rischia di restare fuori il senso politico fondamentale dei processi che si apriranno dopo il voto. Stavolta, come si sa, gli elettori europei metteranno nelle urne anche il nome dell’uomo che i partiti dovranno indicare per la presidenza della Commissione Ue. La partita si gioca tra il popolare Jean-Claude Juncker e il socialdemocratico Martin Schulz. I sondaggi, come s’è visto, parrebbero favorire il primo, ma il secondo ha più margini in fatto di alleanze e di eventuali confluenze di voti: anche quelli, consistenti, del movimento di Tsipras. Sia Juncker o sia Schulz, comunque, la designazione parlamentare del presidente dovrebbe avvenire con un accordo tra popolari e socialisti & democratici che non potrà non condizionare la sua impostazione politica anche nel caso che a prevalere sia il popolare. Certo, l’incompiutezza democratica delle istituzioni europee lascerà in ogni caso ai governi nazionali la scelta dei commissari. Ma poiché rispetto al 2009 i rapporti di forza tra governi di centrodestra e di centrosinistra sono mutati (allora quasi tutti di centrodestra, oggi più o meno in parità), è prevedibile che la prossima Commissione abbia un orientamento più a sinistra di quella attuale. Lo avrebbe anche se su Schulz dovesse prevalere Juncker. Tutto lascia prevedere, perciò, che le politiche economiche ispirate alla sola disciplina di bilancio verranno riviste.Èun elemento di cui bisogna tenere conto già oggi, quando si affronta il problema di come e quanto sia pensabile e perseguibile una profonda correzione della politica economica europea e della strategia contro la crisi del debito. Quando si parla del difficile rapporto tra il governo italiano e «l’Europa », e della necessità di conquistare margini di manovra per una politica di rilancio della crescita, non si deve dimenticare che tra qualche mese «l’Europa » potrebbe essere ben diversa.

il Sole 20.4.14
Il fronte antieuropeo. I risultati di una ricerca di Bolaffi e Terranova
L'arcipelago populista miete consensi ma non ha casa comune a Strasburgo
di Gerardo Pelosi


ROMA Un arcipelago variegato e difficile da decifrare che sta mettendo a dura prova l'efficacia del tradizionale messaggio europeista. Alla vigilia del voto europeo del 25 maggio sondaggisti e ricercatori stanno tentando di capire quali saranno gli effetti sul nuovo Europarlamento dell'alto consenso raccolto a livello nazionale dai movimenti antieuropei. Si va dai neopopulisti del Front national di Marine Le Pen o del Partito della libertà olandese di Geert Wilders agli euroscettici inglesi di Nigel Farage alle destre ultranazionaliste di Alba Dorata greca, Ataka bulgara o Jobbik ungherese. Movimenti dal Dna politico diverso e spesso in lotta tra di loro. Il Front national è antieuropeo ma rifiuta Grillo e la destra reazionaria dell'Est Europa, lotta contro l'Islam e chiede meno immigrazione ma difende i diritti di ebrei e omosessuali in nome della tradizione liberale europea.
Almeno su un punto quasi tutti sembrano d'accordo. Alla fine le complesse regole dell'Europarlamento (almeno 25 deputati eletti in 7 Paesi) disperderanno l'eventuale potenza di fuoco con il risultato che i movimenti antieuropei non riusciranno ad avere una casa comune. Dovranno necessariamente disperdersi tra Efd (Europa della libertà e democrazia) che vede Front national insieme al Pvv di Wilders e Lega Nord, i conservatori di Ecr (conservatori inglesi di Cameron e di altri 11 Paesi) e i non iscritti tra cui andranno a confluire gli euroscettici dell'Upik e i grillini. Un universo che sta facendo tremare mezza Europa ma che alle porte di Strasburgo sembra destinato a sciogliersi come neve al sole. È questa la tesi di fondo della ricerca di Guido Bolaffi e Giuseppe Terranova su "populismi e neopopulismi in Europa" pubblicato come Ebook dal gruppo Firstonline-goWare. Secondo la ricerca i neopopulisti, pur appertenendo alla stessa famiglia dei populisti storici hanno un codice genetico diverso. Hanno modificato parti consistenti del vecchio armamentario ideologico come la Le Pen che dal razzismo tout court mostra un volto accattivante pro gay femminista e amico di Israele. Secondo la ricerca si potrebbe creare uno scenario post-elettorale non dissimile da quello registrato in Germania e Italia alle ultime elezioni con la scelta obbligata di una Grosse Koalition. «Ma c'è anche il rischio - osserva Guido Bolaffi - che questi movimenti possano togliere voti al Ppe e favorire il Pse che, per la prima volta, potrebbe avere la maggioranza».
C'è da dire che negli ultimi sondaggi di due giorni fa (da prendere con beneficio di inventario perché gli incerti rappresentano sempre il 40%) il Ppe dovrebbe avere almeno dieci seggi in più a Strasburgo con un aumento in Francia e Polonia mentre diminuirebbero i socialisti in Austria, Bulgaria, Ungheria, Francia e Grecia. Insieme socialisti, popolari e liberali dovrebbero ottenere circa 510 seggi ma tra di loro c'è già un accordo che prevede che il Consiglio europeo dovrà rispettare l'esito elettorale per la scelta del presidente della Commissione. Nel caso di vittoria di popolari il candidato al posto di Barroso è il lussemburghese Jan Claude Juncker mentre per i socialisti il tedesco Martin Schulz. In caso di un risultato quasi alla pari occorrerà trovare un candidato di compromesso che già da alcuni è stato individuato nell'ex premier Enrico Letta.
Una compagine da non temere eccessivamente quella dei neopopulisti anche per Virgilio Dastoli presidente del Movimento europeo e assistente storico di Altiero Spinelli. Secondo Dastoli gli antieuropei non hanno un progetto comune e in alcuni casi convivono forze che vogliono un rafforzamento dello Stato nazionale come il Front national e Lega Nord separatista. In questo panorama anche i 15 o 20 eurodeputati grillini risulteranno inifluenti. «Il movimento cinque stelle - sottolinea Sandro Gozi, sottosegretario per le politiche europee - non ha tessuto alleanze con nessun gruppo e sarà relegato tra i non iscritti, non avrà presidenze di commissioni e non potrà incidere in alcun modo sui lavori dell'Europarlamento, mentre la delegazione del Pd potrebbe essere la più numerosa e aspirare alla presidenza del gruppo o anche alla presidenza del Parlamento».

Il Sole 20.4.14
Il fronte del «no»
L'Ukip di Farage scalda i motori tra i laburisti delusi di Ramsey
di Leonardo Maisano


RAMSEY. Dal nostro inviato
Le elezioni le hanno vinte su una piattaforma fisiologica: la riapertura delle pubbliche latrine. Eccole lì, affacciate su Great Wythe, la Broadway di Ramsey, due belle porte, nuove fiammanti, con l'indicazione di Signore e Signori. Sono il vanto di Peter Reeve, attivissimo rappresentante dell'United Kingdom Independence Party che ammette: «Le pulisco personalmente ogni sera. È un servizio alla comunità che svolgiamo a turno». Manca solo Guido Gozzano al crepuscolare approccio dell'affabile signor Reeve, trentenne, ex venditore di scavatrici, fulminato sulla via della politica da un video infilato nella porta da un militante del partito di Nigel Farage. «Lo guardai - riconosce - e fu amore a prima vista. La mia vita da quel giorno cambiò e divenne missione. Ero d'accordo con l'intero programma dell'Ukip».
D'accordo, prima di tutto, sull'addio all'Europa matrigna, cieca e ingenerosa verso la grande Inghilterra. È la cifra ideologica più evidente dell'Ukip, la forza che sta terremotando la vita politica nel Regno di Elisabetta. Marcia verso sicuro successo alle elezioni europee: tutti i sondaggi la indicano come seconda, alcuni immaginano che possa schiantare anche i Laburisti, per ora favoriti. Ma è bastata la prospettiva di battere i conservatori del premier David Cameron per spingere Londra sul ciglio del precipizio. Si fa risalire proprio al crescente consenso per lo Ukip, e quindi per la retorica anti-europea, la decisione del premier di promuovere un referendum sull'adesione alla Ue. «Con quella mossa - confessa un ex ministro nei governi Thatcher - si è lasciato uscire il genio dalla bottiglia. Per decenni abbiamo evitato di farlo». Il cinismo della politica è stato interpretato in modo estremo da Cameron, pronto a spingere il Paese verso una crisi devastante (perchè questo accadrebbe in caso di uscita dalla Ue) pur di riguadagnare consenso per restare al potere. Pur di mettere fine all'emorragia verso lo Ukip. Ma cosa ha fatto, oltre a parlare, il partito dell'ex broker Nigel Farage? Poco, al di là dei vespasiani di Ramsey. È il sistema, obiettano i supporter, a negare l'azione. L'Ukip, infatti, non ha nemmeno un deputato a Westminster, ma solo europarlamentari a far da quinta colonna a Bruxelles e manipoli di consiglieri comunali e di contea. Governa in una sola municipalità: Ramsey, appunto.
«Non abbiamo vinto solo con i gabinetti, ma anche con il progetto del nostro mercato e la banca del cibo. Tutto gestito da volontari. Così si spende meno e si possono ridurre al minimo le tasse comunali». La volontaria Annette segna l'incasso per la vendita di un orribile gattino di pelouche. Darà i soldi al commerciante che le ha lasciato il compito di raccogliere il danaro. Tony e John invece vigilano su gioielli e brocantage in mostra sui loro banconi. Pareti scrostate, vetri impolverati, addobbi démodé fanno di un mercato per adulti senz'altra occupazione un'imitazione delle bancarelle dei bambini quando vogliono disfarsi di giocattoli fuorimoda. Tristissimo. Peter Reeve si trattiene dal replicare che c'è solo snobismo in questa considerazione, ma ne è convinto. «Altro che mentalità "little England" da ottusi isolani. Little Europe - sbotta - bisognerebbe dire, impegnata a farsi fortezza verso il resto del mondo. Il mercato, le toilette, la banca del cibo dove la gente porta i prodotti alimentari che non consuma sono la dimostrazione che questa è la Big Society, mica quella pubblicizzata da Cameron. Coinvolgimento dei cittadini nella comunità, dal pulire i gabinetti a gestire spazi comuni per cui si paga una fee minima e si avvia un'attività commerciale senza costi aggiuntivi, senza licenze. La parola magica è semplicità». John fa sì con la testa. «Voto Ukip, sono bravi», dice accarezzando un piccolo vaso di pessimo gusto, questo pezzo d'uomo che nulla ha dell'elettore conservatore radicale. Le stigmate sui calli delle mani sono da supporter laburista deluso. È nella lower middle class, infatti, che l'Ukip raccoglie consensi, sfondando anche nel nord d'Inghilterra dopo il pieno nel feudo Tory del sud-est. «Lavoravo nell'ingrosso di vino, poi mi hanno licenziato - spiega - e questa idea del mercatino comunale mi è parsa ideale. Mi consente di arrotondare». Quanto non lo dice. Tace anche Tony che confessa «no, finora non ho votato Ukip».
Uno dei pochi visto che questa cittadina, affondata nelle opulenti colline del Cambridgeshire, non solo è l'unica a essere governata da una giunta "monocolore" dell'Independence Party, ma detiene anche il record di consensi: il 67% dei voti di Ramsey alle elezioni del 2013 è finito sul simbolo giallo-viola. Reeve sorride: «La progressione in tutte le elezioni locali dal 2010 in poi è stata costante. Siamo passati dal 34 al 67%. Perciò credo che alle prossime elezioni per Westminster potrò vincere e guadagnarmi il primo seggio ai Comuni, togliendo ai Tory la poltrona che fu dell'ex premier John Major».
Spera e intanto sfoglia la margherita in vista delle Europee, convinto che i sondaggi non stimino correttamente il potenziale dell'Ukip. «Si parla del 20-25% su base nazionale, ma andremo meglio. Puntiamo al 30% per diventare il secondo partito nazionale». Un trionfo che secondo lui svelerà la trappola dei conservatori: «Il referendum non lo faranno mai». Scenario improbabile ma utile per sollecitarlo a parlare d'Europa. Esercizio facile facile. Il fuoco di sbarramento si leva subito attaccando la burocrazia, l'appiattimento culturale, le muraglie che incatenano il liberismo britannico entro norme démodé. Farage dice lo stesso, invocando la via svizzera alla "democrazia diretta" anche per il Regno, rigettando le accuse di autarchia, liquidando ogni sospetto di cullare il sogno di una grandeur che non c'è più. Grande, recita l'Ukip-pensiero perché fatta di anche «cose semplici ma necessarie», per dirla alla mister Reeve. Come i gabinetti luccicanti del Great Wythe di Ramsey, palestra di un governo che il Regno Unito merita davvero di non avere mai.

il Fatto 20.4.14
Europee
La Cassazione riammette la liste dei Verdi
Ora vogliono lo spazio tv pai al peso nell’Eroparlamento
di Tommaso Rodano


Alle urne, a fine maggio, ci saranno anche i Verdi. La Cassazione ha riammesso la lista Green Italia - Verdi europei alle elezioni per il parlamento di Bruxelles. Dopo le polemiche dei giorni passati nei confronti di Angelino Alfano e dei “burocrati del ministero dell’Interno” che li avevano esclusi dalla competizione, ora gli ecologisti possono esultare. “È una bella giornata – ha esordito il presidente nazionale, Angelo Bonelli, in conferenza stampa – . Con una decisione storica, la Suprema Corte ha stabilito un principio: il riconoscimento dei partiti politici europei”. La questione riguardava la raccolta delle 150 mila firme necessarie per presentare una lista alle elezioni della Ue. La legge è chiara: ne sono esenti quei partiti politici che hanno già una rappresentanza nel parlamento di Bruxelles. L’interpretazione è meno cristallina: in Europa il gruppo Verde è il quarto più numeroso. Bonelli e compagni sono i loro unici rappresentanti in Italia, anche se nel 2009 nessuno di loro è riuscito a ottenere un seggio. Il Viminale aveva optato per l’esclusione, comunicata (nel silenzio del ministro Alfano) tramite una scarna circolare interna. Ieri, la Cassazione ha ribaltato la decisione.
IN SOSTANZA, come spiega Bonelli, “è stato accolto il principio secondo cui i partiti hanno una dimensione non solo nazionale, ma anche pienamente europea. Quindi ai Verdi italiani è stato riconosciuto il diritto a candidarsi, perché fanno parte di un unico soggetto politico europeo ecologista. Il contrario dell’interpretazione di Alfano, profondamente provinciale”. Secondo lo stesso principio, ora i Verdi chiedono spazio anche in tv. “La decisione della Cassazione demolisce i criteri della commissione di vigilanza Rai – sostiene Bonelli – che assegna gli spazi televisivi sulla base della rappresentanza parlamentare nazionale. Si tratta di elezioni europee e noi a Bruxelles siamo la quarta forza: la prossima iniziativa legale che intraprenderemo sarà nei confronti della Rai e di questi criteri illegali”. Per una lista verde che torna in corsa, ce n’è una “rossa” che invece rimane fuori dai giochi. Il partito nazionale comunista del redivivo Marco Rizzo, che è stato bocciato anche dalla Cassazione e non parteciperà alle elezioni del 25 maggio, lamenta una disparità “inaccettabile”: “I Verdi che sono a favore della Ue sono stati ammessi, i comunisti, contro la Ue, sono stati esclusi. Vergogna! Noi facciamo parte del raggruppamento politico dei Partiti Comunisti e Operai d’Europa che hanno parlamentari europei eletti, al pari dei Verdi. Qual è il criterio della nostra esclusione?”.

La Stampa 20.4.14
L’ira dei comunisti: “Perché noi no? Vergogna!”


Chi invece continua a protestare sono i comunisti che restano esclusi dal voto europeo. Marco Rizzo grida «vergogna!» per l’esclusione e riconduce la scelta all’euroscetticismo manifestato dai comunisti. 
«I Verdi (a favore della Ue) ammessi, i comunisti (contro la Ue) esclusi. Vergogna!». «Questo sistema - afferma Rizzo - non perde occasione per dimostrare la sua parzialità. Il Partito Comunista ha presentato correttamente le liste per le elezioni europee. Queste sono state ricusate, al pari del partito dei Verdi, dagli uffici circoscrizionali delle Corti di Appello in quanto la normativa italiana non prevedeva il collegamento con gruppi politici europei (cosa prevista invece dalla normativa europea). Il Partito Comunista fa parte del raggruppamento politico dei Partiti Comunisti e Operai d’Europa che hanno parlamentari europei eletti (anche qui al pari dei Verdi). Entrambe le forze politiche - prosegue - hanno presentato ricorso all’ufficio elettorale nazionale della Corte di Cassazione che ha risposto con un risultato che evidenzia una palese disparità: i Comunisti sono stati esclusi mentre i Verdi sono stati ammessi. Qual è stato il criterio, a parità di condizioni? Evidentemente ha fatto premio la posizione politica. Il Partito Comunista in Italia ha una posizione netta contro la UE, mentre i Verdi sono molto più disponibili verso la Comunità Europea. Faremo un ulteriore ricorso ai TAR, ma possiamo già affermare con nettezza che la nostra lotta contro l’imperialismo Ue e Nato non si ferma certo con un cavillo giuridico e istituzionale. Da questa palese ingiustizia - conclude Rizzo - trarremo maggiore forza nella nostra azione».

Repubblica 20.4.14
Cina contro Cina
I più poveri, i più ricchi viaggio nella Cina capovolta
di Giampaolo Visetti


I più ricchi.
Qui Huaxi. Villa con piscina, altoforno e golf. La dolce vita dell’operaio Wang Ling

IL SIGNOR WANG LING raffredda tubi. Operaio nell’acciaieria del villaggio, come suo padre. Al mattino, prima di raggiungere l’altoforno, fa un tuffo nella piscina che «mi invade il salotto fino al tavolo». Poi esce dalla sua villa, ci tiene a dire che misura quattrocento metri quadri, accende la Cadillac nera e va a fare colazione al Golf Club.
Lavora dieci ore filate, in un assordante inferno di fumi tossici. Prima di cena monta un’ora a cavallo con i compagni di reparto, nel silenzio del giardino, lungo il fiume. «Seguiamo la Borsa - dice - e scegliamo la sauna per la sera».
Morto Mao, Deng Xiaoping segnalò ai cinesi che anche «arricchirsi è glorioso». A Huaxi, anticipandolo, lo avevano già preso sul serio. All’ingresso del paese, un cartello avvisa: «Benvenuti nel primo posto sotto il cielo». Un segno di modestia per chi, nel 1950, decise di andare sopra il paradiso. I contadini di qui, signori del fertilissimo delta dello Yangtze, nel Jiangsu, erano 576. Raccolsero segretamente i risparmi di tutti e aprirono una fabbrica di concime. Missione: fare soldi. Ha funzionato.
HUAXI oggi è il villaggio più ricco della Cina e, credendo ai dati ufficiali, del mondo. Oltre che per nascita, qui si è ricchi per legge, ossia per ordine del partito. «Siamo duemila - dice Pey Huayu, cucitrice nel maglificio numero 82 - quattrocento famiglie. Ma ci sono uomini d’affari che offrono follie per acquistare il diritto di residenza». Comprensibile. Chi viene al mondo in quella che assicura di essere “la terra promessa del socialismo cinese” riceve una dote leggendaria: la famosa villa, una berlina, 250mila euro e olio da cucina per tutto l’anno. Sanità e istruzione sono gratis. A garantire questo tesoro è la Jiangsu Huaxi Jituan Gonsi, holding quotata in Borsa che controlla cinquantotto colossi industriali. «Lo scorso anno - dice il capo villaggio Wu Xieen - abbiamo fatturato 6,7 miliardi di euro, in calo per la crisi europea. Così abbiamo deciso di avviare nuovi affari, come gioielli e servizi». A possedere la chiave della cassaforte, tramite la banca locale, sono i residenti-lavoratori del paese. «L’unico villaggio del pianeta - dice l’avvocato Yuan Yulai - quotato nel listino, a Shanghai». Wu Xieen, ometto unto ma con una raffinata giacca di taglio britannico «che produciamo qui», è il figlio di Wu Renbao, dio di Huaxi. Fu lui a concepire l’utopia del borgo rurale capace di trasformarsi in potenza industriale grazie «alla collettivizzazione e alla compartecipazione». Il maoismo trapiantato nel capitalismo, gemma del folle consumismo asiatico. Programma di tre parole: «Ricchezza, salute, felicità». Il cielo ha concesso al signor Wu di morire vecchio, nel marzo di un anlari no fa. È stato sepolto come un imperatore. «Non uno è mancato al funerale - dice la fioraia Tan Minquan - lo abbiamo accompagnato al mausoleo con venti Rolls Royce e un elicottero. Al banchetto si è servita zuppa con pinne di squalo». Riconoscenza disinteressata. Ai suoi compaesani non ha lasciato solo la dote individuale e un reddito annuo di centomila euro, cifra che il cinese medio non guadagna in molte vite. Huaxi vanta anche una compagnia aerea con venti jet e quattro elicotteri, una flotta di velieri e un centro sportivo di livello olimpico. Le strade sono coperte di glicini per proteggere dai monsoni chi fa shopping. Per il 50esimo anniversario del miracolo, è stato inaugurato il raccapricciante International Hotel Longxi, 74 piani per 328 metri d’altezza. «È costato 490 milioni di dol- - recita Zhou Li, capo dell’agenzia turistica del villaggio - ed è il quindicesimo grattacielo più alto della Terra». Tre colonne di cristallo finiscono in una sfera d’oro. Al sessantesimo piano, un’altra tonnellata di oro massiccio, sotto forma di toro. Oltre l’albergo, vicino alla spianata delle ville hollywoodiane degli operai, tutte uguali, una in fila all’altra, sorge il “Parco del mondo”. Gli abitanti possono fare due passi tra le copie dei monumenti- simbolo del pianeta: Grande Muraglia e Città Proibita, non serve dirlo, ma anche Arco di Trionfo e Torre Eiffel, un Colosseo, un’Opera House di Sydney, castello di Sissi e Big Ben. La Statua della libertà, per risparmiare spazio, svetta direttamente dal tetto della Casa Bianca. «C’è poco tempo per viaggiare - dice l’amministratore del parco, Zhao Libao - ma la gente vuole vedere le cose. Ospitiamo tre milioni di turisti a stagione». Ciò che nessuno ufficialmente dice è il prezzo di nascere nel villaggio-laboratorio che il partito comunista ha condannato ad essere la prova fisica che il socialismo non è ostile alla ricchezza. Soldi e vita, a Hauxi, sono dati solo in concessione dalla holding che tutela gli interessi di tutti. I residenti lavorano sette giorni su sette e devono rispettare tre leggi: non andarsene, non licenziarsi, non sposare un forestiero. Chi viola questi comandamenti perde i poteri magici e diventa all’istante un povero cinese normale, come i ventimila migranti e i trentamila operai dei villaggi vicini, che per 350 euro al mese si consumano in fornaci e catene di montaggio del regno rosso. «La proprietà - dice il funzionario Zhu Zhixing - toglierebbe motivazioni e disponibilità al sacrificio. La crisi del capitalismo occidentale lo dimostra: appena diventa certo ed ereditario, il benessere finisce». La sfida del paese è avere tutto senza possedere niente. Come l’hotel a cinque stelle affittato a Pudong, il quartiere dello shopping globale più alla moda di oggi. Jet collettivi catapultano gli abitanti di Huaxi a Shanghai prima di cena. Fatti gli acquisti, dormono qualche ora nella sontuosa dependance metropolitana del villaggio e al mattino rientrano puntuali per il turno in fabbrica. «Le riforme economiche - esulta la propaganda - consentono di diventare milionari restando fedeli al partito e agli ideali socialisti». Duemila individui su 1,4 miliardi di cinesi. «Questo in effetti - dice Wu Xieen - è un dettaglio su cui c’è spazio per l’approfondimento».

I più poveri.
Qui Luotuowan. Il nuovo medioevo di Tang “Eravamo contadini, ora siamo niente”

“SE I CONTADINI sono contenti, l’impero è stabile”. Adempiendo a tale obbligo, da secoli dinastie e leader comunisti si sono assicurati il dominio sulla Cina. Improvvisamente non è più così e milioni di cinesi piombano nella disperazione. Sono passati dalla fame alla sussistenza, dalla schiavitù alla collettivizzazione, da Confucio a Mao. Mai però qualcuno li aveva strappati dai loro villaggi rurali per concentrarli nelle megalopoli del consumo capitalista. Hanno resistito a guerre e vinto rivoluzioni: vengono sconfitti dalla promessa del benessere, privati dei valori che hanno ispirato la loro vita. Nelle campagne abbandonate la gente fiuta l’incertezza, non si fida, non sa cosa fare. Chi non possiede la crudeltà, o l’età, per salire sullo scintillante missile del “sogno cinese” di Xi Jinping, precipita in una miseria ignota: al granaio vuoto si aggiunge il deserto culturale e spirituale.
«Qui - dice l’ex contadino Tang Rongbin - tenevo il maiale. Là avevo la risaia. Quassù c’era il pozzo scavato dagli avi. Questa terra è stata zappata milioni di volte, secondo regole precise, da ogni generazione. Siamo stati una famiglia felice».
SUGLI SPAZI che indica, splende un cartellone elettronico con l’immagine di un grattacielo azzurro su un orizzonte rosso. Dice: “Godetevi la bella vita della città”. È alimentato da un generatore, il petrolio è fornito dal partito e produce l’unica luce elettrica della zona. Attorno, cumuli di macerie e un pugno di baracche di fango sbiancato. Sui tetti oscillano tegole rotte. Luotuowan, nella contea di Fuping, al confine tra Hebei e Shanxi, è presentato come il villaggio più povero della Cina. Reddito medio, sei euro al mese. Non ci sono mezzi meccanici, si fa tutto a braccia. Venti famiglie, come in un evo originario, sono affidate alle stagioni: carote, patate, polli, granoturco, maiali, uova, riso, miele. Poco di tutto. I sette bambini rimasti in paese vanno a scuola a piedi, o su un carretto: otto chilometri, scavalcando i cumuli di mattoni che segnano la posizione dove sorgevano le loro case. La terra è stata requisita dai funzionari di Pechino, decisi a «cambiare finalmente la mentalità della gente». Al posto di una stalla comune, stanno costruendo una fabbrica di asciugamani. Paga il governo, venti posti di lavoro, ma gli abitanti resistono. «Si sono ripresi i campi - dice Li Xueqing, coltivatore di cavoli - ma non dicono a chi andranno i soldi degli asciugamani». La svolta, in un giorno passato alla storia. Il 30 dicembre di due anni fa, al villaggio è comparso il segretario generale Xi Jinping, che tre mesi dopo è diventato il nuovo presidente della Cina. Ha visitato due famiglie, ha donato olio e farina per sette mesi ed è andato via. Tang Rongbin ha incollato la foto al muro, vicino a quella di Mao. Luotuowan è stato scelto come esperimento nazionale della lotta contro la nuova povertà rurale. La promessa è lo “ xiaokang”: benessere per tutti entro cinque anni. Così sono arrivate ruspe e colonne di camion. Migranti-operai eliminano le risaie e aprono strade, abbattono le case e alzano condomini, spianano i granai e costruiscono magazzini per acqua in bottiglia. Gu Runji, segretario locale del partito, assicura che al centro del villaggio, dove le Guardie Rosse bruciarono il tempio buddista, sorgerà «un cinema tridimensionale». Nessuno sa dire perché, ma in un anno sulla contea sono piovuti 1,2 milioni di euro. «I vecchi - dice il fabbro Duan Liang - al pensiero di come dividerli, di notte non dormono ». Il problema è che l’inatteso tesoro di Sta- to non ricostruisce la prospettiva di vita che distrugge.
Nel 1978, quando Deng Xiaoping lanciò la Cina nel futuro, l’80 per cento dei cinesi erano contadini, sparsi in milioni di villaggi. Tre anni fa si è scesi per la prima volta sotto il 50 per cento. Xi Jinping oggi promette che entro vent’anni il 75 per cento della popolazione vivrà nelle nuove metropoli. Negli ultimi dieci anni sono scomparsi novecentomila villaggi rurali: ne restano dodicimila. Entro il 2025, Pechino sposterà dai paesi alle città 300 milioni di persone: oltre il doppio della popolazione della Russia. In campagna, come a Luotuowan, restano gli anziani, chi è malato e i neonati dei giovani emigrati nei distretti industriali. Perché, se il contadino cinese è stato condannato alla povertà e all’estinzione, investire per «cambiare la mentalità » a chi l’Accademia delle scienze definisce un «ramo secco»? «Il partito - dice il professor Li Huadong, capo del movimento di salvaguardia delle campagne - per resistere ha bisogno di una massa di forti consumatori, concentrati nelle città. È la legge del capitalismo. La millenaria Cina però, senza i villaggi contadini, è finita. Ideologie e religioni sono state travolte, il boom della crescita scava abissi di ingiustizia: la nuova leadership avverte che solo la cultura rurale alimenta l’identità popolare, essenziale per tenere ancora insieme questo Paese».
Luotuowan, da paese abbandonato, viene così trasformato in un museo-show della propaganda, con i suoi reperti e le sue comparse, mantenute per mettere in scena la patria degli avi. Li Xueliang, vicecapo del villaggio, ha pensato a tutto. Due giovani del paese, operai in una fabbrica di viti a Shunping, sono stati richiamati, dotati di computer e avviati all’e-commerce. Vendono cashmere della Mongolia Interna su “Taobao”, sito del gigante Alibaba. «Senza muoverci dal fienile - dice Tang Junfeng - serviamo già 470mila clienti». Il governo, per festeggiare il successo, gli ha regalato una berlina tedesca. Per ora non si è vista, è arrivata solo una chiave, i compaesani lo prendono in giro, ma non sono affatto contenti di vangare un campo di soia lontano e di sopravvivere grazie alla carità di Xi Jinping. Come altri 650 milioni di esclusi cinesi. Hanno capito di essere stati, per la prima volta, sconfitti: la stabilità dell’impero non dipende più dalla loro felicità.

La Stampa 20.4.14
“Così ho visto nascere la rivolta di Tiananmen”
di Ilaria Maria Sala


Il 17 aprile 1989 il regime diede la notizia della morte del riformista Hu Yaobang Gli studenti si riversarono in piazza: 50 giorni dopo arrivarono i carri armati
Venticinque anni fa le sere di Pechino erano silenziose. Non c’erano quasi automobili, nemmeno di giorno, e quando era bello sotto ai lampioni si acquattavano gli studenti per leggere.
Nei dormitori la luce elettrica andava via alle dieci di sera, e loro portavano il libro sotto la luce di strada, a pronunciare a voce alta le parole inglesi, o a sfogliare affamati i libri che l’allentarsi della censura aveva reso disponibili. I traduttori lavoravano come pazzi, venticinque anni fa, in Cina: se chiedete in giro ve lo diranno tutti, l’inverno dell’88-89 era uno dei più liberi che si ricordino. 
Il 17 aprile, la sera era silenziosa come le altre. Io ero nella mia stanza, nell’edificio per studenti stranieri dell’Università Normale di Pechino, sul viale di Xinjiekou, con i suoi due filari di alberi che proteggevano le corsie per biciclette dagli autobus, dalle poche auto e dai rari taxi. Leggevo. Poi dalla strada si sono sentite quelle che sembravano grida, o forse era una festa, o un’insolita folla di passaggio? Era sera e i cancelli dell’Università erano stati chiusi. Chi, come me, aveva sentito il rumore dalla stanza implorò il portiere di aprire il cancello, per seguire l’imprevista manifestazione studentesca. 
Qualche centinaia di ragazzi e ragazze a piedi e in bici, che veniva dalle Università più a Nord, ancora senza cartelli pronti, che marciava decisa verso il centro. Per non restare indietro presi la bici, e raggiunsi gli studenti. «Dove andate?». «A Tiananmen». «È successo qualcosa?». «È morto Hu Yaobang». «Chi era?». «Un riformatore». 
Nelle settimane che seguirono ebbi modo di imparare meglio chi era. Ex Segretario Generale di Partito, delfino per un breve periodo di Deng Xiaoping, il patriarca delle riforme economiche, era caduto in disgrazia per i suoi atteggiamenti troppo liberali: vestiva sempre in completo occidentale e sosteneva che coltello e forchetta fossero ben più pratiche delle bacchette, ma a parte queste idiosincrasie, pensava che la Cina avesse davvero bisogno di riforme. Non solo economiche, ma anche politiche. Era stato inviato in Tibet, come governatore, e anche da lì aveva suggerito di allentare i controlli. Quando gli studenti di Pechino erano scesi in piazza due anni e mezzo prima per chiedere più democrazia e meno corruzione, li aveva sostenuti. Ed era caduto in disgrazia. 
Due anni dopo gli studenti non l’avevano dimenticato. E volevano che il suo funerale ricevesse gli onori dovuti a un uomo giusto. E poi piangere Hu e pretenderne la riabilitazione significava criticare Li Peng, il Primo Ministro, un personaggio sovietico allergico a ogni riforma. 
Per essere presenti gli studenti scesero in piazza il giorno prima, il 21 aprile, e si strinsero sotto il Monumento agli Eroi, dove gli studenti dell’Istituto d’Arte avevano appeso un enorme lenzuolo con il ritratto di Hu e la scritta: «Spirito della Cina». 
All’alba dalla Grande Sala del Popolo cominciarono a uscire i soldati, che circondarono l’edificio. Si sedettero a terra a gambe incrociate, e gli studenti che occupavano la piazza intera da tanti che erano, si sedettero anche loro. Alcuni vennero fatti passare per dare una petizione alle autorità: si inginocchiarono, con gesti d’epoca imperiale, tendendo la lettera con entrambe le mani, a testa china. 
Nei giorni successivi a Pechino successe di tutto: dal 24 aprile ci fu lo sciopero generale nelle Università, e le strade ogni giorno si riempivano di dimostranti. Il 17 maggio si arrivò ad più di un milione di persone per la strada: il cuoco e gli inservienti della mensa uscirono con un cartello in mano, dopo aver appoggiato i vassoi sul tavolo, dicendo che ci servissimo da soli perché loro andavano a manifestare. Le maestre di asilo legavano con un nastrino i polsi dei bambini, e se li portavano così, in fila, a marciare con gli studenti. Tassisti e motociclisti facevano le ronde per controllare che tutto fosse tranquillo: li chiamavamo «Le Tigri Volanti». Non c’erano i telefonini, e la sicurezza era affidata al passa parola. Alcuni studenti iniziavano lo sciopero della fame, e vuoi per lo stress, vuoi per il caldo, svenivano uno dopo l’altro e venivano portati via in ambulanza. I giornalisti intanto manifestavano con grandi cartelli che dicevano «Mai più menzogne!». 
Era una festa. Arrivò Gorbaciov, salutato come «Mr. Democracy», dagli studenti che non si muovevano dalla piazza. Il 20 maggio fu dichiarata la legge marziale. Ogni sera agli incroci i pechinesi scendevano in pigiama a fare la ronda e controllare che l’esercito non arrivasse. Fermavano le camionette per parlare coi soldati e dire loro: «Non sono contro-rivoluzionari. Sono i nostri studenti». A lungo l’esercito non fece nulla. Le nonne di Pechino portavano a loro e agli studenti leccornie fatte in casa. La piazza era diventata insalubre, dopo settimane di occupazione. 
La notte del tre giugno ero di nuovo all’Università, come quasi tutti gli studenti di Pechino, che, stanchi, avevano cominciato a passare la giornata in piazza, per tornare nei dormitori la sera. Fummo svegliati da un grido: «Sparano!». 
Gli studenti uscirono dai dormitori, i residenti dalle case, per andare verso l’Esercito di Liberazione del Popolo che, dicevano mentre fischiavano i proiettili, «non può uccidere il popolo!». Sangue e fuoco si impadronirono del centro di Pechino tutta la notte, sotto al canto incongruo dell’Internazionale. Gli ospedali si riempirono uno dopo l’altro, i feriti venivano portati sdraiati su panchine divelte, carretti-bicicletta a tre ruote, a braccia. Alcuni arrivarono che era già troppo tardi. 
Quanti morirono? Il tabù su Tiananmen è totale, ancora nemmeno questo si sa. 
Wuer Kaixi, uno dei leader studenteschi di allora, oggi vive a Taiwan, e dice che in parte, hanno vinto: «Chiedevamo vere riforme economiche. Le abbiamo avute. Quelle politiche ancora no». 
Pechino è una città irriconoscibile, e le sopraelevate hanno divelto gli incroci ai quali, la sera, i pechinesi si riunivano. Tiananmen è blindata per «motivi di sicurezza». E gli studenti di oggi non sanno quello che è successo venticinque anni fa. Ma ad ogni movimento di piazza, da Maidan all’Egitto, quando la polizia spara risuona il grido: «È una Tiananmen!».

Repubblica 20.4.14
25 aprile
Quei bambini che furono anche un po’ partigiani
di Alberto Custodero



LONDRA. BAMBINI PARTIGIANI imbracciarono le armi durante la Resistenza. La prova spunterebbe dagli archivi fotografici dell’Imperial War Museum di Londra. Si tratta di foto scattate da soldati angloamericani e donate molti anni dopo la fine della guerra al museo londinese. Alcune erano state segretate, forse per evitare un ritorno negativo di immagine sulla Liberazione. Lo scatto del sergente Loughlin (con il timbro “segreto”) nei pressi di San Marino il 26 settembre ‘44 ritrae, ad esempio, un bambino del quale viene citato anche il nome (Angelo Batelli). “The boy is only 8 years old”, il ragazzo ha solo 8 anni. E, precisano gli inglesi, ha rischiato la vita per salvare la vita a molti soldati alleati. La sua attività bellica è descritta in una didascalia di poche righe. «Il piccolo Batelli ha disinnescato le bombe a mano che i tedeschi, acquartieratisi a casa sua, volevano usare contro la fanteria alleata». Altra foto. La scatta il 10 settembre ‘44, a Trani, il sergente Meyer. La didascalia descrive «un partigiano molto giovane, al quale è stato amputato un braccio»: suo il volto sorridente nell’immagine più piccola pubblicata in questa pagina. E ancora. Pizzoferrato, Abruzzo, 4 maggio ‘44: il sergente Fox immortala, accovacciato a terra col mitra impugnato, «un giovane guerrigliero italiano che ha risposto all’appello delle armi». Anche questa foto riporta il timbro secret, ed è quella qui accanto pubblicata più in grande. A Ravenna, il 24 febbraio ‘45, un ragazzino in uniforme inglese di circa dieci anni compare sorridente in uno scatto del sergente Currey, VIII Armata: «Il componente più giovane dei partigiani del Ravennate è originario della provincia di Napoli. Ha combattuto con i partigiani nelle montagne attorno a Firenze e in Romagna».
Gli storici confermano con alcuni distinguo come possibile la presenza di bambini, anche sotto i 14 anni, che avrebbero combattuto contro i nazifascisti. «Molti erano quelli coinvolti nella guerra partigiana», spiega Claudio Pavone, ex partigiano, 93 anni, il più rigoroso storico della Resistenza. Ma aggiunge: «Destando meno sospetti facevano cose che i grandi non potevano fare. In questo senso non parlerei di “bambini guerrieri o guerriglieri”. I bambini potevano essere utilizzati come staffette, o per eludere i controlli delle forze fasciste o naziste, ma restavano bambini». «Quando ci sono le rivolte di popolo che hanno come teatro dei combattimenti le strade - spiega Gabriella Gribaudi, ordinario di Storia all’università di Napoli - ci sono anche i bambini che partecipano. E muoiono, come settant’anni fa col coinvolgimento degli “scugnizzi” nelle “quattro giornate” di Napoli. E come succede ancora oggi in giro per il mondo: in occasione della “rivolta delle pietre” in Palestina, erano i bambini a scagliare sassi contro i soldati israeliani».
«Le foto del museo britannico della guerra - aggiunge lo storico Gianni Oliva - confermano che conflitti come quelli resistenziali coinvolgono inevitabilmente anche ragazzini in tenera età. In una insurrezione di popolo combattuta casa per casa, con connotazioni anche di guerra civile, salta il concetto d’età. Lo scontro coinvolge tutti. Compresi i più piccoli, sottoposti spesso a violenze inaudite, come l’essere costretti e vedere i morti giustiziati nelle piazze». Più scettico, invece, lo storico torinese Bruno Maida: «Dubito che bambini soldato abbiano preso le armi al fianco di partigiani. La mia impressione è che i piccoli in divisa ritratti nelle foto inglesi fossero magari orfani di guerra. O feriti, o mutilati, come il “tamburino sardo” del Risorgimento, e poi “adottati” come mascotte o per propaganda durante la Liberazione». (Hanno collaborato Mario J. Cereghino e David Bell)

Repubblica 20.4.14
Quando la guerra cancella i confini
di Marco Revelli



NON CONOSCO casi di bambini “reclutati” nelle formazioni partigiane. Frequento gli archivi piemontesi, in particolare di
“Giustizia e Libertà”, ho visto i ruolini con gli organici: giovani o giovanissimi molti, qualcuno anche sotto le classi d’età coinvolte dai bandi di reclutamento forzato della Repubblica sociale (la quale, al contrario, sfoggiava effettivamente le proprie mascotte in divisa).
Ma bambini no. Per una ragione molto semplice: che la guerra partigiana era massacrante.
Richiedeva una capacità di resistenza fisica incompatibile con l’infanzia. Il che non significa che i bambini potessero restare miracolosamente fuori da quella guerra.
Al contrario. Era, quella, una guerra che cancellava i confini tra civili e militari.
Tra giovani e anziani. Tra uomini e donne...
I rastrellamenti dei tedeschi e dei fascisti non facevano distinzioni, colpivano tutti.
Nelle baite bruciate, nelle borgate messe a ferro e fuoco, vivevano (e rischiavano) interi nuclei famigliari. Così come l’appoggio alla Resistenza poteva assumere molte forme: un po’ di cibo offerto, un servizio di staffetta attraverso le linee, un biglietto portato da un vallone all’altro, in questo caso sì, anche da bambini o bambine.
Niente di più lontano dai bambini soldato delle milizie di oggi che appartengono non solo a un altro secolo ma a un diverso universo di senso.

Repubblica 20.4.14
La canzone
Felice che acchiappò il vento e lo fece poi fischiare
di Emilio Marrese



FU SCRITTA su un foglietto staccato da un ricettario medico. Quello del dottor Felice Cascione, via Asclepio Gandolfo 5 a Imperia. Una prescrizione per l’anima: “Soffia il vento, urla la bufera, scarpe rotte eppur bisogna agir / a conquistare la nostra (?) primavera in cui sorge il sol dell’Avvenire”, recitava la prima strofa a matita in calligrafia ordinata. La spedì dai monti liguri, dov’era salito partigiano dopo l’8 settembre del ’43, alla mamma Maria, maestra elementare. Che gliela fece riavere corretta e dattiloscritta: soffia era diventato fischia, agir era ardir, e la primavera non aveva più punto interrogativo, non era più nostra ma rossa . La prima volta venne intonata dalla brigata di Cascione, ventisei anni, ex campione di pallanuoto e “medico dei poveri”, davanti al portone della chiesa di San Michele a Curenna, borghetto del savonese, la sera della vigilia di Natale dopo la messa, davanti a un pentolone di castagne. Pochi giorni più tardi Cascione fu trucidato dai fascisti, mentre i suoi versi adottati dal vento continuarono a volare di bosco in bosco fino a diventare l’inno ufficiale della Resistenza. Prima ancora della più trasversale Bella ciao. Ognuno si masticò la sua versione: ardir può essere anche andar , e c’è chi aggiunge una strofa con falce e martello. Perché quelle parole sono già di tutti, sono fiorite per esserlo. Al punto di poter perlopiù ignorare, oggi come allora, chi ne fosse veramente l’autore. «È una vera e propria arma contro i fascisti. Li fa impazzire, mi dicono, solo a sentirla. Se la cantasse un neonato l’ammazzerebbero col cannone», dice il partigiano Johnny nel romanzo di Beppe Fenoglio.
La storia di Felice Cascione, u Megu, e del suo canto ribelle è stata ricostruita da Donatella Alfonso in Fischia il vento ( Castelvecchi, 140 pagine, 16,50 euro). Bello e carismatico come dev’essere un eroe, Felice rimane orfano a cinque mesi di Giobatta, commerciante d’olio, ma la madre riesce a farlo studiare. Nelle poco limpide acque marine davanti al porto diventa centrovasca e capitano del Guf Imperia, che scala tra il ‘37 e il ‘39 dalla serie C alla A del campionato di pallanuoto. In quella stessa estate arriva secondo ai Mondiali con la nazionale universitaria a Vienna, tre giorni prima dell’invasione della Polonia. Lascia Genova per la Sapienza a Roma (dove si ritrova in squadra il portiere Massimo Girotti, non ancora divo del cinema), e infine si laurea in Medicina a Bologna nel ’42, al termine della sua fuga dalla burocrazia fascista che lo ostacolava negli esami e nelle graduatorie per un posto alla Casa dello Studente. Il giovane Felice era nel mirino per le sue frequentazioni, in particolare quella di Giacomo Castagneto detto Mumuccio che lo aveva introdotto nel partito comunista clandestino, e presentato a Natta e Pajetta. Il dottorino diventa subito popolare a Oneglia perché non fa pagare né medicine né visite a chi non può. In agosto si fa venti giorni di prigione per adunata sediziosa e, dopo l’armistizio, si rifugia sui monti coi compagni a capo di un manipolo che arriverà presto a contare una cinquantina di uomini. Tra loro c’è Giacomo Sibilla detto Ivan, operaio che ha fatto la campagna di Russia e porta una chitarra a tracolla accanto al mitra. È lui che la sera, nei casolari diroccati, strimpella questa Katiuscia , la celebre melodia popolare russa. Il testo del poeta Isakovskij parlerebbe di meli e peri in fiori, ma già i soldati italiani nella steppa l’avevano storpiato con riferimenti al vento e alle loro scarpe di cartone. Si tratta di metterla giù meglio, per quest’altra battaglia. Ci pensa u Megu.
Le camicie nere stanano e giustiziano Felice il 27 gennaio 1944, lasciandone il corpo su un pendio. «Ma non fu vano il tuo sangue, Cascione, primo, più generoso e più valoroso di tutti i partigiani. Il tuo nome è leggendario» scriverà, un anno dopo, su La voce della democrazia, un altro giovane partigiano noto come Santiago. La sua firma è Italo Calvino.

il Fatto 20.4.14
“Io combatto, e la penna è il mio esercito”
Gabriel García Marquez racconta le opere, l’infanzia, il rapporto con il proprio paese, il suo esilio in Messico, la politica...
Cos’è la Sinistra? l’unica promozione umana possibile
Un grande incontro avvenuto nel 1981, l’anno prima dell’assegnazione del Nobel
intervista di Enzo Biagi


Márquez, cos’è la politica?
È il gioco degli scacchi della realtà.
Di cosa ha bisogno la Colombia?
Di un re buono, generoso, giusto, democratico, amoroso. A Bogotà risiede la nostra borghesia più colta e intelligente: è capace di incredibili invenzioni pur di mantenere il comando. La Colombia sta vivendo la crisi che accompagna il passaggio da una situazione feudale a un capitalismo aperto che distribuisce. Tutto ciò che accade è accompagnato da una corruzione che non è seconda neppure a quella messicana, assai notevole, ma almeno loro hanno da prendere, c’è ricchezza. In Colombia, invece, stanno impoverendo ancora i più poveri. Questo purtroppo è nella tradizione del paese.
Tra guerra civile e colpi di Stato, il processo industriale a che punto è?
Il processo industriale si è fermato, mentre si è sviluppata una economia marginale, basata sull’enorme quantità di denaro che entra con il traffico della droga. Biagi, sono orgoglioso anche di questa attività: non si scandalizzi. La mia è gente che trova sempre un modo per non morire. Certo, il governo ha deciso qualcosa: ha incaricato le forze armate di arginare il traffico, ma è solo di facciata quelli che sono dentro il palazzo sono stati comprati dai grandi trafficanti. Siamo i primi produttori di droga e coloro che si dedicano a questi affari non hanno problemi, nonostante le leggi, hanno i loro uomini nei posti che contano.
I soldi della droga sono sporchi, come vengono
ripuliti?
I grossi trafficanti, per ripulire i guadagni, prima si son dedicati all’edilizia, poi sono passati alle fabbriche. Siamo arrivati a questo: si salvi chi può. Con quello che succede, c’è il rischio della dissoluzione sociale. Chi non ce la fa a sopravvivere, prende il coltello e si butta sulla strada. Questo accade a tutti i livelli dello Stato. Anch’io mi sono dovuto arrangiare scrivendo romanzi, facendo il giornalista, credendo nella rivoluzione, altrimenti avrei dovuto adattarmi. Quanta gente è stata costretta a farlo per non morire.
Cosa pensa del presidente della Colombia Julio
Cesar Turbay Ayala?
Non dobbiamo dimenticare che nel passato è stato ministro di un governo militare. A modo suo si è battuto per la democrazia. Quando nel 1978 ha vinto l’elezioni il suo programma si basava su tre principi: produzione, sicurezza e occupazione . Con lui è aumentata la guerriglia, sono aumentati i sequestri di persona e il traffico della droga. Fuori dalla Colombia e dall’America Latina è un presidente molto criticato. Oggi i nuovi ricchi, dopo un decennio di intrallazzi sporchi, cercano di diventare signori onorati. In tutte le famiglie c’è qualcuno coinvolto nella droga, nella coca. Hanno pescato anche un cugino del presidente Turbay Ayala. Lui no: è un politico puro, ma appoggiato da altri che non lo sono. Però, guai se si muovesse in completa innocenza, perché non sarebbe ricattabile. In ogni caso io preferisco una democrazia imperfetta a un golpe militare. Se accadesse, mi metto dalla parte di Turbay. Ma non legittimare questo sistema , vuol dire non favorire una insurrezione di generali.
Perché ha deciso di andare a vivere in Messico?
Non sono partito perché c’era un pericolo vero per me, ma per dare un alt. Loro hanno l’esercito io la penna. Dovevo fare un gesto spettacolare perché capissero che c’è qualcosa che non si deve e non si può toccare. Quando me ne sono andato c’era una minaccia concreta dell’ennesimo colpo di Stato, come oggi, la disperazione è tale che chiunque prometta un paradiso che non esiste si tira dietro la massa. Basterebbe che ci fosse un leader populista, ma questo capo in Colombia non c’è, né a destra né a sinistra. Se fosse di sinistra potrebbe anche essere una buona soluzione, ma la sinistra non esiste. C’è il partito comunista più sovietico del globo, con molti meriti, eroico. Ha sopportato tanti sacrifici, ma obbedisce sempre a Mosca. Sono come i preti.
Che cos’è la sinistra?
L’unica promozione umana possibile.
E la destra?
Tutto il contrario.
Lei è accusato di essere complice del movimento guerrigliero.
Mi accusano di complicità col movimento guerrigliero perché è stato addestrato a Cuba: si sa del mio rapporto con Fidel e difendo la sua opera, perché è comunque una possibilità per l’America latina in un’ottica di guerra, ed è una cosa che quelli di Bogotà non possono accettare. Non sono l’ispiratore degli insorti. Non posso correre il rischio che mi mettano in carcere e per qualche tempo non si sappia nulla di me. Per questo ho chiesto al governo del Messico protezione, e mi sono imbarcato sul primo aereo.
Dice José Arcadio Buendìa di “Cent’anni di solitudine” il capostipite della famiglia e il fondatore di Macondo: “Non abbiamo ancora un morto. Non si è di nessuna parte finché non si ha un morto sottoterra”. Questa decisione le pesa molto?
Moltissimo. In Colombia, oltre ai miei cari, ho lasciato le esperienze che contano, i ricordi, la mia ispirazione, il mio passato. I miei sono rimasti laggiù.
Essere lontani che cosa significa?
Mi manca quasi tutto. Se posso ritornare ricomincio. Adesso scrivo le mie memorie, quasi tutti lo fanno quando non ricordano più niente. Sono lucido. Debbo affrettarmi.
La solitudine dei Buendìa, rappresenta la sua, quella dell’esule?
La lontananza mi porta alla nostalgia. Aureliano con la coda di maiale è l’unico Buendìa che in cent’anni è nato per amore. Il segreto della loro solitudine è la mancanza d’amore.
Cos ’è per lei la solitudine?
È il contrario della solidarietà.
Si innamora mai?
Tutti i giorni, tutta la vita, ma una sola volta in vita mia.
In un’intervista ha detto che la famiglia Buendìa rappresenta una versione della storia dell’America latina. È così?
Sì, lo penso veramente. La storia dell’America latina è un insieme di popoli che hanno compiuto sforzi imponenti accompagnati da grandi drammi, tutto questo è destinato alla dimenticanza, portato via dall’oblio. In Cent’anni di solitudine l’unico è il colonnello Aureliano Buendìa che, dopo tanti anni, riconosce come vero il massacro dei lavoratori della compagnia bananiera.
Cosa l’ha spinta a scrivere “Cent’anni di solitudine”?
Biagi, prima le ho detto che io combatto con la penna: ho sentito la volontà di mettere in letteratura le esperienze che mi avevano colpito durante l’infanzia. Ho voluto restituire poeticamente il mondo della mia infanzia. Macondo assomiglia molto al torrido villaggio di Aracataca dove sono nato.
Come si definisce come scrittore?
Se non ho un’immagine nitida nella mia mente non riesco a scrivere un racconto, perciò mi sento un realista puro. La memoria mi dà quasi tutto il materiale per il racconto. A me l’immaginazione serve per arricchire la memoria, per plasmare il racconto. Non esiste una sola riga nei miei libri che non ci sia un aggancio con la
realtà. I momenti di grande felicità nella vita gli ho avuti scrivendo.
Lei ha detto che deve molto a uno autore americano, William Faulkner, che anch’io amo molto, se è diventato uno scrittore.
Quando l’ho letto per la prima volta ho deciso che avrei fatto lo scrittore. Da Faulkner ho imparato come manipolare il materiale che mi arriva dalla memoria ancora informe.
Lei ha raccontato che sua nonna è stata molto importante per la tecnica che usa nei suoi libri.
Da mia nonna ho imparato lo stile da usare nel racconto. Le era bravissima nel far sembrare vere le cose fantastiche che raccontava, lo faceva in modo molto serio come se fosse la realtà: era molto convincente. Io penso che uno scrittore può raccontare tutto ciò che vuole purché sia in grado di convincere il lettore, per farlo bisogna scrivere come quando si racconta la verità.
Che cosa la lega a Fidel Castro?
Ciò che più mi impressiona è la sua tenerezza. Dimenticate un momento la politica. La nostra amicizia si fonda quasi esclusivamente sul fatto che l’unica cosa di cui parlo con lui è la letteratura. È uno straordinario lettore. Cuba è una realtà: mi identifico con la rivoluzione cubana. È inspiegabile questa intransigenza verso Cuba.
Ha appena finito un nuovo libro: “Cronaca di una morte annunciata”.
Come le ho detto la trama è vera, il fatto è accaduto trent’anni fa: l’assassinio terribile di un ragazzo che studiava con me. Un delitto d’onore. Una vicenda drammatica che potrebbe essere riassunta in tre righe.
Ci proviamo?
Va bene. Un uomo si sposa, la sera scopre che la moglie non è vergine e la rimanda dai suoi. La madre della ripudiata chiama i due figli che chiedono alla sorella: chi è stato? Lei fa un nome, loro non vogliono, ma devono ammazzarlo e pregano Dio che succeda qualcosa, che gli permetta di non farlo. Sono le tre del mattino, in un borgo piccolissimo e stanno all’osteria, proprio di fronte all’abitazione del seduttore. Aspettano che esca per accopparlo. Mostrano i coltelli. Tutti sanno quello che sta per avvenire. Così accadde a Roma per Giulio Cesare. Tutti parlavano ma lui non lo sapeva. Uno decide di informare la vittima incosciente con una lettera, la fa passare sotto la porta, ma lui ci cammina sopra e non la vede. Quando appare pensano: è impossibile che non si renda conto di ciò che lo minaccia. Lui esce, perché deve aspettare il vescovo, ma il piroscafo passa ma non si ferma. Il prelato, lontano, saluta. È una citazione che vuol essere un omaggio allo scrittore Henry Graham Greene. Deluso il giovanotto ritorna indietro. E la sua sorte si compie.
Questa storia vuole rappresentare un simbolo.
No, questo intreccio non è un simbolo ma, come diciamo noi sudamericani: “È la puttana vita”. Biagi non mi faccia domande su questo perché forse non conosco la risposta. Approfondisco quello che è rimasto indelebile nella memoria. Immagazzino tante immagini, ma non prendo mai appunti, faccio trascorrere il tempo, molte di queste svaniscono, rimangono solo quelle importanti, quando riaffiorano significa che le devo fare uscire. Quello è il momento in cui comincio a lavorare. Il protagonista del fatto era il figlioccio di mia madre e quelli che lo hanno fatto fuori due brave persone, incapaci di nuocere a chiunque, ma era quasi impossibile sfuggire al pregiudizio. Quando ho detto a mia madre che volevo buttar giù il resoconto di quella disperata avventura, che anche mi riguarda, mi ha pregato: “Non farlo finché sarà viva la mia comare”. Il mio compagno era stato pugnalato davanti al cancello, perché la sua mamma temeva uno scandalo, non voleva che accadesse nelle sue stanze o in giardino, e aveva ordinato di sbarrare le porte: è diventata pazza.
È vero che questo libro doveva uscire solo dopo la caduta di Pinochet?
Sì, è vero. Avevo promesso di non pubblicarlo finché Pinochet non fosse caduto, ma se c’è una virtù che manca a tutte le sinistre è il realismo. Però io credo di essere un poeta che questo senso ce l’ha. È certo che Pinochet deve andar giù, ma ancora non so quando, così ho deciso di darlo alle stampe. Io cambio, Pinochet no. Io vivo, lui no.
Lei è religioso?
Sono superstizioso.
Cosa possiamo fare per la Colombia?
Voi europei credete alla concatenazione dei fatti. Noi all’imprevedibilità. Potete volerci bene, questo sarebbe già molto.

Repubblica 20.4.14
Gianfranco Ravasi, cardinale
“I miei tormenti fanno parte della fede, so di camminare tra le sabbie mobili”
intervista di Antonio Gnoli



LA LEVIGATA cortesia del Cardinal Ravasi si intona perfettamente con l’atmosfera ovattata che proviene dalle stanze del Pontificio consiglio della cultura. In un pomeriggio in cui i turisti, ormai esausti, sembrano ritrovare una quiete nel corteo seriale di pullman parcheggiati lungo via della Conciliazione, vado a trovare sua Eminenza.
Rientrato dal Nord Europa, è in partenza per gli Stati Uniti. Gli chiedo se l’impegno internazionale non lo stanchi. «Fra tre anni, allo scoccare del settantacinquesimo, potrò pienamente dedicarmi ai miei studi», dice con divertita rassegnazione. Butto lì delle parole. Senza un ordine preciso. Convenevoli. In attesa che si trovi una stanza dove colloquiare. A un certo punto gli ricordo di un’amicizia comune: Beniamino Placido. E risveglio nel mio interlocutore un pathos antico: «Quell’amicizia fu un dono. Beniamino aveva, delle virtù del laico, la disponibilità e l’ironia, la curiosità e l’umiltà.
Gli proposi di scrivere insieme una grammatica di ebraico biblico. Mi guardò senza ansia. Potrei accettare solo a un patto. Quale? Chiesi. Che lei ci metta tutta la sua conoscenza e io tutta la mia ignoranza».
Cos’è la perdita di un amico?
«C’è il dolore e magari il rimpianto per non aver detto o fatto tutto quello che avremmo immaginato. Ma un’amicizia, anche quando non c’è più perché l’amico se ne è andato, resta con la sua forza di testimonianza».
Si conosce anche attraverso l’ignoranza?
«La condizione del non sapere è indispensabile alla conoscenza ».
Ma il mondo non continuerà a dividersi tra coloro che sanno e coloro che non sanno?
«È una distanza che va interpretata, compresa e infine, per quel che si può, colmata».
Come?
«Oggi la Chiesa sta rivestendo di un significato nuovo la parola semplicità».
Pensa al pontificato di Francesco?
«Con ogni evidenza ha spostato la comunicazione dal piano teorico a quello esistenziale. La semplicità ne è l’effetto. Ma anche la causa. Di solito i nostri discorsi sono carichi di subordinate, i suoi di coordinate».
È diretto.
«Dotato di una comunicazione visiva e di una somaticità viva. Il suo corpo è parte integrante della comunicazione: ha abolito la distanza dai fedeli».
La comunicazione oggi è rapida ed essenziale. Ci si riconosce?
«Gesù avrebbe potuto tranquillamente usare Twitter: “Restituite a Cesare quel che è di Cesare...” non sono più di 50 caratteri ed è tutto pienamente comprensibile. Ed efficace».
Se lo immagina Gesù oggi tra le gente?
«Se Gesù tornasse tra le strade del mondo forse gli chiederebbero i documenti».
Il panorama è radicalmente diverso rispetto a duemila anni fa.
«Non c’è dubbio. Ci sono state molte rivoluzioni nei modi di vivere e di pensare».
Quella più recente?
«Visto che parliamo di comunicazione pensavo a quanto andava dicendo McLuhan qualche anno fa».
Cosa diceva?
«Che i nuovi mezzi di comunicazione sono il prolungamento dei nostri sensi».
Un’idea brillante.
«Da ripensare. Anche alla luce del fatto che sta cambiando la nostra percezione e il rapporto con il nuovo ambiente ».
Sempre più spesso si parla di mutazione antropologica.
«Ci siamo dentro in pieno. Occorrerà capire qual è la direzione».
Ma Dio permetterà che l’uomo gli sfugga di mano?
«Dio non è un controllore».
Non la spaventa?
«Cosa?».
Non la spaventa vedere l’immensa, veloce, sconcertante trasformazione del mondo attraverso la tecnica e la scienza?
«No. Ciò che sta accadendo deve indurci a riflettere sul fatto che la scienza non può sottrarsi al confronto con la religione».
Non è una vecchia storia che ci siamo buttati alle spalle?
«Sono linguaggi diversi. E differenti sono stati i modi per affrontarli. Il grande fisico tedesco Max Plank non vedeva contrasto. Semmai una possibilità di completarsi nella mente di chi pensa seriamente religione e scienza ».
È la conclusione di un lungo conflitto?
«Gli animi più avvertiti da tempo hanno messo la parola fine a questa guerra. Perfino Nietzsche scrisse che sebbene non ci fosse amicizia non c’era neppure inimicizia, dal momento che religione e scienza vivono in sfere diverse».
Ciascuna nel suo mondo.
«Non escludo, però, che si parlino. Fede e scienza sono distinte ma non separate. Il dialogo è possibile».
La posta in palio è la verità?
«Non necessariamente come una contesa».
Qual è la sua idea di verità?
«Nella mia esistenza la verità mi precede, mi eccede e mi trascende. Sono distante da una concezione situazionista o dal relativismo oggi imperante. Per me è vera l’immagine che Platone usa nel Fedro, quando descrive la biga alata che corre nella “pianura della verità”. Quest’ultima è estesa, infinita e la si deve conquistare».
Come si conquista un obiettivo?
«Non in quel senso. Credo l’abbia espresso benissimo un pensatore come Adorno quando in Minima moralia scrive: “La verità non la si ha, nella verità si è”».
Lei fa letture abbastanza sorprendenti.
«Servono a bilanciare la mia inquietudine».
È inquieto?
«Quando conobbi Julien Green, che da protestante si era convertito al cattolicesimo, gli dissi che di lui avevo letto quasi tutto e che mi sarebbe piaciuto scoprire il nodo della sua religiosità. Mi rispose citando una frase del suo Diario: solo finché si è inquieti si può stare tranquilli. Il mio interrogarmi non può prescindere dall’inquietudine ».
Si entra nella sfera della fede e dei suoi tormenti?
«La fede è un atto complesso. Si intreccia con la ragione, la fiducia, la scienza, le opere. Ma senza esaurirsi in essi. I tormenti le appartengono».
Come definirebbe la sua fede?
«Una forma di amore. L’amare non esclude il comprendere, ma viene prima».
C’è un momento della sua vita in cui questa sensazione ha preso forma?
«Dovrei pensare a me bambino».

Repubblica 20.4.14
Se Pascoli scommette sulla gioia impossibile
Ma il desiderio è bloccato da una spietata censura inconscia

Una zona buia che anticipa Freud
di Walter Siti



NESSUNO in Italia prima di Pascoli era riuscito a intonare poesia mantenendo così basso il registro linguistico; lo stile si solleva dalla prosa di tutti i giorni grazie a pochissimi artifici ben collaudati. In primo luogo le ripetizioni, ben sei in otto versi (nel… nella; stanco… stanco; al… ai; tornavo… tornato; gran… gran; mamma… mamma); poi ingorghi fonetici e false parentele (nella-nulla; mutato- muta), bipartizioni bilanciate come ai vv. 5 e 6, e una classica dieresi al v. 3. Gli endecasillabi si distendono senza sforzo in uno schema metrico di assoluta semplicità, due quartine a rima alternata. Pascoli sogna di tornare per un attimo nella vecchia
casa di San Mauro, dove ha lasciato i suoi morti: il padre, la madre, tre sorelle e due fratelli. È stanco per il viaggio della vita, sa di tornare in una casa di fantasmi; ma l’ultima consolazione, rivedere la madre almeno in sogno (stando in collegio a Urbino non aveva potuto salutarla nella bara), gli è negata dall’amore e dalla sollecitudine materna - è “di là”, intenta ai doveri di accudimento. Un’ellissi che strappa le lacrime per la nudità della constatazione («e lei, non l’ho veduta»); il macchinario onirico è bloccato da un’inesplicabile quanto indiscutibile censura inconscia: non sei ancora pronto, vedere mamma ti è vietato.
Nello stesso 1892 Pascoli scrive Gladiatores , un lungo poema in latino di quelli che mandava ai concorsi di Amsterdam: vi si parla di tre gladiatori, seguaci di Spartaco, alla vigilia della battaglia decisiva - uno di loro, il più vecchio, durante la notte sogna la madre (“miseram matrem”, povera mamma); un altro sogna anch’egli di tornare al proprio villaggio ma le forze gli mancano davanti al cortile di casa sua; grida e nessuno lo sente; la madre, finiti i lavori domestici, sta per uscire in cortile, già la porta gira sui cardini… ma suona la tromba dell’adunata e il gladiatore si sveglia. «Povera mamma! » sta anche in un abbozzo di prefazione alla terza edizione di Myricae, pure del 1892; lì Pascoli ricostruisce la vicenda del padre, freddato da una fucilata mentre tornava a casa col calesse - l’esclamazione si colloca subito prima dello sparo. Che relazione può esserci tra l’identificazione pascoliana con un antico gladiatore e la sua tragica vicenda familiare? Cesare Garboli ci ha spiegato che gli anni decisivi per questo nesso sono stati quelli tra il 1889 e il 1893, che lui definisce di “crisi del nido”.
Nel 1887 Pascoli era stato trasferito dal liceo di Massa a quello di Livorno e lì aveva chiamato a vivere le sorelle Ida e Maria; nel 1889 si era infatuato di una ragazza e per un istante aveva pensato di dichiararsi - forse autorizzata dall’esempio, anche Ida aveva mostrato interesse per un giovanotto. Pascoli, sconvolto perché inconsciamente innamorato di Ida, aveva subito rinunciato al pallido progetto di fidanzamento e brigato perché anche Ida lasciasse il giovanotto. Il “nido” si era così ricostituito ma all’insegna della malinconia e della rimozione. È in quegli anni di auto-imposta castità che Pascoli elabora il mito della propria tragedia familiare: è allora che fissa l’immagine eroica di se stesso come capofamiglia espiatorio, gladiatore deciso a sacrificarsi lavorando, rinunciando all’amore per portare sulle spalle il peso di tutti (compreso un fratello in perenne difficoltà economica). Quando Ida, insofferente della tetra atmosfera domestica, si sposerà e andrà a vivere altrove, Pascoli non presenzierà al matrimonio ma continuerà a versarle un assegno mensile.
Consumata la tragedia, il misterioso interdetto di comunicazione svanirà: nell’ Ultimo sogno ritrova la madre ancora silenziosa al capezzale di se stesso malato e sen- te nel brusio dei cipressi il rumore di un fiume «che cerca il mare inesistente». È un sogno di guarigione, ma la guarigione coincide con la morte. Nelle poesie del Ritorno a San Mauro ( del 1897) Pascoli finalmente riuscirà a parlare con la madre morta - non solo a vederla ma a dirle quel che prima rimuoveva: «Io non son potuto crescere». Vedere la madre significherà immolarsi senza possibile ritorno, riempiendola di mille pazze promesse; e lei potrà rispondergli in nome di un desolato principio di realtà: niente è più possibile ormai, nella casa ci abita altra gente, io sto al cancello - e delle bimbe sei tu che devi dirmi qualcosa, io non ne so più niente.
A stretto rigor di termini quando qui, nel nostro testo, dice di esser tornato a suo padre, e ai morti, sembra escludere proprio le due sorelle ancora vive; ma tutto è sospeso e impreciso come accade nei sogni (non “da un viaggio” ma “come da un viaggio”). La descrizione è senza sbavature e nello stesso tempo impregnata di un’emozione arcana, dolcezza e angoscia si mischiano senza trovare sbocco. Non è solo il sentimento contrastato di chi rivede come fantasmi le persone che ha amato, è lo smarrimento di chi si è imprigionato da solo («ci siamo accorti tutti e tre», scrive in una lettera del 1892 a Severino Ferrari, «che abbiamo sbagliato nella somma la vita, e non si rinasce»). Non è un sogno ad occhi aperti tipo il Sogno d’estate di Carducci, è proprio l’immersione in una zona buia di cui non si è padroni, già pronta per Freud.

Repubblica 20.4.14
Roma
Da Villa Giulia al Louvre spazio ai capolavori della civiltà etrusca
di Giuseppe M. Della Fina



«Da molti anni desideravo scrivere dei Finzi-Contini – di Micòl e di Alberto, del professor Ermanno e della signora Olga – … ma l’impulso, la spinta a farlo veramente, li ebbi soltanto un anno fa, una domenica d’aprile del 1957», così si apre Il giardino dei Finzi-Contini di Giorgio Bassani. L’occasione fu una visita alla necropoli etrusca della Banditaccia a Cerveteri. Proprio quella necropoli occupa ora un ruolo di primo piano nella mostra Gli Etruschi e il Mediterraneo. La città di Cerveteri allestita a Roma, al Palazzo delle Esposizioni (fino al 20 luglio). Da essa dovrebbero provenire due capolavori assoluti dell’arte etrusca, ovvero i cosiddetti Sarcofagi degli sposi, usciti da una bottega attiva a Caere negli ultimi decenni del VI secolo a. C. Uno è conservato a Roma, all’interno del Museo Etrusco di Villa Giulia. L’altro è pervenuto, invece, nelle collezioni del Louvre e per l’occasione è tornato in Italia. Entrambi rappresentano una coppia a banchetto semidistesa su un letto da convivio: il braccio destro dell’uomo cinge con tenerezza le spalle della donna. Lungo il percorso le numerose opere esposte vengono presentate come le testimonianze più idonee per tentare di ricostruire la storia della polis di Cerveteri e le dinamiche che hanno interessato il Mediterraneo nel I millennio a. C. Ciò vale soprattutto per i secoli che vanno dal VII al V a. C., quando Cerveteri fu una città-stato etrusca di prima grandezza e la più aperta verso gli scambi che avvenivano nel Mar Tirreno. I reperti selezionati parlano della sua politica estera ambiziosa che la portò a stringere un’alleanza salda con Cartagine per fronteggiare l’avanzata del mondo greco verso il quale, peraltro, Cerveteri seppe mostrarsi aperta: non a caso un suo thesauros era presente nel santuario di Delfi. Un’attenzione lungimirante che, in seguito, la città riuscì ad avere verso la potenza emergente di Roma. Come i visitatori, inizialmente inconsapevoli, della necropoli ceretana immaginati da Bassani, si lascia la mostra affascinati.

Corriere 20.4.14
Dalla tomba di Tutankhamon al David
Ma le copie dei capolavori possono essere vera arte?
Scanner e tecnologia 3D per copiare il capolavoro e preservarlo

di Stefano Bucci

Come si dice in questi casi, Adam Lowe, patron della Factum Arte, deve averci preso gusto. Dopo aver già ricreato nel 2007 per la Fondazione Cini di Venezia un facsimile delle monumentali «Nozze di Cana» di Paolo Veronese oggi al Louvre (è il quadro che fronteggia la Gioconda di Leonardo) ha definitivamente sdoganato il concetto, secondo lui ma anche secondo molti critici ormai superato, che tutto quello che è copia sia per forza brutto, cattivo e senza ispirazione. (Nella foto, la copia del David di Michelangelo davanti a Palazzo Vecchio a Firenze).
Alla fine di questo mese, nella Valle dei Re, nel cuore dell’Egitto dei Faraoni, Lowe inaugurerà così una copia 1:1 della tomba di Tutankhamon, una copia destinata a diventare il nucleo di una sorta di dépendance in 3D (realizzata a colpi di scanner, laser e altre tecnologie futuribili) dove si potranno ritrovare in copia tutti i tesori della tomba originale (corredo e pitture compresi). Un capolavoro in qualche modo minacciato dal suo stesso successo: oltre mille visitatori al giorno per un piccolo spazio di sessanta metri quadrati, rimasto per oltre 3.245 anni preservato dalla curiosità umana e ora quotidianamente aggredito da folle di turisti e dal relativo peso di umidità, polvere, rumore, flash.
La teoria di Lowe (nato in Inghilterra nel 1959, ma la Factum Arte ha sede a Madrid) non fa una piega: «La gente, e quindi i visitatori, devono imparare a separare l’idea di autenticità da quella di originalità, in qualche modo è una necessità perché capolavori come quelli della tomba di Tutankhamon erano pensati per durare in eterno, ma nessuno all’epoca avrebbe certo potuto immaginare che fossero destinati a diventare un luogo pubblico, accessibile a tutti». E aggiunge: «Quanti sanno d’altra parte che i cavalli di Venezia, quelli sulla facciata di San Marco sono in realtà una copia oppure che il David davanti a Palazzo Vecchio, a Firenze, è un facsimile d’epoca di quello originale oggi all’Accademia?». I critici sostengono d’altra parte, che a un visitatore mordi e fuggi (il New York Times aveva quantificato in 45 minuti il tempo minimo per visitare il Louvre e il Prado) ben poco importa che si tratti di un originale o meno, basta che si possa fotografare o che si possa fermare con un selfie (cosa che nei musei, per opere belle e fragili, non dovrebbe essere mai permesso).
Non è dunque solo una questione di snobismo: il facsimile nell’arte, mondo antico compreso, può essere considerato una realtà. Si parte dalle copie ellenistiche o romane di perdute statue greche (come il cosiddetto Anacreonte Borghese di Fidia oggi alla Carlsberg Glyptotek di Copenaghen o lo scudo di Standford del British Museum) per arrivare ai sette oggetti (due tripodi, un vaso, un candelabro, una caffettiera, un altare, un camino) ricostruiti, sempre da Lowe per la mostra sull’arte di Piranesi allestita nel 2011 da Michele De Lucchi alla Cini di Venezia (stessa operazione replicata, proprio in questi stessi giorni, al Sir John Soane Museum di Londra. Passando magari per quei facsimile del tesoro della Tomba di Seti I che l’archeologo italiano Giovanni Battista Bolzoni aveva nel 1820 esposto ancora una volta a Londra, all’Egyptian Hall di Piccadilly. O per le repliche scaturite da quella ricorrente «seduzione etrusca» (che toccava soprattutto gli inglesi) celebrata fino al 31 luglio da una mostra al Museo Maec di Cortona.
Il confine tra facsimile e opera d’arte appare però sempre più spesso indefinito. Anche in virtù delle nuove tecnologie, dal rendering allo scanner. Da una parte c’è così il grattacielo tarocco di Chongqing in Cina, letteralmente copiato (a colpi di rendering e in tempi più ristretti) dal Wangjing Soho di Zaha Hadid ma dall’altra ci sono le copie buone come quella a Firenze della Porta del Paradiso del Ghiberti, nata durante il restauro e oggi utilizzata per salvaguardare il capolavoro (l’originale si trova nel Museo dell’Opera del Duomo) dai danni di smog e inquinamento.
Ma forse oggi bisognerebbe guardare oltre, perché sempre più spesso gli artisti pensano alla copia come a uno strumento di possibile ispirazione, come nel caso di Stephen Jones che propone digitalizzazioni di statue antiche, magari solo con qualche ritocco. O come Guido Paolini che nella sua installazione «Mimesi» (1975-1976) ha utilizzato due calchi in gesso di una statua antica per trasformarle in una variazione sul tema della incomunicabilità contemporanea. O ancora come Francesco Vezzoli che per la sua mostra al Maxxi si Roma nel 2013 ha copiato le statue del Canova per trasformarle in semplici supporti per schermi video al plasma.
Quella tentata da Adrien Lowe (che sta progettando la ricomposizione, naturalmente in copia, in un luogo unico di tutti i tasselli dispersi del Polittico Griffoni della Basilica di San Petronio a Bologna) con la tomba di Tutankhamon non sembra essere più dunque un’operazione alla Madame Tussauds, piuttosto la certificazione di una pratica antica diventata ancora più attuale ai tempi del 3D.

l’Unità 20.4.14
Kepler, il cugino della Terra
di Umberto Guidoni


Viviamo in un tempo in cui trovare pianeti potenzialmente abitabili sembra esser diventato comune. Gli astronomi hanno appena annunciato la scoperta di Kepler-186F, che potrebbe rivelarsi il primo, vero, pianeta alieno, di dimensioni simili alla nostra Terra. Il pianeta, appena identificato grazie al telescopio spaziale Kepler, è particolarmente interessante perché potrebbe avere acqua liquida sulla sua superficie. Kepler-186F, infatti, si troverebbe in quella che viene definita «zona abitabile», cioè alla distanza giusta dalla sua stella per avere un intervallo di temperature in cui l’acqua può mantenersi allo stato liquido. Kepler-186F è appena più grande della Terra e fa parte di un sistema planetario composto da cinque corpi celesti e la lettera F identifica proprio quello più esterno. Al centro del sistema, a una distanza di circa 50 milioni di chilometri (appena un terzo della distanza Terra-Sole), si trova la piccola stella Kepler-186, una nana rossa, un oggetto stellare notevolmente più piccolo e meno luminoso del nostro sole. Le nane rosse sono tra gli oggetti più comuni e si pensa che circa il 70 per cento della Via Lattea, oltre 100 miliardi di stelle, sia composte da questa categoria di stelle. Kepler-186F gira intorno alla sua stella in circa 130 giorni e, benché la sua distanza dall’astro centrale sia paragonabile a quella di Mercurio rispetto al Sole, si viene a trovare nella parte esterna della zona abitabile (cioè in condizioni in cui le temperature alla superficie potrebbero essere più simili a quelle di Marte). Le maggiori dimensioni del pianeta (10% più grande del nostro), però, potrebbero rivelarsi importanti per mantenere un’atmosfera più densa e più spessa di quella terrestre. Una simile atmosfera sarebbe, a sua volta, un fattore utilissimo per isolare meglio il pianeta e mantenere la sua acqua in forma liquida. Anche se molto promettente, il pianeta appena scoperto potrebbe rivelarsi troppo lontano per poterlo studiare più attentamente in futuro. Si trova, infatti, a circa 490 anni luce dalla Terra, una distanza eccessiva anche per il prossimo telescopio spaziale James Webb, che dovrebbe essere lanciato nello spazio nel 2018. Il nuovo telescopio sarà l’erede di Hubble ed è stato progettato proprio per analizzare in dettaglio le immagini di pianeti extrasolari che si trovano intorno alle stelle più vicine, anche con lo scopo di studiare la composizione chimica della loro l’atmosfera. Ma l’immagine di Kepler-186F potrebbe essere troppo debole per questo tipo di analisi anche quando sarà disponibile il nuovo e potente telescopio della Nasa. Kepler-186F è comunque il primo pianeta che sembra presentare caratteristiche comuni con quelle della Terra. Più che di un pianeta «gemello », però, potremmo parlare piuttosto di un «cugino» del nostro pianeta, con alcuni caratteri simili ma con un genitore decisamente diverso, una nana rossa che è certamente più fredda e meno potente dell’astro che illumina il nostro pianeta.

Corriere La Lettura 20.4.14
Winnie the Pooh, dai filosofi salvaci tu
Diego Marconi si interroga su eccessi e confusioni del «Mestiere di pensare» (Einaudi)
Manca in Italia una tradizione satirica che metta in discussionela presunzione di utilità
di Guido Vitiello


Che ci faccio qui? Se lo chiedeva il giramondo Bruce Chatwin, ed è forse la domanda filosofica per eccellenza; ma da qualche tempo i filosofi sembrano rivolgerla, più che all’uomo in quanto tale, a se stessi.
Immaginate un cocktail party in cui uno degli ospiti, che si aggira incerto tra i tavoli nel timore di passare per intruso, si cavi d’imbarazzo intrattenendo i convitati con lunghi discorsi sulla nobiltà, la necessità e l’inesauribile bellezza di questo suo spaesamento, e così facendo diventi l’anima della festa. Ecco, qualcosa di simile vale per i filosofi e per la loro misteriosa capacità di radunare folle festivaliere intorno a questioni non proprio elettrizzanti, quali: che cosa significa filosofare oggi? Che ci faccio qui? Come scriveva Jean-François Revel nella sua spiritosissima Histoire de la philosophie occidentale , ormai «filosofare è giustificarsi di filosofare». A noi profani affetti da daltonismo filosofico o da quella che un tempo si sarebbe detta Hegellosigkeit , carenza congenita di Hegel, può sembrar strano che i filosofi siano tanto assillati dal capire in che consiste il filosofare.
Un esempio recente è il libro di Diego Marconi Il mestiere di pensare (Einaudi), una difesa del professionismo filosofico condotta con l’understatement del filosofo analitico, più efficace della levata di scudi di un paio di mesi fa, quando prese a circolare l’allarme di un ipotetico ridimensionamento della filosofia nei programmi scolastici. Roberto Esposito denunciò, nientemeno, il tentativo di «occludere lo spazio dove si forma lo spirito critico», lo spazio dell’eterna interrogazione, e Gianni Vattimo aggiunse che la filosofia «serve a non farsi dirigere nella visione del mondo soltanto dalle canzonette».
Pareva di risentire lo Jankélévitch di quarant’anni fa, quando la riforma Haby voleva rendere opzionale la filosofia nei licei francesi: «Non ci sarà più filosofia, dunque non ci saranno più contestatori. I capi d’impresa potranno dormire tranquilli». Il mondo del freddo calcolo economico si avventava sul nemico più temuto, quel filosofo che solo ci consente di concepire un Altrove… Ahi, le megalomanie corporative! La filosofia sarebbe dunque il baluardo del pensiero critico, senza il quale saremmo inchiodati alla prosa del mondo, schiavi in miniera a cui nessuno indica più la luce del sole? Via, siamo seri! Anzi, non troppo: perché quella che serve, e in dosi da cavallo, è proprio la medicina dell’ironia. Ma non la si produce più, e si fatica anche a importarla.
Ne è passato di tempo da quando arrivò in Italia Pourquoi des philosophes? , un pamphlet del 1957 geniale perfino nelle sue intemperanze. Revel ironizzava a lungo sull’arrovellarsi dei filosofi intorno al filosofare, sui tentativi di definirlo come un inesausto interrogarsi sui suoi stessi presupposti. Gli parevano sforzi vani, e proponeva di sbarazzarsi perfino della parola. La filosofia, diceva, era ormai una provincia della letteratura. L’incantesimo dei gerghi filosofici, succedaneo retorico della magia, dava l’illusione di risolvere problemi che di fatto eludeva, vorticando su di sé come un mulino di preghiere tibetano. Non solo Revel coniava formule indimenticabili — il filosofo che s’illude di «regnare sulle conoscenze del resto del genere umano come un proprietario terriero su poderi lontani che amministra con trascuratezza senza mai visitarli» — ma dava prova di spaventosa chiaroveggenza, accorgendosi per tempo che una certa filosofia stava trascinando sulla cattiva strada dell’intossicazione teoretica anche la psicoanalisi, l’antropologia, la riflessione sull’arte.
Quanto al cocktail party, Revel aveva la sua risposta: altro che anima della festa, la filosofia è semmai «una specie di rappresentanza diplomatica del pensiero umano, incaricata di offrire i cocktail e le decorazioni che segnano la fine delle grandi rivoluzioni e al tempo stesso di edulcorarne i risultati». Di quel libro si è persa perfino memoria; né ha mai varcato le frontiere il seguito, La cabale des dévots . Non è il solo episodio di disattenzione di un’editoria per il resto devotamente francofila, specie quando si tratta di novità filosofiche parigine. Chi ha mai potuto leggere, qui, Oubliez les philosophes! del «filosofo pentito» Maurice T. Maschino, prosecuzione iconoclasta dell’opera di Revel? O certi saggi ironici di Jacques Bouveresse, come Prodiges et vertiges de l’analogie ? Neppure le innumerevoli satire sui filosofi fiorite nel mondo anglosassone, dove i benefici intellettuali dell’umorismo sono noti dai tempi del conte di Shaftesbury, attraversano facilmente il confine. Sarebbe stato bello veder tradotti i saggi del grande scettico americano Frederick Crews, specie i due volumetti dove analizzava la storia dell’orsetto Winnie the Pooh parodiando tutte le mode filosofico-critiche del momento, decostruzionismo, post-strutturalismo, femminismo radicale (The Pooh Perplex e Postmodern Pooh ).
E dire che una tradizione di satira filosofica è esistita anche in Italia, almeno dai tempi di Giovanni Papini. Ma pare pressoché estinta, proprio adesso che ce n’era più bisogno e che i filosofi hanno preso a moltiplicarsi come i rinoceronti di Ionesco. Il centone dantesco di Achille Varzi e Claudio Calosi, Le tribolazioni del filosofare , un poema in terzine appena pubblicato da Laterza, è un divertimento tutto interno alla cerchia dei filosofi.
Tolti certi giochini un po’ leziosi di Umberto Eco, affiorano alla mente pochi esempi: i saggi di Paolo Rossi, che riusciva a far ridere fino alle lacrime scrivendo delle ossessioni dei filosofi, ad esempio degli «heideggeriani di provincia»; o le incursioni di un non filosofo, Alfonso Berardinelli, che in Stili dell’estremismo castigava ridendo i radicalismi tutti verbali, paragonando un certo gergo filosofico al chewing gum: elastico, insapore e ruminabile all’infinito.
Si dirà che la satira è un lusso, quando i filosofi più corteggiati dai media sono spesso la satira di se stessi, o perfino, nei casi più gravi, dei testimonial ambulanti per la causa della soppressione della filosofia.
Ma già che da decenni esportiamo nel mondo le dottrine più seriose e temerarie sotto l’insegna della Italian Theory , ricominciamo a importare l’antidoto dell’umorismo, e a ridar vita al made in Italy dell’ironia.
Lunga vita, quindi, al party filosofico, ma che almeno, come alle feste dei bambini, non si dimentichi di invitare un clown.

Chiavetta Usb, un’alternativa alle pompe funebri. Il saggio analitico
Diego Marconi, nel libro Il mestiere di pensare (Einaudi, pagine 160, e 10), racconta come in Italia, e non solo, la filosofia sia diventata un’attività praticata non da pochi saggi, ma da migliaia di professionisti. Questo processo porta con sé un’intensa specializzazione che ha nefaste conseguenze: una buona parte di ciò che i filosofi scrivono è comprensibile davvero a pochi. Poi, come avviene nelle scienze naturali, in matematica e nelle scienze sociali, molti filosofi sembrano occuparsi di piccole questioni, relative a programmi di ricerca di cui soltanto pochi eletti hanno le chiavi di accesso
Il pamphlet profetico
A che servono i filosofi? è il titolo di un libro polemico del saggista francese Jean-François Revel (pseudonimo di Jean-François Ricard, 1924-2006) pubblicato nel 1958 in Italia dall’editore Lerici, nella traduzione di Maria Vittoria Predaval. I pensatori presi di mira reagirono aspramente contro l’autore, che rispose con il pamphlet La cabale des dévots (Juillard, 1962), mai pubblicato in Italia
Traduzioni mancate
Non sono usciti nel nostro Paese neppure testi sulla crisi della filosofia come Oubliez les philosophes! di Maurice T. Maschino (Éditions Complexe, 2001) o i due libri di Frederick Crews The Pooh Perplex (University of Chicago Press, 2003) e Postmodern Pooh (Northwestern University Press, 2006)

Corriere La Lettura 20.4.14
Il cavallo di Troia era Enea
Una riscrittura marchia come traditore l’eroe di Virgilio
di Luciano Canfora


Nel mondo greco e romano, cristiano e bizantino, la continuazione di un’opera storiografica precedente fu la norma. Così si venne costituendo un vero e proprio «ciclo» storico, di cui sono giunti a noi soltanto singoli spezzoni. Ma in realtà tutto incomincia con Omero. Nel caso dell’Iliade i problemi si complicano. Intorno al grande poema — che tratta di un periodo brevissimo, e neanche conclusivo, della guerra dei Greci contro la grande potenza microasiatica di Troia (XI secolo a.C.) — fiorì, ben più tardi, una serie di poemi che ne completavano il racconto: ad esempio con l’arrivo di Pentesilea e delle sue Amazzoni sopraggiunte in aiuto dei Troiani dopo la morte di Ettore. Altri poemi raccontavano altri «ritorni» meno famosi di quello di Odisseo.
Non ci si avventurava però a raccontare con pari ampiezza i presupposti dell’Iliade , che infatti comincia in medias res, quando ormai i Greci hanno alle spalle ben nove anni di guerra logorante. A ricostruire l’intera vicenda, risalendo addirittura a una prima guerra di Troia condotta dai Greci contro il padre di Priamo e seguitando oltre l’Iliade fino alla cattura proditoria e alla distruzione di Troia, provvide un simpatico falsario (forse databile all’inizio della nostra era) che si celò dietro il nome di Darete Frigio. Darete, sacerdote di Efesto e padre di due combattenti troiani sgominati dal greco Diomede all’inizio del V libro dell’Iliade , costituiva un’ottima «copertura» per suggerire ai lettori che questa narrazione proveniva addirittura da un contemporaneo, testimone diretto dei fatti narrati, diversamente da Omero, vissuto secoli dopo.
Un altro celebre falsario, Tolomeo Chenno (I d.C.), è il primo a far cenno a una «Iliade Frigia». A noi è giunta in versione latina una Daretis Phrygii De excidio Troiae historia , citata per la prima volta da Isidoro di Siviglia (VI d.C.) e forse nata non molto prima. Per gabellarsi come antica, l’opera è preceduta da una lettera di Cornelio Nepote a Sallustio, recante l’inverosimile notizia della scoperta dell’autografo di Darete! Nel Medioevo latino ebbe un successo enorme, a giudicare dai molti manoscritti del X secolo. Nel XIII secolo fa capolino addirittura una versione più ampia, scoperta da Courtney nel 1955. Ora, per Castelvecchi editore, l’opera appare ritradotta con brillantezza e qua e là compendiata da Luca Canali (Storia della distruzione di Troia ); segue un ottimo corredo di note a cura di Nicoletta Canzio.
Naturalmente il cosiddetto Darete non sa nulla dei nove anni non narrati da Omero. Perciò il suo racconto è straripante di dettagli per quel che attiene agli antefatti della guerra, è poverissimo sui nove anni che precedono l’Iliade , è rapido nel riassumere quanto narrato nell’Iliade ed è invece originalissimo, oltre che fantasioso, per quel che riguarda il finale della vicenda, antitetico rispetto a quanto racconta Virgilio nel II libro dell’Eneide .
L’originalità del libro di Darete, a suo modo un antenato del romanzo storico, consiste nell’andare controcorrente rispetto alla tradizione. Per lui, le ragioni dei Troiani sono molto forti; il ratto di Elena era ben poca cosa rispetto ai torti dei Greci, già responsabili di una prima devastazione di Troia; Priamo non fu per nulla scontento dell’arrivo a corte di Elena (di cui l’autore segnala le bellissime gambe); spiritosi i vari ritratti dei personaggi femminili (Briseide era «deliziosa, ma pudica», Andromaca era «alta, casta, ma gradevole», Cassandra «di statura media e bocca alquanto rotonda», Polissena, figlia di Priamo, della quale si invaghirà Achille con esiti fatali, era «la più attraente di tutte le sorelle e di tutte le amiche»); strabico invece e anche balbuziente era Ettore, così come balbuziente era Neottolemo, figlio di Achille. Agamennone buono e saggio, Menelao un mediocre. Inverosimilmente le riunioni decisive dei Greci si tengono ad Atene.
Priamo è un bellicista: ostile a ogni compromesso, egli si ostina nel protrarre una guerra ormai perdente. Di qui discende il prodursi del fatto più clamoroso e palesemente anti-virgiliano del racconto di Darete: il tradimento di Enea. Enea, coadiuvato dal padre e da Antenore, decide, per porre termine alle guerra, di aprire le porte al nemico: tutti e tre in combutta con Sinone agli ordini di Agamennone. Persino la leggenda del cavallo viene fatta a pezzi. Per Darete si trattava di una protome equina, scolpita sulle porte Scee, attraverso le quali Enea e i suoi complici fanno entrare i Greci. E non basta. Enea vorrebbe restare nella città vinta e ridotta a poche migliaia di abitanti, ma ha chiesto con insistenza ad Agamennone la salvezza di Ecuba e di Elena; Agamennone gliela concede, ma gli ordina di togliersi dai piedi e di andarsi a cercare un’altra terra dove sopravvivere. Così l’Eneide viene annichilita.
Ci si può interrogare sul senso di questo strano racconto. In assenza di qualunque plausibile notizia sul vero autore, si possono solo formulare ipotesi. L’intento appare parodico, i ritratti dei personaggi sembrano confermarlo e fanno pensare ad un’altra celebre parodia storiografica, la Storia vera di Luciano di Samosata. Si può inoltre pensare — e le due ipotesi non sono in contrasto — a una consapevole dissacrazione dell’epopea romana, incentrata sul pio Enea, antico progenitore. Qui Enea diventa il traditore incallito e consapevole, alla fine maltrattato dallo stesso nemico al cui servizio si è posto. Nella temperie augustea e post-augustea, impregnata di rivendicazione occidentalistica e anti-ellenistica, si levarono voci di dissenso: ad esempio Timagene di Alessandria, che Augusto scacciò dalla sua casa, in quanto maldicente antiromano. Dopo Azio e la fine dell’ultimo regno ellenistico, questi Greci sollevavano ad esempio la questione: se Alessandro Magno si fosse rivolto a Occidente che brutta fine avrebbe fatto Roma. E Livio, intellettuale organico augusteo, si affrettò a scrivere pagine e pagine per dimostrare che Roma avrebbe sconfitto Alessandro, perché disponeva di validi consoli! In questo clima di insofferenza verso l’asfissiante conformismo augusteo, il cui prodotto più indigesto è il VI libro dell’Eneide , forse bene si inquadra l’impennata iconoclastica dell’altrimenti ignoto Darete Frigio.

Corriere La Lettura 20.4.14
Il terzo uomo: tabù cinese
di Marco Del Corona


Per comprendere gli attriti di oggi tra Pechino e gli Usa, suggerisce lo storico di Oxford Rana Mitter, si guardi anche alla Seconda guerra mondiale, a come il contributo cinese alla vittoria finale «sia stato rimosso». Alla tesi, espressa nel suo vigoroso China’s War with Japan 1937-1945 (Allen Lane, pp. 458, £ 25), Mitter ne aggiunge una ulteriore. Di fronte all’invasione giapponese, gli attori cinesi non erano i soliti due, il nazionalista Chiang Kai-shek e il comunista Mao Zedong, rivali alleati. C’era pure Wang Jingwei, già rivoluzionario a fianco del padre della prima Repubblica cinese, Sun Yat-sen, ma alla fine capo del governo collaborazionista di Nanchino, che Tokyo riconobbe nel 1940. Wang e i suoi, scrive Mitter, «ritenevano la discussione negoziale di una pace giusta l’unica soluzione alla crisi». Li animava il «genuino entusiasmo ideologico» per un pan-asianesimo guidato sì da Tokyo, ma preferibile a «un’alleanza con britannici o americani». Patriota a modo (troppo) suo, Wang. «Traditore per mille generazioni» per la Repubblica popolare che lo ha cancellato: l’imbarazzante terzo uomo, il cinese che preferì i giapponesi, è un tabù accademico e politico. Ma così, vista da Pechino, la storia resta monca.

Il Sole24ore Domenica 20.4.14
DSM-5
Le tavole della discordia
Tra molte critiche è arrivato il nuovo Manuale Diagnostico per psichiatri che non è né buono né cattivo. Va solo usato bene
di Vittorio Lingiardi


Dal 1952,in media ogni 15 anni, l'astronave Dsm, il Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali dell'American Psychiatric Association (Apa), atterra sul pianeta degli psichiatri e dei loro pazienti, cioè tra noi. Ora è la volta della quinta edizione, di cui su queste pagine si è più volte parlato. Da oggi, chi vorrà consultarlo in italiano potrà farlo, nell'edizione introdotta da Mario Maj, curata da Massimo Biondi, fortemente voluta dall'editore Raffaello Cortina e realizzata a tempo di record grazie al coordinamento editoriale di Raffaella Voi.
Come sempre, ma questa volta di più, l'uscita del Manuale è stata accompagnata da discussioni, petizioni, attese messianiche e boicottaggi annunciati. E da notevoli conflitti interni all'Apa (il caso più noto è quello dei disturbi di personalità, che dovevano essere rivoluzionati e invece sono rimasti gli stessi, salvo l'aggiunta di un complicato modello alternativo ancora tutto da mettere alla prova).
Non è difficile immaginare la varietà di inclusioni ed esclusioni diagnostiche che i vari Dsm hanno visto nel corso del tempo. Edizioni che hanno rispecchiato le tendenze scientifiche del momento e le loro inevitabili implicazioni politiche. L'approccio è sempre di tipo medico, ma il passaggio dalla psichiatria dinamica delle prime edizioni a quella biologica delle ultime è stato inesorabile. Come pure l'aumento del numero delle diagnosi e delle pagine. Pagine che per alcuni portano ordine e razionalità nel mondo delle diagnosi (e delle terapie, altrimenti impensabili), per altri portano superficialità, «oggettivismo autoritario», medicalizzazioni inutili, grandi guadagni per le case farmaceutiche. Uno stimato psichiatra inglese, Peter Tyrer, ha causticamente sciolto l'acronimo Dsm in Diagnosis as a Source of Money o nella variante Diagnosis for Simple Minds. Allen Frances, deus ex-machina del Dsm-IV, al Dsm-5 ha dedicato due libri dai titoli eloquenti: Non curare chi è normale (Boringhieri, 2013) e La diagnosi in psichiatria. Ripensare il Dsm-5 (Cortina, 2014, in libreria a maggio.). Attenzione però a non usare il suo lavoro in funzione antidiagnostica. Frances critica, anche severamente, alcuni aspetti del Dsm-5 (in particolare l'iperdiagnosticisimo), ma rimane un grande sostenitore dell'importanza della diagnosi.
Veniamo al manuale (un'accurata recensione ragionata scritta da Paolo Migone la trovate sulla rivista «Psicoterapia e Scienze Umane», n. 4/2013). Prima di tutto la sua struttura. Tre sezioni: principi fondamentali, criteri diagnostici e codici, nuovi modelli e strumenti. Una delle novità principali è l'abbandono del sistema multiassiale (nella precedente edizione il paziente era valutato su cinque assi indipendenti: disturbi clinici, disturbi di personalità, condizioni mediche, problemi psicosociali, valutazione globale). Questo anche per rendere il Dsm-5 più coerente con il sistema diagnostico dell'Organizzazione Mondiale della Sanità, l'Icd. Altra novità è l'abbandono di un approccio rigidamente categoriale (presenza/assenza di un disturbo) e l'introduzione di aspetti dimensionali (tratti e sintomi considerati lungo un continuum di intensità). Innovativa è anche la presentazione dei disturbi in base all'età d'esordio. Nuove sono la formulazione culturale del caso e la Scheda di Valutazione delle Disabilità dell'Oms (altre scale di valutazione sono disponibili online). Impossibile riassumere in poco spazio i cambiamenti dei vari quadri clinici (in particolare dei disturbi dell'umore, d'ansia, dell'adattamento, dell'identità di genere - quest'ultimo passa, con implicazioni sociali notevoli, da disturbo a disforia). Da segnalare l'esistenza di un piccolo Dsm-5 companion, presto disponibile in italiano, dedicato all'esame diagnostico, con una sezione, udite udite, dedicata alla costruzione dell'alleanza con il paziente.
D'altro canto, molte sono le critiche. Mi limito a dei cenni. Alcune diagnosi sono problematiche, soprattutto se applicate in modo meccanico e pedante: per esempio quelle che implicano la connotazione di «dirompente» (applicata a comportamenti, impulsi, condotte, umore - soprattutto nell'infanzia); il disturbo neurocognitivo lieve nell'anziano (da molti giustamente considerato fisiologico e quindi da non caricare di allarme diagnostico); l'accorpamento delle diagnosi di abuso e dipendenza da sostanze. Al Dsm-5 Frances rimprovera di alimentare la confusione tra un lutto e un episodio depressivo, anche se una nota dettagliata mi sembra fornisca indicazioni precise (pag. 146, edizione italiana). Infine, viene "rimossa", e questo sì è un passo indietro, la Scala per valutare i meccanismi di difesa.
La complessità delle operazioni diagnostiche e la loro manualizzazione non può essere banalizzata in posizioni unilaterali pro o contro il Dsm. Anche perché c'è il rischio che questa polarizzazione nasconda atteggiamenti perniciosi (antidiagnosticismo radicale, opposizione mente-cervello, antipsichiatria naif, ecc.). Un contributo semplice, ma ragionevole, è ricordare che il problema non è se il Dsm è buono o cattivo, ma se viene usato bene o male. Distinguere tra carta geografica e esperienza del viaggio; tra diagnosi, assessment e formulazione del caso. Come sempre, insomma, è il clinico che fa la diagnosi. Sappiamo bene, con Virginia Woolf, che «you can't sum up people» (non si può sintetizzare la gente). Se il clinico è ottuso, burocratico o disumano, lo sarà indipendentemente dagli strumenti che adotta.
Non sono però d'accordo con Eugenio Borgna, intervistato su «L'Espresso», quando banalizza il Dsm e lo liquida come una scorciatoia arrogante usata per sostituire il colloquio. Non vorrei che dietro la critica radicale al Dsm si annidasse un'avversione "umanistica" a ogni tentativo di costruire un manuale diagnostico fondato su ricerche empiriche. La frase «loro saranno anche scientifici, ma noi curiamo le persone» è pericolosa e può confondere le idee. Chi di noi non ama Rilke? Ma non si può diagnosticare la depressione con Rilke, né un disturbo di personalità con Dostoevskij.
Usate il Dsm insieme ad altri sistemi diagnostici (per esempio il Manuale Diagnostico Psicodinamico, Pdm, o l'assessment Swap per la personalità) e non consideratelo un Vangelo. Il Dsm permette di scattare una prima foto del paziente, di confrontarsi con dati epidemiologici, di organizzare campioni clinici per la ricerca, di condividere un linguaggio (nel tentativo di proteggere i pazienti dai danni della diagnostica "creativa"). Poi, se non sapremo guardare e ascoltare, comprendere e comunicare, non solo con il paziente, ma anche con noi stessi e con i nostri colleghi, la colpa sarà nostra, non del Dsm.
Aa.Vv., Dsm-5 Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali, Raffaello Cortina, Milano, pagg. 1168, € 129,00
 
Il Sole24ore Domenica 20.4.14
La solitudine di Gabo
In più occasioni si era rammaricato del fatto che l'America Latina non riuscisse a richiamare l'attenzione del mondo
di Franco Avicolli


Cent'anni di solitudine arrivò dall'America Latina nell'effervescenza di anni in cui la "fantasia al potere" entusiasmava una gioventù che si considerava penalizzata dal sistema di relazioni del tempo. L'opera di Gabriel García Márquez portava un immaginario fantastico che sembrava rivelare la radice elementare - la fantasia, appunto - che avrebbe alimentato con semplicità i cambiamenti. Non era forse quella l'atmosfera che aveva generato la rivoluzione cubana e Che Guevara? E d'altra parte, come non rimanere affascinati dall'indifferenza del colonnello Aureliano Buendìa che pensa al giorno in cui suo padre lo aveva portato a conoscere il ghiaccio mentre lo stanno fucilando? E che dire dei prodigi di una calamita che fa sentire lo scricchiolio delle assi di legno in cui dei chiodi si dimenano come fossero ballerine? E di Remedio la bella che ascende al cielo con le lenzuola che sta stendendo? E delle formiche, della malattia che fa perdere la memoria e costringe addirittura a memorizzare per iscritto la funzione della vacca? E dei quattro anni, undici mesi e due giorni di pioggia?
Eppure, quei "prodigi" distribuiti in un ordine temporale congruo erano riconoscibili come un dato normale dell'esperienza storica e una lettura più serena avrebbe permesso di entrare in una versione attualizzata del Nuovo Mondo a cinquecento anni dalle fantasiose cronache della Conquista che riferivano di una natura rigogliosa e però comprensibile solo con accostamenti alla flora europea, di oro e ricchezze e di nativi che forse non avevano un'anima, ma che sì avevano la coda come testimoniano le immagini dell'epoca. Nel frastuono delle nostre vicende non si sentiva allora - e ora? - il galoppare di Ronzinante in un tempo non suo e non si incrociava lo sguardo triste di Don Chisciotte che vaga in un mondo che lo mostra nel ridicolo di azioni che hanno perduto senso. Nel tempo della Dolce vita e di Amarcord, in America Latina uno scrittore raccontava il mondo in una modalità visionaria alquanto felliniana, eppure, allora - e ora? - le ardite visioni di Fellini che introducevano nell'essenza dell'umano erano, se espresse alle latitudini dell'America Latina, una graziosa maniera di proporre al lettore un mondo… fantastico e non tragicamente reale.
Ma quale insensibile destino conduceva Macondo alla cenere senza che al suo esterno ci fosse qualcuno che se ne facesse sostanzialmente partecipe?
Macondo viene fondato da persone che vanno verso occidente e comunque nella direzione opposta al mondo abitato; per un certo tempo queste ignorano completamente la geografia della regione in cui vivono: non rivela la vicenda una certa affinità con le gesta di Colombo? E non c'è nella spedizione di Ursula alla ricerca del figlio partito con i gitani, l'eco di un'umanità che cerca un varco che consenta un qualche vincolo con il mondo?
Macondo cresce con le conoscenze che vengono dall'esterno: il ghiaccio, la calamita, il sestante, segni inequivocabili delle conquiste scientifiche dell'uomo che qui sono però solo delle merci portate dai gitani di Melquiades. Il canto e la musica con l'immancabile italiano, il telefono, il cinema e anche la chiesa, la scuola e lo stesso sistema di governo, il treno e infine le banane e coloro che ne iniziano la coltivazione, tutto, insomma, viene da fuori. E da lontano arriva anche la memoria che ha inizio con la morte di Melquiades e il monumento a lui innalzato su cui è scritto tutto quello che si sapeva di lui: il nome. E però è del posto la malattia dell'oblio di cui è portatrice inconsapevole Rebecca, un'incerta creatura di cui sono ignote le origini e che arriva nella casa dei Buendia con le ossa di una sua ava e la certezza della propria condizione fisica di nativa.
Gli eventi dicono di una condizione in cui Macondo vive il tempo nell'attesa e nella ripetizione di atti che rispondono sempre alla stessa logica anche se i contenuti possono essere diversi; ed è proprio il fondatore di Macondo, José Arcadio Buendìa, marito di Ursula, a rendersi conto che è sempre lunedì e ne ha coscienza il martedì e il mercoledì; e al venerdì, dopo una notte insonne passata a invocare i morti e «prima che qualcuno si alzasse, tornò a osservare le sembianze della natura, fino a quando non ebbe il minimo dubbio che continuava a essere lunedì». Egli comincia a distruggere tutto quello che è attorno a lui come volesse eliminare i segni di azioni inutili e di un tempo irreale e viene perciò legato a un albero dove finirà i suoi giorni. Ritiratosi a Macondo, Melquiades ne scrive le vicende in sanscrito e non secondo il «tempo convenzionale degli uomini», ma concentrando «un secolo di episodi quotidiani, in modo tale che tutti coesistessero in un istante». L'ultimo dei Buendia leggerà quei fogli mentre Macondo scompare con le stesse pagine scritte dal gitano, senza riuscire a essere storia.
L'impossibilità di andare oltre se stesso, di essere memoria e riferimento di un proprio senso riconosciuto da un'alterità, segnano la fine di Macondo. Rinchiuso nella non misura, esso segue l'unico destino che gli è permesso e, come accade ad Amaranta Ursula e Aureliano, perde «il senso della realtà, la nozione del tempo, il ritmo delle abitudini quotidiane», in una condizione in cui tempo e azioni si legittimano reciprocamente, come la passione che li travolge e che dà loro la sensazione che solo «le ossessioni dominanti prevalgono contro la morte».
Quanta America Latina c'è in Cent'anni di solitudine? Credo che nell'opera ci siano molte chiavi per aprire le porte di quella regione del mondo e che trovarle significa anche dialogare con esso in modo culturalmente salutare.
In più occasioni, Garcìa Márquez ha espresso il rimpianto e il dolore per un amore non corrisposto sottolineando che i fatti che hanno caratterizzato la storia dell'America Latina sembrano insufficienti per richiamare l'attenzione del mondo; infine ha concluso che le «risorse convenzionali» non sono riuscite a «rendere credibile la nostra vita» e che è questo purtroppo «il nodo della nostra solitudine».
Con Il labirinto della solitudine, Octavio Paz aveva proposto nel 1950 una solitudine messicana dell'essere latinoamericano. Vi ritornò con il Postscriptum del 1969 e con un'ulteriore riflessione del 1975, Ritorno al Labirinto della solitudine, dichiarando che l'opera è «un tentativo degli emarginati, per, letteralmente, recuperare la coscienza: tornare a essere soggetti».
Forse la solitudine esistenziale del l'America Latina è una buona ragione per una riflessione sulla storia.
 
Il Sole24ore Domenica 20.4.14
Conseguenze del libero pensiero
Perché uno spirito anticonformista come Swift decise di attaccare il «free-thinking» di Collins?

Il suo animo conservatore ne prevedeva alcuni pericoli
di Massimo Firpo


In un libro apparso nel 1935 e ormai diventato un classico, La crisi della coscienza europea, lo storico francese Paul Hazard definiva con quel titolo una svolta decisiva della cultura europea, grosso modo tra il 1685 e il 1715. Due date che segnavano per la Francia gli ultimi e difficili anni del regno di Luigi XIV, tra la revoca dell'editto di Nantes, con l'abrogazione della libertà di culto per i calvinisti, espulsi dal Paese, e la morte dell'ormai decrepito re Sole, che consegnava un regno in macerie a un'incerta successione; e per l'Inghilterra la gloriosa rivoluzione che, con la cacciata di Giacomo II Stuart, inaugurava una fase nuova della vita politica, fondata sul primato del Parlamento anziché sul diritto divino dei re, e la salita al potere di Robert Walpole, che avrebbe aperto la strada a una lunga egemonia whig. A fare da sfondo a quella svolta erano dunque la crisi della Francia, prigioniera di un assolutismo diventato sempre più bigotto e autoritario, e l'ascesa dell'Inghilterra, libera e tollerante, che nel 1734 Voltaire avrebbe additato a esempio di civiltà nelle sue Lettres anglaises. Fu allora che si chiuse definitivamente il secolo di ferro delle guerre religiose, degli scontri confessionali, delle controversie teologiche, con tutto il suo seguito di violenze, di persecuzioni, di fanatismo, e si aprì un'altra stagione, che di lì a breve avrebbe inaugurato l'età dei Lumi. Dalla cultura dell'obbedienza e dei doveri si passò allora a quella della libertà e dei diritti, spiegava Hazard, che dedicava pagine penetranti all'Inghilterra di sir Isaac Newton e delle Boyle Lectures, di John Locke e dei suoi irrequieti discepoli, di John Toland, di Matthew Tindal, di Anthony Collins.
Fu quest'ultimo a pubblicare nel 1713 un celebre Discourse of free-thinking, in cui teorizzava il diritto universale di pensare liberamente ed esprimere liberamente il proprio pensiero, negando l'esistenza di qualunque autorità morale, civile o religiosa che potesse arrogarsi il diritto di limitarlo o reprimerlo. In un'Inghilterra allora governata dai tories, quel libro di grande successo fu subito al centro di aspre polemiche che ne denunciavano il carattere eversivo nell'emancipare la ragione umana dai poteri di controllo e repressione tanto dello Stato quanto della Chiesa. Tra i critici più feroci fu Jonathan Swift, che pure era uno spirito libero, un giornalista corrosivo, capace come pochi di usare l'arma della satira, come farà poi nei suoi celebri Viaggi di Gulliver, e non certo un bigotto, nonostante il suo ruolo istituzionale nella Chiesa anglicana d'Irlanda in qualità di decano del Trinity College a Dublino. Lo dimostrano la sua feroce Tale of the Tub (Favola della botte), pubblicata anonima nel 1704, in cui egli non risparmiava battute al vetriolo contro le religioni rivelate e il clero (anglicano, calvinista o cattolico che fosse), e i suoi violenti attacchi contro i più accaniti presbiteriani, gli entusiasti, convinti di avere il monopolio della parola di Dio e pronti a scagliarsi contro chiunque non la pensasse come loro. E allora, perché Swift se la prendeva con Collins, pubblicando una sintesi parodistica del suo libro, definito come «una breve e completa sintesi di ateologia»?
Lo faceva perché a suo giudizio, nutrito di rabbiosa avversione contro il partito whig, contro la sua cultura, contro il suo ottimismo antropologico, un conto era pensare liberamente e un altro dire pubblicamente quello che si pensava, se ciò rischiava di mettere a repentaglio l'autorità della Chiesa e dello Stato, e con essi l'ordine sociale. «Ogni uomo - scriveva - in quanto membro dello Stato dovrebbe accontentarsi di possedere le proprie opinioni in privato, senza confondere il prossimo o disturbare il pubblico». Riteneva sbagliato e inutile imporre una qualche fede religiosa, e poteva anche capire che qualcuno non avesse alcuna fede religiosa, ma in questo caso il bene pubblico gli imponeva di tenere la cosa per sé, di non manifestare la sua incredulità, definita come «un difetto che dovrebbe essere nascosto quando non si riesce a dominare». La Chiesa anglicana non chiedeva fede ai suoi adepti, ma solo obbedienza, non reclamava il possesso delle loro anime e dei loro cuori, ma solo il conformismo e la moralità dei loro comportamenti. Non altro. Scrutinare i sacri testi non serve a nulla, affermava Swift, anzi è pericoloso, perché la religione si fonda sul mistero e non sulla ragione. Certo, da quest'ultima possono scaturire dubbi corrosivi, che in sé sono del tutto legittimi poiché la ragione stessa è opera di Dio, «purché io abbia cura di nascondere agli altri quei dubbi e faccia del mio meglio per dominarli, e purché essi non abbiano alcuna influenza sulla condotta della mia vita». Insomma, Swift era un conservatore così disilluso sulle virtù degli uomini da ritenere indispensabile che ci fossero autorità costituite che gliele imponessero. Di qui la sua insofferenza per quel blaterare di libero pensiero senza rendersi conto dei rischi che comportava, per quella fiducia nella libertà che rischiava solo di recidere le briglie che tenevano a freno i vizi degli uomini.
Ma a differenza dei reazionari, che difendono quel che non c'è più, i conservatori sono talora in grado di guardare al proprio mondo e ai tentativi o alle speranze di cambiarlo con la smagata lucidità e l'impietoso cinismo di intelligenze consapevoli della infinita complessità delle cose. Con luciferina abilità retorica, per esempio, Swift faceva dire a Collins che un libero pensatore deve necessariamente concludere «che il cristianesimo è tutto un imbroglio», lasciando però intuire il caos di opinioni e comportamenti che ne sarebbe derivato; e si divertiva a prenderlo in giro con l'evocazione della tolleranza esistente nella «felice monarchia» dell'Impero ottomano in una pagina in cui la sua penna sapeva diventare davvero feroce: «Là i cristiani e gli ebrei sono tollerati e vivono a loro agio se riescono a trattenere le loro lingue e a pensare liberamente, purché non mettano mai piede nelle moschee né scrivano contro Maometto: qualche saccheggio dei giannizzeri ogni tanto è tutto ciò che devono temere».
 
Il Sole24ore Domenica 20.4.14
Scrivere è essere ciechi
Per Cesare Garboli la lettura era una strenua e dolorosa lotta per estorcere una scintilla di luce o una traccia di realtà
di Massimo Onofri


Sono già passati dieci anni dalla morte di Cesare Garboli, ma la sua presenza nella cultura italiana è, se così si può dire, sempre più viva. Così com'è crescente l'influenza che la sua opera, ancora perfettamente sigillata in una riluttante opacità, esercita sulla critica e la saggistica del nostro presente. Fatto ancor più rilevante, soltanto si pensi che La stanza separata, ovvero l'esordio tardivo di un quarantenne già circonfuso dall'aura d'una leggendaria precocità, sviluppatasi su giornali e riviste, lo collocava irrimediabilmente in una posizione che era del tutto anomala e assai laterale.
Cosa voglio dire con ciò? Che La stanza separata appariva nel 1969, appena un anno dopo, cioè, che Roland Barthes aveva pubblicato un saggio dal titolo definitivo, La morte dell'autore, calato come una pietra tombale su un'idea di critica antica e nobile fondata sull'arte del ritratto, che aveva ravvisato un secolo prima in Sainte-Beuve il suo più grande classico. E l'aggiornatissimo Garboli come si comportava? Faceva spudoratamente le prove, ma così senza parere, di quella sua speciale disposizione - che avrebbe poi ritenuto patologica - di "scrittore-lettore" non attratto dai libri, ma soltanto da chi li aveva scritti, tanto più attrattivi proprio perché frequentati di persona e qualche volta contati tra i più cari amici: poco importa se Mario Soldati o Giorgio Bassani, Sandro Penna o Vittorio Sereni, Alberto Moravia o Elsa Morante, Pietro Citati o Enzo Siciliano. Così, del resto, scriveva nel 1985, introducendo i due Meridiani dedicati a Natalia Ginzburg: «La confusione tra una persona e i suoi libri - confusione che vorrei definire "malata" - si presuma che abbia un inizio, un principio, nel momento in cui si verifica un incontro e nasce un'amicizia». Tutto questo, ovviamente, con la splendida eccezione di Molière e Pascoli, oggetti d'una passione filologica e storico-antropologica, furiosamente civica.
Cominciava subito, all'insegna del paradosso, una vicenda umana e letteraria tra le più misteriose del secondo Novecento. E che si nutriva di paradossi ulteriori, vaticinati dentro domande che innervavano spesso i suoi inconfondibili incipit. Come quello d'uno dei saggi più belli, ora raccolto in Storie di seduzione (2005), su uno dei suoi sicuri maestri, Longhi lettore: «Se non fossero mai stati dipinti dei quadri, Longhi avrebbe mai scritto un rigo?». E dunque: se la novecentesca e borghesiana biblioteca di Babele, costituita da testi dotati di vita propria e intertestualmente connessi, del tutto indifferenti al destino di chi li scrisse, fosse esistita davvero, non credo che Garboli avrebbe scritto una sola pagina: non aveva infatti alcun interesse per la letteratura come valore in sé. Né amava la lettura in quanto tale, affidandole magari l'esperienza d'un qualche piacere, benché si fosse professato più volte - lui che poteva attribuire alla definizione di critico, al massimo, un significato sindacale - «scrittore-lettore». Epperò, sul concetto di «scrittore-lettore» occorrerà intendersi, ricorrendo alle ormai chiosatissime parole che spese nella prefazione Al lettore degli Scritti servili (1989), poi riprodotte tali e quali in Storie di seduzione, che di quel libro costituisce l'integrazione e la sistemazione definitiva. Scriveva Garboli: «Esistono, secondo me, gli scrittori-scrittori e gli scrittori-lettori. Lo scrittore-scrittore lancia le sue parole nello spazio, e queste parole cadono in un luogo sconosciuto. Lo scrittore-lettore va a prendere quelle parole e le riporta a casa, come Vespero le capre, facendole riappartenere al mondo che conosciamo».
Insomma: da una parte gli scrittori-scrittori, che lasciano cadere le loro parole in un luogo irreale e sconosciuto, in modo da rendercelo abitabile; dall'altra gli scrittori-lettori che, con pazienza e una grande fatica, quelle parole vanno a recuperare, per ricondurle alla casa del significato, e così al nostro mondo, alla nostra realtà, consegnandocele come un eventuale contributo alla costruzione del senso della nostra vita. Senza il continuo e interminabile viaggio di andata e ritorno degli scrittori-lettori in quelle lande estreme e sconosciute, senza il loro lavoro di collaudo quotidiano, le parole scagliate lontano, oltre la soglia della realtà, dagli scrittori-scrittori resterebbero oscure, se non addirittura pleonastiche, come quelle d'un oracolo o un aruspice. Tanto più se si conferma vero - come appunto restò sempre vero per Garboli, il quale l'ha molte volte ribadito - che, laddove leggere significa vedere, scrivere è essere sempre ciechi. Ecco perché, per uno scrittore-lettore che s'incammina nemmeno troppo volentieri, ma costretto da una necessità di capire e capirsi, sui territori dell'immaginario, la lettura diventa sempre una guerra combattuta sino allo stremo, dolorosissima e solo momentaneamente liberatoria, per estorcere a quel buio cieco, in qualche modo e misura, una scintilla di luce, o almeno qualche larvale, fantasmatica, traccia della vita reale. Se le cose stanno così, si capisce che la sua fu una scommessa di chiarezza e verità, però costruita su premesse per così dire magiche, tutta giuocata cioè sul rapporto complicatissimo tra visibile e invisibile, tra vita e morte. Ecco perché la sua, rispetto a quella d'un altro scrittore-lettore come Franco Fortini, fu una posizione antipodica. Cosa che s'evince già dalla prima riga d'un articolo memorabile del 1978 dedicato a Questioni di frontiera, ora incluso in Falbalas (1990): «Se c'è un luogo dove non vorrei entrare neppure per tutto l'oro del mondo, questo è la mente di Franco Fortini». E poco più avanti: «Le sorprese del suo ingegno non amano la luce. Avvengono nel buio, all'ombra. Essere inaccessibile come l'ombra, inabitabile come l'oscurità e la tortuosità, ecco ciò che Fortini desidera». Farsi scrittore-lettore, non per dichiarare guerra all'irrealtà, non per estorcerle qualche brandello di vita vera, ma solo per rimanere ostinatamente e orgogliosamente segregati, come Fortini, in un piranesiano carcere d'invenzione, questo, Garboli, non l'avrebbe mai potuto sopportare.
 
Il Sole24ore Domenica 20.4.14
Scrittori nell'Arca
Una nuova edizione di «Dopo il diluvio», il libro nel quale i grandi autori italiani raccontavano il Paese nel primo dopoguerra
di Giuseppe Lupo


Ci sarà senz'altro una ragione se l'immagine di una Olivetti Lettera 22 sia finita sulla copertina della nuova edizione di Dopo il diluvio. La prima che mi viene in mente ha un'ascendenza simbolica: per tracciare il «sommario dell'Italia contemporanea» (così il sottotitolo) bisognerebbe ricorrere alla scrittura meccanica e non più alle penne stilografiche, occorre battere i tasti di un ideale pianoforte e far sentire un altro tipo di musica, alternativo al fragore delle bombe e alla metrica delle mitragliatrici, che avevano trascinato la nazione sotto i fulmini e i tuoni e l'infinita pioggia narrata nella Genesi. In effetti, il disegno in primo piano propone un suggestivo legame con il contesto in cui il libro era stato concepito e pubblicato (il 1947, per i tipi di Garzanti, dopo una macchinosa incubazione) e riesce a coniugare l'urgenza di mettersi al lavoro, la necessità di rimboccarsi le maniche per avviare il processo di ricostruzione postbellica con i principi di modernità che la fabbrica di Ivrea esprimeva attraverso i suoi prodotti. Questo reclamava il Paese all'indomani del conflitto e questo cercò di realizzare Dino Terra, l'ideatore del progetto, chiamando a raccolta una trentina di scrittori e critici fra i più rappresentativi del panorama, ai quali affidò lo stesso incarico che era toccato a Noè quando, terminati i giorni del diluvio, aveva visto le acque ritirarsi ed era sceso dall'Arca per fare il resoconto di ciò che era sopravvissuto.
A ciascuno dei collaboratori Terra chiese di esplorare un preciso orizzonte: la missione della cultura a Ungaretti, l'urbanistica a Carlo Levi, le variazioni del paesaggio a Palazzeschi, i cambi nella mentalità borghese a Moravia, la condizione operaia a Bernari, la presenza della Chiesa a Piovene, la vita dei poveri a Jovine e quella dei contadini a Titta Rosa, la musica a Bontempelli, il cinema a Zavattini, il teatro ad Apollonio, la pubblicistica a Bigiaretti. Non importava che gran parte degli autori discendesse da rami mischiati o vantasse parentele spurie: neorealisti con ex savi della «Ronda», narratori del magico con frequentatori del dialetto, funamboli surrealisti con intellettuali di stampo cattolico o marxista. Contava piuttosto che avesse un atteggiamento in comune: la volontà di guardarsi intorno, contare i morti, riedificare le rovine. Noè smetteva i panni dell'ozioso e spazientito navigante per convertirsi alle fatiche dell'artigiano e dell'agricoltore. Ne venne fuori un concerto di voci dai presupposti ambiziosi, magari non sempre omogenee nel tono e nel linguaggio (alcuni capitoli - dice bene Guido Crainz nell'Appendice a questa nuova edizione - restano un po' al di sotto delle aspettative), tuttavia si rivelò un'operazione da prendere nella sua totalità, strumento indispensabile per comporre il «grande ritratto dell'Italia d'oggi» (sono parole dell'introduzione dello stesso Terra) o «una specie di grande tappezzeria o di mosaico». C'è di più. Dopo il diluvio non si limitò a manifestare un coro di intenzioni sfocate, a esaltare i caratteri di audaci chimere; sancì anche, e con prepotenza direi, il ruolo che i letterati intendevano svolgere nel processo di riabilitazione morale a cui non poteva non andare incontro una nazione smarrita. Ritratto, mosaico, tappezzeria sono termini che alludono al linguaggio figurale.
Con provocatoria perizia, da abile tessitore di trame critiche quale si dimostra ogni volta (si veda la nota filologica al testo), Nigro suggerisce la definizione di «atlante politico»: etichetta che, nel riproporre il volume, sottrae l'alone di esercizio letterario e conferisce il valore della testimonianza civile, la nozione di impegno. Che sia questa la chiave di lettura lo conferma il modo in cui sono assemblati i trenta capitoli: in posizione mediana tra la puntuale ricostruzione del progetto editoriale e la sua realizzazione (di cui dà conto Nigro nel saggio liminare) e la recensione «a caldo» che Raffaello Ramat consegnò alla «Rassegna d'Italia» pochi mesi prima delle elezioni politiche del 1948. A più di sessant'anni di distanza, il libro mette d'accordo i lettori di ieri e di oggi e continua a mostrare il proprio talento programmatico.
Non è soltanto questione se sia o non sia accreditabile il passaggio da una repubblica di letterati a una società di letterati, più astratta nei termini e negli esiti la prima rispetto alla seconda. Né è così privo di senso che ciascuno degli autori assuma lo sguardo del «dilettante» (alla maniera di Savinio, s'intende). L'antologia era ed è un'iniziativa indirizzata a fare della cultura la ricerca di una consapevolezza. Sicché riveste una funzione allusiva la domanda con cui Giacomo Noventa interrogava se stesso: «È veramente finito il diluvio? O forse non è incominciato neppure, e nonostante tutte le rovine, tutte le ingiurie e tutte le angosce, noi non abbiamo assistito finora che alla preparazione di questo castigo di Dio?». Visti i tempi, noi ce lo chiediamo ancora.
Dopo il diluvio. Sommario dell'Italia contemporanea, a cura di Salvatore Silvano Nigro, edizione originale a cura di Dino Terra, Sellerio, pagg. 344, € 20,00
 
Il Sole24ore Domenica 20.4.14
Gottfried Leibniz / 1
Ma tu in che menti esisti?
La «Monadologia» fu scritta 300 anni fa Ma come sono attuali quei quesiti sull'essere e sulla relazione tra la mente e il corpo
di Nicla Vassallo


«Leibniz ha profuso nella opera una tal messe di germi intellettuali, che a stento altri potrebbero competere con lui. Parte di questi germi vennero a maturazione durante il suo tempo e grazie al suo contributo, parte cadde in oblio e fu riscoperta e ulteriormente sviluppata in seguito. Ciò giustifica l'aspettativa che anche di certe altre parti della sua opera, che oggi sembrano morte e sepolte, si possa celebrare un giorno la rinascita». Corre l'anno 1880/81, quando Gottlob Frege così si esprime, memore dell'idea lebniziana, da lui amata e perseguita, di una lingua sive Characteristica universalis, idea geniale, mai realizzata, forse irrealizzabile, e, ora, più che mai riusciamo a intuirlo, non tanto a causa delle difficoltà tecniche dell'impresa, quanto della sua adeguatezza e validità, su un pianeta in cui non si riesce più a dialogare bene in una stessa lingua condivisa, o in lingue affini, poiché si rifiutano ignobilmente i riferimenti oggettivi alla realtà, preferendo loro il riferimento soggettivistico, egotistico a sé.
Anni prima, Denis Diderot, seppur lontano dalle posizioni di Leibniz, ne tesse gli elogi, magnificando un genio che, con fare eccelso, tratta di mondo, di Dio, di natura, di anima. Ma, come non ignoriamo, Leibniz, da poliedrico, rispetto anche a filosofi della propria epoca, si appassiona di ben altro e con successo, oltre alla filosofia. Basti ricordare analisi matematica e calcolo infinitesimale (benché di origine greco-ellenistica, e con una lunga storia successiva, la "base" e la portata moderna del calcolo si devono a Leibniz o a Newton?), senza poi menzionare altre professioni di Leibniz, tra cui quelle di diplomatico, giurista, storico, magistrato, e i suoi contributi nei settori della geologia e della linguistica.
Come ai tempi si usa e si può, i coinvolgimenti intellettuali e filosofici risultano plurimi; oggi, invece, in virtù di una buona specializzazione, non riusciamo, né dobbiamo interessarci di tutto, pena la funesta tuttologia. Così in Leibniz troviamo una cultura e un'innovazione, di cui in molti non dovrebbero incensare se stessi. Cultura e innovazione che si esprimono soprattutto nella sua Monadologia (Bompiani, con testo francese a fronte), saggio compatto, classificato perlopiù come metafisico, ma che oltre il metafisico va. Monadi che, nella loro varietà, costituiscono oggetti di base, di cui il resto è composto. Monadi che finiscono con rimandare a menti: "menti" che si limitano a percepire, senza altra elaborazione oltre l'osservazione, menti inconsapevoli, o addirittura prive di memoria (e, allora, rientrano nelle menti?; lungimirante però quest'idea, considerata l'odierna profusione di menti di tal fatta); menti in cui, invece, percezione e memoria si congiungono, su un piano animale non umano; menti animal-umane a cui pure e soprattutto la razionalità appartiene; ma chi si entusiasma ormai più dell'alto gradino conseguibile della mente? E, poi, a quali menti apparteniamo o aspiriamo appartenere, al di là di una possibile ipotesi di determinismo che non ci consentirebbe scelta?
A giusto trecento anni, la Monadologia (1714), non la Teodicea, ci induce a riflettere per la sua complessità, che, a volte cede tuttavia all'oscurità, già a partire dalle prime affermazioni su monadi-sostanze, problema cui Leibniz si dedica, a ogni modo, da tempo e che forse lo turba, vista l'urgenza di affrontarlo nella corrispondenza con Burcher de Volder (si veda il bel e recente volume The Leibniz-De Volder Correspondence. With Selections from the Correspondence Between Leibniz and Johann Bernoulli, Yale University Press).
Però, il punto al momento rilevante rimane la ragione, il ragionare tramite verità necessarie e il ragionare tramite verità contingenti, congiuntamente alla capacità di distinguere tra quanto è necessario e quanto è invece contingente. La rilevanza del punto, a mio avviso, non consta tanto nel fatto che, passando per la contingenza, Leibniz intenda approdare a una dimostrazione dell'esistenza di Dio, dimostrazione che notoriamente non funziona, bensì nel fatto che quanto è necessario e quanto è invece contingente si sia sviluppato in seguito, trovando uno dei suoi migliori culmini nella riflessione di un nostro contemporaneo, quale Saul Kripke, che affronta il problema della nostra identità personale e della nostra conoscenza: nel mondo possibile, non quello attuale, in cui tu esisti, in che senso puoi esistere e come si riesce a individuarti?
Leibniz giudica il nostro mondo, quello attuale, il migliore dei mondi possibili. Bene, se sei in grado di comprovare il giudizio da un punto di vista metafisico. Bizzarro, invece, dal punto di vista epistemico, perché per affermare che questo è il migliore dei mondi possibili, dovresti conoscere tutti gli altri. A ogni buon conto, come è noto, Voltaire nel Candide, ou l'Optimisme se ne prende gioco. Ottimismo pourquoi?
Last but not least, sorge da sempre il problema del raffronto tra l'uomo di corte, da una parte, e del dissidente dall'altra. Il Dio, cui intendevo solo accennare, torna e ritorna. Per Baruch Spinoza, ebreo, la cui amara vicenda esistenziale è nota, il Dio/dio si dispiega nella natura. Svolge (Spinoza), con la scomunica (o varie scomuniche?) il lavoro di tornitore di lenti, a dispetto della sua originale erudizione creativa, costretto all'esilio rispetto a tutto, relazioni d'amore incluse. Spinoza viaggia ben poco e, purtroppo, le curiosità (per lo più epistolari) nei suoi confronti, di intellettuale isolato, confinato, si rivelano spesso interessate, più che interessanti, pure sotto il profilo "amicale".
Nel 1676, non senza una certa dose e dote di opportunismo, che mai gli mancheranno, il giovane Leibniz si reca all'Aja per incontrare Spinoza. Ma lui, Leibniz, nutre mire di corte, cosicché del dissidente deve disfarsi, e, difatti, dopo l'incontro con Spinoza, tenta il tutto per tutto per demolirne il pensiero filosofico. Ciò ci rimanda al divario tra chi lusinga i corteggiabili, pur con belle teorie, e chi, in buona fede e con una bella ragione, ne critica i pregiudizi: scelte di vita ben diverse, come abilmente ci narra Matthew Stewart in Il cortigiano e l'eretico: Leibniz, Spinoza e il destino di Dio nel mondo moderno (Feltrinelli). E con ciò non intendo affatto implicare che non occorra leggere la Monadologia, con i suoi trecento anni alle spalle, con tutti i germi di cui Frege diceva. Per mille ragioni necessarie e sufficienti. A ogni modo, di cortigiani ne vediamo ormai troppi in giro, con poca arte, cultura, ragione. Lo stesso vale per i dissidenti.
 
Il Sole24ore Domenica 20.4.14
Gottfried Leibniz / 2
Sfida al diritto romano
di Maria Bettetini


Il grande oratore Protagora si accordò con l'allievo Evatlo: mi pagherai le lezioni quando avrai vinto la tua prima causa. Nobile gesto, con poco nobili conseguenze, perché Evatlo non ha nessuna fretta di iniziare la carriera di avvocato. Protagora allora lo cita in giudizio. Se Protagora vincerà la causa, però, secondo il patto non potrebbe chiedere il pagamento allo sconfitto Evatlo. Se Protagora invece perderà, sarà l'esito della causa a impedire ancora una volta il passaggio di denaro dalle mani dell'allievo alle sue. Sembra un caso insolubile, e come tale è stato considerato, ma Leibniz scioglie l'apparente paradosso logico distinguendo tra merito della causa e procedura. Protagora infatti non ha diritto a far causa a Evatlo prima della scadenza del pagamento, quindi prima di una causa vinta da Evatlo. Il caso, quindi, non rientra tra i venticinque «casi perplessi» del diritto, raccolti in un breve testo di Gottfried Wilhelm von Leibniz ora disponibile in traduzione italiana, con ricco commento a cura dello storico del diritto Carmelo M. de Iuliis. Un caso "perplesso" del diritto romano comune è un caso difficile da risolvere, ma non perché ambiguo. L'ambiguità comporta infatti la debolezza di due conclusioni opposte, mentre la perplessità si dà quando i due partiti hanno entrambi fondate ragioni, dal latino perplexus, che rimanda all'involuzione, ma anche alla connessione di fatti e diritti incompatibili fra loro. Non sarà sufficiente quindi la logica formale per risolvere un caso perplesso, dovrà intervenire l'argomentazione retorica, con riferimento ai fatti più che ai diritti, e soprattutto richiamando il sempre imponderabile diritto "naturale".
Ci troviamo dunque di fronte a una prova dell'altissima scientificità che sostiene l'intero lavoro di Leibniz, colui che cercò di sistematizzare e dunque risolvere nell'inclusione tutto ciò che riguarda l'umano. I casi perplessi sono infatti un preciso elenco di eccezioni che confermano la regola. Da un lato quindi lo scienziato umilmente prende atto di dati che non sono riducibili ai principi del suo paradigma scientifico, dall'altro li circoscrive e definisce con precisione, perché non siano usati come armi contro il sistema, ma abbiano il ruolo appunto di eccezione, e di eccezione non aporetica: i venticinque casi infatti si risolvono utilizzando semplicemente altre armi rispetto alla logica, quali la retorica, il buon senso, il richiamo allo jus naturalis. Il tedesco che inventò la calcolatrice ma non poté costruirla, che iniziò la matematica al calcolo infinitesimale, che tentò una grammatica della lingua universale e una geografia simbolica dei concetti, che organizzò il mondo definendolo il migliore di quelli possibili, trovandovi posto per le forme del male, colui che avrebbe voluto ridurre a sistema anche Platone, poteva forse evitare la sfida con il Codice di Giustiniano? Non la evitò, i giuristi impararono a trattare le leggi e la loro applicazione secondo le regole della logica formale e furono così messi in guardia: le eccezioni sono solo questa manciata di casi perplessi, il resto è arbitrio.
Gottfried Wilhelm von Leibniz, I casi perplessi in diritto (De casibus perplexis in iure), saggio introduttivo, traduzione e note di Carmelo Massimo de Iuliis, Giuffrè, Milano, pagg. 160, € 25,00
 
Il Sole24ore Domenica 20.4.14
Tanto amati da volerli rubare
di Massimo Gatta


È di questi mesi la notizia del ritrovamento di alcuni dei quasi cento rarissimi volumi rubati, in un decennio, da Anders Burius, capo della sezione manoscritti della Biblioteca Reale di Stoccolma. Fin dal primo giorno di lavoro il nostro Burius ha sottratto antichi volumi dalla biblioteca nella quale lavorava, per un valore totale stimato in quasi otto milioni di euro. Forse li amava, quegli antichi incunaboli che sottraeva, o forse no; di certo grazie a loro è diventato ricco, una vita agiata, abiti firmati, macchine di lusso. Poi la scoperta, nel 2004, da parte della polizia e una triste fine per il nostro biblioladro: volendo morire col gas fece saltare anche l'intero palazzo, undici feriti e un solo morto, lui.
Da allora la polizia non ha smesso di cercarli, quei preziosi volumi, e lentamente li sta recuperando in giro per il mondo. Gli ultimi due ritrovati nel luglio di quest'anno presso una libreria antiquaria di Baltimora, che a sua volta li aveva comprati dalla casa d'aste Ketterer Kunst, alla quale li aveva venduti il nostro biblioladro, Burius, in un triste gioco di scatole cinesi. Si tratta della Descrizione della Louisiana, libro secentesco di cucina, e di La valle illustrata del Mississippi, con la prima descrizione del Niagara, per un valore di quasi duecentomila euro.
Insomma il solito gioco dell'oca: dal biblioladro, alle librerie, alle case d'asta, ai collezionisti. In Italia la vicenda del bibliofurto alla Biblioteca dei Girolamini di Napoli è ormai acqua passata, non fa più notizia. Ma a confronto con i grandi ladri di libri del passato, sovente personalità di enorme fascino intellettuale, prestigio culturale e quarti di nobiltà, questi di oggi sembrano sprovveduti, mossi unicamente dal dio denaro, dilettanti allo sbaraglio. Inoltre, ed è l'aspetto che maggiormente riluce nell'analizzare la storia dei celebri bibliofurti del passato, questi avevano un loro preciso carattere bibliofilo, quasi fosse la faccia oscura della stessa medaglia, l'aspetto sinistro della bibliomania, quella che lenta scivola pericolosamente nella bibliofollia, per la quale tutto è consentito. Insomma nulla a che vedere col presente, delitti contro la cultura e il bene pubblico, ma nulla di più. Nomi inconsistenti che si volatilizzano nel giro di qualche giorno, quando l'inchiostro dei giornali è già secco. Paragonarli a un Domenico Passionei, a un Richard De Bury, a un Antoine Boulard, impossibile.
Oppure a un Guglielmo Libri conte della Sommaja (indagato da par suo da Giuseppe Marcenaro nel suo recente Wunderkammer, Aragno), o al marchese Tacconi, a un Pierre De Carcavi, o a Jean Aymon, impensabile. Già ci occupammo di quel tal bibliomane Don Vincente di Barcellona, libraio, ladro e assassino, giunto fino a noi grazie a Miquel y Planas e a Flaubert; altra stoffa, non c'è che dire. Un bell'affare questo del furto dei libri, ma che diventa pura letteratura quando a scriverne sono bibliografi di raffinata erudizione, professionisti del campo, spiriti spesso inquieti e che trovano un loro equilibrio nel descrivere manie e debolezze altrui, sublimando così le proprie, e intessendo storie che sembrano pura invenzione letteraria e sono invece storia culturale di un'epoca.
A tali altezze un solo nome spicca quello del polacco Albert-Antoine Cimochowski, ma per i "sodali" Albert Cim (1845-1924), di certo una bella penna dedicata interamente al mondo, spesso scivoloso, della bibliografia, e nel quale era peraltro in ottima compagnia: Anatole France, Charles Nodier, Octave Uzanne, Paul Lacroix e Charles Asselineau. Ebbene Cim giusto 110 dieci anni fa consegnava al tipografo-editore H. Daragon, per la sua Collection du Bibliophile, quello che è considerato il capolavoro bibliografico dedicato al bibliofurto d'autore, e per il quale Cim è notoriamente conosciuto, nel quale protagonisti sono, tra tanti altri, tutti i nomi sopra ricordati. Il suo è infatti un libro da centellinare come un Porto di gran marca, e da cui attingere saporosi aneddoti dal mondo della bibliomania criminale, della bibliofollia trafugante, della bibliofilia anomala e malata. Una bella penna, quella di Cim, da noi solo Giuseppe Fumagalli (Aneddoti bibliografici) e Francesco Lumachi (Nella repubblica del libro), riescono a tenergli testa. L'elegante libretto, recentemente ristampato in anastatica, ha una suddivisione in capitoli davvero intrigante: furto di libri per amore dei libri; furto di libri per denaro; furto di libri presso editori, rilegatori, librai; furto di libri commesso da clienti poco delicati e ladri professionisti nei confronti dei librai. Un universo parallelo, quello del bibliofurto, parallelo alla bibliofilia, perché come ha giustamente scritto Edmond Texier: «Di tutti gli esseri creati da Dio, il bibliofilo è, senza contraddizione, il più egoista e feroce». Difficile dargli torto, e dar torto a Cim che nel libretto enuclea e viviseziona il gotha del mondo letterario, mostrando quel dark side of the moon che abbiamo conosciuto e amato ascoltando i Pink Floyd, ma che nella cruda realtà della bibliorapina assume caratteri assai meno poetici.
E se il dottor Descuret studiò il povero notaio Boulard, uno degli eroi negativi di Cim, come modello per le sue teorie sulla malattia del collezionismo, come avrebbe studiato i tanti biblioladri di oggi, dai più grandi ai più miserevoli e dilettanti?
Albert Cim, Amateurs et Voleurs de Livres, Neuchâtel, Editions Ides et Calendes, pagg. 146, s.i.p.
 
Il Sole24ore Domenica 20.4.14
Rivoluzione all'italiana
Si ispiravano alle miniature medievali e ai pittori fiamminghi e italiani dell'epoca rinascimentale: la loro maestria e i loro colori brillanti sbalordirono i contemporanei
di Alison Smith


Per i Preraffaelliti, i materiali impiegati e le aspettative collegate al loro uso divennero un modo per costruire il senso dell'opera. Guardare indietro, all'arte che li aveva preceduti, era essenziale per il progetto che coltivavano come gruppo d'avanguardia: l'adozione di tecniche del passato divenne così uno strumento attraverso il quale cominciare ad affermare la propria identità nel presente.
Ai loro occhi, i metodi appresi da studenti alla scuola della Royal Academy erano inadeguati e inappropriati agli obiettivi che si prefiggevano. Respinsero quindi sia il metodo tradizionale della preparazione del fondo nelle tonalità della terra per definire le aree più scure di una composizione, sia l'uso del chiaroscuro, impiegato per definire ampie zone di luce e ombra e stabilire aree principali e secondarie all'interno di un quadro. Abbandonarono anche la tecnica accademica della facture, o pennellata ben visibile per trasmettere consistenza, e la fusione delle tonalità per armonizzare i diversi elementi di un disegno. Trassero invece ispirazione dalle nuove pratiche emergenti o marginali del loro tempo, la più sensazionale delle quali era la dagherrotipia, che produceva nitide immagini fotografiche dalla luminosità vitrea.
Un'altra fonte di ispirazione importante era la tecnica, tipica dell'acquerello, dell'applicazione del colore con piccoli tocchi su un fondo preparato in bianco, usata da affermati artisti di epoca vittoriana quali William Henry Hunt e John Frederick Lewis.
Soprattutto, i Preraffaelliti riconoscevano i meriti dell'arte pre-rinascimentale e si ispirarono alle tecniche della miniatura impiegate nei manoscritti medievali, ai colori levigati e nitidi delle tempere e degli oli quattrocenteschi italiani e fiamminghi e alla lucida brillantezza delle antiche vetrate istoriate. Giudicavano questi metodi formalmente puri e, di conseguenza, eticamente validi anche dal punto di vista tematico: soprattutto puliti rispetto alla qualità fangosa della pittura a olio dei maestri del barocco europeo quali Annibale Carracci, Rembrandt van Rijn e Pieter Paul Rubens, tenuta in gran conto dalla Royal Academy. In cerca di forme d'arte in grado di prosperare al di là dell'influenza e dell'approvazione accademica, i Preraffaelliti produssero opere di sorprendente effetto e originalità visiva, contraddistinte da una messa a fuoco nitida, dall'uso di colori puri non mescolati e dall'attenzione al dettaglio in ogni punto della superficie.
L'uso rivoluzionario del colore non comportò tuttavia una rottura completa con la pratica tradizionale: i Preraffaelliti si appropriarono infatti di alcuni espedienti adottati dai contemporanei, come quello di preparare la tela con un fondo bianco per mettere in evidenza il colore. Era un metodo usato da artisti come William Turner, l'ambizioso pittore di genere irlandese William Mulready, William Dyce e i revivalisti dell'affresco che intorno al 1840 lavoravano alle decorazioni del Palazzo di Westminster.
Un significativo sostegno a favore dell'uso del fondo bianco venne dalla traduzione pubblicata nel 1840 a opera di sir Charles Eastlake della Teoria dei colori di Goethe. Più in generale, l'interesse per le tecniche utilizzate dai pittori del primo Rinascimento fu alimentato da varie pubblicazioni quali, nel 1844, la traduzione di Mary Philadelphia Merrifield del volume trecentesco di Cennino Cennini Il libro dell'arte, seguita nel 1849 dal suo Original Treatises... on the Arts of Painting. Qui l'autrice raccomandava per purezza e stabilità i pigmenti prodotti dallo studioso e fabbricante di colori George Field, dichiarandoli l'approssimazione più vicina a quelli usati dai primi pittori italiani; questo punto ebbe molto effetto sui Preraffaelliti, che impiegarono regolarmente i pigmenti di Field.
Nell'uso dei colori brillanti i Preraffaelliti superarono di gran lunga i loro contemporanei. L'impatto sul pubblico fu sensazionale, al punto che i loro dipinti furono accusati di "uccidere" ogni altra opera circostante con le loro tonalità stridenti e dissonanti - un'accusa già in precedenza rivolta a Turner. L'effetto di aggressione visiva dei loro dipinti non diminuì molto col passare del tempo, nonostante la scoloritura di alcuni dei pigmenti impiegati. Nell'Ofelia di Millais, ad esempio, l'intensità cromatica sarebbe stata ancora maggiore al momento della prima esposizione del dipinto, a causa della gommagutta gialla utilizzata per l'argine in primo piano illuminato dalla luce solare e dell'unione di questo pigmento con il blu per colorare le foglie sullo sfondo. Nel corso della vita dell'artista il giallo sbiadì e il risultato più evidente è che le foglie sullo sfondo ora appaiono molto più blu di quanto fossero in origine.
Per realizzare i loro effetti iridescenti e luminosi, i Preraffaelliti elaborarono procedure particolari. A volte usavano come supporto la tavola, come in Mariana (1850-51) di Millais e nei Graziosi agnellini (1851-59) di Brown, ma più spesso impiegavano tele montate su robusti telai, come per l'Adolescenza di Maria Vergine (1848-49) di Dante Gabriel Rossetti, eseguito su una tela a trama fine così liscia che William Michael Rossetti descrisse erroneamente l'opera come «dipinto su tavola». Sebbene i Preraffaelliti acquistassero spesso le tele da fornitori o fabbricanti di colori celebri per i loro prodotti di alta qualità, come Roberson o Brown di High Holborn, usavano anche personalizzare il supporto con un supplementare strato di imprimitura bianca, spesso bianco di zinco, in modo che il fondo assumesse quella che Hunt definì «durezza della pietra», nonché un aspetto fresco, bianco e privo di imperfezioni.
Le polemiche che hanno circondato i Preraffaelliti in tutte le fasi della loro carriera riguardano quindi la sfida posta dalla loro arte in un momento in cui i confini tra le tecniche costituivano un fattore importante, e rifiutarli rappresentava un impegno tanto estetico quanto ideologico.
 
Il Sole24ore Domenica 20.4.14
Avanguardia a sorpresa
Nel 1957 una mostra li celebrava al Moma: fu un momento decisivo per ricollocarli nella giusta prospettiva nell'ambito di una storia dell'arte non convenzionale
di Elizabeth Prettejohn


L'eredità preraffaellita è contestata nell'ambito del modernismo, diviso tra la fascinazione dei surrealisti e il ripudio da parte della corrente principale del movimento, centrata esclusivamente su Parigi. Forse allora non è stata l'irrilevanza della Confraternita rispetto ai movimenti del Novecento, quanto piuttosto la difficoltà di individuarne e categorizzarne il retaggio storico-artistico, a creare la favola della sua obsolescenza. Nei quattro volumi della sua ampia analisi dello sviluppo dell'arte moderna, pubblicati negli anni Novanta dell'Ottocento, lo storico dell'arte tedesco Richard Muther cita senza riserve un trio cosmopolita di dipinti realisti, che interpreta come importanti dichiarazioni sulle condizioni della società moderna: Lavoro di Ford Madox Brown (1852-63), Gli spaccapietre di Gustave Courbet (1850, già alla Gemäldegalerie di Dresda, distrutto nella Seconda guerra mondiale) e Il laminatoio di ferro di Adolph Menzel (1872-1875, Berlino, Nationalgalerie).
Nel decennio successivo, Julius Meier-Graefe, autore di una nuova storia tedesca dell'arte moderna, proporrà una visione del tutto francocentrica, attribuendo a Courbet un ruolo di supremazia assoluta e riservando a Brown e Menzel commenti assai poco lusinghieri. Il punto di vista di Meier-Graefe, ammirato da Roger Fry, infl uenzò profondamente la storiografia del modernismo all'inizio del Novecento. Viene così tracciata la linea di demarcazione tra un modernismo francocentrico e tutte le posizioni alternative, che possono o meno includere i preraffaelliti. Una delle ragioni della veemenza di certi attacchi contro il preraffaellismo potrebbe risiedere nella totale indifendibilità di fare una netta distinzione tra modernismo francese e non francese.
Dalí comprese molto bene quanto tale distinzione fosse tendenziosa e nel suo articolo sul «Minotaure» la smantellò efficacemente, contrapponendo le mele «immangiabili» di Cézanne agli esagerati pomi di Adamo delle figure androgine di Rossetti, in un brillante gioco linguistico che capovolge tutti i nostri preconcetti. Vent'anni dopo, anche lo storico dell'arte americano Robert Rosenblum colse l'assurdità di quella ripartizione, sottoponendola a una critica circostanziata. In un articolo apparso nella «Partisan Review» in occasione di una mostra sugli ultimi 150 anni di arte britannica tenutasi - altro colpo per i nostri preconcetti - al Museum of Modern Art di New York nel 1957, al culmine dell'espressionismo astratto, Rosenblum scrive: «Certamente il Museo ha voluto esplorare il territorio dell'arte precedente a Cézanne per fare il punto sugli antenati della contemporaneità, ma in mostra c'erano opere che ribaltavano, in tutto o in parte, le premesse delle sale sottostanti dedicate al Novecento».
Sono i Preraffaelliti, in particolare, a mettere in discussione i preconcetti del pubblico: «Con sette tele soltanto hanno aggredito con una violenza senza precedenti le opinioni e la sensibilità visiva dei contemporanei, dimostrandosi così la vera rivelazione della mostra. Non a caso la loro sala era sempre più affollata delle altre, e ciò non era dovuto solo al fatto che le loro opere richiedono un esame ravvicinato quanto piuttosto alla veemenza e alla passione con cui, negando ogni presupposto dell'estetica del ventesimo secolo, i Preraffaelliti inducono i visitatori a osservare e a pensare».
Così per Rosenblum nel 1957 i Preraffaelliti incarnavano di nuovo l'avanguardia, poiché lanciavano una sfida alle ortodossie del MoMA e al modernismo francocentrico, pur rimanendo al tempo stesso aperti a nuove interpretazioni, alla luce dei più recenti sviluppi artistici. Questa la brillante descrizione che Rosenblum dà del Risveglio di coscienza di Hunt: «In modo paradossale, la composizione bidimensionale incredibilmente gremita, che offre una molteplicità di accadimenti pittorici raramente eguagliata nella storia dell'arte, potrebbe addirittura rivelare i valori di una labirintica, totale attivazione della superficie che le indagini di un Tobey o di un Pollock ci hanno insegnato ad apprezzare».
L'articolo di Rosenblum dimostra che nella New York del 1957 l'arte preraffaellita era impegnativa e difficile come lo era stata nella Londra del 1849. Che il «fondo bianco umido» fosse impiegato o meno, la vivacità cromatica e i particolari super-reali dei dipinti riservano una sorpresa costante, e riescono a dare agli osservatori moderni la stessa emozione suscitata dal Ritratto dei coniugi Arnolfini di Van Eyck al suo ingresso alla National Gallery nel 1842. Un aspetto fondamentale dell'eredità della Confraternita risiede certo nella rivalutazione dell'arte del passato, implicita nel suo progetto revivalista. Se oggi il ruolo nella storia dell'arte dei pittori olandesi e italiani antecedenti il Cinquecento ci appare scontato, il merito va in parte ai Preraffaelliti che ne hanno dimostrato il valore estetico.
Forse, quindi, tutti quegli aneddoti così simili alle storie raccontate dal Vasari non andrebbero disprezzati o screditati. Che siano veri o no, essi sono il segno che i Preraffaelliti, al pari degli artisti descritti nelle Vite, sono diventati in un certo senso “antichi maestri”: in un certo senso, appunto, perché possono tuttora risultare controversi, dato che, a differenza di gran parte del modernismo novecentesco, sembrano ancora fuori posto nelle sale di rappresentanza. Non sono stati domati, né trasformati in rassicuranti visioni, e probabilmente il Risveglio di coscienza conserva il disturbante potenziale dell'avanguardia che un Courbet o un Jackson Pollock hanno perso da tempo. Forse proprio il rifiuto ostinato di essere assimilata nella corrente principale del modernismo spiega i problemi e le contraddizioni dell'eredità preraffaellita, così come la persistenza del suo impatto.
 
Il Sole24ore Domenica 20.4.14
Contraddizioni d'India
Il premio Nobel analizza l'economia del Paese, in cui per masse di cittadini la crescita non si è tradotta in benefici
di Giorgio Barba Navaretti


«La pazienza è una forma minore di disperazione travestita da nobile virtù» secondo Il dizionario del diavolo scritto da Ambrose Bierce nel 1906. Questa definizione, per Jean Drèze e Amartya Sen ben rappresenta la straordinaria capacità di sopportazione degli indiani, che solo ogni tanto esplode in rabbia violenta, soprattutto negli scontri religiosi tra musulmani e indù.
Capacità di sopportazione che potrà determinare l'esito della lunga tornata elettorale per il rinnovo del Parlamento indiano. L'India, infatti, è profondamente divisa tra le classi medie (20% della popolazione) che hanno beneficiato enormemente della rapida crescita economica e della modernizzazione del Paese e una massa ancora immensa di indigenti, che non hanno accesso neppure ai servizi più essenziali. Metà delle famiglie ancora vive in case senza gabinetti.
Il fuoco dei media e dei commentatori occidentali sulla straordinaria ascesa delle classi più privilegiate nasconde e allontana dal dibattito pubblico e dall'azione politica il dramma di milioni di persone che ancora vivono nelle condizioni di povertà dei tempi dell'indipendenza.
Il grande premio Nobel indiano e il suo co-autore di lunga data, economista di origine belga trapiantato in India, hanno scritto un lungo saggio che ci conduce nelle pieghe nascoste e nei contrasti più profondi dell'economia indiana e che è un "must" per chi voglia capire l'immenso Paese.
L'attenzione ai dimenticati potrà apparire sorprendente al lettore distratto. Rispetto al 1950 l'India di oggi ha un reddito pro capite cinque volte maggiore (negli ultimi vent'anni è cresciuto in media dell'8% all'anno), una durata della vita attesa alla nascita che è passata da 32 a 66 anni, un tasso di mortalità infantile che è calato da 180 a 44 per migliaia di nuovi nati, una percentuale della popolazione che vive al di sotto della linea di povertà che è calata dal 47% al 22% nelle campagne e dal 35% al 20% nelle città (centinaia di milioni di poveri in meno).
Progressi straordinari, ma che non si sono realmente trasformati in benefici veri per coloro che rimangono alla base della piramide sociale ed economica. I dati sulla crescita economica nascondono il fatto che in molti indicatori di benessere umano l'India è stata raggiunta e superata da Paesi che ancora sono in media molto più poveri come il Bangladesh e il Nepal. Usando queste misure, nell'Asia del Sud oggi solo il Pakistan sta peggio dell'India. E se è vero che la proporzione di individui al di sotto della linea di povertà si è ridotta, il livello della soglia è talmente miserabile che superarla di poco non significa certo un miglioramento delle condizioni di vita effettive.
Oltre all'analisi puntuale e poco nota su questi trend di sviluppo fatta dai due autori, la parte davvero interessante del libro è la relazione tra questa evoluzione e la democrazia. Il lunghissimo processo elettorale in tutto il Paese (dal 7 aprile al 12 maggio) con un'altissima partecipazione degli aventi diritto (815 milioni) è la dimostrazione di quanto solida e pervasiva sia la democrazia indiana dall'indipendenza.
Ora, dato che i poveri hanno un voto e sono molto numerosi e possono dunque influenzare le scelte di governo, non si capisce come mai i successi nella crescita economica non si siano tradotti in politiche inclusive che migliorassero le condizioni economiche e sociali della base della piramide.
Come è possibile che oggi le condizioni sociali siano assai migliori in Cina, dove la democrazia certo non c'è? Il confronto tra i due colossi asiatici è forse indice che la democrazia non sia efficace nell'eliminare la povertà? Domanda retorica a cui i due autori rispondono ovviamente no. Il problema non è la democrazia in sé ma il suo funzionamento.
Del resto in una delle sue analisi più lucide su fame e carestie pubblicata sull'«Economic Journal» del 1983, Sen sosteneva come, grazie alla democrazia e alla diffusione delle informazioni attraverso la libera stampa, in India non sarebbe stato possibile l'esplodere di fami devastanti come quella cinese del '58 dove in tre anni morirono tra i 14 e i 16 milioni di persone. Come è possibile che questa stessa democrazia non abbia invece indotto politiche efficaci di redistribuzione in questi anni di forte crescita?
Il problema per Sen e Drèze, in linea con il principio di John Rawls di democrazia deliberativa, è la mancanza di «governo attraverso la discussione» pubblica. La democrazia è tale non solo attraverso il voto, ma anche attraverso la partecipazione della popolazione alla deliberazione, al dibattito sulle scelte politiche e sul loro merito. Solo i problemi e le questioni che diventano oggetto di deliberazione hanno valenza politica, ossia diventano di rilievo per la classe politica.
Le fami e le carestie, anche se colpiscono una proporzione limitata della popolazione, sono eventi così drammatici e simbolici da avere immediata copertura di stampa. Questioni meno eclatanti ma fondamentali per il benessere dei cittadini, come la qualità della nutrizione, l'accesso alle scuole o la salute pubblica, sono argomenti molto poco coperti dai media.
In India i poveri, anche se votano, sono completamente esclusi dalla componente deliberativa della democrazia. Non hanno voce nel dibattito pubblico e la libera stampa indiana è totalmente indifferente ai problemi e alle sofferenze degli indigenti. Delle centinaia di milioni di indiani che vivono ancora in condizioni di grandi miseria si parla poco. E quando si fa riferimento a politiche populiste, ad esempio l'aumento dei salari dei funzionari pubblici o i sussidi ai prezzi della benzina, sono di fatto politiche rivolte a una parte della popolazione comunque infinitamente più benestante dei miserabili al fondo della piramide.
Insomma, la disuguaglianza economica viene rafforzata e consolidata dalla disuguaglianza nell'accesso al dibattito pubblico. Ma i poveri votano lo stesso, direte giustamente. Certo, ma come le persone votano dipende anche da quanto capiscano i problemi da affrontare e se pensino che debbano e possano essere affrontati. I poveri indiani, dunque, non solo sono al di sotto della soglia di povertà, ma anche al di sotto della soglia di consapevolezza necessaria a uscire dalla miseria attraverso il voto e l'azione politica democratica.
Il voto cambierà poco se nel seggio elettorale la loro disperazione non si trasformerà in impazienza.
Amartya Sen, Jean Drèze, An Uncertain Glory. India and Its Contradictions, Penguin Books, Londra, pagg. 434, £ 10,99
 
Il Sole24ore domenica 20.4.14
Teologia politica
«Parousia» senza apocalisse
Si può smontare il meccanismo teologico di sudditanza all'Uno su cui si fondano i rapporti di potere? La risposta nel nuovo saggio di Roberto Esposito
di Remo Bodei


Si tratta di un libro teoricamente denso, caratterizzato da una fitta tessitura, con tanti nodi come nei tappeti pregiati, e in grado di spaziare dalla filosofia alla politica e dalla teologia al diritto romano. Continua, innovando, la riflessione già condotta dall'autore in Terza persona. Politica della vita e filosofia dell'impersonale (Torino, Einaudi, 2007).
L'intuizione di fondo che guida Due è che non riusciamo a smontare la macchina della teologia politica che «funziona precisamente separando ciò che dichiara di unire e unificando ciò che divide mediante la sottomissione di una parte al dominio del tutto». È difficile abbandonare questo schema in quanto siamo completamente immersi nel suo orizzonte, «non perché la porta d'ingresso sia sbarrata, ma perché l'abbiamo da tempo immemorabile varcata, prima che essa si richiudesse alle nostre spalle impedendoci di uscire». La sfida consiste, dunque, nel procurarsi uno sguardo esterno e nell'abbattere la prigione mentale, ormai invisibile, in cui la nostra civiltà ci ha rinchiusi. Un'impresa, in apparenza impossibile, simile a quella del barone di Münchausen, che pretendeva di sollevarsi da terra tirandosi su con il codino.
Ma cosa è che ci vincola in maniera così stringente e come è possibile liberarsene? Essenzialmente, è la radicata concezione che l'uno assorbe la dualità degli opposti, sottoponendo un elemento all'altro (ad esempio dividendo l'uomo in anima e corpo e asservendo questo a quella o considerando la cultura europea come universale perché ha incluso in sé, separandosene, quella di altri popoli).
Il dispositivo teologico-politico è riuscito a imporsi soprattutto attraverso la categoria di persona, in cui confluiscono il diritto romano e la teologia cristiana. Infatti, è a partire dalla summa divisio di Gaio tra persona e res che si separano i liberi dagli schiavi, riducendoli a cosa pur senza escluderli dall'appartenenza a una comune umanità. Ed è nel dibattito dei primi secoli del cristianesimo sulla doppia natura di Gesù/Cristo - vero uomo e vero Dio - e nella faticosa formulazione del dogma trinitario (una sola sostanza in tre persone) che si cristallizza e domina l'inclusione oppositiva o l'opposizione includente.
Una parte del libro è consacrata alla ripresa della nozione paolina di katechon (contenuta nella Seconda lettera ai Tessalonicesi, 19, 2), la forza frenante che, trattenendo il male, impedisce però l'avvento della parousia, della seconda venuta di Cristo. Anche in questo caso, il bene contiene in sé il male che sottomette fino all'apocalisse. Da cosa deriva questa idea di invitare i fedeli ad attingere la salvezza evitando di scontrarsi con colui che Paolo definisce enigmaticamente l'anomos, l'Anticristo? Credo che, al di là delle dispute teologiche, bisognerebbe storicizzare maggiormente la funzione del katechon, nel senso di vederla come una risposta tattica di Paolo alle attese deluse dei cristiani, ai quali Gesù aveva predetto «verrò presto» (erchomay tachy): la parousia non si è ancora prodotta perché è frenata e ritardata dalle forze del male.
La proposta di Esposito (che ricorda per certi versi «la piccola porta attraverso la quale può entrare il Messia» di Walter Benjamin) è di conseguire una parousia senza apocalisse, una affermazione senza negazione, di spezzare cioè la subordinazione forzata del due all'uno e di fare coesistere quelli che appaiono ora come opposti.
Ciò è per lui possibile qualora ci si colleghi a una tradizione filosofica che, seppur minoritaria, attraversa l'Occidente da quasi mille anni, da quando Averroè scrisse il Grande commento al De anima di Aristotele. In esso il filosofo arabo sostiene che il pensiero in atto, l'intelletto attivo, non appartiene alla persona. In altri termini: come per il vedere qualcosa sono necessari gli occhi e gli oggetti, ma non si vede nulla se non c'è la luce, allo stesso modo gli uomini hanno in potenza la facoltà di pensare (l'intelletto passivo) e i concetti (noemata) pensabili, ma se manca l'intelletto attivo, la luce - quella che gli scolastici chiameranno lux intellegibilis - non si riesce effettivamente a pensare. Questa luce non appartiene, tuttavia, all'individuo: simile alla luce del sole che continua a brillare anche quando il singolo muore, il pensiero è impersonale. Averroè - difeso da Dante e contrastato da San Tommaso - sostiene dunque la mortalità dell'anima e il carattere collettivo del pensiero, in ciò seguito, in diversi modi, da una serie di pensatori che Esposito opportunamente inquadra: Pomponazzi, Bruno, Spinoza, Schelling, Nietzsche, Bergson, Deleuze.
Che Bruno e Spinoza seguano questa linea sembra pacifico. Meno scontato che lo sia Nietzsche, il quale in Aurora sostiene che il compito del filosofo consiste nel coltivare le conclusioni dei pensieri che germogliano spontaneamente dal grembo di quel «saggio ignoto» che è il corpo: «Spuntano in noi da giorni umidi e nuvolosi, dalla solitudine, da due parole, conclusioni, come fossero funghi: eccole arrivare un bel mattino, chissà da dove, e girano attorno lo sguardo per cercarci, con aria grigia e malcontenta. Guai al pensatore che non è il giardiniere, ma soltanto il terreno delle sue piante!». Meno ovvio è invece l'inserimento in questa genealogia dello Schelling delle Lezioni di Stoccarda, che parla dell'impersonalità dell'anima, o di Bergson, che mostra, attraverso la similitudine del cinema in cui il movimento è prodotto da fotogrammi fissi, come funzioni il dispositivo duale riportato all'unità: prima si fissano le astrazioni e poi si genera meccanicamente il movimento.
L'audace strada percorsa da Esposito è interessante e, in parte condivisibile, in quanto il pensiero, al pari della lingua, non appartiene al soggetto. Eppure, alla De Saussure, un ruolo bisognerebbe pur attribuirlo alla parole, all'elemento di specificità e di creatività di un individuo all'interno della langue impersonale di una comunità. Forse le cose sarebbero più perspicue se Esposito distinguesse tra pensiero (impersonale) e coscienza (personale) di chi pensa.
Roberto Esposito, Due. La macchina della teologia politica e il posto del pensiero, Einaudi, Torino, pagg. 232, € 21,00

Il Sole24ore Domenica 20.4.14
Escatologia cristiana
Vivere è sperare
Riflessione pasquale sull'opera del teologo tedesco Jürgen Moltmann che esalta la natura incarnata del cristianesimo e la prospettiva di un nuovo futuro dopo la resurrezione
di Gianfranco Ravasi


«Dio non è venuto a spiegare la sofferenza: è venuto a riempirla della sua presenza». Così Paul Claudel interpretava il senso della Passione e morte di Gesù che, per il cristianesimo, non è divenuto uomo semplicemente per giustificare lo scandalo del male inquadrandolo in un sistema convincente di pensiero. Egli è giunto in mezzo a noi per condividere il limite umano, assumendolo in sé. Ma proprio perché egli rimane il Figlio di Dio, depone in esso un seme di divinità, di trasformazione e liberazione: è questo il senso della risurrezione sua e di quella finale dell'umanità. In tale prospettiva acquista il suo profilo autentico la speranza cristiana.
Per questo nella domenica di Pasqua vorremmo evocare un particolare anniversario: cinquant'anni fa, nel 1964, veniva pubblicata per la prima volta l'opera di un teologo evangelico tedesco, Jürgen Moltmann, 88 anni, emerito della prestigiosa università di Tubinga, uno dei teologi più letti del nostro tempo. Quel saggio s'intitolava Teologia della speranza e il sottotitolo specificava: «Ricerche sui fondamenti e sulle implicazioni di una escatologia cristiana». Ovviamente, oltre alla parola «speranza», significativo è proprio il termine «escatologia», letteralmente «discorso sulle realtà ultime», un vocabolo coniato nel Seicento dal teologo Abraham Calov nel titolo di uno dei volumi di una sua raccolta teologica, Eschatologia sacra. Sotto questa parola si rubricavano quelli che erano tradizionalmente denominati come i Novissimi, in pratica, morte, risurrezione, giudizio, inferno, purgatorio, paradiso.
Ebbene, Moltmann, esaltando il primato della speranza cristiana, proiettava lo sguardo del cristiano oltre l'orizzonte concreto nel quale sono impantanati i nostri piedi: «Nella vita cristiana, la priorità appartiene alla fede, ma il primato alla speranza». Tra parentesi ricordiamo che l'opera fu tradotta nel 1970 in italiano e vinse subito il Premio Letterario Internazionale Isola d'Elba. Era evidente che il teologo tedesco dialogava col suo connazionale filosofo marxista Ernst Bloch che pochi anni prima, tra il 1954 e il 1959, aveva elaborato i tre tomi del suo Principio speranza. Ora, quella dell'Israele biblico - a cui, per altro, Bloch apparteneva almeno per matrice etnico-culturale - è agli occhi di Moltmann una religione della promessa, dell'attesa, non della presenza definitiva divina, tant'è vero che l'anima di quella fede è il messianismo, visto come meta futura.
Il Vangelo non è tanto il pieno adempimento di quelle promesse, quanto piuttosto la loro convalida che Cristo suggella efficacemente protendendoci però verso un ulteriore necessario compimento, l'escatologia appunto. Alla domanda della Critica della ragion pura di Kant: «Che cosa posso sperare?» la risposta cristiana è nell'evento storico della risurrezione di Cristo: essa fa intuire in modo esplicito quale sarà il futuro definitivo dell'umanità, che non sarà una dissoluzione nel nulla ma una nuova vita, una risurrezione. In sintesi potremmo dire che la cosiddetta «cristologia escatologica» di Moltmann proclama questo asserto: nella risurrezione di Cristo sono gettate le basi (o, se si vuole, è gettato il seme fecondo) del futuro dell'umanità. Ma per impedire che la speranza evapori in utopia o in un vago ideale, è necessario radicarsi alla realtà storica della morte e risurrezione di Gesù, Figlio di Dio.
Proprio per questo nel 1972 Moltmann pubblicherà un altro saggio legato proprio alla Passione di Cristo, come si evince già dal titolo stesso: Il Dio crocifisso, un testo che si poneva, tra l'altro, in dialogo con la teologia ebraica dell'Olocausto e il tema universale lacerante della sofferenza dell'umanità. Nella Teologia della speranza l'occhio era proteso in avanti, verso l'escatologia, il futuro atteso, e il punto privilegiato di osservazione era la risurrezione di Cristo, anticipazione emblematica («prolessi») del nostro destino ultimo. Ora, invece, lo sguardo percorre un itinerario contrario: ci poniamo all'osservatorio dell'escatologia finale e l'occhio punta alla realtà del Cristo crocifisso, incarnato nel groviglio dolente della storia, per scoprire come in esso sia presente quel seme che sboccerà e crescerà nel futuro Regno di Dio perfetto.
La speranza, così, non si riduce a mera attesa o sogno o utopia ma è radicata nella storia: il Risorto è il Crocifisso, l'escatologia è assunzione della storia e non una novità disincarnata, una ri-creazione che non spiega e non salva la creazione presente col suo peso di male e sofferenza. «La croce, perciò, modifica la risurrezione», come scrive Moltmann, la risurrezione del Crocifisso non è vaga aspettativa di un nuovo sole e di una nuova terra, ma è anticipazione concreta della terra rinnovata, è la speranza reale di coloro che ora sono senza speranza e senza giustizia. In questa luce il cristianesimo rivela la sua struttura «incarnata», e la sua escatologia è ben diversa dall'apocalittica di certi movimenti religiosi che attendono la conflagrazione della storia presente per far subentrare un'ipotetica novità assoluta, col rischio di un'alienazione rispetto all'impegno e all'esistenza presente.
Non per nulla Moltmann aderirà al programma della cosiddetta «teologia politica» e recentemente (2010) ha elaborato un altro saggio dal titolo emblematico: Etica della speranza, uno scritto già da noi presentato in queste pagine. Certo, il discorso sull'escatologia è molto più ampio e la stessa letteratura al riguardo lo attesta con l'immenso orizzonte bibliografico che ha generato. C'è stato persino un nostro pensatore, Sergio Givone, che ha elaborato sul tema una sorta di romanzo filosofico, Favola delle cose ultime (1998). Noi ora in conclusione vorremmo solo rimandare a una sintesi che un ancor giovane teologo siciliano, Francesco Brancato, ha preparato sul tema raccogliendo la trama diacronica della riflessione escatologica a partire dalle Scritture Sacre e procedendo attraverso la tradizione teologica ecclesiale. L'approdo è, però, a un approfondimento sistematico ove s'aggregano a grappolo tutte le Realtà escatologiche (come dice il titolo): morte, peccato, salvezza, parousía di Cristo, risurrezione, giudizio, inferno, paradiso, stadio intermedio.
Un progetto arduo e di sua natura imperfetto, anche perché aveva pure qualche ragione il riformatore Giovanni Calvino quando s'interrogava, sulla base di una sorprendente frase di Gesù («Quanto a quel giorno e a quell'ora, nessuno lo sa, né gli angeli nel cielo né il Figlio dell'uomo, eccetto il Padre», Marco 13,32): «Quale sarà il maestro o il dottore che ci insegnerà quel che Dio ci ha nascosto?». Non per nulla uno dei maggiori teologi del secolo scorso come Hans Urs von Balthasar non esitava a considerare l'escatologia come «il nodo temporalesco» che scuote il cuore della teologia, un cuore trafitto da mille domande, dal quale emanano poche ma fondate risposte definitive.