martedì 22 aprile 2014

l’Unità 22.4.14
Preoccupati e disoccupati
di Nicola Cacace


ALLA VIGILIA DELL’APPRODO IN PARLAMENTO DEL DECRETO LAVORO, DOPO QUALCHE MODIFICA MIGLIORATIVA IN COMMISSIONE soprattutto per quanto riguarda i contratti a tempo determinato, siamo di fronte all’ennesimo dato shock sfornato dall’Istat, un milione e 130 mila famiglie vivono, meglio non vivono, senza alcun reddito da lavoro. Non è tanto il numero che colpisce chi conosce i dati sulla povertà, quanto la dinamica: +18% in un anno (tra 2012 e 2013) e addirittura + 56 % in due anni. Nessun Paese civile può ignorare dati di questa gravità. Il governo ha cominciato a muoversi nella giusta direzione scegliendo una precisa categoria, i lavoratori dipendenti ma sa bene che non può e non deve fermarsi a questi. Dopo un primo provvedimento utile a dare un po’ d’ossigeno a dieci milioni di lavoratori dipendenti a basso reddito e quindi alla domanda interna, ricomincia una difficile navigazione per superare molti altri scogli. Ci sono ancora più di una decina di milioni di cittadini che, per la loro condizione, meritano attenzione, tra cui i pensionati con meno di 1000 euro, i lavoratori dipendenti “esentati” che hanno salari minimi, le partite Iva individuali ed i precari che la crisi ha impoverito ancor più dei dipendenti, oltre ai milioni di disoccupati ed inattivi.
Di fronte a questi numeri - e alle immani sofferenze che sottendono - il compito del governo Renzi non è facile dopo quasi un decennio di recessione. Si sa bene che il peso delle sofferenze non è stato distribuito in modo uniforme dalla crisi, con i poveri e la classe media che hanno dovuto pagare il conto più salato. Nel Paese a più alta diseguaglianza d’Europa, dove il 10 % delle famiglie possiede il 50 % delle ricchezze e metà delle famiglie possiede poco o niente, è bene e giusto che tra i provvedimenti annunciati non siano mancati quelli ispirati ad un abbassamento dei tetti retributivi dei top manager pubblici e dei dirigenti dello Stato. Perciò hanno impressionato molto sfavorevolmente certe proteste, tra cui quelle di alcuni magistrati, che non hanno resistito alla tentazione di gridare alla “lesa maestà” piuttosto che accettare con dignità, anzi plaudire, provvedimenti di riequilibrio imposti da regole economiche oltre che morali. Senza andare al «denaro sterco del diavolo» caro a papa Francesco, basterebbe scorrere gli ultimi studi sulle cause della crisi, tra cui quelli del Fondo monetario internazionale, che hanno individuato nella “diseguaglianze eccessive” le principali cause della crisi dirompente.
La situazione drammatica del Paese, più che dai tassi di disoccupazione totale e giovanile, comunque alti, è descritta dal suo tasso di occupazione, di 10 punti inferiore all’Europa e di ben 20 punti inferiore al Nord Europa. Il tasso di disoccupazione è inficiato dalle procedure particolari di calcolo che spostano «un disoccupato che non ha cercato attivamente lavoro nella settimana precedente l’indagine» nella categoria degli «inattivi». È quello che succede da anni. Perciò il reale panorama economico-sociale è determinato dal tasso di occupazione, cioè la quota di occupati sulla popolazione in età da lavoro. È il dato che rende meglio la realtà. Due Paesi agli antipodi del Pil unitario, l’ultimo ed il primo, cioè Romania e Svezia, hanno tassi di disoccupazione quasi eguali intorno al 7 % ma tassi di occupazione distanti anni luce. In Romania, come in Italia, lavorano appena 55 cittadini su 100 in età da lavoro, in Svezia ne lavorano 75.
Che significano questi dati? Che l’Italia, per avere un livello di occupazione europeo dovrebbe avere ben 4 milioni di occupati in più e ben 8 in più per essere come gli svedesi (10 punti o 20 punti in meno, su 40 milioni di cittadini in età da lavoro). Sono vette difficili da raggiungere, ma in un decennio si potrebbero difendere, con accorte politiche industriali, i 5 milioni di occupati in agricoltura e industria manifatturiera e cercare di colmare il buco dei servizi, dove abbiamo 7 punti in meno dei Paesi industriali (il nostro terziario pesa il 68% contro il 75 % dei Paesi industriali), cioè recuperare almeno un paio di milioni di occupati che ci mancano nei settori in turismo e cultura, istruzione e ricerca, trasporti e logistica, servizi alle imprese e alle famiglie, senza contare salute e benessere. Speriamo che il governo, oltre agli 80 euro ad alcuni che ne hanno davvero bisogno, inizia a pensare sul serio anche agli altri.

l’Unità 22.4.14
Boom delle famiglie di disoccupati: +18%
Sono oltre un milione i nuclei in cui nessuno dei componenti percepisce un reddito da lavoro
In metà dei casi si tratta di coppie con figli Aumento record solo nell’ultimo anno
di M. V.


La disoccupazione e le famiglie senza reddito da lavoro sono ovviamente due facce della stessa medaglia. Ed anche nel 2013 non si è trattato di un bel vedere, come ci ha ricordato ieri l’Istat relativamente al secondo aspetto, con una fotografia sociale drammatica. L’anno scorso, infatti, è aumentata ancora l’entità dei nuclei familiari dove tutti i componenti attivi sono «in cerca di lavoro», come li definisce l’Istituto di Statistica, o con più cruda terminologia, disoccupati. Ormai oltre un milione di famiglie risultano essere senza reddito da lavoro, con un incremento percentuale di ben il 18%. In particolare, se nel 2012 si contavano 955.000 nuclei in questa condizione, soltanto dodici mesi dopo risultano essere diventati 1.130.000, quindi con un incremento numerico pari a 175.000 unità. Tra questi quasi mezzo milione (491.000) è relativo a famiglie che sono composte da coppie con figli. Invece, sono 213.000 i nuclei privi di redditi con un monogenitore, 295.000 quelli con la presenza di single e 83.000 le famiglie composte da coppie senza figli. Altro dato statistico che indica la gravità della situazione è il raffronto fra il 2013 ed il 2011, con il rialzo delle famiglie in cerca di lavoro che nel biennio supera addirittura il 50%, attestandosi al 56,5%.
Ragionando in termini geografici, la maggiore situazione di difficoltà emerge ancora una volta nel Mezzogiorno, dove risultano 598mila famiglie con tutti i componenti attivi privi di un impiego. Seguono il Nord, che ha 343mila nuclei familiari in queste condizioni, e il Centro, con 189mila. Specchio fedele della situazione è la fotografia inversa, ovvero quella che riguarda le famiglie nelle quali tutti i componenti che partecipano al mercato del lavoro hanno un'occupazione. In questo caso il numero è pari a 13 milioni 691 mila, in calo di 281 mila unità (-2%). Per quanto attiene le situazioni più critiche nell’ambito delle famiglie prive di reddito, dovrebbero riguardare soprattutto le coppie con figli, quasi mezzo milione, a cui si aggiungono quelle dei nuclei monogenitore, dove nella gran parte dei casi il solo capofamiglia è una donna, o meglio una mamma. Va inoltre sottolineato che in tutte le case dove i membri attivi sul mercato del lavoro non hanno un impiego i “rimedi” per arrivare alla fine del mese possono essere di vario tipo. Ad esempio, in assenza di stipendi il supporto può arrivare dal componente, e può essere anche più di uno, che gode di un trattamento pensionistico. Un'altra ipotesi di sostegno potrebbe coincidere con il percepimento di un'indennità di disoccupazione; ed ancora con rendite da capitale, come può accadere a coloro che hanno delle abitazioni o dei locali in affitto.
IL BOOM DEI DISCOUNT
Il lunedì festivo ha registrato la diffusione di un altro dato significativo, relativo questa volta all’andamento dei consumi. L’inizio del 2014 conferma il diffondersi della spesa “low cost”. Ben 5 italiani su 7 hanno provato almeno una volta i discount nel primo trimestre di quest'anno, confermando una tendenza cresciuta con la recessione e consolidatasi nel 2013. A registrarlo è un rapporto del Centro studi Unimpresa, che ha condotto un'analisi a campione tra i 18mila esercizi commerciali associati. La recessione, secondo l'associazione, «ha ormai radicalmente alterato le abitudini al supermercato: il 71,5% degli italiani fa economia e così rispetto al primo trimestre dello scorso anno sono più che raddoppiati, tra gennaio e marzo, gli acquisti relativi a offerte speciali ».
Un impresa sottolinea che «dagli alimenti alle bevande, ma anche prodotti per la casa e abbigliamento, gli sconti fanno gola a tutti e sono la risposta fai-da-te delle persone alla crisi. Nel carrello della spesa degli italiani finiscono con sempre maggiore frequenza rispetto al passato prodotti offerti sugli scaffali con sconti, specie quelli con ribassi dei prezzi superiori anche oltre il 30% rispetto al listino ufficiale». Ed ancora, «gli acquisti low cost nel primo trimestre del 2014 sono cresciuti del 60%. L'attenzione alle offerte speciali porta i consumatori a fare una vera e propria incetta di beni a basso costo: i cittadini ormai puntano le promozioni e nelle buste della spesa finisce soltanto quanto è proposto in offerta, mentre restano sugli scaffali dei supermercati e dei piccoli negozi su strada tutti gli altri prodotti. Obiettivo che si raggiunge soprattutto con la lettura ormai quotidiana di volantini: gli italiani li consultano sempre di più alla ricerca di sconti e prezzi bassi».

l’Unità 22.4.14
Chiara Saraceno «Aumento drammatico, il tenore di vita è in picchiata»
«Anche nel caso di una ripresa dell’economia, per riparare i profondi danni sociali prodotti dalla crisi servirà molto tempo»
di Marco Ventimiglia


«Sì, ho letto questi ultimi dati diffusi dall’Istat. Si tratta, purtroppo, degli ennesimi numeri drammatici, anche se ho visto che l’enfasi maggiore viene posta sul numero di famiglie prive di reddito da lavoro che ha ormai superato il milione. Su questo occorre intendersi, poiché all’interno di questi nuclei possono anche esserci dei pensionati che in qualche modo alleviano la condizione di disagio. Piuttosto è l’aumento percentuale nell’ultimo anno a spaventare di più». Chiara Saraceno, sociologa ed esperta in problemi della famiglia, cerca subito di guardare oltre la crudezza dell’indagine statistica, peraltro ennesima fotografia di una crisi che non molla la presa.
Dunque è la crescita del 18% delle famiglie senza reddito a meritare maggiore attenzione?
«Sì, nel senso che rappresenta il numero che più degli altri segnala un deterioramento della situazione, una tendenza ancora molto forte nel 2013. Un dato che purtroppo non mi sorprende, e che anzi va di pari passo con il calo dei consumi e la continua crescita della disoccupazione, specie quella giovanile. In quest’ultimo caso, poi, siamo di fronte ad un’autentica emergenza generazionale che non riguarda soltanto la fascia degli under 24, dove c’è comunque una rilevante percentuale di studenti, ma soprattutto coloro che sono compresi fra i 25 ed i 34 anni d’età, per i quali spesso non esiste alcuna prospettiva occupazionale».
Ma qual è il costo sociale di questo incremento della povertà?
«Occorre distinguere, a cominciare da chi si trova nello stato di disoccupazione. Se a venir meno è un reddito secondario del nucleo familiare, in Italia spesso garantito dalle donne e in misura minore dai figli rimasti ancora a casa, l’impatto è talvolta più nei comportamenti delle persone che non sul tenore di vita vero e proprio. Se invece a perdere il lavoro è il principale percettore di reddito della famiglia, allora l’emergenza è innanzitutto economica, con la conseguente grande fatica ad affrontare i problemi della quotidianità, dal carrello della spesa al sostentamento scolastico dei figli. Per fortuna, a vari anni dall’inizio della crisi, ancora sono in atto dei fenomeni che danno un po’ di sollievo alle famiglie più in difficoltà»
A che cosa si riferisce?
«Penso al ruolo degli anziani nei nuclei familiari, che a volte può persino emergere in modo curioso a livello statistico. Mi riferisco, ad esempio, ai dati che hanno più volte segnalato una tenuta dei consumi da parte delle persone più avanti con gli anni a fronte del marcato calo complessivo. Salvo scoprire, andando nel dettaglio, alcuni acquisti singolari, come quello dei pannolini... Insomma, l’anziano si trova sempre più spesso a consumare per conto terzi».
Fenomeni che in qualche modo confermano una convinzione diffusa, quella delle famiglie italiane più capaci di altre nel fare quadrato di fronte alla crisi.
«Questo è vero fino a un certo punto. O meglio, lo abbiamo visto chiaramente nella prima fase della crisi mentre adesso la situazione è purtroppo diversa. Infatti, nei primi due/tre anni di difficoltà non si è assistito ad un aumento significativo della povertà, piuttosto a diminuire era la capacità di risparmio delle famiglie. Si metteva mano al salvadanaio nella convinzione che l’emergenza non sarebbe durata a lungo. Convinzione peraltro alimentata anche da chi governava il Paese».
Poi, che cosa è cambiato?
«È via via subentrata la consapevolezza dell’estensione temporale della crisi, mentre ad essere falcidiati sono stati sempre più i redditi principali delle famiglie piuttosto che i secondari, venuti meno nella fase iniziale. Da qui il balzo molto forte di tutti gli indicatori della povertà. Una fase che purtroppo è ancora in atto».
Se anche ritornasse improvvisamente il tempo sereno da un punto di vista economico, quanto tempo sarebbe necessario per riparare i danni sociali?
«Molto, molto di più. E questo essenzialmente per tre ragioni. Intanto ricordiamoci che negli anni pre-crisi, prima del 2008, la crescita italiana era già asfittica, inferiore a quelle delle altre nazioni europee. Poi, c’è un motivo strutturale: in questi anni sono state distrutte delle tipologie d’impiego che comunque non ritorneranno più, indipendentemente dall’andamento del Pil, con il materializzarsi di una crescita senza occupazione. Infine, c’è un evidente problema generazionale. I giovani che così tanto stanno patendo, nel momento di una ripartenza economica rischiano di scoprirsi già vecchi, scavalcati dalle successive generazioni».

il Fatto 22.4.14
Quei 5 milioni di evasori che il Fisco non vuole vedere


IL FISCO li conosce per nome e cognome, ma “manca la volontà politica di stanare gli evasori, che sono ladri tre volte”. A dichiararlo all’AdnKronos è Stefano Liviadotti, firma dell’Espresso e autore del libro Ladri. Gli evasori e i politici che li proteggono, edito da Bompiani. Secondo Liviadotti gli evasori sono ladri “perché non pagando le tasse costringono il fisco a tartassare chi non può sfuggire, e quindi i dipendenti e i pensionati che contribuiscono al gettito fiscale per l’82%; lo sono inoltre perché usano ospedali e scuole a sbafo e perché apparendo poveri usufruiscono ad esempio dei bonus per i libri di scuola e di altre misure pensate per i veri poveri”. L'evasione ammonta a 180 miliardi di euro l’anno e lo Stato “ha tutti gli elementi per recuperarla con 300 banche dati collegate tra loro. Ma questa macchina funziona perché in Italia ci sono 5 milioni di contribuenti a rischio evasione che con le loro famiglie valgono tra i 10 e 12 milioni di voti ”. Per Liviadotti questi 5 milioni di potenziali evasori sono lo zoccolo duro di elettori del centrodestra sin dal 1994, ma “da quando Berlusconi ha appoggiato Monti si sono sentiti traditi e sono passati con Grillo”.

Corriere 22.4.14
Tagli, tasse ed esclusi:
ecco l’altra faccia del bonus
I conti dell’aumento dell’imposta sui conti correnti. Le attese di pensionati e incapienti
di Antonella Baccaro

qui

Il Sole 22.4.14
Dai tagli solo il 47% delle coperture 2014
di Marco Rogari


Non più di 3,1 miliardi. A tanto ammontano gli effettivi tagli alla spesa per il 2014 previsti dal decreto taglia-cuneo fiscale del governo Renzi. Come dire che è in qualche modo riferibile alla "spending" solo il 47% della copertura messa nero su bianco dall'esecutivo per puntellare quest'anno l'operazione taglia-tasse.
Infatti, i 6,65 miliardi necessari nel 2014 per il bonus Irpef da 80 euro mensili arrivano per 2,41 miliardi dall'aumento dell'imposta sostitutiva a carico delle banche sulla rivalutazione delle quote di Bankitalia e dalla riduzione delle rate per il pagamento dell'imposta sulle plusvalenze dalla rivalutazione degli asset d'impresa. Altri 650 milioni sono garantiti dalla maggiore Iva per lo sblocco di una nuova tranche di debiti arretrati della Pa nei confronti delle imprese. Ci sono poi i 500 milioni legati alla potatura delle tax expenditures, a partire dalla stretta sulle agevolazioni fiscali per l'agricoltura, che contabilmente vanno inquadrati nelle riduzioni di spesa ma che in realtà agiscono sul versante delle maggiori entrate. In tutto 3,56 miliardi. Almeno secondo lo schema tecnico che è stato approntato al ministero dell'Economia. Solo la fetta rimanente, pari a poco più di 3,1 miliardi, è effettivamente catalogabile tra reali tagli di spesa. E una quota non superiore ai 2,12 miliardi si presenta in una versione "strutturale".
Rimane il taglio dell'Irap, che vale 700 milioni interamente coperti dall'aumento della tassazione sulle rendite finanziarie (titoli di Stato esclusi). Che fa salire a 3,1 miliardi il pacchetto fiscale complessivo (con gli interventi sulle banche e sulla rivalutazione dei beni d'impresa).
Per quest'anno, dunque, la "spending" non riuscirà ad assicurare neppure la metà della copertura necessaria per l'operazione taglia-cuneo. Alcuni interventi, del resto, sono stati ridimensionati in corsa, come il tetto sugli stipendi dei dirigenti pubblici dal quale arriveranno non più di 40 milioni. Anche il giro di vite sulle municipalizzate nel 2014 dovrebbe garantire solo 50 milioni. E meno di 10 milioni dovrebbero arrivare dalla stretta sulle auto blu, che su Province e Comuni peserà per 2,3 milioni.
Ma anche per il 2015 la situazione non migliora molto. Almeno sulla base delle indicazioni fornite dal Governo in attesa che (in gran parte) si trasformino in misure operative con la prossima legge di stabilità. Dei 14 miliardi quantificati come dote necessaria a garantire anche nel 2015 il bonus Irpef da 80 euro mensili a 10 milioni di lavoratori, al massimo 9 miliardi sono destinati ad arrivare da tagli di spesa. Il Governo conta di attingere ancora a misura una tantum: 3 i miliardi utilizzabili dalla lotta all'evasione, secondo lo schema di coperture presentato da Palazzo Chigi. Un miliardo dovrebbe arrivare poi dalla maggiore Iva delle ultime tranche di pagamento dei debiti arretrati della Pa e un altro miliardo dalle agevolazioni alle imprese anche qui probabilmente sotto forma di maggiori entrate. Anche se un eventuale taglio secco degli incentivi alle imprese potrebbe far salire la dote dei tagli per il 2015 a quota 10 miliardi.
Un dispositivo di coperture su cui grava più di un'incognita. A cominciare dal reale "contributo" della lotta all'evasione. Nel comunicato ufficiale divulgato da palazzo Chigi dopo il varo del decreto taglia-Irpef si afferma che il Governo intende realizzare «un programma di ulteriori misure ed interventi di prevenzione e di contrasto allo scopo di conseguire nell'anno 2015 un incremento di almeno 2 miliardi di entrate» rispetto al 2013. Un obiettivo minimo inferiore di un miliardo ai 3 miliardi indicati nello schema di coperture per il 2015.
Quanto ai tagli alla spesa veri e propri, alla fine per il 2014 il Governo ha fissato lo stesso obiettivo (oltre 3 miliardi) che nelle scorse settimane era stato considerato realisticamente realizzabile per il periodo compreso tra il 1° maggio e la fine di dicembre da Carlo Cottarelli. Ma, a differenza di quanto proposto dallo stesso Cottarelli che aveva messo nel mirino anche pensioni e sanità, metà della "spending", dovrà essere garantita dal nuovo giro di vite sugli acquisti di beni e servizi dal quale sono attesi 2,1 miliardi nel 2014 e 5 miliardi nel 2015. Intanto su Renzi l'attacco di Fi e del M5S. Brunetta e Grillo rispolverano un articolo dell'Economist del 1° marzo: dal governo «solo parole». La replica di Ernesto Carbone (Pd): ci hanno messo due mesi a capire un articolo.

Il Sole 22.4.14
Senza solide coperture partita con la Ue più difficile
di Dino Pesole


Una prima istruttoria sullo slittamento al 2016 del pareggio di bilancio. Poi l'esame nel dettaglio del Piano nazionale di riforma e delle coperture per il bonus Irpef. Con uno step il 5 maggio, quando Bruxelles renderà note le nuove stime macroeconomiche, e soprattutto il 2 giugno con le raccomandazioni all'Italiael mezzo, il confronto già in atto a livello informale da settimane, tra il ministro dell'Economia, Pier Carlo Padoan e il vice presidente dell'esecutivo comunitario, Siim Kallas. L'esito della trattativa è tutt'altro che scontato, anche se l'imminente scadenza del mandato della Commissione (verrà rinnovata a novembre) induce a ritenere che in realtà la vera partita il governo la giocherà proprio in autunno, quando sarà l'Italia a presiedere l'Unione europea. Non per questo si può immaginare fin d'ora che si apriranno per noi le verdi praterie della flessibilità. Qualche margine in più, forse, sui tempi di rientro ma occorrerà conquistarsi metro dopo metro.
A partire dal rinvio di un anno del pareggio di bilancio. Agli occhi di Bruxelles può risultare singolare che un impegno assunto dal governo Berlusconi, ribadito dai governi Monti e Letta, venga disatteso invocando il ricorso ad alcune «circostanze eccezionali» quando la recessione è alle spalle. Quest'anno la riduzione del deficit strutturale si fermerà allo 0,2%, contro lo 0,5% richiesto. Quanto basta per pregiudicare il recupero della «clausola per investimenti», congelata nel novembre dello scorso anno, con il rischio che comunque Bruxelles richiami il governo italiano a operare con maggiore vigore sul fronte della riduzione del debito, anch'esso indicato in aumento quest'anno verso il record del 134,9% del Pil. Nella lettera inviata a Bruxelles, Padoan fa esplicito riferimento al pagamento di ulteriori 13 miliardi di debiti pregressi della Pa. Operazione che rientrerebbe appunto nelle «circostanze eccezionali» che possono determinare momentanei scostamenti dai target di bilancio programmati. Si tratta ora di convincere Bruxelles che il programma di riforme sottoposto alla valutazione della Commissione poggia su basi solide. E che dunque dal 2015 sarà pienamente rispettato il timing previsto dal Def, anche attraverso il prospettato piano di dismissioni (lo 0,7% del Pil).
Diventa a questo punto decisivo il mix di coperture per il taglio dell'Irpef, con annessi i risparmi attesi dalla spending review nell'arco del triennio 2014-2016 (32 miliardi). Anche in questo caso, e per ora limitatamente al 2014, il governo di fatto chiede una deroga a Bruxelles per le misure una tantum previste dal decreto, in particolare gli 1,8 miliardi di maggior gettito atteso dall'incremento della tassazione sulle quote rivalutate di Bankitalia. Anche la prenotazione ex ante degli incassi Iva (600 milioni), che dovrebbero realizzarsi grazie allo sblocco di 8 miliardi dei debiti commerciali della Pa, non pare proprio in linea con l'ortodossia contabile europea, al pari dei 300 milioni già contabilizzati dalla lotta all'evasione. L'eccezione potrà essere concessa, ma solo a fronte dell'impegno esplicito a sostituire dal 2015 le poste di bilancio «one off» con misure strutturali. Ed eccoci al cuore del problema. Al momento, i risparmi iscritti alla spending review nel 2014 vengono cifrati dalla tabella distribuita venerdì scorso in 4,2 miliardi (il totale delle risorse che si mobilitano è di 6,9 miliardi). Ci verrà chiesto di indicare, con la prossima legge di stabilità, le modalità di reperimento dei 14 miliardi di ulteriori risorse che serviranno dal 2015. Autunno impegnativo, dunque, per il governo. Occorrerà blindare il percorso di riforme per non rischiare il crollo dell'intera impalcatura su cui regge l'intera strategia di politica economica impostata finora.

Il Sole 22.4.14
L'iter del Jobs act è quello più avanti, ma dei 10 decreti varati ancora nessuno in porto
Renzi ancora in cerca della prima legge
di Roberto Turno


ROMA Ha messo il suo imprinting sulla riforma elettorale e sulle riforme istituzionali, ma sono ancora entrambe delle incompiute. Ha messo in cantiere ben 10 decreti legge (ma uno, quello sulle opere pubbliche, è un desaparecido), dall'ultimo di venerdì degli 80 euro e per «un'Italia coraggiosa e semplice» al primo sulla finanza locale, che però sono tutti in giro per le Camere. Ha incassato il Def, quello sì. E nei suoi primi 60 giorni da premier ha visto arrivare al traguardo riforme non esattamente sue, dallo stop ritardato al finanziamento pubblico ai partiti alle province non esattamente cancellate fino alla delega fiscale. E ancora: ha promesso nel giro di due mesi di dare una sverniciata alla burocrazia e di mettere mano alla giustizia. Nella sua corsa quasi senza trattenere il respiro per «cambiare verso» al Paese, Matteo Renzi ha messo tanta carne al fuoco dando fondo ad altrettante promesse tutte da mantenere. Ci ha messo la faccia, come dice sempre. Ma per ora, a conti fatti, di leggi non ne ha incassata alcuna.
Ha seminato nei suoi primi due mesi di luna di miele a palazzo Chigi, ma il tempo del raccolto deve ancora arrivare per il presidente del Consiglio. E non poteva essere altrimenti, in così poco tempo e col tanto fieno che ha messo in cascina. Per non dire di quanto vuole ancora stiparvi in quel Parlamento dove pur sempre vige la regola maledetta del bicameralismo perfetto, che prima di un anno se non più (addirittura fino al 2018 se la legislatura non morirà prima e le riforme istituzionali saranno andate in porto) continuerà a dettar legge. E perciò Renzi dovrà pur sempre adeguarsi.
A 58 giorni dal suo insediamento e a quasi un anno di lavori di legislatura "piena" – dalla formazione del gabinetto di Enrico Letta a fine aprile del 2013 – iniziano questa settimana e andranno avanti per tutta l'estate le vere fatiche di Matteo Renzi in Parlamento. Quei decreti da portare a casa anche col voto di fiducia – a cominciare tra oggi e domani col job act – saranno la prima cambiale da onorare e il "decreto Irpef" la prima grande montagna da scalare. Col fardello aggiuntivo, appunto, di un Parlamento troppo lento per chi vuole andare veloce come il premier.
I numeri di questo primo anno di legislatura la dicono lunga, anche senza dimenticare lo tsunami politico che s'è consumato nel frattempo: i grillini secondo partito, il Pdl spaccato in due pezzi, il Pd che ha cambiato il capo, un presidente della Repubblica eletto per la seconda volta, prima le larghe poi le strette alleanze. Ebbene: le Camere hanno prodotto 51 leggi, quattro al mese in un anno di lavori effettivi. E soprattutto hanno delegato sempre di più ai decreti il compito di "battere legge": 27 decreti convertiti (tra quelli ereditati da Mario Monti e i Dl di Enrico Letta), il 53% di tutte le leggi fatte. Solo briciole le leggi di iniziativa parlamentare: appena 8, meno del 16% del totale. Dal centenario della nascita di Alberto Burri alla più onerosa e temuta delega fiscale.
È quel complicato e mai tranquillizzante puzzle dei lavori parlamentari che ora Renzi dovrà riuscire a comporre con tutti gli equilibrismi politici del caso, dal suo Pd al Ncd da tenere sotto scacco a Forza Italia che fa un passo avanti e due indietro, almeno a parole. Proprio mentre il 25 maggio arrivano le europee e le amministrative, prossimi e decisivi banchi di prova politici che tra l'altro potrebbero frenare l'attività legislativa. I decreti legge, intanto, hanno già ipotecato i prossimi due mesi di lavori parlamentari. Per non dire dei principali snodi politici – riforme istituzionali e legge elettorale – che si incrociano al Senato e che non sono affatto a un passo dal traguardo. Le riforme istituzionali, tra l'altro, Renzi aveva promesso di farle arrivare al primo voto in tempo per le europee: ma il calendario del Senato finora non le prevede. Il job act sarà l'altra scommessa di maggio (scade il 19), mentre la delega sul lavoro verrà subito dopo, con tempi tutti da stabilire. E poi dovrebbe toccare anche alla riforma della burocrazia e a quella della giustizia. Le scommesse sono aperte.

l’Unità 22.4.14
Tensioni sul decreto Poletti. Il governo pronto alla fiducia
di Bianca Di Giovanni


Potrebbe essere oggi il giorno della prima fiducia «politica» targata Renzi. In altri casi si è arrivati alla blindatura per ragioni tecniche, ma sul decreto Lavoro, su cui oggi l’aula di Montecitorio comincia a votare, il governo rischia di esporsi a un fuoco incrociato. Da una parte il centrodestra e dall’altra, per ragioni opposte sinistra e 5Stelle. Le modifiche ottenute dalla sinistra Pd in commissione sono una «concessione alla Cgil» per Maurizio Sacconi e Fabrizio Cicchitto (Ncd), mentre confermano una «pericolosa deregulation » per Sel e grillini. «Il decreto non è stato stravolto, il Parlamento farà quel che vuole, ma quelle misure godono di un ampio consenso», ha detto Matteo Renzi venerdì scorso, apponendo il suo imprimatur alle modifiche introdotte. Evidentemente non è bastato per ricompattare la maggioranza.
Nel Nuovo centrodestra è soprattutto Sacconi a rullare i tamburi, accusando i parlamentari di aver ricondotto il testo agli «errori della Fornero»: troppa rigidità, troppi «lacci e lacciuoli». Inutile dire che la sinistra sostiene il contrario: l’apertura ai contratti a termine senza causale è un passo epocale verso la deregulation che piace tanto alle aziende. Di qui i «paletti» introdotti. Il presidente della commissione Lavoro in Senato promette battaglia, visto che i numeri nella camera alta non sono così «rassicuranti» per la maggioranza. Sacconi gioca una partita doppia: sua personale, da ex titolare del Lavoro che ha combattuto per deregolamentare sfilare le sue materie dalle mani di (alcuni) sindacati, e naturalmente politica in vista delle elezioni europee, dove l’Ncd fatica a trovare spazio stretto nella morsa di FI.
Ma Sacconi sta giocando con il fuoco, perché se davvero vorrà mettere sabbia negli ingranaggi parlamentari, rischierà di far decadere il decreto (il termine è il 19 maggio), e quindi di cancellare una delle riforme di cui il premier va più fiero anche negli incontri internazionali. Sarebbe un pericoloso stop a quell’ipotesi di scambio tra riforme e flessibilità di bilancio che Renzi e Padoan vogliono mettere al centro del dibattito europeo durante il semestre di presidenza italiano.
Il decreto Poletti ha subito diverse modifiche in commissione, in gran parte sponsorizzate dalla sinistra Pd (che in quella commissione è maggioranza) e dallo stesso presidente Cesare Damiano. «Il testo votato dalla commissione Lavoro, con il parere favorevole del governo a tutti gli emendamenti approvati, è un importante punto di equilibrio - ha ricordato ieri Damiano - Come ha ricordato il ministro Giuliano Poletti». Come dire: il testo è frutto di una mediazione tra tutta la maggioranza e l’esecutivo, non certo dello strappo di una frangia estrema (come vorrebbe far credere il centrodestra). Tra le modifiche più importanti, quella che stabilisce il limite massimo dei 5 rinnovi (e non più 8) per i contratti a termine (proposta Gnecchi), che restano senza causale fino a 36 mesi (qui sta il vero salto di qualità, che per la sinistra porta alla precarizzazione). Inoltre è stata introdotta la possibilità di conteggiare i mesi di maternità ai fini dei requisiti necessari per il diritto di precedenza alle assunzioni a tempo indeterminato. Si stabilisce poi l’assunzione automatica a tempo indeterminato per i lavoratori che sono stati assunti a termine violando il tetto del 20% (sul totale dei dipendenti) consentito dal decreto. Nel testo modificato dalla commissione compare anche una «norma Electrolux», cioè l’aumento fino al 35% dello sconto sui contributi per le imprese in contratto di solidarietà. La norma si applica a imprese individuate attraverso una serie di criteri emanati dal ministero. Infine il decreto dispone che le novità del testo sui contratti a termine e sull’apprendistato si applicano solo a quei contratti stipulati dopo l’entrata in vigore del provvedimento.
DUELLO SUGLI APPRENDISTI
La materia su cui il Nuovo centrodestra fa più «rumore» per la verità è quella che riguarda l’apprendistato. Il testo originario del decreto eliminava completamente l’obbligo di formazione, cosa che piaceva a Sacconi. Ma che avrebbe potuto non piacere persino all’Unione europea, visto che le aziende che fanno apprendistato godono di aiuti pubblici pari a circa 2 miliardi l’anno (di fatto vengono pagati i contributi), proprio in cambio di formazione. Così si è arrivati a una mediazione: il piano formativo è espresso in forma sintetica ma scritta nel contratto. Saranno le Regioni a dover approntare il piano: se non lo faranno nell’arco di 60 giorni a decorrere dalla firma del contratto, l’azienda sarà libera di procedere. Altro «paletto» introdotto è l’obbligo di trasformare almeno il 20% degli apprendisti in contratti a tempo indeterminato se l’azienda vuole procedere all’assunzione di altri apprendisti. La norma vale per le aziende sopra i 30 dipendenti, che occupano il 50%dell’intera platea di lavoratori.

il Fatto 22.4.14
Lavoro. Scontro tra Pd e Ncd sulle modifiche


L’approdo alla Camera del decreto Lavoro infiamma il dibattito nella maggioranza. Ncd e Sc promettono battaglia per cancellare le modifiche apportate dal Pd al testo in commissione. Ma il Pd non cede. E oggi il governo valuterà se mettere la fiducia. I dati sull'occupazione (1,1 milioni di famiglie senza redditi da lavoro) “sono allarmanti: bisogna fare in fretta”, dice il responsabile Welfare del Pd Davide Faraone. Ne è convinto Renzi, spiega chi ha avuto modo di parlargli: è il momento di agire con rapidità per condurre in porto i provvedimenti. La questione lavoro, osserva il premier, non sta nel numero di rinnovi dei contratti a termine indicati nel decreto (sono diventati cinque dopo le modifiche del Pd in commissione), bensì nell’intervento complessivo. Il Pd vuole incassare una “rapida” approvazione alla Camera, per consentire poi la seconda lettura in Senato e la conversione del decreto entro il 20 maggio. Ma il partito di Angelino Alfano promette battaglia se non si cancelleranno le modifiche. “Sarà scontro. E – an - nuncia Sergio Pizzolante – se il governo dovesse mettere la fiducia, lo scontro si sposterà al Senato”.

La Stampa 22.4.14
Una partita tutta politica
Nessuno poteva immaginare che lo scontro annunciato su contratti a termine e apprendistato sarebbe potuto davvero diventare la miccia per una nuova crisi politica
di Walter Passerini


Oggi vedremo se Matteo Renzi riuscirà a evitare l’ostacolo. Non sappiamo se in queste ore prima della battaglia il presidente del Consiglio, con il suo fido il ministro del Lavoro, Giuliano Poletti, abbia riletto l’Arte della guerra di Sun Tzu o il Principe di Machiavelli. Ma la prova della verità è alle porte e nelle prossime ore sapremo se avrà la stoffa del leader o, come dice velenosamente l’«Economist», del grande imbonitore.
A uno sguardo attento non può sfuggire la sproporzione tra l’entità dello scontro sul decreto Poletti oggi in aula e la pericolosità di una crisi al buio.
Il casus belli sono i ritocchi che la commissione Lavoro della Camera ha esercitato sul testo originario, ma sembra quasi incredibile che l’aver portato le proroghe del contratto a tempo determinato da otto a cinque nei 36 mesi e il tetto massimo di organico al 20% possa far saltare il banco. Semmai sono gli emendamenti sull’apprendistato ad aver eccitato maggiormente gli animi, con il ripristino della formazione obbligatoria regionale e la percentuale di assunzioni al 20%, prima di poter assumere nuovi apprendisti. Ma anche qui la reazione di Ncd e Scelta civica sembra spropositata. La domanda che l’opinione pubblica si pone è la seguente: sono davvero così importanti contratti a termine e apprendistato da diventare il grimaldello di una crisi? E questi contratti serviranno a creare occupazione? L’impressione è che la vera partita sia tutta politica e prescinda dalla posta formalmente in gioco. Quando il 21 di marzo, primo giorno di primavera, venne approvato il decreto Poletti, molti, specie a sinistra, gridarono allo scandalo. La liberalizzazione dei due contratti sembrava aggiungere solo flessibilità alla precarietà già diffusa. In Renzi, che aveva annunciato il bonus lavoro arrivato al traguardo in questi giorni, c’era la volontà di offrire qualcosa di più alle imprese, che apparivano penalizzate rispetto al lavoro. Ma il vero obiettivo era anche quello di togliere ogni alibi ai tentennamenti delle aziende: «Care imprese, ora tocca voi ad assumere; noi vi spianiamo la strada con la flessibilità, adesso dovete battere un colpo e creare occupazione». Una mossa da giocatore di scacchi, più che da pokerista. Che Renzi ami il rischio è noto, ma l’aver estratto dal corpo del Job act una forte liberalizzazione non poteva non suscitare reazioni dentro lo stesso centrosinistra e nel Pd, i cui esponenti sono stati i protagonisti degli emendamenti che non piacciono ad Alfano e a Sacconi. La rischiosità della mossa viene così al pettine e l’uso della fiducia ne decreterebbe la fragilità nel lungo cammino parlamentare. A Renzi a questo punto tocca correre di più e alzare la posta: non a caso ha già annunciato nuovi interventi su precari e incapienti, pensionati e famiglie povere. Ma la sua vera forza sarà quella di riportare l’attenzione sui pezzi mancanti del Job act: riduzione dei carichi fiscali e dei costi di produzione delle imprese (energia e burocrazia); nuova politica industriale e settori su cui puntare; contratto a tutele crescenti, nuovo ammortizzatore sociale, politiche attive del lavoro e Agenzia per l’occupazione. Oggi appare come un giocatore di dama a cui hanno fatto gli occhiali (una dama si è infilata fra due pedine avversarie in posizione scoperta, per cui una delle due è perduta). Per uscirne potrebbe sparigliare e cambiare gioco, passando dalla dama agli scacchi, ed esibirsi in una vincente mossa del cavallo.

Repubblica 22.4.14
Boschi: idea dell’Ulivo il Senato non eletto Chiti ritiri il suo testo
intervista di Goffredo De Marchis



Il ministro delle Riforme Maria Elena Boschi, alla vigilia dell’esame della commissione che comincia oggi, difende la riforma del Senato. Invita Chiti a ritirare il suo disegno di legge contrapposto al testo del governo. Perché i tempi sarebbero rallentati e non è ammissibile «un caso di coscienza individuale. Anche nel programma dell’Ulivo si prevedeva un’assemblea non eletta e lo stesso Chiti aveva difeso questa tesi da ministro ». L’obiettivo resta un voto in prima lettura entro il 25 maggio. A Rodotà e Zagrebelsky dice: «Il confronto non mancherà. Alla fine, però, loro fanno i professori e la politica ha il diritto di decidere». E attacca i dissidenti Pd sull’Italicum: «Nella legge ci sono nostri obiettivi storici».
MINISTRO Boschi, il governo pretende il ritiro del disegno di legge firmato da Chiti e altri del Pd?
«Il governo propone e non pretende. Il problema non è ritirare disegni di legge ma il rispetto dei tempi che ci siamo dati. Per una questione di credibilità. Abbiamo detto che la riforma va approvata in prima lettura a Palazzo Madama entro il 25 maggio».
Il giorno delle Europee.
«Le elezioni c’entrano poco. C’entra invece il fatto che il 27 maggio Renzi incontra gli altri premier europei per discutere del futuro continentale. C’entra che la commissione europea, qualche settimana dopo, valuterà il lavoro che abbiamo fatto sull’economia. Se ci presentiamo a questi appuntamenti avendo approvato la riforma del Senato e del Titolo V, avremo una maggiore credibilità. Le riforme istituzionali sono la base di tutte le altre riforme».
Lo dice anche Padoan ma sembra più che altro un assist a Renzi.
«Non è così. Padoan ha evidenziato l’aspetto centrale della questione: per attuare la politica economica servono riforme strutturali del sistema istituzionale. Quindi chi appoggia il provvedimento sugli 80 euro e poi non è d’accordo con la revisione della Costituzione proposta dal governo, mina la fattibilità dei provvedimenti».
Insomma, Chiti lasci perdere.
«Avevo 15 anni quando l’Ulivo mise, nelle sue tesi, l’idea di un Senato non elettivo, sul modello tedesco. Nessuno gridò allo scandalo. Da ministro delle Riforme, Chiti confessò in Parlamento di preferire l’ipotesi di un Senato eletto ma indicò come alternativa la soluzione tedesca. Non vedo come possa appellarsi a un caso di coscienza. Se non aveva dubbi allora, non può averli oggi».
Non sono ammessi dissensi individuali?
«Siamo il Pd. Sono gli altri quelli che espellono i dissidenti. Ognuno è libero di avere le proprie idee, ma ci vuole anche rispetto per i cittadini che si sono espressi su questo a larga maggioranza per gli organismi del Pd che hanno fatto lo stesso ».
Crescono però i malumori di tanti senatori e le frenate di una buona parte dei democratici. Per Renzi sarebbe una sconfitta il semplice voto della riforma in commissione anziché in aula prima del 25 maggio?
«Io tengo alta l’asticella. L’obiettivo del 25 resta tale. Il percorso di marcia è serrato ma se c’è la collaborazione dei senatori, i dissensi si superano. Con l’aiuto della presidente della commissione Affari costituzionali Finocchiaro, si può fare. Del resto, il testo prevede l’abolizione delle province e il voto sulla legge Delrio dimostra che c’è un consenso unanime, l’abolizione del Cnel e tutti siamo d’accordo che non ha funzionato, la revisione del Titolo V è largamente condivisa e noi abbiamo attinto al lavoro dei saggi».
Manca un dettaglio: le funzioni del Senato e la sua elezione.
«Non è un dettaglio, ma anche qui non siamo lontani. Sono condivise l’idea del superamento del bicameralismo perfetto e la tesi che sia solo la Camera a votare la fiducia e il bilancio. Il modello è quello di un’assemblea con elezione di secondo grado. Dopo di che vogliamo bilanciare la sua composizione alla popolazione delle regioni? Bene. Vogliamo rivedere i 21 componenti nominati dal Quirinale? Bene. Ma non stanno insieme un Senato eletto e un Senato che non vota né la fiducia né il bilancio dello Stato».
Ce la fate per il 25 maggio?
«Lavoriamo per questo».
Teme ancora la protesta dei “professori che hanno bloccato l’Italia per 30 anni”, come ha detto lei?
«Non ho paura del confronto. Il 5 maggio abbiamo organizzato un seminario del Pd per approfondire il tema».
Inviterete anche Zagrebelsky e Rodotà?
«Certo. Sarebbe bello se venissero. L’importante è che non sia solo un dibattito accademico. La politica ha il diritto di scegliere e di portare avanti i suoi progetti. Loro fanno i professori, noi abbiamo la responsabilità delle scelte. Anche quelle istituzionali».
Ha già parlato con i due giuristi?
«Non personalmente. Ho studiato sui loro testi e letto i loro articoli. Ma ho parlato con altri costituzionalisti che la pensano diversamente da loro, con tanti ricercatori...».
I professorini contrapposti ai professoroni.
«È sbagliato guardarli dall’alto in basso. Hanno un percorso professionale di tutto rispetto. Non dovrei ascoltarli solo perché sono giovani? Semmai il contrario. Giusto ascoltare tutti, no?».
Se Berlusconi crolla alle Europee e Grillo lo supera, il patto sulla legge elettorale rischia? Potrebbe nascere un’alleanza con chi nel Pd, Bersani per esempio, considera l’Italicum «roba da Sudamerica».
«Non credo che Forza Italia verrà meno all’accordo. Rispetto Bersani ma con l’Italicum otteniamo tre obiettivi storici per il Pd: introduciamo il ballottaggio, rafforziamo il bipolarismo, eliminiamo il ricatto dei partitini. Si può fare meglio? Certo. Intanto è un passo avanti».

Il Sole 22.4.14
Assetto istituzionale. Da oggi tour de force per l'approvazione - La mediazione: elezione diretta agganciata alle regionali
Riforme, il nodo del Senato elettivo
Renzi insiste - Ok di Berlusconi, ma dissenso di centristi e parte del Pd
di Barbara Fiammeri


ROMA Comincerà stamane, a Palazzo Madama, il tour de force per l'approvazione della riforma del Senato e del titolo V. Matteo Renzi ha detto e ripetuto che il governo conta di ottenere il primo via libera entro le elezioni europee e quindi prima del 25 maggio. Un traguardo tutt'altro che a portata di mano. E non solo per l'ostruzionismo dichiarato del M5S, né perché i testi presentati sono una cinquantina.
L'ostacolo principale è rappresentato da uno dei capisaldi della riforma del governo: la non eleggibilità dei senatori. Renzi lo ritiene un punto «non negoziabile», sul quale ha ottenuto anche l'assenso esplicito di Silvio Berlusconi nell'incontro a Palazzo Chigi. Ma proprio i dissensi espliciti nel Pd e in Fi a questa ipotesi, osteggiata anche da Ncd, Sc e Lega, mettono fortemente a rischio l'obiettivo del premier.
Decisivo sarà in questo senso l'intervento domani di Vannino Chiti, il senatore Pd che ha presentato, assieme ad altri 20 colleghi del suo partito, un testo alternativo in cui si prevede, tra l'altro, il mantenimento dell'elezione diretta. L'assemblea del gruppo democratico la scorsa settimana ha comunque deciso che gli emendamenti al testo del governo dovranno essere coordinati e in linea con le decisioni della direzione del partito. Una presa di posizione decisamente a favore del premier-segretario, visto che in Direzione il superamento del Senato, a partire dalla non eleggibilità dei suoi componenti, era stata votata a larghissima maggioranza. Chiti per ora preferisce però non sbilanciarsi. «Illustreremo la nostra proposta e poi valuteremo il testo base», ha confermato. Una posizione interlocutoria che conta anche sul consenso di altri 15 senatori (gran parte dei quali ex M5S).
Anche Fi preferisce al momento non forzare. Tant'è che la scorsa settimana, all'indomani del nuovo incontro a Palazzo Chigi tra Renzi e Berlusconi, ha ridotto a 12 il numero degli interventi rispetto ai 50 iniziali. «Noi siamo pronti ad ascoltare e a discutere», conferma Donato Bruno, capogruppo azzurro in commissione, che tuttavia sottolinea come gran parte delle proposte di riforma presentate, anche dal suo partito, confermi l'elezione diretta dei senatori: «Credo che il governo debba ascoltare i consigli che giungono dal dibattito parlamentare, fermo restando che rispetteremo il patto». Una mediazione potrebbe essere rappresentata dal mantenimento dell'elezione diretta agganciata però alle elezioni regionali. È la proposta che fa anche il Ncd di Alfano. Il costo dei senatori sarebbe a carico delle Regioni che lo compenserebbero riducendo di pari numero i consiglieri.
Renzi finora è sembrato però irremovibile. Il premier è disposto a trattare sul numero dei senatori nominati dal Capo dello Stato e anche sulla rappresentanza espressa dalle singole Regioni, ma non sull'elezione diretta. Finora è riuscito a imporsi alla minoranza del partito, ma in questo caso l'opposizione interna trova sostegno anche negli altri gruppi della maggioranza e dell'opposizione. Tanto che negli ultimi giorni circolava con insistenza l'ipotesi che il premier potrebbe anche accontentarsi di ottenere prima delle elezioni il solo via libera della Commissione e non dell'aula di Palazzo Madama.
A mettere a rischio i tempi di approvazione del provvedimento è anche l'ostruzionismo dichiarato dei pentastellati che hanno già iscritto a parlare in commissione Affari costituzionali tutti i componenti del gruppo. La presidente della Commissione Anna Finocchiaro ha anticipato però che non consentirà «manovre altre» rispetto all'approfondimento del tema. In questo senso va letta anche l'audizione di alcuni esperti che Finocchiaro vorrebbe esaurire al massimo in una giornata, visto che la riforma del Senato e del titolo V è già stata oggetto di un esame di costituzionalisti, i cosiddetti saggi nominati dal Capo dello Stato.

il Fatto 22.4.14
A chi le deleghe? Tutte a Matteo
Il premier “one man show” tiene per sé o per i fedelissimi le competenze più rilevanti
di Marco Palombi


C’è un deserto in Italia: qualcuno lo chiama crisi, i più ottimisti ripresa, ma si tratta di un deserto che non sta neanche fermo, s’allarga ogni mese che passa. C’è una certa tradizione, nel lunedì dell’Angelo, nel diffondere statistiche e numeri sullo stato dell’economia e dei consumi e quello del 2014 non ha fatto eccezione: solo che tutti i numeri di quest’anno sono cronache di questo deserto in espansione. Perdita del lavoro, povertà relativa, crollo dei consumi non cambiano verso e raccontano di un paese in cui i diritti sanciti dalla Costituzione sono solo frasi sulla carta.
LE FAMIGLIE senza nessun reddito da lavoro, per dire, nel 2013 sono aumentate ancora: secondo l’Istat a fine dicembre erano ormai 175 mila in più rispetto a dodici mesi prima – in crescita del 18,3 per cento in un anno e del 56 per cento in due anni – oltre un milione e 100 mila in totale. Tecnicamente sono nuclei familiari “con tutte le forze in cerca di lavoro”, la metà ha anche figli. Descriverli significa descrivere la società italiana tutta. Possono essere single oppure madri sole o intere famiglie: genitori e figli in età da lavoro e tutti disoccupati. Significa che il loro sostentamento arriva da altre fonti: alcuni tra questo milione e dispari di persone sarà sicuramente abbastanza ricco da poter vivere senza lavorare, ma la stragrande maggioranza sbarca il lunario con l’aiuto dei parenti (magari i nonni pensionati) o attraverso saltuari lavori in nero. Il tutto, ovviamente, stringendo la cinghia. Il Mezzogiorno, come prevedibile, è la zona più penalizzata anche da questo punto di vista (598 mila famiglie senza redditi da lavoro), seguono il nord (343 mila) e il centro (189 mila). Dati, peraltro, perfettamente coerenti con quello dei nuclei in cui tutti i componenti che partecipano al mercato del lavoro hanno un’occupazione: nel 2013 erano 13 milioni 691 mila, in calo di 281 mila unità (-2 per cento). Ovviamente il dato sui redditi non può non riflettersi sui consumi interni, il vero buco nero dell’economia italiana in questo periodo. Secondo una nota diffusa ieri da Adusbef e Federconsumatori sulla base di un sondaggio a campione: a Pasqua gli acquisti hanno registrato una contrazione del 13,8 per cento (dal meno 8 per le carni ovine al crollo del 21,5 per cento per uova e colombe) rispetto ai dati del 2013. Male anche il turismo, dicono le associazioni, visto che solo il 7,5 per cento delle famiglie italiane si è mossa nel periodo di Pasqua e Pasquetta (4 milioni e 600 italiani in tutto).
NON SONO MANCATI nemmeno i numeri di Coldiretti, che sono altrettanto negativi: sono 4.068.250 le persone che nel 2013, in Italia, sono state costrette a chiedere aiuto per mangiare, un aumento del 10 per cento sul 2012. Anche chi può fare la spesa, peraltro, ha radicalmente cambiato le sue abitudini: ormai – secondo un sondaggio Unimpresa su 18 mila esercizi commerciali – cinque italiani su sette nel primo trimestre di quest’anno ha fatto almeno una volta la spesa in un discount. Più precisamente il 71,5 per cento degli italiani fa economia e così – rispetto al primo trimestre 2013 – sono più che raddoppiati gli acquisti di offerte speciali, specialmente quelle con uno sconto superiore al 30 per cento.
MATTEO RENZI, nella sua intervista con Repubblica uscita a Pasqua, ha promesso che il bonus fiscale varato dal governo venerdì scorso sarà esteso “agli incapienti, alle partita Iva e ai pensionati”. Di più. Il premier non esclude “una specie di quoziente familiare”: vale a dire sgravi fiscali modulati sulla quantità di figli a carico. Tutte cose benedette – come d’altron - de la riforma della P.A. o della giustizia – ma che non faranno fiorire il deserto Italia: senza vera ripresa, vero lavoro, non rimarrà che la sabbia. L’austerità scritta da Renzi e Padoan nel Def, se sarà rispettata, lavora per quello.

Repubblica 22.4.14
Siamo tutti populisti
di Ilvo Diamanti



C’È UN fantasma che si aggira in Europa e in Italia. Inquietante e opprimente. Il populismo. Una minaccia diffusa, che echeggia in questa confusa campagna elettorale, in vista delle Europee. Eppure “mi” è difficile spiegare di che si debba avere “paura”.
IL POPULISMO , infatti, associa forze politiche diverse e, talora, opposte fra loro, ma “unite” contro l’Unione Europea e contro l’Euro. Il termine, ad esempio, viene applicato al Front National, in Francia, e alla Lega, in Italia. Insieme ad altri partiti, di altri Paesi, fuori dall’Euro. Come l’Ukip, in Inghilterra. Anche se il Fn e l’Ukip si oppongono alla Ue in nome della sovranità, rispettivamente, della Francia e dell’Inghilterra. La Lega, invece, in nome dell’indipendenza dei popoli padani e contro la sovranità dell’Italia. Fino a poco più di vent’anni fa, al contrario, era a favore dell’Europa - delle Regioni. Ma la Lega è abituata a cambiare idea, in base alle convenienze. Come ha fatto nei confronti dei veneti(sti). Nel 1997, al tempo dell’assalto al campanile di San Marco, i Serenissimi, secondo Bossi, erano «manovrati dai servizi segreti italiani». Oggi, invece, sono perseguitati dall’imperialismo romano.
Ma la lista dei populisti va ben oltre. Coinvolge gli antieuropeisti del Nord Europa e quelli dell’Est. Per tutti e fra tutti, il Fidesz di Viktor Orbán che ha trionfato di recente in Ungheria (dove Jobbik, movimento di estrema destra, ha superato il 20%). Oltre ad Alba Dorata, in Grecia. In Italia, però, il populismo è un’etichetta applicata senza molti problemi. Riguarda, anzitutto, il M5s e Beppe Grillo. Per il loro euroscetticismo ma, soprattutto, per l’esplicita opposizione alla democrazia rappresentativa. In nome del “popolo sovrano” che decide da solo. Senza rappresentanti. Grazie al referendum che ormai si può svolgere in modo permanente nella piazza telematica. La Rete. Naturalmente, il Popolo, per potersi riconoscere come tale, ha bisogno di riferimenti comuni. Così si rivolge a un Capo. Che comunichi con il Popolo direttamente. Senza mediazioni e senza mediatori. Attraverso i Media. La Rete, ma anche la televisione. Dove il Capo parla con me. Direttamente. In modo “personale”.
Non a caso, il Grande Populista del nostro tempo è stato Silvio Berlusconi. Il Berlusconismo, in fondo, è proprio questo: partito e Tv riassunti nella persona del Capo.
La Rete ha moltiplicato il dialogo personale. Perché tutti possono parlare con tutti. Con il proprio nome, cognome, account e alias. Associato a un’immagine, una fotina, un marchio, un profilo. Naturalmente, c’è bisogno di un blogger, che orienti il dibattito e che, alla fine, tiri le somme. Ma che, soprattutto, dia un volto comune a tanti volti (oppure un “voto” comune a tanti “voti”). Che fornisca una voce comune a un brusio di messaggi fitto e incrociato. Senza Grillo, il M5s non sarebbe un MoVimento. Ma un’entità puntiforme priva di “identità”. Grillo, d’altronde, sa usare la Tv, oltre che la Rete (guidato da Gianroberto Casaleggio). La maneggia da padrone. C’è sempre senza andarci mai. È la Tv che lo insegue, nelle piazze e, ora e ancora, nei teatri. Riprende e rilancia i suoi video, prodotti e postati nel suo blog.
Ma se il populismo è comunicazione personale diretta senza mediazione, allora va ben oltre la Lega, Berlusconi e Grillo. Diventa un imperativo per chiunque intenda imporsi, politicamente. Perché deve saper usare la Tv e i nuovi media. Diventare protagonista di quella che Georges Balandier ha definito «La messa in scena della politica». Come ha fatto Matteo Renzi. Capace, meglio di ogni altro, di parlare direttamente al “popolo”. Di lanciare sfide simboliche e pratiche. In Italia, d’altronde, ogni riforma promessa è rimasta tale. Imbrigliata da mille difficoltà, mille ostacoli. Renzi, per questo, va veloce. E parla direttamente al popolo. A ciascuno di noi. Guarda dritto nella macchina da presa. E ci chiama per nome. È per questo che Grillo lo ha preso di mira, come il suo principale, vero “nemico” (politico). Perché il popolo ha bisogno di un capo che gli indichi i suoi nemici. Gli “altri” da cui difendersi. L’Europa, la globalizzazione, le banche, i mercati. Gli “stranieri”. Gli immigrati, i marocchini, i romeni, i veneti, i romani, gli italiani. E, ancora, le élite, la classe politica, i partiti, i giornalisti, i giornali, i manager, le banche, i anchieri.
Così il catalogo dei populismi si allarga, insieme all’elenco dei populisti. Berlusconi, Grillo, Marine Le Pen (per non parlar del padre), Renzi. Ma anche Vendola, con il suo parlar per immagini e il suo partito personalizzato. Lo stesso Monti, bruciato dal tentativo di diventare pop, con il cagnolino in braccio (che fine avrà fatto Empy?).
Uscendo dal “campo” politico, Papa Francesco è, sicuramente, il più bravo a parlare con il suo “popolo”. Il più Pop di tutti di tutti. D’altronde, alle spalle, ha esempi luminosi, come Giovanni Paolo II e, ancor più, Giovanni XXIII. E poi è argentino, come Perón. Scivola sull’onda di una lunga tradizione. Non è un caso, peraltro, che la fiducia nei suoi confronti sia molto più alta di quella della Chiesa. Perché Francesco, sa toccare il cuore dei fedeli (e degli infedeli). E supera ogni confine. Ogni mediazione. Va oltre la Chiesa. Parla al suo popolo, senza distinzioni (visto che la fiducia nei suoi riguardi viene espressa da 9 persone su 10).
Per questo, diventa difficile dire chi sia populista. O meglio, chi non lo sia. Perché tutti coloro che ambiscano a imporsi sulla scena pubblica debbono usare uno stile “populista”. E lo ammettono senza problemi, mentre ieri suonava come un insulto. Echeggiando Jean Leca: «Quel che ci piace è popolare. Se non ci piace è populista». Oggi invece molti protagonisti politici rivendicano la loro identità populista. Grillo e Casaleggio, per primi, si dicono: «Orgogliosi di essere insieme a decine di migliaia di populisti. (…) Perché il potere deve tornare al popolo». Mentre Marine Le Pen si dichiara «nazional-populista», in nome del «ritorno alle frontiere e alla sovranità nazionale».
Meglio, allora, rinunciare a considerare il “populismo” una definizione perlopiù negativa e alternativa alla democrazia. Per citare, fra gli altri, Alfio Mastropaolo, ne fa, invece, parte. Come il concetto di “popolo”. Il quale, quando ricorre in modo tanto esplicito e frequente, nel linguaggio pubblico, denuncia, semmai, che qualcosa non funziona nella nostra democrazia “rappresentativa”. Perché il “popolo” non trova canali di rappresentanza efficaci. I rappresentanti e i leader non dispongono di legittimazione e consenso adeguati. Perché il governo e le istituzioni non sono “efficienti” e non suscitano “passione”. Così non resta che il populismo. Sintomo e al tempo stesso diagnosi del malessere democratico. Meglio non limitarsi a scacciarlo con fastidio. Per guarire dal populismo occorre curare la nostra democrazia.

Repubblica 22.4.14
La condanna del Porcellum
di Alessandro Pace



LA CORTE d i cassazione - che nel maggio 2013 aveva sollevato la questione di costituzionalità della legge n. 270 del 2005 (il così detto Porcellum), poi decisa dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 1 di quest’anno - ha reso pubblica, poco prima di Pasqua, la sentenza con la quale applica il dispositivo di quella pronuncia ai fatti di causa. Il che è non meno importante della sentenza della Consulta in quanto, come appunto sottolineato dalla Cassazione, è compito che «spetta al giudice ordinario» verificare, alla luce della sentenza n. 1 del 2014, «se vi sia stata una lesione giuridicamente rilevante del diritto di voto».
La sentenza, ancorché assai breve, è importante
per due statuizioni.
La prima - che non potrà non spiegare conseguenze sulla discussione del disegno di legge elettorale approvato dalla sola Camera (che com’è noto ribadisce la scelta in favore delle liste bloccate) - individua quali siano stati gli effetti pregiudizievoli che «le disposizioni incostituzionali della legge n. 270 del 2005 (hanno spiegato) sul diritto di voto dei cittadini elettori nel periodo della loro vigenza». Ebbene, essi consisterebbero nella «impossibilità per i cittadini di scegliere i propri rappresentanti in Parlamento». Del resto, come ricorda la Cassazione, la stessa Corte aveva affermato che «è la circostanza che alla totalità dei parlamentari eletti, senza alcuna accezione, manca il sostegno della indicazione personale dei cittadini, che ferisce la logica della rappresentanza consegnata nella Costituzione».
Diversamente dalla Consulta - secondo la quale la libertà di scelta degli elettori è assicurata in quegli ordinamenti nei quali il sistema delle liste bloccate è previsto «in circoscrizioni elettorali di dimensioni territorialmente ridotte» - la Cassazione, ricollegandosi alla questione di costituzionalità come da essa formulata, non enuncia alternative al voto di preferenza.
La seconda statuizione concerne gli effetti della pronuncia d’incostituzionalità del Porcellum. Di fronte all’ormai ben noto rilievo della Corte costituzionale secondo il quale la dichiarazione d’incostituzionalità di tale legge non travolge le elezioni svoltesi e gli atti fino allora adottati dal Parlamento alla luce del «fondamentale principio di continuità dello Stato», la Cassazione sottolinea, dal canto suo, che la salvezza degli effetti del Porcellum prodotti per il passato «non attenua la incostituzionalità che è stata accertata e dichiarata dalla Corte senza altre limitazioni ( del resto non risultanti dal dispositivo della sentenza) ».
Il che sta a significare che, fatto salvo quanto disposto per il passato, la pronuncia d’incostituzionalità spiega i normali effetti (negativi) sulla situazione giuridica del Parlamento eletto in violazione della libertà di voto. Altrimenti quale mai sarebbe il senso pratico e giuridico della sentenza d’incostituzionalità, se oltre a non spiegare effetti sanzionatori per il passato, non si preoccupasse nemmeno del futuro? Una dichiarazione d’incostituzionalità del tutto priva dei conseguenti effetti costituisce una insuperabile contraddizione. Essa finirebbe infatti per equivalere all’”abrogazione” di una legge (cioè all’eliminazione discrezionale di norma), che invece rientra nelle attribuzioni del Parlamento. Né la legittimità della XVII legislatura potrebbe essere fondata sul principio della continuità delle istituzioni costituzionali, richiamato dalla Consulta per legittimare il passato. Un tale principio può bensì valere per brevi periodi, ma non può, per i prossimi quattro anni, costituire il succedaneo del voto popolare: sarebbe uno schiaffo alla democrazia.
Ne consegue che, volendo responsabilmente applicare alla specie le sentenze della Corte costituzionale e della Corte di cassazione, come da esse non discende che le Camere avrebbero dovuto limitarsi ad approvare la legge elettorale secondo le indicazioni della Consulta - dopo di che avrebbero dovuto essere subito sciolte dal Presidente della Repubblica - , così nemmeno deriva da esse che le Camere, ancorché giuridicamente delegittimate, possano modificare la vigente forma di Stato e di governo, e possano addirittura durare fino alla naturale scadenza del 2018. Una siffatta tesi, spesso esposta dall’attuale Presidente del Consiglio, costituisce infatti - per il solo fatto di essere enunciata ripetutamente - una menomazione da parte del Governo delle attribuzioni della Corte costituzionale, risolvendosi, tale tesi, nella violazione del giudicato costituzionale della sentenza n. 1 del 2014.
A prescindere da quanto sin qui argomentato, deve comunque essere aggiunto che l’eventuale approvazione del mix del disegno di legge elettorale approvato dalla Camera e del recente disegno di legge costituzionale avrebbe, per risultato, un monocameralismo dominato da una coalizione di partiti non legittimata dalla maggioranza degli elettori, e privo di quei contropoteri di cui il Presidente Napolitano, nel memorabile discorso alle Camere riunite nel sessantesimo anniversario della Costituzione, sottolineò l’irrinunciabile importanza.

Corriere 22.4.14
Promesse e schede su chi porta i voti
L’eterna sfida tra i re delle preferenze Mastella: ma non vado più a battesimi e comunioni, troppe spese in regali
di Fabrizio Roncone


«Come si fa a dire che non mi sostiene?» Alle 16.03 di sabato scorso, il BlackBerry ha fatto tic tac.
Era arrivata una email.
Aprire, leggere.
«Cara Amica, Caro Amico, Ti informo che sono candidato alle Elezioni per il Parlamento europeo nelle liste di FORZA ITALIA del centro Italia (Lazio, Umbria, Marche, Toscana). Se voti il mio partito e intendi darmi una mano contatta la mia segreteria allo 06/40801981. Grazie di cuore e buona Pasqua a Te e alla Tua famiglia. Firmato: Luciano Ciocchetti».
Generoso con le maiuscole, garbato, appena un filo invadente, Luciano Ciocchetti scatena la caccia alle preferenze e dichiara ufficialmente aperta la campagna elettorale per le prossime Elezioni europee.
Ciocchetti, 56 anni, nel genere, è il prototipo del piccolo fuoriclasse locale: ex Dc, ex Udc, senza impacci per la forte somiglianza con il comico ciociaro Martufello, ha costruito la sua carriera girando pazientemente tutti gli oratori di Roma e del Lazio, e anche gli ospedali, e i depositi dei tram, e sempre per fare una buona promessa a tutti. Adesso, però, le promesse le fa anche e soprattutto sul suo sito (meno campi nomadi, meno rifiuti, meno prostitute): perché Ciocchetti ha capito che la nuova strada da battere, per trovare voti — a Silvio Berlusconi ne avrebbe promessi oltre 30 mila — è quella del web.
(Alfredo Vito oggi ha 68 anni e si è ritirato dalla politica: ma fu a lungo un formidabile rastrellatore di preferenze nell’hinterland napoletano, che contendeva al suo avversario, Francesco Patriarca detto «don Ciccio ‘a promessa»; lui, Alfredo Vito, era invece stato soprannominato «Vito ‘a sogliola», per l’eccezionale capacità mimetica di appiattirsi nelle acque della dicì partenopea dell’epoca, dove navigavano due balene come Antonio Gava e Paolo Cirino Pomicino.
Nel 1992, lei ottenne 104.532 voti. E senza un manifesto. Senza un’apparizione televisiva.
«Quella stagione è irripetibile. Il fatto che ormai da oltre un decennio i parlamentari vengano eletti con liste rigide ha troncato ogni rapporto con il territorio...».
Lei disse a Gian Antonio Stella: se vedo una faccia, non la scordo.
«Sapevo a memoria i nomi di tutti. Non avevamo Internet. Dovevo fidarmi solo della mia testa. Allo spoglio, per dire, ero capace di sommare a mente i voti di 50 seggi».
Lei non aveva staff.
«In pratica, ero solo. Ma non sbagliavo. Sapevo sempre chi avevo di fronte, chi era quello che mi assicurava voti. Oggi sarebbe impossibile. Un tempo, il mafioso, il camorrista ce l’aveva scritto in faccia che teneva la pistola in tasca: oggi hanno facce pulite e vestono come impiegati. E si infiltrano, e sono pericolosi, e possono rovinarti la carriera» ).
I rapporti personali erano decisivi. I politici venivano trattati come monarchi. Vito Lattanzio in Puglia, Remo Gaspari in Abruzzo, Ferdinando Scajola (il padre di Claudio) in Liguria, Giulio Andreotti nel Lazio. Andreotti faceva asfaltare strade, apriva caserme, inaugurava fabbriche. Una volta, polemizzando in modo brusco, Craxi gli disse: «Senti, questo però devi andarlo a raccontare ai pecorai amici tuoi...». Due ore dopo, Franco Evangelisti, braccio destro politico di Andreotti, fece intervenire duramente l’associazione degli allevatori della provincia di Frosinone.
Il braccio destro elettorale di Andreotti era invece un ex picchiatore fascista: Vittorio Sbardella detto «lo squalo»; uno che liquidava i critici citando, compiaciuto, quella che invece era stata una tragica riflessione di Rino Formica, gentiluomo socialista: «La politica è sangue e merda». La politica che, in cambio di un voto, faceva assumere un figlio nell’azienda dei trasporti locali, una figlia all’ospedale, e a te faceva aprire un bar (con una tecnica simile, negli anni Cinquanta, Achille Lauro era finito nella leggenda: candidato sindaco di Napoli, aveva regalato solo la scarpa destra, promettendo la sinistra in caso di elezione).
Regola di ferro: tu mi dài, io ti do. Così c’è stato un tempo in cui i politici schedavano — letteralmente — i propri elettori. Se andavi a trovare Totò Cuffaro nel suo ufficio — Cuffaro dal gennaio del 2011 sta scontando una condanna a 7 anni di reclusione per favoreggiamento aggravato a Cosa nostra — subito ti mostrava la preziosa cartella. Raccontò a Sebastiano Messina: «Anche le suore sono con me. Le “Collegine”, le suore del Collegio di Maria, in Sicilia hanno cinquanta istituti. Ne scelga uno a caso, ci vada e chieda per chi hanno votato. Le diranno: Totò Cuffaro».
(Clemente Mastella e sua moglie Sandra Lonardo saranno processati insieme con altri quindici imputati: sono tutti accusati di associazione per delinquere. Un’associazione che, secondo la tesi sostenuta dalla Procura di Napoli, aveva un nome ben preciso: Udeur.
Il partito è comunque stato sciolto da tempo e Mastella, ormai, si candida a titolo personale; anche stavolta Berlusconi l’ha voluto nella lista Sud per le Europee. Perché la sua forza restano, come scrisse genialmente Gianpaolo Pansa, le «truppe mastellate».
«Eh... I giudici mi attaccano e cercano di distruggermi, ma io ho una risorsa che nessun tribunale potrà mai togliermi...».
Sarebbe?
«Il rapporto umano con i miei elettori».
Ecco, appunto: come riesce a controllarli?
«Ah, no, non ci siamo... perché io non controllo, io mi metto alla pari. Vede, quasi tutti i miei colleghi disdegnano, snobbano la gente comune. Io, al contrario, tengo la porta di casa, qui a Ceppaloni, sempre aperta. Chiunque può entrare e...».
E quando entrano?
«Certi mi chiedono un consiglio. Clemé, tu che faresti? E io sto lì, ascolto, rifletto e poi, se posso, suggerisco. Però, nel frattempo, sa che faccio? Chiamo Sandra e quella arriva e porta una bella fetta di pastiera...».
Servono pazienza e abilità.
«Più pazienza. Perché questo è un lavoro che non devi fare l’ultima settimana prima del voto, ma tutto l’anno. Devi esserci sempre, per i tuoi elettori. Devi partecipare ai loro dolori e alle loro gioie... magari non proprio a tutte le gioie, però: per dire, con i battesimi e le comunioni ho chiuso. Un po’ perché mi cominciavano a costare troppi soldi in regali, un po’ perché io sono cattolico e non mi piaceva la cosa di utilizzare una cerimonia sacra per prendermi qualche voto».
Comunque, tenere la porta di casa sempre aperta, come sospettano i magistrati di Napoli, è pericoloso...
«Un po’, sì, è rischioso. Ma siccome io sono limpido, metto le mani avanti: alt, no, io i voti della camorra non li voglio!»).
Si possono rifiutare i voti della mafia, ma solo quelli. E così: grande curiosità per capire dove verranno convogliate le preferenze che controllava Franco «Batman» Fiorito, mitico satrapo berlusconiano travolto dalla scandalo alla Regione Lazio, e dubbi non forti ma fortissimi sui principi dei voti del Pd in Puglia e Campania, Michele Emiliano e Vincenzo De Luca — entrambi tagliati fuori dalle liste — che, furibondi e vendicativi, potrebbero non appoggiare la capolista Pina Picierno.
Inutile chiedersi cosa farà del suo pacchetto di preferenze Vladimiro Crisafulli detto Mirello, scomodo signore delle tessere democratiche a Enna. «Le mie non sono clientele. Io dono affetto. Cosa si può volere da uno come me?».

l’Unità 22.4.14
Quanto è dura non morire fino a primavera
di Flore Murad-Yovanovitch


L’accoglienza può fare impazzire. Riduce ad oggetto, a destinatario di una fasulla carità bianca, ai bisogni, mentre hai l’esigenza di una vita tua, libera, come la nostra. Nei corridoi vuoti e cadenti del centro per richiedenti asilo filmato da Camilla Ruggiero, emergono tutte le contraddizioni e l’ipocrisia di questo sistema distruttivo. Certo la colpa principale è del Regolamento di Dublino, che respinge, espelle, deporta nel cuore dell’Europa persone, trattate come meri corpi. Mentre quei profughi avrebbero diritto di asilo, vengono deportati tra paesi firmatari, spediti e rispediti dove hai messo piede per la prima volta sul territorio dell’Ue. In un limbo giuridico, che genera nel frattempo un’apolidia di fatto. Un limbo, fatto di neon, pasti e psicofarmaci.
Un limbo che svela “Non morire fino a primavera”, da cui sembra impossibile uscire, mentre i volti carini delle assistenti sociali cercano di convincerti del contrario. Che qui potrai rifarti una vita. Mentre nemmeno loro sono informate dell’unica risposta vitale per te: quale sarà l’esito della tua richiesta d’asilo, e il tempo di attesa, settimane mesi o anni? Loro, i rifugiati, hanno i volti increduli di fronte a tanta violenza burocratica. Chiedono di essere trattati come esseri umani, mentre è proprio quest’identità a venir negata. Nel paese da cui sono fuggiti avevano già sofferto, persecuzioni, torture... «Non siamo noi, è l’Europa che decide in che posto tu devi stare», risponde un’operatrice in un lapsus rivelatore. Un misterioso deus ex macchina mostruoso, che stritola le non-vite da dubliners. Strappati dalla terra come radici secche, esclusi dalla vita, e i bambini sottratti alle loro scuole. Ed eccoli, nei corridoi vuoti del centro barcollare con le cuffie. A giocare senza gioia senza un paese, senza compagni.
Di quali traumi si macchiano questi centri, quale trauma subiscono quei richiedenti asilo respinti?
Camilla Ruggiero, si è infiltrata, per mesi nel centro A.M.I.C.I di Roma gestito dall'Università Cattolica di Roma in collaborazione con la Croce Rossa. Ha piazzato la telecamera tra gli operatori di quel centro, i medici e i profughi. Finto il rituale, finti i sorrisi, mentre il foglio d’espulsione è vero: una spada di Damocle sopra la loro teste. Finta la dolcezza, la presunta sensibilità etnico-religiosa… che mal celano l’asimmetria totale dei rapporti. Loro migranti non liberi, resi “pazienti”, prigionieri di parole incancrenite di buonismo e di interpretazioni che di psiche umana sembrano non capire nulla. L’uso della psicologia come un’altra forma di controllo. I sorrisi sembrano aver per unico scopo quello di lenire la giusta rabbia, di calmare, fare crollare la capacità di reagire. Rendere buoni. Con gli psicofarmaci somministrati in grande quantità in tutti quei centri. Non morire fino a primavera (da un proverbio curdo), perché potrebbe succedere che ti appendi al termosifone o ti getti dalla finestra, come succede, a volte, in quei angoli bui dell’informazione, in quei luoghi di attesa senza fine. Il documentario di Ruggiero coglie cosa avviene alla mente di queste persone trattenute de facto. E indaga su chi si arroga il diritto di «aiutare». E cade allora la maschera. Il fare impazzire gli «altri», orchestrato dal sistema Europa, inizia solo ad essere raccontato.

La Stampa 22.4.14
Dopo lo sbarco la fuga: perse le tracce  di oltre 300 migranti nel Ragusano
Sono per la maggioranza eritrei. Ieri erano state soccorse oltre 800 persone
poi accolte nel centro di Pozzallo

qui

l’Unità 22.4.14
Carcere, l’isolamento e i suicidi
risponde Luigi Cancrini

psichiatra e psicoterapeuta

L'Organizzazione Mondiale della Sanità ha pubblicato un documento sulla prevenzione dei suicidi nelle carceri in cui gli psichiatri dell'Università di Washington, Metzner e Hayes provano l’ associazione tra suicidio dei detenuti e detenzione in isolamento. Per me, che ho vissuto quattro di sei anni detentivi in isolamento, è solo una conferma di sensazioni vissute sulla pelle. GIULIO PETRILLI
Il carcere così com'è organizzato oggi è un laboratorio che non serve alla riabilitazione del condannato ma alla produzione o alla moltiplicazione del disagio. Il suicidio ne è la conseguenza più conosciuta e più drammatica ma gli psichiatri e gli psicologi conoscono bene la regolarità con cui si aggravano, in carcere, i disturbi più gravi di personalità ed i comportamenti sintomatici che ad essi si collegano come la tossicodipendenza al modo in cui sanno bene, gli educatori, la frequenza con cui un reato commesso in modo più o meno fortuito può trasformarsi, nel carcere, in una tendenza criminale più stabile. Saperlo, tuttavia, non aiuta perché quello che non cambia, da noi, è proprio l'universo carcerario: senza prendere in considerazione il danno che il carcere produce in persone di cui si dovrebbe riconoscere e ristabilire il diritto alle cure ed alla riabilitazione. Ha ancora un senso ripeterlo qui con un lettore che da anni attende dalla Corte europea di Strasburgo il riconoscimento di un diritto al risarcimento per quello che in carcere ha ingiustamente vissuto? Gutta cavat lapidem, dice il detto latino ed è solo per questo, in fondo, che bisogna ancora ripeterlo. Sperando che il nuovo che avanza nella politica possa occuparsi presto anche di questo.

l’Unità 22.4.14
Stragi e segreto di Stato abbiamo diritto alla verità
di Valter Vecellio


HA PROMESSO, MATTEO RENZI, DI DESECRETARE TUTTO QUELLO CHE C'È A PROPOSITO DELLE STRAGI CHE HANNO INSANGUINATO IL PAESE. Speriamo accada, e soprattutto speriamo che ci possa essere qualche elemento, qualche «notizia» per accertare come si sono svolti i fatti, i mandanti, la verità insomma.
Il segreto di Stato dovrebbe servire per tutelare gli «interessi supremi da difendere con il segreto di Stato: l’integrità della Repubblica, anche in relazione ad accordi internazionali; la difesa delle istituzioni poste dalla Costituzione a suo fondamento; l’indipendenza dello Stato rispetto agli altri Stati e le relazioni con essi; la preparazione e la difesa militare dello Stato»; così almeno il decreto del 2008 a proposito del segreto di Stato; a utile integrazione possiamo aggiungere quanto poi stabilito dalla Corte Costituzionale l’anno successivo: « l’individuazione degli atti, dei fatti, delle notizie che possono compromettere la sicurezza dello Stato e che devono rimanere segreti costituisce il risultato di una valutazione ampiamente discrezionale». Tuttavia è pur vero che troppe volte il «segreto di Stato» è stato invocato e apposto non tanto per garantire la sicurezza dello Stato, quanto per impedire di conoscere le malefatte perpetrate.
A tutti verrà in mente una serie di segreti di Stato che a tutto sono serviti, meno che a difendere gli interessi supremi del Paese, la Costituzione e le sue istituzioni: che la sicurezza dello Stato sia compromessa dalla conoscenza delle dinamiche del cosiddetto «golpe bianco» degli anni ’70, lo si può lecitamente dubitare: anche a voler proteggere eventuali fonti, sono ormai trascorsi cinquant’anni. Per quel che riguarda la strage alla stazione di Bologna, si sta parlando di 34 anni fa. Insomma, che non ci siano più zone d’ombra coperte dal segreto di Stato dovrebbe essere elementare diritto di tutti noi.
Negli Stati Uniti esiste il Freedom of Information Act (Foia): una normativa che garantisce un controllo democratico sull’azione amministrativa e di governo nel suo complesso. Approvato nel 1966, consente a tutti i cittadini di richiedere l’accesso a documenti o altro materiale conservato dalle agenzie governative, senza necessità di dimostrare un personale e diretto interesse, o anche di fornire alcuna motivazione per la domanda. L’accesso può essere negato nei casi indicati dalla legge, sostanzialmente ristretti a dati particolarmente sensibili sul piano dell’ordine pubblico interno, della sicurezza nazionale e della privacy oppure di natura confidenziale; in questi casi, la decisione è appellabile: attraverso un ricorso amministrativo interno, e nel caso di fronte ad un tribunale. Analoghi Freedom of Information Act sono in vigore in Regno Unito, Svezia, Germania, e in altri paesi europei. Non che il Foia di per sé sia sufficiente a garantire conoscenza e verità, sia pure nel tempo. E su questo ci si tornerà, che la storia è di utile insegnamento e ammonimento per il presente e il futuro.
In Italia, su questo terreno siamo molto in ritardo; la cosa andrebbe affermata e inserita nella «categoria » dei diritti umani, e potrebbe contribuire a risvegliare l’anima sfiduciata e rassegnata in cui sembra essere precipitata la democrazia italiana. Nella passata legislatura, i parlamentari radicali presentarono una interrogazione molto semplice, e breve: «Per sapere in quali casi e in quali date nella storia repubblicana sia stato apposto il segreto di Stato e per quali di questi è tuttora valido». Interrogazione rimasta inevasa. Si potrebbe partire da qui, ed è «curiosità » che il presidente Renzi potrebbe facilmente soddisfare: in quanti e quali casi il segreto di Stato è stato apposto, e per quale motivo resta? La risposta a queste domande potrebbe aiutare a fare luce sui tanti misteri di questo Paese, oltre che a corrispondere a un più generale diritto alla conoscenza e alla verità.

il Fatto 22.3.14
“Renzi promette verità senza averne il potere”
Il premier garantisce di aprire tutti gli archivi sulle stragi di Stato
I parenti delle vittime temono ci si fermi alle buone intenzioni
di Davide Milosa


Il presidente del Consiglio ha dato l’annuncio: desecretare gli atti relativi alle stragi e trasferirli all’Archivio di Stato. Da Piazza Fontana a Piazza della Loggia, dalla Stazione di Bologna a Ustica fino alle bombe di mafia del 1993. Tutto, dice Matteo Renzi intervistato domenica da Repubblica , sarà accessibile: annotazioni, informative, veline. Certo, la decisione presa venerdì scorso in una riunione al Comitato per la sicurezza nazionale (Cisr), non ha ancora una pianificazione concreta. Esattamente quella che chiedono le associazioni delle vittime di queste stragi.
IL CONCETTO per tutti è chiaro: qui non si tratta di segreto di Stato, che per queste vicende non è mai stato messo, si tratta, invece, di tutti quei documenti riservati chiusi negli archivi militari e in quelli dei Servizi segreti. Per Daria Bonfietti, ex parlamentare Pd e presidente dell’Associazione delle vittime di Ustica, la parola chiave è una sola: “Aprire tutti gli archivi, di tutti gli apparati dello Stato, senza esclusione, per confrontare quello che ci è stato riferito in aula con quello che fu realmente redatto, solo così avremo finalmente la verità”. Un’opera - zione trasparenza che trova d’accordo anche il deputato Pd Paolo Bolognesi, presidente dell’Associazione delle vittime per la strage di Bologna del 2 agosto 1980. “Bene fa Renzi a seguire questa strada”. Anche perché, prosegue, “i fatti di cui parliamo solo apparentemente sono datati”. Tradotto: “Una buona percentuale degli apparati dell’epoca che depistarono e occultarono, sono ancora in pista”. Certo Andreotti non c’è più, ma l’idea che Renzi su questa strada potrà trovare molta resistenza è ben chiara a Bolognesi: “Staremo a vedere, ma per avere normali livelli di trasparenza, bisogna disporre degli archivi militari, del ministero degli Esteri e di quello dei carabinieri”. Anche perché, in certi casi, come avvenuto per l’inchiesta sulla strage di Piazza della Loggia (28 maggio 1974), alcune informative rilevanti non sono mai arrivate sul tavolo della magistratura. Spiega Manlio Milani presidente dell’Associazione delle vittime della strage di Brescia: “È capitato con una velina redatta dal generale Gianadelio Maletti inviata alla magistratura e mai arrivata, per essere poi ritrovata nel 1996 in un magazzino abbandonato lungo la via Appia Antica a Roma”. Perché la domanda è: quanti documenti riservati non sono mai arrivati all’autorità giudiziaria? “Anche per questo – ragiona Milani – ritengo buona la decisione di Renzi”. Ma con un avvertimento decisivo: “Nel momento in cui gli archivi saranno aperti, la gestione deve essere separata da chi li ha prodotti”.
UN PUNTO SUL QUALE è d’ac - cordo anche Bolognesi. “Chi controllerà questi atti non dovrà certo rendere conto al generale di turno”. Ben si capisce che in questa partita storica il segreto di Stato c’entra poco. Spiega Felice Casson, segretario dell’organo di controllo dell’intelligence (Copasir): “Non c’è nessun segreto di Stato sulle stragi. Ma ci sono ancora una serie di atti che possono riguardare polizia o carabinieri che, se resi pubblici, possono contribuire a fare luce sui fatti”. Il presidente dell’Associazione per le vittime ro degli Esteri e di quello dei carabinieri”. Anche perché, in certi casi, come avvenuto per l’inchiesta sulla strage di Piazza della Loggia (28 maggio 1974), alcune informative rilevanti non sono mai arrivate sul tavolo della magistratura. Spiega Manlio Milani presidente dell’Associazione delle vittime della strage di Brescia: “È capitato con una velina redatta dal generale Gianadelio Maletti inviata alla magistratura e mai arrivata, per essere poi ritrovata della strage di via dei Georgofili, Giovanna Maggiani Chelli va oltre: “Soprattutto ci sono persone che non vogliono parlare”. Staremo a vedere, anche se un investigatore che si occupò delle bombe di Cosa Nostra resta scettico sulla possibilità di accedere a tutti gli atti: “Molti – ci dice – sono stati delegati dall’autorità giudiziaria, i servizi segreti non c’entrano, e su questi, che sono i più rilevanti, non c’è possibilità di accesso”.

Repubblica 22.4.14
Stragi, non basta togliere il segreto
di Benedetta Tobagi



RENZI ha preso un impegno per la total disclosure, cioè la “trasparenza totale”. «Abbiamo deciso di desecretare gli atti delle principali vicende che hanno colpito il Paese e trasferirli all’Archivio di Stato», ha detto, «per essere chiari: tutti i
documenti delle stragi».
QUELLE avvenute tra il 1969 e l’80, atti di terrorismo neofascista in larga parte impuniti (e speriamo che l’impegno sia presto esteso anche alle grandi stragi mafiose del 1992-’93). Parole importanti, ma devono essere precisate. Dopo tanti proclami disattesi nel corso degli anni, infatti, molti si sono chiesti: ma in concreto, cosa vuol dire?
Gli “addetti ai lavori” aspettano da tempo la pubblicazione dell’inventario dei documenti ancora secretati presenti nei depositi di tutti i ministeri. Il governo Monti aveva promesso di completarlo già nel 2012, al fine di rendere pubblici e consultabili presso l’Archivio di Stato atti prima inaccessibili: un tesoro di carte necessarie per capire più a fondo le stragi di Bologna o del treno Italicus, le tecniche depistatorie dei servizi, i meccanismi del potere, il contesto delle attività illecite della loggia P2 e molto altro. L’immane inventario è finalmente pronto? A questo fa pensare l’accenno di Renzi a una riunione con l’organismo di coordinamento dei servizi segreti (il Dis), coinvolto nella mappatura.
Per capire meglio di che si parla, e l’importanza di questo passaggio, serve un riassunto delle puntate precedenti del romanzo (delle carte) delle stragi. Nel 2007 fu varata, nel tripudio generale, la riforma dei servizi segreti con annessa normativa sul segreto di stato. La legge 124/2007 obbligava per la prima volta per i servizi a gestire i propri archivi secondo criteri di maggior trasparenza (innovazione dirompente nel Paese dei dossier illegali, dove nel ‘96 si ritrovò “per caso” un deposito fantasma di documenti dell’Ufficio Affari Riservati - l’ intelligence dell’Interno - sulla circonvallazione Appia, a Roma) e soprattutto limitava la durata del segreto di Stato a un massimo di trent’anni. Finalmente la verità sui misteri d’Italia! pensarono in molti. Certo, come ben sanno i ricercatori, negli archivi non ci si aspetta di trovare l’equivalente della “pistola fumante”, carte che inchiodino esecutori e mandanti delle stragi impunite. I documenti richiedono un paziente lavoro di analisi, ricomposizione e tessitura che li faccia parlare, ma sono lo strumento indispensabile per approfondire le conoscenze sull’Italia delle stragi emerse dai numerosi processi celebrati dal ‘69 a oggi. La legge del 2007, però, per funzionare aveva bisogno di un regolamento che disciplinasse le materie più delicate, tra cui la gestione dei documenti storici. Il regolamento arriva solo nel 2011, col decreto di Monti “Disposizioni per la tutela amministrativa del segreto di Stato e delle informazioni classificate”. Attenzione, sono queste ultime il vero problema, quando si parla di trasparenza. Il famigerato segreto di Stato fu opposto alla magistratura in pochissimi casi, mentre sono molti i documenti “classificati”, cioè sottoposti a un vincolo di segretezza variabile entro la pittoresca (e ridondante) scala “riservato- riservatissimo-segreto-segretissimo”, accessibili in caso di inchieste giudiziarie, ma non ai ricercatori. Gli ostacoli alla consultazione sono polverizzati in un mare di documenti prodotti da soggetti diversi (la Presidenza del Consiglio, il Ministero dell’Interno, o della Difesa, da cui dipendeva il Sid). Solo gli enti produttori sanno quali e quanti documenti riposano nei loro armadi, loro pongono il vincolo, a loro spetta, trascorsi i termini (in teoria non più di 10 anni, ma sono possibili deroghe a discrezione), dire se il segreto può essere tolto o chiedere una proroga. Un mare di carte dai confini incerti, di cui Monti aveva promesso la mappa entro e non oltre il 29 febbraio 2012 per “disporre in un quadro organico e unitario di tutti gli elementi relativi ai segreti di Stato”. Si dovrebbe ripartire da lì.
Il potere, in Italia, ha protetto se stesso attraverso l’informalità, il disordine e il silenzio. Nelle inchieste sulle stragi, il vero problema è sempre stato il segreto di stato “strisciante”: informazioni nascoste agli inquirenti in maniera informale, documenti nascosti, sottratti, distrutti. La prima urgenza è quindi far emergere e mettere in sicurezza tutto il possibile. In pratica: versamento regolare e completo dei documenti prodotti da ministeri e altri enti all’Archivio di Stato. Questo è il vero tasto dolente, in Italia. Ad oggi, gli eredi di quei servizi segreti così spesso responsabili dei depistaggi non hanno l’obbligo di versare le loro carte. Ironia, sottolinea l’archivista Giulia Barrera, persino il regolamento che disciplina l’invio discrezionale di documenti all’Archivio di Stato è secretato.
È importante che il primo ministro abbia assunto un impegno per la trasparenza. Per questo, prendiamo spunto dalle sue parole per suggerirgli alcuni interventi concreti per dare maggior forza e credibilità alla sospirata total disclosure . Primo: rendere obbligatorio il versamento periodico dei documenti all’Archivio di Stato per tutti gli enti produttori statali, inclusi l’Arma dei Carabinieri (che tanta parte ebbe - nel bene e nel male - nelle indagini sulla “strategia della tensione”), gli archivi militari, la Guardia di Finanza. E magari in tempi più brevi (il termine oggi è ancora di 40 anni). Secondo: non affidare solo ai servizi segreti e a chi ha prodotto i documenti (soggetti che potrebbero avere interesse a perpetuare il segreto, o quantomeno mantenere l’opacità in cui risiede il vero potere dei burocrati) la mappatura, l’inventariazione e la selezione delle carte storiche, ma coinvolgere anche archivisti di Stato di comprovata esperienza, come garanti di “terzietà”. Tenendo a mente il monito di Giovanni Conso: mai distruggere documenti fino a che il segreto non sia stato tolto, dando la possibilità di indagarli. Terzo: risolvere contraddizioni e aporie segnalate dagli addetti ai lavori nella normativa del 2007, che ne indeboliscono l’efficacia. Last but not least, garantire agli archivi le risorse per assumere e formare personale ben preparato, e spazi adeguati per valorizzare le carte che già ci sono (ricordiamo al premier che sul tavolo del precedente governo erano arrivate varie proposte, a basso costo e di sicura efficacia, dalla digitalizzazione dei documenti già disponibili all’utilizzo di caserme dismesse come sedi per eliminare il costo degli affitti). La vera trasparenza comincia da lì.

La Stampa 22.4.14
“Via i segreti dalle stragi” Così lo Stato aprirà gli archivi
Renzi vuole desecretare gli atti finora coperti, anche se le leggi sono controverse

Calipari: “È un segnale verso i cittadini”. Ma quanti documenti interesserà?
di Francesco Grignetti


Quando ha letto delle intenzioni di Matteo Renzi, che intende togliere ogni segreto sulle carte che riguardano tre terribili stragi che hanno segnato gli Anni Settanta in Italia – la banca di piazza Fontana, il treno Italicus, la stazione di Bologna – e promette di metterle a disposizione di tutti, racconta l’onorevole Rosa Villecco Calipari, del Pd, membro del comitato di controllo sui servizi segreti, che le si è aperto il cuore «perché è davvero un bel segnale verso i cittadini. In Parlamento da tempo chiedevamo attenzione al tema. Sono felice che questo segnale sia arrivato, grazie a una convergenza tra Copasir, che sta lavorando in grande armonia, il premier Renzi, il sottosegretario Minniti, il direttore dei servizi segreti Massolo». Attenzione alle parole, dunque. Trattasi di «un segnale», non di una rivoluzione. Ma la direzione è quella giusta. «Io ho sostenuto con convinzione la raccolta delle firme per una petizione sull’apertura degli archivi che precede questa decisione. È necessario superare il silenzio sulle stragi». 
Il segreto di Stato 
Una premessa indispensabile: in Italia c’è un groviglio di norme, anche contraddittorie, che finora ha impedito la trasparenza nei casi più delicati per la storia del Paese. Per legge, sulle stragi non può esserci segreto di Stato. Che infatti non c’è. Il segreto di Stato in effetti è stato apposto poche decine di volte nella vita della Repubblica: sul golpe bianco di Edgardo Sogno, sui rapporti con i palestinesi, sul caso Eni-Petromin. Più di recente è stato sollevato sul caso Abu Omar o su villa Certosa di Silvio Berlusconi.
Il paradosso 
A ben guardare, però, mancano all’appello troppi documenti. «Ciò dipende - spiega l’onorevole Calipari - dal contrasto tra due leggi. Un vero paradosso giuridico. Il segreto di Stato, il vincolo più forte che ci sia su un documento, secondo una legge del 2007 può durare al massimo 30 anni. La legge sui Beni culturali del 2008, però, quella che regolamenta gli archivi, stabilisce che un documento può essere reso pubblico soltanto dopo 40 anni se tratta di procedimenti penali; 50 anni se ha implicazioni di politica interna o estera; addirittura 70 anni se cita dati sensibili ai fini della privacy, tipo orientamento sessuale, malattie, rapporti interni di famiglia». È evidente, insomma, che la legge italiana è avanzatissima quando si tratta di liberalizzare i massimi segreti di Stato, ma è immensamente più tirchia quando si vanno a toccare i singoli. Inoltre le classificazioni di portata inferiore quali «riservato», «riservatissimo», «segreto» e «segretissimo» non hanno scadenza temporale. Così altri documenti, non meno importanti ai fini della conoscenza storica, possono restare chiusi in archivio all’infinito. Finché almeno qualcuno non ne chieda la de-secretazione e le autorità preposte non li liberalizzino. 
I dubbi 
Ecco spiegata, dunque, la cautela con cui molti famigliari di vittime hanno accolto l’annuncio di Matteo Renzi. A Firenze, dice la presidente dell’associazione vittime di via dei Georgofili, Giovanna Maggiani Chelli: «Sulle stragi di mafia del ’93-’94 non c’è segreto di Stato, ma ci sono documenti nascosti in qualche cassetto o in qualche armadio». A Bologna, Paolo Bolognesi, presidente dell’Associazione familiari delle vittime della strage alla stazione, nonché parlamentare Pd, ha subito precisato: «Bisognerebbe avere la disponibilità degli archivi militari, degli archivi del ministero degli Esteri e di quello dei carabinieri». Sanno sulla loro pelle che il vero nemico, in questo caso, è il muro di gomma. 
Troppa dietrologia 
«Trovo fondamentale - conclude Rosa Calipari - un particolare tecnico che a molti sarà sfuggito: la de-secretazione è stata decisa da un Comitato interministeriale. Significa che questa volta tocca anche agli Esteri, alla Difesa, all’Interno. Ai tanti archivi nascosti dietro i portoni ministeriali. Non saprei nemmeno io dire quanti documenti interesserà». Mille o centomila fogli? «Aspettiamo e vediamo. In ogni caso, vorrei concludere così: questo Paese non deve avere paura della verità, ma dell’oscurità, che alimenta solo le dietrologie. E di dietrologie l’Italia sta morendo».

Corriere 22.4.14
L’abolizione del segreto di Stato e l’illusione di trovare la verità
di Pierluigi Battista


Nel Paese delle stragi impunite,  una luce anche un po’ fioca sul passato non può che essere la benvenuta. Attenzione però a non alimentare aspettative destinate alla frustrazione. Matteo Renzi annuncia la fine del segreto di Stato sugli atti in cui è custodita la memoria della stagione del sangue e del terrore. Lo annuncia con enfasi, come un nuovo capitolo della «rottamazione», stavolta applicata alla storiografia. Ecco, l’enfasi è di troppo.
Perché lascia intendere che nei documenti desecretati sia contenuta la «Verità» sulla storia italiana colpevolmente nascosta da chi ha preceduto questo governo. Un’illusione. L’ennesima.
L’energica sbrigatività con cui il presidente del Consiglio aggredisce le questioni non è meccanicamente trasferibile sulle questioni che riguardano la storia patria. Non ci sono burocrati neghittosi che vogliono nascondere la verità seppellita in chissà quanti documenti segreti. Non esistono politici che in questi decenni hanno scientemente ostacolato la ricerca delle verità sulle stragi. Forse i governi di centrodestra e di centrosinistra durante tutto l’arco della Seconda Repubblica si sono prestati a sigillare con la scusa del segreto di Stato rivelazioni importanti per individuare i responsabili della strage di piazza Fontana o dell’Italicus? Qualcuno che ha avuto negli ultimi anni responsabilità ai vertici dello Stato e del governo sa qualcosa sull’eccidio della stazione di Bologna e solo adesso, dopo anni di immobilismo complice, Matteo Renzi provvede finalmente, con un’operazione di glasnost che fa assomigliare l’attuale presidente del Consiglio al Gorbaciov degli anni Ottanta, a scoperchiare la pentola maleodorante dei segreti inconfessabili?
L’infittirsi dei misteri d’Italia ha generato anche una contro-retorica che si dice sicura sulle responsabilità dello Stato nella stagione stragista. Il segreto di Stato è l’altra faccia della tesi sulla «strage di Stato». In questa contro-retorica, che ha peraltro prodotto tonnellate di carta stampata, pletoriche commissioni parlamentari che non sono approdate a nulla di certo e che sono state gestite con criteri di puro equilibrio politico, specializzazioni accademiche, brillanti carriere di dietrologi professionisti, aleggia la certezza psicologica che in qualche scrigno seppellito in chissà quali sotterranei del «Palazzo» sia conservato l’«indicibile», la prova regina che inchioderebbe i mandanti occulti di tutte le nefandezze che hanno imbrattato la storia italiana. Di tutta la storia italiana repubblicana, e anche prima: perché nel dogmatismo complottista e dietrologico tutto è concatenato in una sequenza inesorabile che non ha lasciato nulla al caso, perlomeno dallo sbarco degli Alleati in Sicilia nel 1943. Sono i sacerdoti della «verità politica» che sarebbe stata sepolta in un’attività giudiziaria segnata da depistaggi e manovre di occultamento. In questo contesto contro-retorico, il «segreto di Stato» si è inevitabilmente trasformato nel «male assoluto», nella radice di ogni nequizia. Da qui il senso d’enfasi che l’attuale presidente del Consiglio ha voluto imprimere nell’intervista a Repubblica al suo progetto di desecretazione dei documenti. Naturalmente i documenti desecretati sono i benvenuti. Non c’è ricerca storica che non possa giovarsi di una massa di carte sinora avvolte nel segreto. E sarà interessante certamente ottenere dettagli maggiori sull’attività dei nostri organi dello Stato in una stagione cruenta e intossicata da fatti torbidi e non ancora chiariti. Ma è sbagliato diffondere l’idea che in tempi brevissimi avremo a disposizione la chiave per sciogliere tutti gli enigmi che hanno segnato la tormentata storia italiana dell’ultimo cinquantennio. Che ci sia un intervento risolutivo, anche in questo caso «decisionista», della politica per mettersi al posto della storiografia e della magistratura. Come se il cambio generazionale permettesse con un atto semplice e chiaro di rimettere a posto le pedine del passato. Magari fosse così semplice. E magari lo schema più facile per spiegare le cose dell’Italia sia così aderente alla realtà da convincerci che in un documento nascosto sia custodita, protetta dagli agenti del male, la sequenza vera della stagione stragista. Sarebbe come una continuazione letteraria dell’Isola del tesoro o di un romanzo di Dan Brown. La realtà, e la storia, sono molto diverse.

il Fatto 22.4.14
Il papa: “untosi, sontuosi e presuntuosi”
Vaticano, lo scandalo dei cardinali con gli attici a 5 stelle
Gran Hotel Vaticano Le case da favola degli alti prelati
Mentre il papa sceglie un bilocale, Bertone ha un attico da 600 mq con 100 di terrazzo. I cardinali si concedono dai 200 ai 250 mq. La chiesa ha immobili per 2 mila miliardi
di Valeria Pacelli


I 700 metri quadri di Bertone e i mega appartamenti di altri 5 porporati. Mentre a Francesco bastano due stanze e il suo nuovo Segretario di Stato Parolin vive in un monolocale.
Papa Francesco non ha saputo solo due giorni fa che l’ex Segretario di Stato, Tarcisio Bertone, aveva deciso di vivere in un mega attico con tanto di terrazzo. Il Papa sa che Bertone non si è accontentato dell’appartamento ordinario dal 20 dicembre scorso, quando il Fatto (a firma Marco Lillo) ha pubblicato la notizia. Ora Repubblica racconta la reazione di Bergoglio, arrabbiato per la scelta dell’ex sottosegretario di Stato di unire due appartamenti in uno: quello a lui assegnato, dove prima viveva l’ex capo della gendarmeria vaticana, Camillo Cibin, morto nel 2009; e quello di monsignor Bruno Bertaglia, vicepresidente del Pontificio consiglio per i testi legislativi, deceduto nel 2013. Totale del super attico: circa 600 metri quadri (riporta Repubblica ) con 100 metri quadri di terrazzo. L’appartamento dove Bertone trascorrerà la sua pensione si trova nel Palazzo San Carlo, a pochi passi dalla Domus Sanctae Marthae, dove invece risiede Papa Francesco, che ha scelto un bilocale, di 70 metri quadri. QUI VIVE ANCHE il Segretario di stato, Pietro Parolin, che si è accontentato di un semplice monolocale. E nello stesso edificio vivono (sempre in due monocamere) anche i due segretari di Bergoglio, monsignor Alfred Xuereb e monsignor Fabian Pedacchio Leaniz. Ma non tutti, tra cardinali e alti prelati, hanno fatto la stessa scelta del Papa e dei suoi fidatissimi. Molti vivono in appartamenti molto più grandi di quello di Bergoglio. Tra gli immobili in ristrutturazione, ad esempio, c’è quello del capo della Gendarmeria, Domenico Giani, intercettato dalla Procura di Roma mentre scriveva su carta intestata agli organi italiani di Polizia per aiutare monsignor Nunzio Scarano (ora sotto processo per aver fatto rientrare illegalmente in Italia 20 milioni di euro) a recuperare 400 mila euro dati all’agente dei servizi segreti Giovanni Zito. Giani in un primo momento era andato ad abitare in una casa sull’Aurelia, in territorio italiano. Sistemazione temporanea. Infatti stavano ultimando i lavori di ristrutturazione del suo appartamento con affaccio su via di Porta Angelica. Sopra il terzo piano è comparso all’improvvi - so un piano nuovo con tre finestre e due ampie vetrate, a cui si aggiungono due bagni con una vasca idromassaggio e una terrazza. Ma passeggiando all’interno delle mura vaticane, ci sono tanti sontuosi palazzi, con all’interno appartamenti che vanno dai 200 ai 250 metri quadri. Molti di questi, sono abitati da cardinali, che non li usano del tutto, lasciando molte stanze completamente chiuse. A Palazzo Sant’Uffizio, accanto a piazza San Pietro, ad esempio, alloggia insieme a due suore, il cardinale Velasio De Paolis, presidente della Prefettura degli Affari economici della Santa Sede. Il cardinale Giuseppe Bertello, presidente del governatorato dello Stato della Città del Vaticano, vive all’ultimo piano del palazzo del Governatorato. Anche in questo caso viene utilizzata solo una parte della casa. Il cardinal Angelo Sodano, invece, vive in un piano della palazzina che ospita il Collegio Etiopico, dietro San Pietro, dopo aver dovuto abbandonare il più sontuoso appartamento nella Prima Loggia del Palazzo Apostolico. E questi sono solo alcuni esempi. Appena fuori le mura vaticane – sempre in grandi appartamenti di proprietà della Santa Sede – vivono altri alti prelati. Nello stesso palazzo, nella piazza della città leonina, ci vivono ad esempio il cardinale Walter Kasper, teologo tedesco e il vescovo bavarese Gerhard Ludwig Müller, che ha avuto il privilegio di abitare nello stesso appartamento che prima era di Ratzinger, e dove si trova ancora parte della sua biblioteca. Questi citati sono solo alcuni degli immobili di proprietà del Vaticano.
NON ESISTE una stima pubblica del valore immobiliare di tutti questi palazzi. Negli anni scorsi, secondo alcune notizie di stampa, il patrimonio immobiliare disseminato nel mondo di proprietà del Vaticano ammontava a circa 2 mila miliardi di euro. Circa la metà si trova in Italia e si tratta del 20% del patrimonio nazionale. Con un patrimonio di questa entità, da anni si discute della possibilità di far pagare l’Imu anche alla Chiesa. Mario Monti, per evitare la multa europea, nel 2012 stabilì che gli enti ecclesiastici dovevano pagare per la parte commerciale dei loro immobili. Il regolamento normativo però non è stato emanato prima dei termini delle dichiarazioni. La partita quindi si gioca quest’anno.

il Fatto 22.4.14
Vita da prete: lusso a cinque stelle
Dalla sauna in camera al frigo con champagne nell’auto blu, alle spese per le missioni all’estero
di Al. Fer.


Oh Gesù! Esclama un prete mentre congiunge le mani e prova a riprendere pensieri e ricordi sulla sua esperienza tra Propaganda Fide e Vaticano. “Non avete idea di cosa accade, di come si comportano. Quanta sfacciataggine!”. Insistiamo nel chiedere, e piano piano le mani si “sciolgono” dall’intreccio esattamente come il richiamo a immagini di una vita lussuriosa, festaiola, leggera, disinibita all’ombra di San Pietro e di Francesco. “Ma ciò che più mi colpisce è l’atteggiamento sfrontato dei protagonisti, a loro non interessa nulla, giustificano tutto, sembrano figli dell’Ottocento, quando a Roma le regole erano modulabili a seconda del potente di turno e delle necessità del momento”. Così emerge la storia di un alto prelato ufficialmente fidanzato con un coreografo, promotori di serate pensate intorno a una sauna installata dentro un appartamento nel centro di Roma, meglio non andare troppo lontani dal Cupolone, terzo piano di una palazzina vicino piazza Navona e di proprietà di una congregazione cattolica. La coppia trova anche il tempo per investire e seguire alcune attività commerciali, il futuro è sempre un’incognita.
“UN CARDINALE si è fatto anche montare il frigo bar dentro l’auto blu, lo champagne è sempre pronto”. Champagne è sinonimo di festa, ma di alto livello. In questo caso il più introdotto resta don Giulio Della Vite, personaggio scoperto da Camilla Morabito, regina dei salotti romani. Signore bergamasco, accento lieve, sorriso pronto, simpatia d’occasione, ama farsi fotografare tra una velina, un personaggio della televisione, il politico, destra o sinistra conta poco, quindi da Fausto Bertinotti a Gianni Alemanno. Celebre la sua frase dopo la mezzanotte: “Già andate via? La festa inizia ora”. Non per tutti. Altro stile per don Santino Spartà, scoperto nei primi del Duemila da Piero Chiambretti in una trasmissione televisiva insieme alla signora De Blanck, Renato Balestra e amici. Lui la periferia, la povertà, la considerava un mistero della fede. “Ma questi sono casi macchietta – continua il nostro prete – Il peggio è quello che non si vede. I più influenti sono i nominati alla Segreteria vaticana, sono come dei ministri, gestiscono appalti, nomine. E possono partire all’estero con la scusa delle missioni. Ma quali missioni!?”. Fuori dal confine si smette la toga, si prenota in alberghi di lusso, e si dà sfogo palese alle proprie attitudini; qualcuno è andato anche a trovare Franz-Peter Tebartz-van Elst, il vescovo della diocesi di Limburgo in Germania che ha speso 31 milioni di euro per ristrutturare la sua nuova dimora. Un professionista irraggiungibile. A Roma non sono ancora arrivati a tanto.

Repubblica 22.4.14
Il vuoto oltre la religione
risponde Corrado Augias



Caro Augias, qualche giorno fa vi siete occupati del battesimo dei figli dei non credenti: “Due amiche alle prese con il battesimo dei figli». Secondo l’Istat in Italia nel 1964, quando mi sono sposato io, i matrimoni civili, erano l’1,2% del totale. Si sposavano in municipio solo i pochi valdesi o ebrei, qualche raro straniero e i pochi “matti” come me e mia moglie. Le coppie che convivevamo senza sposarsi erano “inesistenti” e “tutti” i bambini venivano battezzati. Il vescovo di Belluno disse ai miei suoceri, che volevano battezzare di nascosto i miei figli, che non si poteva fare perché il battesimo dei neonati può essere dato solo con la certezza di un’educazione religiosa. Sempre secondo l’Istat, nel 2012 i matrimoni civili in Italia sono saliti al 41%; i nati da coppie non sposate al 24,8%. Buona parte di quelli sposati in chiesa lo hanno fatto per non dispiacere ai parenti, per non perdere l’eredità, perché la cerimonia religiosa è più romantica, per conformismo. Il che comporta che tre quarti degli attuali giovani genitori sono persone poco o per nulla cattoliche per cui i figli cresceranno senza concreti riferimenti cattolici in famiglia. Giorgio Villella
Il signor Villella descrive, con le cifre, il fenomeno largamente noto che va sotto il nome di secolarizzazione, termine e concetto che risale addirittura al XVII secolo (Pace di Vestfalia) ma che ha assunto un tale rilievo negli ultimi decenni che nella chiesa cattolica esiste un arcivescovo preposto alla “nuova evangelizzazione”. Il fenomeno ha investito l’intero mondo occidentale e non poteva non arrivare in Italia anche se la storia del nostro paese anche da questo punto di vista è un po’ particolare. In un’ottica laica la domanda è quali conseguenze possa avere il fenomeno. Le religioni hanno sempre avuto anche una funzione sociale. Il sofista greco Crizia sviluppò la teoria, divenuta celebre, secondo cui gli dèi furono inventati per costringere gli esseri umani a comportamenti morali, a non delinquere. Questa funzione “civile” della religione arriva fino a Rousseau. Da noi la prevalente religione cattolica è stata un potente strumento per la diffusione e il mantenimento dei “buoni costumi” - fino a quando è durato. Il grande storico Polibio convinto anche lui che gli dèi servissero a “tenere a freno le violente passioni delle masse” scriveva: «Sconsiderati i moderni che cercano di disperdere queste illusioni». Quei moderni ormai dilagano dimostrando che Polibio aveva ragione. Perché quando le “illusioni” vengono meno e manca una sufficiente acculturazione media, le conseguenze sono quelle che vediamo. Quelle religioni che Marx definiva “oppio dei popoli” possono essere ancora considerate un utile rimedio, quando il resto manca.

l’Unità 22.4.14
Partiti europei storture italiane
di Claudio Sardo


Mentre in Italia i partiti continuano a essere oggetto di campagne denigratorie - che negano loro quella funzione essenziale per la democrazia, affermata invece dalla Costituzione nell’art. 49 - il Parlamento di Strasburgo ha approvato, il 16 aprile scorso, una risoluzione legislativa con la quale si riconosce ai partiti politici europei la piena personalità giuridica nell’Unione.
Avremo così il paradosso che i partiti europei godranno del «riconoscimento giuridico», e saranno soggetti di diritto «in ciascuno degli Stati membri», compresa l’Italia, mentre nel nostro Paese i partiti nazionali - anche quelli che partecipano ai partiti europei - continueranno a essere associazioni non riconosciute. Non è la sola contraddizione. Il Parlamento italiano ha da poco approvato una legge che abolisce il finanziamento pubblico diretto e affida per intero i bilanci dei partiti a donazioni private, oppure all’incerta previsione di un due per mille che difficilmente funzionerà. L’Europarlamento invece ha modificato e rafforzato il carattere pubblico del sostegno ai partiti europei: le singole donazioni non potranno superare i 18 mila euro e in ogni caso gli apporti dei privati dovranno restare sotto il 40% del bilancio complessivo dei partiti. La ragione è resa esplicita: i partiti europei devono diventare sempre più attori delle istituzioni comunitarie, se vogliamo che l’Europa non sia affidata ai soli governi oppure alle tecnocrazie di Bruxelles. La partecipazione democratica ha nei partiti uno strumento irrinunciabile. E le prossime elezioni offrono a tutti un’opportunità: il partito europeo che otterrà più seggi a Strasburgo indicherà il presidente della Commissione. Varrà per la prima volta (pur parzialmente) un sistema competitivo su base continentale: il voto dei cittadini inciderà sull’equilibrio dell’organo esecutivo di Bruxelles. Così la Commissione non sarà più un governo meramente tecnico, ma acquisterà valenza politica (e ciò potrebbe aiutare il cambiamento delle politiche economiche di austerità). Il finanziamento pubblico - ricavato all’interno del bilancio dell’Unione - per i partiti europei è ancora limitato: 40 milioni in tutto, di cui un terzo destinato alle fondazione di studi e di ricerca, collegate con i partiti. Ma la strada potrebbe allargarsi in futuro. E potrebbe aiutarci a superare le nostre convulsioni che, se da un lato nascono da vergognosi episodi di corruzione e di malcostume, dall’altro producono effetti pericolosi per la tenuta costituzionale. Quale indipendenza possono garantire i partiti che dipendono per intero da finanziamenti lobbistici? Quale partecipazione può essere favorita da partiti che non sono tenuti a rispettare regole democratiche al loro interno e che diventano sempre più proprietà personali dei loro leader? Quale tutela avranno le minoranze se non ci saranno autorità in grado di far rispettare le norme sulle candidature, sugli organi esecutivi, sui congressi? Si tratta di questioni vitali. Tanto che la risoluzione del Parlamento europeo prescrive nel dettaglio le condizioni statutarie necessarie per ottenere il riconoscimento giuridico e il finanziamento pubblico. E istituisce un’Autority che avrà il potere di revocare il titolo pubblico del partito che contravvenga alla regola. È umiliante che, in questa vicenda, il governo italiano si sia speso per ritardare al 2017 l’entrata in vigore di questa delibera. Tutti i Paesi dell’Unione erano pronti a riconoscere la personalità giuridica dei partiti europei dal 2015, o al massimo dal 2016. È stato proprio il governo italiano a chiedere il rinvio al 2017. In questo, purtroppo, la continuità tra l’esecutivo di Letta e quello di Renzi è assoluta, anche perché a trattare è stato il ministero dell’Interno, guidato sempre da Alfano. Penosa la motivazione addotta: il nostro Paese non ha ancora uno strumento legislativo per riconoscere la personalità giuridica dei partiti italiani.
Il problema è che non ha neppure in programma di crearlo. Anzi, da noi gli stessi dirigenti di partito inseguono il populismo di chi vuole demolire i partiti. Non hanno il coraggio di dire che, proprio attuando finalmente l’art. 49 della Costituzione, si potrebbero definire norme e strumenti di controllo per portare alla luce e punire sprechi, ruberie, ma anche violazioni dei diritti democratici interni. La legge che ha abolito il finanziamento pubblico (con uno scivolo ipocrita di tre anni) è stata un’occasione mancata. Anzi, è stata uno schiaffo alla Costituzione. Nel nostro Paese la cultura anti-partito ha radici antiche e andamenti carsici. Ma quando si è affermata ha prodotto macerie. Non c’è bisogno di sopprimere i partiti per perseguire chi ruba: sopprimere i partiti è l’obiettivo di chi vuole la politica al giogo dei poteri consolidati. È arrivato il momento di dare un carattere pubblico ai partiti, e lo si può fare senza privarli di quella natura volontaria, che resta la loro matrice. L’art. 49 non è stato mai attuato perché soprattutto il Pci temeva un controllo governativo sulla vita dei partiti. Temeva per la propria autonomia e la propria libertà. Ma il contesto è cambiato da qualche decennio e si è perso molto tempo. Ora la preoccupazione è opposta: senza regole pubbliche (e finanziamenti pubblici) l’autonomia e la libertà dei partiti possono svanire. L’attuazione dell’art. 49 è ciò manca al disegno delle riforme istituzionali. Bisogna correre ai ripari: guai a illudersi che si possa sfuggire alla campagna anti-partiti compiacendo chi la manovra.

Repubblica 22.4.14
Le sfide dell’Europa
di Giorgio Ruffolo e Stefano Sylos Labini



LA BOMBA esplosa davanti alla sede della Banca di Grecia, ad Atene, il giorno successivo al ritorno del Paese sui mercati internazionali, dopo quattro anni di assenza, e alla vigilia della visita nella capitale ellenica della cancelliera tedesca Angela Merkel, è un indice del fallimento del progetto europeo che fino a questo momento non è riuscito ad assicurare una ripresa economica sufficiente ai Paesi che hanno aderito alla moneta unica. In una fase recessiva l’Europa ha puntato esclusivamente sul risanamento dei bilanci pubblici diventando essa stessa un fattore di crisi. Ma come è potuto succedere? Perché è stata perseguita una linea distruttiva di cui non si vede la fine? Chi ha interesse a spaccare l’Europa mettendo le popolazioni dei vari Stati le une contro le altre?
A queste domande si possono dare diverse risposte. Gli Stati ricchi ed efficienti guidati dalla Germania hanno avuto la possibilità di esercitare la loro egemonia mettendo in “punizione” i Paesi meno competitivi. Il settore finanziario e le oligarchie hanno dettato le politiche economiche dei governi e la politica monetaria della Banca Centrale. I Paesi in difficoltà hanno mostrato tutti i loro lati negativi essendo devastati da corruzione, evasione fiscale e illegalità diffusa, fenomeni che sono diventati intollerabili in seguito alla recessione. Si è creata in questo modo una miscela esplosiva di cui la bomba di Atene rappresenta una manifestazione concreta. Questo può essere solo l’inizio.
Le responsabilità sono dunque estese a vari livelli e dobbiamo renderci conto che bisogna cambiare strada. Occorre essere concreti e pragmatici per valutare ciò che può essere fatto nel breve periodo e le misure che invece richiedono tempi più lunghi. Ad esempio, la riduzione del debito sarà conseguibile solo se avrà luogo una crescita sostenuta e duratura. Diversamente, politiche economiche e monetarie espansive possono essere attivate in tempi brevi: qui entra in gioco la volontà dei Paesi più forti. Ora, persino la Germania sta comprendendo che una moneta sopravvalutata potrebbe penalizzare le esportazioni e intaccare la crescita dell’economia tedesca, per questo la Bundesbank ha preso in considerazione la possibilità di un quantitative easing.
Ma la posta in gioco è ben più alta perché i Paesi dell’euro dovranno prendere atto che la strategia del “fiscal compact” non è perseguibile in una fase di elevata disoccupazione e di bassa crescita. Le imminenti elezioni europee saranno fondamentali per capire se c’è realmente la volontà di intraprendere un processo di integrazione che sia in grado di assicurare benessere e prosperità a tutti gli Stati membri. È probabile che l’astensionismo e i partiti antieuropei avranno nell’insieme un peso maggiore dei partiti che sono a favore dell’Euro. In questo scenario il semestre italiano di presidenza europea diventa cruciale. Crediamo che l’Italia debba finalmente prendere l’iniziativa con altri Paesi per cambiare radicalmente la politica dell’Unione Europea promuovendo un piano di sviluppo continentale che sia finanziato senza ricorrere alle risorse dei singoli bilanci nazionali.

il Fatto 22.4.14
Sondaggio Europee Il Pse è dietro il Ppe nonostante il Pd


TREDICI SEGGI di scarto a favore del Ppe. Questo il risultato dell’ultimo sondaggio di Poll Watch in vista delle Europee 2014. Secondo questa rilevazione, il Partito popolare avrebbe rimontato e superato il Pse: 29,6 per cento a 27,8; 222 seggi per i popolari e 219 per i socialisti. Secondo Poll Watch, a permettere il sorpasso dei popolari sarebbero i risultati in Polonia (dove la crisi ucraina sta spingendo l’elettorato verso posizioni più conservatrici) e la Francia. Un grande apporto al gruppo di Martin Schulz dovrebbe arrivare dall’Italia, con il Pd che potrebbe diventare la prima forza socialista d’Europa, superando i tedeschi dell’Spd. Si contendono la terza piazza i liberaldemocratici dell’Alde (dati all’8 per cento con 60 seggi) e la coalizione della Sinistra, al momento al 7,1 con 53 seggi, ma in rimonta. I voti assegnati in Italia a Verdi e Lista Tsipras confluiranno qui. A sparigliare le carte potrebbe essere il Movimento 5 Stelle, probabile secondo partito in Italia, che al momento non è collegato a nessuna lista. I grillini sembrano intenzionati a formare un gruppo autonomo, ma non si sa chi potrebbero essere gli eventuali partner (ne servono almeno sei).

Repubblica 22.4.14
L’addio di Cohn-Bendit “In politica tocca ai ragazzi o l’Europa si addormenta”
Parla “Dany il rosso” capo storico del ’68 e decano dei Verdi nel Vecchio continente
“Sì, lascio la politica: bisogna rinnovare. Certo non si ferma il populismo seguendo l’esempio dei vertici della Ue”
di Andrea Traquini


BERLINO. «IL populismo europeo è pericoloso come il serpente tentatore della Bibbia, sta ai politici europeisti contrastarlo lanciando messaggi e politiche credibili». È il monito di congedo di Daniel Cohn-Bendit, eroe del Sessantotto e poi decano dei Verdi europei, che ha appena deciso («perché ormai sono anziano e ho affrontato una
malattia») di non candidarsi più.
Perché ha deciso di non correre più come candidato? È un addio alla politica?
«No, ha a che fare con la mia età. Ho ormai 69 anni, certo in Italia e altrove molti politici restano in carica senza limite. Come il vostro presidente Napolitano. Ora, per quanto si possa pensar bene di lui, ci vuole un rinnovamento. Dopo un certo tempo, i politici devono lasciare. Poi, smetto anche perché sono stato malato, tre anni fa ho avuto noduli cancerosi alla tiroide. Mi sono detto: è tempo di smetterla. Anche se adesso sto bene ».
Politici anziani e mai pensionati, è un problema europeo?
«È un problema il fatto che i politici lasciano mal volentieri il potere, vi si aggrappano. È un problema umano, non europeo. Ma certo in America non si può essere presidente per più di due mandati. In Francia invece teoricamente si può essere rieletti senza fine».
È un motivo in più del crescente euroscetticismo?
«No, purtroppo non credo. Nel Front National si candida Le Pen padre, che può a malapena camminare ma certo sarà eletto».
Lei è sempre stato un europeista convinto: è deluso dall’Europa reale com’è oggi?
«No, non sono deluso. Vedo quanto la situazione sia difficile, mi rendo conto che ci vorrà del tempo per arrivare agli Stati Uniti d’Europa. Ogni processo democratico per costruire un’Europa democratica durerà molto. Così come è stato per la costruzione di Stati democratici a livello nazionale. Guardi quanto è stato difficile in Italia divenire democratica, e oggi lanciare riforme necessarie per l’Europa, tanto da indurre il timore che sia irriformabile. Finora Roma si è concentrata solo sulla riforma del sistema elettorale. O alla Francia: il processo democratico cominciò con il 1789 ma fu compiuto solo col suffragio universale anche per le donne, anni dopo. Non sono deluso dall’Europa, ma sono consapevole delle difficoltà».
Quali sono le maggiori?
«Cinquant’anni fa l’Europa di oggi, con le sue realizzazioni, sarebbe stata inimmaginabile. Ma guardo alle sfide che ha davanti: il grande problema è come arrivare a una sovranità democratica europea nell’èra della globalizzazione. È ancora una lotta lunga».
Insomma troppe differenze tra l’Europa che sognavamo e l’Europa reale di oggi?
«Credo che il confronto principale in Europa coinvolga negli Stati nazionali sia le élites sia gli elettori.
Il problema è chiarire che davanti alla globalizzazione, della crisi degli Stati, della crisi sociale ed ecologica, la sovranità nazionale è emarginata dalla globalizzazione stessa. Non esiste più una vera sovranità nazionale».
In che senso?
«Nel senso che la sovranità è libertà di darsi da soli istituzioni e modelli di vita. La riconquisteremo solo con una sovranità europea condivisa. Ma è un cambio di paradigmi storico, non è così facile capirlo né per gli elettori né per gli eletti. Ecco lo scontro d’oggi».
Molti cittadini d’Europa sembrano preferire la sovranità nazionale a una devolution di sovranità all’Europa… «Non so se sia così, ma bisogna chiarire ai cittadini che la sovranità nazionale ormai è solo un miraggio. Occorre chiarirlo con tutte le difficoltà dei contesti storici e memoria storica d’ogni Stato nazionale europeo. L’Italia ha vissuto epoche in cui preferì una dittatura alla democrazia, ma era giusto resistere a Mussolini, no?».
Van Rompuy ha accusato i partiti europeisti storici di non battersi a fondo per l’Europa, e in alcuni casi di imitare gli slogan dei populisti. Che ne dice?
«Il problema è che Van Rompuy è più un sonnifero che non un esempio. Fare politica come fanno lui o Barroso crea difficoltà alla lotta degli europeisti».
Ma a prescindere da ciò, i popolari europei e altre partiti a volte imitano gli slogan dei populisti. Non le sembra pericoloso?
«Insisto: i governi, nel corso della crisi, si sono mostrati capaci di reagire solo molto lentamente a livello intergovernativo, e ciò ha indebolito l’idea europea. Juncker, capolista del Ppe, ha detto di volere un’Europa più sociale e un salario minimo europeo. Ma da capo dell’Eurogruppo si è adeguato al rigore che ha messo in ginocchio la Grecia, mica ha denunciato quel rigore inaccettabile da un punto di vista sociale. Non è un modo credibile di far politica. Lo stesso vale per Schulz: sociale, ecologico, a parole. Ma nei fatti ha concesso a Merkel ogni compromesso in politica sociale e di bilancio, compromessi che hanno indebolito l’idea d’Europa».
Enzensberger ha definito l’Europa un “mostro soft”...
«Lo scrittore austriaco Robert Menasse ha scritto cose molto più profonde. Enzensberger ha messo su carta i suoi pregiudizi dopo aver trascorso appena una settimana a Bruxelles. Menasse ci è stato sei mesi. Ha descritto molto bene il modo in cui almeno nelle istituzioni europee la maggioranza dei funzionari cerca di pensare e formulare idee in modo europeo, non più nazionale. Enzensberger è un grandissimo scrittore, ma di politica non capisce nulla. Non dimentichiamo che nel ‘68 scrisse che il nostro modello è Cuba. Gli euroscettici sono circa venti europei su cento, quindi ottanta su cento sono non euroscettici bensì incerti. A loro, e a chi vuole un’altra Europa, non a nazionalisti, razzisti, antisemiti devo rivolgermi. A che pro parlare con Orbàn? Perché il presidente del Ppe è andato all’ultimo comizio elettorale di Orbàn? Perché Kohl ha scritto al “caro amico Viktor”? Vede, i politici anziani dovrebbero lasciare la politica».
Habermas sottolinea il deficit di legittimità democratica della Ue. Ha ragione?
«Habermas ha ragione. La democrazia europea va ripensata e sviluppata. Però, ripeto, la Francia cominciò a lottare per la democrazia nel 1789 e conseguì la piena democrazia nel 1945 col voto alle donne, 150 anni dopo. E quanto ci ha messo l’Italia? La costruzione della legittimità può essere un processo lunghissimo a livello europeo. Durerà molto, è una lotta, l’impazienza non aiuta. L’Europa ha compiuto progressi storici, ma non basta».
Quanto teme la noia verso l’Europa?
«Perché l’Europa dovrebbe essere più noiosa della Francia o dell’Italia? O più burocratica? ».
Ma i populisti volano nei sondaggi: quanto sono pericolosi, e - pensi a Orbàn o al FN - contagiosi?
«Hanno 20 elettori su cento. Dipende da come noi europeisti faremo politica per l’80 per cento restante. Contagiosi? Quanto è stato contagioso Berlusconi? Quanto è pericoloso Grillo? Non lo so. Mi interessa non quanto siano pericolosi, ma quanto i Verdi e chiunque voglia davvero un’Europa federale saprà convincere la gente. Inutile rompersi la testa sugli altri. Nella misura in cui noi europeisti sapremo costruire l’Europa ed essere credibili, loro non saranno contagiosi. Le proposte per l’Europa devono essere sociali, ecologiche, democratiche, capaci di mostrare come l’Europa e il suo Parlamento possano funzionare. In Italia ad esempio riforme di successo metteranno Grillo nell’angolo, ma giochetti di potere possono bloccare tutto e allora Grillo e la Lega troveranno spazi».
Intanto il FN e la destra radicale austriaca si esprimono, nel confronto con l’Occidente, a favore di Putin. Che significa?
«Ciò mostra quale Weltanschauung di sogni autoritari li muova. Gli amici di Putin sono estremisti di destra o di sinistra, mossi dall’antiamericanismo. Odiano l’idea della civiltà occidentale. L’America compie molti errori, ma è una democrazia con un’opinione pubblica democratica. Che in Russia non esiste, in Ungheria quasi non esiste più. Occorre chiarirlo. Il populismo è un serpente che affascina come quello della Bibbia, questo suo fascino è pericoloso. Quanto più ci sentiamo paralizzati dalla paura, tanto meno saremo in grado di batterci per l’Europa che vogliamo».

il Fatto 22.4.14
Abu Mazen: “La Shoah tragedia della storia”
Il leader palestinese starebbe preparando un documento di condanna dell’olocausto ebraico
Evento epocale, prima volta per un capo dell’ANP


di Roberta Zunini

Quest’anno in Israele la Giornata della Shoah si celebrerà lunedì 28 aprile. Ma, a leggere ciò che ha scritto il quotidiano di Tel Aviv, Haaretz , non sarà una commemorazione come le altre. Il presidente palestinese Abu Mazen dovrebbe pubblicare un messaggio di cordoglio destinato agli israeliani. Un fatto mai accaduto finora. Al quotidiano l’avrebbe anticipato il rabbino Mark Schneier, vicepresidente del Congresso ebraico mondiale. “Abu Mazen mi ha detto che la Shoah è la tragedia più grande della Storia moderna” ha affermato Schneier, dopo un incontro con il Rais a Ramallah in cui il presidente dell’Anp ha espresso una profonda frustrazione per lo stallo del processo di pace.
FORSE ABU MAZEN ha capito che la giornata della Shoa è l’ultima chance a sua disposizione per riaprire il negoziato e pertanto è disposto a contravvenire a quanto scrisse nella sua tesi di laurea, 40 anni fa, a proposito della collaborazione tra nazisti e sionisti durante la Seconda guerra mondiale. Oppure il presidente, all’ultimo mandato, cerca un posto d'onore nella storia. Un'ulteriore prova del cambiamento, genuino od opportunista, di Abu Mazen nel corso del tempo circa l'Olocausto, è l'aver dato istruzioni negli anni scorsi agli inviati palestinesi nel mondo di partecipare alle commemorazioni della Shoah qualora fossero stati invitati. E a questo proposito va segnalata la visita senza precedenti, avvenuta un mese fa, di 30 universitari palestinesi nel campo di sterminio di Auschwitz che però ora è finita al centro di accese polemiche in Cisgiordania. Il suo ideatore, il professore di Studi americani, Muhammed Dajani, è accusato di aver praticato “il lavaggio del cervello” ai suoi studenti. Ma Dajani replica di essere stato spinto dalla volontà di emanciparli. Nel sistema scolastico palestinese, il tema della Shoah viene in genere evitato. Ahmed al-Jaafari, 43 anni, residente nel campo palestinese di Deheishe, è uno degli 8 profughi palestinesi che ha cambiato idea sulla questione israelo-palestinese dopo la visita al museo di Tel Aviv, Yad VaShem, organizzata dai “Combattenti per la pace”, associazione creata da israeliani e palestinesi.
“Una nazione che ha vissuto la Shoah non può vivere senza cicatrici”, ha detto Al-Jafaari.

La Stampa 22.4.14
Mia madre in chiesa malediceva Dio in yiddish
Incontro con Lizzie Doron, che in un libro racconta la vita quotidiana tra gli Anni 50 e 70 nel quartiere di Tev Aviv dove i figli degli scampati ai Lager crescevano insieme, nel rifiuto della religione ebraica
di Maurizio Molinari


In una strada abitano i sopravvissuti di Auschwitz, in un’altra gli scampati a Dachau e in un’altra ancora i partigiani. Sono tutte piccole palazzine biancastre, a due piani, con dentro due stanze e un salottino e davanti un piccolo giardino. I padri sono pochi, vulnerabili, deboli. Le madri molte, determinate, forti. E i figli delle diverse famiglie crescono uniti, sentendosi parte di un tutt’uno. Questo è Bitzaron, il quartiere a Sud di Tel Aviv che in coincidenza con la nascita del giovane Stato, nel 1948, si trasforma in un luogo dove i sopravvissuti alla Shoah si ritrovano, vivono assieme, parlano in yiddish e non in ebraico, ricordano tra loro ciò che hanno passato, tenendo fuori tutti gli altri.
«Era come in un vecchio ghetto» ricorda Lizzie Doron, figlia di sopravvissuti allo sterminio e autrice di cinque libri frutto proprio della gioventù passata a Bitzaron. L’inizio di qualcosa di bello è in uscita per la Giuntina e per comprenderne la genesi ci sediamo nella cucina di casa Doron, in un grattacielo poco distante dall’ateneo di Tel Aviv. Ci troviamo attorno ai «matzabrei», frittelle di azzime, che Lizzie ripassa nell’uovo tornando con la memoria a Bitzaron. «Gli uomini erano pochi e deboli, segnati dalle sofferenze subite e fiaccati dalla difficoltà di rappresentare l’ebreo diasporico che non aveva combattuto in una società israeliana tutta proiettata sul mito dei combattenti sionisti, eroici e forti» ricorda, spiegando che lei stessa, che non ha mai conosciuto il padre, arrivò «a mentire sulla biografia paterna, dicendo che era morto nella guerra di Indipendenza», per non dover ammettere che era stato ucciso dalla tubercolosi dopo l’arrivo dai campi di Cipro.
Le donne invece «erano più forti, erano loro a educare i figli, portarli a scuola, a fare ginnastica o disegno». Alcune avevano perso i figli nei Lager, volevano sentirsi responsabili di qualcuno e adottavano i figli di altri. Il risultato è che «noi bambini di Bitzaron ci sentivamo tutti fratelli e sorelle». Nel gruppo di Lizzie «eravamo in 41, andavamo spesso fuori assieme, fuggivamo dalla depressione, inseguivamo il sogno di avere un futuro migliore, di andare in kibbutz o sotto le armi per diventare israeliani», ovvero l’esatto opposto dei deportati. Con il 1967 e la vittoria della Guerra dei Sei Giorni «provammo tutti un senso di potenza, i nostri parenti erano degli sconfitti ma noi eravamo dei vincitori, furono i giorni più felici di Israele, anche se era un mito».
Quando la mattina bisognava andare a scuola, la madre di Lizzie preferiva affidarla a un guidatore di bus ex deportato, «perché sa cosa significa perdere una persona», e a scuola gli studenti chiamavano le insegnanti non per nome ma con il numero tatuato su braccio. Durante la pausa o nel doposcuola le madri portavano di tutto ai figli: succhi di frutta, dolci, pillole contro ogni tipo di malanno. «Sapevamo di essere molto importanti per loro, perché molti dei nostri genitori avevano perso le famiglie precedenti, altri figli».
«La sensazione era quella di essere schiacciati dall’affetto dei genitori» dice Doron. «Andammo poi tutti in kibbutz o sotto le armi, nelle unità combattenti». Quindi arrivò la guerra del Kippur, nel 1973, con l’attacco a sorpresa degli eserciti arabi e il pesante bilancio di perdite per lo Stato ebraico. «Fu un trauma, perdemmo sette dei nostri 41, tutti caduti nella fase iniziale, fino ad allora avevo creduto che Israele avrebbe sempre vinto, ma cambiò tutto, lasciai il kibbutz nel Golan e tornai nel quartiere e nella casa di mia madre».
Quando Lizzie apre la porta, la madre è immobile, al buio, in salotto, davanti a un televisore rotto. «Mamma, cosa è successo?». La risposta è gelida: «L’ho rotta io, ho sentito il tuo capo del governo dire che abbiamo sconfitto gli arabi e che hanno subito molte perdite, ma io conosco la guerra e so in guerra tutti hanno delle perdite». Lizzie sa dei sette caduti ma si chiude nella sua stanza, non ne parla con nessuno. Le madri degli altri bussano a casa per sapere, ma lei si fa negare. La madre la protegge: «Sta male, lasciate in pace». Ma è un raro momento di intesa nel rapporto madre-figlia. Quando Lizzie è piccola, la madre la porta spesso in una chiesa di Giaffa, la fa sedere su una panca e dopo aver salutato il prete inizia a maledire Dio in yiddish. «Un giorno le chiesi se eravamo ebrei o cristiani, e lei mi spiegò che eravamo ebrei ma il Dio degli ebrei è cieco perché durante l’Olocausto non ha visto gli ebrei che lo imploravano dalle sinagoghe e dunque lei aveva scelto di andare in una chiesa per fargli sapere cosa pensava».
In un’altra occasione Lizzie, ormai ventenne, porta a casa un fidanzato che, figlio di un alto ufficiale, si presenta con una cartucciera al collo. «Era bellissimo e ne ero innamorata» ricorda, con un’emozione ancora viva. Ma la madre non lo fa neanche entrare in casa, perché «con tutti quei proiettili al collo chissà quante persone ha ucciso» gli dice, sbattendogli la porta in faccia. Tempo dopo, invece, la stessa madre accoglierà a braccia aperte un altro fidanzato-soldato, perché sotto le armi era stato responsabile della raccolta della spazzatura e dunque non aveva mai sparato un colpo. È questo l’uomo che Lizzie ha sposato e con il quale ha cresciuto tre figli anch’essi segnati dall’impatto della Shoah.
Per spiegare di cosa si tratta, Lizzie racconta una storia: «Ho insegnato ai miei figli che quando si va in vacanza all’estero bisogna dormire sempre vestiti in maniera da poter scappare in fretta, con pantaloni e documenti indosso. Una volta a Londra in piena notte suonò l’allarme in hotel, scappammo come tutti ma eravamo gli unici a essere vestiti quasi perfettamente: il problema fu quando si trattò di rientrare nelle camere perché il portiere non credeva che eravamo degli ospiti proprio perché troppo vestiti, mentre gli altri erano tutti mezzi nudi. Fu allora che mio figlio piccolo gli disse: “Mia madre è figlia di sopravvissuti”».
A Bitzaron ci furono molti suicidi. Una donna si gettò dal tetto del cinema appena costruito, nella notte dell’inaugurazione, perché ammise di non riuscire a vivere «in un quartiere dove ci si diverte», mentre in un altro caso fu un marito a trovare la moglie morta. Si occupò della sepoltura e molti anni dopo, quando era a sua volta sul letto di morte, chiamò il figlio per fargli una confessione: «Tua madre non è morta, ma è impazzita, l’ho rinchiusa in una casa per malati di mente e ho finto il funerale per non farti soffrire. La sua tomba è vuota, usala per me». Il figlio andò a trovare la madre, che era ancora viva, e davanti all’evidente schizofrenia comprese la scelta del padre e lo raccontò a Lizzie, testimone delle vite dei sopravvissuti e dei loro figli. «Le donne parlavano di quanto era loro avvenuto solo dal parrucchiere, mentre facevano manicure e pedicure, e lo facevano solo in yiddish, tenendo fuori gli altri». Solo nel 1962, con il processo a Adolf Eichmann, l’architetto della Soluzione finale, i sopravvissuti iniziarono ad aprirsi e a raccontare: «Ma più ai nipoti che ai figli».
Giunta al quinto libro ambientato a Bitzaron, Lizzie Doron ora lavora a un soggetto diverso: il quartiere arabo di Silwan, a Gerusalemme, nel bel mezzo del conflitto israelo-palestinese, «perché dobbiamo conoscere i nostri vicini». La ricerca delle radici l’ha portata spesso a Berlino - dove ha la sua seconda casa - e guarda ai tedeschi, come agli arabi, con l’intento di costruire una «memoria condivisa». «Il ricordo della Shoah non deve essere trasmesso solo dagli ebrei e tra ebrei», afferma, «bisogna coinvolgere gli altri, deve essere universale». Per far capire cosa intende cita una sopravvissuta, ricoverata nella casa di riposo «Palace»: «Mi ha detto che bisognerebbe ricordare l’Olocausto dedicando un’intera giornata a lanciare fuochi di artificio, ballare e gioire, per celebrare la sconfitta del Male sul Pianeta territorio di ogni essere umano».

l’Unità 22.4.14
«L’Occidente è chiamato a fare i conti col panrussismo»
di Umberto De Giovannageli


«Dopo il pangermanesimo, il panslavismo, il panarabismo, Vladimir Putin ha inventato il panrussismo. E con questa strategia imperiale l’Occidente è chiamato a fare i conti». A sostenerlo è uno dei più autorevoli studiosi del «pianeta russo» ed ex sovietico: Vittorio Strada.
Come valutare l’ultima uscita del presidente russo ?
«L’interpretazione corrente e diffusa è che Vladimir Putin voglia ricostituire l’Unione Sovietica. Si tratta di una interpretazione semplicistica e approssimativa. Il fatto stesso che Putin faccia riferimento esclusivamente all’elemento nazionale russo dimostra che si tratta di una ideologia diversa da quella sovietica. C’è però un fatto che sfugge ai commentatori... ».
Qual è questo fatto, professor Strada?
«Nella Russia attuale, tutti, quando pronunciano la parola “Rossija”, intendono l’insieme dello sviluppo millenario della Russia, compreso l’impero zarista e l’Urss. Ma i nazionalisti russi “puri”, che sono numerosi nell’attuale Federazione, hanno come parola d’ordine “la Russia per i Russi”. Attualmente si confrontano due tendenze: una, che nella politologia corrente, anche russa, viene chiamata “neo imperiale”, e quella propria di un nazionalismo etnicamente russo. I “neo imperiali” criticano i nazionalisti “puri”, perché la loro parola d’ordine, “la Russia ai Russi”, disgrega il carattere multinazionale, multietnico della Federazione, e provoca, come risposta di rottura, i nazionalismi delle altre etnie. Come quello dei tatari, dei i popoli caucasici, ad esempio i daghestani, e via dicendo...».
Qual è la scelta compiuta dal capo del Cremlino?
«Putin sembra aver scelto una via di mezzo. Per lui la Russia non è soltanto l’etnia di un’unica razza, bensì comprende tutte le etnie che compongono l’attuale Federazione. Più volte ed esplicitamente, il leader del Cremlino ha messo in guardia contro un nazionalismo russo esclusivo. Per lui, l’elemento russofono è il “fratello maggiore” di una comunità di popoli, di etnie, che compongono, per l’appunto, l’attuale Federazione. In questo senso, anche gli ucraini (ucrainofoni) potrebbero far parte di questa “famiglia allargata”. Anche da questo nasce la violenta polemica scatenata dalla leadership putiniana contro i nazionalisti ucraini antirussi. Il compimento di questa visione è che la Russia si trova al centro di una ostilità preconcetta da parte del mondo occidentale, in primo luogo dell’America. E questo senso di accerchiamento ostile, aggressivo, accentua l’elemento di panrussismo come affermazione dei valori propri della civiltà russa, profondamente diversa da quella occidentale. Mi lasci aggiungere che in questa concezione del mondo, la Chiesa ortodossa russa svolge un ruolo importante di collaborazione con la dirigenza politica».
Un esempio di questa collaborazione?
«Nella sua omelia pasquale, pronunciata nella cattedrale di Cristo Salvatore, il patriarca di Mosca Kirill ha parlato della “Santa Rus”, cioè della Russia antica e millenaria che continua nella Russia attuale, minacciata dalle forze ostili».
In che modo l’Occidente dovrebbe rapportarsi a questa strategia imperiale «panrussa»?
«Si tratterebbe di riaffermare, almeno sul piano del principio, il Diritto internazionale violato dal fatto che una parte (la Crimea) di uno Stato sovrano (l’Ucraina) è stata incorporata da un altro Stato (la Russia) e questo grazie anche alla presenza, riconosciuta ieri dallo stesso Putin, di elementi delle forze armate russe. E come non bastasse, questa operazione è stata ipotizzata dal Cremlino russo anche nei riguardi di altre parti dell’Ucraina, quelle orientali. In definitiva, resta sempre la via diplomatica, con la volontà, da parte dell’Occidente, e in esso dell’Europa, di non spezzare il dialogo con la Russia. Questo però non vuol dire cedere sui principi, su cui occorre esercitare la fermezza, facendo comunque prevalere gli interessi comuni a Occidente e Russia».
Guardando al campo ucraino, quale dinamiche si stanno affermando?
«Se abbiamo il diritto e il dovere di avere un atteggiamento critico verso la politica russa, altrettanto si deve dire per quel che riguarda la politica ucraina. Questo vale in generale per tutta la politica che ha caratterizzato la ventennale esistenza dello Stato ucraino come Stato sovrano. E vale anche per la situazione attuale, nella quale dobbiamo distinguere tra un nucleo sano di opposizione popolare al vecchio regime di Yanukovich - che esprime un sentimento nazionale ucraino - da un preoccupante rafforzamento del nazionalismo sciovinista dell’ultradestra. Da parte russa questa distinzione non viene fatta, e si afferma che la rivolta di Maidan ha portato alla formazione di un governo fascista sostenuto dall’Occidente. Invece noi dobbiamo saper distinguere nettamente tra queste due componenti. Bisogna però affermare che anche alcune misure prese dall’attuale governo di Kiev possono essere criticate. Nel complesso, la prospettiva di sviluppo dell’Ucraina, sia sul piano politico e sociale, e soprattutto su quello economico, è estremamente preoccupante».

Repubblica 22.4.14
La Warren tuona contro i banchieri Ed è la più “calda” nei sondaggi
Elizabeth la anti-Hillary che fa sognare la sinistra
di Vittorio Zucconi


WASHINGTON. BRUCIA, Elizabeth, di passione politica e Hillary comincia ad avvertirne il calore. « She is hot », quella lì scotta, si dice nello slang americano delle donne sexy, ma non è quello il genere di attrazione che sta richiamando milioni di elettori verso la senatrice del Massachusetts Elizabeth Warren. Lei “scotta” nei sondaggi, nella popolarità, nella passione della sinistra democratica, in tutti coloro che odiano Hillary Clinton. Warren è la sola che potrebbe fermare la
marcia irresistibile della “ Clinton Machine” , della macchina da guerra di Hillary verso la Casa Bianca. Perché soltanto una donna, oggi, potrebbe fermare e sconfiggere un donna.
Non c’è altro personaggio della politica, in entrambi i partiti, che raccolga nei sondaggi più approvazione ed entusiasmo di lei, a 64 anni senatrice al primo mandato, eletta appena due anni or sono. Gli istituti di ricerca seri le assegnano il 48% di gradimento, più della Clinton, più degli ancora confusi candidati repubblicani alla successione di Barack Obama fra due anni. Un rating il suo, astronomico, essendo Elizabeth parte di quel Parlamento che nei giorni buoni arriva a stento al 10% di favore popolare.
“ The hottest politician in America”, scrive U-SA Today e concordano le network televisiva, la più rovente. Quella il cui alito bollente comincia a bruciare sul collo della - finora - intoccabile signora Rodham in Clinton. Elizabeth contro Hillary: un incubo che diventa il sogno dei Media, angosciati al pensiero di una comoda, e noiosa, passeggiata trionfale della ex First Lady e Segretario di Stato.
Eppure, chi la vede, chi le parla, chi legge il suo libro appena uscito, “ A Fighting Chance”, “Una possibilità di lottare”, sarebbe tentato di sottovalutarla, Di vedere in lei soltanto la elegante, composta, calma professoressa occhialuta di leggi fallimentari a Harvard che raramente alza la voce e detesta gli istrionismi della nuova politica spettacolo. E sottovalutandola commetterebbe lo stesso errore che l’avversario repubblicano nella corsa al seggio senatoriale lasciato libero dalla scomparsa di Ted Kennedy e occupato da Scott Brown, favoritissimo, come tutti i detentori, commise. Warren, che la potente Camera di Commercio di Boston aveva definito, con una certa enfasi retorica, «una minaccia diretta al sistema capitalistico» raccolse 42 milioni di dollari in fondi elettorali e vinse.
In lei, che continua a ripetere invano a ogni intervistatore che non intende correre per la nomination Democratica contro la Clinton, si è concentrata e raccolta quella ala sinistra del partito che vede sia in Obama, ma soprattutto nella “ Clinton Machine ” la riproduzione stucchevole del potere dell’establishment. Elizabeth ha raccolto i fili sparsi della sinistra e li ha tessuti in una serie di messaggi radicali che la sua apparenza sembrerebbe negare.
I banchieri e i finanzieri che hanno portato l’America nel precipizio del 2008 e che continuano imperterriti a drenare ricchezza verso l’alto dissanguando le classi medie, dovrebbero andare «in galera, oh yes! » - testuale - non essere coccolati e salvati proprio con i soldi di coloro che hanno distrutto. La funzione del governo deve essere quella di ristabilire «un campo da gioco equilibrato, per dare a tutti i cittadini la possibilità di giocarsi il sogno americano, se lavori sodo, fai il tuo dovere, paghi le tasse». Oggi, il «campo da gioco americano, pende sfacciatamente dalla parte di chi ha e accumula sempre di più. Così, non aiutiamo neppure il capitalismo, ma uccidiamo l’America».
Il suo messaggio, naturalmente bollato come “populista”, tende a sovrapporsi agli slogan di Occupy Wall Street, anche se lei non scende in piazza e preferisce ritirarsi nello studio che ha mantenuto a Boston, proprio nel palazzo intitolato a John F Kennedy e trascorrere i week end liberi con il secondo marito, mangiando i suoi adorati fish and chips , bastoncini di pesce fritto con patatine. Riserva il calore del proprio fuoco alle udienze senatoriale, quando arrostisce uomini come Tim Geithner, l’ex ministro del Tesoro, accusandolo di avere salvato i ladri e punito i derubati, con la valanga di fondi pubblici rovesciati sui bancarottieri. Ma ha imparato in fretta le regole del potere: è stata una della principali attrici nella scelta di Janet Yellen, una donna, che coincidenza, come guida della Federal Reserve, la banca centrale.
Piace la sua storia personale, testimonianza di vita. Commuove il viaggio di una bambina con probabile sangue Cherokee nata nell’Oklahoma delle grandi praterie, delle tribù esiliate con la forza e della Grande Depressione alla Steinbeck di “Furore” e che vide la propria vita andarsene via con la station wagon di famiglia - quelle antiche con le finiture esterne di legno - venduta all’asta quando il padre, portinaio, ebbe un infarto e perse il lavoro. Il suo viaggio, passato attraverso umili college pubblici locali, approdato a università vere e facoltà di legge vincendo gare di dibattito pubblico per borse di studio ed è la rappresentazione perfetta di quell’America Dream che oggi - lei ripete - non è più percorribile. Bloccato dai costi insensati dell’istruzione universitaria, privata come pubblica.
Se la Clinton la teme, come soltanto può temere una donna per nemico che le toglie il vantaggio iniziale di genere, neppure Obama la ama. La ignorò al momento di scegliere il direttore dell’Agenzia Pubblica per la Protezione dei Consumatori, che lei aveva contribuito a creare, e se l’inferno non conosce collera come quella di una donna offesa, certamente quello sgarbo non la rese più tenera.
Oggi, la campionessa, la portatrice della flebile fiaccola della sinistra istituzionale in America è lei, non Hillary, da 30 anni ormai viaggiatrice, passeggera e poi protagonista di quella che banalmente altrove si chiamerebbe “casta”.
Brucia di indignazione, di disgusto, di idee che scandalizzano i colleghi e le colleghe in Senato, dove è guardata con timore e fastidio («Quando incrocio un senatore sento che brontola e si schiarisce la gola per non parlarmi ») e Hillary, da donna a donna, la teme. Ma il fuoco che la anima, e che scalda i cuori dei suoi tanti sostenitori è stato troppe volte, nella storia delle elezioni americani, un fuoco di paglia.

La Stampa 22.4.14
Berlino non ce la fa col salario minimo
8,50 euro l’ora sono troppi anche in Germania
di Tonia Mastrobuoni

qui

Corriere 22.4.14
La passione (segreta) del Premier cinese per la Scienza
La direttrice di Science invitata a palazzo per un colloquio con Li Keqiang
I temi: energia, ambiente, università
di Giuseppe Remuzzi


«Li and me», come dire il primo ministro della Cina, Li Keqiang e io (Marcia McNutt, l’Editor in Chief di Science). Sulle prime Marcia McNutt non ci crede. «Possibile che il primo ministro di una nazione di un miliardo e 300 milioni di persone, con tutti i problemi di politica interna e internazionale che deve affrontare ogni giorno, voglia incontrare proprio me?». E poi da sola, senza nessun giornalista, in un Paese dove la libertà di pensiero e qualche volta di parola viene negata. Li Keqiang voleva incontrare il direttore di Science non certo per parlare di economia o di politica ma solo e soltanto di scienza. Il colloquio doveva durare 30 minuti, hanno parlato per più di un’ora. Di cosa? Di tutto quello di cui si può discutere con uno scienziato, dell’esplorazione dello spazio, della cooperazione internazionale, dei cambiamenti climatici, della protezione dell’ambiente, dell’istruzione superiore e dell’università. «Cominciamo a parlare — racconta Marcia — ed entra un collaboratore di Li con un messaggio urgente, ma il premier non lo guarda, chissà cosa c’era scritto in quel biglietto, qualunque cosa ci fosse per Li Keqiang, si poteva aspettare».
Marcia McNutt scopre che il premier è estremamente preparato, cita a memoria i dati sulla riduzione della CO2 che si può ottenere riconvertendo terreni coltivati in foreste — 160 milioni di tonnellate — e parla dei piani per la riduzione del consumo energetico che porterebbero all’economia cinese un risparmio enorme, 0,72 trilioni di dollari da qui al 2015. «Dobbiamo dichiarare guerra all’inquinamento e vogliamo fortemente che tutti i cinesi abbiano accesso ad acqua potabile», dice Li. Una volta in Cina l’acqua pulita — soprattutto per chi lavorava nelle zone rurali — era un lusso. Non è più così. Li indica quello che ha appena fatto e quello che vorrebbe fare. Sessanta milioni di persone hanno avuto acqua potabile nel 2013 e altri sessanta milioni l’avranno nel 2014. Il primo ministro dice candidamente che vorrebbe attirare nelle sue università i docenti e gli scienziati migliori. E sa bene di cosa sta parlando: i suoi erano contadini, ma lui è riuscito a entrare all’Università di Pechino, una delle più esclusive della Cina (al 41° posto della classifica delle prime università del mondo). Ce l’ha fatta per via dei voti eccellenti delle scuole superiori. E l’università ha rappresentato il trampolino di lancio della sua brillante carriera. Diventato premier però Li si accorge che il numero di studenti poveri che riescono ad accedere alle università più prestigiose della Cina continua a diminuire. E allora stanzia quasi un miliardo di dollari per borse di studio; vuole che chi è povero ma ha talento possa avere una formazione universitaria. È bastato questo perché nel giro di un anno gli studenti poveri ammessi alle università della Cina fossero il dieci per cento in più. E qui sta anche il paradosso di un Paese che vorrebbe emanciparsi nell’istruzione superiore con le regole dell’Inghilterra ma ha ancora tanto da fare sulla strada delle democrazie occidentali.
La sera stessa del loro incontro nel telegiornale delle 19 va in onda un lunghissimo servizio sulla chiacchierata fra Li Keqiang e Marcia McNutt. E il giorno dopo questa notizia è su tutti i giornali con un’enfasi tale che persino il conducente del taxi che riporta Marcia all’aeroporto ne era informato. Marcia McNutt durante la sua carriera aveva incontrato moltissime persone ma l’invito del primo ministro Li Keqiang, a detta sua, è stato il più importante che avesse mai ricevuto: «Ha un significato simbolico e la dice lunga sulle priorità del leader cinese per portare in tempi ragionevoli benessere e prosperità al suo popolo». Insomma, i politici in Cina che ancora oggi negano ai loro cittadini certi diritti fondamentali e che arrivano a condannare i dissidenti senza un processo giusto per la scienza invece stanno facendo quello che dovrebbero fare tutti. Considerarla il motore dell’economia, investendo in poche università che siano però fortissime. Con docenti che vogliano dedicare agli studenti entusiasmo, energie e il cento per cento del tempo; e siano liberi di insegnare quello che vogliono per qualche anno. Saranno i risultati, dopo, a parlare per loro.
Così nella Cina delle grandi contraddizioni la crisi economica è diventata un’opportunità per far avviare progetti che altrimenti non sarebbero mai partiti. E lo stesso si sta facendo negli Stati Uniti, in India, in Vietnam, in Brasile. E da noi?

il Fatto 22.4.14
L’intervista. Vent’anni in carcere
Carlos. Le sue verità tra caso Moro, strage di Bologna e Bin Laden
di Marco Dolcetta


Il colloquio è avvenuto il 10 marzo scorso a Parigi presso lo studio dell'avvocato (nonché moglie) di Carlos Isabelle Coutant-Peyre in due telefonate, la prima alle 11 la seconda alle 17. Carlos, detenuto in regime speciale alla ‘maison centrale de Poissy’, ha diritto a chiamare 5 numeri di telefono.
Pronto?
Pronto, buongiorno.
Come sta, qué tàl?
Bien, bien, gracias, è da un pezzo che non ci sentiamo.
Sì, è da un pezzo. Le ho fatto avere gli articoli di un quotidiano italiano che parlava un po’ di lei a proposito della strage di Bologna.
Sì, certo, Bologna. Sono stupidaggini, stupidaggini.
È fantascienza?
Non è fantasia, perché parla l’avvocato di Bologna, l’avvocato di parte civile che non sa, io non capisco… Perché è venuto a trovarmi, aveva fretta, mi ha detto firma questi documenti. Dice cose che io non ho detto. Per esempio, quando parla del compagno tedesco, come si chiama… Il compagno tedesco che poi è stato arrestato, a Berlino… Si chiama… io i nomi non me li ricordo facilmente…
Kram…
Fram… sì, una cosa così…
Kram (su cui si concentrò l’attenzione degli inquirenti come una delle possibili piste per rintracciare i responsabili della strage, ndr), ti ricordi?
Sì sì, lui non era alla riunione a Berlino per riferire le cose. Le ha raccontate al telefono a qualcuno in Germania, un compagno, ciò che era successo da quando era arrivato in Italia. (...) È stato seguito da un sacco di gente con dei cappotti lunghi, e che si era perso e poi invece ha ritrovato la strada, (…) e solo dopo c’è stata l’esplosione a Bologna. Questo l’ha detto al telefono, non era alla riunione a Berlino, no. Lì c’erano dei compagni e loro hanno raccontato la storia punto e basta. E poi, dopo tutto quanto, un compagno è venuto a trovarmi per raccontarmi la storia. L’avvocato bolognese, lui non lo sa, ha detto delle cose molto strane, molto strane c’è gente che ha interesse a non far passare la verità.
E qual è la verità?
Sono affari sporchi, affari molto sporchi. E io non credo che quei giovani fascisti del cavolo siano dietro quest’attentato, non ci credo, non si danno a dei coglioni quelle quantità di esplosivi, gli esplosivi dei militari, non è possibile.
Ha un’opinione su ciò che è successo a Bologna?
Non è stato il Mossad, non è la Cia, credo siano piuttosto i servizi segreti militari americani con Gladio, ecco. Thomas Kram, lo sai chi è? Sua nonna era una grande comunista, era di famiglia ebrea, e sua nonna era stata uno dei capi della resistenza comunista nella Germania nazista. Lei era capo di una rete della Resistenza; sabotava i treni che andavano al fronte dell’est Questo tutti i giorni. Quindi se Thomas Kram, se suo nipote muore a Bologna nell’esplosione, ecco, ha fatto come sua nonna, era la copertura ideale per l’at - tentato, capisce?
Capisco bene.
Sono io che ci ho pensato, quando mi hanno raccontato la storia, deve avermela raccontata Maddalena con il compagno tedesco che era alla riunione a Berlino, quello con cui aveva parlato al telefono il compagno tedesco, Thomas Kram, quello che era successo a Bologna. Stava per uscire quando c’è stata l’esplosione, era nell’hotel di fronte alla stazione, stava tranquillo, non c’era problema con lui. Ma non ha parlato con lui, sono stato io a pensarci, sono io che ho detto: “Ti ricordi la nonna di Thomas Kram che aveva quella rete che è durata tutta la guerra”. Merda, capisci, sono stato io ad avere quest’idea, non c’è stato bisogno che me la raccontassero. Ecco, lui voleva fare come sua nonna. È stato seguito, è stato perseguitato in Germania, la polizia l'ha assillato in continuazione per un anno intero. Poi era a Perugia, che c’è l’u n i v e rsità, ma il ’68 è cominciato nel 1967 a Perugia, il ’68 non è francese, è italiano. È cominciato a Perugia il ’68, nel gennaio ’67 a Perugia, poi nel gennaio ’68 a Londra e poi, nel maggio ’68, a Parigi.
MORO E LE BR
In quale momento della vicenda Moro c’è stato il cambio di gestione del corpo…?
So che c’erano degli infiltrati, dall’inizio delle Brigate rosse so che a Roma c’era il Mossad che era infiltrato. So che a Roma la maggior parte della gente era a posto ma c’erano persone che sono finite male. Ma dalla parte giusta, però. Sono intervenuti per scambiare Moro, avevano dei contatti a Beirut con i servizi segreti militari, che erano dei veri fascisti…
Johnny Abdo? (capo dell’intelligence libanese, ndr)
Non so da quel lato, so dalla parte italiana, che c’era un colonnello, anche il capo dei servizi segreti militari italiani era un generale fascista. Avevano perfino un aereo che aspettava all’aeroporto di Beirut, durante il rapimento di Moro, pronto a fare qualunque cosa coi nostri compagni... erano pronti a farli uscire di prigione, avevano i mezzi, a mezzanotte facevano uscire quello che gli pareva. Prendevano i compagni, li mettevano sull’aereo della sicurezza militare e li spedivano nel paese che volevano. E tutto per salvare Moro, perché da quel momento Moro ha giocato il ruolo essenziale per far uscire l’Italia da questa situazione di colonia... colonia vuol dire un casino di forze statunitensi, fino ad oggi, ci sono più di cento basi militari americane da quarant’anni ancora oggi, non è possibile. Insomma, hanno preso Moro e c’è qualcosa in quest’operazione che è strano, perché assassinare i poliziotti? È una provocazione. Perché assassinarli? Non so quanti poliziotti ho fatto fuori in vita mia, perché a volte bisogna farli fuori, ma non si ammazzano i poliziotti tanto per ammazzarli…
Secondo lei chi li ha ammazzati?
Penso che siano stati quelli del Mossad. Non lo so. Gente infiltrata nelle Brigate rosse, perché non è nell’interesse delle Brigate rosse fare queste cose. Capisco che possa succedere ma li hanno giustiziati quelli là, non è normale... Non lo so. In ogni caso è stata un’operazione da professionisti. Non credo che i comunisti italiani, che non sono stupidi, figli della resistenza antifascista, che volessero ammazzare dei poliziotti così, non è logico. Ce ne vuole ad ammazzare i poliziotti tanto per… È strano ma non sono state le Brigate rosse a fare così. Non bisogna dimenticare che la questione non è solamente Aldo Moro, gli americani si sono sbarazzati di Moro e si sono sbarazzati dei patrioti che controllavano il segreto militare. La loggia P2 è tutto il resto è cominciato dopo. E Morucci e la signora Faranda, che sembrava piuttosto lei il capo esecutivo (ride, ndr), si sono riempiti le tasche. È strano. Tanta gente è stata pagata per questo e quest’altro. Cossiga non era di Gladio, credo. Ma Cossiga era il cugino di secondo grado del segretario generale del Partito Comunista, Berlinguer. Ed è stato il Partito Comunista che ha permesso che Moro fosse ucciso, perché aveva la possibilità di accettare la richiesta delle Brigate rosse, aveva la forza. Si è messo d’accordo con Cossiga per abbandonare Moro. E la P2 è arrivata al potere, c’erano gli americani dietro. Gladio, la sicurezza militare.
VENEZUELA
Passiamo ad altro. Che ne pensa del Venezuela del dopo Chavez?
È un casino. Già Chavez ha lasciato un paese decreatori del programma di extraordinary rendition ai tempi di Bush jr, ndr), l’ho visto lì. Mi ricordo che stavo arrivando nel ’93 e Cofer Black aveva portato dei mercenari americani, gente di Blackwater e sono stati dove Osama bin Laden era molto attivo, andava nelle moschee, andava ad aiutare la gente. Erano lì per Bin Laden originariamente, poi è arrivato Abu Nidal dalla Libia, era molto malato, loro volevano vedere anche Abu Nidal con Hajj Emad Moughni (uno dei fondatori di Hezbollah, ndr) che faceva la spola tra Beirut e la Siria. È in Siria che è stato ucciso Moughni? A Damasco. Dal Mossad immagino Veniva con l’aereo. C’era un volo tutte le settimane, una volta a settimana andata e ritorno tra Beirut, Gedda (in Arabia Saudita, ndr), Kartum e ritorno. A Kartum c’erano i persiani, gli stabilizzato, corruzione e mancanza di energia repressiva contro i corrotti, contro i banditi… Sai cosa deve fare una rivoluzione? Deve mettere ordine e purtroppo per il signor Chavez, un grande umanista, figuriamoci, un ufficiale dei commando dei paracadutisti… ed è tutto in suo onore, ma in un paese come il mio, che è preso di mira dal nemico imperialista, dagli americani, è molto importante da questo punto di vista. È la principale riserva di petrolio che hanno gli Usa. Tutti i paesi dei Carabi usano il petrolio venezuelano A ogni modo, la rivoluzione sopravvivrà ma bisogna mettere ordine.
E pensa che Maduro non sia in grado?
Penso sia una persona perbene, è un sindacalista ma pensa sempre a Cuba, tutto il mondo va a destra e lui a Cuba.
Chavez ha dimostrato di avere amicizia per lei. Maduro ha detto qualcosa o no?
Ha parlato bene di me. Poi ha ammesso di aver fatto dei compromessi.
Riguardo a lei?
Sì, sì. Ma sai, ci sono gli opportunisti del regime. A livello più alto e a livello intermedio ci sono persone che hanno tradito la rivoluzione, che sono entrati grazie all’opportunismo. Avranno pensato, cazzo, Carlos deve venire qui, deve avere almeno un ministero se no si vendica di noi.
LA CATTURA IN SUDAN
Ho avuto la possibilità in vita mia di incontrare, anche di essere addestrato, negli anni ’70, dai jihadisti. C’erano persone veramente rispettabili. Con una cultura politica diversa, una spiritualità e una conoscenza dell’Islam, gente radicale ma gente seria. Anche a Kartum ce n’erano. Avevamo dei vicini, vicini tra virgolette, che erano dei grandi signori jihadisti.
E loro si comportavano bene con lei?
Abbiamo ideologie diverse, sai, io sono comunista ma sono anche musulmano, non bisogna dimenticarlo, mi sono convertito all’inizio di ottobre ’75, ma sono in parte religioso, credo in Dio e l’Islam è la fonte della rivelazione.
Il fatto che sia stato arrestato in Africa era perché c’è stato qualcuno che ha detto che lei eri lì, qualcuno di al Qaeda?
No, quello è stato organizzato dai sauditi. Con la sicurezza nazionale sudanese con la Cia e con Cofer Black personalmente. Io l’ho visto, Cofer Black (uno dei dirigenti Cia dell’antiterrorismo, tra i creatori del programma di extraordinary rendition ai tempi di Bush jr, ndr), l’ho visto lì. Mi ricordo che stavo arrivando nel ’93 e Cofer Black aveva portato dei mercenari americani, gente di Blackwater e sono stati dove Osama bin Laden era molto attivo, andava nelle moschee, andava ad aiutare la gente. Erano lì per Bin Laden originariamente, poi è arrivato Abu Nidal dalla Libia, era molto malato, loro volevano vedere anche Abu Nidal con Hajj Emad Moughni (uno dei fondatori di Hezbollah, ndr) che faceva la spola tra Beirut e la Siria.
È in Siria che è stato ucciso Moughni?
A Damasco.
Dal Mossad immagino.
Veniva con l’aereo. C’era un volo tutte le settimane, una volta a settimana andata e ritorno tra Beirut, Gedda (in Arabia Saudita, ndr), Kartum e ritorno. A Kartum c’erano i persiani, gli iraniani, che erano materialmente, io penso ancora oggi, il governo, il vero governo. Io arrivo nell’agosto ’93 e la Cia dice: cazzo, c’è Carlos! Il presidente sudanese, che ancora è lo stesso (Omar al-Bashir, in carica dal 1989, ndr) , ha fatto un viaggio in Arabia Saudita, è stato ricevuto dal re. Dunque, a Kartum c’erano 4 persone ricercate: Osama bin Laden, Moughni, Abu Nidal e io. Osama bin Laden lo volevano dare all’Arabia Saudita che ha pagato, è l’Arabia Saudita che ha pagato, non la Cia, è l’Arabia che ha pagato milioni, non so quanto, per noi 4. Ma i sudanesi si sono rifiutati di prendere Bin Laden, hanno detto no, Bin Laden non lo prendiamo.
SONNO
Come passa le giornate? È vero che di notte la svegliano ogni 45 minuti?
Sì, è una cosa che si chiama Dps. Tre volte per notte passano per il controllo. Alle 9 e qualcosa, alle 11, a mezzanotte e alle 3 del mattino e poi di nuovo alle 7. Quando ero in isolamento per 10 anni c’erano 16 controlli di sicurezza ogni notte.
Sedici?
Dalle 7 di sera alle 7 di mattina, ogni 45 minuti passavano a svegliarmi. Io mi rifiuto di prendere le pillole per dormire, ho sempre rifiutato di prendere le pillole perché dormo come un bambino, non ho problemi a dormire. Ma volevano che mi drogassi, per 3 anni mi hanno portato la cocaina e io ho rifiutato. Non mi sono mai drogato in vita mia. Beh, mi mandavano belle ragazze, avvocati che io non avevo indicato come avvocati, per divertirsi con me...
VIOLENZA
Due domande che riguardano la violenza e il terrorismo. Il filosofo Jean François Lyotard, dice: il terrorismo è la giusta risposta alla violenza del sistema. È d’accordo?
Il terrorismo è prima di tutto una questione di stato, storicamente il terrorismo, il terrore era lo Stato francese rivoluzionario giacobino ma il terrore c’era anche prima della Rivoluzione francese, non si chiamava ancora terrore. È sempre una questione di Stato, quindi ci sono stati degli episodi da parte degli anarchici, hanno cominciato in Russia, ci sono stati degli attentati, uno zar è stato ucciso, attentati contro gli aristocratici, capi di Stato in tutta Europa e l’hanno fatto gli anarchici. Ci sono stati anche i nazionalisti che hanno fatto degli attentati, come in Serbia, l’attentato contro l’arciduca a Sarajevo, sono stati i nazionalisti, manipolati dei servizi segreti russi zaristi. Ma di solito, quando si fanno degli attentati, è l’arma del debole contro il forte. C’è terrorismo e terrorismo. Ossia, c’è la resistenza armata contro l’oppressore e c’è il terrorismo indiscriminato. Ciò significa che lo fai in nome dell’anarchia, della religione, in nome di un’ideologia, in nome di una causa, e su questo ci sono davvero tante domande che mi pongo, per esempio sui tipi di terrorismo. Uno come Bin Laden non utilizza il terrorismo per massacrare gente innocente. Capisci? E ora in nome di Allah a volte si fanno cazzate incredibili. SIRIA Perciò penso che ci siano delle manipolazioni, guarda quello che succede in Siria. Bashar al Assad è una brava persona; quando era giovane ci incontravamo, mi chiamava “ciao zio”. Un ragazzo educato, non aveva ambizioni politiche, andava in giro senza guardia del corpo. È un sistema tirannico, è confessionale, è il regime baathista che l’ha cambiato, è un dato di fatto. Il regime voleva cambiare attraverso Bashar, lui è riuscito a fare delle aperture economiche che a volte sono state catastrofiche, risultate in corruzione, nuovi multimilionari.
Trova che i jihadisti facciano una battaglia giusta?
Ci sono delle brave persone un po’ ingenue che si fanno manipolare per fare la guerra sempre. Perché i jihadisti non attaccano mai Israele? Sono manipolati. Miliardi di dollari vengono dal Qatar e dall’Arabia Saudita. Il governo siriano sopravviverà a tutte queste distruzioni inutili. Gli americani usano questi jihadisti che vengono dall’Iraq, che vengono da tutte le parti del mondo, dalla Libia, dalla Tunisia, dall’Egitto.
A proposito di ciò che ha detto prima sul caso Moro, sapeva che Vergès era un amico di Berlinguer?
Vergès (chiamato l’‘avvocato del diavolo’ per aver difeso molti ‘impresentabili’, ndr, tra cui appunto Carlos) era al soldo dei servizi segreti militari inglesi.
CRISI E RIVOLUZIONE
Pensa che la situazione attuale, in cui c’è una crisi dovuta ai sistemi finanziari internazionali e che si abbatte su sulle classi medie e sui giovani possa creare una situazione pre-rivoluzionaria o no?
Quando ci sono delle crisi finanziare così, non ci sono movimenti rivoluzionari. È dopo, nei paesi in cui i popoli sono usciti dalla crisi, che ci sono movimenti rivoluzionari. È inevitabile. Engels diceva che ogni 7 anni c’era una crisi finanziaria nel mondo e parlava di questo già quasi due secoli fa.
Ma dove crede che sfocerà l’attuale movimento di potenziali rivoluzionari?
Difficile da dire ma in America Latina, nei Carabi, c’è un movimento popolare per ottenere l’indipendenza. (...) Ma la borghesia, che non è tutta rivoluzionaria, vuole un cambiamento di tipo rivoluzionario. Un cambiamento strutturale per avere l’indipendenza. Per non essere al servizio delle compagnie americane, delle compagnie francesi o inglesi. La questione finanziaria in Islam è molto interessante. È vietato, è un peccato capitale avere interessi sul denaro. In Occidente si fanno manipolazioni finanziarie, si fanno fortune, si guadagnano miliardi di dollari al giorno senza produrre niente. E chi paga? Alla fine è il popolo. Non il capitalismo in generale ma il capitalismo finanziario scomparirà, è inevitabile, è necessario.
E chi lo sostituirà?
La Russia riprenderà il suo ruolo: ha alleati in Medio Oriente e nei paesi dell’America Latina.
MILITANZA
Quali sono i talenti di un militante?
Sono un vecchio comunista, stalinista, e ho scoperto che la maggior parte dei compagni non sono comunisti. Soprattutto i latinoamericani sono comunisti, qualche europeo e anche qualche arabo, ma è una minoranza. La maggior parte sono nazionalisti arabi, nazionalisti siriani, insomma, nazionalisti. Tutto questo dogma di quelli che credono di avere la storia tra le mani, non esiste. La storia è fatta dai popoli nel tempo. Si può essere all’avanguardia dei movimenti storici rivoluzionari ma non siamo noi a dirigere le cose. Si può dare l’esempio ma è il popolo, il movimento di massa alla fine che decide. E le masse non si battono per le élite.
E quali sono le qualità che considera più importanti in persone che appartengono all’avanguardia rivoluzionaria?
Spirito di sacrificio prima di tutto. Ci si può sacrificare per i civili, per se stessi e per la propria famiglia. È una guerra fino alla morte e la guerra la vincerà il popolo.
ITALIA, GRECIA, EURO
E qual è il contatto tra il popolo e le avanguardie?
Guarda l’Italia. C’è comunque un’Italia di persone… Beppe Grillo non è un rivoluzionario nel senso che non agisce a titolo organizzativo ma quando il popolo denuncia le cose, lui denuncia, ciò significa che appartiene all’avanguardia, sono rivoluzionari tra virgolette nel senso che lui denuncia delle realtà di corruzione. Hanno organizzato un partito politico, il partito politico si è formato da solo, così, perché le persone votino una protesta contro il sistema, ma non sarà Beppe Grillo a fare la rivoluzione. Ma c’è una situazione che... la gente si ribella. (...) E poi l’euro non è possibile. L’euro è un’idea della banca centrale europea che ha deciso per tutti. Rappresenta il 20% della popolazione. Guarda la Grecia, guarda la crisi finanziaria. Gli stati hanno pagato centinaia di miliardi di euro per aiutare le banche private che sono fallite. Ma perché prestare i soldi del popolo a delle banche private a tassi finanziari particolari per fare regali a istituti che stanno fallendo? È assurdo e continuano a farlo. Come in Francia, l’intolleranza cresce, perché la gente dice che non se ne può più, che il sistema è malsano.
TRA MITO E REALTÀ
Il mito di Carlos è ancora vivo?
Io sono io e il mito è un’altra cosa.
Ma la gente le scrive lettere?
Riceve solidarietà? Sì, ma è un po’ difficile per questioni politiche. Non mi permettono molte visite. Comunque me la cavo. Non è così male, non sono troppo lontano da Parigi, posso vedere l’avvocato, Isabel (sua moglie, ndr) quasi ogni settimana, e qui ci sono delle piccole attività lavorative, scolastiche, ci sono dei corsi di letteratura, e trovi dei professori simpatici, persone con cui parlare. Sa, ci si deteriora parecchio in prigione, fisicamente e mentalmente.

Corriere 22.4.14
La strage dei minatori italiani che Rockefeller cancellò con l’arte
Dopo il massacro di Ludlow il miliardario divenne mecenate per rifarsi un’immagine
di Gian Antonio Stella


Le vittime
Il 20 aprile del 1914 a Ludlow, in Colorado, un numero mai chiarito di persone, fra cui donne e bambini, viene ucciso nella repressione di uno sciopero dei minatori locali, molti dei quali italiani. Nessuno dei responsabili del massacro verrà punito

Il magnate
Le guardie private autrici della strage insieme alla milizia civile erano state inviate dalla Colorado Fuel and Iron company guidata da John D. Rockefeller jr (sopra , con il padre John sr). Per riabilitare la sua immagine compromessa dall’accaduto, Rockefeller cominciò un’intensa attività benefica

Difficile bollarli come sovversivi comunisti: Giuseppe Petrucci aveva quattro anni, la sorellina Lucia due, il piccolo Francesco solo quattro mesi. E il loro omicidio, che non poteva esser spacciato per il prezzo necessario a domare i minatori in sciopero, colpì l’America come una scudisciata. E obbligò il potentissimo John D. Rockefeller a tentare di rifarsi una faccia puntando tutto sulla neonata Fondazione Rockfeller. Che avrebbe dato vita al MoMa, il museo di arte moderna. Frutto, in qualche modo, del dolore dell’emigrazione italiana.
Successe a Ludlow, esattamente cento anni fa. Quel borgo oggi abbandonato alle pendici delle Montagne Rocciose, quasi ai confini del Colorado verso il New Mexico, era abitato allora da migliaia di immigrati polacchi, greci, messicani e italiani che lavoravano nelle miniere di carbone. In gran parte quelle della Colorado Fuel and Iron, la più grande impresa del settore, che apparteneva a quello che era l’uomo più ricco del mondo, John D. Rockefeller senior, che ne aveva affidato la gestione al figlio «Jr».
Abitava a New York, John D. Rockefeller jr. A tremila chilometri. E avrebbe ammesso di non sapere nulla delle condizioni di vita dei minatori. Guadagnavano un salario da fame pagato in buoni-acquisto negli spacci che appartenevano alla stessa Company, vivevano in baracche affittate ancora dalla Colorado Fuel and Iron, lavoravano in condizioni così pericolose che nel solo 1913 nelle «mines » del Colorado, con un tasso di mortalità doppio rispetto al resto dell’America, erano morti in 104. E quelli che sopravvivevano erano malati di silicosi e avevano gli occhi pesti fotografati dal grande Lewis Hine.
Scesero in sciopero nel settembre 1913. La compagnia li buttò subito fuori di casa e loro si trasferirono in un accampamento di fortuna. E lì, come testimoniano le foto, passarono l’inverno. Un inverno tremendo. Tra montagne di neve. Mentre cresceva la tensione tra loro in sciopero e i crumiri rastrellati dall’azienda che aveva assoldato per la loro difesa mercenari dell’agenzia «Baldwin-Felts», incaricati anche di provocare i ribelli sparando ogni tanto sulle tende per attirarli in uno scontro che avrebbero fatalmente perduto.
Non bastasse, gli uomini della Guardia civile inviati dal governatore Elias Ammons, finirono per schierarsi dalla parte della Company. Sempre più in difficoltà, i minatori guidati da un greco, Louis Tikas, cominciarono ad armarsi di vecchi schioppi e revolver e scavare trincee sotto le tende per potersi difendere meglio.
Finché il 20 aprile, stanco delle trattative e del braccio di ferro col sindacato United mine workers, l’ufficiale Karl Linderfelt diede alle milizie e ai mercenari l’ordine di spazzare via i minatori e il loro campo di tende. La sparatoria, tra chi era armato con vecchie carabine e chi aveva i blindati con le Gatling e le mitragliatrici ultimo modello, durò l’intera giornata. Il macchinista del treno sul quale era caricato il carbone tentò di mettersi in mezzo tra i minatori e i miliziani per contenere lo scontro. Le donne, i vecchi e i bambini si rifugiarono terrorizzati nelle trincee. Ma ogni resistenza fu inutile. Il campo fu spazzato via. Le tende incendiate. E il fuoco assassinò anche quelli che erano chiusi sotto, nelle buche.
La cronaca del New York Times del 22 aprile, ripresa in un furente saggio dello scrittore Hans Ruesch, diceva: «Quarantacinque morti, tra cui 32 donne e bambini, una ventina di dispersi e altrettanti feriti è il bilancio della battaglia di 14 ore tra truppe statali e scioperanti nella proprietà della “Colorado Fuel and Iron Company”, una holding di Rockefeller. Il campo di Ludlow è una massa di macerie carbonizzate che nascondono una vicenda di orrori che non ha l’eguale nella storia della lotta industriale. Nelle trincee che si erano scavate per proteggersi dalle pallottole, donne e bambini sono morti come topi in trappola, uccisi dalle fiamme. Una trincea scoperta questo pomeriggio conteneva i corpi di dieci bambini e due donne».
Quante furono le vittime, e quante fossero dell’una e quante dell’altra parte, in realtà, non è mai stato del tutto accertato. C’è però una lapide dedicata ad alcuni dei morti. Piena di italiani. Giovanni Bartolotti che lasciò vedova la moglie Virginia, Carlo e Fedelina Costa con i figlioletti Onofrio e Lucia e poi il ventiduenne Francesco Rubino e poi i bambini dei Petrucci, che probabilmente erano partiti da qualche contrada laziale. Avevano quattro bimbi, i Petrucci. Il più grandicello, Bernardo, era morto di malattia, forse broncopolmonite. Gli altri tre furono uccisi dall’incendio. Resta una loro foto. Lucia è seduta su una seggiolina, Giuseppe a terra, Bernardo e l’ultimo nato, Francesco, su un mastello rovesciato.
I commenti dei giornali contro quell’insensata carneficina di persone che chiedevano solo un orario di otto ore, il divieto di far lavorare i bambini e una paga decente in dollari e non in buoni, furono durissimi. Sul posto si precipitò per il Metropolitan il grande John Reed che scrisse un reportage rabbioso dal titolo «La guerra del Colorado». La rivista The Masses mise in copertina un minatore che reggeva tra le braccia una bimba morta. Il New York World pubblicò una vignetta in cui al vecchio Rockefeller mostravano preoccupati un titolo: «Guerra civile di Rockefeller in Colorado. Uccisi donne e bambini!».
E insomma la famiglia, con tutti i suoi miliardi di dollari, si sentì di colpo così esposta al disprezzo della pubblica opinione che il vecchio John D. convocò in fretta e furia il numero uno dei public relation man dell’epoca, Ivy Lee: «Cosa dobbiamo fare?». Rispose: «Mostratevi generosi. Puntate sulla Fondazione. Fatene un’occasione di beneficenza, di cultura, di promozione dell’arte». E fu lì, dicono gli storici, che i Rockfeller imboccarono la strada che pochi anni dopo li avrebbe portati a dare vita al Museum of Modern Art. Il MoMa. Non erano riusciti forse, certi Papi impresentabili, a far dimenticare le loro nefandezze commissionando opere meravigliose?

Corriere 22.4.14
Strumento di ricatto, seriale e freddo
L’ambiguo rapporto tra giovani e sesso
di Marco Imarisio


Da Internet allo scarso confronto con gli adulti. Cosa sta cambiando Cominciamo dagli esclusi. «Quando l’ho saputo mi sono vergognato di me stesso. Gli ho parlato, con la sensazione di spiegare cose che lui già conosceva. Allora gli ho tolto computer e telefonino, che è come privarlo dell’ossigeno. Ma un istante dopo mi sono chiesto a cosa serviva. A lui manca l’aria, a me mancano le risposte».
Lavora in una azienda edile di Firenze, abita in periferia. A febbraio è stato convocato dai carabinieri che gli hanno mostrato una denuncia dove si parlava del suo unico figlio, che studia in un istituto tecnico e ha 16 anni. Era firmata da una compagna di classe. La ragazza aveva ricevuto un messaggio nella posta di Facebook. Il figlio del muratore la metteva in guardia. «Asseriva che da un mittente sconosciuto erano arrivate su un profilo condiviso con altri utenti alcune foto di lei e di una sua conoscente, entrambe ritratte in pose intime. Diceva altresì che se non avesse consegnato la somma di euro 50.00, lui sarebbe stato costretto dagli amici a divulgare le foto». Non c’erano amici. Il mittente sconosciuto era lui. «Già noto ad altri uffici» per episodi simili. Oggi non frequenta più quella scuola. «È stata una mia decisione. L’ho presa più per dovere che per altro. Mi sembra tutto inutile. Davvero è possibile isolare un ragazzo da un mondo dove siamo tutti connessi?».
Qualcosa è cambiato. Lo dicono i pochi dati reali. La Polizia postale ha registrato una impennata dei reati commessi in rete che a vario titolo vedono coinvolti gli adolescenti. Più 25 per cento nel 2013. Il dato importante è quello dei monitoraggi, che rientrano nelle attività di prevenzione, spesso effettuati su richiesta delle famiglie. Nelle mani di alcuni adolescenti il sesso è diventato un’arma, strumento di ricatto, umiliazione del rivale in amore. L’allarme sociale generato da storie come quelle delle baby squillo dei Parioli e le altre emerse in questi mesi non deriva solo dalla paura classica delle caramelle dagli sconosciuti ma da una visione della vita sessuale dei giovani percepita come distorta. Comunque incomprensibile, per chi sta fuori. «Non c’è più minaccia, nel contesto culturale degli adolescenti. Niente Chiesa, Stato, famiglia. C’è una sola sessualità, prodotto della sparizione di ogni senso di colpa e principio etico». Nell’ottobre del 2001 lo psicologo Gustavo Pietropolli Charmet, con due suoi colleghi, firmò la perizia psichiatrica su Erika e Omar, i due giovani assassini di Novi Ligure. In quel documento c’era un capitolo che fece molto discutere. Era dedicato al sesso praticato dalla coppia, «piatto, indifferenziato e seriale». Il sesso piatto significa fine di ogni tabù, meccanizzazione dell’atto. «È da molto tempo che siamo a metà del guado» sostiene Charmet. «Il vecchio modello di educazione sessuale biologica è superato, ma non ne abbiamo creato uno nuovo. Manca la pedagogia sentimentale. Il sesso degli adolescenti è diventato una condotta di prova, un esercizio di potere sconnesso da amore e piacere. Un tempo era la masturbazione, oggi è lo scambio di immagini su Internet».
Al seminario sulla Storia della pornografia nell’età moderna non c’è più posto. Aula grande dell’università di Torino. Su 120 studenti iscritti, 106 sono ragazze. Pietro Adamo, docente di Storia moderna e dottrine politiche, il più grande studioso del porno in Italia, la prende da lontano. Cita un crudo sonetto di Pietro Aretino per chiedere il significato del termine «gang bang», ovvero il sesso con moltitudini di partner. Alzano la mano solo i maschi. «Sono loro» sostiene l’autore de Il porno di massa , «a imporre una grammatica creata online. Non cercano altre fonti. Si avvicinano al sesso attraverso la pornografia sul web, che resta un modo particolare di mettere in scena il sesso. Ne viene fuori un immaginario unidimensionale, ripetitivo».
Mercedes Bo si rigira tra le mani un foglio con i risultati dell’ultimo questionario. Li distribuiscono nelle scuole, ma quasi sempre le ragazze genovesi vengono a compilarlo in via Cesarea, il primo consultorio dell’Associazione italiana per l’educazione demografica, aperto nel 1971. La risposta più importante dice che il 32 per cento di mille ragazze tra i 15 e i 24 anni ha avuto rapporti con sconosciuti senza profilattico, quasi sempre nel fine settimana. «Facendo l’amore in piedi non c’è il rischio di rimanere incinta». «Si può evitare una gravidanza facendo lavande interne con la Coca Cola». Queste invece sono le credenze più stravaganti raccolte in tutta Italia, sempre via questionario. «Il confronto familiare non esiste, la pornografia è invasiva come mai prima. Così, le idee si fanno sempre più confuse. Il sesso perde la sua funzione: il rifiuto del preservativo da parte delle ragazze risponde a un’altra logica, quella del gruppo. Al timore di essere rifiutate dal partner e di perdere status sociale». La presidente dell’Aied è una vecchia femminista, definizione sua. Certe cose le vive come una sconfitta. Negli anni Novanta conobbe un gruppo di ragazze albanesi. Quando finivano i soldi per vestirsi come i coetanei italiani, partivano in Germania. Si prostituivano per qualche sera, tornavano indietro. Il ricordo riaffiora a causa delle analogie con vicende recenti. «Colpisce l’assenza di un criterio. Il sesso diviene un mezzo che crea altre funzioni. Le ragazzine che si vendono per soddisfare una necessità di puro consumismo sono la nostra sconfitta culturale».
Chiara, il nome è di fantasia, non si sente simbolo di nessuna sconfitta. È una ragazza del Sud, maggiorenne da poco. Quando viene a Milano per lavoro alloggia all’ostello della gioventù di via Salmoiraghi. Alle 22 esce, percorre un rettilineo di duecento metri a piedi e si ferma accanto alla pensilina dell’autobus. Capelli neri, stivaloni neri sotto a una minigonna dello stesso colore. Dall’altra parte dell’incrocio c’è il PalaSharp, quello dei grandi concerti, delle feste democratiche. «Qualche volta all’anno, da un paio d’anni» dice. La strada è un posto pericoloso per i dilettanti. «A mia madre dico che vado da una mia amica. Venerdì, sabato. Non resto tutta la notte. Dopo un paio di clienti, rientro. Con i vecchi non ci vado. Non ci trovo niente di male. Mi faccio pagare per un servizio. È un modo per non dipendere da nessuno. I soldi li spendo per me, vestiti, viaggi. Anche libri». In mezz’ora di conversazione si sono fermate quattro macchine, due delle quali stipate da ragazzi, in apparenza suoi coetanei. Sanno dove cercare. Basta una visita da intruso sull’ormai celebre e discusso Ask.fm, il social network dell’anonimato. Questa è la «zona delle studentesse».
Internet svolge ormai il ruolo di capro espiatorio per definizione. La percezione di un pericolo diffuso arriva da qui. Le molte ricerche sull’argomento producono statistiche quasi sempre a supporto di una tesi già dichiarata. Quella di Save the children sui comportamenti sessuali degli adolescenti italiani restituisce l’idea di Internet istruttore e palestra al tempo stesso. Il 34 per cento degli intervistati, su un campione di 2100 ragazzi, dichiara di aver ricevuto in rete approcci espliciti da parte di coetanei. Il 54% è diventato attivo inviando il suo primo messaggio di natura sessuale tra i 14 e i 15 anni di età. Uno su due. Con beneficio di inventario, ma sono cifre che certificano il web come surrogato di chiesa, Stato, famiglia.
A Palermo, pochi giorni fa, la Polizia postale ha effettuato uno di quei quasi trentamila monitoraggi. Un diciassettenne si era vendicato della fidanzata che l’aveva lasciato pubblicando il video di un loro rapporto orale. L’intervento è avvenuto online, avvisando il ragazzo del fatto che si trattava di un reato. Charmet è convinto che il web si limiti ad abolire la soglia di vergogna e timidezza. «Tutti gli adolescenti possono iscriversi all’orgia collettiva. Internet allarga la platea di coloro che partecipano al commercio, ma non la crea». I social network non sono come i vecchi muri dei bagni pubblici. «La bacheca è visibile a tutti»: partono da questa premessa gli operatori che vanno nelle scuole milanesi a insegnare l’autodifesa online. Quel che manca davvero è la consapevolezza. Del sesso, e del web. O forse, come dice Mercedes Bo, ne esiste una nuova. «Ma senza una libertà di scelta che nasca dal confronto, la spregiudicatezza è solo una maschera».
Quest’anno la carovana di «Una vita da social» creata dalla Polizia Postale doveva fare 14 tappe. Ne sono state aggiunte altre quaranta. Le richieste di aiuto sono arrivate da insegnanti e genitori. Adulti. I ragazzi restano lontani dai luoghi anche virtuali dove si parla di loro. Un messaggio di ieri, naturalmente anonimo, da Ask.fm. «Internet, Facebook, alta definizione. Abbiamo tutto. Siamo soli, anche qui, in mezzo alla folla».

Corriere 22.4.14
L’umanità divisa tra belli e brutti (forse soltanto tra centomila anni)
Secondo uno studio la selezione dei partner formerà due nuove specie
di Edoardo Boncinelli


Di tanto in tanto si leggono previsioni più o meno mirabolanti su quello che potrà accadere all’umanità in un prevedibile futuro, e anche a me succede spesso che mi venga chiesto che cosa ha in serbo per noi l’evoluzione biologica. Come diventeremo, insomma, come evolveremo? La mia risposta è che non lo sa nessuno e soprattutto che non è probabile che su di noi si troverà ad agire soltanto l’evoluzione biologica. Quest’ultima è molto lenta e per vedere qualche reale cambiamento occorrerebbe attendere decine, se non centinaia, di migliaia di anni. In tutto questo tempo ne saranno successe di cose e, soprattutto, ne faremo di cose!
Personalmente non penso che subiremo passivamente gli esiti dell’evoluzione biologica, ma che saremo in grado piuttosto di «dirigere» la nostra evoluzione su una base culturale, cioè tramite le conquiste della scienza. E’ noto che saremo presto in grado di modificare, se lo vorremo, il nostro genoma. Se ciò accadrà, e non c’è motivo di dubitarne seriamente, sarà la prima volta che una specie dirige direttamente e consapevolmente la propria evoluzione biologica sulla base dei risultati portati dalla propria evoluzione culturale. Sarà una «prima» assoluta e probabilmente una prima cosmica. Tutto starà nel saperlo fare nel modo migliore, in maniera informata e intelligente, perché con i risultati dell’operazione difficilmente si potrà tornare indietro. Può anche darsi che si tratti di una doppia operazione: da una parte la modificazione del nostro genoma, dall’altra l’integrazione di risorse biologiche e di dispositivi artificiali, come potenziatori di organi di senso, memorie aggiuntive e meccanismi per la consultazione in tempo reale di giganteschi data base.
Ma ritorniamo a noi. La notizia del giorno è che il teorico dell’evoluzione Oliver Curry della London School of Economics prevede che nel giro di 100.000 anni la nostra specie di dividerà in due sottospecie costituite una di individui alti, slanciati, sani e intelligenti e l’altra di individui poco brillanti, brutti e sgraziati. Si formeranno insomma secondo questa predizione una classe geneticamente superiore e una inferiore. Perché? Dopo un prevedibile picco, raggiunto più o meno nell’anno 3000, la nostra specie decadrà a causa della sua dipendenza sempre più marcata dalla tecnologia. Ci sarà anche una contrazione demografica e gli individui diverranno sempre più esigenti nella scelta del partner. Tutto questo potrebbe infine portare a una bipartizione della specie secondo lo schema appena riportato. Ci sarà meno empatia e molta meno capacità di venire incontro alle esigenze degli altri. L’aspetto diverrà sempre più «giovanile» e scompariranno gli zigomi come effetto della sempre minore esigenza di masticare cibi tenaci.
Che probabilità c’è che questo accada effettivamente? Nessuno lo può sapere con sicurezza, ma a me sembra difficile che la specie si divida in due in futuro, non avendolo fatto nel passato, quando c’erano molte più condizioni che potevano favorire tale evento, come le diversità fisiche e le drammatiche differenze di classe sociale. Ma staremo a vedere. In fondo ogni ipotesi teorica è fatta per essere confermata o smentita dai fatti.

Corriere 22.4.14
Le virtù dei nostalgici, secondo Starobinski Sviluppano la capacità di essere critici. E di creare, con la scrittura, esperienza
«Viviamo di passioni precedute da parole, e non le avremmo provate senza di esse»
di Paolo Di Stefano


Entrare in un libro di Jean Starobinski è come addentrarsi in una foresta incantata, piena di una varietà molteplice di erbe, cespugli e alberi. Respiri un’aria fresca, guardi in alto e ti accorgi che ogni pianta ha un tronco robusto con ramificazioni fittissime e che da ciascun ramo si dipartono altri rami e rametti secondari, all’infinito, con le loro frondosità cangianti da cui filtrano luci e bagliori. È questo procedere per continui avvii e rinvii e continue aperture, a volte spaesanti, il tratto più tipico della saggistica del novantaquattrenne critico ginevrino, medico, storico della scienza e delle idee. Saggista prima di tutto, dove per saggio si intende una forma di pensiero e di scrittura, libera e mai capricciosa, dalla razionalità multiforme, aperta e dialogante.
Come osserva opportunamente Fernando Vidal nella postfazione a L’inchiostro della malinconia (appena uscito da Einaudi), il saggio di Starobinski è una scrittura polifonica sempre in movimento. Movimento perpetuo e sinuoso, a onde e a curve, con scatti repentini e con andature più pacate. Ed è curioso che questo modo di procedere si applichi a una materia in sé lenta, se non immobile, com’è a prima vista il cuore della malinconia. In realtà, con i suoi saggi antichi e più recenti sul tema (tutti raccolti nel volume), Starobinski va a stanare il lento movimento di quella apparente immobilità. Si potrebbe dire di questo libro ciò che lo stesso studioso svizzero dice della summa di Robert Burton, un geniale erudito oxoniense del Seicento autore di una colossale Anathomy of Melancholy a cui Starobinski dedica pagine ammirate: un «libro-miniera» in cui è depositata una gran quantità di memoria letteraria e storico-scientifica. Quando parla dell’uso frequente alla citazione in Burton, Starobinski sembra parlare di se stesso: essa non è solo la compensazione di una debolezza, ma illumina il pensiero, anche se il ricorso al già detto può apparire come un «sentimento di inferiorità malinconica». Sembra di scorgere un sorriso amaro quando il critico preconizza tempi di «tabula rasa » e di totale cancellazione della memoria, in cui trionferà il linguaggio rigoroso e astratto della matematica.
Libro-miniera, si diceva. E non potrebbe essere diversamente, visto che Starobinski si dedica all’argomento da oltre cinquant’anni, se è vero che Storia del trattamento della malinconia è il titolo della tesi di laurea presentata nel 1959 dal giovane studente di psichiatria dell’Università di Losanna. Da allora, lo studioso è tornato sulle diverse declinazioni della malinconia in molte tappe successive, rivedendo e aggiungendo, spaziando: da Omero al poeta francese contemporaneo Yves Bonnefoy, dal Medioevo e dal Rinascimento a Baudelaire, da Ippocrate a Mandel’štam.
Il discorso di Starobinski si muove tra scienza e critica letteraria, tra storia dei concetti e analisi del linguaggio che li definisce tecnicamente e li esprime in arte. C’è un passo che chiarisce molto bene il rapporto che c’è, per Starobinski (il quale si è formato, tra l’altro, con il grande maestro di stilistica Leo Spitzer), tra le parole e le cose, oggetti inscindibili della sua ricerca. È un passo che scaturisce da una domanda: se i sentimenti preesistano alle parole che li nominano, oppure se i sentimenti si materializzino nella nostra coscienza solo dal momento in cui hanno ricevuto un nome. Starobinski risponde che si tratta di due proposizioni «vere a titolo complementare»: «Una volta nominato, avendo acquisito un’identità, un sentimento non è più veramente lo stesso. Una parola nuova condensa qualcosa di incompreso, che per l’innanzi era rimasto evanescente. Ne fa un concetto. Opera una definizione e invoca un sovrappiù di definizione: diventa materia di saggi e di trattati. Viviamo di passioni le cui parole ci precedono, e che non avremmo provato senza di esse».
Sono le parole a renderci coscienti di un sentimento antico, a portarlo definitivamente alla luce: per questo anche la malattia è un fatto di cultura. Isolandola e classificandola diventa un’astrazione e dunque «un momento particolare di quell’avventura collettiva che è la scienza».
È ciò che accade nel caso della «malinconia», che si conserva nel linguaggio medico sin dal V secolo a.C. pur variando in continuazione il suo campo semantico. In origine, per la verità, il termine designava un «conglomerato» di paura e tristezza persistenti, che comprendeva una vasta gamma di malesseri, tra depressione, schizofrenia, nevrosi, ansia, paranoia, delirio eccetera. La causa fisiologica additata dal pensiero medico sin dall’antichità, in opposizione a coloro che vi intravedono un’origine sovrannaturale (l’abbandono degli dèi), è la «bile nera», ovvero «la sostanza spessa, corrodente, tenebrosa che costituisce il senso letterale di “malinconia”». I passaggi suggeriti da Starobinski sono numerosi, e vanno dagli studi ippocratici e dalle dottrine mediche (Celso, Galeno eccetera), alla dicotomia tra medici che si occupano della «passione del corpo» (con trattamenti che vanno dall’elleboro ai vapori) e i filosofi, attenti piuttosto a guarire le «malattie» dell’anima (il peccato di «acedia», cioè torpore o disgusto della vita): ma se Seneca accorreva da proto-psicologo con i suoi scritti a lenire le inquietudini degli amici, il rimedio consigliato dai Padri della Chiesa alla malinconia della vita solitaria era: «Pregate e lavorate!». E Ildegarda di Bingen collegava quella nausea esistenziale al peccato originale. Nuovi concetti «psichiatrici» si inaugurano nel Settecento, quando la malinconia non è più percepita come malattia dell’umore ma come affezione nervosa dell’essere sensibile, richiedendo, accanto alle cure tradizionali (purgativi, diluenti, digestivi), approcci «morali» tesi a distruggere l’«idea esclusiva» di cui è vittima il malinconico: ecco dunque il piroettamento, ma anche, a seconda della gravità, il viaggio, le terme, la musica, la cura in famiglia.
L’interesse precoce di Starobinski per la figura classica del «denunciatore delle maschere» si collega, secondo Vidal, agli atteggiamenti «mascheranti e mascherati» tipici dei regimi totalitari del Novecento: «Il mio primo progetto — ha ricordato Starobinski — era di farmi storico della denuncia della menzogna». Che c’entra questo con il malinconico? C’entra eccome. Il malinconico è da sempre in prima fila nella denuncia della menzogna: diffida della realtà e si vede circondato da maschere. È un malato (un folle?), ma viene percepito anche, per lungo tempo, come un essere superiore dotato di un’etica esclusiva e capace di vedere con lucidità le magagne del proprio tempo che gli altri non vedono.
Democrito è una figura chiave. Vive in solitudine al limitare della città di Abdera e ride di tutto: i concittadini preoccupati chiamano Ippocrate perché guarisca quel grande uomo. Il medico arriva fornito di elleboro, ma si accorge a colpo d’occhio che Democrito è in perfetta salute e che semmai è il popolo a essere folle. La situazione si è rovesciata: Democrito va ascoltato e seguito. Quel Burton cui si accennava commenterà a lungo l’aneddoto e La Fontaine ne farà l’oggetto di una sua favola. Che cos’è il sorriso di Democrito? Certo, è il sintomo della malinconia: l’ilarità del filosofo è la risposta alla insensatezza universale. Ecco la funzione della satira, una lunga tradizione che risale per lo meno a Giovenale: «la malinconia — scrive Starobinski — costituisce un pretesto sufficiente per la voce satirica, per l’indignazione come per il riso (…). Con l’alibi dell’umor nero di cui si dichiara vittima, il satirico può denunciare senza remore di sorta l’andamento del mondo. L’irriverenza del malinconico non risparmierà nessuno». Il responsabile, ufficialmente, è Saturno. Per Kant il malinconico è il più adatto a provare il sentimento del sublime, ma anche il più severo «giudice di se stesso e degli altri» e non di rado «avverte il tedio di sé e del mondo». Il malinconico è insomma un protagonista della storia.
Nell’anatomia starobinskiana della malinconia, sondata nei testi letterari, finiscono il Torquato Tasso paranoico di Goethe, «La principessa Brambilla» di Hoffmann, cui è debitore il «comico assoluto» (e satanico) di Baudelaire: al poeta dello spleen, cavallo di battaglia di Starobinski (bellissime le pagine sulla differenza tra fantasticheria «pietrificante» e sogno), si devono gli esempi migliori di «malinconia allo specchio» o riflessiva.
Sono infiniti i modelli e i motivi che la medicina fornisce alla poesia. Ma ciò non impedisce che talvolta sia la poesia a proporre qualche rimedio e persino a proporsi come rimedio. L’ironia è la salvezza del malinconico? È un altro capitolo del libro, in cui il nostro Carlo Gozzi fa la parte del leone. Se dalla «sfasatura tra tempo interiore e tempo esterno» nasce il sentimento malinconico di alcuni personaggi shakespeariani, in Gozzi si sottolinea lo scarto tra fatto teatrale e verità vissuta: anche il suo è un rifiuto. Un atto di protesta, volontario o no, attraverso la favola ironica e l’anacronismo della sua commedia.
Niente a che vedere con la distanza (spaziale e temporale insieme) sofferta da quel particolare soggetto malinconico che è il nostalgico. Ma questo è un capitolo a sé. «Nostalgia» è un altro neologismo che nel Seicento, in Svizzera, produce un concetto nuovo, inventa un’altra patologia. Oggi il suo uso specialistico è in declino, prevale la vulgata romantica, la sua connotazione spregiativa: non più disadattamento sociale che conduce alla morte, ma rimpianto inutile di un mondo passato. Quanti «nostalgici» nella letteratura. Scrivere, insegna Starobinski, «significa trasformare l’impossibilità di vivere in possibilità di dire». Aprendo comunque una relazione con l’altro.

Corriere 22.4.14
Il volto spietato dell’ortodossia
Nelle pagine di José Saramago l’intreccio inscindibile tra fede e passione ai tempi dell’Inquisizione portoghese
di Gian Guido Vecchi


Tra i profili dei rilievi vulcanici e il pendio lavico verso la pianura e il mare, la casa bianca non si distingue a prima vista dalle altre abitazioni costruite intorno a Tías, in un paesaggio pietroso di bassi muretti a secco a proteggere le viti, fichi d’India e una vegetazione rada spazzata dal vento. Quando José Saramago e Pilar del Rio si trasferirono nell’isola di Lanzarote, la chiamarono semplicemente così, «a casa», e anche oggi che è diventata un (bellissimo) museo ogni cosa è rimasta come negli ultimi diciotto anni scanditi dai capolavori della senilità, un caffè in cucina per gli amici e i lettori di passaggio, gatti e cani che si stirano al sole sul terrazzo, gli orologi fermi alle quattro e due minuti del pomeriggio perché è l’ora nella quale lui e la moglie si incontrarono, la vasta biblioteca del «maestro» che Harold Bloom ha definito «uno degli ultimi titani» e lo studio affacciato sul giardino e l’oceano con i ritratti di altri giganti del Novecento, da Kafka a Proust: di fronte alla scrivania, la sua foto mentre tracciava la frase che Pilar avrebbe portato nel vestito che indossava a Stoccolma la sera del Nobel, il dialogo con la Maddalena ne Il Vangelo secondo Gesù — «Guarderò la tua ombra, se non vuoi che guardi te, gli disse, e lui rispose, Voglio essere ovunque sia la mia ombra, se là saranno i tuoi occhi» — e sul ripiano del tavolo accanto al computer una scultura lignea del Cristo deposto che aveva trovato da un antiquario italiano e teneva accanto a sé mentre scriveva, lui che si diceva fermamente ateo, come l’icona di tutti i dolori insensati degli uomini.
All’inizio c’è la parola. Quando nel 1982 uscì Memoriale del convento , Saramago aveva già sessant’anni e il bello era appena cominciato. È in quel romanzo che si compie la rivoluzione sintattica dello scrittore portoghese e si rivela al pubblico internazionale la bellezza di una scrittura che renderà inconfondibili le opere successive: quello «stile orale» che ha tra i suoi riferimenti la prosa barocca del padre gesuita António Vieira, «il mio ascendente letterario più forte», l’amore per i Saggi di Montaigne e i contes philosophiques , il gusto fantastico di Cervantes, Gogol’ o Kafka, la prosa di Proust, le incursioni di un io narrante ironico e onnisciente come lo «spirito della narrazione» nell’Eletto di Thomas Mann. «La costruzione del convento di Mafra si deve al re Giovanni V, per un voto fatto se gli fosse nato un figlio, qui ci sono seicento uomini che non hanno fatto fare nessun figlio alla regina e sono loro a pagare il voto, che si attacchino, con licenza per l’anacronistica espressione...».
Eppure, quando andò in Svezia per ricevere il premio Nobel, José Saramago cominciò il suo discorso così: «L’uomo più saggio che io abbia conosciuto non sapeva né leggere né scrivere». Parlava del nonno materno Jerónimo, «quell’indimenticabile vecchio che, avendo il presentimento che non sarebbe tornato dal viaggio che lo portava da Azinhaga a un ospedale di Lisbona, si congedò dagli alberi del suo povero giardino, a uno a uno, abbracciandoli in lacrime», scriveva nei Quaderni di Lanzarote . Era il vecchio contadino che nelle notti d’estate diceva al nipote: «José, stanotte dormiamo tutti e due sotto il fico». Bisogna rileggerle, le parole con le quali il «titano» portoghese lo raccontava a Stoccolma: «Mentre il sonno tardava ad arrivare, la notte si popolava delle storie e dei casi che mio nonno raccontava: leggende, apparizioni, spaventi, episodi singolari, morti antiche, zuffe di bastoni e pietre, parole di antenati, un instancabile brusio di memorie che mi teneva sveglio e al contempo mi cullava. Non ho mai potuto sapere se lui taceva quando si accorgeva che mi ero addormentato, o se continuava a parlare per non lasciare a metà la risposta alla domanda che gli facevo nelle pause più lunghe che lui volontariamente metteva nel racconto: E poi ?».
Non a caso la scrittura «orale» si era affacciata per la prima volta nel romanzo che precede il Memoriale , Una terra chiamata Alentejo (1980), così simile al Ribatejo della sua infanzia, come simili erano le condizioni di vita dei braccianti legati al latifondo. «E quest’altra gente chi è, abbandonata e meschina, questa gente venuta con la terra, anche se non registrata nel contratto, anime morte, oppure ancora vive?». Un libro scritto nel ‘47 e poi ripudiato, Terra del peccato , un altro finito nel ‘53 e destinato ad uscire postumo, Lucernario , tre raccolte di poesie, il lavoro da critico letterario, l’adesione al partito comunista e infine, dopo la «rivoluzione dei garofani» del ‘74, la scelta di dedicarsi solo alla scrittura, Saramago che lascia da vicedirettore il Diário de Noticias e inizia la sua seconda vita con due gioielli come Manuale di pittura e calligrafia (1977) e i racconti di Oggetto quasi (1978), che saranno riscoperti grazie ai capolavori successivi. Il Memoriale , seguito da L’anno della morte di Ricardo Reis (dove il protagonista è proprio l’eteronimo di Pessoa), segna l’inizio di una stagione creativa prodigiosa che arriva fino a Caino , nel 2009, l’ultima opera prima della morte.
La Storia si trasfigura e si fa autentica nelle vicende e nei dolori di personaggi «comuni» che restituiscono il senso dell’umano. Una decisione improvvisa, un evento fantastico, lacerano il velo delle apparenze e aprono alla realtà. La penisola iberica che si stacca dal Continente e va alla deriva ne La zattera di pietra , il revisore che nella Storia dell’assedio di Lisbona aggiunge un «non » alle bozze, «quello che adesso dice il libro è che i crociati NON aiuteranno i portoghesi a conquistare Lisbona». E poi, dopo lo «scandaloso» romanzo su Gesù — le polemiche in patria saranno all’origine del suo trasferimento a Lanzarote — la trilogia che alla fine del Novecento lo consacra fra i grandi del secolo, aperta nel ‘95 da Cecità : «Vuoi che ti dica cosa penso, Parla, Secondo me non siamo diventati ciechi, secondo me lo siamo, Ciechi che vedono, Ciechi che, pur vedendo, non vedono». La moglie del medico che nel romanzo è l’unica a mantenere il senso morale, in un paese dove d’improvviso la gente perde la vista e la propria umanità, è la più classica delle creature di Saramago, come il signor José che nel successivo Tutti i nomi è lo scritturale che decide di violare le regole della Conservatoria dell’Anagrafe per mettersi alla ricerca di una donna sconosciuta. Finché ne La Caverna , nel 2000, saranno il vasaio Cipriano Algor e sua genero a scoprire che cosa si cela nel sottosuolo di quello spaventoso Centro commerciale che è il nostro mondo: donne e uomini costretti fino alla morte a rivolgere lo sguardo verso il fondo di una grotta dove scorrono ombre.
Come nella Caverna della Repubblica di Platone («Strana immagine è la tua — disse — e strani sono quei prigionieri». «Somigliano a noi —, risposi»), la realtà sta fuori. Si tratta di avere la forza di uscire. «Non rimarrò il resto dei miei giorni legato a una panchina di pietra a guardare una parete».

Viaggio di parole nel Vecchio Continente

Con il primo volume già in edicola e il secondo da oggi, ha preso il via l’iniziativa editoriale «Romanzi d’Europa», curata da Paolo Di Stefano, una collana che porterà in edicola ogni settimana fino all’11 agosto diciotto romanzi europei (ogni volume a € 9,90 più il prezzo del quotidiano). Europei, non solo per la ragione civile degli autori, da Mann a Svevo, ma perché raccontano le nostre radici comuni culturali, storiche e sociali. Significativamente, la collana ha preso il via con L’insostenibile leggerezza dell’essere di Milan Kundera, romanzo politico sullo sfondo dell’invasione sovietica di Praga, divenuto successo internazionale e romanzo di culto in Europa e in Italia. Oggi si aggiunge un secondo straordinario libro, Memoriale del convento , del Nobel portoghese Saramago sul tema dell’amore e della fede nel Portogallo dei tempi dell’Inquisizione (prefazione di Massimo Raffaeli). Tutti i volumi sono introdotti da prefazioni inedite, firmate da scrittori e critici letterari, giornalisti e studiosi.
Il viaggio letterario tra i Paesi del Vecchio Continente continuerà nelle settimane successive, spingendosi dall’uno all’altro capo dell’Europa, tra autori italiani e stranieri: il 28 aprile sul Danubio di Claudio Magris, il 5 maggio nella Germania borghese di Thomas Mann e il 12 maggio con la straordinaria ricostruzione della vita dell’imperatore Adriano dettata al suo medico scritta dalla francese Marguerite Yourcenar. Più avanti ci saranno anche Luis Stevenson, Stendhal e Charles Dickens. (ida bozzi)

Corriere 22.4.14
Buzzati, una finestra sul deserto
I luoghi dello scrittore bellunese come panorama dell’anima
di Lorenzo Viganò


Il paesaggio in Dino Buzzati è un paesaggio interiore. Fondamentale per stimolare l’immaginazione, per calare il lettore nell’atmosfera dei suoi racconti fantastici. È una metafora: del mistero, della solitudine, del passare del tempo, dell’attesa. E non è mai soltanto scenario, sfondo per le storie, luogo in cui ambientarle. È anche espediente, memoria, rielaborazione universale di un’immagine. È, a sua volta, personaggio, che vive e dà vita (e annuncia, attraverso le trasformazioni meteorologiche, un imminente evento drammatico).
Ma è anche un paesaggio reale calato in una dimensione narrativa. Trasposizione e trasfigurazione dei luoghi in cui lo scrittore bellunese è cresciuto, ha giocato, si è formato; che ha amato ed esplorato con il taccuino in mano alla ricerca di un’ispirazione (come accadde per Bàrnabo delle montagne , suo primo, breve romanzo); che ha violato arrampicandosi da scalatore sulle rocce taglienti e fredde di dolomia per ascoltare il silenzio (mai rassicurante) delle cime: i «draghi addormentati». Crode, vallate, strade, scorci, boschi, panorami che Patrizia Dalla Rosa, appassionata studiosa di Buzzati e membro del comitato scientifico del Centro Studi di Feltre a lui dedicato, attraverso un’analisi dettagliata di romanzi, racconti e cronache ha rintracciato nella geografia di quelle zone e raccolto in Lassù… Laggiù… Il paesaggio veneto nella pagina di Dino Buzzati (Marsilio, pp. 208, e 22).
Sicura che la vera conoscenza dell’opera dell’autore del Deserto dei Tartari debba passare anche attraverso l’avvicinamento ai suoi luoghi, la Dalla Rosa parte da San Pellegrino, dalla villa alle porte di Belluno che ha dato i natali a Buzzati funzionando da imprinting per la sua visione del mondo (il «paesaggio materno» come lo definisce Giuseppe Sandrini nell’introduzione) e si espande poi oltre la siepe che la chiudeva: passando dal Piave — scenario delle sue prime esplorazioni e avventure, il cui greto asciutto di ghiaia cotta dal sole gli suggerì la prima impressione di deserto — alle montagne affacciate sulla casa, Schiara in testa, frontiera verso l’ignoto; da valli, vallette e valloni ai boschi (la foresta di conifere del Segreto del Bosco Vecchio la si può ritrovare oggi in quella di Somadida, presso Auronzo, o della Val Visdende in Alto Comelico).
È come se Patrizia Dalla Rosa prendesse per mano il lettore — proprio e di Buzzati — e con lui camminasse nei posti che popolano le pagine dello scrittore, svelandoli. Ne analizza la toponomastica, decifrandone i giochi e le manipolazioni tipicamente buzzatiane. Ne interpreta le trasformazioni; forza, senza strapparlo, l’invisibile sipario che ci separa da essi, e invita a entrare. Il tutto da autoctona — valore aggiunto del saggio —, da chi in quei luoghi è nata e li abita da sempre; che ne (ri)conosce le inquadrature, la storia, gli angoli più nascosti e ne condivide con Buzzati i segreti, i silenzi, la magia e l’inquietudine, le ombre e le luci.
Questo doppio legame — ai paesaggi e alle pagine in cui sono contenuti — permette così interessanti rimandi e parallelismi: tra la diga del Vajont e l’impianto al centro de Il grande ritratto , tra la Sicilia invasa dagli orsi nella sua fiaba per bambini e la Val Belluna, riconoscibile anche nel poemetto I l Capitano Pic .
L’indagine non tocca per scelta né l’opera pittorica né il teatro, ma stupisce l’assenza di una vera analisi del Deserto dei Tartari , cui la Dalla Rosa accenna soltanto qua e là. Placa in parte la curiosità del lettore l’aver forse rintracciato l’immagine primaria su cui sarebbe stato elaborato il paesaggio della storia del tenente Drogo (ma anche di altre): il grande affresco della sala da pranzo della villa, opera del pittore ottocentesco Pompeo Molmenti, che Buzzati ebbe davanti agli occhi fin da piccolo e che rappresenta il paesaggio che dall’attuale oasi naturalistica del lago di Santa Croce si apre a settentrione verso Ponte nelle Alpi, lasciando in lontananza l’imbocco per il Cadore. Quel mondo che a Drogo, salendo alla Fortezza Bastiani, ultimo baluardo verso il grande nord, sembrava proprio di aver già visto, forse per averci «vissuto in sogno» o aver «costruito leggendo qualche antica fiaba».

Corriere 22.4.14
Vita econtraddizioni di Fejtö, marxista e liberale, ebreo e cristiano
risponde Sergio Romano


Ho saputo che lei ha conosciuto François Fejtö. Ha vissuto una vita lunga giungendo fino a 99 anni. Alla caduta dell’Impero austroungarico, la famiglia si smembrò con migrazioni verso Jugoslavia, Italia, Cecoslovacchia e Romania. Mi ha meravigliato apprendere che in gioventù fosse di tendenze di sinistra perché nella maturità aveva abbandonato l’ideologia marxista e anzi era molto critico nei confronti di essa. Potrebbe descrivercelo?
Giampaolo Grulli

Caro Grulli,
Fejtö è già stato ricordato più volte su questa pagina, soprattutto per la sua attività di saggista e storico dell’Europa comunista negli anni della Guerra fredda. Lei si meraviglia che questo brillante critico dell’universo sovietico fosse stato attratto, nei suoi anni giovanili, dal marxismo. Ma questa è soltanto una delle sue apparenti contraddizioni, una delle tante tappe che hanno marcato la sua esistenza. Nacque ebreo in una famiglia che proveniva dalla Germania e che cambiò il cognome (da Fischel a Fejtö) in segnò di lealtà al Paese che l’aveva accolta. Ma fu attratto dal cristianesimo e si convertì al cattolicesimo. La conversione si intiepidì, credo, abbastanza rapidamente. Forse il suo progressivo distacco dalla Chiesa coincise con l’interesse per i libri di Marx e per la breve esperienza della effimera repubblica sovietica creata da Bela Kun dopo la fine della Grande guerra. Ma nelle sue memorie accenna anche a una certa ripugnanza per le prediche antisemite di un giovane prete che sarebbe diventato famoso nella storia dell’Ungheria con il nome di Mindszenty.
Lasciò l’Ungheria nella seconda metà degli anni Trenta, inseguito da un mandato di cattura per i sei mesi di carcere che gli erano stati inflitti per le sue attività «rivoluzionarie», visse in Francia durante gli anni della guerra, sfuggì alle retate contro gli ebrei del regime di Pétain. Alla fine del conflitto riprese contatto con il suo Paese, ritornò alle sue vecchie simpatie socialdemocratiche e divenne capo dell’ufficio stampa dell’Ambasciata d’Ungheria a Parigi. Ma non appena il governo comunista processò uno dei suoi leader, Laszlo Rajk, Fejtö si dimise e fu da allora uno dei più autorevoli critici dell’Europa sovietizzata.
Negli anni giovanili, quali che fossero le sue lealtà politiche del momento, non era certo asburgico. Ma col passare degli anni, mentre l’Europa centro-orientale diventava nazista e, successivamente, comunista, cominciò a chiedersi se la disintegrazione dell’Impero austroungarico non fosse stata uno dei più clamorosi errori commessi dai vincitori della Grande guerra. Il suo Requiem per un impero defunto , apparso in Francia nel 1993 e in Italia subito dopo, è un atto d’accusa contro Georges Clemenceau, il presidente francese della vittoria, e le logge massoniche europee a cui Fejtö attribuiva la responsabilità di un complotto antiasburgico.
Restava, nella sua vita, ancora un nodo che cercò di sciogliere nell’ultimo decennio. Era laico, ma anche, al tempo stesso, ebreo e cristiano. Per conciliare questi due aspetti egualmente indispensabili della sua identità spirituale, si indirizzò a due autorità religiose: il cardinale arcivescovo di Parigi Jean-Marie Lustiger, un ebreo convertito al cattolicesimo nel 1940, e il Grande Rabbino della capitale francese. A entrambi chiese se al servizio funebre per la sua morte, celebrato in una chiesa cattolica, potesse venire letto il Kaddish, una delle più antiche preghiere ebraiche. Lustiger disse che era possibile, ma il Rabbino disse di no. Confesso di non sapere, caro Grulli, che cosa sia accaduto dopo la sua morte, a Parigi, il 2 giugno 2008.

Corriere 22.4.14
Il mio Mozart
«Amadeus è un autore che tradisce Sembra semplice, ma è una sfida»
Barenboim: al piano molti virtuosi non ne hanno trasmesso l’essenza
di Enrico Girardi


«Mozart è stato il primo virtuoso del pianoforte: virtuoso non nel senso superficiale e “circense” delle acrobazie, della velocità e dei volumi con cui si pensa oggi al virtuoso; ma nel senso per cui la parola virtuoso deriva da virtù. E tale virtù in questo caso è la sprezzatura, ossia la capacità di far sembrare semplice e immediato ciò che semplice e immediato non è, anzi è complesso o anche molto complesso. Perciò Mozart è un autore che “tradisce”. Molti virtuosi che eseguono perfettamente cose impossibili, su Mozart “cadono”. Non riescono a coglierne e a trasmetterne l’essenza». Daniel Barenboim è invitato a parlare del «suo» Mozart perché da oggi, e per 18 settimane, insieme con il Corriere uscirà una collana di dischi (ogni lunedì, a 6,99 euro oltre al prezzo del quotidiano) che comprende le sue incisioni, dapprima della serie dei Concerti per pianoforte e orchestra (in cui Barenboim suona il pianoforte dirigendo la English Chamber Orchestra), poi della serie di Sonate e infine della serie di Variazioni: un notevole impegno editoriale che segue il lusinghiero successo dell’analoga collana, con l’integrale dei Concerti e delle Sonate, dedicata a Beethoven.
Ma se l’aspettava Daniel Barenboim un tale successo? «Ci lamentiamo sempre della carenza di educazione musicale nelle scuole, ma è straordinario come, nonostante questa piaga, così tante persone continuino a frequentare le sale da concerti, i teatri d’opera e ad ascoltare i dischi. Ovvio che sia contento che “Il mio Beethoven” sia andato bene. Ma lo sono ancor di più a pensare come la musica sappia parlare a tutti: ai musicisti, agli appassionati, ma anche a chi non distingue un clarinetto da un fagotto».
Parlando di Beethoven si sottolineava il grado incredibile di evoluzione che si riscontra tra le prime Sonate e quelle dette «di mezzo» e tra queste ultime e le Sonate della piena maturità «è così anche in Mozart — interrompe il direttore-pianista israelo-argentino — ma in un modo diverso. L’evoluzione di Beethoven si coglie bene nelle Sonate che rappresentano una sorta di diario intimo e personale. Ed è una evoluzione non solo di forme e linguaggio ma dello stesso pensiero musicale. Il diario intimo di Mozart, se così si può dire, lo si legge nei suoi Concerti per pianoforte e orchestra, che sono 27 e coprono un arco temporale corrispondente all’intero arco della sua parabola creativa. Qui l’evoluzione non è tanto di forme e linguaggi, e nemmeno di pensiero. Consiste piuttosto nella profondità sempre più abissale delle sue intuizioni: una profondità che non intacca mai la semplicità dell’eloquio. Perciò Artur Schnabel diceva sempre che Mozart è troppo facile per i bambini e troppo difficile per gli adulti».
A proposito di Schnabel, è stato lui uno dei suoi pianisti di riferimento per l’interpretazione mozartiana? Oppure anche su questo terreno, come in quello beethoveniano, lo sono stati Edwin Fischer e Claudio Arrau? «Edwin Fischer sicuramente. Ogni nota che suonava era sempre legata a tutte le altre in un disegno lucido e profondo. Quel poco Mozart che Wanda Landowska ha suonato, è meraviglioso e se devo aggiungere un terzo nome penso a un inglese che è stato allievo sia di Fischer sia della Landowska, Clifford Curzon (Londra, 1907–1982 ndr ), musicista dimenticato, anche eccezionale pianista schubertiano, che voi critici dovreste conoscere bene invece lo ignorate…». «Quanto ad Arrau — prosegue — è sempre stato intelligente, acuto, per me un maestro in tutti i sensi. Ma Mozart lo ha suonato molto raramente».
Oggi i Concerti di Mozart si eseguono spesso, ma non si può dire lo stesso per le Sonate… «Vero, ma nell’Ottocento si facevano pochissimo anche i Concerti — interrompe di nuovo —; basti pensare che il sublime Concerto n.27 in si bemolle maggiore K.595 lo suonò Mozart nel 1791 a Vienna poco prima di morire poi non lo si è eseguito mai più finché non lo riproposero Schnabel e Toscanini nel 1927!». Incredibile, ma le Sonate si eseguono poco nei recital pianistici perché sono poco «spettacolari»? Perché costano molta fatica in termini interpretativi e «rendono poco» nei termini di quel virtuosismo di cui si parlava prima? «È difficile dirlo. Ma è certo che se si vuol fare una bella Sonata di Mozart bisogna provare il piacere di farla, bisogna provare il piacere della musica per la musica. Quando è così, si scoprono tesori in tutte le Sonate: le prime, che amo in modo particolare, non meno delle ultime».
Quasi tutti raccomandano di non eseguire/ascoltare le serie compositive in ordine cronologico. È d’accordo? «Dico solo che se avrò ancora la forza di affrontare il ciclo delle Sonate di Beethoven, lo farò in ordine cronologico».

Corriere 22.4.14
I segreti e il piacere di crearsi una propria play-list


Quando si esegue un ciclo integrale di Sonate, Concerti, Sinfonie o che altro di un autore, sorge sempre il dubbio se sia meglio seguire l’ordine cronologico di composizione piuttosto che saltare avanti e indietro tra le opere giovanili, quelle della prima maturità e quelle «di congedo». In tal caso il vantaggio, secondo numerosi interpreti sarebbe quello di individuare associazioni, analogie o contrasti inaspettati, che possono essere significativi e rivelare, magari, aspetti del tutto nuovi della poetica dell’autore in questione. Ecco perché è più facile incontrare un pianista che esegua le Sonate di Beethoven o di Mozart in ordine sparso che un András Schiff che propone invece cicli esecutivi in ordine rigorosamente cronologico. I cd del Corriere seguono l’esempio di Schiff ma chi li possiede tutti può crearsi la propria «play-list» personale. Cosa consigliare dunque? Se ogni Sonata di Beethoven e di Mozart rappresentasse effettivamente il gradino successivo della precedente nel solco di un’unica scala, il consiglio sarebbe di variare, per evitare la pedanteria del passo dopo passo. Ma siccome non è così, perché sia Beethoven sia Mozart guardano ora avanti, ora indietro, ora a destra e ora a sinistra, la domanda diventa: meglio scoprire le associazioni d’idee di interpreti, pur illuminati e originali quanto si vuole, o meglio scoprire quelle, non meno imprevedibili e sorprendenti, degli stessi compositori? È interprete più «fedele» chi intende affermare il proprio gusto o chi aiuta a scoprire la mappa dei processi mentali, tutt’altro che lineari, dell’autore? (E. Gir.)

il Fatto 22.4.14
La solitudine corre sul web
risponde Furio Colombo


CARO FURIO COLOMBO, si ripetono i suicidi di persone giovanissime per gli attacchi che subiscono in Rete. Perché tra i ragazzi è così grave quello che scrivono e così tragico quello che leggono?
Aurelio

NON È LA DOMANDA di una persona giovane, che saprebbe per esperienza personale come vanno le cose nella Rete. Sanno che una volta che le tende della propria identità, comunicazione ed esistenza sono state piantate in Rete (social network), è lì che arrivano le notizie che cambiano in meglio o in peggio ciò che tu sai, e che gli altri sanno di te stesso, e soprattutto ciò che tu credi di te stesso. In altre parole hai acquisito una cittadinanza vincolante perché dipende dal giudizio e dall’umore di altri, sulla base di un potere e di un arbitrio, che possono essere maneggiati con cattiveria più o meno consapevoli. S’intende che molto dipende dalla forza e dall’autonomia delle persone che vengono prese nella ragnatela di giudizio e di intimidazione della Rete. Tutti sappiamo, però, per esperienza e per natura, che la gran parte di noi dipende dal giudizio degli altri, e che questo fenomeno è molte volte più forte (come lo è la voglia di alcuni di fare male) nell’adolescenza. E tuttavia restano due domande. La prima è come mai, nel vasto mondo di studio e dibattito tutto dedicato alla Rete, così poca attenzione sia stata dedicata a questo fenomeno (l’esercizio del dominio malevolo in Rete). La seconda è ancora più sorprendente: perché la Rete è così locale da svolgere un effetto egemonico nell’ambito di una scuola e di una classe quando potrebbe portarti in un attimo in Amazzonia, a New York o in Australia? Il fenomeno merita uno studio che finora non c’è stato e che ha a che fare anche con la predicazione secondo cui la Rete sarà il nuovo luogo e il nuovo mezzo della democrazia. Perché la Rete tende ad auto-limitarsi? Perché è un radar capace di esplorare il mondo ma tende a concentrarsi sul luogo, sulla città, sul quartiere, sul gruppo limitato e circoscritto (fatalmente claustrofobico) degli alunni di una scuola? Qui c’è una contraddizione clamorosa, per ora tenuta in ombra dalla religiosità che ancora circonda la Rete, vista molto più come nuovo mondo che come strumento diverso di comunicazione. La Rete ti propone tutto, e dunque una vita intensa e carica di vicende e persone non paragonabili con la modestia della vita quotidiana. Una ragazzina quattordicenne, come la suicida di Venaria (ultima di una serie, 15 aprile) viene attratta dalla festa e trova la solitudine. In quella solitudine, che è fatalmente la conseguenza del localismo e della incapacità di andare a cercare il mondo, e che le appare enorme, tanti decidono di essere contro di lei, forse perché hanno colto fragilità e stordimento, e la possibilità animale di divertirsi. Decidono di essere spietati con lei perché si può. Lei non può farvi fronte e si uccide, credendo che la Rete sia la vita, che il mondo sia la scuola (perché la vive in Rete), e che dunque il mondo intero (che è sempre e solo il quartiere) sia informato e sia contro di lei, che si sente disperata e sola. Non si dovrebbe lavorare, nella cultura, nella scuola e in Rete, per correre in soccorso degli sperduti nella paurosa foresta che non c’è?

l’Unità 22.4.14
Arte del Novecento. La dote di Firenze
De Chirico, Carrà, Mafai riaffiorano nel nuovo Museo che aprirà il 30 aprile
di Stefano Miliani


I PIÙ NON LO SANNO EPPURE LA FIRENZE DEI MASACCIO, DONATELLO, BOTTICELLI, LEONARDO E MICHELANGELO POSSIEDE UNA DOTE D’ARTE DEL ‘900 IN CUI ANNOVERA gemme come De Chirico, Morandi, Guttuso, De Pisis, Sironi, Carrà, la coppia Mafai, l’astratto Magnelli fino al maestro delle scritte al neon Nannucci e oltre. I più non lo sanno perché quei dipinti e sculture, frutto di raccolte private donate alla città o di un vasto progetto post-alluvione 1966 dello storico dell’arte Ragghianti poi abortito, per anni nessuno li ha visti: un’assurdità. Non saranno tutti capolavori del secolo, ciononostante i pezzi rimarchevoli ci sono eccome. Ora tele e sculture riemergono dal buio per diventare la sostanza del nuovo Museo del Novecento nell'ex Scuole delle Leopoldine, in un edificio su piazza Santa Maria Novella accanto al museo di fotografia Alinari: radicalmente ristrutturato, ha 2600 metri quadrati su cinque piani di cui 800 di superficie espositiva e un bellissimo chiostro interno. Con l’Ente Cassa di risparmio di Firenze che ha stanziato 6 milioni, è un museo del Comune e il progetto appartiene alla gestione dell’ex sindaco Renzi: dovrebbe inaugurare nella «Notte bianca» del 30 aprile se l’apertura non slitta di qualche giorno. «Qui - dice l’assessore alla cultura e studioso di filosofia Sergio Givone - esponiamo a rotazione oltre 2.300 opere rimaste da decenni senza una casa».
Come nasce l’idea di questo museo?
«Dopo il 1966 lo storico dell’arte Carlo Ludovico Ragghianti chiese agli artisti italiani di donare un’opera alla città come risarcimento per l’alluvione. Le opere arrivarono, era il nucleo per un museo del ‘900, ma Argan obiettò, scaturì una polemica e l’idea non prese corpo. Molti artisti chiesero la restituzione dei pezzi. Da qui nasce l’idea di un museo dell’arte del XX secolo, non dell’arte fiorentina, sia chiaro. Anche perché ne fanno parte collezioni private donate alla città come quella del pittore Magnelli o quella dell’avvocato genovese Della Ragione».
Cosa rappresentano o cosa raccontano le opere scelte?
«Nell’insieme rappresentano un modo fiorentino di guardare al secolo passato. Più che un contenitore però il museo vuole essere un luogo da esplorare: accanto ai pannelli le opere vengono inserite nel contesto e nel clima in cui nacquero affiancandole al cinema, alla musica, alla letteratura… Sarà anche un laboratorio, un luogo di studio per conferenze e seminari».
Il catalogo comprende autori come De Chirico, Casorati…
«De Chirico certo, e anche suo fratello Alberto Savinio, provenienti dalla raccolta Della Ragione ».
E come spiegate quel rapporto con le altre arti?
«Per esempio proiettando spezzoni di film, facendo ascoltare letture di poesie collegate direttamente o meno a De Chirico o a Savinio, in quanto ispirarono i due artisti oppure sono connesse a quel mondo. Ricordiamoci che tra inizio e seconda metà del ‘900 Firenze era un centro culturale nazionale in letteratura, e penso alle riviste storiche, e nella musica, e pensiamo a compositori come Dallapiccola. Non a caso le sale avranno anche una documentazione sulle scenografie per il festival del Maggio e per il quale lavorò anche, tra i tanti, lo stesso De Chirico».
Com’è organizzata l’esposizione?
«Su tre piani più un mezzanino. Ma non vogliamo riempire troppo lo spazio: bisogna essere liberi di vedere le opere. In più al primo piano faremo mostre temporanee a tema oppure sulle nuove donazioni visto che è un museo in progress».
Quale arco di tempo copre la raccolta?
«Dal primo ‘900 agli anni ’70 e ’80, includendo le opere che regalavano alla città gli artisti che in quegli anni veniva premiati con borse di studio dal Comune. È un allestimento “a ritroso”, nel senso che si parte dal periodo più vicino all’oggi per risalire nel tempo via via che si va ai piani superiori».
Un museo necessita di un direttore o di un responsabile. Chi avete scelto?
«Ci siamo domandati se nominare un direttore esterno, se affidare la gestione ad altri, poi abbiamo deciso che se ne occupa il circuito dei musei civici con un direttore interno: ha già una direzione culturale, ha una soprintendenza ai musei comunali. I quali peraltro stanno andando molto bene: Palazzo Vecchio in due anni è passato da 300mila a 900mila visitatori».
Quanto costa gestire il museo e in che modo viene finanziato?
«Stimiamo una spesa annuale di 2,2 milioni. Lo stanziamento viene dai biglietti dei musei comunali, che hanno una situazione florida, dalla Regione, dallo Stato. Lavoriamo per trovare anche contributi privati, ma in Italia si fatica a trovarli. La legge per le agevolazioni fiscali in realtà c’è, mase un privato non vede un guadagno immediato difficilmente si avvicina».

Repubblica Salute 22.4.14
Disturbi alimentari. Allerta maschi
Disagio che era quasi solo femminile
Sottodiagnosticati e sottotrattati secondo il British Medical Journal. Affetti da vigoressia
di Tina Simoniello


NESSUNO si senta escluso: i disturbi del comportamento alimentare non sono un fatto di donne. Non solo, almeno. Di anoressia, bulimia, di disturbo di alimentazione incontrollata (o bed, binge eating disorder ) o non meglio specificati
(ednos) soffrono anche i ragazzi e gli uomini. E non è un fenomeno propriamente marginale: il dato più citato è quello di un maschio ogni dieci casi, tuttavia secondo diversi studi le percentuali potrebbero raggiungere anche il 25 per cento del totale, considerate insieme tutte le tipologie di disturbo. Ma delle donne si parla, si pubblica, le donne, sempre di più, accedono a un trattamento, che è multidisciplinare: psicologico, nutrizionale, farmacologico... Degli uomini si parla, si scrive poco. E si sa meno. Secondo uno studio pubblicato sul British Medical Journal , che ha analizzato 39 pazienti con dca, 10 di sesso maschile tra i 16 e i 25 anni, i maschi sono sotto-studiati, sotto-diagnosticati e sotto-trattatti. Gli uomini stessi hanno più difficoltà nel riconoscere il loro disagio, anche perché percepito come femminile. Da loro stessi, dalle famiglie, dagli amici, dai professori...
Così la consapevolezza del problema arriva magari dopo un ricovero, quando il disturbo è grave. Insomma c’è una sorta di “emarginazione nosografica” dei ragazzi e degli uomini da questi disturbi che li mette a rischio di diagnosi tardive. «La “femminilizzazione” dei dca ha più ragioni - spiega Marta Scoppetta, dirigente psichiatra della Asl I dell’Umbria, psicoterapeuta - Una è oggettiva: per motivi strettamente connessi all’eziologia multifattoriale e ai fattori psicodinamici per cui si presentano, questi disturbi alimentari sono molto più diffusi tra le femmine nelle quali spesso si associano a parametri organici oggettivi, come l’amenorrea nell’anoressia, che rendono immediato il sospetto diagnostico. Le femmine si muovono in contesti sensibilizzati: professori, allenatori, genitori di ragazze sono molto attenti ai loro comportamenti rispetto a cibo e peso. I maschi non possono contare ancora sulla stessa attenzione. Le forme cliniche maschili più lievi possono presentare sfumature di pseudonormalità che le rendono meno evidenti e questo ritarda la diagnosi. Una differenza dalle femmine è nei meccanismi compensatori: nei ragazzi è più raro il vomito autoindotto, l’uso di lassativi, il digiuno. Le ragazze con anoressia o bulimia conclamata sono iperattive, i maschi si isolano, perdono interessi e progettualità, e spesso si rifugiano in una pratica sportiva eccessiva, come tentativo di controllo del peso, come ricerca di sicurezza a fronte di una scarsa autostima».
Stefano Vicari, responsabile della Neuropsichiatia infantile del Bambino Gesù di Roma: «Registriamo un aumento sensibile dei dca, dell’anoressia in particolare tra gli adolescenti maschi, e anche tra i bambini. Notiamo negli anni un aumento dell’attenzione sul corpo nel mondo dell’età evolutiva che nelle femmine si manifesta con il controllo del cibo nei maschi assume la forma di vigoressia intesa come concentrazione esasperata sul vigore muscolare, sull’efficienza fisica».
La ragazza anoressica si vede grassa sebbene sia sottopeso, il ragazzo pur non essendolo si percepisce esile, non “in forma” e si sottopone a allenamenti e a diete disfunzionali. «È chiaro, parliamo di epifenomeni dietro i quali c’è qualcosa di più profondo», sottolinea Vicari. Ci sono tratti premonitori? «Non si può generalizzare, ma spesso sono o sono stati bambini con la tendenza al controllo dei contesti, fortemente capaci di aderire ai modelli richiesti, adultizzati, che sanno tenere testa ai genitori, e selettivi nella scelta dei cibi».
Ma qualcosa sta cambiando nel mondo dei dca maschili: nel Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali del 2013, il DSM-5, tra i criteri diagnostici dell’anoressia per la prima volta non compare l’amenorrea.

La Stampa 22.4.14
New York, fa discutere il nuovo Moma:
«più intrattenimento che arte»


Il piano di espansione del Moma rischia di trasformare il celebre museo newyorchese in un luogo per intrattenimento. È quanto scrive il New York Times, interpretando il pensiero di alcuni membri del board e dei critici contrari al progetto del direttore Glenn D. Lowry, nel timore che uno dei luoghi cult dell’arte moderna nella Grande Mela possa diventare un luogo dove si va per socializzare e divertirsi più che per ammirare opere d’arte. La prima fase dei lavori che vedranno la demolizione dell’American Folk Art Museum - l’edificio dalla facciata di bronzo, al cui posto sarà costruita una nuova ala, «Art Bay», che collegherà il Moma con l’edificio in costruzione sulla 54a strada - ha fatto già storcere il naso a molti, convinti che il museo stia crescendo troppo in fretta, con il rischio di perdere il suo spirito artistico. Lowry respinge le accuse, dicendo che questo è un rischio che va corso perché l’arte sta diventando sempre più interattiva e permeata di pop culture. «Sotto la mia gestione - ha detto - il museo non solo si è tuffato sempre di più nell’arte contemporanea, ma ha anche allargato i suoi orizzonti includendo l’America Latina, sempre più artiste donne e più arte che non risponde solo a canoni occidentali»